www.liberliber.it
Luigi Galleani
Una battaglia
Indice generale
PREFAZIONE
Per la guerra,
per la neutralità
o per la pace?
I
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
Più cambia e...
Tutto il mondo... è paese
La Repubblica di Sant'Ignazio
Minime della Patria e della Guerra
Contro la guerra, per la rivoluzione sociale!
Tanto tuonò che piovve
Figli, non tornate!
Pan prestato, buon da rendere!
Huitzilopochtli
"Evviva la guerra!"
Alla ricerca della patria
Minime della guerra
Tutto... e Nulla
Contro la guerra,
contro la pace,
per la rivoluzione!
Anatema!
La civiltà
La nazione
La patria
Senza fede!
La pace
Non indarno
La guerra e la rivoluzione
Il vespro
Può venire, l'attendiamo di piè fermo
Maggio di passione
Prefazione all'opuscolo «La Voragine»
La Voragine
Irredentismo aulico
Ed ora, tocca a noi
L'ORA NOSTRA
LA GUERRA
PER LA RIVOLUZIONE
LA REAZIONE
L'AZIONE
A la forca!
Sicuro, ora tocca a noi, ma...
Quante bagascie a le calcagna di Marte!
Per S. M. il dollaro, a la riscossa!
Nulla dies sine linea!
Carpe Diem!
Nulla dies sine linea
Nulla dies sine linea
Primo Maggio
Tra il martello e l'incudine
Matricolati!...
Anticipazioni
No, non torna!
Vecchi, ditelo voi!
Madri, difendeteli!
Vi guadagneranno proprio?
TRATTI DI CORDA
UN CONFRONTO
L'INUTILE COSACCHERIA
SI PASSERÀ AD OGNI MODO
PARLANDO CHIARO...
Per questa volta...
Qui incomincian, le dolenti note...
CONSUMMATUM EST!
CONTRO LA GUERRA, SEMPRE!
FINISCE PER VEDER CHIARO
SBARRATO L'ULTIMO SCAMPO
DALLE MANI FRATERNE
LA PRIMA MIETITURA
I MANUTENGOLI
Mandateci in galera!
E bazza a chi tocca!
Eh, se governasse il buon senso...
Vuoi tu sorridere
al guerrier che parte?
Un santo nuovo nel Calendario Repubblicano
Purchè non ci trovi colle mani in mano!
Ma si contenta di poco!...
Gli ostaggi
Occhio, Eh!
Su, da bravi, pagate!
Note Sovversive
Indulgenza plenaria
Thanksgiving!
Turlupineide
Insino alla feccia!
Batti, ma ascolta!
Tenetevi abbottonati!
Nemo tenetur...
Alleati del Kaiser
Partenza!
Cittadino Wilson, una parola!
“Auto-da-fè” repubblicani
Coll'acqua alla gola!
(Senza titolo)
La Comune
1871-1918
E sarà fiamma!
Ammazza!
Cercando una via
I.
La situazione.
Cercando una via
II.
La borghesia.
Note Sovversive
Maggio scellerato
In articulo mortis
Viva l'anarchia!
"...und heute geht eine neue Epoche
der Weltgeschichte
aus"
I PRIMI LAMPI
CIASCUNO AL SUO POSTO
DILETTANTI D'ASTROLOGIA
LA TREGUA
I FRUTTI DELLA TREGUA
LUIGI GALLEANI
UNA BATTAGLIA
Biblioteca de l'ADUNATA DEI REFRATTARI
Ivan Aiati - Via
Francesco Caracciolo, 6
ROMA
LUIGI GALLEANI
1861-1931
PREFAZIONE
Quando, il primo agosto 1914, incominciò in Europa la prima guerra
mondiale, Luigi Galleani si trovava lontano da Lynn, Mass. dove si
pubblicava la Cronaca Sovversiva, il settimanale da lui fondato a
Barre, Vermont, nel 1903. Alla redazione si trovava Costantino
Zonchello coadiuvato da Antonio Cavallazzi, che dal sanatorio di
Tewksbury, Mass. dedicava assiduamente le ultime faville della vita
che gli fuggiva ad una collaborazione iniziatasi col giornale stesso
e che soltanto la morte doveva interrompere l'anno seguente.
Il primo articolo dedicato alla «sanguinosa tragedia» scatenata
sull'Europa e sul mondo fu un editoriale non firmato di Zonchello,
pubblicato nella Cronaca del 15 agosto, dove si leggeva
testualmente:
«Combattere ad oltranza la guerra: ricordare ai popoli che non sono
nemici tra di loro, ma che sono due classi contrarie nel mondo, sono
due nemici ben più terribili, perchè nimicizia di tutti i giorni, di
tutte le ore, perchè sempre tesi, l'uno a conservare un dominio che
sfugge, l'altro alla conquista d'un'esistenza meno precaria: il
ricco ed il povero... Col cuore sanguinante della visione «dei
fratelli macellati..., noi gridiamo: abbasso le guerre fratricide!
morte ai tiranni che le provocano, le vogliono, le fanno con la
pelle proletaria! viva la rivoluzione liberatrice...!».
Galleani era tenuto lontano da una delle sue frequenti escursioni di
propaganda, che lo portò, per l'ultima volta, sulla costa del
Pacifico; e delle sue opinioni sulla guerra si ha una prima eco in
una corrispondenza da Seattle, Wash., nel numero del 19 settembre,
annunciante che Galleani aveva in quella città parlato «su la guerra
e il proletariato, dimostrando come la prima, per essere provocata
sempre, dai ladroni dell'alta finanza e da tutta una fila
d'interessi capitalistici che vanno dal fornitore di scarpe sino ai
potenti fabbricatori di armi, e per essere fatta dai proletari, che
quando non vi lasciano la pelle vi lasciano la maggiore e miglior
parte delle loro energie e ne subiscono, soli, le conseguenze in
un'aumentata miseria, non deve dal proletariato avere alcun palpito
che non sia di riprovazione». «L'atteggiamento dei lavoratori di
fronte alla guerra, concludeva la corrispondenza, non poteva essere
altro che quello di tutti i giorni, di ieri, di domani,
intensificato dalla minaccia di più avviluppanti ritorte e di più
squallida miseria: ai coscienti, ai forti il compito di più attivo
lavoro a non lasciarci sfuggire l'occasione se l'acuito disagio
renderà le masse più propense ad ascoltarci ed a capirci e meglio
disposte a seguirci».
Quella corrispondenza portava la firma «Ribelle» e certo non era del
Galleani stesso, benchè risenta del suo stile, ma interpretava
fedelmente, in ogni modo, il suo pensiero. Pensiero già
indipendentemente espresso dalla redazione provvisoria della Cronaca
e condiviso dalla totalità degli anarchici residenti negli Stati
Uniti, dove le defezioni furono affatto trascurabili per numero e
per valore.
Verso la fine d'ottobre, Galleani interruppe negli Stati del Centro
il suo pellegrinaggio di propaganda orale e fece ritorno a Boston
per riprendere la redazione del giornale dove iniziò, col numero del
7 novembre, l'esposizione delle ragioni dell'opposizione anarchica
alla guerra con la serie degli articoli intitolati «Per la guerra,
per la neutralità o per la pace?» l'ultimo dei quali si trova nella
Cronaca del 2 gennaio 1915.
Gli otto articoli di questa serie, insieme all'articolo: «Contro la
Guerra, per la rivoluzione sociale» del 3 aprile 1915, e
all'articolo: «Contro la Guerra, contro la Pace, per la
Rivoluzione!», del 18 marzo 1916 (i quali sono, nel presente volume,
rimessi al loro posto cronologico), furono da noi pubblicati in
opuscolo nel 1929, col titolo «Contro la Guerra, Contro la Pace, Per
la Rivoluzione Sociale».
L'anno scorso, il compagno Ivan Aiati di Roma propose di fare una
nuova, edizione di quell'opuscolo, e noi accogliendo con entusiasmo
la sua proposta ricordammo una lettera che Galleani aveva mandato,
nel 1925, all'amministratore dell'Adunata dei Refrattari, contenente
un piano più vasto per la pubblicazione dei suoi scritti di guerra.
Diceva Galleani in quella lettera:
«Ora io ho in ordine, desunti dagli anni '17 e '18, tutti gli
articoli sulla guerra che farebbero pure un discreto volumetto; al
quale si potrebbe dare per titolo generico: UNA BATTAGLIA, senza
altro, con qualche riga di prefazione».
Pensammo che fosse opportuno riprendere quel progetto e, adottando
il titolo scelto dall'autore, abbiamo compilato il presente volume,
che non è certamente quello che il Galleani avrebbe dato alle stampe
se le persecuzioni della dittatura fascista prima, la morte poi,
sopravvenutagli a Caprigliola, in Val di Magra, il 4 novembre 1931,
non glielo avessero impedito.
Il volume che presentiamo ai compagni ed al pubblico in generale
contiene tutti gli scritti più importanti di Luigi, Galleani, dal
principio alla fine della prima guerra mondiale, tutti quelli che,
superando l'episodio puramente transitorio, trattano della guerra
nei suoi molteplici aspetti di carattere permanente.
Pubblicando in Italia e per il pubblico italiano questa raccolta di
articoli scritti negli Stati Uniti per lettori ivi residenti, ci
siamo trovati nella necessità di aggiungere molte note nostre a
quelle dell'autore, sia per tradurre le frequenti citazioni nella
lingua del luogo, sia per illustrare episodi della lotta sociale
ormai lontani, o per identificare personaggi che non tutti sono
tenuti a conoscere. Speriamo di non avere eccessivamente abusato
della pazienza del lettore.
* * *
Nell'estate del 1914, Luigi Galleani aveva 53 anni, essendo nato a
Vercelli il 12 agosto 1861. Era alto, robusto, quasi calvo. Aveva
spalle quadrate, occhi vivaci, barba brizzolata, voce chiara e
vibrante. Era eloquente di una eloquenza quadrata ed elegante nello
stesso tempo, un'eloquenza fatta di coltura vasta e di logica
serrata. Agitatore per temperamento e per convinzione, innestava
senza sforzo e con efficacia suggestiva l'ideale anarchico agli
avvenimenti del giorno e ne faceva una cosa viva.
Il male (diabete) che doveva poi finirlo, aveva già incominciato a
minare la sua fibra, ma all'occhio inesperto egli appariva ancora
nel vigore delle forze.
Abitava con la famiglia — la compagna e sei figli, cinque dei quali
ancora minorenni — a Vampum, presso Wrentham, Mass., a circa
venticinque miglia al sud-ovest di Boston, in una povera casetta di
campagna che faceva acqua da tutte le parti, e d'onde si recava a
Lynn la domenica sera, o il lunedì mattina per restarvi sino
all'impaginazione del giornale, il mercoledì o il giovedì.
A fin di settimana si recava spesso nei centri industriali degli
stati limitrofi per tener conferenze di propaganda. L'immigrazione
negli Stati Uniti era allora libera ed ogni anno vi affluivano
centinaia di migliaia di emigranti italiani, fra i quali molti erano
i giovani entusiasti e intelligenti suscettibili alla propaganda
anarchica. Le sue conferenze erano generalmente affollate, ma,
grande o piccolo che fosse il pubblico, erano invariabilmente
gioielli d'esposizione e capolavori d'argomentazione.
Nella primavera del 1915 riprese il giro interrotto nell'autunno
precedente, tenendo in poche settimane conferenze in quasi tutti gli
stati centro-settentrionali, dall'Atlantico al Mississippi. Si
allontanò dalla redazione del giornale ancora una volta nell'estate
del 1916, in occasione dello sciopero dei minatori nel bacino
dell'antracite, nella Pennsylvania orientale, dove fu arrestato
insieme ad alcune centinaia di minatori ed a parecchi altri compagni
nel settembre, poi liberato sotto cauzione di diecimila dollari.
Tenuto lontano da Lynn dalle vicende di quell'agitazione e dalla
minaccia di un processo per eccitamento alla guerra civile — che,
finito poco di poi lo sciopero, andò in fumo — tenne una nuova serie
di conferenze arrivando sino a Detroit, Mich. Ma di là interruppe di
nuovo il viaggio sul finir dell'anno, fece ritorno nel Massachusetts
e non lasciò più la redazione del giornale.
* * *
Le agitazioni operaie frequenti vaste e spesse volte tumultuarie, da
una parte; le repressioni, le provocazioni brutali dall'altra, erano
andate inasprendo i conflitti sociali negli Stati Uniti. Le
sobillazioni guerriere della plutocrazia inebbriata dai facili
guadagni, evidenti già al principio del 1916, li rendevano più acuti
e più violenti. Le autorità pubbliche e le gendarmerie private delle
grandi corporazioni industriali non conoscevano limiti
costituzionali, nè freno di scrupoli alla loro opera di repressione.
Dal basso, dalla moltitudine anonima delle vittime, si rispondeva
non di rado con la dinamite.
Gli arresti erano frequenti, le agitazioni in favore delle vittime
politiche permanenti. La Cronaca Sovversiva ne teneva informati i
suoi lettori con una rubrica speciale, originata in quei tempi, dal
titolo «Cronache del Sant'Uffizio Repubblicano». In seguito
all'attentato di John Crones, a Chicago, e all'attentato contro la
parata militarista di San Francisco, la caccia agli anarchici fu
all'ordine del giorno. Non passava settimana che non vi fossero
retate. Gli atti di rivolta, individuali o collettivi, erano
frequenti. E sin da allora, un anno prima dell'intervento degli
Stati Uniti nella guerra, incominciarono le soppressioni dei
giornali anarchici, soppressioni che finirono poi per colpire
pubblicazioni d'ogni sfumatura d'opposizione o di critica all'opera
del governo, sebbene il Congresso stesso si fosse sempre rifiutato a
consentire la minima sospensione delle garanzie costituzionali in
materia di libertà di parola e di stampa.
La posizione assunta dalla Cronaca Sovversiva fin dal principio
della guerra era troppo chiara ed esplicita per ammettere
transazioni. E non era Galleani uomo da menomare in qualsiasi modo
l'integrità del proprio pensiero per eluderne le conseguenze.
Sapeva, d'altronde, che contro la guerra erano, in fondo, i
sentimenti del popolo lavoratore, del popolo americano come di tutti
gli altri; le convinzioni consapevoli degli anarchici di tutte le
lingue; e il proposito risoluto di una tutt'altro che trascurabile
minoranza militante decisa a difendere, per sè e per tutti, con ogni
mezzo, le ragioni e i diritti della rivoluzione sociale.
La battaglia era ingaggiata, e non era più soltanto un dibattito di
opinioni teoriche, ma una lotta decisiva in difesa della concreta
libertà di esistere come minoranza, come giornale, come militanti
convinti delle proprie idee e della necessità di diffonderle,
consapevoli del proprio diritto costituzionale ed umano di
esprimerle, decisi a non rinunciarvi davanti alla prepotenza e alla
minaccia della sbirraglia al servizio di un branco di pirati e di
politicanti corrotti, quali che avessero ad esserne le rappresaglie.
E le rappresaglie non tardarono. La maggior parte dei compagni aveva
rifiutato di registrarsi il 5 giugno 1917 — giorno fissato per il
censimento dei giovani dai venti ai trent'anni di età, in vista
delle leve militari —; e ciò facendo si erano esposti all'arresto,
alla condanna per un massimo di un anno di reclusione seguita dalla
registrazione d'ufficio, poi alla deportazione al loro paese
d'origine, ove fossero alieni non naturalizzati.
Gli uffici della Cronaca, già soggetti alle sorveglianze meno
discrete ed alle visite più che sospette, furono invasi il 29 maggio
da tre agenti federali accompagnati da un poliziotto locale, i quali
invitarono Galleani a seguirlo a Boston dove l'Attorney federale,
George H. Anderson, voleva parlargli. L'Avvocato Anderson, una mosca
bianca nello sciame dei magistrati servili, rifiutò di incriminare
il Galleani per l'articolo «Matricolati!», e lo rimandò al lavoro e
alla famiglia. Ma il 14 giugno seguente gli agenti del governo
federale tornarono ed arrestarono Giovanni Eramo, il tipografo; nel
fondo della notte invasero la casa di Galleani, a Vampum, lo
strapparono dalle braccia della compagna e dei figli e lo portarono
in prigione. L'indomani, la tipografia, gli uffici della redazione e
quelli dell'amministrazione furono messi a soqquadro da una
perquisizione tanto vandalica quanto inutile, perchè lo schedario
degli indirizzi era già stato messo in salvo. Eramo e Galleani
furono incriminati per oltraggio al Presidente degli S. U. e per
cospirazione ai danni della registrazione militare, per aver
scritto, l'uno, stampato, l'altro, l'articolo «Matricolati!». Furono
liberati alcuni giorni dopo sotto il vincolo d'una cauzione di
diecimila dollari per ciascuno, in attesa del processo, che si
svolse presso il tribunale federale di Boston il 28 febbraio 1918, e
si concluse con la condanna di Galleani a trecento e di Eramo a
cento dollari di multa.
