Alexander Dumas
Il Conte di Montecristo
1. L’arrivo a Marsiglia
Il 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della Guardia diede il
segnale della nave a tre alberi il Pharaon, proveniente da Smirne,
Trieste e Napoli.
Com’è d’uso, un pilota costiere partì subito dal porto, passò vicino
al castello d’If, quindi salì a bordo del naviglio tra il capo di
Morgion e l’isola di Rion.
Nel frattempo, come ugualmente d’uso, la piattaforma del forte San
Giovanni si riempì di curiosi: è sempre un avvenimento di notevole
interesse l’arrivo a Marsiglia di qualche bastimento, in specie
quando questo legno, come il Pharaon, era stato notoriamente
costruito, arredato e stivato nei cantieri della vecchia Phocée, ed
era di proprietà di un armatore della città.
Frattanto il naviglio avanzava e aveva felicemente superato lo
stretto, formatosi da qualche scossa vulcanica fra l’isola di
Calasareigne e quella di Jaros.
Si era lasciato dietro di sé Pomègue, avanzando il suo gran corpo
sotto le sue tre gabbie ma così lentamente, e con andamento tanto
mesto, che i curiosi, con quell’istinto che presagisce le disgrazie,
si domandavano quale infortunio fosse accaduto a bordo.
D’altra parte gli esperti della navigazione riconoscevano che se un
qualche accidente era avvenuto, questo non era al materiale del
bastimento, in quanto esso procedeva sì lentamente, ma lo faceva
nelle condizioni di un naviglio ottimamente governato. La sua ancora
era gettata, i pennoni di bompresso abbassati, e vicino al pilota
che s’accingeva a dirigere il Pharaon nella stretta entrata del
porto di Marsiglia c’era un giovane aitante, che con occhio vigile
sorvegliava ciascun movimento del naviglio, e ripeteva ciascun
ordine del pilota.
La vaga inquietudine che si era impadronita della folla aveva
agitato in particolar modo uno degli accorsi alla spianata di
Saint-Jean, che, invece di attendere l’entrata del bastimento nel
porto, saltò su un barchino e ordinò di vogare verso il Pharaon, che
raggiunse dirimpetto all’ansa di riserva. Il giovane marinaio,
vedendo giungere quest’uomo, lasciò il suo posto a lato del pilota,
e venne col cappello in mano ad appoggiarsi al parapetto del
bastimento. Era un giovane di vent’anni circa, alto, snello, con
occhi neri, e capelli color dell’ebano. Si scorgeva in tutta la
persona quell’aspetto di calma e di risoluzione che sono proprie
degli uomini avvezzi fin dalla loro infanzia a lottare con i
pericoli.
«Dunque siete voi Dantès?» esclamò l’uomo della barca. «E che è
accaduto, e perché quest’aria di tristezza sulla vostra nave?»
«Una grande disgrazia, signor Morrel», rispose il giovane, «grande
particolarmente per me. All’altezza di Civitavecchia abbiamo perduto
il bravo capitano Leclère…»
«E il carico?» domandò preoccupato l’armatore.
«È giunto a buon porto, signor Morrel, e sono persuaso che sotto
questo aspetto sarete contento. Ma il povero capitano Leclère…»
«Cosa gli è dunque accaduto?» domandò l’armatore notevolmente
rallegrato. «Che accadde a questo bravo capitano?»
«È morto.»
«Caduto in mare?»
«No, morto di febbre cerebrale, tra orribili patimenti.»
Poi, girandosi verso l’equipaggio, disse: «Olà! Ciascuno al suo
posto per l’ancoraggio.»
L’equipaggio ubbidì.
All’istante gli otto o dieci marinai che lo componevano si
lanciarono alcuni sulle scotte, altri sui bracci, taluni sulle
dritte, altri ancora sul carico abbasso del trinchetto, e il
rimanente, infine, agli imbrogli delle vele.
Il giovane marinaio gettò uno sguardo indifferente agli inizi della
manovra e vedendo che i suoi ordini venivano eseguiti, si rivolse di
nuovo al suo interlocutore.
«E come accadde dunque questa disgrazia?» proseguì l’armatore
riprendendo la conversazione dal punto dove il giovane marinaio
l’aveva interrotta.
«Mio Dio, signore, nel modo più imprevisto. Dopo un lungo colloquio
con il comandante del porto, il capitano Leclère abbandonò Napoli
molto agitato: in capo a ventiquattr’ore fu colto dalla febbre e tre
giorni dopo era morto. Gli abbiamo resi gli ordinari funerali, ed
egli riposa, decentemente avviluppato in una branda, con una palla
da 36 ai piedi e una alla testa, all’altezza dell’isola del Giglio.
Noi riportiamo alla vedova la sua croce d’onore e la sua spada.
Valeva ben la pena», continuava il giovane con un sorriso
malinconico, «di fare per dieci anni la guerra agl’inglesi per
arrivare poi a morire, come tutti gli uomini, nel suo letto.»
«Peccato! Che volete, Edmond», riprese l’armatore che sembrava
consolarsi sempre più, «siamo tutti mortali, e bisogna bene che i
vecchi cedano il posto ai giovani; senza questo, non vi sarebbe più
progresso, e al momento che voi mi assicurate che il carico…»
«È in buono stato, signore Morrel, ve lo garantisco. Ecco un viaggio
che io vi consiglio di non scontare per meno di 25.000 franchi di
guadagno.»
Quindi, come era passata la Torre Rotonda: «Attenzione a caricare le
vele dei pennoni, il fiocco e la brigantina», comandò il giovane
marinaio, «fate attenzione!»
L’ordine venne eseguito quasi con la stessa celerità che sopra una
nave da guerra.
«Ammaina, e carica dappertutto!»
All’ultimo comando tutte le vele si abbassarono, e il naviglio
avanzò in modo quasi insensibile, non camminando più che per
l’impulso ricevuto.
«Se ora volete salire a bordo, signor Morrel», disse Dantès, vedendo
l’impazienza dell’armatore, «ecco qui il vostro contabile signor
Danglars che esce dalla sua cabina, e vi darà tutti i chiarimenti
che desiderate: quanto a me bisogna che sorvegli l’ancoraggio e che
metta la nave a lutto.»
L’armatore non se lo lasciò ripetere due volte, afferrò una gomena
che gli gettò Dantès, e con una sveltezza che avrebbe fatto onore a
un uomo di mare, salì gli scalini inchiodati sul fianco sporgente
della nave, mentre l’altro, ritornando al suo posto di secondo,
cedeva la parola a colui che aveva annunciato sotto il nome di
Danglars, il quale uscendo dalla sua cabina si avvicinava
all’armatore.
Danglars era un uomo di venticinque-ventisei anni, triste d’aspetto,
ossequioso verso i suoi superiori, insolente con i sottoposti;
cosicché, oltre al suo titolo di contabile, di per sé motivo di
avversione per i marinai, era tanto malvisto dall’equipaggio, quanto
al contrario Edmond Dantès era amato.
«Allora signor Morrel», disse Danglars, «voi sapete già la
disgrazia, non è vero?»
«Sì, sì, povero capitano Leclère! Era un bravo e onest’uomo.»
«E soprattutto un eccellente marinaio, invecchiato fra il cielo e il
mare, come si conviene a un uomo incaricato degli affari di una casa
così importante come quella Morrel e figlio», rispose Danglars.
«Ma», disse l’armatore tenendo gli occhi rivolti a Dantès, che
cercava il punto del suo ancoraggio, «mi sembra che non occorre
essere tanto un vecchio marinaio quanto voi dite, Danglars, per
conoscere bene il mestiere. Ecco il nostro amico Edmond che fa il
suo, e mi sembra un uomo che non ha bisogno di chiedere consigli ad
alcuno.»
«Sì», disse Danglars gettando su Dantès uno sguardo obliquo in cui
balenò un lampo d’odio: «lui è giovane e perciò non teme nulla.
Appena il capitano è morto, ha preso il comando senza consultare
nessuno, e ci ha fatto perdere un giorno e mezzo all’isola d’Elba,
invece di ripiegare direttamente a Marsiglia.»
«Per quanto concerne assumere il comando della nave», disse
l’armatore, «era suo dovere farlo, come secondo; quanto al perdere
un giorno e mezzo all’isola d’Elba, ha fatto male, a meno che la
nave non abbia avuto qualche avaria da riparare.»
«La nave è in ottime condizioni al pari di me, e come vorrei che voi
stiate sempre, signor Morrel, e questa giornata e mezzo fu perduta
per un capriccio, per il solo piacere di scendere a terra, ecco
tutto.»
«Dantès», disse l’armatore, rivolgendosi al giovanotto, «venite
qui.»
«Scusate, signore», disse Dantès. «sarò da voi fra un istante.» Poi,
indirizzandosi all’equipaggio: «Date fondo!» diss’egli.
Sull’istante l’ancora cadde, e la catena scivolò con rumore. Dantès
rimase al suo posto, malgrado la presenza del pilota, fino a che fu
compiuta la manovra, quindi disse: «Abbassate la fiamma a
mezz’albero, la bandiera a mezz’asta, incrociate le antenne!»
«Voi vedete», disse Danglars, «egli si crede, sulla mia parola, già
capitano.»
«E lo è, difatti», disse l’armatore.
«Sì, signor Morrel, salvo la vostra firma e quella del vostro
associato.»
«Diamine! Perché non dovremmo lasciarlo a questo posto?» disse
l’armatore. «È giovane, lo so bene, ma mi sembra adatto alla
bisogna, e molto esperto nel suo mestiere.»
Una nube passò sul viso di Danglars.
«Volevo domandarvi perché vi siete fermato all’isola d’Elba.»
«Lo ignoro io stesso: fu per eseguire un ultimo comando del capitano
Leclère, che morendo mi aveva affidato un plico per il gran
maresciallo Bertrand.»
«L’avete dunque visto, Edmond?»
«Chi?»
«Il gran maresciallo.»
«Sì.»
Morrel si guardò attorno e tirò da parte Dantès.
«E come sta l’imperatore?» domandò egli premurosamente.
«Bene, per quanto ho potuto giudicare con i miei occhi.»
«Avete dunque visto anche l’imperatore?»
«Entrò dal maresciallo mentre vi ero io.»
«E gli avete parlato?»
«Cioè, fu lui che parlò a me», rispose Dantès, sorridendo.
«E che vi disse?»
«Mi ha fatto delle domande sul bastimento, sull’epoca della sua
partenza da Marsiglia, sul viaggio che aveva fatto, e sul carico che
portava. Credo che se questo fosse stato vuoto, e io ne fossi stato
il padrone, la sua intenzione sarebbe stata quella di farne
acquisto. Ma gli dissi ch’io non ero che un semplice secondo, e il
bastimento apparteneva alla casa Morrel e figlio. “Ah!” diss’egli,
“la conosco. I Morrel sono armatori di padre in figlio, e ho
conosciuto un Morrel che serviva nello stesso reggimento con me,
quando ero in guarnigione a Valenza.”»
«È vero, è vero!» esclamò l’armatore tutto contento. «Era Policar
Morrel, mio zio, che divenne capitano; Dantès, voi direte a mio zio
che l’imperatore si è ricordato di lui, e voi vedrete piangere quel
vecchio brontolone. Allora», continuò il vecchio armatore battendo
amichevolmente la mano sulla spalla del giovane, «voi avete fatto
bene a eseguire le istruzioni del capitano Leclère, e a fermarvi
all’isola d’Elba, sebbene, se si venisse a sapere che avete
consegnato un plico al maresciallo e parlato con l’imperatore, ciò
potrebbe senza dubbio compromettervi.»
«E perché dovrebbe compromettermi?» disse Dantès. «Io non so neppure
ciò che ho portato, e l’imperatore non mi ha fatto che quelle
domande che avrebbe fatto al primo venuto… Ma scusate», riprese
Dantès, «ecco l’ufficiale di sanità e quello di dogana che giungono.
Voi permettete, non è vero?»
«Fate, fate pure, mio caro Dantès.»
Il giovane si allontanò, e a misura che si allontanava, Danglars si
accostava.
«Ebbene», chiese, «ha addotto buone ragioni sulla sua sosta a
Portoferraio?»
«Eccellenti, mio caro Danglars.»
«Ah, tanto meglio», rispose questi, «poiché è sempre cosa spiacevole
vedere un collega che non fa il proprio dovere.»
«Dantès ha fatto il suo», rispose l’armatore, «e non vi è nulla da
ridire. Fu il capitano Leclère che gli ordinò quella fermata.»
«A proposito del capitano Leclère, vi ha egli consegnato una sua
lettera?»
«A me? No. Ne aveva una dunque?»
«Io credevo che, oltre il plico, il capitano Leclère gli avesse
affidato una lettera.»
«Di quale plico parlate, Danglars?»
«Di quello che Dantès ha depositato nel passare da Portoferraio.»
«E come sapete ch’egli aveva un plico da depositare a Portoferraio?»
Danglars arrossì.
«Passavo davanti alla porta del capitano, che era socchiusa, e lo
vidi consegnare a Dantès il plico e la lettera.»
«Non me ne ha parlato», disse l’armatore, «ma se ha questa lettera,
me la consegnerà.»
Danglars rifletté un istante.
«Allora, signor Morrel, vi prego», disse, «di non parlare di ciò a
Dantès; mi sarò sbagliato.»
In quel momento il giovane fece ritorno; Danglars si allontanò.
«Ebbene, mio caro Dantès, siete libero?» domandò l’armatore.
«Sì, signore.»
«La cosa non è stata lunga.»
«No, ho consegnato ai doganieri la lista delle vostre mercanzie; e,
quanto all’ufficio di sanità esso ha rimandato qui, con il pilota
costiero, un uomo al quale ho rimesso le mie carte.»
«Allora non avete più niente da fare qui?»
Dantès gettò uno rapido sguardo intorno a sé.
«No, qui tutto è in ordine.»
«Potete dunque venire a pranzo da noi?»
«Scusatemi, signor Morrel, scusatemi, ve ne prego, ma la prima mia
visita la debbo a mio padre. Vi sono però riconoscente per l’onore
che mi fate.»
«È giusto, Dantès, è giusto: so che siete un buon figlio.»
«E…» domandò Dantès con una certa esitazione, «sta bene mio padre,
che voi sappiate?»
«Io credo di sì, mio caro Edmond, sebbene non l’abbia visto.»
«Sì, egli rimane ritirato nella sua camera.»
«Ciò prova, perlomeno, che non ha avuto bisogno di nulla durante la
vostra assenza.»
Dantès sorrise.
«Mio padre è molto altero, signore, e quand’anche fosse sprovvisto
di tutto, non si sarebbe rivolto a chiedere cosa alcuna a
chicchessia, eccetto a Dio.»
«Ebbene, dopo questa prima visita, noi contiamo su voi.»
«Scusatemi di nuovo, signor Morrel, ma dopo questa prima visita, io
ne farò un’altra che non mi sta meno a cuore.»
«Ah, è vero, Dantès, dimenticavo che vi è, ai Catalani, qualcuno che
deve aspettarvi con non minor impazienza di vostro padre. È la bella
Mercedes.»
Dantès arrossì.
«Ah! ah!» disse l’armatore. «Non mi sorprende più che sia venuta tre
volte a domandare notizie del Pharaon. Perbacco, Edmond, voi non
siete da compiangere, vi ritrovate ad avere una graziosa amica.»
«Non è mia amica, ma», disse con gravità il marinaio, «è la mia
fidanzata.»
«Qualche volta è tutt’uno», disse ridendo l’armatore.
«Ma non per noi», rispose Dantès.
«Andate, mio caro Edmond», continuò l’armatore, «non voglio
trattenervi di più. Voi avete condotto così bene i miei affari, che
io vi devo lasciare il comodo di fare i vostri. Avete bisogno di
denaro?»
«No, signore, ho tutti i miei salari del viaggio, cioè quasi tre
mesi di soldo.»
«Voi siete un giovane previdente, Edmond!»
«Aggiungete che ho un padre povero, signor Morrel.»
«Sì, sì, so bene che siete un buon figliolo! Andate dunque a veder
vostro padre. Io pure ho un figlio, e non saprei perdonare colui che
dopo tre mesi di viaggio lo trattenesse lontano da me.»
«Dunque mi permettete?» disse il giovane salutandolo.
«Sì, se voi non avete niente altro da dirmi.»
«No.»
«Il capitano Leclère non vi ha dato, morendo, alcuna lettera per
me?»
«Gli sarebbe stato impossibile scrivere, ma ciò mi ricorda che avrei
un congedo di quindici giorni da domandarvi.»
«Per prender moglie?»
«Prima di tutto per quello, poi per andare a Parigi.»
«Bene, bene! Prendetevi il tempo che vi serve, Dantès. Non ci
vorranno meno di sei settimane per scaricare la nave, e non ci
rimetteremo in mare prima di tre mesi. Sarà opportuno che vi
troviate qui fra tre mesi. Il Pharaon», continuò l’armatore battendo
sulla spalla del giovane marinaio, «non potrebbe ripartire senza il
suo capitano.»
«Senza il suo capitano!» esclamò Dantès con gli occhi sfavillanti di
gioia. «Ponete ben mente a ciò che dite, signore, poiché voi
rispondete alle più segrete speranze del mio cuore; avreste
intenzione di nominarmi capitano del Pharaon?»
«Se fossi solo, vi tenderei la mano, mio caro Dantès, e vi direi: “È
fatto”; ma ho un socio, e voi sapete l’antico proverbio italiano:
“Ha un padrone chi ha un compagno”. Ma la metà della faccenda è
fatta; poiché su due voti, voi ne avete di già uno; fidatevi di me
per avere l’altro, farò quanto potrò di meglio.»
«Oh, signor Morrel», esclamò il giovane marinaio, stringendo con le
lacrime agli occhi le mani dell’armatore, «signor Morrel, io vi
ringrazio in nome di mio padre e di Mercedes.»
«Va bene, va bene Edmond; vi è un Dio in cielo per la brava gente;
andate a vedere vostro padre, andate a vedere Mercedes, poi
ritornate da me.»
«Non volete che vi riconduca a terra?»
«No, grazie, rimango a regolare i miei conti con Danglars. Siete
stato contento di lui durante il viaggio?»
«Dipende dal senso che voi date a questa domanda, signore; se come
buon compagno no, perché io credo ch’egli non mi ami dal giorno in
cui ebbi la debolezza, in conseguenza d’una contesa, di proporgli
che ci fermassimo dieci minuti all’isola di Montecristo per
risolvere la questione, proposta che io ebbi torto di fargli e che
egli ebbe ragione di rifiutare. Se è invece al contabile che si
riferisce la vostra domanda, credo che non vi sia nulla da dire, e
voi sarete contento del modo con cui ha disimpegnato il suo dovere.»
«Ma», domandò l’armatore, «se foste capitano del Pharaon terreste
Danglars volentieri?»
«Capitano o secondo», rispose Dantès, «avrò sempre i più grandi
riguardi per coloro che godono la fiducia dei miei armatori.»
«Andiamo, andiamo, Dantès, vedo bene che siete un bravo giovane
sotto tutti i rapporti. Non voglio trattenervi più a lungo; andate,
poiché siete sulla brace.»
«Arrivederci, signor Morrel, e mille ringraziamenti.»
«Arrivederci, mio caro Edmond, e buona fortuna!»
Il giovane marinaio balzò sulla lancia, andò a sedersi a poppa e
ordinò di dirigersi alla Canebière. Due marinai si piegarono sui
loro remi e la barca si allontanò con quella rapidità che è
possibile in mezzo a mille barche che ingombrano quella specie di
angusta strada che conduce, fra due file di navigli, dall’entrata
del porto allo scalo di Orléans. L’armatore sorridendo lo seguì con
gli occhi fino alla spiaggia, lo vide saltare sui gradini dello
scalo e perdersi subito in mezzo alla folla variopinta, che dalle
cinque del mattino alle nove della sera ingombra questa famosa
strada della Canebière, di cui i focesi moderni sono tanto
orgogliosi, che affermano, con la più gran serietà del mondo e con
quell’accento che imprime tanto carattere a ciò che dicono: «Se
Parigi avesse la Canebière, sarebbe una piccola Marsiglia».
Girandosi, l’armatore vide Danglars, che in apparenza sembrava
attendere i suoi ordini, ma in realtà seguiva come lui il giovane
marinaio con lo sguardo. Soltanto vi era una grandissima diversità
nella espressione di questo doppio sguardo diretto sul medesimo
individuo.
2. Padre e figlio
Lasciamo che Danglars, impegnato con il genio dell’odio, cerchi di
gettare contro il suo compagno qualche malevola supposizione
all’orecchio dell’armatore, e seguiamo Dantès, che dopo aver
percorso la Canebière in tutta la sua lunghezza, prende la rue
Noaille, entra in una piccola casa situata alla sinistra dei viali
di Meilhan, sale in fretta i quattro piani di una scala scura e
tenendosi con una mano alla ringhiera comprime con l’altra i battiti
del suo cuore, si ferma davanti a una porta socchiusa, che lascia
vedere in fondo una piccola camera. Era la camera del padre di
Dantès.
La notizia dell’arrivo del Pharaon non era ancora pervenuta al
vecchio, che sopra una cassa, era occupato a piantare delle cannucce
sopra cui sistemava con mano tremante alcuni nasturzi misti a
clematidi che si arrampicavano lungo la pergola della finestra.
A un tratto si sentì circondare il corpo da due braccia, e una voce
ben nota gridare dietro di sé: «Padre! Mio buon padre!»
Il vecchio lanciò un grido e si voltò, poi vedendo il figlio, si
lasciò cadere tra le sue braccia, pallido e tremante.
«Che cosa avete, padre», esclamò il giovane commosso. «Siete
ammalato?»
«No, mio caro Edmond, mio caro figlio, no; ma non ti aspettavo, e la
gioia, la sorpresa di rivederti così all’improvviso… mio Dio!… mi
sembra di morire…»
«Calmatevi, padre. Sono io, proprio io. Si dice sempre che la gioia
non nuoce ed è perciò che sono entrato così senza farvi avvisare;
guardatemi, sorridetemi, invece di guardarmi con occhi spaventati.
Sono tornato e saremo entrambi felici.»
«Ah, tanto meglio, figlio», riprese il vecchio. «Ma in che modo
potremo essere felici? Tu dunque non mi abbandoni più? Vediamo,
raccontami le tue fortune.»
«Che il Signore mi perdoni», disse il giovane, «di rallegrarmi di
una fortuna dovuta al lutto di una famiglia: ma Dio sa che non ho
desiderato questa fortuna! Essa mi giunge e io non ho la forza di
affliggermene. Il bravo capitano Leclère è morto, ed è probabile che
con la protezione del signor Morrel io prenda il suo posto… Capitano
a vent’anni! Con cento luigi di stipendio e una parte degli utili!
Non è ben più di ciò che poteva sperare un povero marinaio quale
sono io?»
«Sì, figlio mio, sì, infatti questa è una fortuna.»
«E perciò voglio che con il primo denaro che guadagnerò voi abbiate
una casetta con un giardino per piantare le vostre clematidi, i
vostri nasturzi e il vostro caprifoglio… Ma che avete, padre? Si
direbbe che state male!»
«Pazienza, pazienza, non sarà nulla.» E, mancandogli le forze, il
vecchio cadde.
«Un buon bicchiere di vino, caro padre, vi rianimerà», disse il
giovane, «Dove tenete il vino?»
«No, grazie, non lo cercare, non ne ho bisogno», disse il vecchio,
tentando di trattenere il figlio.
«Lasciate fare, lasciate fare, padre.»
Ed egli aprì due o tre armadi.
«È inutile», disse il vecchio, «non vi è più vino.»
«Come non vi è più vino!» disse Dantès, impallidendo a sua volta e
guardando alternativamente le guance smunte e rugose del vecchio, e
gli armadi vuoti. «Come non vi è più vino! Sareste forse rimasto
privo di denaro, padre?»
«Non sono rimasto privo di nulla dal momento che tu sei qui.»
«Eppure», balbettò Dantès, asciugandosi il sudore che freddo gli
colava dalla fronte, «avevo lasciato 200 franchi, tre mesi fa,
partendo.»
«Sì, sì, Edmond, è vero, ma tu avevi dimenticato nel partire un
piccolo debito con il vicino Caderousse; egli me lo ha ricordato,
dicendomi che se non pagavo per te, andava a farsi pagare dal signor
Morrel. Allora comprenderai bene… per timore che non ti facesse
torto…»
«Ebbene?»
«Ebbene, ho pagato per te.»
«Ma», esclamò Dantès, «il mio debito con Caderousse era di 140
franchi!… E voi li avete pagati con i 200 franchi che vi ho
lasciati?»
Il vecchio fece un segno affermativo con la testa.
«Dimodoché voi avete vissuto», mormorò il giovane, «per tre mesi con
solo 60 franchi!»
«Tu sai quanto poco mi abbisogni e mi basti.»
«Oh, mio Dio! Mio Dio! Padre, perdonatemi», esclamò Edmond,
gettandosi ai piedi del brav’uomo.
«Che fai adesso?»
«Ah, voi mi avete trafitto il cuore!»
«Tu sei qui», disse il vecchio, sorridendo, «ora tutto è
dimenticato, poiché tu stai bene.»
«Sì, io sono qui; eccomi con un bell’avvenire e con un po’ di
denaro. Prendete, padre», disse, «prendete e mandate subito qualcuno
a comprare qualche cosa.» E vuotò sul tavolo la borsa che conteneva
una dozzina di monete d’oro, cinque o sei scudi da cinque franchi e
qualche soldo.
Il viso del vecchio si rannuvolò.
«Di chi è quel denaro?»
«Mio, tuo, nostro, prendete, comprate delle provviste, siate felice,
domani ve ne sarà dell’altro.»
«Adagio, adagio», disse il vecchio sorridendo, «col tuo permesso ne
farò uso, ma con moderazione. Le persone che mi vedessero fare
grandi provviste direbbero che ero obbligato ad aspettare il tuo
ritorno per far degli acquisti.»
«Fate come volete, ma prima di ogni altra cosa prendetevi una
persona di servizio, non voglio più che usciate di casa solo. Ho del
caffè, e dell’eccellente tabacco di contrabbando in un baule nel
fondo della stiva; l’avrete domani. Ma zitto, sento arrivare
qualcuno.»
«Sarà Caderousse, che avendo saputo del tuo arrivo viene a darti il
benvenuto.»
«Bene, ecco altre labbra che dicono cose diverse da ciò che pensa il
cuore. Ma non importa», mormorò Edmond, «è un vicino che ci ha reso
qualche favore; che sia il benvenuto!»
Difatti, nel momento in cui Edmond terminava la frase a voce bassa,
si vide comparire la testa nera e barbuta di Caderousse sulla soglia
della porta. Era un uomo di venticinque-ventisei anni, aveva fra le
mani un pezzo di stoffa, che da buon sarto si accingeva a tramutare
nei risvolti di un abito.
«Ah, eccoti dunque di ritorno, Edmond!» disse con un accento
marsigliese marcato, e con un largo sorriso che gli scopriva dei
bellissimi denti, bianchi come l’avorio.
«Come vedi, vicino Caderousse, e pronto a servirti in qualunque
cosa», rispose Dantès, dissimulando male la sua freddezza nel far
questa offerta.
«Grazie, grazie, fortunatamente io non ho bisogno di nulla, anzi
sono qualche volta gli altri che hanno bisogno di me.»
Dantès fece un movimento d impazienza.
«Non dico per te, giovanotto; ti prestai del denaro, tu me lo hai
reso, ciò si usa fra buoni vicini e noi siamo pari.»
«Non si è mai pari con quelli che ci hanno fatto un favore», disse
Dantès, «quando non gli si deve più denaro si deve riconoscenza.»
«Perché parlare di ciò? Quel che è passato, è passato, parliamo del
tuo felice ritorno, giovanotto. Ero andato al porto per comprare del
panno color marrone, quando ho incontrato l’amico Danglars. “Tu! A
Marsiglia?” “Sì, proprio io.” “Ti credevo a Smirne!” “Vengo di là.”
“E Edmond, dov’è quel bravo giovane?” “Certamente da suo padre”,
rispose Danglars. E allora son venuto qui per avere il piacere di
stringere la mano a un amico.»
«Questo buon Caderousse», disse il vecchio, «ci ama molto.»
«Certo vi amo e vi stimo anche, tanto più che gli uomini onesti sono
così rari… Ma sembra che tu ritorni ricco…» continuò il sarto,
volgendo uno sguardo bieco sull’oro e l’argento che Dantès aveva
messo sul tavolo.
Al giovane marinaio non sfuggì il lampo di cupidigia negli occhi del
suo vicino.
«Eh, mio Dio», disse con noncuranza, «questo denaro non è mio; avevo
manifestato a mio padre il timore che nella mia assenza gli fosse
mancato qualche cosa, ed egli, per rassicurarmene, ha vuotato la sua
borsa sul tavolo. Andiamo, padre», continuò Dantès, «rimettete il
vostro denaro nel tiretto, a meno che il vicino Caderousse non ne
abbia a sua volta bisogno, nel qual caso è sempre a sua
disposizione.»
«No, caro», disse Caderousse, «non ho bisogno di niente. Grazie a
Dio ci si mantiene con il proprio mestiere… Conserva il tuo denaro,
conservalo, poiché non se ne ha mai troppo; ciò non toglie che ti
sia grato della tua offerta, come ne avessi approfittato.»
«Era di buon cuore…» disse Dantès.
«Non ne dubito. Ebbene, eccoti dunque in ottimi rapporti con il
signor Morrel, furbo che sei!»
«Il signor Morrel ha sempre avuto molta bontà per me…» rispose
Dantès.
«In questo caso tu hai avuto torto a rifiutare il suo invito a
pranzo.»
«Come, rifiutare il suo invito!» disse il vecchio padre. «Egli
dunque ti aveva invitato a pranzo?»
«Sì, padre mio», riprese Edmond sorridendo della meraviglia che
causava a suo padre il grande onore di cui era oggetto.
«E perché hai rifiutato, figlio mio?» domandò il vecchio.
«Per essere più presto da voi, padre», rispose il giovane, «avevo
fretta di vedervi.»
«Però sarà dispiaciuto a quel buon uomo del signor Morrel», aggiunse
Caderousse; «quando uno aspira a divenir capitano, ha torto a non
fare la corte al suo armatore.»
«Gli ho spiegato la causa del mio rifiuto», rispose Dantès, «e sono
certo che l’ha intesa.»
«Ah, per diventar capitano bisogna accarezzare un poco di più i
padroni.»
«Spero di diventar capitano anche senza di ciò.»
«Tanto meglio, tanto meglio; la cosa farà piacere ai tuoi vecchi
amici. So che vi è qualcuno laggiù dietro la cittadella di
Saint-Nicolas che ne sarà molto contento.»
«Mercedes?» disse il vecchio.
«Sì, padre mio», disse Dantès, «e col vostro permesso, ora che vi ho
visto, e so che state bene, e avete tutto ciò che vi serve, vi
chiederei il permesso di fare visita ai Catalani.»
«Va’, figlio mio, va’», disse il vecchio Dantès, «e Dio benedica te
nella tua donna, come benedisse me nel figlio!»
«Sua donna?» osservò Caderousse. «Voi correte troppo, papà Dantès;
non lo è ancora, io credo.»
«No», rispose Edmond, «ma non tarderà molto a divenirlo.»
«Non importa, non importa», disse Caderousse, «hai fatto bene ad
affrettare le nozze.»
«E perché?»
«Perché Mercedes è una bella ragazza, e le belle ragazze non mancano
d’innamorati, quella particolarmente! La seguivano a dozzine!»
«Davvero!» disse Edmond con un sorriso, sotto cui traspariva
un’ombra d’inquietudine.
«Oh sì!» rispose Caderousse. «E anche bei partiti! Ma, tu mi
comprendi, stai per diventare capitano e si guarderà bene dal
rifiutarti!»
«Ciò equivale a dire», disse Dantès con un sorriso che malcelava la
sua inquietudine, «che se io non diventassi capitano…»
«Eh! eh!» esclamò Caderousse.
«Andiamo, andiamo», disse il giovane, «io ho migliore opinione che
voi delle donne in generale, e di Mercedes in particolare, e sono
convinto che, diventi o no capitano, lei mi resterà ugualmente
fedele.»
«Tanto meglio! Tanto meglio!» disse Caderousse. «È sempre una buona
cosa che i giovani quando si maritano siano forniti di buona fede;
ma non serve, credimi Dantès, non perdere tempo nell’andare ad
annunciarle il tuo arrivo, e a metterla a parte delle tue speranze.»
«Vado», disse Edmond. Abbracciò suo padre, salutò con un cenno della
testa Caderousse e uscì.
Caderousse restò ancora un istante, poi, prendendo congedo dal
vecchio Dantès, discese a sua volta e andò a raggiungere Danglars,
che lo aspettava all’angolo di rue Senac.
«Ebbene», disse Danglars, «l’hai visto?»
«L’ho lasciato ora.»
«Ti ha parlato della sua speranza di divenir capitano?»
«Egli ne parla come se lo fosse già.»
«Pazienza, pazienza!» disse Danglars. «Mi sembra che abbia troppa
fretta.»
«Diavolo! Sembra che il posto gli sia stato promesso dallo stesso
signor Morrel.»
«Perciò sarà molto contento.»
«Addirittura ne è insuperbito. Mi ha già offerto i suoi servizi come
fosse una persona importante; inoltre voleva prestarmi del denaro,
come fosse un banchiere.»
«E tu avrai rifiutato.»
«Certamente, sebbene avessi potuto accettare, poiché sono stato io
che gli ho messo fra le mani le prime monete d’argento che ha
toccato; ma ora Dantès non avrà più bisogno di nessuno, diventando
capitano.»
«Piano!» disse Danglars. «Non lo è ancora.»
«In fede mia sarebbe una bella cosa se non lo diventasse affatto»,
disse Caderousse, «altrimenti non vi sarebbe più modo di potergli
parlare.»
«Se non lo vogliamo veramente», disse Danglars, «resterà ciò che è,
e forse diventerà anche meno di quello che è.»
«Che stai dicendo?»
«Niente, parlo tra me e me. È sempre innamorato della catalana?»
«Innamorato pazzo; è andato da lei. Mi sbaglierò ma avrà dei
dispiaceri da quella parte.»
«Spiegati.»
«A quale scopo?»
«È più importante di quello che credi. A te non piace Dantès.»
«Non mi piacciono gli arroganti.»
«Ebbene, dimmi allora ciò che sai sul conto della catalana.»
«Non so niente di positivo, soltanto ho visto cose che mi fanno
credere, come ti dicevo, che il futuro capitano avrà dei dispiaceri
nei dintorni delle Vecchie Infermerie.»
«Che cosa hai visto? Via, dimmelo.»
«Ebbene, ho visto che tutte le volte che Mercedes viene in città, è
sempre accompagnata da un robusto catalano con gli occhi neri, molto
scuro, ardentissimo, e che lei chiama mio cugino.»
«Ah, veramente, e credi che questo suo cugino le faccia la corte?»
«Lo suppongo. Che diavolo vuoi che faccia un giovanotto di ventun
anni con una bella ragazza di diciassette?»
«E dici che Dantès è andato ai Catalani?»
«È uscito da casa sua poco prima di me.»
«Se andiamo dalla stessa parte ci fermeremo all’osteria della
Riserva di papà Pamphile, e, bevendo un bicchiere di vino di Malaga,
attenderemo notizie.»
«E chi ce le porterà?»
«Staremo sulla strada, e leggeremo sul viso di Dantès ciò che sarà
avvenuto.»
«Andiamo…» disse Caderousse. «Ma sei tu che paghi?»
«Certamente…» rispose Danglars.
E tutti e due s’incamminarono con passo rapido verso il luogo
indicato. Giunti là si fecero portare una bottiglia e due bicchieri.
Papà Pamphile aveva visto passare Dantès una decina di minuti prima.
Certi che Dantès era ai Catalani, si sedettero all’ombra dei
sicomori; sui rami gli uccelli salutavano gioiosamente la bella
giornata di primavera.
3. I Catalani
A una distanza di cento passi dal punto dove i due amici, con lo
sguardo all’orizzonte e l’orecchio all’erta, sorseggiavano lo
spumeggiante vino di Malaga, s’innalzava, dietro un monticello nudo
e arido per il sole e per il maestrale, il villaggio dei Catalani.
Un tempo, una misteriosa colonia partì dalla Spagna, e venne ad
approdare sulla lingua di terra che abita tuttora. Arrivava non si
sa da dove, e parlava una lingua sconosciuta. Uno dei capi, che
comprendeva il provenzale, domandò al Comune di Marsiglia di ceder
loro quel promontorio nudo e arido, su cui essi avevano, come gli
antichi marinai, ritirati i loro navigli. La loro domanda fu
accettata, e tre mesi dopo sorgeva un piccolo villaggio attorno ai
dodici o quindici bastimenti che erano stati tirati in secco da
questi nomadi avventurieri del mare.
Il villaggio, costruito in modo bizzarro e pittoresco, metà moresco
e metà spagnolo, è quello oggi abitato dai discendenti di quegli
uomini, che parlano ancora la lingua dei loro padri. Trascorsi tre o
quattro secoli essi sono rimasti fedeli a questo piccolo
promontorio, in cui si erano imbattuti, come uno stormo di uccelli
marini, senza mischiarsi alla popolazione marsigliese, maritandosi
fra di loro, e conservando usi e costumi della loro madrepatria,
come ne hanno conservata la lingua.
I nostri lettori ci seguano attraverso una strada di questo
villaggio ed entrino con noi in una di queste case, alle quali il
sole fuori ha dato il bel colore di foglia secca, come ai monumenti
del paese, e dentro una tinta gialla, unico ornamento delle posadas
spagnole.
Una bella ragazza con i capelli neri come l’ebano e gli occhi
vellutati come quelli della gazzella, stava in piedi appoggiata a un
assito sfrondando tra le dita affusolate un’innocente erica di cui
strappava i fiori, le fronde già sparse sul terreno; le sue braccia
nude fino al gomito, braccia brune ma che sembravano modellate su
quelle della Venere d’Arles, fremevano con impazienza febbrile, e
lei batteva la terra col piede grazioso, in modo da fare apparire la
forma pura e superba della gamba, serrata da un calza di cotone
rosso punteggiato di grigio e azzurro.
A tre passi da lei, su una sedia su cui si dondolava con movimenti
bruschi, appoggiando il gomito a un vecchio mobile tarlato, stava un
robusto giovane di venti-ventidue anni, che la guardava con un’aria
inquieta e dispettosa a un tempo. I suoi occhi interrogavano; ma lo
sguardo fermo e fisso della ragazza dominava il suo interlocutore.
«Dunque, Mercedes», diceva il giovane, «fra poco sarà Pasqua, un
momento propizio per il matrimonio.»
«Vi ho risposto cento volte, Fernando, e bisogna in verità che voi
siate nemico di voi stesso, perché rinnoviate questa domanda.»
«Ebbene, ripetetelo ancora, ve ne supplico, ripetetelo ancora,
affinché giunga a crederlo; ditemi per la centesima volta che
rifiutate il mio amore, malgrado l’approvazione di vostra madre;
fatemi ben comprendere che vi prendete gioco della mia felicità, e
che la mia vita e la mia morte sono un nulla per voi. Ah, mio Dio!
Aver sognato per dieci anni di essere vostro sposo, Mercedes, e
perdere questa speranza che era la sola meta della mia vita!»
«Non che abbia mai incoraggiato questa speranza, Fernando», rispose
Mercedes. «Non avete una sola lusinga da rimproverarmi, a vostro
riguardo. Vi ho sempre detto: “Io vi amo come un fratello; ma non
esigete mai da me altra cosa che questa amicizia fraterna, poiché il
mio cuore è dato a un altro!” Non vi ho sempre detto ciò, Fernando?»
«Sì, lo so bene, Mercedes», rispose il giovane, «vi siete
compiaciuta con me del merito crudele della franchezza. Ma
dimenticate che esiste fra i catalani una legge sacra, che ordina di
maritarsi fra loro.»
«Voi v’ingannate, Fernando, non è una legge, è una consuetudine,
ecco tutto; e credetemi, non vi giova invocare questa consuetudine
in vostro favore! Siete in età di fare il soldato, l’arbitrio che vi
lascia non è che una semplice tolleranza. Da un momento all’altro
potete essere chiamato al servizio militare, e una volta soldato,
che farete voi di me, cioè di una povera orfanella, infelice, senza
beni, che in tutto possiede una capanna quasi in rovina, alla quale
sono attaccate alcune reti usate, miserabile eredità lasciata da mio
padre a mia madre, e da mia madre a me? Da un anno è morta, pensate,
Fernando, e io vivo quasi di carità pubblica. Qualche volta fingete
che io vi sia utile, e ciò è per darmi il diritto di dividere la
vostra pesca; io accetto, perché siete il figlio del fratello di mio
padre, perché noi siamo stati allevati assieme, e più ancora,
soprattutto, perché vi causerei troppo dispiacere se rifiutassi. Ma
capisco bene che il pesce che vado a vendere e dal quale traggo il
denaro per comprare la canapa che filo, capisco bene, Fernando, che
non è che elemosina.»
«E che importa, Mercedes! Così povera e sola come siete mi piacete
assai più che la figlia del più superbo armatore, o del più ricco
banchiere di Marsiglia. A noi che occorre? Una donna onesta e adatta
alle faccende domestiche. Chi potrei trovare meglio di voi da questo
punto di vista?»
«Fernando», rispose Mercedes, scuotendo la testa, «si diviene inette
alle faccende domestiche e non si può garantire di restar femmine
oneste, quando si ama un uomo, che non è il proprio marito.
Accontentatevi della mia amicizia; perché, ve lo ripeto, è tutto
quanto posso promettervi, e io non prometto che quanto sono sicura
di mantenere.»
«Sì, lo comprendo, voi sopportate pazientemente la vostra miseria,
ma avete paura della mia. Ebbene, Mercedes, amato da voi, io tenterò
la fortuna; voi mi porterete felicità, e io diventerò ricco. Posso
estendere il mio commercio di pescatore, posso fare il commesso,
posso diventare un negoziante.»
«Voi non potete tentare niente di tutto ciò, Fernando, voi siete
soldato, e se siete ancora ai Catalani è perché non vi è guerra;
restate dunque pescatore, non fate dei sogni, che farebbero ancora
più terribile la realtà, e accontentatevi della mia amicizia, poiché
io non posso darvi altro.»
«Avete ragione, Mercedes, io sarò marinaio; avrò, invece del costume
dei nostri padri, che disprezzate, un cappello col fiocco, una
camicia a righe e una giacca turchina con le ancore sui bottoni… Non
è così che bisogna essere vestito per piacervi?»
«Che intendete dire?» domandò Mercedes con uno sguardo imperioso.
«Che intendete dire? Non vi capisco.»
«Voglio dire, Mercedes, che siete così inflessibile e crudele con
me, perché attendete qualcuno così vestito. Ma quello che voi
aspettate è forse incostante; e se non lo è, il mare lo è per lui.»
«Fernando», esclamò Mercedes, «io vi credevo buono e mi sono
ingannata; Fernando, avete un cuore cattivo, invocando in aiuto
della gelosia la collera di Dio. Ebbene sì, non vi nascondo nulla,
aspetto, e amo colui che dite, e s’egli non ritorna, invece di
accusarlo di incostanza dirò che è morto amandomi.»
Il giovane catalano fece un gesto di rabbia.
«Vi capisco, Fernando, vi rivarreste su di lui perché non vi amo,
voi incrocereste il coltello catalano col suo pugnale. Ma a che
servirebbe? A perdere la mia amicizia se rimaneste vinto, a veder
cambiarsi in odio la mia amicizia se vincitore. Credetemi, il
muovere contesa con un uomo è un cattivo mezzo per piacere alla
donna che ama quest’uomo. No, Fernando, voi non vi lascerete
trasportare da così perversi pensieri; se non mi potete avere in
moglie, vi accontenterete di avermi amica e sorella. D’altronde»,
aggiunse commossa e con gli occhi pieni di lacrime, «aspettate,
aspettate, Fernando, voi lo avete detto or ora, il mare è perfido e
sono già quattro mesi che ho contato molte burrasche!»
Fernando restò impassibile.
Non cercò di asciugare le lacrime che scorrevano sulle guance di
Mercedes, anche se avrebbe dato una libbra del suo sangue per
ciascuna di quelle lacrime che scorrevano per un altro. Si alzò,
fece un giro nella capanna, ritornò, si fermò davanti a Mercedes
cupo in viso, e con i pugni fortemente serrati.
«Mercedes», disse, «ancora una volta rispondete… Siete proprio
decisa?»
«Io amo Edmond Dantès», disse freddamente la ragazza, «e nessun
altro fuorché Edmond sarà il mio sposo!»
«E l’amerete sempre?»
«Finché avrò vita!»
Fernando chinò la testa scoraggiato, emise un sospiro che sembrò un
gemito; poi a un tratto alzando la fronte, con i denti serrati e le
narici socchiuse: «Ma s’egli è morto?» disse.
«Se è morto, io morrò!»
«Ma se vi dimentica?»
«Mercedes!» esclamò una voce esultante fuori della capanna,
«Mercedes!»
«Ah!» esclamò la ragazza arrossendo di gioia, esultando d’amore,
«vedi bene che non mi ha dimenticata, eccolo qua…»
Si lanciò verso la porta e l’aprì gridando: «Eccomi, Edmond,
eccomi!»
Fernando, pallido e fremente, indietreggiò come un viaggiatore alla
vista di un serpente, e urtando la sedia vi cadde a sedere.
Edmond e Mercedes erano tra le braccia l’una dell’altro. Il sole
ardente di Marsiglia che penetrava dall’apertura della porta, li
inondava di un torrente di luce. Sulle prime non videro niente di
ciò che li circondava, una felicità immensa li isolava da questo
mondo; non si parlavano che con quelle parole tronche che sono lo
slancio della più viva gioia, e sembrano accostarsi all’espressione
del dolore. A un tratto Edmond si accorse della figura cupa di
Fernando nell’ombra, pallida e minacciosa; d’istinto, senza egli
stesso darsene una ragione, il catalano aveva portato la mano al
coltello posto alla cintura.
«Scusate», disse Dantès, inarcando a sua volta le sopracciglia, «non
avevo notato che eravamo in tre.» Poi volgendosi a Mercedes domandò:
«Chi è questo signore?»
«Sarà il vostro migliore amico, poiché è il mio; è mio cugino e mio
fratello; è Fernando, l’uomo, che dopo voi, Edmond, amo di più su
questa terra.»
Edmond, senza abbandonare Mercedes di cui teneva una mano, tese, con
cordialità, l’altra mano al catalano. Ma Fernando invece di
corrispondere al gesto amichevole, restò muto e immobile come una
statua. Allora Edmond portò il suo sguardo scrutatore da Mercedes,
commossa e tremante, a Fernando cupo e minaccioso. Quel solo sguardo
gli fece comprendere tutto. La collera montò al suo viso.
«Non sarei venuto con tanta fretta da voi, Mercedes, se avessi
saputo di ritrovarvi un nemico.»
«Un nemico!» esclamò Mercedes con uno sguardo corrucciato rivolto al
cugino. «Un nemico presso di me, tu dici, Edmond? Se lo credessi, ti
darei subito il mio braccio e me ne andrei a Marsiglia, abbandonando
questa casa per non riporvi mai più piede.»
L’occhio di Fernando ebbe un lampo.
«Se ti accadesse una disgrazia, mio Edmond», continuò lei con il
medesimo implacabile sangue freddo, che provava a Fernando che la
ragazza aveva saputo leggere fin nel profondo dei suoi sinistri
pensieri, «se ti accadesse qualche disgrazia, salirei sul capo di
Morgion e mi getterei sugli scogli spaccandomi la testa.»
Fernando divenne spaventosamente pallido.
«Ma tu t’inganni, Edmond», continuò, «tu qui non hai nemici: qui non
c’è che Fernando, mio fratello, che ti stringerà la mano come a un
amico, di cuore.»
A queste parole la ragazza fissò il suo sguardo imperioso sul
catalano, il quale, come se fosse stato affascinato da questo
sguardo, si accostò lentamente a Edmond, e gli tese la mano. Il suo
odio, pari a un flutto impotente sebbene furioso, veniva a
infrangersi contro l’ascendente che questa donna esercitava su lui.
Ma appena ebbe toccata la mano di Edmond, sentì di aver fatto tutto
ciò che poteva, e, lanciandosi fuori della capanna correndo come un
insensato e con le mani nei capelli, esclamò: «Oh, chi mi libererà
da quest’uomo? Me infelice! Me infelice!»
«Ehi, catalano! Ehi, Fernando, dove corri?» disse una voce. Il
giovane si fermò di colpo, guardò attorno a sé e riconobbe
Caderousse seduto a tavola con Danglars sotto un pergolato di foglie
di vite.
«Ehi!» disse Caderousse. «Perché non vieni qui? Hai dunque tanta
fretta da non avere il tempo di dire buongiorno agli amici?»
«Specialmente quando hanno ancora una bottiglia quasi piena
davanti…» aggiunse Danglars.
Fernando guardò quei due uomini con occhi assenti e non rispose
nulla.
«Sembra proprio stordito», disse Danglars, toccando il ginocchio di
Caderousse. «Possibile che ci siamo sbagliati, e che Dantès trionfi
in barba a quanto previsto?»
«Diavolo, è da vedersi!» disse Caderousse.
E volgendosi verso il catalano: «Ebbene, ti decidi?»
Fernando si asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte, entrò
lentamente sotto il pergolato, l’ombra sembrava rendere un po’ di
calma ai suoi sensi, e la freschezza un po’ di sollievo al corpo
spossato.
«Buongiorno», disse. «Mi avete chiamato, non è vero?»
E fu piuttosto un cadere che il sedersi sopra una delle panche
attorno alla tavola.
«Ti ho chiamato perché correvi come un pazzo, e perché ho avuto
paura che andassi a gettarti in mare», disse ridendo Caderousse.
«Che diavolo! Quando uno ha degli amici, non è soltanto per offrir
loro un bicchiere di vino, ma anche per impedirgli di andare a bere
tre o quattro pinte d’acqua.»
Fernando mandò un gemito che sembrava un singulto, e lasciò cadere
la testa sopra i due pugni incrociati sulla tavola.
«Ebbene! Vuoi che lo dica io, Fernando», riprese Caderousse
intavolando la conversazione con quella villana brutalità della
gente del popolo, alla quale la curiosità fa dimenticare ogni specie
di diplomazia. «Hai l’aria di un amante sconfitto.» E accompagnò
questa facezia con una forte risata.
«Impossibile», intervenne Danglars, «un giovanotto della forza di
costui non è fatto per essere disgraziato in amore; tu ti burli di
lui, Caderousse.»
«Niente affatto», riprese questi. «Non senti come sospira? Coraggio,
Fernando», disse Caderousse, «alza la testa e rispondi. Non è
cortese non rispondere agli amici che domandano come va la salute.»
«La mia salute va bene», disse Fernando serrando i pugni, ma senza
alzar la testa.
«Ah, vedi, Danglars», disse Caderousse, strizzando l’occhio
all’amico, «ecco come stanno le cose: Fernando, che vedi qui, e che
è un buono e bravo catalano, uno dei migliori pescatori di
Marsiglia, è innamorato di una bella ragazza che si chiama Mercedes,
ma disgraziatamente sembra che la bella ragazza sia innamorata del
secondo del Pharaon, e siccome il Pharaon è entrato oggi in porto,
tu capisci?…»
«No, io non capisco niente», disse Danglars.
«Il povero Fernando avrà ricevuto il suo congedo.»
«Ebbene?» disse Fernando alzando la testa e guardando Caderousse
come in cerca di qualcuno su cui sfogare la sua collera. «Mercedes
non dipende da nessuno, non è vero? Dunque è libera di amare chi
vuole.»
«Ah! Se la prendi così», disse Caderousse, «è un altro affare. Ti
credevo un catalano, e mi era stato detto che i catalani non eran
tali da lasciarsi soppiantare da un rivale, e mi si era fatto
credere che Fernando in particolare fosse un uomo terribile nella
vendetta.»
Fernando sorrise in tono di commiserazione.
«Un innamorato non è mai terribile», disse.
«Povero ragazzo», riprese Danglars, fingendo di compiangerlo dal più
profondo dell’anima, «Lui non si aspettava di vedere ritornare
Dantès così presto. È forse infedele, o che so io? Queste cose sono
tanto più sconvolgenti quanto più ci accadono all’improvviso.»
«A ogni modo», disse Caderousse che beveva parlando, e su cui il
vino di Malaga cominciava a fare il suo effetto, «Fernando non è il
solo che è indispettito dal felice ritorno di Dantès. Non è vero,
Danglars?»
«È vero, e io oserei dire che ciò gli porterà disgrazia.»
«Non importa», riprese Caderousse, versando un bicchiere di vino a
Fernando, e riempiendo il proprio per l’ottava o decima volta,
mentre Danglars aveva appena assaggiato il suo, «non importa,
intanto egli sposa Mercedes: è ritornato per questo.»
Danglars fissava con occhi scrutatori il giovane, sul quale le
parole di Caderousse cadevano come piombo fuso.
«E quando si faranno le nozze?» domandò.
«Oh, non sono ancor fatte», mormorò Fernando.
«No, ma si faranno», disse Caderousse. «Così come Dantès sarà
capitano del Pharaon. Non è vero, Danglars?»
Danglars rabbrividì a questo colpo inatteso, e si voltò verso
Caderousse di cui studiò i lineamenti per capire se era stato
premeditato, ma egli non lesse che l’invidia su quel viso fattosi
quasi ebete dall’ubriachezza.
«Ebbene», disse, riempiendo i bicchieri, «beviamo dunque alla salute
del capitano Edmond Dantès, marito della catalana!»
Caderousse portò il bicchiere alla bocca, e con mano pesante lo
tracannò in un fiato. Fernando prese il suo e lo ruppe gettandolo a
terra.
«Eh! eh! eh!» disse Caderousse. «Cosa vedo sull’alto del
promontorio, laggiù, verso i Catalani? Guarda tu, Fernando, che hai
miglior vista della mia; credo di cominciare a veder doppio, e tu
sai che il vino è traditore… Si direbbe che i due amanti passeggino,
tenendosi vicini vicini! Il cielo mi perdoni! Non sanno d’esser
visti… Eccoli!»
Danglars non perdeva alcuna delle angosce che soffriva Fernando, il
cui viso si alterava palesemente.
«Li riconoscete, Fernando?» disse.
«Sì», rispose questi, con voce cupa, «sono Edmond e Mercedes.»
«Ah, vedete», disse Caderousse, «li avevo riconosciuti! Oh, Dantès!
O che bella ragazza! Venite qui e diteci quando si faranno le nozze,
poiché Fernando si è ostinato a non volercelo dire.»
«Vuoi tacere?» disse Danglars, fingendo di trattenere Caderousse,
che con la tenacia dell’ubriaco si sforzava di sporgersi fuori del
pergolato. «Cerca di tenerti dritto, e lascia gl’innamorati amarsi
tranquillamente. Guarda Fernando, e prendi esempio da lui, è un uomo
ragionevole.»
Forse Fernando, ridotto agli estremi, e punto da Danglars come il
toro dai banderilleros, stava per slanciarsi, perché si era già
alzato e sembrava raccogliersi per scagliarsi contro il suo rivale,
ma Mercedes, ridente e accorta, alzò la sua bella testa e fece
brillare il suo limpido sguardo. Allora Fernando si ricordò la
minaccia che aveva fatto di uccidersi se Edmond fosse morto, e
ricadde scoraggiato sulla panca.
Danglars guardò quei due uomini: l’uno abbrutito dall’ubriachezza,
l’altro dominato dall’amore.
«Non ricaverò niente da questi imbecilli», mormorò, «e ho una gran
paura di essere qui fra un ubriaco e un codardo. Ecco un invidioso
che si ubriaca con il vino, mentre dovrebbe farlo con il fiele; e un
grande imbecille al quale vien tolta la sua bella di sotto al naso,
e si accontenta di piangere e di lamentarsi come un bambino:
nonostante abbia occhi fulminanti come gli spagnoli, i siciliani e i
calabresi, i quali sanno vendicarsi così bene, e dei pugni che
fracasserebbero la testa a un bue come la mazza del macellaio!
Decisamente il destino di Edmond la vince: sposerà la ragazza, sarà
fatto capitano, e riderà di noi, a meno che…» Un sinistro sorriso
affiorò sulle labbra di Danglars. «A meno che non me ne occupi io…»
aggiunse.
«Olà!» continuava a gridare Caderousse a metà alzato, puntellandosi
sulla tavola. «Olà, Edmond, non vedi dunque gli amici, o sei
diventato già tanto superbo da non poter parlar con loro?»
«No, mio caro Caderousse», rispose Dantès, «io non sono superbo,
sono felice, e la felicità acceca, credo, assai più della superbia.»
«Alla buon’ora, ecco una bella spiegazione», disse Caderousse.
«Buongiorno, signora Dantès.»
Mercedes salutò con gravità.
«Questo ancora non è il mio nome», disse, «e nel mio paese porta
cattivo augurio chiamare le ragazze col nome del fidanzato, prima
che sia loro marito. Vi prego dunque di chiamarmi Mercedes.»
«Bisogna perdonare il buon vicino Caderousse», disse Dantès, «egli
si sbaglia di poco.»
«Dunque le nozze avranno luogo quanto prima, Dantès?» disse Danglars
salutando i due giovani.
«Il più presto possibile, signor Danglars: oggi si prenderanno tutti
gli accordi con mio padre, e domani al più tardi ci sarà il pranzo
di fidanzamento, qui alla Riserva. Spero che gli amici ci saranno, e
ciò vuol dire che siete invitato, signor Danglars, e tu, Caderousse,
non mancherai.»
«Fernando», disse Caderousse ridendo, «sarà invitato anche lui?»
«Il fratello della mia sposa è pure mio fratello», disse Edmond, «e
sia Mercedes che io vedremmo con sommo dispiacere se egli si
allontanasse da noi in questa circostanza.»
Fernando aprì la bocca per rispondere, ma la voce gli si spense in
gola, e non poté articolare una parola.
«Oggi gli accordi, domani o dopo il fidanzamento!… Che diavolo!
Capitano, voi avete molta fretta.»
«Danglars», rispose Edmond sorridendo, «vi dirò ciò che Mercedes
diceva or ora a Caderousse: non mi date un titolo che non mi
appartiene… Mi porterebbe cattivo augurio.»
«Scusate», precisò Danglars, «dicevo semplicemente che voi avete
molta fretta. Che diavolo! Noi abbiamo tempo; il Pharaon non salperà
che fra tre mesi.»
«Si ha sempre fretta di esser felici; quando uno ha sofferto
lungamente, si pena a credere alla felicità. Ma non è il solo
egoismo che mi fa agire in tal modo; occorre che io vada a Parigi.»
«Ah davvero? A Parigi? È la prima volta che ci andate, Dantès?»
«Sì.»
«Vi avete degli affari?»
«Non per mio conto; è un’ultima commissione del nostro capitano
Leclère da adempiere; voi capirete, Danglars, che questa è cosa
sacra. D’altronde, state tranquillo, io non prenderò che il tempo
necessario per l’andata e il ritorno.»
«Sì, sì capisco», disse ad alta voce Danglars, poi aggiunse fra sé
abbassando il tono: «A Parigi, senza dubbio, per recapitare la
lettera che gli consegnò il capitano. Ah, perbacco! Questa lettera
mi fa nascere un’idea, un’eccellente idea! Signor Dantès, amico mio,
non hai ancora dormito a bordo del Pharaon nella cabina numero 1».
Poi voltandosi verso Edmond che già si allontanava: «Buon viaggio…»
gli gridò.
«Grazie…» rispose Edmond girando la testa, accompagnando questo
movimento con un gesto amichevole. Quindi i due innamorati
continuarono la loro strada, lieti e tranquilli come due anime che
salgono al cielo.
4. Il complotto
Danglars seguì Edmond e Mercedes con lo sguardo, finché i due
scomparvero dietro l’angolo del forte Saint-Nicolas; poi volgendosi
si accorse che Fernando era ricaduto sulla panca pallido, fremente,
mentre Caderousse balbettava le parole di una canzone da osteria.
«Ecco», disse Danglars a Fernando, «un matrimonio che sembra non
faccia la felicità di tutto il mondo.»
«È la mia disperazione.»
«Dunque amate Mercedes?»
«Dal momento che la conobbi l’amai; l’ho sempre amata!»
«E voi state lì a strapparvi i capelli invece di cercare un rimedio?
Che diavolo! Io non credevo che fosse questo il modo con cui
agiscono quelli della vostra razza.»
«Che cosa volete che faccia?» domandò Fernando.
«E che ne so? È forse cosa che mi riguarda? Non sono io, mi sembra,
l’innamorato di Mercedes, ma voi.»
«Io volevo pugnalar l’uomo, ma lei mi ha detto che se capitava una
disgrazia al suo fidanzato si sarebbe uccisa.»
«Frottole! Queste sono cose che si dicono sempre, e non si fanno
mai.»
«Signore, voi non conoscete Mercedes: quando minaccia, esegue.»
«Imbecille!» mormorò Danglars. «Che lei si uccida o no a me poco
importa purché Dantès non diventi capitano.»
«E prima che Mercedes muoia», aggiunse Fernando, con accento
risoluto, «morirei io stesso.»
«Questo si chiama amore!» disse Caderousse con voce avvinazzata. «Se
questo non è vero amore, davvero non lo so più conoscere.»
«Vediamo», disse Danglars, «voi mi sembrate un giovane a modo, e
vorrei, che il diavolo mi porti, levarvi questa pena, ma…»
«Sì, sì», disse Caderousse, «capiamo come.»
«Mio caro», continuò Danglars, «tu sei per tre quarti ubriaco;
termina la bottiglia e lo sarai del tutto. Bevi, e non immischiarti
in ciò che facciamo, perché bisogna aver libera la testa.»
«Io ubriaco?» disse Caderousse. «Eh via! Io delle tue bottiglie ne
berrei altre quattro! Non sono più grandi di una boccetta d’acqua di
Colonia!… Papà Pamphile, del vino!» E per dare effetto alle parole,
Caderousse batté il bicchiere sulla tavola.
«Dunque dicevate, signore?» riprese Fernando, aspettando con
impazienza il seguito della frase interrotta.
«Che dicevo? Non me ne ricordo. Questo ubriacone di Caderousse mi ha
fatto perdere il filo.»
«Ubriaco quanto vorrai. Tanto peggio per quelli che hanno paura del
vino! Ciò perché hanno qualche cattivo pensiero e temono che il vino
lo tolga dal cuore.»
E Caderousse si mise a cantare gli ultimi versi di una canzone molto
in voga a quei tempi: «Acqua bevon color che fan del male: N’è una
prova il diluvio universale!»
«Dicevate, signore», riprendeva Fernando, «che mi vorreste levar di
pena, ma aggiungeste…»
«Sì, aggiungevo che per levarvi di pena basta che Dantès non sposi
colei che voi amate, e il matrimonio può benissimo non effettuarsi
anche senza che Dantès muoia.»
«La morte sola può separarli», disse Fernando.
«Voi ragionate come un ragazzo, amico mio», disse Caderousse, «e
siccome Danglars è un furbo, un maligno, vi mostrerà in qual modo
voi avete torto. Provalo, Danglars, io ho garantito per te. Digli
che non vi è bisogno che Dantès muoia… D’altronde mi dispiacerebbe
se morisse, Dantès; è un buon giovane… io gli voglio bene… io ti
voglio bene Dantès… alla tua salute Dantès!»
Fernando si alzò stizzito.
«Lasciatelo dire», riprese Danglars, trattenendo il catalano,
«sebbene ubriaco non dice un grande sproposito: l’assenza separa due
individui tanto bene quanto la morte… Supponete per esempio che vi
fosse fra Edmond e Mercedes la muraglia di una prigione; essi
sarebbero divisi né più né meno che se vi fosse la lapide di una
tomba.»
«Sì, ma di prigione si esce», disse Caderousse, che con gli ultimi
sprazzi di lucidità, stava prendendo parte alla conversazione, «e
quando si esce di prigione, e si porta il nome di Edmond Dantès, uno
si vendica.»
«Che importa!» mormorò Fernando.
«E poi», rispose Caderousse, «perché si dovrebbe mettere in prigione
Dantès? Egli non ha né rubato, né ammazzato.»
«Taci!» disse Danglars.
«Io non voglio tacere; pretendo che mi si dica perché si vuol far
mettere in prigione Dantès. Voglio bene a Dantès! Alla tua salute
Dantès!»
E vuotò d’un fiato un altro bicchiere di vino.
Danglars seguì con lo sguardo i progressi dell’ubriachezza del suo
compagno, e rivolgendosi a Fernando: «Ebbene, comprendete che non vi
è bisogno di ucciderlo?»
«No certo, se, come voi dicevate poco fa, si potesse trovare il modo
di farlo arrestare.»
«Cercando bene», disse Danglars, «lo si potrebbe trovare… Ma di che
diavolo vado io a immischiarmi? È forse cosa che mi riguarda?»
«Non so se ciò vi riguardi», disse Fernando afferrandogli un
braccio, «ma ciò che so è che voi avete qualche motivo particolare
di odio contro Dantès: chi odia se stesso, non s’inganna sui
sentimenti degli altri.»
«Io!… dei motivi di odio con Dantès? Nessuno, sulla mia parola! Io
vi ho visto infelice e la vostra infelicità mi ha commosso, perciò
ho preso interesse per voi, ecco tutto. Ma dal momento che voi
credete che agisca per conto mio, addio, amico caro: levatevi quella
spina dal cuore come potete.» E Danglars fece finta a sua volta
d’alzarsi.
«No», disse Fernando trattenendolo, «restate; in fin dei conti, poco
m’importa che voi odiate o no Dantès: io l’odio e lo confesso.
Trovate il mezzo e io l’eseguo, purché non causi la morte di
quell’uomo poiché Mercedes si ucciderebbe se Dantès fosse
ammazzato.»
Caderousse, che aveva lasciato cadere la testa sul tavolo, rialzò la
fronte e guardando Fernando e Danglars, con occhi semichiusi e
spenti, disse: «Uccidere Dantès… Chi parla di uccidere Dantès? Io
non voglio che sia ucciso, io!… È mio amico… Mi ha offerto questa
mattina di divider con me il suo denaro, come io ho diviso il mio
con lui… Non voglio che si uccida Dantès!…»
«E chi parla di ucciderlo, imbecille!» riprese Danglars. «Si parla
di un semplice scherzo. Bevi alla sua salute», aggiunse
riempiendogli il bicchiere, «e lasciaci tranquilli.»
«Sì, sì, alla salute di Dantès», disse Caderousse, vuotando il
bicchiere, «alla sua salute… alla sua salute… al… la…»
«Ma il mezzo?… Il mezzo?» disse con impazienza Fernando.
«Voi non lo avete ancora trovato?»
«No, ve ne siete incaricato voi.»
«È vero», rispose Danglars, «i francesi hanno questa superiorità
sugli spagnoli: gli spagnoli ruminano, e i francesi inventano.»
«Inventate dunque, inventate», disse Fernando con impazienza.
«Cameriere!» disse Danglars, «carta, penna e calamaio.»
«Carta, penna e calamaio?» mormorò Fernando.
«Sì, io sono scrivano computista, la penna, l’inchiostro e la carta
sono i miei strumenti, e senza di questi non saprei fare cosa
alcuna.»
«Carta, penna e calamaio!» esclamò ad alta voce Fernando.
«Ecco tutto», disse il cameriere portando gli oggetti richiesti.
«Quando si pensa», disse Caderousse, mettendo una mano sulla carta,
«che con questa carta si può ammazzare un uomo con più facilità che
se si attendesse all’angolo di un bosco per assassinarlo. Ho sempre
avuto più paura di una bottiglia d’inchiostro, di una penna e di un
calamaio, che non di una spada o di una pistola.»
«Il buffone non è ancora ubriaco quanto sembra», disse Danglars.
«Versategli dunque da bere, Fernando.»
Fernando riempì il bicchiere di Caderousse; e questi, da quel bravo
bevitore che era, levò la mano dalla carta, e la portò al bicchiere.
Il catalano seguì i suoi movimenti fino a che Caderousse, quasi
sopraffatto da quel nuovo attacco, lasciò cadere il suo bicchiere
sul tavolo.
«Ebbene…» riprese il catalano, vedendo che il poco della ragione che
restava a Caderousse cominciava a sparire sotto l’influenza di
quell’ultimo bicchiere di vino.
«Ebbene dicevo dunque, per esempio», riprese Danglars, «che se dopo
un viaggio come quello che ha fatto Dantès e in cui ha toccato
Napoli e l’isola d’Elba, qualcuno lo denunciasse…»
«Lo denuncerò io», disse con vivacità il giovane.
«Sì, ma allora vi si fa firmare la vostra dichiarazione, e vi si
confronta con quello che avete denunciato. Io vi fornisco di che
sostenere la vostra accusa, è vero. Ma Dantès non può restare
eternamente in prigione; un giorno o l’altro ne uscirà, e il giorno
in cui esce sarà terribile con quello che lo ha fatto entrare.»
«Oh, io non desidero che una cosa», disse Fernando, «che egli venga
a sfidarmi a duello.»
«Sì, e Mercedes? Mercedes vi prenderà in odio se voi avrete soltanto
la disgrazia di scalfire la pelle al suo diletto Edmond!»
«È giusto», disse Fernando.
«No, no», riprese Danglars, «se si decide una cosa simile, vedete
bene, è meglio prendere, così come faccio io, questa penna,
intingerla nell’inchiostro e scrivere con la mano sinistra, affinché
la calligrafia non sia individuata, la breve seguente denuncia.» E
Danglars, unendo l’esempio all’insegnamento, scrisse con la mano
sinistra e con una grafia ordinaria, che non aveva alcuna analogia
con la sua, le parole che egli passò a Fernando e questi lesse a
mezza voce.
«Il signor procuratore del re è avvisato, da un amico del trono e
della religione, che un tale Edmond Dantès, secondo del bastimento
Pharaon, giunto questa mattina da Smirne, dopo aver toccato Napoli e
Portoferraio, ebbe da Murat l’incarico di consegnare una lettera
all’usurpatore, e dall’usurpatore una lettera per il Comitato
bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto
arrestandolo, poiché si troverà questa lettera, o nelle sue tasche,
o in casa di suo padre, o nella sua cabina a bordo del Pharaon.»
«Alla buon’ora», disse Danglars, «in tal modo la vostra vendetta
sarà attribuita alle circostanze, e sarete sicuro che non ricadrà
sopra di voi, e la cosa andrà da sola. Perciò non vi resterebbe che
piegare la lettera come faccio io, scriverci sopra: “Al procuratore
del re”, e tutto sarebbe fatto.» E Danglars scrisse l’indirizzo,
come per gioco.
«Sì, tutto sarebbe fatto», gridò Caderousse, che con un ultimo
sforzo d’intelligenza aveva seguito la lettura, e che comprendeva
per istinto tutto il male che avrebbe potuto causare una simile
denuncia. «Sì, tutto sarebbe fatto, soltanto sarebbe un’infamia.» E
allungò il braccio per prendere la lettera.
«Per tal modo», disse Danglars, allontanando la lettera, «per tal
modo tutto ciò che ho detto e fatto non è che uno scherzo, e io
sarei il primo a esserne afflitto se accadesse qualche disgrazia a
Dantès, a questo buon Dantès! Così osservate…» Egli prese la
lettera, la spiegazzò fra le mani e la gettò in un angolo del
pergolato.
«Alla buon’ora», disse Caderousse. «Dantès è mio amico, e non voglio
che gli si faccia del male.»
«E chi diavolo pensa a fargli del male? Certamente né io né
Fernando», disse Danglars alzandosi, e squadrando il catalano
rimasto seduto, che non perdeva d’occhio il foglio denunciatore
gettato nell’angolo.
«In questo caso», riprese Caderousse, «che ci portino del vino, io
voglio bere alla salute di Edmond e della bella Mercedes.»
«Tu hai bevuto fin troppo, ubriacone!» disse Danglars. «E se
continui sarai obbligato a dormir qui, poiché non potrai reggerti in
piedi.»
«Io!» disse Caderousse, alzandosi con la fatuità dell’uomo ubriaco,
«io non potrò tenermi in piedi? Scommetto che monto sul campanile
degli Accoulès anche senza barcollare!»
«Sia!» disse Danglars. «Accetto la scommetto, ma per domani; oggi è
ora di ritornare a casa. Dammi il braccio e andiamo.»
«Andiamo», disse Caderousse, «ma non ho bisogno del tuo braccio.
Vieni anche tu, Fernando? Rientri con noi a Marsiglia?»
«No», disse Fernando, «io ritorno ai Catalani.»
«Fai male; vieni con noi a Marsiglia, vieni.»
«Non ho niente da fare a Marsiglia, e non ci voglio andare.»
«Come hai detto? Che non vieni? Ebbene a tuo comodo. Vieni Danglars,
lasciamo rientrare il giovanotto ai Catalani, poiché vuole così.»
Danglars approfittò del momento di buona volontà di Caderousse per
trascinarlo alla volta di Marsiglia; e solo per lasciare la strada
più corta e più facile a Fernando, invece di ritornare per la
riviera della nuova Riva, ritornò per la porta San Vittore;
Caderousse lo seguì barcollando attaccato al suo braccio. Quando fu
a una ventina di passi, Danglars si voltò e vide Fernando
precipitarsi sul foglio e metterlo in tasca; poi subito balzare
fuori dal pergolato, e andarsene dalla parte del Pilone.
«Ebbene, che fa dunque?» disse Caderousse. «Ha mentito: ci ha detto
che andava ai Catalani e ha voltato dalla parte della città. Olà!
Fernando, tu ti sbagli, caro ragazzo!»
«Sei tu che vedi male», disse Danglars, «egli segue direttamente la
strada delle Vecchie Infermerie.»
«Davvero?» disse Caderousse. «Eppure giurerei che ha voltato a
destra! Decisamente il vino è traditore!»
«Andiamo, andiamo», mormorò Danglars, «credo che l’affare sia bene
avviato e non resti altro da fare che lasciarlo progredire da sé.»
5. Il pranzo di fidanzamento
Il giorno seguente il tempo fu bello, il sole si levò puro e
lucente, e i suoi primi raggi di un rosso purpureo screziavano le
cime dei flutti di un vivo color rubino.
Il pranzo era stato preparato al primo piano di quella stessa
Riserva con il pergolato, di cui noi facemmo già conoscenza. Era un
salone illuminato da cinque o sei finestre, e al di sopra di
ciascuna, senza sapere perché, stava scritto il nome di una delle
grandi città della Francia; le finestre davano su una terrazza in
legno.
Benché il pranzo non fosse fissato che per mezzogiorno, fino dalle
undici del mattino questa terrazza era piena di persone che vi
passeggiavano con impazienza. Erano i marinai privilegiati del
Pharaon e qualche amico di Dantès. Tutti, in onore del fidanzato,
erano vestiti dei loro migliori abiti. Si sentiva dire fra i
convitati del promesso sposo, che gli armatori del Pharaon avrebbero
onorato con la loro presenza il fidanzamento del loro secondo. Ma
questo, a loro pensare, era un onore così grande per Dantès, che
nessuno osava crederci. Però Danglars, che giungeva in compagnia di
Caderousse, confermò la notizia. La mattina aveva visto lo stesso
signor Morrel, e questi lo aveva assicurato che sarebbe venuto a
pranzo alla Riserva.
Infatti, pochi momenti dopo il signor Morrel fece il suo ingresso
nella sala e fu salutato dai marinai del Pharaon con un evviva e
unanimi applausi. La presenza dell’armatore era una conferma della
voce che già correva che Dantès sarebbe stato nominato capitano; e
siccome Dantès era molto amato a bordo, questa brava gente faceva
capire in tal modo all’armatore che una volta tanto la nomina del
capitano era in armonia con i desideri dei subordinati.
Appena il signor Morrel fu entrato, Danglars e Caderousse furono
unanimemente incaricati di andare incontro ai fidanzati. Dovevano
avvertirli dell’arrivo del personaggio importante, la cui venuta
aveva prodotto una così forte impressione, e dir loro che si
affrettassero.
Danglars e Caderousse partirono di corsa; ma non ebbero fatto cento
passi che scorsero il piccolo corteo che veniva alla loro volta.
Questo piccolo corteo si componeva di quattro ragazze amiche di
Mercedes, catalane come lei, che accompagnavano la fidanzata alla
quale Edmond dava il braccio. Vicino alla futura sposa camminava il
vecchio Dantès, e dietro di loro veniva con sinistro sogghigno
Fernando; i poveri giovani erano così felici, che non vedevano che
se stessi e il bel cielo che li benediceva.
Danglars e Caderousse disimpegnarono la loro missione di
ambasciatori; quindi dopo aver scambiato con Edmond una stretta di
mano vigorosa e amichevole, andarono, Danglars a prender posto
vicino a Fernando, Caderousse a mettersi a fianco del padre di
Dantès, centro dell’attenzione generale.
Il vecchio era vestito del suo bell’abito di taffettà, guarnito con
larghi bottoni di acciaio sfaccettati. Le sue gambe sottili, ma
nerborute, erano ricoperte da un magnifico paio di calze di cotone
lavorato, di contrabbando inglese. Dal suo cappello a tre punte
pendeva una fettuccia bianca e turchina. Egli si appoggiava a un
bastone di legno tornito e ricurvo in alto come il pedum degli
antichi. Si sarebbe detto uno di quegli zerbinotti che facevano
bella mostra di sé nel 1796 nei giardini nuovamente riaperti del
Lussemburgo e delle Tuileries.
Vicino a lui, come già detto, si era messo Caderousse, che la
speranza di un buon pranzo aveva riconciliato con Dantès; Caderousse
al quale restava nella mente una vaga memoria di ciò che era
accaduto il giorno innanzi, come quando nello svegliarsi la mattina
si ritrova l’ombra del sogno che si è fatto nella notte.
Danglars nell’avvicinarsi a Fernando aveva gettato sul catalano
imbarazzato uno sguardo profondo.
Fernando camminava dietro ai fidanzati, completamente trascurato da
Mercedes, che, con quell’egoismo giovanile caro all’amore, non aveva
occhi che per Edmond; Fernando era pallido, con improvvisi rossori
che lasciavano il posto a un pallore sempre più crescente. Ogni
tanto guardava verso Marsiglia, e allora un tremito nervoso e
involontario gli scorreva per le membra. Fernando sembrava attendere
o perlomeno prevedere un qualche avvenimento.
Dantès era vestito con semplicità. Appartenendo alla marina
mercantile, aveva un abito fra l’uniforme militare e il costume
borghese, e sotto questo abito il suo portamento, eccitato anche
dalla gioia e dalla bellezza della sua fidanzata, era superbo.
Mercedes era bella come una di quelle greche di Cipro o di Coo,
dagli occhi d’ebano e dalle labbra di corallo. Camminava col passo
franco e libero delle andaluse. Una ragazza di città avrebbe forse
cercato di nascondere la sua gioia sotto un velo o almeno sotto il
velluto delle palpebre; ma Mercedes sorrideva e guardava tutto ciò
che la circondava, e il suo sorriso e il suo sguardo dicevano
francamente quanto avrebbero potuto dire le sue parole: «Se voi mi
siete amici rallegratevi, poiché in verità io sono molto felice».
Dal momento che i fidanzati e coloro che li accompagnavano furono in
vista della Riserva, Morrel discese, e avanzò verso di loro, seguito
dai marinai e dai soldati con i quali era rimasto e a cui aveva
rinnovato la promessa, già fatta a Dantès, che questi sarebbe
succeduto al capitano Leclère.
Edmond, vedendolo venire, lasciò il braccio della fidanzata e lo
passò sotto quello di Morrel.
L’armatore e la ragazza dettero allora l’esempio e salirono per
primi la scala di legno che portava alla stanza dove era preparato
il pranzo. La scala scricchiolò per cinque minuti sotto i pesanti
passi dei convitati.
«Padre mio», disse Mercedes, fermandosi a metà della tavola, «voi
starete alla mia destra, alla sinistra porrò colui che fin qui mi ha
fatto da fratello», e lo disse con una dolcezza che penetrò nel più
profondo del cuore di Fernando come un colpo di pugnale. Le sue
labbra s’incresparono e, sotto la tinta livida del suo viso
maschile, si poté vedere il sangue ritirarsi a poco a poco, per
affluire al cuore.
Nel frattempo Dantès aveva posto alla sua destra Morrel, alla
sinistra Danglars; quindi aveva fatto segno con la mano che ciascuno
prendesse posto a suo piacere.
Già circolavano intorno alla tavola i salami di Arles con le carni
brune e affumicate, le aragoste ricoperte della loro rosea corazza,
i ricci di mare che sembravano castagne circondate dalla loro scorza
spinosa, le cappe che presso i buongustai del Mezzogiorno sono
valutate più delle ostriche del Nord; e tutti quei crostacei, che i
flutti gettano sulla riva sabbiosa e che i pescatori riconoscenti
designano con il nome generico di frutti di mare.
«Bel silenzio!» disse il vecchio, assaggiando un bicchiere di vino
giallo topazio, che papà Pamphile in persona aveva portato a
Mercedes. «Si direbbe che qui ci sono trenta persone che non
desiderano altro che ridere…»
«Eh, un marito non è sempre allegro», disse Caderousse.
«Il fatto è», disse Dantès, «che sono troppo felice in questo
momento. Se è così che voi la intendete, caro vicino, avete ragione:
la gioia qualche volta fa un effetto strano: essa opprime come il
dolore.»
Danglars osservò Fernando la cui natura impressionabile riceveva e
rifletteva ciascuna emozione.
«Andiamo dunque», disse, «avreste forse paura di qualche cosa? Mi
sembra al contrario che vada tutto secondo i vostri desideri.»
«Ed è precisamente questo che mi spaventa», disse Dantès, «mi sembra
che l’uomo non sia fatto per essere così facilmente felice. La
felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono
guardate dai draghi, bisogna combattere per conquistarli, e io per
dir la verità non so qual merito mi abbia valso la felicità di
diventare il marito di Mercedes.»
«Marito, marito!» disse Caderousse ridendo, «non ancora, caro
capitano. Provati un poco a fare il marito e tu vedrai come sarai
ricevuto.»
Mercedes arrossì, Fernando si agitava sulla sedia, rabbrividiva al
più piccolo rumore, e di tanto in tanto si asciugava grosse gocce di
sudore sulla fronte, come le prime gocce di un uragano.
«In fede mia», disse Dantès tirando fuori l’orologio, «vicino
Caderousse, non val la pena di smentirmi per così poco. Mercedes non
è ancora mia moglie, è vero, ma fra un’ora e mezzo lo sarà.»
Ognuno lanciò un grido di sorpresa, eccetto il padre di Dantès il
cui largo riso mostrava dei denti sempre belli.
Mercedes sorrise e non arrossì più.
Fernando afferrò convulsamente il manico del suo coltello.
«Fra un’ora», disse Danglars impallidendo anch’egli, «e come?»
«Sì, amici miei», rispose Dantès, «grazie all’intervento del signor
Morrel, l’uomo al quale dopo mio padre io debbo più a questo mondo,
tutte le difficoltà sono state appianate; noi abbiamo pagato le
pubblicazioni, e alle due e mezzo il sindaco di Marsiglia ci aspetta
in municipio. Essendo l’una e un quarto, credo di non essermi
sbagliato dicendo che tra un’ora e trenta minuti Mercedes si
chiamerà signora Dantès.»
Fernando chiuse gli occhi; una nube di fuoco bruciò le sue palpebre,
si appoggiò alla tavola per non svenire, e malgrado tutti i suoi
sforzi non poté trattenere un sordo gemito che si perdette fra il
rumore delle risa e le felicitazioni dell’assemblea.
«È un bel fare, eh?» disse il padre di Dantès. «Vi sembra che questo
si chiami perder tempo? Arrivato ieri mattina, maritato oggi! Ci
vogliono i marinai per andar dritti alla meta.»
«Ma le altre formalità?» obiettò timidamente Danglars. «Il
contratto, le firme?»
«Il contratto», disse Dantès ridendo, «è concluso. Mercedes non ha
niente e io lo stesso, noi ci maritiamo sotto il regime della
comunione, vedete che questo non è lungo da scrivere e non sarà
costoso a pagarsi.»
Questa facezia eccitò una nuova esplosione di gioia e di evviva.
«In tal modo quello che noi crediamo un pranzo di fidanzamento»,
disse Danglars, «è invece un pranzo di nozze?»
«No», disse Dantès, «state tranquillo, non perdete niente. Domani
mattina parto per Parigi: cinque giorni per andare, cinque giorni
per tornare, un giorno per eseguire coscienziosamente la commissione
di cui sono incaricato, e il dodici marzo sono di ritorno. Per il
dodici di marzo dunque vi aspetto al vero pranzo di nozze.»
La prospettiva di un nuovo festino raddoppiò l’ilarità al punto che
Dantès padre, che al principio del pranzo si lamentava del silenzio,
faceva ora, in mezzo alla conversazione generale, vani sforzi per
fare intendere il suo voto di prosperità in favore dei promessi
sposi.
Dantès indovinò il pensiero del padre e rispose con un sorriso pieno
d’amore.
Mercedes cominciò a guardare l’orologio della sala e fece un piccolo
segno a Edmond.
Regnava intorno alla tavola quella gioia fragorosa, propria della
fine dei pranzi della gente povera. Quelli che erano malcontenti del
loro posto si erano alzati da tavola, ed erano andati a cercare
altri vicini. Tutti cominciavano a parlare in una volta e nessuno si
occupava di rispondere a ciò che gli domandava il suo interlocutore.
Il pallore di Fernando era passato quasi eguale sulle guance di
Danglars; in quanto a Fernando stesso non viveva più e sembrava un
dannato in un lago di fuoco. Egli si era alzato tra i primi e
passeggiava in lungo e in largo nella sala, cercando d’isolare il
suo orecchio dal rumore delle canzoni e dal toccarsi dei bicchieri.
Caderousse si avvicinò a lui nel momento in cui Danglars, che egli
sembrava fuggire, lo raggiungeva in un angolo della sala.
«In verità», disse Caderousse, a cui il vino di papà Pamphile aveva
tolto tutti i resti di quell’odio di cui l’inattesa fortuna di
Dantès aveva gettato i germi nella sua anima, «in verità, Dantès è
un gentiluomo, e quando lo guardo seduto accanto alla sua fidanzata,
mi vado dicendo che sarebbe stato veramente male fargli quella
cattiva burla che tramavate ieri.»
«Tu hai visto», disse Danglars, «che la cosa non ha avuto nessuna
conseguenza. Quel povero Fernando era così sconvolto che mi aveva
sulle prime fatto pena; dal momento che ha deciso di essere il primo
testimone alle nozze del suo rivale, non vi è più niente da dire.»
Caderousse guardò Fernando; era livido.
«Il sacrificio è tanto più grande», continuava Danglars, «in quanto
la ragazza è molto bella. Che fortunato è il mio futuro capitano! Io
vorrei chiamarmi Dantès soltanto per dodici ore.»
«Andiamo?» domandò la dolce voce di Mercedes. «Suonano le due e
siamo attesi alle due e un quarto.»
«Sì, sì, andiamo», disse vivamente Dantès.
«Andiamo», ripeterono in coro tutti i convitati. Nel medesimo
istante Danglars che non perdeva di vista Fernando seduto vicino a
una finestra, lo vide aprire due occhi spaventati, alzarsi come per
un sussulto e ricadere al suo posto. In quello stesso momento un
sordo rumore risuonò sulle scale, un fragore di passi e un mormorio
di voci, confuso all’urtarsi di armi, superò le esclamazioni dei
convitati per quanto fossero chiassose e attirò l’attenzione
generale, che si manifestò in un istante con un inquieto silenzio.
Il rumore si avvicinò, tre colpi percossero la porta, ciascuno
guardava il suo vicino con sorpresa.
«In nome della legge!» gridò una voce, a cui nessuno rispose.
La porta si aprì, e un commissario, cinto della sua sciarpa, entrò
nella sala seguito da quattro soldati armati, condotti da un
caporale.
L’inquietudine diede posto al terrore.
«Che c’è?» domandò l’armatore, facendosi avanti, al commissario che
conosceva. «Certamente, signore, qui c’è uno sbaglio.»
«Se c’è uno sbaglio, signor Morrel», rispose il commissario, «state
sicuro che lo sbaglio sarà riparato. Frattanto sono portatore di un
mandato di arresto, e, sebbene esegua l’ordine con dispiacere, sono
obbligato a eseguirlo. Chi di voi è Edmond Dantès?»
Tutti gli sguardi si voltarono verso il giovane, che, molto agitato,
ma conservando la sua dignità, fece un passo avanti e disse: «Sono
io, signore. Che si vuole da me?»
«Edmond Dantès», riprese il commissario, «in nome della legge voi
siete in arresto.»
«Voi mi arrestate!» disse Edmond con un leggero pallore. «Ma perché
vengo arrestato?»
«Io, signore, non lo so, ma voi lo saprete certamente nel vostro
primo interrogatorio.»
Morrel capì bene che non c’era nulla da fare contro la
inflessibilità della situazione, un commissario cinto di sciarpa non
è più un uomo, è l’esecutore della legge.
Il vecchio Dantès invece si precipitò verso l’ufficiale, vi sono
cose che il cuore di un padre o di una madre non capiscono mai. Egli
pregò e supplicò, ma lacrime e preghiere non ebbero alcun potere; e
la sua disperazione era così grande che il commissario ne fu persino
commosso.
«Signore», disse, «state calmo, forse vostro figlio avrà trascurato
qualche formalità della dogana o dell’ufficio di sanità, e secondo
ogni probabilità, allorché si saranno ricevuti da lui i chiarimenti
che si desiderano, sarà messo in libertà.»
«Che significa tutto questo?» domandò Caderousse, aggrottando le
sopracciglia, a Danglars che fingeva di esser sorpreso.
«Lo so io forse?» disse Danglars. «Io son come te, guardo ciò che
accade, mi confondo e non ci capisco niente.»
Caderousse cercò con gli occhi Fernando: era sparito.
Tutta la scena del giorno avanti si presentò allora a Caderousse con
una spaventevole chiarezza.
Si sarebbe detto che la catastrofe veniva ad alzare il velo che
l’ubriachezza del giorno innanzi aveva posto fra lui e la sua
memoria.
«Oh, oh!» diss’egli con voce rauca. «Sarebbe questa la conseguenza
dello scherzo di cui parlavate ieri, Danglars? In questo caso guai a
colui che l’avesse fatto, perché è ben triste!»
«Niente affatto», rispose Danglars, «tu sai bene che, al contrario,
ho stracciato il foglio.»
«Tu non l’hai stracciato», gridò Caderousse, «tu l’hai spiegazzato e
gettato in un angolo, ecco tutto.»
«Taci, tu non hai visto nulla; tu eri ubriaco.»
«Dov’è Fernando?» domandò Caderousse.
«E che ne so io!» rispose Danglars. «Sarà andato per i fatti suoi
probabilmente. Ma invece di occuparci di ciò, andiamo piuttosto a
portare qualche consolazione a quei poveri afflitti.»
Infatti, durante questa conversazione, Dantès aveva stretta la mano
sorridendo ai suoi amici, e si era costituito prigioniero, dicendo:
«State tranquilli, ben presto si spiegherà l’equivoco, e
probabilmente non andrò neppure fino alla prigione».
«Oh, sì certamente, io ne risponderei», disse Danglars, che in
questo momento si avvicinava, come fu detto, al gruppo principale.
Dantès scese la scala preceduto dal commissario di polizia, e
circondato dai soldati.
Una carrozza con lo sportello aperto aspettava all’ingresso; vi
montò, due soldati e il commissario di polizia montarono dopo di
lui.
Lo sportello si chiuse, e la carrozza riprese la strada di
Marsiglia.
«Addio Dantès, addio Edmond!» gridava Mercedes sporgendosi fuori
dalla terrazza.
Il prigioniero intese quest’ultimo grido uscito come un singhiozzo
dal cuore lacerato della fidanzata; si sporse dalla portiera, gridò:
«Arrivederci, Mercedes!» e scomparve dietro uno degli angoli del
forte Saint-Nicolas.
«Aspettatemi qui», disse l’armatore, «prendo la prima carrozza che
incontro, corro a Marsiglia, e vi porterò sue notizie.»
«Andate», gridarono tutte le voci, «andate e ritornate presto.»
Dopo questa duplice partenza ci fu un momento di stupore terribile
che invase tutti coloro che erano rimasti: il vecchio e Mercedes
rimasero qualche tempo isolati, ciascuno nel proprio dolore. Ma
infine i loro occhi s’incontrarono, si riconobbero due vittime
colpite dallo stesso colpo, e subito si gettarono nelle braccia
l’una dell’altro.
In quel momento Fernando rientrò, versò un bicchiere d’acqua, lo
bevve e andò a sedersi. Il caso volle che Mercedes, svincolandosi
dalle braccia del vecchio, venisse a sedersi su una sedia vicina.
Fernando rabbrividì e con un movimento affatto istintivo tirò
indietro la propria sedia.
«È stato lui», disse Caderousse a Danglars che non aveva perso di
vista un momento il catalano.
«Non lo credo», rispose Danglars, «è troppo bestia. In ogni caso il
colpo ricada sulla testa di chi lo vibrò!»
«Tu non parli di colui che lo ha consigliato», disse Caderousse.
«In fede mia», disse Danglars, «se si dovesse esser responsabili di
tutto quello che si dice all’aria…»
«Sì, allorché ciò che si dice all’aria, ricade sulla testa di un
innocente.»
Intanto gli altri convitati, riunitisi in gruppi, commentavano
l’arresto, ciascuno secondo la sua opinione.
«E voi, Danglars», disse uno, «che pensate di quanto accaduto?»
«Io», disse Danglars, «io credo che abbia portato qualche pacco di
merce proibita.»
«In questo caso voi lo avreste dovuto sapere, che siete il
contabile.»
«Sì, è vero, ma il contabile non conosce che i colli che gli vengono
dichiarati. So che avevamo un carico di cotone, ecco tutto; che
abbiamo preso il carico ad Alessandria dal signor Pastret e a Smirne
dal signor Pascal; non so altro.»
«Ora me ne ricordo», mormorò il povero padre, «mi ha detto ieri che
aveva per me una cassa di caffè e una di tabacco.»
«Vedete dunque», disse Danglars, «è questo. Nella nostra assenza la
dogana avrà fatto una visita a bordo del Pharaon, e avrà scoperto il
contrabbando.»
Mercedes non credeva niente di tutto ciò. Compresso il dolore fino a
quel momento, scoppiò a un tratto in singulti.
«Coraggio, coraggio, speriamo!» disse il padre di Dantès.
«Speriamo!» ripeté Danglars.
«Speriamo», tentò di mormorare Fernando, ma questa parola lo
soffocava, le sue labbra tremarono, e non ne uscì alcun suono.
«Amici!» gridò uno dei convitati che era rimasto di vedetta sulla
terrazza. «Amici, una carrozza… Ah! È il signor Morrel! Coraggio!
Senza dubbio ci porta una buona notizia.»
Mercedes e il vecchio padre corsero verso l’armatore, che
incontrarono sulla porta; il signor Morrel era pallidissimo.
«Ebbene?…» gridarono a una voce.
«Ebbene, amici miei», rispose l’armatore, scuotendo la testa,
«l’affare è più grave di quello che possiamo pensare.»
«Oh signore», gridò Mercedes, «egli è innocente!»
«Lo credo», rispose Morrel, «ma è accusato…»
«Di che dunque?» domandò il vecchio Dantès.
«Di essere un agente bonapartista!»
Quelli fra i nostri lettori che hanno vissuto nell’epoca in cui
accadde questa storia, si ricorderanno quale terribile accusa era
allora quella riferita da Morrel.
Mercedes gettò un grido e il vecchio si lasciò cadere sulla sedia.
«Ah», mormorò Caderousse, «voi mi avete ingannato, Danglars, quello
che voi chiamate scherzo, fu fatto. Ma io non voglio lasciar morire
di dolore questo vecchio e questa ragazza, vado a spiegar loro ogni
cosa.»
«Taci, disgraziato!» esclamò Danglars, afferrando la mano di
Caderousse, «o io non rispondo della tua vita. Chi ti dice che
Dantès non sia veramente colpevole? Il bastimento si è fermato
all’isola d’Elba, egli è disceso; è rimasto un giorno intero a
Portoferraio. Se si è trovata qualche lettera compromettente,
potrebbero essere definiti suoi complici coloro che volessero
difenderlo.»
Caderousse aveva l’istinto rapido dell’egoismo, e capì tutta la
solidità di questo ragionamento; guardò Danglars con occhi ebeti dal
timore e dal dolore, e, per un passo che aveva fatto in avanti, ne
fece due indietro.
«Aspettiamo allora», mormorò.
«Aspettiamo», disse Danglars, «se è innocente sarà messo in libertà;
se è reo, è inutile compromettersi per un cospiratore.»
«Allora andiamocene, io non posso restare qui più a lungo.»
«Sì, vieni», disse Danglars, contento di trovare un compagno nella
ritirata, «vieni, e lasciamoli togliersi d’impaccio come potranno.»
Essi se ne andarono.
Fernando, ridivenuto il sostegno della ragazza, prese Mercedes per
la mano, e la ricondusse ai Catalani. Gli amici di Dantès
ricondussero il vecchio quasi svenuto ai viali di Meilhan. Ben
presto la notizia che Dantès era stato arrestato come agente
bonapartista, si sparse per tutta la città.
«L’avreste creduto, caro Danglars?» disse Morrel raggiungendo il suo
contabile e Caderousse, volendo rientrare in fretta in città, per
avere qualche notizia diretta di Edmond dal sostituto del
procuratore del re, signor Villefort, che egli conosceva un poco.
«Lo avreste mai creduto?»
«Eh signore», rispose Danglars, «io vi avevo detto che Dantès non si
sarebbe fermato senza un motivo all’isola d’Elba, e questa fermata,
voi lo sapete, mi era sembrata sospetta.»
«Ma avete detto a qualcuno, oltre a me, di questo vostro sospetto?»
«Me ne sarei ben guardato», aggiunse a bassa voce Danglars, «voi
sapete bene che a causa di vostro zio, Policar Morrel, che ha
servito sotto l’altro e che non nasconde il suo pensiero, si
sospetta che voi amiate Napoleone, e avrei avuto paura di far torto
a Edmond, quindi anche a voi. Vi sono cose, che è dovere del
subordinato dire al suo armatore, e tenere severamente celate agli
altri.»
«Bene, Danglars, bene!» disse Morrel. «Voi siete un brav’uomo! Così
avevo pensato a voi nel caso in cui questo povero Dantès fosse
divenuto capitano del Pharaon.»
«Come, signore?»
«Sì, avevo già domandato a Dantès cosa pensava di voi, e se avesse
avuto obiezioni a conservarvi il posto; non so perché mi era
sembrato scorgere qualche screzio fra voi due.»
«E che vi ha risposto?»
«Che credeva effettivamente avere avuto, in una circostanza che non
ha voluto precisare, qualche torto verso di voi; ma che chiunque
avesse avuto la fiducia dell’armatore, avrebbe anche avuto la sua!»
«Povero ragazzo», disse Caderousse, «è un fatto ch’egli era un
eccellente giovane.»
«Sì, ma frattanto», disse Morrel, «ecco il Pharaon senza capitano.»
«Oh, bisogna sperare, poiché non possiamo ripartire che fra tre
mesi, che di qui a quell’epoca Dantès sia messo in libertà.»
«Senza dubbio. Ma fino a quell’epoca?»
«Ebbene, sino a quell’epoca, eccomi qui signor Morrel», disse
Danglars. «Voi sapete che conosco il modo di tenere un bastimento,
quanto un capitano venuto da un lungo viaggio. Ciò vi offre nello
stesso tempo il vantaggio di servirvi di me, e, quando Edmond uscirà
di prigione, non dovrete licenziare nessuno: egli riprenderà il suo
posto e io il mio.»
«Grazie, Danglars», disse l’armatore, «ecco difatti il modo di
conciliare tutto. Prendete dunque il comando, io ve ne autorizzo, e
sorvegliate lo scarico; non bisogna mai, per la disgrazia di un
individuo, che gli affari ne soffrano.»
«State tranquillo, signore… Si potrà almeno vederlo il buon Edmond?»
«Vi risponderò a breve. Cercherò di parlare con il signor Villefort
e intercedere presso di lui in favore del prigioniero. Io so bene
che è un realista; ma, che diavolo, sebbene realista e procuratore
del re, è tuttavia un uomo e non lo credo cattivo.»
«No», disse Danglars, «ma ho inteso dire che è ambizioso, e
l’ambizione è molto vicina alla cattiveria.»
«Insomma», disse Morrel con un sospiro, «staremo a vedere, andate a
bordo che vi raggiungerò in breve.» E lasciò i due amici per
prendere la strada del palazzo di giustizia.
«Tu vedi», disse Danglars a Caderousse, «la piega che prende la
cosa: hai ancora intenzione di andare a difendere Dantès?»
«No certamente. Ciò nonostante è una cosa assai terribile che uno
scherzo abbia conseguenze così tristi.»
«Diamine! E chi lo ha fatto? Non siamo stati né tu né io, non è
vero? Fu Fernando. Tu sai che in quanto a me ho gettato il foglio,
anzi credevo di averlo strappato.»
«No, no», disse Caderousse, «in quanto a ciò ne sono sicuro: lo vedo
ancora nell’angolo del pergolato tutto spiegazzato, tutto
accartocciato, e vorrei anzi che fosse ancora là dove mi sembra di
vederlo.»
«E che vuoi farci? Fernando lo avrà raccolto, Fernando lo avrà
copiato o fatto copiare, o forse non si sarà preso neppure questa
pena. Ora che ci penso, mio Dio! Egli avrà forse mandato la mia
lettera. Fortunatamente però avevo alterato la calligrafia.»
«Ma tu sapevi dunque che Dantès cospirava?»
«Io non lo sapevo affatto. Come ti dissi, ho creduto di fare uno
scherzo e niente altro. Sembra che scherzando, come fa Arlecchino,
io abbia detto la verità.»
«Però», disse Caderousse, «io pagherei qualsiasi cosa purché la
burla non fosse accaduta, o almeno per non essermene immischiato.
Vedrai che quest’affare non può che causarci qualche disgrazia.»
«Se deve portare disgrazia a qualcuno, sarà al vero colpevole e il
vero colpevole è Fernando, non noi. Quale disgrazia vuoi che ci
accada? Noi non dobbiamo che starcene tranquilli, e non dire una
parola su quanto è avvenuto; il temporale passerà senza che cada il
fulmine.»
«Amen!» disse Caderousse, facendo un saluto di addio a Danglars e
dirigendosi verso i viali di Meilhan, scuotendo la testa e
brontolando con se stesso, come fanno di solito le persone molto
preoccupate.
«Bene», pensò Danglars, «le cose prendono quell’avvio che avevo
previsto. Eccomi capitano provvisorio, e se quell’imbecille di
Caderousse sa tacere, ben presto capitano effettivo. Vi sarebbe
dunque solo il caso che la giustizia rilasciasse Dantès. Oh, ma»,
aggiunse con un sorriso, «la giustizia è giustizia e io mi rimetto a
essa.»
Ciò dicendo saltò in una barca dando ordine al battelliere di
portarlo a bordo del Pharaon, dove l’armatore gli aveva dato
appuntamento.
6. Il sostituto procuratore del re
Lungo il Gran Corso, davanti alla fontana delle Meduse, in una di
quelle vecchie case dall’architettura aristocratica, costruite da
Puget, si celebrava, pure nello stesso giorno e nella stessa ora, un
pranzo di fidanzamento. Solamente, invece che gente del popolo,
marinai e soldati gli invitati appartenevano alla più alta società
di Marsiglia. Erano dei vecchi magistrati che si erano dimessi dalle
loro cariche sotto l’usurpatore; vecchi ufficiali disertati dalle
nostre file per passare in quelle dell’armata di Condé, giovani
allevati dalle loro famiglie ancora incerte della propria sicurezza,
malgrado i molteplici scotti che essi avevano pagato in odio di
quell’uomo.
Erano a tavola, e la conversazione volgeva animata su tutte le
passioni dell’epoca; passioni molto più terribili, vive e accanite
nel Meridion, dove da cinquecento anni gli odi religiosi si
aggiungevano a quelli politici.
L’imperatore, re dell’isola d’Elba, dopo essere stato sovrano di una
parte del mondo, regnava su una popolazione di cinquemila anime, e
dopo avere sentito gridare «Viva Napoleone» da 120 milioni di
sudditi, e in dieci lingue diverse, era là trattato come un uomo
perduto per sempre, per la Francia e per il trono. I magistrati
riaccendevano le loro contese politiche, i militari parlavano di
Mosca e di Lipsia, le donne del suo divorzio da Giuseppina. A tutta
questa gente allegra e trionfante, sembrava, non dalla caduta
dell’uomo ma dall’annientamento del principe, che la vita
ricominciasse per loro, e che uscissero da un sogno penoso.
Un vecchio, decorato della croce di San Luigi, si alzò e propose ai
convitati di bere alla salute di Luigi XVIII: era il marchese di
Saint-Méran.
A questo brindisi che ricordava a un tempo l’esiliato di Hartwell e
il pacificatore della Francia, un gran numero di bicchieri si
alzarono all’uso inglese; e le donne staccarono i loro mazzetti di
fiori e li sparsero sulla tovaglia. Fu un entusiasmo quasi poetico.
«Ne converrebbero, se fossero qui», disse la marchesa di
Saint-Méran, donna dall’occhio asciutto, con le labbra sottili, il
portamento aristocratico e ancora elegante, malgrado i suoi
cinquant’anni, «ne converrebbero, tutti quelli che ci cacciarono e
lasciammo a nostra volta tranquillamente cospirare nei nostri
castelli, che hanno acquistato per un tozzo di pane sotto il regime
del Terrore; ne converrebbero, che il vero entusiasmo era dalla
nostra parte, poiché noi ci attaccavamo alla monarchia che crollava,
mentre essi, al contrario, salutavano il sole nascente che faceva la
loro fortuna perdendo la nostra; essi ne converrebbero, che il
nostro re era per noi il vero Luigi prediletto, mentre il loro
usurpatore non è stato per loro che il Napoleone maledetto, non è
vero, Villefort?»
«Che dite, signora marchesa?» disse il giovane al quale era rivolta
questa domanda. «Perdonatemi, non seguivo la conversazione.»
«Eh, lasciate in pace questi ragazzi, marchesa», riprese il vecchio
che aveva proposto il brindisi, «questi giovani debbono sposarsi fra
poco, e naturalmente hanno tutt’altro da parlare che di politica.»
«Vi chiedo perdono, madre mia», disse una bella ragazza dai capelli
biondi, «io vi rendo Villefort, che avevo accaparrato per un
istante. Signor Villefort, mia madre vi parla…»
«E io sono pronto a rispondere alla signora, se vuol avere la bontà
di rinnovarmi la domanda che io non ho bene inteso.»
«Vi si perdona, Renée», disse la marchesa, con un sorriso di
tenerezza che faceva meraviglia veder comparire su quella secca
figura, ma il cuore della donna è così fatto, che per quanto arido
divenga al soffio dei pregiudizi o alle esigenze dell’etichetta, ha
sempre un angolo fertile e ridente ed è quello che Dio ha consacrato
all’amore materno. «Dicevo dunque, Villefort, che i bonapartisti non
avevano né la nostra convinzione, né il nostro entusiasmo, né la
nostra devozione.»
«Oh, signora, essi hanno almeno qualche cosa che compensa tutto ciò!
Per loro, Napoleone è il Maometto dell’Occidente; egli è per questi
uomini volgari, ma di somma ambizione, non solo un legislatore e un
padrone, ma anche un simbolo…»
«Di che?» esclamò la marchesa. «Napoleone un simbolo! E che direte
dunque di Robespierre? Mi sembra che gli rubiate il posto per darlo
al Corso, e questa mi sembra una grossa usurpazione.»
«No, signora, io lascio sul suo piedistallo Robespierre, nella
piazza di Luigi XV, sul suo patibolo; Napoleone nella piazza
Vendôme, sulla sua colonna. Ciò però non vuol dire», aggiunse
Villefort, sorridendo, «che tutti e due non siano due infami
rivoluzionari, che il 9 termidoro e il 4 aprile 1814 non siano due
giorni felici per la Francia, e degni di essere ugualmente
festeggiati dagli amici dell’ordine e della monarchia; ma ciò spiega
ugualmente come Napoleone, caduto per non rialzarsi mai più, sia
ancora ricordato. Ma che volete, marchesa, Cromwell, che non era
neppure la metà di ciò che è stato Napoleone, aveva anch’egli degli
amici!»
«Sapete che ciò che dite, Villefort, puzza di rivoluzione lontano un
miglio? Ma vi perdono: è impossibile esser figlio di un girondino, e
non conservare qualche rispetto per il Terrore.»
Un vivo rossore passò sulla fronte di Villefort.
«Mio padre era girondino, signora», diss’egli, «è vero; ma mio padre
non ha dato il suo voto per la morte del re; mio padre è stato
proscritto da quello stesso Terrore che proscriveva pure voi, e poco
è mancato che non lasciasse la testa sullo stesso patibolo dove
cadde quella di vostro padre.»
«Sì», disse la marchesa senza che questo sanguinoso pensiero
portasse la minima alterazione al suo viso, «solamente era per
principi diametralmente opposti che vi sarebbero saliti tutti e due;
e la prova è che tutta la sua famiglia è rimasta affezionata ai
principi esiliati, mentre vostro padre si è affrettato a omaggiare
il nuovo governo, e dopo che il cittadino Noirtier è stato
girondino, il conte Noirtier è diventato senatore.»
«Madre mia, madre mia», disse Renée, «voi sapete che fu convenuto
che non si sarebbe mai parlato di questi brutti ricordi.»
«Signora», rispose Villefort, «io mi unisco alla signorina di
Saint-Méran per domandarvi umilmente l’oblio del passato. Con qual
vantaggio recriminare su cose davanti a cui la stessa volontà di Dio
è impotente? Dio può cambiare l’avvenire; ma non può modificare il
passato. Ciò che possiamo noi mortali è, se non rinnegarlo, almeno
gettarvi sopra un velo. Ebbene io non solo mi sono allontanato dalle
opinioni di mio padre, ma anche dal suo nome. Mio padre è stato, e
forse è ancora bonapartista e si chiama Noirtier; io sono realista,
e mi chiamo Villefort. Lasciate morire nel vecchio tronco un relitto
rivoluzionario, e non badate, signora, al ramo che si allontana da
questo tronco, senza potere, e dirò quasi senza volere, staccarsene
del tutto.»
«Bravo Villefort», disse il marchese, «bravo! Bella risposta! Ho
sempre predicato alla marchesa l’oblio del passato senza averla mai
potuta ottenere; spero che voi sarete più fortunato di me.»
«Sì, va bene», disse la marchesa, «dimentichiamo il passato, io non
domando di meglio, siamo d’accordo; ma che almeno Villefort sia
inflessibile per l’avvenire. Non dimenticate, Villefort, che noi
abbiamo garantito per voi a Sua Maestà, e che il re stesso ha voluto
dimenticare tutto, dietro le nostre raccomandazioni, come io
dimentico tutto in seguito alla vostra preghiera.» Così dicendo gli
tese la mano. «Soltanto se vi cade fra le mani qualche cospiratore,
ricordate che si hanno gli occhi aperti su di voi; tanto più, in
quanto si sa che voi siete di una famiglia che non può essere in
relazione alcuna con tal gente.»
«Purtroppo, signora», disse Villefort, «la mia professione, e
soprattutto il tempo in cui viviamo, mi ordinano di essere severo, e
lo sarò. Ho già avuto qualche accusa politica da sostenere, e ne ho
già dato le prove. Disgraziatamente, però, non siamo ancora alla
fine.»
«Voi credete?» disse la marchesa.
«Ne ho timore. Napoleone all’isola d’Elba è troppo vicino alla
Francia, la sua presenza quasi in vista delle nostre coste risveglia
la speranza nei suoi partigiani. Marsiglia è piena di ufficiali a
mezza paga, che tutti i giorni sotto qualche frivolo pretesto
cercano contesa con i realisti. Di qui duelli fra le persone della
classe elevata, di là gli assassini nella classe del popolo.»
«A proposito», disse il conte di Salvieux, vecchio amico di
Saint-Méran e ciambellano del conte d’Artois, «voi sapete che la
Santa Alleanza lo leverà di là.»
«Sì, si è parlato di questo argomento quando siamo partiti da
Parigi», disse Saint-Méran. «Ma dove lo manderanno?»
«A Sant’Elena.»
«A Sant’Elena? Dov’è?» disse la marchesa.
«È un’isola situata a duemila leghe da qui, al di là dell’Equatore»,
rispose il conte.
«Alla buon’ora! È una gran follia aver lasciato un simile uomo fra
la Corsica, dov’è nato, e Napoli, dove regna tuttora suo cognato, in
faccia a quell’Italia della quale voleva fare un regno per suo
figlio.»
«Disgraziatamente», disse Villefort, «noi abbiamo i trattati del
1814, e non si può toccare Napoleone senza infrangere questi
trattati…»
«Ebbene, s’infrangeranno», disse di Salvieux. «Ha guardato tanto per
il sottile lui, quando si trattò di far fucilare l’infelice duca
d’Enghien?»
«Sì», disse la marchesa, «d’accordo, la Santa Alleanza libererà
l’Europa da Napoleone, e Villefort libererà Marsiglia dai suoi
partigiani. Il re, o regna o non regna… Se regna il suo governo
dev’essere forte e i suoi agenti inflessibili: questo è il solo
mezzo per prevenire il male.»
«Disgraziatamente, signora», disse Villefort, «un sostituto
procuratore del re giunge sempre quando il male è fatto. Allora sta
a lui ripararlo. Potrei aggiungere, signora, che noi non ripariamo
il male, ma soltanto lo vendichiamo.»
«Oh, signor Villefort», disse una bella giovane, figlia del conte di
Salvieux e amica di Renée, «cercate dunque di farci avere un bel
processo finché noi staremo a Marsiglia; io non ho mai visto
un’udienza in tribunale e mi si dice che sia una cosa molto bella e
interessante!»
«Molto interessante davvero, signorina», disse il sostituto, «perché
in luogo di una finta tragedia si rappresenta un dramma vero e
reale; in luogo di dolori rappresentati, sono dolori sentiti.
Quell’uomo che si vede là, invece di ritornare a casa sua calato il
sipario, di andare a cena con la sua famiglia, e di dormire
tranquillamente, per rappresentare all’indomani la stessa scena,
rientra in prigione dove trova il più delle volte il carnefice.
Vedete bene che per le persone eccitabili che cercano emozioni non
vi è spettacolo che possa paragonarsi a questo; state tranquilla,
signorina, se la circostanza si presenterà, proverò la verità del
mio asserto.»
«Ci fa rabbrividire… ed egli ride!» disse Renée, impallidendo.
«Che volete», riprese Villefort, «questo è un duello… Io ho già
ottenuto cinque o sei volte la pena di morte contro alcuni
condannati politici… Ebbene, chissà quanti pugnali a quest’ora si
affilano nelle tenebre e sono già diretti su di me!»
«Oh, mio Dio», disse Renée, impallidendo sempre più, «parlate sul
serio, Villefort?»
«Sul serio, signorina», rispose il giovane magistrato con un sorriso
sulle labbra. «E con questi bei processi che la signorina desidera
per soddisfare la sua curiosità, e che io bramo per soddisfare la
mia ambizione, la situazione delle cose non farà che peggiorare.
Tutti questi soldati di Napoleone abituati ad andar come ciechi
incontro alle pallottole nemiche, credete voi che ci penseranno due
volte a bruciare una cartuccia, o a marciare a passo di carica con
la baionetta alzata? Credete voi che ci penseranno due volte a
uccidere un uomo che credono loro nemico personale, che a uccidere
un russo, un tedesco o un ungherese che essi non hanno mai visto?
D’altronde bisogna ammetterlo, altrimenti non vi sarebbe punto di
difesa. Io stesso, quando vedo luccicare nell’occhio dell’accusato
il lampo luminoso della rabbia, mi esalto e m’incoraggio: non è più
un processo, ma un combattimento; io lotto contro di lui, egli
risponde; io raddoppio i miei colpi, e il combattimento finisce,
come tutti gli altri, o con una vittoria o con una sconfitta. Ecco
ciò che si chiama dibattimento! È il pericolo che fa l’eloquenza. Un
accusato che sorride dopo una mia replica mi fa capire che ho
parlato male; e ciò che ho detto è snervato, senza vigore,
insufficiente; immaginate dunque quale dev’essere la sensazione
d’orgoglio di un procuratore del re convinto della reità
dell’accusato, allorquando vede avvilirsi e annientarsi il reo sotto
il peso delle prove e sotto i fulmini della sua eloquenza! Quella
testa si abbassa, dunque cadrà.»
Renée emise un leggero grido.
«Ecco ciò che si chiama saper parlare», disse uno dei convitati.
«Ecco l’uomo che ci serve in tempi come i nostri!» disse un altro.
«Così», disse un terzo, «nel vostro ultimo processo, voi siete stato
superbo, mio caro Villefort. Parlo di quell’uomo che ha ucciso suo
padre. Ebbene, si può dire, che voi lo avete ucciso prima che il
carnefice lo toccasse.»
«Oh, per i parricidi», disse Renée, «poco importa, non vi sono
supplizi abbastanza grandi per tal razza di gente, ma gli infelici
accusati politici!…»
«Gli accusati politici!» esclamò la marchesa. «È ancor peggio;
perché il re è padre della nazione, e volere rovesciare o uccidere
il re è lo stesso che volere uccidere il padre di 32 milioni di
uomini.»
«Oh, non è lo stesso! Villefort», disse Renée, «mi promettete di
avere indulgenza per quelli che vi raccomanderò?»
«State tranquilla», disse Villefort con un sorriso affettuoso, «noi
faremo assieme le nostre requisitorie.»
«Mia cara», disse la marchesa, «occupatevi dei vostri pizzi, dei
vostri aghi, dei vostri nastri, e lasciate il vostro futuro sposo
compiere il suo dovere. Oggigiorno le armi sono a riposo, e la toga
è in credito; vi è a questo proposito un motto latino.»
«Cedant arma togae», disse Villefort inchinandosi.
«Io avrei preferito che voi foste stato un medico», rispose Renée.
«L’angelo sterminatore, per quanto sia un angelo, fa sempre paura.»
«Mia buona Renée!» mormorò Villefort, accarezzando la giovane con
uno sguardo amorevole.
«Figlia mia», disse il marchese, «Villefort sarà il medico morale e
politico di questa provincia, questa è una bella parte da
rappresentare, credetemi.»
«E sarà un mezzo per far dimenticare la parte che ha rappresentato
suo padre», aggiunse l’incorreggibile marchesa.
«Signora», riprese Villefort, con un mesto sorriso, «ho già avuto
l’onore di dirvi che mio padre aveva, almeno spero, abiurati gli
errori del tempo passato, che era divenuto un amico zelante della
religione e dell’ordine, migliore forse di me, poiché lo è stato con
pentimento, e io non lo sono che con passione.» E dopo questa frase
ampollosa Villefort, per giudicare l’effetto della sua facondia,
girò intorno lo sguardo sui convitati come, dopo una frase
equivalente, avrebbe guardato l’uditorio dal suo seggio in
tribunale.
«Ebbene, mio caro Villefort», disse il conte di Salvieux, «è appunto
ciò che io risposi l’altro giorno alle Tuileries al ministro della
casa reale, che mi domandava conto di questa singolare alleanza tra
il figlio di un girondino e la figlia di un ufficiale dall’armata di
Condé, e il ministro l’ha inteso molto bene. Questo sistema di
fusione è pur quello di Luigi XVIII. Così il re, che senza che noi
lo sapessimo, ascoltava la nostra conversazione, c’interruppe
dicendo: “Villefort”, notate bene che il re non ha pronunciato il
nome di Noirtier anzi ha insistito al contrario su quello di
Villefort, “Villefort”, ha dunque detto il re, “farà una bella
carriera; è un giovane già maturo ed è del nostro mondo. Ho visto
con piacere che il marchese e la marchesa di Saint-Méran lo prendono
per genero e avrei loro consigliata questa alleanza io stesso, se
essi non fossero stati i primi a chiedermi il permesso di
contrarla”.»
«Il re ha detto questo?» esclamò con entusiasmo Villefort.
«Io ho riferito le sue stesse parole e, se il marchese vuol esser
sincero, vi confesserà che ciò che ho riferito in questo momento si
accorda perfettamente con quanto il re disse a lui stesso, circa sei
mesi fa, quando gli parlò di un progetto di matrimonio tra sua
figlia e voi.»
«Sì, è vero», disse il marchese.
«Ah, dunque io dovrò tutto a quest’ottimo Principe! Perciò che cosa
non farò pur di servirlo bene?»
«Alla buon’ora», disse la marchesa, «ecco come io vi voglio; venga
ora un cospiratore e sarà il benvenuto.»
«E io, madre mia», disse Renée, «prego il cielo che non vi ascolti;
che egli non invii a Villefort che dei ladruncoli, piccoli falliti,
timidi scrocconi; in questo modo soltanto potrò dormire tranquilla.»
«Sarebbe», disse ridendo Villefort, «come se voi auguraste a un
medico che gli capitassero soltanto delle emicranie, delle
flussioncelle, delle punzecchiature di api, tutte cose che non
compromettono minimamente. Ma se volete vedermi procuratore del re,
auguratemi il contrario: vale a dire che abbia da curare quelle
malattie che fanno onore al medico.»
In quel momento, come se il destino avesse inteso il voto di
Villefort per esaudirlo, un domestico entrò e gli disse qualche
parola all’orecchio. Villefort lasciò la tavola scusandosi e ritornò
dopo pochi istanti con il viso raggiante e le labbra sorridenti.
Renée lo guardò con amore; perché visto così, con i suoi begli occhi
azzurri, il colorito maschio e i neri favoriti che gli contornavano
il viso, era veramente un giovane bello ed elegante. Tutta l’anima
della fanciulla sembrava pendere dalle sue labbra, aspettando che
spiegasse la causa della sua momentanea assenza.
«Ebbene», disse Villefort, «voi desideravate, signorina, avere un
medico per marito. Io ho con i medici questa somiglianza, che mai è
mia l’ora che corre, e mi si viene a disturbare anche vicino a voi,
anche al pranzo del fidanzamento.»
«E per qual cosa venite dunque disturbato?» domandò la bella giovane
con una leggera inquietudine.
«Ahimè, per uno che, a quanto sembra, se devo credere a quello che
mi è stato detto, si trova agli estremi; questa volta è un caso
grave, e la malattia striscia vicino al patibolo.»
«Oh, mio Dio!» esclamò Renée impallidendo.
«Davvero?» dissero tutti i presenti.
«Sembra si sia scoperto nientemeno che un complotto bonapartista.»
«Possibile?» esclamò la marchesa.
«Ecco la denuncia» e Villefort lesse ad alta voce ciò che il lettore
conosce già, vale a dire la lettera di Danglars.
«Ma», disse Renée, «questa non è che una lettera anonima, diretta al
procuratore del re e non a voi.»
«Sì, ma il procuratore del re è assente, in sua assenza la lettera è
stata data al suo segretario, che è autorizzato ad aprire le
lettere. Egli dunque ha aperto questa, mi ha fatto cercare, e non
avendomi trovato, ha dato gli ordini necessari per l’arresto.»
«Il colpevole dunque è già stato arrestato?» disse la marchesa.
«Cioè l’accusato», corresse Renée.
«Sì, signora», disse Villefort, «e come avevo l’onore di dire poco
fa alla signorina, se la lettera si trova, il malato è compromesso
gravemente.»
«E dov’è quest’infelice?» domandò Renée.
«A casa mia che aspetta.»
«Andate dunque, amico mio», disse il marchese, «non mancate al
vostro dovere per trattenervi con noi; andate, poiché il servizio
del re ve lo impone.»
«Ah, signor Villefort, siate indulgente», disse Renée giungendo le
mani, «ricordatevi che questo è il giorno del vostro fidanzamento.»
Villefort fece un giro intorno alla tavola, e avvicinatosi alla
sedia della giovane, appoggiandosi alla spalliera, disse: «Per
risparmiarvi un’inquietudine, farò tutto ciò che potrò, mia cara
Renée; ma se gli indizi sono sicuri, e l’accusa è vera, bisognerà
ben tagliare questa cattiva erba bonapartista».
Renée rabbrividì alla parola tagliare, poiché quell’erba che si
trattava di tagliare era la testa di un uomo.
«Eh via!» disse la marchesa. «Non date ascolto a questa ragazzina,
Villefort; si abituerà.»
E la marchesa tese a Villefort una mano scarna che egli baciò,
sempre guardando Renée e dicendole con gli occhi: «È la vostra mano
che intendo baciare in questo momento, o almeno desidererei che
fosse».
«Questi sono tristi auspici», mormorò Renée.
«In verità, signorina», disse la marchesa, «voi siete di una
puerilità esasperante. Io vi domando che può aver a che fare il
destino dello Stato con le vostre fantasie sentimentali, e con la
vostra sensibilità di cuore…»
«Oh, madre mia», mormorò Renée.
«Grazie signora marchesa», disse Villefort. «Io vi prometto di
esercitare il mio mestiere di sostituto procuratore del re
coscienziosamente, vale a dire di essere severo.»
Ma mentre il magistrato indirizzava queste parole alla marchesa, il
fidanzato gettava di nascosto uno sguardo alla sua bella, e questo
sguardo diceva: «State tranquilla, Renée, per il vostro amore io
sarò indulgente».
Renée rispose a questo sguardo con il più dolce sorriso, e Villefort
se n’andò col paradiso nel cuore.
7. L’interrogatorio
Non appena Villefort fu uscito dalla sala da pranzo, lasciò la sua
maschera allegra per assumere l’aria severa di un uomo chiamato al
supremo compito di pronunciarsi sulla vita di un suo simile.
Ora, nonostante la mobilità della sua fisionomia, mobilità che il
sostituto aveva studiato, come deve fare ogni abile attore, più di
una volta innanzi allo specchio, questa volta dovette faticare molto
ad aggrottare le sopracciglia e a rendere severi i suoi lineamenti.
A prescindere dal ricordo di quella linea politica seguita dal padre
che poteva, se non se ne allontanava completamente, ostacolare il
suo avvenire, Gérard Villefort era in questo momento tanto felice,
quanto è concesso a un uomo di esserlo. Già ricco di suo, a
ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura,
sposava una bella ragazza, che amava; e, oltre la bellezza, che era
notevole, la signorina di Saint-Méran apparteneva a una delle
famiglie più favorite alla corte di quell’epoca; infine l’influenza
del padre e della madre di lei, non avendo figli maschi, poteva
essere consacrata interamente al loro genero; lei portava inoltre al
marito una dote di cinquantamila scudi che, grazie alle «speranze»
(parola atroce inventata dai sensali di matrimonio), poteva un
giorno aumentare con una eredità di mezzo milione.
Tutti questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un
quadro di felicità abbagliante, tanto che gli sembrava di vedere
delle macchie nel sole quando troppo lungamente guardava la sua vita
con gli occhi dell’anima.
Sulla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava.
La vista dell’uomo in nero lo fece subito ricadere dalle beatitudini
del terzo cielo sulla terra dove noi camminiamo; egli ricompose il
suo viso nel modo che abbiamo indicato, e avvicinandosi
all’ufficiale di giustizia gli disse: «Eccomi, signore, ho letto la
lettera, e avete fatto benissimo ad arrestare quell’uomo: ora datemi
su di lui e sulla cospirazione tutti i particolari che avete
raccolto».
«Signore, della cospirazione non sappiamo ancora nulla», rispose il
commissario, «ma tutte le carte che sono state trovate addosso a
quell’uomo sono state sigillate e messe sul vostro scrittoio. Quanto
all’accusato, come avrete appreso nella lettera stessa che lo
denuncia, si chiama Edmond Dantès, ed è secondo a bordo del
bastimento a tre alberi il Pharaon, che fa commercio di cotone con
Alessandria e Smirne, e appartiene alla casa Morrel e figlio di
Marsiglia.»
«Prima di servire nella marina mercantile ha servito nella marina
militare?» domandò Villefort.
«Oh no, signore, è molto giovane.»
«Qual è la sua età?»
«Diciannove o vent’anni al massimo.»
Siccome Villefort, seguendo la Grand-Rue, era giunto all’angolo
della via dei Conseils, un uomo che sembrava aspettarlo, gli si fece
incontro.
Questi era Morrel.
«Ah, signor Villefort», esclamò il brav’uomo, avvicinandosi al
sostituto. «Immaginatevi che si è commesso lo sbaglio più strano,
più inaudito; è stato arrestato il secondo del mio bastimento,
Edmond Dantès.»
«Lo so, signore», disse Villefort, «e io vado appunto a
interrogarlo.»
«Ah, signore», continuò Morrel, trasportato dalla sua amicizia per
il giovane, «voi non conoscete colui che viene accusato, io sì che
lo conosco. Immaginatevi l’uomo più onesto e oserei quasi dire
l’uomo che conosce meglio il mestiere di tutta la marina mercantile.
Oh, signor Villefort, io ve lo raccomando caldamente e con tutto il
mio cuore.»
Villefort, come si è potuto vedere, apparteneva alla classe nobile
della città e Morrel alla classe plebea; il primo era ultrarealista,
il secondo sospetto bonapartista.
Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza:
«Voi sapete che si può essere buoni nella vita privata, onesti nelle
relazioni commerciali, abili nel proprio mestiere, e tuttavia grandi
colpevoli, politicamente parlando… Voi lo sapete, non è vero?»
E il magistrato calcò queste ultime parole come se avesse voluto
riferirle allo stesso armatore, mentre con il suo sguardo scrutatore
si sforzava di penetrare fino in fondo al cuore di quell’uomo,
ardito abbastanza da intercedere per un altro, quando doveva sapere
che aveva bisogno egli stesso d’indulgenza.
Morrel arrossì, poiché non si sentiva la coscienza pulita riguardo
alle sue opinioni politiche; e d’altronde la confidenza che gli
aveva fatto Dantès del colloquio avuto con il gran maresciallo e
delle poche parole che gli aveva dirette l’imperatore, gli turbava
un poco lo spirito. Tuttavia aggiunse con l’accento del più profondo
interesse: «Ve ne supplico, signor Villefort, siate giusto come
dovete esserlo, buono come lo siete sempre, e rendeteci presto il
povero Dantès».
Il «rendeteci» risuonò spiacevole all’orecchio del sostituto
procuratore del re.
«Eh! eh!» disse tra sé, «rendeteci? Questo Dantès sarebbe forse
affiliato a qualche setta di carbonari, perché il suo protettore
impieghi così, senza pensarci, la formula collettiva? È stato
arrestato in un’osteria, mi ha detto il commissario, e in numerosa
compagnia, ha aggiunto; forse sarà stata qualche vendita1.»
Poi, proseguendo ad alta voce, rispose: «Signore, potete stare
tranquillo, e non vi sarete appellato inutilmente alla mia
giustizia, se l’imputato è innocente; ma se al contrario è reo,
viviamo in tempi così difficili che l’impunità sarebbe un esempio
fatale; e io sarei obbligato a fare il mio dovere».
E siccome era arrivato alla porta di casa sua, attigua al palazzo di
giustizia, egli vi entrò maestosamente, dopo aver salutato con una
gentilezza glaciale l’infelice armatore, che rimase come
pietrificato sul posto in cui lo lasciò Villefort.
L’anticamera era piena di gendarmi e di agenti di polizia. In mezzo
a essi, guardato a vista, circondato da sguardi fulminanti d’odio,
stava calmo, immobile e ritto in piedi il prigioniero.
Villefort attraversò l’anticamera, lanciò uno sguardo obliquo a
Dantès e, dopo aver preso un plico dalle mani di un agente, disse:
«Mi si conduca il prigioniero».
Per quanto rapido fu lo sguardo, questo bastò a Villefort per farsi
un’idea dell’uomo che stava per interrogare. Egli aveva riconosciuto
l’intelligenza in quella fronte larga e aperta, il coraggio
nell’occhio fisso e nel sopracciglio corrugato, e la franchezza
nelle labbra grosse e semiaperte che lasciavano vedere due file di
denti bianchi come l’avorio. La prima impressione era stata dunque
favorevole per Dantès; ma Villefort aveva inteso dire spesso, in
segno di profonda politica, che bisogna diffidare del primo impulso,
allorché sia favorevole, per cui applicò la sentenza all’impressione
ricevuta, senza tener conto della differenza che passa fra le due
impressioni.
Egli soffocò dunque i buoni istinti che premevano il suo cuore per
liberare lo spirito dalla violenza, accomodò davanti allo specchio
il suo portamento come nei giorni dei grandi processi, e si sedette
cupo e minaccioso dietro lo scrittoio.
Un istante dopo entrò Dantès.
Il giovane era sempre pallido, ma calmo e sorridente. Egli salutò il
suo giudice con una deferenza non affettata, poi cercò con gli occhi
una sedia, come si fosse trovato in casa del signor Morrel.
Fu soltanto allora che incontrò lo sguardo di Villefort, sguardo
particolare degli uomini di legge che non vogliono che si intuisca
il loro pensiero, e fanno del loro occhio un cristallo appannato.
Quello sguardo gli fece capire che era davanti alla giustizia,
simbolo di sinistre maniere.
«Chi siete, e come vi chiamate?» domandò Villefort sfogliando le
note che l’agente gli aveva dato entrando, e che da un’ora erano
divenute voluminose, tanto la corruzione si attacca presto al corpo
disgraziato di colui che si definisce imputato.
«Signore, mi chiamo Edmond Dantès», rispose il giovane con voce
calma e sonora, «sono secondo a bordo del bastimento il Pharaon, che
appartiene ai signori Morrel e figlio.»
«La vostra età?» continuò Villefort.
«Diciannove anni», rispose Dantès.
«Che facevate, al momento del vostro arresto?»
«Assistevo al pranzo del mio fidanzamento», disse Dantès, con una
voce leggermente commossa, tanto era doloroso il contrasto fra i
momenti di gioia e la lugubre cerimonia che si compiva, e tanto il
viso cupo di Villefort faceva brillare di luce la raggiante figura
di Mercedes.
«Voi assistevate al pranzo del vostro fidanzamento?» disse il
sostituto, trasalendo suo malgrado.
«Sì, signore, sono sul punto di sposare una donna che amo da tre
anni!»
Villefort, sebbene di solito impassibile, fu colpito da questa
coincidenza; e quella voce commossa di Dantès, sorpreso in mezzo
alla sua felicità, andò a svegliare una fibra di simpatia nel fondo
della sua anima.
Egli pure si ammogliava, egli pure era felice e si veniva a
disturbare la sua felicità perché contribuisse a distruggere la
gioia di un uomo, che, come lui, già toccava la felicità! Questo
avvicinamento filosofico, pensò, farà grande effetto al mio ritorno
nel salone del marchese di Saint-Méran, ed egli preparava già,
mentre Dantès attendeva nuove domande, le parole contrastanti con
cui gli oratori costruiscono quelle frasi che strappano applausi e
qualche volta fanno presumere in essi una vera eloquenza.
Allorché il suo breve dialogo interiore fu terminato, Villefort
sorrise del suo effetto e, ritornato a Dantès, disse: «Continuate».
«Continuare cosa?» domandò Dantès.
«A illuminare la giustizia.»
«Che la giustizia mi dica su qual punto vuol essere rischiarata, e
io le dirò tutto quello che so. Soltanto», aggiunse con un sorriso,
«l’avverto che so ben poche cose.»
«Avete servito l’imperatore?»
«Egli cadde appunto quando stavo per essere incorporato nella marina
militare.»
«Si dice che le vostre opinioni politiche siano estremiste», disse
Villefort, al quale nessuno aveva detto una parola di ciò, ma non
poteva fare a meno di porre una domanda come si pone un’accusa.
«Le mie opinioni politiche? Le mie, signore? È quasi vergognoso
dirlo, ma io non ho mai avuto ciò che si chiama un’opinione. Ho
diciannove anni appena, come ebbi l’onore di dirvi: non so niente,
non sono destinato a rappresentare alcuna parte; il poco che sono e
che sarò, se mi si accorda il posto che desidero, lo dovrò solo al
signor Morrel. In tal modo tutte le mie opinioni, non dirò
politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: io amo
mio padre, rispetto il signor Morrel e adoro Mercedes. Ecco,
signore, tutto ciò che posso dire alla giustizia. Voi vedete che
questo può interessarle ben poco.»
A misura che Dantès parlava, Villefort guardava il suo viso dolce a
un tempo e aperto, e sentiva ritornare alla memoria le parole di
Renée che, senza conoscere l’imputato, gli aveva domandato
indulgenza per lui.
Con l’abitudine che aveva a trattare i delitti e i delinquenti il
sostituto vedeva a ogni parola di Dantès le prove della sua
innocenza.
Quel giovane, che si sarebbe potuto chiamare ancora ragazzo,
semplice, ingenuo, eloquente, di quella eloquenza del cuore che non
si trova mai quando si cerca, pieno di affetto per tutti perché era
felice, poiché la felicità rende buoni anche gli stessi malvagi,
versava sul suo giudice la dolce affabilità del suo cuore.
Edmond non aveva nello sguardo, nella voce, nei gesti, per quanto
severo fosse stato con lui Villefort, che affabilità e bontà per chi
lo interrogava.
«Perbacco!» disse tra sé Villefort, «ecco un buon giovane e io non
penerò molto, lo spero, a farmi un merito con Renée, compiacendo la
sua prima raccomandazione. Ciò mi frutterà una buona stretta di mano
in presenza di tutti, e un bacio ineffabile di nascosto.»
A questa doppia speranza la faccia di Villefort si rischiarò,
dimodoché quando rivolse gli sguardi dai suoi pensieri a Dantès,
questi che aveva seguito tutti i movimenti del viso del giudice,
sorrideva quasi al suo pensiero.
«Avete qualche nemico?» disse Villefort.
«Io dei nemici?» rispose Dantès. «Ho la fortuna di essere ancora ben
poca cosa perché la mia posizione me ne faccia. Quanto al mio
carattere forse un poco troppo vivace, ho sempre cercato di
addolcirlo verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai sotto
i miei ordini; che vengano pure interrogati, signore, ed essi vi
diranno che mi amano e mi rispettano, non come padre, perché sono
troppo giovane, ma come un fratello maggiore.»
«Bene», continuò Villefort, «vediamo ora se invece di nemici poteste
avere qualche invidioso, o qualche geloso. Voi state per essere
nominato capitano a diciannove anni, che è un posto elevato nella
vostra condizione. Voi state per sposare una giovane che vi ama, il
che è un bene raro in ogni circostanza. Queste due preferenze del
destino, avrebbero potuto procurarvi qualche invidia.»
«Sì, avete ragione, voi dovete conoscere gli uomini meglio di me:
ciò è possibile; ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei
amici, vi confesso che preferisco non conoscerli, per non esser
costretto a odiarli.»
«Voi avete torto; bisogna sempre, per quanto è possibile, tener gli
occhi aperti intorno a sé, e in verità voi mi sembrate un così bravo
giovane, che per voi contravvengo alle regole ordinarie della
giustizia e a illuminarvi, comunicandovi la denuncia, che vi conduce
dinanzi a me. Ecco il foglio accusatore, ne conoscete la
calligrafia?» e Villefort si tolse di tasca la lettera, e la mostrò
a Dantès.
Dantès la guardò e la lesse.
Un nube oscurò la sua fronte, e disse: «No, signore, io non conosco
questa scrittura, che pur alterata ha molto vigore. In ogni caso è
una mano molto abile che l’ha vergata. Io sono ben fortunato»,
aggiunse guardando con riconoscenza Villefort, «di poter trattare
con un uomo quale voi siete, poiché il mio calunniatore è un vero
nemico».
Al lampo che sfolgorò negli occhi del giovane pronunciando quelle
parole, Villefort poté conoscere quanta violenta energia stava
nascosta sotto quella apparente dolcezza.
«Ora», disse Villefort, «rispondetemi francamente, non come farebbe
un accusato al suo giudice, ma come un uomo che si trovi in una
falsa posizione risponde a un altro uomo che prenda interesse per
lui… Che vi è di vero in questa anonima accusa?»
E Villefort gettò con disprezzo sullo scrittoio la lettera che
Dantès gli aveva restituito.
«Tutto, e niente: eccovi la pura verità, sul mio onore di marinaio,
sul mio amore per Mercedes, sulla vita di mio padre.»
«Parlate, signore», disse ad alta voce Villefort, poi fra sé
aggiunse: «Se Renée potesse vedermi, spero che sarebbe contenta di
me, e non mi chiamerebbe più tagliatore di teste!»
«Ebbene, lasciando Napoli, il capitano Leclère cadde malato di una
febbre cerebrale; siccome noi non avevamo un medico a bordo, ed egli
non volle fermarsi in alcun punto della costa, sollecito come era di
arrivare all’isola d’Elba, la sua malattia peggiorò in modo che
verso la fine del terzo giorno, sentendosi vicino a morire, mi
chiamò a sé: “Mio caro Dantès”, mi disse, “giuratemi sul vostro
onore di fare tutto ciò che vi dirò, trattandosi di affare del più
alto interesse”.
“Ve lo giuro, capitano”, risposi io.
“Ebbene, siccome dopo la mia morte spetta a voi il comando del
bastimento nella vostra qualità di secondo, voi prenderete questo
comando, e metterete capo all’isola d’Elba, sbarcherete a
Portoferraio, cercherete del gran maresciallo, gli consegnerete
questa lettera, e lui v’incaricherà di qualche missione. Questa
missione, che era riservata a me, voi l’eseguirete, Dantès, in mia
vece, e tutto l’onore sarà vostro.”
“Lo farò, capitano, ma forse non potrò pervenire fino al gran
maresciallo tanto facilmente quanto voi credete.”
“Eccovi un anello che vi farà giungere facilmente a lui”, disse il
capitano, “e che toglierà tutte le difficoltà.” A queste parole mi
consegnò l’anello, e fu appena in tempo, perché poco dopo gli prese
il delirio e l’indomani era morto.»
«E che faceste allora?»
«Ciò che dovevo fare, signore, e che ciascun altro avrebbe fatto al
mio posto. In ogni circostanza le preghiere dei moribondi sono
sacre, ma presso i marinai le preghiere d’un superiore sono ordini
che si debbono eseguire. Feci dunque vela verso l’isola d’Elba ove
giunsi l’indomani; consegnai a bordo tutto l’equipaggio, e io solo
discesi a terra. Come avevo previsto, mi si fecero sulle prime delle
difficoltà nell’introdurmi dal gran maresciallo, ma io gli inviai
l’anello che doveva servirmi per farmi riconoscere, e tutte le porte
si aprirono avanti a me. Egli mi ricevette, m’interrogò sulle
circostanze della morte del disgraziato Leclère; e come questi aveva
previsto mi venne consegnata una lettera incaricandomi di portarla
di persona a Parigi. Glielo promisi poiché questo era un compiere
l’estrema volontà del mio capitano. Ritornai a bordo, feci vela per
Marsiglia ove giunsi ieri, accomodai rapidamente tutti gli affari
con la Dogana e la Sanità, corsi ad abbracciare mio padre, corsi a
vedere la mia fidanzata, che trovai più bella e più innamorata che
mai. Col favore del signor Morrel furono superate tutte le
difficoltà ecclesiastiche; e finalmente, signore, assistevo, come vi
ho detto, al pranzo del mio fidanzamento; fra un’ora dovevo essere
sposato, e contavo di partir domani per Parigi, allorquando per
questa accusa, che sembra voi pure disprezziate quanto me, io fui
arrestato.»
«Sì, sì», mormorò Villefort, «tutto ciò mi sembra esser la verità, e
se voi siete colpevole lo siete soltanto d’imprudenza; e anche
questa imprudenza potrebbe essere legittimata dagli ordini che
riceveste dal vostro capitano. Rendetemi quella lettera che vi è
stata consegnata all’isola d’Elba, datemi la vostra parola d’onore
di ricomparire alla prima requisitoria, e andate a raggiungere i
vostri amici.»
«In tal modo io sono libero, signore?» esclamò Dantès al colmo della
gioia.
«Sì, soltanto datemi quella lettera.»
«Essa deve essere innanzi a voi, poiché mi fu tolta con tutte le
altre carte, e io ne riconosco qualcuna in quel fascio.»
«Aspettate», disse il sostituto a Dantès, che prendeva i guanti e il
cappello, «a chi era diretta?»
«Al signor Noirtier, rue Héron a Parigi.»
Se la folgore fosse caduta sopra Villefort non lo avrebbe percosso
con un colpo più rapido e più inatteso. Si lasciò cadere sulla sedia
dalla quale si era per metà alzato per prendere il plico delle carte
confiscate a Dantès, le sfogliò precipitosamente, e ne cavò la
lettera fatale, sulla quale gettò uno sguardo carico di paura.
«Signor Noirtier, rue Héron numero 13», mormorò, impallidendo sempre
più.
«Sì, signore», rispose Dantès meravigliato, «lo conoscete?»
«No», rispose prontamente Villefort, «un servo fedele del re non
conosce i cospiratori.»
«Si tratta dunque di una cospirazione?» domandò Dantès che veniva
preso, dopo essersi creduto libero, da un terrore più grande di
prima. «In ogni modo, signore, io ve l’ho detto, ignoravo
completamente il contenuto del dispaccio di cui ero portatore.»
«Sì», riprese Villefort, con voce sorda, «ma voi sapete il nome di
quello a cui era diretto?»
«Bisogna bene che lo sapessi se dovevo consegnarlo nelle sue mani.»
«E voi non avete mostrato quella lettera ad alcuno?» disse Villefort
che sempre più impallidiva a misura che leggeva la lettera.
«A nessuno, sul mio onore.»
«Tutti dunque ignorano che voi eravate portatore di una lettera che
veniva dall’isola d’Elba, ed era indirizzata al signor Noirtier?»
«Tutti lo ignorano, meno chi me l’ha consegnata.»
«Questo è troppo, questo è davvero troppo!» mormorò Villefort.
La fronte di Villefort si oscurava sempre più man mano che leggeva;
le sue labbra bianche, le sue mani tremanti, i suoi occhi ardenti
facevano passare nello spirito di Dantès le più dolorose
apprensioni.
Dopo la lettura di questa lettera, Villefort si prese la testa fra
le mani e rimase un istante come annientato.
«Oh, mio Dio! Che c’è dunque, signore?» domandò timidamente Dantès.
Villefort non rispose, ma dopo qualche istante rialzò il viso
pallido e stravolto e rilesse una seconda volta la lettera.
«E voi dite che non sapete nulla di ciò che contiene questa
lettera?» riprese Villefort.
«Sul mio onore, vi ripeto non ne so nulla. Ma voi che avete? Mio
Dio! Voi state male! Volete che suoni il campanello? Volete che
chiami qualcuno?»
«No», disse Villefort alzandosi prontamente, «no, non fate rumore,
non dite una parola; sta a me il dare degli ordini qui e non a voi.»
«Signore», disse Dantès mortificato, «era per venire in vostro
soccorso; scusatemi, ve ne prego, riguardo all’intenzione.»
«Non ho bisogno di niente; uno capogiro passeggero, ecco tutto.
Occupatevi di voi e non di me: rispondete.»
Dantès aspettava la domanda annunciata da quest’ultima parola, ma
inutilmente. Villefort ricadde a sedere, passò la mano ghiacciata
sulla fronte che grondava sudore, e per la terza volta si mise a
rileggere la lettera.
«Oh! se lui sa il contenuto di questa lettera», mormorò, «se venisse
a sapere un giorno che Noirtier è il padre di Villefort, io son
perduto, perduto per sempre!…» e di tanto in tanto guardava Edmond
come se col suo sguardo avesse potuto infrangere quella barriera
invisibile che racchiude nel cuore i segreti, che dalla bocca non
vengono palesati.
«Oh, non esitiamo più», esclamò a un tratto.
«Ma, in nome del cielo, signore», gridò il disgraziato giovane, «se
voi dubitate di me, se avete dei sospetti, interrogatemi, io sono
pronto a rispondervi.»
Villefort fece un violento sforzo su se stesso e, con un tono di
voce che voleva rendere sicuro, disse: «Signore, dal vostro
interrogatorio risultano gravi sospetti contro di voi: non sono
dunque padrone, come avevo poco fa sperato, di mettervi in libertà
in questo medesimo istante; io debbo, prima di prendere questa
misura, consultare il giudice istruttore. Frattanto voi avete visto
come vi ho trattato.»
«Oh sì, signore», esclamò Dantès, «io vi ringrazio poiché siete
stato per me più che un giudice, un amico.»
«Ebbene, io vi tratterrò ancora per qualche tempo prigioniero, il
meno che mi sarà possibile. Il principale atto d’accusa che esiste
contro di voi è questa lettera, e voi vedete…» Villefort si avvicinò
al caminetto, gettò la lettera sul fuoco e restò immobile fino a che
fu ridotta in cenere. «E voi vedete», continuò egli, «io l’ho
distrutta.»
«Oh!» esclamò Dantès, «signore, voi siete più che la giustizia; voi
siete la bontà in persona.»
«Ma ascoltatemi», continuava Villefort, «dopo quest’atto voi
comprendete bene che potete avere fiducia in me, non è vero?»
«Ah, signore, ordinate, e io eseguirò i vostri ordini.»
«No», disse Villefort avvicinandosi al giovane, «non sono ordini che
voglio darvi, voi capirete, sono consigli.»
«Dite, io mi conformerò a essi come fossero ordini.»
«Vi farò trattenere fino a questa sera al palazzo di giustizia,
forse qualcun altro verrà a interrogarvi. Dite tutto ciò che avete
detto a me, ma non dite una parola su quella lettera.»
«Ve lo prometto, signore.»
Era Villefort, che sembrava supplicare; era l’imputato che
tranquillizzava il giudice.
«Voi capirete», diss’egli gettando uno sguardo sulle ceneri che
conservavano ancora la forma della carta e venivano alzate in aria e
agitate dalla fiamma, «ora che questa lettera è distrutta, voi e io
soltanto sappiamo che è esistita; essa non vi sarà più ripresentata;
negatela dunque se qualcuno ve ne parla, negatela arditamente, e con
questo mezzo soltanto sarete salvo.»
«Negherò, signore, state tranquillo», disse Dantès.
«Bene, bene», rispose Villefort portando la mano al cordone del
campanello.
Poi fermandosi nel momento che stava per suonare: «Questa era la
sola lettera che avevate?» disse.
«La sola», rispose Dantès.
«Giuratelo.»
Dantès allungò la mano: «Lo giuro!»
Il campanello suonò: il commissario di polizia entrò.
Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e gli disse qualche
parola all’orecchio.
Il commissario rispose con un semplice cenno della testa.
«Seguitelo, signore», disse Villefort a Dantès.
Dantès s’inchinò, gettò un ultimo sguardo di riconoscenza a
Villefort e uscì.
Appena la porta fu chiusa dietro di lui, le forze mancarono a
Villefort, che cadde quasi svenuto sulla sedia.
Poi, dopo un istante: «Oh, mio Dio, da che dipende la vita e la
fortuna! Se il procuratore del re fosse stato a Marsiglia, se il
giudice istruttore fosse stato chiamato in mia vece, io sarei
perduto, e quella lettera, quella maledetta lettera mi avrebbe
precipitato nell’abisso. Ah, padre mio, padre mio, sarete voi dunque
sempre un ostacolo alla mia felicità in questo mondo e dovrò io
lottare eternamente con il vostro passato?»
Poi, tutto a un tratto, una luce inattesa parve attraversargli la
mente e rischiarare il suo viso, un sorriso si delineò sulla sua
bocca ancora increspata, i suoi occhi stravolti divennero fissi, e
parvero soffermarsi su un pensiero. «Sì», disse, «quella lettera
doveva perdermi, ma forse farà la mia fortuna. Andiamo, Villefort,
all’opera!» E dopo essersi assicurato che l’imputato non si trovava
più nell’anticamera, il sostituto procuratore del re uscì a sua
volta, incamminandosi rapidamente verso la casa della sua fidanzata.
8. Il castello d’If
Attraversando l’anticamera, il commissario di polizia fece un segno
a due gendarmi, che si misero uno a destra e l’altro a sinistra di
Dantès; fu aperta una porta comunicante con il palazzo di giustizia,
e camminarono per qualche tempo in uno di quei lunghi corridoi che
fanno tremare quelli che vi passano, anche quando non hanno alcun
motivo di tremare.
Nella stessa maniera in cui l’appartamento di Villefort comunicava
con il palazzo di giustizia, quest’edificio comunicava con la
prigione, tetro monumento addossato al palazzo e che guarda in modo
strano da tutte le sue aperture guarnite di sbarre il campanile
degli Accoulès che gli sorge davanti.
Al termine di una quantità di svolte nel corridoio che percorreva,
Dantès si vide innanzi una porta col catenaccio di ferro. Quindi il
commissario di polizia batté col martello tre colpi, che si
ripercossero su Dantès come se gli fossero stati battuti sul cuore.
La porta si aprì, i due gendarmi spinsero leggermente il prigioniero
che esitava; Dantès oltrepassò la temibile soglia, e la porta si
richiuse subito rumorosamente dietro di lui. Egli respirava un’altra
aria, un’aria mefitica e pesante; era l’aria della prigione.
Fu condotto in una stanza abbastanza pulita, ma con l’inferriata e
il catenaccio. L’aspetto della sua nuova dimora non gli cagionò gran
timore. D’altronde le parole del sostituto procuratore del re,
pronunciate con una voce che era sembrata a Dantès colma di tanto
interesse, risuonavano al suo orecchio come una dolce promessa di
speranza.
Erano già quattro ore da che Dantès era stato portato in quella
stanza. Si era, come abbiamo detto, al primo di marzo, e il giorno
declinava presto: il prigioniero si trovò subito nella notte. Il
senso dell’udito aumentava in lui a misura che la vista si
attenuava. Al minimo rumore che perveniva fino a lui, convinto che
sarebbe stato messo in libertà, si alzava velocemente e faceva un
passo verso la porta. Ben presto il rumore andava a perdersi in
un’altra direzione, e Dantès ricadeva sul suo sgabello.
Infine, verso le dieci di sera, nel momento in cui Dantès cominciava
a perdere la speranza, un nuovo rumore si fece intendere, e questa
volta gli sembrava avvicinarsi alla sua stanza.
Infatti dei passi rimbombarono nel corridoio e si fermarono davanti
alla sua porta. Una chiave girò due volte nella serratura, i
catenacci cigolarono, la massiccia barriera di quercia si aprì,
lasciando penetrare a un tratto nella stanza oscura l’abbagliante
luce di due torce.
A questa luce Dantès vide brillare le sciabole e i fucili di quattro
gendarmi. Egli aveva fatto due passi in avanti; rimase immobile al
suo posto vedendo quell’aumento di forza.
«Venite a prendermi?» domandò Dantès.
«Sì», rispose uno dei gendarmi.
«Da parte del signor sostituto procuratore del re?»
«Ma… così credo.»
«Bene», disse Dantès, «sono pronto a seguirvi.»
La convinzione che si veniva a cercarlo da parte di Villefort,
toglieva ogni timore all’infelice giovanotto. Egli avanzò dunque con
spirito calmo, con andatura tranquilla, e si pose da sé in mezzo
alla sua scorta.
Una carrozza aspettava alla porta verso la strada, il cocchiere era
a cassetta, una guardia era seduta vicino a lui.
«È dunque per me questa carrozza?» domandò Dantès.
«È per voi», rispose uno dei gendarmi, «salite.»
Dantès voleva fare qualche osservazione, ma lo sportello si aprì, si
sentì spingere. Non aveva né la possibilità né l’intenzione di far
resistenza.
Si trovò in un istante in fondo alla vettura fra due gendarmi, gli
altri due sedettero nel posto davanti, e il pesante veicolo si mise
in moto con sinistro rumore.
Il prigioniero volse gli occhi sulle aperture: erano chiuse con le
griglie. Egli non aveva fatto che cambiar di prigione. Soltanto,
questa correva, e lo trasportava verso una meta non conosciuta.
Attraverso le sbarre, chiuse in modo da lasciarvi appena passare la
mano, Dantès riconobbe che si passava per la rue Caisserie e che
dalla rue Saint-Laurent e dalla rue Tamaris si discendeva verso lo
scalo. Presto vide, attraverso le sbarre, brillare i lumi della
Consegna.
La carrozza si fermò; la guardia discese e si avvicinò al corpo di
guardia; una dozzina di soldati uscirono e si disposero in doppia
fila in modo da lasciare uno stretto passaggio. Dantès vedeva al
chiarore dei fanali dello scalo rilucere i loro fucili.
«Sarebbe per me», si domandava, «che si spiega una simile forza
militare?»
La guardia, aprendo lo sportello della carrozza che era stato chiuso
a chiave, sebbene non pronunciasse una parola dette la risposta alla
domanda che si era fatta Dantès, perché vide tra le due file di
soldati il passaggio che era stato preparato per lui dalla carrozza
al porto.
I due gendarmi che erano a sedere nel posto davanti furono i primi a
scendere, quindi fu fatto scendere Dantès, poi smontarono quelli che
gli stavano ai fianchi e camminarono verso una barca, che un
marinaio della dogana teneva ferma allo scalo con una catena.
I soldati osservarono Dantès passare con una stupita curiosità. Egli
fu sistemato alla poppa del battello, sempre tra i suoi quattro
gendarmi, mentre la guardia si teneva a prua. Una spinta violenta
staccò il battello dalla riva e quattro vigorosi rematori vogarono
verso il Pilon. A un grido dalla barca, la catena che chiude il
porto si abbassò, e Dantès si trovò fuori dal porto.
Il primo sentimento del prigioniero ritrovandosi all’aria aperta era
stato un impulso di gioia. L’aria è quasi la salvezza! Respirò
dunque a pieni polmoni la brezza vivace satura di tutti gli olezzi
sconosciuti della notte o del mare.
Immediatamente però emise un sospiro: passava davanti all’osteria
della Riserva dov’era stato così felice la mattina stessa nell’ora
che aveva preceduto quella del suo arresto, e, attraverso l’apertura
di due finestre, giunse fino a lui il lieto rumore di un ballo.
Dantès giunse le mani, levò gli occhi al cielo e pregò.
La barca, continuando il suo cammino, aveva già oltrepassato la
Testa di Moro, e si trovava di fronte all’insenatura del faro. Essa
andava a bordeggiare di fianco alla batteria, e questa era una
manovra incomprensibile per Dantès.
«Ma dove mi conducete?» domandò egli.
«Lo saprete presto.»
«Ma pure…»
«Ci è proibito darvi alcuna spiegazione.»
Dantès era per metà soldato; fare delle domande a dei subordinati ai
quali era proibito rispondere, gli parve una cosa assurda e tacque.
I pensieri più strani gli passarono per la mente. Non si poteva fare
una lunga navigazione con una simile barchetta, non vi era alcun
bastimento all’ancora dalla parte verso cui si dirigevano. Allora
pensò che sarebbe stato lasciato in un punto lontano della costa per
dirgli che era libero: infatti non era incatenato, non era stato
fatto alcun tentativo per mettergli le manette, e ciò gli sembrava
di buon augurio.
D’altronde il sostituto, così umano con lui, aveva detto che qualora
non pronunciasse una parola sulla lettera diretta a Noirtier, egli
non aveva nulla da temere! Villefort non aveva in sua presenza
distrutta quella pericolosa lettera, unica prova che esistesse
contro di lui? Egli aspettava dunque, muto e pensieroso, e cercava
di vedere con l’occhio da marinaio esercitato alle tenebre,
assuefatto allo spazio, l’oscurità della notte.
Si era lasciata a destra l’isola Ratonneau su cui riluceva il faro e
sempre costeggiando si era arrivati all’altezza della baia dei
Catalani. Là, gli sguardi del prigioniero raddoppiarono di
intensità; era là che stava Mercedes e gli sembrava a ogni istante
vedere delinearsi sulla riva oscura la forma vaga e indecisa di una
donna. Come mai un presentimento non diceva allora a Mercedes che il
suo adorato passava in quel momento a trecento passi da lei? Un sol
lume brillava ai Catalani. Studiando la posizione di quel lume,
Dantès riconobbe che rischiarava la camera della sua fidanzata.
Mercedes era la sola che vegliava in tutta la piccola colonia.
Alzando un grido il giovane poteva essere inteso dalla fidanzata.
Una falsa vergogna lo trattenne, che avrebbero detto coloro che lo
custodivano sentendolo gridare come un insensato? Rimase dunque
muto, con gli occhi fissi su quel lume.
Frattanto la barca continuava il suo cammino; ma il prigioniero non
pensava alla barca, egli pensava a Mercedes. Una duna del terreno
fece sparire il lume. Dantès si voltò e allora vide che la barca
prendeva il largo. Mentre guardava il lume, assorto nei propri
pensieri, non si era accorto che ai remi erano state sostituite le
vele, e la barca procedeva spinta dal vento. Malgrado la ripugnanza
a fare nuove domande ai gendarmi, Dantès si avvicinò a uno di loro
e, stringendogli la mano, gli disse: «In nome della vostra
coscienza, e per la vostra qualità di soldato, vi scongiuro di aver
pietà di me, e di rispondermi. Io sono il capitano Dantès, leale e
buon francese, sebbene accusato di non so quale tradimento. Dove mi
conducete? Ditelo, e parola di marinaio io non vi chiederò altro, e
mi rassegnerò al mio destino».
Il gendarme si grattò l’orecchio, e guardò il suo compagno. Questi
fece un movimento, quasi avesse voluto dire: «Mi sembra che al punto
in cui siamo non vi sia da temere nulla». Il gendarme allora si girò
verso Dantès e gli disse: «Voi siete marsigliese e marinaio e
domandate a me dove andiamo?»
«Sì, poiché sul mio onore non lo so.»
«Non ne avete alcun sospetto?»
«Nessuno.»
«È possibile?…»
«Io ve lo giuro per quanto vi è di più sacro al mondo. Rispondetemi
dunque, di grazia!»
«Ma la consegna?»
«La consegna non vi proibisce di dirmi ciò che saprò fra dieci
minuti, fra mezz’ora, forse fra un’ora. Soltanto mi risparmierete
secoli di incertezza. Ve lo chiedo come se foste un amico. Guardate,
non voglio né rivoltarmi, né fuggire; d’altronde non posso. Suvvia,
dove andiamo?»
«A meno che non abbiate la benda agli occhi o non siate mai uscito
dal porto di Marsiglia, voi dovreste indovinare dove andiamo.»
«Eppure…»
«Allora guardatevi attorno.»
Dantès si alzò, fissò lo sguardo verso il punto in cui sembrava
dirigersi il battello e vide a cento tese lontano da lui innalzarsi
la nera e scoscesa roccia sulla quale sorge come una escrescenza di
silice il tetro castello d’If.
Questa forma strana, questa prigione sulla quale regnava un così
profondo terrore, questa fortezza che faceva da trecent’anni parte
delle lugubri tradizioni, comparve a un tratto innanzi a Dantès che
non pensava affatto a essa, e gli fece l’effetto che fa a un
condannato a morte la vista del patibolo.
«Ah, mio Dio!» gridò. «Il castello d’If! E che andiamo a fare là?»
Il gendarme sorrise.
«Ma non mi si condurrà là per esservi imprigionato…» continuò
Dantès. «Il castello d’If è una prigione di Stato, destinata
soltanto ai grandi colpevoli politici. Io non ho commesso alcun
delitto. Ma, ditemi: vi sono forse dei giudici istruttori, o altri
magistrati al castello d’If?»
«Non vi sarà, io suppongo», disse il gendarme, «che un governatore,
dei carcerieri, una guarnigione e delle ottime mura. Andiamo,
andiamo amico, non mi fate tanto il sorpreso, poiché in verità mi
farete credere che voleste ricompensare la mia compiacenza con il
burlarvi di me.»
Dantès strinse la mano del gendarme così forte che pareva volesse
stritolargliela.
«Voi pretendete dunque che mi si conduca al castello d’If per
esservi imprigionato?»
«Probabilmente», disse il gendarme, «ma in ogni modo, è inutile
stringermi la mano così forte.»
«Senz’altra formalità?»
«Le formalità sono compiute, l’istruttoria è fatta.»
«Così a onta della promessa del signor Villefort…»
«Io non so se Villefort vi ha fatto una promessa», disse il
gendarme, «quello che so, è che noi andiamo al castello d’If.
Ebbene, che fate adesso? Olà camerati, a me!»
Con un movimento pari al lampo, ma che però era stato previsto
dall’occhio esercitato del gendarme, Dantès avrebbe voluto lanciarsi
in mare, ma quattro mani vigorose lo trattennero nell’istante in cui
i suoi piedi si staccavano dal fondo del battello.
Egli ricadde nella barca urlando di rabbia.
«Bravo!» esclamò il gendarme, mettendogli un ginocchio sul petto.
«Ecco come mantenete la vostra parola da marinaio! Fidatevi delle
persone melliflue! Ebbene, ora mio caro, se fate un movimento, un
sol movimento, io vi pianto una pallottola nella testa. Ho tradito
la mia prima mia consegna, ma vi assicuro che non mancherò alla
seconda.»
Ed effettivamente abbassò la carabina verso Dantès, che sentì
appoggiarsi come un anello di gelo l’estremità della canna alla
tempia.
Per un attimo ebbe l’idea di eseguire il proibito movimento e
finirla così violentemente con l’inattesa infelicità che era calata
sopra di lui con i suoi artigli d’avvoltoio. Ma appunto perché
questa infelicità era inattesa, Dantès pensò che non poteva durare.
Gli tornarono al pensiero le promesse di Villefort. E poi, bisogna
anche dirlo, questa morte sul fondo di un battello, per mano di un
gendarme, gli parve squallida e crudele.
Ricadde dunque sul tavolato della barca, mandando un urlo di rabbia,
e mordendosi con furore le mani. Quasi nel medesimo istante un urto
violento percosse il battello, uno dei battellieri saltò sulla
roccia che era stata toccata dalla barca, una corda si svolse da una
puleggia. Dantès s’accorse che erano arrivati, e che si attraccava
lo scafo.
Infatti i guardiani, che lo tenevano per le braccia e il colletto
dell’abito, lo costrinsero a rialzarsi, a discendere a terra, e lo
trascinarono verso gli scalini che salivano alla porta della
cittadella, mentre la guardia li seguiva armato di moschetto con la
baionetta inastata.
Dantès del resto non fece più alcuna inutile resistenza; la sua
lentezza proveniva più da inerzia che da opposizione. Era stordito e
barcollava come un ubriaco. Vide di nuovo i soldati che si
schieravano sulla ripida china, sentì alcuni scalini che lo
forzarono ad alzare i piedi, si accorse che passava sotto una porta,
e che questa porta si chiudeva dietro di lui: ma tutto ciò
macchinalmente come attraverso una densa nebbia senza distinguer
nulla di reale. Egli non vedeva neppure più il mare, immenso dolore
dei prigionieri che guardano quello spazio con il terribile
sentimento di non poterlo superare.
Vi fu una breve sosta, durante la quale cercò di riordinare le sue
idee. Guardò intorno a sé, era in un cortile quadrato formato da
quattro grandi muraglie. Si sentivano i passi lenti e regolari delle
sentinelle, e ogni volta che passavano davanti al riflesso
proiettato sulle muraglie dalla luce di due o tre lumi accesi
all’interno del castello, si vedeva scintillare la canna dei loro
fucili.
Qui attese dieci minuti circa.
Certi che Dantès non poteva più fuggire lo avevano lasciato,
sembrava che aspettassero degli ordini, e questi ordini giunsero.
«Dov’è il prigioniero?» domandò una voce.
«Eccolo», risposero i gendarmi.
«Che mi segua: lo condurrò al suo alloggio.»
«Andate!» dissero i gendarmi, dando una spinta a Dantès.
Il prigioniero seguì la sua guida, che lo condusse effettivamente in
una cella quasi sotterranea, i cui muri nudi e umidi sembravano
impregnati di un vapore di lacrime. Una specie di lanterna, posata
sopra uno sgabello e il cui lucignolo nuotava in un grasso fetido,
illuminava le pareti lucide di quello spaventoso antro. Dantès vide
il suo carceriere, che era una specie di subalterno, malvestito e di
lurido aspetto.
«Ecco la vostra cella per questa notte», disse. «È tardi e il signor
governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, e avrà
conosciuto gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà
domicilio. Frattanto eccovi del pane. C’è dell’acqua in questa
brocca, della paglia laggiù in quel cantone. Insomma c’è tutto
quello che un prigioniero può desiderare. Buonanotte.»
E prima che Dantès avesse pensato ad aprir bocca per rispondergli,
prima che avesse visto dove il carceriere avesse deposto il pane,
prima che si fosse reso conto del luogo dove stava la brocca, prima
che avesse voltato gli occhi verso l’angolo dove l’aspettava quella
paglia destinata a servirgli da letto, il carceriere aveva preso la
lanterna e chiudendo la porta aveva tolto al prigioniero quella luce
incerta che gli aveva mostrato, come al chiarore di un lampo, le
gocciolanti muraglie della sua prigione. Allora si trovò solo nelle
tenebre e nel silenzio muto e tetro quanto le volte di cui egli
sentiva il freddo agghiacciante abbassarsi sulla fronte che
bruciava.
Quando i primi raggi del giorno ebbero ricondotto un po’ di luce in
quest’antro, il carceriere ritornò con l’ordine di lasciare il
prigioniero dov’era.
Dantès non aveva cambiato posto, una mano di ferro sembrava averlo
inchiodato nel punto stesso in cui si era fermato entrando. Il suo
occhio profondo si nascondeva sotto un gonfiore cagionato dall’umido
vapore delle sue lacrime: era immobile e guardava il suolo. Aveva
passato così tutta la notte, in piedi, senza dormire un solo
istante. Il carceriere si avvicinò a lui, gli girò attorno, ma
Dantès non pareva vederlo; gli batté sulla spalla e Dantès
rabbrividì scuotendo la testa.
«Non avete dormito?» domandò il carceriere.
«Non lo so», rispose Dantès.
Il carceriere lo guardò con meraviglia.
«Non avete fame?» continuò.
«Non lo so», rispose ancora Dantès.
«Volete qualche cosa?»
«Vorrei vedere il governatore.»
Il carceriere alzò le spalle e uscì.
Dantès lo seguì con gli occhi, tese le mani verso la porta
socchiusa; ma questa venne sbarrata. Allora il suo petto sembrò
squarciarsi in un lungo singulto. Le lacrime che gli gonfiavano le
palpebre scesero come due ruscelli, egli si inginocchiò con la
fronte a terra e pregò a lungo, riesaminando tutta la sua vita
passata, e chiedendo a se stesso qual delitto aveva commesso in
questa vita ancora così giovane, che potesse meritargli una tal
crudele punizione.
La giornata passò così. Fu molto se mangiò qualche boccone di pane,
bevette qualche goccia d’acqua; ora restava seduto, assorto nei suoi
pensieri, ora girava su e giù per la sua cella come una bestia
feroce chiusa in una gabbia di ferro.
Un solo pensiero lo faceva soprattutto smaniare, ed era che, durante
la traversata, ignorando il luogo ove era condotto, era rimasto
calmo e tranquillo, mentre avrebbe potuto ben dieci volte gettarsi
in mare, e una volta in acqua, grazie all’esperienza che faceva di
lui uno dei più abili nuotatori di Marsiglia, sparire sott’acqua,
sfuggire ai suoi guardiani, guadagnare la costa, salvarsi,
nascondersi in qualche luogo deserto, attendere un bastimento
genovese o catalano, raggiungere l’Italia o la Spagna, e di là
scrivere a Mercedes che venisse da lui. Quanto ai mezzi per vivere,
in qualsiasi posto poteva stare tranquillo; in ogni luogo i buoni
marinai sono rari; parlava l’italiano come un toscano, e lo spagnolo
come un figlio della vecchia Castiglia.
Sarebbe vissuto libero, felice con Mercedes, con suo padre, perché
suo padre sarebbe venuto a raggiungerlo. Invece ora era prigioniero,
chiuso nel castello d’If, in quella troppo sicura prigione, non
sapendo cosa accadeva a suo padre, cosa accadeva a Mercedes, e tutto
ciò perché aveva creduto alla parola di Villefort.
C’era da diventare pazzi.
Dantès si rotolava furioso sulla paglia fresca che il carceriere gli
aveva portato. L’indomani alla stessa ora il carceriere ritornò.
«Ebbene», gli domandò, «oggi siete più ragionevole di ieri?»
Dantès non rispose.
«Fatevi dunque», disse, «un po’ di coraggio… Desiderate qualche cosa
che sia in mio potere? Dite.»
«Desidero parlare al governatore.»
«Eh?» disse il carceriere con impazienza. «Vi ho già detto che
questo è impossibile…»
«Perché è impossibile?»
«Perché nei regolamenti della prigione c’è scritto che nessun
prigioniero ha il permesso di domandarlo.»
«E quali sono i permessi che qui si possono avere?»
«Un miglior vitto, pagando, la passeggiata, e qualche volta dei
libri.»
«Io non ho bisogno di libri; non mi curo di fare passeggiate; trovo
buono il mio vitto. In tal modo non ho bisogno che di una cosa,
quella cioè di parlare al governatore…»
«Se mi annoiate ancora una volta con questa domanda», disse il
carceriere, «non vi porterò più da mangiare.»
«Ebbene», disse Dantès, «se tu non mi porterai più da mangiare,
morirò di fame, ecco tutto.»
L’accento con il quale Dantès pronunciò queste parole, provò al
carceriere che il prigioniero sarebbe stato felice di morire. Così,
siccome ogni prigioniero, fatti i conti, fruttava al suo carceriere
circa dieci soldi al giorno, quello di Dantès fece il calcolo della
perdita per la sua morte, quindi riprese con tono più addolcito:
«Ascoltatemi, ciò che voi desiderate è impossibile; non lo domandate
dunque più perché non vi è esempio che per richiesta di un
prigioniero il governatore sia venuto nel carcere a trovarlo;
soltanto con l’essere savio vi si potrà permettere la passeggiata, e
allora sarà possibile che un giorno o l’altro, durante questa, possa
passare vicino a voi il governatore, nel qual caso, voi lo potrete
interrogare; ed egli, se vuole, vi risponderà».
«Ma», disse Dantès, «quanto tempo potrò aspettare prima che questo
caso si presenti?»
«Diamine», disse il carceriere, «un mese, tre mesi, sei mesi o forse
un anno.»
«È troppo», disse Dantès, «io voglio vederlo subito.»
«Ah», disse il carceriere, «non vi lasciate infatuare così da un
desiderio impossibile, o prima di quindici giorni voi diventerete
pazzo.»
«Ah, tu lo credi?» disse Dantès.
«Sì pazzo, e sempre così comincia la pazzia; noi qui ne abbiamo
avuti e ne abbiamo tuttora degli esempi. All’abate che abitava
questa cella prima di voi dette di volta il cervello per essersi
messo in testa di voler esser messo in libertà, mediante un milione
che incessantemente offriva al governatore.»
«E quanto tempo è che ha lasciato questa cella?»
«Due anni.»
«E fu messo in libertà?»
«No, fu messo in una segreta.»
«Ascolta», disse Dantès, «io non sono un pazzo. Forse la perderò, ma
disgraziatamente in questo momento ho tutta la mia ragione. Voglio
farti una proposta…»
«E quale?»
«Non ti offrirò un milione, non potrei dartelo, ma ti offrirò cento
scudi se, la prima volta che andrai a Marsiglia, ai Catalani,
porterai una lettera a una giovane che si chiama Mercedes… Ma
neanche una lettera, appena due righe.»
«Se io portassi due righe, e fossi scoperto, perderei il mio posto,
che è di mille lire l’anno, senza contare gli incerti e il vitto.
Voi vedete dunque che io sarei un grande imbecille se volessi
rischiare di perdere mille lire per guadagnarne cinquecento.»
«Ebbene», disse Dantès, «ascolta e tieni bene a mente quel che ti
dico: se tu rifiuti di avvertire il governatore che desidero
parlargli, se tu ricusi di portare due righe a Mercedes o di
avvertirla almeno che io sono qui, un giorno o l’altro io ti aspetto
nascosto dietro la porta, e nel momento che tu entri ti spacco la
testa con lo sgabello.»
«Delle minacce!» esclamò il carceriere, facendo un passo indietro e
mettendosi sulla difesa. «Decisamente la testa vi gira: l’abate ha
cominciato come voi, e fra tre giorni voi sarete pazzo come lui.
Fortunatamente nel castello d’If vi sono delle segrete.»
Dantès prese lo sgabello, e lo fece velocemente girare intorno alla
sua testa. «Sta bene, sta bene», disse il carceriere, «poiché voi lo
volete assolutamente, andrò ad avvertire il governatore.»
«Alla buon’ora!» disse Dantès, posando lo sgabello e sedendovi sopra
con la testa bassa e gli occhi stravolti, come se realmente
diventasse pazzo.
Il carceriere uscì e dopo pochi minuti rientrò con quattro soldati e
un caporale.
«Per ordine del governatore», diss’egli, «fate discendere il
prigioniero nel piano sotto a questo.»
«Nella segreta, dunque?» disse il caporale.
«Nella segreta. Bisogna mettere i pazzi con i pazzi.»
I quattro soldati s’impadronirono di Dantès che, cadendo in una
specie di atonia, li seguì senza resistenza; gli furono fatti
scendere quindici scalini, dopo i quali fu aperta una segreta in cui
entrò mormorando: «Ha ragione, bisogna mettere i pazzi con i pazzi!»
La porta fu chiusa, e Dantès avanzò a tentoni fino a che urtò il
muro; allora si sedette in un angolo e restò immobile, mentre i suoi
occhi, abituandosi un poco per volta all’oscurità cominciarono a
distinguere gli oggetti.
Il carceriere aveva ragione, mancava ben poco a Dantès per diventare
pazzo.
9. La sera del fidanzamento
Villefort, come si è detto, aveva ripreso il cammino lungo il
Grand-Cours e, rientrando in casa del marchese di Saint-Méran,
incontrò i convitati che avevano lasciato la tavola ed erano passati
nel salotto a prendere il caffè.
Renée lo aspettava con impazienza, condivisa da tutti. Così fu
accolto da una esclamazione generale: «E dunque, tagliateste,
sostegno dello Stato, Bruto realista!» esclamò uno, «che abbiamo di
nuovo? Sentiamo.»
«Si è minacciati nuovamente dal regime del Terrore?» domandò un
altro.
«Il lupo della Corsica è uscito dalla sua caverna?» chiese un terzo.
«Signora marchesa», disse Villefort avvicinandosi alla futura
suocera, «vi prego di volermi perdonare se fui costretto a lasciarvi
così… Signor marchese, posso aver l’onore di dirvi due parole in
privato?»
«Ah, dunque si tratta di un affare grave», constatò la marchesa,
osservando la nube che oscurava la fronte di Villefort.
«Grave al punto, che sono costretto a prendere un congedo di qualche
giorno da voi. Così», continuò voltandosi verso Renée, «potrete
capire che si tratta di un affare serio!»
«Voi partite», esclamò Renée, incapace di nascondere l’emozione che
le cagionava questa inattesa novella.
«Ahimè, sì, signorina!» rispose Villefort. «E ciò è indispensabile.»
«Dove andate dunque?» domandò la marchesa.
«Questo è un segreto della giustizia, signora. Ciò nonostante se
qualcuno di questi signori ha delle commissioni per Parigi, ho un
amico che parte questa sera e che se ne incaricherà volentieri.»
Tutti lo guardarono con sorpresa.
«Voi mi avete domandato un colloquio in privato?» disse il marchese.
«Sì, passiamo nel vostro studio, se permettete.»
Il marchese prese il braccio di Villefort, e uscì con lui.
«Ebbene?» domandò entrando nello studio. «Che è avvenuto? Parlate!»
«Cose credo della più alta importanza, e che necessitano che parta
all’istante per Parigi. Frattanto, marchese, scusate l’indiscrezione
della domanda, avete delle rendite di Stato?»
«Tutta la mia fortuna è in cartelle dello Stato, sei-settecentomila
franchi circa.»
«Ebbene vendete, marchese, o siete rovinato!»
«Ma, come volete che io possa vendere qui?»
«Voi avete un banchiere?»
«Sì.»
«Datemi una lettera per lui, e che egli venda senza perdere un
minuto! Senza perdere un secondo! Forse anch’io non arriverò che
troppo tardi!»
«Diavolo!» disse il marchese. «Non perdiamo dunque tempo.»
E si mise a tavolino, scrisse una lettera al suo banchiere, al quale
ordinava di vendere a ogni costo.
«Ora che possiedo questa lettera», disse Villefort, ponendola con
ogni cura nel suo portafogli, «me ne serve un’altra.»
«Per chi?»
«Per il re.»
«Per il re?»
«Sì.»
«Ma io non oso prendermi l’ardire di scrivere così a Sua Maestà.»
«Per questo non è a voi che la domando, ma v’incarico di chiederla
al conte di Salvieux. Bisogna che egli mi dia una lettera, per mezzo
della quale io possa giungere fino a Sua Maestà.»
«Ma, voi non avete il guardasigilli, che ha facile entrata alle
Tuileries e per mezzo del quale potete giungere fino al re di giorno
e di notte?»
«Sì, senza dubbio, ma è inutile che io divida con un altro il merito
della notizia che porto. Capite? Il guardasigilli mi porrebbe
naturalmente in secondo piano e mi toglierebbe il beneficio del mio
viaggio. Vi dico una cosa sola, marchese, la mia carriera è
assicurata se per il primo giugno potrò essere alle Tuileries, per
rendere al re un favore che non gli sarà più permesso dimenticare.»
«In questo caso, mio caro, andate a fare la vostra valigia, io
chiamo Salvieux, e gli faccio scrivere la lettera che deve servirvi
da lasciapassare.»
«Bene, non perdete tempo, perché fra un quarto d’ora bisogna che io
sia su una carrozza.»
«Farete fermare la vostra carrozza alla porta della mia casa?»
«Senza dubbio; voi farete le mie scuse alla marchesa, e alla
signorina di Saint-Méran, che io lascio in un simile giorno con il
più profondo dispiacere.»
«Voi le troverete entrambe nel mio studio, e potrete far loro i
vostri addii.»
«Mille grazie; occupatevi della mia lettera.»
Il marchese suonò, un servo comparve.
«Dite al conte di Salvieux che lo aspetto», disse il marchese. «Ora
andate», continuò, rivolgendosi a Villefort, «siete libero.»
«Bene, vado e torno.»
Villefort uscì correndo; ma giunto alla porta pensò che un sostituto
procuratore del re se fosse stato visto camminare con passo
affrettato, correva rischio di turbare il riposo di tutta la città;
riprese dunque il suo modo ordinario di incedere che era in tutto da
magistrato.
Alla porta intravide nell’oscurità una persona che, come un bianco
fantasma, lo aspettava ritto e immobile. Era la bella catalana, che
non avendo avuto notizie di Edmond era fuggita dal Faro al calar
della notte per venire a sapere di persona la causa dell’arresto del
suo fidanzato.
All’avvicinarsi di Villefort, si staccò dal muro contro cui era
appoggiata, e venne a sbarrargli il cammino.
Dantès aveva parlato della fidanzata al sostituto, e Mercedes non
ebbe bisogno di nominarsi per esser riconosciuta da Villefort.
Egli fu sorpreso della bellezza di quella donna, e allorché lei gli
domandò che cos’era avvenuto del suo innamorato, gli sembrò d’esser
lui l’accusato, e lei il giudice.
«L’uomo di cui mi parlate», disse bruscamente Villefort, «è un gran
colpevole, io non posso far niente per lui.»
Mercedes si lasciò sfuggire un singulto, e siccome Villefort cercava
di passare oltre, lo fermò una seconda volta.
«Ma almeno dov’è?» domandò la giovane. «Che io possa informarmi se è
vivo o morto.»
«Io non lo so, egli non mi appartiene più!» rispose Villefort.
E imbarazzato da quello sguardo fisso e da quella attitudine
supplichevole, respinse Mercedes, ed entrò chiudendo forte la porta,
come per lasciar fuori quel dolore che gli veniva cagionato. Ma il
dolore non si lascia respingere in tal modo: come la freccia mortale
di cui parla Virgilio, l’uomo ferito lo porta con sé. Villefort
rientrò, chiuse la porta, ma giunto nella sala le gambe gli vennero
meno, mandò un sospiro che sembrò un singulto, e si lasciò cadere su
un divano.
Allora nel fondo di quel cuore malato nacque il primo germe di
un’ulcera mortale: quell’uomo che egli sacrificava alla sua
ambizione, quell’innocente che scontava la pena di suo padre
colpevole, gli apparve pallido e minaccioso dando la mano alla sua
fidanzata, pallida anch’essa come lui, trascinando dietro i rimorsi,
non quelli che fanno vacillare il malato come le Furie dell’antica
fatalità, ma quel tintinnio sordo e doloroso che in certi momenti
colpisce diritto al cuore e lo lacera col ricordo di un’azione
passata; lacerazione, i cui vivi dolori corrodono, male, che si
approfondisce sempre più fino al giorno della morte. Allora ebbe
nell’anima un momento di esitazione.
Già parecchie volte lo aveva provato, e ciò senza altra emozione che
quella lotta tra il giudice e l’accusato. La pena di morte contro
gli imputati e la memoria di questi disgraziati, giustiziati dalla
sua fulminante eloquenza, che aveva abbagliato i giudici o i
giurati, non aveva neppure lasciato una nube sulla sua fronte,
perché gli imputati erano rei o tali almeno li credeva Villefort. Ma
questa volta era ben altra cosa: la pena del carcere perpetuo era
stata inflitta a un innocente, che era sul punto di essere felice e
del quale egli non solo distruggeva la pace ma anche la felicità.
Questa volta non era più un giudice, era un carnefice! Pensando a
tutto ciò, sentì quel battito sordo, che abbiamo descritto, e che
gli era sconosciuto fino allora, ripercuotersi nel fondo del suo
cuore e riempire il suo petto di vaghe apprensioni.
Così, per un violento soffrire istintivo, il ferito è avvertito di
non avvicinare mai, senza tremare, il dito alla sua ferita aperta e
grondante sangue, prima che questa ferita non sia cicatrizzata.
Ma la ferita che aveva ricevuto Villefort era di quelle che non si
chiudono mai, o se si chiudono, è solo per riaprirsi più sanguinose
e più dolorose di prima. Se in questo momento la dolce voce di Renée
avesse risuonato al suo orecchio per domandargli grazia, se la bella
Mercedes fosse entrata e gli avesse detto: «In nome di quel Dio che
ci guarda e che sarà nostro giudice, rendetemi il mio fidanzato»,
sì, questa fronte per metà piegata sotto la necessità, si sarebbe
piegata del tutto, e con le sue mani ghiacciate avrebbe senza
dubbio, anche col rischio di tutto ciò che poteva avvenirgli,
firmato l’ordine di mettere in libertà Dantès. Ma nessuna voce
mormorò nel silenzio, e la porta non si aprì che per fare entrare un
servo di Villefort, il quale veniva ad annunciare che i cavalli da
posta erano attaccati alla carrozza da viaggio.
Villefort si alzò o piuttosto balzò come un uomo che trionfa su
un’interna lotta; corse al suo scrigno, versò nelle tasche tutto
l’oro che vi si trovava, girò un istante smarrito per la stanza con
la mano sulla fronte e articolando parole sconnesse; poi finalmente
sentendo che il suo domestico gli aveva posato sulle spalle il
mantello, uscì, si lanciò nella carrozza, e ordinò con voce sorda di
passare per il Grand-Cours e di fermarsi alla porta del marchese di
Saint-Méran.
Villefort trovò la marchesa e la figlia nello studio. Vedendo Renée,
il sostituto rabbrividì, perché ebbe timore che la giovane gli
domandasse un’altra volta la libertà di Dantès. Ma purtroppo,
bisogna dirlo, la giovane non era preoccupata che da una cosa: della
partenza di Villefort. Lei amava Villefort; Villefort partiva nel
momento che doveva divenire suo marito, Villefort non poteva dire
quando sarebbe ritornato. Renée invece di compiangere Dantès,
malediceva l’uomo che per il suo delitto la separava dal fidanzato.
E Mercedes? Che doveva dunque dire Mercedes che aveva ritrovato
Fernando all’angolo della strada della Loggia dove l’aveva seguita?
Era rientrata ai Catalani, e per il dolore, moribonda e disperata si
era gettata sul suo letto. Fernando si era messo in ginocchio e
stringendo la gelida mano di Mercedes che non pensava a ritirarla,
la copriva di ardenti baci, che Mercedes non sentiva. Ella passò la
notte così; la lampada si spense quando non vi fu più olio e lei non
vide l’oscurità, come non aveva visto la luce. Il giorno ritornò
senza che se ne accorgesse.
Il dolore aveva posto innanzi agli occhi una benda che non lasciava
vedere che Edmond.
«Ah, voi siete qui?» disse finalmente, voltandosi verso Fernando.
«Da ieri sera non vi ho più lasciata», disse Fernando con un
doloroso sospiro.
In quanto a Morrel non si era dato per vinto. Aveva saputo che
Dantès dopo il primo interrogatorio era stato tradotto in prigione;
allora corse da tutti i suoi amici. Si era presentato a tutte quelle
persone di Marsiglia che potevano avere qualche influenza sul
procuratore. Ma già correva voce che il giovane era stato arrestato
sotto l’imputazione di essere un agente bonapartista; e siccome a
quell’epoca i più audaci credevano un sogno insensato ogni tentativo
di Napoleone per ritornare sul trono, così Morrel in ogni luogo
aveva trovato freddezza, timore, rifiuto, ed era tornato a casa
disperato, convenendo che la posizione era grave, e che nessuno
poteva farci niente.
Caderousse da parte sua era molto inquieto e tormentato.
Invece di uscire come aveva fatto Morrel, invece di tentare qualche
cosa in favore di Dantès, per il quale d’altronde non poteva far
niente, si era rinchiuso nella sua camera con due bottiglie di vino
di Cassis e aveva cercato di annegare la sua inquietudine
nell’ubriachezza. Ma nello stato di spirito in cui si trovava, due
bottiglie erano poca cosa per assopire la sua ragione. Era troppo
ubriaco per poter andare a cercare altro vino; poco ubriaco perché
l’ubriachezza potesse estinguere la sua memoria. Appoggiato con i
gomiti a un tavolo di legno, davanti alle due bottiglie vuote,
vedeva ronzare al riflesso della candela dal lungo lucignolo tutti
quegli spettri che Hoffmann ha sparsi nei suoi manoscritti inumiditi
dai punch, come una polvere nera e fantastica.
Danglars solo non era né tormentato né inquieto. Danglars era anzi
allegro, poiché si era vendicato di un nemico, e aveva assicurato a
bordo del Pharaon la carica che temeva di perdere. Danglars era uno
di quegli uomini di calcolo che nascono con una penna dietro
l’orecchio e un calamaio al posto del cuore; per lui a questo mondo
tutto era sottrazione e moltiplicazione, e una cifra gli sembrava
molto più preziosa di un uomo, quando questa cifra poteva aumentare
il totale dei suoi vantaggi. Danglars era dunque andato a letto come
sempre, e dormiva tranquillamente.
Villefort, dopo aver ricevuto dal conte di Salvieux una lettera
diretta al conte di Blacas, baciò la mano alla signora di
Saint-Méran, strinse quella del marchese era partito, e ora
viaggiava sulla via d’Aix.
Il padre di Dantès moriva dal dolore e d’inquietudine.
Di Edmond abbiamo già visto ciò che accadde.
10. Il gabinetto delle Tuileries
Lasciamo Villefort sulla strada di Parigi, lungo la quale grazie al
triplicare delle mance divorava la strada, e penetriamo attraverso
due o tre saloni nel piccolo gabinetto delle Tuileries, ben noto per
essere stato il favorito di Napoleone nonché di Luigi XVIII.
Lì, in quel gabinetto, davanti a un tavolo di noce che era stato
trasportato da Hartwell, e al quale, per uno di quei capricci
familiari ai gran personaggi, egli portava una particolare
affezione, re Luigi XVIII ascoltava con poca attenzione un uomo di
circa cinquant’anni, con i capelli grigi, di figura nobile e severa,
facendo delle postille sul margine di un volume di Orazio, edito dal
Gryphius, molto scorretto, sebbene stimato, e che si prestava molto
alle sagaci osservazioni filosofiche di Sua Maestà.
«Dicevate dunque, signore?» disse il re.
«Dicevo che io sono molto inquieto, da non poterlo essere di più,
sire.»
«Davvero? Avete visto in sogno sette vacche grasse, e sette vacche
magre?»
«No, sire, perché ciò non ci annuncerebbe che sette anni di
fertilità o sette anni di carestia, e, con un re previdente, come
Vostra Maestà, la carestia non sarebbe da temersi.»
«Di quale altro flagello si tratta dunque mio caro Blacas?»
«Sire, temo qualche tentativo disperato.»
«E da parte di chi?»
«Da parte di Bonaparte, o almeno dei suoi partigiani.»
«Mio caro Blacas», disse il re, «con i vostri terrori m’impedite di
lavorare.»
«Vostra Maestà mi ordina forse di non insistere su questo
argomento?»
«No, mio caro conte. Ma allungate la mano, laggiù, a sinistra: voi
dovete trovarvi il rapporto del ministro di polizia in data di ieri…
Ma osservate, ecco il signor Dandré in persona: non è vero?»
interruppe Luigi XVIII voltandosi verso l’usciere che infatti
annunciava l’arrivo del ministro di polizia. «Entrate, barone, e
raccontate al conte ciò che voi sapete di più recente sul conto di
Bonaparte. Non ci nascondete nulla della situazione, per quanto
grave essa sia. Sentiamo: l’isola d’Elba è un vulcano, e stiamo noi
per vederne uscire la guerra tutta fiammeggiante, bella, orridamente
bella?»
«Vostra Maestà», disse il ministro, «avrà consultato il rapporto di
ieri.»
«Sì, ma dite al conte che non ha potuto trovarlo, ciò che contiene
questo rapporto, spiegategli ciò che fa l’usurpatore nella sua
isola.»
«Signore», disse il barone al conte, «tutti i buoni servitori di Sua
Maestà non hanno che da rallegrarsi delle recenti notizie che ci
giungono dall’isola d’Elba. Bonaparte si annoia mortalmente; passa
delle intere giornate a vedere lavorare alle miniere di Porto
Longone. Vi è di più: noi siamo quasi sicuri che fra poco tempo
l’usurpatore diventerà pazzo.»
«Pazzo?»
«Pazzo da legare. La sua testa s’indebolisce. Ora piange calde
lacrime ora ride a gola aperta; altre volte passa delle ore intere
sulla riva a gettar sassi nell’acqua e quando il sasso ha fatto
cinque o sei balzi, sembra così contento come se avesse vinto
un’altra Marengo, o una nuova Austerlitz. Ecco, voi ne converrete,
questi son segni di pazzia.»
«O di saggezza, signor barone, o di saggezza», disse ridendo Luigi
XVIII. «I grandi capitani dell’antichità si divertivano a gettare
sassi in mare. Vedete Plutarco nella vita di Scipione l’Africano.
Ebbene Blacas, che ne pensate?» disse il re, sospendendo un istante
di consultare il voluminoso libro che teneva aperto innanzi a sé.
«Dico, sire, che il ministro di polizia o io ci sbagliamo. Ma
siccome è impossibile che sia il ministro di polizia, poiché ha in
custodia l’onore e la salute di Vostra Maestà, è probabile che sia
io in errore. Ciononostante sire, al posto di Vostra Maestà
interrogherei la persona con cui ho parlato e che giunse qui per
dirmi: un gran pericolo minaccia il re. Ecco perché bramerei che
Vostra Maestà gli facesse questo onore.»
«Volentieri, conte, sotto i vostri auspici riceverò chi vorrete: ma
voglio riceverlo con le armi in mano. Signor ministro, avete un
rapporto più recente di questo? Perché questo porta la data del 20
febbraio e noi siamo al 3 di marzo.»
«No, sire, ma io ne attendo uno da un’ora all’altra. Sono uscito da
questa mattina e in mia assenza può esser giunto…»
«Andate in prefettura, e se ce n’è uno portatelo, se poi non c’è…»
«Ebbene?»
«Ebbene», continuò ridendo Luigi XVIII, «se non c’è, fatene uno. Non
è forse così che si usa?»
«Oh, sire», disse il ministro, «grazie a Dio su questo rapporto non
c’è bisogno d’inventare niente. Ogni giorno i nostri uffici sono
ingombri di una quantità di denunce circostanziate, che pervengono
da una folla di poveri diavoli che sperano in un po’ di riconoscenza
per i servizi che essi non rendono, ma che vorrebbero rendere. Essi
giocano d’azzardo, e sperano che un giorno un qualche inatteso
avvenimento venga a dare una specie di realtà alle loro predizioni.»
«Va bene, andate, signore», disse Luigi XVIII, «e non dimenticate
che io vi aspetto.»
«Vado e vengo, sire, fra dieci minuti sarò di ritorno.»
«E io, sire», disse Blacas, «vado a cercare il mio messaggero che ha
fatto 220 leghe in tre giorni.»
«È bene prendersi della fatica e dell’incomodo, mio caro conte,
quando abbiamo i telegrafi che c’impiegano tre o quattro ore, e ciò
senza che il proprio fiato ne soffra minimamente…?»
«Ah, sire, voi ricompensate male questo povero giovane che giunge
così di lontano e con tanto ardore per recare un utile avviso a
Vostra Maestà! Non fosse che per il conte di Salvieux che me lo
raccomanda, vi supplico di riceverlo bene.»
«Di Salvieux, il ciambellano di mio fratello?»
«Egli stesso, che ora si trova a Marsiglia.»
«Ed è di là che mi scrive?»
«Sì, Maestà.»
«Vi parla anche lui di questa cospirazione?»
«No, ma mi raccomanda il signor Villefort e m’incarica d’introdurlo
presso Vostra Maestà.»
«Villefort!» esclamò il re. «E perché non me lo avete detto subito»,
aggiunse lasciando scorgere sul suo viso un principio
d’inquietudine.
«Sire, credevo che questo nome fosse sconosciuto a Vostra Maestà.»
«No, no davvero, mio caro Blacas, egli è un uomo serio, elevato, e
soprattutto ambizioso. Eh, perbacco! Voi conoscerete il nome di suo
padre, Noirtier.»
«Noirtier il girondino? Noirtier il senatore?»
«Precisamente.»
«E Vostra Maestà ha impiegato il figlio di un tal uomo?»
«Mio caro conte, vi ho già detto che Villefort è ambizioso e, per
innalzarsi, Villefort sacrificherà tutto… anche suo padre.»
«Allora, sire, debbo dunque farlo entrare?»
«Sull’istante, conte. Dov’è?»
«Mi aspetta giù nella mia carrozza.»
Il conte uscì con la vivacità di un giovanotto; l’ardore sincero per
la causa regia gli dava la sveltezza dei vent’anni.
Luigi XVIII, rimasto solo, riportò gli occhi sul suo Orazio
semiaperto e mormorò: «Justum et tenacem propositi virum».
Blacas risalì con la stessa velocità con cui era disceso. Ma
nell’anticamera fu costretto a invocare l’autorità del re. L’abito
polveroso di Villefort, il suo costume per niente conforme alla
tenuta di corte aveva scandalizzato il maestro di cerimonie, che si
meravigliò di trovare in quel giovane la pretesa di presentarsi al
re vestito in quel modo. Il conte appianò le difficoltà con le
semplici parole: «Ordine di Sua Maestà» e malgrado le osservazioni
che continuò a fare il maestro di cerimonie per quello strappo
all’etichetta, Villefort fu introdotto.
Il re era seduto nello stesso posto in cui lo aveva lasciato il
conte.
Aprendo la porta Villefort si trovò esattamente di fronte a lui e il
primo movimento del giovane magistrato fu di fermarsi.
«Entrate, signor Villefort», disse il re, «entrate.»
Villefort salutò, fece qualche passo in avanti, aspettando che il re
lo interrogasse.
«Signor Villefort», continuò Luigi XVIII, «ecco il conte di Blacas,
che pretende abbiate qualche cosa di importante da dirci.»
«Sire, il signor conte ha ragione, e spero che Vostra Maestà lo
riconoscerà.»
«Per prima cosa, il male è così grande, a vostro avviso, quanto mi
si vuole far credere?»
«Sire, lo credo grave, ma, grazie alla mia diligenza, spero non sia
irreparabile.»
«Parlate quanto volete», disse il re, che cominciava a lasciarsi
prendere dall’emozione che aveva alterato il viso di Blacas e che
alterava la voce di Villefort. «Parlate e soprattutto cominciate dal
principio; io amo l’ordine in tutte le cose.»
«Sire», disse Villefort, «io farò a Vostra Maestà un rapporto
fedele, ma prego frattanto di volermi scusare se, per la confusione
in cui mi trovo, dovessi mettere qualche oscurità nelle mie parole.»
Un’occhiata gettata sul re dopo questo esordio insinuante assicurò
Villefort della benevolenza del suo augusto uditore, e continuò:
«Sire, io sono giunto il più rapidamente possibile a Parigi per
annunciare a Vostra Maestà che ho scoperto, con le risorse delle mie
funzioni, non già uno di quei complotti volgari e senza conseguenza,
come se ne tramano ogni giorno fra i ranghi del popolo e
dell’esercito, ma una vera cospirazione, una tempesta che minaccia
il trono di Vostra Maestà. Sire, l’usurpatore arma tre vascelli,
egli medita qualche progetto, forse insensato, ma fors’anche
terribile per quanto insensato. A quest’ora dev’essere partito
dall’isola d’Elba per andare, dove non so, ma a colpo sicuro per
tentare una discesa, o a Napoli, o sulle coste della Toscana, o
anche nella stessa Francia. Come certamente Vostra Maestà saprà, il
sovrano dell’isola d’Elba ha conservato delle relazioni con l’Italia
e con la Francia».
«Sì, signore, lo so», disse il re molto impressionato, «e
ultimamente si ebbero degli avvisi che si tenevano delle riunioni
bonapartiste in rue Saint-Jacques. Ma continuate vi prego: come
avete avute queste informazioni?»
«Sire, esse risultano dall’interrogatorio che ho fatto a un uomo di
Marsiglia, che da molto tempo facevo sorvegliare e che ho fatto
arrestare il giorno della partenza. Quest’uomo, marinaio turbolento
e d’un bonapartismo sospetto, è stato segretamente all’isola d’Elba.
Egli ha visto il gran maresciallo, che lo ho incaricato di una
commissione verbale per un bonapartista, di cui non mi è riuscito di
fargli dire il nome; ma questa missione era di preparare gli spiriti
a un ritorno. Noti Vostra Maestà, che è l’interrogato che parla. Un
ritorno che non può mancare di essere vicino.»
«E dov’è quest’uomo?» disse Luigi XVIII.
«In prigione, sire.»
«E la cosa vi è sembrata grave?»
«Tanto grave, sire, che questo avvenimento avendomi sorpreso in
mezzo a una festa di famiglia, il giorno stesso del mio fidanzamento
ho tutto lasciato, fidanzata, e amici, tutto differito ad altro
tempo, per venire a depositare, ai piedi di Vostra Maestà, i timori
da cui ero preso e le assicurazioni della mia devozione.»
«È vero», disse Luigi XVIII, «c’era un progetto di matrimonio fra
voi e la signorina di Saint-Méran.»
«La figlia di uno dei più fedeli servitori di Vostra Maestà.»
«Sì, sì, ma ritorniamo al complotto.»
«Sire, temo che non sia più un complotto, ma piuttosto una
cospirazione.»
«Una cospirazione in questi tempi», disse Luigi XVIII sorridendo, «è
cosa facile a pensarsi, ma ben difficile a condursi a termine.
Ristabiliti da ieri sul trono dei nostri antenati, noi abbiamo gli
occhi aperti allo stesso tempo sul passato, sul presente e
sull’avvenire. Da dieci mesi i miei ministri raddoppiano la
sorveglianza perché il litorale del Mediterraneo sia ben guardato.
Se Bonaparte sbarcasse a Napoli, tutta la coalizione sarebbe in
piedi, prima che egli giunga a Piombino; se sbarcasse in Toscana,
metterebbe il piede in un paese nemico; se sbarcasse in Francia lo
farà con un pugno di uomini, e noi ne avremo facilmente ragione,
esecrato come è dalla popolazione. Rassicuratevi dunque, signore, ma
non contate però meno sulla nostra reale riconoscenza.»
«Ah, ecco qui il ministro di polizia», esclamò il conte di Blacas.
In quel momento infatti il ministro di polizia apparve sulla soglia
della porta pallido, tremante e con l’occhio vacillante, come se
fosse stato colpito da vivissima luce.
Villefort fece per ritirarsi, ma Blacas lo trattenne per la mano.
11. Il lupo di Corsica
Luigi XVIII, di fronte a quel viso stravolto, spinse violentemente
innanzi a sé la tavola presso cui sedeva.
«Cosa avete dunque, signor barone?» esclamò. «Mi sembrate molto
preoccupato; queste esitazioni hanno rapporto con ciò che diceva
Blacas, e con ciò che mi viene confermato da Villefort?»
Blacas si accostava al barone, ma il terrore del cortigiano impediva
di trionfare all’orgoglio dell’uomo di Stato; infatti in una simile
circostanza era assai meglio essere umiliato dal prefetto di
polizia, che umiliarlo.
«Sire…» balbettò il barone.
«Ebbene, sentiamo», disse Luigi XVIII.
«Oh sire, quale terribile disgrazia! Io sono da compiangere. Non me
ne consolerò mai…»
«Signore», disse Luigi XVIII, «vi ordino di parlare.»
«Ebbene, sire, l’usurpatore ha lasciato l’isola d’Elba il 28
febbraio ed è sbarcato il primo marzo.»
«E dove? In Italia?» domandò impazientemente il re.
«In Francia, sire, in un piccolo porto presso Antibes, nel golfo
Juan.»
«L’usurpatore è sbarcato in Francia, presso Antibes, nel golfo Juan,
a duecentocinquanta leghe da Parigi, il primo marzo, e voi sapete
questa notizia soltanto oggi, 3 marzo!… Eh, signore, ciò che mi dite
è impossibile; vi sarà stato fatto un falso rapporto.»
«Ahimè, sire, ciò che vi annuncio è purtroppo vero!»
Luigi XVIII ebbe un gesto di collera e di spavento, si drizzò in
piedi, come se un colpo imprevisto lo avesse percosso nello stesso
tempo al cuore e al viso.
«In Francia!» esclamò. «L’usurpatore in Francia! Non era dunque
sorvegliato quest’uomo? Oppure, chissà!, si era d’accordo con lui?»
«Oh, sire», esclamò il conte di Blacas, «non è un uomo come il
ministro di polizia quello che può essere accusato di tradimento.
Sire, noi eravamo tutti ciechi e il barone condivideva l’accecamento
generale, ecco tutto.»
«Ma…» disse Villefort. Poi arrestandosi d’un tratto: «Ah, perdono,
perdono, sire», disse inchinandosi, «il mio zelo mi trasportava; che
Vostra Maestà si degni scusarmi.»
«Parlate signore, parlate con ardire», disse Luigi XVIII, «voi solo
ci avete prevenuti del male, aiutateci a porvi rimedio.»
«Sire», disse Villefort, «l’usurpatore è detestato in tutto il
meridione, e mi sembra che se si azzarda in qualche tentativo, si
può facilmente sollevare contro di lui la Provenza, e la
Linguadoca.»
«Sì, senza dubbio», disse il ministro, «ma avanza dalla parte di Gap
e Sisteron.»
«Come avanza?» disse Luigi XVIII. «Marcia dunque su Parigi?»
Il ministro di polizia tacque, il suo silenzio equivaleva a una
conferma.
«E il Delfinato, signore», domandò il re a Villefort, «credete che
possa esser sollevato come la Provenza?»
«Sire, sono dolente di dover dire a Vostra Maestà una verità
crudele: lo spirito del Delfinato è ben lungi da quello della
Provenza e della Linguadoca. Sire, tutti i montanari sono
bonapartisti.»
«Ecco», mormorò Luigi XVIII, «Napoleone era bene informato. E quanti
uomini ha con sé?»
«Sire, non lo so», disse il ministro di polizia.
«Come non lo sapete! Voi avete dimenticato d’informarvi di questa
circostanza? È vero, è di poco interesse», aggiunse il re con un
sorriso sarcastico.
«Sire, il dispaccio porta semplicemente l’annuncio dello sbarco e la
strada che ha preso l’usurpatore.»
«E come vi è giunto questo dispaccio?» domandò il re.
Il ministro abbassò la testa, e un vivo rossore si sparse sulla sua
fronte.
«Dal telegrafo, sire.»
Luigi XVIII fece un passo avanti e incrociò le braccia sul petto
come avrebbe fatto Napoleone.
«E così», disse impallidendo di collera, «sette eserciti coalizzati
hanno rovesciato quest’uomo, un miracolo del cielo mi ha rimesso sul
trono dei miei padri dopo venticinque anni d’esilio, io ho per
venticinque anni studiato, esplorato, analizzato gli uomini e le
cose di questa Francia che mi era stata promessa, perché giunto poi
alla meta di tutti i miei voti, una forza che tenevo stretta fra le
mani, scoppi a un tratto e mi stritoli!»
«Sire, è una fatalità», mormorò il ministro, accorgendosi che un
simile peso, leggero in apparenza, era sufficiente a schiacciare un
uomo.
«Cadere!» continuò Luigi XVIII, intravedendo a un tratto il
precipizio su cui pendeva la monarchia. «Cadere, ed essere avvisati
dal telegrafo della propria caduta! Oh, quanto preferirei salire sul
patibolo di Luigi XVI, che discendere le scale delle Tuileries
scacciato dal ridicolo. Il ridicolo, signore, voi non sapete che
cos’è in Francia!»
«Sire! Sire!» mormorò il ministro, «per pietà!»
«Avvicinatevi, signor Villefort», continuò il re, volgendosi al
giovane che, ritto, immobile e in disparte, considerava l’andamento
di quella conversazione, ove si agitavano i perduti destini di un
regno, «avvicinatevi, e dite al signor ministro che si poteva saper
molto tempo prima, tutto ciò che non ha saputo.»
«Sire, era materialmente impossibile indovinare i progetti di
quest’uomo, nascosti a tutti», balbettò il ministro.
«Materialmente impossibile! Ecco, signore, una gran parola.
Disgraziatamente vi sono dei grandi uomini come vi sono delle grandi
parole, io li ho misurati. Materialmente impossibile a un ministro
che ha un dicastero, degli uffici, degli agenti, delle spie e un
milione e mezzo di franchi per i fondi delle spese segrete, di
sapere ciò che succede a sessanta leghe dalle coste della Francia!
Ebbene, ecco qui questo signore che non aveva alcuna di queste
risorse a sua disposizione, semplice magistrato, che ne sapeva più
di voi con tutta la vostra polizia e che mi avrebbe salvata la
corona, se avesse avuto, come voi, il diritto di fare agire un
telegrafo.»
Lo sguardo del ministro di polizia si puntò con una espressione di
profondo rispetto su Villefort, che abbassò la testa con la modestia
del trionfo.
«Io non dico ciò per voi, mio caro Blacas», continuò il re, «poiché
se non avete scoperto niente, avete avuto almeno il buon senso di
perseverare nel vostro sospetto. Un altro forse avrebbe considerato
la relazione di Villefort come insignificante o anche suggerita da
un’ambizione venale, e avrebbe atteso i segni del telegrafo!…»
Queste parole facevano allusione a ciò che il ministro di polizia
aveva pronunciato con tanta sicurezza un’ora prima.
Villefort comprese lo stato d’animo del re. Un altro forse si
sarebbe lasciato trasportare dall’ebbrezza delle lodi, ma egli
temeva di farsi un nemico mortale nel ministro di polizia, sebbene
vedesse che questi era irrevocabilmente perduto. Infatti il
ministro, che nella pienezza del suo potere non aveva saputo
indovinare il segreto di Napoleone, poteva nelle convulsioni della
sua agonia penetrare il segreto di Villefort? Per far ciò non gli
sarebbe servito altro che interrogare Dantès. Egli dunque venne in
soccorso del ministro, invece di aggravarne la posizione.
«Sire», disse Villefort, «la rapidità dell’evento deve provare alla
Maestà Vostra che il cielo solo poteva impedirlo, suscitando una
burrasca. Ciò che Vostra Maestà crede in me l’effetto di una
profonda perspicacia è dovuto a un puro e semplice caso. Ho
approfittato di questo caso come un servo fedele, ed ecco tutto. Non
mi attribuite più di quel che merito, per non aver mai a pentirvi
della prima idea che avete concepito di me.»
Il ministro di polizia ringraziò il giovane con uno sguardo
eloquente, e Villefort capì di essere riuscito nel proprio disegno:
vale a dire che, senza perder niente della riconoscenza del re, si
era procurato un amico sul quale poteva contare all’occorrenza.
«Sta bene», disse il re, «signori», voltandosi verso Blacas e il
ministro, «io non ho più bisogno di voi; ciò che resta da fare,
spetta al ministro della Guerra.»
«Fortunatamente, sire», disse Blacas, «noi possiamo contare
sull’esercito; Vostra Maestà sa come tutti i rapporti ce lo
dipingono devoto al vostro governo.»
«Non mi parlate di rapporti, conte, ora so la fiducia che si può
avere in essi. E, a proposito di rapporti, signor barone, cosa avete
saputo sull’affare di rue Saint-Jacques?»
«Sull’affare di rue Saint-Jacques!» esclamò Villefort, senza poter
trattenere un’esclamazione, ma fermandosi di botto: «Perdono, sire»,
disse, «la mia devozione a Vostra Maestà mi fa incessantemente
dimenticare, non il rispetto che ho per essa, perché questo è troppo
profondamente scolpito nel mio cuore, ma le regole dell’etichetta».
«Dite e fate, signore», aggiunse Luigi XVIII, «voi oggi avete
acquistato il diritto d’interrogare.»
«Sire», intervenne il ministro di polizia, «oggi venivo precisamente
per dare a Vostra Maestà le ultime notizie che sono state raccolte
su questo avvenimento, allorché l’attenzione di Vostra Maestà si è
rivolta alla terribile catastrofe del golfo Juan. Ora queste
informazioni non avranno forse alcun interesse per il re.»
«Al contrario, signore, al contrario», disse Luigi XVIII, «questo
affare mi sembra avere un rapporto diretto con quello che ci occupa,
e la morte del generale Epinay ci metterà forse sulla strada di un
gran complotto interno.»
Al nome del generale Epinay, Villefort rabbrividì.
«Effettivamente, sire», riprese il ministro di polizia, «tutto ci
condurrebbe a credere che questa morte non fosse il risultato di un
suicidio, come si era creduto dapprima, bensì di un assassinio. Il
generale Epinay usciva, a ciò che sembra, da una riunione
bonapartista, quando disparve. Un uomo sconosciuto era stato nella
stessa mattina a cercarlo in casa sua, e gli aveva dato appuntamento
in rue Saint-Jacques. Per disgrazia il domestico che lo pettinava
nel momento in cui questo sconosciuto era stato introdotto nel
salotto, ha bene inteso nominare rue Saint-Jacques, ma non si è
ricordato bene il numero.»
Man mano che il ministro di polizia dava al re queste informazioni,
Villefort, che sembrava pendere dalle sue labbra, arrossiva e
impallidiva.
Il re si voltò verso di lui: «Non pensate al pari di me, signor
Villefort, che il generale Epinay, che si faceva credere del partito
dell’usurpatore, ma che realmente era tutto a me devoto, sia perito
vittima di un’insidia bonapartista?»
«È probabile, sire», rispose Villefort. «Ma non se ne sa altro?»
«Si è sulle sue tracce?» chiese il re.
«Sì, il domestico ne ha dato i connotati. È un uomo fra i cinquanta
e i cinquantadue anni, bruno, con gli occhi neri coperti da folte
sopracciglia, porta le basette, indossava un soprabito turchino
abbottonato, e ha all’occhiello il nastro di ufficiale della Legion
d’Onore. Ieri fu seguito un individuo i cui connotati corrispondono
perfettamente a quelli che ho detto, ma è stato perduto di vista
all’angolo di rue Juspine con rue Héron.»
Villefort si era appoggiato allo schienale di una sedia, poiché, a
mano a mano che il ministro di polizia parlava, sentiva le gambe
venirgli meno; ma quando udì che lo sconosciuto era sfuggito alle
ricerche dell’agente che lo seguiva, respirò di sollievo.
«Voi farete tutte le ricerche possibili di quest’uomo», disse il re
al ministro di polizia, «perché, se come ogni cosa fa credere, il
generale Epinay, che in questo momento ci sarebbe stato tanto utile,
è caduto vittima di un assassinio, bonapartista o no, voglio che i
suoi assassini siano crudelmente puniti.»
Villefort ebbe bisogno di tutto il suo sangue freddo per non tradire
il terrore che gli veniva ispirato da questa raccomandazione del re.
«Cosa strana», continuò il re, di buonumore, «la polizia crede di
aver detto tutto quando ha detto: “È stato commesso un assassinio”,
e tutto fatto quando ha aggiunto: “Si è sulle tracce dei
colpevoli”.»
«Sire, Vostra Maestà, io spero che su questo punto almeno sarà
soddisfatta.»
«Va bene, vedremo. Io non vi trattengo oltre, barone. Signor
Villefort, voi dovete essere stanco di questo lungo viaggio, andate
a riposarvi. Senza dubbio avrete preso alloggio da vostro padre?»
Un lampo passò innanzi agli occhi di Villefort.
«No, sire», diss’egli, «sono sceso all’albergo Madrid, in rue
Tournon.»
«Ma avete visto il signor Noirtier?»
«Io mi sono fatto condurre sull’istante presso il conte di Blacas.»
«Ma voi lo vedrete almeno?»
«Non lo penso, sire.»
«Ah, è giusto», disse Luigi XVIII sorridendo, in modo da provare che
tutte queste reiterate domande non erano state fatte senza un
perché. «Dimenticavo che non siete in buoni rapporti con il signor
Noirtier, e siccome questo è un nuovo sacrificio che fate alla causa
reale, bisogna ch’io vi ricompensi.»
«Sire, la bontà che mi dimostra la Maestà Vostra è una ricompensa
che sorpassa tanto i miei desideri, che non mi resta più nulla da
chiedere al re.»
«Non importa, signore, noi non vi dimenticheremo, state tranquillo.»
E così dicendo il re staccò la croce della Legione d’Onore che
portava di solito sul suo abito vicino alla croce di San Luigi e la
diede a Villefort.
«Nel frattempo», disse, «portate sempre questa croce.»
«Sire», disse Villefort, «Vostra Maestà s’inganna, questa croce è
quella di ufficiale.»
«In fede mia, signore», disse il re, «prendetela tale quale è, io
non ho il tempo di farne richiedere un’altra. Blacas, voi
sorveglierete affinché sia spedito il brevetto a Villefort.»
Gli occhi di Villefort si inumidirono di una orgogliosa gioia, egli
prese la croce e la baciò.
«Ora quali sono gli ordini che mi fa l’onore di darmi la Maestà
Vostra?»
«Prendete il riposo che vi è necessario, e pensate che se non potete
giovarmi a Parigi, tuttavia potrete essermi di grandissima utilità a
Marsiglia.»
«Sire», rispose Villefort inchinandosi, «fra un’ora sarò partito da
Parigi.»
«Andate», disse il re, «e se un giorno vi dimenticassi, non abbiate
alcun riguardo a richiamarvi al mio pensiero… Signor barone, date
ordine perché si vada a cercare il ministro della Guerra.»
«Ah, signore», disse il ministro di polizia a Villefort, uscendo
dalle Tuileries, «voi entrate per la porta buona, la vostra fortuna
è fatta!»
«Durerà a lungo?» mormorò Villefort, salutando il ministro, la cui
carriera era finita, e cercando con gli occhi una carrozza per
ritornare all’albergo.
Una vettura passava sulla strada, Villefort vi si gettò dentro,
lasciandosi trasportare dai suoi sogni d’ambizione. Dieci minuti
dopo Villefort era rientrato all’albergo. Dispose che i cavalli da
posta fossero pronti di lì a due ore e frattanto gli si servisse la
colazione. Stava per mettersi a tavola, quando il suono del
campanello vibrò agitato da una mano franca e ferma. Il cameriere
andò ad aprire, e Villefort intese pronunciare il suo nome.
«Chi può già sapere ch’io sono qui?» si domandava il giovane.
In quel mentre entrava il cameriere.
«Ebbene?» disse Villefort. «Che c’è? Chi ha suonato? Chi chiede di
me?»
«Uno straniero che non ha voluto dire il suo nome.»
«E quali apparenze ha questo straniero?»
«Ma… è un uomo di una cinquantina di anni.»
«Alto? Basso?»
«Pressappoco della vostra statura, signore, bruno, molto bruno,
capelli neri, occhi neri, sopracciglia nere e basette nere.»
«Com’è vestito?» domandò agitato Villefort.
«Con un gran soprabito turchino abbottonato dall’alto al basso, e
fregiato della decorazione della Legion d’Onore.»
«È lui!» mormorò Villefort impallidendo.
«Eh, perbacco», disse comparendo sulla porta l’uomo di cui abbiamo
dato i connotati, «ci vogliono dunque così molte cerimonie? C’è
forse il costume a Marsiglia che i figli facciano fare anticamera al
padre?»
«Mio padre!» esclamò Villefort. «Non mi ero dunque sbagliato,
sospettavo foste voi.»
«Allora se tu sospettavi che fossi io», riprese il nuovo arrivato,
ponendo il bastone in un angolo e il cappello su una sedia,
«permettimi di dirti, mio caro Gérard, che non è una bella cosa
farmi aspettare in tal modo.»
«Lasciateci, Germain», disse Villefort.
Il cameriere uscì, dando segni visibili di meraviglia.
12. Padre e figlio
Noirtier, poiché era proprio lui, seguì con lo sguardo il domestico
fino a che non fu chiusa la porta; poi, temendo senza dubbio che
stesse ad ascoltare nell’anticamera, andò a riaprirla e a guardare:
la precauzione non era stata inutile, e la rapidità con la quale
Germain si ritirò, provava ch’egli non era esente dal peccato che
perdette i nostri primi padri. Noirtier si incaricò allora di andare
egli stesso a chiudere la porta dell’anticamera, richiuse quella in
cui erano, e tese la mano a Villefort, che aveva seguito tutti
questi movimenti con una sorpresa da cui non si era ancora rimesso.
«Mio caro Gérard», disse il padre guardandolo con un sorriso di cui
era difficile definire l’espressione, «lo sai che non sembri molto
contento di rivedermi?»
«Al contrario, padre mio, ne sono incantato; soltanto ero così
lontano, ve lo confesso, dall’attendere una vostra visita ch’essa mi
ha in qualche modo meravigliato.»
«Mio caro», disse Noirtier sedendosi, «mi pare che io potrei dirti
altrettanto. Come! Tu mi hai annunciato il tuo fidanzamento a
Marsiglia per il giorno 28 febbraio, e il 3 marzo sei a Parigi?»
«Se io vi sono, padre mio», disse Gérard avvicinandosi a Noirtier,
«non ve ne lamentate; perché è per voi che sono venuto qui, e il mio
viaggio forse vi salverà.»
«Ah, davvero!» disse Noirtier allungandosi con noncuranza sulla
sedia sulla quale si era seduto. «Davvero!? Raccontami dunque,
signor magistrato. Dev’essere una cosa interessante!»
«Padre mio, dovete certamente avere sentito parlare di un complotto
bonapartista che tiene le sue riunioni in rue Saint-Jacques?»
«Numero 53, sì, io ne sono il vicepresidente.»
«Padre mio, il vostro sangue freddo mi fa fremere.»
«Che vuoi, mio caro, quand’uno è stato proscritto dai montagnardi,
quando è uscito da Parigi in un carretta di fieno, quando è stato
attorniato nelle lande di Bordeaux dagli sgherri di Robespierre, ciò
agguerrisce a ben molte cose. Ma continua dunque. Ebbene, cosa è
accaduto in questa riunione di rue Saint-Jacques?»
«È accaduto che vi si fece venire il generale Epinay, e il generale
Epinay, uscito alle nove di sera da casa sua, fu ritrovato
l’indomani nella Senna.»
«E chi ti ha raccontato questa bella storia?»
«Il re stesso, signore!»
«Ebbene, in cambio della tua storia ti darò una notizia.»
«Padre mio, credo già di saper ciò che volete dirmi.»
«Ah, tu sai dello sbarco di Sua Maestà l’imperatore!»
«Silenzio, padre mio, vi prego, prima per voi e poi per me; sì,
sapevo questa notizia, e la sapevo ancora prima di voi, poiché è da
tre giorni che volo sulla strada da Marsiglia a Parigi, con la
rabbia di non poter lanciare a duecento leghe innanzi a me il
pensiero che mi brucia il cervello.»
«Sono tre giorni! Ma sei pazzo? Tre giorni fa l’imperatore non era
ancora sbarcato.»
«Non importa; sapevo il suo progetto.»
«E come?»
«Per mezzo di una lettera che vi era stata indirizzata dall’isola
d’Elba, e che ho sorpresa nel portafoglio di un messaggero. Se
questa lettera fosse andata nelle mani di un altro, a quest’ora,
padre mio, forse sareste stato fucilato.»
Il padre di Villefort si mise a ridere.
«Andiamo, andiamo», disse, «sembra che la Restaurazione abbia
appreso dall’Impero il modo di risolvere gli affari… Fucilato! Caro
mio, e come potevi crederlo? E questa lettera dov’è? Ti conosco
troppo per credere che tu l’abbia lasciata perdere.»
«L’ho bruciata per timore che ne rimanesse un sol frammento; perché
quella lettera era la vostra condanna.»
«E la perdita dell’avvenire», rispose freddamente Noirtier. «Sì, lo
capisco; ma ora io non ho più nulla da temere, purché tu mi
protegga.»
«Io faccio anche più di questo. Vi salvo.»
«Oh diavolo! Ciò diventa più drammatico: spiegati.»
«Signore, ritorno al circolo in rue Saint-Jacques.»
«Sembra che questo circolo stia a cuore alla polizia. Perché non
l’hanno cercato meglio? L’avrebbero trovato.»
«Essi non l’hanno trovato, ma ne sono sulle tracce.»
«Questa è la parola d’uso, lo so bene: quando la polizia non sa
niente, dice che essa è sulle tracce, e il governo aspetta
tranquillamente il giorno in cui essa venga a dire, con le orecchie
basse, che queste tracce sono perdute.»
«Sì, ma fu ritrovato un cadavere: il generale è stato ammazzato, e
in tutti i Paesi del mondo questo si chiama un assassinio.»
«Un assassinio, dici! Andiamo, via, niente prova che il generale sia
stato vittima di un assassinio; tutti i giorni si ritrova gente
nella Senna che vi si getta per disperazione, o vi si annega, non
sapendo nuotare.»
«Padre mio, voi sapete benissimo che il generale non si è annegato
per disperazione, e che non si va a fare un bagno nella Senna nel
mese di gennaio. No, no, non vi illudete, questa morte è stata
qualificata come un assassinio.»
«E chi l’ha qualificata in tal modo?»
«Il re stesso.»
«Il re! Vuoi sapere come sono andate le cose? Ebbene, te lo dirò. Si
credeva di poter contare sul generale Epinay che ci era stato
raccomandato dall’isola d’Elba. Uno dei nostri va da lui invitandolo
a intervenire a un’assemblea di amici in rue Saint-Jacques. Egli
viene, e là gli si spiega tutto il piano; la partenza dall’isola
d’Elba, lo sbarco progettato. Poi quando ha udito tutto, inteso
tutto, e non gli resta più niente da sapere, dichiara che è
realista. Allora ciascuno si mette in guardia, gli si fa prestare
giuramento; egli lo presta, ma di malavoglia. Ebbene, malgrado tutto
ciò il generale fu lasciato uscire libero, perfettamente libero. Non
è tornato a casa sua. Che vuoi? Mio caro, si allontanò da noi vivo.
Avrà sbagliato strada, ecco tutto. Un assassinio! In verità,
Villefort, tu sostituto procuratore del re imbastire un’accusa su
prove così meschine! Ho io forse mai pensato di dirti, quando
esercitavi il tuo mestiere di realista, e facevi tagliar la testa a
uno dei miei: “Figlio mio, hai commesso un assassinio!?” No, io ho
detto: “Benissimo! Oggi hai combattuto vittoriosamente; a domani la
rivincita”».
«Padre mio, state in guardia, perché questa rivincita sarà terribile
quando la prenderemo noi.»
«Non ti comprendo.»
«Voi contate sul ritorno dell’usurpatore?»
«Lo confesso.»
«V’ingannate, padre mio, egli non farà dieci leghe nell’interno
della Francia, senza essere perseguitato, circondato, e catturato
come una bestia feroce.»
«Mio caro, in questo momento è sulla via di Grenoble. Il 10 o il 12
sarà a Lione, e il 20 o il 25 a Parigi.»
«Le popolazioni si solleveranno.»
«Per andargli incontro.»
«Egli non può avere con sé che pochi uomini, e gli verranno inviati
contro degli eserciti…»
«Che gli serviranno di scorta per entrare nella capitale. In verità,
mio caro Gérard, non sei che un ragazzo. Ti credi bene informato
perché il telegrafo ha detto tre o quattro giorni dopo lo sbarco che
l’usurpatore è sbarcato a Cannes con pochi uomini; lo si sta
inseguendo. Ma dov’è? Che fa? Non si sa niente. Lo si insegue, ecco
tutto ciò che si sa; ebbene, sarà inseguito fino a Parigi, senza
bruciare una cartuccia.»
«Grenoble e Lione sono due città fedeli, gli opporranno una barriera
insuperabile.»
«Grenoble gli aprirà le sue porte con entusiasmo, e la popolazione
di Lione tutta intera uscirà per andargli incontro. Credimi, noi
siamo tanto bene informati quanto voi, e la nostra polizia val molto
più della vostra. Ne vuoi una prova? Essa sa che tu volevi
nascondermi il tuo viaggio e io ho saputo del tuo arrivo mezz’ora
dopo che avevi passato la barriera. Non hai dato l’indirizzo ad
alcun altro che al tuo postiglione; ebbene io ho conosciuto
l’indirizzo e la prova è che giungo appunto nel momento in cui ti
metti a tavola. Suona dunque e ordina che portino un altro coperto,
pranzeremo insieme.»
«Infatti», rispose Villefort, guardando suo padre con stupore,
«infatti mi sembrate bene informato.»
«Eh, mio Dio, la cosa è semplicissima: voi realisti avete il potere,
non avete che quei mezzi che può fornire il denaro, ma noi che lo
aspettiamo, abbiamo quelli che ci somministra la devozione.»
«La devozione?» disse Villefort ridendo.
«Sì, la devozione: è in tal modo che in termini onesti viene
chiamata un’ambizione che spera.»
Così dicendo il padre di Villefort tese la mano sul cordone del
campanello per chiamare il servitore, che non veniva chiamato da suo
figlio.
Villefort gli trattenne il braccio.
«Aspettate, padre mio», disse il giovane, «una parola ancora…»
«Di’…»
«Per quanto sia mal organizzata la polizia realista, tuttavia, sa
una cosa terribile.»
«Quale?»
«I connotati dell’uomo che la mattina del giorno in cui scomparve il
generale Epinay si era presentato in casa sua.»
«Ah, sa ciò, questa buona polizia? E questi connotati quali sono?»
«Colorito bruno, capelli, baffi e occhi neri, soprabito turchino
abbottonato fino al mento, nastro d’ufficiale della Legion d’Onore
all’occhiello, cappello a larga tesa, e bastone di giunco.»
«Ah, ah, essa sa tutto ciò», disse Noirtier, «e perché dunque non ha
messo la mano su quest’uomo?»
«Perché ieri l’altro l’ha perduto di vista all’angolo di rue Héron.»
«Dicevo bene, quando asserivo che la vostra polizia è stupida!»
«Non ne dissento, ma da un momento all’altro può ritrovarlo.»
«Sì», disse Noirtier, gettando uno sguardo di noncuranza intorno a
sé, «sì, se quest’uomo non fosse stato avvertito, ma egli lo è, e»,
continuò ridendo, «cambierà di viso e di costume.»
A queste parole, si alzò, e levatosi il soprabito e la cravatta,
andò verso la tavola sulla quale erano preparate tutte le cose
necessarie alla toilette di suo figlio. Preso un rasoio, insaponò il
viso e con un polso perfettamente fermo tagliò quei baffi che lo
compromettevano, dando alla polizia un indizio prezioso.
Villefort lo guardava con un timore non esente da ammirazione.
Tagliati i baffi, Noirtier diede un’altra piega ai capelli, prese,
invece della cravatta nera, la prima cravatta di colore che trovò
nel baule aperto di suo figlio, indossò, al posto del suo soprabito
turchino e abbottonato, un abito di suo figlio color marrone e di
taglio aperto, si provò davanti allo specchio il cappello ad ala
stretta del giovane, e parendo soddisfatto del modo con cui gli
andava, lasciò il bastone di giunco nel canto del caminetto ove
l’aveva deposto e fece sibilare nella sua mano nervosa una piccola
canna di bambù con la quale l’elegante sostituto dava al suo modo di
camminare la disinvoltura che era una delle sue principali qualità.
«Ebbene», disse, voltandosi verso il figlio stupefatto di questo
cambiamento così rapido, «ebbene, credi che la polizia potrà
riconoscermi?»
«No, padre», balbettò Villefort, «o almeno lo spero.»
«Ora mio caro Gérard», continuò Noirtier, «rimetto alla tua prudenza
fare sparire tutti gli oggetti che ti lascio in custodia.»
«Oh, state tranquillo, padre», disse Villefort.
«Sì, sì, ora credo che tu abbia ragione, e possa dire di avermi
effettivamente salvato la vita. Ma stai tranquillo, ti renderò
questo servizio quanto prima.»
Villefort scosse la testa.
«Non ne sei convinto?»
«Spero almeno che vi sbagliate.»
«Rivedrai il re?»
«Forse!»
«Vuoi passare ai suoi occhi per un profeta?»
«I profeti delle disgrazie sono sempre malvisti a corte.»
«Sì, ma un giorno o l’altro viene loro resa giustizia: supponi una
seconda Restaurazione, allora passerai per un uomo ben più grande di
Talleyrand del quale tutti conoscono la sagacia politica.»
«Insomma che dovrei dire al re?»
«Questo solo: “Sire, voi siete ingannato sulle disposizioni della
Francia, sull’opinione della città, sullo spirito dell’esercito.
Quello che voi chiamate a Parigi il lupo della Corsica, che si
chiama ancora l’usurpatore a Nevers, si chiama già Bonaparte a
Lione, e imperatore a Grenoble. Voi lo credete circondato,
perseguitato, in fuga, ed egli cammina rapido come l’aquila che
porta; i suoi soldati che voi credete morti di fame, stanchi dalla
fatica e vicini a disertare, aumentano come le falde di neve intorno
alla valanga che precipita. Sire, partite, abbandonate la Francia al
suo vero padrone, a quello che l’ha conquistata, partite, sire. Non
che voi corriate alcun pericolo: il vostro rivale è abbastanza forte
per farvi grazia, perché è umiliante per un discendente di San Luigi
dovere la vita all’eroe d’Arcole, di Marengo e d’Austerlitz”. Digli
tutto ciò Gérard. O piuttosto, non dirgli niente, dissimula il
viaggio, non ti vantare di ciò che sei venuto a fare a Parigi;
riprendi la posta, e se hai volato sulla strada per venire, divora
lo spazio per tornare; rientra a Marsiglia di notte, vai in casa
dalla porta di dietro e resta là ben tranquillo, ben umile, ben
segreto, e soprattutto ben inoffensivo, perché questa volta, io lo
giuro, noi agiremo da persone rigorose, che conoscono i loro nemici.
Va’ figlio mio, caro Gérard, e mediante questa obbedienza agli
ordini paterni, o, se preferisci, questa deferenza per i consigli di
un amico, noi ti lasceremo al tuo posto. Ciò sarà», aggiunse
Noirtier sorridendo, «il mezzo per salvarmi una seconda volta, se la
bilancia politica un giorno rimetterà te in alto, e me in basso.
Addio, mio caro Gérard, al prossimo ritorno alloggerai a casa mia.»
E Noirtier uscì con la tranquillità che non lo aveva abbandonato un
istante durante quella difficile conversazione.
Villefort, pallido e agitato, corse alla finestra, ne scostò la
tenda, e lo vide passare calmo e impassibile in mezzo a due o tre
uomini di cattivo aspetto, imboscati agli angoli della strada, che
erano forse là per arrestare l’uomo dai baffi neri, dal soprabito
turchino e dal cappello a larghe tese.
Villefort restò così, in piedi e anelante, fino a che suo padre
disparve al quadrivio Bussy. Allora si lanciò sugli oggetti da lui
lasciati: pose nel fondo del suo baule la cravatta nera, e il
soprabito turchino, contorse il cappello che cacciò sotto un
armadio, ruppe il bastone di giunco in tre pezzi che gettò nel
fuoco, indossò un berretto da viaggio, chiamò il suo cameriere, e
con uno sguardo gli proibì le mille domande che avrebbe avuto
volontà di fargli, saldò il conto dell’albergo, salì sulla carrozza
che l’aspettava. Seppe a Lione che Bonaparte era entrato a Grenoble,
e in mezzo all’agitazione che regnava lungo tutta la strada, giunse
a Marsiglia, in preda a tutti i terrori che entrano nel cuore
dell’uomo ambizioso che riceve i primi onori.
13. I Cento Giorni
Noirtier fu un buon profeta, e le cose si misero in breve tempo come
aveva detto. Tutti conoscono il ritorno dall’isola d’Elba. Ritorno
strano, miracoloso, senza esempio nel passato, probabilmente senza
imitazione nell’avvenire.
Luigi XVIII tentò assai debolmente di riparare a un colpo così
forte. La sua poca confidenza negli uomini gli toglieva quella negli
avvenimenti. Il regno, o piuttosto la monarchia riconosciuta in lui,
tremò sulla sua base ancora incerta.
Dunque Villefort non ebbe dal suo re che una riconoscenza non solo
inutile per il momento, ma anche pericolosa, e quella croce di
ufficiale della Legion d’Onore ottenuta, ebbe la prudenza di non
mostrarla, sebbene Blacas, come gli aveva raccomandato il re, ne
avesse fatto spedire sollecitamente il brevetto.
Napoleone di certo avrebbe destituito Villefort senza la protezione
di Noirtier, divenuto onnipotente alla corte dei Cento Giorni, sia
per i pericoli che aveva affrontato, sia per i servizi che aveva
reso. Come gli era stato promesso, il girondino del ’93 e il
senatore del 1806 protesse colui che lo aveva protetto il giorno
innanzi.
Tutta la potenza di Villefort si limitò dunque, durante questa breve
evocazione dell’Impero di cui fu facile prevedere la seconda caduta,
a nascondere il segreto che Dantès era stato sul punto di divulgare.
Il solo procuratore del Re fu destituito, essendo sospetto di
freddezza in bonapartismo.
Il potere imperiale venne ristabilito appena l’imperatore abitò le
Tuileries abbandonate da Luigi XVIII, ed ebbe lanciato innumerevoli
ordini da quel piccolo gabinetto ove noi abbiamo introdotto i nostri
lettori con Villefort, e dove sul tavolino di noce, a metà aperta e
ancora piena, fu trovata la tabacchiera di Luigi XVIII.
Marsiglia, nonostante l’attitudine dei suoi magistrati, cominciò a
sentir fermentare nel suo seno i germi della guerra civile sempre
male spenti nel Mezzogiorno. Poco mancò allora che le rappresaglie
non andassero al di là di qualche schiamazzata, da cui furono
assediati i realisti chiusi nelle loro case, o di pubblici affronti
a coloro che si azzardarono a uscire. Per una naturale virata di
bordo, il degno armatore, che già abbiamo designato come
appartenente alla fazione popolare, si trovò a sua volta, non dirò
onnipotente, perché Morrel era un uomo prudente e un po’ timido,
come tutti quelli che hanno fatto una faticosa e lenta fortuna
commerciale, ma avvantaggiato.
Egli era in grado, perciò, di fare intendere i suoi reclami.
Questi reclami, come s’indovinerà facilmente, erano in favore di
Dantès.
Villefort era rimasto in piedi a onta della caduta del suo
superiore, e il suo matrimonio, sebbene rimanesse deciso, venne
rimandato a tempi più felici.
Se l’imperatore conservava il trono, era un’altra alleanza che
occorreva a Gérard, e suo padre sarebbe stato incaricato di
trovarla. Se una seconda Restaurazione riconduceva Luigi XVIII in
Francia, l’influenza di Saint-Méran raddoppiava, unitamente alla
sua, e la progettata unione ritornava più convenevole di prima.
Il sostituto procuratore del re era dunque momentaneamente il primo
magistrato di Marsiglia, allorché una mattina la porta s’aprì e gli
venne annunciato il signor Morrel.
Un altro sarebbe andato sollecito incontro all’armatore, e con tal
sollecitudine avrebbe tradito la sua debolezza.
Villefort era un uomo superiore che aveva, se non la pratica, almeno
l’istinto di tutte le cose.
Egli fece fare anticamera a Morrel, come se fosse stato sotto la
Restaurazione.
Morrel invece di trovare Villefort abbattuto, lo ritrovò come lo
aveva visto sei settimane prima, cioè calmo, fermo e pieno di quella
fredda gentilezza, la più insormontabile di tutte le barriere, che
separa l’uomo elevato dall’uomo volgare.
Era penetrato nello studio di Villefort convinto che il magistrato
avrebbe tremato alla sua vista, e fu lui invece che si trovò tutto
tremante e commosso davanti a questo inquisitore, che lo aspettava
col gomito sullo scrittoio e il mento appoggiato alla mano.
Egli si fermò sulla porta.
Villefort lo guardò come se avesse avuto qualche difficoltà a
riconoscerlo.
Finalmente, dopo qualche secondo di esame e di silenzio, durante cui
il degno armatore girava il suo cappello fra le mani: «Il signor
Morrel, credo?» disse Villefort.
«Sì, signore, in persona», disse l’armatore.
«Avvicinatevi dunque», continuò il magistrato, facendo con la mano
un segno di protezione, «e ditemi a quale circostanza debbo l’onore
di una vostra visita.»
«Non ve lo immaginate, signore?» domandò Morrel.
«No, non saprei affatto. Ciò però non impedisce ch’io sia disposto a
esservi favorevole se la cosa è in mio potere.»
«Questa dipende interamente da voi, signore», disse Morrel.
«Allora spiegatevi.»
«Signore», continuò l’armatore riprendendo la sua sicurezza man mano
che parlava, e incoraggiato d’altronde dalla giustizia della sua
causa e dalla chiarezza della sua posizione, «vi ricordate che
qualche giorno prima che si sapesse dello sbarco di Sua Maestà
l’imperatore, ero venuto a reclamare la vostra indulgenza per un
disgraziato giovane, un marinaio, secondo a bordo della mia nave. Fu
accusato, se vi ricordate, di relazioni con l’isola d’Elba. Queste
relazioni, che erano delitti in quell’epoca, oggi sono titoli di
favore. Voi servivate Luigi XVIII allora, e non gli usaste nessun
riguardo, signore, ed era vostro dovere; oggi servite Napoleone e
dovete proteggerlo, questo pure è vostro dovere. Vengo dunque a
domandarvi che cosa avvenne di lui.»
Villefort fece un violento sforzo su se stesso.
«E il nome di quest’uomo?» domandò. «Abbiate la bontà di dirmelo…»
«Edmond Dantès.»
Evidentemente Villefort sarebbe stato più contento di misurare la
pallottola di un avversario in un duello, che sentirsi pronunciare
questo nome a così poca distanza; ciononostante non mosse tratto del
viso. In questo modo, diceva a se stesso, non poteva essere accusato
dell’arresto di quest’uomo per ragioni personali.
«Dantès», ripeté forte, «Edmond Dantès, avete detto?»
«Sì, signore.» Villefort aprì allora un grosso registro posto in un
cassetto e scorso un indice trovò la pagina indicata, quindi
rivolgendosi all’armatore: «Siete ben sicuro di non sbagliarvi,
signore?» disse nel modo più naturale.
Se Morrel fosse stato un uomo più furbo o meglio illuminato su
questo affare, avrebbe trovato cosa bizzarra che il sostituto
procuratore del re si fosse degnato di rispondergli in tal maniera
sopra materie estranee al suo ufficio, e si sarebbe domandato perché
Villefort non lo mandava piuttosto a consultare i registri dei
detenuti, dal governatore delle prigioni, o dal prefetto del
dipartimento. Ma Morrel cercando invano la causa del timore in
Villefort non vi osservò null’altro che un tratto di premurosa
condiscendenza.
Villefort aveva colto nel segno.
«No, signore», disse Morrel, «io non mi sbaglio. D’altronde, conosco
il povero giovane da dieci anni, ed è impiegato da quattro anni
sotto di me. Io venni, ve ne ricordate?, circa sei settimane fa a
pregarvi di esser giusto. Voi mi riceveste molto male, rispondendomi
seccato… Ah, allora i realisti erano ben severi con i bonapartisti!»
«Signore», disse Villefort con la presenza di spirito e il sangue
freddo consueto, «io ero realista allora, perché credevo i Borboni
non solamente gli eredi legittimi del trono, ma gli eletti della
nazione. Il ritorno di cui siamo stati testimoni mi ha sorpreso, il
genio di Napoleone ha vinto.»
«Alla buon’ora», esclamò Morrel con la sua buona e rozza franchezza,
«mi fa piacere sentirvi parlare in tal modo, e io ne auguro bene per
la sorte di Edmond.»
«Aspettate dunque», riprese Villefort, sfogliando un altro registro,
«l’ho trovato… Un marinaio, non è così, che sposava una catalana?
Sì, sì, ora me ne ricordo. Ma la cosa era molto grave.»
«Come?»
«Voi sapete che uscendo dal mio appartamento venne condotto alle
prigioni del palazzo di giustizia?»
«Sì, ebbene?»
«Ebbene, feci il mio rapporto a Parigi, mandai le carte trovate su
di lui, questo era mio dovere, che volete… e otto giorni dopo il suo
arresto fu portato via.»
«Portato via!» esclamò Morrel. «Ma cosa avranno potuto fare di
questo giovanotto?»
«Oh, state tranquillo, sarà stato portato a Fenestrelle, a Pinerolo,
o alle isole di Santa Margherita. Ciò che si chiama trasferito, in
termini di ufficio. E una bella mattina lo rivedrete tornare a
prendere il comando del vostro bastimento.»
«Che venga quando vuole, il suo posto gli sarà sempre conservato. Ma
come mai non è ancora ritornato? Mi sembra che la prima cura della
giustizia avrebbe dovuto essere quella di mettere in libertà coloro
che erano stati incarcerati dalla giustizia realista.»
«Non accusate temerariamente, mio caro Morrel», rispose Villefort,
«in tutte le cose bisogna procedere legalmente. L’ordine d’arresto
venne dall’alto; bisogna che dall’alto pure venga l’ordine della
libertà. Ora Napoleone è rientrato che sono appena quindici giorni,
e le lettere di abolizione non possono ancora essere state spedite.»
«Ma», domandò Morrel, «non vi sarebbe modo di passar sopra a tutte
le formalità? Ora che trionfiamo io godo di qualche influenza, e
posso ottenere l’annullamento dell’ordine di arresto.»
«Non ha avuto luogo nessun arresto.»
«Dal registro dei carcerati, allora.»
«Il sistema penitenziario in vigore sotto Luigi XVI continua pure
oggigiorno, eccetto la Bastiglia, che per un incidente fu spianata.
L’imperatore è sempre stato più rigoroso per il regolamento delle
sue prigioni, di quello che non lo è stato lo stesso gran re, e il
numero dei carcerati di cui non si conserva nessuna traccia sui
registri è incalcolabile.»
Tanta benevolenza avrebbe messo fuor di dubbio delle certezze, e
Morrel non aveva neppure dei sospetti.
«Ma, infine, signor Villefort», diss’egli, «qual consiglio potreste
darmi per affrettare il ritorno di Dantès?»
«Uno solo, signore, fate una petizione al ministro della Giustizia.»
«Oh signore, noi sappiamo ciò che sono le petizioni: il ministro
riceve duecento petizioni al giorno.»
«Sì», rispose Villefort, «ma egli leggerà una petizione inviatagli
da me, postillata da me, indirizzata direttamente da me.»
«E voi v’incarichereste di far giungere questa petizione?»
«Col più grande piacere del mondo. Dantès poteva essere allora
colpevole, ma oggi è innocente, ed è mio dovere rendere la libertà a
colui che fu mio dovere far mettere in prigione.»
Villefort preveniva in tal modo il pericolo di una ricerca poco
probabile, ma possibile, che lo avrebbe perduto senza risorse.
«Ma come scrivere al ministro?»
«Mettevi là, signor Morrel», disse Villefort cedendo il suo posto
all’armatore, «io vi detterò. Non perdiamo tempo, ne abbiamo già
perduto abbastanza.»
«Sì, signore, pensiamo che il povero Dantès aspetta, soffre e forse
si dispera.»
Villefort rabbrividì all’idea che quel prigioniero lo maledicesse
nell’oscurità e nel silenzio; ma egli era troppo compromesso per
potere tornare indietro: Dantès doveva essere stritolato fra gli
scogli della sua ambizione. Villefort dettò una lettera in cui, per
uno scopo eccellente, esagerava il patriottismo di Dantès, e i
servizi da lui resi alla causa bonapartista. In questa petizione,
Dantès compariva come uno degli agenti più attivi per il ritorno di
Napoleone. Era evidente che vedendo una tal supplica, il ministro
doveva fare giustizia all’istante, se giustizia non era ancora
fatta. Finita la petizione, Villefort la rilesse ad alta voce.
«Ecco fatto», disse, «ora contate tranquillamente su di me.»
«E la petizione partirà presto, signore?»
«Oggi stesso.»
«E voi vi farete delle postille?»
«La postilla ch’io posso mettervi è quella di certificare per verità
tutto ciò che voi dite nella petizione.»
Villefort a sua volta si sedette, e a margine della petizione
scrisse il suo certificato.
«Ora che resta da fare, signore?» domandò Morrel.
«Aspettare», riprese Villefort, «io rispondo di tutto.»
Questa assicurazione rese la speranza a Morrel. Egli lasciò il
sostituto procuratore incantato, e andò ad annunciare al vecchio
padre di Dantès che non avrebbe tardato molto a rivedere suo figlio.
Quanto a Villefort, invece d’inviarla a Parigi, conservò nelle sue
mani questa petizione, che per salvare Dantès nel presente lo
comprometteva orribilmente per l’avvenire, supponendo una cosa che
l’aspetto dell’Europa e la piega degli avvenimenti permettevano già
di supporre, cioè una seconda Restaurazione.
Dantès rimase dunque prigioniero. Perduto nel profondo della sua
segreta, non intese il rumore formidabile della caduta del trono di
Luigi XVIII né quel rumore più spaventevole ancora del crollo
dell’Impero. Ma Villefort aveva seguito tutto con occhio vigile,
aveva ascoltato tutto con orecchio attento. Due volte, durante
questa breve apparizione imperiale che fu chiamata «Cento Giorni»,
Morrel era tornato alla carica, insistendo sempre per la liberazione
di Dantès e, ogni volta, Villefort lo aveva calmato con promesse e
con speranze.
Giunse finalmente la battaglia di Waterloo.
Morrel non andò più da Villefort. L’armatore aveva fatto per il suo
giovane amico tutto ciò che era stato possibile. Provare nuovi
tentativi sotto la seconda Restaurazione era un compromettersi
inutilmente.
Luigi XVIII risalì sul trono, Villefort, per cui Marsiglia era piena
di tristi memorie divenute rimorsi, domandò e ottenne il posto
vacante di procuratore del re a Tolosa. Quindici giorni dopo la sua
insediamento nella nuova residenza egli sposò la signorina Renée di
Saint-Méran il cui padre era favorito a corte più che mai. Ecco come
Dantès, durante i Cento Giorni e dopo la battaglia di Waterloo,
restò in carcere dimenticato dagli uomini, se non da Dio.
Danglars comprese tutto il valore del colpo con cui aveva percosso
Dantès, vedendo ritornare Napoleone in Francia. La sua denuncia
aveva colpito nel segno e, come tutti gli uomini con una certa
attitudine al delitto e una mediocre intelligenza per la vita
normale, chiamò questa bizzarra coincidenza «un decreto della
Provvidenza».
Ma quando Napoleone ritornò a Parigi, e la sua voce rintronò
nuovamente imperiosa e potente, Danglars ebbe paura. A ogni istante
si aspettava di veder ricomparire Dantès; Dantès informato su tutto,
Dantès minaccioso e terribile nelle sue vendette. Allora manifestò a
Morrel il desiderio di lasciare il servizio di mare, e si fece
raccomandare a un negoziante spagnolo, presso il quale entrò come
commesso d’ordine alla fine di marzo, vale a dire dieci o dodici
giorni dopo la ricomparsa di Napoleone alle Tuileries. Partì dunque
per Madrid, e non s’intese più parlare di lui.
Fernando invece non capì niente. Dantès era assente, e ciò era
quanto gli interessava. Che era accaduto di lui? Non cercò di
saperlo. Durante tutto il tempo di questa assenza, si ingegnò ora a
ingannare Mercedes sui motivi dell’assenza, ora a meditare dei piani
di emigrazione e di ratto. Ogni tanto, nelle ore tetre della sua
vita, si sedeva alla punta del capo Faro, e da questo luogo donde si
distingueva a un tempo Marsiglia e il villaggio dei Catalani,
guardava triste e immobile come un uccello da preda se avesse visto,
per una di queste strade, il giovane dal passo sciolto e dalla testa
alta che per lui pure poteva essere messaggero di una cruda
vendetta.
Il piano di Fernando era fissato: spaccare la testa di Dantès con un
colpo di fucile, e dopo uccidersi. E ciò lo diceva a se stesso per
colorire il suo delitto.
Ma Fernando s’ingannava; non si sarebbe mai ucciso, poiché sperava
sempre.
Frattanto, in mezzo a tante fluttuazioni dolorose, l’Impero chiamò
un ultimo bando di soldati, e tutti gli uomini che erano in grado di
portare le armi si lanciarono fuori della Francia alla voce
formidabile dell’imperatore. Fernando partì come gli altri,
lasciando la sua capanna a Mercedes, rodendosi col terribile
pensiero che via lui forse sarebbe tornato il rivale a sposare colei
che amava.
In quanto alla ragazza, la pietà ch’egli sembrava provare per la sua
infelicità, la cura che prendeva di prevenire anche i più piccoli
suoi desideri, aveva prodotto l’effetto che producono sempre sui
cuori generosi le apparenze di affetto a tutta prova.
Mercedes aveva sempre amato Fernando con amicizia, alla sua amicizia
si aggiunse un nuovo sentimento, quello della riconoscenza.
«Fratello mio», disse nel mettere lo zaino da coscritto sulle spalle
del catalano, «fratello mio, mio solo amico, non vi fate uccidere,
non mi lasciate in questo mondo ove piango, e dove sarò sola quando
voi non ci sarete più!»
Queste parole, dette al momento della partenza, diedero qualche
speranza a Fernando.
Se Dantès non ritornava, Mercedes poteva dunque un giorno esser sua.
Mercedes restò sola su questa nuda terra, che non le era sembrata
mai così arida, e col mare immenso per orizzonte.
Tutta bagnata di lacrime come quella pazza di cui si racconta la
dolorosa storia, la si vedeva incessantemente vagare intorno al
piccolo villaggio dei Catalani, ora fermandosi sotto il sole ardente
di mezzogiorno, ritta, immobile, muta come una statua e guardando
Marsiglia, ora seduta sulla spiaggia, ascoltando il mormorio del
mare, eterno come il suo dolore, e domandandosi senza posa, se era
meglio gettarsi in avanti, lasciarsi cadere, lanciarsi nell’abisso
per esserne inghiottita, piuttosto che soffrire in tal modo tutte
queste alternative di un attendere senza speranza. Non fu il
coraggio che mancò a Mercedes per compiere il suo progetto, ma fu la
religione che venne in suo aiuto, e la salvò dal suicidio.
Caderousse, come Fernando, venne pure chiamato sotto le armi; e
siccome aveva otto anni più del catalano ed era maritato, così fece
parte del terzo bando e fu inviato sulle coste.
Il vecchio Dantès, che non era più sostenuto dalla speranza, la
perse del tutto alla caduta dell’imperatore. Cinque mesi dopo, nella
stessa giornata in cui era stato separato dal figlio, e quasi nella
stessa ora in cui venne arrestato, rese l’ultimo sospiro fra le
braccia di Mercedes.
Morrel provvide a tutte le spese della sepoltura, e pagò i piccoli
debiti che il vecchio aveva fatto durante la sua malattia.
Nell’agire in tal modo vi era, più che beneficenza, coraggio. Le
province del Mezzogiorno erano in fiamme e il soccorrere, anche sul
letto di morte, il padre di un bonapartista così pericoloso come
Dantès, era un delitto.
14. I due prigionieri
Un anno dopo il ritorno di Luigi XVIII, ebbe luogo una visita
dell’ispettore generale delle prigioni. Questo ispettore si chiamava
signor Boville. Dantès sentì girare e stridere chiavi, sbattere
porte, ascoltò dal fondo della sua cella tutti quei preparativi che
in alto facevano molto rumore, ma in basso sarebbero stati mormorii
impercettibili per tutt’altre orecchie che quelle di un prigioniero
avvezzo a discernere nel silenzio della notte il ragno che tesse la
sua tela, e la caduta periodica della goccia d’acqua, che impiega
un’ora a formarsi sul soffitto della cella.
Indovinò che fra i vivi accadeva qualche cosa di straordinario.Egli
che da sì lungo tempo abitava una tomba, poteva bene considerarsi
come un morto. Infatti, l’ispettore visitava, una dopo l’altra,
stanze, celle e segrete. Molti prigionieri furono interrogati, ed
erano quelli che per la loro stupidità si raccomandavano alla
benevolenza dell’amministrazione: l’ispettore domandava a essi come
erano nutriti e quali erano i reclami che avevano da fare. Essi
risposero unanimemente che il nutrimento era detestabile, e che
reclamavano la loro libertà.
L’ispettore domandò se avevano altra cosa da chiedere. Essi scossero
la testa: qual altro bene oltre la libera aria può reclamare un
prigioniero? Il signor Boville si voltò sorridendo, e disse al
governatore: «Non so perché ci facciano fare questi inutili giri;
chi vede una prigione, ne vede cento; chi ascolta un prigioniero, ne
ascolta mille. È sempre la stessa cosa: malnutriti e innocenti. Ve
ne sono altri?»
«Sì, abbiamo prigionieri pericolosi o pazzi che teniamo nelle
segrete.»
«Vediamoli», disse l’ispettore, con un’aria di profonda stanchezza,
«facciamo il nostro mestiere fino ala fine, discendiamo nelle
segrete.»
«Aspettate», disse il governatore, «che si mandino almeno a prendere
due uomini. I prigionieri commettono qualche volta, non fosse che
per il disgusto della vita e farsi condannare a morte, degli atti
d’inutile disperazione. Potreste cader vittima di uno di questi
eccessi.»
«Prendete dunque le vostre precauzioni», aggiunse l’ispettore.
Si mandarono a chiamare due soldati, e si cominciò a discendere per
una scala così umida, così infetta, così ammuffita, che niente
quanto il passaggio in un simile luogo offendeva così sgradevolmente
a un tempo la vista, l’odorato e la respirazione.
«Oh!» fece l’ispettore fermandosi a metà della scala. «Chi diavolo
può alloggiare qui?»
«Un cospiratore dei più pericolosi, e ci è stato raccomandato
particolarmente come un uomo capace di tutto.»
«È solo?»
«Certamente.»
«Da quanto tempo?»
«Da circa un anno.»
«E fu messo qui fin dal suo entrare?»
«No, signore, ma soltanto dopo aver tentato di uccidere il
carceriere incaricato di portargli il cibo; quello stesso che ci fa
lume. Non è vero, Antoine?»
«Cercò di uccidere me», rispose il carceriere.
«Ah, è dunque pazzo quest’uomo.»
«È anche peggio…» disse il carceriere, «è un demonio.»
«Volete che si faccia rapporto?» domandò l’ispettore al governatore.
«È inutile, signore; è abbastanza punito così: d’altronde tocca
ormai quasi la follia e, secondo l’esperienza, prima che compia un
altr’anno, sarà completamente pazzo.»
«In fede mia, tanto meglio per lui», disse l’ispettore, «una volta
pazzo del tutto, soffrirà di meno.» Come si vede bene l’ispettore
era un uomo pieno d’umanità, e ben degno delle funzioni
filantropiche che esercitava.
«Avete ragione, signore», disse il governatore, «e la vostra
riflessione prova che avete profondamente studiato la materia.
Abbiamo, in una segreta che è lontana da questa una trentina di
passi, e nella quale si discende per un’altra scala, un vecchio
abate, antico capo di partito in Italia, che è qui dal 1811, e al
quale ha dato di volta il cervello verso la fine del 1813, per cui
da quell’epoca, non è più fisicamente riconoscibile: piange, ride,
dimagrisce, ingrassa. Volete veder quello, piuttosto che questo? La
sua pazzia è divertente e non vi rattristerà.»
«Vedrò l’uno e l’altro», rispose l’ispettore, «bisogna fare il
proprio dovere coscienziosamente.»
L’ispettore faceva allora il suo primo giro e voleva lasciare una
buona impressione alle autorità.
«Entriamo dunque prima qui…» aggiunse.
«Volentieri», rispose il governatore.
Allo stridere delle massicce serrature, al cigolare dei catenacci
arrugginiti, Dantès accovacciato in un angolo della sua segreta, ove
riceveva con gioia indicibile il tenuissimo raggio di luce che
filtrava attraverso gli stretti spiragli della sua inferriata, alzò
la testa.
Alla vista di un uomo sconosciuto, illuminato dalle torce che
portavano i due carcerieri, accompagnato da due soldati, e al quale
il governatore parlava col cappello in mano, Dantès indovinò di chi
si trattava, e vedendo finalmente presentarsi una occasione per
implorare un’autorità superiore, balzò in avanti con le mani giunte.
I soldati abbassarono subito la baionetta perché credettero che il
prigioniero si lanciasse vero l’ispettore con cattiva intenzione, e
Boville stesso fece un passo indietro.
Dantès s’accorse che era stato descritto come un uomo da temersi.
Riunì dunque nel suo sguardo tutto ciò che il cuore dell’uomo può
contenere di mansuetudine e di umiltà ed, esprimendosi con una
specie di eloquenza pietosa che meravigliò gli astanti, cercò di
toccare l’anima del suo visitatore.
L’ispettore ascoltò il discorso di Dantès sino alla fine, poi
volgendosi verso il governatore: «Si piegherà alla devozione», disse
a mezza voce, «è già disposto a sentimenti più dolci. Vedete, la
paura fa il suo effetto su lui; ha indietreggiato in faccia alle
baionette. Ora un pazzo non si ritrae davanti a niente. A questo
proposito ho fatto delle curiose osservazioni a Charenton».
Poi rivolto al prigioniero disse: «In conclusione, che volete?»
«Io chiedo quale delitto ho commesso! Domando che mi sia istituito
un processo! Domando infine di essere fucilato se reo, ma di essere
messo in libertà se innocente!»
«Siete ben nutrito?» domandò l’ispettore.
«Sì, credo… Non ne so niente… Ma ciò poco m’importa. Quello che deve
importare, non solo a me disgraziato prigioniero, ma a tutti i
funzionari che amministrano la giustizia, è che un innocente non sia
vittima di un’infame denuncia e non muoia in catene maledicendo i
suoi carnefici.»
«Voi siete molto umile oggi», disse il governatore, «però non siete
stato sempre così. Parlavate altrimenti, mio caro amico, il giorno
che tentaste di uccidere il vostro carceriere.»
«È vero, signore», disse Dantès, «e ne domando umilmente perdono a
quest’uomo, che è sempre stato buono con me… Ma che volete? Ero
pazzo… ero furioso…»
«E ora non lo siete più?»
«No, signore, perché la prigionia mi ha piegato, umiliato,
annichilito; è così lungo il tempo qui dentro…»
«Lungo tempo? E quando foste arrestato?» disse l’ispettore.
«Il 28 febbraio 1815, alle due dopo mezzogiorno.»
L’ispettore calcolò.
«Siamo al 30 luglio 1816. Che dite dunque? Non sono che diciassette
mesi che siete prigioniero.»
«Come diciassette mesi?» riprese Dantès. «Ah, signore, voi non
sapete cosa sono diciassette mesi di prigionia! Sono diciassette
anni, diciassette secoli, particolarmente per un uomo che, come me,
era vicino a toccare la sua felicità, per un uomo che, come me, era
sul punto di sposare una donna amata; per un uomo che vedeva davanti
a lui aprirsi una carriera onorevole e al quale tutto mancò in un
istante; che dal mezzo del giorno più bello cadde nella notte più
profonda; che vede la sua carriera distrutta, e che ignora se colei
ch’egli ama lo ami sempre, che ignora se il suo vecchio padre è
morto o vivo! Signore, diciassette mesi di prigione per un uomo
abituato all’aria marina, all’indipendenza del marinaio, allo
spazio, all’immensità, all’infinito… diciassette mesi di prigione,
ripeto, sono più che non meritino tutti i delitti che vengono
menzionati dalla lingua umana con i più odiosi nomi! Abbiate dunque
pietà di me, signore, e domandate per me non l’indulgenza ma il
rigore, non una grazia, ma una sentenza! Dei giudici, signore! Io
non domando che dei giudici… Non si possono negare i giudici a un
accusato.»
«Va bene», disse l’ispettore, «si vedrà.»
Poi volgendosi verso il governatore disse: «Questo povero diavolo mi
fa pena. Ritornando di sopra mi farete vedere il registro degli
arrestati».
«Sì, certo», disse il governatore, «ma credo che ritroverete delle
annotazioni terribili sul suo conto.»
«Signore», continuò Dantès, «so bene che non potete farmi uscire di
qui con la vostra autorità, ma voi potete trasmettere la mia domanda
agli uffici competenti, potete promuovere un’inchiesta, potete farmi
sottomettere a un giudizio… Un processo, è tutto ciò che domando:
che io sappia quale delitto ho commesso, a quale pena sono
condannato, poiché l’incertezza è il peggiore di tutti i supplizi.»
«M’informerò…» disse l’ispettore.
«Signore», esclamò Dantès, «comprendo dal suono della vostra voce
che siete commosso… Signore, ditemi che posso sperare?»
«Io non posso dirvi questo», rispose l’ispettore, «posso soltanto
promettervi di esaminare il vostro registro e ciò che vi sta a
carico.»
«Oh, allora, signore, sono salvo!»
«Chi vi fece arrestare?» domandò l’ispettore.
«Il signor Villefort. Vedetelo, e parlate con lui.»
«È già un anno che il signor Villefort non è più a Marsiglia, ma a
Tolosa.»
«Ah, ciò non mi sorprende più, il mio solo protettore si è
allontanato.»
«Il signor Villefort aveva qualche motivo di odio contro di voi?»
domandò l’ispettore.
«Nessuno, signore, anzi era molto benevolo con me.»
«Mi potrò dunque fidare delle note che ha lasciato sul conto vostro,
o che possa trasmettermi?»
«Interamente.»
«Sta bene, aspettate.»
Dantès cadde in ginocchio, levando le mani verso il cielo e
mormorando una preghiera, nella quale raccomandava a Dio quest’uomo
sceso nella sua prigione.
La porta si richiuse, ma la speranza scesa con Boville era rimasta
nella segreta di Dantès.
«Volete vedere il registro dei carcerati subito», domandò il
governatore, «o passare alla segreta dell’abate?»
«Finiamo prima con le segrete», rispose l’ispettore, «se ritornassi
ove fa giorno, forse non avrei più il coraggio di tornare a scendere
qui per compiere la mia triste missione.»
«Oh, quest’altro non è un prigioniero come quello che abbiamo
lasciato, e la sua pazzia rattrista meno che la ragionevolezza del
suo vicino.»
«E qual è la sua pazzia?»
«Oh, una pazzia strana. Si crede possessore di un immenso tesoro. Il
primo anno della sua prigionia, ha fatto offrire al governo un
milione, se il governo voleva metterlo in libertà; il secondo anno
due milioni, il terzo tre milioni, e così via… Ora, al suo quinto
anno di prigionia, chiederà di parlarvi in segreto per offrire
cinque milioni.»
«Ah! ah! è curiosa infatti…» disse l’ispettore, «e come si chiama
questo milionario?»
«Faria.»
«Il numero 27?» domandò l’ispettore, leggendo questa cifra sopra una
porta.
«Precisamente… Antoine, aprite.»
Il custode obbedì, e Boville entrò nella segreta dell’abate pazzo
come veniva generalmente chiamato il prigioniero.
In mezzo alla stanza, in un cerchio tracciato sul pavimento con un
pezzo d’intonaco staccato al muro, era sdraiato un uomo quasi nudo,
tanto le sue vesti erano lacerate. Egli disegnava in questo cerchio
delle linee geometriche diritte e parallele, e pareva in tal modo
occupato a risolvere il suo problema, come Archimede nel momento che
fu ucciso da un soldato di Marcello.
Non si mosse al rumore che fece la porta nell’aprirsi e non sembrò
svegliarsi che allorché la luce delle torce illuminò d’un forte
chiarore l’umido suolo su cui lavorava.
Allora si voltò e vide con sorpresa la gente che era scesa nel suo
carcere. Si alzò, prese una coperta gettata sul miserabile letto, e
si coprì subito per comparire in stato più decente agli occhi di
quegli estranei.
«Non chiedete niente?» disse l’ispettore senza variare la formula.
«Io, signore», disse Faria con sorpresa, «io non domando niente.»
«Non mi capite», disse l’ispettore, «io sono un messo del governo, e
ho il compito di scendere in tutte le prigioni, per ascoltare i
reclami dei prigionieri.»
«Oh, allora, signore, è un’altra cosa», esclamò vivacemente Faria,
«e spero che ci intenderemo.»
«Vedete», disse a bassa voce il governatore, «non comincia come vi
avevo detto?»
«Signore», continuò il prigioniero, «io sono Faria, nato a Roma nel
1768. Sono stato vent’anni segretario del conte Spada, l’ultimo dei
principi di questo nome. Sono stato arrestato, e non so il perché,
verso il principio dell’anno 1811. Dopo questo tempo ho sempre
reclamato la mia libertà alle autorità italiane e francesi…»
«Perché alle autorità italiane?» domandò il governatore.
«Perché sono stato arrestato a Piombino, e presumo che, come
Firenze, Piombino sia divenuto capoluogo di qualche dipartimento
francese.»
L’ispettore e il governatore si guardarono ridendo.
«Diavolo, mio caro», disse l’ispettore, «le vostre notizie
sull’Italia non sono di fresca data.»
«Portano la data del giorno in cui sono stato trasferito da
Fenestrelle a qui, signore», disse Faria. «Era il 1811 e, avendo
l’imperatore dato il nome di re di Roma al figlio che il cielo gli
aveva concesso, presumevo che, continuando il corso delle sue
conquiste, vagheggiasse il sogno di Machiavelli e di Cesare Borgia.»
«Signore», disse l’ispettore, «la Provvidenza ha fortunatamente
arrecato tali cambiamenti nella penisola che quello rimarrà un
sogno.»
«Sarà. Ma quante cose non sono possibili sulla terra?» rispose
Faria.
«Sì, ma non già i sogni», riprese l’Ispettore, «né sono venuto qui
per intavolare con voi un discorso di politica estera, ma soltanto
per domandarvi, come ho già fatto, se avete qualche reclamo da
indirizzarmi sul modo col quale siete nutrito e alloggiato.»
«Il nutrimento», disse Faria, «è cattivissimo. Quanto all’alloggio,
come vedete, è umido e malsano, ma ciò nonostante è conveniente
abbastanza per una segreta. Ora non è di ciò che si tratta, ma bensì
di rivelazioni della più alta importanza e del più grande interesse,
che ho da fare al governo.»
«Eccoci…» disse a bassa voce il governatore a Boville.
«Questo è il motivo per cui sono contento di vedervi, sebbene mi
abbiate distratto da un calcolo molto importante che, se riesce,
cambierà forse del tutto il sistema planetario di Newton. Potete
accordarmi il favore di un colloquio particolare?»
«Eh, che vi dicevo?» fece il governatore all’ispettore.
«Voi conoscete bene la persona…» rispose questi, sorridendo.
Poi rivolgendosi a Faria: «Signore», disse, «ciò che mi chiedete è
impossibile».
«Ma», riprese Faria, «si tratta di far guadagnare al governo una
somma enorme, una somma, per esempio, di cinque milioni!»
«In fede mia», disse l’ispettore, volgendosi al governatore, «avete
predetto perfino la cifra.»
«Vediamo», riprese Faria, accorgendosi che l’ispettore faceva l’atto
di ritirarsi, «non è poi assolutamente necessario che noi siamo
soli: il signor governatore potrà assistere al nostro colloquio.»
«Disgraziatamente, mio caro signore», disse il governatore,
«sappiamo già a memoria quello che volete dirci. Si tratta dei
vostri tesori, non è vero?»
Faria guardò quell’uomo con occhi in cui un osservatore
disinteressato avrebbe certamente visto risplendere il lampo della
ragione e della verità.
«Senza dubbio», disse. «Di che volete che vi parli, se non di ciò?»
«Signor ispettore», continuò il governatore, «vi posso raccontare
questa storia tanto bene quanto Faria, essendo già quattro o cinque
anni che me la sento risuonare alle orecchie.»
«Ciò prova, signor governatore», disse Faria, «che voi siete di
quella gente di cui parla la Scrittura, i quali hanno gli occhi e
non vedono, hanno le orecchie e non sentono.»
«Mio caro signore», disse l’ispettore, «il governo è ricco, e grazie
a Dio non ha bisogno dei vostri milioni. Conservateli dunque per il
giorno in cui uscirete di prigione.»
L’occhio di Faria si dilatò. Afferrò la mano dell’ispettore e
aggiunse: «Ma se io non esco di prigione, se mi si tiene in questa
segreta, se vi debbo morire senza aver lasciato il mio segreto ad
alcuno, questo tesoro andrà dunque perduto? Io darò sino a sei
milioni, signore… sì, lascerò sei milioni, e mi accontenterò del
resto, se mi si vorrà rendere la libertà».
«Sulla mia parola», disse l’ispettore a mezza voce, «se non si
sapesse che quest’uomo è pazzo, parla con tanta convinzione, da far
credere alla verità del suo dire.»
«Io non sono un pazzo, signore, e dico precisamente la verità…»
disse Faria che, con quella finezza di udito che è particolare ai
prigionieri, non aveva perduto una sola delle parole dell’ispettore.
«Il tesoro di cui vi parlo esiste realmente, e sono pronto a firmare
un contratto, in virtù del quale voi mi condurrete al luogo che
verrà da me indicato; si scaverà la terra sotto i nostri occhi, e se
io mento, se non viene ritrovato niente, se sono un pazzo come voi
dite, ebbene, mi ricondurrete in questo medesimo carcere ove io
resterò eternamente, e dove morirò senza domandar più niente né a
voi, né a nessuno.»
Il governatore si mise a ridere.
«È lontano questo vostro tesoro?» domandò.
«A circa cento leghe da qui», disse Faria.
«La cosa non è male immaginata», disse il governatore. «Se tutti i
prigionieri volessero divertirsi a farsi una passeggiata con i loro
guardiani per cento leghe, o se i guardiani acconsentissero a fare
una simile passeggiata, questo sarebbe un eccellente pretesto per
prendere la via dei campi alla prima occasione, e, durante un simile
viaggio, l’occasione si presenterebbe certamente. Disgraziatamente
però questo è un pretesto troppo conosciuto», disse Boville, «e il
signor Faria non ha neppure il merito dell’invenzione.»
Poi volgendosi all’abate disse: «Vi ho chiesto se siete ben
nutrito».
«Signore», rispose Faria, «giuratemi sul vostro onore di liberarmi
se dico la verità, e vi indicherò il luogo preciso dove è nascosto
il tesoro.»
«Siete contento del cibo?» ripeté l’ispettore.
«Signore, così non correte alcun rischio, e vedete bene che non è
per procurarmi un’eventualità di fuga. Io resterò prigioniero fino a
che abbiate fatto il viaggio…»
«Voi non rispondete alla mia domanda», disse con impazienza
l’ispettore.
«Né voi alla mia», esclamò Faria. «Siate dunque maledetto come tutti
gli altri insensati che non mi hanno voluto credere. Voi non volete
il mio oro, io lo custodirò, voi ricusate d’aiutarmi, Dio mi
aiuterà. Andate, non ho più nulla da dirvi.»
E Faria, gettando la sua coperta, raccolse il suo pezzo d’intonaco,
e andò a sedersi di nuovo in mezzo al cerchio dove continuò le sue
linee e i suoi numeri.
«Che sta facendo?» disse l’ispettore ritirandosi.
«Conta i suoi tesori», rispose il governatore.
Faria rispose a questo sarcasmo con un’occhiata del più supremo
disprezzo.
Essi uscirono. Il carceriere chiuse la porta dietro di loro.
«Avrà forse realmente posseduto qualche tesoro», disse l’ispettore
risalendo la scala.
«O avrà sognato di possederlo», disse il governatore, «e il giorno
dopo si sarà svegliato pazzo.»
Così terminò la visita all’abate Faria.
Rimase prigioniero, e dopo questa visita la sua reputazione di pazzo
furioso aumentò sempre più. In quanto a Dantès, l’ispettore mantenne
la parola. Entrando nell’ufficio del governatore si fece mostrare il
registro dei carcerati. Una nota era scritta dirimpetto al suo nome.
EDMOND DANTÈS. Bonapartista accanito, ha preso parte attiva al
ritorno dall’isola d’Elba. Da tenersi segregato, e sotto la più
stretta sorveglianza. Questa nota era di un’altra calligrafia, e di
un inchiostro diverso dal rimanente del registro; ciò provava ch’era
stata aggiunta dopo l’incarcerazione di Dantès. L’accusa era troppo
esplicita per tentare di combatterla. L’ispettore dunque scrisse a
margine: «Vista la nota a fronte, niente si può fare».
Questa visita aveva per così dire ravvivato Dantès. Da quando era in
prigione aveva dimenticato di contare i giorni, ma l’ispettore
l’aveva fornito di una nuova data, ed egli non l’aveva dimenticata.
Scrisse sul muro, con un pezzo di gesso staccato dal soffitto, 30
luglio 1816, e da quel momento faceva ogni giorno un segno affinché
la nozione del tempo non gli sfuggisse più.
I giorni passarono, poi le settimane, quindi i mesi.
Dantès aspettava sempre. Aveva cominciato col fissare la sua
liberazione a quindici giorni. Impiegando soltanto la metà
dell’interesse che aveva dimostrato, l’ispettore doveva averne
abbastanza di quindici giorni.
Passati questi quindici giorni, si disse che era un’assurdità il
credere che l’ispettore si sarebbe occupato di lui prima del suo
ritorno a Parigi. Il suo ritorno a Parigi non poteva aver luogo che
quando il suo giro fosse finito, e il suo giro poteva durare un mese
o due: fissò dunque tre mesi invece di quindici giorni.
Compiuti i tre mesi, un altro ragionamento venne in suo aiuto, che
gli fece concedere sei mesi, ma finiti anche questi sei mesi,
mettendo i giorni uno dopo l’altro si ritrovò che egli aveva
aspettato dieci mesi e mezzo.
Durante questi dieci mesi e mezzo, niente fu cambiato nel regime
della sua prigione; e non era giunta alcuna notizia consolante.
Interrogato il carceriere, questi fu muto secondo il solito.
Dantès cominciò a dubitare dei suoi sensi, a credere che ciò che
prendeva per un ricordo della sua memoria, non fosse niente altro
che una allucinazione, e che quell’angelo consolatore, apparso nella
sua prigione, non vi fosse disceso se non sopra le ali di un sogno.
In capo a un anno il governatore fu cambiato. Egli aveva ottenuto la
direzione del forte di Ham; condusse con sé molti dei suoi
subordinati, e fra gli altri il carceriere di Dantès.
Un nuovo governatore giunse. Sarebbe stato troppo lungo per lui
imparare a memoria il nome di tutti i suoi prigionieri, e si fece
presentare soltanto i loro numeri.
Quell’orribile carcere si componeva di cinquanta celle.
I loro abitanti furono chiamati col numero della cella che
occupavano, e il disgraziato giovane cessò di essere chiamato col
nome di Edmond o col cognome di Dantès, ma si chiamò il numero 34.
15. Il numero 34 e il numero 27
Dantès passò attraverso tutti i gradi d’infelicità che subiscono i
prigionieri dimenticati in una prigione.
Iniziò dall’orgoglio, che è una conseguenza della speranza e una
coscienza dell’innocenza; poi venne al dubbio della sua innocenza;
ciò che giustificava le idee del governatore sulla sua alienazione
mentale; finalmente cadde dall’alto del suo orgoglio, non pregò Dio
ancora, ma gli uomini, Dio è l’ultima risorsa; il disgraziato, che
dovrebbe cominciare dal Signore, non giunge a sperare in lui che
dopo avere esaurite tutte le altre speranze.
Dunque Dantès pregò affinché lo togliessero da quel carcere, per
metterlo in un altro, fosse anche stato il più nero, il più
profondo; un cambiamento, sebbene peggiore, era sempre un
cambiamento e avrebbe procurato a Dantès una distrazione di qualche
giorno. Pregò che gli venisse accordata una passeggiata, dell’aria,
dei libri, degli strumenti. Niente di tutto ciò gli venne accordato;
ma non importa, domandava sempre.
Egli si era abituato a conversare con il nuovo carceriere, sebbene
questi fosse, se si può dire, più muto del primo, ma parlare a un
uomo, per quanto muto, era sempre un piacere. Dantès parlava per
sentire la propria voce, aveva provato a parlare quand’era solo, ma
allora si faceva paura.
Molte volte, prima di essere fatto prigioniero, Dantès si era fatto
uno spauracchio di quelle prigioni, composte di vagabondi, di
banditi, e di assassini fra i quali un’ignobile solidarietà fa
nascere orge inintelligibili e amicizie spaventose. Giunse a
desiderare di esser messo in uno di quei penitenziari per poter
vedere qualche altro viso oltre quello del carceriere impassibile
che non voleva parlare. Egli desiderava la galera, col suo vestito
infamante, con la sua catena al piede, col suo marchio sulla spalla.
I forzati almeno godevano la società dei loro simili, respiravano
l’aria, vedevano il cielo: i forzati per Dantès erano esseri
fortunati.
Un giorno supplicò il carceriere di domandare per lui un compagno
qualunque, fosse pur anche stato l’abate pazzo di cui aveva inteso
parlare. Sotto la scorza di carceriere per quanto sia rozza, resta
sempre qualche cosa dell’uomo. Questi, sebbene il suo viso non
dicesse niente, aveva spesso nel fondo del suo cuore compianto quel
disgraziato giovane, il cui carcere era così duro. Passò dunque la
domanda del numero 34 al governatore, ma questi, prudente come un
uomo politico, s’immaginò che Dantès volesse ammutinare i
prigionieri, tramare qualche complotto, aiutarsi con qualche amico
per tentare una evasione e rifiutò.
Dantès aveva esaurito il cerchio delle risorse umane. Come dicemmo
ciò doveva accadere. Si rivolse allora a Dio. Tutte le idee pietose
sparse nel mondo, che vengono raccolte dagli infelici che sono
curvati sotto il peso della sventura, vennero allora a presentarsi
al suo spirito: si ricordò le preghiere che gli aveva insegnato sua
madre, e ritrovò in esse dei significati fino allora ignorati;
perché per l’uomo felice, la preghiera rimane un assieme monotono e
vuoto di senso, finché il giorno del dolore viene a spiegare
all’infelice questo linguaggio per mezzo del quale parla a Dio.
Supplicò dunque con fervore; e pregando ad alta voce non si
spaventava più delle sue parole. Allora cadeva in una specie di
estasi: vedeva Dio risplendere a ciascuna parola che pronunciava.
Tutte le azioni della sua vita umile e perduta le rapportava alla
volontà di questo Dio onnipotente, proponendosi degli obblighi da
adempiere.
Malgrado queste ferventi preghiere, Dantès rimase prigioniero.
Allora il suo spirito si fece tetro, una nube s’addensò davanti ai
suoi occhi. Dantès era un uomo semplice e senza educazione; il
passato era rimasto per lui coperto da quel velo denso, che la sola
scienza solleva. Non poteva nella solitudine della sua segreta e nel
deserto del suo pensiero, rianimare i popoli estinti, rifabbricare
le antiche città che l’immaginazione e la poesia ingrandiscono, e
che passano davanti agli occhi, giganteschi e illuminati dal fuoco
del cielo, come i quadri babilonici di Martinn. Non aveva che il suo
passato così breve, il suo presente così triste, il suo avvenire
così incerto: diciannove anni di luce da meditarsi forse in una
eterna notte! Nessuna distrazione poteva venirgli in aiuto: il suo
spirito energico, che forse non avrebbe amato che di prendere il
volo attraverso le età, era forzato a restar prigioniero come
un’aquila nella gabbia. Egli si aggrappava a una sola idea, quella
della sua felicità, distrutta senza una causa apparente, e, per una
fatalità inaudita, si attaccava a quest’idea, la girava, la rigirava
sotto tutti i sensi, divorandola per così dire a denti aguzzi come
nell’Inferno di Dante l’implacabile Ugolino divora il cranio
dell’arcivescovo Ruggeri.
Dantès non aveva avuto che una fede passeggera; la perse come altri
la perdono nei felici eventi.
La rabbia subentrò all’ascetismo.
Edmond emetteva delle bestemmie che inorridivano il carceriere,
feriva il suo corpo contro i muri della prigione, s’inferociva
contro tutto ciò che lo circondava, e soprattutto contro se stesso,
alla minima contrarietà. Quella lettera denunciatrice che aveva
visto, che gli aveva mostrato Villefort, che aveva toccato, gli
tornava alla mente; ogni riga fiammeggiava sul muro come il «Mane,
Tekel, Phares» di Baldassarre. Egli diceva a se stesso che era
l’odio degli uomini e non la giustizia di Dio che lo aveva immerso
nell’abisso in cui si trovava. Imprecava per questi uomini
sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente immaginazione
poteva farsi un’idea, e trovava che i più terribili erano ancora
troppo deboli, e troppo brevi per loro; perché dopo il supplizio
veniva la morte e nella morte era, se non il riposo, almeno
l’insensibilità del corpo che a quello somiglia.
A forza di dire a se stesso, a proposito dei suoi nemici, che nella
morte vi era la calma e che colui che vuole punire crudelmente i
suoi nemici deve servirsi di tutt’altro mezzo che della morte, cadde
nell’immobilità della sciagurata idea del suicidio: disgraziato
colui che, sul declivio dell’infelicità, si ferma a questa triste
idea! È uno di quei mari morti che si estendono come l’azzurro delle
onde pure, ma nelle quali il nuotatore sente lentamente legarsi i
piedi, in una terra bituminosa che lo attrae a sé, lo assorbe, lo
inghiotte. Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non lo
aiuta, tutto è finito, e qualunque sforzo tenti affonda sempre di
più.
Questo stato di morale agonia è meno terribile dei pentimenti che lo
hanno preceduto e del castigo forse che lo seguirà: è una specie di
consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio, ma nel fondo
del precipizio il niente.
Arrivato a questo punto, Edmond trovò qualche consolazione in questa
idea: tutti i suoi dolori, tutte le sue sofferenze, questo corteo di
spettri che dietro si trascinavano, parvero involarsi dalla prigione
ove l’angelo della morte poteva posare il suo piede silenzioso.
Dantès guardò con calma la sua vita passata, con terrore la sua vita
futura, e scelse questo punto di mezzo che gli sembrò essere un
luogo d’asilo.
«Qualche volta», diceva a se stesso, «quando nei miei lontani viaggi
allorché ero ancora un uomo, e quando quest’uomo libero e possente
dava ad altri uomini dei comandi, che erano eseguiti, ho visto il
cielo coprirsi, il mare fremere e mormorare, l’uragano nascere da un
punto del cielo, e come un’aquila gigantesca battere con le sue ali
i due orizzonti e allora io sentivo che il mio vascello non era che
un rifugio impotente poiché, leggero come una piuma nella mano del
gigante, tremava e rabbrividiva. Ben presto al rumore del vento
fischiante, delle montagne d’acqua che si rovesciano sulla mia
testa, il rumore spaventevole delle onde, l’aspetto degli scogli mi
annunciavano la morte, e la morte mi spaventava, e io facevo tutti
gli sforzi per sfuggirla, e riunivo tutte le forze dell’uomo e tutta
l’intelligenza del marinaio per lottare contro il cielo e il mare!…
Ciò accadeva perché allora ero felice, perché ritornare alla vita,
era un ritornare alla felicità, avveniva perché non avevo invocato
la morte, non l’avevo scelta, avveniva perché il sonno mi sembrava
duro sopra quel letto di alghe e di sassi; avveniva finalmente
perché io, che mi credevo una creatura fatta a immagine di Dio, mi
sdegnavo di dover servire dopo la mia morte da pasto alle foche e
agli avvoltoi. Ma oggi è un’altra cosa. Ho perduto tutto ciò che
poteva farmi amare la vita. Oggi la morte mi sorride come una
nutrice al bambino che va cullando; ma oggi muoio a modo mio e mi
addormento stanco e affranto, come mi addormenterei dopo una di
quelle sere di disperazione e di rabbia nelle quali ho contato
tremila giri intorno alla mia camera, cioè trentamila passi, vale a
dire circa dieci leghe.»
Da quando questo pensiero era germogliato nello spirito del giovane,
gli si fece più dolce e più ilare; si rassegnò meglio al suo letto,
al suo pane nero; mangiò meno, non dormì più, e trovò quasi
sopportabile quell’avanzo di esistenza che era certo di poter
lasciare quando avesse voluto, come si lascia un vestito logoro.
Aveva due mezzi per morire: uno era semplice, bastava attaccare il
fazzoletto alla sbarra della finestra e impiccarsi; l’altro
consisteva nel fingere di mangiare e lasciarsi morire di fame. Il
primo ripugnava molto a Dantès. Era stato allevato nell’orrore per i
pirati appesi ai pennoni dei bastimenti.
L’impiccarsi dunque era per lui una specie di supplizio infamante
che non voleva applicare a se stesso. Adottò il secondo, e ne
cominciò l’esecuzione quel giorno stesso.
Circa quattro anni erano passati nelle traversie che raccontiamo.
Alla fine del secondo, Dantès aveva cessato di contare i giorni, ed
era ricaduto nell’ignoranza del tempo, dalla quale era stato una
volta liberato dall’ispettore.
Dantès aveva detto: «Io voglio morire», e si era scelto il suo
genere di morte. Lo aveva bene esaminato, e per timore di
retrocedere dalla sua decisione, aveva fatto giuramento a se stesso
di morir così. «Quando mi verrà portato il pasto della mattina e il
pasto della sera», aveva pensato, «getterò il cibo dalla finestra, e
fingerò d’averlo mangiato.»
Eseguì quanto aveva promesso di fare. Due volte al giorno, per la
piccola apertura sprangata che non gli lasciava scorgere il cielo,
egli gettava i suoi viveri; sul principio con allegria, poi con
riflessione, quindi con dispiacere. Dovette ricordarsi il
giuramento, per avere la forza di continuare il suo terribile
disegno.
Questi alimenti, che altre volte gli ripugnavano, la fame dai denti
aguzzi glieli faceva comparire appetitosi allo sguardo e squisiti
all’odorato. Qualche volta teneva per più di un’ora il piatto, con
occhio fisso sopra quel pezzo di carne putrida o sopra quel pesce
infetto, o sopra quel pane nero e ammuffito. Erano gli ultimi
istinti della vita, che lottavano ancora in lui e che per un attimo
minavano la sua risoluzione.
Allora il suo carcere gli sembrava meno disperante: era ancora
giovane, poteva avere venticinque o ventisei anni, gli restavano
forse ancora cinquant’anni. Durante questo tempo immenso, quanti
avvenimenti potevano abbattere le porte, rovesciare le mura del
Castello d’If, e rendergli la libertà! Allora avvicinava i denti al
cibo che, Tantalo volontario, allontanava dalla sua bocca. Ma la
memoria del giuramento gli tornava, e quella natura generosa aveva
troppo timore di avvilire se stessa per mancare al giuramento.
Consumò dunque, rigoroso e implacabile, il poco d’esistenza che gli
restava, e venne il giorno che non ebbe più la forza di alzarsi per
gettare dal finestrino della prigione la colazione che gli era stata
portata.
Il giorno dopo non ci vedeva più, sentiva appena. Il carceriere
sospettò una grave malattia.
Edmond sperava in una morte vicina.
La giornata passò così.
Edmond sentiva un vago stordimento, che non era privo di un certo
benessere, vincerlo a poco a poco. Lo spasmo nervoso dello stomaco
si era assopito, gli ardori della sete si erano calmati; allorché
chiudeva gli occhi, vedeva brillare intorno una quantità di
fiammelle uguali a quei fuochi fatui che corrono la notte sui
terreni paludosi: era il crepuscolo di quel paese sconosciuto che si
chiama morte.
D’un tratto, una sera verso le nove, intese un sordo rumore alla
parete del muro contro la quale era steso.
Tanti animali immondi erano venuti in quella cella, che un poco alla
volta Edmond aveva assuefatto il suo sonno a non turbarsi per così
poco. Ma questa volta sia che i sensi fossero esaltati
dall’astinenza, sia che realmente il rumore fosse più forte del
solito, sia che in quest’ultimo e supremo momento tutto acquisti
importanza, Edmond si agitò per questo rumore e sollevò la testa per
meglio ascoltarlo. Era un graffiare che sembrava di un’unghia
enorme, o d’un dente possente, o l’uso d’uno strumento su delle
pietre.
Benché indebolito, il cervello del giovane fu colpito da quella vaga
idea costantemente fissa nello spirito del prigioniero: la
liberazione. Questo rumore giungeva così precisamente nel momento in
cui ogni altro rumore andava a cessare per lui, che gli sembrò che
Iddio si mostrasse alla fine placato delle sue sofferenze, e gli
inviasse quel rumore per avvertirlo di fermarsi sull’orlo della
tomba, su cui già vacillava il suo piede.
Chi poteva sapere se uno dei suoi amici, uno di quegli esseri
prediletti ai quali aveva pensato spesso, non si occupasse di lui in
quel momento e non cercasse di accorciare la distanza che li
separava? Ma no, Edmond senza dubbio si sbagliava: non era che un
sogno che fluttuava alla porta della morte.
Però Edmond sentiva sempre questo rumore.
Durò circa tre ore, poi Edmond intese una specie di crollo, dopo il
quale il rumore cessò.
Qualche ora dopo riprese più forte e più vicino.
Edmond già prendeva interesse a questo lavoro che gli faceva
compagnia: d’un tratto il carceriere entrò.
Da otto giorni aveva preso la risoluzione di morire, da quattro
giorni aveva cominciato a metterla in pratica. Edmond non aveva più
indirizzato la parola a quell’uomo, non rispondendogli nemmeno
quando questi gli domandava di qual malattia si credeva affetto, e
si voltava dalla parte del muro quando credeva di essere osservato
troppo attentamente. Ma oggi il carceriere poteva intendere il sordo
rumore, allarmarsene, mettervi fine e disturbare così forse quella
speranza, la cui sola idea lusingava gli ultimi momenti di Dantès.
Il carceriere portava la colazione. Dantès si sollevò dal suo letto
e alzando quanto più poteva la voce si mise a parlare di tutti gli
argomenti possibili, sulla cattiva qualità dei viveri che gli
portavano, sul freddo che si soffriva in quella segreta, mormorando
e brontolando per aver diritto di gridare più forte, e stancando la
pazienza del carceriere che proprio quel giorno aveva ottenuto per
il prigioniero malato un brodo più sano e un pane più fresco, e che
gli portava quel brodo e quel pane.
Fortunatamente credette che Dantès delirasse. Depose i viveri sulla
tavola ove era abituato a depositarli e si ritirò. Edmond allora si
rimise ad ascoltare con gioia.
Il rumore diveniva così distinto che ora il giovane lo udiva senza
sforzo.
«Non ci sono più dubbi», disse a se stesso, «poiché questo rumore
continua anche di giorno, è qualche prigioniero che lavora per la
liberazione. Oh, fossi vicino a lui, come lo aiuterei!»
D’un tratto una tetra nube passò sopra quell’aurora di speranza in
quel cervello abituato alla malasorte, e che non poteva attaccarsi
che con somma difficoltà alle gioie umane: sorgeva l’idea che il
rumore poteva essere causato dal lavoro di qualche operaio che il
governo impiegava alle riparazioni di una cella vicina.
Era facile assicurarsene. Ma come arrischiare una domanda? Era cosa
semplicissima aspettare l’arrivo del carceriere, fargli ascoltare
questo rumore, e vedere come avrebbe reagito; ma prendersi una
simile certezza non era tradire interessi preziosi per una
soddisfazione incerta? La testa di Edmond, campana vuota, era
assordata dal ronzio di un’idea, era così debole che il suo spirito
fluttuava come un vapore e non poteva condensarsi attorno a un
pensiero.
Edmond non vide che un mezzo per rendere chiarezza alla sua
riflessione e lucidità al suo giudizio: guardò il brodo ancora
fumante che il carceriere aveva deposto sulla tavola, si alzò, andò
barcollando fino a quella, prese la tazza, la portò alle labbra, e
inghiottì il liquido che conteneva, con una sensazione indicibile di
benessere.
Ebbe anche l’accortezza di fermarsi: aveva inteso dire che alcuni
naufraghi, raccolti, estenuati dalla fame, erano morti per avere
divorato un pasto troppo sostanzioso. Depose sulla tavola il pane
che teneva già vicino alla bocca, e andò a rimettersi sul letto.
Edmond non voleva più morire.
Ben presto sentì che la vita rientrava nel suo cervello, tutte le
idee vaghe e incerte riprendevano il loro posto in questa macchina
meravigliosa. Egli poté pensare, e fortificare il suo pensiero col
ragionamento.
Allora si disse: «Bisogna tentar la prova, ma senza compromettere
alcuno. Se il lavoratore è un operaio, non dovrò che battere contro
il mio muro allora egli cesserà subito di lavorare, per cercare
d’indovinare chi è che batte e con quale scopo. Ma siccome il suo
lavoro sarà non solamente lecito ma comandato, lo riprenderà ben
presto. Se, al contrario, è un prigioniero, il rumore che farò, lo
spaventerà; temerà di essere scoperto, tralascerà il lavoro e non lo
riprenderà che questa sera quando crederà che ognuno sia a letto e
addormentato».
Edmond si alzò di nuovo.
Questa volta, le sue gambe non vacillavano più, i suoi occhi non
erano più abbagliati. Andò verso un angolo della prigione, staccò
una pietruzza corrosa dall’umidità, e ritornò a battere tre colpi
contro il muro nella stessa direzione in cui il rumore era più
sensibile.
Dopo il primo colpo il rumore cessò come per incanto.
Edmond ascoltò con tutta l’anima sua. Passò un’ora, ne passarono due
e nessun nuovo rumore si fece intendere.
Edmond aveva fatto nascere dall’altra parte della muraglia un
assoluto silenzio. Pieno di speranza, mangiò qualche boccone del suo
pane, bevette un po’ d’acqua e grazie alla forte costituzione di cui
era dotato ritrovò ben presto l’energia perduta.
Passò la giornata, il silenzio durava sempre.
Venne la notte senza che ricominciasse il rumore.
«È un prigioniero», disse Edmond con una gioia indicibile.
Da quel momento la sua testa s’infervorò, la vita ritornò violenta e
attiva. La notte passò senza che il minimo rumore si facesse
sentire.
Edmond non chiuse occhio tutta la notte.
Ritornò il giorno; il carceriere rientrò portando il cibo.
Edmond aveva già divorato quelli del giorno innanzi, divorò pure
questi. Ascoltava attentamente, temendo che il rumore fosse cessato
per sempre, camminava avanti e indietro nella sua cella, scuoteva
per ore intere le sbarre di ferro del suo spiraglio, rendeva
l’elasticità e il vigore alle membra con un esercizio tralasciato da
lungo tempo, disponendosi a lottare corpo a corpo col suo destino,
come fa stendendo le braccia e spargendo il corpo d’olio il
gladiatore che sta per entrare nell’arena.
Quindi, negli intervalli di questa febbrile attività, egli ascoltava
se il rumore si rinnovava, s’impazientiva della previdenza di questo
prigioniero che non indovinava che era stato distratto dalla sua
opera da un altro prigioniero che aveva, perlomeno al pari di lui,
la stessa fretta di essere liberato.
Tre giorni passarono, settantadue ore mortali, contate minuto per
minuto! Finalmente una sera, dopo che il carceriere aveva fatto la
sua visita, e dopo che per la centesima volta Dantès aveva attaccato
l’orecchio al muro, gli sembrò che una scossa impercettibile si
ripercuotesse sordamente nella sua testa, messa a contatto con le
pietre silenziose.
Dantès indietreggiò per meglio raccogliere il suo pensiero agitato,
fece qualche passo nella cella, e rimise l’orecchio nello stesso
punto.
Non c’era dubbio, si lavorava dall’altra parte. Il prigioniero aveva
riconosciuto il pericolo della sua manovra e ne aveva adottato
certamente un’altra, e per continuare la sua opera con maggior
sicurezza, aveva sostituito allo scalpello la leva.
Fatto ardito da questa scoperta, Edmond risolse di venire in aiuto
all’infaticabile lavoratore.
Cominciò con lo spostare il suo letto, dietro il quale gli sembrava
che l’opera di liberazione si compisse e cercò con gli occhi un
oggetto con cui intaccare la muraglia, far cadere il cemento umido e
spostare finalmente una pietra. Niente si presentava al suo sguardo,
egli non aveva né coltello, né strumenti taglienti. Del ferro non ve
n’era che alle sbarre. Ma le sbarre erano troppo bene assicurate,
erano troppo solide e non valeva neppure la pena di provare a
smuoverle.
Unici mobili della sua prigione erano il letto, una sedia, una
tavola, un secchio e una brocca.
Il letto aveva le traverse di ferro; ma erano incastrate nel legno e
fermate con delle viti. Sarebbe occorso un cacciavite per levare
queste viti e prendere le traverse. Alla tavola e alla sedia niente.
Il secchio una volta aveva il manico, ma questo era stato tolto.
Non restava più a Dantès che una risorsa, quella cioè di rompere la
brocca, e coi pezzi di coccio mettersi al lavoro. Lasciò cadere la
brocca sul pavimento, e la brocca andò in pezzi.
Dantès scelse due o tre pezzi aguzzi, li nascose nel suo
pagliericcio, lasciò gli altri per terra. La rottura di una brocca
era troppo naturale perché potesse destare sospetti.
Edmond aveva vegliato tutta la notte per lavorare, ma nell’oscurità
la cosa era difficile, poiché bisognava lavorare a tastoni, e sentì
ben presto che smussava il suo rozzo strumento contro una materia
più dura di quello. Risospinse dunque il suo letto al suo posto, e
aspettò il giorno. Con la speranza gli era tornata la pazienza.
Tutta la notte ascoltò, e capì che lo sconosciuto minatore
continuava la sua opera sotterranea.
Venne il giorno, entrò il carceriere.
Dantès disse che il giorno innanzi nel bere gli era sfuggita dalle
mani la brocca, che si era rotta cadendo.
Il carceriere andò brontolando a cercare una brocca nuova, senza
neppure prendersi l’incomodo di portar via i cocci della vecchia.
Ritornò dopo un istante, raccomandò maggior precauzione al
prigioniero, e uscì.
Egli ascoltò con una gioia indicibile lo stridere della serratura,
che prima ogni volta che si chiudeva gli serrava il cuore. Ascoltò
l’allontanarsi del rumore dei passi. Poi, quando questo rumore fu
spento, balzò dalla sua cuccetta che spostò, e al debole raggio del
giorno che penetrava nella sua cella, poté vedere gli inutili
tentativi fatti nella notte precedente contro il corpo di una
pietra, invece di lavorare sul cemento che la circondava.
L’umidità aveva reso il cemento friabile. Dantès, con un battito di
allegrezza nel cuore, s’accorse che questo cemento si staccava a
pezzetti. Questi pezzetti erano minuscoli, è vero; ma ciononostante,
in capo a una mezz’ora, Dantès ne aveva staccato un bel pugno.
Un matematico avrebbe potuto calcolare che con due anni circa di
questo lavoro, supponendo che non si fosse incontrato alcun pezzo di
macigno, si poteva scavare un passaggio di sessanta centimetri
quadrati e di sei metri di profondità.
Il prigioniero si rimproverò allora di non avere impiegato in
quest’opera le lunghe ore trascorse, e che le aveva perdute nella
speranza, nella preghiera e nella disperazione.
Dopo sei anni circa, dacché era chiuso in quel carcere, qual lavoro,
per quanto fosse lento, non avrebbe potuto compiere? Questa idea gli
infuse un nuovo ardore.
In tre giorni giunse, in mezzo a inaudite precauzioni, a togliere
tutto il cemento e a mettere allo scoperto il macigno: il muro era
formato di frantumi di pietra in mezzo ai quali per aumentare la
solidità era, di tanto in tanto, posto un macigno. Fu uno di questi
macigni, scoperto in tutto il suo contorno, che ora si trattava di
togliere dal suo alveolo.
Dantès dapprima provò con le unghie, ma le sue unghie erano
insufficienti. I frantumi della brocca, introdotti nelle connessure,
si rompevano allorché Dantès voleva servirsene come leva.
Dopo un’ora di inutili tentativi, si rialzò col sudore dell’angoscia
sulla fronte.
Stava forse per fermarsi sul principio, ovvero bisognava aspettare
inerte e inutile il suo vicino, che forse si sarebbe anche egli
stancato, prima di avere compiuto l’opera? Allora gli venne un’idea.
Rimase in piedi sorridendo: la sua fronte, umida per il sudore, si
asciugò.
Il carceriere portava tutti i giorni la minestra di Dantès in una
casseruola di latta; questa casseruola conteneva la sua minestra e
quella di un altro prigioniero. Dantès aveva notato che questa
casseruola era sempre o interamente piena o piena a metà, secondo
che il carceriere cominciava la distribuzione dei viveri da lui o
dal suo compagno.
Questa casseruola aveva un manico di ferro. Era questo manico che
Dantès anelava di avere, e che egli avrebbe pagato, se gli fosse
stato chiesto, dieci anni della sua vita. Il carceriere versava il
contenuto di questa casseruola nel piatto di Dantès. Dopo aver
mangiato la sua minestra con un cucchiaio di legno, Dantès lavava
questo piatto, che serviva così ogni giorno.
La sera Dantès pose il suo piatto per terra a metà strada fra la
porta e la tavola; il carceriere entrando mise il piede sul piatto e
lo ruppe in mille pezzi.
Questa volta non vi era niente da dire contro Dantès. Aveva fatto
male a lasciare il suo piatto per terra, è vero, ma il carceriere
aveva il torto di non aver guardato dove metteva i piedi.
Il carceriere si accontentò dunque di brontolare, poi guardò intorno
a sé dove poteva mettere la minestra: il servizio da tavola di
Dantès si limitava a quel solo piatto.
«Lasciate la casseruola», disse Dantès, «la riprenderete domani
quando mi porterete la colazione.»
Questo consiglio andava d’accordo con la pigrizia del carceriere,
che in tal modo non aveva bisogno di risalire, riscendere e tornare
a risalire.
Lasciò la casseruola.
Dantès trasalì di gioia. Questa volta mangiò sollecitamente la
minestra e la carne, che secondo l’uso delle prigioni, viene messa
dentro alla minestra. Poi, dopo avere aspettato un’ora per esser
certo che il carceriere non si sarebbe pentito, allontanò il letto,
prese la casseruola, introdusse l’estremità del manico nel cemento,
fra il macigno e i rottami di pietra vicini, e cominciò a farlo
agire da leva.
Una leggera oscillazione assicurò Dantès che il lavoro prendeva
buona piega.
Infatti in capo a un’ora la pietra era tolta dal muro, dove lasciava
un buco del diametro di quarantacinque centimetri.
Dantès raccolse con molta cura il calcinaccio e lo portò negli
angoli della cella, grattò la terra grigiastra con un frammento
della brocca e ricoprì il calcinaccio di terra. Poi, volendo mettere
a profitto quella notte, in cui lo stratagemma che aveva immaginato
gli dava fra le mani un utensile così prezioso, continuò a scavare
con tutta l’energia.
All’alba ripose la pietra nel suo foro, spinse il letto contro il
muro e si coricò.
La colazione consisteva in un pezzo di pane: il carceriere entrò, e
posò questo pezzo di pane sulla tavola.
«Ebbene, non mi portate un altro piatto?» domandò Dantès.
«No», disse il carceriere, «siete un rompitutto. Avete rotto la
brocca, e rotto il piatto. Se tutti i prigionieri facessero tanti
guai quanto voi il governo a causa vostra andrebbe in malora. Vi si
lascia la casseruola dentro cui d’ora in avanti si verserà la vostra
minestra, e in tal modo, forse,non romperete più utensili.»
Dantès levò gli occhi al cielo, e giunse le mani sotto la coperta.
Questo pezzo di ferro di cui restava padrone, fece nascere nel suo
cuore uno slancio di riconoscenza verso il cielo, come mai gli era
accaduto nel tempo della passata vita per tutti i benefici ottenuti.
Soltanto aveva notato che dal momento in cui aveva cominciato a
lavorare, l’altro prigioniero non lavorava più.
Non importa; non era una ragione per smettere. Se il vicino non
progrediva verso di lui, lui sarebbe andato verso il suo vicino.
In tutta la giornata Dantès lavorò senza sosta; la sera, grazie al
nuovo strumento, aveva levato dal muro più di dieci pugni di
calcinacci e cemento.
Quando giunse l’ora della visita, raddrizzò alla meglio il manico
della casseruola che aveva storto, e rimise il recipiente al posto
consueto.
Il carceriere versò l’ordinaria razione di minestra e carne, o
piuttosto di minestra e pesce, perché quello era un giorno di magro,
e tre volte la settimana facevano mangiare di magro ai prigionieri.
Avrebbe potuto essere ancora un mezzo per misurare il tempo, se
Dantès non avesse da molto abbandonato questo calcolo.
Versata la minestra, il carceriere si ritirò.
Questa volta Dantès volle assicurarsi se il suo vicino avesse
cessato realmente di lavorare; e si mise in ascolto.
Tutto era silenzioso come in quei tre giorni nei quali fu interrotto
il lavoro.
Dantès sospirò; era evidente che il suo vicino non si fidava di lui.
Ciò nonostante non si perse di coraggio, e continuò a lavorare tutta
la notte. Ma dopo due o tre ore di lavoro, incontrò un ostacolo: il
suo ferro non intaccava più e scorreva sopra una superficie piana.
Dantès toccò l’ostacolo con la mano, e s’accorse che aveva raggiunto
una trave. Questa trave attraversava o piuttosto sbarrava del tutto
il foro cominciato da Dantès. Ora bisognava scavare sopra o sotto.
Il disgraziato giovane non aveva pensato a un simile ostacolo.
«Oh, mio Dio», esclamò, «avevo tanto pregato, che speravo mi aveste
ascoltato! Mio Dio, dopo aver perduto la libertà della mia vita… mio
Dio, dopo avere smarrito la calma della mente… mio Dio, dopo avermi
richiamato all’esistenza… mio Dio, abbiate pietà di me, non mi
lasciate morir disperato!»
«Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo?» articolò
una voce che sembrava venire da sottoterra e che, attutita dallo
spessore della parete, giungeva a Edmond con accento sepolcrale.
Edmond sentì drizzarsi i capelli sulla testa, indietreggiò cadendo
in ginocchio.
«Ah», mormorò, «finalmente sento parlare un uomo!»
Erano già quattro o cinque anni che non aveva sentito parlare altri
che il suo carceriere, e il carceriere non è considerato un uomo dal
prigioniero ma una porta vivente aggiunta alla porta di quercia del
suo carcere, o una sbarra di carne e d’ossa aggiunta alle sbarre di
ferro.
«In nome del cielo», gridò Dantès, «voi che avete parlato,
continuate a parlare, sebbene la vostra voce mi abbia spaventato.
Chi siete?»
«Chi siete voi piuttosto?» domandò la voce.
«Un disgraziato prigioniero…» rispose Dantès, che non aveva alcuna
difficoltà a farsi conoscere.
«Di quale paese?»
«Francese.»
«Il vostro nome?»
«Edmond Dantès.»
«La vostra professione?»
«Marinaio.»
«Da quanto tempo siete qui?»
«Dal 28 febbraio 1815.»
«Il vostro delitto?»
«Io sono innocente.»
«Ma di quale delitto siete accusato?»
«Di aver cospirato per il ritorno dell’imperatore.»
«Come, per il ritorno dell’imperatore? L’imperatore non è dunque più
sul trono?»
«Egli ha abdicato a Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato
all’isola d’Elba. Ma voi che ignorate tutto questo, da quanto tempo
siete qui?»
«Dal 1811.»
Dantès rabbrividì; quell’uomo aveva quattro anni di prigionia più di
lui.
«Ebbene, non scavate più», disse la voce, parlando in fretta,
«soltanto ditemi a quale altezza si trova lo scavo che fate.»
«Rasente terra.»
«Da che cosa è nascosto?»
«Dal mio letto.»
«Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione?»
«Mai.»
«Dove immette la vostra cella?»
«A un corridoio.»
«E il corridoio?»
«Comunica con un cortile.»
«Ahimè!» mormorò la voce.
«Oh, mio Dio che cosa avete?» gridò Dantès.
«C’è che ho sbagliato, che l’imperfezione dei miei disegni mi ha
ingannato, che la mancanza di un compasso mi ha perduto, che una
linea sbagliata sul mio piano ha equivalso a quattro metri e mezzo e
che io ho preso il muro che voi scavate per quello della
cittadella.»
«Ma allora voi sareste uscito sul mare.»
«Era ciò che volevo!»
«E se foste riuscito?»
«Mi sarei gettato a nuoto, sarei approdato a una delle isole che
circondano il castello d’If, sia l’isola di Daume, sia l’isola di
Tiboulen, o ancora la spiaggia, e allora sarei stato salvo.»
«E avreste potuto nuotare fin là?»
«Dio me ne avrebbe dato la forza. Ma ora tutto è perduto!»
«Tutto?»
«Sì, richiudete il vostro foro con precauzione, non lavorate più,
non vi occupate di niente, e aspettate mie notizie.»
«Ma almeno ditemi chi siete…»
«Sono… io sono il numero 27.»
«Voi dunque non vi fidate di me?» domandò Dantès. Edmond credette di
intendere un amaro sorriso penetrare la volta e giungere fino a lui.
«Oh, io sono un buon cristiano», esclamò, indovinando per istinto
che quell’uomo pensava di abbandonarlo. «Vi giuro per quanto c’è di
più sacro, che mi farò piuttosto uccidere che far scoprire ai vostri
carnefici e ai miei l’ombra della verità. In nome del cielo, non mi
private della vostra presenza, non mi private della vostra voce, o,
ve lo giuro, perché sono all’estremo delle mie forze, mi romperò la
testa contro il muro, e voi avrete a rimproverarvi la mia morte.»
«Quanti anni avete?» riprese l’incognito interlocutore. «La vostra
voce sembra quella di un giovane.»
«Non so quant’anni abbia perché non ho misurato il tempo dacché sono
qui. So che il 18 febbraio 1815, quando fui arrestato, avevo
diciannove anni.»
«Non ancora ventisei anni!» mormorò la voce. «A questa età non si
può essere un traditore.»
«Oh, no, no… ve lo giuro», ripeté Dantès. «Ve l’ho già detto, e ve
lo ridico: mi farei tagliare a pezzi piuttosto che tradirvi.»
«Avete fatto bene a parlarmi, avete fatto bene a pregarmi», riprese
la voce, «perché avrei pensato un altro piano, e mi sarei separato
da voi. Ma la vostra età mi tranquillizza; vi raggiungerò,
aspettatemi.»
«E quando?»
«Bisogna che io calcoli i pericoli; vi farò un segnale.»
«Ma non mi abbandonerete, non mi lascerete solo, verrete da me, o mi
permetterete di venire da voi? Noi fuggiremo assieme e, se non
potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che amate, io
di quelle che amo. Amate qualcuno?»
«Io sono solo al mondo.»
«Allora amerete me… Se siete giovane, sarò vostro compagno, se siete
vecchio, sarò vostro figlio… Ho un padre che deve avere settant’anni
se vive ancora; non amavo che lui, e una ragazza che si chiamava
Mercedes. Mio padre non mi avrà certo dimenticato, ne sono sicuro,
ma lei, Dio sa, se lei pensa ancora a me… Vi amerò come amavo mio
padre…»
«Sta bene», disse il prigioniero; «addio, a domani.»
Queste poche parole furono dette con un accento che convinse Dantès.
Non chiese di più, si alzò, prese le solite precauzioni per i
calcinacci tolti dal muro, e rimise il letto al suo posto. Da quel
momento Dantès si abbandonò del tutto alla sua felicità, pensando
che non sarebbe stato certamente più solo, fors’anche sarebbe stato
libero. Al peggio fosse rimasto prigioniero, avrebbe avuto un
compagno. La prigionia divisa non è che un mezzo castigo. I lamenti
che si emettono in comune sono quasi preghiere, e le preghiere che
si fanno in due sono atti di ringraziamento.
Per tutta la giornata Dantès passeggiò nella sua cella: il cuore gli
batteva di gioia. Di tanto in tanto questa gioia lo soffocava. Si
sedeva sul letto premendosi con una mano il petto. Al più piccolo
rumore che sentiva nel corridoio, balzava alla porta. Una volta o
due, il timore che lo avessero separato da quell’uomo che non
conosceva, e che già amava come un amico, gli passò per il cervello.
Allora era deciso: al momento che il carceriere avesse scostato il
suo letto e abbassata la schiena per esaminare l’apertura, gli
avrebbe fracassato la testa su quello stesso pavimento dove aveva
rotto la brocca. Sarebbe stato condannato a morte, lo sapeva, ma non
stava forse per morire di noia e di disperazione nel momento in cui
questo rumore miracoloso lo aveva reso alla vita?
La sera venne il carceriere. Dantès era steso sul letto; gli pareva
che così avrebbe meglio fatto la guardia alla sua apertura. Senza
dubbio guardava il suo visitatore importuno con uno sguardo
stravagante, perché questi gli disse: «Oh, vediamo! State per tornar
pazzo?»
Dantès non rispose, ebbe paura che l’emozione della voce lo
tradisse.
Il carceriere si ritirò scuotendo la testa.
Giunta la notte, Dantès pensò che il suo vicino avrebbe approfittato
del silenzio e dell’oscurità per riprendere il dialogo, ma
s’ingannò.
La notte passò senza che alcun rumore rispondesse alla sua febbrile
aspettativa. Ma l’indomani, dopo la visita del mattino, e mentre
aveva allontanato il suo letto dal muro, sentì battere tre colpi
distinti a intervalli uguali. Si precipitò in ginocchio.
«Siete voi?» disse. «Eccomi.»
«Il vostro carceriere se n’è andato?» domandò la voce.
«Sì», rispose Dantès, «non ritornerà che questa sera… Abbiamo dodici
ore di libertà!»
«Posso dunque agire?» disse la voce.
«Sì! Sì! Sì! senza indugio, sull’istante, ve ne supplico!»
La porzione di terra sulla quale Dantès, per metà introdotto
nell’apertura, appoggiava le mani, sembrò cedere. Si gettò indietro
mentre un ammasso di terra e di calcinacci precipitò nel foro che
veniva ad aprirsi sotto lo scavo da lui fatto. Allora, dal fondo di
questo foro oscuro, e di cui non si poteva misurare la profondità,
vide apparire una testa, poi due spalle e finalmente un uomo tutto
intero che uscì con molta agilità.
16. L’abate
Dantès accolse tra le braccia il nuovo amico aspettato da tanto e
con così tanta impazienza, e lo tirò verso la finestra, in modo che
quel poco di luce che penetrava nel carcere potesse illuminarlo.
Vide un uomo di piccola statura, dai capelli imbiancati piuttosto
dai pensieri che dall’età, dagli occhi penetranti, nascosti sotto
folte sopracciglie grigie, con la barba ancora nera che gli arrivava
fino al petto: la magrezza del viso, solcato da profonde rughe, le
forti linee della sua fisionomia, svelavano un uomo più atto a
esercitare le sue facoltà morali che le forze fisiche. La fronte era
coperta di sudore. Quanto alle vesti era impossibile distinguerne la
forma primitiva poiché cadevano a brandelli. Pareva avere
sessantacinque anni almeno, sebbene una certa vigoria nei movimenti
tradisse un’età minore di quella che denunciava la lunga prigionia.
Accettò con molto piacere l’entusiasmo del giovane. La sua anima di
ghiaccio sembrò un istante riscaldarsi, quasi dilatarsi al contatto
di quella natura ardente. Lo ringraziò della sua cordialità con un
certo calore, sebbene il disinganno fosse stato grande; ritrovare
un’altra cella laddove credeva di trovare la libertà.
«Per prima cosa», disse, «controlliamo se c’è mezzo di fare sparire
alla vista dei nostri carcerieri le tracce del mio passaggio. Tutta
la nostra tranquillità futura dipende dalla loro ignoranza di ciò
che abbiamo fatto.» Quindi si chinò verso l’apertura, sollevò
facilmente la pietra nonostante il suo peso, e la pose davanti al
foro. «Questa pietra è stata spostata con molta negligenza», disse
scuotendo la testa. «Voi dunque non avete utensili?»
«E voi?» domandò Dantès con sorpresa. «Ne avete voi?»
«Me ne sono fabbricato qualcuno. Eccetto una lima, ho tutto ciò che
mi serve: scalpello, coltello e leva.»
«Oh, sarei ben curioso di vedere questi prodotti della vostra
pazienza e della vostra industria», disse Dantès.
«Prendete, ecco lo scalpello.» Gli mostrò una lama forte e aguzza
infissa in un pezzo di legno arrotondato.
«E con che l’avete fatto?» disse Dantès.
«Con una delle traverse del mio letto; è con questo strumento che mi
sono scavato tutta la galleria che mi ha portato fin qui: circa
quindici metri.»
«Quindici metri!» esclamò Dantès, con una specie di terrore.
«Parlate piano, ragazzo, parlate piano», disse lo sconosciuto
guardandosi intorno. «Spesso accade che alle porte delle prigioni si
stia in ascolto.»
«Ma si sa che io son solo.»
«Non m’importa!»
«E dite che avete scavato quindici metri per giungere qui?»
«Sì, questa è circa la distanza che separa la mia cella dalla
vostra. Soltanto ho mal calcolato la curva, per mancanza di
strumenti geometrici, per potere fare una scala di proporzioni: in
luogo di dodici metri di ellissi, ne ho incontrati quindici.
Ritenevo, come vi dissi ieri, di giungere sino all’esterno,
traforare questo muro, e gettarmi a mare. Ho seguito la lunghezza
del corridoio che mette nella vostra cella invece di passarvi sotto.
Tutto il mio lavoro è perduto, poiché questo corridoio dà in un
cortile pieno di guardie.»
«Questo è vero», disse Dantès, «ma tale corridoio non segue che un
lato della mia cella che ne ha quattro.»
«Certo, non c’è dubbio. Ma uno è formato dallo scoglio:
occorrerebbero dieci anni di lavoro o dieci minatori forniti di
tutti gli utensili per traforare la roccia. Quest’altro deve essere
addossato alle fondamenta dell’appartamento del governatore:
usciremmo nelle cantine che certamente sono chiuse a chiave, e
saremmo presi. L’altro lato dà… aspettate… dove dà quest’altro
lato?»
Si trattava del lato in cui era scavata la feritoia, attraverso cui
penetrava la luce. Questa feritoia, che andava restringendosi fino
al punto in cui dava passaggio al giorno, e per cui nemmeno un
bambino avrebbe potuto passare, era per di più fornita di tre sbarre
di ferro che potevano rassicurare il carceriere più sospettoso sul
timore di una evasione.
Ma il nuovo arrivato, facendo questa domanda, trascinò la tavola
sotto la finestra.
«Salite sopra questa tavola», disse a Dantès.
Dantès obbedì, salì sulla tavola, e indovinando il pensiero del
compagno, appoggiò le spalle al muro e gli presentò le due mani
incrociate. Il compagno montò allora più lestamente di quello che
avrebbe potuto far credere la sua età, e con un’agilità da gatto,
balzò sulla tavola, poi dalla tavola sulle mani di Dantès, quindi
dalle mani sulle sue spalle. Così curvato in due, perché la volta
del carcere gli impediva di drizzarsi, introdusse la testa tra le
sbarre e poté allora fissare il suo sguardo dall’alto in basso. Un
istante dopo, ritirò rapido la testa.
«Oh! oh!» disse, «è come pensavo.» E si lasciò scivolare lungo il
corpo di Dantès sulla tavola e dalla tavola balzò a terra.
«Ovvero?» domandò Edmond saltando dalla tavola dopo di lui.
Il vecchio prigioniero meditava.
«Sì», disse, «è così: il quarto lato della vostra cella dà sopra una
galleria esterna, una specie di strada di perlustrazione per la
quale passano le pattuglie, e dove sono poste le sentinelle.»
«Ne siete sicuro?»
«Ho visto il cappello del soldato e la punta della sua baionetta, e
non per altro mi sono ritirato così in fretta.»
«E così?» disse Dantès.
«E così, voi vedete bene, che è impossibile fuggire da questo
carcere.»
«Allora?» continuò il giovanotto con un mesto accento interrogativo.
«Allora», disse il vecchio prigioniero, «sia fatta la volontà di
Dio!»
E un’aria di profonda rassegnazione indurì i lineamenti del vecchio.
Dantès guardò quell’uomo che rinunciava in tal modo e con tanta
filosofia a una speranza nutrita per lungo tempo, con una sorpresa
mista ad ammirazione.
«Volete dirmi chi siete?» domandò Dantès.
«Oh, mio Dio, sì, se ciò vi può interessare, ora che non posso più
esservi utile.»
«Voi potete consolarmi e sostenermi, poiché mi sembrate forte in
mezzo ai forti.»
L’abate sorrise tristemente.
«Io sono Faria», disse, «prigioniero dal 1811, come vi ho detto, in
questo castello d’If; ma erano già tre anni che mi si teneva
rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle. Nel 1811 fui trasferito dal
Piemonte in Francia. Allora seppi che il destino, in quell’epoca
sorridente a Napoleone, gli aveva concesso un figlio al quale era
stato dato il titolo di re di Roma. Ero ben lontano dal dubitare
allora ciò che mi avete detto ieri; cioè che quattr’anni dopo,
questo gran colosso sarebbe stato rovesciato. E chi regna adesso in
Francia? Forse Napoleone II?»
«No è Luigi XVIII.»
«Luigi XVIII! Il fratello di Luigi XVI? I decreti del cielo sono ben
reconditi e misteriosi! Qual è dunque la mente della Provvidenza,
quando abbassa l’uomo che aveva esaltato, ed esalta quello che aveva
abbassato?»
Dantès seguiva con lo sguardo quell’uomo che dimenticava un istante
il proprio destino, per preoccuparsi così dei destini del mondo.
«Sì, sì», continuò, «è come in Inghilterra: dopo Carlo I, Cromwell,
dopo Cromwell Carlo II, e forse dopo Giacomo II, un principe
d’Orange… I segreti di Dio sono imperscrutabili, e la serie delle
umane vicende imprevedibile. Voi siete ancora giovane, e potrete
vedere…»
«Sì, se esco di qui.»
«Ah, giusto», disse Faria, «noi siamo prigionieri; qualche volta lo
dimentico, perché i miei occhi penetrano al di fuori di queste
muraglie, e io mi credo libero.»
«Ma voi, perché siete in prigione?»
«Perché ho sognato nel 1807 il progetto che Napoleone ha tentato di
realizzare nel 1811.»
E il vecchio abbassò la testa.
Dantès non capiva come un uomo poteva rischiare la sua vita per
simili interessi. È vero però che, se egli conosceva Napoleone per
avergli parlato una volta, non sapeva quali fossero stati i suoi
progetti.
«Non siete voi… l’abate malato?» domandò Dantès che cominciava a
condividere l’opinione generale che si aveva di lui nel castello
d’If.
«Malato? Pazzo vorrete dire, che come tale son tenuto in questo
luogo…»
«Non osavo dirlo», disse Dantès sorridendo.
«Sì, sì», continuò Faria con un amaro sorriso, «sono io che tutti
dicono pazzo; sono io che diverto da lungo tempo gli ospiti di
questa prigione, e che rallegrerei i bambini, se vi fossero bambini
nel soggiorno del dolore senza speranza.»
Dantès rimase un istante immobile e muto.
«Così ora rinunciate alla fuga?» disse.
«Credo che la fuga sia impossibile, un rivoltarsi contro Dio
tentando ciò che Dio non vuole si compia.»
«Perché scoraggiarvi? Sarebbe troppo domandare alla Provvidenza di
riuscire al primo tentativo! Non potete ricominciare da un’altra
parte ciò che avete fatto da questa?»
«Ma sapete ciò che ho fatto, per parlare di ricominciare? Sapete che
mi sono occorsi quattro anni per fabbricare gli utensili che
possiedo? Che da due anni io gratto, raspo e foro una terra dura
come il granito? Sapete che è stato necessario rompere delle pietre
tali che mai avrei creduto di essere capace a muovere? Che giornate
intere sono passate in questo lavoro gigantesco, e certe sere mi
ritenevo felice solo per aver potuto levare tre centimetri di
vecchio cemento divenuto duro quanto la pietra stessa? Sapete che
per riporre tutta questa terra, tutti questi calcinacci, e queste
pietre che spostavo, dovetti fare un’apertura sotto la volta di una
scala, nel cui vano ho nascosto tutto quanto scavavo dal foro, e ora
questo vano è pieno e non saprei più dove mettere un pugno di
polvere? Sapete, infine, che credevo di arrivare al termine d’un
lavoro per cui sentivo appena le forze per compierlo, ed ecco che
Dio non solo ha allontanato la meta, ma l’ha spostata non so dove?
Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, d’ora innanzi non farò più niente per
tentare di riacquistare la libertà, poiché vedo chiaro che la
volontà di Dio è ch’io rimanga qui per sempre.»
Edmond abbassò la testa per non confessare a quell’uomo che la gioia
di avere un compagno, gli impediva di prendere la parte dovuta al
dolore del prigioniero per non essersi potuto salvare.
Faria si lasciò andare sul letto di Edmond, e Edmond rimase in
piedi.
Il giovane non aveva mai pensato alla fuga. Vi sono di quelle cose
che sembrano talmente impossibili, che non si ha neppure l’idea di
tentarle e si evitano come per istinto. Scavare quindici metri
sottoterra, consacrare a questa operazione un lavoro di due anni per
giungere, se va bene, sopra un precipizio a picco sul mare;
precipitarsi da quindici, diciotto, trenta metri d’altezza, per
fracassarsi forse sopra uno scoglio, se la pallottola di una
sentinella non vi ha colto prima; essere obbligato, giungendo a
superare tutti questi pericoli, a fare una lega nuotando, tutto ciò
era troppo, perché uno non si rassegnasse, e noi abbiamo visto che
Dantès aveva già spinto questa rassegnazione fino alla morte.
Ma ora che il giovane aveva visto un vecchio attaccarsi alla vita
con tanta energia e dargli l’esempio delle risoluzioni disperate, si
mise a riflettere e a misurare il suo coraggio. Un altro aveva
tentato ciò che egli non aveva avuto neppure l’idea di pensare, un
altro meno giovane, meno forte, meno abile di lui, si era procurato
a forza di operosità e pazienza tutti gli strumenti che gli
occorrevano per quella incredibile operazione, fallita solo per una
misura mal calcolata; un altro aveva fatto tutto ciò, niente dunque
doveva essere impossibile a Dantès.
Faria aveva scavato quindici metri nel muro, egli ne avrebbe scavati
trenta; Faria a cinquant’anni aveva impiegato due anni per il suo
lavoro, egli che non aveva la metà degli anni di Faria, ne avrebbe
impiegati quattro; Faria abate, dotto, non aveva timore di rischiare
la traversata dal castello d’If all’isola di Daume, di Ratonneau o
di Lemaire; Edmond marinaio, Dantès, l’ardito nuotatore che era
stato tante volte a cercare coralli nel fondo del mare, esiterebbe
dunque a fare una lega nuotando? Quanto tempo occorre per fare una
lega nuotando? Un’ora. Ebbene, non era stato tante volte ore intere
in mare senza toccar riva? No, no, Dantès non aveva bisogno che di
essere incoraggiato dall’esempio; Dantès avrebbe fatto tutto ciò che
un altro aveva fatto, o avrebbe potuto fare.
Edmond rifletté un istante.
«Io ho trovato ciò che voi cercate…» disse al vecchio.
Faria rabbrividì.
«Voi?» disse, rialzando la testa in modo che faceva capire che, se
Dantès diceva la verità, lo scoraggiamento del suo compagno non
sarebbe stato di lunga durata. «Voi? Vediamo, dunque, cosa avete
trovato.»
«Il corridoio che avete fiancheggiato per venire dalla vostra cella
fin qui, è parallelo alla galleria esterna, non è vero?»
«Sì.»
«Non deve dunque esserne lontano che una quindicina di passi?»
«A dir molto.»
«Ebbene, verso la metà del corridoio noi faremo un passaggio che lo
attraversi a guisa di croce. Questa volta voi prenderete meglio le
vostre misure e noi sboccheremo nella galleria, uccideremo la
sentinella, e ce ne andremo. Perché questo piano riesca non ci vuole
che coraggio, e voi ne avete; vigore, e io non ne manco; di pazienza
non parlo, voi avete dato le vostre prove, io darò le mie.»
«Un momento», rispose Faria, «voi non sapete, mio caro compagno, di
qual genere è il mio coraggio e qual uso io conti di fare della mia
forza; quanto alla pazienza, io credo di essere stato abbastanza
paziente ricominciando ogni mattina il lavoro di ogni notte, e ogni
notte il lavoro del giorno. Ma allora, ascoltatemi bene, ragazzo
mio, era perché mi sembrava che avrei servito Dio liberando una
delle sue creature, che essendo innocente, non aveva potuto essere
condannata.»
«Ebbene», domandò Dantès, «la cosa è allo stesso punto. Vi ritenete
forse colpevole da che mi avete incontrato? Ditelo…»
«No, ma non voglio diventarlo. Fin qui credevo di avere a che fare
con le cose, ora mi proponete di avere a che fare con gli uomini. Ho
potuto traforare un muro e distruggere una scala, ma non potrei
trafiggere un petto, né estinguere un’esistenza.»
Dantès ebbe un leggero moto di sorpresa.
«Come», disse, «potendo diventar libero, ve ne asterreste per un
simile scrupolo?»
«E voi», disse Faria, «perché non avete una sera ucciso il
carceriere con una gamba del vostro tavolino, e rivestito dei suoi
abiti non avete tentato di fuggire?»
«Perché non me n’è venuta l’idea», disse Dantès.
«È perché voi sentite per un simile delitto un tale orrore
istintivo, che non ci avete nemmeno pensato», rispose il vecchio,
«perché nelle cose semplici e permesse i nostri naturali istinti ci
avvertono che non usciamo dalla linea del nostro dovere. La tigre
che versa il sangue per natura, non ha bisogno che di una cosa ed è
che il suo odorato l’avverta che vi è una preda alla sua portata, si
lancia verso questa preda, vi piomba sopra e la sbrana: questo è il
suo istinto, lei obbedisce… Ma all’uomo, al contrario, ripugna il
sangue: non solo le leggi sociali condannano l’omicidio, sono le
leggi naturali che lo rigettano.»
Dantès era confuso. Ciò spiegava perfettamente quanto era passato
nella sua anima a sua insaputa.
«E poi», continuò Faria, «da dodici anni circa che sono in prigione,
ho riesaminato tutte le più celebri evasioni; le violente non sono
riuscite che molto raramente. Le evasioni fortunate, le evasioni
coronate da pieno successo, sono quelle meditate con giudizio e
preparate con lentezza. Fu così che il duca di Beaufort fuggì dal
castello di Vincennes, l’abate Duboquoi dal forte L’Evêque, e Latude
dalla Bastiglia. Vi sono inoltre quelle che possono essere offerte
dal caso; queste sono le migliori. Aspettiamo un’occasione,
credetemi, e se questa occasione si presenta, approfittiamone.»
«Voi avete potuto aspettare», disse Dantès sospirando. «Questo lungo
lavoro vi teneva occupato in tutti gli istanti, e quando voi non
avevate lavoro per distrarvi, avevate le vostre speranze per
consolarvi.»
«È vero», disse Faria sorridendo, «e d’altronde avevo un’altra
occupazione.»
«Che facevate dunque?»
«Studiavo o scrivevo.»
«Vi davano dunque carta, penne e inchiostro?»
«No, ma li facevo.»
«Voi facevate carta, penne e inchiostro?» esclamò Dantès, incredulo.
«Sì.»
Dantès guardò quell’uomo con ammirazione; ma stentava a credere ciò
che diceva. Faria si accorse di questo dubbio.
«Quando verrete a trovarmi», disse, «vi mostrerò un’opera intera,
risultato dei pensieri, delle ricerche e delle riflessioni di tutta
la mia vita, opera che avevo meditato all’ombra del Colosseo di
Roma, ai piedi della colonna di San Marco a Venezia, sulle rive
dell’Arno a Firenze, e non avrei mai pensato che i miei carcerieri
mi avrebbero un giorno lasciato eseguire fra le quattro mura del
castello d’If. È un’opera eminentemente filosofica che formerà un
grosso volume in-quarto.»
«E voi l’avete scritta?»
«Sopra due camicie. Ho inventato un liquido che rende la tela liscia
come la pergamena.»
«Siete un chimico?»
«Un poco. Ho conosciuto Lavoisier e sono stato amico di Cabanis.»
«Ma per una simile opera avreste dovuto consultare molti autori.
Avevate dunque dei libri?»
«A Roma avevo quasi cinquemila volumi nella mia biblioteca, e a
furia di leggere e di rileggere, ho scoperto che con centocinquanta
opere ben scelte si ha, se non il riassunto completo delle umane
cognizioni, almeno tutto ciò che è utile all’uomo sapere. Ho
consacrato tre anni della mia vita a leggere e rileggere questi
centocinquanta volumi, di modo che li sapevo a memoria quando fui
arrestato. Con un leggero sforzo, me li sono richiamati tutti alla
mente e ora potrei quasi recitarvi alla lettera Senofonte, Plutarco,
Tito Livio, Tacito, Strada, Dante, Montaigne, Shakespeare, Spinoza,
Machiavelli e Bossuet, e non vi cito che i più importanti.»
«Dunque conoscete diverse lingue?»
«Parlo cinque lingue viventi: il tedesco, il francese, l’italiano,
l’inglese e lo spagnolo; con l’aiuto del greco antico comprendo bene
il greco moderno; solo lo parlo male, ma lo studio adesso.»
«Lo studiate?» disse Dantès.
«Sì, mi sono fatto un dizionario delle parole che sapevo; le ho
combinate, girate e rigirate in modo che esse possano bastare per
esprimere il mio pensiero. Conosco circa mille parole; a rigore sono
abbastanza, sebbene ve ne siano centomila, credo, nel dizionario.
Non sarei eloquente, ma mi farei capire benissimo, e ciò mi basta.»
Edmond, sempre più meravigliato, cominciava quasi a trovare
soprannaturali le facoltà di quell’uomo straordinario. Volendo
coglierlo in fallo in qualcosa, continuò: «Ma se non vi hanno dato
delle penne», disse, «come avete potuto scrivere un’opera così
voluminosa?»
«Ne ho fatte di eccellenti, che sarebbero preferite alle penne
ordinarie, quando fosse nota la materia che uso, cioè le cartilagini
delle teste di quei grossi merluzzi che qualche volta ci danno nei
giorni di magro. Io vedevo giungere i mercoledì, i venerdì e i
sabati con grandissimo piacere, perché essi mi davano la speranza
d’aumentare la mia provvista di penne; e i miei lavori filosofici,
ve lo confesso, sono la mia più cara occupazione. Pensando al
passato, dimentico il presente, e camminando nella filosofia,
dimentico di esser prigioniero.»
«Ma l’inchiostro?» disse Dantès. «Con cosa facevate l’inchiostro?»
«Nella mia cella c’era un tempo un caminetto murato poco prima del
mio arrivo in prigione. Per molti anni vi si è dovuto far fuoco per
tutto l’inverno, per cui è tutto coperto di fuliggine. Io faccio
sciogliere questa fuliggine in una porzione di quel vino che ci
danno la domenica e ciò mi serve da eccellente inchiostro per tutta
la settimana. Per le note particolari, che hanno bisogno di essere
distinte e scorte subito, mi pungo le dita e scrivo col mio sangue.»
«E quando potrò vedere tutto questo…?» domandò Dantès.
«Quando vorrete…» rispose Faria.
«Oh, subito! Subito!» esclamò il giovane.
«Seguitemi dunque…» disse Faria.
Egli s’infilò nel cunicolo sotterraneo, entro cui disparve; Dantès
lo seguì.
17. La cella dell’abate
Dopo che fu passato, stando curvo ma con relativa facilità,
attraverso il passaggio sotterraneo, Dantès arrivò all’estremità
opposta del corridoio che immetteva nella cella dell’abate. Là il
passaggio si restringeva, presentando appena lo spazio sufficiente
perché un uomo potesse strisciarvi aggrappandosi.
La cella del nuovo amico aveva il pavimento lastricato di pietre
quadrate, e sollevando una di queste pietre in un angolo, il più
oscuro della stanza, si vedeva dove Faria aveva cominciato la
laboriosa fatica, di cui Dantès aveva visto la fine. Ricollocata la
pietra al suo posto, Faria vi stendeva sopra un pezzo di vecchia
stuoia e questa precauzione bastava a nasconderla agli occhi dei
carcerieri.
Non appena entrato e rizzatosi in piedi, il giovane esaminò quella
cella misteriosa con la più grande attenzione. Al primo sguardo, non
presentava niente di particolare.
«Bene», disse Faria, «non è che mezzogiorno e un quarto, e abbiamo
ancora qualche ora per noi.»
Dantès guardò intorno cercando a quale orologio Faria aveva potuto
legger l’ora in un modo così preciso.
«Vedete il raggio di luce che ci viene incontro dalla mia finestra»,
disse Faria, «guardate sul muro le linee che vi ho tracciato.»
A Dantès questa spiegazione non riusciva chiara. Vedendo il sole
alzarsi dietro le montagne e tuffarsi nel Mediterraneo, aveva sempre
creduto che fosse quello che si muovesse, e non la terra. Tale
doppio movimento del globo da lui abitato, e di cui non si
accorgeva, gli sembrava quasi impossibile. In ciascuna parola del
suo interlocutore vedeva misteri di scienza così ammirabili e
approfonditi, quanto quelle miniere d’oro e di diamanti che aveva
visitato in un viaggio fatto, mentre era ancora quasi bambino, a
Gizerate e a Golgonda.
«Vediamo», disse a Faria, «sono ansioso di esaminare i vostri
tesori.»
Faria si mosse verso il caminetto, e con lo scalpello, che teneva
sempre in mano, spostò la pietra che in passato era servita da
focolare e che nascondeva una cavità abbastanza profonda; in questa
cavità stavano rinchiusi tutti gli oggetti di cui aveva parlato a
Dantès.
«Che cosa volete vedere per primo?» domandò.
«Mostratemi la vostra grande opera filosofica.»
Faria estrasse dal prezioso armadio tre o quattro rotoli di tela
arrotolati come fogli di papiro; erano strisce larghe circa dieci
centimetri, e lunghe circa quarantacinque. Tali strisce, numerate,
erano coperte da una scrittura che Dantès poté leggere perché
vergate nella lingua materna di Faria, vale a dire in italiano,
idioma che Dantès comprendeva perfettamente nella sua qualità di
provenzale.
«Vedete», disse, «è tutto qui: sono circa tre giorni che ho scritto
la parola fine nella sessantottesima striscia. Due delle mie camicie
e tutti i miei fazzoletti vi sono impiegati; se un giorno tornassi
libero e potessi trovare in Italia uno stampatore per pubblicarla la
mia reputazione sarebbe fatta.»
«Sì», rispose Dantès, «lo vedo bene. Ora mostratemi, ve ne prego, le
penne con cui avete scritto quest’opera.»
«Eccole…» disse Faria.
E mostrò un bastoncino lungo quindici centimetri, grosso quanto un
manico di pennello, e attorno a una delle estremità era legata con
un filo una di quelle cartilagini, ancora macchiata d’inchiostro, di
cui Faria aveva parlato a Dantès, tagliata a becco, e con una
fessura come una penna ordinaria.
Dantès l’esaminò, cercando con lo sguardo lo strumento col quale era
stata tagliata in un modo così preciso.
«Ah sì», disse Faria, «il temperino, non è vero? È il mio
capolavoro; l’ho fatto come questo coltello, col vecchio candeliere
di ferro.»
Il temperino tagliava come un rasoio. Quanto al coltello aveva il
doppio vantaggio di poter servire a un tempo, a seconda del bisogno,
da coltello e da pugnale.
Dantès esaminò questi differenti oggetti con la stessa attenzione
che avrebbe usata in una bottega di chincaglierie a Marsiglia.
Aveva esaminato altre volte eguali strumenti eseguiti dai selvaggi e
portati dai mari del Sud dai capitani di lungo corso.
«In quanto all’inchiostro», disse Faria, «sapete quale metodo
impiego, lo faccio quando ne ho bisogno.»
«Ciò di cui mi meraviglio è», disse Dantès, «che vi siano bastati i
giorni per questi lavori.»
«Ma avevo le notti», rispose Faria.
«Le notti! Siete dunque della natura dei gatti e ci vedete chiaro
anche la notte?»
«No, ma Iddio ha dato all’uomo l’intelligenza per venire in aiuto
alla povertà dei suoi sensi: mi sono procurato della luce.»
«E come?»
«Dalla carne che ci portano separai il grasso, lo feci fondere e ne
cavai una specie di olio compatto. Guardate, ecco qua la mia bugia.»
E Faria mostrò a Dantès una specie di lanterna uguale a quelle che
si adoperavano per illuminare le vie.
«Ma il fuoco?»
«Ecco delle pietruzze e della tela bruciata.»
«Ma gli zolfanelli?»
«Ho finto di avere una malattia cutanea, e ho domandato dello zolfo
che mi è stato accordato.»
Dantès depose sulla tavola gli oggetti che teneva in mano, e abbassò
la testa, avvilito davanti alla perseveranza e alla forza di quello
spirito.
«Questo non è tutto», continuò Faria, «poiché non bisogna mettere
tutti i tesori in un solo nascondiglio; chiudiamolo ora, questo.»
Rimessa la pietra al suo posto, Faria vi sparse sopra un po’ di
terra, vi strisciò il piede per fare sparire ogni traccia, avanzò
verso il suo letto e lo spostò. Dietro al capezzale, nascosto con
una pietra che lo chiudeva quasi ermeticamente, c’era un foro, e in
questo foro una scala di corda lunga circa nove metri. Dantès
l’esaminò, era di una solidità a tutta prova.
«Chi vi ha fornito la corda necessaria a quest’opera meravigliosa?»
domandò Dantès.
«Dapprima qualche camicia, poi qualche lenzuolo del mio letto
sfilato nei tre anni di prigionia a Fenestrelle. Quando sono stato
trasferito al castello d’If ho trovato il mezzo di portare queste
filacce; e ho continuato il mio lavoro.»
«Ma non si accorgevano che le vostre lenzuola erano senz’orlo?»
«Le ricucivo.»
«Con che?»
«Con quest’ago.»
E Faria alzando una falda del suo abito, mostrò una spina lunga,
acuta e ancora affilata che vi portava attaccata.
«Sì», continuò Faria, «dapprima avevo pensato di svellere queste
sbarre, e fuggire dalla finestra, un poco più larga della vostra,
come voi vedete, e che avrei allargata di più all’istante della mia
evasione; ma mi accorsi che dava in un cortile interno, e rinunciai
a questo progetto essendo troppo rischioso. Ciò nonostante conservai
la scala per una di quelle circostanze impreviste, per una di quelle
evasioni di cui vi ho parlato e che solo il caso qualche volta
procura.»
Dantès, mentre sembrava che esaminasse la scala, pensava a
tutt’altra cosa; un’idea gli si era affacciata alla mente.
Quell’uomo così intelligente, così ingegnoso, così profondo avrebbe
potuto forse chiarire la causa della sua infelicità, nella quale
egli non aveva mai potuto scorgere nulla.
«A che cosa pensate?» domandò Faria ridendo e prendendo la
distrazione di Dantès per un eccesso di ammirazione.
«Pensavo a una cosa, alla quantità enorme d’intelletto che avete
dovuto impiegare per giungere al punto a cui siete arrivato. Che
avreste dunque fatto se foste stato libero?»
«Forse niente. Il mio cervello è troppo pieno, e forse sarebbe
evaporato in cose futili; occorre la disgrazia per scavare certe
miniere misteriose nascoste nell’umano intelletto; occorre la
pressione per far scoppiare la polvere… La prigionia ha riunito in
un solo punto tutte le mie facoltà fluttuanti e urtandosi esse in un
angusto spazio, come nello scontro delle nuvole, provocano
l’elettricità, dall’elettricità il lampo, dal lampo la luce.»
«No, io non so niente», disse Dantès avvilito dalla propria
ignoranza, «una quantità delle vostre parole per me sono vuote di
senso, voi siete ben felice di essere così istruito!»
L’abate sorrise.
«Voi pensavate a due cose, mi diceste poco fa? Ma non mi avete fatto
conoscere che la prima; qual è la seconda?»
«Che voi mi avete raccontato la vostra vita, e io non vi ho
raccontato la mia.»
«La vostra vita, caro ragazzo, è tanto breve che non può racchiudere
avvenimenti di grand’importanza.»
«Essa racchiude una immensa disgrazia, una maledizione che io non ho
meritato. Vorrei potermela prendere con gli uomini per la mia
infelicità.»
«Allora vi ritenete innocente del fatto che vi viene imputato?»
«Innocente del tutto! Lo giuro sulla testa dei due esseri che mi
sono cari, sulla testa di mio padre e di Mercedes.»
«Sentiamo», disse Faria chiudendo il suo nascondiglio e rimettendo
il letto al suo posto, «raccontatemi la vostra storia.»
Dantès allora raccontò ciò che egli chiamava la sua storia, e che si
limitava a un viaggio nell’India, e a due o tre viaggi in Levante.
Finalmente arrivò all’ultima traversata, alla morte del capitano
Leclère, al plico destinato al gran maresciallo, al colloquio avuto
con lui, alla lettera ricevuta per il signor Noirtier e infine narrò
l’arrivo a Marsiglia, la visita al padre, il suoi amore per
Mercedes, il pranzo del fidanzamento, l’arresto, l’interrogatorio,
la prigionia provvisoria nel palazzo di giustizia, e la prigionia
definitiva al castello d’If.
Giunto a questo punto, Dantès non sapeva più niente, neppure il
tempo da che era prigioniero.
Terminato il racconto Faria rifletté profondamente.
«C’è», disse dopo un istante, «in diritto un assioma di grande
profondità, e che coincide con ciò che vi dicevo, che il cattivo
pensiero non nasce da una buona indole. Alla natura umana ripugna il
delitto. Tuttavia la civiltà ci ha dato dei vizi, dei bisogni, degli
appetiti fittizi, che qualche volta hanno l’influsso di soffocare i
nostri buoni istinti e di condurci al male. Quindi ne nasce questa
massima: “Se voi volete scoprire il colpevole, cercate prima colui
al quale può essere utile il delitto”. La vostra sparizione a chi
poteva essere utile?»
«A nessuno, mio Dio! Ero così poca cosa.»
«Non rispondete così, perché la risposta manca a un tempo di logica
e di filosofia. Tutto è relativo, mio caro amico. Dal re che
ostacola il suo successore, fino all’ultimo impiegato che intralcia
l’apprendista, ciascuno infastidisce colui che viene dopo o gli
cammina a lato. Se il re muore, il suo successore eredita una
corona, se l’impiegato muore l’apprendista eredita il suo impiego e
lo stipendio di duecento lire. Queste duecento lire di stipendio
sono per lui la sua identità civile e gli sono tanto necessarie per
vivere, quanto i milioni di un re. Ciascun individuo, dal più basso
al più alto grado della scala sociale, riunisce intorno a sé un
piccolo mondo d’interessi, avendo i suoi turbini e i suoi atomi come
i mondi di Cartesio. Soltanto questi mondi vanno sempre più
allargandosi a misura che si monta. È una spirale rovesciata, che si
tiene ritta sulla punta per forza d’equilibrio. Ritorniamo dunque al
vostro mondo. Voi eravate sul punto di essere nominato capitano a
bordo del Pharaon?»
«Sì.»
«Eravate sul punto di sposare una bella ragazza?»
«Sì.»
«Esisteva qualcuno che avesse interesse a non vedervi diventare
capitano del Pharaon? Qualcuno che avesse interesse perché non
sposaste Mercedes? Rispondete intanto alla prima domanda, l’ordine è
la chiave di tutti i problemi. Ripeto dunque, c’era nessuno a cui
potesse interessare che voi non foste nominato capitano del
Pharaon?»
«No, ero molto amato a bordo. Se i marinai avessero potuto eleggere
un capo, son certo che sarei stato l’eletto. Un solo uomo poteva in
qualche modo esser inquieto, perché tre mesi prima avevo avuto con
lui una contesa, e gli avevo proposto un duello che rifiutò.»
«Avanti dunque!… Come si chiama quell’uomo?»
«Danglars.»
«Che cosa era a bordo?»
«Contabile.»
«Se voi foste divenuto capitano l’avreste conservato al suo posto?»
«No, se la cosa fosse dipesa da me, perché mi era sembrato di
scorgere qualche scorrettezza nei suoi conti.»
«Bene. Ora, chi ha assistito al vostro ultimo colloquio col capitano
Leclère?»
«Nessuno, eravamo soli.»
«Ma qualcuno poteva sentire la vostra conversazione?»
«Sì, perché la porta era socchiusa, e anzi… aspettate… Sì, sì,
Danglars è passato proprio nel momento in cui il capitano Leclère mi
dava il plico per il gran maresciallo.»
«Bene, siamo sulla buona strada. Avete condotto con voi qualcuno,
quando siete disceso a terra all’isola d’Elba?»
«Nessuno.»
«Vi fu rimessa una lettera?»
«Sì, dal gran maresciallo.»
«Che avete fatto voi di questa lettera?»
«L’ho riposta nel mio portafoglio.»
«Avevate dunque indosso un portafoglio. Come mai un portafoglio che
doveva contenere una lettera ufficiale, poteva stare nella tasca di
un marinaio?»
«Avete ragione, il mio portafoglio era a bordo.»
«Fu dunque a bordo che voi chiudeste la lettera nel portafoglio?»
«Sì.»
«Da Portoferraio al battello, dove riponeste la lettera?»
«L’ho tenuta in mano.»
«Dunque quando voi siete risalito a bordo del Pharaon tutti hanno
potuto vedere che avevate una lettera, Danglars e tutti gli altri…
Ora ascoltate bene, riunite tutta la vostra memoria: vi ricordate in
quali termini era formulata la denuncia?»
«Oh sì, l’ho riletta tre volte e mi è rimasta nella mente parola per
parola.»
«Ripetetemela dunque.»
Dantès si concentrò un istante. «Eccola», disse, «parola per parola:
“Il signor procuratore del re è avvisato da un amico del trono e
della religione, che il nominato Edmond Dantès, secondo sul
bastimento il Pharaon, giunto questa mattina da Smirne dopo aver
toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Marat di una
lettera per Napoleone, e da questo di una lettera per il comitato
bonapartista di Parigi. Si avrà prova del suo delitto arrestandolo,
poiché si troverà questa lettera o nelle sue tasche, o presso suo
padre, o nella sua cabina a bordo del Pharaon”.»
Faria alzò le spalle. «Ciò è chiaro come la luce del giorno», disse,
«e bisogna ben dire che voi abbiate avuto il cuore molto buono e
molto ingenuo, per non indovinare la cosa al primo momento.»
«Voi credete?» esclamò Dantès. «Ah, questa sarebbe un’infamia.»
«Com’era la calligrafia di Danglars?»
«Un bel corsivo.»
«Com’era la calligrafia della lettera anonima?»
«Rovesciata.»
Faria sorrise. «Contraffatta, non è vero?»
«Ma molto sicura per essere contraffatta.»
«Aspettate!» disse Faria. E presa la penna, o ciò che così chiamava,
la intinse nell’inchiostro e scrisse con la mano sinistra sopra un
pezzo di tela, le prime due o tre righe della denuncia.
Dantès fece un balzo e guardò Faria quasi con timore.
«Oh! è meraviglioso, è sorprendente», esclamò, «come questa
scrittura assomiglia a quella.»
«Perché la denuncia fu scritta con la mano sinistra; e io ho
osservato una cosa, che tutti i caratteri fatti con la mano destra
sono diversi, ma quelli che sono fatti con la mano sinistra si
assomigliano.»
«Voi avete dunque visto tutto, osservato tutto?»
«Continuiamo… passiamo alla seconda domanda. C’era nessuno a cui
potesse interessare che voi non sposaste Mercedes?»
«Sì, un giovane che l’amava…»
«Il suo nome?»
«Fernando.»
«Questo è un nome spagnolo.»
«Era catalano.»
«Credete che sia stato capace di scrivere la lettera?»
«No, era piuttosto capace di piantarmi un coltello nel cuore.»
«Bene, questo è nella natura spagnola; un assassinio, sì, una viltà,
no.»
«Del resto», continuò Dantès, «ignorava tutti i particolari
riportati nella denuncia.»
«Non li avevate raccontati a nessuno?»
«A nessuno.»
«Neppure alla vostra fidanzata?»
«Neppure alla mia fidanzata.»
«Fu Danglars!»
«Oh, adesso ne sono sicuro.»
«Ma aspettate… Danglars conosceva Fernando?»
«No… sì, cioè… ora mi ricordo…»
«Che cosa?»
«La vigilia del mio fidanzamento li ho visti assieme a una tavola
sotto il pergolato di papà Pamphile. Danglars era amichevole e
scherzoso, Fernando era pallido e sconvolto.»
«Erano soli?»
«No, c’era con loro un terzo uomo, che senza dubbio era stato quello
che li aveva fatti conoscere, un sarto di nome Caderousse; ma questi
era già ubriaco. Aspettate… aspettate…»
«Cosa c’è?»
«Come mai non me ne sono ricordato prima? Sulla tavola dove bevevano
c’era un calamaio, della carta, e delle penne!» Dantès, battendosi
con la mano la fronte, esclamò: «Oh, è così, fu là che scrisse
quella lettera. Oh infami! Oh infami!»
«Volete sapere qualche altra cosa?» disse sorridendo Faria.
«Sì, sì, poiché voi approfondite tutto, poiché vedete chiaro in ogni
cosa. Vorrei sapere perché non sono stato interrogato che una sola
volta, perché non ho avuto i giudici e in qual modo sono stato
condannato senza una sentenza.»
«Oh, questo», disse Faria, «è un affare un poco più grave. La
giustizia qualche volta ha delle procedure che sembrano cupe e
misteriose. Ciò che noi abbiamo intuito fin qui per i vostri due
nemici è un gioco da ragazzi, ora occorrono maggiori indicazioni per
questo argomento.»
«Allora interrogatemi, perché voi vedete nella mia vita più chiaro
di me.»
«Chi vi ha interrogato? Fu il procuratore del re, il sostituto, o il
giudice istruttore?»
«Il sostituto.»
«Giovane o vecchio?»
«Giovane, tra i 27 e i 28 anni.»
«Bene, non ancora corrotto, ma già ambizioso. Quali furono i modi
che usò con voi?»
«Amichevoli piuttosto che severi.»
«Gli avete raccontato tutto?»
«Tutto.»
«E i suoi modi cambiarono mai durante l’interrogatorio?»
«Un istante si sono alterati, quando lesse la lettera che mi
comprometteva. Sembrò oppresso dalla mia disgrazia.»
«Dalla vostra disgrazia?»
«Sì.»
«Siete ben sicuro che si affliggeva per la vostra disgrazia?»
«Perlomeno mi ha dato prova della sua simpatia per me.»
«E quale?»
«Ha bruciato quel solo documento che poteva certamente
compromettermi.»
«Quale documento? La denuncia?»
«No, la lettera.»
«Ne siete sicuro?»
«Lo fece sotto i miei occhi.»
«Ora è un’altra cosa; quell’uomo potrebbe essere uno scellerato
maggiore di quello che avete creduto.»
«Sul mio onore, voi mi fate fremere», disse Dantès. «Il mondo dunque
è popolato di tigri e coccodrilli?»
«Sì, con questa differenza, che le tigri e i coccodrilli a due gambe
sono più pericolosi degli altri. Dunque, mi dicevate, ha bruciato
quella lettera?»
«Sì, dicendomi: “Voi vedete, non esiste che questa prova contro di
voi, e io la distruggo”.»
«Questa condotta è troppo sublime per essere naturale.»
«Credete?»
«Ne sono sicuro. A chi era diretta quella lettera?»
«Al signor Noirtier, via Héron, numero 13, Parigi.»
«Potete presumere che il vostro sostituto avesse qualche interesse a
far sparire quella lettera?»
«Forse, perché mi ha fatto promettere due o tre volte, diceva nel
mio interesse, di non parlare ad alcuno di quella lettera: anzi mi
ha fatto giurare di non pronunciare mai a chicchessia il nome che
stava scritto sull’indirizzo.»
«Noirtier!» disse Faria. «Noirtier! Ho conosciuto un Noirtier alla
corte della vecchia duchessa di Toscana, un Noirtier che nella
rivoluzione era stato girondino. Come si chiamava il sostituto?»
«Villefort.»
Faria scoppiò in una risata.
Dantès lo guardò con stupore.
«Che avete?» domandò.
«Vedete questo raggio di sole?» chiese Faria.
«Sì.»
«Bene, tutto adesso è più chiaro di questo raggio trasparente e
luminoso. Povero giovane! E questo magistrato era buono con voi? Ha
bruciato, distrutto la lettera? Vi ha fatto giurare di non
pronunciare mai il nome di Noirtier?»
«Sì.»
«Noirtier, povero cieco che siete, sapete chi era questo Noirtier?…
Era suo padre!»
Un fulmine caduto ai piedi di Dantès, che gli avesse spalancato un
abisso in fondo a cui si fosse aperto l’inferno, non avrebbe
prodotto un effetto così immediato, così elettrizzante, così
opprimente quanto quelle inaspettate parole. Si alzò, afferrandosi
la testa fra le mani quasi avesse voluto impedire che scoppiasse.
«Suo padre!… Suo padre!…» esclamò.
«Sì, suo padre… che si chiama Noirtier Villefort», aggiunse Faria.
Allora una luce folgorante passò per la mente del prigioniero: tutto
ciò che gli era rimasto oscuro venne illuminato da una chiarezza
risplendente. Le tergiversazioni di Villefort durante
l’interrogatorio, la lettera distrutta, il giuramento richiesto, la
voce quasi supplicante del magistrato, che in luogo di minacciare
sembrava implorare, tutto, tutto gli ritornò alla mente.
Gettò un grido, barcollò come un ubriaco, poi lanciandosi
all’apertura che portava dalla cella di Faria alla sua: «Oh», disse,
«devo star solo, per poter pensare a tutto ciò».
E arrivando nella sua cella cadde sul letto, dove il carceriere lo
ritrovò la sera seduto con gli occhi fissi, i lineamenti contratti,
immobile e muto come una statua.
Nelle ore di meditazione, che per lui erano passate come minuti
secondi, aveva preso una terribile risoluzione e fatto un
formidabile giuramento. Per mantenere questo giuramento e mandare a
effetto questa risoluzione bisognava supporre che un giorno sarebbe
stato libero! Una voce venne a togliere Dantès da queste
fantasticherie, era quella di Faria che dopo la visita del
carceriere, veniva a invitare Dantès a cenare con lui. La sua
riconosciuta qualità di pazzo e particolarmente di pazzo divertente,
procurava al vecchio prigioniero qualche privilegio, come avere il
pane un poco più bianco, e una bottiglietta di vino alla domenica.
Ora era precisamente una domenica, e Faria veniva a invitare il suo
giovane compagno a condividere il vino e il pane.
Dantès lo seguì: tutte le linee del suo viso si erano ricomposte, ma
con una durezza e fermezza che manifestavano una risoluzione.
Faria lo guardò fisso.
«Sono mortificato di avervi aiutato nelle vostre ricerche e di
avervi detto ciò che vi ho detto.»
«Perché?» domandò Dantès.
«Perché vi ho infiltrato nel cuore un sentimento che prima non
c’era: la vendetta.»
Dantès sorrise.
«Parliamo d’altro», disse.
Faria lo guardò ancora un istante e scosse rammaricato la testa;
quindi, come aveva pregato Dantès, parlò d’altro.
Il vecchio prigioniero era uno di quegli uomini la cui
conversazione, come quella di coloro che hanno molto sofferto,
contiene molti insegnamenti, e non smette mai di interessare; ma non
era un egoista, questo infelice non parlava mai delle sue disgrazie.
Dantès ascoltava ciascuna delle sue parole con ammirazione: alcune
corrispondevano alle idee che già aveva, e alle conoscenze del suo
stato di marinaio; altre appartenevano a cose a lui sconosciute, e
come le aurore boreali che rischiarano i navigatori australi,
parlavano al giovane di Paesi sconosciuti e di nuovi orizzonti
illuminati da luci fantastiche. Dantès concepì la felicità di cui
doveva godere un uomo intelligente a seguire questo spirito elevato
sulle vette morali, filosofiche e sociali, cui d’abitudine
perveniva.
«Voi dovreste insegnarmi un po’ di quanto sapete», disse Dantès,
«non fosse altro che per non annoiarvi con me. Mi sembra che
dobbiate preferire la solitudine a un compagno senza educazione e
senza istruzione come sono io. Se acconsentite, vi prometto di non
parlarvi più di fuga.»
Faria sorrise.
«Ahimè, figlio mio», disse, «la scienza umana è molto limitata, e
quando vi avessi insegnato le matematiche, la fisica, la storia e le
tre o quattro lingue vive che io parlo, voi sapreste quello che so
io. Tutta questa scienza potrei farla passare dal mio cervello nel
vostro in due anni.»
«Due anni!» disse Dantès. «Credete che io possa imparare tutte
queste cose in due anni?»
«Nella loro applicazione no; nei loro principi sì. L’imparare non è
lo stesso che sapere: vi sono gli eruditi e gli scienziati, la
memoria forma i primi, la filosofia i secondi.»
«Ma la filosofia non si può imparare?»
«La filosofia non s’impara, la filosofia è la riunione delle scienze
imparate nel genio che le applica.»
«Vediamo», disse Dantès. «Che cosa m’insegnerete per primo? Ho
smania di cominciare, ho sete di scienza.»
«Tutto!» disse Faria. Fin da quella sera i due prigionieri
stabilirono un piano che cominciò a essere messo in esecuzione il
giorno dopo.
Dantès aveva una memoria prodigiosa, una estrema facilità a
imparare; la predisposizione matematica della sua mente lo rendeva
atto a comprender tutto per mezzo del calcolo, mentre la poesia del
marinaio correggeva tutto quanto poteva esservi di troppo materiale
nella dimostrazione ridotta all’aridità delle cifre e alla
precisione delle linee. D’altronde sapeva già l’italiano e un poco
l’arabo che aveva imparato viaggiando in Oriente. Con queste due
lingue imparò ben presto il meccanismo di tutte le altre, e in capo
a sei mesi cominciò a parlare l’inglese e il tedesco.
Come aveva detto all’abate Faria, sia che la distrazione
procuratagli dallo studio gli paresse già libertà, sia che fosse,
come abbiamo già visto rigido osservatore della sua parola, Dantès
non parlava più di fuggire, e le giornate per lui passavano rapide e
istruttive. In capo a un anno era già un altro uomo.
Quanto a Faria, Edmond osservava che, malgrado la distrazione
arrecatagli dalla sua presenza, diventava ogni giorno più tetro; un
pensiero incessante ed eterno sembrava dominare il suo spirito; era
preso da profonde meditazioni, si alzava d’un tratto, incrociava le
braccia e passeggiava nella cella.
Un giorno si fermò di colpo ed esclamò: «Ah, se non ci fosse la
sentinella».
«Non ci sarà sentinella quando non la vorrete», disse Dantès che
aveva seguito il suo pensiero come attraverso un cristallo.
«Ah, io ve l’ho detto: ho ripugnanza all’idea d’un omicidio.»
«Questo omicidio, se venisse commesso, sarebbe per istinto di
conservazione, per difesa personale.»
«Non importa… io non saprei…»
«Ciò nonostante voi ci pensate?»
«Senza posa, senza posa», mormorò Faria.
«E avete trovato un mezzo, non è vero?» domandò Dantès.
«Sì, se mettessero di guardia una sentinella sorda e cieca.»
«Sarà cieca, sarà sorda», gridò il giovane con un accento risoluto
che spaventò Faria.
«No, no», esclamò, «è impossibile.»
Dantès volle trattenerlo sopra questo argomento, ma Faria scosse la
testa, e rifiutò di continuare a rispondere.
Passarono altri tre mesi.
«Siete forte?» domandò un giorno Faria a Dantès.
Dantès senza rispondere prese lo scalpello, lo piegò a ferro di
cavallo, e lo raddrizzò.
«Vi impegnereste a non uccidere la sentinella che in caso di estrema
necessità?»
«Sì, sul mio onore.»
«Allora», disse Faria, «noi potremo eseguire il nostro progetto.»
«E quanto tempo ci vorrà per eseguirlo?»
«Almeno un anno.»
«Dobbiamo dunque metterci al lavoro?»
«Subito.»
«Oh, vedete dunque, abbiamo perduto un anno.»
«Credete che quest’anno sia stato perduto?»
«Oh, perdono, perdono!» esclamò Edmond arrossendo.
«Zitto!» disse Faria. «L’uomo non è che un uomo, e voi siete ancora
uno dei migliori che abbia conosciuto. Prendete, questo è il mio
piano.»
Faria mostrò allora a Dantès un disegno che aveva tracciato: era la
pianta della sua cella, di quella di Dantès, e del corridoio che le
univa una all’altra. Nel mezzo di questo corridoio egli poneva un
condotto uguale a quelli che si praticano nelle miniere. Questo
condotto avrebbe portato i due prigionieri sotto la galleria ove
passeggiava la sentinella. Una volta giunti là, avrebbero scavato di
nuovo, avrebbero tolto una delle pietre quadrate che formano il
pavimento della galleria; la pietra sarebbe sprofondata sotto il
peso del soldato che sarebbe caduto nel buco. Dantès si sarebbe
precipitato sopra di lui nel momento in cui, ancora stordito per la
caduta, non avrebbe potuto difendersi, lo avrebbe legato, gli
avrebbe turato la bocca, e allora tutti e due passando da una
finestra della galleria, sarebbero discesi lungo la muraglia esterna
con l’aiuto della scala di corda, e si sarebbero salvati.
Dantès batté le mani, e i suoi occhi sfavillarono di gioia; questo
piano era così semplice, che era impossibile non riuscisse.
Nel medesimo giorno i due minatori si misero all’opera e con un
ardore tanto più grande, in quanto questo lavoro cominciava dopo un
lungo riposo, e non faceva, secondo tutte le probabilità, che
assecondare il pensiero intimo e segreto d’entrambi.
Non si interrompevano, se non l’ora nella quale ciascuno era
obbligato a rientrare nella propria cella, per ricevere la visita
del carceriere. D’altronde, avevano preso l’abitudine di distinguere
così facilmente il rumore impercettibile dei passi, al momento in
cui quell’uomo discendeva, che mai né l’uno né l’altro fu preso alla
sprovvista. La terra estratta dalla nuova galleria, sufficiente per
riempire l’antico corridoio, veniva gettata a poco a poco, e con
inaudite precauzioni dall’una o dall’altra delle finestre della
cella di Dantès o di Faria, polverizzata con ogni cura, e il vento
della notte la disperdeva senza lasciarne traccia.
Più d’un anno passò in questo lavoro che venne eseguito con uno
scalpello, un coltello e una leva di legno.
Durante quest’anno e mentre lavoravano Faria continuò a istruire
Dantès, parlandogli ora in una lingua, ora in un’altra;
insegnandogli la storia delle nazioni, e di quei grand’uomini che di
tempo in tempo lasciano dietro di sé una di quelle luminose tracce,
che si chiama gloria.
Faria uomo di mondo, e di gran mondo, aveva nelle sue maniere una
specie di maestà malinconica, da cui Dantès per spirito d’imitazione
seppe trarre profitto, e ricavarne quell’elegante tratto di cui
mancava e quei modi aristocratici che generalmente non si acquistano
che frequentando le classi elevate o conversando con uomini
superiori.
Dopo quindici mesi, il foro era finito, lo scavo sotto la galleria
fatto. Si sentiva passare e ripassare la sentinella, e i due uomini,
obbligati ad aspettare una notte oscura e senza luna per rendere più
sicura la loro evasione, non avevano che un timore, che la botola
sprofondasse prima del tempo sotto i piedi del soldato. Venne
ovviato a questo inconveniente puntellandola con una specie di
travicello che avevano trovato negli scavi.
Dantès era occupato a sistemarlo quando sentì Faria, rimasto in
cella a preparare cavicchi per fissare la scala di corda, che lo
chiamava con accento di disperazione.
Dantès rientrò sollecitamente, e vide Faria ritto in mezzo alla
stanza, pallido, col sudore sulla fronte, e le mani intirizzite.
«Oh, mio Dio!» gridò Dantès. «Che c’è? Che cosa avete?»
«Presto, presto», disse Faria, «ascoltatemi.»
Dantès guardò il viso livido di Faria, i suoi occhi con un cerchio
azzurrognolo, le labbra bianche, i capelli irti, e dallo spavento
lasciò cadere a terra lo scalpello che teneva in mano.
«Che c’è dunque?» gridò Edmond.
«Sono perduto», disse Faria, «ascoltatemi. Un male terribile, un
male forse mortale mi prende in questo momento. L’attacco è
cominciato, lo sento. Ne fui già colpito l’anno prima della mia
carcerazione. A questo male non c’è che un rimedio. Correte subito
nella mia cella, togliete un piede al letto, questo piede è cavo: vi
troverete dentro una piccola boccetta di cristallo piena per metà
d’un liquido rosso; portatemela, o piuttosto… no, no… potrei essere
sorpreso qui… aiutatemi a rientrare nella mia cella fino a che mi
resta qualche forza. Chissà ciò che può accadere, e quanto tempo
durerà l’attacco.»
Dantès senza molto agitarsi, sebbene la disgrazia che lo colpiva
fosse immensa, discese nel cunicolo sotterraneo, e trascinò
l’infelice compagno conducendolo con pena infinita sino alla sua
cella, dove lo coricò sul letto.
«Grazie», disse Faria, tremando come uscisse dall’acqua ghiacciata,
«ecco il male che avanza, sto per avere una crisi epilettica. Forse
non farò un movimento, forse non manderò un gemito, ma forse mi
contorcerò, griderò, sputerò bava. Fate in modo che non siano intese
le mie grida, questo soprattutto importa, perché potrebbero
cambiarmi la cella e noi saremmo divisi per sempre. Quando voi mi
vedrete immobile, freddo e morto, allora soltanto schiudetemi i
denti col coltello, fate colare nella mia bocca otto o dieci gocce
di quel liquore, e forse mi rimetterò.»
«Forse?» esclamò dolorosamente Dantès.
«A me, a me!» gridò Faria. «Io muo… m… m…»
L’attacco fu così rapido e violento, che l’infelice prigioniero non
poté finire la parola: una nube passò sulla sua fronte contratta e
tetra come le tempeste del mare. La crisi dilatò gli occhi, contorse
la bocca, imporporò le guance. Si agitò, ruggì; ma come aveva
raccomandato egli stesso, Dantès soffocò queste grida sotto la
coperta. Tutto ciò durò due ore. Poi più inerte d’un masso, più
pallido e più freddo del marmo, più avvizzito di una rosa
calpestata, cadde, si contorse in un’ultima convulsione e divenne
livido.
Edmond aspettò che questa morte apparente avesse investito tutto il
corpo, e lo ghiacciasse fino al cuore, allora prese il coltello,
introdusse la lama fra i denti, disserrò con una pena infinita le
rigide mascelle, e, contate una dopo l’altra le dieci gocce del
rosso liquore, aspettò.
Passò un’ora senza che il vecchio facesse il più piccolo movimento.
Dantès temeva di avere aspettato troppo e lo guardava con le mani
nei capelli. Finalmente un leggero colorito apparve sulle sue
guance; i suoi occhi, costantemente rimasti aperti e vitrei,
ripresero il consueto sguardo, un debole sospiro sfuggì dalla sua
bocca; fece un piccolo movimento.
«È salvo! È salvo!» gridò Dantès.
Il malato non poteva ancora parlare, ma allungò con ansia visibile
la mano verso la porta.
Dantès ascoltò e intese i passi del carceriere. Erano quasi le
sette: Dantès non aveva avuto modo di misurare il tempo.
Il giovane si lanciò verso l’apertura, vi si precipitò, rimise la
pietra al di sopra della testa e rientrò nella sua cella. Un istante
dopo la sua porta si aprì, e il carceriere ritrovò, come al solito,
il prigioniero sul letto. Appena ebbe voltate le spalle, appena il
rumore dei suoi passi si perse nel corridoio, Dantès, divorato
dall’inquietudine, senza pensare a mangiare, riprese il cammino
sotterraneo e, sollevando la pietra, rientrò nella cella di Faria.
Questi aveva ripreso conoscenza, ma era sempre steso sul suo letto,
inerte e senza forze.
«Non contavo più di rivedervi», disse a Dantès.
«E perché?» domandò Edmond. «Credevate dunque di morire?»
«No, ma tutto è in ordine per la fuga, ed ero certo che sareste
fuggito.»
L’indignazione colorò le guance di Dantès.
«Senza di voi!» gridò. «Mi avete veramente creduto capace di ciò?»
«Adesso m’accorgo che mi sono ingannato», disse il malato. «Ah, sono
molto debole, molto stanco.»
«Coraggio, le forze vi ritorneranno», disse Dantès, sedendosi vicino
al letto di Faria e prendendogli le mani.
Faria scosse la testa.
«L’ultima volta», disse, «l’attacco non durò che una mezz’ora, dopo
la quale ebbi fame e mi rialzai. Oggi non posso muovere né la gamba,
né il braccio destro; la mia testa è oppressa, e ciò prova che c’è
stato un’emorragia cerebrale; al terzo resterò completamente
paralizzato o morirò sul colpo.»
«No, no, tranquillizzatevi, voi non morirete. Se questo terzo
attacco deve colpirvi vi troverà libero; io vi salverò come questa
volta, e meglio ancora, perché avremo tutti i necessari soccorsi.»
«Amico mio», disse il vecchio, «non vi illudete. La crisi passata mi
ha condannato a un carcere perpetuo. Per fuggire bisogna poter
camminare.»
«Ebbene, noi aspetteremo otto giorni, un mese, due mesi se occorre;
le vostre forze ritorneranno. Tutto è pronto per la nostra fuga, e
abbiamo la libertà di scegliere a nostro piacere l’ora e il momento.
Il giorno in cui vi sentirete abbastanza forza per nuotare, quel
giorno metteremo in esecuzione il nostro progetto.»
«Non nuoterò più», disse Faria, «questo braccio è paralizzato non
per un giorno, ma per sempre; sollevatelo voi stesso e sentite
quanto è pesante.»
Il giovane sollevò il braccio, che ricadde morto e insensibile.
Dantès mandò un profondo sospiro.
«Ora sarete convinto, non è vero Edmond?» disse Faria. «Credetemi,
so quello che dico. Dopo il primo attacco di questo male, non ho mai
cessato di studiarvi e riflettervi sopra: lo aspettavo perché è una
eredità di famiglia. Mio padre è morto al terzo attacco, mio nonno
ugualmente; il medico che mi preparò questo liquore, che non fu
altri che il celebre Cabanis, mi predisse la stessa sorte.»
«Il medico si sbaglia», gridò Dantès. «In quanto alla vostra
paralisi, essa non mi sgomenta: vi prenderò sulle mie spalle e
nuoterò sostenendovi.»
«Amico mio», disse Faria, «voi siete marinaio, siete nuotatore;
dovete di conseguenza sapere che un uomo caricato di un simile
fardello non potrebbe fare più di cinquanta metri in mare. Smettete
d’illudervi, non lasciatevi ingannare dall’ottimo vostro cuore. Io
resterò qui fino a che suoni l’ora della mia liberazione, che non
può più essere che quella della morte. In quanto a voi, fuggite.
Siete giovane e forte, non vi occupate di me, io vi rendo la vostra
parola.»
«Sta bene», disse Dantès, «allora…»
«Allora?»
«Io pure resterò.»
Poi levandosi e stendendo una mano sul vecchio: «Per quanto vi è di
più sacro, giuro di non lasciarvi che alla vostra morte».
Faria considerò questo giovane così nobile, semplice ed elevato, e
lesse sui tratti animati dalla devozione più pura, la sincerità
della sua affermazione, e la lealtà del suo giuramento.
«Sia…» disse il malato. «Io accetto, e vi ringrazio.»
Poi, tendendogli la mano: «Forse sarete ricompensato di questo
affetto disinteressato», gli disse. «Poiché non posso e voi non
volete partire, è necessario che interriamo il sotterraneo sotto la
galleria. Il soldato che cammina può scoprire la sonorità dello
scavo, richiamare l’attenzione di un ispettore, e allora saremmo
scoperti e separati. Andate a fare questo lavoro nel quale
disgraziatamente non posso aiutarvi; impiegatevi tutta la notte se
occorre, e non ritornate da me che domattina dopo la visita del
carceriere. Avrò qualche cosa di somma importanza da comunicarvi.»
Dantès prese la mano di Faria che lo rassicurò con un sorriso e uscì
con quell’obbedienza e quel rispetto che gli ispirava il suo vecchio
amico.
18. Il tesoro
La mattina del giorno dopo, allorché Dantès rientrò nella cella del
suo compagno di prigionia, trovò Faria seduto, con il viso calmo. Un
raggio di sole penetrava attraverso la stretta finestra della cella.
Nella mano sinistra, la sola di cui gli era rimasto l’uso, Faria
teneva un pezzo di carta che, per l’abitudine di restare avvolto
sempre nello stesso modo, aveva preso la forma di un rotolo.
Mostrò a Dantès la carta senza dire una parola.
«Che cos’è?» domandò questi.
«Guardate con attenzione…» disse Faria sorridendo.
«Guardo con tutta l’attenzione possibile», disse Dantès, «e non vedo
altro che un pezzo di carta mezza bruciata e sulla quale sono
tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare.»
«Questa carta, amico mio», disse Faria, «ora ve lo posso confessare
perché vi ho conosciuto meglio, questa carta è il mio tesoro, di
cui, da questo momento, la metà è vostra!»
Un sudore freddo passò sulla fronte di Dantès. Finora, e per uno
spazio lungo di tempo, aveva sempre evitato di parlare a Faria di
questo tesoro, origine dell’accusa di pazzia che gravava sul povero
amico. Con la sua istintiva delicatezza, Edmond aveva preferito non
toccare questa corda dolorosa, e Faria aveva taciuto. Dantès aveva
preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione.
«Il vostro tesoro?» balbettò Dantès.
Faria sorrise.
«Sì», disse, «voi siete un nobile cuore, Edmond, e dal vostro
pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che passa per la vostra
mente in questo istante. No, state tranquillo, non sono pazzo.
Questo tesoro esiste, Dantès, e se non mi è stato concesso di
possederlo, voi lo possederete per me. Nessuno ha voluto ascoltarmi,
né credermi, fui giudicato pazzo. Ma voi dovete sapere che non lo
sono: ascoltatemi, e dopo credetemi se volete.»
«Ahimè», mormorò Edmond fra sé, «il malato ricade nella sua idea
fissa. Mi mancava questa disgrazia…»
E poi, alzando la voce: «Amico mio», disse a Faria, «il vostro
attacco vi ha stancato: non volete prendere un poco di riposo?
Domani, se lo desiderate, sentirò la vostra storia, ma oggi dovete
curarvi, dovete avervi dei riguardi; d’altronde», continuò
sorridendo, «un tesoro non deve ora granché interessarci».
«Ci deve interessare moltissimo, Edmond», rispose il vecchio,
«chissà che domani o dopodomani non giunga il terzo attacco; allora
tutto sarebbe finito… Sì, è vero, qualche volta ho pensato con amaro
piacere a queste ricchezze che farebbero la fortuna di dieci
famiglie, fortune perdute per coloro che mi perseguitano. Quest’idea
mi serviva di vendetta e io l’assaporavo lentamente nell’oscurità
della mia segreta e nella disperazione della mia prigionia; ma ora
che vi vedo giovane e pieno di speranza, ora che penso a tutto ciò
che può venirne di felicità a voi in conseguenza della mia
rivelazione, io fremo per il ritardo, e tremo di non potere
assicurare un proprietario degno quanto voi siete a queste immense
ricchezze nascoste.»
Edmond voltò altrove la testa sospirando.
«Voi persistete nella vostra incredulità, Edmond», continuò Faria,
«la mia voce non vi ha convinto. Vedo che vi occorrono delle prove.
Ebbene leggete questo foglio che io non ho fatto vedere mai ad
alcuno.»
«Domani, amico mio», disse Edmond, dispiacendogli assecondare la
follia del vecchio. «Credevo fosse già stabilito fra noi che non ne
avremmo parlato che domani…»
«Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio.»
«Non irritiamolo di più…» pensò Edmond. E prendendo la carta di cui
mancava la metà consunta dal fuoco, egli lesse.
«Ebbene?» disse Faria, quando il giovane ebbe finito la lettura.
«Ma», rispose Dantès, «non leggo che righe tronche, che parole senza
senso; i caratteri sono interrotti dall’azione del fuoco e restano
inintelligibili.»
«Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per
me che vi impallidii sopra molte notti, e ho ricostruito ogni frase,
e completato ogni pensiero.»
«E voi credete di aver ritrovato questo senso nascosto?»
«Ne sono sicuro; lo giudicherete voi stesso. Ma prima ascoltate la
storia di questa carta.»
«Silenzio!» esclamò Dantès. «Dei passi! Qualcuno si avvicina… io
vado… addio!»
E Dantès, lieto di poter evitare la storia e la spiegazione che non
gli avrebbero che maggiormente confermato l’infelice condizione del
suo amico, fuggì per lo stretto andito, mentre Faria acquistando una
specie di energia dalla paura, spinse col piede la pietra che
ricoprì con la stuoia.
Era il governatore, che avvisato dal carceriere della malattia di
Faria, veniva ad assicurarsi della sua gravità.
Faria lo ricevette seduto, evitò qualunque gesto che potesse
comprometterlo, e riuscì a nascondere al governatore di essere stato
colpito da una paralisi, che gli aveva bloccato metà della persona.
Il suo timore era che il governatore, mosso a pietà, volesse farlo
trasportare in una prigione più sana e lo separasse in tal modo dal
suo giovane compagno: fortunatamente non fu così. Il governatore si
ritirò convinto che il povero pazzo, per il quale sentiva nel fondo
del cuore un po’ di simpatia, non era affetto che da una leggera
indisposizione.
Intanto Edmond, seduto sul letto e con la testa fra le mani, cercava
di riordinare le idee. Dacché conosceva Faria, aveva sempre scorto
in lui tanta ragione e tanta logica, che non poteva comprendere come
questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse poi collegarsi
all’alienazione sopra un sol punto. Era Faria che s ingannava sul
suo tesoro, o erano gli uomini che s’ingannavano sul conto di Faria?
Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare a
visitare l’amico. Cercava di allontanare così il momento in cui
avrebbe acquistato la certezza che il suo compagno era pazzo; e
questa convinzione lo intimoriva molto.
Ma verso sera, dopo l’ora dell’ordinaria visita, Faria, non vedendo
più tornare il giovane, tentò di superare lo spazio che lo divideva
da lui.
Edmond rabbrividì sentendo gli sforzi dolorosi che faceva il vecchio
per trascinarsi: la sua gamba era inerte e non poteva aiutarsi che
con un sol braccio.
Edmond fu obbligato a tirarlo a sé, poiché da solo non sarebbe
riuscito a uscire per la stretta apertura che immetteva nella cella
di Dantès.
«Eccomi implacabilmente a perseguitarvi», disse con un sorriso di
benevolenza. «Avete creduto di potere sfuggire alla mia munificenza,
ma ciò non vi è servito a niente. Ascoltatemi dunque…»
Edmond vedendo che non poteva più evitarlo, fece sedere il vecchio
sul letto e si mise vicino a lui sullo sgabello.
«Voi sapete», disse Faria, «che io ero il segretario, il confidente,
l’amico del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Devo
a questo degno personaggio tutto ciò che ho provato di felicità in
questa vita. Egli non era ricco, benché le ricchezze della sua
famiglia fossero proverbiali, e abbia spesso inteso dire: “ricco
come uno Spada”. Egli viveva sotto questa reputazione di opulenza:
il suo palazzo fu il mio Eden. Educai i suoi nipoti, che morirono, e
allora dedicandomi con devozione a tutte le sue volontà, cercai di
rendergli tutto ciò che aveva fatto per me. Avevo sovente visto lo
Spada scartabellare dei libri antichi di famiglia tutti ricoperti di
polvere. Un giorno che gli rimproveravo queste inutili veglie, e
l’abbattimento che le seguiva, mi guardò sorridendo amaramente, e mi
aprì un libro: era la storia d’Italia. Al ventesimo capitolo stava
scritto: “Cesare Borgia prese d’assalto Senigallia, che apparteneva
a Francesco Maria della Rovere; il giorno della vittoria chiamò a
palazzo tutti i condottieri del suo esercito e a misura che
entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e
temendo qualche lega che potesse inceppare le sue vittorie nella
Romagna, fece a tutti l’un dopo l’altro tagliar la testa sul limitar
della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di Città di
Castello, Oliverotto, signore di Bermo, Paolo Orsini, duca di
Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc.
«Dopo questa lettura, egli mi riferì così: “Guido Spada non aveva
potuto disimpegnarsi dal collegare le sue bande con quelle di Cesare
Borgia, quando si portò a invadere la Romagna, temendo che un
rifiuto non solo gli potesse costar la vita, ma la perdita di quegli
immensi beni di cui era ritenuto possessore, e che conservava
gelosamente per trasmetterli a un nipote che amava qual figlio.
«Quando Guido Spada, dopo la vittoria di Senigallia, ricevette
l’invito a pranzo del Borgia, sospettò il tradimento che veniva
ordito, e accorgendosi che anche se non fosse andato al convito la
sua vita sarebbe rimasta sempre in balia del Borgia, si limitò a
spedire un messaggio al nipote a Roma per avvertirlo del luogo ove
teneva il suo testamento.
«Il messaggero, la cui partenza era stata spiata, fu ucciso durante
il cammino, ma non gli fu ritrovato altro foglio se non uno scritto
dello Spada in cui diceva: “Lascio al mio nipote amatissimo i miei
scrigni e i miei libri, fra i quali la mia bibbia dagli angoli
d’oro, desiderando che egli la conservi quale ricordo del suo
affezionatissimo zio”.
«Gli eredi cercarono in ogni luogo, ammirarono la bibbia, fecero man
bassa dei mobili, e si meravigliarono che Spada, l’uomo ricco, non
fosse effettivamente che il più miserabile degli zii. Nessun tesoro
fu rinvenuto, se pure si vuole chiamare tesori le scienze racchiuse
nella biblioteca e nel laboratorio chimico.
«Il messaggero assassinato durante il viaggio, ebbe il tempo prima
di morire, di dire a un sacerdote, che gli aveva somministrato i
conforti della religione davanti alla chiesetta presso la quale fu
aggredito, che facesse sapere al nipote di Guido Spada in tutta
segretezza, che fra le carte dello zio avrebbe certamente trovato il
suo testamento.
«Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del morente; e dopo
questo annuncio si raddoppiarono le ricerche; ma tutto fu invano.
Non restarono al nipote che due palazzi, una villa dietro al
Palatino, e un migliaio circa di scudi in gioielli, e altrettanto in
moneta contante.
«La famiglia Spada non riprese più il lustro di prima e rimase
dubbia la loro fortuna. Un mistero eterno pesò sopra questa cosa e
la pubblica fama fece credere che Cesare Borgia avesse trovato i
tesori della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di
Senigallia.
«Fin qui», s’interruppe Faria sorridendo, «non vi sembrerà che
questo racconto sia privo di senno.»
«Oh, amico mio», disse Dantès, «mi sembra, al contrario, di leggere
una cronaca piena d’interesse. Continuate.»
«Continuo. La famiglia si adattò a questa oscurità; gli anni
trascorsero. Fra i discendenti, alcuni furono soldati, altri
diplomatici; alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni si
arricchirono, altri finirono per rovinarsi.
«Ma veniamo all’ultimo della famiglia, a quello di cui fui
segretario, al conte Spada.
«Io lo avevo spesso sentito lamentarsi della sproporzione del suo
rango con la sua fortuna, per cui lo avevo consigliato di porre i
pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia: ascoltò il mio
consiglio, e in tal modo raddoppiò le sue entrate.
«La famosa bibbia dagli angoli d’oro era rimasta in famiglia, ed era
il conte Spada quello che la possedeva: fu conservata di padre in
figlio, perché la clausola bizzarra del testamento ne aveva fatto
una vera reliquia, custodita con venerazione in famiglia. Era un
libro illustrato da magnifiche miniature gotiche e così pesanti
d’oro, che ci voleva un leggìo per poterla usare.
«Alla vista delle carte di ogni specie, titoli, contratti,
pergamene, che venivano custodite negli archivi della famiglia e che
appartenevano a Guido Spada, mi misi a mia volta, come venti
servitori, venti intendenti e venti segretari che mi avevano
preceduto, a esaminare queste filze di scartafacci.
«A onta dell’attività e della precisione delle mie instancabili
ricerche, non trovai assolutamente niente. Frattanto avevo letto e
anche scritto una storia esatta delle genealogie della famiglia
Borgia, al solo scopo di assicurarmi se fosse stata aggiunta alla
famiglia di questi principi qualche gran fortuna dopo la morte di
Guido Spada, e non potei notare altro se non l’addizione dei beni
degli altri condottieri con lui decapitati, che furono ben presto
esauriti nelle guerre di Romagna.
«Ero dunque sicuro che né Cesare Borgia, né la sua famiglia si erano
impadroniti delle immense fortune di cui si credevano possessori gli
Spada, ma che queste, se esistevano, erano rimaste senza padrone,
come quei tesori delle favole arabe che dormono nel seno della
terra, sotto la custodia di un genio.
«Sfogliai, contai, calcolai mille e mille volte le rendite e le
spese della famiglia da trecento anni in poi, e tutto fu inutile.
Confrontai questi calcoli con le spese e rendite prima
dell’avvenimento di Guido, e vi ritrovai una incalcolabile
differenza. Ciò nonostante tutto fu inutile, io restai nella mia
ignoranza, e il conte Spada nella sua miseria.
«Il mio padrone morì. Dal suo contratto vitalizio non aveva escluso
che le sue carte di famiglia, la sua biblioteca composta di
cinquemila volumi e la sua famosa bibbia; mi lasciò legatario di
tutto questo, unitamente a un migliaio di scudi romani che possedeva
in denaro contante, con la condizione di fargli dire delle messe
nell’anniversario della sua morte, di formare un albero genealogico
della sua famiglia e di scrivere una storia della medesima, il che
ho fatto esattamente…»
E qui siccome Dantès faceva qualche moto d’impazienza, Faria
s’interruppe dicendo: «Tranquillizzatevi, Edmond, ci avviciniamo
alla fine. Nel 1807, un mese prima del mio arresto, e quindici
giorni dopo la morte del conte Spada, era il 25 di dicembre, e
vedrete fra poco in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta
in mente, rileggevo per la centesima volta queste carte che mettevo
in ordine perché, appartenendo ormai il palazzo a uno straniero, io
stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando con me una
quantità di libri, la mia biblioteca e la mia famosa bibbia,
allorché stanco di questo continuo studio, e indisposto per un
pranzo indigesto, abbandonai la testa sopra le mani e mi
addormentai.
«Erano le tre dopo mezzogiorno. Mi svegliai che la pendola batteva
le sei. Alzai la testa e mi ritrovai nella più profonda oscurità.
Suonai perché mi si portasse il lume: non venne alcuno. Mi risolsi
allora a servirmi da me; quest’era d’altronde un’abitudine da
filosofo che avevo adottato. Presi con una mano la bugia che era sul
tavolo, con l’altra, non trovando zolfanelli, cercai un pezzo di
carta che pensai d’accendere a un resto di fuoco nel caminetto; ma
nell’oscurità, temendo di prendere una carta preziosa, invece di un
foglio inutile, esitai; allora mi ricordai di aver visto nella
famosa bibbia che era sulla tavola, vicino a me, un vecchio foglio
tutto ingiallito che sembrava fosse servito da segnalibro nella
pagina ove aveva cessato la lettura il suo vecchio proprietario, e
che aveva attraversato i secoli, mantenuto al suo posto dalla
venerazione degli eredi.
«Cercai a tastoni quest’inutile foglio, lo trovai, lo accartocciai,
lo accostai alla fiamma moribonda e lo accesi; ma sotto le mie dita,
come per magia, a misura che il fuoco avanzava vidi dei caratteri
giallastri uscire dalla carta e apparire sul foglio. Allora fui
preso dal terrore; serrai tra le mani il foglio, spensi il fuoco,
accesi la bugia alla brace; riaprii con indicibile emozione il
foglio ripiegato, e capii che un misterioso inchiostro simpatico
aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto al contatto del vivo
calore: poco più di un terzo del foglio era stato consumato dalla
fiamma. Rileggetelo, Dantès; poi quando lo avrete riletto, vi
completerò le frasi interrotte e il senso incompiuto.»
E Faria, trionfante, offrì il foglio a Dantès che questa volta lesse
avidamente le parole seguenti, tracciate con un inchiostro color
ruggine:
Oggi 28 marzo 1492, essendo costretto per lo mio me…
di seguire in un con le…
gia nella guerra di Romagna, e…
parato a qualunque tradimento p…
cipe, dichiaro a mio nipote…
erede universale, che ho…
per aver visitato con me…
isola di Montecristo tutto quanto…
preziose, diamanti, argenterie…
per il valore circa di due…
troverà passando la ventesima…
dell’Est in linea retta. Due aper…
in queste grotte: il tesoro sta nell’angolo…
qual tesoro lascio a lui e cedo…
solo erede.
28 marzo 1492, GUID…
«Ora», riprese Faria, «leggete quest’altra carta.» E presentò a
Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe.
«Adesso», disse, dopo aver visto che Dantès aveva letto fino
all’ultima riga, «avvicinate i due frammenti, e giudicate.»
Dantès obbedì; i due frammenti riuniti davano la seguente lettera:
«Oggi 28 marzo 1492, essendo costretto per lo mio meglio di seguire
in un con le mie genti Cesare Borgia nella guerra di Romagna, e
dovendo essere preparato a qualunque tradimento per parte di questo
principe, dichiaro a mio nipote Giulio Spada, mio erede universale,
che ho nascosto in una direzione che egli conosce per aver visitato
con me, cioè nell’isola di Montecristo tutto quanto io posseggo in
pietre preziose, diamanti, argenterie, che solo io conosco questo
tesoro per il valore circa di due milioni di scudi romani e che egli
troverà passando la ventesima pietra della roccia a partirsi dal
seno dell’Est in linea retta. Due aperture sono state praticate in
queste grotte: il tesoro sta nell’angolo più lontano della seconda,
il qual tesoro lascio a lui e cedo in tutto come mio solo erede.
28 marzo 1492, GUIDO SPADA»
«Ebbene, capite finalmente?» disse Faria.
«È la dichiarazione di Guido Spada, è il testamento che fu cercato
per tanto tempo», disse Edmond ancora incredulo.
«Sì, mille volte sì.»
«E chi l’ha ricostruito in tal modo?»
«Io, che con l’aiuto del frammento rimasto, ho indovinato il resto
misurando la lunghezza delle linee con quella della carta e
penetrando nel senso nascosto col mezzo del senso visibile, come uno
si guida in un sotterraneo con un residuo di luce che gli venga
dall’alto.»
«E che faceste quando avete creduto di acquistare questa
convinzione?»
«Volevo partire subito e anzi sono partito sul momento portando con
me il principio della mia grand’opera filosofica, ma la polizia
imperiale che conosceva le mie idee teneva gli occhi aperti su di
me. La mia partenza precipitosa, della quale non poteva conoscere la
causa, suscitò dei sospetti e nel momento in cui stavo per
imbarcarmi a Piombino, venni arrestato. Ora», continuò Faria
guardando Dantès con un’espressione quasi paterna, «ora, amico mio,
voi ne sapete quanto me. Se noi ci salviamo assieme la metà del mio
tesoro è vostra, se io muoio qui, e voi vi salvate solo, vi
appartiene in totalità.»
«Ma», domandò Dantès con esitazione, «questo tesoro non ha nel mondo
possessori più legittimi di noi?»
«No, no, rassicuratevi. La famiglia Spada si è estinta del tutto.
D’altronde, l’ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo erede, e
nel lasciarmi per legato questa bibbia simbolica, mi ha pure
lasciato tutto ciò che conteneva. No, no, tranquillizzatevi, se un
giorno potremo metter le mani su questa fortuna, potremo goderne
senza rimorso.»
«E dite che questo tesoro ammonta…?»
«A due milioni di scudi romani, circa tredici milioni in moneta di
oggi.»
«Impossibile!» disse Dantès colpito dall’enormità della somma.
«Impossibile, e perché?» rispose il vecchio. «La famiglia Spada era
una delle più antiche e delle più potenti del XV secolo. D’altronde
in quei tempi, in cui era sospesa ogni speculazione e ogni
industria, non erano rari questi ammassi di oro e di pietre; anche
oggigiorno in Roma vi sono delle famiglie che muoiono di fame, e che
hanno quasi un milione in diamanti e pietre preziose trasmesse per
maggiorasco, che non possono essere alienate.»
Edmond che credeva di sognare, ondeggiava fra l’incredulità e la
gioia.
«Ho custodito per sì lungo tempo tal segreto con voi», continuò
Faria, «perché prima vi volevo conoscere meglio, e poi volevo farvi
una sorpresa. Se noi fossimo evasi prima del mio attacco di
epilessia, vi avrei condotto a Montecristo; ora», aggiunse con un
sospiro, «siete voi che mi condurrete. Ebbene, Dantès, non mi
ringraziate?»
«Questo tesoro è vostro, amico mio», disse Dantès; «appartiene a voi
solo, e io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro
parente.»
«Siete mio figlio, Dantès!» esclamò il vecchio. «Voi siete il figlio
della mia prigionia. Dedito interamente agli studi, Dio vi ha
inviato a me per consolare l’uomo, che non è stato padre, e il
prigioniero, che non poteva essere libero.»
E Faria tese il braccio non paralizzato al giovane, che si gettò al
suo collo piangendo.
19. Il terzo attacco
Ora che il tesoro, per lungo tempo al centro delle meditazioni di
Faria, poteva assicurare la felicità di colui che egli veramente
amava al pari di un figlio, tale tesoro era raddoppiato di valore ai
suoi occhi: ogni giorno si divertiva a ricontarlo, illustrando a
Dantès tutto ciò che poteva fare di bene ai suoi amici quell’uomo
che ai nostri giorni possedesse una fortuna di tredici-quattordici
milioni. Allora il viso di Dantès si intristiva, perché il
giuramento di vendetta che aveva fatto si presentava al suo
pensiero, e rifletteva quanto male poteva fare ai suoi nemici un
uomo che ai nostri giorni possedesse tredici-quattordici milioni.
Faria ignorava tutto dell’isola di Montecristo, per contro Dantès la
conosceva; vi era spesso passato davanti.
Tale isola si trova a venticinque miglia da Pianosa, fra la Corsica
e l’Elba, e una volta vi era anche approdato. Quest’isola era, è
stata sempre, ed è ancora completamente deserta; è una roccia di
forma quasi conica che sembra essere stata sospinta da qualche
cataclisma vulcanico dal fondo dell’abisso alla superficie del mare.
Dantès tracciava la pianta dell’isola a Faria, e questi dava dei
consigli a Dantès sui modi per ritrovare il tesoro.
Tuttavia Dantès era ben lontano dall’essere così entusiasta e
fiducioso quanto il vecchio. Era sicuro, ora, che Faria non era
pazzo, e il modo con cui era giunto alla scoperta che aveva fatto
credere alla sua follia, raddoppiava la sua ammirazione per lui, ma
non poteva ugualmente credere che questo deposito, ammesso che un
giorno fosse esistito, esistesse ancora, e quando non guardava
questo tesoro come una chimera, lo guardava come molto lontano.
Nel frattempo, come se il destino avesse voluto togliere ai
prigionieri l’ultima speranza, e far credere loro che erano
condannati a un perpetuo carcere, una nuova disgrazia venne a
colpirli.
La galleria che sboccava sul mare, minacciando rovina da lungo
tempo, era stata ricostruita, furono sostituiti ai soffitti e ai
travi degli enormi dadi di roccia sul foro già per metà interrato da
Dantès. Senza questa precauzione, che fu suggerita dal vecchio al
giovane, la loro disgrazia sarebbe stata ancora maggiore, perché si
sarebbe scoperto il tentativo di evasione e sarebbero stati
senz’altro divisi. Una nuova porta più forte e più inesorabile delle
altre si era chiusa ancora una volta sopra di loro.
«Vedete bene», diceva Dantès con una dolce tristezza a Faria, «che
Dio vuol togliermi fino il merito di ciò che chiamate mia devozione
per voi. Vi ho promesso di restare eternamente con voi, e ora non
sono più libero di non mantenere la mia parola. Non avrò più di voi
il tesoro e noi non usciremo di qui né l’uno né l’altro. Del resto,
il mio vero tesoro siete voi, amico mio, quello che mi attendeva
sotto le tetre volte di questa prigione siete voi, è la vostra
presenza, il nostro convivere cinque o sei ore del giorno assieme
eludendo la vigilanza dei nostri carcerieri. Sono questi raggi
d’intelligenza che voi avete versato nel mio intelletto, queste
lingue che avete conficcato nella mia memoria, con tutte le loro
ramificazioni filosofiche. Queste scienze diverse che mi avete rese
così facili con la profondità della conoscenza che me ne avete data,
e con la chiarezza dei principi a cui le riduceste. Ecco il mio
tesoro, amico, ecco in che modo mi avete fatto ricco e felice.
Credetemi e consolatevi: ciò per me val molto più delle verghe d’oro
e delle casse di diamanti, quand’anche non fossero così
problematiche, come le nubi che si vedono la mattina ondeggiare sul
mare, che si prendono per terraferma e che evaporano, si
volatizzano, svaniscono man mano che uno si avvicina. Vedervi vicino
a me per il più lungo tempo possibile, ascoltare la vostra voce
eloquente, ornare il mio spirito, ritemprare l’anima mia, rendere
tutto me stesso capace di grandi e terribili cose, se mai un giorno
sarò libero, darmi aiuto così bene che la disperazione alla quale
ero sul punto di abbandonarmi quando vi conobbi, non ritrova più
posto; ecco tutta la mia fortuna: questa non è chimerica, io la
debbo realmente a voi, e tutti i sovrani della terra, fossero essi
anche tanti Cesari Borgia, non riuscirebbero a togliermela.»
Così i giorni seguenti, se non furono giorni felici per i due
prigionieri, passarono però molto in fretta. Faria che aveva
custodito il segreto del suo tesoro per tanto tempo, ora ne parlava
a ogni circostanza.
Come aveva previsto, restò paralizzato dal lato destro ed egli
stesso perse ogni speranza di potersene servire. Ma pensava sempre
al suo compagno, a una liberazione o a una evasione, e ne godeva per
lui. Per timore che la lettera potesse un giorno perdersi o
cancellarsi aveva obbligato Dantès a impararla a memoria, e Dantès
la sapeva dalla prima all’ultima parola. Allora distrusse la seconda
parte, certo che poteva essere ritrovata la prima, senza che ne
fosse indovinato il vero senso.
Qualche volta passava delle ore intere nel dare istruzioni a Dantès,
istruzioni che dovevano servirgli nei giorni della sua libertà.
Una volta libero, dal giorno, dall’ora, dal momento in cui sarebbe
stato libero, non doveva più avere che un solo e unico pensiero,
quello di arrivare a Montecristo in qualunque modo, restarvi solo
con un pretesto che non desse sospetto, e una volta là, una volta
solo, cercare di ritrovare le grotte meravigliose, scavare nel luogo
indicato, nell’interno della seconda grotta.
Aspettando in tal modo, le ore passavano, se non rapide, almeno
sopportabili. Faria, come abbiamo detto, senza aver recuperato l’uso
della mano e del piede, aveva recuperato tutta la chiarezza della
sua intelligenza e aveva insegnato al suo giovane compagno un poco
alla volta, oltre le cognizioni morali, di cui si è detto in
dettaglio, quell’arte sapiente e sublime del prigioniero che dal
niente sa trarre qualsiasi cosa.
Faria per timore di vedersi invecchiare, Dantès per il timore di
ricordarsi il suo passato quasi estinto, e che non era presente più
nel fondo della sua memoria, come perduto nella notte: tutto
procedeva come in quelle esistenze dove l’infelicità non ha
scomposto nulla, e che passano macchinalmente e con calma sotto
l’occhio della Provvidenza. Ma sotto questa calma superficiale
esistevano nel cuore del giovane, e fors’anche del vecchio, molti
slanci trattenuti, molti sospiri soffocati, che Faria faceva quando
era solo, Edmond quando rientrava nella sua cella.
Una notte Edmond si svegliò, come scosso, credendo di aver udito
chiamare; aprì gli occhi e tentò di squarciare la fitta oscurità.
Il suo nome, o piuttosto una voce lamentosa che tentava di
articolare il suo nome, giunse fino a lui. Si drizzò sul letto, il
sudore dell’angoscia gli imperlava la fronte, e ascoltò.
Non c’era alcun dubbio: il lamento veniva dalla cella del suo
compagno.
«Mio Dio», esclamò Dantès, «sarebbe forse…»
Spostò il suo letto, levò la pietra, si lanciò nel cunicolo
sotterraneo, giunse all’opposta estremità, la pietra era alzata.
Alla luce incerta e vacillante di quella lampada di cui abbiamo
altre volte parlato, Edmond vide il vecchio, che pallido e ancora
ritto, si aggrappava al legno del letto. I suoi lineamenti erano
sconvolti da quegli orribili sintomi che già conosceva, e che tanto
lo spaventarono la prima volta.
«Ebbene, amico mio», disse Faria rassegnato, «capite? Non occorre
che vi spieghi altro.»
Edmond gettò un grido doloroso, e del tutto smarrito si lanciò verso
la porta gridando: «Soccorso, soccorso!»
Faria ebbe ancora la forza di fermarlo per un braccio.
«Silenzio», disse, «o siete perduto! Non pensiamo più che a voi,
caro amico, a rendere la vostra prigionia sopportabile o la vostra
fuga possibile. Vi servirebbero molti anni per rifare da solo tutto
ciò che io ho fatto qui, e che sarebbe distrutto sull’istante se i
nostri sorveglianti sapessero della nostra amicizia. D’altronde
state tranquillo, amico mio, il carcere che abbandono non resterà
lungamente vuoto: un altro disgraziato verrà a prendere il mio
posto. A quest’altro voi comparirete come un angelo salvatore.
Quest’altro sarà forse giovane, forte, paziente come voi.
Quest’altro potrà aiutarvi nella vostra fuga, mentre io non ero
ormai altro che un impedimento. Non avrete più un mezzo cadavere
d’ostacolo ai vostri movimenti. Decisamente Dio fa finalmente
qualche cosa per il vostro bene: vi dà più di ciò che vi toglie, ed
è giusto ora ch’io muoia.»
Edmond non poté far altro che unire le mani ed esclamare: «Oh, amico
mio, amico mio, tacete».
Quindi riprendendo la sua forza, un istante perduta dal colpo
imprevisto, e il suo coraggio piegato dalle parole del vecchio:
«Oh», disse, «vi ho salvato una volta, vi salverò la seconda».
E sollevando il piede del letto ne cavò la boccettina in cui c’era
ancora un terzo del liquore rosso.
«Ecco», disse, «di questa bevanda salutare ve ne resta ancora.
Presto, presto, ditemi ciò che devo fare. Questa volta vi sono nuove
istruzioni da aggiungere? Parlate, amico mio, vi ascolto.»
«Non c’è alcuna speranza», rispose Faria, scuotendo la testa, «ma
non importa. Dio vuole che l’uomo da lui creato e nel cuore del
quale ha profondamente scolpito l’amore della vita, faccia tutto ciò
che può per conservare questa esistenza, spesso penosa, ma sempre
cara.»
«Oh sì, sì», rispose Dantès, «e io vi salverò.»
«Ebbene, dunque, tentate, il freddo mi prende, sento il sangue
affluire al cervello; quest’orribile tremito che mi fa battere i
denti e sembra slogarmi le ossa, comincia a scuotere il mio corpo.
Tra cinque minuti la crisi scoppierà, fra un quarto d’ora non vi
sarà altro di me che un cadavere.»
«Ah!» esclamò Dantès, col cuore lacerato dal dolore.
«Voi farete come l’altra volta, soltanto non aspetterete così a
lungo. A quest’ora tutte le molle della mia vita sono consunte, e la
morte non avrà più…» mostrando il braccio e la gamba paralizzata,
«…non avrà più che la metà del suo lavoro da fare. Se, dopo avermi
versato dodici gocce in bocca, invece di dieci, voi vedete che io
non rinvengo, allora verserete il rimanente. Frattanto portatemi sul
letto perché non posso più reggermi in piedi.»
Edmond prese il vecchio fra le sue braccia e lo stese sul letto.
«Ora, amico», disse Faria, «sola consolazione della mia misera vita,
voi, che il cielo mi dette un po’ tardi, ma pure mi dette qual dono
inapprezzabile di cui lo ringrazio, nell’istante in cui sto per
separarmi per sempre da voi, vi auguro tutto il bene, tutta la
felicità che meritate. Figlio mio, vi benedico!»
Dantès si gettò in ginocchio, appoggiando la testa sopra il letto
del vecchio.
«Ma prima di ogni altra cosa, ascoltate bene ciò che vi dico in
questo istante supremo: il tesoro di Spada esiste, Dio permette che
non vi sia più per me né distanza né ostacolo. Io lo vedo nel fondo
della seconda grotta, i miei occhi penetrano la profondità della
terra e restano abbagliati da tante ricchezze… Se voi riuscite a
fuggire, ricordatevi che il povero Faria da tutti creduto pazzo, non
lo era. Correte a Montecristo, approfittate della fortuna,
approfittatene, voi, che avete sofferto abbastanza…»
Una scossa violenta interruppe il vecchio, Dantès rialzò la testa e
vide che i suoi occhi s’iniettavano di rosso, come se un’onda di
sangue fosse salita dal petto alla fronte.
«Addio, addio!» mormorò il vecchio, stringendo convulsamente la mano
al giovane, «addio!…»
«Oh, non ancora, non ancora», esclamò questi. «Non mi abbandonate.»
«Oh, mio Dio! Soccorretelo… aiuto… aiuto!…»
«Silenzio, silenzio!» mormorò il moribondo. «Che non ci separino, se
volete salvarmi.»
«Avete ragione. Oh sì, state tranquillo, vi salverò… Sebbene
soffriate molto, sembrate soffrir meno della prima volta…»
«Oh, disingannatevi, io soffro meno perché ho minor forza. Alla
vostra età si ha fede nella vita, è il privilegio della gioventù di
credere e sperare; ma la vecchiaia vede più chiaramente la morte.
Oh! eccola… viene… tutto è finito… la mia vista si perde… la mia
ragione svanisce… la vostra mano Dantès… addio!…»
E riunendo tutte le sue forze e le sue facoltà fece un ultimo sforzo
per rialzarsi dicendo: «Montecristo… non dimenticate Montecristo…»
E ricadde sul letto.
La crisi fu terribile: membra contorte, pupille gonfiate, schiuma
sanguinolenta, un corpo senza movimento, ecco ciò che restò su quel
letto di dolore, nel posto dove un momento prima era stato disteso
un essere intelligente.
Dantès prese la lampada, la posò al capezzale del letto sopra una
pietra sporgente, da dove la sua luce tremante rischiarava con uno
strano e fantastico riflesso quel viso scomposto e quel corpo inerte
e rigido. Là, con gli occhi fissi, aspettò intrepidamente l’istante
per somministrare il salutare rimedio.
Quando credette giunto il momento, prese il coltello, disserrò i
denti che offrivano meno resistenza della prima volta, contò una
dopo l’altra le dodici gocce, e aspettò. La boccettina conteneva
ancora il doppio circa di ciò che aveva versato. Aspettò dieci
minuti, un quarto d’ora, una mezz’ora, niente. Tremante, coi capelli
irti, la fronte ghiacciata di sudore, contava i secondi coi battiti
del cuore.
Allora pensò che era tempo di tentare l’ultima prova: avvicinò la
boccettina alle labbra violacee di Faria, e senza aver bisogno di
scostare le mascelle, rimaste aperte, versò il rimanente del liquore
che conteneva.
Il rimedio produsse un effetto galvanico, un violento tremore scosse
le membra del vecchio, i suoi occhi si riaprirono, spaventosi a
vedersi, gettò un sospiro che sembrò un grido, quindi quel corpo
tremante si calmò a poco a poco sino all’immobilità; i soli occhi
rimasero aperti.
Una mezz’ora, un’ora, un’ora e mezzo passarono. Durante quest’ora e
mezzo d’angoscia, Edmond curvo sull’amico, con la mano sul suo petto
sentì successivamente quel corpo raffreddarsi, e quel cuore spegnere
il suo battito sempre più sordo e profondo.
Finalmente sopraggiunse l’ultimo fremito del cuore, la faccia
divenne livida, gli occhi rimasero aperti, lo sguardo si fece
vitreo.
Erano le sei del mattino, il giorno cominciava a sorgere, il suo
raggio malinconico entrava nella cella e faceva impallidire la luce
della lampada vicina a spegnersi. Riflessi strani passavano sul viso
del cadavere dandogli di tempo in tempo apparenze di vita.
Fino a che durò questa lotta, tra il giorno e la notte, Dantès poté
ancora dubitare, ma da che il giorno vinse, fu certo d’essere in
compagnia di un cadavere. Allora un terrore profondo e invincibile
s’impadronì di lui: non osò più stringere quella mano che pendeva
fuori dal letto, non osò più fissare i suoi occhi su quelli immobili
e bianchi, che tentò inutilmente più volte di chiudere, e che sempre
si riaprivano. Spense la lampada, la nascose con ogni cura, fuggì,
rimettendo alla meglio la pietra al di sopra della sua testa. Del
resto era tempo, il carceriere stava per venire.
Questa volta il carceriere cominciò la sua visita da Dantès: uscendo
dalla sua cella, egli passava in quella di Faria al quale portava la
colazione e la biancheria. Niente faceva capire in quest’uomo, che
fosse a conoscenza dell’accaduto.
Quando lui uscì, Dantès fu preso da un’indicibile impazienza di
sapere ciò che sarebbe accaduto nella cella del suo disgraziato
amico: rientrò dunque nel passaggio sotterraneo, e giunse in tempo
per sentire le esclamazioni del carceriere che chiamava aiuto. Ben
presto entrarono altri carcerieri, poi s’intese quel passo pesante e
regolare, comune ai soldati anche quando sono fuori del loro
servizio.
Dietro i soldati, giunse il governatore.
Edmond sentì il rumore del letto sul quale veniva scosso il
cadavere, intese la voce del governatore che ordinava di gettargli
acqua sul viso, e che poi, visto inutile ogni tentativo, mandava a
chiamare il medico, d’urgenza.
Il governatore uscì, e giunsero alle orecchie di Dantès alcune
parole di compassione, miste a risa e facezie dei carcerieri.
«Andiamo, andiamo», diceva uno di questi, «il pazzo è andato a
raggiungere i suoi tesori: buon viaggio.»
«Non avrà, con tutti i suoi milioni, di che pagare il suo lenzuolo
funebre», diceva l’altro.
«Oh», faceva eco un terzo, «le lenzuola del castello d’If non
costano molto.»
«Può essere che, essendo un abate, gli vorranno usare qualche
riguardo.»
«Allora avrà l’onore del sacco.»
Edmond ascoltava, non perdeva una parola, ma non capiva bene il
significato delle loro frasi.
Ben presto le voci cessarono e gli sembrò che i carcerieri
lasciassero la stanza. Ciononostante, egli non osò entrarvi,
potevano aver lasciato qualche carceriere a vegliare il morto.
Dopo un’ora circa, il silenzio si animò debolmente, quindi andò
crescendo il rumore. Era il governatore che tornava seguito da un
medico e da diversi ufficiali.
Si rinnovò per un momento il silenzio: era evidente che il medico si
accostava al letto ed esaminava il cadavere.
Ben presto il dialogo ricominciò: il medico analizzò il male di cui
era stato vittima il prigioniero, e dichiarò che era morto.
Domande e risposte si facevano con una noncuranza che indignò
Dantès.
Gli sembrava che tutti avrebbero dovuto sentire per il povero Faria
una parte dell’affetto che gli portava.
«Sono dispiaciuto per ciò che mi annunciate», disse il governatore,
alla certezza dal medico che il vecchio fosse realmente morto; «era
un prigioniero docile, inoffensivo, divertente con la sua follia, e
soprattutto facile a sorvegliarsi.»
«Oh», riprese il carceriere, «si sarebbe potuta risparmiare
qualunque sorveglianza. Garantisco che sarebbe potuto restar qui
cinquant’anni, senza fare il più piccolo tentativo di evasione.»
«Frattanto», riprese il governatore, «non che io dubiti della vostra
scienza, ma è necessario, per la mia responsabilità, assicurarci che
il prigioniero sia realmente morto.»
Si fece un nuovo silenzio, e Dantès sempre in ascolto suppose che il
medico esaminasse e palpasse una seconda volta il cadavere.
«Potete stare tranquillo», disse il medico, «è effettivamente morto,
e io me ne assumo la responsabilità.»
«Voi sapete, signore», riprese il governatore insistendo, «che noi
non ci accontentiamo, in casi simili a questo, di un semplice esame.
Perciò malgrado le apparenze vi prego di adempiere a tutte le
formalità di legge.»
«Che si faccia arroventare un ferro», disse il medico, «ma in
verità, questa è una precauzione inutile.»
L’ordine di arroventare un ferro fece fremere Dantès.
S’intesero dei passi frettolosi, il cigolio della porta, qualcuno
andare e venire, e dopo pochi istanti un carceriere rientrò dicendo:
«Ecco un braciere con un ferro».
Si rinnovò il silenzio per un momento, poi s’intese lo sfrigolio
delle carni che bruciavano e il cui odore nauseabondo penetrò
perfino dietro il nascondiglio di Dantès che lo sentì con orrore.
A quell’odore di carne carbonizzata, il sudore scaturì dalla fronte
del giovane che per un istante credette di svenire.
«Voi vedete», disse il medico, «che è veramente morto. Questa
bruciatura al tallone è decisiva, il povero pazzo è guarito dalla
sua follia e liberato dalla sua prigionia.»
«Non si chiamava Faria?» domandò uno degli ufficiali che
accompagnavano il governatore.
«Sì», rispose questi, «e pretendeva che questo fosse un nome antico.
Però era molto dotto e molto ragionevole su tutti i punti che non
avevano relazione con il suo tesoro, ma su questo, bisogna
convenire, era intrattabile.»
«È l’affezione che noi chiamiamo monomania», disse il medico.
«Non avete mai avuto di che lamentarvi di lui?» domandò il
governatore a quel carceriere incaricato di portargli il cibo.
«Mai, signor governatore», rispose il carceriere, «mai,
assolutamente. A volte anzi mi divertiva molto raccontandomi delle
storie, e un giorno che mia moglie era malata mi scrisse una ricetta
che la guarì.»
«Ah, ah», fece il medico, «ignoravo di aver a che fare con un
collega. Spero, signor governatore», aggiunse ridendo, «che riguardo
a questo, lo tratterete con considerazione.»
«Sì, sì, state tranquillo, sarà decentemente sepolto nel sacco più
nuovo che si potrà trovare: siete contento?»
«Dobbiamo adempiere a quest’ultima formalità alla vostra presenza,
signor governatore?» domandò un carceriere.
«Senza dubbio, ma sbrigatevi; non posso restare in questa stanza
tutta la giornata.»
Si sentirono di nuovo dei passi: un istante dopo il rumore di una
tela spiegazzata giunse alle orecchie di Dantès: il letto
scricchiolò sulle traverse, un passo come di chi porta un peso gravò
sulla pietra sotto cui stava Dantès, quindi il letto tornò a
scricchiolare sotto il peso che gli si rendeva.
«A questa sera», disse il governatore.
«La messa vi sarà?» domandò un ufficiale.
«Impossibile», disse il governatore. «Il cappellano del castello
venne ieri a chiedermi un permesso di otto giorni per fare un breve
viaggio a Hyères. Glieli ho concessi, immaginando che nessun
prigioniero sarebbe morto durante la sua assenza; il povero Faria
non doveva aver tanta fretta se voleva il suo requiem.»
Intanto si compivano i preparativi per la sepoltura.
«A questa sera», disse il governatore, quando furono finiti.
«A che ora?» domandò il carceriere.
«Fra le dieci e le undici.»
«Si deve vegliare il morto?»
«E perché? Si chiuda la cella, come se fosse vivo, e nient’altro.»
Allora i passi si allontanarono, le voci gradatamente si spensero,
si fece sentire il cigolio dei cardini della porta che si chiudeva e
lo stridere della serratura.
Un silenzio più tetro di quello della solitudine, il silenzio della
morte, invase tutto, perfino l’anima agghiacciata del giovane.
Allora sollevò lentamente la pietra sulla sua testa, e gettò uno
sguardo indagatore nella cella: la cella era vuota.
Dantès uscì dal suo nascondiglio.
20. Il cimitero del castello d’If
Sopra il letto, disteso in tutta la sua lunghezza e appena
rischiarato dal chiarore un giorno nebbioso che penetrava attraverso
la finestra, si poteva vedere un sacco di tela grossa sotto le cui
larghe pieghe si distingueva confusamente una forma lunga,
irrigidita: questo era il lenzuolo funebre di Faria, un lenzuolo di
scarso valore al dire degli stessi carcerieri.
In tal modo tutto era finito. Una separazione materiale già esisteva
fra Dantès e il vecchio amico: egli non poteva vedere più i suoi
occhi rimasti aperti per guardare al di là della morte, non poteva
più stringere quella mano operosa che aveva sollevato il velo che
copriva tante cose nascoste. Faria, l’utile, il buon compagno al
quale si era unito con tanto interesse, non esisteva più che nella
sua memoria! Allora si sedette ai piedi di quel terribile letto e
s’immerse in una cupa e amara melanconia.
Infine era solo, solo! Era ricaduto nel silenzio, si ritrovava in
faccia al niente! Solo, non più la vista, non più la voce dell’unico
essere umano che ancora lo teneva attaccato alla terra! Non era
meglio morire, anche col rischio di passare per la lugubre porta dei
patimenti? L’idea di un suicidio, scacciata dal suo amico,
allontanata dalla sua presenza, ritornava allora a drizzarsi come un
fantasma vicino al letto di Faria.
«Se potessi morire», disse, «andrei dove è andato lui. Ma come si fa
a morire? È facile», riprese ridendo. «Resto qui, mi getto sul primo
che entra, lo strangolo e sarò ghigliottinato.»
Ma poiché accade che tanto nei grandi dolori, quanto nelle grandi
tempeste l’abisso si trova fra le due sommità dei flutti, così
Dantès indietreggiò all’idea di questa morte infamante e
precipitosamente discese da questa disperazione a una sete ardente
di vita e di libertà.
«Morire! No, no!» esclamò. «Non vale la pena di aver vissuto tanto,
di aver tanto sofferto, per morire così. Morire era bene, quando
avevo preso la decisione l’altra volta, tanti anni fa, ma ora
sarebbe veramente troppo. No, io voglio vivere, voglio lottare fino
all’ultimo, voglio riconquistare quella felicità che mi fu tolta.
Prima di morire, dimenticavo che ho i miei carnefici da punire e
forse anche qualche amico da ricompensare. Ora sarò dimenticato qui,
e non uscirò dal mio carcere che nello stesso modo di Faria.»
A tale parola Edmond restò immobile, con gli occhi fissi, come colui
che viene colpito da una repentina idea, da un’idea che spaventa.
D’un tratto si alzò, portò la mano alla fronte come avesse le
vertigini, fece due o tre giri intorno alla stanza, e tornò a
fermarsi davanti al letto.
«Oh, chi mi manda questo pensiero? Sei tu, o mio Dio? Poiché i soli
morti escono liberamente da qui, prendiamo il posto dei morti.»
Poi, senza aspettare il tempo di pentirsi di questa decisione, senza
pensarci oltre per timore di distruggere questa disperata decisione,
si chinò sopra il macabro sacco, l’aprì col coltello fatto da Faria,
levò il cadavere dal sacco, lo trascinò nella propria cella, lo
depose sul suo letto, gli pose in capo quel pezzo di tela con cui
usava coprirsi, baciò un’ultima volta quella fronte ghiacciata,
provò nuovamente a chiudere quegli occhi ribelli che continuavano a
rimanere aperti, voltò la testa dalla parte del muro, affinché il
carceriere, portando il cibo della sera, potesse credere che
dormisse, cosa che non di rado accadeva, rientrò nel sotterraneo,
tirò a sé il letto contro il muro, giunse nell’altra cella, prese
dal nascondiglio l’ago e il filo, si levò i suoi cenci affinché
sotto la tela sentissero le carni nude, entrò nel sacco, si pose
nella stessa posizione in cui era il cadavere, e richiuse il sacco
con una cucendolo dal di dentro. Si sarebbe potuto sentire il
battito del suo cuore, se per disgrazia in quel momento fosse
entrato qualcuno.
Dantès avrebbe potuto aspettare la visita della sera, ma temeva che
il governatore avesse potuto cambiare idea, facendo portar via il
cadavere qualche tempo prima.
A quel punto la sua ultima speranza si sarebbe perduta.
Il suo piano era stabilito, ecco ciò che egli contava di fare: se
durante il tragitto i becchini si fossero accorti di portare un vivo
invece di un morto, Dantès non avrebbe lasciato loro il tempo di
verificarlo: con un vigoroso colpo di coltello avrebbe aperto il
sacco, approfittando del loro terrore, e sarebbe fuggito. Se
avessero voluto fermarlo si sarebbe battuto col coltello. Se lo
avessero condotto al cimitero e deposto in una fossa, si sarebbe
lasciato coprire di terra; quindi essendo notte, appena i becchini
avessero voltato le spalle, si sarebbe aperto un passaggio
attraverso la terra molle e sarebbe fuggito. Egli sperava che il
peso della terra non sarebbe stato tanto grande da non poterlo
sollevare. Se poi s’ingannava, se al contrario il peso della terra
fosse stato così forte da morirne soffocato, tanto meglio: tutto
sarebbe finito!
Dantès non aveva mangiato dal giorno innanzi. Ma nella mattinata non
aveva pensato alla fame, e non vi pensava neppure allora. La sua
posizione era troppo precaria per lasciargli l’agio di fermare il
suo pensiero su altre idee. Il primo pericolo che correva Dantès,
era che il carceriere, portando il vitto delle sette, si fosse
accorto della sostituzione. Fortunatamente, più di venti volte,
tanto per misantropia che per stanchezza, Dantès aveva ricevuto il
carceriere addormentato e in questi casi, di solito, quell’uomo
deponeva il pane e la minestra sulla tavola e usciva senza dir
parola. Ma questa volta il carceriere poteva derogare dalle sue
abitudini di mutismo, interrogare Dantès, e vedendo che non gli
rispondeva, avvicinarsi al letto e scoprir tutto.
Allorché si avvicinarono le sette, cominciarono le vere angosce di
Dantès. Si sforzava di comprimere con la mano il petto per moderare
i palpiti del cuore, mentre con l’altra si asciugava il sudore che
scorreva lungo le tempie, dei brividi agitavano tutto il corpo, e di
tratto in tratto gli stringevano il cuore, come una morsa
ghiacciata. Allora credeva di morire.
Le ore passarono senza alcun movimento sospetto nel castello e
Dantès si persuase che aveva evitato il primo pericolo. Ciò era di
buon augurio.
Finalmente, verso l’ora stabilita dal governatore, cominciarono a
sentirsi dei passi sulla scala. Edmond capì che era giunto il
momento.
Si armò di tutto il suo coraggio, trattenne il respiro, e sarebbe
stato pienamente contento se avesse potuto trattenere ugualmente le
pulsazioni delle arterie.
Udì un rumore alla porta, il passo era doppio.
Dantès sospettò che fossero i due becchini che venivano a prenderlo.
Questo sospetto si cambiò in certezza quando intese il rumore che
fecero nel deporre la barella.
La porta s’aprì, una luce giunse fino agli occhi di Dantès.
Attraverso la tela che lo copriva, vide due ombre che si
avvicinavano al letto. Una terza restava alla porta, tenendo in mano
un lanternone.
I due uomini che si erano accostati al letto afferrarono il sacco
alle due estremità.
«Perbacco, per essere un vecchio magro, è piuttosto pesante!» disse
quello che lo sollevava dalla testa.
«Si dice che ogni anno le ossa diventino più pesanti di mezza
libra…» disse l’altro, che lo prendeva per i piedi.
«Hai fatto bene il nodo?» domandò il primo.
«Sarebbe da bestia il caricarci di un peso inutile», rispose il
secondo, «lo farò quando siamo giù.»
«Hai ragione; andiamo, dunque.»
«Perché questo nodo?» si domandò Dantès.
Il presunto morto fu trasportato dal letto alla barella.
Edmond s’irrigidiva per meglio rappresentare la parte del defunto.
Fu adagiato sulla barella, e l’esiguo corteo, rischiarato dall’uomo
che portava il lanternone, e che camminava avanti, risalì la scala.
D’un tratto avvertì l’aria fresca e libera della notte.
Dantès riconobbe il maestrale. Quella sensazione così improvvisa fu
per lui di delizia a un tempo e d’angoscia. I portatori fecero una
ventina di passi, poi si fermarono e deposero al suolo la barella.
Uno dei portatori si allontanò, e Dantès intese gli stivali sulle
pietre.
«Dove sono adesso?» si chiese Dantès.
«Sai che non è leggero affatto?» disse quello che era vicino a
Dantès sedendosi sull’orlo della barella.
Il primo impulso di Dantès fu quello di disfarsi di lui;
fortunatamente si trattenne.
«Fammi lume, animale», disse quello dei portatori che si era
allontanato, «o non troverò ciò che cerco.»
L’uomo col lanternone obbedì, sebbene l’ingiunzione fosse stata
fatta poco garbatamente.
«E che cosa cerca?» si domandò nuovamente Dantès. «Una pala senza
dubbio.»
Un’esclamazione di soddisfazione indicò che il becchino aveva
trovato ciò che cercava.
«Finalmente!» disse l’altro. «Ce n’è voluto…»
«Sì», rispose il primo, «ma non avrà perduto niente ad aspettare.»
A queste parole si avvicinò a Edmond, che sentì deporre vicino a lui
un corpo pesante e sonoro: nel medesimo istante una corda circondò i
suoi piedi fino a fargli male.
«Ebbene, è fatto il nodo?» domandò il becchino rimasto inattivo.
«Ed è fatto bene», disse l’altro, «non temere.»
«Allora, andiamo.»
E sollevata la barella, si rimisero in cammino.
Fecero una cinquantina di passi circa, poi si fermarono per aprire
una porta, quindi proseguirono: il rumore delle onde che
s’infrangevano contro gli scogli sui quali sorgeva il castello
giungeva sempre più distintamente all’orecchio di Dantès man mano
che avanzavano.
«Cattivo tempo!» disse uno dei becchini. «Non è una bella cosa
trovarsi in mare con questa nottata.»
«Sì», disse l’altro, «l’abate corre il rischio di bagnarsi.»
Ed entrambi scoppiarono in una risata.
Dantès non comprese bene il significato dello scherzo, ciononostante
gli si drizzarono i capelli in testa.
«Bene, eccoci arrivati…» riprese il primo.
«Più avanti, più avanti», disse l’altro, «sai che l’ultimo si
sfracellò sopra uno scoglio, e che il governatore ci disse
l’indomani che non eravamo buoni a niente.»
Furono fatti ancora cinque o sei passi sempre salendo, quindi Dantès
sentì che veniva preso per la testa e per i piedi, e che tutto il
suo corpo veniva fatto dondolare.
«Uno», dissero i becchini, «due, e tre!…»
E nello stesso tempo si sentì lanciato in un enorme vuoto,
traversando lo spazio come un uccello ferito, e cadendo, sempre con
uno spavento che gli ghiacciava il cuore.
Sebbene tirato in basso da qualche cosa di pesante che accelerava
ancor più la sua rapida caduta, gli sembrò che questa durasse un
secolo.
Finalmente, con un tonfo spaventoso, entrò come un dardo in un’acqua
gelida, che gli fece gettare un grido, subito soffocato
dall’immersione.
Dantès era stato lanciato in mare e veniva trascinato a fondo da una
grossa pietra attaccata ai piedi.
Il mare è il cimitero del castello d’If.
21. L’isola di Tiboulen
Dantès, pur stordito, fin quasi soffocato, trovò la presenza di
spirito necessaria a trattenere il respiro, e dal momento che aveva
la mano destra armata di coltello, pronta a qualunque evento, come
si disse, sventrò rapidamente il sacco, sfilò il braccio, quindi la
testa. Ma, nonostante tutti gli sforzi per sollevare la pietra,
continuò a sentirsi tirare in basso, si curvò, cercò la corda che
gli legava le gambe, e con uno sforzo supremo la troncò proprio
nell’istante in cui stava per soffocare.
A quel punto, dando un vigoroso colpo di piede, risalì libero alla
superficie dell’acqua, mentre la pietra trascinava nel più profondo
del mare quel rozzo tessuto che per poco non era divenuto il suo
sudario sepolcrale.
Dantès non prese che il tempo per respirare e s’immerse una seconda
volta, perché la prima precauzione che doveva prendere era quella di
evitare l’attenzione delle guardie.
Nell’istante in cui riemerse la seconda volta, era già lontano una
cinquantina di passi dal luogo della sua caduta: vide al di sopra
della sua testa un cielo nero e tempestoso sul quale il vento faceva
scorrere rapidamente le nuvole, scoprendo a intervalli qualche
piccolo punto azzurro, illuminato da una stella.
Davanti a lui si presentava la tetra e mugghiante pianura delle onde
che cominciavano ad accavallarsi come segno di vicina tempesta,
mentre dietro, più nero del mare, più nero del cielo, si innalzava
come un fantasma minaccioso, il gigante di granito di cui la tetra
punta sembrava un braccio steso per riafferrare la sua preda.
Sopra lo scoglio più alto vide un lanternone che rischiarava due
ombre. Gli sembrava che quelle due ombre fossero chinate sul mare
con inquietudine. Infatti, quei due strani becchini dovevano avere
inteso il grido che aveva emesso nel traversare lo spazio.
Dantès si immerse di nuovo e fece un lungo tratto sott’acqua.
La manovra gli era familiare, e nell’insenatura del Faro gli
attirava di solito molti ammiratori, che lo avevano sovente
proclamato il più abile nuotatore di Marsiglia.
Allorché ritornò in superficie, il lanternone era scomparso.
Bisognava orizzontarsi.
Tra le isole che circondano il castello d’If, le più vicine sono
Ratonneau e Pomègue; ma Ratonneau e Pomègue sono abitate, come pure
l’isoletta di Daume. L’isola più sicura era dunque quella di
Tiboulen o quella di Lemaire. Le isole di Tiboulen e di Lemaire sono
distanti una lega dal castello d’If. Non per questo Dantès si
astenne dal voler raggiungere una di queste due. Ma come ritrovare
quelle isole in mezzo a una notte che s’imbruniva sempre più intorno
a lui? In quel momento vide brillare come una stella il faro di
Planier.
Dirigendosi in linea retta verso il faro lasciava l’isola di
Tiboulen un poco a sinistra; tenendosi dunque verso quella parte
doveva incontrare cammin facendo quell’isola. Ma, lo abbiamo detto,
vi era almeno una lega dal castello d’If all’isola.
Faria, in prigione, aveva spesso ripetuto al giovane, vedendolo
afflitto e ozioso: «Dantès, non vi lasciate andare a questa
mollezza, annegherete se tenterete di fuggire e le vostre forze non
saranno state esercitate…»
Sotto l’onda pesante e amara, queste parole erano venute a risuonare
alle orecchie di Dantès; si era affrettato allora a risalire a galla
e a fendere le onde per vedere se effettivamente aveva perduto le
forze. Si accorse con gioia che la sua obbligata inazione nulla
aveva tolto al suo vigore e alla sua agilità, e si convinse che era
ancora padrone di quell’elemento di cui si era fatto gioco fin
dall’infanzia. D’altronde, la paura, questa rapida persecutrice,
raddoppiava il vigore di Dantès.
Egli ascoltava, sospeso sulla cima dei flutti, se qualche rumore
giungeva al suo orecchio. Ogni volta che s’innalzava sulla cresta di
un’onda, il suo rapido sguardo percorreva il visibile orizzonte e
tentava di fendere la fitta oscurità.
Ogni onda più alta delle altre gli pareva una barca che lo
inseguisse; e allora raddoppiava i suoi sforzi, che lo
allontanavano, è vero, ma dovevano ben presto estenuare le sue
forze.
Ciononostante nuotava, e già il terribile castello si perdeva nelle
tenebre notturne. Non lo distingueva più, ma lo sentiva sempre.
Passò un’ora nella quale Dantès, esaltato dal sentimento di libertà
che padroneggiava tutta la sua persona, continuò a fendere i flutti
nella direzione stabilita.
«Vediamo», diceva tra sé, «è un’ora che nuoto; ma siccome il vento è
contrario, ho dovuto perdere rapidità. Frattanto, a meno che non
abbia sbagliato direzione, non devo essere molto lontano da
Tiboulen. Ma se mi fossi sbagliato?»
Un fremito scosse tutto il corpo del nuotatore. Tentò di fare un
poco il morto, per riposarsi, ma il mare aumentava la sua forza, e
comprese ben presto che questo sollievo, sul quale aveva contato,
diveniva impossibile.
«Ebbene», disse, «nuoterò fino all’ultimo, sino a che le mie braccia
si stanchino, sino a che le mie gambe si irrigidiscano, sino a che i
crampi investano tutto il mio corpo, e poi andrò a fondo!»
Si rimise a nuotare con la forza e l’impulso della disperazione.
D’un tratto gli sembrò che il cielo, già tetro, si oscurasse ancor
di più, che una nube densa, pesante, compatta, si abbassasse verso
di lui; nel medesimo istante sentì un forte dolore al ginocchio.
L’immaginazione, con la sua incalcolabile prontezza, gli disse che
quello era l’urto di una pallottola e immediatamente avrebbe sentito
l’esplosione del colpo di fucile, ma l’esplosione non rintronò.
Dantès allungò la mano, e sentì resistenza. Ritirò l’altra gamba, e
toccò terra. Vide allora che cos’era l’oggetto creduto una nube. A
venti passi da lui s’innalzava un ammasso di scogli dalla forma
bizzarra, che si sarebbero presi per fiamme pietrificate
nell’istante della loro più ardente combustione. Era l’isola di
Tiboulen.
Dantès si rialzò, fece qualche passo in avanti, e si sdraiò,
ringraziando Dio, sopra quelle punte di granito che gli sembrarono
più morbide del più soffice letto.
Quindi, a onta del vento, a onta della tempesta, a onta della
pioggia che cominciava a cadere, stanco e affaticato com’era,
s’addormentò di quel delizioso sonno dell’uomo in cui l’anima veglia
nella coscienza di una gioia inattesa.
Di lì a un’ora, Edmond si svegliò all’immenso fragore di un tuono;
la tempesta si era scatenata e batteva l’aria col suo volo
rumoreggiante.
Di quando in quando, un lampo guizzava nel cielo come un serpente di
fuoco, e illuminava i flutti e le onde, che si accavallavano come i
vortici di un immenso caos.
Dantès, con l’occhio esperto del marinaio, non si era ingannato: era
approdato alla prima delle due isole, che effettivamente era quella
di Tiboulen; la sapeva nuda, scoperta e senza il minimo asilo. Ma
quando la tempesta sarebbe cessata, egli si sarebbe rimesso in mare
per raggiungere nuotando l’isola di Lemaire, ugualmente arida, ma
più ampia e di conseguenza più ospitale.
Una roccia alquanto sporgente offrì un momentaneo asilo a Dantès ed
egli vi si rifugiò, e quasi nel medesimo istante la tempesta scoppiò
in tutto il suo furore.
Edmond sentiva tremare la roccia sotto la quale si era messo al
coperto, e i flutti, frangendosi contro la base della gigantesca
piramide, arrivavano a spruzzarlo. Per quanto fosse al sicuro, in
mezzo a quel profondo fracasso, e a quei folgoranti bagliori, era
preso da una specie di vertigine. Gli sembrava che l’isola tremasse
sotto di lui e che da un momento all’altro stesse per venire
trascinata, come un vascello all’ancora cui si siano spezzate le
gomene, nell’immenso vortice.
Si ricordò allora che non mangiava da ventiquattr’ore, e aveva fame
e sete. Stese le mani e la testa, e bevve l’acqua della tempesta che
colava a rivoli dallo scoglio.
Quando si rialzò, un baleno che sembrava squarciasse il cielo fino
al trono abbagliante di Dio, illuminò lo spazio.
Alla luce del lampo, Dantès, fra l’isola di Lemaire e il capo
Croisselle, a un quarto di lega, vide, come uno spettro, scivolare
dall’alto di un flutto al fondo di un abisso un peschereccio
trasportato a un tempo dall’uragano e dall’onda.
Dopo un minuto il fantasma ricomparve sulla cima di un altro flutto
avvicinandosi con una celerità spaventevole. Dantès volle gridare,
cercò qualche straccio da agitare nell’aria per far capire che
stavano per perdersi; ma lo vedevano da se stessi.
Al chiarore di un altro lampo il giovane vide quattro uomini
aggrappati all’albero e alle funi; un quinto si teneva attaccato
alla barra del timone rotto.
Quegli uomini lo videro anch’essi poiché grida disperate, e
trasportate dalla fischiante bufera, giunsero al suo orecchio. Al di
sopra dell’albero, troncato come un ramoscello, si agitavano, a
colpi ripetuti e frequenti, gli avanzi di una vela a brandelli. A un
tratto le funi che ancora la trattenevano, si ruppero e disparve,
trasportata sotto la cupa profondità del cielo al modo di quei
grandi uccelli bianchi sotto le nere nubi.
Nello stesso istante si udì uno scroscio orribile, e le grida di
agonia giunsero fino a Dantès.
Aggrappato come una sfinge al suo scoglio da dove guardava l’abisso,
un nuovo lampo gli mostrò il peschereccio in pezzi, e, fra i
rottami, delle teste con i volti atterriti e delle braccia protese
verso il cielo.
Poi tutto ritornò nella notte.
Il terribile spettacolo durò quanto un lampo.
Dantès si precipitò sul pendio sdrucciolevole delle rocce col
pericolo di rotolare egli stesso in mare.
Guardò, ascoltò ma non intese né vide più nulla.
Non più grida, non più sforzi umani, la sola tempesta; questo grande
spettacolo della natura, continuava a ruggire coi venti, a
spumeggiare coi flutti.
Un poco per volta il vento si acquietò, il cielo spinse verso
occidente dei grossi nuvoloni grigi, e, per così dire, scoloriti
dall’uragano; il cielo ricomparve con le stelle più brillanti che
mai; ben presto verso oriente, una lunga striscia rossastra disegnò
sull’orizzonte delle ondulazioni di un nero azzurrognolo, le onde si
commossero, un’improvvisa luce corse sulle loro cime, e cambiò le
loro vette spumeggianti in criniere dorate.
Era il giorno.
Dantès restò immobile e muto davanti a un così grande spettacolo,
come se fosse la prima volta che lo vedeva; lo aveva dimenticato nel
lungo tempo trascorso nel castello d’If. Si rivolse alla fortezza,
interrogando con un lungo sguardo la terra e il mare.
Il tetro edificio usciva dal seno delle onde con quella imponente
maestà propria delle cose immobili che sembrano comandare e
sorvegliare. Potevano essere le cinque del mattino; il mare
continuava a calmarsi.
«Nel giro di due o tre ore», rifletteva Edmond, «il carceriere
rientrerà nella mia cella, vi troverà il cadavere del mio povero
amico, lo riconoscerà, mi cercherà invano e darà l’allarme. Allora
scopriranno il foro e il cunicolo sotterraneo; verranno interrogati
quelli che mi buttarono in mare e che devono aver udito il grido che
gettai. Subito dopo tutte le barche cariche di soldati armati,
correranno dietro il disgraziato fuggitivo che sapranno bene non
poter essere lontano, il cannone avvertirà tutta la costa che è
proibito dare asilo a un uomo errante, nudo, affamato. Le spie e gli
sbirri di Marsiglia saranno avvertiti e perlustreranno la costa,
mentre il governatore del castello d’If farà perlustrare il mare.
Allora perseguitato nell’acqua, circondato sulla terra, che sarà di
me? Ho fame, ho freddo, e ho perfino abbandonato il coltello
salvatore d’impaccio per nuotare. Sono in balia del primo contadino
che vorrà guadagnare venti franchi denunciandomi; non ho più né
forza, né idee, né volontà. Oh, mio Dio, voi sapete quanto ho
sofferto, e voi potete far di più per me, di quello che non ho
potuto fare io stesso!»
Nel momento in cui Edmond, in una specie di delirio cagionato dallo
spossamento delle sue forze, e dal vuoto del suo cervello,
ansiosamente rivolto verso il castello d’If, pronunciava questa
ardente preghiera, vide comparire sulla punta dell’isola di Pomègue
spiegando la sua vela latina, un piccolo bastimento, che soltanto
l’occhio di un marinaio poteva discernere, una tartana genovese,
sulla linea ancora mezza oscura del mare.
Veniva dal porto di Marsiglia e guadagnava il largo levando innanzi
all’acuta prua una scintillante schiuma che apriva una strada facile
ai suoi rotondi fianchi.
«Oh», gridò Edmond, «in una mezz’ora potrei raggiungere quel
naviglio se non temessi di essere interrogato, riconosciuto per un
fuggitivo e ricondotto a Marsiglia! Che fare? Che dir loro? Quale
favola inventare da cui possano rimanere ingannati? Quei marinai
sono tutti contrabbandieri, sono quasi pirati e con la scusa di fare
cabotaggio corseggiano le coste. Preferiranno vendermi piuttosto che
fare una sterile ma buona azione. Aspettiamo… Ma aspettare è
impossibile. Morrò di fame; fra qualche ora la poca forza che mi
rimane sarà svanita; d’altronde l’ora della visita si avvicina…
L’allarme non è ancora stato dato, forse non dubiteranno di nulla,
posso farmi credere uno dei marinai del peschereccio naufragato
stanotte. Questa favola non manca di verosimiglianza, e nessuno
verrà a contraddirmi: sono tutti annegati.»
Dicendo queste parole, Dantès guardò nella direzione dove era
naufragato il naviglio e rabbrividì. Sulla cresta di uno scoglio era
rimasto il berretto frigio di uno dei marinai, e vicino a quello
fluttuavano gli avanzi della carena, rottami inerti che il mare
spingeva e respingeva contro la base dell’isola che percuotevano
come imponenti arieti.
In un istante la decisione di Dantès fu presa: si rituffò in mare,
nuotò verso il berretto, se lo mise in testa, afferrò un pezzo di
trave sul quale si diresse per tagliare la linea che percorreva la
tartana.
«Ora sono salvo», mormorò.
Questa convinzione gli rese le forze.
Ben presto s’accorse che la tartana, avendo il vento contrario, era
spinta di bordata fra il castello d’If e la torre di Planier. Dantès
temette per un istante che invece di costeggiare, il piccolo
bastimento non guadagnasse il largo come avrebbe dovuto fare se la
sua destinazione fosse stata la Corsica o la Sardegna, ma secondo il
modo con cui manovrava, il nuotatore riconobbe ben presto che il
naviglio, come è d’uso di chi fa vela per l’Italia, cercava di
passare fra l’isola di Jaros, e quella di Calaseraigne.
Frattanto la nave e il nuotatore si avvicinavano l’uno all’altro;
anzi, in una bordata, il piccolo bastimento si portò a circa un
quarto di lega da Dantès. Egli si sollevò sulle onde agitando il suo
berretto in segno di richiamo, ma nessuno del bastimento lo vide,
che anzi virò di bordo e ricominciò una nuova bordata. Dantès pensò
di chiamare, ma misurando con l’occhio la distanza, capì che la sua
voce non poteva giungere al naviglio, deviata e coperta com’era
dalla brezza e dal rumore delle onde.
Fu allora che si rallegrò della precauzione di aver preso quella
trave.
Indebolito com’era, forse non avrebbe potuto stare a galla fino a
raggiungere la tartana, e se la tartana passava senza vederlo, non
avrebbe potuto riguadagnare la costa. Dantès, sebbene quasi certo
della direzione che seguiva il bastimento, lo accompagnava con lo
sguardo ansioso fino al momento in cui gli parve che ritornasse da
lui.
Allora gli andò incontro; ma prima che si fossero raggiunti, il
bastimento ritornò a virare di bordo. Subito Dantès, con un estremo
sforzo, si alzò quasi in piedi sull’acqua, agitando il berretto e
mandando uno di quei gridi lamentosi che emettono i marinai allo
stremo, e che sembrano il lamento di qualche divinità marittima.
Questa volta fu visto e inteso.
La tartana interruppe la sua manovra, e voltò la prua dalla sua
parte; nel medesimo tempo vide che si preparava a mettere una
scialuppa in mare. Un istante dopo la scialuppa, montata da due
uomini, si dirigeva verso di lui battendo il mare a quattro remi.
Dantès allora lasciò la trave di cui credeva di non aver più bisogno
e nuotò vigorosamente per risparmiare metà cammino a coloro che
venivano verso di lui.
Il nuotatore però aveva calcolato forze che non possedeva; allora
comprese di quanta utilità gli sarebbe ancora stato quel pezzo di
legno che già galleggiava a cento passi da lui. Le braccia
cominciarono a irrigidirsi, le gambe avevano perso la flessibilità,
i movimenti divenivano forzati e lenti, il petto anelante.
Gettò un secondo grido. I due rematori raddoppiarono l’energia e uno
di essi gli gridò in italiano: «Coraggio!»
La parola gli giunse nel momento in cui un’onda, che non aveva avuto
la forza di superare, passava sopra la sua testa e lo copriva di
schiuma.
Egli ricomparve battendo le onde con i movimenti ineguali e
disperati di un uomo che sta per annegare; mandò un terzo grido e si
sentì sprofondare nel mare, come se avesse avuto ancora ai piedi la
pietra mortale. L’acqua gli passò sopra la testa e attraverso ci
vide il cielo livido con delle macchie nere.
Uno sforzo violento lo ricondusse in superficie. Gli sembrò allora
di esser preso per i capelli, poi non vide più nulla, non intese più
niente; era svenuto.
Quando riaprì gli occhi, Dantès si ritrovò sul ponte della tartana
che continuava il suo cammino. Il suo primo sguardo fu per vedere
quale direzione seguiva: continuava ad allontanarsi dal castello
d’If.
Dantès era talmente spossato, che fu preso per un sospiro di dolore
l’esclamazione di gioia che fece.
Come si disse, era steso sul ponte: un marinaio gli sfregava le
membra con una coperta di lana, un altro, che riconobbe per quello
che gli aveva fatto coraggio, gli introduceva in bocca il becco di
una zucca marina che fungeva da fiasco; un terzo, vecchio marinaio,
a un tempo pilota e padrone, lo guardava col sentimento di pietà
egoista che provano in generale gli uomini per una disgrazia che
essi hanno sfuggita, e che può all’indomani colpirli di nuovo.
Qualche goccia di rum, contenuto nella zucca, rianimò il cuore
indebolito del giovane, mentre le frizioni, che il marinaio in
ginocchio continuava a fare con la lana, ridavano elasticità alle
sue membra.
«Chi siete?» domandò in cattivo francese il padrone.
«Sono», rispose Dantès in pessimo italiano, «un marinaio maltese.
Venivamo da Siracusa carichi di vino e di tela. La tempesta di
questa notte ci ha sorpresi al capo Morgiou, e siamo andati a
infrangerci contro le rocce che vedete laggiù.»
«Da dove venite?»
«Da quelle rocce, dove ho avuto la fortuna di aggrapparmi, mentre il
nostro povero capitano vi batteva la testa. Tre altri compagni sono
annegati. Credo di essere il solo rimasto vivo. Ho scoperto il
vostro naviglio e temendo di dovere aspettare lungamente su
quell’isola deserta, mi sono azzardato sopra un rottame del nostro
bastimento per tentare di raggiungervi. Grazie», continuò Dantès,
«voi mi avete salvato la vita. Ero perduto quando uno dei vostri
marinai mi ha afferrato per i capelli.»
«Sono io», disse un marinaio dalla figura franca e aperta, e un viso
con lunghe basette nere, «ed era tempo, perché calavate a fondo.»
«Sì», disse Dantès tendendogli la mano, «sì, amico mio, vi ringrazio
una seconda volta.»
«In fede mia», disse il marinaio, «ho quasi esitato… Con quella
barba lunga sei pollici, e quei capelli lunghi un piede, avevate
piuttosto l’aspetto di un brigante che di un galantuomo.»
Dantès si ricordò effettivamente che dal momento che era entrato nel
castello d’If non aveva più tagliato i capelli, e non aveva fatto
più la barba.
«Sì», disse, «è un voto fatto alla Madonna di Piedigrotta in un
momento di pericolo: stare dieci anni senza tagliarmi né barba, né
capelli. Oggi si compie l’espiazione del mio voto, e poco è mancato
che non annegassi.»
«Ma ora che faremo di voi?» domandò il padrone.
«Ahimè», rispose Dantès, «ciò che vorrete. La feluca si è perduta e
il capitano è morto. Come vedete, sono sfuggito alla medesima sorte,
fortunatamente sono abbastanza un buon marinaio. Lasciatemi nel
primo posto in cui prenderete terra, e troverò impiego sopra qualche
bastimento mercantile.»
«Conoscete il Mediterraneo?»
«Vi navigo fino dalla mia infanzia.»
«Sapete dove sono i buoni ancoraggi?»
«Vi sono pochi porti, anche dei più difficili, nei quali io non
possa entrare e uscire a occhi bendati.»
«Ebbene dite dunque, padrone», domandò il marinaio che aveva salvato
Dantès, «se costui dice il vero, cosa impedisce che resti con noi?»
«Sì, se dice il vero», rispose il padrone con aria incredula, «ma
nello stato in cui si trova questo povero diavolo si promette molto,
e si mantiene poco.»
«Manterrò più di quello che vi ho promesso», disse Dantès.
«Oh oh!» fece il padrone ridendo. «Vedremo.»
«Quando vorrete», riprese Dantès alzandosi. «Dove andate?»
«A Livorno.»
«Allora, invece di correre delle bordate che vi fanno perdere un
tempo prezioso, perché non serrate semplicemente il vento più da
vicino?»
«Perché andremmo a cozzare contro l’isola di Rion.»
«Vi passerete a più di venti braccia di distanza.»
«Prendete dunque il timone», disse il padrone, «e noi giudicheremo
della vostra maestria.»
Il giovane si mise al timone, si assicurò, con una leggera
pressione, che il bastimento fosse obbediente, e vedendo che, senza
essere molto obbediente, non si rifiutava, gridò: «Alle braccia e
alle boline».
I quattro marinai che formavano l’equipaggio corsero al loro posto,
mentre il padrone li guardava fare.
«Tirate», continuò Dantès.
I marinai obbedirono con molta precisione.
«Ora annodate bene.»
Quest’ordine fu eseguito come i due primi, e il piccolo bastimento,
invece di continuare a correre delle bordate, cominciò a dirigersi
verso l’isola di Rion, presso la quale passò come aveva predetto
Dantès lasciandola alla sua destra per una ventina di braccia.
«Bravo!» disse il padrone.
«Bravo!» ripeterono i marinai.
E tutti guardarono meravigliati quell’uomo, il cui sguardo aveva
riacquistato un’intelligenza, e il corpo un vigore che erano ben
lontani dal supporre in lui.
«Vedete», disse Dantès lasciando il timone, «che io potrò esservi di
qualche utilità, almeno durante la traversata. Se giunti a Livorno
non mi vorrete più, ebbene, mi lascerete lì, e ai primi mesi di
soldo vi rimborserò il cibo e gli abiti che vorrete prestarmi.»
«Sta bene, sta bene», disse il padrone, «potremo intenderci se
sarete ragionevole.»
«Un uomo vale un altr’uomo», disse Dantès, «ciò che date ai compagni
lo darete anche a me, e tutto è a posto.»
«Non è giusto», disse il marinaio che aveva salvato Dantès, «perché
voi ne sapete più di noi.»
«Ciò non ti riguarda, Jacopo», disse il padrone, «ciascuno è libero
d’impegnarsi per quella somma che più gli conviene.»
«Giusto», disse Jacopo, «non facevo che una semplice osservazione.»
«Farai meglio ancora a prestare a questo bravo giovane un paio di
pantaloni e una giacchetta, se li hai in più.»
«No», disse Jacopo, «ma ho un paio di pantaloni e una camicia.»
«È quanto mi occorre», disse Dantès. «Grazie, amico mio.»
Jacopo si lasciò scivolare giù dal boccaporto e risalì un istante
dopo con i due capi di vestiario, che Dantès indossò con una gioia
indicibile.
«Vi occorre altro?» chiese il padrone.
«Un tozzo di pane e un altro sorso di quell’eccellente rum che ho
assaggiato, essendo gran tempo che non mangio.»
Infatti, erano circa quaranta ore che non mangiava.
Fu portato a Dantès un pezzo di pane, e Jacopo gli offrì la zucca.
«Timone a basso-bordo», gridò il capitano, rivolto al timoniere.
Dantès volse lo sguardo dalla stessa parte portandosi la zucca alla
bocca ma la zucca rimase a mezz’aria.
«Osservate», domandò il padrone, «che accade nel castello d’If?»
Di fatto, una piccola nube bianca, nube che aveva fermato
l’attenzione di Dantès, sembrava coronare il merlo del bastione a
sud del castello d’If.
Dopo un secondo, il rumore d’una lontana esplosione venne a
spegnersi a bordo della tartana.
I marinai alzarono la testa guardandosi l’un l’altro.
«E che vuol dire questo?» domandò il padrone.
«Questa notte sarà evaso qualche prigioniero dal castello», disse
Dantès, «e ora sparano il cannone per dare l’allarme.»
Il padrone fissò lo sguardo sul giovane che dicendo queste parole si
era portata la zucca alla bocca; ma lo vide assaporare il liquore
con tanta calma e soddisfazione, che se pure ebbe un qualche
sospetto, questo sospetto non fece che attraversargli la mente, e
subito si estinse.
«Ecco un rum diabolicamente forte», disse Dantès asciugandosi con la
manica della camicia la fronte che grondava sudore.
«In ogni caso», mormorò il padrone guardandolo, «tanto meglio,
perché così avrò fatto acquisto di un brav’uomo.»
Con il pretesto di essere stanco, Dantès chiese allora di sedersi al
timone.
Il timoniere, ben contento di essere sollevato dalle sue mansioni,
consultò con l’occhio il padrone, che gli fece segno con la testa
che poteva affidare nelle mani del suo nuovo compagno la barra.
Dantès poté restare con gli occhi rivolti dalla parte di Marsiglia.
«Oggi quanti ne abbiamo del mese?» domandò Dantès a Jacopo che era
venuto a sedere vicino a lui dopo aver perso di vista il castello
d’If.
«È il 28 febbraio», rispose questi.
«Di che anno?» domandò ancora Dantès.
«Come di che anno?… Voi domandate di che anno?»
«Sì», rispose il giovane, «vi domando di che anno.»
«Avete dimenticato in che anno siamo?»
«Che volete? È stata così grande la paura di questa notte», disse
ridendo Dantès, «in cui poco è mancato che non perdessi la vita, che
la mia memoria ne è rimasta sconvolta: vi domando dunque di quale
anno siamo noi al 28 di febbraio…»
«Dell’anno 1829», disse Jacopo.
Erano quattordici anni precisi dal giorno che Dantès era stato
arrestato. Era entrato nel castello d’If a diciannove anni, e ne
usciva a trentatré.
Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra. Si chiedeva cosa era
avvenuto di Mercedes durante questo tempo, in cui lo aveva dovuto
credere morto.
Quindi un lampo d’ira s’accese nei suoi occhi pensando a quei tre
uomini ai quali doveva una lunga e penosa carcerazione, e rinnovò
contro Danglars, Fernando e Villefort quel giuramento d’implacabile
vendetta che aveva già pronunciato nella sua cella, e questo
giuramento non era più una vana minaccia, poiché a quell’ora, il più
abile veleggiatore del Mediterraneo non avrebbe certo potuto
raggiungere la piccola tartana che navigava a gonfie vele alla volta
di Livorno.
22. I contrabbandieri
Non aveva passato ancora un giorno intero a bordo, ma Dantès già
sapeva con chi aveva a che fare. Senza esser stato alla scuola
dell’abate Faria, il degno padrone della Giovane Amelia (era questo
il nome della tartana genovese) conosceva pressappoco tutte le
lingue che si parlavano intorno a quel gran lago chiamato
Mediterraneo, dall’arabo fino al provenzale; perciò senza aver
bisogno d’interpreti, persone qualche volta noiose, qualche altra
indiscrete, questa conoscenza delle lingue gli offriva grandi
facilitazioni per comunicare, sia con i bastimenti che incontrava in
mare, sia con le piccole barche in cui si imbatteva lungo le coste,
sia finalmente con quella gente senza nome, senza patria, senza
mestiere apparente, di cui c’è sempre un gran numero sulle coste
vicine ai porti di mare, e che vivono di quelle misteriose e celate
risorse, che bisogna credere vengano dall’alto, poiché non hanno
alcun mezzo di esistenza visibile a occhio nudo.
Si indovinerà facilmente che Dantès era a bordo di un bastimento di
contrabbandieri. Per questo il padrone sulle prime aveva ricevuto a
bordo Dantès con una certa diffidenza. Era molto conosciuto da tutti
i doganieri della costa, e siccome esisteva fra lui e questi signori
un perfetto gioco di furberie, così aveva per un momento pensato che
Dantès fosse un emissario della gabella, e che impiegasse
quell’ingegnoso mezzo per scoprire qualcuno dei segreti del
mestiere. Ma il modo brillante con cui Dantès si era tratto
d’impaccio nel dirigere la tartana, l’aveva del tutto convinto.
Poi, quando aveva visto quella nube bianca che ondeggiava sul
bastione del castello d’If, e aveva udito la lontana esplosione,
ebbe per un momento l’idea di aver ricevuto a bordo colui al quale,
come per entrata e uscita del re da una città, viene accordato
l’onore dello sparo del cannone. Però ciò lo avrebbe inquietato meno
che se il nuovo arrivato fosse appartenuto alla dogana; ma anche
questa supposizione si era dissolta come la prima alla vista della
totale tranquillità della sua recluta.
Edmond aveva perciò il vantaggio di conoscere il suo padrone, mentre
questi non sapeva chi fosse. Da chiunque provenissero le domande,
dal suo padrone o dai suoi compagni, egli tenne duro, e non fece
alcuna rivelazione. Dando moltissimi indizi su Napoli e su Malta,
che conosceva al pari di Marsiglia, sostenne sempre con precisione
la sua narrazione in modo da fare onore alla sua memoria.
I genovesi, per quanto accorti, si lasciarono gabbare da Edmond, in
favore del quale parlavano la sua affabilità, la sua esperienza
nautica, e soprattutto la sua saggia dissimulazione. Forse anche
quei genovesi erano uguali a quelle persone di mondo che non sanno
mai altro che quello che devono sapere, e non credono mai altro che
quello che hanno interesse di credere.
Fu in questa reciproca fiducia che giunsero a Livorno.
Edmond doveva tentare una prima prova: sapere se si sarebbe
riconosciuto dopo quattordici anni che non vedeva il proprio volto.
Conservata un’idea abbastanza precisa di ciò che era da ragazzo,
voleva vedere cosa era divenuto da uomo.
Era già sceso a terra più di venti volte a Livorno, e conosceva un
barbiere in via San Ferdinando, e andò da lui per farsi tagliare
barba e capelli.
Il barbiere guardò con meraviglia quell’uomo dalla barba folta e
nera e dai lunghi capelli, che assomigliava a una delle belle teste
del Tiziano.
A quell’epoca non erano ancora di moda barba e capelli così lunghi;
oggi un barbiere si meraviglierebbe se qualcuno dotato di questi
vantaggi naturali acconsentisse a privarsene.
Il barbiere livornese però si mise all’opera senza fare domande.
Allorché l’operazione fu compiuta, quando Edmond sentì il suo mento
perfettamente rasato, quando i suoi capelli furono ridotti alla
ordinaria lunghezza, domandò uno specchio e si guardò.
Come detto, egli aveva allora trentatré anni, e i suoi quattordici
anni di prigionia avevano apportato, per dir così, un gran
cambiamento morale nella sua fisionomia. Dantès era entrato nel
castello d’If con quel viso rotondo, ridente, aperto, che è proprio
del giovane felice al quale i primi anni della vita sono stati
benigni e che calcola sull’avvenire come su una naturale
prosecuzione del passato.
Tutto ciò era molto mutato.
L’ovale del viso si era allungato di molto, la bocca ridente aveva
assunto linee decise e serrate che indicavano risoluzione, le
sopracciglia si erano inarcate, sotto una ruga unica e pesante, gli
occhi si erano abituati a una profonda tristezza, dal fondo della
quale trasparivano a intervalli i cupi baleni della misantropia e
dell’odio; la sua carnagione, priva da lungo tempo della luce del
giorno e dei raggi del sole, aveva preso quel color pallido che fa,
quando il viso è circondato da capelli e basette nere, la bellezza
aristocratica degli abitanti del Nord. La scienza profonda che aveva
acquistato gli dava un’aria di intelligente sicurezza. Inoltre,
sebbene di statura piuttosto alta, aveva acquisito il vigore tozzo
di un corpo avvezzo sempre a concentrare le forze su di sé.
All’eleganza delle forme nervose e snelle si era sostituita la
solidità delle forme arrotondate e muscolose. Quanto alla voce, le
preghiere, i singhiozzi e le imprecazioni l’avevano cambiata in modo
tale, che ora aveva un suono di strana dolcezza, e ora un accento
rozzo e quasi rauco.
Inoltre i suoi occhi, mantenuti costantemente nell’oscurità, o in
una debole luce, avevano acquistato la facoltà di distinguere nella
notte gli oggetti come la iena e il lupo. Edmond sorrise nel
vedersi: era impossibile che il miglior amico, se pure gli restava
un amico, lo riconoscesse, perché non si riconosceva nemmeno lui.
Il padrone della Giovane Amelia, che aveva molto interesse a
mantenere fra i suoi un uomo del merito di Edmond, gli aveva
proposto un anticipo sui futuri guadagni. Edmond aveva accettato.
Sua prima cura, uscendo dal barbiere che aveva operato questa
metamorfosi, fu di entrare in un negozio e comprarsi un abito
completo da marinaio.
Tale abito, come si sa, è molto semplice: si compone di calzoni
bianchi, camicia a righe, e berretto frigio.
Così vestito, riportando a Jacopo la camicia e i calzoni, egli si
presentò nuovamente al padrone della Giovane Amelia al quale fu
costretto a ripetere la sua storia. Il padrone non voleva
riconoscere in quel marinaio elegante l’uomo dalla folta barba, dai
capelli e dal corpo bagnato d’acqua di mare che aveva raccolto nudo
e morente sul ponte del suo battello.
Soddisfatto del suo buon aspetto, rinnovò dunque a Dantès le
proposte d’ingaggio; ma Dantès che aveva i suoi progetti non volle
accettarle che per tre mesi.
Del resto l’equipaggio della Giovane Amelia era molto attivo,
sottoposto agli ordini di un capitano che aveva preso l’abitudine di
non perdere il suo tempo.
Non era da otto giorni giunto a Livorno, che già i capaci fianchi
del naviglio erano riempiti di mussoline colorate, di cotoni di
contrabbando, di polvere inglese e di tabacco, su cui la dogana
aveva dimenticato di apporre il sigillo. Si trattava di far uscire
tutto ciò da Livorno, porto franco, per sbarcarlo sulle rive della
Corsica, dove alcuni speculatori s’incaricavano di trasportare il
carico in Francia.
Partirono.
Edmond solcò di nuovo quel mare azzurro, primo orizzonte della sua
gioventù che aveva rivisto tanto spesso nei sogni della sua
prigionia. Lasciò alla sua destra la Gorgona, alla sinistra Pianosa,
e avanzò verso la patria di Pasquale Paoli e di Napoleone.
L’indomani, salendo sul ponte, ciò che faceva sempre di buon’ora, il
padrone ritrovò Dantès appoggiato al parapetto del bastimento che,
con una strana espressione, guardava un ammasso di scogli di granito
che il sole nascente coloriva di una tinta rosea: era l’isola di
Montecristo.
La Giovane Amelia la lasciò a tre quarti di miglio sulla sinistra, e
continuò il suo viaggio verso la Corsica.
Dantès pensava, nel passare lungo questa isola, che per lui aveva un
nome tanto risonante: «Non avrei che da balzare in mare, e in
mezz’ora sarei su quella terra promessa». Ma giunto là, che avrebbe
fatto senza gli utensili necessari per scoprire il tesoro, senza
armi per difenderlo? D’altronde cosa avrebbero detto i marinai? E il
padrone? Bisognava aspettare.
Aveva aspettato la libertà quattordici anni, poteva bene aspettare
ora che era libero, sei mesi e anche un anno, le ricchezze. Non
avrebbe accettato la libertà senza le ricchezze, se gli fosse stata
proposta? D’altronde questa ricchezza non era ancora tutta
chimerica? Nata nel cervello malato del povero Faria, non era
fors’anche morta con lui? È vero che quella lettera di Guido Spada
era stranamente precisa, e Dantès ripeteva dal principio alla fine
la lettera di cui non aveva dimenticato una parola.
Giunse la sera, Edmond vide l’isola passare per tutte le tinte e
gradazioni di colori del crepuscolo e perdersi del tutto nelle
tenebre. Ma non per lui: avendo lo sguardo abituato all’oscurità del
carcere senza dubbio continuò a scorgerla, perché fu l’ultimo a
lasciare il ponte.
All’indomani si svegliarono all’altezza di Aleria.
Bordeggiarono tutto il giorno; nella sera si videro dei fuochi sulla
costa. Dalla disposizione di questi fuochi compresero che si poteva
sbarcare, perché un fanale salì al posto della bandiera sulla cima
del piccolo bastimento, che si avvicinò a tiro di fucile dalla riva.
Dantès si accorse che il padrone della Giovane Amelia aveva portato
sopra il ponte, nell’eseguire la manovra per accostarsi a terra,
alcune colubrine, simili ai fucili da cavalletto, che senza fare
gran rumore potevano colpire alla distanza di un miglio una palla
dalle quattro alle dodici once. Questa precauzione però fu inutile:
per quella sera tutta l’operazione si svolse tranquillamente.
Quattro scialuppe si avvicinarono silenziosamente al piccolo
bastimento, che, certamente per far loro onore, mise in mare la
propria; e queste cinque scialuppe lavorarono così bene, che allo
spuntar del giorno tutto il carico, dal bordo della tartana
genovese, era passato in terraferma.
Il padrone della Giovane Amelia era un uomo di tale scrupolo nelle
sue cose, che nella stessa notte fu fatta la divisione dei guadagni
del primo scarico: ciascun marinaio ebbe cento lire toscane, cioè
ottantaquattro lire di moneta francese.
Ma il viaggio non era finito, venne voltata la prua verso la
Sardegna: si trattava di tornare a caricare il bastimento appena
scaricato.
La seconda spedizione si svolse tanto felicemente quanto la prima:
la Giovane Amelia era favorita dalla sorte.
Il nuovo carico fu per il ducato di Lucca.
Si componeva quasi esclusivamente di sigari Avana e di vino di Xeres
e di Malaga. Là però ebbero a battersi con la dogana, l’eterna
nemica del padrone della Giovane Amelia. Un doganiere rimase sul
terreno, e due marinai furono feriti.
Dantès era uno dei due: una pallottola gli aveva trapassato la
spalla sinistra.
Dantès era felice per questa scaramuccia e quasi contento della sua
ferita: questa esperienza gli aveva fatto capire come sapeva
guardare il pericolo, e con qual cuore sapeva tollerare i patimenti.
Aveva guardato il pericolo ridendo, e ricevendo il colpo aveva detto
come il filosofo greco: «Dolore, tu non sei un male».
Inoltre, guardando il doganiere ferito a morte, fosse calore del
sangue nell’azione, o fosse freddezza di umani sentimenti, tale
vista non gli aveva prodotto che una leggera impressione.
Dantès era sulla strada che voleva percorrere e che tendeva alla
meta cui voleva arrivare: cioè pietrificarsi il cuore in petto.
Del resto Jacopo, che vedendolo cadere lo aveva creduto morto, si
era precipitato su di lui, lo aveva rialzato, e gli aveva impartite
tutte quelle cure che sono di un buon compagno.
La gente non era dunque così buona come avrebbe voluto il dottor
Pangloss, e non era così cattiva come credeva Dantès. Quell’uomo,
che null’altro poteva aspettarsi dal suo compagno che di ereditare
la sua parte di guadagno, provava una viva afflizione nel crederlo
ucciso. Fortunatamente però, come si disse, Dantès non era che
ferito.
Grazie ad alcune erbe, raccolte e vendute ai contrabbandieri da
delle vecchie sarde, la ferita si cicatrizzò ben presto.
Edmond allora volle tentare Jacopo, offrendogli in ricompensa delle
sue cure una parte della sua paga; ma Jacopo la rifiutò con
indignazione.
Questo era il risultato di una specie di devozione che Jacopo aveva
consacrato a Edmond fin dal primo momento che lo aveva visto, e di
un certo affetto che Edmond aveva per Jacopo. Ma Jacopo non voleva
di più; aveva indovinato istintivamente in Edmond una personalità
superiore alla sua e il bravo marinaio era contento di quel poco di
stima che gli concedeva.
Così nelle lunghe giornate che passavano a bordo, quando il naviglio
correva con sicurezza sull’azzurro mare, e non aveva bisogno, grazie
al vento che spirava, che del solo timoniere per dirigerlo, Edmond
si faceva istruttore di Jacopo con una carta geografica alla mano,
come Faria aveva fatto con lui. Gli mostrava la conformazione delle
coste, le variazioni della bussola, gli insegnava a leggere in quel
libro aperto al di sopra delle nostre teste, che si chiama cielo, e
dove Dio ha scritto la sua onnipotenza con lettere brillanti.
E quando Jacopo gli domandava: «A che serve imparare tutte queste
cose a un povero marinaio come sono io?»
Edmond rispondeva: «Chi lo sa? Forse un giorno potresti essere
capitano di un bastimento. Il tuo compatriota Bonaparte non divenne
imperatore?»
Dimenticammo di dire che Jacopo era corso.
Intanto due mesi e mezzo erano già passati.
Edmond era un bravo contrabbandiere, come era stato un ardito
marinaio. Aveva fatto conoscenza con tutti i contrabbandieri della
costa, aveva imparato tutti quei segni convenzionali per mezzo dei
quali questi mezzi pirati si riconoscono fra loro.
Era passato e ripassato venti volte davanti all’isola di
Montecristo, ma in tutte queste volte non aveva mai trovato
l’occasione di potervi sbarcare.
Aveva perciò preso una decisione, che terminato il suo impegno col
padrone della Giovane Amelia, avrebbe noleggiato una piccola barca
per proprio conto, avendo già messo da parte un centinaio di piastre
nei suoi viaggi, e con un pretesto qualunque sarebbe sbarcato
sull’isola di Montecristo.
Là avrebbe fatto le sue ricerche in tutta libertà. In tutta libertà
non proprio, perché le sue azioni sarebbero state osservate da chi
conduceva con sé, ma in questo mondo qualche cosa bisogna rischiare.
La prigione aveva reso Edmond prudente, e avrebbe voluto non
rischiare nulla. Ma aveva un bel cercare, nella sua immaginazione,
per quanto fervida; non riusciva a trovare altro mezzo per giungere
all’isola di Montecristo che facendosi portare.
Dantès restava in questa esitazione, allorché il padrone che aveva
in lui molta fiducia, e che aveva gran volontà di tenerlo con sé, lo
prese una sera per un braccio e lo condusse in una taverna in via
dell’Olio, nella quale erano soliti radunarsi i contrabbandieri di
Livorno.
Era là che di solito si trattavano gli affari della costa. Dantès
era già entrato altre due o tre volte in quella specie di Borsa
marittima, e vedendo quegli arditi corsari venuti da tutto il
litorale, si chiedeva di quale forza avrebbe potuto disporre l’uomo
che fosse riuscito a dare l’impulso della propria volontà a tutta
quella gente dai diversi interessi.
Questa volta si trattava di un affare di grande importanza, di un
bastimento carico di tappeti turchi, di stoffe d’Oriente e di
cachemire. Bisognava trovare un terreno neutrale, dove si potesse
operare il cambio, per tentare di far pervenire quella merce sulle
coste della Francia.
Il premio era ingente, se vi fossero riusciti: fra le cinquanta e le
sessanta piastre per ciascuno.
Il padrone della Giovane Amelia propose l’isola di Montecristo come
luogo di sbarco, che essendo deserta, e non avendo né soldati, né
doganieri, sembra posta in mezzo al mare, fin dai tempi dei pagani,
da Mercurio, il dio dei commercianti e dei ladri, classi che noi
abbiamo separato se non distinto, ma che l’antichità, a ciò che
sembra, metteva nella stessa categoria.
Al nome di Montecristo, Dantès fremette di gioia. Si alzò, per
nascondere la propria emozione, e fece un giro in quella fumosa
taverna dove tutti gli idiomi conosciuti venivano a fondersi nella
lingua franca.
Quando ritornò ad avvicinarsi ai due interlocutori, era già deciso
che sarebbero sbarcati all’isola di Montecristo, e che sarebbero
partiti per quella spedizione la notte seguente.
Edmond, consultato, fu d’avviso che l’isola offriva tutte le
sicurezze possibili, e che le grandi imprese, per riuscir bene,
dovevano essere eseguite rapidamente.
Non fu dunque cambiato nulla al programma. Rimase convenuto che si
sarebbero fatti i necessari preparativi per l’indomani sera, e che
se il mare era buono e il vento favorevole, ognuno avrebbe cercato
di essere la sera dopo nelle acque dell’isola neutrale.
23. L’isola di Montecristo
Finalmente, per una di quelle inaspettate fortune, che qualche volta
capitano a coloro che il destino è stanco di perseguitare, Dantès
stava per giungere alla sua meta con un mezzo semplice e naturale,
mettendo il piede su quell’isola senza destare sospetto.
Una notte ancora lo separava dalla partenza tanto a lungo desiderata
e attesa.
Fu questa una delle notti più febbrili passate da Dantès. Si
presentarono al suo animo tutte le possibilità buone e cattive: se
chiudeva gli occhi, vedeva la lettera di Guido Spada scritta in
caratteri sfolgoranti sul muro; se dormiva un istante, i sogni più
strani venivano a tumultuare nel suo cervello: discendeva le grotte
che avevano il pavimento di smeraldo, le pareti di rubino, le
stalattiti di diamante; le perle cadevano come quelle gocce d’acqua
che filtrano nei sotterranei. Edmond rapito, meravigliato, si
riempiva le tasche di pietre preziose; poi ritornava alla luce del
giorno, e quei gioielli si trasformavano in semplici sassolini.
Allora tentava di rientrare in quelle grotte meravigliose che
intravedeva soltanto, ma il sentiero si contorceva in un labirinto;
l’ingresso era ritornato invisibile, e cercava inutilmente di
richiamarsi alla stanca memoria quelle misteriose e magiche parole
che in altri tempi aprivano al pescatore arabo le splendide caverne
di Alì Babà. Tutto era inutile: il tesoro era tornato in potere dei
geni della terra, ai quali aveva avuto per un istante la speranza di
poterlo togliere.
Seguì il giorno quasi con la stessa febbre della notte; ma la logica
tornò in aiuto all’immaginazione di Dantès, che poté stabilire un
piano sino ad allora incerto e vago.
Giunse la sera, e con essa i preparativi della partenza.
Tali preparativi erano per Edmond un mezzo per nascondere la propria
agitazione. Un poco alla volta aveva preso l’abitudine di comandare
i compagni, come fosse stato il padrone del bastimento; e siccome i
suoi ordini erano sempre chiari, precisi e facili da eseguirsi, i
compagni non solo l’obbedivano con prontezza, ma con piacere.
L’anziano padrone lo lasciava fare: aveva riconosciuto la
superiorità di Dantès non solo sopra i suoi compagni; vedeva nel
giovane il successore naturale, ed era dolente di non avere una
figlia per stringere quella bella alleanza.
Per le sette di sera tutto fu in ordine, alle sette e dieci la
tartana girava intorno al faro, proprio nell’istante in cui veniva
acceso.
Il mare era calmo, con un fresco venticello che veniva da sud-est.
Si navigava sotto un cielo chiaro, in cui Dio pure faceva
risplendere via via i suoi fari, ognuno dei quali è un mondo.
Dantès disse che tutti potevano andare a dormire, ch’egli si
incaricava del timone. Quando il Maltese, così veniva chiamato
Dantès a bordo, faceva una simile proposta, non c’era bisogno
d’altro, e ciascuno andava a riposare tranquillo. Ciò era accaduto
altre volte.
Evaso dalla solitudine del mondo, provava qualche volta l’imperioso
bisogno di restar solo. Ora, quale solitudine più immensa a un tempo
e più poetica, di quella di un bastimento che nell’oscurità della
notte ondeggia sul mare nel silenzio dell’immensità e sotto lo
sguardo del Signore? Quella notte però la solitudine fu popolata dai
suoi pensieri, la notte illuminata dalle sue illusioni, il silenzio
animato dai suoi propositi.
Allorché il padrone si svegliò, la tartana correva a gonfie vele,
non esisteva un lembo di vela che non fosse gonfiato dal vento:
facevano più di due leghe e mezzo l’ora.
L’isola di Montecristo ingrandiva all’orizzonte.
Edmond rese il timone al padrone e andò a stendersi sulla sua
branda. Ma non poté chiudere un istante gli occhi.
Due ore dopo risalì sul ponte; il bastimento era sul punto di
sorpassare l’isola d’Elba; si trovava all’altezza di Marciana, e al
di sotto dell’isola piana e verde di Pianosa. Si vedeva fra
l’azzurro del cielo la sommità raggiante dell’isola di Montecristo.
Dantès ordinò al timoniere di porre la barra a sinistra, per
lasciare Pianosa a destra: aveva calcolato che questa manovra doveva
abbreviare la strada di due o tre nodi.
Alle cinque di sera ebbero la vista dell’isola, se ne scorgevano i
più piccoli dettagli, grazie alla limpida atmosfera, alla luce degli
ultimi raggi del sole al tramonto.
Edmond divorò con gli occhi quella massa di scogli che sembravano
tinti di tutti i colori del crepuscolo, dal rosso vivo fino al
turchino cupo; di tanto in tanto gli salivano al viso delle vampate
ardenti: la sua fronte diveniva di porpora, una nube rossastra
passava davanti ai suoi occhi.
Giammai giocatore, la cui fortuna è tutta messa sopra una carta,
provò, al voltarne una, tanta angoscia quanta ne sentiva Edmond nei
suoi parossismi di speranza.
Ritornò la notte.
Alle dieci della sera si approdò. La Giovane Amelia era la prima
all’appuntamento.
Dantès, malgrado la padronanza su se stesso, non poté contenersi;
saltò per primo sulla riva. Se avesse osato, avrebbe, come Bruto,
baciato la terra.
La notte era oscura, ma alle undici la luna sorse in mezzo al mare,
inargentò ogni onda, quindi i suoi raggi, a mano a mano che si
alzava, cominciavano a screziarsi in bianche cascate di luce sugli
scogli ammassati di quest’altro Pelio.
L’isola era familiare all’equipaggio della Giovane Amelia, era una
delle sue tappe ordinarie. Quanto a Dantès, l’aveva vista, in
ciascuno dei suoi viaggi in levante, ma non vi era mai sbarcato.
Egli interrogò Jacopo.
«Dove passiamo la notte?»
«A bordo della tartana», rispose Jacopo.
«Non staremmo meglio nelle grotte?»
«E in quali grotte?»
«Nelle grotte dell’isola.»
«Io non conosco grotte…» disse Jacopo.
Un sudore freddo passò sulla fronte di Dantès.
«Non vi sono grotte a Montecristo?» domandò.
«No.»
Dantès rimase per un istante stordito, poi pensò che quelle grotte
potevano essersi colmate in seguito a qualche sommovimento, o essere
state chiuse per maggior precauzione dallo stesso Spada.
Tutto stava dunque nel ritrovare l’apertura nascosta.
Era inutile cercarla durante la notte; Dantès rimandò dunque le sue
ricerche al giorno dopo. D’altra parte un segnale inalberato in mare
a una mezza lega da lì, e al quale rispondeva con uno simile la
Giovane Amelia, indicò che era giunto il momento di accingersi
all’operazione.
Il bastimento che aveva ritardato, rassicurato dal segnale che
doveva far capire che c’era sicurezza attorno all’isola, apparve ben
presto bianco e silenzioso come un fantasma, e venne a gettare
l’ancora presso la riva.
Il trasbordo delle merci cominciò nel medesimo istante.
Dantès, mentre lavorava, pensava all’urrà di gioia che con una sola
parola poteva provocare in tutti quegli uomini, se diceva ad alta
voce l’incessante pensiero che rumoreggiava nel suo cervello, e
turbava il suo cuore; ma lungi dal rivelare il suo magnifico
segreto, temeva già d’aver detto troppo, e di avere risvegliato dei
sospetti col suo andare e venire, con le sue ripetute domande, con
le sue minuziose osservazioni, e la sua costante preoccupazione.
Nessuno però dubitava di niente; e allorché l’indomani, prendendo un
fucile, dei pallini, e della polvere, Dantès manifestò il desiderio
di andare a tirare a qualcuna di quelle numerose capre selvagge che
si vedevano saltare di roccia in roccia, non si attribuì quella
escursione di Dantès che all’amore per la caccia, e al desiderio di
solitudine.
Non vi fu che Jacopo che insistette per seguirlo.
Dantès non volle opporsi, temendo d’ispirar sospetti se spingeva
tropp’oltre la sua ritrosia a essere accompagnato. Ma appena fatto
un quarto di lega, essendosi presentata l’occasione di tirare e
uccidere un capriolo, inviò Jacopo a portarlo ai compagni,
invitandoli a cuocerlo, e dargli il segnale quando fosse cotto, per
venirlo a mangiare, tirando un colpo di fucile. Della frutta secca e
un fiasco di vino di Montepulciano dovevano completare il pranzo.
Dantès continuò il suo cammino voltandosi ogni tanto.
Giunto alla sommità di una roccia, vide a trecento metri al di sotto
di lui i suoi compagni che, raggiunti da Jacopo, già si occupavano
attivamente dei preparativi del pranzo.
Edmond li guardò un istante con quel triste e dolce sorriso delle
persone superiori.
«Fra due ore partiranno ricchi di cinquanta piastre, per andare a
cercar di guadagnarne altre cinquanta a rischio della loro vita: poi
ritorneranno ricchi di seicento lire, per andare a dilapidarle in
una città qualsiasi con l’orgoglio dei sultani, e la noncuranza dei
nababbi. Oggi la speranza fa sì che io disprezzi la loro ricchezza,
che mi pare profonda miseria, domani forse il disinganno mi
obbligherà a guardare questa profonda miseria come la maggiore delle
fortune… Oh no», esclamò Edmond, «questo non sarà. Il dotto,
l’infallibile Faria non può essersi ingannato solo su questo punto.
D’altronde è meglio morire che continuare a condurre questa vita
miserabile e vile.»
Così Dantès, che tre mesi prima non desiderava che la libertà, non
era più contento della sola libertà, ma voleva anche le ricchezze.
Il difetto non era di Dantès, ma della nostra natura che suscita
desideri infiniti.
Per una strada che si perdeva fra due muraglie di scogli, lungo un
scavato da un torrente, e che secondo ogni probabilità non era stato
mai calcato da piede umano, Dantès si avvicinava al luogo in cui
supponeva dovessero essere le grotte.
Seguendo la riva del mare, ed esaminando i più piccoli particolari
con attenzione, gli parve di scorgere su alcune rocce dei graffiti
operati dalla mano dell’uomo.
Il tempo, che copre tutte le cose fisiche col manto dell’oblio,
sembrava avere rispettato quei segni, tracciati con una certa
regolarità e allo scopo probabilmente di guida. Di tratto in tratto,
quei segni sparivano sotto i cespugli di mirto che si univano in
grossi mazzi carichi di fiori, o sotto i licheni parassiti.
Bisognava allora che Dantès allontanasse i massi, o sollevasse il
muschio per ritrovare le tracce che lo guidavano in quel labirinto.
Quei segni avevano dato una buona speranza a Edmond.
Perché non poteva essere stato lo Spada stesso a tracciarli affinché
potessero, in caso di catastrofe, servir da guida al nipote? Quel
luogo solitario era quello che conveniva a un uomo che voleva
seppellire un tesoro.
Soltanto, quei segni visibili avrebbero potuto attirare lo sguardo
di qualcun altro, oltre quelli per cui erano fatti: l’isola dalle
tetre muraglie aveva conservato fedelmente il suo segreto? A
cinquanta passi dal porto sembrò a Edmond, sempre celato agli
sguardi dei suoi compagni, che i segni cessassero, senza però
condurre a nessuna grotta.
Un grosso macigno tondo, posto sopra una solida base era la sola
meta a cui sembravano guidare. Edmond pensò allora che invece
d’essere giunto al termine poteva benissimo non essere arrivato che
al principio, di conseguenza si girò e ritornò indietro percorrendo
la stessa via.
Intanto i suoi compagni preparavano il pranzo, andavano ad attingere
acqua alla sorgente, trasportavano il pane e la frutta a terra e
facevano cuocere il capriolo.
Nel momento in cui lo toglievano dallo spiedo, scorsero Edmond che,
leggero e ardito come un camoscio, saltava di roccia in roccia.
Tirarono un colpo di fucile per avvertirlo.
Il cacciatore cambiò subito direzione, e ritornò correndo da loro.
Mentre tutti lo seguivano con lo sguardo, nella specie di voli che
faceva tacciando di temerarietà la sua sveltezza, come per dar
ragione ai loro timori, gli venne meno un piede, fu visto oscillare
sulla cima di uno scoglio, gettare un grido, e sparire.
Tutti balzarono in un sol slancio, perché tutti amavano Edmond
malgrado la sua superiorità; Jacopo però fu il primo a raggiungerlo.
Egli trovò Dantès disteso, insanguinato, e quasi privo di sensi: era
rotolato da un’altezza di tre o quattro metri. Gli introdusse nella
bocca qualche goccia di rum e questo rimedio, che già un’altra volta
era stato efficace, produsse il medesimo effetto.
Edmond riaprì gli occhi, e si lamentò di un vivo dolore a un
ginocchio, un gran peso alla testa, e un gran spasimo ai reni.
Lo volevano trasportare fino alla spiaggia; ma quando lo toccarono,
sebbene fosse Jacopo che dirigeva l’operazione, disse, lamentandosi,
che non si sentiva la forza di sopportare il trasporto.
S’intende che di pranzo per Edmond non si parlò neppure, ma volle
che i suoi compagni, non avendo le sue stesse ragioni per fare
digiuno, ritornassero al loro posto. Quanto a lui pretendeva di non
aver bisogno d’altro che di un po’ di riposo, e che al loro ritorno
essi lo avrebbero trovato assai meglio.
I marinai non si fecero molto pregare: avevano fame, l’odore del
capriolo giungeva fino a loro, e fra lupi di mare non vi sono molte
cerimonie.
Ritornarono un’ora dopo.
Tutto ciò che Edmond aveva potuto fare era stato trascinarsi per una
dozzina di passi per andare ad appoggiarsi sopra una roccia coperta
di muschio. Ma lungi dal calmarsi, i dolori di Dantès sembrava che
fossero aumentati d’intensità.
Il vecchio padrone, costretto a partire nella mattina per depositare
il suo carico sulle frontiere del Piemonte e della Francia, fra
Nizza e Fréjus, insistette perché Dantès si sforzasse di alzarsi.
Dantès fece degli sforzi sovrumani per arrendersi a questo invito;
ma a ciascuno sforzo ricadde lamentandosi e impallidendo.
«Ha i reni rotti», disse a bassa voce il padrone. «Non importa, è un
buon compagno, non bisogna abbandonarlo; cerchiamo di trasportarlo
fino alla tartana.»
Ma Dantès dichiarò che preferiva morire dove si trovava, piuttosto
che sopportare i dolori di un qualsiasi movimento.
«Ebbene», disse il padrone, «avvenga ciò che vuole, non sarà mai
detto che noi lasciamo un bravo compagno senza aiuti. Partiremo
soltanto questa sera.»
Questa proposta fece molta meraviglia ai marinai sebbene non vi
fosse chi facesse obiezione. Il padrone era un uomo molto rigoroso,
ed era la prima volta che lo si vedeva rinunciare a un’impresa, o
anche soltanto ritardarla.
Dantès non volle che si facesse in suo favore una infrazione alle
regole di disciplina stabilite a bordo.
«No», disse, «io fui incauto e io debbo scontare la pena della mia
poca destrezza. Lasciatemi una piccola provvista di biscotti, un
fucile, della polvere e delle pallottole per ammazzare dei capretti,
e anche per difendermi, e una zappa per costruirmi una specie di
capanna, in caso tardaste nel tornare a prendermi.»
«Ma tu morrai di fame», disse il padrone.
«Meglio questo», replicò Edmond, «che soffrire gli inauditi dolori
che mi fa provare il più piccolo movimento.»
Il padrone guardò il suo bastimento che ondeggiava nel piccolo
porto, e su cui cominciavano i primi preparativi per la partenza.
«Che vuoi dunque che facciamo?» disse. «Non possiamo abbandonarti
così, e neppure aspettare lungamente.»
«Partite, partite», esclamò Dantès.
«Noi staremo assenti almeno otto giorni, e bisognerà che deviamo
dalla nostra rotta per venirti a prendere.»
«Ascoltate», disse Dantès, «se incontrate qualche peschereccio che
fra due o tre giorni venga in questi paraggi, raccomandatemi al
padrone, io pagherò venticinque piastre per il mio ritorno a
Livorno; e se non ne troverete, tornate.»
«Ascoltate, padron Baldi, vi è un mezzo per conciliar tutto», disse
Jacopo. «Partite; resterò io a curare il ferito.»
«E tu rinuncerai alla tua parte di guadagno», disse Edmond, «per
restare con me?»
«Sì, e senza dispiacere», rispose Jacopo.
«Sei un brav’uomo», disse Edmond, «e Dio ti ricompenserà della tua
buona volontà. Ma io non ho bisogno di nessuno, grazie. Un giorno o
due di riposo mi rimetteranno, e spero di trovare fra queste rocce
alcune erbe eccellenti per le contusioni…»
Uno strano sorriso passò sulle labbra di Dantès; strinse la mano a
Jacopo con calore, ma rimase irremovibile nella decisione di
rimanere solo.
I contrabbandieri lasciarono a Edmond ciò che aveva chiesto, e lo
abbandonarono non senza voltarsi molte volte, e facendogli ogni
volta gran cenni di saluto ai quali Edmond rispondeva con una sola
mano, come se non potesse muovere il resto del corpo.
Poi quando furono spariti: «È strano», mormorò Dantès ridendo, «che
sia fra uomini di tal fatta, che si trovino e si riscontrino tali
prove di amicizia e di attaccamento».
Poco dopo si trascinò con precauzione fino alla sommità di una
roccia che non gli nascondeva la vista del mare, e di là vide la
tartana compiere i suoi preparativi, levar l’ancora, dondolarsi
graziosamente come un gabbiano che sta per spiccare il volo, e
partire. In capo a un’ora era sparita del tutto, o almeno era
impossibile vederla dal luogo dove era rimasto il ferito.
Allora Dantès si alzò più lesto e più leggero di un capriolo fra i
mirti e i lentischi di quelle rocce selvagge, prese il suo fucile
con una mano, con l’altra la zappa e corse a quella roccia presso la
quale finivano i segni che aveva notato.
«E ora», esclamò, ricordandosi la storia del pescatore arabo che gli
aveva raccontato Faria, «ora apriti, oh Sesamo!»
24. L’abbagliamento
Il sole si trovava a circa un terzo del suo corso, i suoi raggi di
maggio cadevano caldi e vivificanti su quelle rocce che sembravano
esse stesse sensibili a quel calore.
Innumerevoli cicale invisibili fra i cespugli facevano sentire il
loro frinire monotono e continuo. Le foglie dei mirti e degli ulivi
si agitavano tremanti mandando un rumore quasi metallico.
A ogni passo di Edmond, dal riscaldato granito fuggivano lucertole
che sembravano smeraldi. Si vedevano balzare, sul pendio dell’isola,
le capre selvagge che attirano qualche volta i cacciatori. In una
parola l’isola era abitata, vivente, animata e tuttavia Edmond si
sentiva solo, sotto la mano di Dio.
Provava un’emozione molto somigliante alla paura. Era quella
diffidenza del pieno giorno, che fa supporre, anche nel deserto, che
vi possono essere degli occhi inquisitori a osservarci.
Quel sentimento fu così intenso, che al momento di mettersi
all’opera, Edmond si fermò, depose la zappa, riprese il suo fucile,
salì un’ultima volta sulla roccia più elevata dell’isola, e di là
girò lo sguardo attentamente su tutto ciò che lo circondava. Ma,
dobbiamo dirlo, ciò che attirò la sua attenzione non fu la poetica
Corsica, di cui egli poteva perfino distinguere le case, non fu la
Sardegna, a lui quasi sconosciuta, non fu l’isola d’Elba dai
giganteschi ricordi, né infine quella linea impercettibile che si
estende all’orizzonte e che, all’occhio esercitato del marinaio,
rivela il profilo della superba Genova, e della commerciale Livorno:
fu il brigantino ch’era partito allo spuntar del giorno, e la
tartana partita da poco.
Il primo stava per scomparire nello stretto di Bonifacio; l’altra,
seguendo la strada opposta, costeggiava la Corsica per
oltrepassarla.
Questa vista rassicurò Edmond. Riportò allora lo sguardo sugli
oggetti che lo circondavano: si vide sul punto più elevato della
conica isola, piccola statua sopra un immenso piedistallo; intorno a
lui non un uomo, non una barca; nient’altro che l’azzurro mare che
veniva a frangersi contro la base dell’isola, ornandola di una
eterna frangia d’argento.
Quindi discese con passo rapido, ma prudente; temeva troppo in un
simile momento un incidente eguale a quello che aveva tanto
abilmente e felicemente simulato.
Dantès, come si è detto, aveva ripercorso il cammino, guidato dai
graffiti sulle rocce, e aveva visto che quella linea conduceva a una
piccola insenatura nascosta come un bagno di antiche ninfe.
Questa insenatura era abbastanza profonda nel mezzo perché un
piccolo bastimento del genere delle speroniere potesse entrarvi, e
rimanervi nascosto. Allora, seguendo il filo delle induzioni, quel
filo che tra le mani di Faria aveva visto guidare in una maniera
così ingegnosa, pensò che Guido Spada fosse approdato in quella
insenatura, avesse nascosto il suo piccolo naviglio, seguita la
linea indicata dai solchi, e all’estremità di questa linea sepolto
il suo tesoro.
Fu quella ipotesi che ricondusse Dantès presso il macigno circolare.
Una cosa soltanto inquietava Edmond, e sconvolgeva tutte le sue
idee: come si era potuto, senza impiegare forze considerevoli,
alzare quel macigno, che pesava forse due o tre tonnellate, e
deporlo su quella base su cui era posto? A un tratto gli venne
un’idea.
«Invece di farlo salire», disse tra sé, «l’avranno fatto scendere.»
E si arrampicò al di sopra della roccia, per cercare il posto della
primitiva base. Vide ben presto ch’era stata praticata una leggera
inclinazione, la roccia era scivolata sulla sua vecchia base, e si
era fermata a ridosso di un’altra roccia, di media grandezza, che
era servita da nuova base.
Erano stati impiegati dei sassi e delle pietre per fare sparire ogni
traccia: questo piccolo lavoro da muratore era stato ricoperto di
terra e di vegetazione, vi era nata l’erba, e il muschio si era
esteso, alcuni semi di mirto e di lentisco erano germogliati, e la
vecchia roccia sembrava attaccata al suolo.
Dantès tolse con precauzione la terra e riconobbe, o credette di
riconoscere questo ingegnoso artificio. Allora si accinse a demolire
con la zappa quella specie di muro divisorio, cementato dal tempo.
Dopo un lavoro di dieci minuti, il muro cedette, e restò aperto un
foro nel quale si poteva introdurre un braccio.
Dantès andò a tagliare l’olivo più grosso, lo spogliò dei suoi rami,
lo introdusse nel foro, e ne fece una leva. Ma il macigno era troppo
pesante e incastrato troppo solidamente sulla roccia sottostante; la
forza di un uomo non bastava a smuoverla, fosse pur stata quella
d’Ercole.
Dantès rifletté allora che era la roccia su cui giaceva il macigno
che bisognava attaccare: ma con qual mezzo? Girò lo sguardo intorno,
come fanno gli uomini imbarazzati, e vide il corno di un bufalo
pieno di polvere che gli aveva lasciato Jacopo. Sorrise:
l’invenzione infernale avrebbe compiuta la sua opera.
Con l’aiuto della zappa, Dantès scavò, fra le due rocce, una
conduttura per mina, uguale a quella che fanno i minatori quando
vogliono risparmiare alle braccia dell’uomo una troppo lunga fatica.
Quindi lo riempì di polvere ben compressa e, sfilando il suo
fazzoletto e immergendolo nella polvere, ne fece una miccia.
Accesa la miccia, Dantès si allontanò.
L’esplosione non si fece attendere: la roccia superiore in un attimo
fu sollevata dall’incalcolabile forza, quella inferiore volò in
mille pezzi.
Dalla piccola apertura, che all’inizio Dantès aveva praticato, fuggì
una folla d’insetti brulicanti e un enorme serpente, guardiano di
quel cammino misterioso, che strisciando disparve.
Dantès si avvicinò. La roccia superiore, rimasta ormai senza
appoggio, pendeva sull’abisso.
L’intrepido cercatore vi girò attorno, scelse il punto più
vacillante, vi insinuò la leva e come Sisifo s’incurvò con tutta la
sua forza contro la roccia.
La roccia, già smossa dall’esplosione, traballò. Dantès raddoppiò
gli sforzi. Si sarebbe detto che era un nuovo Titano che sradicava
le montagne per far la guerra al padre degli dei.
Finalmente la roccia cedette, rotolò, balzò, precipitò, e sparì
immergendosi nel mare. Così lasciò scoperto un vano circolare che
metteva in vista un anello di ferro infisso nel mezzo di una pietra
quadrata.
Dantès gettò un grido di gioia e di stupore. Giammai più magnifico
risultato aveva coronato un primo tentativo.
Volle continuare, ma le sue gambe tremavano così forte, il suo cuore
batteva con tanta violenza, una nube passava tanto bruciante davanti
ai suoi occhi, che fu costretto a fermarsi.
Quel momento di esitazione però durò un lampo.
Edmond introdusse la leva nell’anello, l’alzò vigorosamente, e la
pietra smossa si aprì, scoprendo il ripido pendio di una specie di
scala che si perdeva nell’ombra di una grotta oscura.
Un altro vi si sarebbe precipitato, avrebbe gettato grida di
esultanza e di gioia: Dantès si fermò, impallidì, dubitò.
«Vediamo», disse, «siamo uomini. Avvezzi all’avversità, non ci
lasciamo abbattere da un inganno. Il cuore si rompe, allorché dopo
essere stato dilatato oltre misura dalla speranza, ritorna su se
stesso e si riadatta alla fredda realtà. Faria non fece che un
sogno; Guido Spada non ha seppellito niente in questa grotta, forse
anche non vi è mai venuto, o, se vi venne, Cesare Borgia,
l’intrepido avventuriero, l’infaticabile ladro, vi sarà venuto dopo
di lui, avrà seguito i medesimi segni che ho seguito io, avrà come
me sollevato questa pietra, e, disceso prima di me, non avrà
lasciato niente da prendere a chi veniva dopo di lui.»
Dantès restò un momento immobile, pensieroso, con gli occhi fissi
sopra quell’apertura tenebrosa.
«Sì, sì, questa è una avventura da trovar posto nella vita, mista di
ombre e di luce, di quel principe criminale. In quel tessuto di
strani casi che compose la trama della sua esistenza, questo
favoloso avvenimento ha dovuto incatenarsi invincibilmente ad altri
fatti. Sì, Borgia è venuto una notte qui, tenendo in una mano una
fiaccola, nell’altra una spada. Mentre a venti passi da lui, forse
ai piedi di quello scoglio, stavano cupi e minacciosi due sgherri
spiando la terra, l’aria e il mare, il loro padrone entrava, come
sto per fare io, in quest’antro, scuotendo le tenebre col suo
terribile e fiammeggiante braccio. Sì, ma di quegli sgherri ai quali
avrà dovuto comunicare il suo segreto, che ne avrà fatto Borgia?» si
domandò Dantès. «Ciò che fecero», si rispose sorridendo, «dei
becchini di Alarico, che vennero sotterrati col cadavere del re. Ora
che non conto più su niente, ora che mi son detto che sarebbe da
pazzi conservare qualche speranza, questa avventura non è più per me
che una mera curiosità.»
E rimase ancora per qualche tempo immobile e pensieroso.
«Però se vi fosse venuto», riprese Dantès, «se avesse ritrovato e
portato via il tesoro, Borgia, l’uomo che paragonava l’Italia a un
carciofo che avrebbe voluto mangiare foglia per foglia, Borgia
sapeva troppo bene far uso del tempo per non perderne a rimettere
questa roccia dove l’aveva trovata… Scendiamo.»
Allora discese. Il sorriso del dubbio sfiorava le sue labbra che
mormoravano quest’ultima parola dell’umana saggezza: «Può darsi…»
Ma invece delle tenebre che si aspettava di trovare, invece di
un’atmosfera opaca e mefitica, Dantès non vide che una luce
decomposta in un chiarore azzurrognolo; l’aria e la luce filtravano,
non solo dall’apertura che era stata da lui praticata, ma dalle
fessure invisibili tra le rocce, e attraverso cui si vedeva il
colore turchino del cielo, e ove si congiungevano i rami tremolanti
dei lecci o i legamenti spinosi dei rovi.
Dopo qualche secondo di sosta in questa grotta, la cui atmosfera più
tiepida che umida, più odorosa che fetida, stava alla temperatura
dell’isola come l’ombra del sole, lo sguardo di Dantès, abituato,
come detto, alle tenebre, poté esplorare gli angoli più reconditi
della caverna: era di granito, e le faccette sparse di pagliuzze
scintillavano come diamanti.
«Ahimè», esclamò Dantès sorridendo, «ecco senza dubbio i tesori che
avrà lasciato lo Spada, e il buon Faria, vedendo in sogno questi
muri risplendenti, si sarà illuso di ricche speranze!»
Ma Dantès si ricordò delle precise parole del testamento che sapeva
a memoria: «Nell’angolo più lontano della seconda apertura», diceva
il testamento.
Ora Dantès era penetrato solo nella prima grotta, bisognava dunque
cercare l’entrata della seconda.
Si orizzontò.
La seconda grotta doveva naturalmente internarsi verso il centro
dell’isola. Esaminò la superficie delle pietre e andò a battere
contro una delle pareti, quella dove doveva essere l’apertura,
nascosta senza dubbio per maggior precauzione. Con la zappa batté le
pareti a intervalli cavando dalla roccia un rumore così sordo e
debole che Dantès si rabbuiò. Finalmente sembrò al perseverante
minatore che una parte del muro di granito risuonasse, e rispondesse
con un’eco più sorda e più profonda.
Avvicinò lo sguardo ansioso al muro e riconobbe, col tatto del
prigioniero, ciò che nessun altro avrebbe forse scoperto, che là vi
doveva essere un’apertura. Però, per non fare un lavoro inutile,
Dantès che, come Cesare Borgia, aveva imparato il valore del tempo,
esplorò le altre pareti con la zappa, batté il suolo con il calcio
del suo fucile, smosse la sabbia nei luoghi sospetti e non avendo
trovato né riconosciuto niente, tornò alla parte di muro che dava
quel suono consolatore.
La percosse di nuovo e con maggior forza.
Allora vide una cosa singolare: sotto i colpi dello strumento, una
specie d’intonaco, uguale a quello che si applica sui muri per
dipingervi a fresco, si sollevava e cadeva in croste, scoprendo una
pietra biancastra granulosa come le ordinarie pietre da taglio.
L’apertura della roccia era stata chiusa con pietre d’altra natura,
quindi vi avevano steso sopra l’intonaco, e sull’intonaco era stata
imitata la tinta e la cristallizzazione del granito. Dantès percosse
allora con la parte tagliente della zappa, e questa penetrò per due
centimetri e mezzo nella porta murata.
Era là che bisognava scavare.
Per uno strano mistero dell’umana psiche, più aumentavano le prove
che Faria non s’era ingannato, e più il cuore di Dantès, indebolito
e stanco, si lasciava andare al dubbio e quasi allo scoraggiamento.
Questa nuova esperienza che avrebbe dovuto infondergli una forza
novella, gli tolse al contrario quella che gli rimaneva. La zappa
scendendo gli sfuggiva quasi dalle mani: la depose al suolo, si
asciugò la fronte e risalì la scala, col pretesto di vedere se
qualcuno lo spiava, ma in realtà perché sul punto di svenire.
L’isola era deserta, e il sole allo zenit sembrava coprirla col suo
occhio di fuoco; lontano alcuni piccoli pescherecci spiegavano le
loro vele su un mare azzurro come zaffiro.
Dantès non aveva ancora mangiato nulla; ma in quel momento era ben
lontano dall’aver volontà di mangiare; tracannò un poco di rum e
rientrò nella grotta col cuore serrato. La zappa, che gli era
sembrata così pesante, era tornata leggera, la sollevò come avrebbe
fatto con una piuma, e si rimise vigorosamente al lavoro.
Dopo qualche colpo, si accorse che le pietre non erano cementate, ma
soltanto poste le une sulle altre, e ricoperte da quell’intonaco di
cui abbiamo parlato. Introdusse in una fessura la punta della zappa,
premette col corpo sul manico, e vide con gioia la pietra cadere ai
suoi piedi.
Dantès non ebbe più che tirare a sé ogni pietra col ferro della
zappa per farle rotolare accanto alla prima. Dantès sarebbe potuto
già entrare, ma ritardando di qualche minuto aveva prolungato la
certezza, aggrappandosi alla speranza. Finalmente, dopo una nuova
esitazione, Dantès passò nella seconda grotta.
La seconda grotta era più bassa, più oscura, e di aspetto più
spaventoso della prima. L’aria, che non vi era penetrata che
dall’apertura appena fatta, conservava quell’odore mefitico che
Dantès si era meravigliato di non trovare nella prima. Dantès fece
penetrare l’aria esterna per ravvivare quella morta atmosfera,
quindi entrò. A sinistra dell’apertura c’era un angolo profondo e
oscuro; ma, come abbiamo detto, per l’occhio di Dantès non
esistevano tenebre. Scandagliò con lo sguardo la seconda grotta: era
vuota come la prima.
Il tesoro se esisteva, era seppellito in quell’angolo oscuro.
L’ora dell’angoscia era giunta: sessanta centimetri di terra da
scavare era tutto ciò che restava a Dantès fra il sommo della gioia
e il sommo della disperazione. Avanzò verso l’angolo, e, come preso
da un’improvvisa risoluzione, si mise a zappare alacremente. Al
quinto o sesto colpo di zappa, il ferro risuonò sopra altro ferro.
Mai tocco funebre di campana né suono a martello produsse un simile
effetto su colui che l’udì. Niente avrebbe potuto far impallidire di
più Dantès.
Esaminò il terreno, vicino al punto che aveva già esplorato, colpì
con la zappa, e incontrò la medesima resistenza ma non lo stesso
suono.
«E un forziere di legno cerchiato di ferro», disse.
In quell’istante un’ombra rapida passò, intercettando la luce.
Dantès lasciò cadere la zappa, afferrò il fucile, ripassò per
l’apertura e uscì all’aperto.
Era una capra selvatica che era saltata al di sopra del primo
ingresso della grotta, e brucava a qualche passo da lui.
Sarebbe stata una bella occasione per assicurarsi il pranzo; ma
Dantès ebbe timore che la detonazione richiamasse qualcuno.
Rifletté un istante, tagliò i rami di un albero resinoso, andò ad
accenderli al fuoco ancor fumante dove i contrabbandieri avevano
cotto il loro pranzo e ritornò con questa torcia nella seconda
grotta. Non voleva perdere alcun dettaglio di ciò che stava per
vedere.
Avvicinò la torcia alla buca informe e non terminata, e riconobbe
che non si era ingannato; i suoi colpi erano alternativamente caduti
sul ferro e su legno. Piantò la torcia in terra e si rimise al
lavoro.
In un istante fu scavata una fossa di novanta centimetri di
lunghezza e sessanta di larghezza, e Dantès poté scorgere un
forziere di legno di quercia con cerchi di ferro cesellato.
Nel mezzo del coperchio risplendeva, sopra una placca d’argento che
la terra non aveva potuto arrugginire, lo stemma della famiglia
Spada, una spada messa di traverso sopra uno scudo ovale, come sono
gli scudi italiani. Dantès lo riconobbe facilmente, perché Faria
l’aveva più volte disegnato.
Da quel momento non vi era più dubbio: il tesoro esisteva realmente;
non avrebbero preso tante precauzioni per rimettere in quel posto un
forziere vuoto.
Il terriccio che circondava ancora il forziere fu buttato in
disparte, e Dantès vide, poco alla volta, comparire la serratura,
posta fra due lucchetti di ferro, e le due maniglie laterali: tutto
era cesellato, come si usava in quell’epoca in cui l’arte rendeva
preziosi anche i più vili metalli.
Dantès prese il forziere per le maniglie e si provò a sollevarlo
senza riuscirvi.
Allora tentò di aprirlo: la serratura e i lucchetti resistettero:
quei fedeli custodi sembravano non voler rendere il loro tesoro.
Dantès introdusse la parte tagliente della zappa tra la parete del
forziere e il coperchio, premette con tutto il suo corpo sopra il
manico, e il coperchio, dopo aver prodotto un forte rumore, andò in
pezzi.
Una larga apertura nelle assi rese inutili i cerchioni di ferro, che
caddero anch’essi, stringendo tuttavia con le loro unghie tenaci i
pezzi del coperchio caduti con essi, e il forziere fu aperto.
Una febbre vertiginosa s’impadronì di Dantès; prese il suo fucile,
lo caricò e se lo tenne vicino. Dapprima chiuse gli occhi come fanno
i bambini, per scorgere nella notte sfavillante dell’immaginazione
più stelle che in cielo, quindi li riaprì e rimase abbagliato.
Il forziere era diviso in tre scomparti: nel primo brillavano
fulgidi scudi d’oro, dai gialli riflessi; nel secondo verghe d’oro
non brunite e disposte in buon ordine; nel terzo, pieno a metà,
Dantès rimosse e alzò a manciate i diamanti, le perle e i rubini
che, qual cascata sfavillante, facevano nel ricadere il rumore della
grandine sui vetri.
Dopo aver toccato, palpato, immerse le mani tremanti nell’oro e
nelle pietre, Dantès si rialzò e si mise a correre per la caverna
con la fremente esaltazione di un uomo che sta per diventare pazzo.
Saltò sopra una roccia da cui poteva vedere il mare, e non vide
niente: era solo, completamente solo con quelle ricchezze
incalcolabili, inaudite, favolose che gli appartenevano.
Ma sognava o era desto? Era un sogno fugace o era alle prese con la
realtà?
Aveva bisogno di rivedere il suo oro e nello stesso tempo sentiva
che non aveva la forza di sostenerne la vista. Per un momento
strinse la testa fra le mani, come per impedire alla ragione di
fuggire; poi si lanciò tra le rocce dell’isola senza seguire, non
dirò un sentiero, perché sull’isola di Montecristo non ve ne sono,
ma una direzione stabilita, facendo fuggire le capre selvatiche e
spaventando gli uccelli marini con le sue grida e i suoi gesti.
Quindi ritornò, dubitando ancora; e precipitandosi dalla prima
grotta alla seconda, e trovandosi al cospetto di questa cava d’oro e
di diamanti, cadde in ginocchio, comprimendosi con le mani i moti
convulsi del cuore, e mormorando una preghiera intelligibile a Dio
soltanto.
Poco dopo, si sentì più calmo, e perciò più felice; poiché soltanto
allora cominciò a credere alla sua felicità.
Si mise a contare la sua fortuna: vi erano circa mille verghe d’oro
che pesavano ciascuna all’incirca un chilo, quindi ammonticchiò
venticinquemila scudi d’oro che potevano avere il valore ciascuno di
ottanta franchi, in moneta attuale, tutti con l’effigie di papa
Alessandro VI e dei suoi predecessori, e si accorse che lo scomparto
ne conteneva ancora quasi altrettanti; finalmente misurò dieci volte
la capacità delle sue mani in perle, pietre e diamanti, molti dei
quali, lavorati dai migliori gioiellieri dell’epoca, di un valore
notevole, prescindendo dal loro valore economico.
Dantès vide la luce abbassarsi e affievolirsi a poco a poco.
Temette di esser sorpreso, se restava nella grotta, e ne uscì col
fucile in mano. Un pezzo di biscotto e qualche sorso di vino furono
la sua cena.
Quindi rimise a posto la pietra, vi si sdraiò sopra e dormì appena
qualche ora, coprendo col suo corpo l’ingresso della grotta.
Fu una di quelle notti, terribili e deliziose a un tempo, delle
quali quell’uomo dalle grandi emozioni ne aveva già passate due o
tre nella sua vita.
25. Lo sconosciuto
Spuntò il giorno: Dantès lo aspettava da lungo tempo a occhi aperti.
Al primo chiarore si alzò, salì, come aveva fatto la sera, sulla
roccia più elevata dell’isola per esplorarne i dintorni.
Come la sera precedente, tutto era deserto.
Edmond tolse la pietra, scese, si riempì le tasche di pietre
preziose, sistemò meglio che poté il coperchio rotto sul forziere,
lo ricoprì di terra, vi gettò sopra della sabbia, uscì dalla grotta,
rimise la pietra, ammassò su questa dei sassi di varia grandezza,
riempì gli interstizi con del terriccio e vi piantò dei mirti e
delle eriche, affinché sembrassero lì da tempo, cancellò le impronte
dei suoi passi, e attese con impazienza il ritorno dei suoi
compagni.
Adesso non si trattava più di passare il tempo a guardare quell’oro
e quei diamanti, e di restare a Montecristo come un drago a
sorvegliare il tesoro. Adesso bisognava tornare alla vita, fra gli
uomini, e prendere nella società il posto, l’influenza e il potere
che in questo mondo danno le ricchezze, che sono la prima e la più
grande delle forze di cui possa disporre la creatura umana.
I contrabbandieri fecero ritorno il sesto giorno.
Dantès riconobbe da lontano l’andatura e il moto della Giovane
Amelia; si trascinò fino al porto come Filottete ferito, e quando i
suoi compagni approdarono annunciò loro, lagnandosi ancora, di avere
avuto un sensibile miglioramento; quindi a sua volta ascoltò il
racconto degli avventurieri.
Essi erano riusciti di nuovo nel loro intento, era vero, ma non
appena deposto il carico, erano stati avvisati che un brigantino, di
sorveglianza a Tolone, usciva dal porto e si dirigeva alla loro
volta: allora erano fuggiti in tutta fretta, rammaricandosi che
Dantès, che sapeva dare una velocità maggiore al bastimento, non
fosse stato là a dirigerlo.
Si erano accorti ben presto del bastimento cacciatore che inseguiva,
ma con l’aiuto della notte e passando la punta del capo Corso erano
riusciti a sfuggirgli.
Nell’insieme quel viaggio non era stato cattivo, e tutti,
particolarmente Jacopo, erano dispiaciuti che Dantès non fosse stato
con loro per ottenere la propria parte di utili che essi avevano
riportato, parte che ammontava a cinquanta piastre.
Dantès rimase impassibile e non sorrise nemmeno all’enumerazione dei
vantaggi di cui avrebbe potuto godere, se avesse abbandonato
l’isola; e siccome la Giovane Amelia non era venuta a Montecristo
che per prenderlo, egli s’imbarcò subito la stessa sera, e seguì il
suo padrone a Livorno. Appena giunto, andò da un ebreo a vendere per
cinquemila franchi ciascuno, quattro dei suoi più piccoli diamanti.
L’ebreo avrebbe potuto chiedere come mai un pescatore fosse in
possesso di simili oggetti, ma se ne guardò bene, perché guadagnava
mille franchi sopra ciascuno.
L’indomani Dantès comprò una barca nuova che regalò a Jacopo,
aggiungendo a questo dono cento piastre perché potesse provvedersi
di un equipaggio e ciò a condizione che Jacopo andasse a Marsiglia a
chieder notizia di un vecchio chiamato Luigi Dantès, che abitava nei
viali di Meilhan, e di una giovane dimorante nel villaggio dei
Catalani di nome Mercedes.
Allora fu Jacopo che credette di sognare.
Ma Dantès gli raccontò che si era fatto marinaio per una bizzarria,
e perché la sua famiglia non gli voleva passare il denaro necessario
per mantenersi, ma giungendo a Livorno era entrato in possesso della
eredità di uno zio, che lo aveva nominato erede universale.
L’educazione di Dantès dava a questa storia una tale
verosimiglianza, che Jacopo non dubitò un istante che il suo antico
compagno gli dicesse il vero.
D’altra parte, essendo terminato l’impegno di Dantès col padrone
della Giovane Amelia, prese congedo dal vecchio marinaio, che
dapprima tentò di trattenerlo, ma, ascoltata da Jacopo la storia
dell’eredità, rinunciò perfino alla speranza di opporsi alla
decisione del Maltese.
L’indomani Jacopo fece vela per Marsiglia; doveva poi ritrovarsi con
Edmond a Montecristo. Lo stesso giorno Dantès partì senza dire dove
andava, prendendo congedo dall’equipaggio della Giovane Amelia,
donando a ciascuno di loro una splendida gratifica, e dal padrone
promettendogli di fargli avere un giorno o l’altro sue notizie.
Dantès andò a Genova.
Nel momento in cui arrivava veniva armato un piccolo yacht ordinato
da un inglese, che, avendo inteso dire i genovesi erano i migliori
costruttori navali del Mediterraneo, aveva voluto uno yacht
costruito a Genova. L’inglese aveva accettato di pagarlo
quarantamila franchi: Dantès ne offrì sessantamila, a condizione che
l’imbarcazione gli sarebbe stata consegnata quel giorno stesso.
L’inglese era andato in Svizzera aspettando che il suo yacht fosse
pronto; non doveva tornare che fra tre settimane o un mese, e il
costruttore pensò che avrebbe avuto il tempo di rimetterne un altro
in cantiere.
Dantès condusse il costruttore da un ebreo, passò con lui nel
retrobottega, e l’ebreo contò sessantamila franchi al costruttore.
Questi offrì a Dantès i suoi servigi per procurargli un equipaggio,
ma Dantès lo ringraziò dicendogli che aveva l’abitudine di navigare
da solo e che l’unica cosa che desiderava era che nella cabina, a
capo del letto, vi fosse un armadio segreto con tre scomparti pure
segreti. Dette le misure e il tutto fu eseguito l’indomani.
Due ore dopo, Dantès uscì dal porto di Genova, seguito dagli sguardi
di una folla di curiosi che volevano vedere il signore spagnolo che
aveva l’abitudine di navigare solo.
Dantès se la cavò a meraviglia: con l’aiuto del timone fece fare al
suo bastimento tutte le manovre necessarie; lo si sarebbe detto un
essere intelligente pronto a obbedire al più piccolo impulso, e
Dantès convenne che i genovesi meritavano la reputazione di primi
costruttori navali del mondo.
I curiosi seguirono con lo sguardo lo yacht, finché non l’ebbero
perso di vista; e allora cominciarono le discussioni per sapere dove
era diretto: alcuni dicevano in Corsica, altri all’isola d’Elba,
altri ancora scommettevano sulla Spagna, e altri sostenevano che
andava in Africa… Nessuno pensò all’isola di Montecristo. E invece
era proprio all’isola di Montecristo che andava Dantès.
Vi giunse sulla fine del secondo giorno. Lo yacht era un eccellente
veliero, e aveva percorso il tragitto in trentacinque ore. Dantès
aveva perfettamente riconosciuto il profilo della costa: invece di
approdare nel solito porto, gettò l’ancora nella piccola insenatura.
L’isola era deserta; non sembrava che qualcuno vi fosse approdato
dopo la partenza di Dantès.
Egli tornò al suo tesoro: tutto era come lo aveva lasciato.
Il giorno dopo, l’immensa fortuna era stata trasportata a bordo
dello yacht, e chiusa nell’armadio a scomparti segreti.
Dantès attese ancora otto giorni. In questi otto giorni fece
manovrare il suo yacht attorno all’isola, studiandola come uno
scudiero studia un cavallo. Dopo questo tempo, egli ne conobbe tutte
le qualità e i difetti, e si ripromise di aumentare le une e di
rimediare agli altri.
L’ottavo giorno Dantès vide una piccola imbarcazione venire verso
l’isola a vele spiegate, e riconobbe la barca di Jacopo. Fece un
segnale al quale Jacopo rispose, e due ore dopo la barca era accanto
allo yacht.
Jacopo aveva una triste risposta a ciascuna delle due domande fatte
da Edmond: il vecchio Dantès era morto; Mercedes era sparita.
Edmond ascoltò le due notizie con calma; ma discese subito a terra
proibendo di seguirlo. Due ore dopo ritornò. Due uomini della barca
di Jacopo passarono sul suo yacht per aiutarlo a manovrare; ordinò
di fare rotta su Marsiglia.
Aveva previsto la morte di suo padre. Ma di Mercedes che ne era
avvenuto? Senza divulgare il suo segreto, Edmond non poteva dare
istruzioni sufficienti a un proprio emissario; d’altronde voleva
prendere altre informazioni, e non poteva fidarsi che di se stesso.
Lo specchio lo aveva rassicurato a Livorno: non correva alcun
pericolo di essere riconosciuto; d’altronde aveva tutti i mezzi per
camuffarsi.
Una mattina dunque, lo yacht, seguito dalla piccola barca, entrò
arditamente nel porto di Marsiglia e si fermò proprio dirimpetto al
luogo dove Dantès era stato imbarcato, la sera che lo avevano
portato al castello d’If.
Non fu senza qualche fremito che vide, nella lancia della Sanità,
venire verso di lui un gendarme. Ma Dantès, con la perfetta
padronanza acquistata, gli presentò un passaporto inglese, che si
era procurato a Livorno, e mediante il lasciapassare straniero,
molto più rispettato in Francia, del nazionale, scese senza
difficoltà a terra.
La prima persona che Dantès vide, mettendo piede sulla Canebière, fu
uno dei marinai del Pharaon.
L’uomo aveva servito sotto i suoi ordini, e non c’era di meglio per
rassicurare Dantès sul proprio cambiamento.
Andò dritto da lui, e gli fece molte domande. Questi rispondeva
senza neppure lasciar supporre, né dalle parole né dalla fisionomia,
che ricordasse di averlo mai visto.
Dantès regalò al marinaio una moneta per ringraziarlo delle sue
informazioni; un momento dopo il brav’uomo gli correva dietro.
Dantès si voltò.
«Scusi, signore», disse il marinaio, «vi siete certamente sbagliato,
avete creduto di darmi una moneta da quaranta soldi e invece mi
avete dato un napoleone doppio.»
«Infatti, amico mio», disse Dantès, «ho sbagliato; ma siccome la
vostra onestà merita una ricompensa, eccovene un altro, che vi prego
di accettare per bere alla mia salute con i vostri compagni.»
Questi fu talmente stupito dal regalo, che non pensò nemmeno a
ringraziare colui che glielo faceva, e lo guardò allontanarsi
dicendosi: «È un qualche nababbo che viene dalle Indie!»
Dantès continuò la sua strada; ciascun passo opprimeva il suo cuore
con una nuova emozione. Tutti i suoi ricordi d’infanzia, ricordi
indelebili, eternamente presenti al suo pensiero, si facevano più
vivi a ogni piazza, a ogni angolo di strada, a ogni crocicchio.
Giungendo in fondo a rue Noailles, nel vedere i viali di Meilhan
sentì le ginocchia piegarglisi e poco mancò non cadesse sotto le
ruote di una carrozza. Giunse alla casa che aveva abitato suo padre.
I nasturzi e le clematidi erano spariti dalla pergola, dove la mano
tremante del vecchio li piantava con cura.
Dantès si appoggiò a un albero e per un po’ restò pensieroso
guardando l’ultimo piano di quell’umile e povera casa; poi avanzò
verso la porta, ne superò la soglia e domandò se vi fosse un
alloggio vacante, e tanto insistette per visitare il quinto piano,
che, sebbene fosse occupato, il portinaio salì e domandò il permesso
di vedere le due stanze di cui si componeva.
Occupavano quel piccolo appartamento due giovani sposati da otto
giorni soltanto.
Vedendo quegli sposi, Dantès emise un profondo sospiro.
Nulla più richiamava alla memoria di Dantès l’appartamento di suo
padre: non c’era più la stessa tappezzeria alle pareti, non c’erano
più i vecchi mobili, cari all’infanzia di Dantès, vivi nel suo
pensiero nei loro più piccoli dettagli: tutto era cambiato. Solo i
muri erano gli stessi.
Dantès si voltò verso il letto, che era nello stesso posto in cui lo
teneva il vecchio inquilino. Suo malgrado, gli si inumidirono gli
occhi: era in quel posto che il vecchio aveva reso l’ultimo sospiro
invocando il nome di suo figlio!
I due giovani guardarono con meraviglia quell’uomo dalla fronte
severa, sulle cui guance scorrevano due grosse lacrime senza che il
viso si alterasse. Ma, siccome ogni dolore è sacro, i giovani non
fecero alcuna domanda allo sconosciuto; solo si misero in disparte
per lasciarlo piangere a suo agio. Quando se ne andò, lo
accompagnarono dicendogli che poteva tornare quando voleva, e che la
loro povera casa gli sarebbe stata sempre aperta.
Scendendo al piano di sotto, Edmond si fermò davanti a un’altra
porta, e domandò se abitava sempre lì un sarto chiamato Caderousse,
ma il portinaio gli rispose che l’uomo di cui parlava avendo fatti
cattivi affari, era andato ad abitare sulla strada tra Bellegarde e
Beaucaire, ove conduceva l’albergo del Ponte di Gard.
Dantès discese, domandò l’indirizzo del proprietario della casa sui
viali di Meilhan, andò da lui, si fece annunciare con il nome di
lord Wilmore (erano il nome e il titolo che stavano scritti sul
passaporto), e comprò quella piccola casa per la somma di
venticinquemila franchi, almeno diecimila franchi più di quello che
valeva, ma Dantès, se gli avessero chiesto mezzo milione, lo avrebbe
pagato.
Nello stesso giorno, i giovani che abitavano il quinto piano furono
avvertiti dal notaio che aveva stipulato il contratto, che il nuovo
proprietario li invitava alla scelta di un altro appartamento della
casa, senza aumentare in alcun modo la pigione, a condizione che
cedessero le due camere che occupavano.
Quella strana proposta fu oggetto di discorsi per più di otto giorni
a quanti erano soliti frequentare i viali di Meilhan, e fece fare
mille congetture, di cui neppure una esatta.
Ma ciò che più di tutto imbrogliò i cervelli, e turbò tutti gli
spiriti, fu vedere quella stessa sera quel medesimo uomo, che la
mattina era stato visto entrare nella casa dei viali di Meilhan,
passeggiare nel piccolo villaggio dei Catalani ed entrare in una
povera casa di pescatori, dove rimase più di due ore a domandar
notizie d’individui che in parte erano morti e in parte spariti da
molti anni.
L’indomani le persone presso le quali era andato a fare tutte quelle
domande, ricevettero in regalo una nuovissima barca catalana, con
diverse reti da pesca.
Quella brava gente avrebbe voluto ringraziare il generoso
sconosciuto, ma era stato visto, dopo aver dato alcuni ordini a un
marinaio, montare a cavallo e uscire da Marsiglia per la porta di
Aix.
26. L’albergo del Ponte di Gard
Coloro i quali hanno percorso a piedi il mezzogiorno di Francia,
avranno potuto notare fra Bellegarde e Beaucaire, circa a metà
strada fra il villaggio e la città, ma più vicino a Beaucaire che a
Bellegarde, un piccolo albergo, sulla cui facciata si vede appesa
un’insegna che stride al minimo soffio vento, e su cui è rozzamente
dipinto il Ponte di Gard.
Tale piccolo albergo, per chi segue il corso del Rodano, si trova
dalla parte sinistra della strada, voltando le spalle al fiume. È
anche provvisto di ciò che nella Linguadoca viene chiamato giardino,
vale a dire che il lato opposto a quello che tiene aperta la porta
ai viaggiatori dà su un recinto in cui vegetano alcuni ulivi,
qualche fico selvatico, con le foglie argentate dalla polvere della
strada, e vi crescono, al posto dei legumi, il pepe d’India, le
cipolline, e lo zafferano; e infine in un angolo, come una
sentinella dimenticata, cresce un gran pino, lanciando in alto il
suo fusto malinconico e flessibile, e aprendo a ventaglio la sua
cima.
Questi alberi grandi e piccoli sono tutti incurvati per il
maestrale, uno dei tre flagelli della Provenza. (Gli altri due, come
si sa, o come non si sa, erano la Durance e il Parlamento). Qui e
là, nella pianura circostante, che assomiglia a un gran lago di
polvere, vegetano alcune spighe di frumento, che gli agricoltori del
paese coltivano certamente per curiosità, e ognuna delle quali serve
da ricovero a una cicala, che perseguita, col suo canto stridente e
monotono, il viaggiatore perdutosi in quella Tebaide.
Da circa sette o otto anni, questo piccolo albergo era condotto da
un uomo e da una donna che avevano per soli domestici una cameriera
chiamata Trinette e uno stalliere che rispondeva al nome di Pacaud;
doppia cooperazione più che sufficiente ai bisogni dell’albergo,
poiché un canale, scavato fra Beaucaire e Aigues-Mortes, aveva fatto
sostituire i battelli ai barrocci e le barche alle diligenze.
Il canale, come per rendere più vivi i dispiaceri dei disgraziati
albergatori che mandava in rovina, passava fra il Rodano che lo
alimenta e la strada che ne ha diminuito l’importanza, a cento passi
circa dall’albergo di cui abbiamo dato una breve ma fedele
descrizione.
Non dimentichiamo un cane, vecchio guardiano per la notte, e che
abbaiava contro i passanti sia di giorno che nelle tenebre, tanto
aveva perso, un po’ alla volta, l’abitudine di vedere viaggiatori.
Il proprietario del piccolo albergo era un uomo sui quarant’anni,
alto, secco e nerboruto, vero tipo meridionale, con gli occhi
infossati e vivaci, col naso a becco d’aquila e i denti bianchi come
quelli di un animale carnivoro. I suoi capelli che, malgrado i primi
soffi dell’età, non sembravano decidersi a diventar bianchi, erano,
come la barba che portava lunga e a collana, spessi, crespi e appena
sparsi di qualche pelo grigio: la sua carnagione, naturalmente
scura, era ancora più abbronzata per l’abitudine che il povero
diavolo aveva di stare dalla mattina alla sera sul limitare della
porta, per vedere se a piedi o in carrozza, giungesse qualche
avventore, aspettativa che quasi sempre andava perduta. e durante la
quale non opponeva riparo all’azione dei raggi divoratori del sole
sul viso, fuorché un fazzoletto rosso annodato sulla testa, secondo
il costume dei mulattieri spagnoli.
Quell’uomo è una nostra vecchia conoscenza: Gaspard Caderousse.
La moglie, che da nubile si chiamava Madaleine Radelle, era una
donna pallida, magra e malaticcia. Nata nei dintorni di Arles, pur
conservando qualche traccia della bellezza tradizionale delle sue
compatriote, aveva il viso scomposto dagli accessi quasi continui di
una di quelle febbri ribelli, tanto comuni alle popolazioni vicine
agli stagni di Aigues-Mortes e alle paludi della Camargue.
Se ne stava quasi sempre seduta e tremante nella sua camera situata
al primo piano, o sdraiata sopra un sofà, o appoggiata al suo letto,
mentre suo marito montava la guardia alla porta, cosa che egli
prolungava tanto più volentieri, in quanto ogni volta che si
accostava alla moglie, lei lo perseguitava con eterne lagnanze
contro la sorte, lagnanze alle quali suo marito rispondeva di solito
con queste filosofiche parole: «Taci, Carconta! È Dio che vuole
così!»
Questo soprannome era dato a Madeleine Radelle perché era nata nel
piccolo villaggio di Carconta, posto fra Salon e Lambesc.
Secondo un costume del paese, le persone vengono quasi sempre
chiamate con un soprannome invece che per nome, e suo marito aveva
sostituito quell’appellativo alla parola Madeleine, forse perché
troppo dolce e troppo sonora per il suo rozzo linguaggio.
Però, malgrado questa pretesa rassegnazione ai decreti della
Provvidenza, non si creda che il nostro albergatore non sentisse
profondamente la miserevole condizione in cui lo aveva ridotto il
canale di Beaucaire, e che fosse invulnerabile alle incessanti
lamentele con cui lo perseguitava la moglie.
Era, come tutti i meridionali, un uomo sobrio e senza grandi
bisogni, ma pieno di vanità per tutte le cose esteriori. Nei tempi
della sua prosperità, non lasciava mai passare né una cerimonia
pubblica, né una processione senza andarci con la sua Carconta;
l’uno col costume pittoresco degli uomini del Mezzogiorno, a un
tempo catalano e andaluso, l’altra col grazioso abito delle donne di
Arles, che sembra per metà greco e per metà arabo. Ma un po’ per
volta, catene da orologio, collane, cinture dai mille colori, giubbe
e calze ricamate, vestiti di velluto, ghette variopinte, scarpe con
fibbie d’argento erano sparite, e Gaspard Caderousse, non potendo
più mostrarsi all’altezza del passato splendore, aveva rinunciato
per sé e per la moglie a tutte quelle pompe mondane di cui sentiva,
rodendosi sordamente il cuore, gli allegri rumori fin sulla soglia
del povero albergo, che continuava a conservare più come ricovero
che come fonte di reddito.
Caderousse, come d’abitudine, aveva sostato gran parte della mattina
davanti alla porta, girando lo sguardo malinconico da una piccola
zolla, intorno a cui razzolavano alcune galline, alle due estremità
della strada deserta che si perdevano, una al mezzogiorno e l’altra
al nord. Tutto a un tratto la voce acida della moglie lo costrinse
ad abbandonare il posto. Rientrò brontolando e salì al primo piano,
lasciando però sempre aperta e spalancata la porta, come per
invitare i viaggiatori a entrare, passando.
Nel momento che Caderousse rientrava, la strada maestra di cui
abbiamo parlato, e che veniva percorsa dai suoi sguardi, era così
nuda e così solitaria quanto il deserto: si stendeva bianca e
infinita tra due file d’alberi sottili, e si comprenderà facilmente
che nessun viaggiatore, libero di scegliere un’altra ora del giorno,
si sarebbe avventurato in quello spaventevole Sahara.
Però, contro tutte le probabilità, se Caderousse fosse rimasto al
suo posto, avrebbe potuto scorgere dalla parte di Bellegarde un
cavaliere e un cavallo sopraggiungere con quell’andatura sciolta che
indica le migliori relazioni fra l’uomo e l’animale: il cavallo era
di razza ungherese, il cavaliere era un prete vestito di nero col
suo cappello a tricorno. Malgrado l’eccessivo calore d’un sole
ardente nell’ora del mezzogiorno, non andavano tutti e due che di un
trotto molto regolato.
Giunti davanti alla porta, si fermarono.
Sarebbe stato difficile decidere se fu l’uomo che fermò il cavallo,
o il cavallo che fermò l’uomo. In ogni modo, il cavaliere mise il
piede a terra, e tirando l’animale per le redini andò ad attaccarlo
all’arpione di un’imposta rotta che si reggeva sopra a un solo
cardine; quindi avanzando verso la porta, e asciugandosi la fronte
grondante di sudore con un fazzoletto di cotone rosso, batté tre
colpi sull’uscio, col puntale di ferro del bastone che teneva in
mano.
Subito il gran cane nero si alzò e fece qualche passo, abbaiando e
mostrando i denti bianchi e aguzzi; doppia dimostrazione ostile, che
provava la poca abitudine che aveva alle visite.
Immediatamente dopo, un passo pesante risuonò sulla scala di legno
che si arrampicava lungo il muro, e ne discese, curvandosi
all’indietro, il proprietario del povero albergo.
«Eccomi», diceva Caderousse meravigliato. «Eccomi! Vuoi star zitto,
Margottin? Non abbiate paura, signore, abbaia ma non morde.
Desiderate del vino, non è vero? C’è un sole tremendo. Ah, mi
scusi», si interruppe Caderousse, vedendo con quale specie di
viandante parlava, «mi scusi, non sapevo chi avevo l’onore di
ricevere… Che desiderate? che domandate, signor abate? Sono ai
vostri ordini.»
Il prete guardò quell’uomo per due o tre secondi con un’attenzione
straordinaria, e sembrò cercasse di attirare su di sé l’attenzione
dell’albergatore; ma vedendo che i lineamenti di costui non
esprimevano altro sentimento che la sorpresa di non avere una
risposta, giudicò fosse tempo di finirla e disse con un accento
italiano ben pronunciato: «Non siete voi il signor Caderousse?»
«Sì, signore», disse l’oste, forse stupito più della domanda che non
del silenzio di un momento prima, «sono effettivamente Gaspard
Caderousse, per servirvi.»
«Gaspard Caderousse?… Sì… credo siano questi il nome e il cognome…
Voi dimoravate in altri tempi sui viali di Meilhan, al quarto piano,
non è vero?»
«Precisamente.»
«Ed esercitavate la professione di sarto?»
«Sì, ma la mia professione non mi fruttava; fa tanto caldo in quella
maledetta Marsiglia, che andrà a finire che nessuno si vestirà più.
Ma a proposito di calore, non volete prender qualcosa per
rinfrescarvi, signor abate?»
«Sia pure. Datemi una bottiglia del miglior vino che avete, e poi
riprenderemo la conversazione, se non vi dispiace, al punto in cui
l’abbiamo lasciata.»
«Come vi farà più piacere, signor abate», disse Caderousse, e, per
non perdere l’occasione di vendere una delle ultime bottiglie di
vino di Cahors che gli restavano, si affrettò ad alzare una botola
nel pavimento della camera a pianterreno, che serviva a un tempo da
sala e da cucina.
Allorché, in capo a cinque minuti, ricomparve, ritrovò l’abate
seduto su uno sgabello col gomito appoggiato a una lunga tavola,
mentre Margottin, sembrando aver fatto pace con Caderousse, e
aspettando che, diversamente dal solito, questo singolare
viaggiatore ordinasse qualche cosa, allungava il collo scarno e
l’occhio languente.
«Siete solo?» domandò l’abate all’oste, mentre questi gli metteva
davanti la bottiglia e un bicchiere.
«Oh, mio Dio, sì, solo, o quasi, poiché ho una moglie che non mi può
aiutare in cosa alcuna, essendo la povera Carconta quasi sempre
malata.»
«Ah, voi siete ammogliato?» disse l’abate con un certo interesse,
guardandosi in giro, come per stimare il tenue valore dei mobili del
locale.
«Vi accorgete che non sono ricco, non è vero?» disse sospirando
Caderousse. «Ma per esser fortunati in questo mondo, non basta
sempre essere un onest’uomo.»
L’abate fissò uno sguardo indagatore su di lui.
«Sì, un onest’uomo, di ciò posso vantarmi», disse l’oste sostenendo
lo sguardo dell’abate, con una mano sul petto e alzando la testa, «e
oggigiorno non tutti possono dire altrettanto.»
«Tanto meglio, se è vero ciò di cui vi vantate; poiché ho la ferma
convinzione che presto o tardi l’uomo onesto viene ricompensato e il
cattivo punito.»
«È vostro dovere dir così, signor abate, è il vostro stato di uomo
di Chiesa che vi fa dir così», disse Caderousse, con un’amara
espressione. «La realtà però ci mostra spesso il contrario di ciò
che dite.»
«Avete torto di parlar così», disse l’abate, «perché forse fra
qualche istante io sarò per voi una prova di ciò che asserisco.»
«Che volete dire?» domandò Caderousse meravigliato.
«Voglio dire che prima di tutto bisogna che mi assicuri se siete
realmente colui che cerco.»
«Quali prove volete che vi dia?»
«Avete conosciuto nel 1814 o 1815 un marinaio che si chiamava
Dantès?»
«Dantès? Se ho conosciuto il povero Edmond? Lo credo bene! Era uno
dei miei migliori amici!» esclamò Caderousse, il cui volto si era
fatto di porpora, mentre l’occhio chiaro e fermo dell’abate sembrava
dilatarsi per scoprire interamente colui che interrogava.
«Sì, credo infatti che si chiamasse Edmond.»
«Se si chiamava Edmond quel ragazzo? Lo credo bene! Tanto è vero,
quanto mi chiamo Gaspard Caderousse! E che è avvenuto, signore, del
povero Edmond?» continuò l’oste. «L’avete conosciuto? Dov’è adesso?
È felice?»
«È morto prigioniero, più disperato e più miserabile dei forzati che
trascinano la loro catena al bagno penale di Tolone.»
Un pallore mortale si sostituì al rossore sul viso di Caderousse. Si
voltò e l’abate lo vide asciugarsi una lacrima con un lembo del
fazzoletto che gli serviva da berretto.
«Povero ragazzo», mormorò Caderousse. «Ebbene ecco un’altra prova di
quel che vi dicevo: il destino, in questa vita, non è favorevole che
ai più malvagi. Ah», continuò Caderousse, con quel linguaggio
colorito delle genti del Mezzogiorno, «questo mondo va di male in
peggio. Che piova dunque una volta dal cielo per due giorni polvere
di cannone, e subito dopo un’ora di fuoco, così sarà tutto finito!»
«Sembra che amavate di cuore questo giovane», osservò l’abate.
«Sì, lo amavo molto», disse Caderousse, «sebbene debba rimproverarmi
di avere per un istante invidiato la sua felicità. Ma dopo, ve lo
giuro, parola di Caderousse, ho pianto molto la sua sorte infelice!»
Seguì un istante di silenzio, durante il quale lo sguardo fisso
dell’abate non cessò un momento di studiare la fisionomia mobile
dell’albergatore.
«E voi lo avete conosciuto il povero giovane?» continuò Caderousse.
«Fui chiamato al suo letto di morte per prestargli gli ultimi
conforti della religione», rispose l’abate.
«E di che male è morto?» domandò Caderousse con voce strozzata.
«Di qual male si muore in prigione, all’età di trent’anni, se non è
la prigione stessa che uccide?»
Caderousse si asciugò il sudore dalla fronte.
«Ciò che c’è di strano in tutto questo», rispose l’abate, «è che
Dantès, sul letto di morte, mi ha giurato di non sapere la vera
causa della sua prigionia.»
«È vero, è vero», mormorò Caderousse, «non poteva saperlo, no,
signor abate, il povero giovane non mentiva.»
«Ed è per questo che mi ha incaricato di chiarire ciò che non aveva
mai potuto chiarire da sé, e di riabilitare la sua memoria, se
questa memoria fosse stata macchiata.»
Lo sguardo dell’abate, divenendo sempre più fisso, divorò
l’espressione quasi tetra che apparve sul viso di Caderousse.
«Un ricco inglese», continuò l’abate, «che fu suo compagno di
prigione e che venne liberato alla seconda Restaurazione, possedeva
un diamante di gran valore. Uscendo di prigione, siccome Dantès lo
aveva assistito come un fratello in una lunga malattia di cui aveva
sofferto, volle lasciargli una testimonianza della sua riconoscenza,
e gli regalò il diamante. Dantès invece di servirsene per sedurre i
suoi carcerieri, che del resto potevano prenderlo e poi tradirlo, lo
custodì sempre gelosamente nel caso uscisse di prigione; se fosse
uscito la sua fortuna era assicurata dalla vendita di quel
diamante.»
«Era dunque, come voi dicevate», domandò Caderousse con occhi
ardenti, «un diamante di grande valore?»
«Tutto è relativo», rispose l’abate, «era di gran valore per Edmond;
questo diamante è stato stimato cinquantamila franchi.»
«Cinquantamila franchi!» esclamò Caderousse. «Sarà stato grosso come
una noce?»
«No, niente affatto», disse l’abate. «Ma potrete giudicare voi
stesso, avendolo io qui con me.»
Caderousse sembrò cercare con gli occhi sotto le vesti dell’abate il
gioiello di cui parlava.
L’abate cavò dalla una tasca una scatolina di marocchino nero,
l’aprì e fece brillare innanzi agli occhi abbagliati di Caderousse
la sfavillante meraviglia, incastonata in un anello di squisita
fattura.
«E questo vale cinquantamila franchi?» domandò avidamente
Caderousse.
«Senza l’anello, che è anch’esso di un certo valore.»
Chiuse la scatolina, rimise in tasca il diamante, che continuava a
sfavillare nell’immaginazione di Caderousse.
«Ma come mai vi trovate in possesso di questo diamante?» domandò
Caderousse. «Edmond vi ha dunque nominato suo erede?»
«No, ma suo esecutore testamentario. “Io avevo tre buoni amici e una
fidanzata”, mi disse, “e tutti e quattro, ne son certo, mi
compiangono amaramente; uno di questi miei buoni amici si chiama
Caderousse”.»
Caderousse fremette.
«“L’altro”, continuò l’abate senza mostrare di essersi accorto
dell’emozione di Caderousse, “l’altro si chiamava Danglars; il
terzo”», aggiunse, «“sebbene mio rivale, mi amava ugualmente…”»
Un sorriso diabolico illuminò la fisionomia di Caderousse, che fece
un movimento per interrompere l’abate.
«Aspettate», disse l’abate, «lasciatemi finire, e se avrete qualche
osservazione da fare, la farete fra breve. “L’altro, sebbene mio
rivale mi amava ugualmente, e si chiamava Fernando; in quanto alla
mia fidanzata, il suo nome era…” Non mi ricordo più il nome della
fidanzata», disse l’abate.
«Mercedes», disse Caderousse.
«Ah sì, è vero», riprese l’abate con un sorriso soffocato,
«Mercedes…»
«Ebbene?» domandò Caderousse.
«Datemi un po’ d’acqua», disse l’abate.
Caderousse si affrettò a obbedire.
L’abate si riempì il bicchiere e ne bevve qualche sorso.
«Dove eravamo?» domandò questi posando il bicchiere sulla tavola.
«La fidanzata si chiamava Mercedes…»
«Ah, già. “Voi andrete da Mercedes…” È sempre Dantès che parla,
capite?»
«Perfettamente.»
«Venderete questo diamante, ne farete cinque parti uguali, e le
dividerete fra questi miei buoni amici, i soli esseri che mi hanno
amato su questa terra!»
«Perché in cinque parti?» osservò Caderousse. «Non mi avete nominato
che quattro persone.»
«Perché la quinta è morta, da quanto mi è stato detto… la quinta era
il padre di Dantès.»
«Purtroppo è vero!» disse Caderousse commosso dalle passioni che
contrastavano nel suo cuore, «purtroppo sì, il pover’uomo è morto!»
«Ho saputo ciò a Marsiglia», rispose l’abate sforzandosi di sembrare
indifferente, «ma il povero vecchio è morto da tanto tempo, e non ho
potuto raccogliere nessun particolare… Sapreste dirmi qualche cosa
voi?»
«Eh», disse Caderousse, «chi lo può sapere meglio di me?… Abitavo
porta a porta col buon uomo… Oh, mio Dio, sì, un anno appena dopo la
scomparsa di suo figlio il poveretto morì!»
«Ma di che male morì?»
«I medici definirono la sua malattia gastroenterite, credo; quelli
che lo conoscevano, dicevano che era morto di dolore… e io, che l’ho
quasi visto morire, dico che è morto…»
Caderousse si fermò.
«Morto di che cosa?» riprese ansiosamente l’abate.
«Morto di fame.»
«Di fame!» esclamò l’abate agitandosi sullo sgabello. «Di fame!… Il
più vile degli animali non muore di fame; i cani che vanno errando
per le strade trovano una mano compassionevole che getta loro un
tozzo di pane! E un uomo, un cristiano, è morto di fame in mezzo ad
altri uomini che si dicono cristiani come lui!… Impossibile! Oh,
questo è impossibile!»
«Vi dico che è così», riprese Caderousse.
«Tu hai torto», disse una voce dalle scale.
«Di che t’immischi tu?»
I due uomini si voltarono e videro tra le sbarre della ringhiera il
viso malaticcio della Carconta. Si era trascinata fin là e ascoltava
la conversazione, seduta sull’ultimo scalino, con la testa
appoggiata sulle ginocchia.
«Di che ti immischi tu, moglie?» disse Caderousse. «Questo signore
domanda delle informazioni, la cortesia vuole che gli si diano.»
«Ma la prudenza vuole che tu taccia. Chi ti dice con quali
intenzioni ti si vuol far parlare, imbecille!»
«Con una intenzione eccellente, rassicuratevene», disse l’abate.
«Vostro marito non ha nulla da temere, purché mi risponda
francamente.»
«Nulla da temere… Si comincia sempre con delle belle promesse, si
dice che non c’è nulla da temere; poi chi ha ascoltato se ne va,
senza tenere per sé niente di ciò che è stato detto, e un bel
mattino cade la disgrazia sopra una povera famiglia senza sapere da
che parte viene.»
«State tranquilla, buona donna», rispose l’abate, «la disgrazia non
vi verrà da parte mia, ve lo garantisco.»
La Carconta brontolò qualche parola che non si poté interpretare,
lasciò ricadere sulle ginocchia la testa per un istante sollevata, e
continuò a tremare per la febbre, lasciando il marito libero di
continuare la conversazione, ma in modo da non perderne una parola.
Frattanto l’abate aveva bevuto qualche sorso d’acqua e si era
calmato.
«Ma», riprese, «quel disgraziato vecchio era dunque talmente
abbandonato da tutti che dovette perire di una tal morte?»
«Oh, signore», riprese Caderousse, «Mercedes la catalana e il signor
Morrel non lo avevano abbandonato. Ma il povero vecchio aveva preso
una profonda antipatia per Fernando, quello stesso», continuò
Caderousse con un sorriso ironico, «che Dantès vi disse essere uno
dei suoi amici.»
«Dunque non lo era?» domandò l’abate.
«Gaspard, Gaspard», mormorò la donna dall’alto della scala, «fa’
bene attenzione a ciò che stai per dire.»
Caderousse ebbe un moto d’impazienza e senza rispondere a colei che
lo interrompeva rispose all’abate: «Si può mai essere amico di
quello a cui si vuol portar via la fidanzata? Dantès, che aveva il
cuore d’oro, chiamava tutti suoi amici… Povero Edmond… Però è meglio
che non abbia saputo niente; avrebbe fatto troppa fatica a
perdonargli in punto di morte… sebbene, checché se ne dica»,
continuò Caderousse nel suo linguaggio non privo di una specie di
rozza poesia, «io abbia più paura della maledizione dei morti che
dell’odio dei vivi.»
«Imbecille!» disse la Carconta.
«Sapete dunque», continuò l’abate, «ciò che questo Fernando ha fatto
contro Dantès?»
«Se lo so? Lo credo bene!»
«Parlate allora.»
«Gaspard, fa’ ciò che vuoi, tu sei il padrone», disse la moglie, «ma
se mi dessi retta, non diresti niente.»
«Questa volta, moglie mia, credo che tu abbia ragione», disse
Caderousse.
«Così non volete dir niente?» riprese l’abate.
«E a che servirebbe?» disse Caderousse. «Se Edmond fosse vivo, e una
volta per tutte venisse da me per conoscere tutti i suoi amici e
nemici, parlerei; ma ora è sottoterra, da quanto mi avete detto, non
può più avere odi, non può più vendicarsi. Dimentichiamo tutto
questo…»
«Volete allora», disse l’abate, «che dia a questi individui che mi
dite indegni e falsi amici una ricompensa destinata alla fedeltà?»
«È vero, avete ragione», disse Caderousse. «D’altronde ora a che
servirebbe l’eredità del povero Edmond? Sarebbe una goccia d’acqua
caduta in mare.»
«Senza calcolare che quella gente può schiacciarti con un gesto»,
disse la moglie.
«E in qual modo? Costoro sono divenuti ricchi e potenti?»
«Voi dunque non sapete la loro storia?»
«No, raccontatemela.»
Caderousse parve riflettere un istante.
«No, in verità», disse, «sarebbe troppo lunga.»
«Siete libero di tacere, amico mio», disse l’abate con l’accento
della più grande indifferenza, «e rispetto i vostri scrupoli;
d’altronde il vostro modo d’agire è veramente da uomo dabbene; non
ne parliamo dunque più. Di che cosa ero incaricato? Di una semplice
formalità. Venderò quindi questo diamante.» E cavò il diamante dalla
tasca e lo fece brillare una seconda volta dinanzi agli occhi di
Caderousse.
«Vieni dunque a vedere, moglie mia…» disse questi, con voce rauca.
«Un diamante!» disse la Carconta levandosi e scendendo con passo
abbastanza fermo la scala. «Di che diamante si tratta?»
«Ah, dunque non hai inteso?» disse Caderousse. «È un diamante che il
giovane ci ha lasciato in eredità: prima a suo padre, poi ai suoi
tre amici: Fernando, Danglars e me, e a Mercedes, la sua fidanzata.
Questo diamante vale cinquantamila franchi.»
«Oh, che bel gioiello!» esclamò lei.
«Il quinto allora di questa somma appartiene a noi?» disse
Caderousse.
«Sì», rispose l’abate, «e più la parte del padre che mi credo
autorizzato a ripartire fra voi quattro.»
«E perché fra noi quattro?» domandò la Carconta.
«Perché voi eravate i quattro amici di Edmond.»
«Non sono amici coloro che tradiscono!» mormorò sottovoce la donna.
«Sì, sì…» disse Caderousse, «ed era ciò che dicevo. È quasi una
profanazione, quasi un sacrilegio, dare una ricompensa al tradimento
e fors’anche al delitto.»
«Siete voi che lo volete», rispose tranquillamente l’abate,
rimettendo il diamante nella tasca della sua sottana. «Ora datemi
l’indirizzo degli amici di Edmond, affinché possa eseguire le sue
ultime volontà.»
Il sudore colava a grosse gocce dalla fronte di Caderousse; vide
l’abate alzarsi, e dirigersi verso la porta come per dare
un’occhiata al suo cavallo e tornare.
Caderousse e sua moglie si guardarono con un’espressione indicibile.
«Il diamante sarebbe tutto nostro!» disse Caderousse.
«Lo credi?» disse la donna.
«Un uomo come quello non vorrà ingannarci.»
«Fa’ come vuoi» disse la donna, «in quanto a me, io non me ne
immischio.» E tutta tremante, risalì la scala; i denti le battevano,
malgrado facesse molto caldo. All’ultimo scalino si fermò un
istante. «Riflettici bene, Gaspard…» disse.
«Sono deciso», rispose Caderousse. La Carconta rientrò sospirando
nella sua camera; l’impiantito s’intese scricchiolare sotto i suoi
passi finché non ebbe raggiunto il sofà sul quale cadde di peso.
«Vi siete deciso?» domandò l’abate.
«Vi dirò tutto… Credo sia la cosa migliore da farsi.»
«Non che io abbia interesse a saper cose che vorreste nascondere ma,
se potete aiutarmi a distribuire il lascito secondo i voti del
testatore, sarà assai meglio.»
«Lo spero…» disse Caderousse con le guance infiammate di speranza e
di cupidigia.
«Vi ascolto…» disse l’abate.
«Aspettate», rispose Caderousse, «potremmo essere interrotti nel
punto più interessante, sarebbe sgradevole;
d’altronde è inutile si sappia che siete venuto qui.»
Andò alla porta del suo albergo e la chiuse, per maggior precauzione
vi mise la sbarra della notte.
L’abate scelse il posto per ascoltare con tutto suo comodo e si
sistemò in un angolo in modo da rimanere nell’ombra, mentre la luce
sarebbe ricaduta pienamente sul viso del suo interlocutore. In
quanto a lui, con la testa chinata, le mani giunte o piuttosto
serrate, si preparava ad ascoltare attentamente.
Caderousse avvicinò uno sgabello e si sedette in faccia all’abate.
«Ricordati che io non ti ho spinto a niente…» disse la voce
tremolante della Carconta, come se attraverso il pavimento avesse
potuto vedere la scena.
«Va bene, va bene», disse Caderousse, «non ne parliamo più; mi
assumo ogni responsabilità.»
E cominciò.
27. Il racconto
«Prima di tutto», esordì Caderousse, «devo pregarvi di promettermi
una cosa.»
«Quale?» domandò l’abate.
«Che non si saprà mai che vi ho dato questi particolari, nel caso
che aveste bisogno di farne qualche uso; perché quelli di cui sto
per parlarvi sono ricchi e potenti, e se avessero a toccarmi con la
sola punta di un dito mi stritolerebbero come un bicchiere.»
«State tranquillo, mio buon amico, vi garantisco sul mio onore che
le vostre parole moriranno nel mio cuore. Ricordatevi che non
abbiamo altro scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà del
nostro amico. Parlate dunque senza timore e senza odio; dite tutta
la verità. Io non conosco, e forse non conoscerò mai le persone di
cui state per parlarmi; d’altra parte sono italiano e non francese,
e compiute le ultime volontà di un moribondo, tornerò dritto in
patria.»
L’esplicita promessa sembrò rassicurare del tutto Caderousse.
«E sia, in questo caso», disse Caderousse, «voglio dirvi anche di
più, io devo disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmond
credeva sincere e affettuose.»
«Cominciamo da suo padre, se non vi dispiace. Edmond mi ha parlato
molto di quel vecchio, per il quale nutriva un amore profondo.»
«È una storia triste», disse Caderousse scuotendo la testa.
«Probabilmente, voi ne conoscerete il principio.»
«Sì, Edmond mi ha raccontato le cose fino al momento in cui fu
arrestato, in una piccola osteria vicino a Marsiglia.»
«Alla Riserva… Oh, mio Dio, sì, vedo ancora la cosa come accadesse
ora.»
«Non fu al pranzo del suo fidanzamento?»
«Sì, a quel pranzo che ebbe un allegro principio e una triste fine.
Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò e
Dantès fu arrestato.»
«Ecco fino a dove arriva quello che so», disse l’abate. «Dantès
stesso non sapeva altro, poiché non ha più rivisto nessuna delle
cinque persone che ho nominato, né ha più inteso parlare di loro.»
«Dopo l’arresto di Dantès, il signor Morrel corse via per prendere
informazioni, che furono tristissime. Il vecchio Dantès ritornò solo
a casa sua, piegò l’abito dei giorni di festa piangendo, passò tutta
la giornata camminando nella sua camera, e la sera non dormì. Io,
che abitavo sotto di lui, lo sentii muoversi tutta la notte. Io
stesso, debbo dirlo, non dormii: il dolore di quel povero padre mi
faceva molto male e ciascuno dei suoi passi mi opprimeva il cuore,
come avessi i piedi sul mio petto. L’indomani Mercedes venne a
Marsiglia per implorare la protezione del signor Villefort; ma non
ottenne nulla; dopo andò subito a far visita al vecchio. Quando lo
vide così triste e abbattuto, capì che aveva passato tutta la notte
senza riposare, e non aveva mangiato dal giorno innanzi, e volle
condurlo con sé per prendersene cura; ma il vecchio non ha mai
voluto acconsentirvi. “No”, diceva, “non lascerò mai questa casa,
perché sono certo che il mio povero figlio mi ama sopra ogni altra
cosa, e se esce di prigione correrà a trovare me per primo. Che
direbbe se non fossi qui ad aspettarlo?” Io ascoltavo tutto dal
pianerottolo, perché avrei desiderato che Mercedes avesse persuaso
il vecchio a seguirla; quei passi ripetuti giorno e notte sulla mia
testa, non mi lasciavano avere un momento di riposo.»
«E voi non salivate mai a consolarlo?»
«Ah, signor abate, si riesce a consolare solo coloro che vogliono
esser consolati, ed egli non voleva esserlo. D’altra parte, non so
perché, sembrava che avesse ripugnanza a vedermi. Una notte però,
che intesi i suoi singhiozzi, non potei più resistere e salii: ma
quando giunsi alla porta non singhiozzava più; pregava. Egli trovava
parole eloquentissime, suppliche pietose che ora non saprei
ripetere; era più che pietà, era più che dolore, e io, che non sono
bigotto, dicevo a me stesso: “Sono ben felice d’esser solo e di non
avere figli, perché se fossi padre e soffrissi un dolore come quello
di questo povero vecchio, non potendo ritrovare nella mia memoria,
né nel mio cuore tutto ciò che egli dice al buon Dio, me ne andrei
dritto a buttarmi in mare per non soffrire più”.»
«Povero padre!» mormorò l’abate.
«Di giorno in giorno egli viveva sempre più solo e isolato. Spesso
il signor Morrel o Mercedes venivano a trovarlo, ma la sua porta era
chiusa e sebbene fosse certamente in casa non rispondeva ad alcuno.
Un giorno, contrariamente al solito, ricevette Mercedes e la povera
ragazza, anche se disperata, cercò di confortarlo: “Credimi, figlia
mia”, disse il vecchio, “Edmond è morto, e invece di aspettar lui,
egli aspetta noi… Io sono fortunato, perché essendo più vecchio,
sarò il primo a rivederlo”. Per quanto uno sia buono, si stanca ben
presto di vedere le persone che lo rattristano: il vecchio Dantès
finì per rimanere solo. Io non vidi più salire da lui nessuno, se
non ogni tanto certi sconosciuti che scendevano poi con degli
involti malnascosti. Seppi in seguito che cosa erano quegl’involti:
egli vendeva a poco a poco tutto ciò che aveva, per vivere. Infine
il buon uomo terminò i suoi poveri arredi… Era debitore di tre rate
d’affitto: fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di
otto giorni che gli venne accordata. Io so questi particolari perché
il padrone di casa entrò da me, uscendo da lui.
«Nei primi tre giorni lo intesi camminare come al solito ma nel
quarto non sentii più nulla. Mi arrischiai a salire, la porta era
chiusa; guardai attraverso la serratura, e lo vidi tanto pallido ed
estenuato, che, comprendendo quanto fosse malato, feci avvertire il
signor Morrel e corsi da Mercedes. Tutti e due si affrettarono a
venire. Morrel condusse un medico, che diagnosticandogli una
gastroenterite ordinò la dieta. Io ero presente, signore, e non
dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa raccomandazione. Da
quel momento aveva una scusa per non mangiar più… Il medico aveva
ordinato la dieta.»
L’abate mandò una specie di gemito.
«Questa storia desta in voi tanto interesse?» domandò Caderousse.
«Sì», rispose l’abate, «è commovente.»
«Mercedes ritornò: lo trovò così cambiato che, come la prima volta,
lo voleva far trasportare a casa sua. Questo era pure il parere di
Morrel; ma il vecchio gridò tanto, che ebbero paura. Mercedes restò
al suo capezzale; Morrel si allontanò facendo segno alla catalana
che lasciava una borsa sul caminetto. Ma, forte dell’ordine del
medico, non volle prender nulla. Finalmente, dopo nove giorni di
disperazione e di astinenza, il vecchio spirò, maledicendo quelli
che erano stati causa della sua disgrazia, e dicendo a Mercedes: “Se
un giorno vedrete il mio Edmond, ditegli che io muoio
benedicendolo”.»
L’abate si alzò, fece due volte il giro della stanza, portando la
mano tremante all’arida gola.
«E voi credete che egli sia morto…»
«Di fame, signore», disse Caderousse. «Ne sono certo, quanto è vero
che siamo qui.»
L’abate prese con mano convulsa il bicchiere d’acqua ancor pieno a
metà, lo vuotò d’un fiato, e si rimise a sedere con gli occhi rossi
e le guance pallide.
«Certo fu una gran disgrazia…» disse con voce rauca.
«E tanto più grande, perché causata da finti amici.»
«Passiamo dunque a questi uomini», disse l’abate. «Ma pensateci
bene», continuò con un tono quasi minaccioso, «vi siete impegnato a
dirmi tutto… Sentiamo dunque, chi son quelli che hanno fatto morire
il figlio di disperazione, e il padre di fame?»
«Fernando e Danglars, due uomini invidiosi di Edmond, uno per amore,
l’altro per ambizione.»
«E in qual modo si manifestò questa loro invidia?»
«Essi denunciarono Edmond come agente bonapartista.»
«Ma chi dei due lo denunciò? Chi dei due fu il vero colpevole?»
«Tutti e due: l’uno scrisse la lettera, l’altro la portò alla
posta.»
«Questa lettera dove fu scritta?»
«All’osteria stessa della Riserva, il giorno prima del
fidanzamento.»
«Fu proprio così…» mormorò l’abate. «Oh, Faria, Faria, come
conoscevi bene gli uomini e le cose!»
«Che dite, signore?» domandò Caderousse.
«Niente! Continuate…»
«Danglars scrisse la denuncia con la mano sinistra, perché non fosse
riconosciuta la calligrafia, e Fernando la spedì.»
«Ma», gridò d’improvviso l’abate, «voi eravate là?»
«Io?» disse Caderousse meravigliato. «E chi vi ha detto che c’ero?»
L’abate s’accorse di essersi spinto troppo oltre. «Nessuno», disse,
«ma per essere così ben informato di tutti questi particolari,
bisogna che siate stato presente.»
«È vero…» disse Caderousse con voce soffocata, «io c’ero.»
«E non vi siete opposto a questa infamia?» disse l’abate. «Voi
dunque siete loro complice.»
«Signore, essi mi avevano fatto tanto bere, che quasi avevo perso la
ragione: non vedevo che attraverso una nebbia. Dissi quanto poteva
dire un uomo in quello stato, ma essi mi risposero essere stato uno
scherzo che avevano voluto fare, e che non avrebbe avuto alcuna
conseguenza.»
«Va bene», disse l’abate, «voi avete parlato con franchezza e
meritate il perdono.»
«Disgraziatamente Edmond è morto, e non mi ha perdonato.»
«Egli ignorava tutto ciò.»
«Ma ora forse lo saprà… Si dice che i morti sappiano tutto.»
Vi fu un momento di silenzio: l’abate si era alzato e passeggiava
pensieroso. Ritornò al suo posto e si sedette di nuovo.
«Mi avete nominato due o tre volte un certo signor Morrel», disse.
«Chi era quest’uomo?»
«Era l’armatore del Pharaon, il padrone e protettore di Dantès.»
«E quale parte ha sostenuto in tutta questa triste faccenda?»
«La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte
andò a intercedere per Edmond. Quando ritornò l’imperatore, scrisse,
pregò, minacciò, e tanto fece che, nella seconda Restaurazione, fu
grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho
detto, è andato dal padre di Dantès per portarlo a casa sua, e il
giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa
con la quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese del
funerale… Povero vecchio, poté almeno morire come aveva vissuto
senza essere di peso a nessuno. Ho ancora quella borsa, una borsa di
cordonetto rosso.»
«E questo signor Morrel vive ancora?»
«Sì…» disse Caderousse.
«E in questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’essere
ricco… felice…»
Caderousse sorrise amaramente.
«Sì, felice come lo sono io…» disse.
«Come! Morrel sarebbe rovinato?» gridò l’abate.
«È vicino alla miseria, e peggio ancora è vicino al disonore.»
«E come mai?»
«Dopo vent’anni di fatiche», rispose Caderousse, «dopo essersi
acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel
è quasi completamente rovinato. In due anni ha perso cinque
vascelli, subito tre fallimenti terribili, e ora non ha più altre
speranze che quello stesso Pharaon, che era comandato dal povero
Edmond, e che deve ritornare dalle Indie con un carico di
cocciniglia e di indaco. Se questo bastimento si perde come gli
altri, è rovinato del tutto.»
«E il disgraziato ha moglie, figli?»
«Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è comportata
come una santa; ha una figlia che stava per sposare l’uomo da lei
amato, e la famiglia del quale si è opposta a un matrimonio con la
figlia di un uomo fallito, ha un figlio tenente nell’esercito. Ma,
voi lo capirete bene, tutto ciò non fa che raddoppiare il dolore del
povero uomo. Se fosse stato solo, si sarebbe fatto saltare le
cervella, e tutto sarebbe finito.»
«Ciò è spaventoso!» mormorò l’abate.
«Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù», disse
Caderousse. «Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione a
nessuno, meno quella che vi ho raccontato, sono nella miseria; dopo
che avrò visto morire la mia povera moglie di febbre senza poter far
nulla per lei, morirò di fame come è morto il padre di Dantès,
mentre Fernando e Danglars nuotano nell’oro.»
«E come è possibile?»
«Perché a essi ogni cosa gira bene, mentre ai galantuomini va tutto
male.»
«Che è diventato questo Danglars, il più colpevole, l’istigatore?»
«Che è diventato? Abbandonò Marsiglia con una raccomandazione di
Morrel, che ignorava il suo delitto, e poté entrare come impiegato
presso un banchiere spagnolo. All’epoca della guerra di Spagna,
s’incaricò di una parte delle forniture dell’esercito francese, e
fece fortuna. Con questo primo denaro speculò sui fondi pubblici, e
ha triplicato e quadruplicato i suoi capitali e, vedovo della figlia
del banchiere, sposò una vedova, la signora di Nargonne, figlia di
Salvieux, ciambellano dell’attuale re, e che gode dei più grandi
favori a corte. Divenuto milionario lo hanno nominato conte, e ora è
il conte Danglars che ha un palazzo in rue MontBlanc, dieci cavalli
nelle scuderie, sei domestici e non so quanti milioni in
cassaforte.»
«Ah», disse l’abate con un’espressione singolare. «Ed è felice?»
«Felice? Chi può dir questo? La felicità e l’infelicità sono il
segreto dei muri, i muri hanno orecchie ma non lingua; se uno è
felice perché è ricco, allora Danglars è felice.»
«E Fernando?»
«A Fernando le cose sono andate ancora meglio.»
«Come mai un povero pescatore catalano senza risorse e senza
istruzione ha potuto far fortuna? Ciò mi sorprende, ve lo confesso.»
«E ciò sorprende tutti. Nella sua vita ci deve essere qualche strano
segreto che nessuno sa.»
«Ma per quali gradini visibili ha potuto salire a quest’alta
fortuna, o a quest’alta posizione?»
«A entrambe, signore, a entrambe; egli ha, insieme, fortuna e
posizione.»
«Ma è una favola che mi raccontate?»
«Ne ha tutte le sembianze, ma è una cosa reale. Ascoltate e
giudicate voi stesso. Pochi giorni prima che ritornasse Napoleone,
Fernando era stato incluso nelle liste di coscrizione. I Borboni lo
lasciarono tranquillo ai Catalani, ma al ritorno di Napoleone fu
ordinata una leva straordinaria, e Fernando fu costretto a partire.
Io pure partii, ma essendo più vecchio di Fernando, e avendo da poco
sposato la mia povera moglie fui inviato soltanto sulle coste.
Fernando, incorporato nelle schiere attive, venne mandato col suo
reggimento alla frontiera, e partecipò alla battaglia. La notte
seguente alla battaglia era di guardia alla porta di un generale,
che aveva relazioni segrete col nemico e che quella notte stessa
doveva arrendersi agli inglesi. Il generale gli propose di
accompagnarlo, Fernando accettò, abbandonò il suo posto e seguì il
generale. Ciò che lo avrebbe potuto condurre davanti a un tribunale
di guerra, gli servì da raccomandazione presso i Borboni.
«Rientrò in Francia con i gradi di sottotenente, e siccome non gli
mancava la protezione del suo generale, che allora godeva molto
favore, divenne capitano nel 1823, all’epoca della prima guerra di
Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava le sue
speculazioni. Siccome Fernando si poteva considerare quasi spagnolo,
fu inviato a Madrid per indagare le intenzioni dei suoi compatrioti.
Là ritrovò Danglars, si accordarono, promise al suo generale
l’appoggio dei realisti della capitale e delle province, e ricevette
delle promesse, fece arruolamenti per conto proprio, guidò il
reggimento francese per sentieri solo a lui noti fra le gole
guardate dai realisti; insomma in quella breve campagna rese servigi
tali, che dopo la presa del Trocadero venne nominato colonnello, e
ricevette la croce di ufficiale della Legion d’Onore unitamente al
titolo di barone.»
«Destino, destino!» mormorò l’abate.
«Sì, ma ascoltate, che non è ancora tutto. Finita la guerra di
Spagna, la carriera di Fernando fu messa a rischio dalla lunga pace
che pareva dovesse regnare in Europa: soltanto la Grecia si era
sollevata contro la Turchia, e cominciava la guerra per la sua
indipendenza. Tutti gli occhi erano puntati su Atene; era di moda
compiangere e sostenere i greci. Fernando domandò e ottenne di
mettersi al servizio della Grecia continuando però a essere iscritto
sui registri dell’esercito. Qualche tempo dopo si seppe che il
barone di Morcerf, tale era il nome che portava, era entrato al
servizio di Alì Pascià, col grado di tenente generale. Alì Pascià fu
ucciso, come sapete; ma prima di morire ricompensò i servigi di
Fernando, lasciandogli una somma considerevole, con la quale tornò
in Francia, dove gli venne confermato il grado di sottotenente.»
«E oggi?» domandò l’abate.
«Oggi», proseguì Caderousse, «è barone e possiede un magnifico
palazzo a Parigi, in rue Helder 27.»
L’abate aprì la bocca, esitò un istante, quindi facendo uno sforzo
su se stesso disse: «E Mercedes? Mi assicurarono che scomparve».
«Scomparve», disse Caderousse, «come scompare il sole per levarsi
l’indomani più splendente.»
«Lei pure ha fatto fortuna?» domandò l’abate con un sorriso ironico.
«Mercedes ora è una delle più grandi dame di Parigi», riprese
Caderousse.
«Continuate», disse l’abate, «mi sembra di ascoltare il racconto di
un sogno. Ma io stesso ho visto cose sì straordinarie che mi
sorprendono poco quelle che mi dite.»
«Mercedes dapprima fu disperata per la perdita di Edmond. Vi ho
detto delle sue istanze presso il signor Villefort e della sua
devozione per il padre di Dantès. In mezzo alla sua disperazione, un
altro dolore venne a colpirla, e fu la partenza di Fernando, di cui
ignorava il delitto, e che considerava un fratello. Fernando partì,
e Mercedes rimase sola. Tre mesi passarono in lacrime; nessuna
notizia di Fernando: null’altro davanti agli occhi che un vecchio
moribondo disperato. Una sera, dopo essere rimasta tutto il giorno,
seduta come sua abitudine, all’incrocio delle due strade che dai
Catalani conducono a Marsiglia, ritornò nella sua capanna, triste
più del solito: né l’innamorato, né l’amico ritornavano da una di
quelle due strade e non riceveva notizie né dell’uno, né dell’altro.
«D’improvviso le sembrò di udire un passo conosciuto, si volse con
ansietà, la porta si aprì, e vide comparire Fernando con l’uniforme
di sottotenente. Non era la metà di ciò che piangeva, ma era una
parte della sua vita passata che ritornava da lei. Mercedes strinse
le mani di Fernando con trasporto tale, che questi credette fosse
amore per lui, mentre non era che la gioia di non essere più sola al
mondo, e di vedere un amico dopo quelle lunghe ore di triste
solitudine. E poi, bisogna pur dirlo, Fernando non era mai stato
odiato, egli non era amato, ecco tutto. Un altro occupava
interamente il cuore di Mercedes, quest’altro era assente… era
sparito… forse morto…
«A quest’ultima idea suggerita da Fernando, Mercedes scoppiò in
singhiozzi, e si contorse le braccia per il dolore. Ma quest’idea,
che aveva respinto tante volte, quando le veniva suggerita da altri,
ora le veniva spontaneamente allo spirito. D’altra parte il vecchio
Dantès non cessava di dirle: “Il nostro Edmond è morto; se non fosse
morto ritornerebbe”. Il vecchio morì, come vi dissi. Se fosse
vissuto, Mercedes forse non sarebbe diventata mai la moglie di un
altro, perché il buon vecchio sarebbe sempre stato là a
rimproverarle la sua infedeltà. Fernando lo capì e non ritornò che
quando seppe della morte del vecchio. Questa volta era tenente.
«La prima volta che era venuto, non aveva detto una sola parola
d’amore a Mercedes; la seconda le ricordò che l’amava. Mercedes
domandò sei mesi ancora, per aspettare e piangere Edmond.»
«Gran cosa!» disse l’abate con un sorriso amaro. «Non erano che
diciotto mesi in tutto. Che può domandare di più l’amante più
adorato?» Poi mormorò queste parole del poeta inglese: «Frailty, thy
name is woman!»2
«Sei mesi dopo», riprese Caderousse, «si celebrò il matrimonio nella
chiesa degli Accoulès.»
«Era la medesima chiesa dove doveva sposare Edmond», mormorò
l’abate, «solo il marito era cambiato, ecco tutto.»
«Mercedes dunque si maritò», continuò Caderousse, «e sebbene agli
occhi di tutti sembrasse tranquilla, svenne passando davanti alla
Riserva, ove diciotto mesi prima era stato celebrato il fidanzamento
con colui che avrebbe capito di amare ancora, se avesse osato
guardare nel fondo del suo cuore. Fernando più felice, ma non più
tranquillo, perché io l’ho visto allora, temeva sempre il ritorno di
Edmond, Fernando si occupò subito di espatriare con sua moglie, di
esiliarsi con lei. Vi erano molti pericoli da temere, e nello stesso
tempo troppi ricordi da combattere, restando ai Catalani. Otto
giorni dopo le nozze, partirono.»
«Rivedeste più Mercedes?» domandò l’abate.
«Sì, quando scoppiò la guerra di Spagna, a Perpignano, dove Fernando
l’aveva lasciata; si occupava dell’educazione di suo figlio.»
L’abate rabbrividì.
«Di suo figlio?» disse.
«Sì», rispose Caderousse, «del piccolo Albert.»
«Ma per istruire suo figlio», continuò l’abate, «avrà ricevuto
anch’essa un’educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmond
che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita.»
«Oh!» disse Caderousse. «Conosceva dunque così male la sua
fidanzata! Mercedes avrebbe potuto divenire regina, se la corona
dovesse essere posata soltanto sulle teste più belle, più
intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sé, lei diveniva grande
con la sua fortuna: imparava il disegno, la musica, tutto. D’altra
parte io credo, sia detto fra noi, che non facesse tutto ciò che per
distrarsi, per dimenticare, e che non mettesse tante cose in testa,
che per combattere quelle che aveva in cuore. Ma, ora che tutto deve
dirsi», continuò Caderousse, «la fortuna e gli onori l’hanno senza
dubbio consolata. Ella è ricca, è baronessa, e tuttavia…»
Caderousse si fermò.
«Tuttavia, che cosa?» domandò l’abate.
«Tuttavia, sono sicuro che non è felice.»
«E che cosa ve lo fa credere?»
«Ebbene, quando io stesso mi sono trovato nella più grande
disgrazia, ho pensato che i miei vecchi amici mi avrebbero aiutato
in qualche cosa. Mi sono presentato a Danglars, che non mi ha voluto
neppure ricevere. Sono stato da Fernando, e mi ha fatto dare cento
franchi dal suo cameriere.»
«Così non li vedeste, né l’uno né l’altro.»
«No, ma mi vide la signora Morcerf.»
«E come mai?»
«Quando sono uscito, una borsa cadde ai miei piedi, conteneva
venticinque luigi. Alzai la testa e vidi Mercedes che chiudeva la
persiana.»
«E Villefort?» domandò l’abate.
«Oh, egli non era mio amico, non lo conoscevo, non avevo nulla da
chiedergli.»
«Ma non sapete che ne sia accaduto, e qual parte abbia preso alla
disgrazia di Edmond?»
«No, so soltanto che qualche tempo dopo averlo fatto arrestare,
sposò la signorina di Saint-Méran, e ben presto lasciò Marsiglia.
Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come agli altri, senza
dubbio sarà ricco come Danglars, considerato come Fernando. Io solo,
sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da Dio.»
«V’ingannate, amico mio», disse l’abate, «qualche volta può sembrare
che Dio dimentichi qualcuno; ma viene il giorno della giustizia,
viene il giorno in cui si ricorda, ed eccovene una prova.»
A queste parole l’abate cavò il diamante dalla tasca porgendolo a
Caderousse: «Prendete», gli disse, «prendete questo diamante, poiché
è tutto vostro».
«Come, a me solo?» gridò Caderousse. «Ah! signore, vi burlate di
me!»
«Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmond; ma
lui non aveva che un solo amico, la divisione diventa dunque
inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale cinquantamila
franchi, ve lo ripeto, e spero che questa somma basterà per
togliervi dalla miseria.»
«Oh, signore», disse Caderousse, allungando timidamente una mano,
mentre con l’altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla
fronte. «Oh, non vi fate gioco della felicità, o della disperazione
di un uomo!»
«Io so ciò che è la felicità, e ciò che è la disperazione, e non mi
prenderei mai gioco di questi sentimenti», riprese l’abate.
«Prendete dunque, ma in cambio…»
Caderousse che già toccava il diamante, ritirò la mano.
L’abate sorrise.
«In cambio», continuò, «regalatemi quella borsa di seta rossa che il
signor Morrel aveva lasciato sul caminetto del vecchio Dantès, e che
mi avete detto essere nelle vostre mani.»
Caderousse, sempre più meravigliato, aprì un grand’armadio di
quercia, e dette all’abate una lunga borsa di seta di un rosso
scolorito, e intorno alla quale scorrevano due anelli in altro tempo
dorati.
L’abate la prese, e dette il diamante a Caderousse.
«Oh, voi siete un uomo di Dio!» esclamò Caderousse. «Perché in
verità nessuno sapeva che Edmond vi avesse dato questo diamante, e
avreste potuto conservarlo per voi.»
«Bene», disse l’abate fra sé, «tu l’avresti fatto, mi sembra.»
Quindi si alzò, prese il cappello e i guanti e domandò: «A
proposito, quanto mi avete detto è tutto vero? Posso credervi su
tutti i punti?»
«Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi
ho detto una parola che non sia vera.»
«Va bene», disse l’abate convinto, «che questo denaro possa esservi
di profitto. Addio, io ritorno lontano dagli uomini che fanno tanto
male ai loro simili.»
E l’abate, liberandosi a stento dalle entusiastiche dimostrazioni di
Caderousse levò la sbarra della porta, uscì, risalì a cavallo,
salutò un’ultima volta l’oste che si confondeva in addii clamorosi,
e partì seguendo la stessa direzione che aveva tenuta nel venire.
Quando Caderousse si voltò, vide dietro di sé la Carconta più
pallida e più tremante che mai.
«È vero ciò che ho sentito?» disse lei.
«Che cosa? Che ci ha dato il diamante per noi soli?» disse
Caderousse quasi pazzo dalla gioia.
«Sì.»
«Non vi è nulla di più vero, eccolo qua.»
La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca: «E se
fosse falso?»
Caderousse impallidì e si scosse: «Falso», mormorò, «falso… E perché
quell’uomo avrebbe dovuto regalarmi un diamante falso?»
«Per avere il tuo segreto senza pagarlo.»
Caderousse rimase un momento stordito sotto il peso di quella
supposizione.
«Oh», disse, dopo un breve silenzio, e prendendo il cappello che
mise sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, «lo
sapremo presto.»
«E in qual modo?»
«Oggi c’è la fiera a Beaucaire: vi sono dei gioiellieri di Parigi:
vado a farlo vedere. Tu guarda la casa, fra due ore sarò di
ritorno.»
E Caderousse si lanciò fuori prendendo di corsa la strada opposta a
quella tenuta dallo sconosciuto.
«Cinquantamila franchi!» mormorò la Carconta rimasta sola. «È molto
denaro sì… ma non è una grande fortuna.»
28. I registri delle prigioni
Il giorno successivo a quello in cui accadde la scena che abbiamo
descritta, un uomo sui trent’anni, vestito d’un soprabito blu, coi
pantaloni di tela di Nanchino e il panciotto bianco, con l’aspetto e
l’accento inglese, si presentò al sindaco di Marsiglia.
«Signore», gli disse, «sono il primo commesso della casa Thomson e
French di Roma. Siamo da dieci anni in relazione con la casa Morrel
e figlio di Marsiglia, abbiamo impiegato circa centomila franchi in
questa relazione, e non siamo senza inquietudine, poiché ci vien
fatto credere che questa casa minacci rovina: vengo dunque
espressamente da Roma per domandarvi informazioni in merito.»
«Signore», rispose il sindaco, «io so effettivamente che da
quattro-cinque anni la disgrazia sembra perseguitare il signor
Morrel: ha successivamente perso quattro o cinque navi, subito tre o
quattro fallimenti. Ma non spetta a me, sebbene io stesso suo
creditore per una dozzina di migliaia di franchi, dare informazioni
sullo stato delle sue finanze. Domandatemi come sindaco ciò che
penso del signor Morrel, e vi risponderò che è un uomo rigorosamente
probo, e che fino a oggi ha sempre adempito ai suoi impegni con
scrupolo. Ecco tutto ciò che posso dirvi; se volete saperne di più,
indirizzatevi al signor Boville, ispettore delle prigioni, rue
Noailles numero 15… Credo che egli abbia duecentomila franchi
impiegati sulla casa Morrel, e se vi è realmente cosa a temersi, lo
ritroverete molto più informato di me, poiché la sua somma è molto
più considerevole della mia.»
L’inglese sembrò apprezzare questa grande delicatezza, salutò, uscì
e s’incamminò col passo proprio dei figli di Gran Bretagna verso la
strada indicata. Il signor Boville era nel suo ufficio. L’inglese,
vedendolo, fece un movimento di sorpresa che sembrava indicare non
essere quella la prima volta che si trovava davanti a colui al quale
faceva visita.
In quanto a Boville, la sua disperazione lasciava facilmente
scorgere che tutte le facoltà dello spirito, assorte nel pensiero
che l’occupava in quel momento, non lasciavano né alla sua memoria,
né alla sua immaginazione il piacere di divagarsi nel passato.
L’inglese, con la flemma propria della sua razza, gli presentò la
questione, quasi negli stessi termini che aveva usato col sindaco di
Marsiglia.
«Oh, signore», urlò Boville, «i vostri timori disgraziatamente non
possono essere più fondati, e voi avete innanzi agli occhi un uomo
disperato. Avevo investito duecentomila franchi nella casa Morrel:
erano la dote di mia figlia che contavo di maritare fra quindici
giorni: dovevano essere rimborsati centomila il 15 di questo mese, e
centomila il 15 del venturo. Avevo dato avviso a Morrel del
desiderio di essere rimborsato esattamente, ed ecco, non è mezz’ora,
è venuto da me Morrel per dirmi che se il suo bastimento, il
Pharaon, non rientra in porto prima del 15, egli si trova
nell’impossibilità di fare il pagamento.»
«Ma questa», disse l’inglese, «è una specie di dilazione.»
«Dite piuttosto, signore, che questo assomiglia a un fallimento!»
esclamò Boville disperato.
L’inglese sembrò riflettere un momento, poi disse: «Questo credito
vi ispira dei timori?»
«Peggio, lo considero come perduto.»
«Ebbene, lo compro io.»
«Voi?»
«Sì, io.»
«Ma con un enorme ribasso, senza dubbio?»
«No, per duecentomila franchi… La nostra casa», aggiunse l’inglese
ridendo, «non fa simili affari.»
«E voi pagate?…»
«In denaro contante.»
E l’inglese cavò di tasca un fascio di biglietti di banca che
potevano formare il doppio della somma che il signor Boville temeva
di perdere. Un lampo di gioia passò sul viso di Boville; ciò
nonostante fece uno sforzo per contenersi. «Signore, debbo
avvertirvi che, secondo tutte le probabilità, non recupererete il
sei per cento di questa somma.»
«Ciò non mi riguarda», rispose l’inglese, «ma riguarda la casa
Thomson e French, in nome della quale io opero. Forse essa può avere
qualche interesse a sollecitare la rovina di una casa rivale. Ma so
che sono pronto a sborsarvi questa somma, in cambio della cessione
che mi farete: chiederò soltanto un diritto di senseria.»
«Signore, è giustissimo», gridò Boville. «La commissione è
ordinariamente l’uno e mezzo per cento; volete il due? Il cinque?
Ancora di più? Non avete che a parlare.»
«Signore!» aggiunse ridendo l’inglese. «Io sono come la mia casa,
non faccio di questa specie di affari. No, la mia senseria è
d’un’altra natura.»
«Parlate dunque, vi ascolto.»
«Voi siete ispettore delle prigioni?»
«Da quattordici anni e più.»
«Terrete dunque il registro di entrata e uscita?»
«Certamente.»
«A questi registri devono essere unite delle note relative ai
prigionieri?»
«Ciascun prigioniero ha la sua.»
«Ebbene, signore, io sono stato allevato a Roma da un abate che
scomparve all’improvviso. Seppi poi che era stato detenuto nel
castello d’If, e vorrei avere alcuni particolari sulla sua morte.»
«Come lo chiamavate?»
«L’abate Faria.»
«Oh, me ne ricordo perfettamente», esclamò Boville, «egli era
pazzo.»
«Si diceva.»
«Oh, lo era certamente.»
«È possibile! E qual era il suo genere di pazzia?»
«Pretendeva di conoscere dove era nascosto un immenso tesoro, e
offriva delle somme considerevoli se avessero voluto metterlo in
libertà.»
«Povero diavolo! Ed è morto?»
«Sì, son cinque, o sei mesi al più, nel febbraio scorso.»
«Avete una buona memoria, per ricordarvi così le date.»
«Mi ricordo questa, perché la morte del povero diavolo fu
accompagnata da una singolare circostanza.»
«Si potrebbe conoscere questa circostanza?» domandò l’inglese con
una espressione di curiosità, che un freddo osservatore si sarebbe
meravigliato di trovare sul suo viso flemmatico.
«Oh senza difficoltà. La cella di Faria era lontana quindici metri
circa da quella di un agente bonapartista, uno di quelli che avevano
più di tutti contribuito al ritorno dell’imperatore nel 1815, uomo
molto pericoloso.»
«Veramente?» disse l’inglese.
«Sì», rispose Boville, «ho avuto occasione di vedere quest’uomo nel
1816 o 1817. Non si scendeva nella sua cella senza esser scortati da
un picchetto di soldati. Quest’uomo mi ha fatto una profonda
impressione, e non dimenticherò mai il suo viso.»
L’inglese fece un impercettibile sorriso.
«Dicevate dunque che le due celle…»
«Erano separate da una distanza di quindici metri», continuò
Boville, «ma sembra che questo…»
«Quest’uomo pericoloso si chiamava?…»
«Edmond Dantès, signore… Sembra che questo Edmond Dantès si fosse
procurato degli utensili, o ne avesse costruiti… Fatto sta che fu
ritrovato un cunicolo sotterraneo per mezzo del quale i due
prigionieri comunicavano.»
«Questo cunicolo sarà stato fatto senza dubbio a scopo di evasione.»
«Certamente, ma per disgrazia dei prigionieri, Faria fu colpito da
una paralisi, e morì.»
«Capisco che ciò dovette sospendere il piano di evasione.»
«Per il morto, sì», rispose Boville, «ma non per il vivo… Questo
Dantès al contrario trovò il mezzo di accelerare la fuga. Senza
dubbio pensava che i morti del castello d’If fossero seppelliti in
un ordinario cimitero; trasportò il defunto nella sua cella, prese
posto nel sacco entro cui era stato cucito il cadavere, e aspettò il
momento che lo avrebbero seppellito.»
«Era un espediente rischioso e che esigeva non poco coraggio»,
riprese l’inglese.
«Oh, vi ho detto che era un uomo molto pericoloso; fortunatamente
però egli stesso ha liberato il governo dai timori che aveva a suo
riguardo…»
«E in qual modo?»
«Come! Non lo immaginate?»
«No.»
«Il castello d’If non ha cimitero, e i morti si gettano
semplicemente in mare, dopo avere attaccato ai loro piedi una grossa
pietra.»
«Ebbene?» disse l’inglese come se avesse difficoltà a capire.
«Ebbene, gli fu attaccata una pietra ai piedi, e fu gettato in
mare.»
«Davvero?» esclamò l’inglese.
«Sì, signore», continuò l’ispettore. «Capirete quale sarà stata la
costernazione del fuggitivo allorché si sentì precipitare dall’alto
del castello. Avrei voluto vederlo in quel momento.»
«Sarebbe stato difficile.»
«Non importa», disse Boville, che la certezza di rimborso dei suoi
duecentomila franchi metteva di buonumore, «me lo figuro.» E dette
in uno scoppio di risa.
«E io pure», disse l’inglese, e si mise a ridere anche lui, ma come
fanno gli inglesi, vale a dire fra i denti. «In tal modo», continuò,
«il fuggitivo annegò?»
«Nel modo più assoluto.»
«Di maniera che il governatore del castello fu liberato nello stesso
tempo di un furioso e di un pazzo?»
«Precisamente!»
«Ma sarà stato legalizzato in qualche atto questo avvenimento?»
domandò l’inglese.
«Sì, sì, l’atto mortuario. Capirete bene, i parenti di questo
Dantès, se egli ne ha, potrebbero aver qualche interesse ad
assicurarsi se è vivo, o morto.»
«Di modo che essi possano essere tranquilli, se hanno ereditato da
lui. Egli è morto. È morto davvero?»
«Oh, mio Dio, sì, e ne verrà rilasciato il certificato ogniqualvolta
lo vorranno.»
«Così sia…» disse l’inglese. «Ma ritorniamo ai registri…»
«È vero, questa storia ci aveva divagati: scusate.»
«Scusare che? Per la storia? Al contrario, mi è sembrata molto
interessante.»
«E lo è. Ma voi non desideravate conoscere tutto ciò che è relativo
al vostro povero precettore, che era mansueto nella sua pazzia?»
«Ciò mi farà un vero piacere.»
«Passiamo nel mio ufficio, e vi mostrerò le carte.»
Ed entrambi passarono nello studio del signor Boville.
Tutto era effettivamente nell’ordine più perfetto: ciascun registro
era al suo posto, ciascun incartamento nella propria casella.
L’ispettore fece sedere l’inglese in una poltrona, e gli mise
davanti il registro e le carte relative al castello d’If, dandogli
tutto il tempo di sfogliarle, mentre lui, seduto in un angolo, si
metteva a leggere un giornale.
L’inglese trovò finalmente la nota relativa all’abate Faria, ma
sembrò che la storia raccontatagli da Boville avesse in lui destato
grande interesse, perché, dopo aver preso conoscenza di queste prime
carte, continuò a sfogliare fino a che trovò quella che riguardava
Edmond Dantès.
Ritrovò ogni cosa: denuncia, interrogatorio, petizione di Morrel,
postille di Villefort. Piegò piano piano la denuncia e se la mise in
tasca, lesse l’interrogatorio, e vide che non era stato citato il
nome di Noirtier, lesse pure la domanda in data 10 aprile 1815,
nella quale Morrel, dietro consiglio del sostituito, esagerava con
eccellente intenzione (poiché allora regnava Napoleone) i servigi
che Dantès aveva reso alla causa imperiale, servigi che il
certificato di Villefort rendeva incontestabili.
Allora capì tutto.
Quella domanda a Napoleone conservata da Villefort, era diventata
sotto la seconda Restaurazione un’arma terribile nelle mani del
procuratore del re.
Non si stupì dunque più, sfogliando il registro, di ritrovare in
margine al suo nome quanto segue: EDMOND DANTÈS. Bonapartista
accanito; ha preso parte attiva al ritorno dall’isola d’Elba. Da
tenersi segregato, e sotto la più stretta sorveglianza.
Sotto queste righe, stava scritto con un’altra calligrafia: «Vista
la nota qui sopra, nulla da farsi».
Soltanto confrontando la calligrafia della nota con quella del
certificato, posta sotto la domanda di Morrel, egli acquistò la
certezza che la nota aggiunta era della stessa calligrafia del
certificato, cioè scritta dalla mano di Villefort.
In quanto al visto che accompagnava la nota, l’inglese capì che
doveva esservi stato posto da qualche ispettore interessatosi
momentaneamente alla sorte di Dantès, ma che i passi citati avevano
messo nell’impossibilità di darvi corso.
Come si disse, l’ispettore, per discrezione e per non disturbare
nelle sue ricerche l’allievo di Faria, si era messo in disparte e
leggeva «Le Drapeau Blanc».
Dunque non vide l’inglese piegare e mettersi in tasca la denuncia
scritta da Danglars sotto il pergolato della Riserva, recante il
timbro postale di Marsiglia, 28 febbraio.
Ma bisogna dirlo, anche se lo avesse visto, avrebbe dato poca
importanza a quel documento, e troppa ai suoi duecentomila franchi,
per opporsi a ciò che faceva l’inglese, per quanto fosse irregolare.
«Grazie!» disse questi, chiudendo rumorosamente il registro. «Ho
trovato quanto cercavo. Ora sta a me mantenere la mia promessa:
fatemi una semplice cessione del vostro credito; dichiarate in essa
di aver ricevuto i contanti, e io vi pago subito la somma.»
Lasciò il posto al signor Boville, che si sedette, e senza farsi
pregare si affrettò a fare la cessione richiesta, mentre l’inglese
contava i biglietti da mille sopra un angolo della scrivania.
29. La casa Morrel
Chi avesse lasciato Marsiglia alcuni anni prima, conoscendo la casa
di Morrel, e vi fosse tornato all’epoca in cui siamo arrivati, vi
avrebbe notato un grandissimo cambiamento.
Al posto di quell’aura di vita, agi e felicità, che per così dire
emana da una casa che sia benedetta dalla fortuna; al posto di
quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le finestre, di
quei commessi affaccendati che attraversano i corridoi con una penna
dietro l’orecchio; al posto di quel cortile ingombro di merci,
rimbombante di grida e risa dei facchini, avrebbe trovato, fin dal
primo sguardo, un non so che di tristezza e di morte in corridoi
deserti e in un vuoto cortile.
Dei numerosi impiegati che in altri tempi affollavano le scrivanie,
ne rimanevano appena due; uno era Emmanuel Raymond, giovane di
ventitré anni, fidanzato della figlia di Morrel, che era rimasto lì,
sebbene i suoi genitori avessero fatto di tutto per toglierlo;
l’altro, un vecchio cassiere, cieco d’un occhio, chiamato Coclite,
soprannome che gli era stato dato dai giovani che un tempo
popolavano questo alveare fervido e gioioso, oggi quasi disabitato,
che aveva così bene dimenticato il suo vero nome, per cui, secondo
ogni probabilità, non si sarebbe neppure voltato, se non lo avessero
chiamato con quel soprannome.
Egli era rimasto al servizio di Morrel, e nella situazione di questo
bravo uomo si era verificato uno strano cambiamento: mentre era
salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al rango
di domestico. Questo non gli impediva di essere lo stesso Coclite,
fidato, paziente, affezionato ma inflessibile nei conti e in
aritmetica, solo punto sul quale avrebbe tenuto testa al mondo
intero, compreso il signor Morrel, non conoscendo che la sua tavola
pitagorica. nota fin sulla punta delle dita, qualunque fosse
l’errore nel quale avessero tentato di farlo cadere.
In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa Morrel,
Coclite era il solo che fosse rimasto impassibile.
Orbene, che nessuno s’inganni, questa impassibilità non proveniva da
mancanza di attaccamento, ma al contrario da una incrollabile
convinzione. Come i topi che, si dice, abbandonino a poco a poco un
bastimento condannato dal destino a perire in mare, così tutta
quella folla di commessi e d’impiegati che traevano la loro
sussistenza dalla casa dell’armatore, avevano un po’ per volta
disertato scrivanie e magazzini. Coclite li aveva visti andarsene,
senza neppure rendersi conto della loro partenza.
Ogni cosa, come abbiamo detto, si riduceva, per Coclite, a una
questione di cifre, e da vent’anni che era nella casa di Morrel
aveva sempre visto effettuarsi i pagamenti a sportelli aperti con
una tale regolarità da fargli credere che questa non avrebbe mai
potuto variare e i pagamenti sospendersi, più di quanto un mugnaio
che possiede un mulino messo in moto da un canale ricco di acqua,
può credere che un giorno o l’altro questa acqua possa venir meno.
E infatti fino allora, nulla era ancora sopraggiunto a mutare la
convinzione di Coclite. I pagamenti della fine del mese si erano
effettuati con la solita puntualità. Coclite aveva notato un errore
di settanta centesimi commesso da Morrel in suo sfavore, e lo stesso
giorno aveva riportato i quattordici soldi eccedenti a Morrel, che
con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati cadere in un
cassetto quasi vuoto, dicendo: «Coclite, voi siete la perla dei
cassieri».
Coclite si era ritirato soddisfatto in modo che non si sarebbe
potuto esserlo di più, perché un elogio di Morrel, perla degli
uomini onesti di Marsiglia, lusingava Coclite molto più che una
gratifica di cinquanta scudi. Ma dopo la fine di quel mese
vittoriosamente superato, Morrel aveva passato ore crudeli.
Per far fronte agli impegni di quel mese aveva riunito tutte le sue
risorse e, temendo che l’eco delle sue ristrettezze si spandesse in
Marsiglia, vedendolo ricorrere a simili estremi, si era recato alla
fiera di Beaucaire per vendere qualche gioiello che apparteneva a
sua moglie e a sua figlia, nonché una parte della sua argenteria:
con tal sacrificio tutto era stato superato, a onore della casa
Morrel.
Però la cassa era rimasta vuota. I finanziatori, allarmati dalle
voci che circolavano, si erano eclissati, come succede in questi
casi, per egoismo umano; e, per far fronte a centomila franchi da
pagarsi il 15 di quel mese al signor Boville, e altri centomila che
scadevano il 15 del successivo mese, Morrel non aveva in realtà
altra speranza che il ritorno del Pharaon, di cui un bastimento che
aveva levato l’ancora con esso, e già arrivato in porto, aveva
annunciato la partenza. Ma questo bastimento che veniva da Calcutta
come il Pharaon, era già arrivato da quindici giorni, mentre del
Pharaon non si aveva alcuna notizia.
In questo stato di cose, l’indomani del giorno in cui aveva concluso
l’affare con Boville, da noi raccontato, l’incaricato della casa
Thomson e French di Roma si presentò al signor Morrel.
Lo ricevette Emmanuel.
Il giovane che si spaventava all’entrata di ogni nuova persona
perché poteva annunciare un nuovo creditore che veniva a importunare
il capo della casa, volle risparmiare al padrone la noia di quella
visita: interrogò il nuovo arrivato, il quale dichiarò che non aveva
cosa alcuna da dire a lui, e che voleva parlare a Morrel in persona.
Emmanuel sospirando chiamò Coclite; e questi comparve e ricevette
l’ordine di condurre lo straniero dal signor Morrel. Coclite camminò
avanti e lo straniero lo seguì. Sulla scala incontrarono una bella
ragazza di diciassette anni che guardò lo straniero con
inquietudine. Coclite non notò quell’espressione sul viso di lei,
che però non sfuggì al forestiero.
«Il signor Morrel è nel suo ufficio, non è vero, signorina Julie?»
domandò il cassiere.
«Sì, almeno credo di sì…» disse la giovane con esitazione. «Guardate
prima, Coclite, e se mio padre c’è, annunciate il signore.»
«È inutile annunciarmi, signorina», rispose l’inglese, «il signor
Morrel non conosce il mio nome. Questo brav’uomo ha da dirgli
soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French
di Roma, con la quale la casa di vostro padre è in relazione.»
La ragazza impallidì e continuò a scendere, mentre Coclite e lo
straniero riprendevano a salire.
Lei entrò nell’ufficio di Emmanuel, e Coclite invece aprì una porta
del secondo piano, introdusse lo straniero in un’anticamera, aprì
una seconda porta che richiuse dietro di sé, e dopo aver lasciato
solo per un momento l’inviato di Thomson e French, ricomparve,
facendogli segno che poteva entrare.
L’inglese entrando trovò il signor Morrel dietro la sua scrivania,
preoccupato delle colonne spaventose dei registri su cui stava
scritto il suo passivo. Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i
registri, si alzò, offrì una sedia, e quando lo vide a suo agio,
egli pure sedette.
Quattordici anni avevano cambiato assai la fisionomia dell’armatore,
il quale, trentaseienne anni al principio di questa storia, stava
per compierne cinquanta. I capelli erano incanutiti, la fronte era
solcata da due profonde rughe, e lo sguardo, in altri tempi così
fermo e sicuro, era diventato vago e irresoluto, e sembrava dovesse
sempre temere di fissarsi sopra un uomo o sopra un’idea. L’inglese
lo guardò con un sentimento di curiosità misto a interesse.
«Signore», disse Morrel, a cui questo esame sembrava raddoppiare il
malessere, «desideravate parlarmi?»
«Sì, signore… Sapete da parte di chi vengo, non è vero?»
«A quanto mi ha detto il cassiere, da parte della casa Thomson e
French.»
«Vi ha detto la verità. La casa Thomson e French ha
tre-quattrocentomila franchi da pagare in Francia, parte nel mese
corrente e parte nel prossimo, e conoscendo la vostra rigorosa
esattezza ha raccolto tutte le cambiali che ha potuto trovare con la
vostra firma, e mi ha incaricato, a mano a mano che queste scadono,
di riscuotere il denaro presso di voi e di servirmene.»
Morrel mandò un profondo sospiro, e si passò la mano sulla fronte
madida di sudore.
«Voi dunque, signore», domandò Morrel, «avete delle cambiali firmate
da me?»
«Sì signore, e per una somma abbastanza considerevole.»
«Per quale somma?» domandò Morrel, con voce che invano cercava di
render sicura.
«Ecco qui», disse l’inglese, levandosi di tasca un fascio di carte.
«Per prima cosa due girate di duecentomila franchi del signor
Boville, l’ispettore delle prigioni. Convenite di dovergli questa
somma?»
«Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al
quattro e mezzo per cento, quasi cinque anni fa.»
«E che voi dovevate rimborsare?…»
«Metà al 15 di questo mese, l’altra metà al 15 del prossimo
venturo.»
«Bene, ora ecco trentaduemilacinquecento franchi per la fine del
mese corrente: queste sono cambiali firmate da voi e passate nelle
nostre mani da terzi giratari.»
«Le riconosco…» disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore
della vergogna, pensando che per la prima volta in vita sua non
avrebbe potuto far onore alla sua firma. «È tutto qui?…»
«No, signore, io ho ancora per la fine del mese venturo queste altre
cambiali ceduteci dalla casa Pascal e dalla casa Wild e Turner di
Marsiglia, cinquantacinquemila franchi circa. In tutto sono
duecentoottantasettemilacinquecento franchi.»
Ciò che soffriva lo sfortunato Morrel udendo quelle cifre, è
impossibile poterlo descrivere.
«Duecentoottantasettemilacinquecento franchi!» ripeté
macchinalmente.
«Sì», disse l’inglese, e continuò dopo un momento di silenzio: «Non
vi nasconderò, signor Morrel, che mentre tutti fanno gli elogi della
vostra probità senza macchia fino al presente, corre una sorda voce
per Marsiglia, che voi non siate in grado di far fronte ai vostri
affari».
A queste parole, quasi brutali, Morrel impallidì spaventosamente.
«Signore», disse, «fino a questo momento, e sono più di ventiquattro
anni che ho ricevuto la casa da mio padre, che a sua volta l’aveva
diretta per trentaquattro anni, fino a questo momento una cambiale
firmata da Morrel e figlio, non fu presentata alla cassa senza
essere pagata.»
«Sì, lo so», rispose l’inglese, «ma, da uomo d’onore, parlate
francamente: pagherete tal somma con la stessa esattezza?»
Morrel trasalì, e guardò colui che gli parlava in tal modo con una
maggior attenzione di quello che non aveva ancor fatto.
«A una domanda fatta con tanta franchezza», disse, «bisogna dare una
risposta ugualmente franca. Sì, signore, io pagherò, se, come spero,
il mio bastimento giunge in porto, poiché il suo arrivo mi renderà
quel credito che mi fu tolto dagli incidenti successivi di cui sono
stato vittima. Ma se per disgrazia il Pharaon, ultima risorsa sulla
quale io conto, mi mancasse…»
Le lacrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore.
«Ebbene?» domandò il suo interlocutore. «Se questa ultima risorsa vi
mancasse?»
«Ebbene, se questa ultima risorsa mi mancasse», continuò Morrel,
«sebbene sia cosa crudele da dire… ma abituato ormai alla sventura
bisogna che mi abitui all’onta… Ebbene, allora credo che sarei
obbligato a sospendere i pagamenti.»
«E non avete amici che possano aiutarvi in una simile circostanza?»
Morrel sorrise tristemente.
«In commercio, signore, non si hanno che corrispondenti.»
«È vero…» mormorò l’inglese. «In tal modo non avete più che una sola
speranza?»
«Una sola, e ultima…»
«E se questa fallisce…»
«Sono perduto, signore, completamente perduto!»
«Mentre venivo da voi, un bastimento entrava nel porto.»
«Lo so, signore. Un giovane che è rimasto fedele alla mia cattiva
fortuna passa una parte del suo tempo su una terrazza della mia
casa, nella speranza di venire per primo ad annunciarmi una buona
notizia. Da lui ho saputo l’entrata in porto di questo bastimento.»
«E non è il vostro?»
«No, è un naviglio bordolese, la Gironda; viene dalle Indie, ma non
è quello che aspetto.»
«Forse avrà notizie del Pharaon.»
«È necessario che ve lo dica? Io temo tanto di chiedere notizie del
mio bastimento, quanto di restare nell’incertezza, la quale è pure
una speranza.»
Quindi Morrel aggiunse con voce commossa: «Questo ritardo non è
naturale: il Pharaon è partito da Calcutta il 5 febbraio, e dovrebbe
essere in porto già da un mese».
«Ma che c’è?» disse l’inglese tendendo l’orecchio. «Cosa significa
questo rumore?»
«Oh, mio Dio, mio Dio!» gridò Morrel impallidendo. «Che vi è ancora
di nuovo?»
Infatti si udì sulle scale un gran rumore, un andare e venire, e
s’intese perfino un grido di dolore. Morrel si alzò per andare ad
aprire la porta, ma le forze gli vennero meno e ricadde sulla sedia.
I due uomini rimasero l’uno in faccia all’altro. Morrel era scosso
da tremiti; lo straniero lo guardava con un’espressione di profonda
pietà. Il rumore era cessato, ciò nonostante si sarebbe detto che
Morrel aspettasse qualche cosa; quel rumore aveva dovuto avere una
causa, e doveva avere una conclusione.
Allo straniero sembrò sentir gente salire pian piano le scale, e
fermarsi sul pianerottolo. Una chiave venne introdotta nella
serratura della prima porta, che cigolò sui cardini.
«Non vi sono che due persone che hanno la chiave di questa porta»,
mormorò Morrel: «Coclite e Julie.»
Nello stesso istante la porta si aprì, e comparve la ragazza,
pallida e con le guance bagnate di lacrime.
Morrel si alzò tutto tremante, e si appoggiò ai braccioli della sua
sedia, perché non avrebbe avuto la forza di tenersi in piedi. Fece
per parlare, ma non aveva più voce.
«Oh, padre mio», disse la giovane giungendo le mani, «perdonatemi di
essere messaggera di una triste notizia.»
Morrel si ricoprì di un pallore mortale; Julie andò a gettarsi fra
le sue braccia.
«Oh, padre mio», disse, «coraggio!»
«E così il Pharaon è perduto?» domandò Morrel con voce soffocata.
La ragazza non rispose, ma fece un segno affermativo con la testa
appoggiata al petto del padre.
«E l’equipaggio?» domandò Morrel.
«È salvo», disse la giovane, «raccolto da quello della Gironda
entrata or ora nel porto.»
Morrel alzò le mani al cielo con un’espressione di sublime
rassegnazione e riconoscenza.
«Grazie, grazie, mio Dio!» disse Morrel. «Almeno non colpite che me
solo.»
Per quanto flemmatico fosse l’inglese, una lacrima gli inumidì le
palpebre.
«Entrate», disse Morrel, «entrate, perché suppongo che sarete tutti
lì fuori.»
Infatti, aveva appena pronunciato queste parole, che la signora
Morrel entrò singhiozzando. Emmanuel la seguiva; in fondo
all’anticamera si vedevano le rozze figure di sette o otto marinai
seminudi. Alla vista di quegli uomini, l’inglese trasalì; fece un
passo per andare loro incontro, ma si contenne, e invece si nascose
nell’angolo più oscuro e appartato dell’ufficio.
La signora Morrel andò a sedersi vicino al marito, prese fra le sue
le mani di lui, mentre Julie restava in piedi appoggiata al petto
del padre. Emmanuel si era fermato in mezzo alla stanza e sembrava
il legame fra il gruppo della famiglia Morrel e i marinai che
stavano fermi sulla porta.
«Come è avvenuta la disgrazia?» domandò Morrel.
«Avvicinatevi Penelon», disse il giovane, «e raccontate l’accaduto.»
Un vecchio marinaio, abbronzato dal sole dell’equatore, avanzò
rigirando fra le mani l’avanzo di un cappello.
«Buongiorno, signor Morrel», disse, come se avesse lasciato
Marsiglia il giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix.
«Buongiorno, amico mio», disse l’armatore, non potendo fare a meno
di sorridere in mezzo alle lacrime. «Ma dov’è il capitano?»
«Il capitano è rimasto a Palma, malato; ma a Dio piacendo, è cosa da
nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene in
salute quanto voi e me.»
«Va bene… ora parlate, Penelon», disse Morrel.
Penelon fece passare da una parte all’altra della bocca il tabacco
che masticava, quindi ponendo la mano davanti, lanciò
nell’anticamera un getto di saliva nerastra, avanzò un piede e si
dondolò sulle anche narrando quanto segue: «Noi eravamo all’incirca
fra il capo Blanc e il capo Boyador, e procedevamo con una buona
brezza di sud-ovest, dopo essere stati senza muoverci otto giorni
per la bonaccia, quando il capitano Gaumard mi si avvicina, bisogna
che sappiate che allora io ero al timone, e mi dice: “Papà Penelon,
che pensate di quelle nubi che si levano laggiù all’orizzonte?” Le
guardavo proprio in quel momento. “Che ne penso io, capitano? Penso
che avanzano un po’ più presto di quello che vorremmo, e che sono
più nere di quello che si convenga a nuvole che non abbiano cattive
intenzioni.”
«“Questo è anche il mio parere”, disse il capitano, “e vado subito a
prendere le necessarie cautele. Abbiamo le vele troppo spiegate per
il vento che farà… Olà, eh! Preparatevi a serrare le vele, e ad
abbassare quella di trinchetto…” Era tempo. L’ordine era appena
stato eseguito che il vento infuriava su di noi e spingeva da un
alto la nave.
«“Bene!” disse il capitano. “Abbiamo ancora troppe vele: pronti a
serrare la gran vela.” Cinque minuti dopo, la gran vela era chiusa,
e noi procedevamo con la vela di trinchetto, con la vela di gabbia e
i parrocchetti.
«“Ebbene, caro Penelon!” mi disse il capitano. “Che avete da
scuotere la testa?”
«“È perché, al vostro posto, vedete, non mi limiterei a questo.”
«“Credo che tu abbia ragione, vecchio mio”, disse; “stiamo per
ricevere un colpo di vento…”
«“Ah, capitano”, gli risposi io, “chi riuscisse a spazzar, con un
colpo di vento, ciò che si prepara laggiù, guadagnerebbe assai;
questa è una tempesta bella e buona in cui non mi vorrei trovare…”
«Vale a dire che si vedeva venire il vento come si vede sollevarsi
la polvere a Montredon: fortunatamente avevamo a che fare con un
uomo che lo conosceva.
«“Attenti a prendere tre terzaruoli nelle gabbie!” gridò il
capitano. “Allarga le boline, braccio al vento, giù i pennoni!”
«Ciò non bastava in quei paraggi», interruppe l’inglese, «io avrei
preso quattro terzaruoli, e mi sarei sbarazzato della vela di
trinchetto.»
Questa voce ferma, sonora e inattesa fece trasalire tutti. Penelon
portò una mano agli occhi e guardò colui che correggeva con tanta
precisione la manovra del suo capitano.
«Noi facemmo ancor meglio, signore», disse il vecchio marinaio con
un certo rispetto, «perché caricammo a orza la brigantina, e
mettemmo le barre al vento per correre davanti alla tempesta. Dieci
minuti dopo caricammo le vele di gabbie e procedemmo senza vele.»
L’inglese scosse la testa: «Il bastimento era troppo vecchio per
arrischiare questo», disse.
«È vero! E questo fu ciò che ci perdette… In capo a dodici ore
eravamo sballottati di qui e di là, come se il diavolo ci avesse
messo lo zampino, e si aprì una falla. “Penelon”, mi disse il
capitano, “credo che affonderemo; dammi la barra del timone, e
scendi nella stiva.” Gli cedetti il timone, e scesi; vi erano già
novanta centimetri d’acqua. Risalii gridando: “Alle pompe! alle
pompe!” Ma era troppo tardi. Tutti ci mettemmo all’opera, ma credo
che più acqua toglievamo più ne entrava. “Ah, in fede mia”, dissi,
dopo quattro ore di lavoro, “poiché affondiamo, lasciamoci
affondare; non si muore che una volta.”
«“È così che dai l’esempio, Penelon?” disse il capitano. “Ebbene
aspetta, aspetta!”
«E andò in cabina a prendere un paio di pistole. “Il primo che
lascia la pompa”, disse, “gli brucio le cervella!”»
«Bravo!» disse l’inglese.
«Non c’è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni»,
continuò il marinaio, «tanto più che il tempo si era rischiarato, e
il vento cominciava a indebolirsi. Non è meno vero che l’acqua
saliva sempre; non molto ma circa cinque centimetri l’ora; vedete,
sembra che non sia niente, ma in dodici ore sono sessanta
centimetri; e novanta che ne avevamo già, fanno centocinquanta; ciò
vuol dire che quando un bastimento ha centocinquanta centimetri
d’acqua nel ventre, può affondare da un momento all’altro.
«“Andiamo”, disse il capitano, “basta così; il signor Morrel non
avrà nulla da rimproverarci: abbiamo fatto tutto ciò che si è potuto
fare per salvare il bastimento; bisogna ora cercare di salvare gli
uomini. Alla scialuppa, ragazzi, e più presto che si può!”
«Ascoltate signor Morrel», continuò Penelon, «noi amavamo molto il
Pharaon; ma per grande che sia l’amore che i marinai portano al loro
bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così non ce
lo facemmo ripetere due volte, mentre il bastimento sembrava dirci:
“Andatevene dunque! Ma andatevene subito!” E non mentiva il povero
Pharaon; noi lo sentivamo affondare sotto i nostri piedi. Ma tant’è:
in men che non si dica la scialuppa era in mare, e in un batter
d’occhio gli otto marinai erano dentro. Il capitano fu l’ultimo a
scendere… o piuttosto no, non scese, non voleva abbandonare la nave,
fui io che lo presi per la vita e lo gettai ai compagni, dopo di che
saltai a mia volta. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il
ponte si spaccò con un rumore tale, che si sarebbe detta una bordata
di vascello da quarantotto. Dieci minuti dopo, affondò la parte
anteriore, poi la posteriore, quindi si mise a girare su se stesso,
come un cane che corre dietro la propria coda, e infine, buonasera
alla compagnia, brrrr! tutto fu finito, il Pharaon non c’era più! In
quanto a noi, siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed
era tale la nostra fame che già si cominciava a parlare di fare a
sorte per sapere chi sacrificare, come cannibali, quando scorgemmo
la Gironda, le facemmo dei segnali… Ci vide, volse la prua verso di
noi, ci spedì incontro la sua scialuppa e ci raccolse. Ecco come è
andata, signor Morrel, parola d’onore! Sulla mia fede di marinaio!
Non è vero, compagni?»
Un mormorio generale indicò che il narratore aveva avuto
l’approvazione di tutti per la verità del racconto e il pittoresco
dei particolari.
«Bene, amici miei», disse Morrel, «siete della brava gente; già
sapevo che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, nessuno avrebbe
avuto colpa fuorché il destino: questa è la volontà di Dio, e non
colpa degli uomini. Chiniamoci alla volontà di Dio. Ora ditemi
quanto vi debbo per il vostro soldo?»
«Oh, non parliamo di questo, signor Morrel…»
«Al contrario, parliamone», disse l’armatore con un triste sorriso.
«Ebbene, dobbiamo avere tre mesi di soldo», disse Penelon.
«Coclite, pagate duecento franchi a ciascuno di questi bravi uomini.
In altri tempi, amici miei, avrei detto: date cento franchi a
ciascuno di gratifica, ma i tempi sono disgraziati, cari amici, e il
poco denaro che mi resta non è più mio; scusatemi dunque, e non per
questo cessate dall’amarmi.»
Penelon fece una smorfia di tenerezza, si voltò verso i compagni,
scambiò con loro qualche parola e replicò: «Quanto a questo, signor
Morrel», disse masticando tabacco, e lanciando nell’anticamera un
secondo getto di saliva che andò a tener compagnia al primo, «quanto
a questo…»
«A questo, cosa?»
«Al denaro…»
«Ebbene?»
«Ebbene, signor Morrel, i compagni dicono che per il momento sono
sufficienti cinquanta franchi per ciascuno, e che per il resto
aspetteranno.»
«Grazie, amici miei, grazie!» disse il signor Morrel commosso fino
al cuore. «Siete tutti brava gente, ma prendete! prendete! e se
trovate un buon servizio, accettate pure.»
Questa ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso su
quei degni marinai, si guardarono gli uni e gli altri con la faccia
smarrita. Penelon, a cui mancava il fiato, poco mancò non
inghiottisse la boccata di tabacco.
«Come, signor Morrel», disse con voce soffocata, «come, voi ci
licenziate, siete dunque malcontento di noi?»
«No, figli miei», disse l’armatore, «no, non sono malcontento di
voi, al contrario, no, io non vi licenzio. Ma che volete farci, non
ho più bisogno di marinai.»
«Come, non avete più bastimenti?» disse Penelon. «Ebbene ne farete
costruire degli altri! Aspetteremo. Grazie a Dio noi sappiamo ciò
che vuol dire…»
«Io non ho più denari per far costruire bastimenti», disse
l’armatore con un triste sorriso. «Quindi non posso accettare la
vostra offerta, per quanto sia gradita.»
«Ebbene, se non avete più denari, allora non dovete pagarci; faremo
come ha fatto il povero Pharaon, periremo anche noi, ecco tutto.»
«Basta, basta, amici miei», disse Morrel soffocato dall’emozione,
«basta, ve ne prego, ci rivedremo in tempi migliori. Emmanuel,
accompagnateli e vigilate affinché siano compiuti i miei desideri.»
«Almeno a rivederci, non è vero, signor Morrel?» disse Penelon.
«Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate.»
E fece segno a Coclite che aprì il cammino, e i marinai seguirono il
cassiere. Emmanuel tenne loro dietro.
«Ora», disse l’armatore a sua moglie e a sua figlia, «lasciatemi
solo un momento, poiché debbo parlare con questo signore.»
E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson e French che
era rimasto in piedi e immobile in un angolo durante tutta quella
scena, alla quale egli non aveva preso altra parte che quella delle
poche parole che abbiamo riportato.
Le due donne alzarono gli occhi sullo straniero completamente
dimenticato, e uscirono; ma nel farlo la giovane lanciò a quell’uomo
uno sguardo di sublime preghiera cui egli corrispose con un sorriso,
che un freddo osservatore si sarebbe stupito di vedere spuntare su
quel viso di ghiaccio.
I due uomini rimasero soli.
«Ebbene, signore», disse Morrel lasciandosi ricadere sulla sedia,
«avete tutto visto e inteso, non ho altro da aggiungere.»
«Ho visto», disse l’inglese, «che vi è sopraggiunta una nuova
disgrazia, immeritata come le altre, e ciò mi ha confermato nel
desiderio di esservi utile.»
«Oh signore!» disse Morrel.
«Vediamo», continuò lo straniero, «sono uno dei vostri principali
creditori, non è vero?»
«Siete almeno quello che possiede le cambiali a più breve scadenza.»
«Desiderate una dilazione per pagarmi?»
«Una dilazione potrebbe salvarmi l’onore», disse Morrel, «e per
conseguenza la vita.»
«Quanto tempo volete?»
Morrel esitò.
«Due mesi», disse.
«Bene», fece lo straniero, «ve ne darò tre…»
«Ma, credete che la casa Thomson e French?…»
«State tranquillo, me ne assumo io la responsabilità. Oggi siamo al
5 giugno?»
«Sì.»
«Ebbene rinnovatemi tutte queste cambiali e al 5 settembre alle
undici del mattino mi presenterò a voi.»
L’orologio in quel momento segnava appunto le undici precise.
«Vi aspetterò, signore, e sarete pagato, o io sarò morto.»
Queste ultime parole furono pronunciate a così bassa voce che lo
straniero non poté intenderle.
Le cambiali furono rinnovate; vennero stracciate le antiche e il
povero armatore si trovò almeno ad avere tre mesi per poter riunire
le sue ultime risorse. L’inglese ricevette i suoi ringraziamenti con
la flemma particolare alla sua gente, e prese congedo da Morrel, che
lo accompagnò benedicendolo fino alla porta. Sulle scale incontrò
Julie: la ragazza sembrava scendere, ma in realtà lo aspettava.
«Oh, signore!» disse giungendo le mani.
«Signorina», disse lo straniero, «voi un giorno riceverete una
lettera firmata… Sinbad il marinaio. Fate ciò che vi dirà la lettera
per quanto strana vi possa sembrare la raccomandazione.»
«Sì, signore», rispose Julie.
«Mi promettete di farlo?»
«Ve lo giuro.»
«Va bene: addio signorina, siate sempre buona e savia come siete e
ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito Emmanuel.»
Julie mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e si
tenne alla ringhiera delle scale per non cadere. Lo straniero
continuò a scendere, facendole un gesto di addio. Nel cortile
incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in ciascuna
mano, e che sembrava non decidersi a intascarli.
«Venite, amico mio», gli disse, «ho bisogno di parlarvi.»
30. Il 5 settembre
La dilazione accordata dal mandatario della casa Thomson e French
nel momento in cui Morrel meno se lo aspettava, parve al povero
armatore uno di quei ritorni di fortuna che annunciano all’uomo che
la sorte ha alfine cessato di perseguitarlo.
Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e a Emmanuel quanto gli era
accaduto; e un po’ di speranza, se non di tranquillità, rientrò
nella famiglia. Disgraziatamente però Morrel non aveva affari
soltanto con la casa Thomson e French, che si era mostrata così
propensa a un accomodamento; com’egli aveva detto, nel commercio si
hanno corrispondenti, e non amici.
Quando vi pensava, non comprendeva neppure la condotta generosa
della casa Thomson e French verso di lui, e non la spiegava che con
questa riflessione superlativamente egoista, che quella casa doveva
aver detto: val meglio sostenere quest’uomo che ci deve quasi
trecentomila franchi, e avere questa somma in capo a tre mesi, che
sollecitarne la rovina, e avere il sei o l’otto per cento del
capitale.
Disgraziatamente, fosse odio, fosse accecamento, tutti i
corrispondenti di Morrel non fecero la stessa riflessione. Le
cambiali sottoscritte da Morrel vennero presentate alla cassa con
scrupoloso rigore, e grazie alla dilazione accordata dall’inglese
furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a rimanere
tranquillo. Il solo Morrel vide con terrore, che se avesse dovuto
rimborsare al 15 i centomila franchi di Boville, e al 30 i
trentaduemilacinquecento franchi di cambiali, per le quali, come per
quelle dell’ispettore delle prigioni, aveva ottenuto una dilazione,
sarebbe stato fin da quel mese un uomo perduto.
L’opinione di tutti i commercianti di Marsiglia era che Morrel non
avrebbe potuto sostenere i rovesci continui che l’opprimevano. Fu
dunque grande la meraviglia quando lo si vide compiere i pagamenti
di fine mese con la solita puntualità. Ma non per questo ritornò la
fiducia negli animi, e in molti predissero che alla fine del mese
seguente sarebbe il disgraziato armatore sarebbe fallito.
Tutto il mese passò in sforzi inauditi da parte di Morrel per
riunire tutte le sue risorse. In altri tempi le sue cambiali, a
qualunque data, erano prese con fiducia, e anzi richieste da tutti.
Morrel tentò di negoziare delle cambiali con scadenza a novanta
giorni, e trovò tutti le banche chiuse.
Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare: così si
trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi obblighi quando
giunse la fine di luglio. D’altra parte, il mandatario della casa
Thomson e French non era più stato visto a Marsiglia.
L’indomani della sua visita a Morrel era sparito: siccome in
Marsiglia non aveva avuto a trattare che col sindaco, con
l’ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio non
aveva lasciato altra traccia che i ricordi diversi che ne
conservavano queste tre persone. In quanto ai marinai del Pharaon
sembrava che avessero ritrovato da impiegarsi, poiché essi pure
erano spariti.
Il capitano Gaumard, rimessosi dalla malattia che lo aveva
trattenuto a Palma, ritornò a sua volta. Esitò a presentarsi al
signor Morrel; ma questi, saputo del suo arrivo, andò di persona a
trovarlo. Il degno armatore sapeva già dal racconto di Penelon della
coraggiosa condotta tenuta dal capitano durante tutto il naufragio,
e si sforzò di consolarlo. Gli portò l’ammontare del suo soldo, che
il capitano Gaumard non avrebbe certamente osato andare a
riscuotere.
Quando Morrel scese la scala, incontrò Penelon che saliva: aveva, a
quanto sembrava, fatto un buon uso del denaro, poiché era vestito
tutto di nuovo. Riconoscendo il suo armatore, il degno timoniere
parve molto impacciato; si ritirò nell’angolo più lontano del
pianerottolo, masticando il tabacco e girando due grossi occhi
spaventati, non rispose che con una timida pressione alla stretta di
mano che gli offrì Morrel con la sua solita cordialità.
Morrel attribuì l’impaccio di Penelon all’eleganza del vestito: era
evidente che non era entrato di tasca propria in tanto lusso; e
chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro
bastimento, e la vergogna gli veniva dal non avere, se è lecito
esprimersi così, portato per un tempo maggiore il lutto del Pharaon.
Forse si recava dal capitano Gaumard per metterlo a parte della sua
fortuna, e per fargli delle offerte per conto del nuovo padrone.
«Brava gente!» disse Morrel allontanandosi. «Possa il vostro nuovo
padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felice di me!…»
Passò il mese di agosto in tentativi, senza posa rinnovati da
Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo.
Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel aveva trovato da
occuparsi come staffetta postale; allora tutti supposero che alla
fine del mese avrebbe depositato il bilancio, e che Morrel sarebbe
partito prima per non assistere a quell’atto crudele, delegando
senza dubbio il suo primo commesso Emmanuel e il cassiere Coclite.
Ma contro ogni previsione, allorché giunse il 31 agosto, la cassa si
aprì secondo il solito. Coclite apparve dietro l’inferriata,
tranquillo come il giusto di Orazio, esaminò con la stessa
attenzione le cambiali che gli vennero presentate, e pagò le tratte
dalla prima all’ultima con la stessa esattezza. Vennero anche
presentati due rimborsi previsti da Morrel, e Coclite li pagò con la
puntualità propria dell’armatore. Nessuno ci capiva più nulla, e i
profeti di cattive notizie, con una particolare ostinazione,
rinviavano il fallimento alla fine di settembre.
Giunse il primo del mese. Morrel era atteso da tutta la famiglia con
la più grande ansietà, mentre contavano sull’esito del suo viaggio a
Parigi come sull’ultima via di salvezza.
Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, e un giorno
suo sottoposto, perché era stata la raccomandazione di Morrel a far
entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il quale
era cominciata la sua immensa fortuna. Si diceva che Danglars era
possessore di sei-otto milioni, e che godeva di un credito
illimitato.
Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva salvare Morrel: non
aveva che da garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da
lungo tempo aveva pensato a Danglars; ma vi sono alcune istintive
repulsioni che non sappiamo superare. Aveva aspettato fino a che gli
era stato possibile, prima di ricorrere a quest’ultimo mezzo.
E aveva avuto ragione, poiché ritornava oppresso dall’umiliazione e
dal rifiuto.
Al ritorno non manifestò alcun lamento, non proferì alcuna
recriminazione; aveva teso la mano amichevolmente a Emmanuel, si era
chiuso nel suo ufficio del secondo piano, e aveva chiesto di
Coclite. Le due donne dissero a Emmanuel: «Siamo perdute». Quindi,
in un breve conciliabolo fra loro, convennero che Julie avrebbe
scritto al fratello, di guarnigione a Nîmes, di venire subito a
casa. Le povere donne sentivano di avere bisogno di tutte le loro
forze per sostenere il colpo che le minacciava; d’altra parte
Maximilien Morrel, sebbene appena ventiduenne, aveva già una grande
influenza su suo padre.
Era un giovane avveduto e abile. Al momento di decidersi per la
carriera, suo padre non aveva voluto imporgli una scelta ma si era
consultato con lui.
Questi aveva detto di voler seguire la carriera militare: aveva di
conseguenza fatto degli eccellenti studi, era entrato per concorso
nella scuola politecnica, e n’era uscito sottotenente al 53°
reggimento di linea.
Dopo un anno che occupava questo posto, aveva già la promessa che
alla prima occasione l’avrebbero nominato tenente. Nel reggimento,
Maximilien Morrel era citato come il più rigido osservatore, non
solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i
doveri propri all’uomo, e non veniva chiamato con altro nome, che
con quello di Stoico.
Inutile dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con
tal soprannome, lo ripetevano per averlo inteso dire, ma non
sapevano che cosa volesse significare.
La madre e la sorella lo chiamavano in loro soccorso per sostenerle
nella grave situazione che presagivano. Non si erano ingannate sulla
gravità di questi presentimenti perché un momento dopo che Morrel
era entrato nel suo ufficio con Coclite, Julie vide uscire
quest’ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto.
Volle interrogarlo quando le passò accanto, ma il brav’uomo continuò
a scendere la scala con una fretta che non gli era solita, e si
contentò di gridare alzando le braccia al cielo: «Oh signorina,
signorina! Quale orribile disgrazia, e chi l’avrebbe mai creduto!»
Poco dopo, Julie lo vide risalire portando due o tre grossi
registri, un portafoglio e un sacchetto di monete.
Morrel consultò i registri, aprì il portafoglio, contò le monete.
Tutte ciò che possedeva ammontava a circa ottomila franchi; i suoi
crediti realizzabili, fino al giorno 5, a quattro o cinquemila; ciò
che formava in contante, a dir molto, un attivo di quattordicimila
franchi, per far fronte a una cambiale di
duecentoottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure il caso
di offrire una simile somma in acconto.
Però quando Morrel scese per pranzare, sembrava tranquillo: il che
spaventò le due donne assai più di un profondo abbattimento.
Dopo pranzo Morrel aveva l’abitudine di uscire; andava a prendere il
caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il «Sémaphore»: quel
giorno non uscì, risalì nel suo ufficio.
Quanto a Coclite, sembrava completamente ebete. Durante una parte
del giorno si era trattenuto in cortile, seduto sopra una pietra,
con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi.
Emmanuel cercava di tranquillizzare le donne, ma non aveva
sufficiente eloquenza. Il giovane era troppo al corrente degli
affari per non sapere che una grave catastrofe era imminente sulla
famiglia Morrel.
Venne la notte; le due donne vegliarono nella speranza che Morrel
scendendo dall’ufficio sarebbe andato da loro; ma lo intesero
passare davanti alla loro porta, camminando in punta di piedi, per
timore forse di essere chiamato: tesero le orecchie, e udirono che
entrò in camera sua, e si chiuse dentro.
La signora Morrel mandò sua figlia a letto; quindi, mezz’ora dopo
che Julie si era ritirata, si alzò, si tolse le scarpe, avanzò nel
corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo marito;
s’accorse allora d’un’ombra che si ritirava.
Era Julie che, inquieta anch’essa, aveva preceduto sua madre.
La ragazza le andò incontro dicendole: «Scrive».
Le due donne avevano avuto lo stesso pensiero senza esserselo
comunicato. La signora Morrel guardò dal buco della serratura.
Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia, lo
notò la madre; Morrel scriveva sopra una carta bollata. Le venne la
terribile idea che stesse facendo testamento; rabbrividì e non ebbe
forza di dire una parola.
Il giorno dopo Morrel sembrava più tranquillo, rimase alla scrivania
come al solito e scese a far colazione. Solo dopo pranzo fece sedere
la figlia vicino a sé, la cinse col suo braccio, e la tenne
lungamente contro il petto.
La sera Julie disse a sua madre che per quanto in apparenza
sembrasse tranquillo, aveva notato che il cuore di suo padre batteva
violentemente. Nello stesso modo passarono gli altri due giorni.
Il 4 settembre verso sera, Morrel chiese a sua figlia la chiave del
suo studio. Julie rabbrividì a quella domanda che gli sembrò di
cattivo augurio.
Perché dunque suo padre voleva quella chiave che lei aveva sempre
custodito, e che non le era mai stata tolta, tranne da bambina per
punirla? La ragazza guardò Morrel.
«Che ho fatto di male, padre mio», disse, «perché mi riprendiate
questa chiave?»
«Niente, figlia mia», rispose lo sventurato Morrel a cui questa
semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, «nulla; solo
ne ho bisogno.»
Julie finse di cercare la chiave.
«L’avrò lasciata in camera mia», mentì.
Uscì, ma invece di andare nella sua camera, scese e corse a
consigliarsi con Emmanuel.
«Non restituite la chiave a vostro padre», disse questi, «e
domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento.»
Lei cercò invano di interrogare Emmanuel, ma questi non sapeva
altro, o non volle dire di più.
Durante tutta la notte dal 4 al 5 settembre la signora Morrel rimase
a origliare fino alle tre del mattino; intese suo marito camminare
con agitazione nella camera; solo dopo le tre si gettò sul letto.
Le due donne passarono insieme il resto della notte. Fin dalla sera
precedente aspettavano Maximilien.
Alle otto Morrel entrò nella loro camera: era tranquillo, ma gli si
leggeva sul viso pallido e smunto l’agitazione della notte.
Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene. Morrel fu
affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non
fosse mai stato: non si stancava di guardare e abbracciare la povera
ragazza.
Julie si ricordò la raccomandazione di Emmanuel, e volle
accompagnare il padre quando uscì, ma questi la respinse con
dolcezza, dicendole: «Resta con tua madre».
Julie tentò di insistere.
«Lo voglio!» disse Morrel.
Era la prima volta che diceva a sua figlia: «Lo voglio!» Ma lo disse
con tale accento di paterna dolcezza, che Julie non osò opporsi.
Rimase al suo posto, ritta, muta e immobile.
Un istante dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che la
stringevano e un bacio sulla fronte. Alzò gli occhi, e mandò
un’esclamazione di gioia.
«Maximilien, fratello mio!» gridò.
A quel grido la signora Morrel accorse, e si gettò fra le braccia
del figlio.
«Madre mia», disse il giovane guardando alternativamente la madre e
la sorella, «che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!»
«Julie», disse la signora Morrel facendo un segno al figlio, «va’ a
dire a tuo padre che è arrivato Maximilien.»
La ragazza si lanciò fuori dell’appartamento; ma sul primo gradino
della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano. «Siete
voi la signorina Julie Morrel?» disse quell’uomo con accento
italiano.
«Sì», rispose Julie balbettando, «ma che volete? Non vi conosco.»
«Leggete questa lettera», disse l’uomo.
Julie esitava.
«Ne va della salvezza di vostro padre!» disse il messaggero.
La ragazza gli tolse la lettera dalle mani, poi l’aprì e lesse con
ansietà: «Recatevi subito ai viali di Meilhan, entrate nella casa al
n. 15, domandate al portinaio la chiave della camera al quinto
piano; entrate; prendete dalla mensola del caminetto una borsa di
cordonetto di seta rossa e portatela subito a vostro padre. È
indispensabile che l’abbia prima delle undici. Voi mi avete promesso
di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa. Sinbad il
marinaio».
La ragazza gettò un grido di gioia, volle interrogare l’uomo che le
aveva consegnato la lettera, ma era già sparito. Riportò allora gli
occhi sulla lettera per leggerla una seconda volta, si accorse che
c’era un post-scriptum, e lo lesse. «È importante che adempiate
questa missione di persona, e sola; se verrete in compagnia o altri
verranno in vece vostra, il portinaio vi risponderà che non sa ciò
che volete dire.»
Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane. Doveva
temere qualche cosa? Poteva essere una trappola che le si tendeva?
La sua innocenza non le permetteva di sapere quale erano i pericoli
che poteva correre una ragazza della sua età. Ma non c’è bisogno di
conoscere i pericoli per temerli; anzi si temono di più i pericoli
che non si conoscono.
Julie esitò; risolse di domandar consiglio, ma per uno strano
sentimento non lo chiese, né a sua madre né a suo fratello, ricorse
a Emmanuel. Ridiscese, raccontò l’accaduto nel giorno in cui il
mandatario della casa Thomson e French venne da suo padre, la scena
della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò la
lettera.
«Bisogna che andiate», disse Emmanuel.
«Andarci?» mormorò Julie.
«Sì, vi accompagnerò.»
«Ma non avete letto che devo andarci sola?»
«Sarete ugualmente sola, vi aspetterò all’angolo della strada del
Museo e se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine
verrò a raggiungervi, e, ve l’assicuro, disgraziati coloro di cui
avrete a lamentarvi!»
«In tal modo, Emmanuel», riprese esitando la ragazza, «il vostro
consiglio è che io accetti questo invito?»
«Sì… Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza di
vostro padre?»
«Ma che pericolo corre mio padre?» domandò la ragazza.
Emmanuel esitò un momento, ma il desiderio che Julie si risolvesse
ad andare prevalse.
«Ascoltate», disse, «non è oggi il 5 settembre?»
«Sì.»
«Oggi alle undici vostro padre deve pagare circa trecentomila
franchi.»
«Sì, lo sappiamo.»
«Ebbene», disse Emmanuel, «egli non ne ha neppure quindicimila in
cassa.»
«E allora che avverrà?»
«Avverrà che se prima delle undici non trova qualcuno che gli venga
in aiuto, vostro padre sarà obbligato a mezzogiorno a dichiararsi
fallito.»
«Ah, venite», gridò la ragazza, trascinando Emmanuel.
Nel frattempo la signora Morrel aveva detto tutto a suo figlio. Il
giovane sapeva bene che in conseguenza delle successive disgrazie
capitate a suo padre, erano state introdotte molte economie nelle
spese di casa; ma non sapeva che le cose fossero giunte a tal punto.
Rimase annichilito; ma subito si lanciò fuori dall’appartamento,
salì rapidamente le scale, credendo di trovare il padre in ufficio;
ma bussò invano.
Mentre era alla porta, sentì che quella dell’appartamento si apriva,
si voltò e vide suo padre. Invece di salire direttamente nel suo
ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva allora
soltanto; egli mandò un grido di sorpresa scorgendo Maximilien,
poiché ne ignorava l’arrivo.
Rimase immobile al suo posto, strinse col braccio sinistro un
oggetto che teneva nascosto sotto l’abito. Maximilien scese
sollecitamente la scala e si gettò al collo di suo padre; ma
d’improvviso si ritrasse, lasciando soltanto la mano destra
appoggiata al petto di Morrel.
«Padre mio», disse, diventando pallido come la morte, «perché avete
un paio di pistole sotto l’abito?»
«Oh, ecco avverarsi ciò che temevo», disse Morrel.
«Padre mio… padre mio! In nome del cielo», gridò il giovane, «che
volete fare di queste armi?»
«Maximilien», rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio,
«tu sei un uomo, e un uomo d’onore, vieni e te lo dirò.»
E Morrel salì con passo sicuro fino al suo ufficio, mentre
Maximilien lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la richiuse dopo
che fu passato il figlio, quindi attraversò l’anticamera, s’avvicinò
alla scrivania, vi depose le pistole in un angolo, e mostrò a suo
figlio con la punta del dito un registro aperto. Su di esso era
fedelmente trascritto lo stato preciso della situazione: Morrel
doveva pagare fra mezz’ora duecentoottantasettemilacinquecento
franchi e in tutto ne possedeva quindicimiladuecentocinquantasette.
«Leggi!» disse Morrel. Il giovane lesse e rimase un momento
sbigottito.
Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere
all’inesorabile decreto delle cifre?
«E voi, padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire
questa disgrazia?» disse dopo un breve silenzio il giovane.
«Sì», rispose Morrel.
«Non contate su alcun rimborso?»
«No.»
«Avete esaurito tutte le risorse?»
«Tutte.»
«E fra mezz’ora…» aggiunse con voce cupa, «il nostro nome sarà
disonorato?»
«Il sangue lava il disonore», disse Morrel.
«Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo.» Quindi allungò la mano
verso le pistole. «Ve n’è una per voi e un’altra per me», disse.
«Grazie!»
Morrel gli fermò la mano. «E tua madre… e tua sorella… chi le
manterrà?»
Un fremito corse per tutte le membra del giovane.
«Padre», disse, «pensate che, con ciò, mi dite di vivere?»
«Sì, te lo dico», riprese Morrel, «perché questo è il tuo dovere; tu
hai uno spirito equilibrato e forte, Maximilien… tu non sei un uomo
come gli altri. Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico soltanto:
esamina la situazione come se tu vi fossi estraneo, e giudica tu
stesso.»
Il giovane rifletté un istante, quindi l’espressione della più
sublime rassegnazione passò nei suoi occhi; solo si tolse con un
movimento triste e lento le spalline del suo grado.
«Va bene», disse tendendo la mano a Morrel, «morite in pace, padre
mio, io vivrò.»
Morrel fece per gettarsi alle ginocchia del figlio. Maximilien lo
accolse fra le braccia, e per un momento quei due nobili cuori
batterono l’uno contro l’altro.
«Tu sai che non è per mia colpa?» disse Morrel.
Maximilien sorrise.
«So, padre mio, che siete l’uomo più onesto che abbia mai
conosciuto.»
«Va bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua sorella.»
«Padre mio», disse il giovane piegando un ginocchio, «beneditemi!»
Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l’avvicinò a sé, e
v’impresse molti baci dicendo: «Oh sì, sì, ti benedico nel mio nome,
nel nome di tre generazioni di uomini irreprensibili. Ascolta dunque
ciò che essi ti dicono con la mia voce: l’edificio che la sventura
ha distrutto, può essere riedificato dalla divina Provvidenza.
Sapendomi morto in questo modo, i più inesorabili avranno pietà di
me; a te forse sarà accordata una proroga che a me sarebbe stata
negata. Allora fa’ che la parola infame non sia pronunciata; mettiti
all’opera, lavora, ragazzo!, lotta ardentemente e con coraggio!
Vivete tu, tua madre e tua sorella del puro necessario, affinché
giorno per giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino
tra le tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un
giorno solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da
questa stessa scrivania, tu potrai dire: “Mio padre è morto perché
non poteva fare ciò che ho fatto io, ma è morto tranquillo, perché
morendo sapeva che io lo avrei fatto”».
«Oh, padre mio, padre mio», esclamò il giovane, «se poteste
vivere!…»
«Se io vivo tutto è perduto; se io vivo, la premura si cambia in
dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un
uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi impegni,
non ho più infine che la bancarotta. Se muoio, al contrario, pensaci
bene, Maximilien, il mio cadavere è quello di un onest’uomo
disgraziato. Vivo, i miei migliori amici eviterebbero la mia casa;
morto, Marsiglia intera mi seguirà piangendo fino all’ultima mia
dimora. Vivo, tu avresti onta del mio nome; morto, puoi alzare la
testa e dire ad alta voce: “Sono il figlio di colui che si è ucciso,
perché costretto per la prima volta a mancare alla sua parola”.»
Il giovane mandò un gemito, ma parve rassegnato. Era la seconda
volta che la necessità era accettata dal suo cuore, ma non dallo
spirito.
«Ora», disse Morrel, «lasciami solo e cerca di allontanare le
donne.»
«Non volete rivedere mia sorella?» domandò Maximilien.
Un’ultima e sorda speranza il giovane la riponeva in questo
incontro, ecco perché lo proponeva.
Morrel scosse la testa.
«L’ho vista questa mattina», disse, «e le ho detto addio.»
«Non avete alcuna raccomandazione particolare da farmi, padre mio?»
domandò Maximilien con voce alterata.
«Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra.»
«Dite, padre mio.»
«La casa Thomson e French è la sola che per umanità, o forse per
egoismo (ma non sta a me leggere nel cuore degli uomini), è la sola
che abbia avuto pietà di me. Il suo mandatario, quello che fra dieci
minuti si presenterà per riscuotere una cambiale di
duecentoottantasettemilacinquecento franchi, non dirò mi abbia
accordato, ma mi ha offerto una dilazione di tre mesi; questa casa
sia rimborsata per prima, figlio mio, che quest’uomo ti sia sacro.»
«Sì, padre mio», disse Maximilien.
«E ora, ancora una volta, addio», disse Morrel, «va’, va’; ho
bisogno di restar solo. Troverai il mio testamento nella scrivania
della camera da letto.»
Il giovane rimase in piedi e inerte, senza avere che la forza della
volontà, ma non quella dell’azione.
«Ascolta, Maximilien», disse suo padre, «supponi che io sia un
soldato come te, che abbia ricevuto l’ordine di assalire un fortino,
e che tu sapessi che vado incontro a una certa morte nell’assalirlo,
non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: “Andate, padre mio, perché
vi disonorereste restando, e val meglio la morte che l’onta?”»
«Sì, sì», disse il giovane, «sì».
E stringendo convulsamente tra le braccia il padre: «Coraggio, padre
mio!» disse. E si lanciò fuori dall’ufficio.
Quando il figlio fu uscito, Morrel rimase un momento in piedi con
gli occhi fissi sulla porta, quindi tese la mano, tirò il cordone
del campanello e suonò.
Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l’uomo di prima, qui
giorni di consapevolezza lo avevano annientato. Il pensiero che la
casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava a terra più che altri
vent’anni accumulati sulle spalle.
«Mio buon Coclite», disse Morrel con un accento di cui sarebbe
difficile dire l’espressione, «tu resterai nell’anticamera. Quando
verrà quel signore che venne già tre mesi fa… lo ricordi?… il
mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunciarmelo.»
Coclite non rispose; fece segno di sì con la testa, andò a sedersi
nell’anticamera e aspettò.
Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l’orologio:
gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava
con una rapidità incredibile; gli sembrava di vederla andare.
Ciò che in quel momento passò nella mente di quell’uomo che, giovane
ancora, e in conseguenza di un ragionamento falso, sebbene tale non
sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di più caro aveva al
mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte le dolcezze della
famiglia, è impossibile poterlo spiegare; sarebbe stato necessario
essere presenti per averne un’idea.
La fronte era ricoperta di sudore, e ciò nonostante rassegnata, gli
occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo.
La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la
mano, ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l’arma
mortale, prese la penna e scrisse alcune parole. Gli sembrava di non
avere ancora detto abbastanza addio a quella figlia adorata. Ritornò
a guardare l’orologio: egli non contava più i minuti, ma i secondi.
Riprese l’arma con la bocca semiaperta e gli occhi fissi
all’orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva nel caricare il
grilletto. In quel momento un sudore più freddo gli passò sulla
fronte, un’angoscia mortale gli strinse il cuore; udì la porta delle
scale cigolare sui cardini, aprirsi quella del suo ufficio:
l’orologio stava per battere le undici.
Morrel non si voltò, aspettava che Coclite pronunciasse le fatali
parole: «Il mandatario della casa Thomson e French…» Avvicinò l’arma
alla bocca… D’improvviso, invece della voce di Coclite intese un
grido… Era la voce di sua figlia… Si girò e scorse Julie… La pistola
gli cadde di mano.
«Padre mio!» gridò la ragazza ansante, e quasi fuori di sé dalla
gioia. «Salvo! Siete salvo!»
E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto la borsa di
cordonetto di seta rossa.
«Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?»
«Sì, salvo! Guardate, guardate…» disse la ragazza.
Morrel prese la borsa e trasalì, perché un vago ricordo gli richiamò
alla mente che quell’oggetto gli era in altro tempo appartenuto. Da
una parte c’era la cambiale dei duecentoottantasettemilacinquecento
franchi già quietanzata; dall’altra vi era un diamante della
grossezza di una nocciola, con queste tre parole scritte sopra un
pezzo di pergamena: «Dote di Julie».
Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare.
Nel medesimo istante l’orologio batté le undici. A ciascun battito
il suo cuore tremò, come se fosse unito all’orologio da un filo
invisibile.
«Raccontami, figlia mia», disse, «spiegati. Dove hai trovato questa
borsa?»
«Nella casa al numero 15 dei viali di Meilhan sulla mensola del
caminetto di una misera stanzetta al quinto piano.»
«Ma…» gridò Morrel, «questa borsa non è tua.»
Julie mostrò allora a suo padre la lettera che aveva ricevuto la
mattina.
«E sei andata sola, in quella casa?» disse Morrel dopo averla letta.
«Emmanuel mi ha accompagnata. Doveva aspettarmi all’angolo della
strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c’era più.»
«Signor Morrel!» gridò una voce dalle scale. «Signor Morrel!»
«Questa è la sua voce…» disse Julie.
Nel medesimo istante entrò Emmanuel col viso sconvolto dalla gioia e
dall’emozione.
«Il Pharaon!» gridò. «Il Pharaon!»
«Il Pharaon? Siete pazzo, Emmanuel? Sapete bene che colò a picco.»
«Il Pharaon, signore; il faro ha dato il segnale del Pharaon! Il
Pharaon sta per entrare nel porto.»
Morrel ricadde sulla sedia; le forze gli mancarono. La sua mente non
riusciva a rendersi conto di quella serie di avvenimenti
incredibili, inauditi e favolosi. Suo figlio entrò a sua volta.
«Padre mio», gridò Maximilien, «perché dicevate dunque che il
Pharaon era perduto? Il faro lo ha segnalato, e ora sta entrando nel
porto.»
«Amici miei», disse Morrel, «se fosse vero, bisognerebbe credere a
un miracolo! Ma è impossibile! Impossibile!»
Tutto ciò, sebbene sembrasse incredibile, era vero: la borsa che
teneva in mano, la cambiale quietanzata, e il magnifico diamante.
«Ah, signore», disse Coclite a sua volta, «il Pharaon?»
«Andiamo, figli miei», disse Morrel alzandosi, «andiamo a vedere, e
che il cielo abbia pietà di noi!, se si tratta di una falsa
notizia.»
Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora Morrel; la
poveretta non aveva avuto il coraggio di salire. In un momento
furono alla Canebière. Una gran folla era sul molo. Tutta quella
folla si divise per lasciar libero il passaggio alla famiglia
Morrel.
«Il Pharaon! Il Pharaon!» si diceva da ogni lato, da ogni bocca.
Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre
Saint-Jean un bastimento recava sulla poppa queste parole scritte a
grandi lettere bianche: PHARAON MORREL E FIGLIO - MARSIGLIA.
Questo bastimento era assolutamente della stessa portata dell’altro
Pharaon, ed era carico come l’altro d’indaco e di cocciniglia. Gettò
l’ancora, ammainò le vele. Sul ponte il capitano Gaumard dava gli
ordini, e Penelon faceva segnali a Morrel.
Non c’era più dubbio, c’era la testimonianza dei sensi, e quella di
diecimila e più persone. Mentre Morrel e suo figlio si abbracciavano
fra gli applausi di tutta la città, testimone di quel prodigio, un
uomo, il cui viso era per metà coperto da una barba nera, nascosto
dietro la garitta di una sentinella, contemplava la scena,
mormorando queste parole: «Nobile cuore, sii felice, sii benedetto
per tutto ciò che hai fatto e ancora farai, e la mia riconoscenza
resti nell’oscurità come il tuo beneficio!»
E con un sorriso di gioia e di felicità, abbandonò il luogo dove si
era nascosto, e senza essere visto da alcuno, tanto erano tutti
occupati dall’avvenimento della giornata, scese una di quelle
piccole scalette che servono allo sbarco, e chiamò tre volte:
«Jacopo! Jacopo! Jacopo!»
Allora una scialuppa gli si avvicinò, lo ricevette a bordo, e lo
condusse a uno yacht ben attrezzato, sul ponte del quale balzò con
l’agilità d’un marinaio; da là guardò ancora una volta Morrel, che
piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette di mano a tutta
quella folla, ringraziando con uno sguardo incerto l’invisibile
benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo.
«Ora», disse lo sconosciuto, «addio bontà, addio umanità, addio
riconoscenza… addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il
cuore!»
A queste parole fece un segnale, e come se non avesse atteso che ciò
per partire, lo yacht prese immediatamente il largo.
31. L’Italia e Sinbad il marinaio
Attorno all’inizio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani
appartenenti alla società più elegante di Parigi: uno era il
visconte Albert di Morcerf, l’altro il barone Franz d’Epinay.
Avevano convenuto fra loro che sarebbero andati a passare il
carnevale a Roma, dove Franz, che abitava in Italia da più di
quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Albert.
Ora, poiché non è cosa da poco l’andare di carnevale a Roma,
soprattutto quando non si vuole andare a dormire in piazza del
Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario
dell’albergo Londra in piazza di Spagna, per pregarlo di tener loro
un comodo appartamento.
Pastrini rispose che non aveva più che due camere e un locale al
secondo piano, che offriva loro alla modica cifra di un luigi al
giorno.
I due giovani accettarono, quindi Albert, volendo mettere a profitto
il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli. Franz restò a Firenze.
Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri che procura la città dei
Medici, dopo aver a lungo passeggiato in quell’Eden che vien
chiamato le Cascine, dopo essere stato ricevuto da quegli ospiti
magnifici che si chiamano Corsini, Montfort, Poniatowski, gli prese
il capriccio, essendo già stato a visitare la Corsica, culla di
Bonaparte, di andare a vedere l’isola d’Elba, luogo della forzata
sosta di Napoleone.
Una sera dunque slegò una barchetta dall’anello di ferro che
l’attraccava al porto di Livorno, vi si sdraiò sul fondo, avvolto
nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole: «All’isola
d’Elba!»
La barca lasciò il porto come un uccello lascia il nido, e
l’indomani Franz era a Portoferraio. Attraversò l’isola imperiale
seguendo tutte quelle tracce lasciate dal gigante, e andò a
imbarcarsi a Marciana. Due ore dopo, sbarcò a Pianosa, dove veniva
assicurato che avrebbe trovato un’infinità di pernici rosse.
La caccia fu pessima; Franz uccise a stento poche pernici magre, e
come fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun
esito, risalì sulla barca di cattivo umore.
«Se Vostra Eccellenza volesse», gli disse il padrone della barca,
«potrebbe fare una buona caccia.»
«E dove?»
«Vedete quell’isola?» continuò il marinaio stendendo il dito verso
il mezzogiorno, indicando una massa conica che usciva dal mare e
tinta di un bellissimo color indaco.
«Che isola è?» domandò Franz.
«È l’isola di Montecristo», rispose il livornese.
«Ma io non ho licenza d’andare a caccia in quell’isola.»
«Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l’isola è deserta.»
«Oh, perbacco, un’isola deserta in mezzo al Mediterraneo, è una cosa
curiosa.»
«È naturale, Eccellenza. L’isola è un ammasso di scogli, e in tutta
la sua estensione non vi è forse un palmo di terreno coltivabile.»
«E a chi appartiene?»
«Alla Toscana.»
«E qual selvaggina vi si trova?»
«Migliaia di capre selvatiche.»
«Che vivono leccando delle pietre?» disse Franz con un sorriso
d’incredulità.
«No, ma sfrondando le macchie, i mirti, e gli alti pruni che nascono
tra i massi.»
«Ma dove dormirò?»
«A terra, o nelle grotte, oppure a bordo, avvolto nel vostro
mantello. D’altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo
partire subito dopo la caccia: sa che noi navighiamo tanto di giorno
quanto di notte, e che quando non lavorano le vele, lavoriamo con i
remi.»
Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno, e
non avendo più inquietudini per l’alloggio a Roma, Franz accettò la
proposta di rifarsi della sua prima caccia.
Alla risposta affermativa, i marinai si scambiarono alcune parole a
bassa voce.
«Ebbene, che c’è di nuovo?» domandò. «Sarebbe sorta qualche
difficoltà?»
«No», rispose il padrone, «ma dobbiamo avvertirvi che l’isola di
Montecristo è in contumacia.»
«E che significa?»
«Significa che, siccome Montecristo è disabitata, e qualche volta
serve da ancoraggio a contrabbandieri e pirati che vengono dalla
Corsica e dall’Africa, se si venisse a conoscenza del nostro
soggiorno nell’isola, saremmo costretti al nostro ritorno a Livorno,
a fare una quarantena di sei giorni.»
«Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo.»
«Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?»
«Oh, non io di sicuro!»
«Oh, ma non sarò io certamente…» gridò Gaetano.
«E neppure noi!» dissero i marinai.
«In questo caso, andiamo a Montecristo.»
Il padrone ordinò la manovra, puntò la prua sull’isola e la barca si
avviò da quella parte.
Franz lasciò compiere l’operazione, e quando ormai si era nella
nuova rotta, quando la vela fu gonfia dalla brezza, e i quattro
marinai ebbero preso il loro posto, tre davanti e uno al timone,
riprese la conversazione.
«Mio caro Gaetano», disse al padrone, «voi mi avete detto, credo,
che l’isola di Montecristo serve da rifugio a contrabbandieri e
pirati, e ciò mi pare ben altra selvaggina che le capre selvatiche.»
«Sì, Eccellenza, è la verità.»
«Sapevo esservi dei contrabbandieri, ma credevo che dopo la presa di
Algeri, e la distruzione della reggenza, i pirati non esistessero
più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat.»
«Ebbene, Vostra Eccellenza sbaglia. Accade dei pirati come dei
briganti, che sebbene siano creduti sterminati, aggrediscono tutti i
giorni i viaggiatori fin sotto le porte di Roma. È successo presso
Velletri, saranno appena sei mesi. Se Vostra Eccellenza abitasse a
Livorno, come facciamo noi, sentirebbe dire, di tanto in tanto, che
un piccolo bastimento carico di mercanzie, o un bello yacht inglese
atteso a Bastia, a Portoferraio o a Civitavecchia, non è mai
arrivato, e non si sa che ne sia avvenuto; e che, senza dubbio, si
sarà infranto contro qualche scoglio. Ma lo scoglio che ha
incontrato è invece una barca lunga e stretta, montata da sei o otto
uomini, che l’ha sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e
tempestosa, nei dintorni di qualche isolotto selvaggio e disabitato,
non diversamente dai briganti che fermano e spogliano una carrozza
da posta in un bosco.»
«Ma infine», riprese Franz, sempre sdraiato nella barca, «perché
quelli ai quali accadono simili disgrazie non le denunciano? Perché
non richiamano su questi pirati la vigilanza del governo francese,
sardo o toscano?»
«Perché?» disse ridendo Gaetano.
«Sì, perché?»
«Perché prima si trasporta dal bastimento, o dallo yacht, sulla
barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi; quindi si legano
mani e piedi a tutto l’equipaggio, e si attacca al collo di ciascuno
una palla da ventiquattro, poi si fa un bel foro, della grandezza di
un barile, nella chiglia del bastimento catturato, si risale sul
ponte, si chiude il boccaporto, e si torna sulla barca. In capo a
dieci minuti il bastimento comincia a lamentarsi, e gemere. Un poco
alla volta affonda. Dapprima cala una delle sue parti, poi si
rialza, quindi s’immerge di nuovo affondando sempre più.
D’improvviso si ode un rumore simile a quello di una cannonata: è
l’acqua che fa saltare il ponte. Allora il bastimento si dibatte
come chi sta per annegare, divenendo sempre più pesante. Ben presto
l’acqua, troppo compressa nelle cavità, prorompe da tutte le
aperture, simile ai getti che soffiano dagli sfiatatoi le
gigantesche balene. Finalmente manda un ultimo rantolo, fa un giro
su se stesso, e affonda, scavando nell’abisso un vasto imbuto, che
per un momento si aggira, si ricolma a poco a poco, e finisce per
cancellarsi del tutto, di modo che, in capo a cinque minuti, non c’è
che l’occhio di Dio che possa andare a discernere nel fondo del mare
il bastimento sparito. Comprenderete ora perché il bastimento non
rientra in porto, e perché l’equipaggio non denuncia l’accaduto?»
Se Gaetano avesse raccontato la cosa prima di proporre la
spedizione, è probabile che Franz vi avrebbe pensato due volte prima
d’intraprenderla, ma la barca vogava nella direzione dell’isola, e
gli sembrò che sarebbe stata una viltà ritornare indietro.
Franz era uno di quegli uomini che non corrono mai incontro al
pericolo, ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano
una prontezza d’animo inalterabile per combatterlo; era uno di
quegli uomini dal sangue freddo, che guardano un pericolo nella vita
come un avversario in un duello, che ne calcolano i movimenti, che
ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per prender fiato, e
per non comparir vili, infine che, rendendosi conto con un solo
sguardo di tutti i loro vantaggi, ammazzano con un solo colpo.
«Bah», disse, «ho attraversato la Sicilia e la Calabria, ho navigato
due mesi nell’arcipelago, e non ho mai visto l’ombra di un brigante
o di un pirata.»
«Non ho raccontato tutto questo a Vostra Eccellenza», disse Gaetano,
«per farla rinunciare al progetto; mi ha fatto delle domande, e io
ho risposto.»
«Sì, mio caro Gaetano, la vostra conversazione è interessante; e
siccome voglio goderne il più lungamente possibile, andiamo pure a
Montecristo.»
Frattanto si avvicinavano rapidamente al termine del loro viaggio,
il vento era favorevole, e la barca faceva sei miglia l’ora. Man
mano che si avvicinavano, l’isola sembrava sorgere gigantesca dal
seno del mare e, attraverso l’atmosfera limpida degli ultimi raggi
del giorno, si distinguevano, come le palle ammonticchiate in un
arsenale, gli scogli messi a piramide l’un sopra l’altro, e negli
interstizi di quelli si vedevano rosseggiare le eriche e verdeggiare
gli alberi. In quanto ai marinai, sebbene sembrassero perfettamente
tranquilli, era però evidente che stavano all’erta, e che i loro
sguardi scrutavano il vasto specchio su cui navigavano, e
l’orizzonte, popolato soltanto da qualche peschereccio, le cui vele
bianche si libravano, come gabbiani, sulla cima dei flutti.
Erano distanti soltanto una quindicina di miglia da Montecristo,
quando il sole scomparve dietro la Corsica, le cui montagne
comparivano a destra, delineando nel cielo il loro irregolare
profilo, e mostrando ancora illuminata l’estremità di quella massa
di pietre, che pari al gigante Adamastor, s’innalzavano davanti alla
barca.
Poco per volta l’ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a
sé gli ultimi riflessi del giorno che stava per finire; poi il
raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, dove si fermò un
istante, come il pennacchio di fuoco di un vulcano; finalmente
l’ombra, sempre crescente, invase progressivamente la sommità, come
aveva invaso la base, e l’isola non apparve più che una montagna
grigia che andava sempre più oscurandosi: mezz’ora dopo era notte
fatta.
Fortunatamente i marinai erano nei loro abituali paraggi, e
conoscevano fin l’ultimo degli scogli dell’arcipelago toscano;
poiché in mezzo all’oscurità profonda nella quale era avvolta la
barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine.
La Corsica era interamente sparita, e l’isola di Montecristo era
divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci,
la facoltà di vedere nelle tenebre, e il pilota che stava al timone
non mostrava la minima esitazione.
Era passata circa un’ora dal tramonto del sole, quando Franz
credette di scorgere, a un quarto di miglio a sinistra, una massa
scura, ma non era possibile distinguere ciò che fosse, e temendo di
muovere a riso i marinai, scambiando una nube per la terraferma,
stette zitto.
D’improvviso apparve una gran luce, la terra poteva assomigliare a
una nube, ma quel fuoco non poteva essere una meteora.
«Che cos’è quella luce?» domandò Franz.
«Zitto!» disse Gaetano. «È un fuoco.»
«Ma non avete detto che l’isola è disabitata?»
«Ho detto che non aveva una popolazione stabile, ma ho detto pure
che questo luogo è un rifugio dei contrabbandieri.»
«E dei pirati?»
«E dei pirati», continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, «ed
è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete,
ora il fuoco è dietro di noi.»
«Ma quel fuoco», continuò Franz, «mi sembra piuttosto un motivo di
sicurezza che d’inquietudine: gente che temesse di essere vista non
accenderebbe fuochi.»
«Oh, questo non vuol dir niente», rispose. «Se voi in mezzo a questa
oscurità poteste rilevare la posizione dell’isola, vedreste che quel
fuoco, in quel punto, non può essere scorto né dalla Corsica, né
dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare.»
«Credete che annunci cattiva compagnia?»
«È quello di cui bisognerà assicurarsi!» rispose Gaetano, tenendo
sempre gli occhi fissi sull’isola.
«E come farete ad assicurarvene?»
«Adesso vedrete.»
A queste parole, Gaetano si consultò con i compagni, e dopo cinque
minuti venne eseguita, nel più gran silenzio, una virata di bordo;
quindi si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo dopo quel
cambiamento di direzione il fuoco disparve, nascosto dietro un picco
roccioso. Allora il pilota dette al piccolo bastimento, con una
girata di timone, una nuova direzione, e si avvicinarono
visibilmente all’isola distante circa cinquanta passi.
Gaetano calò la vela, e la barca rimase quieta sull’onda.
Tutto ciò fu fatto nel più grande silenzio; dopo il cambiamento di
rotta non era stata pronunciata una parola a bordo. Gaetano, che
aveva proposta la spedizione, se ne era assunta tutta la
responsabilità.
Gli altri tre marinai, mentre preparavano i remi, pronti a fuggire
remando, non distoglievano lo sguardo da lui per eseguire qualsiasi
manovra che lor venisse ordinata da un gesto, e che per l’oscurità
si sarebbe potuta eseguire molto facilmente.
Franz esaminava le sue armi con la prontezza d’animo che abbiamo in
lui riconosciuta. Aveva due fucili a due canne e una carabina: li
caricò, si assicurò che fossero a posto, e attese.
Nel frattempo Gaetano s’era tolto il gabbano e la camicia, aveva
stretto i calzoni intorno ai fianchi, e siccome aveva i piedi nudi,
si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe.
Così abbigliato, si mise l’indice della mano davanti alle labbra per
ordinare il più profondo silenzio, e si calò in mare. Nuotò verso
l’isola con tale cautela che riusciva impossibile udire il più
piccolo rumore. Si poteva soltanto seguire con lo sguardo la traccia
del suo nuotare dalla scia fosforescente prodotta dai suoi
movimenti.
La scia ben presto scomparve: era segno evidente che Gaetano aveva
preso terra.
Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili per una mezz’ora,
trascorsa la quale si vide ricomparire dalla riva alla barca la scia
luminosa.
In pochi istanti Gaetano raggiunse la barca.
«Ebbene?» fecero a un tempo Franz e i tre marinai.
«Ebbene», disse, «sono contrabbandieri spagnoli; e hanno con loro
due banditi corsi.»
«E che fanno quei due banditi corsi con i contrabbandieri spagnoli?»
«Eh, mio Dio, Eccellenza», rispose Gaetano con un accento di vivo
amore per il prossimo, «bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri.
Spesse volte i banditi vengono un po’ troppo perseguitati sulla
terra; allora trovano una barca, e in essa dei buoni diavoli come
noi; vengono a domandarci l’ospitalità nella nostra casa
galleggiante. Non si può fare a meno di prestare soccorso a un
povero diavolo perseguitato; noi li riceviamo a bordo, e per maggior
sicurezza prendiamo il largo. Ciò non costa nulla, e salva perlomeno
la vita a qualcuno dei nostri simili, il quale, all’occasione, sa
essere riconoscente del servizio reso, indicandoci un buon luogo
dove sbarcare le nostre mercanzie senza essere infastiditi dai
curiosi.»
«Va bene», disse Franz. «Anche voi, mio caro Gaetano, siete dunque
un po’ contrabbandiere?»
«Eh, che volete», disse, con un sorriso impossibile a descriversi,
«si fa un po’ di tutto; bisogna pur vivere.»
«Allora voi siete tra amici quando vi trovate con gli attuali
abitanti dell’isola di Montecristo.»
«Pressappoco… Noi marinai abbiamo alcuni segni per riconoscerci.»
«E credete che non avremo nulla da temere sbarcando anche noi?»
«Assolutamente nulla! I contrabbandieri non sono ladri!»
«Ma quei due banditi corsi…» riprese Franz, calcolando prima tutte
le probabilità di pericolo.
«Eh, mio Dio», disse Gaetano, «non è colpa loro se sono banditi, ma
colpa altrui.»
«In che modo?»
«Senza dubbio, essi sono perseguitati per aver fatto la pelle a
qualcuno, non per altro; come se non fosse nella natura dei corsi
vendicarsi.»
«Che intendete dire col fare la pelle? Avere assassinato un uomo?»
disse Franz.
«Intendo avere ucciso un nemico!» rispose il marinaio. «Il che è
molto diverso.»
«Ebbene», disse il giovane, «andiamo dunque a domandare ospitalità
ai contrabbandieri e ai banditi. Credete che ci verrà accordata?»
«Senza alcun dubbio.»
«Quanti sono?»
«Tre contrabbandieri e due banditi.»
«Va bene, sono appunto in numero pari al nostro: e siccome siamo in
forza uguale, nel caso che questi signori mostrassero cattive
intenzioni, saremo in grado di contenerli. Per l’ultima volta
dunque: andiamo a Montecristo.»
«Sì, Eccellenza… Ma ci permette ancora di prendere qualche cautela?»
«Siete saggio come Nestore, e prudente come Ulisse. Quindi faccio
ancor più che permettervelo, ma ve ne prego.»
«Ebbene, silenzio allora!» disse Gaetano.
Tutti tacquero.
Per un uomo come Franz che considerava tutte le cose sotto il loro
vero aspetto, la situazione, senza essere pericolosa, non era priva
di una certa gravità. Egli si trovava nella più profonda oscurità,
isolato in mezzo al mare con marinai che non conosceva, che non
avevano alcuna ragione d’essergli affezionati, e che sapevano che
aveva nella cintura qualche migliaio di franchi, e che per più
volte, se non invidiato, avevano almeno esaminato con molta
curiosità le sue armi, che erano bellissime.
Inoltre stava per approdare con quegli uomini su un’isola che,
sebbene portasse un nome molto religioso, non sembrava, dati i tre
contrabbandieri e i due banditi, promettere un’ospitalità molto
caritatevole; poi la storia dei bastimenti affondati, che di giorno
gli era sembrata esagerata, di notte gli apparve verosimile. Posto
fra questi due pericoli, forse immaginari, ma fors’anche reali, non
abbandonava i suoi uomini con gli occhi, né il fucile con la mano. I
marinai avevano nuovamente issato la vela e avevano preso la rotta
già percorsa nell’andare e venire.
Attraverso l’oscurità, Franz, un poco abituato alle tenebre,
distingueva il gigante di granito che la barca andava costeggiando;
poi finalmente, oltrepassando di nuovo l’angolo di uno scoglio,
scorse il fuoco che brillava più vivamente che mai, e intorno al
quale erano sedute quattro o cinque persone.
Il riverbero del fuoco si estendeva a un centinaio di passi sul
mare.
Gaetano continuò a costeggiare, mantenendo sempre la barca nella
parte meno illuminata; quindi, quando si trovò proprio davanti al
fuoco, volse la prua verso di esso ed entrò nel cerchio luminoso,
intonando una canzone da pescatori di cui cantava le strofe egli
solo, e i compagni ripetevano in coro il ritornello.
Alla prima parola della canzone, gli uomini seduti intorno al fuoco
si erano alzati; e si erano avvicinati a riva, con gli occhi fissi
sulla barca, sforzandosi visibilmente di giudicarne la forza, e
d’indovinarne le intenzioni.
Ben presto parvero soddisfatti del loro esame, e a eccezione di uno
che rimase in piedi a fare la sentinella, gli altri andarono a
sedersi intorno al fuoco davanti al quale veniva arrostito un
capretto intero.
Quando il battello fu a venti passi dalla terra, l’uomo che stava di
sentinella sulla spiaggia fece macchinalmente con la carabina un
gesto simile a quello di un soldato in attesa della pattuglia, e
gridò: «Chi vive?» in dialetto sardo.
Franz armò freddamente i due fucili.
Gaetano scambiò con quell’uomo alcune parole che il viaggiatore non
capì, ma che dovevano necessariamente riguardarlo, perché Gaetano
voltandosi gli chiese: «Vostra Eccellenza vuol dire il suo nome, o
mantenere l’incognito?»
«Il mio nome dev’essere del tutto sconosciuto a questi signori»,
rispose Franz, «dunque dite loro soltanto che io sono un francese
che viaggia per diletto.»
Allorché Gaetano ebbe trasmessa questa risposta, la sentinella diede
un ordine a uno degli uomini intorno al fuoco che subito si alzò, e
scomparve fra le rocce.
Seguì un silenzio di qualche minuto.
Ognuno sembrava preoccupato dei propri affari: Franz dello sbarco, i
marinai delle vele, i contrabbandieri del loro capretto; ma in mezzo
a questa apparente noncuranza tutti si osservavano attentamente.
L’uomo che si era allontanato ricomparve a un tratto dal lato
opposto a quello da cui era sparito; fece un segno con la testa alla
sentinella, che voltandosi verso la barca si limitò a dire:
«S’accomodi».
Il s’accomodi degli italiani non è traducibile in altra lingua:
significa a un tempo «Venite, entrate, siate il benvenuto, fate come
se foste in casa vostra, voi siete il padrone». È come quella frase
turca di Molière che stupiva tanto il gentiluomo borghese per la
quantità di significati che aveva.
I marinai non se lo fecero dire due volte, con due colpi di remi, la
barca toccò la riva. Gaetano saltò a terra, scambiò ancora qualche
parola a voce bassa con la sentinella, i compagni scesero uno dopo
l’altro, quindi fu la volta di Franz.
Egli aveva uno dei fucili a bandoliera, Gaetano l’altro: uno dei
marinai teneva la carabina. Il vestito, un misto tra il costume di
un artista e di un dandy, non ispirò alcun sospetto ai suoi ospiti e
di conseguenza nessuna inquietudine.
Assicurata la barca alla spiaggia, si avviarono per cercare un
comodo spazio per il bivacco; ma la direzione che presero non
piaceva al contrabbandiere che fungeva da guardia, perché gridò a
Gaetano: «Non da quella parte!»
Gaetano balbettò una scusa, e senza aggiungere altro si mosse verso
la parte opposta, mentre i due marinai accesero dei rami d’albero al
fuoco per farne una torcia e illuminare la via.
Fecero circa trenta passi e si fermarono sopra una piccola spianata,
tutta circondata di rocce sulle quali erano state scavate alcune
nicchie, in modo che si poteva stare seduti. Intorno verdeggiavano
alcune querce nane e dei cespugli di mirto.
Franz prese uno dei rami accesi che servivano da torcia, e fu il
primo a riconoscere, dalla comodità del luogo, che questa doveva
essere una delle soste abituali dei visitatori dell’isola di
Montecristo.