Contemporaneamente all'arresto del redattore e del tipografo per
l'articolo «Matricolati!», il Postmaster di Lynnn fece sapere che
non avrebbe più accettata la Cronaca Sovversiva per la spedizione,
attraverso le poste degli Stati Uniti, in base alla tariffa consueta
di «seconda classe». Fu quindi necessario ricorrere ad altri mezzi
di trasporto per fare arrivare a destinazione le copie del giornale,
che continuava, naturalmente, le sue regolari pubblicazioni. E per
alcuni mesi le copie che non venivano spedite con l'affrancatura
ordinaria degli stampati, per mezzo della posta, furono accettate da
private agenzie di Express.
Ma un bel giorno anche queste rifiutarono i pacchi, ed allora fu
necessario ricorrere ad una varietà di stratagemmi per fare arrivare
a destinazione il giornale. Il compagno Tugardo Montanari di
Framingham, Mass., poi deportato in Italia insieme al Galleani,
possedendo una motocicletta la caricava il sabato mattina, faceva il
circuito dei maggiori centri degli Stati del New England, fino a New
York, e tornava la domenica sera per riprendere il suo lavoro il
lunedì mattina.
Sempre restio a fare una legge che esplicitamente sopprimesse la
libertà di stampa, il Congresso aveva passato, l'8 ottobre 1917, una
legge che faceva obbligo ai giornali di lingua non inglese di
presentare, al direttore dell'ufficio postale del luogo di sua
pubblicazione, la traduzione fedele d'ogni suo articolo che
trattasse della guerra. Ciò offriva al servizio postale la
possibilità di condurre attraverso il paese una vera e propria opera
di polizia, seguendo i giornali segnalati come sovversivi alla loro
destinazione e scagliando poi gli agenti del servizio politico e
quelli del Commissariato dell'Immigrazione all'inseguimento dei
destinatari. E dall'inseguimento nessuno si salvava.
«Gli agenti federali» — pubblicava la Cronaca nel suo numero del 3
novembre 1917 — «sono alla campagna per una nuova battuta: contro i
distributori e gli spedizionieri della Cronaca intendono «accanire
tutti i loro istinti di segugi e l'intuito mirabolante che alle
cantonate li spinge della testa contro gli spigoli. A Rochester, N.
Y., a. Detroit, Mich., a Latrobe, Pa., a Waltham, a. Lynn, Mass.,
vogliono scovare i distributori e stabilire le relazioni tra i
lettori ed icompilatori della Cronaca. Nella loro acuta
investigazione rompono le scatole alle donne, cercano nei bambini i
delatori dei padri e ne vengon fuori sempre ammaccati».
Non proprio sempre. Qualche centinaio di militanti venne arrestato e
tenuto in prigione con un pretesto o con un altro, liberato, quando
non c'era alcun pretesto, sotto cauzione in vista della
deportazione. Questi erano, in fondo, i soli che potessero ancora
apertamente ricevere e leggere il giornale. Degli altri, i timidi,
cercavano di farsi dimenticare; i forti e i risoluti si davano alla
clandestinità per continuare la lotta in forme e con mezzi diversi.
Con la presentazione del progetto di legge — che divenne poi
l'Immigration Act of October 16, 1918, — che ordina la deportazione
di chiunque si occupi di propaganda anarchica, si presentò ai
compagni ed al Galleani il problema di sospendere la pubblicazione
legale della Cronaca — rimasta ormai il solo giornale anarchico in
piedi — per continuare la propaganda per mezzo di fogli clandestini.
Questa soluzione fu precipitata dalla defezione del tipografo e da
un'ultima vandalica invasione poliziesca della tipografia, dopo la
pubblicazione dell'ultimo numero della Cronaca, che porta la data
del 18 luglio 1918.
Durante i mesi che seguirono, furono infatti pubblicati, per opera
dei compagni di lingua italiana, diversi giornali clandestini
intitolati: Cronache Rosse, L'Anarchia, Il Diritto; e della stessa
Cronaca Sovversiva furono pubblicati clandestinamente due numeri,
nel marzo e nel maggio del 1919 rispettivamente, redatti dal
Galleani.
* * *
La storia del movimento antibellico in generale, del movimento
anarchico in particolare, durante quegli anni, non è stata scritta
ancora all'infuori dei rapporti della complessa polizia della grande
repubblica e dei giornali d'informazione, che sono in generale
quanto di più servile possa immaginarsi. Non può essere scritta in
una prefazione.
Furono anni di lotta spietata, in cui gli anarchici tennero il loro
posto con fermezza dignitosa ed operosa. con abnegazione assoluta.
Le pagine che seguono, scritte da Luigi Galleani nel calore della
battaglia, ne dicono le ragioni e delineano i modi come fu
combattuta.
Coloro che governano non perdonano mai a chi osa mettere l'integrità
della propria coscienza e la rivendicazione del diritto di tutti
attraverso i disegni della loro arroganza e delle loro cupidigie. La
temerità di anarchici — stranieri per giunta — i quali avevano osato
sfidare la maestà dello stato smascherando le frodi perpetrate dai
suoi magistrati nell'interesse della plutocrazia onnipotente, fu
inseguita e repressa col furore bestiale delle inquisizioni
settarie. Quanti non riuscirono o non vollero dileguarsi nella
clandestinità furono imprigionati, deportati e massacrati. Il
compagno Clair, strozzato in una sentina di polizia, a Seattle,
Wash., Pietro Marucco, «morto» in alto mare sul piroscafo che lo
deportava in Italia, nel marzo del 1919; Andrea Salsedo, assassinato
a New York il 3 maggio 1920 in una prigione segreta della polizia
politica; Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti uccisi sulla sedia
elettrica di Charlestown, Mass. il 23 agosto 1927, non ebbero altra
colpa che di essere anarchici e di avere avversata la guerra.
Le pratiche dell'Ufficio d'Immigrazione per la deportazione di
Galleani erano incominciate fin dal 3 giugno 1917, giorno in cui
insieme a Giovanni Eramo, era stato sottoposto ad un primo
interrogatorio degli agenti del Commissariato di Boston. «Il
Commissario Molossi di polizia italiana, addetto al Consolato
Generale di New York» riferiva la Cronaca del 14 luglio — «ha
fornito di ogni più minuta informazione il Commissariato Federale
che in confronto dei due imputati, e particolarmente del Galleani,
ha proceduto ad uno scrupoloso esame d'ogni giornata, d'ogni tappa,
d'ogni traversia della loro esistenza».
Evaso dal domicilio coatto di Pantelleria nel 1899, Galleani era già
stato richiesto dal governo italiano all'Egitto, dove aveva fatto la
sua prima tappa, il quale gliene rifiutò l'estradizione. Ora, il
governo della grande repubblica democratica s'apprestava a fare quel
che il governo egiziano aveva rifiutato; e gli sbirri della
monarchia fiutavano impazienti la preda. Galleani fu, infatti,
arrestato al suo arrivo a Genova, nel luglio del 1919, ma la
minaccia dei Lavoratori del Mare, di sbarcare tutti gli equipaggi
che si trovavano in porto, persuase il governo di Nitti ad ordinare
la sua liberazione nelle ventiquattro ore.
C'era nelle autorità americane, sprezzanti del diritto d'asilo pei
profughi politici, la migliore intenzione di rimandar Galleani al
domicilio coatto di Pantelleria, sin dal giugno 1917; ma non c'era
allora, un'esplicita disposizione di legge che autorizzasse la
deportazione degli anarchici in quanto tali; poi c'era la guerra, e
coll'incendio che divampava in Russia qualcuno deve aver pensato che
non fosse prudente mandare in Europa un anarchico giudicato
pericoloso nell'America puritana e bigotta.
Comunque sia, Galleani ed Eramo furono liberati sotto cauzione di
mille dollari per un periodo di sei mesi e sotto la sorveglianza
delle autorità preposte all'immigrazione.
Di rinvio in rinvio, tra le vessazioni, i fermi e gli interrogatori,
si arrivò al principio del 1919, quando pel tramite dell'avvocato
Pettine di Providence, R. I., che patrocinava la causa dei
deportandi, il giudice Aldridge del tribunale federale di Boston,
offerse un compromesso per cui il decreto di deportazione sarebbe
stato cancellato siccome riferiva il secondo numero clandestino
della Cronaca (Washington, D. C., Maggio 1919): «se gli imputati se
ne vanno in Europa di loro spontanea volontà ed a loro spese,
coll'obbligo tuttavia di avvertire dieci giorni prima della partenza
le autorità federali, e del luogo d'imbarco, e del piroscafo su cui
vogliono fare la traversata, e del porto di destinazione».
«I compagni nostri — continuava, la Cronaca — il compagno Galleani
quanto meno ha ringraziato dei suoi buoni uffici l'avvocato Pettine,
ma ha senza un indugio respinto la proposta del giudice Aldridge.
«La libertà, conchiudeva il Galleani, si contende i sopraffattori ad
ogni modo e con varia fortuna, si conquista o si prende, ma anche
nell'ipotesi meno fortunata si serbano la speranza, il proposito,
'energia di riafferrarla al primo incontro.
«Ma non si baratta mai con la polizia. Un qualsiasi compromesso coi
manigoldi suoi, non soltanto ci inabiliterebbe ad ogni protesta, ad
ogni conquista ulteriore, ma sancirebbe di una plenaria indulgenza
le vigliaccherie, gli arbitrii, le bestiali persecuzioni di cui
gronda la turpe democrazia Wilsoniana; un evangelismo di cui non
siamo capaci e di cui essa è indegna.
«Non ci volete più qui?
«E mandateci in Siberia, all'inferno che non sono peggio della
grande repubblica, che non ricorderemo se non per maledirla, alla
quale non torneremo che il giorno in cui occorrerà una mano
spregiudicata ed una volontà inesorabile di sovvertirla, di mandarla
a gambe all'aria.
«E nei criteri e nei propositi sovra espressi non è dissidio tra i
candidati alla deportazione».
L'ordine di partenza non tardò. Il 18 giugno 1919, terminata appena
un'ultima escursione di propaganda orale, che l'aveva portato fin
sulle rive del Mississippi, Luigi Galleani fu strappato all'affetto
della famiglia e dei compagni; all'amore della compagna, che per
oltre vent'anni aveva condivise le angustie e le vicende della sua
vita di «Cavaliere Errante dell'Anarchia», dei figli che adorava e
non avrebbe più veduti, per costituirsi al Commissariato
dell'Immigrazione di Boston, per essere deportato in Italia donde
mancava dal 1892.
La partenza avvenne dal porto di New York, sul piroscafo «Duca degli
Abruzzi» dove, insieme a Luigi Galleani, furono imbarcati, il 24
giugno 1919, altri otto compagni e collaboratori suoi, fra i quali
Irma e Giobbe Sanchini, che dovettero portare con sè i loro due
bambini nati in America e perciò cittadini «liberi» della Grande
Repubblica di Jefferson, di Lincoln e... di Wilson.
GLI EDITORI
UNA BATTAGLIA
Per la guerra,
per la neutralità
o per la pace?
I
Per la guerra, intanto, no.
Per nessuna guerra, dovunque e comunque sia accesa od abbia ad
accendersi.
L'avversione di ieri — in cui si comunicava tutti quanti, almeno da
questo lato della barricata, ed in cui irriducibili, non persistono,
oggi che gli anarchici — emersa lentamente, dolorosamente, dal mezzo
secolo di disinganni che di scherni, di fame, di catene ripagò il
sacrifizio della generazione eroica da cui, l'unità, l'indipendenza
della patria erano state edificate; temprata alla critica che dal
disinganno erompeva acerba ed inesorata a ricercarne le cause
desolanti, si è fatta più tenace, irremovibile oggi che alle guerre,
a tutte le guerre, comunque mascherate, viene a mancare il contenuto
ideale che agili assertori, ai confessori, agli araldi, ed ai
soldati dell'idea e della causa nazionale dava la generosa nostalgia
dell'olocausto, la tenacia che non abdicava dinnanzi al boia, al
tradimento, a la sventura e a Mantova, a Brescia, a Novara, ad
Aspromonte, a Mentana trovava nella sciagura la ragione dell'unanime
consenso solidale e dei rinnovati ardimenti vittoriosi.
La guerra non è più oggi che un'operazione di borsa, un affare, su
cui avvolgimenti torbidi le faci della civiltà, i labari del
progresso, gli orgogli nazionali, si rovesciano a nascondere la
frode inconfessabile e svergognata, a mietere pel sacco, per la
taglia, per la fortuna dei grandi ladri il necessario tributo
d'energia e di sangue che il proletariato soltanto può dare e, pur
docile, pur tardo, non darebbe altrimenti coll'ardore l'abnegazione,
l'impeto cieco che del successo sono condizione essenziale.
* * *
Aneliti civili, intolleranza di tirannidi straniere, fremiti di
nazionale risurrezione le guerre che insanguinano il vecchio ed il
nuovo mondo da vent'anni? la guerra della Cina al Giappone nel 1895;
la guerra degli Stati Uniti contro la Spagna, nel 1898;
dell'Inghilterra contro i Boeri nel 1899; dell'Europa coalizzata
contro l'Impero Cinese nel 1900; del Giappone contro la Russia nel
1901; dell'Italia contro la Turchia nel 1911; degli Stati Balcanici
l'anno scorso; ora quella che divampa nel vecchio continente?
Quando dagli organizzatori stessi delle paradossali carneficine si
concede, — ed è, del resto, anche ai meno sagaci confermato
dall'esperienza immediata — che esca delle competizioni era il
monopolio dei mercati industriali finanziarii commerciali della
Corea, della Manciuria, della Cina, di Cuba, del Transvaal, o
l'accaparramento delle Sirti alle rapaci speculazioni del Banco di
Roma?1 Quando la presunzione dell'Inghilterra, della Francia, del
Belgio, della Germania, dell'America a portare oltre i propri
confini altra civiltà che non sia d'estorsioni, di sfruttamento, di
corruzione, affoga, nei Campi di Concentramento del Transvaal come
nel Congo, negli orrori repubblicani del Tonkino o del Madagascar
come nell'inquisizione puritana delle Filippine, od assume nei
riguardi della Russia autocratica e dell'Italia pellagrosa ed
analfabeta il senso di una atroce ironia impudica?
Arrembaggi di pirati, furor di sciacalli, rovello di borsaiuoli
infuriati all'usura, di bottegai, di preti, di fornitori, di
biscazzieri ansanti il dividendo la decima i subiti guadagni, le
guerre d'oggi, del domani, le guerre d'ogni nazione e d'ogni stirpe,
d'ogni terra e d'ogni continente.
I dividendi, le usure, le decime si tagliano soltanto sul groppone
di Giobbe, che egli sia bianco o nero o giallo, che egli sia nato
sotto la croce, la mezzaluna, il tricolore, che egli sia tenuto alla
lassa del padrone da Cecco Beppe o da Guglielmone, da Gennariello da
Wilson o da Poincaré.
E porre a Giobbe l'alternativa di essere pro o contro la guerra
parrebbe ozioso senza i sofismi che scendono dai pergami e dalle
tribune più diverse, maramaldi o ingenui, a truffarne la buona fede,
a scuoterne l'inerzia fatta di diffidenza assai più che d'ignavia, a
sconvolgerne gli animi semplici ed i giudizi sinceri.
Quanti i sofismi! Quanti, a scusare le dedizioni fragili, a
nascondere le defezioni sfacciate!
* * *
Lasciamo da banda i cialtroni che mutano coscienza secondo che
mutano padrone, e la fede, gli ideali, gli entusiasmi attingono alla
greppia e misurano alla biada. Insurrezionalisti, antipatriotti,
antirazzisti fino a rassegnarsi al leggendario bastone tedesco
nell'eventualità cervellotica dell'invasione straniera, ieri, —
quando a colmar la ciotola della sbobba quotidiana leccavano il
deretano ai «compagni» — sono nazionalisti, patriottardi,
guerrafondai oggi che il nazionalismo borsaiolo della patria li ha
assunti a sparafucili della banda, appresta lo strame alla loro
vanità cianciona, e compensa della pagnotta tricolore le pedate che
di mezzo a noi ha vendemmiato il loro girellismo equivoco e
mercantile. Lanzichenecchi di chi li paga, barattano il pane colla
menzogna consapevole e col vituperio professionale, troppo stranieri
a qualsiasi brivido di sentimento perchè i loro lazzi sguaiati, le
loro capriole inveroconde, i loro spudorati voltafaccia possano
muovere più che a compassione od a schifo, perchè possa aver peso in
un dibattito sincero il loro mercenario camaleontismo, la loro
disperata latitanza intellettuale e morale, anche se posino a
filosofi ed a censori.