Quanto alla sua aspettativa di disavventure, era cessata; una volta
messo piede a terra, una volta constatato l’atteggiamento se non
amichevole, almeno indifferente dei suoi ospiti, ogni preoccupazione
era sparita, e all’odore del capretto che arrostiva nel vicino
bivacco, la preoccupazione era cambiata in appetito.
Disse due parole a Gaetano, e questi rispose che nulla era più
facile quanto il preparare una cena in pochi minuti, avendo sulla
barca del pane, del vino, le pernici prese a caccia, e un buon fuoco
per farle arrostire.
«D’altra parte», aggiunse, «se Vostra Eccellenza è tentato
dall’odore del capretto, posso andare dai nostri vicini con due dei
vostri uccelli e offrirli in cambio di un pezzo del loro capretto.»
«Fate», disse Franz, «fate pure, Gaetano, voi siete nato veramente
col genio di negoziare.»
Nel frattempo i marinai avevano strappato delle eriche, e fatto dei
fasci di mirto e di felci, a cui avevano dato fuoco con cui avevano
acceso un bel fuoco.
Franz aspettò dunque con impazienza (annusando sempre l’odore del
capretto) il ritorno di Gaetano, e allorché questi ricomparve,
sembrava molto preoccupato.
«Ebbene», domandò, «che c’è di nuovo? È stata rifiutata la nostra
offerta?»
«Al contrario», disse Gaetano, «il capo, cui è stato detto che voi
siete un gentiluomo francese, v’invita a cena con lui.»
«Va bene», disse Franz, «mi sembra un uomo molto educato, questo
capo, e non vedo perché dovrei rifiutare, tanto più che porto la mia
parte di cena.»
«Oh, non è questo, egli ha di che cenare e più del necessario, ma
mette una singolare condizione alla vostra visita in casa sua.»
«In casa sua?» disse il giovane. «Ha dunque fatto costruire una
casa?»
«No, ma possiede un appartamento molto comodo, almeno a quanto si
dice.»
«Dunque sapete chi è?»
«Ne ho soltanto sentito parlare.»
«In bene o in male?»
«In tutti e due i modi.»
«Che diavolo! E qual è la condizione che m’impone?»
«Che vi lasciate bendare gli occhi, e che non tentiate di togliervi
la benda se non quando ve lo dirà lui stesso.»
Franz indagò per quanto possibile lo sguardo di Gaetano per sapere
ciò che nascondeva quella proposta.
«Oh, diavolo», riprese questi, indovinando il pensiero di Franz. «Lo
so bene, la cosa merita una riflessione.»
«Che fareste voi al mio posto?» chiese il giovane.
«Io, che non ho niente da perdere, accetterei.»
«Accettereste?»
«Non foss’altro che per curiosità.»
«Vi è dunque qualche cosa di curioso da vedere presso questo capo?»
«Ascoltate», disse Gaetano abbassando la voce, «io non so se tutto
ciò che si dice è vero.» Qui si fermò guardando attorno se qualcuno
ascoltava.
«E che si dice?»
«Si dice che costui abiti un palazzo sotterraneo, confronto al quale
palazzo Pitti è poca cosa.»
«Questo è un sogno!» disse Franz.
«Oh, non è un sogno, è una realtà. Cama, il pilota del San
Ferdinando, vi entrò un giorno, e ne uscì tutto meravigliato,
dicendo che simili tesori non si trovano che nei racconti delle
fate.»
«Ma sapete voi», disse Franz, «che con simili parole mi fareste
credere di dover discendere nella caverna di Alì Babà!»
«Dico ciò che mi è stato detto, Eccellenza.»
«Allora mi consigliate di accettare?»
«Oh, non dico questo, Vostra Eccellenza faccia ciò che meglio crede;
non vorrei darvi un consiglio in un simile frangente.»
Franz rifletté per qualche istante, e comprese che quell’uomo così
ricco non poteva aver preso di mira lui che non portava indosso
altro che qualche migliaio di franchi: e siccome in tutto questo non
intravedeva che un’eccellente cena, accettò.
Gaetano andò a portare la risposta.
Abbiamo detto che Franz era prudente; e per questo volle raccogliere
quanti più particolari possibile su un ospite così strano e
misterioso. Si rivolse dunque a un marinaio, che durante questo
tempo aveva spennato le pernici con la gravità di un uomo fiero
delle sue funzioni, e gli chiese con che barca quegli uomini avevano
potuto approdare, non vedendo né barche, né speroniere, né tartane.
«Oh, non è questo che mi dà pensiero», disse il marinaio, «conosco
il bastimento sul quale navigano.»
«È un bel bastimento?»
«Ne auguro a Vostra Eccellenza uno simile per fare il giro del
mondo.»
«E di che stazza?»
«Di circa cento tonnellate. Del resto è un bastimento da diporto,
uno yacht, come dicono gli inglesi, ma costruito in modo da poter
tenere il mare con ogni tempo.»
«E dov’è stato costruito?»
«Non so, ma credo a Genova.»
«E come mai un capo di contrabbandieri», continuò Franz, «osa far
costruire uno yacht per il suo commercio clandestino in un porto di
Genova?»
«Non ho detto che il proprietario di questo yacht sia un capo di
contrabbandieri.»
«No, ma mi sembra che lo abbia detto Gaetano.»
«Gaetano aveva visto gli uomini dell’equipaggio da lontano, e quando
lo disse non aveva ancora parlato ad alcuno.»
«Ma se quest’uomo non è un capo di contrabbandieri, chi è mai?»
«È un ricco signore che viaggia per diletto.»
«Il personaggio diventa sempre più misterioso». pensò Franz, «poiché
i racconti sono diversi», e disse: «Come si chiama?»
«Quando gli si domanda, risponde che si chiama Sinbad il marinaio;
ma dubito che questo sia il suo vero nome.»
«Sinbad il marinaio?»
«Sì.»
«E dove abita questo signore?»
«Sul mare.»
«Di quale paese è?»
«Non lo so.»
«L’avete mai visto?»
«Qualche volta.»
«Che uomo è?»
«L’Eccellenza Vostra ne giudicherà personalmente.»
«E dove mi riceverà?»
«Senza dubbio nel palazzo sotterraneo di cui vi ha parlato Gaetano.»
«E non avete mai avuto la curiosità quando siete venuto qui e avete
trovato l’isola deserta, di cercare di penetrare in questo palazzo
incantato?»
«Oh, sì, Eccellenza, e più d’una volta, ma le nostre ricerche sono
sempre riuscite inutili. Noi abbiamo cercato la grotta dappertutto,
e non abbiamo trovato il più piccolo passaggio. Si dice però che la
porta non si apra con una chiave, ma con una parola magica.»
«Decisamente», mormorò Franz, «eccomi capitato in uno dei racconti
delle Mille e una notte.»
«Sua Eccellenza vi aspetta», disse una voce dietro di lui, che
riconobbe per quella della sentinella.
Il nuovo arrivato era accompagnato da due altri uomini
dell’equipaggio dello yacht. Per tutta risposta, Franz si cavò di
tasca il fazzoletto e lo presentò a colui che aveva parlato. Senza
dire una parola, gli furono bendati gli occhi con molta cautela; gli
fu fatto giurare che non avrebbe tentato in nessun modo di togliersi
la benda prima che fosse invitato a farlo.
Egli giurò.
Allora i due uomini lo presero ciascuno per un braccio, e
s’incamminò guidato da essi e preceduto dalla sentinella. Dopo una
trentina di passi sentì dal calore della brace e dall’odore sempre
più appetitoso del capretto che ripassava davanti al bivacco, quindi
gli venne fatta continuare la strada per altri cinquanta passi,
inoltrandosi evidentemente verso la parte dove la sentinella non
aveva permesso a Gaetano di penetrare, proibizione che ora si
capiva.
Ben presto un cambiamento di atmosfera avvertì Franz che entrava in
un sotterraneo. Dopo alcuni secondi di cammino sentì aprirsi una
porta, e gli sembrò che l’atmosfera mutasse ancora di natura,
diventasse tiepida e profumata, e s’accorse allora che i piedi
posavano sopra un tappeto fitto e morbido; in quel momento le guide
lo lasciarono.
Si fece un breve silenzio, e una voce disse in buon francese,
sebbene con un accento straniero: «Signore, siete il benvenuto in
casa mia, e potete togliervi la benda».
Naturalmente, Franz non si fece ripetere l’invito due volte, si levò
il fazzoletto, e si ritrovò di fronte a un uomo sui
trentotto-quarant’anni che indossava un abito tunisino, vale a dire
una papalina rossa con una lunga nappa di seta turchina, una veste
di panno nero tutta ricamata d’oro, pantaloni color sangue di bue
larghi e gonfi, le ghette dello stesso colore orlate d’oro come la
veste, e le babbucce gialle, una magnifica sciarpa di cachemire gli
cingeva la vita al di sopra dei fianchi, e un piccolo cangiaro acuto
e ricurvo passava dentro alla cintura.
Sebbene di un pallore quasi livido, quell’uomo aveva lineamenti
molto belli: gli occhi erano vivi e penetranti; il naso dritto, e
quasi a livello della fronte, tradiva il tipo greco in tutta la sua
purezza, e i denti bianchi come perle spiccavano mirabilmente sotto
i baffi neri.
Soltanto quel pallore era strano: si sarebbe detto un uomo rinchiuso
da lungo tempo in una tomba che non avesse potuto riprendere la
carnagione dei vivi.
Senza essere alto, era ben fatto, e, come gli uomini del
Mezzogiorno, aveva le mani e i piedi piccoli. Ma ciò che meravigliò
Franz, che aveva trattato da visionario Gaetano, fu la sontuosità
degli arredi.
Tutta la camera era tappezzata di stoffa turca color cremisi tessuta
a fiori d’oro.
In un vano c’era una specie di sofà sormontato da un trofeo di armi
arabe con i foderi di argento dorato e tempestate di pietre
risplendenti; dal soffitto pendeva una lampada di cristallo di
Venezia di una forma graziosa, e i piedi posavano su un tappeto
turco.
Magnifiche le tende dalle quali entrò Franz, e quella davanti a
un’altra porta che metteva in una seconda camera splendidamente
illuminata.
L’ospite lasciò Franz per alcuni istanti immerso nella sorpresa,
senza mai smettere di esaminarlo da capo a piedi.
«Signore», disse finalmente, «vi chiedo perdono delle cautele che
son costretto a prendere con quelli che vengono introdotti qui, ma
siccome la maggior parte dell’anno, quest’isola è deserta, se il
segreto di questa dimora fosse conosciuto, al mio ritorno, senza
dubbio, troverei questo mio rifugio in cattivo stato; cosa che mi
dispiacerebbe immensamente, non per la perdita che mi causerebbe, ma
perché non avrei più la certezza di potermi separare dal resto del
mondo quando me ne venisse la volontà. Ora cercherò di farvi
dimenticare questo piccolo disturbo con l’offrirvi ciò che non
avreste certamente creduto di ritrovar mai in quest’isola, una cena
discreta e un buon letto.»
«In fede mia, caro ospite», rispose Franz, «non vedo perché dobbiate
scusarvi: ho sempre saputo che si bendano gli occhi alle persone che
entrano nei palazzi incantati, vedete Raul negli Ugonotti, e
veramente non posso lamentarmi, perché ciò che mi mostrate
appartiene alle meraviglie delle Mille e una notte.»
«Ah, potrei dirvi come Lucullo, se avessi saputo di avere l’onore di
una vostra visita, mi sarei preparato. Ma alla fine metto a vostra
disposizione il mio eremo com’è; e vi offro la mia cena, per quanto
poca cosa. Alì, è tutto pronto?»
Nel medesimo istante la tenda si sollevò, e un nubiano, nero come
l’ebano, e vestito d’una semplice tunica bianca, fece segno al
padrone che poteva passare nella camera da pranzo.
«Ora», disse lo sconosciuto a Franz, «non so se siate del mio
avviso, ma trovo che non vi è niente di più scomodo quanto restare
due o tre ore in una stanza, senza sapere con quale nome o quale
titolo chiamarsi. Rispetto troppo le leggi dell’ospitalità per non
domandarvi né il nome né il titolo; vi prego soltanto di indicarmi
come rivolgervi a voi. In quanto a me, per levarvi ogni imbarazzo,
vi dirò che hanno l’abitudine di chiamarmi Sinbad il marinaio.»
«E io», rispose Franz, «vi dirò, che siccome non mi manca altro, per
essere nella situazione di Aladino, che la famosa lampada magica,
così non trovo nessuna difficoltà che per il momento mi chiamiate
Aladino. Non usciremo così dall’Oriente, dove sono tentato di
credere di essere stato trasportato dalla potenza di qualche buon
genio.»
«Ebbene, signor Aladino», disse lo strano anfitrione, «avete inteso
che è tutto pronto? Vogliate dunque prendervi il disturbo di passare
nella sala da pranzo; il vostro umilissimo servitore vi precederà
per indicarvi il cammino.»
A queste parole venne sollevata la tenda, e Sinbad passò davanti a
Franz.
Franz passava da incanto in incanto: la tavola era splendidamente
apparecchiata. Una volta convintosi di ciò che gli importava di più,
girò lo sguardo intorno a sé. La sala da pranzo non era meno
splendida dell’altra: essa era tutta in marmo con bassorilievi
antichi di grande valore, e ai quattro angoli di questa sala
alquanto oblunga c’erano quattro statue con in capo dei cestelli
contenenti delle piramidi di frutta magnifiche: ananas di Sicilia,
melegrane di Malaga, arance delle Baleari, pesche di Francia e
datteri di Tunisi.
La cena si componeva di un fagiano arrostito con contorno di merli
di Corsica, un cosciotto di cinghiale con la gelatina, un quarto di
capretto alla tartara, e una gigantesca aragosta; tra una portata e
l’altra, venivano serviti dei piattini contenenti degli entremets. I
piatti erano d’argento, i piattini di porcellana del Giappone.
Franz si strofinò gli occhi per assicurarsi che non sognava. Alì
soltanto serviva a tavola e se ne disimpegnava molto bene. Il
convitato fece i complimenti al suo ospite.
«Sì», disse questi facendo onore alla cena, «questo povero diavolo
mi è molto affezionato, e fa il meglio che può. Si ricorda che gli
ho salvato la vita, e siccome, a quanto pare, ci tiene molto alla
sua testa, mi è riconoscente di avergliela conservata.»
Alì, sebbene non intendesse una parola in francese, accorgendosi
dagli sguardi di Sinbad che parlava di lui, si avvicinò alla tavola,
prese la mano del padrone e la baciò.
«Sarei troppo indiscreto, signor Sinbad, se vi chiedessi in quale
occasione faceste un così bell’atto?»
«Oh, mio Dio, è semplice. Sembra che il furbo avesse ronzato vicino
al serraglio del bey di Tunisi, più di quel che fosse conveniente a
uno del suo colore, per cui venne condannato dal bey ad avere la
lingua, la mano e la testa tagliate; la lingua il primo giorno, la
mano il secondo e la testa il terzo. Avevo sempre desiderato avere
un muto al mio servizio: aspettai che gli fosse tagliata la lingua e
andai a proporre al bey di darmelo in cambio di un magnifico fucile
a due canne che il giorno prima mi era sembrato avesse destato i
desideri di Sua Altezza. Egli tentennò un attimo, tanto gli premeva
di finirla con quel povero diavolo. Ma io aggiunsi subito al fucile
un coltello inglese da caccia; il Bey si decise a fargli grazia
della mano destra e della testa, a condizione però che non avrebbe
mai più messo piede in Tunisi. La raccomandazione era inutile.
Quando l’infedele vede le coste dell’Africa, per quanto lontane,
corre a rifugiarsi in fondo alla stiva, e non si può farlo uscire di
là che quando si è persa di vista la terza parte del mondo.»
Franz restò un momento muto e pensieroso, non sapendo cosa pensare
della crudele bonarietà con la quale il suo ospite gli aveva fatto
quel racconto.
«E voi passate la vostra vita», disse, cercando di cambiare
argomento, «viaggiando come il degno marinaio di cui avete preso il
nome?»
«Sì, è un voto che feci in tempi nei quali non credevo di poterlo
compiere…» disse lo sconosciuto sorridendo. «Ne ho fatti altri
simili, e spero di poterli presto compiere.»
Sebbene Sinbad avesse pronunciato tali parole con la più grande
pacatezza, i suoi occhi avevano lanciato uno sguardo di selvaggia
ferocia.
«Voi avete sofferto molto, signore?» disse Franz.
«Da che lo arguite?» disse.
«Da tutto», rispose Franz, «dalla vostra voce, dal vostro sguardo e
dalla vita stessa che conducete.»
«Io conduco la vita più felice che si conosca, una vera vita da
pascià: mi piace un luogo, vi resto, me ne annoio, parto: sono
libero come l’uccello, ho le ali come lui. Le persone che mi
circondano mi obbediscono; e qualche volta mi diverto a inceppare la
giustizia umana o togliendole un bandito che cerca, o un galantuomo
che perseguita. Poi ho la mia giustizia; giustizia alta e bassa,
senza dilazioni, senza appello, che condanna o assolve e alla quale
nessuno può obiettare. Ah, se aveste gustata la mia vita, non ne
vorreste altra, e non rientrereste giammai nel mondo, a meno che non
aveste da compiere un qualche gran progetto.»
«Una vendetta, per esempio!» disse Franz.
Lo sconosciuto fissò sul giovane uno di quegli sguardi che penetrano
nel più profondo del cuore e del pensiero.
«E perché una vendetta?» domandò.
«Perché», aggiunse Franz, «voi avete l’aspetto di un uomo che,
perseguitato dalla società, ha qualche terribile conto da regolare.»
«Ebbene», disse Sinbad, ridendo con quello strano riso che mostrava
i denti bianchi e aguzzi, «non avete indovinato. Io sono una specie
di filantropo, e forse un giorno andrò a Parigi per far conoscenza
col signor Appert, l’uomo dal piccolo mantello blu.»
«E sarà la prima volta che farete questo viaggio?»
«Oh, mio Dio, sì… Ho l’aspetto di essere ben poco curioso, non è
vero? Ma vi assicuro che non fu colpa mia se ho ritardato tanto; ciò
avverrà un giorno o l’altro!»
«E pensate di farlo presto questo viaggio?»
«Non lo so ancora; dipende da come i casi si presentano.»
«Vorrei esservi al tempo in cui vi verrete; cercherei di rendervi,
per quanto mi fosse possibile, l’ospitalità che così largamente mi
prodigate a Montecristo.»
«Accetterei la vostra offerta con gran piacere», rispose l’ospite,
«ma disgraziatamente, se ci vado, sarò in incognito!»
Frattanto la cena proseguiva e sembrava essere stata preparata
soltanto per Franz, perché era molto se lo sconosciuto aveva toccato
coi denti uno o due piatti dello splendido banchetto che aveva
offerto e al quale il suo inatteso convitato aveva fatto così
largamente onore.
Finalmente Alì portò la frutta, o piuttosto prese i cestelli dal
capo delle statue e li posò sulla tavola. Fra i quattro cestelli
pose una tazza d’argento dorato, chiusa da un coperchio dello stesso
metallo.
Il rispetto col quale Alì aveva portato questa tazza stimolò la
curiosità di Franz. Alzò il coperchio e vide un specie di pasta
verdastra che assomigliava alla confettura di pere angeliche, ma a
lui del tutto sconosciuta.
Rimise il coperchio senza aver saputo che cosa conteneva la tazza, e
volgendo gli occhi sul suo ospite vide che sorrideva del suo
stupore.
«Voi non riuscite a indovinare», disse questi, «quale specie di
commestibile contenga questo piccolo vaso, e ciò vi dà da pensare…
Non è vero?»
«Lo confesso.»
«Ebbene, questa specie di confettura verde è l’ambrosia che Ebe
serviva alla tavola di Giove.»
«Ma questa ambrosia», disse Franz, «passando per le mani degli
uomini, avrà certamente perso il nome celeste per prenderne uno
umano. In lingua volgare, come si chiama questo ingrediente per il
quale non sento però di avere grande simpatia?»
«Ah, ecco», gridò Sinbad, «spesso noi passiamo molto vicini alla
fortuna senza vederla, senza guardarla, senza riconoscerla. Siete un
uomo positivo, e l’oro è il vostro idolo? Gustate di questa, e le
miniere del Perù, di Gizerate e di Golgonda vi saranno aperte. Siete
un uomo di immaginazione? Siete un poeta? Gustaste di questa, e le
barriere del possibile spariranno; vi si apriranno i campi
dell’infinito, e passeggerete libero di cuore e di spirito nei
domini senza confine dell’ideale. Siete ambizioso? Correte dietro le
grandezze della terra? Gustate di questa, e dopo un’ora sarete
idealmente, non re di un piccolo regno nascosto in un angolo
d’Europa, come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra, ma sarete il
re del mondo. Il vostro trono sarà eretto sopra le montagne di
Satana e senza aver bisogno di fargli omaggio, senza essere
costretto a baciarne gli artigli, sarete il sovrano, padrone di
tutti i regni della terra. Non vi tenta ciò che vi offro, dite? Non
vi sembra cosa facile? Osservate!»
A queste parole scoprì la piccola tazza di argento dorato che
conteneva la sostanza tanto lodata, prese un cucchiaio da caffè di
questa confettura magica, la portò alla bocca, e l’assaporò
lentamente con gli occhi semichiusi e la testa rovesciata
all’indietro.
Franz gli lasciò tutto il tempo di gustare il suo cibo preferito;
poi quando vide che ritornava un poco in sé gli disse: «Ma infine
che cos’è questa vivanda preziosa?»
«Avete mai inteso parlare del Vecchio della Montagna, quello stesso
che volle fare assassinare Filippo Augusto?»
«Senza dubbio.»
«Ebbene, voi sapete che regnava in una ricca vallata dominata dalla
montagna di cui aveva preso il pittoresco nome. In questa vallata
c’erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e in questi
giardini vi erano dei padiglioni isolati: in questi faceva entrare i
suoi eletti, e là faceva loro mangiare, disse Marco Polo, una certa
erba che li trasportava nell’Eden, in mezzo a piante sempre fiorite,
a frutti sempre maturi. Ora ciò che questi giovani felici prendevano
per una realtà non era che un sogno, ma un così dolce, inebriante,
un così voluttuoso sogno, che si vendevano interamente a colui che
lo elargiva, e gli obbedivano ciecamente. Essi andavano a colpire in
capo al mondo la vittima designata, morivano fra i tormenti della
tortura senza lamentarsi, nella sola idea che quella morte che
soffrivano non era che un passaggio a quella vita di delizie di cui
l’erba misteriosa, ora davanti a voi, aveva dato un saggio.»
«Allora», gridò Franz, «è l’hashish. Sì, la conosco, almeno di
nome.»
«Precisamente, voi avete detto il suo vero nome, signor Aladino,
questo è hashish, e del migliore e del più puro che si faccia ad
Alessandria d’Egitto, l’hashish di Abou Gor, il gran confetturiere,
l’uomo al quale si dovrebbe erigere un palazzo con questa
iscrizione: AL MERCANTE DELLA FELICITÀ, IL MONDO RICONOSCENTE.»
«Sapete», disse Franz, «che mi viene voglia di giudicare da me
stesso quanto c’è di vero nei vostri sperticati elogi?»
«Giudicate: ma non siate soddisfatto di un primo esperimento. Come
in tutte le cose, bisogna abituare i sensi a una così nuova
impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda. Vi è
una lotta della natura contro questa portentosa sostanza, della
natura che non è fatta per la gioia e che ci avvince al dolore.
Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la
realtà succeda al sogno, e allora il sogno regna come padrone,
allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno. Ma qual
differenza in questa trasfigurazione! Paragonando i dolori
dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più
vivere, ma vorrete sempre sognare. Quando lascerete il vostro mondo
per passare al mondo degli altri, vi sembrerà di passare a una
primavera napoletana da un inverno della Lapponia. Vi sembrerà di
lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate
l’hashish, mio caro, gustatene!»
Per tutta risposta Franz prese un cucchiaio di quella pasta
meravigliosa, misurato sulla quantità che ne aveva preso il suo
anfitrione, e lo portò alla bocca.
«Diavolo!» disse, dopo avere inghiottito quella pasta divina. «Io
non so se il risultato sarà gradevole quanto dite, ma la sostanza
non mi sembra tanto succulenta quanto affermavate.»
«Perché le papille del palato non sono ancora abituate alla
sublimità della sostanza che gustano. Ditemi, la prima volta che
gustaste le ostriche, il tè e i tartufi, li assaporaste con tanto
piacere quanto ne aveste poi in seguito? Comprendereste il piacere
che provavano i romani nel condire i fagiani con l’assafetida, e i
cinesi, che mangiano i nidi delle rondinelle? Eh, mio Dio, no.
Ebbene, è lo stesso con l’hashish: mangiatene soltanto otto giorni
di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo vi sembrerà della
squisitezza di questo, che oggi vi sembra forse fetido e nauseante.
Ma ora passiamo nella camera accanto, e Alì ci servirà il caffè, e
ci darà le pipe.»
Tutti e due si alzarono, e mentre colui cui si è dato il nome di
Sinbad, e così chiamato per distinguerlo dal suo convitato, dava
alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua.
Questa era arredata più semplicemente sebbene non meno riccamente;
di forma rotonda, un gran divano le girava intorno. Ma il divano, i
muri, il soffitto, e il pavimento erano ricoperti di magnifiche
pelli lisce e morbide come il più morbido tappeto; erano pelli di
leoni dell’Atlante, dalle superbe criniere, pelli di tigri del
Bengala dalle calde righe, pelli di pantere del Capo, macchiate come
quella che apparve a Dante; infine pelli d’orsi della Siberia, e di
volpi della Norvegia, e tutte gettate in profusione le une sulle
altre, dimodoché si sarebbe creduto di camminare sui prati più
fioriti, e di riposare sui letti più soffici. Tutti e due si stesero
sopra i divani, una quantità di pipe con le canne di gelsomino e il
bocchino d’ambra erano a portata di mano, e già preparate affinché
non si avesse la noia di fumare due volte nella stessa: ne presero
una per ciascuno.
Alì le accese, e uscì per andare a prendere il caffè.
Vi fu un momento di silenzio, durante il quale Sinbad si lasciò
trasportare dai pensieri che sembrava l’occupassero senza posa anche
in mezzo alla conversazione, e Franz si abbandonò a quella muta
esaltazione, alla quale si cede quasi sempre fumando un eccellente
tabacco, che si direbbe porti via, col fumo, tutte le pene dello
spirito, e renda in cambio al fumatore tutti i sogni dell’anima.
Alì portò il caffè.
«Come lo prendete?» disse lo sconosciuto. «Alla francese o alla
turca, forte o leggero, con zucchero o senza, filtrato o bollito?
Scegliete; c’è in tutti i modi.»
«Lo prenderò alla turca», disse Franz.
«E avete ragione: ciò prova che avete predisposizione per la vita
orientale. Ah, gli orientali, sono i soli che sappiano vivere. In
quanto a me», aggiunse, con uno di quei sorrisi singolari che non
sfuggono, «quando avrò concluso i miei affari a Parigi, andrò a
morire in Oriente, e se vorrete ritrovarmi bisognerà che mi
cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan.»
«In fede mia», disse Franz, «questa sarà la cosa più facile del
mondo perché sembra che mi spuntino le ali d’aquila, e con queste
farei il giro del mondo in ventiquattr’ore.»
«Ah, ah, è l’hashish che agisce! Ebbene, aprite le ali, e volate
nelle regioni sovrumane; non temete, si veglia su di voi, e se, come
quelle d’Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui
per ricevervi.»
Disse qualche parola araba ad Alì, che fece un cenno affermativo, e
si mise in disparte ma senza allontanarsi.
In quanto a Franz, una strana trasformazione si operava in lui:
tutta la fatica fisica della giornata, tutte le preoccupazioni che
avevano fatto nascere gli avvenimenti della sera, sparivano come in
un momento di riposo in cui si è svegli abbastanza per sentire che
il sonno arriva. Sembrava che il corpo acquistasse una leggerezza
immateriale, lo spirito s’illuminasse in modo inaudito; i sensi
sembravano raddoppiare le loro facoltà.
L’orizzonte si allargava, ma non l’orizzonte cupo sul quale aleggia
un vago terrore, quale l’aveva osservato prima del sonno, ma un
orizzonte azzurro, trasparente, vasto con tutto ciò che il mare ha
di bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo:
quindi, in mezzo al canto dei suoi marinai, canto così limpido e
chiaro, che se ne sarebbe fatta un’armonia celeste se si fosse
potuto, vedeva comparire l’isola di Montecristo non più come uno
scoglio minaccioso tra i flutti, ma come un’oasi perduta nel
deserto; poi a seconda che la barca s’avvicinava, i canti divenivano
più numerosi, poiché un’armonia incantatrice e misteriosa saliva da
quest’isola al cielo, come se qualche fata come Lorelay, o qualche
mago come Anfione avesse voluto attirarvi qualche spirito, o
fabbricarvi una città.
Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, allo stesso modo
che le labbra toccano le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella
grotta senza che cessasse questa incantevole musica; scese, o meglio
gli sembrò scendere qualche scalino respirando un’aria fresca e
balsamica come quella che circondava l’isola di Circe, composta di
tanti profumi da far andare in estasi, di ardori tali da far
bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che aveva visto prima del
sogno, cominciando dall’ospite fantastico Sinbad fino ad Alì, il
muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e si
confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di lanterna
magica che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue,
illuminata soltanto da una di quelle lampade antiche che ardono nel
mezzo della notte sul sonno della voluttà.
Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli
occhi magnetici, con i capelli folti; erano Frine, Cleopatra,
Messalina, le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi in
mezzo a loro s’insinuava una di quelle ombre calme, una di quelle
visioni dolci che sembrano coprire di un velo gli occhi verginali.
Allora gli sembrò che quelle tre statue avessero riunito i loro
amori per un solo uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero
al letto sul quale egli faceva un secondo sogno, coi piedi coperti
dalle loro lunghe e bianche tuniche, coi capelli ondeggianti sulle
spalle, in una di quelle pose irresistibili, con uno di quegli
sguardi inflessibili e ardenti, pari a quello che vibra il serpente
all’uccello, e che lui si abbandonasse a quegli sguardi, dolorosi
come un laccio, voluttuosi come un bacio.
Sembrò a Franz di chiudere gli occhi e, lanciano un ultimo sguardo
intorno, intravedere la statua pudica che si velava interamente;
quindi, chiusi gli occhi alle cose reali, i suoi sensi si aprirono
alle impressioni più fantastiche.
Allora, per Franz che subiva la prima volta l’effetto dell’hashish,
fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della
Montagna ai suoi seguaci.
32. Il risveglio
Quando Franz ritornò in sé, gli oggetti che lo attorniavano gli
sembrarono una seconda parte del suo sogno. Si credette in un
sepolcro dove a stento penetrava appena un raggio di sole, simile a
uno sguardo di pietà. Stese la mano, e sentì del marmo, si mise a
sedere, e si trovò avvolto nel mantello sopra un letto di eriche,
molto soffici e odorose.
Ogni visione era scomparsa, e, come se le statue non fossero state
che ombre uscite dai sepolcri durante il suo sogno, erano sparite al
risveglio. Fece qualche passo verso il punto da dove veniva la luce,
e a tutta l’agitazione del sonno successe la calma della realtà.
Si trovò in una grotta, avanzò verso l’apertura e attraverso la
porta centinata scoprì un bel cielo turchino, e un mare azzurro.
L’aria e l’acqua risplendevano ai raggi del sole mattutino; i
marinai erano sulla riva, discorrendo e ridendo; a distanza di dieci
passi la barca ondeggiava sul mare trattenuta dall’ancora.
Gustò allora per un po’ la fresca brezza che gli accarezzava la
fronte, ascoltò il mormorio dell’onda che moriva sulla spiaggia,
lasciando sulle rocce merletti di schiuma bianca come l’argento; si
lasciò andare senza riflettere, senza pensare, a quell’incanto
celeste che hanno le cose della natura, specialmente quando si esce
da un sogno fantastico: poi un poco alla volta la vita esterna così
pacifica, così grande gli rimandò la inverosimiglianza del suo
sogno, e gli avvenimenti del giorno prima cominciarono a presentarsi
alla sua memoria.
Si ricordò dell’arrivo nell’isola, del modo con cui fu presentato al
capo dei contrabbandieri, del palazzo sotterraneo pieno di
splendore, dell’eccellente cena, e del cucchiaio di hashish. Solo,
ripensandoci in pieno giorno, gli sembrò almeno un anno che tali
cose fossero avvenute, tanto il sogno che aveva fatto si era
impresso nel suo pensiero, e aveva preso forza nel suo spirito.
In certi momenti la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai
marinai, o attraversare uno scoglio o dondolarsi sulla barca, una di
quelle ombre che l’avevano deliziato durante la notte con i suoi
baci. Peraltro aveva la testa del tutto libera, e il corpo
perfettamente riposato; nessuna pesantezza al cervello, ma al
contrario un certo benessere generale e una maggiore capacità di
godere dell’aria e del sole.
Si avvicinò dunque con ilarità ai marinai.
Non appena lo videro, si alzarono, e il padrone si avvicinò a lui.
«Il signor Sinbad», disse, «ci ha incaricato di porgervi i suoi
omaggi e ci ha detto di esprimervi il dispiacere per non aver potuto
salutarvi personalmente, ma spera che lo scuserete quando saprete
che un affare importantissimo lo ha chiamato a Malaga.»
«È dunque vero, mio caro Gaetano», disse Franz, «tutto ciò che mi è
accaduto? Esiste in realtà un uomo che mi ha offerto un’ospitalità
regale e che è partito durante il mio sonno?»
«È tanto vero, che potete vedere il suo piccolo yacht che si
allontana a vele gonfie, e se volete prendere il cannocchiale
potrete scorgere probabilmente il vostro ospite in mezzo al suo
equipaggio.»
Dicendo queste parole, Gaetano stese un braccio nella direzione di
un piccolo bastimento che faceva vela verso la punta meridionale
della Corsica.
Franz prese un cannocchiale e lo puntò verso il luogo indicato.
Gaetano non s’ingannava: sulla poppa del bastimento vedeva il
misterioso ospite, che ritto, e voltato dalla sua parte, teneva
anche lui il cannocchiale puntato verso di lui.
Indossava lo stesso abito con cui gli si era presentato la sera
prima e come s’accorse di essere guardato agitò il fazzoletto in
segno di addio. Franz gli rese il saluto, togliendosi a sua volta il
fazzoletto e agitandolo allo stesso modo.
Dopo un minuto, una nuvoletta di fumo apparve a poppa del
bastimento, se ne distaccò graziosamente e salì lentamente in alto,
quindi una debole esplosione giunse fino a Franz.
«Sentite, sentite!» disse Gaetano. «Eccolo là, vi dice addio…»
Il giovane prese la carabina, e la scaricò in aria, ma senza
speranza che il rumore potesse superare la distanza che separava lo
yacht dalla costa.
«Che cosa comanda Vostra Eccellenza?» disse Gaetano.
«Che procuriate di accendere subito una torcia.»
«Ah sì, capisco», disse Gaetano, «per cercare l’ingresso del palazzo
nascosto. Con molto piacere, Eccellenza, se la cosa vi diverte vi
darò subito la torcia che chiedete. Ma io pure ebbi la vostra idea,
e per tre o quattro volte ho stancato la mia curiosità, e ho finito
per rinunciarvi. Giovanni», aggiunse, «accendi una torcia.»
Giovanni obbedì, Franz prese la torcia, ed entrò nel sotterraneo
seguito da Gaetano.
Egli riconobbe il posto dove si era svegliato dal letto di eriche
ancora tutto sottosopra, ma non gli valse girare la torcia su tutta
la superficie della grotta; non vide nulla, eccetto qualche traccia
di fumo che testimoniava che altri avevano tentato inutilmente la
stessa ricerca. Tuttavia non lasciò un centimetro di quel muro di
granito, impenetrabile come l’avvenire, senza esaminarlo; non vide
una fessura senza che v’introducesse la lama del coltello da caccia;
non osservò alcuna sporgenza senza attaccarvisi nella speranza che
cedesse; ma tutto fu inutile, e senza alcun risultato perse due ore
in questa ricerca. Infine rinunciò a ogni ulteriore indagine.
Gaetano era trionfante.
Quando Franz ritornò sulla spiaggia, lo yacht non era che un punto
bianco all’orizzonte; ricorse al cannocchiale, ma anche con quello
strumento non distinse nulla.
Gaetano gli ricordò che era venuto per cacciare le capre, cosa che
sembrava aver dimenticato: prese il fucile, si mise a percorrere
l’isola come l’aria di chi compie un dovere invece di prendersi
diletto, e in capo a un quarto d’ora aveva già ucciso una capra e
due capretti. Ma queste capre, sebbene selvatiche e svelte come i
camosci, assomigliavano troppo alle nostre capre domestiche, per cui
Franz non le considerò selvaggina.
Poi idee molto più importanti occupavano la sua mente. Fin dalla
notte precedente si riteneva il vero protagonista di un racconto
favoloso delle Mille e una notte, e si sentiva attratto verso la
grotta da una forza invincibile.
Malgrado l’inutilità della sua prima perquisizione, ne cominciò una
seconda, dopo aver detto a Gaetano di fare arrostire uno dei
capretti.
Questa seconda indagine durò molto tempo, poiché quando ritornò il
capretto era arrostito e la colazione pronta.
Franz si sedette nel luogo in cui la sera prima aveva ricevuto
l’invito a cena dal suo ospite misterioso, e rivide ancora un punto
bianco, il piccolo yacht che continuava ad avanzare verso la
Corsica.
«Ma», disse a Gaetano, «non mi avevate detto che Sinbad faceva vela
per Malaga? Mi sembra invece che vada direttamente verso Porto
Vecchio.»
«Non vi ricordate più», rispose il marinaio, «che fra la gente che
componeva il suo equipaggio si trovavano due banditi corsi?»
«È vero! Andrà a lasciarli sulla costa.»
«Precisamente. Ah, è un individuo», gridò Gaetano, «che non teme
cosa alcuna, a quanto si dice, e che per dare aiuto a un pover’uomo
devierebbe il suo viaggio di duecentocinquanta chilometri.»
«Ma questo genere di aiuto potrebbe metterlo nei pasticci con le
autorità del paese dove esercita tal genere di filantropia…» disse
Franz.
«Ebbene», aggiunse Gaetano ridendo, «che cosa importa a lui delle
autorità? Egli se la ride! Non hanno che da tentare di
perseguitarlo. Intanto il suo yacht non è una nave, ma un uccello, e
darebbe tre nodi su dodici a una fregata, e poi non ha che da
scendere a terra egli stesso, e in ogni luogo troverebbe amici.»
Era chiaro in questa faccenda che Sinbad, l’ospite di Franz, aveva
l’onore di essere in relazione con i contrabbandieri e i banditi di
tutte le coste del Mediterraneo. Il che, però, rendeva ancora più
strana la sua posizione.
Franz non aveva più nulla che lo trattenesse a Montecristo; aveva
perso ogni speranza di scoprire il segreto della grotta. Si affrettò
dunque a far colazione, ordinando ai suoi uomini di tener pronta la
barca per quando avesse finito. Mezz’ora dopo era a bordo. Gettò un
ultimo sguardo allo yacht che stava per sparire nel golfo di Porto
Vecchio.
Dette il segnale della partenza.
Nel momento stesso in cui la barca si metteva in movimento, lo yacht
spariva, e con esso si cancellava l’ultima realtà della notte
precedente: la cena, Sinbad, l’hashish e le statue, tutto cominciava
per Franz a confondersi nel medesimo sogno.
La barca navigò tutto il giorno e tutta la notte: e l’indomani, allo
spuntar del sole, l’isola di Montecristo era a sua volta sparita.
Messo piede a terra, Franz dimenticò, momentaneamente almeno, gli
avvenimenti passati, per non occuparsi più che dei suoi affari di
piacere a Firenze, e di raggiungere l’amico che lo aspettava a Roma:
partì dunque col corriere e il sabato sera si ritrovò in piazza
della Dogana.
L’appartamento, come si disse, era già stato fissato da tempo; non
restava dunque che recarsi all’albergo di Pastrini. Cosa non molto
facile, mentre la folla ingombrava le strade, e Roma era già in
preda a quel rumore sordo e febbrile che precede i grandi
avvenimenti.
A Roma non vi sono che quattro grandi avvenimenti in un anno: il
carnevale, la settimana santa, il Corpus Domini, e la festa di San
Pietro. Il resto dell’anno la città ricade nella solita apatia,
stato intermedio fra la vita e la morte, che la rende simile a una
specie di stazione fra questo mondo e l’altro; stazione sublime,
piena di poesia e di carattere, che Franz aveva già visitato cinque
o sei volte, e aveva ritrovato ogni volta sempre più meravigliosa e
fantastica.
Finalmente attraversò quella folla, che sempre più s’ingrossava, e
giunse all’albergo.
Alla prima domanda, gli fu risposto, con quell’impertinenza propria
dei vetturini delle carrozze e degli albergatori delle grandi
locande, che non vi era posto per lui all’albergo Londra. Allora
inviò il suo biglietto da visita a Pastrini, e si fece annunciare ad
Albert di Morcerf. La cosa riuscì, e Pastrini accorse in persona
scusandosi di aver fatto aspettare Sua Eccellenza, rimproverando i
camerieri, prendendo il lume dalla mano del cicerone che si era già
impadronito del viaggiatore. Si accingeva a condurlo da Albert,
quando questi gli venne incontro.
L’appartamento fissato si componeva di due piccole stanze e di un
soggiorno. Le due camere davano sulla strada, particolarità che
Pastrini fece valere come un merito inapprezzabile. Il resto del
piano era affittato a un ricco personaggio, creduto maltese o
siciliano; l’albergatore non poté dirlo precisamente.
«Va benissimo, signor Pastrini», disse Franz, «ma ci vorrebbe subito
una cena per questa sera, e una carrozza per domani e per i giorni
successivi.»
«In quanto alla cena sarete subito servito, ma in quanto alla
carrozza…»
«Come, in quanto alla carrozza!» esclamò Albert. «Un momento, un
momento… non scherziamo, Pastrini, ci occorre una carrozza.»
«Eccellenza», disse l’albergatore, «si farà tutto quello che si
potrà per averne una, ecco ciò che posso dirvi.»
«E quando avremo la risposta?» domandò Franz.
«Domani mattina», rispose l’albergatore.
«Che diavolo!» disse Albert, «la si pagherà più cara, ecco tutto… Il
conto è presto fatto: da Drake e da Aaron si pagano venticinque
franchi nei giorni ordinari e trenta o trentacinque franchi alla
domenica e nei giorni festivi; aggiungete cinque franchi al giorno
di senseria che farà quaranta, e non ne parliamo più.»
«Ho paura, signori, che anche offrendo il doppio, non riuscirete a
trovarla.»
«Allora si facciano attaccare i cavalli alla mia. È un po’ malandata
per il viaggio, ma non importa.»
«Non si troveranno cavalli.»
Albert guardò Franz come un uomo che riceve una risposta
incomprensibile.
«Capite, Franz? Non si troveranno cavalli! Ma si potranno avere
cavalli da posta?»
«Sono tutti noleggiati da quindici giorni, e non restano che quelli
indispensabili al servizio.»
«Che ne dite?» domandò Franz.
«Dico che quando una cosa è al di sopra della mia intelligenza, ho
l’abitudine di non fermarmici, e di passare avanti. La cena è
pronta?»
«Sì, Eccellenza.»
«Ebbene, per ora ceniamo.»
«Ma la carrozza e i cavalli?» domandò Franz.
«State tranquillo, amico caro, verranno da sé; non si tratterà che
di fissare il prezzo.»
Morcerf, con quell’ammirabile filosofia dell’uomo, che nulla crede
impossibile fino a che la borsa è piena e il portafoglio guarnito,
cenò, andò a letto, e sognò di essere al corso mascherato in una
carrozza a sei cavalli.
33. I briganti romani
Il giorno seguente Franz si svegliò per primo e, appena riprese
coscienza, suonò.
Il tintinnio del campanello risuonava ancora, che Pastrini in
persona entrò.
«Ecco», disse l’albergatore con aria trionfante, e senza attendere
che Franz lo interrogasse, «facevo bene ieri sera a non promettere
niente; avete aspettato troppo, e adesso non c’è neppure una
carrozza a nolo a Roma: per gli ultimi tre giorni, s’intende.»
«Sì», rispose Franz, «cioè per quelli in cui è assolutamente
necessaria!»
«Che cosa c’è?» domandò Albert entrando. «Non si trovano carrozze?»
«Precisamente, mio caro amico», rispose Franz. «Avete indovinato al
primo colpo.»
«Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!»
«Cioè, Eccellenza», riprese Pastrini, che ci teneva a veder
rispettata dai clienti la capitale del mondo cristiano, «non vi sono
più carrozze da domenica mattina a martedì sera; ma da oggi a
domenica ne troverete cinquanta, se lo volete.»
«Non è poco», disse Albert. «Oggi è giovedì; chissà di qui a
domenica quello che può accadere.»
«Accadrà l’arrivo di dieci o dodicimila forestieri», rispose
Franz,«i quali renderanno la difficoltà sempre più grande.»
«Amico mio», disse Morcerf, «godiamo del presente, non ci prendiamo
cura dell’avvenire.»
«Almeno», domandò Franz, «potremo avere una finestra?»
«Su che strada?»
«Sul Corso, perbacco!»
«Ah sì, una finestra», esclamò Pastrini. «Impossibilissimo! Ne
restava una al quinto piano del palazzo Doria, ed è stata affittata
a un principe russo per venti zecchini al giorno.»
I due giovani si guardarono stupefatti.
«Ebbene, mio caro», disse Franz ad Albert. «Sapete che cosa dovremmo
fare? Andare a passare il carnevale a Venezia; almeno là, se non
troviamo carrozze, troveremo gondole!»
«Ah, in fede mia, no», gridò Albert, «ho deciso di vedere il
carnevale di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra a dei trampoli!»
«Bravo!» esclamò Franz. «È un’idea magnifica, soprattutto per
spegnere i moccoli; ci maschereremo da Pulcinella e avremo un
successo strepitoso.»
«Le Loro Eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a domenica?»
«Perbacco», disse Albert, «credete che siamo persone da correre per
le strade di Roma a piedi come scrivani o uscieri?»
«Vado a eseguire gli ordini delle Loro Eccellenze», disse Pastrini,
«le avverto soltanto che la carrozza costerà sei piastre al giorno.»
«E io, caro Pastrini», disse Franz, «che non sono il milionario
nostro vicino, vi avverto che essendo la quarta volta che vengo a
Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i giorni feriali, per le
domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre per oggi, domani e
dopodomani, e ci troverete ancora il vostro tornaconto.»
«Ma Eccellenza…» disse Pastrini, tentando di ribellarsi.
«Andate, andate mio caro», disse Franz, «o vado io stesso a fare il
prezzo dal padrone delle scuderie, che conosco bene; è un vecchio
amico, mi ha già rubato non poco denaro, e, nella speranza di
rubarmene dell’altro, accetterà anche per un prezzo minore di quello
che vi offro; perdereste così la differenza e la colpa sarebbe
vostra.»
«Non vi prendete questo incomodo, Eccellenza», disse Pastrini col
sorriso dello speculatore italiano che si confessa per vinto, «farò
il meglio che potrò, e sarete contento.»
«Ecco ciò che si chiama ragionare!»
«Quando volete la carrozza?»
«Fra un’ora.»
«Fra un’ora sarà alla porta.»
Un’ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani; era
un modesto calesse, che per la solennità della festa era salito al
grado di carrozza. Ma sebbene di mediocre apparenza, i due giovani
sarebbero stati ben contenti di avere un tale veicolo per gli ultimi
tre giorni del carnevale.
«Eccellenza», gridò il cicerone, vedendo Franz affacciarsi alla
finestra, «vuole che faccia avvicinare la carrozza al palazzo?»
Per quanto Franz fosse abituato all’enfasi italiana, il suo primo
movimento fu di guardarsi intorno, ma era proprio a lui che venivano
rivolte quelle parole.
Franz era l’Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era
l’albergo Londra.
Tutto il genio adulatorio della nazione era in quella sola frase.
Franz e Albert scesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le Loro
Eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il cicerone
saltò sul sedile di dietro.
«Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?»
«Prima a San Pietro e poi al Colosseo», disse Albert da vero
parigino.
Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San
Pietro, e un mese per studiarlo.
La giornata fu tutta impiegata nel vedere San Pietro. D’improvviso i
due amici si accorsero che era quasi sera. Franz guardò l’orologio:
erano le quattro e mezzo. Ritornarono all’albergo. Giunti
all’ingresso, Franz dette ordine al cocchiere di tenersi pronto per
le otto; voleva far vedere ad Albert il Colosseo al chiaro di luna,
come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno giorno. Quando si fa
vedere a un amico una città, che si è già vista, ci si mette quella
civetteria che si usa quando si indica una donna della quale si è
stati l’amante. Di conseguenza Franz indicò al cocchiere il proprio
itinerario: doveva uscire da porta del Popolo, girare intorno alle
mura esterne della città, e rientrare da porta San Giovanni. In tal
modo il Colosseo sarebbe apparso loro all’improvviso, e senza che il
Campidoglio, il Foro, l’arco di Settimio Severo, il tempio di
Antonino e Faustina e la Via Sacra anticipassero gli effetti di
quelle maestose rovine.
Si fermarono per la cena.
Pastrini aveva promesso ai suoi ospiti un eccellente desinare,
gliene dette uno discreto, non c’era nulla da dire.
Alla fine della cena, entrò egli stesso. Franz sulle prime credette
che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apprestava a
farglieli quando, alle prime parole, egli lo interruppe.
«Eccellenza», disse, «sono lusingato della vostra approvazione, ma
non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi.»
«È forse per venirci a dire che avete trovato una carrozza?» domandò
Albert, accendendo un sigaro.
«Nemmeno per questo, e anzi, Vostra Eccellenza farà bene a non
pensarci più. A Roma le cose o si possono o non si possono fare.
Quando vi si è detto che non si possono fare, tutto è finito.»
«A Parigi, è molto meglio; quando una cosa non si può avere, la si
paga il doppio, e si ha all’istante ciò che si domanda.»
«Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi», disse
Pastrini, un po’ contrariato, «e non so comprendere come con tante
meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino.»
«Ma vedete», disse Albert, mandando flemmaticamente alcune boccate
di fumo verso il soffitto e rovesciando il capo indietro sulla
sedia, «non vi sono che i pazzi, e gli oziosi come noi, che
viaggino, la gente di buon senso non lascia la casa di rue Helder,
il bastione di Gand, e il Café de Paris.»
Non è necessario dire che abitava nella via suddetta, che tutti i
giorni faceva la sua passeggiata elegantemente vestito sul bastione
di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Café de Paris.
Pastrini rimase un momento silenzioso, era evidente che meditava
sulla risposta che gli aveva dato Albert, risposta che senza dubbio
non gli pareva molto convincente.
«Ma infine», disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni
geografiche dell’albergatore, «eravate venuto con qualche scopo:
volete esporci il motivo della vostra visita?»
«Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto?»
«Precisamente.»
«Avete intenzione di visitare il Coliseo!»
«Cioè il Colosseo?»
«È la stessa cosa.»
«D’accordo.»
«Avete detto al vostro cocchiere di uscire da porta del Popolo, e
fare il giro delle mura per rientrare da porta di San Giovanni?»
«Queste sono le mie precise parole.»
«Ebbene, questo itinerario è impossibile, o almeno molto
pericoloso.»
«Pericoloso!? Perché?»
«A causa del famoso Luigi Vampa.»
«Per prima cosa, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi
Vampa?» domandò Albert. «Può essere famosissimo a Roma, ma vi
assicuro che è del tutto sconosciuto a Parigi.»
«Come, non lo conoscete?»
«Non ho quest’onore.»
«Ebbene, è un bandito, vicino al quale De Cesaris e Gasparone non
sono che dei chierichetti.»
«Attenzione, Albert!» esclamò Franz. «Ecco finalmente un brigante!»
«Vi avverto, mio caro Pastrini, che non crederò una parola di tutto
ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete, vi ascolto.
“C’era una volta…” Avanti dunque.»
Pastrini si voltò dalla parte di Franz sembrandogli il più
ragionevole dei due giovani.
Bisogna rendere giustizia al brav’uomo: aveva alloggiato molti
francesi, ma non aveva mai ben compreso certi lati del loro
carattere.
«Eccellenza», disse con gravità, rivolgendosi a Franz, «se mi
credete un cantastorie è inutile che vi dica ciò che volevo; posso
però assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le Loro
Eccellenze.»
«Albert non vi ha detto che siete un cantastorie, mio caro Pastrini,
vi ha detto soltanto che non vi crederà, ma io vi crederò, state
tranquillo: parlate dunque.»
«Però convenite, Eccellenza, che se si mette in dubbio la sincerità
delle mie parole…»
«Mio caro, voi siete più permaloso di Cassandra, che pure era una
profetessa, e alla quale nessuno credeva; mentre voi siete sicuro di
essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio. Sedetevi, e
diteci chi è questo signor Vampa.»
«Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo
mai avuto l’eguale dall’epoca di Mastrilli.»
«Ebbene, che rapporto ha questo bandito con l’ordine che ho dato al
cocchiere di partire da porta del Popolo e di rientrare per porta
San Giovanni?»
«C’è», rispose Pastrini, «che potreste uscire dall’una ma dubiterei
che potreste entrare dall’altra.»
«E perché?» domandò Franz.
«Perché quando è notte, non c’è sicurezza in quelle strade.»
«Davvero?» esclamò Albert.
Pastrini, sempre punto nel fondo dell’anima per i dubbi sulla sua
sincerità, rispose: «Signor conte, ciò che dico non è per voi, ma
per il vostro compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo
che su queste cose non si scherza».
«Mio caro», disse Albert rivolgendosi a Franz, «ecco un’ammirabile
avventura: riempiamo il nostro calesse di pistole, tromboni, e
fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece
arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al Senato
romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci la sua
riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una carrozza e
due cavalli delle sue scuderie: e negli ultimi giorni, godiamo del
carnevale in carrozza, senza calcolare che il popolo romano
riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e proclamarci,
come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della patria.»
«In primo luogo», domandò Franz ad Albert, «dove prendere queste
pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali
volete riempire la vostra carrozza?»
«Certamente non potrei prenderli nel mio arsenale», diss’egli,
«perché a Terracina mi è stato tolto perfino il pugnale. E voi?»
«Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente.»
«Così, mio caro Pastrini», disse Albert accendendo un secondo sigaro
con il mozzicone del primo, «sapete che questa è una fortuna
stramaledetta per quei banditi?»
«Sua Eccellenza sa che non c’è l’uso di difendersi quando si viene
aggrediti dai banditi», rispose Pastrini, che non voleva mettersi a
fare osservazioni sulle leggi d’oltralpe.
«Come?» gridò Albert, il cui coraggio si rivoltava all’idea di
lasciarsi svaligiare senza dir niente. «Come non c’è l’uso?»
«No, perché qualunque difesa sarebbe inutile. Che volete fare contro
una dozzina di briganti che escono da un fosso, da un antro o da un
acquedotto, e vi puntano le armi alla gola?»
«Ah, perbacco! Voglio farmi ammazzare!» esclamò Albert.
L’albergatore si voltò verso Franz con una espressione che voleva
dire: «Davvero, Eccellenza, il vostro amico è pazzo».
«Mio caro Albert», disse Franz, «la vostra risposta è sublime, e
merita il “dovea morir!” del vecchio Cornelio; soltanto che, quando
Orazio rispondeva questo, si trattava della salvezza di Roma, e la
cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non si
tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo rischiare la
propria vita per soddisfare un tal capriccio.»
«Ah, perbacco!» esclamò Pastrini. «Questo si chiama parlare!»
Albert si versò un bicchiere di lacrima christi, che sorseggiò
borbottando parole confuse che nessuno poté intendere.
«Ebbene, Pastrini», continuò Franz, «ora che il mio amico si è
calmato, e voi avete potuto apprezzare le mie intenzioni pacifiche,
sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? È giovane o vecchio? È
contadino o patrizio? descrivetecelo affinché se lo avessimo per
caso da incontrare, come Jean Sbogar, o Lara, lo possiamo
riconoscere.»
«Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti
particolari, poiché ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un
giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad
Alatri, si ricordò, fortunatamente per me, della nostra antica
conoscenza, e non solo mi lasciò andare senza esigere riscatto, ma
volle farmi il regalo di un bell’orologio, e raccontarmi tutta la
sua storia.»
«Vediamo l’orologio», disse Albert.
Pastrini cavò dal taschino un magnifico Breguet, recante il nome
dell’autore, il timbro di Parigi e una corona da conte.
«Eccolo qui», diss’egli.
«Caspita!» fece Albert. «Vi faccio i miei complimenti. Io ne ho uno
pressappoco come questo, che costa tremila franchi. Eccolo…» e prese
l’orologio dal taschino del panciotto.
«Sentiamo ora la storia», disse Franz, prendendo una sedia, e
facendo segno a Pastrini di sedersi.
«Le Loro Eccellenze mi permettono?» disse l’albergatore.
«Perbacco», disse Albert, «non siete un predicatore, mio caro, per
parlare sempre in piedi.»
L’albergatore si sedette, dopo aver fatto un rispettoso saluto a
ciascuno dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a
dar loro quei particolari ch’essi avessero domandato.
«A noi!» disse Franz fermando Pastrini nel momento che stava per
aprire bocca. «Dicevate d’aver conosciuto Luigi Vampa quando era
ragazzo; è dunque ancora molto giovane?»
«Lo credo bene! Ha appena ventidue anni! È un giovanotto che ne farà
di strada, state sicuri.»
«Che ne dite, Albert? È una bella cosa a ventidue anni essersi già
fatta una reputazione», disse Franz.
«Sì certamente, e alla sua età, Alessandro, Cesare e Napoleone non
erano famosi quanto lui, e sì che poi hanno fatto parlare di loro
nel mondo.»
«E così», riprese Franz, rivolgendosi all’albergatore, «l’eroe di
cui ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?»
«Appena compiuti, come ebbi l’onore di dirvi.»
«È alto o piccolo?»
«Di media statura, pressappoco come voi, signore», disse
l’albergatore, indicando Albert.
«Grazie del paragone», disse quegli, inchinandosi.
«Continuate, Pastrini», riprese Franz sorridendo della
suscettibilità del suo amico. «E a quale classe sociale
apparteneva?»
«Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte di San
Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri. Nacque a Pampinara
e all’età di cinque anni entrò al servizio del conte. Suo padre,
pastore ad Agnani, possedeva un piccolo gregge e viveva della lana
dei montoni e del latte delle pecore che andava a vendere a Roma.
Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un’indole strana. Un giorno
all’età di sette anni, andò a trovare il curato di Palestrina, e lo
pregò d’insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perché
il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato
andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo
povero per poter mantenere un prete, e che, non avendo neppure un
nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di
trovarsi sulla strada che percorreva nell’ora del ritorno, e di
fargli così lezione, avvertendolo che sarebbe stata breve, e che di
conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto per trarne profitto. Il
fanciullo accettò con gioia.
«Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada
da Palestrina a Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il
prete e il fanciullo si sedevano sul margine di un fosso e il
giovane pastorello faceva lezione sul breviario del curato. Ma non
era tutto, bisognava ora imparare a scrivere. Il curato fece fare a
Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno
grande, uno medio e l’altro piccolo, e gli mostrò che copiando
quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, con l’aiuto di una
punta di ferro, poteva imparare a scrivere. La sera stessa, quando
ebbe ricondotto il gregge nell’ovile, il piccolo Vampa corse dal
fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo e lo arroventò,
lo martellò, lo arrotondò, e ne formò una specie di stiletto antico:
l’indomani si procurò altri pezzi di lavagna, e si mise all’opera.
Dopo altri tre mesi sapeva scrivere.
«Il curato, meravigliato di quella profonda intelligenza, e ammirato
da tanta buona volontà, gli regalò parecchi quaderni, alcune penne e
un temperino. Era un nuovo esercizio da fare, ma ciò era niente in
confronto al già fatto. Otto giorni dopo maneggiava la penna con la
stessa facilità con la quale usava lo stiletto. Il curato raccontò
quest’aneddoto al conte di San Felice, che volle vedere il
pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sé, ordinò al suo
intendente di farlo mangiare con i domestici, assegnandogli due
scudi al mese. Con questo denaro Luigi comprò dei libri e delle
matite. Difatti esercitava su tutti gli oggetti la sua attitudine al
disegno, e, come Giotto fanciullo, ritraeva sulle lavagne le pecore,
gli alberi, le case. Poi con la punta del temperino cominciò a
tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva.
Anche Pinelli, il popolare artista, aveva cominciato così.
«Una ragazzina di sei-sette anni, cioè poco più giovane di Vampa,
custodiva ella pure delle pecore in una vicina tenuta, presso
Palestrina: era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I
due fanciulli s’incontravano, sedevano l’uno accanto all’altro,
lasciavano le loro greggi mischiarsi e pascolare insieme,
chiacchieravano, ridevano, giocavano; poi la sera separavano il
gregge del conte di San Felice da quello del barone di Cervetri e si
lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l’indomani. L’indomani
infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano uno accanto
all’altra. Vampa compì dodici anni e Teresa undici. I loro istinti
naturali si svilupparono. A parte l’amore per le arti, che Luigi
aveva spinto tant’oltre quanto è permesso nella solitudine, egli era
a tratti triste, ardente, collerico per capriccio, burbero sempre.
Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone era
riuscito, non solo ad avere alcuna influenza su di lui, ma neppure
divenire suo amico. Il suo temperamento risoluto e l’essere sempre
disposto a esigere, senza mai lasciarsi piegare ad alcuna
concessione, allontanava da lui ogni sentimento di amicizia e ogni
dimostrazione di simpatia. Solo Teresa comandava con una parola, con
un gesto, con uno sguardo quel carattere tutto d’un pezzo, che si
piegava sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo
si sarebbe irritato all’eccesso.
«Teresa, al contrario, era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente
civettuola. I due scudi che Luigi riceveva dall’intendente del conte
di San Felice e il ricavato di tutti i lavori d’intaglio che vendeva
ai negozianti di giocattoli di Roma, si tramutavano in orecchini di
perle, in collane di vetro, in spille d’oro. Grazie alla prodigalità
del giovane amico, Teresa era la più bella e la più elegante di
tutte le contadine dei dintorni di Roma.
«I due giovani continuavano a crescere, passando la giornata
insieme, e si abbandonavano senza ritegno a tutti gli istinti della
loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro
castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello o
governatore di una provincia; Teresa si vedeva ricca, vestita delle
più belle stoffe, seguita da servitori in livrea. Quando avevano
passato un’intera giornata ad abbellire il loro avvenire di questi
folli e brillanti sogni, si separavano per ricondurre ciascuno il
proprio gregge all’ovile, ricadendo dall’altezza dei sogni alla
umiliante realtà della loro condizione. Il giovane pastore disse un
giorno all’intendente del conte, che aveva visto un lupo uscire
dalle montagne della Sabina e gironzolare attorno al gregge.
L’intendente gli diede un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Quel
fucile aveva un’eccellente canna di Brescia che sparava come una
carabina inglese; un giorno il conte, nell’ammazzare una volpe
ferita, ne aveva rotto il calcio, ragion per cui il fucile era stato
messo fra gli scarti. Non c’era difficoltà ad aggiustarlo per un
intagliatore come Vampa. Esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che
bisognava cambiare per metterlo a posto, e fece un altro calcio,
pieno di ornamenti così meravigliosi, che certamente avrebbe potuto
guadagnarci una ventina di scudi, se fosse andato a venderlo in
città. Ma non lo vendette: un fucile era stato da tempo il sogno del
giovane.
«In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni
giovane vigoroso, è quello di un’arma, che assicuri nello stesso
tempo l’assalto e la difesa, e che rendendo pericoloso chi la porta,
spesso lo fa temuto. Da quel giorno Vampa impiegò nell’esercizio del
fucile tutti i momenti che gli rimanevano liberi: comprò polvere e
pallottole, e tutto gli serviva da bersaglio: il tronco di un ulivo,
triste, sottile e cenerino, che vegeta sul pendio delle montagne
della Sabina; la volpe, che la sera usciva dalla tana per cominciare
la caccia notturna; l’aquila, che si leva in aria. Ben presto
diventò così bravo, che Teresa, superato quel primo timore causato
dalla detonazione, si divertiva nel vedere il giovane amico colpire
il punto indicato, così precisamente come avesse accompagnato il
tiro con la mano.
«Una sera, un lupo uscì effettivamente da un bosco, vicino al quale
i due giovani avevano l’abitudine di stare; il lupo non aveva fatto
dieci passi sulla radura che già era morto. Vampa, fiero di questo
bel colpo, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti
questi episodi davano a Luigi una certa reputazione nei dintorni
della fattoria: l’uomo superiore, in qualunque luogo si trovi, si
forma un seguito d’ammiratori. Nei luoghi vicini si parlava di
questo giovane pastore come del più destro, del più forte, e del più
bravo contadino che ci fosse a dieci leghe di distanza, e sebbene
Teresa, in una cerchia più estesa ancora, passasse per la più bella
delle ragazze della Sabina, nessuno si arrischiava a dirle una
parola d’amore, perché la si sapeva amata da Vampa. E frattanto i
due giovani non si erano mai detti che si amavano. Erano cresciuti
l’uno accanto all’altro, come due alberi che uniscono le radici nel
suolo e intrecciano i rami nell’aria, il profumo nel cielo;
soltanto, il desiderio di vedersi era lo stesso in entrambi: il
desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile
comprendere la morte che una separazione, anche di un sol giorno.
Teresa aveva allora sedici anni e Vampa diciassette.
«In quel tempo si cominciava a parlare molto di una banda di
briganti che si rintanava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per
quanto efficaci furono le misure prese, non è mai stato
completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca
un capo, ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di
una banda. Il celebre Cucumetto, perseguitato negli Abruzzi,
cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva
attraversato il Garigliano come Manfredi, ed era giunto, fra Sonnino
e Giuperno, a rifugiarsi lungo le rive dell’Amasina. Egli stava per
organizzare una banda che avrebbe seguito le orme di Gasparone e di
De Cesaris, che sperava ben presto di superare.
«Molti giovani di Palestrina, di Frascati e di Pampinara scomparvero
da casa. Sulle prime, si stette in pena per loro, ma in breve si
seppe ch’erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a
poco tempo Cucumetto diventò l’oggetto dell’attenzione generale.
Venivano ovunque citate imprese di questo capo, bandito di estrema
audacia e di rivoltante brutalità.
«Un giorno rapì una ragazza, la figlia d’un agrimensore di
Frosinone. Le leggi dei banditi sono positive: una giovane
appartiene a colui che l’ha rapita; poi la cede agli altri che la
tirano a sorte fra loro, e l’infelice serve ai piaceri di tutta la
banda fino a che i banditi non l’abbandonano o muore. Quando i
parenti sono ricchi abbastanza per riscattarla, si invia loro un
messaggero che tratta la taglia da sborsare: la testa della
prigioniera risponde della sicurezza dell’emissario. Se la taglia è
rifiutata, la prigioniera è irrevocabilmente condannata.
«La giovane aveva nella banda di Cucumetto il suo amante che si
chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia, e si
credette salva. Ma il povero Carlini, vedendola, sentì spezzarglisi
il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste sorte che
l’attendeva. Tuttavia, essendo il favorito di Cucumetto, e
affrontando da tre anni con lui gli stessi pericoli, e avendogli
salvato una volta la vita uccidendo con un colpo di pistola un
gendarme che aveva già levato la sciabola sul suo capo, sperò che
costui avrebbe avuto un po’ di pietà. Lo chiamò da parte, mentre la
giovane, appoggiata contro il tronco di un pino in una radura della
foresta tutta nuda e ricoperta soltanto della pittoresca
capigliatura delle contadine romane, nascondeva il viso ai
lussuriosi sguardi dei banditi. Carlini raccontò tutto al suo capo,
i suoi amori con la prigioniera, i loro giuramenti di fedeltà, e
come ogni notte, quando la banda era in quei pareggi, si dessero
appuntamento in un luogo appartato. Proprio quella sera, Cucumetto
aveva inviato Carlini in un villaggio vicino, e così non aveva
potuto trovarsi all’appuntamento; ma Cucumetto vi era giunto per
caso e aveva così rapito la ragazza. Carlini supplicò il suo capo di
fare un’eccezione e rispettare Rita, dicendogli che il padre era
ricco, e avrebbe sborsato qualunque somma per riscattarla.
«Cucumetto parve arrendersi alle preghiere dell’amico, e lo incaricò
di trovare un contadino da poter mandare dal padre di Rita a
Frosinone. Carlini allora si avvicinò alla ragazza, le disse
all’orecchio che era salva, e la invitò a scrivere a suo padre una
lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che la somma del
riscatto era fissata in trecento piastre. Al padre non si
concedevano che dodici ore, vale a dire fino alle nove del mattino
del giorno seguente.
«Scritta la lettera, Carlini corse in pianura per cercarvi un
messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I
messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la
città e la montagna, tra la vita selvaggia e la vita incivilita. Il
giovane pastore partì subito, promettendo di essere in meno di
un’ora a Frosinone.
«Carlini tornò, felice e contento, a raggiungere la sua amante e
annunciarle la buona novella. La banda era al medesimo posto e
cenava allegramente con le provviste che i briganti prendevano ai
contadini come tributo: fra quegli allegri convitati Carlini cercò
inutilmente Cucumetto e Rita. Domandò dove fossero; i banditi
risposero con uno scoppio di risa. Un freddo sudore gli imperlò la
fronte, e parve che l’angoscia lo prendesse per i capelli. Ripeté la
domanda. Uno dei convitati riempì un bicchiere di vino di Orvieto e
glielo tese dicendo: “Alla salute del bravo Cucumetto e della bella
Rita!”
«In quel momento Carlini credette di udire un grido di donna:
indovinò tutto. Prese il bicchiere e lo spezzò sulla faccia di colui
che glielo aveva offerto, poi si lanciò nella direzione del grido. A
cento passi, dietro un cespuglio, trovò Rita svenuta fra le braccia
di Cucumetto. Scorgendo Carlini, Cucumetto si alzò tenendo in ognuna
delle mani una pistola. I due banditi si guardarono un istante:
l’uno, il sorriso della lussuria sulle labbra; l’altro, il pallore
della morte sul viso. Si sarebbe creduto che tra quei due uomini
stesse per succedere qualche cosa di terribile. Ma a poco a poco i
lineamenti di Carlini cominciarono a distendersi: la mano, che aveva
portato a una delle pistole che pendevano dalla cintura, ricadde
lungo il fianco. Rita era coricata fra loro due. La luna rischiarava
la scena.
«“Ebbene?” gli disse Cucumetto. “Hai fatto la commissione di cui eri
incaricato?”
«“Sì, capitano”, rispose Carlini, “domani, prima delle nove, il
padre di Rita sarà qui col denaro.”
«“A meraviglia! Intanto, nell’attesa, noi vogliamo passare una notte
allegra. Questa giovane è magnifica, e tu hai davvero buon gusto,
caro Carlini. Così, siccome non sono egoista, torniamo dai nostri
compagni per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere.”
«“Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?” chiese Carlini.
«“E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?”
«“Avevo creduto che alla mia preghiera…”
«“Ma che cosa sei più degli altri, tu?”
«“È giusto.”
«“Ma sta’ tranquillo”, rispose Cucumetto ridendo, «prima o dopo,
verrà anche il tuo turno…»
I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi.
«“Andiamo”, disse Cucumetto, facendo un passo verso i convitati. “Tu
non vieni?”
«“Vi seguo…”
«Cucumetto si allontanò, senza perdere di vista Carlini, perché
temeva che volesse colpirlo alle spalle, ma niente nel brigante
tradiva un’intenzione ostile. Era in piedi, le braccia conserte,
vicino a Rita sempre svenuta. Cucumetto pensò per un istante che il
giovane la stesse per prendere fra le braccia e fuggisse con lei. Ma
ciò gli importava poco: da Rita aveva avuto quel che voleva; quanto
al denaro, trecento piastre divise fra la banda, faceva una così
povera somma che ben poco gliene importava. Continuò dunque il suo
cammino verso i briganti; ma, con suo gran stupore, Carlini vi
arrivò quasi prima di lui.
«“L’estrazione a sorte! l’estrazione a sorte!” gridarono tutti i
banditi, nello scorgere il loro capo.
«E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza e di
lascivia, mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti una
luce rossastra che li faceva somigliare a demoni. La loro richiesta
era giusta: e il capo fece un cenno con la testa, in segno di
assenso. Tutti i nomi furono subito messi in un cappello, compreso
quello di Carlini, e il più giovane della banda tirò fuori un
foglietto dall’urna improvvisata. Quel foglietto portava il nome di
Diavolaccio; era quello stesso che aveva proposto a Carlini di bere
alla salute del capo, e a cui Carlini aveva risposto spezzandogli il
bicchiere sulla faccia. Diavolaccio, vedendosi favorito dalla
fortuna, diede in uno scoppio di risa.
«“Capitano”, disse, “poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra
salute; proponetegli di bere alla mia… Avrà forse più riguardo per
voi che per me.”
«Ognuno si aspettava una reazione violenta di Carlini; ma, con
grande stupore di tutti, prese con una mano un bicchiere, con
l’altra un fiasco, e, riempiendo il bicchiere, disse con voce
perfettamente calma: “Alla tua salute, Diavolaccio!” e tracannò il
contenuto del bicchiere con mano ferma. Poi, sedendosi accanto al
fuoco: “La mia porzione di cena!” disse. “La corsa fatta mi ha
ridestato l’appetito.”
«“Viva Carlini!” gridarono i briganti.
«“Ecco ciò che si dice prender la cosa da buon compagno.”
«E tutti si rimisero in circolo intorno al fuoco, mentre Diavolaccio
si allontanava.
«Carlini mangiava e beveva, come nulla fosse accaduto. I briganti lo
guardavano, meravigliati dalla sua impassibilità, quando sentirono
dietro di loro un passo pesante. Si voltarono e scorsero Diavolaccio
che teneva tra le braccia la ragazza. Lei aveva la testa rovesciata,
e i lunghi capelli arrivavano fino a terra. Mentre entravano nel
cerchio di luce proiettato dal fuoco, si accorsero del pallore della
donna e del bandito. Quell’apparizione aveva qualcosa di così strano
e di solenne che tutti si alzarono, eccetto Carlini, che rimase
seduto, e continuò a bere e mangiare come se nulla accadesse intorno
a lui.
«Diavolaccio continuava ad avanzare in mezzo al più profondo
silenzio e depose Rita ai piedi del capitano. Allora tutti poterono
vedere la causa del pallore di entrambi. Rita aveva un coltello
conficcato sino al manico sotto il seno sinistro. Tutti gli sguardi
si portarono su Carlini; la guaina del coltello pendeva vuota dalla
sua cintura.
«“Ah, ah”, disse il capo, “ora capisco perché Carlini era rimasto
indietro.”
«Ogni natura selvaggia è capace di apprezzare una forte azione;
sebbene forse nessuno di quei banditi avrebbe fatto ciò che aveva
fatto Carlini, tutti però compresero il suo atto.
«“Ebbene”, disse Carlini alzandosi a sua volta e avvicinandosi al
cadavere, la mano sulla impugnatura di una pistola, “c’è ancora
qualcuno qui che mi disputa questa donna?”
«“No”, disse il capo. “È tua.”
«Allora Carlini la prese fra le braccia, e la portò fuori dal
cerchio di luce proiettato dalla fiamma. Cucumetto dispose le
sentinelle come al solito, e i banditi si sdraiarono intorno al
fuoco, avvolti nei loro mantelli. A mezzanotte la sentinella dette
l’allarme, e in un istante tutti furono in piedi, il capo e i suoi
compagni. Era il padre di Rita, venuto lì di persona a portare la
somma per il riscatto di sua figlia.
«“Tieni», disse a Cucumetto, porgendogli una borsa di denaro, “ecco
le trecento piastre, rendimi mia figlia.»
«Ma il capo, senza prendere il denaro, gli fece cenno di seguirlo.
Il vecchio obbedì; tutti e due si allontanarono sotto gli alberi,
attraverso i cui rami filtravano i raggi della luna. Finalmente
Cucumetto si fermò, allungando una mano e mostrando al vecchio due
persone sotto un albero.
«“Ecco”, disse, “domanda di tua figlia a Carlini, egli te ne renderà
conto.”
«E se ne tornò dai suoi compagni.
«Il vecchio rimase immobile, gli occhi fissi. Sentiva che qualche
sventura ignota, immensa, inaudita gravava su di lui. Fece qualche
passo, ma non riusciva a distinguere le due figure. Al rumore che il
vecchio faceva avanzando, Carlini alzò la testa, e le forme delle
due persone cominciarono ad apparirgli più distinte. Una donna era
coricata per terra, la testa posata sulle ginocchia di un uomo
seduto e chino su di lei; nell’alzare la testa, quell’uomo aveva
scoperto il volto della donna, che teneva serrato contro il petto.
Il vecchio riconobbe sua figlia, e Carlini riconobbe il vecchio.
«“T’aspettavo…” disse il bandito al padre di Rita.
«“Miserabile!” disse il vecchio. “Che hai fatto?”
«E guardava con terrore Rita, pallida, immobile, insanguinata, con
un coltello nel petto. Un raggio di luna la rischiarava con la sua
pallida luce.
«“Cucumetto ha violato tua figlia”, disse il bandito, “e siccome io
l’amavo, l’ho uccisa; poiché, dopo di lui, sarebbe stata il
trastullo di tutta la banda.”
«Il vecchio non pronunciò una parola; solamente divenne pallido come
uno spettro.
«“E ora”, disse Carlini, “se ho avuto torto, vendicala!”
«E strappato il coltello dal seno della fanciulla, levandosi in
piedi, lo porse al vecchio, mentre con l’altra mano slacciava la
camicia sul petto, offrendolo nudo.
«“Hai fatto bene» gli disse il vecchio con voce cupa. “Abbracciami,
figlio mio.”
«Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della sua
amata: erano le prime lacrime che versava quell’uomo sanguinario.
«“E ora”, disse il vecchio a Carlini, “aiutami a seppellire mia
figlia.”
«Carlini andò a cercare due zappe, e il padre e l’amante si misero a
scavare la terra ai piedi di una quercia, i cui folti rami dovevano
far ombra alla tomba della fanciulla.
«Quando la fossa fu scavata, il padre abbracciò Rita per primo, dopo
abbracciò l’amante. Quindi, prendendola l’uno per i piedi, l’altro
per le spalle, la calarono nella fossa. Ciò fatto, s’inginocchiarono
ai due lati della tomba e recitarono le preghiere dei morti. Quando
ebbero terminato, gettarono terra sul cadavere sino a che la fossa
fu colma. Infine, stringendogli la mano, il vecchio disse a Carlini:
“Ti ringrazio, figliolo… Ora lasciami solo”.
«“Ma…” disse Carlini.
«“Lasciami, te l’ordino.”
«Carlini obbedì: andò a raggiungere i suoi compagni, si avvolse nel
mantello, e poco dopo parve addormentato profondamente come gli
altri.
«Il giorno prima era stato deciso che la banda avrebbe cambiato
rifugio. Un’ora prima dello spuntar del sole, Cucumetto svegliò i
suoi uomini e fu dato l’ordine di partenza; ma Carlini non volle
lasciare la foresta senza sapere che ne fosse del padre di Rita. Si
diresse verso il luogo dove lo aveva lasciato. Trovò il vecchio
impiccato a uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia. Sul
cadavere dell’uno e sulla tomba dell’altra, fece allora il
giuramento di vendicarli entrambi. Ma quel giuramento non lo poté
mantenere perché due giorni dopo, in uno scontro coi gendarmi
romani, Carlini fu ucciso. Solamente, qualcuno si stupì che avesse
ricevuto una pallottola nella schiena, mentre era sempre rimasto col
viso rivolto al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti
fece osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro
Carlini quando costui era stato colpito. La mattina della partenza
dalla foresta di Frosinone, aveva seguito Carlini nell’oscurità,
aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo cauto lo aveva
preceduto.
«Si raccontavano ancora su questo terribile capobanda altre storie
non meno strane di questa. Così, da Fondi a Perugia, tutti tremavano
al solo nome di Cucumetto. Le storie su questo capobanda erano
spesso oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La
pastorella tremava tutta a questi racconti; ma Vampa la
tranquillizzava battendo in terra il suo bel fucile. Poi, se non era
del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato su un
ramo, metteva il fucile alla guancia, premeva il grilletto, e
l’animale, colpito, cadeva ai piedi dell’albero.
«Frattanto il tempo passava, i due giovani avevano stabilito di
sposarsi quando Vampa avesse avuto vent’anni, Teresa diciannove.
Erano orfani entrambi e non avevano altri permessi da chiedere che
quello dei loro progetti per l’avvenire.
«Un giorno che parlavano dei loro propositi udirono due o tre colpi
di fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso il quale i due
giovani erano soliti far pascolare le greggi, e corse verso di loro.
Giunto a portata di voce, gridò loro: “Sono inseguito, potete
nascondermi?”
«I due giovani riconobbero subito nel fuggitivo un bandito: ma fra
il bandito e il contadino romano vi è una innata simpatia, per cui
il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo. Vampa,
senza dire una parola, corse alla pietra che chiudeva l’ingresso di
una grotta, scoprì l’entrata tirando a sé la pietra, fece segno al
fuggitivo di entrare in quel nascondiglio sconosciuto a tutti,
rimise la pietra a posto e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Subito
dopo quattro gendarmi a cavallo comparvero al limitare del bosco.
Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto
trascinava per il collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono il
luogo con un colpo d’occhio, s’accorsero dei due giovani, corsero di
galoppo verso di loro, e li interrogarono; ma questi risposero che
non avevano visto nulla.
«“Peccato”, disse il brigadiere, “perché quello che cerchiamo è il
capo.”
«“Cucumetto?” non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e
Teresa.
«“Sì”, rispose il brigadiere, “e siccome sulla sua testa c’è una
taglia di mille scudi romani, voi ne avreste guadagnati cinquecento
se ci aveste aiutati a prenderlo.”
«I due giovani si guardarono. Il brigadiere ebbe un raggio di
speranza. Cinquecento scudi romani fanno circa tremila franchi e
tremila franchi sono una fortuna per due poveri orfanelli sul punto
di maritarsi.
«“Sì, peccato”, disse Vampa, “ma non abbiamo visto nessuno.”
«Allora i gendarmi perlustrarono i dintorni in tutte le direzioni,
ma inutilmente: quindi se ne andarono. Allora Vampa andò a togliere
la pietra, e Cucumetto uscì. Egli aveva visto attraverso una fessura
del macigno i due giovani discorrere coi gendarmi. Non aveva alcun
dubbio sull’argomento della conversazione: aveva letto sul volto di
Teresa e di Luigi l’inalterabile decisione di non consegnarlo. Cavò
di tasca una borsa d’oro per farne loro dono. Ma Vampa rialzò la
testa con fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando
a tutto ciò che avrebbe potuto comprare, ricchi gioielli e begli
abiti, con quella borsa d’oro.
«Cucumetto era un demonio molto astuto, solo aveva preso le forme di
un bandito invece che di serpente. S’accorse di quello sguardo, e
riconobbe in Teresa una degna figlia d’Eva; e rientrò nella foresta
voltandosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori.
«Il carnevale si avvicinava e il conte di San Felice annunciò un
gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma aveva di più
elegante. Teresa aveva una gran voglia di vedere quel ballo. Luigi
domandò al suo protettore, l’intendente, il permesso per lui e per
lei di assistervi, nascosti in mezzo alla servitù della casa;
permesso che venne loro accordato.
«Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata
a sua figlia Carmela, ch’egli adorava. Carmela aveva giusto l’età e
la figura di Teresa ed era graziosa quanto lei. La sera del ballo
Teresa si mise quanto aveva di più bello, le sue spille di maggior
valore, i gioielli di cristallo più rilucenti.
«Aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l’abito
pittoresco del villico romano in giorno di festa. Entrambi, si
mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori e i contadini.
«La festa era magnifica. Non solo la villa era tutta illuminata, ma
migliaia di lanterne colorate erano appese ai rami degli alberi nel
giardino: ben presto la folla degli invitati straripò dal palazzo
sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. A ogni crocicchio c’era
un’orchestra, con buffet e rinfreschi; coloro che passeggiavano si
fermavano in un punto qualsiasi, formavano delle quadriglie e
ballavano. Carmela indossava il costume delle donne di Sonnino:
aveva i capelli intrecciati di perle, con spilloni d’oro e di
diamanti, la cintura era di seta turca a gran fiorami di broccato,
il busto e le gonnelle di cachemire, il grembiule di mussola delle
Indie, i bottoni del busto consistevano in altrettante perle. Due
delle sue compagne portavano il costume delle donne di Ariccia.
Quattro giovani delle più ricche e più nobili famiglie di Roma le
accompagnavano, vestiti da contadini di Albano di Velletri, di
Civita Castellana e di Sora. Quei vestiti, tanto quelli degli
uomini, quanto quelli delle donne, erano risplendenti d’oro e di
pietre preziose.
«A Carmela venne l’idea di fare una quadriglia; mancava però una
donna. Carmela guardò intorno a sé, e fra le invitate non trovò
alcuna che portasse un costume analogo al suo e a quello delle
compagne. Il conte di San Felice le indicò, fra le contadine,
Teresa, appoggiata al braccio di Luigi.
«“Me lo permettete, padre mio?” disse Carmela.
«“Senza dubbio!” rispose il conte. “Non siamo a carnevale?”
«Carmela si avvicinò al giovane che l’accompagnava, e gli disse
alcune parole a bassa voce, indicandogli con il dito la ragazza. Il
giovane si voltò, seguì con gli occhi la direzione della bella mano,
acconsentì con un cenno, e andò a invitare Teresa perché venisse a
figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del conte.
«Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò con uno
sguardo Luigi: non c’era possibilità di rifiutare. Luigi lasciò
lentamente andare il braccio di Teresa, e Teresa si allontanò
condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante andò a
prendere posto nella quadriglia aristocratica.
«Certo, per un artista, il semplice e severo costume di Teresa
sarebbe stato tutt’altro che paragonabile a quello di Carmela e
delle sue compagne; ma Teresa era una ragazza frivola e civetta: i
ricami sulla mussola, le palme della cintura, lo splendore del
cachemire l’abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti
la rendevano ebbra.
«Dal canto suo, Luigi sentiva nascere in sé un sentimento
sconosciuto; era come un dolore sordo che mordesse sulle prime il
cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene e s’impadronisse di
tutto il corpo. Egli non perdeva d’occhio ogni minimo movimento di
Teresa e del suo cavaliere; quando le loro mani si toccavano,
provava delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e si
sarebbe detto che il suono di una campana gli vibrasse nelle
orecchie.
«Quando parlavano fra di loro, sebbene Teresa ascoltasse timidamente
e con gli occhi bassi i discorsi del suo cavaliere, siccome Luigi
leggeva negli occhi ardenti del bel giovane che erano elogi, gli
sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che tutte le voci
dell’inferno gli soffiassero impulsi di omicidio. Allora, temendo di
lasciarsi andare a qualche pazzia, si aggrappava con una mano
all’albero contro il quale era appoggiato e con l’altra stringeva
con un movimento convulso il pugnale dal manico intagliato, che era
nella sua cintura, e che senza accorgersene qualche volta usciva dal
fodero quasi interamente.
«Luigi era geloso! Capiva che Teresa poteva sfuggirgli, spinta dalla
sua natura orgogliosa e ambiziosa, e infatti la contadinella, che
sulle prime era timida e quasi spaventata, si mise presto a suo
agio.
«Abbiamo detto che Teresa era bella. Ma non è tutto. Teresa era di
quella grazia selvaggia molto più possente della nostra grazia
studiata e affettata. Ebbe quasi gli onori della quadriglia, e se fu
invidiosa della figlia del conte di San Felice, non oseremo dire che
Carmela non fosse gelosa di lei.
«Così, colmandola di complimenti, il suo bel cavaliere la ricondusse
dove l’aspettava Luigi. Due o tre volte, durante il ballo, la
giovane aveva volto lo sguardo su di lui, e ogni volta le era parso
più pallido, e con i lineamenti più alterati. Una volta, anzi, i
suoi occhi furono colpiti da un lampo di sinistro augurio nel vedere
la lama del coltello mezza sfoderata. Fu dunque quasi tremando che
riprese il braccio dell’amante.
«La quadriglia era stata un successo; sembrava evidente che si
sarebbe proposto di ripeterla una seconda volta. Soltanto Carmela si
opponeva, ma il conte di San Felice pregò così teneramente la
figlia, che questa finalmente acconsentì.
«Subito uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa, senza la
quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la
giovinetta era sparita. Infatti Luigi non avrebbe sopportato un
secondo ballo e, con la persuasione e con la forza, aveva trascinato
Teresa in un’altra parte del giardino. Teresa aveva ceduto suo
malgrado, ma aveva visto il volto alterato del giovane, e capiva dal
suo silenzio, interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva
qualche cosa di strano. Lei pure non era esente da agitazione; e
sebbene non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi
avrebbe avuto ragione di rimproverarla. Su che? Non lo sapeva, ma si
accorgeva che quei rimproveri sarebbero stati ben meritati.
«Con gran sorpresa di Teresa rimase muto, e durante il resto della
sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo, quando il
freddo della notte aveva costretto tutti gli invitati a lasciare il
giardino, e le porte della villa furono chiuse per continuare la
festa all’interno, ricondusse a casa Teresa. Poi, quando fu sulla
soglia, le disse: “Teresa, a che pensavi, mentre ballavi di fronte
alla contessina di San Felice?”
«“Pensavo”, rispose la ragazza con molta franchezza, “che darei la
metà della mia vita per essere vestita come lei.”
«“E che ti diceva il cavaliere?”
«“Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una
parola per ottener questo.”
«“Aveva ragione”, rispose Luigi. “Lo desideri ardentemente come
dici?”
«“Sì.”
«“Ebbene l’avrai!”»
«La ragazza alzò la testa per interrogarlo, ma il viso era così cupo
e terribile, che la parola le morì sulle labbra.
«“D’altronde dicendo queste parole, Luigi si era allontanato. Teresa
lo seguì con gli occhi nella notte fino a che poté vederlo. Poi,
quando fu scomparso, rientrò sospirando in casa.
«Quella stessa notte accadde un grande avvenimento, dovuto senza
dubbio all’imprudenza di qualche domestico che aveva dimenticato di
spegnere i lumi: la villa dei San Felice prese fuoco, proprio dalla
parte dell’appartamento della bella Carmela. Svegliata nel mezzo
della notte dal bagliore dalle fiamme era balzata dal letto, si era
avvolta nella veste da camera e aveva tentato di fuggire dalla
porta; ma il corridoio per il quale doveva passare era già in preda
all’incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte
grida soccorso. Quando la sua finestra, posta a sei metri dal suolo,
si aprì, un giovane contadino si lanciò nell’appartamento, la prese
fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumane la trasportò
sull’erba del prato dove rimase svenuta. Quando aveva ripreso i
sensi, il padre le era vicino, tutti i servitori la circondavano
porgendolo soccorso. Un’ala della villa era bruciata, ma non
importava, dal momento che Carmela era sana e salva.
«Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non si trovò
più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva visto. Quanto
a Carmela, era così turbata che non lo aveva riconosciuto. Del
resto, siccome il conte era immensamente ricco, a parte il pericolo
corso da Carmela, che gli sembrò, dal modo miracoloso con cui era
stata salvata, un nuovo favore della Provvidenza che un’effettiva
disgrazia, la perdita causata dalle fiamme fu ben poca cosa per lui.
«L’indomani, nell’ora consueta, i due giovani si ritrovarono
all’ingresso della foresta. Luigi era arrivato per primo. Egli andò
incontro alla ragazza con molta allegria, e sembrava aver
completamente dimenticato la scena della sera innanzi. Teresa era
visibilmente pensierosa, ma vedendo la buona disposizione d’animo di
Luigi, simulò un’allegra noncuranza, che era la base della sua
indole, quando qualche passione non veniva a disturbarla. Luigi
prese sottobraccio Teresa, e la condusse fino all’apertura della
grotta. Lì si fermò. La pastorella, capendo che doveva avere qualche
cosa di straordinario da dirle, lo guardò fissamente.
«“Teresa”, disse Luigi, “ieri sera tu mi hai detto che avresti dato
metà della tua vita per avere un costume uguale a quello della
figlia del conte.”
«“Sì”, rispose Teresa meravigliata, “ma ero pazza quando ho espresso
un simile desiderio.”
«“E io ti ho risposto: ‘Va bene, l’avrai’.”»
«“Sì”, disse la ragazza, la cui meraviglia aumentava a ogni parola
di Luigi, “ma tu di certo hai risposto così solo per farmi piacere.”
«“Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa”, disse
con orgoglio Luigi. “Entra nella grotta, e vestiti.”
«A queste parole, tolse la pietra e mostrò a Teresa la grotta
illuminata da due candele che ardevano ai lati di un magnifico
specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano distesi le
spille di diamanti e la collana di perle; sopra una panca vicina era
deposto il resto del vestiario.
«Teresa mandò un grido di gioia, e senza chiedere donde venisse
quella roba, senza ringraziare Luigi, si lanciò nella grotta,
trasformata in toilette.
«Luigi rimise la pietra al suo posto dietro di lei, perché s’accorse
che, sulla cresta di una collinetta, che impediva di vedere
Palestrina dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era
fermato, incerto sulla strada da prendere, e spiccava nell’azzurro
del cielo con quella nitidezza di contorni tipica dei paesi
meridionali.
«Lo straniero, vedendo Luigi, spinse il cavallo al galoppo e venne
verso di lui. Luigi non si era ingannato: il viaggiatore, che andava
da Palestrina a Tivoli, era incerto sul cammino da prendere. Il
giovane glielo indicò; ma siccome, a quattrocento metri, la strada
si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto lì poteva nuovamente
sbagliare, pregò Luigi di fargli da guida. Questi posò a terra il
mantello, si mise a tracolla la carabina e, liberato così dal
pesante vestito, camminò davanti al viaggiatore con quel passo
rapido del montanaro che un cavallo a stento può seguire.
«In dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio
indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la mano e
indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire.
«“Ecco la vostra strada, Eccellenza, ora non potrete più sbagliare.»
«“Ed ecco la tua ricompensa…» disse il viaggiatore, offrendo al
pastore alcune monetine.
«“Grazie”, disse Luigi, ritirando la mano, “ma io rendo un servizio,
non lo vendo.”
«“Ma”, disse il viaggiatore, abituato a quella differenza che passa
tra il servilismo dell’uomo di città e l’orgoglio del campagnolo,
“se rifiuti una mercede, accetterai un regalo?”
«“Ah sì, questa è un’altra cosa.”
«“Ebbene”, disse il viaggiatore, “prendi questi due zecchini di
Venezia, e dalli alla tua fidanzata per comprarsi un paio di
pendenti.”
«“E voi, allora, prendete questo pugnale”, disse il pastore, “non ne
troverete uno la cui impugnatura sia meglio intagliata, da Albano a
Civita Castellana.”
«“Lo accetto”, disse il viaggiatore, “ma allora sono io che ti resto
debitore, perché il pugnale vale molto più di due zecchini.”
«“Per un mercante può darsi, ma non a me che l’ho intagliato, e mi
costa appena uno scudo.”
«“Come ti chiami?” domandò il viaggiatore.
«“Luigi Vampa”, rispose il pastore con lo stesso tono come avesse
risposto Alessandro re di Macedonia, “e voi?”
«“Io”, disse il viaggiatore, “mi chiamo Sinbad il marinaio…”»
Franz d’Epinay ebbe un grido di sorpresa.
«Sinbad il marinaio!» disse.
«Sì», rispose il narratore, «è il nome che il viaggiatore disse a
Vampa.»
«Ebbene, che avete da ridire su questo nome?» interruppe Albert. «È
un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno
divertito molto nella mia prima gioventù.»
Franz non insistette. Il nome di Sinbad il marinaio, come si capirà
bene, aveva risvegliato in lui una quantità di ricordi, non
diversamente da quello che aveva fatto la sera prima quello di conte
di Montecristo.
«Continuate…» disse all’albergatore.
«Vampa intascò sdegnosamente i due zecchini, e riprese lentamente il
cammino per il quale era venuto. Giunto a due o trecento passi dalla
grotta gli parve di sentire un grido. Si fermò ascoltando da quale
parte venisse. Dopo un istante, intese pronunciare distintamente il
suo nome. La voce veniva dalla parte della grotta. Balzò come un
camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in meno di un
minuto era sulla cima della collinetta opposta a quella dove aveva
visto il viaggiatore. Là si fecero più distinte le grida: “Aiuto,
soccorso!” Girò gli occhi sullo spazio che dominava: un uomo rapiva
Teresa come il centauro Nesso, Deianira. Quell’uomo, che si dirigeva
verso il bosco, aveva già percorso tre quarti del cammino dalla
grotta alla foresta.
«Vampa calcolò la distanza: quell’uomo aveva almeno duecento passi
di vantaggio su di lui; non vi era possibilità di raggiungerlo prima
che entrasse nel bosco. Il giovane si fermò come se i suoi piedi
avessero messo radice: appoggiò il calcio del fucile alla spalla,
levò lentamente la canna in direzione del rapitore, lo seguì per un
secondo nella corsa, e poi fece fuoco. Il rapitore si fermò, come
immobile nell’aria, le ginocchia gli si piegarono, e cadde
trascinando nella sua caduta Teresa, la quale si alzò subito.
L’altro restò disteso, dibattendosi nelle ultime convulsioni
dell’agonia. Vampa si lanciò verso Teresa, che era a dieci passi dal
moribondo, in ginocchio. Allora al giovane venne il terribile
sospetto che la pallottola che aveva colpito l’avversario avesse
ferito anche la fidanzata.
«Fortunatamente però non fu così, e il solo terrore aveva
paralizzato le forze di Teresa. Quando Luigi fu ben sicuro che era
sana e salva, si voltò verso il ferito. Era già morto, con i pugni
serrati, la bocca contratta dal dolore, i capelli ritti dal sudore
dell’agonia; gli occhi erano rimasti aperti e minacciosi. Vampa si
avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto.
«Dal giorno in cui il bandito fu salvato dai due giovani, si era
innamorato di Teresa, e aveva giurato che sarebbe stata sua. Da
allora, l’aveva spiata con assiduità; e approfittando del momento in
cui il suo amante l’aveva lasciata sola per andare a indicare la
strada al viaggiatore, l’aveva rapita, e già la credeva sua, quando
la pallottola di Vampa, sparata dall’occhio infallibile del giovane
pastore, gli aveva trapassato il cuore.
«Vampa lo guardò un istante senza la minima emozione sul viso,
mentre Teresa, al contrario, ancora tutta tremante, non osava
avvicinarsi al bandito morto che a piccoli passi, gettando uno
sguardo esitante sul cadavere al di sopra della spalla del suo
amante.
«Dopo un momento, Vampa si rivolse alla sua innamorata: “Tu sei già
vestita. Ora tocca a me prepararmi”.
«Infatti Teresa era vestita da capo a piedi col costume della figlia
del conte di San Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto fra le
braccia, e lo portò nella grotta, mentre Teresa l’aspettava fuori.
Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe visto una cosa
strana, cioè una pastorella guardare il gregge, vestita di cachemire
coi pendenti alle orecchie, una collana di perle, delle spille di
diamanti e dei bottoni di zaffiri, smeraldi e rubini. Senza dubbio
avrebbe creduto di tornare ai tempi di Florian e, di ritorno a
Parigi, avrebbe assicurato di avere incontrato la pastorella delle
Alpi ai piedi dei monti Sabini.
«Un quarto d’ora dopo, Vampa uscì dalla grotta. Il suo abito non era
meno elegante di quello di Teresa. Aveva un giubbetto di velluto
granata con i bottoni d’oro cesellato, un panciotto di seta tutto
ricamato, una sciarpa annodata intorno al collo, un portacartucce
tutto trapuntato in oro e in seta rossa e verde, i pantaloni di
velluto celeste, legati sotto al ginocchio con fibbie di diamanti,
ghette di pelle di daino con mille arabeschi, e un cappello su cui
sventolavano dei nastri di ogni colore; due catene da orologio gli
pendevano dalla cintura e un magnifico pugnale era attaccato al
portacartucce.
«Teresa lanciò un grido di ammirazione. Vampa, vestito così,
assomigliava a un dipinto di Léopold Robert o di Schnetz. Aveva
indossato gli abiti di Cucumetto.
«Il giovane s’accorse dell’effetto che produceva sulla sua
fidanzata, e un sorriso di orgoglio gli sfiorò le labbra.
«“Ora dimmi, Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque
essa possa essere?”
«“Oh sì!” gridò la ragazza con entusiasmo.
«“A seguirmi ovunque andrò?”
«“Anche in capo al mondo.”
«“Allora prendi il mio braccio e partiamo, poiché non abbiamo tempo
da perdere.”
«La pastorella passò il braccio sotto quello del suo innamorato,
senza neppure domandargli dove la conduceva, perché in quel momento
le sembrava bello, fiero e potente. E tutti e due si inoltrarono
nella foresta di cui, in breve tempo, oltrepassarono il confine.
«Non occorre dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della
montagna. S’inoltrò dunque nella foresta senza un attimo di
esitazione, sebbene non vi fosse tracciata alcuna strada, poiché
riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli
alberi e i cespugli. Camminarono così per circa un’ora e un quarto,
giungendo nel punto più fitto del bosco. Un torrente, il cui letto
era in secca, conduceva in una gola profonda. Vampa prese quello
strano sentiero, che, incassato fra le due rive, e reso più cupo
dall’ombra degli alberi, sembrava il sentiero dell’Averno di cui
parla Virgilio. Teresa, tornata timorosa alla vista di quel luogo
selvaggio e deserto, si stringeva a Luigi senza dir parola; ma
siccome lo vedeva camminare con un passo sempre uguale, e con una
calma profonda sul viso, lei aveva la forza di dissimulare la
propria emozione.
«A un tratto, a dieci passi da loro, un uomo sembrò staccarsi da un
albero, dietro cui era nascosto, e prendendo di mira Vampa col suo
fucile, gridò: “Non fare un passo di più o sei morto”.
«“Andiamo!” disse Vampa, facendo con la mano un gesto di disprezzo,
mentre Teresa, non dissimulando più il terrore, si avvinghiava a
lui. “I lupi forse si sbranano fra loro?”
«“Chi sei tu?” domandò la sentinella.
«“Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice.”
«“Che vuoi?”
«“Voglio parlare ai tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca
Bianca.”
«“Allora seguimi”, disse la sentinella, “o piuttosto, poiché sai la
strada, camminami davanti.”
«Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di quel bandito;
passò davanti con Teresa, e continuò il suo cammino con lo stesso
passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque
minuti, il bandito fece loro segno di fermarsi. Essi obbedirono. Il
bandito imitò tre volte il gracchiare del corvo: un altro grido
uguale rispose a quel triplice appello.
«“Ora puoi continuare la strada”, disse il bandito.
«Luigi e Teresa si rimisero in cammino; ma, mentre procedevano,
Teresa, tremando, si stringeva sempre più al suo amante; infatti,
attraverso gli alberi, si vedevano comparire degli uomini e
luccicare delle canne di fucile.
«L’altopiano di Rocca Bianca era sulla sommità di una piccola
montagna, che doveva certamente essere stata un vulcano, spentosi
prima che Romolo e Remo abbandonassero Alba per andare a fondare
Roma.
«Teresa e Luigi giunsero alla sommità, e si trovarono circondati da
una ventina di banditi.
«“Ecco un giovane che vi cerca, e desidera parlarvi”, disse la
sentinella.
«“Che vuole da noi?” chiese colui che in assenza del capo ne faceva
le veci.
«“Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il pastore”, disse
Vampa.
«“Ah, capisco”, disse il luogotenente, “e tu vieni a domandarci di
entrare nelle nostre file?”
«“Che sia il benvenuto!” gridarono molti banditi di Ferrusino, di
Pampinara e di Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa.
«“Sì, ma vengo a chiedervi un’altra cosa, oltre che esser vostro
compagno.”
«“E che vieni a chiederci?” dissero con meraviglia i banditi.
«“Vengo a domandarvi di essere fatto vostro capitano”, disse il
giovane.
«I banditi scoppiarono a ridere.
«E che hai fatto per aspirare a questo onore?” domandò il
luogotenente.
«“Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui indosso le spoglie”,
disse Luigi, “e ho appiccato il fuoco alla villa del conte di San
Felice per dare il corredo di nozze alla mia fidanzata.”
«Un’ora dopo, Luigi Vampa era eletto capitano al posto di Cucumetto.
«Ebbene, mio caro Albert», disse Franz rivolgendosi all’amico, «che
pensate ora del cittadino Luigi Vampa?»
«Dico che è un mito», rispose Albert, «e che non è mai esistito.»
«E che cosa significa la parola mito?» domandò Pastrini.
«Sarebbe troppo lungo a spiegarsi, mio caro Pastrini», rispose
Franz. «E voi dite dunque che Vampa esercita ora la sua professione
nei dintorni di Roma?»
«E con un tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio
uguale.»
«E la polizia non è capace di catturarlo?»
«Che volete? Egli è d’accordo a un tempo con i pastori della
pianura, con i pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa.
Se lo si cerca sulle montagne, è sul fiume; se lo si insegue sul
fiume, prende l’alto mare; poi d’improvviso quando si crede che sia
rifugiato sull’isola del Giglio, di Giannutri, o di Montecristo, si
vede ricomparire in Albano, a Tivoli o ad Ariccia.»
«E qual è il suo modo di fare verso i viaggiatori?»
«Eh, mio Dio, è semplicissimo: a seconda della distanza dalla città,
accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno, per pagare il loro
riscatto; quando è passato il tempo concede un’ora di grazia. Al
sessantesimo minuto di quest’ora, se non ha il riscatto, fa saltare
le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli pianta un
pugnale nel cuore, e tutto è finito!»
«Ebbene, Albert», domandò Franz al suo compagno, «siete ancora
disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?»
«Certamente», disse Albert, «se è la strada più pittoresca.»
In quel momento suonarono le nove, la porta si aprì, e comparve il
cocchiere.
«Eccellenza», disse, «la carrozza è pronta.»
«Ebbene», disse Franz, «andiamo al Colosseo.»
«Per la porta del Popolo, Eccellenza, o per le strade interne?»
«Per le strade interne, perbacco!, per le strade interne», gridò
Franz.
«Ah, mio caro», disse Albert alzandosi e accendendo il suo terzo
sigaro, «in verità vi credevo più coraggioso!»
Dopo queste parole i due giovani scesero le scale e salirono in
carrozza.
34. Le apparizioni
Franz aveva trovato un compromesso, affinché Albert potesse giungere
al Colosseo senza dover passare davanti ad alcuna rovina antica, e
di conseguenza senza nulla togliere alle gigantesche proporzioni del
Colosseo.
Si trattava di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto
davanti a Santa Maria Maggiore e arrivare per la via Urbana e San
Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D’altro canto questo
itinerario offriva anche un altro vantaggio, quello di non distrarre
con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui dalla storia
raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava coinvolto il
suo anfitrione di Montecristo. Perciò si era rincattucciato
nell’angolo, ed era ricaduto in quelle mille domande che infinite
volte aveva già fatto a se stesso, e alle quali mai era riuscito a
dare una risposta soddisfacente.
Un’altra cosa gli aveva ancora fatto ricordare il suo amico Sinbad
il marinaio, ed era la relazione tra i banditi e i marinai. Quello
che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa trovava sulle barche
dei pescatori e dei contrabbandieri, ricordava a Franz quei due
banditi corsi ch’egli aveva visto cenare insieme all’equipaggio del
piccolo yacht, che deviando a bella posta dal suo cammino era
approdato a Porto Vecchio col solo scopo di rimetterli a terra.
Il nome con cui il suo ospite di Montecristo si faceva chiamare,
pronunciato dall’albergatore dell’albergo Londra, provava che era lo
stesso che sosteneva la parte filantropica sulle coste di Piombino,
di Civitavecchia, d’Ostia e di Gaeta, come su quelle di Corsica, di
Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e di Palermo.
Era la prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto
estesa.
Ma benché queste riflessioni fossero presenti allo spirito del
giovane, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro e
gigantesco spettro del Colosseo, fra le cui rovine la luna faceva
passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi
dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana
denominata Meta sudans. Il cocchiere aprì lo sportello, i due
giovani saltarono a terra, e si trovarono in faccia a un cicerone,
che sembrava uscito da sottoterra. Anche quello dell’albergo li
aveva seguiti, e così ne ebbero due.
Del resto è impossibile poter evitare, a Roma, questa abbondanza di
guide: oltre il cicerone generico che s’impadronisce di voi dal
momento in cui mettete il piede sulla soglia di un albergo o di una
locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete il
piede fuori della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun
monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone al
Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva dire a
Marziale: «Che Menfi cessi di vantare i barbari miracoli delle sue
piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di Babilonia,
tutto deve annichilirsi davanti all’opera immensa dell’anfiteatro
dei Cesari, e tutte le voci della fama devono unirsi per lodare
questo monumento».
Franz e Albert non provarono nemmeno a sottrarsi alla tirannide
ciceroniana, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo,
perché qui le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi
punti praticabili del monumento con le torce accese. Non fecero
dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo alle loro
guide.
Franz conosceva già questa passeggiata per averla fatta altre dieci
volte: ma siccome il suo compagno, più novizio, metteva per la prima
volta il piede nell’anfiteatro di Flavio Vespasiano, bisogna
confessarlo a sua lode, nonostante il cicalare ignorante delle
guide, egli era molto commosso. Non è possibile, senza averlo visto,
farsi un’idea della maestà di una simile rovina, le cui proporzioni
sono tutte raddoppiate dal misterioso chiarore di quella luna
meridionale, i cui raggi sembrano i crepuscoli d’Occidente.
Franz, da uomo riflessivo che era, fatti appena cento passi sotto i
portici interni, lasciò Albert alle guide, che non volevano
rinunciare a fargli vedere la fossa dei leoni, le stanze dei
gladiatori, il palco dei Cesari, e salì per una scala mezza rovinata
e, lasciando loro continuare il metodico giro, si sedette all’ombra
di una colonna, dirimpetto a una curva che gli permetteva di poter
abbracciare con lo sguardo il gigante di granito in tutta la sua
estensione.
Franz era là da circa un quarto d’ora, nascosto dall’ombra della
colonna, e intento a guardare Albert e coloro che gli portavano le
torce che uscivano in quel momento da un romitorio posto all’altra
estremità del Colosseo, simili a ombre che segnano un fuoco fatuo.
Scendevano di gradino in gradino verso il luogo riservato alle
vestali, quando a Franz sembrò udire il rumore di una pietra che si
staccasse e cadesse dalla scala ch’egli pure aveva sceso. Certo non
è cosa rara sentire cadere una pietra che, per effetto del tempo, si
stacca e va a rotolare nell’abisso; ma questa volta gli sembrò fosse
il piede di un uomo, e che il rumore dei passi giungesse fino a lui,
sebbene chi li causava facesse di tutto per renderli impercettibili.
Infatti, dopo un istante, comparve un uomo che usciva gradatamente
dall’ombra a mano a mano che saliva la scala la cui apertura, posta
dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna. Poteva essere un
viaggiatore come lui, che preferiva una meditazione solitaria al
ciarlare insignificante delle guide, e di conseguenza la sua
comparsa nulla aveva di sorprendente; ma dall’esitazione con la
quale salì gli ultimi scalini, dal modo con cui, giunto sul piano,
si fermò e parve mettersi in ascolto, era evidente che era venuto lì
con qualche scopo. Con un movimento istintivo Franz si nascose
quanto più poté dietro la colonna.
A dieci passi dal luogo dove si trovavano entrambi, la volta era
diroccata e, da un’apertura rotonda come quella di un pozzo,
lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle. Intorno a
quest’apertura, che forse da secoli dava passaggio ai raggi della
luna, vegetavano dei cespugli il cui verde spiccava con vigore sul
pallido azzurro del firmamento, mentre tralci di edera pendevano da
questa terrazza superiore, e dondolavano sotto la volta simili a
festoni.
Il personaggio che aveva attirato l’attenzione di Franz era in una
penombra che non permetteva di distinguerne i tratti, ma non
abbastanza oscura per impedirgli di vedere i particolari del
vestito. Era avvolto in un grande mantello scuro, un lembo del
quale, gettato sulla spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore
del viso, mentre un cappello a larghe tese copriva la parte
superiore. L’estremità del vestito era illuminata dai raggi obliqui
della luna che passavano dall’apertura, e che permettevano di
distinguere i calzoni neri, che elegantemente finivano su un paio di
stivali di pelle lucida. L’uomo apparteneva evidentemente se non
all’aristocrazia, almeno alla buona società. Erano trascorsi alcuni
minuti da che era là, e già cominciava a dare qualche segno
d’impazienza, allorché si udì un piccolo rumore nella terrazza
soprastante. Nello stesso momento un’ombra intercettò la luce, un
uomo apparve nel vano dell’apertura, gettò uno sguardo penetrante
nelle tenebre, e vide l’uomo dal mantello, che, reggendosi con le
mani a quei rami d’edera, si lasciò scivolare, e, giunto a un metro
dal suolo, saltò a terra. Costui era vestito da trasteverino.
«Scusatemi, Eccellenza, se vi ho fatto aspettare», disse in dialetto
romano, «però non sono in ritardo che di pochi minuti; le dieci sono
suonate ora a San Giovanni in Laterano.»
«Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato»,
rispose lo straniero nel più puro toscano, «non facciamo cerimonie
perché quand’anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che
sarebbe stato per qualche motivo indipendente dalla vostra volontà.»
«E avete ragione, Eccellenza, vengo da Castel Sant’Angelo, e ho
avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe.»
«Chi è questo Beppe?»
«Beppe è un impiegato delle prigioni al quale passo un piccolo
compenso mensile per sapere ciò che succede nel castello.»
«Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro.»
«Che volete, Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io
pure sarò un giorno o l’altro preso nella rete, come quel povero
Peppino, e avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche
maglia della mia prigione.»
«Che avete saputo?»
«Che martedì vi saranno due esecuzioni, alle due del pomeriggio,
come è solito in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati
sarà impiccato: è un miserabile che ha ucciso il prete che lo aveva
allevato, e non merita alcun interesse; l’altro sarà decapitato, e
questo è il povero Peppino.»
«Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non solo
al governo pontificio, ma agli Stati vicini, che assolutamente si
vuol dare un esempio.»
«Ma Peppino non faceva neppure parte della mia banda; era un povero
pastore che non ha commesso altro delitto che quello di fornirci i
viveri.»
«E ciò lo fa vostro complice in piena regola. Anzi, gli usano pure
dei riguardi. Invece di impiccarlo, come faranno con voi se mai vi
metteranno le mani addosso, si accontentano di ghigliottinarlo. E
vedete bene che daranno due spettacoli differenti. Senza contare
quello che gli preparerò io, e che non si aspettano», aggiunse il
trasteverino.
«Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate disposto a
commettere qualche sciocchezza.»
«Sono disposto a far di tutto per impedire l’esecuzione di quel
povero diavolo, che si trova nell’impiccio per avermi servito. Sarei
un vile, se non facessi qualche cosa per quel bravo giovane.»
«E che farete?»
«Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi
verrà condotto, a un segnale che darò, ci lanceremo col pugnale alla
mano sulla scorta, e lo porteremo via.»
«Questa è una cosa troppo incerta, e io ritengo che il mio piano sia
migliore del vostro.»
«E qual è il piano di Vostra Eccellenza?»
«Farò in modo di parlare a chi so io, pregandolo di ottenere che
l’esecuzione si rimandi a quest’altro anno: quindi nel corso
dell’anno tornerei a parlare con commovente eloquenza a un altro
tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione.»
«Siete sicuro della riuscita?»
«Parbleu!» disse in francese l’uomo dal mantello.
«Che vuol dire?» domandò il trasteverino.
«Vuol dire che farò più con le mie insinuanti macchinazioni che voi
con tutta la vostra gente, coi loro pugnali, le loro pistole, le
carabine e i tromboni. Lasciatemi dunque fare.»
«Benissimo! Ma, ricordatevi bene, se non ci riuscirete, noi ci
terremo sempre pronti.»
«Tenetevi sempre pronti, se così vi piace, ma siate certi che avrò
la sua grazia.»
«Ricordatevi che martedì è dopodomani. Voi non avete più che il solo
domani.»
«Sta bene, ma un giorno si compone di ventiquattr’ore, ciascun’ora
di sessanta minuti, ciascun minuto di sessanta secondi, e in
ottantaseimilaquattrocento secondi si fanno moltissime cose.»
«Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?»
«È semplicissimo: ho preso in affitto le tre ultime finestre di
palazzo Ruspoli; se ho ottenuto la grazia, le due finestre ai lati
avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà uno
di damasco bianco con una croce rossa.»
«D’accordo. E da chi farete presentare la grazia?»
«Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da penitente della Buona
Morte, e la consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli
potrà giungere fino ai piedi del patibolo, e consegnerà il foglio al
capo della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto,
fate sapere questa notizia a Peppino, che egli non abbia a morire di
paura, o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe come farci fare
un’opera buona inutilmente.»
«Ascoltate, Eccellenza», disse il trasteverino, «io vi sono
affezionato, ne siete convinto?»
«Lo spero, almeno.»
«Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più devozione, ma
per l’avvenire sarà cieca obbedienza.»
«Ebbene, fa’ attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno
avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno io pure
abbia bisogno di te…»
«Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io
avrò trovato voi; foste anche all’altra estremità del mondo, non
avreste che a scrivermi “fate questo”, e io lo farei parola di…»
«Zitto», disse lo sconosciuto, «sento un rumore.»
«Sono viaggiatori che visitano il Colosseo.»
«Non bisogna che ci trovino insieme. Queste spie di guide potrebbero
riconoscervi, e per quanto sia onorevole la nostra relazione, se si
sapesse che siamo uniti in amicizia, questo legame mi farebbe
perdere non poco del mio credito.»
«E così, se voi avrete la grazia?…»
«La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco con una croce rossa.»
«Se non la otterrete?…»
«Tutte e tre le finestre saranno addobbate con i tappeti gialli.»
«E allora?…»
«Allora, maneggerete il pugnale a vostro piacere, vi prometto di
esser là per assistervi.»
«Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me.»
A queste parole il trasteverino sparì per la scala, mentre lo
sconosciuto, coprendosi ancor di più il viso col mantello, passò a
due passi da Franz e discese nell’arena per la gradinata esterna.
Un minuto dopo, Franz intese il proprio nome risuonare sotto le
volte: era Albert che lo chiamava. Aspettò per rispondere, che i due
uomini si fossero allontanati, non volendo si sapesse esservi stato
un testimone, il quale, se non aveva visto i loro volti non aveva
però perso una parola della loro conversazione.
Dieci minuti dopo Franz percorreva in carrozza la strada per andare
a piazza di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che
Albert faceva, attingendo da Plinio e Calpurnio, sulle reti guarnite
di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di lanciarsi
sugli spettatori. Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo;
aveva troppa fretta di rimanere solo, per pensare unicamente a
quanto era avvenuto vicino a lui.
Di questi due uomini uno certamente era italiano, ed era la prima
volta che lo vedeva e lo sentiva, ma non era così dell’altro, e
sebbene Franz non ne avesse distinto il viso, sempre nascosto
nell’ombra o nel mantello, il timbro di quella voce lo aveva troppo
colpito la prima volta che l’aveva inteso, perché potesse risuonare
al suo orecchio senza che la riconoscesse. Vi era, soprattutto nelle
inflessioni ironiche, qualche cosa di stridulo e di metallico che lo
aveva fatto trasalire, sia fra le rovine del Colosseo, come nella
grotta di Montecristo; per cui era convinto che quell’uomo fosse
Sinbad il marinaio.
In tutt’altra circostanza, la curiosità che gli ispirava quell’uomo
sarebbe stata così grande, che si sarebbe fatto riconoscere; ma in
quella occasione, la conversazione che aveva udito era troppo intima
per non essere trattenuto dal timore che una sua comparsa non
sarebbe stata gradita. Lo aveva dunque lasciato allontanare, come si
è visto, ma ripromettendosi che, se lo avesse incontrato un’altra
volta, non si sarebbe lasciato sfuggire una seconda occasione.
Franz era troppo preoccupato per poter dormire. La notte fu
impiegata a ripassare tutti i minimi particolari che avevano una
relazione con l’uomo della grotta, e con lo sconosciuto del
Colosseo; e più Franz ci pensava, più si convinceva della sua
opinione. Si addormentò sul far del giorno, per cui si svegliò molto
tardi.
Albert, da vero parigino, aveva già provveduto per la serata. Aveva
mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva molte
lettere da scrivere in Francia, e lasciò la carrozza ad Albert per
tutta la giornata. Alle cinque questi rientrò; aveva presentato le
sue lettere di raccomandazione, ricevuto inviti per quella sera, e
visto Roma. Un giorno gli era bastato per far tutto questo, e aveva
anche avuto il tempo di informarsi dell’opera che si rappresentava,
e degli artisti che la cantavano. L’opera s’intitolava Parisina; gli
artisti erano Cosselli, Moriani e la Spech. I nostri due giovani non
erano sfortunati, come si vede: avrebbero assistito alla
rappresentazione di una delle migliori opere dell’autore della Lucia
di Lammermoor, cantata dai tre artisti più rinomati d’Italia.
Albert non aveva mai potuto abituarsi ai teatri cisalpini,
nell’orchestra dei quali non è permesso andare e che non hanno né
palchi, né logge scoperte; ciò era seccante per un uomo che aveva il
posto fisso ai Bouffes, e ingresso libero alla loggia infernale
dell’Opéra. Ciò però non gl’impediva di vestirsi con accuratezza
tutte le volte che andava a teatro con Franz, toilette sprecate,
perché, bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più
degni del nostro bon ton, in quattro mesi che viaggiava l’Italia in
tutti i sensi, non aveva avuto ancora alcuna avventura.
Albert qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma
nel fondo del cuore era assai mortificato; lui, Albert Morcerf, uno
dei giovani più intraprendenti, non aveva ancora fatto alcuna
conquista. La cosa era tanto più penosa, perché, secondo l’abituale
modestia dei nostri cari compatrioti, Albert era partito da Parigi
con la ferma convinzione di avere in Italia il più felice successo,
e di ritornare a formar la delizia del bastione di Gand col racconto
delle sue avventure. Ahimè! non ne aveva avuta alcuna: le graziose
contesse genovesi, fiorentine e napoletane si erano conservate per i
loro mariti, per i loro amanti, e Albert si era fatto la crudele
convinzione che le italiane sanno essere almeno fedeli. Anche se non
voglio dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano
eccezioni.
Eppure Albert non era solo un giovanotto molto elegante, ma aveva
anche dello spirito; in più, era visconte, e di nobiltà recente, è
vero, ma oggi che importa, se la propria nobiltà porta la data del
1399 o del 1815? Oltretutto aveva una rendita di cinquantamila lire;
e questo è molto più di quanto serve per appartenere al bel mondo di
Parigi. Era dunque umiliante, per lui, non essere stato ancora
seriamente guardato da alcuna signora nelle città in cui aveva
soggiornato. Ma contava di rifarsi durante il carnevale, essendo
questo un periodo di libertà in tutti i paesi della terra in cui si
celebra tale istituzione, e nel quale anche i più stoici cadono in
qualche follia. Ora, siccome il carnevale si apriva il giorno dopo,
era necessario che Albert stabilisse prima il suo programma.
Albert dunque, allo scopo, aveva preso in affitto uno dei palchi più
in vista del teatro, e per recarvisi si era vestito in un modo
irreprensibile. Il palco era in prima fila, la quale sostituisce la
galleria dei teatri francesi. Del resto, le tre prime file di palchi
sono tutte ugualmente e indistintamente aristocratiche, e per questo
si chiamano le file nobili. Questo palco, nel quale si poteva stare
in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno di un palco a
quattro posti all’Ambigu. Albert aveva anche un’altra speranza: se
fosse riuscito a conquistare il cuore di una bella romana, ciò lo
avrebbe naturalmente condotto anche a conquistare un posto in una
carrozza, e di conseguenza a vedere il corso mascherato dall’alto di
una carrozza aristocratica o da una finestra principesca. Tutte
queste considerazioni lo rendevano perciò irrequieto. Egli voltava
le spalle agli attori, si sporgeva a metà fuori del palco guardando
le più belle donne con un cannocchiale lungo quindici centimetri,
cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di un solo
sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di Albert.
Difatti ognuna parlava dei propri affari, dei propri amori, del
carnevale che cominciava l’indomani, senza fare attenzione né agli
attori, né alla musica, a eccezione dei momenti in cui si voltava
verso il palcoscenico per sentire un brano di Cosselli, per
applaudire a qualche bella nota di Moriani, o per gridare brava alla
Spech. Poi le conversazioni riprendevano il loro corso abituale.
Verso la fine del primo atto si aprì la porta di un palco rimasto
vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla quale
aveva avuto l’onore di essere stato presentato a Parigi e che
credeva ancora in Francia. Albert vide il movimento che fece il suo
amico a quella comparsa, e voltandosi verso di lui disse: «Conoscete
forse quella signora?»
«Sì, che ve ne pare?»
«Graziosa, mio caro; e bionda. Oh, che capelli adorabili! È
francese?»
«No, è veneziana.»
«Come si chiama?»
«La contessa G.»
«Oh, la conosco di nome», esclamò Albert. «Dicono che sia tanto
spiritosa quanto è bella. Perbacco, avrei potuto farmi presentare a
lei a Parigi all’ultimo ballo della Villefort, e non l’ho fatto,
sono un vero stupido!»
«Volete che ripari a questo torto?» domandò Franz.
«Come! Voi la conoscete con abbastanza intimità per condurmi nel suo
palco?»
«Ho avuto l’onore di parlarle tre o quattro volte in vita mia, ma
ciò basta per non commettere una sconvenienza.»
In quel momento la contessa riconobbe Franz, e con la mano gli fece
un grazioso cenno, al quale egli rispose inchinando rispettosamente
il capo.
«Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!» disse Albert.
«Ecco ciò che vi inganna, e a noi francesi farà sempre commettere
mille sciocchezze all’estero: vedere ogni cosa unicamente dal nostro
punto di vista. In Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate
mai della intimità delle persone dalla libertà dei rapporti. Io e la
contessa ci troviamo simpatici, ecco tutto.»
«Simpatici di cuore?» domandò ridendo Albert.
«No, di spirito…» rispose Franz serio.
«E in quale occasione?»
«In occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che
abbiamo fatto insieme.»
«Al chiaro di luna?»
«Sì.»
«Soli?»
«Quasi.»
«E avete parlato?…»
«Di morti.»
«Ah, doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene, vi prometto che
se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa in
una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi.»
«E forse farete male.»
«Intanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso.»
«Non appena sarà calato il sipario.»
«Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!»
«Ascoltate il finale, è bellissimo, e Cosselli lo canta
mirabilmente.»
«Sì, ma che portamento!»
«Non si può essere però più drammatici della Spech.»
«Quando si è udito la Sontag e la Malibran…»
«Non trovate eccellente il metodo di Moriani?»
«A me non piacciono i bruni che cantano biondo.»
«Ah, mio caro», disse Franz voltandosi, mentre Albert continuava a
puntare il suo cannocchiale, «in verità siete molto difficile da
accontentare.»
Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte di
Morcerf, che prese il cappello, si ravviò i capelli, si sistemò la
cravatta, i polsini, e disse a Franz che era pronto. Siccome la
contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, gli aveva fatto un
segno impercettibile con gli occhi, per fargli capire che sarebbe
stato il benvenuto, non tardò a soddisfare la premura di Albert, e
mentre faceva il giro dell’emiciclo, il compagno ne approfittava per
accomodare le pieghe sul colletto della camicia, e sul rovescio
dell’abito. Bussarono alla porta del palco numero 4, che era quello
occupato dalla contessa. Subito il giovane, che sedeva a lato della
contessa, si alzò cedendo il posto, secondo l’usanza italiana, al
nuovo arrivato, che deve cederlo a sua volta quando c’è un’altra
visita.
Franz presentò Albert alla contessa come uno dei giovani parigini
più distinti per la sua posizione sociale e per il suo spirito, cosa
d’altra parte vera, perché a Parigi e nell’ambiente in cui viveva
Albert era ritenuto un vero gentiluomo. Aggiunse che, dispiaciuto di
non aver saputo approfittare del soggiorno della contessa a Parigi
per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato di riparare a questo
errore, missione che egli adempiva, pregando la contessa di
perdonare la sua indiscrezione. La contessa rispose facendo un
grazioso saluto ad Albert e tendendo la mano a Franz. Invitato da
lei, Albert prese il posto rimasto vuoto al suo fianco, e Franz si
sedette dietro la contessa. Albert aveva trovato un ottimo argomento
di conversazione: Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni
conoscenze. Franz capì che l’amico era sul terreno che gli
conveniva, lo lasciò parlare, e chiestogli il grosso cannocchiale,
si mise anch’egli a esplorare il teatro.
Sola, appoggiata al parapetto di un palco di terza fila, davanti a
loro, c’era una donna molto bella, vestita alla greca e con tanta
grazia che si capiva essere quello il suo modo di vestire abituale.
Dietro di lei, nell’ombra, si delineava la forma di un uomo di cui
era impossibile distinguere il viso. Franz interruppe la
conversazione di Albert con la contessa per chiedere a quest’ultima
se conosceva la bella greca, tanto degna di attirare l’attenzione
non solo degli uomini, ma anche delle donne.
«No», disse lei, «tutto ciò che so, è che si trova a Roma
dall’inizio della stagione; perché all’apertura del teatro l’ho
vista dove è ora, e da un mese non è mai mancata a una
rappresentazione, ora accompagnata dall’uomo con lei in questo
momento, ora semplicemente seguita da un domestico nero.»
«Come la trovate, contessa?»
«Estremamente bella. Medora doveva assomigliare a quella donna.»
Franz e la contessa si scambiarono un sorriso, poi lei riprese a
conversare con Albert, e Franz seguitò a fissare la bella greca.
Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei
migliori balli italiani, messo in scena dal famoso Henri, che come
coreografo, si era fatto in Italia una reputazione colossale, che
poi il disgraziato perse al Teatro Nautico, per uno di quei balli
dove dal primo interprete all’ultima comparsa tutti prendono parte
attiva all’azione, e centocinquanta persone fanno nello stesso tempo
lo stesso gesto, e alzano o il medesimo braccio o la medesima gamba.
Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi
interessare al ballo. Quanto a lei, provava un manifesto piacere a
quello spettacolo, piacere che contrastava con la noncuranza di
colui che l’accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione
coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al rumore
infernale che facevano le trombe, i cembali e i piatti cinesi
dell’orchestra, egli godesse le celestiali dolcezze di un sonno
pacifico.
Finalmente il ballo terminò, e il sipario calò in mezzo agli
applausi frenetici di una platea entusiasta. Per quest’abitudine di
separare col ballo i due atti dell’opera, gi intermezzi fra un atto
e l’altro sono brevissimi in Italia: i cantanti hanno tutto il tempo
di riposare e di cambiarsi d’abito mentre i ballerini eseguono le
loro danze.
Il preludio del secondo atto cominciò.
Franz vide che, ai primi accordi di violino, l’assonnato sconosciuto
andava alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si
voltò per dirgli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al
parapetto del palco. La figura del suo interlocutore era sempre
nell’ombra, e Franz non poteva distinguerne i tratti del volto.
Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente
l’attenzione di Franz; gli occhi lasciarono per un momento il palco
della bella greca per andare verso la scena.
Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno:
Parisina, dormendo, si lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto
del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori
della gelosia, fino a che, convinto dell’infedeltà della sposa, la
sveglia per annunciarle la sua imminente vendetta. Questo duetto è
uno dei più belli, dei più espressivi, dei più tragici usciti dalla
penna di Donizetti. Franz lo sentiva per la terza volta, e sebbene
non passasse per un melomane, produsse su di lui un effetto
profondo. Stava per aggiungere i suoi applausi a quelli del
pubblico, allorché le sue mani rimasero sospese in aria, e il
«bravi» che stava per uscirgli di bocca gli morì sulle labbra.
L’uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva
rischiarata dalla luce: Franz riconobbe in lui il misterioso
abitante di Montecristo, quello che la sera prima gli era sembrato
di aver riconosciuto fra le rovine del Colosseo.
Non c’era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma.
Senza dubbio, l’espressione del viso di Franz era in armonia col
turbamento causatogli da quell’apparizione, poiché la contessa lo
guardò, scoppiò in una risata, e gli domandò che cosa avesse.
«Signora contessa», rispose Franz, «poco fa vi ho domandato se
conoscevate quella donna greca: ora vi domando se conoscete suo
marito.»
«Non più di lei!» rispose la contessa.
«L’avete mai osservato?»
«Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane
non c’è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!»
«È giusto!» rispose Franz.
«In ogni modo», disse lei applicando ai suoi occhi il cannocchiale
di Albert, e puntandolo verso il palco, «lui dev’essere un qualche
redivivo, qualche morto uscito dalla tomba col permesso dei
becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido.»
«È sempre così…» rispose Franz.
«Voi dunque lo conoscete?» domandò la contessa. «Allora sono io che
vi chiedo chi è?»
«Credo di averlo visto altre volte, e mi pare di riconoscerlo.»
«Infatti», disse lei, facendo un movimento con le sue belle spalle
come se un brivido le percorresse, «capisco che quando un tal uomo
si è visto una volta, non lo si dimentica più.»
L’effetto che Franz aveva provato non era dunque un’impressione
individuale, perché un’altra persona l’aveva sentita al pari di lui.
«Ebbene» domandò Franz alla contessa dopo che l’ebbe guardato una
seconda volta, «che ne pensate di quell’uomo?»
«A me sembra che sia lord Ruthwen in carne e ossa.»
Infatti quel nuovo ricordo di lord Byron colpì Franz: se qualcuno
poteva fargli credere all’esistenza dei vampiri, era quello.
«Bisogna ch’io sappia chi è…» disse Franz alzandosi.
«Oh no», esclamò la contessa, «no, non mi lasciate! Conto su di voi
per essere accompagnata a casa, e ora vi trattengo.»
«Come», le disse Franz, chinandosi al suo orecchio, «avete paura?»
«Sentite», disse lei, «Byron mi ha giurato che credeva ai vampiri,
mi ha assicurato di averne visti, e me ne ha descritto i loro visi;
ebbene, assomigliano perfettamente a quell’uomo là, con i capelli
neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallore
mortale; poi notate che non è con una donna come tutte le altre, è
con una straniera… una greca… una scismatica… senza dubbio con una
maga al par di lui… Ve ne prego, non andatevene. Domani vi metterete
sulle sue tracce, se così vi aggrada, ma questa sera vi ritengo
impegnato.»
Franz insistette.
«Ascoltate», disse lei alzandosi, «io me ne vado, non posso fermarmi
sino alla fine dello spettacolo, perché ho gente in casa che mi
aspetta… Sareste così poco galante da negarmi la vostra compagnia?»
Franz non aveva altra risposta da dare che prendere il suo cappello,
aprire la porta e offrire il braccio alla contessa. E questo fece.
La contessa era effettivamente molto commossa: lo stesso Franz non
poteva sfuggire a un certo timore superstizioso, tanto più naturale
in quanto ciò che nella contessa era l’effetto di una sensazione
istintiva, in lui era il risultato di un ricordo. Nel salire in
carrozza sentì che la contessa tremava. La accompagnò fino a casa:
non era vero che era attesa, e lui la rimproverò.
«In verità», disse lei, «non mi sento bene, e ho bisogno di essere
lasciata sola: la vista di quell’uomo mi ha sconvolta.»
Franz rise.
«Non ridete», gli disse lei, «d’altra parte, non ne avete voglia
neppure voi. Promettetemi una cosa…»
«E quale?»
«Promettetela.»
«Tutto quello che vorrete, eccetto di rinunciare a scoprire chi è
quell’uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi, per desiderare di
sapere chi sia, donde venga e dove vada.»
«Donde venga non lo so, ma dove vada, ve lo posso dire con certezza:
va all’inferno.»
«Ritorniamo alla promessa che volevate da me, contessa.»
«Ah, è di tornare direttamente al vostro albergo e di non cercare di
vedere, per questa sera, quell’uomo. Vi è una certa affinità fra le
persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate
servire da tramite fra quell’uomo e me. Domani corretegli dietro
come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete
vedermi morire di paura. Dopo di ciò, buonasera; cercate di dormire
bene; quanto a me, sento che non chiuderò occhio!»
Con queste parole la contessa si congedò da Franz, lasciandolo nel
dubbio se si era divertita alle sue spalle, o se aveva veramente
sentito la paura espressa.
Ritornando in albergo, Franz trovò Albert in veste da camera, con
larghi calzoni e voluttuosamente seduto sopra una poltrona, fumando
un sigaro.
«Ah, siete voi», disse, «non vi aspettavo che domattina.»
«Mio caro Albert», rispose Franz, «colgo l’occasione di dirvi, una
volta per tutte, che avete la più falsa idea delle donne italiane;
mi sembra però che le vostre delusioni amorose avrebbero dovuto
farvela perdere.»
«Che volete, non c’è niente da capire con questi diavoli di donne:
vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce
all’orecchio, si fanno accompagnare a casa; con un quarto appena di
tutto ciò una parigina perderebbe la sua reputazione.»
«Eh, è appunto perché non hanno nulla da nascondere, perché agiscono
alla luce del giorno, che le donne non usano tanti riguardi nel “bel
paese là ove il sì suona”, come dice Dante. D’altra parte, avete
visto anche voi, la contessa ha avuto veramente paura.»
«Paura di chi? Di quell’onest’uomo di fronte a noi con quella bella
greca? Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono andato
loro incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete preso tutte
le vostre idee dell’altro mondo! È un bellissimo giovane molto
elegante, e gli abiti hanno l’aspetto d’esser fatti in Francia da
Blin o da Humann. È un po’ pallido, è vero, ma voi sapete che il
pallore è un segno di distinzione.»
Franz sorrise, perché Albert aveva la pretesa d’esser pallido.
«Io pure», disse Franz, «sono convinto che le idee della contessa su
quell’uomo siano prive di buon senso. Ha parlato mentre gli eravate
vicino, e avete udito qualcuna delle sue parole?»
«Ha parlato, ma in greco moderno; ho riconosciuto la lingua da
qualche parola greca alterata. Bisogna che sappiate, mio caro, che
in collegio ero molto bravo in greco.»
«Parlava dunque in greco.»
«È probabile.»
«Non vi è dubbio», mormorò Franz, «è lui.»
«Che dite?»
«Niente… Ma che facevate voi, là?»
«Vi preparavo una sorpresa.»
«Quale?»
«Sapete che è impossibile trovare una carrozza?»
«Perbacco! Dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente
possibile fare…»
«Ebbene, ho un’idea meravigliosa.»
Franz guardò Albert, come non avesse gran fiducia nella sua
immaginazione.
«Mio caro», disse Albert, «mi onorate di uno sguardo tale, che
meriterebbe vi domandassi soddisfazione.»
«Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa
quanto dite.»
«Ascoltate.»
«Ascolto.»
«Non c’è mezzo di procurarsi una carrozza?»
«No.»
«Neanche cavalli?»
«Nemmeno.»
«Ma sarebbe facile procurarsi un carretto?»
«Forse.»
«E un paio di buoi?»
«È probabile.»
«Ebbene, mio caro, ecco ciò che ci serve. Faccio ornare il carretto,
ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo al naturale
il magnifico quadro di Léopold Robert. Se per una maggior
somiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia delle donne di
Pozzuoli o di Sorrento, completerebbe la mascherata, ed è tanto
bella che la si scambierebbe per l’originale del quadro.»
«Perbacco», gridò Franz, «questa volta avete ragione, ecco un’idea
veramente felice.»
«E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni, mio caro. Ah,
signori romani, voi credete che si voglia andare a piedi per le vie,
come lazzaroni, e ciò perché avete penuria di carrozze e di cavalli?
Ebbene, se ne farà a meno.»
«E avete già fatto partecipe qualcuno di questa bella invenzione?»
«Il nostro albergatore. Quando sono rientrato, l’ho fatto salire e
gli ho esposto i miei desideri. Mi ha assicurato che non vi è nulla
di più facile. Volevo far dorare le corna dei buoi, ma mi ha detto
che occorrerebbero almeno tre giorni: bisognerà dunque che
tralasciamo il superfluo.»
«E dov’è lui?»
«Chi?»
«Il nostro albergatore…»
«In cerca del necessario; domani forse sarebbe tardi.»
«Di modo che ci darà la risposta questa sera stessa?»
«Io l’aspetto.»
In quel momento la porta si aprì, e Pastrini sporse la testa: «È
permesso?» disse.
«Certamente», gridò Franz.
«Ebbene», disse Albert, «avete trovato il carretto e i buoi?»
«Ho trovato di meglio», rispose, con un’aria molto soddisfatta.
«Ah, mio caro Pastrini, state in guardia», disse Albert. «Il meglio
è nemico del bene.»
«Le Eccellenze Vostre si fidino di me», disse Pastrini col tono di
persona sicura.
«Ma infine che cosa c’è?» domandò Franz a sua volta.
«Sapete», disse l’albergatore, «che il conte di Montecristo abita su
questo stesso piano?»
«Credo bene che lo sappiamo», disse Albert, «poiché è per lui che
siamo alloggiati come due studenti della rue Saint-Nicolas du
Chardonnet!»
«Ebbene, egli sa del vostro imbarazzo, e vi offre due posti nella
sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli.»
Albert e Franz si guardarono.
«Ma», domandò Albert, «dobbiamo accettare l’offerta di questo
straniero? Di un uomo che non conosciamo?»
«Che uomo è, questo conte di Montecristo?» domandò Franz
all’albergatore.
«Un ricchissimo signore siciliano o maltese, non lo so precisamente,
ma nobile come un borghese, e ricco come una miniera d’oro.»
«Mi sembra», disse Franz, «che, se questo signore avesse avuto le
maniere che decanta il nostro albergatore, avrebbe dovuto farci
giungere il suo invito in un altro modo, o con un biglietto, o…»
In quell’istante bussarono alla porta.
«Entrate», disse Franz.
Un domestico in elegante livrea comparve sulla soglia della camera.
«Vengo da parte del conte di Montecristo a recare questo biglietto
per il signor Franz di Epinay e per il signor visconte Albert di
Morcerf», disse.
E consegnò all’albergatore il biglietto che questi passò ai giovani.
«Il signor conte di Montecristo», continuò il domestico, «domanda a
questi signori il permesso di potersi presentare a loro, come
vicino, domattina; desidera perciò sapere a quale ora.»
«In fede mia», disse Albert a Franz, «non c’è niente da ridire; c’è
tutto.»
«Dite al conte», rispose Franz, «che sarà nostro l’onore di fargli
visita.»
Il domestico si ritirò.
«Ecco ciò che si chiama fare sfoggio di eleganza», disse Albert.
«Avevate davvero ragione, Pastrini, il vostro conte di Montecristo è
un uomo che conosce perfettamente le buone maniere.»
«Allora accettate la sua offerta?» disse Pastrini.
«In fede mia, sì», rispose Albert. «Anche se, ve lo confesso, mi
dispiace per il nostro carretto da mietitori, e se non vi fosse
stata la finestra del palazzo Ruspoli per compensare ciò che
perdiamo, credo che ritornerei alla mia prima idea: che ne dite
Franz?»
«Dico che sono proprio le finestre del palazzo Ruspoli che mi hanno
fatto decidere di accettare», rispose Franz.
Infatti quell’offerta dei due posti a una finestra del palazzo
Ruspoli aveva ricordato a Franz la conversazione udita fra le rovine
del Colosseo, tra l’uomo del mantello e il trasteverino,
conversazione nella quale l’uomo del mantello si era impegnato a
ottenere la grazia del condannato. Se questi era, come tutto faceva
credere a Franz, lo stesso che gli era apparso al teatro Argentina,
lo avrebbe riconosciuto senza dubbio, e allora non avrebbe avuto più
alcun ostacolo a soddisfare la curiosità.
Franz passò buona parte della notte a pensare alle due apparizioni,
e nel desiderare l’indomani. Infatti, l’indomani tutto doveva
chiarirsi e, a meno che il suo ospite di Montecristo non possedesse
l’anello di Gige e la facoltà di rendersi invisibile, era evidente
che questa volta non gli sarebbe sfuggito. Si svegliò prima delle
otto. Quanto ad Albert, siccome non aveva gli stessi motivi di Franz
per essere mattiniero, dormiva ancora profondamente. Franz fece
chiamare l’albergatore, che si presentò coi soliti ossequi.
«Pastrini», gli disse, «non ci deve essere oggi un’esecuzione?»
«Sì, Eccellenza; ma se lo domandate per avere una finestra è troppo
tardi.»
«No», rispose Franz, «d’altra parte, se volessi assolutamente vedere
questo spettacolo, credo troverei un posto sul Pincio.»
«Oh, presumevo che Vostra Eccellenza non volesse mescolarsi con
tutta quella plebaglia di cui il Pincio è in qualche modo
l’anfiteatro naturale.»
«È probabile che non vi andrò», disse Franz, «ma desidererei qualche
particolare.»
«Quale?»
«Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi, e il genere
del loro supplizio.»
«Non poteva capitare più a proposito, Eccellenza, proprio in questo
momento mi hanno portato le tavolette.»
«Che cosa sono queste tavolette?»
«Le tavolette sono quadretti di legno che vengono attaccati agli
angoli delle vie il giorno prima dell’esecuzione e sulle quali sono
scritti i nomi dei condannati, la causa della loro condanna e il
genere di supplizio. Questo avviso ha lo scopo d’invitare i fedeli a
pregare Dio di concedere ai colpevoli un sincero pentimento.»
«E ve le portano perché uniate le vostre preghiere a quelle dei
fedeli?» domandò Franz.
«No, Eccellenza, io sono d’accordo con quello che le attacca, e me
ne porta una copia, come mi porta un programma dello spettacolo,
affinché se qualcuno dei miei ospiti desidera assistere
all’esecuzione, ne sia avvertito.»
«Ma è un tratto di delicatezza squisita, il vostro!»
«Oh», disse Pastrini, «non faccio per vantarmi, ma cerco di fare
tutto il possibile per soddisfare i nobili avventori che mi onorano
della loro fiducia.»
«Me ne accorgo, e lo ripeterò a chi vorrà ascoltarmi, siatene pur
sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette.»
«È presto fatto», disse l’albergatore aprendo la porta, «ne ho fatto
appendere una qui sul pianerottolo.»
Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz. Ecco le parole
dell’affisso patibolare: «Si rende noto a tutti, che martedì 22
febbraio, primo giorno di carnevale, saranno, per decreto del
Tribunale e della Sacra Rota, giustiziati sulla piazza del Popolo il
nominato Andrea Rondolo, reo di assassinio sulla persona di un
rispettabilissimo cittadino di Roma; e il nominato Peppino detto
Rocca Priori, complice confesso del detestabile bandito Luigi Vampa
e degli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, e il
secondo decapitato. Le anime caritatevoli sono pregate di domandare
a Dio un sincero pentimento per questi due infelici condannati».
Questo era ciò che Franz aveva udito fra le rovine del Colosseo, e
non era stato cambiato nulla al programma: i nomi dei condannati, la
causa del supplizio e il genere di esecuzione erano esattamente gli
stessi. Così, secondo ogni probabilità, il trasteverino non era
altro che il bandito Luigi Vampa, e l’uomo dal mantello scuro Sinbad
il marinaio che a Roma come a Porto Vecchio e a Tunisi proseguiva il
corso delle sue filantropiche spedizioni.
Intanto il tempo passava; erano le nove, e Franz si disponeva ad
andare a svegliare Albert, quando con sua grande sorpresa lo vide
uscire di camera vestito di tutto punto.
«Ebbene», disse Franz all’albergatore, «ora che siamo pronti tutti e
due, credete che potremmo presentarci al conte di Montecristo?»
«Certamente; ha l’abitudine di alzarsi di buon mattino, e sono
sicuro che è alzato da più di due ore.»
«E credete che non sarà indiscreto fargli visita a quest’ora?»
«No, certamente.»
«In questo caso, Albert, se siete pronto…»
«Perfettamente pronto.»
«Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia.»
«Andiamo.»
Franz e Albert non avevano che il pianerottolo da attraversare.
L’albergatore li precedeva, e suonò in loro vece; un domestico venne
ad aprire.
«I signori francesi», disse l’albergatore.
Il domestico s’inchinò e fece loro segno di entrare. Essi
attraversarono due camere ammobiliate con un lusso che non credevano
di trovare nell’albergo di Pastrini, e furono introdotti in un
salotto arredato con perfetta eleganza. Un tappeto turco era steso
sul pavimento, e i sedili più comodi offrivano i loro cuscini
imbottiti e i loro schienali inclinati indietro. Magnifici quadri
d’autore, frammezzati da trofei di splendide armi, erano appesi alle
pareti, e ricchi panneggi pendevano davanti a tutte le porte.
«Se le Loro Eccellenze vogliono accomodarsi», disse il domestico,
«vado ad avvisare il signor conte.»
E disparve da una porta. Nel momento in cui questa si aprì, il suono
di una guzla giunse fino ai due amici, ma si spense subito; la
porta, richiusa quasi nello stesso istante in cui fu aperta, non
aveva lasciato passare nel salone che, per così dire, un soffio
d’armonia. Franz e Albert si scambiarono uno sguardo, e tornarono a
volgere la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. A
questa seconda ispezione tutto sembrò ancor più magnifico che alla
prima.
«Ebbene», domandò Franz al suo amico, «che ne dite?»
«In fede mia, mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia un
qualche agente di cambio che ha speculato al ribasso sui fondi
spagnoli, o qualche principe che viaggia in incognito.»
«Zitto», gli disse Franz, «è quanto sapremo fra poco, eccolo…»
Infatti il rumore di una porta che girava sui cardini si fece
sentire, e quasi subito i panneggi si scostarono per lasciar passare
il proprietario di tante ricchezze.
Albert gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto. Colui che
entrava era infatti l’uomo dal mantello scuro del Colosseo, lo
sconosciuto del palco, l’ospite misterioso di Montecristo.
35. Il patibolo
«Signori», disse il conte di Montecristo, «vi faccio le mie scuse
per essermi lasciato prevenire; ma avrei avuto timore di essere
indiscreto presentandomi prima da voi. D’altra parte, mi avevate
fatto dire che sareste venuti, e io mi sono tenuto a vostra
disposizione.»
«Io e Franz dobbiamo farvi mille ringraziamenti, signor conte»,
disse Albert. «Ci avete tolto da un grande imbarazzo, e stavamo per
ricorrere a un bizzarro espediente nel momento in cui ci arrivò il
vostro grazioso invito.»
«Mio Dio, signori», rispose il conte facendo segno con gli occhi ai
due giovani di sedersi sopra un divano, «la colpa è di questo
imbecille di Pastrini che non mi ha detto prima il vostro imbarazzo,
e vi ha lasciato per così lungo tempo nell’incertezza; solo e
isolato come sono qui, non cercavo che un’occasione di far
conoscenza con i miei vicini. Cosicché appena seppi di poter esservi
utile in qualche cosa, avete visto con quale fretta ho afferrato
l’occasione di prestarvi i miei servigi.»
I due giovani s’inchinarono. Franz non aveva ancora trovato una sola
parola da dire, non aveva ancora preso alcuna decisione, e poiché il
conte sembrava non avesse volontà di riconoscerlo, o alcun desiderio
di essere riconosciuto da lui, non sapeva se doveva fare allusione
al passato con una parola qualunque, o lasciare il tempo
all’avvenire per portargli nuove prove. D’altra parte, essendo certo
che era quello stesso della sera prima nel palco, non poteva
ugualmente assicurare che fosse quello al Colosseo di due sere
prima: decise dunque di lasciar andare le cose senza fare alcuna
domanda diretta al conte. Del resto, aveva un vantaggio su di lui,
conosceva il suo segreto, mentre al contrario il conte non poteva
avere alcun potere su Franz, che non aveva nulla da nascondere.
Mentre aspettava gli avvenimenti decise di far cadere la
conversazione su un punto che potesse sempre condurre a dei
chiarimenti.
«Signor conte», disse, «ci avete offerto due posti nella vostra
carrozza e altri due alle finestre del palazzo Ruspoli; potreste ora
indicarci come potremmo fare per procurarci un posto qualunque sulla
piazza del Popolo?»
«Sì, è vero», disse il conte in modo distratto, ma guardando Morcerf
con attenzione, «ci deve essere, se non sbaglio, in piazza del
Popolo qualche cosa di simile a un’esecuzione.»
«Sì», rispose Franz, notando che veniva da sé dove voleva condurlo.
«Aspettate, credo di aver detto ieri al mio intendente di occuparsi
di questo, e forse potrò rendervi anche questo piccolo favore.»
Allungò una mano e tirò il cordone del campanello. Subito entrò un
individuo sui cinquant’anni che somigliava come una goccia d’acqua a
quel contrabbandiere che aveva introdotto Franz nella grotta, ma che
non fece minimamente segno di riconoscerlo.
«Bertuccio», disse il conte, «vi siete incaricato, come ordinai
ieri, di trovarmi una finestra sulla piazza del Popolo?»
«Sì, Eccellenza», rispose l’intendente, «ma era troppo tardi.»
«Come», disse il conte, aggrottando il sopracciglio, «vi avevo
ordinato di trovarne una!»
«E Vostra Eccellenza l’avrà; è una finestra che era stata data in
affitto al principe Lobanieff; ma sono stato costretto a pagarla
cento…»
«Va bene, va bene, Bertuccio, risparmiate a questi signori dei
particolari inutili; voi avete trovato la finestra e questo è
l’importante. Date l’indirizzo della casa al cocchiere, e
trattenetevi sulla scala per accompagnarci. E ora andate.»
L’intendente salutò, e fece un passo per ritirarsi.
«Aspettate!» riprese il conte. «Fatemi il favore di domandare a
Pastrini se ha ricevuto la tavoletta, e se vuole inviarmi il
programma dell’esecuzione.»
«È inutile», rispose Franz cavando il taccuino di tasca, «ho avuto
quella tavoletta sotto gli occhi, e l’ho copiata, eccola.»
«Allora, Bertuccio, potete ritirarvi, non ho più bisogno di voi. Che
ci avvisino soltanto quando sarà pronta la colazione. Questi
signori», continuò rivolgendosi ai due amici, «mi faranno l’onore di
far colazione con me?»
«Davvero, signor conte», disse Albert, «sarebbe un abusare…»
«No, al contrario, mi fate un vero piacere… Mi renderete tutto ciò a
Parigi, l’uno o l’altro, e forse anche tutti e due… Bertuccio,
ordinate che preparino per tre.» E prese il taccuino dalle mani di
Franz. «Noi dicevamo dunque», continuò col tono con cui avrebbe
letto tutt’altro avviso, «che saranno giustiziati oggi 22 febbraio i
nominati Andrea Rondolo, reo d’assassinio sulla persona di un
rispettabilissimo cittadino di Roma, e il nominato Peppino detto
Rocca Priori complice confesso del detestabile bandito Luigi Vampa e
degli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, e il secondo
decapitato… Sì, infatti proprio così doveva andare la cosa, ma credo
che da ieri sia sopraggiunto qualche cambiamento nell’ordine della
cerimonia.»
«Ah», disse Franz, «quale cambiamento?»
«Sì, ieri sera dal cardinale Rospigliosi, presso il quale ho passato
la serata, si parlava di una dilazione accordata a uno dei due
condannati.»
«Ad Andrea Rondolo?» domandò Franz.
«No…», rispose con indifferenza il conte, «all’altro…», e guardando
il taccuino per ricordarsi il nome, «…a Peppino detto Rocca Priori…
Questo vi priverà di vedere in azione la ghigliottina, ma vi resta
l’altra esecuzione, che è un supplizio molto interessante, quando si
vede per la prima volta, e anche la seconda, mentre l’altro, che voi
certo dovete conoscere, è troppo semplice, troppo rapido, e nulla
c’è di inaspettato. La mannaia non sbaglia, non trema, non ripete
trenta volte il suo gesto come il soldato che tagliava la testa al
conte di Chalais, e al quale forse era stato raccomandato da
Richelieu. Ah», aggiunse il conte in tono sprezzante, «non mi
parlate degli europei per le esecuzioni capitali, non se ne
intendono affatto, e si trovano veramente allo stato d’infanzia o
piuttosto di vecchiaia in rapporto al dare la morte.»
«In verità, signor conte», rispose Franz, «si direbbe che avete
fatto uno studio comparato dei supplizi presso i diversi popoli del
mondo.»
«Ve ne sono pochi che io non abbia visto.»
«E avete provato piacere ad assistere a questi spettacoli?»
«Il mio primo sentimento fu la ripugnanza, il secondo
l’indifferenza, il terzo la curiosità.»
«La curiosità? La parola è terribile, sapete?»
«Perché? Non c’è nella vita una preoccupazione più grave di quella
della morte… Ebbene, non è curioso studiare in quanti differenti
modi l’anima può uscire dal corpo, e come, secondo i caratteri, i
temperamenti, e anche i costumi dei paesi, gli individui sopportino
questo supremo passaggio? Quanto a me vi risponderò una cosa, ed è
che, più si vede morire, più diventa facile il morire; per cui, a
mio modo di vedere, la morte è forse un supplizio, ma non
un’espiazione.»
«Non vi capisco bene», disse Franz, «spiegatevi, perché non potete
credere quanto punga la mia curiosità ciò che mi dite.»
«Ascoltate dunque», disse il conte, e il suo viso diventò di fiele
nello stesso modo che il viso di un altro si colora col sangue. «Se
un uomo avesse fatto morire fra torture inaudite, in mezzo a
tormenti senza fine, vostro padre, vostra madre, la vostra amante,
uno di quegli esseri che quando vengono sradicati dal nostro cuore
vi lasciano un vuoto eterno e una piaga sempre sanguinosa, credete
che fosse sufficiente la riparazione che vi accorda la società,
perché il ferro della ghigliottina è passato fra la base
dell’occipite e i muscoli delle spalle dell’assassino, e perché
colui che vi ha fatto soffrire lunghi anni di morali sofferenze, ha
provato qualche secondo di dolore fisico?»
«Sì, lo so», rispose Franz, «la giustizia umana è insufficiente come
consolatrice delle angosce sofferte; può versare sangue per sangue,
e niente più… Non bisogna però chiederle più di quello che può
dare.»
«Ma io mi sono limitato a esporvi un caso materiale», riprese il
conte, «quello in cui la società attaccata, per la morte violenta di
un individuo, nei principi sui quali si fonda, punisce la morte con
la morte. Ma non vi sono milioni di dolori dai quali possono essere
straziati le viscere dell’uomo, senza che la società se ne occupi
minimamente, senza ch’essa gli offra il mezzo insufficiente di
castigo di cui parlavamo or ora? Non vi sono delitti per i quali il
palo dei turchi, i trogoli dei persiani, i nervi attorcigliati degli
indiani sarebbero supplizi troppo lievi, e che tuttavia la società
indifferente lascia senza punizione? Rispondetemi, non vi sono
delitti così?»
«Sì, ed è per punirli che si tollera il duello in alcuni paesi.»
«Ah, il duello!» esclamò il conte. «Bella maniera di giungere alla
meta, quando questa è la vendetta! Un uomo vi rapisce l’amante,
seduce vostra moglie, disonora vostra figlia; di una vita intera,
che aveva il diritto di aspettarsi da Dio, la parte di felicità che
ha promesso a ogni uomo nel crearlo, ha fatto un’esistenza di
dolore, di miseria o di infamia, e voi vi credete vendicato perché a
quell’uomo, che vi ha messo il delirio nell’anima e la disperazione
nel cuore, avete passato il petto con la spada o attraversato la
testa con una pallottola? Senza calcolare che spesso è il reo che
riporta la vittoria nel duello, e viene così assolto agli occhi del
mondo. No, no», continuò il conte, «se dovessi mai vendicarmi, non
mi vendicherei così.»
«Voi disapprovate il duello? Dunque non vi battereste in duello?»
domandò a sua volta Albert, meravigliato nel sentire una tale
teoria.
«No certamente, non mi batterei», disse il conte.
«Ma», disse Franz al conte, «con questa teoria che vi costituisce
giudice e carnefice nella vostra causa, sarebbe difficile contenervi
nei limiti per fuggire gli estremi, che sono sempre pericolosi, e
converrete senza difficoltà, che l’odio è cieco, la collera sorda, e
colui che si mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda
amara.»
«Anche questo può essere vero, e qualche volta abbiamo visto
avverarsi ciò che ora affermate; ma, d’altra parte, il peggio che
potrebbe accadere a un tale che avesse violato la legge, sarebbe
d’incorrere in quest’ultimo supplizio di cui parlavamo or ora,
quello cioè che la filantropica rivoluzione francese ha sostituito
allo squartamento e alla ruota. Ebbene, che cos’è questo supplizio,
se si è vendicato? In verità, sono quasi dispiaciuto che, secondo
tutte le probabilità, questo miserabile Peppino non venga decapitato
come si dice, vedreste il tempo che vi s’impiega, e se merita la
pena di parlarne… Ma, sul mio onore, facciamo una conversazione
singolare per essere il primo giorno di carnevale. Cosa dicevamo?
Ah, mi ricordo: voi mi avete domandato un posto alla mia finestra…
Ebbene, l’avrete! Frattanto andiamo a tavola, poiché ecco che
vengono ad annunciare che tutto è pronto.»
Infatti un domestico aprì una delle quattro porte del salotto e
disse la consueta frase: «È servito in tavola!»
I due giovani si alzarono e passarono nella sala da pranzo.
Durante la colazione, che fu eccellente e servita con estrema
ricercatezza, Franz cercò con gli occhi lo sguardo d’Albert, per
leggervi l’impressione che dovevano necessariamente avergli fatto le
parole del loro ospite ma sia che, nella sua abituale noncuranza,
non vi avesse prestato grande attenzione, sia che la massima del
conte di Montecristo esternata in rapporto al duello lo avesse con
lui riconciliato, sia finalmente che gli antecedenti raccontati,
conosciuti particolarmente da Franz, avessero raddoppiato solo
l’effetto delle teorie del conte, non si accorse che il compagno
fosse preoccupato; anzi Albert faceva onore alla colazione come un
uomo condannato da quattro o cinque mesi a una cucina ben differente
dalla sua. Quanto al conte era in preda a una preoccupazione molto
viva, che pareva ispirata dalla persona di Albert, e assaggiò appena
ciascun piatto; si sarebbe detto, nel mettersi a tavola con i suoi
convitati, che adempisse un semplice dovere di cortesia, e che
aspettasse la loro partenza per farsi portare qualche cibo strano e
particolare. Ciò ricordava, suo malgrado, a Franz, il terrore che il
conte aveva ispirato alla contessa G. e la convinzione in cui
l’aveva lasciata che il conte, l’uomo che le aveva mostrato nel
palco di fronte a lei, era un vampiro. Alla fine della colazione,
Franz guardò l’orologio.
«Ebbene», gli disse il conte, «che cosa fate dunque?»
«Ci scuserete, signor conte», rispose Franz, «ma abbiamo ancora
mille cose da fare.»
«E quali?»
«Non abbiamo abiti da maschera, e oggi il mascherarsi è di rigore.»
«Non vi occupate di questo. A quanto sembra abbiamo sulla piazza del
Popolo una stanza privata; vi farò portare gli abiti che
m’indicherete e ci maschereremo là.»
«Dopo l’esecuzione?» gridò Franz.
«Dopo, durante o prima, come vorrete…»
«Dirimpetto al patibolo?»
«Il patibolo fa parte della festa.»
«Sentite, signor conte, vi ho riflettuto bene», disse Franz, «e vi
ringrazio della vostra gentilezza. Mi accontenterò di accettare un
posto nella vostra carrozza, e uno alla finestra del palazzo
Ruspoli; vi lascio libero di disporre del mio posto alla finestra di
piazza del Popolo.»
«Ma voi perderete, ve ne avverto, una cosa molto interessante»,
disse il conte.
«Me la racconterete», replicò Franz, «e sono convinto che dalla
vostra bocca il racconto mi farà quasi tanta impressione, quanta ne
potrei ricevere nel vedere il fatto. D’altra parte, più di una volta
ho progettato di assistere a un’esecuzione, e poi non mi sono mai
deciso. E voi, Albert?»
«Io», rispose il visconte, «ho visto giustiziare Castaing… ma credo
fossi un po’ sbronzo quel giorno, perché era il primo che uscivo di
collegio.»
«Ma», aggiunse il conte, «non è una ragione, che se non avete fatto
una cosa a Parigi non la dobbiate neppure fare all’estero; quando si
viaggia è per istruirsi: quando si cambia luogo è per vederne di
nuovi. Pensate dunque quale meschina figura fareste, quando si
facessero delle domande relativamente a queste esecuzioni a Roma, e
voi non sapeste rispondere altro che “Non le vidi”. E poi, si dice
che il condannato sia un infame malandrino, un birbante che ha
ucciso a colpi di alare un buon canonico che l’aveva allevato come
un figlio. Se viaggiaste in Spagna, non andreste a vedere i
combattimenti dei tori? Ebbene figuratevi sia un combattimento
quello che andiamo a vedere; ricordatevi degli antichi romani al
Circo, dove venivano uccisi trecento leoni e un centinaio di uomini;
rammentate quegli ottantamila spettatori che battevano le mani, o
quelle sagge matrone che vi conducevano le loro figlie per
maritarle, e quelle belle vestali dalle mani bianche che col pollice
facevano un graziosissimo e piccolo segno che voleva dire: “Via, non
siate pigri, finite di ammazzarmi quell’uomo, che è mezzo morto”.»
«Vi andrete dunque, Albert?» disse Franz.
«In fede mia, sì; esitavo come voi, ma l’eloquenza del conte mi ha
convinto.»
«Andiamoci dunque, poiché lo volete», disse Franz, «ma nel recarmi
alla piazza del Popolo desidererei passare per il Corso. È
possibile, signor conte?»
«A piedi sì, in carrozza non è permesso.»
«Ebbene, vi andrò a piedi.»
«Ma avete tanta necessità di passare per il Corso?»
«Sì, ho qualche cosa da sbrigare.»
«Ebbene, passiamo tutti per il Corso. Manderemo la carrozza per via
del Babuino ad aspettarci in piazza del Popolo. Del resto anch’io ho
piacere di passare per il Corso, onde vedere se sono stati eseguiti
alcuni ordini che ho dato.»
«Eccellenza», disse un domestico aprendo la porta, «un uomo vestito
da confratello della Buona Morte chiede di parlarvi.»
«Ah sì», disse il conte, «so di che si tratta. Signori, volete avere
la compiacenza di tornare in salotto? Troverete sulla tavola di
mezzo degli eccellenti sigari Avana… Vi raggiungerò fra poco.»
I due giovani si alzarono e uscirono da una porta, mentre il conte,
dopo aver rinnovato loro le scuse, uscì dall’altra. Albert, che era
un gran amante di sigari, e che non riteneva piccolo sacrificio
l’esser privo dei sigari del Café de Paris da che era in Italia, si
avvicinò alla tavola, e mandò un grido di gioia nel riconoscere del
veri puros.
«Ebbene», gli domandò Franz, «che pensate del conte di Montecristo?»
«Che ne penso?» disse Albert, visibilmente meravigliato che il
compagno gli facesse una simile domanda. «Penso che è un uomo
carissimo, che fa a meraviglia gli onori di casa, che ha molto
studiato, che ha riflettuto assai, che è come il Bruto della scuola
stoica, e», aggiunse, mandando una voluttuosa fumata che salì a
spirale verso il soffitto, «e che, oltre tutto ciò, possiede degli
eccellenti sigari.»
Questa era l’opinione di Albert sul conte. Siccome era noto a Franz
che Albert aveva la pretesa di non farsi mai un’opinione degli
uomini e delle cose che dopo mature riflessioni, Franz non tentò di
cambiar niente alla sua.
«Ma», disse, «non avete notato una cosa singolare?»
«E quale?»
«L’attenzione con cui vi guardava.»
Albert rifletté un poco.
«Ah», disse con un sospiro, «nulla di strano in questo: sono assente
da Parigi da quasi un anno, e debbo avere degli abiti di un taglio
dell’altro mondo. Il conte mi avrà preso per un provinciale.
Disingannatelo, caro amico, e ditegli, ve ne prego, alla prima
occasione, che non è vero.»
Franz sorrise; un momento dopo il conte rientrò.
«Eccomi, signori», disse, «e sono tutto per voi! Ho già dato gli
ordini necessari. La carrozza andrà in piazza del Popolo per la sua
strada, e noi andremo per la nostra, se lo desiderate ancora, cioè
per la strada del Corso. Su via, prendete dunque qualcuno di questi
sigari, signor Morcerf…» aggiunse, strisciando in modo singolare le
sillabe di questo nome che pronunciava per la prima volta.
«In fede mia, con gran piacere», disse Albert, «perché i sigari
italiani sono peggiori di quelli della manifattura francese; quando
verrete a Parigi vi renderò tutto questo.»
«E io non rifiuto; conto di andarvi per qualche giorno, e poiché me
lo permettete, verrò a bussare alla vostra porta. Andiamo, signori,
andiamo, non abbiamo tempo da perdere; è mezzogiorno e mezzo,
partiamo…»
Tutti e tre discesero. Allora il cocchiere, ricevuti gli ordini del
padrone, imboccò via del Babuino, mentre i pedoni risalivano per
piazza di Spagna, e per via Frattina che conduce direttamente fra il
palazzo Fiano e il palazzo Ruspoli. Gli sguardi di Franz furono
diretti alle finestre di quest’ultimo palazzo; non aveva dimenticato
il segnale convenuto al Colosseo, fra l’uomo del mantello scuro e il
trasteverino.
«Quali sono le vostre finestre?» domandò al conte col tono più
naturale che poté.
«Le ultime tre», rispose il conte con indifferenza, non potendo
indovinare il vero scopo della domanda.
Gli occhi di Franz si volsero rapidamente alle tre finestre. Quelle
laterali erano parate con un tappeto di damasco giallo, e quella in
mezzo con un tappeto di damasco bianco con una croce rossa. L’uomo
dal mantello scuro aveva dunque mantenuto la parola data al
trasteverino, e non c’era più dubbio, era precisamente il conte.
Le tre finestre erano vuote. Da tutte le parti si facevano
preparativi: si mettevano a posto le sedie, si ergevano palchi, si
paravano le finestre. Le maschere non potevano comparire, le
carrozze non potevano circolare che dopo il suono della campana del
Campidoglio; ma si fiutavano le maschere dietro a tutte le finestre,
e le carrozze dietro a tutte le porte.
Franz, Albert e il conte continuarono a discendere lungo il Corso: a
mano a mano che si avvicinavano a piazza del Popolo, la folla
diveniva più fitta, e, al di sopra di tutte quelle teste, si
vedevano due cose: l’obelisco sormontato da una croce, che indica il
centro della piazza, e davanti all’obelisco, proprio nel punto
corrispondente, visto da lontano, all’imbocco delle tre vie, del
Babuino, del Corso e di Ripetta, le due travi superiori del
patibolo, fra le quali luccicava la lama convessa della mannaia.
All’angolo della strada, c’era l’intendente del conte che aspettava
il padrone.
La finestra presa in affitto, a un prezzo senza dubbio esorbitante
che il conte non aveva voluto far conoscere ai suoi invitati, era al
secondo piano del gran palazzo situato fra la via del Babuino e il
Pincio: era in una specie di soggiorno che comunicava con una camera
da letto; chiudendo la porta di quest’ultima, quelli che avevano
preso in affitto il soggiorno stavano come in casa loro. Sulle sedie
erano appoggiati dei vestiti da pagliaccio, di seta bianca e celeste
della più grande eleganza.
«Avendomi lasciato la scelta dei costumi», disse il conte ai due
amici, «ho fatto preparare questi. Saranno ciò che di meglio verrà
indossato quest’anno, poi sono anche comodissimi poiché la farina
che getteranno si adatterà al costume.»
Franz non udì quasi le parole del conte, e forse non apprezzò con il
giusto valore questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua
attenzione era rivolta allo spettacolo che rappresentava la piazza
del Popolo e allo strumento terribile che ne formava in quell’ora il
principale ornamento. Era la prima volta che Franz vedeva una
ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la mannaia romana è
pressappoco della stessa forma del nostro strumento di morte. La
mannaia ha la forma di una mezzaluna, taglia dalla parte convessa e
cade da una minore altezza: ecco tutta la diversità!
Due uomini, seduti su un’asse ad altalena, dove viene steso il
condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz, del
pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l’asse, e ne estrasse un
fiasco di vino, ne bevve e lo passò al suo compagno: erano gli
aiutanti del boia! A quella sola vista, Franz aveva sentito il
sudore bagnargli la radice dei capelli.
I condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle
Carceri Nuove alla chiesa di Santa Maria del Popolo, e avevano
passato tutta la notte, assistiti ciascuno da due preti, in una
cappella chiusa da un’inferriata, davanti alla quale passeggiavano
le sentinelle cambiate d’ora in ora. Una doppia fila di gendarmi,
posti da ciascun lato della chiesa, si estendeva fino al patibolo,
intorno al quale si allargava in cerchio in modo da lasciar libero,
in mezzo alla folla, un passaggio di circa tre metri, e da formare
intorno al patibolo un circolo di un centinaio di passi di
circonferenza. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di
teste d’uomini e di donne, molte delle quali tenevano i loro bambini
sulle spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad
aver la testa al di sopra delle altre.
Il Pincio sembrava un vasto anfiteatro con i gradini gremiti di
spettatori; le finestre delle due chiese che formavano l’angolo
delle vie del Babuino e di Ripetta col Corso rigurgitavano di
curiosi privilegiati; gli scalini dei peristili sembravano un’onda
mossa e variopinta, che una marea incessante spingesse verso il
portico; ogni sporgenza di muro che potesse dare appoggio a un uomo
aveva la sua statua vivente.
Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è di più
attraente nella vita è lo spettacolo della morte. E invece del
silenzio, come dovrebbe essere nella solennità di un tale
spettacolo, un rumore assordante saliva da quella folla; un rumore
composto di risa, di urli, di grida gioiose. Era evidente, come
aveva detto il conte, che a questa esecuzione era intervenuta una
gran moltitudine di popolo, non per la cosa in sé ma per la
coincidenza col principio del carnevale.
D’improvviso tutto questo rumore cessò come per incanto; la porta
della chiesa era stata aperta. La confraternita detta di San
Giovanni Decollato comparve. Ciascun membro indossava un sacco
grigio con due soli fori per gli occhi, e teneva in mano una torcia
accesa; il capo di questa confraternita apriva la strada. Dietro ai
confratelli veniva un uomo di alta statura, nudo, a eccezione dei
calzoni di tela, alla cui cintola penzolava un gran coltello nel
fodero, e che portava sulla spalla destra una pesante mazza di
ferro: era il boia. Aveva i sandali allacciati al polpaccio con due
funicelle.
Dietro al boia camminavano, nell’ordine in cui dovevano esser
giustiziati, prima Peppino e poi Andrea; ciascuno accompagnato da
due preti. Né l’uno né l’altro avevano gli occhi bendati. Peppino
camminava con passo molto sicuro; senza dubbio avvisato di ciò che
si preparava per lui. Andrea invece era sostenuto dai due preti.
Entrambi baciavano, ogni decina di passi, il crocifisso che il
confessore presentava loro.
Franz, soltanto a quella vista, sentì venir meno le gambe; guardò
Albert. Era pallido come la sua camicia e aveva gettato via
istintivamente il sigaro, sebbene non lo avesse fumato che a metà.
Solo il conte pareva impassibile. Anzi, una leggera tinta rosea
adombrava il livido pallore delle sue guance, il naso si dilatava
come un animale che annusa il sangue, e le labbra lasciavano vedere
i denti bianchi, piccoli e aguzzi, come quelli di uno sciacallo.
Tuttavia il suo viso aveva un’espressione di dolcezza sorridente,
che Franz non gli aveva mai visto; gli occhi, soprattutto, erano
d’una ammirabile mansuetudine.
Frattanto i due condannati continuavano a camminare verso il
patibolo, e a mano a mano che avanzavano si potevano distinguere i
tratti del loro viso. Peppino era un bel giovane fra i ventiquattro
e i ventisei anni, dalla pelle abbronzata dal sole, con lo sguardo
libero e selvaggio. Teneva la testa alta, e sembrava fiutare il
vento per sapere da che parte sarebbe arrivato il liberatore. Andrea
era basso e tozzo; il viso, da delinquente, non rivelava la sua età,
ma poteva avere circa trent’anni. In prigione si era lasciato
crescere la barba. La testa inclinata sopra una spalla, le gambe gli
si piegavano sotto; tutto il suo essere sembrava obbedire a un
movimento meccanico, completamente estraneo alla sua volontà.
«Mi sembra abbiate detto», disse Franz al conte, «che vi sarà una
sola esecuzione.»
«Ho detto la verità», rispose egli freddamente.
«Però là ci sono due condannati.»
«Sì, ma di quei due, uno è sul punto di morire, l’altro vivrà ancora
molti anni.»
«Ma se deve essere graziato, non c’è tempo da perdere.»
«Infatti, guardate…» disse il conte.
Infatti, nel momento in cui Peppino arrivava ai piedi del patibolo,
un penitente, che sembrava giunto in ritardo, ruppe la fila senza
che i gendarmi si opponessero al suo passaggio, e avanzando,
presentò al capo della confraternita un foglio piegato in quattro.
Lo sguardo ardente di Peppino non aveva perso alcuno di questi
particolari; il capo della confraternita spiegò il foglio, lo lesse
e alzò la mano.
«Il Signore sia benedetto e Sua Santità sia lodata!» disse ad alta e
intelligibile voce. «C’è la grazia della vita per uno dei
condannati».
«Grazia!» gridò il popolo con un solo grido. «C’è la grazia!»
Alla parola «grazia», Andrea si scosse e alzò la testa.
«Grazia per chi?» gridò.
Peppino restò immobile, muto e anelante.
«È la grazia della pena di morte per Peppino detto Rocca Priori»,
disse il capo della confraternita.
E passò il foglio nelle mani del capitano dei gendarmi, che dopo
averlo letto glielo rese.
«Grazia per Peppino!» gridò Andrea, ridestatosi dallo stato di
torpore in cui sembrava immerso. «Perché grazia per lui e non per
me? Noi dovevamo morire insieme, mi era stato promesso che sarebbe
morto prima di me, e non si ha diritto di farmi morire solo, non
voglio morire solo, non lo voglio!»
E si aggrappò alle braccia dei due preti, contorcendosi, urlando,
ruggendo e facendo sforzi insensati per resistere al boia che
voleva, a quell’impeto imprevisto, legargli nuovamente le mani. Il
boia fece un segno ai suoi due aiutanti, che saltarono giù dal
patibolo e corsero a impadronirsi del condannato.
«Che accade dunque?» domandò Franz al conte, poiché la distanza non
gli permetteva di intendere le parole.
«Che accade?» disse il conte. «Non lo indovinate? Accade che quella
creatura umana che va alla morte, è furiosa perché il suo simile non
muore con lei, e se si lasciasse fare lo sbranerebbe con le unghie e
con i denti piuttosto di lasciarlo godere della vita di cui sarà in
breve privata. Oh, uomini, uomini! Razza di coccodrilli, come disse
Karl Moor», gridò il conte stendendo i due pugni verso tutta quella
folla, «come vi riconosco bene, in ogni tempo siete sempre degni di
voi stessi.»
Infatti Andrea e i due aiutanti del boia si rotolavano nella
polvere, e il condannato gridava sempre: «Deve morire, voglio che
muoia! Non hanno il diritto di farmi morire solo!»
«Guardate, guardate…» disse il conte, afferrando ciascuno dei due
giovani per la mano, «guardate, perché, sull’anima mia, è una cosa
singolare: ecco un uomo che era rassegnato alla sua sorte, che
camminava verso il patibolo, che andava a morire come un vile, è
vero, ma pure andava a morire senza resistenza e senza lamentarsi.
Sapete ciò che gli dava un po’ di forza? Sapete ciò che lo
consolava? Sapete ciò che gli faceva sopportare il supplizio con
pazienza? Era un altro che condivideva le sue angosce, un altro che
moriva come lui, un altro che moriva prima di lui. Conducete due
montoni al macello o due buoi, e fate intendere, se vi riesce, a uno
di questi che il suo compagno non morrà: il montone cred’io, belerà
di gioia, il bue muggirà di piacere; ma l’uomo, a cui Iddio ha
imposto per prima, per unica, per suprema legge l’amore del
prossimo, l’uomo a cui Iddio ha dato la parola per esprimere il
pensiero, ora vedetelo qui con i vostri propri occhi, che va sulle
furie perché va a morire solo, perché sa che il compagno è salvo. In
verità, non me lo sarei mai aspettato! Ecco là, non più terrore, non
più rassegnazione; oh, disgraziata creatura, quanto lacrimevole è la
tua sorte!»
E il conte rise, ma di un riso terribile che faceva comprendere
ch’egli aveva orribilmente sofferto per poter giungere a ridere in
tal modo.
Frattanto la lotta continuava, ed era uno spettacolo spaventoso a
vedersi. I due aiutanti trascinavano Andrea sul patibolo; tutto il
popolo era contro di lui, e ventimila voci mandavano un sol grido:
«A morte! A morte!»
Franz fece per andarsene: ma il conte afferrò il suo braccio e lo
trattenne davanti alla finestra.
«Che fate!» disse. «Avete pietà? In fede mia è ben riposta! Se
sentiste ringhiare un cane arrabbiato, prendereste il vostro fucile,
correreste in strada, e sparereste senza misericordia sulla povera
bestia, che in fin dei conti non sarebbe rea che di essere stata
morsa da un altro cane, e di rendere ciò che gli fu fatto; ed ecco
qua che avete pietà di un uomo che non fu morso da alcun altro, e
che ciò nonostante ha ucciso il suo benefattore e che ora non
potendo più uccidere, perché ha le mani legate, vuole a ogni costo
veder morire il suo compagno di prigionia! No, no, guardate,
guardate…»
Ogni raccomandazione adesso sarebbe stata inutile, poiché Franz era
come affascinato dall’orribile spettacolo. I due aiutanti avevano
portato a fatica il condannato ai piedi della scala che saliva al
patibolo. Il poveretto si dibatteva, si contorceva, e puntava i
piedi, gettandosi con tutta la persona all’indietro. Uno di quei due
tentò d’acquistare qualche vantaggio col salire alcuni scalini dalla
sua parte, e tirarlo a sé mentre l’altro lo avrebbe sospinto
all’insù. In quell’attimo il boia lo afferrò per la vita e lo
sollevò da terra. Il condannato, senza un punto d’appoggio e tirato
e spinto, in un attimo fu sotto al laccio.
A tal vista, Franz non poté trattenersi, si ritirò, e andò a cadere
su una sedia, mezzo svenuto. Albert, con gli occhi chiusi, rimase al
suo posto, ma aggrappato alle tende della finestra. Il conte solo
era in piedi e trionfante come l’angelo del male.
36. Il carnevale di Roma
Non appena Franz tornò in sé, vide Albert che beveva un bicchier
d’acqua, e il pallore rivelava che ne aveva avuto grande bisogno. Il
conte cominciava già a indossare il costume da pagliaccio. Dette
macchinalmente un’occhiata sulla piazza, tutto era sparito:
patibolo, boia, vittime, non restava più che il popolo rumoreggiante
e allegro.
La campana del Campidoglio suonò l’apertura del carnevale.
«Ebbene», domandò al conte, «cosa è dunque accaduto?»
«Niente, assolutamente niente», disse egli, «solo, il carnevale è
cominciato; presto, mascheriamoci.»
«Infatti», rispose Franz, «di tutta quella orribile scena non resta
che la traccia di un sogno.»
«E non fu che un sogno, non fu che un incubo, quello che aveste.»
«D’accordo, ma il condannato?»
«È un sogno anch’esso, solo che lui è rimasto addormentato, e voi vi
siete risvegliato. Chi può dire quale di voi due sia il
privilegiato?»
«E di Peppino», domandò Franz, «che avvenne?»
«Peppino è un giovane di senno, che non ha il minimo amor proprio e
che, contro l’abitudine degli uomini che sono furiosi quando nessuno
si occupa di loro, è rimasto soddisfatto nel vedere che l’attenzione
generale era rivolta sul suo compagno; di conseguenza, ha
approfittato di quella distrazione per sgusciare fra la folla e
sparire, senza nemmeno ringraziare quei degni preti che lo avevano
accompagnato. In fede mia, l’uomo è un animale molto ingrato ed
egoista… Ma vestitevi; osservate, il signor Morcerf ve ne dà
l’esempio.»
Infatti Albert passava macchinalmente i calzoni di seta bianca sopra
i suoi neri, senza togliersi gli stivali di vernice.
«Ebbene, Albert», domandò Franz, «avete voglia di far follie? Su,
rispondete francamente.»
«No», disse, «ma sono contento di aver visto una cosa simile, e
comprendo ciò che diceva il signor conte, cioè, che quando uno ha
potuto abituarsi a un simile spettacolo, sia il solo che dà ancora
qualche emozione.»
«Senza contare che, soltanto in quel momento, si possono fare studi
psicologici sui caratteri», disse il conte. «Sul primo scalino del
patibolo, la morte strappa la maschera che si è portata per tutta la
vita e appare il vero viso dell’uomo. Bisogna convenirne, quello di
Andrea non era bello a vedersi, era un infame ributtante!
Vestiamoci, ho bisogno di vedere delle maschere di cera e di stucco,
per consolarmi delle maschere di carne…»
Sarebbe stato ridicolo, per Franz, fare la donnicciola, e non
seguire l’esempio che gli veniva dato dai due compagni. Indossò
dunque il suo costume, si mise sul viso la maschera, non certamente
più pallida del suo volto. Compiuto il travestimento, scesero. La
carrozza li aspettava alla porta, piena di coriandoli e di
mazzettini di fiori; e si mise in fila.
È difficile farsi un’idea di un cambiamento così evidente: invece
dello spettacolo di morte, tetro e silenzioso, piazza del Popolo
presentava ora l’aspetto di una rumorosa festa. Una moltitudine di
maschere compariva da ogni parte, uscendo dalle porte, dalle
finestre; le carrozze sbucavano da tutti gli angoli delle strade,
gremite di pagliacci, d’arlecchini, di domino, di marchesi, di
trasteverini, di grotteschi, di cavalieri, di contadini, tutti
gridando, gesticolando, lanciando uova piene di farina, coriandoli e
mazzettini di fiori; aggredendo con le parole, e con gli oggetti,
amici e stranieri, conoscenti e sconosciuti, senza che alcuno avesse
il diritto di lamentarsi, senza che alcuno facesse altro che ridere.
Franz e Albert vedevano sempre o, per meglio dire, continuavano a
sentire gli effetti di ciò che avevano visto. Ma, a poco a poco,
l’ebbrezza generale li vinse; sembrò che la vacillante ragione
stesse per abbandonarli; sentivano uno strano bisogno di prender
parte a quel rumore, a quel movimento, a quella vertigine. Un pugno
di coriandoli lanciato ad Albert da una carrozza vicina e, che
coprendolo di polvere come i suoi due compagni, gli punse il collo e
tutte le parti del viso non protette dalla maschera, come se gli
avessero gettato un centinaio di spilli, finì col coinvolgerlo nella
baraonda generale. Si alzò a sua volta nella carrozza, raccolse a
piene mani coriandoli nei sacchetti, e con tutto il vigore e la
destrezza di cui era capace, lanciò uova e coriandoli ai suoi
vicini.
Da quel momento erano impegnati nella lotta. Il ricordo di ciò che
avevano visto mezz’ora prima si cancellò dall’animo dei due giovani,
tanto lo spettacolo insensato e variopinto che avevano sotto gli
occhi, era sopravvenuto a distrarli. In quanto al conte non era mai
stato, come si disse, un solo momento commosso.
S’immagini quella grande e bella via del Corso, fiancheggiata da
un’estremità all’altra da palazzi a quattro o a cinque piani, con
tutti i loro balconi addobbati, con tutte le finestre con i tappeti.
A quei balconi e a quelle finestre trecentomila spettatori, romani,
italiani, stranieri, venuti da tutte e quattro le parti del mondo,
tutte le aristocrazie riunite, aristocrazie di nascita, di denaro,
di genio, donne graziose anch’esse sotto l’influsso di quello
spettacolo, si curvano dai balconi, si sporgono dalle finestre,
fanno piovere sulle carrozze che passano una grandine di coriandoli
che viene contraccambiata con una pioggia di fiori; la strada è
tutta ingombra di coriandoli che scendono, e di fiori che salgono;
poi, per le vie, una folla allegra, incessante, pazza, con costumi
bizzarri: cavoli giganteschi che passeggiano, teste di bufalo che
muggiscono sopra corpi d’uomini, cani che sembrano camminare ritti
sulle zampe. Figuratevi tutto questo e si avrà una pallida idea di
ciò che è il carnevale di Roma.
Al secondo giro, il conte fece fermare la carrozza, e domandò ai
compagni il permesso di allontanarsi, lasciando a loro disposizione
la carrozza. Franz alzò gli occhi: erano davanti a palazzo Ruspoli,
e alla finestra di mezzo, a quella che aveva il tappeto di damasco
bianco con una croce rossa, c’era un domino turchino, sotto il quale
l’immaginazione di Franz si figurò senz’altro la bella greca del
teatro Argentina.
«Signori», disse il conte balzando a terra, «quando sarete stanchi
di essere attori, e vorrete tornare spettatori, sapete che avete i
posti alle mie finestre; frattanto disponete del cocchiere, della
carrozza e dei domestici.»
Abbiamo dimenticato di dire che il cocchiere del conte era vestito
di una pesante pelle di orso nero, del tutto simile a quella di Odry
nell’Orso e il pascià, e che i due servitori, che stavano in piedi
dietro la carrozza, avevano un costume da scimmia perfettamente
adattato alla loro corporatura, con maschera a molla con le quali
facevano boccacce ai passanti.
Franz ringraziò il conte della gentile offerta. Quanto ad Albert
faceva il galante con una carrozza piena di contadine romane, ferma
come quella del conte in una di quelle soste comuni nei cortei di
carri, e che egli tempestava di mazzi di fiori. Disgraziatamente per
lui, la sfilata si rimise in moto, e mentre egli scendeva verso
piazza del Popolo, la carrozza che aveva attirato la sua attenzione
risaliva verso piazza Venezia.
«Ah, mio caro», diss’egli a Franz, «non avete visto quel calesse
pieno di contadine romane?»
«No.»
«Ebbene, vi assicuro che ci sono delle graziose signore.»
«Quale disgrazia che siate mascherato, mio caro Albert!» disse
Franz. «Sarebbe stato il momento di rifarvi di tutti i vostri
sconcerti amorosi.»
«Oh», rispose egli tra il serio e il faceto, «spero bene che il
carnevale non trascorrerà senza qualche allettante avventura.»
A onta della speranza di Albert, tutto il giorno passò senz’altra
avventura, che l’incontro due o tre volte rinnovato del calesse che
portava le contadinelle romane: in uno di questi, fosse caso o
calcolo, la maschera cadde dal volto di Albert, ed egli approfittò
di quella circostanza per prendere quanti fiori poté e gettarli nel
calesse. Senza dubbio una delle graziose signore che Albert
indovinava sotto il costume da contadina fu colpita da questa
galanteria, e quando le due carrozze tornarono a incontrarsi, gettò
un mazzetto di violette nella carrozza dei due amici. Albert si
precipitò a raccoglierlo, e siccome Franz non aveva alcun motivo di
credere fosse a diretto lui, lasciò che se ne impadronisse. Albert
lo appuntò vittoriosamente sul petto, e la carrozza continuò a
procedere trionfante.
«Ebbene», disse Franz, «ecco il principio di un’avventura.»
«Ridete quanto volete», rispose, «ma credo veramente di sì; perciò
non lascio più questo mazzetto.»
«Perbacco, lo credo bene!» disse Franz ridendo. «È un segno di
riconoscimento.»
Lo scherzo assunse ben presto il carattere della realtà: quando,
sempre seguendo la fila, Franz e Albert incontrarono di nuovo la
carrozza delle contadine, quella che aveva gettato il mazzetto ad
Albert, batté le mani vedendo che lo aveva sul petto.
«Bravo! Mio caro, bravo!» disse Franz. «Ecco che la cosa si prepara
a meraviglia. Volete che vi lasci? Preferite restare solo?»
«No», disse, «non imbrogliamo le cose: non voglio farmi accalappiare
come uno stupido alla prima occasione, per un convegno sotto
l’orologio, come diciamo noi, al ballo dell’Opéra. Se la bella
contadina ha volontà di spingere la cosa più innanzi, la ritroveremo
domani, o piuttosto lei troverà noi; allora mi darà segno, e vedrò
ciò che mi converrà fare.»
«In verità, mio caro Albert», disse Franz, «siete saggio come
Nestore e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe vorrà
trasformarvi in una bestia qualunque, bisognerà che sia molto destra
e potente.»
Albert aveva ragione: la bella sconosciuta aveva deciso senza dubbio
di non spingere le cose più in là quel giorno; perché sebbene
facessero ancora diversi giri, non rividero più la carrozza che
cercavano con attenzione, e che sicuramente era sparita per una
delle vie traverse.
Allora ritornarono al palazzo Ruspoli. Il conte era sparito col
domino turchino; le due finestre parate col damasco giallo
continuarono però a essere occupate da persone senza dubbio invitate
da lui.
La medesima campana che aveva dato il segnale di apertura del
carnevale, ne suonò la chiusura: la fila del Corso si ruppe subito,
e in un attimo tutte le carrozze disparvero per le strade laterali.
Franz e Albert erano in quel momento davanti alla via delle Muratte;
il cocchiere la imboccò senza dir niente e, giunto in piazza di
Spagna, si fermò davanti all’albergo. Pastrini venne a ricevere i
suoi clienti sulla soglia. La prima cura di Franz fu d’informarsi
del conte, per esprimergli il dispiacere di non essere andato in
tempo a riprenderlo, ma Pastrini lo tranquillizzò dicendogli che il
conte di Montecristo aveva ordinato un’altra carrozza per lui, e che
questa era andata a prenderlo alle quattro al palazzo Ruspoli. Era
inoltre incaricato da parte sua di offrire ai due amici la chiave
del suo palco al teatro Argentina. Franz interrogò Albert sulle sue
intenzioni; ma questi aveva grandi progetti da attuare prima di
pensare al teatro: per cui, invece di rispondergli, s’informò se
Pastrini avesse potuto procurargli un sarto.
«Un sarto! E per che farne?» domandò l’albergatore.
«Per farci per domani degli abiti da contadini romani più eleganti
che sia possibile.»
Pastrini scosse la testa.
«Farvi per domani due abiti?» esclamò. «Questa è, domando perdono a
Vostra Eccellenza, una vera domanda alla francese. Due abiti! Quando
da oggi a otto giorni non trovereste certamente un sarto che
vorrebbe attaccarvi sei bottoni a un panciotto, quand’anche li
pagaste uno scudo l’uno.»
«Bisogna dunque rinunciare agli abiti che desideravo?»
«No, perché li troveremo belli e fatti. Lasciate a me la cura, e
domani quando vi sveglierete, troverete una collezione di cappelli,
di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto.»
«Mio caro», disse Franz ad Albert, «affidiamoci al nostro
albergatore; egli ci ha di già provato che è un uomo pieno di
risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo a
vedere l’Italiana in Algeri.»
«D’accordo, ma Pastrini non dimenticate che il signore e io ci
teniamo molto ad avere per domani gli abiti che vi abbiamo
domandato.»
Pastrini assicurò un’ultima volta i suoi ospiti che non avevano da
inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti secondo i loro
desideri. Albert e Franz, dopo ciò, risalirono per levarsi gli abiti
da pagliacci.
Albert, nello spogliarsi, custodì con molta cura il mazzetto di
viole, questo era il segno di riconoscimento per l’indomani.
I due amici si misero a tavola; ma, pranzando, Albert non poté fare
a meno di osservare la netta differenza fra i meriti del cuoco di
Pastrini e quello del conte di Montecristo. La verità costrinse
Franz a confessare, malgrado le prevenzioni che sembrava avere
contro il conte, che il paragone non era favorevole al cuoco di
Pastrini. Alla frutta un domestico venne a informarsi a quale ora
desideravano la carrozza. Albert e Franz si guardarono, temendo
realmente di essere indiscreti.
Il domestico li capì e disse: «Sua Eccellenza il conte di
Montecristo vi fa sapere di avere disposto che la carrozza restasse
sempre agli ordini delle Loro Signorie; potranno perciò usarne
liberamente, senza essere indiscreti».
I due giovani decisero di approfittare fino alla fine della cortesia
del conte e ordinarono di attaccare i cavalli mentre loro si
cambiavano gli abiti sgualciti e sporchi per i giochi a cui avevano
preso parte nella giornata. Dopodiché, si fecero condurre al teatro
Argentina e presero posto nel palco del conte.
Durante il primo atto la contessa G. entrò nel suo palco. Il primo
sguardo lo diresse dalla parte dove la sera prima aveva visto il
singolare sconosciuto; vide subito Franz e Albert nel palco di colui
sul conto del quale aveva espresso a Franz, appena ventiquattr’ore
prima, una strana opinione. Diresse il suo binocolo su di lui con
tanta insistenza, che Franz capì sarebbe stata una crudeltà
ritardare di soddisfare la curiosità di lei. Così, approfittando del
privilegio concesso ai frequentatori dei teatri italiani, che
consiste nel trasformare il teatro in una sala da ricevimento, i due
amici lasciarono il palco per presentare i loro omaggi alla
contessa.
Appena entrati nel palco, la dama fece un segno a Franz di mettersi
al posto d’onore, e Albert questa volta si sedette dietro.
«Ebbene», disse, dando a Franz appena il tempo di sedersi, «sembra
che non abbiate avuto niente di più urgente che fare conoscenza col
nuovo lord Ruthwen… Eccovi i migliori amici del mondo!»
«Senza esserci inoltrati, quanto a voi sembra, in una reciproca
amicizia», rispose Franz, «non posso negare di aver abusato tutto il
giorno della sua gentilezza.»
«Come, tutto il giorno?»
«In fede mia, questa è la vera parola che conviene. Questa mattina
abbiamo fatto colazione da lui; poi abbiamo partecipato al corso
mascherato nella sua carrozza; e infine questa sera assistiamo allo
spettacolo nel suo palco.»
«Voi dunque lo conoscevate?»
«Sì e no!»
«Come sì e no?»
«È una lunga storia.»
«Che voi mi racconterete?»
«Essa vi farà paura.»
«Ragione di più…»
«Aspettate almeno che abbia uno sviluppo.»
«Sia così: amo le storie complete. Intanto com’è che vi siete
trovati a contatto? Chi vi ha presentato a lui?»
«Nessuno; al contrario, si è fatto presentare a noi ieri sera, dopo
che vi ho lasciata.»
«Per mezzo di chi?»
«Oh, mio Dio, con un mezzo molto prosaico, quello del nostro
albergatore.»
«È dunque alloggiato, come voi, all’albergo Londra?»
«Non solo nel medesimo albergo, ma sullo stesso piano.»
«E come si chiama? Dovete certo conoscere il nome.»
«Sì: il conte di Montecristo.»
«Non è un nome di nobile casato.»
«No, è il nome dell’isola che ha comprato.»
«Ed egli è conte?»
«Conte toscano.»
«Ci adatteremo a questo come agli altri», riprese la contessa che
era di una delle più antiche famiglie dei dintorni di Venezia. «E
che uomo è?»
«Domandatene al visconte di Morcerf.»
«Sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio…»
«Saremmo incontentabili, se non lo trovassimo gentile», rispose
Albert. «Un vecchio amico non avrebbe fatto più di quello che egli
ha fatto, e ciò con tanta grazia, delicatezza e cortesia, che fanno
rivelano in lui un vero uomo di mondo.»
«Attento!» disse la contessa ridendo. «Vedrete che il mio bel
vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito che vuol farsi
perdonare i suoi milioni. E lei, l’avete vista?»
«Chi, lei?» domandò Franz ridendo.
«La bella greca di ieri sera.»
«No, credo di aver inteso il suono della sua guzla, ma lei è rimasta
invisibile.»
«Vale a dire, quando voi dite invisibile, mio caro Franz», disse
Albert, «è soltanto per fare il misterioso. Per chi avete dunque
preso quel domino turchino alla finestra parata di damasco bianco
del palazzo Ruspoli?»
«Il conte dunque aveva una finestra al palazzo Ruspoli?» domandò la
contessa.
«Sì, siete passata per il Corso?»
«Sì, e chi non è passato per il Corso quest’oggi?»
«Avete notato due finestre parate di damasco giallo, e una di
damasco bianco con una croce rossa? Quelle tre finestre erano del
conte.»
«Davvero!? Dunque, è un nababbo? Sapete quanto costano tre finestre
come quelle per gli otto giorni del carnevale? E aggiungete a
palazzo Ruspoli, che è nella più bella posizione del Corso?»
«Due o trecento scudi romani.»
«Dite piuttosto due o tremila.»
«Oh, diavolo!»
«È forse dalla sua isola che ricava queste rendite?»
«La sua isola non gli frutta un baiocco.»
«Perché allora l’ha comprata?»
«Per capriccio.»
«Dunque è un originale?»
«Il fatto è», disse Albert, «che mi è sembrato molto eccentrico. Se
abitasse a Parigi, se frequentasse i nostri teatri, vi direi che è o
un buffone che fa il dandy, o è un povero diavolo che si è perduto
nella moderna letteratura. In verità, questa mattina è venuto fuori
con due o tre uscite degne di Didier o d’Antony.»
In quel momento entrò un visitatore, e secondo l’uso Albert dovette
cedere il posto all’ultimo arrivato; questo fatto fece decidere
anche di cambiare argomento.
Un’ora dopo i due amici tornarono all’albergo. Pastrini si era già
occupato dei loro abiti da maschera per l’indomani, e promise loro
che sarebbero stati soddisfatti della sua intelligente alacrità.
L’indomani alle nove entrò nella camera di Franz con un sarto carico
di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne scelsero
due simili, e che stavano loro quasi a pennello, incaricarono
l’albergatore di far cucire dei nastri a ciascuno dei cappelli, e di
procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a righe traverse
dai colori vivi, di cui i popolani sono soliti cingersi la vita nei
giorni di festa.
Albert aveva fretta di vedere quale figura avrebbe fatto col nuovo
abito che si componeva di una giacca e un pantalone di velluto
turchino, di calze ricamate, di scarpe con le fibbie e di un
panciotto di seta. Il giovane, del resto, non poteva che guadagnarci
con quell’abito pittoresco, e quando la sciarpa ebbe cinto gli
eleganti fianchi, quando il cappello, leggermente piegato sopra un
orecchio, lasciò cadere sulle sue spalle un gran mazzo di nastri,
Franz fu costretto a confessare che i costumi hanno spesso una gran
parte nella superiorità fisica che noi attribuiamo a certi popoli. I
turchi nei tempi addietro, tanto pittoreschi con le loro zimarre
lunghe, dai colori vivi, non sono ora ributtanti coi soprabiti
turchini abbottonati, e il fez che dà loro l’aspetto di una
bottiglia di vino con il turacciolo rosso?
Franz si congratulò con Albert che, in piedi davanti allo specchio,
si guardava sorridendo visibilmente compiaciuto.
In quel momento entrò il conte di Montecristo.
«Signori», disse loro, «per quanto sia gradevole un compagno di
divertimenti, la libertà è ancora più gradevole. Vengo a dirvi che
per oggi e i giorni venturi lascio a vostra disposizione la carrozza
di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi avrà detto
che ne ho prese a nolo tre o quattro; voi dunque non me ne private:
usatene liberamente, sia per andare a divertirvi, sia per i vostri
affari. Il nostro luogo di ritrovo, se avremo qualche cosa da dirci,
sarà il palazzo Ruspoli…»
I due giovani volevano muovergli qualche obiezione, ma non avevano
alcuna buona ragione per rifiutare un’offerta che, d’altra parte,
gradivano assai, e finirono con l’accettare.
Il conte di Montecristo rimase circa un quarto d’ora con loro
parlando di tutto con molta facilità. Era, come si è potuto notare,
molto versato nella letteratura di tutti i paesi; inoltre le pareti
del suo salotto provavano a Franz e ad Albert che era un amante di
quadri. Qualche parola senza pretesa, lasciata cadere come a caso,
provò loro che non era estraneo alle scienze; e sembrava inoltre che
avesse una predilezione per la chimica.
I due amici non pensarono nemmeno di invitare a loro volta il conte
a colazione; sarebbe stato uno scherzo di cattivo gusto offrirgli in
cambio della sua eccellente tavola, la cucina molto mediocre di
Pastrini. Glielo dissero francamente, ed egli ricevette le loro
scuse, da uomo che apprezzava la loro delicatezza.
Albert era così rapito dalle maniere del conte, che, se fosse stato
meno dotto, lo avrebbe creduto un vero gentiluomo. La libertà di
disporre interamente della carrozza lo colmava di gioia, aveva le
sue mire sulle graziose contadinelle, e siccome erano apparse il
giorno prima in una elegantissima carrozza, era ben contento di
continuare a comparire alla pari con loro.
Alle nove e mezzo i due giovani discesero; il cocchiere e i due
servitori avevano avuto l’idea di sovrapporre, alle loro pelli di
bestia, le livree, cosa che dava loro un aspetto anche più grottesco
del giorno innanzi, e che procurò loro le congratulazioni di Franz e
di Albert, il quale aveva infilato sentimentalmente all’occhiello
della giacca il mazzetto di viole appassite.
Al primo tocco della campana partirono, e si precipitarono sul Corso
per la via Vittoria. Al secondo giro, un mazzetto di viole fresche
partì da una carrozza carica di pagliaccine, e venne a cadere in
quella del conte, e ciò indico ad Albert e al suo amico, che le
contadinelle del giorno innanzi avevano cambiato costume; e fosse
per caso, o per un sentimento uguale a quello che aveva fatto mutare
abiti ai due amici, che con tutta galanteria avevano preso il loro
costume, esse avevano preso quello dei due amici.
Albert mise il mazzetto di viole fresche al posto dell’altro; ma lo
conservò in mano, e quando incontrò di nuovo la carrozza, lo portò
amorosamente alle labbra, atto che destò l’allegria non solo di
quella che lo aveva gettato, ma anche di tutte le sue allegre
compagne.
La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile
che un profondo osservatore vi avrebbe potuto riconoscere un
crescere di rumore e di allegria. Per un istante videro il conte
alla finestra, ma quando la carrozza ripassò era già sparito.
È inutile dire che lo scambio di civetterie tra Albert e la
pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata.
La sera, quando rientrarono, Franz trovò una lettera
dell’ambasciata: gli veniva annunciato che il giorno dopo avrebbe
avuto l’onore di essere ricevuto da Sua Santità. In tutti i suoi
viaggi precedenti a Roma aveva chiesto e ottenuto lo stesso favore;
sia per religione sia per riconoscenza, non aveva mai voluto mettere
piede nella capitale del mondo cristiano senza genuflettersi in
rispettoso omaggio ai piedi di uno dei successori di San Pietro,
raro esempio di tutte le virtù: egli non poteva dunque in quel
giorno pensare al carnevale. Malgrado la bontà di cui il papa
circonda la sua grandezza, è sempre con un rispetto pieno di
profonda emozione che uno si appresta a inchinarsi davanti a quel
nobile e santo vecchio.
Uscendo dal Vaticano, Franz ritornò direttamente all’albergo,
evitando anche di passare per la strada del Corso. Portava con sé un
tesoro di pensieri per i quali il contatto con la folle allegria
delle maschere sarebbe stata una profanazione.
Alle cinque e dieci minuti Albert rientrò. Era al colmo della gioia.
La pagliaccina aveva rimesso il costume da contadinella, e
nell’incontrare la carrozza di Albert si era levata per un momento
la maschera… Era graziosissima.
Franz fece i suoi complimenti ad Albert, che li ricevette convinto
che gli fossero dovuti. Aveva intuito, diceva, da alcuni segni
d’eleganza inimitabile, che la sua bella sconosciuta doveva
appartenere alla più alta aristocrazia. Quindi risolvette di
scriverle l’indomani.
Franz, mentre riceveva questa confidenza, notò che Albert voleva
chiedergli qualche cosa e tuttavia esitava a domandare. Si disse
pronto a fare per la sua felicità tutti i sacrifici che fossero in
suo potere. Albert si fece pregare giusto quanto conveniva
trattandosi di buoni amici; poi confessò a Franz che gli avrebbe
reso un gran favore lasciando per l’indomani la carrozza tutta a sua
disposizione. Albert attribuiva all’assenza dell’amico l’estrema
bontà che aveva avuto la bella contadina nell’alzare la maschera.
Si capirà che Franz non era così egoista da trattenere Albert nel
bel mezzo di un’avventura che prometteva di riuscire, a un tempo,
gradita alla sua curiosità e lusinghiera per il suo amor proprio.
Conosceva abbastanza il carattere espansivo del suo degno amico, per
esser sicuro che lo avrebbe tenuto al corrente di ogni minimo
particolare della sua buona fortuna; e siccome, dopo tre o quattro
anni che percorreva l’Italia in lungo e in largo, non aveva mai
avuto l’occasione di cominciare un simile intrigo per conto suo,
Franz non era dispiaciuto d’imparare come vanno le cose in simili
affari. Promise dunque ad Albert che l’indomani si sarebbe
accontentato di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo
Ruspoli.
Infatti il giorno dopo vide passare e ripassare Albert. Aveva un
enorme mazzo di fiori, senza dubbio portatore di un suo biglietto
amoroso. Questa probabilità si cambiò in certezza, quando Franz vide
il medesimo mazzo, notevole per un giro di camelie bianche, fra le
mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color rosa.
Quella sera la gioia di Albert non ebbe limiti. Albert non dubitava
che la bella sconosciuta non gli avrebbe risposto con il medesimo
mazzo. Franz ne prevenne i desideri, dicendogli che tutto quel
rumore lo stancava, e che era deciso a impiegare la giornata
seguente a rivedere il suo album e a prendere alcuni appunti. Del
resto, Albert non si era ingannato nelle sue previsioni: il giorno
dopo Franz lo vide precipitarsi nella sua camera agitando trionfante
un foglietto che teneva per un angolo.
«Ebbene, mi sono sbagliato?»
«Ha dunque risposto?» gli domandò Franz.
«Leggete.»
Questa parola fu pronunciata con un tono di voce impossibile a
descriversi.
Franz prese il biglietto e lesse: «Martedì sera, alle sette,
discendete dalla carrozza dirimpetto alla via dei Pontefici, e
seguite la contadina romana che vi strapperà il moccoletto. Quando
arriverete al primo gradino della chiesa di San Giacomo, abbiate
cura, affinché lei possa riconoscervi, di annodare un nastro rosa
sulla spalla del vostro costume da pagliaccio. Da oggi sino a tale
momento voi non mi rivedrete più. Costanza e discrezione».
«Ebbene!» disse Albert a Franz, quando questi ebbe finito di
leggere, «che ne pensate, mio caro?»
«Penso», rispose Franz, «che la cosa prende la piega di un’avventura
molto piacevole.»
«Questo è pure il mio parere, e ho un gran timore che andrete solo
al ballo del principe T.»
Franz e Albert avevano ricevuto, quella stessa mattina, l’invito del
celebre banchiere romano.
«State in guardia», disse Franz, «tutta l’aristocrazia sarà dal
principe e se la vostra bella sconosciuta appartiene realmente alla
nobiltà, non potrà fare a meno d’intervenirvi.»
«Che v’intervenga o no, io conservo l’opinione che ho di lei»,
continuò Albert. «Avete letto il biglietto; sapete che scarsa
educazione ricevono in Italia le donne del ceto medio; ebbene,
rileggete il biglietto, osservate la calligrafia e trovatemi uno
errore di lingua o di ortografia.»
«Voi siete un predestinato…» disse Franz, nel rendere ad Albert per
la seconda volta il biglietto.
«Ridete quanto vi piace, scherzate pure», rispose Albert, «io sono
innamorato.»
«Oh, mio Dio, voi mi spaventate!» esclamò Franz. «Prevedo che, non
soltanto andrò da solo al ballo del principe, ma anche che ritornerò
solo a Firenze.»
«Il fatto è che, se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella, vi
avverto che mi trattengo a Roma almeno per sei settimane. Io adoro
Roma, e poi ho sempre avuto una grande passione per l’archeologia.»
«Ancora un altro o due di questi incontri, e non dispero di vedervi
membro dell’Accademia di belle lettere.»
Senza dubbio Albert si accingeva a discutere seriamente sui diritti
che poteva avere a un seggio nell’Accademia, ma in quel momento
vennero ad annunciare loro che il pranzo era servito: l’amore in
Albert non era contrario all’appetito; si affrettò dunque, col suo
amico, a mettersi a tavola, riservandosi di riprendere la
discussione dopo il pranzo.
Ma, dopo il pranzo, fu annunciato il conte di Montecristo. Erano due
giorni che i due amici non lo vedevano. Un affare lo aveva chiamato
a Civitavecchia, almeno a quanto disse Pastrini. Era partito la sera
del giorno prima, ed era tornato da appena un’ora.
Il conte fu gentilissimo. Sia che stesse all’erta, sia che
l’occasione non risvegliasse in lui le fibre acrimoniose che aveva
già fatto risuonare due o tre volte nelle sue amare parole, si
comportò da tutt’altro uomo. Era, per Franz, un vero enigma. Il
conte non poteva dubitare che il giovane viaggiatore non lo avesse
riconosciuto, e tuttavia non aveva detto una sola parola, dopo il
loro nuovo incontro, che potesse tradire di averlo visto altrove.
Dal canto suo, Franz, qualunque fosse la volontà di alludere al loro
primo incontro, il timore di far cosa sgradita a un uomo che aveva
colmato lui e l’amico di gentilezze, lo trattenne: continuò dunque a
mantenersi riservato come il conte.
Il conte aveva saputo che i due amici avevano chiesto un palco al
teatro Argentina, ottenendo in risposta che non ce n’erano. Perciò
portava loro la chiave del suo; almeno questo era il motivo
apparente della sua visita.
Franz e Albert fecero qualche difficoltà, adducendo il timore di
privarne lui; ma il conte rispose che, andando egli quella sera al
teatro Valle, il suo palco al teatro Argentina sarebbe rimasto
vuoto. Questa assicurazione convinse i due amici ad accettare.
Franz si era un poco per volta abituato al pallore del conte, che lo
aveva tanto colpito la prima volta che l’aveva visto. Non poteva
fare a meno di render giustizia alla bellezza del suo viso severo,
del quale quel pallore era il solo difetto o la principale
attrattiva. Vero eroe di Byron, Franz non poteva, non solo vederlo,
ma neppure pensare a lui, senza immaginarsi quel viso cupo sulle
spalle di Manfredi, o sotto la cotta d’armi di Lara. Egli aveva
sulla fronte quella ruga che indica la presenza incessante di un
amaro pensiero, aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più
profondo delle anime, quel labbro altero e sprezzante che dà alle
parole quell’incisività che le fa imprimere profondamente nella
memoria di chi ascolta.
Il conte non era più giovane, aveva quarant’anni almeno, ma ciò
nonostante si capiva che era fatto per dominare i giovani. In
realtà, per un’ultima somiglianza con gli eroi fantastici del poeta
inglese, il conte sembrava avere il dono dell’affascinazione.
Albert era incantato della fortuna condivisa con Franz, d’incontrare
un uomo simile. Franz era meno entusiasta, tuttavia subiva
l’influenza che esercita ogni uomo superiore sull’animo di coloro
che lo avvicinano. Egli pensava al progetto, che il conte aveva già
manifestato due o tre volte, di andare a Parigi, e non dubitava che
con le sue doti personali, con quel volto magnetico e con la sua
fortuna immensa, avrebbe ottenuto un grande successo. Però non
desiderava trovarsi a Parigi quando egli vi fosse andato.
La serata passò come la si passa di solito a teatro in Italia: non
ad ascoltare i cantanti, ma a far visite e a discorrere. La contessa
G. riparlare del conte, ma Franz le annunciò che aveva qualcosa di
più recente da dirle, e, malgrado le dimostrazioni di falsa modestia
alle quali si lasciò andare Albert, raccontò alla contessa
l’avvenimento che da tre giorni interessava i due amici.
Siccome queste tresche non sono rare né in Italia, né altrove,
almeno se si deve credere ai viaggiatori, la contessa non fece
minimamente l’incredula, e si congratulò con Albert per un’avventura
che prometteva di terminare in modo assai soddisfacente. Si
lasciarono con l’intesa di ritrovarsi al ballo del principe T. a cui
tutta Roma era stata invitata.
La giovane del mazzetto di fiori mantenne la parola: né il giorno
dopo, né l’altro dette segno ad Albert di esistere.
Finalmente giunse il martedì, l’ultimo e il più rumoroso giorno del
carnevale. Il martedì grasso i teatri si aprono alle dieci del
mattino, perché dopo le otto della sera si entra in quaresima. Il
martedì grasso tutti coloro che, per mancanza di tempo, di
entusiasmo e di denaro non hanno preso parte ai precedenti
festeggiamenti, si mischiano all’ultimo baccanale, si lasciano
trascinare dall’orgia e portano la loro parte di rumore e di
movimento al rumore e al movimento generale.
Dalle due alle cinque Franz e Albert rimasero in fila sul Corso
scambiando manciate di coriandoli con le carrozze della fila opposta
e con i pedoni che circolavano fra le zampe dei cavalli e fra le
ruote delle carrozze senza che accadesse mai, in mezzo a quella
spaventosa mischia, un solo incidente, una sola disputa, una sola
rissa. Sotto questo aspetto gli italiani sono il popolo per
eccellenza. Le feste per loro sono vere feste. L’autore di questa
storia, che ha soggiornato in Italia cinque o sei anni, non si
ricorda di aver visto una solennità turbata da uno solo di quegli
avvenimenti che servono da corollario alle nostre.
Albert trionfava col suo costume da pagliaccio. Aveva annodato sopra
una spalla un nastro rosa, le cui estremità gli cadevano fino al
garretto, per distinguersi da Franz, che aveva indossato ancora il
vestito da contadino romano.
Più il giorno avanzava, e più il tumulto aumentava: non c’era, su
tutto quel selciato, in tutte quelle carrozze, a tutte quelle
finestre, una bocca muta, un braccio ozioso; era un vero uragano
umano, composto di un tuono di grida e di una tempesta di
coriandoli, di mazzetti di fiori, di uova, di fiori e d’aranci.
Alle tre, l’esplosione dei mortaretti tirati a un tempo su piazza
del Popolo e su piazza Venezia, superando a stento quell’orribile
tumulto, annunciò che stavano per cominciare le corse. Le corse e i
moccoli sono gli episodi particolari degli ultimi giorni di
carnevale. Allo sparo dei mortaretti, le carrozze rompono nello
stesso punto le file e voltano ciascuna nella via laterale più
vicina al luogo dove si trovano.
Tutte queste evoluzioni si fanno con una meravigliosa rapidità, e
senza che la polizia si occupi di assegnare a ciascuna il suo posto,
o di tracciare la strada da percorrere.
I pedoni si addossano al muro dei palazzi, quindi si sente lo
scalpitio dei cavalli e uno sguainar di sciabole.
Un plotone di gendarmi, che ne presenta quindici di fronte, percorre
al galoppo in tutta la lunghezza il Corso, che fa sgombrare per dar
posto alla corsa dei berberi. Quando il plotone arriva a palazzo
Venezia, l’esplosione di un’altra batteria di mortaretti annuncia
che la strada è libera. Quasi subito, in mezzo a un clamore immenso,
inaudito, si vedono passare come ombre sette o otto cavalli,
eccitati dalle grida di trecentomila persone e dalle castagnette di
ferro appuntate che balzavano sul loro dorso; poi il cannone di
castel Sant’Angelo spara tre colpi per annunciare che ha vinto il
numero tre.
Subito. senz’altro segnale che quello, le carrozze si rimettono in
movimento, rifluendo verso il Corso, uscendo da tutte le vie
laterali come torrenti contenuti per un momento che si gettano tutti
insieme nel letto del fiume che alimentano, e l’onda immensa
riprende, più rapida che mai, il suo corso fra le due rive di
granito. Soltanto un nuovo elemento di rumore si era mischiato alla
folla: entrarono in scena i venditori di moccoli.
I moccoli, o moccoletti, sono ceri che variano dalla grossezza di un
cero pasquale a quella della coda di un sorcio, e suscitano, negli
attori della grande scena con cui termina il carnevale romano, due
opposte preoccupazioni: 1. Mantenere acceso il proprio moccoletto;
2. Spegnere il moccoletto degli altri. Avviene del moccoletto ciò
che accade della vita degli uomini. Per quanto è in loro potere, si
adoperano a conservarla, e sebbene certi che presto o tardi debba
avere fine, tuttavia hanno indagato e scoperto mille modi per
reciderla e toglierla innanzi tempo: è vero anche che per questa
suprema operazione il diavolo non ha mai mancato di venir loro in
aiuto. Il moccoletto si accende avvicinandolo a un lume qualunque.
Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati per spegnerli, i
soffietti giganteschi, gli spegnitoi in sembianza di mostro, i
ventagli sovrumani?
Ognuno si affrettò dunque a comprare i moccoletti, e Franz e Albert
fecero altrettanto. La notte si avvicinava rapidamente, e già al
grido: «Moccoli!», ripetuto dalle voci stridule dei venditori
ambulanti, due o tre stelle cominciarono a brillare al di sopra
della folla. Fu come un segnale.
Dieci minuti dopo, quarantamila lumi scintillarono discendendo da
piazza Venezia a piazza del Popolo, e risalendo da piazza del Popolo
a piazza Venezia. Si sarebbe detta la festa dei fuochi fatui.
Chi non ha mai visto questa festa, è impossibile che se ne possa
fare un’idea. Supponete che tutte le stelle si stacchino dal cielo,
e vengano a formare sulla terra una danza fantastica, il tutto
accompagnato da grida che orecchio umano non ha mai potuto sentire
sulla superficie del globo.
È proprio in questo momento che non c’è più distinzione sociale. Il
facchino assale il principe, questi il trasteverino, il trasteverino
il borghese, ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo. Se il
vecchio Eolo comparisse in quel momento. sarebbe proclamato re dei
moccoletti, e Aquilone l’erede alla corona.
Questa corsa folle e fiammeggiante durò circa due ore. La strada del
Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i
lineamenti degli spettatori fino al terzo o quarto piano.
Ogni cinque minuti Albert estraeva l’orologio: finalmente segnò le
sette.
I due amici si ritrovarono a poca distanza dalla via dei Pontefici;
Albert saltò fuori dalla carrozza col suo moccoletto in mano.
Due o tre maschere gli si avvicinarono per spegnerlo o per
toglierglielo; ma, da bravo lottatore, Albert li respinse dieci
passi distanti da lui, continuando la sua corsa verso la chiesa di
San Giacomo.
I gradini erano gremiti di curiosi e di maschere che lottavano per
strapparsi il moccoletto dalle mani. Franz seguiva Albert con gli
occhi, e lo vide mettere il piede sul primo gradino, poi quasi
subito una maschera che portava il ben noto costume della contadina
dal mazzetto, allungò il braccio, e gli tolse il moccoletto senza
ch’egli facesse la minima resistenza.
Franz era troppo lontano per udire le parole che si scambiarono, ma
senza dubbio non furono ostili, poiché vide allontanarsi Albert
tenendo sottobraccio la contadinella. Per un po’ li seguì in mezzo
alla folla, ma in via del Macello li perse di vista.
D’improvviso, si udì il suono della campana che dà il segnale della
fine del carnevale, e nel medesimo istante tutti i moccoli si
spensero come per incanto. Si sarebbe detto che un solo e immenso
colpo di vento li avesse annientati tutti. Franz si trovò
nell’oscurità più profonda. Nello stesso momento, tutte le grida
cessarono, come se il soffio possente che aveva spento i lumi avesse
portato via contemporaneamente ogni rumore.
Non si udì più che il rotolar delle carrozze che riconducevano le
maschere alle loro case; non si videro più che pochi lumi brillare
dietro le finestre.
Il carnevale era finito!
37. Le catacombe di San Sebastiano
C’è da supporre che Franz non avesse mai provato in vita sua
un’impressione così viva, un passaggio così rapido dall’allegria
alla tristezza, come in quel momento. Si sarebbe detto che a opera
del soffio di qualche demone della notte, Roma fosse stata cambiata
in un vasto sepolcro. Una circostanza aumentava l’intensità delle
tenebre: la luna, essendo in fase calante, non sorgeva che dopo le
undici, e le strade per le quali passava il giovane erano immerse
nella più profonda oscurità. Tuttavia il tragitto era breve, e in
capo a dieci minuti, la sua carrozza, o per meglio dire quella del
conte, era davanti all’albergo Londra.
Il pranzo era servito; ma poiché Albert aveva avvertito che non
contava di tornare presto, Franz si mise a tavola senza di lui.
Pastrini, che aveva l’abitudine di vederli pranzare insieme, si
informò della ragione dell’assenza di Albert; ma Franz si limitò a
rispondergli che Albert aveva dovuto recarsi a un invito ricevuto il
giorno prima. L’improvviso spegnersi dei moccoletti, l’oscurità
succeduta alla luce, il silenzio che aveva sostituito l’immenso
rumore, avevano lasciato nell’animo di Franz una certa malinconia
non esente da inquietudine. Pranzò taciturno, nonostante le premure
dell’albergatore, che entrò due o tre volte per sentire se gli
servisse cosa alcuna.
Franz aveva deciso di aspettare Albert il più a lungo possibile.
Ordinò dunque la carrozza per le undici, pregando Pastrini di
avvisarlo non appena Albert fosse tornato in albergo, qualunque
potesse essere l’ora.
Alle undici Albert non era ancora rientrato.
Franz si vestì, e uscendo avvisò l’albergatore che avrebbe passato
la notte dal principe Torlonia.
Quella del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma; sua
moglie è una delle discendenti della famiglia Colonna, e riceve gli
ospiti in modo perfetto: le feste del principe banchiere sono famose
in tutta Europa.
Franz e Albert erano giunti a Roma con lettere di presentazione per
lui, perciò la prima domanda che il principe gli rivolse fu che
fosse avvenuto del suo compagno di viaggio. Franz rispose che lo
aveva lasciato poco prima che si spegnessero i moccoletti e che lo
aveva perso di vista nella via del Macello.
«Dunque non è rientrato?» domandò il principe.
«L’ho aspettato fino adesso», rispose Franz.
«E sapete dove sia andato?»
«Precisamente, no; ma credo si tratti di una specie di convegno.»
«Diavolo!» disse il principe. «È un brutto giorno, o per meglio dire
una cattiva sera per far tardi… Non è vero, contessa?»
Queste ultime parole erano dirette alla contessa G., che giungeva
allora, e che passeggiava appoggiandosi al braccio del fratello del
principe, il duca di Bracciano.
«Io trovo, al contrario, che sia una bellissima notte, e coloro che
sono qui non avranno a lamentarsi d’altro se non che passi troppo
presto.»
«Ma io», riprese sorridendo il principe, «non parlo di quelli che
sono qui, essi non corrono altro pericolo che gli uomini
d’innamorarsi di voi, e le donne ammalarsi di gelosia vedendovi così
bella; parlo di coloro che girano per le strade di Roma.»
«Eh, mio Dio, e chi volete che percorra le strade di Roma a
quest’ora, se non quelli che vengono dal ballo?»
«Il nostro amico Albert di Morcerf, signora contessa, che ho
lasciato mentre seguiva la sua bella sconosciuta verso le sette di
sera», rispose Franz, «e che non ho più rivisto.»
«E non sapete dove sia?»
«No davvero!»
«È armato?»
«È vestito da pagliaccio…»
«Non avreste dovuto lasciarlo andare», disse il principe a Franz,
«voi che conoscete Roma meglio di lui.»
«Sarebbe stato lo stesso che cercare di fermare il numero tre dei
berberi che oggi ha vinto il premio della corsa», rispose Franz. «E
poi che volete che gli accada?»
«Chi lo sa? La notte è oscura, e il Tevere è molto vicino alla via
del Macello!»
Franz sentì un brivido scorrergli per le vene, vedendo che le idee
del principe e della contessa condividevano le sue inquietudini.
«Per questo ho avvisato l’albergatore che avevo l’onore di passare
qui la notte», disse Franz, «e debbono venire ad avvertirmi qui,
appena ritorna.»
«Guardate», disse il principe a Franz, «ecco appunto un mio
domestico, che credo cerchi di voi.»
Il principe non s’ingannava: appena il domestico ebbe scorto Franz,
si avvicinò a lui, e gli disse: «Eccellenza, l’albergatore
dell’hotel Londra vi fa avvertire che là c’è un uomo che vi aspetta
con una lettera del conte di Morcerf».
«Con una lettera del conte!» esclamò Franz.
«Sì.»
«E chi è quest’uomo?»
«Non lo so.»
«E perché non è venuto a portarmela qui?»
«Il messaggero non mi ha dato alcuna spiegazione.»
«E dov’è il messaggero?»
«Se ne è andato non appena mi ha visto entrare nella sala per
cercarvi.»
«Oh, mio Dio», disse la contessa a Franz, «andate, presto. Povero
giovane: forse gli è accaduta qualche disgrazia.»
«Vado subito…» disse Franz.
«Tornerete per darci notizie?» chiese la contessa.
«Sì, se la cosa non è grave; altrimenti non posso prevedere ciò che
farò.»
«In ogni caso, siate prudente», disse la contessa.
«Oh, state tranquilla.»
Franz prese il suo cappello e partì in tutta fretta. Aveva
licenziato la carrozza, ordinandola per le due. Ma per fortuna la
casa del principe, che guarda da una parte sul Corso, e dall’altra
sulla piazza dei Santissimi Apostoli, è a dieci minuti di cammino
dall’albergo Londra.
Avvicinandosi all’albergo, Franz vide un uomo in mezzo alla strada
avvolto in un gran mantello: non dubitò che questi fosse il
messaggero di Albert; restò però meravigliato che gli rivolgesse per
primo la parola.
«Che volete da me, Eccellenza?» disse facendo un passo indietro come
uno che voglia tenersi in guardia.
«Non siete voi», chiese Franz, «che mi avete portato una lettera del
conte di Morcerf?»
«Vostra Eccellenza alloggia all’albergo di Pastrini?»
«Sì.»
«Vostra Eccellenza è il compagno di viaggio del conte?»
«Sì.»
«Come si chiama Vostra Eccellenza?»
«Barone Franz d’Epinay.»
«È proprio a Vostra Eccellenza che allora è diretta questa lettera.»
«Devo dare una risposta?» domandò Franz nel prendere la lettera
dalle sue mani.
«Sì, o almeno il vostro amico lo spera.»
«Allora salite da me, ve la darò.»
«Preferisco attenderla qui…» disse ridendo il messaggero.
«E perché?»
«Vostra Eccellenza lo capirà meglio quando avrà letto la lettera.»
«Allora vi ritroverò qui?»
«Senza dubbio.»
Franz entrò nell’albergo e per le scale s’imbatté in Pastrini.
«Ebbene?» gli domandò questi.
«Ebbene, che cosa?» rispose Franz.
«Avete visto l’uomo che desiderava parlarvi da parte del vostro
amico?»
«Sì, l’ho visto», rispose Franz, «e mi ha consegnato questa lettera.
Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera.»
L’albergatore dette ordine a un domestico di precedere Franz con un
lume.
Il giovane aveva notato un’aria spaventata sul viso di Pastrini, il
che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di leggere la
lettera di Albert: si accostò al candeliere, appena fu accesa la
candela, e spiegò il foglio.
La lettera era scritta e firmata dalla mano di Albert. Franz la
lesse due volte, tanto era lontano dal figurarsi il contenuto.
Eccola riportata letteralmente: «Mio caro amico, non appena avrete
ricevuto la presente, abbiate la compiacenza di prendere nel mio
portafoglio, che troverete nel cassettino del mio scrittoio, la
lettera di credito: uniteci la vostra, se non basta. Correte da
Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattromila scudi, che
consegnerete al latore della presente. Mi preme che questa somma mi
giunga senza alcun ritardo. Non insisto di più, contando su di voi,
come voi potreste contare su di me. Il vostro amico, Albert di
Morcerf. Post-scriptum: Adesso credo ai banditi italiani».
Sotto queste righe, erano scritte da mano sconosciuta le seguenti
parole: «Se alle sei di mattina i quattromila scudi non sono nelle
mie mani, alle sette il conte Albert avrà cessato di vivere. Luigi
Vampa».
Questa firma spiegò ogni cosa a Franz, che capì la riluttanza
mostrata dal messaggero a salire da lui: la strada gli sembrava più
sicura.
Albert era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla
cui esistenza non voleva credere. Non c’era tempo da perdere: corse
allo scrittoio, l’aprì e nel cassettino indicato trovò il
portafoglio, e in esso la lettera di credito di seimila scudi in
tutto: ma Albert ne aveva già spesi tremila.
Franz non aveva alcuna lettera di credito; abitando a Firenze, ed
essendo venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale,
non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano
che appena cinquanta. Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi
per poter riunire, fra lui e Albert, la somma richiesta. È vero che,
in un caso simile, Franz poteva contare sulla gentilezza di
Torlonia.
Egli si disponeva dunque a ritornare al palazzo del principe senza
perdere un istante, quando d’improvviso gli venne alla mente una
felice idea…
Pensò al conte di Montecristo.
Stava per far chiamare Pastrini, quando questi si presentò alla
porta.
«Mio caro Pastrini, credete che il conte ci sia?»
«Sì, Eccellenza, è rientrato or ora.»
«Sarà già andato a letto?»
«Non credo.»
«Allora vi prego di andare a domandargli a mio nome il permesso di
potermi presentare a lui.»
Pastrini si affrettò a eseguire l’incarico: cinque minuti dopo era
di ritorno.
«Il conte aspetta Vostra Eccellenza», disse.
Franz attraversò il corridoio; un domestico lo introdusse dal conte.
Era in un piccolo salotto che Franz non aveva mai visto, tutto
circondato da divani; il conte gli andò incontro.
«Oh, qual buon vento vi conduce da me a quest’ora?» gli disse.
«Venite forse a chiedermi di cenare? Perbacco, sarebbe davvero
gentile per parte vostra.»
«No, vengo a parlarvi di una cosa molto grave.»
«Di una cosa molto grave!» disse il conte fissandolo con quello
sguardo profondo che gli era proprio. «Di che si tratta?»
«Siamo soli?»
Il conte andò alla porta, poi ritornò. «Assolutamente soli…» disse.
Franz gli mostrò la lettera di Albert. «Leggete!» gli disse.
Il conte lesse la lettera. «Ah, ah», fece egli.
«Avete visto il post-scriptum?»
«Certamente. “Se alle sei di mattina i quattromila scudi non sono
nelle mie mani, alle sette il conte Albert avrà cessato di vivere.
Luigi Vampa.”»
«Che ne dite?» domandò Franz.
«Avete la somma che vi viene richiesta?»
«Sì, meno ottocento scudi.»
Il conte si avvicinò a uno scrittoio e ne aprì un cassettino pieno
d’oro.
«Io spero», disse a Franz, «che non vorrete farmi il torto di
rivolgervi ad altri.»
«Vedete che sono venuto direttamente da voi…» disse Franz.
«E io ve ne ringrazio: prendete.» E fece segno a Franz di prendere
quanto gli occorreva.
«Ma è proprio necessario mandare questa somma a Luigi Vampa?» chiese
il giovane fissando a sua volta lo sguardo sul conte.
«Diavolo, giudicate voi stesso: il post-scriptum parla chiaro.»
«Mi sembra che, se voleste prendervi la pena di pensarvi, forse
trovereste un mezzo per semplificare molto la faccenda…» disse
Franz.
«E quale?» chiese il conte meravigliato.
«Per esempio, se andassimo insieme a trovare Luigi Vampa, sono
sicuro che non vi negherebbe la libertà di Albert.»
«A me? Quale influenza volete che io abbia su quel bandito?»
«Non gli avete appena reso uno di quei favori che non si dimenticano
più?»
«E quale?»
«Non avete salvato la vita a Peppino?»
«Ah, ah», fece il conte, «e chi ve lo ha detto?»
«E che vi importa? Lo so.»
Il conte rimase per un istante muto e con le sopracciglia
aggrottate.
«E se andassi a trovare Vampa, mi accompagnereste?»
«Se la mia compagnia non vi è sgradevole…»
«Ebbene, sia: la notte è bella; una passeggiata nella campagna
romana non può farci che bene.»
«Occorre armarsi?»
«A quale scopo?»
«Del denaro?»
«È inutile. Dove si trova l’uomo che ha portato questo biglietto?»
«Giù in strada.»
«Aspetta la risposta?»
«Sì.»
«Bisogna sapere dove andremo: vado a chiamarlo.»
«È inutile, non ha voluto salire.»
«Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà.»
Il conte aprì la finestra del salotto che dava sulla strada, e
fischiò in un modo particolare. L’uomo dal mantello si staccò dal
muro cui era appoggiato e avanzò fino in mezzo alla strada.
«Salite!» disse il conte col tono con cui si darebbe un ordine al
servitore.
Il messaggero obbedì senza indugio, senza esitazione, anzi con
sollecitudine. Saliti i quattro gradini dell’atrio, entrò
nell’albergo, e in cinque secondi era già alla porta del salotto.
«Ah, sei tu, Peppino?» disse il conte.
Ma Peppino, invece di rispondergli, gli si gettò alle ginocchia,
prese le mani del conte, e v’impresse a più riprese le labbra.
«Ah, ah», disse il conte, «non hai ancora dimenticato che ti ho
salvato la vita? È strano! Eppure sono già passati otto giorni.»
«No, Eccellenza, non lo dimenticherò mai…» rispose Peppino, con
l’accento della più profonda riconoscenza.
«Mai è troppo; però è già molto che tu lo creda. Alzati e
rispondimi.»
Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz.
«Puoi parlare davanti a Sua Eccellenza», disse il conte, «poiché è
un mio amico.»
«Voi permettete che vi dia questo titolo?» disse in francese
rivolgendosi a Franz. «È necessario per accattivarsi la fiducia di
costui.»
«Potete parlare in mia presenza, sono un amico del conte.»
«Bene!» disse Peppino rivolgendosi al conte. «Vostra Eccellenza
m’interroghi, e io risponderò.»
«In che modo il conte Albert è caduto nelle mani di Luigi?»
«Eccellenza, la carrozza del francese ha incrociato più di una volta
quella di Teresa.»
«L’amante del capo?»
«Sì, il francese le ha fatto gli occhi dolci. Teresa si è divertita
a rispondergli; il francese le ha gettato dei mazzetti di fiori, lei
gliene ha ricambiati; e tutto ciò, s’intende, col consenso del capo
che era nella stessa carrozza.»
«Come!» esclamò Franz. «Luigi Vampa era nella carrozza delle
contadine romane?»
«Era quello che guidava, mascherato da cocchiere…» rispose Peppino.
«E poi?» chiese il conte.
«Ebbene, poi il francese si levò la maschera; Teresa, sempre col
permesso del capo, fece altrettanto; il francese le domandò un
appuntamento, Teresa l’accordò; soltanto fu Beppe che si trovò sugli
scalini della chiesa di San Giacomo.»
«Come!» lo interruppe nuovamente Franz. «Quella persona che gli
strappò il moccoletto?»
«Era un giovane di quindici anni», rispose Peppino, «ma il vostro
amico non deve vergognarsi d’essere stato ingannato, ne ha ingannati
molti altri.»
«E Beppe lo ha condotto fuori dalle mura?» domandò il conte.
«Precisamente. Una carrozza li aspettava in fondo a via del Macello;
Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo: non se lo fece dire
due volte. Offrì con tutta galanteria la destra a Beppe, e gli si
sedette vicino; questi annunciò allora che lo avrebbe condotto in
una villa a quattro chilometri da Roma; il francese lo assicurò di
essere pronto a seguirlo in capo al mondo. Il cocchiere si avviò
subito per la via di Ripetta, giunse alla porta San Paolo, e a
duecento passi di là, in aperta campagna, siccome il francese
diventava un po’ troppo intraprendente, in fede mia, Beppe gli puntò
un paio di pistole alla gola, il cocchiere fermò subito i cavalli, e
volgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello stesso tempo quattro
dei nostri, che erano nascosti lungo le rive dell’Almo, si
precipitarono agli sportelli. Il francese aveva buona volontà di
difendersi, e per poco non ha strangolato Beppe, a quanto ho inteso
dire; ma non c’era nulla da fare contro cinque uomini armati, ed è
stato costretto ad arrendersi. Allora fu fatto scendere di carrozza,
e seguendo l’argine del fiume, fu condotto da Teresa e Luigi che lo
aspettavano nelle catacombe di San Sebastiano.»
«Bene!» disse il conte rivolgendosi a Franz. «Mi pare che questa
storia ne valga bene un’altra… Che ne dite voi che ve ne intendete?»
«Dico che la troverei ridicola, se fosse capitata a tutt’altri che
al mio amico.»
«Il fatto è», disse il conte, «che se non mi aveste trovato in
albergo, quest’avventura sarebbe costata un po’ cara al vostro
amico; ma tranquillizzatevi, se la caverà solo con un po’ di paura e
basta.»
«E andremo lo stesso a cercarlo?» domandò Franz.
«Perbacco, tanto più perché si trova in una località molto
pittoresca. Conoscete le catacombe di San Sebastiano?»
«No, non vi sono mai disceso: ma avevo stabilito di visitarle un
giorno o l’altro.»
«Ebbene, ecco trovata l’occasione, e sarà difficile trovarne una
migliore. Avete pronta la vostra carrozza?»
«No.»
«Non importa: io ho l’uso di farne stare una sempre pronta notte e
giorno.»
«Sempre pronta?
«Sì, sono molto capriccioso: vi confesso che qualche volta,
alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende
la volontà di recarmi in un punto qualunque del mondo, e parto.»
Il conte suonò una volta il campanello, e il cameriere comparve.
«Fate uscire la carrozza dalla rimessa», gli disse, «e levate le
pistole che stanno nelle tasche; è inutile svegliare il cocchiere:
guiderà Alì.»
Un istante dopo si udì il rumore della carrozza che si fermava
davanti all’albergo.
Il conte guardò l’orologio.
«Mezz’ora dopo mezzanotte», disse. «Avremmo potuto partire tra
cinque ore, e giungere ancora in tempo; ma questo ritardo forse
avrebbe fatto passare una cattiva notte al vostro compagno. È meglio
dunque andare di corsa a toglierlo dalle mani dei banditi. Siete
sempre deciso ad accompagnarmi?»
«Più che mai.»
«Ebbene, andiamo allora.»
Franz e il conte uscirono, seguiti da Peppino.
All’ingresso trovarono la carrozza. Alì era a cassetta: Franz
riconobbe lo schiavo muto della grotta dell’isola di Montecristo.
Franz e il conte salirono in carrozza; Peppino si mise vicino ad Alì
e partirono al galoppo. Alì aveva già ricevuto gli ordini, poiché
infilò la strada del Corso, e traversò Campo Vaccino, percorse via
San Gregorio, e giunse alla porta di San Sebastiano: il guardiano
mosse qualche difficoltà, ma il conte di Montecristo gli presentò un
permesso del governatore di Roma di poter entrare e uscire dalla
città in qualunque ora del giorno e della notte; fu dunque aperta la
porta, il guardiano ricevette un luigi per il suo disturbo e
passarono oltre.
La strada che percorreva la carrozza era l’antica via Appia, tutta
fiancheggiata da antichi sepolcri. Di tanto in tanto, al chiarore
della luna che sorgeva, a Franz sembrava di vedere una specie di
sentinella staccarsi da un rudere; ma a un segnale di Peppino
tornava immediatamente nell’ombra.
Poco prima delle terme di Caracalla la carrozza si fermò, Peppino si
affrettò ad aprire lo sportello, e Franz e il conte discesero.
«Fra dieci minuti», disse il conte al suo compagno, «saremo
arrivati.»
Prese quindi Peppino in disparte, gli diede un ordine sottovoce, e
questi partì dopo essersi munito di una torcia presa nella cassetta
della carrozza.
Trascorsero altri cinque minuti, nei quali Franz vide il pastore
inoltrarsi per un sentiero in mezzo alle asperità del terreno della
campagna romana, e sparire fra l’alta erba rossastra che sembra
l’irta criniera di qualche gigantesco leone.
«Ora», disse il conte, «seguiamolo.»
Entrambi s’inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi
li condusse, per un pendio, in una piccola vallata. Ben presto
videro due uomini parlarsi nell’ombra.
«Dobbiamo andare avanti» domandò Franz al conte, «o aspettare qui?»
«Avanti… Peppino deve avere avvisato la sentinella del nostro
arrivo.»
Infatti uno di quei due uomini era Peppino, l’altro un bandito posto
a vedetta. Franz e il conte si avvicinarono, il bandito li salutò.
«Eccellenza», disse Peppino, rivolgendosi al conte, «se volete
seguirmi, l’ingresso alle catacombe è qui a due passi.»
«Va bene», disse il conte, «cammina avanti.»
Infatti, dietro a un groviglio di cespugli, e in mezzo ad alcune
rocce, si vedeva un’apertura per la quale un uomo poteva passare
appena. Peppino fu il primo a scivolare in quella fenditura; ma
appena ebbe fatto qualche passo, il passaggio si allargò. Allora si
fermò, accese la torcia, e si voltò a vedere se era seguito. Il
conte si era introdotto per secondo in quello spiraglio, e Franz
dopo di lui. Il terreno si abbassava con una inclinazione dolce, e
si allargava man mano che s’inoltravano; ciò nonostante Franz e il
conte erano obbligati a camminare curvi, e avrebbero fatto fatica a
passare tutti e due di fianco. In tal modo fecero circa cinquanta
passi, quindi si fermarono al grido «Chi vive?» e nello stesso tempo
videro luccicare la canna di un fucile al chiarore della torcia.
«Amici!» rispose Peppino.
E avanzò solo, disse alcune parole a bassa voce a quella seconda
sentinella, che, come la prima, li salutò facendo segno ai notturni
visitatori che potevano proseguire. Dietro la sentinella c’era una
scala di circa venti gradini. Franz e il conte li scesero e si
trovarono in una specie di crocevia mortuario. Da lì partivano
cinque vie come i raggi di una stella, e le pareti delle mura,
scavate a nicchie sovrapposte a forma di sepolcri, indicavano che
finalmente erano penetrati nelle catacombe. In una di quelle cavità,
di cui era impossibile calcolare l’estensione, si vedevano alcuni
riflessi di luce.
Il conte posò la mano sulla spalla di Franz, e disse: «Volete vedere
un accampamento di banditi immersi nel sonno?»
«Sì», rispose Franz.
«Ebbene, venite con me… Peppino, spegni la torcia.»
Peppino obbedì, e Franz e il conte si trovarono nella più profonda
oscurità; solo, a circa cinquanta passi davanti a loro, si vedevano
lungo i muri alcuni raggi rossastri di luce, divenuti ancora più
visibili dopo che Peppino ebbe spento la torcia.
Avanzarono in silenzio; il conte guidava Franz come se avesse avuta
la singolare facoltà di vedere nelle tenebre. Lo stesso Franz
acquistava maggior pratica del luogo man mano che s’inoltrava verso
quel chiaro di luce che serviva di guida.
Tre arcate, di cui quella centrale serviva da porta, dettero loro
passaggio. Da una parte immettevano nel corridoio dov’erano Franz e
il conte, e dall’altra in una sala quadrata, tutta circondata da
nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo s’ergevano
quattro pietre che, un tempo, erano adibite ad altare, come indicava
la croce che le sormontava.
Una sola lampada, posta sopra il fusto di una colonna, illuminava,
con una luce fioca e vacillante, la strana scena che si presentava
agli occhi dei due visitatori nascosti nell’ombra. Un uomo era
seduto, col gomito appoggiato a quella colonna, e leggeva, voltando
le spalle alle arcate. Era il capo della banda, Luigi Vampa.
Intorno a lui, stavano stesi e avvolti nei loro mantelli, o
addossati a una specie di banco di pietra che girava tutt’intorno
alle pareti di questo colombarium, una ventina circa di briganti;
ciascuno teneva la carabina a portata di mano.
In fondo, silenziosa, e appena visibile, si scorgeva una sentinella
che come un’ombra passeggiava su e giù, davanti a una specie di
apertura, che non da altro si distingueva, se non perché erano più
fitte le tenebre in quel punto.
Appena il conte s’accorse che Franz aveva abituato abbastanza gli
occhi a quel quadro pittoresco, portò l’indice alle labbra per
raccomandargli il silenzio, e salendo i tre scalini che dal
corridoio conducevano nel colombarium, entrò nella sala dall’arcata
di mezzo, e avanzò verso Vampa tanto profondamente immerso nella
lettura, che non ne udì i passi.
«Chi è là?» gridò la sentinella meno assorta di lui, e che vide al
chiarore della lampada due d’ombre ingrandirsi dietro il capo.
A quel grido, Vampa si alzò rapido, togliendo nello stesso tempo
dalla cintura le pistole; in un attimo i banditi furono in piedi, e
venti canne di carabine si puntarono sul conte.
«Ebbene», disse tranquillamente questi, con voce del tutto calma, e
senza che uno solo dei muscoli del suo viso si contraesse, «ebbene,
mio caro Vampa, mi sembra che non sia questo il modo di ricevere un
amico.»
«Giù le armi!» gridò il capo. facendo un gesto imperativo con una
mano, mentre con l’altra si levava rispettosamente il cappello.
Poi, rivolgendosi al singolare personaggio che dominava tutta quella
scena: «Perdono, signor conte», disse, «ma ero così lontano
dall’aspettarmi l’onore di una vostra visita, che non vi avevo
riconosciuto».
«Sembra che abbiate poca memoria in tutto, Vampa», disse il conte,
«e che non solo vi scordiate della fisionomia delle persone, ma
anche delle condizioni pattuite.»
«E quali condizioni ho potuto dimenticare, signor conte?» domandò il
bandito, come un uomo che se ha commesso un fallo non desidera che
di ripararlo.
«Non è stato fra noi convenuto», disse il conte, «che vi sarebbe
stata sacra non solo la mia persona, ma anche quella di tutti i miei
amici?»
«E in che ho mancato all’accordo, Eccellenza?»
«Questa sera avete rapito e portato qui il visconte Albert di
Morcerf: ebbene», continuò il conte con un tono che fece
rabbrividire Franz, «questo giovane è uno dei miei amici, egli
alloggia nello stesso albergo dove sto io, per otto giorni è stato
al Corso nella mia carrozza, e inoltre, ve lo ripeto, lo avete
rapito, lo avete portato qui, e», aggiunse il conte cavando di tasca
la lettera, «gli avete imposto un riscatto come se fosse stato un
nemico.»
«E perché non mi avete avvisato di tutto questo?» disse il capo
rivolgendosi ai suoi uomini, che indietreggiarono tutti al suo
sguardo. «Perché mi avete fatto mancare alla mia parola con un uomo,
il signor conte, che tiene tutte le nostre vite nelle sue mani? Per
il sangue di Cristo! Se potessi credere che uno di voi sapeva che il
giovane era amico di Sua Eccellenza, gli brucerei le cervella con le
mie mani!»
«Ebbene», disse il conte rivolgendosi a Franz, «vi avevo detto che
doveva esserci un equivoco!»
«Come, non siete solo?» domandò Vampa con inquietudine.
«Sono con colui cui era diretta questa lettera e al quale ho voluto
provare che Luigi Vampa era un uomo di parola. Venite avanti,
Eccellenza», disse a Franz, «ecco qui il signor Luigi Vampa, che si
dirà dolente dello sbaglio commesso.»
Franz avanzò, e il capo dei banditi gli andò incontro di qualche
passo: «Siate il benvenuto fra noi, Eccellenza», gli disse. «Avete
sentito ciò che ha detto il signor conte, e ciò che gli ho risposto;
aggiungerò che non vorrei, per i quattromila scudi che avevo fissato
per il riscatto, che ciò fosse accaduto.»
«Ma», disse Franz guardandosi con inquietudine intorno, «dov’è il
prigioniero? Non lo vedo…»
«Spero non gli sarà accaduta cosa alcuna?» domandò il conte,
aggrottando le sopracciglia.
«Il prigioniero è là», disse Vampa, mostrando con la mano il punto
oscuro davanti al quale passeggiava il bandito di fazione. «Vado io
stesso ad annunciargli la libertà.»
Il capo avanzò verso il luogo indicato come prigione di Albert; il
conte e Franz lo seguirono.
«Che fa il prigioniero?» domandò Vampa alla sentinella.
«Sulla mia parola», rispose questi, «l’ignoro: da più di un’ora non
l’ho sentito muoversi.»
«Venite, Eccellenza», disse Vampa.
Il conte e Franz salirono sette o otto scalini, sempre preceduti dal
capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta. Allora, al
chiarore di una lampada simile a quella che illuminava il
colombarium, si poté vedere Albert, avvolto in un mantello prestato
da un bandito, steso in un angolo, dormire nel sonno più profondo.
«Orsù», disse il conte con quel suo sorriso particolare, «non c’è
male per un uomo che doveva essere fucilato domattina alle sette.»
Vampa guardò con una certa ammirazione Albert che dormiva, e si vide
che non era insensibile a quella prova di coraggio.
«Avete ragione, signor conte», disse, «quest’uomo dev’essere uno dei
vostri amici.»
E, avvicinandosi ad Albert e toccandogli una spalla, disse:
«Eccellenza, si svegli, per favore».
Albert stese le braccia, si strofinò le palpebre, e aprì gli occhi:
«Ah», disse, «siete voi, capitano? Perbacco, avreste potuto
lasciarmi dormire: facevo un bel sogno, sognavo di ballare un valzer
in casa Torlonia con la contessa G.».
Tirò fuori l’orologio, che aveva conservato, per poter controllare
il tempo trascorso: «Un’ora e mezzo dopo mezzanotte; e perché
diavolo mi svegliate a quest’ora?»
«Per dirvi che siete libero, Eccellenza.»
«Caro mio», aggiunse Albert con una perfetta prontezza d’animo,
«ricordatevi bene, in avvenire, di questa massima di Napoleone il
Grande: “Non mi svegliate che per le cattive notizie”. Se mi aveste
lasciato dormire, avrei terminato il mio valzer, e ve ne sarei stato
riconoscente per tutta la vita… Il mio riscatto è dunque stato
pagato?»
«No, Eccellenza.»
«Come mai, allora, sono libero?»
«Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi.»
«Fin qui?»
«Fin qui.»
«Oh perbacco, questo qualcuno è una persona molto amabile.»
Albert guardò intorno a sé e scorse Franz.
«Come?» disse. «Siete voi mio caro Franz, che spingete tanto oltre
la vostra amicizia?»
«Non sono io», rispose Franz, «ma il nostro conte di Montecristo.»
«Ah, perbacco! Il signor conte!» disse Albert, accomodandosi la
cravatta e i polsini. «Siete un uomo veramente prezioso, e spero
vorrete considerarmi riconoscente per tutta la vita, prima per il
prestito della carrozza, e poi per questo.» E tese la mano al conte,
che fremette nel dargli la sua; però gliela diede.
Il bandito osservava stupefatto tutta questa scena: era
evidentemente abituato a vedere i suoi prigionieri tremare davanti a
lui, e ora ne aveva innanzi a sé uno, la cui burlevole indole non
aveva sofferto alcuna alterazione; quanto a Franz, era contentissimo
che Albert, anche davanti a un bandito, avesse saputo sostenere
l’onore nazionale.
«Mio caro Albert», gli disse, «se volete fate presto, avremo ancora
il tempo di andare a finire la notte in casa Torlonia. Riprenderete
il vostro valzer al punto in cui l’avete interrotto, per cui non
serberete alcun rancore al signor Luigi Vampa, che in tutta questa
faccenda, si è comportato da vero galantuomo.»
«Ah sì, davvero», disse, «avete ragione, e noi potremo giungervi
alle due… Signor Luigi», continuò Albert, «vi è qualche altra
formalità da compiersi, prima di prendere commiato da Vostra
Eccellenza?»
«Nessuna, signore», rispose il bandito, «e voi siete libero come
l’aria.»
«In questo caso, buona fortuna… Venite, signori, venite.»
E Albert, seguito da Franz e dal conte, discese la scala e
attraversò la sala quadrata. Tutti i banditi erano in piedi col
cappello in mano.
«Peppino», disse il capo, «dammi la torcia.»
«Ebbene, che volete fare?» domandò il conte.
«Vi accompagno, questo è tutto l’onore che posso tributare a Vostra
Eccellenza.»
E, prendendo la torcia accesa dalle mani del pastore, camminò
davanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto
servile, ma come un re che preceda degli ambasciatori. Giunto alla
porta, s’inchinò.
«Ora, signor conte», disse, «vi rinnovo le mie scuse, e spero non
conserverete alcun risentimento per l’accaduto.»
«No, mio caro Vampa», disse il conte. «Emendate i vostri errori in
un modo così compito, che si è quasi costretti a esservi obbligati
per averli commessi.»
«Signori», riprese il capo rivolgendosi ai due giovani, «forse
l’invito non vi sembrerà molto attraente, ma se mai vi venisse la
volontà di farmi una seconda visita, qui e in qualunque altro luogo
potessi essere, sarete sempre i benvenuti.»
Franz e Albert lo salutarono. Il conte uscì per primo, Albert lo
seguì, Franz fu l’ultimo.
«Vostra Eccellenza, ha forse qualche cosa da chiedermi?» disse
Vampa.
«Sì, lo confesso», rispose Franz, «sarei curioso di sapere qual era
l’opera che leggevate con tanta attenzione quando noi siamo
arrivati.»
«I Commentari di Giulio Cesare, il mio libro prediletto.»
«Ebbene, non venite?» domandò Albert.
«Subito», rispose Franz, «eccomi.»
E uscì a sua volta dal pertugio. Fecero qualche passo nella pianura.
«Ah, perdonatemi», disse Albert tornando indietro. «Permettete,
capitano?»
E accese il sigaro alla torcia di Vampa.
«Ora, signor conte», disse Albert, «ho grandissima premura di finire
la notte dal principe Torlonia.»
La carrozza fu ritrovata nel luogo dove era stata lasciata.
Il conte disse una sola parola araba ad Alì, e i cavalli partirono a
tutta carriera.
Erano le due precise all’orologio di Albert, quando i due amici
entrarono nella sala da ballo. Il loro ritorno fu un avvenimento, ma
siccome rientrarono insieme, tutti i timori sul conto di Albert
svanirono immediatamente.
«Signora», disse il visconte di Morcerf avanzando verso la contessa,
«ieri voi aveste la bontà di promettermi un valzer, vengo un po’
tardi a reclamare questa graziosa promessa; ma il mio amico, che voi
sapete quant’è sincero, potrà dirvi che non fu colpa mia.»
E siccome in quell’istante l’orchestra dava il segnale di un valzer,
Albert passò il braccio attorno alla vita della contessa e disparve
con lei fra il nembo dei ballerini. Intanto Franz ripensava allo
strano fremito del conte di Montecristo, nel momento in cui era
stato costretto a stringere la mano ad Albert.
38. L’appuntamento
Il giorno dopo, al risveglio, la prima parola di Albert fu di
proporre a Franz di fare visita al conte. Lo aveva già ringraziato
la sera prima, ma capiva bene che, un favore come quello resogli dal
conte, meritava due ringraziamenti. Franz, che provava
un’attrattiva, mista a timore, verso il conte di Montecristo, non
volle lasciarlo andar solo, e lo accompagnò.
Entrambi vennero introdotti in salotto: pochi minuti dopo comparve
il conte.
«Signor conte», esordì Albert andandogli incontro, «permettetemi di
ripetervi questa mattina, ciò che malamente vi ho detto la scorsa
notte; che non dimenticherò mai in quale frangente mi siete venuto
in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o quasi.»
«Caro vicino», rispose il conte ridendo, «voi esagerate i vostri
obblighi verso di me; non mi dovete che una ventina di migliaia di
franchi sulle vostre spese di viaggio, ecco tutto… Vedete bene che
non vale la pena parlarne. Dal canto vostro», aggiunse, «vi faccio
le mie congratulazioni; avete dimostrato un’ammirabile prontezza
d’animo, e gran disinvoltura.»
«Che volete, conte», disse Albert, «ho immaginato di avere avuto una
cattiva contesa, terminata con un duello. Ho voluto far comprendere
una cosa a quei banditi: in tutti i paesi del mondo gli uomini si
battono, ma non vi sono che i francesi che si battono ridendo. Ma
non essendo meno grande il mio debito di riconoscenza verso di voi,
vengo a chiedervi se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi
utile in qualche cosa. Mio padre, il conte di Morcerf, d’origine
spagnola, gode di un’alta posizione in Francia e in Spagna. Vengo a
mettere me e tutte le persone che mi amano a vostra disposizione.»
«E dunque», disse il conte, «vi confesso, caro signor di Morcerf,
che mi aspettavo da voi una simile offerta, e che l’accetto con
tutto il cuore. Avevo già pensato di domandarvi un grande favore.»
«Quale?»
«Non sono mai stato a Parigi, e quindi non la conosco.»
«Davvero?» esclamò Albert. «Avete vissuto fino a ora senza vedere
Parigi? Pare incredibile…»
«Vi garantisco che è così. Ma avverto che una più lunga ignoranza
della capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più;
forse avrei fatto già da tempo questo viaggio indispensabile, se
avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel
mondo dove non ho alcuna relazione.»
«Oh, un uomo come voi!» esclamò Albert.
«Siete davvero gentile. Ma dal momento che non riconosco in me altro
merito che quello di poter fare concorrenza, come milionario, ai
vostri più ricchi banchieri, e non vado a Parigi per speculare in
Borsa, questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi
decide. Dunque v’impegnate, mio caro Morcerf», il conte strisciò
questa parola con un singolare sorriso, «quando sarò in Francia, ad
aprirmi le porte di quel mondo, dove sarò uno straniero al pari di
un pellerossa, o di un cinese?»
«Quanto a questo, mio caro conte, meglio che potrò e con tutto il
cuore», rispose Albert, «e tanto più volentieri (mio caro Franz, non
burlatevi di me) che sono richiamato a Parigi da una lettera che ho
ricevuto questa mattina stessa, e in cui si parla di una trattativa
con una casa molto rispettabile e che ha le migliori relazioni col
bel mondo parigino.»
«Trattativa di matrimonio?» disse ridendo Franz.
«Sì: perciò quando ritornerete a Parigi mi troverete uomo sposato, e
forse padre di famiglia. Ciò si accorderà con la mia serietà
naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo ripeto, io e i
miei, siamo tutti, corpo e anima, a vostra disposizione.»
«E io accetto», disse il conte, «poiché vi assicuro che non mi
mancava che questa occasione per realizzare un progetto che medito
da lungo tempo.»
Franz non dubitò un solo istante che non fosse quello di cui si era
lasciato sfuggire qualche parola nella grotta di Montecristo, e
guardò il conte mentre diceva quelle parole, per tentare di leggere
sul suo viso qualche rivelazione sui motivi che lo conducevano a
Parigi, ma era molto difficile penetrare nell’animo di quell’uomo,
soprattutto quando sorrideva.
«Ma mi scusi, conte», aggiunse Albert, contento di poter presentare
a Parigi un uomo come il conte di Montecristo, «non sarà un qualche
castello in aria, come se ne fanno mille in viaggio, e che,
fabbricati sulla sabbia, vengono poi distrutti al primo soffio di
vento?»
«No, sul mio onore», disse il conte, «voglio andare a Parigi, ho
bisogno d’andarvi.»
«E quando?»
«Voi quando vi andrete?»
«Io?» disse Albert. «Oh, mio Dio, fra quindici giorni, o al più fra
tre settimane; il tempo necessario per ritornare, e null’altro.»
«Ebbene, facciamo tre mesi… Vedete che vi do un lungo intervallo.»
«E fra tre mesi», esclamò Albert con gioia, «verrete a bussare alla
mia porta?»
«Volete un appuntamento anche per il giorno e l’ora?» disse il
conte. «Vi avverto però che sono di una puntualità esasperante.»
«Il giorno e l’ora precisa!» disse Albert. «Va benissimo.»
«Ebbene, sia.»
Egli allungò la mano verso un calendario appeso vicino allo
specchio.
«Oggi siamo al 21 febbraio», tirò fuori l’orologio, «e sono le dieci
e mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21 maggio prossimo alle
dieci e mezzo del mattino?»
«A meraviglia!» disse Albert. «La colazione sarà pronta.»
«Dove abitate?»
«Rue Helder numero 27.»
«Siete nella vostra casa di scapolo, e io non vi sarò d’incomodo?»
«Abito in casa di mio padre, ma in un padiglione in fondo al
cortile, interamente separato.»
«Va bene.»
Il conte aprì il suo taccuino e scrisse: «Rue Helder, numero 27, 21
maggio, alle dieci e mezzo del mattino».
«E ora», disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, «state
tranquillo, le lancette del vostro orologio non saranno più esatte
di me.»
«Vi rivedrò, prima della mia partenza?» domandò Albert.
«Dipende… Quando partirete?»
«Parto domani sera alle cinque.»
«Allora, addio. Ho alcuni affari a Napoli, e non sarò di ritorno qui
che sabato sera o domenica mattina. E voi», aggiunse rivolgendosi a
Franz, «partite anche voi, signor barone?»
«Sì.»
«Per la Francia?»
«No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia.»
«Noi non ci rivedremo dunque a Parigi?»
«Temo di non avere quest’onore.»
«Animo dunque, signori, buon viaggio», disse il conte ai due amici,
tendendo a ciascuno la mano.
Era la prima volta che Franz toccava la mano di quell’uomo, e
rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto.
«Per l’ultima volta», disse Albert, «resta stabilito sulla parola
d’onore, non è vero? Rue Helder numero 27, il 21 maggio alle dieci e
mezzo del mattino?»
«Il 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino, Rue Helder numero
27», ripeté il conte.
Dopo di che i due giovani amici lo salutarono.
«Che avete?» disse Albert a Franz nel rientrare nelle loro stanze.
«Mi sembrate molto preoccupato.»
«Sì», disse Franz, «ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e
vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi.»
«Questo appuntamento… con inquietudine? E perché? Ma siete pazzo,
mio caro Franz!» esclamò Albert.
«Che volete? Pazzo o no, è così.»
«Ascoltate», riprese Albert, «sono ben contento che mi si presenti
l’occasione di dirvi che vi ho sempre trovato molto freddo col
conte, mentr’egli invece è sempre stato ben diverso con noi. Avete
qualche avversione contro di lui?»
«Può darsi.»
«Ma l’avevate visto in qualche altro luogo prima d’incontrarlo qui?»
«Sì.»
«E dove?»
«Mi promettete di non dir mai una parola di quanto sto per
raccontarvi?»
«Ve lo prometto.»
«Va bene: ascoltatemi dunque.»
Allora Franz raccontò ad Albert la sua escursione all’isola di
Montecristo, in cui vi aveva trovato una banda di contrabbandieri e
fra questi due banditi corsi. Egli indugiò su tutti i particolari
della ospitalità incantevole che il conte gli aveva dato nella sua
grotta da Mille e una notte, gli descrisse la cena, l’hashish, le
statue, la realtà, il sogno e, come al suo risveglio, non restasse
più, come prova e ricordo di tutti quegli avvenimenti, che il
piccolo yacht che faceva vela all’orizzonte per Porto Vecchio.
Quindi passò a Roma, alla notte del Colosseo, al dialogo che aveva
udito fra lui e Vampa riguardante Peppino, e nel quale il conte
aveva promesso di ottenere la grazia del bandito, promessa che aveva
mantenuto, come avranno potuto giudicare i nostri lettori.
Finalmente giunse all’avventura della notte precedente, all’impaccio
in cui si era ritrovato, vedendosi mancare sette o ottocento scudi
per completare la somma del riscatto; infine all’idea che gli era
venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto
soddisfacente.
Albert ascoltava Franz con molta attenzione.
«Ebbene», disse, quando l’amico ebbe finito, «e che c’è di
riprovevole in tutto questo? Il conte è un viaggiatore; ha un
bastimento proprio perché è uomo ricco. Andate a Portsmouth o a
Southampton e vedrete quei porti ingombri di yacht appartenenti a
ricchi inglesi che hanno lo stesso capriccio. Per sapere dove
fermarsi nelle sue escursioni, per non cibarsi di quella terribile
cucina, che avvelena me da quattro mesi, e voi da quattro anni, per
non giacere su quei letti abominevoli nei quali non si può dormire,
si è fatto ammobiliare un appartamento a Montecristo; e temendo che
il governo toscano non gli desse il permesso di soggiornarvi, e
tutti i suoi mobili andassero perduti, ha comprato l’isola, e ne ha
assunto il nome. Mio caro, frugate nella vostra memoria, e ditemi
quante persone di vostra conoscenza presero il nome di proprietà che
non possedettero mai?»
«Ma», disse Franz, «e quei banditi corsi che erano fra il suo
equipaggio?»
«Che c’è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi
corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li
ha esiliati dalle loro città o dai loro villaggi; si possono dunque
avvicinare senza compromettersi. In quanto a me dichiaro che se un
giorno dovessi andare in Corsica, prima di farmi presentare al
governatore o al prefetto, mi farei presentare ai banditi di
Colomba,3 se potessi, tanto li considero gentiluomini.»
«Ma Vampa e la sua banda», riprese Franz, «sono banditi che
aggrediscono per rubare, non lo negherete, spero! Che dite dunque
dell’influenza che il conte ha su gente del genere?»
«Dirò che dovendo la vita, secondo tutte le apparenze, a questa
influenza, non spetta a me il criticarla troppo da vicino. Così,
invece di fargliene, come voi, una colpa capitale, troverete giusto
che lo scusi, se non di avermi salvato la vita, il che sarebbe
esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattromila scudi, che
fanno ventiquattromila lire della nostra moneta, somma per la quale
non mi avrebbero tanto valutato in Francia.»
«Ma di che paese è il conte? Che lingua parla? Quali sono i suoi
mezzi di sussistenza? Da dove gli viene la sua immensa fortuna? Qual
è stata questa prima parte della sua vita misteriosa e sconosciuta,
che ha sparso sulla seconda una tinta oscura e misantropica? Ecco
ciò che al vostro posto vorrei sapere.»
«Mio caro Franz, quando leggendo la mia lettera vi siete accorto che
avevamo bisogno dell’influenza del conte, siete andato a dirgli:
“Albert, conte di Morcerf, corre un pericolo; aiutatemi a toglierlo
dai guai!” Non è vero?»
«Sì.»
«Allora vi ha egli domandato: “E chi è questo signor Albert di
Morcerf? Donde gli viene il suo nome? Donde gli viene la sua
fortuna? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Qual è il suo
paese? Dove è nato?” Vi ha forse fatto queste domande?»
«No, lo confesso.»
«Egli è venuto, ecco tutto. Mi ha tolto dalle mani del signor Vampa,
dove a onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste, vi facevo
barbina figura, lo confesso: ebbene, mio caro, quando in cambio di
un simile favore mi domanda di far per lui ciò che si fa tutti i
giorni per il primo principe russo o italiano che passa per Parigi,
vale a dire presentarlo in società, volete che gli neghi questo? Via
dunque, Franz, siete pazzo?»
Bisogna convenire che, contrariamente al solito, questa volta tutte
le buone ragioni erano dalla parte di Albert.
«E va bene», rispose Franz con un sospiro, «fate come volete, mio
caro visconte, poiché tutto quello che mi dite è persuasivo, lo
confesso, ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è un
uomo strano.»
«Il conte di Montecristo è un uomo molto generoso… Non vi ha detto
con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere al
premio di Monthyon, e se a ottenerlo non gli manca che il mio voto,
glielo darò. E ora, non parliamone più: mettiamoci a tavola, e dopo
andiamo a fare un’ultima visita a San Pietro.»
Fu fatto come aveva detto Albert, e il giorno dopo alle cinque del
pomeriggio i due giovani si lasciarono: Albert di Morcerf per
ritornare a Parigi, e Franz d’Epinay per passare una quindicina di
giorni a Venezia. Ma Albert, prima di salire in carrozza, consegnò
al cameriere dell’albergo, tanto aveva paura che il suo invitato
mancasse all’appuntamento, un biglietto da visita per il conte di
Montecristo, sul quale, sotto le parole «Visconte Albert di
Morcerf», aveva scritto a matita: «21 maggio, alle dieci e mezzo di
mattina, rue Helder numero 27».
39. La colazione
Nella casa di rue Helder, nella quale Albert di Morcerf aveva dato a
Roma appuntamento al conte di Montecristo, ogni cosa veniva
preparata, il mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data
dal giovane.
Albert abitava in un padiglione all’angolo di un grande cortile e
dirimpetto a un altro stabile destinato ai vari servizi della casa.
Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada;
delle altre, tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra il
cortile e il giardino s’ergeva, sebbene fabbricata con cattivo gusto
di architettura imperiale, l’abitazione elegante e vasta del conte e
della contessa di Morcerf.
L’intero fabbricato era cinto, verso la strada, da un muro ornato a
intervalli regolari da vasi di fiori, e diviso nel centro da un
cancello, a lance dorate, che serviva per le entrate solenni; una
porticina, quasi addossata all’abitazione del custode. dava
passaggio ai padroni e alla servitù quando entravano o uscivano a
piedi.
Nella scelta del padiglione destinato a fare da abitazione ad
Albert, si indovinava la delicata previdenza di una madre che, non
volendo separarsi dal figlio, aveva però capito che un giovane
dell’età di Albert aveva bisogno di libertà d’azione. Tuttavia,
dobbiamo convenirne, vi si riconosceva anche l’intelligente
narcisismo del giovane, dedito a quella vita libera e oziosa,
propria dei figli di papà, al quale si indora la gabbia come
all’uccello.
Dalle due finestre che guardavano sulla strada, Albert poteva
guardare, con tutto il suo agio, nella via, cosa tanto necessaria ai
giovani che vogliono veder passare davanti agli occhi il proprio
orizzonte, fosse pur quello di una strada. Albert poteva, per le sue
scappatelle, uscire da una piccola porta che era dirimpetto
all’altra di cui abbiamo parlato, presso l’abitazione del portinaio,
e che merita una particolare menzione.
Era solo una piccola porta, che si sarebbe detta dimenticata da
tutti dal giorno in cui fu costruita la casa, e che si pensava
condannata a rimanere sempre chiusa, tanto sembrava polverosa. Ma i
catenacci e i cardini erano talmente ben unti, che ne tradivano
l’uso continuo e misterioso.
La piccola porta segreta faceva concorrenza alle altre due,
aprendosi come la famosa porta della caverna delle Mille e una
notte, Sesamo incantato di Alì Babà, per mezzo di qualche parola
magica, o di qualche segno convenuto, pronunciato dalla più dolce
voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo. In fondo a un
corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava questa piccola
porta e che formava un’anticamera, s’apriva a destra la sala da
pranzo d’Albert che si affacciava sul cortile, e a sinistra il suo
piccolo salotto di fronte al giardino.
Cespugli e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle
finestre e nascondevano al cortile e al giardino l’interno di queste
stanze, le sole al pianterreno, che potevano essere esposte agli
sguardi degli importuni.
Al primo piano c’erano altre due camere, più una terza che
corrispondeva alla sottostante anticamera: erano la camera da letto,
una stanza per gli ospiti, e un salottino. La sala al pianterreno
era una specie di «boudoir» algerino destinato ai fumatori. Il
salotto al primo piano portava alla camera da letto e per una porta
invisibile comunicava con le scale.
Si tenga mente la prudenza.
Sopra il primo piano si apriva un ampio studio, ingrandito
abbattendo i muri divisori, in un disordine da artista o da
damerino. Là erano rifugiati e impilati tutti i successivi capricci
di Albert: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un’orchestra
completa, poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia
della musica; i cavalletti, le tavolozze, i pastelli, poiché alla
fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura; poi i
fioretti, i guanti da pugile, le spade e le lance d’ogni genere,
poiché, seguendo il costume dei giovani alla moda, Albert coltivava,
con maggior perseveranza di quel che non aveva fatto con la musica e
la pittura, le tre arti che formano il compimento dell’educazione
della gioventù elegante, vale a dire la scherma, il pugilato e il
bastone, e in questa camera destinata alla ginnastica, vi riceveva
successivamente Grisier, Cooks e Charles Lacour.
Il resto dei mobili di questa sala privilegiata si componeva di
vecchi forzieri dei tempi di Francesco I, pieni di porcellane
cinesi, di vasi giapponesi, di terraglie di Luca della Robbia e di
piatti di Bernard di Palissy; di antichi troni su cui forse si era
assiso Enrico IV o Sully, Luigi XIII o Richelieu, poiché due di
essi, ornati di uno scudo intagliato, dove su campo azzurro
brillavano i tre gigli di Francia sormontati dalla corona reale,
provenivano certamente dal guardaroba del Louvre, o perlomeno da
qualche castello reale. Su essi erano gettate alla rinfusa ricche
stoffe a vivi colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle
dita delle donne di Calcutta o di Chandernagor.
Cosa ci facessero là quelle stoffe non si sapeva; aspettavano,
ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al loro stesso
proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano l’appartamento con
i loro riflessi dorati.
Nel posto più appariscente c’era un pianoforte fabbricato da Roller
e Blanchet di legno di rosa, della forma dei nostri organetti di
Barberia, contenente un’intera orchestra nella sua stretta e sonora
capacità, e caricato con i capolavori di Weber, di Mozart, d’Haydn,
di Grétry e di Porpora.
Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano
appese spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete armature
damascate, incrostate; arborari, massi di minerali, uccelli
imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte in un volo immobile,
con le penne color fuoco, col becco che non chiudono mai.
Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Albert.
Però, il giorno dell’appuntamento, il giovane in abito di mezza gala
aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del pianterreno.
Lì, su una tavola circondata da un divano largo e morbido, erano
disposti tutti i tabacchi conosciuti, dal giallo di Pietroburgo fino
al nero del Sinai passando per il portorico e il latakiè, racchiusi
in vasi di terraglia smaltata che sono il vanto degli olandesi.
Accanto a essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per
ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia, avana,
ecc.
Finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di Germania,
di Turchia, con i bocchini d’ambra, ornate di corallo e di fregi
incrostati d’oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a guisa
di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei fumatori.
Albert aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il
dopo caffè, quando gli invitati amano osservare il fumo che sfugge
loro di bocca, dirigendosi verso il soffitto in lunghe e capricciose
spirali. Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere, che, insieme
a uno stalliere di quindici anni, che parlava soltanto l’inglese, e
rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Albert. Anche
se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari e negli
straordinari, e il cacciatore del conte era a sua disposizione.
Questo cameriere, che si chiamava Germain e che godeva di tutta la
fiducia del giovane padrone, teneva in mano un pacco di giornali che
depose sul tavolo, e alcune lettere che consegnò ad Albert, il quale
vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne scelse due in caratteri
minuti e profumate, le dissigillò, e le lesse con attenzione.
«Come sono arrivate queste lettere?» domandò.
«Una è giunta per posta, l’altra l’ha portata il cameriere della
signora Danglars.»
«Fate dire alla signora Danglars, che accetto il posto che mi offre
nel suo palco… Aspettate, in giornata passerete da Rosa, le direte
che cenerò da lei dopo l’Opéra, e le porterete sei bottiglie di vino
assortito di Cipro, Xérès di Malaga, e un barile di ostriche
d’Ostenda… Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono
per me.»
«A che ora vuole che si servita la cena?»
«Che ore sono?»
«Manca un quarto alle dieci.»
«Ebbene, ordinate per le dieci e mezzo precise… Debray sarà forse
obbligato ad andare al suo ministero… e d’altra parte…» Albert
consultò il suo taccuino, «questa è l’ora che ho detto al conte: il
“21 maggio alle dieci e mezzo del mattino”. Anche se non faccio
grande affidamento sulla promessa, desidero essere esatto. A
proposito, sapete se la signora contessa sia alzata?»
«Se il signor visconte lo desidera, andrò a informarmene.»
«Sì… Chiedetele una delle sue cassettine da liquori, poiché la mia è
incompleta: le direte che avrò l’onore d’andar da lei verso le tre,
e che le domando permesso di presentarle un signore.»
Uscito il cameriere, Albert si gettò sul divano, stracciò la
fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunci degli spettacoli,
fece una smorfia vedendo che si rappresentava un’opera e non un
ballo; poi gettò l’uno dopo l’altro i tre giornali più in voga a
Parigi, mormorando in mezzo a uno sbadiglio prolungato: «Questi
giornali diventano di giorno in giorno sempre più noiosi!»
In quel momento una carrozza si fermò davanti la porta, e un momento
dopo il cameriere rientrò annunciando il signor Lucien Debray.
Un giovane biondo, alto, pallido, con gli occhi grigi e severi, le
labbra sottili e fredde, l’abito blu a bottoni cesellati, la
cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa a un filo di seta,
fissata all’occhio destro, entrò senza sorridere, senza parlare, con
un portamento semiufficiale.
«Buongiorno, Lucien, buongiorno!» lo salutò Albert. «Voi mi
spaventate, mio caro, con la vostra puntualità! Ma che dico,
puntualità! Voi che non aspettavo che per ultimo, giungete alle
dieci meno cinque minuti, mentre l’appuntamento non è che alle dieci
e mezzo. Questo è un miracolo! Il ministero è forse caduto?»
«No, carissimo», disse il giovane, gettandosi sul divano,
«tranquillizzatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e comincio
a credere che passeremo bonariamente all’immobilità, senza contare
che gli affari della penisola vanno in modo da consolidarsi
pienamente.»
«Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna.»
«No, carissimo, non confondete le cose, lo riconduciamo all’altra
frontiera della Francia, e gli offriamo un’ospitalità da re a
Bourges.»
«A Bourges?»
«Sì, egli non avrà di che lamentarsi; Bourges è la capitale del re
Carlo VII. Come! Voi non sapete nulla? Tutta Parigi lo sa da ieri, e
l’altro ieri la cosa era già trapelata alla borsa, perché Danglars
(non so con in che modo quell’uomo ottiene le notizie nello stesso
tempo che noi), perché Danglars ha rischiato sul rialzo dei fondi, e
ha guadagnato un milione.»
«E voi una nuova decorazione, a quanto pare: poiché vedo una
striscia blu in più sulla vostra giacca!»
«Bah, mi hanno inviato la decorazione di Carlo III», rispose
noncurante Debray.
«Andiamo, non fate tanto l’indifferente, e confessate che vi ha
fatto piacere riceverla.»
«Certo, sì, per completare l’abbigliamento una placca sta bene sopra
un abito nero abbottonato, è elegante.»
«E», disse ridendo Morcerf, «si ha l’aspetto del principe di Galles,
o simili…»
«Ecco dunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon’ora.»
«Per la decorazione di Carlo III, e volevate darmi questa notizia?»
«No, ma perché ho passato tutta la notte a spedir lettere:
venticinque dispacci diplomatici. Tornato a casa questa mattina,
volevo dormire, ma mi ha assalito il mal di testa, e mi sono
rialzato per montare un’ora a cavallo. A Boulogne sono stato preso
dalla noia e dalla fame, due nemici che raramente vanno insieme, e
che tuttavia si sono alleati contro di me: una specie di alleanza
Carlo-repubblicana. Allora mi sono ricordato che questa mattina
c’era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho fame, nutritemi; sono
annoiato, svagatemi.»
«Questo è il mio dovere d’anfitrione, amico caro», disse Albert
suonando per il cameriere, mentre Lucien con la sua bacchettina, dal
pomo cesellato e incrostato di turchesi, spostava i giornali
spiegati.
«Germain, una bicchiere di Xérès e un biscotto. Intanto, mio caro
Lucien, ecco dei sigari, di contrabbando bene inteso: v’invito a
fumarli e a persuadere il vostro ministro a vendercene uguali,
invece delle foglie di noce che condanna i buoni cittadini a
fumare.»
«Figuriamoci, me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero
forniti dal Governo non li vorreste più, e li trovereste
detestabili. D’altra parte ciò non è compito dell’interno, spetta
alle finanze, andate dal signor Humann, sezione delle imposte
indirette, corridoio A, numero 26.»
«Davvero», disse Albert, «mi sorprendete con le vostre conoscenze.
Ma prendete un sigaro!»
«Ah, caro conte», replicò Lucien accendendo un sigaro a una candela
color rosa in una bugia d’argento dorato, e lasciandosi andare sul
divano, «quanto siete felice per non avere nulla da fare! Non
conoscete la vostra felicità!»
«E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni», rispose
Morcerf con una leggera ironia, «se non aveste nulla da fare? Come!
Segretario particolare di persone influenti, lanciato nella gran
cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi; incaricato di
dirigere le elezioni; impegnato più nel vostro gabinetto e col
vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi di
battaglia con la spada e con le vittorie; possessore di
venticinquemila franchi di rendita, oltre il vostro impiego, di un
cavallo per cui Château-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e
non glielo avete voluto dare, di un sarto che non vi sbaglia mai un
paio di calzoni; frequentatore dell’Opéra, del Jockey Club, e del
teatro del Varietà, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per
distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io.»
«E in qual modo?»
«Col farvi fare una nuova conoscenza.»
«Un uomo o una donna?»
«Un uomo.»
«Oh, ne conosco già troppi!»
«Ma uno così non lo conoscete.»
«E da dove viene dunque? Dall’altra parte del mondo?»
«Forse anche da più lontano.»
«Spero che non sia quello che deve portare la nostra colazione?»
«No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne.
Ma dunque avete fame?»
«Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante dirlo. Ieri ho pranzato
dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come si pranza
male tra i membri del tribunale: si direbbe che hanno sempre dei
rimorsi.»
«Ah, voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si pranzasse bene
dai vostri ministri…»
«Sì, ma non invitiamo la gente del bel mondo, almeno; e se non
fossimo obbligati a invitare quei miserabili che pensano, e quel che
più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo come dalla peste,
di pranzare a casa nostra; questo vi prego di volerlo credere sul
serio.»
«Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro
biscotto.»
«Il vostro vino di Spagna è eccellente; avete visto che abbiamo
avuto ragione a riappacificare quel Paese.»
«E ciò vi procurerà il Toson d’Oro.»
«Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi di
fumo.»
«Eh, questo è quanto diverte più lo stomaco… Ma ascoltate: sento
appunto la voce di Beauchamp nell’anticamera, discuterete insieme, e
ciò vi farà attendere con maggiore pazienza.»
«Di cosa?»
«Di giornali.»
«Ah, caro amico», disse Lucien, con un sovrano disprezzo, «io leggo
forse giornali?»
«Ragione di più, allora discuterete maggiormente…»
«Il signor Beauchamp!» annunciò il cameriere.
«Entrate, entrate, penna terribile!» salutò Albert alzandosi e
andando incontro al giovane. «Ecco qui Debray che vi detesta senza
leggervi, almeno a quanto ha detto.»
«Ne ha ben ragione», replicò Beauchamp. «Si comporta come me, io lo
critico senza sapere quel che fa… Buongiorno, commendatore!»
«Ah, lo sapete già?» rispose il segretario particolare, scambiando
col giornalista una stretta di mano e un sorriso.
«Ci mancherebbe!» rispose Beauchamp.
«E che se ne dice nel mondo?»
«In quale mondo? Abbiamo molti mondi nell’anno di grazia 1838. Eh,
nel mondo critico-politico di cui siete uno dei personaggi più
influenti.»
«Si dice che è una cosa giustissima.»
«Mica male», commentò Lucien. «Perché mai non siete uno dei nostri,
mio caro Beauchamp? Con tanto spirito, fareste fortuna in tre o
quattro anni.»
«Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora, una
domanda, caro Albert, poiché bisogna bene che lasci respirare
Lucien: facciamo colazione, o pranziamo? Perché io ho la Camera che
mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel nostro mestiere.»
«Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e ci
metteremo a tavola appena saranno arrivate.»
«E chi aspettate?» domandò Beauchamp.
«Un gentiluomo e un diplomatico», rispose Albert.
«Allora è questione di due orette per il gentiluomo, e di due
abbondanti per il diplomatico; ritornerò alla frutta. Tenetemi da
parte delle fragole, del caffè, e dei sigari; mangerò una costoletta
alla Camera.»
«No, rimanete, Beauchamp. Anche se il gentiluomo fosse un
Montmorency, e l’altro uno dei primi diplomatici, faremo colazione
alle undici precise; frattanto fate come Debray: assaggiate il mio
Xeres, e i miei biscotti.»
«D’accordo, resto. Ho bisogno di distrarmi questa mattina.»
«Bene, proprio come Debray: mi sembra però che quando il ministero è
triste l’opposizione debba essere allegra!»
«Vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato… Questa
mattina sentirò un discorso di Danglars, e questa sera in casa di
sua moglie una tragedia di un pari di Francia.»
«Capisco, avete bisogno di far scorta di divertimento.»
«Non parlate male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, è
dell’opposizione.»
«Ecco dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a far discorsi in
Lussemburgo per riderne a mio bell’agio.»
«Caro mio», disse Albert a Beauchamp, «si vede che gli affari di
Spagna si sono sistemati, questa mattina siete di un’acidità
stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina parla di
trattative di un matrimonio fra me ed Eugénie Danglars. Non posso
dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell’eloquenza di un
uomo, che un giorno o l’altro può dirmi: “Signor visconte, sapete
che assegno in dote due milioni a mia figlia”.»
«Suvvia», ribatté Beauchamp, «questo matrimonio non si farà mai. Il
Re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar
gentiluomo, e il conte di Morcerf è una spada troppo aristocratica
per acconsentire, per due meschini milioni, a una cattiva alleanza.
Il visconte di Morcerf non deve sposare che una marchesa.»
«Due milioni», rispose Albert, «sono una bella cosa.»
«Questo è il capitale sociale di un teatro dei boulevard, o di una
ferrovia dal Jarden des Plantes alla Rapée.»
«Lasciatelo dire Morcerf», riprese con noncuranza Debray, «e
ammogliatevi. Voi sposate la cifra scritta sopra un sacco, non è
vero? Ebbene! Che v’importa? Meglio su questa cifra un blasone di
meno e uno zero di più.»
«In tutta sincerità, credo che abbiate ragione, Lucien», rispose
Albert distratto.
«Eh certamente! D’altra parte egli è milionario e nobile come un
bastardo: cioè, potrebbe esserlo.»
«Zitto! Non dite questo, Debray», lo riprese ridendo Beauchamp.
«Ecco qui Château-Renaud che per guarirvi dalla mania di fare
paradossi, vi trapasserebbe con la spada di Rinaldo di Montalbano,
suo antenato.»
«Allora uscirebbe dalle regole dei duelli», rispose Lucien, «perché
io sono un campagnolo.»
«Bene!» esclamò Beauchamp. «Ecco il funzionario che fa l’agnellino.
Come andremo a finire?»
«Il signor Château-Renaud! Il signor Maximilien Morrel!» disse il
cameriere, annunciando i due nuovi invitati.
«Siamo al completo!» esclamò Beauchamp. «Noi andiamo a far
colazione; perché se non erro aspettavate solo due persone, Albert?»
«Morrel!» mormorò Albert. «E chi è costui?»
Ma prima che avesse terminato, il signor Château-Renaud, un bel
giovane sui trent’anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a
dire, con l’aspetto di un Guiche e lo spirito di un Montemart, aveva
preso Albert per la mano.
«Permettetemi mio caro», disse, «di presentarvi il signor Maximilien
Morrel capitano degli Spahis, mio amico, e di più, mio salvatore.
Del resto si presenta abbastanza bene da se stesso: salutate il mio
eroe, visconte!»
E si scostò per presentare questo grande e nobile giovane, dalla
fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i nostri
lettori ricorderanno di aver visto a Marsiglia in un’occasione molto
più drammatica, e che non avranno certo dimenticato.
Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale, mirabilmente
portata, faceva risaltare il suo largo petto, la croce della Legion
d’Onore, e la struttura agile delle sue forme. Il giovane ufficiale
s’inchinò con eleganza; Morrel era raffinato in tutti i suoi
movimenti perché era forte.
«Signore», disse Albert con affettuosa cortesia, «il barone di
Château-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi avrebbe procurato
nel farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno dei suoi amici,
signore; siate anche uno dei nostri.»
«Benissimo», approvò Château-Renaud, «e desidero, mio caro visconte,
che all’occasione faccia per voi quel che ha fatto per me.»
«E che ha dunque fatto?» domandò Albert.
«Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera.»
«Come non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se ne
parli?… Davvero c’è troppa filosofia nelle vostre parole, mio caro
Morrel… Andrà bene per voi che esponete la vostra vita tutti i
giorni, ma per me che l’ho esposta una volta per caso…»
«Ciò che capisco da queste parole, barone, è che il capitano Morrel
vi ha salvato la vita.»
«Sì, esattamente», replicò Château-Renaud.
«E in quale occasione?» domandò Beauchamp.
«Beauchamp, amico mio, sapete ch’io muoio di fame!» esclamò Debray.
«Non perdetevi dunque in storie.»
«Ma io non impedisco che ci mettiamo a tavola. Château-Renaud ci
racconterà tutto a tavola», ribatté Beauchamp.
«Signori», disse Morcerf, «non sono che le dieci e un quarto, e noi
aspettiamo un altro convitato.»
«Ah, è vero, un diplomatico», riprese Debray.
«Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so, è
che lo incaricai di un’ambasciata per conto mio, da lui eseguita in
modo così mirabile che se fossi stato re, lo avrei fatto cavaliere
di tutti i miei ordini, anche avessi avuto a mia disposizione il
Toson d’Oro, e la Giarrettiera.»
«Allora, poiché non si va ancora a tavola», disse Debray, «versatevi
un altro bicchiere di Xérès come abbiamo fatto noi, e raccontateci
la vostra storia, barone.»
«Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?»
«Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Château-Renaud»,
disse con galanteria Morcerf.
«Sì, ma dubito che vi siate andato, come loro, per liberare il Santo
Sepolcro.»
«Avete ragione, Beauchamp», rispose il giovane aristocratico, «fu
solo per sparare un colpo di pistola come dilettante… Il duello mi
ripugna, come voi sapete, da quando due padrini, che io avevo scelti
per sistemare una contesa, mi costrinsero a rompere un braccio a uno
dei miei migliori amici… a quel povero Franz d’Epinay, che voi tutti
conoscete.»
«Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa… e a proposito di che?»
«Il diavolo mi porti se me ne ricordo!» esclamò Château-Renaud. «Ma
ciò che mi ricordo perfettamente è che ho voluto provare sugli arabi
delle pistole nuove che mi erano state regalate. Perciò m’imbarcai
per Orano; di là arrivai a Costantina, e giunsi giusto in tempo per
veder levare l’assedio. Mi aggregai alla ritirata come gli altri.
Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene la pioggia di giorno,
e la neve di notte; poi la terza mattina il cavallo morì di freddo.
Povera bestia! Abituato alle coperte e al braciere della scuderia…
un cavallo arabo che si è trovato espatriato per aver trovato appena
dieci gradi di freddo in Arabia…»
«Perciò volevate comprare il mio cavallo inglese», disse Debray,
«supponendo forse che avrebbe sopportato il freddo meglio del vostro
arabo.»
«Vi sbagliate; poiché ho fatto voto di non ritornare più in Africa.»
«Avete avuto paura dunque?» domandò Beauchamp.
«Sì, lo confesso», ammise Château-Renaud, «e ne ho avuto ben donde!
Il mio cavallo dunque era morto, io facevo la mia strada a piedi,
sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la testa, ne ammazzai due
con due colpi del mio fucile, due con le mie pistole, ma ne
restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese per i capelli,
per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò che può accadere,
l’altro mi circondò il collo col suo yatagan, e già sentivo il
freddo acuto del ferro, quando questo signore che vedete, caricò a
sua volta contro di loro, atterrò quello che mi teneva per i capelli
con un colpo di pistola, e con la sciabola spaccò la testa a quello
che mi stava tagliando la gola. Questo signore si era imposto in
quel giorno l’obbligo di salvare un uomo, la combinazione volle che
fossi io: quando diventerò ricco, voglio far fare da Klagmann o da
Marochetti una statua che rappresenti quell’episodio.»
«Sì», disse sorridendo Morrel, «era il 5 settembre, l’anniversario
del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così, per
quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con
qualche azione.»
«Eroica, non è vero?» interruppe Château-Renaud. «Insomma, fui
l’eletto, ma non è finita qui. Dopo avermi salvato dal ferro mi
salvò dal freddo, dandomi, non già una metà del suo mantello come
fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame, dividendo
con me, indovinate un poco che cosa?…»
«Un pasticcio di Félix?» chiese Beauchamp.
«No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con
grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro…»
«Il cavallo?» domandò ridendo Morcerf.
«No, il sacrificio», rispose Château-Renaud. «Domandate a Debray se
sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?»
«Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi», rispose Debray.
«E io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte»,
disse Morrel. «D’altra parte ho già avuto l’onore di dirvelo:
eroismo o no, sacrificio o no, avevo un debito con la sorte, in
compenso del favore che in un’altra occasione ci aveva fatto.»
«Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia e
ve la racconterà un giorno, quando lo avrete conosciuto meglio; per
oggi pensiamo allo stomaco, e non alla memoria. A che ora fate
colazione?»
«Alle dieci e mezzo.»
«Precise?» domandò Debray prendendo l’orologio.
«Oh, mi accorderete cinque minuti di ritardo», ribatté Morcerf,
«poiché io pure aspetto un salvatore.»
«Di chi?»
«Di me stesso!» rispose Morcerf. «Credete forse che non possa essere
salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che tagliano
la testa? La nostra colazione è una colazione di riconoscenza e
avremo alla nostra tavola, spero almeno, due benefattori
dell’umanità.»
«E come faremo?» domandò Debray. «Non abbiamo che un sol premio
Monthyon…»
«Verrà dato a qualcuno che non avrà fatto nulla per meritarlo»,
disse Beauchamp. «In questo modo di solito fa l’accademia per
togliersi da qualunque impaccio.»
«E da dove viene?» domandò Debray. «Scusate l’insistenza; avete già,
lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente e perciò
posso permettermi di farvela una seconda volta.»
«A dire il vero», rispose Albert, «non lo so. Quando l’ho invitato
tre mesi fa era a Roma. Ma da quel tempo, chi può dire dove sia
stato?»
«E lo credete capace di essere puntuale?»
«Lo credo capace di tutto», rispose Morcerf.
«Fate attenzione perché, compresi i minuti di ritardo, non ne
mancano che dieci.»
«Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio invitato.»
«Scusate», disse Beauchamp, «vi sarà materia per un articolo in ciò
che stare per narrare?»
«Sì, certamente», disse Morcerf, «e anche dei più curiosi.»
«Allora raccontate, poiché vedo bene che non potrò andare alla
Camera, e bisogna che mi ripaghiate.»
«Ero a Roma per l’ultimo carnevale.»
«Questo lo sappiamo già», disse Beauchamp.
«Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti.»
«Non esistono più i briganti», dichiarò Debray.
«Esistono, e sono anche bruttissimi cioè ammirabili, mentre ne ho
trovati di belli, ma da far paura.»
«Vediamo, mio caro Albert», disse Debray, «confessate che il vostro
cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte da
Marennes o da Ostenda, e che come la signora di Maintenon, volete
sostituire un racconto a un piatto. Ditelo, mio caro, siamo
abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per ascoltare la
vostra storia, anche se sembra inventata.»
«E io vi dico, per quanto possa sembrare inventata, che è vera dal
principio alla fine. I briganti dunque mi avevano condotto in un
luogo molto triste, chiamato le catacombe di San Sebastiano.»
«Le conosco», disse Château-Renaud, «per poco non mi ammalai.»
«A me andò peggio. Mi fu detto che ero prigioniero, salvo il
riscatto, una bagattella, quattromila scudi romani, circa
ventiseimila lire francesi. Disgraziatamente non ne avevo più di
millecinquecento; ero alla fine del mio viaggio, e il mio credito
era esaurito. Scrissi a Franz. Per fortuna Franz era là, e potete
chiedergli se mento di una virgola… Scrissi dunque a Franz che se
non si fosse presentato alle sei del mattino con i quattromila
scudi, alle sei e dieci minuti sarei passato all’eterna gloria, e
Luigi Vampa, questo è il nome del capo dei briganti, vi prego di
crederlo, avrebbe mantenuto scrupolosamente la sua parola.»
«Ma Franz sarà giunto con i quattromila scudi…» disse
Château-Renaud.
«Ci mancherebbe! Non può avere problemi a trovare quattromila scudi
chi porta il nome di Franz d’Epinay o di Albert di Morcerf!»
«No, ma egli giunse solamente e semplicemente accompagnato
dall’invitato che vi ho annunciato, e che spero di potervi
presentare.»
«E che!? È dunque Ercole che uccide Caco questo signore? Un Perseo
che libera Andromeda?»
«No, è un uomo circa della mia corporatura.»
«Armato fino ai denti?»
«Non aveva neppure un ferro da calza.»
«E contrattò il vostro riscatto?»
«Disse due parole all’orecchio del capo e io fui liberato.»
«Anzi gli fecero perfino le scuse d’avervi rapito», disse Beauchamp.
«Precisamente», rispose Morcerf.
«Ma che! Era dunque l’Orlando d’Ariosto quest’uomo?»
«No, era semplicemente il conte di Montecristo.»
«Non c’è nessuno che si chiami così», disse Debray.
«Non credo», aggiunse Château-Renaud con la presenza d’animo
dell’uomo che conosce sulla punta delle dita tutte le genealogie
delle famiglie nobili dell’Europa, «ci sia chi conosca un conte di
Montecristo…»
«Forse è un qualche casato proveniente dalla Terra Santa», disse
Beauchamp: «uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come
Montemart, il Mar Morto.»
«Scusate», disse Maximilien, «io credo di potervi togliere
d’impaccio, signori: Montecristo è una piccola isola, di cui ho
spesso sentito parlare dai marinai impiegati da mio padre, un grano
di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell’infinito.»
«Ed è vero, signore», annuì Albert. «Ebbene, di questo grano di
sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli
avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana.»
«È dunque ricco il vostro conte?»
«Credo proprio di sì!»
«Non lo sapete?…»
«Avete letto le Mille e una notte?»
«Bella domanda!»
«Le persone che vi appaiono sono ricche o povere? I loro grani di
frumento sono rubini o diamanti? Essi hanno l’aspetto di miserabili
pescatori, non è vero? Voi li trattate come tali, e subito vi aprono
qualche caverna misteriosa, e vi trovate un tesoro da comprare le
Indie. Il mio conte di Montecristo è uno di quei pescatori; ha
perfino un nome preso da quella favola, si chiama Sinbad il
marinaio, e possiede una caverna piena d’oro.»
«L’avete vista», domandò Beauchamp.
«Io no; Franz sì. Ma zitti! Non bisogna dire una parola di tutto ciò
davanti a lui. Franz vi scese con gli occhi bendati, e fu servito da
uomini muti, e da donne, paragonate alle quali Cleopatra non era, a
quanto pare, che una donna volgare. Soltanto delle donne egli non è
ben sicuro, giacché esse non apparvero che dopo aver masticato
dell’hashish di modo che potrebbe darsi che quelle che ha preso per
donne, non fossero che statue.»
I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva dire:
«Mio caro, stata diventando pazzo o vi burlate di noi?»
«Però», disse Morrel pensieroso, «ho sentito raccontare anch’io da
un vecchio marinaio, chiamato Penelon, qualche cosa di simile a ciò
che dice il signor di Morcerf.»
«Ah», fece Albert, «sono fortunato che Morrel venga in mio aiuto.»
«Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili…»
«Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non ve ne parlano?
Essi non ne hanno il tempo; sono troppo impegnati a molestare i loro
compatrioti che viaggiano.»
«Ah, ecco che v’inquietate, e ve la prendete con i nostri poveri
diplomatici. Eh, mio Dio, con che volete che vi proteggano? La
Camera corrode ogni giorno i loro stipendi, e ora è al punto di non
avere più fondi. Volete diventare ambasciatore? Vi farò nominare a
Costantinopoli.»
«No, perché il sultano, alla prima nota in favore di Mehemet Alì, mi
manderebbe una corda con la quale i miei segretari mi
strangolerebbero.»
«Esattamente!» disse Debray.
«Tutto ciò non toglie che il mio conte di Montecristo esista!»
«Perbacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!»
«Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli
uomini non hanno schiavi, gallerie principesche, cavalli di seimila
franchi l’uno, e concubine greche.»
«L’avete vista la concubina greca?»
«Sì, l’ho vista e ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un
giorno che facevo colazione dal conte.»
«Il vostro uomo straordinario dunque mangia?»
«Certo che mangia! Ma così poco, che non merita parlarne.»
«Si scoprirà poi che è un vampiro…»
«Ridete, se volete, questa era l’opinione della contessa G. che come
voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen.»
«Bene!» esclamò Beauchamp. «Ecco per un giornalista lo scoop del
famoso serpente di mare del “Constitutionnel”: un vampiro, niente
meno!»
«Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà»,
continuò Debray, «volto ossuto e scarno, fronte spaziosa, tinta
livida, barba nera, denti bianchi e acuti, gentilezza tutta
particolare.»
«È proprio così, Lucien», disse Morcerf, «i connotati sono esatti.
Sì, gentilezza acuta e incisiva. Quest’uomo spesso mi ha fatto
tremare, e particolarmente un giorno, fra gli altri, che guardavamo
insieme un’esecuzione, ho creduto di svenire molto più nel vederlo e
sentirlo ragionare freddamente su tutti i supplizi della terra, che
guardare il carnefice eseguire il suo compito, e sentire le grida
del condannato.»
«E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il
sangue, Morcerf?» domandò Beauchamp.
«Oppure, dopo avervi liberato, non vi ha fatto firmare qualche
pergamena color fuoco, in virtù della quale gli cederete la vostra
anima?»
«Scherzate! Scherzate quanto volete, signori!» disse Morcerf punto
sul vivo. «Quando osservo voialtri bei parigini, abituati al
Boulevard de Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo
di quest’uomo, mi pare che non siamo della stessa specie.»
«Me ne vanto», disse Beauchamp.
«Il vostro conte di Montecristo», aggiunse Château-Renaud, «è però
sempre un galantuomo nelle ore d’ozio, salvo le sue piccole intese
con i banditi italiani…»
«Ma non vi sono banditi italiani!» sospirò Debray.
«Non vi sono vampiri!» disse Beauchamp.
«Non esiste il conte di Montecristo!» riprese Debray.
«Ascoltate, caro Albert, suonano le dieci e mezzo.»
«Confessate che avete visto un fantasma, e andiamo a far colazione»,
disse Beauchamp.
Ma la vibrazione dell’orologio a pendolo non si era ancora esaurita,
che la porta si aprì, e Germain annunciò: «Sua Eccellenza il conte
di Montecristo!»
Tutti gli astanti apparvero loro malgrado sorpresi. Albert stesso
non poté evitare un’emozione momentanea. Non era stata udita né
carrozza sulla strada, né passi nell’anticamera; la porta stessa si
era aperta senza rumore. Il conte comparve sulla soglia, vestito con
la più grande semplicità, e il damerino più esigente non avrebbe
saputo trovarvi la minima mancanza. Tutto era di un gusto squisito,
tutto usciva dalle mani dei più eleganti fornitori: abiti, cappello,
biancheria. Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che
sorprese tutti fu l’estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva
fatto Debray. Il conte avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò
direttamente da Albert, che venendogli incontro gli tese con
trasporto la mano.
«La puntualità», disse Montecristo, «è la gentilezza dei re, come ha
preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque sia la loro
buona volontà, non è però sempre quella dei viaggiatori. Però io
spero, mio caro visconte, che mi scuserete i due o tre secondi di
ritardo al nostro appuntamento; cinquecento leghe non si fanno senza
qualche contrattempo, particolarmente in Francia dove è proibito, a
quanto sembra, frustare i postiglioni.»
«Signor conte», rispose Albert, «stavo proprio preannunciando la
vostra visita agli amici, da me riuniti per la promessa che mi
avevate fatto e che ho l’onore di presentarvi. Questi signori sono,
il conte di Château-Renaud, la cui nobiltà risale ai dodici Pari, i
cui antenati hanno avuto posto alla Tavola Rotonda; Lucien Debray,
segretario particolare del ministro dell’Interno; Beauchamp,
terribile giornalista, il terrore del governo francese, e di cui
forse, nonostante la sua celebrità, non avrete sentito parlare in
Italia, visto che il suo giornale non vi può entrare; e infine
Maximilien Morrel, capitano degli Spahis.»
A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato
cortesemente, ma con una freddezza e un’impassibilità tutta inglese,
fece suo malgrado un passo avanti, e una leggera tinta vermiglia gli
salì come un lampo alle pallide guance.
«Il signore porta l’uniforme dei nuovi vincitori francesi», disse.
«È una bella uniforme!»
Non sarebbe stato possibile dare un nome al sentimento che dava alla
voce del conte una così profonda vibrazione, e faceva brillare suo
malgrado lo sguardo tanto bello, tanto sereno e limpido, quando non
aveva alcun motivo per velarlo.
«Voi non avevate mai visto i nostri coloniali, signor conte?»
domandò Albert.
«Mai!» replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se
stesso.
«Ebbene, signor conte, sotto quest’uniforme batte uno dei cuori più
coraggiosi e più nobili dell’esercito…»
«Oh, signor conte…» interruppe Morrel.
«Lasciatemi parlare, capitano… Non ha pari», continuò Albert.
«Abbiamo conosciuto un tratto così eroico del signore, che
nonostante io lo veda oggi per la prima volta, pretendo il favore di
potervelo presentare come mio amico.»
E si sarebbe potuto, anche a queste parole, scorgere nel conte
quello strano sguardo indagatore, quel rossore fuggitivo, e quel
leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l’emozione.
«Ah, il signore ha un cuore nobile?» disse il conte. «Tanto meglio!»
Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto al
pensiero del conte, che al discorso di Albert, sorprese tutti, ma
particolarmente Morrel, che guardò il conte di Montecristo con
stupore. Ma il tono della voce era stato così dolce e per così dire
soave, che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione, non
c’era ragione in alcun modo di offendersene.
«Perché dunque ne dubiterebbe?» domandò Beauchamp a Château-Renaud.
«A essere sinceri», rispose questi, che, con l’abitudine al gran
mondo e la chiarezza del colpo d’occhio aristocratico, aveva
riconosciuto in Montecristo molte qualità, «Albert non ci ha
ingannati, è un personaggio singolare questo conte… Che ne dite,
Morrel?»
«A mio avviso», rispose questi, «ha lo sguardo sincero e la voce
simpatica, perciò mi piace, malgrado la bizzarra riflessione fatta
sul mio conto.»
«Signori», disse Albert, «Germain mi avverte che la colazione è
pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada.»
Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise
al suo posto.
«Signori», disse il conte sedendosi, «permettete una confessione che
sarà la mia scusa per tutte le sconvenienze che potrò commettere:
sono straniero, ma straniero a tal punto che questa è la prima volta
che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque totalmente
sconosciuta, non avendo fino a ora seguito che lo stile orientale,
il più antitetico alle buone tradizioni parigine. Vi prego dunque di
scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo turco, o di
troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione.»
«Da come ha detto tutto ciò», mormorò Beauchamp, «si capisce che è
un gran signore!»
«Un gran signore straniero», aggiunse Debray.
«Un signore cosmopolita», disse Château-Renaud.
Ricorderete che il conte era un invitato sobrio.
Albert notò la cosa, e manifestò il timore che la vita parigina
potesse dispiacergli fin dal principio, essendo più materiale, è
vero, ma nello stesso tempo più necessaria.
«Mio caro conte», disse, «voi mi vedete colpito da un timore: che la
cucina della rue Helder non arrivi a piacervi quanto quella dei
piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi piace, e
farvi preparare qualche piatto di vostro gusto.»
«Se mi conosceste di più», rispose sorridendo il conte, «non vi
preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come
me, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con
polenta a Milano, con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a
Costantinopoli, con il curry nelle Indie, e con nidi di rondini in
Cina. Non c’è una cucina particolare per un cosmopolita come me:
mangio di tutto e in ogni luogo; solo mangio poco, e oggi che mi
rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio
massimo appetito, perché è da ieri che non mangio.»
«Come da ieri mattina?» esclamarono gli invitati. «Non mangiate da
ventisei ore?»
«No», rispose il conte. «Fui obbligato a deviare dalla mia strada
per raggiungere Nîmes a prendere alcune informazioni, di modo che
ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi.»
«Ma avrete mangiato in carrozza?!» disse Morcerf.
«No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il
coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza avere voglia di
mangiare.»
«Ma dunque comandate al sonno?» domandò Morrel.
«Pressappoco.»
«Avete una ricetta per questo?»
«Infallibile.»
«Sarebbe eccellente per noi coloniali, che non sempre abbiamo da
mangiare, e sempre difficilmente da bere…» disse Morrel.
«Sì», continuò il conte, «disgraziatamente la mia ricetta, buona per
un uomo come me, che conduce una vita eccezionale, sarebbe molto
pericolosa applicata a un esercito, che non si sveglierebbe più,
quando se ne avesse bisogno.»
«Si può conoscere questa ricetta?» chiese Debray.
«Certo», rispose il conte, «non ne faccio alcun segreto; è una
mistura di eccellente oppio; io stesso sono stato a cercarlo a
Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che
si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l’Eufrate. Si riuniscono
questi due ingredienti in porzioni uguali, e se ne formano delle
specie di pillole che s’inghiottono quando uno ne ha bisogno.
L’effetto si produce dieci minuti dopo. Domandate al barone Franz
d’Epinay, che credo un giorno l’abbia assaggiato.»
«Sì», rispose Morcerf, «me ne ha accennato, anzi ne ha conservato
una piacevole memoria.»
«Ma», domandò Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era
molto incredulo, «portate sempre questa droga con voi?»
«Sempre!» rispose il conte di Montecristo.
«Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole?»
continuò Beauchamp, nella speranza di cogliere lo straniero in
fallo.
«No, signore…» rispose il conte.
E prese di tasca una meravigliosa scatolina scavata in un solo
smeraldo, e chiusa con un fermaglio d’oro, che, aprendosi, lasciava
uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di un
pisello.
Questa pillola aveva un odore acre e penetrante, e ve ne erano
quattro o cinque all’interno dello smeraldo che ne poteva contenere
circa una dozzina. La scatolina fece il giro della tavola, e gli
invitati se la facevano passare più per esaminare la magnificenza
dell’ammirabile smeraldo, che per guardare e fiutare le pillole
contenute.
«È forse il vostro cuoco che vi prepara questo miscuglio?» domandò
Beauchamp.
«No, signore», disse il conte di Montecristo, «non abbandono i miei
piaceri all’arbitrio di mani inesperte; sono chimico a sufficienza
per prepararmi da solo queste pillole.»
«Questo è uno smeraldo splendido, ed è il più grosso che abbia mai
visto, nonostante mia madre abbia qualche gioia di famiglia di
notevole valore», disse Château-Renaud.
«Di questi ne avevo tre», aggiunse il conte di Montecristo. «Uno lo
regalai al Gran Visir, che ne ha adornato la sua sciabola; l’altro a
una persona che non posso nominare; il terzo l’ho tenuto per me,
l’ho fatto scavare, togliendogli la metà del suo valore, ma l’ho
reso più adatto all’uso al quale l’ho destinato.»
Ognuno guardò il conte di Montecristo con meraviglia; parlava con
tanta semplicità, che faceva ritenere vero, o falso, ciò che diceva:
lo smeraldo nelle sue mani provava però la prima supposizione.
«Cosa vi hanno dato in cambio le persone cui avete fatto simili
doni?» chiese Debray.
«Il Gran Visir mi ha concesso la libertà di una donna», rispose il
conte, «l’altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due
volte sono stato potente come se fossi nato sui gradini di un
trono.»
«Avete fatto liberare Peppino, non è vero?» gridò Morcerf. «Fu per
lui che esercitaste il diritto di grazia?»
«Può darsi», disse Montecristo, sorridendo.
«Signor conte», riprese Morcerf, «non potete farvi un’idea del
piacere che provo nel sentirvi parlare così. Vi avevo già descritto
ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle Mille e una
notte, come uno stregone del medioevo, ma i parigini sono persone
talmente sottili nei paradossi, che prendono per capricci
dell’immaginazione le verità più inconfutabili, quando non sono
abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp che scrive
tutti i giorni che sul boulevard è stato fermato e spogliato qualche
membro del Jockey Club in ritardo, sono state assassinate quattro
persone in rue Saint-Denis o nel Faubourg Saint-Germain, sono stati
arrestati quattro, dieci, venti ladri.
E negano l’esistenza dei banditi nelle Maremma, nella campagna
romana, e nelle paludi pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne prego,
signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e che, senza
la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei, secondo tutte
le probabilità, la resurrezione finale nelle catacombe di San
Sebastiano, invece di offrire loro colazione nella mia piccola e
indegna casa in rue Helder.»
«Mi avete promesso di non parlarmi più di questa sciocchezza.»
«Non sono io che vi ho fatto questa promessa, signor conte», gridò
Morcerf, «sarà stato qualcun altro a cui avete reso un simile
favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego;
perché se vi risolvete a parlare di questo episodio, non solo
ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so.»
«Mi sembra che in tutto questo affare», aggiunse il conte ridendo,
«abbiate sostenuto una parte di troppa importanza, per sapere al par
mio tutto ciò che è accaduto.»
«Volete promettermi che, se dico tutto quel che so, mi direte tutto
quel che non so?»
«D’accordo», rispose Montecristo.
«Ebbene», riprese Morcerf, «dovesse il mio amor proprio soffrirne
nuovamente, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie
di una maschera che ritenevo discendente delle Tullie, o delle
Poppee, mentre ero semplicemente il passatempo di una contadina; e
notate bene che dico contadina per non dir villana.
Poi come un gonzo ho scambiato un giovane bandito sui quindici,
sedici anni per quella contadina, fino a deporre un bacio sulla sua
casta spalla. Lui, in quel momento, mi ha messo le pistole alla gola
e con l’aiuto di altri sette o otto banditi, mi ha condotto o
piuttosto trascinato in fondo alle catacombe di San Sebastiano. Qui
trovai un capo di banditi molto colto, che leggeva i Commentari di
Giulio Cesare, e che si è degnato d’interrompere la lettura per
dirmi che se l’indomani alle sei del mattino non avessi versato
quattromila scudi nella sua cassa, alle sei e un quarto avrei
cessato di vivere. La lettera esiste, è nelle mani di Franz, firmata
da me, con un poscritto di mastro Luigi Vampa. Se ne dubitate,
scriverò a Franz che potrà mostrarvi le firme. Ecco ciò che so.
Quello che mi resta da sapere è come mai, voi signor conte, siate
giunto a incutere ai banditi di Roma un così gran rispetto, essi che
nulla rispettano. Vi confesso che Franz e io ne fummo pieni
d’ammirazione.»
«Niente di più semplice, signore», rispose il conte. «Conoscevo il
famoso Vampa da più di dieci anni. Quand’era ancora giovane e faceva
il pastore, un giorno gli regalai non mi ricordo quale moneta d’oro,
perché mi indicò la strada ed egli mi dette in cambio un pugnale
intagliato con le sue mani, e che voi forse avrete notato nella mia
collezione d’armi. Col tempo, sia che egli avesse dimenticato questo
scambio di piccoli regali, che doveva mantenere l’amicizia fra noi,
sia che non mi avesse riconosciuto, tentò di rapirmi; ma io invece
catturai lui con una dozzina dei suoi compagni. Allora potevo
abbandonarlo alla giustizia romana che è spiccia, e si sarebbe
affrettata ancora di più nei suoi riguardi, ma non lo feci: lo
rimandai con tutti i suoi.»
«A condizione che non peccassero più», ribatté il giornalista
ridendo. «Vedo con piacere che hanno mantenuta scrupolosamente la
parola.»
«No, signore», rispose Montecristo, «a condizione che rispettassero
sempre me e i miei amici.»
«Finalmente!» esclamò Château-Renaud. «Ecco il primo uomo coraggioso
da cui sento predicare lealmente e brutalmente l’egoismo.
Bravissimo, signor conte.»
«Almeno parlate sinceramente», aggiunse Morrel, «ma sono sicuro che
il signor conte non si è pentito di avere mancato una volta a questi
principi, esposti in modo così assoluto.»
«E in qual modo ho mancato ai miei principi, signore?» domandò
Montecristo, che ogni tanto non poteva esimersi dal guardare
Maximilien con tanta attenzione, che già due o tre volte l’ardito
giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi, allo sguardo
limpido e chiaro del conte.
«Mi sembra», rispose Morrel, «che liberando il signor Morcerf che
non conoscevate voi servivate il prossimo, e la società…»
«Di cui egli fa il più bell’ornamento», aggiunse seriamente
Beauchamp vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne.
«Signor conte», gridò Morcerf, «eccovi coinvolto dal ragionamento,
voi uno dei più aspri logici che io conosca. E quanto prima vi sarà
dimostrato che invece d’essere un egoista, siete un altruista. Ah,
voi vi spacciate per orientale, levantino, maltese, indiano, cinese,
selvaggio, Montecristo è il vostro nome di famiglia, Sinbad il
marinaio quello di battesimo ed ecco che il primo giorno che mettete
piede a Parigi, già possedete il più gran difetto della nostra
eccentricità parigina, vale a dire usurpate i vizi che non avete!»
«Mio caro visconte», disse Montecristo, «non vedo in tutto ciò che
ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi da parte
vostra e di questi signori, l’elogio che ricevo. Voi non mi eravate
estraneo, poiché vi avevo offerto una colazione, vi avevo prestato
per otto giorni la mia carrozza, avevamo assistito insieme alla
sfilata delle maschere per il Corso, e perché avevamo guardato dalla
stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi
fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, io domando a questi
signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli
spaventosi banditi, come voi li chiamate? D’altra parte, lo sapete,
avevo nel salvarvi un secondo fine, quello di servirmi di voi per
introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in Francia.
Per qualche tempo avete potuto considerare questa risoluzione come
un disegno vago e incerto; ma oggi, lo vedete, è una bella e buona
realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, sotto pena di
mancare alla vostra parola.»
«E io la manterrò», disse Morcerf, «ma temo che presto vi cadrà ogni
illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi d’avventure, agli
avvenimenti pittoreschi, ai fantastici orizzonti.
Presso di noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui
la vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è
Montmartre, il nostro Himalaya è il monte Valérien, il nostro Gran
Deserto è la pianura di Grenelle. Noi abbiamo dei ladri e anche
molti, sebbene non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono
ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la
Francia è un Paese così prosaico, e Parigi una città tanto
incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque
nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti, perché, ben
inteso, separo la Corsica dalla Francia) che non troverete una sola
montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola grotta un
poco oscura, nella quale un commissario di polizia non abbia fatto
installare un becco a gas. Non vi è dunque che un solo favore che
posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto interamente a
vostra disposizione, ed è di presentarvi ovunque, e farvi presentare
dai miei amici, benché voi per questo non abbiate bisogno d’alcuno:
col vostro nome, la vostra fortuna, e il vostro spirito» –
Montecristo s’inchinò con un sorriso leggermente ironico – «ognuno
si presenta ovunque da se stesso, e ovunque è ben ricevuto. In
realtà, dunque non posso essere utile per voi che a una cosa sola:
se l’abitudine della vita parigina, se la esperienza dei nostri usi,
se la conoscenza dei nostri bazar possono raccomandarmi a voi, mi
metto a vostra disposizione per trovarvi una conveniente abitazione.
Non oso proporvi di invitarvi del mio alloggio, come ho partecipato
del vostro a Roma… Non professo l’egoismo, ma sono egoista per
eccellenza… perché il mio alloggio non potrebbe contenere, oltre me,
neppure un’ombra… a meno che non fosse quella di una donna.»
«Ah», fece il conte, «ecco una riserva di sapore matrimoniale: voi
infatti a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in
trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?»
«La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte.»
«E chi dice progetto», aggiunse Debray, «vuol dire eventualità.»
«No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi
se non mia moglie, almeno la mia fidanzata, la signorina Eugénie
Danglars.»
«Eugénie Danglars», riprese Montecristo, «aspettate dunque… Suo
padre non è il barone Danglars?»
«Sì», rispose Morcerf, «ma barone di nuova formazione.»
«Oh, che importa!» rispose Montecristo, «se ha reso allo Stato dei
servigi che gli hanno fatto guadagnare questa distinzione.»
«Servigi enormi!» rispose Beauchamp. «Sebbene liberale nell’anima
nel 1829, completò un prestito di sei milioni a Carlo X che lo ha,
penso io, fatto barone e cavaliere della Legion d’Onore, di modo che
egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, come si
potrebbe credere, ma all’occhiello dell’abito!»
«Beauchamp», iniziò Morcerf ridendo, «riserbate questi frizzi per il
“Corsaire”, e il “Charivari”, ma in mia presenza risparmiate il mio
futuro suocero.»
Quindi volgendosi a Montecristo: «Ma voi poco fa ne pronunciaste il
nome come se conosceste il barone?»
«Non lo conosco», disse con noncuranza Montecristo, «ma
probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, visto che
ho dei crediti aperti su di lui dalla casa Richard e Blount di
Londra, Arstein ed Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma.»
Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò con la coda
dell’occhio Maximilien Morrel. Se lo straniero aveva calcolato di
produrre un effetto su Maximilien, non si era sbagliato.
Il giovane trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica.
«Thomson e French!» esclamò. «Conoscete questa casa, signore?»
«Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano», rispose
tranquillamente il conte. «Posso esservi utile con loro?»
«Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che
fino a oggi sono state infruttuose. Tanto tempo questa casa ha reso
un grandissimo favore alla nostra, e non so perché, ma ha sempre
negato di avercelo reso.»
«Sono ai vostri ordini…» rispose Montecristo, inchinandosi.
«Ma noi», disse Morcerf, «ci siamo allontanati, per Danglars,
dall’argomento della conversazione. Si trattava di trovare una casa
conveniente al conte di Montecristo. Andiamo, signori, che idea
avete?: dove alloggeremo questo nuovo ospite della grande Parigi?»
«Nel Faubourg Saint-Germain», disse Château-Renaud, «il signore
troverà una graziosa abitazione posta fra il cortile e il giardino.»
«Bah, Château-Renaud», disse Debray, «voi non conoscete che il
vostro triste e ammuffito Faubourg Saint-Germain… Non lo ascoltate
signor conte, alloggiate nella Chaussée d’Antin, è il vero centro di
Parigi.»
«Boulevard dell’Opéra», disse Beauchamp, «al primo piano, una casa
con ringhiera… Il signor conte vi farà portare dei cuscini di
broccato d’argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o
inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i suoi
occhi.»
«E voi», iniziò Château-Renaud, «voi, signor Morrel, non avete
nessuna idea? Non proponete nulla?»
«Anzi», disse il giovane militare, «al contrario, ne ho una, ma
aspettavo che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna delle
brillanti proposte che gli sono state fatte. Ora, credo potergli
offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa, tutta alla
Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa un anno in
rue Meslay.»
«Voi avete una sorella?» domandò Montecristo.
«Sì, signore, e una meravigliosa sorella.»
«Sposata?»
«Ben presto saranno nove anni.»
«È felice?» domandò di nuovo il conte.
«Tanto felice, quanto è permesso a creatura umana», rispose
Maximilien. «Sposò l’uomo che amava, quello che ci rimase fedele
nella fortuna avversa: Emmanuel Herbaut.»
Montecristo sorrise impercettibilmente.
«Io abito là durante il mio congedo», continuò Maximilien, «e
insieme a mio cognato Emmanuel, saremo a disposizione del signor
conte per tutte le informazioni che potesse desiderare.»
«Un momento», gridò Albert, prima che Montecristo avesse avuto il
tempo di rispondere, «riflettete su ciò che fate: volete rinchiudere
un viaggiatore come Sinbad il marinaio nella vita di famiglia? Un
uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo diventare un
patriarca?»
«Oh, no», rispose Morrel sorridendo, «mia sorella ha venticinque
anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici; d’altra
parte il signor conte avrà il proprio appartamento, e non incontrerà
gli ospiti che quando gli farà piacere scendere da loro.»
«Grazie, signore, grazie», disse Montecristo, «mi accontenterò di
essere da voi presentato a vostra sorella e a vostro cognato, se
volete farmi questo onore; ma non posso accettare le offerte di
nessuno di questi signori, poiché ho già pronta la mia abitazione.»
«Come!» esclamò Morcerf. «Voi andate ad alloggiare in una locanda?
Sarebbe troppo disdicevole per voi.»
«Ma stavo forse tanto male a Roma?» domandò Montecristo.
«Caspita, a Roma», disse Morcerf, «avevate speso cinquantamila scudi
per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo non sarete tutti i
giorni disposto a una simile spesa.»
«Ciò non mi ha trattenuto», rispose Montecristo. «Avevo deciso di
avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato avanti il
mio cameriere: a quest’ora l’avrà già comprata, e fatta
ammobiliare.»
«Ma diteci, dunque, avete un cameriere che conosce Parigi!» osservò
Beauchamp.
«È la prima volta, signore, ch’egli come me viene in Francia, è
nero, e non parla…» spiegò Montecristo.
«Allora è Alì?» domandò Albert in mezzo alla sorpresa generale.
«Sì, è Alì il mio nubiano, che credo abbiate visto a Roma.»
«Sì, certamente», rispose Morcerf, «me lo ricordo benissimo.»
«Ma come mai avete incaricato uno della Nubia di comprarvi una casa
a Parigi, un muto per farvelo ammobiliare? Il povero disgraziato
avrà fatto tutte le cose con grande difficoltà…»
«Al contrario, signore, sono certo che avrà scelto ogni cosa secondo
il mio gusto; e voi sapete che il mio gusto non è quello di tutti…
Avrà percorso tutta la città con quell’istinto naturale che userebbe
un bravo cane da caccia che stesse cacciando da solo. Conosce i miei
capricci, le mie fantasie, i miei bisogni; avrà ordinato tutto a
modo mio. Sapeva che sarei arrivato qui alle dieci; fin dalle nove
mi aspettava alla barriera di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo
biglietto, col mio nuovo indirizzo: prendete e leggete…»
«Champs-Elysées, numero 30», lesse Morcerf.
«Veramente originale!» non poté fare a meno di dire Beauchamp.
«È davvero principesca!…» aggiunse Château-Renaud.
«Come, voi non conoscete la vostra casa?» domandò Debray.
«No», disse Montecristo, «vi dissi già che non volevo tardare
all’appuntamento. Mi sono preparato in carrozza, e ho bussato alla
porta del visconte.»
I giovani si guardarono l’un l’altro; non sapevano se Montecristo
stesse interpretando una commedia; ma tutto ciò che usciva dalla
bocca di quest’uomo aveva, nonostante l’originalità, una tale
impronta di semplicità, che non si poteva supporre che mentisse.
D’altra parte, perché avrebbe mentito?
«Dovremo accontentarci di rendere al signor conte», disse Beauchamp,
«tutti quei piccoli favori che saranno in nostro potere. Io, nella
mia qualità di giornalista, gli apro tutti i teatri di Parigi.»
«Grazie, signore», rispose sorridendo Montecristo, «il mio
intendente ha già l’ordine di prendere in affitto un palco in
ciascuno di essi.»
«E il vostro intendente è pure un nubiano, un muto?» domandò Debray.
«No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è
compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor Morcerf.»
«Sarebbe per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a
prendere in affitto le finestre?»
«Precisamente, e lo avete visto da me quel giorno ch’ebbi l’onore di
avervi a colazione. È un bravissimo uomo, un po’ soldato, un po’
contrabbandiere, un po’ di tutto ciò che si può essere. Non giurerei
che non abbia avuto qualche problema con la polizia, per un niente,
qualche cosa di simile a un colpo di coltello.»
«E avete scelto quest’onesto cittadino del mondo come vostro
intendente, signor conte?» disse Debray. «E quanto vi ruba ogni
anno?»
«Ebbene, parola d’onore», rispose il conte, «niente più di un altro,
ne sono sicuro; ma mi serve bene, per lui nulla è impossibile, e io
lo tengo.»
«Allora», disse Château-Renaud, «eccovi con una casa pronta; avete
un’abitazione agli Champs-Elysées, domestico, intendente: vi manca
solo una moglie.»
Albert sorrise; pensava alla bella greca vista nel palco del conte
al teatro Valle, e al teatro Argentina.
Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari.
«Mio caro», disse Debray alzandosi, «sono le due e mezzo, il vostro
commensale è simpaticissimo, ma non vi è buona compagnia che non si
sia obbligati a lasciare, e qualche volta anche una cattiva: devo
tornare al ministero. Parlerò del conte al ministro, e bisognerà
bene che scopriamo chi sia.»
«Lasciate perdere», disse Morcerf, «i più maligni vi hanno
rinunciato.»
«Bah, noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia; è vero che sono
quasi sempre spesi in anticipo; ma non importa: resteranno sempre un
cinquantamila franchi da impiegarsi in questo.»
«E quando saprete chi è, me lo direte?»
«Ve lo prometto. Arrivederci, Albert. Signori, servo umilissimo.»
E uscendo, Debray gridò ad alta voce: «Fate venire la carrozza!»
«Be’», disse Beauchamp ad Albert, «io non andrò alla Camera, ma avrò
da offrire ai miei lettori molto meglio che un discorso del signor
Danglars.»
«Per favore, Beauchamp», replicò Morcerf, «neppure una parola, ve ne
supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo
noto. Non è vero ch’egli è interessante?»
«Molto di più», rispose Château-Renaud. «È veramente uno degli
uomini più straordinari che abbia mai conosciuto in vita mia.
Venite, Morrel.»
«Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà
promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14.»
«State sicuro che non mancherò, signore…» disse inchinandosi il
conte.
E Maximilien Morrel uscì col barone di Château-Renaud, lasciando
Montecristo solo con Morcerf.
40. La presentazione
Quando Albert si trovò da solo con Montecristo, gli disse: «Signor
conte, consentitemi di esordire nel mio compito di cicerone col
farvi la descrizione dell’appartamento di uno scapolo. Abituato ai
palazzi d’Italia, non sarà piccola sorpresa per voi calcolare in
quanti piedi quadrati può vivere un giovane che passa per non essere
male alloggiato. Passando da una camera all’altra, apriremo le
finestre, perché possiate respirare».
Montecristo già conosceva il salotto e la sala da pranzo del
pianterreno. Albert lo portò prima nel suo studio: ciascuno si
ricorderà che questa era la stanza prediletta dal giovane.
Montecristo era un ottimo conoscitore di tutte le cose che Albert
aveva riunito in questa stanza: antichi scrigni, porcellane
giapponesi, stoffe d’Oriente, specchi di Venezia, armi di tutti i
Paesi del mondo. Ogni cosa gli era familiare, e al primo colpo
d’occhio riconosceva il secolo, il Paese, l’origine. Morcerf credeva
di dover spiegare tutto, e al contrario faceva sotto la direzione
del conte un corso completo di archeologia, mineralogia e storia
naturale.
Scesero quindi al primo piano.
Albert precedette il suo ospite nella salotto, tappezzato di
capolavori dei moderni pittori. C’erano paesaggi di Dupré dai lunghi
canneti, gli alberi slanciati, le vacche che pascolavano sotto un
cielo stupendo; cavalieri arabi di Delacroix con i lunghi burnus
bianchi, le cinture variopinte, le armi damaschinate, i cavalli che
si mordevano con rabbia, mentre gli uomini si laceravano con la
mazza di ferro; vi erano acquarelli di Boulanger, che
rappresentavano tutti Notre-Dame di Parigi con un vigore degno d’un
poeta; quadri di Diaz che fa i fiori più belli dei fiori, il sole
più brillante del sole; disegni di Duchamp colorati quanto quelli di
Salvator Rosa, ma più poetici; quadri a pastello di Giraud e di
Müller che rappresentavano fanciulli con le teste d’angelo, e donne
con le sembianze di vergini; schizzi presi dall’album di Dauzats nel
suo viaggio in Oriente, eseguiti a matita, in pochi secondi stando o
sulla sella di un cammello, o sulla cupola di una moschea: infine,
tutto ciò che l’arte moderna può dare in cambio e in compenso
dell’arte perduta dei secoli passati.
Albert era convinto di potere, almeno questa volta, di mostrare
qualche cosa di nuovo al suo strano viaggiatore, ma con sua grande
sorpresa questi, senza aver bisogno di guardare le firme, di cui
alcune segnate soltanto con le iniziali, a ciascun’opera assegnava
il nome dell’autore, e in modo tale che era facile accorgersi che,
non solo gli erano noti i nomi di questi autori, ma che le loro
opere erano state studiate e apprezzate.
Da questa sala si passò alla camera da letto. Era un modello di
eleganza e di gusto severo: là non c’era che un solo ritratto, ma
firmato col nome di Léopold Robert, risplendente in una cornice
d’oro massiccia. Questo quadro attirò subito l’attenzione del conte,
perché fece subito tre passi rapidi e andò a fermarsi davanti a
esso. Vi era raffigurata una donna giovane di venticinque-ventisei
anni dal colorito bianco e lo sguardo acuto, velato sotto da
languide palpebre; portava il costume pittoresco delle pescatrici
catalane con la giubba rossa e nera, e le spille d’oro nei capelli;
guardava il mare, e l’elegante profilo si staccava sopra il doppio
azzurro delle onde e del cielo.
La luce della camera era debole, altrimenti Albert si sarebbe
accorto del pallore livido sulle guance del conte, e avrebbe notato
il fremito che gli sfiorò le spalle e il petto. Ci fu un momento di
silenzio, durante il quale Montecristo restò fisso con l’occhio
sulla pittura.
«Avete una bella amica, visconte», disse Montecristo con voce
assolutamente tranquilla, «e questo costume, certamente da ballo, le
sta a meraviglia.»
«Ah, signore, ecco uno sbaglio che non vi perdonerei, se vicino a
questo ritratto ne aveste visto qualche altro. Voi non conoscete mia
madre, signore; è lei che vedete in questo quadro. Si fece ritrarre
così sette od otto anni fa. Questo costume è di fantasia, a quanto
pare, e la somiglianza è tanto grande, che mi se,bra sempre di
vedere mia madre com’era nel 1830. La contessa si fece fare questo
ritratto in assenza del conte. Senza dubbio credeva di preparargli
una dolce sorpresa per il ritorno. Ma, cosa bizzarra, questo
ritratto dispiacque a mio padre; e il merito della pittura, che come
vedete è una delle più belle opere di Léopold Robert, non poté
vincerla sulla sua antipatia. È vero, sia detto fra noi, mio caro
signor conte, che mio padre è uno dei pari più assidui in
Lussemburgo, un generale rinomato per la strategia, ma è un
conoscitore d’arte dei più mediocri. Non così però mia madre, che
dipinge in modo notevole, e che, stimando troppo questo lavoro per
separarsene, l’ha regalato a me, perché qui fosse meno esposto al
dispiacere del signor Morcerf, di cui vi farò vedere il ritratto
dipinto da Gras.
Vogliate perdonarmi se vi parlo in tal modo di cose intime di
famiglia; ma siccome avrò l’onore di presentarvi a momenti al conte,
vi dico tutto ciò, perché non vi sfugga qualche elogio di questo
quadro in sua presenza. Del resto, però, il quadro ha una ben triste
influenza: è difficile che mia madre venga in camera mia senza
fermarsi a contemplarlo, e più difficile ancora che lo contempli
senza piangere. La nube che portò questa dipinto in famiglia è del
resto la sola che sia insorta fra il conte e la contessa, che,
sebbene sposati da più di venti anni, sono uniti come se fosse il
primo giorno.»
Montecristo vibrò una rapida occhiata ad Albert, come per cercare un
fine nascosto nelle sue parole, ma era evidente che il giovane le
aveva pronunciate con semplicità.
«Ora», disse Albert, «avete visto tutte le mie ricchezze, signor
conte, e permettetemi di offrirvele, per quanto siano indegne di
voi… Consideratevi come a casa vostra, e per mettervi ancora a
maggior agio, abbiate la bontà di accompagnarmi dal signor Morcerf,
mio padre, al quale scrissi da Roma il favore che mi avete reso, e
ho annunciato la visita che mi avevate promesso e, ve lo assicuro,
il conte e la contessa aspettano con impazienza di ringraziarvi.
Siete un poco singolare in tutte le cose, lo so, signor conte, e
forse le scene di famiglia non hanno molta attrazione per Sinbad il
marinaio: siete abituato a tutt’altre scene! Però accettate ciò che
vi propongo come iniziazione alla vita parigina, vita di cortesie,
di visite e di presentazioni.»
Montecristo s’inchinò senza rispondere: accettò la proposta senza
entusiasmo e senza rincrescimento, come una di quelle convenienze
sociali di cui ciascun uomo perbene si fa un dovere. Albert chiamò
il cameriere, e gli ordinò d’andare ad avvertire il signore e la
signora Morcerf del prossimo arrivo del conte di Montecristo.
Albert lo seguì col conte.
Entrando nell’anticamera del conte, si vedeva, sopra la porta che
immetteva nel salotto, uno scudo che, dai ricchi fregi che lo
circondavano, e dall’armonia con gli arredi della stanza, rivelava
che persona importante. Montecristo si fermò davanti a quel blasone
e lo esaminò con attenzione. Sette merli d’oro a stormo, in campo
azzurro.
«È lo stemma della vostra famiglia?» domandò. «Escludendo le parti
del blasone che mi permettono di decifrarlo, sono molto ignorante in
materia araldica. Io sono conte per caso, creato in Toscana, e mi
sarei accontentato d’essere semplicemente un gran signore, se non mi
avessero più volte ripetuto che, per uno che viaggia molto, un
titolo è necessario. In pratica portare uno stemma sullo sportello
della carrozza è cosa molto utile, non fosse altro che per non
subire la perquisizione dei doganieri. Scusatemi dunque se vi ho
fatta questa domanda.»
«Non è affatto indiscreta», rispose Morcerf con la semplicità della
convinzione, «e avete colto nel vero: queste sono le nostre armi,
vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre… Ma, come
vedete, sono inserite in un altro scudo con torri d’argento in campo
rosso, che proviene dal capo della famiglia di mia madre. Per parte
di madre io sono spagnolo, ma la famiglia Morcerf è francese, e, a
quanto ho sentito dire ancora una delle più antiche del Mezzogiorno
di Francia.»
«Sì», confermò Montecristo, «è questo che indicano i merli. Quasi
tutti i pellegrini armati che tentarono o fecero la conquista della
Terra Santa, presero come loro insegna, o una croce, simbolo della
missione alla quale si erano votati, o un uccello di passaggio,
simbolo del lungo viaggio che stavano per compiere… Supponendo che
fosse il tempo di San Luigi, ciò vi fa risalire al XII secolo, il
che è un altro pregio.»
«Ciò è possibile», convenne Morcerf, «in un angolo dell’ufficio di
mio padre ‘è un albero genealogico che illustra tutto ciò, e sul
quale in altri tempi ho scritto dei commentari che avrebbero
soddisfatto d’Ozier e Jaucourt. Ora non ci penso più, e tuttavia vi
dirò, signor conte, e questo rientra nei miei compiti di cicerone,
che già cominciano di nuovo a occuparsi di queste cose sotto il
nostro governo popolare.»
«Ebbene, allora il vostro governo dovrebbe scegliere nel suo passato
qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho visto sui vostri
monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto a voi,
visconte», riprese Montecristo ritornando a Morcerf, «siete più
fortunato del vostro governo, perché le vostre armi sono veramente
belle e parlano all’immaginazione. Sì, voi siete a un tempo di
Provenza e di Spagna, e ciò mi spiega (se il ritratto che mi avete
mostrato è rassomigliante) il color bruno che tanto ammirai sul viso
della nobile catalana.»
Si sarebbe dovuti essere Edipo, o la stessa sfinge, per indovinare
l’ironia che mise il conte in quelle parole, coperte in apparenza
dalla maggior gentilezza; per cui Morcerf lo ringraziò con un
sorriso, e, passando prima per fargli strada, spinse la porta che
portava nel salotto da ricevimento.
Nel luogo più esposto di questo salotto si vedeva un altro ritratto;
quello di un uomo dai trentacinque ai quarant’anni vestito con
l’uniforme di generale, portando la doppia spallina dei gradi
superiori, la decorazione di commendatore della Legion d’Onore al
collo, e sul petto, a destra, l’insegna di Grande Ufficiale
dell’ordine del Salvatore, a sinistra quella di Gran Croce
dell’ordine di Carlo III. Quindi la persona rappresentata da quel
ritratto aveva partecipato alle guerre di Grecia e di Spagna, o, ciò
che è lo stesso in materia di decorazioni, aveva adempiuto qualche
missione diplomatica nei due Paesi.
Montecristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore
attenzione di quel che aveva fatto con l’altro, quando la porta
laterale si aprì, ed egli si trovò di fronte al conte di Morcerf in
persona.
Era un uomo fra i quaranta, quarantacinque anni, ma ne dimostrava
almeno cinquanta, i cui baffi e sopraccigli nerissimi contrastavano
stranamente con i capelli quasi bianchi tagliati corti a spazzola
secondo l’uso militare. Era in borghese, e portava all’occhiello un
nastro le cui strisce a diversi colori indicavano i vari ordini di
cui era decorato. L’uomo entrò con passo nobile ma sembrava di
fretta.
Montecristo l’osservò restando immobile; si sarebbe detto che i
piedi erano inchiodati al pavimento e gli occhi sul viso del conte.
«Padre mio», disse il giovane, «ho l’onore di presentarvi il signor
conte di Montecristo, quel generoso amico che ho avuto la fortuna
d’incontrare nelle difficili situazioni che sapete.»
«Signore, voi siete il benvenuto fra noi», disse il conte di
Morcerf, salutando Montecristo con un sorriso. «Nel salvare alla mia
famiglia l’unico suo erede, avete reso alla nostra casa un servizio
che vi merita la nostra eterna riconoscenza.»
Dicendo queste parole il conte di Morcerf indicava una poltrona a
Montecristo, sedendosi egli stesso di fronte alla finestra. Quanto a
Montecristo, occupando la poltrona indicata dal conte di Morcerf, si
sistemò in modo da rimanere nascosto nell’ombra delle grandi tende
di velluto, per leggere sui tratti del conte, in ciascuna ruga del
suo volto.
«La contessa», riprese Morcerf, «si stava vestendo quando il
visconte l’ha fatta avvertire della visita che avrebbe avuto l’onore
di ricevere; sta per scendere, e fra dieci minuti sarà in salotto.»
«È un grande onore per me», disse Montecristo, «fare la conoscenza,
fin dal primo giorno in cui sono a Parigi, di un uomo il cui merito
è eguale alla reputazione, e per il quale la fortuna, giusta questa
volta, non ha commesso errore… Ma la sorte non ha nelle pianure di
Mitidja o sulle montagne dell’Atlante un bastone da Maresciallo da
offrirvi?»
«Oh!» replicò Morcerf arrossendo un poco, «io ho lasciato il
servizio, signore. Nominato Pari sotto la Restaurazione, ero nella
prima campagna, e servivo agli ordini del maresciallo Bourmont.
Potevo dunque aspirare a un comando superiore? E chissà ciò che
sarebbe accaduto, se la dinastia primogenita fosse rimasta sul
trono?! Ma la rivoluzione di luglio, a quanto sembra, era abbastanza
gloriosa per potersi permettere d’essere ingrata, e lo fu con tutti
i servizi che non portavano la data del periodo imperiale.
Chiesi dunque la dimissione, perché quando uno ha guadagnato come me
le spalline sul campo di battaglia, non sa manovrare allo stesso
modo sul terreno sdrucciolevole dei salotti. Ho lasciato la spada, e
mi sono buttato nella politica; mi dedico all’industria e studio le
arti utili. Nei vent’anni che sono rimasto in servizio ne avevo il
desiderio, ma non ne avevo avuto il tempo.»
«Sono queste idee che dimostrano la superiorità della vostra nazione
sugli altri Paesi, signore», rispose Montecristo. «Gentiluomo,
uscito da una gran famiglia, possedendo una bella fortuna avete
sulle prime voluto conquistare i primi gradi come oscuro soldato, la
qual cosa è molto rara; quindi divenuto generale, Pari di Francia,
commendatore della Legion d’Onore, acconsentite a cominciare un
secondo noviziato, senz’altra ricompensa che quella d’essere un
giorno utile ai vostri simili… Ah! signore, ecco quello che può
veramente dirsi bello; dirò anche più, sublime.»
Albert guardava e ascoltava Montecristo con meraviglia: non era
abituato a vederlo lasciarsi andare a simili entusiasmi.
«Ahimè», continuò lo straniero, senza dubbio per far sparire
l’impercettibile nube che era passata sulla fronte di Morcerf, «noi
non facciamo così; cresciamo secondo la nostra razza e la nostra
specie, e conserviamo la stessa corteccia, la stessa dimensione, e
dirò ancora la stessa inutilità per tutta la nostra vita.»
«Ma, signore, per un uomo del vostro merito, l’Italia non può essere
sua patria, e la Francia vi apre le braccia; rispondete alla sua
chiamata, la Francia forse non sarà ingrata con tutti; essa è
abituata ad accogliere generosamente gli stranieri.»
«Eh, padre mio, si vede bene che non conoscete il conte di
Montecristo. Le sue soddisfazioni non sono di questo mondo, egli non
aspira agli onori, e prende soltanto quelli che possono procurargli
un passaporto.»
«Ecco l’espressione più giusta che abbia mai sentito sul conto mio»,
rispose lo straniero.
«Il signore è stato padrone del suo avvenire, ecco perché ha scelto
un sentiero di fiori», disse sospirando Morcerf.
«Precisamente, signore», replicò Montecristo con uno di quei sorrisi
che un pittore non potrà mai riprodurre, e che uno psicologo
impazzirebbe nell’analizzare.
«Se non avessi avuto timore di stancare il signor conte», disse il
generale evidentemente lusingato dalle parole di Montecristo, «lo
avrei condotto alla Camera; oggi vi è una seduta curiosa per chi non
conosce i nostri moderni senatori.»
«Vi sarei molto riconoscente se vorrete rinnovarmi quest’offerta
un’altra volta; ma oggi sono stato lusingato dalla speranza di esser
presentato alla signora contessa, e aspetterò.»
«Ah! Ecco appunto mia madre», esclamò Albert.
Difatti Montecristo, girandosi velocemente, vide la signora Morcerf
immobile e pallida sul limitare della porta opposta a quella da cui
era entrato il marito; appena Montecristo si voltò dalla sua parte,
lasciò cadere il braccio che, non si sa perché, s’era appoggiato
alla maniglia dorata; stava là, da qualche secondo, e aveva udito le
ultime parole pronunciate dall’ospite.
Questi si alzò e salutò profondamente la contessa, che s’inchinò
anch’essa, muta e cerimoniosa.
«Mio Dio, signora che avete?» domandò il conte. «È forse il caldo
del salotto a darvi fastidio?»
«State poco bene, madre mia?» gridò il visconte andando incontro a
Mercedes.
Lei li ringraziò entrambi con un sorriso.
«No», rispose, «ma ho provato una certa emozione nel vedere per la
prima volta colui senza il cui aiuto ora saremmo immersi nelle
lacrime e nel lutto. Signore», continuò la contessa, avanzando con
la maestà di una regina, «vi debbo la vita di mio figlio, e per
questo vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate
offrendomi l’occasione di ringraziarvi con tutto il cuore.»
Il conte s’inchinò, ma più profondamente della prima volta, era
ancora più pallido di Mercedes.
«Signora», disse, «il signor conte e voi mi ringraziate troppo per
un’azione semplicissima. Salvare un uomo, risparmiare un tormento al
padre, risparmiare la sensibilità di una donna, ciò non si chiama
fare un’opera buona, ma fare un atto di umanità.»
A queste parole pronunciate con dolcezza, e con squisita gentilezza,
la signora Morcerf rispose con accento profondo: «È una fortuna per
mio figlio l’avervi per amico, e ringrazio Dio che ha disposto
così».
E Mercedes alzò gli occhi al cielo con una gratitudine così
infinita, che al conte parve di vedere tremolare due lacrime.
Il signor Morcerf si avvicinò a lei: «Signora, ho già fatto le mie
scuse al signor conte per essere obbligato a lasciarlo: vi prego di
rinnovarle. La seduta si è aperta alle due, ora sono le tre, e io
devo parlare».
«Andate, signore; cercherò di far dimenticare la vostra assenza al
nostro ospite», disse la contessa con lo stesso accento di
sensibilità. «Il signor conte», proseguì la contessa volgendosi a
Montecristo, «vorrà farci l’onore di passare il resto del giorno con
noi?»
«Grazie, signora, sono, credetelo, riconoscente nel modo più
profondo alla vostra offerta; ma questa mattina sono sceso dalla
carrozza davanti alla vostra porta. Non so ancora dove si trovi il
mio alloggio a Parigi. È una preoccupazione da niente, lo so, ma
tuttavia…»
«Avremo questo piacere un’altra volta, almeno: ce lo promettete?»
domandò la contessa.
Montecristo s’inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare
per un consenso.
«Allora non vi trattengo, signore», riprese la contessa, «poiché non
voglio che la mia riconoscenza si trasformi in importunità o
indiscrezione.»
«Mio caro conte», disse Albert, «se lo volete, cercherò di
ricambiare alla vostra cortesia di Roma col mettere la mia carrozza
a vostra disposizione, fino a che non avrete avuto il tempo di
provvedere alla vostra.»
«Vi ringrazio della vostra cortese offerta, visconte», disse
Montecristo, «ma presumo che Bertuccio avrà convenientemente
impiegate le quattro ore che gli ho concesso, e che troverò alla
porta una carrozza qualunque già attaccata.»
Albert era abituato a queste maniere del conte: sapeva che come
Nerone era alla ricerca dell’impossibile, e non si meravigliava più
di nulla; soltanto volle verificare di persona in che modo erano
stati eseguiti i suoi ordini, e lo accompagnò sino alla porta di
strada.
Montecristo non s’era sbagliato; appena comparve nell’anticamera del
conte di Morcerf, uno staffiere, lo stesso che a Roma era venuto a
portare il biglietto del conte ai due giovani, e ad annunciar loro
la sua visita, si era slanciato fuori del peristilio, di modo che
davanti al portone, l’illustre viaggiatore trovò la carrozza che lo
aspettava.
Era un coupé della fabbrica di Keller, cui erano attaccati due
cavalli, per i quali Drake aveva, come sapevano tutti i damerini di
Parigi, rifiutato di spendere il giorno prima diciottomila franchi.
«Signore», disse il conte ad Albert, «non vi propongo di
accompagnarmi a casa mia, non potrei mostrarvi che una dimora
improvvisata… Accordatemi un giorno e allora permettetemi
d’invitarvi: sarò più sicuro di non mancare alle leggi
dell’ospitalità.»
«Se mi chiedete un giorno, signor conte, sono tranquillo: non sarà
più una casa che mi mostrerete, ma un palazzo. Voi dovete avere
qualche genio a vostra disposizione.»
«Spero che continuerete a crederlo», replicò Montecristo, mettendo
sui gradini vellutati della sua splendida carrozza, «ciò potrà
essermi utile, signore.»
E salito in vettura, partì al galoppo ma non tanto rapidamente che
il conte non potesse accorgersi del movimento impercettibile della
tenda del salotto dove aveva lasciata la signora Morcerf.
Quando Albert ritornò da sua madre, trovò la contessa nel salotto
sdraiata su un divano; tutta la stanza essendo nell’ombra, non
lasciava scorgere che la foglietta d’oro sfavillante, attaccata qua
e là o sul corpo di qualche vaso, o agli angoli di qualche quadro.
Albert non poté vedere il volto della contessa nascosto sotto la
nube del velo che le circondava la testa come un’aureola di vapore,
ma gli sembrò che la voce fosse alterata; distinse ancora fra gli
odori di rose ed eliotropi la traccia aspra e mordente dei sali
d’aceto sopra una delle tazze cesellate del caminetto, infatti la
boccettina della contessa, tolta dal suo astuccio di velluto, attirò
l’inquieta attenzione del giovane.
«Soffrite, madre mia», gridò entrando, «o vi siete sentita male
mentre io non c’ero?»
«Io? No, Albert, ma queste rose, queste tuberose, questi fiori
d’arancio nauseano quando inizia a far caldo, quando non si è ancora
abituati ai profumi intensi…»
«Allora, madre mia», disse Albert portando la mano al campanello,
«bisogna farli portare nella vostra anticamera: siete veramente
indisposta; anche poco fa, quando entraste, eravate molto pallida.»
«Ero pallida, Albert?»
«Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non
ha spaventato meno mio padre e me.»
«Vostro padre ve ne ha parlato?» domandò vivacemente Mercedes.
«No, signora, però ve lo fece notare.»
«Non me ne ricordo…» disse la contessa.
Entrò un cameriere, chiamato dal suono del campanello tirato da
Albert.
«Portate questi fiori in anticamera, o nel salotto dello
spogliatoio», disse il visconte, «fanno male alla signora contessa.»
Il cameriere obbedì. Seguì un lungo silenzio, che durò per tutto il
tempo in cui il cameriere provvedeva a portar via i fiori.
«Che nome è mai Montecristo?» chiese la contessa, quando il
domestico uscì portando via l’ultimo vaso di fiori. «È il nome di
una terra o un semplice titolo?»
«Si tratta, credo, di un titolo, madre mia, e niente più. Il conte
ha comprato un’isola nell’arcipelago toscano, e ha, per quanto ha
detto egli stesso questa mattina, assegnato un beneficio. Voi sapete
che ciò si usa per Santo Stefano di Firenze, per San Gregorio
Costantiniano di Parma e anche per l’ordine di Malta. Del resto non
ha alcuna pretesa di nobiltà, e si chiama conte per caso, sebbene
l’opinione generale di Roma fosse che il conte sia un gran signore.»
«I suoi modi sono eccellenti, per quanto ho potuto giudicare nei
pochi momenti che si è trattenuto.»
«Perfetti, madre mia, anzi tanto perfetti, che superano di molto
tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico nelle tre nobiltà
più orgogliose d’Europa, cioè nella nobiltà inglese, spagnola e
tedesca.»
La contessa rifletté un momento, poi dopo una breve esitazione
riprese: «Avete visto, mio caro Albert… questa è una domanda da
madre che vi faccio, lo capirete… avete conosciuto il signor di
Montecristo intimamente? Voi siete perspicace, pratico della vita, e
avete un tatto maggiore di quello che di solito si ha alla vostra
età… Credete che il conte sia quello che sembra essere?»
«Come, sembra?»
«Voi stesso lo avete detto, non ha pari… un gran signore.»
«Vi ho detto, madre mia, ch’egli era considerato tale.»
«Ma che ne pensate voi?»
«Io non ho, ve lo confesso, un’opinione precisa su di lui: credo sia
maltese.»
«Io non vi chiedo della sua origine, ma della sua persona.»
«Ah la sua persona è tutt’altro! Ho viste tante cose strane di lui,
che se voleste vi dicessi ciò che ne penso, vi risponderei che lo
considero come uno degli uomini alla Byron, recanti l’impronta
fatale della sventura; qualche Manfredi, qualche Lara, qualche
Werner, uno di quegli avanzi di antica famiglia che, diseredati
dalla fortuna paterna, ne hanno creata una con la forza del loro
genio avventuroso che li ha posto al di sopra delle leggi della
società… Dico che Montecristo è un’isola in mezzo al Mediterraneo,
senza abitanti, senza guarnigione, asilo di contrabbandieri di tutte
le nazioni, di pirati di tutti i Paesi. Chi sa che questi degni
trafficanti non paghino al loro signore il diritto di asilo.»
«È possibile…» commentò la contessa distratta.
«Ma non importa», riprese il giovane, «contrabbandiere o no, ne
converrete madre mia (perché l’avete visto), il signor conte di
Montecristo è un uomo notevole, e avrà i più grandi successi nei
salotti di Parigi. E questa mattina da me ha cominciato il suo
ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione, perfino in
Château-Renaud.»
«E che età potrà avere il conte?» chiese Mercedes, dando
visibilmente grande importanza a questa domanda.
«Avrà trentacinque o trentasei anni, madre mia.»
«Così giovane? È possibile!» mormorò Mercedes, rispondendo
contemporaneamente a ciò che le diceva Albert, e a un suo pensiero.
«Eppure questa è la verità. Tre o quattro volte mi ha detto, e
certamente senza premeditazione, all’epoca avevo cinque anni,
all’altra dodici. Io che ero attento a questi particolari, ho
confrontato le date, e non l’ho mai colto in contraddizione. L’età
di quest’uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro,
di trentacinque anni. In più, ricordatevi, madre mia, quanto è
vivace il suo sguardo, come sono neri i capelli, e come la fronte,
sebbene pallida, sia priva di rughe; questa è una natura non solo
vigorosa, ma giovane.»
La contessa abbassò il capo come sotto un’onda troppo pesante di
amari pensieri.
«E quest’uomo ha stretta amicizia con voi?» domandò con un fremito
nervoso.
«Penso di sì, madre mia.»
«E voi… ricambiate la sua amicizia?»
«Egli mi piace, checché ne dica Franz d’Epinay, che lo voleva far
apparire ai miei occhi come un uomo uscito dall’altro mondo.»
La contessa fece un movimento di terrore.
«Albert», riprese con voce alterata, «io vi ho sempre messo in
guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo, e potreste
dar consigli a me, tuttavia vi ripeto: “Siate prudente, Albert”.»
«Mia cara madre, dovrei sapere di cosa non devo fidarmi. Il conte
non gioca mai, il conte non beve che dell’acqua con qualche goccia
di vino di Spagna, il conte si è rivelato tanto ricco, che non
potrebbe chiedermi in prestito del denaro senza esporsi al ridicolo…
Che volete dunque che io tema da parte sua?»
«Avete ragione», disse la contessa, «e i miei timori sono folli
particolarmente nei confronti di un uomo che vi ha salvato la vita.
A proposito, Albert, vostro padre lo ha ricevuto bene? È necessario
che noi siamo più che ospitali col conte. Il signor Morcerf qualche
volta è preoccupato, i suoi affari lo rendono distratto, e potrebbe
darsi, senza volerlo…»
«Mio padre si è condotto perfettamente», interruppe Albert, «dirò di
più, è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti
accorti che il conte gli ha fatto tanto casualmente quanto a
proposito, come se lo avesse conosciuto da trent’anni. Ciascuno di
questi piccoli dardi di lode devono aver gratificato mio padre»,
aggiunse Albert ridendo, «poiché si sono lasciati come due vecchi
amici, e il signor Morcerf lo voleva perfino condurre alla Camera
per fargli sentire il suo discorso.» La contessa non rispose: era
assorta in una riflessione così profonda, che i suoi occhi si erano
chiusi a poco a poco.
Il giovane in piedi dinanzi a lei la guardava con quell’amor filiale
che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli le cui madri sono
ancora giovani e belle; poi, dopo aver visto gli occhi di lei
chiudersi, l’ascoltò respirare un momento nella sua dolce
immobilità, e credendola assopita si allontanò in punta di piedi,
chiudendo con cautela la porta della stanza dove lasciava sua madre.
«Che diavolo d’uomo!» mormorò scuotendo la testa, «gli avevo ben
predetto laggiù che avrebbe fatto gran sensazione nel nostro mondo;
io ne calcolo l’effetto su un termometro infallibile: mia madre.
Dunque è davvero un uomo notevole.»
Scese nelle scuderie, non senza un segreto dispetto, perché il conte
di Montecristo si era fornito di una pariglia, che relegava i
cavalli di Albert in secondo piano agli occhi degli intenditori.
«Davvero», disse, «gli uomini non sono tutti eguali.»
41. Bertuccio
Intanto il conte era giunto alla sua abitazione. Aveva impiegato sei
minuti a percorrere la distanza, periodo sufficiente perché fosse
visto da una ventina di giovani che, conoscendo il valore della
carrozza, avevano messo le loro cavalcature al galoppo, per vedere
lo splendido signore che possedeva cavalli da diecimila franchi
l’uno.
La casa che era stata scelta da Alì, e che doveva servire da
residenza in città a Montecristo, era situata a destra salendo agli
Champs-Elysées, con un bel cortile e un giardino. Un gruppo di
alberi frondosi s’innalzava in mezzo al cortile, coprendo una parte
della facciata; ai lati di questi alberi passavano due viali che dal
cancello portavano le carrozze a una doppia scalinata, ornata su
ogni gradino da un vaso di porcellana pieno di fiori. Questa casa,
isolata al centro di un ampio spazio, oltre l’ingresso principale,
aveva pure un’altra entrata sulla rue Ponthieu.
Prima ancora che il cocchiere avesse potuto chiamare il portinaio,
il robusto cancello girò sui cardini: il conte era stato visto
arrivare, e a Parigi, come a Roma, e come ovunque era servito con la
rapidità di un fulmine. Il cocchiere quindi entrò, descrisse il
mezzo cerchio senza rallentare la corsa, e il cancello era già
rinchiuso, quando le ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del
viale.
La carrozza si arrestò sul lato sinistro della scalinata, due uomini
comparvero allo sportello; uno era Alì, che sorrise al suo padrone
con un’incredibile gioia, e che si trovò pago di un semplice sguardo
di Montecristo, l’altro salutò umilmente, e offrì il braccio al
conte per aiutarlo a scendere dalla carrozza.
«Grazie, Bertuccio», disse il conte, saltando leggermente i tre
scalini. «Il notaio?»
«È nel salotto, Eccellenza», rispose Bertuccio.
«E i biglietti da visita che ho ordinato di far stampare, appena
avuto il numero della casa?»
«Signor conte, è tutto fatto; sono stato dal migliore incisore del
Palais Royal, che ha eseguito l’incisione in mia presenza, e
stampato il primo biglietto, secondo i vostri ordini. Questo
biglietto fu subito portato al signor Danglars, rue Chaussée d’Antin
numero 7; gli altri sono sul caminetto della camera da letto di
Vostra Eccellenza.»
«Va bene: che ore sono?»
«Le quattro.»
Montecristo consegnò il cappello, i guanti, e il bastone allo stesso
staffiere francese che era corso fuori dall’anticamera del conte di
Morcerf per fare entrare la carrozza, quindi passò nel piccolo
salotto, condotto da Bertuccio, che gli mostrava la strada.
«Ecco dei mobili mediocri in quest’anticamera, spero che se ne
sbarazzi al più presto», disse Montecristo.
Bertuccio s’inchinò.
Come aveva detto l’intendente, il notaio aspettava nel piccolo
salotto.
«Il signore è il notaio incaricato di vendere la casa di campagna
che voglio comprare?» domandò Montecristo.
«Sì, signor conte», rispose il notaio.
«L’atto di vendita è pronto?»
«Sì, signor conte.»
«Lo avete con voi?»
«Eccolo qui.»
«E dove si trova questa casa?» domandò negligentemente Montecristo
in parte al notaio e in parte a Bertuccio.
Il notaio guardò il conte con stupore.
«Come?» domandò, «il signor conte non sa dove sia la casa che
compra?»
«No», disse il conte.
«Il signor conte non la conosce?»
«E come potrei conoscerla? Sono arrivato da Cadice questa mattina
non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto piede in
Francia.»
«Allora è ben diverso», rispose il notaio. «La casa che compra il
signor conte è ad Auteuil.»
«E dov’è Auteuil?» chiese Montecristo.
«A pochi passi da qui, signor conte», disse il notaio, «poco dopo
Passy, in una bellissima posizione, al centro del Bois de Boulogne.»
«Così vicino!» esclamò Montecristo. «Ma questa non è campagna.
Perché diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte di
Parigi, Bertuccio?»
«Io?» gridò l’intendente con una strana sollecitudine. «No, non sono
stato io l’incaricato del signor conte per cercare una casa; prego
il signor conte di ricordarsene bene, e richiamare i suoi ricordi.»
«Ah, è vero», disse Montecristo, «ora ricordo, ho letto
quest’annuncio in un giornale, e mi sono lasciato sedurre dalla
falsa menzione “casa di campagna”.»
«Siete ancora in tempo», disse con vivacità Bertuccio, «e se Vostra
Eccellenza vuole incaricarmi di cercare un altro luogo, troverò il
meglio, sia a Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses, sia a Bellevue.»
«No», disse con noncuranza Montecristo, «poiché ho questa, la
terrò.»
«Il signore ha ragione», riprese subito il notaio che temeva di
perdere i suoi guadagni. «Si tratta di una graziosa proprietà: acque
correnti, fitti boschi, abitazione gradevole, sebbene abbandonata da
lungo tempo, senza calcolare i mobili che, sebbene vecchi, hanno del
valore, particolarmente oggi che si cercano le antichità.»
«Dunque è conveniente?» domandò Montecristo.
«Ah, signore, è ancora meglio, è magnifica!»
«Presto! Non lasciamoci sfuggire l’occasione», disse Montecristo.
«Il contratto, signor notaio?»
E firmò, dopo aver data un’occhiata alla parte dell’atto dove
stavano indicati i nomi dei proprietari, e la situazione della
villa.
«Bertuccio», diss’egli, «date cinquantacinquemila franchi al
signore.»
L’intendente uscì con passo incerto, e ritornò con un pacchetto di
biglietti di banca che il notaio contò come chi è abituato a
maneggiare tanto denaro.
«E ora», domandò il conte, «sono adempite tutte le formalità?»
«Tutte, signor conte.»
«Avete le chiavi?»
«Sono nelle mani del portinaio che custodisce la casa; ma ecco
l’ordine che gli ho dato di consegnare la proprietà al signore.»
«Benissimo.»
E Montecristo fece al notaio un cenno con la testa, che voleva dire:
«Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene».
«Ma», riprese l’onesto notaio, «mi sembra che il signor conte si sia
sbagliato; mi deve solo cinquantamila franchi, tutto compreso.»
«E i vostri onorari?»
«Vengono pagati con la stessa somma, signor conte.»
«Ma non siete venuto qui da Auteuil?»
«Sì, senza dubbio.»
«Ebbene, bisogna compensare il vostro incomodo», disse il conte. E
lo congedò con un gesto.
Il notaio uscì camminando all’indietro, inchinandosi fino a terra;
era la prima volta, dal giorno in cui aveva preso la licenza, che
trovava un simile cliente.
«Accompagnate il signore», disse il conte a Bertuccio.
E l’intendente uscì dietro il notaio.
Appena il conte fu solo, prese di tasca un portafogli con serratura,
lo aprì con una chiavetta che portava al collo, e che non
abbandonava mai. Dopo aver cercato un momento, si fermò sopra un
foglietto su cui erano segnate alcune annotazioni, le confrontò con
l’atto di vendita sul tavolo, e raccogliendo i suoi ricordi:
«Auteuil, rue Fontaine 28; è questa», disse, «ora dovrò basarmi su
una confessione ottenuta per mezzo del rimorso religioso, o
strappata dal terrore fisico? Del resto, fra un’ora saprò tutto.
Bertuccio!» gridò battendo un colpo con un martelletto dal manico
flessibile su un campanello, che mandò un suono acuto e prolungato.
L’intendente apparve sulla soglia.
«Bertuccio, non mi avete detto una volta di aver viaggiato in
Francia?»
«In alcune parti della Francia sì, Eccellenza.»
«Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi?»
«No, Eccellenza, no», rispose l’intendente con una specie di tremito
nervoso, che Montecristo, grande conoscitore in fatto di emozioni,
attribuì con ragione a una viva inquietudine.
«Mi rincresce che non abbiate visitato i dintorni di Parigi, perché
voglio questa sera stessa vedere la mia nuova proprietà, e venendo
con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni.»
«Ad Auteuil!» gridò Bertuccio, il cui viso color rame divenne quasi
livido, «io andare ad Auteuil!»
«Ebbene, che c’è di strano che veniate ad Auteuil? Quando io
dimorerò ad Auteuil, bisognerà bene che ci veniate, dato che fate
parte della famiglia.»
Bertuccio abbassò la testa davanti allo sguardo imperioso del
padrone, e restò immobile, senza rispondere.
«Ma che vi succede? Mi obbligherete dunque a suonare una seconda
volta per la carrozza?» disse Montecristo col tono con cui Luigi XIV
pronunciò il suo famoso: «Per poco non fui obbligato ad attendere!»
Bertuccio fece un balzo dal piccolo salotto all’anticamera, e gridò
con voce rauca: «I cavalli di Sua Eccellenza».
Montecristo scrisse due o tre lettere, e mentre sigillava l’ultima,
l’intendente ricomparve.
«La carrozza di Sua Eccellenza è alla porta», disse.
«Prendete i vostri guanti e il cappello.»
«Devo proprio accompagnarvi, Vostra Eccellenza?» domandò Bertuccio.
«Certamente, bisogna bene che diate i vostri ordini quando abiterò
in quella casa.»
Sarebbe stata senza precedenti una replica a un ordine del conte;
per cui l’intendente, senza fare alcuna obiezione, seguì il padrone
che salì in carrozza, e gli fece segno di fare altrettanto.
L’intendente si sedette rispettosamente sul sedile davanti.
42. La casa di Auteuil
Montecristo aveva notato, nello scendere la scalinata, che Bertuccio
si era segnato alla maniera dei corsi, vale a dire fendendo l’aria
in croce con il pollice, e che, nel prendere posto nella carrozza,
aveva mormorato una breve preghiera. Qualsiasi altro uomo avrebbe
avuto pietà della ripugnanza che il degno intendente aveva
manifestato per questa passeggiata fuori le mura, ideata dal conte.
Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso per dispensare
Bertuccio da quel piccolo viaggio. Nel giro di venti minuti,
arrivarono ad Auteuil. L’emozione dell’intendente era aumentata.
Entrando nel borgo, Bertuccio, rannicchiato in un angolo della
carrozza, cominciò a guardare con un’emozione febbrile tutte le case
davanti alle quali passavano.
«Fermerete a rue Fontaine, 28», disse il conte, fissando senza pietà
lo sguardo sull’intendente al quale dava quest’ordine.
Il sudore ora grondava dal viso di Bertuccio, che malgrado ciò
obbedì, e sporgendosi fuori dalla carrozza, gridò al cocchiere: «Rue
Fontaine, 28.»
Tale numero 28 era situato all’estremità opposta del sobborgo.
Durante il viaggio era scesa la notte, o piuttosto una nube nera
carica di elettricità dava a quelle tenebre premature l’apparenza e
la solennità di un episodio drammatico. La carrozza si fermò, lo
staffiere si precipitò ad aprire lo sportello.
«Allora», disse il conte, «non scendete Bertuccio? Rimarrete in
carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera?»
Bertuccio corse alla portiera e presentò la spalla al conte, che
questa volta vi si appoggiò, e discese a uno a uno i tre gradini del
predellino.
«Bussate», disse il conte, «e annunciatemi.»
Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaio.
«Chi è?» domandò.
«È il nuovo padrone, brav’uomo», disse lo staffiere, e mostrò al
portinaio il biglietto di riconoscimento dato dal notaio.
«La casa è dunque venduta?» domandò il portinaio. «Ed è questo il
signore che viene ad abitarla?»
«Sì, amico mio», rispose il conte, «farò in modo che non abbiate a
rimpiangere l’antico padrone.»
«Ah signore, non ne ho nostalgia, perché lo vedevamo tanto
raramente… Sono più di cinque anni che non viene, e a parer mio, ha
fatto molto bene a vendere una casa che non gli fruttava niente.»
«Come si chiamava il vostro antico padrone?»
«Il marchese di Saint-Méran. Ah, non ha certamente venduto la casa
per quel che gli costava, ne sono sicuro.»
«Il marchese di Saint-Méran…» riprese Montecristo. «Mi sembra di
conoscere questo nome.» Poi ripeté: «Il marchese di Saint-Méran». E
parve cercare nella sua memoria.
«Un vecchio gentiluomo», continuò il portinaio, «era servitore
fedele dei Borboni, aveva una figlia unica che maritò al signor
Villefort, procuratore del re a Nîmes, e poi a Versailles.»
Montecristo vibrò uno sguardo su Bertuccio, che aveva il viso più
livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere.
«La figlia non è morta?» domandò Montecristo. «Mi sembra di averlo
sentito dire.»
«Sì, signore, sono già passati ventun anni; e da allora non abbiamo
più visto che tre volte il povero marchese.»
«Grazie, grazie», rispose Montecristo, giudicando dalla prostrazione
dell’intendente di non potere più toccare quella corda, senza
correre il rischio di romperla. «Grazie… Datemi un lume, brav’uomo.»
«Vi accompagnerò io, signore.»
«No, è inutile. Bertuccio mi farà luce.»
E Montecristo accompagnò queste parole col dono di due monete d’oro,
che causarono un’esplosione di benedizioni e sospiri.
«Ah, signore», disse il portinaio, dopo aver cercato inutilmente
sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini, «sfortunatamente qui
non ho candelieri.»
«Prendete una lanterna della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere
gli appartamenti.»
L’intendente obbedì, senza osservazioni, ma era facile scorgere, dal
tremito della mano che portava il fanale, quanto gli costava
obbedire.
Attraversarono un pianterreno molto vasto; un primo piano composto
da un salone, una stanza da bagno, e due camere da letto; e giunsero
a una scala a chiocciola che portava in giardino.
«Guardate! Una scala segreta», osservò il conte. «Questa ci farà
comodo. Fatemi luce, Bertuccio, andate avanti, e vediamo dove ci
condurrà.»
«Signore», rispose Bertuccio, «porta in giardino.»
«E come lo sapete?»
«Cioè, volevo dire che deve portarvi…»
«Allora assicuriamocene.»
Sospirando, Bertuccio andò avanti.
La scala portava effettivamente in giardino. Alla porta esterna
l’intendente si fermò.
«Andiamo dunque, Bertuccio…» disse il conte.
Ma Bertuccio sembrava istupidito, annientato. Gli occhi stravolti
cercavano intorno a lui le tracce di un passato terribile, e con le
mani irrigidite cercava di allontanare degli spaventosi ricordi.
«Allora?» insistette il conte.
«No, no…» gridò Bertuccio, deponendo la lanterna in un angolo del
muro interno, «no, signore, non andrò più avanti, è impossibile!»
«Sarebbe a dire?» articolò la voce imperiosa di Montecristo.
«Vedete bene, signore, che questo non è normale», gridò
l’intendente, «che dovendo comprare una casa a Parigi, voi la
compriate precisamente ad Auteuil, e che comprandola ad Auteuil,
questa casa sia proprio il numero 28 di rue Fontaine. Ah, perché mai
non vi ho detto tutto laggiù, signore? Voi certamente non mi avreste
ordinato di seguirvi. Io speravo che la casa del signor conte fosse
tutt’altra che questa. Possibile non ci sia altra casa in Auteuil
che quella dell’assassinio!»
«Oh-oh!» disse Montecristo fermandosi. «Che parola orribile avete
pronunciato? Diavolo d’uomo! Sempre superstizioni? Vediamo, prendete
la lanterna e visitiamo il giardino; con me, spero che non avrete
paura.»
Bertuccio raccolse il lume e obbedì.
Oltre la porta c’era un cielo cupo, nel quale la luna si sforzava
invano di lottare contro un mare di nubi che la coprivano con i loro
vapori oscuri; illuminava per un momento, e poi si perdeva più cupa
ancora nel profondo dell’infinito.
L’intendente voleva girare a sinistra.
«No, signore… Perché andate sotto i viali?» disse Montecristo.
«Ecco qui un bel praticello, andiamo diritto.»
Bertuccio si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte, ma
obbedì; ciò nonostante continuava a tenere la sinistra.
Montecristo al contrario piegava a destra; giunto presso un gruppo
di alberi si fermò.
L’intendente non poté contenersi.
«Allontanatevi, signore, allontanatevi!» gridò. «Siete proprio sul
posto!»
«E quale posto?»
«Sul posto dove cadde.»
«Mio caro Bertuccio, tornate in voi, qui non siamo né a Sartena, né
a Corte. Questa non è una macchia, ma un giardino inglese.»
«Signore, non rimanete là, ve ne supplico!»
«Io credo che siate un po’ matto, compare Bertuccio!» ribatté
freddamente il conte. «Se è così, ditemelo, che vi farò rinchiudere
in qualche casa di cura, prima che succeda una disgrazia.»
«Ahimè, Eccellenza», riprese Bertuccio, scuotendo la testa, e
congiungendo le mani in un atteggiamento che avrebbe fatto ridere il
conte, se ben altri pensieri non lo avessero preoccupato in quel
momento, e reso molto attento alle più piccole manifestazioni di
quella coscienza timorosa. «Ahimè, è qui che la disgrazia è
accaduta!»
«Bertuccio», riprese il conte, «devo dirvi che gesticolate,
contorcete le braccia e stralunate gli occhi come un ossesso, dal
cui corpo il diavolo non voglia uscire. Ora ho sempre notato che il
diavolo più ostinato a uscire è un qualsiasi segreto. Vi sapevo
corso, vi stimavo taciturno, ruminando sempre qualche storia di
vendetta, e vi perdonavo questo in Italia, sebbene anche in Italia
questa specie di cose non siano trascurabili; ma in Francia
l’assassinio è una pessima cosa; vi sono gendarmi che se ne
occupano, giudici che lo condannano, patiboli che lo vendicano.»
Bertuccio congiunse le mani, e, siccome non lasciava la lanterna, la
luce gli rischiarò il viso sconvolto.
Montecristo per un momento lo esaminò, come a Roma aveva osservato
il supplizio di Andrea. Quindi con un tono di voce che fece scorrere
un brivido lungo il corpo del povero intendente: «L’abate Busoni mi
ha dunque ingannato», disse, «quando, dopo il suo viaggio in Francia
nel 1829, v’inviò a me, munito di una lettera di raccomandazione,
nella quale mi lodava le vostre preziose qualità. Ebbene, scriverò
all’abate, gli chiederò del suo protetto, e allora saprò senza
dubbio che cosa è tutto questo affare dell’assassinio. Vi dico
soltanto, Bertuccio che quando io vivo in un Paese, ho l’abitudine
d’uniformarmi alle sue leggi, e che non ho alcuna desiderio di
mettermi nei guai per voi con la giustizia francese».
«Non fate questo, Eccellenza… Vi ho servito fedelmente, non è vero?»
gridò Bertuccio disperato. «Sono stato un galantuomo, e per quanto
ho potuto, ho fatto delle buone azioni.»
«Non dico di no», rispose il conte, «ma perché diavolo siete ora
agitato in tal modo? Questo è un cattivo segno… Una coscienza pura
non porta tanto pallore sulle guance, tanta febbre nelle mani di un
uomo.»
«Ma, signor conte», interruppe Bertuccio, «non mi avete detto voi
stesso che l’abate Busoni, che fu quello che raccolse la mia
confessione nelle carceri di Nîmes, vi aveva avvertito, inviandomi a
voi, che io avevo un rimorso nella coscienza?»
«Sì, ma siccome vi raccomandava dicendomi che avrei ritrovato in voi
un eccellente intendente, credetti che voi aveste rubato, ecco
tutto.»
«Oh, signor conte!» gemette Bertuccio con dolore.
«Oppure che, essendo voi corso, non avevate saputo resistere al
desiderio di far la pelle a qualcuno, come si dice nel vostro
Paese…»
«Ebbene, sì, mio signore, sì, mio buon signore, è così», gridò
Bertuccio, gettandosi alle ginocchia del conte, «sì, fu una
vendetta, lo giuro, una semplice vendetta!»
«Capisco, ma ciò che non capisco è come questa casa vi sconvolga in
questo modo.»
«Eppure la cosa è comprensibile, poiché fu appunto in questa casa
che si compì la vendetta.»
«Come, in casa mia?»
«Oh, signore, non era ancora vostra…» obiettò ingenuamente
Bertuccio.
«Ma di chi era dunque?»
«Del signor marchese di Saint-Méran, ha detto il portinaio.»
«Perché mai dovevate vendicarvi del marchese di Saint-Méran?»
«Ah, non di lui, signore, di un altro.»
«È ben strano», riprese Montecristo, sembrando cedere alle sue
riflessioni, «che vi troviate per caso in una casa dove è accaduta
una scena che vi dà tanti terribili rimorsi.»
«Signore», disse l’intendente, «pare che sia una specie di fatalità
a muovere tutto questo, ne sono sicuro… Per prima cosa comprate una
casa ad Auteuil, e questa casa è proprio quella dove ho commesso
l’assassinio; poi scendete in giardino, e giusto per la scala per
cui scese lui, e vi fermate proprio nel luogo dove ricevette il
colpo, e a due passi da quest’albero c’è la fossa dove aveva
seppellito il bambino: tutto ciò non può essere opera del caso.»
«Ebbene, vediamo, signor corso, io suppongo sempre tutto… D’altra
parte bisogna saper fare delle concessioni agli spiriti tormentati.
Vediamo: richiamate il vostro buonsenso e raccontatemi tutto.»
«Io non l’ho raccontato che una sola volta, signore, all’abate
Busoni. Simili cose», disse Bertuccio scuotendo la testa, «non si
raccontano che sotto il sigillo della confessione.»
«Allora, mio caro Bertuccio, riterrete giusto che vi rimandi al
vostro confessore; vi farete frate, e ragionerete sui vostri
segreti. Ma io ho paura di un servitore spaventato da simili
fantasmi; non mi piace che i miei dipendenti non abbiano il coraggio
di attraversare di notte un giardino. Poi ve lo confesso, mi
piacerebbe poco una visita del commissario di polizia; poiché,
intendete bene, Bertuccio, si dice che in qualche luogo la polizia
venga pagata perché taccia, ma in Francia al contrario si paga
quando parla. Perdinci, vi credevo corso, contrabbandiere, e bravo
intendente, ma ora mi accorgo che avete anche altre corde al vostro
arco. Voi perciò non siete più al mio servizio, Bertuccio.»
«Signore, signore!» gridò l’intendente colpito dal terrore di quella
minaccia. «Se non dipende che da questo perché io rimanga al vostro
servizio, parlerò, dirò tutto; e se vi lascio, sarà soltanto per
andare al patibolo!»
«Adesso va meglio», disse Montecristo, «ma se pensare di mentire,
riflettete bene, non parlate affatto.»
«No, signore, ve lo giuro sulla salute dell’anima mia, vi dirò
tutto… Lo stesso abate Busoni non ha saputo che una parte del
segreto. Ma prima vi supplico, allontanatevi da questo platano…
Guardate, la luna va a rischiarare quella nube, e là, in quella
posizione, avvolto in un mantello che vi nasconde e che assomiglia a
quello del signor Villefort…»
«Come?» gridò Montecristo. «Fu Villefort…?»
«Vostra Eccellenza lo conosce?»
«Sì.»
«Quello che sposò la figlia del marchese di Saint-Méran.»
«Sì, e che negli uffici godeva della reputazione dell’uomo più
onesto, del più severo e del più rigido magistrato?»
«Ebbene signore», gridò Bertuccio, «quest’uomo d’irreprensibile
reputazione…»
«Ebbene?»
«Era un infame!»
«Impossibile!» esclamò Montecristo.
«Eppure è come vi dico.»
«Veramente?» si stupì Montecristo. «E ne avete le prove?»
«Le avevo, almeno.»
«E le avete perdute?»
«Sì, ma cercando bene si possono ritrovare.»
«Davvero?» disse il conte. «Raccontatemi tutto, Bertuccio, perché la
cosa incomincia a interessarmi davvero.»
E il conte, canticchiando una piccola aria della Lucia, andò a
sedersi su una panchina, mentre Bertuccio lo seguì concentrandosi,
in piedi davanti a lui.
43. La vendetta
«Da dove preferite, signor conte, che inizi il racconto?» domandò
Bertuccio.
«Da dove volete», replicò Montecristo, «visto che non ne so
assolutamente niente.»
«Credevo che Vostra Eccellenza avesse già saputo che…»
«Sì, qualche particolare, senza dubbio; ma sono trascorsi sette o
otto anni, e non mi ricordo più mi niente.»
«Allora posso, senza paura d’annoiare Vostra Eccellenza…»
«Raccontate, farete le veci di un giornale.»
«Le cose risalgono al 1815.»
«Ah», fece Montecristo, «il 1815 è stato tanto tempo fa.»
«Esatto, signore, tuttavia i più piccoli particolari mi sono chiari
come fosse oggi. Io avevo un fratello maggiore che era al servizio
dell’Imperatore. Era sottotenente in un reggimento composto tutto di
corsi. Era anche il mio unico amico, eravamo rimasti orfani: lui
aveva diciotto anni, e io cinque; e mi aveva allevato come fossi
stato suo figlio. Si sposò nel 1814 sotto i Borboni; ma quando
l’Imperatore ritornò dall’isola d’Elba, mio fratello riprese subito
servizio; poi ferito leggermente a Waterloo, si ritirò con
l’esercito dietro la Loira.»
«Però questa, è la storia dei Cento Giorni, caro Bertuccio, ed è già
stata raccontata, se non sbaglio.»
«Scusatemi, Eccellenza, questi primi particolari sono necessari, e
voi mi avete promesso d’essere paziente.»
«Avanti, avanti! Non dirò più una parola.»
«Un giorno ci giunse una lettera… Bisogna dire che abitavamo nel
piccolo villaggio di Rogliano, sulla punta di Capo Corso… Era una
lettera di mio fratello, il quale diceva che l’esercito era stato
sciolto e lui ritornava per la via di Châteauroux, Clermont-Ferrand,
Le Puy e Nîmes, e che se avevo denaro glielo inviassi a Nîmes presso
un albergatore di nostra conoscenza…»
«Un contrabbandiere», interruppe il conte.
«Eh, mio Dio, bisogna pur vivere.»
«Certamente. Continuate dunque.»
«Io amavo teneramente mio fratello, ve l’ho detto, per cui decisi di
non inviargli il denaro, ma di portarglielo io stesso. Avevo un
migliaio di franchi; ne lasciai cinquecento per Assunta, mia
cognata, con gli altri cinquecento mi misi in viaggio per Nîmes…
Sarebbe stato facile, avevo la mia barca, un carico da fare per
mare: tutto andava per il meglio. Ma, fatto il carico, il vento
divenne contrario, di modo che restammo tre o quattro giorni senza
poter entrare nel Rodano. Finalmente vi riuscimmo: risaliti fino ad
Arles lasciai la barca fra Bellegarde e Beaucaire, e presi la strada
per Nîmes; erano i giorni in cui avveniva il famoso massacro del
Mezzogiorno. Due o tre briganti chiamati Trestaillon, Truphemy e
Graffan sgozzavano sulle strade tutti quelli che credevano
bonapartisti. Senza dubbio il signor conte avrà sentito parlare di
questi assassini.»
«Sì, ma vagamente; allora ero lontano dalla Francia.»
«Entrando a Nîmes si camminava, alla lettera, nel sangue; a ogni
passo s’incontravano cadaveri: gli assassini, organizzati in bande,
uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di una tale
carneficina, mi prese un tremito, non per me, io, semplice pescatore
corso, non avevo da temere, anzi per noi contrabbandieri, quelli
erano tempi buoni, ma per mio fratello, soldato dell’impero, che
ritornava dall’esercito della Loira con la sua uniforme, le
spalline, c’era tutto da temere… Corsi dal nostro albergatore, i
miei presentimenti non mi avevano ingannato: mio fratello, arrivato
il giorno prima a Nîmes, era stato assassinato sulla porta di colui
a cui andava a chiedere ospitalità.
Feci il possibile per conoscere gli assassini, ma nessuno osò dirmi
i loro nomi, tanto erano temuti. Pensai allora alla giustizia
francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla teme, e mi
presentai al procuratore del re.»
«E questo procuratore del re si chiamava Villefort?» chiese con
noncuranza Montecristo.
«Sì, Eccellenza, veniva da Marsiglia dove era stato sostituto. Il
suo zelo gli aveva procurato l’avanzamento. Era stato uno dei primi,
si diceva, che avevano annunciato al governo lo sbarco dall’isola
d’Elba.»
«Dunque», riprese Montecristo, «vi presentaste a lui?»
«“Signore”», gli dissi, «“mio fratello è stato assassinato ieri
nelle strade di Nîmes, non so da chi, ma è vostro compito saperlo.
Voi siete qui il capo della giustizia, e spetta alla giustizia
vendicare quelli che non ha saputo difendere.”
“E che cos’era vostro fratello?” domandò il procuratore del re.
“Sottotenente nel battaglione corso.”
“Un soldato dell’imperatore allora…”
“Un soldato dell’esercito francese.”
“Ebbene», replicò, «si è servito della spada, ed è morto di spada.”
“Voi vi sbagliate, signore, egli è morto di pugnale.”
“E che volete che faccia?” risponde il magistrato.
“Ve l’ho detto, voglio che lo vendichiate.”
“Su chi?”
“Sui suoi assassini.”
“Li conosco forse?”
“Fateli cercare.”
“Per farne cosa? Vostro fratello avrà avuto una contesa, e si sarà
battuto in duello. Tutti questi vecchi soldati si abbandonano a
eccessi che restavano impuniti sotto l’impero, ma che ora finiscono
male; adesso gli abitanti del Mezzogiorno non amano né i soldati, né
gli eccessi.”
“Non è per me che vi prego. Io piangerei, o mi vendicherei, ecco
tutto; ma il mio povero fratello aveva una moglie. Se accadesse
anche a me qualche disgrazia, povera donna, morirebbe di fame,
perché viveva esclusivamente grazie al lavoro di mio fratello.
Fatele ottenere una piccola pensione dal governo.”
“Ogni rivoluzione ha la sua catastrofe; vostro fratello è rimasto
vittima di questa, è una disgrazia; ma il governo non nulla alla
vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le vendette che i
partigiani si sono prese su quelli del re, quando avevano il potere,
vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a morte. Ciò che
accade è naturale, perché è la legge di rappresaglia.”
“Signore!” gridai io. “È mai possibile che un magistrato parli
così…?!”
“Tutti pazzi questi corsi”, rispose Villefort. “Credono ancora che
il loro compatriota sia imperatore. Voi sbagliate epoca, dovevate
venirmi a dir questo due mesi fa: oggi è troppo tardi. Andatevene
dunque, e se non volete andare, vi farò buttar fuori.”
Lo guardai un momento per vedere se, con una nuova preghiera, vi
fosse stata qualche cosa da sperare. Quell’uomo era di pietra. Mi
avvicinai a lui.
“Ebbene”, gli dissi sottovoce, “poiché conoscete tanto bene i corsi
dovete sapere in che modo mantengono la loro parola. Voi trovate che
hanno fatto bene a uccidere mio fratello, che era bonapartista,
perché voi siete realista; ebbene io che sono ugualmente
bonapartista, vi dico una cosa: che vi ammazzerò! Da questo momento
vi dichiaro vendetta; per cui guardatevi come meglio potrete; poiché
la prima volta che ci ritroveremo faccia a faccia, sarà segno che
per voi è giunta l’ultima ora.”
Dopo ciò, prima ancor che si fosse ripreso dalla sorpresa, aprii la
porta e fuggii.»
«Oh-oh», disse Montecristo, «con la vostra faccia onesta fate cose
come queste, Bertuccio, e a un procuratore del re? Va bene! Ma
sapeva almeno ciò che voleva dire la parola vendetta?»
«Lo sapeva tanto bene che da quel giorno non uscì più solo, e si
chiuse in casa, facendomi cercare dappertutto. Fortunatamente mi
nascondevo così bene, che non poté trovarmi. Allora, preso dalla
paura, non ebbe il coraggio di restare a Nîmes: sollecitò un
trasferimento e siccome era davvero un personaggio influente si fece
nominare a Versailles. Ma, voi lo sapete, non vi sono distanze per
un corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico, e la sua
carrozza, per quanto fosse bene condotta, non ha mai avuto più di
una mezza giornata di vantaggio su di me, che lo seguivo a piedi.
L’importante non era ucciderlo, cento volte ne avrei trovato
l’occasione, ma ucciderlo senza essere scoperto, e particolarmente
senza essere arrestato. Ormai non ero più indipendente, dovevo
proteggere e nutrire mia cognata. Per tre mesi lo tenni d’occhio: e
per tre mesi non fece un passo, un movimento, una passeggiata senza
che il mio sguardo non lo seguisse ovunque andava. Finalmente
scoprii che veniva misteriosamente ad Auteuil: lo seguii, e lo vidi
entrare in questa casa dove siamo; soltanto, invece d’entrare, come
tutti, dalla porta grande sulla strada, egli veniva o a cavallo, o
in carrozza, e lasciando il cavallo o la carrozza all’albergo,
entrava da quella piccola porta che vedete là.»
Montecristo gli fece cenno che, malgrado l’oscurità, distingueva
l’entrata indicata da Bertuccio.
«Io non ero più necessario a Versailles, mi stabilii ad Auteuil, e
presi informazioni. Se volevo prenderlo era qui che dovevo preparare
la trappola. La casa apparteneva, come il portinaio ha detto, al
signor marchese di Saint-Méran, suocero del signor Villefort. Il
signor di Saint-Méran abitava a Marsiglia, e di conseguenza questa
casa gli era inutile, così si diceva ch’era stata affittata a una
giovane vedova, che non si conosceva sotto altro nome se non con
quello di baronessa. Infatti una sera che stavo di guardia sopra il
muro, vidi una donna giovane e bella che girava sola per questo
giardino; ella guardava spesso dalla parte della porticina, e capii
che quella sera aspettava il signor Villefort.
Quando fu abbastanza vicina a me, nonostante l’oscurità, potei
distinguerne i lineamenti, e vidi una bella giovane di diciotto,
diciannove anni, alta e bionda. Siccome indossava una semplice
veste, e niente poteva impedirmi di vederne la corporatura,
m’accorsi ch’era incinta, e che la gravidanza era molto inoltrata.
Pochi momenti dopo la porticina si aprì; entrò un uomo, la giovane
gli corse incontro. Era Villefort. Calcolai che, uscendo,
particolarmente di notte, avrebbe dovuto attraversare da solo il
giardino in tutta la sua lunghezza.»
«Avete poi saputo il nome di questa donna?» domandò il conte.
«No, Eccellenza», rispose Bertuccio, «non ebbi il tempo
d’informarmene.»
«Continuate.»
«Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del
re», riprese Bertuccio, «ma non conoscevo ancora abbastanza il
giardino in tutti i suoi particolari. Temevo di non poter fuggire se
qualcuno fosse accorso alle grida. Rinviai l’azione al successivo
incontro; e perché nulla potesse sfuggirmi, presi in affitto una
piccola camera di fronte al muro del giardino. Tre giorni dopo, alle
sette di sera, vidi un domestico uscire di casa a cavallo, e
imboccare al galoppo la strada che porta a Sèvres: supposi che
sarebbe andato a Versailles, e non mi sbagliai. Tre ore dopo, l’uomo
tornò coperto di polvere. Dieci minuti dopo, un altro uomo a piedi,
avvolto in un mantello, apriva la piccola porta del giardino, e la
richiudeva dietro di sé. Scesi rapidamente.
Anche se non avevo visto il viso di Villefort, lo riconobbi al
battito del mio cuore: attraversai la strada, raggiunsi un
pilastrino all’angolo del muro, su cui ero salito per guardare nel
giardino la prima volta. Questa volta però non mi accontentai di
guardare, presi dalla tasca il coltello, mi assicurai che la punta
fosse ben affilata, e saltai al di la del muro. Per prima cosa corsi
alla porta; egli aveva lasciato la chiave dentro la serratura dalla
parte interna, con l’unica cautela di un doppio giro. Niente dunque
poteva opporsi alla mia fuga da quel lato. Il giardino era di forma
quadrata, con un prato all’inglese al centro; agli angoli di questo
prato c’erano gruppi di alberi, con folti rami, all’epoca
frammischiati ai fiori d’autunno. Per andare dalla porticina alla
casa, tanto entrando, quanto uscendo, Villefort era obbligato a
passare davanti a questi gruppi d’alberi.
Era la fine di settembre: il vento soffiava con forza; una luna
pallida e languente, velata a tratti da grosse nuvole che scorrevano
per il cielo, rischiarava la sabbia dei viali che conducevano alla
casa, ma non poteva fendere l’oscurità di questi alberi frondosi,
fra i quali un uomo poteva restare nascosto senza timore di essere
scoperto. Mi nascosi in quello vicino al quale doveva passare
Villefort. Mi ero appena nascosto che, ai soffi del vento che
curvava i rami degli alberi, mi parve di distinguere dei gemiti. Ma
voi sapete, o per meglio dire, non sapete, signor conte, che chi
aspetta il momento di commettere un assassinio, crede sempre di
sentire delle grida nell’aria.
Trascorsero due ore, nelle quali a più riprese credetti di sentire i
medesimi gemiti. Suonò mezzanotte. L’ultimo tocco vibrava ancora
cupo e sonoro, quando vidi una debole luce illuminare le finestre
della scala segreta per la quale siamo scesi poco fa. La porta si
aprì, e comparve l’uomo con il mantello.
Era giunto il momento terribile; ma ero pronto da molto tempo: presi
il coltello, lo aprii, e rimasi all’erta. L’uomo con il mantello
veniva direttamente verso di me, e mi pareva tenesse in mano
un’arma: ebbi paura, non di una lotta, ma di non riuscire.
Quando fu a pochi passi da me, capii che l’arma non era che una
vanga. Non avevo ancora capito a quale scopo il signor Villefort
tenesse una vanga in mano, quando egli si fermò vicino al gruppo
d’alberi, gettò uno sguardo intorno, e si mise a scavare una fossa:
allora m’accorsi che teneva qualcosa sotto il mantello, che depose
sull’erba per essere più libero nei suoi movimenti. Un po’ di
curiosità, lo confesso, si mischiò al mio odio, e volli vedere ciò
che era venuto a fare Villefort: rimasi immobile, trattenendo il
respiro, e aspettai.
Quindi mi venne un terribile pensiero, che trovò conferma quando il
procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga sei piedi e
larga da sei a otto pollici. Lasciai che deponesse la cassetta nella
fossa che poi riempì di terra; su questa terra smossa pestò i piedi
per fare scomparire lo scavo notturno.
Allora mi buttai su lui, e gli conficcai il coltello nel petto,
dicendogli: “Io sono Giovanni Bertuccio! La tua morte per mio
fratello, il tuo tesoro per la sua vedova: vedi bene che la mia
vendetta è più completa di quel che speravo!”
Non so se capì queste parole, ma credo di no. Cadde senza mandare un
gemito: sentii il suo sangue scorrermi sulle mani e sul viso, ma io
ero in delirio: questo sangue mi rinfrescava invece di bruciarmi. In
un secondo dissotterai la cassetta con la vanga, poi, perché nessuno
si accorgesse che l’avevo portata via, riempii di nuovo la fossa,
gettai la vanga al di là del muro, e corsi fuori dalla porta, che
chiusi a doppio giro dal di fuori, portando con me la chiave.»
«Bene», disse Montecristo, «quest’era, a quanto vedo, un piccolo
assassinio complicato con furto.»
«No, Eccellenza», rispose Bertuccio, «era una vendetta accompagnata
da una restituzione.»
«E la somma almeno era forte?»
«Non era denaro.»
«Ah sì, ricordo», disse Montecristo: «non avete parlato di un
bambino?»
«Esattamente, Eccellenza. Corsi fino al fiume, sedetti sulla sponda,
e incuriosito dal contenuto della cassetta, ne feci saltare via la
serratura col coltello. In un panno di tela era avvolto un bambino
appena nato: il viso era livido, le mani violette rivelavano che era
rimasto vittima di una asfissia causata dal cordone che aveva
intorno al collo.
Siccome però non era ancora freddo, esitai a gettarlo nell’acqua che
scorreva ai miei piedi; infatti dopo un momento mi parve di sentire
un leggero battito del cuore. Gli liberai il collo dal cordone, e
siccome ero stato infermiere all’ospedale di Bastia, feci tutto ciò
che avrebbe potuto fare un medico in un’occasione simile, gli
soffiai dell’aria nei polmoni. Dopo un quarto d’ora di sforzi
inauditi, lo vidi respirare, e udii un grido sfuggirgli dal petto.
Io pure gettai un grido, ma un grido di gioia. “Dio dunque non mi
maledice”, dissi a me stesso, “se permette che ridoni la vita a una
creatura umana in cambio della vita che ho tolto a un’altra!”
«E che faceste di quel bimbo?» domandò Montecristo.
«Era un bagaglio molto ingombrante per uno che doveva fuggire. Per
questo decisi di non tenerlo… Ma sapevo che a Parigi vi è un
ospizio, dove sono accolte queste povere creature. Attraversando la
barriera, dichiarai di aver trovato quel bimbo sulla strada, e
chiesi informazioni. La cassetta accreditava la mia versione; la
biancheria di batista indicava che il bimbo apparteneva a persone
ricche. Non mi venne fatta alcuna obiezione, mi fu indicato
l’ospizio situato in fondo alla rue d’Enfer e, dopo aver tagliato il
pannolino in due parti, in maniera che una delle lettere ricamate
continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi tenni l’altra, deposi il
fardello nella ruota, e fuggii a gambe levate.
Quindici giorni dopo ero di ritorno a Rogliano, e dissi ad Assunta:
“Consolati, sorella mia, Israele è morto, ma l’ho vendicato!”
Allora mi chiese la spiegazione di queste parole, e io le raccontai
tutto l’accaduto.
“Giovanni”, mi disse Assunta, “avresti dovuto portarmi quel bimbo;
lo avremmo chiamato Benedetto: e per questa buona azione, Dio ci
avrebbe benedetti effettivamente!”
In risposta le consegnai la metà del pannolino che avevo conservato
per poter reclamare il bimbo il giorno che fossimo divenuti più
ricchi.»
«E con quali lettere era ricamato quel pannolino?» domandò
Montecristo.
«Con una L e una N sormontate dalla corona baronale.»
«Credo, Dio me lo perdoni, che voi facciate uso di termini araldici,
Bertuccio! E dove avete fatti questi studi?»
«Al vostro servizio, signor conte, dove s’impara tutto.»
«Continuate, sono curioso di sapere altre due cose.»
«E quali, signore?»
«Ciò che accadde di quel ragazzo; avete detto che era un maschio.»
«No, signore, non ricordo di avervi detto ciò.»
«Ah, credevo… Mi sarò sbagliato.»
«No, non vi siete sbagliato, perché era effettivamente un maschio…
Ma Vostra Eccellenza desiderava sapere due cose, qual è la seconda?»
«La seconda è il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un
confessore, e l’abate Busoni venne a trovarvi su vostra richiesta
nelle prigioni di Nîmes.»
«Sarebbe troppo lungo raccontarlo, Eccellenza.»
«Che importa? Sono appena le dieci; sapete che non dormo, e suppongo
che non avrete gran voglia di dormire.»
Bertuccio s’inchinò, e riprese la narrazione.
«Io, un po’ per scacciare i tristi ricordi che mi assillavano, in
parte per provvedere ai bisogni della povera vedova, tornai al
mestiere di contrabbandiere, divenuto più facile per il rilassamento
delle leggi, che succede sempre alle rivoluzioni.
Le coste del Mezzogiorno, in particolare, erano mal controllate a
causa delle continue sommosse ad Avignone, a Nîmes, e Uzès.
Approfittammo di questa specie di tregua che ci veniva accordata dal
governo per annodare relazioni su tutto il litorale.
Dopo l’assassinio di mio fratello nelle strade di Nîmes, non avevo
voluto tornare in quella città. L’albergatore col quale noi facevamo
affari, vedendo che non volevamo più andar da lui, era venuto da
noi, e aveva aperto una succursale del suo albergo sulla strada da
Bellegarde a Beaucaire, con il nome di Ponte di Gard.
In tal modo avevamo, sia dalla parte d’Aigues-Mortes, sia a
Martigues, sia a Bouc, una dozzina di luoghi dove depositavamo la
nostra merce, e dove al bisogno trovavamo un rifugio per metterci in
salvo dai doganieri e dai gendarmi. È un mestiere che frutta molto
quello del contrabbandiere, quando uno ci si applica con una certa
intelligenza sostenuta da buona dose di energia.
Quanto a me, vivevo sulle montagne, avendo un doppio motivo per
temere i gendarmi e i doganieri, poiché qualunque apparizione
davanti a un giudice, avrebbe potuto dar vita a un processo, vale a
dire un ritorno nel passato, e si poteva scoprire qualche cosa di
più importante che non sigari di contrabbando, e barili d’acquavite
senza lasciapassare.
Così, preferendo mille volte la morte a un arresto, conducevo a buon
fine operazioni straordinarie, e che, più di una volta, mi
convinsero che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è
quasi sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni
che hanno bisogno di un’esecuzione vigorosa e determinata. Infatti,
una volta fatto il sacrificio della propria vita, non si è più
simili agli altri uomini, e chiunque ha presa questa decisione, ha
sentito le forze centuplicarsi e allargarsi l’orizzonte.»
«Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque sapete un poco di tutto
nella vostra vita?»
«Chiedo perdono, Eccellenza!»
«No, no, è solo che è un po’ tardi per la filosofia, alle dieci e
mezzo di sera. Oltre a questo non ho altre osservazioni da fare,
visto che la trovo esatta, cosa che non si può dire di tutte le
filosofie.»
«I miei viaggi si fecero dunque sempre più estesi e sempre più
fruttuosi. Assunta era una buona amministratrice; e la nostra
fortuna andava ingigantendosi. Un giorno ch’io partivo per un
viaggio, mi disse: “Vai. Al tuo ritorno troverai una sorpresa”.
L’interrogai inutilmente; non volle dirmi di più, e io partii. Il
viaggio durò quasi sei settimane: eravamo stati a Lucca a caricare
dell’olio, e a Livorno a prendere del cotone inglese. Sbarcammo
senza problemi, fummo pagati, e tornammo allegri e contenti.
Rientrando a casa, la prima cosa che vidi nel luogo più visibile
della camera d’Assunta, in una culla sontuosa rispetto al resto
dell’appartamento, fu un fanciullo di sette-otto mesi. Diedi un
grido di gioia. Il solo momento di tristezza che provai dopo
l’uccisione del procuratore del re fu quello in cui abbandonai il
bambino. Non ebbi mai rimorsi per l’assassinio in se stesso.
La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della mia
assenza, munita della metà del pannolino e avendo scritto, per non
dimenticarlo, il giorno e l’ora precisa in cui il bimbo era stato
lasciato all’ospizio, era andata a Parigi a reclamarlo. Non le venne
fatta alcuna obiezione, e le fu restituito. Ah, vi confesso, signor
conte, che vedendo quella creatura dormire nella culla, mi emozionai
e piansi.
“Assunta, sei una brava donna”, le dissi, “e il Signore ti
benedirà!”
“Ciò mostra che avevi fede…” commentò Montecristo.
“Ahimè! Eccellenza”, replicò Bertuccio. “Iddio però fece di quel
fanciullo lo strumento della mia punizione. Si rivelò subito di
natura perversa! E non si può dire che venisse male allevato, poiché
mia sorella lo trattava come il figlio di un principe. Era un
ragazzo di bellissimo aspetto, con occhi celesti come quello di
certe porcellane cinesi; solamente i capelli, di un biondo troppo
acceso, davano al suo viso una strana indole, che raddoppiava la
vivacità dello sguardo e la malizia del sorriso.
Disgraziatamente un proverbio dice che i rossi sono o completamente
buoni o assolutamente cattivi: il proverbio non mentiva sul conto di
Benedetto, che fin dalla prima infanzia si manifestò del tutto
cattivo. È vero però che la dolcezza di mia cognata incoraggiò le
sue prime inclinazioni. Ella andava continuamente al mercato in
città, a cinque leghe di distanza, per comprare le primizie e i
dolci più delicati per questo ragazzo, che preferiva agli aranci di
Palma e alle conserve di Genova le castagne rubate al vicino
attraversando le siepi, o le mele secche del granaio, pur avendo a
sua disposizione le castagne e le mele del nostro orticello.
Un giorno (Benedetto poteva avere cinque o sei anni) il vicino
Wasilio, che, secondo l’uso del nostro Paese, non riponeva mai né la
sua borsa, né i suoi gioielli, perché il signor conte sa meglio di
chiunque altro che in Corsica non ci sono ladri, il vicino Wasilio
si lamentò con noi che gli era sparito un luigi. Si pensò che avesse
contato male, ma egli affermava di esser sicuro del fatto suo.
In quel giorno Benedetto era uscito di casa di buon mattino, e
quando lo vedemmo tornare la sera, si portava dietro una scimmia che
diceva di aver trovato legata a un albero con la catena; da più di
un mese il cattivo ragazzo desiderava avere una scimmia. Un
saltimbanco ch’era passato per Rogliano, e che aveva molti animali
esotici che lo avevano divertito con i loro esercizi, gli aveva,
senza dubbio, ispirato quella pessima fantasia.
“Nei nostri boschi non si trovano scimmie, e tanto meno incatenate”,
gli dissi. “Confessami dunque come ti sei procurato questa.”
Benedetto confermò la menzogna, e l’accompagnò con tali particolari
che facevano più onore alla sua fantasia che alla realtà. M’irritai,
egli si mise a ridere; lo minacciai, fece due passi indietro.
“Tu non puoi battermi”, disse. “Non ne hai il diritto, perché non
sei mio padre.”
Ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto, che
da parte nostra era stato gelosamente custodito. Questa risposta,
attraverso la quale il ragazzo rivelava la sua vera natura, quasi mi
spaventò, e il mio braccio alzato ricadde senza percuotere il
colpevole. Il ragazzo ebbe la meglio, e questa vittoria gli dette
un’audacia tale, che da quel giorno tutto il denaro di Assunta, il
cui amore sembrava aumentare man mano che se ne rendeva meno degno,
fu speso in capricci che lei non sapeva combattere, e in follie che
non aveva il coraggio d’impedire.
Quando io ero a Rogliano, le cose andavano meno male, ma quando
partivo, Benedetto diventava il capo di casa, e tutto andava a
rotoli.
All’età di dieci o undici anni tutti i suoi amici erano i giovani di
diciotto-vent’anni, i peggiori soggetti di Bastia e di Corte, e già
per qualche marachella, che meritava un nome più serio, la giustizia
ci aveva convocato. Io ne fui spaventato: qualunque interrogatorio
poteva avere conseguenze funeste. Proprio allora dovetti
allontanarmi dalla Corsica per una spedizione importante. Riflettei
a lungo, e nella speranza d’evitare qualche disgrazia, decisi di
condurre con me Benedetto. Speravo che la vita attiva e faticosa del
contrabbandiere, la disciplina severa di bordo avrebbero corretto
quella indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente
corrotta.
Presi dunque Benedetto in disparte, e gli feci la proposta di
seguirmi, con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovane
di dodici anni. Egli mi lasciò parlare fino alla fine, e quand’ebbi
terminato scoppiò in una risata, dicendo: “Siete pazzo, zio mio!”
(egli mi chiamava così quand’era di buonumore). “Io cambiare la mia
vita con quella che fate voi? Il mio ottimo ed eccellente far
niente, con le orribili fatiche che vi siete imposto? Passare la
notte al freddo, il giorno al caldo, nascondersi continuamente,
ricevere schioppettate, e tutto questo per guadagnare un poco di
denaro? Del denaro ne ho quanto voglio, madre Assunta me ne dà
quanto ne domando: sarei un imbecille se accettassi la vostra
proposta.”
Io rimasi stupefatto da quell’audacia, e da quel ragionamento.
Benedetto ritornò a giocare con i suoi compagni, e lo vidi che mi
additava a loro come un idiota.»
«Che magnifico ragazzo!» mormorò Montecristo.
«Se fosse stato mio figlio», rispose Bertuccio, «o anche mio nipote,
lo avrei ricondotto sulla retta via. Ma l’idea di picchiare un
ragazzo, di cui avevo ucciso il padre, mi rendeva impossibile ogni
intervento. Detti buoni consigli a mia cognata, che nelle nostre
discussioni prendeva sempre la difesa del piccolo disgraziato; e,
siccome mi confessò che varie volte le erano sparite somme
considerevoli, le indicai un luogo dove nascondere il nostro piccolo
tesoro. In quanto a me, avevo preso la mia decisione. Benedetto
sapeva leggere e fare i conti, perché quando per caso voleva
studiare, imparava in un giorno ciò che gli altri apprendevano in
una settimana.
La mia decisione, dicevo, era presa: lo avrei fatto assumere come
segretario su un bastimento di lungo corso, e, senza avvertirlo di
niente, farlo venire a prendere una mattina, e portarlo a bordo; in
questo modo, raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire
dipendeva da lui. Deciso questo, partii per la Francia. Tutte le
nostre operazioni avvenivano nel golfo di Lione, ed erano ogni
giorno più difficili, perché eravamo nel 1829. La pace era stata
ristabilita, e di conseguenza la sorveglianza delle coste più severa
che mai. Questa sorveglianza era aumentata momentaneamente per la
fiera di Beaucaire, inaugurata da poco. Gli inizi della spedizione
avvennero senza problemi. Ancorammo la barca, che disponeva di un
doppio fondo nel quale nascondevamo le nostre mercanzie di
contrabbando, in mezzo a una quantità di battelli ancorati alle due
rive del Rodano da Beaucaire fino ad Arles.
Giunti là, cominciammo notte tempo a scaricare le merci proibite, e
a farle entrare in città per mezzo di uomini legati agli albergatori
nelle case dei quali facevamo i depositi. Sia che la buona riuscita
ci rendesse imprudenti, sia che fossimo stati traditi, una sera
verso le cinque del pomeriggio, mentre stavamo per metterci a
tavola, giunse tutto affannato il nostro piccolo mozzo, dicendo che
aveva visto una squadra di doganieri dirigersi dalla nostra parte.
Non era precisamente la squadra che ci spaventava – da un momento
all’altro, e particolarmente allora, si vedevano compagnie intere
pattugliare e girare sulle sponde del Rodano – ma le cautele che, al
dire del mozzo, questa squadra prendeva per non essere vista.
In un attimo eravamo in piedi; ma era già troppo tardi: la nostra
barca evidentemente oggetto delle loro ricerche, era circondata. Fra
i doganieri riconobbi qualche gendarme; e molto sospettoso nei suoi
confronti, quanto indifferente alla vista di qualunque altro
militare, scesi sottocoperta, e sgusciando da un portello, mi calai
nel fiume, quindi mi misi a nuotare sott’acqua, non respirando che a
lunghi intervalli, così bene che, senza esser visto, raggiunsi un
canale nuovo che metteva il Rodano in comunicazione con il canale da
Beaucaire ad Aigues-Mortes. Una volta là fui salvo, potevo
proseguire senza essere visto in quella direzione. Non era a caso,
né senza premeditazione che avevo seguito questa via; ho già parlato
a Vostra Eccellenza di un albergatore di Nîmes, che aveva aperto una
piccola osteria fra Bellegarde e Beaucaire.»
«Sì», disse Montecristo, «me ne ricordo perfettamente, quel
brav’uomo, se non erro, era uno dei vostri soci…»
«Esattamente», rispose Bertuccio, «ma da sette-otto anni aveva
ceduto il suo albergo a un sarto di Marsiglia, che dopo essersi
rovinato con quel mestiere, aveva voluto tentare la fortuna in un
altro. I rapporti che avevamo col primo proprietario furono
mantenute col secondo; dunque contavo di chiedere un riparo a
quest’uomo.»
«E come si chiamava costui?» domandò il conte di Montecristo, che
sembrava cominciare a interessarsi al racconto di Bertuccio.
«Si chiamava Gaspard Caderousse, ed era sposato con una donna del
villaggio di Carconta, che chiamavamo con il nome del suo villaggio;
una povera donna colpita dalle febbri malariche, che stava morendo
di consunzione. In quanto all’uomo era gagliardo e robusto, tra i
quaranta e i cinquant’anni, e più d’una volta in difficili
situazioni aveva dato prova di prontezza d’animo e di coraggio.»
«E dicevate», domandò Montecristo, «che tali cose accadevano verso
l’anno?…»
«L’anno 1829, signor conte.»
«In che mese?»
«Nel mese di giugno.»
«All’inizio o alla fine?»
«Precisamente la sera del 3.»
«Ah», fece Montecristo, «il 3 giugno 1829… Va bene, continuate.»
«Era dunque a Caderousse che contavo di domandare riparo; ma di
solito, anche nelle occasioni normali, non entravamo da lui per la
porta che dava sulla strada, e decisi di non derogare alle
abitudini: scavalcai la siepe del giardino, camminai carponi fra gli
ulivi e i fichi selvatici, e raggiunsi, nel dubbio che Caderousse
potesse avere qualche ospite in albergo, a un soppalco nel quale
avevo più di una volta comodamente passato la notte come nel miglior
letto. Questo soppalco era separato dalla sala comune del
pianterreno dell’albergo solo da un tramezzo di assi, nel quale
erano state praticate delle fenditure a bella posta, perché di là
potessimo spiare prima di farci vedere.
Volevo capire se Caderousse era solo, dargli un segno del mio
arrivo, e terminare con lui il pasto interrotto dall’apparizione dei
doganieri; quindi approfittare del temporale in arrivo per
raggiungere le rive del Rodano, rendermi conto di ciò che era
accaduto alla barca e ai suoi occupanti. Scesi dunque nel soppalco,
e fui fortunato, perché quasi nello stesso istante Caderousse
entrava in casa con uno sconosciuto. Rimasi tranquillo, e aspettai,
non con l’intenzione di scoprire i segreti dell’albergatore, ma
perché non potevo fare altrimenti; e d’altra parte la stessa cosa
era già accaduta altre volte.
L’uomo che accompagnava Caderousse non era di quelle parti, ma uno
di quei mercanti che vengono a vendere i loro gioielli alla fiera di
Beaucaire, e che in un mese fanno affari per cinquanta e anche
centomila franchi. Caderousse entrò per primo, e vedendo la sala
vuota, come al solito, occupata soltanto dal cane, chiamò la moglie.
“Ehi! Carconta!” disse. “Quel bravo prete, non ci ha ingannati, il
diamante è buono.”
Si sentì un’esclamazione di gioia, e quasi subito la scala
scricchiolò sotto un passo appesantito dalla debolezza e dalla
malattia.
“Che dici?” domandò la donna più pallida di un morto.
“Dico che il diamante è buono, ed ecco qui il signore, che è uno dei
primi gioiellieri di Parigi, disposto a darci cinquantamila franchi,
solo che dobbiamo provargli che è veramente nostro. Vuole che gli
racconti, come gli ho già raccontato io, in che modo miracoloso il
diamante è caduto nelle nostre mani. Intanto, sedetevi signore, se
volete, e siccome fa caldo, vado a cercare qualcosa per
rinfrescarvi.»
Il gioielliere esaminò con visibile attenzione l’interno
dell’albergo, e la palese miseria di coloro che stavano per
vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re.
“Raccontate, signora”, la invitò questi, volendo senza dubbio
approfittare dell’assenza del marito perché non vi fosse alcun segno
d’intesa tra di loro, e controllare se i due racconti
corrispondevano.
“Mio Dio”, cominciò la donna, «è una benedizione del cielo che non
ci aspettavamo. Immaginate, caro signore, che mio marito era amico,
fin dal 1814 1815, di un marinaio chiamato Edmond Dantès. Questo
povero giovane non aveva dimenticato Caderousse, che lo aveva invece
dimenticato del tutto, e morendo gli ha lasciato il diamante che
avete visto.”
“Ma in che modo ne era entrato in possesso?” domandò il gioielliere.
“Lo aveva prima d’entrare in prigione?”
“No, signore, ma in prigione fece la conoscenza, a quanto pare, di
un inglese ricchissimo; e quando il suo compagno di cella si ammalò,
Dantès lo trattò come un fratello, così l’inglese uscendo dal
carcere lasciò al povero Dantès, che meno fortunato di lui era morto
in prigione, questo diamante, ch’egli a sua volta ci ha lasciato in
legato morendo, e che il degno abate ci ha portato questa mattina.”
“È lo stesso racconto”, mormorò il gioielliere, “e, in fin dei
conti, la storia può essere vera, per quanto paia inverosimile. Non
c’è dunque che il prezzo sul quale non siamo ancora d’accordo.”
“Come, non siamo d’accordo?” fece Caderousse. “Credevo che avreste
accettato il prezzo richiesto.”
“Cioè”, replicò il gioielliere, “il prezzo di quarantamila franchi
che vi ho offerto.”
“Quarantamila franchi!” gridò la Carconta. “Non lo venderemo
certamente. L’abate ci ha detto che ne vale cinquantamila, senza
calcolare la montatura.”
“E come si chiama quest’abate?” domandò l’instancabile
interlocutore.
“L’abate Busoni”, rispose la donna.
“È dunque uno straniero?”
“Credo sia italiano, delle vicinanze di Mantova.”
“Mostratemi questo diamante”, riprese il gioielliere, “voglio
vederlo una seconda volta; spesso si giudicano male le pietre a
prima vista.”
Caderousse cavò di tasca un piccolo astuccio di marocchino nero,
l’aprì e lo passò al gioielliere. Alla vista di questo diamante
grosso quanto una piccola nocciola, me lo ricordo come lo vedessi
ancora, gli occhi della Carconta brillarono di cupidigia.»
«E voi, dietro alla porta, che pensavate di tutto ciò?» domandò
Montecristo. «Credevate a quella favola?»
«Sì, Eccellenza; non ritenevo Caderousse un uomo cattivo, e lo
credevo incapace di aver commesso un delitto, o anche un furto.»
«Questo fa più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza,
Bertuccio. Avevate conosciuto questo Edmond Dantès di cui si
parlava?»
«No, Eccellenza, fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare, e
dopo nemmeno, tranne una sola volta dallo stesso abate Busoni,
quando lo incontrai nelle prigioni di Nîmes.»
«Bene, continuate.»
«Il gioielliere prese l’anello dalle mani di Caderousse, estrasse
dalla tasca un paio di piccole pinzette d’acciaio, e un bilancino di
rame; poi allontanando le punte d’oro che trattenevano la pietra
nell’anello, fece uscire il diamante e lo pesò scrupolosamente sul
bilancino.
“Vi posso offrire quarantacinquemila franchi», disse, «ma non darò
un soldo di più. Siccome questo è il vero prezzo dell’anello, ho con
me solo questa somma.”
“Non importa, tornerò con voi a Beaucaire a prendere gli altri
cinquemila franchi.”
“No”, ribatté il gioielliere restituendo a Caderousse l’anello e il
diamante, “questo non vale di più; e sono anzi dispiaciuto di avervi
offerto questa somma, dato che la pietra ha un difetto che non avevo
visto prima; ma non importa: sono un uomo di parola, ho detto
quarantacinquemila franchi e non mi tiro indietro.”
“Almeno rimettete il diamante nell’anello”, disse con asprezza la
Carconta.
Egli incastonò di nuovo la pietra.
“Bene, bene, bene”, disse Caderousse, rimettendosi in tasca
l’astuccio. “Lo venderemo a un altro.”
“D’accordo”, rispose il gioielliere, “ma un altro non sarà così
accomodante come me; un altro non si accontenterà delle informazioni
che mi avete dato. Non è normale che un uomo come voi possegga un
anello da cinquantamila franchi, informerò i magistrati, e sarà
necessario ritrovare l’abate Busoni; e gli abati che regalano
diamanti da duemila luigi sono rari. La giustizia comincerà a starvi
addosso, sarete messo in prigione, e se riconosciuto innocente
verrete rimesso in libertà dopo tre o quattro mesi di prigione;
l’anello o sarà andato perduto in spese di giudizio, o vi sarà
restituito con una pietra falsa che costerà tre franchi invece di
cinquantamila, diciamo anche ammettere cinquantacinquemila… Ma voi
converrete con me, mio brav’uomo, che si corrono sempre certi rischi
a comprare.”
Caderousse e sua moglie s’interrogarono con uno sguardo.
“No”, disse Caderousse, “non siamo abbastanza ricchi per perdere
cinquemila franchi.”
“Come volete, mio caro amico… Io però avevo portato, come vedete,
una bella somma.”
E con una mano prese dalla tasca un pugno d’oro che fece risplendere
davanti agli occhi abbagliati degli albergatori, e con l’altra un
pacchetto di biglietti di banca.
L’animo di Caderousse era visibilmente agitato da una lotta interna,
era evidente che quel piccolo astuccio di marocchino, che girava e
rigirava nelle mani, non gli sembrava corrispondere, come valore,
alla somma enorme che gli affascinava gli occhi.
Si rivolse alla moglie.
“Tu che dici?” le domandò a bassa voce.
“Daglielo, daglielo”, disse. “Se ritorna a Beaucaire senza il
diamante, ci denuncerà, e come ha detto, chi sa se ritroveremo
l’abate Busoni!”
“Ebbene, così sia”, accettò Caderousse. “prendete il diamante per
quarantacinquemila franchi, ma mia moglie vuole una catena d’oro, e
un paio di orecchini d’argento.”
Il gioielliere prese dalla tasca una scatola lunga e piatta che
conteneva molti campioni degli oggetti domandati.
“Prendete”, disse. “Io sono generoso negli affari. Scegliete…”
La donna scelse una collana d’oro che poteva costare cinque luigi, e
il marito un paio di orecchini del valore di quindici franchi.
“Spero che non vi lamenterete”, disse il gioielliere.
“L’abate aveva detto che costava cinquantamila franchi”, mormorò
Caderousse.
“Andiamo, andiamo, date qua… Che uomo terribile!” disse il
gioielliere togliendogli di mano il diamante. “Io vi sborso
quarantacinquemila franchi: duemilacinquecento franchi di rendita,
vale a dire una fortuna come vorrei averla io, e non siete
contento.”
“E i quarantacinquemila franchi”, domandò Caderousse con voce rauca,
“vediamo, dove sono?”
“Eccoli”, rispose il gioielliere. E contò sulla tavola quindicimila
franchi in oro, e trentamila in biglietti di banca.
“Aspettate che accendo una lanterna”, disse Carconta.
“Non ci si vede più, e si potrebbe sbagliare.”
Infatti, durante questa discussione era sopraggiunta la notte, e con
la notte il temporale che minacciava da più di una mezz’ora. Si
sentivano rumoreggiare da lontano i tuoni; ma né il gioielliere, né
Carconta, né Caderousse sembravano preoccuparsene, tanto tutti e tre
erano presi dal demonio del guadagno. Io stesso provai uno strano
fascino alla vista di quell’oro e di quei biglietti. Mi sembrava di
fare un sogno, e come succede nei sogni, ero inchiodato al mio
posto.
Caderousse contò e ricontò l’oro e i biglietti; quindi li passò alla
moglie, che li contò e ricontò anche lei. Intanto il gioielliere
puntava il lume sul diamante, che mandava lampi da far dimenticare
quelli che precedevano la tempesta, e che già cominciavano a
baluginare alle finestre.
“Siete soddisfatti?” domandò il gioielliere.
“Sì”, rispose Caderousse. “Carconta, dammi il portafogli, e trovami
un sacchetto.”
Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli
di cuoio, dal quale tolse alcune vecchie lettere, e vi infilò i
biglietti, e un sacchetto contenente due o tre scudi da sei lire,
che probabilmente rappresentavano tutta la fortuna della miserabile
famiglia.
“Sentite”, riprese Caderousse, “anche se mi avete alleggerito di un
diecimila franchi, volete cenare con noi?”
“Grazie”, rispose il gioielliere, “deve essere tardi, e bisogna che
ritorni a Beaucaire, perché mia moglie sarà preoccupata.”
Guardò l’orologio.
“Perbacco!” gridò. “Sono quasi le nove. Non sarò a Beaucaire prima
di mezzanotte. Addio amici miei… Se per caso ritornassero degli
abati Busoni, pensate a me.”
“Fra dieci giorni non sarete più a Beaucaire”, disse Caderousse,
“perché la fiera finisce la prossima settimana.”
“Non importa; scrivetemi a Parigi, signor Joannès, Palais Royal,
Galerie en Pierres, numero 45. Verrò espressamente, se ne vale la
pena.”
Rimbombò un tuono, accompagnato da un lampo così vivo, che superò
quasi il chiarore della lanterna.
“E volete partire con questo tempo?” domandò Caderousse.
“Non ho paura dei tuoni”, rispose il gioielliere.
“E dei ladri?” chiese Carconta. “La strada non è mai molto sicura
durante la fiera.”
“Quanto ai ladri, ecco ciò che serbo per loro…»
E si tolse di tasca un paio di piccole pistole cariche.
“Ecco”, disse, “dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo:
queste sono per i primi due che volessero rubarmi il vostro
diamante, signor Caderousse.”
Caderousse e sua moglie si scambiarono un’occhiata: sembrava che
avessero pensato entrambi alla stessa cosa.
“Allora, buon viaggio”, disse Caderousse.
“Grazie”, rispose il gioielliere.
E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule, uscì.
Nel momento in cui aprì lo porta, entrò un colpo di vento che per
poco non spense la lanterna.
“Sta proprio arrivando un tempaccio”, disse, “E io ho due leghe da
percorrere!”
“Restate”, insistette Caderousse. “Dormirete qui.”
“Sì, restate”, ripeté Carconta con voce mal ferma. “Ci prenderemo
cura di voi.”
“No, devo tornare a Beaucaire. Addio.”
Caderousse uscì sull’uscio.
“Non si distingue il cielo dalla terra”, disse il gioielliere già
fuori di casa. “Devo andare a destra o a sinistra?”
“A destra”, rispose Caderousse. “Non potete sbagliare, la strada è
fiancheggiata d’alberi su ambo i lati.”
“Va bene, ho capito”, giunse la voce da lontano.
“Chiudi la porta”, disse Carconta. “Non mi piacciono le porte aperte
quando tuona.”
“E quando c’è del denaro in casa, non è vero?” replicò Caderousse
dando un doppio giro alla serratura.
Poi rientrò, andò all’armadio, prese il sacchetto e il portafogli,
ed entrambi si misero a contare per la terza volta l’oro e i
biglietti. Io non ho mai visto un’espressione uguale a quella di
quei due volti, sui quali una debole luce metteva in mostra la
cupidigia. La donna, in particolare, era ributtante: il tremito
febbrile che abitualmente l’animava s’era raddoppiato. Il suo viso
da pallido era diventato livido; gli occhi incavati fiammeggiavano.
“Perché gli hai proposto di dormire qui?” domandò.
“Ma”, rispose Caderousse con un tremito, “perché… perché non dovesse
preoccuparsi di ritornare a Beaucaire.”
“Ah”, fece la donna con un’espressione indefinibile. “Credevo fosse
per un altro motivo.”
“Donna, donna!” gridò Caderousse. “Perché ti fai venire simili idee?
E perché, quando ti vengono, non le tieni tutte per te?”
“È lo stesso”, disse Carconta dopo un momento di silenzio. “Tu non
sei un uomo.”
“Come sarebbe a dire?” ribatté Caderousse.
“Se tu fossi stato un uomo, non sarebbe uscito di qui.”
“Donna!”
“Oppure non arriverebbe a Beaucaire.”
“Donna!”
“La strada fa una curva, è obbligato a seguire la strada, mentre
lungo il canale c’è una scorciatoia.”
“Donna! Tu offendi il buon Dio… Ascolta…”
Infatti s’intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo
rossastro infiammò tutta la scala, mentre il fulmine, scemando
lentamente, sembrava allontanarsi di mala voglia dalla casa
maledetta.
“Gesù!” mormorò Carconta segnandosi.
Nello stesso tempo, e in mezzo a quel silenzio di terrore che di
solito segue il rombo del tuono, si udì battere alla porta.
Caderousse e sua moglie sussultarono spaventati.
“Chi va là?” gridò Caderousse alzandosi, e riunendo in un gruzzolo
l’oro e i biglietti ch’erano sparsi sulla tavola, e che coprì con le
mani.
“Sono io”, rispose una voce.
“E chi siete?”
“Joannès il gioielliere!”
“Che dici ora?” disse Carconta con un sorriso diabolico. “Ho offeso
il cielo? Ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda!”
Caderousse ricadde pallido e ansimante sulla sedia. Carconta,
invece, si alzò e andò con passo fermo ad aprire la porta.
“Entrate dunque, caro signor Joannès.”
“Avete ragione”, iniziò il gioielliere bagnato dalla pioggia, “pare
che il diavolo non voglia che io ritorni a Beaucaire questa sera. Le
pazzie più brevi sono le migliori, mio caro Caderousse: mi avete
offerto ospitalità, l’accetto, e vengo a dormire da voi.”
Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli
colava dalla fronte. Carconta rinchiuse la porta a doppia mandata
appena alle spalle del gioielliere.»
44. Pioggia di sangue
Nell’entrare il gioielliere si guardò attentamente intorno, ma
niente poteva fargli nascere sospetti, se non ne aveva, e niente
confermarglieli se ne avesse avuti. Caderousse copriva sempre con
entrambe le mani i biglietti e l’oro. Carconta sorrideva al suo
ospite, più graziosamente che poteva.
“Ah”, disse il gioielliere, “si direbbe che avevate paura di essere
stati ingannati, e che vi siate rimessi a contare il denaro dopo la
mia partenza,”
“No”, replicò Caderousse, “ma l’evento che ce l’ha dato è così
inatteso che non riusciamo ancora a crederci, e quando non abbiamo
la prova materiale sotto gli occhi, ci pare sempre di sognare.”
Il gioielliere sorrise.
“Ci sono ospiti nel vostro albergo?” domandò.
“No”, rispose Caderousse, “non offriamo pernottamento; siamo troppo
vicini alla città, e nessuno si ferma.”
“Allora vi darò fastidio?”
“Fastidio voi! Mio caro signore”, rispose con grazia Carconta,
“nient’affatto; ve lo giuro.”
“Dove mi metterete?”
“Nella camera in alto.”
“Ma non è la vostra camera?”
“Non importa: abbiamo un secondo letto nella camera di fianco a
questa.”
Caderousse guardò con meraviglia la moglie. Il gioielliere
canticchiò un motivetto mentre si riscaldava la schiena al fuoco che
Carconta aveva acceso nel caminetto per il suo ospite; intanto
apparecchiava a un angolo della tavola, su cui aveva steso una
tovaglia e i magri avanzi di un pranzo a cui unì due o tre uova
fresche.
Ora Caderousse aveva rimesso i biglietti nel portafogli, l’oro nel
sacchetto, e il tutto nell’armadio. Passeggiava in lungo e in largo,
cupo e pensieroso, guardando il gioielliere che stava fumando
davanti al caminetto, e che si asciugava dalla pioggia.
“Ecco qui”, disse Carconta mettendo una bottiglia sulla tavola.
“Non appena vorrete cenare, tutto è pronto.”
“E voi?” domandò Joannès.
“Non cenerò”, rispose Caderousse.
“Abbiamo pranzato tardissimo”, si affrettò ad aggiungere Carconta.
“Cenerò da solo?” domandò il gioielliere.
“Vi serviremo”, rispose Carconta con una premura che non le era
naturale, neppure con gli ospiti del suo paese.
Ogni tanto Caderousse le lanciava degli sguardi rapidi come il
lampo. L’uragano continuava.
“Sentite? Sentite?” diceva Carconta. “Avete fatto molto bene a
ritornare.”
“Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante la cena io
mi rimetta in viaggio.”
“Soffia il maestrale”, mormorò Caderousse scuotendo la testa.
“Avremo questo tempo fino a domani.”
E dicendo ciò, gli uscì un sospiro.
“Accidenti”, commentò il gioielliere mettendosi a tavola. “Tanto
peggio per quelli che sono fuori.”
“Già”, aggiunse Carconta, “passeranno una brutta notte.”
Il gioielliere cominciò la cena, e la Carconta continuò ad avere per
lui tutte le piccole premure di un’albergatrice; proprio lei, così
dispettosa e strana. era diventata un modello di pulizia e premure.
Se il gioielliere l’avesse conosciuta prima, si sarebbe certamente
meravigliato di un così grande cambiamento, e ciò non avrebbe
mancato di ispirargli qualche sospetto. In quanto a Caderousse, non
diceva una parola, continuava ad andare su e giù per la stanza, e
sembrava perfino non osasse guardare il suo ospite.
Terminata la cena, Caderousse andò ad aprire la porta.
“Credo che l’uragano si calmi…” disse.
Ma nello stesso istante, come a volerlo smentire, un terribile rombo
di tuono fece tremare la casa, e l’impeto del vento spense la
lanterna. Caderousse richiuse la porta; e sua moglie accese una
candela al fuoco che si stava estinguendo.
“Prendete”, disse lei al gioielliere. “Dovete essere stanco… Ho
messo delle lenzuola pulite, salite a riposarvi, e dormite bene.”
Joannès si fermò ancora un momento per assicurarsi che il temporale
non si calmasse, e quando fu certo che il tuono e la pioggia non
facevano che aumentare, augurò la buonanotte ai suoi albergatori e
salì la scala. Egli mi passò sopra la testa, e sentivo gli scalini
scricchiolare sotto i suoi passi. Carconta lo seguì con sguardo
avido, mentre Caderousse gli voltò le spalle, e non guardò neppure
da quella parte. Tutti questi particolari, che mi sono poi ritornati
in mente, non mi fecero allora nessuna impressione mentre avvenivano
sotto i miei occhi, e non c’era nulla di straordinario in ciò che
accadeva, tranne la storia del diamante che mi sembrava un po’
inverosimile. Così, spossato dalla fatica, e contando di
approfittare della prima pausa nel temporale, decisi di dormire lì
alcune ore, e di allontanarmi nel mezzo della notte. Sentivo nella
camera superiore che anche il gioielliere si preparava per passare
la notte il meglio che potesse.
Ben presto il letto scricchiolò sotto il suo peso; era andato a
riposare. Sentivo i miei occhi chiudersi mio malgrado, e siccome non
avevo alcun sospetto, mi abbandonai al sonno, lanciando però un
ultimo sguardo all’interno della cucina. Caderousse sedeva di fianco
a una lunga tavola, su una di quelle panche di legno in uso negli
alberghi dei villaggi. Mi voltava le spalle, e non potevo vederne i
lineamenti, teneva il viso sepolto nelle mani. La Carconta lo guardò
per un po’, poi si strinse nelle spalle e andò a sedersi vicino a
lui. La fiamma morente si appiccò a un pezzo di legno dimenticato,
una luce un po’ più vivace illuminò l’interno.
Carconta teneva gli occhi fissi sul marito, e siccome questi
rimaneva sempre nella stessa posizione, la vidi allungare verso di
lui la mano scarna, e toccarlo sulla fronte…
Caderousse tremò. Mi sembrò che la donna muovesse le labbra, ma sia
che parlasse troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi
dal sonno, il suono della sua voce non giunse fino a me. Era come se
guardarsi attraverso una nebbia; era quella fase del sonno nella
quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i miei occhi si
chiusero, e mi addormentai.
Dormivo profondamente, quando fui svegliato da un colpo di pistola
seguito da un grido terribile. Sentii alcuni passi barcollanti nella
stanza di sopra, poi una massa inerte cadde dalle scale. Non ero
ancora del tutto sveglio. Udii dei gemiti, poi delle grida soffocate
come durante una lotta. Un ultimo grido, che terminò in un gemito
prolungato, mi risvegliò completamente dal mio letargo. Mi sollevai
su un braccio, aprii gli occhi, che non videro niente nelle tenebre,
e portai la mano alla fronte, sulla quale mi pareva che cadesse,
dalle fenditure della scala, una pioggia tiepida e abbondante.
Il più profondo silenzio era succeduto a quello spaventoso rumore.
Udii il passo di un uomo che camminava di sopra; questi passi fecero
scricchiolare la scala. Poi l’uomo scese nella stanza, si avvicinò
al caminetto, e accese una candela. Era Caderousse; aveva il viso
pallido, e la camicia insanguinata. Accesa la candela risalì
rapidamente la scala, e udii di nuovo i suoi passi rapidi e
tremolanti.
Un momento dopo tornò a scendere; teneva in una mano l’astuccio, e
si assicurò che vi fosse ancora il diamante. Pensò un momento in
quale delle sue tasche doveva metterlo; poi, non ritenendo la tasca
un nascondiglio abbastanza sicuro, lo avvolse nel fazzoletto rosso,
che si legò al collo. Quindi corse all’armadio, prese i biglietti e
l’oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi calzoni, l’altro nella
tasca del suo abito, prese due o tre camicie, si lanciò verso la
porta, e sparì nell’oscurità.
Allora tutto mi fu chiaro; immaginai quanto accaduto, come fossi
stato il colpevole. Mi sembrò di sentire dei gemiti: il gioielliere
poteva non essere ancora morto; forse potevo riparare, portandogli
soccorso, una parte di quel male che non avevo fatto, ma che avevo
permesso che accadesse. Spinsi le spalle contro l’assito di quella
specie di tamburo che mi separava dalla sala inferiore, l’assito
cedette e io mi ritrovai in casa.
Corsi a prendere la candela, e mi lanciai verso la scala, ma un
corpo la sbarrava di traverso… era il cadavere della Carconta. Il
colpo di pistola che avevo udito era stato scaricato su lei: aveva
la gola trapassata da parte a parte, e vomitava sangue dalla bocca.
Scavalcai il suo corpo e continuai a salire. La camera era in uno
spaventoso disordine. Due o tre mobili erano stati rovesciati; il
lenzuolo, al quale si era aggrappato il disgraziato gioielliere, era
steso sul pavimento; egli stesso giaceva a terra, con la testa
appoggiata contro il muro in un mare di sangue, che scaturiva da tre
larghe ferite al petto. Nella quarta era rimasto un lungo coltello
da cucina di cui non si vedeva che il manico.
Inciampai nella seconda pistola, che non aveva sparato perché forse
la polvere era bagnata. Mi avvicinai al gioielliere, effettivamente
non era morto: aprì gli occhi stravolti, li fissò un momento su di
me, mosse le labbra come se avesse voluto parlare, e spirò.
Questo truce spettacolo mi aveva quasi fatto uscire di senno. Dal
momento che non potevo più portare soccorso a nessuno, non provai
che un solo bisogno, cioè quello di fuggire. Mi precipitai dalla
scala, cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un grido di
terrore.
Nella sala al pianterreno c’erano cinque o sei doganieri e due o tre
gendarmi. Un intero picchetto di uomini armati. Mi presero e non
tentai nemmeno di fare resistenza, non ero più padrone dei miei
nervi. Tentai di parlare e non emisi che qualche grido inarticolato;
vidi che i doganieri e i gendarmi mi indicavano con il dito, mi
guardai, e m’accorsi che ero tutto sporco di sangue. Quella pioggia
tiepida che avevo sentito cadermi addosso dalle fenditure dei
gradini della scala, era il sangue di Carconta.
Mostrai col dito il luogo dov’ero nascosto.
“Che vuoi dire?” domandò un gendarme.
Un doganiere andò a vedere.
“Vuol dire ch’è passato di là”, rispose.
E mostrò l’apertura per la quale effettivamente ero passato. Allora
capii che ero stato scambiato per l’assassino. Ricuperai la voce, e
ritrovai la forza; mi sciolsi dalle mani dei due uomini che mi
tenevano gridando: “Non sono stato io! Non sono stato io!”
Due gendarmi mi tenevano sotto tiro con le carabine.
“Se ti muovi”, mi dissero, “sei morto!”
“Ma vi ripeto che non sono stato io”, gridai.
“Racconterai la tua storiella ai giudici di Nîmes”, dissero.
“Intanto vieni con noi; e se vuoi un buon consiglio, non fare
resistenza.”
Non era la mia intenzione: ero spossato dalla sorpresa e dal
terrore. Mi furono messe le manette, fui attaccato alla coda di un
cavallo e fui condotto a Nîmes.
Ero stato seguito da un doganiere che mi aveva perso di vista nelle
vicinanze della casa, e pensando che vi avrei passato tutta la
notte, era andato ad avvisare i compagni, che giunsero in tempo per
sentire da lontano il colpo di pistola, e per cogliere me in mezzo a
tante prove di colpevolezza.
Capii quanto sarebbe stato difficile far capire la mia innocenza.
Non avevo che un’unica possibilità; e la prima domanda che feci al
giudice istruttore fu una preghiera: che fosse cercato un certo
abate Busoni, in quel giorno fermatosi all’albergo del Ponte di
Gard. Se Caderousse aveva inventato una storia, se quest’abate non
esisteva, ero evidentemente perduto, a meno che Caderousse non
venisse arrestato e confessasse tutto.
Passarono due mesi, durante i quali, debbo dirlo a lode dei miei
giudici, furono fatte tutte le ricerche possibili per ritrovare
l’abate. Avevo perso ogni speranza; Caderousse non era stato
arrestato. Ero prossimo a essere giudicato nella prima seduta,
allorché l’8 settembre, cioè tre mesi e cinque giorni dopo il fatto,
l’abate Busoni, sul quale non speravo più, si presentò alle carceri,
dicendo che sapeva che un prigioniero desiderava parlargli. Aveva
saputo la cosa a Marsiglia, e si ero affrettato ad accorrere.
Capirete con quale gioia lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di
cui ero stato testimone: cominciai con esitazione la storia del
diamante. Contro ogni mia aspettativa, era vera in ogni passaggio, e
di nuovo contro ogni mia aspettativa egli mostrò di credere a tutto
ciò che gli dissi.
Allora convinto dalla sua dolce carità, ravvisando in lui una
profonda conoscenza dei costumi del mio Paese, e pensando che il
perdono del solo delitto che avevo commesso nella mia vita forse
sarebbe venuto dalle sue labbra tanto caritatevoli, gli raccontai,
sotto il sigillo della confessione, l’avventura di Auteuil in tutti
i suoi particolari.
La confessione di questo primo assassinio, che niente mi costringeva
a confessare, gli provò ch’io non avevo commesso il secondo: mi
lasciò, dicendomi di sperare e promettendomi di fare ciò che sarebbe
stato in suo potere per convincere i giudici della mia innocenza.
Ebbi infatti la prova ch’egli si era occupato di me, quando vidi
addolcirsi i trattamenti che ricevevo nella mia prigione, e seppi
che il giudizio veniva differito a una seduta futura.
In quest’intervallo la Provvidenza volle che Caderousse fosse
arrestato all’estero e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto,
dando alla moglie la colpa della premeditazione, e in particolare
dell’istigazione, e fu condannato alla galera a vita. Io fui rimesso
in libertà.»
«E fu allora», disse Montecristo, «che vi presentaste a me con la
lettera dell’abate Busoni.»
«Sì, Eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interesse.
«“Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà”», mi disse. «”Se
voi uscite di qui, lasciatelo.”»
«“Ma, padre”», gli chiesi, «“come volete che faccia a vivere e a far
vivere la mia povera cognata?”»
«“Un mio penitente”», disse, «“che ha stima di me, mi ha incaricato
di trovargli un uomo di fiducia. Volete essere quest’uomo? Vi
raccomanderò a lui!”»
«“Oh, Padre!”», gridai. «“Quanta bontà!”»
«“Ma mi promettete che non me ne pentirò?”»
Tesi la mano per fare il mio giuramento.
«“È inutile”, diss’egli, “conosco e amo i corsi: ecco la mia
raccomandazione.”»
E scrisse le poche righe che vi portai, e per le quali Vostra
Eccellenza ebbe la bontà di prendermi al suo servizio. Ora domando
con orgoglio a Vostra Eccellenza: ha mai dovuto lamentarsi di me?»
«No», rispose il conte, «e lo dico con piacere, siete un buon
servitore sebbene manchiate di fiducia in me.»
«Io, signor conte?»
«Sì, voi. Come, avete una cognata e un figlio adottivo, e non mi
avete mai parlato di loro?»
«Ahimè, Eccellenza, questo è quanto mi rimane da dirvi, ed è la
parte più triste della mia vita…
Partii per la Corsica: avevo fretta, come potrete bene immaginare,
d’andare a consolare quella ch’io chiamavo mia sorella, ma quando
giunsi a Rogliano trovai la casa in lutto. Era accaduta una cosa
orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria! La mia
povera cognata, secondo quanto le avevo consigliato, non cedette più
alle pretese di Benedetto, che voleva sempre denaro. Una mattina
egli la minacciò, e poi sparì per tutto il giorno. Lei pianse. La
povera Assunta aveva per il miserabile una tenerezza materna. Giunse
la sera, e lo aspettò senza andare a letto. Alle undici entrò con
due dei suoi amici, compagni di tutte le sue follie. Lei gli tese le
braccia, ma quelli s’impadronirono di lei, e uno dei tre (io temo
sia stato quel diabolico ragazzo) gridò: “Torturiamola, bisognerà
bene che confessi dove tiene nascosto il suo denaro.”
Il vicino Wasilio era a Bastia, e a casa c’era solo sua moglie.
Nessuno, tranne lei, poteva vedere o sentire ciò che accadeva in
casa mia. Due di loro tenevano ferma la povera Assunta, che, non
potendo credere a quanto le stava accadendo, sorrideva ai carnefici,
il terzo andò a barricare la porta e le finestre. Quando tornò,
tutti e tre riuniti, soffocando le grida che il terrore le
strappava, avvicinarono i piedi di Assunta a un braciere. Ma nella
lotta il fuoco si appiccò alle vesti: lasciarono allora la poveretta
per non essere bruciati anch’essi. Fra le fiamme ella corse alla
porta, ma era chiusa, si slanciò verso le finestre ma erano
barricate. Allora la vicina udì delle grida orribili: era Assunta
che chiamava aiuto.
Ben presto la sua voce si affievolì, e le grida divennero gemiti.
L’indomani, dopo una notte di terrore e d’angoscia, quando la moglie
di Wasilio osò uscire di casa, fece aprire la porta dal giudice: fu
ritrovata la povera Assunta per metà bruciata, ma che respirava
ancora, gli armadi forzati, e il piccolo tesoro sparito. Benedetto
aveva lasciato Rogliano per non tornarvi più, e da quel giorno non
l’ho più visto, né ho sentito parlare di lui.
Dopo queste tristi notizie, venni da Vostra Eccellenza. Non potevo
più parlarvi di Benedetto, perché era sparito, né di Assunta perché
era morta.»
«E che avete pensato di ciò?» domandò Montecristo.
«Che quello era stato il castigo per il delitto che io avevo
commesso», rispose Bertuccio. «Ah, questi Villefort sono una razza
maledetta!»
«Lo penso anch’io», mormorò il conte in tono lugubre.
«E ora», riprese Bertuccio, «Vostra Eccellenza comprenderà che
questa casa, che da allora non avevo più visto, che questo giardino
dove mi sono ritrovato d’improvviso, che questo luogo dove ho
ammazzato un uomo, mi hanno procurato quelle forti emozioni delle
quali ha voluto conoscere l’origine. Inoltre non sono certo che
davanti a me, là ai miei piedi, Villefort non sia stato sepolto
nella fossa ch’egli aveva scavata per suo figlio.»
«Infatti, tutto è possibile», disse Montecristo, alzandosi dalla
panchina su cui era seduto, «e anche», aggiunse a bassa voce, «che
il procuratore del re non sia morto. L’abate Busoni ha fatto bene a
indirizzarvi a me. E voi avete fatto bene a raccontarmi la vostra
storia; perché non avrò più sospetti nei vostri confronti. In quanto
a Benedetto, non avete mai cercato di sapere ciò che ne sia
avvenuto?»
«No, mai. Se avessi saputo dov’era, invece d’andare da lui, sarei
fuggito come davanti a un mostro. No, fortunatamente, non ne ho mai
sentito parlare da chicchessia; e spero che sia morto.»
«Non lo sperate, Bertuccio», replicò il conte. «I cattivi non
muoiono così, sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per
farne gli strumenti della sua giustizia.»
«Sia pure», disse Bertuccio. «Tutto ciò però che io domando al cielo
è che non lo debba mai rivedere. Ora», continuò l’intendente
abbassando la testa, «voi sapete tutto, signor conte, siete il mio
giudice quaggiù… Volete dirmi qualche parola di consolazione?»
«Infatti, avete ragione, e io posso dirvi ciò che vi direbbe l’abate
Busoni. Colui che avete colpito meritava un castigo per ciò che
aveva fatto a voi, e fors’anche a qualche altro. Benedetto, se è
vivo, servirà forse da qualche strumento divino, poi a sua volta
sarà punito. In quanto a voi, non avete più rimproveri da farvi.
Chiedetevi piuttosto perché, avendo salvato questo bimbo dalla
morte, non lo rendeste a sua madre: qui sta il delitto, Bertuccio.»
«Sì, signore, quello è il mio delitto, il vero delitto, perché in
questo sono stato un vile. Una volta richiamato alla vita il
bambino, non avevo che una sola cosa da fare, voi lo diceste: farlo
sapere a sua madre. Ma avrei dovuto fare delle ricerche, attirare
l’attenzione, e forse scoprirmi. Non volevo morire, ero attaccato
alla vita per il sostentamento di mia cognata, per l’amore per me
stesso, innato in ciascuno di noi, per rimaner sano e libero nelle
mie vendette, infine ero attaccato alla vita anche per l’amore
stesso della vita. Oh, non sono un brav’uomo come lo era mio
fratello!»
E Bertuccio si nascose il viso fra le mani. Montecristo fissò su di
lui un lungo e indefinibile sguardo.
Dopo un momento di silenzio, reso ancora più solenne dall’ora e dal
luogo, il conte disse: «Per terminare degnamente questa
conversazione, che sarà l’ultima su tali avventure, Bertuccio,
ricordate bene le mie parole, le ho spesso udite pronunciare dallo
stesso abate Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e
il silenzio. Ora, Bertuccio, lasciatemi passeggiare un momento in
questo giardino. Ciò che rammenta a voi un’emozione ripugnante, come
attore di quell’orribile scena, darà a me sensazioni quasi
piacevoli, come se raddoppiassero il valore di questa proprietà. Gli
alberi non piacciono se non perché danno l’ombra, e l’ombra stessa
non piace se non perché è piena di sogni e di visioni. Ecco che
compro un giardino, credendo d’acquistare un semplice recinto
circondato da muri, e d’improvviso si cambia in un giardino pieno di
fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi, e non ho
mai sentito dire che i morti abbiano in seimila anni fatto tanto
male, quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque,
Bertuccio, e andate a dormire in pace».
Bertuccio s’inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò
sospirando.
Montecristo rimase solo; e facendo quattro passi in avanti, mormorò:
«Qui, vicino a questa pianta, la fossa in cui fu deposto il bambino;
laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino: in
quest’angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto.
Credo di non aver bisogno di riportare tutto quanto nel mio
taccuino, perché ecco qua, davanti ai miei occhi, intorno a me,
sotto i miei piedi, il piano in rilievo, il piano vivente».
E il conte, dopo un ultimo giro in quel giardino, andò a raggiungere
la sua carrozza. Bertuccio, che lo vide assorto, si sedette con il
cocchiere. La carrozza riprese la strada di Parigi. La sera stessa,
al suo ritorno nella casa degli Champs-Elysées, il conte di
Montecristo visitò tutta la villa come avrebbe potuto fare un uomo a
cui fosse stata famigliare da molti anni.
Alì lo accompagnava in questa visita notturna. Il conte dette a
Bertuccio molti ordini per l’abbellimento e la nuova distribuzione
degli appartamenti. Poi prendendo l’orologio disse all’attento
nubiano: «Sono le undici e mezzo. Haydée non può tardare ad
arrivare. Sono state avvertite le cameriere francesi?»
Alì tese la mano verso l’appartamento destinato alla bella greca
(talmente isolato che, nascondendo la porta dietro la tappezzeria,
la casa poteva essere visitata per intero senza che alcuno potesse
sospettare esservi un altro salotto e due camere abitate), mostrò il
numero tre con la mano sinistra, e su questa mano, appoggiò la
testa, e chiuse gli occhi come se dormisse.
«Ah», fece Montecristo, abituato a quel linguaggio, «tre aspettano
nella camera da letto, non è così?»
«Sì», fece Alì, agitando la testa.
«La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire»,
continuò Montecristo, «che nessuno la faccia parlare. Le cameriere
francesi devono soltanto salutare la loro nuova padrona e ritirarsi
e voi sorveglierete perché la cameriera greca non parli con le
francesi.»
Alì s’inchinò.
Ben presto si sentì chiamare il portinaio; il cancello s’aprì, una
carrozza percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata. Il
conte scese: lo sportello era già aperto, egli tese la mano a una
giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che la
copriva tutta, anche la testa. Allora, preceduta da Alì che teneva
una torcia dal profumo di rose, la giovane fu condotta al suo
appartamento, quindi il conte si ritirò nel padiglione che si era
riservato.
Mezz’ora dopo mezzanotte tutti i lumi erano spenti nella casa, e si
sarebbe potuto credere che tutti dormissero.
45. Il credito illimitato
Il giorno dopo, verso le due del pomeriggio, un elegante calesse
trainato da due splendidi cavalli inglesi si fermò davanti alla
porta di Montecristo. Un uomo vestito con un abito turchino, con
bottoni di seta dello stesso colore, un corpetto bianco sormontato
da un’enorme catena d’oro, pantaloni neri, capelli neri che
scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano
poco in armonia con le rughe sparse; un uomo infine di
cinquanta-cinquantacinque anni, e che cercava di dimostrarne
quaranta, sporse la testa dal finestrino della carrozza, che recava
sullo sportello una corona di barone, e mandò lo staffiere a
domandare al portinaio se il conte di Montecristo fosse in casa.
Mentre attendeva, quest’uomo osservava con attenzione minuta, fin
impertinente, l’esterno della casa, per quanto poteva distinguersi
dal giardino, e la livrea di quei domestici che vedevano andare e
venire. Lo sguardo di quest’uomo era vivace, ma più furbo che
spiritoso. Le labbra erano così sottili che, invece di sporgere in
fuori, si ripiegavano in dentro. La larghezza e la protuberanza
degli zigomi, segno infallibile d’astuzia, la fronte incavata, il
rigonfiamento dell’occipite che sormontava un paio d’orecchie non
certo aristocratiche, contribuivano a conferire un aspetto
spiacevole alla fisionomia di questo personaggio, che si imponeva
agli occhi del volgo per i suoi magnifici cavalli, per l’enorme
diamante che portava alla camicia, e per il nastro rosso da un capo
all’altro della bottoniera dell’abito.
Lo staffiere bussò alla vetrata del portinaio, domandando: «È qui
che abita il conte di Montecristo?»
«Qui abita Sua Eccellenza», rispose il portinaio, «ma…»
E consultò con lo sguardo Alì, che fece un segno negativo.
«Ma?» domandò lo staffiere.
«Sua Eccellenza non può ricevere», rispose il portinaio.
«In questo caso, ecco il biglietto da visita del mio padrone, il
barone Danglars… Lo consegnerete al conte di Montecristo e gli
direte che andando alla Camera, il mio padrone è passato di qui per
aver l’onore di vederlo.»
«Io non parlo a Sua Eccellenza», rispose il portinaio, «però il
cameriere farà l’ambasciata.»
Lo staffiere ritornò alla carrozza.
«Ebbene?» domandò Danglars.
Il ragazzo, abbastanza imbarazzato per la lezione ricevuta, ripeté
al padrone la risposta del portinaio.
«Oh», fece questi, «è dunque un principe questo signore che viene
chiamato Eccellenza, e a cui solo il cameriere ha il diritto di
parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, lo vedrò
certamente, quando avrà bisogno di denaro.»
E Danglars si ritrasse nel fondo della carrozza, gridando al
cocchiere, in modo che si sarebbe sentito dall’altra parte della
strada: «Alla Camera dei deputati!»
Da una persiana dell’appartamento, Montecristo, avvisato in tempo,
aveva visto il barone, e lo aveva osservato, con l’aiuto di un
eccellente occhialino, con non minore attenzione di quella che
Danglars aveva messo ad analizzare la casa, il giardino, e le
livree.
«Davvero», disse con un gesto di disgusto e facendo rientrare le
lenti dell’occhialino nel loro manico d’avorio, «davvero quest’uomo
è una creatura laida. Come mai, dalla prima volta che lo vedono, non
riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata, l’avvoltoio dal
cranio rotondeggiante, lo sparviero dal becco acuto?»
«Alì», gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame.
Alì comparve.
«Chiamate Bertuccio», disse il conte.
Nello stesso momento entrò Bertuccio.
«Forse Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?» domandò
l’intendente.
«Sì, signore», rispose il conte. «Avete visto i cavalli che si sono
fermati davanti alla mia porta?»
«Certamente, Eccellenza, sono molto belli.»
«E com’è dunque», riprese Montecristo aggrottando il sopracciglio,
«che mentre ho ordinato i due più bei cavalli esistenti a Parigi, vi
siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli dei miei?»
All’aggrottarsi delle sopracciglia, e al tono severo di quella voce,
Alì abbassò la testa e impallidì.
«Non è colpa tua, buon Alì», disse in arabo il conte con una
dolcezza che non si sarebbe sospettato né nella sua voce, né sul suo
viso. «Tu non t’intendi di cavalli inglesi.»
I lineamenti d’Alì si rasserenarono.
«Signor conte», disse Bertuccio, «i cavalli di cui mi parlate non
erano in vendita.»
Montecristo si strinse nelle spalle.
«Sappiate, signor intendente», disse, «che tutto è in vendita per
chi sa fissare il prezzo.»
«Il signor Danglars li ha pagati sedicimila franchi, signor conte.»
«Ebbene, bisognava offrirgliene trentaduemila… Egli è un banchiere,
e un banchiere non si lascia mai sfuggire l’occasione di raddoppiare
il suo capitale.»
«Il signor conte parla sul serio?» domandò Bertuccio.
Montecristo guardò l’intendente stupito che avesse osato fargli una
simile domanda.
«Questa sera», disse, «ho una visita da restituire. Voglio che quei
cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi.»
Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò: «A che
ora», chiese, «Vostra Eccellenza conta di fare la visita?»
«Alle cinque», rispose Montecristo. Poi rivolgendosi ad Alì: «Fate
passare tutti i cavalli davanti alla signora», disse, «e che lei
scelga la pariglia che più le piace; e mi faccia sapere se vuole
pranzare con me, in questo caso sia apparecchiato nell’appartamento
di lei. Andate, e scendendo mandatemi il cameriere.»
Non appena uscito Alì, entrò il cameriere.
«Battistino», disse il conte, «è ormai un anno che voi siete al mio
servizio: questo è l’apprendistato che di solito fisso alla mia
servitù: sono contento di voi.»
Battistino s’inchinò.
«Resta ora da sapere se voi siete contento di me.»
«Oh, signor conte!» si affrettò a dire Battistino.
«Ascoltatemi sino alla fine», riprese il conte. «Voi ricevete
millecinquecento franchi l’anno di salario, vale a dire la paga di
un bravo ufficiale che rischia la sua vita tutti i giorni; avete un
impiego che molti capiufficio, servitori disgraziati, infinitamente
più occupati di voi, vi invidierebbero. Domestico, voi stesso avete
dei domestici che hanno cura della vostra biancheria e dei vostri
effetti. Oltre a millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate,
negli acquisti del mio vestiario, circa altri millecinquecento
franchi ogni anno.»
«Eccellenza!»
«Io non me ne lamento, Battistino, è cosa naturale; però desidererei
che la cosa si limitasse qui. Voi dunque non ritrovereste un posto
simile a quel che vi ha dato la buona fortuna. Io non percuoto mai
la mia servitù, non bestemmio mai, non mento mai, non vado mai in
collera, perdono sempre uno sbaglio, non mai però una negligenza, o
una dimenticanza. I miei ordini sono in genere brevi, ma chiari e
precisi; preferisco ripeterli due e anche tre volte, che vederli
male interpretati. Sono abbastanza ricco di esperienze, e sono
curiosissimo, vi avverto. Se io sapessi dunque che voi aveste
parlato di me nel bene o nel male, che avete fatto dei commenti
sulle mie azioni, sorvegliato la mia condotta, uscireste
immediatamente da casa mia: io non avverto un servitore che una sola
volta. Ora siete avvertito. Andate!»
Battistino s’inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi.
«A proposito», riprese il conte, «dimenticavo di dirvi che ogni anno
metto a frutto un certo capitale a beneficio dei miei domestici.
Quelli che licenzio dal mio servizio perdono necessariamente questa
somma, che va a vantaggio di quelli che rimangono, e della quale
godranno il possesso dopo la mia morte. È passato un anno da che
siete al mio servizio, e il vostro capitale è già intestato a voi;
sappiatelo accumulare.»
Questo discorso, fatto davanti ad Alì che rimaneva impassibile,
poiché non capiva una parola di francese, produsse su Battistino un
effetto intuibile da tutti coloro che conoscono l’indole del
domestico francese.
«Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà di Vostra
Eccellenza», diss’egli, «e per far meglio, seguirò l’esempio di
Alì.»
«Oh, nient’affatto», disse il conte con una freddezza di marmo.
«Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate
dunque su di lui. Poi egli è un’eccezione: non ha stipendio, non è
un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo
dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!»
Battistino sbarrò gli occhi.
«Voi ne dubitate?» domandò Montecristo.
E ripeté in arabo ad Alì le stesse parole che aveva detto in
francese a Battistino.
Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a
terra e gli baciò rispettosamente la mano. Questo piccolo corollario
alla lezione portò al massimo lo stupore di Battistino, cui il conte
fece segno di ritirarsi, mentre ordinava ad Alì di seguirlo.
Entrambi passarono nel suo studio, e là si trattennero a lungo.
Alle cinque il conte batté tre colpi sul campanello. Un colpo
chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio.
L’intendente entrò.
«I miei cavalli!» disse Montecristo.
«Sono attaccati alla carrozza, Eccellenza», rispose Bertuccio. «Devo
accompagnare Vostra Eccellenza?»
«No, soltanto il cocchiere, Battistino, e Alì.»
Il conte scese e vide attaccati alla carrozza i cavalli che la
mattina aveva ammirato alla carrozza di Danglars. Passandogli vicino
vi gettò un’occhiata.
«Sono belli!» diss’egli. «E voi avete fatto bene a comprarli, solo
lo avete fatto un po’ tardi.»
«Ho fatto molta fatica ad averli, e sono costati un po’ cari.»
«Non per questo i cavalli sono meno belli», disse il conte,
stringendosi nelle spalle.
«Se Vostra Eccellenza è soddisfatta», disse Bertuccio, «tutto va
bene… Dove va Vostra Eccellenza?»
«Rue Chaussée d’Antin, dal barone Danglars.»
Questa conversazione si faceva in cima alla scalinata. Bertuccio
fece un passo per scendere il primo scalino.
«Aspettate, signore», disse Montecristo, «ho bisogno di una terreno
in Normandia sulla riva del mare, per esempio fra Le Havre e
Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in
questo luogo vi fosse un piccolo porto, una piccola insenatura, una
piccola baia, dove potesse entrare e uscire la mia corvetta; essa
non pesca che quindici piedi d’acqua. La barca sarà sempre in ordine
per partire alla vela, a qualunque ora del giorno e della notte. Voi
v’informerete da tutti i notai di una proprietà che abbia i pregi
che vi ho detto. Quando l’avrete trovata, andrete a visitarla, e se
rimarrete contento la comprerete a vostro nome. La corvetta è in
viaggio per Fécamp, non è vero?»
«La sera stessa che noi abbiamo lasciato Marsiglia, la vidi
salpare.»
«E lo yacht?»
«Lo yacht ha l’ordine di restare a Martigues.»
«Va bene. Vi metterete in contatto di tanto in tanto con i due
padroni comandanti, perché non si addormentino.»
«E per il battello a vapore?»
«Non è a Chalons?»
«Sì.»
«Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela.»
«Bene!»
«Appena comprata questa proprietà, mi fisserete dei cambi di cavalli
di dieci leghe tanto sulla strada del nord, che su quella verso
sud.»
«Vostra Eccellenza può fidarsi di me.»
Il conte fece un cenno di soddisfazione, scese i gradini, e saltò
nella carrozza, che trascinata al trotto dalla magnifica pariglia
non si fermò che alla porta del banchiere. Danglars presiedeva una
commissione nominata per una ferrovia quando vennero ad annunciargli
la visita del conte di Montecristo. La seduta del resto era quasi
finita.
Al nome del conte egli si alzò.
«Signori», disse ai colleghi, fra i quali molti onorevoli membri
dell’una e dell’altra Camera, «perdonatemi se vi lascio così… Ma la
casa Thomson e French di Roma m’invia un certo conte di Montecristo
aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è lo scherzo
più insolito che i miei corrispondenti all’estero si siano permessi
con me. Lo capirete bene, sono preso e trattenuto dalla più grande
curiosità. Questa mattina sono passato da questo preteso conte. Se
fosse un vero conte, capirete bene che non sarebbe così ricco.
Ebbene il signore non riceveva. Che ve ne pare? Queste maniere che
si permette il nostro Montecristo, non sono più adatte a qualche
principe o a qualche bella donna? D’altra parte la casa agli
Champs-Elysées, che è sua, mi ne sono informato, gli deve essere
costata un patrimonio… Ma un credito illimitato», riprese Danglars,
ridendo grossolanamente, «rende molto esigente il banchiere sul
quale viene aperto. Ho dunque fretta di vedere il nostro uomo. Credo
di essere stato raggirato. Ma quelli laggiù non sanno con chi hanno
a che fare: riderà bene chi riderà ultimo…»
Terminando con queste parole, e dandogli un’enfasi che gli gonfiò le
narici, lasciò i suoi ospiti, e passò in un salone bianco e oro che
aveva suscitato molta ammirazione nella Chaussée d’Antin. Aveva
ordinato che il visitatore fosse introdotto là per abbagliarlo al
primo colpo.
Il conte era in piedi, e stava osservando alcune copie dell’Albano e
del Fattori vendute per originali al banchiere, e che, per quanto
fossero copie, spiccavano molto sugli arabeschi d’oro e sui i colori
che adornavano il soffitto. Al rumore che Danglars fece entrando, il
conte si volse. Danglars fece un leggero cenno con la testa,
indicando con la mano al conte di sedersi su una sedia di legno
dorata, con cuscini di seta bianca broccata in oro.
Il conte si accomodò.
«Ho l’onore di parlare al signor di Montecristo?»
«E io», rispose il conte, «al barone Danglars, cavaliere della
Legion d’Onore, membro della Camera dei deputati?»
Montecristo ridiceva tutti i titoli che aveva letto sul biglietto da
visita del barone.
Danglars incassò il colpo e si morse le labbra.
«Scusatemi, signore», disse, «di non avervi chiamato subito con
titolo sotto il quale mi siete stato annunciato, ma voi lo sapete,
noi viviamo sotto un governo democratico…»
«Di modo che», rispose Montecristo, «conservando l’abitudine di
farvi chiamare barone, avete perduto quella di chiamare gli altri
conte.»
«Non ci faccio caso neppure per me», replicò noncurante Danglars.
«Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legion d’Onore per servizi
resi, ma…»
«Ma voi avete abdicato ai titoli, come in altro tempo hanno fatto
Montmorency e La Fayette? Questo è un bell’esempio da seguire,
signore.»
«Però non del tutto», riprese Danglars impacciato, «per i domestici,
capirete…»
«Sì, voi siete barone per la servitù, e cittadino per i giornalisti,
e per i vostri clienti.»
Danglars si morse le labbra. Vide che su quel terreno non aveva le
capacità di Montecristo, perciò cercò un terreno più familiare.
«Signor conte», disse inchinandosi, «ho ricevuto una lettera
d’avviso della casa Thomson e French.»
«Ne sono lieto, signor barone. Permettetemi di trattarvi come la
vostra servitù; è una cattiva abitudine presa nei Paesi dove ci sono
ancora dei baroni, proprio perché non se ne fanno di nuovi. Ne sono
lieto, dicevo, perché così non avrò bisogno di presentarmi io
stesso, la qual cosa è sempre imbarazzante. Voi dunque avete
ricevuto una lettera di credito?»
«Sì», rispose Danglars, «ma vi confesso che non ne ho capito bene il
significato.»
«Bah!»
«E anzi ero passato da voi per chiedervi un chiarimento.»
«Fatelo, signore, eccomi, io ascolto, e sono pronto a rispondervi.»
«Questa lettera», rispose Danglars, «credo d’averla con me.»
Si frugò nelle tasche.
«Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un
credito illimitato sulla mia casa.»
«Ebbene, signor barone, che vi trovate d’oscuro?»
«Niente, signore, fuorché la parola illimitato…»
«Ebbene, questa parola non è forse francese? È comprensibile: sono
anglosassoni che scrivono.»
«Oh via, signore, sulla sintassi non c’è niente da ridire, ma non è
così per la contabilità.»
«Perché, la casa Thomson e French», chiese Montecristo con l’aria
più ingenua a questo mondo, «non è, secondo voi, abbastanza sicura,
signor barone? Mi spiacerebbe, perché vi ho depositato alcuni
capitali.»
«Perfettamente sicura», rispose Danglars con un sorriso quasi
beffardo, «ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto
vaga che…»
«Che è illimitata, non è vero», disse Montecristo.
«Proprio questo volevo dire. Ciò che è vago è dubbio, e il saggio
dice: astieniti dal dubbio.»
«Il che è quanto dire», replicò Montecristo, «che se la casa Thomson
e French è disposta a fare delle pazzie, la casa Danglars non è
disposta a seguirne l’esempio.»
«Cosa significa, signor conte?»
«Indubbiamente Thomson e French concludono affari senza limiti di
cifre, ma il signor Danglars dà un limite alle sue; è un uomo
saggio, come si vantava poco fa.»
«Signore», ribatté orgogliosamente il banchiere, «nessuno ha mai
fatto i conti nella mia cassa.»
«Allora», riprese freddamente Montecristo, «sembra che sarò io a
cominciare.»
«E chi vi ha detto questo?»
«Le spiegazioni che voi mi chiedete, e che somigliano molto
all’esitazione.»
Danglars si morse le labbra; era la seconda volta che veniva battuto
da quest’uomo, e questa volta su un terreno che era il suo. La sua
ironica cortesia non era che apparente e sfiorava l’impertinenza.
Montecristo, al contrario, sorrideva amabilmente, e quando voleva,
possedeva una certa aria di leggerezza che gli dava molti vantaggi.
«Insomma, signore», disse Danglars dopo un momento di silenzio,
«cercherò di farmi capire, pregandovi di fissare voi stesso la somma
che contate di riscuotere da me.»
«Ma signore», replicò Montecristo, risoluto a non perdere un pollice
di terreno nella discussione, «se ho chiesto un credito illimitato
su di voi, è stato esattamente perché non sapevo di quale somma
potevo aver bisogno.»
Il banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il
sopravvento; si rovesciò sulla poltrona, e con un grossolano e
orgoglioso sorriso: «Oh, signore, non abbiate alcun timore nel
chiedere… State sicuro che le somme della casa Danglars, per quanto
limitate, possono soddisfare le più grandi esigenze, e potreste
anche chiedere un milione…»
«Sarebbe a dire?» disse Montecristo.
«Dico un milione», disse Danglars con spavalderia.
«E a che mi servirebbe un milione?» ribatté il conte. «Buon Dio,
signore, se avessi avuto bisogno di un unico milione, non mi sarei
fatto aprire un credito su di voi per una simile miseria. Un
milione! Ma ho sempre un milione nel mio portafogli, nella mia borsa
da viaggio.»
E Montecristo estrasse dal piccolo taccuino, in cui teneva i
biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l’uno,
pagabili dal tesoro al portatore. Un uomo come Danglars doveva
essere atterrato, non punto. Il colpo fece il suo effetto: il
banchiere vacillò, ebbe una vertigine, spalancò su Montecristo due
occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura.
«Via, confessate», continuò Montecristo, «che diffidate della casa
Thomson e French. Mio Dio, la cosa è semplicissima. Io però l’avevo
previsto, e sebbene estraneo agli affari, ho preso le mie misure.
Ecco dunque due altre lettere simili a quella che avete ricevuto:
una è della casa Arnstein ed Eskeles di Vienna per il signor barone
Rothschild, l’altra è della casa Baring di Londra per il Laffitte.
Una vostra parola, signore, e io vi toglierò qualunque
preoccupazione, presentandomi all’una o all’altra di queste due
case.»
Era finita: Danglars era vinto. Egli aprì con visibile tremore la
lettera di Vienna e quella di Londra che gli venivano presentate
sulla punta delle dita dal conte, verificò l’autenticità delle
firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato un insulto per
Montecristo, senza la confusione del banchiere.
«Oh, signore, ecco tre firme che valgono bene dei milioni», disse
Danglars alzandosi, come per salutare la potenza dell’oro
personificata nell’uomo che aveva davanti. «Tre crediti illimitati
sulle nostre tre prime case! Perdonatemi, signor conte, ma passo
dalla diffidenza alla meraviglia.»
«Non sarà certo una casa come la vostra quella che si meraviglia di
ciò!» disse Montecristo con tutta cortesia. «Dunque mi manderete un
po’ di denaro, non è vero?»
«Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini.»
«Ebbene, ora che c’intendiamo… Perché già c’intendiamo, non vero?»
Danglars fece un segno affermativo con la testa.
«E non avrete più diffidenza?» continuò Montecristo.
«Non ne ho mai avuta», disse il banchiere.
«No, desideravate una prova, ecco tutto. Ebbene», ripeté il conte,
«ora che c’intendiamo, ora che non avete più alcuna diffidenza,
fissiamo, se volete, una somma per il primo anno… sei milioni, per
esempio.»
«Sei milioni, sia!» rispose Danglars con voce soffocata.
«Se mi occorrerà di più», disse Montecristo con noncuranza,
«metteremo di più; ma penso di restare solo un anno in Francia, e
non credo d’oltrepassare questa somma… però vedremo… Per cominciare,
fatemi portare domani trecentomila franchi. Sarò in casa fino a
mezzogiorno, se non vi sarò lascerò la ricevuta al mio intendente.»
«Il denaro sarà in casa vostra domattina alle dieci, signor conte»,
rispose Danglars. «Volete oro, argento, o biglietti di banca?»
«Metà oro, e metà biglietti, per favore.»
E il conte si alzò.
«Debbo confessarvi una cosa», disse Danglars a sua volta, «io
credevo di avere delle informazioni esatte su tutte le belle fortune
d’Europa, e tuttavia la vostra, che mi sembra considerevole, mi era,
ve lo confesso, del tutto sconosciuta. È recente?»
«No, signore», rispose Montecristo, «al contrario è di vecchia data.
Era una specie di tesoro di famiglia che era proibito toccare, e i
cui interessi accumulandosi hanno triplicato il capitale: l’epoca
fissata dal testatore è scaduta da pochi anni soltanto, e non è che
da pochi anni che ce l’ho a disposizione. La vostra ignoranza su
questo argomento è naturale; del resto la conoscerete meglio fra
qualche tempo.»
E il conte accompagnò queste parole con uno di quei sorrisi
sibillini che facevano tanta paura a Franz d’Epinay.
«Con i vostri gusti e con le vostre intenzioni, signore, sfoggerete
nella nostra capitale un lusso che ci schiaccerà tutti, noi altri
poveri piccoli milionari. E ora, dato che mi sembrate un
appassionato, e quando sono entrato guardavate i miei quadri, vi
domando il permesso di farvi vedere la mia galleria: tutti quadri
antichi, tutti quadri di maestri, garantiti come tali. Io non amo i
moderni.»
«Avete ragione, perché hanno in generale un gran difetto, quello
cioè di non aver ancora avuto il tempo di diventare antichi.»
«Poi potrò mostrarvi qualche statua di Thorvaldsen, di Bartolini, di
Canova, tutti artisti stranieri, come ben sapete: io non stimo gli
artisti francesi.
«Voi avete il diritto d’essere ingiusto con loro, signore, sono
vostri compatrioti.»
«Ma tutto questo sarà per un altro giorno, quando avremo
approfondito la nostra conoscenza; oggi mi accontenterò, se lo
permettete, di presentarvi alla signora Danglars. Scusate la mia
premura, ma un cliente come voi fa quasi parte della famiglia.»
Montecristo s’inchinò come per fargli comprendere che accettava
l’onore che voleva fargli.
Danglars suonò; comparve un servitore, vestito con una livrea
sontuosa.
«La signora baronessa è in casa?» domandò Danglars.
«Sì, signor barone», rispose il domestico.
«Sola?»
«No, la signora è in compagnia.»
«Non sarà indiscreto presentarvi a degli estranei, vero, signor
conte? Non siete in incognito?»
«No», rispose sorridendo Montecristo, «non mi riconosco questo
diritto.»
«E chi c’è dalla signora? Il signor Debray?» domandò Danglars con
una bonarietà che fece sorridere Montecristo, già informato dei
trasparenti segreti della casa del banchiere.
«Il signor Debray, sì, signor barone», rispose il servitore.
Danglars fece un cenno con la testa, poi si girò verso Montecristo.
«Il signor Lucien Debray è un nostro vecchio amico, segretario del
ministro dell’Interno; in quanto a mia moglie, appartiene a
un’antica famiglia: era la signorina Servières, vedova in prime
nozze del colonnello marchese di Nargonne.»
«Non ho ancora l’onore di conoscere la signora baronessa Danglars,
ma ho già incontrato il signor Debray.»
«Davvero», si stupì Danglars, «e dove?»
«In casa del signor Morcerf.»
«Ah, voi conoscete il piccolo visconte?» disse Danglars.
«Ci siamo trovati insieme a Roma durante il carnevale.»
«Ah sì», annuì Danglars, «ho sentito dire qualcosa su un’avventura
singolare con banditi o ladri fra certe rovine: egli fu salvato
miracolosamente. Credo abbia raccontato un fatto simile a mia moglie
e a mia figlia al suo ritorno dall’Italia.»
«La signora baronessa vi aspetta», annunciò il domestico al suo
ritorno.
«Vi faccio strada», disse Danglars salutando.
«E io vi seguo», aggiunse Montecristo.
46. La pariglia grigio-pomellata
Il barone, seguito dal conte, attraversò una lunga serie
d’appartamenti notevoli per la pesante sontuosità e il fastoso
cattivo gusto. Giunse quindi fino al salotto della signora Danglars,
una piccola stanza ottagonale tappezzata di seta color rosa,
ricoperta di mussola indiana, le poltrone di vecchio legno dorato
coperte di stoffe preziose, le sopraporte con paesaggi del Boucher,
e infine due piccoli medaglioni a pastello, in armonia con il resto
del mobilio: questa piccola stanza era il solo locale della casa che
avesse un qualche carattere. Sfuggita al piano generale stabilito
fra Danglars e il suo architetto, una delle più alte ed eminenti
celebrità dell’impero, era stata decorata direttamente dalla
baronessa Danglars e da Debray.
In tal modo il signor Danglars, grande ammiratore dell’antico nella
maniera in cui lo intendeva il direttorio, disprezzava assai
quell’ambiente civettuolo, dove del resto era ammesso soltanto
quando presentava qualcuno. Non era dunque Danglars che presentava,
era al contrario lui il presentato, ed era bene o male ricevuto a
seconda che la fisionomia del visitatore fosse gradita o sgradita
alla baronessa.
La signora Danglars, la cui bellezza poteva ancora suscitare
ammirazione nonostante i suoi trentasei anni, sedeva al pianoforte,
piccolo capolavoro d’intarsio, mentre Lucien Debray, seduto a un
tavolino da lavoro, sfogliava un album. Lucien aveva già avuto
tempo, prima dell’arrivo, di raccontare alla baronessa molte cose
relative al conte. Si sa già quanta impressione Montecristo avesse
fatto sugli invitati alla colazione di Albert. Questa sensazione non
si era ancora cancellata in Debray.
La curiosità della signora Danglars, risvegliata anche dalle
informazioni di Morcerf e da quelle recenti di Debray, era perciò al
massimo. Di conseguenza questa disposizione al pianoforte e davanti
all’album, non era che una di quelle piccole furbizie del gran
mondo, per mezzo delle quali si celano le più forti curiosità.
La baronessa ricevette Danglars con un sorriso, fatto non molto
comune; quanto al conte, ricevette, in cambio del suo saluto, una
cerimoniosa ma nello stesso tempo graziosa riverenza. Lucien, da
parte sua, scambiò col conte quasi un saluto di amicizia, e con
Danglars un gesto d’intimità.
«Signora baronessa», cominciò Danglars, «permettete che vi presenti
il signor conte di Montecristo, che mi viene indirizzato dai miei
corrispondenti di Roma con le raccomandazioni più vive. Viene a
Parigi con l’intenzione di restarvi un anno, e di spendervi sei
milioni; ciò promette una serie infinita di balli, di pranzi, di
feste nei quali voglio sperare che il signor conte non vorrà
dimenticarci, come certamente noi non lo dimenticheremo nei nostri.»
Benché la presentazione fosse composta di lodi esageratamente
sperticate – di solito, è cosa rara che un uomo venga a Parigi per
spendervi in un anno la fortuna di un principe – la signora Danglars
lanciò al conte un’occhiata non priva d’interesse.
«E siete giunto?…» domandò la baronessa.
«Ieri mattina, signora.»
«E venite, secondo la vostra abitudine a quanto mi è stato detto,
dall’altro capo del mondo…»
«Da Cadice per questa volta, puramente e semplicemente da Cadice.»
«Ah, giungete in una triste stagione… Parigi in estate è
detestabile: non vi sono più né balli, né riunioni, né feste.
L’opera italiana si è trasferita a Londra; l’opera francese si trova
dappertutto, fuorché a Parigi; e in quanto al Théâtre-Français, voi
sapete che non esiste più da nessuna parte. Non ci resta dunque per
distrarci che qualche sfortunata corsa al Champ de Mars, e a
Sartory. Farete correre cavalli, signor conte?»
«Io, signora, farò tutto ciò che si fa a Parigi», rispose
Montecristo, «se avrò la fortuna di trovare qualcuno che m’informi
convenientemente delle abitudini francesi.»
«Siete un amatore di cavalli, signor conte?»
«Ho passato una parte della mia vita in Oriente e gli orientali, voi
lo sapete, non stimano che due cose a questo mondo: la nobiltà dei
cavalli, e la bellezza delle donne.»
«Signor conte, avreste dovuto avere la galanteria di mettere le
donne al primo posto.»
«Vedete, signora, che io avevo ben ragione poco fa d’augurarmi un
precettore che mi facesse da guida nelle abitudini francesi.»
In quell’istante entrò la cameriera preferita della baronessa
Danglars, e avvicinandosi alla padrona le mormorò alcune parole
all’orecchio.
La signora impallidì.
«Impossibile», disse.
«Eppure è la verità, signora», rispose la cameriera.
La signora Danglars si volse al marito.
«È vero signore?» domandò.
«Che cosa?» chiese Danglars visibilmente agitato.
«Ciò che mi ha detto la cameriera…»
«E che cosa vi ha detto?»
«Che quando il mio cocchiere è andato ad attaccare i miei cavalli
alla carrozza, non li ha trovati in scuderia… Che significa ciò?
Voglio saperlo!»
«Signora», disse Danglars, «ascoltatemi.»
«Oh, io vi ascolto, signore, perché sono proprio curiosa di sentire
ciò che mi saprete dire. Questi signori ci faranno da giudici, e
comincerò col dire loro come stanno le cose. Signori», continuò la
baronessa, «il signor barone Danglars ha dieci cavalli in scuderia;
fra essi ve ne sono due che sono i miei grigi-pomellati. E dunque,
nel momento in cui la signora Villefort mi chiede in prestito la mia
carrozza, e io gliel’ho promessa per domani al Bois, ecco che i due
cavalli non si trovano più. Il signor Danglars avrà trovato da
guadagnarvi sopra qualche migliaio di franchi. Oh, che pessima
stirpe è quella degli speculatori.»
«Signora», rispose Danglars, «i cavalli erano troppo vivaci, avevano
appena quattro anni, e mi facevano paura, per voi.»
«Sapete bene», replicò la baronessa, «che da un mese ho al mio
servizio il miglior cocchiere di Parigi, a meno che non lo abbiate
venduto con i cavalli…»
«Amica cara, ve ne troverò degli uguali, e anche di più belli, se
sarà possibile, ma che saranno cavalli docili e quieti e non
ispireranno simili terrori.»
La baronessa si strinse nelle spalle con l’aria del più profondo
disprezzo. Danglars fece finta di non essersi accorto di quel gesto,
e volgendosi a Montecristo, disse: «A dire il vero, mi dispiace non
avervi conosciuto prima, signor conte. So che state arredando la
vostra casa…»
«Sì», disse il conte, «e cercavo anche dei cavalli…»
«Ve li avrei proposti, poiché li ho ceduti per niente, ma, come vi
dissi, volevo disfarmene, erano cavalli troppo focosi.»
«Signore», disse il conte, «vi ringrazio… Ne ho acquistati questa
mattina due molti buoni, e non a caro prezzo. Anzi guardate, signor
Debray, voi non siete un intenditore?»
Mentre Debray si avvicinava alla finestra, Danglars si accostò a sua
moglie.
«Immaginatevi, signora», disse a sottovoce, «sono venuti a offrirmi
un prezzo esorbitante per quei cavalli. Non so chi sia il pazzo
sulla via di rovinarsi che mi ha inviato questa mattina il suo
intendente, ma il fatto è che vi ho guadagnato sedicimila franchi.
Non mi rimproverate, ne darò a voi quattromila, e duemila a
Eugénie.»
La signora Danglars lasciò cadere su Danglars uno sguardo terribile.
«Oh, mio Dio!» gridò Debray.
«Che succede?» domandò la baronessa.
«Non posso sbagliarmi, quelli sono i vostri cavalli, attaccati alla
carrozza del conte.»
«I miei grigi-pomellati?» gridò la signora Danglars.
E si lanciò verso la finestra.
«Infatti sono i miei cavalli.»
Danglars era stupefatto.
«Possibile?» fece Montecristo fingendo meraviglia.
«È incredibile!» mormorò il banchiere.
La baronessa disse due parole all’orecchio di Debray, che a sua
volta si accostò al conte.
«La baronessa mi fa chiedere quanto ve li ha fatti pagare suo
marito.»
«Non lo so bene», disse il conte, «è una sorpresa che mi ha fatto il
mio intendente, e credo che mi sia costata trentamila franchi.»
Debray riportò la risposta alla baronessa. Danglars era così pallido
e così sconcertato che il conte fece mostra d’averne pietà.
«Vedete come sono ingrate le donne», disse. «Questa vostra
preoccupazione non ha commosso per nulla la baronessa. Ingrata non è
la parola adatta, dovrei dire pazza… Ma che volete farci? Si ama
sempre ciò che nuoce, per cui, credetemi, barone mio, è meglio
lasciarle far sempre di testa loro; se almeno se la rompono, devono
prendersela solo con se stesse.»
Danglars non rispose: sentiva prossima una terribile scenata. Le
sopracciglia della baronessa si erano già aggrottate, e, come quelle
di Giove Olimpico, presagivano un uragano.
Debray, sentendolo avvicinarsi, prese la scusa di un affare e si
accomiatò. Montecristo che non voleva, rimanendo più lungamente,
guastare una posizione da cui contava trarre qualche vantaggio,
salutò la signora Danglars e si ritirò, abbandonando il barone alla
collera della moglie.
«Bene», pensò Montecristo nel ritirarsi, «sono arrivato dove volevo;
ecco che tengo nelle mie mani la pace della famiglia, e che in un
colpo solo mi sono guadagnato la simpatia del signore e della
signora… Che fortuna! Ma in mezzo a tutto questo non sono stato
presentato alla signorina Eugénie Danglars, che pure avrei
desiderato molto conoscere. Ma», aggiunse con quel suo sorriso
particolare, «eccoci a Parigi, e abbiamo davanti a noi il tempo…
Tutto verrà a suo tempo.»
Con queste riflessioni, il conte salì in carrozza e rientrò a casa.
Due ore dopo la signora Danglars ricevette una graziosa lettera dal
conte di Montecristo, nella quale le diceva che, non volendo
cominciare il suo ingresso nel mondo parigino facendo disperare una
bella donna, la supplicava di riprendere i suoi cavalli. Essi
avevano gli stessi finimenti che ella aveva visto la mattina, solo
che, in ciascuna rosetta che portavano sotto l’orecchio, il conte
aveva fatto mettere un diamante.
Anche Danglars ricevette una lettera. Il conte gli chiedeva il
permesso di perdonare alla baronessa un capriccio da milionaria, e
lo pregava di scusare il modo orientale con cui aveva accompagnato
la restituzione dei cavalli.
La sera il conte partì per Auteuil, accompagnato da Alì. L’indomani
verso le tre, Alì fu chiamato da un tocco del campanello, ed entrò
nel salotto del conte.
«Alì», disse, «tu mi hai spesso accennato alla tua destrezza nel
lanciare il laccio…»
Alì fece segno di sì, e si raddrizzò con fierezza.
«Bene!… Così col laccio tu fermeresti un bue?»
Alì fece segno di sì.
«Una tigre?»
Alì fece il medesimo segno.
«Un leone?»
Alì fece il gesto dell’uomo che lancia il laccio, e imitò un ruggito
soffocato.
«Bene, capisco, tu sei stato a caccia del leone.»
Alì fece un cenno orgoglioso con la testa.
«Ma, arresteresti nella loro corsa due cavalli furibondi?»
Alì sorrise.
«Ebbene, ascolta», disse Montecristo, «fra poco passerà di qui una
carrozza trascinata da due cavalli grigi-pomellati imbizzarriti, gli
stessi che io avevo ieri. Dovessi farti schiacciare, bisogna che
fermi quella carrozza davanti alla mia porta.» Alì scese in strada,
e tracciò davanti alla porta una linea nella polvere; quindi rientrò
e mostrò la linea al conte che lo aveva seguito con gli occhi.
Il conte gli batté dolcemente sulla spalla, era il suo modo di
ringraziare Alì. Poi il nubiano andò a fumare la pipa ne punto in
cui la strada faceva angolo con la casa, mentre Montecristo si
ritirava senza più occuparsi di niente. Verso le tre, vale a dire
nell’ora in cui Montecristo aspettava la carrozza, si sarebbero
potuti notare in lui i segni quasi impercettibili di una leggera
impazienza: passeggiava in una stanza che guardava sulla strada,
tendendo a intervalli l’orecchio, e andando ogni tanto alla finestra
da dove scorgeva Alì, che mandava sbuffate di fumo a regolari
intervalli, come se fosse assorto in una fumata oziosa.
All’improvviso s’intese un rotolar lontano che si avvicinava con la
rapidità del fulmine, quindi comparve una carrozza, il cui cocchiere
tentava inutilmente di trattenere i cavalli che avanzavano furiosi,
con i peli irti, e si avventavano con impeto insensato. In essa, una
giovane signora e un ragazzo di sette otto anni, che si tenevano
abbracciati, avevano perso, per l’enorme paura, perfino la forza di
gridare.
Sarebbe bastato un sasso sulla strada, o un tronco d’albero
staccato, per far deragliare la carrozza che già scricchiolava
tenendo il centro della strada; giungevano dalla via le grida di
terrore di coloro che la vedevano arrivare.
In un baleno Alì depone la pipa, prende il laccio, lo lancia,
avvolge con triplice giro le zampe davanti del cavallo di sinistra,
si lascia trascinare per tre o quattro passi dalla violenza
dell’impulso, ma dopo questi tre o quattro passi, il cavallo
allacciato si abbatte, cade sul timone spezzandolo, paralizzando
così gli sforzi del cavallo rimasto in piedi; il cocchiere
approfitta di quel momento di respiro per buttarsi a terra, ma già
Alì ha afferrato con le sue mani di ferro il secondo cavallo, che
nitrendo di dolore si stende fremente vicino al compagno.
Per tutto non servì che il tempo necessario a una pallottola per
cogliere nel segno. Ma bastò perché un uomo della casa davanti alla
quale accadeva questo incidente si slanciasse fuori accompagnato da
molti servitori. Mentre il cocchiere apriva la portiera, egli faceva
scendere dalla carrozza la dama che con una mano era aggrappata al
cuscino, con l’altra stringeva al petto il figlio svenuto.
Montecristo li trasportò entrambi nel salone, e li fece sdraiare sul
sofà.
«Non temete più niente, signora», disse, «siete salva.»
La donna ritornò in sé, e come risposta accennò al figlio con uno
sguardo più eloquente di tutte le preghiere.
Infatti il ragazzo era sempre svenuto.
«Sì, signora, capisco», disse il conte esaminando il fanciullo, «ma
state tranquilla, non gli è accaduto alcun male, è solo la paura che
lo ha ridotto in questo stato.»
«Signore», gridò la madre, «non lo dite soltanto per
tranquillizzarmi! Vedete com’è pallido? Figlio mio, figlio mio!
Edouard! Rispondimi! Signore, mandate a cercare un medico… La mia
fortuna è di chi mi restituisce mio figlio!»
Montecristo fece un gesto per calmare la madre desolata e prese da
un bauletto una piccola bottiglia di cristallo di Boemia incrostata
d’oro, contenente un liquore rosso come il sangue, e ne lasciò
cadere una sola goccia sulle labbra del ragazzo; il quale, sebbene
sempre più pallido, riaprì subito gli occhi.
A quella vista la gioia della madre divenne quasi un delirio.
«Dove sono?» gridò. «E a chi devo tanta felicità dopo una prova così
crudele?»
«Voi siete, signora», rispose Montecristo, «in casa di un uomo
felice di avervi potuto risparmiare un dispiacere.»
«Maledetta curiosità!» disse la dama. «Tutta Parigi parla di questi
magnifici cavalli della signora Danglars, e io ho avuto la follia di
volerli sperimentare.»
«Come!» esclamò il conte con finta sorpresa. «Questi cavalli sono
quelli della baronessa Danglars?»
«Sì, signore. La conoscete?»
«La signora Danglars? Ho questo onore, e la mia gioia è doppia nel
vedervi salva dal pericolo che vi hanno fatto correre questi cavalli
perché avreste potuto darmene la colpa: avevo acquistati questi
cavalli dal barone, ma la baronessa mi parve talmente triste, che
glieli rimandai ieri, pregandola di volerli accettare dalle mie
mani.»
«Ma allora siete il conte di Montecristo di cui mi ha tanto parlato
ieri Hermine?»
«Sì, signora», disse il conte.
«E io, signore, Héloïse Villefort.»
Il conte la salutò, come se questo cognome gli fosse del tutto
nuovo.
«Quanto vi sarà riconoscente il signor Villefort!» riprese Héloïse.
«Perché vi dovrà la vita di noi due, gli avete reso la moglie e il
figlio! Senza il vostro generoso servitore, questo caro ragazzo e io
saremmo rimasti uccisi.»
«Purtroppo, signora… Fremo ancora, pensando al pericolo che avete
corso.»
«Spero che mi permetterete di compensare degnamente lo zelo di
quest’uomo.»
«Signora», rispose Montecristo, «non mi guastate Alì, ve ne prego,
né con elogi, né con ricompense; non voglio che prenda queste
abitudini. Alì è mio schiavo; salvandovi la vita, ha servito me, ed
è suo dovere servirmi.»
«Ma egli ha rischiato la sua vita!» esclamò la signora Villefort,
sulla quale quel tono padronale aveva uno strano ascendente.
«E io ho salvato la sua, signora», rispose Montecristo, «di
conseguenza mi appartiene.»
La signora Villefort tacque; forse rifletteva su quest’uomo, che dal
primo momento faceva tanta impressione su tutti. Durante questi
momenti di silenzio, il conte ebbe agio di osservare il ragazzo, che
la madre copriva di tanti baci.
Era piccolo, gracile, bianco di pelle come i bambini rossi,
nonostante una foresta di capelli neri, ribelli a ogni acconciatura,
che ne copriva la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne
contornava il viso raddoppiando la vivacità degli occhi pieni di
furba malizia e di giovanile cattiveria; la bocca, appena ritornata
vermiglia, aveva labbra sottili: i lineamenti di questo ragazzino di
otto anni dimostravano un’età di almeno dodici. Il primo movimento
fu di sciogliersi con una rozza scossa dalle braccia di sua madre, e
di andare ad aprire il bauletto da dove il conte aveva preso la
boccetta d’elisir; quindi, senza domandare il permesso a nessuno, e
come fanno di solito i fanciulli avvezzi a soddisfare tutti i loro
capricci, si mise a levare il turacciolo a tutte le ampolle.
«Non toccate queste, amico mio», disse subito il conte, «alcuni di
questi liquori sono pericolosi non soltanto da bere, ma anche da
odorare.»
La signora Villefort impallidì e fermò il braccio del figlio che
ricondusse a sé; ma appena sedato il timore, gettò sul bauletto un
breve ma espressivo sguardo, che il conte afferrò a volo.
In quel momento entrò Alì.
La signora Villefort fece un movimento di gioia, e tirando più
vicino a sé il ragazzo, disse: «Edouard, vedi questo buon servitore?
È stato molto coraggioso, perché ha rischiato la sua vita per
fermare i cavalli che ci trascinavano e la carrozza ch’era sul punto
di fracassarsi: ringrazialo dunque, perché senza di lui a quest’ora
saremmo forse morti.»
Il ragazzo allungò le labbra, e voltò sdegnosamente la testa.
«È troppo brutto», disse.
Il conte sorrise come se il ragazzo confermasse una delle sue
speranze. Quanto alla signora Villefort sgridò il figlio tanto
blandamente che non avrebbe certamente soddisfatto Rousseau, se il
piccolo Edouard si fosse chiamato Emile.
«Vedi», disse in arabo il conte ad Alì, «questa signora prega suo
figlio di ringraziarti per la vita che tu hai salvato a entrambi, e
il ragazzo risponde che sei troppo brutto.»
Alì per un momento girò la testa intelligente, e osservò il
fanciullo apparentemente senza espressione, ma un semplice tremito
della sua narice fece capire a Montecristo ch’era rimasto ferito
nell’anima.
«Signore», chiese la signora Villefort alzandosi per ritirarsi,
«questa casa è la vostra abitazione stabile?»
«No, signora», rispose il conte, «è una specie di luogo di riposo,
che ho acquistato: io abito all’entrata degli Champs-Elysées numero
30. Ma vedo che vi siete del tutto rimessa e che desiderate
ritirarvi. Ho ordinato che siano attaccati alla mia carrozza quei
medesimi cavalli; e Alì, quel servitore così brutto», diss’egli
sorridendo al ragazzino, «avrà l’onore di condurvi a casa, mentre il
vostro cocchiere resterà qui per far sistemare la vettura. Così
appena terminata questa piccola faccenda, una delle mie pariglie la
ricondurrà direttamente dalla signora Danglars.»
«Ma», disse la signora Villefort, «non avrò mai il coraggio di
ritornare con gli stessi cavalli.»
«Vedrete, signora, che sotto la mano d’Alì diventeranno come
agnelli.»
Alì si era già avvicinato ai cavalli, e a grande fatica era riuscito
a farli tornare in piedi.
Egli teneva in mano una piccola spugna imbevuta d’aceto aromatico;
strofinò le narici e le tempie dei cavalli, coperti di sudore e di
schiuma, che quasi subito si misero a soffiare fortemente e a
fremere per qualche secondo. Quindi, in mezzo a una folla numerosa
richiamata dall’avvenimento e dalla rottura della carrozza davanti a
casa, Alì fece attaccare i cavalli alla carrozza del conte, raccolse
le redini, salì a cassetta, e con grande stupore di tutti gli
astanti che avevano visto questi cavalli travolti come da un
turbine, pur obbligato a usare vigorosamente la frusta per farli
partire, non poté ottenere dai famosi grigio-pomellati, ora
intontiti, pietrificati, insonnoliti, che un trotto così stanco e
languido, che occorsero alla signora Villefort quasi due ore per
giungere al Faubourg Saint-Honoré dove abitava.
Appena giunta a casa, e calmate le prime emozioni di famiglia,
scrisse subito il seguente biglietto alla signora Danglars.
«Cara Hermine, sono stata miracolosamente salvata insieme a mio
figlio da quello stesso conte di Montecristo di cui ieri sera mi
avete tanto parlato, e che ero lungi dal credere che avrei visto
oggi. Ieri mi parlaste di lui con un entusiasmo tale ch’io non potei
far a meno di riderne, ma oggi ritrovo questo entusiasmo molto al di
sotto dell’uomo che lo ispirava. I vostri cavalli avevano preso la
mano a Ranelagh come fossero stati invasi dalla frenesia, e noi
probabilmente saremmo a finire, Edouard e io, contro il primo albero
della strada o il primo muro del villaggio, quando un arabo, un
moro, un nubiano al servizio del conte, ha, dietro un suo cenno,
immagino, fermato lo slancio dei cavalli col rischio di essere egli
stesso ucciso, ed è proprio un miracolo che non lo sia stato. Allora
il conte è accorso, e ci ha portati in casa sua, e ha fatto
rinvenire mio figlio. Fui ricondotta a casa nella sua carrozza,
domani vi sarà mandata la vostra.
«Ritroverete i vostri cavalli molto fiacchi dopo questo incidente;
sono divenuti come ebeti, si direbbe che non possono perdonare a se
stessi di essersi lasciati vincere da un uomo. Il conte mi ha
incaricata di dirvi che due giorni di riposo sulla paglia e orzo per
solo nutrimento, li rimetteranno nello stesso stato florido, vale a
dire spaventoso, come lo erano ieri.
«Addio, non vi ringrazio della mia passeggiata. Tuttavia, quando vi
rifletto, è un’ingratitudine conservarvi rancore per il capriccio
della vostra pariglia, poiché a essa devo di aver visto il conte di
Montecristo: e l’illustre forestiero mi sembra, prescindendo dai
milioni di cui può disporre, un enigma così curioso e così
importante, che conto di studiarlo da vicino, dovessi ancora rifare
un’altra passeggiata al Bois coi vostri cavalli.
«Edouard ha sopportato l’avventura con un coraggio miracoloso. É
svenuto, ma non ha gettato un grido prima, né versato una lacrima
dopo. Direte ancora che il mio amore materno mi acceca, ma vi è
un’anima di ferro in quel piccolo corpo così gracile e delicato.
«La nostra cara Valentine manda tanti saluti alla vostra cara
Eugénie; io vi abbraccio di tutto cuore.
Héloïse Villefort
«Post-scriptum. Fatemi incontrare in casa vostra, in qualunque modo,
col conte di Montecristo, voglio assolutamente rivederlo. Del resto
ho ottenuto dal signor Villefort che gli faccia una visita; spero
che gliela restituirà.»
In serata l’avventura d’Auteuil fu al centro di tutte le
conversazioni: Albert la raccontava a sua madre, Château-Renaud al
Jockey Club, Debray nella sala del ministro, Beauchamp fece al conte
la cortesia di inserire nel suo giornale, sotto la rubrica dei
«Fatti diversi», un trafiletto di venti righe, che introdusse il
nobile straniero come un eroe presso tutte le dame
dell’aristocrazia.
Molte persone andarono a farsi preannunciare dalla signora
Villefort, per avere poi il diritto di rinnovare la loro visita in
tempo utile, e di sentire dalla bocca di lei tutti i particolari di
questa pittoresca avventura.
In quanto al signor Villefort, come aveva scritto Luigia, indossò un
abito nero, guanti bianchi, e salì nella sua carrozza, che si fermò
al numero 30 all’entrata degli Champs-Elysées.
47. Ideologia
Se il conte di Montecristo avesse vissuto da lungo tempo nella
società parigina, avrebbe apprezzato in tutto il suo valore la
gentilezza che gli faceva Villefort con la sua visita.
Ben visto a corte, sia che regnasse un re del ramo primogenito o del
ramo cadetto, sia che governasse un ministro liberale o
conservatore; reputato abile da tutti, come si reputano generalmente
abili tutte le persone che non hanno mai avuto insuccessi politici;
odiato da molti, ma caldamente protetto da certuni, senza però
essere amato da alcuno, il signor Villefort aveva un alto posto
nella magistratura, e si teneva a questa altezza come un Harlay, o
come un Molé.
Il suo salone, rimodernato da una giovane sposa e da una figlia di
primo letto dell’età di appena diciotto anni, non valeva ciò
nonostante meno di quei salotti aristocratici di Parigi, in cui si
conserva il culto delle tradizioni e la religione dell’etichetta.
La fredda cortesia, la fedeltà assoluta ai principi del governo, un
disprezzo profondo delle teorie e dei teoretici, un odio grande alle
ideologie, tali erano gli elementi della vita interna e pubblica
professati dal signor Villefort.
Non era solamente un magistrato, era quasi un diplomatico. Le sue
relazioni con la vecchia corte, di cui parlava sempre con dignità e
rispetto, lo facevano rispettare dalla nuova; sapeva tante cose, e
non solo era sempre lodato, ma spesso anche consultato; e tuttavia
in molti sarebbero stati lieti, se avessero potuto sbarazzarsi del
signor Villefort. Ma abitava, come i signori feudatari ribelli al
loro sovrano, in una fortezza inespugnabile. Questa fortezza era la
sua carica di procuratore del re, di cui si avvaleva scrupolosamente
a proprio vantaggio e che avrebbe lasciato soltanto per cambiare la
neutralità in opposizione.
In generale faceva o rendeva raramente visite, sua moglie le faceva
al posto suo, cosa accettata in questa società, ove si teneva conto
delle gravi e numerose occupazioni del magistrato. Ma ciò in realtà
non era che un calcolo d’orgoglio, una accortezza d’aristocratico,
l’applicazione di quest’assioma: fai mostra di stimarti e sarai
stimato, assioma mille volte più utile nella nostra società di
quello dei greci: «conosci te stesso», sostituito ai nostri giorni
dall’arte meno difficile e più vantaggiosa del «conoscete gli
altri». Per i suoi amici Villefort era un protettore potente; per i
suoi nemici un avversario subdolo ma accanito, per gli indifferenti
la statua della legge fatta uomo: aspetto altero, fisionomia
impassibile, sguardo cupo e appannato o insolentemente penetrante e
scrutatore. Tale era l’uomo a cui quattro avvenimenti, abilmente
intrecciati l’uno all’altro, avevano dapprima costruito, poi
cementato il piedistallo.
Il signor Villefort aveva la reputazione di essere l’uomo meno
curioso, meno allegro di Francia.
Dava un ballo tutti gli anni, ma non vi compariva che per un quarto
d’ora; non si vedeva mai né a teatro, né ai concerti; qualche volta,
ma raramente, faceva una partita di whist, ma allora aveva cura di
scegliere giocatori degni di lui, qualche ambasciatore, qualche
primo presidente o infine qualche duchessa primogenita.
Ecco qual era l’uomo la cui carrozza si era fermata davanti alla
porta del conte di Montecristo.
Il cameriere annunciò il signor Villefort, al momento in cui il
conte, chino sopra una gran tavola, seguiva su una carta geografica
un itinerario da Pietroburgo alla Cina.
Il procuratore del re entrò con quello stesso passo grave e misurato
con cui era solito andare in tribunale; era lo stesso uomo che noi
abbiamo conosciuto a Marsiglia. La natura, conforme ai suoi
principi, nulla aveva cambiato in costui nel corso degli anni. Da
snello era divenuto magro, da pallido, giallo, gli occhi infossati
erano cavi, gli occhiali cerchiati d’oro, appoggiati sull’orbita,
sembravano far parte del viso; eccettuata la cravatta bianca, tutto
il suo vestito era completamente nero; e questo colore funebre non
era interrotto che dalla striscia della fettuccia rossa che gli
pendeva impercettibilmente dall’occhiello del suo abito, e che
sembrava una linea di sangue tirata col pennello.
Per quanto Montecristo fosse padrone di sé, esaminò con una visibile
curiosità, rendendogli il saluto, il magistrato che, diffidente per
abitudine, e piuttosto incredulo soprattutto nelle materie sociali,
era più disposto a vedere nel nobile straniero, chiamato
Montecristo, un cavaliere d’industria che cercasse nuove zone
d’espansione, o un malfattore in esilio perché ricercato al suo
Paese, piuttosto che un principe dello Stato romano, o un sultano
delle Mille e una notte.
«Signore», esordì Villefort, con quel tono lamentevole che assumono
i magistrati nelle loro perorazioni, e di cui non vogliono o non
possono disfarsi nella conversazione, «signore, il prezioso servizio
che ieri avete reso a mia moglie e a mio figlio mi fanno obbligo di
ringraziarvi. Vengo dunque a compiere questo dovere, e a esprimervi
tutta la mia riconoscenza.»
E nel pronunciare queste parole, l’occhio severo del magistrato
nulla aveva perduto della sua abituale arroganza.
«Signore», disse il conte a sua volta con gelida freddezza, «sono
molto fortunato di aver potuto conservare un figlio a sua madre,
perché si dice che il sentimento di maternità sia il più possente e
il più santo di tutti, e questa fortuna che mi sono procurata vi
dispensava, signore, dal compiere un dovere di cui certamente mi
onoro, poiché so che il signor Villefort non concede facilmente il
suo favore, ma che, per quanto prezioso, non vale per me l’interna
soddisfazione.»
Villefort, stupito da questa uscita, che non si aspettava, fremette
come un soldato che avverte il colpo malgrado l’armatura che lo
protegge: una piega sdegnosa del labbro indicò che non riteneva il
conte di Montecristo un gentiluomo ben educato.
Gettò un’occhiata intorno a sé, come per riattaccare con un pretesto
la conversazione che era già caduta e che sembrava essersi infranta
cadendo. Vide la carta su cui era assorto Montecristo quando era
entrato e riprese: «Vi occupate di geografia, signore? Questo è un
prezioso studio, per voi particolarmente, che, a quanto si assicura,
avete già visti tanti Paesi quanti ne sono incisi su quella carta».
«Sì, signore», rispose il conte, «io ho voluto fare sulla specie
umana colta nella vita abituale, ciò che voi fate ogni giorno sulle
individualità eccezionali, vale a dire uno studio fisiologico. Ho
pensato che mi sarebbe più facile discendere dal tutto al
particolare, che dal particolare salire al tutto. È un assioma
algebrico che vuole che si proceda dal noto all’ignoto… Ma sedetevi
dunque, ve ne prego…»
E Montecristo indicò con la mano al procuratore del re una sedia,
che questi dovette prendersi da solo, mentre il conte non ebbe che
la briga di lasciarsi ricadere sulla stessa su cui era inginocchiato
quando il procuratore era entrato. In questo modo il conte si
ritrovò per metà voltato verso il suo visitatore, avendo le spalle
alla finestra e il gomito appoggiato sulla carta geografica, che per
il momento formava il soggetto della conversazione. E il dialogo
prendeva, come era accaduto da Morcerf e da Danglars, una piega del
tutto analoga, se non alla situazione, almeno al personaggio.
«Ah, voi filosofate», riprese Villefort, dopo un momento di silenzio
durante il quale, come un atleta che incontra un forte avversario,
aveva raccolto le sue forze. «Ebbene, signore, parola d’onore, se
come voi non avessi nulla da fare, cercherei un’occupazione meno
triste.»
«È vero, signore», rispose Montecristo, «e l’uomo è un laido verme,
se si osserva con il microscopio; ma voi avete detto che io non ho
niente da fare… Vediamo, credereste per caso di aver voi qualche
cosa da fare? O, per parlare più chiaramente, credete che ciò che
fate possa chiamarsi qualche cosa?»
Lo stupore di Villefort raddoppiò a questo secondo colpo, così
brutalmente vibrato dal suo strano avversario; era da molto tempo
che il magistrato non si era sentito rivolgere un paradosso di
questa forza, o piuttosto, per parlare più rettamente, era la prima
volta che lo sentiva.
Il procuratore del re si mise a riflettere per rispondere.
«Signore», disse, «voi siete straniero, e lo dite voi stesso, ma io
reputo che, avendo trascorsa gran parte della vostra vita nei Paesi
orientali, dove la giustizia umana è piuttosto spiccia, non vi
rendiate conto come mai abbia preso un andamento prudente e
moderato.»
«Già, è il piede zoppo degli antichi. So tutto questo, perché è
particolarmente della giustizia di tutti i Paesi che mi sono
occupato, è la procedura giudiziaria di tutte le nazioni che ho
paragonato con la giustizia naturale; e debbo dirlo, signore, è
ancora la legge dei popoli primitivi, la legge del taglione che ho
trovato più conforme al bisogno e la più esaustiva.»
«Se questa legge fosse adottata semplificherebbe molto i nostri
codici, e allora per il colpo che ne riceverebbero, i nostri
magistrati, come dicevate or ora, non avrebbero più gran cosa da
fare.»
«Ciò accadrà forse nell’avvenire», disse Montecristo. «Sapete che le
invenzioni umane progrediscono dal composto al semplice, e che il
semplice è sempre la perfezione.»
«Mentre si aspetta questo avvenire però», disse il magistrato, «vi
sono i nostri codici con i loro articoli contraddittori ricavati dai
costumi gallici, dalle leggi romane, e dagli usi franchi… Ora la
conoscenza di tutte queste leggi, ne converrete, non si acquista che
con lunghi lavori e serve certo un lungo studio per acquisire tale
conoscenza, e una gran forza di memoria perché non si dimentichi più
una volta acquisita.»
«Io sono del vostro parere, signore; ma tutto ciò che sapete
riguardo a questo codice francese, lo so anch’io, ma non solamente
riguardo a questo codice, ma a quello di tutte le nazioni: le leggi
indiane, turche, giapponesi mi sono tanto familiari quanto le leggi
francesi. Avevo dunque ragione di dire che relativamente (perché
tutto è relativo) a tutto ciò che ho fatto io, voi avete fatto ben
poco, e che relativamente a quanto ho imparato io, voi avete molto
da imparare.»
«Ma con quale scopo voi avete appreso tutto ciò?» domandò Villefort
meravigliato.
Montecristo sorrise.
«Bene, signore», disse, «vedo che malgrado la fama per la quale vi
si ritiene un uomo superiore, voi vedete ogni cosa sotto il punto di
vista più ristretto, più circoscritto che sia stato permesso
all’umana intelligenza di abbracciare.»
«Spiegatevi», lo esortò Villefort, sempre più costernato, «non vi
capisco.»
«Dico, signore, che con gli occhi fissi sull’organizzazione sociale
delle nazioni, voi non vedete che gli ingranaggi della macchina, e
non conoscete davanti a voi, e intorno a voi, che i titolari dei
posti, i cui diplomi sono stati firmati dal ministro o dal re, e che
gli uomini che Dio ha messo al di sopra dei titolari, dei ministri e
del re, dando loro una missione da compiere e non un posto da
occupare, sfuggono alla vostra corta vista. Ciò è proprio dell’umana
debolezza, e degli organi deboli e imperfetti. Tobia prendeva
l’angelo che doveva rendergli la vista per un giovane comune, le
nazioni prendevano Attila, che doveva annientarle, per un
conquistatore come tutti gli altri: fu necessario che entrambi
svelassero la loro missione celeste perché gli uomini
comprendessero. Bisognò che uno dicesse: “Io sono l’angelo del
Signore!” e l’altro: “Io sono il flagello di Dio!” perché la
missione divina fosse rilevata.»
«Allora», disse Villefort con stupore sempre crescente, e credendo
di parlare a un pazzo o a un ispirato, «voi vi considerate come uno
di questi esseri straordinari che avete nominati?»
«E perché no?» ribatté freddamente Montecristo.
«Perdonatemi, signore», riprese Villefort sbalordito, «ma mi
scuserete se, presentandomi a voi, non sapevo di presentarmi a un
uomo il cui sapere e il cui spirito sorpassano di tanto il sapere e
lo spirito ordinario e abituale degli uomini. Non è usanza, fra noi
infelici, corrotti dall’incivilimento, che i gentiluomini possessori
come voi di un’immensa fortuna, almeno a ciò che mi si assicura,
notate bene che io non interrogo, ma ripeto soltanto ciò che ho
inteso, non è usanza fra noi, dicevo, che questi privilegiati
perdano il loro tempo in speculazioni sociali, in astrazioni
filosofiche, fatte tutt’al più per consolare quelli che la sorte ha
diseredato dei beni della terra.»
«Eh, signore», continuò il conte, «siete dunque giunto al posto
eminente che occupate senza aver mai fatto o incontrato qualche
eccezione? E non esercitate mai il vostro sguardo, che pure avrebbe
bisogno di molta finezza e sicurezza, a indovinare in un sol colpo
chi è caduto sotto questo sguardo? Un magistrato non dovrebbe
essere, non dico il migliore applicatore della legge, non il più
astuto interprete delle oscurità della cabala, ma uno specchio
d’acciaio per provare i cuori, una pietra di paragone per
scandagliare l’oro che in ciascun animo si trova sempre misto a
qualche altra lega.»
«Signore», disse Villefort, «voi mi confondete; non ho mai sentito
parlare come voi.»
«È che siete sempre rimasto chiuso nel cerchio delle convenzioni
abituali, perché non avete mai osato innalzarvi con un batter d’ali
nelle sfere superiori che sono popolate d’esseri invisibili ed
eccezionali.»
«Ammettete dunque, signore, che vi siano queste sfere, e che gli
esseri eccezionali e invisibili si mischino a noi?»
«E perché no? Vedete voi forse l’aria che respirate, e senza la
quale non potreste vivere?»
«Allora non vediamo questi esseri di cui parlate?»
«Voi li potete vedere ogni qualvolta che questi esseri si
materializzano, voi li toccate allora, li urtate, parlate loro, essi
vi rispondono.»
«Vi confesso», disse Villefort sorridendo, «che vorrei essere
avvertito quando uno di questi esseri si metterà in contatto con
me.»
«Voi siete stato servito a seconda del vostro desiderio, signore,
poiché poco fa siete stato avvisato, e vi avverto anche adesso.»
«Così, voi stesso…»
«Io sono uno di questi esseri eccezionali, sì, signore, io lo credo,
sino a oggi nessun uomo si è trovato in una posizione simile alla
mia. I regni dei re sono circoscritti, sia dalle montagne, sia dai
fiumi, sia da un cambiamento di costumi o di lingua. Il mio regno è
grande come il mondo perché non sono né italiano, né francese, né
indiano, né americano, né spagnolo: io sono cosmopolita. Nessuno può
dire di avermi visto nascere; Dio solo sa quale terra mi vedrà
morire. Io adotto tutti i costumi, parlo tutte le lingue; voi mi
credete francese perché parlo il francese con la stessa facilità e
purezza di voi? Ebbene Alì, il mio moro, mi crede arabo; Bertuccio,
il mio intendente, mi crede romano; Haydée, la mia schiava, mi crede
greco. Dunque capirete che non essendo di alcun Paese, non
domandando protezione, non riconoscendo alcun uomo per mio fratello,
non un solo scrupolo che arresta i potenti, non un solo ostacolo,
che paralizza i deboli, può arrestarmi, e paralizzarmi. Non ho che
due avversari, non dico due vincitori perché li sottometto con la
tenacia: la distanza e il tempo. Il terzo, ed è il più terribile,
sta nella mia condizione di mortale. Ciò solo può fermarmi nella
strada che percorro e prima che abbia conseguito lo scopo a cui
miro, tutto il resto l’ho calcolato. Ciò che gli uomini chiamano
capricci della fortuna, vale a dire la rovina, i cambiamenti, le
eventualità, li ho previsti tutti, e se qualcuno può colpirmi,
nessuno può rovesciarmi. A meno che non muoia, sarò sempre ciò che
sono. Ecco perché vi dico cose che voi non avete mai inteso, neppure
dalla bocca dei re, perché i re hanno bisogno di voi, e gli altri
uomini hanno paura di voi. Chi è colui che non supponga, in una
società ben ordinata quanto la nostra: “Forse un giorno posso avere
a che fare con il procuratore del re?”»
«Ma voi stesso potete dir questo, perché, dal momento che abitate la
Francia, siete naturalmente sottoposto alle leggi francesi.»
«Lo so, signore», rispose Montecristo, «ma quando devo andare in un
Paese, comincio con lo studiare, con mezzi miei propri, tutti gli
uomini dai quali posso avere qualche cosa da sperare o da temere, e
giungo a conoscerli molto bene, forse meglio ancora di quello che
non si conoscano loro stessi. Ciò porta a un risultato: che il
procuratore del re, qualunque fosse, con cui avessi a che fare,
sarebbe certamente più impacciato di me.»
«Ciò vuol dire», riprese con cautela Villefort, «che la natura umana
è debole, e ogni uomo, secondo voi, ha commesso qualche… sbaglio.»
«Sbaglio o delitto…» rispose Montecristo noncurante.
«E che voi solo, fra gli uomini, che non riconoscete come fratelli,
come avete detto voi stesso», continuò Villefort con voce
leggermente alterata. «Voi solo siete perfetto.»
«Non perfetto», precisò il conte, «impenetrabile; ecco tutto. Ma
lasciamo questo argomento, signore, se la conversazione vi dispiace…
Tanto più se vi sentite più minacciato dalla mia profonda vista di
quanto io lo sia dalla vostra giustizia.»
«No signore!» esclamò vivamente Villefort, che senza dubbio non
voleva apparire sconfitto. «No! Con la vostra brillante e quasi
sublime conversazione mi avete innalzato al di sopra dei livelli
ordinari; noi non parliamo, dissertiamo. Voi sapete come i
professori in cattedra, e i filosofi nelle loro dispute, dicano
qualche volta delle crudeli verità. Fingiamo dunque di fare una
disputa sociale o filosofica, vi dirò, dunque, per quanto vi sembri
duro: “Caro fratello, voi vi sacrificate all’orgoglio; voi siete al
di sopra degli altri, ma al di sopra di voi sta Dio!”»
«Al di sopra di tutti, signore!» rispose Montecristo con accento
così profondo che Villefort ne fremette involontariamente. «Ho il
mio orgoglio per gli uomini: serpenti sempre pronti a drizzarsi
contro colui che li sorpassa, senza schiacciarli con il piede: ma lo
depongono davanti a Dio, che mi ha tolto dal niente per farmi quel
che sono.»
«Allora, signor conte, vi ammiro», disse Villefort, che per la prima
volta, in questo strano dialogo, impiegava questa formula
aristocratica con lo straniero, che fino allora aveva chiamato
soltanto signore. «Sì, ve lo dico, se siete realmente forte,
superiore, sano e impenetrabile, siatene orgoglioso, questa è la
legge dei domatori.
Ma voi pertanto avrete qualche ambizione?»
«Ne ho avuta una, signore.»
«E quale?»
«Ho desiderato di essere fatto strumento della Provvidenza.»
Villefort guardò Montecristo con grande meraviglia.
«Signor conte», disse, «non avete parenti?»
«No, signore, sono solo al mondo.»
«Tanto peggio!»
«Perché?» domandò Montecristo.
«Perché avreste potuto assistere a spettacoli capaci di infrangere
il vostro orgoglio. Non temete che la morte, diceste?»
«Non dico di temerla; dico ch’essa sola può arrestarmi.»
«E la vecchiaia?»
«La mia missione sarà compiuta prima che sia vecchio.»
«E la pazzia?»
«Poco è mancato che diventassi pazzo, e voi conoscete l’assioma:
“Non due volte nella stessa situazione”, “Non bis in idem”: è un
assioma giudiziario, e perciò di vostra competenza.»
«Signore, vi è ancora un’altra cosa da temere oltre la morte, la
vecchiaia, o la pazzia; vi è, per esempio, l’apoplessia, questo
colpo di fulmine che vi colpisce senza distruggervi, ma dopo il
quale però tutto è finito; siete sempre voi, e ciò nonostante non
siete più voi. Venite, se vi piace continuare questa conversazione,
venite in casa mia, signor conte, un giorno che abbiate voglia di
scontrarvi con un avversario capace di comprendervi e avido di
confutarvi e vi presenterò mio padre, il signor Noirtier di
Villefort, un uomo che forse non aveva visto tutti i regni della
terra come voi, ma aveva aiutato a rovesciarne uno dei più forti; un
uomo che come voi si credeva inviato da Dio, dall’Essere supremo,
dalla Provvidenza. Ebbene, signore, la rottura di un vaso sanguigno
in un lobo del cervello ha rovinato tutto questo; non in un giorno,
non in un’ora, ma in un secondo. Il giorno prima il signor Noirtier
disprezzava tutto, il giorno dopo era quel povero Noirtier vecchio
immobilizzato, abbandonato alla volontà dell’essere più debole della
casa, vale a dire sua nipote Valentine: infine cadavere muto e
freddo, che vive senza gioie, e spero, senza soffrire.»
«Ahimè, signore, questo spettacolo non è nuovo né ai miei occhi, né
al mio pensiero», disse Montecristo. «Sono un po’ medico, e qui
rammenterò che la Provvidenza si palesa nei fatti che ci cadono
sotto gli occhi, e non potete negarlo. Cento autori, dopo Socrate,
dopo Seneca, hanno fatto in prosa e in versi l’accostamento che
avete fatto voi… Tuttavia capisco che le sofferenze di un padre
possono operare, nello spirito di un figlio, grandi mutamenti. Verrò
signore, poiché lo desiderate, verrò a contemplare, a vantaggio
della mia umiltà, questo triste spettacolo, che deve molto
rattristare la vostra casa.»
«Questo certamente sarebbe, se il cielo non mi avesse dato un largo
compenso. Al vecchio che discende nella tomba seguono due figli che
entrano nella vita: Valentine, figlia della prima moglie Renée de
Saint-Méran, ed Edouard, quel bambino di cui voi avete salvata la
vita.»
«E che concludete da questo confronto, signore?»
«Concludo», rispose Villefort, «che mio padre, travolto dalle
passioni ha commesso qualcuno di quegli errori che sfuggono
all’umana giustizia ma che attirano la giustizia di Dio, che non
volendo punire che uno solo non ha colpito che lui.»
Montecristo, con il sorriso sulle labbra, emise dal profondo del
cuore un ruggito, che avrebbe fatto fuggire Villefort, se lo avesse
inteso.
«Addio, signore», riprese il magistrato che si era alzato da un po’
e parlava in piedi, «me ne vado portando una memoria di voi piena di
stima e che, spero, vi potrà essere più gradita quando mi
conoscerete meglio poiché non sono un uomo leggero quanto può
credersi. D’altra parte vi siete fatto della signora Villefort
un’amica eterna.»
Il conte salutò, si contentò di accompagnare Villefort soltanto fino
alla porta del salotto; questi raggiunse la carrozza preceduto da
due domestici che, a un segno del loro padrone, si affrettarono ad
aprirgli lo sportello.
Poi, quando il procuratore del re fu partito: «Andiamo», disse
Montecristo mandando a stento un sospiro dal petto oppresso,
«andiamo, ne abbiamo preso abbastanza di questo veleno, ora che il
cuore ne è pieno, andiamo a cercare l’antidoto!»
E batté un colpo sul campanello.
«Salgo dalla signora», disse ad Alì. «Che fra mezz’ora la carrozza
sia pronta.»
48. Haydée
Ricorderanno i nostri lettori quali erano le recenti, o meglio le
vecchie conoscenze del conte di Montecristo, che abitavano in rue
Meslay: Maximilien, Julie, ed Emmanuel.
La speranza della visita che voleva fare, pochi momenti che avrebbe
passato in questa luce di paradiso filtrante nell’inferno in cui si
era volontariamente posto, aveva rasserenato il conte, poiché
Villefort era partito: ragion per cui Alì, accorso al noto suono,
vedendo sul suo viso tanta insolita gioia, si ritirò trattenendo il
respiro per non turbare i buoni pensieri che credeva intuire nella
mente del padrone.
A mezzogiorno, il conte si era riservata un’ora per salire da
Haydée: si sarebbe detto che la gioia non poteva entrare di colpo in
quell’anima per tanto tempo rattristata e che aveva bisogno di
prepararsi alle dolci emozioni, come le altre anime hanno bisogno di
prepararsi a quelle violente.
La giovane greca era, come si è detto, in un appartamento
interamente separato da quello del conte, tutto ammobiliato secondo
l’uso orientale: i pavimenti coperti di fitti tappeti turchi, stoffe
di broccato lungo i muri, e in ciascuna camera un largo divano con
pile di cuscini spostabili a piacimento. Haydée aveva tre domestiche
francesi, e una greca. Le tre francesi stavano nella prima stanza,
pronte ad accorrere al suono di un piccolo campanello d’oro e a
obbedire agli ordini della schiava greca, la quale sapeva abbastanza
francese per trasmettere i voleri della sua padrona alle tre
cameriere, cui Montecristo aveva raccomandato di avere per Haydée i
riguardi che si sarebbero potuti avere per una regina. Lei era nella
stanza più lontana del suo appartamento, in una specie di salotto
rotondo, che prendeva lume soltanto dall’alto, con la luce che
passava per cristalli colorati di rosa: seduta per terra sopra
cuscini di seta turchina ricamata d’argento, si reggeva la testa con
il braccio destro languidamente piegato, mentre con il sinistro si
portava alle labbra il bocchino di corallo, al quale era attaccata
la canna flessibile di un narghilè, che non lasciava giungere alla
bocca il vapore, se non dopo essere stato profumato dall’acqua di
benzuino.
Tale sua posa, naturale in una donna orientale, sarebbe stata per
una francese di una civetteria un po’ affettata.
Il costume era quello delle donne dell’Epiro: calzoni di seta bianca
ricamati a fiori di rose, che lasciavano scoperti due piedi da
fanciulla che si sarebbero creduti di marmo di Paros, se non si
fossero visti agitare due piccoli sandali con la punta ricurva,
orlati d’oro e perle: una veste a lunghe righe turchine e bianche,
con larghe maniche aperte con ricami d’argento, e bottoni di perle;
infine una specie di corsetto che lasciava intravedere dall’apertura
a cuore il collo e l’alto del petto, e che si allacciava sotto il
seno con tre bottoni di diamanti. Quanto alla parte inferiore del
corsetto, e superiore dei calzoni, essa era nascosta da una di
quelle cinture a vivi colori e a larghe frange che oggi
rappresentano l’ambizione delle nostre eleganti parigine. La testa,
inclinata di lato, era acconciata con una piccola cuffia, sotto la
quale una bella rosa naturale color porpora spiccava intrecciata ai
capelli così neri, che sembravano d’ebano. La bellezza del viso era
da beltà greca in tutta la sua purezza, con i grandi occhi neri
vellutati, la fronte marmorea, il naso diritto, le labbra di
corallo, e i denti di perla. E in questa graziosa donna il fiore
della gioventù appariva in tutto il suo splendore e profumo. Haydée
poteva avere diciannove o venti anni.
Montecristo chiamò la sua schiava greca e fece domandare ad Haydée
il permesso di entrare. Come unica risposta Haydée fece segno alla
schiava di scostare la tenda, e nel vano della porta si vide lei, la
giovanetta come dipinta in un quadro. Montecristo avanzò. Lei si
sollevò sul gomito del braccio con cui teneva il narghilè, e
stendendo al conte la mano lo accolse con un sorriso.
«Perché», iniziò nella lingua sonora delle figlie di Sparta e
d’Atene, «perché mi fai chiedere il permesso per entrare da me? Non
sei tu il mio padrone? Non sono io la tua schiava?»
Montecristo sorrise a sua volta.
«Haydée», disse, «non sapete?…»
«Perché non dai del tu come sempre?» lo interruppe la giovane greca.
«Ho dunque commesso qualche mancanza? In questo caso bisogna
punirmi, ma non darmi del voi.»
«Haydée», disse il conte, «tu sai che siamo in Francia, e che quindi
sei libera.»
«Libera di fare che?» domandò la giovane.
«Libera di lasciarmi.»
«Lasciarti!… E perché dovrei farlo?»
«Che so io?… Vedremo gente…»
«Non voglio vedere nessuno.»
«E se in mezzo ai bei giovani che incontrerai, qualcuno ti piacesse,
io non sarò tanto ingiusto…»
«Non vidi mai uomo più bello di te, e non amai che mio padre e te.»
«Povera fanciulla», disse Montecristo. «È perché non hai mai parlato
che con tuo padre e con me.»
«Ebbene, che bisogno ho io di parlare con altri? Mio padre mi
chiamava “sua gioia”, tu mi chiami “tuo amore”, e tutti e due mi
chiamate “vostra figlia”.»
«Ti ricordi di tuo padre, Haydée?»
«Egli è qui, e qui», disse lei, mettendo la mano sul cuore e sugli
occhi.
«E io dove sono?» domandò sorridendo Montecristo.
«Tu?» fece lei. «Tu sei dappertutto.»
Montecristo prese la bella mano di Haydée per baciarla, ma l’ingenua
fanciulla la ritirò e gli porse la fronte.
«Ora Haydée, tu sai che sei libera, padrona, regina, puoi conservare
il tuo costume, o lasciarlo a tuo piacimento; resterai qui quanto
vuoi restarvi, uscirai quando vorrai; vi sarà sempre una carrozza
pronta per te; Alì e Myrtho t’accompagneranno ovunque, e saranno ai
tuoi ordini. Soltanto di una cosa ti prego…»
«Parla.»
«Conserva il segreto della tua nascita, non dire una parola del tuo
passato, non pronunciare in alcuna occasione il nome del tuo
illustre padre, né quello della tua povera madre.»
«Te l’ho già detto, non voglio vedere nessuno.»
«Ascolta Haydée, questa reclusione del tutto orientale forse sarà
impossibile a Parigi. Continua a conoscere il genere di vita dei
nostri Paesi del Nord, come hai fatto a Roma, a Firenze, a Milano e
a Madrid; ciò ti gioverà tanto se continui a vivere qui, quanto se
ritorni in Oriente.»
La giovane volse al conte i suoi occhi pieni di lacrime, e rispose:
«Ritorniamo forse in Oriente, hai voluto dire, vero, mio signore?»
«Sì, figlia mia», disse Montecristo, «tu sai bene che non sarò mai
io quello che ti abbandonerà. Non è l’albero che si disgiunge dal
fiore; è il fiore che si distacca dall’albero.»
«Io non ti lascerò mai, signore, perché sono sicura che non potrei
vivere senza di te.»
«Povera fanciulla, fra dieci anni io sarò vecchio, e fra dieci anni
tu sarai ancora giovane.»
«Mio padre aveva una lunga barba bianca, e ciò non mi vietava
d’amarlo: mio padre aveva sessant’anni, e mi sembrava più bello di
tutti i giovani ch’io vedevo.»
«Orsù, credi che ti abituerai, qui?»
«Ti vedrò?»
«Tutti i giorni.»
«Ebbene, perché queste domande, signore?»
«Temo che tu ti annoi.»
«No, signore, perché la mattina penserò che tu verrai, e la sera mi
ricorderò che tu sei stato da me; del resto, quando sono sola ho
grandi ricordi, rivedo immensi quadri; mi si presentano grandi
orizzonti con il Pindo e con l’Olimpo in lontananza. Poi ho nel
cuore tre sentimenti con i quali uno non si annoia mai: la
malinconia, l’amore e la riconoscenza.»
«Sei una degna figlia dell’Epiro, Haydée, graziosa e poetica, si
capisce che discendi da quella famiglia di dee che nacque nel tuo
Paese. Sii dunque tranquilla, figlia mia, farò in modo che la tua
gioventù non sia del tutto perduta; perché se tu mi ami come tuo
padre, io ti amo come mia figlia.»
«T’inganni, signore, io non amavo mio padre come amo te; il mio
amore per te è diverso: mio padre morì e io non sono morta, mentre
se tu morissi io pure morirei.»
Il conte tese la mano alla giovane con un sorriso pieno di
tenerezza: lei v’impresse le labbra, com’era abituata.
Così disposto per la visita che voleva fare a Morrel e alla sua
famiglia, il conte partì mormorando questi versi di Pindaro:
«Gioventù è fior di cui l’amore è frutto; felice il vendemmiatore
che lo coglie dopo averlo visto lentamente maturare».
Secondo i suoi ordini, la carrozza era pronta, vi salì, e questa
come sempre partì al galoppo.
49. La famiglia Morrel
Nel giro di pochi minuti la carrozza arrivò in rue Meslay al numero
7. La casa era bianca, luminosa, preceduta da un cortile con due
aiuole e dei bellissimi fiori. Nel portinaio che gli aprì la porta,
il conte riconobbe il vecchio Coclite, ma come ognuno ricorderà,
questi aveva un occhio solo, e in nove anni quest’occhio si era
alquanto indebolito. Coclite non riconobbe il conte.
Per fermarsi davanti all’entrata, la carrozza doveva voltare al fine
di evitare un piccolo getto d’acqua che cadeva in una vasca di
pietra: lusso che aveva eccitato la gelosia del quartiere, e per cui
la casa veniva chiamata la Piccola Versailles. Inutile dire che
nella vasca guizzavano una quantità di pesci gialli e rossi.
La casa, costruita sopra le cucine e le cantine, aveva, oltre il
piano terreno, due piani e le soffitte. I giovani l’avevano
acquistata con le dépendances che consistevano in un laboratorio,
due padiglioni in fondo al giardino, e il giardino stesso.
Emmanuel aveva visto, a colpo d’occhio, che dietro questa
disposizione dei locali si poteva fare una piccola speculazione: si
era riservato la casa e metà del giardino, e aveva alzato un muretto
fra la metà del giardino e il laboratorio, che aveva dato in affitto
con i padiglioni e l’altra porzione di giardino. Di modo che si
trovava alloggiato per una somma molto modica, e tanto ben appartato
quanto il più scrupoloso proprietario di una casa del Faubourg
Saint-Germain.
La sala da pranzo era in quercia, il salotto in mogano e velluto
turchino, la camera da letto fatta di cedro e damasco verde: vi era
inoltre un locale-studio per Emmanuel che nulla studiava, e un
salotto da musica per Julie che non era musicista. Tutto il secondo
piano era riservato a Maximilien, una ripetizione esatta
dell’appartamento della sorella, meno la sala da pranzo, convertita
in sala da bigliardo, ove conduceva i suoi amici.
Accudiva il suo cavallo fumando il sigaro all’ingresso del giardino
quando la carrozza del conte si fermò alla porta. Coclite aprì la
porta, come abbiamo detto, e Battistino smontò da cassetta,
chiedendo se il signore e la signora Herbault e il signor Maximilien
Morrel potevano ricevere il conte di Montecristo.
«Il conte di Montecristo!?» gridò Morrel gettando il sigaro, e
lanciandosi verso il visitatore. «Certo che possiamo riceverlo.
Grazie, cento volte grazie, signor conte, di non aver dimenticato la
vostra promessa.»
Il giovane ufficiale strinse così cordialmente la mano del conte,
che questi non poté ingannarsi sulla franchezza del gesto, vide bene
ch’era atteso con impazienza e ricevuto con premura.
«Venite», disse Maximilien, «voglio presentarvi io stesso; un uomo
come voi non deve essere annunciato da un servitore… Mia sorella è
in giardino a potare le rose appassite. Mio cognato legge i suoi
giornali preferiti la “Presse” e il “Débats”, vicino a lei: ovunque
si trovi la signora Herbault, c’è anche Emmanuel, e viceversa.»
Il rumore dei passi fece alzare la testa a una giovane donna di
venti, ventitré anni, abbigliata con una veste da camera di seta,
intenta a ripulire un magnifico rosaio. Questa donna era la nostra
piccola Julie, divenuta, come era stato predetto dal rappresentante
della casa Thomson e French, la moglie di Emmanuel Herbault. Vedendo
uno straniero lanciò un piccolo grido. Maximilien si mise a ridere.
«Non ti disturbare, sorella mia», disse. «Il signor conte è a Parigi
da soli due o tre giorni, ma sa già che cos’è una borghese del
Marais, e se non lo sa, tu glielo insegnerai.»
«Ah signore, presentarvi così…» disse Julie. «È un tradimento di mio
fratello che non ha per sua sorella la più piccola attenzione…
Penelon!… Penelon!…»
Un vecchio che zappava intorno a un rosaio bianco del Bengala,
piantò la zappa in terra e si avvicinò, con il berretto in mano,
dissimulando meglio che poteva il tabacco che stava masticando.
Qualche capello bianco inargentava la sua fitta capigliatura scura e
l’occhio ardito e vivo rivelava un vecchio marinaio abbronzato dal
sole dell’equatore e disseccato al soffio delle tempeste.
«Mi avete chiamato, signorina Julie?»
Penelon aveva conservato l’abitudine di chiamare la figlia del suo
padrone signorina Julie, e non aveva mai potuto chiamarla signora
Herbault.
«Penelon», lo pregò Julie, «andate ad avvertire Emmanuel della bella
visita, mentre Maximilien condurrà il signore in salotto.» Poi
volgendosi a Montecristo: «Il signore mi permetterà di allontanarmi
per un minuto, non è vero?» E senza aspettare il consenso del conte,
sparì dietro un gruppo d’alberi e rientrò in casa per un viale
laterale.
«Mio caro Morrel», esordì Montecristo, «m’accorgo con dispiacere che
porto un grande scompiglio nella vostra famiglia.»
«Guardate, guardate», disse Maximilien ridendo, «vedete laggiù il
marito che, da parte sua, va a cambiarsi la veste da camera… È
perché ormai tutti vi ammirano nella rue Meslay, tanto si è parlato
di voi, vi prego di crederlo…»
«Mi sembra che abbiate una famiglia felice», disse il conte
rispondendo a un suo pensiero.
«Oh sì, ve lo garantisco, signor conte… Che volete?… Nulla manca
loro per essere felici, sono giovani, sono allegri, si amano, e, con
le venticinquemila lire di rendita, pensano di possedere le
ricchezze di Rothschild.»
«È poco però venticinquemila lire di rendita», commentò Montecristo
con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di Maximilien, come
avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre. «Ma non si
fermeranno lì, i nostri giovani, diverranno a loro volta milionari.
Vostro cognato è avvocato… medico?»
«Era commerciante, signor conte, e aveva rilevato la ditta del mio
povero padre. Il signor Morrel è morto lasciando cinquecentomila
franchi: io ne presi una metà, e mia sorella l’altra, perché non
eravamo che due figli. Suo marito, che l’aveva sposata senza avere
altra ricchezza che la sua nobile onestà, la sua intelligenza di
prim’ordine, e la sua reputazione senza macchia, ha voluto
accumulare un patrimonio pari a quello della moglie. Egli lavorò
finché non ebbe risparmiato duecentocinquantamila franchi: sei anni
bastarono. Era, ve lo giuro, signor conte, un commovente spettacolo
vedere questi due giovani laboriosi, uniti, destinati per la loro
capacità alla più gran fortuna che, non avendo voluto alcun
cambiamento nelle abitudini della casa paterna, hanno messo sei anni
per accumulare ciò che degli spregiudicati avrebbero potuto fare in
due o tre… Marsiglia parla ancora dei sacrifici di questi due
ragazzi. Infine un giorno Emmanuel andò da sua moglie che finiva di
pagare le scadenze.
“Julie”, le disse, “ecco l’ultimo buono di cento franchi riscosso da
Coclite, e che completa i duecentocinquantamila franchi che abbiamo
fissato come limite del nostro guadagno. Sarai soddisfatta di quel
poco di cui d’ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? Ascolta, la
casa ogni anno fa affari per un milione, e può produrre un utile di
quarantamila franchi: se vogliamo, possiamo vendere la clientela per
trecentomila franchi, perché ecco qui una lettera del signor
Delaunay che ce li offre in cambio dei nostri fondi, ch’egli vuole
riunire ai suoi. Cosa vorresti fare?”
“Amico mio”, rispose mia sorella, “la ditta Morrel non può essere
diretta che da un Morrel. Salvare per sempre il nome di nostro padre
da un qualunque evento della sorte non vale più di trecentomila
franchi?”
“Lo pensavo anch’io”, disse Emmanuel, “però ho voluto sentire il tuo
parere.”
“Ebbene, amico mio, eccolo. Tutti i nostri incassi sono riscossi,
tutti i nostri debiti pagati; possiamo tirare una riga sotto i conti
di questa quindicina, e chiudere la ditta; facciamolo.”
Il che fu fatto subito. Erano le tre; alle tre e un quarto un
cliente si presentò per fare assicurare il viaggio di due navi; era
un guadagno di quindicimila franchi in contanti.
“Signore”, gli disse Emmanuel, “abbiate la bontà di rivolgervi per
queste assicurazioni a qualcun altro dei nostri colleghi, per
esempio al signor Delaunay; in quanto a noi abbiamo lasciato gli
affari.”
“E da quanto tempo?” domandò il cliente meravigliato.
“Da un quarto d’ora.” Ecco, signore», continuò sorridendo
Maximilien, «perché mia sorella e mio cognato non hanno che
venticinquemila lire di rendita.»
Maximilien aveva appena concluso questo racconto durante il quale il
cuore del conte si era sempre più commosso, allorché Emmanuel
ricomparve vestito d’un altro abito e di un cappello. Egli salutò in
modo da far capire che aspettava la sua visita, e quindi, dopo aver
fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito, lo condusse
verso casa. Il salotto era già profumato dai fiori contenuti in un
immenso vaso giapponese. Julie, ben vestita ed elegantemente
pettinata (aveva impiegato tutta la sua abilità in dieci minuti!),
si presentò all’ingresso per ricevere il conte. Si sentivano
cinguettare gli uccelli di una uccelliera, i cui rami di falso ebano
e i rami di un’acacia rosea venivano con i loro grappoli di fiori a
ornare le tende di velluto turchino. Tutto ispirava calma in questo
grazioso piccolo ritiro, dal canto degli uccelli fino al sorriso dei
padroni. Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era già
impregnato di questa felicità; perciò restava muto e assorto,
dimenticando di esser guardato in attesa che riprendesse la
conversazione interrotta dopo i primi complimenti.
Egli s’accorse che il proprio silenzio diveniva quasi sconveniente,
e si strappò con forza dai suoi ricordi.
«Signora», disse finalmente, «perdonate un’emozione che deve
meravigliare voi, abituata a questa pace e a questa felicità, ma per
me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non mi
stanco di contemplare voi e vostro marito.»
«Siamo infatti molto felici, signore», replicò Julie, «ma abbiamo
sofferto così a lungo, che ben poche persone hanno conquistato la
loro felicità a un così caro prezzo.»
La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte.
«Questa è un storia di famiglia, come vi diceva l’altro giorno
Château-Renaud», riprese Maximilien. «Per voi, signor conte,
assuefatto a vedere sventure illustri e splendide gioie, vi sarebbe
poco d’interessante in questo quadro familiare. Tuttavia abbiamo,
come diceva Julie, sofferto vivi dolori, sebbene circoscritti in
questo piccolo quadro.»
«E Dio versò su voi, come versa su tutti, la consolazione nelle
disgrazie?» domandò Montecristo.
«Sì, conte, possiamo dirlo, perché ha fatto per noi ciò che potrebbe
fare per i suoi eletti; ci ha inviato uno dei suoi angeli.»
Le guance del conte divennero rosse, ed egli tossì per cercare di
dissimulare la sua emozione, portando alla bocca il fazzoletto.
«Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non hanno mai
desiderato niente», disse Emmanuel, «non sanno cosa sia il bene
della vita, come non conoscono il valore di un cielo puro e sereno
coloro che non hanno mai messo la loro vita in balia di quattro assi
gettate sopra un mare in tempesta.»
Montecristo si alzò, e senza dir nulla, perché al tremolio della sua
voce avrebbero forse riconosciuta l’emozione da cui era scosso, si
mise a passeggiare per il salotto.
«La nostra magnificenza vi farà sorridere…» riprese Maximilien, che
seguiva con gli occhi Montecristo.
«No, no…» rispose Montecristo molto pallido, e comprimendosi con una
mano i battiti del cuore, mentre con l’altra mostrava al giovane una
campana di cristallo, sotto la quale si scorgeva una borsa di seta
stesa sopra un cuscino di velluto nero, «domando soltanto a che
serve questa borsa che da una parte mi sembra che contenga una
carta, e dall’altra un bel diamante?»
Maximilien, assumendo un aria grave, rispose: «Questo, signor conte,
è il più prezioso dei nostri tesori di famiglia.»
«Infatti questo diamante è molto bello…» replicò il conte.
«Mio fratello non parla del prezzo della pietra, sebbene sia stimata
centomila franchi, vuole solamente dirvi che gli oggetti racchiusi
in questa borsa sono le testimonianze di quell’angelo di cui vi
parlammo or ora.»
«Ecco qualcosa che non comprendo, e ciò nonostante sento di non
potervi chiedere spiegazioni, signora», replicò Montecristo
inchinandosi. «Perdonatemi, non volevo essere indiscreto.»
«Indiscreto, dite? Al contrario ci rendete contenti, signor conte,
offrendoci l’occasione di trattenerci su questo argomento! Se noi
nascondessimo come un segreto la bella azione che ci ricorda questa
borsa, non la terremmo così esposta alla vista di tutti. Vorremmo
poterla divulgare in tutto l’universo, affinché un cenno del nostro
sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza.»
«Davvero?» fece Montecristo con voce soffocata.
«Signore», riprese Maximilien sollevando la campana di cristallo e
baciando religiosamente la borsa di seta, «questa ha toccato la mano
di un uomo che salvò mio padre dalla morte, dalla rovina e
dall’infamia; di un uomo, grazie al quale noi, poveri ragazzi
destinati alla miseria e alle lacrime, possiamo vedere oggi le
persone gioire per la nostra felicità. Questa lettera», e Maximilien
tolse un biglietto dalla borsa e lo mostrò al conte, «questa lettera
fu scritta da lui un giorno in cui mio padre aveva presa una
risoluzione disperata, e questo diamante fu dato in dote a mia
sorella da questo generoso sconosciuto.»
Montecristo aprì la lettera e la lesse con un’indefinibile
espressione di felicità; era il biglietto che i nostri lettori
conoscono, diretto a Julia, e firmato Sinbad il marinaio.
«Sconosciuto, dite? L’uomo che vi ha reso questo favore vi è rimasto
ignoto?»
«Sì signore, non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli la
mano! Non fu però per nostra mancanza, per non aver chiesto a Dio
questa grazia», continuò Maximilien, «ma in tutto questo affare
furono così misteriose le circostanze che non le abbiamo ancora
chiarite: il tutto fu guidato da una mano invisibile, potente come
quella di un mago.»
«Non ho ancora perduto del tutto la speranza di potere un giorno
giungere a baciare quella mano, come bacio questa borsa che fu da
essa toccata», confessò Julie. «Sono quattro anni, Penelon era a
Trieste… Penelon, signor conte, è quel bravo marinaio che avete
visto con la zappa alla mano, e che da secondo mastro è diventato
giardiniere. Penelon era dunque a Trieste, vide sulla banchina un
inglese che stava per imbarcarsi su uno yacht, e riconobbe in lui
quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829, e che mi scrisse
questo biglietto il 5 settembre. Era lo stesso, a quanto assicura,
ma non osò parlargli.»
«Un inglese?» ripeté Montecristo distratto, turbato da ogni sguardo
di Julie.
«Sì», riprese Maximilien, «un inglese che si presentò a noi come
rappresentante della casa Thomson e French di Roma. Ecco perché
quando l’altro giorno diceste da Morcerf che Thomson e French erano
i vostri banchieri, mi avete visto sussultare. In nome del cielo,
signore, quanto vi abbiamo detto accadde nel 1829… Avete conosciuto
questo inglese?»
«Ma non mi avete detto che la casa Thomson e French ha sempre negato
di avervi reso questo servizio?»
«Sì.»
«Allora quest’inglese non potrebbe essere un uomo che, riconoscente
verso vostro padre di qualche buona azione che forse aveva
dimenticato, avesse preso questo pretesto per rendergli il
servizio?»
«Tutto è possibile, anche un miracolo.»
«Come si chiamava?» domandò Montecristo.
«Non ha lasciato altro nome», rispose Julie guardando il conte con
una profonda attenzione, «che la firma in calce a questo biglietto,
Sinbad il marinaio.»
«Evidentemente questo non è un nome, bensì uno pseudonimo.»
Quindi, poiché Julie lo guardava più attentamente ancora, e sembrava
cogliere qualche rassomiglianza nella sua voce, continuò: «Vediamo,
non è un uomo con la mia corporatura, forse un poco più magro,
imprigionato in una lunga cravatta, abbottonato in un abito stretto,
e sempre con la matita alla mano?»
«Oh, ma allora lo conoscete?» gridò Julie con gli occhi scintillanti
di gioia.
«No», rispose Montecristo. «Ho conosciuto un lord Wilmore, che
esercitava in tal modo atti di generosità.»
«Senza farsi conoscere?»
«Era un uomo strano, che non credeva alla riconoscenza.»
«Oh, mio Dio!» gridò ancora Julie giungendo le mani. «E a che cosa
credeva dunque l’infelice?»
«Egli non ci credeva quando lo conobbi…» disse Montecristo, che
questa voce uscita dal fondo dell’anima aveva scosso fin nell’ultima
fibra. «Ma da allora forse avrà avuto qualche prova che la
riconoscenza esiste.»
«E voi conoscete quest’uomo?» domandò Emmanuel.
«Se lo conoscete», intervenne Julie, «potete guidarci a lui,
mostrarcelo, dirci dov’è? Maximilien, Emmanuel, se lo ritrovassimo
lo faremmo ricredere sulla memoria del cuore… Non è vero?»
Montecristo sentì due lacrime cadergli dagli occhi; fece ancora
qualche passo nel salotto.
«In nome del cielo, signore», riprese Maximilien, «se conoscete
quest’uomo, diteci ciò che sapete.»
«Ahimè», disse Montecristo, comprimendo l’emozione della sua voce,
«se il vostro benefattore è lord Wilmore, temo che non lo
ritroverete mai. Io l’ho lasciato due o tre anni fa a Palermo, da
dove partiva per Paesi tanto favolosi, che dubito non ritorni più.»
«Siete crudele, signore!» esclamò Julie con tristezza. E le lacrime
discesero dagli occhi della giovane sposa.
«Signora», continuò con gravità Montecristo divorando con lo sguardo
le lacrime sulle guance di Julie, «se lord Wilmore avesse visto ciò
che io vedo, egli amerebbe ancora la vita, perché le lacrime che voi
versate lo rappacificherebbero con il genere umano.»
E tese la mano a Julie che gli diede la sua, trascinata com’era
dallo sguardo del conte.
«Ma questo lord Wilmore» disse lei, attaccandosi a un’ultima
speranza, «aveva un Paese, una famiglia, dei parenti? Non
potremmo?…»
«È inutile fare ricerche, signora», disse il conte, «non fabbricate
dolci chimere sopra parole che mi sono lasciato sfuggire. No, lord
Wilmore probabilmente non è l’uomo che cercate; egli era mio amico,
conoscevo tutti i suoi segreti e non mi ha raccontato mai niente di
tutto questo.»
«Non vi ha mai detto niente di tutto ciò!» esclamò Julie.
«Niente.»
«Mai una parola che avesse potuto lasciarvi supporre?»
«Mai.»
«Tuttavia avete subito pensato a lui.»
«Sapete… in simili casi si suppone.»
«Sorella mia, sorella mia», intervenne Maximilien venendo in
soccorso del conte, «il signore ha ragione. Ricordati ciò che ci
diceva spesso il nostro buon padre: “Non è un inglese che ci ha
procurato questa felicità”.»
Montecristo rabbrividì.
«Cosa diceva vostro padre, signor Morrel?» riprese vivamente il
conte.
«Mio padre, signore, vedeva in quest’azione un miracolo. Mio padre
credeva a un benefattore uscito per noi dalla tomba. Che sentimento
commovente, signore, era questo… E mentre io stesso non ci credevo,
ero ben lontano dal voler distruggere questa fede nel suo nobile
cuore! Quante volte ci pensava, pronunciando a bassa voce il nome di
un amico molto caro, di un amico perduto! E quando fu vicino alla
morte, quando l’approssimarsi dell’eternità ebbe dato al suo spirito
qualche cosa della chiaroveggenza della tomba, questo pensiero, che
fino ad allora non era che un dubbio, divenne convinzione: e le
ultime parole che pronunciò morendo furono queste: “Maximilien, egli
era Edmond Dantès!”»
Il pallore del conte, che da qualche minuto stava crescendo, si fece
livido a queste parole. Tutto il sangue gli affluì al cuore; non
poteva parlare. Guardò l’orologio come se avesse dimenticata l’ora,
prese il cappello, e fece alla signora Herbault un complimento
momentaneo e impacciato, per poi stringere la mano a Emmanuel e a
Maximilien.
«Signori», disse, «permettetemi di venire qualche volta a
presentarvi i miei omaggi. Amo la vostra casa, e vi sono
riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta dopo molti
anni che il tempo mi è passato senza accorgermene.»
E uscì di corsa.
«Che uomo singolare è questo conte», commentò Emmanuel.
«Sì», concordò Maximilien, «ma sono sicuro che ha un cuore buono e
affettuoso.»
«E a me», concluse Julie, «la sua voce ha toccato il cuore, e due o
tre volte mi è sembrato che non fosse la prima volta che la
sentivo.»
50. Piramo e Tisbe
Quasi in fondo al Faubourg Saint-Honoré, dietro una bella casa, fra
le più importanti abitazioni di questo quartiere, si estende un
ampio giardino i cui castagni foltissimi sorpassano i muri alti come
bastioni, e all’arrivo della primavera lasciano cadere i loro fiori
bianchi e rosa in due vasi di pietra scanalata, collocati
parallelamente sopra due pilastri quadrangolari a sostenere un
cancello di ferro dei tempi di Luigi XIII.
Un simile, grandioso ingresso è sacrificato, a dispetto dei
magnifici gerani che crescono nei due vasi frusciando nel vento le
foglie marmoree e i bei fiori porpora, fin dall’epoca in cui i
proprietari del palazzo furono costretti a separare la casa dal
cortile alberato che immette nel Faubourg e dal giardino dietro il
cancello, un tempo uno stupendo frutteto. E ciò da quando la
speculazione edilizia ha tracciato una strada ai bordi del frutteto
e ha progettato di costruire altri palazzi in concorrenza alla
vicina grande arteria di Parigi, il Faubourg Saint-Honoré. Anche se,
quando si tratta di speculazioni, spesso l’uomo propone e il denaro
dispone, la strada morì prima di nascere e ne rimase solo la targa
in ferro brunito, e l’acquirente del frutteto, dopo aver terminato
di pagarlo, non riuscì a rivenderlo per la somma preventivata. Così,
in attesa d’un aumento del prezzo che potesse rifonderlo dei
quattrini sborsati, si ridusse ad affittare il terreno agli ortolani
parigini per trecento franchi l’anno, equivalenti a una rendita del
mezzo percento, veramente esigua se si pensa agli speculatori che
non si accontentano del 30 percento.
Così il cancello d’ingresso è chiuso e la ruggine lo corrode, e per
di più un tavolato è stato applicato alle sbarre fino all’altezza di
quasi due metri per impedire che gli sguardi plebei degli ortolani
possano contaminarne l’intimità aristocratica. Anche se le assi
sconnesse non impediscono sguardi furtivi, in una casa tuttavia dai
costumi severi.
Nell’orto, invece di cavoli e carote, piselli e meloni, cresce un
alto trifoglio, unica testimonianza di vita in questo luogo
abbandonato. Una piccola porta bassa che si apre sulla strada dà
ingresso a questo terreno recinto da alte mura, e ormai abbandonato
dagli affittuari per la sua sterilità, e che quindi da otto giorni,
invece di fruttare il solito mezzo per cento, non frutta un bel
niente. Dal lato del palazzo, i castagni di cui si è detto
circondavano le mura, anche se altre piante stendevano i loro rami
fioriti fra quei grossi alberi. E in un angolo, il fogliame era
talmente fitto che la luce poteva appena penetrarvi, e una larga
panchina di pietra e alcune seggiole da giardino lo indicavano come
il luogo favorito, o più intimo, di qualche abitante della casa,
lontana circa trenta metri e che tuttavia si poteva appena scorgere
fra i grovigli vegetali di quell’eremo: la scelta di questo rifugio
misterioso era giustificata, inoltre, dall’assenza della luce, dalla
continua freschezza pur nei giorni della più bruciante estate, dal
cinguettio degli uccelli che vi si annidavano, e dalla lontananza
dalla strada, cioè dal traffico e dal rumore.
Una sera di una delle più calde giornate che la primavera possa
portare agli abitanti di Parigi, su questa panchina di pietra, un
libro, un ombrellino, un cestello di lavoro e un fazzoletto di
batista, dall’orlo appena iniziato, erano stati abbandonati da una
ragazza che, vicino al cancello, guardava in una di quelle fessure
fra le assi, esplorando il terreno incolto che conosciamo. Pressoché
nello stesso momento, la piccola porta d’ingresso si apriva senza
rumore, e un giovane alto, vigoroso, coi baffi, la barba e i capelli
ben curati, entrò nel recinto. Indossava una giacca di tela grigia e
un berretto di velluto nero molto ordinari, in contrasto con
l’aspetto. Dopo un rapido sguardo attorno per assicurarsi di non
essere visto da estranei, rinchiuse la porticina e si diresse con
passo precipitoso verso il cancello. Alla vista del giovane, la
ragazza si ritirò altrettanto rapidamente. Tuttavia l’uomo, con
l’intuito degli innamorati, aveva già intravisto una veste bianca e
una larga cintura turchina, e subito corse verso il tavolato
avvicinando la bocca a una fessura.
«Non temete, Valentine, sono io», disse.
La ragazza si riaccostò.
«Perché siete venuto così tardi, oggi? Sapete che in casa mia si
pranza presto, e sono state necessarie astuzia e prontezza per
liberarmi dalla matrigna che mi sorveglia, dalla cameriera che mi
spia e da mio fratello che mi tormenta, e per venire a lavorare a un
fazzoletto di cui non riuscirò mai a finire l’orlo… Quando poi vi
sarete scusato per il vostro ritardo, mi direte che significa questo
nuovo vestito che avete addosso, per cui quasi me ne andavo non
avendovi riconosciuto.»
«Cara Valentine, siete troppo al di sopra del mio amore perché osi
parlarvene, e ciò nonostante tutte le volte che vi vedo ho bisogno
di dirvi che vi amo perché l’eco delle mie proprie parole mi
accarezzi dolcemente il cuore quando non vi vedo più. Vi ringrazio
della vostra lusinghiera protesta, perché prova, non oso dire che mi
aspettavate, ma che pensavate a me. Volevate sapere la causa del mio
ritardo, e il motivo del mio travestimento? Ve li dirò, e spero che
vorrete scusarmi: mi sono scelto un lavoro.»
«Un lavoro!?… Che volete dire, Maximilien? Siamo dunque così felici
perché possiate parlare scherzando delle cose che ci riguardano?»
«Il cielo me ne guardi», rispose il giovane, «di scherzare con la
mia vita! Ma stanco di essere un uomo che corre in guerra e che
scala mura, seriamente spaventato dall’idea che vostro padre un
giorno o l’altro mi avrebbe fatto giudicare come un ladro,
disonorando l’esercito francese, non meno spaventato dalla
possibilità che qualcuno si meravigli di vedermi ronzare intorno a
questo terreno, dove non c’è la più piccola fortezza da assediare o
il più piccolo ridotto da difendere, da capitano degli Spahi mi sono
fatto ortolano, e ho adottato l’abito della mia nuova professione.»
«Che follia!»
«È al contrario la cosa più saggia che abbia fatto in vita mia,
perché ci garantisce sicurezza. Sono andato a trovare il
proprietario di questo recinto; il contratto con il vecchio
affittuario era scaduto e l’ho preso io. Tutto questo trifoglio che
vedete è mio, Valentine, nulla può impedirmi d’ora innanzi di far
fabbricare una capanna fra questo fieno, e di vivere a venti passi
da voi. Non posso contenere la mia gioia pensando alla mia fortuna.
Credete, Valentine, che si possa giungere a pagare tutto questo?
Eppure tutta questa felicità, tutta questa gioia, per le quali avrei
dato dieci anni della mia vita, mi costano… indovinate un po’?…
cinquecento franchi all’anno pagabili per trimestre. In tal modo
d’ora innanzi non vi e più nulla da temere. Io qui sono in casa mia
e posso appoggiare una scala contro il mio muro e guardarvi, e ho
diritto di dirvi che vi amo, fino a che la vostra fierezza non si
offenda di sentirsi dire questa parola dalla bocca di un povero
contadino vestito con una giacchetta e coperto con un berretto.»
Valentine sospirò di gioia, poi subito si rattristò.
«Ahimè, Maximilien», disse, «ora noi saremo troppo liberi; la nostra
felicità ci farà tentare Dio: abuseremo della nostra sicurezza, e la
nostra sicurezza ci perderà.»
«Come potete dir questo, amica mia, a me, che da quando vi conobbi,
ogni giorno vi do prove che ho sottomesso i miei pensieri e la mia
vita alla vostra e ai vostri pensieri? Chi vi ha ispirato confidenza
in me? Il mio onore, non è vero? Quando mi avete detto che un vago
istinto v’assicurava che correvate un gran pericolo, io ho messo i
miei affetti ai vostri ordini, senza chiedervi altra ricompensa che
la felicità di servirvi. Da quel tempo vi ho dato, con una parola,
con un gesto, il motivo di pentirvi di avermi distinto fra quelli
che avrebbero dato la loro vita per voi? Voi mi avete detto, povera
cara, che siete fidanzata con il signor d’Epinay, che vostro padre
aveva stabilito questo matrimonio, vale a dire ch’esso era certo,
perché tutto ciò che vuole il signor Villefort accade
inevitabilmente. Ebbene, io sono rimasto fra le ombre aspettando
tutto, non dalla mia volontà, non dalla vostra, ma dagli
avvenimenti, dalla Provvidenza, da Dio… E frattanto voi mi amate,
voi avete avuto pietà di me, Valentine, me lo avete detto! E io vi
ringrazio di questa dolce parola, che vi prego di ripetermi di tanto
in tanto, e che mi farà dimenticare tutto.»
«Ed ecco ciò che vi ha reso ardito, Maximilien, ecco ciò che rende
la mia vita dolce a un tempo e infelice al punto che spesso domando
a me stessa se sia meglio per me il dispiacere che mi causava il
rigore della mia matrigna e la sua cieca preferenza per suo figlio,
o la felicità piena di pericoli che provo nel vedervi.»
«Di pericoli!» gridò Maximilien. «Come potete dire una parola così
aspra e così ingiusta? Avete mai visto uno schiavo più sottomesso di
me? Voi mi avete proibito di seguirvi, e io ho obbedito. Dacché ho
trovato il mezzo di penetrare in questo recinto, di parlare con voi
attraverso questa porta, di essere vicino a voi senza vedervi,
ditelo, ho mai domandato di toccare l’estremità del vostro vestito
attraverso questo cancello? Ho mai fatto un passo per superare
questo muro, ridicolo ostacolo per la mia esuberanza e la mia
giovinezza? Mai un rimprovero sul vostro rigore, mai un desiderio
espresso chiaramente: sono stato ligio alla mia parola, come un
cavaliere dei tempi antichi. Confessatelo almeno, perché io non vi
abbia a credere ingiusta.»
«È vero», disse Valentine spingendo un dito fra due assi, sul quale
Maximilien posò le labbra. «È vero, siete un amico onesto. Ma infine
non avete agito che nel vostro interesse, mio caro Maximilien…
Sapevate che il giorno in cui lo schiavo fosse divenuto esigente,
avrebbe tutto perduto. Voi avete promesso l’amicizia d’un fratello a
me, che non ho amici, che sono dimenticata dal padre, perseguitata
dalla matrigna, che non ho per consolazione che un vecchio immobile,
muto, paralizzato, la cui mano non può stringere la mia, il cui
occhio soltanto può parlarmi, e il cui cuore batte per me di un
residuo calore. Derisione amara della sorte che mi fu nemica, in
quanto vittima di tutti coloro che sono più forti di me, e che mi
danno un cadavere per sostegno e amico. Davvero, Maximilien, ve lo
ripeto, sono molto infelice, e voi avete ragione di amarmi per me e
non per voi.»
«Valentine», riprese il giovane con profonda emozione, «non dirò che
amo soltanto voi a questo mondo, perché amo anche mia sorella e mio
cognato, ma per loro provo un amore dolce e tranquillo, che non
somiglia in nulla a quello che provo per voi… Quando penso a voi, il
sangue mi bolle, il petto si gonfia, il cuore irrompe; ma questa
forza, quest’ardore, questa potenza sovrumana li dedicherò ad amar
voi soltanto fino al giorno che mi direte di usarli per servirvi. Il
signor Franz d’Epinay resterà assente ancora un anno, si dice… In un
anno quante cose possono accadere! Dunque speriamo sempre, è così
bello, così dolce sperare! Ma aspettando, voi, Valentine, voi che
rimproverate il mio egoismo, che cosa siete stata per me? La bella e
fredda statua della Venere pudica. In cambio di questo affetto, di
questa obbedienza, di questa riserva, che mi avete promesso? Nulla.
Che mi avete accordato? Ben poca cosa. Voi mi parlate del signor
d’Epinay, vostro fidanzato, e sospirate all’idea d’essere un giorno
sua. Vediamo, Valentine, è forse soltanto questo che avete
nell’anima? Io v’impegno la mia vita, vi do tutto me stesso, vi
consacro perfino il più insignificante battito del mio cuore, e
quando sono tutto vostro, quando vi dico in segreto che morrò se vi
perdo, voi non vi spaventate alla sola idea di dover divenire di un
altro. Oh, Valentine, Valentine! Se io fossi voi! Se io mi sapessi
amato, come voi siete sicura che vi amo, io già avrei passato la
mano fra le sbarre di questo cancello, e avrei stretto quella del
povero Maximilien dicendogli: “A voi, a voi solo, Maximilien, in
questo mondo e nell’altro”.»
Valentine non rispose, ma il giovane la sentì sospirare e piangere.
Il pentimento fu pronto nel giovane.
«Valentine, Valentine!» gridò. «Dimenticate le mie parole, se in
esse vi è qualche cosa che possa offendervi!»
«No», disse lei, «avete ragione: ma non vedete che io sono una
povera creatura abbandonata in una casa straniera, e la cui volontà
è stata annullata da dieci anni, giorno per giorno, ora per ora,
minuto per minuto dalla volontà di ferro dei miei padroni che mi
dominano? Nessuno sa quello che io soffro, e io non l’ho detto ad
altri che a voi. In apparenza, e agli occhi di tutto il mondo, tutti
sono buoni con me, tutti affettuosi, ma in realtà tutti mi sono
nemici. Il mondo dice: “Il signor Villefort è troppo duro, è troppo
severo per essere tenero con sua figlia, ma lui ha avuto almeno la
felicità di trovare nella signora Villefort una seconda madre”.
Ebbene il mondo s’inganna, mio padre m’abbandona con indifferenza, e
la mia matrigna mi odia con un accanimento tanto più terribile, in
quanto velato da un eterno sorriso.»
«Odiarvi, Valentine! E come può essere?…»
«Ahimè, amico caro, sono costretta a confessarvi che quest’odio per
me viene da un sentimento quasi naturale. Lei adora suo figlio, mio
fratello Edouard.»
«Ebbene?»
«Ebbene, mi sembra ingiusto mischiare tutto ciò a una questione di
denaro… Eppure,amico mio, credo che tale odio per me venga da lì.
Siccome non ha beni propri, e io sono già ricca anche dal solo lato
di mia madre, fortuna che mi verrà un giorno raddoppiata da quella
del signore e della signora di Saint-Méran, bene, credo che lei sia
invidiosa. Mio Dio, potessi regalarle metà di questa fortuna e
ritrovarmi presso il signor Villefort come una figlia in casa di suo
padre, lo farei in questo medesimo istante.»
«Povera Valentine!»
«Sì, mi sento incatenata, e nello stesso tempo così debole, che mi
sembra che questi ceppi mi sostengano, e ho paura a romperli.
D’altra parte mio padre non è uomo di cui si possano infrangere
impunemente gli ordini: è imperioso con me, e lo sarebbe anche con
voi, lo sarebbe con altri, coperto com’è da un irreprensibile
passato e da una posizione inattaccabile. Maximilien, ve lo giuro,
non combatto perché temo di spezzare voi al pari di me in questa
lotta.»
«Ma infine, Valentine», riprese Maximilien, «perché disperarvi
sempre così, e vedere l’avvenire sempre tetro?»
«Oh, amico mio, perché lo giudico dal passato.»
«Anche se non sono un partito illustre sotto il punto di vista della
nobiltà, sono però introdotto nella società nella quale vivete. Non
è più il tempo in cui c’erano due France nella Francia: le più
elevate famiglie della monarchia si sono fuse con quelle
dell’impero; l’aristocrazia della lancia ha sposata la nobiltà del
cannone. Ebbene, io appartengo a quest’ultima, ho una bella carriera
davanti a me nell’esercito, ho una discreta rendita; infine la
memoria di mio padre è onorata nel nostro paese come quella di uno
dei più onesti armatori che siano mai esistiti. Dico nel nostro
paese, Valentine, perché voi siete quasi di Marsiglia.»
«Non mi parlate di Marsiglia, Maximilien, la sola parola mi ricorda
la mia buona madre, quell’angelo che fu compianto da tutti, e che,
dopo aver vegliato su sua figlia durante il breve soggiorno su
questa terra, veglia ancora su di lei, almeno lo spero, dall’alto
del cielo. Se la mia povera mamma vivesse, Maximilien, non avrei più
nulla da temere: le direi che vi amo, e lei ci proteggerebbe.»
«Ahimè, Valentine», disse Maximilien, «se lei vivesse, certamente
non vi conoscerei, perché voi lo avete detto, se lei vivesse voi
sareste felice, e Valentine felice mi avrebbe guardato con sdegno
dall’alto della sua grandezza.»
«Amico mio», gridò Valentine, «questa volta siete voi l’ingiusto… ma
ditemi…»
«Che volete che vi dica?» insistette Maximilien, vedendo che
esitava.
«Ditemi», continuò la giovane, «a Marsiglia, nei tempi passati, vi
fu mai qualche motivo di dissenso fra la vostra famiglia e mio
padre?»
«Non che io sappia», rispose il giovane. «Se non che vostro padre
era un partigiano zelante dei Borboni, e il mio un uomo affezionato
all’Imperatore. Ciò è, a quanto presumo, la sola causa dei loro
cattivi rapporti. Ma perché mi fate questa domanda, Valentine?»
«Ve lo dirò», riprese la giovane, «perché voi dovete sapere tutto.
Ebbene era il giorno in cui fu pubblicata sui giornali la vostra
nomina di ufficiale della Legion d’Onore. Noi eravamo tutti nella
stanza di mio nonno, il signor Noirtier, e c’era anche il signor
Danglars, quel banchiere i cui cavalli per poco non hanno ucciso mia
madre e mio fratello. Io leggevo ad alta voce il giornale a mio
nonno, mentre gli altri discorrevano fra loro del probabile
matrimonio fra il signor Morcerf e la signorina Danglars quando,
come dicevo, giunsi al brano che vi concerneva. Ero molto felice ma
altrettanto tremante di dover pronunciare ad alta voce il vostro
nome e lo avrei probabilmente anche omesso, se non avessi avuto il
timore che il mio silenzio venisse male interpretato. Dunque
raccolsi tutto il mio coraggio e lessi.»
«Cara Valentine!»
«Ebbene, appena risuonò il vostro nome, mio padre volse la testa… Io
ero così convinta, vedete come sono pazza! che tutti sarebbero stati
colpiti da questo nome come da un fulmine, che credetti di veder
trasalire mio padre, e anche il signor Danglars, sebbene io sia
sicura che fu una mia illusione. “Morrel!” esclamò mio padre.
“Fermatevi!” m’intimò cupo. “Sarebbe uno di quei Morrel di
Marsiglia, uno di quegli arrabbiati bonapartisti che ci hanno
procurato tanto male nel 1815?” “Sì”, rispose il signor Danglars,
“credo sia il figlio del vecchio armatore.”»
«Davvero?» fece Maximilien. «E che rispose vostro padre?»
«Una cosa orribile che non ho il coraggio di ripetervi.»
«Dite pure», riprese Maximilien sorridendo.
«“Il loro Imperatore” continuò egli con uno sguardo truce “sapeva
mettere tutti quei fanatici al loro posto, li chiamava carne da
cannone, ed era il solo nome che meritassero. Vedo però con gioia
che il nuovo governo rimette in vigore questo salutare principio. Se
per questo soltanto vuol conservare l’Algeria, farei le mie
felicitazioni al governo, benché ci costi un po’ cara.”»
«Difatti questa è una politica un po’ brutale», riconobbe
Maximilien. «Ma non arrossite, amica mia, di ciò che può aver detto
il signor Villefort. Mio padre non la cedeva al vostro su questo
argomento, e ripeteva continuamente: “E perché dunque l’Imperatore
che fa tante belle cose, non fa un reggimento di giudici e avvocati,
e non li manda in prima linea?” Vedete, amica cara, che gli uomini
di partito si somigliano tutti in quanto a espressioni brutali e
delicatezza di pensiero. Ma il signor Danglars che ha detto di
questa uscita del procuratore del re?»
«Si mise a ridere con quel sorriso sornione che gli è particolare, e
che io trovo feroce; poi si alzarono, e subito dopo se ne andarono.
M’accorsi allora soltanto che mio nonno era molto agitato. Bisogna
che sappiate, Maximilien, che io sola indovino le agitazioni di
questo povero paralitico, e d’altra parte già temevo che la
conversazione dovesse averlo molto agitato, perché non usando più
alcun riguardo in presenza di questo povero vecchio, avevano parlato
male dell’Imperatore, e a quanto so egli deve esserne stato un
fanatico.»
«È uno dei nomi più conosciuti dell’Impero; è stato senatore e ha
preso parte, come saprete, a tutte le cospirazioni bonapartiste che
hanno avuto luogo sotto la Restaurazione.»
«Sì, sento qualche volta dire a bassa voce alcune cose simili, che
mi sembrano strane; il nonno bonapartista, il padre realista, che
volete che ne capisca? Io mi voltai dunque verso di lui, ed egli
m’indicò con lo sguardo il giornale.
“Che avete, nonno?” gli chiesi. “Siete contento?”
Fece segno di sì.
“Di ciò che ha detto mio padre?” domandai.
Fece segno di no.
“Di ciò che ha detto il signor Danglars?”
Fece ancora segno di no.
“È dunque perché il signor Morrel”, non osai dire Maximilien, “ha
avuto la nomina di ufficiale della Legion d’Onore?”
Fece segno di sì.
Lo credereste, Maximilien? Era contento perché eravate stato
nominato ufficiale della Legion d’Onore, lui che non vi conosce;
questa è forse una follia da parte sua… Dicono che ritorni
fanciullo… Ma l’amo ancora di più per questo, sì.»
«La cosa è bizzarra», disse Maximilien. «Vostro padre mi odierebbe,
mentre vostro nonno il contrario… Quale stranezza questi amori e
questi odi di partito!»
«Zitto!» gridò Valentine. «Nascondetevi, fuggite, arriva gente.»
Maximilien corse a una zappa, e si mise a vangare con foga il
trifoglio.
«Signorina, signorina!» chiamò una voce dietro gli alberi. «La
signora Villefort vi cerca dappertutto. C’è una visita.»
«Una visita!» esclamò Valentine agitata. «E chi è che ci fa questa
visita?»
«Un gran signore, un principe a quanto dicono, il conte di
Montecristo.»
«Vengo!» disse ad alta voce Valentine.
Questa parola fece tremare dall’altra parte del cancello colui per
il quale la parola di Valentine significava un addio.
«Toh», si disse Maximilien, appoggiandosi pensieroso alla zappa.
«Come mai il conte di Montecristo conosce il signor Villefort?»
51. Tossicologia
Era davvero il conte di Montecristo colui che entrava dalla signora
Villefort, con l’intenzione di restituirle la visita che il
procuratore del re gli aveva fatto, e a questo nome tutta la casa,
come è facile immaginare, s’era messa in agitazione.
La signora Villefort, che non era sola nel salotto, quando fu
annunciato il conte fece subito chiamare suo figlio, affinché gli
rinnovasse i ringraziamenti; Edouard, che da due giorni non aveva
cessato di sentir parlare di questo gran personaggio, accorse in
tutta fretta non per ubbidire a sua madre, non per ringraziare il
conte, ma per pronunciare qualcuna di quelle impertinenze che
facevano dire a sua madre: «Che cattivo ragazzo! Ma bisogna
perdonarlo, è così intelligente!»
Dopo i primi convenevoli, il conte domandò del signor Villefort.
«Mio marito è a pranzo dal signor cancelliere», rispose la giovane
sposa. «È partito da poco e sarà molto dispiaciuto, ne sono certa,
di essere stato privato della fortuna di vedervi.»
Due visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto, e che lo
divoravano con gli occhi, si ritirarono dopo quel tempo conveniente
che esige l’educazione e la curiosità.
«A proposito, che fa dunque vostra sorella Valentine?» domandò la
signora Villefort a Edouard. «Avvisatela, affinché abbia l’onore di
presentarla al signor conte.»
«Avete una figlia, signora?» s’incuriosì il conte. «Deve essere una
bambina…»
«È figlia del signor Villefort», rispose la giovane sposa, «una
figlia del primo matrimonio, una bella ragazza.»
«Però malinconica», interruppe il giovane Edouard, strappando, per
farsene un pennacchio al cappello, una penna a uno splendido
pappagallo, che gridò per il dolore nella sua gabbia dorata.
La signora Villefort si limitò a dire: «Smettila, Edoardo!» Poi
aggiunse: «Questo birbante ha quasi ragione, e ripete adesso ciò che
ha sentito dire da me diverse volte con dolore; perché la signorina
Villefort, per quanto facciamo per distrarla, è di un’indole triste,
di un umore taciturno, che spesso nuoce all’effetto della sua
bellezza… Ma non viene… Edouard, vedete dunque perché».
«Perché la cercano dove non è.»
«Dove la cercano?»
«Dal nonno Noirtier.»
«E credete che non sia là?»
«No, no, no, non c’è», beffeggiò Edoardo.
«E dov’è? Se lo sapete, ditelo.»
«È sotto il grande castagno», continuò il perfido ragazzo, offrendo,
nonostante le grida di sua madre, alcune mosche ancora vive al
pappagallo che sembrava ghiotto di quel cibo.
La signora Villefort allungò la mano per suonare, e per far sapere
alla cameriera dove stava Valentine, quando la giovane entrò.
Difatti sembrava triste, e guardandola attentamente si sarebbero
potute scorgere nei suoi occhi le tracce delle lacrime.
Valentine, che per la rapidità del racconto abbiamo presentato ai
nostri lettori senza farla conoscere, era alta e snella, di
diciannove anni, con i capelli castano chiari, la figura morbida e
ben modellata, e con quella squisita signorilità che distingueva sua
madre. Le sue mani bianche e affilate, il collo d’avorio, le guance
colorate, le davano, al primo aspetto, l’aria di quelle belle
inglesi che con molta poesia sono state paragonate a dei cigni che
si specchiano. Entrò dunque, e vedendo vicino a sua madre lo
straniero di cui aveva inteso parlare, salutò, senz’alcuna smorfia
da ragazzina, e senza abbassare gli occhi, con una grazia che
raddoppiò l’attenzione del conte, il quale si alzò.
«La signorina Villefort, mia figliastra», disse la signora Villefort
a Montecristo chinandosi sul sofà, e indicando con la mano
Valentine.
«È il signor di Montecristo, re della Cina, imperatore della
Cocincina!» esclamò il ragazzo impertinente, lanciando uno sguardo
alla sorella.
Questa volta la signora Villefort impallidì, e quasi si adirò contro
quel flagello domestico che rispondeva al nome di Edouard; ma il
conte al contrario sorrise e parve guardasse il bambino con
compiacenza, il che portò al colmo la gioia e l’entusiasmo della
madre.
«Ma signora», riprese il conte riannodando la conversazione, e
guardando ora la signora Villefort, ora Valentine, «è forse
possibile che abbia avuto l’onore di veder voi e la signorina in
qualche altro luogo? Poco fa ci pensavo e quando entrò la signorina
la sua vista è stata uno sprazzo di luce su un confuso ricordo,
perdonate l’espressione.»
«Non è probabile, signore; la signorina Villefort ama poco la
società e noi usciamo raramente.»
«Ma non in società ho visto la signorina e voi, come questo grazioso
folletto. La società parigina, d’altra parte, mi è sconosciuta,
perché, credo di avere avuto l’onore di dirvelo, sono a Parigi da
pochi giorni. No, se permettete che mi ricordi… aspettate…» Il conte
appoggiò la mano alla fronte come per concentrarsi. «No, è
all’estero… è… non so bene, ma mi sembra che questo ricordo sia
collegato a un bel sole, e a una specie di festa religiosa… La
signorina teneva dei fiori in mano, il bambino correva dietro un bel
pavone in un giardino, e voi, signora, eravate sotto un pergolato di
foglie… Aiutatemi dunque, signora, forse quanto vi dico non vi
rammenta qualche cosa?»
«No, in verità», rispose la signora Villefort. «Eppure mi sembra che
se vi avessi incontrato in qualche luogo il ricordo di voi mi
sarebbe rimasto impresso.»
«Il signor conte ci avrà forse viste in Italia», disse timidamente
Valentine.
«Difatti in Italia… Siete stata in Italia, signorina?»
«La signora e io ci andammo circa due anni fa; i medici temevano per
la mia salute e mi avevano raccomandato l’aria di Napoli. Passammo
per Bologna, Perugia e Roma.»
«Ah, è vero signorina!» esclamò Montecristo, come se questa piccola
indicazione gli fosse bastata per fissare i suoi ricordi. «Fu a
Perugia, il giorno di una festa, nella locanda della Posta, dove la
combinazione ci riunì, signora, vostro figlio, la signorina e io.»
«Mi ricordo perfettamente di Perugia, della locanda della Posta,
della festa di cui mi parlate», ammise la signora Villefort, «ma ho
un bell’interrogare i miei ricordi, e mi vergogno della mia poca
memoria, ma non ricordo di avere avuto l’onore di vedervi.»
«È strano, neppure io», disse Valentine alzando i suoi begli occhi
sul conte di Montecristo.
«Io me ne ricordo», saltò su Edouard.
«Vi aiuterò, signora», riprese il conte. «La giornata era calda;
aspettavate dei cavalli che non venivano a causa della festa. La
signorina si allontanò all’interno del giardino, vostro figlio
scomparve correndo dietro al pavone.»
«E lo raggiunsi, mamma, lo sai», disse Edouard, «gli strappai due
penne della coda.»
«Voi signora, vi fermaste sotto il pergolato di viti… Non ricordate
più che mentre eravate seduta su una panchina di pietra, mentre,
come vi dicevo, la signorina Villefort e vostro figlio erano
assenti, voi parlaste lungamente con qualcuno?»
«Sì, è vero», rispose la giovane sposa arrossendo, «mi ricordo, con
un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana… con un medico,
credo.»
«Precisamente, signora, quell’uomo ero io. Soggiornavo da quindici
giorni in quell’albergo dove avevo guarito il mio cameriere dalla
febbre, e il mio locandiere dall’itterizia, per cui ero considerato
un gran dottore. Parlammo a lungo, signora, di cose diverse, del
Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella
famosa acqua tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservano
ancora il segreto a Perugia.»
«È vero!» esclamò vivamente la signora Villefort, con una certa
inquietudine. «Me ne ricordo.»re, signora», riprese il conte con
tranquillità, «ma rammento benissimo che, condividendo voi pure
l’equivoco sulla mia professione, mi consultaste sulla salute della
signorina Villefort.»
«Voi però, signore, eravate realmente medico, poiché guariste degli
infermi.»
«Molière e Beaumarchais vi risponderebbero, signora, che appunto
perché non medico, non ho potuto guarire i miei malati, ma essi sono
guariti da sé. Mi limiterò a dirvi che ho studiato molto
profondamente la chimica, le scienze naturali, ma soltanto come
dilettante… capite?»
In quel momento suonarono le sei.
«Sono le sei», disse la signora Villefort visibilmente agitata.
«Valentine, volete andare a vedere se vostro nonno è pronto per
pranzare?»
Valentine si alzò, e salutando il conte, uscì dalla stanza senza
pronunciare una parola.
«Mio Dio, signora, sarebbe mai per colpa mia che avete fatto uscire
la signorina?» chiese il conte quando Valentine fu uscita.
«No, davvero», rispose vivacemente la giovane sposa. «Ma questa è
l’ora nella quale facciamo servire al signor Noirtier il misero
pasto che sostiene la sua triste esistenza. Sapete, signore, in
quale deplorevole stato è il padre di mio marito?» «Sì, signora, il
signor Villefort me ne ha parlato, credo una paralisi.»
«Purtroppo sì, per il povero vecchio vi è completa assenza di
movimenti, l’anima sola veglia in quella macchina umana, pallida e
tremante come una lampada vicina a estinguersi… Ma mi scusi,
signore, se vi ho trattenuto sui nostri guai domestici; vi ho
interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico.»
«Non dicevo questo, signora», rispose il conte con un sorriso. «In
realtà, ho studiato la chimica quando, deciso a vivere
particolarmente in Oriente, ho voluto seguire l’esempio del re
Mitridate.»
«Mithridates, rex Ponti», interruppe il ragazzo impertinente
stracciando dei disegni in un magnifico album. «Quello che faceva
colazione tutte le mattine con una tazza di veleno al fior di
latte.»
«Edouard, perfido ragazzo!» esclamò la signora Villefort, strappando
il libro mutilato dalle mani del figlio. «Siete insopportabile!
Andate a raggiungere vostra sorella Valentine presso il nonno.»
«L’album», disse Edoardo.
«Come l’album?»
«Sì, lo voglio…»
«Perché avete stracciato i disegni?»
«Perché mi diverte.»
«Andatevene, andatevene!»
«Non me ne andrò, se prima non mi date l’album», insistette il
ragazzo, accomodandosi su una seggiola.
«Prendete e lasciateci tranquilli», disse la signora Villefort.
E dette l’album a Edouard, che uscì accompagnato da sua madre sin
sulla soglia. Il conte seguì con gli occhi la signora Villefort.
«Vediamo se chiude la porta…» si disse.
La signora chiuse la porta con gran cura dietro il ragazzo; il conte
fece mostra di non accorgersene. Quindi gettando un ultimo sguardo
intorno, la giovane sposa si sedette sulla poltrona.
«Permettetemi di farvi osservare, signora», riprese il conte con
quella bonarietà di cui lo conosciamo dotato, «che voi siete un poco
severa con questo grazioso folletto.»
«È necessario, signore…» replicò lei con tono materno.
«Egli citava Cornelio Nepote, parlando del re Mitridate», disse il
conte, «e voi lo avete interrotto in una recitazione che prova che
il precettore non ha sprecato il tempo con lui, e che vostro figlio
è molto avanti per la sua età.»
«Il fatto è, signor conte», riprese la madre dolcemente lusingata,
«ch’egli ha una grande facilità, e impara tutto ciò che vuole; non
ha che un difetto, ed è di avere troppa forza di volontà. Ma a
proposito di ciò che si diceva, credete forse che Mitridate usasse
queste cautele e che fossero efficaci?»
«Lo credo a tal punto, signora, da aver fatto lo stesso in occasioni
nelle quali, senza queste cautele, vi avrei potuto lasciare la
vita.»
«E l’antidoto è stato efficace?»
«Perfettamente.»
«Sì, è vero, mi ricordo che voi mi diceste qualche cosa di simile a
Perugia.»
«Davvero?» fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata.
«Non me ne rammento.»
«Io vi domandai se i veleni operavano ugualmente e con la stessa
energia sugli uomini del Nord che su quelli del Mezzogiorno, e voi
mi rispondeste che i temperamenti freddi e linfatici dei
settentrionali non presentano la stessa attitudine della ricca ed
energica natura delle persone del Mezzogiorno.»
«È vero», disse Montecristo. «Ho visto dei russi divorare senza
problemi sostanze vegetali che avrebbero ucciso infallibilmente un
arabo.»
«Per cui credete che in mezzo alle nostre nebbie e alle nostre
piogge un uomo si potrebbe più facilmente, che in regioni calde,
abituare a questo lento e progressivo assorbimento di veleno?»
«Certamente, ben inteso però senza premunirsi di antidoto contro il
veleno a cui si deve abituare.»
«Capisco! E in che modo vi ci abituereste voi, per esempio, o
piuttosto in che modo vi ci siete già abituato?»
«Supponete che sappiate già prima quale veleno si voglia usare
contro di voi, supponete che sia della brucina.»
«La brucina si ricava dalla falsa angostura, credo», disse la
signora Villefort.
«Precisamente signora», confermò Montecristo. «Ma vedo che mi resta
poco da insegnarvi. Vi faccio le mie congratulazioni; simili
conoscenze sono rare nelle donne.»
«Ve lo confesso signore, ho il più vivo interesse per le scienze
occulte, che parlano all’immaginazione come una poesia, e si
risolvono in cifre come una equazione algebrica… Ma continuate vi
prego, ciò che mi dite mi interessa moltissimo.»
«Ebbene», riprese Montecristo, «supponete che questo veleno sia la
brucina, per esempio, e che ne prendiate un millesimo di grammo il
primo giorno, due il secondo e così via… Ebbene, dopo 10 giorni ne
prenderete un centigrammo, dopo 20 ne prenderete tre centigrammi,
vale a dire una dose che sopporterete senz’alcun inconveniente, e
che sarebbe pericolosissima per un’altra persona che non avesse
prese le stesse cautele; infine dopo un mese, bevendo nello stesso
bicchiere, voi ammazzereste una persona che beva quest’acqua con
voi. Vi accorgerete solo da un piccolo malessere che c’era una
sostanza velenosa mescolata al liquido.»
«Non conoscete altri antidoti?»
«Non ne conosco altri.»
«Avevo spesso letto e riletto questa storia di Mitridate», disse la
signora Villefort, «e l’avevo creduta una favola.»
«No, signora, diversamente dal solito, questa è una verità, ma ciò
che mi dite, ciò che chiedete non è curiosità d’un momento poiché
sono due anni che mi fate le stesse domande, e ora mi dite che la
storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo.»
«È vero, signore, i due studi favoriti della mia gioventù sono stati
la botanica e la mineralogia, e quando poi ho saputo che l’uso di
questi semplici sostanze spiegava spesso tutta la storia dei popoli,
e tutta la vita degli individui d’Oriente, nello stesso modo con cui
i fiori spiegano tutti i loro pensieri amorosi, mi è spiaciuto di
non essere un uomo per diventare un Flamel, un Fontana, o un
Cabanis.»
«Tanto più, signora», aggiunse Montecristo, «che gli orientali non
si limitano, come Mitridate, a servirsi dei veleni come una corazza,
ma se ne servono come pugnali: la scienza nelle loro mani diventa
non solo un’arma difensiva, ma anche offensiva: l’una serve loro
contro le sofferenze fisiche, l’altra contro i loro nemici; con
l’oppio, con la belladonna, con l’hashish si procurano sogni di
felicità che il cielo ha loro realmente negati; con la falsa
angostura, con il legno di bryonia, con il lauro-ceraso addormentano
quelli che vorrebbero svegliarsi. Non vi è una fra le donne
egiziane, turche, o greche, che qui chiamate “buone donne”, che non
sappia in fatto di chimica stupire un medico.»
«Davvero?» si stupì la signora Villefort, i cui occhi brillavano di
uno strano fuoco durante la conversazione.
«Sì, signora. I drammi segreti d’Oriente si annodano e si sciolgono
così, dalla pianta che fa amare fino a quella che fa morire; dalla
bevanda che vi rapisce in estasi, fino a quella che può far scendere
un uomo nella tomba. Vi sono tante gradazioni di ogni genere, quanti
sono i capricci e le bizzarrie dell’umana natura, fisica, e morale,
e, dirò di più, l’arte di questi chimici sa adattare mirabilmente il
rimedio e il male ai propri bisogni d’amore, e ai propri desideri di
vendetta.»
«Ma, signore», riprese la giovane sposa, «queste società orientali,
in mezzo alle quali avete passato gran parte della vostra esistenza,
sono dunque fantastiche come i racconti che vengono da questi bei
Paesi? È dunque una realtà la Baghdad o la Bassora del signor
Galland? I sultani e i visir che reggono queste società, e che
costituiscono ciò che si chiamerebbe in Francia il governo, sono
dunque sul serio tanti Harun al-Rascid e tanti Giaffar, che non solo
perdonano a un avvelenatore, ma lo fanno anche primo ministro, se
questo delitto è stato ingegnoso; e poi, in questo caso, ne fanno
stampare la storia in lettere dorate per divertirsi nelle loro ore
di noia?»
«No, signora, il fantastico non esiste più, neppure in Oriente; vi
sono anche laggiù, mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri
costumi, dei giudici istruttori, dei procuratori del re, e dei
periti. Vi s’impicca, vi si taglia la testa, vi s’impala
allegramente; ma i delinquenti, da esperti frodatori, hanno saputo
illudere la giustizia umana e assicurare il successo alle loro
imprese con abili combinazioni. Presso di noi un imbecille posseduto
dal demone dell’odio e della cupidigia, che ha un nemico da
distruggere o un parente da annientare, va da uno speziale, gli dà
un nome falso, che poi più facilmente farà scoprire il suo vero, e
compra cinque o sei grammi d’arsenico; s’egli è molto furbo, va da
cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte conosciuto
meglio: poi quando possiede il suo veleno, amministra al nemico, o
al parente, una dose d’arsenico che farebbe crepare un elefante o un
rinoceronte, e che fa mandare alla sua vittima urli tali da mettere
tutto il quartiere sossopra. Allora giunge un nugolo di agenti di
polizia, o di gendarmi; si manda a cercare un medico, che fa
l’autopsia, e raccoglie nello stomaco o negli intestini l’arsenico a
cucchiaiate; il giorno dopo cento giornali raccontano il fatto con
il nome della vittima e dell’uccisore. Fin dalla sera stessa lo
speziale, o gli speziali, viene o vengono a dire “Sono io che ho
venduto l’arsenico al signore” e, piuttosto che non riconoscere il
compratore, ne riconoscerebbero venti; allora il maldestro colpevole
è preso, imprigionato, interrogato, confrontato, confuso, condannato
e ghigliottinato o, se è una donna della buona società, viene
imprigionata a vita. Ecco il modo in cui i nostri settentrionali
intendono la chimica. Desrues però la conosceva meglio, debbo
confessarlo.»
«Che volete, signore. non tutti possiedono i segreti dei medici o
dei Borgia!» disse la giovane sposa ridendo.
«Ora», riprese il conte stringendosi nelle spalle, «volete che vi
dica qual è la causa di tutte queste sciocchezze? È che nei teatri,
a quanto ho potuto giudicare io stesso dalla lettura delle opere che
vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire il
contenuto di un’ampolla, mordere la montatura di un anello, e cadere
cadavere; cinque minuti dopo cala il sipario, gli spettatori si
disperdono, s’ignorano le conseguenze dell’omicidio, non si vede mai
né il commissario di polizia con la sciarpa, né il caporale coi suoi
quattro agenti, e ciò autorizza i cervelli mediocri a credere che le
cose finiscano così. Ma uscite un po’ dalla Francia, andate ad
Aleppo o al Cairo, e vedrete passeggiare per le strade persone tutte
fresche e floride, delle quali il diavolo zoppo, se vi toccasse con
il suo mantello, potrebbe dirvi: “Questo signore è avvelenato da tre
settimane e sarà morto tra un mese”.»
«Ma allora», replicò la signora Villefort, «hanno dunque trovato
finalmente il segreto di quella famosa acqua tofana che a Perugia si
diceva perduto.»
«Eh, signora, forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si
spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco
tutto: l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso risultato, il
veleno. Ciascun veleno opera particolarmente su un tale o tal altro
organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine
sugli intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa
un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia scritta nel
libro della scienza, cosa che non le impedisce di essere del tutto
mortale; e quand’anche non lo fosse, lo diverrebbe grazie ai rimedi
somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi
chimici. Ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, sul
quale la giustizia non ha da ridire, come diceva un terribile
chimico mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che
aveva molto studiato i fenomeni del suo Paese.»
«È spaventoso, ma ammirabile», commentò la giovane sposa immobile
per l’attenzione. «Lo confesso, credevo che tutte queste fossero
invenzioni del medioevo.»
«Sì, senza dubbio, ma che si sono perfezionate ai giorni nostri. A
che volete dunque che servano i tempi, gli incoraggiamenti, le
medaglie, le croci, i premi alla virtù se non per condurre la
società alla sua più grande perfezione? Ora l’uomo non sarà perfetto
che quando saprà come creare e distruggere come la natura. Egli sa
distruggere, dunque la metà del cammino è fatta.»
«Di modo che», riprese la signora Villefort, ritornando
invariabilmente al suo scopo, «i veleni dei Medici, dei Renato, dei
Ruggero, e più tardi probabilmente del barone von Trenck, di cui ha
tanto abusato l’odierno dramma e il romanzo…»
«Erano conquiste dell’arte, signora, non altro», concluse il conte.
«Credete che il vero sapiente s’indirizzi bonariamente allo stesso
individuo? No, davvero. La scienza ama il recondito, le grandi
fatiche, l’ideale, se ciò si può dire. Così a mo’ d’esempio,
quell’eccellente Adelmonte di cui vi parlavo ha fatto al riguardo
eccellenti esperienze; ve ne citerò una sola. Aveva un bellissimo
giardino pieno di legumi, di fiori e di frutti. Egli sceglieva il
più umile di tutti questi legumi, per esempio, un cavolo. Per tre
giorni lo annaffiava con una soluzione di arsenico; il terzo giorno
il cavolo cadeva malato e appassiva; era il momento di tagliarlo:
per tutti sembrava maturo e conservava la normale apparenza; per
Adelmonte solo era avvelenato. Allora egli portava il cavolo a casa,
e prendeva un coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli,
di gatti, di porcellini d’India, che nulla aveva da invidiare alla
collezione di legumi, di fiori e di frutti), prendeva dunque un
coniglio e gli faceva mangiare una foglia di cavolo; il coniglio
moriva. Quale sarebbe il giudice istruttore che potrebbe trovare da
ridire su ciò? E quale procuratore del re ha mai sognato di
stabilire una requisitoria contro Magendie o Flourens sul conto dei
conigli, dei porcellini d’India e dei gatti che hanno ucciso?
Nessuno: ecco dunque un coniglio morto senza che la giustizia se ne
inquieti. Morto il coniglio, Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua
cuoca e gettava gli intestini sopra un letamaio; su questo un pollo
va a beccare gli intestini, si ammala a sua volta e muore
l’indomani. Mentre si dibatte nelle convulsioni dell’agonia passa un
avvoltoio (vi sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte), piomba
sul cadavere, lo porta su una roccia e lo divora. Tre giorni dopo il
povero avvoltoio, che dopo questo pasto si è trovato costantemente
indisposto, si sente preso da un capogiro durante il volo, s’avvita
in aria e cade in un vostro vivaio di pesci: voi sapete che il
luccio, l’anguilla, la murena mangiano golosamente, essi mordono
l’avvoltoio. Ebbene supponete che l’indomani venga servito alla
vostra tavola uno di questi lucci, una di queste anguille, una di
queste murene avvelenate dopo quattro passaggi; il vostro convitato,
che lo sarà al quinto, morrà in capo a otto o dieci giorni di dolore
di pancia, di male al cuore, di ascesso al piloro. Verrà fatta
l’autopsia, e i medici diranno: è morto di un tumore al fegato o di
una febbre tifoidea.»
«Ma», ribatté la signora Villefort, «tutti questi passaggi che voi
concatenate gli uni agli altri possono essere interrotti dal più
piccolo accidente: l’avvoltoio, per esempio, può non passare in
tempo, o cadere a cento passi dal vivaio…»
«Ecco dove sta precisamente l’arte. Per essere un gran chimico in
Oriente, bisogna saper prendere l’occasione: e vi si giunge.»
La signora Villefort era tutta intenta ad ascoltarlo.
«Eppure», obiettò ancora, «l’arsenico è indelebile; in qualunque
modo venga assorbito si trova sempre nel corpo umano, se introdotto
in quantità sufficiente per darne la morte.»
«Esatto», gridò Montecristo, «è ciò che dissi al buon Adelmonte.
Egli sorrise, e mi rispose con un proverbio siciliano, che credo sia
anche un proverbio francese: “Figlio mio, il mondo non fu fatto in
un giorno, ma in sette, ritornate domenica”. La domenica successiva
vi andai, invece di avere annaffiato il suo cavolo con la soluzione
arsenicale, l’aveva annaffiato con una soluzione a base di
stricnina, strychnos colubrina come dicono gli scienziati. Questa
volta il cavolo non aveva l’aspetto malato, per cui il coniglio non
ne diffidava; e cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò e
il giorno dopo era morto. Allora noi facemmo come l’avvoltoio, il
pollo venne sventrato. Questa volta tutti i sintomi particolari
erano spariti, e non restavano che i sintomi generali. Nessuna
indicazione sugli organi, soltanto esasperazione del sistema
nervoso, e traccia di congestione cerebrale, nient’altro; il pollo
non era stato avvelenato, era morto d’apoplessia. È un caso raro nei
polli, lo so, ma comunissimo nell’uomo.»
La signora Villefort sembrava sempre più assorta.
«È una fortuna», disse, «che tali sostanze non possano essere
preparate che dai chimici, perché altrimenti una metà del mondo
avvelenerebbe l’altra.»
«Da chimici, e da quelli che si occupano di chimica», rispose
negligentemente Montecristo.
«E poi», continuò la signora Villefort distogliendosi con forza dai
suoi pensieri, «per quanto sapientemente preparato, il delitto è
sempre un delitto; e se sfugge alle umane investigazioni, non sfugge
però allo sguardo di Dio! Gli orientali sono più coraggiosi di noi,
ecco tutto.»
«Signora, questo è un pensiero che deve naturalmente nascere in
un’anima onesta come la vostra, ma che i sofismi sradicano ben
presto nei perversi. La vita dell’uomo scorre facendo tali cose, e
la sua intelligenza si stanca a segnarle. Voi troverete ben poche
persone che vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore del
loro simile, o a somministrare una dose d’arsenico, come quella di
cui vi parlavo or ora. Questa è veramente una eccentricità o una
bestialità. Per giungere a ciò bisogna che il sangue si riscaldi e
che l’anima esca dai limiti ordinari. Ma se, come si usa in
filologia, si passa dalla parola al sinonimo, voi fate una semplice
eliminazione, invece di commettere un ignobile assassinio; se
allontanate puramente e semplicemente dal vostro sentiero colui che
vi dà fastidio, e ciò senza scossa, senza violenza, senza quelle
sofferenze che, diventando un supplizio, fanno della vostra vittima
un martire e di chi opera un carnefice in tutta l’estensione del
termine; se non vi è né sangue, né urli, né contorsioni, né
soprattutto la pericolosa fretta del delitto, allora voi sfuggite ai
colpi della legge umana che vi dice: “Non disturbate la società”.
Ecco come procedono e riescono le genti d’Oriente, persone gravi, e
flemmatiche, che s’inquietano poco sulla questione del tempo nelle
circostanze di una certa importanza.»
«Resta la coscienza», disse la signora Villefort con voce commossa
soffocando un sospiro.
Montecristo voleva continuare, ma lei lo interruppe come per cambiar
discorso.
«Tutto mi conduce a considerarvi», disse, «un gran chimico, e
quell’elisir che avete fatto prendere a mio figlio, che lo ha
richiamato così rapidamente alla vita…»
«Non fidatevi», la interruppe Montecristo. «Una goccia di
quell’elisir bastò per richiamare vostro figlio alla vita mentre
stava per morire, ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue ai
polmoni, in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore, sei
gocce gli avrebbero sospesa la respirazione, e gli avrebbero causato
una sincope molto più grave di quella in cui si trovava; dieci lo
avrebbero fulminato. Avete visto, signora, in che modo lo allontanai
da quelle ampolle che aveva avuto l’imprudenza di toccare…»
«È dunque un veleno terribile?»
«Mio Dio, no! Bisogna prima ammettere che la parola veleno non
esiste: in medicina si servono dei veleni più violenti, che
divengono, per il modo con cui sono amministrati, i rimedi più
salutari.»
«Che cos’è dunque allora?»
«È una sapiente pozione del mio amico, l’eccellente Adelmonte, e di
cui mi ha insegnato a servirmi.»
«Dev’essere un eccellente antispasmodico», disse la signora
Villefort.
«Un ottimo rimedio, signora, lo avete visto», confermò il conte, «e
io ne faccio uso frequentemente con tutta la prudenza possibile, ben
inteso», aggiunse ridendo.
«Lo credo; in quanto a me, tanto nervosa e così facile a svenire
avrei bisogno di pillole per respirare meglio, giacché il mio
terrore è di morire soffocata. Ma siccome è difficile trovar ciò in
Francia, e il vostro amico non sarà disposto a fare per me un
viaggio a Parigi, io faccio uso degli antispasmodici del signor
Planche, e la menta e le gocce di Hoffmann si trovano sempre in casa
mia. Ecco le pastiglie che mi faccio fare espressamente: sono a
doppia dose.»
Montecristo aprì la scatola di madreperla che gli porgeva la giovane
sposa, e odorò le pastiglie come un esperto in grado di apprezzare
quei preparati.
«Sono squisite», disse, «ma bisogna deglutirle, e spesso ciò è
impossibile a una persona svenuta. Preferisco il mio preparato.»
«Certamente; io pure lo preferirei, particolarmente dopo gli effetti
visti. Senza dubbio sarà un segreto, e non sono tanto indiscreta da
chiedervelo…»
«Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo.»
«Oh, signore.»
«Soltanto ricordatevi d’una cosa, che a piccola dose è un rimedio,
ad alta dose è un veleno. Una goccia rende la vita, come avete
visto, cinque o sei ammazzerebbero infallibilmente e in modo
terribile. Sciolte in un bicchier di vino non ne altererebbero
minimamente il gusto… E qui taccio, perché sembrerebbe che voglia
consigliarvi…»
Le sei e mezzo erano suonate, fu annunciato un amico della signora
Villefort che veniva a pranzo da lei.
«Se avessi l’onore di avervi già frequentato più volte e avessi così
l’onore d’essere vostra amica, invece di avere soltanto la fortuna
d’esservi obbligata, insisterei perché rimaneste a pranzo, e non mi
lascerei scoraggiare da un primo rifiuto…»
«Mille grazie, signora», rispose Montecristo. «Ho un impegno al
quale non posso mancare. Ho promesso di condurre a teatro una
principessa greca mia amica, che non è ancora stata all’Opéra, e
conta su di me per andarvi.»
«Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta.»
«Come potrei, signora? Per far ciò bisognerebbe dimenticare la
conversazione che ho avuta con voi, il che è impossibile.»
Montecristo salutò e partì.
La signora Villefort rimase pensierosa.
«Ecco un uomo strano» disse fra sé, «e che mi dà la sensazione di
essere l’Adelmonte di cui parlava.»
In quanto a Montecristo il risultato aveva superato la sua
aspettativa.
«Andiamo». si disse partendo, «ecco un buon terreno; sono convinto
che il seme caduto germoglierà.»
Il giorno dopo, fedele alla sua promessa, inviò la ricetta.
52. Roberto il diavolo
La scusa dell’Opéra era tanto più credibile, in quanto quella sera
era pomposamente dedicata all’Accademia reale di musica. Levasseur,
dopo lunga indisposizione, si esibiva nella parte di Bertramo e come
accade sempre, l’opera del maestro di moda aveva richiamato la
migliore società di Parigi.
Morcerf, come la maggior parte dei giovani ricchi, aveva il suo
posto fisso in orchestra, più dieci palchi di persone di sua
conoscenza cui poteva domandare un posto, senza calcolare quello al
quale aveva diritto nel palco dei Lyons. Château-Renaud occupava il
posto vicino al suo; Beauchamp, in qualità di giornalista, sedeva
dove voleva. Quella sera Lucien Debray teneva a sua disposizione il
palco del ministro, e lo aveva offerto al conte Morcerf, il quale
dopo il rifiuto di Mercedes lo aveva girato a Danglars, avvisandolo
che quella sera avrebbe probabilmente fatto visita alla baronessa e
a sua figlia, se queste signore avessero accettato il palco. Queste
dame si erano guardate bene dal rifiutare. Nessuno è più desideroso
di un palco gratuito di un milionario.
In quanto a Danglars, aveva dichiarato che i suoi principi politici,
e la qualità di deputato dell’opposizione, non gli permettevano di
andare nel palco del ministro. Di conseguenza la baronessa aveva
scritto a Lucien di passare a prenderla, poiché non poteva andare
all’Opéra sola con Eugénie. Infatti se le due dame vi fossero andate
sole, si sarebbe giudicato di cattivo gusto, mentre nulla c’era da
ridire se la signorina Danglars andava all’Opéra con sua madre e
l’amante di lei… Bisogna pure prendere il mondo come è fatto.
Il sipario si alzò come sempre con il teatro quasi vuoto. Questa è
una delle abitudini della società elegante parigina, che va allo
spettacolo quando è già cominciato; e ne deriva che, per gli
spettatori già arrivati, il primo atto passa senza essere guardato e
ascoltato, mentre tutti sono attratti dagli spettatori che giungono,
e non ascoltano altro che il rumore delle porte e quello delle
conversazioni.
«Guarda», disse all’improvviso Albert vedendo aprirsi un palco
laterale, «la contessa G.”
«E chi è questa contessa G.?» domandò Château-Renaud.
«Ecco una domanda che non vi perdono, barone… Chiedete chi è la
contessa G.?»
«Oh è vero», si sovvenne Château-Renaud. «Non è quella graziosa
veneziana?»
«Precisamente.»
In quel momento la contessa G. scorse Albert, e scambiò con lui un
saluto accompagnato da un sorriso.
«La conoscete?» domandò Château-Renaud.
«Sì», confermò Albert. «Le fui presentato a Roma da Franz.»
«Vorreste rendermi a Parigi lo stesso favore che Franz vi rese
Roma?»
«Ben volentieri.»
«Silenzio!» gridò il pubblico.
I due giovani continuarono la loro conversazione, senza curarsi del
desiderio della platea di sentire la musica.
«Era alle corse al Champ de Mars», disse Château-Renaud.
«Già, oggi c’erano le corse… Avete scommesso?»
«Una miseria di cinquanta luigi…»
«Chi ha vinto?»
«Nautilus, ho scommesso su lui.»
«Ma non c’erano tre corse?»
«Sì, il premio del Jockey Club, una coppa d’oro. Anzi è accaduto un
fatto curioso.»
«E quale?»
«Zitti dunque!» gridò il pubblico.
«La corsa è stata vinta da un cavallo e un fantino sconosciuti a
tutti.»
«Come?»
«Sì, nessuno aveva fatto attenzione a un cavallo iscritto sotto il
nome di Vampa e a un fantino chiamato Job, quando abbiamo visto
entrare un magnifico sauro, e un fantino grosso come un pugno; sono
stati costretti a caricarlo di 10 chili di piombo nelle tasche, cosa
che non gli ha impedito di anticipare di tre lunghezze Ariel e
Barbaro che correvano con lui.»
«E non si è saputo a chi appartenevano il cavallo e il fantino?»
«No.»
«Avete detto che il cavallo era iscritto con il nome di…»
«Vampa.»
«Sono più informato di voi, so a chi apparteneva il cavallo.»
«Silenzio!» gridò per la terza volta la platea.
Questa volta gli urli erano così insistenti, che i due giovani si
accorsero finalmente ch’erano indirizzati a loro. Si volsero un
momento cercando nella folla chi poteva essere così insolente da
zittirli; ma nessuno ripeté il grido, ed essi si volsero verso la
scena. In quel mentre si apriva il palco del ministro, e la signora
Danglars con la figlia e Lucien Debray prendevano i loro posti.
«Ah-ah!» esclamò Château-Renaud. «Ecco delle persone di vostra
conoscenza, visconte… Perché guardate a destra? Siete osservato da
quest’altra parte.»
Albert si girò e i suoi occhi incontrarono quelli della baronessa
Danglars, che gli fece un piccolo saluto con il ventaglio. In quanto
alla signorina Eugénie fu molto se i suoi occhi si abbassarono fino
all’orchestra.
«In verità, mio caro», riprese Château-Renaud, «non capisco,
prescindendo dalla condizione borghese, che non credo vi preoccupi
molto, quel che potete avere contro la signorina Danglars; eppure è
una bellissima giovane.»
«Bellissima certamente», ammise Albert, «ma vi confesso che in fatto
di bellezza amerei qualche cosa di più dolce, di più soave, infine
di più femminile.»
«Ecco i giovani, non si accontentano mai», scherzò Château-Renaud,
che nella sua qualità di uomo di trent’anni assumeva un’aria
paterna. «Vi si trova una fidanzata costruita sul modello di Diana
cacciatrice, e non siete contento!»
«Ebbene, l’avrei desiderata piuttosto del genere della Venere di
Milo, o di Capua. Questa Diana cacciatrice, sempre in mezzo alle sue
ninfe, mi spaventa un poco; ho paura che mi tratti come Atteone.»
Infatti, un colpo d’occhio sulla giovane, poteva quasi spiegare il
sentimento di Morcerf. Eugénie Danglars era bella, ma come aveva
detto Albert, di una bellezza un po’ statuaria. I capelli erano di
un bel nero, ma nell’ondulazione si notava una specie di ritrosia al
pettine; gli occhi, neri come i capelli, sotto magnifiche
sopracciglia, che non avevano che un difetto, quello cioè di
aggrottarsi qualche volta, erano particolarmente notevoli per
un’espressione di fermezza rara in una donna, il naso aveva quelle
proporzioni esatte che un bravo scultore darebbe alla statua di
Giunone; soltanto la bocca era un po’ grande, ma con bei denti che
davano risalto alle labbra, il cui carminio troppo vivo spiccava sul
pallore del viso; infine, un neo nero posto all’angolo della bocca,
e più largo del naturale, finiva col dare a questa fisonomia
un’indole risoluta, ciò che spaventava un pochino Morcerf. Il resto
della persona di Eugénie corrispondeva alla testa che abbiamo
cercato di descrivere. Era come aveva detto Albert, una Diana
cacciatrice, ma con qualche cosa di più fermo e di più maschio nella
sua bellezza.
In quanto all’educazione ricevuta, se si poteva fare un rimprovero,
sembrava in alcuni punti, come nella sua fisonomia, più propria
all’altro sesso. Parlava infatti due o tre lingue, disegnava
facilmente, componeva versi e musica, era soprattutto appassionata
di quest’ultima arte, che studiava con una delle amiche del
conservatorio, ragazza senza beni di fortuna, ma che, a quanto
veniva assicurato, aveva tutte le doti possibili per divenire una
eccellente cantante; si diceva che un gran compositore provava per
questa ragazza un interesse quasi paterno, e la faceva studiare
nella speranza che un giorno avrebbe fatto una gran fortuna con la
sua voce. L’eventualità che Louise d’Armilly (questo il nome della
giovane virtuosa) potesse un giorno salire sul palcoscenico, faceva
sì che la signorina Danglars, sebbene la ricevesse in casa, non si
facesse vedere con lei in pubblico. Del resto senza avere nella casa
del banchiere il posto di un’amica, Louise godeva di una posizione
superiore a quella delle istitutrici ordinarie.
Qualche istante dopo l’ingresso della signora Danglars nel palco,
era calato il sipario, e grazie alla lunghezza dell’intermezzo fra
un atto e l’altro, venne lasciato tutto il comodo di andare a
passeggiare nei corridoi o di fare delle visite per una mezz’ora: i
posti dell’orchestra si erano quasi del tutto vuotati.
Morcerf e Château-Renaud erano usciti fra i primi. Per un momento la
signora Danglars credette che la sollecitudine di Albert avesse per
scopo di farle i suoi complimenti, e si era chinata sull’orecchio
della figlia per annunciarle questa visita, ma lei si era limitata a
scuotere la testa sorridendo; e nello stesso tempo, come per provare
quanto era fondato lo scetticismo d’Eugénie, Morcerf comparve nel
palco di fianco: era quello della contessa G.
«Eccovi qui, signor viaggiatore», disse questa tendendogli la mano
con tutta la cordialità di una vecchia conoscenza. «È gentile da
parte vostra avermi riconosciuta, e soprattutto avermi accordato la
preferenza della prima visita.»
«Credetemi, signora, se avessi saputo prima del vostro arrivo a
Parigi, e avessi avuto il vostro indirizzo, non avrei aspettato
tanto. Ma vogliate permettermi di presentarvi il barone
Château-Renaud mio amico, uno dei pochi gentiluomini che rimangono
ancora alla Francia, dal quale ho saputo che voi eravate alle corse
del Champ de Mars.»
Château-Renaud s’inchinò.
«Eravate alle corse, signore?» domandò con vivacità la contessa.
«Sì, signora.»
«Ebbene», riprese la contessa G., «sapreste dirmi di chi era il
cavallo che ha vinto il Jockey Club?»
«No, signora, e poco fa facevo la stessa domanda ad Albert.»
«Date tanta importanza alla cosa, contessa?» chiese Albert.
«A che?»
«A conoscere il padrone del cavallo.»
«Moltissimo… Immaginatevi… Sapreste, visconte, per caso, chi sia?»
«Signora, sembravate sul punto di iniziare una storia: avete detto
“immaginatevi”…»
«Ebbene! Immaginatevi che quel grazioso cavallo sauro e quel
delizioso e piccolo fantino dalla casacca rosa mi avevano a prima
vista ispirato una così forte simpatia, che facevo voti per l’uno e
per l’altro, come se avessi scommesso su di loro la metà dei miei
beni: per cui quando giunsero al nastro, battendo gli altri
corridori di tre lunghezze, ne fui così contenta, che mi misi a
battere le mani come una pazza. Figuratevi il mio stupore allorché,
rientrando in casa, ho incontrato per le scale il piccolo fantino
rosa, credetti che il vincitore della corsa abitasse per caso nella
stessa casa, quando, aprendo la porta del mio salotto, la prima cosa
che vidi, fu la coppa d’oro del premio vinto dal cavallo e dal
fantino sconosciuti. Nella coppa c’era un pezzetto di carta sul
quale erano scritte queste parole: “Alla contessa G., lord
Ruthwen”.»
«È proprio lui», confermò Morcerf.
«Come “proprio lui»? Chi volete dire?»
«Voglio dire che è lord Ruthwen in persona.»
«Quale lord Ruthwen?»
«Il mostro, il vampiro, quello del teatro Argentina.»
«Davvero?» gridò la contessa. «È dunque qui?»
«Sì, è qui.»
«E voi lo vedete, lo ricevete, andate da lui?»
«È mio amico intimo; e anche il signor Château-Renaud ha l’onore di
conoscerlo.»
«Ma che cosa può farvi credere che egli sia il vincitore?»
«Il suo cavallo iscritto sotto il nome di Vampa.»
«Ebbene, continuate.»
«Non vi ricordate il nome di quel famoso bandito che mi fece
prigioniero?»
«Ah, è vero.»
«E dalle mani del quale il conte mi strappò miracolosamente?»
«Certamente.»
«Si chiamava Vampa… Vedete bene che è lui.»
«Ma perché ha inviato a me questa coppa?»
«Innanzitutto, signora contessa, perché gli avevo parlato molto di
voi, come potete ben capire; secondo, perché sarà stato felice di
aver ritrovato una compatriota, e contento dell’interesse che questa
compatriota aveva per lui.»
«Spero che non gli avrete raccontato le sciocchezze che si sono
dette sul suo conto.»
«In fede mia, non lo giurerei. E questo modo d’offrirvi la coppa
sotto il nome di lord Ruthwen…»
«È orribile… Sarà adirato con me!»
«Le sembra il comportamento di un nemico?»
«No, lo confesso.»
«E allora?»
«Dunque è a Parigi?»
«Sì.»
«E che impressione ha fatto?»
«Se ne è parlato otto giorni», rispose Albert. «Poi c’è stata
l’incoronazione della regina d’Inghilterra, e quindi il furto dei
diamanti della signorina Mars, e non si è più parlato che di
questo.»
«Mio caro», disse Château-Renaud, «si vede bene che il conte è
vostro amico, e lo trattate come tale… Non credete, signora, a ciò
che vi dice Albert… In tutta Parigi non si parla che del conte di
Montecristo. Egli ha cominciato con il regalare alla signora
Danglars un paio di cavalli che gli sono costati trentamila franchi;
poi ha salvato la vita alla signora Villefort; poi ha guadagnato, a
quanto sembra, il premio della corsa del Jockey Club. Io sostengo,
qualunque sia l’opinione di Morcerf, che in questo momento tutti si
occupano ancora del conte, e che si occuperanno per un buon mese
ancora di lui, tanto più se continua a fare delle eccentricità, le
quali, del resto, sembrano il suo modo di vivere.»
«Può darsi», concesse Morcerf. «Ma, guardate, chi ha affittato il
palco dell’ambasciatore russo?»
«Qual è?» chiese la contessa.
«Quello fra i colonnati della prima galleria, che sembra rimesso
completamente a nuovo.»
«È vero», riconobbe Château-Renaud. «Non c’era nessuno durante il
primo atto?»
«Dove?»
«In quel palco.»
«No», rispose la contessa, «non ho visto nessuno. Così», continuò
ritornando alla prima conversazione, «credete che il vostro conte di
Montecristo sia stato quello che ha vinto il premio?»
«Ne sono sicuro.»
«E che mi ha inviato la coppa?»
«Senz’alcun dubbio.»
«Ma io non lo conosco, e ho l’intenzione di rimandargliela.»
«Non lo fate, ve ne manderebbe un’altra tempestata di qualche
zaffiro, o scavata in qualche rubino. Questi sono i suoi modi di
fare…»
In quell’istante s’intesero i campanelli: il secondo atto stava per
cominciare.
Albert si alzò per tornare al suo posto.
«Vi rivedrò?» domandò la contessa.
«Nell’intermezzo, se permettete, verrò a sentire se posso esservi
utile a Parigi.»
«Signori», disse la contessa, «tutti i sabati sera sto in casa per
ricevere gli amici, rue de Rivoli, 22. Entrambi siete invitati.»
I due giovani salutarono e uscirono. Ritornando in platea, videro
tutti in piedi con gli occhi fissi su un unico punto del teatro; i
loro sguardi seguirono quelli di tutti, e si fermarono sul palco che
prima apparteneva all’ambasciatore di Russia. Erano entrati un uomo
vestito di nero di trentacinque, quarant’anni, e una donna che
indossava un costume orientale. La donna era di una bellezza
meravigliosa, e il vestito di tale ricchezza che tutti gli occhi,
come si disse, erano su di lei.
«Ecco», disse Albert, «Montecristo e la sua greca.»
Infatti erano il conte e Haydée.
La giovane greca era l’oggetto dell’attenzione non solo della
platea, ma di tutto il teatro; le donne si sporgevano dai palchi per
vedere risplendere al chiarore dei lumi quella cascata di diamanti.
Il secondo atto passò in mezzo a quel sordo mormorio che nelle
grandi platee accompagna i grandi avvenimenti. Nessuno pensò a
gridare silenzio. Quella donna così bella, così giovane, così
raggiante, era il più bello spettacolo che si potesse vedere.
Questa volta un segno della signora Danglars fece capire chiaramente
ad Albert che la baronessa desiderava avere una sua visita, finito
l’atto. Morcerf era troppo educato per farsi aspettare, quando gli
veniva chiaramente detto ch’era atteso. Appena l’atto finì, si
affrettò a salire al palco del proscenio.
Salutò le due dame e tese la mano a Debray. La baronessa lo accolse
con un grazioso sorriso, ed Eugénie con la sua abituale freddezza.
«In tutta sincerità, mio caro», iniziò Debray, «voi vedete un uomo
depresso, che vi chiama in aiuto per sollevarlo. Ecco qui la signora
che mi aggredisce con le domande sul conte, e vuole ch’io sappia di
dov’è, da dove viene, dove va: in fede mia, non sono Cagliostro, e
per togliermi d’impaccio, ho detto: “Domandate tutto ciò a Morcerf;
egli conosce benissimo Montecristo”… Allora vi hanno fatto segno.»
«Non è incredibile?» disse la baronessa. «Quando si è al ministero e
si ha mezzo milione per i segreti di Stato, bisognerebbe saper
rispondere a queste domande!»
«Signora», rispose Lucien, «vi prego di credere che se avessi mezzo
milione a mia disposizione, lo impiegherei in tutt’altro modo, che
nel prendere informazioni sul conte di Montecristo, che ai miei
occhi non ha altro merito, se non quello di essere due volte più
ricco di un nababbo: ma ho ceduto la parola a Morcerf, accomodatevi
con lui; in ciò non ho più nulla da dire.»
«Un nababbo non mi avrebbe certo mandato in regalo un paio di
cavalli di trentamila franchi con quattro diamanti da cinquemila
franchi l’uno.»
«I diamanti sono la sua mania», disse ridendo Morcerf. «Io credo
che, come Potemkin, ne abbia sempre in tasca, e ne semini lungo la
strada, come Pollicino faceva coi sassolini.»
«Avrà scoperto qualche miniera», ribatté la signora. «Sapete che ha
un credito illimitato sulla banca di mio marito?»
«Non lo sapevo, ma dev’esser così», rispose Albert.
«E che ha detto al signor Danglars che conta di stare a Parigi un
anno e di spendervi sei milioni?»
«È lo scià di Persia che viaggia in incognito.»
«E quella donna, signor Lucien», intervenne Eugénie. «Avete notato
quanto è bella?»
«In verità, signorina, non conosco che voi per far vanto alle
persone del vostro sesso.»
Lucien accostò l’occhialino.
«Graziosa!» disse.
«E il signor Morcerf sa chi sia quella signora?»
«Signorina», disse Albert, rispondendo a questa domanda quasi
diretta, «pressappoco, come tutto ciò che riguarda il personaggio
misterioso di cui si parla: è una greca.»
«Si capisce facilmente dal vestito… Non mi dite nulla più di quanto
a quest’ora sa tutto il teatro.»
«Sono mortificato», si dispiacque Morcerf, «d’essere un cicerone
tanto ignorante; ma debbo confessarvi che le mie cognizioni si
limitano a questo. So anche che ama la musica, perché un giorno che
feci colazione dal conte, sentii il suono di una guzla che
certamente suonava lei.»
«Il vostro conte riceve?» domandò la signora Danglars.
«In modo splendido, ve lo giuro.»
«Bisogna che obblighi il signor Danglars a offrirgli un pranzo, un
ballo, affinché ce lo restituisca.»
«Come, andreste da lui?» domandò Debray, ridendo.
«E perché no? Con mio marito.»
«Ma questo misterioso conte è celibe.»
«Vedete che non è vero», ribatté ridendo la baronessa indicando la
bella greca.
«Quella donna è una schiava, a quanto ci ha detto, ve ne ricordate,
alla vostra colazione, Morcerf.»
«Converrete, mio caro Lucien», disse la baronessa, «che ha piuttosto
l’aspetto di una principessa.»
«Delle Mille e una notte.»
«Non dico delle Mille e una notte, ma che cosa fa una principessa,
caro mio? I diamanti! Ed essa ne è ricoperta.»
«Ne ha anche troppi», commentò Eugénie. «Sarebbe ancor più bella,
senza; perché il collo e i polsi, che sono di forma squisita,
risalterebbero di più.»
«Oh, l’artista! Sentitela», scherzò la signora Danglars, «come è
entusiasta…»
«Amo tutto ciò che è bello», si difese Eugénie.
«Ma che ne dite del conte? Mi sembra che non sia male.»
«Il conte», disse Eugénie, come se non avesse ancora pensato a
guardarlo, «il conte è molto pallido.»
«Di questo pallore appunto», dichiarò Morcerf, «cerchiamo di
conoscere la causa. La contessa G. afferma che sia un vampiro.»
«È dunque ritornata la contessa?» domandò la baronessa.
«È nel palco a fianco», disse Eugénie, «quasi in faccia al nostro,
madre mia… Quella donna con quei mirabili capelli biondi…»
«Bella…» ammise la signora Danglars. «Sapete cosa dovreste fare,
Morcerf?»
«Ordinate, signora.»
«Dovreste fare una visita al vostro conte di Montecristo e
condurcelo.»
«Per quale motivo?» chiese Eugénie.
«Per parlare con lui… Non sei curiosa di vederlo?»
«Niente affatto!»
«Strana fanciulla», mormorò la baronessa.
«Non occorre», disse Morcerf. «Probabilmente verrà da sé. Guardate,
vi ha visto, signora, e vi saluta.»
La baronessa rese il saluto al conte accompagnandolo con un grazioso
sorriso.
«Andiamo», disse Morcerf, «mi sacrifico, vi lascio per scoprire il
modo di parlargli.»
«Andate nel palco, la cosa è semplicissima.»
«Ma io non sono stato presentato.»
«A chi?»
«Alla bella greca.»
«Avete detto che è una schiava…»
«Sì, ma voi affermate che sia una principessa… Spero che quando mi
vedrà uscire, uscirà a sua volta…»
«È possibile, andate.»
«Vado.»
Morcerf salutò e uscì. Effettivamente nel momento in cui passava
davanti al palco del conte, la porta si aprì: il conte disse alcune
parole in arabo ad Alì, che stava in corridoio, e prese il braccio
di Morcerf. Alì chiuse la porta, e ci si mise davanti; nel corridoio
una piccola folla curiosava.
«A dire il vero», cominciò Montecristo, «la vostra Parigi è una
strana città, e i vostri parigini gente curiosa. Si direbbe che
questa è la prima volta che vedano un nubiano: guardate come si
affollano intorno a questo povero Alì, che non capisce il perché. Vi
dico però che un parigino può andare a Tunisi, a Costantinopoli, a
Baghdad, al Cairo e non gli faranno cerchio intorno.»
«I vostri orientali sono persone sensate, e non guardano che ciò che
merita d’essere guardato, ma credetemi, Alì non gode di questa
popolarità se non perché vi appartiene… In questo momento voi siete
l’uomo di moda.»
«Davvero? E chi mi ha procurato questo favore?»
«Voi stesso! Regalate pariglie da migliaia di luigi, salvate la vita
alle mogli dei procuratori del re, fate correre sotto il nome del
maggiore Black dei purosangue, montati da fantini grossi come
formiche e infine vincete delle coppe d’oro, e le mandate in regalo
a delle belle donne.»
«Chi diavolo vi ha raccontato tutte queste fandonie?»
«La prima, la signora Danglars, che muore dalla voglia di vedervi
nel suo palco, o piuttosto che vi facciate vedere; la seconda, il
giornale di Beauchamp; e la terza, il mio intuito. Perché avete
chiamato Vampa il vostro cavallo, se volevate conservare
l’incognito?»
«È vero!» riconobbe il conte. «È stata un ‘imprudenza. Ma ditemi, il
conte Morcerf non viene qualche volta all’Opéra? L’ho cercato
dappertutto, ma non l’ho visto da nessuna parte.»
«Verrà questa sera.»
«E dove?»
«Nel palco della baronessa, credo.»
«Quella graziosa giovane che è con lei è sua figlia?»
«Sì.»
«Vi faccio le mie congratulazioni.»
Morcerf sorrise.
«Ne riparleremo in un altro momento, e più a fondo…» disse. «Che ne
dite della musica?»
«Quale musica?»
«Ma… quella che avete ascoltata!»
«È bellissima per essere una musica composta da un comune mortale, e
cantata da uccelli senza ali, come diceva Diogene.»
«Che dite, caro conte? Sembrerebbe che abbiate potuto udire i sette
cori celesti…»
«Sarebbe ancora poco. Quando voglio udire della musica mai sentita
da orecchio umano, allora dormo.»
«Ebbene, qui siete nel posto giusto… Dormite, dormite, l’opera non è
stata inventata per altro scopo.»
«No, la vostra orchestra fa troppo rumore, perché possa dormire del
sonno di cui vi parlo, mi occorrono calma, silenzio, e una certa
preparazione…»
«Ah, il famoso hashish!»
«Appunto, visconte, quando vorrete sentire della musica venite a
cena da me.»
«Ma già la udii venendo a colazione», ribatté Morcerf.
«A Roma?»
«Sì.»
«Sarà stata la guzla di Haydée. Si diverte qualche volta a suonare
delle arie del suo Paese.»
Morcerf non volle insistere, e il conte tacque. In quel momento
suonò il campanello.
«Voi mi scuserete», disse il conte riprendendo la via del suo palco.
«Scusarvi di cosa?»
«Fate mille complimenti alla contessa G. da parte del suo vampiro.»
«E alla baronessa?»
«Le direte che avrò l’onore, se me lo permette, di portarle i miei
omaggi nella serata.»
Il terz’atto cominciò. Il conte Morcerf venne, come aveva promesso,
a raggiungere la signora Danglars. Il conte non era uno di quegli
uomini che fanno colpo in un teatro: nessuno si accorse del suo
arrivo, fuorché le persone del palco in cui prese posto. Ma
Montecristo lo vide, e un leggero sorriso gli sfiorò le labbra.
Haydée, invece, nulla vide finché il sipario rimase alzato; come
tutte le nature primitive ella adorava tutto ciò che parla
all’orecchio e agli occhi.
Il terzo atto passò senza applausi eccezionali. Le signorine Noblet,
Julia, e Leroux eseguirono i loro soliti intermezzi, il principe di
Granada fu sfidato da Roberto e infine questo maestoso re, che tutti
conoscete, fece il giro della scena, per mostrare il suo manto di
velluto, tenendo sua figlia per mano; poi calò il sipario, e la
platea si riversò nella sala e nei corridoi. Il conte uscì dal palco
e un momento dopo fu visto in quello della baronessa Danglars, la
quale non poté contenere un leggero grido di sorpresa misto a gioia.
«Venite dunque, signor conte!» disse. «Desidero troppo aggiungere i
miei ringraziamenti verbali a quelli che vi ho già scritti.»
«Signora, vi ricordate ancora di quella inezia, io l’avevo già
dimenticata.»
«Sì, ma ciò che non si dimentica, signor conte, è che il giorno
seguente salvaste la mia buona amica, la signora Villefort, dal
pericolo che le facevano correre i miei cavalli.»
«Neppure questa volta merito i vostri ringraziamenti. Alì, il mio
nubiano, ebbe l’opportunità di rendere alla signora Villefort questo
importante servizio.»
«Ma fu sempre Alì», domandò il conte di Morcerf, «a salvare mio
figlio dalle mani dei banditi romani?»
«No, signor conte», rispose Montecristo stringendo la mano che gli
tendeva il generale. «Questa volta accetto i ringraziamenti, per
conto mio, ma voi me li avete già fatti, e in verità sono felice di
sentirvi tanto riconoscente. Fatemi dunque l’onore, ve ne prego,
baronessa, di presentarmi a vostra figlia.»
«Vi siete già presentato, almeno di nome, poiché da due o tre giorni
non si parla che di voi. Eugénie», continuò la baronessa voltandosi
verso la figlia, «il conte di Montecristo.»
Il conte s’inchinò, la signorina Danglars fece un leggero movimento
con la testa.
«Nel palco con voi c’è una bellissima signora, conte», disse
Eugénie. «È vostra figlia?»
«No, signorina», spiegò Montecristo stupito da tanta ingenuità, o
dalla sorprendente malizia. «È una greca di cui sono tutore.»
«Come si chiama?»
«Haydée», rispose Montecristo.
«Una greca», mormorò il conte di Morcerf.
«Sì, conte», disse la signora Danglars. «E ditemi se alla corte
d’Alì Tebelen, ove avete servito gloriosamente, avete mai visto un
costume così ammirabile, come quello che abbiamo innanzi agli
occhi.»
«Voi avete servito a Giannina?» s’interessò Montecristo.
«Sono stato istruttore delle truppe del pascià», rispose Morcerf, «e
la mia piccola fortuna, non lo nascondo, mi viene dalla liberalità
di questo illustre capo albanese.»
«Guardate, dunque», insistette la signora Danglars.
«Dove?» balbettò Morcerf.
«Lassù», disse Montecristo, e attirando il conte con il braccio,
sporse con lui la testa dal palco.
In quel momento Haydée, che cercava con gli occhi il conte, mostrò
il suo viso pallido vicino a quella di Morcerf. Quella vista
produsse sulla giovane l’effetto della testa di Medusa: fece un
movimento in avanti, come per divorarli con lo sguardo poi, quasi
subito, si gettò indietro, mandando un debole grido, inteso soltanto
dalle persone vicine e da Alì, che aprì subito la porta.
«Avete visto?» disse Eugénie. «Che accade alla vostra pupilla,
signor conte? Si direbbe che stia male.»
«Sembra», ammise il conte. «Ma non vi spaventate, signorina, Haydée
è un temperamento nervoso e molto sensibile agli odori: un profumo
fastidioso basta per farla svenire… Ma», aggiunse, estraendo una
boccettina dalla tasca, «ho qui il rimedio.»
E dopo avere salutato la baronessa e la figlia, strinse nuovamente
la mano a Morcerf e a Debray, e uscì dal palco della signora
Danglars. Quando rientrò nel suo, Haydée era ancora molto pallida;
appena le strinse la mano Montecristo s’accorse ch’era fredda e
umida.
«Con chi parlavi, signore?» domandò Haydée.
«Con il conte di Morcerf», rispose Montecristo, «che è stato al
servizio del tuo illustre padre, e che confessa di dovergli la sua
fortuna.»
«Miserabile, egli lo vendette ai turchi! La sua fortuna fu il premio
del suo tradimento. Tu dunque non lo sapevi, mio signore?»
«Ne avevo sentito parlare in Epiro», riconobbe Montecristo, «ma
ignoro i particolari… Vieni, figlia mia, me li racconterai tu…
Devono esser curiosi.»
«Sì, vieni, vieni. Penso che morirei se dovessi restare ancora di
fronte a quest’uomo.»
Haydée s’alzò all’istante, s’avvolse nel suo mantello di cachemire
bianco, orlato di perle e di corallo e uscì nel momento in cui si
alzava il sipario per il quarto atto.
«Quell’uomo non si comporta come gli altri!» disse la contessa G. ad
Albert ch’era ritornato da lei. «Ascolta attentamente il terzo atto
del Roberto, e se ne va quando sta per cominciare il quarto.»
53. Rialzo e ribasso dei fondi
Qualche giorno dopo questo incontro, Albert di Morcerf andò a fare
visita al conte di Montecristo nella sua casa sugli Champs-Elysées,
la quale aveva già preso quell’aspetto di dimora principesca che il
conte, grazie alle sue enormi ricchezze, sapeva imprimere alle sue
abitazioni. Albert veniva a rinnovargli i ringraziamenti della
signora Danglars, già ricevuti in una lettera firmata baronessa
Danglars, nata Hermine di Salvieux. Il visitatore era accompagnato
da Lucien Debray, che unì alle parole dell’amico qualche
complimento, non certo ufficiale, ma di cui il conte con il suo fine
intuito non poteva non sospettar la provenienza. Gli sembrò perfino
che Lucien venisse a fargli visita mosso da un doppio sentimento di
curiosità, di cui almeno metà proveniva dalla rue Chaussée d’Antin:
infatti poteva supporre, senza timore di sbagliarsi, che la signora
Danglars, non potendo con i suoi occhi ispezionare l’appartamento di
un uomo che regalava cavalli da trentamila franchi e andava
all’Opéra con una greca che ostentava il valore di un milione in
diamanti, aveva incaricato quelli di un fidato amico per avere
qualche informazione. Ma il conte non parve sospettare la minima
relazione fra la visita di Lucien e la curiosità della baronessa.
«Siete in buoni rapporti con il barone Danglars?» domandò ad Albert.
«Sì, signor conte, sapete ciò che vi ho detto.»
«Pertanto è sempre valido?»
«Oggi più che mai…» confermò Lucien. «È affare fatto.»
E Lucien, reputando senza dubbio che quelle parole gli desse il
diritto di estraniarsi dalla conversazione, si portò la lente
all’occhio, e con il pomo del bastoncino alle labbra, fece il giro
della stanza esaminando le armi e i quadri.
«Bene», riprese Montecristo. «A quanto mi diceste, non avrei creduto
a una soluzione così immediata.»
«Che volete? Le cose camminano da sé… Quando voi non pensate a loro,
esse pensano a voi, e quando vi voltate, siete meravigliato del
cammino che hanno fatto. Mio padre e il signor Danglars hanno
servito insieme in Spagna. Mio padre, rovinato dalle vicende
politiche, e Danglars che non aveva mai avuto patrimonio, gettarono
le prime fondamenta: mio padre della sua fortuna politico-militare,
ch’è straordinaria, Danglars della sua politico-commerciale, che è
ammirabile.»
«Sì, infatti», riconobbe Montecristo. «Credo che nella visita che
gli ho fatto, il signor Danglars me ne abbia parlato… e», continuò,
lanciando un’occhiata a Lucien che stava sfogliando un album, «è
bella la signorina Eugénie?… Perché credo di ricordarmi che si
chiami Eugénie…»
«Molto bella, o piuttosto molto avvenente», disse Albert, «ma di una
bellezza che non apprezzo; sono un indegno.»
«Ne parlate come se foste già suo marito.»
«Oh!» fece Albert, dando anch’egli uno sguardo a Lucien.
«Sapete», riprese Montecristo abbassando la voce, «che non mi
sembrate molto entusiasta di questo matrimonio?»
«La signorina Danglars è troppo ricca per me, e ciò mi spaventa»,
ammise Morcerf.
«Questa non è una buona ragione!» replicò Montecristo. «Non siete
ricco anche voi?»
«Mio padre ha qualche cosa… circa cinquantamila lire di rendita, e
maritandomi me ne cederà forse dieci o dodici.»
«La cifra è alquanto modesta, particolarmente a Parigi; ma in questo
mondo non ci sono solo le ricchezze, e non è piccola cosa avere un
nome e un’alta posizione in società. Il vostro nome è celebre, la
vostra posizione magnifica, e poi il conte Morcerf è un soldato, ed
è cosa risaputa la sua integrità… Il disinteresse è il più bel
raggio di sole al quale possa balenare una nobile spada. Trovo
questo matrimonio convenientissimo: voi nobiliterete la signorina
Danglars, lei vi arricchirà!»
Albert scosse la testa e rimase pensieroso.
«Vi sono altre cose», disse.
«Vi confesso che non arrivo a comprendere tanta repulsione per una
giovane ricca e bella.»
«Questa repulsione, se pure c’è, non viene tutta da parte mia.»
«E da quale parte, dunque? Mi avete detto che vostro padre
desiderava questo matrimonio.»
«Da parte di mia madre, che ha un occhio prudente e sicuro. Ebbene,
a lei non piace quest’unione; ha una certa prevenzione contro i
Danglars.»
«Ciò si capisce», riconobbe il conte con un tono di voce un po’
forte. «La contessa Morcerf, che è la distinzione e la delicatezza
personificate, esita alquanto a toccare una mano ordinaria, callosa
e brutale.»
«Non so se sia così», ribatté Albert, «ma mi sembra che questo
matrimonio la renderà infelice. Vi doveva già essere una riunione di
famiglia sei settimane fa per parlarne, ma mi è venuta una forte
emicrania…»
«Vera?» domandò il conte sorridendo.
«Sì, vera, la paura senza dubbio… E la riunione fu aggiornata fra
due mesi. Non c’è fretta, come capite, non ho ancora ventun anni, ed
Eugénie non ne ha che diciassette: ma i due mesi scadono la
settimana ventura. Bisognerà affrontarla. Non potete immaginare,
caro conte, quanto mi senta in imbarazzo. Ah, quanto siete felice
voi, che siete libero!»
«Ebbene, restate come vi piace… Chi ve lo impedisce?»
«Sarebbe una grande delusione per mio padre, se non sposassi la
signorina Danglars.»
«Sposatela dunque», disse il conte, stringendosi nelle spalle.
«Sì», annuì Morcerf, «ma per mia madre non sarà una delusione, bensì
un dolore.»
«Ed allora non la sposate», ripeté il conte.
«Vedrò, proverò… Mi consiglierete, non è vero? Se vi è possibile, mi
toglierete da quest’impaccio? Per non procurare un dispiacere a mia
madre, credo che oserei uno sgarbo a mio padre…»
Montecristo si voltò, era commosso.
«Che fate?» domandò a Debray ch’era sprofondato in una sedia in un
angolo del salotto, tenendo con una mano una matita e con l’altra un
taccuino. «Uno schizzo nel genere di Poussin?»
«Io?» disse Debray tranquillamente. «Sì, uno schizzo! Amo molto la
pittura! Ma questa volta faccio il contrario, scrivo dei numeri.»
«Dei numeri?»
«Sì, calcolo, e ciò riguarda voi indirettamente, visconte, calcolo
ciò che la casa Danglars dovrebbe aver guadagnato sull’ultimo rialzo
dei fondi di Haiti: da duecentosei i fondi sono saliti a
quattrocentonove in tre giorni, e il prudente
banchiere ne aveva acquistati molti a duecentosei. Deve averci
guadagnato trecentomila lire.»
«Non è il suo più bel colpo», puntualizzò Morcerf. «Non ha
guadagnato un milione quest’anno con i buoni di Spagna?»
«Ascoltate, mio caro», replicò Lucien, «qui c’è il conte di
Montecristo che vi dirà, come dicono gli italiani: “Denaro e
santità, metà della metà”. Ed è ancora molto: per cui quando mi
raccontano simili storie, mi stringo nelle spalle…»
«Ma voi avete parlato d’Haiti?» disse Montecristo.
«Haiti è un’altra cosa; Haiti è il gioco dell’écarté per il traffico
di valuta della finanza francese… Si può amare la roulette,
prediligere il whist, affollarsi al boston, ma poi ognuno si
stancherà sempre di tutti questi giochi, e si tornerà all’écarté,
che è un capolavoro. Così il signor Danglars ieri ha venduto a
quattrocentocinque e si è intascato trecentomila franchi. Se avesse
aspettato fino a oggi, i fondi ricadevano a duecentocinque e invece
di guadagnare trecentomila franchi, ne avrebbe perduti venti o
venticinquemila.»
«E per quale motivo i fondi sono scesi da quattrocentocinque a
duecentocinque? Vi chiedo scusa, ma sono molto ignorante in questi
intrighi di Borsa.»
«Perché», commentò ridendo Albert, «le notizie si aggrovigliano e
non si assomigliano.»
«Diavolo», fece il conte ridendo, «il signor Danglars rischia di
guadagnare e di perdere trecentomila franchi in un giorno? È dunque
così ricco?»
«Non è lui che rischia», si affrettò a precisare Lucien. «È la
signora Danglars. Lei è veramente intrepida!»
«Ma voi Lucien che siete ragionevole e che conoscete l’instabilità
delle notizie, perché ne siete alla fonte, dovreste impedirlo»,
disse con un sorriso Morcerf.
«Come posso farlo io, se non ci riesce suo marito?» domandò Lucien.
«Conoscete l’indole della baronessa: nessuno ha influenza su di lei;
fa ciò che vuole.»
«S’io fossi al vostro posto…» cominciò Albert.
«Ebbene?»
«Io la guarirei; questo sarebbe un buon servizio da rendersi al
futuro genero.»
«E in che modo?»
«È facile: le darei una buona lezione.»
«Una lezione?»
«Sì, la vostra posizione come segretario del ministro, vi dà una
grande autorità sulle notizie: non fate in tempo ad aprir bocca che
gli agenti di cambio stenografano subito le vostre parole… Fatele
perdere un centinaio di migliaio di franchi, e ciò la renderà
prudente.»
«Non capisco…» balbettò Lucien.
«Eppure la cosa è chiara», rispose il giovane con un’ingenuità priva
d’affettazione. «Una mattina annunciatele qualche cosa d’inaudito,
una notizia telegrafica che voi solo potete sapere: per esempio, che
Enrico IV è stato visto vicino a Gabrielle. La notizia farà salire i
fondi, lei giocherà in Borsa, e perderà certamente, quando
l’indomani Beauchamp scriverà nel suo giornale: “È falso che persone
bene informate affermino che Enrico IV sia stato visto ieri da
Gabrielle: questo fatto è del tutto inesatto; il re Enrico IV non ha
mai lasciato il Pont Neuf.»
Lucien fece un sorrisetto. Montecristo, apparentemente indifferente,
non aveva perso una parola di quel discorso, e il suo sguardo
penetrante aveva perfino preteso di scoprire un segreto
nell’impaccio del segretario di ministero. Ma quest’impaccio,
completamente sfuggito ad Albert, fece abbreviare la visita di
Lucien, che non si sentiva più a suo agio.
Il conte, accompagnandolo alla porta, gli disse alcune parole a voce
bassa, alle quali rispose: «Ben volentieri, accetto».
Il conte ritornò dal giovane Morcerf.
«Non credete, riflettendoci bene, di avere avuto torto a parlar così
di vostra suocera in presenza di Debray?»
«Conte», disse Morcerf, «ve ne prego, non date alla baronessa questo
nome prima del tempo.»
«Davvero dunque, e senza esagerazione, la contessa è contraria a tal
punto a questo matrimonio?»
«A tal punto che la baronessa viene raramente a casa mia, e mia
madre, credo non sia stata più di una volta a far visita alla
signora Danglars.»
«Allora», disse il conte, «mi sento incoraggiato a parlarvi
apertamente. Il signor Danglars è il mio banchiere, il signor
Villefort mi ha colmato di gentilezze per la fortunata combinazione
che mi ha messo in grado di potergli rendere un servizio. Indovino
sotto tutto ciò un buon numero di pranzi e di feste. Ora, per non
sembrare d’intrecciare tutto a bella posta, e anche di prendere
un’iniziativa inopportuna, vi dirò che ho pensato di riunire nella
mia villa di campagna d’Auteuil il signore e la signora Danglars, e
il signore e la signora Villefort. Se v’invito a questo pranzo
insieme al conte e alla contessa Morcerf, non avrebbe questo
l’apparenza di un convegno matrimoniale, o almeno la contessa di
Morcerf non penserebbe così, particolarmente se il barone Danglars
mi farà l’onore di condurvi sua figlia? Allora vostra madre mi
detesterà, e io non lo voglio per niente. Al contrario, ho tutta
l’intenzione, e ditelo a lei ogni volta se ne presenti l’occasione,
di conservare la sua stima.»
«Vi ringrazio della franchezza che avete con me, e accetto
l’esclusione che mi proponete. Mi dite che desiderate conservarvi
più che sia possibile nel cuore di mia madre; vi assicuro che vi
siete già per sempre.»
«Lo credete?» chiese Montecristo con interesse.
«Ne sono sicuro… Quando l’altro giorno ci lasciaste, abbiamo parlato
molto di voi. Ma ritorniamo a ciò che dicevamo. Se mia madre potesse
sapere, e rischierò di dirglielo, il riguardo che le usate, sono
certo che ve ne sarebbe oltremodo grata; sebbene mio padre dal canto
suo monterebbe su tutte le furie.»
Il conte si mise a ridere.
«Ebbene, eccovi avvertito. Non solo vostro padre sarà furioso; il
signore e la signora Danglars mi considereranno uno screanzato.
Sanno che fra noi c’è una certa intimità, e non vedendovi alla mia
villa, mi chiederanno perché non vi abbia invitato. Pensate almeno a
munirvi di un impegno anticipato che possa essere valido, e di cui
mi avvertirete con un bigliettino. Sapete bene che i banchieri
riconoscono valide solo le cose scritte.»
«Farò anche meglio», disse Albert. «Mia madre ama andare a respirare
l’aria del mare. In che giorno è fissato il vostro pranzo?»
«Per sabato.»
«Oggi è martedì… Bene, domani sera partiamo, dopodomani mattina
saremo a Tréport. Sapete, signor conte, che siete meraviglioso nel
togliere dagli impicci i vostri amici?»
«Io? A dire il vero mi attribuite più valore di quel che valgo;
desidero farvi cosa grata, ecco tutto.»
«In che giorno avete mandati gli inviti?»
«Oggi stesso.»
«Bene, corro dal signor Danglars, ad annunciare che domani mia madre
e io lasceremo Parigi. Non vi ho visto, e di conseguenza non so
nulla del vostro pranzo.»
«Pazzo che siete! E il signor Debray che vi ha visto da me?»
«Ah giusto…»
«Quindi vi ho visto e vi ho invitato, e voi mi avete risposto
candidamente che non potevate perché domani partivate per Tréport.»
«Bene, è concluso… Ma verrete a visitare mia madre prima di domani?»
«Prima di domani è difficile. Poi verrei a disturbare i vostri
preparativi per la partenza.»
«Ebbene fate ancor meglio: non eravate che un uomo gentile,
diventereste un uomo adorabile…»
«E che debbo fare per giungere a questa sublimità?»
«Oggi siete libero come l’aria, venite a pranzo con me. Saremo una
piccola brigata: voi, mia madre e io. Avete appena incontrato mia
madre, così la conoscerete da vicino. È una donna notevole, e mi
dispiace solo che non ve ne sia una uguale con vent’anni di meno,
poiché vi assicuro che vi sarebbero presto una contessa e una
viscontessa Morcerf. Quanto a mio padre non lo troverete in casa, fa
parte di una commissione e pranza dal Gran Referendario. Venite,
parleremo di viaggi; voi che avete girato il mondo intero ci
racconterete le vostre avventure, ci direte la storia di quella
bella greca che dite essere vostra schiava, e che trattate come una
principessa. Andiamo, accettate, mia madre ve ne sarà grata.»
«Mille grazie», disse il conte, «l’invito non può essere più bello,
e mi spiace vivamente di non poterlo accettare. Non sono libero come
credete, e ho un convegno importantissimo.»
«State in guardia, mi avete insegnato in qual modo, in fatto di
pranzi, uno può disimpegnarsi da un invito sgradevole. Mi occorre
una prova. Fortunatamente non sono un banchiere come Danglars, ma vi
avverto che sono incredulo quanto lui.»
«E io vi do subito la prova», disse il conte, e suonò.
«Sono già due volte che ricusate di pranzare con mia madre. Questa
sembra una decisione permanente.»
Montecristo ebbe un fremito.
«Non lo credete, ed ecco la mia prova.»
Battistino entrò e si fermò sulla porta in attesa.
«Io non ero stato avvisato della vostra visita, non è vero?»
«Diamine, siete un uomo tanto straordinario che non ci giurerei.»
«Non potevo però immaginare che mi avreste invitato a pranzo…»
«In quanto a questo, è possibile.»
«Ebbene, ascoltate: Battistino, cosa vi ho detto questa mattina
quando vi ho chiamato nel mio studio?»
«Di far chiudere la porta del palazzo appena suonate le cinque»,
rispose il cameriere.
«E poi?»
«Signor conte…» iniziò Albert.
«No, voglio assolutamente sbarazzarmi della reputazione d’uomo
misterioso che mi avete dato, mio caro visconte; è troppo difficile
fare sempre la parte di
Manfredi. Voglio vivere in una casa di cristallo… E poi? Continuate
Battistino…»
«E poi di non ricevere che il signor maggiore Bartolomeo Cavalcanti
e suo figlio.»
«Capite, il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, un uomo della più antica
nobiltà d’Italia, e di cui Dante si è preso la pena di essere
l’Ossian… Vi ricordate, o non vi ricordate, nel decimo canto
dell’Inferno? Verrà anche suo figlio, un grazioso giovane della
vostra età circa, e del vostro titolo, e che fa il suo primo
ingresso nel mondo parigino con i milioni di suo padre. Il maggiore
questa sera viene a trovarmi con suo figlio Andrea, il contino, come
noi diciamo in Italia; egli me lo affida: lo presenterò se ha
qualche merito… Voi mi aiuterete, non è vero?»
«Certamente. Il maggiore Cavalcanti è dunque vostro vecchio amico?»
chiese Albert.
«Niente affatto! È un distinto signore molto educato, modesto e
discreto, come se ne trovano in gran quantità in Italia fra i
discendenti decaduti delle antiche famiglie. L’ho visto più volte,
tanto a Bologna, che a Firenze e Lucca, e mi ha avvertito del suo
arrivo. Le conoscenze di viaggio sono esigenti: ovunque reclamano
quell’amicizia che loro si è dimostrata una volta per caso. Come se
l’uomo civile, che non si cura poi troppo delle sue conoscenze, non
avesse a casa sua una vita privata e affari propri da sbrigare!
Questo buon maggiore ritorna a rivedere Parigi, che non vide che di
passaggio sotto l’impero, quando andò ad affrontare il gelo di
Mosca. Gli darò un buon pranzo, mi lascerà suo figlio, gli
prometterò di sorvegliarlo, ma gli lascerò fare tutte quelle follie
che gli piacerà di fare, e saremo pari.»
«A meraviglia, m’accorgo che siete un prezioso Mentore. Addio
dunque, ritorneremo domenica. A proposito ho ricevuto notizie di
Franz.»
«Davvero?» disse Montecristo. «Il soggiorno in Italia gli piace
sempre?»
«Credo di sì, però vi desidera. Dice che eravate il sole di Roma, e
che senza di voi si fa buio; non so se giunge fino a dire che
piova.»
«Si è dunque ricreduto sul conto mio?»
«Tutt’altro, insiste a credervi un essere fantastico in assoluto:
ecco perché vi desidera.»
«Un giovane molto gentile», ammise Montecristo, «e per il quale ho
sentito una viva simpatia fin dalla prima sera in cui lo vidi
spensieratamente in cerca d’una cena e mi permisi di offrirgli la
mia. Egli è, credo, il figlio del generale d’Epinay?»
«Precisamente.»
«Lo stesso che fu assassinato nel 1815?»
«Dai bonapartisti.»
«Non vi è anche per lui qualche progetto di matrimonio?»
«Sì, deve sposare la figlia del signor Villefort.»
«Davvero?»
«Come io devo sposare quella del barone Danglars», rispose Albert
sorridendo.
«Voi ridete?»
«Sì.»
«Perché ridete?»
«Rido perché mi sembra di vedere tra loro tanta simpatia per il
matrimonio, quanta ne vedo fra la signorina Danglars e me. Ma
veramente, mio caro conte, parliamo delle donne come le donne degli
uomini… Questo è imperdonabile.»
Albert si alzò.
«Volete andarvene?»
«La domanda è troppo cortese, sono due ore che vi assedio, e voi
avete la gentilezza di chiedermi se voglio andarmene? In verità,
conte, siete l’uomo più amabile della terra! E la vostra servitù
com’è educata! Battistino particolarmente. Non ho mai potuto avere
un cameriere simile. I miei sembrano tutti modellarsi su quelli del
Théâtre-Français, che, proprio perché non hanno che una parola da
dire, vengono sempre a dirla sulla scala… Se mai aveste a disfarvi
di Battistino, vi prego di darmi la preferenza.»
«D’accordo, visconte.»
«Ma non è tutto; aspettate, fate i miei complimenti al vostro
discreto lucchese Cavalcanti; e se per caso avesse intenzione di dar
moglie a suo figlio, trovategli una donna molto ricca, molto nobile
almeno da parte di madre… Io vi aiuterò a trovarla.»
«Oh, oh!» si stupì Montecristo. «Davvero siamo a questi termini?»
«Sì.»
«In fede mia, non bisogna giurare su niente.»
«Ah, conte», gridò Morcerf, «qual servizio mi rendereste! E come vi
amerei cento volte di più, se grazie a voi potessi restare celibe,
altri dieci anni almeno!»
«Tutto è possibile», rispose con gravità Montecristo.
E prendendo congedo da Albert rientrò nel suo studio, e batté tre
colpi sul campanello. Bertuccio comparve.
«Bertuccio, sapete che sabato do ricevimento nella mia villa di
Auteuil.»
Bertuccio ebbe un leggero fremito.
«Bene, signore.»
«Ho bisogno di voi», continuò il conte, «perché tutto sia disposto
convenientemente. Quella casa è bella, o perlomeno può diventare
bella.»
«Per far ciò bisognerebbe cambiar tutto, signor conte, ogni cosa è
invecchiata.»
«Cambiate dunque tutto, a eccezione di una camera sola, la camera da
letto di damasco rosso. Anzi, la lascerete assolutamente come si
trova.»
Bertuccio s’inchinò.
«Non toccherete niente neppure nel giardino; ma del cortile fate
tutto ciò che volete, gradirò anzi moltissimo se sarà ridotto in
modo da non essere più riconosciuto.»
«Farò il possibile perché il signor conte rimanga contento; sarei
più tranquillo però se volesse dirmi le sue intenzioni sul pranzo.»
«In verità», disse il conte, «dacché siamo a Parigi vi trovo
sconcertato e tremante… Dunque non mi conoscete più?»
«Ma infine Vostra Eccellenza potrebbe dirmi chi riceve?»
«Non so ancora niente, e voi pure non avete bisogno di saperlo…
Lucullo, ecco tutto.»
Bertuccio s’inchinò e uscì.
54. Il maggiore Cavalcanti
Né il conte, né Battistino avevano mentito annunciando a Morcerf
questa visita del maggiore lucchese, che serviva a Montecristo di
pretesto per rifiutare il pranzo che gli era stato offerto.
Battevano le sette, e già da due ore Bertuccio, secondo l’ordine
ricevuto, era partito per Auteuil, quando una carrozza da nolo si
fermò al cancello, e fuggì subito dopo aver deposto a terra un uomo
di circa cinquant’anni, vestito d’uno di quei soprabiti verdi con
alamari neri, la cui specie sembra non potersi estinguere in Europa.
Larghe brache di panno turchino, stivali abbastanza puliti, sebbene
la vernice fosse sbiadita. e le suole un po’ troppo grosse; guanti
di daino, un cappello che per la forma assomigliava a quello di un
gendarme, un colletto nero con orlo bianco, che si sarebbe potuto
credere uno di quei cerchi di ferro a cui si attaccano per il collo
i malfattori alla berlina: tale il pittoresco abbigliamento della
persona che bussò al cancello domandando se all’entrata degli
Champs-Elysées 30 abitasse il conte di Montecristo, e che alla
risposta affermativa del portinaio, entrò, richiuse la porta e si
diresse alla scalinata.
La testa piccola e spigolosa di quest’uomo, i capelli grigi, i fitti
baffi lo fecero riconoscere da Battistino, che aveva gli esatti
connotati del visitatore da lui atteso nel vestibolo Appena
pronunciato il nome all’intelligente servitore, Montecristo era già
avvertito del suo arrivo.
Lo straniero fu introdotto nella sala meno elegante. Il conte lo
aspettava, e gli andò incontro sorridendo.
«Caro signore, siate il benvenuto, vi aspettavo.»
«Davvero», si sorprese il lucchese, «Vostra Eccellenza mi
aspettava?»
«Sì, ero stato avvisato per oggi del vostro arrivo alle sette.»
«Del mio arrivo? Cosicché eravate prevenuto?»
«Perfettamente.»
«Tanto meglio! Temevo, lo confesso, che avessero dimenticato di
avvertirvi.»
«Invece è tutto a posto.»
«Veramente Vostra Eccellenza aspettava me alle sette?»
«Sì, veramente… D’altra parte verifichiamolo.»
«Se mi aspettavate non vale la pena.»
«No, no», insistette Montecristo.
Il lucchese parve alquanto commuoversi.
«Vediamo, non siete il marchese Bartolomeo Cavalcanti?»
«Bartolomeo Cavalcanti, esatto.»
«E maggiore al servizio dell’Austria?»
«Ero dunque maggiore?» domandò timidamente il vecchio soldato.
«Sì», rispose Montecristo, «eravate maggiore; questo è il nome che
si dà in Francia al grado che avevate in Italia.»
«Bene», disse il lucchese, «non domando di meglio, capite…»
«D’altra parte non venite qui di vostra spontanea volontà?» chiese
Montecristo.
«Sì, certamente.»
«Mi siete stato indirizzato da qualcuno?»
«Sì.»
«Dall’eccellente abate Busoni?»
«Da lui precisamente!» esclamò tutto contento il lucchese.
«E avete una lettera?»
«Eccola.»
«Vedete bene che tutto corrisponde. Datemela dunque.»
Montecristo prese la lettera che aprì e lesse.
Il maggiore guardava il conte con occhi spalancati e meravigliati,
che si posavano con curiosità sopra ciascun oggetto della stanza, ma
ritornavano involontariamente sul suo interlocutore.
«È proprio lui… quel caro Busoni… “Il maggiore Cavalcanti, un degno
patrizio lucchese, discendente dai Cavalcanti di Firenze…”»,
continuò Montecristo leggendo a voce alta, «“e che gode una fortuna
di mezzo milione di rendita…” Di mezzo milione?» aggiunse. «Mi
congratulo, mio caro Cavalcanti.»
«Dice mezzo milione?» domandò il lucchese.
«In tutte lettere… E dev’essere così, l’abate Busoni è l’uomo che
conosce meglio di tutti le più grandi fortune d’Europa.»
«Vada per mezzo milione», acconsentì il lucchese, «ma parola d’onore
non credevo di possedere tanto.»
«Perché avete un intendente che vi deruba… Che volete, caro signor
Cavalcanti, bisogna adattarsi…»
«Voi mi aprite gli occhi», disse il lucchese con gravità. «Lo
metterò alla porta.»
Montecristo continuò a leggere.
«E al quale non mancava che una cosa per essere felice…»
«Sì, una sola cosa», confermò il lucchese con un sospiro.
«Di ritrovare un figlio adorato, rapito nella sua prima gioventù, o
da nemici della sua famiglia o da zingari…»
«All’età di cinque anni, signore», disse il lucchese con un profondo
sospiro e alzando gli occhi al cielo.
«Povero padre!» mormorò Montecristo, e continuò: «“Io gli rendo la
speranza, gli rendo la vita, signor conte, annunciandogli che questo
figlio, che da quindici anni cerca invano, voi potete farglielo
ritrovare”».
Il lucchese guardò Montecristo con una indefinibile espressione
d’inquietudine.
«Posso farlo», disse Montecristo.
Il maggiore riprese coraggio.
«La lettera è dunque vera fino alla fine?»
«Avreste potuto dubitarne?»
«E come potevo? A un uomo serio, di rispettabile carattere non
sarebbe permessa un simile scherzo: ma non avete letto tutto,
Eccellenza!»
«È vero», disse Montecristo, «c’è un post-scriptum: “Per non
procurare al maggiore Cavalcanti l’impaccio di spostare dei fondi
dal suo banchiere gli mando una tratta di duemila franchi per le
spese del viaggio e gli apro credito su di voi per quarantottomila
franchi che mi rimborserete”.»
Il maggiore seguiva con gli occhi questo post-scriptum con visibile
ansietà.
«Bene», si contentò di dire il conte.
«Disse il vero», sussurrò il lucchese. «È così, signore?»
«Così, cosa?» domandò Montecristo.
«Il post-scriptum è accettato da voi con lo stesso favore di tutto
il resto della lettera?»
«Certamente. Ho un debito con l’abate Busoni: non so se siano
proprio quarantottomila franchi che ancora devo dargli, ma non
guasteremo i nostri rapporti per qualche biglietto di banca. E voi
dunque date grande importanza a questo post-scriptum, caro signor
Cavalcanti?»
«Vi confesso», ammise il lucchese, «che pieno di fiducia nella firma
dell’abate Busoni, non mi sono provveduto di altri fondi, di modo
che se mi mancasse questa risorsa, mi troverei molto impacciato a
Parigi.»
«Possibile che un uomo come voi possa mai trovarsi impacciato in
alcun luogo?» disse Montecristo.
«Non conoscendo nessuno…» disse il lucchese.
«Ma voi siete conosciuto.»
«Sì, sono conosciuto, di modo che…»
«Terminate, caro signor Cavalcanti.»
«Di modo che mi pagherete questi quarantottomila franchi?»
«Alla vostra prima richiesta.»
Il maggiore girava gli occhi stralunati.
«Ma sedetevi dunque», lo invitò Montecristo. «Davvero non so più
quel che faccio… È un quarto d’ora che vi tengo qui in piedi.»
«Non importa.»
Il maggiore prese una sedia e si accomodò.
«Ora», continuò il conte, «volete prendere qualche cosa? Un
bicchiere di Xeres, di Porto, d’Alicante?»
«D’Alicante, se volete, è il mio vino prediletto…»
«Ne ho dell’eccellente. E con un biscotto, non è vero?»
«Con un biscotto, se volete…»
Montecristo suonò, Battistino comparve, il conte gli s’avvicinò.
«Ebbene?» domandò a voce bassa.
«Il giovane è di là», rispose il cameriere con lo stesso tono.
«Bene! Dove lo avete condotto?»
«Nel salotto turchino come ordinò Vostra Eccellenza.»
«A meraviglia, portate del vino d’Alicante e dei biscotti.»
Battistino uscì.
«In verità», disse il lucchese, «vi do un incomodo che m’imbarazza.»
«Che dite mai!» esclamò Montecristo.
Battistino rientrò con i bicchieri, il vino e i biscotti. Il conte
riempì un bicchiere, e versò nell’altro soltanto alcune gocce del
liquido rubino che conteneva la bottiglia, tutta ricoperta di tela
di ragno, e di altri segni che indicano la vecchiaia del vino, molto
più sicuramente che non le rughe sulla fronte dell’uomo. Il maggiore
non s’ingannò nella scelta, prese il bicchiere pieno e un biscotto.
Il conte ordinò a Battistino di lasciare la sottocoppa a portata di
mano dell’ospite, che cominciò a gustare l’Alicante con l’estremità
delle labbra, facendo una smorfia di piacere e intingendo
delicatamente il biscotto nel bicchiere.
«Così, signore», riprese Montecristo, «voi abitate a Lucca, siete
ricco, siete nobile, godete della stima universale, possedete tutto
ciò che può formare un uomo felice?»
«Tutto, Eccellenza», confermò il maggiore, inghiottendo il suo
biscotto. «Assolutamente tutto.»
«E non manca che una sola cosa per fare la vostra felicità?»
«Una sola», disse il lucchese.
«Ritrovare vostro figlio?»
«Sì», ribadì il maggiore prendendo un secondo biscotto, «solo questo
mi manca.»
Il degno lucchese alzò gli occhi al cielo e si abbandonò a un
sospiro.
«Vediamo, signor Cavalcanti, che cos’è questo figlio che tanto
rimpiangete: mi fu detto che siete rimasto a lungo celibe.»
«Lo credevano, signore», disse il maggiore, «e io stesso…»
«Sì», riprese il conte, «e voi stesso avete accreditato questa voce.
Un peccato che volevate nascondere agli occhi di tutti.»
Il lucchese si ricompose, cercò di darsi un contegno, abbassò
modestamente gli occhi, sia per rassicurare il conte sulla sua
condotta, sia per studiarne le reazioni. Ma il sorriso del conte
rivelava sempre la stessa benevola curiosità.
«Sì, signore, volevo nascondere questo errore agli occhi di tutti.»
«Non per voi.»
«Per me no certamente», disse il maggiore con un sorriso, scuotendo
la testa.
«Ma per sua madre», replicò il conte.
«Per sua madre!» esclamò il lucchese prendendo il terzo biscotto.
«Per la sua povera madre!»
«Bevete dunque, caro signore», lo esortò Montecristo versando al
lucchese un secondo bicchiere d’Alicante. «L’emozione vi soffoca.»
«Per la sua povera madre!» mormorò il lucchese, trattenendo le
lacrime. «Che apparteneva a una delle famiglie più illustri
d’Italia…»
«Patrizia, di Fiesole, signor conte!»
«E si chiamava?»
«Desiderate saperne il nome?»
«È inutile che me lo diciate, lo so.»
«Il signor conte sa tutto», disse il lucchese inchinandosi.
«Oliva Corsinari, non è vero?»
«Oliva Corsinari!»
«Marchesa?»
«Marchesa!»
«E avete finito con lo sposarla, malgrado l’opposizione della
famiglia.»
«Sì, l’ho sposata.»
«E avete i documenti in regola?»
«Quali documenti?» domandò il lucchese.
«L’atto di matrimonio con Oliva Corsinari, e l’atto di nascita di
vostro figlio.»
«L’atto di nascita di mio figlio?»
«Sì, l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti… Vostro figlio non si
chiama Andrea?»
«Credo di sì», rispose il lucchese.
«Come, lo credete?»
«Non oso affermarlo; è tanto tempo che l’ho perduto!»
«Avete ragione», disse Montecristo. «Avete dunque tutti questi
documenti?»
«Signore, con dispiacere debbo dirvi che non essendo stato
avvertito, non le ho portate con me. Erano dunque documenti
necessari?»
«Indispensabili!»
Il lucchese si grattò la fronte.
«Perbacco», ripeté, «indispensabili!»
«Senza dubbio, se qui venissero mossi dei dubbi sulla legalità del
vostro matrimonio, sulla legittimità di vostro figlio!»
«È vero», riconobbe il lucchese, «potrebbero insorgere dubbi.»
«Sarebbe doloroso per questo giovane.»
«Sarebbe fatale.»
«Ciò potrebbe mandargli a monte qualche magnifico matrimonio.»
«Sarebbe terribile!»
«In Francia, lo sapete, vi è molto rigore: non sono riconosciuti i
matrimoni clandestini; in Francia c’è il matrimonio civile, e per
maritarsi civilmente ci vogliono le carte d’identità.»
«Che disgrazia, non ho queste carte.»
«Fortunatamente le ho io», disse Montecristo.
«Voi?»
«Sì.»
«Ah!» esclamò il lucchese, che, vedendo lo scopo del suo viaggio
fallire per mancanza di queste carte, temeva potessero insorgere
difficoltà per i quarantottomila franchi. «Ecco, un altro vostro
aiuto… Sì», riprese, «perché io non ci avrei pensato.»
«Lo credo bene, non si può sempre pensare a tutto. Ma fortunatamente
l’abate Busoni ci ha pensato al vostro posto.»
«Guardate un po’ quanto è amabile questo caro abate!»
«È un uomo previdente.»
«È un uomo ammirabile!» dichiarò il lucchese. «Ve le ha inviate?»
«Eccole qui…»
Il lucchese congiunse le mani in segno di ammirazione.
«Voi avete sposato Oliva Corsinari a Montecatini, ecco il
certificato.»
«Sì, davvero, eccolo», ripeté il maggiore, guardandolo con
meraviglia.
«Ed ecco l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti rilasciato a
Serravezza.»
«Tutto è in regola», disse il maggiore.
«Allora, prendete queste carte, delle quali non so che farne, e le
darete a vostro figlio che le custodirà con cura.»
«Lo credo bene… S’egli le perdesse…»
«Ebbene, s’egli le perdesse?» domandò Montecristo.
«Allora», rispose il lucchese, «sarebbe obbligato a scrivere laggiù,
e vi sarebbero grandi difficoltà a procurarsene delle altre.»
«Infatti sarebbe difficilissimo», confermò Montecristo.
«Quasi impossibile», riprese il lucchese.
«Sono molto contento che comprendiate il valore di queste carte.»
«Le considero impagabili.»
«Ora, quanto alla madre del giovane…»
«Quanto alla madre del giovane…» ripeté il maggiore con
inquietudine.
«In quanto alla marchesa Corsinari…»
«Mio Dio», gemette il lucchese nel timore che sorgessero difficoltà.
«Si avrà forse bisogno di lei?»
«No, signore», rispose Montecristo, «d’altra parte non ha lei…»
«Certo», disse il maggiore, «lei ha…»
«Pagato il suo tributo alla natura.»
«Ahimè, sì», confermò vivamente il lucchese.
«Seppi», riprese il conte, «che è morta da dieci anni.»
«E io ne piango ancora la perdita», disse il maggiore prendendo di
tasca un fazzoletto a quadretti e asciugandosi gli occhi.
«Che volete farci», disse Montecristo, «noi tutti siamo mortali. Ora
capirete, mio caro, che è inutile che si sappia in Francia che siete
stato diviso da vostro figlio per quindici anni. Tutte queste storie
di zingari che rapiscono i ragazzi non hanno credito presso di noi.
Voi lo avete inviato per la sua educazione in un collegio di
provincia, e volete ch’egli la compia nel gran mondo di Parigi. Ecco
perché avete lasciato Viareggio dove abitate dopo la morte di vostra
moglie. Ciò basterà!»
«Lo credete?»
«Certamente.»
«Va benissimo allora.»
«Se si scoprisse qualche cosa di questa separazione…»
«Che dovrei dire allora?»
«Che un precettore infedele, venduto ai nemici della vostra
famiglia…»
«Ai Corsinari?»
«Certamente… Ha rapito questo figlio, perché si estinguesse il
vostro nome.»
«È vero, perché è figlio unico…»
«Bene, ora che tutto è combinato, che la vostra memoria è stata
rinfrescata, avrete forse indovinato che vi ho preparato una
sorpresa?»
«Gradevole?» domandò il lucchese.
«Mi accorgo che non si può ingannare l’occhio, come non si può
ingannare il cuore di un padre», rispose Montecristo. «Vi è stata
fatta qualche rivelazione indiscreta, o avete indovinato che lui è
di là…»
«Chi è di là?»
«Vostro figlio, il vostro Andrea.»
«L’ho indovinato», ammise il lucchese con la più grande flemma del
mondo. «Così è qui?»
«In questa stessa casa», disse Montecristo. «Il cameriere poco fa mi
ha avvisato del suo arrivo.»
«Benissimo, benissimo!» esclamò il maggiore allacciandosi gli
alamari.
«Mio caro signore», disse Montecristo, «comprendo la vostra emozione
e bisogna accordarvi un po’ di tempo per rimettervi… Voglio pure
disporre il giovane a questo incontro tanto desiderato, giacché
presumo che non sia meno impaziente di voi.»
«Lo immagino», disse Cavalcanti.
«Ebbene fra un quarto d’ora saremo qui.»
«Voi dunque lo avete davvero qui? Me lo portate voi stesso?»
«No, non voglio pormi fra il padre e figlio, sarete soli… Ma state
tranquillo, nel caso che la voce del sangue rimanesse muta, non
potrete ingannarvi: egli entrerà da quella porta. È un bel giovane
biondo, forse un po’ troppo biondo, d’aspetto veramente signorile…»
«A proposito», disse il maggiore, «sapete che non ho portato con me
che i duemila franchi che mi ha versato il buon abate Busoni. Su
questi bisogna togliere le spese di viaggio, e…»
«E avete bisogno di denaro, è troppo giusto. Prendete, ecco qui una
cifra tonda: otto biglietti da mille franchi. Ora ve ne devo altri
quarantamila.»
Gli occhi del maggiore splendettero come fiamme.
«Vostra Eccellenza vuole che le firmi la ricevuta?» domandò il
maggiore, facendo scivolare i soldi nella tasca interna del
soprabito.