La gente passa e tura le narici: anche noi.
Fosse tutto lì il dissenso, che nessuno se ne sarebbe accorto!
* * *
Ma la guerra è stata prima ed avanti ogni cosa la liquidazione
repentina e definitiva del socialismo militante. I grandi
industriali della Westfalia, della Sassonia, della Slesia nella
guerra mortale agli industriali di Birmingham, di Glasgow e di
Manchester — chè nell'aspra competizione delle due industrie
antagonistiche è la ragione fondamentale dell'aspro conflitto
europeo — non sognavano certo di avere alleati nella guerra mortale
i rappresentanti parlamentari del proletariato tedesco, nè Guglielmo
d'Hohenzollern d'avere stretto al suo fianco, più fida e più devota
dei suoi Usseri della Guardia, la centuria dei deputati socialisti
al Reichstag.
Neppure l'ombra d'un contrasto, neanche il più pallido tentativo
d'opposizione: Deutschland ueber alles! La grande patria tedesca
sopratutto; mentre dall'altra parte della frontiera l'estrema
socialista che il 7 luglio osava ancora opporsi alla Camera
all'approvazione dei quattrocento mila franchi bilanciati per la
visita del Poincaré a Pietroburgo, non trova più un uomo a
ricordarsi dell'internazionalismo socialista, a ricordarsi,
nell'imminenza della guerra, dei truculenti discorsi e degli eretici
ordini del giorno acclamanti alla riunione del Segretariato del
Partito Socialista Internazionale a Bruxelles la settimana innanzi.
Neanche uno, neanche Hervé.
L'uomo che aveva abbandonato sul letamaio la patria di lor signori
gridando sotto il serenar della bonaccia che il proletariato
francese avrebbe risposto coll'insurrezione alla dichiarazione di
guerra, inscriveva fra i doveri sociali, al primo lampeggiar de
l'uragano quello di rassicurare il governo «che non si sarebbe fatto
lo «sciopero generale contro la guerra minacciata, che non si
sarebbe fatto lo sciopero generale insurrezionale a guerra
dichiarata.
«Che i socialisti, i sindacalisti, i libertarii avrebbero marciato
come un sol uomo alla frontiera dando ai nazionalisti l'esempio del
coraggio e della disciplina, confidando alla sollecitudine della
Repubblica la cura delle donne e dei bambini»2.
Un sagace rimpasto ministeriale ha sbaragliato ogni più lontana
minaccia di opposizione. Il 26 agosto Viviani ricompose il suo
ministero, chiamandovi i rappresentanti delle diverse gradazioni del
socialismo radicale ed unificato: Jules Guesde, Marcel Sembat,
Bienvenu Martin, Gaston Thompson, Alexandre Millerand, Aristide
Briand, Victor Augagneur, ecc. Per una parte si ammutoliva la
opposizione togliendone in ostaggio al governo i caporioni meno
docili, si addossava per l'altra al partito socialista, la
responsabilità della guerra e delle sue sorti cui sono così
strettamente legati i destini, le fortune della Banca di Francia,
del Creuzot, della Chatillon Commentry, del Crédit Lyonnais, della
grande finanza e della grande industria francese.
Se la borghesia non è stata mai così arruffianata, non poteva essere
nè più obliqua nè più stupida l'opposizione socialista; bisogna
convenirne.
In Inghilterra il socialismo era nei ranghi, dispersa e sana la sola
voce dissenziente, quella di Keir Hardie, come in Francia, vox
clamantis in deserto, presto soffocata dall'insano urlo delle folle:
a Berlino! a Berlino! non vibrava che la voce di protesta solitaria
di qualche giornale anarchico.
Nel Belgio il socialismo era alla frontiera, per la patria, in armi
e bagagli.
In Italia machiavelleggia.
La parte minore che, su la via di Damasco, ripete da anni, ad ogni
crisi, i suoi omaggi alla classe dominante nel suo simbolo più
augusto, è per la guerra, per la conquista di Trento e di Trieste,
per l'annessione dell'Albania, per la rivendicazione di Tunisi, di
Malta, della Corsica, del Nizzardo, dei quattro quinti d'Europa; la
parte maggiore è per la guerra pure. Non è chi non veda che nella
neutralità imposta al governo sia soltanto un alibi sagace. I
trattati dinastici hanno legato le sorti politiche del popolo
italiano a quelle dei governi centrali, contro la tradizione, contro
la storia, contro le proteste vive d'un angoscioso passato storico
recentissimo, sulla implicita rinunzia all'integrazione dell'unità
nazionale; e la politica socialista è contro l'Austria contro la
Germania, ribelle agli impegni dal governo assunti colla triplice
alleanza. Ma è chiaro che sarebbe col governo per la guerra contro
l'Austria, per la redenzione italiana dell'Istria e del Trentino;
non contro la guerra in sè e per sè, non contro la guerra che,
riconfondendo in nome della patria o della stirpe gli interessi
irreconciliabili del capitalismo e del proletariato, oblitera nega
investe e perverte tutta la critica, l'anima, l'azione, la ragione
stessa d'essere, della aspirazione socialista e dell'emancipazione
proletaria.
* * *
Non siamo qui di fronte al solito caso d'aberrazione o di corruzione
individuale: siamo di fronte al fallimento di un metodo.
Il socialismo ha la sua ragione d'essere nel fatto economico
dell'irriducibilità dell'antagonismo fra gl'interessi proletarii e
gli interessi borghesi; è movimento di lotta e di redenzione di
classe, e se questa redenzione è subordinata alla distruzione del
monopolio economico e del privilegio politico della borghesia, non
occorre spendere parola a dimostrare che il movimento socialista
sarà movimento rivoluzionario non soltanto perchè è rivoluzionaria
la sua aspirazione remota, ma perchè rivoluzionaria di tutte le
irreconciliabilità quotidiane dovrà essere necessariamente l'opera
sua di ogni ora d'ogni giorno. Un socialismo che, nell'attesa remota
della espropriazione della borghesia, con questa s'intenda a
sbarcare il meno peggio il lunario, e stabilisca, su le basi di
compromessi assidui nel Comune, nella Provincia, nel Parlamento, sui
mercati più ardui della mano d'opera, una cooperazione qualsiasi in
vista della conservazione delle sparute libertà fino ad oggi
conquistate, e dell'ordine sociale, sia pur provvisorio, in cui
maturi la graduale elevazione intellettuale e morale del
proletariato, è movimento socialista che si riassorbe senza
pensarlo, senz'accorgersene, senza volerlo; nella vecchia democrazia
contro cui era insorto protesta e reazione. È il movimento
socialista che, dopo il lampeggiante e perseguitato periodo delle
origini, è venuto, traverso la cooperazione riconciliandosi col
capitale, traverso il parlamento riconciliandosi con lo stato,
traverso le riserve mentali riconciliandosi colla chiesa, disarmando
i sospetti di tutti gli istituti dell'ordine ed abilitandosi,
traverso la rinunzia, a prendere nel governo della cosa pubblica la
successione politica che i vecchi partiti minacciano, essi, di
compromettere e di sovvertire col loro immobilismo assurdo ed
ostinato. Eccitate, esasperate quest'azione colla lusinga d'una
conveniente partecipazione nell'azienda governativa, coll'esca delle
maggiori influenze che vi si connettono, e l'involuzione sarà
precipitata dalla preoccupazione delle responsabilità del domani.
Come meravigliarci se, giunta alle soglie del potere, questa gente
che per trent'anni ha speso intelligenza, studio, parola, tenacie a
persuaderci che i nostri interessi non erano gli interessi dei
nostri padroni; che erano altri, diversi, opposti, irreconciliabili
cogli interessi dei nostri padroni; che essi non potevano
avvantaggiarsi, trionfare, se non sullo sbaraglio della classe
padronale, perchè non v'è margine, terreno neutro su cui possa
stringersi un'alleanza, venire ad un compromesso; e ci ha inspirato
il sospetto, innestata la sfiducia, imposto il divorzio da ogni
partito politico cui si doveva opporre la classe assisa
sull'identità degli interessi economici, cinta di una solidarietà,
di una forza cui nessuna forza avrebbe potuto resistere — sia venuta
poi di ruzzolone in ruzzolone a dirci che nel nome della stirpe o
della civiltà o della patria quegli interessi si potevano, si
dovevano anzi conciliare e confondere: che nel nome della nazione o
della civiltà o della patria i padroni, gli sfruttatori, coloro che
campano del nostro sudore e grandeggiano sulla nostra servitù,
potevano anche, se nati di qua dall'Isonzo o dal Brenner, essere
fratelli nostri; e che i miserabili, anche i miserabili della nostra
stessa miseria, della nostra stessa abbiezione, potevano essere
nostri nemici a dispetto della identità del destino e della
solidarietà degli interessi, se fossero nati, se fossero accampati
di là dal Quarnero, perchè di là, pur dolente come noi, la progenie
di servi ha altra bandiera, altro re. Ed è l'Austria di Francesco
Giuseppe d'Ausburgo, mentre noi, noi siamo l'Italia di Vittorio
Emanuele di Savoia. E che è triste, è miserando, ma dobbiamo, noi
vilipesi, noi sfruttati, noi straccioni che non ci siamo visti mai,
che ci siamo sentiti fratelli anche ignorandoci, avventarci gli uni
sugli altri, sgozzarci senza pietà nè misericordia se tra
Gennariello e Cecco Beppe lampeggia un contrasto, se tra i padroni
di là che per gli edificatori della loro fortuna non ebbero mai che
disprezzo, galera, pedate nel ventre, e quelli di qua, che nella
nostra pelle si sono tagliata l'onnipotenza e la boria, s'accende la
più stupida querela di rigattieri.
Il proletariato assunto alle eucaristie dell'Internazionale per
un'ora, cittadino per un'ora della patria universale, riprecipita
tra i gretti confini della gente, si riconcilia col suo aguzzino
millenario, ne veste la livrea, ne cinge le armi e le insegne, ne
debella cantando i nemici, lieto di dare la vita sua, il pane dei
suoi pel trionfo della gente, de la patria, della civiltà, senza
ricordarsi neppure che delle tre matrigne adunche è il bastardo tre
volte ripudiato. Ci ha abituati all'Eliseo ed al Quirinale, il
socialismo ben pensante; l'abbiam visto bisbigliare desolato il
miserere ai funerali di Umberto di Savoia e del Cardinale Bonomelli;
ci ha smaliziato a Châlons ed a Draveil nelle socialiste stragi dei
senza pane3 possiamo ben vederlo assunto con Millerand alla suprema
magistratura della guerra, anelante con Bissolati, con Turati, con
Ferri, coi diversi Corridoni mocciosi — riconciliato nel gran nome
della patria, — a Trento a Trieste, all'organizzato sterminio dei
miserabili di qua e di là della frontiera.
Nel nome della Patria e della civiltà...
II.
Si capisce che, accantonate nel sofisma della civiltà, le ragioni
della guerra non potevano interessare il proletariato.
Dove l'hanno mai incontrata la civiltà, i paria? Donde e quando ha
lasciato essa cadere su le loro pallide fronti riarse le rugiade e
le speranze de la risurrezione?
Così non comunicano i servi negli entusiasmi di lor signori anche se
subiscano, ancora una volta, disperati incerti diserti la violenza
d'un destino contro cui non hanno la necessaria forza concorde di
insorgere.
È di accademici, di dottrinari, di politicanti la cagnara. Scroscia
dalle chiese, dai concilii, dagli aeropaghi consacrati della
scienza, della letteratura, dell'arte, la protesta contro la
barbarie guerriera delle stirpi; e poichè cieca, ottusa bestiale
essa si attenda con ogni duce a l'ombra di ogni bandiera, con Lord
Kitchener consacrato cavaliere nelle stragi esotiche e recidive del
continente nero; con Joffre, superstite fosco delle restaurazioni
versagliesi del 1871; coi Cosacchi dello Czar cresciuti nei progroms
assidui, nei sistematici eccidi di vecchi di donne di bambini, alla
grande guerra, alla grande gloria sui campi d'occidente; coi due
imperatori, curvo l'uno sotto mezzo secolo di infamie di delitti
d'impiccagioni di carneficine, prono l'altro a la tortura quotidiana
delle schiatte indocili al suo giuogo — scienza, arte e poesia, al
vasto orizzonte squarciato dall'indagine temeraria nelle tenebre del
dogma e del mistero, al vasto dramma umano sanguinante in ogni
cuore, oltre ogni frontiera del tempo e dello spazio, alla grande
speranza umana liberata dalle stupide predestinazioni alla conquista
della verità, della bellezza, della giustizia, della redenzione,
hanno posto, squallido esoso termine, l'arcigna e bramosa erma degli
Indigeti, cortigiane impudiche di mercanti e di birrai.
Gabriele D'Annunzio nostro «per la quercia e per il lauro e per il
ferro lampeggiante, per la vittoria e per la gloria e per la gioia»,
invoca pronubo alle fortune della nuova Italia — l'Italia di Bava
Beccaris e di piazza del Pane — custode alto dei fati, Dante
Alighieri, parlando con poco rispetto; mentre da Londra Rudyard
Kipling altro più vasto, più assiduo tributo di sangue d'inedia di
figli chiede al grembo delle madri britanniche per salvare la patria
che gli Unni del ventesimo secolo vogliono ridurre, umiliare, ad
un'oscura provincia tedesca; e Maurizio Maeterlink, il puro e fine e
mite poeta dei bimbi e dei semplici, dinnanzi allo strazio della sua
eroica terra fiamminga, non contro i feticci orrendi che, al loro
giogo infausto piegano, prima che lo straniero, il suddito ed il
cittadino, avventa il giambo avvelenato, ma alla gente conclama la
«risoluzione inesorata: lo sbaraglio delle perfide forze profonde
segrete irresistibili che innervano tutta l'anima tedesca e vogliono
essere schiacciate sotto il tallone senza misericordia, poichè
nessuna potenza umana potrà ammansarle, attenuarle,
trascinarle sulla via del progresso, neppure colla più severa delle
lezioni, e vogliono essere distrutte come un nido di vespe che noi
sappiamo non potranno mutarsi mai in nido d'api benefiche ed
industri».
«Lasciate passare un migliaio d'anni di civilizzazione, migliaia
d'anni di pace con tutte le possibili raffinatezze d'arte e di
cultura: lo spirito tedesco rimarrà immutato, sempre pronto ad
esplodere, non appena l'occasione si presenti, cogli stessi aspetti,
colla medesima infamia.» per cui la guerra, la guerra d'oggi, è urto
di due correnti fondamentali dell'anima del mondo: l'una fosca
d'iniquità, d'ingiustizia; di tirannia; l'altra anelante alla
libertà, alla vita, al diritto, alla gioia.
Delenda Germania!
Sono passati due millenni quasi da Tacito a Maeterlink, ma nella
mente del poeta fiammingo, dei molti che ne battono le orme e ne
dividono gli orrori, la Germania è rimasta come ai tempi di Tacito
«tutta selve orride e paludi, tra cui la gente continua, come
allora, ad allevarsi col bestiame sulla terra medesima spregiatrice
d'ogni civile mollezza, feroce alle guerre, avida alle prede, briaca
turbolenta, ladina alle ferite ed alle morti in tempo di pace»
solvendo il dubbio che angustiava lo storico ternano, se i germani
avessero voluto d'uomini e membra e cuore di fiere, come allora si
favoleggiava ed oggi non osano escludere più nè Maeterlink, nè
D'Annunzio, nè Rudyard Kipling che in nome della civiltà del diritto
della vita e della gioia ne deprecano lo sterminio finale.
Delenda Germania!
* * *
Bisogna esser giusti: dall'altra parte della frontiera non
scoscendono meno irosi gli anatemi: La barbarie è dell'Inghilterra.
Al farisaismo ipocrita dell'Inghilterra, invidiosa della grandezza e
della potenza tedesca, bisogna addossare le responsabilità della
guerra che devasta il continente. Roentgen butta nel cestone dei
fondi per la guerra la medaglia decretatagli dalla British Royal
Society per la scoperta dei raggi X; Ernesto Haeckel e Rodolfo
Euchen, che sono senza contrasto le menti più vaste, i cuori più
generosi, le glorie più fulgide del mondo scientifico moderno, in
nome di tutti gli uomini di lettere e di scienza della vecchia
Germania, denunziano nella «Wossische Zeitung» di Berlino il
farisaismo ipocrita dell'Inghilterra che ha tolto pretesto
dall'invasione del Belgio così necessaria alla Germania, (!) per
sfogare il suo brutale egoismo nazionale, l'odio antico e l'invidia
marcia che essa cova, della grandezza della Germania che vorrebbe
distruggere senza riguardo ai diritti, senza riguardo a moralità od
immoralità, pel suo esclusivo avvantaggio.
«Deprimente spettacolo» — commenta Frank Jewet Mather della
Princeton University — «quello di due grandi pensatori, grandi
figure cosmopolite ambidue, i quali indulgono ad un nazionalismo
violento, inconsiderato e maligno... rompendo un vincolo che tra i
due popoli si era stretto traverso l'influenza che Goethe aveva
esercitato su Carlyle e Carlyle su due generazioni d'Inglesi, e pel
trionfo che alle dottrine darwiniane avevano assicurato in Germania
la temerità e la pertinacia degli scienziati tedeschi quando in
Inghilterra Tommaso Huxley lottava con dubbia fortuna ad ottenerne
una qualsiasi considerazione».
* * *
Tanto più triste lo spettacolo che dall'aspra contesa il
nazionalismo perfido delle quattro grandi patrie in armi, trae
l'obliqua giustificazione del suo bestiale furore di sterminio e di
desolazione. Difendono la gloria dei saggi, dei pensatori, dei
poeti, della cultura tedesca gli ulani gialli, i foschi esseri della
morte, gli hovitzer da quarantadue pollici del Kaiser! portano per
le arcaiche strade: di Lovanio e di Bruges il ghigno amaro e la fine
ironia, chi l'avrebbe pensato mai? di Schopenhauer e di Arrigo
Heine! E sulle paradossali dreadnoughts britanniche da cinquantamila
tonnellate, riparte alla conquista del mondo, che durante due secoli
vibrò alla sua parola ed alla sua passione, Guglielmo Shakespeare;
parte Darwin a ripascere la sua gioia serena nella confusione dei
dogmi e dei concilii sgominati. Oltre la Vistola non portano lo
strazio, l'angoscia dell'immane ruina i cosacchi del Don, portano su
le picche il dubbio tormentoso di Tzernichewsky, le eretiche
annunziazioni di Turgheniew, rassegnato o scaltro il vangelo di
Tolstoi; mentre le rosse legioni della Terza Repubblica ribenedicono
sulle ecatombi di Ypres per la convertita voce d'Anatole France, la
passione di libertà, il volo di fratellanza che all'antico regime
costernato in ogni terra, che ai servi dolenti d'ogni patria, aveva
gittato, morendo, la prima!
* * *
E tanto più infausta è l'abdicazione, la dedizione miseranda, che
penetran lente lente le voci nuove traverso la coscienza proletaria
rassisa da millennii di rinnovate devozioni, le voci insolite ed il
temerario ingrato spirito d'indipendenza e di libertà. Mutano credo
e santi, ma la fede rimane cieca dinnanzi ai lampeggiamenti delle
verità remote ed inaccessibili alla coscienza universale. Si giura
oggi in Galileo, in Newton, nella teoria di Laplace e di Darwin,
come si giurava ieri sulle parole di Mosè, della Genesi o del
Sillabo. La scienza è rimasta mistero, privilegio scarso la
conoscenza, il saggio un sacerdote od un profeta, e quando la guerra
la strage la ruina sono invocate, necessità di suprema. salute, da
Anatole France o da Massimo Gorky, da Haeckel, da Rudyard Kipling o
da Gabriele D'Annunzio, dal fior fiore dell'intelletto, della
coscienza, dell'amore, dell'orgoglio, della gloria d'ogni stirpe,
possono i servi, chiusi dal giogo quotidiano fuor della vita che
freme e pulsa, e cerca e spera, sul solco, giù nella miniera, per le
officine, ludibrio perenne della tenebra, della macchina, del vento
e del mare, possono avere i servi la libertà di dissentire, il
diritto d'insorgere, di rifugiarsi alla men peggio nel tardo buon
senso o nell'orgogliosa presunzione che – relegati essi pure nel
mondo, senza dubbio migliore ma altrettanto esclusivo della
speculazione e dell'astrazione, altrettanto sordo alle bestemmie,
alle imprecazioni, – alle minaccie che prorompono e s'incrociano su
l'urto perenne ed irreconciliabile, su la competizione caina su la
spregevole volgarità dei piccoli interessi quotidiani, sono esteti e
savii così destituiti d'ogni lume, d'ogni libertà a giudicare dei
grandi uragani collettivi come il volgo a discernere nell'inviolato
enigma dell'universo, nel chiuso mistero delle origini?
— Hanno studiato ed appreso, sanno da soli quello che millennii di
storia, milioni d'abitanti del pianeta non hanno mai intraveduto;
alla verità hanno dato i raggi, al progresso le ali essi soli. Le
olimpiadi civili si numerano e s'intitolano dai loro nomi gloriosi;
non possono errare, ed errassero pure, non noi potremmo sorprendere
una verità che si fosse ad essi ricusata. E quando per la guerra è
il vasto consentimento degli eletti, quando contro l'unanimità del
consenso nessuna grande voce insorge, nessuna delle grandi voci che
nelle ore tragiche del comune destino risvegliano gli echi oltre gli
oceani, oltre i continenti, oltre i secoli; e non squilla nel cielo
corrusco, per gli animi ebbri di passione e di perdizione, che la
protesta vostra sfiduciata flebile incerta, per la guerra bisogna
essere anche se vuole nuovi e più esosi tributi di miseria, tributi
orrendi di sangue e di lacrime, e, più inesorata di ogni maledizione
del Levitico, condannerà alla servitù ed al pianto i figli, od i
figli dei figli quanto lontana durerà nei secoli la memoria
dell'irredimibile ferocia umana; per la guerra sono tutti; non senza
ragione certo.
Bisogna chinare il capo, essere per la guerra anche noi...
— È il ruggito dell'armento.
— È il grido d'ogni anima, irresistibile; fruga anche in mezzo a voi
ogni cuore, scuote ogni fede, turba ogni mente, assilla ogni
coscienza, mina e sovverte l'edifizio della dottrina, è come la
folgore di Damasco sulla via delle aspettazioni redentrici.
Passate pur sdegnosi fra il pidocchiume in busca d'una fede e d'un
padrone che l'appalti per la broda; passate disprezzando fra la
clientela lazzarona e mercenaria che, salvando la pancia al sacco
coscrive, ai rischi della guerra, la pelle altrui; di mezzo ai
deboli, ai fiacchi, troppo pigri, troppo squallidi per avere il
coraggio o la forza d'un pensiero, d'una volontà propria, travolti
oggi dalla bufera nel comune delirio; ma se oltre la schiera obliqua
o fragile degli apostati minori su le vie della guerra trovate
Amilcare Cipriani e Pietro Kropotkine dolenti che i settant'anni
tolgano ad essi d'imbracciar una carabina e di marciar contro il
nemico, non direte certo che all'uno manchi la fermezza della
volontà, all'altro la sagacia, la sincerità ad entrambi del consenso
alla grande guerra, e del voto fervido e conserto perchè su la
feudale barbarie teutonica trionfino gli eserciti collegati di
Francia e d'Inghilterra, del Belgio, della Russia e del Giappone.
— Abbiamo trovato su la via della grande guerra, erti contro di noi,
oltre la breve schiera degli apostati minori, Amilcare Cipriani e
Pietro Kropotkine di cui nessuno oserà mai impugnare la probità
mentale e la sincerità adamantina.
Ci ha attristati l'incontro, non ci ha smossi nè scorati: Contro la
guerra oggi come ieri, come sempre, dovunque e comunque sia accesa
od abbia ad accendersi!
E ve ne daremo ai seguenti capitoli le nostre modeste ragioni.
III.
Premettiamo subito una dichiarazione così sincera come necessaria:
non abbiamo idolatrie, non devozioni stagnanti, non feticismi
ciechi; ma non abbiamo neanche la più lontana nostalgia
d'inquisizione e non sappiamo proprio che farci della pelle di
coloro che, di mezzo alle falangi più o meno sovversive del
proletariato internazionale, sono stati travolti dalla fiumana ed
incapaci di tenersi ritti, di raccomodarsi la testa sulle spalle, e,
dentro, libera la propria ragione, sereno il proprio giudizio, hanno
nel coro briaco mesciuto il loro inno alla guerra, il loro appello
fervido alla grande crociata civile contro la feudale invadente
barbarie teutonica. Infierire sarebbe iniquo: non soltanto non è da
tutti, ma non è neanche di tutte le ore, non è di tutti i problemi,
meno ancora dei problemi che si affacciano impetuosi, lusingatori di
orgogli irresistibili, minacciosi d'orrori ineffabili, irti di
contraddizioni penose, l'indipendenza mentale, il coraggio morale,
l'angosciosa insurrezione contro lo sfolgorare d'un'epica menzogna
convenzionale e la smagliante rievocazione d'un tradizionalismo
ordito di martirio e d'abnegazione, d'ardimento e d'eroismo; contro
il rigurgito improvviso di collettivi stati d'animo appena superati,
vibranti sempre, sempre vivi sotto le ceneri calde contro l'urlo del
gregge che prorompe cieco, violento, incoercibile al richiamo;
coraggio ed indipendenza cimentati dal dubbio intimo prima che dalle
brutali sopraffazioni esteriori, è condizione fondamentale del
giudizio che sarà spassionato e sereno quanto più alla passione sarà
estraneo se non superiore.
* * *
Perchè non siamo particolarmente toccati dalla grazia noi che oggi
possiamo sottrarci senza sforzo al baratro in cui gli altri hanno
buttato l'ispido bagaglio delle loro convinzioni in un'eclissi
disperata della parte più densa, più gagliarda, più luminosa, anche
se più dolorosa, della loro vita. Quelli non sono peggiori di noi,
noi non siamo migliori, siamo soltanto più lontani, in un'atmosfera
meno turbolenta; e di lontano l'insieme dei paesaggi e dei fenomeni
si sorprende nelle grandi linee e nei rapporti essenziali senz'ombra
e senza deviazioni mentre su la mente, su l'anima abbonacciate,
l'onda che laggiù ribolle di tutte le passioni ed è torbida d'ogni
ansia, densa d'ogni turbamento e d'ogni aberrazione s'abbatte fioca,
stanca, innocua, come purificata traverso i due continenti d'ogni
sua acredine, d'ogni sua, ingrata amarezza.
* * *
Vi possono torcere le slabbra in una smorfia di disgusto supremo il
lazzo sguaiato, la capriola impudica degli istrioni che ieri dalle
cuspidi dionisiache dell'egoarchismo irridevano alla platea sciatta,
obliqua di ibridismi nazzareni e democratici, ed oggi, per la paura
o per la mancia, alla guerra democratica ed ai trionfi della
cristianità, ribenedetta sotto la torva minaccia barbarica, allo
Stato – ludibrio e scherno ieri, oggi arca e presidio immarcescibile
– coscrivono, nelle prefetture regie sicofanti e guerrieri.
Ma se vi appaia improvvisa dinnanzi, rudere magnifico d'un'era che
nella storia si è fatta luce traverso il martirio e l'eroismo,
esuberante di tutta la forza, vibrante di tutta la fede, quando la
fede si confessava in conspetto del patibolo tra la corda il ferro e
il piombo, se v'appare domani bianca, bianca, incisa di rughe, le
rughe di Noumea di Portolongone e di Regina Coeli, serena nei grandi
occhi leonini, la figura d'Amilcare Cipriani troppo vasta perchè si
possa costringere nel credo breve ed arcigno, troppo alta perchè si
possa chiudere sotto la cappa de la congrega, ed Amilcare Cipriani
che d'ogni guerra ha durante mezzo secolo numerate le diane, ne ha
vissuto i cimenti angosciosi, ne ha sempre nella retina il baleno
orrendo, nel cuore il brivido fratricida; e vi dice, egli che oltre
le stragi immani oltre l'immane ruina d'ogni guerra, d'ogni
battaglia, intravvide sanguigna, lontana, e pur fatale, l'aurora
delle grandi eucarestie della fratellanza e dell'amore, che bisogna
riprendere il sacco, la carabina, dare ancora l'entusiasmo, la
giovinezza, la vita, per salvare il conserto destino della civiltà e
della Francia dalla conserta minaccia della Germania e del
feudalismo imperiale, non potete nè disdegnare nè compatire.
– Nessuno l'osa, nessuno lo potrebbe, senza sacrilegio, perchè
comprende agevolmente ognuno che non diserta oggi la Francia l'uomo
che nelle rosse falangi garibaldine le fece scudo del suo petto tra
Montretout ed Autun, quarantatrè anni fa. Non diserterebbe la
Francia, non diserterebbe la repubblica oggi Amilcare Cipriani,
rinnegherebbe tutto il suo passato corruscante tra le propiziazioni
vittoriose di Digione e l'ecatombe comunarda espiatoria; e di quel
passato egli è il prigioniero perenne e rassegnato. Ve lo lega più
saldo d'ogni vincolo cotesta sua romagnola magnanimità impenitente
per cui all'abbandono, all'ingratitudine, alla bassezza, non si può,
non si deve rispondere che colla spontaneità irresistibile,
impetuosa ed obliosa del sacrifizio: a Bordeaux ripaga l'abnegazione
il disinteresse e l'eroismo delle camicie rosse collo scherno e col
bando, la clericanaglia repubblicana campagnarda. È naturale. Può
far altro la clericanaglia? Ma all'appello della repubblica
minacciata, della patria adottiva in angustia, i superstiti di
Satory e del Père Lachaise tornati dalla Nuova Caledonia, non
possono rispondere che marciando all'avanguardia; può fare altro un
garibaldino?
E l'unico rimpianto del vecchio Amilcare Cipriani in quest'ora di
passione, è che la ferita di Domokos gli tolga di fare oggi «come
nel 1870 argine del suo petto alla Francia repubblicana contro
l'imperialismo militarista».
Non lo tormentate di domande odiose che non incresperebbero d'un
dubbio la sua devozione inamovibile. Non chiedete a lui, scampato
pur ieri alle tenaglie dell'inquisizione repubblicana ed alle bieche
vendette del militarismo francese, se l'imperialismo da conio e da
forca, quello che si arma soltanto per arrembaggi borsaiuoli
dell'alta finanza non sia su le rovine della Bastiglia accampato
sornione cinico vorace così solidamente almeno che nel ghetto di
Francoforte, nelle acciaierie di Essen o nelle caserme di Strasburgo
o di Berlino. Non gli chiedete se abbia osato mai ai Piombi, allo
Spielberg l'imperiale e regia cancelleria austriaca quel che le
patrie egerie stagionate di Villa Ludovisi hanno osato a Regina
Coeli frugando del roseo artiglio fino alla follia il cuore ed il
cervello del povero Acciarito; non ha disperato della patria ad
Aspromonte a Mentana a Portolongone; della Francia non ha disperato
dinnanzi al pelottone di esecuzione, non ha disperato a Noumea, e la
Francia è per lui la repubblica che ghigliottina con Capeto le
monarchie nobiliari e grida la dichiarazione dei diritti, mentre la
Germania rimane in lui a dispetto di Giovanni Leyda e
dell'anabattismo comunista, a dispetto del suo 1848, a dispetto di
Fichte, di Marx o di Haeckel, la Germania del Barbarossa e del
Bismark, della grazia di dio e delle leggi eccezionali: «va 'n po'
la, burdlass che i todesch, boia d'...».
Venticinque anni dell'esistenza turbinosa ha speso per l'ideale
quando l'ideale era la patria, sua o d'altri; venticinque ha
consumato in galera. Tornando al mondo, dopo un quarto di secolo
d'eclissi, ravvisa nel nemico – che nei cinque lustri turbinosi è
mutato – i lineamenti leggendari, e torna alle implacate fobie
tradizionali4.
* * *
Come lo volete lapidare se i garzoncelli dell'estetismo sovversivo
che pei seminari hanno sciupato l'intelletto e la salute guardandosi
l'ombellico, centro dell'universo gravitante modestamente intorno
all'immensa vanità della loro erudita miseria, traggono gli oroscopi
delle genti, e vi conchiudono nelle sicumere magniloquenti collo
stesso semplicismo garibaldino – colla sincerità in meno – che, in
ogni caso, e da qualunque punto di vista il conflitto europeo voglia
giudicarsi, forza sarà riconoscere che la lotta è tra feudalismo ed
industrialismo, tra imperialismo ed intellettualismo. Il feudalismo
e l'imperialismo accantonato tra gli ulani del Kaiser,
l'industrialismo e l'intellettualismo presidiato dagli Indus di
Giorgio V, dai Cosacchi dello Czar e dai dragoni della repubblica
borsaiuola.