«Per farne che?» disse il conte.
«Per darvene credito nel conto dell’abate Busoni.»
«Ebbene, mi farete una ricevuta generale quando vi sborserò gli
ultimi quarantamila franchi. Fra galantuomini sono inutili queste
cautele.»
«Sì, è vero», assentì il maggiore, «fra galantuomini…»
«Mi permetterete una piccola raccomandazione, non è vero?»
«Quale?»
«Non sarebbe male se vi toglieste quel soprabito.»
«Davvero?» si sorprese il maggiore, guardando con una certa
compiacenza l’indumento.
«Sì, a Viareggio si porta ancora, ma è già gran tempo che questo
mantello, per quanto elegante, è passato di moda a Parigi.»
«Mi rincresce», disse il lucchese.
«Ma se ci siete affezionato, potrete rimetterla al ritorno.»
«Ma intanto che mi metterò?»
«Ciò che troverete nei vostri bauli.»
«Come, nei miei bauli? Non ho portato con me che il mantello.»
«Vi credo, perché avreste dovuto impacciarvi? Un vecchio militare
desidera marciare con un piccolo zaino.»
«È proprio così…»
«Ma voi siete un uomo previdente, e perciò avete mandato avanti i
vostri bauli. Sono giunti ieri all’albergo dei Principi, rue
Richelieu, dove avete fatto fissare il vostro alloggio.»
«Allora in quei bauli…»
«Presumo che avrete avuto la precauzione di farvi riporre dal vostro
cameriere tutto ciò che vi poteva servire: abiti da passeggio, abiti
di gala. Nelle grandi occasioni vestirete l’uniforme, il che va
sempre bene. Non dimenticate poi le decorazioni. In Francia, le
portano sempre.»
«Benissimo, benissimo!» esclamò il maggiore, passando da una
sorpresa a un’altra.
«E ora che il vostro cuore si è rafforzato contro le sensazioni
troppo vivaci, preparatevi, mio caro Cavalcanti, a rivedere il
vostro Andrea.»
E facendo un grazioso saluto al lucchese rapito in estasi,
Montecristo sparì dietro la porta.
55. Andrea Cavalcanti
Il conte di Montecristo fece il suo ingresso nel salotto vicino, che
Battistino aveva indicato con il nome di salotto turchino, e dove
era stato preceduto da un giovane dal portamento disinvolto, vestito
con sufficiente eleganza, che mezz’ora prima era smontato alla porta
del palazzo da una carrozza di piazza. Battistino non aveva fatto
fatica a riconoscerlo: era davvero quel giovane alto con i capelli
biondi, di un bel colorito su una candidissima pelle, come era stato
detto dal padrone. Il giovane era negligentemente steso su un sofà e
si percuoteva lo stivale con un sottile bastoncino dal pomo dorato.
Scorgendo Montecristo si alzò.
«Il signore è il conte di Montecristo?» domandò.
«Sì, signore», rispose questi, «e credo di avere l’onore di parlare
al conte Andrea Cavalcanti.»
«Il conte Andrea Cavalcanti», annuì il giovane, accompagnando le
parole con un saluto disinvolto.
«Dovreste avere una lettera che vi accredita…»
«Non ve ne ho fatto cenno a causa della firma, molto strana.»
«Sinbad il marinaio, è esatto?»
«Esattamente, e siccome non ho mai conosciuto altro Sinbad il
marinaio che quello delle Mille e una notte…»
«È uno dei suoi discendenti, ed è uno dei miei amici, molto ricco,
un inglese, qualche cosa di più che stravagante, quasi pazzo, il cui
vero nome è lord Wilmore…»
«Capisco, ecco ciò mi spiega ogni cosa», disse Andrea. «Allora tutto
va a meraviglia. È quello stesso inglese che conobbi… a… sì,
benissimo. Signor conte vi sono servo.»
«Se quanto avete l’onore di dirmi è vero, spero che vorrete
favorirmi alcuni particolari sulla vostra famiglia…»
«Senz’altro, signor conte», rispose il giovane con una volubilità
che provava la sicurezza della sua memoria. «Io sono, come avete
detto, il conte Andrea Cavalcanti, figlio del maggiore Bartolomeo,
discendente dai Cavalcanti iscritti al libro d’oro di Firenze. La
nostra famiglia, sebbene ancora ricca, poiché mio padre gode di
mezzo milione di rendita, ha subito moltissime sciagure, e io
stesso, signore, all’età di cinque anni, sono stato rapito da un
tutore infedele; di modo che da quindici anni non ho più rivisto mio
padre. Dacché ho l’età della ragione, dacché sono libero e padrone
di me, lo cerco, ma inutilmente. Infine questa lettera del vostro
amico Sinbad mi annuncia ch’egli è a Parigi, e mi permette
d’indirizzarmi a voi per averne notizia.»
«A essere sincero, signore, tutto ciò che mi raccontate è molto
importante», disse il conte che guardava con tetra soddisfazione
quella fisonomia disinvolta, di una beltà simile a quella
dell’angelo ribelle, «e avete fatto benissimo ad aderire in tutto e
per tutto all’invito del buon amico Sinbad, perché vostro padre
infatti è qui che vi cerca.»
Il conte, fin dall’entrata nel salotto, non aveva perduto di vista
il giovane, ne aveva ammirato la sicurezza dello sguardo e della
voce, ma a queste parole tanto naturali, «Vostro padre è qui che vi
cerca», il giovane Andrea fece un balzo gridando: «Mio padre! mio
padre qui!»
«Senza dubbio», annuì Montecristo, «vostro padre il maggiore
Bartolomeo Cavalcanti.»
L’espressione di terrore del giovane si cancellò quasi subito: «Ah
sì, è vero, il maggiore Bartolomeo Cavalcanti. E voi dite, signor
conte, che è qui, quel caro padre».
«Sì, signore, aggiungerò che l’ho lasciato in questo momento… La
storia che mi ha raccontato di questo prediletto figlio perduto, mi
ha molto commosso. I suoi dolori, i timori, le speranze formerebbero
un poema commovente. Finalmente un giorno ricevette notizia che i
rapitori di suo figlio offrivano di renderlo o d’indicare dov’era,
in cambio d’una forte somma. Nulla trattenne questo buon padre, la
somma fu inviata alla frontiera del Piemonte, unitamente a un
passaporto regolare per l’Italia. Voi eravate nel mezzogiorno della
Francia, credo…»
«Sì, signore», rispose Andrea con impaccio, «ero nel mezzogiorno
della Francia.»
«Una vettura doveva aspettarvi a Nizza?»
«Proprio così, signore; essa mi condusse da Nizza a Genova, da
Genova a Torino, da Torino a Chambéry, da Chambéry a
Pont-de-Beauvoisin, e di lì a Parigi.»
«Vostro padre sperava sempre d’incontrarvi durante il tragitto,
poiché questa era la strada che faceva egli stesso, ed ecco perché
anche il vostro itinerario era stato in tal modo tracciato.»
«Ma», riprese Andrea, «se questo caro padre mi avesse incontrato
temo non mi avrebbe riconosciuto; sono molto cambiato da quando l’ho
perduto di vista.»
«Oh, la voce del sangue», disse Montecristo.
«Sì, è vero», rispose il giovane, «non pensavo alla voce del
sangue!»
«Ora», riprese Montecristo, «una sola cosa agita il marchese
Cavalcanti, ed è ciò che avete fatto durante la vostra lontananza, e
il modo con il quale siete stato trattato dai vostri persecutori; e
il desiderio di sapere se hanno avuto per la vostra nascita i
riguardi che le si dovevano; infine se le sofferenze morali alle
quali siete stato esposto, sofferenze cento volte peggiori delle
fisiche, hanno indebolito le vostre facoltà, e se credete di poter
sostenere nella società il rango che vi appartiene.»
«Signore», balbettò il giovane, «spero che nessuna falsa
informazione…»
«Sentii parlare di voi per la prima volta dal mio amico Wilmore.
Seppi che vi aveva ritrovato in una situazione molto dolorosa, però
non so quale, non avendogli fatta alcuna domanda, essendo poco
curioso. Le vostre disgrazie lo hanno interessato. Mi disse che
voleva rendervi nel mondo la posizione che avevate perduto, che
cercava vostro padre, e che lo avrebbe ritrovato. Infatti c’è
riuscito, a quanto sembra, poiché è di là: finalmente mi ha
avvertito ieri del vostro arrivo, dandomi anche alcune istruzioni
relative alle vostre ricchezze… Ecco tutto. So che questo mio buon
amico Wilmore è un originale, ma nello stesso tempo siccome è un
uomo sicuro, ricco quanto una miniera d’oro, e di conseguenza può
soddisfare le sue originalità, senza ch’esse lo rovinino, ho
promesso di seguire le sue istruzioni. Ora, signore, non vi
offendete della mia domanda. Giacché sarò obbligato a farvi un poco
da padre, desidererei sapere se le disgrazie che vi sono accadute,
disgrazie indipendenti dalla vostra volontà, e che non diminuiscono
in alcun modo la stima che vi porto, vi abbiano reso estraneo a
questo mondo nel quale le vostre ricchezze vi chiamano a fare una
buona figura.»
«Signore», rispose il giovane riprendendo il suo contegno sicuro man
mano che il conte parlava, «rassicuratevi su questo punto: i
rapitori che mi hanno allontanato da mio padre, e che senza dubbio
avevano per scopo di rendermi a lui più tardi, come hanno fatto,
hanno calcolato che per cavare un buon guadagno da me, bisognava
lasciarmi tutto il mio valore personale, e anzi aumentarlo ancora,
se era possibile: ho dunque ricevuto un’educazione e sono stato
trattato dai miei rapitori nello stesso modo, circa, con cui
nell’Asia Minore erano trattati gli schiavi dai loro maestri che
erano o grammatici, o medici, o filosofi, per venderli a un più caro
prezzo al mercato di Roma.»
Montecristo sorrise con soddisfazione; non aveva sperato tanto dal
signor Andrea Cavalcanti, a quanto sembrava.
«D’altra parte», continuò il giovane, «se vi fosse qualche difetto
nella mia educazione o piuttosto nelle abitudini di società, si
avrà, suppongo, l’indulgenza di scusarmi in considerazione delle
disgrazie che hanno accompagnato la mia nascita, e perseguitata la
mia gioventù.»
«Ebbene», disse Montecristo con noncuranza, «farete ciò che vorrete,
perché voi siete il padrone, e spetta a voi decidere. Ma non direi
una parola di tutte queste avventure. La vostra storia è un romanzo,
e il mondo che adora i romanzi chiusi fra due copertine di carta
gialla, diffida stranamente di quelli che vede legati in pergamena
vivente, fossero pur anche dorati come potete esserlo voi. Ecco la
difficoltà che mi permetterò di farvi notare: appena avrete
raccontata a qualcuno la vostra commovente storia, verrà del tutto
snaturata nella società. Non sarete più un giovane ritrovato; ma un
giovane perduto. Sarete obbligato a prendere la posizione di Antony,
e il tempo degli Antony è passato. Forse godreste di un momento di
notorietà, ma non tutti amano farsi centro di curiosità, argomento
di commenti, e ciò forse vi stancherebbe troppo.»
«Credo abbiate ragione, signor conte», disse il giovane impallidendo
suo malgrado sotto lo sguardo di Montecristo. «Questo è un grande
inconveniente.»
«Non bisogna però esagerarlo», riprese Montecristo, «perché allora
per evitare un errore si cadrebbe in una follia. No, non si tratta
che di stabilire una linea di condotta, e per un uomo intelligente
come voi, è tanto più facile in quanto è conforme ai vostri
interessi. Bisognerà combattere con testimonianze e onorevoli
amicizie tutto ciò che può avere di oscuro la vostra vita passata.»
Andrea perdette visibilmente il coraggio.
«Mi offrirei volentieri per voi come garante», disse Montecristo.
«Ma in me è un’abitudine morale dubitare sempre dei miei migliori
amici, e un bisogno cercare di far dubitare gli altri… In questa
occasione io rappresenterei una parte fuori del mio carattere, come
dicono i tragici, e mi esporrei a farmi fischiare, il che è
inutile.»
«Tuttavia, signor conte», disse Andrea con audacia, «per un riguardo
a lord Wilmore, che mi ha raccomandato a voi…»
«Sì, certamente», rispose Montecristo, «ma lord Wilmore non mi ha
nascosto, caro signor Andrea, che avete avuto una gioventù alquanto
burrascosa… Ma», proseguì il conte vedendo l’espressione che faceva
Andrea, «non vi domando delle confessioni… D’altra parte, perché non
abbiate bisogno di nessuno fu fatto venire da Lucca il signor
marchese Cavalcanti vostro padre.»
«Voi mi tranquillizzate, signore! L’ho lasciato da lungo tempo che
non avevo più di lui alcun ricordo.»
«E poi sapete che le molte ricchezze fanno chiudere un occhio su
tante cose.»
«Mio padre è dunque realmente ricco, signore?»
«Milionario… Cinquecentomila lire di rendita.»
«Allora», domandò il giovane con ansia, «mi troverò ben presto in
una posizione… gradevole?»
«Delle più gradevoli, mio caro signore: vi assegna cinquantamila
lire di rendita per ogni anno che resterete a Parigi.»
«Ma… in questo caso, vi resterò sempre?»
«Chi può rispondere dell’avvenire, mio caro signore? L’uomo propone
e Dio dispone.»
Andrea sospirò.
«Ma infine per tutto il tempo che resterò a Parigi e… nessuna
occasione me la farà abbandonare, questo denaro, di cui mi parlava
poco fa, mi sarà assicurato?»
«Decisamente.»
«Da mio padre?» domandò Andrea con inquietudine.
«Sì, ma garantito da lord Wilmore, che ha su richiesta di vostro
padre aperto un credito di cinquemila franchi al mese presso il
signor Danglars, uno dei più sicuri banchieri di Parigi.»
«E mio padre conta di restare a lungo a Parigi?»
«Soltanto qualche giorno», rispose Montecristo. «Il suo servizio non
gli permette di assentarsi più di due o tre settimane.»
«Che caro padre!» esclamò Andrea visibilmente lieto per quella
pronta partenza.
«Per cui», aggiunse Montecristo, facendo finta d’ingannarsi
sull’accento di queste parole, «non voglio ritardare di un solo
momento la vostra riunione. Siete preparato ad abbracciare questo
degno signor Cavalcanti?»
«Spero che non ne dubiterete.»
«Ebbene, entrate dunque nel salotto, mio giovane amico e troverete
vostro padre che vi aspetta.»
Andrea fece un profondo saluto al conte, ed entrò nel salotto.
Il conte lo seguì con lo sguardo e avendolo visto sparire, spinse
una molla corrispondente a un quadro che, scostandosi dal muro,
lasciava vedere l’interno del salotto, per mezzo di una fessura
magistralmente occultata. Andrea chiuse la porta dietro di sé e si
avanzò verso il maggiore, che si alzò appena udito il rumore dei
passi che si avvicinavano.
«Signore e caro padre», disse Andrea ad alta voce, e in modo che il
conte lo sentisse al di là della porta chiusa, «siete veramente
voi?»
«Buongiorno, caro figlio», disse con gravità il maggiore.
«Dopo tanti anni di separazione», ripeté Andrea, continuando a
guardare dal lato della porta chiusa, «che fortuna rivederci!»
«Difatti la separazione è stata lunga.»
«E non ci abbracciamo, signore?» riprese Andrea.
«Come volete, figlio mio», aggiunse il maggiore.
E i due uomini si abbracciarono al modo degli attori del
Théâtre-Français, cioè posandosi reciprocamente la testa sopra le
spalle.
«Eccoci dunque riuniti», disse Andrea.
«Eccoci riuniti», ripeté il maggiore.
«Per non separarci mai più!»
«Sia, però credo, caro figlio, che ora dovrete considerare la
Francia come la vostra seconda patria.»
«Il fatto è che sarei disperato se dovessi lasciare Parigi.»
«E io, capirete, non saprei vivere fuori di Lucca; ritornerò dunque
in Italia appena potrò.»
«Ma, caro padre, prima di partire, mi consegnerete le carte con le
quali dimostrare la mia nobile nascita?»
«Senza dubbio, sono venuto espressamente per questo, ho già molto
sofferto per ritrovarvi, e non voglio perdervi una seconda volta…
Soffrirei per il resto dei miei giorni.»
«E le carte?»
«Eccole.»
Andrea afferrò avidamente l’atto di matrimonio di suo padre e quello
della sua nascita, e li percorse con una rapidità e una disinvoltura
che denotavano un colpo d’occhio esercitato, e un vivo interesse.
Appena terminato, un’indefinibile gioia gli brillò sulla fronte, e
guardando il maggiore con uno strano sorriso: «E che!» diss’egli in
buon toscano. «Non vi sono più galere in Italia?»
Il maggiore si irrigidì.
«E perché?» disse.
«Perché si fabbricano impunemente certificati simili… Per la metà di
questo, caro padre, in Francia vi manderebbero a respirare per
cinque anni l’aria di Tolone.»
«Come sarebbe a dire?» replicò il lucchese, sforzandosi d’assumere
un tono maestoso.
«Mio caro signor Cavalcanti», disse Andrea stringendosi al braccio
il maggiore, «quanto vi pagano per esser mio padre?»
Il maggiore voleva parlare, ma Andrea aggiunse abbassando la voce:
«Zitto, sarò il primo a darvi l’esempio: a me danno cinquantamila
franchi l’anno per essere vostro figlio; di conseguenza capirete
bene che non sarò mai disposto a negare che voi siete mio padre».
Il maggiore guardò con inquietudine intorno a sé.
«State pur tranquillo, siamo soli», disse Andrea, «e d’altra parte
noi parliamo in italiano.»
«Ebbene», riprese il lucchese, «a me danno cinquantamila franchi per
una sola volta.»
«Signor Cavalcanti, credete ai racconti delle fate?»
«Prima non ci credevo, ma adesso bisogna che ci creda.»
«Avete dunque avuto delle prove?»
Il maggiore cavò dal taschino un pugno di monete d’oro: «Palpabili
come vedete. Credete dunque, ch’io possa prestar fede alle promesse
fatte?»
«E questo brav’uomo del conte le manterrà?»
«Sicuramente, ma capirete che per giungere allo scopo, bisogna che
noi rappresentiamo bene la parte importante.»
«In che modo?»
«Io di tenero padre.»
«E io di figlio rispettoso, poiché desiderano che io discenda da
voi.»
«Chi lo desidera?»
«Diavolo, non lo so, coloro che vi hanno scritto: non avete ricevuto
una lettera?»
«Certamente.»
«Da chi?»
«Da un certo abate Busoni.»
«Che non conoscete?»
«Che non ho mai visto.»
«Che diceva questa lettera?»
«Voi non mi tradirete?»
«Me ne guarderei bene; abbiamo eguali interessi.»
«Allora tenete», e il maggiore presentò la lettera al giovane.
Andrea lesse a voce bassa:
«Voi siete povero, un’infelice vecchiaia vi attende, volete
diventare, se non ricco, almeno felice? Partite subito per Parigi,
per reclamare dal conte di Montecristo, Champs-Elysées numero 30, il
figlio che avete avuto con la marchesa Corsinari, e che vi fu rapito
nell’età di 5 anni. Egli si chiama Andrea Cavalcanti. Perché non
abbiate alcun dubbio sulle intenzioni che il sottoscritto ha di
rendersi a voi utile, troverete qui uniti: Primo: un buono di
duemilaquattrocento lire toscane, pagabili dal signor Gozzi in
Firenze. Secondo: una lettera di presentazione per il signor conte
di Montecristo sul quale vi apro un credito della somma di
quarantottomila franchi. Siate dal conte il 26 maggio alle sette
pomeridiane.
Abate Busoni.»
«È questa, è questa…»
«Come, è questa? Che intendete dire?» domandò il maggiore.
«Dico che ne ho ricevuta una pressappoco come questa.»
«Voi?»
«Sì, io.»
«Dall’abate Busoni?»
«No.»
«Da chi dunque?»
«Da un inglese, un certo Wilmore, che prende il nome di Sinbad il
marinaio…»
«E che voi non conoscete più che io l’abate Busoni?»
«Esatto… Ma ne so più di voi…»
«L’avete visto?»
«Sì, una volta.»
«E dove?»
«Ecco ciò che appunto non posso dirvi; voi ne sapreste quanto me, e
ciò è inutile.»
«E quella lettera vi diceva?»
«Leggete.»
«Voi siete povero, e non avete che un avvenire miserabile; volete un
nome, esser ricco?»
«Perbacco!» fece il giovane rizzandosi sui talloni, come se una
simile domanda gli fosse stata fatta proprio in quel momento.
«Prendete la carrozza di posta che troverete già allestita uscendo
da Nizza per la porta di Genova. Passate per Torino, Chambéry, e
Pont-de-Beauvoisin, recatevi a Parigi. Presentatevi al signor di
Montecristo, entrata degli Champs-Elysées, il 26 maggio alle sette
pomeridiane, e domandategli di vostro padre. Voi siete figlio del
marchese Bartolomeo Cavalcanti, e della marchesa Oliva Corsinari,
come attestano le carte che vi saranno rimesse dal marchese, e che
vi permetteranno di potervi presentare con questo nome nella società
di Parigi. In quanto al vostro rango, una rendita di cinquantamila
lire l’anno vi metterà in condizione di poterlo sostenere. Unito
alla presente troverete un buono di cinquemila lire pagabile dal
signor Ferrea di Nizza, e una lettera di presentazione al conte di
Montecristo, incaricato da me di provvedere ai vostri bisogni.
Sinbad il marinaio.»
«Benissimo!» esclamò il maggiore. «Avete visto il conte?»
«L’ho lasciato or ora.»
«Ed egli ha approvato…?»
«Tutto.»
«Ne capite qualche cosa?»
«No, a dire il vero.»
«In questa faccenda c’è certamente un merlo.»
«In ogni caso, non saremo né io, né voi.»
«No, certamente.»
«Ebbene, allora…»
«Poco c’importa, vero?…»
«Precisamente, ciò che volevo dire anch’io, andiamo fino alla fine,
e sempre uniti.»
«Vedrete che sono degno di giocare la vostra partita.»
«Non ne ho dubitato neppure un momento, caro padre.»
«Voi mi fate onore, caro figlio.»
Montecristo scelse questo momento per entrare nel salotto. Sentendo
il rumore dei suoi passi, i due uomini si gettarono nelle braccia
l’uno dell’altro, il conte li trovò abbracciati.
«Ebbene, marchese», diss’egli, «sembra che abbiate trovato un figlio
consono al vostro cuore.»
«Conte, la gioia mi soffoca.»
«E voi?»
«Signore, la felicità mi opprime.»
«Padre fortunato! Figlio avventuroso!» esclamò Montecristo.
«Una sola cosa mi rattrista», disse il maggiore, «la necessità di
dover così presto lasciar Parigi.»
«Non partirete prima che vi abbia presentato a qualche amico.»
«Sono agli ordini del signor conte», disse il maggiore.
«Or via, giovanotto, confidatevi.»
«A chi?»
«A vostro padre; ditegli qualche cosa sullo stato delle vostre
finanze.»
«Ahimè!» gemette Andrea. «Voi toccate un tasto sensibile…»
«Capite, maggiore?» disse Montecristo.
«Senza dubbio.»
«Egli dice che ha bisogno di denaro.»
«E che volete che ci faccia io?»
«Che gliene diate, perbacco!»
«Io?»
«Sì, voi!»
Montecristo si pose fra loro.
«Prendete», disse ad Andrea, lasciandogli scorrere tra le mani dei
biglietti di banca.
«E che cos’è?»
«La risposta di vostro padre… Non gli avete fatto capire che avevate
bisogno di denaro?»
«Sì, ebbene?»
«Ebbene, egli m’incarica di darvi questi.»
«In conto delle mie rendite?»
«No, per le spese di prima sistemazione.»
«Oh, caro padre!»
«Silenzio!» intimò Montecristo. «Vedete bene che egli non vuole vi
dica che vengono da lui.»
«Apprezzo questa delicatezza», disse Andrea, nascondendo i biglietti
nella tasca dei calzoni.
«Bene», annuì Montecristo. «Ora andate!»
«E quando avremo l’onore di rivedere il signor conte?» domandò il
maggiore.
«Sabato, per favore… Avrò parecchie persone a pranzo nella mia casa
d’Auteuil, rue Fontaine 28; fra esse il signor Danglars, vostro
banchiere. Vi presenterò a lui: bisogna bene che faccia la
conoscenza di entrambi per sborsarvi il vostro danaro.»
«In gran tenuta?» domandò a bassa voce il maggiore.
«Sì, uniforme, decorazioni e nastrini.»
«E io?» chiese Andrea.
«Voi con gran semplicità: calzoni neri, stivali verniciati, corpetto
bianco, abito nero o turchino… Andate da Blin o Véronique per
abbigliarvi, se non ne sapete gli indirizzi, Battistino ve li dirà…
Se prendete cavalli servitevi da Devedeux; se comprate un carrozzino
andate da Baptiste.»
«A che ora potremo presentarci?»
«Alle sei e mezzo.»
«Molto bene!» disse il maggiore, portando la mano al cappello.
I due Cavalcanti salutarono il conte e partirono.
Il conte si avvicinò alla finestra, e li vide che attraversavano il
cortile tenendosi sotto il braccio.
«In verità», disse, «ecco due gran miserabili! Peccato che non siano
veramente padre e figlio!»
Dopo un momento di cupa riflessione: «Andiamo dai Morrel; credo che
il disprezzo mi amareggi ancor più dell’odio».
56. Il recinto di trifoglio
Occorre che i nostri lettori ci permettano di riportarli a quel
recinto che confina con l’abitazione del signor Villefort, e dietro
il cancello nascosto dai castagni troveremo delle persone di nostra
conoscenza.
Maximilien questa volta era giunto per primo, e teneva l’occhio
contro l’assito cercando in fondo al giardino un’ombra fra gli
alberi, e attendendo il calpestio d’uno stivaletto di seta sulla
sabbia dei viali. Finalmente il tanto desiderato calpesto si fece
sentire, ma invece di una furono due le ombre che si avvicinarono.
Il ritardo era causato dalla visita della signora Danglars e di
Eugénie, che si era prolungata oltre l’ora in cui Valentine era
attesa. Allora per non mancare al suo appuntamento la ragazza aveva
proposto alla signorina Danglars una passeggiata in giardino,
volendo far vedere a Maximilien non esser lei la causa del ritardo
per il quale, certamente, lui soffriva. Il giovane comprese tutto
con la rapidità d’intuizione propria degli innamorati, e il suo
cuore ne fu sollevato. D’altra parte senza giungere a portata di
voce, Valentine fece la sua passeggiata in modo che Maximilien
potesse vederla passare e ripassare; e a ogni sguardo dalla parte
del cancello, e dal giovane raccolto, gli diceva: «Abbiate pazienza,
vedete che non è colpa mia». Maximilien, infatti, si era rassegnato
e stava notando il contrasto fra le due ragazze: la bionda dagli
occhi languidi e dal corpo leggermente flessuoso come un bel salice;
e la bruna dagli occhi vivi e dal corpo ritto come un pioppo. Non è
necessario dirlo, in questo contrasto tutto il vantaggio era per
Valentine, almeno nel cuore del giovane.
Dopo una mezz’ora di passeggiata le due ragazze si allontanarono;
Maximilien capì essere giunto il termine della visita della signora
Danglars. Un momento dopo comparve Valentine da sola. Per paura che
qualche indiscreto sguardo non ne seguisse il ritorno in giardino,
lei veniva piano piano; e invece d’avanzarsi direttamente verso il
cancello, andò a sedersi su una panchina, dopo aver ammirato ogni
gruppo di alberi e aver contemplato fino in fondo tutti i viali.
Prese queste cautele corse al cancello.
«Buongiorno, Maximilien; vi ho fatto attendere, ma ne avete vista la
causa.»
«Ho notato la signorina Danglars; non vi credevo in così stretta
amicizia.»
«E chi vi ha detto che siamo strette amiche?»
«Nessuno, ma ho potuto intuirlo dal modo come vi tenevate per il
braccio, e come parlavate: sembravate due compagne di conservatorio
che si facevano le loro confidenze.»
«Sì, è vero, infatti», ammise Valentine, «mi confessava la sua
avversione al matrimonio con il signor Morcerf, e io la mia
infelicità nel dover sposare il signor d’Epinay.»
«Cara la mia Valentine!»
«Ecco perché, amico mio», continuò la ragazza, «avete notato
quest’apparenza di intimità fra me ed Eugénie; perché parlando
dell’uomo che non posso amare, pensavo a quello che amo.»
«Quanto siete buona, mia Valentine, avete un pregio che Eugénie non
avrà mai: emanate quella simpatia indefinibile che per la donna è
ciò che il profumo è per il fiore, il sapore per il frutto; poiché
non è tutto in un fiore l’esser bello, in un frutto l’esser buono.»
«E l’amor vostro vi fa vedere in tal modo?»
«No, Valentine, ve lo giuro, poco fa vi guardavo entrambe, e sul mio
onore, rendendo giustizia alla bellezza della signorina Danglars,
non potevo comprendere come un uomo si possa innamorare di lei.»
«Lo dite perché c’ero anch’io, e la mia presenza vi rende ingiusto.»
«No, ma ditemi…, una domanda di semplice curiosità, e che viene da
certe idee che mi sono fatte della signorina Danglars…»
«Queste idee saranno certamente ingiuste, sebbene non sappia quali
siano… Quando giudicate voi uomini, noi povere donne non ci dobbiamo
aspettare indulgenza.»
«È per ciò che siete tanto giuste quando vi giudicate fra di voi!»
«È perché nei vostri giudizi sono quasi sempre mischiate le
passioni.»
«È forse perché la signorina Danglars ama qualche altro, che teme il
matrimonio col signor Morcerf?»
«Maximilien, vi ho già detto che non sono la sua intima amica.»
«Senza essere amiche intime le ragazze si fan delle confidenze…
Convenite che le avete fatto qualche domanda su quest’argomento… Vi
vedo sorridere…»
«Se potete vedere tanto bene, queste tavole sono davvero inutili!»
«Sentiamo cosa vi ha detto?»
«Mi ha detto che non amava nessuno», rispose Valentine, «che aveva
in orrore il matrimonio, che la sua maggiore gioia sarebbe di vivere
una vita sola e felice, e che quasi desiderava che suo padre
perdesse la sua fortuna per diventare artista come la sua amica
Louise d’Armilly.»
«Vedete dunque…»
«Ebbene, ciò che cosa prova?» domandò Valentine.
«Nulla, è vero», rispose sorridendo Maximilien.
«Allora», riprese Valentine, «perché ora sorridete voi?»
«Allora anche voi mi guardate», proseguì Maximilien.
«Volete che mi allontani?»
«No, no, torniamo a noi.»
«Sì è vero, perché abbiamo appena dieci minuti da passare insieme.»
«Dio mio!» disse costernato Maximilien.
«Sì, avete ragione», rispose malinconicamente Valentine, «avete in
me una povera amica… Quale meschina esperienza vi faccio fare
Maximilien! Voi siete nato per esser felice. Credetemi; io me lo
rimprovero sempre amaramente.»
«Ebbene che v’importa, se anche in tal modo mi sento felice? Se
questo lungo aspettare viene compensato da cinque minuti, in cui
posso vedervi, dalle poche parole che escono dalla vostra bocca e da
quell’intima e permanente convinzione che Dio non può aver creato
due cuori in armonia quanto i nostri, e riunirli direi quasi
miracolosamente, solo per separarli?»
«Grazie! Sperate per entrambi, Maximilien: ciò mi rende in parte
felice.»
«E che cosa accade ancora Valentine, perché abbiate a lasciarmi
tanto presto?»
«Non lo so… La signora Villefort m’ha fatto dire di dovermi dare una
notizia dalla quale, dice, dipende metà della mia fortuna. Ah, mio
Dio, che se la prendano tutta, sono ricca abbastanza, ma almeno,
dopo averla presa, mi lascino tranquilla! Mi amereste ugualmente
anche fossi povera, non è vero, Morrel?»
«V’amerò sempre! Che m’importano la ricchezza o la povertà, fossi
certo che la mia Valentine mi sposa, e che nessuno può togliermela?
Ma questa non potrebbe riguardare il vostro matrimonio?»
«Non credo…»
«Però ascoltatemi Valentine, ma non vi spaventate: finché vivo, non
sarò mai di un’altra!»
«Credete di tranquillizzarmi, dicendomi questo, Maximilien?»
«Scusate, avete ragione, sono un uomo brutale. Io volevo dirvi che
giorni fa ho incontrato il signor Morcerf.»
«Ebbene?»
«Il signor Franz è suo amico, come voi ben sapete.»
«Sì, ebbene?»
«Ebbene, egli ha ricevuto da Franz una lettera con cui lo avverte
del suo prossimo ritorno.»
Valentine impallidì, e appoggiò la testa contro il cancello.
«Povera me!» si disperò. «Fosse mai vero! Ma no, una tale notizia
non mi verrebbe dalla signora Villefort.»
«Perché?»
«Perché… non lo so… Ma mi sembra che la signora Villefort, senza
opporsi apertamente, non abbia simpatia per questo matrimonio.»
«Va bene, Valentine, dovrò finire con l’adorare la signora
Villefort.»
«Non v’affrettate, Maximilien», disse Valentine con un amaro
sorriso.
«Alla fin fine, se è contraria a questo matrimonio, non fosse altro
che per romperlo, forse darebbe ascolto a qualche altra proposta.»
«Non speratelo; la signora Villefort non esclude i mariti, ma il
matrimonio.»
«Come il matrimonio? Se tanto detesta il matrimonio, perché si è
maritata?»
«Voi non mi capite, Maximilien… Quando un anno fa le parlai di
ritirarmi in un convento, malgrado le osservazioni che si era
creduta in dovere di farmi, lei aveva accolto la mia proposta con
gioia, e su sua istigazione mio padre aveva acconsentito; non vi fu
che il povero nonno che mi trattenne. Non potete immaginarmi quanta
espressione vi sia negli occhi di questo povero vecchio che non ama
che me sola al mondo, e che (Dio mi perdoni se dico una bestemmia)
in questo mondo, non è amato che da me sola! Se sapeste quando
apprese la mia decisione, in che modo mi ha guardato, quanti
rimproveri vi erano in quegli sguardi, quanta disperazione in quelle
lacrime che scorrevano senza lamenti e senza sospiri su quelle
guance immobili! Maximilien, io provai rimorso, e mi gettai ai suoi
piedi gridando: “Perdono, perdono, nonno mio, faranno di me ciò che
vorranno, ma io non vi lascerò mai!” Allora alzò gli occhi al cielo…
Maximilien, posso soffrire molto, ma quello sguardo del mio buon
vecchio nonno mi ha ricompensata di tutto ciò che soffrirò…»
«Cara Valentine, siete un angelo, e io non so come abbia potuto
meritare pur avendo ucciso tanti uomini in questa guerra crudele,
come abbia potuto meritarmi un angelo come voi… Ma infine vediamo,
Valentine, da dove può venire un’opposizione così forte della
signora Villefort perché non dobbiate maritarvi?»
«Non avete capito ciò che vi dicevo poco fa, che cioè, io sono
ricca, Maximilien, troppo ricca? Io ho da parte di mia madre quasi
cinquantamila franchi di rendita; mio nonno e mia nonna, il marchese
e la marchesa di Saint-Méran, devono lasciarmene altrettanto; il
signor Noirtier ha ugualmente l’intenzione di farmi sua unica erede.
Ne risulta dunque in rapporto a me, che mio fratello Edouard, che
non può aspettarsi da parte di sua madre alcuna ricchezza, è povero.
Ora la signora Villefort ama questo ragazzo fino all’adorazione, e
se io fossi entrata in un monastero, tutti i miei beni riuniti in
mio padre, che erediterebbe dal marchese, dalla marchesa e da me,
sarebbero andati a suo figlio.»
«Questa cupidigia in una donna giovane e bella è molto strana!»
«Notate però che tutto ciò non è per se stessa, Maximilien, ma per
suo figlio; e ciò che voi le rimproverate come un difetto, visto
dall’amor materno, è quasi una virtù.»
«Ditemi, Valentine», domandò Morrel, «se voi lasciaste una parte di
questi beni a questo figlio?»
«Ma come fare una simile proposta», replicò Valentine, «a una donna
che continuamente ha nella bocca la parola disinteresse?»
«Valentine, il mio amore mi è stato sempre sacro, e come tutte le
cose sacre io l’ho coperto col velo del rispetto: sta chiuso nel mio
cuore, nessuno al mondo, neppure mia sorella dubita dunque di questo
amore che io non ho confidato a nessuno. Valentine, mi permettete di
parlare di questo amore con un amico?»
Valentine fremette.
«A un amico?» si agitò. «Mio Dio, Maximilien, un timore mi prende
nel sentirvi parlar così! “A un amico”, e chi è dunque questo
amico?»
«Ascoltate, Valentine, avete mai sentito per qualcuno una di quelle
simpatie irresistibili che fanno sì che, vedendo una persona per la
prima volta, credete di conoscerla da lungo tempo, e tanto che, non
potendo ricordarvi né il luogo né il tempo, giungete a credere che
ciò fu in un mondo anteriore al nostro, e che questa simpatia non
sia che una rimembranza che si risvegli?»
«Sì.»
«Ebbene, ecco ciò che ho provato la prima volta che ho visto
quest’uomo straordinario.»
«Un uomo straordinario!»
«Sì.»
«Che voi conoscete da lungo tempo allora.»
«Da otto o dieci giorni.»
«E chiamate vostro amico un uomo che conoscete da soli otto giorni?
Maximilien, vi credevo molto più geloso di questo bel nome di
“amico”.»
«Voi avete ragione, Valentine: ma, dite ciò che volete, nulla mi può
far dubitare di questo sentimento istintivo. Credo che quest’uomo
avrà un ruolo in tutto ciò che potrà accadermi di buono in un
avvenire, che perfino il suo sguardo profondo sembra conoscere e la
sua mano possente dirigere.»
«È dunque un indovino?» chiese sorridendo Valentine.
«A dire il vero», disse Maximilien, «sono tentato di credere che
spesso egli indovini… particolarmente il bene.»
«Oh», sospirò Valentine tristemente. «Fatemi conoscere quest’uomo,
che io sappia da costui, se sarò amata abbastanza per essere
ricompensata di tutto ciò che ho sofferto.»
«Povera amica! Ma voi lo conoscete.»
«Io!»
«Sì, è colui che ha salvato la vita alla vostra matrigna e a suo
figlio.»
«Il conte di Montecristo?»
«In persona.»
«Non può mai essere mio amico», gridò Valentine, «lo è troppo della
mia matrigna.»
«Il conte amico della vostra matrigna! Valentine, il mio istinto mi
avrebbe ingannato a questo punto? Sono sicuro che voi vi sbagliate.»
«Sapeste, Maximilien, non è più Edouard che regna nella casa, ma il
conte, ricercato dalla signora Villefort, che vede in lui il
compendio delle umane conoscenze… Ammirato, capite? Ammirato da mio
padre che dice di non aver mai udito esporre con maggiore eloquenza
le idee più sublimi; idolatrato da Edouard che, pur spaventato dai
grandi occhi neri del conte, corre da lui appena lo vede, e gli apre
la mano, dove trova sempre qualche bel giocattolo… Il signor
Montecristo, quando è dalla signora Villefort, è come se fosse in
casa propria.»
«Ebbene, cara Valentine, se le cose sono così come dite dovete già
risentire, o risentirete ben presto gli effetti della sua presenza.
Egli incontra Albert di Morcerf in Italia, e lo sottrae dalle mani
dei briganti; vede la signora Danglars, e le fa un regalo da re; la
vostra matrigna e vostro fratello passano davanti alla sua porta, e
il suo nubiano salva loro la vita. Quest’uomo ha evidentemente
ricevuto il potere di avere influenza sugli avvenimenti, sugli
uomini e sulle cose. Non ho mai visto gusti più semplici collegati a
una più alta signorilità. Il suo sorriso quando guarda me, è così
dolce, che io dimentico come gli altri trovino il suo sorriso amaro:
ditemi, Valentine, vi ha sorriso in tal modo? Se lo ha fatto voi
sarete felice.»
«Sorriso a me!» esclamò la ragazza. «Egli mi guarda appena, o
piuttosto, se passo per caso, volge lo sguardo altrove. Non è
generoso, non ha quello sguardo profondo che legge nell’interno dei
cuori, e che voi gli supponete a torto; poiché se avesse avuto
questo sguardo, avrebbe visto che io sono infelice; perché se fosse
generoso, vedendomi sola e triste nel mezzo di questa famiglia, mi
avrebbe protetta con quella influenza che egli esercita; e poiché
rappresenta, a quanto pretendete, la parte di sole, avrebbe
riscaldato il mio cuore a uno dei suoi raggi. Voi dite che vi ama,
Maximilien, ma che ne sapete? Gli uomini fanno sempre buon viso a un
ufficiale alto come voi, che ha lunghi baffi, e una grande sciabola,
ma credono di potere schiacciare senza timore una povera ragazza che
piange.»
«Valentine, v’ingannate, ve lo giuro!»
«Se fosse altrimenti, se mi trattasse come un uomo che vuole in un
modo o nell’altro padroneggiare la famiglia, mi avrebbe, non fosse
stato che una sola volta, onorata di quel sorriso che voi tanto mi
vantate… Ma invece ha capito come sono, ma capisce anche che non
posso essergli utile, e allora non fa attenzione a me. Chissà,
invece, per fare la corte a mio padre, alla signora Villefort, a mio
fratello, che non mi perseguiti quanto sarà in suo potere di farlo?
Diciamolo francamente Maximilien, io non sono una donna che si debba
disprezzare così senza ragione; voi me lo avete detto… Perdonatemi»,
continuò la giovane vedendo l’effetto che producevano le sue parole
su Maximilien, «sono cattiva, e vi dico su quest’uomo cose che non
sapevo neppure di avere in cuore. Ascoltate… Non nego che
quest’influenza, di cui mi parlate, vi sia e che egli non la
eserciti anche su me; ma s’egli la esercita, è in modo nocivo e
corruttore, come lo vedete, dei vostri buoni pensieri.»
«Sta bene, Valentine», disse Morrel con un sospiro, «non ne parliamo
più, non gli dirò niente.»
«Ahimè, amico mio», disse Valentine, «io vi affliggo, lo vedo…
Perché non posso stringervi la mano per domandarvi perdono! Ma
infine non chiedo di meglio che di esser convinta: dite che ha
dunque fatto per voi questo conte di Montecristo?»
«Voi mi mettete in un grande imbarazzo domandandomi ciò che ha fatto
il conte per me; niente di grande è vero. Vi ho già detto che la mia
affezione per lui è tutta d’istinto, e che nulla ha di ragionato. Il
sole mi ha forse fatto qualche cosa! No, egli mi riscalda e con la
sua luce vedo, ecco tutto. Il tale o tal altro profumo ha fatto
qualche cosa per me? No, il suo odore ricrea gradevolmente uno dei
miei sensi, non ho altro da dire quando mi si domanda perché io
vanti quel tale profumo. La mia amicizia per lui è strana, com’è la
sua per me. Una voce segreta m’avverte che vi è qualche cosa più di
un semplice caso in quest’amicizia imprevista e reciproca, trovo una
corrispondenza perfino nei suoi più segreti pensieri, fra le mie
azioni ed i miei pensieri. Voi forse riderete di me, Valentine, ma
da quando conosco quest’uomo mi è venuta l’assurda idea che tutto
ciò che mi accade di bene provenga da lui benché abbia vissuto
trent’anni senza aver mai avuto bisogno di questo protettore.
Sentite un esempio! Mi ha invitato a pranzo per sabato, questa è una
cosa naturale al punto in cui siamo, non è vero? Ebbene, che ho
saputo dopo? Che vostro padre è invitato a questo pranzo, che vostra
madre ci verrà. Chi sa ciò che potrà risultare per l’avvenire da
questo incontro? Ecco delle coincidenze semplicissime in apparenza,
tuttavia vi scorgo qualche cosa che mi sorprende, m’ispira una
strana fiducia. Io ho pensato che il conte, quest’uomo singolare che
indovina tutto, ha voluto farmi ritrovare col signore e con la
signora Villefort, e qualche volta cerco, ve lo giuro, di leggere
nei suoi occhi se ha indovinato il mio amore.»
«Mio buon amico», riprese Valentine, «se non udissi da voi
ragionamenti simili vi prenderei per un visionario, e avrei una vera
paura del vostro buon senso. Non è forse un puro caso
quest’incontro? In verità rifletteteci dunque. Mio padre, che non
esce mai, è stato dieci volte sul punto di negare questo invito alla
signora Villefort, la quale al contrario arde dal desiderio di
vedere la casa di questo straordinario nababbo, e a stento ha
ottenuto di essere accompagnata da lui. No no, credetemi, tranne
voi, Maximilien, non ho altri a cui chiedere soccorso che mio nonno,
un impotente, né altr’appoggio che mia madre, un’ombra…»
«Comprendo che avete ragione, Valentine, e che il vostro
ragionamento è giusto», disse Maximilien, «ma la vostra dolce voce,
sempre così persuasiva per me, oggi non mi convince.»
«E la vostra ancor meno», replicò Valentine, «e vi dirò che se non
avete altro esempio da citarmi…»
«Ne ho uno», disse Maximilien esitando, «ma, Valentine, sono
costretto a dirvi che è più assurdo del primo.»
«Tanto peggio», commentò sorridendo Valentine.
«Eppure», continuò Morrel, «non è meno importante per me, uomo
d’istinto e di sentimento, e che nei momenti più pericolosi della
mia vita militare mi sono salvato proprio per uno di queste
sensazioni inconsce.»
«Caro Maximilien, perché non attribuire alle mie preghiere quella
salvezza? Quando siete in Africa, non prego più Dio per me, né per
mia madre, ma solo per voi.»
«Sì, da quando vi conosco», disse sorridendo Morrel, «ma prima che
vi conoscessi, Valentine?»
«Non volete essermi debitore di niente, non è vero? Tornate dunque a
questo esempio che voi stesso confessate assurdo.»
«Ebbene, guardate fra le assi, e osservate, laggiù a quell’albero,
il nuovo cavallo col quale sono venuto.»
«Che bestia ammirabile! Perché non lo avete condotto vicino al
cancello? Gli avrei parlato ed egli mi avrebbe capita…»
«Infatti, come vedete è un animale di grande valore», continuò
Maximilien. «Voi sapete che la mia rendita è limitata, e che io
altro non sono, come si dice, che un uomo ragionevole. Ebbene, avevo
visto da un mercante di cavalli questo magnifico Medea, così lo
chiamo; ne chiesi il prezzo, mi fu risposto quattromilacinquecento
franchi, dovetti astenermi, come ben capite, sebbene tanto bello, e
me ne molto dispiaciuto, perché il cavallo mi aveva guardato
teneramente, mi aveva accarezzato con la testa, e aveva caracollato
sotto di me nel modo più elegante e grazioso. La stessa sera avevo
in casa alcuni amici: il signor Château-Renaud, il signor Debray, e
cinque o sei altri, che avete la fortuna di non conoscere neppure di
nome. Fu proposta una partita di carte. Non gioco mai perché non
sono abbastanza ricco da poter perdere, né abbastanza povero per
desiderare di vincere… Però ero in casa mia, e non potevo ricusare,
così fui costretto a mettermi al tavolino. Poco dopo giunse il
signor di Montecristo, si giocò e io vinsi, oso appena
confessarvelo, Valentine, guadagnai cinquemila franchi. Ci lasciammo
a mezzanotte, e io non potei contenermi, presi un carrozzino e mi
feci condurre dal mercante di cavalli. Palpitante suonai, venne ad
aprirmi, e dovette prendermi per pazzo: irruppi e corsi dall’altra
parte del cortile appena fu aperta la porta; entrai in scuderia,
guardai alla rastrelliera. Oh, fortuna! Medea era lì, rosicava il
fieno, prendo una sella, gliela metto sul dorso, gli pongo le
redini; poi depositando i quattromilacinquecento franchi fra le mani
del mercante stupefatto, ritorno, o piuttosto passo la notte a
passeggiare negli Champs-Elysées. Ebbene, ho visto un lume alla
finestra del conte, e mi è perfino sembrato di scorgerne l’ombra
dietro la tenda. Ora, Valentine, giurerei che il conte ha saputo che
desideravo questo cavallo, e ha perduto per farmelo comperare.»
«Mio caro Maximilien», disse Valentine, «avete troppa fantasia… Non
mi amerete a lungo… Un uomo così poetico non può avere costanza in
una passione monotona come la nostra. Ma sentite… mi chiamano…»
«Valentine», osò Maximilien, «il vostro dito più piccolo ch’io possa
baciarlo attraverso la fessura!»
«Avevamo detto, Maximilien, che saremmo stati l’una per l’altro due
voci, due ombre!»
«Come volete, Valentine…»
«Sareste felice, se facessi ciò che volete?»
«Sì sì.»
Valentine salì su una panchina, e passò, non il dito attraverso
l’apertura, ma la mano al di sopra del recinto. Maximilien mandò un
grido, e, arrampicandosi con un balzo sullo steccato, afferrò questa
mano adorata, e v’impresse le ardenti labbra; ma subito la piccola
mano sgusciò dalle sue, e il giovane vide fuggire Valentine, forse
spaventata dalla sensazione provata.
57. Il signor Noirtier di Villefort
Ecco ciò che accadde nella casa del procuratore del re,
successivamente alla partenza della signora Danglars e di sua
figlia, durante la conversazione che abbiamo riferito. Il signor
Villefort era entrato nella camera di suo padre, seguito dalla
signora Villefort; in quanto a Valentine, sappiamo dov’era. Entrambi
dopo aver salutato il vecchio e congedato Barrois, il domestico che
era al loro servizio da venticinque anni, avevano preso posto ai
suoi lati.
Il signor Noirtier, seduto in una grande poltrona a rotelle, dove
veniva messo la mattina e da dove era tolto la sera, era seduto
davanti a uno specchio che riflettendo tutto l’appartamento gli
permetteva di vedere, impossibilitato a muoversi, chi entrava nella
sua camera, chi ne usciva, e tutto ciò che si faceva intorno a lui.
Il signor Noirtier, immobile come un cadavere, guardava con occhi
intelligenti e vivi i suoi figli, la cui cerimoniosa reverenza gli
annunciava qualche cosa di spiacevole e inatteso.
La vista e l’udito erano i due soli sensi che, simili a scintille,
animavano questo corpo umano inerte, ormai pronto per la tomba: e lo
sguardo che rivelava quella vita interna, era paragonabile a una di
quelle luci lontane che, durante la notte, avvertono il viaggiatore
perduto in un deserto che un essere umano veglia ancora in quel
silenzio e in quella oscurità.
E così nell’occhio nero del vecchio Noirtier sormontato da un
sopracciglio nero, mentre la capigliatura, lunga e pendente sulle
spalle, era bianca, in quest’occhio, come accade in ciascun organo
dell’uomo, super esercitato a spese degli altri organi, si erano
concentrate tutta la forza, tutta l’intelligenza di quel corpo e di
quello spirito. Certo mancavano il gesto del braccio, il suono della
voce e l’attitudine del corpo; ma quell’occhio intenso suppliva a
tutto: comandava con gli occhi, ringraziava con gli occhi; era un
cadavere con gli occhi vivi, e niente poteva essere qualche volta
più minaccioso o dolce di quel viso di marmo, quando si accendeva
una collera o risplendeva una gioia.
Tre sole persone sapevano comprendere il linguaggio di questo povero
paralitico: Villefort, Valentine e il vecchio domestico di cui
abbiamo già parlato. Ma siccome Villefort non vedeva suo padre che
rare volte, o, per così dire, solo quando non ne poteva fare a meno,
e siccome quando lo vedeva, non cercava di compiacerlo,
comprendendolo, tutta la felicità del vecchio era riposta nella
nipote Valentine, la quale era giunta a forza di affezione, di amore
e di pazienza a comprendere con lo sguardo tutti i pensieri di
Noirtier.
A tale linguaggio muto o inintelligibile, lei rispondeva con tutta
la sua voce, tutta la sua fisonomia, tutta la sua anima: di modo che
si stabilivano dei dialoghi animati fra questa ragazza e questa
forma di argilla quasi ritornata polvere, e ancora uomo di immenso
sapere, di inaudita penetrazione, e di volontà così possente quanto
un’anima racchiusa in un corpo su cui ha perduto il potere e
l’obbedienza. Valentine era dunque riuscita a capire il pensiero del
vecchio e a fargli comprendere il suo; ed era ben raro che per le
cose ordinarie della vita, non indovinasse con precisione il
desiderio di quest’anima vivente, o di questo cadavere per metà
insensibile. Quanto al domestico, siccome serviva il padrone da
venticinque anni, conosceva tanto bene tutte le abitudini di lui
ch’era ben difficile che Noirtier avesse bisogno di domandare
qualche cosa.
Villefort tuttavia non aveva bisogno dei soccorsi né dell’uno, né
dell’altro, per intavolare con suo padre la strana conversazione che
stava per incominciare. Egli stesso, abbiamo detto, conosceva
perfettamente il vocabolario del vecchio, e se non se ne serviva più
spesso, era per noia o per indifferenza. Dunque lasciò scendere
Valentine in giardino, allontanò Barrois, e dopo aver preso posto
alla destra di suo padre, mentre la signora Villefort sedeva alla
sinistra, iniziò: «Signore, non vi meravigliate che Valentine non
sia salita con noi, e che io abbia allontanato Barrois, perché la
conversazione che stiamo per avere è una di quelle che non può
essere fatta, né davanti a una ragazza, né davanti a un domestico…
La signora Villefort e io abbiamo una comunicazione da farvi».
Il viso di Noirtier restò impassibile durante questo preambolo,
mentre l’occhio di Villefort sembrava scrutare fino nel più profondo
il cuore del vecchio.
«Questa comunicazione», continuò il procuratore del re, nel suo
solito tono gelido, che non sembrava ammettere mai contestazioni,
«siamo sicuri che vi farà piacere.»
L’occhio del vecchio continuò a restare immobile, ascoltava e niente
più.
«Signore», riprese Villefort, «noi vogliamo maritare Valentine.»
Una figura di cera non sarebbe a questa notizia rimasta più fredda
del vecchio.
«Il matrimonio avrà luogo fra tre mesi», concluse Villefort.
La signora Villefort prese a sua volta la parola e si affrettò ad
aggiungere: «Abbiamo pensato che questa notizia vi avrebbe toccato,
da vicino, signore, giacché Valentine sembra aver attirato tutta la
vostra simpatia… Non ci rimane altro da dirvi che il nome del
giovane che le viene destinato. È uno dei più onorevoli partiti ai
quali possa aspirare Valentine: ricchezze, un bel nome, e garanzie
sicure di felicità nella condotta e nei gusti di colui che le
destiniamo, e il cui nome non dev’esservi sconosciuto: il signor
Franz Quesnel, barone d’Epinay».
Villefort durante il piccolo discorso di sua moglie fissava nel
vecchio uno sguardo più attento che mai. Allorché la signora
Villefort pronunciò il nome di Franz, l’occhio di Noirtier, che suo
figlio conosceva tanto bene, fremette e le pupille dilatandosi come
fossero state due labbra al momento di dire una parola, lasciarono
intravedere una certa agitazione.
Il procuratore del re, che conosceva gli antichi rapporti
d’inimicizia politica tra suo padre e il padre di Franz, capì questo
fuoco e quest’agitazione, ma ciò nonostante lo lasciò passare come
non visto, e riprendendo la parola ove sua moglie l’aveva lasciata:
«Signore, è importante, lo capite bene, essendo così vicina a
compiere i diciannove anni, che Valentine venga finalmente
sistemata. Tuttavia non vi abbiamo dimenticato nelle trattative, e
ci hanno assicurato che il marito di Valentine accetterebbe di
vivere se non con noi, la qual cosa incomoderebbe forse le loro
private faccende, almeno con voi, che siete il prediletto di
Valentine, e che per vostra parte sembrate portarle un’affezione
uguale. Non perderete alcuna delle vostre abitudini, e avreste
soltanto due figli che vi sorveglieranno invece di uno solo».
Il lampo dello sguardo di Noirtier divenne sanguigno…. Certamente
passava qualche cosa di spaventoso nell’animo di questo vecchio;
certamente il grido del dolore o della collera gli salivano alla
gola, e non potendo scoppiare lo soffocavano, perché il viso divenne
color di porpora e le labbra livide.
Villefort aprì tranquillamente una finestra dicendo: «Fa troppo
caldo qui, e questo calore fa male al signor Noirtier».
Poi ritornò, ma senza sedersi.
«Questo matrimonio», riprese la signora Villefort, «piace al signor
d’Epinay e alla sua famiglia, la quale d’altra parte non si compone
che di uno zio e di una zia. Sua madre morì nel darlo alla luce, suo
padre morì assassinato nel 1815, cioè quando il figlio aveva due
anni appena… Franz d’Epinay dunque è indipendente.»
«Assassinio misterioso», sottolineò Villefort, «di cui gli autori
sono rimasti sconosciuti, sebbene il sospetto si fosse sparso, pur
senza soffermarsi sulla testa di precise persone.»
Noirtier fece un tale sforzo che le labbra si contrassero come per
sorridere.
«Ora», continuò Villefort, «i veri colpevoli, quelli che sanno di
aver commesso il delitto, quelli sui quali può discendere la
giustizia degli uomini durante la loro vita, e la giustizia di Dio
dopo la loro morte, sarebbero ben felici di essere al nostro posto e
di avere una figlia da offrire al signor Franz d’Epinay per spegnere
fino all’apparenza questo sospetto.»
Noirtier si era placato con uno di quegli sforzi che non ci si
sarebbe aspettati da un uomo in quelle condizioni.
«Sì, comprendo», rispose egli con uno sguardo a Villefort, e questo
sguardo esprimeva anche lo sdegno profondo e la collera
intelligente.
Villefort rispose a questo sguardo, nel quale aveva letto
perfettamente, con una leggera stretta di spalle. Quindi fece segno
a sua moglie di alzarsi.
«Ora, signore», disse la signora Villefort, «gradite il nostro
rispetto. Permettete che Edouard venga a salutarvi?»
Era convenuto che il vecchio esprimesse la sua approvazione
chiudendo gli occhi, e il suo rifiuto socchiudendoli a più riprese,
e quando li alzava al cielo era segno che aveva qualche desiderio da
esprimere. Quando chiedeva di Valentine serrava l’occhio destro; se
domandava di Barrois chiudeva l’occhio sinistro.
Alla proposta della signora Villefort socchiuse vivamente a più
riprese gli occhi. Questa riconoscendo l’evidente rifiuto si morse
le labbra.
«Vi manderò dunque Valentine», disse allora.
«Sì», fece il vecchio chiudendo gli occhi.
I signori Villefort lo salutarono e uscirono ordinando che si
chiamasse Valentine, già avvisata che avrebbe avuto qualche cosa da
fare nella giornata presso il signor Noirtier. Quando uscirono,
entrava Valentine, ancora tutta rossa per l’emozione provata. Non le
fu bisogno che uno sguardo per capire come soffriva il nonno e
quante cose avrebbero dovuto dirsi.
«Oh caro nonno!» esclamò. «Che cosa ti è dunque accaduto? Ti hanno
contrariato, non è vero? Tu sei in collera.»
«Sì», fece lui chiudendo gli occhi.
«Contro chi dunque? Contro mio padre?… No… Contro di me?»
Il vecchio fece segno di sì.
«Contro di me?» riprese Valentine meravigliata.
Il vecchio rinnovò il segno affermativo.
«E che cosa ti ho dunque fatto, caro e buon nonno?» gridò Valentine.
Non ci fu alcuna risposta e lei continuò: «Io non ti ho visto nella
giornata, ti hanno dunque riportato qualche cosa sul conto mio?»
«Sì», disse lo sguardo del vecchio con vivacità.
«Vediamo dunque… Mio Dio! Ti giuro, buon nonno… Ah!… Il signore e la
signora Villefort sono appena stati qui, non è vero? Ed essi ti
hanno detto queste cose che ti dispiacciono? Vuoi che io vada a
domandarle a loro, per avere il mezzo di scusarmi con te?»
«No, no», fece lo sguardo.
«Ma tu mi spaventi! Che ti hanno potuto dire, mio Dio?» e pensando:
«Lo so!» riprese, abbassando la voce e avvicinandosi al vecchio: «Ti
hanno forse parlato del mio matrimonio?»
«Sì», replicò, lo sguardo corrucciato.
«Capisco, tu ce l’hai con me per il mio silenzio… Vedi, fu perché mi
avevano raccomandato di non dirti niente, perché nulla,
ufficialmente, mi avevano detto, e soltanto avevo strappato di
soppiatto qualche allusione… Ecco perché sono stata così riservata
con te. Perdonami, caro nonno!»
Ritornato fisso e immobile, lo sguardo sembrava rispondere: «Non è
soltanto il tuo silenzio che mi affligge».
«Che cosa c’è dunque?» domandò la ragazza. «Credi forse che io possa
abbandonarti, caro nonno, e che il mio matrimonio mi renda
smemorata?»
«No», disse il vecchio.
«Allora ti hanno detto che il signor d’Epinay acconsentiva che
vivessimo insieme.»
«Sì.»
«Allora perché sei in collera?»
Gli occhi del vecchio assunsero un’espressione di infinita dolcezza.
«Sì, capisco», comprese Valentine, «perché mi vuoi bene.»
Il vecchio fece segno di sì.
«E tu temi ch’io sia infelice?»
«Sì.»
«Non ti piace il signor Franz.»
Gli occhi ripeterono tre o quattro volte: «No, no, no».
«Ma sei molto afflitto, non è vero, caro nonno? Ebbene ascolta»,
riprese Valentine, mettendosi in ginocchio davanti a Noirtier e
passandogli le braccia intorno al collo, «io pure sono molto triste,
poiché anch’io non amo il signor Franz d’Epinay.»
Un baleno di gioia passò negli occhi del nonno.
«Quando volli ritirarmi in convento, ti ricordi di essere stato
tanto in collera?»
Una lacrima inumidì le aride palpebre del vecchio.
«Ebbene», continuò Valentine, «lo facevo per sfuggire questo
matrimonio, che è la mia disperazione.»
Il respiro di Noirtier divenne ansante.
«Allora questo matrimonio ti fa gran dispiacere, buon nonno? Oh mio
Dio, se tu potessi aiutarmi, se noi due potessimo rompere il loro
disegno! Ma sei senza forze contro di essi! Tu che hai uno spirito
così vivo, e una volontà così ferma, quando si tratta di lottare sei
tanto debole, e anzi più debole di me. Saresti stato per me un
protettore potente nei giorni della tua forza e della tua salute, ma
ora non puoi fare altro che capirmi e rallegrarti, o affliggerti con
me… Questa è l’ultima fortuna che Iddio ha voluto lasciarmi insieme
con le altre.»
A queste parole vi fu negli occhi di Noirtier una tale espressione
di malizia e di profondità, che la ragazza credette leggervi queste
parole: «T’inganni, posso ancor molto per te».
«Puoi qualche cosa per me, caro e buon nonno?» tradusse Valentine.
«Sì.»
Noirtier alzò gli occhi al cielo.
Questo era il segnale convenuto fra lui e Valentine, quando aveva
bisogno di qualche cosa.
«Che vuoi, caro nonno? Vediamo…»
Valentine cercò un momento cosa potesse volere il nonno: espresse ad
alta voce i suoi pensieri appena si presentavano, e vedendo che a
tutto ciò che diceva, il vecchio rispondeva costantemente di no:
«Vediamo», disse, «ricorriamo ad altri mezzi, giacché sono così
stupida».
Allora recitò una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto,
mentre interrogava l’occhio del paralitico.
Alla lettera N, Noirtier fece segno di sì.
«Ah!» esclamò Valentine. «La cosa che desideri comincia con la
lettera N… Ebbene, vediamo ciò che si deve aggiungere alla lettera
enne. Na, ne, ni, no…»
«Sì, sì, sì», fece il vecchio.
«È no.»
«Sì.»
Valentine andò a cercare un dizionario, che poso sul leggio davanti
a Noirtier, lo aprì, e quando ebbe visto gli occhi del vecchio
fissarsi sui fogli, il suo dito scorse rapidamente le colonne
dall’alto al basso. L’esercizio (da sei anni Noirtier era caduto nel
triste stato in cui si trovava) aveva rese le prove così facili, che
indovinava il pensiero del vecchio, come se lui stesso avesse potuto
leggere a voce alta in un dizionario. Alla parola notaio Noirtier
fece segno di fermarsi.
«Notaio», disse lei. «Vuoi un notaio, caro nonno?»
Il vecchio fece segno che desiderava effettivamente un notaio.
«Bisogna dunque mandare a cercare un notaio?» domandò Valentine.
«Sì», fece il paralitico.
«Mio padre deve saperlo?»
«Sì.»
«Hai fretta di vedere questo notaio?»
«Sì.»
«Allora vado a fartelo cercare sul momento, caro nonno. È forse
questo ciò che vuoi?»
«Sì.»
Valentine corse al campanello e chiamò un domestico per far venire
il signor Villefort in camera del nonno.
«Sei contento?» domandò Valentine.
«Sì.»
«Lo credo bene! Non è molto facile capirsi.»
E la ragazza sorrise al vecchio come avrebbe fatto a un bambino. Il
signor Villefort rientrò condotto da Barrois.
«Che volete, signore?» chiese al paralitico.
«Mio nonno», spiegò Valentine, «desidera vedere un notaio.»
A quella strana, e soprattutto inattesa domanda, il signor Villefort
scambiò uno sguardo col paralitico.
«Sì», fece segno quest’ultimo con una fermezza che indicava che, con
l’aiuto di Valentine e del servitore, che già sapeva, era pronto a
sostenere la lotta.
«Voi domandate un notaio?» ripeté Villefort.
«Sì.»
«Per farne che?»
Noirtier non rispondeva.
«Ma perché avete bisogno del notaio?» domandò Villefort.
«Ma insomma», s’intromise Barrois, pronto a insistere con quella
pazienza abituale ai vecchi domestici, «se il signore vuole un
notaio, è perché ne ha bisogno. Così lo vado a cercar subito.»
Barrois non conosceva altro padrone che Noirtier, e non ammetteva
che la sua volontà fosse contestata.
«Sì, voglio un notaio», fece il vecchio chiudendo gli occhi con
un’aria di sfida e come se avesse detto: «Vediamo un poco se ci sarà
qualcuno che osi opporsi a ciò che voglio».
«Ci sarà un notaio, poiché lo volete assolutamente, signore… Ma mi
scuserò con lui, e scuserò voi stesso, perché la scena sarà molto
ridicola.»
«Non importa», disse Barrois, «vado subito a cercarlo.»
E uscì trionfante.
58. Il testamento
Nel momento in cui Barrois uscì, Noirtier guardò Valentine con
quell’interesse malizioso, che rivela a un tempo tante cose. La
ragazza comprese quello sguardo, e lo comprese anche Villefort,
perché la sua fronte si oscurò. Prese una sedia e si sedette nella
camera del paralitico per aspettare. Noirtier lo osservava con la
più perfetta indifferenza, ma con l’angolo dell’occhio aveva già
ordinato a Valentine di non preoccuparsi e di restare anche lei.
Nel giro di tre quarti d’ora, rientrò il domestico col notaio.
«Signore», disse Villefort dopo i saluti, «voi siete stato chiamato
dal signor Noirtier di Villefort che qui vedete… Una paralisi
generale gli ha tolto l’uso degli arti e della voce, e noi soltanto,
e a grande stento, giungiamo a capire qualche brano dei suoi
pensieri.»
Con l’occhio Noirtier fece un segnale a Valentine, così serio e
imperioso che lei intervenne immediatamente: «Io, signore, comprendo
tutto ciò che vuol dire mio nonno».
«È vero», confermò Barrois, «tutto, assolutamente tutto, come dicevo
al signore venendo qua.»
«Permettete, signore, e voi pure signorina», esordì il notaio
rivolgendosi a Villefort e a Valentine, «questo è uno di quei casi
in cui il pubblico ufficiale non può procedere sconsideratamente
senza assumersi una responsabilità pericolosa. La prima necessità,
perché l’atto sia valevole, è che il notaio sia ben convinto che sia
fedelmente interpretata la volontà di colui che l’ha dettata. Ora io
non posso essere sicuro dell’approvazione o della disapprovazione di
un cliente che non parla, e siccome l’oggetto dei suoi desideri e
delle sue contrarietà non può essermi provato chiaramente per il suo
mutismo, il mio ministero, oltre che inutile, sarebbe esercitato
illegalmente.»
Il notaio fece un passo per ritirarsi. Un impercettibile sorriso di
trionfo si disegnò sulle labbra del procuratore del re. Noirtier
guardò Valentine con tale espressione di dolore che lei si mise
davanti al notaio.
«Signore», disse, «il linguaggio ch’io parlo con mio nonno, è un
linguaggio che si può imparare facilmente, e come lo comprendo io,
sono in grado di poterlo in pochi minuti far comprendere a voi. Che
cosa vi serve per soddisfare la piena legalità professionale?»
«È necessaria, affinché i nostri atti siano valevoli», rispose il
notaio, «la certezza dell’approvazione. Si può far testamento malato
di corpo, ma bisogna sempre farlo sano di mente.»
«Ebbene, signore, con due cenni voi acquisterete la certezza che mio
nonno ha sempre goduto fin qui la pienezza delle sue facoltà
intellettuali. Il signor Noirtier privato della voce, privato dei
movimenti, chiude gli occhi quando vuol dire di sì, e batte le
palpebre a più riprese quando vuol dire di no. Voi ora ne sapete
abbastanza per parlare col signor Noirtier, provate…»
Lo sguardo che il vecchio lanciò a Valentine era così pieno di
tenerezza e di riconoscenza che fu capito dallo stesso notaio.
«Voi avete inteso e compreso ciò che ha detto vostra nipote,
signore?» domandò il notaio.
Noirtier chiuse dolcemente gli occhi e dopo un momento li riaprì.
«E approvate ciò che ha detto, cioè che i cenni da lei indicati sono
quelli per mezzo dei quali fate comprendere i vostri pensieri?»
«Sì», fece ancora il vecchio.
«Siete voi che mi avete fatto chiamare?»
«Sì.»
«Per redigere il vostro testamento?»
«Sì.»
«E non volete che mi ritiri senza averlo fatto?»
Il paralitico batté fortemente le palpebre degli occhi a più
riprese.
«Ebbene, signore, lo capite ora?» domandò la ragazza. «E la vostra
coscienza potrà stare tranquilla?»
Ma prima che il notaio potesse rispondere, il signor Villefort lo
tirò in disparte.
«Signore, è possibile che un uomo possa impunemente sopportare un
colpo così terribile quanto quello che ha provato il signor Noirtier
di Villefort, senza che le facoltà mentali non abbiano gravemente a
risentirne?»
«Non è questo che m’inquieta, piuttosto mi chiedo in che modo
giungeremo a indovinare i pensieri e le risposte.»
«Non vedete dunque ch’è impossibile?» disse Villefort.
Valentine e il vecchio udirono questo dialogo.
Noirtier fermò il suo sguardo così fiero e così risoluto su
Valentine, che questo sguardo esigeva evidentemente un intervento.
«Signore», riprese lei, «non v’inquietate per questo: per quanto sia
difficile, o piuttosto per quanto vi sembri difficile, scoprire il
pensiero di mio nonno, ve lo rivelerò in modo da togliervi ogni
dubbio su questo argomento. Sono già sei anni che gli sto vicino; vi
dica egli stesso se in sei anni uno solo dei suoi pensieri è rimasto
sepolto nel suo cuore per non avermelo potuto far comprendere.»
«No», fece il vecchio.
«Proviamo dunque», disse il notaio. «Accettate la signorina come
vostra interprete?»
Il paralitico fece segno di sì.
«Bene, vediamo… Signore, che desiderate da me, e quale atto è quello
che volete che io faccia?»
Valentine ripeté tutte le lettere dell’alfabeto fino alla lettera T.
A questa lettera l’eloquente occhio di Noirtier la fermò.
«È la lettera T che il signore domanda, la cosa è chiara.»
«Aspettate», disse Valentine, poi voltandosi a suo nonno: «Ta… te…»
Il vecchio la fermò alla seconda di queste sillabe.
Allora Valentine prese il dizionario e sotto gli occhi dell’attento
notaio sfogliò le pagine.
«Testamento», sillabò, il dito fermato dal colpo d’occhio di
Noirtier.
«Testamento», gridò il notaio. «La cosa è evidente, il signore vuol
fare testamento.»
«Sì», fece Noirtier a più riprese.
«Ciò può dirsi veramente meraviglioso, signore», disse il notaio a
Villefort stupefatto. «Ammettetelo.»
«Infatti», replicò egli, «questo testamento sarà ancora più
meraviglioso; poiché gli articoli non si potranno trascrivere parola
per parola senza l’intelligente ispirazione di mia figlia. Ora
Valentine non sarà forse parte troppo interessata a questo
testamento, per essere interprete oggettiva delle oscure volontà del
signor Noirtier di Villefort?»
«No, no, no», fece il paralitico.
«Come», si stupì il signor Villefort, «Valentine non è erede nel
vostro testamento?»
«No», fece Noirtier.
«Signore», riprese il notaio convinto di questa prova, e
ripromettendosi di raccontare in società i particolari di quel
singolare episodio, «signore, nulla mi sembra più facile di quel che
poco fa mi sembrava impossibile; questo testamento sarà
semplicemente un testamento mistico, vale a dire previsto e permesso
dalla legge, purché letto alla presenza di sette testimoni,
approvato dal testatore davanti a essi, e chiuso dal notaio sempre
alla loro presenza. In quanto al tempo, durerà poco più degli
ordinari testamenti. Dapprima vi sono le formule consuete, sempre le
stesse… In quanto ai particolari saranno definiti dall’entità e
qualità degli affari del testatore, e da voi, che avendoli
amministrati li conoscerete. D’altra parte, perché quest’atto non
possa essere contestato, gli daremo la più compiuta autenticità: uno
dei miei colleghi mi servirà d’aiutante, e contro l’uso assisterà
alla dettatura. Siete soddisfatto, signore?» terminò il notaio,
volgendosi al vecchio.
«Sì», rispose Noirtier contento di essere capito.
«E che farà?» chiedeva a se stesso Villefort, cui l’alta posizione
imponeva discrezione, e che d’altra parte si sforzava di capire le
intenzioni di suo padre.
Si volse dunque per mandare a cercare il secondo notaio, ma Barrois,
che aveva tutto inteso, e indovinato il desiderio del padrone, era
già partito. Allora il procuratore del re fece dire a sua moglie di
salire. Nel giro di un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita
nella camera del paralitico e il secondo notaio era giunto. In poche
parole i due ufficiali giudiziari si ritrovarono d’accordo.
Fu letta a Noirtier una formula di testamento vaga, insignificante
quindi, per indagare sulle sue facoltà; il primo notaio gli disse:
«Quando si fa testamento, signore, è in favore di qualcuno, o a
pregiudizio di qualche altro».
«Sì», fece Noirtier.
«Avete qualche idea sull’entità dei vostri beni?»
«Sì.»
«Vi nominerò alcune cifre che saliranno progressivamente, mi
fermerete quando sarò giunto a quella che credete possa essere il
vostro ammontare.»
«Sì.»
In questa procedura c’era una specie di solennità; d’altra parte la
lotta dell’intelligenza contro la malattia non poteva essere più
visibile, e se questo non era uno spettacolo sublime, perlomeno era
curioso. Si disposero intorno a Noirtier, il secondo notaio seduto a
un tavolo pronto a scrivere, il primo notaio in piedi davanti a
Noirtier per interrogarlo.
«Il vostro patrimonio sorpassa i trecentomila franchi?» domandò.
Noirtier fece segno di sì.
«Possedete quattrocentomila franchi?» riprese il notaio.
Noirtier restò immobile.
«Cinquecentomila?»
La stessa immobilità.
«Seicentomila?… Settecentomila?… Ottocentomila?… Novecentomila?»
Noirtier fece segno di sì.
«Dunque possedete novecentomila franchi?»
«Sì.»
«In immobili?» domandò il notaio.
Noirtier fece segno di no.
«In cartelle di rendita?»
Noirtier fece segno di sì.
«Queste cartelle sono nelle vostre mani?»
Uno sguardo diretto a Barrois fece uscire il vecchio servitore, che
ritornò un momento dopo con una piccola cassetta.
«Permettete che si apra la cassetta?» domandò il notaio.
Noirtier fece segno di sì. Fu aperta la cassetta e si trovarono le
cartelle per un ammontare di novecentomila franchi. Il primo notaio
passò una dopo l’altra ciascuna cartella al suo collega: la somma
era quella anticipata da Noirtier.
«È proprio così», dichiarò il notaio. «E ciò dimostra evidentemente
che la sua intelligenza è vivida e lucida.» Quindi volgendosi al
paralitico: «Dunque, possedete novecentomila franchi di capitale che
nel modo con cui sono investiti devono produrvi circa quarantamila
franchi di rendita?»
«Sì», fece Noirtier.
«A chi desiderate lasciare questa fortuna?»
«Su ciò non c’è dubbio», disse la signora Villefort. «Il signor
Noirtier ama unicamente sua nipote, la signorina Valentine
Villefort: lei ne ha avuto cura per sei anni; con la sua assiduità
ha saputo procurarsi l’affetto di suo nonno, direi quasi la sua
riconoscenza… È dunque giusto che raccolga il premio della sua
affezione.»
L’occhio di Noirtier sfavillò come un lampo, per far capire che non
si lasciava facilmente ingannare dal falso assenso dato dalla
signora Villefort alle intenzioni che in lui supponeva.
«È dunque alla signorina Valentine Villefort che lasciate
novecentomila franchi?» domandò il notaio, che credeva di non aver
più altro da fare che registrare questa clausola, ma che però voleva
essere ben sicuro dell’assenso di Noirtier, e far constatare questo
assenso a tutti i testimoni di questa straordinaria scena.
Valentine aveva fatto un passo indietro e piangeva a occhi bassi. Il
vecchio la guardò un momento con l’espressione della più profonda
tenerezza, poi voltandosi verso il notaio socchiuse gli occhi nel
modo più significativo.
«No?» si sorprese il notaio. «Come, non costituite vostra erede
universale la signorina Villefort?»
Noirtier fece segno di no.
«Non vi sbagliate?» gridò il notaio meravigliato. «Dite
effettivamente di no?»
«No», ripeté Noirtier. «No!»
Valentine rialzò la testa: era stupefatta, non dell’essere
diseredata, ma di aver provocato quel sentimento che di solito detta
simili atti. Ma Noirtier la guardava con una espressione di
tenerezza così profonda che lei gridò: «Oh nonno caro, non mi
togliete che le vostre ricchezze, ma mi lasciate sempre il cuore?»
«Sì, sì, certamente», dissero gli occhi del paralitico, chiudendosi
in una espressione senza equivoci.
«Grazie, grazie», mormorò la ragazza.
Quel rifiuto aveva fatto nascere nel cuore della signora Villefort
una inattesa speranza. Si avvicinò al vecchio.
«Allora dunque a vostro nipote Edouard Villefort lasciate la vostra
fortuna, caro signor Noirtier?» domandò la madre.
Gli occhi di Noirtier si chiusero in un modo che esprimeva quasi
l’odio.
«No», disse il notaio. «Allora sarà a vostro figlio qui presente.»
«No», replicò il vecchio.
I due notai si guardarono stupefatti; Villefort e sua moglie
arrossirono, l’uno per l’onta, l’altra per il dispetto.
«Ma che vi abbiamo dunque fatto, nonno?» domandò Valentine. «Voi
dunque non ci amate più?»
Lo sguardo del vecchio passò rapidamente sul figlio, sulla nuora, e
si fermò su Valentine con un’espressione di profonda tenerezza.
«Ebbene», riprese lei, «se tu mi ami, nonno mio, cerca di dedicare
questo amore a ciò che stai facendo in questo momento. Tu mi
conosci, sai che non ho mai pensato alle tue ricchezze; d’altra
parte dicono che io sia ricca da parte di mia madre, fors’anche
troppo ricca… Spiegati dunque…»
Noirtier fissò l’ardente sguardo sulla mano di Valentine.
«La mia mano?»
«Sì», fece Noirtier.
«La sua mano», ripeterono tutti gli astanti.
«Signori, vedete bene che tutto è inutile, e che il mio povero padre
è pazzo», disse Villefort.
«Ora capisco», gridò d’improvviso Valentine. «Il mio matrimonio,
nonno non è vero?»
«Sì, sì, sì», ripeté tre volte il paralitico con lampi negli occhi
ogni volta che li riapriva.
«Tu sei in collera per il mio matrimonio, non è vero?»
«Sì.»
«Ma ciò è assurdo», scattò Villefort.
«Mi scusi, signore», intervenne il notaio, «tutto ciò, al contrario,
è molto ragionevole, e mi sembra si colleghi perfettamente a quanto
si sta facendo.»
«Tu non vuoi che io sposi il signor Franz d’Epinay.»
«No, non voglio», espresse l’occhio del vecchio.
«E diseredate vostra nipote», domandò il notaio, «perché fa un
matrimonio che non vi va a genio?»
«Sì», rispose Noirtier.
«Di modo che, senza questo matrimonio, sarebbe vostra erede?»
«Sì.»
Un profondo silenzio colse allora quelli che circondavano il
vecchio. I due notai si consultavano, Valentine con le mani
incrociate guardava suo nonno con un sorriso riconoscente; Villefort
si mordeva le labbra sottili; la signora Villefort non poteva
reprimere un sentimento di gioia, che suo malgrado le si rifletteva
sul viso.
«Ma», disse finalmente Villefort rompendo per primo questo silenzio,
«mi sembra che io sia il solo in grado di giudicare la convenienza
di questa unione, il solo che ha la potestà della mano di mia
figlia… Voglio che sposi il signor Franz d’Epinay, e lo sposerà.»
Valentine cadde piangendo sopra una sedia.
«Signore», disse il notaio indirizzandosi al vecchio, «che contate
di fare dei vostri capitali nel caso che la signorina Valentine
sposi il signor Franz?»
Il vecchio rimase immobile.
«Volete disporne comunque?»
«Sì», fece Noirtier.
«In favore di qualcuno della vostra famiglia?»
«No.»
«In favore dei poveri allora?»
«Sì.»
«Ma», continuò il notaio, «sapete che la legge si oppone che vengano
interamente spogliati i vostri figli? Dunque non disponete che della
parte che la legge vi autorizza a disporre.»
Noirtier restò immobile.
«Continuate a voler disporre di tutto?»
«Sì.»
«Ma dopo la vostra morte il vostro testamento verrà contestato.»
«No.»
«Mio padre mi conosce», disse Villefort, «sa che la sua volontà sarà
sacra per me; d’altra parte comprende che nella mia posizione non
posso far causa contro i poveri.»
L’occhio di Noirtier espresse il trionfo.
«Cosa decidete, signore?» domandò il notaio a Villefort.
«Niente: questa è una risoluzione presa da mio padre, e io so che
mio padre non cambia le sue decisioni. Dunque mi rassegno. Questi
novecentomila franchi usciranno dalla famiglia per arricchire gli
ospedali; ma non cederò al capriccio del vecchio, e mi comporterò
secondo la mia coscienza.»
E Villefort si ritirò con la moglie lasciando suo padre libero di
testare come più gli piaceva. Nello stesso giorno fu fatto il
testamento, furono trovati i testimoni, fu approvato dal vecchio,
chiuso alla loro presenza e deposto presso Deschamps, notaio della
famiglia.
59. Il telegrafo
I coniugi Villefort, al rientro nel loro appartamento, seppero che
il conte di Montecristo, venuto a far loro visita, era stato
introdotto nel salotto ove li aspettava. La signora Villefort,
troppo nervosa per presentarsi subito al conte, passò per la sua
camera da letto, mentre il procuratore, più padrone dei suoi nervi,
si recò direttamente in il salotto. Ma per quanto sapesse dominare
le sue sensazioni e ricomporre il viso, Villefort non poté
allontanare tanto bene la nube dalla sua fronte, che il conte, il
cui sorriso brillava raggiante, non notasse quell’aria tetra e
pensierosa.
«Mio Dio», disse Montecristo dopo i saluti, «che avete dunque,
signor Villefort? Sono forse arrivato in un momento in cui stavate
sostenendo qualche accusa troppo difficile?»
Villefort si sforzò di ridere.
«No, signor conte», rispose, «qui non c’è nessuna vittima oltre a
me, sono io che perdo la causa; e il caso, l’ostinazione, la pazzia
hanno deciso la sentenza.»
«Che cosa volete dire?» domandò Montecristo con un interesse ben
dissimulato. «Vi è forse capitata qualche grave disgrazia?»
«Signor conte», disse Villefort con un tono calmo ma pieno
d’amarezza, «non vale neppure la pena di parlarne; è un nonnulla,
una semplice perdita di denaro.»
«Infatti», annuì Montecristo, «una perdita di denaro è poca cosa per
chi gode di una fortuna come la vostra, e per uno spirito filosofico
ed elevato come il vostro.»
«Ragion per cui», ribatté Villefort, «non è la perdita del denaro
che m’inquieta, sebbene novecentomila franchi possono ben valere un
dispiacere, ma mi risento particolarmente di questa disdetta della
sorte, del caso, della fatalità, non so come nominare la potenza che
mi perseguita, che rovescia le mie speranze e distrugge quasi
l’avvenire di mia figlia, per il capriccio di un vecchio tornato
bambino.»
«Mio Dio, ma che cosa è dunque?» s’incuriosì il conte.
«Novecentomila franchi avete detto? Questa somma merita che se ne
affligga anche un filosofo… E chi vi procura questo dispiacere?»
«Mio padre, di cui vi ho parlato.»
«Il signor Noirtier? Davvero? Non mi diceste che era colpito da
paralisi e che tutte le facoltà erano annientate?»
«Sì, le sue facoltà fisiche, perché non può né muoversi né parlare;
tuttavia pensa, vuole, opera come vedete. L’ho lasciato da cinque
minuti e in questo momento è occupato a dettare un testamento a due
notai.»
«Ma allora dunque ha parlato?»
«Fa di più, si fa capire.»
«E in che modo?»
«Per mezzo dello sguardo; i suoi occhi hanno continuato a vivere, e
come vedete uccidono.»
«Amico mio», disse la signora Villefort, che entrava in quel
momento, «forse esagerate la vostra situazione.»
«Signora…» la accolse il conte inchinandosi.
La signora Villefort lo salutò col più grazioso sorriso.
«Ma che cosa dunque mi racconta il signor Villefort?» domandò
Montecristo, «E quale disgrazia incomprensibile?»
«Incomprensibile, questa per l’appunto è la vera parola», riprese il
procuratore del re, alzando le spalle, «un capriccio da vecchio.»
«E non vi è modo di farlo ritornare sulla sua decisione?»
«Vi sarebbe», disse la signora Villefort, «e dipende anzi da mio
marito, che questo testamento, invece di essere fatto in danno di
Valentine, sia fatto in favore di lei.»
Il conte, accorgendosi che i due sposi cominciavano a parlarsi per
allusioni, assunse l’apparenza dell’uomo distratto, e guardò con la
più profonda attenzione e con la più manifesta approvazione Edouard
che versava dell’inchiostro negli abbeveratoi degli uccelli.
«Mia cara», disse Villefort, rispondendo a sua moglie, «sapete che
amo poco il tono patriarcale in casa mia, e che non ho mai creduto
che i destini dell’universo dipendessero da un mio movimento di
capo. Tuttavia è necessario che le mie decisioni vengano rispettate
in casa mia, e che la follia di un vecchio e il capriccio di una
ragazzina non rovescino un progetto stabilito da molti anni. Il
barone d’Epinay era mio amico, lo sapete, e un’alleanza con suo
figlio era conveniente.»
«Credete», insinuò la signora Villefort, «che Valentine sia
d’accordo con lui?… Infatti… lei è sempre stata contraria a questo
matrimonio, e non sarei meravigliata che tutto ciò che abbiamo visto
e inteso, non sia che l’esecuzione di un disegno concertato fra
loro.»
«Signora», disse Villefort, «non si rinuncia così, credetemi, a una
fortuna di novecentomila franchi.»
«Lei avrebbe rinunciato anche al mondo, signore, poiché un anno fa
voleva entrare in un monastero.»
«Ebbene», dichiarò Villefort, «io vi dico che questo matrimonio deve
farsi.»
«Contro la volontà di vostro padre?» si stupì la signora Villefort,
toccando così un’altra corda. «Ciò è davvero grave!»
Montecristo, fingendo di non ascoltare, non perdeva neppure una
parola di ciò che dicevano.
«Non importa», riprese Villefort. «Posso dire che ho sempre
rispettato mio padre, perché al sentimento naturale si univa in me
la conoscenza della sua superiorità morale, perché infine un padre è
sempre sacro, sacro come nostro autore, sacro come nostro padrone;
ma oggi non posso riconoscere intelligenza in un vecchio che, per
odio contro il padre, perseguita il figlio in tal modo. Sarebbe
dunque ridicolo uniformare la mia condotta ai suoi capricci:
continuerò ad avere il più gran rispetto per il signor Noirtier,
soffrirò senza lamentarmene la punizione pecuniaria che m’infligge;
ma resterò irremovibile nella mia volontà, e il mondo giudicherà da
che lato sia la vera ragione. Di conseguenza, mariterò mia figlia al
barone Franz d’Epinay, perché questo matrimonio è, a mio avviso,
buono e onorevole, e perché infine voglio maritare mia figlia a chi
più mi piace.»
«Come», saltò su il conte, del quale il procuratore aveva
costantemente sollecitata l’approvazione con lo sguardo, «come, il
signor Noirtier disereda la signorina Valentine perché sta per
sposare il barone d’Epinay?»
«Sì, signore, ecco la ragione!» disse Villefort stringendosi nelle
spalle.
«La ragione visibile almeno», aggiunse la signora Villefort.
«La vera ragione, signora. Credetemi, io conosco mio padre.»
«E come è possibile?» chiese la giovane sposa. «In cosa il signor
d’Epinay può dispiacere più di un altro al signor Noirtier?»
«Infatti», disse il conte, «ho conosciuto il signor Franz d’Epinay…
Il figlio del generale Quesnel, non è vero, fatto barone d’Epinay da
Carlo X?»
«Esatto», rispose Villefort.
«Ebbene, è un giovane distinto, mi sembra.»
«Per cui non è che un pretesto, ne sono certa», ribadì la signora
Villefort. «I vecchi sono tiranni nei loro affetti; il signor
Noirtier non vuole che sua nipote si mariti.»
«Ma», riprese Montecristo, «non conoscete la causa di quest’odio?»
«Chi può saperla?»
«Forse qualche contrarietà politica…»
«Infatti, mio padre e il padre d’Epinay hanno vissuto nei tempi
burrascosi, dei quali non ho visto che gli ultimi giorni», ammise
Villefort.
«Vostro padre non era bonapartista?» domandò Montecristo. «Mi sembra
di ricordarmi che me ne avevate parlato.»
«Mio padre anzitutto fu giacobino, e di una passione oltre ogni
prudenza, e la toga di senatore che Napoleone gli aveva gettato
sulle spalle non faceva che mascherare il vecchio repubblicano senza
averlo cambiato. Quando mio padre cospirava, non era per
l’imperatore, ma contro i Borboni, perché mio padre aveva in sé
questo di terribile, che non combatté mai per le utopie non
realizzabili, ma per le cose possibili, e applicò alla riuscita di
queste le terribili teorie della Montagna, senza indietreggiare di
fronte a nessuno ostacolo.»
«Ebbene», concesse Montecristo, «il signor Noirtier e il signor
d’Epinay si saranno scontrati sul campo della politica… Il signor
d’Epinay, sebbene avesse servito sotto Napoleone, aveva forse
conservato in fondo al cuore qualche sentimento realista? E non è lo
stesso che fu assassinato uscendo da un’assemblea, dov’era stato
attirato nella speranza di ritrovarvi un fratello?»
Villefort guardò il conte quasi con terrore.
«M’inganno forse?» domandò Montecristo.
«No, signore», rispose la signora Villefort, «anzi è precisamente
così, e appunto per quanto avete detto, per vedere estinti questi
odi antichi, il signor Villefort ha avuta l’idea di fare amare i
figli dei padri che si erano odiati.»
«Idea sublime e piena di carità, e alla quale tutti dovrebbero
consentire. Infatti, sarà stupendo sentire la signorina Noirtier di
Villefort chiamarsi signora Franz d’Epinay.»
Villefort rabbrividì e guardò Montecristo come se avesse voluto
leggergli nel fondo del cuore l’intenzione con cui aveva pronunciate
queste parole. Ma il conte conservò il benevolo sorriso impresso
sulle labbra, e anche questa volta, malgrado la penetrazione del suo
sguardo, il procuratore del re non vide al di là dell’epidermide.
«Perciò», riprese Villefort, «sebbene sia una gran disgrazia per
Valentine perdere le ricchezze di suo nonno, penso che il matrimonio
sarà fatto. Non credo che il signor d’Epinay indietreggi per questo
scacco pecuniario, vedrà che io valgo forse più della somma, io che
la sacrifico al desiderio di mantenere la mia parola. Calcolerà
inoltre che Valentine è ricca anche coi soli beni di sua madre,
amministrati dal signore e dalla signora di Saint-Méran, suoi avi
materni che la prediligono con tanta tenerezza.»
«E che meritano di essere amati come Valentine ha amato il signor
Noirtier», disse la signora Villefort. «D’altra parte, essi verranno
a Parigi fra un mese al più, e Valentine sarà dispensata dal
seppellirsi come ha fatto fin qui presso il signor Noirtier.»
Il conte ascoltava con compiacenza la voce discordante di questi
amor propri feriti, e di questi interessi falliti.
«Ma mi sembra», riprese, dopo un momento di silenzio, «e vi chiedo
prima perdono di ciò che sto per dirvi, mi sembra che se il signor
Noirtier disereda la signorina Villefort, colpevole di volersi
maritare con un giovane di cui detesta il padre, non abbia lo stesso
da rimproverare al caro Edouard.»
«Non è forse vero?» gridò la signora Villefort con un’intonazione
impossibile a descriversi. «Non è questa un’odiosa ingiustizia? Il
povero Edouard è nipote del signor Noirtier come Valentine, e
tuttavia se Valentine non avesse dovuto sposare il signor Franz, il
signor Noirtier le lasciava tutti i suoi beni, e in più Edouard
porta il nome della famiglia, e ciò non impedirebbe, quand’anche
Valentine venisse diseredata dal nonno, che lei fosse sempre tre
volte più ricca di lui.»
Lanciato questo colpo, il conte ascoltò, ma non parlò più.
«Basta», dichiarò Villefort, «basta, signor conte, cessiamo, vi
prego, d’intrattenerci su queste miserie di famiglia… Sì, è vero, la
mia fortuna andrà a ingrossare le rendite dei poveri, che oggi sono
i veri ricchi, sì, mio padre mi avrà privato di una legittima
speranza e senza una ragione, ma io avrò operato da uomo di
sentimento, da uomo di cuore. Il signor d’Epinay al quale avevo
promesso la rendita di questa somma, la riceverà, dovessi impormi le
più crudeli privazioni.»
«Però», riprese la signora Villefort, ritornando alla sola idea che
torturava senza posa il suo cuore, «sarebbe forse stato meglio
confidare questa disavventura al signor d’Epinay, e ch’egli stesso
ritirasse la sua parola.»
«Questa sarebbe una gran disgrazia!» esclamò Villefort.
«Una gran disgrazia?» ripeté Montecristo.
«Senza dubbio», continuò Villefort raddolcendosi. «Un matrimonio
fallito, anche per causa d’interesse, è sempre sfavorevole per una
ragazza: poi le vecchie voci ch’io volevo estinguere,
riprenderebbero consistenza. No, il signor d’Epinay, se è un
onest’uomo, si sentirà ancor più impegnato dopo che Valentine è
stata diseredata, altrimenti agirebbe per cupidigia… E questo è
impossibile.»
«Io la penso come il signor Villefort», disse Montecristo, fissando
lo sguardo sopra la signora Villefort. «E se fossi nel numero dei
suoi amici per permettermi di dargli un consiglio, lo inviterei
(poiché il signor d’Epinay sarà a breve di ritorno per quanto almeno
mi è stato detto) ad annodare l’affare così strettamente, che non si
possa più sciogliere e m’impegnerei con tutte le forze in una
partita, la cui riuscita sarebbe del tutto onorevole per il signor
Villefort…»
Quest’ultimo si alzò, trasportato da una gioia visibile, mentre sua
moglie impallidiva leggermente.
«Bene, ecco ciò che mi aspettavo da voi, e io terrò conto
dell’opinione di un consigliere come voi siete!» disse tendendo la
mano a Montecristo. «Per cui dunque, tutti considerino quel che oggi
è accaduto come non avvenuto, nulla è cambiato nei miei progetti.»
«Signore», disse il conte, «il mondo, per quanto sia ingiusto, vi
sarà grato della vostra decisione: i vostri amici ne saranno
orgogliosi, e il signor d’Epinay, dovesse anche sposare la signorina
Valentine senza dote, ciò che non potrà essere, sarà orgoglioso di
potere entrare in una famiglia dove si sa innalzarsi all’altezza di
simili rinunce per mantenere la parola data.»
Dicendo queste parole il conte s’era alzato e si disponeva a
partire.
«Voi ci lasciate, signor conte?» domandò la signora Villefort.
«Vi sono costretto, signora, io venivo soltanto a rammentarvi la
vostra promessa per sabato.»
«Temevate che la dimenticassimo?»
«Siete troppo buona, ma il signor Villefort ha occupazioni così
gravi, e qualche volta così urgenti.»
«Mio marito ha dato la sua parola, signore», ribadì la giovane
sposa, «e avete visto che la mantiene quand’anche vi è da perdere
tutto, a più forte ragione quando vi è tutto da guadagnare.»
«L’incontro avrà luogo nella vostra casa agli Champs-Elysées?»
«No», disse Montecristo, «e ciò renderà il vostro disturbo anche più
meritorio: è in campagna.»
«In campagna?»
«Sì.»
«E dove? Vicino a Parigi?»
«Alle porte, a circa quattro leghe dalla barriera, ad Auteuil.»
«Ad Auteuil!» esclamò Villefort. «È vero, la signora mi aveva detto
che abitavate ad Auteuil, poiché la trasportarono nella vostra casa.
E in quale parte di Auteuil?»
«Rue Fontaine.»
«Rue Fontaine?» riprese Villefort con voce strozzata. «E a quale
numero?»
«Al 28.»
«Vi hanno dunque venduto la casa del signor di Saint-Méran?»
«Del signor di Saint-Méran?» domandò Montecristo. «Questa casa
apparteneva dunque al signor di Saint-Méran?»
«Sì», rispose la signora Villefort. «E credereste una cosa?»
«Quale?»
«Voi trovate bella questa casa, non è vero?»
«Graziosa!»
«Ebbene, mio marito non ha voluto mai abitarci.»
«Davvero?» riprese Montecristo. «Questo in verità è un pregiudizio
che non comprendo.»
«Non mi piace Auteuil, signore», precisò il procuratore del re,
facendo uno sforzo su se stesso.
«Ma non sarò tanto disgraziato, spero», si preoccupò con
inquietudine Montecristo, «che quest’antipatia mi privi del bene di
ricevervi?»
«No, credetemi, farò tutto ciò che potrò», balbettò Villefort.
«Amici miei», disse Montecristo, «non ammetto scuse. Sabato alle sei
vi aspetto, e se non verrete, crederò, che so io?, che su questa
casa disabitata gravi da vent’anni qualche sanguinosa leggenda.»
«Verrò, signor conte», lo rassicurò Villefort.
«Grazie», disse Montecristo. «Ora bisogna che mi permettiate di
prendere congedo da voi.»
«Infatti avevate detto di essere costretto a lasciarci, signor
conte», disse la signora Villefort, «e stavate ancora per dircene il
motivo, quando siete stato interrotto…»
«A dire il vero, signora», continuò Montecristo, «non so se oserò
dirvi dove vado.»
«Dite pure.»
«Vado, da vero allocco che sono, a visitare una cosa che spesso mi
ha fatto riflettere per delle ore intere.»
«Quale?»
«Un telegrafo: ecco ve l’ho detto!»
«Un telegrafo?» ripeté la signora Villefort.
«Sì, un telegrafo. Ho visto spesso in fondo a una strada, sopra un
poggio, un giorno di bel sole, innalzarsi quelle braccia nere e
smodate, simili alle zampe di un immenso coleottero, e ciò non fu
mai senza emozione, ve lo giuro, perché pensavo che questi simboli
bizzarri fendendo l’aria con decisione, e portando a trecento leghe
la volontà sconosciuta di un uomo seduto a un tavolo a un altr’uomo
seduto, all’altra estremità della linea, davanti a un altro tavolo,
si stagliavano sul grigio della nuvola, o nell’azzurro dei cieli per
la sola forza del volere di questo capo possente. Allora io credevo
ai geni, alle silfidi, ai folletti, infine a tutti i poteri occulti,
e ridevo. Non mi era mai venuta la voglia di vedere da vicino questi
grossi insetti dal ventre bianco, dalle zampe nere e magre, perché
temevo di ritrovare sotto le loro ali di pietra il piccolo genio
pedante umano, altezzoso, riboccante di scienza, di cabala, o di
eloquenza. Ma ecco che un bel mattino capii che il motore di ciascun
telegrafo era un povero diavolo d’impiegato a milleduecento franchi
l’anno occupato tutto il giorno a guardare, non il cielo come
l’astronomo, non l’acqua come il pescatore, non il paesaggio come un
perdigiorno, ma invece l’insetto dal ventre bianco e dalle zampe
nere, suo corrispondente, situato quattro o cinque leghe lontano da
lui. Allora mi sono sentito prendere da un desiderio curioso di
vedere da vicino questa crisalide vivente, e di assistere alla
commedia che dal fondo della sua buccia essa dà all’altra crisalide,
tirando gli uni dopo gli altri alcuni capi della cordicella.»
«E voi volete andare là?»
«Sì, ci vado.»
«A quale telegrafo, quello del ministero dell’Interno, o quello
dell’osservatorio?»
«Oh, no, troverei là persone che vorrebbero costringermi a imparare
cose che desidero ignorare, e che mi spiegherebbero, contro mia
voglia, un mistero che essi non conoscono. Voglio conservare le
illusioni che ho sugli insetti; è già troppo che abbia perduto
quelle che avevo sugli uomini. Non andrò dunque né al telegrafo del
ministero dell’Interno, né a quello dell’osservatorio. Mi occorre il
telegrafo in piena campagna, per ritrovarvi il solo buon uomo
pietrificato nella sua torre.»
«Siete strano, signore», disse Villefort.
«Quale linea mi consigliate di studiare?»
«Quella che oggi è la più occupata.»
«Bene, quella di Spagna dunque?»
«Esatto. Volete una lettera del ministero perché vi diano delle
spiegazioni?»
«Ma no», disse Montecristo, «vi ho già detto che non voglio capirci
niente. Dal momento in cui capissi qualche cosa, non ci sarebbe più
che un segno del signor Duchatel, o del signor Montalivet trasmesso
al prefetto di Bayonne, trasformato in due parole greche, tele,
graphéin. È la bestia dalle zampe nere, la parola misteriosa che io
voglio conservare in tutta la sua purezza e in tutta la mia
venerazione.»
«Andate dunque, perché fra due ore sarà notte, e voi allora non
vedreste più niente.»
«Voi mi spaventate! Qual è il più vicino? Quello sulla strada di
Bayonne?»
«Sì, quello sulla strada di Bayonne!»
«È quello di Châtillon.»
«E dopo quello di Châtillon?
«Quello della torre Montlhéry, credo.»
«Grazie! E arrivederci! Sabato vi racconterò le mie impressioni.»
Alla porta il conte s’incontrò coi due notai che avevano diseredato
Valentine, e che si ritiravano soddisfatti di aver fatto un atto che
avrebbe certamente procurato loro un grande onore.
60. Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le
pesche
Non la stessa sera come aveva detto, ma la mattina del giorno
seguente, il conte di Montecristo uscì dalla barriera d’Enfer, si
avviò lungo la strada per Orléans, oltrepassò il villaggio di Linas
senza fermarsi al telegrafo che, proprio nell’istante in cui il
conte passava, faceva muovere le sue lunghe e scarne braccia, e
raggiunse la torre di Montlhéry collocata, come si sa, sul punto più
elevato della pianura che porta questo nome. Giunto ai piedi della
collina il conte scese dalla carrozza, e per un piccolo sentiero
circolare largo da quarantacinque a cinquanta centimetri cominciò a
salire la montagna; sulla sommità si trovò davanti a una siepe su
cui delle bacche verdi erano succedute ai fiori rosa e bianchi. Il
conte cercò la porta del piccolo recinto, e non tardò molto a
trovarla; era un piccolo cancello di legno che girava sui cardini di
giunco, e si chiudeva con un chiodo e una funicella. In un istante
il conte capì il meccanismo, e la porta fu aperta.
Si trovò a quel punto in un piccolo giardino di circa sei metri di
lunghezza e quattro di larghezza, delimitato da una parte dalla
siepe e dal cancelletto, e dall’altra da una vecchia torre tutta
coperta di edera, e disseminata di garofani e altri fiori. Non si
sarebbe detto, nel vederla così ornata e fiorita (come una bisavola
che i piccoli nipoti colmino di doni il giorno della sua festa) che
potesse raccontare drammi terribili, avesse potuto avere una voce
oltre le orecchie minacciose che un vecchio proverbio attribuisce
alle muraglie.
Si percorreva questo giardino lungo uno stretto viale ricoperto di
sabbia rossa, sul quale sporgevano, con un tono che avrebbe
rallegrato l’occhio di Delacroix, moderno Rubens francese, due
filari di bossi vecchi di molti anni. Questo viale aveva la forma di
un otto e girava, innalzandosi, in modo da poter fare una
passeggiata di diciotto metri in un giardino sei.
Mai Flora, la ridente e fresca dea dei giardinieri latini, era stata
onorata da un culto così minuzioso e così puro, quanto quello che le
veniva reso in quel piccolo recinto. E infatti dei ventotto rosai
che componevano il giardino, non una foglia portava la traccia della
mosca, non un piccolo stelo di gramigna verde che isterilisce e
consuma le piante. Non mancava umidità a questo giardino, la terra
nera come il fango e l’opacità del fogliame degli alberi lo
provavano; d’altra parte l’umidità artificiale avrebbe prontamente
supplito alla naturale, mediante uno stagno scavato in un angolo del
giardino, e nel quale gracchiavano sopra un panno verde una rana e
un rospo che, per l’incompatibilità senza dubbio dei loro umori, si
voltavano sempre, e si mantenevano ai due punti opposti del circolo
coi loro dorsi voltati l’uno contro l’altro.
Non un’erba nei viali, non una pianta parassita vicino alle aiuole:
una ragazza pulisce e monda con minor cura il suo geranio, il
cactus, e gli altri fiori della sua giardiniera di porcellana, di
quel che facesse il padrone, fino allora invisibile, del piccolo
recinto.
Montecristo si fermò, dopo aver chiusa la porta agganciando la
cordicella al chiodo, e con uno sguardo abbracciò tutto il recinto.
«Sembra», disse tra sé, «che l’uomo del telegrafo abbia dei
giardinieri alle dipendenze, o che si abbandoni appassionatamente
all’agricoltura.»
D’improvviso, inciampò in qualche cosa dietro una carriola ripiena
di foglie: questo qualche cosa si raddrizzò lasciando sfuggire
un’esclamazione di stupore, e Montecristo si trovò davanti un uomo
di circa cinquant’anni che raccoglieva delle fragole che copriva con
foglie di vite. Vi erano circa dodici foglie, e quasi altrettante
fragole. Il buon uomo nel rialzarsi, per poco non lasciò cadere le
fragole, le foglie e il piatto.
«Fate la raccolta?» chiese Montecristo sorridendo.
«Mi scusi», rispose il buon uomo, portando la mano al berretto, «non
sono lassù, è vero, ma sono sceso in questo medesimo istante.»
«Non voglio incomodarvi per niente; raccogliete le vostre fragole se
ce ne sono ancora.»
«Me ne rimangono ancora dieci», disse l’uomo, «perché eccone qui
undici, e ne avevo ventuno, cinque di più dell’anno scorso. Ma non
c’è da stupirsi: quest’anno la primavera è stata calda, e alle
fragole occorre calore. Ecco perché invece di sedici dell’anno
passato, quest’anno ne ho avute dodici già raccolte, tredici,
quattordici, quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove…
Ah, mio Dio! Me ne mancano due, e c’erano ancora ieri, le ho
contate, ne sono sicuro… Il figlio di Simone me le avrà rubate; l’ho
visto ronzare questa mattina. Piccola birba d’un ladro di frutta,
non sa dunque a cosa lo può condurre questo?»
«Infatti, è grave», riconobbe Montecristo, «ma voi compatirete la
gioventù del discolo, e la sua golosità.»
«Certamente», disse il giardiniere. «Tuttavia non è cosa meno
spiacevole. Ma ancora una volta mi scusi signore: è forse un mio
superiore che ho fatto tanto aspettare?» E intanto esaminava con
timore il conte e il suo abito azzurro.
«Tranquillizzatevi, amico mio», rispose il conte con quel sorriso a
sua discrezione tanto terribile e tanto benevolo, che questa volta
esprimeva benevolenza. «Non sono un vostro superiore che viene a
fare un’ispezione, ma un semplice viaggiatore condotto dalla
curiosità, e che già comincia a rimproverarsi la sua visita, vedendo
che vi fa perdere il vostro tempo.»
«Il mio tempo non è prezioso», replicò il buon uomo, con un sorriso
di malinconia, «però è il tempo del governo, e non dovrei perderlo,
ma ho ricevuto il segnale che mi annunciava di poter riposare
un’ora», e gettò uno sguardo alla meridiana solare, perché vi era di
tutto nel recinto della torre di Montlhéry, anche una meridiana
solare, «e voi vedete, ho ancora dieci minuti… D’altra parte, lo
credereste signore? I ghiri le mangiano!»
«Davvero no, non l’avrei creduto», rispose gravemente Montecristo.
«Sono cattivi vicini, signore, i ghiri, per noi che non li mangiamo
cotti nel miele, come facevano i romani.»
«I romani li mangiavano?» domandò il giardiniere. «Mangiavano i
ghiri?»
«Lo lessi in Petronio», rispose il conte.
«Non devono esser buoni, sebbene si dica: “grasso come un ghiro”. E
non è meraviglioso, signore, che i ghiri siano grassi visto che
dormono tutta la santa giornata, e non si svegliano che per rosicare
tutta la notte? Osservate, l’anno passato avevo quattro albicocche,
essi me ne rosicchiarono una; avevo una pesca, una sola, è vero che
è un frutto raro, ebbene, l’hanno divorata per metà dalla parte del
muro… Una pesca superba, eccellente: non ne avevo mai mangiate delle
migliori.»
«Voi l’avete mangiata?» chiese Montecristo.
«Cioè, la metà che restava, capirete bene: era squisita! Peccato!
Quei signori non scelgono il peggior boccone. Fanno come il figlio
di Simone che non ha scelto le fragole più cattive! Ma quest’anno
non andrà così, state tranquillo; ciò non accadrà più, dovessi,
quando i frutti stanno per maturare, passare tutta la notte di
sentinella.»
Montecristo ne sapeva abbastanza. Ciascun uomo ha la sua passione
che lo rode internamente nel fondo del cuore, come ciascun frutto ha
il suo verme; quella dell’uomo del telegrafo era l’orticultura. Il
conte si mise a raccogliere le foglie di vite che nascondevano i
grappoli al sole, e così si conquistò il cuore del giardiniere.
«Il signore è venuto per vedere il telegrafo?» domandò questi.
«Sì, se però non è proibito dai regolamenti.»
«Non è proibito affatto», lo rassicurò il giardiniere, «giacché non
vi è niente di pericoloso… Nessuno sa, né può sapere, ciò che noi
diciamo.»
«Mi è stato detto infatti», riprese il conte, «che ripetete i
segnali senza capirli voi stessi.»
«Certamente, e sono ben contento che sia così», disse con un sorriso
l’uomo del telegrafo.
«Perché siete contento che sia così?»
«Perché, in questo modo, non ho alcuna responsabilità, sono una
macchina, e nient’altro, e purché esegua le mie funzioni, non mi si
domanda di più.»
«Diavolo!» pensò Montecristo. «Mi sono forse imbattuto, per caso, in
un uomo senza ambizione? Sarebbe una disgrazia.»
«Signore», disse il giardiniere guardando la meridiana, «i dieci
minuti stanno per scadere, e io ritorno al mio posto. Avete piacere
a salire con me?»
«Vi seguo.»
Montecristo entrò infatti nella torre a tre piani. Il piano terreno
dava riparo ad alcuni arnesi agricoli, come zappe, rastrelliere,
annaffiatoi, attaccati al muro; e queste erano tutte le
suppellettili; il secondo era l’abitazione ordinaria, o piuttosto
notturna dell’impiegato: era arredato con poveri mobili d’uso, un
letto, una tavola, due sedie, un vaso a cui attingere acqua; più
alcune erbe secche attaccate al soffitto, che il conte riconobbe per
piselli da sementi, fagioli di Spagna, dei quali il buon uomo
conservava i semi nella loro buccia. Egli aveva messi i bigliettini
a tutte queste sementi, con quella cura che potrebbe fare il
botanico del Jardin des Plantes.
«Ci vuol molto tempo a studiare la telegrafia, signore?» domandò
Montecristo.
«Lo studio non è lungo, ma l’apprendistato sì…»
«E quanto si riceve di paga?»
«Mille franchi, signore.»
«Non è gran cosa.»
«No, ma, come vedete, si ha l’alloggio.»
Montecristo guardò la camera.
«Purché non si abbiano pretese sull’alloggio.»
Passarono al terzo piano; era la sede del telegrafo. Montecristo
guardò le due maniglie di ferro che servono a mettere in moto la
macchina.
«Ciò è molto importante», diss’egli, «ma alla lunga questa è una
vita che deve sembrare un po’ noiosa.»
«Sì, in principio procura dei torcicolli per il troppo star fissi a
guardare, ma in capo a un anno o due ci si fa l’abitudine, e poi
abbiamo le nostre ore di ricreazione, e i nostri giorni di riposo.»
«I vostri giorni di riposo?»
«Sì.»
«E quali?»
«Quelli in cui c’è nebbia.»
«Ah, giusto.»
«Quelli sono i miei giorni di festa; in quei giorni scendo in
giardino, e pianto, taglio, accomodo, lego… Insomma il tempo passa.»
«Da quanto tempo siete qui?»
«Da dieci anni, e cinque anni da apprendista che fanno quindici.»
«Quanti anni avete?»
«Cinquantacinque anni.»
«Quanto tempo di servizio vi occorre per avere la pensione?»
«Venticinque anni.»
«E quant’è questa pensione?»
«Cento scudi.»
«Povera umanità!» mormorò Montecristo.
«Come dite, signore?» domandò l’impiegato.
«Dico che tutto ciò è importante.»
«Che cosa?»
«Tutto ciò che mi mostrate… E non capite assolutamente niente dei
vostri segni?»
«Assolutamente nulla.»
«Non avete mai provato a capirli?»
«Mai! Per farne cosa?»
«Però ci sono dei segnali che inviano a voi in particolare?»
«Certo.»
«Questi li capite?»
«Sì, sono sempre gli stessi.»
«E dicono?…»
«“Niente di nuovo”… o “avete un’ora”… o “a domani”.»
«Queste sono cose senza importanza… Ma guardate, non vedete il
vostro corrispondente che si mette in movimento?»
«È vero, grazie, signore.»
«E che dice? È qualcosa che capite?»
«Sì, mi chiede se sono pronto.»
«E voi gli rispondete?»
«Coi medesimi segnali, che nello stesso tempo in cui avvertono il
mio corrispondente di destra che io sono pronto, invitano il
corrispondente di sinistra a tenersi anch’egli preparato.»
«È molto ingegnoso», commentò il conte.
«State a vedere», riprese con orgoglio il buon uomo, «fra cinque
minuti parlerà.»
«Allora ho cinque minuti», disse Montecristo, «è più del tempo che
mi serve. Mio caro signore», continuò, «mi permettete di farvi una
domanda?»
«Dite.»
«Amate molto l’agricoltura?»
«Con passione.»
«E sareste felice, se invece di avere un terreno di sei metri aveste
un campo di due iugeri?»
«Signore, ne farei un paradiso terrestre.»
«Coi vostri mille franchi vivete male?»
«Molto male, ma vivo.»
«Sì, ma non avete che un piccolo giardino.»
«È vero, il giardino non è grande.»
«E anche popolato di ghiri che divorano tutto.»
«Questo è il mio flagello.»
«Ditemi, se aveste la disgrazia di voltare la testa quando il
corrispondente di destra è in movimento?»
«Io non lo vedrei.»
«Allora che accadrebbe?»
«Non potrei ripetere i segnali.»
«E dopo?»
«Mi accadrebbe che, non avendoli ripetuti per negligenza, mi
darebbero una multa.»
«Di quanto?»
«Di cento franchi.»
«Il decimo della vostra paga.»
«Sì», fece l’impiegato.
«Non vi è mai accaduto?» chiese Montecristo.
«Una sola volta che potavo un rosaio.»
«Bene, e se vi venisse in mente di cambiare un segnale o di
trasmetterne un altro?»
«Allora è diverso: sarei licenziato, e perderei la pensione.»
«Di cinquecento franchi?»
«Cento scudi, sì, signore: così capirete bene che non lo farò mai.»
«Neppure per quindici anni della vostra paga? Vediamo, ciò merita
riflessione, eh?»
«Per quindicimila franchi? Signore, voi volete tentarmi?»
«Precisamente quindicimila franchi, comprendete?»
«Signore, lasciatemi guardare il mio corrispondente di destra.»
«Invece non guardate, ma guardate qui.»
«Che cosa?»
«Come, non riconoscete questi piccoli pezzi di carta?»
«Biglietti di banca!»
«Appunto da mille, e sono quindici.»
«E per chi sono?»
«Per voi.»
«Per me!» gridò l’impiegato soffocato.
«Sì, soltanto vostri.»
«Ecco il corrispondente di destra che si muove.»
«Lasciatelo muovere.»
«Mi avete distratto, io sono già in multa.»
«Questa vi costerà cento franchi, vedete bene che ora avete tutta la
convenienza a prendere i quindici biglietti di banca.»
«Signore, il mio corrispondente di dritta si spazientisce e
raddoppia i segnali.»
«Lasciatelo fare e prendete.»
Il conte mise l’involto nelle mani dell’impiegato.
«Ora, ciò non è tutto: coi vostri quindicimila franchi non
vivreste.»
«Avrò sempre il mio posto.»
«No, lo perderete, perché ora scriverete un segno diverso da quello
del vostro corrispondente.»
«Signore, che mi proponete?»
«Uno scherzo.»
«Signore, a meno che non vi sia costretto…»
«E conto bene di costringervi, effettivamente.»
E Montecristo prese di tasca un altro pacchetto di banconote.
«Ecco altri diecimila franchi che coi quindicimila che avete in
tasca fanno venticinquemila. Con cinquemila franchi comprerete una
piccola casetta e due iugeri di terra, con altri ventimila vi farete
una rendita di mille franchi.»
«Un giardino di due iugeri?»
«E mille franchi di rendita.»
«Mio Dio, mio Dio!»
«Ma prendete dunque!»
E Montecristo mise di forza i dieci biglietti in mano all’impiegato.
«Che devo fare?»
«Niente di difficile!»
«Ma cosa?»
«Ripetete i segni che vedete qui.»
Montecristo cavò di tasca una carta su cui erano bene disegnati tre
segnali, coi numeri che indicavano l’ordine col quale dovevano
essere fatti.
«E questo non sarà lungo, come vedete.»
«Sì, ma…»
«Rammentatevi delle pesche; se volete mangiarne delle buone, fate
quanto vi dico.»
Il pensiero del raccolto ebbe la meglio. Rosso per la febbre,
sudando grosse gocce, il buon uomo eseguì l’uno dopo l’altro i tre
segnali dati dal conte, malgrado le insistenti chiamate del
corrispondente di destra che, non comprendendo il cambiamento,
cominciava a credere che l’uomo delle pesche fosse divenuto pazzo.
In quanto al corrispondente di sinistra, ripeté coscienziosamente i
segnali, che furono raccolti dal ministero dell’Interno.
«Ora eccovi ricco» disse Montecristo.
«Sì», rispose l’impiegato, «ma a quale prezzo?»
«Ascoltate, amico mio», riprese Montecristo, «non voglio che abbiate
rimorsi; credetemi dunque, non avete fatto torto ad alcuno e avete
servito una buona causa.»
L’impiegato guardava i biglietti di banca, li contava, li palpava,
ora pallido, ora rosso; infine si precipitò nella sua stanza per
bere un bicchier d’acqua, ma non ebbe forza di giungere fino al
rubinetto, e svenne in mezzo ai fagioli secchi. Cinque minuti dopo
la notizia telegrafica giunse al ministero. Debray fece attaccare i
cavalli al suo coupé, e corse all’abitazione di Danglars.
«Vostro marito ha delle cartelle del prestito spagnolo?»
«Certamente! Ne ha per sei milioni.»
«Ch’egli le venda subito a qualunque prezzo.»
«E perché?»
«Perché Don Carlo è fuggito da Bourges ed è rientrato in Spagna.»
«E come lo sapete?»
«Come so le notizie?!» esclamò Debray stringendosi nelle spalle.
La baronessa non se lo fece ripetere due volte, e corse dal marito,
il quale si recò subito dal suo agente di cambio, e gli ordinò di
vendere a qualunque prezzo. Quando si seppe che Danglars vendeva, si
abbassarono subito i titoli spagnoli. Danglars perdette
cinquecentomila franchi ma si sbarazzò di tutte le cartelle. La sera
si lesse nel «Messager» il seguente dispaccio telegrafico:
«Il re Don Carlo è sfuggito alla sorveglianza che si esercitava su
lui a Bourges, ed è rientrato in Spagna dalla frontiera con la
Catalogna. Barcellona si è sollevata in suo favore».
Per tutta la serata non si parlò d’altro che della previdenza di
Danglars che aveva venduto tutte le sue cartelle e della fortuna del
finanziere che non perdeva che soli cinquecentomila franchi dopo un
tale colpo. Quelli che avevano conservate le loro cartelle e le
avevano comprate da Danglars, si ritennero rovinati, e passarono una
brutta notte.
L’indomani si lesse sul «Moniteur»:
«Senza alcun fondamento il “Messager” ha ieri annunciata la fuga di
Don Carlo e la rivolta di Barcellona. Il re Don Carlo non ha
lasciato Bourges, e la penisola gode la più perfetta tranquillità.
Un segnale telegrafico, male interpretato a causa della nebbia, ha
causato questo errore».
I titoli risalirono di una cifra doppia di quella a cui erano scesi.
Ciò produsse, fra la perdita e la mancanza del guadagno, la
differenza di un milione per Danglars.
«Ottimo!» disse Montecristo a Morrel, che si trovava da lui al
momento in cui venne a conoscenza di questo strano rovescio di
Danglars.
«Con venticinquemila franchi ho fatto una scoperta che avrei pagato
centomila.»
«Che avete dunque scoperto?» domandò Maximilien.
«Ho scoperto il modo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli
mangiavano le pesche!»
61. I fantasmi
A prima vista, ed esaminata dal di fuori, la casa d’Auteuil non
aveva niente di splendido, né di tutto ciò che ci si sarebbe attesi
da una casa destinata ad abitazione del magnifico conte di
Montecristo; tuttavia questa semplicità dipendeva dalla volontà del
padrone, che aveva ordinato che nulla fosse cambiato all’esterno; e
per convincersene, c’era bisogno di penetrare all’interno. Difatti
non appena si apriva la porta, lo spettacolo cambiava. Bertuccio si
era superato per il gusto del mobilio, e la rapidità
dell’esecuzione: come in altri tempi il duca d’Antin aveva fatto
abbattere in una notte un filare di alberi che disturbava la vista
di Luigi XIV, così in tre giorni Bertuccio aveva fatto piantare nel
cortile interamente nudo, dei bei pioppi e dei sicomori, fatti
trapiantare con le loro enormi radici, a ombreggiare la facciata
principale della casa, davanti a cui, invece del selciato, mezzo
guasto dall’erba, si stendeva un bel prato verde preparato quella
stessa mattina, un vasto tappeto dove brillavano ancora le gocce
d’acqua di cui era stato annaffiato.
Il conte in persona aveva dato a Bertuccio un disegno nel quale
erano indicati il numero delle piante e il posto dove dovevano
essere situate, la forma e lo spazio del prato che doveva sostituire
il selciato. Vista così, la casa era diventata irriconoscibile, e
Bertuccio stesso protestava che non l’avrebbe più riconosciuta,
circondata com’era da tanti alberi e da una così ricca vegetazione.
L’intendente avrebbe fatto volentieri qualche cambiamento al
giardino, ma il conte aveva proibito che si toccasse. Bertuccio fece
però ornare di fiori le anticamere, le scale e i caminetti.
Quello che rivelava la grande abilità dell’intendente e la profonda
scienza del padrone, l’uno nel servire, l’altro nel farsi servire,
era che questa casa, deserta da vent’anni, così cupa e trista,
ancora il giorno prima tutta impregnata di un disgustoso odore di
vecchio, aveva preso in un giorno, con l’aspetto della vita, i
profumi che preferiva il padrone, e perfino il tono della sua luce
favorita. Il conte, tornando a casa, aveva sotto i suoi occhi, fin
dall’anticamera, i quadri che preferiva, i cani di cui amava le
moine, gli uccelli di cui amava il canto: tutta questa casa,
risvegliata dal suo lungo sonno come il palazzo della Bella del
bosco, viveva, cantava, si rallegrava, come quelle case che noi
abitiamo, lungamente predilette, e nelle quali, quando per disgrazia
le abbandoniamo, lasciamo una metà dell’anima nostra.
I domestici andavano e venivano allegri in quella bella corte: gli
uni occupavano le cucine, e correvano, come avessero sempre abitato
la casa, su e giù per scale restaurate il giorno innanzi; gli altri
popolavano le rimesse, ove le carrozze, numerate e fissate,
sembravano installate da cinquant’anni, e le scuderie ove i cavalli,
schierati alle rastrelliere, rispondevano col loro nitrito ai
palafrenieri che gli parlavano con maggior rispetto di quanto molti
domestici parlino coi loro padroni.
La biblioteca era distribuita su due mobili alle pareti laterali di
una grande sala, e conteneva circa duemila volumi; tutto un settore
era destinato ai romanzi moderni, e quello stampato il giorno prima,
era già collocato al suo posto, pavoneggiandosi nella sua legatura
rossa e oro.
Dall’altra parte della casa, in simmetria con la biblioteca, c’era
la serra, ripiena di piante rare che si rallegravano in gran vasi
giapponesi, e in mezzo alla serra, meraviglia a un tempo degli occhi
e dell’odorato, un bigliardo che si sarebbe detto lasciato da poco
dai giocatori, che avevano abbattuti i birilli sul tappeto.
Una sola stanza era stata rispettata dal magnifico Bertuccio.
Davanti a essa, all’angolo del primo piano, a cui si poteva salire
dalla scala maggiore, e discendere dalla scala segreta, i domestici
passavano con curiosità, e Bertuccio con terrore.
Il conte arrivò alle cinque precise, seguito da Alì, davanti alla
casa d’Auteuil. Bertuccio aspettava quest’arrivo con un’impazienza
mista a inquietudine: egli sperava qualche espressione di
approvazione, mentre temeva anche il solo aggrottamento delle
sopracciglia del conte.
Montecristo scese nel cortile, percorse tutta la casa, e fece un
giro nel giardino, silenzioso e senza dare il minimo segno né di
approvazione, né di malcontento. Soltanto entrando nella sua camera
da letto, dirimpetto alla stanza chiusa, tese la mano verso il
cassetto di un piccolo mobile di legno rosa, che aveva già osservato
in precedenza.
«Questo non può servire», disse, «che a mettervi dei guanti.»
«Infatti Eccellenza», rispose tutto contento Bertuccio, «aprite e vi
troverete dei guanti.»
Negli altri mobili il conte ritrovò ciò che contava di trovarvi:
bottiglie, sigari, gioielli ecc.
«Bene!» disse ancora.
E Bertuccio si ritirò soddisfatto e felice, tanto era grande,
potente, e reale l’influenza di quell’uomo su tutto ciò che lo
circondava.
Alle sei precise s’intese scalpitare un cavallo davanti alla porta
d’ingresso. Era il nostro capitano degli Spahis, che giungeva sopra
Medea. Montecristo l’aspettava nel vestibolo col sorriso sulle
labbra.
«Eccomi per primo, ne sono sicuro!» esclamò Morrel. «L’ho fatto per
avervi un momento tutto per me solo, prima degli altri. Julie ed
Emmanuel vi mandano milioni di saluti. Sapete che questo luogo è
magnifico? Ditemi, conte, i vostri domestici avranno cura del mio
cavallo?»
«State tranquillo, se ne intendono.»
«Ha bisogno di essere strigliato… Se sapeste di che passo è venuto!
È una vera saetta.»
«Diavolo! Lo credo bene, un cavallo da cinquemila franchi!» disse
Montecristo col tono di un padre che parli a suo figlio.
«Vi rincrescono?» domandò Morrel con un sorriso franco.
«Io? Dio me ne guardi!» rispose il conte. «Mi spiacerebbe soltanto
che il cavallo non fosse buono.»
«È tanto buono, mio caro conte, che Château-Renaud l’intenditore di
cavalli più raffinato di tutta la Francia, e Debray, che monta i
cavalli arabi del ministro, corrono dietro a me in questo momento, e
sono un poco indietro, come vedete, seguiti pure dai cavalli della
baronessa Danglars, che vanno di un trotto da poter fare almeno sei
leghe l’ora.»
«Dunque sono vicini?» domandò Montecristo.
«Eccoli.»
Infatti nello stesso momento un coupé con due cavalli tutti fumanti,
e due cavalli da sella ansanti giunsero al cancello della casa, che
si aprì davanti a loro, subito dopo il coupé descrisse il suo mezzo
cerchio, e venne a fermarsi davanti alla gradinata seguito da due
cavalieri. D’un salto Debray mise il piede a terra, e si trovò allo
sportello. Offrì la mano alla baronessa che scendendo gli fece un
gesto, impercettibile a tutti, meno che a Montecristo, cui nulla
sfuggiva; egli vide un piccolo biglietto bianco, minuscolo quanto il
gesto, che passò dalla mano della signora Danglars in quella del
segretario del ministro con una facilità dovuta certo all’abitudine.
Dietro sua moglie scese il banchiere, pallido come se invece di
uscire da un coupé fosse uscito da un sepolcro. La signora Danglars
gettò intorno a sé uno sguardo rapido e indagatore, che Montecristo
soltanto poté comprendere, e col quale essa abbracciò il cortile, il
peristilio e la facciata della casa; poi reprimendo una leggera
emozione che sarebbe certamente comparsa sul suo viso se fosse stato
permesso al viso d’impallidire, salì la scalinata, dicendo al signor
Morrel: «Signore, se foste nel numero dei miei amici vi chiederei se
voleste vendere il vostro cavallo».
Morrel fece un sorriso che molto rassomigliava a una smorfia, e si
voltò verso Montecristo come per pregarlo di toglierlo dall’impaccio
in cui si trovava. Il conte lo capì.
«Ah, signora», disse, «perché mai questa domanda non è diretta a
me?»
«Con voi, signore», ribatté la baronessa, «non si ha il diritto di
desiderare niente, perché si è troppo sicuri di ottenere. Così era
al signor Morrel…»
«Disgraziatamente», riprese il conte, «sono testimone che il signor
Morrel non può cedervi il suo cavallo, per una questione d’onore.»
«E per quale motivo, se posso?»
«Ha scommesso di domare Medea nello spazio di sei mesi.
Comprenderete ora, baronessa, che se egli se ne privasse prima del
termine della scommessa, non solo la perderebbe, ma si direbbe in
più che ha avuto paura; e un capitano degli Spahis, anche per
soddisfare un capriccio di una bella donna, il che, a mio avviso, è
una delle cose più sacre di questo mondo, non può lasciar correre
questa voce.»
«Avete sentito, signora?» disse Morrel, indirizzando a Montecristo
un sorriso di riconoscenza.
«Mi sembra d’altra parte», intervenne Danglars, con un tono rozzo
mal nascosto da un sorriso villano, «che abbiate abbastanza
cavalli.»
Non era abitudine della signora Danglars lasciar passare simili
colpi senza rispondervi, e tuttavia con gran meraviglia dei giovani,
finse di non capire e non rispose. Montecristo sorrise a questo
silenzio, di una umiltà inusitata, e si affrettò a mostrare alla
baronessa due immensi vasi di porcellana cinesi, sui quali
serpeggiavano delle vegetazioni marine di una grossezza, e di forme
così intricate e fantasiose da esaltare la dovizia e il genio della
natura.
La baronessa era meravigliata.
«Qui dentro si potrebbe piantare uno dei castagni delle Tuileries!»
esclamò. «Come hanno potuto far fabbricare simili enormi oggetti?»
«Signora», disse Montecristo, «non bisogna far simili domande a noi,
fabbricanti di statuette, e di vetro appannato… È un’opera di altra
età, e una specie di capolavoro dei geni della terra e del mare.»
«E come mai, e di quale epoca può essere?»
«Non lo so… Soltanto ho inteso dire che un imperatore della Cina
aveva fatto costruire espressamente un forno in cui uno dopo l’altro
aveva fatto cuocere dodici vasi come questo. Due si ruppero sotto
l’ardore del fuoco; gli altri furono calati a trecento braccia nel
fondo del mare. Il mare, come sapesse ciò che si chiedeva, gettò su
essi delle liane, contorse i suoi coralli, incrostò le sue
conchiglie, il tutto fu cementato per duecento anni sotto profondità
inaudite. Poi una rivoluzione fece deporre l’imperatore che aveva
voluto fare questo esperimento, e nessuno pensò di recuperare i
vasi. Rimase soltanto il documento che parlava della cottura e della
calata in mare. Dopo duecento anni si ritrovò il documento, e si
pensò di cercare i vasi. I nuotatori andarono, con l’aiuto di
appositi congegni, alla ricerca nella baia ove erano stati gettati;
ma di dieci non ne furono più ritrovati che tre, gli altri erano
stati o dispersi, o rotti dai flutti. Io amo questi vasi, nel fondo
dei quali qualche volta mi figuro che dei mostri di forme spaventose
e misteriose, come quelli che vedono i soli nuotatori quando si
immergono molto, hanno fissato con meraviglia il loro sguardo
sinistro e freddo, e nei quali hanno dormito a miriadi piccoli pesci
qui rifugiati per salvarsi dalla persecuzione dei loro nemici.»
Durante questo tempo Danglars, poco amatore di curiosità, strappava
distrattamente l’uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio:
quando ebbe finito l’arancio, si volse a un cactus, che meno
tollerante dell’arancio, lo punse oltraggiosamente. Allora
rabbrividì e si strofinò gli occhi come si svegliasse da un sonno.
«Signore», gli si rivolse Montecristo sorridendo, «voi siete tanto
amante di quadri, e avete delle cose magnifiche, non vi raccomando
perciò i miei; però, ecco due Hobbema un Paolo Potter, un Mieris,
due Gérard Dow, un Raffaello, un Van Dyck, un Zurbaran, e due o tre
Murillo, degni di esservi presentati.»
«Guarda», disse Debray, «un Hobbema che io riconosco.»
«Davvero?»
«Sì, vennero a proporlo al Museo.»
«Che non ne ha, credo?» disse Montecristo.
«No, e ciò nonostante ha rifiutato di comprarlo.»
«E perché?» domandò Château-Renaud.
«Siete ingenuo! Perché il governo non è abbastanza ricco.»
«Scusate!» replicò Château-Renaud. «Io sento dire simili cose tutti
i giorni da otto anni, e non mi ci posso abituare.»
«Sarà per un’altra volta», disse Debray.
«Non credo», ribatté Château-Renaud.
«Il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, il conte Andrea Cavalcanti»,
annunciò Battistino. Un colletto di raso nero che usciva dalle mani
del sarto, una barba fatta di recente, due baffi grigi, un occhio
sicuro, un abito da maggiore adorno di tre placche e cinque croci,
insomma una tenuta irreprensibile di vecchio soldato, tale apparve
il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, quel tenero padre che noi
conosciamo. Accanto al padre, vestito di abiti nuovi, col sorriso
sulle labbra, il conte Andrea Cavalcanti, quel rispettoso figlio che
ugualmente conosciamo. I tre giovani parlavano insieme, e i loro
sguardi si portarono dal padre al figlio, e si fermarono
naturalmente più a lungo su quest’ultimo, per bene esaminarlo.
«Cavalcanti!» fece Debray.
«Un bel nome», commentò Morrel.
«Sì», riconobbe Château-Renaud, «è vero, questi italiani hanno bei
nomi, ma vestono male.»
«Siete difficile da accontentare», riprese Debray. «I loro abiti
sono di un eccellente sarto, e del tutto nuovi.»
«Ecco precisamente ciò che rimprovero loro. Questo signore ha
l’aspetto di vestirsi oggi per la prima volta.»
«Chi sono questi signori?» chiese Danglars al conte di Montecristo.
«Non avete inteso? I Cavalcanti.»
«Ciò non mi dice che il loro nome, e niente di più.»
«È vero, non siete al corrente della nostra nobiltà italiana: chi
dice Cavalcanti, dice razza di principi.»
«Buon patrimonio?» domandò il banchiere.
«Favoloso.»
«Che cosa fanno?»
«Provano a spenderlo senza potervi riuscire. Sono accreditati presso
di voi, a quanto mi dissero l’altro giorno quando vennero a farmi
visita. Io anzi li ho invitati per voi, ve li presenterò.»
«Ma mi sembra che parlino con molta scioltezza il francese»,
riconobbe Danglars.
«Il figlio è stato allevato in un collegio del Mezzogiorno, a
Marsiglia, o nelle vicinanze, lo ritroverete entusiasta.»
«Di che cosa?» domandò la baronessa.
«Delle francesi, signora… Vuole assolutamente prender moglie a
Parigi.»
«Bella idea!» disse Danglars, alzando le spalle.
La signora Danglars guardò suo marito con un’espressione che in un
altro momento avrebbe scatenato un uragano; ma per la seconda volta
tacque.
«Il barone sembra molto tetro quest’oggi», osservò Montecristo con
la signora Danglars. «Lo vogliono forse far ministro?»
«Non ancora; credo invece che abbia speculato in Borsa, abbia
perduto, e non sa con chi prendersela.»
«Il signore e la signora Villefort», gridò Battistino.
I due personaggi annunciati entrarono; il signor Villefort,
nonostante il gran potere su se stesso, era visibilmente turbato.
Toccandogli la mano, Montecristo si accorse che tremava.
«Non vi sono che le donne per sapere dissimulare», disse fra sé
Montecristo, guardando la signora Danglars, che sorrideva al
procuratore, e che abbracciava la moglie di lui. Dopo i primi
saluti, il conte vide Bertuccio che, occupato fino allora nelle sue
mansioni, entrava in un piccolo salotto attiguo a quello nel quale
erano tutti riuniti. Andò da lui.
«Che volete, Bertuccio?» gli domandò.
«Vostra Eccellenza non mi ha ancora detto il numero dei convitati.»
«È vero.»
«Quanti coperti?»
«Contate voi stesso.»
«Sono giunti tutti, Eccellenza?»
«Sì.»
Bertuccio spinse lo sguardo attraverso la porta socchiusa.
Montecristo gli teneva fissi gli occhi in viso.
«Oh mio Dio!» gridò Bertuccio.
«Che c’è dunque?» domandò il conte.
«Quella donna! Quella donna!»
«Quale?»
«Quella vestita di bianco, e con tanti diamanti… La bionda!»
«La signora Danglars?»
«Non so come si chiami. Ma è lei! Signore, è lei!»
«Chi?»
«La donna del giardino! Quella che era incinta! Quella che
passeggiava aspettando… aspettando…»
Bertuccio rimase a bocca aperta, pallido, e coi capelli dritti.
«Aspettando chi?»
Bertuccio senza rispondere, mostrò Villefort col dito, presso a poco
nel medesimo gesto con cui Macbeth mostrò Banco.
«Oh oh!» mormorò finalmente. «Vedete?»
«Che? Chi?»
«Lui!»
«Lui?… Il procuratore Villefort? Senza dubbio lo vedo.»
«Dunque non l’ho ucciso?»
«Credo che stiate impazzendo, mio bravo Bertuccio.»
«Dunque non morì?»
«No egli non morì, lo vedete bene: invece di colpire fra la sesta e
settima costola sinistra come fanno i vostri compatrioti, avrete
colpito più alto o più basso; e le persone di legge hanno l’anima
bene incavigliata al corpo… o, piuttosto, non è vero ciò che mi
avete raccontato, fu un sogno della vostra immaginazione,
un’allucinazione del vostro spirito… Vi sarete addormentato avendo
mal digerita la vostra vendetta, essa vi avrà pesato sullo stomaco,
avrete avuto l’incubo, ecco tutto. Vediamo, richiamate la vostra
calma e contate: il signore e la signora Villefort, due; il signore
e la signora Danglars, quattro; il signor Château-Renaud, il signor
Debray, il signor Morrel, sette; il maggiore Bartolomeo Cavalcanti,
otto.»
«Otto», ripeté Bertuccio.
«Aspettate dunque! Avete troppa fretta di andarvene! Dimenticate uno
dei miei convitati, che diavolo! Guardate un poco a sinistra… ecco
là… il signor Andrea Cavalcanti, quel giovane in abito nero che
guarda il quadro di Murillo, e che ora si volge.»
Questa volta Bertuccio stava per emettere un grido, che lo sguardo
di Montecristo gli spense sulle labbra: «Benedetto!» mormorò egli a
bassa voce.
«Fatalità!»
«Ecco le sei e mezzo che suonano, Bertuccio» disse severamente il
conte, «questa è l’ora in cui ho dato l’ordine che si mettesse in
tavola; sapete che non amo aspettare.»
E Montecristo rientrò nel salotto ove lo aspettavano i suoi
convitati, mentre Bertuccio rientrava nella sala da pranzo,
appoggiandosi contro le pareti. Cinque minuti dopo, le due porte
della sala si aprirono, Bertuccio comparve, e facendo come Vatel a
Chantilly un ultimo ed eroico sforzo: «Signor conte, in tavola»,
disse.
Montecristo offrì il braccio alla signora Villefort.
«Signor Villefort», disse, «fate voi da cavaliere alla baronessa
Danglars, ve ne prego.»
Villefort obbedì, e tutti passarono nella sala da pranzo.
62. Il pranzo
Era facile accorgersi che nel passare alla sala da pranzo, un
medesimo sentimento animava tutti i convitati. Essi si chiedevano
quale bizzarro caso li aveva radunati tutti in quella casa, e per
quanto alcuni fossero inquieti e meravigliati di trovarvisi, nessuno
avrebbe voluto essere lì. Nonostante le relazioni di recente data,
la posizione eccentrica e isolata, le ricchezze sconosciute e quasi
favolose del conte imponessero agli uomini di essere circospetti, e
alle donne di non penetrare in una casa dove non c’era una moglie
per riceverle; pure uomini e donne avevano passato sopra, gli uni
alla circospezione, le altre alla convenienza: la curiosità, che li
stuzzicava, ve li aveva condotti malgrado tutto.
Non c’era nessuno, fino ai Cavalcanti padre e figlio, l’uno per la
rozzezza, l’altro per la disinvoltura, che non sembrasse preoccupato
di trovarsi presso quest’uomo di cui ignoravano lo scopo, e insieme
ad altri uomini che vedevano per la prima volta.
La signora Danglars aveva fatto un movimento vedendo, dietro
l’invito di Montecristo, il signor Villefort avvicinarsi a lei per
offrirle il braccio e il signor Villefort aveva sentito il suo
sguardo scomporsi sotto gli occhiali d’oro quando il braccio della
baronessa si posò sul suo. Nessuno di questi due movimenti era
sfuggito al conte, e già in quel semplice contatto degli individui,
c’era qualcosa di molto interessante per l’osservatore di questa
scena.
Il signor Villefort aveva alla sua destra la baronessa Danglars, e a
sinistra Morrel; il conte era fra la signora Villefort e Danglars,
gli altri posti erano occupati da Debray seduto fra Cavalcanti padre
e Cavalcanti figlio, e da Château-Renaud seduto fra la signora
Villefort e Morrel.
Il pranzo fu magnifico.
Montecristo si era proposto di rovesciare completamente l’etichetta
parigina, e di saziare più la curiosità che l’appetito dei suoi
convitati. Fu un banchetto orientale come potevano esserlo i
banchetti delle fate arabe.
Tutti i frutti, che le quattro parti del mondo possono versare
intatti e saporosi nel corno d’abbondanza d’Europa erano riuniti e
ammonticchiati in piramidi entro vasi cinesi e sottocoppe
giapponesi. Gli uccelli rari, con la parte più brillante delle loro
penne, pesci mostruosi stesi su lastre d’argento, tutti i vini
dell’Arcipelago, dell’Asia Minore, del Capo racchiusi in ampolle di
forme bizzarre, la vista delle quali sembrava aggiungere anche
qualche cosa di più al sapore di questi vini, passarono
successivamente (come una di quelle girandole di portate che Apicio
faceva passare sui convitati) davanti a questi parigini, che
comprendevano potersi spendere mille luigi in un pranzo di dieci
persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero delle
perle, o che, come Lorenzo de’ Medici, si bevesse dell’oro fuso.
Montecristo notò lo stupore generale, e si mise a ridere e a
scherzare ad alta voce.
«Signori», disse, «ammettete, non è vero, che giunti a un certo
grado di fortuna, non vi è più, di necessario, che il superfluo,
come queste signore ammetteranno, che giunti a un certo grado di
esaltazione, non vi è più, di positivo, che l’ideale? Ora, seguendo
il ragionamento, che cosa è il meraviglioso? Quello che non
comprendiamo. Qual è il bene che crediamo veramente da desiderarsi?
Quel che non possiamo avere. Ora, veder cose che non posso
comprendere, procurarmi cose impossibili ad aversi, questo è lo
scopo della mia vita. Vi giungo con due mezzi: il denaro e la
volontà… Impiego, per conseguire una fantasia, la stessa
perseveranza che, per esempio, voi mettete, signor Danglars, a
creare una linea ferroviaria; voi signor Villefort, a far condannare
un uomo a morte; voi signor Debray, a pacificare un regno; voi
signor Château-Renaud, a piacere a una donna, e voi Morrel, a domare
un cavallo che nessuno ha potuto montare. Così, per esempio, vedete
questi due pesci nati, l’uno a cinquanta leghe da Pietroburgo,
l’altro a cinque leghe da Napoli. Non è dilettevole il poterli
riunire sulla stessa tavola?»
«Quali sono dunque questi pesci?» domandò Danglars.
«Il signor Château-Renaud, che ha abitato in Russia, vi dirà il nome
dell’uno, e il signor maggiore Cavalcanti, che è italiano, vi dirà
il nome dell’altro.»
«Questo qui», iniziò Château-Renaud, «è, credo, uno sterlet.»
«E questo qua», disse Cavalcanti, «una lampreda, se non sbaglio.»
«Ora, signor Danglars, domandate a questi due signori ove si pescano
questi due pesci…» lo invitò Montecristo.
«Ma», precisò Château-Renaud, «gli sterlet si pescano soltanto nel
Volga.»
«E io», disse Cavalcanti, «non conosco che il Fusaro che fornisca
lamprede di questa grossezza.»
«Ebbene, precisamente! L’uno viene dal Volga e l’altro dal lago del
Fusaro.»
«Impossibile!» gridarono insieme tutti i convitati.
«Ecco appunto ciò che mi diverte», disse Montecristo. «Io sono come
Nerone, “desidero l’impossibile”… Ecco ciò che diverte voi stessi in
questo momento, ed ecco infine che questa carne, che forse in realtà
non vale quella del salmone e del persico, in breve vi parrà
squisita… Nel vostro pensiero sembrava impossibile procurarvela:
eppure eccola qua…»
«Ma come si fece a trasportare questi due pesci a Parigi?»
«Nulla di più semplice: questi due pesci sono stati portati ciascuno
entro una gran tinozza imbottita internamente, una di ramoscelli e
d’erbe del fiume, l’altra di giunchi e di piante del lago; sono
state messe in un furgone fatto espressamente, e in tal modo hanno
vissuto lo sterlet dodici giorni, e la lampreda otto; ed entrambi
vivevano perfettamente quando si è impadronito di loro il cuoco per
farli morire, uno nel latte, l’altro nel vino. Voi non lo credete,
signor Danglars?»
«Almeno ne dubito», rispose Danglars col suo rozzo sorriso.
«Battistino», chiamò Montecristo, «fate portare l’altro sterlet, e
l’altra lampreda, cioè, quelli che sono venuti nelle altre tinozze e
che vivono ancora.»
Danglars aprì due occhi inebetiti: gli invitati applaudirono
fragorosamente. Quattro domestici portarono due tinozze guarnite di
piante marine in ciascuna delle quali si agitava un pesce simile ai
due che erano stati serviti in tavola.
«Ma perché due di ciascuna specie?» domandò Danglars.
«Perché uno poteva morire», rispose semplicemente Montecristo.
«Siete veramente un uomo prodigioso», riconobbe Danglars, «e il
filosofo ha un bel dire, è una gran bella cosa essere ricchi!»
«E soprattutto aver delle idee», disse la signora Danglars.
«Non attribuitemi onori per questo, signora, ciò era molto in voga
presso i Romani; e Plinio racconta che si mandavano da Ostia a Roma,
con delle mute di schiavi, che li portavano sulla loro testa, dei
pesci di quella specie che chiamavano “mulus”, e che dal ritratto
che ne fa è probabilmente l’orata. Era pure un lusso d’averli vivi e
uno spettacolo divertente quello di vederli morire, perché morendo
cambiavano tre o quattro volte il colore delle loro scaglie, come un
arcobaleno che evapori passando da tutte le gradazioni del prisma;
dopodiché li mandavano al cuoco. La loro agonia faceva parte del
loro merito; se non li vedevano vivi li disprezzavano morti.»
«Sì», disse Debray, «ma da Ostia a Roma non vi sono che sette o otto
leghe.»
«È vero!» esclamò Montecristo. «Ma dove starebbe il merito di venire
milleottocento anni dopo Lucullo, se non si facesse meglio di lui?»
I due Cavalcanti aprivano occhi enormi, ma avevano il buon senso di
non dire una parola.
«Tutto ciò è ammirabile», disse Château-Renaud, «perciò quel che
ammiro di più è, lo confesso, l’ammirabile prontezza con la quale
siete servito. Non avete comprato questa casa appena cinque o sei
giorni fa?»
«Più o meno», annuì Montecristo.
«Ebbene, sono sicuro che in otto giorni ha subito una completa
trasformazione… Se non sbaglio aveva un’entrata diversa da questa, e
il cortile era selciato e orrido, mentre oggi è un magnifico prato
verde, ornato di alberi che sembrano avere cento anni.»
«Che volete», disse il conte, «amo il verde e l’ombra.»
«Infatti», intervenne la signora Villefort, «prima si entrava da una
porta che si apriva sulla strada, e il giorno del mio insperato
salvataggio, fu dalla strada, me ne ricordo, che mi faceste entrare
in casa.»
«Sì, signora», disse Montecristo, «ma dopo ho preferito un ingresso
che mi permettesse di guardare il Bois de Boulogne attraverso il
cancello.»
«In quattro giorni», osservò Morrel, «questo è un prodigio!»
«Infatti», disse Chateau-Renaud, «d’una vecchia casa farne una casa
nuova, è una cosa miracolosa, perché era molto vecchia, e anche
molto triste. Mi ricordo d’essere stato incaricato da mia madre di
visitarla, quando il signor conte di Saint-Méran la mise in vendita,
due o tre anni fa.»
«Il signor di Saint-Méran?» si stupì la signora Villefort. «Questa
casa dunque apparteneva al signor di Saint-Méran, prima che la
compraste voi, signor conte?»
«Pare di sì», rispose Montecristo.
«Come, non sapete da chi avete comprata questa casa?»
«No, in verità; è il mio intendente che si occupa di questi
particolari.»
«Da circa dieci anni non era stata abitata», disse Château-Renaud.
«Faceva una grande tristezza vederla sempre con le sue persiane
chiuse, le porte serrate e il cortile pieno d’erba. A dire il vero
se non fosse appartenuta al suocero di un procuratore del re, si
sarebbe potuta prendere per una di quelle case maledette ove sia
stato consumato qualche delitto.»
Villefort, che fino allora non aveva ancora toccato nessuno dei
quattro o cinque bicchieri di vini straordinari davanti a lui, ne
prese uno a caso e lo vuotò d’un sol fiato.
Montecristo lasciò passare un momento, poi, nel silenzio succeduto
alle parole di Château-Renaud: «È bizzarro, signor barone», riprese,
«ma mi sono venuti gli stessi pensieri quando vi entrai per la prima
volta; e questa casa mi parve così lugubre che non l’avrei mai
comprata, se l’intendente non lo avesse già fatto per me.
Probabilmente il furbo aveva ricevuto una mancia dal notaio».
«È probabile», balbettò Villefort sforzandosi di sorridere, «ma,
credetemi, non ne so nulla. Il signore di Saint-Méran ha voluto che
questa casa, parte della dote di sua nipote, fosse venduta, perché,
rimanendo tre o quattro anni disabitata, sarebbe caduta in rovina.»
Questa volta fu Morrel che impallidì.
«Vi era particolarmente una stanza…» continuò Montecristo. «Ben
semplice in apparenza, una stanza come tutte le altre, parata di
damasco rosso, che mi è sembrata, non so perché, drammatica
all’estremo.»
«E perché?» domandò Debray. «Perché drammatica?»
«Si può forse render conto delle sensazioni istintive?» domandò
Montecristo. «Non vi sono forse delle località ove ci sembra di
respirare un’aria malinconica? E perché? Non se ne sa niente: per
una concatenazione d’idee, per un capriccio del sentimento che vi
trasporta in altri luoghi, che forse non hanno alcun rapporto coi
tempi e i luoghi ove ci troviamo… Tutto ciò fa che questa stanza mi
ricordi quella della marchesa di Ganges, o quella di Desdemona… Eh,
in fede mia, sentite, giacché abbiamo finito di pranzare, bisogna
che ve la mostri, poi scenderemo in giardino a prendere il caffè:
dopo pranzo, lo spettacolo.»
Montecristo fece un segno per i convitati: la signora Villefort si
alzò, Montecristo fece altrettanto, e tutti imitarono il loro
esempio. Villefort e la signora Danglars rimasero ancora qualche
tempo come inchiodati sulle loro sedie; s’interrogavano con gli
occhi freddi, muti, agghiacciati.
«Avete sentito?» domandò la signora Danglars.
«Bisogna andarvi», rispose Villefort alzandosi e offrendole il
braccio.
Tutti si erano già sparsi per la casa, spinti dalla curiosità,
perché tutti pensavano che la visita non si sarebbe limitata a
quella stanza, e che avrebbero visto tutto il resto della villa
dalla quale Montecristo aveva saputo trarre un palazzo. Ciascuno
dunque si lanciò per le porte aperte. Montecristo aspettava i due
che ritardavano. Quando a loro volta furono passati, li seguì con un
sorriso che, se si fosse potuto comprendere, avrebbe spaventato i
convitati molto più di quella camera nella quale stavano per
entrare.
Si cominciò infatti col percorrere gli appartamenti. Le camere erano
ammobiliate all’orientale con divani e cuscini ovunque invece di
letti, pipe e armi invece di mobili, i saloni adorni dei più bei
quadri degli antichi maestri, gli studi tappezzati di stoffe cinesi,
a colori capricciosi, a disegni fantastici, a tessuti meravigliosi,
e infine si giunse alla famosa stanza.
Non aveva nulla di particolare, se non che, sebbene al declinare del
giorno, non era illuminata, ed era rimasta, in contrasto con tutto
il resto della casa, con le sue vecchie decorazioni e i vecchi
mobili.
Queste due particolarità bastavano per darle un’aria lugubre.
«Oh!» esclamò la signora Villefort. «È spaventosa davvero!»
La signora Danglars provò a balbettare alcune parole che non furono
intese. Molte osservazioni sorsero e s’incrociarono, e il risultato
fu che la camera di damasco rosso aveva un aspetto sinistro.
«Non è vero?» continuò Montecristo. «Vedete come questo letto è
posto con bizzarria, quali tetri sanguinosi paramenti! E questi due
ritratti a pastello che l’umidità ha fatto impallidire, non sembrano
dire con le loro labbra smunte, e i loro occhi spaventati: “Io ho
visto”.»
Villefort divenne livido: la signora Danglars cadde sopra una sedia
presso il caminetto.
«Avete il coraggio di sedervi sopra quella sedia, su cui forse è
stato commesso un delitto?» scherzò la signora Villefort,
sorridendo.
La signora Danglars si alzò immediatamente.
«E poi», riprese Montecristo, «qui non c’è tutto.»
«Che vi è dunque ancora?» domandò Debray, cui non sfuggiva
l’emozione della signora Danglars.
«Sì, che vi è ancora?» domandò Danglars. «Perché fin qui non trovo
gran cosa… E voi signor Cavalcanti?»
«Noi», rispose questi, «abbiamo a Pisa la Torre d’Ugolino a Ferrara
la prigione di Tasso, e a Rimini la camera di Paolo e Francesca.»
«Sì, ma non avete questa piccola scala segreta», disse Montecristo
aprendo una porta nascosta sotto la tappezzeria. «Guardatela, e dite
ciò che ne pensate.»
«Che scala sinistra!» osservò Château-Renaud ridendo.
«Il fatto è», cominciò Debray, «che non so se sia il vino di Chio
che concilia la malinconia, ma certamente vedo tutto nero in questa
casa.»
In quanto a Morrel, dopo aver sentito parlare della dote di
Valentine, era diventato triste, e non aveva pronunciato una parola.
«Non v’immaginate», riprese Montecristo, «un Otello, o un Ganges
qualunque, scendere passo a passo, in una notte tetra e burrascosa,
questa scala con qualche lugubre fardello, che si vuole nascondere
alla vista degli uomini, se non allo sguardo di Dio?»
La signora Danglars si appoggiò al braccio di Villefort, egli stesso
costretto ad addossarsi al muro.
«Mio Dio, signora», gridò Debray, «che avete dunque? Come
impallidite!»
«Che cos’ha?» domandò la signora Villefort.
«È semplice: il signor Montecristo ci racconta delle storie
spaventose, con l’intenzione senza dubbio di farci morire dalla
paura.»
«Ma sì», disse Villefort, «infatti conte, voi spaventate queste
signore.»
«Che avete dunque?» ripeté a bassa voce Debray alla signora
Danglars.
«Niente», disse lei, facendo uno sforzo. «Ho bisogno d’aria, ecco
tutto.»
«Volete scendere in giardino?» domandò Debray offrendo il braccio
alla signora Danglars e avanzando verso la scala segreta.
«No!» esclamò lei. «Preferisco restare qui.»
«Ma come?» si stupì Montecristo, «avete paura sul serio?»
«No, conte», rispose la signora Danglars, «ma avete un modo di
supporre le cose che dà l’illusione della realtà.»
«Mio Dio», replicò Montecristo sorridendo, «tutto questo è fantasia!
Non potrebbe ugualmente rappresentarsi questa camera come quella di
una buona e onesta madre di famiglia? Questo letto con le pareti
color di porpora come un letto visitato dalla dea Lucina? E questa
scala misteriosa, come il passaggio per il quale dolcemente, e per
non disturbare il sonno confortatore dell’addormentata, passi il
medico, o la nutrice, o il padre stesso portando il fanciullo che
dorme?»
Questa volta la signora Danglars, invece di rasserenarsi a questa
dolce pittura, gettò un gemito e svenne.
«La signora Danglars sta male», balbettò Villefort, «forse bisognerà
trasportarla nella sua carrozza.»»
«Oh mio Dio!» esclamò Montecristo. «Ho dimenticata la boccettina!»
«Ho la mia», disse la signora Villefort, e passò a Montecristo una
boccettina con un liquore rosso, simile a quello che il conte aveva
usato per Edouard.
«Ah!» fece Montecristo prendendola dalle mani della signora
Villefort.
«Sì», mormorò questa, «dietro le vostre indicazioni ho provato.»
«E vi è riuscito?»
«Credo di sì.»
La signora Danglars era stata trasportata nella camera vicina;
Montecristo le lasciò cadere sulle labbra una goccia del liquore
rosso, e lei ritornò subito in sé.
«Mio Dio», si lamentò, «che sogno spaventoso!»
Villefort le strinse fortemente il braccio, per farle capire che non
aveva sognato.
Fu cercato il signor Danglars, ma poco disposto alle impressioni
poetiche, egli era disceso in giardino e parlava col signor
Cavalcanti padre di un progetto di ferrovia da Livorno a Firenze.
Montecristo sembrava disperato: prese il braccio della signora
Danglars, e la condusse in giardino, ove fu ritrovato il signor
Danglars che prendeva il caffè fra i signori Cavalcanti padre e
figlio.
«Davvero, signora», le domandò, «non vi ho troppo spaventata?»
«No, signore… Le cose fanno impressione secondo le disposizioni di
spirito in cui ci troviamo.»
Villefort si sforzò di ridere.
«E allora», disse, «capirete bene che basta una supposizione, una
chimera…»
«E va bene», cominciò Montecristo, «non credetemi, se volete, ma ho
la convinzione che sia stato commesso un delitto in questa casa.»
«Fate attenzione», disse la signora Villefort, «abbiamo qui il
procuratore del re.»
«In fede mia» riprese Montecristo, «poiché abbiamo questa occasione,
ne approfitterò per fare la mia denuncia.»
«La vostra denuncia?» si sorprese Villefort.
«Sì, e alla presenza di testimoni.»
«Tutto ciò è molto importante», intervenne Debray, «e se vi fu
realmente delitto, faremo un’ottima digestione.»
«Vi fu delitto», ripeté Montecristo. «Venite qui, signori, signor
Villefort venite… Affinché la dichiarazione sia valevole, dev’essere
fatta alle autorità competenti…»
Montecristo prese il braccio di Villefort, e mentre stringeva sotto
il suo quello della signora Danglars, trascinò il procuratore fin
sotto il platano ove l’ombra era più fitta. Tutti gli altri
convitati li seguivano.
«Vedete», riprese Montecristo, «qui, in questo medesimo luogo», e
batteva col piede la terra, «qui, per ringiovanire questi alberi già
vecchi, ho fatto scavare il terreno, e mettere del concime, ebbene i
miei lavoratori nello scavare hanno dissotterrato un piccolo
forziere, o piuttosto le ferramenta di un baule, nel mezzo delle
quali fu trovato uno scheletro di un neonato. Questa non è fantasia
spero?»
Montecristo sentì irrigidirsi il braccio della signora Danglars, e
fremere il pugno di Villefort.
«Un neonato…» ripeté Debray. «La cosa diventa seria, mi sembra…»
«Ebbene», disse Château-Renaud, «non mi sbagliavo quando, poco fa,
pretendevo che le cose avessero un’anima, e un viso come gli uomini,
e portassero sulla loro faccia il riverbero dei loro intestini. La
casa era triste perché aveva dei rimorsi, perché nascondeva un
delitto.»
«E chi dice che sia stato un delitto?» riprese Villefort, tentando
un ultimo sforzo.
«Come, un neonato seppellito vivo in un giardino, non è un delitto?»
gridò Montecristo. «Come chiamate voi quest’azione, signor
procuratore del re?»
«Ma chi dice che fu seppellito vivo?»
«Perché seppellirlo là, se era morto? Questo giardino non è stato
mai un cimitero.»
«Qual è la pena per gl’infanticidi in questo Paese?» domandò
ingenuamente il maggiore Cavalcanti.
«Si taglia loro semplicemente il collo», rispose Danglars.
«Si taglia il collo?» disse Cavalcanti.
«È così… Non è vero signor Villefort?» domandò Montecristo.
«Sì, signor conte» rispose Villefort con un accento che non aveva
più dell’umano.
Montecristo vide che questo era tutto quel che poteva far sopportare
ai due individui per i quali aveva preparato la scena, e non volendo
spinger le cose oltre: «Ma il caffè, signori!» disse. «Mi sembra che
lo dimentichiamo.»
E ricondusse i convitati verso una tavola posta nel mezzo del
praticello.
«In verità, signor conte», disse la signora Danglars, «ho vergogna
di confessare la mia debolezza, ma tutte queste storie spaventose mi
hanno atterrita, vi prego di lasciarmi sedere.»
E dicendo questo cadde sopra una sedia. Montecristo la salutò e si
avvicinò alla signora Villefort.
«Credo che la signora Danglars abbia ancora bisogno della vostra
boccettina», disse.
Ma prima che la signora Villefort si fosse avvicinata alla sua
amica, il procuratore aveva già detto all’orecchio della signora
Danglars: «Devo parlarvi».
«Quando?»
«Domani.»
«Dove?»
«Nel mio ufficio, al tribunale, se volete; quello è ancora il luogo
più sicuro.»
«Verrò.»
In quel momento si avvicinò la signora Villefort.
«Grazie, mia cara amica», disse la signora Danglars provando a
sorridere. «Non ho più niente, mi sento assai meglio!»
63. Il mendicante
La serata avanzava, e frattanto la signora Villefort aveva
manifestato il desiderio di tornare a Parigi, cosa che non aveva
osato fare la signora Danglars, malgrado l’evidente malessere di cui
era preda. Alla richiesta di sua moglie, il signor Villefort diede
per primo il segnale della partenza; offrì un posto nel suo landau
alla signora Danglars, in modo che fosse assistita dalle cure di sua
moglie. Riguardo al signor Danglars, assorbito in un’importante
conversazione d’affari col signor Cavalcanti, non fece attenzione a
tutto ciò che accadeva. Montecristo, mentre domandava la boccettina
alla signora Villefort, aveva notato che il signor Villefort si era
avvicinato alla signora Danglars, e aveva indovinato ciò che le
aveva detto, sebbene avesse parlato tanto a bassa voce che era molto
se la signora Danglars stessa lo aveva inteso. Egli lasciò partire
senza opporsi Morrel, Debray e Château-Renaud a cavallo, e montare
le due dame nel landau del signor Villefort; Danglars, sempre più
entusiasta di Cavalcanti padre, lo invitò a salire con lui nel suo
coupé. Quanto ad Andrea Cavalcanti, raggiunse il suo tilbury, che
l’aspettava davanti alla porta, e di cui un groom, che esagerava le
maniere all’inglese, teneva, rizzandosi sulla punta degli stivali,
l’enorme cavallo grigio-ferro.
Andrea non aveva parlato granché durante il pranzo, perché era un
giovane molto intelligente, e naturalmente aveva provato il timore
di dire qualche sciocchezza in mezzo a convitati ricchi e potenti,
fra i quali il suo occhio dilatato non discerneva senza qualche
timore un procuratore del re. In seguito, era stato accaparrato dal
signor Danglars, che, dopo un rapido colpo d’occhio sul vecchio
maggiore, dal collo rigido, e sul figlio ancora un poco timido, e
riavvicinando tutti questi elementi al fasto dell’ospitalità di
Montecristo, aveva pensato di avere a che fare con qualche nababbo
venuto a Parigi per introdurre il suo unico figlio nell’alta
società.
Perciò aveva ammirato con indicibile compiacenza l’enorme diamante
che brillava al dito mignolo del maggiore, poiché questi, da uomo
prudente ed esperto, nel timore che gli fossero strappati anzitempo
i tanti denari ricevuti, li aveva subito convertiti in un oggetto di
valore. Poi dopo il pranzo, sempre attorno agli argomenti
«industria» e «viaggio», aveva interrogato il padre e il figlio
sulla loro maniera di vivere e costoro, avvisati che su Danglars era
stato aperto il loro credito, all’uno di quarantottomila franchi,
all’altro quello annuale di cinquantamila, erano stati gentili e
pieni di affabilità col banchiere.
Un particolare soprattutto accrebbe la considerazione, diremmo quasi
la venerazione di Danglars per Cavalcanti. Costui, fedele al detto
d’Orazio, «Non meravigliarti di nulla», si era accontentato, come si
è visto, di far sfoggio di cultura nel dire che da quel lago si
estraevano le migliori lamprede; quindi ne aveva mangiata la sua
parte senza dire una parola. Danglars aveva dedotto che queste
specie di sontuosità erano familiari all’illustre discendente dei
Cavalcanti, che forse a Lucca non mangiava che trote fatte venire
dalla Svizzera, o locuste inviategli dalla Bretagna per mezzo di
contenitori simili a quelli di cui il conte si era servito per far
venire le lamprede dal lago del Fusaro, e gli sterlet dal fiume
Volga. Così accolse con una benevolenza particolare queste parole
del Cavalcanti: «Domani, signore, avrò l’onore di farvi una visita
per affari».
«E io, signore», aveva risposto Danglars, «sarò lieto di ricevervi.»
Poi aveva proposto a Cavalcanti, se però non gli spiaceva separarsi
dal figlio, di ricondurlo all’albergo dei Principi. Cavalcanti aveva
risposto che da lungo tempo suo figlio aveva l’abitudine di condurre
la sua vita indipendente, e di conseguenza aveva i suoi cavalli, e
le sue carrozze, e che, non essendo venuti insieme, non vedeva
nessuna difficoltà nel ritornare divisi. Il maggiore era dunque
salito nella carrozza di Danglars, e il banchiere si era seduto al
suo fianco, sempre più incantato dalle idee di ordine, e
dall’economia di quest’uomo, che pur dava a suo figlio cinquantamila
franchi l’anno, ciò che faceva supporre una fortuna di cinque o
seicentomila franchi di rendita.
Quanto ad Andrea, cominciò, per darsi delle arie, col rimproverare
il suo stalliere, perché invece di andare a prenderlo alla
scalinata, lo aveva aspettato alla porta del cortile, cosa che gli
aveva procurato l’incomodo di fare una trentina di passi a piedi per
cercare il suo tilbury. Lo stalliere ricevette il rimprovero con
umiltà, con la mano sinistra prese il morso per trattenere il
cavallo impaziente che batteva il terreno col piede, mentre con la
destra offriva le redini ad Andrea, che le prese, e posò leggermente
lo stivale verniciato sul montatoio. In quel momento una mano si
appoggiò sulla sua spalla. Il giovane si volse pensando che
Danglars, o Montecristo avessero dimenticato qualche cosa, e
ritornassero a dirglielo al momento di partire.
Ma, invece dell’uno o dell’altro, scoprì una strana figura arsa dal
sole, con una barba ben curata, occhi brillanti come carboni accesi,
e un sorriso ironico su labbra tra cui brillavano trentadue denti
bianchi, acuti e affinati come quelli di un lupo o di una iena. Un
fazzoletto a quadretti rossi copriva la testa dai capelli grigiastri
e polverosi, una giacca delle più sporche e stracciate copriva il
corpo magro e ossuto: sembrava che le ossa, come quelle di uno
scheletro, dovessero scricchiolare camminando; la mano che si
appoggiava sulla spalla di Andrea, e che fu la prima cosa che vide
il giovane, gli pareva di una dimensione gigantesca.
Andrea riconobbe la figura al chiarore della lanterna del suo
tilbury, o fu soltanto colpito dall’orribile aspetto di questo
interlocutore? Non sapremmo dirlo, il fatto è che fremette, e
indietreggiò immediatamente.
«Che volete da me?» domandò.
«Mi scusi», disse l’uomo, portando la mano al fazzoletto rosso,
«forse v’infastidisco, ma ho bisogno di parlarvi.»
«La sera non si domanda l’elemosina», disse lo stalliere tentando
con un movimento di sbarazzare il suo padrone dall’importuno.
«Io non domando l’elemosina, mio bel ragazzo», replicò lo
sconosciuto al domestico con uno sguardo così ironico, e un sorriso
così spaventoso, che questi si allontanò. «Desidero soltanto dire
due parole al vostro padrone che quindici giorni or sono mi ha
incaricato di una commissione.»
«Sentiamo», disse a sua volta Andrea, con abbastanza forza, perché
il domestico non si accorgesse del suo turbamento. «Che volete? Dite
presto, amico mio…»
«Io vorrei… io vorrei», disse a bassa voce l’uomo dal fazzoletto
rosso, «che mi risparmiassi l’incomodo di tornare a Parigi a piedi;
sono molto stanco, e siccome non ho pranzato tanto bene quanto te,
appena posso tenermi in piedi.»
Il giovane rabbrividì a quella strana familiarità.
«Ma infine», ripeté, «che cosa volete?»
«Voglio che mi lasci salire sulla tua bella carrozza, e mi riconduca
in città.»
Andrea impallidì, ma non rispose.
«Sì», disse l’uomo dal fazzoletto rosso sprofondando le mani nelle
tasche, e guardando il giovane con occhi provocatori, «questa è
un’idea che mi è venuta, capisci mio caro Benedetto?»
A quel nome, il giovine rifletté senza dubbio, perché si avvicinò
allo stalliere, e gli disse: «Quest’uomo fu effettivamente
incaricato di una commissione di cui deve rendermi conto. Andate a
piedi fino alla barriera; là prenderete una carrozza per non
ritardare troppo».
Il servitore rimase sorpreso, e si allontanò.
«Lasciami almeno raggiungere un posto sicuro», disse Andrea.
«Quanto a questo, io stesso ti condurrò in un bel posto», disse
l’uomo dal fazzoletto rosso.
E preso il cavallo per il morso, condusse il tilbury in un luogo
dove era effettivamente impossibile vederli insieme.
«Oh no», disse, «non è per la gloria di montare nella tua bella
carrozza, no, è soltanto perché sono stanco, e poi perché voglio
parlare un po’ d’affari con te.»
«Su, salite», disse il giovane.
Peccato che non fosse giorno, perché sarebbe stato curioso vedere
questo malandrino, seduto con tutto comodo sopra i cuscini ricamati
vicino al conduttore del tilbury. Andrea spinse il cavallo fino
all’ultima casa del villaggio senza dire una sola parola al
compagno, che sorrideva e conservava il silenzio come fosse lieto di
passeggiare su una così bella carrozza. Una volta fuori d’Auteuil,
Andrea guardò intorno a sé per assicurarsi che nessuno potesse
vederli né sentirli, e allora, fermando il cavallo, e incrociando le
braccia davanti all’uomo dal fazzoletto rosso: «A noi», disse.
«Perché venite a disturbarmi nella mia carrozza?»
«Ma tu stesso, ragazzo mio, perché diffidi di me?»
«E in che modo ho diffidato di voi?»
«In che modo? E lo domandi? Ci lasciammo al ponte del Varo, mi
dicesti che andavi in Piemonte e in Toscana, e, niente di tutto
questo, tu vieni a Parigi.»
«E in che cosa vi dà fastidio questo?»
«In niente spero anzi che mi sia utile!»
«Voi volete ricattarmi!» esclamò Andrea.
«Andiamo, ecco che già cominciamo coi paroloni…»
«Il fatto è che avete torto, padron Caderousse, e vi avviso.»
«Non t’incomodare… Devi però sapere che cos’è la sorte… Ebbene, la
sventura rende gelosi. Io ti credevo in giro per il Piemonte e la
Toscana, costretto a farti facchino, o cicerone, ti compiangevo dal
fondo del cuore come un figlio… Sai che ti ho sempre considerato
come un figlio…»
«Avanti, avanti…»
«Pazienta, dunque, polvere da cannone che sei!»
«Ne ho di pazienza. Orsù, terminate.»
«Ti vedo passare dalla barriera Bonshommes con uno stalliere, con un
tilbury, con abiti nuovi fiammanti… E che? Hai forse scoperto una
miniera, o comprato qualche agente di cambio?»
«Perciò, come confessate, siete geloso?»
«No, sono contento, tanto contento che ho voluto fare i complimenti
al mio piccolo; ma siccome non ero vestito come si deve, dato il tuo
nuovo rango ho preso le mie cautele per non comprometterti.»
«Belle cautele», ribatté Andrea. «Mi fermate davanti al domestico…»
«Che vuoi, figlio mio? Ti fermo quando posso afferrarti… Tu hai un
cavallo molto vivace, un tilbury molto leggero, guizzi naturalmente
come un’anguilla… Se non ti avessi fermato questa sera, correvo il
rischio di non poterti più raggiungere.»
«Vedete bene che non mi nascondo.»
«Sei ben fortunato, e io vorrei poter dire altrettanto; ma io mi
nascondo, senza contare che avevo timore che tu non mi riconoscessi…
Ma tu mi hai riconosciuto», aggiunse Caderousse con un sorriso
sinistro. «Sei molto gentile.»
«Vediamo», disse Andrea. «Che vi serve?»
«Non mi dai più del tu! È una cattiva cosa, Benedetto, un vecchio
compagno! Attento, perché diventerò esigente…»
Questa minaccia attenuò la collera del giovane; il vento della
prepotenza vi aveva soffiato sopra. Egli rimise il cavallo al
trotto.
«È male per te stesso, Caderousse», disse, «prendertela in tal modo
con un vecchio compagno, come dicevi tu stesso poco fa… Tu sei
marsigliese, io sono…»
«Lo sai dunque, ora, chi sei?»
«No, ma sono stato allevato in Corsica, tu sei vecchio e testardo,
io sono giovane e puntiglioso… Fra gente come noi le minacce non
vanno bene, e tutto deve risolversi on modo amichevole. È forse
colpa mia, se la sorte, che continua a essere cattiva per te, è al
contrario buona per me?»
«È dunque buona la sorte? Non è forse uno stalliere a prestito, non
è un tilbury a prestito quelli che abbiamo? Bene, tanto meglio»,
disse Caderousse, con occhi che brillavano di cupidigia.
«Lo vedi bene, e lo sai, giacché mi fermi», rispose Andrea
animandosi sempre più. «Se avessi avuto un fazzoletto come il tuo
sulla testa, una giacca unta e lacera sulle spalle e stivali rotti
ai piedi non mi avresti riconosciuto.»
«Vedi bene che ora mi disprezzi, piccolo, e hai torto: adesso che ti
ho ritrovato, niente m’impedisce d’essere vestito a nuovo come un
altro, visto che conosco il tuo buon cuore: se tu hai due abiti me
ne darai uno… Io ti davo la mia porzione di minestra e di fagioli
quando avevi troppa fame.»
«È vero», riconobbe Andrea.
«Che appetito avevi! Hai sempre buon appetito?»
«Ma sì», rispose Andrea ridendo.
«Come devi aver mangiato, da quel principe…»
«Non è un principe, ma soltanto un conte!»
«Un conte, ma ricco, eh?»
«Sì, ma non fidartene, è un signore che non ha l’aria dell’ingenuo.»
«Mio Dio, sta’ pur tranquillo! Non ho progetti sul tuo conte, e te
lo lascerò tutto per te solo. Ma», aggiunse Caderousse, riprendendo
quel sinistro sorriso, «bisogna dar qualche cosa per questo…
Capisci?»
«Vediamo, che ti occorre?»
«Credo che con cento franchi al mese…. vivrei…»
«Cento franchi?»
«Ma male, capisci bene… Mentre con…»
«Con…»
«Con centocinquanta franchi, sarei contentissimo.»
«Eccotene duecento», disse Andrea.
E mise nelle mani di Caderousse dieci luigi d’oro.
«Bene», fece Caderousse.
«Presentati dal portinaio, il primo di ogni mese, e ne avrai
altrettanti.»
«Andiamo, ecco che ancora tu mi umili.»
«E in che modo?»
«Mi metti in rapporto con dei servitori… Mentre, vedi, non voglio
avere a che fare che con te.»
«E così sia, domanda di me il primo di tutti i mesi, almeno fino a
tanto che riceverò la mia rendita, e tu riceverai la tua.»
«Andiamo, andiamo, vedo bene che non m’ero ingannato, sei un bravo
ragazzo, ed è una benedizione quando la fortuna arriva a gente come
te… Vediamo raccontami la tua bella avventura.»
«Che bisogno hai di saperla?» domandò Cavalcanti.
«Hai anche della diffidenza?»
«Ebbene, ho ritrovato mio padre.»
«Un padre vero?»
«Diavolo, fin che pagherà…»
«Tu lo crederai, e lo onorerai; giusto… Come lo chiami questo tuo
padre?»
«Il maggiore Cavalcanti.»
«Ed egli è contento di te?»
«Per il momento sì.»
«E chi ti ha fatto ritrovare questo padre?»
«Il conte di Montecristo.»
«Quello dal quale esci?»
«Sì.»
«Cerca di collocarmi presso di lui come un gran parente, visto che è
così munifico.»
«Sia, gli parlerò di te; ma intanto tu che farai?»
«Sei troppo buono a preoccuparti di questo», disse Caderousse.
«Mi sembra, dato che tu prendi interesse a me, che io possa prendere
qualche informazione», replicò Andrea.
«È giusto… Prenderò in affitto una camera in una casa onesta, mi
coprirò di abiti decenti, mi farò radere la barba tutti i giorni, e
andrò a leggere i giornali al caffè. La sera andrò in qualche
teatro, e avrò l’aspetto di un fornaio in ritiro: è il mio sogno
prediletto.»
«Benissimo! Se vorrai realizzare solo questi progetti e sarai
saggio, tutto andrà a meraviglia.»
«Ecco che ora mi fai da Bossuet!… E tu, che diventerai? Pari di
Francia?»
«Eh! eh!» ridacchiò Andrea. «Chissà?»
«Il signor Cavalcanti forse è maggiore… Ma disgraziatamente è
abolita l’eredità militare…»
«Non parliamo di politica, Caderousse!… E ora che hai ciò che vuoi,
e siamo arrivati, salta giù, e sparisci!»
«No, amico caro.»
«Come no?»
«Ma rifletti dunque, piccolo mio: un fazzoletto rosso sulla testa,
quasi senza scarpe, senza carte d’identità, e dieci napoleoni d’oro
in tasca, senza calcolare ciò che c’era prima, e che fanno
precisamente duecento franchi, sarei infallibilmente arrestato alla
barriera! Allora, per giustificarmi, sarei costretto a dire che sei
stato tu che mi hai dato questi dieci napoleoni… Subito
informazioni, interrogatori: apprendono che ho lasciato Tolone senza
il congedo, e vengo scortato di brigata in brigata fino alla
spiaggia del Mediterraneo, ritorno puramente e semplicemente il
numero centosei… Allora addio al mio sogno di somigliare a un
fornaio in ritiro! No, figlio mio, preferisco restare onorevolmente
nella capitale.»
Andrea si fece pensieroso. Era, come si vantava, una perfida testa,
il figlio putativo del maggiore Cavalcanti. Si fermò un momento,
gettò uno sguardo rapido intorno a sé, e quando terminò di compiere
il giro indagatore, la mano discese innocentemente nella tasca, dove
cominciò ad accarezzare la sicura di una pistola. Ma nel contempo
Caderousse, che non perdeva di vista il compagno, passava le mani
dietro il dorso, e apriva dolcemente un lungo coltello spagnolo che
portava addosso per ogni evenienza. I due amici, come si vede, erano
degni d’intendersi, e si compresero: la mano di Andrea uscì
inoffensiva dalla tasca e risali fino ai baffi che accarezzò per
qualche tempo.
«Buon Caderousse», riprese, «dunque stai contento!»
«Farò tutto il possibile per esserlo», replicò l’albergatore del
Ponte di Gard ripiegando la lama del coltello.
«Rientriamo dunque a Parigi. Ma come vuoi fare a passare la barriera
senza destare sospetti? Mi sembra che abbigliato così, rischi più in
carrozza che a piedi.»
«Aspetta», disse Caderousse, «e vedrai…»
Prese la pellegrina a colletto alto, che lo stalliere allontanato
dal tilbury aveva lasciata al suo posto, e se la mise indosso,
quindi il cappello di Cavalcanti, e se lo pose sulla testa: aveva
l’aspetto di un domestico di buona famiglia.
«E io», ribatté Andrea, «resterò senza niente in testa?»
«Bah!» fece Caderousse. «Tira tanto vento che ben può esserti caduto
il cappello.»
«Andiamo dunque», disse Andrea, «e finiamola.»
«E chi è che ti ferma?» scherzò Caderousse. «Non io, spero?»
«Zitto!» intimò Cavalcanti.
Passarono la barriera senza alcun inconveniente. Alla prima strada
traversa, Andrea fermò il cavallo, e Caderousse balzò a terra.
«Suvvia», disse Andrea, «il mantello del mio domestico, e il mio
cappello…»
«Amico», sibilò Caderousse, «non vorrai certamente che io mi
raffreddi.»
«Ma io?»
«Tu sei giovane, mentre io comincio a farmi vecchio… Arrivederci,
Benedetto.»
E infilatosi nel viottolo sparì.
«Ahimè!» sospirò Andrea. «Non si potrà dunque mai essere
completamente felice in questo mondo?»
64. Scena coniugale
Sulla piazza Luigi XV i tre giovani si erano separati: Morrel aveva
preso la via dei boulevard, Château-Renaud aveva svoltato sul ponte
di Grenelle, Debray aveva seguito la strada lungo il fiume.
Morrel e Château-Renaud, con ogni probabilità, raggiunsero i propri
«focolari domestici», come si dice dalla tribuna delle Camere nei
discorsi eloquenti, e al teatro della rue Richelieu nelle commedie
ben scritte; non fece lo stesso Debray. Arrivato nei pressi del
Louvre, svoltò a sinistra, attraversò il Carousel a gran trotto,
infilò per la rue Saint Roch, sboccò su quella della Michodière, e
giunse alla porta della signora Danglars al momento in cui il landau
del signor Villefort, dopo aver lasciato il procuratore del re e la
moglie nel Faubourg Saint-Honoré, si fermava per fare scendere la
baronessa alla sua abitazione.
Debray, nella sua qualità di familiare nella casa, entrò nel
cortile, affidò le redini nelle mani di uno stalliere, e ritornò
alla portiera a ricevere la signora Danglars, alla quale offrì il
braccio per ricondurla nei suoi appartamenti.
«Che cosa avete dunque, Hermine», domandò Debray, «e come mai vi
sentiste tanto male al racconto di questa storia, o piuttosto favola
del conte?»
«Fu perché dopo il pranzo ero terribilmente indisposta, amico mio»,
rispose la baronessa.
«Ma che dite, Hermine», riprese Debray, «non mi farete credere
questo; al contrario, eravate in perfette condizioni quando siete
giunta dal conte. Il signor Danglars era alquanto sguaiato, è vero,
ma so quanto caso facciate del suo malumore… Qualcuno deve avervi
disgustata. Raccontate, sapete bene ch’io non soffrirò mai che vi
sia fatta una qualche impertinenza.»
«Vi ingannate, Lucien, ve ne assicuro», insistette la signora
Danglars, «e le cose sono come vi ho detto: fu il cattivo umore di
cui non vi siete accorto, e di cui non vi ho parlato, credendo non
ne valesse la pena.»
Era palese che la signora Danglars si trovava sotto l’influsso di
una di quelle irritazioni nervose, di cui le donne spesso non sanno
rendersi conto, o, come aveva indovinato Debray, aveva provato
qualche emozione nascosta che non voleva confessare ad alcuno. Da
uomo assuefatto a riconoscere i malumori come uno degli elementi
della vita femminile, non volle insistere oltre, aspettando il
momento opportuno o di una nuova richiesta, o di una confessione
«motu proprio».
Sulla porta della camera la baronessa incontrò Cornélie, la sua
cameriera personale.
«Che fa mia figlia?» domandò la signora Danglars.
«Ha studiato tutta la sera», rispose Cornélie, «quindi è andata a
letto.»
«Mi sembrava d’avere udito suonare il pianoforte…»
«È la signorina Louise d’Armilly che suona, mentre la signorina è a
letto.»
«Bene», disse la signora Danglars, «venite a spogliarmi.»
Entrarono nella camera da letto, Debray si stese sopra un gran
canapè, e la signora Danglars passò con Cornélie nel salotto di
toilette.
«Mio caro Lucien», iniziò la signora Danglars attraverso la portiera
del salottino, «vi lamentate sempre perché Eugénie non vi rivolge la
parola.»
«Signora», disse Lucien, scherzando col cagnolino della baronessa,
che, riconoscendo in lui l’amico di casa, aveva l’abitudine di
fargli mille moine, «non sono il solo che faccia simili rimproveri,
e credo di aver inteso Morcerf lagnarsi l’altro giorno con voi, per
non poter cavare una sola parola di bocca alla sua fidanzata.»
«È vero», osservò la signora Danglars, «ma credo che una di queste
mattine cambierà tutto ciò, e voi vedrete Eugénie entrare nel vostro
ufficio.»
«Nel mio ufficio! Da me?»
«Vale a dire, in quello del ministro.»
«E per quale motivo?»
«Per chiedervi una scrittura all’Opéra. In verità non ho mai visto
un tale fanatismo per la musica… È ridicolo per una persona di buona
famiglia!»
Debray sorrise.
«E va bene», disse, «venga col consenso del barone e del vostro, e
noi le faremo questa scrittura secondo suo merito, sebbene troppo
poveri per pagare come si conviene un merito come il suo.»
«Andate, Cornélie», disse la signora Danglars, «non ho più bisogno
di voi.»
Cornélie uscì, e un momento dopo la signora Danglars lasciò la
toilette con un elegante abito da camera, e andò a sedersi accanto
Debray. Lucien la guardò per un momento in silenzio, poi disse:
«Vediamo, Hermine, rispondete francamente, qualche cosa v’importuna,
non è vero?»
«Nulla», ripeté la baronessa.
E tuttavia siccome si sentiva soffocare, si alzò, cercò di
sospirare, e andò a guardarsi in uno specchio.
«Ho una faccia da far paura questa sera», mormorò.
Debray si alzò sorridendo per rasserenare la baronessa su
quell’argomento, quando d’improvviso la porta si aprì, e comparve il
signor Danglars, Debray si rimise a sedere.
Al rumore della porta la signora Danglars si voltò, e guardò suo
marito con una meraviglia, che non si curò di dissimulare.
«Buonasera, signora», salutò il banchiere, «buonasera, signor
Debray.»
La baronessa credette senza dubbio che quella visita imprevista
significasse il desiderio di riparare alle amare parole ch’erano
sfuggite al barone nella giornata. Assunse un’aria dignitosa, e
voltandosi verso Lucien senza rispondere a suo marito: «Leggetemi
dunque qualche cosa, signor Debray».
Debray che per quell’improvvisata si era sulle prime alquanto
inquietato, si rimise alla calma della baronessa, e allungò la mano
verso il libro indicato, in mezzo al quale stava un tagliacarte di
tartaruga incrostato d’oro.
«Scusate», disse il banchiere, «ma vi stancherete, baronessa,
vegliando a ora così tarda: sono le undici, e il signor Debray abita
molto lontano di qui.»
Debray fu colto da stupore, non perché il tono di Danglars non fosse
tranquillo e gentile, ma perché dietro quella calma e quella
gentilezza, si scorgeva una certa velleità, del tutto insolita, di
contrariare la volontà della moglie. La baronessa pure fu sorpresa e
manifestò la sua meraviglia con uno sguardo che senza dubbio avrebbe
dato a pensare a suo marito, se questi non avesse posato gli occhi
su un giornale, su cui cercava il listino dei titoli. Quello sguardo
tanto fiero andò quindi a vuoto e non fece il suo effetto.
«Signor Lucien», replicò la baronessa, «sappiate che non ho la più
piccola volontà di dormire, che ho mille cose da raccontarvi questa
sera, e che voi passerete la notte ascoltandomi, doveste pur dormire
in piedi.»
«Sono ai vostri ordini», rispose flemmaticamente Lucien.
«Mio caro signor Debray», ribatté a sua volta il banchiere, «non vi
affaticate, vi prego, ad ascoltare questa notte le follie della
signora Danglars, perché le potrete ascoltare ugualmente anche
domani… Questa sera è per me, me la riserbo, e la consacrerò, se
permettete, per parlare di gravi interessi con mia moglie.»
Questa volta il colpo era tanto ben diretto, e cadeva come piombo in
modo che ne rimasero storditi la baronessa e Lucien: entrambi
s’interrogarono con lo sguardo come per chiedersi aiuto reciproco
contro quest’aggressione; ma l’irresistibile potere del padrone di
casa trionfò, e la forza rimase al marito.
«Non vogliate però credere che io vi scacci, mio caro Debray»,
continuò Danglars, «no, niente affatto; una circostanza imprevista
mi obbliga questa sera ad avere un colloquio con la baronessa, ciò
accade abbastanza di raro perché non si abbiano risentimenti.»
Debray balbettò qualche parola, salutò e uscì urtando negli angoli,
come Mathan nell’Athalie.
«È incredibile», disse quando fu chiusa la porta, «come questi
mariti, che pur troviamo tanto ridicoli, prendano facilmente il
sopravvento su noi!»
Partito Lucien, Danglars s’installò nel suo posto sul canapè, chiuse
il libro rimasto aperto, e prendendo un atteggiamento che voleva
essere disinvolto, continuò a scherzare col cagnolino. Ma siccome il
cane, non avendo per lui la stessa simpatia che per Lucien, lo
voleva mordere, lo prese per la collottola e lo posò dall’altra
parte della stanza sopra una poltrona. L’animale gettò un guaito, ma
poi si appiattì dietro un cuscino, e, stupefatto di questo
trattamento al quale non era avvezzo, rimase muto e immobile.
«Sapete, signore», cominciò la baronessa senza batter ciglio, «che
fate dei progressi! Ordinariamente non eravate che rozzo, questa
sera siete brutale.»
«È perché questa sera sono di cattivo umore più del solito», rispose
Danglars.
Hermine guardò il banchiere con sommo sdegno; ordinariamente queste
occhiate esasperavano l’orgoglioso Danglars, ma questa sera sembrava
appena farvi attenzione.
«E che importa a me del vostro cattivo umore?» rispose la baronessa,
irritata dall’impassibilità di suo marito. «Tali cose mi riguardano
forse? Chiudete i vostri cattivi umori nel vostro appartamento, o
lasciateli sui vostri banchi di pegno, e poiché avete dei commessi
che pagate, sfogate su loro i vostri cattivi umori.»
«No», rispose Danglars, «siete fuori strada coi vostri consigli,
signora, e non li seguirò. I miei banchi sono il mio Pattolo,4 come
dice, credo, Desmoutiers, e non voglio né ostacolare il lavoro né
turbarne la quiete; i miei commessi sono uomini onesti, che mi fan
guadagnare fior di quattrini, e che pago al di sotto di quel che
meritano. Non posso dunque essere in collera con loro. Sono invece
in collera con le persone che mangiano i miei pranzi, che storpiano
i miei cavalli e rovinano il mio bilancio.»
«E chi sono dunque queste persone che rovinano il vostro bilancio?
Spiegatevi più chiaramente, signore, ve ne prego.»
«State tranquilla se parlo per enigmi, non conto di farvi cercare a
lungo il significato delle mie parole», riprese Danglars. «Le
persone che rovinano il mio bilancio sono quelle che vi rapinano
cinquecentomila franchi in un’ora.»
«Non vi capisco», disse la baronessa cercando di nascondere la forte
emozione della voce, e il rossore del suo viso.
«Voi al contrario mi capite benissimo», ribatté Danglars, «ma se
continuate a fingere di non comprendere, vi dirò che ho perduto
settecentomila franchi sul prestito spagnolo.»
«Ah!» fece la baronessa beffeggiandolo. «Sono io forse che rendete
responsabile di questa perdita?»
«E perché no?»
«È colpa mia se avete perduto settecentomila franchi?»
«In ogni modo non è stata mia.»
«Una volta per tutte, signore», riprese aspramente la baronessa, «vi
ho detto di non parlarmi mai di bilancio… Questo è un linguaggio che
non ho imparato né presso i miei parenti, né nella casa del mio
primo marito.»
«Lo credo bene», replicò Danglars, «non avevano un soldo né gli uni,
né l’altro!»
«Ragione di più che non abbia potuto imparare da essi il gergo della
banca, che qui mi strazia le orecchie dalla mattina alla sera!
Questo rumore di scudi, che si contano e ricontano, m’è odioso, e
non so se vi sia suono più disgustoso di quello, se si eccettua la
vostra voce.»
«A dire il vero», riprese Danglars, «mi riesce strano! Credevo che
voi pigliaste interesse alle mie operazioni!»
«Io! E chi ha potuto farvi credere simile sciocchezza?»
«Voi stessa.»
«Ah, questa poi!»
«Senza dubbio.»
«Vorrei proprio che mi faceste sapere in quale occasione…»
«È cosa facile. Nel febbraio scorso mi avete parlato per prima dei
fondi d’Haiti… Avete sognato che un bastimento entrava nel porto di
Le Havre portando la notizia che un pagamento che si credeva
rinviato, si sarebbe effettuato: conoscendo la lucidità del vostro
senno feci dunque comprare sottomano tutte le polizze che ho potuto
trovare del debito d’Haiti, e ho guadagnato quattrocentomila franchi
di cui ve ne sono stati regolarmente rimessi cento. Voi ne avete
fatto ciò che avete voluto, e questo non mi riguarda. Nel mese di
marzo si parlava della concessione di una ferrovia. Si presentavano
tre società offrendo eguali garanzie. Voi mi diceste che il vostro
istinto (e sebbene vi crediate estranea alle speculazioni, credo
invece il vostro istinto molto sviluppato in certe materie) vi
faceva credere che il privilegio sarebbe stato accordato alla
società del Mezzogiorno. Io mi sono fatto comprare i due terzi delle
azioni di questa società. Il privilegio le fu in realtà accordato;
come avevo previsto, le azioni hanno triplicato il loro valore, e io
ho incassato un milione, sul quale vi sono stati retribuiti
duecentocinquantamila franchi. Come avete impiegati questi
duecentocinquantamila franchi? Ciò non mi riguarda affatto.»
«E dove volete andare a parare signore?» gridò la baronessa fremendo
di dispetto e d’impazienza.
«Pazienza, signora, ci arriverò.»
«È una fortuna!»
«In aprile andaste a pranzo dal ministro, si parlò della Spagna, voi
ascoltaste una conversazione segreta; si trattava di vari affari; io
comprai dei fondi spagnoli. L’espulsione si effettuò, e il giorno in
cui Carlo V ripassò la Bidassoa, io guadagnai seicentomila franchi,
e vi furono pagati mille scudi; essi erano vostri, e ne avete
disposto a seconda della vostra fantasia, e io non ve ne domando
conto. Ma non è meno vero che voi avete ricevuto quest’anno
cinquecentomila franchi…»
«Ebbene, il seguito signore?»
«Ah sì, il seguito! È proprio in seguito che la cosa diventa
scottante…»
«Voi avete certi modi di parlare… in verità…»
«Esprimono le mie idee, e ciò è quanto mi abbisogna… In seguito, fu
tre giorni fa che questo accadde… Tre giorni fa dunque, avete
parlato di politica al signor Debray e avete creduto di capire dalle
sue parole che Don Carlo era rientrato in Spagna: allora io vendo le
mie cartelle, la notizia si spande, sorge un timor panico, non vendo
più, regalo: l’indomani si viene a sapere che la notizia era falsa,
e sopra questa falsa notizia ho perduto settecentomila franchi.»
«Ebbene?»
«Suvvia, poiché vi regalo un quarto quando guadagno, mi dovete
dunque un quarto quando perdo; il quarto di settecentomila franchi è
centosessantacinquemila franchi.»
«Ma questa è una stravaganza, e non vedo come potete mischiare il
nome di Debray a tutta questa storia.»
«Perché, se non aveste per caso i centosessantacinquemila franchi
che reclamo, li potreste prendere in prestito dai vostri amici, e il
signor Debray è uno di loro.»
«Finiamola!» gridò la baronessa.
«Oh, signora, non facciamo gesti, non facciamo drammi moderni, se no
mi obbligherete a dirvi che di qui vedo il signor Debray sogghignare
vicino ai cinquecentomila franchi che voi gli avete donato
quest’anno, e dire a se stesso che ha finalmente trovato ciò che non
hanno trovato i più esperti giocatori, e vale a dire una roulette su
cui si guadagna senza puntare, e non si perde quando si punta.»
La baronessa non si contenne.
«Miserabile!» gridò ancora. «Osereste dire che non sapevate ciò di
cui ora mi fate un rimprovero?»
«Non vi dico che sapevo, né che non sapevo… Vi dico: osservate la
mia condotta da quattro anni che siete mia moglie, e che io non sono
più vostro marito, e vedrete se fu sempre conseguente. Qualche tempo
prima della nostra rottura, avete desiderato studiare musica con
quel famoso baritono che ebbe tanto successo nel teatro italiano; io
volli studiare il ballo con quella famosa ballerina che fece tanto
chiasso a Londra: ciò mi costò, tanto per voi che per me, circa
centomila franchi… Non ho detto nulla perché ci vuole l’armonia
nelle famiglie: centomila franchi perché la moglie impari a fondo la
musica, e il marito il ballo, non è molto caro. Ben presto eccovi
disgustata del canto, e vi vien voglia di studiare la diplomazia con
un segretario del ministro; vi lascio studiare… D’altra parte, non è
affar mio, visto che pagate di tasca vostra! Ma ora m’accorgo che
avete preso di mira la mia, e che il vostro studio mi può costare
settecentomila franchi il mese… Altolà, signora, la cosa non può
andare avanti così, o il diplomatico darà le sue lezioni gratuite, e
io lo tollererò, ovvero non metterà più piede in casa mia! Ci siamo
capiti, signora?»
«Questo è troppo!» gemette Hermine soffocata. «Voi andate al di là
dell’ignobile!»
«Ma», riprese Danglars, «vedo con piacere che non vi siete fermata
qua, e che avete volontariamente obbedito all’assioma del codice:
“La moglie deve seguire il marito”.»
«Ingiurie!»
«Avete ragione; ma ragioniamo freddamente. Io non mi sono mai
mischiato nei vostri affari che per il vostro bene; farete voi pure
altrettanto. La mia cassa, voi dite che non vi riguarda? Sia, ma
operate con la vostra, e non riempite, né vuotate la mia. D’altra
parte, chi sa che ciò non sia un colpo di stiletto politico? Che il
ministro furioso di vedermi all’opposizione, e geloso delle simpatie
popolari che suscito, non se la intenda col signor Debray per
rovinarmi?»
«E come può essere possibile?»
«Chi ha mai visto una notizia telegrafica falsa, cioè il quasi
impossibile, dei segnali diversi dati dagli ultimi due uffici? Ciò
senza dubbio è stato fatto espressamente per me.»
«Signore», disse più umilmente la baronessa, «voi non ignorate che
quest’impiegato è stato cacciato, e sarebbe stato chiamato in
giudizio se non si fosse salvato con la fuga, il che prova la sua
follia, o la sua reità… È stato un errore.»
«Sì, che ha fatto ridere gli stupidi, che ha fatto passare una
cattiva notte al ministero, che ha fatto coprire di nero molta carta
ai segretari di Stato, ma che a me costa settecentomila franchi.»
«Ma, signore», riprese d’improvviso Hermine, «poiché tutto ciò
deriva, a quanto sembra, dal signor Debray, perché invece di dirlo a
lui direttamente, lo dite a me?»
«Conosco forse il signor Debray, io? Lo voglio forse conoscere?
Voglio forse sapere se dà dei consigli? Li seguo forse? Arrischio io
forse? Voi fate tutto questo, e non io!»
«Mi sembra però, che dal momento che ne approfittate…»
Danglars si strinse nelle spalle.
«Sono assai pazze creature queste donne che si credono geni perché
hanno saputo condurre una decina d’intrighi in modo da non essere
esposte alle chiacchiere di tutta Parigi! Ma pensate dunque, se
aveste nascosto le vostre sregolatezze allo stesso vostro marito,
che è all’abicì dell’arte, perché i mariti non vogliono vedere…
Sareste stata una pallida copia di ciò che sono la metà delle vostre
amiche, le donne di mondo. Ma non è così per me. Io ho visto, e ho
visto sempre, in sedici anni circa, voi forse mi avrete nascosto un
pensiero, ma non un passo, non un atto, uno sbaglio. Mentre vi
applaudivate della vostra furberia, e credevate fermamente
d’ingannarmi, che cosa ne risultò? Che grazie alla mia pretesa
ignoranza, dal signor Villefort fino al signor Debray, non vi fu mai
uno dei vostri amici che non tremasse davanti a me; non ve ne fu uno
che non mi trattasse da padrone di casa, mia unica pretesa verso di
voi finalmente non ve ne fu uno che abbia osato dirvi di me ciò che
vi dico io stesso questa sera. Io vi permetto di rendermi odioso, ma
v’impedirò di rendermi ridicolo, e in particolare vi proibisco
positivamente, e sopra ogni altra cosa, di rovinarmi.»
Fino al momento in cui fu pronunciato il nome di Villefort la
baronessa aveva sostenuta una ferma apparenza; ma a quel nome era
impallidita, e alzandosi come mossa da una molla, aveva steso le
braccia come per scongiurare un’apparizione, e fatti tre passi verso
suo marito, come per strappargli quel segreto a lui ignoto, ma che
forse, per qualche odioso secondo fine, come presso a poco erano
tutti i calcoli di Danglars, non voleva lasciarsi sfuggire
completamente.
«Il signor Villefort! Che significa ciò?» domandò la baronessa.
«Vuol significare», riprese Danglars, «che il signor di Nargonne,
vostro primo marito, non essendo né un filosofo, né un banchiere, e
forse essendo l’uno e l’altro, e vedendo che non vi era da cavare
alcun partito da un procuratore del re, è morto dal dispiacere e
dalla collera di avervi ritrovata incinta di sei mesi, dopo nove
mesi di lontananza… Ma io sono troppo brutale, non solamente lo so,
ma me ne vanto; è uno dei miei espedienti nelle mie speculazioni di
commercio… Perché invece di uccidere si fece uccidere? Perché non
aveva un bilancio da salvare, ma io mi devo conservare per il mio
bilancio. Il signor Debray, mio socio, mi ha fatto perdere
settecentomila franchi: che egli sopporti la sua porzione di
perdita, e noi continueremo i nostri affari; se no, si dichiari
fallito per questi centosessantacinquemila franchi, e sparisca… È un
grazioso giovane, lo so, quando le sue notizie sono esatte; ma
quando non lo sono, ve ne sono cinquanta al mondo che valgono più di
lui!»
La signora Danglars era atterrita, eppure fece un estremo sforzo per
rispondere a questo ultimo assalto. Ma cadde sopra un divano
pensando a Villefort, alla scena del pranzo, a quella strana serie
di disgrazie che da qualche giorno piombavano una dopo l’altra sulla
sua casa, e convertivano in scandalosi litigi la perfetta quiete
della sua famiglia.
Danglars non la guardò neppure, sebbene lei facesse tutto quel che
poteva per svenire. Aprì la porta della camera da letto
senz’aggiungere altra parola, e ritornò nel suo appartamento. Di
modo che la signora Danglars, rinvenendo dal suo semisvenimento,
poté credere che aveva soltanto fatto un cattivo sogno.
65. Progetti di matrimonio
Il giorno dopo, all’ora che Debray aveva l’abitudine di scegliere
per andare a fare una piccola visita alla signora Danglars nel
recarsi al suo ufficio, il suo coupé non apparve nel cortile.
A quell’ora, ovvero mezz’ora dopo mezzogiorno, la signora Danglars
ordinò la sua carrozza e uscì; Danglars, nascosto dietro una tenda,
aveva spiato quell’uscita che s’aspettava. Dette l’ordine d’essere
avvertito appena fosse ritornata la signora; ma alle due non era
ancora rientrata. Allora, richiesta la sua carrozza, raggiunse la
Camera e si fece iscrivere per parlare contro il «preventivo delle
spese». Da mezzogiorno fino alle due Danglars era rimasto nel suo
ufficio dissigillando dispacci, e diventando sempre più tetro,
ammassando cifre, e ricevendo visite, fra le altre quella del
maggiore Cavalcanti, che si presentò all’ora annunciata il giorno
prima per concludere il suo affare col banchiere.
Di ritorno dalla Camera, Danglars, che aveva dati molti segni di
grande agitazione durante la seduta, e che soprattutto era stato più
acido che mai contro il ministero, risalì in carrozza, e ordinò al
cocchiere di condurlo all’ingresso degli Champs-Elysées al numero
30.
Montecristo si trovava a casa, soltanto aspettava una persona, e
pregava Danglars di attenderlo un momento nel salone. Mentre il
banchiere aspettava, la porta si aprì e vide entrare un uomo vestito
da abate che, invece d’aspettare come lui, più familiare senza
dubbio alla casa, lo salutò, ed entrando nell’interno degli
appartamenti, sparì. Un attimo dopo, la porta per la quale era
entrato il prete, si riaprì e comparve Montecristo.
«Mi scusi», disse, «caro barone, ma uno dei miei buoni amici,
l’abate Busoni, che avete potuto veder passare, è giunto a Parigi.
Era molto tempo che eravamo divisi, e non ho avuto il coraggio di
lasciarlo subito… Spero perciò che mi scuserete di avervi fatto
aspettare.»
«Come?» disse Danglars. «È una cosa naturale! Sono io che ho scelto
male il momento. E mi ritiro.»
«Niente affatto, anzi, al contrario, sedetevi. Ma, buon Dio! Avete
un aspetto molto pensieroso, in verità mi spaventate: un capitalista
afflitto è come una cometa, presagisce sempre qualche gran disgrazia
al mondo.»
«Mio caro signore, la cattiva fortuna pesa su me da qualche giorno,
e non ricevo che pessime notizie!»
«Avete forse avuto qualche altra perdita in borsa?»
«No, ne sono guarito, almeno per qualche giorno. Si tratta
semplicemente di un fallimento a Trieste.»
«Davvero? Il banchiere fallito sarebbe fosse Jacopo Manfredi?»
«Esattamente! Un uomo che ogni anno, non so da quanto tempo, faceva
affari con me per otto o novecentomila franchi. Mai uno sbaglio, un
ritardo, un uomo perbene che pagava… come un principe… che paga. Mi
metto in credito di un milione con lui e il mio diavolo non vuole
che Jacopo Manfredi sospenda i pagamenti?»
«Davvero?»
«È una fatalità inaudita. Faccio una tratta sopra lui per
seicentomila franchi che ritornano senz’essere pagate, e di più sono
ancora pagabili alla fine del corrente mese dal suo corrispondente
di Parigi: siamo al 30, mando a riscuoterle… sì! Il corrispondente è
sparito! Col mio affare di Spagna, fa un bel fine di mese…
«Ma è stata davvero una perdita il vostro affare di Spagna?»
«Nient’altro che settecentomila franchi fuori cassa.»
«Come diavolo avete mai fatto un simile errore, voi, vecchio
conoscitore del mestiere?»
«Incredibile! È stata colpa di mia moglie. Ha sognato che Don Carlo
era tornato in Spagna, e crede ai sogni. È magnetismo, dice lei, e
quando sogna una cosa, questa cosa, assicura, deve infallibilmente
accadere. Su questa convinzione io le permetto di arrischiare; lei
ha la sua cassetta e il suo agente di cambio, perde… È vero che non
è denaro mio, ma suo, quello con cui rischia, ma non importa.
Capirete che quando escono settecentomila franchi dalla cassetta
della moglie, il marito ne patisce sempre un poco. Come, non lo
sapevate? La cosa ha fatto un enorme rumore…»
«È vero, ne avevo inteso parlare, ma non ne conoscevo i particolari;
e poi non si può essere più ignorante di me in questi affari di
borsa.»
«E voi non rischiate mai?»
«Io? E come volete che arrischi se ho già tanti guai nel tenere in
piedi le mie rendite? Sarei costretto oltre il mio intendente, a
prendere un commesso e un cassiere. Ma a proposito di Spagna, mi
sembra che la baronessa non avesse del tutto sognato il ritorno di
Don Carlo. I giornali non hanno detto qualche cosa su questo
argomento?»
«Voi dunque credete ai giornali!»
«Io? Niente affatto! Ma mi sembrava che questo onesto “Messager”
facesse eccezione alla regola e non annunciasse che notizie certe,
le notizie telegrafiche.»
«Ecco ciò che è inspiegabile», riprese Danglars. «Appunto il ritorno
di Don Carlo era una notizia telegrafica.»
«Di modo che», continuò Montecristo, «in questo mese perdete circa
un milione e settecentomila franchi.»
«Non circa, è proprio la cifra che perdo.»
«Diavolo, per una fortuna di terz’ordine», disse Montecristo,
«questo è un brutto colpo.»
«Di terz’ordine?» ribatté Danglars, «che diavolo intendete dire?»
«Certamente», continuò Montecristo. «Io divido i ricchi in tre
categorie: fortune di primo ordine, fortune di secondo ordine,
fortune di terzo ordine. Chiamo di primo ordine quelle che si
compongono di tesori che si hanno sotto le mani, le terre, le
miniere, le rendite sui grandi Stati come la Francia, l’Austria, e
l’Inghilterra, purché questi tesori, queste miniere, queste rendite
formino un totale di un centinaio di milioni; chiamo fortune di
second’ordine le imprese manifatturiere, le imprese di associazione,
i vice-reami, i principati, che non sorpassano un milione e
centomila franchi di rendita, il tutto formante un capitale di un
cinquanta milioni, infine, chiamo fortune di terzo ordine i capitali
fruttiferi per interessi composti, i guadagni dipendenti dall’altrui
volontà, o dalle combinazioni della sorte, che un fallimento
danneggia e una notizia telegrafica rovina; le banche, le
speculazioni eventuali le operazioni sottomesse a quelle
combinazioni della fatalità, che si potrebbe chiamare forza
sotterranea, paragonandola alla maggiore che è la forza naturale, il
tutto formante un capitale fittizio, o reale di un quindici milioni
circa. Non è questa la vostra posizione?»
«Purtroppo, sì», rispose Danglars.
«Ne risulta che, con sei fine mese come questo» continuò
Montecristo, «una casa di terzo ordine si troverebbe all’agonia.»
«Oh», gemette Danglars, con un sorriso molto pallido, «come fate
presto!»
«Mettiamo sette mesi», incalzò Montecristo nel medesimo tono.
«Ditemi: avete mai pensato qualche volta che sette volte un milione
e settecentomila franchi fanno dodici milioni circa?… No?… Ebbene,
avete ragione, perché con simili riflessioni, non s’impegnerebbero
mai i propri capitali, che sono per il finanziere ciò che è la pelle
per l’uomo. Noi abbiamo i nostri abiti più o meno sontuosi, questo è
il nostro credito. Ma quando l’uomo muore non ha che la sua pelle,
di modo che uscendo dagli affari non avete che il vostro capitale
reale, cinque o sei milioni al più: poiché le fortune di terz’ordine
non rappresentano che il terzo o il quarto delle loro apparenze,
come la locomotiva della ferrovia, che svanito il fumo che l’avvolge
e l’ingrandisce, rimane una macchina più o meno forte. Ebbene, su
questi cinque o sei milioni che formano il vostro attivo reale, ne
avete perduti circa due, che diminuiscono d’altrettanto la vostra
fittizia fortuna, o il vostro credito: vale a dire, mio caro
Danglars, che la vostra pelle è stata aperta da un salasso che
replicato quattro volte porterebbe la morte. Eh, eh, fate
attenzione… Avete bisogno di denaro? Volete che ve ne presti?»
«Siete un cattivo calcolatore!» gridò Danglars, chiamando in suo
soccorso tutta la filosofia e tutta la dissimulazione. «A quest’ora
il denaro è già rientrato nel mio scrigno con altre speculazioni
riuscite. Il sangue esce per i salassi, e rientra con la nutrizione:
ho perduto una battaglia in Spagna, sono stato battuto a Trieste, ma
la mia armata navale delle Indie avrà preso qualche galeone, i miei
minatori del Messico avranno scoperto qualche miniera.»
«Benissimo! benissimo! Ma la cicatrice resta, e alla prima perdita
si riaprirà.»
«No, perché io cammino sulle certezze», continuò Danglars con
l’eloquenza giocosa del ciarlatano, che cerca d’innalzare il suo
credito. «Per rovesciare il mio credito bisognerebbe che crollassero
tre governi.»
«È accaduto.»
«Che la terra manchi di raccolto…»
«Ricordatevi le sette vacche grasse, e le sette vacche magre.»
«…O che il mare si ritirasse come ai tempi di Faraone! E poi vi sono
molti mari, e ai miei vascelli non accadrebbe altro se non di
divenire carovane…»
«Tanto meglio, caro signor Danglars», disse Montecristo, «e io vedo
che mi ero sbagliato, e che voi rientrate nelle fortune di secondo
ordine.»
«Credo di potere aspirare a questo onore», dichiarò Danglars con uno
di quei sorrisi composti che facevano a Montecristo l’effetto di una
di quelle lune impiastricciate di cui i cattivi pittori intonacano
le loro rovine. «Ma giacché stiamo parlando d’affari», aggiunse,
contento di trovare questo mezzo per cambiare la conversazione,
«ditemi dunque ciò che posso fare per il signor Cavalcanti.»
«Dargli del denaro, se ha su voi un credito che vi sembri buono.»
«Eccellente! Si è presentato questa mattina con una cambiale di
quarantamila franchi pagabile a vista sopra di voi, firmata Busoni,
e rimandata da voi a me con la vostra girata… Capirete che gli ho
contato subito quaranta biglietti da mille.»
Montecristo fece un segno di assenso.
«Ma non è tutto», continuava Danglars. «Egli ha aperto a suo figlio
un credito presso di me.»
«E quanto, se non sono indiscreto, ha assegnato al giovane?»
«Cinquemila franchi al mese.»
«Sessantamila franchi l’anno. Io ne dubitavo…» commentò Montecristo
alzando le spalle. «Sono veri spilorci i Cavalcanti… Che può fare un
giovane con cinquemila franchi al mese?»
«Ma capirete che se il giovane ha bisogno di qualche migliaio di
franchi in più…»
«Non ne fate niente, il padre li lascerebbe in conto vostro! Non
conoscete questi milionari d’oltralpe: sono veri Arpagoni. E da chi
vi fu aperto il credito?»
«Dalla casa Fenzi, una delle migliori di Firenze.»
«Non voglio dire che ci perderete, ma tenete i vostri conti negli
stretti limiti della lettera.»
«Non avreste dunque fiducia in questi Cavalcanti?»
«Darei dieci milioni sulla loro firma. La loro fortuna entra in
quelle di second’ordine di cui vi parlavo, mio caro Danglars…»
«È tanto semplice, che lo avrei preso per un maggiore e niente di
più!»
«E voi gli avreste fatto onore, perché avete ragione, egli non tiene
alle apparenze. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha fatto
l’effetto di un sottotenente ammuffito sotto le spalline. Ma tutti
questi tipi somigliano molto a vecchi ebrei, quando non risplendono
come i magi d’Oriente.»
«Il giovane è migliore», disse Danglars.
«Sì, forse un po’ timido, ma in sostanza mi è sembrato educato. Io
ne ero un poco inquieto.»
«E perché?»
«Perché voi lo avete visto al suo primo ingresso in società, almeno
mi è stato detto. Prima viaggiava con un precettore severissimo, e
non era mai venuto a Parigi.»
«Tutti questi italiani della nobiltà hanno l’abitudine di
imparentarsi fra loro, non è vero?» domandò negligentemente
Danglars. «Essi amano accumulare le loro fortune.»
«Di solito fanno così, è vero, ma Cavalcanti è un originale che non
fa niente come gli altri. Nessuno mi toglie l’idea che abbia mandato
in Francia suo figlio perché vi trovi moglie.»
«Lo credete?»
«Ne sono sicuro.»
«E avete sentito parlare della sua rendita?»
«Non si parla che di ciò in Italia… gli uni li accreditano di
milioni, altri pretendono che non posseggano un soldo.»
«E la vostra opinione?»
«Non bisogna farvi sopra alcun fondamento, essendo del tutto
personale.»
«Ma infine…»
«La mia opinione è che tutti questi vecchi podestà, tutti questi
antichi condottieri, poiché questi Cavalcanti hanno comandato degli
eserciti, hanno comandato delle province, la mia opinione, dicevo, è
che abbiano seppellito dei milioni in luoghi conosciuti soltanto dai
loro antenati, e che rivelano ai loro primogeniti, di generazione in
generazione, e la prova è che sono tutti gialli e secchi come i loro
fiorini dei tempi della repubblica, di cui conservano il riverbero a
forza di guardarli.»
«Proprio così», annuì Danglars, «e ciò è tanto vero in quanto non si
sa se abbiano un palmo di terra loro…»
«Almeno molto poco; non conosco dei Cavalcanti che il solo palazzo
che hanno in Lucca.»
«Ah, hanno un palazzo?» disse ridendo Danglars. «È già qualcosa.»
«Sì, e anche lo danno in affitto al ministro delle Finanze, mentre
il vecchio Cavalcanti abita in una casetta. Ve l’ho già detto, credo
il buon uomo avaro…»
«Andiamo, andiamo, voi non l’adulate per niente.»
«Ascoltate, lo conosco appena; credo di averlo visto tre volte in
vita mia… Ciò che so, è da parte dell’abate Busoni, e da lui stesso…
Mi parlava, questa mattina, dei suoi progetti per suo figlio, e mi
lasciava intravedere che stanco di veder dormire dei capitali
considerevoli in Italia, vorrebbe trovare un mezzo sia in Francia
sia in Inghilterra, di far fruttare i suoi milioni. Ma, notate bene,
che sebbene io abbia la più gran fiducia nell’abate Busoni,
personalmente non rispondo di niente.»
«Non importa, grazie del cliente che mi avete procurato: questo è un
gran bel nome da iscrivere sui miei registri; e il mio cassiere, a
cui ho spiegato chi erano i Cavalcanti, ne va superbo. A proposito,
e questa è una semplice domanda: quando questi personaggi danno
moglie ai figlioli, assegnano loro una dote?»
«Secondo le circostanze… Ho conosciuto un principe italiano ricco
come una miniera d’oro, uno dei primi nomi della Toscana, che quando
i figli si ammogliavano a suo genio, assegnava loro dei milioni, e
quando lo facevano contro il suo beneplacito, si contentava di
assegnar loro una rendita di trenta scudi al mese. Ammettiamo che
Andrea si ammogli secondo le vedute di suo padre, allora gli
assegnerà forse uno, due, tre milioni. Se ciò fosse con la figlia di
un banchiere, per esempio, forse prenderebbe un interesse nella casa
del suocero di suo figlio… Ma supponete che la nuora gli
dispiacesse… Buonanotte! Il padre Cavalcanti mette mano alla chiave
dello scrigno, dà un doppio giro alla serratura, ed ecco mastro
Andrea obbligato a vivere come un figlio di papà parigino, segnando
le carte, o giocando a dadi falsi.»
«Questo giovane troverà una principessa bavarese o peruviana, vorrà
una corona chiusa, un Eldorado.»
«No, tutti questi gran signori dall’altra parte dei monti sposano
frequentemente delle semplici mortali. Ma perché mi fate tutte
queste domande, caro signor Danglars? Avete forse intenzione di
sistemare Andrea?»
«In fede mia, non mi sembrerebbe una cattiva speculazione, e io sono
uno speculatore.»
«Ma non con la signorina Danglars, presumo: vorreste fare scannare
questo povero Andrea da Albert?»
«Albert…» disse Danglars alzando le spalle. «Egli se ne cura ben
poco!»
«Ma è fidanzato a vostra figlia, credo?»
«Cioè, il signor Morcerf e io abbiamo qualche volta parlato di
questo matrimonio, ma la signora Morcerf e Albert…»
«Non mi direte che non è un buon partito?»
«La signorina Danglars val bene un Morcerf, mi sembra!»
«La dote della signorina Danglars sarà straordinaria, e non ne
dubito, particolarmente se il telegrafo non fa nuove pazzie.»
«Non è soltanto la dote… Ma a proposito, ditemi dunque?»
«Cosa?»
«Per quale motivo non avete invitato al vostro pranzo Morcerf e la
sua famiglia?»
«Lo avevo già fatto, ma si è scusato per un viaggio a Tréport con la
signora Morcerf, alla quale è stato raccomandato di respirare l’aria
di mare.»
«Sì, sì», disse Danglars, ridendo, «quell’aria le deve far bene…»
«E perché?»
«Perché è l’aria che ha respirato nella sua gioventù.»
Montecristo lasciò cadere l’indiscrezione senza mostrare di avervi
fatto attenzione.
«Ma tuttavia», riprese il conte, «se Albert non è così ricco come la
signorina Danglars, non potete però negare che non porti un bel
nome?»
«Sia, ma io amo altrettanto il mio, che non vale di meno», replicò
Danglars.
«Certamente il vostro nome è popolare, e ha ornato il titolo di cui
si è creduto ornarlo; ma siete un uomo troppo intelligente per non
aver compreso che, per alcuni pregiudizi troppo profondamente
radicati, una nobiltà di cinque secoli vale molto più di una nobiltà
di venti anni.»
«Ed ecco precisamente il perché», disse Danglars, con un sorriso che
si sforzava di rendere sardonico, «ecco perché io preferirei il
signor Andrea Cavalcanti ad Albert Morcerf.»
«Io non credo», obiettò Montecristo, «che i Morcerf la cedano ai
Cavalcanti…»
«I Morcerf!? Sentite, mio caro conte, siete un galantuomo, non
vero?»
«Lo credo.»
«E in più conoscitore di blasoni?»
«Un poco.»
«Ebbene, guardate il colore del mio; è più solido di quello di
Morcerf.»
«E perché?»
«Perché, se io non sono barone di nascita, almeno mi chiamo
Danglars.»
«E poi?»
«Mentre lui non si chiama Morcerf.»
«Come, non si chiama Morcerf?»
«Niente affatto.»
«Eh via, dunque!»
«Io da qualcuno sono stato fatto barone, di modo che lo sono; egli
si è fatto conte da sé, per cui non lo è.»
«Impossibile!»
«Ascoltate, mio caro conte», continuò Danglars, «il signor Morcerf è
mio amico, o piuttosto una mia conoscenza di trent’anni… Sapete che
faccio poco conto dei miei stemmi, poiché non ho mai dimenticato da
dove sono partito…»
«Questa è una prova», disse Montecristo, «o di grande umiltà, o di
grande orgoglio.»
«Ebbene, quando io ero semplice commesso, Morcerf era semplice
pescatore.»
«E allora si chiamava?»
«Fernando.»
«E poi?»
«Fernando Mondego.»
«Ne siete sicuro?»
«Perbacco, mi ha venduto abbastanza pesce perché lo conosca.»
«Allora perché volevate dargli vostra figlia?»
«Perché Fernando e Danglars erano due nobili, due ricchi, due
fortunati di fresca data, in fondo uno valeva l’altro, se si
eccettuano alcune cose che si sono dette di lui, e che non si sono
mai potute dire di me.»
«Cosa dunque?»
«Niente.»
«Ora capisco, ciò che dite mi rinfresca la memoria a proposito del
nome di Fernando Mondego. L’ho sentito in Grecia.»
«A proposito dell’affare di Alì Pascià?»
«Precisamente.»
«Ecco il mistero», riprese Danglars, «e vi confesso che avrei pagato
molto per scoprirlo.»
«Non era difficile, se ne aveste avuto voglia.»
«E in che modo?»
«Senza dubbio avrete qualche corrispondente in Grecia…»
«Si capisce!»
«A Giannina?»
«Ne ho dappertutto.»
«Ebbene, scrivete al vostro corrispondente di Giannina, e
domandategli quale parte ha avuta nella catastrofe di Alì Tebelen un
uomo chiamato Fernando.»
«Avete ragione!» esclamò Danglars alzandosi con vivacità. «Scriverò
oggi stesso.»
«Fatelo.»
«Vado a scrivere.»
«E se avete qualche notizia scandalosa…»
«Ve la comunicherò.»
«Mi farete un piacere.»
Danglars si slanciò fuori dall’appartamento, e non fece che correre
fino alla sua carrozza.
66. L’ufficio del procuratore del re
Ora lasciamo il nostro banchiere andarsene al passo rapido dei suoi
cavalli, e occupiamoci della signora Danglars nella sua escursione
mattutina. Circa mezz’ora dopo mezzogiorno, aveva ordinato i cavalli
e quindi era uscita in carrozza. Si diresse verso il Faubourg
Saint-Germain, imboccò la strada lungo la Senna e fece fermare al
passaggio del Pont Neuf; qui discese, e traversò il passaggio. Era
abbigliata con molta semplicità, come si conviene a una donna
elegante che esce la mattina. In rue Guénégaud salì su una vettura
di piazza, indicando come termine della corsa rue Harlay. Non appena
entrata in carrozza, si tolse di tasca un velo nero molto pesante,
che attaccò al suo cappello di paglia; quindi si rimise il cappello
in testa, e notò con piacere, guardandosi in uno specchio tascabile,
che non si poteva distinguere di lei che la pelle bianca e la
pupilla scintillante.
La carrozza si diresse verso il Pont Neuf ed entrò per la piazza
Dauphine nel cortile di Harlay: il cocchiere fu pagato nell’aprire
la portiera e la signora Danglars, affrettandosi verso la scala che
salì con leggerezza, giunse ben presto alla sala dei Passi Perduti.
Quella mattina vi erano molti affari in corso, e ancora una maggior
quantità di gente affaccendata nel Palazzo. Le persone affaccendate
non guardano molto le donne; la signora Danglars traversò dunque la
sala senz’essere osservata più di altre donne che stavano ad
aspettare i loro avvocati. Vi era folla nell’anticamera del signor
Villefort, ma la signora Danglars non ebbe neppure bisogno di
pronunciare il suo nome; appena arrivata un usciere si alzò, si
avvicinò a lei, le chiese se fosse la persona a cui il procuratore
del re aveva dato convegno, e alla sua risposta affermativa, la
condusse, per un corridoio riservato, nell’ufficio del signor
Villefort.
Il magistrato, seduto sopra un seggio, scriveva, con le spalle
voltate alla porta; la intese aprirsi, e l’usciere pronunciò queste
parole: «Entrate, signora».
La porta si richiuse senza che egli avesse fatto il più piccolo
movimento ma appena sentì allontanarsi il rumore dei passi
dell’usciere, si alzò, mise il catenaccio, tirò le tende, visitò
tutti gli angoli dell’ufficio. Quindi allorché ebbe acquistata la
certezza che non poteva essere né visto né udito da alcuno si fermò.
«Vi ringrazio, signora», disse, «grazie della vostra puntualità.»
Quindi le offrì una sedia che la signora Danglars accettò perché il
cuore le batteva tanto forte, che si sentiva vicina a soffocare.
«Ecco», disse il procuratore sedendo egli pure, e facendo descrivere
un mezzo cerchio al suo seggio, in modo da trovarsi dirimpetto alla
signora Danglars, «ecco passato molto tempo, signora, da che non ho
avuto la fortuna di parlare da solo con voi, e con mio sommo
dispiacere ci ritroviamo per intavolare una conversazione molto
dolorosa.»
«D’altra parte, signore, avete visto che sono venuta, sebbene questa
conversazione debba riuscire assai più dolorosa a me che a voi.»
Villefort sorrise amaramente.
«Dunque è vero», riprese, rispondendo piuttosto al proprio pensiero
che alle parole della signora Danglars, «che tutte le nostre azioni
lasciano le loro tracce, le une tetre le altre luminose nel nostro
passato? È dunque vero che tutti i passi della nostra vita
somigliano allo strisciare del rettile sulla sabbia e fanno un
solco? Ahimè, per molti questo solco è quello delle loro lacrime.»
«Signore, voi comprendete la mia emozione, non è vero?» disse la
signora Danglars. «Abbiatemi dunque dei riguardi, ve ne prego.
Questa camera entro cui sono passati tanti colpevoli tremanti e
vergognosi, questo seggio su cui mi trovo a mia volta vergognosa e
tremante!… Ho bisogno di tutta la mia ragione per non vedere in me
una donna molto colpevole, e in voi un giudice minaccioso.»
Villefort scosse la testa, sospirando, poi disse: «E io dico a me
stesso, che il mio posto non è sul seggio del giudice, ma sul banco
dell’accusato».
«Voi!» esclamò la signora Danglars meravigliata.
«Sì, io.»
«Credo, signore, che il vostro puritanesimo esageri», obiettò la
signora Danglars, il cui bell’occhio si illuminò di passeggera luce.
«Questi solchi di cui parlavate sono stati tracciati dalla vita di
una gioventù ardente. Nel fondo delle passioni al di là dei piaceri,
vi è sempre un po’ di rimorso; è perciò che il Vangelo, questa
eterna risorsa degli infelici, ha dato per conforto a noi povere
donne l’ammirabile parabola della giovane peccatrice, e della donna
adultera. Così, ve lo confesso, riportandomi agli errori della mia
gioventù, qualche volta penso che Dio me li perdonerà, poiché se
essi non possono trovare scusa, troveranno pietà, in compenso dei
patimenti sofferti dopo. Ma voi che avete da temere da tutto ciò?
Voi uomini, che il mondo scusa, e che lo scandalo rende celebri?»
«Signora», replicò Villefort, «voi mi conoscete, non sono un
ipocrita, o perlomeno non faccio l’ipocrita, senza qualche ragione.
Se la mia fronte è severa, i molti infortuni la offuscarono, se il
mio cuore si è pietrificato, è stato per poter sopportare i colpi
che ho ricevuto: non ero così nella mia gioventù, non lo ero nella
sera del mio fidanzamento, quando eravamo tutti seduti intorno a una
tavola del Corso a Marsiglia. Ma da quel tempo tutto è cambiato in
me, e intorno a me. La mia vita si è consumata nel conseguire cose
difficili, e a infrangere nelle difficoltà tutti coloro che
volontariamente, o involontariamente, per determinata intenzione o
per caso, incontrai sulla mia strada a suscitarmi difficoltà. È
difficile che ciò che si desidera ardentemente non sia conteso
tenacemente da quelli che hanno voluto ottenerlo, e ai quali si
tenta di strapparlo. Così, la maggior parte delle cattive azioni
degli uomini sono venute loro incontro, mascherate dalle sembianze
della necessità; quindi commessa la cattiva azione in un momento
d’esaltazione, di timore, o di delirio, si vede che si sarebbe
potuto passarle vicino evitandola. Il mezzo che sarebbe stato buono,
e che non si è visto, ciechi come si era, si presenta ai nostri
occhi facile e semplice, e diciamo a noi stessi: “E come mai non ho
fatto questo, invece di fare quest’altro?” Voi donne, al contrario,
ben difficilmente siete tormentate dai rimorsi, perché raramente la
scelta viene da voi; le vostre sventure vi sono quasi sempre
imposte, i vostri sbagli sono quasi sempre i delitti degli altri.»
«In ogni modo, signore, ammettete, se ho commesso un errore», disse
la signora Danglars, «anche personale, ieri sera ho ricevuto una
severa punizione.»
«Povera donna!» disse Villefort stringendole la mano. «Troppo severa
per le vostre forze; per due volte c’è mancato poco che crollaste…
Eppure…»
«Ebbene?»
«Devo dirvelo?… Raccogliete tutto il vostro coraggio, perché non
siete ancora alla fine…»
«Mio Dio!» esclamò la signora Danglars tutta spaventata. «Che vi è
dunque ancora?»
«Voi non vedete che il passato, signora, certamente tetro, ma
figuratevi un avvenire… spaventoso certamente… sanguinoso forse!»
La baronessa conosceva la calma di Villefort, fu così spaventata
dalla sua esaltazione, che aprì la bocca per gridare, ma il grido le
si estinse in gola.
«E come mai è risorto questo terribile passato?» proseguì Villefort.
«Come mai dal fondo della tomba, dal fondo dei nostri cuori ove
dormiva è uscito come un fantasma, per fare impallidire le nostre
guance e arrossire le nostre fronti?»
«Ahimè», gemette Erminia. «Senza dubbio il caso…»
«Il caso!» riprese Villefort. «No, no, non è il caso!»
«Ma sì, fu una coincidenza fatale, è stato il caso che ha operato…
Non fu per caso che il conte di Montecristo comprò quella casa? Non
fu per caso ch’egli fece scavare la terra? Non fu per caso
finalmente che quel disgraziato bambino fosse dissotterrato ai piedi
di quell’albero? Povera e innocente creatura! Nata da me, cui non ho
potuto mai dare un bacio, ma per la quale ho sparso tante lacrime!
Ah, il mio cuore è volato verso il conte quando ha parlato di quella
cara spoglia ritrovata sotto i fiori.»
Ebbene no, signora, ecco quanto avevo di terribile da dirvi»,
continuò Villefort con voce sorda. «Non si è trovata alcuna spoglia
sotto i fiori, no, non vi è stato alcun neonato dissotterrato, no,
non bisogna piangere, no, non bisogna gemere… Bisogna tremare!»
«Che volete dire?» gridò la signora Danglars rabbrividendo.
«Voglio dire che il signor di Montecristo, nello scavare ai piedi di
quell’albero, non ha potuto trovare né scheletro di neonato, né
cassetta, perché sotto quell’albero non c’erano né l’uno né
l’altra.»
«Non c’erano né l’uno né l’altra?» replicò la signora Danglars,
fissando sul procuratore certi occhi, la cui spaventosa dilatazione
indicava il terrore, «né l’uno né l’altra?» ripeté come una persona
che tenta di fissare le sue idee per mezzo delle parole e del suono
della voce.
«Sì», annuì il regio procuratore, lasciandosi cadere la fronte fra
le mani. «Non c’era neonato, non c’era cassetta…»
«Non fu dunque là il luogo ove deponeste la povera creatura? Perché
ingannarmi? Con quali intenzioni? Parlate…»
«Fu là, ma ascoltatemi, e compiangerete me, che per vent’anni, senza
dirvene la più piccola parte, ho portato il peso dei dolori che sto
per narrarvi.»
«Mio Dio, mi spaventate! Ma non importa, vi ascolto.»
«Sapete cosa accadde quella notte dolorosa, in cui voi eravate
svenuta sul vostro letto, in quella camera di damasco rosso, e
mentre io, non meno anelante di voi, aspettavo la vostra
rianimazione? Il fanciullo nacque, mi fu consegnato senza movimenti,
senza respiro, senza voce: lo credemmo morto.»
La signora Danglars fece un movimento rapido, come se avesse voluto
alzarsi dalla sedia. Ma Villefort la fermò giungendo le mani, come
per implorarne l’attenzione.
«Noi lo credemmo morto», ripeté. «Io lo misi in una cassetta che
doveva essere la sua bara, scesi in giardino, scavai una fossa, lo
seppellii in fretta. Terminavo appena di coprirlo di terra, che il
braccio del corso si stese contro di me. Vidi un’ombra drizzarsi, un
lampo sfolgorare. Sentii un dolore, volli gridare, un brivido mi
percorse tutta le membra, e mi serrò la gola… Caddi, e mi credetti
in fin di vita: non dimenticherò mai il vostro sublime coraggio,
quando tornato in me, mi trascinai fino ai piedi della scala, dove,
a stento voi pure, veniste incontro a me… Era necessario custodire
il silenzio sulla terribile catastrofe… Voi aveste il coraggio di
tornare in casa, sostenuta dalla nutrice; un duello fu il pretesto
della mia ferita. Contro ogni aspettativa, il silenzio fu mantenuto.
Trasportato a Versailles per tre mesi lottai con la morte; quando
sembrò che mi riattaccassi alla vita, mi fu ordinato il sole e
l’aria del Mezzogiorno. Quattro uomini mi portarono da Parigi a
Châlon, facendo sei leghe al giorno. La signora Villefort seguiva la
barella nella sua carrozza. A Châlon fui imbarcato sulla Saône,
quindi passai sul Rodano, e per la sola forza della corrente discesi
fino ad Arles, poi da Arles ripresi la lettiga e continuai la strada
per Marsiglia. La mia convalescenza durò sei mesi. Non sentivo più
parlare di voi, non osavo informarmi di ciò che ne era avvenuto.
Quando ritornai a Parigi, sentii che, vedova del signor di Nargonne,
avevate sposato il signor Danglars.
A che cosa avevo sempre pensato dal momento che recuperai la
conoscenza? Incessantemente alla stessa cosa, a quel cadavere di
bambino, che ogni notte nei miei sonni sorgeva dal seno della terra,
e si fermava al di sopra della fossa, minacciandomi con lo sguardo e
col gesto. Per cui appena tornato a Parigi mi informai: la casa non
era stata frequentata né visitata da alcuno dal momento che ne
eravamo usciti, ma era stata data in affitto per nove anni. Andai a
trovare quello che l’aveva presa in affitto, finsi di aver gran
desiderio di non veder passare in mani estranee una casa che
apparteneva al padre e alla madre di mia moglie, offrii una buona
uscita perché fosse sciolto il contratto: mi furono chiesti seimila
franchi… Ne avrei dati diecimila, anche ventimila. Li avevo con me:
feci sottoscrivere su due piedi la rinuncia; e quando fui in
possesso di questa tanto desiderata cessione, partii al galoppo per
Auteuil. Nessuno era entrato nella casa dal momento che ero uscito
io. Erano le cinque dopo mezzogiorno; salii nella camera rossa, e
aspettai la notte. Là, tutto ciò che mi ripetevo da un anno nella
continua disperazione, si presentò al mio pensiero più minaccioso
che mai.
Quel corso che mi aveva giurato la sua vendetta, che mi aveva
seguito da Nîmes a Parigi, quel corso, che nascosto nel giardino, mi
aveva ferito, aveva certamente visto scavare la fossa, mi aveva
visto seppellire il bambino, poteva giungere a conoscervi, forse vi
conosceva già… Non vi avrebbe un giorno fatto pagare il segreto di
questo terribile affare?… Non sarebbe stata questa per lui una ben
dolce vendetta, quando avesse saputo che io non ero morto della sua
pugnalata? Era dunque urgente che prima di ogni altra cosa, a
qualsiasi rischio, facessi sparire le tracce di questo fatto, che
distruggessi le eventuali prove materiali… Sarebbe sempre rimasta
abbastanza realtà nella mia memoria…
Giunse la notte: lasciai che diventasse buio fondo. Io stavo senza
lume in quella camera, dove i soffi del vento agitavano le tende,
dietro cui mi pareva sempre veder nascondersi qualche spia; ero
anche agitato da fremiti, mi sembrava, dietro a me, e in quel letto,
sentire i vostri lamenti: non osavo voltarmi. Il mio cuore batteva
nel silenzio così violentemente che pensavo si sarebbe riaperta la
mia ferita… Finalmente intesi spegnersi, gli uni dopo gli altri,
tutti i rumori della campagna. Capii che non avevo più niente da
temere, che non potevo essere né visto né inteso, e decisi di
scendere.
Ascoltate, Hermine: mi credo tanto coraggioso quanto un altro uomo,
ma quando mi sfilai dal petto questa piccola chiave della scala
segreta che avevo ritrovata nei miei abiti, che entrambi amavamo
tanto, e che voi voleste attaccare a un anello d’oro… Allorché aprii
la porta, quando dalla finestra vidi una pallida luna filtrare sugli
scalini a chiocciola, una striscia di luce bianca simile a uno
spettro, mi trattenni al muro, stetti quasi per gridare; mi sembrava
di diventar pazzo. Finalmente riuscii a calmarmi. Discesi la scala
gradino per gradino; la sola cosa che non avevo potuto vincere era
uno strano tremore che mi aveva preso le ginocchia; mi aggrappai
alla balaustra, l’avessi lasciata un momento, sarei precipitato.
Giunsi alla porta da basso: fuori una zappa era appoggiata al muro;
la presi e m’inoltrai verso il gruppo d’alberi. Mi ero munito di una
lanterna cieca, in mezzo al prato mi fermai per accenderla, poi
continuai il cammino. Novembre stava per finire, tutta la
vegetazione del giardino era sparita, gli alberi non erano più che
scheletri con lunghe braccia scarne, e le foglie morte
scricchiolavano con la sabbia sotto i miei piedi.
La paura mi prese così forte il cuore che nell’avvicinarmi agli
alberi cavai una pistola di tasca e la caricai; credevo sempre di
vedere la figura del corso comparire tra i rami. Scrutai nei luoghi
più folti con la lanterna cieca: erano vuoti. Gettai gli occhi
ovunque intorno a me, ero realmente solo: nessun rumore turbava il
silenzio della notte, se non il canto della civetta. Attaccai la
lanterna a un ramo forcuto che avevo notato un anno prima, nella
stessa posizione dove mi ero fermato per scavare la fossa. L’erba
durante l’estate era cresciuta moltissimo in quel luogo, e, giunto
l’autunno, nessuno era venuto per tagliarla. Però un luogo meno
erboso attirò la mia attenzione; era evidente che là avevo scavato
la fossa: mi misi all’opera. Era finalmente giunta quell’ora che
aspettavo da un anno! Ma speravo, lavoravo, esaminavo ogni zolla di
terra, credendo di sentire della resistenza all’estremità della mia
zappa: niente! Eppure avevo fatto una buca due volte più grande
della prima.
Credetti di essermi ingannato, di avere sbagliato il posto. Mi
orizzontai, guardai gli alberi, cercai di riconoscere i particolari
che mi avevano colpito. Una brezza fredda e acuta fischiava
attraverso i rami spogli, e tuttavia il sudore mi grondava dalla
fronte. Mi ricordai che avevo ricevuto il colpo di pugnale nel
momento in cui stavo pestando la terra per fare sparire le tracce
della fossa. Mentre pestavo questa terra mi appoggiavo a un falso
ebano, dietro a me una roccia artificiale destinata a panchina:
cadendo la mia mano aveva lasciata la zappa e sentito il freddo
della pietra… Mi lasciai andare nella stessa posizione, mi rialzai,
e mi rimisi a scavare allargando la fossa: niente, sempre niente, la
cassetta non c’era più!»
«La cassetta non c’era più?» mormorò la signora Danglars soffocata
dall’ansia.
«Non crediate che mi sia limitato a questo tentativo: esaminai tutto
attorno, pensai che l’assassino, dissotterrata la cassetta, credendo
fosse un tesoro, avesse voluto impadronirsene, e l’avesse portata
via, ma poi accorgendosi dell’errore avesse scavato una nuova fossa,
e ve l’avesse deposta: niente. Mi venne allora l’idea che senza
prendere tante cautele l’avesse puramente e semplicemente gettata in
qualche angolo. Quest’ultima ipotesi mi costringeva ad aspettare il
giorno per fare le mie ricerche: risalii nella camera e aspettai.
Venne il giorno, scesi di nuovo, la mia prima ispezione fu intorno
al gruppo d’alberi; speravo di ritrovarvi delle tracce sfuggite
nell’oscurità. Avevo rivoltato la terra sopra una superficie di due
metri quadrati, e per una profondità di più di venti centimetri; una
giornata sarebbe appena bastata a un operaio salariato per far ciò
che io avevo fatto in un’ora: niente, non vidi assolutamente niente.
Allora mi misi alla ricerca della cassetta.
Secondo le supposizioni fatte, doveva essere sul sentiero che
conduceva alla porticina d’uscita, ma questa nuova ricerca fu
inutile quanto la prima. Col cuore serrato, tornai agli alberi, che
pure non mi lasciavano più alcuna speranza.»
«C’era da diventar pazzi!» esclamò la signora Danglars.
«Lo sperai un momento», riprese Villefort, «ma non ebbi questa
fortuna… Però richiamando la mia forza, e le mie idee: “Perché
quest’uomo avrebbe portato via quel cadavere?” domandavo a me
stesso.»
«Voi lo avete detto, per avere una prova.»
«No, signora, non poteva più essere… Non si conserva un cadavere per
un anno; si porta a un magistrato, e si fa una deposizione. Non era
accaduto niente di tutto ciò…»
«Ebbene, allora?» domandò Hermine palpitante.
«Allora? Vi era qualche cosa di più terribile, di più fatale, di più
spaventoso per noi, che il bambino fosse ancora vivo, e che
l’assassino lo avesse salvato.»
La signora Danglars mandò un grido, afferrando le mani di Villefort.
«Mio figlio vivo, signore! Avete seppellito mio figlio vivo,
signore! Non eravate sicuro che era morto, e lo avete seppellito!
Ah!»
La signora Danglars si era alzata, e stava ritta davanti al
procuratore del re, di cui teneva strette le mani fra le sue
delicate, quasi minacciosa.
«Che ne so io? Vi dico ciò come vi direi qualunque altra cosa…»
rispose Villefort con un’immobilità nello sguardo che indicava che
quest’uomo così potente era vicino a toccare la follia, o la
disperazione.
«Figlio mio, mio povero figlio!» esclamò la baronessa ricadendo
sulla sedia, e soffocando i singulti col fazzoletto.
Villefort ritornò in sé, e comprese che per stornare l’uragano che
si accumulava sulla sua testa, bisognava far passare nella signora
Danglars il terrore che egli stesso provava.
«Comprendete che se la cosa è così», disse, alzandosi e
avvicinandosi alla baronessa per parlare a voce anche più bassa,
«siamo perduti! Questo ragazzo vive, e qualcuno sa che egli vive,
qualcuno è in possesso del nostro segreto… E poiché Montecristo
parla di un neonato dissotterrato là dove questo neonato non c’è
più, lui è certamente in possesso di questo segreto.»
«Dio giusto! Dio vendicatore!» mormorò la signora Danglars.
Villefort non rispose che con una specie di ansito.
«Ma questo figlio, signore?» riprese la madre ostinata.
«Quanto l’ho cercato!» rispose Villefort, contorcendosi le braccia.
«Quante volte l’ho chiamato, nelle mie lunghe notti senza sonno,
quante volte ho desiderato una ricchezza da re, per acquistare un
milione di segreti da un milione d’uomini, e per trovare il mio
segreto nel loro! Finalmente un giorno che per la centesima volta
riprendevo la zappa, domandando a me stesso per la centesima volta
ciò che quel corso avesse potuto fare del bambino, pensai che un
neonato impaccia un fuggitivo, che, forse, accorgendosi che era
ancora vivo lo aveva gettato nel fiume.»
«Impossibile!» gridò la signora Danglars. «Si assassina un uomo per
vendetta, ma non si annega a sangue freddo un bambino!»
«Forse», continuò Villefort, «lo aveva portato all’ospizio degli
abbandonati.»
«Sì! sì!» esclamò la baronessa. «Mio figlio è là, signore!»
«Corsi all’ospizio, e venni a sapere che quella notte stessa, la
notte del 20 settembre, un neonato era stato deposto nella ruota
avviluppato in una mezza salvietta di tela fina, stracciata ad arte.
Quella metà di salvietta portava una metà di corona da barone, e la
lettera Elle.»
«È quello, è quello!» gridò ancora la signora Danglars. «La mia
biancheria era marcata in tal modo; il signor di Nargonne era
barone, e si chiamava Luigi, le salviette erano tutte marcate in tal
modo. Grazie, mio Dio, mio figlio non è morto!»
«No, non è morto.»
«E voi me lo dite? Mi dite questo senza temere di farmi morire di
gioia, signore? Dov’è, mio figlio?»
Villefort alzò le spalle.
«Lo so io forse? E credete che se lo sapessi, vi farei passare per
tutte queste prove, e per tutte queste gradazioni come farebbe un
drammaturgo, o un romanziere? No, non lo so. Una donna, circa sei
mesi dopo, era andata a reclamare il bambino, con l’altra metà della
salvietta. Questa donna aveva date tutte le garanzie che esige la
legge, e le fu consegnato.»
«Ma bisognava informarsi su questa donna… scoprirla.»
«E di cosa credete mi sia occupato, signora? Ho simulato
un’istruzione giudiziaria, e ho messo in moto, e in azione, quanto
la polizia possiede in sagaci e destri agenti. Le sue tracce furono
ritrovate a Châlon; ma a Châlon si sono perdute.»
«Perdute?»
«Sì, perdute, perdute per sempre.»
La signora Danglars aveva ascoltato questo racconto con un sospiro,
versando una lacrima, un grido per ciascun particolare.
«Ed è tutto? Vi siete limitato a ciò?»
«No», replicò Villefort, «non ho mai cessato di cercare, di
continuare a informarmi, però dopo due o tre anni avevo molto
diradato le ricerche, e infine le avevo esaurite… Oggi però tornerò
a riprenderle, e con maggior accanimento che mai, e vi riuscirò,
poiché non è più la coscienza che mi spinge, bensì la paura.»
«Ma», riprese la signora Danglars, «il conte di Montecristo non sa
niente… Se no, perché ambirebbe alla nostra amicizia come fa?»
«La perversità degli uomini è profonda», disse Villefort, «è più
profonda della bontà di Dio… Avete osservato gli occhi di quell’uomo
mentre ci parlava.»
«No.»
«L’avete qualche volta esaminato profondamente?»
«Indubbiamente è bizzarro, ecco tutto… Una cosa soltanto mi ha
colpita ed è che di tutto quello squisito pranzo che ci ha dato non
mangiò niente.»
«Sì, sì!» esclamò Villefort. «Io pure l’ho notato. Se avessi saputo
ciò che so ora, non avrei toccato niente; avrei creduto che avesse
voluto avvelenarci.»
«E vi sareste sbagliato, ben lo vedete.»
«Sì, senza dubbio; ma credetemi, quell’uomo nasconde altri scopi…
Ecco perché vi ho voluta vedere, ecco perché ho voluto premunirvi
contro tutti, ma particolarmente contro di lui. Ditemi», continuò
Villefort, fissando gli occhi sulla baronessa ancor più
profondamente, «ditemi, non avete parlato del nostro legame con
nessuno?»
«Mai con nessuno.»
«Mi capite?» riprese affettuosamente Villefort. «Quando dico
nessuno, perdonatemi questa insistenza, intendo nessuno al mondo!»
«Sì, sì, comprendo perfettamente», annuì la baronessa arrossendo.
«Mai, ve lo giuro!»
«Non avete l’abitudine di scrivere la sera ciò che vi è accaduto nel
giorno? Non tenete un vostro diario?»
«No, ahimè! La mia vita passa; passa trasportata dalle frivolezze, e
la dimentico io stessa.»
«Non parlate sognando?»
«Ho un sonno da bambina… Non lo rammentate?»
Un rosso porpora salì al viso della baronessa, mentre il pallore
invase quello di Villefort.
«È vero», diss’egli a voce tanto bassa che appena fu udito.
«Ebbene?» domandò la baronessa.
«Ebbene, capisco ciò che mi resta da fare», riprese Villefort.
«Entro otto giorni, saprò chi è questo signor di Montecristo, da
dove viene, dove va, e per quale ragione parla in nostra presenza di
neonati dissotterrati nel suo giardino.»
Villefort pronunciò queste parole con un accento che avrebbe fatto
fremere il conte se lo avesse potuto sentire. Quindi strinse la mano
alla baronessa che non fu pronta a dargliela, e la accompagnò,
rispettosamente, fino alla porta.
La signora Danglars prese un’altra vettura di piazza che la
ricondusse al passaggio, dalla parte opposta ritrovò la sua carrozza
e il cocchiere, che aspettandola, dormiva tranquillamente al suo
posto.
67. Un ballo estivo
In quello stesso giorno, all’incirca nell’ora in cui la signora
Danglars si trovava, come abbiamo detto, nell’ufficio del
procuratore del re, una carrozza da viaggio entrando in rue Helder
si introduceva per la porta numero 27, e si fermava nel cortile. Un
istante dopo si apriva lo sportello e la signora Morcerf scendeva
appoggiandosi al braccio di suo figlio. Non appena Albert ebbe
accompagnato la madre alle sue stanze, dopo aver fatto un bagno e
fatto attaccare i cavalli, si fece condurre agli Champs-Elysées dal
conte di Montecristo.
Il conte lo ricevette col suo abituale sorriso; il fatto
straordinario era che nessuno sembrava potesse fare un passo avanti
nel cuore di quest’uomo. Quelli che volevano, per così dire, forzare
il passaggio della sua intimità, trovavano un muro. Morcerf, che
accorreva verso di lui a braccia aperte, lasciò, vedendolo, malgrado
il suo sorriso amichevole, cadere le braccia, e osò appena tendergli
la mano. Dal canto suo Montecristo gliela toccò come faceva sempre,
ma senza stringerla.
«Ebbene, eccomi», disse Albert, «caro conte.»
«Siete il benvenuto.»
«Sono arrivato da un’ora.»
«Da Dieppe?»
«No, da Tréport, la prima visita è per voi.»
«Vi ringrazio», disse Montecristo, nel modo con cui avrebbe detto
qualunque altra cosa.
«Dunque, vediamo, che novità ci sono?»
«Novità? E le chiedete a me, a uno straniero?»
«Lo so ben io: quando chiedo novità, vi chiedo se avete fatto
qualche cosa per me.»
«Mi avete dunque incaricato di qualche commissione?» domandò
Montecristo, fingendo d’esser inquieto.
«Via, via», disse Albert, «non fingete indifferenza! Si dice che le
sensazioni simpatiche attraversino le distanze… Ebbene a Tréport ho
ricevuto la mia scossa elettrica: se non avete operato per me,
almeno avete pensato a me.»
«Ciò è possibile», replicò Montecristo. «Ho infatti pensato a voi,
ma la corrente elettrica operava, ve lo confesso, indipendentemente
dalla mia volontà.»
«Davvero? Raccontatemi, ve ne prego.»
«È facile… Il signor Danglars ha pranzato da me.»
«Lo so bene, poiché per fuggire la sua presenza, mia madre e io
partimmo.»
«Ma ha pranzato anche col signor Andrea Cavalcanti.»
«Il vostro principe italiano.»
«Non esageriamo, il signor Andrea si dà soltanto il titolo di
conte.»
«Sì dà, dite voi?»
«Lo dico, si dà.»
«Dunque non lo è?»
«E lo so io forse? Egli se lo dà, io lo do a lui, tutti glielo
danno… Non è come se lo avesse?»
«Che uomo strano siete… Ma mi preme sapere… Il signor Danglars ha
dunque pranzato qui?»
«Sì.»
«Col vostro conte Andrea Cavalcanti?»
«Col conte Andrea Cavalcanti, il marchese suo padre, e la signora
Danglars e la signora Villefort, il signor Debray, Maximilien
Morrel, e poi chi altri ancora?… Aspettate… Ah, il signor
Château-Renaud.»
«Si è parlato di me?»
«Non se n’è detta una parola.»
«Tanto peggio.»
«Perché tanto peggio? Mi pare che, se siete stato dimenticato, fu
quel che desideravate.»
«Mio caro conte, se non si è parlato di me, è segno che mi si è
pensato molto; e allora sono alla disperazione.»
«Che v’importa, quando la signorina Danglars non era nel numero di
quelli che qui vi pensavano? Ah, è vero, lei poteva pensarvi da casa
sua.»
«In quanto a questo, no, ne sono sicuro, o se lei mi pensava, fu
certo allo stesso modo ch’io pensavo a lei.»
«Commovente simpatia!» disse il conte.
«Allora vi detestate?»
«Ascoltate», disse Morcerf. «Se la signorina Danglars fosse donna da
prendere pietà del martirio ch’io soffro per lei e da
ricompensarmene al di fuori delle conversazioni matrimoniali
stabilite fra le nostre due famiglie, ciò mi andrebbe a meraviglia.
Alle corte, credo che la signorina Danglars sarebbe una
graziosissima amica, ma come moglie…»
«Bravo!» disse Montecristo ridendo. «Questo è il vostro modo di
pensare sulla vostra fidanzata?»
«Un poco brutale, è vero, ma perlomeno sincero. Ora, giacché questo
sogno non si può convertire in realtà, e siccome per giungere a un
certo scopo bisogna che la signorina diventi mia moglie, vale a dire
venga a vivere con me, che pensi, canti, vicino a me, che componga
versi e musica a dieci passi da me, e tutto questo durante tutta la
mia vita, allora mi spaventa… Un’amica, mio caro conte, si lascia,
ma la moglie, è un’altra cosa; vale a dire si conserva eternamente,
e da vicino e da lontano.»
«Siete difficile, visconte.»
«Sì, perché spesso penso a una cosa impossibile.»
«A quale?»
«A trovarmi per moglie una donna come quella che mio padre ha
trovato per se stesso.»
Montecristo impallidì, e guardò Albert che giocava con delle
magnifiche pistole, delle quali faceva rapidamente scattare i
grilletti.
«Dunque vostro padre è stato molto felice?» disse.
«Sapete la mia opinione sul conto di mia madre, signor conte: un
angelo del cielo! Ed è come voi la vedete: bella ancora, spiritosa
sempre, più buona che mai. Giungo da Tréport… Per tutt’altro figlio
accompagnare sua madre sarebbe una compiacenza o un sacrificio. Ma
io, passo quattro giorni da solo con lei, più soddisfatto, più
entusiasta ancora, che se avessi accompagnato a Tréport la regina
Mab, o Titania.»
«Questa è una perfezione che dispera, e voi date, a quanti vi
sentono, gran voglia di restare celibi.»
«Ecco precisamente», rispose Morcerf, «perché sapendo che esiste al
mondo una donna perfetta, non mi curo di sposare la signorina
Danglars. Avete mai notato come il nostro egoismo riveste dei colori
più brillanti tutto ciò che ci appartiene? Il diamante che luccicava
nella vetrina di Marlé o di Fossin diventa più bello ancora dopo che
è nostro, ma se l’evidenza ci obbliga a riconoscere che ce n’è un
altro di un’acqua più pura, e che voi siete condannato a portare
eternamente questo diamante inferiore all’altro, capite quanto
dev’essere il soffrire! Ecco perché io balzerò di gioia il giorno in
cui la signorina Danglars si accorgerà che non sono che un meschino
atomo, e che ho appena tante centinaia di mille franchi per quanti
milioni ha lei.»
Montecristo sorrise.
«Avevo ben pensato a una cosa», continuò Albert. «Franz ama le cose
eccentriche; volevo che s’innamorasse della signorina Danglars, ma
malgrado quattro lettere che gli ho scritto nello stile più
insinuante, mi ha imperturbabilmente risposto: “Io sono eccentrico,
è vero, ma la mia eccentricità non giunge fino a ritirare la mia
parola quando l’ho impegnata”.»
«Ecco ciò che io chiamo trasporto d’amicizia, dare a un altro per
moglie la donna che non si vorrebbe per sé che nella condizione
d’amica.»
Albert sorrise. «A proposito, è in arrivo il caro Franz… Ma poco
v’importa, perché credo non lo vediate tanto di buon occhio.»
«Io?» disse Montecristo. «Mio caro visconte, e da cosa arguite che
non amo il signor Franz? Caro visconte, io amo ogni persona…»
«E io sono compreso da ogni persona… Grazie!»
«Non confondiamo», disse Montecristo. «Amo tutti cristianamente; ma
non odio che certe determinate persone. Ma quanto al signor Franz:
dite che ritorna?»
«Sì, chiamato dal signor Villefort anche lui accanito a ciò che
sembra nel voler maritare la signorina Valentine, quanto Danglars
nel maritare la signorina Eugénie. Pare che lo stato più faticoso
sia quello di essere padre di ragazze in età da marito: sembra che
dia loro la febbre, e che il loro polso batta ottanta volte il
minuto fin tanto che se ne siano sbarazzati.»
«Ma il signor d’Epinay non vi assomiglia; sembra prenda il suo male
con pazienza.»
«Anche meglio, lo prende sul serio, si mette già la cravatta bianca
e parla della sua famiglia. Del resto ha per Villefort grandissimo
rispetto.»
«Meritato, non è vero?»
«Lo credo, il signor Villefort è sempre passato per un uomo severo,
ma giusto.»
«Alla buon’ora, eccone finalmente uno», disse Montecristo, «che non
trattate come quel povero Danglars.»
«Forse dipenderà dal non essere obbligato a sposarne la figlia»,
disse Albert ridendo.
«In verità, mio caro signore», ripeté Montecristo, «siete di una
frivolezza mostruosa.»
«Io?»
«Sì, voi… Prendete un sigaro?»
«Volentieri, e perché sono frivolo?»
«Ma perché state a difendervi, a dibattervi per non volere sposare
la signorina Danglars. Lasciate scorrere le cose, e forse non sarete
il primo a ritirare la vostra parola.»
«Bah!» fece Albert, strabuzzando gli occhi.
«Senza dubbio, signor visconte, non vi si metterà per forza la testa
fra le porte, che diavolo! Via, sul serio, avete la volontà di
sciogliervi da questo matrimonio?»
«Pagherei centomila franchi per questo.»
«Ebbene siete fortunato; il signor Danglars è disposto a pagare il
doppio per giungere alla stessa meta.»
«Ed è vera questa fortuna?» disse Albert, senza però impedire che
passasse una impercettibile nube sul suo viso. «Mio caro conte, il
signor Danglars ha dunque dei motivi?…»
«Eccoti, natura orgogliosa ed egoista! Alla buon’ora, ritrovo l’uomo
che vuole lacerare l’amor proprio degli altri a colpi di mannaia, e
che grida quando si fora il suo con una spilla.»
«No, perché mi sembra che il signor Danglars…»
«Dovesse essere contentissimo di voi, non è vero? Ebbene il signor
Danglars è un uomo di cattivo gusto, ma è ancor più contento di un
altro…»
«E di chi dunque?»
«Non lo so… Studiate, guardate, afferrate le allusioni al loro
passaggio, e ricavatene profitto per voi…»
«Certo, capisco… Ascoltate, mia madre… no, non mia madre, mi
sbaglio, mio padre ha concepito l’idea di dare una festa da ballo.»
«Una festa da ballo in questa stagione dell’anno?»
«I balli in estate sono di moda.»
«Se non fossero di moda, la contessa non dovrebbe che desiderarlo, e
lo diventerebbero.»
«Non c’è male… Capirete che questi sono balli di alta società:
quelli che restano a Parigi nel mese di giugno sono veri parigini.
Vorreste incaricarvi di un invito per i signori Cavalcanti?»
«Fra quanti giorni avrà luogo questo ballo?»
«Sabato.»
«Il signor Cavalcanti padre sarà partito.»
«Ma il signor Cavalcanti figlio rimane. Volete incaricarvi voi di
accompagnarlo?»
«Sentite, visconte, non lo conosco.»
«Non lo conoscete?»
«No, l’ho visto per la prima volta tre o quattro giorni fa, e non ne
rispondo per niente.»
«Ma voi però lo ricevete…»
«Per me è un’altra cosa; mi è stato raccomandato da un bravo abate
che potrebbe anche essere stato ingannato. Invitatelo direttamente,
sta bene, ma non mi chiedete di presentarvelo; se in seguito dovesse
sposare la signorina Danglars, mi accusereste di maneggio, e mi
vorreste tagliar la gola. D’altra parte non so se ci verrò io
stesso.»
«Dove?»
«Al vostro ballo.»
«E perché non ci verrete?»
«Innanzitutto non mi avete ancora invitato.»
«Vengo espressamente per portarvi l’invito.»
«Siete troppo gentile; ma posso esserne impedito.»
«Quando vi avrò detta una cosa, sarete abbastanza amabile da
sacrificare tutti i vostri impedimenti.»
«Dite.»
«Mia madre ve ne prega.»
«La contessa Morcerf?» riprese Montecristo rabbrividendo.
«Conte», disse Albert, «vi avviso che la signora Morcerf parla con
me liberamente, e se non avete sentito scricchiolare le fibre della
simpatia di cui vi parlavo, è segno che ne siete del tutto privo:
per quattro giorni non abbiamo fatto che parlare di voi.»
«Di me? Voi mi colmate di gioia!…»
«È il privilegio della vostra posizione, quando si è un enigma
vivente!»
«Sono dunque un enigma anche per vostra madre? In verità, l’avrei
creduta troppo ragionevole per abbandonarsi a simili voli di
fantasia!»
«Mio caro conte, siete un enigma, per tutti, per mia madre come per
tutti gli altri; enigma accettato ma non ancora sciolto… Mia madre,
soltanto, mi chiede sempre come mai siete così giovane. Credo che in
sostanza, mentre la contessa G. vi prende per lord Ruthwen, mia
madre vi prenda per Cagliostro o per il conte di Saint Germain.
Nella prima visita che farete alla signora Morcerf, confermatela in
quest’opinione. Ciò non sarà difficile a voi, che possedete la
pietra filosofale dell’uno e lo spirito dell’altro.»
«Vi ringrazio d’avermi avvisato», disse il conte sorridendo.
«Cercherò di prepararmi a far fronte a ogni supposizione.»
«Così, verrete sabato?»
«Dato che la signora Morcerf me lo comanda.»
«Siete atteso.»
«E il signor Danglars?»
«Ha già ricevuto il suo triplice invito; mio padre se n’è
incaricato. Cercheremo pure di avere il signor Villefort, ma ne
disperiamo ancora.»
«Non bisogna mai disperare di niente, dice il proverbio.»
«Danzate, caro conte?»
«Io?»
«Sì, voi… Che vi sarebbe di strano se danzaste?»
«Infatti finché non si siano oltrepassati i quarant’anni… No, non
danzo; ma amo veder danzare. E la signora Morcerf danza?»
«Mai! Parlerete, ha tanta voglia di parlare con voi! Siete il primo
uomo per il quale mia madre ha manifestato una simile curiosità.»
Albert prese il cappello e si alzò, il conte lo ricondusse sino alla
porta.
«Mi faccio un rimprovero», diss’egli fermandolo sull’alto della
scalinata.
«E quale?»
«Sono stato indiscreto; non dovevo parlarvi del signor Danglars.»
«Al contrario, parlatemene pure, spesso, sempre, ma nello stesso
modo.»
«Bene! A proposito, quando arriverà d’Epinay?»
«Fra cinque o sei giorni al più.»
«E quando si sposerà?»
«Appena arriveranno il signore e la signora di Saint-Méran.»
«Conducetemelo dunque, appena sarà a Parigi. Sebbene pretendiate che
non l’ami, vi confido che sarò lieto di rivederlo.»
«Benissimo, i vostri ordini saranno eseguiti.»
«Arrivederci.»
«Sabato, in ogni caso, sicuramente… Non è vero?»
«Certo, avete la mia parola.»
Il conte seguì con gli occhi Albert salutandolo con la mano: quando
fu risalito sul suo calesse, si voltò, e trovando Bertuccio dietro
di sé: «Ebbene?» gli domandò.
«Lei è andata al palazzo», rispose l’intendente.
«E vi si è fermata a lungo?»
«Un’ora e mezzo.»
«Ed è rientrata in casa sua?»
«Direttamente.»
«Ebbene, caro Bertuccio», disse il conte, «se ora mi resta un
consiglio da darvi, è di vedere se in Normandia potete trovare
quella piccola terra di cui vi ho parlato.»
Bertuccio salutò il conte e siccome i suoi desideri erano in
perfetta armonia con l’ordine che aveva ricevuto, partì quella
stessa sera.
68. Le informazioni
Villefort seppe mantenere la parola alla signora Danglars, e
soprattutto a se stesso, nel tentare di conoscere in che modo il
conte di Montecristo aveva potuto apprendere la storia della casa di
Auteuil: scrisse nello stesso giorno a un certo signor Boville, che,
dopo essere stato in altri tempi ispettore delle prigioni, era
impiegato con un grado superiore nella polizia di sicurezza, per
avere le informazioni che desiderava e questi chiese due giorni per
sapere con esattezza da chi avrebbe potuto informarsi.
Trascorsi i primi giorni, Villefort ricevette la seguente nota: «La
persona che si chiama il conte di Montecristo è conosciuta
particolarmente da lord Wilmore, ricco inglese che qualche volta si
vede a Parigi, e che presentemente vi si trova; egli è conosciuto
ugualmente dall’abate Busoni, prete siciliano di grande reputazione
in Oriente, dove ha fatto moltissime buone opere».
Villefort replicò con l’ordine di prendere sopra questi due
stranieri le informazioni più sollecite e più precise; l’indomani
sera i suoi ordini erano eseguiti, ed ecco le informazioni che
ricevette.
L’abate, che non era a Parigi che per un mese, abitava dietro Saint
Sulpice, in una piccola casa composta di un sol piano e di un piano
terreno: quattro camere, due in alto e due in basso, formavano tutta
l’abitazione, di cui egli era l’unico inquilino. Le due camere al
piano terra si componevano di una sala da pranzo con tavola, sedie,
e credenza di noce, e di un salotto tinto in bianco senza ornamenti,
senza tappeto, e senza orologio a pendolo. Si notava che l’abate si
limitava agli oggetti di stretta necessità. È pur vero che preferiva
abitare il primo piano composto di un salotto, tutto ricoperto di
libri di teologia, e di pergamene, fra le quali lo si vedeva
studiare, al dire del suo cameriere, per mesi interi, e in realtà
era piuttosto una biblioteca che un salotto. Questo cameriere
guardava i visitatori da una specie di feritoia, e allorché la loro
figura gli era sconosciuta e non gli piaceva, rispondeva che il
signor abate non era a Parigi; ciò contentava molti, sapendo che
l’abate viaggiava spesso, e che qualche volta restava assente lungo
tempo. Del resto che sia in casa, o no, che si trovi a Parigi o al
Cairo, l’abate fa sempre beneficenza, e la feritoia serve da ruota
alle elemosine che il cameriere distribuisce incessantemente a nome
del suo padrone. Quanto all’altra camera, situata vicino alla
biblioteca, era una camera da letto. Un letto senza tende, quattro
sedie, e un canapè di velluto d’Utrecht giallo, formavano, con un
inginocchiatoio, tutto il mobilio.
Circa lord Wilmore, abitava rue Fontaine-Saint-Georges. Era uno di
quegli inglesi «touristes» che consumano tutta la loro fortuna in
viaggi: prendeva in affitto e ammobiliato l’appartamento in cui
abitava, e nel quale passava solo due ore nel giorno, e vi dormiva
raramente. Una delle sue manie era di non volere assolutamente
parlare la lingua francese, che però scriveva, si assicurava, con
molta purezza.
Il giorno dopo in cui erano giunte queste preziose informazioni al
procuratore del re, un uomo, che scendeva di carrozza all’angolo
della rue Féron, venne a bussare a una piccola porta tinta di verde
oliva, e domandò dell’abate Busoni.
«L’abate è uscito fin da questa mattina», rispose il cameriere.
«Potrei non contentarmi di questa risposta», disse il visitatore,
«poiché vengo da parte di una persona, per la quale si è sempre in
casa. Ma vogliate rimettere all’abate Busoni…»
«Vi ho già detto che non c’è», ribatté il cameriere.
«Allora, quando tornerà, consegnategli questa carta e questo foglio
sigillato. Questa sera alle otto il signor abate sarà in casa?»
«Senza dubbio, a meno che non sia occupato nei suoi lavori, perché
allora è come se fosse uscito.»
«Ritornerò dunque questa sera all’ora convenuta», riprese il
visitatore, e si ritirò.
Infatti all’ora indicata, lo stesso uomo ritornò con la stessa
carrozza, ma questa volta, invece di fermarsi all’angolo della rue
Féron, si fermò davanti alla porta verde.
Bussò, gli fu aperto ed entrò. Ai segni di rispetto di cui fu
prodigo il cameriere verso di lui, comprese che la lettera aveva
fatto l’effetto desiderato.
«Il signor abate è in casa?»
«Sì, lavora nella sua biblioteca, ma aspetta il signore», rispose il
servitore.
Lo straniero salì una scala abbastanza ripida, e davanti a una
tavola, la cui superficie era inondata dalla luce di un gran
paralume, mentre il resto dell’appartamento era nell’ombra, vide
l’abate in abito ecclesiastico, con la testa coperta da una di
quelle grandi cuffie sotto le quali nascondevano il cranio i saggi
del medioevo.
«Ho l’onore di parlare all’abate Busoni?» domandò il visitatore.
«Sì, signore», rispose l’abate. «E voi siete la persona che il
signor Boville, antico intendente delle prigioni, m’invia da parte
del signor prefetto di polizia?»
«Precisamente, signore.»
«Uno degli ufficiali incaricati alla pubblica sicurezza di Parigi?»
«Sì, signore», rispose lo straniero, con una specie di esitazione, e
soprattutto con un poco di rossore.
L’abate si accomodò i grandi occhiali che gli coprivano gli occhi, e
si mise a sedere, facendo segno al visitatore di fare altrettanto.
«Vi ascolto, signore», disse l’abate con un accento italiano
pronunciato.
«La missione di cui sono stato incaricato, signore», riprese il
visitatore, calcando sopra ciascuna parola come se avessero fatto
fatica a uscire, «è una missione confidenziale tanto per colui che
la compie, che per colui per mezzo del quale si compie.»
L’abate s’inchinò.
«Sì», riprese lo straniero, «la vostra probità, signor abate, è
tanto conosciuta dal prefetto di polizia, ch’egli, come magistrato,
vuole sapere una cosa che importa a questa pubblica sicurezza a nome
della quale sono stato eletto deputato: speriamo dunque, che non vi
saranno né legami d’amicizia, né considerazioni umane che possano
impegnarvi a nascondere la verità alla giustizia.»
«Purché, signore, le cose che vi interessano sapere non tocchino in
alcun modo gli scrupoli della mia coscienza; sono prete, e i segreti
della confessione devono rimanere fra me e la giustizia di Dio, e
non fra me e la giustizia umana.»
«State tranquillo, signor abate, in ogni modo metteremo al sicuro la
vostra coscienza.»
A queste parole, l’abate spostando il paralume, lo alzò dalla parte
opposta, in modo che, illuminando il viso dello straniero, il suo
rimaneva sempre nell’ombra.
«Perdonate, signor abate», disse l’inviato del prefetto di polizia,
«ma questa luce mi stanca terribilmente la vista.»
L’abate abbassò il cartone verde.
«Ora, signore, vi ascolto; parlate.»
«Eccomi al fatto. Conoscete il signor conte di Montecristo?»
«Volete parlare del signor Zaccone, presumo?»
«Zaccone? Non si chiama dunque Montecristo?»
«Montecristo è il nome di una terra, o piuttosto di un’isola, e non
il nome di famiglia.»
«Ebbene, sia, non discutiamo sulle parole, e poiché il signor
Montecristo e il signor Zaccone sono lo stesso uomo…»
«Assolutamente lo stesso.»
«Parliamo del signor Zaccone.»
«Sia.»
«Vi domandavo se lo conoscete?»
«Molto bene.»
«Chi è?»
«È il figlio di un ricco armatore di Malta.»
«Sì, lo so bene, questo è quanto si dice, ma, capirete, la polizia
non può contentarsi di un “si dice”.»
«Tuttavia», riprese l’abate, con un sorriso del tutto affabile,
«quando questo “si dice” è la verità, bisogna bene che tutti se ne
contentino, e che la polizia faccia come gli altri.»
«Ma siete sicuro di ciò che dite?»
«Come, se ne sono sicuro?»
«Faccio notare, signore, che non ho alcun sospetto sulla vostra
buona fede. Vi dico, siete sicuro?»
«Ascoltate: ho conosciuto il signor Zaccone padre, e quando ero
piccolo ho giocato un mucchio di volte con suo figlio nei cantieri.»
«Ma questo titolo di conte?»
«Sapete bene che si può comprarlo…»
«In Italia?»
«Dappertutto.»
«Ma queste ricchezze immense, a quanto si dice?»
«In quanto a ciò, immense è una parola grossa.»
«Quanto credete che possegga?»
«Avrà da centocinquanta a duecentomila lire di rendita.»
«Ah, ecco, è ragionevole», disse il visitatore, «ma si parlava di
tre quattro milioni.»
«Duecentomila lire di rendita, fanno appunto un capitale di quattro
milioni.»
«Ma si parlava di tre o quattro milioni di rendita.»
«Oh, non è credibile…»
«E voi conoscete la sua isola di Montecristo?»
«Certamente… Chiunque venga da Palermo, da Napoli, o da Roma in
Francia per via mare, la conosce perché le è passato vicino e l’ha
vista passando.»
«È un soggiorno incantevole, a quanto si assicura.»
«Non è che un semplice scoglio.»
«E perché dunque il conte ha comprato uno scoglio?»
«Per esser conte. In Italia per diventare conte, c’è ancora bisogno
di una contea.»
«Avrete senza dubbio inteso parlare delle avventure giovanili del
signor Zaccone?»
«Il padre?»
«No, il figlio.»
«Ecco dove cominciano le mie incertezze, perché lì ho perduto di
vista il mio giovane amico.»
«Ha fatto la guerra?»
«Credo sia stato di leva.»
«In quale arma?»
«La marina.»
«Non siete il suo confessore?»
«No, signore; credo sia luterano.»
«Come luterano?»
«Dico credo, non affermo. D’altra parte, credevo che in Francia
fosse stata stabilita la libertà dei culti.»
«Senza dubbio, per cui non ci occupiamo in questo momento delle sue
credenze, ma delle sue azioni; in nome del signor prefetto di
polizia, v’intimo di dire tutto ciò che sapete.»
«Egli passa per un uomo molto caritatevole. A Roma è stato fatto
cavaliere del Cristo, per gli eminenti servizi resi ai cristiani
d’Oriente; e ha cinque o sei croci per servizi resi ai principi o
agli Stati.»
«E non le porta?»
«No, ma ne va orgoglioso, dice di amare più le ricompense date ai
benefattori dell’umanità, che quelle accordate ai distruttori degli
uomini.»
«È dunque una specie di quacchero.»
«Precisamente.»
«Si sa se abbia amici?»
«Sì, perché ha per amici tutti quelli che lo conoscono.»
«Ma insomma avrà qualche nemico?»
«Uno solo.»
«Come si chiama?»
«Lord Wilmore.»
«Dov’è?»
«In questo momento si trova a Parigi.»
«E può darmi informazioni?»
«Preziose. Era in India nello stesso tempo di Zaccone.»
«Sapete dove abiti?»
«Da qualche parte in Chaussée d’Antin; ma non so né il numero, né la
strada.»
«Siete in cattivi rapporti con questo inglese!»
«Io amo Zaccone, egli lo detesta, perciò siamo freddi per questa
ragione.»
«Signor abate, credete che il conte di Montecristo sia mai stato in
Francia, prima di questo viaggio a Parigi?»
«Posso assicurarvelo: non c’è mai stato. Si è rivolto a me, sei mesi
fa, per avere le informazioni che desiderava. Ma siccome non sapevo
io stesso quando sarei tornato a Parigi, gli ho fatto conoscere il
signor Cavalcanti.»
«Andrea?»
«No, Bartolomeo, il padre.»
«Benissimo, signore; non ho più da chiedervi che una cosa, e
v’intimo, in nome dell’onore, dell’umanità e della religione, di
rispondermi senza giri di parole.»
«Dite pure, signore.»
«Sapete con quale scopo il signore di Montecristo ha comprato una
casa ad Auteuil?»
«Certamente, perché me lo ha detto.»
«Con quale scopo, signore?»
«Quello di fondarvi un ospizio per malati mentali, del genere di
quello fondato a Palermo dal barone Pisani. Conoscete questo
ospizio?»
«Di fama sì, signore.»
«È una istituzione magnifica.»
E con questo, l’abate salutò lo straniero come per fargli capire che
voleva riprendere il lavoro interrotto. Il visitatore sia che
capisse il desiderio dell’abate, sia che fosse al termine delle sue
domande, si alzò a sua volta. L’abate lo ricondusse fino alla porta:
«Voi fate delle splendide elemosine», disse il visitatore, «e
sebbene si dica siate ricco, oserei offrirvi qualche cosa per i
vostri poveri… Sdegnereste la mia offerta?»
«Grazie, signore, non c’è che una sola cosa di cui io sia geloso in
questo mondo, ed è che la beneficenza la devo pagare di persona…»
«Ma pure…»
«Questa è una decisione irrevocabile. Ma cercate, signore, e
troverete: purtroppo sul sentiero di ciascun ricco, si urta in molte
miserie!»
L’abate salutò un’ultima volta aprendo la porta: lo straniero salutò
anch’egli e uscì. La carrozza lo condusse direttamente dal signor
Villefort. Un’ora dopo, la carrozza uscì nuovamente, e questa volta
si diresse verso la rue Fontaine-Saint-George: là abitava lord
Wilmore.
Lo straniero aveva scritto a lord Wilmore per domandargli un
convegno che questi aveva fissato per le dieci. Così, siccome
l’inviato del prefetto di polizia era giunto dieci minuti prima
delle dieci, gli fu risposto che lord Wilmore, l’esattezza e la
puntualità in persona, non era ancora rientrato, ma che sarebbe
rientrato al battere delle dieci.
Il visitatore aspettò nella sala, che nulla aveva di notevole, ed
era come tutte le sale degli appartamenti ammobiliati. Un caminetto
con due vasi di Sèvres moderni, un orologio a pendolo con un Amore
che tendeva l’arco, uno specchio in due parti; da ciascun lato di
questo specchio un’incisione, una rappresentante Omero cieco
condotto da una Musa, l’altra Belisario questuante; una carta grigia
sul muro, un tavolo ricoperto da un tappeto rosso stampato in nero:
tale era la sala di lord Wilmore. Era illuminata da due globi di
vetro appannato che non spandevano che una debolissima luce,
disposta espressamente per gli occhi stanchi dell’inviato del signor
prefetto di polizia. In capo a dieci minuti suonarono le dieci; al
quinto colpo, la porta si aprì, e comparve lord Wilmore.
Era un uomo piuttosto alto, aveva le basette rade e rosse, la pelle
bianca, e i capelli biondi grigiastri; era vestito con tutta
l’eccentricità inglese, cioè, un abito turchino coi bottoni d’oro e
col colletto alto e imbottito, un gilè di cachemire bianco, e un
pantalone di nanchino, di sette centimetri troppo corto, ma a cui i
sottopiedi della stessa stoffa impedivano di risalire fino alle
ginocchia.
La sua prima parola entrando fu: «Sapete, signore, che io non parlo
il francese».
«So almeno che non amate parlare la nostra lingua», ribatté
l’inviato del prefetto di polizia.
«Ma potete parlarla», riprese lord Wilmore, «perché se non la parlo,
la capisco.»
«E io», replicò il visitatore, cambiando idioma, «parlo abbastanza
facilmente l’inglese per sostenere la conversazione in questa
lingua. Non v’incomodate dunque, signore.»
L’inviato del prefetto di polizia gli presentò la lettera di
presentazione.
«Ah!» esclamò lord Wilmore con quella freddezza che non appartiene
che ai figli più puri d’Inghilterra, poi lesse con tutta la flemma
anglicana, e quando ebbe terminato: «Capisco», disse in inglese,
«capisco benissimo».
Allora cominciarono le domande, che furono pressappoco le stesse di
quelle rivolte all’abate Busoni. Ma siccome lord Wilmore, nemico del
conte di Montecristo, non aveva la stessa discrezione dell’abate,
furono molto più estese. Raccontò la gioventù di Montecristo, che,
secondo lui, era entrato al servizio all’età di dieci anni presso
uno di quei piccoli sovrani d’India che fanno la guerra agl’inglesi;
là lo aveva incontrato per la prima volta, e avevano combattuto
l’uno contro l’altro. In questa guerra Zaccone era stato fatto
prigioniero, e mandato in Inghilterra, adibito al lavoro sui ponti
delle navi e da una di esse era fuggito a nuoto. Allora aveva
incominciato i suoi duelli, le sue avventure… Durante l’insurrezione
della Grecia, aveva servito nelle file dei greci. Mentre era al loro
servizio, aveva scoperto una miniera di argento nelle montagne della
Tessaglia, ma si era ben guardato dal parlarne con chicchessia. Dopo
la battaglia di Navarino, e quando il governo greco fu consolidato,
domandò al re Ottone un privilegio per lo scavo di quella miniera, e
gli fu accordato. Di là venne quell’immensa fortuna che poteva,
secondo lord Wilmore, calcolarsi a due milioni di rendita, la quale
però poteva d’improvviso cessare, se la miniera si fosse esaurita.
«Ma», domandò il visitatore, «sapete perché sia venuto in Francia?»
«Vuole speculare sulle ferrovie», disse lord Wilmore, «e poi,
essendo un valente chimico, e un fisico non meno distinto, ha
scoperto un nuovo telegrafo di cui cerca l’applicazione.»
«Quanto spenderà circa ogni anno?» domandò l’inviato.
«Cinque o seicentomila franchi tutt’al più», rispose lord Wilmore.
«È avaro.»
Era evidente che l’odio faceva parlare l’inglese, e che, non sapendo
che cosa rimproverare al conte, gli rimproverava la sua avarizia.
«Sapete qualche cosa della sua casa di Auteuil?»
«Sì, certamente.»
«Ebbene che ne sapete?»
«Domandate con quale scopo l’ha comprata?»
«Sì.»
«Ebbene, il conte è uno speculatore che certamente si rovinerà in
esperimenti e utopie: pretende che ad Auteuil, nelle vicinanze della
casa che ha comprato, vi sia una corrente di acqua minerale, che può
rivaleggiare con le acque di Bagnères-de-Luchon e di Cauterets. Egli
vuol fare del suo acquisto una “Badhaus”, come dicono in Germania:
ha già due o tre volte zappato tutta la terra del giardino, per
ritrovare la famosa corrente d’acqua; e siccome non l’ha potuta
scoprire, vedrete che in breve comprerà tutte le case che circondano
la sua. Adesso, per il bene che gli voglio, spero che con la sua
ferrovia, col suo telegrafo elettrico, o con la sua speculazione
possa rovinarsi. Lo aspetto al varco per godere della sua sconfitta
che non può tardare a venire, o presto o tardi!»
«E perché l’odiate?» domandò il visitatore.
«L’odio», rispose lord Wilmore, «perché passando in Inghilterra, ha
sedotto la moglie di uno dei miei amici.»
«Ma se l’odiate, perché non cercate di vendicarvi di lui?»
«Mi sono già battuto tre volte col conte; la prima volta alla
pistola, la seconda alla spada, la terza alla sciabola.»
«E quale fu il risultato di questi duelli?»
«La prima volta mi ha rotto un braccio, la seconda mi ha traversato
il polmone, la terza mi ha fatto questa ferita.»
L’inglese voltò il colletto della camicia che gli saliva fino alle
orecchie, e mostrò la cicatrice di una recente ferita.
«Per cui ce l’ho con lui sempre più» ripeté l’inglese, «ed egli
certamente non morirà che per mia mano.»
«Ma», osservò l’inviato, «a me sembra che non abbiate scelto la via
più giusta per ucciderlo.»
«Vado tutti i giorni al bersaglio, e prendo lezioni da Grisier ogni
due giorni!» esclamò l’inglese.
Ciò era quanto voleva sapere il visitatore, o piuttosto tutto ciò
che gli sembrava sapesse l’inglese. Egli dunque si alzò, e, dopo
avere salutato lord Wilmore, che gli rispose con quella rigidezza e
compitezza propria degli inglesi, si ritirò.
Dal suo canto lord Wilmore, dopo avere sentito chiudersi la porta di
strada, rientrò nella camera da dove, con due rapidi tocchi,
perdette i capelli biondi, le basette rosse, la falsa mascella, e la
cicatrice, per ritrovare i capelli neri, il colorito pallido, e i
denti di perla del conte di Montecristo.
È vero che il signor Villefort, e non l’inviato del prefetto di
polizia, fu colui che rientrò in casa del signor Villefort. Il
procuratore si era alquanto calmato con quella doppia visita, la
quale, benché nulla gli offrisse di rassicurante, non gli procurò
neppure nuove inquietudini. Per la prima volta, dopo il pranzo
d’Auteuil, dormì un poco più tranquillo.
69. La festa da ballo
Si era arrivati alle più calde giornate del mese di luglio, allorché
venne quel sabato in cui doveva aver luogo il ballo del signor
Morcerf. Erano le dieci di sera: i grandi alberi del giardino del
palazzo del conte si innalzavano con vigore sotto un cielo ove
scorrevano, in un fondo azzurro disseminato di stelle d’oro, gli
ultimi vapori di una tempesta che aveva minacciosamente mormorato
tutta la giornata.
Nelle sale del pianterreno si udiva il rumore della musica e lo
strisciare del valzer, mentre i raggi luminosi delle lampade
passavano attraverso le aperture delle persiane. Nel giardino si
scorgevano una decina di servitori, ai quali la padrona di casa,
rassicurata dal tempo che sempre più si rasserenava, aveva dato
ordine di preparare la cena.
Sino a quel momento si era esitato se la cena dovesse farsi nella
sala da pranzo, o sotto una lunga tenda innalzata sul prato. Quel
bel cielo azzurro, tutto sparso di stelle, aveva risolto il problema
a favore della tenda e del prato. Si illuminavano i viali del
giardino con lampioni a colori, come si usa in Italia, e si
sovraccaricava di candele e di fiori la tavola, come si usa in tutti
i Paesi in cui si intende il vero lusso della tavola, rarissimo
quando si vuole ottenerlo completo.
Nell’istante in cui la contessa Morcerf rientrava nelle sale, dopo
aver dato gli ultimi ordini, queste cominciavano a riempirsi
d’invitati attirati dalla graziosa ospitalità della contessa, molto
più che dalla distinta posizione del conte; perché si era certi che
questa festa avrebbe offerto, grazie al buon gusto di Mercedes,
qualche particolare degno di essere raccontato, o, al bisogno,
imitato.
La signora Danglars, cui gli avvenimenti che abbiamo narrato avevano
ispirato una profonda inquietudine, esitava ad andare dalla signora
Morcerf, quando la mattina la sua carrozza incontrò quella di
Villefort, il quale le aveva fatto un segno, le due carrozze si
erano avvicinate, e dai finestrini: «Andate dalla signora Morcerf,
non è vero?» aveva domandato il procuratore del re.
«No!» aveva risposto la signora Danglars. «Soffro troppo.»
«Avete torto, sarebbe importante che vi ci vedessero.»
«Ebbene, vi andrò.»
E le due carrozze ripresero il loro corso in senso opposto.
La signora Danglars era dunque venuta, non solamente bella della sua
bellezza, ma anche abbagliante per il lusso: entrava da una porta,
nel momento in cui Mercedes entrava dall’altra. La contessa mandò
avanti Albert a incontrare la signora Danglars; Albert si avanzò,
fece alla baronessa i complimenti meritati per la sua toilette, e le
offrì il braccio per accompagnarla.
Albert guardò intorno a sé.
«Voi cercate mia figlia?» disse sorridendo la baronessa.
«Lo confesso… Avreste avuto la crudeltà di non condurla?…»
«Rassicuratevi, ha incontrato la signorina Villefort, e ne ha preso
il braccio, osservate, ci seguono tutte e due vestite di bianco,
l’una con un mazzetto di camelie, l’altra con un mazzetto di
nontiscordardime; ma ditemi dunque…»
«Chi cercate voi pure?» domandò sorridendo Albert.
«Questa sera non avete con voi il conte di Montecristo?»
«Diciassette!» esclamò Albert.
«Che intendete dire?»
«Voglio dire che così va bene», rispose il visconte ridendo, «e che
voi siete la diciassettesima persona che mi fa la stessa domanda.
Fortunato conte!… Voglio fargli i miei complimenti.»
«E rispondete a tutti come a me?»
«Ah, è vero, non vi ho risposto… Tranquillizzatevi, signora, avremo
l’uomo alla moda, siamo fra i suoi privilegiati.»
«Eravate all’Opéra ieri sera?»
«No.»
«Lui c’era.»
«Davvero? L’eccentrico ha fatto qualche follia?»
«Può farsi vedere senza farne? Ballava la Essler nel Diavolo zoppo;
la principessa greca era in estasi. Dopo il ballo, ha infilato un
magnifico anello di brillanti nel nastro che legava il suo mazzetto
di fiori, e lo ha gettato alla graziosa ballerina, la quale, al
terzo atto, per fargli onore, si è presentata col suo anello al
dito. E la sua principessa greca verrà questa sera?»
«No, bisogna farne a meno: la sua posizione nella casa del conte non
è del tutto ufficiale…»
«Basta lasciatemi qui e salutate la signora Villefort», disse la
baronessa, «vedo che muore dal desiderio di parlarvi.»
Albert salutò la signora Danglars, e s’avvicinò alla signora
Villefort: «Scommetto», disse Albert anticipandola, «che so ciò che
volete dirmi…»
«Sentiamo», disse la signora Villefort.
«Se indovino, me lo direte?»
«Sì.»
«Stavate per chiedermi se veniva il conte di Montecristo.»
«Niente affatto. Non è di lui che mi occupo in questo momento.
Volevo chiedervi se avete notizie di Franz.»
«Sì, da ieri.»
«Che vi diceva?»
«Che partiva contemporaneamente alla lettera.»
«Bene. Ora il conte?…»
«Il conte verrà, state tranquilla.»
«Sapevate che Montecristo ha un altro nome?»
«No, non lo sapevo.»
«Montecristo è il nome di un’isola, ma egli ha anche un nome di
famiglia.»
«Non l’ho mai sentito dire, da lui.»
«Io sono più informata di voi, si chiama Zaccone.»
«È possibile.»
«So anche che è maltese.»
«Ciò pure è possibile.»
«Figlio di un armatore.»
«Dovreste raccontare simili cose ad alta voce, otterreste un
grandissimo successo!»
«Ha servito nelle Indie, possiede una miniera d’argento nella
Tessaglia, e viene a Parigi per fondare uno stabilimento di acque
minerali ad Auteuil.»
«Ebbene», osservò Morcerf, «ecco delle notizie! Mi permettete di
divulgarle?»
«Sì, ma a poco a poco, a una a una, senza dire che vengono da me.»
«E perché?»
«Perché è quasi un segreto sottratto.»
«A chi?»
«Alla polizia.»
«Allora queste notizie da chi le avete sapute?»
«Ieri sera, in casa del prefetto. Parigi si è stupita, capirete
bene, alla vista di un lusso così straordinario, e la polizia ha
preso le sue informazioni.»
«Ma bene! Non sarebbe mancato altro che avessero arrestato il conte
come vagabondo, sotto il pretesto che è troppo ricco!»
«Era quanto poteva accadergli, se le informazioni non fossero state
così favorevoli.»
«Povero conte! Egli non pensa neppure al pericolo che ha corso.»
«Lo credo bene.»
«Allora bisogna avvertirlo.»
«Al suo arrivo non mancherò.»
In quel momento un bel giovane dagli occhi vivi, i capelli neri, i
baffi lucidi, venne a salutare rispettosamente la signora Villefort.
Albert gli tese la mano.
«Signora», disse, «ho l’onore di presentarvi il signor Maximilien
Morrel, capitano degli Spahis, uno dei nostri buoni e soprattutto
bravi ufficiali.»
«Ho già avuto il piacere d’incontrare il signore ad Auteuil, in casa
del conte di Montecristo…» rispose la signora Villefort, voltandosi
con una marcata freddezza.
Questa risposta, e soprattutto il tono con cui fu fatta, strinsero
il cuore del povero Morrel, ma gli era preparato un compenso: nel
voltarsi, vide sul limite della porta una bella e bianca figura, i
suoi grandi occhi turchini, senza un’apparente espressione, erano
fissi su di lui, mentre le labbra si posavano su un mazzetto di
nontiscordardime. Questo saluto fu così bene inteso, che Morrel, con
la stessa espressione, avvicinò anch’egli il fazzoletto alla bocca:
i due innamorati il cui cuore batteva fortemente sotto l’apparente
calma dei visi, separati l’uno dall’altra dalla vastità della sala
dimenticarono un momento se stessi, o per dir meglio, dimenticarono
la folla in questa muta contemplazione. Sarebbero potuti restar così
per lungo tempo perduti l’una nell’altro, senza che nessuno
s’accorgesse del loro oblio. Ma entrava appunto il conte di
Montecristo.
Lo abbiamo già detto, fosse prestigio fittizio o naturale, il conte
attirava l’attenzione generale in qualunque luogo si presentasse.
Non era il suo abito, irreprensibile nel taglio, ma semplice e senza
decorazioni, né il gilè bianco senza alcun ricamo, né il calzone che
cadeva su un piede di forma delicata, ad attirare l’attenzione, ma
il colorito pallido, i capelli neri ondulati, il viso tranquillo e
sereno, l’occhio profondo e malinconico, la bocca disegnata con
finezza meravigliosa, e che prendeva tanto facilmente l’espressione
dell’alto sdegno: tutti gli occhi poco dopo erano fissi su di lui.
Vi potevano essere uomini più belli, ma non ve ne potevano essere
più interessanti (ci sia permessa questa espressione). Tutto nel
conte voleva dire qualche cosa, e aveva valore: l’abitudine del
pensare aveva dato ai lineamenti, all’espressione del viso e al più
insignificante dei suoi gesti, grazia e fermezza incomparabili. E
poi la società parigina è così strana che forse non si sarebbe fatto
attenzione a tutto ciò, se non vi fosse stata, sotto a tutto questo,
una misteriosa storia, dorata da un’immensa ricchezza.
Entrò nella sala sotto gli sguardi di tutti e scambiando brevi
saluti, sino alla signora Morcerf, che in piedi davanti al caminetto
ornato di fiori, lo aveva visto comparire da uno specchio posto di
fronte alla porta, e si era preparata a riceverlo. Dunque si voltò
verso di lui, con un sorriso composto, nello stesso momento che egli
s’inchinava davanti a lei. Senza dubbio pensò invece che sarebbe
stata lei a rivolgergli la parola, ma tutt’e due restarono muti,
tanto sembrava loro indegna d’entrambi una finzione; e dopo essersi
scambiato il saluto, Montecristo si diresse verso Albert, che gli
veniva incontro tendendogli la mano.
«Avete visto mia madre?» domandò Albert.
«Ho avuto l’onore di salutarla», rispose il conte, «ma non ho visto
il vostro signor padre.»
«Eccolo laggiù, che parla di politica in quel piccolo gruppo di
grandi celebrità.»
«Davvero?» disse Montecristo. «Quei signori che vedo sono celebrità?
Non l’avrei pensato. E di quale specie? Vi sono delle celebrità di
ogni specie, come sapete.»
«Primo uno scienziato, quel signore grande e secco; ha scoperto
nella campagna romana una specie di lucertola che ha una vertebra in
più delle altre, ed è tornato per informare l’istituto di questa
scoperta. La cosa fu per lungo tempo contestata, ma alla fine il
vantaggio è rimasto all’uomo secco. La vertebra aveva fatto un gran
fracasso nel mondo sapiente, il signore grande e secco, che era
solamente cavaliere della Legion d’Onore, fu nominato ufficiale.»
«Alla buon’ora!» esclamò Montecristo. «Ecco una croce che mi sembra
data saggiamente; se ritrova una seconda vertebra, lo faranno
commendatore!»
«È probabile», concordò Morcerf.
«E quell’altro, che ha avuto la singolare idea di imbacuccarsi in un
abito turchino orlato di verde, che può mai essere?»
«Non è sua l’idea di paludarsi in quell’abito ma dello Stato che,
come sapete, è sempre poco artista, e, volendo dare un’uniforme agli
accademici, pregò David di disegnare loro un abito.»
«Davvero? Così vestito quel signore è un accademico?»
«Da otto giorni fa parte della dotta assemblea.»
«E qual è il suo merito, la sua specialità?»
«La sua specialità? Credo conficchi gli aghi nella testa dei
conigli, faccia mangiare della robbia ai polli, ed estragga con ossa
di balena il midollo spinale ai cani.»
«E per questo è dell’Accademia delle Scienze?»
«No, dell’Accademia di Francia.»
«Ma che cosa ha dunque a che fare l’Accademia di Francia con tutto
questo?»
«Ve lo dirò, sembra…»
«Che queste esperienze abbiano fatto fare un gran passo alla
scienza, senza dubbio…»
«No, ma che scriva con un bello stile.»
«Ciò deve», osservò Montecristo, «lusingare enormemente l’amor
proprio dei cani ai quali fu tolto il midollo spinale!»
Albert si mise a ridere.
«E quell’altro?» domandò il conte.
«L’abito turchino fiordaliso?»
«Sì.»
«È un collega del conte, quello che si è opposto più calorosamente
alla proposta che la Camera dei Pari abbia un’uniforme. Ha avuto un
gran successo all’assemblea su questo argomento; era in pessima luce
presso i giornali liberali, ma la sua nobile opposizione ai desideri
della corte, lo ha riconciliato con loro… Si dice che verrà nominato
ambasciatore.»
«E quali sono i suoi titoli per essere divenuto Pari?»
«Ha scritto due o tre opere comiche, ha preso quattro o cinque
azioni al “Siècle”, e ha votato a favore del governo per cinque o
sei anni.»
«Bravo visconte», disse Montecristo ridendo, «voi siete uno
spiritoso cicerone… Ora mi farete un favore, non è vero?»
«Quale?»
«Non mi presenterete a quei signori, e se domandano essermi
presentati, me lo eviterete.»
In quel momento il conte sentì una mano posarsi sul suo braccio; si
voltò, era Danglars.
«Siete voi, barone?» diss’egli.
«Perché mi chiamate barone? Sapete bene che non do importanza al mio
titolo. Non sono come voi, visconte, voi ci tenete, non è vero?»
«Certamente», replicò Albert, «perché se non fossi visconte, non
sarei più niente, mentre voi potreste sacrificare il vostro titolo
di barone, e restereste sempre milionario.»
«Che è il più bel titolo, sotto il governo di luglio.»
«Disgraziatamente», disse Montecristo, «non si è sempre milionari a
vita, come si può essere barone, Pari di Francia, o accademico, ne
facciano fede i milionari Frank e Poulmann di Francoforte che hanno
fatto bancarotta.»
«Davvero?» disse Danglars impallidendo.
«Sulla mia parola, ho ricevuto la notizia questa sera da un
corriere: avevo qualche cosa, circa un milione sul loro conto ma,
avvertito in tempo, ho fatto esigere il rimborso circa un mese fa.»
«Mio Dio!» esclamò Danglars. «Hanno spiccato una tratta su di me per
duecentomila franchi.»
«Ebbene, siete avvisato: la loro firma non vale più che il cinque
percento.»
«Sì, ma io sono stato avvertito troppo tardi… Ho fatto onore alla
loro firma.»
«Bravo!» esclamò Montecristo. «Ecco altri duecentomila franchi che
sono andati a raggiungere…»
«Zitto», replicò Danglars, «non parlate di questi affari…» e,
avvicinandosi a Montecristo, «particolarmente in presenza del signor
Cavalcanti figlio», aggiunse il banchiere, che, pronunciando queste
parole, si volse sorridendo dalla parte del giovane.
Morcerf aveva lasciato il conte per parlare a sua madre. Danglars lo
lasciò per salutare Cavalcanti figlio. Montecristo si ritrovò per un
momento solo. Frattanto il caldo cominciava a divenire eccessivo. I
camerieri circolavano per le sale con vassoi carichi di frutta e di
gelati. Montecristo si asciugò col fazzoletto il viso bagnato di
sudore, ma quando il vassoio gli passò davanti, non prese nulla per
rinfrescarsi.
La signora Morcerf non lo perdeva di vista, vide passare il vassoio
e notò il suo rifiuto: afferrò perfino il movimento che fece
nell’allontanarsi.
«Albert», disse, «avete osservato una cosa?»
«Quale, madre mia?»
«Che il conte non ha mai voluto accettare un pranzo dal signor
Morcerf.»
«Sì, ma ha accettato una colazione da me, e grazie a questa
colazione ha fatto il suo ingresso nella società.»
«Da voi non è dal conte», mormorò Mercedes, «e da quando è qui, l’ho
osservato…»
«E allora?»
«Non ha ancora preso nulla.»
«Il conte è molto sobrio.»
Mercedes sorrise tristemente.
«Riavvicinatevi a lui», suggerì, «e al primo vassoio che passa,
insistete.»
«E perché, madre mia?»
«Fatemi questo piacere, Albert», disse Mercedes.
Albert baciò la mano di sua madre, e andò accanto al conte. Passò un
altro vassoio carico come i precedenti: lei vide Albert insistere
presso il conte, prendere anche un gelato e presentarglielo, ma il
conte rifiutare ostinatamente.
«Ebbene», disse, «vedete, ha rifiutato.»
«Ma in cosa può preoccuparvi questo?»
«Lo sapete, Albert, le donne sono singolari. Avrei visto con piacere
il conte prendere qualche cosa in casa mia, fosse anche stato un
solo grano di melagrana. Del resto forse non saprà adattarsi ai
costumi francesi, forse preferirà qualche altra cosa.»
«Mio Dio, no, l’ho visto in Italia mangiare di tutto; senza dubbio
questa sera sarà indisposto.»
«Poi», aggiunse la contessa, «avendo sempre abitato nei climi
ardenti, forse sarà meno sensibile di un altro a questo caldo.»
«Non credo, poiché si lagnava di sentirsi soffocare. Domandava anzi
perché, avendo già aperte le finestre, non aprano pure le persiane.»
«Infatti questo è il mezzo per assicurarmi se questa astinenza è un
piano prestabilito.»
E uscì dalla sala.
Un momento dopo si aprirono le persiane e si poté, attraverso i
gelsomini e le clematidi che tappezzavano le finestre, vedere tutto
il giardino illuminato con lanterne, e la cena imbandita sotto una
tenda. Ballerini e ballerine, giocatori e conversatori, mandarono un
grido di gioia, tutti respiravano con delizia l’aria che entrava a
torrenti.
Nello stesso punto ricomparve Mercedes, più pallida di quando era
uscita, ma con quella fermezza ch’era in lei notevole in certe
occasioni. Andò direttamente al gruppo di cui suo marito era il
centro.
«Non trattenete questi signori, signor conte», disse, «preferiranno,
se non giocano, respirare nel giardino che soffocare in questa
sala.»
«Ah, signora», rispose un vecchio generale, molto galante, che nel
1809 aveva cantato Nel partire per la Siria, «non andremo soli in
giardino.»
«Sia», annuì Mercedes, «vi darò il buon esempio.»
E voltandosi verso Montecristo.
«Signor conte», disse, «fatemi l’onore di offrirmi il braccio.»
Il conte quasi vacillò a queste semplici parole; poi guardò un
momento Mercedes, un momento che ebbe la rapidità del lampo, eppure
sembrò alla contessa che durasse un secolo, tanti pensieri aveva
Montecristo espressi in quello sguardo. Offrì il braccio alla
contessa, che vi si appoggiò, o, per meglio dire, lo sfiorò con la
sua piccola mano, ed entrambi discesero dai gradini dalla scalinata.
Dietro a essi, e per l’altra parte della scalinata si lanciarono nel
giardino, con le più rumorose esclamazioni di piacere, una ventina
d’invitati.
70. Il pane e il sale
La signora Morcerf passò col suo compagno sotto un arco di foglie
venendo da un viale di tigli che conduceva a una serra.
«Faceva troppo caldo nella sala, non è vero, signor conte?» gli
disse.
«Sì, signora, è stata un’eccellente idea la vostra di fare aprire le
porte e le persiane.»
Nel pronunciare queste parole il conte s’accorse che la mano di
Mercedes tremava.
«Ma voi», osservò, «con questa veste leggera e senz’altro al collo
che questa sciarpa di velo, non avrete freddo?»
«Sapete dove vi porto?» domandò la contessa senza rispondere alla
domanda di Montecristo.
«No, signora, ma, lo vedete, non faccio resistenza.»
«A quella serra che vedete là, in fondo al viale.»
Il conte guardò Mercedes come per interrogarla: ma lei continuò il
cammino senza dir parola, e Montecristo divenne muto. Arrivarono
alla serra ricolma di frutti magnifici, che al principio di luglio
giungono alla loro maturità in questa temperatura sempre calcolata
per sostituire il calore del sole. La contessa lasciò il braccio di
Montecristo, e colse un grappolo di uva moscatella.
«Prego, signor conte», lo invitò, con un sorriso fatto più triste da
due lacrime che le spuntavano dagli occhi, «prendete, la nostra uva
di Francia non è paragonabile, lo so, alle vostre di Sicilia e di
Cipro, ma sarete indulgente col nostro debole sole del Nord.»
Il conte s’inchinò, e fece un passo indietro.
«La rifiutate?» disse Mercedes con voce tremante.
«Signora» rispose Montecristo, «vi prego umilmente di scusarmi, ma
non mangio mai uva.»
Mercedes lasciò cadere il grappolo sospirando.
Una pesca magnifica pendeva da una spalliera vicina, riscaldata pure
dal calore artificiale della stufa. Mercedes si avvicinò al frutto
vellutato e lo colse.
«Allora prendete questa pesca», insistette.
Ma il conte fece lo stesso gesto di rifiuto.
«Oh, ancora!» sospirò lei, con accento così doloroso da potersi
capire che soffocava un singhiozzo. «Sono davvero sfortunata…»
Un lungo silenzio seguì questa scena; la pesca, come il grappolo
d’uva, era rotolata al suolo.
«Signor conte», riprese Mercedes, guardando Montecristo con occhio
supplichevole, «vi è un commovente costume in Arabia che fa
eternamente amici quelli che hanno fra loro diviso il pane e il sale
sotto il medesimo tetto.»
«Lo conosco, ma noi siamo in Francia e non in Arabia; e in Francia
non vi è divisione di pane e di sale, come non vi sono amicizie
eterne.»
«Ma infine», continuò la contessa palpitante con gli occhi fissi in
quelli di Montecristo, del quale riafferrava il braccio con ambo le
mani, «noi siamo amici, non è vero?»
Il sangue affluì al cuore del conte, che divenne pallido come la
morte, poi rifluendo dal cuore alla gola, ne colorì le guance; gli
occhi nuotarono nel vago per qualche secondo, come quelli di un uomo
colpito da improvviso bagliore.
«Certamente che siamo amici, signora», replicò egli. «E d’altra
parte perché non dovremmo esserlo?»
Questo convegno era talmente diverso da quello che desiderava la
madre d’Albert, che si volse per esalare un sospiro che
rassomigliava a un gemito.
«Grazie», disse e si rimise a camminare.
«Signore», riprese, dopo dieci minuti di silenziosa passeggiata, «è
vero che avete visto tanto, tanto viaggiato, e tanto sofferto?»
«Ho sofferto moltissimo, signora», rispose Montecristo.
«Ma ora siete felice?»
«Senza dubbio, nessuno può dire che io mi lamenti.»
«E la vostra felicità presente vi fa l’anima più dolce?»
«No, eguaglia la mia passata infelicità.»
«Non siete sposato?» domandò la contessa.
«No, non sono sposato», rispose Montecristo fremendo. «Chi ha potuto
dirvi una cosa simile?»
«Non mi fu detto, ma più di una volta siete stato visto condurre
all’Opéra una bella e giovane donna.»
«È una schiava che comprai a Costantinopoli, la figlia di un
principe, che tengo con me come una figlia, non avendo altre
affezioni in questo mondo.»
«Vivete dunque solo?»
«Vivo solo.»
«Non avete sorelle… figli… padre?»
«Non ho alcuno.»
«Come potete vivere così, senza nessun vincolo, senza una donna…?»
«Non è colpa mia, signora. A Malta amavo una donna, e stavo per
sposarla, quando sopraggiunse la guerra e mi portò lontano da lei,
rapito come da un turbine. Credevo che lei mi amasse abbastanza per
aspettarmi, per restarmi fedele sino alla tomba. Quando ritornai era
maritata. Questa è la storia di tutti gli uomini che sono passati
per i vent’anni: avevo forse il cuore più debole degli altri, e ho
sofferto più di quello che altri avrebbero fatto al mio posto.»
La contessa si fermò un momento come se avesse avuto bisogno di
fermarsi per respirare.
«Sì», disse, «e quest’amore vi è rimasto nel cuore… Non si ama
davvero che una sola volta… E avete mai più rivista quella donna?»
«Mai!»
«Mai?»
«Non sono più ritornato nel Paese dove lei stava.»
«A Malta?»
«Sì, a Malta.»
«Dunque, è a Malta?»
«Esatto.»
«E le avete perdonato quanto vi fece soffrire?»
«A lei sì.»
«Ma a lei soltanto? Odiate sempre quelli che vi hanno diviso da
lei?»
«No… Perché dovrei odiarli?»
La contessa si pose di fronte a Montecristo, e cogliendo un altro
grappolo d’uva: «Prendete», disse.
«Non mangio mai uva, signora.»
La contessa gettò il grappolo nel cespuglio più vicino, con un gesto
di dispetto.
«È inflessibile!» mormorò.
Montecristo restò impassibile come se il rimprovero non fosse stato
diretto a lui. Albert accorreva in quel momento.
«Oh, madre mia!» esclamò. «Una gran disgrazia!»
«Che cosa è accaduto?» domandò la contessa allarmata e scuotendosi,
come se dopo il sogno fosse giunta la realtà, «una disgrazia, avete
detto? Infatti poteva accadere!»
«Il signor Villefort è qui.»
«Ebbene?»
«Viene a cercare sua moglie e sua figlia.»
«E perché?»
«Perché la marchesa di Saint-Méran è giunta a Parigi, portando la
notizia che il signor di Saint-Méran è morto alla prima posta
lasciando Marsiglia. La signora Villefort ch’era molto allegra, non
voleva né comprendere né credere a questa disgrazia; ma la signorina
Valentine, alle prime parole, per quante cautele avesse preso suo
padre, ha indovinato tutto: questo colpo l’ha colpita come un
fulmine, ed è caduta svenuta.»
«E che cos’è il conte di Saint-Méran per la signorina Villefort?»
chiese il conte.
«Suo nonno materno. Veniva per concludere il matrimonio di sua
nipote con Franz.»
«Davvero! Ecco il matrimonio di Franz rinviato… Ah, perché
Saint-Méran non è anche nonno della signorina Danglars!»
«Albert! Albert!» ribatté la signora Morcerf in tono di rimprovero.
«Che dite? Conte, voi, per cui ha tanta considerazione, ditegli
dunque che non sono cose da pensarsi queste!»
Lei fece qualche passo avanti. Montecristo la guardò così
stranamente, e con così affettuosa ammirazione, che lei ritornò
indietro, gli prese la mano, mentre stringeva quella del figlio, e
unendole entrambe: «Noi siamo amici, non è vero?» domandò.
«Vostro amico, signora, non ho questa pretesa», rispose il conte.
«In ogni caso sono sempre vostro rispettosissimo servitore.»
La contessa si allontanò con un inesprimibile stringimento di cuore,
e, prima che avesse fatto dieci passi, il conte la vide portarsi il
fazzoletto agli occhi.
«C’è stato qualche screzio con mia madre?» domandò Albert
meravigliato.
«Al contrario», rispose il conte, «avete sentito, siamo amici.»
Rientrarono nella sala che era stata allora lasciata da Valentine,
dal signore e dalla signora Villefort. È superfluo aggiungere che
Morrel partì dopo di loro.
71. La signora di Saint-Méran
Una scena macabra in casa del signor Villefort. Dopo la partenza
delle due signore per la festa da ballo, a cui tutte le insistenze
della signora Villefort non avevano potuto convincere il marito ad
accompagnarla, il procuratore del re, secondo il suo costume, si era
chiuso in ufficio con una sfilza di carte che avrebbe sgomentato
chiunque, ma non Villefort, che era un lavoratore. Questa volta la
sfilza di carte conteneva cose di pura e semplice firma.
Villefort in verità non si rinchiudeva per lavorare, ma per
riflettere; e, chiusa la porta, ordinò di non essere disturbato che
per cose importanti: si sedette e ripercorse nella memoria tutto ciò
che, da sette o otto giorni, faceva straripare la coppa dei suoi
tetri dispiaceri, dei suoi amari ricordi. A quel punto, invece di
portare la mano sul monte di carte ammassate davanti a lui, aprì un
cassetto dello scrittoio, fece scattare uno stipo ed estrasse un
plico che conteneva le sue note personali, manoscritto prezioso, nel
quale aveva classificato e distinto, con cifre conosciute da lui
solo, i nomi di tutti coloro che, nella sua carriera politica, nei
suoi affari d’interesse pecuniario, nelle sue cause criminali o nei
suoi misteriosi amori, erano diventati suoi nemici. Il numero era
molto elevato e con nomi da incutere paura. E tuttavia tutti questi
nomi, per quanto minacciosi o temibili fossero, lo avevano fatto
molte volte sorridere, come sorride il viaggiatore che dalla
montagna guarda ai suoi piedi gli acuti picchi, le strade
impraticabili, gli orli dei precipizi per i quali si è arrampicato
per poter giungere a quell’altezza.
Dopo che ebbe ripassato ben bene tutti quei nomi nella memoria,
quando li ebbe bene commentati sulle sue liste, scosse la testa:
«No», mormorò, «nessuno di questi nemici avrebbe atteso
pazientemente e inoperosamente fino al giorno in cui siamo, per
venirmi ora a schiacciare con questo segreto. Qualche volta, come
dice Amleto, il rumore delle cose più profondamente seppellite sotto
terra sorge, e, come i fuochi fatui, corre follemente per l’aria; ma
queste sono fiamme che illuminano per un momento per quindi
spegnersi. La storia sarà stata raccontata dal corso a qualche
prete, che l’avrà a sua volta raccontata. Il signore di Montecristo
l’avrà saputa, e per scoprire la verità… Ma con quale vantaggio?»
riprendeva Villefort dopo un momento di riflessione. «Per quale
motivo il signore di Montecristo, il signor Zaccone, il figlio di un
armatore di Malta, il proprietario di una miniera d’argento nella
Tessaglia, che viene per la prima volta in Francia, vuole chiarire
un fatto cupo, misterioso, e inutile come questo? In mezzo alle
informazioni incoerenti che mi sono state date da quell’abate
Busoni, e da quel lord Wilmore, da quell’amico e da questo nemico,
una sola cosa spicca chiara, precisa, ai miei occhi: in nessun caso,
in nessuna occasione può avere avuto il più piccolo contatto con
me.»
Tuttavia Villefort ripeteva spesso queste parole a se stesso senza
credere a quanto diceva. Terribile per lui non era una rivelazione,
perché poteva negare, o anche rispondere: si inquietava poco di quel
«Mane, Tekel, Phares» che appariva d’improvviso in lettere di sangue
sul muro; ciò che lo tormentava era conoscere il corpo al quale
apparteneva la mano che le aveva tracciate. Mentre tentava di
tranquillizzare se stesso, e, invece di quell’avvenire politico che
nei sogni d’ambizione aveva qualche volta intravisto, nel timore di
svegliare questo nemico addormentato da lungo tempo, si componeva un
avvenire ristretto alle gioie della famiglia, il rumore di una
carrozza rimbombò nel cortile, intese sulla scala passi di una
persona anziana, poi dei singhiozzi e dei sospiri.
Si affrettò a levare il chiavistello alla porta dell’ufficio, e ben
presto, senza essere annunciata entrò una vecchia signora, con lo
scialle sul braccio e il cappello in mano. I capelli bianchi
coprivano una fronte scura come l’avorio ingiallito e gli occhi,
appesantiti dalle rughe dell’età, sparivano quasi del tutto sotto il
gonfiore prodotto dal pianto.
«Oh, signore», gemette, «quale disgrazia! Io pure ne morirò! Sì,
certo ne morirò…»
E cadendo sulla sedia più vicina alla porta, proruppe in singhiozzi.
I domestici, in piedi sulla soglia, non osavano avanzare: guardavano
il vecchio servitore di Noirtier che, avendo sentito rumore dalla
camera del padrone, era accorso egli pure, e si teneva dietro gli
altri.
Villefort si alzò, e corse incontro a sua suocera.
«Mio Dio, signora», domandò, «cos’è accaduto? Che cosa vi sconvolge
così? E il signor di Saint-Méran?»
«È morto», disse la vecchia marchesa senza preamboli, senza
espressione e con una specie di stupore. Villefort indietreggiò di
un passo e batté le mani una contro l’altra.
«Morto!… Morto così… improvvisamente?»
«Otto giorni fa», continuò la signora di Saint-Méran, «dopo avere
pranzato salimmo insieme in carrozza. Il signor di Saint-Méran era
indisposto da qualche giorno; però l’idea di rivedere la nostra cara
Valentine lo rendeva coraggioso, e, malgrado i suoi dolori, aveva
voluto partire, quando, a sei leghe da Marsiglia, dopo aver preso le
consuete pastiglie, fu colto da un sonno profondo che non mi
sembrava naturale; tuttavia esitai a svegliarlo, quando mi sembrò
che il viso diventasse rosso, e le arterie delle tempie battessero
più del solito. Ma, siccome era sopraggiunta la notte, e io non
vedevo altri sintomi, lo lasciai dormire… A un certo punto mandò un
grido sordo e straziante come quello di un uomo che soffre un
incubo, e con improvviso movimento rovesciò la testa all’indietro.
Chiamai il cameriere, feci fermare il postiglione, invocai il signor
di Saint-Méran, gli feci respirare la mia boccetta di sali… Tutto
era finito: era morto. A fianco del suo cadavere giunsi fino ad
Aix.»
Villefort rimase stupefatto e con la bocca aperta.
«E voi senza dubbio chiamaste un medico?»
«Nello stesso momento, ma, come vi ho già detto, era troppo tardi.»
«Ma almeno poteva dirvi di che malattia era morto il povero
marchese.»
«Sì, me l’ha detto: sembra sia stata un’apoplessia fulminante.»
«E allora che avete fatto?»
«Il signor di Saint-Méran aveva sempre detto che se fosse morto
lontano da Parigi desiderava che il suo corpo fosse ricondotto nella
tomba di famiglia; l’ho fatto mettere in una cassa di piombo, e lo
precedo di pochi giorni.»
«Mio Dio, povera madre!» disse Villefort. «Simili cure dopo un tale
colpo alla vostra età!»
«Dio mi ha dato forza sino alla fine, il caro marchese avrebbe fatto
per me ciò che ho fatto per lui. È vero che dal momento in cui l’ho
lasciato laggiù, mi sembra di esser pazza: non posso piangere, alla
mia età non ci sono più lacrime; anche se mi sembra che fino a che
si soffre, si deve poter piangere. Dov’è Valentine, signore? È per
lei che ritorniamo, voglio vedere Valentine.»
Villefort pensò che sarebbe stato orribile rispondere che Valentine
era al ballo; disse alla marchesa che sua nipote era uscita con la
matrigna, e che avrebbe mandato ad avvertirla.
«Mandate subito, signore, ve ne supplico!»
Villefort offrì il braccio alla signora di Saint-Méran e la condusse
al suo appartamento.
«Riposatevi, madre mia.»
A quelle parole la marchesa alzò la testa, e vedendo quell’uomo che
le ricordava la figlia tanto pianta, e che riviveva per lei in
Valentine, si sentì colpita da questo nome di madre; si sciolse in
lacrime, e cadde su una poltrona. Villefort la raccomandò alle cure
delle cameriere, mentre il vecchio Barrois risaliva tutto ansante
dal suo padrone. Niente spaventa tanto i vecchi come quando la morte
li abbandona un momento per colpire un altro vecchio.
Intanto Villefort, mentre la signora di Saint-Méran, sempre
inginocchiata, pregava dal fondo del cuore, mandò a cercare una
carrozza di piazza, e andò egli stesso in casa della signora
Morcerf, per ricondurre a casa sua moglie e la figlia. Era tanto
pallido, quando apparve sulla soglia della sala, che Valentine corse
da lui gridando: «Padre mio, quale disgrazia è accaduta?»
«Vostra nonna, è arrivata…» disse Villefort.
«E mio nonno?» domandò la ragazza tremante.
Il signor Villefort non rispose, se non offrendo il braccio a sua
figlia. Era tempo: Valentine, presa da vertigine, vacillava; la
signora Villefort si affrettò a sostenerla, e aiutò suo marito a
trascinarla verso la carrozza, dicendo: «Tutto ciò è terribile! Chi
avrebbe potuto pensarlo?»
E quella famiglia desolata se ne andò così, gettando la tristezza
come un velo nero su quella che avrebbe dovuto essere una festa.
In fondo alla scala Valentine trovò Barrois che l’aspettava.
«Il signor Noirtier desidera vedervi questa sera stessa…» le disse a
bassa voce.
«Ditegli che andrò da lui quando uscirò dalla camera di mia nonna.»
Nella delicatezza della sua anima, la ragazza capì bene che chi
aveva più di tutti bisogno di lei in quell’ora, era la signora di
Saint-Méran.
Valentine trovò la nonna a letto: mute carezze, sospiri interrotti,
lacrime ardenti, ecco i soli particolari da narrare di questa
conversazione, alla quale assisteva, stando sotto il braccio di suo
marito, la signora Villefort, piena di rispetto, almeno apparente,
per la povera vedova.
Dopo un momento, si accostò all’orecchio del marito.
«Col vostro permesso», disse, «è meglio che mi ritiri, perché sembra
che la mia vista affligga ancor più vostra suocera.»
La signora di Saint-Méran l’udì.
«Sì, sì», mormorò all’orecchio di Valentine, «che se ne vada, ma tu
resta.»
La signora Villefort uscì, e Valentine rimase sola vicino al letto
della nonna. Il procuratore costernato da questa morte improvvisa,
seguì la moglie. Barrois era salito la prima volta dal vecchio
Noirtier, che, udito tutto il rumore che si faceva in casa, aveva
inviato il vecchio servitore a informarsi. Al ritorno quell’occhio
vivo e soprattutto intelligente, interrogò il messaggero: «Ah,
signore», iniziò Barrois, «è accaduta una grande disgrazia. È giunta
la signora di Saint-Méran, e suo marito è morto».
Saint-Méran e Noirtier non erano mai stati legati da buona amicizia,
eppure Noirtier lasciò cadere la testa pensieroso.
«La signorina Valentine?» domandò Barrois.
Noirtier fece segno di sì.
«È a un ballo, il signore lo sa bene, è venuta a salutarlo in gran
toilette.»
Noirtier chiuse l’occhio sinistro.
«Sì, volete vederla?»
Il vecchio fece segno che ciò era quanto desiderava.
«Ebbene, avranno già mandato a cercarla, senza dubbio, dalla signora
Morcerf; l’aspetterò al suo ritorno, e le dirò di salire da voi. Va
bene?»
«Sì», accennò il paralitico.
Barrois aveva dunque aspettato il ritorno di Valentine, e come
abbiamo visto, al ritorno di lei espose il desiderio del nonno.
Valentine salì dal signor Noirtier, dopo essere uscita dalle stanze
della signora di Saint-Méran, che per quanto fosse agitata aveva
finalmente finito col soccombere alla fatica, e dormiva di un sonno
febbrile. Le avevano avvicinato a portata di mano una piccola tavola
sulla quale era una caraffa di aranciata, sua bibita abituale, e un
bicchiere. La ragazza lasciò il letto della marchesa per salire dal
signor Noirtier.
Valentine corse ad abbracciare il vecchio che la guardò tanto
teneramente che la ragazza sentì di nuovo salire le lacrime. Il
vecchio insisteva col suo sguardo.
«Sì, sì», capì Valentine, «vuoi dire che ho sempre un buon nonno,
non è vero?»
Il vecchio fece segno che era quanto aveva voluto esprimere con lo
sguardo.
«Senza di te che cosa ne sarebbe di me?»
Era l’una dopo mezzanotte.
Barrois, che aveva voglia di andarsene a letto, fece osservare che
dopo una serata così dolorosa, tutti avevano bisogno di riposo. Il
vecchio non volle dire che il suo riposo era vedere sua nipote:
congedò Valentine sul cui viso si vedevano dipinti il dolore e la
fatica di chi soffre. L’indomani entrando nella camera di sua nonna
la ritrovò a letto, la febbre non si era sedata, anzi, un fuoco
nascosto trapelava dagli occhi della vecchia marchesa, che sembrava
in preda a una violenta irritazione nervosa.
«Mia buona nonna, soffrite anche di più?!» gridò Valentine notando
quei brutti sintomi.
«No, figlia mia, no», rispose la signora di Saint-Méran, «ma
aspettavo con impazienza che tu giungessi, per mandare a chiamare
tuo padre.»
«Mio padre?» domandò Valentine inquieta.
«Sì, voglio parlargli.»
Valentine non osò opporsi al desiderio della nonna, del quale
d’altra parte non conosceva la causa, e un momento dopo entrò
Villefort.
«Signore», iniziò la signora di Saint-Méran senza alcun giro di
parole, e come se le mancasse il tempo, «mi avete scritto che si
tratta di un progetto di matrimonio per questa ragazza?»
«Sì, signora», rispose Villefort, «è anzi più che un progetto, è già
un impegno.»
«Vostro genero si chiama Franz d’Epinay?»
«Sì, signora.»
«È figlio del generale d’Epinay, che è dei nostri, non è vero? E che
fu assassinato qualche giorno prima che l’usurpatore ritornasse
dall’Elba?»
«Sì, proprio lui.»
«Questa parentela con la nipote di un giacobino, non gli ripugna?»
«Le nostre dispute civili si sono fortunatamente estinte, madre
mia», disse Villefort. «Il signor d’Epinay era quasi un bambino alla
morte di suo padre; conosce pochissimo il signor Noirtier, e lo
vedrà, se non con piacere, almeno con indifferenza.»
«È un partito conveniente?»
«Sotto tutti i rapporti, e il giovane gode della stima universale.»
«È buono?»
«È uno degli uomini più distinti che io conosca.»
Durante tutta questa conversazione Valentine era rimasta muta.
«Ebbene, signore», riprese dopo qualche secondo di riflessione la
signora di Saint-Méran, «bisogna fare presto, perché poco mi resta
da vivere.»
«Voi, signora, voi, buona nonna!» gridarono all’unisono il signor
Villefort e Valentine.
«So quel che dico, bisogna dunque sbrigarsi, affinché, non avendo
più sua madre, abbia almeno una nonna per benedire il matrimonio…
Sono la sola che le resta dal lato della povera Renée, che voi
signore, avete così presto dimenticata.»
«Signora», ribatté Villefort, «dimenticate che bisognava dare una
madre a questa povera ragazza, che non l’aveva più!»
«Una matrigna non è una madre, signore. Ma non è di ciò che si
tratta, si tratta di Valentine, lasciamo dunque i morti tranquilli.»
Tutto ciò era detto con una tale volubilità, e un tale accento, che
c’era in questa conversazione qualche cosa di delirante.
«Sarà fatto tutto secondo i vostri desideri», disse Villefort, «e
tanto più che il vostro desiderio è in armonia col mio; e appena
arriva a Parigi il signor d’Epinay…»
«Mia cara nonna, le convenienze, il lutto così recente… Vorreste
fare un matrimonio sotto così tristi auspici?»
«Figlia mia», interruppe vivamente la nonna, «non facciamo queste
inutili riflessioni che impediscono agli spiriti indipendenti di
fabbricare solidamente il loro avvenire. Io pure sono stata maritata
sul letto di morte di mia madre, e non sono stata per questo
infelice.»
«Ancora questa idea di morte», riprese Villefort.
«Ancora? Sempre!… Vi dico che sto per morire. Capite? Ebbene, prima
di morire, voglio vedere mio genero, voglio infine conoscerlo, per
venire poi a ritrovarlo dal fondo della mia tomba, se non sarà quel
che deve essere, quel che bisogna ch’egli sia.»
«Signora», disse Villefort, «bisogna che allontaniate da voi queste
idee esaltate, che quasi toccano la follia; i morti, una volta
rinchiusi nella tomba, ci rimangono senza muoversi più.»
«Sì, cara nonna, calmati!» aggiunse Valentine.
«E io vi dico, signore, che la cosa non è così come voi credete.
Questa notte ho dormito… ma d’un sonno terribile perché mi vedevo in
qualche modo dormire, come la mia anima avesse già sciolto i legami
col corpo: gli occhi, che mi sforzavo d’aprire, si richiudevano mio
malgrado, tuttavia so bene che ciò sembrerà impossibile a voi, ma
io, coi miei occhi chiusi, ho visto, nel luogo ove siete, ho visto
da quell’angolo dov’è la porta che conduce alla toilette della
signora Villefort, ho visto entrare senza rumore un’ombra bianca.»
Valentine emise un grido.
«Era la febbre che vi agitava», disse Villefort.
«Dubitatene quanto volete, io però sono sicura di quel che vi dico.
Ho visto un’ombra bianca, e quasi che Dio avesse temuto che non
prestassi fede alla testimonianza di uno solo dei miei sensi, ho
sentito rimescolare entro il mio bicchiere…, quello stesso che è lì,
sulla tavola…»
«Cara nonna, questo era un sogno!»
«Era tanto poco un sogno, che ho teso la mano verso il campanello, e
a questo gesto l’ombra fuggì. La cameriera entrò allora con un
lume.»
«Ma avete visto qualcuno?»
«I fantasmi non si mostrano che a quelli che devono vederli: era
l’anima di mio marito. Ebbene se l’anima di mio marito ritorna per
chiamarmi, perché non dovrò tornare per difendere mia nipote? Il
vincolo è ancora più diretto, mi sembra.»
«Signora, non date retta a queste lugubri idee, voi vivrete
lungamente felice, amata, onorata, e vi faremo dimenticare…»
«No, mai! mai! Quando ritorna il signor d’Epinay?»
«Lo aspettiamo da un momento all’altro.»
«Va bene: appena arriva avvisatemi. E noi sbrighiamoci… Vorrei anche
avere un notaio per assicurarmi che tutti i nostri beni passeranno a
Valentine.»
«Oh, nonna mia», mormorò Valentine appoggiando le labbra sulla
fronte ardente della vecchia, «dunque volete farmi morire? Voi avete
la febbre. Non è un notaio che bisogna chiamare, ma un medico!»
«Un medico? Io non soffro; ho sete, ecco tutto.»
«Cosa bevete, cara nonna?»
«Come sempre, tu lo sai bene, la mia aranciata. Il bicchiere è lì su
quella tavola… Dammelo, Valentine.»
Questa versò l’aranciata dalla bottiglia nel bicchiere, e lo prese
con un certo spavento per porgerlo a sua nonna, perché era lo stesso
bicchiere, a quanto pretendeva, toccato dall’ombra. La marchesa
vuotò il bicchiere d’un sol fiato, poi si rivoltò sul cuscino,
ripetendo: «Il notaio! il notaio!»
Il signor Villefort uscì, Valentine si sedette vicino al letto della
nonna. La povera ragazza sembrava aver gran bisogno lei stessa del
medico. Un rossore simile a una fiamma le bruciava le guance, la
respirazione era affannosa, e il polso le batteva come se avesse
avuto la febbre. La povera giovane pensava alla disperazione di
Maximilien, quando avrebbe saputo che la signora di Saint-Méran,
invece di essere una loro alleata, operava senza saperlo, come se
fosse stata una nemica. Più di una volta Valentine aveva pensato di
svelare tutto a sua nonna, e non avrebbe esitato un sol momento se
Maximilien Morrel si fosse chiamato Albert Morcerf, o Raoul
Château-Renaud, ma Morrel era di estrazione plebea, e Valentine
sapeva il disprezzo che l’orgogliosa marchesa di Saint-Méran portava
a tutto quel che non era della sua casta. Il suo segreto, nel
momento in cui stava per svelarlo, era dunque ricacciato nel cuore:
svelarlo a suo padre e alla sua matrigna, sarebbe stato solo
dannoso. Due ore circa passarono così. La signora di Saint-Méran
dormiva d’un sonno ardente e agitato. Fu annunciato il notaio.
Sebbene quest’annuncio fosse fatto molto a bassa voce la signora di
Saint-Méran si sollevò sul cuscino: «Il notaio!» disse. «Che venga,
che venga!»
Il notaio era alla porta, ed entrò.
«Vattene, Valentine», disse la signora di Saint-Méran, «e lasciami
col notaio.»
«Oh, nonna.»
«Va’.»
La ragazza baciò la nonna in fronte, e uscì col fazzoletto tra gli
occhi. Alla porta trovò il cameriere; le disse che il medico
aspettava nella sala.
Valentine scese rapidamente.
Il medico era un amico di famiglia, e uno dei più abili: amava molto
Valentine, da lui vista nascere: aveva una figlia dell’età circa
della signorina Villefort, ma nata da una madre tisica, per cui era
in continuo timore per la vita di sua figlia.
«Caro d’Avrigny», lo salutò Valentine, «vi aspettavamo con molta
impazienza. Ma prima di tutto, come stanno Madeleine e Antoinette?»
Il signor d’Avrigny sorrise tristemente.
«Benissimo Antoinette», disse, «e abbastanza bene Madeleine. Ma voi
cara ragazza, mi avete mandato a chiamare? Non è né per vostro
padre, né per la signora Villefort. In quanto a voi, sebbene veda
bene che siete sempre nervosa, non presumo abbiate bisogno di me che
per raccomandarvi di non lasciare che la vostra immaginazione corra
troppo…»
Valentine arrossì; il signor d’Avrigny spingeva l’intuizione fin
quasi al miracolo, perché era uno di quei medici che curava sempre
il fisico attraverso la psiche.
«No», disse, «è per la mia povera nonna: sapete la disgrazia che ci
è accaduta, non è vero?»
«Non so niente», disse il signor d’Avrigny.
«Ahimè», riprese Valentine, trattenendo i singhiozzi, «mio nonno è
morto.»
«Il signor di Saint-Méran?»
«Sì.»
«Improvvisamente?»
«Un attacco d’apoplessia fulminante.»
«Di apoplessia?» ripeté il medico.
«Sì, e adesso la povera nonna è convinta che suo marito, che lei non
aveva mai lasciato, la chiami, e che andrà presto a raggiungerlo.
Oh, signor d’Avrigny, portatele conforto.»
«Dove si trova?»
«Nella sua camera col notaio.»
«E il signor Noirtier?»
«Sempre lo stesso, una lucidità perfetta; ma la medesima immobilità,
lo stesso mutismo.»
«E lo stesso amore per voi, vero, cara ragazza?»
«Sì», disse Valentine sospirando, «mi ama molto.»
«E chi non vi amerebbe?»
Valentine sorrise tristemente.
«E che cosa si sente la nonna?» riprese d’Avrigny.
«Un’esaltazione nervosa particolare, un sonno agitato e strano…
Pretendeva questa mattina che durante il sonno, la sua anima s’era
disgiunta dal corpo, e di aver visto un fantasma entrare nella
camera, e inteso il rumore che faceva il preteso fantasma nel
toccare il suo bicchiere.»
«È strano», ammise il dottore, «non sapevo che la signora di
Saint-Méran fosse soggetta a queste allucinazioni.»
«È la prima volta che la vedo in un simile stato», concordò
Valentine, «e questa mattina mi ha fatto una gran paura: l’ho
creduta folle… E mio padre, voi signor d’Avrigny, conoscete
certamente l’indole di mio padre, ebbene, lo stesso padre mio mi è
sembrato molto impressionato.»
«Andiamo a vederla», disse il signor d’Avrigny. «Ciò che mi
raccontate mi sembra molto strano.»
Il notaio scendeva, e vennero ad avvertire Valentine che sua nonna
era sola.
«Salite», disse lei al dottore.
«E voi?»
«Non ho coraggio: mi aveva proibito di mandarvi a chiamare, e poi,
come dite, io stessa sono molto agitata, febbricitante, e
indisposta, vado a fare un giro in giardino per rimettermi.»
Il dottore strinse la mano a Valentine, e mentre saliva da sua nonna
la ragazza scendeva dalla scalinata.
Non abbiamo bisogno di dire quale fosse la parte di giardino
preferita da Valentine. Dopo aver fatto due o tre giri sul
praticello che circondava la casa, dopo aver raccolto una rosa per
metterla alla cintura, o nei capelli, s’inoltrava sotto il viale
ombroso che conduceva alla panchina, poi dalla panchina al cancello.
Questa volta Valentine fece, secondo la sua abitudine, due o tre
giri in mezzo ai fiori, ma senza raccoglierli. Il lutto del cuore,
che non aveva avuto ancora il tempo di giungere alla piena
coscienza, tuttavia rifiutava istintivamente la giocosità dei fiori.
Poi s’incamminò verso il viale.
Mentre s’inoltrava, le parve di sentire una voce che pronunciasse il
suo nome; si fermò meravigliata. Questa volta la voce giunse più
distinta al suo orecchio, e lei riconobbe quella di Maximilien.
72. La promessa
Infatti era Morrel che dalla sera precedente non viveva più. Con
l’istinto particolare agli innamorati, e alle madri, aveva
indovinato che in seguito al ritorno della signora di Saint-Méran e
alla morte del marchese, sarebbe accaduto qualcosa in casa
Villefort, qualcosa che riguardava il suo amore per Valentine. I
suoi presentimenti si erano avverati; non era più una semplice
inquietudine quella che lo conduceva così sconvolto e tremante al
cancello dei castagni. Tuttavia Valentine non sapeva che lui fosse
là ad attenderla; quella non era l’ora in cui ordinariamente si
vedevano, e fu un puro caso, o meglio una combinazione, che la
condusse al giardino.
Quando comparve, Morrel la chiamò, ed ella corse al cancello.
«Voi, a quest’ora?» si stupì.
«Ebbene sì, vengo a cercare e a portare cattive notizie.»
«Dunque è il giorno delle disgrazie? Parlate, anche se la somma dei
miei dolori è sufficiente.»
«Mia cara Valentine», disse Morrel, cercando di rimettersi dalla
propria emozione, per parlare pacatamente, «ascoltatemi bene, perché
tutto ciò che sto per dirvi è solenne. Quando contano di maritarvi?»