Come se il feudalismo spostandosi dal primo degli ordini,
dall'aristocrazia neghittosa, corrotta, imbelle, al terzo stato
irrequieto, avido, corruttore, avesse mutato più che la pelle ed i
riti, e ad un vassallaggio più bieco che non ai giorni più tristi
dell'antico regime non avesse soggiogato ogni ordine della società
laddove la grande industria, l'alta finanza ha più agile lo
strumento della produzione e più rassisa, più antica, più esperta la
complice organizzazione.
«L'uomo anche più ignorante in materia finanziaria non può sottrarsi
ad una legittima apprensione pensando che gli otto miliardi di
riserva metallica della Francia si trovano nei forzieri di poche
grandi banche, che è quanto dire a discrezione di un ristrettissimo
numero di finanzieri i quali, all'infuori di ogni questione di
probità o di disonestà, dispongono così, senza il minimo controllo,
del più formidabile mezzo d'azione che esista dal punto di vista
economico, politico, sociale».
Così, non un sovversivo, ma un ex presidente del Consiglio dei
ministri, un finanziere arruffianato, un conservatore scaltrito ad
ogni cautela anche se rugginoso di tutti i pregiudizi, un
patriottardo maniaco, Méline, delinea nella «République Francaise»,
il nuovo feudalismo ben più infausto che quello del Kaiser,
altrettanto funesto ai vassalli – ed i vassalli più sciagurati, i
servi siamo noi, sempre, immutatamente – quando di là dalla
frontiera il feudalismo dei Krupp, dei Bayers, della Deutsche Banck
e delle diverse Disconto Gesellshaft che consacrano in Germania,
così come altrove similari istituti di privilegio, il monopolio dei
nuovi signori, i signori del dollaro, del dividendo, i signori
dell'usura e del miliardo, succeduti ai signori della terra, della
grazia di dio, delle crociate, egualmente oziosi, egualmente voraci;
egualmente esosi a chi lavora, a chi suda, a chi crea, a chi geme in
ogni patria, tra ogni gente, all'ombra complice di ogni bandiera,
perchè si possa oggi dire Francia o Germania o Inghilterra od
Italia, perchè alla gloria d'un nome a cui non corrisponde la
realtà, che stride anzi la più violenta delle antinomie; perchè al
trionfo di un simbolo di comunanze ideali e di tradizionali
solidarietà che si dissolvono nel più feroce antagonismo, s'invochi
da questa parte della barricata l'entusiasmo e l'olocausto.
Non c'è più la Francia; ci sono, di là dal Cenisio, la Banca di
Francia, Rotschild o Schneider, ed alla loro lassa artigiani e
villani che muoiono di fame, che affogano, ad ingrassarli,
nell'ignoranza nell'abbiezione e nel dolore; non v'è più la
Germania; sono di là dal Reno o dalla Mosella bande svergognate di
grandi corsari che a quelli d'oltremonte e d'oltremare contendono la
corsa la spiaggia il mercato il sacco i subiti guadagni opimi, e
vogliono dai minatori anchilosati, vogliono dai fabbri riarsi,
vogliono dai tessitori anemici, dai contadini pellagrosi della
Slesia della Sassonia della Westfalia l'ultima goccia di sangue e
l'ultimo rantolo. Hanno creato col loro lavoro, coi loro sudori, coi
loro digiuni, troppa dovizia i morti di fame, troppa ricchezza non
pagata, debbono ora dar la pelle per squarciare, nei ranghi d'altri
servi che li custodiscono ignari e gelosi, i mercati del mondo.
Ed è così dappertutto, oltre la Vistola, oltre la Manica, oltre le
Alpi, oltre l'Oceano.
Non v'è più patria.
Lor signori la vendono a chi meglio la paghi: i reietti, dei
derelitti, dei bastardi d'ogni patria vogliono edificare la patria
universa e libera, senz'odii nè frontiere in cui l'amore e la
libertà trovino il rifugio, irradiino la gioia.
Nessuno ha diritto di tacere, di nascondere ai miseri la verità
iconoclasta, e gli araldi della fratellanza internazionale non hanno
alcun diritto di turbare, di sviare dall'aspro cammino a cui
s'affaccia incerta e malsicura, la coscienza proletaria ai suoi
primi passi.
Compito loro d'illuminarla, di sorreggerla per l'erta scoscesa; e
Cipriani e Kropotkine hanno torto di sacrificare alla febbre
effimera, pregna di disinganni, del sentimento, l'insegnamento della
ragione e della storia.
Kropotkine, sopratutto.
IV.
Kropotkine, no. Kropotkine non trova attenuanti se non nella
sentimentale impulsività che sarà la sua disgrazia o la sua ventura,
una per la quale, se trovi nei giornali del mattino l'eco
d'un'insurrezione plebea, incendia le intime speranze al consueto
pronostico della rivoluzione sociale imminente, colla stessa
improntitudine con cui le spegne al tramonto se gli rechino i
giornali la mala nuova che il movimento è stato soffocato e l'ordine
ristabilito.
Di queste sue climateriche oscillazioni vertiginose è un recidivo
abituale.
Nel marzo del 1904 dallo scoppio improvviso della guerra tra la
Russia ed il Giappone traeva frettoloso l'oroscopo della rivoluzione
che, disgraziatamente e per ragioni le quali sono all'infuori ed al
disopra del puro accidente, non accenderà nel campo economico
neppure la guerra attuale dal cui esito – vittorioso con ogni
probabilità per le potenze alleate – sarà allontanata anche
l'ipotesi di una rivoluzione politica sovvertitrice dello czarismo
che dalla lunga guerra e dai suoi trionfi sanguinosi sortirà
prevedibilmente restaurato, riabilitato, esperto.
E ancora tre anni fa, chiuso agli ammonimenti severi della storia un
orecchio, chiuso l'altro alle voci della sua esperienza vasta ed
antica, non metteva il suo evviva! a quella dei filibustieri che
dalle comode cuccie sicure inneggiavano alla rivoluzione sociale
messicana la quale non è – e non è mai apparso così chiaro come a
questi giorni – se non una competizione losca d'appetiti volgari,
d'avventurieri spudorati, di interessi inconfessabili a cui da
Huerta, a Carranza, a Villa, a Zapata, a Morgan, ad Harriman, a
Wilson, a Hearst – s'arrovellano da ogni covo un po' tutti, a cui,
indifferente o sospettoso, rimane tuttavia ostinatamente straniero
il proletariato messicano devastato fino all'abbiezione, dal medio
evo industriale superstite e da qualche secolo di cultura religiosa
intensiva?
È fatto così; è sempre l'uomo che licenziando al «Révolté» i suoi
primi articoli trent'anni fa, vedeva la rivoluzione rompere ad ogni
minuto dai pori, dagli sdegni della vita collettiva, e raccogliendo
un decennio di poi gli ultimi suoi studi nella «Conquista del Pane»
vedeva almeno così lontana come il nuovo periodo glaciale la
rivoluzione dei servi, nella quale crede poi sempre, ed al cui
avvento, che è meglio, lavora colla sua formidabile forza e con
immutato fervore.
Crisi violente e fugaci del sentimento su cui ripiglia poi, sotto
l'urto della conseguenze immediate, il suo dominio la ragione.
Ma intanto, disastrose.
* * *
Disastrose. Egli ne miete di questi giorni, la testimonianza
mortificante.
Nessuno dei grandi giornali che pur presumono tenere i proprii
lettori al corrente di quanto avviene nel campo delle scienze, delle
lettere, delle arti, ha mai mostrato di accorgersi di lui, del suo
prodigioso cinquantenario di ricerche, d'indagini, di nobile fatica
da cui son pur fiorite opere letterarie, filosofiche, scientifiche
che basterebbero alla gloria d'uno scienziato meno eterodosso:
«L'aiuto mutuo e la lotta per l'esistenza» e lo studio sulla
«Letteratura Russa».
Non se ne sono occupati mai; hanno intorno alla sua opera al suo
nome, ordito concordi la congiura del silenzio non rompendola che
per denunziarne le sobbillazioni eresiarche alla polizia
internazionale.
Lo levano sugli scudi, oggi che egli è per la guerra, oggi che egli
è per la Francia per l'Inghilterra per la Russia contro la barbarie
teutonica, tutti i pennivendoli che egli sa legati alle greppie
dell'alta finanza, che egli, Kropotkine, ha bollato nei recenti
articoli su la Guerra come la peggiore canaglia che sia mai
ingrassata della miseria della rovina della strage della povera
gente semplice e buona che egli, Kropotkine, diffidava, pochi mesi
sono, a non lasciarsi abbacinare dalle apparenze, a non credere cioè
alle profonde cause politiche, agli odii nazionali con cui si tenta
giustificare ogni guerra la quale non è mai che il complotto fosco
d'un pugno di ladri d'alto bordo.
E Kropotkine non è uomo da illudersi fino a credere che sia tarda
riparazione al congiurato oblio cotesto scoscendere d'improvvise e
postume apologie. Non certo al suo acume alla sua dottrina alla sua
cultura alla sua fierezza, al sogno generoso – a cui ha dato, prezzo
la galera di Pietro Paolo e di Clairvaux, prezzo il bando perpetuo
da ogni terra, tutta la sua vita – benedice concorde la stampa
bordelliera e borsaiola; benedice ghignando alla sua contraddizione,
benedice a Kropotkine che ripudia nell'inno guerriero per la Francia
e la repubblica ed affoga nella democratica menzogna della
nazionalità e della patria, la lotta di classe, la solidarietà
proletaria, la rivoluzione sociale, l'anarchia.
Turibolando, ghigna.
* * *
Scorati, guardano a lui i giovani che dall'imbelle torpore si
risvegliarono e dal convenzionalismo obliquo s'affrancarono alla
magica carezza della sua parola, e nei delubri misteriosi che agli
ignavi custodiscono la dovizia e la gioia, e dagli umili esigono,
tributo perenne, il sudor d'ogni fatica, le lacrime d'ogni dolore,
il sangue d'ogni olocausto, videro le sue bianche mani sacrileghe
strappare al tabernacolo venerato i complici veli denudando la frode
nefasta che vende all'ozio la gioia, le bilancie de la giustizia ai
ladri, il vangelo ai farisei, l'ordine agli assassini, la pietà al
boia, ad un pugno inverecondo di parassiti e di manigoldi la parte
maggiore e la più degna del genere umano.
Non egli dunque ci aveva nel torpido viluppo della storia che
sgomina dei suoi enigmi il nostro acume ed il nostro coraggio, non
egli ci ha imparato a discernere oltre ogni frontiera della
tradizione, della fede, della lingua, amici, e nemici? Nemici
irreconciliabili di qua dalla frontiera quanti il vincolo della
fede, della lingua, della tradizione, di ogni comunanza hanno
brutalmente spezzato, edificando sul nostro squallore l'insolente
fortuna, su la nostra servitù, la loro tirannide, su la nostra
abbiezione il loro orgoglio, su lo scempio delle carni, delle anime,
dei cuori nostri, il loro privilegio?
Nemici con cui, non che la pace, nessuna tregua è possibile, sarà
sperabile mai finchè i frutti del pensiero, del lavoro umano –
condizione o guarentigia della civiltà, del progresso che nel tempo
e nello spazio non hanno confine – non siano dall'artiglio mozzo
degli accaparratori esosi, dimessi, tornati patrimonio di tutti,
strumento della rigenerazione di tutti, arra della libertà e del
benessere di tutti?
Fratelli quanti al di qua e al di là di ogni frontiera, nati sullo
stesso strame, cresciuti nella stessa tenebra, lacerati dalla stessa
angoscia, proni sotto la stessa croce, hanno, a dispetto della
diversa tradizione, della fede, della lingua, della bandiera
diversa, identità d'interessi, solidarietà di speranze e di destino?
Egli, con voce con fervore con pertinacia che nessuno conobbe più
ardente più viva più ostinata, disarmando gli odii fratricidi ne
addensò in uragani espiatori sul nemico secolare l'inesausto furore;
egli, col gesto largo del veggente, sull'inabbissarsi lento d'ogni
barriera, ci additò unico limite l'orizzonte alla grande patria
redenta del domani; egli, gridandoci la guerra santa della
liberazione finale strinse disciplinate conserte incontro ad ogni
guerra di rapina e di sterminio le riluttanze istintive degli
sfruttati.
Perchè nel nome della patria, bugiardo simbolo d'una comunanza
tradizionale che mal nasconde il disperato antagonismo d'interessi
ond'è ogni stirpe dilaniata; perchè nel nome di una civiltà eretta
su la nequizie, su la menzogna, su la frode, ci chiede egli oggi la
tregua agli oppressori, l'odio agli oppressi, agli sfruttati, ai
fratelli di cui, nel nome di una più grande civiltà, di una più
grande patria, propiziava ieri le irresistibili eucarestie, e
dinnanzi agli animi nostri, incerti nel turbine, rievoca oggi,
custode l'uno d'ogni fiamma civile, traculento l'altro d'ogni forca,
gli spettri della Francia e della Germania quando ci diceva egli,
ieri, pure ieri, che la Germania avida di guerra è la Germania senza
scrupoli della Banca, della Borsa, del Krupp, che la Francia pronta
alla guerra è la Francia che ha barattato, la Dichiarazione dei
Diritti, per le azioni del Creuzot, del Credit Lyonnais, della Banca
di Francia; ed a fare la guerra dei finanzieri dei banchieri dei
grandi armatori dei grandi fornitori, di qua e di là del Reno, e a
pagarne lo scotto in tante giovinezze, in tanto sangue, in tanti
amari bocconi di pane, sono i senza tetto i senza patria i senza
pane delle due nazioni?
Certo non è egli tornato dal giudizio che ieri a mente serena, a
ciel sereno, esprimeva con tanta sagacia con tanto spregiudicato
coraggio: egli è certo oggi l'uomo di ieri, e dove non sia una
pedissequa aberrazione, dove il suo giudizio non sia stato travolto
dall'impeto del folle ciclone, l'uomo di ieri e l'uomo d'oggi
dovranno avere, buona o povera, la loro ragione se si trovano d'un
tratto fronte a fronte, l'uno da un lato, l'altro dal lato opposto
della barricata.
V.
Il compagno Pietro Kropotkine – di cui i lettori conoscono, per
saggi che la «Cronaca» ne ha recentemente pubblicato, la acuta
analisi dei moderni conflitti internazionali riassume in un fatto
unico, di esclusivo carattere nazionale, le cause originali della
guerra presente: nell'annessione dell'Alsazia e della Lorena
all'impero germanico nel 1871.
Lì, tutti i fermenti della guerra.
Perchè, la necessità di conservare il suo dominio sulle due
provincie, violentemente usurpate, ha sospinto la Germania verso gli
armamenti paradossali che, costituendo una minaccia costante alla
pace ed all'equilibrio europeo, hanno indotto di contraccolpo, la
militarizzazione di tutto il vecchio continente, una costante
vigilia d'armi che di anno in anno è andata inasprendosi fino ad
essere la preoccupazione esclusiva di ogni stato, rendendo
impossibile ogni ulteriore progresso, ogni vita di pensiero, ogni
tentativo proletario d'emancipazione.
Fissate con tanto ingenuo candore le cause della guerra, al compagno
Kropotkine le ragioni di schierarsi per la Francia, per
l'Inghilterra e, necessariamente, per la Russia contro i due imperi
centrali, non mancano più; e quantunque – come a placare un rimorso
– egli si auguri che «i lavoratori possano dalla guerra imparare
quale e quanta parte a scatenare i conflitti armati fra le diverse
nazioni, esercitano il capitale lo stato» considera primo dovere
d'ogni uomo di libertà e di progresso «dei proletarii coscritti
sotto i vessilli dell'internazionale del lavoro sopratutto, fare
quanto è in loro potere e secondo le loro capacità rispettive per
schiacciare codesto invasore».
La Germania a Metz, un campo trincerato a propositi aggressivi, può
nello stesso giorno della dichiarazione di guerra avventare
duecentociquantamila uomini su Parigi. Ed in tali condizioni, non
soltanto non è la Francia libera di attingere il proprio sviluppo,
ma i lavoratori del Belgio della Francia della Svizzera dell'Olanda
non potranno mai, in condizioni siffatte, iniziare un movimento di
liberazione.