«No, non è il momento», rispose Valentine, «ma non voglio
nascondervi nulla, Maximilien. Questa mattina hanno parlato del mio
matrimonio, e mia nonna, sulla quale contavo per un appoggio, non
solo si è dichiarata favorevole, ma lo desidera a tal punto che la
sola lontananza del signor Franz lo ritarda, e l’indomani del suo
arrivo il contratto sarà firmato.»
Un penoso sospiro uscì dal petto del giovane che guardò lungamente e
tristemente la sua diletta.
«È spaventoso», disse a voce bassa, «sentir dire tranquillamente
dalla donna che si ama: “Il momento del nostro supplizio è fissato;
fra poche ore avrà luogo”. Ma non importa, bisogna sia così, e dal
canto mio non opporrò ostacoli. Poiché non si aspetta che l’arrivo
del signor d’Epinay per sottoscrivere il contratto, e voi sarete sua
l’indomani del suo arrivo, domani voi apparterrete a lui, perché
egli è giunto a Parigi questa mattina.»
Valentine mandò un grido.
«Ero dal conte di Montecristo, un’ora fa…» continuò Morrel.
«Parlavamo, egli del dolore della vostra casa, e io del dolore
vostro, quando d’improvviso si sente una carrozza in cortile.
Ascoltate! Io non credevo ai presentimenti, ma ora bisogna che vi
creda: al rumore di quella carrozza sono stato investito da un
fremito in tutto il corpo; ben presto udii dei passi sulla scala.
Finalmente si apre la porta: Albert Morcerf entra per primo; stavo
per dubitare di me stesso, stavo per credere d’essermi ingannato,
quando dietro a lui s’avanza un altro giovane, e il conte esclama:
“Ah, barone Franz d’Epinay!”
Quanto ho di forza e di coraggio lo raccolsi per contenermi. Forse
sono impallidito, forse ho tremato, ma certo sono rimasto col
sorriso sulle labbra… Cinque minuti dopo sono uscito senza avere
udito una parola di ciò che fu detto, in quei cinque minuti, ero
annientato.»
«Povero Maximilien!» mormorò Valentine.
«Guardatemi, Valentine. Vediamo, rispondete come a un uomo al quale
la vostra risposta deve dare la vita o la morte: che contate di
fare?»
Valentine abbassò la testa; era oppressa.
«Ascoltate», riprese Morrel. «Non è la prima volta che voi pensate
alla nostra situazione: ora è grave, è pressante, è suprema! Non
credo sia il momento di abbandonarsi a uno sterile dolore, buono per
quelli che vogliono soffrire a loro agio, e bere in pace le loro
lacrime… Ci sono di queste persone, e Dio certamente ricompenserà
nel cielo la loro rassegnazione sulla terra, ma chiunque si sente la
volontà di lottare, non perde tempo prezioso, e rende immediatamente
alla sorte il colpo col quale fu colpito. Avete la volontà di
lottare contro l’avversa sorte? Dite, Valentine, questo è quanto vi
domando…»
Valentine tremò, e guardò Morrel con occhi spaventati. L’idea di
resistere a sua nonna, infine a tutta la famiglia, non le era ancora
venuta.
«Che mi dite, Maximilien? E cosa chiamate una lotta? Dite piuttosto
un sacrilegio. Io lottare contro l’ordine di mio padre, contro il
desiderio della mia nonna moribonda? Questo è impossibile.»
Morrel fece un movimento; Valentine continuò: «Voi avete un cuore
troppo nobile per non comprendermi, e mi comprendete tanto bene, che
vi ho ridotto al silenzio. Lottare, io? Dio me ne salvi! No, no,
serbo tutta la mia forza per lottare contro me stessa, e per bere le
mie lacrime, come voi dite… In quanto ad affliggere mio padre, in
quanto a turbare gli ultimi momenti di mia nonna, mai!»
«Avete ragione», disse freddamente Morrel.
«Mio Dio, in che modo me lo dite!» esclamò Valentine offesa.
«Vi dico ciò, come un uomo che vi ammira, signorina!»
«Signorina!» gridò ancora Valentine. «Signorina! L’egoista! Mi vede
alla disperazione, e finge di non capirmi…»
«V’ingannate, anzi vi capisco perfettamente. Voi non volete
contrariare il signor Villefort, non volete disobbedire alla
marchesa, e domani sottoscriverete il contratto che deve unirvi al
vostro sposo.»
«Mio Dio! Come potrei fare altrimenti?»
«Non bisogna appellarsi a me, perché sono un cattivo giudice in
questa causa, e il mio egoismo mi accecherebbe», rispose Morrel, la
cui voce cupa e i pugni stretti indicavano la crescente
esasperazione.
«Che mi avreste dunque proposto, Morrel, se mi aveste trovata
disposta ad accettare la vostra follia? Sentiamo, rispondete, non si
tratta di dire “fate male”, si tratta di dare un consiglio.»
«Parlate seriamente, Valentine? E devo io darvi questo consiglio?»
«Certamente, caro Maximilien, perché se è buono, io lo seguirò:
sapete bene quanto vi amo.»
«Valentine», riprese Morrel terminando di staccare un’asse già
sconnessa, «datemi la vostra mano come promessa che perdonate la mia
collera… Ho la testa sconvolta, vedete bene, da un’ora le idee più
insensate hanno percorso una per volta il mio cervello. Nel caso che
rifiutaste il mio consiglio…»
«Ebbene, questo consiglio?»
«Ebbene, Valentine.»
La giovane alzò gli occhi al cielo e sospirò.
«Io sono libero», rispose Maximilien, «sono abbastanza ricco per noi
due, vi giuro innanzi all’Eterno che sarete mia moglie prima che le
mie labbra si siano posate sulla vostra fronte…»
«Voi mi fate tremare», mormorò la giovane.
«Seguitemi», continuò Morrel, «vi condurrò da mia sorella che è
degna di essere anche vostra sorella… Poi c’imbarcheremo per Algeri,
per l’Inghilterra, o per l’America o, se preferite, ci ritiriamo in
qualche provincia, dove aspetteremo che qualche amico abbia vinto la
resistenza della vostra famiglia.»
Valentine scosse la testa.
«Io me l’aspettavo, Maximilien», disse lei. «Questo è un consiglio
insensato, e sarei ancor più insensata di voi se non vi fermassi con
queste sole parole: impossibile, Morrel, impossibile!»
«Soffrirete dunque la sorte come si presenta, senza neppure tentare
di combatterla?» domandò Morrel cupo.
«Sì, dovessi anche morire!»
«Valentine, vi ripeterò di nuovo che avete ragione; infatti io sono
un pazzo, e voi mi provate che la passione acceca gli spiriti più
retti. Grazie, dunque, a voi che ragionate senza passione. Sia
dunque così, è cosa intesa: domani sarete irrevocabilmente promessa
al signor d’Epinay, non già con quella formalità immaginata per
sciogliere gli intrecci delle commedie, e che si chiama
“sottoscrizione del contratto”, ma per vostra propria volontà.»
«Ancora una volta mi gettate nella disperazione, Morrel», ribatté
Valentine, «e ancora una volta ricacciate il pugnale nella ferita!
Che fareste, dite, se vostra sorella ascoltasse un consiglio uguale
a quello che mi date?»
«Signorina», rispose Morrel, con un amaro sorriso, «sono un egoista,
e nella mia qualità d’egoista, non penso a quel che farebbero gli
altri nella mia posizione, ma a quel che conto di fare io. Penso che
vi conosco da un anno, che ho riposto, dal giorno in cui vi conobbi,
tutte le possibili felicità nel vostro amore, che venne un giorno in
cui mi diceste che mi amavate, che da quel giorno fissai le sorti
del mio avvenire sul vostro possesso, giacché il possedervi è per me
la vita. Ora non penso più a niente: dico solo a me stesso che le
cose sono cambiate, che credevo aver guadagnato la felicità, e l’ho
invece perduta. Ciò accade sempre al giocatore che perde non solo
quel che aveva, ma quello che non aveva.»
Morrel pronunciò queste parole con la più perfetta calma. Valentine
lo guardò un momento con i suoi grandi occhi scrutatori, e, cercando
di non far comprendere a Morrel quanto era agitata nel cuore, disse:
«Ma infine, che farete?»
«Ho l’onore di dirvi addio, signorina, chiamando testimone Dio, che
sente le mie parole, e legge nel fondo del mio cuore, che vi auguro
una vita molto calma e felice, e tanto piena in gioie, che non vi
rimanga posto per la mia memoria.»
«Oh!» mormorò Valentine.
«Addio, Valentine, addio!» disse Morrel inchinandosi.
«Dove andate?» gridò, allungando la mano attraverso il cancello e
afferrando Maximilien per l’abito. Valentine comprendeva,
dall’interna agitazione, che la calma del suo innamorato non poteva
essere reale. «Dove andate?»
«Vado a occuparmi di non arrecare un nuovo dispiacere alla vostra
famiglia, a dare un esempio che potranno seguire tutte le oneste
persone che si troveranno nella mia posizione.»
«Prima di lasciarmi ditemi ciò che volete fare?»
Il giovane sorrise con tristezza.
«Parlate! parlate!» gemette Valentine. «Ve ne prego!»
«La vostra decisione è forse cambiata, Valentine?»
«Non può cambiare, infelice! Voi ben lo sapete!» esclamò la giovane.
«Allora, addio, Valentine!»
Questa scosse il cancello con una forza di cui non si sarebbe
creduta capace, e siccome Morrel si allontanava, passò le due mani
attraverso le sbarre, congiungendo e contorcendo le braccia.
«Che andate a fare? Voglio saperlo! Dove andate?»
«State tranquilla», disse Maximilien, fermandosi a tre passi dalla
porta, «la mia intenzione non è di prendermela con un altro uomo per
una sorte che riguarda me solo. Un altro minaccerebbe di andare a
trovare il signor Franz, provocarlo, e battersi con lui: tutto ciò
sarebbe da insensato. Che ha a che fare il signor Franz con tutto
ciò? Lui mi ha visto questa mattina per la prima volta, ha già
dimenticato di avermi visto; non sapeva neppure che io esistessi
quando furono presi gli accordi fra le vostre due famiglie: non ho
dunque a che fare col signor Franz, e ve lo giuro, non me la
prenderò con lui.»
«Ma con chi ve la prenderete? Con me?»
«Con voi, Valentine?! Dio me ne guardi! La donna che si ama è un
idolo…»
«Con voi stesso allora, disgraziato, con voi stesso!»
«Sono io il colpevole, non è vero?» disse Morrel.
«Maximilien», ordinò Valentine, «venite qui, lo voglio!»
Maximilien si avvicinò col suo dolce sorriso, e se non fosse stato
il pallore del viso si sarebbe detto che era come sempre.
«Ascoltatemi, mia adorata Valentine», disse con voce grave e
melodiosa, «le persone come noi, che non hanno mai avuto un pensiero
di cui abbiano ad arrossire davanti al mondo, davanti ai parenti, e
a Dio, possono leggere nel cuore l’uno dell’altro apertamente. Io
non ho mai fatto il romantico, non sono un eroe malinconico, non
rappresento né un Manfredi, né un Antony; ma senza parole, senza
proteste, senza giuramenti, ho messo la vita in voi, voi mi venite
meno, e avete ragione di agire così, ve l’ho detto, ve lo ripeto, ma
infine voi mi tradite, e la mia vita è perduta. Dal momento che vi
allontanate da me, Valentine, io resto solo al mondo. Mia sorella è
felice con suo marito; suo marito non è che un mio cognato, vale a
dire, un uomo che le convenzioni sociali soltanto uniscono a me;
nessuno dunque sulla terra ha bisogno della mia esistenza divenuta
inutile. Ecco ciò che io farò: aspetterò fino all’ultimo, che voi
siate maritata, perché non voglio perdere nemmeno l’ombra di una di
quelle inattese eventualità che qualche volta ci riserba il destino,
perché anche di qui a quel momento Franz d’Epinay può morire, nel
momento in cui vi avvicinerete a lui il fulmine può cadere
sull’altare: tutto sembra credibile al condannato a morte, per lui
tutto è possibile: invoca, aspetta un miracolo per lui solo, giacché
si tratta della sua salvezza, della sua vita. Io dunque aspetterò
fino all’ultimo momento, e quando la mia infelicità sarà certa,
senza rimedio, senza speranze, scriverò una lettera a mio cognato,
un’altra lettera al prefetto di polizia per avvisarlo del mio
progetto, e nell’oscurità di qualche bosco, sulla riva di qualche
fosso, sulla sponda di qualche fiume, mi farò saltare le cervella,
quanto è vero che sono il figlio del più onesto uomo che abbia
vissuto in Francia.»
Un tremito agitò le membra di Valentine, lasciò il cancello che
teneva con ambo le mani, le braccia ricaddero abbandonate, e due
grosse lacrime le scesero sulle guance.
Il giovane rimase davanti a lei, tetro e risoluto.
«Per pietà», disse lei, «vivrete, non è vero?»
«No, sul mio onore», rispose Maximilien. «Ma che importa a voi?
Avrete fatto il vostro dovere, e vi rimarrà la vostra coscienza.»
Valentine cadde in ginocchio comprimendosi il cuore che pareva
volesse scoppiarle.
«Maximilien», lo pregò, «amico mio, mio fratello sulla terra, mio
sposo nel cielo, ti supplico, fa’ come faccio io, vivi e soffri, un
giorno forse saremo riuniti.»
«Addio Valentine» replicò Morrel.
«Mio Dio!» esclamò Valentine, alzando le mani al cielo in una
sublime espressione. «Voi lo vedete, ho fatto tutto ciò che ho
potuto per restare una figlia sottomessa, ho pregato, supplicato,
implorato… Costui non ha ascoltato le mie preghiere, le mie
suppliche, le mie lacrime. Ebbene», continuò asciugando le lacrime,
e riprendendo la sua fermezza, «ebbene, non voglio morire di
rimorsi, preferisco piuttosto morire di vergogna: vivrete,
Maximilien, e io non sarò di alcuno fuorché vostra. A che ora?
Quando? Subito, parlate, ordinate, sono pronta.»
Morrel che aveva già fatto qualche passo per allontanarsi, era
tornato di nuovo, pallido di gioia, col cuore commosso, afferrando
attraverso il cancello nelle sue mani quelle di Valentine.
«Valentine», disse, «amica cara, non è così che bisogna parlarmi,
altrimenti bisogna lasciarmi morire. Perché dovrò ottenervi con la
violenza, se mi amate come vi amo? Mi costringete a vivere per
umanità? Ecco tutto: in questo caso, preferisco piuttosto morire.»
«Infatti», continuò Valentine, «chi mi ama in questo mondo? Chi mi
ha consolato in tutti i miei dolori? Su chi riposano le mie
speranze? Su chi si ferma la mia vista sconvolta? Su chi riposa il
mio cuore sanguinante? Su di voi, sempre su di voi! Ebbene voi avete
ragione, Maximilien, vi seguirò, abbandonerò la casa paterna, tutto!
Ingrata che sono!» gridò Valentine singhiozzando. «Tutto, anche il
mio buon nonno che dimenticavo!»
«No», ribatté Maximilien, «non lo lascerete. Non mi diceste che il
signor Noirtier sembrò nutrire qualche simpatia per me? Ebbene,
prima di fuggire gli direte tutto, vi farete scudo davanti a Dio del
suo consenso poi, subito dopo maritati, egli verrà con noi, e,
invece di uno, avrà due nipoti. Voi mi avete detto che vi parla, e
come gli rispondete; imparerò ben presto quel muto linguaggio.
Andate, Valentine… Ve lo giuro, invece della disperazione che ci
aspettava, forse avremo la felicità…»
«Vedete, Maximilien, vedete qual è il vostro potere su di me? Mi
fate quasi credere a quel che mi dite, eppure è insensato, perché
mio padre mi maledirà, perché io lo conosco, ha il cuore
inflessibile, non mi perdonerà mai. Eppure, Maximilien, se per
artificio, per le nostre preghiere, per buona sorte, che so io, se
infine per un caso qualsiasi si può ritardare il matrimonio, mi
aspetterete, non è vero? Non farete pazzie?»
«Sì, ve lo giuro! Così voi dovrete giurarmi che questo sacrilego
matrimonio non si farà mai, e che quand’anche vi trascinassero
davanti al magistrato o davanti al prete, voi direte sempre di no!»
«Ve lo giuro, Maximilien, per tutto ciò che ho di più sacro al
mondo, per mia madre!»
«Allora, aspettiamo», disse Morrel.
«Sì, aspettiamo», confermò Valentine, che respirava a quella parola.
«Tante cose possono accadere e salvare due infelici come noi.»
«Mi affido a voi, Valentine», disse Morrel, «tutto ciò che farete
sarà ben fatto. Soltanto se non si ascoltano le vostre preghiere, se
vostro padre, se la signora di Saint-Méran esigono che il signor
d’Epinay sia chiamato domani a firmare il contratto…»
«Allora avete la mia parola, Morrel.»
«Invece di firmare…»
«Vi raggiungerò, e fuggiremo; ma fino allora, non tentiamo Iddio…
Morrel, è meglio che non ci vediamo più, giacché è un miracolo, è
una provvidenza che non siamo stati ancora sorpresi; se lo fossimo,
se si sapesse come ci vediamo, non avremmo più alcuna risorsa…»
«Avete ragione, Valentine… Ma come saprò…?»
«Dal notaio, il signor Deschamps.»
«Lo conosco.»
«E da me stessa, vi scriverò.»
«Grazie, adorata Valentine!» esclamò Morrel. «Allora tutto è
convenuto: una volta che io sappia l’ora, accorrerò qui, voi
sorpasserete questo muro fra le mie braccia, una carrozza ci
aspetterà alla porta del recinto, vi salirete con me, vi condurrò da
mia sorella. A casa nostra, nascosti, se così vi piace, facendo
strepito se lo desiderate, avremo la coscienza della nostra libertà,
e non ci faremo scannare come l’agnello, che non oppone resistenza
che con i suoi belati.»
«Sia così», disse Valentine. «Io pure dirò: tutto ciò che farete
sarà ben fatto. Ebbene siete contento di vostra moglie?» domandò
tristemente la ragazza.
«Mia adorata Valentine, è ben poco dir di sì.»
«Ditelo sempre.»
Valentine si era avvicinata, o piuttosto aveva avvicinato le labbra
al cancello, e le sue parole passavano come un soffio fino alle
labbra di Morrel, che teneva la bocca attaccata all’altra parte del
freddo e inesorabile cancello.
«Arrivederci», disse Valentine, togliendosi con uno sforzo dalla sua
felicità, «arrivederci.»
«Io avrò dunque una vostra lettera?»
«Sì.»
«Grazie, mia cara sposa, arrivederci.»
Il suono di un bacio innocente e perduto si fece sentire, e
Valentine fuggì sotto i tigli. Morrel ascoltò gli ultimi rumori
della sua veste fluttuante contro i cespugli, dei piedi che facevano
scricchiolare la sabbia, alzò gli occhi al cielo con un ineffabile
sorriso, per ringraziarlo perché permetteva che fosse amato in tal
modo, e anche lui corse via. Il giovane rientrò in casa sua, e
aspettò per tutto il resto della sera e il giorno seguente senza
nulla ricevere. Finalmente il secondo giorno verso le dieci del
mattino, mentre stava per andare da Deschamps, ricevette con la
posta un bigliettino, che riconobbe di Valentine, sebbene non avesse
mai visto un suo scritto. Diceva:
«Lacrime, suppliche, preghiere, nulla hanno ottenuto. Ieri per due
ore sono stata alla chiesa di Saint-Philippe du Roule e per due ore
ho pregato Dio dal fondo della mia anima; Dio non ha voluto
esaudirmi, e le firme del contratto sono fissate per questa sera
alle nove. Non ho che una parola sola, come non ho che un solo
cuore; Morrel, questa parola è impegnata con voi, questo cuore è
vostro. Questa sera dunque, alle nove meno un quarto al cancello.
Vostra sposa Valentine Villefort
Post scriptum. La mia povera nonna va di male in peggio: ieri sera
la sua esaltazione giunse al delirio; oggi il suo delirio è quasi
una pazzia: mi amerete, per farmi dimenticare che l’avrò abbandonata
in questo stato? Io credo che nascondano a mio nonno Noirtier che la
firma del contratto deve aver luogo questa sera.»
Morrel non si limitò alle informazioni che gli dava Valentine: andò
dal notaio, che gli confermò la notizia che la firma del contratto
era fissata per le nove della sera. Quindi passò da Montecristo, e
là ne seppe di più: Franz era venuto ad annunciargli la cerimonia;
dal canto suo la signora Villefort aveva scritto un biglietto al
conte, per pregarlo di scusarla se non lo invitava, ma la morte del
signor di Saint-Méran, e lo stato in cui si trovava la vedova
stendevano sopra questa unione un velo di tristezza, con cui non
voleva rattristare il conte, cui augurava ogni sorta di felicità. La
sera prima Franz era stato presentato alla signora di Saint-Méran,
che aveva lasciato il letto per questa cerimonia, ma che vi ritornò
subito dopo.
Morrel, è cosa facile a comprendersi, era in uno stato di agitazione
che non poteva sfuggire a un occhio tanto penetrante quanto quello
del conte; per cui Montecristo fu con lui più affettuoso che mai,
tanto affettuoso che due o tre volte Maximilien fu sul punto di
confessargli tutto, ma si ricordò la formale promessa data a
Valentine, e il segreto rimase sepolto nel fondo del suo cuore.
Maximilien lesse e rilesse venti volte nel corso della giornata la
lettera di Valentine. Era la prima volta che gli scriveva, e in
quale occasione! Ogni volta che rileggeva quella lettera, rinnovava
a se stesso il giuramento di renderla felice. Infatti quale diritto
non ha una donna che prenda una così coraggiosa risoluzione? Quale
affetto non merita da parte di colui al quale ha tutto sacrificato?
Come può non essere per il suo amante il primo e il più caro
oggetto, degno di tutta la sua venerazione? Ne è a un tempo la
regina e la sposa, e non basta un’anima per adorarla e amarla.
Morrel pensava, con un’inesprimibile agitazione, al momento in cui
Valentine sarebbe arrivata dicendogli: «Eccomi, Maximilien».
Egli aveva disposto tutto per la fuga: due scale erano state
nascoste nel piccolo fabbricato del recinto; un calessino, che
doveva guidare lo stesso Maximilien, lo aspettava; nessun domestico,
nessun lume; alla prima svolta della strada, avrebbero acceso i
fanali, perché non bisognava, per un eccesso di cautele, cadere
nelle mani della polizia. Ogni tanto dei fremiti scorrevano per
tutto il corpo di Morrel; egli pensava al momento, in cui dall’alto
di quel muro, avrebbe protetto la fuga di Valentine e l’avrebbe
sentita tremante e abbandonata fra le sue braccia, proprio lei di
cui non aveva mai stretto che la mano, né baciato che la punta di un
dito. Ma quando fu oltrepassato il mezzogiorno, quando Morrel sentì
avvicinarsi l’ora, provò il bisogno di restar solo, il sangue
bolliva nelle vene, le semplici domande, la sola voce di un amico
l’avrebbero irritato. Si rinchiuse in casa sua, provò a leggere, ma
lo sguardo strisciò sulle pagine senza nulla capire, e finì col
gettare il libro, per tornare a meditare per la decima volta il suo
piano, le scale, il recinto. Finalmente l’ora si avvicinò. Mai un
uomo veramente innamorato ha lasciato fare all’orologio il suo
pacifico cammino; Morrel tormentò tanto il suo che finì col segnare
le otto e mezzo quando non erano ancora le sei.
Allora disse a se stesso che era giunta l’ora di partire, che le
nove era effettivamente l’ora della firma del contratto, ma che,
secondo ogni probabilità, Valentine non avrebbe aspettato quella
inutile cerimonia; di conseguenza, Morrel, dopo essere partito dalla
rue Meslay alle otto e mezzo del suo orologio, entrò nel recinto
quando le otto suonavano a Saint-Philippe du Roule. Il cavallo e il
calessino furono nascosti dietro una piccola casetta in rovina,
nella quale Morrel aveva l’abitudine di celarsi. A poco a poco si
fece notte, e le foglie del giardino si tramutarono in grossi massi
di un nero opaco.
Allora Morrel uscì dal nascondiglio, e col cuore palpitante venne a
guardare alle fessure del cancello: non c’era ancora nessuno.
Suonarono le otto e mezzo. Una mezz’ora passò nell’aspettare: Morrel
passeggiava in lungo e in largo, poi, a intervalli sempre più
vicini, veniva ad appoggiar l’occhio alle assi. Il giardino si
oscurava sempre più, ma nella oscurità cercava invano la veste
bianca, nel silenzio ascoltava inutilmente il rumore dei passi. La
casa, che si scopriva attraverso il fogliame, restava tetra e
silenziosa, e non tradiva alcun segno di una casa in cui stanno per
accadere fatti eccezionali, quanto la firma di un contratto di
matrimonio e la fuga di una fidanzata.
Morrel consultò l’orologio, che suonò le nove e tre quarti, ma,
quasi subito dopo, il suono dello stesso orologio già inteso due o
tre volte, rettificò l’errore, e suonò le nove e mezzo. Era già
mezz’ora in più di quel che aveva fissato la stessa Valentine: lei
aveva detto le nove, anzi piuttosto prima che dopo. Quello fu il
momento più terribile per il cuore del giovane, sul quale a ogni
secondo cadeva un martello di piombo. Il più debole rumore di
foglie, il più piccolo soffio di vento richiamava la sua attenzione,
e gli procurava un freddo sudore; allora, tutto tremante, accomodava
la scala, e, per non perder tempo, metteva il piede sul primo
scalino.
In mezzo a queste alternative di timore e di speranze, in mezzo a
tali dilatazioni e stringimenti di cuore, suonarono le dieci
all’orologio della chiesa.
«Oh», mormorò Maximilien con terrore, «è impossibile che la firma di
un contratto duri così a lungo, a meno che avvenimenti imprevisti
non siano sopraggiunti; ho misurato tutte le possibilità, calcolato
il tempo di durata di tutte le formalità, è dunque accaduto qualche
cosa.»
E ora un po’ passeggiava davanti al cancello, un po’ veniva ad
appoggiare la fronte bruciante sul gelido ferro. Valentine sarebbe
forse svenuta dopo il contratto? O sarebbe stata fermata mentre
fuggiva? Erano le due sole ipotesi sulle quali poteva soffermarsi il
giovane, entrambe terribili. L’idea però che più lo convinse fu che
a metà della fuga fosse venuta meno la forza a Valentine, e che
fosse caduta svenuta in mezzo a qualche viale.
«Se fosse così», gridò lanciandosi sulla sommità della scala, «la
perderei, e per mia colpa!»
Il demone che gli aveva soffiato questo pensiero non lo lasciò più,
e ronzò al suo orecchio con quella perseveranza che fa di alcuni
dubbi dopo pochi momenti, per la forza del ragionamento, radicate
convinzioni. I suoi occhi, che cercavano di fendere la crescente
oscurità, credevano di vedere sotto l’ombroso viale un oggetto
steso, Morrel s’arrischiò perfino a chiamare, e gli sembrò che il
vento portasse fino a lui un lamento inarticolato. Finalmente passò
un’altra mezz’ora, era impossibile poter pazientare più lungamente,
tutto accresceva l’ansia: le tempie di Maximilien battevano con
forza; scavalcò il muro, saltò dall’altra parte.
Egli era nella proprietà di Villefort, vi penetrava per mezzo d’una
scala. Pensò allora alle conseguenze che poteva avere una simile
azione, ma non era arrivato così avanti per tornare indietro. Per
qualche tratto andò rasente il muro, e, traversando il viale con un
salto, si lanciò nel folto degli alberi. In un momento fu
all’estremità del boschetto. Dal punto in cui era giunto, si poteva
scorgere la casa. Allora Morrel si assicurò di quanto aveva già
potuto sospettare, e fu che invece dei lumi che si poteva credere di
veder risplendere a ciascuna finestra, com’è naturale nei giorni di
cerimonia, non vide altro che una massa grigia e velata ancora da un
grande stato d’ombra che proiettava un’immensa nube distesa davanti
alla luna.
Un lume scorreva a tratti come perduto, e passava davanti a tre
finestre del primo piano. Queste erano quelle dell’appartamento
della signora di Saint-Méran. Un altro lume restava immobile dietro
un tendaggio rosso, che era quello della camera della signora
Villefort. Morrel indovinò tutto questo. Tante volte, per seguire
Valentine col pensiero in tutte le ore del giorno, si era fatto
descrivere questa casa che conosceva senza averla mai vista. Fu
ancora più spaventato da questo silenzio, di quel che fosse stato
per l’assenza di Valentine.
Perduto, folle di dolore, risoluto a tentare tutto per rivedere
Valentine, e assicurarsi dell’infortunio che presentiva, qualunque
fosse, Morrel arrivò all’estremità del boschetto, e s’accingeva ad
attraversare di corsa il prato, del tutto allo scoperto, quando gli
giunse il suono di voci assai lontane, che il vento gli portava. A
questo rumore fece un passo indietro, già uscito dal fogliame, si
celò completamente, e restò immobile e muto avvolto nell’oscurità.
La sua decisione era presa: se Valentine era sola, l’avrebbe
chiamata sottovoce mentre passava; se Valentine era accompagnata,
almeno l’avrebbe vista, e si sarebbe accertato che non le era
accaduta alcuna disgrazia; se fossero stati estranei, avrebbe udito
qualche parola della loro conversazione, e sarebbe riuscito a
chiarire un mistero per lui inesplicabile.
La luna uscì dalle nubi che la nascondevano, e sulla porta della
scalinata Morrel vide comparire il signor Villefort in compagnia di
un uomo vestito di nero. Essi scesero gli scalini, e s’inoltrarono
nel boschetto. Non avevano ancora fatto quattro passi, che nell’uomo
vestito di nero Morrel aveva riconosciuto il dottore d’Avrigny. Il
giovane, vedendoli venire, indietreggiò macchinalmente fino a che
urtò nel tronco di un albero che formava il centro del boschetto; là
fu costretto a fermarsi. Ben presto la sabbia cessò di stridere
sotto i piedi dei due che stavano sopraggiungendo.
«Caro dottore», stava dicendo il procuratore del re, «ecco che il
cielo si rivela avverso alla mia casa. Che morte orribile! Che colpo
di fulmine! Non cercate di consolarmi, ahimè! Non ci sono
consolazioni per simili disgrazie, la piaga è troppo viva e troppo
profonda: morta! morta!»
Un sudore freddo fece agghiacciare la fronte del giovane e battere i
denti. Chi dunque era morto in quella casa, che lo stesso Villefort
diceva maledetta?
«Mio caro signor Villefort», rispose il medico, con un accento che
raddoppiò il terrore del giovane, «non vi ho condotto qui per
consolarvi, anzi tutto il contrario.»
«Che volete dire?» domandò il procuratore spaventato.
«Voglio dirvi che, dietro alla disgrazia che vi è accaduta, ce n’è
un’altra forse anche maggiore.»
«Oh mio Dio!» mormorò Villefort, giungendo le mani. «Che volete
dirmi ancora?»
«Siamo ben sicuri d’essere soli?»
«Sì, siamo soli… Ma che significano tutte queste precauzioni?»
«Significano che ho una confidenza terribile da farvi», disse il
dottore. «Sediamoci.»
Villefort cadde piuttosto che sedersi sopra una panchina. Il dottore
rimase in piedi davanti a lui, tenendogli una mano sopra una spalla.
Morrel, agghiacciato dallo spavento, con una mano si reggeva la
fronte, con l’altra si teneva compresso il cuore quasi temesse che
si sentissero le sue pulsazioni. Morta! morta! ripeteva nel pensiero
con la voce del cuore, ed egli stesso si sentiva morire.
«Parlate, dottore, vi ascolto», disse Villefort, «e poi sono
preparato a tutto.»
«La signora di Saint-Méran era in età avanzata, non vi è dubbio, ma
godeva ancora di una eccellente salute.»
Morrel per la prima volta respirò dopo dieci minuti.
«Il dolore l’ha uccisa», mormorò Villefort, «sì, il dispiacere,
dottore! L’abitudine per quarant’anni di vivere col marchese…»
«Non fu il dispiacere, caro Villefort», disse il dottore. «I
dispiaceri possono uccidere, sebbene i casi siano molto rari, ma non
uccidono in un giorno, in un’ora, in dieci minuti.»
Villefort nulla rispose, soltanto alzò la testa che fino allora
aveva tenuta bassa, e guardò il dottore con occhi atterriti.
«Eravate là, durante l’agonia?» domandò il dottor d’Avrigny.
«Certamente», rispose il procuratore. «Mi diceste a bassa voce di
non allontanarmi.»
«Avete osservato i sintomi del male sotto cui ha dovuto soccombere
la signora di Saint-Méran?»
«Certamente, ha avuto tre attacchi successivi, a qualche minuto di
distanza gli uni dagli altri, e ogni volta fra loro più vicini e più
forti. Quando siete giunto, già da qualche minuto la signora di
Saint-Méran rantolava; ha avuto una crisi che ho creduto un semplice
attacco nervoso, e non ho cominciato a spaventarmi realmente che
quando l’ho vista sollevarsi sul letto, con gli arti e il collo
irrigiditi. Allora dal vostro viso ho compreso che la cosa era più
grave di quel che io credevo. Cessata la crisi, cercavo i vostri
occhi, essi non s’incontrarono coi miei. Voi tenevate fra le dita il
suo polso, contavate le pulsazioni, e comparve la seconda crisi, che
non v’eravate ancora rivolto dalla mia parte. Quella è stata più
terribile della prima; gli stessi movimenti nervosi si sono
riprodotti e la bocca si è contratta ed è divenuta violetta.»
«Alla terza, è spirata.»
«Avevo già riconosciuto il tetano fin dalla fine della prima crisi;
voi mi confermaste in questa opinione.»
«Sì, alla presenza di tutti», disse il dottore, «ma ora siamo soli.»
«Che cosa volete dirmi, mio Dio?»
«Che i sintomi del tetano e dell’avvelenamento con sostanze vegetali
sono assolutamente gli stessi.»
Villefort si rizzò in piedi, poi dopo un minuto d’immobilità e di
silenzio, ricadde sulla panchina.
«Mio Dio, dottore, pensate bene a quel che dite!»
Morrel non sapeva se stava sognando o vegliava.
«Ascoltate, conosco la gravità delle mie parole, e il carattere
della persona cui le dico.»
«Parlate all’amico o al magistrato?» domandò Villefort.
«All’amico soltanto, in questo momento… I rapporti fra i sintomi del
tetano e quelli dell’avvelenamento con sostanze vegetali sono
talmente identici, che se fossi obbligato a firmare quanto vi dico,
vi dichiaro che esiterei. Per cui ve lo ripeto, non è al magistrato
ch’io parlo, ma all’amico. Ebbene, dico all’amico: nei tre quarti
d’ora che è durata, ho studiato l’agonia, le convulsioni, e la morte
della signora di Saint-Méran, e sono convinto, non solo che è morta
avvelenata, ma anche con quale veleno è stata uccisa.»
«Signore! Signore!»
«Tutto coincide: sonnolenza interrotta da crisi nervose,
sovraeccitazione del cervello. La signora di Saint-Méran è morta per
una dose violenta di brucina o di stricnina che senza dubbio per
caso, o forse per errore, le fu somministrata.»
Villefort afferrò la mano del dottore: «È impossibile», disse.
«Sogno, mio Dio, sogno! È spaventoso sentire simili cose da un uomo
come voi! In nome del cielo, ve ne supplico, caro dottore, ditemi
che potete esservi ingannato!»
«Senza dubbio è possibile, ma…»
«Ma?…»
«Ma non lo credo.»
«Dottore, abbiate pietà di me! Da qualche giorno mi accadono cose
tanto inaudite, che io credo alla possibilità di diventar pazzo.»
«La signora di Saint-Méran è stata visitata da un altro medico?»
«Da nessuno.»
«È stata presa alla farmacia un’altra ricetta che non ho visto?»
«Nessuna.»
«La signora di Saint-Méran aveva qualche nemico?»
«Non ne conosco alcuno.»
«C’è qualcuno che possa desiderare la sua morte?»
«Ma no, mio Dio, ma no, mia figlia è la sola ereditiera, Valentine
sola… Oh, se mi potesse venire un simile pensiero, mi conficcherei
un pugnale nel cuore per punirlo di aver potuto, per un sol momento,
fermarsi sopra tal pensiero.»
«Caro amico», gridò a sua volta d’Avrigny, «non voglio accusare
nessuno… Non parlo che di un incidente, o errore: il fatto è là che
parla a bassa voce nella mia coscienza, la quale esige però che ve
lo dichiari. Prendete le vostre informazioni.»
«Da chi? Come? Su che cosa?»
«Vediamo, Barrois il vecchio domestico si sarebbe sbagliato, e dato
alla signora di Saint-Méran qualche bevanda preparata per il suo
padrone?»
«Per mio padre?»
«Sì.»
«Ma come una bevanda preparata per il signor Noirtier può avvelenare
la signora di Saint-Méran?»
«Niente di più semplice: sapete che in certe malattie i veleni
divengono rimedi; la paralisi è una di queste malattie. Da circa tre
mesi, per esempio, e dopo aver tutto tentato per rendere la parola
al signor Noirtier, ho tentato un ultimo mezzo: lo curo con la
brucina. Nell’ultima bevanda che ho ordinato per lui, ce n’erano sei
centigrammi; questi, innocui per gli organi paralizzati del signor
Noirtier, bastano per uccidere qualunque altra persona.»
«Mio caro dottore, non c’è nessuna comunicazione fra l’appartamento
del signor Noirtier e quello della signora di Saint-Méran, e Barrois
non è mai entrato nella camera di mia suocera. Sebbene vi conosca
per l’uomo più abile, e soprattutto più coscienzioso del mondo,
sebbene in tutt’altra congiuntura la vostra parola sarebbe stata per
me una fiaccola pari alla luce del sole ora ho bisogno, malgrado
questa convinzione, di appoggiarmi su questo assioma: “Sbagliare è
umano”.»
«Ascoltate Villefort», riprese il dottore, «conoscete uno dei miei
colleghi nel quale possiate avere la stessa fiducia che avete in
me?»
«Perché dite questo? E che volete concluderne?»
«Chiamatelo, gli dirò ciò che ho visto, ciò che ho osservato, e poi
faremo l’autopsia.»
«E troverete le tracce dell’avvelenamento?»
«No, non ho detto questo, ma constateremo la contrazione dei nervi,
riconosceremo l’asfissia patente, incontestabile, e vi diremo, caro
Villefort: se fu per negligenza, vegliate sui vostri servi; se fu
per odio, vegliate sui vostri nemici!»
«Mio Dio, che mi proponete mai, d’Avrigny?» gemette Villefort
abbattuto. «Dal momento che ci sarà un altro oltre voi a conoscenza
del segreto, ci vorrà un processo, e in casa mia è impossibile!
Tuttavia», continuò il regio procuratore, guardando il dottore con
inquietudine, «se lo esigete assolutamente, lo farò. Infatti, dovrò
dare seguito a quest’affare, il mio carattere me lo comanda. Ma,
dottore, mi vedete, già accasciato di tristezza, introdurre nella
mia casa un così grande scandalo, dopo un così grande dolore? Mia
moglie e mia figlia ne morirebbero! Dottore, lo sapete, un uomo non
è stato procuratore del re per venti anni senza essersi fatto un
buon numero di nemici, e i miei sono molti. Quest’affare scandaloso
sarà per essi un trionfo che li farà esultare di gioia, e coprirà me
di vergogna… Perdonatemi queste idee mondane. Se foste un prete, non
oserei parlarvi così, ma siete un uomo, conoscete gli altri uomini…
Dottore, non mi avete detto niente, non è vero?»
«Mio caro signor Villefort», rispose il dottore, costernato, «il mio
primo dovere è l’umanità. Se avessi salvato la signora di
Saint-Méran, se la scienza avesse avuto il potere di farlo… ma lei è
morta, e io devo dedicarmi ai vivi. Seppelliamo nel più profondo dei
nostri cuori questo terribile segreto… Permetterò, se gli occhi di
qualcuno si dovessero aprire su questa tragedia, che sia imputato a
mia ignoranza il silenzio che avrò conservato. Però, signore,
cercate sempre, e operosamente, perché forse ciò non si fermerà qui…
E quando avrete trovato il colpevole, se pur lo ritroverete, vi
dirò: voi siete magistrato, fate ciò che volete!»
«Grazie, grazie dottore!» esclamò Villefort, con indicibile gioia.
«Non ho mai avuto amico migliore di voi.»
E quasi che avesse temuto che il dottore d’Avrigny non si pentisse
di questa promessa, si alzò e trascinò il dottore dalla parte della
casa. Essi si allontanarono. Morrel, come se avesse avuto bisogno di
respirare, sporse la testa dai tigli, e la luna illuminò quel viso
tanto pallido, che si sarebbe potuto prendere per un fantasma.
«Dio mi protegge in un palese, ma terribile modo!» diss’egli. «Ma
Valentine, povera amica, resisterà a tanti dolori?»
Dicendo queste parole guardava, alternativamente, la finestra con le
tende rosse, e le tre finestre con le tende bianche. La luce era
quasi completamente sparita dalla finestra con le tendine rosse.
Senza dubbio la signora Villefort aveva spento il suo lume, e il
solo lume da notte mandava qualche riflesso sui vetri. All’estremità
del palazzo, al contrario, vide aprirsi una delle tre finestre con
le tende bianche. Una candela posta sul caminetto mandò al di fuori
qualche raggio della sua pallida luce, e un’ombra venne per un
momento ad appoggiarsi al balcone.
Morrel tremò; gli sembrò di avere udito un singhiozzo. Non c’era da
stupirsi che quest’anima ordinariamente tanto coraggiosa e forte,
ora sconvolta ed esaltata dalle più forti passioni dell’uomo,
l’amore e la paura, si fosse indebolita al punto da subire
allucinazioni superstiziose. Sebbene fosse impossibile, nascosto
com’era, che l’occhio di Valentine lo distinguesse, pure gli parve
di vedersi chiamato dall’ombra della finestra; il suo spirito
sconvolto glielo diceva, il cuore ardente glielo ripeteva. Questo
doppio impulso divenne realtà irresistibile, e per uno di quegli
slanci incomprensibili della gioventù, balzò fuori dal suo
nascondiglio, e in due salti, col pericolo di essere visto, di
spaventare Valentine, di dare l’allarme, se alla giovinetta fosse
sfuggito un qualche grido involontario, traversò il prato, che la
luna faceva largo e chiaro come un lago, e raggiunta la fila degli
aranci davanti alla casa, giunse ai gradini della scalinata, che
salì rapidamente, spinse la porta, che si aprì senza alcuna
resistenza davanti a lui.
Valentine non lo aveva visto, gli occhi seguivano una nube d’argento
che solcava l’azzurro del cielo, e la cui forma era quella di
un’ombra che sale, il suo spirito poetico ed esaltato le diceva che
quella era l’ombra di sua nonna. Frattanto Morrel aveva traversato
l’anticamera e ritrovato la rampa della scala, i tappeti stesi sugli
scalini resero silenziosi i suoi passi: era giunto a un grado di
esaltazione che non lo avrebbe spaventato la presenza stessa del
signor Villefort. Se gli fosse comparso davanti, la risoluzione era
presa: gli avrebbe confessato tutto pregandolo di scusare e
approvare quest’amore che lo univa a sua figlia… Morrel era pazzo.
Per fortuna non incontrò nessuno. Le informazioni avute da Valentine
sul piano interno della casa gli giovarono: giunse senza alcun
incidente in cima alla scala e arrivato là non sapendo che fare, udì
un singhiozzo, che riconobbe, e gli indicò il cammino da prendere;
si voltò: una porta era socchiusa, e lasciava giungere a lui il
riflesso di una lampada, e il suono della voce che gemeva.
Spinse questa porta ed entrò.
Nel fondo di un’alcova, sotto un bianco drappo che ricopriva la
testa, e tutta la forma del corpo, giaceva la morta, più spaventosa
ancora agli occhi di Morrel dopo la rivelazione segreta. Di fianco
al letto in ginocchio, con la testa sepolta nei cuscini di una larga
poltrona, Valentine tremante e singhiozzante, stendeva al di sopra
della testa, che non si vedeva, ambo le mani giunte e irrigidite:
aveva lasciato la finestra aperta, e pregava ad alta voce con
accenti che avrebbero commosso il cuore più insensibile; la parola
le sfuggiva dalle labbra, rapida, incoerente, inintelligibile, tanto
il dolore le serrava la gola. La luna, strisciando attraverso
l’apertura delle persiane, faceva impallidire la luce della lampada,
e dava un fondo azzurro alle funebri tinte di questo quadro di
desolazione.
Morrel non poté resistere a quello spettacolo; egli non era di una
pietà esemplare, non era facile alle emozioni, ma Valentine
sofferente, piangente e le braccia strette, davanti ai suoi occhi
era più di quanto poteva sopportare in silenzio. Emise un sospiro,
mormorò un nome, e il volto bagnato dalle lacrime, si volse verso di
lui.
Valentine lo vide, e non manifestò alcuna meraviglia. Non vi sono
più emozioni intermedie per un cuore gonfio di supremo dolore.
Morrel le tese la mano, Valentine gli indicò il cadavere che giaceva
sotto il funebre drappo, e ricominciò a singhiozzare.
Né l’uno, né l’altra osavano parlarsi. Esitavano a rompere il
silenzio che sembrava venisse imposto da un fantasma, col dito sulle
labbra. Finalmente Valentine osò parlare per prima.
«Amico mio», disse, «come mai siete qui? Ahimè, vi direi: “Siate il
ben venuto!”, se non fosse che la morte vi ha aperto la porta di
questa casa.»
«Valentine», disse Morrel con voce tremante, e con le mani giunte,
«ero là dalle otto e mezzo, non vi vedevo venire: fui preso
dall’inquietudine, ho saltato il muro, sono penetrato nel giardino,
allora delle voci che parlavano del fatale accidente…»
«Quali voci?» domandò Valentine.
Morrel fremette perché tutta la conversazione fra il dottore e
Villefort gli tornava alla mente, e attraverso il drappo credeva
vedere quelle braccia contorte, quel collo irrigidito, quelle labbra
livide.
«Le voci dei vostri domestici», continuò, «mi hanno rivelato tutto.»
«Ma venir fin qui, è lo stesso che perderci, amico mio», disse
Valentine senza collera e senza spavento.
«Perdonatemi», rispose Morrel, col medesimo tono, «mi ritiro.»
«No», disse Valentine, «incontrereste qualcuno, restate.»
«Ma se venissero qui?…»
La giovane scosse la testa e rispose: «Nessuno verrà, state
tranquillo, ecco la nostra salvaguardia».
E mostrò la forma del cadavere modellata dal drappo che la copriva.
«Ma che è accaduto del signor d’Epinay? Ditemelo, ve ne supplico»,
riprese Morrel.
«Il signor Franz è venuto per firmare il contratto al momento in cui
mia nonna rendeva l’ultimo respiro.»
«Ahimè!» esclamò Morrel con un sentimento egoista, perché pensava
che quella morte ritardava il matrimonio di Valentine.
«Ma ciò che raddoppia il mio dolore è che questa povera cara nonna,
morendo, mi ordinò che si facesse il matrimonio il più presto
possibile…»
«Ascoltate!» disse Morrel.
I due giovani fecero silenzio. Si udì una porta aprirsi, e dei passi
fecero scricchiolare il pavimento del corridoio e i gradini della
scala.
«È mio padre che esce dal suo ufficio», disse Valentine.
«E che riaccompagna il dottore», aggiunse Morrel.
«Come sapete che è il dottore?» domandò Valentine meravigliata.
«Lo presumo», rispose Morrel.
Valentine guardò il giovane. Frattanto si sentì chiudere la porta di
strada. Il signor Villefort andò a dare un doppio giro di chiave a
quella del giardino, poi risalì le scale. Giunto nell’anticamera si
fermò un momento, come esitando se dovesse entrare nel suo
appartamento, o nella camera della signora di Saint-Méran. Morrel si
nascose dietro una tenda. Valentine non fece alcun movimento: si
sarebbe detto che il sommo dolore la poneva al di sopra degli
ordinari timori.
Ma Villefort entrò nelle sue stanze.
«Ora», mormorò Valentine, «non potete più uscire né dalla porta del
giardino, né da quella sulla strada.»
Morrel guardò la giovane con meraviglia.
«Ora», continuò lei, «non c’è più che un’uscita sicura e permessa,
ed è quella dell’appartamento di mio nonno.»
Si alzò.
«Venite», disse.
«E dove?» domandò Maximilien.
«Da mio nonno.»
«Io, dal signor Noirtier!?»
«Sì.»
«Pensateci bene, Valentine,»
«Ci penso, e da lungo tempo. Non ho più che questo vecchio al mondo,
ed entrambi abbiamo bisogno di lui… Venite.»
«Rifletteteci, Valentine», ripeté Morrel, esitando a fare ciò che
gli ordinava la ragazza, «state attenta, la benda mi è caduta dagli
occhi. Venendo qui, ho commesso un atto di pazzia. Avete voi stessa
tutta la vostra ragione, amica cara?»
«Sì», disse Valentine, «e non ho che uno scrupolo al mondo, quello
di lasciar soli questi ultimi resti della mia povera nonna, che mi
sono incaricata di vegliare.»
«Valentine», sussurrò Morrel, «la morte è sacra per se stessa.»
«Sì», rispose la giovane, «d’altronde, sarà per poco, venite.»
Valentine traversò il corridoio, e discese una piccola scala che
conduceva dal signor Noirtier. Morrel la seguiva in punta di piedi.
Giunti sul pianerottolo trovarono il vecchio domestico.
«Barrois», disse Valentine «chiudete la porta, e non lasciate
entrare nessuno.»
Lei entrò per prima. Noirtier, ancora seduto sulla sua poltrona,
attento al più piccolo rumore, istruito dal vecchio servitore di
tutto ciò che accadeva, fissò gli sguardi avidi all’entrata della
camera, vide Valentine, e il suo occhio brillò. C’era nel
portamento, nell’attitudine della ragazza qualche cosa di grave e di
solenne che sorprese il vegliardo: e lo sguardo, che era brillante,
divenne interrogativo.
«Caro nonno», iniziò lei a bassa voce, «ascoltami bene: tu sai che
la buona nonna di Saint-Méran è morta un’ora fa, e che adesso,
eccetto te, non ho più alcuno che mi ami in questo mondo.»
Un’espressione d’infinita tenerezza passò negli occhi del vecchio.
«È dunque a te solo, non è vero, che io debbo confidare tutti i miei
dispiaceri e le mie speranze?»
Il paralitico fece segno di sì.
Valentine prese Maximilien per la mano.
«Allora», disse lei, «guarda bene questo signore.»
Il vecchio fissò lo sguardo scrutatore, e leggermente meravigliato,
su Morrel.
«Questi è il signor Maximilien Morrel», continuò lei, «il figlio di
quell’onesto negoziante di Marsiglia di cui tu avrai senza dubbio
inteso parlare.»
«Sì», fece il vecchio.
«È un nome irreprensibile, che Maximilien è in via di rendere ancora
più stimabile, perché a trent’anni è capitano degli Spahis, e
ufficiale della Legion d’Onore.»
Il vecchio fece segno che se ne ricordava.
«Ebbene, caro nonno», disse Valentine, mettendosi in ginocchio e
mostrando Maximilien con una mano, «io l’amo, e non sarò mai d’altri
che di lui! Se mi costringeranno a sposare un altro mi lascerò
morire, o mi ucciderò.»
Gli occhi del paralitico esprimevano una folla di pensieri
tumultuosi.
«Tu ami il signor Morrel, non è vero nonno?» domandò la giovinetta.
«Sì», fece il vecchio immobile.
«E vuoi tu proteggerci, noi siamo tuoi figli, contro la volontà di
mio padre?»
Noirtier fissò lo sguardo intelligente su Morrel, quasi avesse
voluto dire: «Per questo vedremo».
Maximilien capì.
«Signorina», disse, «voi avete un sacro dovere da compiere nella
camera di vostra nonna… Volete permettermi di avere l’onore di
parlare un momento col signor Noirtier?»
«Sì, sì, lo voglio», indicava l’occhio del vecchio; poi guardò
Valentine con inquietudine.
«Come farà egli per intenderti, vuoi dire, buon nonno?»
«Sì.»
«Sta’ tranquillo, abbiamo tanto spesso parlato di te, che egli
conosce bene il modo…» Poi, volgendosi a Morrel con un adorabile
sorriso, velato però da una profonda tristezza: «Egli sa tutto quel
che so io», disse.
Valentine si alzò, avvicinò una sedia per Morrel raccomandando a
Barrois di non lasciare entrare nessuno, e dopo avere teneramente
abbracciato suo nonno, e detto addio tristemente a Maximilien, se ne
andò. Allora Morrel per provare a Noirtier che aveva la fiducia di
Valentine, e che conosceva tutti i suoi segreti, prese il
dizionario, la penna e la carta, e pose tutto sopra una tavola su
cui stava il lume.
«Ma per prima cosa», cominciò Morrel, «permettetemi, signore, di
raccontarvi chi sono io, come amo la signorina Valentine, e quali
sono le mie intenzioni su di lei.»
«Ascolto», accennò Noirtier.
Era uno spettacolo curioso vedere questo vecchio, inutile in
apparenza, divenuto il solo protettore, il solo appoggio, il solo
giudice dei due giovani innamorati, belli e ardenti, che entravano
nella vita. La sua figura nobile e austera incuteva rispetto a
Morrel, che cominciò il racconto tremando. Narrò come aveva
conosciuto, come aveva amato Valentine, e come questa nel suo
isolamento, e nella sua infelicità, aveva accolto l’offerta della
sua devozione. Gli disse qual era la sua nascita, la sua posizione,
la sua fortuna, e più d’una volta interrogò lo sguardo del
paralitico che gli rispondeva: «Va bene, continuate».
«Ora», disse Morrel, quando ebbe finito questa prima parte del suo
racconto, «ora, che vi ho detto, signore, il mio amore e le mie
speranze, debbo dirvi i miei progetti?»
«Sì», fece il vecchio.
«Ebbene, ecco ciò che noi avevamo deciso.»
Allora raccontò tutto a Noirtier, che un calessino aspettava nel
recinto, come contava di rapire Valentine, condurla da sua sorella,
sposarla, e, in rispettosa attesa, sperare il perdono del signor
Villefort.
«No», accennò Noirtier.
«No», ripeté Morrel, «non è così che si deve fare?»
«No.»
«Questo progetto non ha il vostro assenso?»
«No.»
«Ebbene. C’è un altro mezzo», disse Morrel.
Lo sguardo interrogatore del vecchio domandò: «Quale?»
«Andrò a trovare il signor Franz d’Epinay», continuò Morrel, «sono
contento di potervi dir questo in assenza della signorina Villefort;
mi condurrò in modo da obbligarlo a essere un uomo d’onore.»
Lo sguardo di Noirtier continuò a interrogare.
«Ciò che io farò?»
«Sì.»
«Ecco, come vi dicevo, io andrò a trovarlo, gli racconterò i legami
che mi uniscono alla signorina Valentine. Se è uomo d’onore, lo
proverà rinunciando alla mano della sua fidanzata, e la mia amicizia
e devozione gli sono dovute per sempre; se rifiuta, sia che lo
spinga l’interesse, sia che un ridicolo orgoglio lo faccia
persistere, dopo avergli provato che egli violenterebbe la mia
sposa, che Valentine mi ama, e non può amare altri che me, mi
batterei con lui, dandogli tutti i vantaggi, e l’ucciderò o egli
ucciderà me: se lo uccido non sposerà Valentine, se mi uccide sono
ben sicuro che Valentine non lo sposerà.»
Noirtier considerava con piacere questa nobile e sincera fisionomia,
sulla quale si dipingevano tutti i sentimenti che la sua lingua
esprimeva, aggiungendovi con l’espressione di un bel viso, tutto ciò
che il colorito aggiunge a un disegno solido e vero. Quando Morrel
ebbe finito di parlare, Noirtier chiuse gli occhi a più riprese che
era il suo modo d’esprimere il no.
«No?» domandò Morrel. «Voi dunque disapprovate anche questo secondo
progetto?»
«Sì, lo disapprovo», accennò il vecchio.
«Ma che fare allora, signore?» lo interrogò Morrel. «Le ultime
parole della signora di Saint-Méran hanno affrettato il matrimonio
di sua nipote… Debbo lasciar compiere le cose?»
Noirtier rimase immobile.
«Comprendo», riprese Morrel. «Debbo aspettare?»
«Sì.»
«Ma ogni ritardo può perderci, signore», obiettò il giovane.
«Valentine è sola, senza difesa, e vi sarà costretta come un
bambino. Entrato qui per sapere che cosa accade, ammesso
miracolosamente alla vostra presenza, ragionevolmente non posso
sperare che si rinnovi un’occasione così bella. Credetemi, di buono
non vi è che l’uno o l’altro dei due progetti che vi propongo
(perdonate questa vanità alla mia giovinezza), ditemi quale dei due
preferireste: autorizzereste voi la signorina Valentine ad affidarsi
al mio cuore?»
«No.»
«Preferite che io vada a trovare il signor d’Epinay? Ma, mio Dio, da
chi verrà il soccorso che noi aspettiamo? Dal cielo?»
Il vecchio sorrise con gli occhi, come aveva abitudine di fare
quando gli si parlava di cielo: nelle idee del vecchio giacobino era
sempre rimasto un po’ d’ateismo.
«Dal caso?» riprese Morrel.
«No.»
«Da voi?»
«Sì.»
«Da voi?»
«Sì», ripeté il vecchio.
«Capite bene ciò che domando, signore? Scusate la mia insistenza, la
mia vita sta nella vostra risposta: la nostra salvezza ci verrà da
voi?»
«Sì.»
«Ne siete sicuro?»
«Sì.»
«Lo garantite voi?»
«Sì.»
E in quello sguardo affermativo c’era una fermezza da non lasciar
dubbi sulla volontà, se non sul potere.
«Grazie, signore, mille volte grazie! Ma in qual modo, a meno che un
miracolo del Signore non vi renda la parola, il gesto, il moto, in
qual modo potrete voi, inchiodato su quella seggiola, muto e
immobile, in qual modo potrete opporvi a questo matrimonio?»
Un sorriso rischiarò la faccia del vecchio, sorriso strano com’è
quello degli occhi sopra un volto immobile.
«Debbo dunque aspettare?»
«Sì.»
«Ma il contratto?»
Il medesimo sorriso.
«Volete dirmi che il contratto non sarà firmato?»
«Sì», indicò il vecchio.
«Il contratto dunque non sarà firmato!» gridò Morrel. «Perdonatemi,
signore, ma all’annuncio d’una gran felicità, è ben permesso
dubitare… Il contratto dunque non sarà firmato?»
«No», fece il vecchio paralitico.
Malgrado tale assicurazione, Morrel esitava a credere: la promessa
di un vecchio impotente era così strana, che invece di provenire da
forza di volontà, pareva emanare da indebolimento di facoltà. Non è
forse naturale che l’insensato, ignaro della sua follia, pretenda di
realizzare cose al di sopra del suo potere? Il debole parla dei pesi
che innalza, il timido dei giganti che affronta, il povero del
tesoro che maneggia, l’infimo dei contadini, per orgoglio, si chiama
Giove. Sia che Noirtier comprendesse l’indecisione del giovane, sia
che non prestasse completamente fede alla docilità che aveva
mostrata, lo guardò fisso.
«Che cosa volete, signore?» domandò Morrel. «Che rinnovi la promessa
di non tentar nulla?»
Lo sguardo di Noirtier rimase fermo e immoto, come per dire che una
promessa non bastava, quindi passò dal viso alla mano.
«Volete che giuri, signore?» domandò Maximilien.
«Sì», indicò il paralitico con la stessa solennità, «lo voglio.»
Morrel capì che il vecchio annetteva grande importanza a tal
giuramento, per cui, stese la mano.
«Sul mio onore», disse, «vi giuro che aspetterò la vostra decisione
prima d’agire contro il signor d’Epinay.»
«Bene», indicarono gli occhi del vecchio.
«Ora, signore», domandò Morrel, «volete che mi ritiri?»
«Sì.»
«Senza rivedere Valentine?»
«Sì.»
Morrel fece un gesto per significare che era pronto a obbedire.
«Ora», continuò Morrel, «permettete voi, signore, che vostro figlio
vi abbracci, come ha fatto vostra figlia?»
L’occhio di Noirtier si atteggiò a un’espressione che non lasciava
dubbi. Il giovane posò sulla fronte del vecchio le sue labbra dove
la ragazza aveva deposte le sue, e salutato una seconda volta il
vecchio, partì. Sul pianerottolo ritrovò il vecchio servitore
avvisato da Valentine, che aspettava Morrel, e lo condusse per un
corridoio oscuro alla porticina del giardino. Là giunto, Morrel si
portò al cancello, arrampicandosi sopra una spalliera di carpini,
giunse rapidissimo alla sommità del muro e per mezzo di una scala,
in un secondo, fu nel recinto di trifoglio, ove lo aspettava ancora
il calessino. Salì, e pieno di tante emozioni, ma col cuore più
libero, verso mezzanotte rientrò in rue Meslay. Gettatosi sul letto,
dormì come se si trovasse in uno stato di profonda ubriachezza.
73. La tomba della famiglia Villefort
Trascorsi due giorni da questi avvenimenti, una folla di persone
affluì, verso le sei del mattino, alla porta del signor Villefort; e
una lunga fila di carrozze a lutto e di carrozze private confluì
lungo tutto il Faubourg Saint-Honoré e la rue Pépinière. Tra le
carrozze se ne distingueva una di forma particolare, e che sembrava
arrivare da lontano: era una specie di furgone coperto, tinto di
nero, giunto fra i primi al convegno. Si chiesero informazioni e si
seppe che, per una strana coincidenza, quel carro mortuario
racchiudeva il corpo del signor di Saint-Méran e che quelli che
erano venuti per un solo funerale, avrebbero seguito due cadaveri.
L’affluenza di gente era grande: il signor marchese di Saint-Méran,
uno dei più zelanti e fedeli dignitari di re Luigi XVIII, e di re
Carlo X, aveva conservato un grande numero di amici, che, uniti alle
persone in relazione con Villefort, formavano un numero
considerevole. Avvertite subito le autorità, si ottenne che i due
carri funebri partissero nel medesimo tempo. Una seconda carrozza,
addobbata con la stessa pompa mortuaria, fu condotta davanti alla
porta del signor Villefort, e la cassa dal furgone fu messa nella
carrozza funebre. I due corpi dovevano essere seppelliti nel
cimitero del Père-Lachaise, ove da lungo tempo il signor Villefort
aveva fatto erigere la tomba destinata alla sepoltura di tutta la
sua famiglia. In quella tomba era già stato deposto il corpo della
povera Renée, che suo padre e sua madre venivano a raggiungere dopo
dieci anni di separazione.
Parigi, sempre curiosa, sempre commossa per ogni evento funebre,
vide con religioso silenzio passare lo splendido corteo che
accompagnava alla loro ultima dimora due nomi della vecchia
aristocrazia, tra i più celebri per spirito di tradizione, fortuna
di commercio e ferma devozione ai principi.
Nella stessa carrozza da lutto Beauchamp, Albert e Château-Renaud
discorrevano su queste morti quasi subitanee.
«Ho incontrato la signora di Saint-Méran l’anno scorso a Marsiglia»,
diceva Château-Renaud, «ritornava dall’Algeria; pareva avesse ancora
da vivere cent’anni, tanto era in lei perfetta la salute, pronta la
mente, e prodigiosa l’attività. Quanti anni aveva?»
«Sessantasei», rispose Albert, «almeno per quanto Franz mi ha
assicurato. Ma non è morta per gli anni, bensì per il dispiacere
sofferto a causa della morte del marchese, per cui fu talmente
addolorata che pare non abbia ripreso completamente la ragione.»
«Di una congestione cerebrale, a quanto sembra, o di una apoplessia
fulminante.»
«Non è forse lo stesso?»
«Sì, pressappoco», rispose Beauchamp, «è difficile a credersi. La
signora di Saint-Méran, che io pure ho visto una o due volte in vita
mia, era piccola, gracile, di temperamento nervoso, piuttosto che
linfatico; le apoplessie prodotte da dispiaceri sono rarissime in un
corpo di tempra simile a quello della signora di Saint-Méran.»
«In tutti i casi», ragionò Albert, «qualunque sia la malattia o il
medico che l’ha uccisa, ecco il signor Villefort, o piuttosto la
signorina Valentine, o meglio ancora il nostro amico Franz in
possesso di una magnifica eredità: ottantamila franchi di rendita,
credo.»
«Un’eredità che sarà quasi raddoppiata alla morte di quel vecchio
giacobino di Noirtier.»
«Quello è un vecchio tenace», disse Beauchamp. «Tenacem propositi
virum… Ha scommesso con la morte che avrebbe visto seppellire tutti
i suoi eredi, e sulla mia parola ci riuscirà. È sempre lo stesso
della Convenzione del ’93, che diceva a Napoleone nel 1814: “Voi
cedete perché il vostro impero è come un giovane stelo indebolito
per il soverchio crescere: prendete la repubblica per tutore, e
ritorniamo con una buona costituzione sui campi di battaglia, e vi
garantisco cinquecentomila soldati, un’altra Marengo e una seconda
Austerlitz. Le idee non muoiono, sire, sonnecchiano talvolta, si
risvegliano poi più forti di prima”.»
«Pare», disse Albert, «che gli uomini siano per lui come le idee;
ciò che mi dà pensiero è che vorrei sapere come si comporterà Franz
d’Epinay col vecchio nonno, che non può fare a meno della sua sposa…
Ma, a proposito, Franz dov’è?»
«Nella prima carrozza col signor Villefort, che lo considera già un
membro di famiglia.»
In ciascuna delle carrozze che formavano il corteo funebre, i
discorsi erano pressappoco simili. Meravigliati tutti di quelle due
morti, rapide e vicine, nessuno però sospettava il terribile segreto
svelato quella notte dal dottore d’Avrigny al signor Villefort.
Dopo un’ora di cammino circa, giunsero al cimitero: era una giornata
calma ma cupa, e di conseguenza in armonia con la funebre cerimonia
che vi si compiva. Fra le persone che si avviavano verso il sepolcro
della famiglia, Château-Renaud riconobbe Morrel, che era venuto solo
e in carrozzino: passeggiava pallidissimo e silenzioso sul sentiero
costeggiato da bossi.
«Voi qui?» si stupì Château-Renaud, passando il braccio sotto quello
del capitano. «Conoscete dunque il signor Villefort? Com’è quindi
che non vi ho mai incontrato in casa sua?»
«Non è il signor Villefort che conosco», rispose Morrel, «ma
conoscevo la signora di Saint-Méran.»
In quel momento li raggiunse Albert con Franz.
«Il luogo non è bello per una presentazione», disse Albert, «ma non
importa, bando alle superstizioni. Signor Morrel, permettete ch’io
vi presenti il signor Franz d’Epinay, eccellente compagno di viaggio
col quale ho fatto il giro d’Italia. Mio caro Franz, il signor
Maximilien Morrel è un eccellente amico acquistato in tua assenza, e
del quale tu udrai spesso ripetersi il nome ogni qualvolta ti
parlerò di coraggio, di spirito e di amabilità.»
Morrel rimase indeciso un momento, chiedendosi se fosse un segno di
riprovevole ipocrisia il salutare amichevolmente quell’uomo, che
detestava di cuore: ma si ricordò della gravità della circostanza e
del suo giuramento, per cui si sforzò di non far trasparire il
rancore, e salutò Franz contegnoso.
«La signorina Villefort è molto afflitta, non è vero?» chiese Debray
a Franz.
«Oh, signore», rispose Franz, «di un’afflizione inesprimibile!
Stamattina era così abbattuta, che appena l’ho riconosciuta!»
Tali parole, in apparenza semplicissime, lacerarono il cuore di
Morrel. Franz aveva dunque visto Valentine, e parlato con lei. Il
giovane e fervido ufficiale ebbe allora bisogno di tutte le forze
per resistere al desiderio di mancare al suo giuramento, e, preso
sotto braccio Château-Renaud, lo trascinò rapidamente verso la
tomba, davanti a cui gli incaricati delle pompe funebri avevano
deposto le due casse.
«Magnifica abitazione!» disse Beauchamp dando uno sguardo al
mausoleo. «Palazzo d’estate e palazzo d’inverno. Verrà pure la
vostra volta di venirci ad abitare caro d’Epinay, perché sarete ben
presto della famiglia. Io, nella mia qualità di filosofo, voglio una
casetta di campagna, una capanna laggiù sotto gli alberi, e non
voglio tanti macigni sul mio povero corpo. Morendo, dirò a quelli
che mi saranno d’intorno ciò che scriveva Voltaire a Piron: “Vado in
campagna, e tutto sarà finito…” Orsù, Franz, ci vuole coraggio,
vostra moglie eredita.»
«Davvero, Beauchamp», replicò Franz, «siete diventato
insopportabile. La politica vi ha dato l’abitudine di scherzare su
tutto, come gli uomini che maneggiano gli affari hanno quella di non
credere a niente. Ma finalmente, quando vi trovate con uomini
comuni, lasciate per un momento la politica, cercate di riprendere
il vostro cuore, che lasciate nel vestibolo della Camera dei
Deputati o della Camera dei Pari.»
«Mio Dio che cos’è la vita, una fermata nell’anticamera della
morte…»
«Nemmeno io posso soffrirlo», disse Albert, e si ritirò quattro
passi dietro Franz, lasciando Beauchamp continuare le sue
dissertazioni filosofiche con Debray.
Il sepolcro della famiglia Villefort formava una specie di quadrato
di pietre bianche dell’altezza di circa sei metri, e l’interno si
divideva in due parti, una destinata alla famiglia di Saint-Méran
l’altra alla famiglia Villefort, e ciascuna aveva la sua porta
d’ingresso. Non si vedevano, come nelle altre tombe, quelle ignobili
cassette sovrapposte che racchiudono i morti con un’iscrizione
somigliante a un’etichetta, si vedeva sulle prime un’anticamera cupa
e scura, con in fondo un muro tombale, in cui si aprivano le due
porte di cui parlammo, e che comunicavano coi sepolcri dei Villefort
e dei Saint-Méran. Là si poteva dare sfogo al dolore senza che gli
spensierati passanti, che fanno di una visita al cimitero una gita
di campagna o un appuntamento amoroso, venissero a disturbare col
canto, con le grida o con le corse, la muta contemplazione o la
preghiera o le lacrime di chi visita il sepolcro.
I due cadaveri furono collocati nella tomba a destra, quella della
famiglia di Saint-Méran. Entrambi furono deposti sopra i cavalletti,
che aspettavano da qualche tempo le loro spoglie mortali: Villefort,
Franz e alcuni parenti prossimi entrarono soli nel famedio. Siccome
le cerimonie funebri si erano compiute alla porta, e non c’era
discorso da recitare, gli amici si separarono subito:
Château-Renaud, Albert e Morrel si ritirarono da una parte, e Debray
e Beauchamp da un’altra.
Franz rimase col signor Villefort. Alla porta del cimitero, Morrel
si fermò con un pretesto e vedendo uscire Franz e il signor
Villefort in carrozza a lutto, ne fu inquietato. Ritornò dunque a
Parigi, e sebbene fosse nella stessa carrozza di Château-Renaud e
Albert, non udì parola di quel che dissero i suoi due amici.
Infatti, nel momento in cui Franz stava per andarsene, il signor
Villefort aveva detto: «Signor barone, quando potrò rivedervi?»
«Quando vorrete, signore», aveva risposto Franz.
«Il più presto possibile.»
«Sono ai vostri ordini, signore… Se volete, possiamo tornare
insieme.»
«Se non vi disturba.»
«No, assolutamente.»
Così il futuro suocero e il futuro genero salirono nella stessa
carrozza, ed ecco come Morrel, vedendoli passare, concepì gravi
inquietudini. Villefort e Franz tornarono al Faubourg Saint-Honoré.
Il regio procuratore, senza veder alcuno, senza parlare né alla
moglie, né alla figlia, condusse il giovane nel suo studio e,
mostrandogli una sedia: «Signor d’Epinay», disse, «debbo ricordarvi,
né il momento è fuor di proposito, come potrebbe credersi a tutta
prima per il rispetto dovuto ai morti, debbo dunque ricordarvi il
voto espresso dalla signora di Saint-Méran sul suo letto di morte,
che cioè al matrimonio di Valentine non si ponga ritardo. Sapete che
gli affari della defunta sono in perfetta regola, che il suo
testamento assicura a Valentine l’eredità dei Saint-Méran; il notaio
mi ha mostrato ieri questi atti, che permettono di redigere in modo
definitivo il contratto di matrimonio. Potete andare dal notaio, e
dirgli, per parte mia, che vi mostri queste carte. È il signor
Deschamps, place Beauvau, Faubourg Saint-Honoré».
«Signore», rispose d’Epinay, «per la signorina Valentine, immersa
com’è nel dolore, non è forse questo il momento opportuno di pensare
a uno sposo… In verità io temerei…»
«Valentine», interruppe il signor Villefort, «non avrà desiderio più
intenso di quello di compiere le ultime volontà di sua nonna, e io
vi sono garante che da parte sua non sorgeranno difficoltà.»
«In tal caso, signore», rispose Franz, «siccome non ne insorgeranno
neppure dalla mia, potete fare ciò che più vi accomoda; ho impegnata
la parola, e l’adempirò.»
«Allora», proseguì Villefort, «non abbiamo più nulla che impedisca:
il contratto doveva esser firmato tre giorni fa, lo troveremo dunque
già preparato, e potremo sottoscriverlo oggi stesso.»
«Ma il lutto?» disse esitando Franz.
«State tranquillo, signore», riprese Villefort, «non in casa mia
certamente verranno trascurate le convenienze. La signorina
Villefort potrà ritirarsi, durante i tre mesi richiesti, nel suo
podere di Saint-Méran… Dico suo podere, perché da oggi quella
proprietà è sua. Ma, fra otto giorni, se lo desiderate, senza
rumore, senza lusso, sarà concluso il matrimonio civile. Era
desiderio della signora di Saint-Méran che sua nipote si maritasse
in quella terra: concluso il matrimonio, signore, potrete ritornare
a Parigi, mentre vostra moglie passerà il tempo del lutto in
compagnia della sua matrigna.»
«Come vi piace, signore», annuì Franz.
«Allora», riprese il signor Villefort, «vi prego di aspettare, fra
mezz’ora Valentine scenderà in salotto. Manderò a cercare Deschamps,
leggeremo e firmeremo il contratto in una sola seduta, e fin da
questa sera la signora Villefort condurrà Valentine nella sua terra,
ove fra otto giorni noi andremo a raggiungerla.»
«Signore», disse Franz, «ho una domanda da farvi.»
«E quale?»
«Desidero che Albert di Morcerf e Raoul di Château-Renaud siano
presenti a questa firma: come sapete, essi sono i miei due
testimoni.»
«Una mezz’ora basta ad avvertirli; volete andare voi stesso a
cercarli, o volete mandar qualcuno?»
«Preferisco andarci io, signore.»
«Vi aspetto dunque fra mezz’ora, e fra mezz’ora Valentine sarà
pronta.»
Franz salutò il signor Villefort, e uscì.
Appena chiusa la porta di strada dietro al giovane, Villefort mandò
ad avvertire Valentine che scendesse in salotto entro mezz’ora,
perché si aspettavano il notaio e i testimoni del signor d’Epinay.
Tale inaspettata notizia produsse gran sensazione nella famiglia. La
signora Villefort non voleva crederci, e Valentine ne rimase
atterrita come da un colpo di fulmine: guardò intorno a sé, come per
cercare a chi domandare soccorso. Volle scendere da suo nonno; ma
incontrò per la scala il signor Villefort, che la prese per un
braccio, e la condusse in sala. Nell’anticamera Valentine incontrò
Barrois, e gettò al vecchio servitore uno sguardo di disperazione.
Poco dopo Valentine, la signora Villefort entrò nel salotto col
piccolo Edouard. Si vedeva chiaro che la giovane sposa aveva
grandemente condiviso i dispiaceri di famiglia; era pallida, e
sembrava molto stanca. Si sedette, prendendo Edouard sulle ginocchia
e, a tratti, comprimeva, con moti quasi convulsi, contro il petto il
ragazzino, sul quale sembrava concentrarsi tutta la sua vita. Ben
presto s’udirono due carrozze entrare nel cortile. Una era quella
del notaio, l’altra quella di Franz con gli amici; in un istante
furono tutti riuniti nella sala.
Valentine era così pallida, che si vedevano le vene turchine delle
tempie, intorno agli occhi e lungo le guance. Franz non poté
esimersi dal provare una forte commozione; Château-Renaud e Albert
si guardavano in viso con meraviglia; la cerimonia che stava per
cominciare non era meno triste di quella a cui avevano assistito
poco prima. La signora Villefort si era messa all’ombra di una tenda
di velluto, e siccome stava sempre china sopra suo figlio, era
difficile leggerle in viso ciò che accadeva nel suo cuore.
Il signor Villefort si mostrava, come sempre, impassibile. Il
notaio, dopo avere, secondo la consuetudine dei legali, distribuito
sulla tavola le carte, preso posto sulla poltrona, e inforcati gli
occhiali, si voltò verso Franz: «Siete voi il signor Franz di
Quesnel, barone di Epinay?» domandò, sebbene lo sapesse
perfettamente.
«Sì, signore», rispose Franz.
Il notaio gli fece un inchino.
«Debbo avvertirvi, signore», disse, «in nome del signor Villefort
che il matrimonio progettato fra voi e la signorina Villefort ha
fatto cambiare le disposizioni testamentarie del signor Noirtier
verso sua nipote, poiché egli aliena interamente tutta la sostanza
che le doveva trasmettere. Ci affrettiamo però ad aggiungere»,
continuò il notaio, «che avendo il testatore alienata tutta la sua
sostanza, mentre in diritto poteva alienarne soltanto una parte, il
testamento non resisterà agli attacchi, e sarà dichiarato nullo e
come non avvenuto.»
«Sì», intervenne Villefort, «vi prevengo però fin d’ora, signor
d’Epinay, che finché vivrò, il testamento di mio padre non sarà mai
messo in discussione; la mia posizione mi proibisce persino l’ombra
di questo scandalo.»
«Signore», disse Franz, «sono dolente che si sia intavolata simile
questione davanti alla signorina Valentine. Io non mi sono mai
informato dell’ammontare del suo patrimonio, che per quanto possa
venire diminuito, sarà sempre maggiore del mio. Nelle trattative col
signor Villefort la mia famiglia ha avuto di mira il suo nome
stimabile, e io cerco la felicità.»
Valentine fece un segno impercettibile di ringraziamento, mentre due
silenziose lacrime le scorrevano sulle guance.
«Del resto, signore», disse Villefort al suo futuro genero,
«prescindendo dalla perdita di parte delle vostre speranze, in
questo inatteso testamento non c’è nulla che debba offendervi
personalmente, è giustificato dalla debolezza di spirito del signor
Noirtier. Il dispiacere di mio padre non è che mia figlia si sposi
con voi, ma che mia figlia prenda marito; una unione con qualunque
altro gli sarebbe ugualmente dispiaciuta. La vecchiaia è egoista,
signore, e la signorina Villefort faceva al signor Noirtier fedele
compagnia, cosa che non potrà mai fargli la baronessa d’Epinay. Lo
stato infelice nel quale si trova mio padre fa che gli si parli
raramente di affari, la debolezza del suo spirito non gli permette
di occuparsene e sono ampiamente convinto che a quest’ora, mentre sa
che sua nipote si marita, non si ricorda neppure il nome di quello
che sta per diventare suo nipote.»
Appena terminate dal signor Villefort queste parole, alle quali
Franz rispondeva con un inchino, d’un tratto si aprì la porta del
salotto, e comparve Barrois.
«Signori, signori», annunciò, con una voce stranamente sicura per un
servitore che parla ai suoi padroni in una circostanza così solenne,
«signori, il signor Noirtier Villefort desidera parlare sul momento
al signor Franz di Quesnel barone di Epinay.»
Egli pure, come aveva fatto il notaio, affinché non potesse nascere
alcun errore di persona, aveva dato al fidanzato tutti i suoi
titoli. Villefort rabbrividì, la signora Villefort lasciò scivolare
il figlio giù dalle ginocchia, Valentine si alzò pallida e muta come
una statua. Albert e Château-Renaud si scambiarono un secondo
sguardo più meravigliati ancora di prima. Il notaio guardò
Villefort.
«È impossibile», disse il regio procuratore. «D’altra parte il
signor d’Epinay non può in questo momento lasciare la sala.»
«È precisamente in questo momento», riprese Barrois, con la stessa
fermezza, «che il signor Noirtier, mio padrone, desidera parlare di
affari importanti al signor Franz d’Epinay.»
«Parla forse adesso il nonno Noirtier?» domandò Edouard con la sua
solita impertinenza.
Ma questo lazzo non fece ridere neppure la signora Villefort, tanto
gli spiriti erano preoccupati, tanto il momento sembrava solenne.
«Dite al signor Noirtier», rispose Villefort, «che non possiamo fare
com’egli domanda.»
«Allora il signor Noirtier avvisa questi signori», riprese Barrois,
«che si farà subito portare lui stesso nel salotto.»
Lo stupore era al colmo. Una specie di sorriso si disegnò sul viso
della signora Villefort. Valentine, quasi involontariamente, alzò
gli occhi al soffitto per ringraziare il cielo.
«Valentine», disse il signor Villefort, «andate un po’ a sentire, vi
prego, che nuova fantasia è questa di vostro nonno.»
Valentine fece subito qualche passo per uscire, ma il signor
Villefort cambiò parere.
«Aspettate», la fermò, «v’accompagnerò.»
«Scusate, signore», disse Franz, a sua volta, «mi pare che, avendo
il signor Noirtier fatto chiedere di me, tocchi a me in particolare
arrendermi ai suoi desideri. D’altra parte sarei fortunato di
potergli presentare i miei rispetti, non avendo ancora avuto
l’occasione di procurarmi questa fortuna.»
«Mio Dio!» ribatté Villefort, con visibile inquietudine. «Non
v’incomodate.»
«Perdonatemi, signore», disse Franz, col tono d’uomo che ha preso
una risoluzione. «Desidero non perdere questa occasione per provare
al signor Noirtier quanto avrebbe torto di concepire verso di me
delle antipatie che sono deciso a vincere, con profonda devozione.»
E senza lasciarsi trattenere più da Villefort, Franz si alzò, e
seguì Valentine, la quale scendeva già la scala con la gioia di un
naufrago che afferra con la mano una corda. Il signor Villefort li
seguì entrambi. Château-Renaud e Morcerf si scambiarono un terzo
sguardo ancora più stupiti.
74. Il processo verbale
Noirtier attendeva, vestito di nero, assiso nella sua sedia a
braccioli. Entrate le tre persone che calcolava dovessero venire,
guardò la porta, che fu subito chiusa dal suo cameriere.
«Badate», disse sottovoce Villefort a Valentine, che non poteva
nascondere la sua gioia, «che se il signor Noirtier vi comunica cose
che possano impedire il vostro matrimonio, io vi proibisco di
rivelarle.»
Valentine arrossì ma non rispose. Villefort si avvicinò a Noirtier.
«Ecco il signor Franz d’Epinay», gli disse. «Voi lo avete fatto
chiamare signore, ed egli si è arreso ai vostri desideri. Senza
dubbio noi desideravamo farvi questa visita da lungo tempo, e sarei
contento se questa vi provasse quanto poco è fondata la vostra
opposizione a un tal matrimonio.»
Noirtier rispose con uno sguardo che fece correre un brivido lungo
le vene a Villefort. Fece con l’occhio segno a Valentine di
avvicinarsi. In un momento, con i mezzi cui era abituata nelle
conversazioni con suo nonno, lei trovò la parola «chiave». Allora
consultò lo sguardo del paralitico, che si fissò sulla cassetta d’un
piccolo mobile posto fra le due finestre e aperta la cassetta,
ritrovò effettivamente una chiave. Quando ebbe quella chiave, e il
vecchio le fece segno che era veramente quella che domandava, gli
occhi del paralitico si diressero verso un armadio dimenticato da
molti anni, e che si credeva non racchiudesse che delle cartacce
inutili.
«Desiderate che apra l’armadio?» domandò Valentine.
«Sì», indicò il vecchio.
«Che apra i cassetti?»
«Sì.»
«I laterali?»
«No.»
«Quello di mezzo?»
«Sì.»
Valentine aprì, e ne estrasse un fascio di carte.
«È quello che desiderate, mio buon nonno?» chiese lei.
«No.»
Estrasse allora tutte le altre carte, fino a che non rimase
assolutamente nulla nel cassetto.
«Ma il cassetto è vuoto ora», disse.
Gli occhi del vecchio erano fissi sul dizionario.
«Sì, buon nonno, vi capisco», disse la giovane.
E ripeté una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto; Noirtier
si fermò alle lettera S. Aprì il dizionario, e cercò fino alla
parola «segreto».
«È uno stipo segreto?» domandò Valentine.
«Sì», indicò Noirtier, poi guardò verso la porta dalla quale era
uscito il domestico.
«Barrois?» disse lei.
«Sì», rispose Noirtier.
«Volete che lo chiami?»
«Sì.»
Valentine andò alla porta, e chiamò Barrois. Durante questo tempo il
sudore dell’impazienza rigava le guance di Villefort, e Franz
rimaneva stupefatto per la meraviglia. Il vecchio servitore
ricomparve.
«Barrois», disse Valentine, «mio nonno mi ha ordinato di prendere la
chiave da quel mobile, di aprire questo armadio e di tirare il
cassetto: ora, in questo cassetto vi è uno stipo segreto, e sembra
che voi lo conosciate: apritelo.»
Barrois guardò il vecchio.
«Obbedite», disse l’occhio intelligente di Noirtier.
Barrois obbedì, e, aperto un doppio fondo, apparve un plico di carte
annodate con un nastro nero.
«È questo che volete, signore?» domandò Barrois.
«Sì», indicò Noirtier.
«A chi volete che si diano queste carte? Al signor Villefort?»
«No.»
«Alla signorina Valentine?»
«No.»
«Al signor Franz d’Epinay?»
«Sì.»
Franz attonito fece un passo avanti dicendo: «A me, signore?»
Franz ricevette il plico dalle mani di Barrois, e gettando gli occhi
sull’intestazione, lesse: «Da depositarsi dopo la mia morte presso
il mio amico il generale Durand; egli stesso morendo lascerà a suo
figlio questo plico con l’ingiunzione di conservarlo come contenente
un foglio della più alta importanza».
«Ebbene, signore», domandò Franz, «quale uso volete ch’io faccia di
questo plico?»
«Che voi, certo, lo conserviate sigillato come si trova», dichiarò
il regio procuratore.
«No, no», fece segno prontamente Noirtier.
«Desiderate forse che il signore lo legga?» domandò Valentine.
«Sì», rispose il vecchio.
«Capite, signor barone? Mio nonno vi prega di leggere quella carta»,
disse Valentine.
«Sì», confermò il vecchio.
«Allora sediamoci», disse Villefort, con impazienza, «perché ci
vorrà del tempo.»
«Sedetevi», indicò con l’occhio il vecchio.
Villefort si sedette, ma Valentine restò in piedi accanto al nonno,
appoggiata alla sua seggiola, e Franz in piedi davanti a lui,
tenendo il misterioso foglio fra le mani.
«Leggete», ordinarono gli occhi del vecchio.
Franz dissigillò il plico e si fece un gran silenzio nella camera
quando cominciò a leggere: «Estratto dei processi verbali di una
seduta del club bonapartista della rue Saint-Jacques tenutasi il 5
febbraio 1815». Franz si fermò. «Il 5 febbraio 1815 fu il giorno in
cui mio padre venne assassinato!» esclamò. Valentine e Villefort
rimasero muti. Il solo occhio del vecchio diceva chiaramente:
«Continuate».
«Ma fu nell’uscire da quel club», proseguì Franz, «che mio padre
scomparve.»
Lo sguardo di Noirtier continuò a esprimere: «Leggete».
Egli riprese: «I sottoscritti Louis-Jacques Beauregard, luogotenente
colonnello d’artiglieria; Etienne Duchampy, generale di brigata, e
Claude Lecharpal, direttore delle acque e foreste, dichiarano che il
4 febbraio 1815 giunse una lettera dall’isola d’Elba, che
raccomandava alla benevolenza e fiducia dei membri del circolo
bonapartista il generale Flavien di Quesnel, che, avendo servito
l’imperatore dal 1804 al 1815, doveva essere tutto dedito alla sua
causa malgrado il titolo di barone che Luigi XVIII aveva aggiunto
alla sua terra d’Epinay. In conseguenza fu scritto un biglietto al
generale Quesnel, in cui lo si pregava di assistere alla seduta
dell’indomani 5. Il biglietto non indicava né la strada, né il
numero della casa in cui si teneva la riunione e non portava alcuna
firma, ma avvertiva il generale, che se aderiva, sarebbero andati a
prenderlo alle nove della sera. La seduta aveva luogo dalle nove di
sera a mezzanotte. Il presidente del circolo alle nove si presentò
al generale, il generale lo aspettava. Il presidente gli disse che
una delle condizioni per la sua ammissione era l’ignoranza del luogo
della riunione, e che perciò avrebbe dovuto lasciarsi bendare gli
occhi giurando di non togliersi mai la benda. Il generale Quesnel
accettò le condizioni, e promise sul suo onore che non avrebbe
tentato di conoscere il luogo dove lo conducevano. Il generale aveva
fatto preparare la sua carrozza, ma il presidente disse che non
potevano servirsene poiché sarebbe stato inutile bendare gli occhi
al padrone, se il cocchiere doveva conoscere le strade per cui
passava.
“Come fare allora?” domandò il generale.
“Ci attende la mia carrozza”, rispose il presidente.
“Siete dunque così sicuro del vostro cocchiere da confidargli un
segreto che giudicate imprudente far conoscere al mio?”
“Il nostro cocchiere è un membro del circolo”, rispose il
presidente, “saremo guidati da un consigliere di Stato.”
“Allora”, aggiunse ridendo il generale, “corriamo un altro pericolo,
quello di rovesciarci con la carrozza!”
Noi trascriviamo questo scherzo come una prova che il generale non è
stato minimamente forzato ad assistere alla seduta, e che vi è
intervenuto di sua piena volontà. Saliti in carrozza, il presidente
ricordò al generale la promessa fatta di lasciarsi bendare gli
occhi. Il generale non si oppose: fu adoperato un fazzoletto che
stava nella carrozza. Lungo la via, il presidente s’accorse che il
generale cercava di guardare sotto la benda, gli ricordò il suo
giuramento.
“Ah, è vero”, disse il generale.
La carrozza si fermò all’ingresso d’un viale della rue
Saint-Jacques. Il generale scese appoggiandosi al braccio del
presidente, che non gli era noto, e che supponeva fosse un semplice
membro del circolo, attraversarono il viale, salirono una scala, ed
entrarono nella sala delle deliberazioni. La seduta era cominciata.
I membri del circolo, avvisati dell’individuo che doveva esser
presentato quella sera, erano presenti al gran completo. Giunto in
mezzo alla sala, il generale fu invitato a togliersi la benda:
ubbidì subito all’invito, e parve molto stupito che un così gran
numero di persone di sua conoscenza appartenessero a una società di
cui fino ad allora non aveva neppure sospettato l’esistenza. Fu
interrogato sulle sue opinioni, ma si limitò a rispondere che le
lettere dell’isola d’Elba avrebbero già dovuto farle conoscere…»
Franz s’interruppe.
«Mio padre era realista», disse, «non c’era bisogno d’interrogarlo
sulle sue opinioni poiché erano note.»
«E da ciò», spiegò Villefort, «ebbe origine la mia amicizia con
vostro padre, mio caro Franz, come accade quando si condividono le
stesse opinioni.»
«Leggete», indicò l’occhio del vecchio.
Franz continuò: «Il presidente prese allora la parola per impegnare
il generale a spiegarsi esplicitamente: ma il signor di Quesnel
rispose che prima di tutto desiderava sapere che cosa volessero da
lui. Allora fu comunicata al generale la lettera dell’isola d’Elba
che lo raccomandava al circolo come uomo sul quale si poteva
contare. Un paragrafo tutto intero esponeva il probabile ritorno
dall’isola e prometteva un’altra lettera con più minuti particolari
all’arrivo del Pharaon, bastimento appartenente all’armatore Morrel
di Marsiglia, il cui capitano era interamente devoto all’imperatore.
Durante quella lettura, il generale, sul quale si era creduto di
poter contare come su un fratello, dette invece segni visibili di
malcontento e di disaccordo. Terminata la lettura, stette silenzioso
e con le sopracciglia aggrottate.
“Ebbene”, domandò il presidente, “che ne dite, signor generale?”
“Io dico che è troppo poco tempo che abbiamo prestato giuramento al
re Luigi XVIII da violarlo di già a beneficio dell’ex imperatore.”
Questa volta la risposta era chiarissima perché si potesse dubitare
dei suoi sentimenti.
“Generale”, disse il presidente, “per noi non vi è più né re Luigi
XVIII né ex imperatore. Vi è soltanto Sua Maestà l’imperatore e re,
allontanato da dieci mesi dalla Francia, suo impero, dalla violenza
e dal tradimento.”
“Scusate, signori, può darsi che per voi non esista un re Luigi
XVIII, ma per me sì, visto che mi fece barone e maresciallo di
campo, e io non dimenticherò mai che devo questi due titoli al suo
fortunato ritorno in Francia.”
“Signore”, disse il presidente alzandosi e col tono più severo,
“badate a ciò che dite! Le vostre parole ci dimostrano chiaro che
all’isola d’Elba si sono ingannati sul conto vostro, e che hanno
ingannato noi! L’invito vi è stato fatto a motivo della fiducia che
voi ispiravate, e quindi di un sentimento per voi onorevole. Noi
però eravamo in errore, un titolo e un grado vi hanno fatto
partigiano del nuovo governo che vogliamo rovesciare. Noi non vi
costringeremo a prestarci il vostro aiuto, giacché non arruoliamo
nessuno contro la propria coscienza e volontà, ma vi forzeremo ad
agire da galantuomo, anche qualora non ne foste disposto.”
“Chiamate essere galantuomo conoscere la vostra cospirazione e non
denunciarla! Io chiamo ciò essere vostro complice. Vedete che sono
ancora più franco di voi…”»
«Ah! Padre mio!» disse Franz interrompendosi. «Capisco ora perché ti
hanno assassinato.»
Valentine non poté fare a meno di volgere uno sguardo a Franz; il
giovane era veramente bello nel suo entusiasmo. Villefort
passeggiava su e giù dietro a lui. Noirtier osservava l’emozione di
ciascuno, e conservava la sua attitudine dignitosa e severa.
Franz riprese il manoscritto, e continuò: «“Signore”, disse il
presidente, “foste pregato di venire in seno all’assemblea, e non vi
foste trascinato per forza; vi fu proposto che vi lasciaste bendare
gli occhi, e accettaste. Quando avete acconsentito a questo doppio
invito, sapevate benissimo che non era nostra intenzione
d’assicurare il trono a Luigi XVIII, senza di che non ci saremmo
prese tante precauzioni di nasconderci alla polizia. Ora, come ben
capirete sarebbe una cosa troppo comoda potersi mettere una maschera
per sorprendere il segreto delle persone, e poi togliersi questa
maschera per perdere quelli che si sono fidati di voi. No, no, per
prima cosa dovrete dire francamente se siete per il re che ora
governa, o per Sua Maestà l’imperatore”.
“Sono realista”, rispose il generale, “ho giurato per Luigi XVIII;
manterrò il mio giuramento.”
Queste parole furono seguite da un mormorio generale e si poteva
capire dalla concitazione di molti membri componenti il circolo, che
discutevano il modo di far pentire il signor d’Epinay di quelle
imprudenti parole. Il presidente si alzò di nuovo e impose il
silenzio.
“Signore”, diss’egli, “siete troppo assennato per non comprendere le
conseguenze della situazione in cui ci troviamo, gli uni in faccia
agli altri, e la vostra stessa franchezza ci detta le condizioni che
dobbiamo proporvi. Dovete dunque giurare sul vostro onore di non
rivelar nulla di tutto ciò che avete visto e udito.”
Il generale portò la mano alla spada, e gridò: “Se parlate di onore,
cominciate col non travisare le sue leggi, e non imponete nulla con
la violenza”.
“E voi signore”, replicò il presidente, con calma forse più
terribile della collera del generale, “non toccate la spada, vi do
questo consiglio.”
Il generale volse intorno lo sguardo, da cui trapelava un principio
d’inquietudine. Però non cedette; al contrario, richiamando il suo
coraggio: “Io non giurerò”, diss’egli.
“Allora, signore, voi morirete”, rispose tranquillamente il
presidente.
Il signor d’Epinay divenne pallidissimo, guardò una seconda volta
intorno a sé: molti membri del circolo brandivano o cercavano armi
sotto i loro mantelli.
“Generale”, riprese il presidente, “state tranquillo, siete in mezzo
a uomini d’onore che tenteranno ogni via per persuadervi, prima di
ricorrere all’estremo contro di voi, ma come ben diceste, vi trovate
pure in mezzo a cospiratori, e bisogna che ci restituiate il segreto
di cui siete in possesso.”
Un silenzio significativo seguì queste parole, e siccome il generale
non rispondeva, “Chiudete le porte”, ordinò il presidente agli
uscieri. Un eguale silenzio di morte seguì queste altre parole.
Allora il generale si avanzò e facendo un violento sforzo su di sé,
disse: “Ho un figlio e devo pensare a lui nel ritrovarmi in mezzo ad
assassini”.
“Generale”, parlò con nobiltà il capo dell’assemblea, “un uomo solo
ha sempre il diritto d’insultarne cinquanta, è il privilegio della
debolezza; fa però male a servirsi di questo diritto. Credete a me,
generale, giurate e non insultate.” Il generale, vinto anche questa
volta dalla superiorità del capo dell’assemblea, esitò un istante;
ma finalmente, avvicinandosi al banco del presidente domandò: “Qual
è la formula?”
“Eccola: Io giuro sul mio onore di non rivelare a nessuno al mondo
ciò che ho visto e udito il 5 febbraio 1815 fra le nove e le dieci
di sera, e mi dichiaro meritevole di morte se infrango il mio
giuramento.”
Il generale parve provare un tremito nervoso, che per qualche
secondo gli impedì di rispondere; poi, finalmente, vincendo ogni
riluttanza, pronunciò il richiesto giuramento ma con voce bassa, che
a grande stento fu udita, cosicché molti membri vollero che lo
ripetesse a voce più alta e più distinta, il che fu fatto.
“Ora desidero ritirarmi”, disse il generale. “Sono finalmente
libero?”
Il presidente si alzò, scelse tre membri dell’assemblea per
accompagnarlo, salì in carrozza col generale dopo avergli bendato
gli occhi. Tra questi tre membri c’era il cocchiere che li aveva
condotti; gli altri membri del circolo si separarono in silenzio.
“Dove volete che vi conduciamo?” domandò il presidente.
“Ovunque possa essere libero dalla vostra presenza”, rispose il
signor d’Epinay.
“Signore”, riprese allora il presidente, “badate! Voi qui non siete
più nell’assemblea, non avete più a che fare se non con uomini
isolati, non insultate dunque, se non volete essere responsabile
dell’insulto.”
Ma invece di capire tale linguaggio il signor d’Epinay rispose: “Il
motivo per cui siete tanto coraggioso sia in carrozza che
nell’assemblea, signore, è perché quattro uomini sono sempre più
forti di uno solo”.
Il presidente fece fermare la carrozza, erano precisamente nelle
vicinanze del Quai des Ormes.
“Perché vi fermate qui?” domandò il generale d’Epinay.
“Perché, signore”, rispose il presidente, “avete insultato un uomo,
e quest’uomo non vuole fare un passo di più senza chiedervi una
leale riparazione.”
“Un altro genere d’assassinio!” disse il generale stringendosi nelle
spalle.
“Non fate chiacchiere, signore”, replicò il presidente, “se non
volete che consideri voi pure come uno di coloro che definivate poco
fa, un vile che si fa scudo della sua stessa viltà. Siete solo, e
uno solo vi risponderà; avete una spada al fianco, io ne ho una in
questo bastone, non avete padrini, uno di questi signori sarà il
vostro. Ora, se vi aggrada, toglietevi la benda.”
“Finalmente”, disse, “saprò con chi ho a che fare.”
Fu aperta la carrozza; tutti e quattro scesero…»
Franz s’interruppe un’altra volta, e si asciugò un freddo sudore che
gli grondava dalla fronte. Faceva spavento vedere un figlio,
tremante e pallido, leggere ad alta voce i particolari, fino allora
ignoti, della morte di suo padre. Valentine congiunse le mani come
se mormorasse una preghiera al cielo; Noirtier guardava Villefort
con un’espressione quasi di sublime disprezzo e orgoglio.
Franz continuò: «Era come abbiamo detto il 5 febbraio. Da tre mesi
gelava a cinque o sei gradi; la scalinata era tutta ricoperta di
ghiaccio: il generale era alto e grosso, il presidente gli additò i
punti per scendere. I due testimoni li seguivano. La notte era
oscura. In fondo alla scalinata, in riva al fiume c’erano molta neve
e brina; si vedeva l’acqua scorrere nera, profonda, trasportando
massi di ghiaccio. Uno dei padrini andò a cercare una lanterna in
una chiatta di carbone, e al suo chiarore furono esaminate le armi.
La spada del presidente, consistente appena, come aveva detto, in
uno stocco che portava nel bastone, era dodici centimetri più corta
di quella del suo avversario, e senza guardia. Il generale d’Epinay
propose di tirare a sorte le spade, ma il presidente rispose che
essendo lui il provocatore, pretendeva che ciascuno si servisse
delle proprie armi. I padrini vollero insistere, il presidente
impose loro silenzio.
Posta la lanterna al suolo, i due avversari si misero ai due lati e
cominciò il combattimento. Le due spade guizzavano al chiarore della
lanterna come due lampi, ma le persone appena si potevano
discernere, tanto era oscura quella notte. Il generale d’Epinay era
considerato il migliore spadaccino dell’esercito, ma fu stretto
tanto vivamente, che fino dalle prime botte indietreggiò e cadde. I
due padrini lo credettero ucciso, ma il suo avversario, che sapeva
di non averlo ferito, gli presentò la mano per aiutarlo ad alzarsi.
Questa circostanza invece di calmarlo, irritò il generale, che
piombò a sua volta sull’avversario. Ma questi non cedette d’un palmo
il terreno, e ricevendolo per tre volte sulla sua spada, per tre
volte costrinse il generale a indietreggiare; finalmente alla terza
ricadde senza alzarsi. Dapprima i padrini credettero che avesse
ancora posto piede in fallo, ma vedendo che non si rialzava, corsero
per rialzarlo, però, quello che lo aveva afferrato, sentì la mano
umida e calda: era sangue. Il generale, che era quasi svenuto,
riprese i sensi.
“Ah”, disse, “mi hanno mandato qualche spadaccino, qualche maestro
di reggimento.”
Il presidente, senza rispondere, si avvicinò a quello dei due
padrini che teneva la lanterna, e, sollevando la manica, mostrò il
braccio traforato da due colpi di spada; poi slacciando il soprabito
e il panciotto, scoprì il fianco insanguinato per una terza ferita.
Il generale d’Epinay spirò dopo un’agonia di cinque minuti.»
Franz lesse queste ultime parole con voce soffocata, che appena si
poteva intendere, e dopo aver letto si fermò, portando la mano agli
occhi, come per scacciare una nube. Ma dopo un istante di silenzio
continuò: “Il presidente risalì la scala dopo aver rimesso la spada
nel bastone; una striscia di sangue segnava il suo cammino sulla
neve.
Non era ancora giunto in cima alla scalinata, che udì un sordo tonfo
nell’acqua: era il corpo del generale, che i testimoni avevano
gettato nel fiume dopo averne verificata la morte. In fede di che,
abbiamo sottoscritto la presente per ristabilire la verità dei
fatti, per tema che arrivi un momento in cui uno dei personaggi di
quella terribile scena non si trovi accusato di omicidio premeditato
o di violazione delle leggi d’onore.
Sottoscritti: Beauregard, Duchampy e Lecharpal.»
Quando Franz ebbe terminato la lettura, così terribile per un
figlio, quando Valentine, pallida per l’emozione, ebbe asciugato una
lacrima, quando Villefort, tremante e rannicchiato in un canto, ebbe
tentato di scongiurare l’uragano per mezzo di sguardi supplichevoli
diretti al vecchio implacabile, «Signore», disse d’Epinay a
Noirtier, «poiché voi conoscete questa terribile storia in tutti i
suoi particolari, dacché l’avete fatta testificare da firme
onorevoli; poiché sembrate avere cura di me, sebbene la vostra
premura non si sia ancora rivelata che per mezzo del dolore, non mi
rifiutate un ultimo desiderio, ditemi il nome del presidente del
circolo, che io conosca finalmente colui che ha ucciso il mio povero
padre».
Villefort cercò, come un mentecatto, la maniglia della porta;
Valentine, che aveva compreso prima di tutti la risposta del vecchio
e che spesso aveva osservato sull’avambraccio del nonno le cicatrici
di due ferite, indietreggiò d’un passo.
«In nome del cielo, signorina», implorò Franz rivolgendosi alla sua
fidanzata, «unitevi a me, che io sappia il nome di quell’uomo che mi
ha reso orfano a due anni.»
Valentine restò immobile e muta.
«Ascoltatemi, signore», disse Villefort, «credetemi, non prolungate
questa orribile scena… I nomi del resto sono stati nascosti ad arte.
Mio padre stesso non conosce questo presidente, e quand’anche lo
conoscesse non potrebbe dirlo, perché i nomi propri non si trovano
nel dizionario.»
«Sventura!» esclamò Franz. «La sola speranza durante tutta questa
lettura, che mi ha dato la forza di giungere sino alla fine, era di
conoscere almeno il nome di colui che ha ucciso mio padre! Signore»,
esclamò volgendosi a Noirtier, «in nome del cielo! Fate tutto ciò
che potete… cercate, ve ne supplico, d’indicarmi o farmi
comprendere…»
«Sì», fece cenno Noirtier.
«Oh, signorina!» gridò ancora Franz. «Vostro nonno ha fatto segno
che vuole indicarmi… quest’uomo… aiutatemi… Voi lo capite…
concedetemi il vostro aiuto…»
Noirtier guardò il dizionario. Franz lo prese con un tremito
convulso e pronunciò successivamente le lettere dell’alfabeto fino
alla vocale I. A questa lettera il vecchio fece segno di sì.
«I?» ripeté Franz.
Il dito del giovane strisciò sulle parole, ma a tutte le parole
Noirtier faceva un segno negativo. Valentine nascondeva la testa fra
le mani. Finalmente Franz giunse alla parola «io».
«Sì», indicò il vecchio.
«Voi!» disse Franz, gli occhi sbarrati. «Voi, signor Noirtier, siete
voi che avete ucciso mio padre?»
«Sì», replicò Noirtier, fissando sul giovane uno sguardo maestoso.
Franz cadde su una sedia. Villefort aprì la porta e fuggì, perché lo
tormentava un terribile pensiero, il pensiero di soffocare quel lume
di vita che ancora restava nel corpo del vecchio.
75. I progressi del signor Cavalcanti figlio
Il signor Cavalcanti padre era ripartito per riprendere il suo
servizio, non già nell’esercito di Sua Maestà l’imperatore
d’Austria, ma al casinò di Bagni di Lucca, di cui era tra i più
assidui. Non occorre dire che aveva ritirato con la più scrupolosa
esattezza fino all’ultimo soldo della somma che gli era stata
destinata per il viaggio e come ricompensa del modo maestoso e
solenne col quale aveva impersonato la parte di padre.
Il signor Andrea aveva ricevuto, alla sua partenza, tutte le carte
comprovanti aver egli avuto l’onore di essere il figlio del marchese
Bartolomeo e della marchesa Oliva Corsinari; era dunque quasi
introdotto in quella società parigina, tanto facile ad accogliere
gli stranieri e a considerarli, non per quello che sono, ma per ciò
che appaiono. D’altra parte che cosa si richiede a un giovane a
Parigi? Di parlare la lingua francese, essere vestito elegantemente,
essere buon giocatore, e pagare in oro. Non occorre dire che si
esige meno da un forestiero che da un parigino.
Dunque Andrea, in quindici giorni, s’era procurato un buon credito;
lo chiamavano il signor conte, si diceva che avesse cinquantamila
lire di rendita, e si parlava degli immensi tesori sepolti da suo
padre nei sotterranei di Serravezza. Uno scienziato, alla cui
presenza si facevano tali discorsi, disse d’avere visto i
sotterranei di cui si parlava, il che dette un gran peso alle
asserzioni fino allora dubbie, che da quel momento presero l’aspetto
della realtà.
Le cose erano quindi giunte a tal punto nel mondo parigino, dove
abbiamo introdotto i nostri lettori, allorché il conte andò a fare
visita al signor Danglars. Il signor Danglars era uscito, ma quando
fu detto al conte che la baronessa era disponibile, egli entrò da
lei. Mai senza una specie di brivido nervoso, la signora Danglars
udiva pronunciare il nome di Montecristo, dopo il pranzo d’Auteuil e
gli avvenimenti che ne erano seguiti. Se il conte non si fosse
presentato, la sensazione dolorosa sarebbe divenuta più intensa; se
invece fosse comparso, la sua fisionomia aperta, i suoi occhi
brillanti, la sua amabilità e galanteria verso la signora Danglars,
avrebbero scacciato ben presto fino all’ultimo timore. Pareva
impossibile alla baronessa che un uomo così gentile all’esterno
potesse nutrire contro di lei malvagi disegni; d’altra parte, i
cuori più corrotti non possono credere al male, se non è eccitato da
qualche interesse: il male inutile e senza causa ripugna come una
anomalia.
Montecristo entrò dunque nel salotto, ove noi abbiamo già una volta
introdotto i nostri lettori, e dove la baronessa esaminava con
occhio inquieto alcuni disegni che le porgeva sua figlia, dopo
averli guardati col signor Cavalcanti figlio: la sua presenza
produsse l’ordinario effetto, e calmato lo sconvolgimento prodotto
in lei all’udire il suo nome, la baronessa ricevette il conte con un
sorriso. Questi, dal canto suo, indovinò tutto con uno sguardo.
Vicino alla baronessa, e quasi stesa sopra una poltroncina stava
Eugénie, e in piedi Cavalcanti, vestito di nero come un eroe di
Goethe, scarpe verniciate e calze di seta bianca a giorno. Il
giovane passava una mano molto bianca e pulita fra i capelli biondi,
facendo scintillare un diamante, che, malgrado i consigli del conte
di Montecristo, il vanitoso giovane non aveva potuto resistere al
desiderio di infilarsi al dito mignolo. Quel moto era accompagnato
da sguardi infocati lanciati alla signorina Danglars, e da sospiri
inviati al medesimo indirizzo. La signorina Danglars era sempre la
stessa, vale a dire bella, fredda e ironica. Non le sfuggiva un
sospiro, uno sguardo d’Andrea, ma si sarebbe detto che scivolassero
sulla corazza di Minerva; corazza che alcuni filosofi pretendono che
qualche volta ricopra il petto di Saffo.
Eugénie salutò freddamente il conte, e approfittò del primo momento
in cui vide impegnato il discorso, per ritirarsi nel suo studio, da
dove presto uscirono due voci forti e scherzose, miste ai primi
accordi di un clavicembalo, che rivelarono a Montecristo come la
signorina preferisse alla sua e a quella di Cavalcanti la compagnia
della signorina Louise d’Armilly sua maestra di canto. Fu allora,
particolarmente, che, parlando con la signora Danglars, e fingendo
d’essere tutto assorto in quel colloquio, il conte osservò la
premura del signor Andrea Cavalcanti, il suo modo di andare ad
ascoltare la musica alla porta, che non osava oltrepassare, e di
manifestare la sua ammirazione.
Il banchiere non tardò a comparire: il suo primo sguardo fu per
Montecristo, è vero, ma il secondo fu per Andrea. In quanto a sua
moglie, la salutò nel modo che molti mariti salutano le proprie, e
di cui i celibi non potranno capacitarsi fino a che non venga
pubblicato un codice estesissimo sullo stato coniugale.
«Queste signorine non vi hanno forse invitato a cantare insieme?»
domandò Danglars ad Andrea.
«Ahimè, no, signore», rispose Andrea con un sospiro più profondo
ancora degli altri.
Danglars si avvicinò alla porta di comunicazione, e l’aprì: allora
si videro le due donne sedute sulla medesima sedia davanti al
pianoforte, suonando ciascuna con una mano, esercizio al quale si
erano abituate per fantasia, e nel quale erano riuscite con
sorprendente bravura. La signorina d’Armilly formava con Eugénie,
nella cornice dell’uscio, uno di quei quadri viventi alla maniera
tedesca, ed era di una bellezza notevole o, a dir meglio, di una
gentilezza squisita, sottile e bionda come una fata, con due gran
ciocche di ricci sul collo, un po’ troppo lungo, come pecca talvolta
il Perugino nelle sue figure, e gli occhi velati quasi per
stanchezza. Si diceva che avesse il petto debole, e che, come
Antonia, nel Violino di Cremona, sarebbe morta un giorno cantando.
Montecristo volse un rapido sguardo a quel gineceo: era la prima
volta che vedeva la signorina d’Armilly, di cui aveva udito parlare
spesso in quella casa.
«Ebbene», domandò il banchiere a sua figlia, «perché noialtri siamo
esclusi?»
E condusse il giovane nella saletta, e, fosse caso o arte, la porta
fu spinta dietro Andrea in modo che, dal luogo ove erano seduti
Montecristo e la baronessa, non si potesse vedere nulla. Ma siccome
il banchiere aveva seguito Andrea, la signora Danglars non parve
badare a tale circostanza. Poco dopo il conte udì la voce di Andrea
accordarsi al piano, e cantare una canzone corsa.
Mentre il conte ascoltava sorridendo quella canzone, che gli faceva
dimenticare Andrea per ricordarsi di Benedetto, la signora Danglars
vantava a Montecristo la forza d’animo di suo marito, che in quella
mattina aveva perduto altri tre o quattrocentomila franchi in un
fallimento di Milano. E difatti l’elogio era ben meritato; perché se
il conte non lo avesse saputo dalla baronessa, o per uno di quei
mezzi che forse aveva per sapere tutto, il volto del barone non ne
avrebbe dato il più piccolo indizio.
«Bene!» pensò Montecristo. «È già arrivato al punto di dover tenere
nascoste le perdite. un mese fa se ne vantava.»
Quindi alzando la voce: «Oh, signora», disse il conte, «il signor
Danglars conosce così bene la Borsa, che potrà sempre guadagnarvi
ciò che perde altrove».
«Vedo che condividete l’errore comune», osservò la signora Danglars.
«E quale errore?» domandò Montecristo.
«Che il signor Danglars speculi sui fondi, mentre non specula mai.»
«È vero, signora, mi ricordo che Debray mi disse… A proposito, che
cosa n’è stato di Debray? Sono tre o quattro giorni che non lo
vedo.»
«Anch’io», disse la signora Danglars con mirabile indifferenza. «Ma
voi avete cominciato una frase che è rimasta interrotta.»
«E quale?»
«Il signor Debray mi disse…, avete detto.»
«Ah, è vero… Il signor Debray mi disse che eravate voi a sacrificare
al demone dell’azzardo.»
«Ho avuto questo capriccio per qualche tempo, lo confesso, ma ora
non l’ho più.»
«E avete torto, signora. Mio Dio! I capricci della fortuna sono
precari, e se fossi stato donna, e la combinazione mi avesse fatto
moglie di un banchiere, qualunque fiducia avessi avuto nella
prospera sorte di mio marito, avrei sempre cominciato con
l’assicurarmi uno stato indipendente, avessi dovuto anche acquistare
questa fortuna affidando i miei interessi in mani a lui ignote.»
La signora Danglars arrossì suo malgrado.
«Vedete», continuò Montecristo, come se non se ne fosse accorto, «si
parla di un bel colpo che è stato fatto ieri sui titoli di Napoli.»
«Io non ne ho», disse prontamente la baronessa, «e non ne ho mai
avuti… Ma, in verità, abbiamo parlato abbastanza di Borsa, signor
conte: sembriamo due agenti di cambio. Parliamo un po’ dei poveri
Villefort, così tormentati dal destino.»
«Che cosa è loro accaduto?» domandò Montecristo con la più perfetta
calma.
«Ma lo saprete già: dopo aver perduto il signore di Saint-Méran, tre
o quattro giorni dopo la partenza da Marsiglia, hanno ora perduto la
marchesa, tre o quattro giorni dopo il suo arrivo.»
«Ah, è vero», annuì Montecristo, «l’ho sentito raccontare… ma come
dice Claudio ad Amleto, è una legge di natura; i loro padri sono
morti prima di loro, ed essi li avevano pianti; essi moriranno prima
dei loro figli, e questi li piangeranno.»
«Ma non è finita qui.»
«Come! Non è finita qui?»
«No, voi sapete che dovevano maritare la loro figlia.»
«Al signor Franz d’Epinay… È forse andato in fumo il matrimonio?»
«Ieri mattina, a quanto sembra, Franz ha ritirato la sua parola.»
«Davvero?… E si conoscono i motivi di quella rottura?»
«No.»
«Che cosa mi raccontate, buon Dio, signora… E come sopporta il
signor Villefort tali disgrazie?»
«Sempre con filosofia.»
Furono interrotti dal ritorno di Danglars.
«Ebbene», disse la baronessa, «lasciate il signor Cavalcanti con
vostra figlia?»
«E la signorina d’Armilly», aggiunse il banchiere, «per chi la
prendete dunque?»
Poi rivolgendosi a Montecristo: «Che giovane cortese, vero, signor
conte, è il principe Cavalcanti?… Ma è veramente principe?»
«Io non posso garantirlo», rispose Montecristo. «Mi fu presentato
suo padre come marchese, egli sarebbe conte… Ma io credo ch’egli
stesso non dia gran importanza a questo titolo.»
«Perché?» si stupì il banchiere. «Se è principe, ha torto a non
vantarsene. A ciascuno ciò che è di diritto. Io non ho caro chi
rinnega la propria origine.»
«Voi non siete troppo democratico», disse Montecristo sorridendo.
«Ma, vedete», osservò la baronessa, «a che cosa vi esponete se per
caso venisse il signor Morcerf? Troverebbe il signor Cavalcanti in
una stanza, dove lui, fidanzato d’Eugénie, non ha mai avuto il
permesso d’entrare.»
«Fate bene a dire se per caso, poiché, in verità, si vede tanto di
rado, che si può proprio dire che è stato il caso che ce l’ha
condotto.»
«Ma infine, se venisse e trovasse questo giovane vicino a vostra
figlia, potrebbe non esserne contento.»
«Lui? Mio Dio, v’ingannate… Il signor Albert non ci fa l’onore
d’essere geloso della sua fidanzata, non l’ama abbastanza da
arrivare a tal punto. D’altra parte, che importa a me se egli è
scontento?»
«Però, al punto in cui siamo…»
«Sì, al punto in cui siamo… Volete sapere a che punto siamo? A
questo, che alla festa di sua madre ha ballato una volta sola con
mia figlia, e il signor Cavalcanti ha ballato con lei tre volte,
senza che neppure se ne sia accorto.»
«Il signor visconte Albert di Morcerf», annunciò il cameriere.
La baronessa si alzò prontamente, voleva passare nella stanza della
figlia, quando Danglars la trattenne per il braccio: «Lasciate»,
disse.
Lei lo guardò meravigliata; Montecristo finse di non aver visto
quella scena. Albert entrò: era molto leggiadro e allegro, salutò la
baronessa con rispetto, Danglars con familiarità, Montecristo con
affezione.
Poi, volto verso la baronessa: «Volete permettermi, signora»,
domandò, «di chiedervi come sta la signorina Danglars?»
«Benissimo, signore», rispose allegramente Danglars. «In questo
momento sta provando della musica, nel suo salottino in compagnia
del signor Cavalcanti.»
Albert conservò la sua aria calma e indifferente; forse sentiva
internamente un po’ di dispetto, ma vedeva lo sguardo di Montecristo
fisso su di lui.
«Il signor Cavalcanti ha una bellissima voce da tenore», disse
Albert, «e la signorina Eugénie è un magnifico soprano, senza
contare che suona il pianoforte come un Thalberg: dev’essere un
concerto sorprendente.»
«Il fatto è», continuò Danglars, «che vanno perfettamente
d’accordo.»
Albert parve non raccogliere quel gioco di parole grossolano, per
cui la signora Danglars arrossì.
«Anch’io», continuò il giovane, «sono musicista, per quanto dicono
almeno i miei maestri. Ebbene, cosa strana, non ho mai potuto
accordare la mia voce con alcun’altra, e molto meno ancora con voci
da soprano.»
Danglars fece un piccolo sorriso che significava: «Offenditi pure,
dunque».
«Così», aggiunse, sperando di spingere le cose al punto che
desiderava, «il principe e mia figlia ieri hanno raccolto
l’ammirazione generale. Non c’eravate ieri, signore di Morcerf?»
«Quale principe?» domandò Albert.
«Il principe Cavalcanti», rispose Danglars che si ostinava a voler
dar sempre questo titolo a quel giovane.
«Scusate», disse Albert, «non sapevo che fosse principe. Così il
principe Cavalcanti ha cantato ieri con Eugénie? Sarà stata una cosa
da destar entusiasmo, e mi dispiace vivamente non averli uditi. Ma
io non ho potuto accettare il vostro invito, avendo dovuto
accompagnare la signora Morcerf dalla baronessa madre di
Château-Renaud ove cantavano i tedeschi.»
Poi, dopo un breve silenzio, come si fosse di nulla parlato: «Mi
sarà permesso», riprese Morcerf, «di presentare i miei omaggi alla
signorina Danglars?»
«Aspettate, aspettate ve ne supplico!» esclamò il banchiere fermando
il giovane. «Sentite la deliziosa cavatina? Ta, ta, ta, ti, ta, ti
ta… Trasporta! Sta per finire… Un solo secondo. Perfetta! Bravo!
Bravi! Brava!»
E il banchiere si mise ad applaudire con frenesia.
«Infatti», annuì Albert, «è squisita. È impossibile esprimere meglio
del principe Cavalcanti la musica del proprio Paese. Avete detto
principe, vero? D’altra parte se non è principe, si farà fare. In
Italia è cosa facile. Ma per tornare ai nostri adorabili cantanti,
dovreste farci un piacere, signor Danglars, senza dir loro che vi
sia un estraneo, dovreste pregare la signorina Danglars e il signor
Cavalcanti di cominciare un altro pezzo. È una cosa così deliziosa
godere la musica a un po’ di distanza, in una mezza luce,
senz’essere visti, senza vedere e di conseguenza senza disturbare i
cantanti, che possono lasciarsi trasportare da tutto l’istinto del
genio e da tutto lo slancio del cuore!»
Danglars questa volta fu sconcertato dalla flemma del giovane, e,
preso Montecristo in disparte: «Conte», disse, «che ve ne pare del
nostro innamorato?»
«Mi sembra un po’ freddo, non c’è dubbio: ma che volete? Vi siete
impegnato.»
«Senza dubbio mi sono impegnato, ma a dare mia figlia a un uomo che
l’ami, e non a un uomo che non l’ama affatto. Vedetelo là, freddo
come il marmo, orgoglioso come suo padre… Fosse ricco almeno, avesse
la fortuna del Cavalcanti, si potrebbe passarci sopra… In fede mia,
non ho ancora consultato mia figlia, ma se lei avesse buon senso…»
«Be’», osservò Montecristo, «non so se sia la mia amicizia che mi
acceca, ma vi assicuro che il signor Morcerf è un giovane di qualità
che presto o tardi riuscirà in qualche cosa, e, infine, la posizione
di suo padre è eccellente!»
«Mmmh!» mugugnò Danglars.
«Perché questo dubbio?»
«Vi è sempre il passato… passato oscuro.»
«Ma il passato del padre non ha niente a che fare coi figli.»
«Sì, è vero però…»
«Orsù, non vi fasciate la testa… Un mese fa questo matrimonio vi
pareva un eccellente affare… Ma, come ben capirete, io sono
tristissimo: fu in casa mia che voi avete incontrato questo giovane
Cavalcanti, che io non conosco, ve lo ripeto.»
«Lo conosco io», ribatté Danglars, «e basta così.»
«Voi lo conoscete? Avete dunque preso informazioni sul suo conto?»
domandò Montecristo.
«E c’è bisogno di questo? Non si conosce subito a prima vista con
chi si ha a che fare?… Prima di tutto è ricco…»
«Non lo assicuro.»
«Voi però rispondete per lui.»
«Di una miseria, di cinquantamila franchi.»
«Ha un’educazione distinta.»
«Mmmh», fece a sua volta Montecristo.
«Conosce la musica.»
«Tutti gli italiani la conoscono.»
«Vedete, conte, siete ingiusto con questo giovane.»
«Ebbene, sì, lo confesso… Vedo a malincuore, conoscendo i vostri
impegni coi Morcerf, che quello viene in tal modo a mettersi di
mezzo, abusando del nome e della sua fortuna…»
Danglars si mise a ridere.
«Come siete puritano!» esclamò. «Ma questo succede tutti i giorni
nel mondo.»
«Voi però non potete rompere così, mio caro Danglars; i Morcerf
contano su tale matrimonio.»
«Ci contano?»
«Io credo.»
«Allora si spieghino! Dovreste spendere due parole col padre su
questo argomento, caro conte, voi che siete tanto nelle buone grazie
della famiglia…»
«Io, e come potete pensarlo?»
«Dopo il loro ballo, sì. Come? La contessa, l’orgogliosa Mercedes,
la sdegnosa catalana, che si degnò appena di rivolgere la parola
alle sue più antiche conoscenze, vi ha preso per il braccio, è
uscita con voi nel giardino, si è infilata nei viali, e non è
ricomparsa che mezz’ora dopo.»
«Barone, barone! Voi c’impedite di udire», disse Albert. «Per un
melomane come voi, questa è una vera barbarie!»
«Va bene, va bene», disse Danglars.
Quindi volgendosi a Montecristo: «V’incaricate di parlare al padre?»
«Volentieri, se lo desiderate.»
«Ma questa volta si faccia in modo esplicito e definitivo;
soprattutto mi domandi mia figlia, fissi una data, dichiari le
condizioni per il denaro, finalmente si stabilisca o si rompa: ma,
capite bene, non più dilazioni.»
«Ebbene, la dichiarazione sarà fatta.»
«Non dirò che l’aspetto con piacere, ma infine l’aspetto: un
banchiere lo sapete, deve mantenere la sua parola.»
E Danglars mandò fuori uno di quei sospiri sul tipo di quelli di
Cavalcanti mezz’ora prima.
«Bravi, bravo, brava», gridò Morcerf, facendo parodia al banchiere,
e applaudendo alla fine del pezzo. Danglars cominciava già a
guardare Albert di traverso, quando gli vennero a riferire un
messaggio all’orecchio.
«Ritorno subito», disse il banchiere a Montecristo, «aspettatemi,
forse dovrò dirvi due parole fra poco.»
E uscì.
La baronessa approfittò dell’assenza del marito per aprire la porta
dello studio di sua figlia, e vide il signor Andrea, che era seduto
davanti al pianoforte con la signorina Eugénie, alzarsi in fretta.
Albert salutò sorridendo la signorina Danglars che, senza mostrarsi
turbata, gli rese il saluto con la consueta freddezza. Cavalcanti
parve evidentemente imbarazzato; salutò Morcerf che gli rese il
saluto col fare più impertinente del mondo.
Allora Albert cominciò a effondersi in elogi sulla voce della
signorina Danglars, e sul dispiacere che provava per non aver potuto
assistere alla serata del giorno prima. Cavalcanti, lasciato solo,
prese da parte Montecristo.
«Orsù», disse la signora Danglars. «Tregua alla musica e ai
complimenti… Volete prendere il tè?»
«Vieni, Louise», disse la signorina Danglars all’amica.
Passarono nel salotto vicino, dove infatti era pronto il tè. Al
momento in cui si cominciava, all’uso inglese, a lasciare i
cucchiaini nelle tazze, la porta si riaprì, ed entrò Danglars
agitatissimo. Montecristo più di tutti notò quell’agitazione e
interrogò il banchiere con l’occhio.
«Accidenti!» imprecò Danglars. «Ricevo in questo momento il mio
corriere dalla Grecia.»
«Oh, oh!» borbottò il conte. «È per questo che siete stato
chiamato?»
«Sì.»
«Come sta il re Ottone?» domandò Albert col tono più scherzoso.
Danglars lo guardò di traverso senza rispondergli, e Montecristo si
volse per nascondere il senso di commiserazione che gli era comparso
sul viso.
«Noi ce ne andremo assieme, non è vero?» domandò Albert al conte.
«Sì, se volete», rispose questi.
Albert non poteva capir nulla del contegno del banchiere, quindi
volgendosi verso Montecristo che aveva perfettamente capito: «Avete
visto», disse, «come mi ha guardato?»
«Sì», rispose il conte, «ma trovate qualche cosa di particolare nel
suo sguardo?»
«C’è qualcosa di ostile… Ma che vuol dire con le sue notizie di
Grecia?»
«E come volete che lo sappia io?»
«Perché, a quanto presumo, avete delle relazioni in quel Paese.»
Montecristo sorrise, come sorride sempre chi vuole esimersi dal
rispondere.
«Guardate», riprese Albert, «eccolo che vi si avvicina… Io vado a
fare i miei complimenti alla signorina Danglars sul suo cammeo,
intanto il padre potrà parlarvi.»
«Se le fate dei complimenti, fateli almeno sulla sua voce», suggerì
Montecristo.
«No, perché è quello che fanno tutti.»
«Mio caro visconte», disse Montecristo, «siete davvero
impertinente.»
Albert si avvicinò a Eugénie col sorriso sulle labbra, Danglars si
accostò all’orecchio del conte.
«Voi mi avete dato un eccellente consiglio», disse. «C’è un’intera e
orribile storia riguardo le parole Fernando e Giannina.»
«Bah!» esclamò Montecristo.
«Sì, vi racconterò tutto, ma conducete via il giovane. Mi troverei
troppo imbarazzato a restare ora con lui.»
«È quel che sto per fare, mi accompagna. Ora, è ancora necessario
che vi mandi suo padre?»
«Sì, più che mai.»
«Bene.»
Il conte fece un segno ad Albert. Entrambi salutarono le signore, e
uscirono: Albert con aria del tutto indifferente per la freddezza
della signorina Danglars, Montecristo rinnovando alla signora
Danglars il consiglio sulla prudenza che deve avere la moglie di un
banchiere, nell’assicurarsi il proprio avvenire. Il signor
Cavalcanti rimase padrone del campo di battaglia.
76. Haydée
Non appena i cavalli del conte voltarono l’angolo del bastione,
Albert si girò verso il conte scoppiando in una risata così rumorosa
da non parer naturale.
«Amico», gli disse, «io vi domanderò come re Carlo IX domandava a
Caterina de’ Medici dopo la giornata di San Bartolomeo: come vi pare
che abbia interpretato la mia parte?»
«A che proposito?» domandò Montecristo.
«Ma a proposito della installazione del mio rivale in casa del
signor Danglars…»
«Quale rivale?»
«Come, quale rivale? Il vostro protetto, il signor Andrea
Cavalcanti.»
«Lasciate perdere gli scherzi, visconte, io non proteggo
assolutamente il signor Andrea, almeno presso il signor Danglars.»
«Vi farei forse un rimprovero, se il giovane avesse bisogno di
protezione? Ma, fortunatamente per me, può farne senza.»
«Come, voi credete che le faccia la corte?»
«Ve l’assicuro! Fa girate d’occhi da spasimante, e modula note da
innamorato: aspira alla mano della orgogliosa Eugénie.»
«Che importa, se pensa a voi?»
«Non dite questo, mio caro conte, mi maltrattano da ambo le parti.»
«Come da ambo le parti?»
«Sicuro! La signorina Eugénie mi ha risposto appena, e la signorina
d’Armilly non mi ha dato nemmeno risposta.»
«Sì, ma il padre vi adora», ribatté Montecristo.
«Lui? Mi ha piantato mille pugnali nel cuore, pugnali con la lama
che rientra nel manico, pugnali da tragedia, ma ch’egli crede
taglienti e ben penetranti.»
«La gelosia scopre l’amore.»
«Sì, ma io non sono geloso.»
«Ma lo è ben lui.»
«Di chi? Di Debray?»
«No, di voi.»
«Di me? Scommetto che prima di otto giorni mi avrà chiuso la porta
sul naso.»
«V’ingannate, mio caro visconte.»
«Una prova.»
«La volete?»
«Sì.»
«Sono stato incaricato di pregare il conte Morcerf di fare una
domanda definitiva al barone.»
«Da chi?»
«Dal barone stesso.»
«Oh!» gemette Albert con tutta l’intensità di cui era capace. «Voi
non lo farete, vero, mio caro conte?»
«V’ingannate, Albert, io lo farò, poiché l’ho promesso.»
«Allora», riprese Albert con un sospiro, «pare che vi stia molto a
cuore ch’io prenda moglie.»
«Io ho a cuore di andare d’accordo con tutti. Ma a proposito di
Debray: non lo vedo più dalla baronessa…»
«C’è stato un litigio.»
«Con la signora?»
«No, col signore.»
«Si è dunque accorto di qualche cosa?»
«Che bella facezia!»
«Credete che già ne sospettasse?» domandò Montecristo con finta
ingenuità.
«Ma da dove venite, voi dunque, mio caro conte?»
«Dal Congo, se volete.»
«Non è ancora abbastanza lontano.»
«Conosco forse i vostri mariti parigini?»
«Eh, mio caro conte, i mariti sono uguali dappertutto. Dal momento
che in un Paese ne avete studiato un campione, ne avete conosciuto
la razza.»
«Ma allora che cosa ha potuto causare questo malinteso fra Debray e
Danglars? Pareva che andassero d’accordo!» replicò Montecristo con
la stessa ingenuità.
«Ecco, noi rientriamo nei misteri d’Iside, e io non sono un
iniziato. Quando il signor Cavalcanti sarà della famiglia potrete
domandarlo a lui.»
La carrozza si fermò.
«Eccoci arrivati», disse Montecristo. «Non sono che le dieci e
mezzo, salite da me.»
«Volentieri.»
«La carrozza vi accompagnerà a casa.»
«No, grazie, il mio calesse deve averci seguiti.»
«Infatti, eccolo», disse Montecristo saltando a terra.
Tutti e due entrarono in casa, e quindi nella sala già illuminata.
«Ordinate il tè, Battistino», disse Montecristo. Battistino uscì
senza dir parola; due secondi dopo ricomparve con un vassoio
completamente servito, e che, come nelle commedie di fate, sembrava
sorgere da sottoterra.
«Davvero», riprese Morcerf, «quello che ammiro in voi non è la
ricchezza, vi sono forse persone più ricche di voi, e neanche lo
spirito, Beaumarchais ne aveva tanto quanto voi, bensì il modo con
cui siete servito, senza che vi sia risposta una parola… al minuto,
al secondo… Come se si indovinasse dal modo che suonate quello che
desiderate, e come se tutto ciò che desiderate avere, sia già tutto
pronto.»
«Ciò che dite è in parte vero. Conoscono le mie abitudini… Per
esempio, osservate: desiderate fare qualche cosa mentre bevete il
tè?»
«Desidero fumare.»
Montecristo si avvicinò al campanello, e batté un colpo. Dopo un
secondo si aprì una porta riservata, e comparve Alì con due pipe
turche piene di eccellente latakiè.
«È meraviglioso!» esclamò Morcerf.
«Per niente, è semplicissimo», riprese Montecristo. «Alì sa che
prendendo il tè, o il caffè, di solito io fumo, sa che ho domandato
il tè, sa che sono tornato con voi, viene chiamato e non dubita del
perché, e siccome è di un Paese in cui l’ospitalità si esercita
particolarmente con la pipa, invece di una, ne porta due.»
«Questa certamente è una spiegazione come le altre, non è però meno
vero che siete soltanto voi… Oh, ma che cosa mai ascolto?»
E Morcerf si chinò verso la porta, dalla quale effettivamente
arrivavano suoni simili a quelli di una chitarra.
«Davvero, mio caro visconte, siete destinato a udire musica; fuggite
il pianoforte della signorina Danglars, per cadere nella guzla di
Haydée.»
«Haydée! Che nome adorabile! Vi sono dunque delle donne che
veramente si chiamano Haydée, oltre quelle che sono nominate nei
poemi di lord Byron?»
«Certamente; Haydée è un nome rarissimo in Francia, ma comunissimo
in Albania e nell’Epiro; è come se voi diceste, per esempio,
Castità, Pudore, Innocenza, è una specie di nome di battesimo come
dicono i cristiani.»
«Quanto è grazioso!» disse Albert. «Quanto vedrei volentieri le
nostre francesi chiamarsi signorina Bontà, signorina Silenzio,
signorina Carità Cristiana! Dite dunque, se la signorina Danglars,
invece di chiamarsi Claire-Marie-Eugénie, come la chiamano, si
chiamasse signorina Castità-Pudore-Innocenza Danglars, che effetto
farebbe nelle pubblicazioni matrimoniali!»
«Pazzo!» lo richiamò il conte. «Non scherzate così ad alta voce!
Haydée potrebbe udirvi.»
«Si irriterebbe?»
«No», rispose il conte, con la sua aria grave.
«È buona?» domandò Albert.
«Non è bontà, è dovere: una schiava non deve irritarsi contro il suo
padrone.»
«Via, adesso non scherzate! Forse ci sono ancora degli schiavi?»
«Senza dubbio, poiché Haydée è mia schiava.»
«Infatti voi non fate niente, e non avete niente come gli altri.
Schiava del signor conte di Montecristo! E succede in Francia! Al
modo con cui rimescolate l’oro, è un impiego che deve costare almeno
centomila scudi l’anno.»
«Centomila scudi! La povera ragazza ne ha posseduti ben altri che
questi: è venuta al mondo, e ha dormito sopra tesori tali, che
quelli delle Mille e una notte sono ben poca cosa.»
«È dunque proprio una principessa?»
«Lo avete detto, ed è anche una delle più illustri del suo Paese.»
«Non ne dubitavo. Ma in che modo una gran principessa è divenuta
schiava?»
«In che modo Dionigi il tiranno diventò maestro di scuola? La
guerra, mio caro visconte, e il capriccio della sorte.»
«E il suo nome è un segreto?»
«Per tutti sì, ma non per voi, mio caro visconte. Siete mio amico, e
tacerete, non è vero? Se lo promettete…»
«Sul mio onore!»
«Conoscete la storia del pascià di Giannina?»
«Alì Tebelin? Senza dubbio, poiché fu al suo servizio che mio padre
ha fatto fortuna.»
«È vero, me n’ero dimenticato.»
«Ebbene, che cosa è Haydée rispetto ad Alì Tebelin?»
«Non è altro che sua figlia.»
«Come, la figlia di Alì Pascià!?…»
«Sì, e della bella Vasiliki.»
«Ed è vostra schiava?»
«Sì.»
«In che modo?»
«Un giorno sono passato dal mercato di Costantinopoli, e l’ho
comprata.»
«Cosa meravigliosa! Con voi, mio caro conte, non si vive, ma si
sogna. Ora ascoltate, forse però la mia domanda sarà troppo
indiscreta…»
«Dite pure.»
«Ma poiché uscite con lei, poiché la conducete all’Opéra…»
«Dunque?»
«Posso bene arrischiare di domandarvelo?»
«Potete arrischiare di domandarmi tutto quello che volete.»
«Ebbene, mio caro conte, presentatemi ad Haydée.»
«Volentieri, ma a due condizioni.»
«Le accetto subito.»
«La prima è che voi non confiderete mai ad alcuno questa
presentazione.»
«Benissimo», annuì Morcerf, «lo prometto.»
E tese la mano.
«La seconda è che non direte che vostro padre abbia servito il suo.»
«Prometto anche questo.»
«A meraviglia, visconte… Non dimenticherete queste due promesse, non
è vero?»
«No!» esclamò Albert.
«Benissimo. So che siete un uomo d’onore.»
Il conte batté di nuovo sul campanello. Alì ricomparve.
«Avvertite Haydée» gli disse, «che vado a prendere il caffè da lei,
e fatele comprendere che le domando il permesso di presentarle uno
dei miei amici.»
Alì s’inchinò, e uscì.
«In tal modo, siamo d’accordo, nessuna domanda diretta, caro
visconte… Se desiderate sapere qualche cosa, domandatelo a me che la
chiederò.»
«D’accordo.»
Alì ricomparve per la terza volta, e tenne la tenda sollevata per
indicare al suo padrone e ad Albert, che potevano passare.
«Entriamo», disse Montecristo.
Albert si passò una mano nei capelli, e si arricciò i baffi, e il
conte riprese il cappello, si mise i guanti, e precedette Albert
nell’appartamento, che era sorvegliato da Alì e difeso dalle tre
cameriere francesi agli ordini di Myrtho.
Haydée aspettava nella prima stanza, che era la sala, con due
grand’occhi dilatati dallo stupore: era la prima volta che giungeva
fino a lei un uomo, oltre Montecristo. Era seduta sopra un sofà, in
un angolo, con le gambe incrociate, e si era fatto, per così dire,
un nido delle stoffe di seta broccate e rigate, le più ricche
d’Oriente. Vicino a lei la guzla, il cui suono aveva colpito
Morcerf: in quella posa era graziosissima.
Vedendo Montecristo, si sollevò con quel doppio sorriso di figlia e
di amante che era tutto suo; Montecristo le si accostò, e le tese la
mano, sulla quale, come d’uso, lei appoggiò le labbra.
Albert era rimasto sulla soglia, preso dal fascino di quella strana
bellezza, così estranea alla Francia.
«Chi mi porti?» domandò in greco la giovane a Montecristo, «un
fratello, un amico, una semplice conoscenza, o un nemico?»
«Un amico», rispose Montecristo nella stessa lingua.
«Il suo nome?»
«Il conte Albert, quello stesso che a Roma liberai dalle mani dei
banditi.»
«In quale lingua vuoi che gli parli?»
Montecristo si voltò ad Albert.
«Sapete il greco moderno?» domandò al giovane.
«Ahimè», gemette Albert, «neppure il greco antico, mio caro conte!
Mai Omero e Platone hanno avuto uno scolaro più svogliato e direi
quasi più sdegnoso, di me.»
«Allora», disse Haydée, dimostrando con la domanda stessa che aveva
capito la domanda di Montecristo e la risposta di Albert, «io
parlerò in francese o in italiano: se il mio signore vuole che
parli.»
Montecristo rifletté un istante.
«Parlerai in italiano», disse.
Poi volgendosi ad Albert: «Mi spiace che non intendiate il greco
moderno o il greco antico, Haydée li parla entrambi mirabilmente… La
povera ragazza sarà costretta a parlarvi in italiano, cosa che forse
vi darà una falsa idea di lei».
Egli fece un segno ad Haydée.
«Sia benvenuto l’amico che viene col mio signore e padrone», salutò
la giovane in eccellente italiano, e con quel dolce accento romano
che rende sonora la lingua di Dante al pari di quella d’Omero.
«Alì, portate il caffè e le pipe.»
E Haydée fece un gesto con la mano ad Albert di avvicinarsi, mentre
Alì si ritirava per eseguire gli ordini della padroncina.
Montecristo mostrò ad Albert due sedie pieghevoli, e ciascuno andò a
prendere la sua per avvicinarla a una specie di candelabro, con un
paniere al centro, sovraccarico di fiori naturali, di disegni, di
album e di musica. Alì rientrò, portando il caffè e le pipe; in
quanto a Battistino, questa parte dell’appartamento gli era
interdetta. Albert rifiutò la pipa che gli presentava il nubiano.
«Prendete, prendete», lo invitò Montecristo. «Haydée è quasi simile
a una parigina: il fumo degli avana le riesce ingrato, perché non
ama i cattivi odori, ma come ben sapete, il tabacco d’Oriente è un
profumo.»
Alì uscì. Le tazze di caffè erano già pronte; soltanto era stata
aggiunta una zuccheriera per Albert. Montecristo e Haydée bevevano
il liquore arabo alla maniera degli arabi, cioè senza zucchero.
Haydée allungò la mano, e presa con la punta delle sue dita rosee e
affilate la tazza di porcellana giapponese, se la portò alle labbra
con l’ingenuo piacere di un bimbo che beve o mangia una cosa che gli
piace. Nello stesso tempo entrarono due donne, portando due vassoi
pieni di gelati e di sorbetti, che deposero sopra due tavolini da
dessert.
«Mio caro ospite, e voi, signora», cominciò Albert in italiano,
«scusate il mio stupore. Sono tutto stordito, ed è cosa
naturalissima, poiché mi trovo in Oriente, nel vero Oriente, non
come l’avrei potuto vedere, ma come lo sogno, in piena Parigi, dove
poco fa udivo correre le carrozze, e tintinnare i campanelli dei
mercanti di limonata. Oh, signora, perché mai non so parlare il
greco! La vostra conversazione, con tutto ciò che vi circonda
d’incantevole, darebbe la piena armonia a una serata di cui mi
ricorderei per sempre.»
«Io parlo abbastanza bene l’italiano per discorrere con voi,
signore», disse tranquillamente Haydée. «Se vi piace l’Oriente, farò
del mio meglio perché lo troviate qui.»
«Di che cosa debbo parlare?» domandò sottovoce Albert a Montecristo.
«Di tutto ciò che volete: del suo Paese, della sua gioventù, dei
suoi ricordi, oppure, se così preferite, di Roma, di Napoli o di
Firenze.»
«Sarebbe un’indegnità», riprese Albert, «avere davanti questa bella
greca, e parlare come si parlerebbe a una parigina! Lasciate ch’io
le parli dell’Oriente…»
«Fate pure, mio caro Albert, è il discorso a lei più gradevole.»
Albert si voltò verso Haydée.
«A quale età la signora ha lasciato la Grecia?» domandò.
«A cinque anni», rispose Haydée.
«Vi ricordate ancora della vostra patria?» domandò ancora Albert.
«Quando chiudo gli occhi, rivedo tutto ciò che ho visto. Vi sono due
sguardi, lo sguardo del corpo può qualche volta dimenticare, quello
dell’anima non dimentica mai.»
«Qual è l’epoca più lontana di cui vi ricordate?»
«Io camminavo appena, mia madre che si chiamava Vasiliki, e Vasiliki
vuol dire reale», aggiunse la giovane donna, sollevando la testa,
«mia madre mi prendeva per mano, ed entrambe coperte da un velo,
dopo aver messo nel fondo della borsa tutto l’oro che possedevamo,
andavamo a domandare l’elemosina per i prigionieri, dicendo: “Chi dà
ai poveri, presta all’Eterno”. Quindi, siccome la nostra borsa era
piena, ritornavamo al palazzo, e, senza dir niente a mio padre,
mandavamo tutto il denaro della questua all’elemosiniere del
convento che lo divideva fra i prigionieri.»
«E a quell’epoca quanti anni avevate?»
«Tre anni», rispose Haydée.
«Allora vi ricorderete di tutto ciò che accadde intorno a voi
all’età di tre anni?»
«Di tutto.»
«Conte», disse sottovoce Morcerf a Montecristo, «dovreste permettere
alla signora di raccontarci qualche cosa della sua storia. Voi mi
avete proibito di parlarle di mio padre, ma forse me ne parlerà lei
stessa, e voi non potete comprendere come sarei felice di udire il
nostro nome proferito da una bocca così bella.»
Montecristo si volse ad Haydée, e sollevando il sopracciglio, segno
col quale le indicava di prestare la maggiore attenzione alla
raccomandazione che stava per farle, le disse in greco: «Raccontaci
la sorte di tuo padre, ma guardati dal nominare il traditore e il
tradimento».
Haydée inspirò profondamente, e una tetra nube passò su quella
fronte pura.
«Che cosa le avete detto?» domandò sottovoce Morcerf.
«Le ho ripetuto che siete un mio amico, e che non nasconda nulla
davanti a voi.»
«Dunque il vostro pio pellegrinaggio», riprese Albert, «in favore
dei prigionieri, è il vostro primo ricordo… E che cosa ricordate
poi?»
«Poi? Mi vedo sotto l’ombra dei sicomori, vicina a un lago, e ne
scorgo ancora, attraverso il fogliame, il tremulo specchio:
appoggiato al più vecchio e frondoso, mio padre era seduto sopra dei
cuscini e io, debole creatura, mentre mia madre gli era stesa ai
piedi, io giocavo con la barba bianca che gli scendeva sul petto e
col pugnale dall’impugnatura di diamanti, che gli pendeva dalla
cinta… Ogni tanto gli si presentavano degli albanesi dicendogli
parole a cui io non prestavo attenzione, e a cui lui rispondeva
sempre con lo stesso tono di voce: “Uccidete!” o “Fate grazia!”»
«È strano», disse Albert, «udire cose simili uscire dalla bocca di
una giovane donna in tutt’altro luogo che a teatro, e dover dire
“non è una finzione”.»
Quindi le chiese: «Con un orizzonte così poetico, con queste
rimembranze meravigliose, che impressione può farvi la Francia?»
«Io credo che sia un bel Paese», rispose Haydée. «Ma vedo la Francia
com’è, perché la vedo con gli occhi di donna, mentre ho visto il mio
Paese con occhi di bambina, e sempre avvolto da nebbia tetra, o
luminosa, a seconda che i ricordi mi richiamino alla mente la patria
come luogo di dolcezze o di amari patimenti.»
«Così giovane, signora», riprese Albert, cedendo suo malgrado alla
forza della leggerezza, «come avete, così piccola, potuto soffrire?»
Haydée voltò gli occhi verso Montecristo, che con un segno
impercettibile, mormorò: «Racconta».
«Nulla è così scolpito in fondo all’anima, come le prime
rimembranze, e tranne le due che vi ho dette, tutte le altre sono
tristissime.»
«Parlate, parlate, signora», disse Albert, «vi giuro che vi ascolto
con inesprimibile trasporto.»
Haydée sorrise mestamente.
«Volete dunque che vi racconti gli altri miei ricordi?» domandò.
«Vi supplico», insistette Albert.
«Dunque, noi eravamo nel palazzo di Giannina, quando una sera fui
svegliata da mia madre. Nell’aprirsi, i miei occhi s’incontrarono
nei suoi pieni di lacrime: mi prese coi cuscini sui quali dormivo, e
mi trasportò fuori senza dir parola. Vedendola piangere, stavo io
pure per lasciarmi andare al pianto.
“Silenzio, bimba mia”, disse lei.
Spesso, malgrado le consolazioni o le minacce materne, capricciosa
come tutti i bambini, continuavo a piangere, ma quella volta c’era
negli occhi della mia povera madre una tale espressione di terrore,
che tacqui nel medesimo istante. Lei camminava a rapidi passi. Mi
accorsi allora che scendevamo una larga scala, davanti a noi tutte
le donne di mia madre, portando bauli, sacchetti, oggetti di
ornamento, gioielli e borse d’oro, scendevano, o piuttosto si
precipitavano. Dietro alle donne veniva una scorta di venti uomini,
armati di lunghi fucili e di pistole, e vestiti con quell’abito che
conoscete in Francia dopo che la Grecia è tornata nazione. C’era
qualcosa di sinistro, credetelo», aggiunse Haydée scuotendo la testa
e impallidendo a tale ricordo, «in quella lunga fila di schiavi e di
donne oppresse dal sonno, o almeno tali me le figuravo, io, che
forse credevo gli altri addormentati, perché non ero ben desta. Per
le scale correvano ombre gigantesche, che le torce di frassino
facevano tremolare sopra le volte.
“Affrettiamoci!” disse una voce dal fondo della galleria.
Quella voce fece incurvare tutti, come il vento passando sulla
pianura fa curvare un campo di spighe. Io invece ne rabbrividii: era
la voce di mio padre. Ci seguiva, ultimo, con indosso le sue
splendide vesti, tenendo in mano la carabina, che gli era stata
regalata dal vostro imperatore; e, appoggiato al suo fedele Selim,
ci spingeva avanti, come fa un pastore col suo gregge sparso. Mio
padre», spiegò Haydée, rialzando la testa, «era quell’uomo illustre
che l’Europa ha conosciuto sotto il nome di Alì Tebelin, pascià di
Giannina, e davanti al quale la Turchia ha tremato.»
Albert, senza sapere perché, fremeva nell’udire quelle parole
pronunciate con un accento indefinibile di fermezza e di dignità,
gli pareva che qualche cosa di sinistro e spaventoso tralucesse
dagli occhi della giovane donna, quando, simile a una pitonessa che
evoca uno spettro, rammentò quella insanguinata figura che la morte
fece comparire gigantesca agli occhi dell’Europa contemporanea.
«Presto», continuò Haydée, «si sospese la marcia: eravamo ai piedi
della scala e sulla riva del lago. Mia madre mi premeva contro il
petto ansante, e io vidi, due passi dietro a noi, mio padre che
girava da ogni lato lo sguardo inquieto. Ci rimanevano ancora
quattro scalini da scendere, e al termine del quarto ondulava una
barca. Dal luogo dove eravamo, si vedeva innalzarsi nel mezzo del
lago una massa nera: era l’isola verso cui stavamo fuggendo.
Quest’isola mi sembrava molto lontana, forse a causa dell’oscurità.
Salimmo nella barca. Mi ricordo che i remi non facevano alcun rumore
fendendo l’acqua. Mi chinai per guardarli: erano fasciati con le
cinture delle nostre guardie. Nella barca, oltre i rematori, stavano
soltanto le donne, mio padre, mia madre, Selim e io. Le guardie
erano rimaste sulla riva del lago, pronte a proteggere la ritirata,
inginocchiate sull’ultimo gradino, facendosi riparo degli altri tre,
nel caso fossero state assalite.
La nostra barca vogava come spinta dal vento.
“Perché la barca va così veloce?” domandai a mia madre.
“Zitta, figlia mia”, disse, “perché noi fuggiamo.”
Io non capii perché mio padre fuggisse, lui così potente, lui,
davanti al quale fuggivano gli altri, lui che aveva preso per motto:
“Mi odiano, dunque mi temono!”
Era infatti una fuga che mio padre faceva sul lago. Mi fu detto poi
che la guarnigione del castello di Giannina, stanca del lungo
servizio…»
Qui Haydée fermò il suo sguardo espressivo su Montecristo, i cui
occhi non si erano staccati dai suoi. La giovane continuò dunque
lentamente come fa chi inventa o modifica.
«Dicevate, signora», riprese Albert, che poneva la più grande
attenzione a quel racconto, «che la guarnigione di Giannina, stanca
del lungo servizio…»
«Aveva trattato con il generale Kourchid, inviato dal sultano per
impadronirsi di mio padre. Fu allora che mio padre prese la
risoluzione di ritirarsi, dopo avere inviato al sultano un ufficiale
francese in cui aveva riposta tutta la fiducia, nell’asilo ch’egli
stesso si era preparato da lungo tempo e che chiamava kataphygion,
cioè il suo rifugio.»
«Vi ricordate il nome di quest’ufficiale, signora?» domandò Albert.
Montecristo scambiò con la giovane donna uno sguardo rapido, che
sfuggì a Morcerf.
«No», rispose lei, «non me ne ricordo, ma forse più tardi me ne
ricorderò, e lo dirò.»
Albert stava per pronunciare il nome di suo padre, allorché
Montecristo alzò dolcemente il dito in segno di silenzio. Il giovane
si ricordò il giuramento, e tacque.
«Era verso un palazzo sull’isola che noi vogavamo. Un pianterreno
ornato di arabeschi, che bagnava i suoi terrazzi nell’acqua, e un
primo piano che guardava sul lago, ecco quanto il palazzo offriva di
visibile agli occhi. Ma al di sotto del pianterreno, prolungandosi
nell’isola, c’era un sotterraneo, una vasta caverna dove fummo
condotti, mia madre, io e le nostre donne e dove erano accatastati
sessantamila borse e più di duecento barili. In queste borse c’erano
venticinque milioni in oro, e nei barili trentamila libbre di
polvere. Vicino a quei barili stava Selim, il favorito di mio padre,
di cui vi ho parlato. Vegliava giorno e notte, con la lancia stretta
in pugno, all’estremità della quale ardeva una miccia accesa; aveva
ordine di far saltare palazzo, guardie, pascià, donne e oro al primo
segnale di mio padre. Io mi ricordo che i nostri schiavi, conoscendo
quel terribile progetto, passavano il giorno e la notte a piangere,
pregare e gemere.
Quanto a me, vedo sempre il giovane soldato, col colorito pallido e
l’occhio nero, e, quando l’angelo della morte scenderà verso di me,
sono sicura che in lui tornerò a incontrare Selim.
Non vi saprei dire quanti giorni siamo rimasti in tale stato, allora
ignoravo che cosa fosse il tempo. Qualche volta, ma raramente, mio
padre faceva chiamare me e mia madre sulla terrazza del palazzo.
Erano per me ore di festa, poiché nel sotterraneo non vedevo che
ombre gementi, e la lancia ardente di Selim. Mio padre, seduto
davanti a una grande apertura, fissava un tetro sguardo sul lontano
orizzonte, osservando a lungo ciascun punto nero che compariva sul
lago, mentre mia madre, stesa vicina a lui, appoggiava la testa
sulla sua spalla, e io giocavo ai suoi piedi, ammirando, con la
meraviglia propria dell’infanzia che ingrandisce sempre gli oggetti,
il pendio del Pindo che s’ergeva all’orizzonte, i castelli di
Giannina che apparivano bianchi e acuti sulle acque azzurre del
lago, i cespugli verdi scuri attaccati come licheni alle rocce della
montagna, che di lontano sembravano muschio, ed erano invece
giganteschi abeti e mirti immensi.
Mio padre una mattina ci fece chiamare. Mia madre aveva pianto tutta
la notte, e noi trovammo mio padre assai calmo, ma più pallido del
consueto.
“Abbi pazienza, Vasiliki”, disse. “Oggi tutto sarà finito, giunge
l’ordine del sultano, e la mia sorte sarà decisa. Se la grazia è
totale, ritorneremo trionfanti a Giannina: se le notizie sono
cattive, fuggiremo stanotte.”
“Ma se non ci lasciano fuggire?” aggiunse mia madre.
“Sta’ tranquilla”, rispose sorridendo, “Selim e la sua lancia accesa
rispondono di loro; vorrebbero bene che io morissi, ma non a
condizione dl morire con me.”
Mia madre non rispondeva che con sospiri a quelle parole che non
partivano dal cuore di mio padre. Gli preparò l’acqua ghiacciata,
che mio padre beveva a ogni istante, poiché dopo la ritirata nel
palazzo era arso da febbre ardente; gli profumò la bianca barba, e
gli accese la pipa, di cui, qualche volta per ore intere, egli
seguiva con gli occhi il fumo a spire nell’aria. A un tratto fece un
gesto così rapido, ch’io ebbi gran paura. Quindi, senza staccare gli
occhi dal punto che fissava, domandò il cannocchiale.
Mia madre glielo consegnò, più pallida della statua contro cui stava
appoggiata. Vidi la mano di mio padre tremare.
“Una barca!… due!… tre!…” mormorò mio padre, “quattro!…”
E si alzò brandendo le armi, e versando, me ne ricordo, della
polvere nelle sue pistole.
“Vasiliki”, disse a mia madre, con visibile tremito, “ecco l’istante
che decide di noi: fra mezz’ora avremo la risposta della Sublime
Porta. Ritirati nel sotterraneo con Haydée.”
“Io non voglio lasciarvi”, replicò Vasiliki. “Se voi morirete, mio
signore, voglio morire con voi.”
“Andate da Selim!” gridò mio padre.
“Addio, signore”, mormorò mia madre, obbediente e rassegnata come
all’avvicinarsi della morte.
“Portate con voi Vasiliki!” ordinò mio padre alle sue guardie.
Ma io, che ero stata dimenticata, corsi da lui, tendendogli le mani.
Mi vide, e chinandosi su di me, premette la mia fronte contro le sue
labbra. Oh, quel bacio! Fu l’ultimo, ed è sempre impresso sulla mia
fronte.
Scendendo distinguemmo, attraverso le inferriate della terrazza, le
barche che s’ingrandivano sul lago, e, simili a punti neri,
sembravano uccelli radenti la superficie delle acque. In quel punto,
nel palazzo, venti guardie, sedute ai piedi di mio padre e nascoste
dai cespugli, spiavano con occhio sanguinoso l’arrivo di quei
battelli, e tenevano pronti i loro lunghi fucili incrostati d’avorio
e di argento; cartucce in gran numero erano sparse sul terreno. Mio
padre guardava il suo orologio e passeggiava con angoscia. Ecco ciò
che mi colpì quando lasciai mio padre dopo l’ultimo bacio che
ricevetti da lui.
Mia madre e io attraversammo il sotterraneo. Selim era sempre al suo
posto; ci sorrise con tristezza. Cercammo dei cuscini dall’altra
parte della caverna e sedemmo vicino a Selim: nei grandi pericoli si
cercano le persone affezionate, e sebbene fossi piccola, sentivo per
istinto che una gran disgrazia stava per avvenire.»
Albert aveva spesso udito raccontare, non già da suo padre, che non
ne parlava mai, ma da due forestieri, gli ultimi momenti del pascià
di Giannina: aveva letto diversi racconti sulla sua morte: ma quella
storia divenuta palpitante racconto, e la voce della giovane donna,
quel vivo accento e quella lamentevole elegia gli facevano provare
un incanto e un orrore inesprimibili.
In quanto ad Haydée, tutta immersa nelle sue terribili rimembranze,
era per un momento rimasta in silenzio: la sua fronte, come un fiore
che si piega sotto l’uragano, si era inclinata sulla sua mano, e i
suoi occhi erranti sembravano scorgere ancora all’orizzonte il Pindo
verdeggiante, e le acque azzurre del lago di Giannina, specchio
magnifico che rifletteva il tetro quadro di cui faceva lo schizzo.
Montecristo la guardava con indefinibile espressione di affetto e di
pietà.
«Continua, figlia mia», disse il conte in lingua greca.
Haydée rialzò la fronte, come se le parole di Montecristo l’avessero
distolta da un sogno, e riprese: «Erano le quattro della sera: ma,
benché il giorno fosse chiaro e lucente al di fuori, noi stavamo
immersi nell’oscurità del sotterraneo. Una sola luce brillava nella
caverna, come una stella risplendente in un nero cielo, ed era la
miccia di Selim. Mia madre era cristiana, e pregava. Selim ripeteva
di tanto in tanto queste sante parole: “Dio è grande!” Mia madre
però nutriva ancora qualche speranza. Nel scendere le era sembrato
di riconoscere il francese che era stato inviato a Costantinopoli, e
nel quale mio padre aveva riposta ogni fiducia, perché sapeva che i
soldati del re francese sono ordinariamente nobili e generosi:
avanzò di qualche passo verso la scala e ascoltò.
“Si avvicinano”, disse. “Purché portino la pace e la vita!”
“Che temi, Vasiliki?” domandò Selim con la voce soave e, a un tempo,
fiera. “Se non portano la pace, daremo loro la guerra; se non
portano la vita, daremo loro la morte.”
E agitava il fuoco attaccato alla sua lancia con un gesto che lo
faceva somigliare a Dionisio nell’antica Creta.
Ma io, che ero così piccola e così ingenua, avevo paura di quel
coraggio che trovavo feroce e insensato, e atterrivo di quella morte
spaventosa nell’aria e fra le fiamme. Mia madre provava le stesse
emozioni, perché la sentivo fremere.
“Mio Dio, mio Dio, mamma!” gridai io. “Dobbiamo forse morire?”
Alla mia voce raddoppiarono i pianti e le preghiere degli schiavi.
“Fanciulla”, mi disse Vasiliki, “Dio ti salvi dal dovere un giorno
desiderare questa morte che oggi ti spaventa.”
Quindi a bassa voce disse: “Selim, qual è l’ordine che hai ricevuto
dal tuo signore?”
“S’egli m’invia il pugnale, è segno che il sultano rifiuta di fargli
grazia, e io do fuoco; se m’invia l’anello è segno che il sultano
gli perdona, e io libero la polveriera.”
“Amico”, riprese mia madre, “quando giungerà l’ordine del padrone,
se t’invia il pugnale, invece di ucciderci entrambe con quella morte
che ci spaventa, ci ucciderai con quel pugnale?”
“Sì, Vasiliki”, rispose tranquillamente Selim.
A un tratto sentimmo come grandi grida; ascoltammo: erano grida di
gioia! Il nome del francese che era stato inviato a Costantinopoli
echeggiava ripetuto dalle nostre guardie: certo portava la risposta
della Sublime Porta, e la risposta era propizia…»
«E non ricordate il suo nome?» domandò Morcerf pronto a soccorrere
la memoria della narratrice.
«Non me ne ricordo», rispose Haydée. «Il rumore raddoppiava, si
sentivano passi più vicini, qualcuno scendeva la scala del
sotterraneo. Selim preparò la sua lancia. Ben presto comparve
un’ombra nell’incerto crepuscolo, formato da quella luce che
penetrava fin nell’ingresso del sotterraneo. “Chi sei tu?” gridò
Selim. “Chiunque tu sia, non fare un passo di più.”
“Gloria al sultano”, disse l’ombra. «È fatta piena grazia al pascià
Alì, e non solo ha salva la vita, ma gli vengono resi i beni e le
sostanze.”
Mia madre mandò un grido di gioia, e mi strinse al cuore.
“Fermati”, le disse Selim, vedendo che si apprestava già a uscire.
“Tu sai che mi serve l’anello.”
“È vero”, mormorò mia madre.
E cadde in ginocchio levandomi verso il cielo, come se, nello stesso
tempo che pregava Dio per me, volesse anche sollevarmi verso di
Lui…»
E per la seconda volta Haydée si fermò, vinta da tale emozione che
il sudore le grondava dalla pallida fronte, e la voce soffocata
sembrava non poterle uscire dall’arida gola. Montecristo versò un
po’ d’acqua gelata in un bicchiere, e glielo offrì, dicendole con
una dolcezza da cui trapelava un’ombra di comando: «Coraggio, figlia
mia».
«Allora i nostri occhi, abituati all’oscurità, riconobbero l’inviato
del sultano; era un amico. Selim lo aveva riconosciuto, ma il bravo
giovane non sapeva che una cosa: obbedire! “In nome di chi vieni
tu?” domandò Selim.
“In nome del nostro padrone Alì Tebelin.”
“Se vieni in nome di Tebelin, saprai che cosa devi consegnarmi.”
“Sì”, rispose l’inviato, “ti porgo il suo anello.”
E nello stesso tempo alzò la mano sopra la testa, ma era troppo
lontana, e faceva troppo buio perché Selim potesse, dal luogo
dov’era, distinguere e conoscere l’oggetto che gli presentava.
“Io non vedo ciò che tieni”, disse Selim.
“Avvicinati”, disse il messaggero, “o mi avvicinerò io.”
“Né l’uno, né l’altro”, rispose il giovane soldato. “Deponi nel
posto dove sei, sotto quel raggio di luce, l’oggetto che tu mi
mostri, e ritirati fino a che io l’abbia visto.”
“Ecco”, annuì il messaggero.
E si ritirò dopo aver deposto il segno convenuto nel luogo indicato.
Il nostro cuore palpitava, perché l’oggetto ci sembrava
effettivamente un anello. Ma era quello l’anello di mio padre?
Selim, tenendo sempre in mano la miccia accesa, s’accostò
all’apertura, e, chinatosi sotto il raggio di luce, raccolse il
segnale.
“L’anello del mio signore”, diss’egli baciandolo.
E, rovesciando la miccia a terra, vi pestò sopra il piede, e la
spense. Il messaggero mandò un grido di gioia, e batté le mani.
A quel segnale accorsero quattro soldati del generale Kourchid, e
Selim cadde trapassato da cinque colpi di pugnale. Ebbri per il loro
delitto, sebbene ancora pallidi per la paura, irruppero nel
sotterraneo, cercando dappertutto se vi era fuoco, e rotolandosi sui
sacchi d’oro.
Intanto mia madre mi prese nelle sue braccia, e, agile, correndo per
corridoi ignoti, giunse fino alla scala segreta del palazzo, nel
quale regnava uno spaventoso tumulto. Le sale del pianterreno erano
interamente gremite di soldati di Kourchid, vale a dire di nostri
nemici, e mentre mia madre stava per spingere la porticina udimmo la
voce del pascià risuonare terribile e minacciosa. Mia madre rimase
in ascolto, e guardava dalle fessure d’un’asse.
“Che cosa volete?” domandava mio padre a persone che tenevano in
mano una carta con caratteri d’oro.
“Che cosa vogliamo?” rispondeva una voce. “Comunicarvi la volontà di
Sua Altezza. Vedi l’ordine?”
“Lo vedo”, rispose mio padre.
“Ebbene, leggi: domanda la tua testa!”
Mio padre ebbe uno scoppio di riso feroce, e non aveva ancora
cessato, che due colpi di pistola avevano ucciso due uomini. Le
guardie, tutte distese intorno a mio padre con la faccia a terra, si
alzarono, e fecero fuoco. La sala si riempì di frastuono, di fumo e
di fiamme. Nel medesimo istante il fuoco cominciò dall’altro lato, e
le pallottole vennero a forare l’asse intorno a noi. Oh, quanto era
bello! Quanto era grande il pascià Alì Tebelin, mio padre, in mezzo
alle pallottole, con la scimitarra alla mano, il viso annerito dalla
polvere: come fuggivano i suoi nemici!
“Selim! Selim! guardiano del fuoco!” gridò egli, “fa’ il tuo
dovere!”
“Selim è morto”, rispose un’altra voce che sembrava uscire dalle
palizzate del palazzo, “e tu, Alì, sei perduto!”
Nello stesso tempo si udì una sorda detonazione, e il recinto saltò
in schegge tutto intorno a mio padre. I soldati sparavano attraverso
la palizzata di legno: tre o quattro guardie caddero ferite. Mio
padre ruggì, introdusse le dita nei fori della palizzata, e strappò
un’asse intera. Ma, contemporaneamente, venti colpi di moschetto
partirono da quell’apertura, e la fiamma, uscendo come da un cratere
di vulcano, si appiccò alle tende, e in mezzo a quelle grida
terribili, due colpi più distinti degli altri, due grida più
straziate delle altre mi agghiacciarono di terrore. Quei due colpi
avevano ferito mio padre; quelle grida erano sue. Però era rimasto
in piedi, aggrappato a una finestra.
Mia madre squassava la porta per correre a morire al suo fianco, ma
la porta era chiusa dal di dentro. Intorno a lui le guardie si
contorcevano morenti; due o tre che erano senza ferite, o ferite
leggermente, si lanciarono dalle finestre. Nello stesso tempo il
palazzo di legno scricchiolò: mio padre cadde sopra un ginocchio, e
subito venti braccia si stesero sopra il suo capo armate di
sciabole, di pistole e di pugnali: venti colpi colpirono a un
tratto, e mio padre, trafitto, scomparve in un turbine di fuoco,
attizzato da quei demoni ruggenti, come se l’inferno si fosse aperto
sotto i suoi piedi. Io mi sentii rotolare a terra; era mia madre che
cadeva svenuta.»
Haydée lasciò cadere le braccia mandando un gemito, e guardando il
conte, come per domandargli s’era contento della sua obbedienza.
Il conte si alzò, andò a lei, la prese per mano e le disse in greco:
«Riposati cara ragazza, e riprendi coraggio, pensando che vi è un
Dio per punire i traditori».
«Ecco una storia raccapricciante, conte», disse Albert, atterrito
dal pallore d’Haydée, «e ora mi pento di essere stato così
crudelmente indiscreto.»
«Non è nulla», rispose Montecristo.
Quindi, mettendo una mano sulla testa della giovane donna: «Haydée».
continuò, «è una donna coraggiosa e qualche volta ha trovato
sollievo nel racconto delle sue sventure».
«Perché, mio signore», disse vivamente la giovane, «perché le mie
sventure mi ricordano i tuoi benefici.»
Albert la guardò con tenerezza, perché non aveva ancora narrato
quello che più desiderava sapere, vale a dire in che modo fosse
divenuta schiava del conte.
Haydée vide quel desiderio espresso tanto negli occhi d’Albert,
quanto in quelli del conte, per cui continuò.
«Quando mia madre recuperò i sensi, noi eravamo davanti al generale.
“Uccidetemi” disse lei, “ma rispettate la vedova di Alì.”
“Non è a me che tu devi rivolgerti”, disse Kourchid.
“E a chi dunque?”
“Al tuo nuovo signore.”
“Quale?”
“Eccolo.”
E Kourchid ci mostrò uno di quelli che avevano contribuito alla
morte di mio padre», disse la giovane donna con una cupa collera.
«Allora», domandò Albert, «voi diveniste schiava di quest’uomo?»
«No», rispose Haydée, «non osò tenerci, ci vendette a dei mercanti
di schiavi che andavano a Costantinopoli. Traversammo la Grecia, e
giungemmo morenti alla porta imperiale, ingombra di curiosi che ci
facevano ala per lasciarci passare, quando a un tratto mia madre
seguì con lo sguardo la direzione degli occhi di tutti, e gettato un
grido cadde mostrando una testa al di sopra di quella porta. Sopra
quella testa, erano scritte queste parole: ECCO LA TESTA DEL PASCIÀ
DI GIANNINA.
Cercai piangendo di far rialzare mia madre; era morta! Fui portata
al bazar: un ricco armeno mi comperò, mi fece istruire, mi procurò
dei maestri, e quando ebbi tredici anni mi vendette al sultano
Mahmoud.»
«Dal quale», intervenne Montecristo, «io la riscattai, come vi
dissi, Albert, con uno smeraldo uguale a questo in cui metto le mie
pasticche di hashish.»
«Tu sei buono, tu sei grande, mio signore», disse Haydée, baciando
la mano a Montecristo, «e io sono ben felice di essere tua.»
Albert era rimasto stordito da quanto aveva sentito.
«Terminate di bere il caffè», gli disse Montecristo, «la storia è
finita.»
77. Ci scrivono da Giannina
Franz aveva lasciato la camera di Noirtier tanto tremante, e fuori
di sé, al punto che Valentine stessa ne aveva avuto compassione.
Villefort, da parte sua, non aveva articolato che poche e
disordinate parole, ed era fuggito nel suo studio; ricevette due ore
dopo il seguente scritto: «Dopo la rivelazione di questa mattina, il
signor Noirtier di Villefort non potrà supporre che una parentela
sia possibile fra la sua famiglia e quella del signor Franz
d’Epinay. Il signor Franz d’Epinay prova orrore pensando che il
signor Villefort che doveva conoscere gli avvenimenti raccontati
questa mattina, non lo abbia prevenuto in tale pensiero».
Chiunque avesse visto allora il magistrato, oppresso dalla sua
sciagura, non avrebbe potuto credere che l’avesse prevista, e
difatti egli non aveva mai pensato che suo padre fosse capace di
spingere la franchezza, o piuttosto l’ardimento sino al punto di
raccontare quella storia. Vero è che il signor Noirtier, sdegnoso
dell’opinione di suo figlio, non si era preoccupato di chiarire i
fatti agli occhi di Villefort, e che questi aveva sempre creduto che
il generale Quesnel, o barone d’Epinay, secondo che si vorrà
chiamare o col nome che si era fatto o con quello che gli era stato
dato, fosse morto assassinato e non ucciso lealmente in duello.
Quella lettera tanto pungente da parte di un giovane fino allora
così rispettoso, feriva mortalmente l’orgoglio di un uomo come
Villefort. Appena fu nello studio, entrò sua moglie. La partenza di
Franz, chiamato da Noirtier, aveva tanto stupito gli astanti, che la
posizione della signora Villefort, rimasta sola col notaio e i
testimoni, si fece di momento in momento più imbarazzante. Allora la
signora Villefort aveva deciso d’uscire dicendo che andava a
raccogliere notizie. Il signor Villefort si contentò di dirle che,
in seguito ad alcune spiegazioni fra lui, il signor Noirtier e il
signor Franz d’Epinay, il matrimonio di Valentine con Franz era
rotto. Non era conveniente riportare tale ambasciata a coloro che
aspettavano; per cui la signora Villefort, rientrando, si limitò a
dire che avendo avuto il signor Noirtier all’inizio del colloquio
una specie d’attacco d’apoplessia, il contratto era stato differito
di qualche giorno. Tale notizia, per quanto fosse falsa, era così
sorprendente in seguito alle altre due disgrazie dello stesso
genere, che gli uditori si guardarono sorpresi, e si ritirarono
senza dir parola.
Intanto Valentine, felice e spaventata dopo avere abbracciato e
ringraziato il vecchio, che aveva in tal modo rotto a un tratto la
catena che ormai lei considerava indissolubile, aveva domandato di
ritirarsi nelle sue camere per riprendersi, e Noirtier le aveva
accordato il permesso. Ma Valentine, una volta uscita, prese invece
il corridoio, e, sgusciando dalla piccola porticina, si lanciò nel
giardino. In mezzo a tutti gli avvenimenti che si accumulavano gli
uni sugli altri, un sordo terrore le aveva costantemente compresso
il cuore: si aspettava da un momento all’altro di vedersi comparire
Morrel, pallido e minaccioso, come lord Ravenswood allo sposalizio
di Lucia di Lammermoor.
Maximilien, che aveva sospettato quel che sarebbe accaduto quando
aveva visto Franz lasciare il cimitero in compagnia del signor
Villefort, lo aveva seguito, poi, dopo averlo visto entrare, lo
aveva anche visto uscire e rientrare nuovamente in compagnia di
Albert e Château-Renaud. Per lui non c’era dunque più alcun dubbio:
allora si era gettato nel suo recinto, pronto a qualunque
avvenimento, ben certo che, al primo attimo di libertà, Valentine
sarebbe corsa da lui. Non s’era ingannato; il suo occhio applicato
alle assi, vide infatti comparire la ragazza che, senza prendere le
solite precauzioni, correva al cancello. Al primo sguardo Maximilien
fu tranquillizzato; alla prima parola che pronunciò, balzò di gioia.
«Salvi!» esclamò Valentine.
«Salvi», ripeté Morrel, non potendo credere a tanta felicità. «Ma
per opera di chi?»
«Di mio nonno. Oh, amatelo molto, Morrel!»
Morrel giurò d’amare il vecchio con tutta l’anima sua; e questo
giuramento non gli costava niente a farlo, perché in quel momento
non si sentiva solo di amarlo come amico, come padre, lo adorava
quasi come Dio.
«Ma cosa è successo, come mai?» domandò Morrel. «Quale strano
espediente ha trovato?»
Valentine aprì la bocca per raccontare tutto, ma pensò che in fondo
era un segreto terribile che non apparteneva soltanto a suo nonno.
«Più tardi», disse, «vi racconterò tutto.»
«Ma quando?»
«Quando sarò vostra moglie.»
Era sviare la conversazione in un modo che rendeva facile a Morrel
concedere tutto; e infatti capì che doveva accontentarsi di quanto
sapeva e che per quel giorno ciò bastava. Però non acconsentì a
ritirarsi che sulla promessa che Valentine sarebbe tornata
l’indomani sera. Valentine promise quanto volle Morrel. Tutto era
cambiato ai loro occhi, e certo per Valentine era meno difficile
adesso credere di potersi sposare con Maximilien, di quanto fosse
un’ora prima non dover sposare il signor Franz.
Frattanto la signora Villefort era salita dal signor Noirtier. Il
vecchio la guardò con occhio cupo e severo, come usava nel
riceverla.
«Signore», gli disse lei, «non ho bisogno di dirvi che il matrimonio
di Valentine è rotto, poiché tale rottura fu decisa qui.»
Noirtier rimase impassibile.
«Ma», continuò la signora Villefort, «quello che non sapete,
signore, è che io sono sempre stata contraria a questo matrimonio e
che si faceva mio malgrado.»
Noirtier guardò la nuora come chi aspetta una spiegazione.
«Ora, poiché questo matrimonio, per il quale conoscevo la vostra
opposizione, è rotto, vengo a farvi una rimostranza che non possono
farvi né il signor Villefort, né Valentine.»
Gli occhi di Noirtier chiesero quale fosse questa rimostranza.
«Vengo a pregarvi, signore», riprese la signora Villefort, «come la
sola che ne abbia il diritto, perché sono la sola a cui non frutterà
niente, vengo a pregarvi di rendere, non dirò le vostre grazie, che
le ha sempre godute, ma la vostra eredità a vostra nipote.»
Gli occhi di Noirtier rimasero un istante incerti: cercavano
evidentemente i motivi di quella rimostranza, e non li poteva
trovare.
«Posso sperare», domandò la signora Villefort, «che le vostre
intenzioni siano in armonia con la preghiera che vi faccio?»
«Sì», fece Noirtier.
«In tal caso, signore, io mi ritiro, riconoscente a un tempo e
felice.»
E salutando il signor Noirtier, si ritirò.
Infatti, il giorno dopo Noirtier fece venire il notaio: fu
stracciato il primo testamento, ne fu fatto un secondo, nel quale
lasciava tutta la sua sostanza a Valentine, sotto condizione che non
si fosse separata da lui. Alcune persone allora calcolarono che la
signorina Villefort, ereditiera del marchese e della marchesa di
Saint-Méran, e rientrata nella grazia di suo nonno, avrebbe un
giorno potuto godere di una rendita di trecentomila franchi annui.
Mentre si rompeva questo matrimonio presso i Villefort, il signor
conte Morcerf aveva ricevuto la visita di Montecristo, e per far
vedere la sua premura a Danglars, indossò la grande uniforme di
luogotenente generale che aveva fatto ornare di tutte le sue
decorazioni, e ordinò i migliori cavalli. Morcerf, così abbigliato,
si fece condurre alla rue Chaussée d’Antin, e annunciare a Danglars,
che stava facendo il suo bilancio di fine mese. Non era quello il
momento adatto per trovare il banchiere di buon umore.
Così, all’apparire del vecchio amico, Danglars prese un’aria
misteriosa, e si accomodò meglio sulla sua sedia. Morcerf, di solito
così serio, aveva assunto un’aria sorridente e affabile: per cui,
sicuro d’essere ben accolto fin dalle sue prime parole, non fece il
diplomatico, e andò direttamente e di colpo allo scopo.
«Barone», cominciò, «eccomi da voi. Da lungo tempo ci aggiriamo
attorno alle parole…»
Morcerf si aspettava di veder rasserenarsi il viso del banchiere, il
cui sussiego attribuiva al proprio silenzio, ma al contrario egli
divenne, e pareva quasi impossibile, più indifferente e più freddo.
Ecco perché Morcerf si era fermato a metà della frase.
«Quali parole, signor conte?» domandò il banchiere, come cercasse
invano nella sua mente la spiegazione di quanto voleva dire il
generale.
«Siete amante delle formalità mio caro signore», riprese il conte,
«e mi rammentate che il cerimoniale deve eseguirsi secondo tutti i
riti. Benissimo, in fede mia. Perdonate, ma siccome non ho che un
solo figlio, e questa è la prima volta che penso ad ammogliarlo, io
sono ancor novizio, perciò, mi adatto…»
E Morcerf, con un sorriso forzato, si alzò e fatta una profonda
riverenza a Danglars gli disse: «Signor barone, ho l’onore di
domandarvi la mano della signorina Eugénie Danglars vostra figlia,
per mio figlio il visconte Albert Morcerf».
Ma Danglars, invece d’accogliere queste parole col favore che
Morcerf si aspettava da lui, aggrottò le sopracciglia, e senza
invitare il conte, rimasto in piedi, a sedersi di nuovo, rispose:
«Signor conte, prima di potervi rispondere ho bisogno di
riflettere».
«Di riflettere?» ripeté Morcerf sempre più meravigliato. «Non avete
dunque avuto tempo di riflettervi in otto anni circa che parliamo di
questo matrimonio?»
«Signor conte, tutti i giorni accadono cose sulle quali non si è mai
riflettuto abbastanza.»
«Come? Io non vi capisco più, barone!»
«Voglio dire, signore, che da quindici giorni nuove circostanze…»
«Permettete», lo interruppe Morcerf. «Non è una commedia quella che
rappresentiamo…»
«E perché dovrebbe essere una commedia?»
«Già, spieghiamoci fino in fondo.»
«Non chiedo di meglio.»
«Avete visto il signor conte di Montecristo?»
«Lo vedo spessissimo», rispose Danglars scuotendosi il merletto
della camicia, «è uno dei miei amici.»
«Ebbene, una delle ultime volte che lo avete visto, voi gli avete
detto ch’io sembravo smemorato, indeciso sul conto di questo
matrimonio?»
«È vero.»
«E allora eccomi. Io non sono né indeciso, né smemorato, lo vedete
vengo a domandare che manteniate la vostra parola.»
Danglars non rispose.
«Avete cambiato idea», continuò Morcerf, «o provocate soltanto per
il piacere d’umiliarmi?»
Danglars comprese che, continuando il discorso sul tono con cui
l’aveva cominciato, la cosa poteva mettersi male per lui.
«Signor conte, dovete essere a buon diritto meravigliato della mia
perplessità, lo capisco… Credetemi, sono il primo ad affliggermene,
e, ve l’assicuro, mi è imposta da circostanze imperiose.»
«Queste sono scuse vaghe, mio caro signore», protestò il conte, «e
tutt’al più potrebbe esserne contento il primo arrivato, ma il conte
Morcerf non è un primo arrivato, e quando un uomo come lui viene a
trovare un uomo come voi per ricordargli la parola data, e questo
uomo manca alla sua parola, ha diritto di esigere, sul momento, che
almeno gli venga addotta una buona giustificazione.»
Danglars era vile, ma non voleva sembrarlo, fu punto dal tono che
aveva preso Morcerf.
«Non è certo una buona ragione quella che mi manca», rispose.
«Che cosa vorreste dire?»
«Che la buona ragione ce l’ho, ma che è difficile da rivelare.»
«Però capirete», riprese Morcerf, «che non posso ritenermi
soddisfatto delle vostre reticenze, e una cosa in ogni modo mi
sembra chiara, ed è che rifiutate la mia parentela.»
«No, signore», replicò Danglars, «io sospendo la mia decisione, ecco
tutto.»
«Ma non avrete però la pretesa, credo, che debba sottostare ai
vostri capricci al punto d’aspettare tranquillamente e umilmente il
ritorno del vostro favore?»
«Allora, signor conte, se non potete aspettare, consideriamo i
nostri progetti come non fatti.»
Il conte si morse le labbra a sangue per non andare su tutte le
furie, come avrebbe preteso il suo carattere superbo e irritabile,
però, sapendo che in simile circostanza gli sarebbe caduto addosso
il ridicolo, aveva già cominciato ad accostarsi alla porta della
sala, quando, pentendosi, tornò indietro. Una fosca nube gli era
passata sulla fronte, lasciandogli, invece dell’offeso orgoglio, una
vaga inquietudine.
«Noi ci conosciamo da molti anni disse, mio caro Danglars», disse,
«e quindi dobbiamo aver riguardo l’uno per l’altro. Voi mi dovete
una spiegazione: ch’io sappia almeno a quale disgraziata circostanza
mio figlio sia debitore della perdita delle vostre buone
intenzioni.»
«Non è colpa del visconte, ecco cosa posso dirvi…» rispose Danglars
che tornava impertinente vedendo Morcerf addolcirsi.
«E di chi sarebbe dunque colpa?» domandò con voce alterata Morcerf
la cui fronte si coprì di pallore.
Danglars, cui non sfuggiva nessuno di quei sintomi, fissò su di lui
uno sguardo più sicuro di quanto non osasse abitualmente.
«Ringraziatemi, se non mi spiego di più», rispose.
Un tremito convulso, certo eccitato dalla collera soffocata, agitava
Morcerf.
«Io ho diritto», ribatté facendosi forza, «io ho diritto di esigere
che vi spieghiate: è dunque contro la signora Morcerf che avete
qualche rancore? Non sono abbastanza ricco? Sono forse le mie
opinioni, contrarie alle vostre?…»
«Nulla di ciò, signore», disse Danglars, «e sarebbe per me
imperdonabile, poiché mi sono impegnato conoscendo quanto mi dite.
No, non cercate di più… Sono mortificato di costringervi a fare
questo esame di coscienza… Fermiamoci qui, credetemi… Prendiamo un
termine medio, che non sia né una rottura, né un impegno. Niente ci
fa fretta! Mia figlia ha diciassette anni, e vostro figlio ventuno.
Il tempo passerà, ciò che sembra oscuro oggi, può divenir chiaro
domani: qualche volta basta una parola per distruggere le più
crudeli calunnie.»
«Calunnie avete detto, signore?» gridò Morcerf, diventando livido.
«Sono io forse calunniato?»
«Signor conte, vi dico: non parliamone più.»
«Per cui, signore, dovrei subire tranquillamente questo rifiuto?»
«Penoso soprattutto per me, signore. Sì, più penoso per me che per
voi, perché io contavo sulla vostra parentela, e un matrimonio
andato a monte, fa sempre più torto alla fidanzata che al
fidanzato.»
«Vi riverisco, signore, non ne parliamo più», concluse Morcerf. E
strofinandosi i guanti per la rabbia, uscì.
Danglars osservò che neppure una volta Morcerf aveva osato domandare
se il matrimonio si rendeva nullo per causa sua. La sera ebbe una
lunga conversazione con molti amici, e il signor Cavalcanti, che si
era costantemente fermato nella sala delle signore, uscì per ultimo
dalla casa del banchiere. L’indomani svegliandosi, Danglars domandò
i giornali, che gli furono portati: ne sfogliò tre o quattro, e
scelse «L’impartial».
Era quello di cui era redattore Beauchamp. Ruppe rapidamente la
fascetta aprendolo con precipitazione convulsa, e passato
sdegnosamente sul «Premier Paris», giunto ai «Fatti diversi», si
fermò col suo finissimo sorriso sopra un periodo virgolato, che
cominciava con queste parole: «Ci scrivono da Giannina».
«Bene», disse, dopo averlo letto, «ecco un piccolo trafiletto sul
colonnello Fernando, che, secondo tutte le probabilità, mi
dispenserà dal dare spiegazioni al signor conte Morcerf.»
Nella stessa mattina, mentre battevano le nove, Albert Morcerf,
vestito di nero, abbottonato diligentemente, agitato, e con brevi
parole, si presentò alla casa degli Champs-Elysées.
«Il signor conte è uscito, sarà una mezz’ora», disse il portinaio.
«Ha condotto con sé Battistino?» domandò Morcerf.
«No, signor visconte.»
«Chiamate Battistino: voglio parlargli.»
Il portinaio andò di persona a cercare il cameriere, e un istante
dopo ritornò con lui.
«Amico mio», disse Albert, «vi chiedo scusa della mia indiscrezione
ma ho voluto domandare a voi stesso se il vostro padrone è realmente
uscito.»
«Sì, signore», rispose Battistino.
«Anche per me?»
«Io so quanto il mio padrone è contento di ricevere il signore, e mi
guarderei bene di usare col signore una scusa qualsiasi.»
«Avete ragione, perché io debbo parlargli di un affare serio.
Credete che tarderà a tornare?»
«No, perché ha ordinato la colazione per le dieci.»
«Bene, vado a fare un giro agli Champs-Elysées, alle dieci sarò qui.
Se il signor conte rientra dopo di me, ditegli che lo prego di
aspettarmi.»
«Non mancherò, il signore può star tranquillo.»
Albert lasciò alla porta del conte il calessino da nolo che aveva
preso, e andò a passeggiare a piedi. Passando davanti a boulevard
des Veuves, gli parve di riconoscere i cavalli del conte, fermi
davanti alla porta del tiro al bersaglio di Gosset; si avvicinò, e,
dopo averli riconosciuti bene, riconobbe il cocchiere.
«Il signor conte è al tiro al bersaglio?» gli domandò Morcerf.
«Sì, signore», rispose il cocchiere.
Infatti, molti colpi regolari si erano uditi mentre Morcerf si
accostava al recinto del bersaglio. Entrò. Nel primo giardino stava
l’inserviente.
«Scusate», diss’egli, «ma il signor visconte abbia la bontà di
aspettare un momento.»
«E perché, Philippe?» domandò Albert, che essendo uno di quelli che
frequentavano spesso il bersaglio, si meravigliava di quel divieto
inconcepibile.
«Perché la persona che si esercita in questo momento ha preso il
bersaglio tutto per sé, e non tira mai in presenza di alcuno.»
«Neppure in vostra presenza, Philippe?»
«Lo vedete, signore.»
«E chi gli carica le pistole?»
«Il suo domestico.»
«Un nubiano?»
«Sì, un negro.»
«È lui.»
«Voi dunque conoscete questo signore?»
«Vengo a cercarlo; è amico mio.»
«Allora è tutt’altra cosa; entrerò per avvertirlo.»
E Philippe, spinto dalla propria curiosità, entrò nel capanno di
assi. Un secondo dopo, Montecristo comparve solo sulla soglia.
«Scusate se vi perseguito fin qui, mio caro conte», disse Albert.
«Ma comincio col dirvi che non è colpa della vostra servitù, e che
io solo sono l’indiscreto. Mi sono presentato alla vostra
abitazione, e mi fu detto che eravate a passeggiare, ma che sareste
rientrato alle dieci per fare colazione. Mi sono messo a passeggiare
io pure per aspettare le dieci, e passeggiando ho riconosciuto i
vostri cavalli e la vostra carrozza.»
«Ciò che mi dite, mi fa sperare che veniate a invitarvi a una
colazione.»
«No, grazie, non si tratta di far colazione a quest’ora… Forse
faremo colazione più tardi, ma in cattiva compagnia.»
«Che diavolo dite?»
«Mio caro, oggi mi batto.»
«Voi? E per far che?»
«Per battermi, per Dio.»
«Sì, capisco, ma per quale motivo? Possiamo batterci per tante
cause, capite bene…»
«Per causa d’onore.»
«Ah, è cosa seria.»
«Tanto seria, che vengo a pregarvi di farmi un favore.»
«E quale?»
«Quello di farmi da padrino.»
«Allora la cosa diventa grave… Non parliamone qui, torniamo a casa
mia. Alì, dammi dell’acqua.»
Il conte si rimboccò le maniche, e passò nel piccolo vestibolo che
precedeva il luogo del bersaglio, e dove i tiratori avevano
l’abitudine di lavarsi le mani.
«Entrate dunque, signor visconte, e vedrete una cosa singolare…»
disse a bassa voce Philippe ad Albert.
Morcerf entrò. Sulla placca del bersaglio invece di esservi
attaccati i soliti segni, vi erano incollate delle carte da gioco.
Da lontano Morcerf credette di riconoscere un mazzo intero,
dall’asso fino al dieci.
«Oh, oh!» esclamò Albert. «Avevate voglia di giocare a picchetto?»
«No, avevo voglia di fare un gioco di carte.»
«E in che modo?»
«Erano degli assi e dei due: le mie pallottole li hanno convertiti
in tre, in quattro, in cinque, in sei, in nove e dieci.»
Albert si avvicinò. Infatti le pallottole avevano a linee ugualmente
distanti e perfettamente esatte riempito i segni mancanti, e forate
le carte nel posto dove dovevano essere dipinte. Avvicinandosi alla
placca, Morcerf raccolse diverse rondinelle che avevano avuto
l’imprudenza di passare a portata delle pistole del conte, e che il
conte aveva abbattuto.
«Diavolo!» esclamò Morcerf.
«Che volete, caro visconte», disse Montecristo, asciugandosi le mani
con la salvietta portata da Alì, «bisogna bene che occupi i miei
momenti d’ozio. Ma venite, vi aspetto.»
Entrambi salirono nella carrozza di Montecristo, che in pochi
istanti li condusse davanti alla porta numero 30. Montecristo
condusse Morcerf nel suo studio e gli mostrò una sedia. Tutti e due
sedettero.
«Ora parliamo tranquillamente», riprese il conte.
«Ma io sono perfettamente tranquillo.»
«Con chi volete battervi?»
«Con Beauchamp.»
«Uno dei vostri amici?»
«Non è sempre con gli amici che ci battiamo?»
«Ma ci vuole almeno una ragione.»
«Ce l’ho.»
«Che cosa vi ha fatto?»
«È nel suo giornale di ieri sera… Ma, prendete, leggete.»
E Albert presentò a Montecristo un giornale ove lesse queste parole:
«Ci scrivono da Giannina: È giunto a nostra conoscenza un fatto fin
qui ignorato, o per lo meno inedito. Le fortezze che difendevano la
città furono vendute ai turchi da un ufficiale francese nel quale il
visir Alì Tebelin aveva riposta tutta la fiducia, e che si chiamava
Fernando.»
«Ebbene», domandò Montecristo, «che ci trovate di offensivo qua
dentro?»
«Come, che ci trovo?»
«Sì, che importa a voi che i forti di Giannina siano stati venduti
da un ufficiale francese di nome Fernando?»
«M’importa perché il nome di battesimo di mio padre, il conte
Morcerf, è Fernando.»
«E vostro padre serviva Alì Pascià?»
«Vale a dire, combatteva per l’indipendenza della Grecia: ecco dov’è
la calunnia.»
«Mio caro visconte, parliamo ragionevolmente.»
«Non chiedo altro.»
«Ditemi un po’: chi diavolo sa in Francia che l’ufficiale Fernando è
lo stesso nome del conte Morcerf, e chi si occupa a quest’ora di
Giannina, che è stata presa nel 1822 o 1823, credo?»
«Ecco dov’è la perfidia: hanno lasciato passare un sacco di tempo, e
oggi tornano su avvenimenti dimenticati per fare sorgere uno
scandalo che può pregiudicare un nome. Ebbene, erede del nome di mio
padre, non voglio che su questo nome cada neppure ombra di sospetto.
Invierò a Beauchamp, il cui giornale ha pubblicato questa nota, due
padrini, e la ritratterà.»
«Beauchamp non ritratterà.»
«Allora ci batteremo.»
«No, non vi batterete, perché Beauchamp vi risponderà che
nell’esercito greco ci potevano essere cinquanta ufficiali che si
chiamavano Fernando.»
«Ci batteremo malgrado questa risposta… Voglio che questa notizia
sia smentita… Mio padre, un così nobile soldato, una illustre
carriera…»
«Oppure inserirà: “Abbiamo tutte le ragioni di credere che questo
Fernando non abbia niente in comune col signor conte Morcerf, il cui
nome di battesimo è ugualmente Fernando”.»
«Esigo una ritrattazione piena e completa, non mi accontenterò di
questa!»
«E volete mandargli i vostri padrini?»
«Sì.»
«Avete torto.»
«Vale a dire che mi negate il servizio che venivo a chiedervi?»
«Voi conoscete le mie teorie sui duelli, ve ne parlai a Roma: ve ne
ricordate?»
«Però, caro conte, questa mattina, anzi poco fa, vi ho trovato
occupato in un esercizio che non va d’accordo con le vostre teorie.»
«Perché, amico caro, capirete, non bisogna mai essere fanatici.
Quando si vive con dei pazzi, bisogna anche fare scuola di follia:
da un momento all’altro, qualche cervello bollente, che non avrà
maggior ragione di muovermi querela di quella che avete voi contro
Beauchamp, mi verrà a trovare per una frivolezza, o mi manderà i
suoi padrini, o m’insulterà in un luogo pubblico: ebbene, questo
cervello bollente bisogna bene che io lo sappia uccidere!»
«Ammettete dunque che voi stesso vi battereste?»
«Per difendermi.»
«Ebbene, perché dunque non volete che mi batta io?»
«Io non dico che non vi dobbiate battere, dico soltanto che il
duello è cosa grave, e sulla quale bisogna riflettere.»
«Ha egli riflettuto nell’insultare mio padre?»
«Se non ci ha riflettuto, e ve lo confessa, non bisogna avercela con
lui.»
«Ah, mio caro conte, voi siete troppo indulgente.»
«E voi troppo severo. Ascoltate bene, io suppongo… Ma non andate in
collera per quel che vi dico!»
«Ascolto.»
«Io suppongo che il fatto raccontato sia vero…»
«Un figlio non può ammettere tale supposizione, che offende l’onore
di suo padre.»
«Siamo in un’epoca in cui si ammettono tante cose!»
«È precisamente il difetto dell’epoca.»
«Avreste voi la pretesa di riformarla?»
«Sì, per quanto mi riguarda.»
«Siete troppo rigoroso, caro amico.»
«Sono fatto così.»
«Siete inaccessibile ai buoni consigli?»
«No, quando mi vengono da un amico.»
«E mi credete vostro amico?»
«Sì.»
«Ebbene, prima d’inviare i vostri testimoni a Beauchamp,
informatevi.»
«E da chi?»
«Da Haydée, per esempio.»
«Immischiare una donna in questo affare! Cosa può fare?»
«Dichiarare, per esempio, che vostro padre non ha avuto parte nella
disfatta e nella morte del suo, ossia chiarirvi su questo argomento,
nel caso che vostro padre avesse avuto la disgrazia…»
«Vi ho già detto, caro conte, che io non posso ammettere tale
supposizione.»
«Voi rifiutate dunque questo mezzo?»
«Lo rifiuto.»
«Assolutamente?»
«Assolutamente.»
«Allora un ultimo consiglio.»
«Sia! Ma l’ultimo.»
«Non lo volete?»
«Al contrario, ve lo domando.»
«Non mandate i vostri testimoni a Beauchamp.»
«Come?»
«Andate voi stesso a trovarlo.»
«È contro tutti gli usi.»
«Il vostro affare non è affare comune.»
«E perché debbo andare io stesso? Sentiamo.»
«Perché in tal modo la cosa resterà fra voi e Beauchamp.»
«Spiegatevi.»
«Certo, se Beauchamp è disposto a ritirarsi, bisogna lasciargli il
merito della buona volontà. Se rifiuta, al contrario, farete sempre
in tempo ad ammettere due estranei al vostro segreto.»
«Non saranno due estranei, saranno due amici.»
«Gli amici d’oggi sono i nemici di domani.»
«E chi, per esempio?»
«Beauchamp.»
«E dunque…»
«Dunque vi raccomando prudenza.»
«Per cui credete che debba andare io stesso a trovare Beauchamp?»
«Sì.»
«Solo?»
«Solo. Quando si vuole ottenere qualche cosa dall’amor proprio di un
uomo, bisogna salvargli questo stesso suo amor proprio.»
«Credo che abbiate ragione.»
«Per fortuna!»
«Ci andrò solo.»
«Andate, ma fareste anche meglio non andandoci.»
«È impossibile.»
«Fate dunque così, sarà sempre meglio di quello che volevate fare.»
«Ma se dopo tutte le mie precauzioni, tutti i riguardi, avessi un
duello, mi fareste da padrino?»
«Mio caro visconte», rispose Montecristo con gravità, «voi avete
sperimentato che a tempo e luogo io vi sono dedito, ma il favore che
mi chiedete esce dalla cerchia di quelli che posso rendervi.»
«E perché?»
«Forse lo saprete un giorno.»
«E nel frattempo?»
«Domando la vostra indulgenza per il mio segreto.»
«Sia. Prenderò Franz e Château-Renaud.»
«Prendete Franz e Château-Renaud, e andrà a meraviglia.»
«Ma infine, se dovrò battermi, mi darete almeno una piccola lezione
di spada o di pistola.»
«No, anche questo è impossibile.»
«Siete un uomo strano! Allora voi non volete immischiarvi per
niente?»
«Per niente assolutamente.»
«Allora non parliamone più. Addio, conte.»
«Addio, visconte.»
Morcerf prese il cappello, e uscì. Alla porta trovò il suo
calessino, e contenendo meglio che poteva la sua collera, si fece
condurre a casa di Beauchamp. Beauchamp era all’ufficio del suo
giornale. Albert si fece condurre là. Beauchamp era in uno studio
oscuro e polveroso, come sono sin dalla loro fondazione tutti gli
uffici dei giornali. Nel sentirsi annunciare Albert Morcerf, si fece
ripetere due volte l’annuncio, quindi non convinto ancora, gridò:
«Entrate!»
Albert comparve. Beauchamp mandò un’esclamazione di sorpresa,
vedendo il suo amico oltrepassare i pacchi dei giornali, e pestare
con piede maldestro i fogli di tutte le grandezze che tappezzavano i
mattoni rossi del pavimento.
«Per di qui! Per di qui, mio caro Albert!» diss’egli tendendo la
mano al giovane. «Che cosa vi conduce? Vi siete perduto come
Pollicino, o venite bonariamente a chiedermi una colazione?
Procuratevi una sedia, laggiù, vicino a quel geranio, che, solo qui,
mi ricorda esservi una immensità di foglie che non sono fogli di
carta.»
«Beauchamp», iniziò Albert, «vengo a parlarvi del vostro giornale.»
«Voi, Morcerf? Che desiderate?»
«Desidero una rettifica.»
«Voi, una rettifica! A proposito di che, Albert? Ma sedete dunque…»
«Grazie», rispose Albert per la seconda volta, e con un leggero
cenno della testa.
«Spiegatevi.»
«Una rettifica relativa a un fatto che offende l’onore di un membro
della mia famiglia.»
«Che fatto?» domandò Beauchamp sorpreso.
«Il fatto che vi pervenne da Giannina.»
«Da Giannina?»
«Sì, da Giannina… Ma ignorate davvero il motivo che mi ha condotto
qui?»
«Sul mio onore!… Battista, un giornale di ieri!» esclamò Beauchamp.
«Lasciate, vi porto il mio.»
Beauchamp lesse brontolando: «Ci scrivono da Giannina ecc., ecc.»
«Voi comprenderete che il fatto è grave», riprese Morcerf, non
appena Beauchamp ebbe finito.
«Quest’ufficiale è dunque vostro parente?» domandò il giornalista.
«Sì», rispose Albert arrossendo.
«Ebbene, che cosa volete che faccia per compiacervi?» chiese
Beauchamp con dolcezza.
«Io vorrei, mio caro Beauchamp, che voi ritrattaste questo fatto.»
Beauchamp guardò Albert con attenzione non priva di molta
benevolenza.
«Vediamo», disse, «ragioniamoci! Una ritrattazione è sempre cosa
grave… Sedetevi, io rileggerò queste tre o quattro righe.»
Albert si sedette, e Beauchamp rilesse le righe incriminate con più
attenzione della prima volta.
«Ebbene lo vedete», riprese Albert con fermezza anzi con asprezza,
«nel vostro giornale si insulta un membro della mia famiglia e io
voglio una ritrattazione.»
«Voi volete?»
«Esigo.»
«Permettetemi di dirvi che non siete un buon diplomatico, mio caro
visconte.»
«Non voglio esserlo», replicò il giovane alzandosi. «Io esigo la
ritrattazione del fatto che avete annunciato ieri, e l’otterrò. Mi
siete abbastanza amico», continuò Albert con la mascella serrata,
vedendo che dal canto suo Beauchamp cominciava ad alzare la testa
sdegnoso, «mi siete abbastanza amico, e come tale, mi capite a
sufficienza, lo spero, per conoscere la mia fermezza in simili
circostanze.»
«Se io sono vostro amico, Morcerf, finirete per farmelo dimenticare
con tali parole… Ma non litighiamo, o almeno per ora… Voi siete
inquieto, irritato e offeso… Dite, chi è questo parente che si
chiama Fernando?»
«È mio padre», dichiarò Albert. «Egli stesso, e non altri, il signor
Fernando Mondego conte Morcerf, vecchio militare che ha visto venti
campi di battaglia, e del quale si vogliono coprire le nobili
cicatrici col fango!»
«Vostro padre!» esclamò Beauchamp. «Allora è tutt’altro affare!
Capisco la vostra indignazione, mio caro Albert. Rileggiamo dunque…»
E tornò a leggere la nota, meditando questa volta ciascuna parola.
«Ma come potete provare voi», domandò Beauchamp, «che questo
Fernando del giornale sia vostro padre?»
«Non lo so bene, ma lo proveranno altri. E perciò voglio che il
fatto sia smentito.»
Alla parola «voglio» Beauchamp alzò gli occhi sopra Morcerf, e,
abbassandoli quasi subito, rimase un istante pensieroso.
«Voi smentirete questo fatto, non è vero, Beauchamp?» ripeté Morcerf
con collera crescente, sebbene sempre contenuta.
«Sì», rispose Beauchamp.
«Finalmente!» esclamò Albert.
«Ma quando sarò sicuro che sia falso.»
«In che modo?»
«La cosa vale la pena d’essere chiarita, e la chiarirò.»
«Ma che avete da chiarire, signore?» gridò Albert alterato fuori
misura. «Se non credete che sia mio padre, ditelo subito, se invece
credete che sia lui, rendetemene ragione.»
Beauchamp guardò Albert con un sorriso particolare.
«Signore», ripeté, «poiché credo di aver a che fare con un signore,
se siete venuto qui per domandarmi ragione, dovevate farlo
dall’inizio, e non venire a parlare d’amicizia e di altre cose
inutili, come quelle che ho la pazienza d’ascoltare da più di
mezz’ora. Dobbiamo camminare su questo terreno d’ora in avanti?
Rispondete.»
«Sì, se non ritrattate l’infame calunnia!»
«Calma con le minacce, vi prego, signor Albert Mondego, visconte di
Morcerf: io non ne tollero dai nemici, tanto meno dagli amici!
Desiderate che io smentisca il fatto del generale Fernando, fatto al
quale non ho, vi assicuro, avuta nessuna parte?»
«Sì, lo voglio!» disse Albert, la cui testa non era più in grado di
ragionare.
«Altrimenti ci batteremo?» continuò Beauchamp con la medesima calma.
«Sì», rispose Albert alzando la voce.
«Ebbene», replicò Beauchamp, «ecco la mia risposta, mio caro
signore: questo trafiletto non fu pubblicato da me, che non lo
conoscevo, ma voi con la vostra protesta avete attirato la mia
attenzione, per cui verrà stampato fino a che non verrà smentito, o
confermato da chi di diritto.»
«Signore!» disse Albert alzandosi. «Avrò l’onore di mandarvi i miei
padrini, coi quali sceglierete il luogo e le armi.»
«Accetto, mio caro signore.»
«E stasera, se volete, o domani mattina al più tardi noi
c’incontreremo.»
«No! Mi batterò quando sarà il momento, e a mio avviso (ho diritto
alla scelta poiché sono stato io che ho ricevuto la sfida), e, a mio
avviso, ripeto, l’ora non è ancora giunta. So che voi tirate
benissimo di spada, io invece appena passabilmente; so che voi
cogliete tre volte su cinque nel segno, questa abilità è quasi
uguale alla mia; so che un duello fra noi sarà un duello serio,
perché siete coraggioso, e io… io lo sono altrettanto.
Non voglio dunque espormi a uccidervi, o essere ucciso io stesso da
voi senza una causa. Sono io ora, che intendo discutere della
questione ca-te-go-ri-ca-men-te. Esigete voi questa ritrattazione a
costo di uccidermi se non la faccio, sebbene vi abbia detto,
ripetuto e affermato sul mio onore, che non ne sapevo nulla, sebbene
vi dichiari finalmente essere impossibile a tutt’altri che a un don
Jafet come voi, d’indovinare che sotto il nome di Fernando si celi
il conte Morcerf?»
«Lo voglio assolutamente.»
«Ebbene, mio caro signore, acconsento, ma concedetemi tre settimane.
Fra tre settimane vi rivedrò per dirvi: “Sì, il fatto è falso, e io
lo cancello”, oppure: “Sì, il fatto è vero, e io sfodero la spada, o
afferro le pistole, a vostra scelta”.»
«Tre settimane!?» gridò Albert. «Ma tre settimane sono tre secoli di
disonore!»
«Se non mi aveste tolto la vostra amicizia, vi direi: “Amico, abbi
pazienza ancora un poco”, ma poiché vi dichiarate invece nemico, vi
risponderò francamente: “E che importa a me, signore?”»
«Sia fra tre settimane, lo concedo! Ma pensateci bene, dopo tre
settimane non ammetterò altra dilazione, né sotterfugio che possa
dispensarvi…»
«Signor Albert Morcerf», ribatté Beauchamp, alzandosi a sua volta,
«non posso gettarvi dalla finestra che fra tre settimane, vale a
dire fra ventiquattro giorni, e voi non avete diritto d’insultarmi
che in quell’epoca. Ora siamo al ventinove del mese di agosto, al
ventuno dunque del mese di settembre… Fin là, credetemi, ed è un
consiglio da gentiluomo che vi do, fin là non latriamo come due cani
mastini incatenati a una certa distanza.»
E Beauchamp salutando gravemente il giovane, gli voltò le spalle, ed
entrò nella stamperia.
Albert si vendicò sopra una massa di giornali che disperse
frustandoli a gran colpi con la bacchettina, dopodiché partì, non
senza essersi voltato due o tre volte verso la porta della
stamperia. Mentre Albert attraversava nel suo calesse il boulevard,
vide Morrel, che col capo alto, l’occhio aperto e le braccia
sciolte, passava davanti ai bagni cinesi, venendo dalla parte di
Saint Martin e andando verso la Madeleine.
«Ah», sospirò Albert, «ecco un uomo felice.»
Per caso aveva indovinato.
78. La limonata
E infatti Morrel era felicissimo. Il signor Noirtier lo aveva
mandato a cercare, ed era così trepidante di sapere che cosa
volesse, che non aveva preso il calessino, fidandosi molto più delle
sue gambe, che delle quattro di un cavallo da piazza. Era perciò
partito correndo dalla rue Meslay, diretto al Faubourg Saint-Honoré.
Morrel camminava a passo svelto, e il povero Barrois lo seguiva a
stento: Morrel aveva trentun anni, Barrois ne aveva sessanta; Morrel
era ebbro d’amore, Barrois era trafelato per l’eccessivo calore.
Questi due uomini diversi per interessi e per età somigliavano alle
due linee che formano un triangolo, allontanate alla base e riunite
alla sommità: la sommità era Noirtier, il quale aveva mandato a
cercare Morrel, raccomandandogli di far presto, raccomandazione che
Morrel adempiva scrupolosamente, con gran disperazione di Barrois.
Nel giungere, Morrel non era neppure trafelato; l’amore somministra
le ali; ma Barrois, che da lungo tempo non era più innamorato,
nuotava nel sudore. Il vecchio servitore fece entrare Morrel dalla
porta segreta, chiuse quella dello studio e ben presto il fruscio di
una veste sul pavimento annunciò la visita di Valentine: era ancora
più bella nel suo abito a lutto. L’incanto era tanto dolce, che
Morrel si sarebbe anche dispensato dal colloquio col signor
Noirtier, ma la poltroncina del vecchio s’udì rotolare ben presto
sul pavimento, ed egli entrò.
Noirtier accolse con sguardo benevolo i ringraziamenti di Morrel per
il meraviglioso intervento che aveva salvato Valentine e lui dalla
disperazione. Valentine intanto, timida e seduta lontano da Morrel,
aspettava di essere costretta a parlare.
Noirtier la guardò anche lui.
«Devo dunque riferire ciò di cui mi avete incaricato?» domandò.
«Sì», indicò Noirtier.
«Signor Morrel», disse allora Valentine al giovane, che la divorava
con gli occhi, «il mio buon nonno Noirtier aveva mille cose da
dirvi, e in questi tre giorni le ha dette a me. Oggi vi manda a
cercare perché ve le ripeta; ve le ripeterò dunque, poiché mi ha
scelto come suo interprete, senza cambiarne una parola.»
«Non vedo l’ora di ascoltarvi», rispose il giovane. «Parlate,
signorina, parlate.»
Valentine abbassò gli occhi; questo fu un presagio che parve dolce a
Morrel, Valentine non era timida che nella felicità.
«Mio nonno vuole abbandonare questa casa», disse. «Barrois gli sta
cercando un comodo appartamento.»
«Ma, voi, signorina», interruppe Morrel, «voi che siete così cara e
necessaria al signor Noirtier… Voi che…»
«Io», riprese la ragazza, «non lascerò mio nonno, è cosa già decisa
fra lui e me. Il mio appartamento sarà vicino al suo… O avrò il
consenso del signor Villefort per andare ad abitare con il nonno, o
me lo rifiuterà: nel primo caso io parto fin da questo momento; nel
secondo, aspetterò la maggior età, che sarà fra dieci mesi. Allora
io sarò libera, avrò uno stato indipendente, e…»
«E?…» domandò Morrel.
«E, con l’autorizzazione del nonno, manterrò la promessa che vi ho
fatto.»
Valentine pronunciò quelle ultime parole a voce così bassa, che
Morrel non avrebbe potuto udirle senza l’interesse che aveva di
divorarle.
«Non ho così espresso il vostro pensiero, caro nonno?» chiese
Valentine a Noirtier.
«Sì», confermò il vecchio.
«Una volta in casa di mio nonno», aggiunse Valentine, «il signor
Morrel potrà venire a trovarmi in presenza di questo buono e degno
protettore… Se il legame che unisce i nostri cuori, forse ignoranti
o capricciosi, sarà durevole e offrirà garanzie di futura felicità
(ahimè, si dice che i cuori, infiammati dagli ostacoli, si
raffreddino nelle abituali certezze), allora il signor Morrel potrà
chiedermi in sposa, io lo aspetterò.»
«Oh!» gridò Morrel, tentando d’inginocchiarsi davanti al vecchio
come davanti a un nume, davanti a Valentine come davanti a un
angelo. «Che mai ho fatto di bene nella mia vita da meritarmi tanta
felicità?»
«Fino a quel momento», continuò la ragazza, con la sua voce pura e
severa, «noi rispetteremo le convenienze, e anche la volontà dei
nostri parenti, purché questa volontà non tenda a separarci per
sempre. In una parola, la ripeto questa parola perché dice tutto,
noi aspetteremo.»
«E i sacrifici che questa parola impone, signorina», annuì Morrel,
«vi giuro che li compirò, non già con rassegnazione, ma con
felicità.»
«Così», continuò Valentine, con uno sguardo dolce al cuore di
Maximilien, «non più imprudenze, amico mio, non compromettete colei
che, da questo momento, si considera destinata a portare
onorevolmente e degnamente il vostro nome.»
Morrel si appoggiò la mano sul cuore.
Noirtier li guardava entrambi con tenerezza, e Barrois, che era
rimasto sul fondo, sorrideva asciugandosi le grosse gocce che gli
cadevano dalla fronte calva.
«Mio Dio, com’è trafelato il buon Barrois!» esclamò Valentine.
«È perché ho corso molto», spiegò Barrois. «Vedete, signorina, il
signor Morrel, debbo rendergli giustizia, correva ancora più di me.»
Noirtier indicò con l’occhio un vassoio, sul quale era preparata una
bottiglia di limonata e un bicchiere. Ciò che mancava dalla
bottiglia era stato bevuto mezz’ora prima dal signor Noirtier.
«Prendi buon Barrois», disse la ragazza, «prendi, poiché già vedo
che vagheggi con gli occhi questa bottiglia.»
«Il fatto è», rispose Barrois, «che muoio di sete, e berrò ben
volentieri un bicchiere di limonata alla vostra salute.»
«Bevi dunque», disse Valentine, «e ritorna subito.»
Barrois portò via il vassoio, e appena fu nel corridoio, attraverso
la porta che aveva dimenticato di chiudere, fu visto rovesciare
indietro la testa per vuotare il bicchiere riempitogli da Valentine.
Valentine e Morrel si stavano salutando in presenza di Noirtier,
quando s’udì suonare il campanello della scala di Villefort. Era il
segnale di una visita. Valentine guardò l’orologio a pendolo.
«È mezzogiorno», disse, «e oggi è sabato, caro nonno, è senza dubbio
il dottore.»
Noirtier fece segno che doveva esser lui.
«Sta venendo qui… Bisogna che il signor Morrel se ne vada. Non è
vero nonno?»
«Sì», accennò Noirtier.
«Barrois!» chiamò Valentine. «Barrois, venite!»
S’udì la voce del vecchio servitore che rispondeva: «Vengo,
signorina».
«Barrois vi accompagnerà fino alla porta», disse Valentine a Morrel.
«E ora ricordatevi una cosa, signor ufficiale, ed è che il nonno vi
raccomanda di non tentare alcuna cosa capace di compromettere la
nostra felicità.»
«Ho promesso di aspettare, e aspetterò.»
In quel momento entrò Barrois.
«Chi ha suonato?» domandò Valentine.
«Il dottor d’Avrigny», rispose Barrois, traballando sulle gambe.
«Che avete, Barrois?» domandò Valentine.
Il vecchio non rispose: guardava il padrone con gli occhi stravolti,
mentre con la mano cercava un appoggio per rimanere in piedi.
«Sta per cadere!» gridò Morrel.
Infatti, il tremito, da cui Barrois era preso, aumentava
visibilmente, i tratti del viso, alterato dai moti convulsi dei
muscoli della faccia, preannunciavano una crisi nervosa delle più
violente. Noirtier, vedendo Barrois sconvolto, rivelava con gli
sguardi tutte le emozioni che gli agitavano il cuore.
Barrois fece qualche passo verso il suo padrone.
«Mio Dio! Mio Dio! Signore», ansimò. «Ma che ho mai?… Soffro… non ci
vedo più… la mia testa è trafitta da mille punte di fuoco. Non mi
toccate, non mi toccate!»
Infatti i suoi occhi divennero sporgenti e incerti, la testa si
rovesciava all’indietro, mentre la parte inferiore del corpo si
irrigidiva. Valentine spaventata gridò. Morrel la prese nelle sue
braccia, come se volesse difenderla da qualche ignoto pericolo.
«Signor d’Avrigny! Signor d’Avrigny!» esclamò Valentine con voce
soffocata. «Correte!»
Barrois si girò, facendo tre passi indietro, vacillò, e andò a
cadere ai piedi di Noirtier, sul ginocchio del quale appoggiò la sua
mano gridando: «Padrone mio! Padrone mio!»
Allora il signor Villefort, attirato dalle grida, comparve sulla
soglia della camera. Morrel lasciò Valentine semisvenuta, e si
nascose in un angolo dietro una tenda. Pallido come se avesse visto
uno spettro sorgere davanti a sé, fissò lo sguardo sull’infelice
moribondo.
Noirtier ardeva d’impazienza e di terrore; la sua anima volava in
soccorso al povero vecchio, suo amico, piuttosto che suo domestico.
Si vedeva la lotta terribile della vita e della morte riflettersi
sulla sua fronte. Barrois con la faccia sconvolta, gli occhi
sanguigni, il collo rovesciato indietro, giaceva bocconi: una
leggera schiuma colava dalle sue labbra, e respirava affannosamente.
Villefort, stupefatto, contemplò un istante quel quadro. Dopo quella
muta contemplazione, durante la quale il pallore gli illividiva il
viso, gridò lanciandosi verso la porta: «Dottore! Venite! Venite!»
«Signora! Signora!» gridò Valentine chiamando la matrigna, e urtando
nelle pareti della scala. «Accorrete, accorrete con la boccettina
dei sali.»
«Che cosa è accaduto?» domandò la voce metallica e dignitosa della
signora Villefort.
«Venite! venite!»
«Ma dov’è dunque il dottore?» gridò Villefort. «Dov’è?»
La signora Villefort scese lentamente, facendo scricchiolare le assi
sotto i suoi piedi, tenendo in una mano il fazzoletto col quale si
asciugava il viso, nell’altra la boccettina dei sali inglesi. Il suo
primo sguardo, entrando, lo volse a Noirtier, il cui aspetto, salva
l’emozione, era calmo e fermo; il secondo al moribondo.
«Ma in nome del cielo, signora, dov’è andato dunque il dottore? È
entrato da voi. Questa è un’apoplessia, come vedete bene, con un
salasso di sangue si può salvare.»
La signora impallidì, e il suo occhio si volgeva dal servitore al
padrone.
«Ha mangiato da poco?» domandò la signora Villefort eludendo la
domanda.
«Non ha fatto colazione», disse Valentine, «ma ha camminato molto
questa mattina, per eseguire una commissione di cui l’aveva
incaricato mio nonno. Al ritorno soltanto ha preso una limonata.»
«Ah!» gridò la signora Villefort. «Perché non ha preso del vino? Non
fa bene una limonata.»
«La limonata era là, nella bottiglia del nonno; il povero Barrois
aveva sete, ha bevuto ciò che ha trovato.»
La signora Villefort tremò, Noirtier la guardò con attenzione.
«Ha il collo storto!» gemette lei guardando con orrore Barrois.
«Signora», riprese Villefort, «dov’è il signor d’Avrigny? In nome
del cielo, rispondete!»
«Nella camera d’Edouard, non sta molto bene», rispose la signora
Villefort, che non poteva più eludere la domanda.
Villefort si lanciò su per la scala per andare a cercarlo egli
stesso.
«Prendete», disse la giovane sposa dando la sua boccettina a
Valentine. «Fra poco gli faranno senza dubbio un salasso: ritorno
nelle mie stanze poiché non posso sopportare la vista del sangue.»
E seguì suo marito. Morrel uscì dal nascondiglio.
«Presto, andatevene, Maximilien», gli disse Valentine, «e aspettate
che io vi richiami. Andate!»
Morrel consultò Noirtier con un gesto. Noirtier, che aveva
conservato tutta la sua calma, gli fece segno di sì. Allora strinse
la mano di Valentine contro il suo cuore, e uscì dal corridoio
mentre Villefort e il dottore rientravano dalla parte opposta.
Barrois cominciava a ritornare in sé; anzi essendo passata la crisi,
si era sollevato su un gomito, mandando profondi gemiti. D’Avrigny e
Villefort lo portarono al sofà.
«Di cosa avete bisogno, dottore?» domandò Villefort.
«Fatemi portare dell’acqua e dell’etere, se ce n’è in casa.»
«Sì.»
«Mandate a prendere dell’olio di trementina e dell’emetico.»
«Andate!» ordinò Villefort.
«Ora, si ritirino tutti.»
«Anche io?» domandò timidamente Valentine.
«Sì, signorina, voi soprattutto», disse burbero il dottore.
Valentine guardò il signor d’Avrigny con meraviglia, baciò sulla
fronte il signor Noirtier, e uscì. Dietro di lei il dottore chiuse
la porta con aria cupa.
«Guardate, guardate, dottore, eccolo che rinviene; era un attacco di
nessuna importanza.»
Il signor d’Avrigny sorrise mestamente.
«Come vi sentite, Barrois?» domandò il dottore.
«Un po’ meglio, signore.»
«Riuscite a bere un bicchiere di questo etere?»
«Mi sforzerò, ma non toccatemi.»
«Perché?»
«Perché sento che se mi toccaste, anche solo con la sola punta di un
dito, l’accesso mi ritornerebbe.»
«Bevete.»
Barrois prese il bicchiere, se l’avvicinò alle labbra violacee, e ne
vuotò circa la metà.
«Sentite dolore?» domandò il dottore.
«Dappertutto, ho dei terribili crampi.»
«Vi trema l’occhio?»
«Sì.»
«Tintinnio alle orecchie?»
«Spaventoso.»
«Quando vi è cominciato?»
«Poco fa.»
«Rapidamente?»
«Come il fulmine.»
«Niente ieri? Ieri l’altro?»
«Niente.»
«Neppure sonnolenza? Peso?»
«No.»
«Che cosa avete mangiato quest’oggi?»
«Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po’ di limonata del
signore, ecco tutto.»
E Barrois fece con la testa un segno per indicare Noirtier, che
immobile sulla sedia contemplava quella terribile scena, senza che
alcuna parola gli sfuggisse.
«Dov’è la limonata?» domandò vivamente il dottore.
«In una bottiglia.»
«Dov’è?»
«In cucina. Volete che vada a cercarla, dottore?» domandò Villefort.
«No, restate qui, e cercate di far bere al malato il resto di quel
bicchiere d’acqua.»
«Ma la limonata…»
«Vado io stesso.»
D’Avrigny balzò in piedi, e aperta la porta, si lanciò giù dalle
scale, poco mancando che non rovesciasse la signora Villefort, che
anch’essa scendeva in cucina, per cui mandò un grido. D’Avrigny non
vi fece attenzione, assorto com’era in una sola idea: saltò i primi
tre o quattro scalini, e scoprì la bottiglia per tre quarti vuota
sul vassoio. Vi piombò sopra come un’aquila sulla sua preda quindi,
ansante, risalì, e rientrò in camera.
La signora Villefort risaliva lentamente la scala che conduceva alle
sue stanze.
«Era questa la bottiglia che era qui?» domandò d’Avrigny.
«Sì, signor dottore.»
«Questa limonata è la stessa che avete bevuta?»
«Credo di sì.»
«Che gusto avete sentito?»
«Un gusto amaro.»
Il dottore versò qualche goccia di limonata nel cavo della mano,
l’aspirò con le labbra, e dopo aver sciacquato la bocca come si fa
quando si vuole gustare il vino, sputò il liquido nel caminetto.
«È la stessa», disse.
«E voi, signor Noirtier, l’avete bevuta?»
Il vecchio fece segno di sì.
«Avete sentito il medesimo gusto amaro?»
Il vecchio ripeté ancora di sì.
«Signor dottore», gridò Barrois, «ecco che il male mi riprende! Mio
Dio, Signore, abbiate pietà di me!»
Il dottore corse dal malato.
«Questo emetico, Villefort, guardate se arriva.»
Villefort si lanciò fuori gridando: «L’emetico! L’emetico! L’hanno
portato?»
Nessuno rispose. Il più profondo terrore regnava nella casa.
«Se potessi soffiargli dell’aria nei polmoni», disse d’Avrigny,
guardandosi intorno, «sarei in grado di prevenire l’asfissia. Ma no!
Niente! Niente!»
«Ah, signore», gridava Barrois, «mi lascerete morire senza soccorso?
Oh, io muoio! Mio Dio, io muoio!»
«Una penna! Una penna!» gridò il dottore.
Ne afferrò una sulla tavola, e tentò d’introdurla nella gola del
malato, che si contorceva, ma le mascelle erano talmente serrate,
che la penna non poté passarvi. Barrois, in preda a un attacco
nervoso anche più intenso del primo, era scivolato giù dal sofà, e
si contorceva sul pavimento. Il dottore lo lasciò in preda a questo
accesso, al quale non poteva portare sollievo, e ritornò da
Noirtier.
«Come vi sentite voi?» gli domandò precipitosamente e sotto voce.
«Bene?»
«Sì.»
«Leggero di stomaco, o pesante? Leggero?»
«Sì.»
«È stato Barrois a fare la vostra limonata?»
«Sì.»
«L’avete sollecitato voi a berne? È stato il signor Villefort?»
«No.»
«La signora?»
«No.»
«Fu dunque Valentine, allora?»
«Sì.»
Un sospiro di Barrois, uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare le
ossa della mascella, richiamarono l’attenzione di d’Avrigny; lasciò
il signor Noirtier, e corse dal malato.
«Barrois», disse il dottore, «potete parlare?»
Barrois balbettò qualche parola inintelligibile.
«Fate uno sforzo, amico mio.»
Barrois riaprì gli occhi.
«Chi ha fatto la limonata?»
«Io.»
«L’avete portata subito al vostro padrone, dopo averla fatta?»
«No.»
«L’avete lasciata da qualche parte allora?»
«Nella credenza; fui chiamato.»
«Chi la portò qui?»
«La signorina Valentine.»
D’Avrigny si batté la fronte.
«Oh, mio Dio, mio Dio!» mormorò egli.
«Dottore!» gridò Barrois, che sentiva avvicinarsi un terzo attacco.
«Dov’è questo emetico?» gridò il dottore.
«Eccone un bicchiere già preparato», disse Villefort rientrando.
«Da chi?»
«Dal giovane della farmacia che è venuto con me.»
«Bevete.»
«Impossibile, dottore, è troppo tardi; ho la gola che si restringe!
Oh, il mio cuore! Oh, la mia testa!… Oh, quale inferno!… E dovrò
soffrire a lungo così?»
«No, no, amico mio», disse il dottore, «ben presto non soffrirete
più.»
«Vi capisco! Mio Dio, abbiate pietà di me!»
E, gettando un grido, cadde, come se fosse stato colpito da un
fulmine. D’Avrigny gli mise una mano sul cuore, e avvicinò uno
specchio alle labbra.
«Ebbene?» domandò Villefort.
«Andate a dire in cucina di portarmi subito dello sciroppo di
viole.»
Villefort scese immediatamente.
«Non vi spaventate, signor Noirtier», disse d’Avrigny. «Trasporto il
malato in un’altra camera, per cavargli del sangue; davvero questa
sorta d’accessi sono un triste spettacolo a vedersi.»
E, prendendo Barrois sotto le braccia, lo trascinò in una camera
vicina, ma subito dopo rientrò dal signor Noirtier per prendere il
resto della limonata. Noirtier chiuse l’occhio diritto.
«Valentine, è vero? Voi volete Valentine? Ordino subito che ve la
mandino.»
Villefort risaliva; d’Avrigny lo incontrò nel corridoio.
«Ebbene?» domandò Villefort.
«Venite», disse d’Avrigny.
E lo condusse nella camera.
«Sempre svenuto?» domandò il regio procuratore.
«Morto!»
Villefort indietreggiò due o tre passi, e si congiunse le mani sopra
della testa, con una commiserazione non equivoca.
«Morto così all’improvviso?» domandò, guardando il cadavere.
«Sì, all’improvviso, è vero?» annuì d’Avrigny. «Ma ciò non deve
sorprendere: il signore e la signora di Saint-Méran sono morti essi
pure così in fretta. Si muore alla spiccia in casa vostra, signor
Villefort.»
«Cosa?» gridò il magistrato, con accento d’orrore e di
costernazione. «Voi ritornate alla vostra terribile idea?»
«Sempre, signore, sempre», dichiarò d’Avrigny con solennità, «perché
essa non mi ha abbandonato un istante… E perché siate ben convinto
che questa volta non mi inganno ascoltatemi bene, signor Villefort.»
Villefort tremava terribilmente.
«C’è un veleno che ammazza senza quasi lasciare traccia. Io lo
conosco, l’ho studiato in tutti gli incidenti, in tutti i fenomeni
che produce. Questo veleno l’ho riconosciuto poco fa nel povero
Barrois, come già prima nella signora di Saint-Méran. C’è un modo
per riconoscerne la presenza: ridona il colore azzurro alla carta di
tornasole arrossata con un acido, e tinge di verde lo sciroppo di
violette. Non abbiamo la carta di tornasole, ma adesso porteranno lo
sciroppo di violette che ho ordinato.»
Infatti si udivano dei passi nel corridoio: il dottore socchiuse la
porta, prese dalle mani della cameriera un vaso, nel fondo del quale
vi erano due o tre cucchiai di sciroppo, e richiuse la porta.
«Guardate», disse al regio procuratore, a cui il cuore batteva
fortemente, «ecco in questa tazza lo sciroppo di violette, e in
questa bottiglia il rimanente della limonata che hanno bevuto
Noirtier e Barrois. Se la limonata è pura e inoffensiva, lo sciroppo
conserverà il suo colore, se la limonata è avvelenata, lo sciroppo
deve diventar verde. Osservate!»
Il dottore versò lentamente qualche goccia di limonata nella tazza,
e si vide nello stesso istante formarsi sul fondo un cambiamento di
colore da prima azzurro, poi zaffiro, poi opale, indi smeraldo;
l’esperimento non lasciava più alcun dubbio.
«L’infelice Barrois è stato avvelenato con la falsa angostura, o con
la noce di Sant’Ignazio», disse d’Avrigny. «Ora lo affermerei
davanti agli uomini e davanti a Dio.»
Villefort, muto, alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti,
e cadde sopra una sedia.
79. L’accusa
Il dottore sollevò ben presto il magistrato dal suo grave
abbattimento: era tale il pallore del suo viso, da farlo parere un
altro cadavere, in quella funebre stanza.
«La morte è nella mia casa!» gridò Villefort.
«Sarebbe meglio dire il delitto!» ribatté il dottore.
«Signor d’Avrigny», proruppe ad alta voce Villefort, «io non riesco
a esprimervi tutto ciò che provo in me in questo momento: spavento,
dolore, follia.»
«Sì», disse il signor d’Avrigny, con una calma imponente, «ma credo
che sia il tempo di agire, credo che sia tempo di mettere un argine
a questo torrente di mortalità. In quanto a me, non mi sento capace
di portare più a lungo un tale segreto senza la speranza di averne
giustizia, a soddisfazione della società intera e delle vittime.»
«In casa mia», mormorò Villefort, «in casa mia?!»
«Riflettiamo, magistrato», riprese d’Avrigny, «siate uomo!
Interprete della legge! Onoratevi con un reale sacrificio!»
«Sacrificarmi!? Che dite? Dunque i vostri sospetti cadono su
qualcuno… Mi fate tremare, dottore.»
«Non ho alcun sospetto, ma la morte batte alla vostra porta, non
entra cieca, ma intelligente, passa di camera in camera… Ebbene, io
seguo le sue tracce, riconosco il suo passaggio… Adotto la saggezza
degli antichi, vado a tastoni, perché la mia amicizia per la vostra
famiglia, il rispetto per voi sono come due bende che porto agli
occhi… Ebbene…»
«Parlate, parlate, dottore, avrò coraggio.»
«Ebbene, signore, in casa vostra, nel seno forse della vostra
famiglia accade uno di quegli orribili e misteriosi fenomeni che
sono accaduti anche nella storia… Locusta5 e Agrippina, perché
vivevano nel medesimo tempo, erano un’eccezione che provava l’ira
del destino contro l’impero romano, lordato da tanti delitti.
Brunechilde e Fredegonda sono i risultati del lavoro penoso di un
incivilimento alla sua genesi, nel quale l’uomo impara ad assopire
lo spirito, fosse pure per inviarlo alle tenebre. Ebbene, tutte
queste donne erano giovani e belle: sulla loro fronte era impresso
lo stesso fiore d’innocenza che sta sulla fronte della colpevole che
è in casa vostra.»
Villefort mandò un grido, congiunse la mani, e guardò il dottore con
un gesto supplichevole. Questi continuò senza interrompersi: «Bada a
chi è utile il delitto, dice un assioma di giurisprudenza».
«Dottore», gridò Villefort, «ahimè, dottore, quante volte la
giustizia degli uomini si è ingannata su queste funebri parole! Io
non so, ma mi sembra che questo delitto…»
«Lo confessate, dunque, finalmente che c’è un delitto?»
«Sì, lo riconosco, ma lasciatemi continuare: mi sembra, dicevo, che
questo delitto cada soltanto sopra di me, e non sulle vittime. Io
prevedo qualche sciagura, sotto tutti questi strani eventi.»
«Oh, uomo», mormorò d’Avrigny, «che ti mostri il più egoista di
tutti gli animali, che puoi credere che sempre soltanto per te giri
la terra, brilli il sole, e si affatichi la morte, formica che
mormora della provvidenza dall’alto di un filo d’erba! E quelli che
hanno perduto la vita non hanno pure perduto qualche cosa? Il
signore di Saint-Méran, la signora di Saint-Méran, il signor
Noirtier…»
«Come, il signor Noirtier…»
«Sì, credete voi, per esempio, che abbiano voluto uccidere questo
disgraziato servitore? No, no… come il Polonio di Shakespeare, egli
è morto per un altro, perché era il signor Noirtier che doveva bere
la limonata, è Noirtier che l’ha bevuta secondo l’ordine logico
delle cose… L’altro non l’ha bevuta che per coincidenza e, sebbene
sia stato Barrois quello che è morto, pure era Noirtier quello che
doveva morire.»
«Ma allora come è che mio padre non ha sofferto!?»
«Ve l’ho già detto una sera, in giardino, dopo la morte della
signora di Saint-Méran: perché il suo corpo è divenuto quasi uno
stesso veleno, perché la dose per lui insignificante, era mortale
per un altro, perché infine nessuno sa, e neppure l’assassino, che
da un anno io curo con la brucina la paralisi del signor Noirtier,
mentre l’assassino non ignora, e se ne è assicurato con
l’esperienza, che la brucina è un veleno terribile.»
«Mio Dio, mio Dio!» mormorò Villefort, stringendosi nelle braccia.
«Seguite i passi del colpevole: esso uccide il signor di
Saint-Méran…»
«Dottore?»
«Ci giurerei, ciò che mi è stato detto dei sintomi si accorda troppo
bene con ciò che ho visto io stesso coi miei propri occhi.»
Villefort cessò di fare obiezioni, e mandò un gemito.
«Uccide il signore di Saint-Méran», ripeté il dottore, «uccide la
signora di Saint-Méran: doppia eredità da raccogliere.»
Villefort asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte.
«Ascoltate bene.»
«Non perdo neppure una parola», balbettò Villefort.
«Il signor Noirtier», continuò con la sua voce implacabile il signor
d’Avrigny, «il signor Noirtier aveva non da molto fatto un
testamento contro di voi, contro la vostra famiglia, in favore dei
poveri: il signor Noirtier viene risparmiato perché nulla si spera
da lui. Ma ha appena distrutto il suo primo testamento, e fatto un
secondo, che per timore che si penta e ne faccia un terzo, è
assalito: il testamento fu fatto ieri l’altro, io credo: voi lo
vedete, non hanno perduto tempo.»
«Oh, grazia, signor d’Avrigny.»
«Nessuna grazia, signore! Il medico ha una missione sacra sulla
terra, e, per adempiere a tale missione, risale fino alle sorgenti
della vita, e discende nelle misteriose tenebre della morte. Quando
il delitto è stato commesso, e Dio, sdegnato senza dubbio, rivolge
il suo sguardo sul delinquente, spetta al medico denunciarlo.»
«Grazia per mia figlia, signore», gemette Villefort.
«Voi stesso l’avete nominata, voi, suo padre!»
«Grazia per Valentine! Sentite, è impossibile! Preferirei accusare
me stesso! Valentine, un cuore di diamante, un giglio d’innocenza!»
«Nessuna grazia, signor regio procuratore! Il delitto è flagrante.
La signorina Villefort ha impacchettato con le sue mani i
medicamenti che furono inviati al signor di Saint-Méran, e il signor
di Saint-Méran è morto. La signorina Villefort ha preparato
l’aranciata alla signora di Saint-Méran, e la signora di Saint-Méran
è morta. La signorina Villefort ha preso dalle mani di Barrois, che
fu mandato fuori, la bottiglia di limonata che il vecchio di solito
beve la mattina, e il vecchio non è sfuggito che per un miracolo. La
signorina Villefort è la colpevole, è l’avvelenatrice! Signor regio
procuratore, io vi denuncio la signorina Villefort! Fate il vostro
dovere!»
«Dottore, io non resisto più, non mi difendo più, vi credo, ma per
pietà, risparmiate la mia vita, il mio onore!»
«Signor Villefort», riprese il dottore con forza crescente, «vi sono
circostanze che oltrepassano tutti i limiti della sciocca
circospezione umana. Se vostra figlia avesse commesso soltanto un
primo delitto, e la vedessi meditarne un secondo, vi direi:
“Avvertitela, punitela, che ella passi il resto della sua vita in un
ritiro, in un convento a piangere e pregare”. Se avesse commesso un
secondo delitto, vi direi: “Prendete, signor Villefort, ecco un
veleno ignoto all’avvelenatrice, un veleno di cui non si conosce
alcun antidoto, pronto come il pensiero, rapido come il lampo,
mortale come il fulmine; datele questo veleno, raccomandate la sua
anima a Dio, e salvate così il vostro onore e i vostri giorni,
perché ora sta a voi divenire la vittima, e io la vedo avvicinarsi
al vostro capezzale coi suoi sorrisi ipocriti e le sue dolci
esortazioni. Voi, infelice signor Villefort, se non siete il primo a
colpire!” Ecco che cosa vi direi se non avesse ucciso che due
persone; ma lei ha visto l’agonia di tre, ha contemplato tre
moribondi, si è inginocchiata vicino a tre cadaveri: al patibolo
l’avvelenatrice! Al patibolo! Voi parlate del vostro onore? Fate ciò
che vi dico, e l’immortalità vi aspetta.»
Villefort cadde in ginocchio.
«Aspettate», supplicò, «io non ho la forza che avete voi, o
piuttosto che neppure voi avreste, se invece di mia figlia
Valentine, si trattasse di vostra figlia Madeleine.»
Il dottore impallidì.
«Dottore, ogni uomo è figlio di donna, è nato per soffrire e morire;
io soffrirò e aspetterò la morte.»
«Guardatemi», disse il signor d’Avrigny, «sarà lenta… questa morte…
Voi la vedrete avvicinarsi dopo che avrà colpito vostro padre,
vostra moglie, e forse vostro figlio anche…»
Villefort, soffocando, strinse il braccio del dottore.
«Ascoltatemi!» gridò. «Compiangetemi, soccorretemi. No, mia figlia
non è colpevole. Trascinatela davanti a un tribunale, io dirò
sempre: “No, mia figlia non è colpevole”. Non vi è delitto in casa
mia; perché quando il delitto entra da qualche parte, è come la
morte: non entra mai solo. Ascoltate, che importa a voi che io muoia
assassinato?… No, voi siete un medico!… Ebbene, io ve lo dico: no,
mia figlia non sarà trascinata da me nelle mani del carnefice!
Quest’idea mi divora, mi spinge come un insensato a lacerarmi il
petto con le unghie!… E se voi v’ingannaste, dottore? Se fosse altri
invece di mia figlia?… Se un giorno io venissi pallido come uno
spettro a dirvi: “Assassino! Tu hai ucciso mia figlia!” Vedete, se
ciò accadesse, io sono cristiano, signor d’Avrigny, e ciò nonostante
mi ucciderei!»
«Va bene», disse il dottore, dopo un istante di silenzio,
«aspetterò.»
Villefort lo guardò come se dubitasse ancora delle sue parole.
«Soltanto», continuò d’Avrigny, con voce lenta e solenne, «se
qualcuno della vostra casa si ammalasse, se voi stesso vi sentiste
male, non mi chiamate, perché io non verrò più. Io dividerò con voi
questo segreto terribile… ma non voglio che la vergogna e i rimorsi
vadano fruttificando e ingrandendo nella mia coscienza, come il
delitto e l’infelicità si ingrandiranno e fruttificheranno nella
vostra casa.»
«E così, dottore, voi mi abbandonate?»
«Sì, perché non posso seguirvi più oltre, e mi fermo ai piedi del
patibolo. Verrà qualche altra rivelazione a mettere fine a questa
terribile tragedia. Addio.»
«Dottore, vi supplico!»
«Tutti gli orrori che turbano la mia mente mi rendono la vostra casa
odiosa e inospitale. Addio, signore.»
«Una parola, una parola sola ancora, dottore! Voi mi lasciate in
tutto l’orrore della situazione, orrore che avete accresciuto con la
rivelazione fattami… Ma che si dirà della morte istantanea di questo
povero vecchio servitore?»
«È vero», disse d’Avrigny, «accompagnatemi.»
Il dottore uscì per primo, seguito dal signor Villefort; i domestici
inquieti erano nel corridoio e sulle scale dove doveva passare il
medico.
«Signore», disse d’Avrigny a Villefort, parlando ad alta voce e in
modo che lo udissero tutti, «il povero Barrois era da qualche anno
troppo sedentario. Abituato in altri tempi a correre col suo
padrone, a cavallo o in carrozza per tutta l’Europa, questo servizio
monotono, intorno a una poltroncina, gli è stato fatale. Il sangue è
divenuto pesante, era pingue, aveva il collo grosso e corto, è stato
colpito da un’apoplessia fulminante, e io sono stato avvertito
troppo tardi… A proposito», aggiunse poi a bassa voce, «abbiate cura
di gettare nelle ceneri quella tazza con lo sciroppo di violette.»
Il dottore senza stringere la mano di Villefort, senza tornare un
istante su ciò che aveva detto, uscì accompagnato dalle lacrime e
dai lamenti di tutte le persone di casa. La sera stessa, tutti i
domestici di Villefort che erano radunati in cucina, e che avevano a
lungo parlato fra di loro, vennero a domandare alla signora
Villefort il permesso di ritirarsi dal servizio. Nessuna istanza,
nessuna proposta di aumento di paga poté trattenerli: a tutte le
parole rispondevano: «Noi vogliamo andarcene, perché la morte è
entrata nella casa».
Partirono dunque, malgrado le preghiere, testimoniando vivissimo
dispiacere per dovere abbandonare così buoni padroni, e
particolarmente la signorina Valentine, tanto buona, benefica e
affabile. Villefort, a queste parole, guardò Valentine: piangeva,
cosa strana! In mezzo all’emozione che gli fecero provare quelle
lacrime, guardò anche la signora Villefort, e gli sembrò vederle
passare sulle labbra sottili un sorriso fuggitivo e sinistro, come
quelle meteore che si vedono strisciare, funeste, fra due nubi nel
fondo di un cielo tempestoso.
80. La stanza del fornaio in pensione
La sera stessa del giorno durante il quale il conte Morcerf era
uscito da Danglars con l’animo colmo di vergogna e furore per il
rifiuto del banchiere, il signor Andrea Cavalcanti, coi capelli
arricciati e lucenti, i baffi arricciati, i guanti bianchi, era
entrato, quasi in piedi sul suo carrozzino, nel cortile del
banchiere della Chaussée d’Antin.
Nel giro di dieci minuti di presentazione nel salone, aveva trovato
il mezzo di isolare Danglars nel vano di una finestra, e là, dopo un
astuto preambolo, gli aveva esposto i tormenti della sua vita dopo
la partenza del suo nobile padre. Dopo questa partenza, diceva che
nella famiglia del banchiere, ove era stato ricevuto come un figlio,
aveva trovato tutte le garanzie di felicità, a cui deve sempre
badare l’uomo prima che al capriccio della passione, e in quanto
alla passione stessa aveva avuto la felicità di trovarla nei begli
occhi della signorina Danglars.
Danglars lo ascoltava con la più profonda attenzione; erano già due
o tre giorni che aspettava questa dichiarazione, e quando finalmente
giunse, l’occhio gli si dilatò, quanto si era corrugato ascoltando
Morcerf. Non volle peraltro accogliere la proposta del giovane,
senza fare qualche osservazione coscienziosa.
«Signor Andrea», gli disse, «non siete ancora un po’ troppo giovane
per pensare ad ammogliarvi?»
«Oh no, signore», riprese Cavalcanti, «almeno non lo credo, poiché
in Italia i gran signori, in generale, si sposano giovani; questa è
un’abitudine logica: la vita è così piena di tribolazioni, che
bisogna afferrare la fortuna appena capita.»
«Però, signore», obiettò Danglars, «ammettendo che le vostre
proposte, per me onorevoli, siano gradite a mia moglie e a mia
figlia, con chi dovremo noi trattare le questioni d’interesse?
Questo mi sembra un affare importante, che i soli padri sanno
convenientemente trattare per la felicità dei loro figli.»
«Signore, mio padre è uomo saggio, pieno di prudenza e di senno; ha
previsto ch’io potessi provare il desiderio di stabilirmi in
Francia, per cui partendo, mi ha lasciato tutte le carte concernenti
la mia persona, e una lettera, con la quale mi assicura, nel caso
che io faccia una scelta che gli sia gradita, centocinquantamila
lire di rendita dal giorno del mio matrimonio. Da quanto posso
giudicare, è il quarto delle rendite di mio padre.»
«Ma», disse Danglars, «io ho sempre avuto intenzione di dare a mia
figlia cinquecentomila franchi, maritandola: lei è inoltre l’unica
mia erede.»
«Benissimo!» approvò Andrea. «Le cose vanno per il meglio,
supponendo che la mia domanda non sia respinta dalla baronessa
Danglars e dalla signorina Eugénie: eccoci a un totale di
centosettantacinquemila lire di rendita. Supponiamo che ottenga dal
marchese, invece di pagarmi la rendita, di cedermi il capitale (cosa
che non sarà facile, lo so bene, ma neppure impossibile), voi farete
fruttare questi due o tre milioni, e due o tre milioni, fra le
vostre abili mani, possono sempre produrre il dieci percento.»
«Io non prendo mai più del quattro», dichiarò il banchiere, «e anche
il tre e mezzo. Ma per mio genero prenderò il cinque, e poi
divideremo gli utili.»
«Ebbene, a meraviglia, suocero», disse Cavalcanti, lasciandosi
trasportare alquanto da quella volgare natura, che, malgrado i suoi
sforzi, faceva spesso oscurare la vernice aristocratica con cui
cercava di coprirla.
Ma ricomponendosi riprese: «Mi scusi, signore, la sola speranza mi
rende quasi pazzo… Cosa dovremo fare, dunque?»
«Ma», rispose Danglars, che non si accorgeva come questo colloquio,
disinteressato sulle prime, si riduceva di colpo a una questione
d’affari, «vi è senza dubbio una porzione del vostro patrimonio che
vostro padre non può rifiutarvi?»
«E quale?» domandò il giovane.
«Quella che proviene da vostra madre.»
«Certamente, quella che viene da mia madre Oliva Corsinari.»
«E a quanto può ammontare?»
«È vero», riconobbe Andrea, «vi assicuro, signore, che non ci ho mai
pensato… Stimo che possa esser di due milioni…»
Danglars sentì quella specie di soffocamento inebriante che prova
l’avaro trovando il tesoro perduto, o l’uomo vicino ad annegarsi
toccando sotto i piedi la terra solida, invece del vuoto nel quale
stava per essere ingoiato.
«Ebbene, signore», riprese Andrea, salutando il banchiere con tenero
rispetto, «posso sperare?»
«Signor Andrea», disse Danglars, «sperate, e siate certo che se
nessun ostacolo da parte vostra arresta l’andamento di questo
affare, si può ritenere concluso.»
«Voi mi colmate di gioia, signore!» esclamò Andrea.
«Ma», osservò Danglars riflettendo, «come mai il conte di
Montecristo, vostro protettore nel bel mondo parigino, non è venuto
con voi a farmi questa domanda?»
«Vengo appunto da casa del conte», rispose Andrea, arrossendo
impercettibilmente. «È un uomo cortese, ma molto originale. Ha
approvato tutto. Mi ha detto anzi di non credere che mio padre
avrebbe esitato a darmi il capitale invece della rendita, e mi ha
promesso la sua influenza per ottenerlo da lui… Ma ha dichiarato che
personalmente non aveva mai preso, e non prenderebbe mai sopra di sé
la responsabilità di fare una domanda di matrimonio. Ma debbo
rendergli giustizia: si è degnato di aggiungere che se aveva mai
deplorato questa occasione, era per una promessa fatta a se stesso,
poiché pensava che la progettata unione sarebbe stata felice e bene
assortita. Del resto, se non vuol fare passi ufficialmente, si
riserva di risponderne, mi ha detto, quando gli parlerete voi.»
«Benissimo.»
«Ora», riprese Andrea col suo grazioso sorriso, «ho finito di
parlare al suocero, e mi rivolgo al banchiere.»
«Che volete da lui, vediamo?» disse Danglars, ridendo anch’egli.
«Dopodomani devo riscuotere qualche cosa, un quattromila franchi da
voi, ma il conte ha capito che il mese prossimo comporterà forse più
spese per le quali non sarebbe sufficiente la mia piccola rendita da
celibe ed ecco un assegno di ventimila franchi, che mi ha, non dirò
regalato, ma offerto. È firmato di sua mano, come vedete… Vi va?»
«Portatemene un milione, e li accetterò sempre», replicò Danglars
mettendoselo in tasca. «Ditemi a che ora preferite domani, e il mio
giovane di cassa passerà da voi con l’ammontare di ventimila
franchi.»
«Alle dieci di mattina, se vi va bene; se però si potesse prima,
sarebbe meglio… Domani vorrei andare in campagna.»
«Vada per le dieci. Siete sempre all’Hôtel des Princes?»
«Sì.»
All’indomani, con un’esattezza che faceva onore alla puntualità del
banchiere, i ventiquattromila franchi erano dal giovane, il quale
uscì poi effettivamente, lasciando al portiere duecento franchi per
Caderousse. Scopo di quella partenza, da parte di Andrea, era
principalmente quello di evitare il suo pericoloso amico; per cui
rientrò la sera il più tardi possibile. Ma appena messo piede sul
lastricato del cortile, si ritrovò davanti il portinaio
dell’albergo, che lo aspettava col berretto in mano.
«Signore», diss’egli, «è venuto quell’uomo.»
«Che uomo?» domandò noncurante Andrea, come se avesse dimenticato
colui che, al contrario, ricordava benissimo.
«Quello a cui vostra eccellenza ha fatto quel piccolo assegno.»
«Ah sì», disse Andrea, «quel vecchio servitore di mio padre. Ebbene,
gli avete dato i duecento franchi che vi ho lasciato?»
«Sì, eccellenza.»
Andrea si faceva chiamare eccellenza.
«Ma», continuò il portinaio, «non ha voluto prenderli.»
Andrea impallidì.
«Come, non ha voluto prenderli?» ribatté con voce alterata.
«No, voleva parlare con vostra eccellenza. Ho risposto che eravate
uscito, ha insistito, ma finalmente è parso convinto, e mi ha dato
questa lettera che portava con sé sigillata.»
«Vediamo», disse Andrea.
E lesse al chiarore del fanale del carrozzino: «Tu sai dove abito,
domani ti aspetto alle nove di mattina».
Andrea guardò il sigillo per vedere se era stato forzato, e se
sguardi indiscreti avevano potuto penetrare all’interno della
lettera, ma era piegata con tal lusso di pieghe e di angoli, che per
leggerla bisognava romperne il sigillo, e questo era perfettamente
intatto.
«Benissimo», commentò. «Pover’uomo! È una bravissima persona.»
E lasciò il portinaio edificato da quelle parole, non sapendo chi
dovesse ammirare di più, se il giovane padrone o il vecchio
servitore.
«Fate presto e salite da me», ordinò Andrea al valletto.
E in due salti il giovane fu nella sua camera, bruciò la lettera di
Caderousse, di cui fece scomparire perfino le ceneri. Terminava
quest’operazione all’entrare del domestico.
«Tu sei della mia stessa corporatura, Pierre», gli disse.
«Ho quest’onore, eccellenza», rispose il servitore.
«Devi avere un’altra livrea nuova che ti fu portata ieri.»
«Sì, signore.»
«Ho alcune cosucce da sbrigare con una signorina alla quale non
posso dire né il mio nome, né la mia condizione; prestami la tua
livrea, e dammi pure i tuoi documenti, affinché io possa, se
necessario, dormire in qualche albergo.»
Pierre obbedì.
Cinque minuti dopo, Andrea completamente travestito, prendeva un
calessino e si faceva condurre all’albergo del Cheval Rouge a
Picpus. Il giorno dopo uscì dall’albergo del Cheval Rouge come era
partito dall’Hôtel des Princes, vale a dire senza essere notato;
discese il Faubourg Saint-Antoine, seguì il boulevard fino a rue
Ménilmontant, e fermandosi alla porta della terza casa a sinistra,
si fermò a riflettere, in mancanza di portinaio, da chi dovesse
prendere informazioni.
«Che cosa cercate, mio bel giovanotto?» domandò la fruttivendola di
fronte.
«Il signor Pailletin, per favore», rispose Andrea.
«Il fornaio in pensione?» domandò la fruttivendola.
«Precisamente.»
«In fondo al cortile, a sinistra, terzo piano.»
Andrea prese la strada indicata, e al terzo piano trovò una zampa di
lepre, che tirò a sé di cattivo umore, in modo che di quel gesto
affrettato ne risentì lo stesso campanello. Un momento dopo, dietro
la griglia dello spioncino, comparve il volto di Caderousse.
«Sei puntuale», disse.
E così dicendo tolse i catenacci.
«Eccomi!» disse Andrea entrando.
Buttò davanti a sé il berretto da livrea, che non essendovi sedie,
cadde a terra, facendo il giro della camera rotoloni su se stesso.
«Su», disse Caderousse, «non t’inquietare, piccino mio, guarda un
po’ che colazione avremo: nientemeno che tutte cose che ti
piacciono.»
Andrea sentì infatti, annusando, un odore di cucina, i cui
grossolani aromi non mancavano di una certa attrattiva per uno
stomaco affamato: era la mescolanza dello strutto e dell’aglio, che
distinguono la cucina provenzale di classe inferiore, e soprattutto
l’aspro profumo della noce moscata e del garofano. Tutto ciò esalava
da due piatti pieni e coperti, posti sopra due fornelli, e da una
casseruola che arrostiva nel forno da campagna.
Nella stanza vicina, Andrea vide inoltre una tavola pulitissima,
preparata con due piatti, due bottiglie di vino sigillato, una buona
dose di acquavite in una bottiglia, e una fruttiera a forma di
foglia di cavolo, posta con arte sopra una salvietta pulita.
«Che te ne sembra, mio piccino?» domandò Caderousse. «Che odore
balsamico! Tu lo sai bene, laggiù ero cuoco: ti ricordi come si
leccavano le dita alla mia cucina? E tu per primo ne hai gustati dei
miei intingoli, e non li disprezzavi, credo…»
E si mise a preparare un supplemento di cipolle.
«Va bene, va bene», rispose Andrea, di malumore. «Se mi hai
scomodato solo perché venissi a far colazione con te, che il diavolo
ti porti!»
«Figlio mio», sentenziò Caderousse, «mangiando si parla; e poi,
ingrato che sei! Non ti fa dunque piacere vedere un po’ il tuo
amico? Io piango di felicità.»
Caderousse infatti piangeva realmente; benché fosse difficile dire
se la leggera irritazione alla ghiandola lacrimale dell’antico
albergatore del Ponte di Gard fosse cagionata dalla gioia o dalle
cipolle.
«Taci dunque, ipocrita!» esclamò Andrea. «Sei mio amico?»
«Sì, io sono tuo amico, o il diavolo mi porti! È una debolezza»,
disse Caderousse, «lo so bene, ma è più forte di me.»
«Eppure mi hai certamente fatto venir qui per qualche perfidia.»
«Suvvia», disse Caderousse, asciugando nel grembiule un grosso
coltello. «Se non t’amassi, sopporterei forse la vita miserabile che
mi fai fare? Guarda un po’, tu hai sulle spalle l’abito del tuo
domestico, dunque hai un domestico, io non ne ho, e sono costretto a
pulirmi i legumi da solo; tu disprezzi la mia cucina, perché pranzi,
o alla tavola rotonda, o all’Hôtel des Princes, o al Café de Paris.
Ebbene, io pure potrei avere domestico e calesse, io pure potrei
pranzare dove volessi… Perché dunque me ne privo? Per non farti
dispiacere, mio piccolo Benedetto. Parla, confessa soltanto che lo
potrei…»
E un’occhiata significativa di Caderousse terminò il senso della
frase.
«Allora», riprese Andrea, «ammettiamo che tu mi voglia bene: perché
esigi che io venga a far colazione con te?»
«Ma per vederti, piccino mio.»
«Per vedermi? E a che serve, se abbiamo fissato in precedenza le
nostre condizioni?»
«Caro amico», riprese Caderousse, «ci sono forse testamenti senza
codicilli? Ma tu sei venuto innanzitutto per far colazione, non è
vero? Su, via, sediamoci, e cominciamo con queste alici e questo
burro fresco, che ho messo sopra foglie di vite espressamente per
te. Sì, tu guardi la mia camera, le mie quattro sedie di paglia, le
mie stampe da tre franchi l’una, compresa la cornice. Non siamo mica
all’Hôtel des Princes…»
«Tu ti sei già stufato della tua situazione e non sei più contento,
tu che domandavi soltanto di sembrare un fornaio in pensione…»
Caderousse sospirò.
«Ebbene, che hai da dirmi? Il tuo sogno si è avverato, e sei già
deluso?»
«È ancora un sogno: un fornaio in pensione, mio povero Benedetto, è
ricco, cioè ha rendite.»
«Tu hai delle rendite!»
«Io?»
«Sì, tu, poiché ti ho assegnato duecento franchi al mese.»
Caderousse si strinse nelle spalle.
«È una umiliazione» disse, «ricevere in tal modo del denaro dato di
malavoglia, del denaro effimero, che può mancare da un giorno
all’altro. Poi devi ben capire che sono costretto a fare qualche
risparmio, nel caso in cui la tua fortuna non durasse. Eh, amico
mio, la fortuna è incostante, come diceva l’elemosiniere del…
reggimento. Io so bene, scellerato, che la tua ricchezza è immensa:
tu stai per sposare la figlia di Danglars!»
«Come, Danglars?»
«Esatto, di Danglars! Vi è forse bisogno che io specifichi del
barone Danglars? Sarebbe lo stesso che dicessi del conte Benedetto…
Era mio amico Danglars, e se non avesse avuto la memoria così
debole, avrebbe dovuto invitarmi alle sue nozze, visto che è venuto
alle mie… Sì, sì, sì, alle mie, diavolo! Non era così superbo a quei
tempi, quando era contabile presso il buon signor Morrel. Ho
pranzato più d’una volta con lui e col conte Morcerf… Come ben vedi,
ho straordinarie conoscenze, e se volessi coltivarle un po’, ci
potremmo incontrare nelle stesse compagnie.»
«Suvvia! La tua gelosia ti fa vedere lucciole per lanterne,
Caderousse.»
«Come vuoi, Benedetto mio, so quel che dico. Forse un giorno potrò
mettermi l’abito della festa, e presentarmi a palazzo dicendo: “Una
decorazione, per favore!” Intanto, siedi e mangiamo.»
Caderousse dette l’esempio, e si mise a far colazione con buon
appetito, mentre faceva l’elogio di tutte le vivande che metteva in
tavola davanti al suo ospite. Questi sembrava aver preso la sua
decisione, aprì le bottiglie, e attaccò la carne arrostita e il
merluzzo condito con aglio e olio.
«Compare», riprese Caderousse, «sembra che ti stai riconciliando col
tuo antico padrone di locanda, eh?»
«In fede mia, sì», rispose Andrea, che giovane e vigoroso com’era,
si lasciava sempre vincere dall’appetito.
«E ti piace, birbante?»
«È così buono che non capisco come un uomo che cucina e mangia così
buoni bocconi possa pensare che la vita è cattiva.»
«Vedi?» disse Caderousse. «È perché tutta la mia felicità è guastata
da un solo pensiero.»
«E quale?»
«Quello di vivere alle spese di un amico, io che mi sono sempre
guadagnato la mia esistenza da solo.»
«Non dartene pensiero», lo calmò Andrea, «ne ho abbastanza per due,
non ti preoccupare.»
«No, davvero! Sei padrone di non credermi, ma alla fine d’ogni mese
provo dei rimorsi.»
«Buon Caderousse!»
«Al punto che ieri non ho voluto prendere i duecento franchi.»
«Sì, perché tu volevi parlare con me… Ma fu veramente il rimorso?»
«Vero rimorso… E poi mi era venuta un’idea…»
Andrea tremò; tremava sempre quando venivano idee a Caderousse.
«È una cosa triste, vedi», continuò questi, «quella di dover sempre
aspettare la fine del mese.»
«Eh!» disse filosoficamente Andrea, deciso a far parlare il suo
amico. «Forse non passiamo la vita sempre aspettando? Faccio forse
altro io! Eppure ho pazienza, non è vero?»
«Sì, perché invece di aspettare duecento miserabili franchi, ne
aspetti cinque o seimila, fors’anche diecimila, perché sei un
individuo misterioso… Laggiù avevi sempre qualche cosuccia che
cercavi di nascondere a questo povero amico Caderousse…
Fortunatamente, l’amico Caderousse di cui si parla, aveva il naso
fino.»
«Suvvia, ecco che ti metti di nuovo a cambiar discorso», disse
Andrea, «a parlare e riparlare sempre del passato… Ma a che pro
rivangare certe cose?»
«Perché, se tu, che hai ventun anni, puoi dimenticare il passato, io
però, che ne ho cinquanta, sono costretto a ricordarmene… Ma, non
importa ritorniamo agli affari…»
«Sì.»
«Io volevo dire che se fossi in te…»
«Ebbene?»
«Realizzerei…»
«Come, realizzeresti…?»
«Sì, domanderei un semestre anticipato, con il pretesto di diventare
deputato, o di voler comprare una fattoria, poi col mio semestre me
ne scapperei.»
«Ma guarda!» esclamò Andrea. «Non è una brutta pensata.»
«Mio caro amico», aggiunse Caderousse, «mangia alla mia cucina, e
segui i miei consigli! Non te ne verrà male, né al fisico, né al
morale.»
«Benissimo», commentò Andrea. «Ma perché non seguire tu stesso il
consiglio che mi dai? Perché non realizzare un semestre, o anche un
anno, e ritirarti a Bruxelles? Invece di passare per un fornaio in
pensione, sembreresti un fallito sfuggito ai creditori: è ben
pensata anche questa.»
«Ma come diavolo vuoi che vada in pensione con milleduecento
franchi?»
«Ah, Caderousse», disse Andrea, «come diventi esigente! Due mesi fa
morivi di fame.»
«L’appetito vien mangiando», osservò Caderousse, mostrando i denti
come una scimmia quando ride, o una tigre quando ruggisce. «Perciò»,
aggiunse, spezzando con quei medesimi denti, così bianchi e acuti
malgrado l’età, un enorme boccone di pane, «ho fatto un piano.»
I piani di Caderousse spaventavano Andrea ancora più delle sue idee;
le idee non erano che il germe, il piano era la realizzazione.
«Sentiamo questo piano», disse, «deve essere bello.»
«E perché no? Il piano per cui abbiamo lasciato lo stabilimento del
signor Chose, da chi veniva? Da me, suppongo, e non era cattivo, mi
pare, poiché siamo qua!»
«Io non dico», riprese Andrea, «che qualche volta tu non ne abbia
dei buoni; ma infine vediamo il tuo piano.»
«Vediamo», proseguì Caderousse, «puoi, senza sborsare un soldo,
farmi avere una quindicina di migliaia di franchi?… No, non basta
una quindicina di migliaia di franchi, io non posso ritornare
galantuomo per meno di trentamila franchi.»
«No», rispose seccamente Andrea, «non posso.»
«Tu non hai capito, a quanto pare», replicò freddamente Caderousse,
tranquillo, «io ti ho detto senza sborsare un soldo.»
«Non vorrai certamente che io rubi, per guastare tutto il mio
affare, e col mio anche il tuo, e farci poi rimandare laggiù?»
«Per me è lo stesso che mi riprendano, o no!» ribatté Caderousse.
«Io sono molto originale, mi annoia, qualche volta, perfino esser
lontano dai compagni; non sono come te, uomo senza cuore, che non
vorresti rivederli più!»
Andrea fece più che fremere, questa volta impallidì.
«Insomma, Caderousse, non facciamo bestialità», disse.
«No, sta’ tranquillo, mio caro Benedetto! Indicami piuttosto qualche
mezzo per guadagnare questi trentamila franchi, senza immischiarti
di niente: tu mi lascerai fare, ecco tutto!»
«Ebbene, vedrò, cercherò…» disse Andrea.
«Ma mentre aspetto, porterai il mio mensile ad almeno cinquecento
franchi, non è vero? Vorrei prendermi una governante!»
«Avrai i cinquecento franchi», concesse Andrea. «Ma sarà troppo
pesante, per me, mio povero Caderousse… Tu abusi…»
«Bah!» sbottò Caderousse. «Tu attingi a casse senza fondo!»
«Questa è la verità», rispose Andrea, «e il mio protettore è
generoso con me.»
«Questo caro protettore», riprese Caderousse, «non ti fa dunque un
assegno mensile di…?»
«Cinquemila franchi», disse Andrea.
«Quante migliaia, quante centinaia vuoi darmi?» riprese Caderousse.
«Davvero i bastardi sono i soli ad avere fortuna. Cinquemila franchi
al mese… Che diavolo puoi farne di tutta questa somma?»
«Mio Dio! È ben presto spesa. Quindi la penso anch’io come te,
preferirei avere il mio capitale.»
«Un capitale!… Sì… capisco, tutti desidererebbero avere un
capitale.»
«Ebbene, me ne verrà dato uno.»
«E chi te lo darà? Il tuo principe?»
«Sì, il mio principe… Disgraziatamente bisogna aspettare.»
«Aspettare che cosa?» domandò Caderousse.
«La sua morte.»
«La morte del tuo principe?»
«Sì.»
«E in che modo?»
«Perché sono stato nominato nel suo testamento.»
«Davvero?»
«Parola d’onore!»
«Per quanto?»
«Cinquecentomila franchi.»
«Nientemeno!»
«La cosa sta come ti dico.»
«Suvvia, non è possibile!»
«Caderousse, mi sei amico?»
«Per la vita e per la morte.»
«Ebbene, ti dirò un segreto.»
«Parla.»
«Ascoltami.»
«Sono muto come un pesce.»
«Ebbene, io credo…»
Andrea si fermò guardandosi intorno.
«Che cosa credi? Non aver paura! Siamo soli.»
«Io credo di aver ritrovato mio padre.»
«Il tuo vero padre?»
«Sì.»
«Non il padre Cavalcanti?»
«No, poiché quello è partito, il vero, come tu dici.»
«E questo padre è?…»
«Ebbene, Caderousse, è il conte di Montecristo.»
«Bah!»
«Sì, come vedi, si spiega tutto. Egli non può confessarmelo ad alta
voce, a quanto sembra, ma mi fa riconoscere dal signor Cavalcanti, e
gli regala a tale scopo cinquantamila franchi.»
«Cinquantamila franchi per essere tuo padre!? Ma io avrei accettato
per la metà del prezzo, forse per ventimila, per quindicimila… E
com’è che non hai pensato a me?»
«E lo sapevo io? Tutto quello che si è combinato, lo fu senza di me,
mentre eravamo laggiù.»
«Ah, è vero… E tu dici che nel suo testamento?…»
«Egli mi lascia mezzo milione.»
«Ne sei sicuro?»
«Me lo ha mostrato, ma non è tutto qui.»
«Ci sarà un codicillo, come dicevo poco fa.»
«Probabilmente.»
«E in questo codicillo?»
«Egli mi riconosce.»
«Che buon uomo è tuo padre! Che brav’uomo!» esclamò Caderousse,
facendo volare un tovagliolo in aria, riprendendolo poi con le mani.
«Ecco, di’ ora che ho dei segreti per te.»
«No, e la tua confidenza ti onora ai miei occhi. E il tuo principe
padre è dunque ricco, ricchissimo?»
«Lo credo. Non sa nemmeno a quanto ammonti la sua sostanza.»
«È possibile?»
«Diamine! Lo vedo bene, io, che sono ricevuto a ogni ora! L’altro
giorno c’era un giovane di banca a portargli cinquantamila franchi
in un portafoglio grosso come un piatto; ieri il suo banchiere con
centomila franchi in oro.»
Caderousse era stupefatto; gli pareva che le parole del giovane
avessero il suono del metallo, e di sentire il tintinnio dei luigi.
«E tu sei accolto in quella casa?» gridò con ingenuità.
«Quando voglio.»
Caderousse rimase pensieroso un istante. Era facile vedere che
rimuginava nella mente qualche pensiero. Poi a un tratto: «Quanto mi
piacerebbe vedere tutto ciò», gridò ancora, «come deve esser bello!»
«Il fatto è», disse Andrea, «che è magnifico.»
«E non abita all’entrata degli Champs-Elysées?»
«Al numero 30.»
«Al numero 30?» ripeté Caderousse.
«Sì, una bella casa isolata fra il cortile e il giardino: non c’è
che quella.»
«Può darsi: ma l’esterno a me non importa, m’importa l’interno… i
bei mobili! Che cosa ci dev’essere mai là dentro!»
«Hai visto qualche volta le Tuileries?»
«No.»
«Ebbene, è ancor più bello.»
«Dici davvero, Andrea? Sarà già una fortuna abbassarsi quando questo
buon signore di Montecristo lascia cadere la borsa!»
«Mio Dio, non vale la pena di aspettare un momento simile», disse
Andrea. «Il denaro abbonda in quella casa come i frutti in un
giardino.»
«Dovresti portarmici con te.»
«Com’è possibile? E con qual titolo?»
«Hai ragione, ma mi hai fatto venire l’acquolina in bocca, e bisogna
assolutamente che io veda tutto ciò; troverò io un mezzo.»
«Non facciamo sciocchezze, Caderousse.»
«Mi presenterò come spazzino.»
«Non ne ha bisogno, perché vi sono tappeti ovunque.»
«Peccato! Allora bisogna che mi accontenti di immaginarmi con la
fantasia tutta quella roba.»
«È quanto puoi fare di meglio, credimi.»
«Cerca almeno di farmi capire la pianta dell’edificio.»
«Cosa vuoi fare?»
«È grande il palazzo?»
«Né troppo grande, né troppo piccolo.»
«Ma come sono distribuite le stanze?»
«Ci vorrebbe dell’inchiostro e della carta per fartene la pianta.»
«Un istante!» esclamò avidamente Caderousse.
E andò a cercare sopra un vecchio scrittoio un foglio di carta
bianca, l’inchiostro e una penna.
«Prendi», disse Caderousse, «tracciami il disegno sulla carta,
figlio mio.»
Andrea prese la penna con un impercettibile sorriso, e cominciò: «La
casa, come ti ho detto, è situata fra un giardino e il cortile; ecco
il disegno».
E Andrea fece la pianta del giardino, del cortile e della casa.
«Le mura sono alte?»
«No, due metri e mezzo, tre al massimo.»
«Che imprudenza», mormorò Caderousse.
«Nel cortile vi sono dei grandi vasi d’aranci, dei praticelli, dei
fiori, dei cespugli.»
«Nessuna trappola?»
«No.»
«E le scuderie?»
«Di fianco, ai lati del cancello… Vedi qui?»
E Andrea continuava la sua pianta.
«Vediamo il pianterreno», disse Caderousse.
«Al pianterreno, sala da pranzo, due salotti, sala da biliardo,
scala nel vestibolo, e piccola scala segreta.»
«Le finestre?»
«Finestre magnifiche, così belle e larghe, che, in fede mia, credo
che un uomo della mia statura passerebbe per il vano di uno di quei
cristalli.»
«E perché diavolo si fa uso di scale quando si hanno tali finestre?»
«Che vuoi farci, è un lusso.»
«Ma ci sono persiane?»
«Sì, persiane, ma non le usano mai. Montecristo è così originale,
che vuol vedere il cielo anche di notte.»
«E dove dormono i domestici?»
«Hanno la loro casa separata. Figurati, un bel padiglione entrando a
destra, dove stanno i custodi delle scale, sopra questo padiglione
c’è una quantità di stanze per i domestici, con dei campanelli
corrispondenti alle camere.»
«Diavolo, dei campanelli!»
«Che dici?»
«Io, niente. Dico che costerà caro mettere questi campanelli. E a
cosa servono?»
«Un tempo c’era un cane che passeggiava la notte nel cortile, ma lo
hanno portato nella casa di Auteuil, sai, quella dove sei venuto…»
«Sì.»
«Io glielo dicevo anche ieri: “È un’imprudenza la vostra, signor
conte, perché quando andate ad Auteuil, e conducete via i domestici,
la casa resta incustodita”.»
«E poi?»
«E poi: “Un qualche giorno vi deruberanno”.»
«E che cosa ha risposto?»
«Che cosa ha risposto?»
«Sì.»
«Ha risposto: “Ebbene, che danno me ne viene se qualcuno mi
deruba?”»
«Andrea, avrà un qualche armadio a molla…»
«Di che tipo?»
«Una di quelle trappole che prendono il ladro in un laccio e lo
tirano in aria… Mi è stato detto che all’ultima esposizione ce
n’erano, di questo genere.»
«Ha solo un semplice armadio di mogano al quale ho sempre visto
attaccata una chiave.»
«E non è mai stato derubato?»
«No, le persone di servizio gli sono tutte affezionate.»
«Quanto ci sarà in quell’armadio… ehm… quanto denaro?»
«Vi sarà forse… Non si può sapere quanto ci sarà.»
«E dov’è questo armadio?»
«Al primo piano.»
«Fammi dunque la pianta del primo piano, piccolo mio, come hai fatto
quella del pianterreno.»
«È facile.»
E Andrea riprese la penna.
«Al primo piano, vedi?, c’è l’anticamera, la sala grande, a destra
della sala, biblioteca e stanza da lavoro, a sinistra della sala,
una camera da letto, e uno spogliatoio… Il famoso armadio è nello
spogliatoio.»
«C’è qualche finestra nello spogliatoio?»
«Due, una qui e l’altra qua.»
E Andrea aggiunse le due finestre alla stanza che stava nell’angolo
del primo piano, disegnando un quadrato meno grande, aggiunto al
quadrato lungo della camera da letto.
Caderousse si fece pensieroso.
«E va spesso ad Auteuil?» domandò.
«Due o tre volte la settimana; domani per esempio, deve passare la
giornata e la notte là.»
«Ne sei sicuro?»
«Mi ha invitato ad andarvi a pranzo.»
«Questo sì che si chiama vivere», osservò Caderousse. «Casa in
città, casa in campagna.»
«Ecco che cosa vuol dire esser ricchi.»
«E ci andrai a pranzo?»
«Probabilmente.»
«Quando vai là a pranzo, ci stai anche a dormire?»
«Quando mi fa piacere. In casa del conte sono come a casa mia.»
Caderousse guardò il giovane come per strappargli la verità dal
fondo del cuore. Ma Andrea prese un portasigari di tasca, estrasse
un avana, l’accese tranquillamente, e cominciò a fumarlo
senz’affettazione.
«Quand’è che vuoi i tuoi cinquecento franchi?» domandò a Caderousse.
«Ma anche subito, se li hai.»
Andrea tirò fuori di tasca venticinque luigi.
«Monete d’oro?» disse Caderousse. «No, grazie.»
«Adesso le disprezzi?»
«Al contrario le stimo, ma non ne voglio.»
«Guadagnerai nel cambio, imbecille: l’oro ha un aggio di cinque
soldi.»
«Sarà, ma poi il cambiavalute fa seguire l’amico Caderousse, e gli
mettono le mani sopra, e poi bisognerà che dica chi sono i fittavoli
che gli pagano queste rendite in oro. Non facciamo bestialità,
piccolo mio: argento semplicemente, pezzi rotondi con l’effigie di
un principe qualunque. Tutti al mondo possono avere un pezzo da
cinque franchi.»
«Tu capisci bene che non posso portarmi appresso cinquecento franchi
in argento: ci vorrebbe un facchino.»
«Ebbene, lasciali dunque al portinaio; è un brav’uomo, andrò a
prenderli da lui.»
«Oggi?»
«No, domani, oggi non ho tempo.»
«E sia, domani glieli lascerò nel partire per Auteuil.»
«Posso contarci?»
«Certamente.»
«Se è così, vado a prendere fin d’ora una governante.»
«Prendila pure… Ma non ci saranno altri fastidi, vero? Non mi
tormenterai più?»
«Mai più.»
Caderousse era diventato così pensieroso, che Andrea temette di
rivelare che s’era accorto di questo cambiamento. Raddoppiò dunque
la sua allegria e indifferenza.
«Come sei allegro», disse Caderousse, «si direbbe quasi che possiedi
già la tua eredità.»
«No, disgraziatamente! Ma il giorno in cui la riceverò…»
«Ebbene?»
«Ebbene, mi ricorderò degli amici, non ti dico altro.»
«Sì, hai buona memoria…»
«Meno male! Credevo che volessi rimproverarmi.»
«Io? Che idea! Al contrario, ti voglio dare un consiglio da amico…»
«E quale?»
«Quello di lasciar qui quel diamante che hai al dito. Vuoi dunque
farci prendere tutti e due per simili bestialità?»
«E perché?» domandò Andrea.
«Come! Prendi una livrea, ti travesti da servitore, e conservi al
dito un diamante di quattro, cinquemila franchi!»
«Come stimi giusto! Perché non fai l’esperto di gioielli?»
«Conosco il valore dei diamanti, perché ne ho avuti.»
«Sì, fai bene a vantartene», ribatté Andrea, che, senza irritarsi,
come temeva Caderousse, per questa nuova estorsione, lasciò con
compiacenza l’anello. Caderousse lo guardò tanto da vicino da far
capire chiaramente che esaminava se gli spigoli del taglio erano ben
vivi.
«È un diamante falso», dichiarò Caderousse.
«Scherzi?»
«Non ti arrabbiare, posso provartelo.»
E Caderousse andò alla finestra, e strisciando il diamante sul vetro
s’intese uno stridio.
«Confiteor!» esclamò Caderousse mettendosi l’anello al dito mignolo.
«Mi sono sbagliato; ma questi ladri di gioiellieri imitano tanto
bene le pietre vere, che non si ha più coraggio di andare a rubare
nelle loro botteghe, ed ecco un altro ramo d’industria paralizzato.»
«Ebbene», disse Andrea, «hai finito? Hai ancora qualche cosa da
domandarmi? Ti serve il mio vestito, il mio berretto? Su, parla,
parla liberamente.»
«No, alla fine sei un bravo compagno. Non ti trattengo di più, e
cercherò di guarire la mia ambizione.»
«Ma bada che, nel vendere questo diamante, non ti accada ciò che
temevi ti accadesse per le monete d’oro.»
«Non lo venderò, sta’ pure tranquillo.»
«Non prima di dopodomani», pensò il giovane.
«Fortunato furbacchione», disse Caderousse. «Tu te ne vai a trovare
i tuoi servitori, i tuoi cavalli, la tua carrozza e la tua
fidanzata…»
«Ma sì», sospirò Andrea.
«Di’, dunque, spero che mi farai un bel regalo di nozze il giorno
che sposerai la figlia dell’amico Danglars.»
«Ti ho già detto che questa è una fantasia della tua testa.»
«E quanto di dote?»
«Ma se ti dico…»
«Un milione?»
Andrea si strinse nelle spalle.
«Vada per un milione», disse Caderousse. «Non ne avrai mai tanti,
quanti te ne auguro io.»
«Grazie», disse il giovane.
«Che buon cuore», aggiunse Caderousse, ridendo del suo riso
grossolano.
«Aspetta che ti accompagni.»
«Non ne vale la pena.»
«Tutt’altro.»
«E perché?»
«Perché alla porta c’è un piccolo segreto; una precauzione che ho
creduto di dovere adottare: serratura Huret e Fichet, rivista e
corretta da Gaspard Caderousse. Te ne fabbricherò una simile, quando
diventerai capitalista.»
«Grazie», disse Andrea, «ti farò avvertire otto giorni prima.»
Essi si separarono. Caderousse restò sul pianerottolo fino a che
ebbe visto Andrea, non solo scendere i tre piani, ma attraversare il
cortile. Allora rientrò precipitosamente, richiuse l’uscio con cura
e si mise a studiare, come un esperto architetto, la pianta
lasciatagli dal giovane.
«Al caro Benedetto», disse, «non rincrescerà, credo, di ereditare, e
colui che solleciterà il giorno in cui deve intascare i suoi
cinquecentomila franchi non sarà il suo peggiore amico.»
81. Lo scasso
Il giorno successivo a quello in cui ebbe luogo il dialogo
descritto, il conte di Montecristo partì per Auteuil in compagnia di
Alì, di diversi domestici e alcuni cavalli che voleva provare. Il
motivo che aveva determinato tale partenza, alla quale non pensava
nemmeno il giorno innanzi, e alla quale neppure Andrea pensava più
di lui, fu soprattutto l’arrivo di Bertuccio, che, di ritorno dalla
Normandia, portava le notizie della casa e della corvetta. La casa
era arredata e la corvetta, giunta da otto giorni era all’ancora, in
un piccolo porticciolo, dove, adempite tutte le formalità, era
pronta, con i suoi sei uomini d’equipaggio, a riprendere il mare. Il
conte lodò lo zelo di Bertuccio, e lo invitò a tenersi pronto a una
rapida partenza, non dovendo il suo soggiorno in Francia prolungarsi
al di là di un mese.
«Ora», gli disse, «posso aver bisogno di andarmene da Parigi a
Tréport in una notte. Voglio dei cambi di cavalli disposti sulla
strada, che mi permettano di fare cinquanta leghe in dieci ore.»
«Vostra Eccellenza aveva già manifestato questo desiderio», rispose
Bertuccio, «e i cavalli sono già pronti. Li ho appostati io stesso
nei luoghi più convenienti; vale a dire in quei villaggi ove di
solito non si ferma nessuno.»
«Va bene», aggiunse Montecristo, «io resto qui un giorno o due, di
conseguenza preparatevi.»
Mentre Bertuccio stava per uscire e ordinare l’occorrente per quel
soggiorno, Battistino aprì la porta; portava una lettera sopra un
piatto di argento dorato.
«Che cosa venite a fare qui?» domandò il conte, vedendolo tutto
coperto di polvere. «Non vi ho certo fatto chiamare, credo?»
Battistino senza rispondere si avvicinò al conte, presentandogli la
lettera.
«Importante e urgente», disse.
Il conte aprì la lettera, e lesse: «Si avverte il conte di
Montecristo che questa notte un uomo si introdurrà nella sua casa
degli Champs-Elysées per sottrarre delle carte, ch’egli crede chiuse
nell’armadio dello spogliatoio. Lo scrivente conosce abbastanza il
coraggio del signor conte di Montecristo, da sapere che non
ricorrerà all’intervento della polizia, intervento che potrebbe
compromettere grandemente lo stesso scrivente. Il signor conte, sia
da un’apertura che mette dalla camera da letto nello spogliatoio,
sia nascondendosi in esso, potrà farsi giustizia da sé. Se scorgesse
molte persone e precauzioni, il malfattore certamente si
allontanerebbe, e il signore di Montecristo perderebbe l’occasione
di conoscere un nemico, che il caso ha fatto scoprire alla persona
che gli dà quest’avviso, avviso che non avrebbe forse più
l’occasione di rinnovare, se andando a vuoto questa prima
intrapresa, il malfattore ne ritentasse un’altra».
Il primo pensiero del conte fu quello di credere che fosse una
furberia del ladro, un tranello grossolano per segnalargli un
pericolo mediocre ed esporlo a uno più grave. Stava dunque per far
portar la lettera a un commissario di polizia, malgrado la
raccomandazione dell’anonimo, quando a un tratto gli venne l’idea
che poteva essere effettivamente qualche suo nemico particolare,
ch’egli solo poteva riconoscere e dal quale, se la cosa era così,
egli solo poteva trarre partito, come aveva fatto Fieschi del Moro
che aveva voluto assassinarlo.
Noi conosciamo il conte, non ci occorre quindi dire ch’era pieno
d’audacia e di vigore, e che non si sarebbe ritirato nemmeno davanti
all’impossibile, quella energia ch’è la caratteristica degli uomini
eminenti. Per la vita che aveva condotto, e la decisione presa di
non indietreggiare mai, il conte era giunto a gustare gioie
sconosciute nelle lotte contro la natura e contro il mondo.
«Non vogliono rubarmi le carte», ragionò Montecristo, «bensì
uccidermi; non sono ladri, ma assassini. Non voglio che il prefetto
di polizia si immischi nei miei affari; io sono abbastanza ricco, da
sgravare di tale spesa il preventivo della sua amministrazione.»
Il conte richiamò Battistino, ch’era uscito dalla camera dopo aver
dato la lettera.
«Ritornerete a Parigi», gli disse, «e condurrete qui tutta la
servitù che è rimasta lassù. Ho bisogno che tutti siano qui ad
Auteuil.»
«Ma non deve restare nessuno in casa, signor conte?» domandò
Battistino.
«No, rimarrà il portinaio.»
«Ma il signor conte sa che l’alloggio del portinaio è assai distante
dalla casa…»
«Ebbene?»
«Si potrebbero svaligiare tutti gli appartamenti senza che il
portinaio sentisse il minimo rumore.»
«E chi lo farebbe?»
«I ladri.»
«Voi siete uno sciocco, Battistino… Che i ladri mi svaligino tutta
la casa, non mi dispiace tanto quanto un servizio fatto male.»
Battistino s’inchinò.
«Voi mi avete capito», riprese il conte. «Conducete qui tutti, dal
primo fino all’ultimo servo, ma tutto resti come al solito:
chiuderete le persiane del pianterreno, e nient’altro.»
«E quelle del primo?»
«Sapete bene che non si chiudono mai. Andate.»
Il conte disse che pranzava nella sua camera, e che voleva essere
servito soltanto da Alì. Pranzò con tranquillità e con la solita
sobrietà, e, dopo il pranzo, facendo segno ad Alì di seguirlo, uscì
dalla porticina, raggiunse il Bois de Boulogne come se
passeggiassero, e presa come per caso la strada di Parigi, al cader
della notte si trovò dirimpetto alla sua casa vicino agli
Champs-Elysées.
Tutto era scuro, soltanto una debole lampada ardeva nell’alloggio
del portinaio, distante una quarantina di passi circa dalla casa,
come aveva detto Battistino. Frattanto Montecristo si addossava a un
albero, e con quel colpo d’occhio che sbagliava raramente, esplorò
il doppio viale, esaminò quelli che passavano, e spinse lo sguardo
nelle strade vicine. In capo a dieci minuti, fu perfettamente
convinto che nessuno lo disturbava. Corse alla porta con Alì, entrò
precipitosamente, e per una piccola scala segreta, di cui aveva la
chiave, rientrò nella sua camera da letto senza aprire, né smuovere
una tenda, senza che il portinaio potesse neppure dubitare che nella
casa, da lui creduta vuota, era ritornato il suo principale
abitante. Giunto nella camera da letto, il conte fece segno ad Alì
di fermarsi, quindi entrò nello spogliatoio, passandola in esame:
tutto era nello stato abituale. Il prezioso armadio era al suo
posto, e la chiave dentro; egli lo chiuse a doppio giro, e presa la
chiave, ritornò in camera da letto, tolse i due ganci al catenaccio,
e rientrò.
In quell’istante, Alì metteva su una tavola le armi che il conte
stesso gli aveva richiesto, cioè una carabina corta, un paio di
pistole a doppio tiro le cui canne sovrapposte permettevano di
prendere la mira come fossero state pistole da bersaglio. Così
armato il conte aveva fra le sue mani la vita di cinque nemici.
Erano le nove e mezzo circa, il conte e Alì mangiarono in fretta del
pane, e bevvero un bicchiere di vino di Spagna, quindi Montecristo
fece scorrere uno di quei quadri mobili che gli permettevano di
vedere una stanza stando nell’altra. Teneva vicino le pistole e la
carabina, e Alì, in piedi accanto a lui, teneva alla mano una di
quelle asce arabe che non hanno ancora cambiato forma dall’epoca
delle crociate. Da una finestra della camera da letto, simile a
quella dello spogliatoio, il conte poteva vedere la strada.
In tal modo passarono due ore; regnava l’oscurità più profonda, e
tuttavia Alì per la sua natura selvaggia, e il conte per la facoltà
acquistata, distinguevano in quella notte fin la più piccola
oscillazione degli alberi nel cortile. Da lungo tempo il lume nella
stanza del portinaio era stato spento. Era presumibile che
l’attacco, se ci doveva essere un attacco, avrebbe avuto luogo sulla
scalinata del pianterreno, e non scalando una finestra. Nell’idea
che i malfattori attentassero alla sua vita, e non al denaro,
Montecristo pensava che mirassero alla sua camera da letto,
potendovi giungere sia dalla scala segreta, sia dalla finestra dello
spogliatoio. Mise Alì davanti alla porta della scala, ed egli
continuò a sorvegliare lo spogliatoio.
Le undici e tre quarti suonarono all’orologio des Invalides: il
vento di ponente portava col suo umido soffio la lugubre vibrazione
dei tre colpi. Allorché stava per svanire il suono dell’ultimo
tocco, il conte credette di sentire un rumore leggero dalla parte
dello spogliatoio; questo primo rumore, o piuttosto questo primo
scricchiolio, fu seguito da un secondo, poi da un terzo; al quarto
il conte sapeva già che cos’era. Una mano ferma ed esercitata era
intenta a tagliare i quattro lati di un vetro per mezzo di un
diamante.
Il conte sentì battere più rapidamente il cuore.
Per quanto l’uomo sia indurito nel pericolo, e ben prevenuto contro
di esso, capisce sempre dal battito del cuore e dal brivido della
carne l’enorme differenza che esiste fra il sogno e la realtà, fra
il progetto e l’esecuzione. Però Montecristo non fece che un cenno
per prevenire Alì, il quale, comprendendo che il pericolo era dalla
parte dello spogliatoio, fece un passo per avvicinarsi al suo
padrone.
Montecristo era avido di sapere con quali e quanti uomini aveva a
che fare. La finestra su cui lavoravano era di fronte all’apertura
da cui il conte guardava nello spogliatoio. I suoi occhi dunque
fissarono la finestra; vide un’ombra disegnarsi più densa
nell’oscurità; quindi un vetro diventò del tutto opaco, come vi
fosse stato sovrapposto dal di fuori un foglio di carta, poi il
vetro crepitò senza cadere.
Dall’apertura praticata s’introdusse un braccio che cercava il
catenaccio: dopo un secondo la finestra girò sui cardini, e un uomo
entrò. Era solo.
«Ecco un birbante ardito…» mormorò il conte.
In quel momento sentì Alì toccargli leggermente la spalla; si voltò
e Alì gli mostrò la finestra della camera dov’erano loro, che
guardava sulla strada. Montecristo fece tre passi verso quella
finestra; conosceva l’acutezza dei sensi del suo fedele servitore.
Infatti vide un altro uomo che si staccava da una porta, e salendo
sopra un sostegno, sembrava cercare di vedere che cosa accadeva in
casa del conte.
«Bene», mormorò, «sono in due, uno agisce, l’altro sta di guardia.»
Fece segno ad Alì di non perdere di vista l’uomo della strada, e
ritornò a quello dello spogliatoio.
Il tagliatore di vetri era entrato, e camminava a tentoni con le
braccia tese in avanti. Finalmente parve trovare l’orientamento; vi
erano due porte nella stanza, egli andò a mettere il catenaccio a
entrambe. Allorché si avvicinò a quella della camera da letto,
Montecristo pensò volesse entrare da quella, e preparò una delle
pistole; ma non intese che il rumore dei catenacci fatti scorrere
nei loro anelli di rame. Era una precauzione, e nient’altro; il
visitatore notturno, ignorando l’operazione fatta in precedenza dal
conte di togliere le sicure dei ganci, poteva ormai credersi in casa
sua, e agire con tutta tranquillità.
Solo e libero in tutti i suoi movimenti, l’uomo estrasse allora
dalla sua larga sacca qualche cosa che il conte non poté
distinguere, posò qualche cosa sopra un tavolino, quindi andò
direttamente all’armadio, si mise a toccarlo cercando la serratura e
si accorse che, contro la sua aspettativa, mancava la chiave. Ma il
tagliatore di vetri, da uomo pieno di precauzioni, aveva previsto
tutto: il conte intese ben presto quel rumore del ferro contro il
ferro che vien prodotto quando si manovra coi grimaldelli, che dai
ladri chiamano «usignoli», senza dubbio per il piacere che essi
provano nel sentirne il loro canto notturno quando stridono sul
perno della serratura.
«Non è che un ladro», mormorò Montecristo, con un sorriso
sconcertato.
Ma l’uomo, nell’oscurità, non poteva scegliere lo strumento
conveniente. Allora ricorse a quel qualche cosa che aveva deposto
sul tavolino, fece giocare una molla, e subito una luce pallida, ma
abbastanza viva da poterci vedere, inviò un suo riflesso dorato
sulle mani e sul viso di quell’uomo.
«Ma guarda», disse a un tratto Montecristo, arretrando con un
movimento di sorpresa, «è…»
Alì alzò la sua ascia.
«Non ti muovere», gli disse Montecristo a bassa voce. «Lascia la tua
ascia, poiché noi qui non abbiamo più bisogno di armi.»
Quindi aggiunse qualche parola abbassando ancor più la voce, perché
l’esclamazione di sorpresa del conte, per quanto debole, era
comunque bastata a far rabbrividire l’uomo, che era rimasto nella
posizione dell’antico arrotino.
Il conte aveva dato un ordine, subito dopo Alì si allontanò sulla
punta dei piedi, e staccò dai muri dell’alcova un vestito nero e un
cappello triangolare. Montecristo si tolse rapidamente l’abito, il
panciotto e la camicia scoprendo sul petto una di quelle soffici e
fini tuniche in maglia d’acciaio, le ultime delle quali in questa
Francia, ove non si temono più i pugnali, furono forse portate dal
re Luigi XVI che temeva il coltello nel petto, e fu colpito dalla
scure sul collo. Questa tunica fu coperta da una lunga sopravveste
nera, i capelli del conte da una parrucca da prete, e il cappello
trasformò del tutto il conte in un abate.
Intanto l’uomo, non sentendo più nulla, si era rialzato, e, durante
il tempo impiegato da Montecristo per fare la sua metamorfosi, era
andato direttamente all’armadio, la cui serratura cominciava già a
cedere sotto il suo «usignolo».
«Bene!» mormorò il conte, certamente tranquillo per qualche segreto
del fabbro ignorato dallo scassinatore, per quanto abile.
«Ne hai ancora per qualche minuto.»
Egli andò alla finestra.
L’uomo che aveva visto salire sul sostegno era sceso, e passeggiava
sempre sulla strada; ma, cosa strana, invece d’inquietarsi di quelli
che potevano venire, sia dall’ingresso degli Champs-Elysées, sia dal
Faubourg Saint-Honoré, non sembrava preoccupato che di quanto
accadeva in casa del conte, e scopo di tutti i suoi movimenti era
guardare che cosa si facesse nello spogliatoio.
Montecristo, tutto a un tratto, si batté la fronte, e lasciò
sfuggire un silenzioso sorriso. Quindi, avvicinandosi ad Alì:
«Rimani qui», gli disse sottovoce, «nascosto nell’oscurità, e
qualunque rumore tu senta, qualunque cosa succeda, non entrare, e
non farti vedere se non ti chiamo».
Alì fece segno con la testa che aveva capito, e che avrebbe
obbedito. Allora Montecristo prese da un armadio una candela già
accesa e nel momento in cui il ladro era più che mai occupato alla
serratura, aprì dolcemente la porta, avendo cura che la luce del
lume che teneva in mano cadesse tutta sul suo viso. La porta girò
così dolcemente, che il ladro non ne intese il rumore. Ma con sua
gran sorpresa, vide a un tratto la stanza illuminarsi. Egli si
voltò.
«Buonasera, caro signor Caderousse», disse Montecristo, «che diavolo
venite a fare qui, a quest’ora?»
«L’abate Busoni!» gridò Caderousse.
E non sapendo come fosse avvenuta quella strana apparizione, poiché
aveva chiuso le porte, lasciò cadere il mazzo di chiavi false. Il
conte andò a mettersi fra Caderousse e la finestra, impedendo in tal
modo al ladro spaventato la sua unica via di ritirata.
«L’abate Busoni!» ripeté Caderousse, fissando sul conte due occhi
stravolti.
«Senza dubbio, l’abate Busoni» ripeté Montecristo, «lui stesso, in
persona… E io sono ben contento che mi riconosciate, mio caro
Caderousse: questo prova che abbiamo buona memoria, perché, se non
sbaglio, sono ormai dieci anni che non ci vediamo.»
Quella calma, ironica e possente, colpì Caderousse e lo spaventò.
«L’abate! L’abate!…» mormorò, serrando i pugni e stringendo i denti.
«Volevate derubare il conte di Montecristo?» continuò il finto
abate.
«Signor abate», balbettò Caderousse, cercando di guadagnare la
finestra, ostruita senza pietà dal conte, «signor abate, non so… vi
prego di credere… vi giuro…»
«Un vetro tagliato», continuò il conte, «una lanterna cieca, un
mazzo di grimaldelli, un armadio per metà forzato: l’affare è
chiaro.»
Caderousse stropicciava imbarazzato la cravatta, cercava un angolo
per nascondersi, un varco per passare.
«Suvvia», continuò il conte, «vedo che siete sempre lo stesso,
signor assassino.»
«Signor abate, poiché sapete tutto, saprete che non sono stato io,
ma Carconta ciò è stato riconosciuto al processo, poiché non mi
hanno condannato che alla galera.»
«Avete dunque scontato la vostra condanna, che vi trovo sulla strada
di farvici ricondurre?»
«No, signor abate, sono stato liberato da una persona.»
«Questa persona ha reso un bel servizio alla società…»
«Be’», disse Caderousse, «io avevo promesso…»
«Così voi infrangete doppiamente la legge?» l’interruppe
Montecristo.
«Purtroppo, sì…» rispose Caderousse terrorizzato.
«Pessima recidiva… Ciò vi condurrà, se non sbaglio, alla
ghigliottina. Tanto peggio, tanto peggio, come dicono al mio Paese.»
«Signor abate, io ho ceduto alla tentazione…»
«Tutti i delinquenti dicono così.»
«Il bisogno…»
«Smettetela!» esclamò sdegnosamente Busoni. «Il bisogno può
trascinare a domandare l’elemosina, a rubare un pane alla porta di
un fornaio, ma non a forzare un armadio in una casa che si crede
disabitata. E quando il gioielliere Joannès venne a contarvi
quarantacinquemila franchi, in cambio del diamante che vi avevo
dato, e voi lo avete ucciso per avere il diamante e il denaro, fu
pure allora il bisogno?»
«Perdono, signor abate», supplicò Caderousse, «voi mi avete salvato
una volta, salvatemi ancora una seconda.»
«La vostra condotta mi scoraggia!»
«Siete solo, signor abate?» domandò Caderousse, congiungendo le
mani, «o avete di là i gendarmi, già pronti per catturarmi?»
«Sono solo», rispose l’abate, «e avrei ancora pietà di voi, e vi
lascerei andare, a rischio che da questa mia debolezza possano
venire nuove disgrazie, se mi diceste tutta la verità.»
«Ah, signor abate!» gridò Caderousse, a mani giunte, e avvicinandosi
di un altro passo a Montecristo, «posso ben dire che siete il mio
salvatore.»
«Voi affermate di essere stato liberato dalla galera?»
«Su questo, parola di Caderousse, signor abate.»
«Chi vi liberò?»
«Un inglese.»
«Come si chiamava?»
«Lord Wilmore.»
«Lo conosco: saprò dunque se mentite.»
«Signor abate, io dico la pura verità.»
«Quest’inglese dunque vi proteggeva?»
«Non proteggeva me, ma un giovane corso mio compagno di catene.»
«Come si chiamava questo giovane corso?»
«Si chiamava Benedetto.»
«Questo è un nome di battesimo.»
«Non ne aveva altri, perché era un bastardo.»
«Allora questo giovane è evaso con voi?»
«Sì.»
«E in che modo?»
«Noi lavoravamo a Saint-Mandrier, vicino a Tolone. Conoscete
Saint-Mandrier?»
«Sì, lo conosco…»
«Ebbene nell’ora del riposo, tra mezzogiorno e l’una…»
«I forzati hanno la siesta! Oh, compiangete quei birbanti!» esclamò
l’abate.
«Non si può sempre lavorare, non siamo cani», disse Caderousse.
«Fortunatamente per i cani…» riprese Montecristo.
«Mentre dunque gli altri facevano la siesta, noi ci siamo
allontanati un poco, abbiamo segato le nostre catene con una lima,
che ci aveva fornito l’inglese, e ci siamo salvati a nuoto.»
«E che cosa è avvenuto di Benedetto?»
«Non ne so niente!»
«Eppure dovete saperlo.»
«No, davvero. Ci siamo separati a Hyères.»
E per dare più peso alla sua protesta, Caderousse fece ancora un
passo verso l’abate, che rimase sempre immobile e calmo al suo
posto, interrogando.
«Voi mentite!» accusò l’abate Busoni, in tono di irresistibile
autorità.
«Signor abate!…»
«Voi mentite! Quell’uomo è ancora vostro amico, e voi vi servite di
lui come complice.»
«Signor abate!…»
«Da che avete lasciato Tolone, come avete vissuto? Rispondete.»
«Come ho potuto.»
«Voi mentite!» ripeté per la terza volta l’abate, con un accento
ancora più imperativo.
Caderousse, spaventato, guardò il conte.
«Voi avete vissuto», riprese questi, «col denaro che vi è stato
dato.»
«Ebbene, è vero», confessò Caderousse, «Benedetto è diventato figlio
di un gran signore.»
«In che modo può esser figlio di un signore?»
«Figlio naturale.»
«E come si chiama questo gran signore?»
«Il conte di Montecristo, il signore che vive qui.»
«Benedetto figlio del conte?» riprese Montecristo, meravigliato a
sua volta.
«Diamine, bisogna ben credere così, poiché il conte gli ha trovato
un falso padre, gli passa quattromila franchi al mese, e gli lascia
cinquecentomila franchi nel suo testamento.»
«E che nome porta intanto questo giovane?» domandò il falso abate,
che cominciava a comprendere.
«Si chiama Andrea Cavalcanti.»
«Allora è il giovane che il mio amico, il conte di Montecristo,
riceve in casa sua, e che sta per sposare la figlia del banchiere
Danglars?»
«Precisamente.»
«E voi tollerate questa cosa? Impossibile! Voi che ne conoscete la
vita e i delitti!»
«Perché volete che impedisca al mio compagno di riuscirvi?» domandò
Caderousse.
«È vero, non sta a voi avvisare il signor Danglars, sta a me.»
«Signor abate, voi non lo farete…»
«E perché?»
«Perché in tal modo ci farete perdere il nostro pane.»
«E voi credete che per conservare il pane a due miserabili come voi,
voglia farmi fautore dei loro raggiri, complice dei loro delitti!»
«Signor abate…» riprese Caderousse, avvicinandosi.
«Io dirò tutto.»
«A chi?»
«Al signor Danglars.»
«Mille fulmini!» gridò Caderousse, estraendo un coltello dal
panciotto già aperto e colpendo il conte nel mezzo del petto.
«Tu non dirai niente, abate!»
Ma, con grande sorpresa di Caderousse, il pugnale, invece di
penetrare nel petto del conte, rimbalzò smussato. Nello stesso tempo
il conte afferrò con la mano sinistra il polso dell’assassino, e lo
contorse con tal forza, che il coltello gli cadde di mano e
Caderousse mandò un forte grido di dolore. Il conte, senza fermarsi
a quel grido, continuò a torcere il polso del bandito, fino a che,
col braccio quasi lussato, egli dapprima cadde in ginocchio, quindi
con la faccia contro terra.
Il conte gli appoggiò un piede sulla testa e disse: «Non so chi mi
trattenga dallo schiacciarti il cranio, scellerato!»
«Grazia! grazia!» gridò Caderousse.
Il conte ritirò il piede.
«Alzati!» disse.
Caderousse si rialzò.
«Potere di Dio, che mano avete, signor abate», disse, strofinandosi
il braccio quasi morto per la stretta patita, «potere di Dio, che
forza!»
«Silenzio. Quel Dio, in nome di cui agisco, mi dà la forza di domare
una bestia feroce come te, ricordatene, miserabile, e se in questo
momento risparmio la tua vita, è per servire ai Suoi scopi.»
«Ahi!» gemette Caderousse tutto dolorante.
«Prendi questa penna e questa carta, e scrivi ciò che ti detto.»
«Non so scrivere, signor abate.»
«Tu menti: prendi questa penna, e scrivi.»
Caderousse soggiogato si sedette e scrisse: «Signore, l’uomo che
ricevete in casa vostra e al quale destinate vostra figlia, è un
antico forzato, fuggito con me dalla galera di Tolone; egli portava
il numero 59 e io il 58. Si chiama Benedetto; ma non sa nemmeno il
suo cognome, non avendo mai conosciuto i suoi parenti».
«Firma!» ordinò il conte.
«Ma voi dunque volete rovinarmi?»
«Se volessi rovinarti, imbecille, ti trascinerei fino al primo corpo
di guardia; d’altra parte, prima che il tuo biglietto sia recapitato
al suo indirizzo, è probabile che tu non abbia più nulla da temere…
Firma dunque.»
Caderousse firmò.
«L’indirizzo: Al signor barone Danglars banchiere, rue Chaussée
d’Antin.»
Caderousse scrisse l’indirizzo. L’abate prese il biglietto.
«Ora vattene», intimò.
«Da dove?»
«Da dove sei venuto.»
«Volete che esca da questa finestra?»
«Ci sei entrato.»
«Voi meditate qualcosa contro di me, signor abate!»
«Imbecille! Che cosa vuoi ch’io mediti?»
«Perché dunque non aprirmi la porta?»
«A che pro svegliare il portinaio?»
«Signor abate, ditemi che non volete la mia morte.»
«Voglio ciò che vuole Iddio.»
«Ma giuratemi che non mi colpirete mentre scenderò.»
«Sei pur pazzo e vile!»
«Che volete farne di me?»
«Lo domando a te! Ho cercato di fare di te un uomo felice, e non ne
ho fatto che un assassino!»
«Signor abate», implorò Caderousse, «tentate una seconda volta.»
«Sia!» disse il conte. «Ascolta, tu sai che sono uomo di parola…»
«Sì», disse Caderousse.
«Se rientri in casa tua sano e salvo…»
«A meno che non venga colpito da voi, che cosa ho da temere?»
«Se rientri in casa tua sano e salvo, lascia Parigi, lascia la
Francia, e in qualunque luogo sarai, fino a che ti porterai
onestamente, ti farò avere una piccola pensione… Poiché se rientri
in casa tua sano e salvo…»
«Ebbene?» domandò Caderousse tremando.
«Io crederò allora che Dio ti ha perdonato, e ti perdonerò anch’io.»
«Quanto è vero che sono cristiano», balbettò Caderousse, facendosi
indietro, «voi mi fate morire di paura!»
«Ora vattene!» ordinò il conte mostrando col dito la finestra a
Caderousse.
Caderousse, ancora mal rassicurato da quella promessa, scavalcò la
finestra, e mise il piede sulla scala. Là si fermò tremando.
«Ora scendi», disse l’abate incrociando le braccia sul petto.
Caderousse capì che non aveva niente da temere da lui e scese.
Allora il conte si avvicinò con la candela, e così si poteva
distinguere fin dagli Champs-Elysées quell’uomo che scendeva da una
finestra illuminata da un altro uomo.
«Che fate, dunque, signor abate?» si spaventò Caderousse. «Se
passasse una pattuglia…»
E soffiò sulla candela. Quindi continuò a scendere; ma fu quando
sentì il suolo del giardino sotto i piedi, che si credette
sufficientemente sicuro. Montecristo rientrò nella sua camera da
letto e, gettando un rapido sguardo in giardino, vide Caderousse
che, dopo essere sceso, faceva un giro nel giardino, e andava a
piantare la sua scala all’estremità del muro, per uscire da una
parte diversa da quella da cui era entrato. Quindi, volgendo gli
sguardi dal giardino alla strada, vide l’uomo che sembrava
aspettare, correre parallelamente nella strada, e rifugiarsi dietro
l’angolo stesso, vicino a dove stava per scendere Caderousse.
Caderousse salì lentamente sulla scala, e arrivato agli ultimi
gradini, sporse la testa oltre il muro per assicurarsi che la strada
fosse del tutto solitaria. Non si vedeva nessuno, non si sentiva
alcun rumore. Suonò l’una all’orologio des Invalides. Allora
Caderousse si mise a cavalcioni sul muro e tirando a sé la scala la
calò dall’altra parte, quindi si mise a scendere, o piuttosto si
lasciò strisciare lungo i due montanti, manovra che operò con
sveltezza. Ma scivolando lungo la scala non poté fermarsi. Vide un
uomo slanciarsi dall’ombra nel momento in cui era a mezza strada, e
vide alzarsi un braccio nel momento che toccava terra e prima che
potesse difendersi quel braccio lo colpì tanto furiosamente nella
schiena, che abbandonò la scala gridando «Soccorso!» Un secondo
colpo lo raggiunse quasi subito al fianco, e cadde gridando
«All’assassino!» Infine, siccome si rotolava per terra, il suo
avversario lo prese per i capelli, e gli diede un terzo colpo nel
petto. Questa volta Caderousse volle gridare ancora, ma non poté
mandare che un gemito, mentre tre rivoli di sangue sgorgavano dalle
tre ferite. L’assassino vedendo che non gridava più, gli sollevò la
testa per i capelli: Caderousse aveva gli occhi chiusi e la bocca
contorta. L’assassino, credendolo morto, lasciò ricadere la testa e
fuggì. Allora Caderousse sentendolo allontanarsi, si raddrizzò sul
gomito, e in un supremo sforzo gridò con voce morente:
«All’assassino! Io muoio, signor abate accorrete!»
Questa lugubre chiamata passò tra le ombre della notte. Apertasi
allora la porta della scala segreta, e poi la porticina del
giardino, accorsero coi lumi Alì e il suo padrone.
82. La giustizia di Dio
Caderousse seguitava a gridare con voce lamentosa: «Signor abate,
soccorso! soccorso!»
«Che cosa c’è?» domandò Montecristo.
«In mio aiuto, venite!» ripeté Caderousse. «Sono stato assassinato.»
«Eccomi, coraggio.»
«È finita. Voi arrivate troppo tardi, arrivate per vedermi morire.
Che colpi! Quanto sangue!»
E svenne; allora Alì e il suo padrone presero il ferito, e lo
trasportarono in una camera. Là Montecristo fece segno ad Alì di
spogliarlo, e scoprì le tre terribili ferite.
«Dio mio», disse, «la vostra vendetta qualche volta si fa aspettare,
ma soltanto, credo, per scendere dal cielo più terribile.»
Alì volse lo sguardo verso il suo padrone come per domandargli ciò
che doveva fare.
«Va’ a cercare il procuratore Villefort, che abita nel Faubourg
Saint-Honoré e conducilo qui; nel passare sveglierai il portinaio, e
digli di andare a cercare un medico.»
Alì obbedì, e lasciò il finto abate solo con Caderousse sempre
svenuto. Quando lo sciagurato riaprì gli occhi, il conte, seduto a
pochi passi da lui lo guardava con tetra espressione di pietà, e le
sue labbra, agitandosi sembravano mormorare una preghiera.
«Un chirurgo, signor abate, un chirurgo!» gemette Caderousse.
«Ho mandato a cercarlo», rispose l’abate.
«So bene che è inutile, ma lui potrà ridarmi della forza, e voglio
avere il tempo di fare la mia deposizione.»
«Su cosa?»
«Sul mio assassino.»
«Lo conosci dunque?»
«Sì, l’ho riconosciuto, lo conosco, è Benedetto.»
«Quel giovane corso?»
«Esatto.»
«Il tuo compagno?»
«Sì. Dopo avermi dato il piano della casa del conte, sperando senza
dubbio che io l’uccidessi per entrare così in possesso dell’eredità,
o che questi uccidesse me, e così sbarazzarsi di me, mi ha aspettato
sulla strada e mi ha assassinato.»
«Ho mandato a cercare un medico e a chiamare il procuratore.»
«Giungerà troppo tardi, giungerà troppo tardi», mormorò Caderousse,
«sento che tutto il mio sangue se ne va.»
«Aspetta», disse Montecristo. Uscì, e poco dopo rientrò con una
boccettina. Gli occhi del moribondo, spaventosamente immobili, non
avevano intanto lasciato un istante quella porta dalla quale
aspettava qualche soccorso.
«Spicciatevi, signor abate, spicciatevi», disse, «sento che torno a
svenire.»
Montecristo si avvicinò, e versò sulle labbra livide del ferito tre
o quattro gocce del liquido che conteneva la boccettina. Caderousse
mandò un sospiro.
«Oh!» disse, «voi mi versate la vita… Ancora… ancora…»
«Due gocce di più ti ucciderebbero», rispose l’abate.
«Venga dunque qualcuno al quale possa denunciare il miserabile.»
«Vuoi che scriva la tua deposizione? Tu la firmerai.»
«Sì… Sì…» disse Caderousse, con gli occhi sfavillanti per la
speranza di questa postuma vendetta.
Montecristo scrisse: «Io muoio assassinato dal corso Benedetto, mio
compagno di catena a Tolone sotto il numero 59».
«Spicciatevi! Spicciatevi!» ansimò Caderousse. «O non potrò più
firmarla.»
Montecristo passò la penna a Caderousse, che raccolse tutte le
forze, firmò, e ricadde sul letto dicendo: «Voi racconterete il
resto, signor abate, direte che si fa chiamare Andrea Cavalcanti,
che alloggia all’Hôtel des Princes, che… Ah, mio Dio, ecco ch’io
muoio!»
E Caderousse svenne per la seconda volta. L’abate gli fece respirare
l’odore della boccettina, il ferito riaprì gli occhi, il desiderio
di vendetta non lo aveva abbandonato durante lo svenimento.
«Tutto, sì, e altre cose ancora.»
«Dirò che ti aveva dato la pianta di questa casa nella speranza che
il conte ti uccidesse: dirò che aveva avvertito il conte con un
biglietto; dirò che il conte era assente, e che ho ricevuto io
questo biglietto, e vegliato per aspettarti.»
«E sarà ghigliottinato, non è vero?» domandò Caderousse. «Sarà
ghigliottinato, me lo promettete? Muoio con questa speranza.»
«Dirò», continuò il conte, «che è giunto dopo di te, che è stato in
agguato tutto il tempo che sei stato qui, che quando ti ha visto
uscire, è corso all’angolo del muro, si è nascosto…»
«Voi dunque avete visto tutto?»
«Ricordati le mie parole: “Se rientri a casa tua sano e salvo,
crederò che Dio ti ha perdonato, e ti perdonerò anch’io pure”.»
«E non mi avete avvertito?» gridò Caderousse cercando di sollevarsi
sul gomito. «Sapevate che avrei corso pericolo di essere ucciso
uscendo di qui, e non mi avete avvertito!»
«No, perché nella mano di Benedetto io vedevo la giustizia di Dio,
avrei creduto di commettere un sacrilegio opponendomi alle
intenzioni della Provvidenza.»
«La giustizia di Dio! Non me ne parlate, signor abate, perché se ci
fosse, come voi sapete più di chiunque altro, sarebbero punito
persone che non lo sono mai.»
«La giustizia di Dio è lenta», disse l’abate con un tono che fece
fremere il moribondo, «ma non sbaglia mai… Occorre essere pazienti.»
Caderousse lo guardò con stupore.
«E poi», continuò l’abate, «Dio è pieno di misericordia per tutti,
come lo è stato per te: egli è padre prima di essere giudice.»
«Ma come, voi dite di credere in Dio, e m’avete lasciato uccidere?»
ribatté Caderousse.
«Se avessi avuto la disgrazia di non crederci fino a ora», replicò
Montecristo, «ci crederei vedendoti.»
Caderousse alzò i pugni chiusi al cielo.
«Ascolta», riprese l’abate, stendendo una mano sul ferito, come per
imporgli la fede, «guarda che ha fatto per te questo Dio, che non
vuoi riconoscere nel tuo ultimo momento: ti aveva dato salute,
forza, lavoro sicuro, e anche amici, la vita finalmente, quale può
bastare all’uomo perché vi si adatti con la calma della coscienza e
la soddisfazione dei desideri, in accordo con la legge divina;
invece di essere contento di questi doni del Signore, così raramente
accordati da lui nella loro pienezza, guarda che cosa ne hai fatto:
ti sei abbandonato alla pigrizia e alla ubriachezza, e nella
ubriachezza hai tradito uno dei tuoi migliori amici.»
«Aiuto!» gridò Caderousse. «Non ho bisogno di un prete, ma di un
medico! Forse non sono ferito mortalmente, forse non sto ancora per
morire, forse posso ancora salvarmi…»
«No, sei ferito mortalmente. Senza le tre gocce del liquido che ti
ho dato, saresti già spirato. Ascolta dunque.»
«Siete uno strano prete», mormorò Caderousse. «Invece di consolare i
moribondi, li fate disperare.»
«Ascolta», continuò l’abate, «quando hai tradito l’amico, Dio ha
cominciato non a punirti, ma ad avvisarti: tu sei caduto nella
miseria, hai sofferto la fame, e già pensavi al delitto
giustificandoti con la necessità. Quando Dio fece per te un
miracolo, e per mio tramite, t’inviò nel pieno della tua miseria una
fortuna straordinaria, tu, disgraziato, che non avevi mai posseduto
niente, non hai capito. Questa fortuna inattesa, non sperata,
inaudita, non ti bastò più dal momento che la possedevi: volesti
raddoppiarla, e con quale mezzo? Per mezzo di un omicidio. Tu l’hai
raddoppiata, e Dio allora te l’ha tolta, conducendoti davanti
all’umana giustizia.»
«Non sono stato io», disse Caderousse, «che ho voluto uccidere
l’ebreo, fu la Carconta.»
«Sì», disse Montecristo. «E per questo la misericordia di Dio non
volse lo sguardo da te neppure quella volta, perché la sua giustizia
ti avrebbe condannato a morte; ma Dio, sempre misericordioso,
permise che i tuoi giudici si commovessero alle tue parole, e ti
lasciassero la vita.»
«Per condannarmi alla galera a vita! Bella grazia!»
«Questa grazia, miserabile!, tu però la considerasti come una vera
grazia quando ti fu fatta. Il tuo cuore vile, che tremava davanti
alla morte, sussultò di gioia all’annuncio della tua perpetua
infamia, perché dicesti a te stesso, come tutti i forzati: “Nella
galera vi è una porta, non una tomba”. E avevi ragione perché la
porta della galera si è aperta per te in modo insperato: capita a
visitare Tolone un inglese, che aveva fatto voto di salvare due
uomini dall’infamia, la sua scelta cade su te e sul tuo compagno,
una seconda fortuna scende per te dal cielo: ritrovi denaro e
tranquillità, puoi ricominciare a vivere la vita di tutti gli
uomini, tu, condannato a vivere soltanto quella dei forzati… Ma
allora, miserabile!, allora ritorni a tentare Dio una terza volta.
“Io non ho abbastanza”, dicesti, quando avevi più di quello che tu
abbia mai posseduto, e commetti un terzo delitto, senza ragione,
senza scusa. Dio si è stancato, Dio ti ha punito.»
Caderousse s’indeboliva a vista d’occhio.
«Da bere!» supplicò questi. «Ho sete… io brucio.»
Montecristo gli dette un bicchiere d’acqua.
«Scellerato Benedetto», disse Caderousse, restituendo il bicchiere.
«Lui però fuggirà!»
«Nessuno fuggirà, sono io che te lo dico, Caderousse, Benedetto sarà
punito.»
«Allora sarete punito voi pure», ribatté Caderousse, «perché non
avete fatto il dovere del vostro ministero… voi dovevate impedire a
Benedetto di uccidermi…»
«Io?» fece stupito il conte, con un sorriso che agghiacciò di
spavento il moribondo. «Io impedire a Benedetto di ucciderti, nel
momento in cui tu spezzavi il tuo coltello contro la cotta di maglia
che mi copriva il petto? Sì, forse, se ti avessi ritrovato umile e
pentito, avrei impedito a Benedetto d’ucciderti, ma ti ho ritrovato
orgoglioso e sanguinario, e ho lasciato che si compisse la volontà
di Dio.»
«Io non credo in Dio!» urlò Caderousse. «E nemmeno tu ci credi… tu
menti… tu menti!»
«Taci», intimò l’abate. «Perderai l’ultima possibilità con le ultime
gocce di sangue… Ah, tu non credi in Dio, mentre muori colpito dalla
sua tremenda giustizia… Tu non credi in Dio, in Dio che chiede al
contrito solo una preghiera, una lacrima per perdonargli… Dio che
poteva dirigere il pugnale dell’assassino in modo che tu spirassi
sul colpo… Dio ti ha dato un quarto d’ora per pentirti… Rientra
dunque in te stesso, disgraziato, e pentiti.»
«No», gemette Caderousse, «no, io non mi pento, non vi è Dio, non
c’è Provvidenza!»
«Vi è Dio, c’è Provvidenza», replicò Montecristo, «e la prova è
questa, che tu sei là gemente, disperato, rinnegando Dio, e io sono
qui, ritto davanti a te, ricco, felice, sano e salvo, e giungendo le
mani davanti a questo Dio, al quale benché ti sforzi di non credere,
pur credi nel fondo del cuore.»
«Ma chi siete voi dunque allora?» domandò Caderousse fissando gli
occhi moribondi sul conte.
«Guardami bene», disse Montecristo, prendendo il lume, e
avvicinandoselo al volto.
«L’abate… l’abate Busoni.»
Montecristo si levò la parrucca che lo sfigurava, e lasciò ricadere
i bei capelli neri che gli abbellivano il pallido viso.
«Oh!» mormorò Caderousse spaventato. «Se non fossero questi capelli
neri, direi che siete l’inglese, direi che siete lord Wilmore.»
«Io non sono né Busoni, né lord Wilmore», disse Montecristo.
«Guardami meglio, guarda più lontano nei tuoi primi ricordi.»
Alle parole vibranti del conte, il moribondo fu come rianimato.
«Infatti», disse, «mi sembra di avervi visto, di avervi conosciuto,
in altri tempi.»
«Sì, Caderousse, sì tu mi hai conosciuto, sì tu mi hai visto.»
«Ma chi siete allora? E perché, se mi avete visto, se mi avete
conosciuto, perché mi lasciate morire?»
«Perché non c’è nulla che possa salvarti, Caderousse, le tue ferite
sono mortali. Se tu avessi potuto essere salvato, avrei intravisto
un’ultima misericordia del Signore, e sarei accorso per restituirti
alla vita e al pentimento, te lo giuro sulla tomba di mio padre!»
«Sulla tomba di tuo padre!» ripeté Caderousse rianimato da un’ultima
scintilla, e sollevandosi per osservare più da vicino l’uomo che
faceva questo giuramento, sacro a tutti gli uomini. «Ma chi sei
dunque?»
Il conte non aveva cessato di osservare il progredire dell’agonia;
capì che questo slancio di vita era l’ultimo, si avvicinò al
moribondo, e fissandolo con uno sguardo calmo e triste a un tempo,
mormorò all’orecchio: «Io sono…»
E le labbra, appena aperte, lasciarono passare un nome pronunciato
così sottovoce, che il conte sembrava temesse di sentirlo lui
stesso. Caderousse, che si era alzato sulle braccia, fece uno sforzo
per tirarsi indietro, poi congiungendo le mani e alzandole con un
estremo sforzo, disse: «Mio Dio, mio Dio! Perdono! Voi esistete, sì,
voi esistete, e nella vostra infinita misericordia e giustizia, voi
siete il padre, il giudice degli uomini. Mio Dio e Signore, io non
vi ho per lungo tempo conosciuto! Mio Dio e Signore, perdonatemi!
Mio Dio e Signore, ricevetemi!»
Caderousse chiuse gli occhi e cadde all’indietro con un ultimo
grido, con un ultimo sospiro. Il sangue si fermò subito sulle larghe
ferite. Era morto.
«Uno!» disse misteriosamente il conte, con gli occhi fissi sul
cadavere già sfigurato dalla terribile morte.
Dieci minuti dopo, il medico e il procuratore giunsero condotti,
l’uno dal portinaio, l’altro da Alì, e furono ricevuti dall’abate
Busoni che pregava vicino al morto.
83. Beauchamp
Per quindici giorni non si discusse d’altro a Parigi che del
tentativo di furto, effettuato con tanta audacia in casa del conte:
il moribondo aveva firmato una dichiarazione che indicava in
Benedetto il suo assassino. La polizia venne invitata a lanciare
tutti i suoi agenti sulle tracce dell’omicida. Il coltello di
Caderousse, la lanterna cieca, il mazzo di grimaldelli e gli abiti,
meno il panciotto che non poté ritrovarsi, furono depositati alla
polizia; il corpo fu trasportato alla Morgue. Il conte rispondeva a
tutti, che quest’avventura era accaduta mentre era nella sua casa
d’Auteuil, e di conseguenza, sapeva soltanto ciò che aveva
raccontato l’abate Busoni, che quella sera, per una strana
combinazione gli aveva chiesto di poter passare la notte in casa
sua, per consultare alcuni libri preziosi della sua biblioteca.
Bertuccio solo impallidiva tutte le volte che veniva pronunciato in
sua presenza il nome di Benedetto, ma non c’era motivo perché
qualcuno notasse il pallore di Bertuccio. Villefort, chiamato a
constatare il delitto, aveva reclamato per sé l’affare, e avviato
l’istruzione con quell’ardore appassionato che metteva in tutte le
cause criminali. Ma erano già passate tre settimane senza che le
ricerche più attive avessero condotto ad alcun risultato, e
nell’alta società cominciavano a dimenticare il furto tentato nella
casa del conte, e l’assassinio del ladro commesso dal suo complice,
per occuparsi del vicino matrimonio della signorina Danglars col
principe Andrea Cavalcanti.
Tale matrimonio era quasi dichiarato, e il giovane veniva ricevuto
in casa del banchiere con il titolo di fidanzato. Era stato scritto
al signor Cavalcanti padre, che aveva inviato la propria
approvazione al matrimonio, esprimendo tutto il suo dispiacere
perché il servizio gli impediva assolutamente di lasciare l’arma
dove era di guarnigione, e confermando un capitale di
centocinquantamila lire di rendita. Era convenuto che i tre milioni
sarebbero stati collocati presso la banca di Danglars, dove il
banchiere stesso li avrebbe fatti fruttare; alcune persone avevano
tentato di insinuare dei dubbi al giovane sulla solidità della
posizione del suo futuro suocero, che da qualche tempo sopportava in
Borsa reiterate perdite, ma il giovane con sublime disinteresse
rigettò tutti questi tentativi, sui quali ebbe la delicatezza di non
dire neppure una parola al barone. Per questo il barone adorava il
principe Andrea Cavalcanti. Non era però lo stesso per la signorina
Danglars. Nel suo odio istintivo contro il matrimonio, aveva accolto
Andrea per allontanare Morcerf, ma ora che Andrea si avvicinava
troppo, incominciava a provare per lui una visibile repulsione.
Forse il barone se ne era accorto, ma siccome non poteva attribuire
questa repulsione che a un capriccio, aveva fatto finta di non
vedere.
Frattanto la dilazione chiesta da Beauchamp era quasi trascorsa.
Morcerf, da parte sua, aveva potuto apprezzare il valore del
consiglio di Montecristo, quando questi gli aveva detto di lasciar
cadere le cose: nessuno aveva rilevato la nota sul generale, a
nessuno era venuta l’idea di riconoscere nell’ufficiale che aveva
venduto la fortezza di Giannina, il nobile conte che sedeva alla
Camera dei Pari. Però questo non era servito a placare Albert, che
si credeva insultato, perché in quelle poche righe che lo avevano
ferito c’era certamente l’intenzione di offenderlo e inoltre, il
modo con cui Beauchamp aveva terminato il colloquio, gli aveva
lasciato amare sensazioni nel cuore. Egli dunque accarezzava l’idea
di quel duello, del quale sperava, con la collaborazione di
Beauchamp, di nascondere la causa reale persino ai suoi padrini. In
quanto a Beauchamp, nessuno lo aveva più visto dopo il giorno della
visita fattagli da Albert, e a tutti quelli che andavano a domandare
di lui rispondevano che era assente per un viaggio di qualche
giorno. Dove fosse andato nessuno lo sapeva.
Una mattina Albert fu svegliato dal suo cameriere, che gli annunciò
Beauchamp. Albert si strofinò gli occhi, ordinando che facessero
aspettare Beauchamp nella saletta al pianterreno e vestitosi
velocemente scese da lui. Trovò Beauchamp che passeggiava per la
stanza; non appena lo vide, Beauchamp si fermò.
«Presentandovi in casa mia senza aspettare la visita che contavo di
farvi oggi appunto, mi fate molto piacere, signore», cominciò
Albert. «Ditemi, presto, debbo tendervi la mano dicendo: “Beauchamp,
confessate un torto, e conservatemi un amico”, o domandarvi
semplicemente: “Quali sono le vostre armi?”»
«Albert», iniziò Beauchamp, con una tristezza che colpì il giovane
di stupore, «sediamoci prima, e parliamo.»
«Mi pare, al contrario, signore, che prima di sederci dobbiate
rispondermi.»
«Albert», disse il giornalista, «vi sono circostanze in cui la
difficoltà sta precisamente nella risposta.»
«Io ve la renderò facile, signore, ripetendovi la domanda: volete
voi ritrattare, sì, o no?»
«Morcerf, non bisogna limitarsi a rispondere sì o no alle domande
che interessano l’onore, la posizione sociale, la vita di un uomo
qual è il conte Morcerf, Pari di Francia…»
«E che cosa si fa allora?»
«Si fa tutto ciò che ho fatto io, Albert. Si dice: il denaro, il
tempo e la fatica sono nulla, allorché si tratta della reputazione e
degli interessi di un’intera famiglia; si dice: se incrocio la spada
o stringo una pistola puntandola sopra un uomo al quale per due anni
ho stretto la mano, bisogna ch’io sappia almeno perché faccio una
cosa simile, affinché possa giungere sul terreno col cuore calmo, e
con la coscienza tranquilla necessaria a un uomo quando deve col suo
braccio salvarsi la vita…»
«Ebbene?» domandò Morcerf con impazienza. «Che vuol dire tutto ciò?»
«Vuol dire che vengo da Giannina.»
«Da Giannina? Voi!»
«Sì, io.»
«Impossibile!»
«Mio caro Albert, ecco il mio passaporto; guardate i visti! Ginevra,
Milano, Venezia, Trieste, Delvino, Giannina. Credete voi alla
polizia di una repubblica, di un regno, di un impero?»
Albert gettò gli occhi sul passaporto, e li rialzò meravigliato su
Beauchamp.
«Voi siete stato a Giannina!» esclamò.
«Albert, se foste uno straniero, uno sconosciuto, un semplice lord,
come quell’inglese che tre o quattro mesi fa venne a chiedermi
soddisfazione, e che ho ucciso per sbarazzarmene, voi mi capirete
che non mi sarei dato una briga simile; ma ho creduto di dovervi
dare questo segno di stima. Ho impiegato otto giorni nell’andata,
otto giorni nel ritorno, più quattro giorni di quarantena, e
quarantotto ore di soggiorno; tutto questo in tre settimane. Sono
giunto questa notte, ed eccomi qua.»
«Mio Dio, quanti giri di parole, Beauchamp, e quanto tardate a dirmi
ciò che aspetto da voi!»
«Ed è la verità, Albert.»
«Si direbbe che esitate.»
«Sì, ho paura.»
«Avete paura di confessare che il vostro corrispondente vi aveva
ingannato? Oh, dimenticate l’amor proprio, Beauchamp, confessate! Il
vostro coraggio non può essere messo in dubbio.»
«Non è questo», mormorò il giornalista, «al contrario…»
Albert impallidì spaventosamente, tentò di parlare, ma la parola gli
morì sulle labbra.
«Amico mio», disse Beauchamp, col tono più affettuoso, «credetemi,
sarei felice di potervi fare le mie scuse, e ve le farei di tutto
cuore, ma ahimè!…»
«Ma…?»
«La nota aveva ragione, amico mio.»
«Come, quell’ufficiale francese…»
«Sì.»
«Quel Fernando?»
«Sì.»
«Quel traditore che cedette la fortezza dell’amico di cui era al
servizio?…»
«Perdonatemi, amico mio, ma devo dirvi che quell’uomo è vostro
padre!»
Albert fece un movimento furioso per lanciarsi sopra Beauchamp, ma
questi lo trattenne, più con la dolcezza dello sguardo che con la
fermezza della mano.
«Guardate, amico mio», disse prendendo un foglio dalla tasca,
«eccone la prova.»
Albert aprì il foglio: era un attestato di quattro dei più nobili
abitanti di Giannina che provavano come il colonnello Fernando
Mondego, colonnello istruttore al servizio del visir Alì Tebelin,
aveva ceduto la fortezza di Giannina, ricevendone in compenso
duemila borse di monete d’oro. Le firme erano legalizzate dal
console.
Albert vacillò, e cadde sopra una sedia. Questa volta non c’era più
alcun dubbio, il nome della sua famiglia era disonorato. Così, dopo
un momento di silenzio e di dolore, il cuore gli si gonfiò, si
inturgidirono le vene del collo, e gli sgorgò dagli occhi un
torrente di lacrime. Beauchamp, che aveva guardato il giovane con
profonda pietà mentre cedeva al dolore, si avvicinò a lui.
«Albert», gli disse, «ora mi capite, non è vero? Ho voluto veder
tutto, giudicare tutto di persona, sperando che la spiegazione
sarebbe stata favorevole a vostro padre, e che avrei potuto
rendergli una completa giustizia. Ma, al contrario, le informazioni
prese comprovano che questo ufficiale istruttore, che questo
Fernando Mondego, elevato da Alì Pascià al titolo di governatore
generale, non è altro che il conte Fernando Morcerf; allora sono
ritornato, ricordandomi dell’onore che mi avete fatto di ammettermi
alla vostra amicizia, e sono corso da voi.»
Albert, sempre immobile sulla seggiola, teneva le mani sugli occhi,
quasi avesse voluto impedire alla luce di arrivare fino a lui.
«Sono accorso», continuava Beauchamp, «per dirvi: Albert, gli errori
dei nostri padri non possono ricadere sui figli. Albert, pochissimi
hanno attraversato le rivoluzioni, in mezzo alle quali siamo nati,
senza che qualche macchia di fango o di sangue abbia lordato loro
l’uniforme da soldato, o la toga da giudice. Albert, nessuno al
mondo, ora che ne ho tutte le prove, ora che sono padrone del vostro
segreto, può obbligarmi a un duello che la vostra coscienza, ne sono
certo, si rimprovererebbe come un delitto; ma ciò che voi non potete
esigere da me, io stesso vengo a offrirvelo. Queste prove, queste
rivelazioni, questi attestati che io solo possiedo, volete che
scompaiano? Volete che questo terribile segreto resti fra voi e me?
Confidate nella mia parola d’onore? Il segreto non uscirà mai dalla
mia bocca. Dite, lo volete, Albert, dite, lo volete voi?»
Albert si lanciò al collo di Beauchamp.
«Ah, nobile cuore!» gridò egli.
«Prendete», disse Beauchamp, presentando il foglio ad Albert.
Albert lo afferrò con mano tremante, lo strinse, lo spiegazzò, pensò
di stracciarlo, ma, temendo che la più piccola particella
trasportata dal vento non venisse un giorno a far riemergere la
vicenda, andò alla candela, sempre accesa per i sigari, e ne consumò
fin l’ultimo frammento.
«Caro amico, ottimo amico!» mormorò Albert mentre bruciava la carta.
«Ora tutto sia dimenticato come un cattivo sogno», riprese
Beauchamp, «e se ne disperda la memoria, come svaniscono queste
ultime scintille che scorrono sulla carta annerita, e quest’ultimo
fumo che sfugge da queste mute ceneri.»
«Sì, sì», disse Albert, «e rimanga soltanto l’eterna amicizia che
trasmetteremo ai nostri figli, amicizia che mi ricorderà sempre che
il sangue delle mie vene, la vita del mio corpo, l’onore del mio
nome, lo debbo soltanto a voi. Perché se tal cosa fosse stata
conosciuta, oh, Beauchamp, vi dichiaro che mi sarei bruciato le
cervella… Oh no, povera madre, non avrei voluto ucciderla con lo
stesso colpo, sarei stato espatriato.»
«Caro Albert!» mormorò Beauchamp.
Ma il giovane perse ben presto quella gioia inattesa e, per così
dire, fatidica, e ricadde più profondamente nella sua tristezza.
«Ebbene», domandò Beauchamp, «ditemi, che cosa c’è di nuovo, amico
mio?»
«C’è», riprese Albert, «che qualche cosa mi lacera il cuore.
Ascoltate, Beauchamp. Non è possibile a un figlio spogliarsi così in
un attimo di quel rispetto, di quella confidenza e di quell’orgoglio
che gli ispirava il nome immacolato di suo padre. Oh, Beauchamp,
come potrò ora presentarmi a lui? Come potrò offrirgli la fronte e
le guance, quando avvicinerà le sue labbra? Ritirerò la mano quando
mi tenderà la sua?… Beauchamp, io sono il più infelice degli uomini.
Ah, madre mia, mia povera madre», sospirò Albert, guardando
attraverso occhi pieni di lacrime il ritratto di sua madre, «se
veniste a saperlo quanto soffrireste!»
«Coraggio», disse Beauchamp tendendogli le mani, «coraggio, amico!»
«Ma da dove veniva quella prima nota inserita nel vostro giornale?»
gridò Albert. «Dietro a tutto ciò, c’è un odio sconosciuto, un
nemico invisibile.»
«Ebbene», continuò Beauchamp, «ragione di più. Coraggio, Albert! Non
fate comparire alcuna traccia di emozione sul volto, portate questo
dolore in voi, come la nube porta in sé la rovina e la morte,
segreto fatale che si comprende soltanto nel momento in cui scoppia
la tempesta. Andate, amico, serbate le vostre forze per il momento
di questo scoppio.»
«Voi credete dunque che non siamo giunti al termine?» domandò Albert
spaventato.
«Io non credo niente, amico mio, ma tutto è possibile. A proposito…»
«Cosa?…» domandò Albert, vedendo che Beauchamp esitava.
«Sposate sempre la signorina Danglars?»
«Perché mi fate questa domanda in un momento simile?»
«Perché penso che la rottura o il compimento di questo matrimonio
sia in relazione con ciò che ci preoccupa in questo momento.»
«In che modo?» si stupì Albert. «Voi credete che il signor
Danglars…»
«Vi domando soltanto a che punto siete con questo matrimonio. Che
diavolo! Non date alle mie parole altro senso di quello che vi do
io, né importanza maggiore di quella che hanno.»