La Germania feudale scenderebbe in massa a schiacciarli.
E fossero tutti lì i mali dell'imperialismo tedesco! Che v'è di
peggio: l'autocratismo russo tornato audacemente alla reazione, il
servizio militare obbligatorio instaurato in quasi tutte le nazioni
d'occidente; nella Germania stessa la sopravvivenza d'istituti
feudali superati, l'irrisione costituzionale d'un parlamento
asservito al monarca, la furia guerriera corrusca di lampi e di
minaccia, non ripetono se non dagli atteggiamenti provocatori della
Germania imperiale la loro causa e la loro ragione.
Guai se non si fa argine, subito, alla fiumana: l'Olanda, il Belgio,
la Francia orientale, la Finlandia, la Danimarca saranno domani
provincie tedesche. Anversa e Calais saranno domani le basi navali
delle nuove operazioni militari che metteranno l'Inghilterra alla
mercè del Kaiser rendendo impossibile, nell'inquietudine della
minaccia perenne, anche nel Reame Unito ogni palpito di vita civile.
Non bisogna dimenticare che la Germania da sola o coll'accordellato
della Russia non ha mai coltivato che odio alla Francia della
Rivoluzione ed è stata sempre il gendarme, lo strumento di tutte le
restaurazioni; e che dovremmo particolarmente ricordarlo noialtri
italiani che «nel 1860 quando si sono cacciati dalla Toscana, dal
Modenese, dal Parmense gli Ausburgo ed i Lorena, e Firenze divenne
la capitale d'Italia, abbiamo trovato nella Germania la più tenace
opposizione».
In conclusione, avverte il Kropotkine, se nello sforzo comune di
tutte le nazioni d'Europa la Germania non sarà schiacciata, avremo,
se non più, un altro mezzo secolo di reazione.
Questi, fedelmente desunti dalla sua lettera al prof. Steffen nel
«Freedom» dell'ottobre scorso, gli argomenti del compagno Kropotkine
che, agitando lo spettro della reazione imperialistica tedesca
contro la quale vorrebbe – insieme alle falangi degli alleati, ai
dragoni della repubblica, ed ai cosacchi dello Czar – opporre la
coalizione fervida di tutti gli uomini di libertà,
dell'internazionale del lavoro, prima d'ogni altra, è costretto a
prevedere da parte dei compagni un'inquietudine ed un'obbiezione.
– Ma può essere crociata sincera di civiltà e di libertà questa che
ha in fronte i vessilli e nella bilancia la spada e nella partita,
posta decisiva, le orde cosacche del Piccolo Padre? E nelle mani
dell'autocrazia, del Santo Sinodo, dei Cento Neri, della Duma –
irrisione costituzionale almeno quanto il Reichstag – i destini
della civiltà e della libertà staranno meglio che sotto i cannoni
del Krupp ed i talloni del Kaiser? E non prepari tu, vecchio
compagno incanutito sotto la raffica dell'esperienza più dolorosa,
ancora un atroce disinganno, il disinganno mortale di cui s'abbevera
nella storia ogni generazione proletaria ansante a ricostruire su la
rovina d'una tirannide la fortuna d'una tirannide più esosa, più
infame?
– Non v'abbuiate! – rassicura il buon Kropotkine in cui l'intimo
desiderio assurge alla solenne sicurezza del vaticinio. – Non
v'allarmate! «Quanti seguono attenti e studiosi il movimento
rivoluzionario russo possono dirvi quale sia il sentimento della
Russia moderna e vi possono assicurare che in nessun caso
l'autocrazia sarà restaurata nelle forme preesistenti al 1905, e che
una costituzione russa non assumerà mai le forme e lo spirito
imperialista di cui si è vestito in Germania il regime
parlamentare»5.
* * *
Il vasto consenso che nei cenacoli del liberalismo democratico hanno
riscosso le dichiarazioni del Kropotkine spiega di per sè il senso
di doloroso stupore con cui vennero accolte dai compagni. I quali
pur non ignorano, e si sono fino ad un certo punto spiegate, le sue
preferenze per le tradizioni la cultura il proletariato francese.
S'era dissetato, giovane, alle fonti superbe della filosofia del
XVIII secolo Pietro Kropotkine che al movimento rivoluzionario è
venuto sotto la carezza delle voci, dei ricordi, degli uomini della
Comune gloriosa; e, per la stessa natura geografica del movimento
rivoluzionario, colla Francia intellettuale e proletaria ha
coltivato per quarant'anni assidua famigliarità di rapporti. Non
avrebbero essi mai preveduto tuttavia che dell'antico melanconico
ufficiale dei cosacchi dell'Amour fosse tanto sopravissuto da farsi
giorno, traverso l'antimilitarismo dichiarato, coll'eccitamento agli
amici di Francia – che a cuor sereno od a ciel tranquillo l'avevano
aspramente ripudiata – a non contrastare la legge sulla ferma
triennale, ed avevano diritto di ritenere che alle aspirazioni dei
musgicchi verso la terra e la libertà egli vedesse in una qualsiasi
costituzione russa, fosse pure a differenza di quella tedesca immune
dalla lebbra imperialista, un ostacolo almeno così arduo, così erto
come nella autocrazia sempre superstite e vigorosa.
Ma tant'è; sul terreno dei compromessi è così: spostato il punto di
partenza le deviazioni vanno divaricando fino all'antitesi senza
perdere l'apparenza logica relativa. Quando escludete la patria
siete costretti a dire classe, a non vedere più che la rivoluzione
sociale; quando invece, degli antagonismi selvaggi che si urtano
all'ombra del simbolo etnico voi riedificate l'unità fittizia ed
assurda che chiamate Francia o Germania o Russia od Italia voi
obliterate, senza pure accorgervene, il processo di differenziazione
in cui il simbolo era andato dissoluto, e della nazione riavrete gli
orgogli e le ansie, gli odii e gli amori, solidali con ordini
istituti interessi che vi ripugnano, armati incontro a fratelli di
cui non sapreste disconoscere nel tempo e nello spazio l'identità
delle sorti e del destino; fantaccini squallidi d'una democrazia che
avete speso il meglio della vita a debellare, soldati del Kaiser e
dello Czar quando credevate di non aver più entusiasmi e sangue che
per la rivoluzione sociale. Sono ruzzolati per quella china i
socialisti tedeschi, gli antimilitaristi francesi, i sindacalisti
italiani e... Pietro Kropotkine.
È la logica della contraddizione, la quale è in principio.
* * *
Cercare chi abbia scatenato la guerra è ad un tempo ozioso e
sterile. Kropotkine che ne addossa la responsabilità alla Germania
vede levarsi di contro Keir Hardie e Bernard Shaw che ne accusano il
governo del proprio paese, l'Inghilterra; mentre in Francia il
Delaisi alla rescissione del sindacato franco-tedesco per la
ferrovia di Bagdad seguita dalla convenzione militare anglo-francese
del Delcassé, inasprita dalla legge sulla ferma triennale,
conferisce i caratteri d'una vera e propria provocazione alla
guerra; e contro Kropotkine che l'ora della guerra vede scoccare col
compimento del canale di Kiel, altri, non senza fondamento, ritiene
che all'Inghilterra urgesse sorprendere la Germania avanti che
questa avesse esaurito il suo programma navale del 1915 da cui la
sproporzione tra le due flotte rivali sarebbe stata attenuata.
Navigheremmo nel mare delle congetture e delle ipotesi senza
speranza di giungere a conclusioni positive. I trattati di alleanza,
le convenzioni militari, le combinazioni finanziarie che di ogni
guerra sono l'ordito preliminare necessario, si stipulano, si
consumano nel chiuso arcigno dei circoli di corte, tra gli Stati
Maggiori, negli istituti di credito direttamente interessati ed
ugualmente sbarrati ad ogni malsana indagine plebea. Contribuenti ed
elettori, generali e deputati, la così detta nazione, l'ignorano
come noi, e quanto ai raggiri dell'ultima ora, insegna la guerra del
1871 che deve passare qualche decennio avanti che al pubblico ne
trapeli.
Di positivo, di reale, di tangibile non rimane che la voragine
beante degli armamenti in cui, non la Germania sola, ma tutti i
governi del vecchio e del nuovo mondo, dall'Inghilterra al Giappone,
hanno precipitato durante trent'anni ogni più generosa risorsa.
– Reazione ineluttabile agli armamenti tedeschi spianati contro la
civiltà d'occidente, interrompe il Kropotkine.
– Anche il Giappone, anche la Cina, anche la Spagna e le due
Americhe? chiederemmo a lui se non sapessimo che nessuno meglio di
lui conosce quale sia oggi il compito dei grandi eserciti e delle
armate formidabili che sui boccon di pane e col sangue dei
diseredati stipano i governi in servizio del capitale insaziato.
* * *
Che nessun governo abbia osato spingere gli armamenti al parossismo
attinto dall'impero germanico, è verità che al Kropotkine bisogna
accreditare; ma tra il generale Von Bernhardi che sogna per la
patria tedesca una missione civile a cui la spada soltanto può
squarciare il cammino6 e Paul Louis che in uno studio recente mette
in rilievo la potenza industriale raggiunta dalla Germania in questi
ultimi quarant'anni, presunzioni diverse che sottintendono la stessa
necessità, propendiamo sulle orme luminose segnateci dallo stesso
Kropotkine ad indurre che a trovare uno sfogo a cotesti tesori della
patria industria, a conquistarne ed a proteggerne i mercati
coloniali, si raccogliessero l'esercito e l'armata del Kaiser contro
i concorrenti che le vie della formidabile conquista avessero a
sbarrare.
Quanto più la guerra si delinea nei suoi obbiettivi fondamentali,
tra gli antagonisti diretti e reali, l'ipotesi nostra trova sempre
più vasta e più decisa, conferma. Diremo di più: le ragioni vere
della guerra, i suoi caratteri ed i suoi fini inconfessati, balzano
improvvisi ed irrecusabili anche a coloro che chiudono gli occhi per
non vedere.
La guerra che è tra la Francia e la Germania; e non appare, no,
l'urto dell'Inghilterra, arca del patto costituzionale, contro la
Germania custode del diritto divino; ma selvaggia competizione di
due mercanti esosi di cui l'uno ha tenuto fino ad oggi incontestato
il dominio dei mari, il monopolio del mercato internazionale,
l'altro dalle sue terre, dalle sue miniere, dalle sue officine
prodigiose, dal sudore, dalla fatica, dalla rassegnazione squallida
dei servi, ha tratto in quarant'anni soverchia dovizia e gli vuole
contendere la signoria secolare dei mari e dei mercati.
Arrembaggio svergognato di corsari! così remoto, così estraneo ad
ogni preoccupazione di civiltà e di barbarie che non contro il
feudalismo tedesco – mutato nome e maschera il feudalismo è d'ogni
terra dalla Russia di Nicola II alla Spagna d'Alfoncito od
all'America dei Rockefeller e di Wilson – ma contro l'industria
tedesca invadente, incoercibile s'appuntano gli anatemi ed i cannoni
degli alleati; contro la Germania, che ha progredito, contro la
Germania che trent'anni fa estraeva dalle sue miniere settanta
milioni di tonnellate di combustibile e ne rovescia oggi
duecentotrenta milioni sul mercato; contro la Germania che
nell'ultimo trentennio ha elevato da uno a tre la produzione del
ferro, da uno a sette la produzione della ghisa, da uno a diciotto
la produzione dell'acciaio, a venticinque miliardi il suo traffico
coll'estero, che nel 1875 non attingeva agli otto miliardi; contro
il made in Germany per il made in England, è la guerra che strazia
il vecchio continente, come ci riserviamo di meglio illustrare al
seguente capitolo.
Ma intanto che cosa hanno a vedere, che cosa hanno a spartire con
cotesti banditi della finanza e della borsa, compagno Kropotkine,
gli uomini di libertà, i proletari di quà e di là della Manica o del
Reno?
Che cosa?
VI.
Nella ricerca delle cause misteriose e profonde che possono aver
determinato l'attuale conflitto europeo abbiamo visto la maggior
parte dei compagni e dei giornali di parte nostra, da P. Kropotkine
alla «Bataille Syndicaliste» attingere criteri, dati, cifre agli
studi ed all'opera di Francis Delaisi. Non soltanto perchè in
materia di finanza – il presupposto d'ogni guerra – egli sia una
competenza riconosciuta, non soltanto perchè egli sia politicamente
uno spregiudicato sempre disposto a tuffar le mani nel raggiro
complicato dei grandi finanzieri, dei grandi borsaioli per
dimostrare come sbarazzate le tasche dei contribuenti diretti ed
indiretti, la avida genia si aggioghi l'ingranaggio politico dello
Stato, e sia di fatto, all'ombra della magistratura repubblicana, il
solo vero onnipossente governo della Francia; ma anche e sopratutto
perchè nessuno come lui ha saputo dai vari sintomi inosservati o
trascurati trarre con intuito meraviglioso, fin dal 1911, della
guerra attuale, delle sue fasi primarie, una previsione così lucida
e così sicura.
«Parlare d'una guerra possibile, probabile, prossima, sembra a prima
vista una follia» – scriveva Francis Delaisi ne «La guerre qui
vient», tre anni fa – «e certo se si consultasse unicamente il
sentimento popolare in tutti i paesi del mondo, non sarebbe da
temersi».
«I proletari tedeschi hanno altra voglia che di tirar al bersaglio
sui nostri... la grande massa dei lavoratori inglesi non chiede che
di lavorare con tutta tranquillità nei campi, nei magazzini, nei
cantieri; e quanto ai francesi, operai o contadini, proletari o
borghesi, socialisti internazionalisti o radicali patriotti, non
hanno che un desiderio: la pace».
«Tutto andrebbe a meraviglia, e noi potremmo starcene tranquilli se
i popoli fossero padroni dei loro destini...».
«Disgraziatamente nessun popolo in nessun paese del mondo fa la sua
politica estera».
* * *
Dopo di aver dimostrato che questa funzione rimane l'appannaggio
della diplomazia, abilmente scelta tra gli aristocratici del nome e
del denaro, a servire l'oligarchia finanziaria che spadroneggia nel
paese; che la responsabilità ministeriale è una burla, che
l'interpellanza parlamentare è una lustra, che la grande stampa è
alla greppia dei borsaioli, e che in queste condizioni «nella nostra
democrazia ombrosa una guerra può essere sfrenata, precipitato il
paese nella più terribile avventura da un uomo o da un'esigua
camorra di finanzieri»; dopo di aver dimostrato cogli intrighi
anglo-francesi del Delcassé che non v'è nulla di temerario nelle sue
affermazioni, il Delaisi conchiude:
«Una guerra terribile si prepara tra l'Inghilterra e la Germania. Su
tutti i punti del globo i due avversari si misurano e si minacciano.
Gli incidenti della ferrovia di Bagdad e delle fortificazioni di
Flessinga mostrano a quanto grado d'acutezza la crisi sia
pervenuta».
«Per battersi le due potenze hanno bisogno della Francia: la
Germania ha bisogno dell'oro francese, l'Inghilterra che non ha
eserciti stanziali, ha bisogno delle truppe francesi».
«Il governo francese è dunque arbitro della situazione: non dia a
Guglielmo i denari, non dia a Giorgio V i soldati, e la pace sarà
pressochè assicurata».
«Invece il governo francese negozia coll'Inghilterra una convenzione
militare, e se essa sarà firmata, noi (i francesi) dovremo andare a
farci rompere la testa nei piani del Belgio per assicurare alla
gente di Londra il possesso d'Anversa, e saremo di colpo esposti ai
pericoli d'un'invasionee tedesca».
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . .
«Tra qualche settimana, forse, i finanzieri di Francia avranno
venduti; per qualche ferrovia turca od etiopica la pelle di
centomila francesi».
«È il momento» – conchiudeva allora, nel 1911, il Delaisi – «è il
momento per quanti non vogliono essere trattati come bestiame,
d'aprire gli occhi, di considerare freddamente la situazione di
Europa e vedere l'intrigo pericoloso in cui l'oligarchia finanziaria
si appresta a precipitarli».
Ma le ragioni del conflitto anglo-tedesco?
«Una volta le nazioni erano popoli di contadini, ed era politica di
contadini quella dei loro capi. I conflitti eran di frontiera; le
guerre, di annessione o di conquista: Napoleone si annette il
Belgio, a Bismark l'Alsazia e Lorena...».
«Tutto è cambiato oggi. Le grandi nazioni europee sono governate da
uomini d'affari: banchieri, industriali, negozianti, esportatori. Lo
scopo di questa gente è di trovare uno sbocco alle proprie rotaie,
ai propri cotoni, ai propri capitali».
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . .
«Le nostre grandi oligarchie moderne non sanno che farsene dei
sudditi, vogliono clienti. Gente d'affari, fa guerre d'affari».
* * *
Così nel caso specifico.
«L'Inghilterra, un macigno di ferro su di un macigno di carbone, è
stata durante tutto il XIX secolo la regina del mondo industriale.
Aveva il minerale con cui le macchine si fanno, il carbone con cui
si attivano, i mezzi di sviluppare un meccanismo industriale
incomparabile, mentre il mare da cui è circondata le permetteva di
sviluppare una marina senza uguali...; era la padrona incontrastata
del commercio mondiale».
Riprodurre in esteso non mi è possibile: le proporzioni di questo
studio ne andrebbero sconvolte, e queste considerazioni che della
grande guerra, delle sue intime ragioni, dei suoi caratteri, non
vogliono essere più che un riflesso sincero, più che un'analisi
modesta in contrapposto delle epiche menzogne e degli orpelli
fraudolenti con cui si raccomanda agli entusiasmi ed ai consensi
della massa ingenua e tradita, diventerebbero eterne.
Condenso dunque del Delaisi fatti ed argomenti, sforzandomi di
essere rigidamente fedele e di rendere sempre che torni possibile
colle sue stesse parole il suo pensiero, i fattori ed i termini
dell'antagonismo industriale che egli mette in rilievo e sul quale
asside della guerra presente le cause determinanti, le ragioni
irrecusabili.
Contro la britannica signoria del mare e del mercato internazionale,
dopo la guerra franco-prussiana del 1871, sorge lenta inattesa
quanto pertinace una rivale formidabile, la Germania, che Bismarck
sospinge fuori dell'antico feudalismo terriero su per le vie, le
conquiste, le audacie dell'industrialismo moderno il più evoluto:
sulle rive del Reno, nella Westfalia, nella Sassonia, nella Slesia
sorgono, come per incanto, cantieri, officine, arsenali; serpeggiano
ferrovie e canali, rigoglia e canta la resurrezione mentre nei
grandi porti di Brema e d'Amburgo s'organizza la più meravigliosa
flotta mercantile che abbia mai solcato gli oceani a recare su tutti
i mercati del globo i tessuti, le macchine, i prodotti chimici, i
manufatti d'ogni genere dell'industria tedesca miracolosa. L'aquila
del Kaiser contende alla croce di San Giorgio le vie, il secolare
dominio dell'oceano.
* * *
Non v'è nulla d'esagerato o di fantastico nella vertiginosa
ascensione avvertita dal Delaisi. Ne potete trovare la riprova nel
censo della popolazione industriale eretta da Paul Louis nel suo
«Syndicalisme Europeen», sui dati ufficiali.
Nel censimento del 1907 la parte della popolazione che vive
dell'industria conta per 26,386,537 unità contro i 20,253,121 del
1895, contro i 16,098,000 del 1882. La popolazione che vive del
commercio e dei trasporti (sarebbe forse più esatto dire che fa
vivere l'industria i trasporti i commerci) che era di 4,531,080
nell'anno 1882; che è di 5,966,816 nel 1895, sale nel 1907 ad
8,278,229; si è cioè duplicata nell'ultimo ventennio senza contare i
tesori di energia che nella nuovissima attività economica della
Germania ha versato la donna. Secondo il censimento eretto da Lily
Braun i 4,408,000 di donne che erano in Germania occupate nel 1882
nei campi, nelle fabbriche, negli uffici, sono diventati 5,203.000
nell'anno 1893, sono otto milioni e duecentomila nel 1907; mentre
nel complesso indice dello sviluppo impetuoso la popolazione di
Amburgo aumenta nei cinque anni dal 1905 al 1910, del 17 per cento,
quella di Colonia del 19 per cento, quella di Francoforte del 22 per
cento, quella di Essen del 27 per cento, quella di Dusseldorf del 41
per cento!
So, e non m'illudo: lo sviluppo nel mezzo, nello strumento di
produzione finchè ci arrovelliamo schiavi rassegnati od imbelli nel
girone affannoso del regime borghese, il quale non ha altra funzione
che di torcere, l'un contro l'altro armati ed irreconciliabili nella
stessa persona, il produttore ed il consumatore, rinsaldando nella
provvida contraddizione il dominio, la fortuna sua, i ceppi nostri
più esosamente, il progresso rimane, peggio che vanità, tormento ed
irrisione; siamo perfettamente d'accordo.
Ed io non amo mettere il nostro bravo compagno Kropotkine, ormai
travolto dal suo dirizzone paradossale, in amara angustia con sè
stesso, chiedendogli se possa ripudiare questi dati di fatto su cui
ha fermato altre volte la sua attenzione ed il suo consentimento, e
se, questa condizione irrecusabile ammessa, egli possa ancora
parlare di un feudalismo tedesco, di un imperialismo tedesco diverso
e più temibile di quello che egli esperimenta personalmente da tanti
anni in Inghilterra, l'Inghilterra delle Indie dell'Egitto del
Transval, ed ha in più ristretto campo, nel campo esclusivamente
finanziario militare, il suo fedele riscontro nella repubblica
d'oltre Manica; e se proprio, a questo feudalismo industriale di cui
tutto l'occidente d'Europa, tutto l'oltremare americano sono oggi
gli angosciati vassalli, sia preferibile il... feudalismo russo, ad
esempio, rimasto nella chiesa sovrana, nel privilegio aristocratico,
nello squallore industriale; in pieno anno mille, insuperato; ed a
fianco del quale egli, il recluso di Pietro e Paolo, il bandito
perpetuo, il perpetuo candidato alle forche sante della santa
Russia, viene a riconciliarsi, a schierarsi con tanto ingenuo ed
inconsapevole entusiasmo.
Non gliene chiederò mai, anche perchè sarebbe assolutamente
superfluo.
Pietro Kropotkine è in fondo perfettamente d'accordo con Paul Louis,
con Francis Delaisi e colla «Cronaca Sovversiva» nel convincimento
che lo sviluppo industriarle e commerciale della Germania pervenuto
al suo attuale parossismo non poteva non urtarsi violentemente nella
concorrenza inglese, costituendo la più grave minaccia, la sola
grave minaccia alla pace internazionale, il solo pericolo d'un
conflitto che nessun intervento per quanto autorevole, nessuna corte
arbitrale per quanto veneranda, sarebbero mai riusciti a derimere, a
placare, ad attenuare: il mortale duello che il vecchio mondo
dilania e spaura di tanti primordiali selvaggi ritorni, ed oscura di
tanta barbara eclissi l'orizzonte remoto della civiltà e della
libertà; e del cui losco antagonismo fondamentale diremo anche più
lungamente in seguito.
Urla oggi nella parola smarrita e sorpresa di Pietro Kropotkine
l'eco d'una voce che non è la sua, rugge negli impeti del suo
effimero entusiasmo la bufera dell'universale insania.
Sulle inutili stragi, sugli sgomenti, sui singulti tardi del domani,
tornati al covo i corsari, nel disperato silenzio, nella tregua
morta dell'esangue passione, troverà egli i segni, i lividi segni
della realtà desolata ed acerba; e rotta la maglia d'aberrazioni, di
perfidie che oggi l'avviluppa e lo soggioga, dolente d'un più amaro
disinganno ma cinto d'una vasta, più tragica esperienza, in fronte
alle schiere obliate tornerà araldo, maestro e guida.
Troverà immutati, ardenti, fedeli gli animi liberi ed i cuori buoni,
insorti ribelli ingrati oggi alle sue inaspettate esortazioni.
VII.
Oggi, no. Squilla più poderosa della sua, sommergendone le smarrite
esortazioni, la voce brutale della realtà.
I cantieri le fabbriche le officine che d'ogni valle trasognata
rompono i silenzi ignavi, che nelle vecchie città patriarcali ansano
affannose l'inno della resurrezione, e vi addensano turgide
inviolate le energie dei servi della gleba, e vogliono intorno –
ordito necessario di vene e di arterie – canali ferrovie e navi che
d'ogni piaggia esotica portino i frutti della terra e degli armenti,
ed ai quattro orizzonti disperdano insieme col nome e colla gloria
della grande patria tedesca, le dovizie accumulate dall'inesausto
fervore; e vogliono, pietre miliari dell'ascensione trionfale,
arsenali ed armate che ne assicurino il ritmo e la fortuna,
rimangono della guerra la fonte e la ragione.
La ragione involontariamente confessata:
«Noi avremo fra 10 anni una popolazione di ottanta milioni di
abitanti i quali, nell'ambito degli attuali confini de l'impero, non
riusciranno più a trovarsi lavoro rimunerativo, se non avremo la
rete di colonie che oggi, salvo qualche trascurabile eccezione, ci
mancano».
«Ed, anche oggidì, è ammissibile che sessantacinque milioni di
tedeschi, il loro commercio con tutto il mondo, rimangano alla mercè
di quarantacinque milioni d'inglesi, e ad essi consentano la tutela
del vecchio mondo, la supremazia del mare?» si domanda il generale
Von Bernhardi il quale – smessa la durlindana ed il morione del don
Quixote che sul genio su la coltura su la superiorità della gente
tedesca, di cui si era istituito araldo e cavaliere, raccoglievano
più beffe e più torzoli che non el ingenioso hidalgo de la Mancha –
si è deciso a dirci in linguaggio meno cavalleresco ma meno astruso,
l'angoscia che rode nel suo paese i grandi ladri, ed a mostrarci
dietro i mulini a vento d'un nazionalismo smaliziato la realtà degli
interessi che vogliono sul mercato la precedenza e nel grande
strozzinaggio internazionale la loro parte di bottino.
E la conclusione, la sola conclusione che possa rispondere a questo
antagonismo d'interessi e riassumerne il furore, non può essere se
non quella che egli ne trae:
«Una guerra tra la Germania e l'Inghilterra è inevitabile.
L'Inghilterra ha il maggior interesse a scatenarla quanto prima
può»... e d'altronde «la nostra aspirazione ad un più vasto posto
nel mondo ci porterà sicuramente ad una guerra come quella dei Sette
anni, nella quale saremo certo vittoriosi quanto l'eroico re di
Prussia»7.
Le previsioni della vittoria finale lasciamole da banda. Sono così
inseparabili dagli stipendi dagli orgogli dalle responsabilità del
guerriero professionale che nessuno saprebbe farne caso: un generale
tedesco non può arrischiare previsioni malaugurate; non ne ha
l'interesse il coraggio la libertà. È interessante invece rilevare
la parte fondamentale delle dichiarazioni del generale Von
Bernhardi: l'esercito tedesco, la marina tedesca non hanno altra
missione che di assicurare uno sbocco all'industria tedesca, le vie
del mare ed i mercati del mondo all'industria ed alla finanza
tedesca.
* * *
Ed è denunciata con tanta cinica brutalità che davvero non si
comprende come il buon Kropotkine abbia potuto trovare nel
vassallaggio politico dell'Alsazia-Lorena le scaturigini e le
ragioni degli armamenti tedeschi e, non so bene, qual sogno di
feudali propositi alla guerra attuale; nella difesa della repubblica
o del costituzionalismo inglese le preoccupazioni di civiltà e di
libertà per cui ci vorrebbe coscrivere in servizio degli alleati.
L'Alsazia? La Lorena? Ma i capitalisti repubblicani non le
rivogliono. Nota bene il Delaisi, che a Mulhausen si sono sviluppati
lanifici, cotonifici, acciaierie così poderose che contro la loro
fecondità si sono dovute in Francia escogitare le più severe
protezioni doganali, e che tornate francesi, quelle officine
farebbero tale concorrenza alle officine del Creuzot alle filande
dei Vosgi di Lille di Rouen da portare un disastroso turbamento in
tutta l'economia dell'industria nazionale.
Ci spieghiamo ancora meno la cantonata del Kropotkine che nel suo
ultimo studio su «La Guerra» egli mostra d'aver attinto ad un'opera
che or sono sei anni ha suscitato in Francia le più legittime
inquietudini. È un grido d'allarme alla borghesia francese, Contre
l'Oligarchie Financière, contro un pugno di banditi della Borsa che
mentre soffocano nei loro tentacoli insaziati l'industria paesana
mettono le enormi riserve del risparmio francese in servizio
dell'industria straniera.
Chi ha dato l'impulso meraviglioso all'industria tedesca oggi
insuperata, incoercibile? Chi le rinnova il sangue nelle vene
affaticate se non l'oligarchia finanziaria repubblicana che pur di
far quattrini venderebbe al Kaiser la Francia e la Repubblica
settanta volte e sette?
«La politica delle nostre grandi banche non soltanto
antidemocratica, è antinazionale...».
«La Banca di Parigi e dei Paesi Bassi conchiude un prestito con lo
Stato di San Paolo, Brazil. Il prestito è destinato al riscatto
delle strade ferrate. I francesi sottoscrivono, i tedeschi
raccolgono le ordinazioni del materiale mobile e delle linee...
«Sul mercato di Parigi s'introducono le azioni della Banca
Commerciale Italiana. Che cosa è la Banca Commerciale Italiana? È un
istituto fondato dalla Deutsche Bank, dalla Dresdener Bank, dalla
Disconto Gesellschaft, una banca tedesca insomma che ha per iscopo
di finanziare commercialmente la Triplice e conquistarle il mercato
italiano...
«La Compagnia Francese delle Miniere d'oro... conchiude una alleanza
colla Metallgesellschaft di Francoforte per smerciare in Francia i
titoli tedeschi.
Sui primi del 1908 la Banca Unione Parigina prende parte alla
costituzione d'una società di carbone nella Lorena tedesca con un
capitale di diciotto milioni di marchi. La finanza francese ne dà
per otto milioni.
«Il Credito Industriale e Commerciale costituisce il primo ottobre
1905 a Colonia la Società Anonima Tedesca dei Carboni col capitale
di quattordici milioni di marchi...
«Ma su questo terreno dell'antinazionalismo delle banche francesì
v'è di peggio...
«Una parte considerevole del denaro depositato negli istituti
francesi di credito è prestato in modo permanente alle banche
tedesche e serve di fond de roulement al commercio ed all'industria
tedesca...
«Non imprecate, non dite che non sia vero, non dite che è
impossibile.
«Precisiamo: Tra le grandi banche tedesche e quelle francesi v'è una
convenzione scritta, un vero e proprio trattato d'alleanza, ai
termini del quale le banche francesi forniscono alle banche tedesche
capitali liquidi: le banche tedesche dànno a quelle francesi delle
cambiali a tre mesi, che non pagano alla scadenza ma rinnovano ogni
trimestre col pagamento dell'interesse supplementare...
«Che è quanto dire: le banche francesi accordano alle banche
tedesche un credito a lunga scadenza che negano all'industria
francese.
«Non soltanto le banche tedesche non rimborsano alla scadenza, ma
chieggono nuovo denaro.
«Nel 1900 i capitali francesi a disposizione delle banche tedesche
raggiungevano il miliardo e mezzo. Nell'ottobre del 1906 le banche
di Berlino hanno mandato a Parigi per avere nuovi crediti... Alla
sola Deutsche Bank, il Crédit Lyonnais ha prestato trecento milioni
di franchi. La Société Générale, Le Credit Industriel et Commercial,
l'Union Parisienne hanno depositi considerevoli a Berlino. La
statistica dei prestiti francesi alle banche tedesche raggiunge una
cifra inconfessabile»8.
Se Pietro Kropotkine dovesse pei lettori della «Cronaca», profani ai
misteri dell'alta finanza tradurre in lingua volgare il significato
e la portata di queste operazioni di borsa, direbbe semplicemente
che i banchieri francesi, quelli che oggi hanno nelle mani le redini
della repubblica, adoperano i piccoli risparmi dei lavoratori, delle
domestiche, dei minuti bottegai della Francia, ad affamare il
proletariato francese, ad ingrassare gli accaparratori, gli
sfruttatori, i negrieri del proletariato tedesco.
Non potrebbe dirvi altrimenti, anche se le sue esortazioni alla
difesa proletaria della repubblica dovessero andarne decapitate.
* * *
— Ma se i capitalisti francesi, come dite voi, hanno a Berlino ad
Amburgo, a Dresda, a Francoforte così prospera vigna ai subiti
guadagni, così fruttifero campo alle loro speculazioni, perchè la
guerra tra la Francia e la Germania che la vendemmia devasta di
irrimediabili rovine?