«No», rispose Albert, «il matrimonio è andato a monte.»
«Bene», disse Beauchamp.
Quindi, vedendo che il giovane ricadeva nella sua malinconia,
continuò: «Sentite, Albert, un giro al Bois in calesse o a cavallo
vi distrarrà… Torneremo per far colazione da qualche parte e poi
torneremo ciascuno ai propri affari.»
«Volentieri», acconsentì Albert, «ma usciamo a piedi; mi sembra che
un po’ di moto mi farà bene.»
«D’accordo», disse Beauchamp.
E i due amici uscendo a piedi s’avviarono verso il boulevard. Giunti
alla Madeleine, Beauchamp riprese: «Sentite, dato che siamo di
strada, andiamo un po’ a trovare il conte di Montecristo, egli vi
distrarrà… È un uomo eccezionale nel riconfortare gli spiriti, e non
fa mai domande, e a mio avviso, la gente che non fa domande, è la
più abile consolatrice».
«Andiamo pure», disse Albert, «andiamo da lui, mi fa piacere.»
84. Il viaggio
Alla vista dei due giovani, Montecristo proruppe in un grido di
gioia.
«Oh!» esclamò. «Spero che tutto sia finito, spiegato, accomodato…»
«Sì», disse Beauchamp. «Voci assurde che sono cadute da se stesse, e
che ora, se si rinnovassero, mi avrebbero per loro primo
antagonista. Non ne parliamo dunque più.»
«Albert vi dirà», riprese il conte, «ch’io gli avevo dato il
medesimo consiglio. Ma osservate», aggiunse, «che terribile mattina
sto passando…»
«E che cosa fate? Mi sembrate occupato a mettere in ordine le vostre
carte.»
«Le mie carte? Grazie a Dio, no! Nelle mie carte c’è sempre ordine,
un ordine meraviglioso, poiché non ne ho… Queste sono le carte del
signor Cavalcanti.»
«Del signor Cavalcanti?» domandò Beauchamp.
«Eh sì, sapete bene, quel giovanotto lanciato in società dal conte»,
spiegò Morcerf.
«No davvero», continuò Montecristo, «io non ho lanciato nessuno, e
il signor Cavalcanti meno di chiunque altro.»
«E che sposerà la signorina Danglars al posto mio, cosa che»,
sottolineò Albert, sforzandosi di sorridere, «come potete bene
immaginare, mi addolora profondamente, mio caro Beauchamp.»
«E che? Venite forse dai confini del mondo?» domandò Montecristo.
«Voi, giornalista, sposato alla signora Fama! Ne parla tutta
Parigi.»
«E siete voi, signor conte, ad aver combinato questo matrimonio?»
domandò Beauchamp.
«Io? Ehi, silenzio, mio signor scribacchino! Non raccontate simili
cose: io, mio Dio, combinare un matrimonio! No, voi non mi
conoscete. Mi ci sono anzi opposto con tutto il mio potere, ho
rifiutato di fare la domanda.»
«Capisco», disse Beauchamp, «a causa del nostro amico Albert?»
«Per causa mia?» saltò su il giovane. «Oh, no, davvero! Il conte può
testimoniare che l’ho sempre pregato, al contrario, di ostacolare
questo progetto, che fortunatamente è fallito. Il conte pretende di
non essere lui quello che devo ringraziare, sia, innalzerò, come gli
antichi, un altare al dio ignoto.»
«Ascoltate», riprese Montecristo, «ho avuto così poca parte in
questo affare, che sono ricevuto freddamente dal futuro genero, dal
giovane. La sola che mi abbia conservato un po’ di affetto, è la
signorina Eugénie, alla quale, come noto, ero ben lontano dall’idea
di far perdere la sua cara libertà.»
«E dite che questo matrimonio è sul punto di realizzarsi?»
«Mio Dio, sì, malgrado tutto ciò che ho potuto dire. Io non conosco
il giovane; affermano che sia ricco e di buona famiglia, ma per me
tali cose non sono che un semplice “si dice”. Ho ripetuto tutto
questo a sazietà, al signor Danglars, ma lui si è incapricciato del
suo lucchese. Sono perfino giunto a confidargli una circostanza, che
per me è gravissima: il giovane è stato, non so bene se scambiato a
balia, rapito dagli zingari o perduto dal suo precettore. Ma quello
che so è che suo padre è stato senza vederlo per più di dieci anni;
ciò che ha fatto durante questi dieci anni di vita errante, Dio solo
lo sa. Mando loro le sue carte, ma come Pilato, me ne lavo le mani.»
«E la signorina d’Armilly», domandò Beauchamp, «come vi tratta,
visto che le portate via la sua allieva?»
«Non ne so molto, ma sembra che parta per l’Italia. La signorina
Danglars mi ha parlato di lei, e domandato lettere per gli
impresari: le ho dato due righe per il direttore del teatro Valle,
che mi deve qualche favore. Ma che cosa avete dunque, Albert? Mi
sembrate ben triste: sareste forse, senza accorgervene, innamorato
della signorina Danglars, per esempio?»
«No, ch’io sappia…» mormorò Albert sorridendo amaramente.
Beauchamp si mise a guardare i quadri.
«Però», continuò Montecristo, «non siete del solito umore. Sentiamo,
che cosa avete? Dite.»
«Ho l’emicrania», disse Albert.
«Ebbene, mio caro visconte», riprese Montecristo, «io ho per questi
casi un rimedio infallibile, rimedio che ha sempre funzionato ogni
volta che ho avuto qualche fastidio.»
«E quale?» domandò il giovane.
«Partire.»
«Davvero?» disse Albert.
«Sì, e sentite: siccome in questo momento ho diversi fastidi, me ne
vado. Volete venire con me?»
«Voi dei fastidi, signor conte?» si stupì Beauchamp. «E perché?»
«Voi ne parlate con molta indifferenza… Vorrei veder voi con un
processo che si istruisce in casa vostra!»
«Un processo! Che processo?»
«Quello che il signor Villefort istruisce contro il mio amabile
assassino, una specie di brigante fuggito di galera, a quanto
sembra.»
«È vero», disse Beauchamp, «ho saputo di quest’affare al giornale.
Chi è questo Caderousse?»
«Mi sembra sia un provenzale. Il signor Villefort ne ha sentito
parlare quando era a Marsiglia, e il signor Danglars si ricorda
d’averlo già visto. Ne risulta che il procuratore prende l’affare
assai a cuore, molto più di quanto abbia, a quanto sembra,
interessato il prefetto di polizia, e questo interesse, di cui gli
sono riconoscente, mi fa inviare tutti i banditi che si possono
raccogliere a Parigi e nelle vicinanze, sotto pretesto ch’essi sono
gli assassini di Caderousse, e ne risulta che in tre mesi, se
continua così, non vi sarà più un ladro o un assassino in questo
regno, che non conosca la pianta della mia casa sulla punta delle
dita. Per cui decido di abbandonarla loro interamente, e di
andarmene lontano quanto mi potrà portare la terra. Venite con me,
visconte?»
«Sì, volentieri!»
«Allora è deciso?»
«Sì, ma dove andremo?»
«Ve l’ho detto, dove l’aria è più pura, e tutto è silenzio, dove,
per quanto uno sia orgoglioso, si sente umile e si ritrova piccolo.
Malgrado mi chiamino padrone dell’universo come Augusto, a me piace
questa umiliazione.»
«Ma infine dove andate?»
«Al mare, visconte, al mare. Io sono un marinaio, sapete… Da bambino
sono stato cullato fra le braccia del vecchio Oceano, e sul seno
della bella Anfitrite; ho giocato col mantello verde dell’uno e con
la sottana azzurra dell’altra. Amo il mare come si può amare
un’amica, e quando è lungo tempo che non lo vedo, mi vengono le
smanie.»
«Andiamo, conte, andiamo…»
«Al mare?»
«Sì.»
«Accettate?»
«Accetto.»
«Ebbene visconte, questa sera nel mio cortile ci sarà una carrozza
da viaggio in cui uno può stendersi come nel proprio letto; ci
saranno attaccati quattro cavalli da posta. Signor Beauchamp,
quattro persone ci stanno comodamente. Volete venir con noi? Vi
prendo con me.»
«Grazie, arrivo ora dal mare.»
«Come, venite dal mare?»
«Sì, o quasi, ritorno da un piccolo viaggio alle isole Borromee.»
«Che importa… Venite lo stesso!» ripeté Albert.
«No, caro Morcerf, dal modo come rifiuto, dovete capire che la cosa
è impossibile. D’altra parte è necessario ch’io resti a Parigi»,
replicò, parlando a bassa voce, «non fosse altro, che per
sorvegliare la cassetta del giornale.»
«Voi siete un ottimo ed eccellente amico!» disse Albert. «Sì, avete
ragione, vegliate, sorvegliate, Beauchamp e cercate di scoprire
l’autore di quella nota.»
Albert e Beauchamp si separarono; la loro ultima stretta di mano
esprimeva tutto ciò che le loro labbra non potevano dire davanti
allo straniero.
«È un eccellente giovane questo Beauchamp», disse Montecristo, dopo
la partenza del giornalista, «non è vero, Albert?»
«Sì, un uomo di cuore, ve lo garantisco; per questo io l’amo con
tutta l’anima. Ma ora che siamo soli, sebbene per me sia lo stesso,
dove andiamo?»
«In Normandia, se non vi spiace.»
«A meraviglia. Saremo in campagna, non è vero? Nessuna compagnia,
nessun vicino?»
«Saremo a quattr’occhi con cavalli per correre, cani per cacciare,
barche per pescare, ed ecco tutto.»
«È quello che mi serve. Vado ad avvertire mia madre, e sono ai
vostri ordini.»
«Ma», disse Montecristo, «vi daranno il permesso?»
«Di che?»
«Di venire in Normandia…»
«A me? E perché? Non sono più libero?»
«Di andare dove vi piace, da solo, lo so bene, dato che vi ho
incontrato in giro per l’Italia…»
«E allora?»
«Ma venire con l’uomo misterioso che si chiama conte di
Montecristo…»
«Avete poca memoria, conte.»
«Perché?»
«Non vi ho parlato di tutta la simpatia che ha per voi mia madre?»
«Spesso la donna cambia, ha detto Francesco I: la donna è un’onda,
ha detto Shakespeare: l’uno fu un gran re, l’altro un gran poeta, ed
entrambi dovevano conoscere la donna.»
«Sì, la donna, ma mia madre non è la donna, è una donna.»
«Scusatemi, se, da straniero, non arrivo a capire tutta la
sottigliezza contenuta in questo gioco di parole!»
«Voglio dire che mia madre è avara dei suoi affetti, ma, quando li
ha concessi una volta, è per sempre.»
«Davvero?» sospirò Montecristo. «E credete che mi faccia l’onore di
sentire per me qualche cosa di più di una perfetta indifferenza?»
«Ve l’ho già detto e ve lo ripeto», rispose Morcerf, «voi siete un
uomo straordinario e superiore agli altri.»
«Oh!»
«Sì, poiché mia madre si è lasciata prendere, non dirò dalla
curiosità, ma dall’interesse che avete saputo ispirarle. Quando noi
siamo soli non parliamo che di voi.»
«Vi dice dunque di non fidarvi di questo Manfredi?»
«Al contrario, mi dice: “Albert, io credo che il conte abbia un
nobile carattere; cerca di farti amare da lui”.»
Montecristo girò gli occhi e sospirò.
«Davvero?» disse.
«Di modo che, come ben capirete», continuò Albert, «invece di
opporsi al mio viaggio, lo approverà di tutto cuore, poiché coincide
con le raccomandazioni che mi fa ogni giorno.»
«Andate dunque», lo invitò Montecristo. «Questa sera siate qui alle
cinque, noi arriveremo laggiù a mezzanotte o all’una.»
«Come a Tréport…?»
«Tréport o nei dintorni.»
«Otto ore appena per fare quarantotto leghe?»
«È anche troppo», osservò Montecristo.
«Voi siete decisamente l’uomo dei prodigi, e giungerete non solo a
superare le ferrovie, cosa non molto difficile in Francia, ma anche
a correre più presto d’una notizia telegrafica.»
«Tuttavia, visconte, siccome ci vogliono sempre sette od otto ore
per giungere laggiù, siate puntuale.»
«State tranquillo: non ho nient’altro da fare fino ad allora, se non
prepararmi.»
«Alle cinque dunque.»
«Alle cinque.»
Albert sorrise, Montecristo dopo avergli fatto, sorridendo, un segno
con la testa, stette per un istante pensieroso, e come assorto da
una profonda meditazione. Finalmente, passandosi la mano sulla
fronte come per allontanare una visione, andò al campanello e batté
due colpi. Subito dopo, entrò Bertuccio.
«Bertuccio», cominciò, «ho deciso di andare in Normandia non
dopodomani, né domani, come avevo pensato, ma questa sera stessa. Da
qui alle cinque c’è più tempo di quello che occorre: farete
preparare i cavalli della prima posta. Mi accompagna il signor
Morcerf. Andate.»
Bertuccio obbedì, e un corriere corse a Pontoise ad annunciare che
la carrozza da posta sarebbe passata alle sei precise; il
palafreniere di Pontoise ne inviò un altro alla seconda posta, e
questi un altro alla terza; e sei ore dopo, tutte le stazioni di
cambio disposte lungo la linea erano avvertite.
Prima di partire il conte salì da Haydée ad avvertirla che partiva,
dicendole per dove, e mise tutta la casa ai suoi ordini.
Albert fu puntuale. Il viaggio, taciturno all’inizio, divenne presto
espansivo per l’effetto della rapidità. Morcerf non aveva idea di
tanta celerità.
«Infatti», disse Montecristo, «con la vostra posta che fa due leghe
l’ora, con quella stupida legge che proibisce ai viaggiatori di
sorpassarsi l’un l’altro senza averne ottenuto il permesso, in modo
che un viaggiatore ammalato ha diritto di far stare dietro a sé i
viaggiatori sani che hanno fretta, non è possibile andare sulle
strade pubbliche; evito questo inconveniente, viaggiando col mio
postiglione e i miei cavalli. Non è vero Alì?»
E il conte sporse la testa dallo sportello, ed emise un piccolo
grido di eccitazione che mise le ali ai piedi dei cavalli; non
correvano più, volavano. La carrozza andava come un fulmine, sulla
strada regia, e ciascuno si voltava per veder passare la meteora.
Alì, ripetendo quel grido, sorrideva mostrando i denti bianchi, e,
stringendo fra le robuste mani le redini spumeggianti, spronava i
cavalli, le cui criniere fremevano al vento; Alì, il figlio del
deserto, si trovava nel suo elemento, e col viso nero, gli occhi
ardenti, il mantello bianco come neve, sembrava in mezzo alla
polvere che si sollevava, il genio delle tenebre e il dio degli
uragani.
«Ecco», disse Morcerf, «un piacere che io non conoscevo, il piacere
della velocità.»
E le ultime nubi sulla sua fronte si dissiparono, come se l’aria che
fendeva le avesse portate via con sé.
«Ma dove diavolo trovate simili cavalli?» domandò Albert. «Li fate
forse fare apposta?»
«Esatto», rispose il conte. «Sei anni fa trovai in Ungheria un
famoso stallone rinomato per la sua velocità; lo comprai non so bene
per quanto, perché lo pagò Bertuccio. Nello stesso anno ebbe
trentadue figli: stiamo vagliando tutta la sua prole. Essi sono
tutti uguali, neri, senza alcuna macchia, fuorché una stella in
fronte, perché a questa privilegiata razza furono destinate tutte
cavalle scelte, come si scelgono ai pascià le favorite.»
«Ammirabile! Ma, ditemi, conte, che ne fate di tutti questi
cavalli?»
«Lo vedete, viaggio.»
«Ma non viaggiate sempre…»
«Quando non ne avrò più bisogno, Bertuccio li venderà, e scommetto
che ci guadagnerà trenta o quarantamila franchi.»
«Ma in Europa non ci sarà principe così ricco da comprarli.»
«Allora li venderò a qualche semplice visir d’Oriente, che vuoterà
il suo tesoro per comprarli, e lo riempirà poi di nuovo facendo
somministrare bastonate sotto la pianta dei piedi ai sudditi.»
«Conte, volete che vi dica un pensiero che mi è venuto?»
«Ditelo.»
«Dopo voi, il signor Bertuccio deve essere il più ricco privato
d’Europa.»
«Vi sbagliate, visconte, sono sicuro che se rovesciate le tasche di
Bertuccio non ci troverete il valore di dieci soldi.»
«E perché?» domandò il giovane. «Il signor Bertuccio è dunque un
fenomeno? Ah, mio caro conte, non mi ingolfate troppo nel favoloso,
o io non crederò più, vi avverto.»
«Non troverete mai il favoloso vicino a me, Albert: cifre e ragione,
ecco tutto. Ora ascoltate questo dilemma: un intendente ruba, ma
perché ruba?»
«Perché è nella sua natura mi pare», rispose Albert, «ruba per
rubare.»
«No, v’ingannate. Ruba perché ha moglie, figli, desideri ambiziosi
per sé e per la famiglia; ruba perché non è sicuro di star sempre
col suo padrone, vuol farsi un avvenire. Ebbene, il signor Bertuccio
è solo al mondo, fa uso della mia borsa senza renderne conto, è
sicuro di non lasciarmi mai.»
«E perché?»
«Perché non potrei trovarne uno migliore.»
«Voi vi aggirate in un circolo vizioso quale è quello delle
probabilità.»
«Oh no, sono in quello delle certezze: il buon servitore, per me, è
quello sul quale ho diritto di vita e di morte.»
«E avete questo diritto sopra Bertuccio?»
«Sì», rispose freddamente il conte.
Vi sono parole che chiudono il discorso come una porta di ferro; il
sì del conte era una di queste. Il resto del viaggio si compì con la
stessa celerità; i trentadue cavalli divisi in otto poste, fecero le
loro quarantasette leghe in otto ore. Nel cuor della notte giunsero
alla porta di un bel parco; il portinaio era in piedi, e teneva il
cancello aperto, essendo stato avvertito dal palafreniere
dell’ultima posta. Erano le due e mezzo del mattino; Albert fu
condotto nel suo appartamento, dove trovò pronto un bagno e la cena.
Il domestico, che aveva fatto la strada sul sedile dietro la
carrozza, fu messo a sua disposizione. Battistino, che aveva fatto
la strada sul sedile davanti, era agli ordini del conte.
Albert fece il bagno, cenò, e se ne andò a letto. Tutta la notte fu
cullato dal malinconico rumore delle onde. Alzandosi, andò
direttamente alla finestra, e apertala si trovò sopra un piccolo
terrazzo affacciato sulla distesa del mare, nella parte posteriore
un bel parco che conduceva a una piccola foresta. In una rada
piuttosto ampia galleggiava una piccola corvetta, di stretta carena,
con alberatura slanciata, e che portava una bandiera con lo stemma
di Montecristo, stemma che rappresentava una montagna d’oro sopra un
mare azzurro. Intorno alla goletta una quantità di piccole barchette
che appartenevano ai pescatori dei villaggi vicini e sembravano
umili sudditi che stessero ad aspettare gli ordini della loro
regina.
Là, come in tutti i luoghi dove si fermava Montecristo, fosse pure
per due o tre giorni soltanto, la vita era organizzata con tutti i
comodi e piaceri: in tal modo il vivere diventa facile. Albert trovò
nella sua anticamera due fucili, e tutti gli attrezzi necessari a un
cacciatore. Un’altra stanza, al pianterreno, era consacrata a tutti
quegli utensili e a quelle macchinette ingegnose che gli inglesi,
grandi pescatori, perché pazienti e oziosi, non hanno ancora potuto
far adottare ai pescatori francesi, tenaci nelle vecchie usanze.
Tutta la giornata passò in questi diversi esercizi, nei quali
Montecristo era eccellente: furono uccisi una dozzina di fagiani nel
parco, e pescate delle trote nei ruscelli; e, dopo il pranzo fatto
nel chiosco, che dava sul mare, fu servito il tè nella biblioteca.
Verso la sera del terzo giorno, Albert spossato dalla fatica di
quella laboriosa vita, che sembrava un gioco per Montecristo,
dormiva su un sofà vicino a una finestra, mentre il conte faceva col
suo architetto il piano di una serra che voleva erigere nella casa,
allorché il rumore di un cavallo al galoppo nella strada fece alzare
la testa al giovane. Guardò dalla finestra e con gradevolissima
sorpresa scoprì nel cortile il suo cameriere, dal quale non aveva
voluto farsi seguire per non imbarazzare troppo Montecristo.
«Florentin qui», gridò balzando dal sofà. «Che mia madre si sia
ammalata?»
E si precipitò verso la porta della camera. Montecristo lo seguì con
gli occhi, e lo vide accostarsi al cameriere, che tutto ansante,
tolse di tasca una lettera e un giornale.
«Di chi è questa lettera?» domandò con vivacità Albert.
«Del signor Beauchamp», rispose Florentin.
«È dunque Beauchamp che vi manda qui?»
«Sì, signore. Mi ha fatto andare da lui, mi ha dato il denaro
necessario per il viaggio, mi ha fornito di un cavallo da posta, e
mi ha fatto promettere che non mi sarei fermato fino a che non vi
avessi raggiunto signore: ho fatto la strada in quindici ore.»
Albert aprì la lettera fremendo; alle prime righe mandò un grido,
poi afferrò il giornale con visibile tremito. A un tratto gli si
oscurarono gli occhi, le gambe gli vennero meno, e, vicino a cadere,
si appoggiò a Florentin, che tese le braccia per sostenerlo.
«Povero giovane!» mormorò Montecristo tanto sommessamente, che
neppure lui stesso poté udire il suono di queste parole di
compassione. «È dunque stabilito che gli errori dei padri debbano
ricadere sui figli fino alla terza o quarta generazione?»
Albert aveva recuperato il dominio di sé e, dopo aver riletto la
lettera l’aveva spiegazzata insieme al giornale. Quindi aveva
chiesto al servo: «Mio Dio, in che stato era la mia famiglia, quando
l’avete lasciata?»
«Ritornando dalla casa del signor Beauchamp, ho trovato la signora
in lacrime. Mi aveva fatto chiamare per sapere quando avreste potuto
essere di ritorno. Allora le ho detto che partivo subito su incarico
del signor Beauchamp. Il suo primo impulso è stato quello di
fermarmi, ma dopo un istante di riflessione, ha detto: “Sì, andate
Florentin. È meglio che ritorni…”»
«Sì, madre mia», proruppe Albert, «ritorno, stai tranquilla,
ritorno… E guai all’infame! Ma innanzitutto bisogna che io parta…
Florentin», aggiunse, «il vostro cavallo è in grado di riprendere la
strada di Parigi?»
«È un cattivo ronzino da posta, e in più storpio…»
Allora Albert tornò nella stanza dove aveva lasciato Montecristo.
Non era più lo stesso uomo; cinque minuti erano bastati a cambiarlo:
ora il conte si trovava davanti un Albert con la voce alterata, il
viso rosso di febbre, l’occhio sfavillante, il passo vacillante.
«Conte», disse, «vi ringrazio dell’ospitalità. Avrei voluto goderne
più a lungo, ma è necessario che io torni a Parigi.»
«Ma cosa è dunque accaduto?»
«Una gran disgrazia. Ma permettetemi di partire, si tratta di una
cosa molto più preziosa della mia vita. Non mi fate domande, conte,
ve ne supplico, ma datemi un cavallo.»
«Le mie scuderie sono al vostro servizio, visconte», disse
Montecristo, «ma voi morirete di fatica correndo a cavallo; prendete
un calesse, una carrozza.»
«No, sarebbe troppo lunga, e poi ho bisogno di fare questa fatica di
cui temete, mi farà bene.»
Albert fece alcuni passi barcollando come un uomo colpito da una
pallottola, e andò a cadere sopra una sedia vicino alla porta.
Montecristo non vide questo secondo momento di debolezza; era alla
finestra che gridava: «Alì, un cavallo per il signor Morcerf!
Presto, che ha premura!»
Queste parole ridiedero la vita ad Albert; si lanciò fuori dalla
stanza, seguito dal conte.
«Grazie», mormorò il giovane balzando in sella. «Voi, Florentin,
tornerete più presto che potrete. Nessuna parola d’ordine per il
cambio del cavallo?»
«Nient’altro che lasciare quello che cavalcate, ve ne selleranno
all’istante un altro.»
Albert stava per partire, ma si fermò.
«Forse vi parrà strana, insensata la mia partenza», spiegò il
giovane. «Voi non comprendete come poche righe d’un giornale possano
portare un uomo alla disperazione. Ebbene», aggiunse gettandogli il
quotidiano, «leggete queste, ma solo quando sarò partito, affinché
non vediate la mia vergogna.»
Mentre il conte raccoglieva il giornale, egli piantò gli speroni nel
ventre del cavallo, che scosso il cavaliere che credeva necessario
un simile strumento per lui, partì come un dardo. Il conte seguì il
giovane con gli occhi, con un sentimento di compassione infinita, e
come fu scomparso, abbassando gli occhi sul giornale, lesse ciò che
segue: «Quell’ufficiale francese al servizio di Alì Pascià di
Giannina, di cui parlava tre settimane fa il giornale “L’impartial”
e che non soltanto vendette la fortezza di Giannina, ma anche il suo
benefattore ai turchi, si chiamava in quell’epoca Fernando, come ha
detto il nostro onorevole collega. In quell’occasione ha aggiunto al
suo vero nome un titolo di nobiltà e un nome di terra. Oggi si
chiama signor conte Morcerf, e fa parte della Camera dei Pari».
In tal modo, dunque, il terribile segreto che Beauchamp aveva
seppellito con tanta generosità ricompariva come fantasma armato, e
un altro giornale, brutalmente informato, aveva pubblicato, il
giorno dopo la partenza d’Albert per la Normandia, quelle righe che
per poco non fecero diventar pazzo il giovane.
85. Il giudizio
Alle otto della mattina, Albert entrò come un fulmine nella casa di
Beauchamp. Il cameriere, avvertito, introdusse Morcerf nella camera
del suo padrone, ch’era allora entrato in bagno.
«Ebbene?» domandò Albert.
«Ebbene, povero amico mio, vi attendevo», rispose Beauchamp.
«Eccomi. Non starò a dirvi, Beauchamp, che assai persuaso della
vostra lealtà e virtù, non penso neppure che abbiate parlato a
qualcuno di tutto ciò… D’altro canto, il messaggio che mi avete
spedito è una garanzia della vostra affermazione. Per cui, non
perdiamo tempo in preamboli. Avete qualche sospetto da dove possa
venire questo colpo?»
«Vi dirò due parole in breve.»
«Ma prima, amico mio, dovete informarmi sulla storia di questo
abominevole tradimento.»
Allora Beauchamp raccontò al giovane, schiacciato sotto il peso
della vergogna e del dolore, i fatti che racconteremo in tutta la
loro semplicità. La mattina dell’antivigilia, l’articolo era
comparso in un giornale ch’era tutt’altro che «L’impartial», e ciò
dava maggiore gravità all’affare, in un giornale molto diffuso
appartenente al governo. Beauchamp faceva colazione quando gli
capitò sott’occhio la nota; mandò subito a prendere un calesse,
senza finire il pasto, e corse alla direzione del giornale.
Benché professasse sentimenti politici diametralmente opposti a
quelli del direttore del giornale accusatore, Beauchamp, cosa che
accade qualche volta, e noi diremo anche sovente, era suo intimo
amico. Allorché arrivò da lui, il direttore leggeva il proprio
giornale e sembrava compiacersi nel vedere in una prima colonna,
sotto la cronaca di Parigi, un articolo sullo zucchero di
barbabietola, che probabilmente aveva scritto lui.
«Amico mio», iniziò Beauchamp, «poiché avete fra le mani il vostro
giornale, mio caro, non ho bisogno di dirvi che cosa mi conduce da
voi.»
«Sareste per caso sostenitore dello zucchero di canna?» domandò il
direttore del giornale ministeriale.
«No, anzi sono estraneo alla questione, vengo per tutt’altra cosa.»
«Per che cosa venite?»
«Per l’articolo Morcerf.»
«Davvero? Non è un articolo curioso?»
«Tanto curioso che correte il rischio di essere citato per
diffamazione, mi pare, e d’andare incontro a un processo molto
pericoloso.»
«Niente affatto: con la nota abbiamo ricevuto tutti i documenti di
prova, e siamo perfettamente convinti che il signor Morcerf rimarrà
tranquillo: d’altra parte è un servizio che si rende al Paese,
denunciare i nomi di coloro che sono immeritevoli degli onori che
godono.»
Beauchamp restò interdetto.
«Ma chi è stato dunque, a informarvi così bene?» domandò. «Il mio
giornale, che ha risvegliato l’attenzione per primo, è stato
costretto ad astenersi d’andar oltre per mancanza di prove. Anche se
noi siamo più interessati di voi nello smascherare il signor
Morcerf, che è della Camera dei Pari, mentre noi scriviamo per
l’opposizione.»
«La cosa è semplicissima: non siamo corsi noi dietro allo scandalo,
è venuto esso a trovarci. È giunto un uomo da Giannina portando il
dossier, e siccome esitavamo a pubblicarlo, ci ha manifestato che se
noi ci fossimo rifiutati, l’articolo sarebbe comparso su un altro
giornale. In fede mia, voi ben lo sapete, Beauchamp, cosa sia una
notizia importante: non abbiamo voluto lasciarcela rubare. Ora il
colpo è dato: è terribile, e rimbomberà fino ai confini d’Europa.»
Beauchamp comprese che non c’era più che da abbassare la testa e
uscì disperato per mandare un corriere a Morcerf. Ma ciò che non
aveva potuto scrivere ad Albert, poiché le cose che stiamo per
raccontare avvennero dopo la partenza del corriere, è che alla
Camera dei Pari, in quello stesso giorno, regnava una grande
agitazione tra i diversi gruppi di quell’alta assemblea, di solito
così calma. Quasi tutti erano giunti prima dell’ora, e discorrevano
del sinistro avvenimento che stava per occupare l’attenzione del
pubblico e per fissarla sopra uno dei membri più distinti e
conosciuti di quell’illustre consesso.
Erano letture a bassa voce dell’articolo, commenti e scambi di
ricordi che stabilivano ancor meglio i fatti. Il conte Morcerf non
era amato fra i suoi colleghi. Come tutti gli innalzati da poco, era
stato costretto, per mantenersi al suo rango, a osservare un eccesso
di alterigia. L’antica nobiltà rideva di lui, e gli ingegni lo
ripudiavano, gli uomini celebri lo disprezzavano per istinto. Il
conte era ormai diventato la vittima sacrificale. Una volta
designato dall’Ente supremo per il sacrificio, ciascuno si
affrettava a gridare: «A morte!» Il solo conte Morcerf non ne sapeva
nulla, non essendo abbonato al giornale che aveva riportato la
notizia infamante, e avendo passato tutta la mattina a scriver
lettere e a provare un cavallo. Egli giunse dunque alla sua ora
solita, a testa alta, l’occhio superbo, il contegno insolente, e,
sceso di carrozza, oltrepassò i corridoi, ed entrò nella sala senza
notare l’esitazione degli uscieri e i saluti equivoci dei colleghi.
Quando Morcerf entrò, la seduta era già aperta da una mezz’ora.
Sebbene il conte fosse ignaro, come abbiamo detto, dell’accaduto, e
di conseguenza non avesse cambiato in nulla il suo contegno, pure
agli occhi di tutti parve più superbo del solito, e la sua presenza
in quell’occasione parve così insultante a quell’assemblea tanto
gelosa del proprio onore, che tutti la considerarono come una
mancanza di riguardo, molti come una bravata, alcuni come un
insulto. Era evidente che tutta la Camera ardeva dal desiderio di
giungere a una discussione. Si vedeva il giornale accusatore nelle
mani di tutti; ma, come sempre, ciascuno esitava a prendere su di sé
la responsabilità dell’attacco. Finalmente uno di quegli onorevoli
Pari, nemico dichiarato del conte Morcerf, salì alla tribuna con una
solennità che preannunciava il momento tanto atteso.
Si fece un glaciale silenzio. Morcerf solo ignorava la causa della
profonda attenzione che questa volta si prestava a un oratore di
solito non ascoltato con tanta compiacenza. Il conte lasciò passare
tranquillamente il preambolo, per mezzo del quale l’oratore
stabiliva ch’egli stava per parlare di cose talmente gravi e sacre e
vitali per la Camera, che domandava tutta l’attenzione dei suoi
colleghi. Alle prime parole di Giannina e del colonnello Fernando,
il conte Morcerf impallidì così orribilmente, che, in un solo
fremito, l’assemblea concentrò tutti gli sguardi sul conte. Le
ferite mortali hanno questo di particolare, che si nascondono, ma
non si chiudono; sempre dolorose, sempre pronte a spremere sangue
quando si toccano, rimangono vive e sensibili nel cuore.
Terminata la lettura dell’articolo, sempre nel più assoluto
silenzio, interrotto soltanto da un fremito che cessò nell’istante
in cui si vide che l’oratore stava per riprendere nuovamente la
parola, l’accusatore espose il suo scrupolo, e la difficoltà della
sua impresa; si trattava dell’onore del signor Morcerf, di quello di
tutta la Camera, che pretendeva difendersi esigendo una discussione,
che doveva però affrontare argomenti personali e quindi sempre
troppo scandalistici per essere trattati pubblicamente. Finalmente
concluse chiedendo che fosse istituito un processo tanto rapido da
confondere la calunnia, prima che avesse il tempo di ingigantire, e
per ristabilire il signor Morcerf, vendicandolo, nel posto che la
pubblica opinione gli aveva riconosciuto da lungo tempo.
Morcerf era così oppresso, così tremante di fronte a quell’immensa e
inattesa calamità, che appena poté balbettare alcune parole,
guardando i suoi colleghi con occhio stravolto. Quella timidezza,
che d’altra parte si poteva ancora spiegare per lo stupore che porta
all’innocente l’onta del delitto, gli conciliò la simpatia di
alcuni. Gli uomini veramente generosi sono sempre pronti a diventare
misericordiosi, quando la disgrazia del nemico oltrepassa i limiti
della loro collera. Il presidente mise ai voti se avesse dovuto aver
luogo il processo; dopo votazione per mezzo di alzata e seduta, fu
chiesto quanto tempo gli occorresse per preparare la sua difesa. Era
tornato il coraggio a Morcerf, da quando si era sentito ancora vivo
dopo un così terribile colpo.
«Signori colleghi», rispose, «non è già col tempo che si respinge un
attacco come quello che oggi mi viene diretto da nemici sconosciuti,
rimasti fra le ombre della loro oscurità. Con un fulmine devo
rispondere al baleno che per un momento mi ha abbagliato. Ah, perché
mai non mi è dato, invece di esser costretto a tale giustificazione,
di dover spargere il mio sangue per provare ai miei nobili colleghi
che sono degno di camminare al loro fianco?»
Queste parole produssero un’impressione favorevole all’accusato.
«Io domando dunque», continuò, «che il processo abbia luogo il più
presto possibile e produrrò alla Camera tutte le prove necessarie
per l’efficacia di questo processo.»
«Che giorno fissate?» domandò il presidente.
«Mi metto fin d’oggi a disposizione della Camera», rispose il conte.
Il presidente suonò il campanello.
«È del parere la Camera», domandò, «che abbia luogo oggi stesso?»
«Sì», fu l’unanime risposta dell’assemblea.
Fu nominata una commissione di dodici membri per esaminare i
documenti che doveva presentare Morcerf. L’ora della prima seduta di
quella commissione fu stabilita alle otto della sera negli uffici
della Camera. Se fossero state necessarie diverse sedute sarebbero
state fatte alla stessa ora e nello stesso luogo. Presa questa
decisione, Morcerf domandò il permesso di ritirarsi. Egli doveva
raccogliere i documenti già da lui preparati da lungo tempo, per far
fronte a questo uragano previsto dal suo astuto e indomabile
carattere.
Beauchamp raccontò all’amico tutto ciò che fin qui abbiamo narrato,
tranne che il suo racconto aveva sul nostro il vantaggio che hanno
le cose vive sulle morte. Albert lo ascoltò ora, fremente di
speranza, ora di collera, ora di vergogna; poiché dalla confidenza
fattagli da Beauchamp sapeva che suo padre era colpevole e
rifletteva in che modo, poiché era colpevole, poteva giungere a
provare la sua innocenza.
Giunto a tal punto, Beauchamp tacque.
«E poi?» domandò Albert.
«Poi?» ripeté Beauchamp.
«Sì.»
«Amico mio, questa domanda mi trascina a una orribile necessità.
Volete sapere il resto?»
«Bisogna che lo sappia, amico mio, e desidero saperlo piuttosto
dalla vostra bocca che da qualunque altra.»
«Ebbene», riprese Beauchamp, «raccogliete dunque tutto il vostro
coraggio, Albert, voi non ne avete mai avuto tanto bisogno.»
Albert si passò una mano sulla fronte per farsi animo, come un uomo
che, preparandosi a difendere la propria vita, prova la sua corazza,
e fa piegare la lama della sua spada. Si sentì forte, perché prese
la febbre per energia.
«Avanti!» disse.
«Giunse la sera», continuò Beauchamp, «e tutta Parigi era in attesa
di questo avvenimento. Molti pretendevano che a vostro padre
bastasse mostrarsi per far crollare tutta l’accusa; molti dicevano
che il conte non si sarebbe presentato; certuni assicuravano di
averlo visto partire per Bruxelles; altri andarono alla polizia per
vedere se era vero, com’essi dicevano, che il conte fosse andato a
prendere i passaporti. Io feci tutto il possibile, ve lo confesso»,
proseguì Beauchamp, «per ottenere da uno dei membri della
commissione, un giovane Pari mio amico, di essere introdotto in una
specie di tribuna. Alle sette venne a prendermi, e, prima che fosse
giunto qualcuno, mi raccomandò al portiere, che mi chiuse in una
specie di loggia. Io ero nascosto da una colonna, e perduto
nell’oscurità più completa, in attesa di vedere e sentire la
terribile scena che stava per svolgersi. Alle otto precise tutti
erano giunti. Il signor Morcerf entrò all’ultimo tocco delle otto:
teneva in mano alcune carte e dal suo contegno sembrava calmo;
contro il solito, la sua andatura era semplice, il vestire ricercato
e severo, e, secondo il costume degli antichi militari, portava
l’abito tutto abbottonato. La sua presenza produsse il miglior
effetto: la commissione era lungi dall’essere ostile al conte, e
molti dei suoi membri gli andarono incontro, stringendogli la mano.»
Albert sentiva il cuore crivellato da tutti quei particolari, e nel
suo dolore provava un sentimento di riconoscenza; avrebbe voluto
abbracciare quegli uomini, che avevano dato a suo padre tale
dimostrazione di stima in un momento in cui il suo onore era
compromesso.
«In quel momento entrò un usciere, e rimise una lettera al
presidente. “Voi avete la parola, signor Morcerf”, disse il
presidente mentre dissigillava la lettera. Il conte incominciò la
sua apologia, e vi assicuro, Albert», continuò Beauchamp, «che
mostrò un’eloquenza e un’abilità straordinarie. Egli produsse dei
documenti comprovanti che il visir di Giannina lo aveva, fino
all’ultima ora, onorato della sua fiducia avendolo incaricato di una
negoziazione di vita e di morte con lo stesso sultano. Mostrò
l’anello segnale del comando, col quale Alì Pascià sigillava
d’ordinario le sue lettere, e che questi gli aveva dato perché
potesse, a qualunque ora del giorno o della notte, penetrare fino a
lui, fosse anche stato nell’harem.
“Disgraziatamente”, disse, “le trattative erano andate a vuoto, e
quando fu di ritorno per difendere il suo benefattore, questi era
già morto. Ma”, continuò il conte, “morendo, Alì Pascià, tanta era
grande la sua fiducia, gli aveva affidato la favorita e la figlia.”»
Albert rabbrividì a quelle parole poiché man mano che Beauchamp
parlava gli tornava alla mente tutto il racconto di Haydée: si
ricordava ciò che la bella greca aveva detto del messaggio,
dell’anello, e del modo con cui era stata venduta e condotta in
schiavitù.
«E quale fu l’effetto del discorso del conte?» domandò con ansia
Albert.
«Vi confesso ch’esso mi commosse e con me tutta la commissione…»
continuò Beauchamp. «Intanto il presidente gettò negligentemente gli
occhi sulla lettera che gli era stata portata, ma le prime righe
risvegliarono tutta la sua attenzione: la lesse, poi la rilesse, e
fissando gli occhi sopra il signor Morcerf, disse: “Signor conte,
voi ci avete detto che il visir di Giannina vi aveva affidato sua
moglie e sua figlia?”
“Sì, signore”, rispose Morcerf, “ma in ciò, come in tutto il resto,
la sventura mi perseguitava. Al mio ritorno, Vasiliki e sua figlia
Haydée erano scomparse.”
“Voi le conoscevate?”
“La mia intimità col pascià, e la somma fiducia che aveva nella mia
fedeltà, mi avevano permesso di vederle più di venti volte.”
“Avete nessuna idea di ciò che sia accaduto di loro?”
“Sì, signore. Ho sentito dire ch’erano state vinte dal dispiacere, e
fors’anche dalla miseria. Io non ero ricco, la mia vita era
circondata da grandi pericoli, con mio sommo dispiacere non potei
mettermi a cercarle.”
Il presidente aggrottò impercettibilmente il sopracciglio.
“Signori”, diss’egli, “voi avete inteso e seguito il conte Morcerf
nelle sue spiegazioni. Signor conte, potete voi, in appoggio al
vostro racconto, fornirci qualche testimone?”
“Ahimè, no, signore”, rispose il conte. “Tutti quelli che
circondavano il visir, e che mi hanno conosciuto alla sua corte,
sono morti o dispersi. Io solo, credo, io solo dei miei compatrioti
sono sopravvissuto a questa spaventosa guerra; non ho che le lettere
di Alì Tebelin, e le ho poste sotto i vostri occhi; non ho che
l’anello, pegno della sua volontà, ed eccolo; finalmente ho la prova
più convincente che posso fornire, cioè, dopo un assalto anonimo,
l’assenza di ogni testimonianza contro la mia parola d’onore; e la
purezza di tutta la mia vita militare.”
Un mormorio d’approvazione corse per tutta l’assemblea in quel
momento, Albert, e se non fosse sopravvenuto alcun altro nuovo
incidente la causa di vostro padre era vinta. Non restava più che
andare ai voti, allorché il presidente prese la parola.
“Signori”, disse, “e voi signor conte di Morcerf, non sarete
contrari presumo, ad ascoltare un testimone importantissimo, a
quanto assicura, e che viene a offrirsi da sé. Questo testimone, non
ne dubitiamo, dopo ciò che ha detto il conte, è chiamato a provare
la perfetta innocenza del nostro collega. Ecco la lettera che ho
ricevuto a questo riguardo: desiderate che vi sia letta, o decidete
di passar oltre senza fermarci a questo incidente?”
Il signor Morcerf impallidì, e strinse tra le mani le carte che
aveva davanti, che frusciarono sotto le sue dita. La risposta della
commissione fu per la lettura; in quanto al conte, era passivo, e
non aveva opinione da dichiarare. Di conseguenza il presidente lesse
la lettera seguente: “Signor presidente, io posso fornire alla
commissione giudicante, incaricata di esaminare la condotta in Epiro
e in Macedonia del luogotenente generale conte Morcerf, le
informazioni più positive”.
Il presidente fece una breve pausa. Il conte Morcerf impallidì, il
presidente interrogò con lo sguardo gli uditori.
“Continuate!” fu gridato da tutte le parti.
Il presidente riprese: “Io ero sul luogo alla morte di Alì Pascià,
assistevo ai suoi ultimi momenti, so che cosa è avvenuto di Vasiliki
e d’Haydée; io mi metto a disposizione della commissione, e anzi
chiedo l’onore di farmi ascoltare. Sarò nel vestibolo della camera
quando vi sarà rimesso il presente biglietto”.
“E chi è questo testimone, o piuttosto questo nemico?” domandò il
conte con voce profondamente alterata.
“Lo sapremo ben presto, signore”, rispose il presidente. “La
commissione è dell’avviso di ascoltarlo?”
“Sì, sì”, dissero tutte le voci.
Fu chiamato l’usciere.
“Usciere”, domandò il presidente, “vi è qualcuno che aspetta nel
vestibolo?”
“Sì, signor presidente.”
“Chi è?”
“Una donna accompagnata da un servo.”
Si guardarono tutti in viso l’un l’altro.
“Fate entrare questa donna”, disse il presidente.
Cinque minuti dopo, ricomparve l’usciere; tutti gli occhi erano
fissi sulla porta, e io stesso», proseguì Beauchamp, «partecipavo
alla generale aspettativa. Dietro all’usciere camminava una donna
avvolta in un lungo velo che la nascondeva interamente. S’indovinava
bene, dalle forme che tradiva questo velo, dai profumi che esalava,
una donna giovane ed elegante; ma nient’altro. Il presidente la
pregò di alzare il velo, e allora si poté vedere una donna vestita
alla greca e d’una bellezza sorprendente.»
«Era lei», disse Morcerf.
«Come, lei?»
«Sì, Haydée.»
«Chi ve l’ha detto?»
«Ahimè, l’indovino… Ma continuate, Beauchamp, ve ne prego, vedete
ch’io sono calmo e coraggioso, e poi dobbiamo arrivare alla fine.»
«Il signor Morcerf guardava questa donna», continuò Beauchamp, «con
sorpresa mista a spavento. Per lui era la vita o la morte che stava
per uscire da quella graziosa bocca. Per tutti gli altri era
un’avventura così strana e piena di curiosità che la salvezza o la
perdita del signor Morcerf non entrava già più in tale avvenimento
che come elemento secondario.
Il presidente con un segno della mano offrì una sedia alla giovane,
ma lei fece segno con la testa che restava in piedi. In quanto al
conte, era ricaduto sul suo sedile, e si vedeva manifestamente che
le gambe rifiutavano di sostenerlo.
“Signora”, disse il presidente, “avete scritto alla commissione per
darle informazioni sull’affare di Giannina, e avete assicurato che
siete stata testimone oculare di quegli avvenimenti.”
“E lo fui di fatto”, rispose la sconosciuta con voce piena di
malinconia, e con quella sonorità particolare alle voci orientali.
“Però permettetemi di dirvi che voi allora dovevate essere molto
giovane.”
“Avevo quattro anni, ma siccome allora gli avvenimenti avevano per
me un’importanza suprema, non mi è fuggito dalla mente un fatto, né
si è cancellato un solo particolare.”
“Ma quale importanza avevano dunque per voi tali avvenimenti? E chi
siete voi perché questa catastrofe abbia in voi prodotta una così
grande impressione?”
“Si trattava della vita o della morte di mio padre”, rispose la
giovane donna, “e io mi chiamo Haydée, figlia di Alì Tebelin, pascià
di Giannina, e di Vasiliki sua moglie prediletta.”
Il rossore modesto e fiero a un tempo che imporporò le guance della
giovane, il fuoco del suo sguardo, e la maestà della sua
rivelazione, produssero su tutta l’assemblea un effetto
inesprimibile. In quanto al conte, non sarebbe stato più
annichilito, se il fulmine cadendo gli avesse scavato un abisso ai
piedi.
“Signora”, riprese il presidente, dopo essersi inchinato con
rispetto, “permettetemi una semplice domanda, che non è un dubbio, e
questa domanda sarà l’ultima: potete giustificare l’autenticità di
quanto dite?”
“Posso, signore”, rispose Haydée, togliendo da sotto il velo una
borsa profumata, “ecco il mio atto di nascita, redatto da mio padre
e sottoscritto dai suoi principali ufficiali; ecco qui il mio atto
di battesimo, avendo mio padre acconsentito che venissi allevata
nella religione di mia madre, atto firmato dal primate di Macedonia
e dell’Epiro, munito del suo sigillo; ecco finalmente, e questo
senza dubbio è il più interessante, l’atto di vendita di me e di mia
madre al mercante armeno El Kobbir dall’ufficiale francese, che nel
suo infame mercato con la Sublime Porta si era riservato come
bottino la figlia e la moglie del suo benefattore, che vendette per
la somma di mille borse, vale a dire per circa quattrocentomila
franchi.”
Un pallore verdastro invadeva le guance del conte Morcerf, e i suoi
occhi s’iniettavano di sangue all’udire quelle terribili
imputazioni, che furono accolte dall’assemblea con lugubre silenzio.
Haydée, sempre calma ma molto più minacciosa nella calma che non
nella collera, porgeva al presidente l’atto di vendita redatto in
lingua araba. Ma siccome si era previsto che qualcuno degli atti
prodotti da Morcerf sarebbero stati redatti in arabo, in greco o in
turco, l’interprete della Camera era stato avvisato, e fu chiamato.
Uno dei nobili Pari, a cui la lingua araba era familiare, per averla
appresa nella famosa campagna d’Egitto, seguì con gli occhi sulla
pergamena la lettura che il traduttore ne faceva ad alta voce.
“Io El Kobbir, mercante di schiavi e fornitore dell’harem di Sua
Altezza, riconosco di aver ricevuto per rimetterlo al Sublime
Imperatore, dal signor conte di Montecristo, uno smeraldo stimato
del valore di mille borse, per il prezzo di una giovane schiava
cristiana, dell’età di undici anni, di nome Haydée, e figlia
riconosciuta del defunto Alì Tebelin, pascià di Giannina, e di
Vasiliki sua favorita, la quale mi era stata venduta sette anni fa
unitamente a sua madre, che morì giungendo a Costantinopoli, da un
colonnello franco, al servizio del visir Alì Tebelin, chiamato
Fernando Mondego. La suddetta vendita mi era stata fatta per conto
di Sua Altezza, per la quale avevo il mandato, mediante la somma di
mille borse.
Fatto a Costantinopoli con l’autorizzazione di Sua Altezza, l’anno
1247 dell’Egira.
Firmato: El Kobbir
Per dare al presente atto la maggior fede e autenticità possibile,
sarà munito del sigillo imperiale, che il venditore si obbliga di
farvi apporre.”
Vicino alla firma del mercante, si vedeva infatti il sigillo del
Sublime Imperatore. A questa lettura e a quella vista seguì un
terribile silenzio; il conte non aveva più che lo sguardo, e questo
sguardo, fissato suo malgrado su Haydée era di fiamma e di sangue.
“Signora”, riprese il presidente, “si potrebbe interrogare il signor
conte di Montecristo, che io credo a Parigi e vicino a voi?”
“Signore”, rispose Haydée, “il signor conte di Montecristo, mio
secondo padre, si trova da tre giorni in Normandia.”
“Ma, allora, signora”, continuò il presidente, “chi vi ha
consigliato questa testimonianza, di cui la Corte vi ringrazia, e
che d’altra parte è ben naturale per la vostra nascita e per le
vostre disgrazie?”
“Signore”, rispose Haydée, “questa testimonianza mi è stata
consigliata dal rispetto e dal dolore. Sebbene cristiana, Dio mi
perdoni!, ho sempre pensato a vendicare il mio illustre padre.
Ora, quando io ho messo piede in Francia, quando ho saputo che il
traditore abitava a Parigi, le orecchie e gli occhi mi sono rimasti
costantemente aperti. Io vivo, ritirata nella casa del mio nobile
protettore, ma vivo così, perché mi piacciono l’ombra e il silenzio,
che mi permettono di vivere col mio pensiero e col mio
raccoglimento. Il signor conte di Montecristo mi circonda di cure
paterne, e niente mi è estraneo di quanto concerne la vita del gran
mondo, benché mi tenga al corrente della lontana eco. Quindi leggo
tutti i giornali, mi vengono inviati tutti gli album, ricevo tutte
le melodie: e in tal modo, seguendo cioè soltanto la vita degli
altri, ho saputo che cos’è accaduto questa mattina alla Camera dei
Pari, e cosa doveva accadere questa sera… Allora ho scritto.”
“Per cui il conte di Montecristo è estraneo alla vostra decisione?”
“Egli la ignora del tutto, signore, e anzi, non ho che un timore,
che cioè la disapprovi; però è un bel giorno per me”, continuò la
giovane, alzando al cielo uno sguardo ardente, “quello in cui,
finalmente, ritrovo l’occasione di vendicare mio padre!”
In tutto questo tempo il conte Morcerf non aveva pronunciato una
parola; i suoi colleghi lo guardavano, e senza dubbio compiangevano
questa fortuna infranta, per il soffio profumato di una donna: la
sua disgrazia si andava a poco a poco scrivendo sulla sua fronte a
linee sinistre.
“Signor Morcerf”, disse il presidente, “riconoscete voi la signora
per la figlia di Alì Tebelin, pascià di Giannina?”
“No”, rispose Morcerf, facendo uno sforzo per alzarsi. “È una trama
ordita dai miei nemici.”
Haydée che teneva gli occhi fissi verso la porta, come se aspettasse
qualcuno, si voltò all’improvviso, e vedendo il conte in piedi,
mandò un grido terribile.
“Tu non mi riconosci?” proruppe. “Ebbene, io riconosco te! Tu sei
Fernando Mondego, l’ufficiale francese che istruiva le truppe del
mio nobile padre. Sei tu che hai venduto la fortezza di Giannina!
Sei tu che, inviato a Costantinopoli per trattare direttamente della
vita e della morte del tuo benefattore, hai riportato un falso
documento che accordava grazia intera! Sei tu che con questo
documento hai ottenuto da mio padre l’anello che doveva farti
obbedire da Selim, il guardiano del fuoco! Sei tu che hai pugnalato
Selim! Sei tu che hai venduto mia madre e me al mercante El Kobbir!
Assassino! Assassino! Assassino! Tu hai ancora sulla fronte il
sangue del tuo padrone! Guardate tutti!”
Queste parole furono pronunciate con tale impeto di verità, che
tutti gli occhi si portarono sulla fronte del conte, alla quale egli
stesso portò la mano, come se vi avesse sentito, tiepido ancora, il
sangue di Alì.
“Voi riconoscete dunque nel conte Morcerf quello stesso ufficiale
Fernando Mondego?”
“Sì, lo riconosco!” gridò Haydée. “Ah, madre mia! Tu mi hai detto:
‘Tu eri libera, tu avevi un padre che ti amava, tu eri destinata a
esser quasi una regina! Guarda bene quest’uomo, è lui che ti ha
fatto schiava, è lui che ha fatto innalzare sull’estremità di
un’asta la testa di tuo padre, è lui che ci ha venduto, è lui che ci
ha traditi tutti! Guarda bene la sua mano destra, quella che ha una
larga cicatrice, se tu ti dimenticassi il suo viso, lo riconoscerai
da quella mano, sulla quale sono cadute a una a una tutte le monete
d’oro del mercante El Kobbir!’ Se lo riconosco! Oh! Dica egli adesso
se riconosce me!”
Ciascuna parola cadeva come una falce sopra Morcerf, e strappava una
parte della sua energia, alle ultime parole si nascose
istintivamente, e suo malgrado, la mano nel petto, mutilata infatti
da una ferita, e ricadde sul seggio inabissato in una cupa
disperazione.
Questa scena aveva sconvolto gli animi di tutta l’assemblea, come si
vedono sconvolgere le foglie sotto il possente vento del Nord.
“Signor conte Morcerf”, disse il presidente, “non vi lasciate
abbattere, rispondete! La giustizia della Corte è suprema ed eguale
per tutti, come quella di Dio, essa non vi lascerà schiacciare dai
vostri nemici, senza lasciarvi i mezzi per combatterli. Volete che
ordini a due membri della commissione di andare a fare un viaggio a
Giannina? Parlate!”
Morcerf non rispose.
Allora tutti i membri della commissione si guardarono con una specie
di terrore. Si conosceva il carattere energico e violento del conte;
ci voleva una prostrazione ben terribile per annichilire la difesa
di quest’uomo, bisognava pensare che, a questo silenzio, simile a un
sonno, sarebbe succeduto un risveglio simile a un fulmine.
“Ebbene” gli domandò il presidente, “che decidete?”
“Niente!” rispose il conte con voce sorda alzandosi.
“La figlia di Alì Tebelin”, riprese il presidente, “ha dunque
dichiarato realmente la verità? Lei è dunque proprio quel testimone
terribile al quale, come sempre accade, il reo non ha coraggio di
dire ‘No’? Avete dunque fatto realmente tutte quelle cose di cui
siete accusato?”
Il conte girò intorno a sé uno sguardo disperato che avrebbe
commosso le tigri, ma non poteva disarmare dei giudici, quindi alzò
gli occhi verso la volta, ma li abbassò tosto, come se avesse temuto
che questa volta aprendosi facesse risplendere un altro tribunale
che si chiama cielo e un altro giudice che si chiama Dio. Allora,
con un improvviso movimento, strappò i bottoni di quell’abito chiuso
che lo soffocava, e uscì dalla sala come folle, i suoi passi
risuonarono per un istante sotto la volta sonora, quindi ben presto
il suono delle ruote della carrozza che lo trascinava al galoppo
rintronò con fracasso sotto il portico dell’edificio.
“Signori”, riprese il presidente, quando il silenzio fu ristabilito,
“il conte Morcerf è colpevole di fellonia, di tradimento,
d’indegnità?”
“Sì!” risposero a voce unanime tutti i membri della commissione
processante.
Haydée aveva assistito sino alla fine della seduta: ascoltò
pronunciare la sentenza del conte senza che nei lineamenti del suo
viso si potesse leggere il minimo indizio di gioia o di pietà.
Allora, abbassando il velo, salutò maestosamente i consiglieri, e
uscì di quel passo con cui Virgilio vedeva camminare le sue dee.»
86. La sfida
«E poi», continuò Beauchamp, «approfittai del silenzio e
dell’oscurità della sala per uscirne senza farmi notare. L’usciere,
che mi aveva introdotto, mi attendeva sulla porta: mi portò
attraverso vari corridoi fino a una porticina che dava sulla rue
Vaugirard. Uscii con l’anima addolorata ed eccitata, perdonatemi
quest’espressione, Albert; addolorata per quanto riguarda voi,
eccitata, per la nobiltà di questa giovane donna nel conseguire la
vendetta paterna. Sì, ve lo giuro, Albert, da qualunque parte venga
questa rivelazione, dico che sì può venire da un nemico, ma questo
nemico non è che l’inviato della Provvidenza.»
Albert si teneva la testa fra le mani; poi alzò il viso rosso per la
vergogna e bagnato di lacrime, e afferrò il braccio di Beauchamp.
«Amico», disse, «la mia vita è finita; mi rimane non ripetere con
voi che la Provvidenza mi ha vibrato il colpo, ma cercare chi è
l’uomo che mi perseguita con la sua inimicizia… Quando lo conoscerò,
o io ucciderò lui, o lui ucciderà me! Ora conto sulla vostra
amicizia per aiutarmi, Beauchamp, se però il disprezzo non l’ha già
uccisa nel vostro cuore.»
«Il disprezzo, amico mio! E in che cosa mai vi riguarda, questa
disgrazia? No, grazie al cielo, non siamo in quei tempi in cui un
ingiusto pregiudizio rendeva i figli responsabili delle azioni dei
loro padri. Ripercorrete tutta la vostra vita, Albert: data da ieri,
è vero, ma non vi fu mai più pura aurora di quella del giorno in cui
nasceste. No, Albert, credetemi, voi siete giovane, siete ricco…
Lasciate la Francia! Tutto si dimentica in questa grande Babilonia
che ha un’esistenza agitata e piaceri passeggeri: ritornerete fra
tre o quattro anni, avrete sposato qualche bella russa, e nessuno
penserà più a quello che è accaduto ieri, e meno ancora a quello che
è accaduto sedici anni fa.»
«Vi ringrazio, caro Beauchamp, vi ringrazio delle vostre parole, ma
la cosa non può andare così. Vi ho illustrato il mio desiderio, ora,
se occorre, cambierò la parola desiderio in quella di volontà.
Capite bene che, coinvolto come sono in questo affare, non posso
vedere la cosa con lo stesso occhio con cui la vedete voi.
Quanto a voi sembra venire da una sorgente celeste, a me sembra
uscire da un luogo meno puro. La Provvidenza, ve lo confesso, mi
sembra totalmente estranea a tutto questo, e ciò fortunatamente,
perché invece dell’invisibile e incorporeo messaggero, troverò un
essere materiale e visibile sul quale mi vendicherò, oh, sì, ve lo
giuro, di tutto ciò che soffro da un mese. Ora, ve lo ripeto,
Beauchamp, rientrerò nella vita umana, e se voi siete ancora mio
amico, come dite, aiutatemi a ritrovare la mano che ha scagliato il
colpo.»
«Sia come volete», rispose Beauchamp, «e se vi sta a cuore mettervi
in cerca di un nemico, vi aiuterò, e lo troverò perché il mio onore
vi è interessato quasi al pari del vostro.»
«Beauchamp, cominciamo fin d’ora le nostre ricerche. Ogni minuto di
ritardo è un’eternità per me; il delatore non è ancora punito, può
dunque sperare di non esserlo più, e sul mio onore, se lo spera,
s’inganna.»
«Ascoltatemi, Morcerf.»
«Ah, Beauchamp, vedo che ne sapete qualche cosa… Voi mi ridonate la
vita.»
«Non vi dico che sia un indizio reale, Albert, ma per lo meno è un
lume nelle tenebre; seguendo questa luce, giungeremo forse alla
meta.»
«Vedete bene che fremo d’impazienza.»
«Vi racconterò ciò che non ho voluto dirvi al mio ritorno da
Giannina.»
«Parlate.»
«Ecco cosa è accaduto, Albert: andai dal primo banchiere della città
per prendere le mie informazioni. Alla prima parola che dissi
dell’affare, prima ancora che fosse pronunciato il nome di vostro
padre, disse: “Indovino che cosa vi conduce”.
“Come e perché?”
“Perché sono appena quindici giorni che sono stato interrogato sullo
stesso oggetto.”
“Da chi.”
“Da un banchiere di Parigi, mio corrispondente.”
“Il suo nome?”
“Signor Danglars.”»
«Lui!» gridò Albert. «Infatti, è proprio lui che da lungo tempo
perseguita il mio povero padre col suo odio e con la sua gelosia,
lui, l’uomo che si pretende popolare, che non sa perdonare al conte
Morcerf d’essere Pari di Francia… E, sentite me, questa rottura di
matrimonio senza darne una ragione, dipende da ciò.»
«Informatevi, Albert, non lasciatevi trasportare dall’ira,
informatevi dico, e se la cosa è vera…»
«Sì», gridò il giovane, «e se la cosa è vera, mi pagherà tutto ciò
che ho sofferto.»
«State in guardia Morcerf, abbiamo a che fare con un vecchio.»
«Ebbe forse riguardo per l’onore della mia famiglia? Se odiava mio
padre, perché non ha colpito mio padre? Oh, no! Ha avuto paura di
trovarsi faccia a faccia a un uomo…»
«Albert, non vi condanno, non faccio che moderarvi… Albert, agite
con prudenza.»
«Non abbiate paura; d’altra parte mi accompagnerete, Beauchamp: le
cose solenni devono essere trattate davanti a testimoni. Prima che
questa giornata sia finita, se il signor Danglars è reo, avrà
cessato di vivere, o sarò morto io. Per Dio, Beauchamp, voglio fare
bei funerali al mio onore!»
«Quando si prendono tali risoluzioni, Albert, bisogna sull’istante
metterle in esecuzione. Volete andare dal signor Danglars?
Partiamo.»
Mandarono a prendere un carrozzino a nolo. Entrando nel palazzo del
banchiere, videro alla porta il calessino e il domestico del signor
Andrea Cavalcanti.
«La sorte mi favorisce!» disse Albert, con voce cupa. «Se il signor
Danglars non vuole battersi, gli ucciderò il genero. Deve essere
uomo da accettare una sfida, dovrà battersi: è un Cavalcanti!»
Annunciato al banchiere, questi, al nome di Albert, sapendo che cosa
era accaduto il giorno prima, gli fece proibire l’ingresso, ma
troppo tardi: Albert, avendo seguito il servitore, udì l’ordine dato
e forzando la porta penetrò, seguito da Beauchamp, fino allo studio
del banchiere.
«Ma, signore», gridò questi, «non si è più padroni in casa propria
di ricevere chi si vuole e rifiutare chi non si vuole? Mi sembra lo
dimentichiate in modo molto strano.»
«No, signore», ribatté freddamente Albert, «vi sono circostanze, e
questa ne è una in cui bisogna, salvo il caso di viltà, essere in
casa almeno per certe persone.»
«Allora, che volete dunque da me, signore?»
«Voglio», disse Morcerf, avvicinandosi senza sembrare accorgersi di
Cavalcanti, che si era appoggiato al caminetto, «voglio proporvi un
appuntamento in un luogo appartato, dove nessuno possa disturbarci
per dieci minuti, non vi domando di più, e dove di due uomini che si
saranno incontrati, uno rimarrà sul terreno.»
Danglars impallidì, Cavalcanti fece un gesto, Albert si voltò verso
il giovane.
«Venite voi pure, se vi piace, signor principe!» esclamò. «Avete il
diritto di esserci, siete quasi della famiglia, e io do questa
specie di appuntamenti a chiunque sia pronto ad accettarli.»
Cavalcanti guardò con aria stupefatta Danglars, il quale, facendo
uno sforzo, si alzò, andando a mettersi tra i due giovani. L’invito
di Albert ad Andrea lo illudeva che la questione si spostasse, e che
la visita d’Albert avesse altro scopo, diverso da quello immaginato
in principio.
«Signore», cominciò Danglars, «se venite qui a muovere lite al
signore, perché lo preferisco a voi, vi avverto che, su questo
argomento, farò causa davanti al regio procuratore.»
«Sbagliate, signore», replicò Morcerf, con un tetro sorriso, «io non
parlo affatto di matrimonio, e mi sono rivolto al signor Cavalcanti,
perché mi è sembrato abbia avuto intenzione d’intervenire nella
nostra discussione. E, del resto, avete ragione: oggi cerco contesa
con tutti! Tuttavia state tranquillo, signor Danglars, la preferenza
spetta a voi.»
«Signore», rispose Danglars pallido per la collera e la paura, «vi
avverto che quando ho la disgrazia d’incontrarmi fra i piedi qualche
cane arrabbiato, lo ammazzo, e lungi dal credermi colpevole, mi
sembra di avere reso qualche servizio alla società. Ora siete
arrabbiato e tentate di mordermi, ma vi avviso che vi ammazzerò
senza pietà. È forse colpa mia se vostro padre è disonorato?»
«Sì, miserabile!» gridò Morcerf. «È colpa vostra.»
Danglars arretrò di un passo.
«Colpa mia?» si stupì. «Ma siete pazzo! Conosco forse la storia
greca, io? Ho forse viaggiato in quei Paesi? Ho forse consigliato
vostro padre di vendere la fortezza di Giannina? Di tradire?»
«Silenzio!» ordinò Albert con voce sorda. «No, non siete stato voi a
causare direttamente questo chiasso, a cagionare questa disgrazia,
ma siete stato voi che l’avete ipocritamente istigata.»
«Io!»
«Sì, voi! Da dove viene la rivelazione?»
«Mi pare che il giornale ve lo abbia detto, da Giannina!»
«Chi ha scritto a Giannina?»
«A Giannina?»
«Sì. Chi ha scritto per domandare informazioni su mio padre?»
«Mi sembra che chiunque possa scrivere a Giannina.»
«Chi ha scritto, però, è uno solo.»
«Uno solo?»
«Sì, e questo siete voi.»
«Certo che ho scritto… Quando uno marita sua figlia a un giovane, mi
pare che possa prendere informazioni sulla famiglia… Non è soltanto
un diritto ma un dovere.»
«Avete scritto, signore», disse Albert, «sapendo perfettamente che
risposta vi sarebbe venuta.»
«Io? Vi giuro», gridò Danglars, con una fiducia e una sicurezza che
venivano ancor meno dalla sua paura, che dall’interesse che sentiva
in fondo per il disgraziato giovane, «vi giuro, che non avrei mai
pensato a scrivere a Giannina. Conoscevo forse la tragedia di Alì
Pascià?»
«Allora qualcuno vi ha spinto a scrivere?»
«Certamente.»
«Siete stato istigato?»
«Sì.»
«Chi è stato?… Terminate… dite…»
«È una cosa semplicissima: parlavo degli antecedenti di vostro
padre, dicevo che la fonte delle sue ricchezze era sempre rimasta
ignota. La persona mi domandò in che luogo vostro padre aveva fatto
questa fortuna; risposi “In Grecia”. Allora mi disse: “Ebbene,
scrivete a Giannina”.»
«E chi vi ha dato questo consiglio?»
«Il conte di Montecristo, vostro amico.»
«Il conte di Montecristo vi ha detto di scrivere a Giannina?»
«Sì, e io ho scritto. Volete vedere la mia corrispondenza? Ve la
mostrerò.»
Albert e Beauchamp si guardarono in volto.
«Signore», disse allora Beauchamp che non aveva preso ancora la
parola, «mi pare che accusiate il conte, assente da Parigi, e che
non può giustificarsi in questo momento.»
«Non accuso nessuno, signore», ribatté Danglars, «ma narrerò e
ripeterò davanti al signore di Montecristo ciò che dico davanti a
voi.»
«E il conte conosce la risposta che avete ricevuto?»
«Gliela mostrai.»
«Sapeva che mio padre si chiamava Fernando e che il suo cognome era
Mondego?»
«Sì, glielo avevo detto da lungo tempo, del resto ho fatto quello
che avrebbe fatto qualunque altro al mio posto e fors’anche molto
meno. Quando all’indomani di questa risposta, sollecitato dal
signore di Montecristo, venne vostro padre a domandarmi
ufficialmente mia figlia, come si fa quando si vuol concludere,
rifiutai, è vero, ma senza spiegazioni, senza scandalo. Infatti,
perché avrei dovuto fare strepito? In che poteva interessarmi
l’onore o il disonore di Morcerf? Ciò non faceva né alzare, né
abbassare i miei titoli.»
Albert sentì il rossore salirgli alla fronte: non c’era più dubbio,
Danglars si difendeva con viltà, ma con la sicurezza di chi dice, se
non tutta, almeno parte della verità, non per coscienza, è vero, ma
per terrore. D’altra parte, che cosa cercava Morcerf? Non la
colpevolezza di Danglars o di Montecristo, ma chi rispondesse
dell’offesa, chi si battesse, ed era evidente che Danglars non si
sarebbe battuto.
Adesso gli tornavano in mente tante cose di cui si era dimenticato.
Montecristo sapeva tutto, perché aveva comprato la figlia di Alì
Pascià; sapendo tutto, aveva incaricato Danglars di scrivere a
Giannina. Conosciuta la risposta, aveva acconsentito al desiderio
manifestato da Albert di esser presentato ad Haydée: una volta
davanti a lei, aveva avviato il discorso sulla morte di Alì senza
opporsi al racconto d’Haydée, ma avendo senza dubbio dato alla
donna, nelle poche parole che aveva pronunciato in greco, le sue
istruzioni, in modo che Morcerf nel racconto non riconoscesse suo
padre… E poi, non aveva pregato Morcerf di non pronunciare il nome
di suo padre davanti ad Haydée? Infine aveva condotto Albert in
Normandia nel momento in cui doveva nascere il grande scandalo.
Tutto ciò era calcolato, e Montecristo senza dubbio se la intendeva
coi nemici di suo padre.
Albert prese Beauchamp in disparte, e gli comunicò tutte queste
idee.
«Avete ragione», disse questi, «il signor Danglars non entra in
questo affare che per la parte brutale e materiale; la spiegazione
dovete domandarla al signore di Montecristo.»
Albert si volse.
«Signore», disse a Danglars, «capirete che non prendo ancora da voi
un congedo definitivo; mi resta da sapere se le vostre spiegazioni
sono giuste, e vado sull’istante ad assicurarmene presso il conte di
Montecristo.»
E salutando il banchiere, uscì con Beauchamp senza occuparsi
minimamente di Cavalcanti. Danglars li ricondusse fino alla porta,
rinnovando ad Albert le assicurazioni che nessun motivo di odio
personale lo guidava contro il signor conte Morcerf.
87. L’insulto
Beauchamp trattenne Morcerf sulla porta del banchiere.
«Ascoltate», gli disse, «poco fa vi ho detto, nella casa Danglars,
che la spiegazione dovete domandarla a Montecristo…»
«Certo, ed è per questo andiamo da lui.»
«Un momento, Morcerf, prima di andare dal conte, pensateci bene.»
«A che cosa volete che pensi?»
«Pensate alla gravità del passo.»
«È forse più grave che andare dal signor Danglars?»
«Sì, il signor Danglars è un uomo facoltoso, e voi lo sapete, gli
uomini facoltosi conoscono troppo bene a qual pericolo vanno
incontro battendosi. L’altro, al contrario, è gentiluomo almeno in
apparenza… E non temete, sotto il gentiluomo, di trovare l’abilità
delle armi?»
«Non temo che una cosa, di trovare un uomo che rifiuti di battersi.»
«Non temete», disse Beauchamp, «si batterà. Ho anzi paura di una
cosa, ch’egli cioè si batta troppo bene: state in guardia!»
«Amico», replicò Morcerf sorridendo, «è quanto io domando! Cosa mi
può accadere di più rischioso? Appunto di essere ucciso per mio
padre, così saremo tutti salvi.»
«Ma vostra madre ne morirà.»
«Povera madre!» disse Albert, passandosi la mano sugli occhi. «Lo so
bene, ma preferisco morire in duello, che di vergogna.»
«Siete deciso, Albert?»
«Andiamo, dunque!»
«Ma credete che lo troveremo?»
«Doveva tornare poche ore dopo di me, e certamente sarà arrivato.»
Salirono in carrozza e si fecero condurre all’ingresso degli
Champs-Elysées numero 30. Beauchamp voleva scendere solo, ma Albert
gli fece osservare che quest’affare, fuori dalle regole ordinarie,
gli permetteva di non rispettare l’etichetta del duello. Il giovane
agiva per una causa così santa, che Beauchamp non aveva altro da
fare, che accondiscendere ai suoi voleri: cedette dunque a Morcerf,
e si contentò di seguirlo. Albert non fece che un salto dalla loggia
del portinaio alla scalinata, dove fu ricevuto da Battistino. Il
conte era difatti arrivato, ma stava in bagno, e aveva proibito di
ricevere chicchessia.
«Ma dopo il bagno?» domandò Morcerf.
«Il signore pranzerà.»
«E dopo il pranzo?»
«Il signore dormirà un’ora.»
«E dopo?»
«Andrà all’Opéra.»
«Ne siete sicuro?» domandò Albert.
«Perfettamente sicuro. Il signore ha ordinato i cavalli per le
otto.»
«Benissimo!» replicò Albert. «Ecco quanto volevo sapere.»
Quindi volgendosi a Beauchamp: «Se avete qualche cosa da fare,
Beauchamp, fatelo presto; se avete appuntamenti per stasera,
prorogateli a domani. Capirete che conto su di voi per andare
all’Opéra. Se potete conducete con voi Château-Renaud».
Beauchamp approfittò del permesso, e lasciò Albert, dopo avergli
promesso che sarebbe andato a prenderlo alle otto meno un quarto.
Rientrato a casa, Albert avvisò con un biglietto Franz, Debray e
Morrel del desiderio che aveva di vederli quella sera all’Opéra.
Quindi andò a visitare la madre, che dopo l’avvenimento del giorno
prima stava ritirata nella sua camera: la trovò a letto oppressa dal
dolore per quella pubblica umiliazione. La vista d’Albert produsse
l’effetto che possiamo immaginarci; strinse la mano al figlio, e
ruppe in singhiozzi. Però quelle lacrime la sollevarono. Albert
rimase un istante, in piedi e muto, vicino al letto di sua madre.
Dal pallido viso, e dal sopracciglio aggrottato, si capiva che il
desiderio di vendetta si andava sempre più radicando nel suo cuore.
«Madre mia», proruppe Albert, «conoscete qualche nemico del signor
Morcerf?»
Mercedes tremò; aveva notato che il giovane non aveva detto «di mio
padre».
«Figlio mio», rispose, «gli uomini nella posizione del conte hanno
molti nemici che non conoscono; d’altra parte i nemici che si
conoscono, lo sapete, non sono i più pericolosi.»
«Sì, lo so, e per questo ricorro alla vostra perspicacia. Madre mia,
siete una donna superiore alle altre, e niente vi sfugge!»
«Perché mi dite questo?»
«Perché avete notato, per esempio, che la sera che abbiamo dato il
ballo, il signore di Montecristo non ha voluto prendere niente in
casa nostra.»
Mercedes sollevandosi su un braccio tutta tremante e ardente per la
febbre: «Il conte di Montecristo!» esclamò. «E che rapporto avrebbe
con la domanda che mi fate?»
«Come ben sapete, madre mia, il signore di Montecristo è un uomo
d’Oriente, e gli orientali, per conservare la loro libertà di
vendetta, non mangiano né bevono in casa dei loro nemici.»
«Il signore di Montecristo nemico, voi dite, Albert!» riprese
Mercedes più pallida del lenzuolo che la copriva. «Chi vi ha detto
questo? Siete folle Albert. Il signore di Montecristo con noi non ha
usato che gentilezze. Il signore di Montecristo vi ha salvato la
vita, e voi stesso ce lo avete presentato. Oh, ve ne prego, figlio
mio, se avete simile idee, allontanatele, e se ho una
raccomandazione da farvi, anzi dirò di più, una preghiera, è che vi
manteniate in armonia con quest’uomo.»
«Madre mia», replicò il giovane, con uno sguardo sinistro, «avete le
vostre ragioni per dirmi di usare riguardi a quest’uomo?»
«Io?» gridò Mercedes, arrossendo con quella rapidità con cui era
impallidita, e tornando quasi subito più pallida ancora.
«Sì, senza dubbio, e questa ragione non è», riprese Albert, «perché
quest’uomo può farci del male?»
Mercedes fremette, e fissando su suo figlio uno sguardo scrutatore,
disse: «Voi mi parlate in modo strano, e mi pare che abbiate strani
pregiudizi. E che cosa vi ha dunque fatto il conte? Tre giorni fa
eravate con lui in Normandia, tre giorni fa, io lo consideravo, e lo
ritenevate voi pure, come uno dei vostri migliori amici».
Un sorriso ironico sfiorò le labbra d’Albert. Mercedes vide quel
sorriso, e col doppio istinto di donna e di madre, indovinò tutto;
ma prudente e forte seppe nascondere il suo turbamento. Albert
lasciò cadere il discorso. Dopo un istante, la contessa riprese.
«Siete venuto a chiedermi come stavo; io vi risponderò francamente,
figlio mio, non mi sento bene. Dovreste fermarvi qui, Albert,
dovreste tenermi compagnia: ho bisogno di non rimaner sola.»
«Madre mia», disse il giovane, «io obbedirei ai vostri ordini, e voi
sapete con che facilità, se non mi obbligasse a dovervi lasciare
tutta la sera, un affare di premura e d’importanza…»
«Benissimo», rispose Mercedes con un sospiro. «Andate, Albert, non
voglio rendervi schiavo della vostra pietà filiale.»
Albert fece finta di non capire, salutò sua madre, e uscì.
Appena il giovane ebbe chiuso la porta, Mercedes fece chiamare un
servitore fidato, e gli ordinò di seguire Albert ovunque andasse, e
di venirgliene a render conto all’istante; poi chiamò la cameriera,
e sebbene debolissima, si fece vestire per essere pronta a ogni
avvenimento.
La commissione data al servitore non era difficile da eseguirsi.
Albert rientrò nelle sue camere, e si rivestì con ricercata
severità. Beauchamp giunse alle otto meno dieci; aveva incontrato
Château-Renaud che gli aveva promesso di trovarsi in platea prima
dell’alzata del sipario. Salirono entrambi nella carrozza di Albert,
che, non avendo alcun motivo di nascondere dove andava, disse ad
alta voce: «All’Opéra».
Nella sua impazienza era entrato assai prima dell’alzata del
sipario. Château-Renaud era già al suo posto, avvisato di tutto da
Beauchamp; Albert non aveva alcuna spiegazione da dargli. La
condotta di questo figlio che cercava di vendicare suo padre, era
così semplice, che Château-Renaud non osò neppure dissuaderlo, e si
contentò di rinnovargli l’assicurazione che era a sua disposizione.
Debray non era ancora giunto, ma Albert sapeva quanto fosse
difficile che mancasse a una rappresentazione dell’Opéra.
Andò errando per il teatro fino all’alzata del sipario. Sperava
d’incontrare Montecristo nei corridoi o per le scale: il campanello
lo richiamò al suo posto, e andò a sedersi in platea fra Beauchamp e
Château-Renaud. Ma Albert non levò un momento gli occhi dal palco
fra le colonnine, che durante tutto il primo atto sembrava ostinarsi
a rimanere vuoto. Finalmente, mentre Albert per la centesima volta
guardava il suo orologio, al principio del secondo atto, l’uscio del
palco si aprì, e Montecristo vestito di nero, entrò e si appoggiò al
parapetto per guardare in platea. Lo seguiva Morrel cercando con gli
occhi la sorella e il cognato; li scoprì in un palco di
second’ordine, e fece loro un segno.
Il conte, gettando uno sguardo nella sala, scorse una testa pallida
e due occhi scintillanti, che sembravano evidentemente attirare i
suoi sguardi; riconobbe Albert, ma l’espressione che notò in quel
viso contraffatto lo consigliò senza dubbio di far finta di non
averlo visto. Senza far dunque alcun atto che scoprisse il suo
pensiero, si mise a sedere, estrasse il cannocchiale dall’astuccio,
e guardò da un’altra parte. Ma senza mostrare di guardare Albert, il
conte non lo perdeva di vista, e quando fu calato il sipario alla
fine del secondo atto, seguì con gli occhi il giovane che usciva
dalla platea accompagnato dai suoi due amici. Quindi la stessa testa
ricomparve da una loggia dirimpetto alla sua. Il conte sentì
approssimarsi la tempesta, e quando sentì toccare l’uscio del suo
palco, sebbene in quello stesso istante parlasse a Morrel col viso
più ridente, il conte sapeva che cosa doveva aspettarsi, e si era
preparato a tutto. La porta s’aprì.
Montecristo si voltò soltanto allora e vide Albert livido e
tremante; dietro a lui erano Beauchamp e Château-Renaud.
«Guardate!» disse con quella benevola gentilezza che distingueva il
suo saluto dalla fatua urbanità sociale. «Ecco il mio cavaliere
giunto alla meta. Buonasera, signor Morcerf.»
E il viso di quest’uomo, straordinariamente padrone di sé, esprimeva
la più perfetta cordialità.
Morrel si ricordò soltanto allora della lettera che aveva ricevuto
dal visconte, e nella quale, senz’altra spiegazione, questi lo
pregava di trovarsi all’Opéra, e capì subito che stava per accadere
qualcosa di terribile.
«Noi non veniamo qui per scambiarci ipocrite gentilezze o false
apparenze d’amicizia», ribatté il giovane, «veniamo a domandarvi una
spiegazione, signor conte.»
La voce tremante del giovane faceva fatica a passare fra i denti
stretti.
«Una spiegazione all’Opéra?» domandò il conte, con tono calmo e
sguardo penetrante. «Per quanto sia poco familiare alle costumanze
parigine, non avrei creduto, signore, che fosse questo il luogo di
domandare spiegazioni.»
«Però, quando le persone si tengono nascoste», rispose Albert,
«quando non si può giungere fino a loro, sotto pretesto che sono al
bagno, a tavola, o a letto, bisogna bene andarle a trovare dove si
può.»
«Non è difficile trovarmi, perché ancora ieri, se ben ricordo, voi
eravate mio ospite.»
«Ieri, signore», disse il giovane, cui cominciava a dolere la testa,
«ero in casa vostra perché non sapevo chi foste.»
E dicendo queste parole, Albert aveva alzato la voce in modo da
farsi sentire dalle persone delle logge vicine e da quelle che
passavano per il corridoio. Perciò le persone delle logge si
voltarono, quelle del corridoio si fermarono dietro Beauchamp e
Château-Renaud al rumore di questo alterco.
«E da dove venite dunque, signore?» disse Montecristo senza la
minima apparente emozione. «Mi sembra che non siate affatto in voi.»
«Purché capisca le vostre perfidie, signore, e giunga a farvi capire
che voglio vendicarmene, sarò sempre abbastanza ragionevole», disse
Albert furioso.
«Signore, io non vi capisco», replicò Montecristo, «e quand’anche vi
capissi, parlereste sempre troppo forte. Qui sono in casa mia,
signore, e io solo ho qui il diritto d’alzare la voce al di sopra
degli altri. Uscite, signore!»
E Montecristo mostrò la porta ad Albert con un gesto imperioso.
«Ah, vi farò io uscire da casa vostra!» riprese Albert, spiegazzando
un guanto con le mani convulse, che Montecristo non perdeva di
vista.
«Bene! Bene!» disse flemmaticamente Montecristo. «Voi cercate lo
scontro, signore, lo vedo, ma voglio darvi un consiglio, visconte, e
tenetevelo bene in mente: è cattivo costume urlare nel provocare; il
fracasso può disturbare gli altri, signor Morcerf.»
A questo nome, un mormorio di meraviglia si destò in tutti gli
spettatori di quella scena. Fin dal giorno innanzi il nome di
Morcerf era sulla bocca di tutti.
Albert, meglio degli altri, e prima di tutti, comprese l’allusione,
e fece un gesto, per gettare il guanto sul viso del conte, ma Morrel
gli afferrò il pugno, mentre Beauchamp e Château-Renaud, temendo che
la scena oltrepassasse i limiti di una provocazione lo tenevano da
dietro.
Montecristo, senza alzarsi, inchinandosi sulla sedia, tese soltanto
la mano, prendendo da quelle del giovane il guanto strofinato.
«Signore», disse con accento terribile, «ritengo il vostro guanto
come gettato, e ve lo rimetterò con una pallottola. Ora uscite da
casa mia, o chiamo i miei servi, e vi faccio mettere alla porta.»
Ebbro, atterrito, con gli occhi febbrili, Albert fece due passi
indietro; Morrel ne approfittò per chiudere la porta. Montecristo
riprese il suo cannocchiale, e si mise a guardare come se non fosse
accaduto niente.
Morrel gli si accostò all’orecchio.
«Che cosa gli avete fatto?» domandò.
«Io? Nulla, almeno personalmente», rispose Montecristo. «Però questa
scena deve avere una causa… L’avventura del conte Morcerf esaspera
lo sfortunato giovane.»
«C’entrate in qualche modo voi?»
«Fu per mezzo di Haydée che la Camera venne informata del tradimento
del padre.»
«Difatti», annuì Morrel, «me l’hanno detto; ma io non volevo credere
che quella schiava greca che ho visto qui, in questo stesso palco,
fosse la figlia d’Alì Pascià.»
«Eppure è la verità.»
«Mio Dio! Ora comprendo tutto», disse Morrel, «questa scena era
premeditata.»
«In che modo?»
«Albert mi ha scritto di trovarmi questa sera all’Opéra, lo ha fatto
perché fossi testimone dell’insulto.»
«Probabilmente», disse Montecristo, con la sua imperturbabile
tranquillità.
«Ma che farete di lui?»
«Di Albert?» riprese Montecristo, con lo stesso tono. «Che ne farò,
Maximilien? Com’è vero che siete qui e che vi stringo la mano, lo
ucciderò domani prima delle dieci antimeridiane, ecco che cosa ne
farò.»
Morrel prese fra le sue la mano di Montecristo e rabbrividì nel
sentirla calma e fredda.
«Ah, conte», disse, «suo padre lo ama tanto!»
«Non mi dite altro, altrimenti lo farò soffrire!» gridò Montecristo,
col primo movimento di collera che fino allora dimostrasse.
Morrel stupefatto lasciò cadere la mano di Montecristo esclamando:
«Conte! Conte!»
«Caro Maximilien», lo interruppe il conte, «ascoltate dunque in che
adorabile modo Duprez canta questo verso “Oh Matilde, idolo del mio
cuor”. Sono stato il primo, a Napoli, a indovinare un grande artista
nel Duprez. Bravo! Bravo!»
Morrel capì che non c’era più nulla da aggiungere. Il sipario, che
si era alzato al finire della disputa di Albert, tornò a cadere;
quasi subito dopo, si sentì bussare alla porta.
«Entrate», disse Montecristo, senza che la sua voce manifestasse la
minima emozione.
Beauchamp comparve.
«Buonasera, signor Beauchamp», salutò Montecristo, come se vedesse
il giornalista per la prima volta nella serata. «Sedete.»
Beauchamp salutò entrando, e si sedette.
«Signore», disse a Montecristo, «accompagnavo, come avrete potuto
vedere, il signor Morcerf…»
«Ciò vuol dire», riprese Montecristo ridendo, «che probabilmente
avrete pranzato assieme. Sono contento di vedere, signor Beauchamp,
che voi siete più sobrio di lui.»
«Signore», disse Beauchamp, «Albert ha avuto, ne convengo, torto nel
lasciarsi trasportare, e vengo per mio conto a farvene le scuse. Ora
che le mie scuse sono fatte, le mie, intendete bene, signor conte?,
vengo a dirvi che vi credo troppo galantuomo per rifiutarvi di darmi
spiegazioni sulle vostre relazioni con le persone di Giannina.
Quindi aggiungerò due parole sul conto della giovane greca.»
Montecristo fece con gli occhi e con le labbra un piccolo gesto che
comandava il silenzio.
«Suvvia!» aggiunse ridendo. «Ecco tutte le mie speranze distrutte.»
«In che modo?» domandò Beauchamp.
«Senza dubbio, voi vi siete affannati a dipingermi come un
eccentrico… Io ero, a parer vostro, un Lara, un Manfredi, un lord
Ruthwen! Poi, passato il momento di vedermi eccentrico, voi cambiate
il mio tipo, tentate di farmi diventare un uomo oscuro. Mi volete
comune, volgare! Infine mi domandate spiegazioni. Suvvia, signor
Beauchamp, voi volete scherzare!»
«Eppure», riprese Beauchamp con freddezza, «vi sono circostanze in
cui la probità ordina…»
«Signor Beauchamp», interruppe il conte, «chi comanda al conte di
Montecristo è il conte di Montecristo. Quindi, non dite una parola
di più su questo argomento, per favore. Io faccio ciò che voglio,
signor Beauchamp, e, credetemi, è sempre fatto benissimo.»
«Signore», riprese il giovane, «le persone oneste non si pagano con
tal moneta; sono necessarie delle garanzie all’onore.»
«Signore, io sono una garanzia vivente», rispose Montecristo
impassibile, ma negli occhi balenavano fiamme. «Entrambi abbiamo
nelle vene del sangue, che abbiamo volontà di versare, ecco la
nostra mutua garanzia. Riportate questa risposta al visconte, e
ditegli che domani alle dieci c’incontreremo.»
«Non mi rimane dunque», disse Beauchamp, «che stabilire le
condizioni del combattimento.»
«Anche questo mi è del tutto indifferente, signore», disse il conte
di Montecristo. «Era dunque inutile venire a disturbarmi a teatro
per cosa di così poco conto. In Francia si battono alla spada o alla
pistola; nelle Colonie preferiscono la carabina; nell’Arabia
adoperano il pugnale. Dite al vostro committente, che benché sia io
l’insultato, gli lascio la scelta delle armi, e che accetterò tutto
senza contestazione, tutto, intendete bene, tutto! Anche il duello
per mezzo della sorte, cosa che è sempre stupida. Ma per me è un
affare diverso, io sono sicuro di vincere.»
«Sicuro di vincere», ripeté Beauchamp, guardando il conte
terrorizzato.
«Certamente», disse Montecristo, alzando leggermente le spalle.
«Senza questa certezza non mi batterei col signor Morcerf. Io lo
ucciderò, è necessario, e lo farò. Soltanto, non fate una parola di
tutto ciò in casa mia questa sera, indicatemi l’arma e l’ora,
preferisco che nessuno sappia.»
«Alla pistola, alle otto del mattino, al bosco di Vincennes», disse
Beauchamp sconcertato, non sapendo se aveva a che fare con un
fanfarone tracotante o con un essere soprannaturale.
«Va bene, signore», disse Montecristo. «E ora che tutto è in regola,
lasciatemi sentire la musica, ve ne prego, e dite al vostro amico
Albert di non tornare stasera; si farebbe torto con tutte le sue
brutalità di cattivo gusto: ritorni a casa a dormire.»
Beauchamp uscì esterrefatto.
«Ora», riprese Montecristo, volgendosi a Morrel, «posso contare su
di voi, vero?»
«Certo», rispose Morrel, «voi potete disporre di me, conte, però…»
«Sì?»
«Sarebbe importante, conte, che io conoscessi la vera causa.»
«Vale a dire che vi rifiutate?»
«No.»
«La vera causa, Morrel» disse il conte, «il giovane, che cammina
alla cieca, non la conosce neppure lui. La vera causa non è
conosciuta che da me e dal cielo; ma vi do la mia parola d’onore,
Morrel, che il cielo la conosce, e sarà a nostro favore.»
«Basta così, conte», disse Morrel. «Chi è il vostro secondo
padrino?»
«Io non conosco nessuno a Parigi cui dare questo onore, che voi
Morrel, e vostro cognato Emmanuel. Credete voi che Emmanuel vorrà
rendermi questo favore?»
«Vi garantisco per lui, come per me, conte.»
«Bene, non mi occorre altro. Domattina alle sette sarete da me…»
«Ci saremo.»
«Zitto! Ecco che si rialza il sipario, ascoltiamo. Non perdo una
nota di quest’opera, è tanto deliziosa la musica del Guglielmo
Tell!»
88. La notte
Il signore di Montecristo attese, secondo la sua abitudine, che
Duprez avesse cantato il suo famoso Seguitemi! e allora soltanto si
alzò e uscì. Sulla porta Morrel lo lasciò, rinnovando la promessa di
essere da lui con Emmanuel, la mattina dopo alle sette precise. Indi
salì nella sua carrozza, sempre calmo, sorridente. Cinque minuti più
tardi era a casa sua. Bisognava non conoscere il conte per lasciarsi
ingannare dall’espressione con la quale entrando in casa disse ad
Alì: «Dammi le mie pistole col calcio d’avorio.»
Alì porse la cassetta al padrone, e questi esaminò le armi con
l’attenzione naturale a un uomo che sta per affidare la vita a un
ferro o a una pistola. Si trattava di pistole particolari che
Montecristo aveva fatto costruire appositamente per tirare al
bersaglio nel suo appartamento. Una capsula bastava per sparare una
pallottola, e, dalla stanza vicina, non si sarebbe potuto credere
che il conte stava, come si dice in termine militare, esercitandosi.
Stava prendendo la mira sopra un pezzettino di tela che serviva da
bersaglio, quando si aprì la porta del suo studio, ed entrò
Battistino. Ma prima ancora che avesse aperto la bocca, il conte
vide una donna velata in piedi, illuminata dalla debole luce della
stanza vicina, che aveva seguito Battistino. Questa donna, avendo
scorto il conte con la pistola alla mano e due spade sopra una
tavola, si lanciò dentro. Battistino consultò con uno sguardo il suo
padrone. Il conte gli fece un segno, e Battistino si ritirò,
chiudendo la porta dietro di sé.
«Chi siete, signora?» domandò il conte rivolto alla donna velata.
La sconosciuta lanciò uno sguardo intorno a sé per assicurarsi che
fossero soli, poi, inchinandosi come se avesse voluto
inginocchiarsi, congiunse le mani, e con l’accento della
disperazione, disse: «Edmond, voi non ucciderete mio figlio!»
Il conte fece un passo indietro, mandò un debole grido, e lasciò
cadere l’arma di mano.
«Che nome avete pronunciato, signora Morcerf!?»
«Il vostro», gridò lei gettando il velo, «il vostro che, solo io
forse, non ho dimenticato mai! Edmond, non è la signora Morcerf che
viene da voi, è Mercedes!»
«Mercedes è morta, signora», ribatté Montecristo, «e io non conosco
più nessuno che porti questo nome.»
«Mercedes vive, signore, e Mercedes vi ricorda, poiché lei sola vi
ha riconosciuto quando vi vide, e anche senza vedervi, alla sola
voce Edmond, al solo accento della vostra voce… Lei vi ha seguito
passo passo, vi sorveglia, vi teme, e non ha avuto bisogno di
cercare la mano da cui partiva il colpo che ha percosso il signor
Morcerf.»
«Fernando, volete dire, signora», riprese Montecristo con amara
ironia, «poiché ricordiamo i nostri nomi, ricordiamoli tutti.»
E Montecristo aveva pronunciato il nome di Fernando con tale
espressione d’odio, che Mercedes sentì il brivido dello spavento
correrle per tutto il corpo.
«Vedete bene che non mi sono ingannata», gridò Mercedes, «e che ho
ragione di dirvi: risparmiatemi il figlio!»
«E chi vi ha detto, signora, che odio vostro figlio?»
«Nessuno, mio Dio. Ma una madre è dotata di una doppia vista. Ho
indovinato tutto: l’ho seguito stasera all’Opéra, e, nascosta in un
palco, ho visto ogni cosa.»
«Se avete visto tutto, signora, avrete notato che il figlio di
Fernando mi ha insultato pubblicamente», disse Montecristo con calma
terribile.
«Oh, per pietà!»
«Avrete visto», continuò il conte, «che mi avrebbe gettato il guanto
in faccia, se uno dei miei amici, Morrel, non gli avesse fermato il
braccio.»
«Ascoltatemi, anche mio figlio ha intuito, e attribuisce a voi la
disgrazia che è caduta su suo padre.»
«Signora», disse Montecristo, «non è una disgrazia, è un castigo.
Non sono io che perseguito il signor Morcerf, è la Provvidenza che
lo colpisce.»
«E perché vi sostituite alla Provvidenza? Perché ricordate voi ciò
che questa ha dimenticato? Che importa a voi, Edmond, di Giannina e
del suo visir? Che torto ha fatto a voi Fernando Mondego, col
tradire Alì Tebelin?»
«Tutto questo», rispose Montecristo, «tutto questo è un affare fra
il capitano francese e la figlia di Vasiliki. Ciò non mi riguarda
affatto, avete ragione, e se ho giurato di vendicarmi, non è del
capitano francese, né del signor Morcerf, ma bensì del pescatore
Fernando, marito della catalana Mercedes.»
«Ah, signore», gridò la contessa, «che terribile vendetta per una
colpa che la fatalità mi ha fatto commettere! Poiché la vera
colpevole sono io, Edmond, e se dovete vendicarvi di qualcuno, è di
me che ho mancato, costretta dalla vostra assenza e dal mio
isolamento.»
«Ma», gridò Montecristo, «perché sono stato assente? Perché siete
rimasta isolata?»
«Perché foste arrestato, Edmond, perché eravate in prigione!»
«E perché fui arrestato, perché ero in prigione?»
«Lo ignoro», rispose Mercedes.
«Sì, voi lo ignorate, signora, almeno lo spero. Ebbene, ve lo dirò
io. Fui arrestato e messo in prigione, perché sotto il pergolato
dell’osteria della Riserva, la stessa vigilia del giorno in cui
dovevo sposarvi, un uomo chiamato Danglars scrisse questa lettera
che il pescatore Fernando s’incaricò di consegnare lui stesso alla
posta.»
E Montecristo, andando allo scrittoio, estrasse un foglio che aveva
perduto il primitivo colore, e la cui scrittura aveva preso quello
della ruggine, e lo mise sotto gli occhi di Mercedes. Era la lettera
di Danglars al regio procuratore, che il giorno in cui aveva pagato
i duecentomila franchi al signor di Boville, il conte di
Montecristo, travestito da commesso della casa Thomson e French,
aveva sottratto dalla pratica di Edmond Dantès.
Mercedes lesse con spavento: «Il signor regio procuratore è avvisato
da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmond
Dantès, secondo sul bastimento Pharaon, giunto questa mattina da
Smirne, dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, ha ricevuto
l’incarico da Murat di consegnare una lettera per l’usurpatore, e
dall’usurpatore di una lettera per il comitato bonapartista di
Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo, poiché si
troverà questa lettera, o nelle sue tasche o presso suo padre, o
nella sua cabina a bordo del Pharaon».
«Oh, mio Dio!» gridò Mercedes, passando la mano sulla fronte bagnata
di sudore. «Questa lettera…»
«L’ho comprata per duecentomila franchi, signora», disse
Montecristo, «ma è ancora a buon mercato, perché oggi mi permette di
giustificarmi ai vostri occhi.»
«E il risultato di questa lettera?»
«Voi lo sapete, signora, fu il mio arresto. Quello però che non
sapete è che io sono stato per quattordici anni a un quarto di lega
da voi, in una prigione segreta del castello d’If. Ciò che non
sapete, è che ogni giorno di questi quattordici anni ho rinnovato il
mio giuramento di vendetta che avevo fatto il primo giorno. Eppure
ignoravo che aveste sposato Fernando, il mio delatore, e che mio
padre fosse morto, e morto di fame!»
«Giusto Dio!» gridò Mercedes vacillando.
«Ecco ciò ch’io ho saputo nell’uscire di prigione, quattordici anni
dopo esservi entrato, ed ecco quello che mi ha indotto a giurare su
Mercedes viva e su mio padre morto, di vendicarmi, e… io mi
vendico.»
«E siete sicuro che il disgraziato Fernando abbia fatto tutto
questo?»
«Sull’anima mia, ha fatto quello che vi ho detto. D’altra parte non
è molto più odioso che, francese d’adozione, essere passato nelle
file degli inglesi; spagnolo di nascita, aver combattuto contro gli
spagnoli; stipendiato da Alì, avere tradito e assassinato Alì! In
faccia a simili cose, che cosa è mai la lettera che avete letto? Una
sopraffazione galante che può perdonare, lo vedo e lo rilevo, la
donna che ha sposato quest’uomo, ma che non perdona l’amante che
doveva sposarla.
Ebbene, i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnoli
non hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba, ha
lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato
vivo in una tomba, da cui sono uscito per miracolo, io debbo
vendicarmi, e il cielo, giusto punitore dei malvagi, mi ha inviato a
punire, ed eccomi qui.»
La povera donna lasciò ricadere la testa e le mani; le gambe le si
piegarono sotto, e cadde in ginocchio.
«Perdonate, Edmond», supplicò, «perdonate per me, che vi amo
ancora!»
La dignità della sposa mise un freno allo slancio dell’amante e
della madre; la sua fronte s’inchinò fino a toccare il tappeto. Il
conte si chinò su di lei, e la rialzò. Allora poté, attraverso le
lacrime, guardare il pallido viso di Montecristo, al quale il dolore
e l’odio imprimevano un carattere minaccioso.
«Che io non schiacci questa razza maledetta?» mormorò. «Che io
disobbedisca al cielo, il quale mi ha risorto per la loro punizione?
Impossibile, signora, impossibile!»
«Edmond», riprese la povera madre, tentando tutti i mezzi. «Quando
vi chiamo Edmond, perché non mi chiamate Mercedes?»
«Mercedes!» ripeté Montecristo, «Mercedes! Ebbene, sì, voi avete
ragione, questo nome è dolce ancora da pronunciare, ed ecco la prima
volta, dopo lunghi anni, che risuona chiaro sulle mie labbra. Ah,
Mercedes! Il vostro nome io l’ho pronunciato coi sospiri della
malinconia, coi gemiti del dolore, con la rabbia della disperazione;
l’ho pronunciato gelido per il freddo, rattrappito sulla paglia
della mia cella; l’ho pronunciato divorato dal caldo, l’ho
pronunciato rotolandomi sul pavimento del carcere.
Mercedes, è necessario ch’io mi vendichi, perché ho sofferto per
quattordici anni: per quattordici anni ho pianto, ho maledetto. Ora,
io ve lo ripeto, Mercedes, bisogna ch’io mi vendichi!»
E il conte di Montecristo, temendo di cedere alle lacrime di quella
donna che aveva amato tanto, chiamava in soccorso del suo odio i
ricordi del passato.
«Vendicatevi, Edmond», gridò la povera madre, «ma vendicatevi sui
colpevoli, vendicatevi su di me, non su mio figlio!»
«Mi rammento d’aver trovato scritto, né m’inganno», disse
Montecristo, «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla
terza e quarta generazione.”»
«Edmond», continuò Mercedes, le braccia tese verso il conte, «da
quando vi ho conosciuto ho adorato il vostro nome, ho rispettato la
vostra memoria. Edmond, amico mio, non mi costringete a cancellare
questa immagine nobile e pura, che m’è sempre stata impressa nel
cuore. Edmond, se voi sapeste tutte le preghiere che ho innalzato a
Dio per voi, fino a che vi ho sperato vivo, e dopo che vi ho creduto
morto! Sì, morto, ahimè! Credevo il vostro cadavere sepolto nel
fondo di quella torre, il vostro corpo precipitato in qualcuno di
quegli abissi in cui i carcerieri rotolano i morti, e io vi
piangevo! Che cosa potevo fare per voi, Edmond, se non pregare e
piangere? Ascoltatemi, per dieci anni ho fatto ogni notte lo stesso
sogno. Si disse che voi avevate tentato di fuggire, che preso il
posto di un altro prigioniero, vi eravate introdotto nel sacco
mortuario, e che quando avevano gettato il corpo dall’alto del
castello d’If, solo dal grido nell’infrangervi sugli scogli, i
becchini vostri carnefici avevano capito dello scambio. Ebbene,
Edmond, ve lo giuro sulla testa di questo figlio per il quale
v’imploro, Edmond, per dieci anni ho visto ogni notte gli uomini che
libravano qualche cosa d’informe e di sconosciuto dall’alto della
roccia; per dieci anni ho udito ogni notte un grido terribile che mi
faceva destare, rabbrividire e gelare. E io pure, Edmond, credetemi,
per quanto sia rea, oh sì, io pure ho sofferto molto!»
«Avete voi saputo che vostro padre moriva in vostra assenza?» gridò
Montecristo, cacciandosi le mani fra i capelli. «Avete visto la
donna che amavate, tendere la mano al vostro rivale, nel tempo che
morivate nell’abisso di un vortice?»
«No», interruppe Mercedes, «ma ho visto quello che io amavo, pronto
a diventare l’assassino di mio figlio!»
Mercedes pronunciò queste parole con un dolore così possente, con
accento così disperato, che un singhiozzo sfuggì dalla gola del
conte.
Il leone era domato, il vendicatore era vinto.
«Che cosa volete da me?» gridò. «Che vostro figlio viva? Ebbene
vivrà!»
Mercedes mandò un grido che fece scaturire due lacrime dalle pupille
di Montecristo, ma esse scomparvero subito, poiché si staccò dal
cielo un angelo per raccoglierle, essendo più preziose al Signore
che le più ricche perle di Gizerate e d’Ofir.
«Grazie!» gridò lei afferrando la mano del conte e portandosela alle
labbra. «Grazie, Edmond, grazie! Eccoti come ti ho sempre sognato
come ti ho sempre amato… Oh, ora posso dirlo!»
«Tanto più», riprese Montecristo, «che il povero Edmond non avrà
molto tempo per essere amato. Il morto rientra nella tomba, il
fantasma rientra nella notte.»
«Che cosa intendete dire, Edmond?»
«Dico che, poiché l’ordinate, Mercedes, bisogna morire.»
«Morire? E chi lo dice? Chi parla di morire? Da dove vi tornano
simili idee di morte?»
«Non supporrete, che, oltraggiato pubblicamente, di fronte a tutto
un teatro in presenza dei vostri amici e di quelli di vostro figlio,
provocato da un giovanetto che si glorierebbe del mio perdono come
di una vittoria, voi non supporrete già, dicevo, che io sia disposto
a vivere un solo momento. Ciò che ho amato di più, dopo di voi,
Mercedes, è me stesso, vale a dire la mia dignità, quella forza che
mi rendeva superiore agli altri uomini, quella forza ch’era la mia
vita. Con una parola, voi la rompete. Io muoio.»
«Ma questo duello non avrà luogo, Edmond, poiché perdonate.»
«Avrà luogo, signora», disse solennemente Montecristo. «Soltanto che
sul terreno, che doveva essere bagnato dal sangue di vostro figlio,
scorrerà il mio sangue.»
Mercedes mandò un grido, e si lanciò verso Montecristo; ma a un
tratto si fermò.
«Edmond», disse, «vi è un Dio sopra di noi, poiché vi ho rivisto, e
io confido in lui dal più profondo del cuore. Aspettando il suo
aiuto, mi affido alla vostra parola: voi avete detto che mio figlio
vivrà; vivrà, non è vero?»
«Vivrà, signora», ripeté Montecristo, sorpreso che senz’altra
opposizione, senz’altra meraviglia, Mercedes avesse accettato
l’eroico sacrificio che le offriva.
Mercedes tese la mano al conte.
«Edmond», disse, mentre gli occhi le si bagnavano di lacrime
guardando l’uomo a cui rivolgeva queste parole, «quanto è bello da
parte vostra, come è grande ciò che avete fatto! Quanto è sublime
avere avuto pietà d’una povera donna che vi pregava senza offrirvi
nessuna speranza! Ahimè, sono invecchiata per i dispiaceri più
ancora che per gli anni, non posso più rammentare al mio Edmond con
uno sguardo quella Mercedes d’un tempo ch’egli passava tante ore a
contemplare. Ah, credetemi, Edmond, vi ho detto che io pure ho
sofferto molto, ve lo ripeto; è ben triste veder passare la vita
senza ricordarsi una sola gioia, senza conservare una sola speranza!
Anche se ciò può essere una prova che non tutto è finito… No, tutto
non è finito, lo sento da ciò che mi rimane ancora nel cuore. Oh, ve
lo ripeto Edmond, è bello, è grande, è sublime il perdonare come voi
fate!»
«Voi dite ciò, Mercedes? E che direste se sapeste tutta l’estensione
del sacrificio che vi offro? Voi non ne avete un’idea, o piuttosto,
no, no, voi non potrete mai farvi un’idea di ciò ch’io perdo,
perdendo la vita in questo momento.»
Mercedes guardò il conte esprimendo a un tempo la meraviglia,
l’ammirazione e la riconoscenza. Montecristo appoggiò la fronte
sulle mani ardenti, come se non potesse più sostenere il peso dei
pensieri.
«Edmond», disse Mercedes, «non ho che una parola da dirvi.»
Il conte sorrise amaramente.
«Edmond», continuò, «vedrete che se la mia fronte è impallidita, se
i miei occhi sono spenti, se la mia bellezza è perduta, se infine
non assomiglio più alla Mercedes d’una volta, vedrete che sono
sempre la stessa nel cuore! Addio dunque, Edmond, non ho più nulla
da chiedere al cielo… Vi ho rivisto, e rivisto ugualmente nobile e
grande come in altri tempi. Addio, Edmond… Addio e grazie!»
Il conte non rispose.
Mercedes aveva riaperto la porta dello studio, ed era scomparsa
prima ancora che il conte fosse rinvenuto dalla dolorosa e profonda
prostrazione in cui lo aveva immerso la fallita vendetta.
Suonava l’una all’orologio des Invalides, quando la carrozza che
trasportava la signora Morcerf correndo per gli Champs-Elysées, fece
rialzare la testa al conte di Montecristo.
«Pazzo!» disse. «Dovevo strapparmi il cuore il giorno in cui decisi
di vendicarmi!»
89. Il duello
Quando Mercedes si fu allontanata, Montecristo si disse: «L’edificio
così lentamente preparato, elevato con tante pene e tanti affanni,
ecco che crolla a un tratto con una sola parola, sotto un soffio! E
dunque, sono ancora quello che si credeva qualche cosa? Che era così
superbo di se stesso? Che vistosi piccolo nel carcere d’If, era
riuscito a diventare così grande? La mia salma sarà dunque domani un
poco di polvere? Ahimè, non è la morte del corpo quella che
rimpiango. Questa distruzione della materia, non è forse il riposo a
cui tende tutto, a cui aspira ogni infelice? Quella calma della
materia alla quale m’incamminavo per la strada dolorosa della fame,
quando Faria comparve nel mio cuore? Che cosa è dunque la morte per
me? Un grado in più nella calma, forse nel silenzio. No, non è
dunque la cessazione dell’esistenza che io rimpiango, poiché il mio
spirito sopravvivrà: ma la rovina dei progetti così lentamente
elaborati, così faticosamente costruiti, ecco ciò che amaramente
piango. La Provvidenza, che io avevo creduto favorevole, è dunque
contraria? Dio non vuol dunque che i fatti si compiano? Il fardello
che avevo sollevato, pesante quasi al pari del mondo e che avevo
creduto di poter portare fino al termine, era secondo i miei
desideri, ma non secondo la mia forza; secondo la mia volontà, ma
non secondo il mio potere? Dovrò deporlo, giunto appena alla metà
della mia corsa? O diventerei forse fatalista, io, che sono stato
reso previdente da quattordici anni di disperazione e dieci di
speranze? E tutto questo, tutto questo, mio Dio, perché il mio
cuore, che credevo morto non era che assopito, perché si è
risvegliato, perché ha palpitato di nuovo, perché ho ceduto al
dolore che questo palpito solleva dal fondo del mio petto per la
voce di una donna! Eppure», continuò il conte, inabissandosi sempre
più nelle previsioni di quel domani terribile che aveva accettato da
Mercedes, «eppure è impossibile che questa donna d’un cuore così
nobile, abbia in tal modo, per egoismo, acconsentito a lasciarmi
uccidere, me, così pieno di forze, d’esistenza! È impossibile che
lei spinga a tal punto l’amore, o piuttosto il delirio materno! Vi
sono virtù in cui l’esagerazione sarebbe un delitto. Ma lei avrà
immaginato qualche scena poetica: verrà a gettarsi fra le spade, e
sarà cosa ridicola…»
Il rossore dell’orgoglio salì sul viso del conte.
«È ridicolo», ripeté, «e il ridicolo ricadrà su di me… Io ridicolo!
Piuttosto, preferisco morire.»
A forza di esagerarsi in questo modo i fatti che sarebbero potuti
accadere l’indomani, nel quale si era condannato, promettendo a
Mercedes che avrebbe lasciato vivere suo figlio, il conte finì col
dirsi: «Pazzie! Pazzie! Pazzie! Mettersi come segno inerte davanti
alla mira del giovane! Non crederà mai che la mia morte sia un
suicidio, eppure per l’onore della mia memoria (questa non è vanità,
ma giusto orgoglio, ecco tutto), per l’onore della mia memoria
voglio che il mondo sappia che ho acconsentito di mia volontà, con
una libera decisione, a fermare il braccio abituato a percuotere, a
ferirmi da me stesso con questo braccio uso a vincere gli altri… È
necessario, lo farò.»
E presa una penna, scrisse alcune righe in calce a un foglio, che
era il testamento fatto al suo arrivo a Parigi, e stese una specie
di codicillo, nel quale faceva comprendere la sua morte anche agli
uomini meno perspicaci.
«Faccio questo, Dio mio, per il solo mio onore, e per umiliare me
stesso agli occhi miei. Da dieci anni mi sono considerato ministro
della vendetta celeste, è indispensabile che questi miserabili, che
un Danglars, un Villefort, un Morcerf non si figurino d’essersi
sbarazzati di me per opera del solo caso, che il solo caso li abbia
liberati del loro nemico. Sappiano, al contrario, che non ha avuto
luogo la deliberata punizione, perché è stata corretta dalla mia
sola volontà: che il castigo evitato in questo mondo li aspetta
nell’altro e che essi non hanno fatto altro cambio che quello del
tempo con l’eternità.»
Mentre ondeggiava in queste cupe incertezze, sogni d’uomo
risvegliato dal dolore, venne il giorno a rischiarare sotto le sue
mani la carta azzurra sulla quale tracciava l’ultima sua
giustificazione: erano le cinque del mattino.
A un tratto gli giunse all’orecchio un leggero rumore.
Montecristo credette di avere udito qualche cosa, come un sospiro
soffocato; volse la testa, guardò intorno a sé, e non vide nessuno.
Soltanto, il rumore si ripeté molto distintamente. Allora il conte
si alzò, aprì dolcemente la porta del salotto, e sopra una sedia,
con la bella testa pallida e inclinata indietro, vide Haydée, che si
era posta davanti alla porta affinché non potesse uscire senza
vederla, ma il sonno possente nella gioventù l’aveva sorpresa dopo
la fatica di una lunga veglia. Il rumore che fece la porta
nell’aprirsi non poté scuotere Haydée dal sonno. Montecristo fissò
su di lei uno sguardo pieno di dolcezza e di dolore.
«Lei si è ricordata che aveva un padre e io mi sono dimenticato che
ho una figlia!»
Scosse tristemente la testa.
«Povera Haydée!» disse. «Ha voluto vedermi, ha voluto parlarmi, ha
temuto o indovinato qualche cosa. Oh, non posso partire senza dirle
addio, non posso morire senza affidarla a qualcuno.»
E ritornò al suo posto e scrisse sotto alle righe già vergate:
«Lascio a Maximilien Morrel, capitano degli Spahis, e figlio del mio
antico padrone Pierre Morrel, armatore in Marsiglia, la somma di
venti milioni, di cui ne sarà da lui offerta una parte a sua sorella
Julie e a suo cognato Emmanuel, a meno che non creda che questo
aumento di fortuna possa nuocere alla loro felicità. Questi venti
milioni sono sepolti nella mia grotta dell’isola di Montecristo, di
cui Bertuccio conosce il segreto. Se il suo cuore è libero, e vorrà
sposare Haydée, figlia d’Alì pascià di Giannina, da me allevata con
l’amore di padre, e che ha avuto per me l’amore e la tenerezza di
una figlia, esaudirà non dirò l’ultima mia volontà, ma l’ultimo mio
desiderio. Il presente testamento ha già fatto Haydée erede del
resto della mia sostanza consistente in terre, rendite in
Inghilterra, Austria e Olanda, mobili dei miei diversi palazzi e
case, e che prelevati i venti milioni, altri lasciti fatti ai miei
servitori ecc., formerà una somma che potrà ammontare a sessanta
milioni». Terminava appena di scrivere quest’ultima riga, quando un
grido dietro di lui gli fece cadere la penna dalla mano.
«Haydée», disse, «voi avete letto!»
Infatti la giovane, risvegliata dal chiarore del giorno che le aveva
colpito le pupille, si era alzata e avvicinata al conte, senza che
egli potesse sentirne i passi leggeri, attutiti dal tappeto.
«Oh, mio signore», disse lei, congiungendo le mani, «perché scrivete
a quest’ora? Perché mi lasciate le vostre ricchezze? Mio signore, mi
abbandonate forse?»
«Vado a fare un viaggio, cara fanciulla», disse Montecristo con
espressione di malinconia e di tenerezza infinita, «e se mi
accadesse qualche disgrazia…»
Il conte si fermò.
«Ebbene?» domandò la giovane donna con un accento imperioso ignoto
al conte, e che lo fece fremere.
«Ebbene, se mi accade qualche disgrazia», riprese Montecristo,
«voglio che mia figlia sia felice.»
Haydée sorrise tristemente scuotendo la testa.
«Voi pensate a morire, mio signore?»
«È un pensiero salutare, figlia mia, ha detto il saggio.»
«Ebbene, se voi morite», disse, «lasciate pure la vostra sostanza ad
altri eredi; perché se morite… non avrò più bisogno di niente.»
E prendendo il foglio lo stracciò in quattro pezzi che gettò in
mezzo al salotto. Quindi spossata da quell’attimo di energia così
poco comune a una schiava, cadde, non più addormentata, ma svenuta
sul pavimento.
Montecristo si chinò su di lei, la sollevò fra le braccia, e,
vedendo quel bel viso pallido, e quegli occhi chiusi, quel bel corpo
inanimato e come abbandonato, gli venne per la prima volta l’idea
che lo amasse ben diversamente da come una figlia ama suo padre.
«Povero me», mormorò, con profondo scoraggiamento, «avrei ancora
potuto esser felice!»
Quindi portò Haydée fino al suo appartamento, la rimise fra le mani
delle sue donne, e rientrando nello studio, che stavolta chiuse
attentamente, ricopiò il testamento distrutto. Mentre terminava
sentì il rumore di un calessino che entrava nel cortile.
Montecristo si avvicinò alla finestra, e vide scendere Maximilien ed
Emmanuel.
«Bene!» disse. «È giunta l’ora.»
Sigillò il suo testamento con triplo sigillo. Un istante dopo udì un
rumore di passi nella sala, e andò ad aprire egli stesso. Morrel
comparve sulla soglia: aveva anticipato l’ora di venti minuti.
«Vengo forse troppo presto, signor conte», disse, «ma vi confesso
francamente che non ho potuto dormire un minuto, è accaduto lo
stesso a tutta la famiglia; avevo molto bisogno di vedere la vostra
coraggiosa fermezza per recuperarla io stesso.»
Montecristo non poté contenersi a tal prova di affezione, e non pago
di tendergli la mano, gli aprì le braccia.
«Morrel», gli disse, con voce commossa, «è per me un bel giorno
quello in cui mi sento amato da un uomo come voi. Buongiorno, signor
Emmanuel. Voi dunque venite con me, Maximilien?»
«Assolutamente!» disse il giovane capitano. «Ne avete dubitato?»
«Ma pure, se io avessi torto…»
«Ascoltate, vi ho osservato ieri durante tutta la scena di sfida: ho
pensato alla vostra fermezza tutta questa notte e ho detto a me
stesso ch’eravate dalla parte della giustizia.»
«Però, Morrel, Albert è vostro amico…»
«Una semplice conoscenza, conte.»
«Non lo vedeste la prima volta lo stesso giorno che vedeste me?»
«Sì, è vero; ma che volete, bisogna che me lo ricordiate voi, perché
me ne sovvenga.»
Quindi suonò il campanello.
«Prendi», disse ad Alì, che comparve subito. «Sia consegnato al mio
notaio: è il mio testamento, Morrel. Quando sarò morto, andrete a
prenderne visione.»
«Come!» gridò Morrel. «Voi morto?»
«Non bisogna sempre prevedere tutto, amico caro? Ma che cosa avete
fatto ieri sera dopo avermi lasciato?»
«Sono stato al caffè Tortoni, dove, come m’aspettavo, ho trovato
Beauchamp e Château-Renaud, vi confesso che li cercavo.»
«Per far che, quando tutto era già convenuto?»
«Ascoltate, conte, l’affare è grave e inevitabile…»
«Ne dubitavate?»
«No, l’offesa è stata pubblica, e già tutti ne parlano.»
«Ebbene?»
«Speravo di far cambiare le armi, sostituire alla pistola, la spada.
La pistola è cieca.»
«Ci siete riuscito?» domandò vivacemente Montecristo con
un’impercettibile speranza.
«No, perché si conosce la vostra destrezza alla spada.»
«E chi mi ha visto maneggiare una spada?»
«I maestri di scherma che avete battuto.»
«E non ci siete riuscito?»
«Hanno ricusato formalmente.»
«Morrel», disse il conte, «mi avete mai visto tirare alla pistola?»
«Mai.»
«Ebbene, guardate.»
Il conte di Montecristo prese le pistole che aveva in mano quando
era entrata Mercedes, e attaccato un asso di fiori contro il muro,
in quattro colpi portò via successivamente i quattro rami del fiore.
A ogni colpo Morrel impallidiva. Esaminò le pallottole con le quali
Montecristo aveva eseguito il tiro, e vide che non erano più grosse
dei pallini da lepre.
«È una cosa spaventosa», mormorò. «Guardate, Emmanuel!»
Quindi si voltò verso Montecristo.
«Conte», disse, «in nome del cielo, non uccidete Albert! Il
disgraziato ha una madre.»
«È giusto», rispose Montecristo, «e io invece sono solo al mondo.»
Queste parole furono pronunciate con un tono che fece tremare
Morrel.
«Voi siete l’offeso, conte.»
«Senza dubbio… E che volete dire con ciò?»
«Voglio dire che siete il primo a tirare.»
«Tiro io per primo?»
«Questo l’ho preteso: facciamo loro tante concessioni che possono
ben fare a noi questa.»
«E a quanti passi?»
«A venti.»
Uno spaventoso sorriso passò sulle labbra del conte.
«Morrel», disse, «non dimenticate quello che ora avete visto.»
«Per cui», riprese il giovane, «bisogna contare sulla vostra
emozione per salvare Albert.»
«Io emozionato?» domandò Montecristo.
«O sulla vostra generosità, amico mio! Sicuro come siete del colpo,
dovrò farvi una raccomandazione, ridicola se la facessi a un altro…»
«E quale?»
«Rompetegli un braccio, feritelo, ma non uccidetelo.»
«Morrel, ascoltate anche questo», disse il conte, «non ho bisogno di
preghiere per usare riguardi a Morcerf… Vi avverto prima, sarà ben
trattato, tornerà tranquillamente da sua madre, mentre io…»
«E voi?»
«La vita per me non ha importanza…»
«Cosa dite?» gridò Morrel fuori di sé.
«La cosa andrà come vi dico io, mio caro Morrel, il signor Morcerf
mi ucciderà.»
Morrel guardò il conte allibito.
«Conte, che cosa è accaduto dopo ieri sera?»
«Ciò che accadde a Bruto alla vigilia della battaglia di Filippi: ho
visto un fantasma.»
«E questo fantasma?»
«Questo fantasma, Morrel, mi ha detto che ho vissuto abbastanza.»
Maximilien ed Emmanuel si guardarono; Montecristo estrasse
l’orologio.
«Andiamo», disse. «Sono le sette e cinque minuti, e l’appuntamento è
per le otto precise.»
Una carrozza li aspettava coi cavalli già attaccati. Montecristo
salì con i suoi due testimoni. Attraversando il corridoio,
Montecristo si era fermato per ascoltare a una porta, e Maximilien
ed Emmanuel che per discrezione avevano fatto qualche passo avanti,
credettero di sentire un sospiro e un singhiozzo.
Suonarono le otto nel momento in cui giungevano all’appuntamento.
«Eccoci arrivati», disse Morrel, mettendo la testa fuori dallo
sportello, «siamo i primi.»
«Il signore mi scuserà», disse Battistino, che aveva seguito il suo
padrone con un indicibile terrore, «ma credo di scorgere una
carrozza laggiù sotto quegli alberi.»
Montecristo saltò leggermente giù dal calesse, e dette la mano a
Emmanuel e Maximilien per aiutarli a smontare.
Maximilien trattenne la mano del conte fra le sue.
«Alla buon’ora», disse, «ecco la mano di un uomo la cui vita riposa
sulla giustizia della causa.»
«Laggiù», disse Emmanuel, «scorgo due giovani che passeggiano come
aspettando.»
Montecristo tirò Morrel un passo o due dietro suo cognato.
«Maximilien», gli domandò, «avete il cuore libero?»
Morrel guardò Montecristo con stupore.
«Non è una confidenza che vi chiedo, amico caro, ma una domanda
precisa che vi faccio: rispondete sì o no, ecco cosa vi chiedo.»
«Io amo una ragazza, conte.»
«L’amate molto?»
«Più della mia vita.»
«Ecco un’altra speranza che mi sfugge», disse Montecristo. Poi dopo
un sospiro, «Povera Haydée!» mormorò.
«In verità, conte», riprese Morrel, «se vi conoscessi meno, vi
crederei meno temerario di quello che siete.»
«Perché penso a qualcuno che lascerò, e sospiro? Dunque, Morrel, un
soldato deve intendersi così poco di coraggio? Temo forse la morte?
Cosa volete che conti per me, per me che ho trascorso vent’anni fra
la vita e la morte, vivere o morire? State tranquillo, Morrel,
questa debolezza, se pure è tale, si palesa a voi solo. So che il
mondo è una sala, dalla quale bisogna uscire gentilmente e
onestamente, vale a dire salutando e pagando i debiti di gioco.»
«Ecco ciò che si chiama parlare», disse Morrel. «A proposito, avete
portato le vostre armi?»
«Io? Per farne che? Spero che quei signori abbiano portato le loro.»
«Vado a informarmene», disse Morrel.
«Sì, ma non negoziate.»
«State tranquillo.»
Morrel avanzò verso Beauchamp e Château-Renaud, i quali vedendo
avvicinarsi Maximilien gli andarono incontro. I tre giovani si
salutarono, se non con affabilità, almeno con cortesia.
«Scusate, signori», disse Morrel, «ma io non scorgo il signor
Morcerf.»
«Questa mattina», rispose Château-Renaud, «ci ha fatto avvertire che
ci avrebbe raggiunti soltanto sul terreno.»
«Ah!» esclamò Morrel.
Beauchamp prese l’orologio.
«Otto e cinque, siamo ancora in tempo, signor Morrel.»
«Non lo dicevo con tale intenzione», replicò Maximilien.
«Intanto», interruppe Château-Renaud, «ecco una carrozza.»
Infatti una carrozza arrivava al gran trotto da uno dei viali che
immettevano al luogo dove si trovavano.
«Signori», disse Morrel, «senza dubbio vi sarete muniti delle
pistole. Il signore di Montecristo dichiara di rinunciare al diritto
che aveva di servirsi delle sue.»
«Noi abbiamo previsto questa delicatezza da parte del conte, signor
Morrel», rispose Beauchamp, «e ho portato delle armi che ho comprato
otto o dieci giorni fa, credendo di dovermene servire per un affare
di questo genere; sono perfettamente nuove, e non sono ancora state
adoperate: volete controllarle?»
«Signor Beauchamp», replicò Morrel inchinandosi, «quando assicurate
che il signor Morcerf non conosce queste armi, mi basta la vostra
parola.»
«Signori», intervenne Château-Renaud, «non è Morcerf che arriva in
quella carrozza. Sono Franz e Debray.»
Infatti i due giovani si avvicinarono di corsa.
«Voi qui, signori», si stupì Château-Renaud. «E per quale ragione?»
«Perché», spiegò Debray, «Albert ci ha fatto pregare questa mattina
di ritrovarci sul terreno.»
Beauchamp e Château-Renaud si guardarono in viso con aria di
stupore.
«Signori», disse Morrel, «io credo di capire come va la faccenda.»
«Sentiamo!»
«Ieri, dopo mezzogiorno, ho ricevuto una lettera dal signor Morcerf
che mi pregava di trovarmi all’Opéra.»
«E io pure», disse Debray.
«E anch’io pure», dichiarò Franz.
«E noi pure», dissero insieme Château-Renaud e Beauchamp.
«Voleva che fossimo presenti alla sfida», riprese Morrel, «oggi
vuole che siamo presenti al duello.»
«Sì», dissero i giovani, «è così, signor Maximilien, e secondo ogni
probabilità, avete indovinato.»
«Ma con tutto ciò», mormorò Château-Renaud, «Albert non si vede, ed
è già in ritardo di dieci minuti.»
«Eccolo», disse Beauchamp, «è a cavallo, osservate, viene al
galoppo, seguito dal domestico.»
«Che imprudenza!» commentò Château-Renaud. «Venire a cavallo per
battersi alla pistola! Gli avevo così bene insegnato la lezione!»
«E poi osservate», rimarcò Beauchamp, «col colletto alla cravatta,
l’abito aperto, un gilè bianco… E perché non si è fatto anche
disegnare un bersaglio sullo stomaco? Tutto sarebbe finito al più
presto.»
Frattanto Albert era giunto a dieci passi dal gruppo che formavano i
cinque giovani; saltò a terra, e gettò le redini al domestico. Si
avvicinò: era pallido, e con gli occhi rossi e gonfi, segno che non
aveva dormito un minuto in tutta la notte. Su tutta la fisionomia
era sparsa una nube di tristezza che non gli era naturale.
«Grazie, signori», disse, «di aver voluto accettare il mio invito;
credetemi, la mia riconoscenza per questa dimostrazione di amicizia,
non può esser maggiore.»
Morrel, all’avvicinarsi di Albert, aveva fatto una dozzina di passi
indietro, e si teneva in disparte.
«A voi pure Morrel», disse Albert, «sono diretti i miei
ringraziamenti avvicinatevi pure, non siete di troppo.»
«Signore», iniziò Maximilien, «voi forse non sapete che io sono il
padrino di Montecristo…»
«Non ne ero certo, ma lo immaginavo. Tanto meglio! Più vi saranno
qui uomini d’onore, e più sarò soddisfatto.»
«Signor Morrel», disse Château-Renaud, «potete annunciare al conte
di Montecristo che è giunto il signor Morcerf e che siamo a sua
disposizione.»
Morrel fece un movimento per svolgere la commissione, e nello stesso
tempo Beauchamp prese dalla carrozza la cassetta delle pistole.
«Aspettate, signori», disse Albert, «ho due parole da dire al
signore di Montecristo.»
«In segreto?» domandò Morrel.
«No, signore, in presenza di tutti.»
I testimoni di Albert si guardarono con sorpresa; Franz e Debray si
scambiarono alcune parole a bassa voce; e Morrel, contento di questo
inatteso incidente, andò a cercare il conte che passeggiava in un
altro viale con Emmanuel.
«Che cosa vuole da me?» domandò Montecristo.
«Non lo so, ma chiede di parlarvi.»
«Oh», disse Montecristo, «non si arrischi a oltraggiarmi di nuovo!»
«Non credo sia la sua intenzione.»
Il conte s’avviò, accompagnato da Maximilien e da Emmanuel. Il suo
viso calmo e sereno faceva un contrasto assai strano col viso
sconvolto di Albert, che si avvicinava seguito dai quattro giovani,
a tre passi l’uno dall’altro. Albert e il conte si fermarono.
«Signori», disse Albert, «avvicinatevi, desidero che non vada
perduta una parola di quanto avrò l’onore di dire al conte di
Montecristo, perché quello che avrò l’onore di dirgli deve essere
ripetuto da voi a chiunque, per quanto strano vi possa sembrare.»
«Aspetto, signore», disse il conte.
«Signore», cominciò Albert, con voce prima tremante, poi sempre più
sicura. «Signore, io vi rimproveravo di aver divulgato la condotta
di mio padre nell’Epiro, perché per quanto fosse colpevole il signor
Morcerf, non credevo aveste il diritto di punirlo. Ma oggi so,
signore, che avete questo diritto. Non è il tradimento che Fernando
Mondego fece ad Alì Pascià quello che mi rende pronto a scusarvi, ma
il tradimento che usò a voi il pescatore Fernando, sono le disgrazie
inaudite che sono seguite a questo tradimento. Perciò lo dico, e lo
proclamo ad alta voce: sì, signore, avete avuto ragione di
vendicarvi di mio padre, e vi ringrazio di non avergli fatto un male
peggiore.»
Se fosse caduto un fulmine in mezzo agli spettatori di quella scena
inattesa, non li avrebbe certo stupefatti come quella dichiarazione
di Albert. Quanto a Montecristo, i suoi occhi erano rivolti al cielo
con un’espressione d’infinita riconoscenza, e non avrebbe saputo
spiegare come l’indole focosa d’Albert, di cui aveva ammirato il
coraggio fra i banditi di Roma, si fosse potuta d’un tratto piegare
a tanta umiliazione. Subito riconobbe l’influenza di Mercedes, e
capì come questo nobile cuore non si era opposto al suo sacrificio,
sapendo che non ce n’era bisogno.
«Ora, signore», riprese Albert, «se trovate sufficienti le scuse che
vi ho fatto, datemi la vostra mano, vi prego. Dopo il merito così
raro dell’infallibilità, che sembra appartenere a voi, il primo di
tutti gli altri meriti, a mio avviso, è quello di saper confessare i
propri torti. Ma questa confessione appartiene a me solo. Io agivo
bene secondo il volere della Provvidenza! Un angelo soltanto poteva
salvare uno di noi dalla morte certa, e l’angelo è comparso, se non
per fare di noi due amici (perché purtroppo la fatalità rende la
cosa impossibile), almeno per fare di noi due uomini che si
stimino.»
Montecristo, con l’occhio umido, il petto ansante, la bocca
semiaperta, tese una mano ad Albert stringendo la sua con affetto.
«Signori», disse, «il conte di Montecristo gradisce e accetta le mie
scuse. Io avevo agito troppo precipitosamente contro di lui; la
precipitazione dà cattivi consigli, avevo agito male. Ora il mio
sbaglio è riparato. Spero che la società non mi taccerà di vile,
perché ho fatto ciò che la mia coscienza mi ha ordinato di fare. Ma,
in ogni caso, se qualcuno si sbagliasse sul conto mio», aggiunse il
giovane, rialzando la testa con orgoglio, e come se indirizzasse la
sfida agli amici e ai nemici, «cercherò di rettificare le opinioni.»
«Che cosa è dunque accaduto questa notte?» domandò Beauchamp a
Château-Renaud. «Mi pare che ormai siamo qui inutilmente.»
«Infatti ciò che ora ha fatto Albert, dev’essere o molto meschino o
molto bello», osservò il barone.
«Che significa tutto ciò?» domandò Debray a Franz. «Come, il conte
di Montecristo disonora il signor Morcerf, e ha ragione agli occhi
del figlio?! Avessi avuto dieci Giannine nella mia famiglia, mi
crederei obbligato a una cosa sola, cioè a battermi dieci volte.»
In quanto a Montecristo, con la fronte china, le braccia inerti,
oppresso dal peso di ventiquattro anni di ricordi, non pensava né ad
Albert, né a Beauchamp, né a Château-Renaud, né ad alcuno di quelli
che si trovavano là. Pensava a quella coraggiosa donna ch’era venuta
a chiedergli la vita del figlio, e alla quale aveva offerto la sua,
che lei però salvava rivelando un segreto terribile di famiglia,
capace di togliere per sempre dal cuore del giovane qualunque
sentimento di pietà filiale.
«Sempre la Provvidenza!» mormorò. «Da oggi soltanto comincio a
credere veramente di essere suo strumento.»
90. Madre e figlio
Il conte di Montecristo salutò i giovani con un sorriso colmo di
malinconia e dignità, quindi risalì nella sua carrozza in compagnia
di Maximilien e di Emmanuel. Albert, Beauchamp e Château-Renaud
restarono soli. Il giovane puntò sui testimoni uno sguardo che,
anche se non timido, sembrava tuttavia chiedere il loro parere
sull’accaduto.
«Mio caro amico», disse Beauchamp per primo, forse perché più
sensibile, o meno simulatore, «permettetemi di congratularmi con
voi: ecco una conclusione inattesa per uno spiacevole affare.»
Albert rimase silenzioso e immerso nei suoi pensieri. Château-Renaud
si accontentò di battere contro lo stivale il suo scudiscio.
«Non ce ne andiamo?» domandò, dopo quell’imbarazzante silenzio.
«Quando volete», rispose Beauchamp. «Lasciatemi solo il tempo di
fare i miei complimenti a Morcerf… Ha dato quest’oggi un’immensa
prova di cavalleresca generosità, tanto rara!»
«Oh, sì», annuì Château-Renaud.
«È una cosa magnifica», continuò Beauchamp, «poter avere su se
stessi un dominio così grande!»
«Certamente, in quanto a me ne sarei stato incapace», disse
Château-Renaud con eloquente freddezza.
«Signori», li interruppe Albert, «credo che non abbiate capito che
fra il conte di Montecristo e me è accaduto qualche cosa di molto
grave.»
«Sia pure, sia pure», disse subito Beauchamp, «ma i soliti
chiacchieroni non sarebbero in grado di capire il vostro eroismo, e
presto o tardi sareste costretto a spiegarlo loro con un po’ più
d’energia di quello che convenga alla salute del vostro corpo e alla
durata della vostra vita. Volete che vi dia un consiglio da amico?
Partite per Napoli, per l’Aja o per Pietroburgo, Paesi calmi, dove
gli uomini hanno opinioni più intelligenti sul vero punto d’onore
che noi teste ardenti di parigini. Una volta là esercitatevi molto a
tirare al bersaglio con la pistola, e per gioco, di terza e di
quarta con la spada; fate una vita spensierata, per poi tornare
pacificamente in Francia fra qualche anno, abbastanza rispettabile
per gli esercizi accademici, per conquistare una qualsiasi posizione
nella società… Non è così, signor Château-Renaud? Non ho ragione?»
«Questa è anche la mia opinione. Non vi è niente che procuri i veri
duelli, come un duello che non ha avuto luogo.»
«Grazie, signori», rispose Albert con un sorriso, «seguirò il vostro
consiglio non perché me lo abbiate dato, ma perché era mia
intenzione lasciare la Francia. Vi ringrazio ugualmente del servizio
che mi avete reso, servendomi da padrini: è profondamente impresso
nel mio cuore, poiché dopo le parole che ho sentito, non vi
dimenticherò mai più.»
Château-Renaud e Beauchamp si guardarono. L’impressione era la
stessa di entrambi, l’accento col quale Albert aveva pronunciato il
suo ringraziamento era così risoluto da riuscire imbarazzante per
tutti, se il dialogo fosse continuato.
«Addio, Albert», disse Beauchamp tendendo la mano al giovane, senza
che questi desse segno di ridestarsi dai suoi pensieri.
«Addio», disse a sua volta Château-Renaud salutando.
Le labbra del giovane mormorarono appena «Addio!», il suo sguardo
era più chiaro; racchiudeva un poema di collera trattenuta,
d’orgogliosi sdegni, di generose indignazioni.
Quando i due padrini furono in carrozza, conservò per qualche tempo
la sua posizione immobile e malinconica. Quindi all’improvviso,
staccando il cavallo dal piccolo albero intorno al quale erano state
annodate le redini, saltò in sella, e riprese al galoppo la strada
di Parigi. Un quarto d’ora dopo rientrava nel palazzo della rue
Helder. Scendendo da cavallo gli sembrò, dietro la cortina delle
finestre della camera da letto del conte, di scorgere la pallida
figura di suo padre; Albert girò la testa con un sospiro, ed entrò
nel suo appartamento. Giuntovi, gettò un ultimo sguardo su tutte
quelle ricchezze che gli avevano resa la vita così dolce e felice
fin dall’infanzia, guardò ancora una volta quei ritratti, che
parevano sorridergli, e tutti i paesaggi che gli sembrava
s’animassero di vivi colori. Staccò quindi dalla intelaiatura di
quercia il ritratto di sua madre, e lo arrotolò lasciando vuota la
cornice d’oro che lo circondava.
Quindi mise in ordine le belle armi turche, i bei fucili inglesi, le
porcellane giapponesi, le coppe cesellate, i bronzi artistici,
introdusse la chiave in ogni armadio; gettò in un cassetto dello
scrittoio, che lasciò aperto, tutto il denaro che portava con sé in
tasca, vi aggiunse i mille gioielli che riempivano le coppe, gli
scrigni, le scansie; fece un inventario esatto e preciso di tutto, e
lasciò questo inventario nel luogo più esposto della tavola, dopo
averla liberata di tutti i libri e carte che la ingombravano.
All’inizio di quel lavoro, il suo domestico, malgrado l’ordine che
gli aveva dato Albert di lasciarlo solo, era entrato nella sua
camera.
«Che volete?» gli chiese con accento più triste che corrucciato.
«Scusate, signore», disse il cameriere, «è vero che il signore mi
aveva proibito di disturbarlo, ma il signor conte Morcerf mi ha
fatto chiamare.»
«Ebbene?» domandò Albert.
«Non ho voluto andare dal signor conte senza ricevere i vostri
ordini, signore.»
«E perché?»
«Perché il signor conte saprà senza dubbio che io vi ho accompagnato
al duello.»
«È probabile», disse Albert.
«E se mi fa chiamare, è senza dubbio per interrogarmi su ciò che è
accaduto. Che cosa devo dire?»
«La verità.»
«Allora debbo dirgli che il duello non c’è stato?»
«Gli direte che ho chiesto scusa al signor conte di Montecristo.
Andate.»
Il cameriere s’inchinò e uscì.
Allora Albert si rimise a fare il suo inventario. Mentre compiva il
suo lavoro, lo scalpitio di due cavalli nel cortile e il rumore
delle ruote di una carrozza attirarono la sua attenzione, si
avvicinò alla finestra, e vide suo padre salire in calesse e
andarsene. Non appena il portone fu chiuso dietro al conte, Albert
si diresse verso l’appartamento di sua madre, e siccome non trovò
nessuno in sala per annunciarlo, s’inoltrò fino alla camera da letto
di Mercedes e, col cuore gonfio per quanto vedeva e indovinava, si
fermò sulla soglia. Come se la medesima anima stesse in questi due
corpi, Mercedes faceva nelle sue camere ciò che Albert aveva fatto
nelle proprie. Tutto era stato messo in ordine: i merletti, le
vesti, i gioielli, la biancheria, il denaro erano ordinati sul fondo
dei cassetti, e la contessa ne riuniva le chiavi con cura. Albert
vide tutti quei preparativi, comprese tutto, e gridando «Madre mia!»
andò a gettare le sue braccia intorno al collo di Mercedes.
Chi avesse potuto ritrarre l’espressione di quelle due figure
avrebbe certamente fatto un bel quadro. Infatti tutti questi
analoghi preparativi causati da un’energica decisione, e che non
avevano fatto paura ad Albert per sé, lo spaventavano per sua madre.
«Che cosa fate dunque?» domandò.
«Che cosa avete fatto voi?» rispose lei.
«Oh, madre mia», gridò Albert, commosso al punto da non poter
parlare, «non può essere di voi come di me; no, voi non potete aver
deciso ciò che ho deciso io, poiché vengo a dirvi che do addio alla
vostra casa e a voi.»
«Anch’io, Albert», rispose Mercedes, «anch’io parto. Avevo contato,
lo confesso, sul fatto che mio figlio mi avrebbe accompagnato… Mi
sono sbagliata.»
«Madre mia», disse Albert con fermezza, «non posso farvi condividere
la mia sorte. D’ora innanzi bisogna ch’io viva senza nome e senza
fortuna e, agli inizi, occorre che io non mi serva del nostro
denaro, ma chieda aiuto a un amico finché non sarò in grado di
guadagnarmene da solo. Così, mia buona madre, vado da Franz a
pregarlo di prestarmi quella piccola somma che presumo necessaria.»
«Tu, mio povero figlio, tu soffrire la fame!» gridò Mercedes. «Non
dirlo, tu infrangeresti tutti i miei propositi.»
«Ma non parliamo di me, madre mia», rispose Albert. «Sono giovane,
sono forte, credo di essere coraggioso, e da ieri ho imparato che
cosa può la mia volontà. Ahimè, madre mia, vi sono esseri che hanno
sofferto tanto, e che non solo non sono morti, ma hanno edificato
una nuova fortuna sulla rovina di tutte le promesse di felicità che
il cielo aveva fatto loro, sui resti di tutte le speranze che Dio
aveva dato loro! Io ho imparato presto, madre mia, io ho visto
questi uomini, io so che dal fondo dell’abisso in cui li aveva
immersi il loro nemico, si sono rialzati con tanto vigore e tanta
gloria che hanno dominato il loro antico vincitore e lo hanno a loro
volta gettato nel baratro. No, madre mia, no, ho rotto da quest’oggi
col passato e non ne accetto più nulla, neppure il nome, perché, voi
lo capite, non è vero madre mia?, vostro figlio non può portare il
nome di un uomo che deve arrossire davanti a un altro!»
«Albert, figlio mio», disse Mercedes, «se io avessi avuto un cuore
più forte sarebbe stato questo il consiglio che ti avrei dato… La
tua coscienza ha parlato quando la mia voce spenta taceva: ascolta
la tua coscienza, figlio mio! Tu avevi degli amici, Albert, tronca
momentaneamente ogni rapporto con loro, ma non disperare in nome di
tua madre! La vita è ancora bella alla tua età, mio caro Albert,
perché tu hai appena ventidue anni, e siccome a un cuore puro come
il tuo occorre un nome senza macchia, prendi quello di mio padre:
egli si chiamava Herrera. Io ti conosco, Albert mio, qualunque
carriera tu segua, in breve tempo renderai questo nome illustre.
Allora amico mio, ricompari nel mondo più splendido ancora per il
vanto delle tue passate disavventure. E se, malgrado tutte le mie
previsioni, non dovesse andare così, lasciami almeno questa
speranza, a me che non avrò più altro pensiero, a me che non ho più
avvenire, e per cui la tomba comincia dalla soglia di questa casa.»
«Farò secondo i tuoi desideri, madre mia», annuì il giovane. «Sì,
condivido la tua speranza: la collera del cielo non perseguiterà te
così pura, me così innocente. Ma poiché siamo risoluti, agiamo in
fretta. Il signor Morcerf ha lasciato il suo palazzo circa mezz’ora
fa: l’occasione, come vedi, è favorevole per evitare scontri e
spiegazioni.»
«Ti aspetto, figlio mio», disse Mercedes.
Albert corse sul boulevard da dove tornò in una carrozza di piazza
che doveva condurli fuori del palazzo. Si ricordò d’una piccola casa
ammobiliata nella rue des Saints Pères, dove sua madre avrebbe
trovato un alloggio modesto ma decente; ritornò dunque a prendere la
contessa. Nel momento in cui la carrozza si fermava davanti alla
casa, proprio mentre Albert usciva, un uomo si avvicinò a lui, e gli
consegnò una lettera. Albert riconobbe Bertuccio.
«Dal conte», disse l’intendente.
Albert prese la lettera, e apertala la lesse; dopo averla letta,
cercò con gli occhi Bertuccio, ma Bertuccio era scomparso mentre il
giovane leggeva. Allora Albert, con le lacrime agli occhi, il petto
gonfio dall’emozione, rientrò nella camera di Mercedes, e senza
pronunciare parola, le presentò la lettera.
Mercedes lesse: «Albert, nel farvi sapere che sono venuto a
conoscenza del progetto al quale siete sul punto di abbandonarvi,
voglio farvi sapere che ne comprendo la delicatezza. Eccovi libero!
Voi lasciate il palazzo del conte, vi ritirate con vostra madre,
libera come voi. Ma riflettete! Albert, voi le dovete più di quello
che potete offrirle, povero e nobile cuore.
Riservate a voi la lotta, reclamate per voi le sofferenze, ma
risparmiatele quella prima miseria che accompagnerà inevitabilmente
i vostri primi sforzi, poiché lei non merita neppure il riflesso
della disgrazia che oggi la colpisce, e la Provvidenza non vuole che
l’innocente paghi per il colpevole.
So che lasciate entrambi la casa della rue Helder senza portare via
niente. Non cercate di scoprire in che modo l’ho saputo. Io lo so, e
basta. Ascoltate Albert. Ventiquattro anni or sono, io tornavo molto
fiero nella mia patria. Avevo una fidanzata, Albert, una santa donna
che io adoravo, e portavo alla mia fidanzata centocinquanta luigi
accumulati penosamente con le mie fatiche senza riposo. Questo
denaro era per lei, io lo destinavo a lei, e sapendo quanto il mare
è perfido, avevo seppellito il nostro tesoro in un piccolo giardino
della casa che mio padre abitava a Marsiglia sopra i viali di
Meilhan. Vostra madre, Albert, conosce quella povera casa.
Ultimamente, venendo a Parigi, sono passato da Marsiglia. Sono
andato a vedere questa casa di dolorosi ricordi; e la sera, con una
vanga in mano, ho esplorato l’angolo dove era sepolto il mio tesoro.
La cassetta di ferro era ancora nel medesimo posto, nessuno l’aveva
toccata: è accanto a un fico, piantato da mio padre il giorno della
mia nascita, e la ricopre con la sua ombra. Albert, quel denaro, che
allora avrebbe dovuto provvedere alla vita e alla tranquillità di
questa donna che adoravo, ecco che oggi, per una strana e dolorosa
combinazione, può avere lo stesso uso. So che capite il mio
pensiero, io, che potrei offrire dei milioni a questa povera donna,
le rendo soltanto il tozzo di pane nero dimenticato sotto il mio
povero tetto, dal giorno in cui fui separato per sempre da lei. Voi
siete generoso, Albert, ma a volte siete accecato dall’orgoglio o
dal risentimento: se rifiutate, se domandate ad altri ciò che ho io
il diritto di offrirvi, dirò che siete poco generoso nel rifiutare
ciò che appartiene alla vita di vostra madre, e offerto da un uomo a
cui vostro padre ha fatto morire il padre suo, negli orrori della
fame e della disperazione».
Finita questa lettera, Albert, pallido e immobile, aspettava ciò che
avrebbe deciso sua madre. Mercedes alzò al cielo uno sguardo
ineffabile.
«Accetto», disse. «Egli ha il diritto di pagare la dote che io
porterò in un convento.»
E mettendosi la lettera sul cuore, prese il braccio di suo figlio,
e, con passo più sicuro di quello che forse si aspettava, scese le
scale.
91. Il suicidio
Anche il conte di Montecristo era rientrato in città con Emmanuel e
Maximilien. Il ritorno fu lieto; Emmanuel non nascondeva la gioia di
aver visto succedere la pace alla guerra, e confessava i suoi
principi umanitari. Morrel, in un angolo della carrozza, lasciava
trasparire in parole l’allegria del cognato, e conservava per sé una
gioia non meno sincera, ma che brillava soltanto dai suoi occhi.
Alla barriera del Trône incontrarono Bertuccio che aspettava là,
immobile come una sentinella al suo posto.
Montecristo sporse la testa dalla carrozza, scambiò con lui qualche
parola a bassa voce, e l’intendente scomparve.
«Signor conte», disse Emmanuel, «arrivando vicino alla piazza reale,
lasciatemi scendere, vi prego, alla mia porta, affinché mia moglie
non abbia un momento di più di pena né per voi né per me.»
«Se non fosse una cosa ridicola andare a fare mostra del proprio
trionfo», disse Morrel, «inviterei il conte a entrare da noi, ma il
signor conte, senza dubbio, ha pure dei cuori da tranquillizzare. Ed
eccoci arrivati, Emmanuel, ora salutiamo il nostro amico e
lasciamolo continuare la sua strada.»
«Aspettate un momento», disse Montecristo, «non privatemi così dei
miei due compagni! Voi, Emmanuel, rientrate presso la vostra
graziosa moglie alla quale v’incarico di presentare i miei saluti, e
voi, Morrel, accompagnatemi fino agli Champs-Elysées.»
«Senz’altro», acconsentì Maximilien. «Tanto più che ho alcune
faccende da sbrigare nel vostro quartiere, conte.»
«Dobbiamo aspettarvi per fare colazione?» domandò Emmanuel.
«No», rispose il giovane.
Lo sportello si richiuse e la carrozza continuò la sua strada.
«Visto come vi ho portato fortuna!» esclamò Morrel quando fu solo
col conte. «Non ci avevate pensato?»
«Sì, certo», disse Montecristo, «ecco perché vorrei sempre tenervi
vicino a me.»
«È un miracolo!» ribatté Morrel, seguendo un suo pensiero.
«Che cosa?» domandò Montecristo.
«Quello che è accaduto.»
«Sì», rispose il conte con un sorriso, «avete usato la parola
esatta, Morrel, è un miracolo.»
«Perché in fondo», proseguì Morrel, «Albert è coraggioso.»
«Coraggiosissimo», annuì Montecristo, «io l’ho visto dormire con un
pugnale sospeso sul capo.»
«E io so che si è battuto due volte, e molto bene», disse Morrel.
«Apprezzate dunque la sua condotta questa mattina…»
«È stata la vostra influenza», rispose sorridente Montecristo.
«È una fortuna che Albert non sia soldato.»
«E perché?»
«Perché ci vogliono altro che scuse sul campo!» rispose il giovane
capitano scuotendo la testa.
«Su», riprese il conte con dolcezza, «non andate a cadere nei
pregiudizi degli uomini ordinari, Morrel. Convenite con me: Albert è
coraggioso, dunque non può essere vile: per agire come ha fatto
questa mattina bisogna che abbia avuto una forte ragione, quindi la
sua condotta è stata eroica.»
«Senza dubbio, senza dubbio», rispose Morrel. «Ma come disse lo
spagnolo: “Oggi fu meno coraggioso di ieri”.»
«Fate colazione con me, non è vero, Morrel?» chiese il conte per
troncare il discorso.
«No, vi lascerò alle dieci.»
«Il vostro appuntamento è dunque per una colazione?»
Morrel sorrise e scosse la testa.
«Eppure dovrete fare colazione da qualche parte?»
«E se non avessi fame?» disse il giovane.
«Non conosco che due sentimenti che tolgono in tal modo l’appetito:
il dolore (ma siccome vi vedo abbastanza allegro, fortunatamente non
è questo) e l’amore. Ora, dopo ciò che mi avete detto a proposito
del vostro cuore, mi è permesso di credere…»
«Sapete, conte», replicò felice Morrel, «non dico di no.»
«E non mi raccontate nulla, Maximilien?» riprese il conte con tono
così vivace da far capire l’ansia di conoscere quel segreto.
«Questa mattina vi ho parlato di un amore, non è vero conte?»
Per tutta risposta Montecristo tese la mano al giovane.
«Ebbene, poiché il mio cuore non è più con voi al bosco di
Vincennes», e si voltò da un’altra parte, «vado da lei.»
«Andate», disse lentamente il conte, «andate, amico caro… Ma vi
prego, se trovaste qualche ostacolo, ricordatevi che ho del potere
in questa società, e che sono felice di usare questo potere a
vantaggio delle persone che amo, e io vi amo moltissimo, Morrel…»
«Grazie», rispose il giovane, «me ne ricorderò come i bambini
egoisti si ricordano dei genitori quando ne hanno bisogno. Quando
avrò bisogno di voi, e forse questo momento verrà, verrò da voi,
conte.»
«Bene, ho la vostra parola… Arrivederci, dunque.»
«Arrivederci.»
Erano giunti alla porta della casa degli Champs-Elysées.
Montecristo aprì lo sportello, Morrel balzò a terra, e scomparve
all’ingresso di Marigny; Montecristo andò incontro a Bertuccio che
aspettava sulla scalinata.
«Ebbene?»
«Ebbene», rispose l’intendente, «lascia la casa.»
«E il figlio?»
«Florentin, il suo cameriere, crede che faccia altrettanto.»
«Venite.»
Montecristo condusse Bertuccio nel suo studio, scrisse la lettera
che conosciamo, e l’affidò all’intendente.
«Andate», disse, «e fate le cose a modo. A proposito, fate avvisare
Haydée che sono tornato.»
«Eccomi», disse la giovane donna, che al rumore della carrozza era
già scesa, col viso raggiante di gioia nel rivedere il conte salvo.
Bertuccio uscì.
Tutti i trasporti di una figlia nel rivedere un padre prediletto,
tutti i deliri di un’amica nel rivedere l’amante adorato, Haydée li
provò nei primi istanti di quel ritorno atteso con tanta impazienza.
Certamente, sebbene meno espansiva, la gioia di Montecristo non era
meno grande: la gioia, per i cuori che hanno lungamente sofferto, è
simile alla rugiada, cuore e terra assorbono la pioggia benefica, e
niente appare al di fuori. Da qualche giorno il conte di Montecristo
capiva, e non osava crederlo, che c’erano due Mercedes al mondo, e
che poteva ancora essere felice su questa terra. Contemplava, avido
di felicità, Haydée, quando a un tratto la porta si aprì. Il conte
aggrottò la fronte.
«Il signor Morcerf!» annunciò Battistino, come se questa sola parola
racchiudesse tutte le sue scuse.
Infatti il viso del conte si rischiarò.
«Quale?» domandò egli. «Il visconte o il conte?»
«Il conte.»
«Mio Dio!» gridò Haydée. «Non è ancora finita dunque?»
«Non so se sia finita, ragazza mia diletta», rispose Montecristo,
prendendo le mani della figlia adottiva, «ma ciò che so è che non
hai nulla da temere.»
«Se però il miserabile…»
«Quest’uomo non ha nessun potere su di me, Haydée», disse
Montecristo. «Quando avevo a che fare con suo figlio, allora sì, che
c’era da temere.»
«Quanto ho sofferto», disse la giovane donna, «tu non lo saprai mai,
mio signore.»
«Sulla tomba di mio padre», disse Montecristo, sorridendo e
accarezzando la testa della ragazza, «io ti giuro, Haydée, che se
accadrà una disgrazia a qualcuno, non sarà a me.»
«Io ti credo, mio signore, come se mi parlasse una voce del cielo»,
rispose la giovane presentando la sua fronte al conte.
Montecristo depose su quella fronte pura e bella un bacio che fece
battere contemporaneamente due cuori, uno con violenza, e l’altro
timidamente.
«Mio Dio», mormorò il conte, «mi permettereste di amare ancora? Fate
entrare il conte Morcerf nel salotto», disse a Battistino, mentre
riconduceva la bella greca nelle sue camere per la scala segreta.
Una parola di spiegazione su questa visita, attesa forse da
Montecristo, ma inaspettata senza dubbio per i nostri lettori.
Mentre Mercedes, come abbiamo detto, faceva nelle sue stanze
l’inventario che Albert aveva già fatto nelle proprie, mentre
classificava i gioielli, chiudeva i cassetti, riuniva le chiavi, per
lasciare tutto nell’ordine più perfetto, non si era accorta che una
testa pallida e sinistra era comparsa alla vetrata di una porta che
dava luce a un corridoio. Di là non solo si poteva vedere, ma si
poteva anche sentire.
L’uomo, pallido, entrò poi nella camera da letto del conte Morcerf,
e giunto là sollevò con mano contratta la tendina della finestra che
guardava nel cortile. Per dieci minuti restò immobile e silenzioso,
ascoltando i battiti del proprio cuore. Per lui dieci minuti erano
molto lunghi.
Fu allora che Albert ritornò dal suo appuntamento, e il padre in
attesa del suo ritorno dietro la tendina, voltò la testa. L’occhio
del conte si dilatò: sapeva che l’insulto di Albert a Montecristo
era stato terribile, che un simile insulto, in tutti i Paesi del
mondo, trascinava a un duello, alla morte. Ora, Albert ritornava
sano e salvo, dunque il conte era vendicato. Un lampo di gioia
indicibile illuminò quel lugubre viso, come un ultimo raggio di sole
prima di perdersi nelle nubi. Ma, come abbiamo detto, attese invano
che il giovane salisse nel suo appartamento per rendergli conto del
trionfo. Che suo figlio prima di andare a battersi, non avesse
voluto vedere il padre di cui andava a vendicare l’onore, questo era
facile a capirsi… Ma una volta vendicato questo onore, perché il
figlio non veniva a gettarsi nelle braccia del padre? Il conte, non
vedendo arrivare Albert, mandò il domestico a cercare informazioni,
il quale, come abbiamo detto, fu autorizzato da Albert a non tenere
nascosta la verità a suo padre.
Dieci minuti dopo, uscito il domestico, si vide comparire sulla
scalinata il conte Morcerf, con l’uniforme di luogotenente. A quanto
pareva, aveva già dato ordini precedenti, poiché, appena toccato
l’ultimo gradino della scala, la carrozza venne a fermarsi dinanzi a
lui. Allora il cameriere gettò nella carrozza un mantello militare,
che avvolgeva due spade, quindi, chiuso lo sportello, si sedette
vicino al cocchiere che si chinò verso le portiere per ricevere
l’ordine.
«Agli Champs-Elysées», ordinò il generale, «al palazzo del conte di
Montecristo.»
I cavalli si lanciarono percossi dalla frusta: cinque minuti dopo si
fermavano alla casa del conte. Il signor Morcerf aprì lo sportello,
arrivò al cancello, suonò, e aperta la porta, sparì in compagnia del
cameriere. Un minuto dopo Battistino annunciava al signore di
Montecristo il conte Morcerf, e Montecristo, riconducendo Haydée,
dava ordine che il conte Morcerf fosse introdotto nella sala.
Il generale misurava a grandi passi per la terza volta la lunghezza
della sala, quando, voltandosi, vide Montecristo in piedi sulla
soglia.
«Ah, il signor Morcerf» disse tranquillamente Montecristo, «credevo
di aver capito male.»
«Sì, sono io», affermò il conte con una brutta contrazione della
bocca che gli impediva di articolare le parole.
«Dunque non mi resta che capire», proseguì Montecristo, «cosa mi
procura il piacere di vedere il signor Morcerf così di buon’ora.»
«Questa mattina, signore, avete avuto un duello con mio figlio?»
chiese il generale.
«Non lo sapete?» replicò il conte.
«So pure che mio figlio aveva buone ragioni per desiderare di
battersi con voi, e di fare tutto ciò che poteva per uccidervi.»
«Infatti, signore, ne aveva di buonissime. Ma pur con queste buone
ragioni, non mi ha ucciso, anzi non si è neppure battuto.»
«E tuttavia vi considerava la causa del disonore di suo padre, non
meno che della terribile rovina che in questo momento opprime la mia
famiglia.»
«È vero», rispose Montecristo, con la sua calma spaventosa. «Causa
secondaria, e non principale.»
«Senza dubbio gli avrete fatto qualche scusa, e dato qualche
spiegazione?»
«Non gli ho dato nessuna spiegazione, ed è stato lui che mi ha
chiesto scusa.»
«Ma a che cosa attribuite questa sua condotta?»
«Probabilmente alla convinzione che in tutto questo vi era un uomo
più colpevole di me.»
«E chi è quest’uomo?»
«Suo padre.»
«Tuttavia», ribatté Morcerf, impallidendo, «voi sapete che neppure
al più colpevole piace sentirsi rinfacciare la sua colpa.»
«Lo so… Quindi ero preparato a questo.»
«Eravate preparato a trovare in mio figlio un vile?» gridò il conte.
«Il signor Albert Morcerf non è un vile!» disse Montecristo.
«Un uomo che tiene in mano una spada, un uomo che a portata di
questa spada ha un nemico mortale, quest’uomo, se non si batte, è un
vile! Ah, perché non è qui? Glielo direi in faccia!»
«Signore», replicò freddamente Montecristo, «non penso che siate
venuto a trovarmi per raccontarmi i vostri segreti di famiglia.
Andate a dire tutto questo ad Albert, forse vi risponderà.»
«No!» reagì il generale, con un sorriso che subito svanì. «No! Voi
avete ragione, io non sono venuto qui per questo. Sono venuto per
dirvi che io vi considero mio nemico! Sono venuto per dirvi che vi
odio istintivamente, che mi sembra d’avervi sempre conosciuto,
sempre odiato, e che infine, poiché i giovani di questo secolo non
si battono più, sta a noi batterci… La pensate anche voi così,
signore?»
«Precisamente. Così quando vi ho detto che mi ero preparato a quanto
accade, io intendevo parlare dell’onore della vostra visita.»
«Tanto meglio… Siete pronto?»
«Lo sono sempre, signore.»
«Voi sapete che ci batteremo a morte», disse il generale coi denti
stretti per la rabbia.
«A morte», ripeté il conte di Montecristo annuendo.
«Cominciamo, allora, non abbiamo bisogno di testimoni.»
«Infatti», disse Montecristo, «è inutile, ci conosciamo troppo
bene!»
«Al contrario», ribatté il conte, «noi non ci conosciamo.»
«Davvero?» domandò Montecristo, con la stessa flemma irritante.
«Vediamo. Non siete il soldato Fernando che disertò alla vigilia
della battaglia di Waterloo? Non siete il sottotenente Fernando, che
fece da guida e da spia all’armata francese in Spagna? Non siete il
capitano Fernando, che ha tradito, venduto, assassinato il suo
benefattore Alì? E tutti questi Fernando riuniti, non hanno formato
il luogotenente conte Morcerf, Pari di Francia?»
«Ah!» gridò il generale colpito da queste parole. «Miserabile che mi
rimproveri la vergogna nel momento, forse, in cui stai per
uccidermi! No, non ti ho detto di essere uno sconosciuto per te… So
bene, demonio, che hai penetrato nella notte del passato, e che hai
letto, al chiarore di non so quale fiaccola, tutte le pagine della
mia vita, ma forse io ho ancora più onore nel mio obbrobrio, che tu
sotto le tue apparenze. No, io ti sono noto, lo so, ma io non
conosco te, avventuriero coperto d’oro e di gemme! Tu ti sei fatto
chiamare a Parigi conte di Montecristo, in Italia Sinbad il
marinaio, a Malta altro ancora… Ma è il tuo vero nome che io ti
domando, è il tuo vero nome ch’io voglio sapere, fra i tuoi cento
nomi, affinché io lo pronunci sul terreno del duello, nell’istante
in cui t’immergerò la spada nel cuore!»
Il conte di Montecristo impallidì terribilmente, lo sguardo di
fuoco, corse nel salotto attiguo alla sua camera, e in meno di un
secondo si strappò la cravatta, l’abito e il gilè, indossò una
piccola giacca da marinaio, si mise un berretto da uomo di mare,
sotto il quale sciolse i suoi lunghi capelli neri.
Ritornò così, spaventoso, implacabile, andando incontro al generale
che l’aspettava e che, sentendo stridere i denti, indietreggiò di un
passo, e non si fermò che trovando in un tavolo un punto d’appoggio
per la mano.
«Fernando!» gridò il conte. «Dei miei cento nomi, io non avrei
bisogno che di dirtene uno solo per fulminarti! Ma questo nome tu
l’indovini, non è vero? O piuttosto te lo ricordi? Poiché malgrado
tutti i miei affanni, tutte le mie torture oggi ti mostro un viso
che la felicità della vendetta ringiovanisce, un viso che devi aver
visto molte volte nei tuoi sogni dopo il tuo matrimonio… con
Mercedes, mia fidanzata!»
Il generale, con la testa rovesciata indietro, le mani tese, lo
sguardo fisso, divorava in silenzio quelle terribili parole. Subito
dopo, appoggiandosi alle pareti, strisciò lentamente fino alla
porta, da cui uscì a ritroso, lasciando sfuggire un solo grido,
lugubre, lamentevole, dilaniante: «Edmond Dantès!»
Quindi, con sospiri che non avevano niente di umano, si trascinò
fino al peristilio della casa, attraversò il cortile come ubriaco, e
cadde fra le braccia del cameriere mormorando soltanto con voce
inintelligibile: «A casa! a casa!»
Sulla strada del ritorno, la freschezza dell’aria, e il vedersi
esposto all’attenzione dei servi, lo rimisero in grado di
raccogliere le sue idee, ma il tragitto fu corto, e via via che si
avvicinava alla sua abitazione, il conte sentiva rinnovarsi tutte le
sue angosce.
A qualche passo dalla casa fece fermare, e scese. La porta del
palazzo era spalancata, e in mezzo al cortile stava una carrozza di
piazza. Il conte guardò la carrozza con terrore, ma senza avere il
coraggio di chiedere a qualcuno, corse verso il suo appartamento.
Due persone scendevano la scala, non ebbe che il tempo di
nascondersi in uno stanzino per evitarle. Era Mercedes appoggiata al
braccio di suo figlio: abbandonavano entrambi la casa. Passarono a
pochi passi dal disgraziato, che, nascosto dietro la tenda di
damasco, fu sfiorato dalla veste di lana di Mercedes, e sentì il
tiepido alito delle parole pronunciate dal figlio: «Coraggio, madre
mia, venite, venite, noi qui non siamo più in casa nostra».
Le parole si spensero, i passi si allontanarono.
Il generale si drizzò tenendosi con le mani alla tenda di damasco:
tratteneva il più orribile singhiozzo che fosse mai uscito dal petto
di un padre, abbandonato dalla moglie e dal figlio. Ben presto udì
sbattere lo sportello della carrozza, poi la voce del cocchiere,
quindi il pesante veicolo fece tremare i vetri. Allora corse nella
sua camera da letto per vedere almeno una volta tutto ciò che aveva
amato al mondo: ma la carrozza partì senza che la testa di Mercedes
o quella di Albert comparissero per dare alla casa solitaria, al
padre e allo sposo abbandonato l’ultimo sguardo, l’addio o almeno
mostrare il rammarico, vale a dire il perdono. Così, nel momento
stesso in cui le ruote della carrozza rimbombavano sul pavimento
sotto la volta, si sentirono dei colpi di pistola, e un fumo uscì da
uno dei vetri della camera da letto, infranto forse da una
pallottola.
92. Valentine
Non è difficile indovinare di cosa si preoccupasse Morrel, e con chi
avesse il suo appuntamento. Morrel, pertanto, nel lasciare
Montecristo s’avviò lentamente verso la casa di Villefort.
Lentamente poiché Morrel aveva oltre mezz’ora a disposizione per
percorrere cinquecento passi, ma malgrado quel tempo più che
sufficiente, si era affrettato a lasciare Montecristo, avendo
desiderio di rimanere solo coi suoi pensieri. Conosceva l’ora nella
quale Valentine, assistendo alla colazione di Noirtier, era certa di
non essere disturbata. Noirtier e Valentine gli avevano accordato
due visite la settimana, e andava a godere dei suoi diritti. Arrivò
che Valentine lo aspettava. Inquieta, quasi assente, lo prese per
mano, e lo condusse davanti al nonno.
Tale inquietudine veniva dall’emozione che la sfida di Morcerf aveva
suscitato nel gran mondo; si sapeva (il gran mondo sa sempre tutto)
dell’insulto all’Opéra. In casa di Villefort nessuno dubitava che
quell’insulto non fosse seguito da un duello; Valentine, col suo
istinto di donna, aveva indovinato che Morrel sarebbe stato il
padrino di Montecristo, e conoscendo il coraggio del giovane, e la
sua amicizia profonda per il conte, temeva che non si sarebbe
limitato alla semplice parte passiva di testimone che gli era
toccata. Sarà dunque facile comprendere con quale avidità furono
richiesti e ascoltati i particolari; e Morrel poté leggere
un’indicibile gioia negli occhi della sua diletta quando seppe che
questo terribile affare aveva avuto una conclusione tanto felice
quanto inattesa.
«Adesso», disse Valentine, facendo segno a Morrel di sedersi accanto
al vecchio, e sedendo lei stessa sullo sgabello dove riposavano i
suoi piedi, «ora parliamo un poco dei nostri affari. Voi sapete,
Maximilien, che il mio buon nonno aveva avuto per un momento l’idea
di abbandonare la casa, e di prendere un appartamento fuori dal
palazzo del signor Villefort.»
«Sì, senz’altro», disse Maximilien, «mi ricordo di questo progetto,
e lo avevo anche approvato.»
«E dunque», replicò Valentine, «approvate ancora, Maximilien, poiché
il buon nonno ci sta di nuovo pensando.»
«Bravo!» esclamò Maximilien.
«E sapete», riprese Valentine, «quale ragione adduce il nonno per
lasciare la casa?»
Noirtier guardava la ragazza per imporle silenzio con l’occhio, ma
Valentine non guardava Noirtier; i suoi occhi, il suo sguardo, il
suo sorriso erano tutti per Morrel.
«Qualunque sia la ragione che addurrà il signor Noirtier», dichiarò
Morrel, «sarà certamente buona.»
«Eccellente», riprese Valentine. «Afferma che l’aria del Faubourg
Saint-Honoré sia dannosa alla mia salute.»
«Infatti», disse Morrel. «Ascoltate, Valentine, il signor Noirtier
potrebbe realmente avere ragione… Da quindici giorni trovo che non
abbiate una buona cera.»
«Sì, è vero», annuì Valentine, «perciò il nonno si è dichiarato mio
medico, e siccome egli sa di tutto, ho gran fiducia in lui.»
«State male davvero, Valentine?» domandò sollecito Morrel.
«Non è un soffrire il mio, ma sento un malessere generale, ecco
tutto: ho perduto l’appetito, e mi pare che il mio stomaco sia in
lotta per abituarsi a qualche cosa.»
Noirtier non perdeva una parola di Valentine.
«E che cura seguite per questa ignota malattia?»
«Semplicissima», rispose Valentine, «prendo tutte le mattine una
cucchiaiata della medicina del nonno, e dicendo una cucchiaiata,
intendo che ho incominciato col prenderne una, ora però ne prendo
già quattro… Il nonno afferma che sia un rimedio universale.»
Valentine sorrideva, ma c’era qualche cosa di triste e sofferente in
quel sorriso. Maximilien, ebbro d’amore, la guardava in silenzio:
era bella ma il suo pallore aveva preso una tinta più bianca, i suoi
occhi brillavano di un fuoco ardente più del solito, e le sue mani,
ordinariamente bianche come l’avorio, sembravano di cera con una
velatura giallastra. Da Valentine il giovane volse gli occhi a
Noirtier: questi osservava con strana e profonda intelligenza la
ragazza, assorta nel suo amore. Lui pure, come Morrel, scorgeva
quelle tracce di un sordo soffrire, sfuggito agli occhi di tutti.
«Ma», riprese Morrel, «quella pozione di cui siete giunta a prendere
quattro cucchiai, credevo fosse una medicina per il signor
Noirtier…»
«So che è molto amara», disse Valentine, «tanto amara che tutto ciò
che bevo dopo mi sembra avere lo stesso gusto.»
Noirtier guardò la nipote come volesse chiederle qualcosa.
«Sì, nonno», ripeté Valentine, «è come vi dicevo. Poco fa, prima di
venire da voi, ho bevuto un bicchiere d’acqua zuccherata. Ebbene? Ne
ho lasciata metà, tanto quest’acqua mi sembrava amara.»
Noirtier impallidì, e fece segno che voleva parlare, Valentine si
alzò per andare a cercare il dizionario. Noirtier la seguiva con gli
occhi e con visibile angoscia. Difatti il sangue affluì alla testa
della ragazza, e le sue guance arrossirono.
«Be’», disse, senza perdere nulla della sua allegria, «che strano,
un capogiro! È il sole che mi ha ferito gli occhi?»
E si appoggiò al davanzale della finestra.
«Non è il sole», replicò Morrel, inquieto più per l’espressione del
viso di Noirtier, che per l’indisposizione di Valentine.
E corse da lei. La ragazza sorrise.
«Rassicurati, nonno», disse a Noirtier, «rassicuratevi, Maximilien,
non è niente, è già passato… Ma ascoltate!… Non è il rumore di una
carrozza, che sento nel cortile?»
Aprì la porta, corse a una finestra del corridoio, e tornò
precipitosamente.
«Sì», dichiarò, «è la signora Danglars con sua figlia che vengono a
farci visita. Vi saluto, me ne vado, perché verrebbero a cercarmi
qui… Arrivederci, con il nonno, signor Maximilien, vi prometto che
non farò nulla per trattenerle.»
Morrel la seguì con gli occhi, la vide chiudere la porta, e la sentì
salire la piccola scala che conduceva alla camera della signora
Villefort e alla sua. Dal momento che fu scomparsa, Noirtier fece
segno a Morrel di prendere il dizionario. Morrel obbedì. Guidato da
Valentine, si era presto abituato a capire il vecchio. Però, per
quanto abituato, siccome bisognava scorrere gran parte delle lettere
dell’alfabeto, e ritrovare ciascuna parola nel dizionario, soltanto
dopo dieci minuti il pensiero del vecchio fu tradotto in queste
parole: «Cercate il bicchiere d’acqua e la bottiglia in camera di
Valentine».
Morrel suonò subito per il domestico succeduto a Barrois, e in nome
di Noirtier gli dette quest’ordine. Il domestico tornò un istante
dopo, ma la bottiglia e il bicchiere erano completamente vuoti.
Noirtier fece segno che voleva parlare.
«Perché il bicchiere e la bottiglia sono vuoti?» domandò. «Valentine
ha detto di averne bevuto soltanto mezzo.»
La traduzione di questa nuova domanda occupò ancora altri cinque
minuti.
«Non lo so», rispose il domestico, «ma c’è la cameriera
nell’appartamento della signorina Valentine; forse è stata lei a
vuotarli.»
«Domandatele il perché», disse Morrel, traducendo questa volta il
pensiero di Noirtier con lo sguardo.
Il domestico uscì, e rientrò quasi subito.
«La signorina Valentine è passata dalla sua camera prima di andare
dalla signora Villefort, nel passare, siccome aveva sete, ha bevuto
ciò che rimaneva nel bicchiere. In quanto alla bottiglia, l’ha
vuotata il signor Edouard per fare un laghetto per le sue anatre.»
Noirtier alzò gli occhi al cielo come fa un giocatore che rischia in
un colpo tutto quanto possiede. Da quel momento gli occhi del
vecchio si fissarono sulla porta. Le persone in visita erano difatti
la signora Danglars e sua figlia, ed erano state condotte nelle
stanze della signora Villefort, che aveva dato ordine di riceverle
nel suo appartamento; e per questo Valentine era passata dalla sua
stanza sullo stesso piano della matrigna, e separata da lei soltanto
dalla camera di Edouard.
Le due signore entrarono nel salotto con la rigidità di chi sta per
fare una rivelazione. E siccome le persone dello stesso ceto si
capiscono al volo, così la signora Villefort rispose con lo stesso
tono, anzi, essendo in quel momento entrata Valentine,
ricominciarono con lo stesso tono.
«Cara amica», cominciò la baronessa, mentre le due ragazze si
prendevano per mano, «vengo con Eugénie ad annunciarvi per prima il
prossimo matrimonio di mia figlia col principe Cavalcanti.»
Il banchiere democratico aveva ritenuto che questo titolo andava
meglio che quello di conte.
«Allora permettete che vi faccia le mie congratulazioni», disse la
signora Villefort. «Il principe Cavalcanti sembra un giovane di rare
qualità.»
«Ascoltate», disse la baronessa sorridendo, «parlandovi da amica,
debbo dirvi che il principe non ci sembra ancora quello che può
diventare: ha in sé un po’ di quella stravaganza, che a noi francesi
fa riconoscere al primo sguardo un gentiluomo italiano o tedesco.
Però sembra di buonissimo carattere, molta acutezza di spirito, e,
in quanto a interesse, il signor Danglars afferma che la sua
sostanza sia ragguardevole: queste sono le sue parole.»
«E poi», proseguì Eugénie, mentre sfogliava l’album della signora
Villefort, «aggiungete, signora, che avete una predilizione
particolare per questo giovane.»
«Non ho bisogno di domandarvi se condividete questa predilizione»,
disse la signora Villefort.
«Io?» fece Eugénie con la sua solita serietà. «Niente affatto
signora! La mia vocazione non è d’ingolfarmi nelle cure di famiglia
e nei capricci di un uomo qualunque. La mia vocazione è di essere
artista, e di conseguenza libera nel cuore, nel pensiero e nelle
azioni.»
Eugénie pronunciò queste parole con accento così fermo, che
Valentine arrossì. La timida ragazza non poteva comprendere questo
carattere energico, che non aveva niente in comune con i normali
pudori di una donna.
«Del resto», continuò, «poiché il mio destino è quello di sposarmi,
che lo voglia o meno, debbo ringraziare la Provvidenza che mi abbia
procurato il disprezzo del signor Albert Morcerf; senza questa
Provvidenza, oggi sarei la moglie di un uomo disonorato.»
«È purtroppo vero», riprese la baronessa, con quella strana
ingenuità che qualche volta si trova nelle grandi signore. «Senza
l’esitazione dei Morcerf, mia figlia avrebbe sposato il signor
Albert. Il generale ci teneva molto, era anzi venuto per costringere
il signor Danglars a dare la sua parola… L’abbiamo scampata bella!»
«Ma», accennò timidamente Valentine, «forse l’onta del padre ricade
sul figlio? Il signor Albert mi sembra innocente di tutti questi
tradimenti del generale.»
«Scusa, cara amica», ribatté l’implacabile ragazza, «il signor
Albert domanda e merita la sua parte… Pare che dopo aver ieri sera
provocato Montecristo all’Opéra, oggi gli abbia fatto le scuse prima
del duello.»
«Impossibile!» esclamò la signora Villefort.
«Mia cara», continuò la signora Danglars, «è tutto vero, lo so dal
signor Debray che era presente alle spiegazioni.»
Anche Valentine sapeva la verità, ma non rispose. Risospinta da una
parola nei suoi affanni, era già col pensiero nella camera di
Noirtier dove Morrel l’aspettava. Le sarebbe stato perfino
impossibile ripetere ciò che aveva detto pochi minuti prima, quando
a un tratto la mano della signora Danglars, appoggiandosi sul suo
braccio, la distolse da quella distrazione.
«Che c’è, signora?» domandò Valentine rabbrividendo al contatto
delle dita della signora Danglars.
«C’è, mia cara Valentine», rispose la baronessa, «che voi state
senza dubbio male.»
«Io?» disse la ragazza passandosi la mano sulla fronte ardente.
«Sì, guardatevi in questo specchio: siete arrossita e impallidita
tre o quattro volte nello spazio di un minuto.»
«Infatti», osservò Eugénie, «sei molto pallida.»
«Non preoccuparti, Eugénie, sono così da qualche giorno.»
E per quanto la ragazza fosse poco astuta, capì che quella era una
buona occasione per uscire. D’altra parte la signora Villefort venne
in suo aiuto.
«Ritiratevi, Valentine», disse, «voi state male sul serio, e queste
signore vorranno perdonarvi: bevete un bicchiere d’acqua, e vi
riprenderete.»
Valentine abbracciò Eugénie, salutò la signora Danglars, e uscì.
«Questa povera ragazza», riprese la signora Villefort, quando
Valentine fu scomparsa, «mi fa stare molto in pena per la sua
salute, e non mi meraviglierei se le capitasse qualcosa di grave.»
Intanto Valentine, con una specie d’esaltazione di cui non sapeva
farsi ragione, aveva attraversato la camera d’Edouard senza
rispondere a un’impertinenza del ragazzino, e dalla sua camera aveva
raggiunto la scaletta. Aveva già sceso tutti gli scalini, meno gli
ultimi tre, sentiva già la voce di Morrel, quando d’un tratto una
nube le passò davanti agli occhi, il piede irrigidito scivolò, le
mani non ebbero più forza per afferrare il cordone, e rasente la
ringhiera, rotolò dall’alto dei tre ultimi gradini.
Morrel fece un balzo, aprì la porta, e trovò Valentine stesa sul
pianerottolo. Rapido come il lampo, l’alzò fra le braccia, e andò a
deporla sopra una sedia.
Valentine riaprì gli occhi.
«Oh, quanto sono maldestra», mormorò con sguardo febbrile, «non so
più stare in piedi! Dimenticavo che vi sono tre scalini prima del
pianerottolo.»
«Vi siete ferita, Valentine?» gridò Morrel. «Mio Dio! mio Dio!»
Valentine si guardò intorno; vide il più profondo spavento negli
occhi di Noirtier.
«Rassicurati, nonno mio», disse, sforzandosi di sorridere, «non è
niente, non è niente… Mi è venuto un capogiro, ecco tutto.»
«Un altro capogiro!» esclamò Morrel congiungendo le mani.
«Riguardatevi, Valentine, ve ne supplico.»
«Ma no», replicò Valentine, «ma no, vi dico che tutto è passato, e
che non è niente. Ora, lasciate che vi dia una notizia: fra otto
giorni Eugénie si sposa, e fra tre vi è una specie di festa, un
ricevimento per il fidanzamento. Noi siamo tutti invitati, mio
padre, la signora Villefort, e io… Almeno a quanto mi è sembrato di
capire.»
«E quando avverrà che tocchi a noi occuparci di questo? Oh,
Valentine, voi che avete tanto potere sul vostro buon nonno, fate in
modo che vi risponda “Ben presto”.»
«Così», domandò Valentine, «voi contate su di me per affrettare i
tempi o per risvegliare la memoria del buon nonno?»
«Sì», gridò Morrel. «Mio Dio, mio Dio, fate presto! Fino a che voi
non sarete mia, Valentine, mi sembrerà sempre che possiate
sfuggirmi.»
«Davvero», disse Valentine nervosa, «voi Maximilien mostrate troppa
timidezza per essere quell’ufficiale, quel soldato che dicono non
abbia mai conosciuto la paura.»
E uscì in una risata stridula e dolorosa, le braccia le si torsero e
contorsero, la testa si rovesciò sulla sedia, e rimase immobile. Il
grido di terrore che Dio incatenava sulle labbra di Noirtier,
scaturì dallo sguardo. Morrel lo comprese: bisognava chiamare
soccorso. Il giovane si attaccò al campanello; la cameriera che era
nell’appartamento di Valentine, e il domestico che aveva sostituito
Barrois, accorsero simultaneamente.
Valentine era così pallida, fredda, e inanimata, che senza ascoltare
parola, assaliti dalla paura che vegliava in quella maledetta casa,
corsero nel corridoio cercando aiuto. La signora Danglars ed Eugénie
uscite in quel momento, furono subito informate della causa di tutto
quel gridare. La signora Villefort, affettando un sentimento materno
e una compassione che non sentiva, e chiudendo in cuor suo le
malvage intenzioni da vera matrigna, disse alle visitatrici: «Povera
ragazza! Ve lo aveva detto!»
93. Confessione
Nello stesso momento si udì la voce del signor Villefort, che
gridava dal suo studio: «Cosa è stato?»
Morrel consultò con uno sguardo Noirtier, che aveva riacquistato
tutta la sua calma, e con un cenno indicò lo stanzino, dove già
un’altra volta, in circostanza pressappoco simile, si era rifugiato.
Non ebbe che il tempo di prendere il cappello e di gettarsi nel
luogo indicato. Si sentivano già i passi del procuratore in
corridoio.
Villefort corse subito nella camera, corse da Valentine e la prese
fra le sue braccia.
«Un medico! Un medico! Il signor d’Avrigny!» gridò Villefort. «Vi
andrò io stesso.»
E corse fuori dall’appartamento. A quel punto Morrel uscì dallo
stanzino, e corse per le scale. Era stato colpito da un terribile
ricordo. Il colloquio fra il signor Villefort e il dottore, che
aveva udito in giardino la notte in cui morì la signora di
Saint-Méran, gli ritornò tutto alla memoria: quei sintomi, benché in
forma meno acuta, erano gli stessi che avevano preceduto la morte di
Barrois. Nello stesso tempo gli era sembrato di risentire
all’orecchio la voce di Montecristo: «Di qualunque cosa possiate
avere bisogno, venite da me, io posso molto».
Più veloce del pensiero, corse dunque dal Faubourg Saint-Honoré alla
rue Matignon, e dalla Matignon all’ingresso degli Champs-Elysées.
Intanto il signor Villefort giunse in calesse alla porta del signor
d’Avrigny, e suonò con tanta violenza, che il portinaio venne ad
aprirgli tutto spaventato. Villefort in un balzo fu sulle scale
senza aver la forza di dire una parola. Il portinaio lo conosceva, e
lo lasciò passare gridando soltanto: «Nel suo studio, signor
procuratore, nel suo studio!»
Villefort ne spingeva già, anzi sbatteva la porta.
«Ah», disse il dottore. «Siete voi.»
«Sì», annuì Villefort, richiudendo la porta dietro di sé. «Sì,
dottore, sono io, vengo a chiedervi a mia volta se siamo soli.
Dottore, la mia è una casa maledetta!»
«Cosa dite?» disse questi con apparente freddezza, ma con profonda
emozione interna. «Si è ammalato ancora qualcuno?»
«Sì, dottore!» gridò Villefort, mettendosi le mani nei capelli.
«Sì!»
Lo sguardo di d’Avrigny diceva: «Ve l’avevo detto». Quindi le sue
labbra articolarono lentamente: «Chi sta dunque per morire in casa
vostra? E quale nuova vittima va ad accusarvi di debolezza davanti a
Dio?»
Un doloroso singhiozzo scaturì dal cuore di Villefort, si avvicinò
al medico, e afferrandolo per il braccio, gridò: «Valentine! Questa
volta è Valentine!»
«Vostra figlia?» gridò d’Avrigny preso da dolore e sorpresa.
«Vi sbagliavate», mormorò il magistrato. «Venite a visitarla, e
chiedetele scusa dei vostri sospetti.»
«Ogni volta che mi avete chiamato», disse il signor d’Avrigny, «era
sempre troppo tardi… Non importa, vengo, ma affrettiamoci, signore:
coi nemici di casa vostra non c’è tempo da perdere.»
«Questa volta, dottore, non mi rimprovererete più la mia debolezza.
Questa volta troverò l’assassino, e lo colpirò!»
«Tentiamo prima di salvare la vittima, poi penseremo a vendicarla»,
disse d’Avrigny. «Andiamo!»
E il calesse che aveva condotto Villefort lo ricondusse al gran
trotto col signor d’Avrigny, nello stesso momento in cui Morrel
batteva al portone del conte di Montecristo.
Questi era nel suo studio, e molto pensieroso, leggeva un foglio
inviatogli da Bertuccio in tutta fretta. Molte cose erano passate in
quelle due ore, tanto per il conte, che per il giovane, e questi,
dopo averlo lasciato col sorriso sulle labbra, adesso ritornava
tutto sconvolto. Si alzò, e corse incontro a Morrel.
«Cos’è accaduto, Maximilien?» gli domandò. «Siete pallido e la
vostra fronte è madida di sudore.»
Morrel cadde su una sedia.
«Sì», ansimò, «sono venuto in fretta, ho bisogno di parlarvi.»
«Stanno tutti bene a casa vostra?» domandò il conte con
un’affettuosa benevolenza sulla cui sincerità nessuno avrebbe potuto
ingannarsi.
«Grazie, conte, grazie», rispose il giovane, visibilmente
imbarazzato nell’intavolare il discorso. «Sì, in famiglia tutti
stanno bene.»
«Però avete qualche cosa da dirmi?» riprese il conte sempre più
inquieto.
«Sì», disse Morrel, «è vero, esco da una casa dove è entrata la
morte, e sono corso da voi.»
«Uscite forse dalla casa del signor Morcerf?» domandò Montecristo.
«No», disse Morrel. «È morto qualcuno in casa del signor Morcerf?»
«Il generale si è sparato alla testa», rispose freddamente
Montecristo.
«Che orribile disgrazia!» gridò Maximilien.
«Non però per la contessa, né per Albert», osservò Montecristo. «È
meglio un padre e uno sposo morto, che un padre e uno sposo
disonorato: il sangue laverà l’infamia.»
«Povera contessa!» mormorò Maximilien. «Compiango lei, soprattutto,
una donna così nobile!»
«Piangete pure Albert, Maximilien, poiché, credetelo, è degno della
contessa. Ma ritorniamo a voi… Avete detto che correvate da me:
avete bisogno del mio aiuto?»
«Sì, ho bisogno di voi, cioè sono corso come un folle per vedere se
mi potete portar soccorso in una circostanza in cui Dio solo può
soccorrermi.»
«Dite», lo invitò Montecristo.
«A dire il vero», disse Morrel, «non so se mi è permesso rivelare un
segreto simile, ma la fatalità mi spinge, la necessità mi costringe,
conte…»
Morrel si fermò esitando.
«Non sapete che vi voglio bene?» disse Montecristo, prendendo
affettuosamente la mano del giovane fra le sue.
«Voi mi incoraggiate! E poiché qualche cosa mi dice, qui», Morrel si
mise la mano sul cuore, «che io non debba aver segreti per voi…»
«Avete ragione, Morrel, Dio vi parla al cuore, e il cuore parla a
voi… Ditemi che cosa vi dice il cuore.»
«Conte, volete permettermi di inviare Battistino a domandare da
parte vostra notizie di una persona che conoscete?»
«Ho messo me a vostra disposizione, a più forte ragione disponete
dei miei domestici.»
«Il motivo è che non mi sembrerà di vivere fintanto che non sarò
certo che lei sta meglio.»
«Volete che chiami Battistino?»
«No, vado a parlargli io stesso.»
Morrel uscì, e chiamato Battistino, gli disse alcune parole a bassa
voce. Il cameriere partì correndo.
«Avete fatto?» domandò Montecristo, vedendo ricomparire Morrel.
«Sì, e sono un po’ più tranquillo.»
«Voi sapete che sto aspettando», disse Montecristo sorridendo.
«Sì, e io parlo. Ascoltate. Una sera mi trovavo in un giardino
nascosto dietro un gruppo di alberi; nessuno pensava che io potessi
essere là. Due persone mi passarono vicino, permettete che per ora
vi taccia i nomi. Parlavano a bassa voce, eppure non perdetti
nemmeno una delle loro parole tanto mi premeva quel colloquio.»
«È un inizio molto lugubre a giudicare dal vostro pallore e dal
vostro tremore, Morrel.»
«Sì, molto lugubre, amico mio: era morto qualcuno in casa del
padrone del giardino dove mi trovavo… Uno dei due signori di cui
ascoltavo il discorso, era il padrone del giardino, e l’altro un
medico… Ora il primo confidava al secondo i suoi timori e i suoi
dolori, poiché questa era la seconda volta in un mese che la morte
piombava rapida e improvvisa in casa sua, e si credeva condannato
alla collera di Dio da qualche angelo sterminatore.»
«Ah», disse Montecristo, guardando fisso il giovane, e girando la
sedia in modo da spostarsi nell’ombra mentre la luce cadeva sul viso
di Maximilien.
«Sì», continuò questi, «la morte era entrata due volte in quella
casa in meno di un mese.»
«E che cosa rispondeva il dottore?» domandò Montecristo.
«Diceva… diceva che quella morte non era naturale, e che bisognava
attribuirla…»
«A che?»
«A del veleno!»
«Davvero?» si stupì Montecristo, con quella tosse leggera che, nei
momenti di forte emozione, gli serviva a mascherare sia il rossore,
sia il pallore, sia l’attenzione stessa con cui ascoltava, «davvero,
Maximilien, voi avete sentito una cosa del genere?»
«Sì, caro conte, e il dottore aggiungeva che se si fossero rinnovati
simili avvenimenti, si sentiva obbligato a rivolgersi alla
giustizia.»
Montecristo ascoltava, o sembrava ascoltare, con la massima calma.
«Ebbene», continuò Maximilien, «la morte ha colpito una terza volta,
conte, e a che cosa credete che mi impegni la conoscenza di questo
segreto?»
«Mio caro amico», disse Montecristo, «mi sembra che raccontiate
un’avventura che ciascuno di noi sa a memoria. La casa in cui avete
sentito questo discorso, io la conosco, una casa in cui c’è un
giardino, un padre di famiglia, un dottore, una casa in cui ci sono
state tre morti strane e inattese. Ebbene, guardatemi, io che non ho
ascoltato alcuna confidenza, e tuttavia so tutto questo come voi, ho
forse scrupoli di coscienza? No, ciò non mi riguarda. Voi dite che
un angelo sterminatore sembra offrire questa casa alla collera del
Signore… Ebbene, chi vi dice che la vostra supposizione non sia una
realtà? Se è la giustizia, e non la collera di Dio che passa su
quella casa, Maximilien, voltate la testa, e lasciate passare la
giustizia di Dio.»
Morrel tremò. Vi era qualche cosa al contempo lugubre, solenne e
terribile nel tono del conte.
«D’altra parte» continuò egli, con un cambiamento di voce così
marcato che si sarebbe detto non uscisse dalla bocca dello stesso
uomo, «chi vi dice che questo debba di nuovo a succedere?»
«È successo infatti, conte», gridò Morrel, «ed ecco perché corro da
voi.»
«Che cosa volete che ci faccia, Morrel? Volete che avverta il
procuratore?»
Montecristo articolò quelle ultime parole con una chiarezza e un
tono così violento, che Morrel, alzandosi d’un tratto, gridò:
«Conte, conte voi sapete di che cosa voglio parlarvi, non è vero?»
«Sì, mio buon amico, e ve lo proverò mettendo i puntini sulle i,
cioè dando un nome a quegli uomini. Voi siete stato a passeggiare
una sera nel giardino del signor Villefort; da quanto mi dite,
presumo fosse la sera in cui morì la signora di Saint-Méran. Avete
sentito il signor Villefort parlare col signor d’Avrigny della morte
del signor di Saint-Méran e di quella non meno improvvisa della
baronessa. Il signor d’Avrigny diceva di credere a un avvelenamento
e anzi a due avvelenamenti, ed ecco voi, uomo onesto per eccellenza,
eccovi da quel momento occupato a scandagliare il vostro cuore, a
gettare la sonda nella vostra coscienza per sapere se dovete
rivelare questo segreto oppure tacerlo. Non siamo più nel medioevo,
caro amico, non vi sono più i giudici franchi… Che diavolo volete
domandare a queste persone? “Coscienza, che vuoi tu da me?” come
disse Sterne. Mio caro, lasciateli dormire, se dormono, e per l’amor
di Dio, dormite anche voi, che non avete rimorsi che v’impediscono
di poter dormire.»
Un orribile dolore accese i lineamenti di Morrel, egli afferrò la
mano di Montecristo.
«Ma si uccide ancora, vi dico.»
«E allora», replicò il conte, meravigliato di questa insistenza, che
non capiva, e guardando Maximilien più attentamente, «lasciate che
uccidano! È una famiglia di Atridi: Dio li ha condannati, ed essi
subiranno la sentenza, scompariranno tutti come quelle casette
costruite dai bambini con le carte da gioco, che cadono le une dopo
le altre sotto il soffio del loro creatore, ve ne fossero anche
duecento. Tre mesi fa toccò al signor di Saint-Méran, due mesi fa a
sua moglie, l’altro giorno a Barrois, oggi toccherà al vecchio
Noirtier o alla giovane Valentine.»
«Voi lo sapevate?» gridò Morrel, in un tale accesso di terrore che
Montecristo ne rabbrividì, lui che sarebbe rimasto impassibile se
anche avesse visto cadere il cielo, «voi lo sapevate, e non dicevate
niente?»
«E che m’importa?» riprese Montecristo, stringendosi nelle spalle.
«Conosco forse quella gente? C’è forse ragione che io salvi l’uno
per perdere l’altro? Non credo proprio, poiché fra il colpevole e la
vittima non ho alcuna preferenza.»
«Ma io, io» gridò Morrel, urlando dal dolore, «io l’amo!»
«Voi amate, chi?» gridò Montecristo, balzando in piedi, e afferrando
le due mani che Morrel alzava verso il cielo.
«Io amo perdutamente, io amo come un folle, io amo come uomo che
darebbe tutto il suo sangue per risparmiarle una lacrima, io amo
Valentine Villefort, che stanno assassinando in questo momento! Mi
capite? Io l’amo, e domando a Dio e a voi, in che modo salvarla!»
Montecristo lanciò un grido così selvaggio da leone ferito.
«Pazzo!» urlò, torcendosi a sua volta le mani. «Pazzo! Tu ami
Valentine! Tu ami questa figlia di razza maledetta!»
Morrel non aveva mai visto un’espressione simile, né uno sguardo
così terribile. Il genio del terrore, da lui visto tante volte sia
sui campi di battaglia, sia nelle notti assassine d’Algeria, non
aveva mai scosso davanti a lui fuochi più sinistri.
Arretrò spaventato. In quanto a Montecristo, dopo questo moto
istintivo, chiuse un momento gli occhi, come abbagliato da lampi
interni, e si raccolse con tanta forza, che a poco a poco riacquistò
il controllo, come si vede dopo la burrasca calmarsi sotto i raggi
del sole i flutti turbolenti o schiumeggianti. Quel silenzio, quel
raccoglimento, quella lotta durarono venti secondi circa. Quindi il
conte rialzò la pallida fronte.
«Voi vedete», disse, con voce appena alterata, «vedete mio caro
amico in che modo Dio sa punire della loro indifferenza gli uomini
più sciocchi e più freddi davanti ai terribili spettacoli che loro
si offrono. Io spettatore impassibile e curioso, guardavo lo
sviluppo di questa lugubre tragedia, e simile all’angelo del male,
ridevo del male che fanno gli uomini, sicuro dietro il segreto (il
segreto è facile da custodire per i ricchi e potenti), ed ecco che,
a mia volta, mi sento morso da questo serpente di cui spiavo la
marcia tortuosa, e morso al cuore.»
Morrel mandò un sordo gemito.
«Basta col pianto», continuò il conte, «siate uomo, forte e pieno di
speranza; veglio su di voi.»
Morrel scosse tristemente la testa.
«Io vi dico di sperare, mi capite?» gridò Montecristo. «Sappiate che
non ho mai mentito e che non sbaglio mai. È mezzogiorno, Maximilien…
Ringraziate il cielo di essere venuto a mezzogiorno invece che
questa sera o domattina. Ascoltate dunque quanto sto per dirvi,
Morrel: è mezzogiorno se Valentine non è morta a quest’ora, non
morirà più.»
«Oh mio Dio!» gridò Morrel, «io l’ho lasciata moribonda.»
Montecristo si appoggiò una mano sulla fronte. Che cosa pensava
quella testa carica di segreti? Che cosa dicevano, a quello spirito
implacabile e umano, l’angelo luminoso, o l’angelo delle tenebre?
Dio solo lo sa.
Montecristo rialzò la fronte un’altra volta, e questa volta era
serena come quella di un bimbo che si sveglia.
«Maximilien», riprese, «ritornate tranquillamente a casa vostra, non
fate nulla, né lasciate apparire sul vostro viso ombra di
preoccupazione, vi farò avere notizie, andate…»
«Mio Dio», disse Morrel, «voi mi spaventate, conte, con la vostra
imperturbabilità. Potete dunque agire contro la morte? Siete voi più
di un uomo? Siete un demone?»
E il giovane, che non aveva mai arretrato davanti ad alcun pericolo,
arretrava di fronte a Montecristo, vinto da invincibile terrore.
Montecristo lo guardò con un sorriso malinconico e dolce, e
Maximilien sentì spuntare le lacrime agli occhi.
«Io posso molto, amico mio», rispose il conte. «Andate, ho bisogno
di restar solo.»
Morrel, soggiogato da quel prodigioso ascendente che Montecristo
esercitava su tutti, non cercò neppure di sottrarvisi, e scambiata
una stretta di mani, partì. Alla porta si fermò per aspettare
Battistino, che vide comparire dal fondo della rue Matignon, e che
ritornava correndo.
Nel frattempo Villefort e d’Avrigny si erano affrettati. Al loro
ritorno Valentine era ancora svenuta, e il medico aveva esaminato
l’ammalata con la massima cura, e con attenzione raddoppiata dalla
conoscenza del segreto. Villefort, appeso alle sue labbra e al suo
sguardo, aspettava con ansia il risultato dell’esame.
Noirtier, più pallido della ragazza, più ansioso di sapere di
Villefort stesso, aspettava egli pure. Finalmente d’Avrigny si
lasciò sfuggire lentamente queste parole: «È ancora viva».
«Ancora?» gridò Villefort. «Dottore, che terribile parola avete
pronunciata!»
«Sì», disse il medico, «ripeto: è ancora viva, e ne sono sorpreso.»
«Ma è salva?» domandò il padre.
«Sì, poiché vive.»
In quel momento lo sguardo di d’Avrigny s’imbatté in quello di
Noirtier che scintillava di gioia straordinaria, di un pensiero
talmente tenero e affettuoso, che il medico ne rimase colpito. Fece
riadagiare sulla sedia la ragazza, le cui labbra appena si
distinguevano, tanto erano pallide e bianche, e rimase immobile
guardando Noirtier, dal quale ogni gesto del dottore era atteso con
ansia.
«Signore», disse allora d’Avrigny a Villefort, «chiamate la
cameriera della signorina Valentine, per favore.»
Villefort corse egli stesso a chiamare la cameriera.
Appena Villefort chiuse la porta, d’Avrigny si accostò al vecchio:
«Avete qualche cosa da dirmi?» domandò. Il vecchio strinse gli occhi
nel modo espressivo con cui era solito esprimere una conferma.
«Solo a me?»
Noirtier fece segno di sì.
«Bene, resterò con voi.»
In quel momento Villefort rientrò, seguito dalla cameriera; dietro
la cameriera veniva la signora Villefort.
«Ma che cosa ha dunque questa cara fanciulla?» gridò lei. «Uscendo
dalle mie stanze, si è lamentata di non sentirsi bene, ma non avrei
creduto che fosse una cosa così seria.»
E la giovane sposa, con le lacrime agli occhi e tutti i segni
dell’affetto di una vera madre, si avvicinò a Valentine, prendendole
la mano. D’Avrigny continuava a guardare Noirtier: vide gli occhi
del vecchio dilatarsi e farsi minacciosi, le sue guance tendersi e
tremare, il sudore colare dalla fronte.
«Ah!» esclamò involontariamente, seguendo la direzione degli sguardi
di Noirtier, cioè fissando gli occhi sulla signora Villefort, che
ripeteva: «Questa povera ragazza starà meglio nel suo letto. Venite,
Fanny, portiamola là».
Il signor d’Avrigny che vedeva in quella proposta un mezzo per
restare solo con Noirtier, fece segno con la testa che questo era
effettivamente quanto c’era di meglio da fare, ma ordinò che non le
fosse dato nient’altro che quello che avesse ordinato.
Portarono via Valentine, che aveva recuperato l’uso dei sensi, ma
incapace di agire e quasi di parlare, tanto le sue membra erano
state indebolite dal malore subito. Però ebbe la forza di salutare
con uno sguardo il nonno, a cui sembrava strappassero l’anima nel
vederla portar via. D’Avrigny seguì l’ammalata, terminò le sue
prescrizioni, e ordinò a Villefort di prendere un calesse, e andare
di persona dal farmacista per far preparare in sua presenza le
pozioni ordinate, riportarle lui stesso e aspettarlo nella camera di
sua figlia.
Quindi, dopo aver rinnovata l’ingiunzione di non lasciar prendere
niente a Valentine, ridiscese da Noirtier, chiuse accuratamente le
porte, e dopo essersi assicurato che nessuno lo ascoltava, disse:
«Voi sapete qualcosa sulla malattia di vostra nipote».
Il vecchio fece segno di sì.
«Ascoltate, non abbiamo tempo da perdere, io vi interrogherò, e voi
mi risponderete.»
Noirtier fece segno ch’era pronto a rispondere.
«Avevate previsto il malore che ha colto Valentine?»
«Sì.»
D’Avrigny rifletté un istante, poi riavvicinandosi a Noirtier:
«Perdonate ciò che sto per dirvi», mormorò, «ma non deve essere
trascurato nessun indizio nella situazione terribile in cui siamo.
Avete visto morire il povero Barrois?»
Noirtier levò gli occhi al cielo.
«Sapete di che cosa è morto?» domandò d’Avrigny, posando la mano
sulla spalla del vecchio. Il vecchio accennò di sì.
«Credete che la sua morte sia stata naturale?»
Le inerti labbra di Noirtier si atteggiarono come a un sorriso.
«Allora vi è venuta l’idea che Barrois sia stato avvelenato! Credete
che il veleno di cui rimase vittima fosse destinato a lui?»
Il vecchio fece cenno di no.
«Credete che la stessa mano che colpì Barrois, volendo colpire un
altro, sia oggi quella che colpisce Valentine?»
«Sì.»
«Lei dunque soccomberà nello stesso modo?» domandò d’Avrigny
fissando Noirtier. E aspettò l’effetto di questa frase sul vecchio.
«No!» rispose con un’aria di trionfo, che avrebbe potuto stupire il
più abile indovino.
«Allora voi sperate?» domandò d’Avrigny sorpreso.
«Sì.»
«Che cosa sperate?»
Il vecchio gli fece capire con gli occhi che non poteva rispondere.
«Ah sì, è vero», mormorò d’Avrigny. Quindi a Noirtier: «Voi sperate
che l’assassino si stancherà?»
«No.»
«O che il veleno non farà il suo effetto su Valentine?»
«Sì.»
«Perché non vi sto dicendo una novità, non è vero», aggiunse
d’Avrigny, «dicendovi che si è tentato di avvelenarla?»
Il vecchio fece segno con gli occhi che non aveva alcun dubbio in
merito.
«Allora come sperate che Valentine possa salvarsi?»
Noirtier tenne allora gli sguardi sempre fissi nella stessa
direzione. D’Avrigny seguì quella direzione, e vide che guardava una
bottiglia contenente la pozione che gli veniva data tutte le
mattine.
«Ah!» esclamò d’Avrigny, colpito da un’idea. «Avete pensato di?…»
Noirtier non lo lasciò terminare e fece subito cenno di sì.
«Di premunirla contro il veleno?…»
«Sì.»
«Abituandola a poco a poco…»
«Sì, sì, sì», fece Noirtier lietissimo d’essere capito.
«Infatti, mi avete sentito dire che c’era della brucina nella
pozione che vi do?»
«Sì.»
«E abituandola a questo veleno avete voluto neutralizzare gli
effetti di un veleno simile?» La stessa gioia trionfante di
Noirtier. «Ci siete riuscito!» gridò d’Avrigny. «Senza questa
precauzione Valentine oggi sarebbe stata uccisa, uccisa
irrimediabilmente, e senza misericordia; l’attacco è stato violento,
ma non è rimasta che spossata, e per questa volta almeno Valentine
non morirà.»
Una gioia sovrumana appannava gli occhi del vecchio, con espressione
d’infinita riconoscenza. In quel momento entrò Villefort.
«Prendete, dottore, ecco quanto avete ordinato.»
«Questa medicina è stata preparata in vostra presenza?»
«Sì», rispose il procuratore.
«Non è stata in altre mani?»
«No.»
D’Avrigny prese la bottiglia, versò nel cavo della mano qualche
goccia del liquido che conteneva, e l’assaggiò.
«Bene», disse, «andiamo da Valentine, darò le mie istruzioni a
tutti, e sorveglierete voi stesso, signor Villefort, che vengano
rispettate.»
Nel momento in cui d’Avrigny entrava nella camera di Valentine
accompagnato dal signor Villefort, un prete italiano di aspetto
severo con parole calme e decise, prendeva in affitto la casa
attigua al palazzo abitato dal signor Villefort. Non si poté sapere
per quale motivo i tre locatari di quella casa sgombrarono due ore
dopo, ma nel quartiere corse voce che la casa non fosse abbastanza
sicura nelle sue fondamenta e minacciasse di crollare; il che, però,
non impedì al nuovo locatario di stabilirvisi col suo modesto
mobilio, il giorno stesso verso le cinque. L’affitto fu deciso per
tre, sei e nove anni, e secondo l’abitudine stabilita fra i
proprietari, il nuovo locatorio pagò sei mesi anticipati. Questo
nuovo locatario che, come abbiamo detto, era italiano, si chiamava
Giacomo Busoni. Furono immediatamente chiamati gli operai e la notte
stessa i pochi passanti che passarono per di là in ora tarda, videro
con sorpresa i falegnami e i muratori occupati a puntellare la casa
vacillante.
94. Padre e figlia
Nell’ultimo capitolo abbiamo visto la signora Danglars andare ad
annunciare ufficialmente alla signora Villefort l’imminente
matrimonio della signorina Eugénie Danglars con il signor Andrea
Cavalcanti. Quell’annuncio ufficiale, che indicava o almeno sembrava
indicare una decisione presa da tutte le parti interessate a tale
grande affare, era tuttavia stato preceduto da una scena, di cui
dobbiamo render conto ai nostri lettori. Li pregheremo dunque di
fare un passo indietro sino alla mattina stessa delle grandi
catastrofi, in quel salotto dorato che già abbiamo fatto conoscere,
e che era l’orgoglio del suo proprietario, il barone Danglars.
In quel salotto, attorno alle dieci del mattino, passeggiava da
qualche minuto, in pensiero e visibilmente agitato, il banchiere,
osservando tutte le porte, e fermandosi a ogni rumore. Quando ebbe
esaurito la pazienza, chiamò il cameriere.
«Etienne», gli disse, «andate dalla signorina Eugénie e chiedetele
come mai mi ha pregato di aspettarla in questo salotto, e sappiatemi
dire perché mi fa aspettare così tanto.»
Dopo quel moto d’impazienza, il barone si calmò.
La signorina Danglars, al risveglio, aveva infatti chiesto di vedere
suo padre, e aveva scelto il salotto per quell’incontro. La
stranezza di tale capriccio, e soprattutto il suo carattere
ufficiale, avevano un po’ sorpreso il banchiere, che aveva
immediatamente obbedito ai desideri di sua figlia entrando per primo
in salotto.
Etienne tornò presto dalla sua ambasciata.
«La cameriera», disse, «mi ha riferito che la signorina stava
finendo la sua toilette, e che non avrebbe tardato molto.»
Danglars fece un segno con il capo, indicando che era soddisfatto.
Danglars sia in società, e persino con le persone di servizio,
fingeva buonumore, e modi di padre affettuoso e debole; era un brano
della parte che si era imposto nella commedia popolare che
rappresentava. Affrettiamoci a dire che, nell’intimità, la maggior
parte delle volte, il buonumore scompariva per lasciar posto al
marito brutale e al padre tiranno.
«Per quale ragione questa pazza, che pretende di parlarmi»,
mormorava Danglars, «non viene nel mio studio, e perché soprattutto
vuole parlarmi?»
Stava rimuginando per la ventesima volta questo pensiero inquietante
nella sua mente, quando si aprì la porta e comparve Eugénie, vestita
di seta nera broccata con fiori pallidi dello stesso colore, i
capelli acconciati, e i guanti, come se dovesse andare al Théâtre
Italien.
«Ebbene, Eugénie, che succede?» chiese il padre. «E perché nel
salotto mentre si sta ugualmente bene nel mio studio?»
«Avete ragione, signore», rispose Eugénie, facendo segno a suo padre
che poteva sedersi, «voi ponete già le due domande in cui si
riassume tutto il colloquio che avremo. Io dunque risponderò a
entrambe, e, contro le leggi dell’abitudine, comincerò dalla
seconda. Ho scelto il salotto, signore, come luogo d’appuntamento,
al fine d’evitare le impressioni sgradevoli e gli influssi dello
studio di un banchiere. Quei libri di cassa, per quanto siano ben
dorati, quei cassetti chiusi come le porte di una fortezza, quelle
masse di biglietti di banca che vengono non si sa da dove, e quella
quantità di lettere provenienti dall’Inghilterra, dall’Olanda, dalla
Spagna, dalle Indie, dalla Cina e dal Perù, in generale agiscono
stranamente sullo spirito di un padre, e gli fanno dimenticare che
nel mondo vi è un interesse più grande e più sacro di quello dello
stato sociale e dell’opinione dei suoi clienti… Ho dunque preferito
questo salotto dove vedete, sorridenti e felici nei loro quadri
magnifici, il vostro ritratto, il mio, quello di mia madre, e molte
specie di paesaggi che inteneriscono.
Io mi fido molto del potere delle impressioni esterne. Forse
riguardo a voi, in particolare, mi sbaglio… Ma che volete? Non sarei
artista se non mi restasse qualche illusione.»
«Benissimo», disse il signor Danglars, che aveva ascoltato
imperturbabile tutta quella tiritera, ma senza comprenderne una
parola, assorto com’era nel cercare il motivo di una causa qualsiasi
alla richiesta dell’interlocutrice.
«Ecco dunque spiegato il secondo punto, o pressappoco», riprese
Eugénie, senza il minimo turbamento e con quel distacco maschile che
caratterizzava il suo gesto e la sua parola, «e voi mi sembrate
contento della spiegazione. Ora veniamo al primo: voi mi chiedete
perché vi ho chiesto questo incontro… Ve lo dirò in due parole,
signore, eccole: non voglio sposare il conte Andrea Cavalcanti.»
Danglars fece un salto sulla sedia, e per la scossa alzò insieme
braccia e occhi al cielo.
«Mio Dio, sì, signore», continuò Eugénie, sempre calma.
«Voi ne siete meravigliato, poiché finora non ho mai manifestato la
più piccola opposizione, certa al momento opportuno d’opporre alle
persone che non mi hanno consultato, e alle cose che mi sono
dispiaciute, una volontà ferma e assoluta. Però stavolta, la
tranquillità, la passività, come dicono i filosofi, veniva da altra
sorgente, veniva dal fatto che, figlia sottomessa e affezionata…» un
leggero sorriso apparve sulle labbra purpuree della ragazza, «io
volevo cedere all’obbedienza.»
«Quindi?» domandò Danglars.
«Quindi, signore» riprese Eugénie, «ho provato fino all’ultimo, ma
ora che è giunto il momento, malgrado tutti gli sforzi, mi sento
incapace di obbedire.»
«Ma infine», disse Danglars, che sembrava preoccupato dal peso di
quell’implacabile logica, la cui calma sapeva di tanta
premeditazione e forza di volontà, «qual è la ragione di questo
rifiuto, Eugénie?»
«La ragione», replicò la ragazza, «non è perché il signor Andrea
Cavalcanti sia brutto, sciocco o sgradevole, no, può anzi essere
stimato un partito. Non è neppure perché il mio cuore sia stato
preso meno da lui che da altri; sarebbe una ragione da ragazzina di
collegio… Io non amo assolutamente nessuno, signore! Voi lo sapete
bene, non è vero? Non vedo dunque perché, senza un’assoluta
necessità, mi dovrei legare eternamente a un compagno. Il saggio non
ha detto “Niente di troppo” e altrove “Porta tutto con te stesso”?
Ebbene, caro padre, nel naufragio eterno delle nostre speranze,
butto a mare tutto quanto ho di inutile nel mio bagaglio, e resto
con la mia volontà, disposta a vivere perfettamente sola, e di
conseguenza perfettamente libera.»
«Disgraziata! Disgraziata», mormorò Danglars, impallidendo, poiché
sapeva per lunga esperienza la solidità dell’ostacolo che
all’improvviso incontrava.
«Disgraziata?» riprese Eugénie. «Disgraziata dite, signore? Ma no,
davvero, l’esclamazione mi sembra affettata e teatrale. Felice, al
contrario, poiché io vi domando: che cosa mi manca? Il mondo mi
trova bella, è già qualcosa… Amo accogliere le persone, rallegrano
il viso, e quelli che mi circonderanno mi sembreranno allora meno
brutti… Sono dotata di un po’ di spirito e di una certa sensibilità
che mi permette di trarre dall’esistenza, per farlo entrare nella
mia vita, ciò che vi trova di buono, come fa la scimmia quando rompe
la noce acerba per cavare ciò che contiene… Sono ricca, poiché voi
avete uno dei più grossi patrimoni di Francia, perché sono figlia
unica, e voi non siete tenace al punto che lo sono i padri del
quartiere di Saint-Martin e della Gaité che diseredano le figlie
perché non vogliono dar loro nipoti; d’altra parte la legge
previdente vi ha tolto il diritto di diseredarmi, almeno del tutto,
come vi toglie il potere di costringermi a sposare un signor tale o
tal altro. Quindi se io sono bella, spiritosa, adorna di qualche
talento, come si dice all’opera comica, e ricca, il che è vera
felicità, signore, perché mi chiamate disgraziata?»
Danglars, vedendo sua figlia sorridente e orgogliosa fino
all’insolenza, non poté reprimere un gesto di rabbia che si tradì
con un rantolo; ma sotto lo sguardo indagatore di sua figlia,
vedendo le sopracciglia corrugate, si calmò subito, domato dalla
circospezione.
«Infatti, figlia mia», rispose con un sorriso, «siete come vi
vantate di essere, tranne una sola cosa, figlia mia, né voglio dirvi
quale, desidero piuttosto lasciarvela indovinare.»
Eugénie guardò Danglars meravigliata.
«Figlia mia», continuò il banchiere, «mi avete perfettamente
spiegato quali sono i sentimenti che danno forza alle decisioni di
una figlia quando ha deciso di non maritarsi, spetta ora a me dirvi
quali sono i motivi di un padre, come sono io, quando ha deciso che
sua figlia si mariti.»
Eugénie s’inchinò, non già come figlia sottomessa che ascolta, ma
come avversario pronto a discutere su ciò che ascolta.
«Figlia mia», riprese Danglars, «quando un padre domanda a sua
figlia di prendere uno sposo, ha sempre qualche ragione per
desiderare tale matrimonio. Gli uni sono presi dalla mania che
dicevate or ora di vedersi rivivere nei loro nipoti. Io comincerò
dal dirvi che non ho tale debolezza: le gioie di famiglia mi sono
quasi indifferenti. Lo posso confessare a una figlia che conosco
abbastanza filosofa da comprendere tale indifferenza e da non
farmene una colpa.»
«Finalmente», disse Eugénie, «parliamo schiettamente, signore, è
quello che voglio.»
«Ora vedete che, quando credo che la circostanza sia favorevole, mi
sottometto alla vostra franchezza: continuerò dunque», proseguì
Danglars. «Io vi propongo un marito, non per voi, perché in verità
non pensavo a voi minimamente in tal momento (a voi piace la
franchezza e mi pare di darvene prova), ma perché avevo bisogno che
prendeste questo sposo il più presto possibile, per certe
combinazioni commerciali che mi preme stabilire in questo momento.»
Eugénie fremette.
«Le cose stanno proprio come ho l’onore di dirvi, figlia mia, e non
per questo dovete essere inquieta con me, perché siete voi che mi vi
costringete… Io entro, mio malgrado, come voi ben capirete, in
queste spiegazioni aritmetiche, con un artista come voi, che teme
d’entrare in un ufficio di banchiere per timore di ricevervi
impressioni e sensazioni sgradevoli o antipoetiche. Ma in questo
ufficio di banchiere, nel quale però vi siete compiaciuta di entrare
ieri l’altro per venire a domandarmi i mille franchi che accordo
ogni mese ai vostri capricci, sappiate, mia cara signorina, che
s’imparano molte cose anche a vantaggio delle ragazze che non
vogliono maritarsi. Vi si impara, per esempio, e per riguardo alla
vostra suscettibilità ve lo insegno in questo salotto, vi si impara
che il credito di un banchiere è la sua vita fisica e morale, che il
credito sostiene l’uomo come il soffio anima il corpo, e il signore
di Montecristo mi fece un giorno un discorso su questo argomento che
non dimenticherò mai. Vi si impara che, a misura che il credito si
ritira, il corpo diviene cadavere, e che ciò è quanto potrà accadere
in brevissimo tempo al banchiere che si onora di essere il padre di
una figlia che è così padrona della logica.»
Ma Eugénie, invece di curvarsi, si raddrizzò improvvisamente.
«Rovinato!?» mormorò.
«Avete trovato l’espressione giusta, esatta, figlia mia», disse
Danglars sfregandosi il petto, ma conservando il suo freddo sorriso.
«Rovinato! Esattamente.»
«Ah!» esclamò Eugénie.
«Sì, rovinato! Eccolo dunque messo a nudo questo orribile segreto!
Ora, figlia mia, imparate dalla mia bocca in che modo questa
disgrazia può, per mezzo vostro, divenire minore, non dirò per me,
ma per voi.»
«Oh!» gridò Eugénie. «Siete un cattivo psicologo, signore, se
v’immaginate che deplori per me la catastrofe che m’avete esposta.
Io rovinata! E che importa? Non mi restano i miei talenti? Non posso
come la Pasta, come la Malibran, come la Grisi, procurarmi ciò che
mi avreste potuto dare, qualunque fosse la vostra ricchezza, cento o
centocinquantamila franchi di rendita che io non dovrei che a me
sola, e che invece di giungermi, come mi giungono questi poveri
dodicimila franchi che mi date, con sguardi tetri e parole di
rimprovero sulla mia prodigalità, mi verrebbero accompagnati da
acclamazioni, da lodi e da fiori? E quando non avessi questo
talento, del quale il vostro sorriso mi fa vedere che dubitate, non
mi resterebbe ancora questo amore per l’indipendenza, che domina in
me più dell’istinto di conservazione? No, non è per me che mi
rattristo, poiché saprei sempre cavarmi d’impiccio: i libri, i
pennelli, il clavicembalo, tutte cose che non costano molto care, e
che potrei sempre procurarmi, mi resteranno sempre. Voi crederete
forse che mi affligga per la signora Danglars? Disingannatevi pure!
O io mi inganno di grosso, o mia madre ha già preso tutte le
precauzioni contro la catastrofe che vi minaccia, e che passerà
senza toccarla… Si è messa al sicuro, lo spero, e non fu vegliando
su di me che ha potuto distrarsi dalle sue preoccupazioni, poiché,
grazie a Dio, mi ha lasciato tutta la mia indipendenza col pretesto
che amava la mia libertà. No, signore, nella mia infanzia ho visto
accadere troppe cose intorno a me, e le ho capite tutte troppo bene,
perché la disgrazia faccia su di me maggiori impressioni di quello
che meriti. Ch’io mi ricordi non sono stata amata da alcuno… Tanto
peggio! Da ciò forse ho imparato a non amare nessuno… Tanto meglio!»
«Allora», disse Danglars, alzandosi pallido di dolore, ma non per
offeso amore paterno, «allora signorina, voi persistete a voler
causare la mia rovina.»
«La vostra rovina?» si stupì Eugénie. «Io causare la vostra rovina!
Che intendete dire? Non capisco.»
«Tanto meglio, questo mi lascia un raggio di speranza. Ascoltate…»
«Ascolto», disse Eugénie guardando suo padre.
«Il signor Cavalcanti», continuò Danglars, «vi sposa e, sposandovi,
mi porta tre milioni di dote che deposita nella mia cassa.»
«Benissimo», disse con supremo disprezzo Eugénie.
«Voi credete che voglia buttare questi tre milioni?» domandò
Danglars. «Niente affatto. Questi tre milioni sono destinati a
produrne almeno dieci. Ho ottenuto, in società con un banchiere, la
concessione di una ferrovia, unica industria che, ai nostri giorni,
presenti qualche eventualità di successo. Ebbene, fra otto giorni
dovrò depositare per conto mio quattro milioni, e questi quattro
milioni, ve lo prometto, ne produrranno almeno dieci o dodici.»
«Ma durante la visita che vi ho fatto l’altro ieri, signore, e di
cui vi dovete ben ricordare, vi ho visto incassare, non è vero?,
cinque milioni e mezzo. Anzi mi avete mostrato la somma in due buoni
del tesoro, e non vi deve stupire che un pezzo di carta di così gran
valore mi colpisse come un lampo.»
«Sì, ma quei cinque milioni e mezzo non sono miei, erano soltanto
una gran prova della fiducia di cui sono onorato: il mio titolo di
banchiere democratico mi ha meritato la stima degli ospedali, e i
cinque milioni e mezzo sono degli ospedali. In tutt’altri tempi non
avrei esitato un momento a servirmene, ma oggi sono note le grandi
perdite che ho subito, e come vi dissi, il credito comincia ad
allontanarsi. Da un momento all’altro l’amministrazione può
richiedere il suo deposito, e se l’avessi impiegato altrove sarei
costretto a fallire. Io non disprezzo i fallimenti, ma quelli che
arricchiscono, intendiamoci bene, non quelli che rovinano. Ora se
sposate il signor Cavalcanti, e io metto le mani sui tre milioni
della dote, o perlomeno si crede che io le metta, il mio credito si
ristabilisce, e la mia fortuna, che da un mese o due è molto
scaduta, si rialza. Mi capite, ora?»
«Perfettamente, mi date in pegno per tre milioni, non è vero?»
«Più la somma è grande, più è lusinghiera, e vi dà idea del vostro
valore.»
«Grazie. Ancora una parola, signore, mi promettete di servirvi
quanto vorrete della cifra di questa dote che deve portarmi il
signor Cavalcanti, ma di non toccare la somma? Questo non è un
affare d’egoismo, è un affare di delicatezza. Io voglio cooperare a
riedificare la vostra fortuna, ma non voglio essere complice della
rovina degli altri.»
«Ma se vi ho detto», gridò Danglars, «che questi tre milioni…»
«Credete di togliervi d’impiccio, signore, senza aver bisogno di
toccare questi tre milioni?»
«Lo spero, ma sempre alla condizione che, facendosi il matrimonio,
esso consolidi il mio credito.»
«Potrete pagare al signor Cavalcanti i cinquecentomila franchi che
mi assegnate nel contratto?»
«Gli saranno versati al ritorno dall’ufficio del sindaco.»
«Bene!»
«Che pensate? Che volete dire?»
«Voglio dire che, chiedendo la mia firma, mi lasciate perfettamente
libera della mia persona?»
«Assolutamente.»
«Allora, bene, come vi dicevo, signore, sono pronta a sposare il
signor Cavalcanti.»
«Ma qual è il vostro progetto?»
«È un mio segreto. Dove sarebbe la mia superiorità su di voi, se
conoscendo il vostro segreto, vi rivelassi il mio?»
«Per cui», diss’egli, «siete pronta a fare tutte le visite che sono
assolutamente indispensabili?
«Sì», rispose Eugénie.
«E a sottoscrivere il contratto fra tre giorni.»
«Sì.»
«Allora siamo d’accordo!»
Danglars prese la mano della figlia, e la strinse tra le sue. Ma,
cosa straordinaria, durante quella stretta di mano, il padre non osò
dire: «Grazie, figlia mia!» e la figlia non ebbe un sorriso per suo
padre!
«La conversazione è finita?» domandò Eugénie alzandosi.
Danglars fece segno che non aveva più niente da dire. Cinque minuti
dopo il pianoforte risuonò sotto le dita della signorina d’Armilly,
e la signorina Danglars cantava la maledizione di Brabanzio su
Desdemona. Alla fine del pezzo, entrò Etienne, e annunciò a Eugénie
che i cavalli erano attaccati alla carrozza, e che la baronessa
l’aspettava per le visite. Noi abbiamo visto le due donne in casa
della signora Villefort, da dove uscirono per continuare il loro
giro.
95. Il contratto di nozze
A distanza di tre giorni dalla scena che abbiamo raccontato, ovvero
verso le cinque pomeridiane del giorno stabilito per la firma del
contratto di matrimonio fra la signorina Eugénie Danglars e Andrea
Cavalcanti, che il banchiere si era ostinato a chiamare principe, e
mentre una fresca brezza faceva frusciare tutte le foglie del
piccolo giardino situato davanti alla casa del conte di Montecristo,
nel momento in cui questi si preparava a uscire, e i cavalli lo
aspettavano battendo le zampe, trattenuti dalla mano del cocchiere
che era già a cassetta da un quarto d’ora, l’elegante carrozzino,
col quale abbiamo già più volte fatto conoscenza, e particolarmente
nella serata d’Auteuil, venne a girare rapidamente intorno
all’angolo della porta d’ingresso, e lanciò, piuttosto che deporre,
sulla scalinata il signor Andrea Cavalcanti, splendido e raggiante,
come se fosse stato sul punto di sposare una principessa. Egli
s’informò della salute del conte con quella familiarità che gli era
abituale, e salendo leggermente al primo piano, incontrò il conte
stesso in cima alla scala.
Nel vedere il giovane, il conte si fermò. In quanto al giovane era
lanciato e quando era lanciato, niente lo tratteneva.
«Buongiorno, caro conte di Montecristo», disse al conte.
«Signor Andrea», esclamò questi di rimando con voce beffarda, «come
state?»
«Benissimo, come vedete. Vengo a parlare con voi di mille cose… Ma
prima di tutto, uscite?»
«Infatti, stavo per uscire, signore.»
«Allora per non farvi tardare, monterò, se volete, nel vostro
calesse, e Tom ci seguirà conducendo il carrozzino a rimorchio.»
«No», replicò con un impercettibile sorriso di disprezzo il conte,
che non voleva essere visto in compagnia del giovane. «No,
preferisco darvi udienza qui, caro signor Andrea. Si parla meglio in
una stanza, e non si ha il cocchiere che può cogliere al volo le
parole.»
Il conte rientrò dunque in un piccolo salotto che faceva parte del
primo piano, si sedette, e accavallando le gambe, fece segno al
giovane di accomodarsi.
Andrea era di ottimo umore.
«Sapete, caro conte, che la cerimonia avrà luogo stasera? Alle nove
si firma il contratto in casa del suocero.»
«Davvero?» disse Montecristo.
«Come, è forse una novità per voi questa? Non siete stato avvertito
dal signor Danglars?»
«Sì», rispose il conte, «ieri ho avuto una sua lettera, ma non credo
vi fosse indicata l’ora.»
«È possibile; mio suocero avrà fatto affidamento sul passaparola.»
«Ebbene», disse Montecristo, «eccovi felice, signor Cavalcanti: è
una delle migliori famiglie quella in cui state per entrare, e poi
la signorina Danglars è bella.»
«Sì», annuì Cavalcanti con un tono pieno di modestia.
«Lei è soprattutto ricca, almeno a quanto credo», disse Montecristo.
«Molto ricca, dite?» fece il giovane.
«Indubbiamente. Si dice che il signor Danglars taccia perlomeno metà
della sua sostanza.»
«E confessa quindici o venti milioni», disse Andrea con uno sguardo
sfavillante di gioia.
«Senza contare», aggiunse Montecristo, «che sta per entrare in un
genere di speculazione in uso negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma
del tutto nuovo in Francia.»
«Sì, sì, so di che cosa parlate: si è aggiudicato l’appalto per la
ferrovia, non è vero?»
«Egli guadagnerà almeno, è opinione comune, almeno dieci milioni in
questo affare.»
«Dieci milioni, dite? È un affare magnifico!» esclamò Cavalcanti che
si inebriava a quel rumore metallico di parole dorate.
«Senza contare», riprese Montecristo, «che tutta quella ricchezza si
riverserà su di voi, e giustamente, poiché la signorina Danglars è
figlia unica. D’altra parte la vostra sostanza, da quanto almeno mi
ha detto vostro padre, è quasi uguale a quella della vostra
fidanzata. Ma lasciamo stare gli affari monetari. Sapete, signor
Andrea, che avete condotto questa faccenda con molta abilità e
destrezza?»
«Lo ammetto», disse il giovane, «sono nato per fare il diplomatico.»
«Ebbene vi faremo entrare in diplomazia. La diplomazia, come ben
sapete, non s’impara; è una cosa d’istinto… Siete innamorato?»
«In verità, ne ho paura», rispose Andrea, col tono con cui aveva
visto al Théâtre Française Dorante o Valerio rispondere ad Alceste.
«E lei vi ama un poco?»
«Lo immagino, visto che è contenta di prendermi per sposo…» rispose
Andrea con un sorriso altero. «Però non dimentichiamo il punto
principale.»
«E sarebbe?»
«È che in tutto questo sono stato particolarmente aiutato.»
«Bah!»
«È vero.»
«Dalle circostanze?»
«No, da voi.»
«Da me? Lasciate stare, principe», replicò Montecristo, calcando con
affettazione sopra questo titolo. «E che cosa ho potuto fare per
voi? Forse non bastavano il vostro merito e la vostra posizione
sociale?»
«No», rispose Andrea, «no, e voi avete un bel dire, signor conte, ma
sostengo che la posizione di un uomo come voi ha fatto di più che il
mio nome, la mia posizione sociale e il mio merito.»
«V’ingannate, signore», disse con freddezza Montecristo, che
avvertiva la perfida furbizia del giovane, e che comprese il valore
delle sue parole. «Avete avuto la mia protezione soltanto dopo
ch’ebbi preso le mie informazioni su vostro padre e sulla vostra
famiglia… E chi ha procurato a me, che non avevo mai visto né voi né
l’illustre autore dei vostri giorni, la fortuna di fare la vostra
conoscenza? Sono stati due miei buoni amici, lord Wilmore e l’abate
Busoni. Chi mi ha incoraggiato, non già a farvi da garante, ma a
proteggervi? Fu il nome di vostro padre così conosciuto e così
onorato in Italia. Personalmente, io non vi conosco.»
Quella calma, quella perfetta sicurezza, fecero capire ad Andrea che
era in svantaggio.
«Come volete voi, ma», riprese, «mio padre è veramente così ricco,
signor conte?»
«Pare di sì, signore», disse Montecristo.
«Sapete se la dote che mi ha promesso è garantita?»
«Ho ricevuto una lettera d’accredito.»
«Ma i tre milioni?»
«Saranno in viaggio.»
«Dunque li avrò realmente?»
«Ma certo!» riprese il conte. «Mi sembra che fino adesso, signore,
il denaro non vi sia mancato.»
Andrea fu talmente sorpreso, che non poté fare a meno di rimanere
assorto per qualche istante.
«Allora», disse, uscendo dalla sua meditazione, «non mi rimane,
signore, che farvi una domanda, e la farò, anche se vi riuscisse
sgradita.»
«Parlate», disse Montecristo.
«Ho conosciuto, grazie alle mie ricchezze, molte persone distinte, e
ho, per il momento almeno, una folla d’amici. Ma sposandomi al
cospetto di tutta la società parigina, devo essere sostenuto da un
nome illustre, e in mancanza della mano paterna, è una mano possente
che deve condurmi all’altare. Ora mio padre non viene a Parigi, non
è vero?»
«È vecchio, coperto di ferite, e soffre.»
«Capisco. Ebbene, vengo a farvi una domanda.»
«A me?»
«Sì, a voi.»
«E quale, mio Dio?»
«Di sostituirlo.»
«Eh, mio caro signore! Dopo i numerosi incontri che ho avuto l’onore
di avere con voi, mi conoscete tanto male da farmi una simile
domanda? Chiedetemi un prestito di mezzo milione, sebbene un tale
prestito sia molto difficile, pure, parola d’onore!, mi dareste meno
problemi. Sappiate dunque, credevo d’avervelo già detto, che nella
sua partecipazione, particolarmente morale, alle cose di questo
mondo, mai il conte di Montecristo ha cessato di avere gli scrupoli,
e dirò di più, le superstizioni degli uomini d’Oriente. Io che ho un
harem al Cairo, uno a Smirne e uno a Costantinopoli, presiedere a un
matrimonio? Mai!»
«Così rifiutate?»
«Esatto, foste anche mio figlio, foste mio fratello, rifiuterei
ugualmente.»
«Ah!» gridò Andrea sconcertato dalla freddezza del conte. «Come fare
allora?»
«Avete centinaia di amici, come avete detto voi stesso.»
«Sono d’accordo, ma siete stato voi a presentarmi al signor
Danglars.»
«Niente affatto, io vi ho fatto pranzare con lui ad Auteuil, e voi
vi presentaste. È ben diverso.»
«Sì, ma avete contribuito al mio matrimonio.»
«In nessuno modo, vi prego di crederlo. Quando siete venuto a
pregarmi di fare la domanda, vi dissi: “Non combino mai matrimoni,
mio caro principe, è una mia massima inderogabile”.»
Andrea si morse le labbra.
«Ma infine ci sarete, almeno?»
«Vi sarà tutta Parigi?»
«Certamente!»
«E allora ci sarò anch’io», disse il conte.
«Firmerete il contratto?»
«Non ci trovo alcun inconveniente, e i miei scrupoli non arrivano
sino a questo punto.»
«Infine, dato che non volete accordarmi di più, bisogna bene che mi
accontenti di quanto mi date. Ma, un’ultima parola, conte.»
«Cosa?»
«Un consiglio.»
«State in guardia: un consiglio è peggio che un favore.»
«Questo potete darmelo senza compromettervi.»
«Dite.»
«La dote che porta mia moglie è di cinquecentomila lire?»
«Questa almeno è la cifra che il signor Danglars mi ha detto.»
«La riceverò o dovrò lasciarla in deposito nelle mani del notaio?»
«In generale, ecco come si svolgono queste cose quando si vuole
succedano con certa eleganza. I vostri due notai prendono
appuntamento al contratto per domani o dopodomani. Domani o
dopodomani scambiano le doti, delle quali si danno mutua ricevuta;
quindi, celebrato il matrimonio, mettono i milioni a vostra
disposizione, come capo della famiglia.»
«La ragione è», iniziò Andrea, con un’inquietudine mal dissimulata,
«che mi sembrava di aver sentito dal mio futuro suocero che aveva
intenzione di investire i nostri fondi in quel famoso affare delle
ferrovie di cui mi parlavate.»
«Ebbene», riprese Montecristo, «questo, a quanto si assicura, è il
miglior mezzo perché i vostri capitali siano triplicati in un anno.
Il signor Danglars è un buon padre, e sa far bene i suoi conti.»
«Quindi», concluse Andrea, «va tutto bene, salvo il vostro rifiuto
che mi ferisce il cuore.»
«Non lo attribuite che a scrupoli naturalissimi in simili
circostanze.»
«Sia dunque fatto come volete. A stasera alle nove», disse Andrea.
«A stasera.»
E nonostante una leggera resistenza da parte di Montecristo, le cui
labbra impallidirono, malgrado il sorriso cerimonioso, Andrea prese
la mano del conte, la strinse, saltò sul carrozzino e scomparve. Le
quattro o cinque ore che gli restavano fino alle nove, Andrea le
impiegò in corse, in visite con gli amici di cui aveva parlato,
presentati al banchiere con tutto il lusso delle loro carrozze, e
congedati con la promessa di quelle azioni che in seguito fecero
girare tante teste, e di cui Danglars in quel momento sembrava
l’elargitore.
Alle otto e mezzo della sera, la sala di Danglars, la galleria
attigua a questa, e le altre tre sale di quel piano, erano piene di
una folla profumata, attirata non dalla simpatia, ma da
quell’irresistibile bisogno di ritrovarsi là dove si sa che accade
qualche cosa di nuovo. Un accademico direbbe che le serate in
società sono una collezione di fiori che attirano le incostanti api
affamate, insetti irrequieti. Non occorre dire che le sale erano
splendenti, che la luce scorreva a onde dai candelabri d’oro sulle
tende di seta e su tutti quei mobili di cattivo gusto, che non
avevano altro merito che la ricchezza sfolgorante in tutto il suo
splendore.
La signorina Eugénie era vestita con la più elegante semplicità: una
veste di seta bianca ricamata in bianco, una rosa bianca tra i
capelli neri d’ebano, componevano tutto il suo abbigliamento, non
arricchito da gioielli. Soltanto si poteva leggere nei suoi occhi
quella perfetta sicurezza destinata a smentire ciò che quell’abito
nuziale aveva di volgarmente verginale ai suoi occhi.
La signora Danglars, a trenta passi da lei, parlava con Debray,
Beauchamp e Château-Renaud. Debray era tornato in quella casa per
quella solennità, ma come tutti gli altri e senza alcun privilegio
particolare. Il signor Danglars, circondato da deputati e da uomini
della finanza, spiegava una nuova teoria di contribuzioni, che
contava di mettere in pratica quando la forza delle cose avrebbe
costretto il governo a chiamarlo al ministero. Andrea, tenendo
sottobraccio i più noti cicisbei dell’Opéra, spiegava loro con
frivola impertinenza, visto che aveva bisogno di essere ardito per
sembrare disinvolto, i suoi progetti per l’avvenire, e i progressi
che contava di fare, con le centosettantacinquemila lire di rendita,
nel vestirsi alla moda parigina. La folla si aggirava nelle sale:
dappertutto si notava che le donne meglio abbigliate erano le
vecchie, e le più brutte quelle che si mostravano con maggiore
ostentazione. Se v’era qualche bel giglio, qualche rosa soave e
profumata, bisognava cercarla o scoprirla nascosta in un angolo con
qualche madre in turbante o con una zia col cappellino stravagante.
Ogni tanto, in mezzo a quella calca, a quel mormorio, a quelle risa,
un cameriere lanciava un nome conosciuto nella finanza; rispettato
nell’esercito, o illustre nelle lettere, e allora un leggero moto
nei gruppi accoglieva quel nome. Nel momento in cui la sfera del
pendolo batteva le nove sul suo quadrante d’oro, e queste
scoccavano, risuonò anche il nome del conte di Montecristo e, come
svegliata da una scossa elettrica, tutta l’assemblea si voltò verso
la porta.
Il conte era vestito semplicemente di nero, con panciotto bianco e
cravatta nera. Si formò all’istante un cerchio intorno alla porta.
Il conte con una sola occhiata scoprì la signora Danglars a
un’estremità della sala, il signor Danglars all’altra, e la
signorina Eugénie davanti a lui. Si avvicinò prima alla baronessa
che parlava con la signora Villefort, ch’era venuta sola, Valentine
era ancora malata; si rivolse alla baronessa e a Eugénie a cui fece
i complimenti con termini così rapidi e riservati che l’orgogliosa
artista ne fu commossa. Vicino a lei era la signorina Louise
d’Armilly, che ringraziò il conte delle lettere di raccomandazione
che le aveva gentilmente dato per l’Italia, e di cui contava far
presto uso. Lasciando queste signore, si voltò e si trovò presso
Danglars, che si era avvicinato per stringergli la mano.
Compiuti questi convenevoli sociali, Montecristo si fermò puntando
ovunque quello sguardo sicuro, pieno di quella particolare
espressione della gente di società, e particolarmente di quella
snob, sguardo che sembra dire: «Io ho fatto il mio dovere con gli
altri, facciano gli altri il loro con me».
Andrea, che era in un salotto attiguo, avvertito dell’arrivo del
conte di Montecristo, corse a salutarlo. Lo trovò circondato da
molte persone che si disputavano le sue parole, come accade
generalmente alle persone che parlano poco, e che non dicono mai una
parola senza significato. I notai entrarono in quel momento, e
aprirono le loro carte sui velluti ricamati in oro che coprivano la
tavola preparata per le firme.
Uno dei notai sedette, l’altro rimase in piedi per procedere alla
lettura del contratto, che la metà di Parigi, presente a quella
solennità, doveva sottoscrivere. Ciascuno si sedette, o piuttosto le
donne fecero circolo, mentre gli uomini, più vicini a quello «stile
energico» di cui parla Boileau, fecero i loro commenti
sull’agitazione febbrile di Andrea, sull’attenzione del signor
Danglars, sull’impassibilità di Eugénie, e sul modo disinvolto e
scherzoso con cui la baronessa trattava quell’importante affare.
Il contratto fu letto in mezzo al più profondo silenzio. Ma
terminata la lettura, il bisbiglio ricominciò subito nelle sale.
Quelle somme, quei milioni dedicati all’avvenire dei due giovani, e
che completavano l’esposizione del corredo e dei diamanti della
giovane sposa in una sala apposita, avevano risuonato con tutto il
loro prestigio nell’invidiosa assemblea. Le grazie della signorina
Danglars ne venivano raddoppiate agli occhi dei giovani, e per il
momento eclissavano lo splendore del sole. In quanto alle donne, non
c’è bisogno di dirlo, mentre invidiavano quei milioni, si
consolavano dicendo di non averne bisogno per essere belle.
Andrea, stretto fra i suoi amici, complimentato, adulato, cominciava
a credere alla realtà del sogno che faceva. Andrea era sul punto di
perdere la testa.
Il notaio prese solennemente la penna fra le due dita, l’alzò sopra
la testa, e disse: «Signori, ora si sottoscrive il contratto».
Il barone doveva firmare per primo, quindi il rappresentante del
signor Cavalcanti padre, poi la baronessa, in seguito i futuri
coniugi. Il barone prese allora la penna e sottoscrisse, poi il
rappresentante del padre. La baronessa si avvicinò tenendo
sottobraccio la signora Villefort.
«Amica mia», le disse prendendo la penna, «non è terribile? Un
inatteso incidente, avvenuto in questo affare dell’assassinio e del
furto di cui il signor conte di Montecristo per poco non è rimasto
vittima, ci priva del piacere di avere il signor Villefort.»
«Mio Dio!» esclamò Danglars con lo stesso tono con cui avrebbe detto
«La cosa mi è del tutto indifferente!»
«Sì», disse Montecristo nell’avvicinarsi, «credo di essere io la
causa involontaria di questa assenza.»
«Come, voi conte?» si stupì la signora Danglars firmando. «Se fosse
vero, guardatevene, non ve lo perdonerò mai.»
«Non è certamente per colpa mia», rispose il conte, «e desidero
provarlo.»
Quindi aggiunse in mezzo al più profondo silenzio: «Vi ricorderete
che fu in casa mia che morì quel disgraziato che era venuto per
derubarmi, e che scappando fu ucciso, a quanto si crede, dal suo
complice?»
«Sì», disse Danglars.
«Ebbene, per portargli aiuto fu spogliato, e i suoi abiti furono
gettati in un angolo dove li raccolse la polizia… Ma la polizia,
prendendo l’abito e i calzoni per depositarli in tribunale, aveva
dimenticato il panciotto.»
Andrea impallidì visibilmente, e si ritirò verso la porta. Vedeva
comparire una nube all’orizzonte, e quella nube gli sembrava
racchiudere una tempesta.
«Ebbene, oggi è stato ritrovato quel disgraziato panciotto, tutto
coperto di sangue e forato sopra il cuore.»
Le dame mandarono un grido, e due o tre di loro si prepararono a
svenire.
«L’hanno portato a me. Nessuno sapeva da dove venisse quel cencio, e
io solo pensai che fosse probabilmente il panciotto della vittima. A
un tratto il mio cameriere, frugando con ribrezzo e precauzione
nell’indumento, ha sentito una carta nella tasca: un biglietto
diretto… Indovinate un po’ a chi, barone?… Diretto a voi.»
«A me?» gridò Danglars.
«Sì, a voi… Sono riuscito a leggere il vostro nome attraverso il
sangue di cui è macchiato quel biglietto», rispose Montecristo in
mezzo alla sorpresa generale.
«Ma», domandò la signora Danglars, guardando il marito con
inquietudine, «in che modo ciò impedisce al signor Villefort?…»
«È semplicissimo, signora», rispose Montecristo. «Quel panciotto e
quella lettera erano le cosiddette prove del delitto; l’uno e
l’altra li ho inviati al regio procuratore. Capirete, mio caro
barone, la via legale è la più sicura in materia criminale, e poteva
trattarsi di qualche macchinazione contro di voi.»
Andrea guardò Montecristo, e si ritirò nella seconda sala.
«È possibile», ammise Danglars. «Quell’uomo assassinato non era un
vecchio forzato?»
«Sì», rispose il conte, «un vecchio forzato, Caderousse.»
Danglars impallidì leggermente, Andrea lasciò la seconda sala, ed
entrò in anticamera.
«Ma firmate dunque, firmate», disse Montecristo. «Mi accorgo che il
mio racconto ha messo tutti in agitazione, e ne domando umilmente
perdono a voi, signora baronessa e alla signorina Danglars.»
La baronessa, che aveva firmato, restituì la penna al notaio.
«Signor principe Cavalcanti», domandò il notaio, «signor principe
Cavalcanti, dove siete?»
«Andrea! Andrea!» ripeterono molte voci di giovani, già arrivati a
quel grado d’intimità col nobile italiano da chiamarlo col nome di
battesimo.
«Chiamate dunque il principe! Avvertitelo che tocca a lui firmare!»
gridò Danglars a un cameriere.
Ma nel medesimo istante la folla spaventata rifluì nella sala
principale, come se qualche terribile mostro fosse entrato negli
appartamenti, «cercando chi doveva divorare».
Un ufficiale della gendarmeria disponeva due gendarmi alla porta di
ciascuna sala, e avanzava verso Danglars, preceduto da un
commissario di polizia. La signora Danglars gettò un grido e svenne.
Il signor Danglars, che si credeva minacciato (certe coscienze non
sono mai tranquille), offrì agli occhi dei suoi invitati un viso
sconvolto dal terrore.
«Che c’è dunque signore?» domandò Montecristo avvicinandosi al
commissario.
«Chi di voi, signori» chiese il magistrato senza rispondere al
conte, «si chiama Andrea Cavalcanti?»
Un grido di stupore salì da tutti gli angoli della sala. Si cercò,
si interrogò.
«Ma chi è dunque questo Andrea Cavalcanti?» domandò Danglars quasi
fuori di sé.
«Un forzato fuggito dalle galere di Tolone.»
«E che delitto ha commesso?»
«È accusato», rispose il commissario con voce impassibile, «di avere
assassinato Caderousse, suo compagno di cella, nel momento in cui
questi uscì dalla casa del conte di Montecristo.»
Montecristo gettò uno sguardo intorno a sé; Andrea era scomparso.
96. La strada del Belgio
Pochi istanti dopo la scena verificatasi nelle sale del signor
Danglars, l’ampio palazzo si era svuotato con una rapidità
paragonabile a quella che avrebbe prodotto l’annuncio di un caso di
peste in mezzo agli invitati: in pochi minuti, da tutte le porte, da
tutte le uscite, ognuno si era affrettato a ritirarsi, o piuttosto a
fuggire; era una di quelle circostanze in cui non si può nemmeno
tentare di dare una di quelle cerimoniose consolazioni solite a
darsi nelle grandi catastrofi.
Nel palazzo del banchiere erano rimasti soltanto Danglars, chiuso
nel suo studio a rilasciare la deposizione fra le mani del
sottufficiale di gendarmeria; la signora Danglars spaventata, nel
salotto che conosciamo, ed Eugénie che, con lo sguardo altero e una
smorfia sdegnosa, si era ritirata nella sua camera con
l’inseparabile compagna, Louise d’Armilly. In quanto ai domestici,
più numerosi ancora del solito quella sera, perché erano stati
aggiunti in occasione della festa i sorbettieri, i cerimonieri e i
maître del Café de Paris, riversando contro il padrone la collera
per il cosiddetto affronto ricevuto, se ne stavano a gruppi nelle
cucine, nelle stanze, protestando non poco per il servizio
interrotto.
Tra questi differenti personaggi, angosciati ognuno per diversi
motivi, due soli meritano che ce ne occupiamo: Eugénie Danglars e
Louise d’Armilly. La giovane fidanzata, come abbiamo detto, si era
ritirata con aria altera e sdegnata, e col comportamento di regina
oltraggiata, seguita dalla sua compagna più pallida e più commossa
di lei. Giungendo nella sua camera, Eugénie chiuse la porta dal di
dentro, mentre Louise si lasciava cadere su una poltrona.
«Dio mio, che cosa orribile!» esclamò la giovane musicista. «Chi
l’avrebbe immaginato? Il signor Andrea Cavalcanti… assassino…
fuggito dalla galera… un carcerato!»
Un sorriso ironico increspò le labbra di Eugénie.
«A dire il vero, sembra un destino», disse. «Sfuggo da Morcerf per
imbattermi in Cavalcanti!»
«Non confondiamo l’uno con l’altro, Eugénie!»
«Taci! Tutti gli uomini sono infami, e io sono felice di poter fare
di più che detestarli: ora li disprezzo.»
«Che faremo?» domandò Louise.
«Che faremo? Ciò che dovevamo fare fra tre giorni, partire.»
«Così, anche se non ti sposi più, vuoi sempre…»
«Ascolta, Louise, mi disgusta questa vita sempre ordinata, misurata,
regolata come un foglio di musica. Ciò che sempre ho desiderato,
voluto, ciò che ha formato sempre la mia ambizione, è la vita
dell’artista, la vita libera, indipendente, in cui non si deve
render conto ad altri che a sé. Restare, per fare che? Perché
tentino fra un mese di sposarmi di nuovo? A chi? Al signor Debray,
forse, come se ne fece già parola? No, Louise, no, l’avventura di
questa sera mi servirà di scusa. Io nulla cercavo, nulla domandavo;
Dio mi ha inviato questo incidente, sia il benvenuto!»
«Come sei forte e coraggiosa!»
«Non mi conosci dunque ancora? Vediamo, Louise, parliamo dei nostri
affari. La carrozza da posta…»
«Ci aspetta da tre giorni.»
«L’hai fatta portare dove dobbiamo prenderla?»
«Sì.»
«Il nostro passaporto?»
«Eccolo.»
Ed Eugénie, con la sua abituale freddezza, aprì il documento e
lesse: «Signor Léon d’Armilly, dell’età di venti anni, professione
artista, capelli neri, occhi neri; viaggia con sua sorella.
Perfetto! Come te lo sei procurato?»
«Andando dal signore di Montecristo a chiedere lettere di
raccomandazione per gli impresari dei teatri di Roma e di Napoli, ho
espresso i miei timori nel viaggiare come donna; egli allora promise
di procurarmi un passaporto da uomo, e due giorni dopo ho ricevuto
questo, al quale ho aggiunto di mia mano: viaggia con sua sorella.»
«Ebbene, non ci rimane che fare i nostri bauli: partiremo la sera
della firma del contratto, invece di partire la sera delle nozze,
ecco tutto.»
«Riflettici bene, Eugénie.»
«Ho riflettuto a sufficienza, sono stanca di sentire parlare di
riporti, di scadenze, di rialzo e di ribasso dei fondi spagnoli, dei
titoli di Haiti. Invece di tutto ciò, Louise, comprendi?, l’aria, la
libertà, il canto degli uccelli, le pianure della Lombardia, i
canali di Venezia, i palazzi di Roma, la spiaggia di Napoli. Quanto
possediamo, Louise?»
La giovane prese da un armadio intarsiato un piccolo portafoglio, lo
aprì, e contò ventitré biglietti di banca.
«Ventitremila franchi», disse.
«E altrettanto almeno in perle, diamanti e gioielli», calcolò
Eugénie. «Siamo ricche. Con quarantacinquemila franchi avremo di che
vivere da principesse per due anni, e decentemente per quattro. Ma
prima di sei mesi, tu con la tua musica, io con la mia voce, avremo
raddoppiato il nostro capitale. Tu terrai il denaro, io i gioielli,
in modo che, se una di noi due avesse la disgrazia di perdere il suo
tesoro, l’altra avrebbe sempre il suo. Ora la valigia, presto, la
valigia!»
«Aspetta», disse Louise, andando ad ascoltare alla porta della
signora Danglars.
«Cosa temi?»
«Che ci sorprenda qualcuno.»
«La porta è chiusa.»
«E se ci ordinano d’aprire?»
«Che l’ordinino se vogliono, noi non apriremo.»
«Tu sei una vera amazzone, Eugénie.»
E le due giovani si misero a infilare velocemente in un baule tutti
gli oggetti da viaggio di cui credevano aver bisogno.
«Ecco fatto», disse Eugénie. «Ora, mentre mi cambio d’abito, tu
chiudi la valigia.»
«Ma non ho abbastanza forza: chiudila tu.»
«È vero», disse ridendo Eugénie, «dimenticavo che io sono Ercole, e
tu sei la pallida Onfale.»
E la ragazza, appoggiando il ginocchio sul coperchio del baule, fece
forza fino a che il gancio non passò nei due anelli. Terminata
questa operazione, Eugénie aprì un cassetto, di cui portava addosso
la chiave, prese un mantello da viaggio di seta viola.
«Prendi», disse. «Vedi che ho pensato a tutto, con questo mantello
non avrai freddo.»
«Ma tu?»
«Io non ho mai freddo, lo sai bene; d’altra parte con questi abiti
da uomo…»
«Ti vesti qui?»
«Sì.»
«Abbiamo tempo?»
«Non temere; tutti sono preoccupati per il fattaccio. D’altra parte,
chi vuoi che si stupisca, quando si pensa alla grande disperazione
in cui dovrei essere, che io mi sia rinchiusa qui dentro?»
«Tu mi tranquillizzi…»
«Vieni, aiutami.»
E dal medesimo cassetto dal quale aveva tratto il mantello per la
signorina d’Armilly, e col quale questa si era coperta le spalle,
tolse un completo da uomo, dagli stivaletti fino al cappello, con
una scorta di biancheria in cui non c’era niente di superfluo, ma
non mancava nulla del necessario.
Allora con una sveltezza da far intuire che, senza dubbio, non era
la prima volta che vestiva abiti dell’altro sesso, Eugénie calzò gli
stivaletti, infilò i pantaloni, si annodò la cravatta, abbottonò
fino al collo un panciotto a due petti, e indossò un soprabito che
delineava la corporatura snella e ben fatta.
«Perfetta», commentò Louise guardandola con ammirazione. «Ma questi
bei capelli, queste trecce magnifiche che facevano sospirare
d’invidia tutte le donne, potranno stare raccolte sotto un cappello
da viaggio come questo?»
«Adesso vedrai», disse Eugénie.
E afferrando con la mano sinistra la folta treccia, sulla quale
arrivavano a stento a chiudersi le sue lunghe dita, con la destra
prese un paio di forbici, e ben presto l’acciaio stridette in mezzo
alla lunga e splendida chioma, che cadde tutta intera ai piedi della
ragazza. Quindi tagliata la treccia superiore, passò alle tempie, e
tagliò senza lasciarsi sfuggire il minimo gesto di dispiacere, anzi
gli occhi brillavano più vivi e allegri sotto le sopracciglia nere
come l’ebano.
«Oh quei capelli magnifici!» esclamò Louise dispiaciuta.
«Non sto cento volte meglio così?» gridò Eugénie lisciandosi le
ciocche della sua capigliatura mascolina. «Non mi trovi ancora più
bella?»
«Sempre bella!» gridò Louise. «Ora dove andiamo?»
«A Bruxelles, la frontiera più vicina; raggiungeremo Bruxelles,
Liegi, Aix-la-Chapelle, risaliremo il Reno fino a Strasburgo,
attraverseremo la Svizzera, e scenderemo in Italia per il San
Gottardo: ti va bene così?»
«Sì.»
«Ma che cosa guardi?»
«Guardo te. Sei adorabile! Si direbbe che stai per rapirmi.»
«E avrebbero ragione.»
«Cominci a cospirare, Eugénie!»
E le due, che chiunque avrebbe creduto immerse nelle lacrime,
scoppiarono in una risata, facendo scomparire tutte le tracce
visibili del disordine che naturalmente aveva accompagnato i
preparativi della loro evasione. Quindi, spenti i lumi, con l’occhio
vigile, l’orecchio attento, il collo teso, le due fuggitive aprirono
la porta di uno spogliatoio che portava a una scala interna e di là
fino al cortile: Eugénie camminava davanti, sostenendo con un
braccio la valigia portata dalla signorina d’Armilly con entrambe le
mani.
Suonava mezzanotte, il cortile era vuoto, ma il portinaio vegliava
ancora. Eugénie si accostò pian piano, e vide dai vetri lo svizzero
che dormiva in fondo alla loggia sdraiato sul sofà. Ritornò verso
Louise, riprese il baule, che per un istante aveva deposto in terra,
ed entrambe, seguendo l’ombra proiettata dal muro, raggiunsero il
peristilio. Eugénie fece nascondere Louise in un angolo della porta,
in modo che il portinaio, se per caso si fosse alzato, non vedesse
che una persona. Quindi offrendosi al pieno raggio del lampione che
illuminava il cortile, gridò con la sua più bella voce da contralto,
battendo sul vetro: «La porta!»
Il portinaio si alzò, come aveva previsto Eugénie, e fece ancora
qualche passo per riconoscere la persona che usciva, ma vedendo un
uomo che batteva spazientito lo scudiscio sui calzoni, aprì
immediatamente. Louise subito strisciò come una biscia dalla porta
semiaperta. Eugénie, calma di speranza, anche se, con ogni
probabilità, il suo cuore battesse rapidamente, uscì a sua volta. Un
fattorino fu incaricato di portare il baule; quindi le due giovani
gli indicarono come meta rue de la Victoire 36. Così s’incamminarono
dietro a quest’uomo, la cui presenza tranquillizzava Louise; in
quanto a Eugénie, era forte come Giuditta o come Dalila.
Giunta al numero indicato, Eugénie ordinò al fattorino di deporre il
baule, gli regalò alcune monete, e dopo aver battuto a una persiana,
lo congedò. La persiana era quella di una piccola lavandaia
avvertita anticipatamente, che non era ancora andata a dormire. Aprì
lei stessa.
«Signorina», disse Eugénie, «fate tirar fuori dal portinaio la
carrozza, e mandate a prendere i cavalli alla posta. Ecco cinque
franchi per il disturbo.»
«Sai», disse Louise, «ti ammiro, e direi quasi ti invidio.»
La lavandaia guardava stupita, ma siccome le avevano promesso venti
luigi non fece la minima osservazione. Un quarto d’ora dopo, il
portinaio tornava col postiglione e i cavalli, che in un minuto
furono attaccati alla carrozza, sulla quale il portinaio assicurò il
baule per mezzo di una corda.
«Ecco il passaporto», disse il postiglione. «Che strada prendiamo,
giovanotto?»
«La strada di Fontainebleau», rispose Eugénie con voce quasi
maschile.
«Che dici?» domandò Louise.
«Una piccola bugia», disse Eugénie. «Questa donna, alla quale diamo
venti luigi, può tradirci per quaranta: sul boulevard prenderemo
un’altra direzione.»
E la ragazza salì in carrozza, preparata con tutti i comodi, senza
neppure toccare il predellino. Un quarto d’ora dopo, il postiglione,
rimesso sul diritto sentiero, oltrepassava, facendo scoppiettare la
frusta, il cancello della barriera Saint-Martin.
«Eccoci dunque uscite da Parigi», disse Louise sospirando.
«Sì, mia cara, e il rapimento è bello che combinato», aggiunse
Eugénie.
«Sì, ma senza violenza», disse Louise.
«La riterrò una circostanza attenuante.»
Queste parole si perdettero nel rumore che faceva la carrozza sul
selciato della Villette. Il signor Danglars non aveva più una
figlia.
97. L’osteria della Campana e della Bottiglia
Lasciamo la signorina Danglars e la sua amica mentre corrono sulla
strada di Bruxelles, e torniamo al povero Andrea Cavalcanti, così
goffamente rovinato dalla sua fortuna. Nonostante la sua giovane
età, Andrea Cavalcanti era svelto e intelligente. Quindi, alle prime
voci giunte nelle sale, lo abbiamo visto lentamente e cautamente
accostarsi alla porta, attraversare una o due stanze, e infine
scomparire. Una circostanza che abbiamo dimenticato di menzionare, e
non va omessa, è che in una di quelle due stanze che doveva
attraversare era esposto il corredo della sposa: scrigni di
diamanti, scialli di cachemire, merletti di Valenciennes, veli
d’Inghilterra, e ogni sorta di oggetti tentatori, al cui nome
soltanto salta di gioia il cuore delle signorine da marito, e che
concorre a formare ciò che si chiama la dote di nozze.
Ora, passando da questa camera, e tal cosa prova che non solo il
giovane era molto svelto e intelligente, ma anche molto previdente,
egli afferrò l’astuccio che conteneva la più ricca parure di
brillanti fra quelle esposte. Munito di questo viatico, Andrea si
era sentito più coraggioso nel saltare dalla finestra, e fuggire
dalle mani dei gendarmi. Alto e snello come l’antico gladiatore,
muscoloso come uno spartano, Andrea aveva fatto una corsa di un
quarto d’ora senza sapere dove andava, e allo scopo soltanto
d’allontanarsi dal luogo, dove per poco non era stato arrestato.
Partendo dalla rue Mont Blanc, si era ritrovato in fondo alla rue
Lafayette. Là, senza fiato e ansimante, si fermò: era solo, e aveva
alla sinistra il recinto di Saint-Lazare, vasto, deserto; alla sua
destra, Parigi in tutta la sua estensione.
«Sono perduto?» domandò a se stesso. «No, ho a mia disposizione un
tempo superiore a quello dei miei nemici. La mia salvezza è dunque
semplicemente una questione di chilometri.»
In quel momento scoprì, salendo per il Faubourg Poissonnière, una
carrozza da piazza, il cui cocchiere pensieroso, fumando la sua
pipa, sembrava voler raggiungere l’estremità opposta del Faubourg
Saint-Denis, dove, senza dubbio, solitamente parcheggiava.
«Ehi, amico!» disse Benedetto.
«Che c’è, giovanotto?» domandò il cocchiere.
«È stanco il vostro cavallo?»
«Stanco? Come no?! Non ha fatto niente per tutto il giorno. Quattro
brutte corse e venti soldi di mancia, in tutto sette franchi, e devo
darne dieci al padrone!»
«Volete aggiungerne altri venti a questi sette franchi»?
«Con piacere, venti franchi non sono da buttare. Dove andate?
Sentiamo.»
«Facilissimo, sempre che il vostro cavallo non sia stanco.»
«Vi dico che volerà come zefiro… Tutto sta a sapere da quale parte
volete che vada.»
«Dalla parte di Louvres.»
«Lo conosco: il paese del ratafià.»
«Esattamente. Si tratta di raggiungere un amico, col quale domani
mattina debbo andare a caccia a Chapelle-en-Serval. Doveva
aspettarmi qui fino alle undici e mezzo, è mezzanotte, si sarà
stancato di aspettarmi, e sarà partito solo.»
«È probabile.»
«Ebbene, volete tentare di raggiungerlo?»
«Non chiedo di meglio.»
«Se non lo raggiungiamo prima di Bourget, avrete venti franchi. Se
non lo raggiungiamo prima di Louvres, trenta.»
«E se lo raggiungiamo?»
«Quaranta!» disse Andrea, che dopo un momento di esitazione, aveva
pensato che non rischiava niente a promettere.
«Va bene!» disse il cocchiere. «Salite, e partiamo!»
Andrea salì sul calesse che, con una rapida corsa, attraversò il
Faubourg Saint-Denis, costeggiò il Faubourg Saint-Martin, passò la
barriera, e infilò la interminabile Villette. Ma sì, aveva un bel
correre per raggiungere l’amico che non era mai esistito. Di tratto
in tratto, alle bettole ancora aperte, Cavalcanti chiedeva
informazioni su un calesse verde, con un cavallo baio scuro, e,
siccome sulla strada dei Paesi Bassi circola un buon numero di
vetture che per nove decimi sono verdi, tutti lo avevano sempre
visto passare poco prima, non poteva essere lontano più di
cinquecento passi, più di duecento, più di cento; ma raggiuntolo, lo
oltrepassavano, perché non era quello.
Una volta passò un calesse, rapidamente tirato da due buoni cavalli
da posta.
«Ah», disse fra sé Cavalcanti. «Se avessi quel calesse, quei due
buoni cavalli, e soprattutto il passaporto che ci vuole per
prenderli!» E sospirò profondamente. Quel calesse era quello che
trasportava la signorina Danglars e la signorina d’Armilly.
«Presto! presto!» incitò Andrea. «Non possiamo tardare a
raggiungerlo.»
Il povero cavallo riprese il trotto, e giunse ansimante a Louvres.
«Mi accorgo», disse Andrea, «che non è possibile raggiungere il mio
amico, e che ammazzerei il vostro cavallo, è quindi meglio che mi
fermi. Ecco i vostri trenta franchi. Me ne vado a dormire al Cheval
Rouge, e la prima carrozza nella quale troverò un posto, la
prenderò. Buonanotte, amico.»
E Andrea, dopo aver messo sei monete da cinque franchi nella mano
del cocchiere, saltò lestamente sulla strada. Il cocchiere si mise
allegramente il denaro il tasca, e riprese lentamente la strada di
Parigi.
Andrea finse di andare al Cheval Rouge ma, dopo essersi fermato un
istante alla porta, aspettando che il rumore del calesse si perdesse
nella campagna, riprese la strada, e con passo elastico e
sveltissimo, fece una corsa di almeno due leghe. Là si riposò;
doveva esser vicino a Chapelle-en-Serval, dove aveva detto di voler
arrivare.
Non era per la fatica che si fermava Andrea Cavalcanti, ma per
bisogno di prendere una decisione, per la necessità di adottare un
piano. Salire su una diligenza era impossibile, prendere la posta,
impossibile ugualmente. Per viaggiare nell’uno o nell’altro modo, il
passaporto è la prima necessità. Restare nel dipartimento dell’Oise,
vale a dire in uno dei dipartimenti più frequentati e più
sorvegliati di Francia, era ugualmente impossibile, impossibile
soprattutto per un uomo come Andrea, che aveva a che fare con la
giustizia.
Andrea sedette sulle rive di un fosso, si prese la testa fra le mani
e rifletté. Dieci minuti dopo rialzò la testa: la decisione era
presa. Si coprì di polvere una parte del soprabito che aveva avuto
il tempo di prendere nell’anticamera, lo abbottonò del tutto in modo
da nascondere l’abito da sera e giungendo alla Chapelle-en-Serval
corse a bussare alla porta del solo albergo del paese.
L’oste venne ad aprire.
«Signore», iniziò Andrea, «stavo andando da Mortefontaine a Senlis,
quando il mio cavallo, che è un animale cattivo, s’è imbizzarrito e
mi ha disarcionato. Devo raggiungere stanotte Compiègne per non far
preoccupare la mia famiglia. Avreste un cavallo da darmi a nolo?»
Buono o cattivo, un albergatore ha sempre un cavallo, per cui
l’albergatore della Chapelle-en-Serval chiamò lo stalliere, gli
ordinò di sellare il Bianco, e svegliò suo figlio, un bambino di
sette anni che doveva montare in groppa col signore, per ricondurre
il quadrupede.
Andrea pagò venti franchi all’albergatore, e sfilandoli di tasca,
lasciò cadere un biglietto da visita. Quel biglietto da visita era
quello di uno dei suoi amici del Café de Paris, e così
l’albergatore, quando Andrea se ne andò, ed ebbe raccolto il
biglietto caduto di tasca, fu convinto di aver dato il suo cavallo
al conte di Mauléon, rue Saint-Dominique 25: il nome e l’indirizzo
che si trovavano sul biglietto.
Se il Bianco non andava di galoppo, andava però con passo costante:
in tre ore e mezzo Andrea fece le nove leghe che lo separavano da
Compiègne; suonavano le quattro, quando giunse sulla piazza dove si
fermano le diligenze.
A Compiègne vi è un eccellente albergo, di cui si ricordano anche
quelli che vi hanno alloggiato una sola volta. Andrea, che vi si era
fermato in occasione di una corsa nei dintorni di Parigi, si ricordò
dell’albergatore della Campana e della Bottiglia. Si orizzontò, vide
al chiarore del lampione l’insegna e dopo aver congedato il bambino,
al quale regalò quanto aveva di moneta, andò a battere alla porta,
riflettendo con molta perspicacia, che aveva tre o quattro ore di
vantaggio, e che il meglio era premunirsi con un buon sonno e una
buona cena contro le fatiche future.
Il cameriere gli venne ad aprire.
«Signore», esordì Andrea, «arrivo da Saint Jean du Bois, dove ho
cenato, contavo di prendere la carrozza che passa a mezzanotte, ma
mi sono perso come uno stupido, e sono già quattro ore che vago
nella foresta. Datemi una di quelle camere che danno sul cortile, e
vedete di portarmi un pollo freddo e una bottiglia di Bordeaux.»
Il cameriere non ebbe alcun sospetto: Andrea parlava con calma,
aveva il sigaro in bocca e le mani nelle tasche dell’abito; aveva
l’aspetto di un persona in ritardo, ecco tutto.
Mentre il cameriere preparava la camera, l’ostessa si alzò. Andrea
l’accolse col più grazioso sorriso, e le domandò se poteva avere la
camera numero 3 in cui aveva dormito l’ultima volta che era passato
da Compiègne; disgraziatamente la numero 3 era occupata da un
giovane che viaggiava con sua sorella.
Andrea sembrò disperato, ma si consolò quando l’ostessa lo rassicurò
che gli stavano preparando la numero 7, quindi scaldandosi i piedi e
parlando delle ultime corse di Chantilly, aspettò che l’avvisassero
che la camera era in ordine.
Non senza ragione Andrea aveva parlato di quei begli appartamenti
che davano sul cortile. Il cortile dell’albergo della Campana aveva
una triplice fila di gallerie che gli davano l’aspetto di un
anfiteatro, con i suoi gelsomini e le sue clematidi che salivano
lungo le colonne, leggere come una decorazione naturale: è uno dei
più graziosi ingressi d’albergo ch’esistano al mondo.
Il pollo era delizioso, il vino vecchio, il fuoco ardente e
scoppiettante; Andrea, cenando, fu sorpreso del buon appetito che
aveva, come se nulla gli fosse accaduto. Quindi andò a letto, e si
addormentò subito con quel sonno implacabile che l’uomo a vent’anni
trova sempre, anche quando ha rimorsi. Ora siamo costretti a
confessare che Andrea avrebbe dovuto avere dei rimorsi, ma che non
ne aveva.
Ecco qual era il piano di Andrea, piano che gli aveva infuso quasi
tutta la sua sicurezza. Il giorno seguente si sarebbe alzato,
sarebbe partito dall’albergo, dopo avere pagato scrupolosamente i
suoi conti; si sarebbe nascosto nella foresta, avrebbe ottenuto,
spacciandosi per pittore dilettante, l’ospitalità di un paesano; si
sarebbe procurato un abito da campagnolo, spogliandosi
dell’apparenza di ricco per prendere quella dell’artista; quindi con
le mani sporche di terra, i capelli imbruniti dalla polvere del
piombo, con la carnagione alterata da una preparazione di cui i suoi
vecchi compagni gli avevano dato la ricetta, di foresta in foresta
avrebbe poi raggiunto la frontiera più vicina, camminando la notte,
dormendo il giorno nel bosco, senza avvicinarsi ai luoghi abitati
che per comprare del pane. Una volta superata la frontiera, Andrea
avrebbe trasformato in denaro i suoi diamanti, e aggiunto, al prezzo
che ne avrebbe ricavato, una decina di biglietti di banca che
portava sempre con sé per qualsiasi inconveniente, si sarebbe
trovato ancora padrone di circa cinquantamila franchi.
D’altronde contava molto sull’interesse dei Danglars di soffocare le
dicerie della loro disavventura. Ecco perché, oltre la stanchezza,
Andrea si addormentò così presto e bene. D’altronde, per esser
sveglio di buon mattino, Andrea non aveva chiuso le persiane; si era
soltanto accontentato di mettere il catenaccio alla porta, e di
tenere aperto, sul tavolino da notte, un certo coltello, di cui
conosceva l’eccellente fattura, e che non lasciava mai.
Verso le sette del mattino Andrea fu svegliato da un raggio di sole,
che veniva tiepido e brillante a infastidirgli il viso.
In tutti i cervelli all’erta c’è sempre un’idea dominante, ed è
quella che s’addormenta per ultima e appare per prima al risveglio.
Andrea non aveva ancora interamente aperti gli occhi, che un
pensiero già lo possedeva, e gli soffiava all’orecchio: aveva
dormito troppo. Saltò giù dal letto, e corse a una finestra.
Un gendarme attraversava il cortile. Un gendarme è una di quelle
apparizioni che fanno sempre sensazione, anche all’occhio d’un uomo
onesto, ma per ogni coscienza inquieta, e che ha motivo di esserlo,
il giallo, l’azzurro e il bianco dell’uniforme diventano colori
spaventosi.
«Perché un gendarme?…» si chiese Andrea.
Quindi d’un tratto si disse, con quella logica che il lettore ha già
notato in lui: «Non c’è motivo di meravigliarsi se c’è un gendarme
in un’osteria: su, vestiamoci».
E il giovane si vestì con una rapidità che non aveva perduto,
malgrado fosse stato accudito dal suo cameriere durante i pochi mesi
di vita elegante a Parigi.
«Bene!» pensò Andrea vestendosi. «Aspetterò che se ne sia andato, e
quando sarà sparito, me la filerò anch’io.»
E, mentre pensava quelle parole, Andrea tornò alla finestra e
sollevò una seconda volta la tendina. Non solo il primo gendarme non
se n’era andato, ma il giovane scoprì un’altra uniforme azzurra,
gialla e bianca alla fine della scala, la sola da cui si poteva
scendere, e un terzo gendarme a cavallo, e con la carabina in mano,
di sentinella sulla porta di strada, la sola da cui si poteva
uscire.
Questo terzo gendarme era fondamentale, perché davanti a lui c’era
un semicerchio di curiosi che bloccava ermeticamente la porta
dell’albergo.
«Mi cercano, maledizione!» fu il primo pensiero di Andrea.
Il pallore sbiancò la fronte del giovane, che si guardò intorno con
ansia. La sua camera non aveva altra uscita che sulla loggia esterna
esposta agli sguardi di tutti.
«Sono perduto!» fu il secondo pensiero.
Infatti, per un uomo nella situazione di Andrea, l’arresto voleva
dire: processo, giudizio, morte, morte senza misericordia e senza
scampo. Per un istante si prese la testa fra le mani. Poco mancò che
non diventasse pazzo di paura. Ma ben presto da quella folla di
pensieri contrastanti, uscì un lume di speranza; un pallido sorriso
si delineò sulle sue labbra tremanti e sulle guance contratte.
Guardò intorno a sé: vide su un tavolino gli oggetti che cercava,
erano penna, calamaio e carta. Bagnò la penna nell’inchiostro e
scrisse, con mano che cercò di rendere ferma, le seguenti righe sul
primo foglio: «Non ho denaro per pagare, ma sono un uomo onesto;
lascio in pegno questa spilla che vale dieci volte la spesa che ho
fatto; chiedo scusa per essere fuggito allo spuntar del giorno, ma
mi vergogno!»
Si tolse la spilla della cravatta, e la depose sul foglio. Fatto
ciò, invece di lasciare chiusi i catenacci, li aprì, socchiuse anzi
la porta, come fosse uscito dalla camera dimenticando di chiuderla,
e arrampicandosi su per la cappa del camino, come uomo già avvezzo a
questa specie di ginnastica, attirò il paracamino, cancellò coi
piedi anche la traccia dei passi nella stanza, e scalò la cappa che
gli offriva la sola via di salvezza nella quale sperasse ancora.
In quel momento il primo gendarme che aveva colpito la vista di
Andrea, saliva la scala preceduto da un commissario di polizia, e
seguito dal secondo gendarme che controllava l’estremità della
scala, e che aveva sempre le spalle coperte dal terzo che stava alla
porta.
Ecco a quale circostanza Andrea doveva quella visita, tanto ingrata
e dalla quale si era voluto così faticosamente sottrarre. Al sorgere
del giorno i telegrafi erano stati messi in moto in tutte le
direzioni, e quasi immediatamente la gendarmeria si era posta alla
ricerca dell’assassino di Caderousse.
Compiègne, residenza reale, Compiègne, città di caccia, Compiègne,
città di guarnigione, è abbondantemente provvista di gendarmi e di
commissari di polizia. Le indagini erano dunque cominciate subito
dopo l’ordine telegrafico, e, essendo l’osteria della Campana e
della Bottiglia la prima della città, si era naturalmente
incominciato da quella. D’altronde, dal rapporto delle sentinelle
che erano state di guardia durante la notte, risultava che diversi
viaggiatori erano scesi al detto albergo.
La sentinella che era stata di guardia fino alle sei del mattino si
ricordava ancora che al momento in cui era cominciato il suo turno,
cioè alle quattro e alcuni minuti, aveva visto un giovane su un
cavallo bianco, con un piccolo contadino in groppa, andare a bussare
all’albergo della Campana, entrarvi, e dopo chiudersi la porta alle
spalle. Su questo giovane, che era arrivato così tardi, si erano
appuntati tutti i sospetti. E questo giovane non era altri che
Andrea. Per la certezza di questi dati, il commissario di polizia e
il gendarme, che era un brigadiere, si incamminavano verso la porta
di Andrea con una certa circospezione.
Trovarono la porta socchiusa.
«Oh-oh», disse il brigadiere, vecchia volpe allevata tra le furberie
dello Stato, «cattivo indizio, una porta aperta! Avrei preferito
fosse chiusa con triplice catenaccio.»
Infatti la piccola lettera e la spilla lasciati da Andrea sulla
tavola confermarono, o piuttosto avallarono la supposizione: Andrea
era fuggito. Noi diciamo confermarono, ma il brigadiere non era uomo
da arrendersi all’evidenza. Si guardò intorno, scrutò sotto il
letto, scostò le tende, aprì gli armadi, e finalmente si fermò al
caminetto.
Date le precauzioni di Andrea, nelle ceneri non era rimasta alcuna
traccia del suo passaggio. Però era un’uscita possibile, e in simili
circostanze, tutte le uscite devono essere controllate
minuziosamente. Il brigadiere si fece dunque portare una fascina e
della paglia, ne fece un involto, l’infilò nel caminetto come
avrebbe fatto in un mortaio per una bomba, e vi appiccò il fuoco. Il
fuoco fece crepitare le pareti della cappa: una colonna opaca di
fumo si slanciò su per il condotto, e salì verso il cielo come il
tetro getto di un vulcano, ma non vide cadere il prigioniero, come
si aspettava.
Per questo Andrea, in lotta con la società fino dalla giovinezza, ci
voleva altro che un gendarme, fosse anche elevato al grado
rispettabile di brigadiere. Prevedendo l’incendio, era salito sul
tetto e si era nascosto dietro il comignolo.
Per il momento ebbe qualche speranza di essersi salvato, perché
intese il brigadiere che, chiamando i due compagni, diceva loro ad
alta voce: «Non c’è più!» Ma allungando cautamente il collo, vide i
due gendarmi che, invece di ritirarsi, come sembrava naturale, vide,
dicevamo, i due gendarmi raddoppiare l’attenzione. Allora, a sua
volta, girò intorno a sé lo sguardo: il municipio, fabbrica
colossale del XVI secolo, s’innalzava come un tetro muro alla sua
destra e, dalle finestre del palazzo, si potevano controllare tutti
gli angoli del tetto, come dall’alto della montagna si vede la
vallata. Andrea comprese che in breve avrebbe visto comparire la
testa del brigadiere a qualcuna di quelle finestre… Scoperto,
sarebbe stato perduto: una caccia sul tetto non gli offriva
probabilità di successo. Risolse dunque di scendere, non per lo
stesso fumaiolo da cui era venuto, ma per un fumaiolo vicino. Ne
cercò con gli occhi uno che non mandasse fumo, lo raggiunse a
carponi, e sparì all’interno senza essere stato visto da nessuno.
Un istante dopo si aprì una piccola finestra del municipio; e
apparve la testa del brigadiere. Quella testa rimase per alcuni
istanti immobile, come uno di quei bassorilievi di pietra che
decorano il fabbricato; quindi con un lungo sospiro d’inquietudine,
la testa sparì. Il brigadiere, tranquillo e dignitoso come la legge
di cui era il rappresentante, passò senza rispondere alle mille
domande tra la folla riunita sulla piazza, e rientrò in albergo.
«Ebbene?» domandarono a loro volta i due gendarmi.
«Ebbene, ce lo siamo lasciati sfuggire», rispose il brigadiere,
«deve essere scappato questa mattina presto, ma ora lo faremo
inseguire sulla strada di Noyon, e faremo perlustrare la foresta,
dove lo acchiapperemo sicuramente.»
L’onorevole funzionario aveva appena finito la frase, con quel tono
proprio ai brigadieri di gendarmeria, quando un lungo grido di
spavento, accompagnato dal tintinnio di un campanello, echeggiarono
nel cortile dell’albergo.
«Che cosa c’è?» gridò il brigadiere.
«Ecco un viaggiatore che sembra avere molta fretta», disse l’oste.
«A quale numero suonano?»
«Al numero 3.»
«Correte cameriere.»
In quell’istante le grida e il suono del campanello raddoppiarono,
il cameriere si mise a correre.
«No, fermatevi!» lo bloccò il brigadiere, trattenendolo. «Da come
gridano, chiedono ben altro che un cameriere… Manderemo loro un
gendarme per servirli. Chi alloggia al numero 3?»
«Un giovane giunto con una sorella questa notte con la posta, e che
ha domandato una camera a due letti.»
Il campanello suonò per la terza volta molto a lungo, troppo.
«Con me, signor commissario! Seguitemi, in fretta!» disse il
brigadiere.
«Un momento», li fermò l’oste, «nella camera numero tre ci sono due
uscite, una interna e l’altra esterna.»
«Bene!» disse il brigadiere. «Io prenderò l’interna. Le carabine
sono cariche?»
«Sì, brigadiere.»
«Voi altri di corsa all’esterno, e se vuole fuggire, fuoco… È un
gran criminale, a quanto dice il telegrafo.»
Il brigadiere, seguito dal commissario, s’infilò subito per la scala
interna, accompagnato dal bisbiglio che le rivelazioni su Andrea
avevano destato nella folla.
Ecco ciò ch’era accaduto.
Andrea era sceso con molta agilità fin oltre la metà del camino, ma
là, gli era mancato un piede, e, nonostante l’appoggio delle mani,
era precipitato rovinosamente, e soprattutto con più rumore di
quello che avrebbe desiderato. Non sarebbe stato niente se la camera
fosse stata vuota, ma disgraziatamente era occupata. Due donne
dormivano in un letto, il rumore le aveva svegliate, i loro sguardi
si erano fissati sul punto da cui veniva il rumore, e, dall’apertura
del caminetto, avevano visto comparire un uomo. Una di queste due
donne, la bionda, aveva mandato quel grido terribile che era
echeggiato per tutta la casa, mentre la bruna, correndo al cordone
del campanello, aveva dato l’allarme, agitandolo a tutta forza. Come
si vede, Andrea cadeva di disgrazia in disgrazia.
«Per pietà!» gridò, pallido, confuso, senza riconoscere le persone
alle quali si rivolgeva. «Per pietà, non chiamate, salvatemi! Io non
voglio farvi del male.»
«Andrea, l’assassino!» gridò una delle due donne.
«Eugénie, la signorina Danglars!» mormorò Cavalcanti, passando dallo
spavento allo stupore.
«Aiuto! Aiuto!» gridò Louise d’Armilly, levando il cordone del
campanello dalle mani inerti d’Eugénie, e suonando con forza
maggiore della compagna.
«Salvatemi! Non perseguitatemi!» implorò Andrea, congiungendo le
mani. «Per pietà, di grazia, non consegnatemi alla polizia!»
«È troppo tardi, salgono», rispose Eugénie.
«Vi prego, nascondetemi da qualche parte: direte che avete avuto
paura senza motivo; in tal modo allontanerete i sospetti, e mi
avrete salvato la vita.»
«Ebbene, sia, disgraziato! Ritornate da dove siete venuto.
Andatevene, e non diremo niente.»
«Eccolo! Eccolo!» gridò una voce sul pianerottolo. «Eccolo! Lo
vedo.»
Infatti il brigadiere aveva accostato l’occhio al buco della
serratura, e aveva scoperto Andrea, in piedi e supplicante. Un
violento colpo col calcio del fucile fece saltare il catenaccio,
altri due fecero saltare i cardini: la porta cadde dentro la stanza.
Andrea corse all’altra porta che portava alla loggia del cortile, ma
i due gendarmi erano là con le carabine puntate. Andrea si fermò;
dritto, pallido, col corpo un poco rovesciato all’indietro, tenendo
il suo inutile coltello nella mano rigida.
«Fuggite, dunque!» gridò la signorina d’Armilly, nel cui cuore
rientrava la pietà appena uscito lo spavento. «Fuggite.»
«O uccidetevi!» disse Eugénie, col tono e l’atteggiamento di una di
quelle vestali che nel circo ordinavano al gladiatore vittorioso di
finire il suo avversario atterrato.
Andrea tremò, e guardò la ragazza con un sorriso di disprezzo col
quale provò che la corruzione non include l’onore.
«Uccidermi», ripeté, gettando il coltello. «A che scopo?»
«Come diceste voi stesso», gridò Eugénie Danglars, «sarete
condannato a morte, e giustiziato come l’ultimo dei delinquenti.»
«Bah!» replicò Cavalcanti, a braccia conserte. «Ho sempre degli
amici.»
Il brigadiere avanzò verso di lui con la sciabola alla mano.
«Su», disse Cavalcanti, «calmatevi, brav’uomo, non vale la pena di
fare chiasso, perché mi arrendo.»
E tese le mani alle manette.
Le due ragazze guardarono con terrore la vergognosa metamorfosi che
avveniva sotto i loro occhi: l’uomo galante si spogliava del suo
falso costume per tornare uomo di galera. Andrea si girò verso di
loro, e col riso dell’impudenza, domandò: «Avete qualche commissione
per vostro padre, signorina Eugénie? È molto probabile che torni a
Parigi».
Eugénie si prese la testa fra le mani.
«Oh-oh!» disse Andrea. «Non c’è ragione di vergognarsi, e io non
sono deluso che abbiate preso la posta per corrermi dietro… Non ero
forse quasi vostro marito?»
E detto questo, Andrea uscì, lasciando le due fuggitive molto
inquiete e avvilite, tra i commenti degli spettatori. Un’ora più
tardi, vestite entrambe con abiti da donna, salivano nel loro
calesse da posta. La porta dell’albergo era stata chiusa per
sottrarle ai primi sguardi, ma non si poté evitare, quando questa
porta fu riaperta, di passare in mezzo a una doppia fila di curiosi.
Eugénie abbassò le tendine, ma se non vedeva più, udiva ancora le
grida ingiuriose che giungevano fino a lei.
«Perché il mondo non è un deserto?» gridò, gettandosi nelle braccia
della signorina d’Armilly con gli occhi sfavillanti di rabbia, come
Nerone quando desiderava che tutto il mondo romano avesse una sola
testa per poterla tagliare in un colpo solo.
L’indomani scesero all’albergo delle Fiandre a Bruxelles, mentre
Andrea era già da un giorno incarcerato alla Conciergerie.
98. La legge
Abbiamo visto con che tranquillità Eugénie Danglars e Louise
d’Armilly avevano potuto compiere il travestimento e la fuga: la
ragione era che ciascuno si occupava dei propri affari, e non poteva
interessarsi a quelli degli altri. Lasceremo il banchiere, ancora
con il sudore alla fronte, allineare con il fantasma del fallimento
le enormi colonne del suo passivo; seguiremo la baronessa che, dopo
essere rimasta un istante schiacciata dalla violenza del colpo che
l’aveva colpita, era andata a trovare il suo solito consigliere,
Lucien Debray. La baronessa contava su questo matrimonio per
abbandonare finalmente la tutela che, con una figlia dal carattere
di Eugénie, non cessava di essere molto penosa: in quella specie di
tacito contratto che mantiene i legami di gerarchia in una famiglia,
la madre non è realmente padrona di sua figlia, se non a condizione
di essere continuamente esempio di saggezza e perfezione. Ora la
signora Danglars temeva la perspicacia di Eugénie e i consigli della
signorina d’Armilly, e aveva sorpreso alcuni sguardi sprezzanti,
lanciati da sua figlia a Debray: sguardi che sembravano significare
che sua figlia sapeva tutto delle sue relazioni galanti e pecuniarie
col sottosegretario, mentre una interpretazione più sagace e
profonda avrebbe, al contrario, dimostrato alla baronessa che
Eugénie detestava Debray, non già perché fosse nella casa paterna
una pietra d’inciampo e di scandalo, ma perché lo poneva nella
categoria di quei bipedi che Platone cercava di non chiamare più
uomini, e che Diogene definiva per parafrasi animali a due piedi e
senza penne.
La signora Danglars, nel suo modo di vedere, e disgraziatamente a
questo mondo tutti hanno il loro modo di vedere che impedisce di
capire quello con cui vedono gli altri, la signora Danglars, nel suo
modo di vedere, dicevamo, era dunque infinitamente triste che fosse
andato in fumo anche questo matrimonio di Eugénie, non perché fosse
conveniente e dovesse fare la felicità di sua figlia, ma perché
questo matrimonio le rendeva tutta la libertà. Corse dunque, come
abbiamo detto, da Debray che dopo avere, come tutta Parigi,
assistito alla serata del contratto e allo scandalo che ne era stata
la conseguenza, si era affrettato a ritirarsi al suo club, dove con
alcuni amici parlava dell’avvenimento al centro della conversazione
di tre quarti di questa città pettegola, che si definisce la
capitale del mondo.
Nel momento in cui la signora Danglars, vestita di nero, e nascosta
sotto un lungo velo, saliva la scala che conduceva all’appartamento
di Debray, nonostante il portinaio le avesse assicurato che il
giovane non era ancora rientrato, Debray era impegnato a respingere
le argomentazioni di un amico affannato a provargli che, dopo il
terribile scandalo, era suo dovere, come amico di casa, sposare
Eugénie Danglars e i suoi due milioni.
Debray si difendeva come uno a cui non dispiace perdere, poiché
spesso questa idea gli era venuta in mente, ma siccome conosceva
Eugénie e il suo carattere indipendente e fiero, si difendeva
dicendo che questa unione era impossibile, anzi del tutto
impossibile. Però sotto sotto, si lasciava stuzzicare dalle peggiori
brame che, al dire di tutti i moralisti, preoccupano incessantemente
l’uomo più retto e più puro vegliando al fondo della sua anima, come
Satana veglia dietro la croce.
Il tè, il gioco, la conversazione interessante, come si può capire
dato che vi si discutevano affari così gravi, durarono fino all’una
del mattino. Per tutto quel tempo, la signora Danglars introdotta
dal cameriere di Lucien, aspettava velata e palpitante, nel piccolo
salotto verde, fra due cestelli di fiori inviati da lei stessa
quella mattina, e accomodati, bisogna dirlo, distribuiti e montati
da Debray stesso con una cura che fece alla povera donna perdonare
la sua assenza.
Alle undici e quaranta minuti, la signora Danglars, stanca di
attendere inutilmente, risalì in carrozza e si fece ricondurre a
casa. Le donne di una certa condizione hanno questo in comune con le
sarte di buoni costumi, che di solito non tornano mai a casa dopo
mezzanotte. La baronessa rientrò nel palazzo con tanta precauzione,
quanto ne aveva messa Eugénie nell’uscire. Salì cautamente, col
cuore angosciato, la scala del suo appartamento, contiguo a quello
di Eugénie, temendo di far rumore, poiché la povera donna confidava
nell’innocenza della figlia e nella inviolabilità del focolare
paterno! Rientrando nelle sue stanze origliò alla porta di Eugénie,
quindi, non sentendo alcun rumore, tentò di entrare, ma era chiusa;
pensò che la figlia, stanca delle forti emozioni della sera, si
fosse messa a letto e dormisse. Poi chiamò la cameriera, e la
interrogò.
«La signorina Eugénie», rispose la cameriera, «è rientrata nel suo
appartamento con la signorina d’Armilly, quindi hanno preso il tè
assieme, dopo mi hanno congedata dicendo che non avevano più bisogno
di me.»
La signora Danglars dunque andò a letto senz’ombra di sospetto. Ma
pensando allo scandalo, all’ignominia di quella sera, la baronessa
si ricordò che era stata spietata con la povera Mercedes, colpita
duramente, nello sposo e nel figlio, da una così grande sventura.
«Eugénie», diceva a se stessa, «è perduta, e noi ugualmente.
L’affare come poi sarà divulgato, ci ricopre di vergogna. In un ceto
come il nostro, il ridicolo è una piaga viva, sanguinosa e
incurabile. Che felicità», mormorava, «che Dio abbia dato a Eugénie
un carattere così stravagante anche se mi ha fatto più d’una volta
soffrire!»
E il suo sguardo riconoscente si alzava verso il cielo, dove una
misteriosa provvidenza dispone tutto in anticipo, a seconda degli
avvenimenti che devono accadere, e di un difetto, e talvolta anche
di un vizio, ne fa una virtù. Quindi il suo pensiero oltrepassò lo
spazio, come fa l’uccello sorvolando un abisso, e si fermò su
Cavalcanti.
Andrea era un miserabile, un ladro, un assassino, e ciò nonostante,
possedeva modi che tradivano una certa educazione, se non
un’educazione completa; questo Andrea si era presentato nella
società con l’apparenza di un gran signore, e con l’appoggio di nomi
illustri. Come veder chiaro in quell’intrigo? A chi chiedere
consiglio per uscire da quella crudele posizione? Debray, al quale
aveva fatto ricorso nel primo slancio della donna che confida
nell’amante, Debray non poteva darle che un consiglio: c’era qualcun
altro più potente di lui al quale doveva rivolgersi. La baronessa
pensò allora al signor Villefort. Chi aveva voluto fare arrestare
Cavalcanti, era il signor Villefort; chi senza pietà, aveva portato
la confusione in mezzo alla sua famiglia come se fosse stata una
famiglia estranea, era il signor Villefort. Ma no, riflettendovi,
non era un uomo senza pietà il regio procuratore, era un magistrato,
schiavo dei suoi doveri.
La condotta di Villefort, riflettendovi bene, compariva dunque alla
baronessa sotto un aspetto che poteva risolversi a loro comune
vantaggio. L’inflessibilità del procuratore avrebbe dovuto cedere su
questo punto: lei sarebbe andata a trovarlo all’indomani, e avrebbe
ottenuto, se non che mancasse ai suoi doveri di magistrato, almeno
che conducesse il processo con tutta la possibile indulgenza. La
baronessa avrebbe invocato il passato, e lo avrebbe supplicato in
nome di un amore, riprovevole sì, ma felice; il signor Villefort
avrebbe ridotto la gravità dell’affare, o almeno avrebbe lasciato
fuggire Cavalcanti, e non avrebbe continuato il processo che sotto
l’ombra del reo in contumacia. Allora soltanto si addormentò più
tranquilla.
L’indomani alle nove si alzò, e senza chiamare la cameriera, si
abbigliò, e vestita con la stessa semplicità della sera innanzi,
scese la scala, uscì dal palazzo, camminò fino alla rue de Provence,
salì in una carrozza da nolo, e si fece condurre alla casa del
signor Villefort.
Da un mese quella casa aveva l’aspetto lugubre di un lazzaretto in
cui si fosse dichiarata la peste: una parte degli appartamenti erano
chiusi all’interno e all’esterno. Quando le persiane si aprivano per
ventilare le stanze, si vedeva comparire la testa di un servitore,
quindi si richiudevano come ricade la lapide di una tomba sopra una
sepoltura, e i vicini si dicevano a bassa voce: «Forse vedremo
un’altra bara uscire dalla casa del regio procuratore?»
La signora Danglars fu percorsa da un fremito all’aspetto di quella
casa; scese dalla carrozza di piazza e, con le ginocchia tremanti,
si accostò alla porta chiusa e suonò.
Dopo la terza volta, il portinaio aprì appena la porta in modo da
lasciare passare solo le parole, e rimase a osservarla.
«Ma, aprite, dunque!» esclamò la baronessa.
«Prima di tutto, signora, chi siete?» domandò il portinaio.
«Chi sono? Ma voi mi conoscete.»
«Noi non conosciamo più nessuno, signora.»
«Ma siete pazzo, amico mio?» gridò la baronessa.
«Da parte di chi venite?»
«Oh, questo è troppo!»
«Signora, scusatemi ma questi sono gli ordini: il vostro nome?»
«La baronessa Danglars, mi avete visto almeno venti volte.»
«È possibile, signora. Ora che volete?»
«Che impertinenza! Mi lagnerò col signor Villefort della servitù.»
«Signora, questa non è impertinenza, ma precauzione! Nessuno entra
più qui senza una parola d’ordine del dottor d’Avrigny, o senza aver
parlato al regio procuratore.»
«Ebbene, è precisamente con il regio procuratore che devo parlare.»
«Per un affare urgente?»
«Esatto, poiché non sono ancora risalita in carrozza. Ma finiamola:
ecco il mio biglietto da visita, portatelo al vostro padrone.»
«La signora aspetterà il mio ritorno?»
«Sì, andate.»
Il portinaio richiuse. La baronessa non aspettò a lungo, un momento
dopo la porta si riaprì: entrò, e la porta si richiuse dietro di
lei. Arrivati in cortile, il portinaio senza perdere un momento di
vista la porta, fece un fischio. Il cameriere del signor Villefort
comparve sulla scala.
«La signora scuserà questo brav’uomo», disse, andando incontro alla
baronessa, «ma i suoi ordini sono severi, e il signor Villefort mi
ha incaricato di dire alla signora che non poteva fare diversamente
da quel che ha fatto.»
Nel cortile c’era un fornitore, introdotto con le stesse
precauzioni, di cui si esaminava la merce. La baronessa salì sulla
scala, e, sempre guidata dal cameriere, fu introdotta nello studio
del magistrato, senza che la sua guida l’avesse persa di vista un
momento. Quella generale tristezza le faceva una grandissima
impressione.
Per quanto la signora Danglars fosse preoccupata da ciò che la
spingeva in quel luogo, l’accoglienza ricevuta dalla servitù le
parve così indegna che cominciò a lamentarsene. Ma Villefort sollevò
la testa gravata dal dolore, e la guardò con un sorriso così triste,
che le lamentele le si spensero sulle labbra.
«Scusate i miei servitori per un fatto di cui non posso incolparli:
dopo essere stati sospettati, sono divenuti sospettosi.»
La signora Danglars aveva spesso sentito parlare di quel terrore
accennato da Villefort, ma non avrebbe mai potuto credere, se non lo
avesse sperimentato coi propri occhi, che questo sentimento potesse
essere portato a tal punto!
«Anche voi», disse, «siete infelice!»
«Sì, signora», rispose il magistrato.
«Allora mi compiangete?»
«Sinceramente, signora.»
«Indovinate il motivo che mi porta da voi?»
«Venite per parlarmi di quanto vi accade, non è vero?»
«Sì, signore, una terribile disgrazia.»
«Vale a dire, una disavventura.»
«Una disavventura?» gridò la baronessa.
«Ahimè, signora», rispose il procuratore, con la sua calma
imperturbabile. «Io riesco a chiamare disgrazia soltanto le cose
irreparabili.»
«Signore, credete che si dimenticherà?»
«Tutto si dimentica, signora», replicò Villefort. «Il matrimonio di
vostra figlia si farà domani, se non si fa oggi; fra otto giorni, se
non si fa domani; né credo che vogliate rimpiangere il fidanzato
della signorina Eugénie.»
La signora Danglars guardò Villefort stupefatta di vederlo così
tranquillo e quasi scherzoso.
«Sono venuta da un amico?» domandò con tono pieno di dolorosa
dignità.
«Voi sapete che è così, signora», rispose Villefort, arrossendo.
Infatti questa assicurazione faceva allusione a ben altri
avvenimenti rispetto a quelli che occupavano in quel momento lui e
la baronessa.
«Allora», riprese la baronessa, «siate più affettuoso, mio caro
Villefort, comportatevi da amico, e non da magistrato, e quando mi
ritrovo profondamente infelice, non trattatemi con troppa allegria.»
Villefort s’inchinò.
«Quando sento parlare di disgrazia, signora, la mia mente comincia
egoisticamente a paragonarla con le mie, e questa abitudine ce l’ho
da tre mesi. Ecco perché in confronto alle mie disgrazie, le vostre
mi sembrano disavventure, ecco perché, a confronto della mia
terribile situazione, la vostra mi sembra una posizione invidiabile…
Ma se ciò vi dispiace, non parliamone più… Che dicevate, signora?»
«Venivo per sapere da voi, amico mio, a che punto è l’affare di
quell’impostore.»
«Impostore!» replicò Villefort. «Ditemi, signora, avete deciso di
esagerare sul conto vostro e di attenuare nei casi altrui:
impostore, il signor Andrea Cavalcanti o piuttosto il signor
Benedetto? Voi sbagliate, signora, il signor Benedetto è un
assassino.»
«Signore, non nego l’esattezza della vostra rettifica, ma più
severamente procederete contro quel disgraziato, più colpirete la
nostra famiglia. Dimenticate per un momento le sue colpe. Non è
possibile, invece di perseguitarlo, attenuare un poco l’accusa, o
lasciarlo fuggire.»
«Arrivate troppo tardi, gli ordini sono stati già dati.»
«Tuttavia se si arresta… Credete che verrà arrestato?»
«Lo spero.»
«Se si arresta, ebbene lasciatelo in prigione…»
Il procuratore fece un cenno negativo.
«Almeno fino a che mia figlia non sarà sposata», aggiunse la
baronessa.
«Impossibile signora, la giustizia ha le sue formalità.»
«Per tutti?» domandò la baronessa tra il serio e il faceto.
Villefort la osservò con uno sguardo indagatore.
«Sì, capisco quello che volete dire», riprese. «Alludete alle voci
sparse su tutti quei morti che da tre mesi mi costringono al lutto,
e che quelle morti e quella cui è sfuggita Valentine, quasi per
miracolo, non siano naturali.»
«Io non pensavo affatto a questo», replicò vivacemente la signora
Danglars.
«Se ci pensavate, eravate nel giusto, perché non potete non
pensarci, e non dire a voi stessa sotto voce: “Tu che perseguiti il
delitto, rispondi com’è dunque che intorno a te esistono delitti che
restano impuniti?”»
La baronessa impallidì.
«Voi parlavate così dentro di voi, non è vero, signora?»
«Ebbene, sì, lo confesso.»
«Vi risponderò.»
Villefort avvicinò la sua sedia a quella della signora Danglars,
quindi, appoggiando le mani sullo scrittoio, e in tono più basso del
consueto: «Vi sono delitti che restano impuniti, perché non si
conoscono i rei, e si teme di colpire una testa innocente invece di
una colpevole. Ma quando questi colpevoli saranno noti», Villefort
tese la mano verso un gran crocifisso di fronte allo scrittoio,
«quando i colpevoli saranno noti», ripeté, «per il Dio vivente,
signora, chiunque siano, moriranno! Ora, dopo il giuramento che ho
fatto, e che manterrò, signora, avrete il coraggio di chiedermi
grazia per quel miserabile?»
«Signore», riprese la baronessa, «siete sicuro che sia colpevole
quanto si dice?»
«Ascoltate, Benedetto fu condannato prima a cinque anni di galera
come falsario, all’età di sedici anni… Il giovane prometteva bene,
come vedete! Poi ricercato come evaso, e infine come assassino.»
«E chi è questo sciagurato?»
«Chi lo sa! Un vagabondo, un corso…»
«Non è stato dunque riconosciuto da nessuno?»
«Da nessuno, non si conoscono i suoi parenti.»
«Ma quell’uomo ch’era venuto da Lucca?»
«Un altro scroccone come lui, forse il suo complice.»
La baronessa congiunse le mani.
«Villefort!» riprese con il tono più dolce.
«Signora», rispose il regio procuratore con fermezza. «Non
domandatemi mai grazia per un delinquente! Chi sono io? La legge.
Forse la legge ha occhi per vedere la vostra tristezza? Ha orecchie
per sentire la vostra dolce voce? Ha memoria per applicare i vostri
delicati pensieri? No, signora, no: la legge ordina, e quando la
legge ordina, colpisce! Voi mi direte che io sono un essere vivente
e non un codice, un uomo, e non un volume.
Guardatemi, signora, guardate intorno a me! Gli uomini mi hanno
trattato come fratello? Mi hanno amato? Hanno avuto riguardi per me?
Mi hanno risparmiato? C’è forse qualcuno che abbia domandato e
ottenuto la grazia per il signor Villefort? No! No! No! Percosso,
sempre percosso! Voi continuate, donna o sirena che siate, a
guardarmi con quello sguardo attraente ed espressivo che mi fa
arrossire. Ebbene, sì, arrossirò di ciò che sapete, e forse di altro
ancora! Ma da quando ho mancato a me stesso, e forse più degli
altri, ebbene, da quel momento, ho frugato i panni altrui per
stanare il delitto, e l’ho sempre trovato, e, dirò di più, ho
trovato con piacere, con gioia questo sigillo della debolezza e
della perversità umana! Poiché ciascun uomo che riconoscevo
colpevole, e ciascun colpevole che colpivo, mi sembrava una prova
vivente, una prova nuova, che non ero una vergognosa eccezione!
Ahimè, non tutti gli uomini sono cattivi, signora, proviamolo
punendo i cattivi!»
Villefort pronunciò queste ultime parole con una rabbia febbrile,
che dava al suo linguaggio una feroce eloquenza.
«Ma», riprese la signora Danglars, facendo un ultimo tentativo, «voi
dite che questo giovane è un vagabondo, un orfano, un uomo
abbandonato da tutti.»
«Tanto peggio! Tanto peggio! O piuttosto tanto meglio: la
Provvidenza ha così disposto, perché nessuno debba piangere per
lui.»
«Questo è accanirsi su un debole, signore.»
«Un debole che uccide?»
«Il suo disonore ricade sulla mia famiglia!»
«Non ho io forse la morte nella mia?»
«Signore», gridò la baronessa, «non avete pietà per gli altri!
Ebbene, sono io che ve lo dico, gli altri non avranno pietà per
voi!»
«Sia!» esclamò Villefort alzando un braccio al cielo con gesto
minaccioso.
«Rinviate almeno la causa di questo sciagurato, se lo arrestano,
alle prossime sedute, così avremo almeno sei mesi di tempo, e
intanto tutto sarà dimenticato.»
«No», disse Villefort, «ho ancora cinque giorni. L’istruttoria è
fatta, cinque giorni è più di quello che mi serve… D’altra parte,
non capite, signora, che anch’io ho bisogno di dimenticare? Ebbene,
quando lavoro, e lavoro notte e giorno, quando lavoro, vi sono
momenti in cui dimentico me stesso, e quando non mi ricordo di me,
sono felice come lo sono i morti, ma questo è meglio che soffrire.»
«Signore, è fuggito, lasciatelo fuggire! L’inerzia è una clemenza
facile.»
«Vi ripeto che è troppo tardi… Il telegrafo ha trasmesso gli ordini
all’alba, e a quest’ora forse…»
«Signore», disse il cameriere entrando, «un dragone ha portato
questo dispaccio del ministro dell’Interno.»
Villefort afferrò la lettera e la dissigillò. La signora Danglars
fremette di terrore; Villefort rabbrividì di gioia.
«Arrestato!» gridò Villefort. «Arrestato a Compiègne! È finita.»
La signora Danglars si alzò fredda e pallida.
«Addio, signore», disse.
«Addio, signora», disse il procuratore, quasi allegro nel ricondurla
fino alla porta.
Poi tornò allo scrittoio.
«Benissimo», disse, battendo la lettera col dorso della mano destra,
«era un falsario, aveva commesso tre furti, due incendi… Non gli
mancava che un assassinio, eccolo! La sessione sarà interessante!»
99. L’apparizione
Come il procuratore aveva riferito alla signora Danglars, Valentine
non si era ancora rimessa: spossata dalla fatica, era infatti
obbligata a restare a letto, e nella sua camera, dalla bocca della
signora Villefort, apprese gli avvenimenti che abbiamo raccontato,
ovvero la fuga di Eugénie e l’arresto di Cavalcanti, o piuttosto di
Benedetto, e l’accusa d’assassinio contro di lui. Ma Valentine era
così debole che questo racconto non le fece tutto quell’effetto che
avrebbe prodotto se fosse stata in buona salute. Infatti, non si
trattò che di vaghe idee, figure evanescenti, mischiate a strani
pensieri e a fantasmi fugaci, come sono quelli che nascono in un
cervello malato, o che passano davanti agli occhi, ma ben presto si
cancellano per lasciar riprendere le forze alle sensazioni
personali.
Durante il giorno, Noirtier si faceva portare nella camera di sua
nipote e vi si tratteneva tenendo compagnia a Valentine, quindi,
quando ritornava da Palazzo, a sua volta il signor Villefort si
ritirava nel suo studio, e alle otto arrivava il signor d’Avrigny,
che portava la pozione della notte preparata per la ragazza. Quindi
Noirtier veniva trasportato nelle sue stanze. Allora un’infermiera
scelta dal dottore sostituiva tutti, e non si ritirava che verso le
dieci o le undici, quando Valentine si era addormentata. Nel
scendere, restituiva le chiavi della camera di Valentine al signor
Villefort stesso, di modo che non si poteva più entrare dalla
malata, se non attraversando l’appartamento della signora Villefort
e la camera del piccolo Edouard.
Morrel andava tutte le mattine da Noirtier per avere notizie di
Valentine, ma Morrel, cosa straordinaria, sembrava di giorno in
giorno meno inquieto. Prima di tutto, perché di giorno in giorno
Valentine, sebbene in preda a una eccitazione nervosa, stava meglio;
e poi Montecristo non gli aveva detto, quando tutto smarrito era
corso da lui, che se in due ore Valentine non era morta, era salva?
Ora, Valentine viveva ancora, ed erano passati quattro giorni.
Questa eccitazione nervosa di cui abbiamo parlato perseguitava
Valentine persino nel sonno, o piuttosto nello stato di sonnolenza
che succedeva alla veglia: allora nel silenzio della notte e nella
mezza oscurità del lume notturno posto sul caminetto, vedeva passare
quelle ombre che vanno a popolare la camera dei malati, suscitate
dal delirio della febbre. Allora le sembrava di vedere ora Morrel
che le tendeva le braccia, ora esseri estranei, come il conte di
Montecristo. Perfino i mobili, in quei momenti di delirio, le
sembravano muoversi: cosa che durava fino alle due o alle tre dopo
mezzanotte, momento in cui un sonno profondo s’impadroniva della
giovane fino a giorno.
La sera della fuga d’Eugénie e dell’arresto di Benedetto, e quando,
dopo essersi mischiati un istante alle sue sensazioni, questi
avvenimenti cominciavano a svanire anche per le visite successive di
Villefort, di d’Avrigny, di Noirtier, mentre suonavano le undici
all’orologio di Saint-Philippe de Roule, e l’infermiera, dopo averle
portato la bevanda preparata dal dottore, e, chiusa la porta della
camera, ascoltava fremendo in cucina i commenti dei domestici, e
metteva a dura prova la sua memoria con le lugubri storie che da tre
mesi occupavano le serate dell’anticamera del procuratore, una scena
inattesa si verificò in quella camera chiusa tanto accuratamente.
Erano già dieci minuti circa che l’infermiera si era ritirata.
Valentine in preda da un’ora a quella febbre che ritornava ogni
notte, lasciava la sua testa, ribelle alla volontà, continuare quel
lavoro attivo, monotono e implacabile del cervello che si affaticava
a riprodurre incessantemente gli stessi pensieri o a generare le
stesse immagini. Dal lucignolo del lume notturno filtravano mille
raggi che davano vita a strani riverberi, quando d’un tratto, al suo
riflesso tremulo, Valentine vide aprirsi lentamente la scansia dei
libri, posta di fianco al caminetto in un incavo del muro, senza che
i cardini sui quali essa sembrava ruotare producessero il minimo
rumore. In altri tempi Valentine avrebbe afferrato il campanello, o
avrebbe tirato il cordone per chiamare aiuto, ma niente la stupiva
nella situazione in cui si trovava, convinta com’era che tutte le
visioni erano prodotte dal suo delirio, e questa convinzione le era
venuta perché la mattina non rimaneva alcuna traccia di tutti quei
fantasmi notturni. Dietro la porta comparve un figura umana.
Valentine, per la febbre, non provava più meraviglia per queste
apparizioni, per spaventarsi; aprì soltanto due grandi occhi,
sperando di riconoscere Morrel. La figura continuò ad avanzare verso
il letto, quindi si fermò e parve ascoltare con profonda attenzione.
In quel momento il volto del visitatore notturno fu illuminato da un
riflesso di luce.
«Non è lui!» mormorò la ragazza.
E aspettò, convinta di sognare, che quest’uomo, come accade nei
sogni, scomparisse o si trasformasse in un’altra persona.
Si toccò soltanto il polso e sentendolo battere violentemente,
ricordò che il miglior mezzo per far scomparire quelle importune
visioni, era di bere. La freschezza della bevanda, composta d’altra
parte allo scopo di calmare le agitazioni di cui Valentine si era
lamentata col dottore, facendole diminuire la febbre, le provocava
una ripresa delle sensazioni: quando aveva bevuto, per un momento si
sentiva meglio.
Valentine tese dunque la mano per prendere il bicchiere dal piatto
di cristallo su cui posava, ma mentre allungava il braccio fuori dal
letto, l’apparizione fece ancora due passi più rapidi degli altri e
giunse così vicino alla ragazza, che questa ne udì il respiro, e
credette di sentire la pressione della mano. Stavolta l’illusione o
piuttosto la realtà superava tutto ciò che Valentine aveva provato
fino ad allora; cominciò a credere d’essere realmente sveglia, sentì
la sensazione, e tremò.
La pressione aveva lo scopo di fermarle il braccio. Valentine lo
ritirò lentamente. Allora questa figura, da cui non poteva staccare
lo sguardo, e che d’altra parte sembrava più protettrice che
minacciosa, questa figura prese il bicchiere, si avvicinò al lume, e
guardò la bevanda, come se avesse voluto giudicarne la trasparenza e
la limpidezza. Ma questa prima prova non bastò a quell’uomo, o
piuttosto fantasma – camminava così dolcemente che il tappeto
soffocava il rumore dei passi – perché quest’uomo prese dal
bicchiere un cucchiaio della pozione e l’inghiottì. Valentine
guardava stupita ciò che accadeva: credeva che quella visione stesse
per scomparire e lasciare il posto a un’altra, ma l’uomo invece di
svanire come ombra, si riavvicinò e tendendole il bicchiere, con
voce piena di emozione, disse: «Ora bevete!»
Valentine rabbrividì.
Era la prima volta che una delle sue visioni le parlava: aprì la
bocca per gridare. L’uomo le posò un dito sulle labbra.
«Il signor Montecristo!» mormorò lei.
Allo spavento negli occhi della ragazza, al tremito delle sue mani,
al gesto rapido che fece per nascondersi sotto le lenzuola, si
poteva intuire l’intima lotta dei suoi sentimenti. La presenza di
Montecristo nella sua camera a quell’ora, la sua entrata misteriosa,
fantastica, inesplicabile, da un muro, sembravano impossibili alla
mente sconvolta di Valentine.
«Non gridate, state calma», disse il conte, «non abbiate, neppure in
fondo al cuore, l’ombra di un sospetto, di un’inquietudine! L’uomo
che vi sta dinanzi (infatti questa volta avete ragione, Valentine,
la vostra non è un’illusione), l’uomo che vi sta dinanzi è per voi
il più tenero padre, il più rispettoso amico che possiate
immaginare.»
Valentine non trovò parole per rispondere: quella voce, rivelandole
la sua presenza reale, le faceva così paura che temeva di parlare.
Ma il suo sguardo spaventato voleva dire: «Se le vostre intenzioni
sono buone, perché siete qui?» Con la sua incredibile sagacità il
conte capì quello che passava nel cuore della ragazza.
«Ascoltatemi», disse, «o piuttosto guardatemi: vedete i miei occhi
arrossati e il mio viso più pallido ancora del solito? È perché da
quattro notti non chiudo occhio, da quattro notti veglio su di voi,
vi proteggo, vi conservo al nostro amico Maximilien.»
Un lieve rossore salì rapidamente alle guance dell’ammalata poiché
il nome pronunciato dal conte le toglieva il residuo di diffidenza
che le aveva ispirato.
«Maximilien!» ripeté Valentine, tanto questo nome le sembrava dolce
da pronunciare. «Maximilien, dunque vi ha confessato tutto?»
«Tutto. Mi ha detto che la vostra vita era la sua, e gli ho promesso
di proteggervi.»
«Gli avete promesso la mia vita?»
«Sì.»
«Infatti, signore, avete parlato di vigilanza e di protezione. Siete
dunque medico?»
«Sì, e il migliore che il cielo possa mandarvi in questo momento,
credetemi.»
«Dite che avete vegliato?» domandò Valentine inquieta. «E dove? Io
non vi ho visto.»
Il conte tese la mano nella direzione della scansia.
«Ero nascosto dietro quella porta, collegata a una casa vicina che
ho preso in affitto.»
Valentine, per un momento di pudico orgoglio, girò gli occhi, e con
sdegno disse: «Signore, ciò che voi avete fatto è una pazzia, e la
protezione che mi avete accordata, somiglia molto a un insulto».
«Valentine, questa lunga veglia mi serviva per sapere quali persone
venivano da voi, quali cibi vi preparavano, quali bevande vi
servivano; e quando queste bevande mi sembravano pericolose,
entravo, come ho fatto ora, vuotavo il vostro bicchiere, e
sostituivo al veleno una bevanda benefica che invece della morte che
vi era stata preparata vi desse vita.»
«Il veleno! La morte!» gridò Valentine, credendosi nuovamente preda
di qualche allucinazione. «Di cosa parlate, signore?»
«Zitta, figlia mia», mormorò Montecristo portando nuovamente il dito
alle labbra. «Ho detto il veleno, ho detto la morte, sì lo ripeto,
la morte… Ma prima bevete questo…» e il conte sfilò dalla tasca una
boccettina contenente un liquore rosso, di cui versò alcune gocce
nel bicchiere. «E quando avrete bevuto, non prendete più niente per
tutta la notte.»
Valentine allungò la mano, ma appena ebbe toccato il bicchiere, la
ritrasse con spavento. Montecristo prese il bicchiere ne bevve la
metà, e lo porse a Valentine, che trangugiò sorridendo il resto del
liquido che conteneva.
«Oh, sì», disse, «riconosco il gusto delle mie bevande notturne, è
quest’acqua che portava un po’ di fresco al mio petto, un po’ di
calma al mio cervello. Grazie, signore, grazie.»
«Ecco come vivete da quattro notti, Valentine», disse il conte. «Ma
io, in che modo vivevo io? Che ore crudeli ho passato per voi! Che
terribili torture, quando vedevo versare nel vostro bicchiere il
veleno mortale, quando temevo che aveste il tempo di berlo, prima
che io potessi intervenire!»
«Voi dite, signore», riprese Valentine, al colmo del terrore, «che
avete subito mille torture vedendo versare nel mio bicchiere un
veleno mortale? Ma, se avete visto versare il veleno nel mio
bicchiere, avrete pur visto la persona che lo versava…»
«Sì.»
Valentine si levò a sedere sul letto, alzando sul seno più pallido
della neve la batista ricamata ancor umida del sudore del delirio,
al quale cominciava ad accompagnarsi quello più glaciale del
terrore.
«L’avete vista?» ripeté la ragazza.
«Sì», ripeté una seconda volta il conte.
«Quanto mi dite è terribile, signore, ciò che mi volete far credere
ha qualche cosa d’infernale! Nella casa di mio padre! Nella mia
camera! Sul mio letto di dolore si continua ad assassinarmi?
Andatevene, signore. Voi tentate la mia coscienza, voi bestemmiate
la divina bontà! Ciò che dite è impossibile, non può essere.»
«Siete voi dunque la prima che questa mano colpisce, Valentine? Non
avete visto cadere intorno a voi il signor di Saint-Méran, la
signora di Saint-Méran, Barrois? Non avreste visto cadere il signor
Noirtier, se la cura che fa da tre anni non lo avesse protetto,
combattendo il veleno con l’abitudine al veleno?»
«Oh mio Dio! Allora è per questo», disse Valentine, «che da circa un
mese il mio buon nonno mi obbliga a bere un cucchiaio della sua
pozione?»
«E queste pozioni», continuò Montecristo, «hanno un gusto amaro,
come quello della scorza d’arancio semidisseccata, non è vero?»
«Sì, mio Dio, sì.»
«Ecco tutto spiegato», disse Montecristo. «Anch’egli sa che qui si
avvelena, e forse chi avvelena. Perciò ha protetto voi, sua figlia
prediletta, contro la sostanza mortale, e la sostanza mortale è
stata sconfitta dall’assuefazione… Ecco perché siete ancora viva.
Cosa che non potevo capire, poiché eravate stata avvelenata con una
sostanza che non perdona.»
«Ma chi è dunque l’assassino?»
«Prima ho una domanda da farvi: non avete mai visto entrare nessuno
di notte in questa camera?»
«Può darsi. Spesso ho creduto di veder passare delle ombre; queste
ombre si avvicinavano, si allontanavano, sparivano…»
«Così voi non conoscete la persona che attenta alla vostra vita?»
«No. E perché qualcuno dovrebbe desiderare la mia morte?»
«Voi la conoscerete presto», rispose Montecristo, tendendo le
orecchie.
«E come?» domandò Valentine, guardandosi intorno spaventata.
«Perché questa sera voi non avete più né febbre, né delirio, perché
questa sera siete ben sveglia, perché ora suona la mezzanotte, e
questa è l’ora degli assassini.»
«Mio Dio, mio Dio!» gemette Valentine, asciugandosi con la mano il
sudore dalla fronte.
Infatti mezzanotte suonava lenta e triste. Si sarebbe detto che
ciascun colpo del martello di bronzo battesse nel cuore della
ragazza.
«Valentine», continuò il conte, «richiamate tutte le forze in vostro
aiuto, comprimete il cuore nel petto, chiudete la voce nella gola,
fingete di dormire e vedrete, vedrete…»
Valentine afferrò la mano del conte.
«Mi sembra di sentire dei rumori, andate.»
«Addio, o piuttosto arrivederci», rispose il conte.
Quindi con un sorriso così triste e paterno, che la ragazza gliene
fu grata, raggiunse in punta di piedi la porta dietro la scansia. Ma
fermandosi prima di richiuderla dietro di sé, aggiunse: «Non un
gesto, non una parola… Vi devono credere addormentata, altrimenti,
forse sareste uccisa prima che abbia il tempo di accorrere».
E dopo quella tremenda ingiunzione, il conte scomparve dietro la
scansia che si richiuse dietro di lui.
100. Locusta
Valentine restò sola. Altri due orologi a pendolo, in ritardo
rispetto a quello di Saint-Philippe de Roule, suonarono ancora
mezzanotte a differenti intervalli. Poi, a eccezione di qualche
carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio. Allora tutta
l’attenzione di Valentine si concentrò sul pendolo della sua camera,
la cui sfera segnava i secondi. Si mise a contare questi secondi, e
notò che erano più lenti delle pulsazioni del suo cuore. Eppure
dubitava ancora: l’inoffensiva Valentine non riusciva a immaginare
che qualcuno desiderasse la sua morte: perché? Con quale scopo? Che
male aveva fatto per avere un nemico? Non c’era timore che
s’addormentasse. Una sola idea, un’idea terribile teneva il suo
spirito attento: che cioè vi potesse essere qualcuno che avesse
tentato d’avvelenarla, e che stava per tentare una seconda volta. Se
questa volta quella persona, stanca di vedere inefficace il veleno,
come aveva detto Montecristo, avesse usato un pugnale? Se il conte
non avesse avuto il tempo di accorrere? Se fosse prossima alla
morte? Se non avesse più potuto rivedere Morrel? A questo pensiero,
che le suscitava allo stesso tempo un livido pallore e un gelido
sudore, Valentine era preparata ad afferrare il cordone del
campanello, e a chiamare aiuto. Ma le sembrava di vedere, attraverso
la libreria, sfavillare l’occhio del conte, quell’occhio che
vegliava sul suo avvenire, e che, quando ci pensava, l’opprimeva di
tale vergogna che si chiedeva se mai la riconoscenza avrebbe
cancellato il penoso effetto dell’indiscreta amicizia del conte.
Venti minuti, venti eterni minuti passarono in tal modo, poi altri
dieci minuti ancora: finalmente il pendolo, stridendo leggermente,
finì col battere un colpo sotto la molla sonora. In quello stesso
momento, il raschiare impercettibile di un’unghia contro il legno
della scansia avvisò Valentine che il conte vegliava e le
raccomandava di vegliare.
Infatti dalla parte opposta, vale a dire verso la camera di Edouard,
sembrò a Valentine di sentir scricchiolare il pavimento di legno,
tese l’orecchio, trattenne il respiro; si sentì stridere la maniglia
e la porta si aprì.
Valentine si era sollevata sul gomito, ed ebbe appena tempo di
lasciarsi ricadere sul letto, coprendosi gli occhi con un braccio.
Quindi tremante, agitata, col cuore stretto da un indicibile
spavento, aspettò. Qualcuno si avvicinò al letto, sfiorandolo.
Valentine raccolse tutte le forze, e lasciò sentire quel mormorio
regolare della respirazione, che annuncia un sonno tranquillo.
«Valentine!» chiamò una voce sommessa.
La ragazza tremò fino in fondo al cuore, ma non rispose.
«Valentine!» ripeté nel medesimo tono la stessa voce.
Sempre silenzio: Valentine aveva promesso di far finta di dormire.
Poi tutto rimase immobile, tranne il rumore appena udibile di un
liquido che cadeva nel bicchiere che aveva vuotato. Allora osò, al
riparo del braccio steso, aprire le palpebre, e vide una donna, in
accappatoio bianco, che vuotava nel suo bicchiere un liquido
contenuto in una boccetta.
In quell’istante, Valentine forse trattenne il respiro, o fece senza
dubbio un moto, poiché la donna, inquieta, si fermò e si chinò sul
letto per capire meglio se dormiva realmente: era la signora
Villefort. Valentine, nel riconoscere la matrigna, fu presa da un
fremito che impresse un moto al letto. La signora Villefort si
addossò al muro, e là, nascosta dietro alle cortine del letto, muta
e attenta spiò il minimo movimento di Valentine. Questa si ricordò
le terribili parole di Montecristo: le era sembrato, nella mano che
non teneva la boccetta, di veder brillare una specie di coltello
lungo e affilato. Allora Valentine, richiamando in suo aiuto tutto
il potere della volontà, si sforzò di chiudere gli occhi; ma questa
funzione del più timoroso dei nostri sensi, questa funzione di
solito così semplice, diveniva in quel momento quasi impossibile,
tanto l’avida curiosità faceva sforzi per conoscere la verità.
Rassicurata dal silenzio, in cui si sentiva soltanto il respiro che
provava il sonno di Valentine, la signora Villefort tese di nuovo il
braccio, e, rimanendo per metà nascosta dietro le cortine riunite al
capezzale del letto, terminò di vuotare nel bicchiere di Valentine
il contenuto della boccetta.
Quindi si ritirò senza che il minimo rumore facesse capire a
Valentine che la matrigna era uscita.
Il raschiare di un’unghia sulla scansia sottrasse Valentine a quello
stato di torpore nel quale era immersa e che assomigliava a
un’asfissia. Sollevò la testa a stento. La scansia, sempre
silenziosamente, girò una seconda volta e Montecristo ricomparve.
«Ebbene», domandò il conte, «dubitate ancora?»
«Oh, mio Dio!» mormorò la ragazza.
«Avete visto?»
«Sì», rispose Valentine, mandando un gemito, «ma non ci posso
credere.»
«Voi dunque desiderate piuttosto morire, e far morire Maximilien?»
«Mio Dio! mio Dio!» ripeté la giovane, quasi smarrita. «Ma non posso
lasciare la casa? Fuggire?»
«Valentine, la mano che vi perseguita vi raggiungerà dappertutto,
con l’oro e col denaro sedurrà i vostri domestici, e vi presenterà
la morte mascherata sotto tutti gli aspetti, nell’acqua zuccherata
che berrete, nel frutto che coglierete dall’albero…»
«Ma non mi avete detto che la precauzione presa dal nonno mi aveva
premunita contro il veleno?»
«Contro uno dei veleni, e anche non usato in forte dose, ma cambierà
il veleno, o crescerà la dose.»
Il conte prese il bicchiere e vi accostò le labbra.
«E guardate, l’ha già fatto. Il veleno non è più la brucina, ma un
semplice narcotico. Riconosco il gusto dell’alcol nel quale è stato
sciolto. Se aveste bevuto ciò che la signora Villefort ha versato in
questo bicchiere, Valentine, voi sareste perduta!»
«Ma, mio Dio», gridò la ragazza, «perché dunque mi perseguita in tal
modo?»
«Come, siete così buona, così dolce, così incredula di fronte al
male, che non avete capito, Valentine?»
«No», rispose la ragazza, «io non le ho mai fatto del male.»
«Ma voi siete ricca, Valentine, avete duecentomila lire di rendita,
e queste duecentomila lire di rendita voi le togliete a suo figlio.»
«In che modo? I miei beni non sono suoi, li ho ereditati dai miei
parenti.»
«Naturalmente, e se il signore e la signora di Saint-Méran furono
uccisi fu perché poteste ereditare dai vostri parenti; ecco perché
dal giorno in cui anche il signor Noirtier vi fece sua erede fu
condannato a morte; e ora è il vostro turno, voi dovete morire,
Valentine, e ciò affinché vostro padre erediti da voi, e vostro
fratello, divenuto figlio unico, erediti da vostro padre.»
«Edouard? Povero bambino! Ed è per lui che si commettono tanti
delitti?»
«Capite, finalmente?»
«Mio Dio, purché non paghi lui il prezzo di questi delitti!»
«Voi siete un angelo, Valentine.»
«Ha dunque rinunciato a uccidere mio nonno?»
«Avrà riflettuto che, morta voi, a meno di un nuovo cambiamento di
testamento, i suoi beni andranno naturalmente a vostro fratello, e
avrà pensato che questo delitto, in fin dei conti, era inutile, e
anzi doppiamente pericoloso commetterlo.»
«E una donna ha potuto concepire tutti questi delitti? Mio Dio, mio
Dio!»
«Ricordatevi Perugia, il pergolato dell’albergo della Posta, l’uomo
dal mantello scuro interrogato da vostra madre sull’acqua tofana… Da
allora ha predisposto tutto questo infernale progetto.»
«Signore», gridò la ragazza in lacrime, «quand’è così, vedo bene che
sono condannata a morire.»
«No, Valentine, no, poiché ho previsto tutto; no, perché la nostra
nemica è stata sconfitta, avendola scoperta; no, voi vivrete,
Valentine, vivrete per amare ed essere amata, vivrete per essere
felice e per render felice un cuore nobile… Ma, Valentine, per
vivere dovete avere piena fiducia in me.»
«Ordinate, signore, che cosa devo fare?»
«Dovete prendere ciecamente ciò che vi darò.»
«Dio mi è testimone», gridò Valentine, «che se fossi sola,
preferirei lasciarmi uccidere.»
«Voi non vi confiderete con nessuno, neppure a vostro padre?»
«Mio padre non ha a che fare con questo complotto, vero, signore?»
domandò Valentine.
«No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle trame criminali, deve
avere qualche sospetto che tutte queste morti che accadono in casa
sua non siano naturali. Vostro padre, è lui che avrebbe dovuto
vegliare su voi, è lui che avrebbe dovuto essere a quest’ora nel
posto che occupo io, è lui che avrebbe dovuto svuotare questo
bicchiere, è lui che avrebbe dovuto ergersi contro l’assassino.
Spettro contro spettro!» mormorò terminando la frase sottovoce.
«Signore, io farò di tutto per vivere, perché vi sono due esseri al
mondo che mi amano, e che morirebbero se io morissi: mio nonno e
Maximilien.»
«Io veglierò su loro, come ho vegliato su voi.»
«Allora, signore, disponete di me», disse Valentine. Poi aggiunse a
bassa voce: «Oh, mio Dio, che sarà di me?»
«Qualunque cosa accada, Valentine, non spaventatevi… Se soffrite, se
perdete la vista, l’udito, il tatto, non temete niente, se vi
svegliate senza sapere dove siete, non abbiate paura, doveste anche,
nello svegliarvi, trovarvi in una tomba o chiusa in una bara, fatevi
subito animo e dite a voi stessa: “In questo momento un amico, un
padre, un uomo che vuole la mia felicità e quella di Maximilien,
quest’uomo veglia su di me”.»
«Povera me, che terribile situazione!»
«Valentine, preferite denunciare la vostra matrigna?»
«Preferirei morire cento volte! Sì! Morire!»
«No, non morirete, e qualunque cosa vi accada, non vi lamenterete, e
spererete. Me lo promettete?»
«Penserò a Maximilien.»
«Voi siete la mia figlia prediletta, Valentine: io solo posso
salvarvi, e vi salverò.»
Valentine, al colmo del terrore, congiunse le mani, e si alzò per
pregare, mormorando parole monche, dimenticando che le sue bianche
spalle non avevano altro velo che la lunga capigliatura, e che si
vedeva batterle il seno sotto il fine merletto del corpetto da
notte.
Il conte appoggiò dolcemente la mano sul braccio della ragazza, le
rialzò fino al collo la trapunta di velluto, e con sorriso tutto
paterno, disse: «Figlia mia, credete nel mio affetto come credete
nella bontà di Dio e nell’amore di Maximilien».
Valentine lo guardò con riconoscenza, e obbedì docile come un bimbo
ai suoi desideri. Allora il conte prese dal taschino del panciotto
la scatola di smeraldo, sollevò il coperchio d’oro e versò nella
mano destra di Valentine una piccola pastiglia rotonda della
grandezza di un pisello. Valentine la prese con l’altra mano e
guardò il conte attentamente: nei lineamenti di quell’intrepido
protettore si leggeva un riflesso della potenza celeste. Valentine
lo interrogò con lo sguardo.
«Sì», rispose questi.
Valentine si portò la pastiglia alla bocca e l’inghiottì.
«E ora, arrivederci, figlia mia», disse, «vado a cercare di dormire,
perché ora siete salva.»
«Andate», replicò Valentine, «qualunque cosa mi accada, vi prometto
di non aver paura.»
Montecristo tenne a lungo gli occhi fissi sulla ragazza, che a poco
a poco si addormentò, vinta dalla forza del narcotico datole dal
conte. Allora prese il bicchiere, e vuotandolo per tre quarti nel
caminetto, perché si pensasse che Valentine aveva bevuto, lo rimise
sul tavolino da notte; quindi, passando dietro la scansia,
scomparve, dopo aver dato un ultimo sguardo alla giovane, che si
addormentava con quella fiducia e quel candore con cui un angelo
riposa ai piedi del Signore.
101. Valentine
Il lume da notte posato sul caminetto di Valentine consumava le sue
ultime gocce di olio che galleggiavano ancora sull’acqua, già un
cerchio più rossiccio colorava il globo d’alabastro, mentre la
fiamma più viva lasciava sentire gli ultimi crepitii che sembrano,
negli esseri inanimati, le ultime convulsioni dell’agonia, così
spesso paragonate a quelle delle povere creature umane; una luce
cupa e sinistra rifletteva un colore opaco sulle cortine bianche e
sulle coperte della ragazza. I rumori della strada erano cessati, e
il silenzio in casa era profondo. Allora si aprì la porta della
camera di Edouard, e una testa, che abbiamo già riconosciuta,
comparve sullo specchio di fronte alla porta. Era la signora
Villefort che tornava per vedere l’effetto della sua bevanda.
Si fermò sulla soglia, ascoltò il crepitio della lampada, solo
rumore percettibile in quella camera che si sarebbe creduta deserta,
quindi avanzò dolcemente verso il comodino per vedere se il
bicchiere di Valentine era stato svuotato. Non ve n’era che un
quarto, come abbiamo visto. La signora Villefort lo prese, e andò a
versarlo sulle ceneri, smuovendole perché assorbissero meglio il
liquido, quindi pulì con cura il cristallo, l’asciugò col proprio
fazzoletto, e lo rimise sul comodino.
Se qualcuno avesse potuto penetrare con lo sguardo all’interno di
quella camera, avrebbe visto l’esitazione della signora Villefort
nel guardare Valentine e accostarsi al letto. Quella luce lugubre,
quel silenzio, quella terribile poesia della notte si trasformavano
ora nella spaventosa poesia della sua coscienza; l’avvelenatrice
aveva paura di guardare la sua opera. Prese finalmente coraggio,
allontanò la cortina, e appoggiandosi al capezzale del letto, si
curvò sopra Valentine.
La ragazza non respirava più; le sue labbra semichiuse non
lasciavano sfuggire un alito di quel soffio che manifesta la vita:
imbiancandosi avevano cessato di fremere, i suoi occhi velati da un
vapore violetto, che sembrava essersi infiltrato sotto la pelle,
formavano una sporgenza più bianca dove il globo gonfiava la
palpebra, e le sue lunghe ciglia nere rigavano una pelle già pallida
come la cera.
La signora Villefort contemplò quel viso con un’espressione
eloquentissima nella sua immobilità. Allora crebbe il suo ardire, e
sollevando la coperta appoggiò la mano sul cuore della ragazza: era
muto e ghiacciato; udiva i battiti nelle vene delle proprie dita,
per cui subito si ritrasse piena di spavento. Il braccio di
Valentine pendeva fuori dal letto: quel braccio sembrava modellato
su quello di una delle Grazie di Germain Pilon, ma l’avambraccio
leggermente deformato da una contrazione, e il polso della mano di
forma purissima, si appoggiavano, un po’ irrigiditi e con le dita
separate, sulla sponda del letto. La radice delle unghie era
bluastra.
Per la signora Villefort non c’era più dubbio, tutto era finito;
l’opera terribile, l’ultima che volesse compiere, era consumata.
L’avvelenatrice non aveva più niente da fare in quella camera. Si
ritirò con tanta precauzione, da temere il rumore dei piedi sul
tappeto, ma nel ritirarsi teneva ancora sollevata la cortina,
assorbendo quello spettacolo della morte che porta in sé
un’irresistibile attrazione fino a che la morte non ha prodotto la
decomposizione: finché dura il mistero, non vi è ancora il ribrezzo.
I minuti passavano, la signora Villefort sembrava non potersi
staccare da quella cortina che teneva sospesa come una sindone sopra
la testa di Valentine; pagò il suo tributo alla meditazione. La
meditazione del delitto deve essere il rimorso. In quel momento i
crepitii del lume raddoppiarono. A quel rumore la signora Villefort
tremò, e lasciò ricadere la cortina. Nello stesso istante si spense
il lume, e la camera fu immersa in una spaventosa oscurità. In mezzo
a quell’oscurità si risvegliò la pendola, e suonò le quattro e
mezzo. L’avvelenatrice, spaventata da quelle successive emozioni,
raggiunse a tastoni la porta e rientrò nella sua camera col sudore
dell’angoscia sulla fronte. L’oscurità continuò per due ore ancora.
Quindi, a poco a poco, una sinistra e debole luce penetrò
nell’appartamento, filtrando dagli interstizi delle persiane, a poco
a poco si fece maggiore, e venne a restituire il colore e la forma
agli oggetti e ai corpi.
In quell’attimo si sentì per le scale la tosse dell’infermiera, la
quale entrò nella camera di Valentine con una tazza in mano. Per un
padre, per un amante, il primo sguardo avrebbe rivelato tutto, che
Valentine era morta; per questa donna, Valentine dormiva.
«Bene», disse, avvicinandosi al comodino, «ha bevuto una parte della
sua pozione, il bicchiere è per due terzi vuoto.»
Quindi andò al caminetto riaccese il fuoco, e s’installò in una
poltroncina, e sebbene si fosse appena alzata, approfittò del sonno
di Valentine per dormire ancora alcuni momenti. La pendola la
svegliò suonando le otto. Allora, meravigliata del sonno ostinato di
Valentine, spaventata da quel braccio penzoloni fuori dal letto, si
avvicinò alla dormiente, e soltanto in quell’istante notò le labbra
fredde e il petto gelido. Voleva riportare il braccio vicino al
corpo, ma era di una rigidità spaventosa, sulla quale un’infermiera
non poteva ingannarsi. Mandò un orribile grido. Quindi correndo alla
porta, gridò: «Soccorso! Soccorso!»
«Come, aiuto?» chiese dal fondo della scala il signor d’Avrigny.
Era quella l’ora in cui arrivava il dottore.
«Come, aiuto?» gridò la voce del signor Villefort, uscendo
precipitosamente dallo studio. «Dottore, avete sentito chiamare
aiuto?»
«Sì, sì, saliamo», rispose il signor d’Avrigny, «saliamo presto!
Viene dalla camera di Valentine.»
Ma prima del padre e del dottore, erano entrati i servi che si
trovavano sullo stesso piano, sparsi per le camere o per i corridoi,
e vedendo Valentine pallida e immobile a letto, alzando le mani al
cielo, vacillavano come se avessero avuto le vertigini.
«Chiamate la signora Villefort, svegliate la signora Villefort!»
gridò il procuratore dalla porta della camera, nella quale sembrava
non osasse entrare.
Ma i domestici, invece di rispondere, guardarono il signor
d’Avrigny, che, entrato, era corso da Valentine, e la sollevava
sulle sue braccia.
«Anche lei!» mormorò, lasciandola ricadere. «Mio Dio, mio Dio!
Quando vi stancherete?»
Villefort entrò nella stanza.
«Che dite? Mio Dio!» gridò, alzando le braccia al cielo. «Dottore!
Dottore!»
«Dico che Valentine è morta!» rispose il signor d’Avrigny con voce
solenne e terribile nella sua solennità.
Il signor Villefort stramazzò, come se le sue gambe si fossero
spezzate, e cadde con la testa contro il letto di Valentine. Alle
parole del dottore, alle grida del padre, i domestici spaventati
fuggirono mandando sorde imprecazioni. Si udirono per i corridoi e
per le sale i loro passi affrettati, quindi un gran movimento nei
cortili, poi tutto finì, e il rumore si spense: dal primo all’ultimo
erano fuggiti da quella casa maledetta.
In quel momento la signora Villefort, col braccio per metà infilato
nell’accappatoio, sollevava la tenda; si fermò per un momento sulla
soglia nell’atto d’interrogare i presenti, e chiamando in suo aiuto
alcune false lacrime. A un tratto fece un passo, o piuttosto un
balzo con le braccia tese verso il comodino: aveva visto d’Avrigny
piegarsi con curiosità sul mobile, e prendere il bicchiere che era
certa d’aver vuotato nella notte. Il bicchiere era di nuovo pieno
per un terzo, proprio come quando ne aveva gettato il contenuto
nelle ceneri.
Lo spettro di Valentine, dritto davanti all’avvelenatrice, avrebbe
prodotto su di lei un effetto minore. Di fatto era quello il colore
della bevanda da lei versata nel bicchiere di Valentine, e da lei
bevuta, era quello il veleno che non poteva ingannare l’occhio del
signor d’Avrigny, e che d’Avrigny guardava attentamente: era quello
un miracolo che senza dubbio faceva Dio, affinché restasse, malgrado
tutte le precauzioni, una prova, una testimonianza del delitto.
Mentre la signora Villefort restava immobile come la statua del
terrore, mentre Villefort, con la testa nascosta nelle lenzuola del
letto funebre, non vedeva nulla di quanto accadeva intorno a lui,
d’Avrigny si avvicinava alla finestra per meglio esaminare con
l’occhio il contenuto del bicchiere, e gustandone una goccia presa
sulla punta di un dito, mormorò: «Ah, ora non è più la brucina;
vediamo che cos’è…»
Corse a uno degli armadi della camera di Valentine, armadio
trasformato in farmacia, e sfilando dalla sua piccola nicchia
d’argento una boccetta d’acido nitrico, ne lasciò cadere alcune
gocce nel liquido azzurrognolo, che d’un tratto si trasformò in un
mezzo bicchiere di sangue vermiglio.
«Ah!» esclamò d’Avrigny, con l’orrore del giudice che scopre la
verità, e con la soddisfazione d’uno scienziato che risolve un
problema.
La signora Villefort si volse un istante, gli occhi fiammeggianti,
poi si calmò: cercò vacillante la porta con la mano e uscì. Un
momento dopo si udì il rumore d’un corpo che cade. Ma nessuno vi
fece attenzione: l’infermiera era occupata a guardare l’analisi
chimica, Villefort era sempre oppresso dal dolore.
Soltanto il signor d’Avrigny aveva seguito con gli occhi la signora
Villefort, e aveva notato la sua precipitosa scomparsa. Sollevò la
tenda della camera di Valentine e, attraverso la stanza di Edouard,
poté vedere nella sua stanza la signora Villefort, priva di sensi e
stesa sul pavimento.
«Andate a soccorrere la signora Villefort», disse all’infermiera,
«la signora Villefort si sente male.»
«Ma la signorina Valentine?» balbettò questa.
«Valentine non ha più bisogno di aiuto», rispose d’Avrigny, «poiché
è morta.»
«Morta! Morta!» sospirò Villefort, nel suo parossismo, tanto più
dilaniante, in quanto nuovo, sconosciuto in quel cuore di bronzo.
«Morta, dite?» gridò una terza voce. «Chi ha detto che Valentine è
morta?»
I due uomini si voltarono, e sulla porta scoprirono Morrel, pallido,
sconvolto e terribile.
Ecco ciò ch’era accaduto. All’ora consueta, e per la porticina che
conduceva dal signor Noirtier, Morrel si era presentato.
Diversamente dal solito trovò la porta aperta, e, senza bisogno di
suonare il campanello, entrò. Nel vestibolo aspettò un istante,
chiamando un domestico qualunque che lo introducesse presso il
signor Noirtier, ma nessuno rispose; i domestici, come si sa, erano
tutti fuggiti dalla casa. Morrel quel giorno non aveva alcun
particolare motivo d’inquietudine; aveva la promessa di Montecristo
che Valentine sarebbe vissuta, e fino a quel giorno la promessa era
stata mantenuta fedelmente. Ogni sera il conte gli dava delle buone
notizie, che l’indomani venivano confermate dallo stesso signor
Noirtier. Però quella solitudine gli sembrò strana; chiamò una
seconda, una terza volta, ma sempre lo stesso silenzio.
Allora si decise a salire. La porta del signor Noirtier era aperta
come tutte le altre porte. La prima cosa che vide, fu il vecchio
nella sua poltrona al posto solito, ma i suoi occhi dilatati
sembravano esprimere uno spavento interiore, che veniva confermato
dallo strano pallore dei suoi lineamenti.
«State bene, signore?» domandò il giovane, non senza una certa
preoccupazione.
Il vecchio col suo battere di palpebre fece segno di sì. Ma la sua
fisionomia sembrò tradire l’inquietudine.
«Siete preoccupato», continuò Morrel. «Avete bisogno di qualche
cosa? Volete che chiami qualcuno?»
Noirtier indicò di sì. Morrel si attaccò al cordone del campanello,
ma ebbe un bel tirare fino a romperlo, non venne alcuno. Si voltò
verso Noirtier; il pallore e l’angoscia andavano crescendo sul viso
del vecchio.
«Mio Dio!» esclamò Morrel. «Ma perché non viene nessuno? Qualcuno si
è ammalato in casa?»
Gli occhi di Noirtier sembrarono sul punto di schizzare dalle
orbite.
«Ma che avete dunque?» riprese Morrel. «Voi mi spaventate.
Valentine, Valentine!»
Noirtier accennò di sì.
Maximilien aprì la bocca per parlare, ma non riuscì ad articolare
parola: vacillò e si appoggiò a un mobile; quindi tese la mano verso
la porta, e il vecchio accennò ancora di sì. Maximilien si lanciò
verso la piccola scala, che salì in due salti, mentre Noirtier
sembrava gridargli con gli occhi: «Più presto! Più presto!» Bastò un
minuto al giovane per attraversare molte stanze, solitarie come il
rimanente della casa, e giungere fino a quella di Valentine. Non
ebbe bisogno di spingere la porta, che era spalancata. Un singhiozzo
fu il primo suono che sentì; vide, come attraverso una nube, una
figura nera inginocchiata e piangente ai piedi del letto di
Valentine. Il timore, lo spaventoso timore, lo inchiodava sulla
soglia. Allora udì una voce che diceva: «Valentine è morta» e una
seconda voce che, come un’eco, rispondeva: «Morta! morta!»
102. Maximilien
Villefort si rialzò, quasi imbarazzato d’essere stato colto nel
pieno di quel dolore; il terribile mestiere che esercitava da
venticinque anni, era arrivato a fare di lui più e meno che un uomo.
Il suo sguardo, un istante prima perduto, si fissò su Morrel.
«Chi siete voi, signore?» domandò. «Dimenticate che non si entra
così in una casa abitata dalla morte? Fuori, signore, fuori!»
Ma Morrel restava immobile, senza poter staccare gli occhi dal
terribile spettacolo di quel letto in disordine e dalla pallida
figura che sopra vi era stesa.
«Fuori! Capite?» gridò Villefort mentre d’Avrigny si avvicinava per
far uscire Morrel.
Questi guardò smarrito il cadavere, i due uomini, la camera, sembrò
esitare un momento, aprì la bocca, quindi finalmente, non potendo
pronunciare parola, retrocesse mettendosi le mani fra i capelli, in
modo tale che Villefort e d’Avrigny, per un istante attoniti,
scambiarono fra di loro uno sguardo senza espressione.
Cinque minuti dopo si udì scricchiolare la scala e si vide Morrel
che, con una forza sovrumana, sollevava la poltrona di Noirtier,
portando il vecchio al primo piano della casa. Giunto sulla scala,
Morrel posò la poltrona a terra, e la spinse rapidamente fino alla
camera di Valentine. Tutto questo con una forza raddoppiata
dall’esaltazione.
Spaventosa soprattutto era la figura di Noirtier: il suo viso
pallido, lo sguardo infiammato, fu per Villefort un’apparizione
terribile.
«Guardate che cosa hanno fatto!» gridò Morrel, appoggiato ancora con
una mano allo schienale della poltrona, che aveva spinto fin contro
il letto, e l’altra tesa verso Valentine.
«Guardate, padre, guardate!»
Villefort arretrò di un passo, e guardò con meraviglia il giovane a
lui quasi sconosciuto, che chiamava Noirtier suo padre.
In quel momento tutta l’anima del vecchio sembrò passare nei suoi
occhi, che si iniettarono di sangue; quindi gli si gonfiarono le
vene del collo: un colore azzurrognolo, come quello d’un epilettico,
gli coprì il collo, le guance e le tempie. Non mancava a questa
esplosione interna di tutto l’essere che un grido.
Questo grido uscì, per così dire, da tutti i pori, spaventoso nel
suo mutismo, dilaniante nel suo silenzio. D’Avrigny si precipitò
verso il vecchio, e gli fece annusare un energico revulsivo.
«Signore», gridò Morrel, afferrando la mano inerte del paralitico,
«domandano chi sono io, e quale diritto ho di essere qui. Voi che lo
sapete, ditelo voi, ditelo!»
E la voce del giovane si spense con un singhiozzo.
Intanto il respiro del vecchio scuoteva il suo petto: lo si sarebbe
detto in preda all’agonia. Finalmente alcune lacrime caddero dagli
occhi di Noirtier, mentre il giovane singhiozzava senza poter
piangere. Non potendo piegare la testa, chiuse gli occhi.
«Dite», continuò Morrel con voce strozzata, «dite che ero il suo
fidanzato! Dite che era la mia nobile amica, il mio solo amore sulla
terra! Dite, dite, che questo cadavere mi appartiene!»
E il giovane cadde in ginocchio davanti a quel letto, che strinse
con violenza. Quel dolore era così vivo che d’Avrigny si voltò per
nascondere la sua emozione, e Villefort, senza chiedere altra
spiegazione, spinto da quella specie di attrazione che ci porta
verso quelli che hanno amato coloro che piangiamo, tese la mano al
giovane, che stringeva la mano gelida di Valentine. Per qualche
istante in quella camera non si sentirono che singhozzi,
imprecazioni e preghiere dominati dalla respirazione rauca e
straziante del petto di Noirtier.
Finalmente Villefort, più padrone di sé, dopo avere, per così dire,
ceduto il suo posto a Maximilien, prese la parola.
«Signore», disse a Maximilien, «voi amavate Valentine, dite, eravate
suo fidanzato; io ignoravo questo amore, ignoravo questo impegno…
Eppure, io, suo padre, vi perdono, poiché, lo vedo, il vostro dolore
è grande, reale e vero. D’altra parte anche in me il dolore è troppo
grande perché mi resti nel cuore posto alla collera. Ma voi lo
vedete: l’angelo che speravate di avere, ha lasciato la terra, non
sa più che fare delle adorazioni degli uomini, lei, che a quest’ora,
adora il Signore… Dite dunque addio alla triste spoglia, stringete
un’ultima volta la mano che aspettavate, e separatevi da lei per
sempre! Valentine ora non ha più bisogno che di un prete che la
benedica!»
«Voi vi sbagliate, signore», gridò Morrel, rialzandosi su un
ginocchio col cuore dilaniato da un dolore più acuto di quanti ne
aveva fino allora sentiti, «voi sbagliate! Valentine morta in questo
modo, non solo ha bisogno di un prete, ma anche di un giudice.
Signor Villefort, mandate a cercare il prete, il giudice sarò io!»
«Che volete dire, signore?» mormorò Villefort, tremante per le
parole di Morrel.
«Voglio dire», continuò Morrel, «che in voi esistono due uomini,
signore: il padre ha pianto abbastanza, ora il procuratore cominci
la sua opera.»
Gli occhi di Noirtier sfavillarono; d’Avrigny si avvicinò.
«Signore», continuò il giovane, cogliendo negli occhi di tutti i
presenti i sentimenti che si risvegliavano loro sul volto, «so
quello che dico, e voi sapete bene al pari di me tutto ciò che sto
per dire: Valentine è morta avvelenata.»
Villefort abbassò la testa, d’Avrigny si avvicinò ancora di un
passo, Noirtier affermò con gli occhi.
«Ora, signore», riprese Morrel, «nei tempi in cui viviamo, una
creatura, quand’anche non fosse così giovane, così bella, così
adorabile, una creatura non scompare così violentemente dal mondo
senza che si domandi conto della sua scomparsa. Perciò, signor
procuratore», aggiunse Morrel, con una veemenza sempre crescente,
«bando alla pietà! Io denuncio il delitto, cercate l’assassino!»
E il suo occhio implacabile interrogava Villefort, che dal canto suo
sollecitava uno sguardo, ora da Noirtier, ora da d’Avrigny. Ma
invece di trovare soccorso da suo padre e dal dottore, Villefort non
trovò in essi che uno sguardo inflessibile al pari di quello di
Morrel.
«Certamente», ribadì d’Avrigny.
«Signore», replicò Villefort, tentando di lottare ancora contro
quella triplice volontà e contro la propria emozione, «signore, vi
sbagliate… Non si commettono delitti in casa mia, la fatalità mi
colpisce! Dio mi prova! È un pensiero orribile, ma in casa mia non
si assassina nessuno!»
Gli occhi di Noirtier fiammeggiarono, d’Avrigny aprì la bocca per
parlare, Morrel tese la mano chiedendo silenzio.
«E io vi dico che qui si uccide!» gridò Morrel, abbassando la voce,
ma senza perder nulla della sua emozione. «Vi dico che questa è la
quarta vittima che si colpisce in quattro mesi! Vi dico che avevano
già provato una volta, quattro giorni fa, ad avvelenare Valentine, e
che questo delitto era andato a vuoto, grazie alle precauzioni prese
dal signor Noirtier! Vi dico che fu raddoppiata la dose, o cambiata
la natura del veleno, e che questa volta è riuscito! Vi dico che voi
sapete tutto ciò al pari di me, poiché il signore qui presente vi ha
avvisato, come medico e amico.»
«Voi delirate, signore!» disse Villefort, tentando invano di
svicolare dal cerchio in cui era stato costretto.
«Io deliro?!» gridò Morrel. «Mi appello al signor d’Avrigny stesso.
Domandategli, signore, se si ricorda ancora delle parole che ha
pronunciato nel vostro giardino, nel giardino di questo palazzo, la
sera stessa della morte della signora di Saint-Méran, quando
entrambi, voi e lui, credevate d’esser soli? Voi discutevate di
questa morte tragica, e quella fatalità di cui parlate, e Dio che
accusate ingiustamente, non hanno altra colpa che d’aver permesso
l’assassinio di Valentine!»
Villefort e d’Avrigny si guardarono.
«Sì, sì, ricordate», continuò Morrel, «perché quelle parole, che
credevate dette al silenzio e alla solitudine, sono cadute nelle mie
orecchie. Certamente da quella sera, vedendo la colpevole
compiacenza del signor Villefort per i suoi, avrei dovuto rivelare
tutto alle autorità… Non sarei complice, come lo sono in questo
momento, della tua morte, Valentine! Mia Valentine prediletta! Ma il
complice diventerà il vendicatore: questo quarto omicidio è
flagrante, visibile agli occhi di tutti, e se tuo padre ti
abbandona, Valentine, sta a me, te lo giuro, perseguitare
l’assassino!»
E questa volta, come se la natura avesse avuto infine pietà di
quella vigorosa psiche, le parole di Morrel si spensero nella gola,
il petto scoppiò in singhiozzi, le lacrime, tanto lungamente
trattenute, scaturirono dagli occhi: Morrel si piegò su se stesso, e
ricadde in ginocchio piangendo vicino al letto di Valentine.
Allora toccò a d’Avrigny.
«E io pure», disse con voce forte, «io pure mi unisco al signor
Morrel per domandarvi giustizia del delitto; poiché il mio cuore si
ribella all’idea che la mia vile compiacenza abbia incoraggiato
l’assassino!»
«Mio Dio, mio Dio!…» mormorò Villefort annientato.
Morrel rialzò la testa, e leggendo negli occhi del vecchio che
lanciavano fiamme, disse: «Guardate», disse, «il signor Noirtier
vuol parlare».
Noirtier aveva un’espressione così terribile, che tutte le facoltà
di quel povero vecchio impotente erano concentrate nel suo sguardo.
«Conoscete l’assassino?» domandò Morrel.
Noirtier accennò di sì.
«E volete dirci il suo nome?» gridò il giovane. «Ascoltiamo, signor
d’Avrigny, ascoltiamo.»
Noirtier rivolse all’infelice Morrel un sorriso malinconico, uno di
quei sorrisi con gli occhi che tante volte avevano reso felice
Valentine, e in tal modo fissò la sua attenzione. Quindi, avendo
attaccati, per così dire, gli occhi del suo interlocutore ai suoi,
li voltò verso la porta.
«Volete che io esca?» gridò dolorosamente Morrel.
Noirtier accennò di sì.
«Ahimè! Signore, abbiate dunque pietà di me!»
Gli occhi del vecchio rimasero irremovibilmente fissi sulla porta.
«Potrò almeno tornare?» domandò Morrel. «Devo uscir da solo?»
Noirtier accennò di no.
«Chi deve dunque venir con me, il procuratore?»
Noirtier accennò nuovamente di no.
«Il dottore?»
Il vecchio fece segno di sì.
«Volete restar solo col signor Villefort? Ma riuscirà a capirvi?»
«Certo», rispose il signor Villefort, quasi contento che la
spiegazione avvenisse a quattr’occhi. «State tranquillo, capisco
benissimo mio padre.»
E mentre diceva così, con viva espressione di gioia, i denti del
procuratore battevano violentemente.
D’Avrigny prese Morrel per un braccio, e trascinò il giovane nella
stanza vicina. Allora si fece in tutta la casa un silenzio più
profondo di quello della morte. Ma, dopo un quarto d’ora, si udì un
passo vacillante, e Villefort comparve sulla soglia del salotto dove
aspettavano d’Avrigny e Morrel.
«Venite!» disse, e li ricondusse da Noirtier.
Morrel guardò attentamente Villefort: la faccia del procuratore era
livida, larghe macchie color ruggine gli erano apparse sulla fronte;
fra le dita teneva una penna, contorta in mille modi e rotta in
diversi pezzi.
«Signori», riprese rivolgendosi con voce soffocata a d’Avrigny e a
Morrel, «signori, la vostra parola d’onore che l’orribile segreto
rimarrà sepolto fra noi…»
I due uomini trasalirono.
«Ve ne scongiuro!…» continuò Villefort.
«Ma…» balbettò Morrel, «il colpevole!… L’uccisore!… L’assassino!…»
«State tranquilli, signori, giustizia sarà fatta», disse Villefort.
«Mio padre mi ha rivelato il nome del colpevole, mio padre ha sete
di vendetta al pari di voi, eppure mio padre vi scongiura, come me,
di conservare il segreto del delitto. Non è vero, padre mio?»
Noirtier fece segno di sì.
Morrel si lasciò sfuggire un moto d’orrore e d’incredulità.
«Signore!» gridò Villefort, fermando Morrel per un braccio. «Caro
signore, se mio padre, l’uomo che sapete inflessibile, vi fa questa
domanda, è perché, state tranquilli, Valentine sarà terribilmente
vendicata. Non è vero, padre mio?»
Il vecchio fece segno di sì.
Villefort continuò: «Egli mi conosce, ed è per lui che vi do la mia
parola. Tranquillizzatevi dunque, signori! Tre giorni, non vi
domando che tre giorni, è il meno che potreste domandare alla
giustizia, e fra tre giorni la vendetta che avrò avuto sull’uccisore
di mia figlia, farà fremere fin dal profondo del cuore anche gli
uomini più indifferenti».
E dicendo queste parole, stringeva i denti scuotendo la mano inerte
del vecchio.
«Sarà mantenuta questa promessa, signor Noirtier?» domandò Morrel,
mentre d’Avrigny lo interrogava con lo sguardo.
Il vecchio accennò uno sguardo di sinistro assenso.
«Giurate dunque, signori» disse Villefort, unendo le mani di
d’Avrigny e di Maximilien, «giurate che avrete pietà dell’onore
della famiglia, e mi lascerete la cura di vendicarla.»
D’Avrigny si voltò, e mormorò un debole sì; ma Morrel strappò la
mano da quella del magistrato si precipitò verso il letto, impresse
le labbra su quelle fredde di Valentine, e fuggì col lungo gemito di
un’anima che annega nella disperazione.
Abbiamo detto che i domestici erano tutti scomparsi; il signor
Villefort fu dunque obbligato a pregare d’Avrigny d’incaricarsi di
tutti quegli atti, numerosi e delicati, che esige la morte nelle
nostre grandi città: e, particolarmente, una morte accompagnata da
circostanze sospette. In quanto a Noirtier, era terribile vedere
quel dolore, quella disperazione, quel pianto concentrato.
Villefort rientrò nel suo studio, d’Avrigny andò a cercare il medico
della municipalità, che adempie le funzioni di ispettore di sanità,
e che si chiama con tanta precisione «medico legale».
Noirtier non volle lasciare la salma di sua nipote.
Mezz’ora dopo il signor d’Avrigny ritornò con un collega. Erano
state chiuse le porte che davano sulla strada, e siccome persino il
portinaio era scomparso con tutti gli altri servitori, Villefort
stesso andò ad aprire. Ma si fermò sul pianerottolo, poiché non
aveva più il coraggio di rientrare nella camera mortuaria. I due
medici entrarono da soli nella stanza di Valentine. Noirtier era
vicino al letto, pallido, immobile e muto.
Il medico legale si avvicinò con la indifferenza dell’uomo
assuefatto a passare la metà della sua vita tra cadaveri, e
sollevato il drappo che copriva la ragazza, le aprì le labbra.
«Povera fanciulla!» sospirò d’Avrigny. «È morta, vero?»
«Sì», rispose laconicamente il medico, lasciando ricadere il
lenzuolo che copriva il viso di Valentine.
Noirtier emise un sordo rantolo; d’Avrigny si voltò, gli occhi del
vecchio sfavillavano. Il buon dottore capì che Noirtier chiedeva di
vedere sua nipote: si riaccostò al letto, e mentre il medico legale
si lavava le dita nell’acqua col cloruro, scoprì quel calmo e
pallido viso, che assomigliava a quello di un angelo addormentato.
Una lacrima ricomparve nell’occhio di Noirtier. Il medico legale
scrisse il suo verbale sull’angolo di un tavolo, nella stessa camera
di Valentine e, adempita questa suprema formalità, uscì accompagnato
dal dottore.
Villefort aspettava che scendessero, e apparve sulla porta del suo
studio. In poche parole ringraziò il medico, e voltandosi a
d’Avrigny, disse: «E ora il prete».
«C’è qualche sacerdote in particolare a cui desiderate dare
l’incarico di pregare per Valentine?» domandò d’Avrigny.
«No», rispose Villefort, «andate a cercare il più vicino.»
«Il più vicino», disse il medico legale, «è un buon abate italiano
che è venuto ad abitare nella casa accanto alla vostra; se volete,
lo avvertirò nel passare.»
«D’Avrigny», riprese Villefort, «volete avere la bontà di
accompagnare il signore? Ecco la chiave perché possiate entrare e
uscire a vostro piacere. Condurrete il prete, e lo guiderete alla
camera della mia povera figlia.»
«Desiderate parlargli, amico mio?»
«Desidero restar solo. Mi scuserete, non è vero? Un prete deve
comprendere tutti i dolori, anche il dolore paterno.»
E il signor Villefort, consegnando una chiave a d’Avrigny, salutò
un’ultima volta il dottore sconosciuto, rientrò nello studio e si
mise a scrivere. Per alcune menti il lavoro è un rimedio a tutti i
dolori. Nel momento in cui scendevano in strada, videro un uomo in
tonaca nera sulla soglia della porta vicina.
«Ecco la persona di cui vi parlavo», disse il medico dei morti a
d’Avrigny.
D’Avrigny s avvicinò all’ecclesiastico.
«Signore», disse, «sareste disposto a prestare il vostro servizio a
un padre disgraziato che ha perduto sua figlia, al regio
procuratore, Villefort?»
«Ah, signore», rispose il prete, con un accento italiano molto
pronunciato, «lo so, la morte è nella sua casa.»
«Allora non ho bisogno di dirvi che genere di servizio si aspetta da
voi?»
«Venivo a offrirmi io stesso, signore», disse il prete. «Fa parte
della nostra missione andare incontro ai nostri doveri.»
«È una ragazza.»
«Sì, lo so, l’ho saputo dai domestici che fuggivano di casa. Ho
saputo inoltre che si chiamava Valentine, e ho già cominciato a
pregare per lei.»
«Grazie, grazie, signore», disse d’Avrigny, «e poiché avete già
cominciato a esercitare il vostro santo ministero, vi prego di
continuarlo. Venite con me vicino alla morta, e tutta una famiglia
sepolta nel lutto vi sarà riconoscente.»
«Vengo, signore, e oso dire che non saranno mai state fatte
preghiere più fervide delle mie.»
D’Avrigny prese l’abate per mano, e senza incontrare Villefort,
chiuso nello studio, lo condusse fino alla camera di Valentine,
nella quale i becchini non sarebbero arrivati che la sera seguente.
Entrando nella camera, lo sguardo di Noirtier aveva incrociato
quello dell’abate, e senza dubbio vi scorse qualcosa di particolare,
perché non lo abbandonò più.
D’Avrigny raccomandò al prete non solo la morta, ma anche il vivo, e
il prete promise a d’Avrigny di dire le sue preghiere alla morta, e
di prestare la sua cura a Noirtier. L’abate vi si obbligò
solennemente. E senza dubbio per non essere disturbato nelle
preghiere, e affinché Noirtier non fosse disturbato nel suo dolore,
andò, appena d’Avrigny ebbe lasciato la camera, a chiudere le
serrature, non solo della porta dalla quale era uscito d’Avrigny, ma
anche di quella che portava nelle stanze della signora Villefort.
103. La firma di Danglars
Il giorno successivo si annunciò triste e nuvoloso. I becchini,
nella notte, avevano eseguito il loro funebre ufficio, preparato il
corpo, che era stato deposto sul letto, avvolto nel lugubre sudario
chrricopre i trapassati, prestando loro, per quanto si parli di
uguaglianza davanti alla morte, un’ultima testimonianza del lusso
ch’essi amavano durante la vita. Il sudario non era altro che una
pezza di magnifica batista che la ragazza aveva comprato quindici
giorni prima.
Nel corso della serata, uomini chiamati per questo, avevano
trasportato Noirtier dalla camera di Valentine alla sua, e contro
ogni aspettativa, il vecchio non aveva fatta alcuna difficoltà ad
allontanarsi dal corpo di sua nipote.
L’abate Busoni aveva vegliato fino al giorno, e all’alba si era
ritirato in casa sua senza chiamare nessuno. Verso le otto di
mattina era tornato d’Avrigny, e avendo incontrato Villefort che
andava da Noirtier, lo aveva accompagnato per sapere in che modo il
vecchio avesse passato la notte. Lo ritrovarono nel suo seggiolone,
che gli serviva anche da letto, che dormiva un sonno dolce e quasi
sorridente. Entrambi si fermarono stupiti sulla soglia.
«Guardate», disse d’Avrigny a Villefort, che guardava suo padre
addormentato, «guardate come la natura sa calmare i dolori più
laceranti: non si può certo dire che Noirtier non amasse sua nipote,
eppure dorme.»
«Sì, avete ragione», osservò Villefort sorpreso, «dorme, ed è una
cosa ben strana, poiché la minima contrarietà lo tiene sveglio delle
notti intere.»
«Il dolore lo ha distrutto…» replicò d’Avrigny.
Ed entrambi tornarono pensierosi nello studio del regio procuratore.
«Vedete io non ho dormito affatto», disse Villefort, mostrando a
d’Avrigny il suo letto intatto. «Il dolore non mi ha atterrato… Sono
due notti che non dormo, ma invece, guardate la scrivania, ho
scritto, mio Dio! In queste due notti… ho sfogliato pratiche
giudiziarie, ho preparato quest’atto d’accusa contro Benedetto! Oh,
lavoro, lavoro, mia gioia, mia rabbia, sta a te combattere tutti i
miei dolori!»
E strinse convulsamente la mano a d’Avrigny.
«Avete bisogno di me?» domandò il dottore.
«No, vi prego soltanto di tornare alle undici… A mezzogiorno ha
luogo… la partenza… mio Dio! Povera figlia mia, povera figlia mia!»
Il procuratore, riavutosi, alzò gli occhi al cielo e mandò un
sospiro.
«Vi troverò a ricevere?»
«No, ho un cugino che s’incarica di questo triste onore. Io
lavorerò, dottore, quando lavoro, tutto sparisce.»
Infatti, il dottore non era arrivato alla porta, che il regio
procuratore si era messo al lavoro.
Sulla scalinata d’Avrigny incontrò il parente di cui gli aveva
parlato Villefort, personaggio insignificante in questa storia come
in quella famiglia, uno di quegli esseri che sono destinati nascendo
a rappresentare in società la parte dell’inutilità. Era puntuale,
vestito di nero, col velo al braccio e, venendo da suo cugino, aveva
assunto un viso compunto che contava di conservare finché vi fosse
stato bisogno.
Alle undici le carrozze funebri rumoreggiavano sul selciato del
cortile, e la strada del Faubourg Saint-Honoré si riempiva del
mormorio della folla, avida sia delle gioie che dei lutti dei
ricchi, e che corre a un pomposo funerale con la stessa fretta che
al matrimonio di una duchessa.
A poco a poco la camera ardente si riempì, e si vide giungere prima
una parte delle nostre antiche conoscenze, come Debray, Beauchamp,
Château-Renaud, quindi tutte le persone più illustri del tribunale,
delle Camere, della letteratura, dell’esercito, poiché il signor
Villefort occupava il primo rango di un’alta posizione sociale, meno
per la sua carica che per i suoi meriti personali. Il cugino stava
alla porta, e faceva entrare tutti; e per gli indifferenti era un
gran sollievo, bisogna dirlo, quello di ritrovar là una persona
indifferente, che non esigeva dagli invitati un dolore finto, o
false lacrime, come avrebbe fatto un padre, un fratello, un
fidanzato.
Quelli che si conoscevano si chiamavano con lo sguardo e si
riunivano in gruppi. Uno di questi gruppi era composto da Debray,
Château-Renaud e Beauchamp.
«Povera ragazza!» disse Debray, pagando, del resto, come ciascuno,
quasi suo malgrado, un tributo al doloroso avvenimento.
«Povera ragazza! Così ricca, bella! Lo avreste pensato,
Château-Renaud, quando venimmo, saranno circa due settimane o un
mese al più, per firmare il contratto che poi non fu firmato?»
«Proprio no», rispose Château-Renaud.
«La conoscevate?»
«Avevo parlato una volta o due con lei, al ballo della signora
Morcerf; mi sembrò graziosa, anche se un po’ malinconica. Dov’è la
sua matrigna, lo sapete?»
«È andata a trascorrere la giornata dalla moglie del signore che ci
riceve.»
«E chi è?»
«Chi?»
«Il signore che ci riceve… Un deputato?»
«No», rispose Beauchamp. «Sono condannato a vedere i nostri
onorevoli tutti i giorni, ma questo non lo conosco.»
«Avete parlato di questa morte nel vostro giornale?»
«L’articolo non è mio, ma se n’è parlato: e dubito che la cosa sia
gradito al signor Villefort. Vi si dice, credo, che se quattro morti
successive avessero luogo in tutt’altra casa che in quella del regio
procuratore, il procuratore di Stato se ne sarebbe certamente
preoccupato.»
«Del resto», riprese Château-Renaud, «il dottor d’Avrigny, che è il
medico di mia madre, afferma che Villefort sia disperato. Ma chi
cercate dunque, Debray?»
«Cerco il conte di Montecristo», rispose il giovane.
«L’ho incontrato sul boulevard, venendo qui, e credo stia per
partire; andava dal suo banchiere», spiegò Beauchamp.
«Dal suo banchiere? Non è Danglars il suo banchiere?» domandò
Château-Renaud a Debray.
«Credo di sì», rispose il sottosegretario con un leggero imbarazzo.
«Ma il conte di Montecristo non è il solo a mancare… Non vedo
Morrel.»
«Morrel! Ma la conosceva?» domandò Château-Renaud. «Credo sia stato
presentato soltanto alla signora Villefort.»
«Non importa, sarebbe dovuto venire», disse Debray. «Di che cosa si
parlerà questa sera? Questi funerali sono la notizia della giornata.
Ma zitti, attenti, ecco il ministro di Grazia e Giustizia: si
crederà senza dubbio obbligato a fare il suo discorsetto al cugino
lacrimevole.»
E i tre giovani si accostarono alla porta per sentire il discorso
del ministro di Grazia e Giustizia.
Beauchamp aveva detto la verità. Recandosi alla cerimonia funebre,
aveva incontrato Montecristo, che dal canto suo si dirigeva
all’abitazione di Danglars, in rue Chaussée d’Antin. Il banchiere
aveva riconosciuto dalla sua finestra la carrozza del conte che
entrava nel cortile, e gli era andato incontro con viso triste, ma
affabile.
«Ebbene conte», esordì, tendendo la mano a Montecristo, «venite a
farmi le condoglianze? La disgrazia è entrata in casa mia, e quando
vi ho scorto, mi stavo chiedendo se avevo mandato qualche
maledizione a quei poveri Morcerf, cosa che avrebbe giustificato il
proverbio: “A chi vuol male accade male”.
Ebbene, sulla mia parola, no, non ho augurato del male a Morcerf.
Era forse un po’ orgoglioso, per un uomo venuto dal niente come me,
e che doveva tutto a se stesso, come me, ma ciascuno ha i suoi
difetti. Ah, state in guardia, conte, gli uomini della nostra
generazione… ma scusate, voi non siete di questa generazione… siete
ancora giovane…, gli uomini della nostra generazione non sono
fortunati quest’anno: ne fa fede il nostro puritano procuratore, il
signor Villefort, che ha perduto anche sua figlia. Così
riepiloghiamo: Villefort, come dicevamo, perde tutta la sua famiglia
in un modo strano, Morcerf disonorato e ucciso, io coperto di
ridicolo per la scelleratezza di questo Benedetto, e poi…»
«E poi cosa?» domandò il conte.
«Ahimè, voi dunque lo ignorate?»
«Qualche nuova disgrazia?»
«Mia figlia…»
«La signorina Danglars?»
«Eugénie ci ha lasciati.»
«Oh, mio Dio, che cosa dite mai!?»
«La verità, mio caro conte. Quanto siete fortunato voi a non avere
né moglie. né figli.»
«Credete?»
«Altroché, se lo credo…»
«E dicevate che la signorina Danglars?»
«Non ha sopportato l’affronto che ci ha fatto quel miserabile, e mi
ha chiesto il permesso di partire.»
«E l’ha fatto?»
«L’altra notte.»
«Con la signora Danglars?»
«No, con una nostra parente… Ma noi la perderemo, la cara Eugénie,
perché dubito, col carattere che ha, che acconsentirà mai a
ritornare in Francia.»
«Che volete, mio caro barone», disse Montecristo, «dispiaceri di
famiglia! Dispiaceri che potrebbero sconvolgere un povero diavolo,
che avesse riposto tutta la sua speranza in sua figlia, ma
sopportabili per un milionario come voi. I filosofi hanno un bel
dire, ma gli uomini pratici li smentiranno sempre: il denaro consola
molti dispiaceri, e voi dovete essere consolato più di qualunque
altro, se ammettete la virtù di questo balsamo salutare, voi, il re
dei finanzieri, il punto d’incontro di tutti i poteri.»
Danglars lanciò uno sguardo obliquo al conte per vedere se scherzava
o se parlava sul serio.
«Sì», disse, «il fatto è che se la fortuna consola, io devo sentirmi
consolato, perché sono ricco!»
«Tanto ricco, mio caro barone, che le vostre ricchezze somigliano
alle piramidi: se si vogliono demolire, nessuno osa, se qualcuno
l’osasse, non potrebbe.»
Danglars sorrise della bontà del conte, e rispose: «Ora mi ricordo
che quando siete entrato, stavo firmando cinque piccoli assegni. Ne
avevo già firmati due, volete permettermi di firmare gli altri tre?»
«Fate pure, mio caro barone.»
Ci fu un momento di silenzio, durante il quale s’udì stridere la
penna del banchiere, mentre Montecristo guardava le modanature
dorate del soffitto.
«Titoli di Spagna», domandò Montecristo, «titoli di Haiti o di
Napoli?»
«No», rispose Danglars con quella sua risata strana, «assegni al
portatore, buoni sulla Banca di Francia. Guardate, signor conte, voi
che siete l’imperatore della finanza, se io ne sono il re… Avete mai
visto foglietti di questa grandezza che valgono un milione
ciascuno?»
Montecristo prese in mano, come per pesarli, i cinque fogli di carta
presentatigli orgogliosamente da Danglars, e lesse:
«Voglia il signor reggente della banca far pagare al mio ordine, e
sui fondi da me depositati, la somma di un milione, valuta in conto.
Barone Danglars
«Uno, due, tre, quattro e cinque», disse Montecristo, «cinque
milioni! Perbacco in che modo lavorate signor Creso?»
«Ecco come faccio gli affari!» disse Danglars.
«È una cosa stupenda, soprattutto se, come non dubito, questo somma
viene pagata in contanti.»
«Lo sarà.»
«È bello avere un credito simile. Davvero, queste cose si vedono
soltanto in Francia: cinque pezzi di carta del valore di cinque
milioni! Bisogna vedere per credere.»
«Ne dubitate?»
«No.»
«Lo dite in un modo… Conte, prendetevi questa soddisfazione,
accompagnate il mio commesso alla banca, e lo vedrete uscire con
tanti buoni del Tesoro per la stessa somma.»
«No», replicò Montecristo, pesando i cinque biglietti, «no, la cosa
è troppo strana, e farò io stesso l’esperimento. Il mio credito
presso di voi era convenuto in sei milioni, io ho preso
novecentomila franchi: non vi resta dunque che darmi altri cinque
milioni e centomila franchi. Prendo questi cinque pezzi di carta,
che credo ottimi alla sola vista della vostra firma, ed ecco una
ricevuta generale di sei milioni con la quale è regolato il nostro
conto: l’avevo preparata anticipatamente, perché, bisogna che ve lo
dica, oggi ho molto bisogno di denaro.»
E con una mano Montecristo mise i cinque biglietti in tasca, mentre
con l’altra presentava la sua ricevuta al banchiere. Un fulmine
caduto ai piedi di Danglars non lo avrebbe colpito con maggiore
spavento e terrore.
«Come? Signor conte, voi prendete questo denaro? Ma scusate,
scusate, questo è il denaro che debbo agli ospizi, un deposito, e
avevo promesso di pagare stamattina.»
«Allora è diverso», replicò Montecristo. «A me non importano questi
cinque biglietti, pagatemi in altra valuta. Li avevo presi per
curiosità, per poter dire a tutti che, senza alcun avviso, senza
chiedermi cinque minuti di dilazione, la casa Danglars mi aveva
pagato cinque milioni in contanti, la qual cosa sarebbe stata
rimarchevole. Ma ecco i vostri foglietti, vi ripeto, pagatemi in
altra valuta, o fatemene degli altri.»
E tese i cinque assegni a Danglars, che livido, prima allungò la
mano come l’avvoltoio allunga gli artigli tra le sbarre della sua
gabbia per trattenere la carne che si tenta di levargli. Ma a un
tratto si pentì, fece uno sforzo violento e si contenne. Quindi si
vide il sorriso tornargli a poco a poco sul viso sconvolto.
«Torniamo a noi», riprese. «La vostra ricevuta vale denaro
contante?»
«Sì, certamente. E se foste a Roma, la casa Thomson e French, su una
mia ricevuta, avrebbe minor difficoltà a pagarvi di quanto ne fate
voi a pagare me.»
«Scusate, signor conte, scusate…»
«Posso dunque conservare questi biglietti?»
«Sì», rispose Danglars asciugandosi il sudore che gli colava dalla
fronte, «conservateli, conservateli.»
Montecristo rimise i cinque assegni in tasca con quell’intraducibile
movimento degli occhi che vuol dire: «Riflettete, se vi pentite,
siete ancora in tempo».
«Sì», ripeté Danglars, «sì, teneteli. Voi lo sapete, nessuno è tanto
pieno di formalità quanto un uomo di finanza: io destinavo questi
fondi agli ospizi, e per un momento mi era sembrato di derubarli non
dando loro proprio questi; come se uno scudo non valesse quanto un
altro scudo. Scusate!»
E si mise a ridere rumorosamente, ma di un riso convulso.
«Scuso», disse graziosamente Montecristo, «e metto in tasca.»
«Ma», riprese Danglars, «abbiamo ancora una somma di centomila
franchi.»
«Oh, una bagattella», disse Montecristo. «L’aggio deve ammontare
circa a questa somma, tenetela, e saremo pari.»
«Conte», disse Danglars, «parlate sul serio?»
«Io non scherzo mai con i banchieri», replicò Montecristo con una
serietà che sfiorava l’impertinenza.
E s’avviò verso la porta, giusto nel momento in cui il cameriere
annunciava il signor Boville, amministratore generale degli ospizi.
«Sembra che sia giunto appena in tempo per godere delle vostre
firme», disse Montecristo, «sono assai disputate.»
Danglars impallidì una seconda volta, e si affrettò a prendere
congedo dal conte. Il conte di Montecristo rispose con un
cerimonioso saluto a quello di Boville, che aspettava nella camera
adiacente e che, passato Montecristo, fu subito introdotto nello
studio del signor Danglars.
Si sarebbe potuto vedere il viso severo del conte illuminarsi d’un
passeggero sorriso nello scorgere il portafogli che teneva in mano
l’amministratore degli ospizi. Alla porta ritrovò la carrozza, e si
fece condurre subito in banca.
Intanto Danglars, nascondendo tutta la sua emozione, andava incontro
al ricevitore generale.
«Buongiorno mio caro amico», salutò, tutto grazia e sorrisi,
«scommetto che venite in veste di creditore…»
«Avete proprio indovinato, signor barone», annuì Boville. «Gli
ospizi si presentano a voi nella mia persona. Gli ammalati, le
vedove, gli orfani vengono per mio tramite a domandarvi un’elemosina
di cinque milioni.»
«E si dice che gli orfani sono da compiangere!» disse Danglars,
prolungando lo scherzo. «Poveri bambini!»
«Vengo in loro nome», confermò il signor Boville. «Avrete ricevuto
la mia lettera di ieri?»
«Sì.»
«Sono qui con la mia ricevuta.»
«Mio caro signor Boville», iniziò Danglars, «i vostri malati, le
vostre vedove, i vostri orfani avranno, se voi acconsentite, la
bontà d’aspettare ventiquattro ore, dato che il signore di
Montecristo, che avete visto uscire di qui… Lo avete visto, non è
vero?»
«Sì, ebbene?»
«Ebbene, il signore di Montecristo si è portato via i loro cinque
milioni.»
«E come?»
«Il conte aveva un credito illimitato su di me, credito aperto dalla
casa Thomson e French di Roma… È venuto a domandarmi la somma di
cinque milioni in un sol colpo, e gli ho dato cinque assegni della
Banca di Francia. I miei fondi stanno depositati là, e voi capirete
che temerei, ritirando dalle mani del reggente dieci milioni tutti
in un giorno, che la cosa possa sembrare troppo strana. In due
giorni», aggiunse Danglars sorridendo, «è un’altra cosa.»
«Andiamo!» gridò il signor Boville, nella più completa incredulità.
«Cinque milioni a quel signore che è uscito poco fa, e che mi ha
salutato come se lo conoscessi?»
«Può darsi che vi conosca senza che voi lo conosciate. Il signore di
Montecristo conosce tutti.»
«Cinque milioni!»
«Ecco la sua ricevuta. Fate come l’apostolo che non voleva credere:
guardate e toccate.»
Il signor Boville prese il foglio presentatogli da Danglars e lesse:
«Ho ricevuto dal signor barone Danglars la somma di sei milioni di
cui egli si rimborserà a suo piacere sulla casa Thomson e French di
Roma.
Conte di Montecristo
«È vero!» esclamò il signor Boville.
«Conoscete la casa Thomson e French?»
«Sì, ho fatto una volta un affare di duecentomila franchi con questa
casa, ma dopo non ne ho più sentito parlare.»
«È una delle migliori case d’Europa», disse Danglars, gettando con
noncuranza sullo scrittoio la ricevuta di Montecristo che aveva
ripreso dalle mani di Boville.
«E quel conte aveva credito nientemeno che per cinque milioni presso
di voi? Ma è dunque un nababbo questo conte di Montecristo?»
«A dire il vero non so cosa sia. Ma aveva tre crediti illimitati,
uno su di me, uno su Rothschild e uno su Laffitte, e», aggiunse
negligentemente Danglars, «come vedete, ha dato a me la preferenza,
lasciandomi centomila franchi per l’aggio del cambio.»
Il signor Boville espresse la più grande ammirazione.
«Bisognerà che vada a trovarlo», disse, «e che ottenga da lui un
lascito per qualche pia fondazione.»
«Oh, è come se l’aveste già: le sue elemosine ammontano a più di
ventimila franchi al mese.»
«Magnifico! D’altronde gli citerò l’esempio della signora Morcerf e
di suo figlio.»
«Quale esempio?»
«Hanno donato tutti i loro beni agli ospizi.»
«Quali beni?»
«Quelli del defunto generale Morcerf.»
«E come mai?»
«Perché non vogliono beni così mal acquisiti.»
«E di cosa vivranno?»
«La madre si ritira in provincia, e il figlio si è arruolato
nell’esercito.»
«Senti senti! Questi sì che sono scrupoli!»
«Ho fatto registrare ieri l’atto di donazione.»
«E quanto possedevano?»
«Oh, non molto: un milione e trecentomila franchi. Ma torniamo ai
nostri milioni.»
«Volentieri», disse Danglars con la più grande naturalezza del
mondo. «Avete dunque molta fretta di ritirare questo denaro?»
«Sì, il riscontro di cassa si fa domani.»
«Domani! Perché non lo avete detto subito? Ma è un secolo, domani! A
che ora è la verifica?»
«Alle due pomeridiane.»
«Venite a mezzogiorno», disse Danglars, col suo sorriso.
Il signor Boville non rispose, ma fece segno di sì con la testa,
voltando e rivoltando il suo portafoglio fra le mani.
«Ma ora che ci penso», riprese Danglars, «potete anche fare
diversamente…»
«Come?»
«La ricevuta di Montecristo vale denaro contante… Passate con questa
ricevuta da Rothschild o da Laffitte, e l’accetteranno all’istante.»
«Anche se è rimborsabile a Roma?»
«Certamente, vi costerà solo una piccola ritenuta di sei o settemila
franchi.»
L’amministratore sussultò.
«A dire il vero, no, preferisco aspettare domani, come dicevate
voi.»
«Ho creduto per un momento, perdonatemi», disse Danglars, con
estrema impudenza, «ho creduto che aveste un piccolo deficit, una
piccola mancanza da riempire.»
«No!» gridò l’amministratore.
«È successo altre volte e, in tal caso, si fa un sacrificio.»
«Grazie a Dio, no», ribatté il signor Boville.
«Allora, a domani, non è vero, mio caro signor amministratore?»
«Sì, a domani, ma senza fallo!»
«Ancora? Voi volete scherzare… Mandate qualcuno a mezzogiorno, la
banca sarà avvisata.»
«Verrò io stesso.»
«Meglio ancora, perché così avrò il piacere di rivedervi.»
«A proposito», riprese il signor Boville, «non andate al funerale di
quella povera signorina Villefort, di cui ho incontrato il corteo
funebre sul boulevard?»
«No», rispose il banchiere. «Sono ancora pieno di vergogna per
quello scandalo di Benedetto.»
«Be’, avete torto… È forse colpa vostra?»
«Ascoltate, mio caro signore, quando si porta un nome senza macchia
come il mio, si ha un po’ di suscettibilità.»
«Tutti vi compiangono, e soprattutto si compiange la signorina
vostra figlia.»
«Povera Eugénie!» esclamò Danglars, con un profondo sospiro.
«Sapevate che entra in monastero, signore?»
«No.»
«Purtroppo è vero. All’indomani dell’incidente, si è decisa a
partire con una monaca sua amica, ed è andata a cercare un convento
in Italia o in Spagna.»
«È terribile!»
Il signor Boville si ritirò dopo questa esclamazione, esprimendo al
padre la propria mortificazione. Ma non era ancora uscito, che
Danglars esclamò: «Imbecille!»
E chiudendo la quietanza di Montecristo in un piccolo portafogli,
mormorò: «Vieni pure a mezzogiorno. A mezzogiorno sarò lontano».
Quindi si chiuse nella stanza a doppio giro di chiave, vuotò tutti i
cassetti della casa, riunì una cinquantina di mille franchi in
biglietti di banca, bruciò diverse carte, ne mise altre in evidenza,
e scrisse una lettera che sigillò aggiungendo la scritta: «Alla
signora baronessa Danglars».
«Stasera», mormorò, «la lascerò io stesso sulla sua toilette.»
Quindi, prese da un cassetto un passaporto.
«Bene», disse, «è ancora valido per due mesi.»
104. Il cimitero del Père-Lachaise
Il signor Boville aveva in effetti incontrato il corteo funebre che
accompagnava Valentine alla sua ultima dimora. Il cielo era cupo,
nuvoloso; un vento ancora tiepido, ma già mortale per le foglie
ingiallite, le staccava dai rami a poco a poco spogliati e le faceva
volare sulla folla immensa che ingombrava i boulevard.
Il signor Villefort, da puro parigino, considerava il cimitero del
Père-Lachaise, come l’unico degno di ricevere le spoglie mortali di
una famiglia parigina. Gli altri gli sembravano cimiteri di
campagna, appartamenti ammobiliati della morte. Soltanto al
Père-Lachaise un trapassato del buon ceto poteva essere alloggiato
come in casa propria. Come abbiamo visto, egli aveva comprato l’area
sulla quale s’innalzava il monumento popolato così rapidamente da
tutti i morti della sua prima famiglia. Si leggeva sul frontone del
mausoleo: «Famiglia di Saint-Méran e Villefort», perché tale era
stata l’ultima volontà di Renée, madre di Valentine.
Il pomposo corteo, partito dal Faubourg Saint-Honoré, s’incamminava
dunque verso il Père-Lachaise attraversando tutta Parigi, e passando
per il Faubourg du Temple, quindi per i boulevard esterni fino al
cimitero. Più di cinquanta carrozze signorili seguivano venti
carrozze da lutto, e dietro alle cinquanta carrozze più di
cinquecento persone ancora camminavano a piedi. Erano quasi tutti
giovani colpiti come da un fulmine dalla morte di Valentine, e che,
malgrado il vapore glaciale del secolo e lo scetticismo dell’epoca,
subivano l’influenza poetica di quella bella, casta e adorabile
giovane donna, strappata nel fiore degli anni! Uscendo da Parigi si
vide arrivare rapidamente una carrozza trascinata da quattro
cavalli, che all’improvviso si fermarono, irrigidendo i nervosi
garretti come molle d’acciaio: era il signore di Montecristo.
Il conte scese di carrozza, e andò a confondersi fra la folla che
camminava a piedi dietro il carro funebre. Château-Renaud lo vide, e
sceso subito dal suo carrozzino, si unì a lui. Beauchamp ugualmente
lasciò il calesse nel quale si trovava. Il conte guardava
attentamente fra la folla, cercava evidentemente qualcuno; infine
non riuscì più a trattenersi.
«Dov’è Morrel?» domandò. «Qualcuno di voi, signori, sa dove sia?»
«Ci siamo fatti la stessa domanda», rispose Château-Renaud, «ma
nessuno di noi lo ha visto.»
Il conte tacque, ma continuò a guardare intorno a sé. Intanto si
giunse al cimitero. L’occhio penetrante di Montecristo si insinuò in
tutti i boschetti, e ben presto si calmò: un’ombra strisciava sotto
i cupi cipressi, e Montecristo aveva capito di chi si trattava.
Si sa che cos’è una sepoltura in quella città di morti: gruppi neri
disseminati nei bianchi viali, un silenzio del cielo e della terra,
rotto soltanto dal rumore dello spezzarsi di qualche ramo,
dall’affondarsi di qualche siepe intorno alla tomba; poi il canto
malinconico dei preti, al quale si mischia qua e là un singhiozzo
sfuggito da un cespuglio di fiori, vicino a cui si vede qualche
donna prostrata e con le mani giunte.
L’ombra osservata da Montecristo attraversò rapidamente il sentiero
che passava dietro la tomba di Abelardo ed Eloisa, e andò a mettersi
con i becchini alla testa dei cavalli che trascinavano il corpo, e
col medesimo passo giunse al luogo della sepoltura.
Montecristo non guardava che quell’ombra appena notata da quelli che
gli stavano vicino; anzi, due volte uscì dalle file per vedere se
quell’uomo cercasse un’arma nei propri abiti. L’ombra, quando il
corteo si fermò, fu riconosciuta: Morrel, con l’abito nero
abbottonato fino al collo, la fronte livida, le guance scavate, il
cappello ammaccato in più posti dalle mani convulse, si era
appoggiato a un albero sopra un rialto che dominava il mausoleo, in
modo da non perdere nessuno dei particolari della cerimonia funebre.
Tutto terminò secondo l’uso. Alcuni uomini, che, come sempre, erano
i meno commossi, pronunciarono dei discorsi. Gli uni compiansero
quella morte prematura, gli altri indugiarono sul dolore del padre,
qualcuno fu abbastanza ingegnoso da trovare che la ragazza aveva più
di una volta pregato il signor Villefort in favore dei colpevoli che
il procuratore stava per giudicare, e infine si terminarono le
metafore fiorite e le frasi dolorose, commentando in tutti i modi le
sentenze di Malherbe e Dupérier.
Il conte di Montecristo non ascoltava, né vedeva nulla; o piuttosto
non vedeva che Morrel, la cui calma e immobilità erano preoccupanti
per lui che solo poteva intuire ciò che accadeva nel fondo del cuore
del giovane ufficiale.
«Guarda», disse a un tratto Beauchamp a Debray, «ecco Morrel! Dove
diavolo si è andato a cacciare?»
«Com’è pallido!» mormorò Château-Renaud tremando.
«Avrà freddo», replicò Debray.
«No», disse lentamente Château-Renaud, «credo che sia commosso,
Maximilien è sensibilissimo.»
«Ma», ribatté Debray, «conosceva appena Valentine Villefort, l’avete
detto voi stesso.»
«È vero. Però ricordo che al ballo della signora Morcerf ha ballato
tre volte con lei… Sapete, conte, a quel ballo dove voi faceste così
grande effetto?»
«No, non lo so», rispose Montecristo, senza sapere a che cosa
rispondeva né a chi, tanto era occupato a sorvegliare Morrel, le cui
guance si animavano come accade a quelli che trattengono il respiro.
«I discorsi sono finiti, addio, signori», disse il conte.
E salutò, scomparendo senza che nessuno capisse in quale direzione.
La cerimonia era terminata, e i presenti ripresero la strada per
Parigi. Solo Château-Renaud cercò Morrel con gli occhi, ma, mentre
seguiva il conte che si allontanava, Morrel aveva lasciato il suo
posto, e Château-Renaud, dopo averlo cercato invano, aveva seguito
Debray e Beauchamp. Montecristo si era gettato fra i tigli, e
nascosto dietro un’ampia tomba, spiava il minimo movimento di
Morrel, che a poco a poco si accostò al mausoleo, abbandonato prima
dai curiosi e poi dagli operai.
Morrel si guardò intorno, e quando ebbe rivolto il viso dall’altra
parte, Montecristo gli si avvicinò ancora di una decina di passi
senza essere visto. Morrel, inginocchiatosi, chinò la fronte sulla
pietra, abbracciò il cancello con entrambe le mani, ed esclamò:
«Valentine!»
Il cuore del conte fu trafitto da queste parole; fece un passo, e
battendo sulla spalla di Morrel, disse: «Eccovi, mio caro. Vi
cercavo».
Montecristo si aspettava rimproveri e recriminazioni, ma si
sbagliava. Morrel si voltò dalla sua parte, e con calma apparente,
disse: «Vedete, pregavo!»
Lo sguardo scrutatore di Montecristo percorse il giovane dalla testa
ai piedi. Dopo questo esame sembrò più tranquillo.
«Volete che vi riconduca a Parigi?» domandò.
«No, grazie.»
«Desiderate qualche cosa?»
«Lasciatemi pregare.»
Il conte s’inginocchiò senza fare obiezioni, ma non perdeva un sol
gesto di Morrel; finalmente questi si alzò, e riprese la strada di
Parigi senza girarsi nemmeno una volta. Maximilien scese lentamente
la rue de la Roquette. Il conte rimandò a casa la carrozza, ferma
all’ingresso del cimitero, e lo seguì a cento passi di distanza.
Maximilien attraversò il canale, e rientrò in rue Meslay dai
boulevard. Cinque minuti dopo che la porta fu chiusa da Morrel si
riaprì per Montecristo.
Julie era all’ingresso del giardino e osservava con la più profonda
attenzione mastro Penelon, che, prendendo la sua professione di
giardiniere sul serio, lavorava intorno a un rosaio del Bengala.
«Conte di Montecristo!» gridò con quella gioia che manifestava
sempre ogni membro della famiglia, quando Montecristo faceva la sua
visita in rue Meslay.
«Maximilien è entrato ora, non è vero, signora?» domandò il conte.
«Credo di averlo visto passare, sì» rispose la giovane sposa, «ma vi
prego, chiamate Emmanuel.»
«Scusate, signora, ma bisogna che salga immediatamente da
Maximilien», replicò Montecristo. «Devo dirgli una cosa della
massima importanza.»
«Andate dunque», disse, accompagnandolo col suo grazioso sorriso
fino a che non fu scomparso su per le scale.
Montecristo raggiunse ben presto il secondo piano, che separava il
pianterreno dall’appartamento di Maximilien. Giunto sul pianerottolo
ascoltò, ma non udì nessun rumore. Come nella maggior parte delle
case antiche abitate da un solo padrone, il pianerottolo era chiuso
soltanto da una porta a vetri. Maximilien aveva chiuso a chiave
dall’interno, ed era impossibile vedere al di là della porta, perché
una tenda di seta rossa copriva i vetri.
L’ansia del conte di Montecristo si manifestò con un vivo rossore,
sintomo di emozione straordinaria in quest’uomo veramente
impassibile.
«Che fare?» mormorò.
E rifletté un istante.
«Suonare?» riprese. «No. Spesso il rumore di un campanello, di una
visita, accelera la decisione di quelli che si trovano nello stato
in cui dev’essere Maximilien in questo momento.»
Montecristo tremò dalla testa ai piedi, e siccome in lui la
decisione aveva la rapidità del lampo, dette un colpo di gomito
contro un cristallo della vetrata, che andò a pezzi; quindi sollevò
la tenda, e vide Morrel davanti a uno scrittoio con una penna in
mano, che aveva fatto uno balzo sulla sedia al rumore del cristallo
rotto.
«Non è niente», disse il conte, «vi faccio le mie scuse… Sono
scivolato, e scivolando ho battuto col gomito sul cristallo; dato
che è rotto, ne approfitto per entrare… Non vi scomodate, non vi
scomodate…»
E passando il braccio dal buco nel vetro il conte aprì la porta.
Morrel si alzò evidentemente contrariato, e andò incontro a
Montecristo più per impedirgli il passo che per andarlo a ricevere.
«A dir la verità», riprese Montecristo, strofinandosi il gomito, «la
colpa è dei vostri domestici, i vostri pavimenti sono lisci come
specchi…»
«Siete ferito, signore?» domandò freddamente Morrel.
«Non so… Ma che facevate? Scrivevate?»
«Io?»
«Avete le dita macchiate d’inchiostro.»
«Sì, è vero», rispose Morrel, «lo faccio qualche volta, anche se
sono un soldato.»
Montecristo fece qualche passo nella stanza, e Maximilien fu
costretto a lasciarlo passare, ma lo seguì.
«Scrivevate?» riprese Montecristo, con uno sguardo imbarazzante per
la sua fermezza.
«Ho già avuto l’onore di dirvi di sì», rispose Morrel.
Il conte gettò uno sguardo intorno a sé.
«Le vostre pistole di fianco al calamaio?» osservò, mostrando a
Morrel le armi sullo scrittoio.
«Parto per un viaggio», rispose con dispetto Maximilien.
«Amico mio!» disse Montecristo, con voce piena d’infinita dolcezza.
«Signore?»
«Amico mio, mio caro Maximilien, non prendete decisioni estreme, ve
ne supplico.»
«Io decisioni estreme?» ripeté Morrel, stringendosi nelle spalle.
«Che cosa trovate di estremo in un viaggio?»
«Maximilien», disse Montecristo, «deponiamo la maschera. Voi non mi
ingannate con questa calma forzata, più di quello che io inganni voi
con la mia frivola sollecitudine. Voi capite bene, non è vero, che
per aver fatto ciò che ho fatto, per aver rotto un vetro, violato il
segreto della camera di un amico, voi capite bene, dicevo, che per
aver fatto tutto ciò che ho fatto, bisogna che avessi una reale
inquietudine, o piuttosto una terribile convinzione? Morrel, voi
volevate uccidervi.»
«Bah!» fece Morrel tremando. «Da dove vi vengono queste idee, signor
conte?»
«Vi dico che volevate uccidervi», continuò il conte col medesimo
tono di voce, «ed eccone la prova.»
E avvicinatosi allo scrittoio, sollevò il foglio bianco che il
giovane aveva gettato sulla lettera incominciata, e prese la
lettera. Morrel si lanciò per levargliela di mano. Ma Montecristo lo
prevenne, afferrando Maximilien per un braccio, e fermandolo.
«Vedete bene che volevate uccidervi, Morrel», disse il conte, «è
scritto qui!»
«E allora?» gridò Morrel, passando dalla calma apparente alla
violenza. «Anche se così fosse, anche se avessi deciso di volgere
contro di me la canna di quella pistola, chi me lo impedirà? Quando
io dirò: tutte le mie speranze sono rovinate, il mio cuore è
spezzato, la mia vita è estinta, non vi è più che lutto e disgusto
intorno a me, la terra è divenuta cenere, ogni voce umana mi
dilania, quando dirò: è pietà lasciarmi morire, perché se non mi
lasciate morire, perderò la ragione, diventerò pazzo! Rispondete
signore quando vi dirò così, quando si vedrà che lo dico con le
angosce e le lacrime del cuore, mi si risponderà forse: avete torto?
Mi si impedirà di non essere più infelice? Dite, signore, dite,
avreste voi questo coraggio?»
«Sì, Morrel», rispose il conte, con voce la cui calma contrastava
stranamente con la esaltazione del giovane, «io, sì.»
«Voi!» gridò Morrel, con espressione crescente di collera e di
rimprovero, «voi che mi avete ingannato con un’assurda speranza, che
mi avete trattenuto, cullato, addormentato con vane promesse, mentre
avrei potuto, con qualche estrema risoluzione, salvarla o almeno
vederla morire fra le mie braccia, voi che fingete tutte le risorse
dell’intelligenza, tutte le potenze della materia, che
rappresentate, o almeno ostentate di rappresentare sulla terra la
parte della Provvidenza, e che non avete neppure il potere di dare
un antidoto a una ragazza avvelenata? Ah, in verità, signore, mi
fareste pietà, se non mi faceste orrore!»
«Morrel!…»
«Sì, voi mi avete detto di deporre la maschera, ebbene, siate
soddisfatto, io la depongo. Sì, quando voi mi avete seguito al
cimitero, io vi ho risposto, perché il mio cuore è buono, quando
siete entrato qui vi ho lasciato venire… Ma poiché abusate, e venite
a imporvi fin dentro la mia camera, dove mi ero ritirato come entro
una tomba, poiché mi recate una nuova tortura, mentr’io credevo di
averle tutte provate, conte di Montecristo, mio preteso benefattore,
conte di Montecristo, salvatore universale, siate soddisfatto, voi
vedrete morire il vostro amico…»
E Morrel col sorriso della follia sulle labbra, si slanciò una
seconda volta verso le pistole. Montecristo, pallido come uno
spettro, ma con gli occhi che mandavano lampi, tese la mano sulle
armi, e disse al folle: «E io vi ripeto che non vi ucciderete!»
«Impeditemelo dunque!» replicò Morrel, con un ultimo slancio, che,
come il primo, andò a infrangersi contro il braccio di ferro del
conte.
«Sì, ve lo impedirò.»
«Ma chi siete dunque per arrogarvi questo tirannico diritto sopra le
creature viventi e pensanti?» gridò Morrel.
«Chi sono io?» ripeté Montecristo. «Ascoltate, io sono il solo uomo
al mondo che abbia il diritto di dirvi: “Io non voglio che oggi
muoia il figlio del vecchio Morrel!”»
E Montecristo, maestoso, trasfigurato, sublime, avanzò a braccia
incrociate verso il giovane che, palpitante suo malgrado, arretrò di
un passo.
«Perché parlate di mio padre?» balbettò. «Perché mescolare il suo
ricordo con ciò che mi accade?»
«Perché io salvai la vita a tuo padre, un giorno ch’egli voleva
uccidersi, come oggi lo vuoi tu, perché io mandai la borsa alla tua
giovane sorella, e il Pharaon al vecchio Morrel, perché io sono
Edmond Dantès, che ti cullò sulle sue ginocchia quando eri bambino!»
Morrel fece ancora un passo indietro, vacillante, ansante,
soffocato, oppresso, quindi a un tratto le forze lo abbandonarono,
e, con un grido, cadde prosternato ai piedi di Montecristo. A un
tratto si alzò, e balzando fuori della stanza, si precipitò in cima
alla scala gridando con tutta la forza della sua voce: «Julie!
Julie! Emmanuel! Emmanuel!»
Montecristo corse per trattenerlo, ma Maximilien si sarebbe
piuttosto fatto uccidere che lasciare la maniglia della porta. Alle
grida di Maximilien, Julie, Emmanuel e alcuni domestici accorsero
spaventati. Morrel li prese per le mani, e, riaprendo la porta,
gridò con voce soffocata dai singulti: «Ecco il salvatore, ecco il
benefattore di nostro padre ecco…» Stava per dire: «Ecco Edmond
Dantès!» Ma il conte lo fermò afferrandogli il braccio.
Julie prese la mano del conte, Emmanuel lo abbracciò, Morrel cadde
per la seconda volta alle sue ginocchia, prostrandosi a terra.
Allora l’uomo di bronzo sentì il cuore dilatarsi nel petto, e
salirgli agli occhi un fuoco divoratore, chinò la testa, e pianse.
In quella stanza non si videro per alcuni istanti che lacrime, non
si udirono che gemiti. Julie, appena ripresasi dalla profonda
emozione provata, uscì dalla camera, scese un piano, corse in sala
con una gioia immensa, e sollevò la campana di cristallo che
ricopriva la borsa datale dallo sconosciuto nella casa dei viali di
Meilhan, mentre Emmanuel con voce commossa diceva al conte: «Oh,
signor conte, perché, sentendoci parlare così spesso del nostro
ignoto benefattore, vedendoci ricordare la sua memoria con tanta
riconoscenza e adorazione, perché avete aspettato fino a oggi per
farvi conoscere? Oh, foste ben crudele verso di noi, e oserei dire,
signor conte, verso voi stesso».
«Ascoltate, amico mio», disse il conte, «posso chiamarvi così,
poiché, senza che voi lo sappiate, siete amico mio da undici anni… È
stato necessario svelare questo segreto in seguito a un grande
avvenimento che dovete ignorare. Dio mi è testimone che avrei
desiderato tenerlo nascosto nel fondo del cuore per tutto il tempo
della mia vita, ma vostro fratello Maximilien me lo ha strappato con
una violenza di cui adesso, sono sicuro, è molto dispiaciuto.»
Quindi vedendo Maximilien rannicchiato in un angolo contro un sofà,
restando però sempre in ginocchio, aggiunse a bassa voce: «Vegliate
su di lui», stringendo in modo significativo la mano di Emmanuel.
«Perché?» domandò il giovane meravigliato.
«Non posso dirvi di più, ma vegliate su di lui.»
Emmanuel si guardò intorno nella stanza, e vide le pistole di
Morrel. I suoi occhi si fissarono spaventati su quelle armi, e le
indicò a Montecristo. Il conte chinò la testa. Emmanuel fece un
passo verso le pistole.
«Lasciate», disse il conte.
Quindi andando da Morrel, lo prese per la mano: i moti tumultuosi
che avevano per un momento scosso il cuore del giovane, avevano
lasciato il posto a uno stupore profondo. Julie risalì, teneva in
mano la borsa di seta, e due lacrime le brillavano sulle guance,
come due gocce di rugiada mattutina.
«Ecco la reliquia», disse. «Non crediate che mi sia meno cara da
quando mi è stato rivelato il salvatore.»
«Figlia mia», rispose Montecristo, arrossendo, «permettetemi di
riprendere questa borsa, ora che mi conoscete, non voglio essere
ricordato alla vostra memoria che per l’affetto che vi prego
d’accordarmi.»
«No», disse Julie, stringendo la borsa sul cuore. «No, no, vi
supplico, perché un giorno voi potreste lasciarci… Perché un giorno,
disgraziatamente, ci lascerete, non è vero?»
«Avete indovinato, signora», rispose Montecristo, sorridendo. «Fra
otto giorni avrò lasciata questa città, dove vivevano felici tante
persone che avevano meritato la vendetta celeste, mentre mio padre
moriva di fame e di dolore.»
Annunciando la sua prossima partenza, Montecristo teneva gli occhi
fissi su Morrel, e notò che le parole «avrò lasciata questa città»
non erano riuscite a togliere Morrel dal suo letargo. Capì allora
che era necessario sostenere un’ultima lotta col dolore del suo
amico, e prendendo le mani di Julie e di Emmanuel, che riunì
stringendole fra le sue, disse loro con la dolce autorità di un
padre: «Miei buoni amici, vi prego di lasciarmi solo con
Maximilien».
Ciò diede modo a Julie di portar via quella preziosa reliquia, di
cui Montecristo si era dimenticato. Trascinò con sé il marito
dicendogli: «Lasciamoli».
Il conte rimase solo con Morrel, che era ancora immobile come una
statua.
«Maximilien», riprese il conte, toccandogli una spalla, «ritorna
finalmente a essere uomo…»
«Sì, per ricominciare a soffrire…»
Il conte s’immerse in una cupa riflessione.
«Maximilien! Maximilien! Queste idee di sconforto sono indegne di un
cristiano.»
«State tranquillo, amico», disse Morrel, rialzando la testa, e
mostrando al conte un sorriso d’ineffabile tristezza, «non cercherò
più di uccidermi.»
«Quindi», riprese Montecristo, «niente più armi, né disperazione?»
«No, poiché ho di meglio, per guarire del mio dolore, della canna di
una pistola o la punta di un coltello.»
«Povero pazzo!… Che cos’hai dunque?»
«Sarà il mio dolore a uccidermi.»
«Amico», disse Montecristo, con malinconia pari alla sua,
«ascoltami. Un giorno, in un momento di disperazione, io volli
uccidermi come te. Tuo padre un giorno, ugualmente disperato, ha
pure voluto uccidersi. Se qualcuno avesse voluto dire a tuo padre,
nel momento che volgeva la canna della pistola verso la fronte, se
qualcuno avesse voluto dire a me quando rifiutavo il pane del
prigioniero, che non avevo toccato da tre giorni, se qualcuno
finalmente in quei supremi momenti ci avesse voluto dire: “Vivete, e
verrà il giorno in cui sarete felici e benedirete la vita”, da
qualsiasi parte ci fosse venuta questa voce, l’avremmo accolta col
sorriso del dubbio o con l’angoscia dell’incredulità… Eppure quante
volte tuo padre, abbracciandoti, non ha benedetto la vita? Quante
volte io stesso…»
«Ah!» gridò Morrel, interrompendo il conte. «Voi non avevate perduto
che la libertà, mio padre non aveva perduto che le ricchezze! E io?
Io ho perduto Valentine.»
«Guardami, Morrel», riprese Montecristo, con quella solennità che in
certe occasioni lo rendeva grande e convincente, «guardami, io non
ho né lacrime agli occhi, né febbre nelle vene; eppure ti vedo
soffrire, Maximilien, vedo soffrire te che amo come un figlio…
Ebbene, non capisci da ciò, Morrel, che il dolore è come la vita, e
che al di là c’è sempre qualche cosa di ignoto? Ora, se io ti prego,
se ti ordino di vivere, Morrel, e perché sono convinto che un giorno
mi ringrazierai di averti salvato la vita.»
«Mio Dio!» gridò il giovane. «Mio Dio, che cosa dite, conte? Badate!
Voi forse non avete mai amato…»
«Incosciente!» rispose il conte.
«Con amore», riprese Morrel, «intendo… Vedete, io sono sempre stato
un soldato, sono arrivato fino a ventinove anni senza amare, perché
nessuna delle sensazioni che ho provato fin là merita di chiamarsi
amore. Ebbene, a ventinove anni ho incontrato Valentine, l’amo da
quasi due anni, da quasi due anni ho potuto leggere tutte le virtù
di figlia e di donna scritte dalla mano stessa del Signore in quel
cuore aperto per me come un libro. Conte, Valentine era per me una
felicità infinita, immensa, ignota, una felicità troppo grande,
troppo completa, troppo superiore a questo mondo, e questo mondo non
me l’ha concessa! Senza Valentine, per me sulla terra non c’è che
disperazione e desolazione.»
«Vi dico di sperare», ripeté il conte.
«Attento a ciò che dite», disse Morrel. «Mentre cercate di
persuadermi, mi fate invece perdere la ragione, dato che mi fate
credere che potrò rivedere Valentine.»
Il conte sorrise.
«Amico mio, padre mio», gridò Morrel esaltato, «fate attenzione! Vi
ripeterò per la terza volta, poiché l’ascendente che avete mi
spaventa: fate attenzione a ciò che dite, perché i miei occhi si
rianimano, il mio cuore si riaccende e rinasce. State in guardia,
perché mi farete credere a qualcosa di soprannaturale. Io vi
obbedirei, se mi comandaste di rialzare la pietra sepolcrale della
figlia della vedova, camminerei sulle onde come l’apostolo se mi
faceste segno con la mano di camminare sui flutti… Fate attenzione,
perché vi obbedirei!»
«Spera, amico mio», ripeté il conte.
«Ah!» gridò Morrel, ricadendo dall’altezza della sua esaltazione
nell’abisso della sua tristezza, «voi vi prendete gioco di me, voi
fate come quelle buone madri, o per meglio dire, come quelle madri
egoiste, che calmano con parole dolci i dolori del bambino, perché
sono stanche delle sue grida. No, amico mio, no, io avevo torto di
dirvi di stare in guardia, no, non temete niente, io seppellirò il
mio dolore con tanta cura nel più profondo del petto, lo renderò
così oscuro, così segreto, che non avrete neppure il disturbo di
compiangermi… Addio, amico mio, addio!»
«Al contrario», disse il conte, «da questo momento, Maximilien, tu
vivrai vicino a me e con me, tu non mi lascerai più, e fra otto
giorni avremo girato le spalle alla Francia.»
«E mi dite ancora di sperare?»
«Ti dico sempre di sperare, perché conosco il modo per guarirti.»
«Conte, mi rattristate ancora di più, se ciò fosse possibile. Voi
pensate che io sia preso dal semplice sconforto, e di potermi
consolare con un viaggio…»
E Morrel scosse la testa con sdegnosa incredulità.
«Che cosa vuoi che ti dica?» rispose Montecristo. «Io ho fede nelle
mie promesse; lasciamene fare esperienza.»
«Conte, voi prolungate la mia agonia.»
«Così», disse il conte, «hai un cuore così debole da non aver la
forza di donare al tuo amico qualche giorno per la prova che vuole
fare? Ma tu lo sai di che cosa è capace il conte di Montecristo? Non
sai che ha potere su molte leggi di natura? Sai che ha tanta fede in
Dio da ottenere miracoli da colui il quale ha detto che l’uomo con
la fede può sollevare una montagna? Ebbene, questo miracolo in cui
io spero, aspettalo, oppure…»
«Oppure…» ripeté Morrel.
«Oppure bada, Morrel, dovrò chiamarti ingrato.»
«Conte, abbiate pietà di me.»
«Io ho talmente pietà di te, Maximilien, ascoltami bene, ho talmente
pietà di te, che se tu non guarisci entro un mese, rammenta bene le
mie parole, Morrel, io stesso ti metterò davanti due pistole
cariche, o una tazza del veleno più fulminante, più infallibile,
credimi, di quello che ha ucciso Valentine.»
«Me lo promettete?»
«Sì, perché anch’io sono uomo, anch’io ho sofferto, anch’io, come ti
ho detto, volevo morire, e spesso, anche dopo che la sventura smise
di perseguitarmi, anch’io ho pensato alle delizie del sonno eterno.»
«Dunque siete certo di ciò che mi promettete, conte?» gridò Morrel
inebriato.
«Non solo te lo prometto, ma te lo giuro», rispose Montecristo
tendendo la mano.
«Fra un mese, sul vostro onore, se non sarò consolato, mi lascerete
libero di decidere della mia vita, e qualunque cosa io faccia non mi
chiamerete ingrato?»
«Fra un mese, in questo stesso giorno, Maximilien. Oggi è il 5
settembre, e oggi sono dieci anni che salvai tuo padre che voleva
uccidersi.»
Morrel afferrò le mani del conte e le baciò; il conte lo lasciò
fare, come se capisse che questo gli era dovuto.
«Dunque», continuò Montecristo, «mi prometti di aspettare fino ad
allora e di vivere?»
«Sì», gridò Morrel, «ve lo giuro!»
Montecristo strinse il giovane in un lungo e tenero abbraccio.
«E ora», disse, «da oggi tu verrai ad abitare con me. Occuperai
l’appartamento di Haydée, e mia figlia sarà sostituita da mio
figlio.»
«Haydée!» esclamò Morrel. «Che cosa è accaduto ad Haydée?»
«È partita stanotte.»
«Per lasciarvi?»
«Per aspettarmi… Tieniti dunque pronto per raggiungermi agli
Champs-Elysées, e fammi uscire da qui senza che nessuno mi veda.»
Maximilien abbassò la testa e obbedì come un bambino.
105. La separazione
Nella casa in rue de Saint-Germain des Prés, che era stata scelta da
Albert Morcerf per sé e per sua madre, il primo piano, formato da un
piccolo appartamento, era affittato a un personaggio assai
misterioso. Lo stesso portinaio non era mai riuscito a vederlo in
viso, sia che entrasse o che uscisse, poiché d’inverno nascondeva il
mento in una di quelle sciarpe rosse che portano i cocchieri delle
case signorili, quando aspettano i padroni all’uscita del teatro, e
d’estate si soffiava il naso proprio quando passava davanti alla
loggia del portinaio. Contro tutte le abitudini in uso, questo
inquilino, è il caso di dirlo, non era mai stato spiato da nessuno,
poiché correva voce che sotto quello sconosciuto si nascondesse un
personaggio molto potente delle alte sfere, motivo per cui furono
rispettate quelle misteriose apparizioni Rientrava sempre a un
orario fisso, sebbene talvolta in anticipo o in ritardo. Quasi
sempre però, fosse d’inverno o d’estate, tornava nel suo
appartamento verso le quattro pomeridiane, e non vi passava mai la
notte. D’inverno, una domestica che aveva la cura dell’appartamento,
accendeva il fuoco alle tre e mezzo, e d’estate alla stessa ora
preparava il ghiaccio. Alle quattro, come abbiamo detto, entrava il
misterioso personaggio.
Venti minuti dopo di lui, si fermava una carrozza davanti alla casa,
e ne scendeva una donna vestita di nero e di azzurro, ma sempre
avvolta in un gran velo, la quale, passando come un’ombra davanti
alla guardiola del portinaio, saliva la scala senza che si sentisse
scricchiolare un solo scalino sotto il suo piede leggero. Non era
mai accaduto che le venisse chiesto dove andava. Il suo viso, come
quello dello sconosciuto, era quindi perfettamente estraneo ai due
portinai, i soli forse della capitale capaci di una simile
discrezione. Non è necessario dire che non saliva più in alto del
primo piano.
Picchiava leggermente a una porta secondo un modo convenuto, la
porta si apriva, si chiudeva, e tutto era finito. Quando usciva,
adoperava lo stesso metodo di quando entrava. La sconosciuta usciva
per prima, sempre velata, e risaliva nella carrozza che alle volte
partiva verso una direzione, alle volte verso un’altra; quindi,
venti minuti dopo, spariva anche lo sconosciuto, uscendo nascosto
dalla cravatta o dal fazzoletto.
L’indomani del giorno in cui il conte di Montecristo aveva fatto
visita a Danglars, giorno in cui fu sepolta Valentine, il misterioso
abitante arrivò verso le dieci di mattina, invece di arrivare, come
al solito, verso le quattro pomeridiane. Quasi subito dopo, e senza
osservare il solito intervallo, giunse una carrozza da piazza, e la
dama velata salì rapidamente la scala. La porta si aprì e si chiuse.
Ma prima ancora che la dama fosse entrata, aveva esclamato: «Oh,
Lucien! Amico mio!», di modo che il portinaio, che senza volerlo
aveva inteso questa esclamazione, seppe allora per la prima volta
che l’inquilino si chiamava Lucien, ma siccome era un portinaio
modello, si ripromise di non dirlo neppure a sua moglie.
«Ebbene, che c’è, mia cara amica?» domandò la persona, che nella sua
confusione e fretta la dama velata aveva nominato davanti al
portinaio. «Parlate!»
«Amico mio, posso contare su voi?»
«Certamente, lo sapete bene… Ma che cosa c’è? Il biglietto di questa
mattina mi ha gettato in una terribile perplessità. Questa fretta,
la calligrafia disordinata, vediamo, calmatevi, o spaventerete anche
me!»
«Lucien, una cosa incredibile!» esclamò la dama, fissando su Lucien
uno sguardo scrutatore. «Il signor Danglars è partito questa notte.»
«Partito? Il signor Danglars, partito? E dove è andato?»
«Lo ignoro.»
«Come, lo ignorate? È dunque partito per non ritornare più?»
«Senza dubbio! Alle dieci di sera i suoi cavalli lo hanno condotto
alla barriera Charenton, dove ha trovato una carrozza di posta coi
cavalli già attaccati, e vi è salito col suo cameriere, dicendo al
cocchiere che andava a Fontainebleau.»
«Che dicevate dunque?»
«Aspettate, amico mio. Mi ha lasciato una lettera.»
«Una lettera?»
«Sì, leggetela.»
E la baronessa prese dalla borsa una lettera dissigillata che
presentò a Debray. Questi, prima di leggere, esitò un momento, come
se volesse tentare di indovinare ciò che conteneva, o piuttosto come
se, qualunque fosse il contenuto, avesse preso una decisione in
proposito. Ecco che cosa conteneva questo biglietto, che aveva
portato un così gran turbamento nel cuore della signora Danglars:
«Signora e fedelissima sposa.»
Senza pensarci, Debray si fermò, e guardò la baronessa che arrossì
fino agli occhi.
«Leggete», insistette lei.
Debray continuò:
«Quando riceverete questa lettera voi non avrete più marito. Oh, non
spaventatevi più del necessario, non avrete più marito, come non
avete più figlia; vale a dire che sarò su una delle trenta o
quaranta strade che portano fuori dalla Francia.
Io vi debbo alcune spiegazioni e, siccome siete una donna in grado
di comprenderle, ve le darò. Questa mattina mi è stato chiesto un
rimborso di cinque milioni, e l’ho fatto, e un altro più o meno
della stessa somma lo ha seguito quasi immediatamente; l’ho
differito a domani e oggi parto per evitare questo domani, che mi
sarebbe troppo increscioso affrontare. Voi capirete benissimo,
signora e preziosissima sposa… Io dico capirete perché voi conoscete
i miei affari quanto me, anzi meglio di me, dato che se si dovesse
far sapere dov’è finita una buona metà delle mie ricchezze,
quand’erano rilevanti, io ne sarei incapace, mentre voi al
contrario, ne sono certo, ve la cavereste perfettamente. Poiché le
donne hanno degli istinti infallibili e spiegano, con un’algebra
particolare da loro inventata, anche il mistero. Io che conosco
soltanto le mie cifre, non ne ho saputo più nulla dal giorno in cui
queste mi hanno ingannato.
Avete qualche volta ammirato la rapidità della mia caduta, signora?
Siete rimasta un po’ abbagliata da quella incandescente fusione
delle mie verghe d’oro? Io ve lo confesso non vi ho visto che fuoco;
speriamo che voi abbiate trovato un po’ d’oro fra quelle ceneri.
Con questa consolante speranza mi allontano, signora e prudentissima
sposa, senza che la mia coscienza mi rimproveri d’abbandonarvi, a
voi restano degli amici, le ceneri di cui vi parlavo, e, per colmo
di felicità, la libertà che mi affretto a restituirvi.
Però, signora, è giunto il momento di inserire in questo paragrafo
una parola d’intima spiegazione. Fino a che io ho sperato che
v’adoperaste per il bene della nostra casa, per la fortuna di nostra
figlia, ho chiuso gli occhi, ma siccome avete fatto della casa
un’immensa rovina, non voglio servire alla fondazione della fortuna
degli altri. Vi ho presa ricca, ma poco onorata.
Perdonatemi se vi parlo con franchezza, ma siccome probabilmente non
parlo che per noi due, non vedo il perché dovrei trattenermi. Io ho
aumentato la nostra fortuna, che per quindici anni non ha fatto che
aumentare, fino all’istante in cui catastrofi sconosciute,
inintelligibili anche per me, sono venute a prendersela, franco su
franco, a rovesciar la mia fortuna, senza che io possa dire di
averne avuto la minima colpa.
Voi, signora, vi siete adoperata soltanto ad accrescere la vostra,
cosa nella quale siete riuscita: ne sono moralmente convinto. Vi
lascio dunque come vi ho preso, ricca, ma poco onorata. Addio! Io
pure, da oggi, lavorerò per conto mio. Credete a tutta la mia
riconoscenza per l’esempio che mi avete dato e che io seguirò.
Vostro affezionatissimo marito barone Danglars».
La baronessa aveva tenuto gli occhi fissi su Debray durante questa
lunga e penosa lettura, e aveva notato il giovane cambiare due o tre
volte colore. Quando ebbe finito, ripiegò lentamente la lettera, e
tornò pensieroso.
«Ebbene?» domandò la signora Danglars con un’ansia facile da
comprendere.
«Ebbene, signora?» ripeté macchinalmente Debray.
«Che cosa ne pensate?»
«Oh, ve lo dico senza difficoltà, penso che il signor Danglars sia
partito con dei sospetti.»
«Senza dubbio, ma non avete altro da dirmi?»
«Non vi capisco», disse Debray con freddezza glaciale.
«È partito! Partito per non ritornare più!»
«Non illudetevi, baronessa.»
«No, vi dico che non ritornerà più. Lo conosco, è un uomo
irremovibile in tutte le decisioni che riguardano il suo interesse.
Se mi avesse ritenuta utile per qualche cosa, mi avrebbe portato con
sé. Ma mi lascia a Parigi, e questo è segno che la nostra
separazione fa parte dei suoi progetti… È dunque irrevocabile, e io
sono libera per sempre», aggiunse la signora Danglars, con
un’espressione di preghiera.
Ma Debray, invece di rispondere, la lasciò in quell’angosciosa
interrogazione dello sguardo e del pensiero.
«Non mi rispondete, signore?» domandò infine.
«Io non ho che una domanda da rivolgervi: che cosa contate di fare?»
«Ve lo stavo chiedendo io», rispose la baronessa palpitando.
«È dunque un consiglio che mi chiedete?»
«Sì, un consiglio», disse la baronessa con il cuore chiuso in una
morsa.
«Allora se è questo che mi chiedete, vi consiglio di viaggiare.»
«Di viaggiare?» mormorò la signora Danglars.
«Certamente. Come ha detto Danglars, voi siete ricca e assolutamente
libera. Dopo il chiasso che hanno fatto i due matrimoni andati a
monte della signorina Eugénie, e la duplice sparizione di vostra
figlia e di vostro marito, è assolutamente necessario che voi vi
assentiate da Parigi per qualche tempo, almeno a quanto credo… Ora è
necessario che tutta la società sappia che siete povera, e vi creda
abbandonata, poiché non si perdonerebbe alla moglie di un banchiere
fallito la ricchezza e l’opulenza della sua casa. Intanto, basta che
restiate a Parigi soltanto quindici giorni, raccontando ai vostri
migliori amici, che ripeteranno ovunque in che modo siete stata
lasciata.
Quindi lascerete il vostro palazzo, abbandonando i gioielli e il
denaro, e tutti loderanno il vostro disinteresse. Allora vi
crederanno abbandonata e povera, poiché io solo conosco la vostra
situazione finanziaria, e sono pronto a restituirvi i vostri conti
da socio leale.»
La baronessa, pallida, atterrita, aveva ascoltato questo discorso
con tanto spavento e disperazione, quanta era stata la calma e
l’indifferenza mostrata da Debray nel pronunciarlo.
«Abbandonata!» ripeté. «Oh, davvero abbandonata… Sì, avete ragione
signore, nessuno avrà dubbi sul mio abbandono.»
Tali furono le sole parole che questa donna altera e innamorata
riuscì a dire a Debray.
«Ma ricca, anzi ricchissima», continuò Debray, estraendo dal
portafogli e stendendo sul tavolo alcune carte.
La signora Danglars lo lasciò fare, essendo occupata a contenere i
battiti del suo cuore, e a trattenere le lacrime che sentiva
spuntare sotto le palpebre. Ma infine il sentimento della propria
dignità ebbe il sopravvento, e se non riuscì a comprimere il cuore,
la baronessa riuscì almeno a non versare una lacrima.
«Signora», riprese Debray, «sono circa sei mesi che siamo in
società. Voi avete fornito il capitale sotto forma di centomila
franchi. La nostra società fu costituita nel mese di aprile di
quest’anno. In maggio cominciarono le nostre operazioni, e abbiamo
guadagnato quattrocentocinquantamila franchi. In giugno l’utile è
salito a novecentomila. In luglio abbiamo aggiunto un milione e
settecentomila franchi. Come voi sapete fu sui titoli di Spagna.
In agosto perdemmo, all’inizio del mese, trecentomila franchi, ma il
quindici dello stesso mese li abbiamo riguadagnati, e alla fine
abbiamo preso la nostra rivincita, perché i nostri conti, dal giorno
della nostra associazione a ieri, quando li ho chiusi, ci danno un
attivo di due milioni e quattrocentomila franchi, vale a dire un
milione e duecentomila franchi a testa. Ora», continuò Debray,
sfogliando il suo libro dei conti, col metodo e la tranquillità di
un agente di cambio, «vanno aggiunti anche ottantamila franchi di
interesse per la somma rimasta fra le mie mani.»
«Ma», interruppe la baronessa, «che significano questi interessi, se
la somma non è mai stata adoperata?»
«Vi chiedo scusa, signora», rispose freddamente Debray, «mi avevate
dato facoltà di far fruttare questo denaro, e l’ho fatto. Ci sono
dunque altri quarantamila franchi di interesse, più i centomila
franchi del primo capitale di fondo, vale a dire un milione e
trecentoquarantamila franchi per voi. Ora, signora», continuò
Debray, «l’altro ieri ho avuto la precauzione di riscuotere tutto il
vostro denaro. Come vedete si sarebbe detto che io prevedessi di
essere presto chiamato a rendervi conto della vostra fortuna; il
vostro denaro è qui, metà in assegni al portatore. Ho detto qui,
perché siccome non ritenevo la mia casa abbastanza sicura, né i
notai abbastanza discreti, e siccome le case parlano ancora più
facilmente di questi, e siccome infine non avevate il diritto di
comprare né possedere niente fuori della comunione coniugale, io ho
custodito questa somma, che oggi forma tutta la vostra ricchezza, in
una cassetta sigillata in fondo di questo armadio, e per maggior
sicurezza l’ho costruita io stesso. Adesso», continuò, aprendo prima
l’armadio e poi la cassetta, «adesso, signora, ecco qui ottocento
biglietti da mille franchi l’uno, che somigliano, come vedete, a un
grosso album rilegato in ferro; vi unisco un mazzetto di carte di
credito per venticinquemila franchi, quindi una cambiale di
centodiecimila franchi, eccola qui, sul mio banchiere, pagabile a
vista, e siccome il mio banchiere non è il signor Danglars, la
cambiale sarà pagata, potete stare tranquilla.»
La signora Danglars prese macchinalmente la cambiale a vista, le
carte di credito e il mazzo di biglietti di banca. Tale enorme somma
sembrava ben poca cosa, disposta là sopra il tavolo. La signora
Danglars, con gli occhi asciutti, ma il petto gonfio di singhiozzi,
chiuse l’astuccio nella borsa, mise le carte di credito e la
cambiale a vista nel portafogli, e in piedi, pallida e muta
aspettava una dolce parola che la consolasse dell’essere così ricca.
Ma aspettò invano.
«Ora, signora», disse Debray, «avete un capitale magnifico, che vi
dà all’incirca una rendita di settantamila franchi; somma enorme per
una donna che non potrà apparire in società per almeno un anno.
Questo è un privilegio per tutti i capricci che vi passeranno per la
mente! Senza contare che se trovate la vostra parte insufficiente,
potete ricorrere alla mia, signora, e io sono disposto a offrirvela…
Oh, a titolo di prestito, beninteso, tutto ciò che possiedo, vale a
dire un milione e sessantamila franchi è a vostra disposizione.»
«Grazie, signore», rispose la baronessa, «grazie… Capirete bene che
mi avete dato molto più di quello che serve a una povera donna che
non conta per molto tempo di riapparire in società…»
Debray fu per un momento meravigliato, ma si riprese con un gesto
che voleva esprimere in modo meno educato questo pensiero: «Farete
come più vi piacerà».
La signora Danglars aveva forse fino allora sperato in qualcosa, ma
quando vide il gesto di noncuranza sfuggito a Debray e lo sguardo
obliquo con cui aveva accompagnato quel gesto, come pure il profondo
inchino e il significativo silenzio che lo seguirono, allora rialzò
la testa, aprì la porta, e senza rabbia, senza agitazione, né
esitazione, si lanciò giù per la scala, evitando perfino
d’indirizzare un ultimo saluto a colui che la lasciava partire in
quel modo.
«Bah!» disse Debray quando la baronessa fu partita. «Con tutto
quello che potrebbe fare, resterà nel suo palazzo, leggerà dei
romanzi e giocherà a carte, non potendo più giocare in Borsa.»
Poi riprese il suo libro dei conti, tirando una linea sulle somme
che aveva pagato.
«Mi restano un milione e sessantamila franchi», disse. «Che
disgrazia che la signorina Villefort sia morta! Quella ragazza
faceva al caso mio, e l’avrei sposata.»
E flemmaticamente, secondo la sua abitudine, aspettò che fossero
passati venti minuti dalla partenza della signora Danglars, per
uscire a sua volta, tempo durante il quale non fece che fare conti,
tenendo accanto a sé l’orologio.
Quel personaggio diabolico che ogni ricca fantasia avrebbe potuto
creare con maggiore o minor felicità, se Lesage non avesse messo nel
suo capolavoro Asmodeo, che scoperchiava le case per guardarvi
dentro, avrebbe goduto di un singolare spettacolo se, nel momento in
cui Debray faceva i suoi conti, avesse divelto il tetto della casa
in rue de Saint-Germain des Prés. Proprio sopra quella stanza, dove
Debray aveva fatto la spartizione con la signora Danglars di due
milioni e mezzo, c’era un’altra stanza abitata da personaggi di
nostra conoscenza, che hanno rappresentato una parte importantissima
negli avvenimenti da noi raccontati, e avremo piacere di ritrovarli.
In quella camera c’erano Mercedes e Albert.
In pochi giorni Mercedes era molto cambiata; non che, anche nei
tempi della maggiore ricchezza, fosse attaccata al fasto, che fa sì
che non si riconosca più una donna costretta a indossare abiti più
semplici, e nemmeno che fosse caduta in quello stato di depressione
in cui si precipita quando si è costretti alla miseria; no, Mercedes
era cambiata perché il suo sguardo non brillava più, perché la sua
bocca non sorrideva più, perché un perpetuo imbarazzo fermava sulle
sue labbra la battuta rapida che un tempo aveva sempre pronta. Non
era la povertà ad aver avvilito l’animo di Mercedes, non era la
mancanza di coraggio a renderle pesante la sua povertà. Mercedes,
caduta dal centro in cui viveva, perduta nella nuova sfera che si
era scelta, come coloro che passano da un luogo illuminato alle
tenebre, Mercedes sembrava una regina scesa dal suo palazzo a una
capanna, e ridotta al puro necessario. Non si riconosceva né dai
piatti d’argilla, ch’era obbligata a portare in tavola, né dal sofà
che aveva sostituito il letto.
Difatti la bella catalana, o la nobile contessa, non aveva più lo
sguardo fiero e il grazioso sorriso di prima, perché non vedeva che
oggetti tristi. Una camera tappezzata con una di quelle carte grigio
chiaro e scuro che i proprietari poveri scelgono di preferenza come
le meno facili a sporcarsi, un pavimento senza tappeti, mobili che
richiamavano l’attenzione costringendo a notare la modestia di
quella falsa ostentazione, tutte queste cose erano in disaccordo con
l’armonia necessaria a chi è stato abituato all’eleganza.
La signora Morcerf viveva là da quando aveva abbandonato il suo
palazzo. La testa le girava in quell’eterno silenzio, come a un
viaggiatore che si trova sull’orlo di un abisso. Accorgendosi che
Albert la guardava di nascosto per capire il suo stato d’animo, si
era obbligata a un monotono sorriso, che in assenza di quel fuoco
dolce, del sorriso dei suoi occhi, faceva l’effetto di un semplice
riverbero, cioè di una chiarezza senza colore. Dal canto suo, Albert
era preoccupato, imbarazzato, impacciato da un falso lusso che gli
impediva di vivere al livello della sua reale condizione: voleva
uscire senza guanti, e giudicava le mani troppo bianche, voleva
correre per la città a piedi, e trovava gli stivali troppo ben
verniciati. Però quelle due creature nobili e intelligenti, riunite
dai legami dell’amore materno e filiale, erano riuscite a intendersi
senza parlare, risparmiando ogni spiegazione sugli aspetti materiali
della loro vita. Albert un giorno aveva però dovuto dire a sua madre
senza farla impallidire: «Madre mia, non abbiamo più denaro».
Mercedes non aveva mai conosciuto la vera miseria. Lei stessa aveva
in gioventù parlato di povertà, ma non era lo stesso, perché fra
bisogno e necessità, sebbene sinonimi, c’è una grandissima
differenza. Al villaggio dei Catalani, Mercedes aveva bisogno di
mille cose, ma non mancava mai di certe altre. Fino a che le lenze
erano buone si prendeva pesce, fino a che si vendeva pesce, si
acquistava il filo per fare le reti. E poi, isolata dagli amici, non
avendo che un amore, totalmente estraneo ai dettagli della sua
condizione, era già molto che del poco che aveva partecipasse agli
altri il più generosamente possibile. Ma oggi doveva fare due parti,
e con niente.
L’inverno si avvicinava. Mercedes, in quella camera nuda e già
fredda, non aveva fuoco, lei, cui un calorifero riscaldava poco
prima tutta la casa dalle anticamere fino al tetto; non aveva
neppure un piccolo fiore, lei, il cui appartamento si poteva dire
una serra calda, popolata di fiori di ogni specie! Ma aveva suo
figlio!… L’esaltazione di un dovere forse esagerato li aveva
sostenuti fino a quel momento. L’esaltazione è quasi un entusiasmo,
e l’entusiasmo rende insensibili alle cose della terra! Ma
l’entusiasmo si era sopito, ed era stato necessario scendere a poco
a poco dai sogni alla realtà. Bisognava infine parlare del positivo,
dopo aver esaurito l’ideale.
«Madre mia», disse Albert nello stesso momento in cui la signora
Danglars scendeva la scala, «contiamo il denaro che ci resta, per
favore: ho bisogno di un conto complessivo per fare i nostri
progetti.»
«Totale? Niente», disse Mercedes, con un doloroso sorriso.
«Non può essere, madre mia. Nell’insieme dovremmo avere tremila
franchi, e con tremila franchi potremo vivere splendidamente!»
«Ragazzo mio!» sospirò Mercedes.
«Madre mia», riprese il giovane, «purtroppo ho speso molto denaro
prima di imparare a conoscerne il valore. È una somma enorme,
vedete, tremila franchi, e su di essa ho ideato un prospero
avvenire.»
«Voi parlate così, figlio mio», continuò la povera madre, «ma prima
di tutto accetteremo questa somma di tremila franchi?» domandò
Mercedes arrossendo.
«Questo è deciso, mi pare», disse Albert, con tono fermo. «Li
accettiamo, tanto più che non li abbiamo, perché sono, come ben
sapete, sepolti nel giardino di quella casa lungo i viali di
Meilhan, a Marsiglia. Con duecento franchi», continuò Albert,
«raggiungeremo Marsiglia.»
«Con duecento franchi! Siete sicuro, Albert?»
«Mi sono informato alla direzione delle diligenze, e dei battelli a
vapore, e ho fatto i miei calcoli. Viaggerete per Châlon sul davanti
della diligenza… Vedete, madre mia, che vi tratto da regina.
Trentacinque franchi.»
Albert prese una penna e, scrivendo, disse: «Da qui a Châlon:
trentacinque franchi; da Châlon a Lione, col battello a vapore: sei
franchi; da Lione ad Avignone, sempre col battello a vapore: sedici
franchi; da Avignone a Marsiglia: sette franchi; spese di viaggio:
cinquanta franchi. Totale centoquattordici franchi. Facciamo
centoventi», aggiunse Albert sorridendo. «Sono generoso, vero, madre
mia?»
«Ma tu, mio povero figlio?»
«Io? E non avete visto che mi tengo ottanta franchi? Un giovane,
madre mia, non ha bisogno di tanti comodi; d’altra parte so che cosa
significa viaggiare.»
«In carrozza da posta, e col tuo cameriere!»
«In ogni modo, madre mia.»
«Ebbene, sia», disse Mercedes. «Ma questi duecento franchi?»
«Questi duecento franchi, eccoli, e di più, eccone altri duecento.
Ho venduto il mio orologio, cento franchi, e la catenella trecento…
Come sono fortunato! Catenelle che valgono tre volte l’orologio.
Sempre per la famosa storia delle cose superflue. Eccoci dunque
ricchi poiché invece di centoquattordici franchi che vi servivano
per fare il viaggio, ne avete duecentocinquanta.»
«Ma non dobbiamo pagare qualche cosa per questa casa?»
«Trenta franchi, ma li pago io con i miei centocinquanta. E poiché
non mi servono che ottanta franchi per fare il viaggio, vedete che
nuoto nel lusso. Ma non è tutto: che ne dite di questo, madre mia?»
E Albert estrasse da un piccolo portafoglio con fermaglio d’oro,
unico resto della sua antica eleganza o fors’anche tenero ricordo di
una di quelle donne che bussavano alla sua porticina, un biglietto
da mille franchi.
«Che cos’è quello?» domandò Mercedes.
«Un biglietto da mille franchi, madre mia. Oh, è perfettamente
quadrato…»
«Ma da dove arrivano questi mille franchi?»
«Ascoltate, madre mia, ma non commuovetevi troppo.»
Albert baciò sua madre, e si fermò a guardarla.
«Non potete immaginare, madre mia, quanto siete bella!» disse il
giovane con profondo amor filiale. «Siete la più bella, come siete
la più virtuosa delle donne che ho conosciute.»
«Caro figlio!» disse Mercedes, sforzandosi invano di trattenere una
lacrima che le spuntava dalla palpebra.
«A dire il vero, non vi mancava che diventare infelice per
trasformare il mio amore in adorazione.»
«Io non sono infelice fino a che mi resta mio figlio», disse
Mercedes, «non sarò infelice fino a che ti avrò.»
«Per sempre», disse Albert. «Ma ecco dove comincia la prova, madre
mia! Voi ricordate il nostro accordo?»
«Quale?» domandò Mercedes.
«Che voi abiterete a Marsiglia, e io partirò per l’Africa, dove
invece del nome che ho lasciato, renderò illustre il nome che ho
assunto.»
Mercedes sospirò.
«Ebbene, madre mia, da ieri mi sono arruolato negli Spahis»,
aggiunse il giovane abbassando gli occhi intimidito, poiché non
sapeva egli stesso quanto v’era di sublime nel fare il soldato.
«Diciamo che mi sono accorto di avere un corpo, e che potevo
venderlo. Mi sono venduto, come si dice», aggiunse tentando di
sorridere, «più caro di quanto pensassi di valere, vale a dire per
duemila franchi.»
«Per cui questi mille franchi?…» disse tremando Mercedes.
«Sono metà della somma, madre mia, l’altra la riscuoterò fra un
anno.»
Mercedes alzò gli occhi al cielo con un’espressione che nessuno
avrebbe saputo descrivere, e due lacrime trattenute sgorgarono per
l’emozione scivolando silenziosamente lungo le guance.
«Il prezzo del sangue», mormorò.
«Sì, se sarò ucciso», disse ridendo Morcerf, «ma ti assicuro, cara
madre, che, al contrario, ho intenzione di difendere vigorosamente
la mia povera pelle. Non ho mai avuto tanta voglia di vivere come in
questo momento.»
«Mio Dio, mio Dio!» esclamò Mercedes.
«Ma perché pensate che verrò ucciso, madre mia? Forse Lamoricière,
questo Ney del Mezzogiorno, è stato ucciso? E Changarnier e Bedeau?
Forse Morrel, che noi conosciamo, è stato ucciso? Pensate dunque
alla vostra gioia, madre mia, quando mi vedrete tornare con
un’uniforme ricamata. Con quella sarò orgoglioso.»
Mercedes sospirò, mentre cercava di sorridere: capiva che non doveva
lasciar portare a suo figlio tutto il peso del sacrificio.
«Ebbene, madre mia», disse Albert, «eccovi già più di quattromila
franchi assicurati; con questi quattromila franchi vivrete bene due
anni.»
«Davvero?» disse Mercedes.
Queste parole sfuggite alla contessa contenevano un tale dolore che
il loro vero senso non sfuggì ad Albert: sentì stringersi il cuore,
e prendendo la mano della madre la strinse teneramente fra le sue.
«Sì, voi vivrete», disse.
«Io vivrò, ma tu non partirai, figlio mio, non è vero?»
«Madre mia, io partirò», ripeté Albert, con voce calma e ferma. «Mi
amate troppo per permettermi di non fare niente, e inoltre ho
firmato.»
«Segui la tua volontà, figlio mio, e io seguirò la volontà di Dio.»
«Non secondo la mia volontà, madre mia, ma secondo la ragione,
secondo la necessità. Noi siamo due creature disperate, non è vero?
Che cosa è la vita per voi oggi? Nulla. Che cosa è mai la vita per
me? Oh, ben poca cosa senza di voi, madre mia, credetelo; perché
senza di voi questa vita, ve lo giuro, sarebbe cessata nel giorno in
cui concepii qualche dubbio sull’onore di mio padre e rinnegai il
suo nome! Finalmente vivo, se mi promettete di sperare ancora e, se
mi lasciate la cura della vostra futura felicità, raddoppierete la
mia forza. Allora andrò laggiù a trovare il governatore d’Algeria; è
uomo leale e soprattutto soldato. Gli racconterò la mia condotta, e
spero, prima che si compiano sei mesi, di essere ufficiale: da
ufficiale, la vostra sorte è assicurata, madre mia, perché allora
avrò del denaro, e per voi e per me, e di più un nuovo nome di cui
saremo orgogliosi, poiché quello sarà il vostro vero nome… Se invece
sarò ucciso… ebbene, se sarò ucciso, cara madre, morirete, se lo
vorrete, e allora i nostri guai avranno termine.»
«Sì», rispose Mercedes, col suo nobile ed eloquente sguardo, «hai
ragione, figlio… Dimostriamo a quella società che ci osserva, che
guarda le nostre azioni per giudicarci, proviamo che siamo almeno
degni di essere compianti.»
«Bando a questi pensieri funebri, cara madre!» gridò il giovane. «Vi
giuro che noi siamo, o almeno potremo essere felicissimi. Voi siete
dotata di spirito e di rassegnazione, io sono divenuto semplice nei
miei gusti, e senza passioni, almeno lo spero. Una volta in
servizio, sarò ricco; una volta che voi sarete in casa del signor
Dantès, sarete tranquilla. Proviamo, ve ne prego, madre mia,
proviamo!»
«Sì, proviamo, figlio mio, perché tu devi vivere, perché tu devi
essere felice», rispose Mercedes.
«Ecco decisa la nostra separazione», aggiunse il giovane. «Possiamo
partire oggi stesso. Come vi ho detto, vi ho prenotato un posto.»
«E tu, figlio mio?»
«Io devo restare qui altri due o tre giorni… Questo sarà solo un
inizio di separazione, e dobbiamo abituarci. Devo cercare alcune
raccomandazioni, raccogliere informazioni sull’Algeria, e poi vi
raggiungerò a Marsiglia.»
«Sia, partiamo», annuì Mercedes avvolgendosi nel solo scialle che
aveva portato con sé. «Partiamo!»
Albert raccolse in fretta le sue carte, suonò per pagare i trenta
franchi che doveva al padrone di casa, e offrendo il braccio a sua
madre scese la scala. Qualcuno scendeva davanti a loro, e sentendo
lo strascico di una veste di seta sugli scalini, si volse.
«Debray!» mormorò Albert.
«Voi… Morcerf!» si stupì il segretario del ministro fermandosi sullo
scalino su cui si trovava.
La curiosità vinse in Debray il desiderio di conservare l’incognito.
Gli sembrava infatti strano ritrovare in quella casa remota quel
giovane, la cui disgraziata avventura aveva fatto tanto chiasso a
Parigi.
«Morcerf!» ripeté Debray.
Quindi scorgendo nella penombra le forme ancora giovani di una donna
velata, aggiunse con un mezzo sorriso: «Scusate! Vi lascio, Albert».
Albert capì il pensiero di Debray.
«Madre mia», disse, volgendosi a Mercedes, «è il signor Debray,
segretario del ministro dell’Interno, un mio vecchio amico.»
«Come, vecchio!» balbettò Debray. «Che volete dire?»
«Dico questo, signor Debray, perché oggi non ho e non posso più
avere amici. Vi ringrazio, anzi, moltissimo, di avermi voluto
riconoscere, signore.»
Debray risalì i due scalini per dare un’energica stretta di mano al
suo interlocutore.
«Credetemi, Albert», disse, con tutta l’emozione possibile, «sono
rimasto profondamente colpito dalla disgrazia che vi ha colpito, e
mi metto a vostra disposizione in tutto e per tutto.»
«Grazie, signore», disse sorridendo Albert, «ma in mezzo alla nostra
disgrazia, siamo rimasti abbastanza ricchi per non avere bisogno di
ricorrere a nessuno. Lasciamo Parigi, e, pagato il nostro viaggio,
ci rimangono ancora cinquemila franchi.»
Il rossore salì alla fronte di Debray che aveva un milione nel
portafogli, e per quanto fosse poco poetico, non poté non riflettere
che la stessa casa era stata abitata poco prima da due donne, delle
quali una, giustamente disonorata, se ne andava con un milione e
cinquecentomila franchi, e l’altra ingiustamente colpita, ma sublime
nella sua infelicità, si riteneva ricca con pochi denari. Questo
paragone lo imbarazzò. Balbettò qualche parola e scese rapidamente.
Ma la sera stessa aveva comprato una bella casa sul boulevard de la
Madeleine, che gli dava cinquemila lire di rendita.
L’indomani, all’ora in cui Debray firmava il contratto, cioè verso
le cinque pomeridiane, la signora Morcerf, dopo avere teneramente
abbracciato suo figlio ed essere stata teneramente abbracciata da
lui, salì sulla diligenza. Un uomo nascosto nel cortile
dell’amministrazione Laffitte, dietro una di quelle finestre arcate
del pianterreno che sormontano tutti gli uffici, vide partire la
diligenza, e allontanarsi Albert. Si passò allora la mano sulla
fronte, dicendo: «Ahimè, in che modo restituirò a questi innocenti
la felicità che gli ho tolto?… Dio mi aiuterà!»
106. La fossa dei leoni
Uno dei raggi della prigione, e precisamente quello che rinchiude i
detenuti più compromessi e pericolosi, si chiama il cortile di San
Bernardo. I prigionieri, nel loro gergo, lo hanno soprannominato «la
fossa dei leoni», probabilmente perché i detenuti che vi sono
rinchiusi spesso mordono le inferriate e non di rado i carcerieri. È
questa una prigione all’interno della stessa prigione; le mura sono
spesse il doppio delle altre. Ogni giorno un carceriere esplora con
somma cura le inferriate massicce; e si capisce, dalla statura
erculea, dallo sguardo freddo del guardiano, che è stato scelto per
regnare col terrore su quella gente.
Il prato di quel raggio è circondato da mura alte e grosse,
illuminate obliquamente dal sole, quando si decide a penetrare in
quel baratro fisico e morale. Là, su quel prato, fin dalla mattina
vagano pensierosi, feroci, pallidi, come ombre, coloro che la
giustizia tiene in scacco sotto la mannaia che si sta affilando, e
che si vedono addossarsi, raggrupparsi contro il muro, che assorbe e
conserva la maggior parte del loro calore. Essi rimangono là,
parlando a due a due, il più spesso isolati, con l’occhio
incessantemente puntato verso la porta, che si apre per chiamare
qualcuno degli abitanti di quel lugubre soggiorno, o per vomitare in
quel luogo una nuova feccia tolta dal crogiolo della società.
Il cortile di San Bernardo ha il suo parlatorio particolare: un
quadrato oblungo, diviso in due parti da due inferriate, piantate
parallelamente a novanta centimetri l’una dall’altra, di modo che il
visitatore non possa stringere la mano del prigioniero, o passargli
qualche oggetto. Questo parlatorio è scuro, umido e orribile, sotto
tutti i punti di vista, particolarmente quando si pensa alle
orribili confidenze che sono passate per quelle inferriate, che
hanno arrugginito il ferro delle sbarre. Però quel luogo, per quanto
spaventoso, è un paradiso dove vengono a riparare quegli uomini per
i quali i giorni sono contati: è raro che qualcuno esca dalla «fossa
dei leoni» per andare in tutt’altro luogo che non sia la barriera
Saint-Jacques, o la galera, o il carcere penitenziario.
Nel cortile che abbiamo descritto e che esala una fetida umidità,
passeggiava con le mani in tasca un giovane osservato con molta
curiosità dagli abitanti della «fossa». Lo si sarebbe giudicato un
giovane elegante dal taglio degli abiti che, benché con degli
strappi, non erano usati, anzi il panno era fino e lucido, e,
dov’era intatto riprendeva facilmente il suo splendore sotto le
carezze del prigioniero che cercava di conservare l’abito nuovo.
Usava la stessa cura nell’abbottonare una camicia di batista
considerevolmente cambiata di colore dalla sua entrata in prigione;
e sopra gli stivali verniciati passava e ripassava l’angolo di un
fazzoletto con le iniziali ricamate e sormontate da una corona
araldica.
Alcuni carcerati della «fossa dei leoni» consideravano con manifesto
interesse la ricercata toilette del prigioniero.
«Guarda, ecco là il principe che si fa bello», commentò uno dei
ladri.
«È bellissimo naturalmente», disse un altro. «Se avesse un pettine e
un po’ di pomata, eclisserebbe tutti i signori in guanti bianchi.»
«L’abito doveva essere nuovo, e gli stivali lucidi! È un vanto per
noi avere un simile coinquilino, e quei briganti di gendarmi sono
stati maleducati a rovinare una toilette come quella!»
«Sembra che sia un personaggio famoso», aggiunse un altro. «Ne ha
combinate delle belle… E ad alto livello…»
E l’oggetto di quella terribile ammirazione sembrava gustarsi gli
elogi, o il vapore degli elogi, perché non capiva una parola.
Terminata la toilette, si avvicinò alla porta della «fossa», alla
quale stava appoggiato il carceriere di guardia.
«Signore», disse, «prestatemi venti franchi, li riavrete presto, con
me non si corre alcun rischio. Pensate che ho parenti che hanno più
milioni di quanto voi abbiate franchi… Su, venti franchi, vi prego,
per comprare un paio di pantofole e una veste da camera. Soffro
orribilmente a stare sempre col vestito e gli stivali… Che abito,
signore, per un principe Cavalcanti!»
Il guardiano gli diede la schiena, stringendosi nelle spalle, non
rise neppure di quelle parole che avrebbero fatto ridere qualunque
altro, perché quell’uomo ne aveva sentiti molti altri, o piuttosto
aveva sempre sentito la stessa storia.
«Signore, siete uomo senza cuore, vi farò perdere l’impiego…»
Questa parola fece il suo effetto sul guardiano, che questa volta si
lasciò sfuggire un gran scoppio di risa. Allora i prigionieri gli si
avvicinarono tutti facendogli cerchio intorno.
«Vi dico», continuò Andrea, «che con questa miserabile somma vorrei
procurarmi un abito e una veste da camera, per poter ricevere in
modo decente la visita illustre che aspetto da un momento
all’altro.»
«Ha ragione! Ha ragione!» dissero i prigionieri. «Si vede bene che è
un uomo come si deve!»
«E allora prestategli voi venti franchi!» ribatté il guardiano,
appoggiandosi. «Forse dovreste farlo per un compagno.»
«Non sono un loro compagno», replicò orgogliosamente il giovane.
«Non m’insultate, non ne avete diritto!»
«Lo sentite?» disse il guardiano, con un sinistro sorriso. «Vi ha
sistemato per bene: prestategli venti franchi…»
I ladri si guardarono mormorando tra loro, e questa tempesta,
provocata più dalle parole del guardiano che da quelle di Andrea,
cominciò a minacciare di scoppiare intorno al prigioniero
aristocratico. Il guardiano, sicuro di poter padroneggiare la
situazione, quando il tumulto si fosse fatto troppo forte, li
lasciava a poco a poco alterarsi per giocare un brutto tiro
all’importuno scocciatore, e procurarsi così una ricreazione durante
la lunga guardia della giornata. Già i ladri si avvicinavano ad
Andrea, in parte dicendo: «La ciabatta! La ciabatta!», crudele
operazione che consiste nel torturare con colpi, non certo di
ciabatta, ma di scarpa ferrata, un compagno caduto in disgrazia. Gli
altri proponevano «l’anguilla», altro genere di divertimento
consistente nel riempire di sabbia, sassolini e grosse monete un
fazzoletto attorcigliato, che viene scaricato sulle spalle e sulla
testa del paziente.
«Frustiamo il signorino», dissero alcuni, e altri: «Il signor uomo
onesto!»
Ma Andrea, volgendosi verso di loro, gli fece l’occhiolino, gonfiò
con la lingua la guancia, e produsse uno schiocco, un segno
convenzionale che fra i galeotti significa «silenzio».
Questo segnale gli era stato insegnato da Caderousse. Essi lo
riconobbero come uno di loro. I fazzoletti ricaddero, la ciabatta
ferrata rientrò nel piede del principale aguzzino, si udì qualche
voce proclamare che il signore aveva ragione, che il signore poteva
a modo suo essere onesto, e che i prigionieri volevano dare
l’esempio di libertà di coscienza. L’ammutinamento cessò. Il
guardiano ne fu talmente stupefatto, che prese Andrea per le mani e
si mise a frugarlo, attribuendo a qualcosa di più concreto quel
cambiamento istantaneo degli abitanti della «fossa dei leoni».
Andrea si lasciò perquisire, non senza forti proteste. A un tratto
una voce lo chiamò.
«Benedetto!» gridò un ispettore.
Il guardiano lasciò la sua preda.
«Mi hanno chiamato?» disse Andrea.
«In parlatorio!» disse la voce.
«Avete visto? Vengono a farmi visita?… Caro il mio signore, ora
vedremo se si può trattare impunemente un Cavalcanti come un uomo
qualsiasi!»
E Andrea, attraversando il cortile come un’ombra, si precipitò alla
porta lasciando sbigottiti gli altri carcerati e il guardiano. Era
difatti chiamato al parlatorio, cosa che stupiva lo stesso Andrea,
poiché l’astuto giovanotto nel suo entrare alla «fossa», invece di
avvalersi, come la gente comune, del beneficio di poter scrivere per
ricevere delle visite, aveva osservato il più stoico silenzio.
«Sono evidentemente protetto da qualche potente», si diceva. «Tutto
me lo prova: questa fortuna imprevista, la facilità con cui ho
appianato tutti gli ostacoli, una famiglia improvvisata, un nome
illustre divenuto anche il mio, l’oro che mi pioveva addosso, le
alleanze, le più magnifiche promesse alle mie ambizioni. Un
momentaneo oblio della mia fortuna, l’assenza del mio protettore mi
hanno perduto, ma non del tutto, non per sempre! La mano si è
ritirata per un momento, essa ritornerà su di me, per riafferrarmi
di nuovo nel momento in cui mi crederò vicino a piombare nel
precipizio. Perché rischiare un’ultima imprudenza scrivendo? Potrei
seccare il mio protettore! Lui possiede due mezzi per togliermi
d’impiccio: l’evasione misteriosa comprata a prezzo d’oro, o forzare
la mano ai giudici per ottenere la mia assoluzione. Per parlare e
agire aspettiamo di avere la certezza di essere stato abbandonato, e
allora…»
Andrea aveva escogitato il suo piano con molta accortezza; il
disgraziato era coraggioso nell’attacco e astuto nella difesa. La
miseria della prigione in comune, le privazioni di ogni genere, le
aveva sopportate; però, a poco a poco, la sua natura o piuttosto
l’abitudine aveva preso il sopravvento. Andrea soffriva nel trovarsi
nudo, sporco, affamato: il tempo non passava mai. Attraversava uno
di questi momenti quando fu chiamato dall’ispettore in parlatorio.
Andrea sentì il cuore balzare di gioia. Era troppo presto perché
quella fosse una chiamata del giudice istruttore, e troppo tardi
perché fosse del direttore della prigione o del medico.
Dietro l’inferriata del parlatorio, dove Andrea fu introdotto,
scoprì la figura cupa e intelligente del signor Bertuccio, il quale
guardava con dolorosa meraviglia le inferriate, le porte sprangate,
e l’ombra che si agitava dietro le sbarre incrociate.
«Ah!» esclamò Andrea, con un tonfo al cuore.
«Buongiorno, Benedetto», rispose Bertuccio con la sua voce chiara e
sonora.
«Voi!» disse il giovane guardandosi intorno spaventato.
«Non mi conosci più?» domandò Bertuccio. «Giovane disgraziato!»
«Silenzio! Silenzio dunque!» disse Andrea che conosceva la finezza
dell’udito di quelle mura. «Mio Dio, non parlate così ad alta voce!»
«Tu vorresti parlare con me», disse Bertuccio, «a tu per tu, non è
vero?»
«Sì, sì!» rispose Andrea.
E Bertuccio, frugandosi in tasca, fece segno a un guardiano in piedi
dietro a una vetrata. «Leggete», gli disse Bertuccio.
«Che cos’è?» domandò Andrea.
«L’ordine di condurti in una stanza, e di lasciarmi parlare
liberamente con te.»
«Oh!» esclamò Andrea, balzando di gioia. E subito dopo riprendendosi
si diceva: «Ancora il protettore sconosciuto! Non sono stato
dimenticato! Vuole la discrezione, visto che desidera parlarmi in
una stanza isolata. Sono in mio potere… Bertuccio è stato inviato
dal protettore!»
Il guardiano conferì un momento con un superiore, quindi aprì le due
porte sprangate, e li condusse in una cella del primo piano che si
affacciava sul cortile. Andrea non stava più in sé dalla gioia. La
cella era imbiancata a calce, come è d’uso nelle prigioni. Aveva un
aspetto allegro che al prigioniero sembrava raggiante. Un braciere,
un letto, una cassa, una tavola, erano il sontuoso mobilio.
Bertuccio si sedette sulla cassa, Andrea si gettò sul letto; il
guardiano si ritirò.
«Sentiamo», disse l’intendente, «che cos’hai da dirmi?»
«E voi?» domandò Andrea.
«Parla prima…»
«Oh no, siete voi che avete molte cose da dirmi, poiché siete venuto
a trovarmi.»
«Ebbene, sia. Tu hai continuato il corso delle tue scelleratezze, tu
hai rubato, assassinato…»
«Se mi avete fatto condurre in una cella appartata per dirmi queste
cose, tanto valeva che non vi scomodaste. Le so già tutte, tuttavia
ve ne sono altre che non so. Parliamo di queste, se vi va. Chi vi ha
mandato?»
«Oh-oh! Andate per le spicce, signor Benedetto…»
«Vero? E dritto al punto. Soprattutto risparmiamo le parole inutili.
Chi vi manda?»
«Nessuno.»
«E come sapevate che ero in prigione?»
«È già da parecchio che ti avevo riconosciuto per quell’insolente
zerbinotto che guidava tanto leggiadramente un cavallo sugli
Champs-Elysées.»
«Gli Champs-Elysées… Ah! “Fuoco, fuoco” si direbbe al gioco delle
carte… Gli Champs-Elysées! Parliamo un poco di mio padre, volete?»
«Chi sono io, dunque?»
«Voi, mio bravo signore, voi siete mio padre adottivo… Ma non siete
voi, immagino, che avete disposto in mio favore un centinaio di
mille franchi, che ho divorato in quattro o cinque mesi; non siete
voi che mi avete fornito un padre italiano e gentiluomo; non siete
voi che mi avete fatto entrare nel gran mondo, e invitato a un certo
pranzo, dove mi pare di essere ancora, ad Auteuil, con la miglior
società di Parigi, con un certo regio procuratore, di cui ho avuto
il grandissimo torto di non coltivare la conoscenza, che in questo
momento mi sarebbe stata utile; non siete voi, infine, che mi avete
fatto garanzia per uno o due milioni, quando mi è accaduto
l’incidente fatale della scoperta del vaso delle rose… Sentiamo,
parlate, stimabile corso, parlate…»
«Che cosa vuoi che ti dica?»
«Vi aiuterò io. Voi parlavate degli Champs-Elysées poco fa, mio
degno padre putativo.»
«Ebbene?»
«Ebbene… Agli Champs-Elysées abita un signore molto, ma molto
ricco.»
«In casa del quale tu hai rubato e assassinato, non è vero?»
«Credo di sì…»
«Il signor conte di Montecristo.»
«Siete voi che l’avete nominato, come dice Racine… Ebbene, devo
gettarmi fra le sue braccia, soffocarlo contro il mio petto gridando
“Padre mio! Padre mio!”, come dice Pixérécourt?»
«Non scherziamo», rispose gravemente Bertuccio. «E non pronunciare
quel nome come fai tu.»
«E perché no?» fece Andrea, un po’ confuso dal sussiego e dal
contegno del signor Bertuccio.
«Perché chi porta quel nome, è troppo favorito dal cielo per essere
padre di un miserabile come voi.»
«Oh, che paroloni!»
«E vedrai che effetti se non starai in guardia.»
«Minacce! Io non temo niente… Io dirò…»
«Credi di avere a che fare con dei pigmei della tua specie?» ribatté
Bertuccio, con un tono così calmo e uno sguardo così sicuro che
Andrea ne fu colpito fino nel profondo. «Credi di aver a che fare
coi tuoi scellerati compagni di galera, o con quegli ingenui che hai
raggirato in società? Benedetto, tu sei in mani terribili: se
vogliono aprirsi per soccorrerti, approfittane. Non giocare però col
fulmine che per un momento depongono, ma che possono riprendere, se
tenti di impedire a quelle mani il loro libero movimento.»
«Mio padre… Voglio sapere chi è mio padre…» ripeté l’ostinato.
«Morirò, se occorre, ma lo saprò. Che cosa può farmi uno scandalo?
Del bene… del credito… della pubblicità, come dice Beauchamp, il
giornalista. Ma voi, persone dell’alta società, voi avete sempre
qualcosa da perdere nello scandalo, malgrado i vostri stemmi
gentilizi… Chi è mio padre?»
«Sono venuto per dirtelo.»
«Ah!» gridò Benedetto, con gli occhi scintillanti di gioia.
In quel momento si aprì la porta, e il carceriere disse a Bertuccio:
«Scusate, signore, il giudice istruttore aspetta il prigioniero».
«È la fine del mio colloquio», disse Andrea al degno intendente. «Al
diavolo l’importuno!»
«Ritornerò domani», disse Bertuccio.
Andrea gli tese la mano, Bertuccio tenne le sue in tasca, facendo
risuonare alcune monete.
«Era quello che volevo dirvi», disse Andrea con un sorriso forzato,
ma profondamente turbato dalla strana tranquillità di Bertuccio.
«Mi sono sbagliato?» disse fra sé nel salire nella carrozza nota
come il cesto dell’insalata. «Vedremo!» e aggiunse, voltandosi verso
Bertuccio: «A domani».
«A domani», rispose l’intendente.
107. Il giudice
Il lettore ricorderà che l’abate Busoni era rimasto solo con
Noirtier nella camera ardente, e il nonno e il prete si erano eletti
guardiani del corpo della ragazza. E forse le esortazioni
dell’abate, forse la sua parola persuasiva avevano ridato coraggio
al vecchio, poiché dal momento che aveva conferito col prete, invece
della disperazione che sulle prime si era impadronita di lui, tutto
rivelava in Noirtier una grande rassegnazione, una calma assai
sorprendente per tutti quelli che ricordavano l’affetto profondo
portata da lui a Valentine. Il signor Villefort non aveva più visto
il vecchio dalla mattina del giorno funesto. Tutte le persone di
servizio erano state sostituite, aveva assunto un altro cameriere
per se stesso, e un altro servitore per Noirtier; due donne erano
entrate al servizio della signora Villefort; tutti, perfino il
portinaio e il cocchiere, erano volti nuovi per i diversi padroni di
quella casa maledetta, e tuttavia avevano già capito i pessimi
rapporti, già molto freddi, esistenti fra di loro.
D’altra parte, le sedute del tribunale si sarebbero aperte fra due o
tre giorni, e Villefort, chiuso nel suo studio, proseguiva con
febbrile attività l’istruttoria ordita contro l’assassino di
Caderousse. Questo affare, come tutti quelli in cui si trovava
immischiato Montecristo, aveva provocato un grande scandalo nel
mondo parigino.
Le prove non erano convincenti, poiché si fondavano su alcune parole
scritte da un forzato moribondo, vecchio compagno di galera
dell’imputato, e che poteva avere accusato il suo compagno per odio
o per vendetta. C’era però la coscienza del magistrato. Il regio
procuratore aveva finito col convincersi che Benedetto era
colpevole, e che doveva strappare da questa difficile vittoria uno
di quei godimenti di amor proprio che soli sapevano risvegliare un
poco le fibre del suo cuore di ghiaccio.
Il processo dunque s’istruiva, grazie al lavoro incessante di
Villefort, che voleva con questo procedere all’apertura delle
prossime sedute, per cui era stato obbligato a vivere ritirato più
che mai, allo scopo di evitare di rispondere alla prodigiosa
quantità di domande che gli venivano rivolte per ottenere inviti
all’udienza. E poi era trascorso così poco tempo da quando la povera
Valentine era stata trasportata nella tomba, il dolore della
famiglia era ancora così recente, che nessuno si stupiva nel vedere
il padre così rigorosamente assorto nel suo dovere, cioè nell’unica
distrazione che potesse trovare al dolore.
Una sola volta, ed era l’indomani del giorno in cui Bertuccio era
andato a trovare Benedetto per la seconda volta, dicevamo, Villefort
aveva visto Noirtier. Fu nel momento in cui il magistrato, oppresso
dalla fatica, era sceso nel giardino del suo palazzo, e cupo, curvo,
sotto un implacabile pensiero, simile a Tarquinio quando tranciava
con la sua bacchettina le teste dei papaveri più elevate, il signor
Villefort con la canna abbatteva i lunghi e inariditi steli delle
rose che si ergevano lungo i viali, come spettri dei fiori tanto
brillanti nella stagione precedente.
Già più d’una volta aveva percorso in lungo tutto il giardino, ed
era giunto a quel famoso cancello che immetteva nel recinto
abbandonato, ritornando sempre per lo stesso viale, riprendendo
sempre la passeggiata col medesimo passo e lo stesso gesto, quando i
suoi occhi si spostarono meccanicamente verso la casa nella quale
sentiva giocare suo figlio, tornato dal collegio per passare la
domenica e il lunedì con sua madre. In quell’istante vide a una
delle finestre aperte il signor Noirtier, che si era fatto
trasportare nella sua sedia contro quella finestra per godere degli
ultimi raggi di un sole ancora caldo, e salutava i fiori morenti e
le foglie arrossate delle viti, che tappezzavano il muro e
oltrepassavano la finestra.
L’occhio del vecchio era fisso sopra un punto, che Villefort
localizzava imperfettamente. Quello sguardo di Noirtier era così
pieno di odio, così selvaggio, così ardente d’impazienza, che il
procuratore, abile nell’afferrare tutte le espressioni di quel viso,
che conosceva tanto bene, cercò di seguirne la traiettoria, per
vedere su che cosa o su che persona cadesse quello sguardo
significativo.
Allora vide sotto un gruppo di tigli coi rami già quasi spogli, la
signora Villefort che, seduta con un libro in mano, interrompeva a
tratti la lettura per sorridere a suo figlio, o per rimbalzargli la
palla che ostinatamente lanciava dalla sala nel giardino.
Villefort impallidì, poiché comprese che cosa voleva dire il
vecchio. Noirtier guardava sempre lo stesso punto, ma,
all’improvviso, il suo sguardo si portò dalla moglie al marito, e
Villefort stesso dovette allora subire l’attacco di quegli occhi
fulminanti, che nel cambiar persona, avevano pure cambiato
linguaggio, senza tuttavia perdere nulla della loro espressione
minacciosa.
La signora Villefort, estranea a tutte quelle passioni, tratteneva
in quel momento la palla del figlio, facendogli cenno di andarla a
prendere con un bacio, ma Edouard si fece pregare lungamente: le
carezze materne non gli sembravano probabilmente una ricompensa
sufficiente per il disagio che gli veniva imposto: finalmente si
decise, saltò dalla finestra in mezzo a un cespuglio di eliotropi e
margherite, e corse dalla signora Villefort con la fronte coperta di
sudore. La signora Villefort gli asciugò la fronte, vi posò le
labbra, e rimandò il ragazzo con la palla in una mano e un pugno di
confetti nell’altra.
Villefort, attirato da un’invincibile malia, come l’uccello attirato
dal serpente, si avvicinò alla casa, e, mentre si avvicinava, lo
sguardo di Noirtier si abbassava seguendolo, con il fuoco delle sue
pupille che sembrava diventare così incandescente, che Villefort se
ne sentiva divorato fino in fondo del cuore. Infatti si leggeva in
quello sguardo un sanguinoso rimprovero, e nello stesso tempo una
terribile minaccia. Infine le pupille e gli occhi di Noirtier si
alzarono al cielo come se ricordasse a suo figlio un giuramento
dimenticato.
«Va bene, signore», replicò Villefort, dal fondo del cortile, «va
bene! Abbiate pazienza ancora un giorno, ciò che ho detto sarà.»
Noirtier parve calmato da quelle parole, e i suoi occhi si voltarono
con indifferenza da un’altra parte. Villefort si sbottonò
violentemente l’abito che lo soffocava, si passò una mano livida
sulla fronte e rientrò nello studio.
La notte passò fredda e tranquilla; tutti andarono a letto, e
dormirono, come di consueto, in quella casa. Solo, ugualmente per
consuetudine, Villefort non andò a letto quando vi andarono gli
altri, e lavorò fino alle cinque del mattino, per rivedere gli
ultimi interrogatori fatti il giorno innanzi dai giudici istruttori,
confrontare le deposizioni dei testimoni, e fare chiarezza in tutto
il suo atto d’accusa, uno dei più energici e abilmente concepiti.
Lunedì era il giorno in cui doveva aver luogo la prima seduta della
Corte d’Assise. Quel giorno spuntò tetro e sinistro, e la luce
azzurrastra venne a illuminare sulla carta le linee tracciate con
l’inchiostro rosso.
Il magistrato, che si era per un momento addormentato, mentre la
lanterna mandava le ultime scintille, si risvegliò al crepitio del
lucignolo che stava per spegnersi e lo smozzicò con le dita umide e
imporporate come se le avesse intinte nel sangue. Aprì la finestra:
una grande striscia arancio colorava il cielo in lontananza, e
tagliava in due l’ombra dei sottili pioppi che si disegnavano
all’orizzonte. Nel campo del trifoglio, al di là del cancello dei
castagni, un’allodola saliva verso il cielo facendo udire il suo
canto mattutino. L’aria umida dell’alba inondò la testa di
Villefort, e gli rinfrescò la memoria.
«Avverrà oggi», disse con uno sforzo. «Oggi l’uomo che tiene la
spada della giustizia nella sua mano, dovrà colpire ovunque si
trovino colpevoli.»
I suoi sguardi si portarono suo malgrado verso la finestra di
Noirtier, la finestra a cui il giorno prima aveva visto il vecchio.
La tenda era tirata. Eppure l’immagine di suo padre gli era talmente
presente, che si voltò verso quella finestra chiusa come se fosse
stata aperta, e da quell’apertura vedesse ancora il vecchio in atto
di minaccia.
«Sì», mormorò, «sì, stai tranquillo!»
La testa gli cadde sul petto, e con la testa china fece il giro
dello studio, infine si buttò tutto vestito sopra un sofà, meno per
dormire che per ammorbidire le membra intirizzite dalla fatica e dal
freddo che gli penetrava fin dentro le ossa. Poco per volta tutti i
componenti della famiglia si risvegliarono: Villefort, nel suo
studio, udì i successivi rumori che costituiscono, per così dire, la
vita della casa, le porte aperte, il tintinnio del campanello della
signora Villefort che chiamava la cameriera, i primi gridi del
bambino che si alzava allegro e contento, come tutti alla sua età.
Anche Villefort suonò. Il suo nuovo cameriere entrò portandogli i
giornali. Insieme ai giornali, reggeva una tazza.
«Che cosa mi portate?» domandò Villefort.
«Una tazza di cioccolata.»
«Non l’ho chiesta. Chi si prende cura di me?»
«La signora. Ha detto che il signore oggi parlerà molto nel processo
dell’assassinio, e avrà bisogno di qualcosa di forte e caldo.»
E il cameriere depose sul tavolo vicino al sofà la tazza d’argento
dorata, e poi uscì. Villefort guardò un istante la tazza col volto
cupo, quindi d’un tratto la prese con un moto rapido, e ne bevve
tutto il contenuto.
Si sarebbe detto sperasse che questa bevanda fosse stata mortale, e
invocasse la morte per liberarlo da un dovere che gli comandava una
cosa più difficile del morire. Quindi si alzò e passeggiò per lo
studio con una specie di sorriso, che avrebbe ispirato terrore a chi
l’avesse guardato. Giunse l’ora della colazione e il signor
Villefort non comparve a tavola. Il cameriere rientrò nello studio.
«La signora fa avvertire il signore», disse, «che sono suonate le
undici, e che l’udienza è per mezzogiorno.»
«Ebbene…» rispose Villefort. «C’è altro?»
«La signora è pronta, e vorrebbe sapere se l’accompagnerà.»
«E dove?»
«Al palazzo di giustizia.»
«Per far che?»
«La signora dice che desidera assistere a questa seduta.»
«Ah!» esclamò Villefort, con un accento quasi spaventoso. «Desidera
questo?»
Il domestico arretrò d’un passo.
«Se il signore desidera uscire solo andrò a dirlo alla signora.»
Villefort restò un istante muto, accarezzandosi il mento coperto da
una barba nera.
«Dite alla signora», rispose finalmente, «che desidero parlarle, e
la prego di aspettarmi nelle sue stanze.»
«Sì, signore.»
«Poi ritornate per radermi e vestirmi.»
«Sì.»
Il cameriere uscì per tornare quasi subito, rase la barba a
Villefort e lo aiutò a vestirsi. Quindi aggiunse: «La signora ha
detto che aspettava il signore, appena avesse finito di prepararsi».
«Vado.»
E Villefort, col plico delle carte sotto il braccio e il cappello in
mano, si diresse verso l’appartamento di sua moglie. Si fermò un
istante sulla porta, per asciugarsi col fazzoletto il sudore che gli
colava dalla fronte livida, quindi entrò.
La signora Villefort era seduta su un divano, sfogliando con
impazienza dei giornali e degli opuscoli, che il giovane Edouard si
divertiva a tagliare prima ancora che sua madre avesse avuto tempo
di terminarne la lettura. Era pronta per uscire; il cappello
l’aspettava sopra una sedia; indossava i guanti.
«Eccovi finalmente, signore», lo accolse con voce naturale e calma.
«Ma Dio, come siete pallido! Avete dunque lavorato tutta la notte?
Perché non siete venuto a fare colazione con noi? Allora, mi
accompagnerete voi o andrò sola con Edouard?»
La signora Villefort, come si vede, aveva moltiplicato le sue
domande per ottenere una risposta; ma a tutte quelle domande il
signor Villefort era rimasto freddo e muto.
«Edouard», disse Villefort, fissando sul bambino uno sguardo
imperativo, «andate a giocare in sala, ho bisogno di parlare a
vostra madre.»
La signora Villefort vedendo quel freddo contegno, quel tono
risoluto, quegli strani preliminari, fremette. Edouard aveva alzato
la testa e guardato sua madre, e, vedendo che non confermava
l’ordine del signor Villefort, si era rimesso a troncare la testa ai
soldatini di piombo.
«Edouard!» gridò il signor Villefort così violentemente che il
bambino ebbe un sussulto. «Avete capito? Andate!»
Il bambino, non abituato a quel trattamento, si alzò in piedi e
impallidì; sarebbe stato difficile dire se di collera o di paura.
Suo padre andò da lui, lo prese per un braccio, e lo baciò in
fronte.
«Va’, figlio mio», disse, «va’.»
Edouard uscì. Il signor Villefort andò alla porta, e la chiuse a
doppia mandata.
«Oh, mio Dio!» esclamò la giovane sposa guardando suo marito fin nel
profondo dell’anima, e obbligandosi a un sorriso che venne troncato
dall’impassibilità di Villefort. «Che cosa c’è dunque?»
«Signora, dove mettete il veleno di cui vi servite ordinariamente?»
articolò chiaramente e senza preamboli il magistrato, in piedi fra
la moglie e la porta.
La signora Villefort provò quello che deve provare l’allodola quando
vede il falco stringere i suoi cerchi mortali sulla sua testa. Un
suono rauco, smorzato, che non era né un grido, né un sospiro,
sfuggì dal petto della signora Villefort, che impallidì fino a
diventar livida.
«Signore», disse, «io… io non capisco.»
E siccome, in preda a un parossismo di terrore, si era alzata, si
lasciò ricadere sul cuscino del divano.
«Io vi domandavo», continuò Villefort, con voce perfettamente calma,
«dove nascondete il veleno con il quale avete ucciso mio suocero, il
signor di Saint-Méran, mia suocera, Barrois e mia figlia Valentine.»
«Signore», gridò lei giungendo le mani, «che cosa dite?»
«Non sta a voi interrogarmi, ma rispondere!»
«Al giudice, o al marito?…» balbettò la signora Villefort.
«Al giudice, signora, al giudice!»
Era terribile vedere il pallore di quella donna, l’angoscia del suo
sguardo, il fremito di tutto il suo corpo.
«Ah! Signore!» mormorò.
E non disse altro.
«Voi non rispondete, signora!» gridò il terribile inquisitore.
Quindi aggiunse, con un sorriso più spaventoso della sua collera:
«Però non negate!»
Lei fece un cenno.
«E non potreste negarlo», continuò Villefort, tendendo la mano verso
di lei come per afferrarla in nome della giustizia. «Avete compiuto
questi delitti con impudente furbizia, ma non potevate ingannare le
persone troppo affezionate alle vittime e non certo disposte a
essere cieche. Fin dalla morte della signora di Saint-Méran, ho
saputo che c’era un avvelenatore in casa mia, il signor d’Avrigny mi
aveva avvertito. Dopo la morte di Barrois, Dio mi perdoni!, i
sospetti caddero su un angelo. Ma dopo la morte di Valentine non vi
è più alcun dubbio per me, signora, e non solo per me, ma anche per
altri… Così il vostro delitto, noto ora a due persone, sospettato da
molti, diventerà pubblico. E, come vi dicevo, signora, non è più un
marito che vi parla, è un giudice!»
La giovane sposa nascose il viso fra le mani.
«Signore», balbettò, «vi supplico, non credete alle apparenze.»
«Siete anche vile?» gridò Villefort, con disprezzo. «Infatti ho
notato che gli avvelenatori sono sempre vili. Siete vile, voi, che
avete avuto l’orribile coraggio di guardar morire davanti ai vostri
occhi due vecchi e una giovane assassinati da voi?»
«Signore! Signore!»
«Siete vile», continuò Villefort, con crescente esaltazione, «voi
che avete contato a uno a uno i minuti di quattro agonie? Voi che
avete progettato i vostri piani infernali, rimescolato le vostre
infami bevande con un’abilità e precisione metodiche! Voi, che avete
così ben calcolato tutto, avete dimenticato di calcolare una cosa
sola, cioè che potevate essere condotta alla rivelazione dei vostri
delitti? Oh, questo è impossibile: voi vi serbate qualche veleno più
dolce, sottile e mortale degli altri, per sfuggire alla punizione
che vi è dovuta… Voi lo dovete averlo fatto, almeno lo spero.»
La signora Villefort si contorse le mani e cadde in ginocchio.
«Lo so bene… lo so bene», incalzò Villefort, «voi confessate… Ma la
confessione fatta ai giudici, la confessione fatta nell’ultimo
istante, la confessione fatta quando non si può più negare, è una
confessione che non diminuisce la punizione che devono infliggere al
colpevole!»
«La punizione!» gridò la signora Villefort, «la punizione! Signore,
voi avete pronunciato due volte questa parola!»
«Certo! Forse che, per essere quattro volte colpevole, avevate
pensato di sfuggirla? Forse che, essendo la moglie di quello che
domanda la punizione degli altri colpevoli, avevate creduto di
eludere la vostra punizione? No, signora, no! Chiunque sia, il
patibolo aspetta l’avvelenatore, se, soprattutto, come vi dicevo,
l’avvelenatore non ha avuto premura di conservare per sé qualche
goccia del suo più mortale veleno.»
La signora Villefort mandò un grido selvaggio, e un ributtante e
indomabile terrore invase i suoi lineamenti scomposti.
«Non temete il patibolo, signora», disse il magistrato. «Io non
voglio disonorarvi, perché sarebbe come disonorare me stesso, no, al
contrario, se mi avete ben inteso, dovete avere capito che non
potete morire su un patibolo.»
«No, non ho capito cosa volete dire», balbettò la disgraziata
completamente annichilita.
«Voglio dire che la moglie del primo magistrato della capitale non
macchierà con la sua infamia un nome rimasto immacolato e non
disonorerà nel medesimo tempo suo marito e suo figlio.»
«No! Oh, no!»
«Ebbene, signora, questa sarà una buona azione da parte vostra, e di
questa buona azione vi ringrazio.»
«Voi mi ringraziate? E di che?»
«Di ciò che avete detto.»
«E che cosa ho detto? Io ho perso la testa, non capisco più niente!»
E si alzò coi capelli sparsi, le labbra schiumanti.
«Non avete ancora risposto, signora, alla domanda che vi ho fatto
entrando qui: dove avete messo il veleno di cui abitualmente vi
servite?»
La signora Villefort alzò le braccia al cielo e batté convulsamente
le mani l’una contro l’altra.
«No!» gridò. «No, voi non volete questo!»
«Ciò che io non voglio, signora, è che moriate sul patibolo, mi
capite?» disse Villefort.
«Oh, signore, grazia!»
«Ciò che io voglio è che sia fatta giustizia. Io sono sulla terra
per punire, signora», ribadì il procuratore, con uno sguardo
fiammeggiante, «e tutt’altra donna, fosse anche una regina, la
manderei al carnefice! Ma con voi sarò misericordioso. Io vi ho
detto: non avete, signora, conservato qualche goccia del vostro
veleno più dolce, più pronto, più sicuro?»
«Perdonatemi, signore, lasciatemi vivere!»
«Siete così vile?»
«Pensate che sono vostra moglie!»
«Penso che siete un’avvelenatrice.»
«In nome del cielo…»
«No!»
«In nome dell’amore che avete avuto per me!»
«No! No!»
«In nome di nostro figlio! Ah, per nostro figlio, lasciatemi
vivere!»
«No! no! No, vi dico. Se vi lascio vivere, verrà un giorno che
ucciderete anche lui come tutti gli altri.»
«Io uccidere mio figlio?» gridò quella madre selvaggia, lanciandosi
verso Villefort. «Io uccidere il mio Edouard!… Ah! ah! ah!»
E una risata spaventosa, una risata da demonio, da pazza chiuse la
frase e si perdette in un rantolo sanguinoso. La signora Villefort
era caduta ai piedi di suo marito; Villefort le si avvicinò.
«Pensateci, signora», disse, «se al mio ritorno, non sarà stata
fatta giustizia, vi denuncerò io stesso, e vi arresterò con le mie
proprie mani.»
Lei ascoltava ansimante, abbattuta, oppressa: solo lo sguardo viveva
in lei, uno sguardo fiammeggiante.
«Siamo intesi!» disse Villefort. «Io vado alla seduta a chiedere la
morte di un assassino… Se al mio ritorno vi ritrovo viva, stasera
dormirete alla Conciergerie.»
La signora Villefort mandò un sospiro, i suoi nervi si spezzarono e
stramazzò sul tappeto. Il regio procuratore sembrò provare un
accenno di pietà, la guardò meno severamente, e chinandosi
leggermente su di lei, disse: «Addio, signora».
Questo addio trafisse mortalmente il cuore della signora Villefort,
che svenne. Il procuratore uscì, e, nell’uscire, chiuse la porta a
doppia mandata.
108. La Corte d’Assise
Il fatto di Benedetto, come si diceva allora tanto nel palazzo di
giustizia che nel gran mondo, aveva prodotto un’enorme sensazione.
Uno dei frequentatori del Café de Paris, del boulevard di Gand e del
Bois de Boulogne, il falso Cavalcanti, nel tempo che si era
trattenuto a Parigi, e nei due o tre mesi ch’era durato il suo
splendore, aveva fatto molte conoscenze. I giornali avevano riferito
le diverse avventure dell’imputato nella sua vita elegante e nella
sua vita di galera, e ne risultava la storia più viva e curiosa, per
coloro, particolarmente, che avevano conosciuto di persona il
principe Andrea Cavalcanti. Pertanto erano tutti decisi a rischiare
qualunque cosa per andare a vedere sul banco degli accusati il
signor Benedetto, l’assassino del suo compagno di prigione. Per
molti Benedetto era, se non una vittima, almeno un errore della
giustizia: si era visto a Parigi il signor Cavalcanti padre, e si
aspettava di vederlo di nuovo comparire per reclamare il suo
illustre rampollo. Un buon numero di persone che non avevano mai
sentito parlare del famoso soprabito alla polacca col quale era
piovuto dal conte di Montecristo, erano rimaste colpite dall’aria di
dignità, dalla nobiltà e stile mondano mostrati dal vecchio
patrizio, il quale, bisogna dirlo, sembrava un signore perfetto
tutte le volte che non parlava o non faceva calcoli d’aritmetica.
In quanto allo stesso accusato, molte persone si ricordavano di
averlo visto così abile, così bello, così prodigo che preferivano
credere a qualche macchinazione da parte di un nemico, come se ne
trova in questo mondo, in cui le grandi fortune elevano i mezzi di
fare il male e il bene all’altezza della perfezione o alla potenza
dell’inaudito. Tutti si precipitarono dunque alla seduta della Corte
d’assise, gli uni per gustare lo spettacolo, gli altri per
commentarlo. Fin dalle sette del mattino c’era ressa al cancello, e
un’ora prima dell’apertura della seduta, la sala era già piena di
privilegiati.
Prima dell’ingresso della corte, e qualche volta anche dopo, una
sala d’udienza nei giorni dei grandi processi assomiglia molto a un
salotto, in cui molte persone si riconoscono, si parlano, quando
sono abbastanza vicine le une alle altre da non perdere i loro
posti, o si fanno segni, quando sono separate da un numero di
persone troppo grande, da avvocati e da gendarmi.
Era una di quelle magnifiche giornate di autunno che qualche volta
ci compensano di un’estate corta o temporalesca: le nubi, che il
signor Villefort aveva visto la mattina velare il sole nascente, si
erano dissipate come per magia, e lasciavano risplendere in tutta la
sua purezza uno dei più bei giorni di settembre. Beauchamp, uno dei
re della stampa e che, di conseguenza, aveva il suo trono riservato
ovunque, guardava con l’occhialino a destra e a sinistra. Scoprì
Château-Renaud e Debray, ch’erano riusciti a guadagnarsi le buone
grazie di un sergente di città, e lo avevano convinto a mettersi
dietro di loro invece di star davanti, come sarebbe stato suo
diritto. Il degno agente aveva fiutato la carica di segretario del
ministro e il titolo di milionario; e si mostrò pieno di riguardi
per i suoi nobili vicini, permise persino che andassero a fare una
visita a Beauchamp, promettendo di conservare loro i posti.
«Eccoci qui a vedere il nostro amico!» esordì Beauchamp.
«Mio Dio, sì», aggiunse Debray, «questo degno principe. Che vadano
al diavolo tutti i principi senza principato!»
«Un uomo che ha avuto Dante per antenato, e che risale alla Divina
Commedia!»
«Nobiltà da forca», commentò flemmatico Château-Renaud.
«Sarà condannato, non è vero?» domandò Debray a Beauchamp.
«Eh, caro mio», rispose il giornalista, «mi pare che questa domanda
dobbiamo farla a voi, che conoscete meglio di noi gli uffici… Avete
visto il presidente all’ultima serata del ministro?»
«Sì.»
«E che cosa vi ha detto?»
«Qualcosa che vi sorprenderà.»
«Parlate presto, allora, amico mio, è tanto tempo che non discutiamo
di questo argomento.»
«Mi ha detto che Benedetto, considerato poco meno di una fenice per
l’astuzia, e un gigante di furbizia, non è che un borsaiolo da
strapazzo e stupido, e del tutto indegno delle autopsie che si
faranno dopo la sua morte per studiarne la criminalità.»
«Bah, però faceva discretamente la parte di un principe», disse
Beauchamp.
«Per voi, che detestate questi disgraziati principi e siete felice
ogni volta che potete trovare in loro qualcosa da biasimare. Ma non
per me, che adoro la nobiltà, e che fiuto una famiglia
aristocratica, qualunque sia, da vero bracco del blasone.»
«Così voi non avete mai creduto al suo principato?»
«Alla sua aria da principe, sì… al suo principato, no.»
«Non c’è male», disse Debray. «Vi assicuro però, che per tutt’altri
poteva passare… L’ho constatato con i ministri.»
«Ah sì», disse Château-Renaud, «è proprio vero che i nostri ministri
s’intendono di principi!»
«Vi è del buon senso in quanto dite, Château-Renaud», intervenne
Beauchamp ridendo. «La frase è corta, ma bella. Vi chiedo il
permesso di poterla usare nel mio articolo.»
«Prendetela, mio caro signor Beauchamp», disse Château-Renaud,
«prendetela, vi regalo la frase per quanto vale.»
«Ma», disse Debray a Beauchamp, «se io ho parlato al presidente, voi
dovete aver parlato al regio procuratore…»
«Impossibile! Da otto giorni il signor Villefort si tiene nascosto,
ed è naturale: quella strana sequela di dispiaceri domestici,
coronati dalla morte non meno strana di sua figlia…»
«Morte strana! Che dite, Beauchamp?»
«Adesso fate l’ingenuo, con la scusa di non sapere quel che riguarda
la nobiltà di toga», disse Beauchamp applicando la lente all’occhio
e sforzandosi di tenerla ferma col sopracciglio.
«Mio caro signore», replicò Château-Renaud, «permettetemi di dirvi
che, nel tenere la lente, voi non avete l’abilità di Debray. Debray,
date dunque una lezione al signor Beauchamp.»
«Guardate», disse Beauchamp, «non mi sbaglio.»
«In che cosa?»
«È lei.»
«Chi?»
«Dicevano che fosse partita.»
«La signorina Eugénie?» domandò Château-Renaud. «Sarebbe già
tornata?»
«No, sua madre.»
«La signora Danglars?»
«Ma no», si stupì Château-Renaud, «è impossibile: dieci giorni dopo
la fuga di sua figlia, tre giorni dopo il fallimento di suo marito?»
Debray arrossì leggermente, e seguì la direzione dello sguardo di
Beauchamp.
«No», disse, «è una donna velata, una donna sconosciuta, qualche
principessa straniera, forse anche la madre del principe Cavalcanti…
Ma voi dicevate, o piuttosto volevate dire una cosa molto
interessante, Beauchamp, mi sembra…»
«Io?»
«Sì, parlavate della strana morte di Valentine.»
«Ah sì, è vero… Perché dunque la signora Villefort non è qui?»
«Povera e cara donna!» disse Debray. «Senza dubbio sarà occupata a
distillare acqua di melissa per gli ospedali, e a comporre cosmetici
per sé e per le sue amiche. Voi sapete che spende per questo
passatempo due o tremila scudi ogni anno, a quanto si dice? Ma
veniamo al fatto, voi avete ragione, perché mai non è qui la signora
Villefort? L’avrei vista con molto piacere, mi piace molto quella
donna.»
«Io no», ribatté Château-Renaud, «io la detesto.»
«Perché?»
«Non lo so. Da dove viene in noi l’amore e l’odio? Io la detesto per
antipatia.»
«Oh sempre d’istinto!»
«Può darsi… Ma torniamo a ciò che dicevate, Beauchamp…»
«Dicevo?…» riprese Beauchamp. «Ah sì… Non desiderate, signori,
sapere perché si muore così di frequente e all’improvviso in casa
Villefort?»
«Di frequente! Bella espressione», disse Château-Renaud.
«Mio caro, l’espressione, in casa del signor Villefort, è vera! Ma
torniamo a lui…»
«Per quanto mi riguarda», disse Debray, «vi confesso che non perdo
di vista quella casa in lutto da tre mesi, e ieri l’altro, a
proposito della morte di Valentine, la signora mi diceva che avrebbe
voluto saperne di più.»
«E chi è la signora?» domandò Château-Renaud.
«La moglie del ministro, perbacco!»
«Ah, scusate», disse Château-Renaud, «non vado dai ministri, lascio
che ci vadano i principi.»
«Voi eravate solo bello, ma ora diventate fulminante, caro barone;
abbiate pietà di noi, altrimenti ci brucerete come un novello
Giove.»
«Non dirò più niente», replicò Château-Renaud. «Ma, insomma! Abbiate
pietà di me, non mi rendete la pariglia.»
«Via, cerchiamo di concludere, Beauchamp, vi dicevo dunque che ieri
l’altro la signora mi domandava informazioni su questo argomento,
illuminatevi, e io illiminerò lei.»
«Ebbene, signori, se si muore così di frequente in casa Villefort, è
perché nella casa c’è un assassino.»
I due giovani rabbrividirono, poiché più d’una volta avevano avuto
la stessa idea.
«E chi è questo assassino?» domandarono all’unisono.
«Il giovane Edouard.»
Lo scoppio di risa dei due amici non sconcertò per niente l’oratore,
che continuò: «Sì, signori, il giovane Edouard, criminale precoce
che uccide già come il padre e la madre».
«È uno scherzo?»
«Niente affatto; ieri ho assunto uno dei domestici che si è
licenziato dalla casa del signor Villefort… Ascoltate ciò che mi ha
detto.»
«Sentiamo.»
«Intanto vi dirò che quel cameriere lo licenzierò presto anch’io,
perché mangia enormemente per rimettersi dal digiuno che si era
imposto per il terrore in quella casa… Ma lasciamo perdere. Dunque,
sembra che quel caro bambino abbia messo la mano su qualche boccetta
di droghe, e che le usi contro quelli che non gli piacciono. Per
primo toccò al nonno e alla nonna di Saint-Méran, che gli erano
antipatici e versò alcune gocce del suo elisir: tre gocce bastano;
quindi toccò al bravo Barrois, vecchio servitore di nonno Noirtier,
il quale sgridava spesso l’amabile monello che conoscete: l’amabile
monello gli versò tre gocce del suo elisir, e fu fatta; così accadde
pure alla povera Valentine, che non lo sgridava, ma di cui era
geloso: versò tre gocce, e per lei come per gli altri fu questione
di poche ore.»
«Ma che diavolo raccontate?» ribatté Château-Renaud.
«Sì», insistette Beauchamp, «una storia dell’altro mondo, vero?»
«È un’assurdità», disse Debray.
«Ecco», riprese Beauchamp, «ecco che già cercate delle scuse!
Insomma, domandatelo al mio domestico, o piuttosto a quello che
presto non sarà più il mio domestico: questa è la voce che corre in
tutta la famiglia.»
«Ma dov’è questo elisir? Che cos’è?»
«Diamine! Il fanciullo lo tiene nascosto.»
«Dove l’ha preso?»
«Nel laboratorio di sua madre.»
«Sua madre ha dunque dei veleni nel suo laboratorio?»
«Cosa ne so io? Mi fate delle domande da regio procuratore. Io
ripeto quanto mi è stato detto, ecco tutto. Vi cito nome e autore,
non posso fare di più. Il povero diavolo non mangiava più dallo
spavento.»
«È incredibile!»
«Ma no, mio caro, non è per niente incredibile: dovete aver sentito
l’anno scorso di quel bimbo della rue Richelieu che si divertiva a
uccidere i suoi fratelli e le sue sorelle ficcandogli spille nelle
orecchie mentre dormivano. La nuova generazione è molto precoce, mio
caro!»
«Amico mio», disse Château-Renaud, «scommetto che non credete a una
parola di tutto ciò che ci avete raccontato… Ma non vedo il conte di
Montecristo… Come mai non è qui?»
«Sarà seccato», azzardò Debray, «e poi non vorrà comparire davanti a
tutti, lui, che è stato ingannato da questi Cavalcanti; gli sono
stati presentati con false credenziali e si trova scoperto di un
centinaio di mille franchi, ipotecati sul loro principato… A
proposito, signor Château-Renaud», domandò Beauchamp, «come sta
Morrel?»
«Non so cosa dirvi», rispose il gentiluomo. «Sono stato tre volte a
casa sua e non l’ho mai trovato, però sua sorella non mi è sembrata
inquieta, e mi ha detto, con molta gentilezza, che non lo vede da
due o tre giorni, ma è certa che sta bene.»
«Ora che ci penso, il conte di Montecristo non può venire qui!»
esclamò Beauchamp.
«E perché?»
«Perché è attore nel dramma.»
«Ha forse assassinato qualcuno?» domandò Debray.
«Ma no, è lui, al contrario, che hanno voluto assassinare. Sapete
bene che quel degno signor Caderousse fu ucciso dal suo giovane
amico Benedetto mentre usciva dalla sua casa, e che in quella casa
fu trovato quel famoso panciotto contenente la lettera che andò a
sconvolgere la serata del fidanzamento. Non lo vedete il famoso
panciotto? È là, tutto insanguinato, come capo d’imputazione.»
«Quello?»
«Zitti, signori! Ecco la corte! Ai nostri posti…»
Infatti si sentì un gran rumore nel pretorio: il sergente richiamò
energicamente i due chiacchieroni, e l’usciere, comparendo sulla
soglia della sala del tribunale, gridò con quella voce acuta che gli
uscieri avevano fin dal tempo di Beaumarchais: «La Corte, signori!»
109. L’atto d’accusa
I giudici si sedettero sui loro scranni attorniati dal più profondo
silenzio; i giurati si sistemarono al loro posto; il signor
Villefort, l’oggetto dell’attenzione e diremo quasi dell’ammirazione
generale, si accomodò sulla sua sedia, volgendo uno sguardo
tranquillo intorno a sé. Ognuno guardava con meraviglia quella
fisionomia grave e severa, sulla cui impassibilità sembrava che i
dolori personali non avessero alcun potere; si osservava con una
specie di terrore quell’uomo estraneo alle emozioni dell’umanità.
«Gendarmi!»disse il presidente. «Conducete l’accusato!»
A tali parole, la pubblica attenzione si fece più intensa, e tutti
gli occhi si fissarono sulla porta dalla quale doveva entrare
Benedetto. Ben presto la porta si aprì, e comparve l’imputato.
L’impressione fu la stessa su tutti, e nessuno s’ingannò davanti al
suo aspetto. I suoi lineamenti non tradivano quella profonda
emozione che fa affluire il sangue al cuore e scolora la fronte e le
guance. Le sue mani, delle quali una reggeva il cappello, l’altra
era infilata nell’apertura del gilè di piqué bianco, erano
fermissime; lo sguardo era calmo, anzi brillante. Appena entrato
nella sala, lo sguardo del giovane scrutò rapidamente tutte le file
dei giudici e degli assistenti, e si fermò a lungo sul presidente, e
particolarmente sul regio procuratore. Vicino ad Andrea si mise
l’avvocato difensore, avvocato nominato d’ufficio (poiché Andrea non
aveva voluto occuparsi di questi dettagli, ai quali sembrava non
annettere alcuna importanza). L’avvocato era un giovane dai capelli
biondo chiaro, il viso rosso per un’emozione cento volte più grande
di quella dell’accusato.
Il presidente chiese la lettura dell’atto d’accusa, redatto, come si
sa, dalla penna abile e implacabile di Villefort. Durante la
lettura, che fu lunga, e che per chiunque altro sarebbe stata
esasperante, la pubblica attenzione non cessò di osservare Andrea,
che ne sostenne il peso con la tranquillità d’animo di uno spartano.
Mai forse Villefort era stato così conciso e così eloquente. Il
delitto era rappresentato sotto i colori più vivi: gli antecedenti
del prigioniero, la sua metamorfosi, il susseguirsi dei suoi atti
criminali da un’età molto tenera, erano raccontati con tutto il
talento che la pratica della vita e la conoscenza del cuore umano
potevano suggerire a uno spirito così elevato come quello del regio
procuratore. Con questo solo preambolo, Benedetto era perduto per
sempre nella pubblica opinione, mentre aspettava che fosse punito
concretamente dalla legge.
Andrea non prestò la minima attenzione alle successive accuse che si
elevavano e ricadevano su lui: il signor Villefort, che lo esaminava
spesso, e che senza dubbio, continuava gli studi psicologici che
aveva avuto così spesso occasione di fare su altri accusati, il
signor Villefort non poté una sola volta fargli abbassare gli occhi,
per quanta fosse la fermezza e la profondità del suo sguardo.
Finalmente terminò la lettura.
«Accusato», disse il presidente, «il vostro nome e il vostro
cognome?»
Andrea si alzò.
«Perdonatemi», disse con voce calma, «vedo che avete scelto un
ordine di domande nel quale non posso seguirvi. Ho la pretesa, della
quale darò spiegazioni in seguito, di essere un’eccezione tra i
comuni accusati. Vogliate dunque, ve ne prego, permettermi di
rispondere seguendo un ordine diverso; non risponderò neppure a
tutto.»
Il presidente, sorpreso, guardò i giurati, che guardarono il regio
procuratore. Un grande stupore si manifestò in tutta l’assemblea. Ma
Andrea non parve per niente farci caso.
«La vostra età?» chiese il presidente. «Risponderete a questa
domanda?»
«A questa, come alle altre, risponderò, signor presidente, ma a suo
tempo.»
«La vostra età?» ripeté il magistrato.
«Ho ventun’anni, o piuttosto li avrò fra qualche giorno, essendo
nato nella notte fra il 27 e il 28 di settembre del 1817.»
Il signor Villefort, che era impegnato a prendere una nota, alzò la
testa nel sentire quella data.
«Dove siete nato?» continuò il presidente.
«Ad Auteuil, vicino a Parigi», rispose Benedetto.
Il signor Villefort alzò una seconda volta la testa, guardò
Benedetto come se avesse visto la testa di Medusa, e divenne livido.
In quanto a Benedetto, si portò graziosamente alle labbra l’angolo
di un fazzoletto di fine batista.
«La vostra professione?» domandò il presidente.
«Prima ho fatto il falsario», rispose Andrea, con la massima
tranquillità, «in seguito sono diventato ladro, e recentemente
assassino.»
Un mormorio, o piuttosto una tempesta di indignazione e di sorpresa,
scoppiò in tutte le parti della sala; i giudici stessi si guardarono
stupefatti, i giurati manifestarono il più gran disgusto per quel
cinismo, che proprio non si aspettavano da un uomo elegante.
Il signor Villefort si appoggiò una mano sulla fronte, che, pallida
dapprima, era divenuta rossa e bollente; a un tratto si alzò,
guardando intorno a sé come un uomo impazzito: gli mancava il
respiro.
«Cercate qualche cosa, signor procuratore?» domandò Benedetto col
sorriso più cortese.
Il signor Villefort non rispose; tornò a sedersi, o, per meglio
dire, ricadde sul suo seggio.
«È forse adesso, accusato, che acconsentite a dire il vostro nome?»
domandò il presidente. «L’affettazione brutale che avete mostrato
nell’enumerare i vostri differenti delitti, da voi qualificati come
professione, quella specie di punto d’onore cui vi attaccate, cosa
di cui, in nome della morale e del rispetto dovuto all’umanità, la
Corte deve biasimarvi severamente, ecco forse la ragione che vi ha
fatto ritardare nel dire il vostro nome, volevate far spiccare
questo nome nel mezzo dei titoli che lo precedono.»
«Sembra incredibile, signor presidente», riprese Benedetto, col tono
di voce più dolce e con le maniere più gentili, «che abbiate letto
così a fondo nel mio pensiero, è questo infatti lo scopo per cui vi
ho pregato di invertire l’ordine delle domande.»
Lo stupore era al colmo; non c’era più nelle parole dell’accusato né
sfrontatezza, né cinismo: l’uditorio emozionato presentiva un
qualche fulmine rumoreggiante nel fondo di questa tetra nube.
«Ebbene», disse il presidente, «il vostro nome?»
«Non posso dirvi il mio nome, perché non lo so, ma so quello di mio
padre, e posso dirvelo.»
Un doloroso offuscamento accecò Villefort; si videro cadere dalle
sue guance alcune gocce di acre sudore sui fogli, che rimescolava
con mano tremante e smarrita.
«Allora dite il nome di vostro padre», riprese il presidente.
Non un soffio, non un respiro turbava il silenzio di quella immensa
assemblea; tutti aspettavano.
«Mio padre è un regio procuratore», rispose tranquillamente Andrea.
«Regio procuratore?» disse con stupore il presidente senza rilevare
lo sconvolgimento sul volto del signor Villefort. «Regio
procuratore!»
«Sì, e poiché volete sapere il suo nome, ve lo dirò: si chiama
Villefort!»
L’esplosione così lungamente trattenuta dal rispetto che si porta
alla giustizia, scoppiò come un tuono dal fondo di tutti i petti; la
Corte stessa non pensò a reprimere quel moto della moltitudine.
Le imprecazioni, le ingiurie scagliate contro Benedetto che rimaneva
impassibile, i gesti energici, il movimento dei gendarmi, il
sogghigno di quella parte fangosa che, in tutte le assemblee, sale
alla superficie nei momenti di commozione e di scandalo, tutto ciò
durò cinque minuti, prima che i magistrati e gli uscieri fossero
riusciti a ristabilire il silenzio.
In mezzo a quel rumore si sentiva la voce del presidente che
gridava: «Vi prendete gioco della giustizia, accusato, e come osate
offrire ai vostri concittadini lo spettacolo di una corruzione che,
in un’epoca che tuttavia non lascia niente a desiderare sotto questo
profilo, non aveva ancora avuto visto niente di simile?»
Dieci persone si erano premurosamente affollate attorno al regio
procuratore, sconvolto sulla sua sedia, e gli offrivano
consolazioni, incoraggiamenti, manifestazioni di zelo e di simpatia.
La calma si era ristabilita nella sala, tranne in un punto dove si
agitava e si urtava un gruppo abbastanza numeroso. Era svenuta una
donna, si diceva; le avevano fatto respirare dei sali, e si stava
riprendendo.
Andrea, durante tutto questo tumulto, aveva voltato la faccia
sorridente verso l’assemblea, quindi appoggiandosi con una mano sul
suo banco, nella posa più elegante, riprese: «Signori, non crediate
che cerchi di insultare la Corte, e di fare, in presenza di questa
onorevole assemblea, un inutile scandalo. Mi domandano quanti anni
ho, lo dico; mi domandano dove sono nato, rispondo; mi domandano il
mio nome, non posso dirlo, poiché i miei genitori mi hanno
abbandonato. Ma posso, senza dirvi il mio nome, poiché non lo so,
dire quello di mio padre: ora, lo ripeto, mio padre si chiama signor
Villefort, e sono pronto a dimostrarlo».
Nel tono del giovane c’era una certezza, una convinzione, un’energia
che ridussero il tumulto al silenzio. Gli sguardi si volsero un
momento sul procuratore, che conservava, al suo posto, l’immobilità
di un uomo che il fulmine ha trasformato in cadavere.
«Signori», continuò Andrea, esigendo il silenzio col gesto e con la
voce, «io vi devo la prova e la spiegazione delle mie parole.»
«Ma», gridò il presidente irritato, «nell’istruttoria voi avete
dichiarato di chiamarvi Benedetto, avete detto di essere orfano, e
indicato la Corsica come vostra patria!»
«Nell’istruttoria ho detto ciò che mi conveniva dire, perché non
volevo che s’indebolisse o si sospendesse – cosa che sarebbe
certamente accaduta – il fragore solenne che volevo dare alle mie
parole. Ora vi ripeto che sono nato ad Auteuil nella notte tra il 27
e il 28 settembre 1817, e che sono figlio del signor regio
procuratore Villefort. Volete alcuni particolari? Sono pronto a
darveli. Nacqui al primo piano della casa numero 28, rue de la
Fontaine, in una camera parata di damasco rosso. Mio padre mi
raccolse nelle sue braccia dicendo a mia madre che ero morto, mi
avvolse in un pannolino ricamato con le lettere “Elle” ed “Enne”, e
mi portò dentro una cassetta in giardino, dove mi seppellì vivo.»
Un fremito percorse tutti i presenti, quando videro che la sicurezza
dell’imputato ingigantiva col crescere dello spavento del signor
Villefort.
«Ve lo dico subito, signor presidente. Nel giorno in cui mio padre
mi aveva sepolto, in quel giardino si era introdotto, quella notte
stessa, un uomo che lo odiava mortalmente, e che lo curava da lungo
tempo per compiere su di lui una vendetta corsa. L’uomo si era
nascosto dietro un albero; egli vide mio padre nascondere un involto
sotto terra, e lo colpì con un coltello mentre terminava questa
operazione; quindi, credendo che questo involto nascondesse qualche
tesoro, lo dissotterrò e mi ritrovò ancora vivo.
Quest’uomo mi portò all’ospizio dei trovatelli, dove fui iscritto
sotto il numero 37. Tre mesi dopo, una donna fece il viaggio da
Rogliano a Parigi per venirmi a cercare, mi reclamò come suo figlio
e mi portò con sé. Ecco in che modo, sebbene nato ad Auteuil, fui
allevato in Corsica.»
Ci fu un momento di silenzio, ma un silenzio profondo, che, senza
l’ansia che si vedeva respirare da mille petti, la sala sarebbe
sembrata vuota.
«Continuate», disse la voce del presidente.
«Certamente», riprese Benedetto, «potevo essere felice presso quella
brava gente, che mi adorava, ma la mia natura, non so se perversa
sin dalla nascita, o divenuta criminale in questa società di gente
violenta, o se col passare degli anni inasprita e corrotta, la mia
natura, dicevo, alla fine la vinse su tutte le virtù che la mia
madre adottiva cercava di insegnarmi: crebbi nel male, e giunsi a
commettere delitti. Un giorno in cui maledicevo la provvidenza per
avermi fatto, dicevo, così perverso e precipitato in una condizione
così abbietta, mio padre adottivo mi disse: “Non bestemmiare,
disgraziato! Poiché Dio ti ha dato alla luce senza collera, il
delitto viene da tuo padre, e non da te, né da altri, da tuo padre
che ti aveva destinato all’inferno se tu morivi, alla miseria se un
miracolo ti conservava in vita”. Da quel giorno cessai di
bestemmiare, ma maledii mio padre! Ecco perché ho fatto qui sentire
le parole che voi, signor presidente, mi avete rimproverato, ecco
perché ho provocato lo scandalo di cui freme ancora quest’assemblea.
Se questo è un delitto di più punitemi, ma se vi ho convinto che dal
giorno in cui nacqui il mio destino fu fatale, doloroso,
lamentevole, amaro, compiangetemi!»
«Ma vostra madre?» domandò il presidente.
«Mia madre mi credeva morto: mia madre non era colpevole. Non ho
voluto sapere il nome di mia madre, non la conosco.»
In quel momento un grido acuto, che terminò in un singulto, si levò
dal gruppo che circondava, come abbiamo detto, una donna che,
assalita da violenti tremiti, fu portata fuori dal pretorio. Nel
trasportarla, il fitto velo che nascondeva il suo viso si scostò, e
si riconobbe la signora Danglars.
Malgrado l’oppressione dei sensi snervati, e il ronzio che gli
fremeva alle orecchie, malgrado una specie di follia che gli
sconvolgeva il cervello, Villefort la vide, e si alzò.
«Le prove! Le prove!» disse il presidente. «Accusato, ricordate che
questo tessuto d’orrori ha bisogno di essere sostenuto con le prove
più certe.»
«Le prove?» ripeté Benedetto ridendo. «Volete le prove?»
«Sì!»
«Ebbene, guardate il signor Villefort, e poi domandatemi ancora
delle prove.»
Tutti si voltarono verso il regio procuratore, che sotto il peso di
quei mille sguardi su di lui, avanzò vacillando nell’aula del
tribunale, coi capelli in disordine e il viso livido. Nell’assemblea
salì un lungo mormorio di attonito stupore.
«Mi domandano delle prove, padre mio», disse Benedetto a Villefort,
«volete che le dia?»
«No, no…» balbettò Villefort, con voce soffocata, «no, è inutile.»
«Come inutile?» gridò il presidente. «Che cosa intendete dire?»
«Intendo dire», gridò a sua volta il regio procuratore, «che mi
dibatterei invano sotto la stretta mortale che mi schiaccia.
Signori, io sono, lo riconosco, colpito dalla mano d’un Dio
vendicatore. Non chiedete prove, non ve ne occorrono: tutto ciò che
ha detto questo giovane, è vero.»
Un silenzio cupo e pesante come quello che precede le catastrofi
della natura, avvolse in un manto di piombo tutti i presenti.
«Come, signor Villefort», si stupì il presidente, «non state forse
cedendo alla follia? Siete certo di rispondere delle vostre facoltà
mentali? Si capirebbe facilmente come un’accusa così assurda, così
imprevista, terribile, abbia potuto turbarvi lo spirito… Su,
vediamo, riprendetevi…»
Il procuratore scosse la testa. I suoi denti battevano con violenza,
come nell’uomo divorato dalla febbre, e tuttavia era d’un pallore
mortale.
«Io godo di tutte le mie facoltà, signore», replicò, «solo il corpo
soffre. Io mi riconosco colpevole di tutto ciò che questo giovane ha
detto contro di me, e, fin da questo momento, mi metto a
disposizione del regio procuratore mio successore.»
E pronunciando queste parole, con voce quasi spenta, il signor
Villefort si diresse vacillando verso la porta, che con un gesto
abituale gli venne aperta dall’usciere di servizio. L’assemblea
rimase muta e costernata da tale rivelazione, che offriva un finale
così terribile alle diverse peripezie che da quindici giorni
agitavano l’alta società parigina.
«Amici», disse Beauchamp, «provino ora a dirci che il dramma non
esiste in natura!»
«Parola mia», ribatté Château-Renaud, «preferirei finirla come il
signor Morcerf: un colpo di pistola mi sembrerebbe niente dopo una
simile catastrofe.»
«E poi, esso uccide», disse Beauchamp.
«E io che per un momento avevo avuto l’idea di sposare sua figlia!»
disse Debray. «Mio Dio, ha fatto bene a morire la povera fanciulla!»
«La seduta è finita, signori», annunciò il presidente, «e la causa
viene rinviata alla prossima sessione. Il processo deve essere
istruito di nuovo, e affidato a un altro magistrato.»
Andrea, sempre tranquillo e molto più interessante, lasciò la sala
scortato dai gendarmi, che gli usarono involontariamente dei
riguardi.
«Infine che ne pensate voi di tutto ciò, mio brav’uomo?» domandò
Debray al sergente facendogli scivolare un luigi in mano.
«Gli daranno le circostanze attenuanti!» rispose questi.
110. Espiazione
Il signor Villefort aveva visto aprirsi al suo passaggio le file
della folla, per quanto compatta. Le grandi disgrazie sono talmente
venerabili, che non vi è esempio, anche nei tempi più sfortunati,
che il primo gesto della folla riunita non sia di simpatia per una
grande catastrofe. Può anche accadere che in una sommossa siano
assassinate molte persone odiate, ma è ben difficile che un
disgraziato, per quanto colpevole, sia insultato dagli uomini che
assistono alla sua sentenza di morte. Villefort passò dunque in
mezzo agli spettatori, alle guardie, agli agenti del palazzo di
giustizia, e si allontanò, riconosciuto colpevole dalla sua propria
confessione ma protetto dal suo dolore.
Vi sono situazioni che gli uomini afferrano per istinto, ma che non
si possono commentare con la parola: il più gran poeta, in questo
caso, è colui che manda il grido veemente e più naturale. La folla
considera quel grido come un intero racconto, e ha ragione di
accontentarsi, e più ragione ancora di trovarlo sublime, quando è
vero. Del resto, sarebbe difficile dire lo stato di stordimento in
cui si trovava Villefort uscendo dal palazzo di giustizia, e
descrivere quella febbre che sconvolgevano tutte le sue fibre.
Villefort si trascinò lungo i corridoi, guidato soltanto
dall’abitudine; si tolse la toga magistrale, non perché pensasse di
lasciarla, ma perché era un fardello opprimente, una camicia di
Nesso feconda di torture: giunse vacillando fino al cortile del
Delfino, dove riconobbe la sua carrozza, risvegliò il cocchiere
aprendola da sé, e si lasciò cadere sui cuscini mostrando col dito
la direzione del Faubourg Saint-Honoré.
Il cocchiere partì. Tutto il peso della sua crollata fortuna veniva
a ricadergli sulla testa; quel peso lo schiacciava. Non sapeva le
conseguenze, non le aveva misurate, le sentiva; non ragionava sul
codice, come fa il freddo assassino che commenta un articolo
sconosciuto: aveva Dio in fondo al cuore.
«Dio», mormorava, senza neppure sapere che cosa diceva, «Dio! Dio!»
E non vedeva che Dio dietro la frana che si era formata. La carrozza
era partita di gran carriera. Villefort, nell’agitarsi sul cuscino,
sentì qualche cosa che gli dava fastidio. Frugò con la mano: era un
ventaglio dimenticato dalla signora Villefort fra il cuscino e lo
schienale della carrozza; quel ventaglio risvegliò in lui un
ricordo, e quel ricordo fu come un lampo in mezzo alla notte.
Villefort pensò a sua moglie…
«Oh!» gridò come se un ferro rovente gli avesse trapassato il cuore.
Infatti, da un’ora non aveva più sotto gli occhi che una prospettiva
alla sua miseria, ed ecco che d’un tratto se ne offriva al suo
spirito un’altra non meno terribile: la moglie! Egli aveva fatto con
lei la parte di giudice inesorabile, l’aveva condannata a morte, e
lei colpita dal terrore, oppressa dai rimorsi, inabissata sotto
l’onta che le aveva descritto con l’eloquenza della sua
irreprensibile virtù, lei povera donna, debole e senza difesa contro
un potere assoluto e supremo, forse si preparava in quel momento
stessi a morire! Era trascorsa un’ora dal momento della sua
condanna, senza dubbio in quel momento ripassava tutti i suoi
delitti nella sua memoria, domandava grazia a Dio, scriveva per
implorare in ginocchio il perdono dal suo virtuoso consorte, perdono
che comprava con la sua morte. Villefort mandò un secondo ruggito di
dolore e di rabbia.
«Ah!» gridò. «Questa donna è diventata rea solo perché mi ha amato.
Io traspiro il delitto, e lei ha contratto il delitto come si
contrae il tifo, come si contrae il colera, come si contrae la
peste, e io la punisco!… Io oso dirle: pentitevi e morite… Io… Oh,
no! No! Vivrà… mi seguirà… Noi fuggiremo, lasceremo la Francia
dietro di noi finché la terra potrà accoglierci… Io le parlavo di
patibolo!… Gran Dio! Come ho osato pronunciare questa parola? Il
patibolo aspetta anche me!… Noi fuggiremo… Sì, io mi confesserò a
lei, sì, tutti i giorni le dirò, umiliandomi, che io pure ho
commesso un delitto… Oh, alleanza della tigre col serpente! Oh,
degna moglie di un marito quale sono io!… È necessario che viva, è
necessario che la mia infamia faccia impallidire la sua!»
E Villefort rompendo un cristallo davanti, gridò: «Presto, più
presto!» con voce che fece trasalire il cocchiere sul sedile.
I cavalli, percossi dallo scudiscio, volarono fino a casa.
«Sì, sì», ripeteva Villefort, avvicinandosi a casa, «sì, bisogna che
questa donna viva, bisogna che questa donna si penta, che allevi mio
figlio, il povero mio figlio, il solo, con l’indistruttibile
vecchio, che sia sopravvissuto alla distruzione della mia famiglia.
Lei lo ama, per lui ha fatto tutto. Non bisogna mai disperare del
cuore di una madre che ama suo figlio; si pentirà: nessuno saprà che
era colpevole. Questi delitti commessi in casa mia e di cui la
società già s’inquieta, saranno dimenticati col tempo, o, se qualche
nemico se ne ricorderà, ebbene, li prenderò su di me, tra i miei
delitti. Uno, due o tre di più, che importa! Mia moglie fuggirà
portando con sé dell’oro, e soprattutto portando mio figlio, lontano
dall’abisso in cui mi sembra che il mondo debba cadere con me; lei
vivrà, sarà ancora felice, poiché tutto il suo amore è riposto in
suo figlio, e suo figlio non la lascerà. Io avrò fatta una buona
azione, e questo mi alleggerisce il cuore.»
E il regio procuratore respirò più liberamente, come non aveva fatto
da lungo tempo. La carrozza si fermò nel cortile del palazzo.
Villefort si slanciò fuori e salì la scala, vide i domestici
sorpresi nel vederlo tornare così presto. Passò davanti alla camera
di Noirtier, e, dalla porta semiaperta, vide due ombre, ma non
s’interessò di sapere chi fosse la persona che stava con suo padre:
la sua inquietudine lo attirava altrove.
«Meno male», disse, salendo la scaletta che conduceva al
pianerottolo dell’appartamento di sua moglie e alla camera vuota di
Valentine, «qui nulla è cambiato.»
Prima di tutto chiuse la porta del pianerottolo.
«Nessuno deve disturbarci», disse, «devo parlare liberamente,
accusarmi davanti a lei, dirle tutto…»
Si avvicinò alla porta, che si aprì.
«Non è chiusa! Bene, benissimo», mormorò.
Ed entrò nel salotto dove tutte le sere si preparava un letto per
Edouard, poiché, sebbene frequentasse il collegio, il ragazzo
tornava tutte le sere; sua madre non aveva mai voluto separarsi da
lui di notte.
Girò lo sguardo sul salotto.
«Nessuno!» disse. «È certamente nella sua camera da letto.»
Si slanciò verso la porta. C’era il catenaccio. Si fermò tremando.
«Héloïse!» gridò.
Gli sembrò di sentire muovere un mobile.
«Héloïse!» ripeté.
«Chi è?» domandò una voce.
E quella voce gli parve più debole del solito.
«Aprite, aprite!» gridò Villefort. «Sono io!»
Ma malgrado la richiesta e il tono angosciato con cui era stata
fatta, la porta non si aprì. Villefort la sfondò con un calcio.
Sulla soglia della stanza che immetteva nel suo studio, la signora
Villefort era in piedi, pallida, coi lineamenti contratti, e gli
occhi spaventosamente immobili.
«Héloïse! Héloïse» gridò. «Che cosa avete? Parlate!»
La donna tese verso di lui la mano rigida e livida.
«Tutto è fatto, signore», disse, con un rantolo che sembrava
squarciarle la gola. «Che volete dunque di più?»
E cadde sul tappeto. Villefort corse da lei, le afferrò la mano.
Stringeva convulsamente una boccetta di cristallo col turacciolo
d’oro. La signora Villefort era morta. Villefort, inorridito,
arretrò fino sulla soglia della camera e guardò il cadavere.
«Mio figlio!» gridò a un tratto. «Dov’è mio figlio? Edouard!
Edouard!»
E si precipitò fuori dall’appartamento gridando «Edouard! Edouard!»
con tale angoscia, che i domestici accorsero.
«Mio figlio! Dov’è mio figlio?» domandò Villefort. «Che venga
allontanato dalla casa, non veda…»
«Il signor Edouard non è dabbasso, signore», rispose il cameriere.
«Sicuramente sta giocando in giardino… Cercate! Cercate!»
«No, signore. La signora ha chiamato suo figlio circa mezz’ora fa, e
il signorino Edouard è salito nelle camere della signora, da dove
non è più uscito.»
Un sudore glaciale colse la fronte di Villefort, le gambe gli
tremarono, le idee cominciarono a confondersi nella sua testa, come
un congegno di rotelle e molle di un orologio che si rompe.
«Dalla signora», mormorò, «dalla signora!»
E tornò lentamente indietro, asciugandosi la fronte con una mano,
appoggiandosi con l’altra alla parete. Rientrando nella camera
dovette rivedere il corpo della disgraziata consorte. Per chiamare
Edouard, doveva alzare la voce, e forse urlare in quell’appartamento
divenuto un sepolcro: parlare era violare il silenzio della tomba.
Villefort aveva la lingua paralizzata.
«Edouard, Edouard!» balbettò.
Il bambino non rispondeva. Il cadavere della signora Villefort era
steso di traverso sulla porta dello studio nel quale si trovava
sicuramente Edouard. Quel cadavere sembrava vegliare sulla soglia
con gli occhi fissi e aperti, con una spaventosa e misteriosa ironia
sulle labbra. Dietro il cadavere, la tenda rialzata lasciava
scorgere una parte dello studio, un pianoforte e l’estremità di un
divano di seta azzurro. Villefort avanzò tre o quattro passi, e sul
divano scoprì suo figlio, che senza dubbio dormiva.
Il disgraziato ebbe un lampo di gioia, un raggio di pura luce scese
in quell’inferno nel quale si dibatteva. Non si trattava più dunque
che di passare sopra il cadavere, entrare nello studio, prendere il
bambino tra le braccia, e fuggire con lui lontano, molto lontano.
Villefort non era più quell’essere la cui squisita cultura ne faceva
un uomo civilizzato: era una tigre ferita a morte che lascia i denti
nella sua ultima ferita: non aveva più paura dei pregiudizi, ma dei
fantasmi.
Fece un balzo e scavalcò il cadavere, come si fosse trattato di
oltrepassare un braciere ardente. Prese il bambino fra le braccia,
lo strinse, lo scosse, lo chiamò; il bambino non rispose: portò le
aride labbra sulle guance, le guance erano livide e ghiacciate;
palpò le sue membra, erano irrigidite; appoggiò la mano sul suo
cuore, quel cuore non batteva più. Il bambino era morto.
Un foglio piegato cadde dal petto di Edouard.
Villefort si lasciò cadere sulle ginocchia; il bambino sfuggì dalle
braccia inerti, e rotolò a lato della madre. Villefort raccolse il
foglio, riconobbe la scrittura di sua moglie, e lesse avidamente.
Ecco ciò che conteneva: «Voi sapete che ero una madre affettuosa, e
infatti fu per mio figlio che commisi il delitto! Una madre non
parte senza suo figlio!» Villefort non riusciva a credere a ciò che
vedeva, si trascinò verso il corpo di Edouard, e lo esaminò ancora
una volta. Quindi un gemito straziante gli sfuggì dal petto: «Dio!»
gridò, «sempre Dio!» Quelle due vittime lo spaventavano, si sentiva
inorridire per la terribile visione dei due cadaveri e la macabra
solitudine della stanza.
Fino ad allora era sostenuto dalla rabbia, da quell’immensa facoltà
degli uomini forti, dalla disperazione, da quell’impeto
irresistibile dell’agonia che spingeva i Titani a dar la scalata al
cielo, che spingeva Aiace a mostrare il pugno agli Dei.
Villefort curvò la testa sotto il peso dei dolori, si rialzò sulle
ginocchia, scosse i capelli umidi di sudore, irti per lo spavento, e
colui che non aveva mai avuto pietà di nessuno, andò a cercare il
suo vecchio padre per avere qualcuno a cui affidare la propria
infelicità, qualcuno presso cui piangere. Scese la scaletta che
conosciamo, ed entrò nella camera di Noirtier.
Questi pareva ascoltasse con tutta attenzione l’abate Busoni, sempre
calmo e freddo come di consueto. Villefort, riconoscendo l’abate,
portò la mano alla fronte. Il passato ritornò come uno di quei
flutti la cui collera solleva più schiuma degli altri: si sovvenne
della visita che aveva fatto all’abate alcuni giorni dopo il pranzo
d’Auteuil, e della visita che aveva fatto l’abate il giorno stesso
della morte di Valentine.
«Voi qui, signore!» esclamò. «Voi dunque non apparite che per
scortare la morte?»
Busoni s’alzò, e vedendo l’alterazione sul viso del magistrato, il
fuoco dei suoi sguardi, capì, o credette di capire che la scena in
corte d’assise era già avvenuta. Ignorava il resto.
«Sono venuto una volta per pregare sul corpo di vostra figlia»,
rispose Busoni.
«E oggi che venite a fare?»
«Vengo a dirvi che avete pagato abbastanza il vostro debito, e che
da questo momento pregherò Iddio, affinché egli pure abbia clemenza
come me.»
«Mio Dio!» esclamò Villefort, arretrando spaventato. «Questa non è
la voce dell’abate Busoni.»
«No!»
L’abate si strappò la falsa tonsura, scosse la testa, e i suoi
lunghi capelli neri, non più compressi, ricaddero sulle spalle
contornando il pallido viso.
«Questo è il viso del signore di Montecristo!» gridò Villefort con
gli occhi stravolti.
«Neppure, signor procuratore, cercate meglio e più lontano nel
tempo.»
«Questa voce! Questa voce! Dove mai l’ho sentita?»
«L’avete sentita a Marsiglia, ventitré anni fa, il giorno del vostro
fidanzamento con la signorina di Saint-Méran. Cercate nei vostri
registri.»
«Voi non siete Busoni? Non siete Montecristo? Mio Dio, voi siete
quel nemico nascosto, implacabile, mortale!… Io senza dubbio ho
commesso un delitto contro di voi a Marsiglia… Oh, me disgraziato!»
«Sì, avete memoria», disse il conte incrociando le braccia sul
petto. «Cercate, cercate…»
«Ma che cosa vi ho dunque fatto?» gridò Villefort, il cui spirito
già vacillava tra la ragione e la follia in una caligine che non era
più né sogno né veglia. «Che vi ho dunque fatto? Dite! Parlate!»
«Voi mi avete condannato a una morte lenta e avete ucciso mio padre,
mi avete tolto l’amore con la libertà, e la felicità con l’amore!»
«Chi siete? Chi siete dunque, mio Dio?»
«Io sono lo spettro d’un disgraziato che avete sepolto nelle carceri
del castello d’If. A questo spettro, sorto finalmente dalla tomba,
il cielo ha messo la maschera del conte di Montecristo, e lo ha
ricoperto di diamanti e d’oro perché solo oggi lo riconosciate.»
«Ah, ti riconosco, ti riconosco!» gemette il regio procuratore. «Tu
sei…»
«Io sono Edmond Dantès!»
«Tu sei Edmond Dantès!» gridò il procuratore afferrando il conte per
la mano. «Allora vieni!»
E lo trascinò su per la scala, lungo la quale Montecristo attonito
lo seguì, ignorando egli stesso dove il procuratore lo conducesse, e
prevedendo qualche nuova catastrofe.
«Guarda, Edmond Dantès», disse, mostrando al conte il cadavere di
sua moglie e il corpo di suo figlio. «Guarda, sei stato ben
vendicato?»
Montecristo impallidì a quell’orribile spettacolo, comprese che
aveva oltrepassato i limiti della vendetta, comprese che non poteva
più dire: «Dio è per me e con me». Si gettò con un sentimento
d’angoscia inesprimibile sul corpo del bimbo, gli riaprì gli occhi,
gli tastò il polso, e si lanciò con lui nella camera di Valentine,
che chiuse a doppia mandata.
«Mio figlio!» gridò Villefort. «Che fate? Il cadavere di mio figlio!
Dove lo portate? Oh, maledizione! Sciagura!»
E volle buttarsi dietro a Montecristo, ma, come in un sogno, sentì i
piedi pesanti, gli occhi gli si dilatarono in modo da spezzare le
orbite, le dita, confitte nella carne del petto, si arrossarono di
sangue, le vene delle tempie si gonfiarono, e il cervello s’immerse
in un diluvio di fuoco. Quella immobilità durò molti minuti, fino a
che si compì uno stravolgimento della sua ragione. Allora mandò un
grido seguito da un lungo scoppio di risa, e si precipitò per le
scale.
Un quarto d’ora dopo si riaprì la camera di Valentine, e il conte di
Montecristo ricomparve. Pallido, con lo sguardo cupo, il petto
oppresso, tutti i tratti della fisionomia, ordinariamente serena,
erano sconvolti dal dolore. Teneva fra le braccia il bambino, al
quale nessun soccorso aveva potuto rendere la vita.
Mise un ginocchio a terra e lo depose religiosamente vicino a sua
madre, con la testa appoggiata sul suo petto. Quindi, rialzandosi,
corse subito in cerca del procuratore, e, incontrando un domestico
sulla scala, domandò: «Dov’è il signor Villefort?»
Il domestico senza rispondere tese la mano, e gli indicò l’uscita
verso il giardino. Montecristo scese la scalinata, e corse in
giardino. Qui vide, in mezzo ai servitori che facevano cerchio
intorno a lui, Villefort con una vanga in mano che frugava la terra
con una specie di rabbia.
«Qui non c’è», diceva, «e qui nemmeno! Dove l’hanno messo?»
E scavava un poco più lontano.
Montecristo si avvicinò a lui, e gli disse a bassa voce, con tono
quasi umile: «Signore, voi avete perduto un figlio, ma…»
Villefort lo interruppe: non aveva né ascoltato, né compreso.
«Oh, lo ritroverò», disse, «non potete dirmi che non c’è più, io lo
ritroverò, dovessi cercarlo fino al giorno del giudizio!»
Montecristo arretrò sconvolto.
«Dio», mormorò, «è impazzito!»
E, come avesse temuto che i muri della casa maledetta avessero
potuto crollare su di lui, corse verso la strada, dubitando per la
prima volta della vendetta, e di tutto ciò che aveva fatto.
«Basta, basta!» gridò. «Almeno si salvi l’ultima.»
Rientrando a casa sua, Montecristo incontrò Morrel che, inquieto,
vagava per il palazzo degli Champs-Elysées, silenzioso come l’ombra
che aspetta il momento per rientrare nella propria tomba.
«Preparatevi, Maximilien», gli disse con un sorriso, «domani
lasceremo Parigi.»
«Non avete più niente da fare?» domandò Morrel.
«No», rispose Montecristo, «e Dio voglia che non abbia fatto anche
troppo.»
L’indomani infatti partirono. Presso il signor Noirtier rimase
Bertuccio.
111. La partenza
La sequenza degli avvenimenti teneva occupata tutta Parigi. Emmanuel
e sua moglie li commentavano con grandissimo stupore nel loro
salotto della rue Meslay, confrontando le tre catastrofi improvvise,
non meno che inattese, di Morcerf, Danglars e Villefort. Maximilien,
che era andato a trovarli, li ascoltava o meglio assisteva alla loro
conversazione, immerso nell’apatia che gli era ormai abituale.
«Davvero», diceva Julie, «non si direbbe quasi, Emmanuel, che
ciascuna di queste ricche persone, ieri così felici, avessero
dimenticato, nel calcolo sul quale avevano stabilito la loro
fortuna, felicità e reputazione, la parte dovuta al genio del male?
E che il genio come le fate malefiche dei racconti di Perrault,
trascurato e dimenticato nell’invito alla festa di nozze, sia poi
comparso d’un tratto per vendicarsi di questa fatale dimenticanza?»
«Quanti disastri!» mormorava Emmanuel, pensando a Morcerf e a
Danglars.
«Quante sofferenze!» diceva Julie, ricordandosi di Valentine, che
per un istinto femminile non voleva nominare davanti a suo fratello.
«Se Dio li ha colpiti», rispondeva Emmanuel, «è perché, nella sua
suprema bontà, non ha trovato nulla nella loro vita passata che
meritasse l’attenzione della pietà, perché quella gente era
maledetta.»
«Il tuo è un giudizio avventato, Emmanuel!» replicò Julie. «Quando
mio padre, con la pistola in mano, fu sul punto di uccidersi, se
qualcuno avesse detto, come tu dici, “Quest’uomo ha meritato la sua
pena”, non si sarebbe sbagliato?»
«Sì, ma Dio non ha permesso che nostro padre soccombesse, come non
ha permesso che Abramo sacrificasse suo figlio; al patriarca, come a
noi, inviò un angelo che tarpò le ali della morte.»
Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che risuonò il
campanello. Era il segnale dato dal portinaio che c’era una visita.
Quasi nel medesimo istante si aprì la porta del salotto, e sulla
soglia comparve il conte di Montecristo. Fu un doppio grido di gioia
da parte dei giovani sposi. Maximilien alzò la testa, e la lasciò
ricadere.
«Maximilien», esordì il conte, senza sottolineare le diverse
impressioni che la sua presenza aveva prodotto nei suoi ospiti,
«sono venuto a cercarvi.»
«A cercarmi?» disse Morrel, come si svegliasse da un sogno.
«Sì», dichiarò Montecristo, «non eravamo d’accordo che sareste
venuto con me? Non vi ho avvertito ieri di tenervi pronto?»
«Eccomi», disse Maximilien, «ero venuto a salutare i miei.»
«E dove andate, signor conte?» domandò Julie.
«Prima a Marsiglia, signora.»
«A Marsiglia?» ripeterono all’unisono i due sposi.
«Sì, e porto con me vostro fratello.»
«Ah, signor conte», disse Julie, «riportatecelo guarito.»
Morrel voltò la faccia per nascondere il vivo rossore.
«Avete capito perché non stava bene?» domandò il conte.
«No», rispose la giovane, «ma ho paura che si annoi a stare con
noi.»
«Lo distrarrò», riprese il conte.
«Sono pronto, signore», disse Morrel. «Addio Emmanuel, addio Julie!»
«Come, addio!» gridò Julie. «Partite così, subito, senza
preparativi, senza passaporti?»
«Troppi preparativi raddoppiano il dispiacere della separazione»,
disse Montecristo, «e Maximilien, ne sono sicuro, avrà agito con
precauzione; è quanto gli avevo raccomandato.»
«Ho il mio passaporto, e la mia valigia è fatta», disse Morrel, con
la sua apatica tranquillità.
«Benissimo», apprezzò Montecristo sorridendo, «si riconosce la
disciplina di un buon soldato.»
«E ci lasciate in questo modo?» si stupì Julie. «All’istante? Non ci
accordate neppure un giorno, neppure un’ora?»
«La mia carrozza è alla porta, signora: fra cinque giorni devo
essere a Roma.»
«Ma Maximilien non viene a Roma?» domandò Emmanuel.
«Io vado dove vorrà il conte; gli appartengo ancora per un mese.»
«Mio Dio, in che modo lo dice, signor conte!»
«Maximilien viene con me», disse il conte, con la sua persuasiva
affabilità. «Tranquillizzatevi sul conto di vostro fratello.»
«Addio, sorella mia!» ripeté Morrel. «Addio, Emmanuel!»
«La sua apatia mi strazia il cuore!» gemette Giulia. «Oh,
Maximilien, Maximilien, tu ci nascondi qualche cosa…»
«Lo vedrete tornare gaio, allegro e contento», disse Montecristo.
Maximilien lanciò a Montecristo uno sguardo sdegnoso, quasi
irritato.
«Andiamo!» esclamò il conte.
«Prima che andiate, signor conte», riprese Julie, «permetteteci di
dirvi tutto ciò che l’altro giorno…»
«Signora», la interruppe il conte, prendendole le mani, «tutto ciò
che direste non varrà mai ciò che leggo nei vostri occhi, ciò che il
vostro cuore ha pensato, ciò che il mio ha sentito. Come i
benefattori da romanzo, sarei partito senza rivedervi, ma questa
virtù sarebbe stata al di là delle mie forze, perché sono un uomo
debole e vanitoso, perché lo sguardo umido, gioioso e tenero dei
miei simili mi fa del bene. Ora parto, e spingo l’egoismo fino a
dirvi: non dimenticatemi, amici miei, perché probabilmente non mi
rivedrete più.»
«Non vi rivedremo più?» gridò Emmanuel, mentre due grosse lacrime
scorrevano sulle guance di Julie. «Non vi rivedremo più? Non siete
dunque un uomo, ma un angelo che ci lascia, un angelo che risale al
cielo dopo essere comparso sulla terra per farci del bene.»
«Non parlate così», riprese vivacemente Montecristo, «non dite mai
tali cose, amici miei: gli angeli non fanno mai del male, sanno a
che punto devono fermarsi, il caso, le circostanze, le combinazioni
non sono mai più forti di loro. No, io sono uomo, Emmanuel, e non è
meno ingiusta la vostra ammirazione di quanto siano blasfeme le
vostre parole.»
E si portò alle labbra la mano di Julie che si precipitò fra le sue
braccia, mentre tendeva l’altra a Emmanuel; quindi, strappandosi da
quella casa, dolce nido di domestica felicità, con un cenno chiamò
Maximilien, passivo, insensibile, costernato fin dalla morte di
Valentine.
«Rendete la gioia a mio fratello», bisbigliò Julie all’orecchio di
Montecristo.
Montecristo le strinse la mano come gliel’aveva stretta undici anni
prima sulla scala che conduceva all’ufficio di Morrel.
«Vi fidate sempre di Sinbad il marinaio?» le domandò sorridendo.
«Oh, sì!»
«Dunque, state pure in pace, confidando nel Signore.»
Come abbiamo accennato, la carrozza da posta aspettava: quattro
vigorosi cavalli sollevavano le loro criniere e scalpitavano con
impazienza. Ai piedi della scalinata, Alì aspettava col viso
grondante di sudore; sembrava arrivare da una lunga corsa.
«Ebbene», gli domandò il conte in arabo, «sei stato dal vecchio?»
Alì fece segno di sì.
«E gli hai aperto la lettera sotto gli occhi nel modo in cui ti
avevo ordinato?»
«Sì», rispose ancora rispettosamente lo schiavo.
«E che cosa ha detto, o, piuttosto, che cenno ha fatto?»
Alì si mise sotto la luce, in modo che il suo padrone potesse
vederlo, e imitando con la sua intelligenza la fisionomia del
vecchio, chiusi gli occhi come faceva Noirtier quando voleva dire
«sì».
«Bene, accetta», disse Montecristo. «Partiamo!»
Si era appena lasciato sfuggire questa parola, che già la carrozza
si era mossa sollevando una nuvola di polvere mista a scintille.
Maximilien si accomodò in un angolo senza dire parola. Dopo
mezz’ora, la carrozza improvvisamente si fermò; il conte aveva
tirato la funicella di seta che corrispondeva al dito d’Alì. Il moro
scese, e aprì lo sportello.
La notte sfavillava di stelle. Erano in cima alla salita di
Villejuif, sulla spianata da dove si vede Parigi che, come un tetro
mare, agita i suoi milioni di lumi fosforescenti. più numerosi e
mobili di quelli dell’oceano, che non conoscono bonaccia, che si
urtano sempre, e sempre s’infrangono, e sempre s’inghiottono fra
loro. Il conte scese e fece qualche passo, solo, e, dopo un cenno
della mano, la carrozza si scostò di qualche metro Allora considerò
lungamente, e con le braccia incrociate, quella fornace in cui
vengono a fondersi, a torcersi tante di quelle idee che dopo essersi
mescolate nel magma incandescente, sprizzano per andare ad agitare
il mondo. Quindi, dopo aver fissato il suo sguardo potente su quella
nuova Babilonia, mormorò: «Gran città!» mormorò, chinando la testa e
congiungendo le mani come pregando. «Non sono ancora sei mesi da che
ho oltrepassato le tue porte. Lo spirito della Provvidenza che
credevo mi vi avesse condotto, ora me ne allontana trionfante. Il
segreto della mia presenza fra le tue mura l’ho confidato soltanto a
Dio, che solo ha potuto leggere nel mio cuore, solo sa che mi ritiro
senza odio, né orgoglio, ma non senza dispiaceri, solo sa che non ho
fatto uso né per me, né per vane cause, del potere di cui mi ha
fornito. Oh gran città! Nel tuo seno palpitante ritrovai ciò che
cercavo, minatore paziente, ho rimescolato le tue viscere per farne
sortire il male, ora la mia opera è compiuta, quella che ho creduto
la mia missione è terminata, ora tu non puoi più offrirmi né gioie,
né dolori: addio, Parigi! addio!»
Passò nuovamente lo sguardo sulla vasta pianura, come quello di un
genio notturno, quindi, portandosi la mano sulla fronte, risalì
nella carrozza che si chiuse dietro di lui, e scomparve ben presto
dall’altra parte della salita in un nugolo di polvere.
112. La casa dei viali di Meilhan
Morrel era assorto in profonda meditazione, e Montecristo lo
guardava: fecero dieci leghe senza dire una sola parola. Morrel
fantasticava; Montecristo leggeva nella sua mente.
«Morrel», disse il conte, «vi siete pentito di avermi seguito?»
«No, signor conte, ma di lasciare Parigi…»
«Se avessi pensato che la vostra felicità vi aspettava a Parigi,
Morrel, vi ci avrei lasciato.»
«A Parigi riposa Valentine; lasciare Parigi è come perderla una
seconda volta.»
«Maximilien», disse il conte, «gli amici che abbiamo perduto non
riposano nella terra, ma sono sepolti nel nostro cuore, e fu Dio che
così volle, perché ne fossimo sempre accompagnati. Ho due amici che
mi accompagnano sempre in tal modo; uno di essi mi ha dato la vita,
l’altro mi ha dato l’intelligenza. Lo spirito d’entrambi è in me: io
li consulto nei dubbi, e, se faccio qualche cosa di bene, lo debbo
ai loro consigli. Consultate la voce del vostro cuore, Morrel, e
domandategli se dovete continuare a guardarmi con uno sguardo così
tetro.»
«Amico mio», replicò Maximilien, «la voce del mio cuore è triste, e
non mi promette che disgrazie.»
«È degli spiriti deboli vedere tutte le cose attraverso un velo
nero; è l’anima che si crea i propri orizzonti: la vostra anima è
triste, e vi fa vedere un cielo tempestoso.»
«Può darsi», mormorò Maximilien.
E ricadde nei suoi pensieri ossessivi. Il viaggio si fece con quella
inaspettata rapidità ch’era una delle prerogative del conte: le
città passavano come ombre sulla loro strada, gli alberi, scossi dal
primo vento d’autunno, sembravano venire incontro come giganti
scapigliati, che fuggivano rapidamente appena li raggiungevano.
L’indomani di buon mattino arrivarono a Châlon, dove li aspettava il
battello a vapore del conte. Senza perdere un istante, la carrozza
fu trasportata a bordo con i due viaggiatori. Il battello era pronto
alla corsa, lo si sarebbe detto una piroga indiana: e infatti le sue
due ruote sembrarono due ali, con cui fendeva l’acqua come uccello
viaggiatore; Morrel stesso provò quella specie di ebbrezza che
produce la velocità, e qualche volta il vento, che faceva ondeggiare
i suoi capelli, riusciva ad allontanare per un momento le nubi dalla
sua fronte. In quanto al conte, via via che si allontanava da
Parigi, una serenità quasi sovrumana sembrava penetrarlo ed emanare
da lui come un alone; si sarebbe detto un esule che ritornava in
patria.
Ben presto Marsiglia, bianca, tiepida e viva, Marsiglia, la sorella
minore di Tiro e di Cartagine, loro erede nell’impero del
Mediterraneo, Marsiglia, sempre più giovane quanto più invecchia,
comparve ai loro occhi. Era per entrambi una visione feconda di
ricordi quella torre rotonda, il forte di Saint-Nicolas e il
municipio di Puget, quel porto con gli scali di selce dove entrambi
avevano giocato da ragazzi. Quindi si fermarono di comune accordo
sulla Canebière.
Una nave partiva per Algeri: i bagagli e le merci, i passeggeri
ammassati sul ponte, la folla di parenti e amici che si dicevano
addio, e gridavano, e piangevano, scenario sempre commovente, anche
per quelli che vi assistono ogni giorno, tutto quel movimento non
poté distrarre Maximilien da un’idea che l’aveva afferrato, dal
momento in cui aveva messo il piede sui larghi blocchi di granito
dello scalo.
«Guardate», disse, stringendo il braccio di Montecristo, «ecco il
luogo dove si fermò mio padre, quando il Pharaon entrò in porto. Qui
il brav’uomo, che voi salvaste dalla morte e dal disonore, si gettò
fra le mie braccia; sento ancora le sue lacrime sul mio viso, e non
piangeva lui solo, molti piangevano nel vederci piangere.»
Montecristo sorrise.
«Io ero là», disse, mostrando a Morrel l’angolo di una strada.
Nella direzione indicata dal conte, s’intese un gemito doloroso, e
si vide una donna che faceva segni a un passeggero sulla nave in
partenza. Quella donna era velata; Montecristo la seguì con gli
occhi, con un’emozione che Morrel avrebbe facilmente compreso se,
diversamente dal conte, i suoi occhi non fossero stati fissi sul
bastimento.
«Amico mio», gridò Morrel, «quel giovane che saluta, col cappello,
quel giovane in uniforme, è Albert Morcerf!»
«Sì», disse Montecristo, «lo avevo riconosciuto.»
«In che modo, se guardate dalla parte opposta?»
Il conte sorrise, come faceva quando non voleva rispondere. I suoi
occhi si riportarono sulla donna velata che sparì all’angolo della
strada. Allora si girò.
«Amico caro», domandò a Maximilien, «non avete niente da fare in
questa città?»
«Ho da piangere sulla tomba di mio padre» rispose cupamente Morrel.
«D’accordo, andate ad aspettarmi là: vi raggiungerò.»
«Mi lasciate?»
«Sì… Anch’io ho una visita dolorosa da fare.»
Morrel abbandonò la mano nella mano tesa del conte, quindi, con un
gesto di cui sarebbe impossibile esprimere la malinconia lasciò il
conte, e si diresse verso la parte orientale della città.
Montecristo lasciò allontanarsi Maximilien, quindi si incamminò
verso i viali di Meilhan, in cerca della casupola già nota ai nostri
lettori. Quella casa era ancora all’ombra dei tigli sotto cui
passeggiano gli oziosi marsigliesi, tappezzata di vasti festoni di
viti che s’incrociano, sulla pietra ingiallita dall’ardente sole del
Mezzogiorno, in braccia annerite e disseccate per l’età. Due scalini
di pietra, consunti dal passaggio ripetuto del piede umano,
conducevano alla porta d’ingresso, porta fatta di tre tavole
sconnesse che non avevano mai conosciuto il mastice e la vernice.
Quella casa, graziosa malgrado la sua antichità, allegra malgrado la
sua apparente miseria, era quella abitata dal padre di Dantès. Ma,
mentre il vecchio era vissuto nella soffitta, il conte aveva messo
l’intera casa a disposizione di Mercedes.
Là entrò la donna dal lungo velo che Montecristo aveva visto
allontanarsi dal battello in partenza; chiudeva la porta nel momento
stesso in cui egli compariva all’angolo della strada. Per lui gli
scalini erano antiche conoscenze e sapeva meglio di chiunque altro
aprire quella vecchia porta, in cui un chiodo a larga testa serviva
a sollevare il saliscendi interno. Così, senza bussare, né
avvertire, come amico, come ospite, entrò.
In fondo a un corridoio lastricato di selci si apriva un piccolo
giardino, quello stesso giardino in cui Mercedes aveva trovato la
somma che il conte aveva detto di aver nascosto ventiquattro anni
prima.
Dalla soglia della porta di strada si vedevano i primi alberi di
quel giardino, e lì Montecristo udì dei singhiozzi. Sotto un
pergolato di gelsomini della Virginia, dalle foglie fitte e dai
lunghi fiori color porpora, vide Mercedes curva e piangente che,
seduta sola sotto quel cielo splendido, col viso nascosto fra le
mani, dava libero sfogo ai sospiri e al pianto così lungamente
contenuti in presenza del figlio.
Montecristo fece qualche passo avanti, e la sabbia scricchiolò sotto
i suoi piedi; Mercedes rialzò la testa, e mandò un grido di spavento
vedendosi improvvisamente davanti un uomo.
«Signora», disse il conte, «non posso più portarvi la felicità, ma
vi offro consolazione; vi prego di accettarla come un’amica.»
«Sono infatti molto infelice», replicò Mercedes. «Sola al mondo!…
Non avevo che mio figlio, e mi ha lasciato.»
«E ha fatto bene, signora», disse il conte. «Ha dato prova di
nobiltà. Ha capito che ogni uomo deve un tributo alla patria: gli
uni con i talenti, gli altri con l’industria; questo con le veglie,
quello con il sangue. Restando con voi, avrebbe consumato vicino a
voi la sua vita divenuta inutile, non avrebbe potuto capire i vostri
dolori, sarebbe divenuto odioso a stesso per impotenza; invece
diventerà grande e forte lottando contro l’avversità, e la
trasformerà in fortuna. Lasciate che ricostruisca il vostro
avvenire, anzi quello d’entrambi, signora: oso promettervi che egli
si trova fra mani sicure.»
«Questa fortuna di cui parlate», riprese la povera donna, scuotendo
tristemente la testa, «e che dal fondo del cuore prego Dio gli venga
concessa, io non la godrò. Tante cose si sono infrante dentro di me,
intorno a me, che mi sento vicina alla tomba. Avete fatto bene,
signor conte, a farmi tornare nel luogo dove sono stata felice: nel
luogo ove si è stati felici, si può anche morire.»
«Cosa dite, signora», ribatté Montecristo. «Le vostre parole sono
amare e brucianti, tanto più amare e brucianti, in quanto avete
ragione di odiarmi essendo io la causa di tutti i vostri mali… Ah,
perché non mi compiangete, invece di accusarmi? Così mi renderete
molto più infelice ancora…»
«Io odiarvi, accusare voi, voi, Edmond! Odiare, accusare l’uomo che
ha salvato la vita di mio figlio!? Non era certo vostra, e fatale e
sanguinosa intenzione uccidere al signor Morcerf questo figlio di
cui andava così orgoglioso. Guardatemi, e vedrete se vi è in me la
volontà di un rimprovero.»
Il conte sollevò lo sguardo, e lo fermò sopra Mercedes, che per metà
sollevata, tendeva le mani verso di lui.
«Guardatemi», continuò con un sentimento di profonda malinconia,
«oggi si può sopportare tutto lo splendore dei miei occhi… Non è più
il tempo in cui venivo a sorridere a Edmond Dantès, che mi aspettava
lassù alla finestra di quella soffitta, dove abitava il suo vecchio
padre… Da quel tempo sono trascorsi molti giorni dolorosi. Io
accusare voi, Edmond, odiarvi, amico mio? No, me sola accuso e odio!
Oh, miserabile che sono!» gridò, giungendo le mani e alzando gli
occhi al cielo. «Sono stata ben punita!… Avevo la fede, l’innocenza,
l’amore, questi tre beni che formano gli angeli, e, miserabile, ho
dubitato di Dio.»
Montecristo fece un passo verso di lei e le tese silenziosamente la
mano.
«No», disse lei ritirando dolcemente la sua, «no, amico mio, non mi
toccate… Voi mi avete risparmiato, e benché fossi la più colpevole
di quanti avete colpito. Tutti gli altri hanno agito per odio, per
cupidigia, per egoismo: ma io ho agito per viltà. Essi desideravano,
io ho avuto paura. No, non mi stringete la mano, Edmond, voi
meditate qualche parola affettuosa, io lo sento… Non la dite,
serbatela per un’altra, io non ne sono più degna, io… Guardate…»
Scoprì del tutto il viso. «Guardate, le disgrazie hanno reso i miei
capelli grigi, i miei occhi hanno versato tante lacrime che sono
cerchiati di vene violacee, la mia fronte è solcata di rughe… Voi,
al contrario, Edmond, voi siete sempre giovane, sempre bello, sempre
altero, perché voi avete avuto la forza, perché avete confidato in
Dio, e Dio vi ha sostenuto. Io sono stata vile, l’ho rinnegato, e
Dio m’ha abbandonata.»
Mercedes si struggeva in lacrime, il cuore della donna si spezzava
all’urto dei ricordi. Montecristo le baciò rispettosamente la mano,
ma lei sentì che quel bacio era senza ardore.
«Vi sono», continuò, «esistenze predestinate a cui il primo errore
spezza tutto l’avvenire. Io vi credevo morto, avrei dovuto morire:
poiché a cosa è servito portare eternamente il vostro lutto nel mio
cuore? A fare di una donna di trentanove anni una donna di
cinquant’anni, ecco tutto. A cosa è servito, che, sola fra tutti, vi
abbia riconosciuto? Ho soltanto salvato mio figlio. Non dovevo
ugualmente salvare l’uomo, per quanto colpevole, che avevo accettato
come marito? L’ho lasciato morire… Che dico, mio Dio? Ho contribuito
alla sua morte, con la mia vile insensibilità, col mio disprezzo,
non ricordandomi o non volendo ricordarmi che diventò spergiuro e
traditore per me! A che serve infine che io abbia accompagnato mio
figlio fin qui, se qui lo abbandono, se qui lo lascio partire, se
qui lo getto su quella terra divoratrice d’Africa! Oh, io sono stata
vile, ve lo ripeto, ho rinnegato il mio amore, e come i rinnegati
porto disgrazia a tutto quanto mi circonda.»
«No, Mercedes», replicò Montecristo, «no, giudicate meglio voi
stessa. No, voi siete una nobile e santa donna, mi avete disarmato
col vostro dolore. Ma dietro a me, invisibile, sconosciuta,
irritata, vi era una Provvidenza di cui non ero che lo strumento, e
che non ha voluto arrestare il fulmine che avevo lanciato. Oh, lo
giuro su Dio, ai piedi del quale, da dieci anni, mi prostro ogni
giorno, attesto a questo Dio che vi avevo fatto il sacrificio della
vita, e con essa quello dei progetti che vi erano donati. Ma, lo
dico con orgoglio, Mercedes, sembra che la Provvidenza voleva
servirsi di me, e mi fece vivere. Esaminate il passato, esaminate il
presente, cercate d’indovinare l’avvenire, e poi vedrete se ho
ragione di credermi uno strumento del Signore; i più spaventosi
infortuni, le più crudeli sofferenze, l’abbandono di tutti quelli
che mi amavano, la persecuzione di coloro che non mi conoscevano,
ecco la prima parte della mia vita; quindi, d’un tratto, dopo la
prigionia e la solitudine e la miseria, l’aria, la libertà, la
ricchezza così enorme, così fatidica, che, a meno di essere cieco,
ho dovuto pensare che Dio me la inviava per grandi disegni. Da quel
momento questa ricchezza mi è sembrata un sacerdozio, da allora, non
più un pensiero in me per questa vita, di cui, povera donna, avete
qualche volta assaporato la dolcezza, non più un’ora di calma, mi
sono sentito come una nube di fuoco spinta dal ciclo per bruciare le
città maledette. Come quegli avventurosi capitani che s’imbarcano
per un viaggio pericoloso, o che meditano una pericolosa spedizione,
io preparavo i viveri, caricavo le armi, accumulavo i mezzi di
attacco e di difesa, abituando il corpo agli esercizi più violenti,
lo spirito alle cose più faticose, addestrando il braccio a
uccidere, assuefacendo gli occhi a veder uccidere, a vedere
soffrire, la bocca a sorridere agli spettacoli più terribili; da
buono, fiducioso, incurante che ero,sono diventato vendicativo,
cattivo, o piuttosto impassibile, come la sorda e cieca fatalità.
Allora mi sono buttato sulla via che mi era stata aperta, ho
oltrepassato lo spazio, ho toccato la meta: guai a coloro che ho
incontrato sul mio cammino!»
«Basta, basta, Edmond! Credete a quella che sola ha potuto
riconoscervi, e sola anche ha saputo comprendervi? Ora, Edmond,
quella che ha saputo riconoscervi, quella che ha saputo
comprendervi, quella che, se l’aveste incontrata sulla vostra
strada, avreste infranta come vetro, quella ha dovuto tuttavia
ammirarvi, Edmond! Come c’è un abisso fra me e il passato così ce
n’è un altro fra voi e gli uomini, e la mia più dolorosa tortura, ve
lo dirò, è fare dei confronti, poiché nulla trovo nel mondo che vi
valga, nulla che vi assomigli. Ora, addio, Edmond…»
«Prima che vi lasci, cosa desiderate, Mercedes?» domandò
Montecristo.
«Desidero, Edmond, che mio figlio sia felice.»
«Pregate il Signore, che tiene l’esistenza degli uomini fra le sue
mani, di allontanare da lui la morte, io m’incarico del resto.»
«Grazie, Edmond.»
«Ma voi, Mercedes?»
«Io non ho bisogno di niente, vivo fra due tombe: una è quella di
Edmond Dantès, morto da lungo tempo, e che io amavo!… Questa parola
non è più adatta alle mie labbra, ma il mio cuore se ne ricorda
ancora, e per niente al mondo vorrei perdere la memoria del cuore…
L’altra è quella di un uomo ucciso da Edmond Dantès: io approvo
l’uccisione, ma devo piangere la vittima.»
«Vostro figlio sarà felice, signora», ripeté il conte.
«Allora sarò felice anch’io, per quanto potrò esserlo.»
«Ma… infine… che cosa farete?»
Mercedes sorrise tristemente.
«Se vi dicessi che vivrò in questo paese come la Mercedes di una
volta, lavorando, non ci credereste; io non sono più adatta che a
pregare, e non ho bisogno di lavorare: ho ritrovato, nel posto
indicato, il piccolo tesoro sepolto da voi. Ci si domanderà chi
sono, che cosa faccio, non si saprà come vivo… Che importa? Questo è
un segreto fra Dio, voi e me.»
«Mercedes», disse il conte, «io non vi rimprovero, ma avete
esagerato il sacrificio, abbandonando tutti i beni del signor
Morcerf, la cui metà vi apparteneva di diritto per la vostra
parsimonia e previdenza.»
«Immagino ciò che volete propormi, ma non posso accettare; mio
figlio me lo proibirebbe.»
«Mi guarderò bene dal fare per voi qualsiasi cosa che non avesse
l’approvazione di Albert. Io saprò le sue intenzioni, e mi
sottometterò. Ma se egli accetta ciò che voglio fare, lo seguirete
senza esitazioni?»
«Voi sapete, Edmond, che non sono più una creatura pensante, io non
ho alcuna determinazione. Dio mi ha talmente scosso che ho perso la
volontà. Sono fra le sue mani, come passero fra gli artigli
dell’aquila. Egli non vuole che io muoia, poiché vivo. Se mi manderà
soccorsi, è segno che lo vorrà, e io li prenderò.»
«Badate, signora, che Dio non va adorato così», disse Montecristo.
«Egli vuole essere compreso, vuole che si conosca la sua potenza, e
per questo ci ha dato libero arbitrio.»
«Ah crudele!» gridò Mercedes. «Non parlatemi così, lasciatemi
l’illusione di non avere libero arbitrio! Se no, che mi resterebbe
per salvarmi dalla disperazione?»
Montecristo impallidì leggermente, e abbassò la testa oppressa dalla
veemenza del dolore.
«Non volete rivedermi?» disse, tendendole la mano.
«Al contrario, vi rivedrò», replicò Mercedes, indicandogli
solennemente il cielo. «Questo vi prova che spero ancora.»
E dopo aver stretto con mano tremante quella del conte, Mercedes
corse in casa, e sparì alla sua vista. Montecristo uscì con passo
lento da quella casa, e prese la strada del porto. Ma Mercedes non
lo vide allontanarsi, nonostante fosse alla finestra della piccola
camera del padre di Dantès; i suoi occhi cercavano lontano il
bastimento che trasportava suo figlio verso il mare. È però vero che
la voce, suo malgrado, mormorava sommessamente: «Edmond, Edmond,
Edmond…»
Il conte era uscito con l’animo oppresso da quella casa, dove,
secondo tutte le probabilità, lasciava Mercedes per non rivederla
mai più.
113. Il passato
Dopo la morte del piccolo Edouard, si era verificato un grande
cambiamento in Montecristo. Arrivato all’apice della sua vendetta
per il lento e tortuoso declivio che aveva seguito, incontrò
l’abisso del dubbio. C’era di più: il colloquio con Mercedes gli
aveva risvegliato tanti ricordi nel cuore che doveva combattere.
Un uomo del carattere del conte non poteva fluttuare lungamente in
quella malinconia che può far vivere gli spiriti volgari dando loro
una apparente originalità, ma che uccide le anime elevate. Il conte
diceva a se stesso che per essere giunto quasi a biasimarsi,
bisognava che si fosse sbagliato nei suoi calcoli.
«Io guardo male il passato», disse, «non posso essermi sbagliato
così», continuava. «Lo scopo che mi ero proposto sarebbe insensato?
Ho percorso una falsa strada per dieci anni? Un’ora sarebbe bastata
per provarmi che l’opera di tutte le mie speranze era un’opera, se
non impossibile, almeno perversa? Io non voglio abituarmi a
quest’idea, mi renderebbe pazzo. Ciò che manca ai miei ragionamenti
d’oggi è l’apprezzamento esatto del passato. Infatti, a mano a mano
che ci si allontana, il passato, simile al paesaggio attraverso cui
si passa, si cancella dalla memoria. Mi accade come a coloro che si
sono feriti in sogno: guardano e sentono la loro ferita, e non si
ricordano di averla ricevuta. Forza, dunque, uomo rigenerato, ricco,
stravagante, dormiente, risvegliati! Visionario potente, milionario
invincibile, riprendi per un istante questa prospettiva funesta
della tua vita miserabile e affamata, ripassa per il sentiero in cui
ti ha spinto la tua stella, in cui ti ha condotto la cattiva sorte,
in cui ti ha ricevuto la disperazione! Troppi diamanti, troppo oro,
troppa felicità si riflettono oggi sul cristallo di questo specchio
da cui Montecristo guarda Dantès… Nascondi questi diamanti, insozza
quest’oro, cancella questi raggi; ricco, ritorna povero, libero
ritorna prigioniero, resuscitato, ritorna cadavere.»
Mormorando queste frasi, Montecristo percorreva la rue de la
Caisserie, la stessa per la quale, vent’anni prima, era stato
condotto da una guardia silenziosa: tutto era per lui in quella
notte tetro, muto e chiuso.
«Eppure sono le stesse case», mormorò Montecristo, «soltanto,
allora, faceva notte, e oggi è giorno chiaro; è il sole che rende
tutto così gaio.»
Scese allo scalo di Saint-Laurent e avanzò verso il posto di
guardia, era il punto dove era stato imbarcato. C’era un battello da
diporto a poca distanza. Montecristo chiamò il barcaiolo che subito
remò verso di lui, con la sollecitudine consueta dei battellieri. Il
tempo era magnifico, il viaggio fu una festa. Il sole scendeva
all’orizzonte rosso e fiammeggiante sui flutti che si arrossavano al
suo avvicinarsi, il mare, terso come uno specchio, si agitava a
tratti sotto il guizzo dei pesci, che, perseguitati da qualche
nascosto nemico, guizzavano fuori dall’acqua per chiedere la loro
salvezza all’aria mortale; infine all’orizzonte si vedevano passare,
bianche e graziose come gabbiani, le vele delle barche dei pescatori
che tornavano da Martigues, o bastimenti mercantili carichi per la
Corsica o per la Spagna. Pur con quel bel cielo, malgrado quelle
barche dai graziosi profili, in quella luce dorata che inondava il
paesaggio, il conte, avvolto nel suo mantello, si ricordava a uno a
uno tutti i particolari del terribile viaggio: il lume isolato che
ardeva al villaggio dei Catalani, la vista del castello d’If, che
gli aveva fatto capire dove lo conducevano, la lotta con i gendarmi
quando volle buttarsi in mare, la sua disperazione quando si sentì
vinto, e la sensazione di freddo provata sentendo alla tempia
l’estremità della canna di carabina come un anello di ghiaccio.
Allora per lui non vi fu più cielo, più barche, più luce ardente; il
cielo si velò di nubi, l’apparizione del tetro gigante che si chiama
castello d’If lo fece rabbrividire, come se gli fosse d’un tratto
comparso il fantasma d’un nemico mortale. Istintivamente il conte
arretrò fino all’estremità del battello.
Invano il barcaiolo si affannava a dire con la sua voce melliflua:
«Siamo a terra, signore».
Montecristo si ricordò che in quel medesimo luogo, sopra quel
medesimo scoglio, era stato trascinato violentemente dalle guardie,
che lo avevano obbligato a salirvi, pungendogli le reni con la punta
di una baionetta. Il percorso era sembrato molto lungo allora a
Dantès, Montecristo l’aveva trovato cortissimo; ogni colpo di remo,
che sollevava, come allora, tanti spruzzi, aveva ridestato in lui un
milione di pensieri e di ricordi.
Dopo la rivoluzione di luglio non c’erano più prigionieri al
castello d’If; un picchetto destinato a impedire il contrabbando
abitava i corpi di guardia; un custode aspettava i curiosi alla
porta per mostrar loro questo monumento di terrore, divenuto luogo
di curiosità. Eppure, nonostante conoscesse tutti quei particolari,
quando entrò sotto la volta, quando scese la scala buia, quando fu
condotto al carcere che aveva chiesto di vedere, un gelido pallore
gli ricoprì la fronte, il freddo sudore fu respinto fino al cuore.
Il custode che lo accompagnava era là soltanto dal 1830. Fu condotto
nella sua cella. Rivide la pallida luce che filtrava dallo stretto
spiraglio, rivide il posto dove c’era il letto, e dietro al letto,
murata ma visibile ancora per le pietre più nuove, rivide l’apertura
scavata dall’amico Faria. Montecristo sentì le gambe indebolirsi, e,
preso uno sgabello di legno, si sedette.
«Si racconta nessuna storia su questo castello oltre
l’imprigionamento di Mirabeau?» domandò il conte. «Non c’è qualche
ricordo su queste lugubri dimore, dove si stenta a credere che
uomini vivi possano mai essere stati rinchiusi?»
«Sì, signore», rispose il custode, «e di questa stessa prigione il
carceriere Antoine me ne ha raccontata una.»
Montecristo fremette. Antoine era stato il suo carceriere. Ne aveva
quasi dimenticato il nome e il viso, ma a sentirne pronunciare il
nome, lo ripensò com’era: faccia nascosta da una folta barba, la
veste bruna, e il mazzo di chiavi, di cui gli sembrava ancora di
sentire il tintinnio. Il conte si voltò, e credette di rivederlo
nell’ombra del corridoio, resa più scura dalla luce della torcia che
ardeva nelle mani del portinaio.
«Signore, vuole che gliela racconti?» chiese il custode.
«Sì», disse il conte di Montecristo, «dite.»
Quindi si mise la mano sul petto per comprimere i frequenti battiti
del cuore, spaventato al pensiero di udire la propria storia.
«Dite», ripeté.
«Questa cella», riprese il custode, «era abitata molto tempo fa da
un prigioniero, un uomo pericoloso, a quanto sembra, e tanto più
pericoloso in quanto era molto ingegnoso. Un altro uomo era
imprigionato a quel tempo in questo stesso castello, questi però non
era cattivo, era un povero abate, diventato pazzo.»
«Pazzo!» ripeté Montecristo. «E qual era la sua pazzia?»
«Offriva milioni a chi gli avesse reso la libertà.»
Montecristo alzò gli occhi al cielo, c’era una striscia nera fra lui
e il firmamento. Pensò allora che c’era stato un simile accecamento
tra Faria che offriva tesori e gli occhi di coloro ai quali venivano
offerti.
«I prigionieri potevano vedersi?» domandò Montecristo.
«No, signore, era espressamente proibito, ma elusero la proibizione
scavando un passaggio che andava da una prigione all’altra.»
«Chi fu dei due quello che scavò il passaggio?»
«Fu certamente il giovane», disse il custode. «Il giovane era abile
e forte, mentre il povero abate era vecchio e debole; d’altra parte
era troppo malato di mente per tener seguire un’idea.»
«Ciechi!…» mormorò Montecristo.
«Tanto è vero», continuò il custode, «che il giovane scavò questo
passaggio, non si sa come, ma lo scavò, e la prova è che se ne
vedono ancora le tracce… Le vedete?»
E avvicinò la torcia al muro.
«Sì, è vero!» esclamò il conte, con voce affievolita per l’emozione.
«Ne risultò che i due prigionieri si videro e si parlarono. Quanto
tempo sia durato questo loro rapporto, non si sa. Un giorno il
vecchio si ammalò e morì. Indovinate un po’ cosa fece il giovane?»
domandò il custode interrompendosi.
«Dite.»
«Trasportò il defunto nel proprio letto col viso contro il muro,
quindi ritornò nella cella vuota, chiuse il foro, e s’infilò nel
sacco del morto. Vi sarebbe mai venuta una simile idea?»
Montecristo chiuse gli occhi, e tornò a risentire tutte le
sensazioni che aveva provato allora quando quella grossa tela,
ancora fredda per il cadavere che aveva contenuto, quasi lo
soffocava.
Il custode continuò: «Sentite ora qual era il suo progetto: pensava
che nel castello d’If i morti si seppellissero, e credendo che non
si facessero grandi spese per sotterrare i prigionieri, calcolava
forse di potere sollevare la terra con le spalle, ma,
disgraziatamente, nel castello c’era un altro uso: i morti non si
seppellivano; gli si attaccava ai piedi una grossa pietra o una
palla di cannone, e li si gettava in mare. E così fu fatto; il
nostro uomo fu gettato in acqua dall’alto del bastione, il giorno
dopo si trovò il vero morto nel suo letto e s’indovinò tutto, poiché
i becchini dissero allora, cosa che non avevano osato dire prima,
che quando il corpo fu lanciato nel vuoto, avevano sentito un
terribile grido soffocato provenire dall’acqua in cui il corpo era
scomparso.»
Il conte respirava con fatica, il sudore gli colava dalla fronte,
l’angoscia gli stringeva il cuore.
«No!» mormorò. «Quel dubbio che provai era un principio d’oblio, ma
qui il cuore si riapre di nuovo e torna affamato di vendetta… E del
prigioniero», domandò, «se ne è più sentito parlare?»
«Mai più… E, capirete bene, delle due cose l’una: o è caduto di
piatto, e siccome precipitava da una cinquantina di piedi d’altezza,
sarà rimasto ucciso sul colpo…»
«Avete detto che gli era stata attaccata una pietra ai piedi… Sarà
caduto dritto.»
«…O è caduto dritto», riprese il custode, «e allora il peso della
pietra lo avrà trascinato sul fondo, dove è rimasto, pover’uomo…»
«Lo compiangete?»
«Da parte mia sì, sebbene fosse il suo elemento.»
«Che cosa volete dire?»
«Correva voce che quel disgraziato fosse stato, in altri tempi,
ufficiale di marina, detenuto come bonapartista.»
«O verità», mormorò il conte, «Dio ti ha fatto per galleggiare al di
sopra dei flutti e delle fiamme… Così il povero marinaio vive nella
memoria di qualche narratore, si racconta la sua terribile storia
all’angolo del caminetto, e si trema nel momento in cui precipitò
nello spazio per essere inghiottito nel fondo del mare… Non si è mai
saputo il suo nome?» domandò il conte, alzando la voce.
«No», rispose il custode.
«Perché?»
«Era conosciuto solo per il suo numero, 34.»
«Villefort!» mormorò Montecristo. «Ecco ciò che molte volte ti sarai
detto, quando il mio spettro importunava le tue veglie.»
«Il signore vuole continuare la visita?» domandò il guardiano.
«Sì, vorreste mostrarmi la cella dell’abate?»
«Ah, il numero 27.»
«Sì, il 27», ripeté Montecristo.
E gli sembrò ancora di sentire la voce di Faria, quando gli aveva
domandato il suo nome, e questi gli aveva gridato il proprio
attraverso il muro.
«Venite.»
«Aspettate», disse Montecristo, «vorrei guardare un’ultima volta
questa cella.»
«Con comodo», disse la guida, «ho dimenticato la chiave dell’altra.»
«Andate a prenderla.»
«Vi lascio la torcia.»
«No, portatela con voi.»
«Ma resterete al buio.»
«Ci vedo lo stesso.»
«Toh, come lui.»
«Lui chi?»
«Il 34. Si dice che si fosse talmente abituato all’oscurità, che
sarebbe stato in grado di vedere una spilla nell’angolo più scuro di
questa cella.»
«Gli fu però necessaria una decina d’anni per riuscirci», mormorò il
conte.
La guida si allontanò portando la torcia. Il conte aveva detto la
verità: dopo esser rimasto alcuni secondi nell’oscurità, cominciò a
distinguere tutto come a giorno chiaro. Allora si guardò intorno, e
riconobbe il suo carcere.
«Sì», disse, «ecco la pietra sulla quale sedevo, ecco l’impronta
delle mie spalle che hanno consumato il muro, ecco le tracce del
sangue che mi colò dalla fronte il giorno in cui volli ferirmi la
testa contro la parete!… Oh, queste cifre… io me ne ricordo… le feci
un giorno che calcolavo l’età di mio padre per sapere se lo avrei
rivisto vivo, e l’età di Mercedes per sapere se l’avrei ritrovata
libera… Ebbi un momento di speranza dopo aver finito questo calcolo…
Non tenevo conto della fame e dell’infedeltà.»
E un riso amaro gli sfuggì dalla bocca. Vide come in sogno suo padre
portato alla tomba… Mercedes condotta all’altare! Sull’altra parete
del muro un’iscrizione attrasse la sua attenzione. Spiccava, ancora
netta, sul muro verdastro: «Mio Dio», lesse Montecristo,
«conservatemi la memoria».
«Sì», gridò, «ecco la sola preghiera dei miei ultimi tempi. Non
chiedevo più la mia libertà, io chiedevo la memoria, temevo di
diventare pazzo, e di dimenticare tutto. Mio Dio, mi avete
conservato la memoria, e io mi sono ricordato di tutto. Grazie,
grazie, mio Dio!»
In quel momento la luce della torcia illuminò il muro; era la guida
che scendeva. Montecristo gli andò incontro.
«Seguitemi», disse l’uomo con la torcia.
E, senza avere bisogno di tornare verso l’uscita, lo fece continuare
per un corridoio sotterraneo che lo condusse a un’altra cella. Anche
lì Montecristo fu assalito da una folla di pensieri. La prima cosa
che gli colpì gli occhi, fu la meridiana sul muro con cui Faria
contava le ore, quindi i resti del letto sul quale era morto il
povero prigioniero. A quella vista il conte di Montecristo, invece
di risentire le angosce vissute nella sua cella, provò un dolce e
tenero sentimento: il sentimento della riconoscenza gli avvolse il
cuore, e due grosse lacrime gli scesero dagli occhi.
«Qui», riprese la guida, «abitava il pazzo, e di là veniva il
giovane a ritrovarlo», e mostrò a Montecristo l’apertura, che da
quella parte era rimasta aperta. «In base al colore della pietra»,
continuò, «un perito ha stabilito che dovevano essere almeno dieci
anni che i due prigionieri comunicavano insieme. Povera gente,
devono essersi annoiati molto in quei dieci anni!»
Dantès cavò alcuni luigi di tasca, e tese la mano verso quell’uomo
che lo compiangeva per la seconda volta senza conoscerlo. Il custode
li prese, credendo si trattasse di spiccioli; ma quando, al chiarore
della torcia, riconobbe il valore del denaro dato dal visitatore,
disse: «Signore, vi siete sbagliato».
«E perché?»
«Mi avete dato dell’oro.»
«Lo so.»
«Come, lo sapete?»
«Lo so.»
«Allora volevate darmelo davvero?»
«Sì.»
«Dunque posso tenerlo senza scrupoli?»
«Sì.»
Il custode guardò Montecristo con meraviglia.
«Oh, onestà!» disse il conte, come Amleto.
«Signore», riprese il custode, che non osava credere alla sua
fortuna, «signore, io non capisco la vostra generosità.»
«Eppure è facile da comprendere, amico mio», spiegò il conte. «Sono
stato un marinaio, e la vostra storia mi ha commosso in modo
straordinario.»
«Allora, signore», disse la guida, «poiché siete così generoso,
meritate che vi offra qualcosa.»
«Che cos’hai da offrirmi, amico mio? Delle conchiglie? Dei lavori di
paglia? Grazie.»
«No, signore, no… Qualcosa che ha a che fare con la storia che vi
narravo.»
«Davvero?» gridò vivacemente il conte. «Che cos’è dunque?»
«Ascoltate», disse il custode, «ecco che cos’è accaduto: pensando
fra me stesso, che nella cella di un prigioniero, quando questi vi è
rimasto quindici anni, si trova sempre qualche cosa, mi sono messo a
esplorare i muri.»
«Ah!» gridò Montecristo, ricordandosi il doppio nascondiglio
dell’amico.
«A forza di ricerche», continuò il custode, «trovai che il muro
sotto il capezzale del letto risuonava come sotto un caminetto.»
«Sì», disse Montecristo.
«Levai le pietre, e trovai…»
«Una scala di corda, degli utensili!» gridò il conte.
«E come lo sapete?» domandò il custode sorpreso.
«Non lo so, ma lo indovino», rispose il conte. «Normalmente sono
queste le cose che si ritrovano nei nascondigli dei prigionieri.»
«Sì, signore», disse la guida, «una scala di corda e degli
utensili…»
«E li hai ancora?» gridò Montecristo.
«No, signore, ho venduto quegli diversi oggetti, così strani, ad
alcuni visitatori, ma mi resta un’altra cosa.»
«Che cosa dunque?» domandò il conte con impazienza.
«Mi resta una specie di libro, scritto su delle strisce di tela.»
«Oh!» gridò Montecristo. «Ce l’hai ancora questo libro?»
«Non so se sia un libro», chiarì il custode, «ma ce l’ho ancora,
sì.»
«Amico mio, va’ a cercarlo», disse il conte, «e, se è quello che
presumo, sta’ pur tranquillo, non te ne pentirai.»
«Corro, signore…»
E la guida uscì. Allora Montecristo andò a inginocchiarsi
pietosamente davanti ai resti di quel letto, che per lui la morte
aveva trasformato in un altare.
«Oh, mio secondo padre», disse, «tu mi hai dato la libertà, la
scienza, la ricchezza, tu, che simile alle creature di natura
superiore alla nostra, avevi la conoscenza del bene e del male, se
dal fondo della tua tomba resta ancora qualche cosa che frema alla
voce di quelli che sono rimasti sulla terra, se nella
trasfigurazione che subisce il cadavere qualche cosa di animato si
agita nei luoghi dove noi abbiamo molto amato o molto sofferto,
nobile cuore, spirito superiore, anima profonda, con una parola, con
un gesto, con una rivelazione qualunque, te ne scongiuro, in nome
dell’amore paterno che mi accordavi, e del rispetto filiale che ti
portavo, toglimi questo resto di dubbio, fa’ che si cambi in
convinzione, e sgombra il rimorso.»
Il conte abbassò la testa, e congiunse le mani.
«Prendete, signore», disse una voce dietro a lui.
Montecristo rabbrividì, e si voltò.
Il custode gli tese quelle strisce di tela su cui Faria aveva sparso
tutti i tesori della sua scienza. Quel manoscritto era la grande
opera di Faria, di cui abbiamo parlato.
Il conte lo afferrò in tutta fretta, e gli occhi gli caddero subito
sull’epigrafe. Lesse: «Tu strapperai i denti al drago, e calpesterai
sotto i tuoi piedi i leoni, ha detto il Signore».
«Ecco la risposta!» gridò. «Grazie, padre mio, grazie!»
E sfilando di tasca un piccolo portafoglio che conteneva dieci
biglietti di banca di mille franchi ciascuno, disse: «Prendi questo
portafoglio».
«Me lo regalate?»
«Sì, ma a condizione di aprirlo solo quando me ne sarò andato.»
E stringendosi al petto la reliquia che aveva ritrovato, e che per
lui aveva il prezzo del più gran tesoro, si lanciò fuori dal
sotterraneo, e risalendo nella barca, disse: «A Marsiglia!»
Quindi allontanandosi con gli occhi fissi sulla tetra prigione,
esclamò: «Maledetti coloro che mi hanno fatto rinchiudere in quel
tetro carcere, e a coloro che hanno dimenticato che vi ero
rinchiuso!»
E ripassando davanti al villaggio dei Catalani, il conte si girò e,
avvolgendosi nel mantello, mormorò il nome di una donna. La vittoria
era completa, il conte aveva per due volte vinto ogni dubbio. Il
nome che pronunciò con quell’espressione di tenerezza che tradiva
l’amore, era il nome di Haydée.
Mettendo piede a terra, Montecristo s’incamminò verso il cimitero
dove sapeva di ritrovare Morrel. Anche là, in quel cimitero, dieci
anni prima, aveva pietosamente cercato una tomba, ma inutilmente.
Il conte, che ritornava in Francia ricco, non aveva potuto ritrovare
la tomba di suo padre, morto di fame. Morrel vi aveva fatto mettere
una croce, ma la croce era caduta, e i becchini ne avevano fatto
legna da ardere. L’onesto armatore era stato più fortunato: morto
fra le braccia dei suoi figli, fu condotto da loro a riposare vicino
a sua moglie che lo aveva preceduto di due anni nell’eternità. Due
larghe pietre di marmo, sulle quali erano scritti i loro nomi, erano
l’una vicina all’altra in un piccolo recinto chiuso da un cancello
di ferro e ombreggiato da quattro cipressi.
Maximilien era appoggiato a uno di questi alberi, gli occhi che non
vedevano fissi sulle due tombe. Il suo dolore era profondo, quasi
smarrito.
«Maximilien», gli disse il conte, «non è li che dovete guardare, ma
là!» E gli indicò il cielo.
«I morti sono ovunque», ribatté Morrel. «Non mi avete detto così voi
stesso mentre lasciavamo Parigi?»
«Maximilien, durante il viaggio, mi avete domandato di fermarvi
qualche giorno a Marsiglia: avete sempre lo stesso desiderio?»
«Io non ho più nessun desiderio», rispose Morrel. «Mi sembra
soltanto che aspettare a Marsiglia mi sarebbe meno penoso che in
qualsiasi altro luogo.»
«Tanto meglio, Maximilien, perché io vi lascio e porto con me la
vostra parola… Non è vero?»
«Ah, io la dimenticherò, conte», disse Maximilien, «la
dimenticherò!»
«No, non la dimenticherete! Prima di tutto, perché siete un uomo
d’onore Morrel, poi perché lo avete giurato, perché tornerete a
giurarlo.»
«Conte, abbiate pietà di me! Sono così infelice…»
«Ho conosciuto un uomo più infelice di voi.»
«Impossibile!»
«Amico», riprese Montecristo, «è uno degli orgogli della nostra
povera umanità quello per cui un uomo si crede sempre più
disgraziato di un altro che piange e si dispera vicino a lui.»
«Chi è più disgraziato di colui che ha perduto il solo bene che
amava e desiderava al mondo?»
«Ascoltate, Morrel», continuò Montecristo, «e fissate un istante il
vostro pensiero su quanto sono per dirvi. Io ho conosciuto un uomo
che, come voi, aveva riposto tutte le sue speranze di felicità in
una donna. Quest’uomo era giovane, aveva un vecchio padre che amava,
una fidanzata che adorava, era sul punto di sposarla, e per uno di
quei capricci della sorte che farebbero quasi dimenticare la bontà
di Dio, se Dio poi non si rivelasse più tardi, mostrando che tutto è
per lui un mezzo per condurre alla sua unità infinita, per un
capriccio della sorte dicevo, gli fu tolta, a un tratto, la libertà,
la fidanzata, l’avvenire che sognava e che credeva suo (poiché,
cieco com’era, non poteva leggere che nel presente), per seppellirlo
nel fondo di un carcere.»
«Ah!» esclamò Morrel. «Si può uscire dal carcere dopo otto giorni,
un mese, un anno.»
«Vi restò quattordici anni, Morrel» disse il conte, posando una mano
sulla spalla del giovane.
Maximilien rabbrividì.
«Quattordici anni!»
«Quattordici anni», ripeté il conte. «Anch’egli, in quei quattordici
anni, ebbe momenti di disperazione, anch’egli, come voi, Morrel, si
credeva il più disgraziato degli uomini, desiderava uccidersi.»
«Ebbene?» domandò Morrel.
«Ebbene, nel momento supremo, Dio si rivelò a lui con uno strumento
umano. Forse al primo istante non comprese questa misericordia
infinita del Signore, poiché ci vuole tempo agli occhi velati di
lacrime per schiudersi del tutto, ma infine si armò di pazienza e
aspettò. Un giorno uscì dalla sua tomba trasfigurato, ricco,
potente. Il suo primo grido fu per suo padre, suo padre era morto.»
«Anche il mio è morto», disse Morrel.
«Sì, ma vostro padre è morto fra le vostre braccia, amico… felice,
onorato, ricco, pieno di affetti; suo padre invece morì povero,
disperato, affamato, e quando dieci anni dopo la sua morte, suo
figlio cercò la sua tomba, anche questa era scomparsa, e nessuno
poté dirgli “là riposa nel Signore colui che ti ha tanto amato”.»
«Oh!» esclamò Morrel.
«Questo era un figlio più disgraziato di voi, Morrel, poiché non
sapeva neppure dove cercare la tomba di suo padre.»
«Ma», mormorò Morrel, «gli restava almeno la donna che aveva amato.»
«Vi sbagliate Morrel, questa donna…»
«Era morta?» gridò Maximilien.
«Peggio ancora: non gli era stata fedele, aveva sposato uno dei
persecutori del suo fidanzato. Vedete dunque, Morrel, che quest’uomo
era più disgraziato di voi.»
«E a quest’uomo», domandò Morrel, «Dio ha inviato consolazione?»
«Gli ha inviato almeno la calma.»
«E potrà ancora, un giorno, essere felice?»
«Lo spero, Maximilien.»
Il giovane lasciò cadere la testa sul petto, e disse: «Voi avete la
mia promessa».
E dopo un istante di silenzio, e tendendo la mano a Montecristo,
aggiunse: «Ricordatevi soltanto che…»
«Il 5 ottobre, Morrel, vi aspetto sull’isola di Montecristo. Il 4
uno yacht vi aspetterà nel porto di Bastia, si chiamerà Eurus: vi
presenterete al capitano, che vi condurrà da me. Siamo d’accordo,
non è vero, Maximilien?»
«Sì, conte, farò ciò che ho detto; ma ricordatevi che il 5 ottobre…»
«Ragazzo che non sa ancora cosa sia la promessa di un uomo… Vi ho
detto venti volte che se quel giorno vorrete ancora morire… Morrel,
addio.»
«Mi lasciate?»
«Sì, ho alcune faccende da sbrigare in Italia.»
«Quando partite?»
«Adesso. Il battello a vapore mi aspetta, fra un’ora sarò molto
lontano da voi. Mi accompagnate fino al porto, Morrel?»
«Sono tutto vostro, conte.»
«Abbracciatemi.»
Morrel accompagnò il conte fino al porto. Ben presto il battello
partì, e un’ora dopo, come aveva detto Montecristo, il fumo
biancastro che usciva dalla ciminiera era appena visibile
all’orizzonte offuscato dalla prima nebbia della sera.
114. Peppino
Mentre il battello a vapore del conte superava il capo Morgiou
sparendo alla vista, un uomo correva sulla diligenza da Firenze a
Roma, passando dalla città di Acquapendente. Vestito con un lungo
soprabito da viaggio molto consunto, ma su cui spiccava il nastro
della Legion d’Onore, quest’uomo, non soltanto da questo doppio
segno, ma anche per l’accento col quale si rivolgeva al postiglione,
era palesemente francese.
Una prova ulteriore che era nato in Francia, e che non sapeva una
parola d’italiano, a eccezione di quelle della musica che sostituire
tutte le finezze di una lingua particolare, diceva ai postiglioni a
ogni salita: «Allegro!» e gridava a ogni discesa «Moderato!» E Dio
sa se quante salite e discese ci sono da Firenze a Roma lungo la
strada di Acquapendente! Queste due parole, del resto, facevano
molto ridere coloro ai quali erano rivolte.
Di fronte alla città eterna, cioè alla Storta, punto da dove si
scorge Roma, il viaggiatore non provò quel sentimento di
entusiastica curiosità che spinge ogni straniero ad alzarsi dal
fondo della carrozza per vedere la famosa cupola di San Pietro, che
si vede molto prima di distinguere qualunque altro palazzo.
No, prese soltanto il portafoglio dalla tasca, e dal portafoglio una
carta piegata in quattro, che spiegò e ripiegò con una cura che
somigliava a rispetto, e si limitò a dire: «Bene, l’ho sempre».
La carrozza oltrepassò Porta del Popolo, girò a sinistra, e si fermò
dirimpetto a Palazzo di Spagna. Mastro Pastrini, nostra antica
conoscenza, ricevette il viaggiatore sulla soglia della porta col
cappello in mano. Il viaggiatore scese, ordinò un buon pranzo, e
chiese l’indirizzo della casa Thomson e French, che gli fu indicato
all’istante; era una delle più conosciute di Roma, situata in via
dei Banchi, vicino a Castel Sant’Angelo.
A Roma, come in qualsiasi altro posto, l’arrivo di una carrozza da
posta è un avvenimento. Dieci giovani, discendenti di Mario e dei
Gracchi, coi piedi nudi, i gomiti stracciati, ma il pugno sull’anca,
e il braccio pittorescamente ricurvo sopra la testa, guardavano il
viaggiatore, la carrozza e i cavalli; a questi scapestrati della
città per eccellenza, si erano uniti una cinquantina di balordi
dello Stato romano, di quelli che fanno dei cerchi sputando
nell’acqua del Tevere dall’alto del ponte di Castel Sant’Angelo,
quando nel Tevere c’è acqua. Ora siccome i monelli e i balordi di
Roma, più felici di quelli di Parigi, capiscono tutte le lingue, e
particolarmente la lingua francese, intesero che il viaggiatore
domandava un appartamento, un pranzo e infine l’indirizzo della casa
Thomson e French. Ne risultò che quando il nuovo arrivato uscì
dall’albergo col cicerone d’obbligo, un uomo si staccò dal gruppo di
curiosi, e senza esser notato dal viaggiatore, né dalla guida,
s’incamminò a poca distanza dallo straniero, seguendolo con tanta
maestria quanta ne avrebbe potuto avere un agente della polizia
parigina. Il francese era così galvanizzato dalla fretta di fare
visita alla casa Thomson e French, che non ebbe tempo d’aspettare
che i cavalli fossero attaccati; la carrozza lo avrebbe raggiunto
per strada, o aspettato alla porta del banchiere. Arrivarono senza
che la carrozza li avesse ripresi.
Il francese entrò lasciando in anticamera la guida, che subito si
mise a discorrere con due o tre di quegli industriosi senza
industria, o meglio che esercitavano una di quelle mille industrie
che si professano a Roma, alle porte dei banchieri, delle chiese,
degli scavi archeologici, dei musei e dei teatri.
Contemporaneamente al francese entrò pure l’uomo che si era staccato
dal gruppo dei curiosi; il francese fece ingresso nella prima
stanza, la sua ombra fece altrettanto.
«I signori Thomson e French?» domandò lo straniero.
Una specie di impiegato si alzò al segnale di un commesso, guardiano
formale del primo ufficio.
«Chi devo annunciare?» domandò l’impiegato.
«Il barone Danglars», rispose il viaggiatore.
«Venite», disse l’altro.
E l’impiegato e il barone sparirono dietro una porta. L’uomo ch’era
entrato dietro Danglars si sedette su una panca. Il commesso
continuò a scrivere per circa cinque minuti; in quei cinque minuti,
l’uomo seduto conservò il più profondo silenzio e la più assoluta
immobilità. Quindi la penna cessò di stridere sulla carta, il
commesso alzò la testa, guardò attentamente attorno a sé, e dopo
essersi assicurato che non c’era nessun altro, disse: «Finalmente
eccoci qui, Peppino…»
«Sì», rispose questi laconicamente.
«Hai fiutato qualche buon affare in quel signore?»
«Non c’è gran merito in questo, siamo stati avvisati.»
«Sai dunque cos’è venuto a fare qui?»
«Perdinci, è venuto a riscuotere. Resta solo da sapere quanto.»
«Te lo dirò fra poco, amico.»
«Benissimo, ma non darmi, come l’altro giorno, delle false
informazioni.»
«Che vuoi dire? Di chi parli? Forse di quell’inglese che giorni fa
portò via tremila scudi?»
«No, quello aveva davvero tremila scudi, e li abbiamo ritrovati. Io
parlavo del principe russo.»
«Ebbene?»
«Tu ci avevi detto trentamila lire, e non ne abbiamo ritrovate che
ventiduemila.»
«Avrete cercato male.»
«È stato Luigi Vampa a perquisirlo.»
«In tal caso avrà avuto dei debiti da pagare.»
«Un russo?»
«Oppure avrà speso il danaro…»
«È più probabile.»
«È sicurissimo. Ma lasciatemi andare al mio osservatorio, altrimenti
il francese se ne andrà, senza che abbia saputo la cifra.»
Peppino fece un segno affermativo con la testa, e si mise a
osservare alcune incisioni appese al muro, mentre il commesso
scompariva per la stessa porta attraversata dall’impiegato e dal
barone. Dopo circa dieci minuti, il commesso ricomparve tutto
raggiante.
«Ebbene?» domandò Peppino al suo amico.
«Attenzione!Attenzione!» bisbigliò il commesso. «La somma è grossa!»
«Tra i cinque e i sei milioni, vero?»
«Sì… Come sai la cifra?»
«Su una ricevuta di sua eccellenza il conte di Montecristo?»
«Conosci il conte?»
«E della quale è stato accreditato su Roma, Venezia e Vienna?»
«È così!» gridò il commesso. «Come mai sei così bene informato?»
«Te l’ho detto, siamo stati avvertiti.»
«Allora perché sei venuto da me?»
«Per essere sicuro che era questo l’uomo col quale avevamo a che
fare.»
«È proprio lui… cinque milioni. Una bella somma, eh?»
«Sì.»
«Noi non ne avremo mai così tanti.»
«Ma almeno avremo gli avanzi», replicò filosoficamente Peppino.
«Zitto! Ecco il nostro uomo.»
Il commesso riprese la penna, e Peppino tornò di nuovo a osservare i
quadri.
Danglars apparve raggiante insieme al banchiere che lo accompagnò
fino alla porta. Secondo gli accordi, la carrozza che doveva
ricondurre Danglars aspettava davanti alla porta di Thomson e
French. Il cicerone teneva lo sportello aperto. Danglars saltò in
carrozza, leggero come un giovane di vent’anni. Il cicerone chiuse
lo sportello, e salì vicino al cocchiere. Peppino montò nel posto
dietro.
«Sua eccellenza vuole andare a vedere San Pietro?» domandò il
cicerone.
«Per fare cosa?» rispose il barone.
«Diamine, per vedere!»
«Io non sono venuto a Roma per vedere», disse ad alta voce Danglars.
Quindi aggiunse sommessamente con un cupido sorriso: «Sono venuto
per intascare».
E infatti toccò il portafoglio, nel quale aveva chiuso una lettera.
«Allora sua eccellenza va…?»
«In albergo.»
«Casa Pastrini!» disse il cicerone al cocchiere.
E la carrozza partì rapida come un cocchio signorile. Dieci minuti
dopo il barone era rientrato nel suo appartamento, e Peppino si era
installato su una panca posta contro un muro vicino alla porta, dopo
aver detto alcune parole all’orecchio di uno di quei discendenti di
Mario e dei Gracchi che abbiamo segnalato all’inizio di questo
capitolo, il quale prese di corsa la strada del Campidoglio.
Danglars era stanco, soddisfatto e aveva sonno. Si mise a letto,
infilò il portafoglio sotto il capezzale, e si addormentò. In quanto
a Peppino, avendo tempo, giocò alla morra con alcuni facchini,
perdette due o tre scudi, e, per consolarsi, bevve un fiasco di vino
d’Orvieto.
L’indomani Danglars si svegliò tardi, sebbene fosse andato a letto
di buon’ora; erano cinque o sei notti che non dormiva, o che dormiva
malissimo. Fece una lauta colazione, e noncurante come aveva detto,
di vedere le bellezze della città eterna, ordinò i cavalli da posta
per mezzogiorno. Ma Danglars non aveva tenuto conto delle formalità
della polizia e della lentezza del postiglione. I cavalli giunsero
soltanto alle due, e il cicerone non portò il passaporto coi visti
che alle tre. Tutti questi preparativi avevano richiamato alla porta
di mastro Pastrini un buon numero di oziosi, né mancavano i
discendenti dei Gracchi e di Mario. Il barone attraversò
trionfalmente quella folla che lo chiamava eccellenza per avere un
baiocco. Siccome Danglars, uomo popolarissimo, come si sa, fino a
quel momento si era accontentato di farsi chiamare barone, quel
titolo lo lusingò e distribuì una dozzina di paoli a tutta quella
canaglia, pronta, per un’altra dozzina di paoli, a trattarlo col
titolo di altezza.
«Che via?» domandò il postiglione in italiano.
«Per Ancona», rispose il barone.
Mastro Pastrini tradusse la domanda e la risposta, e la carrozza
partì al galoppo. Danglars voleva effettivamente passare da Venezia,
per riscuotere parte del credito, quindi da Venezia andare a Vienna
per realizzare il resto. Era sua intenzione stabilirsi in
quest’ultima città, che gli avevano assicurato essere una città di
piaceri. Dopo appena due leghe nella campagna di Roma, cominciò a
farsi buio. Danglars non pensava di dover partire così tardi,
altrimenti sarebbe rimasto; domandò al postiglione quanto mancava
per giungere alla prima città.
«Non capisco!» rispose in italiano il postiglione.
Danglars fece un cenno con la testa, che voleva dire: «Non importa!»
E la carrozza continuò la sua strada.
«Mi fermerò alla prima posta», diceva fra sé Danglars.
Danglars provava ancora un po’ del benessere della sera precedente,
e che gli aveva procurato una così buona notte. Steso nella sua
carrozza inglese a doppie molle, si sentiva trascinato al galoppo da
due buoni cavalli: il viaggio era di sette leghe, lo sapeva. Che
fare quando uno è banchiere, e ha concluso un fallimento felice?
Danglars pensò dieci minuti a sua moglie rimasta a Parigi, altri
dieci minuti a sua figlia che girovagava con Louise d’Armilly;
concesse dieci minuti ai suoi creditori, e a come avrebbe
reimpiegato il loro denaro; quindi non avendo più niente da fare,
chiuse gli occhi e si addormentò. Qualche volta però, scosso da un
urto più forte degli altri, Danglars riapriva gli occhi: allora si
sentiva sempre trasportato alla stessa velocità attraverso quella
campagna di Roma, tutta seminata di ruderi, d’acquedotti che
sembravano giganti di granito pietrificati a metà della loro corsa.
Ma la notte era fredda, oscura e piovosa, ed era meglio per un uomo
mezzo assopito, rimanere in fondo alla sua carrozza con gli occhi
chiusi, che mettere la testa fuori dello sportello per domandare
dove ci si trovava al postiglione, che non sapeva rispondere altro
che: «Signore, non capisco». Danglars continuò dunque a dormire,
pensando che avrebbe sempre fatto in tempo a svegliarsi quando fosse
giunto al cambio dei cavalli.
La carrozza si fermò. Danglars pensò che finalmente aveva raggiunto
il posto desiderato. Riaprì gli occhi, guardò attraverso il vetro,
credendo di trovarsi in qualche città o almeno in qualche villaggio,
ma non vide nient’altro che una specie di capanna isolata, e tre o
quattro uomini che andavano e venivano come ombre.
Danglars aspettò un momento che il postiglione, ormai finita la
corsa, venisse a reclamare il suo denaro; contava di approfittare di
quell’occasione per chiedere qualche informazione al suo nuovo
conduttore, ma i cavalli furono staccati e sostituiti con altri
senza che nessuno andasse a chiedere denaro al viaggiatore.
Danglars, meravigliato, aprì lo sportello, ma una mano vigorosa lo
richiuse subito, e la carrozza partì.
«Ehi, mio caro!» disse al postiglione.
Anche questa era una parola italiana di una romanza che Danglars
aveva ricordato dalla volta che sua figlia aveva cantato qualche
duetto col principe Cavalcanti. Ma il «mio caro» non gli rispose.
Danglars si accontentò allora di abbassare il vetro e gridare in
francese, mettendo fuori la testa: «Ehi, amico, dove andiamo
dunque?»
«Dentro la testa!» gridò una voce grave e imperiosa, accompagnata da
un gesto minaccioso.
Danglars capì cosa significavano dire quelle parole. Faceva, come si
vede, rapidi progressi nella lingua italiana: obbedì, non senza
inquietudine, e siccome la sua inquietudine aumentava di minuto in
minuto, dopo alcuni istanti la sua mente, invece del vuoto che
abbiamo segnalato al momento in cui si era messo in viaggio e che
gli aveva procurato il sonno, la sua mente, dicevamo, si trovò piena
di una quantità di pensieri capaci di tenere sveglio un viaggiatore,
e soprattutto un viaggiatore che si trovava nella situazione di
Danglars. Nell’oscurità vide un uomo avvolto in un mantello che
galoppava allo sportello di destra.
«Qualche gendarme», commentò a bassa voce. «Che sia stato segnalato
dal telegrafo francese alle autorità pontificie?»
E decise di porre fine a quell’incertezza.
«Dove mi portate?» domandò, sempre in francese.
«Dentro la testa!» ripeté la stessa voce, col medesimo tono di
minaccia.
Danglars si voltò subito verso sinistra: vide che un altro uomo a
cavallo galoppava vicino allo sportello.
«Sono stato arrestato», diceva tra sé Danglars, col sudore sulla
fronte.
E si gettò nel fondo della carrozza, non per dormire stavolta, ma
per pensare. Un istante dopo apparve la luna. Dal fondo della
carrozza Danglars fissò lo sguardo sulla campagna: rivide allora
quei grandi acquedotti, fantasmi di pietra che aveva notato
passando, invece di averli a destra, li aveva a sinistra. Capì
allora che avevano fatto girare la carrozza e che lo riconducevano a
Roma.
«Oh, me disgraziato!» mormorò. «Devono aver ottenuto la mia
estradizione.»
La carrozza continuò a correre a gran velocità. Un’ora passò,
terribile, poiché a ogni nuovo sguardo gettato al suo passaggio, il
fuggitivo capiva che lo riportavano indietro. Finalmente vide una
massa scura contro la quale sembrava che la carrozza stesse per
urtare. Ma la carrozza girò, e corse lungo quella massa scura, che
altro non erano che le mura di Roma.
«Non rientriamo in città», mormorò Danglars. «Dunque non è la
polizia che mi arresta. Buon Dio, che siano…»
E gli si drizzarono i capelli; si ricordò le strane storie dei
banditi della campagna romana, tanto poco credute a Parigi, e che
Albert Morcerf aveva raccontato alla signora Danglars e a Eugénie.
«Che siano ladri…» mormorò.
A un tratto la carrozza traballò, era un terreno più aspro che
quello di una strada postale. Danglars s’arrischiò a gettare uno
sguardo ai lati della strada: vide monumenti di forme strane, e il
suo istinto, preoccupato dal racconto di Morcerf, che ora si
presentava a lui in tutti i suoi minuziosi particolari, il suo
istinto gli disse che doveva trovarsi sulla via Appia.
A sinistra della carrozza, in una specie di vallo, si vedeva uno
scavo circolare: era il circo di Caracalla. A una parola di colui
che galoppava a destra, la carrozza si fermò, mentre lo sportello di
sinistra si aprì.
«Scendi», gli comandò una voce.
Danglars scese subito; non parlava ancora l’italiano, ma cominciava
già a capirlo. Più morto che vivo, il barone si guardò. Quattro
uomini lo circondavano, senza contare il postiglione.
«Di qua», disse uno dei quattro, scendendo lungo un sentiero che
conduceva tra le alture della campagna romana.
Danglars seguì la sua guida senza rispondere, e non ebbe bisogno di
voltarsi per sapere che era seguito da altri tre uomini, ma gli
sembrò che questi poi si fermassero come di sentinella a distanze
quasi uguali. Dopo dieci minuti di cammino, durante i quali Danglars
non scambiò neppure una parola con la sua guida, si trovò fra un
poggio e un cespuglio; vide da lontano parecchi uomini a cavallo,
vestiti nel pittoresco costume della campagna romana, col fucile in
alto.
«Avanti», disse la medesima voce in tono breve e imperioso.
Stavolta Danglars capì doppiamente, voglio dire la parola e il
gesto, poiché l’uomo che camminava dietro di lui lo spinse così
violentemente in avanti, che andò a urtare la guida: era il nostro
amico Peppino, che s’inoltrò fra le erbe per un viottolo che solo le
faine e le volpi potevano conoscere. Peppino si fermò davanti a una
roccia ricoperta da fitti cespugli trafitta da una spaccatura, entro
cui il giovane scomparve come scompaiono nelle bolge i diavoli delle
nostre favole. La voce e il gesto di quello che seguiva Danglars
costrinsero il banchiere a fare altrettanto. Non c’era più da
dubitare, il francese fallito aveva a che fare coi briganti.
Danglars obbedì; posto fra due terribili pericoli, era reso
coraggioso dalla paura. Malgrado il ventre, troppo prominente per
penetrare nei crepacci della campagna romana, s’infilò dietro a
Peppino, e lasciandosi scivolare, chiudendo gli occhi, cadde in
piedi. Toccando il suolo riaprì gli occhi. Il percorso era largo ma
buio. Peppino, non curandosi di essere riconosciuto, ora che si
trovava in casa sua, accese una fiaccola. Altri due scesero dietro
Danglars, spingendolo quando si fermava, e lo fecero arrivare, per
un dolce declivio, al centro di un crocicchio dall’aspetto sinistro.
Infatti, le pareti dei muri, scavate a loculi sovrapposti,
sembravano, in mezzo alle pietre bianche, quelle orbite nere e
profonde che si vedono nei crani dei morti.
«Chi va là?» disse la sentinella, facendo scattare con la mano
sinistra la sicura della carabina.
«Amici, amici», rispose Peppino. «Dov’è il capitano?»
«Lassù», disse la sentinella, mostrando sopra la spalla una specie
di sala scavata nella roccia, e la cui luce si rifletteva nei
corridoi per mezzo di grandi aperture concentriche.
«Buona preda, capitano», disse Peppino in italiano.
E prendendo Danglars per il colletto dell’abito, lo condusse verso
un’apertura che assomigliava a una porta, e per la quale si
penetrava nella caverna in cui sembrava che il capitano avesse
stabilito il suo alloggio.
«È quell’uomo?» domandò un uomo che stava leggendo con molta
attenzione la Vita di Alessandro di Plutarco.
«Proprio lui, capitano.»
«Benissimo, mostratemelo.»
Peppino avvicinò così arditamente la torcia al viso di Danglars, che
questi indietreggiò per non farsi bruciare le sopracciglia. Quel
viso era sconvolto dal terrore.
«Quest’uomo è stanco», disse il capitano. «Conducetelo al suo
letto.»
«Questo letto sarà probabilmente un sepolcro scavato nel muro, e il
sonno sarà la morte che mi verrà da uno di quei pugnali che vedo
luccicare fra le ombre», pensò Danglars
Nella profonda oscurità della grotta si vedevano alzarsi sopra
strami d’erbe secche o pelli di lupi i compagni di colui che Albert
Morcerf aveva sorpreso mentre leggeva i Commentari di Giulio Cesare,
e che Danglars trovava immerso le Vite Parallele di Plutarco.
Il banchiere mandò un sordo gemito, e seguì la guida. Non ebbe
coraggio né di pregare, né di protestare, non aveva più né forza, né
volontà, né potenza, né sentimento, andava perché lo trascinavano.
Urtò un gradino, e capì che aveva una scala davanti a sé; alzò
meccanicamente i piedi, quattro o cinque volte.
Allora gli si aprì davanti una porta bassa; si curvò per non
picchiare con la fronte, e si ritrovò in una cella tagliata nella
roccia. Quella cella era asciutta, benché nuda e scavata nella terra
a una profondità enorme. Un letto fatto di erbe secche, e ricoperto
di pelli di capra, era steso in un angolo della cella.
Danglars, nello scoprirlo, lo credette il simbolo della sua
salvezza.
«Sia lodato Iddio!» mormorò. «È un vero letto.»
Era la seconda volta, in un’ora, che invocava il nome di Dio, e ciò
non gli accadeva da più di dieci anni.
«Ecco», disse la guida.
E spingendo Danglars verso la cella, chiuse la porta dietro a lui.
Il catenaccio cigolò; Danglars era prigioniero. D’altra parte, anche
se non vi fosse stato il catenaccio, ci sarebbe voluto un miracolo
per passare in mezzo alle sentinelle che in quel punto custodivano
le catacombe di San Sebastiano, e che erano accampate intorno al
loro capo, nel quale i nostri lettori avranno certamente
riconosciuto il famoso Luigi Vampa.
Anche Danglars aveva riconosciuto quel bandito, all’esistenza del
quale non aveva voluto credere quando Morcerf aveva cercato di
convincerlo in Francia. Non solo lo aveva riconosciuto, ma aveva
anche riconosciuto la cella nella quale Albert era stato rinchiuso,
e che, secondo tutte le probabilità, era l’alloggio dei forestieri.
Quei ricordi, su cui Danglars indugiava con una certa gioia, gli
avevano restituito la tranquillità. Poiché i banditi non lo avevano
ucciso subito, era segno che non avevano deciso di ucciderlo, ma lo
avevano arrestato per derubarlo, e siccome non aveva con sé che
pochi luigi, avrebbero chiesto un riscatto. Si ricordò che per
Morcerf avevano domandato circa quattromila scudi, e siccome si
attribuiva un valore molto più importante di Albert, fissò da sé il
proprio riscatto a ottomila scudi. Ottomila scudi non facevano più
di quarantatremila lire. Gli restava ancora una somma di circa
cinque milioni e cinquantamila lire. Con questa somma ci si può
cavarsi d’impaccio ovunque.
Dunque, quasi certo di togliersi dai guai, poiché non ricordava
situazione in cui su un uomo fosse stato chiesto un riscatto di
cinque milioni e cinquantamila lire, Danglars si stese sul letto,
dove, dopo essersi girato e rigirato due o tre volte, si addormentò
con la tranquillità dell’eroe di cui Luigi Vampa leggeva la storia.
115. La carta di Luigi Vampa
A ogni sonno, che non sia quello temuto da Danglars, segue il suo
risveglio. Danglars si svegliò. Per un parigino abituato alle
cortine di seta, alle pareti coperte di velluto, al profumo che
emana il legno sul caminetto e che scende dalle volte di seta, il
risveglio in una grotta di pietra calcarea deve essere come un
brutto sogno. Al tocco delle coperte di pelle di capra, Danglars
dovette credere di sognare i curdi. Ma in simile circostanza bastò
un secondo per cambiare il dubbio in certezza.
«Sì, sì», mormorò, «sono nelle mani dei banditi di cui mi parlò
Albert Morcerf.»
Per prima cosa respirò con forza, per assicurarsi di non essere
stato ferito, un espediente che aveva imparato dal Don Chisciotte,
il solo libro, non che avesse letto, ma di cui aveva sentito
parlare.
«No», pensò. «Non mi hanno né ucciso né ferito, ma mi avranno
derubato.»
E si mise subito le mani in tasca. C’era tutto: i cento luigi che
aveva conservato in contanti per fare il viaggio da Roma a Venezia,
erano nella tasca dei pantaloni, e il portafoglio nel quale si
trovava la lettera di credito per cinque milioni e cinquantamila
franchi era nella tasca interna dell’abito.
«Che strani banditi!» disse fra sé. «Mi hanno lasciato la borsa e il
portafoglio! Come dicevo ieri sera, m’imporranno un riscatto. Ho
ancora il mio orologio! Vediamo un po’ che ora è.»
L’orologio di Danglars, un capolavoro di Bréguet, che aveva montato
con cura prima di mettersi in viaggio, segnava le cinque e mezzo del
mattino. Senza di esso, Danglars sarebbe rimasto incerto sull’ora,
poiché la luce del giorno non penetrava nella cella. Doveva
sollecitare i banditi a spiegarsi, o aspettare pazientemente che si
decidessero da soli? L’ultima alternativa era la più prudente;
Danglars aspettò, aspettò fino a mezzogiorno.
In tutto quel tempo una sentinella aveva vegliato alla porta. Alle
otto del mattino, la sentinella era stata cambiata, e Danglars
voleva capire da chi fosse sorvegliato. Aveva notato che alcuni
raggi di luce, non già del giorno, ma della lampada filtravano
attraverso le fessure della porta mal accostata; si avvicinò a una
di quelle fessure nel momento preciso in cui il bandito beveva
alcuni sorsi di acquavite, che, attraverso l’otre di pelle che la
conteneva, spandeva un odore molto ripugnante.
«Puah!» esclamò, arretrando fino in fondo alla cella.
A mezzogiorno l’uomo dell’acquavite fu rimpiazzato da un’altra
sentinella. Danglars era curioso di vedere il suo nuovo guardiano;
si accostò di nuovo alla fessura. Era un bandito atletico, un Golia
dagli occhi grossi, le labbra spesse e il naso schiacciato; i
capelli rossi gli ricadevano sulle spalle in onde contorte come
serpenti.
«Questo assomiglia più a una belva che a una creatura umana, ma in
ogni caso sono vecchio e abbastanza coriaceo, e quindi non buono da
mangiare.»
Come si vede, Danglars aveva ancora abbastanza presenza di spirito
per scherzare. Nello stesso istante, come per provargli che non era
una belva, il suo guardiano si sedette di fronte alla porta della
cella, prese dalla bisaccia del pane nero, delle cipolle e del
formaggio, e si mise subito a divorarli.
«Che il diavolo mi porti», disse Danglars, gettando attraverso la
fessura della porta uno sguardo sul pranzo del bandito, «che il
diavolo mi porti, se capisco come si possano mangiare simili
porcherie!»
Tornò a sedersi sulle sue pelli, che gli ricordavano l’odore
dell’acquavite della prima sentinella. Ma Danglars aveva un bel
dire, poiché i segreti della natura sono incomprensibili: sentì
d’improvviso l’appetito, e allora l’uomo gli sembrò meno brutto, il
pane meno nero, il formaggio più fresco. Infatti quelle cipolle
crude, orribile cibo del bandito, gli ricordarono certi sughi di
Robert e certi intingoli che il suo cuoco eseguiva in modo
sorprendente, quando Danglars gli diceva: «Signor Deniseau,
preparatemi qualcosa di buono».
Si alzò e andò a bussare alla porta. Il bandito alzò la testa.
Danglars si accorse che l’uomo l’aveva sentito e raddoppiò i colpi.
«Che cosa c’è?» domandò il bandito.
«Dite, amico» disse Danglars, tamburellando con le dita sulla porta,
«mi sembra che sarebbe ora che pensiate a nutrire anche me.»
Ma, sia che non capisse il francese, sia che non avesse ricevuto
ordini a proposito del pranzo di Danglars, il gigante si rimise a
mangiare. Danglars si sentì ferito nell’orgoglio, e non volendo
compromettersi di più con quella belva, andò a rannicchiarsi sulle
pelli, e non disse più parola.
Passarono quattro ore: il gigante fu rimpiazzato da un altro
bandito. Danglars, che soffriva di orribili crampi allo stomaco, si
alzò dolcemente, applicò l’occhio alle fenditure della porta, e
riconobbe la sua guida. Era infatti Peppino, che si preparava a
montare la guardia, sedendosi di fronte alla porta, e appoggiando
fra le gambe una teglia di terracotta contenente piselli caldi e
profumati, cotti in fricassea al lardo. Vicino a quei piselli
Peppino depose anche un bel paniere di uva fresca di Velletri e un
fiasco di vino d’Orvieto. Peppino era un vero ghiottone. Vedendo
quei preparativi gastronomici a Danglars venne l’acquolina in bocca.
«Eccone uno nuovo», disse il prigioniero, «vediamo un po’ se questo
è più malleabile degli altri.»
E bussò gentilmente alla porta.
«Eccomi», disse il bandito, il quale, frequentando la casa di mastro
Pastrini, aveva poi finito per imparare il francese, perfino nei
suoi dialetti.
Infatti venne ad aprire. Danglars lo riconobbe per quello che gli
aveva gridato in modo furioso di tirare dentro la testa, ma non era
certo l’ora delle proteste. Assunse l’aspetto più gentile, e con un
grazioso sorriso, disse: «Scusate, signore, non c’è qualcosa da
mangiare anche a me?»
«Come», gridò Peppino, «vostra eccellenza avrebbe fame, per caso?»
«Per caso, dite?» mormorò Danglars. «Non mangio da ventiquattro ore.
Sì, signore», aggiunse alzando la voce, «ho fame, e anche molta.»
«E vostra eccellenza vuol mangiare?»
«Subito, se è possibile.»
«Niente di più facile», disse Peppino, «qui si può procurare tutto
ciò che desidera, pagando, beninteso, come si usa presso tutti gli
onesti cristiani.»
«Naturalmente!» esclamò Danglars. «Anche se, a dire il vero, le
persone che rapiscono e che imprigionano, dovrebbero almeno nutrire
i loro prigionieri.»
«Ah, eccellenza», replicò Peppino, «non è nostro costume.»
«È una cattiva abitudine», rispose Danglars, che contava di
addolcire il guardiano con la sua amabilità, «però non voglio
insistere. Su, fatemi portare da mangiare.»
«Immediatamente, eccellenza… Che cosa desiderate?»
Peppino depose la teglia per terra in modo che il fumo salisse
direttamente alle narici di Danglars.
«Comandate», continuò.
«Dunque qui avete delle cucine?»
«Cucine perfette!»
«E cuochi?»
«Eccellenti!»
«Ebbene, un pollo, un pesce, della selvaggina, non importa quello
che sia, purché si mangi.»
«Come desidera vostra eccellenza. Dicevamo, dunque, un pollo, non è
vero?»
«Sì, un pollo.»
Peppino si voltò, e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni.
«Un pollo per sua eccellenza!»
La voce di Peppino vibrava ancora sotto le volte, che già compariva
un giovane bello, svelto e mezzo nudo, come gli antichi portatori di
pesce, portando il pollo sopra un piatto d’argento.
«È come essere al Café de Paris!» mormorò Danglars.
«Eccolo, eccellenza!» disse Peppino, prendendo il pollo dalle mani
del giovane bandito, e deponendolo sopra una tavola tarlata, che con
uno sgabello e il letto di pelli, formava l’arredo della stanza.
Danglars domandò un coltello e una forchetta.
«Eccoli, eccellenza», disse ancora Peppino offrendo un coltello con
la punta smussata e una forchetta di legno.
Danglars prese il coltello con una mano e la forchetta con l’altra,
e si apprestò a tagliare il volatile.
«Scusi, eccellenza», riprese Peppino, posando una mano sulla spalla
del banchiere, «qui si paga prima di mangiare; si potrebbe non
essere soddisfatti, uscendo…»
«Ecco che qui non è più come a Parigi!» esclamò Danglars. «Senza
contare che probabilmente questi banditi mi scorticheranno; ma
facciamo le cose in grande. Vediamo: ho sempre dire che in Italia la
vita costa poco, un pollo non deve valere più di dodici soldi a
Roma. Ecco», disse, «un luigi…» e lo gettò a Peppino.
Peppino raccolse il luigi, Danglars accostò il coltello al pollo.
«Un momento, eccellenza», continuò Peppino rialzandosi, «un momento:
vostra eccellenza mi deve ancora qualche cosa.»
«Lo dicevo che mi avrebbero scorticato!» mormorò Danglars.
Quindi, deciso a risolvere presto la questione estorsione, domandò:
«Quanto vi devo ancora per questo miserabile volatile?» domandò.
«Vostra eccellenza mi ha dato un luigi d’acconto.»
«Un luigi d’acconto per un pollo?»
«Certamente, d’acconto.»
«Bene… avanti, avanti!»
«Vostra eccellenza mi deve ancora soltanto
quattromilanovecentonovantanove luigi.»
Danglars sbarrò gli occhi enormi sentendo quella cifra spropositata.
«Ah, burlone!» mormorò. «Davvero furbissimo.»
Fece per rimettersi a tagliare il pollo, ma Peppino gli fermò la
mano destra con la mano sinistra, e tese l’altra mano.
«E no», disse.
«Cosa, non scherzate?» domandò Danglars.
«Noi non scherziamo mai, eccellenza» riprese Peppino.
«Come, centomila franchi per un pollo?»
«Eccellenza, non sapete quanta fatica ci costi allevare un pollo in
queste maledette grotte.»
«Adesso basta», sbottò Danglars, «la situazione è divertente, ma
siccome ho fame, lasciatemi mangiare. Prendete, ecco qua un altro
luigi per voi, amico mio.»
«Con ciò il vostro debito non sarà più che di
quattromilanovecentonovantotto luigi», ribadì Peppino conservando la
medesima calma. «Con la pazienza ci arriveremo.»
«In quanto a questo», replicò Danglars, stomacato dalla minacciosa
durata di quello scherzo, «in quanto a questo, mai. Andate al
diavolo! Voi non sapete con chi avete a che fare.»
Peppino fece un cenno al giovane bandito, che allungò veloce le mani
e portò via il pollo. Danglars si gettò sul suo giaciglio. Peppino
chiuse la porta e si rimise a mangiare i suoi piselli al lardo.
Danglars non poteva vedere ciò che faceva Peppino, ma lo sbattere
dei denti del bandito non lasciava alcun dubbio al prigioniero
sull’esercizio che lo occupava. Era chiaro che mangiava, e che
mangiava rumorosamente, come fanno i maleducati.
«Villano!» gridò Danglars.
Peppino fece finta di non capire, e senza neppure voltare la testa
continuò a mangiare lentamente. A Danglars pareva di avere lo
stomaco perforato come la tinozza delle Danaidi, pensando che non
avrebbe mai più mangiato. Però pazientò ancora una mezz’ora che gli
parve un secolo. Si alzò e andò di nuovo davanti alla porta.
«Vi prego, signore», disse, «non fatemi languire ancora, e ditemi
ciò che volete da me.»
«Ma eccellenza, dite piuttosto ciò che volete da noi. Dateci i
vostri ordini, e noi li eseguiremo»
«Allora aprite.»
Peppino aprì.
«Voglio mangiare!» ripeté Danglars.
«Avete fame?»
«Lo sapete bene!»
«Che cosa desidera mangiare, vostra eccellenza?»
«Un tozzo di pane secco, visto che i polli hanno un prezzo
esorbitante in queste maledette caverne.»
«Pane sia», disse Peppino. «Olà, pane!»
Il giovane portò un pagnotta.
«Eccolo!» disse Peppino.
«Quanto costa?» domandò Danglars.
«Quattromilanovecentonovantotto luigi. Ci sono già due luigi pagati
in precedenza.»
«Come, una pagnotta centomila franchi?»
«Centomila franchi», confermò Peppino.
«Ma volevate centomila franchi per un pollo!»
«Noi serviamo a prezzo fisso. Si mangi poco, o molto, si comandino
dieci piatti o uno solo, è sempre la stessa cifra.»
«Ecco un altro scherzo! Amico mio, vi dico che questa è
un’assurdità, una stupidità! Ditemi piuttosto che volete che io
muoia di fame, e tutto sarà finito.»
«Ma no, eccellenza, siete voi che volete commettere un suicidio.
Pagate e mangiate.»
«E come potrei pagare, brutto animale?» gridò Danglars esasperato.
«Credi forse che giri con centomila franchi in tasca?»
«Voi avete cinque milioni e cinquantamila franchi nella vostra,
eccellenza», disse Peppino. «Bastano per cinquanta polli a centomila
franchi, e un mezzo pollo a cinquantamila.»
Danglars fremette, la benda gli cadde dagli occhi; era si uno
scherzo, ma adesso lo capiva. Bisogna pur rendergli giustizia,
perché da quel momento non considerava più lo scherzo stupido come
prima.
«Allora», disse, «pagando questi centomila franchi, mi riterrete
solvente, e potrò mangiare con tutto comodo?»
«Certamente», rispose Peppino.
«Ma in che modo dovrò pagarli?» aggiunse Danglars, respirando più
liberamente.
«Niente di più facile: avete un credito aperto presso i signori
Thomson e French, via dei Banchi a Roma. Datemi un assegno di
quattromilanovecentonovantotto luigi su questi signori, e il nostro
banchiere lo sconterà.»
Danglars volle almeno attribuirsi il merito della buona volontà,
prese la penna e la carta presentatagli da Peppino, scrisse la
cedola e firmò.
«Prendete», disse, «ecco il vostro assegno al portatore.»
«A voi, il vostro pollo.»
Danglars tranciò il pollo sospirando, poiché gli sembrava molto
magro per una così grossa somma. In quanto a Peppino, lesse
attentamente il foglio, se lo mise in tasca, e continuò a mangiare i
suoi piselli.
116. Il perdono
Il giorno dopo Danglars ebbe nuovamente fame: l’aria di quella
caverna era certamente salubre. Il prigioniero pensava che, per quel
giorno, non avrebbe avuto alcuna spesa da fare; da uomo parsimonioso
aveva nascosto metà del pollo e un pezzo di pane in un angolo della
cella.
Ma non appena ebbe mangiato, gli venne sete: non lo aveva previsto
questo! Lottò contro la sete fino al momento in cui sentì la lingua
arida attaccarsi al palato. Allora, non potendo più resistere al
fuoco che lo divorava, chiamò. La sentinella aprì la porta, era un
viso nuovo. Pensò che era meglio per lui aver a che fare con una
vecchia conoscenza; chiamò Peppino.
«Eccomi eccellenza», disse il bandito, presentandosi con una premura
che parve di buon augurio a Danglars. «Che cosa desiderate?»
«Da bere», disse il prigioniero.
«Eccellenza», riprese Peppino, «voi sapete che il vino è molto caro
nelle vicinanze di Roma.»
«Allora datemi dell’acqua», replicò Danglars.
«Oh, eccellenza, l’acqua è più rara del vino; c’è una grande
siccità!»
«Ecco che ricominciamo la storia di ieri, a quanto pare», disse
Danglars
E mentre sorrideva per mostrare di voler scherzare, il sudore aveva
ricominciato a bagnargli le tempie.
«Animo, amico mio», continuò Danglars, vedendo che Peppino era
sempre impassibile, «vi chiedo un bicchiere di vino. Me lo
rifiuterete?»
«Vi ho già detto, eccellenza», rispose con gravità Peppino, «che non
vendiamo al dettaglio.»
«E allora datemi una bottiglia.»
«Quale?»
«Di quello che costa meno.»
«Costa tutto uguale.»
«E quanto?»
«Venticinquemila franchi la bottiglia.»
«Ditelo», gridò Danglars, con un’amarezza che solo Arpagone avrebbe
potuto esprimere sul diapason della voce umana, «dite che volete
spogliarmi, e farete prima che divorarmi pezzo per pezzo.»
«È possibile che questo sia il progetto del padrone», ammise
Peppino.
«Chi è il padrone?»
«Quello da cui vi condussi ieri.»
«E dov’è?»
«Qui.»
«Vorrei vederlo.»
«È facile.»
Un istante dopo Luigi Vampa era davanti a lui.
«Mi avete chiamato?» domandò al prigioniero.
«Siete voi, signore, il capo di questi uomini che mi hanno rapito?»
«Sì, eccellenza. Perché?»
«Che cosa volete per il mio riscatto? Parlate.»
«Semplicemente i cinque milioni che avete in tasca.»
Danglars sentì un orribile spasimo lacerargli il cuore.
«Io non ho che questi, signore, residuo di un’immensa ricchezza; se
me li togliete, tanto vale che mi togliate anche la vita.»
«Ci è proibito versare il sangue di vostra eccellenza.»
«E da chi vi è stato proibito?»
«Da colui al quale obbediamo.»
«Dunque obbedite a qualcuno?»
«Sì, a un capo.»
«Credevo foste voi il capo.»
«Io sono il capo di questi uomini, ma un altro mi comanda.»
«E questo capo obbedisce a qualcuno?»
«Sì.»
«A chi?»
«A Dio.»
«Non vi capisco», disse Danglars, rimasto un istante pensieroso.
«È probabile.»
«È questo capo che vi ha ordinato di trattarmi così?»
«Sì.»
«A che scopo?»
«Non lo so.»
«Ma la mia borsa si vuoterà.»
«È probabile.»
«Sentiamo», disse Danglars, «volete un milione?»
«No.»
«Due milioni?»
«No.»
«Tre milioni?… Quattro… vediamo, quattro? Ve li do a condizione che
mi lasciate partire.»
«Perché mi offrite quattro milioni di ciò che vale cinque?» domandò
Vampa. «È usura, signor banchiere, e io non me ne intendo.»
«Prendete tutto! Prendete tutto, vi dico!» gridò Danglars. «E
uccidetemi.»
«Su, su, calma, eccellenza, vi scaldate il sangue, cosa che vi
metterà addosso un appetito da mangiare un milione al giorno… Siate
dunque più parsimonioso, perbacco!»
«Ma quando non avrò più denaro per pagarvi?»
«Allora avrete fame.»
«Avrò fame?» balbettò Danglars tremante.
«È probabile», rispose flemmaticamente Vampa.
«Ma dite che non volete uccidermi?»
«No.»
«E volete lasciarmi morir di fame?»
«Non è la stessa cosa.»
«Ebbene, miserabili!» gridò Danglars. «Sventerò i vostri piani:
morire per morire, tanto vale farla subito finita! Fatemi soffrire,
torturatemi, uccidetemi, ma non avrete più la mia firma.»
«Come vostra eccellenza preferisce», disse Vampa. E uscì dalla
cella.
Danglars si gettò ruggendo sul suo letto di pelli. Chi erano
costoro? Chi era questo capo che si presentava a lui? Chi era
l’altro invisibile? Quale progetto avevano su di lui? Quando tutti
potevano riscattarsi, perché lui solo non poteva? Oh, certamente la
morte, una morte pronta e violenta, era un buon mezzo per deludere
quei nemici accaniti, che sembravano compiere su di lui
un’incomprensibile vendetta. Sì, ma morire! Danglars assomigliava a
quelle bestie feroci che diventano coraggiose nella disperazione,
quando sono cacciate, e che a forza di disperazione riescono qualche
volta a salvarsi: pensò a una evasione. Ma le mura erano la roccia
stessa, e presso la sola uscita che conduceva fuori dalla cella vi
era un uomo che leggeva, e dietro a lui si vedevano passare e
ripassare ombre armate di fucili. La sua decisione di non firmare
durò due giorni, dopo di che domandò del cibo e offrì un milione.
Gli fu servita una magnifica colazione, e fu preso un milione.
Da quel momento la vita del disgraziato prigioniero fu una
distrazione continua: aveva tanto sofferto che non voleva più
esporsi a soffrire, e subiva tutte le esigenze. Dopo dodici giorni,
un dopopranzo in cui aveva desinato come nei più bei giorni della
sua fortuna, fece i conti, e si accorse di aver sborsato così tante
tratte pagabili al portatore che non gli rimanevano più che
cinquantamila franchi. Allora nacque in lui una strana reazione: lui
che aveva sperperato cinque milioni, tentò di salvare i
cinquantamila franchi che gli restavano. Piuttosto che cedere quei
cinquantamila franchi, si risolse a una vita di privazioni, ebbe
lampi di speranza che si accostavano alla follia; lui che da tempo
aveva dimenticato Dio, vi pensò per dire a se stesso che Dio qualche
volta fa dei miracoli, che la caverna poteva inabissarsi, che i
gendarmi pontifici potevano scoprire quel maledetto covo e venire in
suo aiuto, che cinquantamila franchi erano una somma sufficiente per
impedire a un uomo di morire di fame. Pregò Dio di conservargli quei
cinquantamila franchi, e pregando pianse.
Tre giorni passarono così, durante i quali il nome di Dio fu
costantemente, se non nel suo cuore, almeno sulle sue labbra; a
intervalli aveva momenti di delirio, durante i quali credeva di
vedere, attraverso una finestra, una povera camera e un vecchio
agonizzante sopra un lettuccio, che anch’egli moriva di fame. Il
quarto giorno non era più uomo, era un cadavere vivente, che aveva
raccolto da terra perfino le ultime molliche dei suoi pasti, e
cominciava a divorare la stuoia di cui era coperto il suolo.
Allora supplicò Peppino, come si supplica il proprio angelo custode,
di dargli qualcosa da mangiare; offrì mille franchi per un tozzo di
pane. Peppino non rispose. Il quinto giorno si trascinò all’entrata
della cella.
«Ma voi dunque non siete cristiano», disse, inginocchiandosi.
«Volete assassinare un uomo che è vostro fratello davanti a Dio?
Amici miei di altri tempi! Amici miei di altri tempi!» mormorò.
E cadde con la faccia contro terra. Quindi si alzò con una specie di
disperazione.
«Il capo!» gridò. «Il capo!»
«Eccomi!» disse Vampa, apparendo improvvisamente. «Che desiderate di
nuovo?»
«Prendete il mio ultimo danaro», balbettò Danglars, tendendo il
portafoglio, «e lasciatemi vivere qui, in questa caverna: non
domando più la libertà, ma soltanto la vita.»
«Dunque soffrite molto?» domandò Vampa.
«Oh, sì, soffro, e crudelmente!»
«Eppure vi sono stati uomini che hanno sofferto ben più di voi.»
«Non credo.»
«Sì, invece! Quelli che sono morti di fame.»
Danglars pensò a quel vecchio che, durante le sue allucinazioni,
vedeva gemere sul letto attraverso la finestra della sua povera
camera. Batté la fronte per terra mandando un forte gemito.
«Sì», disse, «è vero, ve ne sono che hanno sofferto ben più di me,
ma almeno quelli erano martiri.»
«Vi pentite finalmente!» disse una voce cupa e solenne, che fece
drizzare i capelli sulla testa di Danglars.
Il suo sguardo indebolito cercò di distinguere gli oggetti, e vide
dietro al bandito un uomo avvolto nel mantello, e perduto nell’ombra
di un pilastro di pietra.
«E di che devo pentirmi?» balbettò Danglars.
«Di tutto il male che avete fatto», disse la stessa voce.
«Sì, mi pento!» gridò Danglars, battendosi il petto con il pugno
scarno.
«Allora vi perdono», disse l’uomo, gettando il mantello, e facendo
un passo avanti per esporsi meglio alla luce.
«Il conte di Montecristo!» mormorò Danglars più pallido per il
terrore di quanto un momento prima per la fame e gli stenti.
«Sbagliate, non sono il conte di Montecristo.»
«E chi siete dunque?»
«Sono quello che avete venduto, denunciato, disonorato; sono quello
a cui avete fatto prostituire la fidanzata; sono quello che avete
calpestato per creare la vostra fortuna; sono quello al quale avete
fatto morire il padre di fame… Vi avevo condannato a morire di fame,
e invece vi perdono, perché io pure ho bisogno di perdono: sono
Edmond Dantès!»
Danglars mandò un grido e cadde prosternato.
«Rialzatevi», disse il conte, «voi avete salva la vita. Ugual
fortuna non è toccata agli altri due vostri complici: uno e pazzo,
l’altro è morto! Conservate i cinquantamila franchi che vi restano,
ve ne faccio dono. In quanto ai cinque milioni rubati agli ospizi,
sono già stati restituiti da una mano sconosciuta. Ora mangiate e
bevete, questa sera sarete mio ospite. Vampa! Quando si sarà
riavuto, sia rimesso in libertà.»
Danglars rimase ancora prosternato, mentre il conte si allontanava;
quando rialzò la testa, non vide più che una specie di ombra che
scompariva nel corridoio, e davanti alla quale s’inchinavano i
banditi.
Come il conte aveva ordinato, Danglars fu servito da Vampa, che gli
fece portare il miglior vino e i più bei frutti d’Italia, e che,
avendolo quindi fatto trasportare nella sua carrozza da posta, lo
lasciò sulla strada appoggiato a un albero. Vi restò fino a giorno,
ignorando dove fosse. Alla luce del giorno si accorse che era vicino
a un ruscello; aveva sete e si strascinò fino a esso.
Nell’abbassarsi per bere s’accorse che i suoi capelli erano
diventati bianchi!
117. Il 5 ottobre
Erano circa le sei di sera: il cielo era ingombro di vapori, tra i
quali un bel sole d’autunno filtrava i suoi raggi d’oro. Il calore
del giorno si era spento gradatamente, e cominciava a spirare una
brezza leggera, soffio delizioso che rinfresca le coste del
Mediterraneo, e che porta, di riva in riva, il profumo degli alberi
misto all’acre sentore del mare.
Sopra a quell’immenso lago che si estende da Gibilterra ai
Dardanelli e da Venezia a Tunisi, uno yacht di forma pura ed
elegante correva leggero. Il suo moto era quello di un cigno che
apre le ali al vento e che sembra lambire l’acqua: avanzava rapido e
grazioso, lasciando dietro di sé una striscia fosforescente.
A poco a poco, il sole, di cui abbiamo salutato gli ultimi raggi,
era scomparso all’orizzonte occidentale, ma, come per dare ragione
ai brillanti sogni della mitologia, i suoi fuochi, ricomparendo alla
sommità di ciascun albero, sembravano rivelare che il dio del fuoco
si era nascosto nel seno d’Anfitrite, la quale tentava invano di
celarlo col suo manto azzurro.
Lo yacht avanzava rapidamente, sebbene in apparenza spirasse un
lieve venticello, che avrebbe a malapena potuto agitare i capelli
sciolti di una dolce ragazza.
In piedi a prua, un uomo d’alta statura, di carnagione scura, con lo
sguardo vivido, vedeva apparire davanti a sé la terra sotto forma di
una tetra massa disposta a cono, che sorgeva dai flutti come un
immenso cappello alla catalana.
«È quella l’isola di Montecristo?» domandò con voce grave e impressa
di profonda tristezza il viaggiatore, agli ordini del quale sembrava
momentaneamente sottoposto il piccolo yacht.
«Sì, eccellenza», rispose il pilota. «Stiamo per arrivare.»
«Arrivare!» mormorò il viaggiatore, con indefinibile malinconia.
Quindi aggiunse a bassa voce: «Sì quello sarà il porto».
E ritornò a immergersi nei suoi pensieri che trasparivano da un
sorriso più triste di qualsiasi lacrima. Alcuni minuti dopo si vide
a terra una fiamma che subito si spense, e il rumore di un’arma da
fuoco giunse fino allo yacht.
«Eccellenza», disse il pilota, «ecco il segnale di terra. Volete
rispondere voi stesso?»
«Che segnale?» domandò l’uomo.
Il pilota tese la mano verso l’isola, indicando un largo pennacchio
di fumo che si squarciava allargandosi.
«Ah sì», mormorò, come se uscisse da un sogno, «date.»
Il pilota gli tese una carabina già carica, il viaggiatore la prese,
l’alzò lentamente, e fece fuoco in aria. Dieci minuti dopo si
ammainavano le vele, e si gettava l’ancora a cinquecento passi dal
piccolo porto. La lancia era già in mare con quattro rematori e il
pilota; il viaggiatore scese, e invece di sedere a poppa, per lui
coperta da un tappeto, rimase in piedi a prua a braccia incrociate.
I rematori aspettavano coi remi alzati, come gli uccelli che si
asciugano le ali.
«Andate!» disse il viaggiatore.
Gli otto remi caddero in mare all’unisono senza far spruzzare una
sola goccia d’acqua, quindi la barca strisciò rapidamente. In un
istante giunsero a una piccola insenatura, e la barca toccò fondo
sulla sabbia fine.
«Eccellenza», disse il pilota, «salite sulle spalle di due dei
nostri uomini, vi porteranno a terra.»
Il giovane rispose a quell’invito con un gesto di completa
indifferenza, sporse le gambe dalla barca, e si lasciò calare
nell’acqua che gli giunse fino alla cintola.
«Eccellenza», mormorò il pilota, «avete fatto male a fare così, il
padrone ci sgriderà.»
Il giovane continuò ad avanzare verso la riva seguendo i due marinai
che sceglievano il fondo miglior. Dopo una trentina di passi erano a
terra, il giovane pestava i piedi sul terreno secco, scrutando
intorno a sé il percorso che probabilmente gli avrebbero indicato,
poiché era buio pesto: nel momento in cui voltava la testa, una mano
gli si posò sulla spalla, e una voce lo fece rabbrividire.
«Buonasera, Maximilien», disse quella voce, «siete puntuale, e vi
ringrazio.»
«Siete voi, conte?» gridò il giovane con un gesto che assomigliava
alla gioia, stringendo con entrambe le mani quella di Montecristo.
«Sì, come vedete, e puntuale come voi. Ma siete bagnato, mio caro
amico, bisogna che cambiate vestito, come disse Calipso a Telemaco.
Venite dunque, per di qua c’è un alloggio preparato per voi, e nel
quale dimenticherete la stanchezza e il freddo.»
Montecristo accorgendosi che Morrel cercava con lo sguardo qualcuno,
aspettò. Il giovane s’era accorto con sorpresa che quelli che lo
avevano accompagnato non avevano detto una parola e che erano
partiti senza essere pagati; sentiva già il battere dei remi della
barca che tornava al piccolo yacht.
«Che fate?» domandò il conte. «Cercate i vostri marinai?»
«Certo, non li ho ricompensati.»
«Non pensateci, Maximilien», disse ridendo Montecristo. «Ho un
contratto con la marina perché gli accessi alla mia isola siano
esenti da qualunque spesa.»
Morrel guardò il conte con meraviglia.
«Conte», disse, «non siete più lo stesso di Parigi.»
«In che senso?»
«Voi ridete.»
La fronte di Montecristo si corrugò improvvisamente.
«Avete ragione a richiamarmi a me stesso, Maximilien», disse.
«Rivedervi mi rende felice.»
«Oh, no, conte», gridò Morrel, stringendogli di nuovo le mani,
«ridete, siate felice, e provatemi con la vostra indifferenza che la
vita è triste solo per coloro che soffrono. Voi siete caritatevole,
siete grande, amico mio, e fingete questa ilarità solo per darmi
coraggio.»
«Vi sbagliate, Morrel», replicò Montecristo, «è perché sono
effettivamente contento.»
«Allora vi siete scordato di me, tanto meglio!»
«E come?»
«Sì, poiché lo sapete, amico, come diceva il gladiatore entrando nel
circo al Sublime Imperatore, io dico a voi: Morituri te salutant!»
«Non vi siete consolato?» domandò Montecristo con uno strano
sguardo.
«Oh!» esclamò Morrel, con un’espressione piena d’amarezza. «Avete
creduto realmente che potessi farlo?»
«Sentite», riprese il conte, «voi non mi prendete per uomo volgare,
per uno strumento che butta fuori parole strane e prive di senso?
Quando io vi chiedo se vi siete consolato, vi parlo come uno per il
quale il cuore umano non ha più segreti. Ebbene, Morrel, scendete
nel vostro cuore, ed esploratelo. C’è ancora quell’impetuosa
impazienza del dolore che fa scuotere il corpo come balza il leone
quando è punto dal tafano? C’è ancora quell’ideale del dispiacere
che spinge l’uomo fuori della vita cercando la morte? O c’è
piuttosto la prostrazione del coraggio spossato e la noia che spegne
il raggio di speranza che vorrebbe risplendere? Oh, amico mio! Se è
così, se voi non potete più piangere, se credete morto il vostro
cuore gelato, se non avete più speranza che in Dio, se i vostri
sguardi non s’innalzano più che verso il cielo, amico mio, lasciamo
da parte le frasi troppo concise, per il senso che loro dà la nostra
anima. Maximilien, voi siete consolato, non lamentatevi più.»
«Conte», disse Morrel, con un tono di voce dolce e fermo, «conte,
ascoltatemi come si ascolta un uomo che parla con la mano protesa
verso la terra e gli occhi rivolti al cielo. Certamente amo ancora
qualcuno: amo mia sorella Julie, amo suo marito Emmanuel. Ma ho
bisogno che mi si aprano braccia forti nell’ultimo mio momento. Mia
sorella si struggerebbe in lacrime e svenirebbe, vedrei soffrire e
ho sofferto abbastanza; Emmanuel mi strapperebbe le armi dalle mani,
e riempirebbe la casa delle sue grida… Voi, conte, che me l’avete
promesso, voi che siete più che un uomo, e che, se non foste
mortale, chiamerei un Dio, voi mi condurrete dolcemente e con
tenerezza, non è vero, fino alla morte?»
«Amico», disse il conte, «non mi resta che un dubbio: avreste così
poca forza da metterci orgoglio nell’esagerare il vostro dolore?»
«No, guardate, sono tranquillo», rispose Morrel, tendendo una mano
al conte, «e il mio polso non batte né più forte, né più lentamente
del solito. No, mi trovo al termine della mia strada, e non andrò
più avanti: mi avete parlato di aspettare e di sperare. Sapete che
cosa avete fatto al disgraziato, voi saggio che siete? Ho aspettato
un mese, vale a dire ho sofferto un mese di più: ho sperato… L’uomo
è una povera e miserabile creatura!… Che cosa ho sperato! Non lo so,
qualcosa d’ignoto, d’assurdo, d’insensato… un prodigio!… E quale?
Può dirlo solo Dio, che ha mischiato alla nostra ragione il
sentimento della speranza. Sì, ho sperato, e da un quarto d’ora che
parliamo mi avete cento volte, senza saperlo, torturato e lacerato
il cuore, poiché ciascuna delle vostre parole mi ha provato che non
c’era più speranza per me. Oh, conte, con quanta dolcezza e soavità
riposerò nella morte!»
Morrel pronunciò queste parole così energicamente che fecero fremere
il conte.
«Amico mio» continuò Morrel, vedendo che il conte taceva, «mi avete
proposto il cinque ottobre come termine della dilazione che mi avete
richiesto… Amico mio, oggi è il cinque ottobre…» Morrel prese
l’orologio. «Sono le nove, ho ancora tre ore da vivere.»
«Sia», rispose Montecristo, «venite.»
Morrel seguì meccanicamente il conte, ed erano già nella grotta che
Maximilien non se n’era ancora accorto. Sentì i tappeti sotto i
piedi, si aprì una porta, dolci profumi lo avvilupparono, una viva
luce gli colpì gli occhi. Morrel si fermò, esitando a inoltrarsi;
non si fidava delle snervanti delizie che lo circondavano.
Montecristo lo attirò dolcemente.
«Non sarebbe bene», disse il conte, «che impiegassimo le tre ore che
ci rimangono come quegli antichi romani che, condannati da Nerone
loro imperatore e loro parente, si mettevano a tavola circondati di
fiori, e aspiravano la morte tra i profumi delle vainiglie e delle
rose?»
Morrel sorrise.
«Come preferite», rispose. «La morte è sempre morte, vale a dire
l’oblio, il riposo, la cessazione della vita, e, di conseguenza, dei
dolori della terra.»
E si sedette; Montecristo si mise di fronte a lui. Erano in quella
meravigliosa sala da pranzo che abbiamo già descritto, e dove statue
di marmo portavano sulle loro teste cofani sempre pieni di fiori e
di frutti. Morrel aveva guardato tanto distrattamente, che era
possibile che non avesse visto niente.
«Parliamo da uomini», disse, guardando il conte.
«Parlate», annuì il conte.
«Amico», riprese Morrel, «avete raccolte in voi tutte le conoscenze
umane, e mi fate l’effetto di esser sceso da un mondo più progredito
e civilizzato del nostro.»
«Nelle vostre parole c’è qualche cosa di vero, Morrel», disse il
conte, con quel sorriso malinconico che lo rendeva così attraente.
«Io sono sceso da un pianeta che si chiama dolore.»
«Credo tutto quanto mi dite, senza cercare di approfondirne il
senso, conte, e la prova è che mi avete detto di sperare, e ho
sperato. Avrò dunque il coraggio di chiedervi, come se foste già
morto una volta: è doloroso morire?»
Montecristo guardava Morrel con un’indefinibile espressione di
tenerezza.
«Sì», disse, «sì, senza dubbio è molto doloroso, se troncate
brutalmente questo mortale involucro che chiede ostinatamente di
vivere. Qualunque mezzo scegliate, soffrirete certamente, e
lascerete odiosamente la vita trovandola, nel mezzo della vostra
disperata agonia, migliore di un rimorso comprato a così caro
prezzo.»
«Capisco», mormorò Morrel, «la morte come la vita ha i suoi segreti
di dolore e di voluttà: tutto dipende dal saperli conoscere.»
«Precisamente, Maximilien, e voi avete detto una grande cosa. La
morte è, a seconda delle cure che poniamo nel metterci in buona o
cattiva armonia con essa, un’amica che ci culla dolcemente o come
una nemica che strappa violentemente l’anima dal corpo. Un giorno,
quando il nostro mondo avrà vissuto ancora un migliaio d’anni,
quando si sarà reso padrone di tutte le forze distruttrici della
natura per asservirle al benessere generale dell’umanità, quando
l’uomo saprà, come voi desideravate, i segreti della morte, questa
diverrà così dolce e voluttuosa, quanto il sonno gustato fra le
braccia di una diletta consorte.»
«E se voleste morire, sapreste morire così?»
«Sì.»
Morrel gli tese la mano.
«Capisco ora», disse, «perché mi avete dato appuntamento qui su
quest’isola disabitata, in mezzo al mare, in questo palazzo
sotterraneo, sepolcro da fare invidia a un faraone: è perché mi
amate, non è vero, conte? È perché mi amate abbastanza da darmi una
di queste morti di cui parlavate or ora, una morte senza agonia, una
morte che mi permetta di estinguermi pronunciando il nome di
Valentine stringendovi la mano?»
«Sì, avete proprio indovinato, Morrel», disse il conte con
semplicità.
«Grazie. L’idea che domani non soffrirò più è soave per il mio
povero cuore.»
«Non vi rincresce per nessuno?» domandò Montecristo.
«No», rispose Morrel.
«Neppure per me?» domandò il conte, con profonda emozione.
Morrel tacque. Il suo sguardo, così puro, si oscurò d’un tratto,
quindi brillò di una luce straordinaria: ne scaturì una grossa
lacrima che gli scivolò sulla guancia.
«Come», riprese il conte, «provate dispiacere nell’abbandonare
qualcuno sulla terra, e volete morire?»
«Vi ne supplico», gridò Morrel, con voce debole, «non dite una
parola di più, non prolungate il mio supplizio.»
Il conte pensò che Morrel stesse cedendo, e tale fiducia per un
momento suscitò in lui l’orribile dubbio che aveva provato già al
castello d’If.
«Io mi preoccupo», pensava, «di restituire quest’uomo alla felicità,
considero questa restituzione, nella bilancia, sul piatto opposto a
quello in cui ho gettato tanto male. Ora, se mi sbagliassi, se
quest’uomo non fosse abbastanza infelice per meritare la felicità
che gli preparo? Ahimè, che accadrebbe di me, che non posso
dimenticare il male se non facendo il bene?»
Quindi volgendosi al giovane, gli disse: «Ascoltate, Morrel, il
vostro dolore è immenso, lo vedo, però voi credete in Dio, e non
vorrete rischiare la salute dell’anima.»
Morrel sorrise con aria malinconica.
«Conte», rispose, «voi sapete che non sono esaltato, ma la mia anima
non è più mia.»
«Sentite, Morrel», continuò il conte, «io non ho alcun parente al
mondo, voi lo sapete. Mi sono abituato a considerarvi come mio
figlio; ebbene, per salvare questo mio figlio sacrificherei la mia
vita, e a più forte ragione, le mie ricchezze.»
«Che intendete dire?»
«Intendo dire, Morrel, che voi volete lasciare la vita perché non
conoscete tutti i piaceri che la vita concede ai possessori di
grandi ricchezze. Maximilien, io posseggo quasi cento milioni, ve li
dono: con simili ricchezze, potrete ottenere tutto ciò che vorrete.
Siete ambizioso? Tutte le carriere vi saranno aperte. Mettete
sottosopra il mondo, cambiatene la faccia, abbandonatevi a opere
insensate, siate pure colpevole, se occorre, ma vivete!»
«Conte, ho la vostra parola», rispose freddamente Morrel, e aggiunse
prendendo l’orologio: «Sono le undici e tre quarti».
«Morrel, come potete pensare a ciò, qui sotto i miei occhi, nella
mia casa?…»
«Allora lasciatemi partire», disse Maximilien tetro, «oppure non
crederò che mi amate per il mio bene, ma per egoismo!»
E si alzò.
«D’accordo», annuì Montecristo, il viso rischiarato da tali parole.
«Voi lo volete, Morrel, voi siete inflessibile, sì, voi siete
profondamente infelice, e lo avete detto, un miracolo soltanto
potrebbe guarirvi. Sedete, dunque, Morrel, e aspettate…»
Morrel obbedì, Montecristo si alzò e andò a frugare in un armadio
chiuso con cura, di cui portava la chiave appesa a una catenella
d’oro. Prese un cofanetto d’argento, meravigliosamente scolpito e
cesellato, i cui angoli rappresentavano quattro figure simili a
cariatidi dall’aspetto desolato, figure di donne che con
inesprimibile sorriso tenevano lo sguardo rivolto al cielo: lo posò
sulla tavola. Quindi aprendolo ne cavò una scatola d’oro, il cui
coperchio si sollevava premendo una molla. Questa scatola conteneva
una sostanza untuosa, quasi solida, il cui colore era indefinibile:
aveva il riflesso dell’oro forbito, degli zaffiri, dei rubini e
degli smeraldi che impreziosivano la scatola, era un miscuglio di
azzurro, di porpora e d’oro. Il conte prese una piccola quantità di
questa sostanza, con un cucchiaio d’argento dorato, e l’offrì a
Morrel, fissando su di lui un lungo sguardo. Allora si poté vedere
che questa sostanza era verdastra.
«Ecco ciò che mi avete domandato», disse, «ecco ciò che vi ho
promesso.»
«Mi restituite la gioia con la morte», disse il giovane, prendendo
il cucchiaio dalle mani di Montecristo. «Vi ringrazio dal profondo
del cuore.»
Il conte prese un altro cucchiaio, e lo immerse una seconda volta
nella scatola d’oro.
«Che cosa fate, amico?» domandò Morrel, fermandogli la mano.
«A essere sincero, Morrel, credo di essere stanco quanto voi della
vita, e poiché si presenta l’occasione…»
«Fermatevi!» gridò il giovane. «Voi che amate, voi che siete amato,
voi che avete la fede e la speranza, oh! non fate ciò che faccio io!
Da parte vostra sarebbe un delitto. Addio, mio nobile e generoso
amico, addio, corro a raccontare a Valentine tutto ciò che avete
fatto per me.»
E lentamente, senz’altra esitazione che una lunga stretta con la
mano sinistra che tendeva al conte, Morrel inghiottì o piuttosto
assaporò la misteriosa sostanza offerta da Montecristo. Allora
entrambi tacquero. Alì, silenzioso e attento, portò il tabacco e le
pipe, servì il caffè e si ritirò.
A poco a poco, le lampade impallidirono nelle mani delle statue di
marmo che le sostenevano, e i profumi dei vasi sembrarono meno
penetranti a Morrel. Seduto di fronte a lui, Montecristo lo guardava
nascosto nell’ombra, e Morrel non ne vedeva brillare che gli occhi.
Un immenso torpore s’impadronì del giovane, sentì la pipa sfuggirgli
di mano, gli oggetti perdevano la forma e il colore, i suoi occhi
turbati vedevano aprirsi porte e tende nei muri.
«Amico», disse, «io sento che muoio, grazie!»
Fece uno sforzo per tendergli un’ultima volta la mano, ma la mano
ricadde senza forze. Allora gli sembrò che Montecristo sorridesse,
non più dello strano e spaventoso sorriso che molte volte gli aveva
fatto intravedere i misteri di quell’anima profonda, ma con la
benevolenza compassionevole che i padri hanno per i figli
irragionevoli. Nello stesso tempo il conte si faceva più grande ai
suoi occhi: la sua statura, quasi raddoppiata, si disegnava sulle
tende rosse, aveva i capelli neri gettati indietro, e appariva in
piedi e fiero, come uno di quegli angeli di cui si minaccia ai
malvagi la presenza nel giorno del giudizio finale. Morrel abbattuto
e vinto, si rovesciò sul divano; un torpore voluttuoso s’insinuò
nelle sue vene. Steso, snervato, ansante, Morrel si sentiva
trasportato in un sogno: gli sembrava di entrare a gonfie vele in
quel vago delirio che precede quel transito che si chiama morte.
Tentò ancora di tendere la mano al conte, ma stavolta la sua mano
non si mosse nemmeno; volle articolare un ultimo addio, la lingua
gli si paralizzò. I suoi occhi, carichi di languore, si chiusero suo
malgrado; però dietro alle palpebre si agitava un’immagine che
riconobbe anche nell’oscurità da cui si credeva avvolto. Era il
conte che aveva aperto una porta. A un tratto, un immenso splendore
irradiò dalla camera vicina, o piuttosto da un palazzo meraviglioso,
e venne a inondare di luce la sala dove Morrel stava in braccio alla
dolce agonia. Allora vide venire sulla soglia di quella sala e sul
limitare di queste due stanze una donna di meravigliosa bellezza,
pallida, e dolcemente sorridente: sembrava l’angelo della
misericordia.
«È forse il cielo che già si apre per me?» domandò il moribondo.
«Quest’angelo assomiglia a quello che ho perduto.»
Montecristo indicò col dito alla ragazza il sofà su cui riposava
Morrel. Lei andò verso di lui con le mani giunte e il sorriso sulle
labbra.
«Valentine! Valentine!» gridò Morrel dal fondo della sua anima.
Ma le labbra non proferirono alcun suono, e, come se tutte le sue
forze fossero unite in quella emozione interna, mandò un sospiro, e
chiuse gli occhi. Valentine si precipitò verso di lui. Le labbra di
Morrel si mossero ancora.
«Vi chiama», disse il conte, «vi chiama dal fondo del suo sonno,
colui al quale avete confidato il vostro destino, dal quale la morte
ha voluto separarvi! Ma io ero là, per buona sorte, e ho vinto la
morte! Valentine, d’ora in avanti non dovete separarvi più sulla
terra; poiché per ritrovarvi, egli era pronto a seguirvi nella
tomba. Senza di me sareste morti entrambi, possa Iddio darmi credito
per queste due esistenze salvate!»
Valentine afferrò la mano di Montecristo, e, in uno slancio di gioia
irresistibile, la portò alle labbra.
«Ringraziatemi», disse il conte, «ripetetemi senza stancarvi,
ripetetemi ch’io vi ho resa felice! Non sapete quanto abbia bisogno
di questa certezza.»
«Oh, sì, sì, vi ringrazio con tutta l’anima mia» disse Valentine, «e
se dubitate che i miei ringraziamenti non siano sinceri, ebbene,
domandate ad Haydée, interrogate la mia sorella prediletta Haydée,
che dal momento della nostra partenza dalla Francia non ha smesso di
parlarmi di voi e del felice giorno che oggi risplende per me.»
«Voi dunque amate Haydée?» domandò Montecristo, con emozione che si
sforzava invano di dissimulare.
«Con tutta l’anima mia!»
«Allora, sentite Valentine», disse il conte, «ho una grazia da
chiedervi.»
«A me, gran Dio! Sarei tanto felice se…»
«Sì, avete chiamato Haydée vostra sorella… Lo sia di fatto,
Valentine, rendete a lei tutto ciò che voi credete di dovere a me,
proteggetela voi e Morrel, poiché…» La voce del conte era vicina a
spegnersi nella sua gola «…poiché d’ora innanzi lei sarà sola al
mondo…»
«Sola al mondo?» ripeté una voce dietro il conte. «E perché?»
Montecristo si voltò. Haydée era là, ritta, pallida e tremante,
guardando il conte con un gesto d’indescrivibile stupore.
«Perché domani, figlia mia, tu sarai libera», rispose il conte,
«perché tu riprenderai nel mondo il posto che ti è dovuto, perché
non voglio che il mio destino oscuri il tuo, figlia di principe! Io
ti restituisco le ricchezze e il nome di tuo padre.»
Haydée impallidì, aprì gli occhi diafani come la vergine che si
raccomanda a Dio, e con voce rauca dai singhiozzi, disse: «Dunque,
mio signore, tu mi lasci?»
«Haydée! Haydée! Tu sei giovane, sei bella, dimentica perfino il mio
nome, e sii felice!»
«Va bene», disse Haydée, «i tuoi ordini saranno eseguiti, mio
signore, dimenticherò perfino il tuo nome, e sarò felice.»
E fece un passo indietro per ritirarsi.
«Oh, mio Dio!» gridò Valentine, mentre stringeva la testa di Morrel
contro il suo seno. «Non vedete dunque com’è pallida, non
comprendete dunque quanto soffre?»
«Perché vuoi dunque, sorella mia», le disse Haydée, con espressione
triste, «che mi comprenda? Lui è il mio padrone, io sono la sua
schiava; ha il diritto di non comprendere nulla.»
Il conte fremette al tono di quella voce che risvegliò perfino le
fibre più segrete del suo cuore; i suoi occhi incontrarono quelli
della giovane donna e non poterono sostenerne lo sguardo.
«Mio Dio, mio Dio», disse Montecristo, «sarebbe dunque vero quanto
mi lasciaste supporre? Haydée, dunque sareste felice con me?»
«Io sono giovane», rispose lei dolcemente, «amo la vita che tu mi
hai resa sempre così dolce, e mi dispiacerebbe morire.»
«Vuoi dire che se io ti lasciassi, Haydée?…»
«Morirei, mio signore, sì!»
«Tu dunque mi ami?»
«Valentine, chiede se io l’amo!» disse Haydée, rivolta a Valentine.
«Digli tu dunque se ami Maximilien!»
Il conte sentì dilatarsi il cuore, aprì le braccia: Haydée vi si
lanciò gettando un grido.
«Oh, sì, io t’amo!» gridò. «Io t’amo come si ama il proprio padre,
il proprio fratello, il proprio marito! Io t’amo come si ama la
vita, perché tu sei per me il più bello, il migliore, il più grande
degli esseri creati!»
«Sia dunque come vuoi, angelo mio diletto!» disse il conte. «Dio mi
ha suscitato contro i miei nemici. Ma chi mi ha reso vincitore? Dio!
Io ben lo comprendo, ed egli non vuole mettere il pentimento in
mezzo alla mia vittoria: io volevo punirmi, Dio vuole perdonarmi.
Amami, dunque, Haydée! Chissà, il mio amore, forse, mi farà
dimenticare ciò che è necessario dimenticare.»
«Ma che dici, dunque, mio signore?» disse la ragazza.
«Io dico che una tua parola, Haydée, mi ha illuminato più di venti
anni di studio! Non ho più che te al mondo, Haydée, per te mi
riaffeziono alla vita, per te posso ancora esser felice o infelice.»
«Lo senti, Valentine?» gridò Haydée. «Dice che per me può soffrire,
per me che darei la vita per lui!»
Il conte si raccolse un istante.
«Ah, io intravedo la verità!» mormorò. «Oh, mio Dio, ricompensa o
castigo, accetto questo destino… Vieni, Haydée vieni…»
E abbracciando la giovane donna, salutò Valentine, e uscì con lei.
Circa un’ora passò, durante la quale anelante, senza voce, con gli
occhi fissi, Valentine stette vicino a Morrel. Finalmente sentì
battere il suo cuore, un soffio impercettibile aprì le sue labbra, e
quel leggero fremito che annunciava il ritorno della vita percorse
tutto il corpo del giovane. I suoi occhi finalmente si riaprirono,
ma prima fissi e come insensati, quindi si rianimarono e, con la
vista, gli tornò il sentimento, e col sentimento il dolore.
«Oh!» gridò con l’accento della disperazione, «io vivo ancora, il
conte mi ha ingannato!»
«Amico», disse Valentine, «svegliati dunque, e guarda dalla mia
parte!»
Morrel mandò un forte grido, e, delirante, pieno di dubbio, come
abbagliato da visione celeste, cadde alle sue ginocchia. L’indomani,
ai primi raggi del giorno, Morrel e Valentine passeggiavano, l’uno
al braccio dell’altra, sulla spiaggia. Valentine raccontava a Morrel
in che modo Montecristo le era apparso nella stanza, come le aveva
svelato tutto, come le aveva fatto toccar con mano il delitto, e
come finalmente l’aveva miracolosamente salvata dalla morte,
lasciando credere a tutti che fosse morta realmente.
Morrel scoprì, alla penombra di un gruppo di rocce, un uomo che
aspettava un segnale per venire avanti; indicò il giovane a
Valentine.
«Ah, è Jacopo», disse, «il capitano dello yacht.»
E con un gesto lo chiamò.
«Avete qualcosa da dirci?» domandò Morrel.
«Devo consegnarvi questa lettera da parte del conte.»
«Del conte!» esclamarono entrambi i giovani.
«Sì, leggete.»
Morrel aprì la lettera e lesse:
«Mio caro Maximilien, troverete per voi una feluca all’ancora.
Jacopo vi condurrà a Livorno, dove il signor Noirtier aspetta sua
nipote, che vuol benedire prima che vi segua all’altare. Tutto ciò
che c’è in questa grotta, amico mio, la mia casa agli Champs-Elysées
e il mio piccolo castello di Tréport sono regali di nozze che Edmond
Dantès fa al figlio del suo padrone Morrel; la signorina Villefort
vorrà accettarne la metà, poiché la supplico di dare ai poveri di
Parigi tutte le ricchezze che erediterà da suo padre, divenuto
pazzo, e da suo fratello morto in settembre con sua madre. Dite
all’angelo che veglierà sulla vostra vita, Morrel, di pregare
qualche volta per un uomo che, simile a Satana, per un momento si è
creduto simile a Dio e ha riconosciuto, con tutta l’umiltà di un
cristiano, che nelle mani di Dio soltanto sta il supremo potere e
l’infinita sapienza.
Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi che porta con sé nel
profondo del cuore, in quanto a voi Morrel, ecco tutto il segreto
della condotta che ho tenuto verso voi: non vi è né felicità né
infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato a un
altro, ecco tutto. Solo chi ha provato l’estremo dolore può gustare
la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, Maximilien,
per sapere che bene è vivere. Vivete dunque e siate felici, figli
prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno
in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta
l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: Aspettare e
sperare.
Vostro amico Edmond Dantès, conte di Montecristo»
Durante la lettura di quella lettera, che le rivelava la follia di
suo padre e la morte di suo fratello, morte e follia che ignorava,
Valentine impallidì, un doloroso sospiro le sfuggì dal petto, e
copiose lacrime le scesero sulla guance: la sua felicità le costava
ben cara! Morrel si guardò intorno con inquietudine.
«Ma», disse, «il conte esagera la sua generosità; Valentine si
accontenterà dei miei modesti beni. Dov’è il conte, amico mio?»
«Guardate!» disse Jacopo, indicando l’orizzonte.
Gli occhi dei due giovani si fissarono sulla linea indicata dal
marinaio; e sull’azzurro cupo del Mediterraneo, si scoprì una bianca
vela, grande come l’ala di un gabbiano.
«Partito!» gridò Morrel. «Partito! Addio, amico mio! Addio, padre
mio!»
«Partita!» mormorò Valentine. «Addio, amica mia! Addio, sorella
mia!»
«Chissà se li vedremo mai più!» disse Morrel asciugandosi una
lacrima.
«Amico mio» disse Valentine, «il conte non ci ha lasciato scritto
che l’umana saggezza sta tutta in queste due parole: aspettare e
sperare?»
INDICE
1. L’arrivo a Marsiglia
2. Padre e figlio
3. I Catalani
4. Il complotto
5. Il pranzo di fidanzamento
6. Il sostituto procuratore del re
7. L’interrogatorio
8. Il castello d’If
9. La sera del fidanzamento
10. Il gabinetto delle Tuileries
11. Il lupo di Corsica
12. Padre e figlio
13. I Cento Giorni
14. I due prigionieri
15. Il numero 34 e il numero 27
16. L’abate
17. La cella dell’abate
18. Il tesoro
19. Il terzo attacco
20. Il cimitero del castello d’If
21. L’isola di Tiboulen
22. I contrabbandieri
23. L’isola di Montecristo
24. L’abbagliamento
25. Lo sconosciuto
26. L’albergo del Ponte di Gard
27. Il racconto
28. I registri delle prigioni
29. La casa Morrel
30. Il 5 settembre
31. L’Italia e Sinbad il marinaio
32. Il risveglio
33. I briganti romani
34. Le apparizioni
35. Il patibolo
36. Il carnevale di Roma
37. Le catacombe di San Sebastiano
38. L’appuntamento
39. La colazione
40. La presentazione
41. Bertuccio
42. La casa di Auteuil
43. La vendetta
44. Pioggia di sangue
45. Il credito illimitato
46. La pariglia grigio-pomellata
47. Ideologia
48. Haydée
49. La famiglia Morrel
50. Piramo e Tisbe
51. Tossicologia
52. Roberto il diavolo
53. Rialzo e ribasso dei fondi
54. Il maggiore Cavalcanti
55. Andrea Cavalcanti
56. Il recinto di trifoglio
57. Il signor Noirtier di Villefort
58. Il testamento
59. Il telegrafo
60. Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le
pesche
61. I fantasmi
62. Il pranzo
63. Il mendicante
64. Scena coniugale
65. Progetti di matrimonio
66. L’ufficio del procuratore del re
67. Un ballo estivo
68. Le informazioni
69. La festa da ballo
70. Il pane e il sale
71. La signora di Saint-Méran
72. La promessa
73. La tomba della famiglia Villefort
74. Il processo verbale
75. I progressi del signor Cavalcanti figlio
76. Haydée
77. Ci scrivono da Giannina
78. La limonata
79. L’accusa
80. La stanza del fornaio in pensione
81. Lo scasso
82. La giustizia di Dio
83. Beauchamp
84. Il viaggio
85. Il giudizio
86. La sfida
87. L’insulto
88. La notte
89. Il duello
90. Madre e figlio
91. Il suicidio
92. Valentine
93. Confessione
94. Padre e figlia
95. Il contratto di nozze
96. La strada del Belgio
97. L’osteria della Campana e della Bottiglia
98. La legge
99. L’apparizione
100. Locusta
101. Valentine
102. Maximilien
103. La firma di Danglars
104. Il cimitero di Père Lachaise
105. La separazione
106. La fossa dei leoni
107. Il giudice
108. La Corte d’Assise
109. L’atto d’accusa
110. Espiazione
111. La partenza
112. La casa dei viali di Meilhan
113. Il passato
114. Peppino
115. La carta di Luigi Vampa
116. Il perdono
117. Il 5 ottobre