— Anzitutto i borghesi, i capitalisti, i grandi finanzieri si
rivalgono largamente in patria – la guerra aiutando – dei rovesci
patiti oltre confine. Ad allestire un esercito, a mobilizzarlo e
tenerlo per qualche mese, per parecchi anni alla frontiera, in
guerra, occorrono grani e foraggi, scarpe e coperte, cavalli,
automobili, aeroplani, armi e munizioni, forniture improvvise e
continue di milioni, di miliardi su cui la speculazione si esercita
senza misura, senza limite, senza controllo; poi, come è già
avvenuto in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Austria, in
Italia, sono i prestiti che si numerano a miliardi, i prestiti che i
grandi istituti di credito fanno coi depositi dei poveri diavoli
raccattando commissioni, senserie, realizzando guadagni paradossali;
poi domani, dopo i primi disastri come dopo l'epilogo finale, sono
le dreadnoughts da ricostruire, gli armamenti da rinnovare, le
artiglierie da rifare, le riserve e le fortificazioni, tutto
l'esercito da rifornire, l'armata a riedificare.
È la ridda folle dei miliardi, dei miliardi che si estorceranno
ancora, sempre e soltanto dalla fatica, dal sangue, dai sudori, dai
digiuni dei bastardi, a ritessere della patria più grande, la
porpora ed i vessilli, a rifare agli sciacalli la preda, l'orgia, la
boria.
Chi grida: «Viva la guerra?».
Coloro che alla guerra non vanno, che alla guerra non hanno nulla da
perdere, che alla guerra hanno tutto da guadagnare.
Chi sente più acre la prurigine degli orgogli l'impeto delle
rivendicazioni della patria e della stirpe?
Coloro che della patria ignorano i cimenti, le gesta, le glorie;
coloro che della stirpe irrisero al calvario eroico, contesero in
ogni tempo l'ascensione civile servendo al Papa ed al Sant'Ufficio,
all'Austria ed alle forche, al giallo Carignano avantieri, quando
buttava il capestro a Garibaldi ed a Mazzini, al Padre della Patria
ieri quando su pel Golgota dell'Aspromonte nelle carni del Duce dei
Mille straziava il sogno di Luciano Manara e di Goffredo Mameli, ad
Umberto il Buono quando su la rivoluzione italiana debellata
agognava alla restaurazione delle «ordinanze» e dell'antico regime
mitragliando per le vie di Milano i superstiti delle Cinque
Giornate, i continuatori della redenzione; e l'indomani di
Gibilrossa, l'indomani del Volturno e di Lissa si facevano liquidare
dai nuovi padroni in regie chincaglie ed in moneta sonante i trenta
scicli dell'Iscariota, l'eroismo della sesta giornata; coloro che la
patria concepiscono sotto la specie commestibile del pane e del
vino, coloro che la patria hanno nella cassa forte e ad impinguarla
venderebbero insieme col natio loco i loro penati, gli indigeti, il
padre e la madre; coloro che della patria sono stati in ogni tempo
l'onta, d'obbrobrio, la rovina, e la stirpe tennero e tengono in
ispregio ed in vassallaggio.
La guerra è, come la pace, la loro cuccagna.
* * *
D'altronde – e l'abbiamo esaurientemente documentato nel corso di
queste nostre modeste considerazioni attingendo alle testimonianze
più diverse e meno sospette – più che nei rapporti tra la Francia e
la Germania, le ragioni della guerra debbono ricercarsi nei rapporti
fra la Germania e l'Inghilterra, negli antagonismi irriducibili fra
i banchieri, gli industriali, i mercanti dei due paesi; apparendo
manifesto, anche a chi osservi superficialmente, che la Russia non
costituisce fino ad ora nell'arringo industriale, commerciale,
finanziario, un concorrente temibile per nessuno, e che la Francia
ha cessato di esserlo da gran tempo.
Non i termini, ma la necessità istessa della competizione, sono in
quei rapporti, in quell'antagonismo, come illustra, meglio forse
d'ogni cifra e d'ogni considerazione questo lamento di un console
britannico in Siria: «Una volta tutti i prodotti europei smerciati
qui venivano dall'Inghilterra, oggi vi scrivo con una penna tedesca,
su carta tedesca, su uno scrittoio fabbricato in Germania; e tra
poco d'inglese non rimarrà qui che il vostro rappresentante
umilissimo».
Era l'evizione violenta, rapida, inesorabile. I rimedi doganali del
Chamberlain non apparivano soltanto inefficaci e tardivi, ma si
urtavano All'insurrezione decisa del proletariato inglese, così come
gli appelli di Lord Roberts alla coscrizione, alla necessità
immediata del servizio militare obbligatorio, si abbattevano
sterili, inascoltati contro l'unanime repulsione dei lavoratori
inglesi.
Bisognava raccomandarsi al cannone, trovare coi sapienti raggiri
diplomatici nazioni a tradizione, ad organizzazione e a preparazione
militare così antica così salda così densa che potessero sul
continente fronteggiare gli eserciti tedeschi, ed allestire
un'armata che agli scopi economici della guerra, alla distruzione
dell'industria e del commercio tedeschi, provvedesse fin dal primo
giorno dell'entrata in campagna.
Furono le grandi dreadnoughts, che, bloccando il canale della Manica
ed il Mare del Nord, contendono ai porti di Brema e di Amburgo il
ferro che viene dalla Spagna, il cotone che viene dagli Stati Uniti,
le lane che vengono dal Capo, dall'Argentina e dall'Australia, che
negano all'industria tedesca l'alimento ed il sangue di cui vive,
che le tolgono di esportare i prodotti proprii, e la costringono al
fallimento disperato ineluttabile, mentre sola, padrona oggi delle
vie dell'oceano, l'industria inglese raccoglie le ordinazioni,
coscrive la clientela che in trent'anni di sforzi e di progresso
meraviglioso gli industriali tedeschi si erano accaparrata.
Il «Vorwaerts!», l'organo ufficiale del partito socialista tedesco
mostrava d'aver limpida la visione di queste immediate conseguenze
della guerra quando, nel suo numero del 12 settembre scorso, era
costretto ad ammettere che «pericolo più grande della disfatta
militare era per la Germania il prolungamento delle ostilità. Per la
Germania il grande pericolo è nella possibilità che la flotta
inglese riesca ad impedire l'importazione del cotone, della seta,
del rame, dell'olio, del piombo, dei pellami, delle gomme, delle
materie prime che sono indispensabili alla continuazione della sua
vita industriale; e che essa sia costretta a chiudere le proprie
officine».
Ed a conferma delle melanconiche previsioni del «Vorwaerts!» il
Ministro del Commercio e Lavoro di Washington compendiava il 25
settembre scorso in una prima statistica le subitanee depressioni
che la guerra, la quale non durava che da un paio di mesi, aveva
determinato nelle importazioni e nelle esportazioni. Pel solo mese
di d'agosto e per l'America del Nord, le esportazioni tedesche che
nel 1913 avevano attinto un complessivo di denari 21.301.274 si
riducevano nell'agosto del 1914 a dollari 68.737; e, sempre e
soltanto pel mese d'agosto e per l'america del Nord, le esportazioni
tedesche che nel 1913 sommavano ad un totale di dollari 15.626.176
si riducevano nell'agosto del 1911 a 9.400.043. Queste ridotte della
metà quelle annichilite completamente fin dall'agosto scorso; ora,
nulle od irrisorie l'una e l'altra.
Mettete sul conto i risultati dell'atroce guerra di corsa in cui gli
incrociatori tedeschi nell'Atlantico e nel Pacifico, quelli inglesi
in ogni mare, in ogni stretto, sotto ogni latitudine ansano alla
caccia dei piroscafi, dei postali, dei trasporti della pacifica
rivale flotta mercantile, meno per amor di preda o di bottino che di
distruzione dei rispettivi mezzi di scambio, e negate poi che la
guerra – esule disperatamente ogni preoccupazione di libertà, di
civiltà, di progresso – non sia una feroce competizione d'usurai
nella quale la Francia democratica e repubblicana, la Russia
assolutista e medioevale, oggi, domani l'Italia nè carne nè pesce,
sono chiamate a far da lanzichenecco, a far da svizzero ai borsaioli
di Londra, ai corsari d'Inghilterra, così come il proletariato
tedesco, austriaco o turco è chiamato – esule ogni senso di
progresso e di libertà, ogni coscienza della propria forza e del
proprio destino – a farsi massacrare pei grandi pirati, pei grandi
affamatori pei grandi assassini della borsa di Berlino, della
Deutsche Bank o del Krupp raccolti come lupi in agguato alla voce ed
alle spalle del tragico istrione imperiale.
* * *
Ma nell'attuale conflitto, Pietro Kropotkine vede, particolarmente
designato dalla storia, accanto agli alleati, il posto dei
lavoratori, degli uomini italiani di libertà; e questa sua
presunzione richiederà ancora un commento.
VIII.
Secondo Pietro Kropotkine gli Italiani hanno verso la Francia un
particolare debito di gratitudine ad assolvere, hanno colla Germania
un vecchio conto di tradimenti e di raggiri a liquidare: la Francia
è accorsa in aiuto dell'Italia quando la patria nostra si batteva
con eroismo disperato per l'indipendenza, l'unità, per la propria
liberazione, mentre la Germania di Guglielmo I insieme colla Russia
di Alessandro II sulla Francia, «on account of her offorts to free
Italy» rovesciava tutto il suo odio, ed agli italiani stessi quando
«in 1860 sent away the Austrian rulers of Florence, Parma and
Modena, and Florence became the capital of Italy»9 non fece mai
mistero della sua ostinata, implacata opposizione.
Il momento di liquidare la doppia partita scocca ora, ed intorno
alla situazione dell'Italia non può essere equivoco: deve schierarsi
per la Francia contro la Germania.
* * *
Se venisse da un altro, dagli storici del calibro di Luigi Cibrario
o magari di Guglielmo Ferrero, da quanti, nel girone del
cinquantenario dei fasti e dei nefasti dell'ultima rivoluzione
italiana attingono nelle cronache auliche e nelle apologie
cortigiane salariate, il richiamo non ci stupirebbe più che tanto;
ma da Pietro Kropotkine che ci ha dato nella «Grande Revolution» la
misura delle sue attitudini magnifiche alla critica ed all'indagine
storica, noi abbiamo diritto ad una meno temeraria interpretazione
dell'epopea nazionale.
Della quale non tenteremo qui, neanche nelle sue grandi linee, la
ricostruzione, sia perchè della presente discussione essa non è che
un episodio, sia perchè non lo consentono i limiti di questo studio
modestissimo.
Noi vorremmo soltanto che il Kropotkine si rifacesse un momento agli
uomini di libertà del periodo storico a cui accenna, ad uomini cui
si può tutto contendere fuorchè l'amore immenso della patria,
fuorchè la sincerità della fede cresimata dal sangue dal sacrificio
dal martirio, ad Alberto Mario od a Giuseppe Mazzini, ad esempio,
sicuri che egli sorprenderebbe nelle ansie, nei dubbi, nelle
rivolte, in tutto il pensiero di quegli edificatori della patria
italiana, non soltanto lo spirito animatore dell'ultima rivoluzione,
ma schietto e limpido il carattere dei rapporti tra il popolo
d'Italia anelante all'indipendenza ed all'unità coi suoi nemici di
fuori... e di dentro.
* * *
Non ci farà Pietro Kropotkine l'ingiuria di crederci nemici della
Francia, e noi non gliene offriremo il pretesto riabilitando – da
Carlo Magno che or sono undici secoli gittava in Roma le fondamenta
ed i presidii del potere temporale dei Papi, ai preliminari di
Loeben od al trattato di Campoformio che ai boia d'Asburgo
consegnavano legata piedi e mani, la più generosa delle popolazioni
italiane – le acide irose querimonie dei misogalli tradizionali. Non
lo rimanderemo neanche al «Moniteur», ai resoconti parlamentari
della tempestosa seduta del 7 marzo 1849 in cui la sinistra
repubblicana chiedeva che fosse posto in istato d''accusa il
ministero Odillon Barrot il quale, autorizzato dal parlamento a
proteggere in Roma la libertà italiana, mandava il generale Oudinot
a Civitavecchia «a far da cosacco alla repubblica romana» come
denunziava dalla tribuna Etienne Arago, «a restaurarvi il papa» come
deplorava scandolezzato, ed è tutto dire, Jules Favre.
Napoleone il piccolo nel suo messaggio del 12 novembre 1850 chiariva
come si intendesse nella Francia dei Bonaparte la difesa della
libertà repubblicana della terza Roma:
«Nos armes ont renversé à Roma sette demagogie turbulente qui dans
toute la peninsule italienne avait compromise la cause de la vraie
liberté; et nos braves soldats ont eu l'insigne honneur de remettre
Pie IX sur le trone de St. Pierre»10.
Non abbiamo interesse a rovesciare sugli altri colpe e vergogna che
sono di casa nostra, in istrazio di una verità che soffocata allora
violentemente, ed anche oggi, con ogni più subdolo raggiro, con ogni
più compassionevole pretesto contrastata, ha fatto soverchio cammino
oramai perchè nella fede di uomini come Pietro Kropotkine non trovi
ospitalità e cittadinanza.
E la verità è questa: che i contrasti, gli ostacoli peggiori
all'indipendenza ed alla unità italiana non vennero ai patriotti
della prima ora, dell'ora tragica in cui l'amore alla patria si
scontava colla forca, dalla Germania o dalla Russia o dalla Francia;
ma dai Savoia, ma dagli uomini di Stato piemontesi per cui ogni
pensiero, ogni atto, ogni passo all'affrancamento delle provincie
italiane dal giogo dei Borboni o del Papa, degli Asburgo o dei
Lorena era delitto se nella generosa temerità non portasse
sottinteso od esplicito l'assenso preliminare alla nazionale
investitura sovrana di Vittorio Emanuele II. Ond'è che, prima di
essere contrasto violento di patriotti e di stranieri, l'epopea
nazionale è lotta acerba, implacata tra coloro che, ripudiata oggi
sordida ipoteca, vogliono franca la patria nei suoi confini storici,
e quelli che vogliono la conquista piemontese dell'Italia; tra
quelli che l'indipendenza vogliono assicurata sullo sbaraglio delle
tirannidi piovute esoticamente d'oltr'alpe come di quelle cresciute
e vivaci all'ombra delle patrie forche, e coloro che mossi soltanto
dalla libidine e dalla cupidigia, e dalla rapina, al basto ed al
bastone tedesco volevano sulle reni del buon popolo d'Italia
adattare e sferrare ugualmente esoso ed atroce il basto loro, il
loro bastone.
Paterino, avventuriero o brigante chi osasse l'impresa scellerata:
meglio in Sicilia il Borbone che Garibaldi, meglio a Roma il Papa ed
il potere temporale che la repubblica di Saffi e di Mazzini, meglio
l'Austria a Venezia che le camicie rosse nel Trentino, ed un
autorevole giornale italiano di parte moderata11 si compiaceva
giorni sono di ricordare le parole che Camillo Cavour ripeteva al
gran re in Bologna il 2 maggio 1860, tre giorni avanti la partenza
dei Mille da Quarto: se non ci va nessuno a prendere Garibaldi pel
colletto ci vado io; e con maggiore soddisfazione le parole con cui
Visconti-Venosta inaugurava in Roma la prima seduta del parlamento
italiano: «noi non siamo venuti a Roma nè con la rivoluzione nè al
seguito suo, ma prevenendola. Noi vi vogliamo rimanere, non colla
rivoluzione ma con uno spirito di libertà e di considerazione larga
e tollerante che intende di guarentire al pontefice il diritto e la
libertà delle coscienze e di assicurare al pontefice il rispetto in
condizioni tali che alcun altro paese non glie ne possa offrire nè
di più sicuro nè di più degno»12.
Erano la rivoluzione Giuseppe Garibaldi che levando a Palermo la
bandiera «Italia e Vittorio Emanuele» non era riuscito a disarmare
le diffidenze e le paure della camorra sabauda, Giuseppe Mazzini
esule nella patria della cui indipendenza ed unità era stato il
confessore l'araldo il milite della prima ora, di tutta la vita
intemerata e gloriosa.
Il liberatore brecciaiolo era Vittorio Emanuele II di Savoia al
quale era mancato sui gioghi dell'Aspromonte l'onesto proposito di
assassinare Garibaldi sulla via di Roma, ma d'accordo colla Francia
di Napoleone, cui aveva denunziato le mene rivoluzionarie di
Garibaldi, i lividi odii pinzoccheri aveva potuto saziare nelle
stragi garibaldine di Monterotondo, di Villa Glori e di Mentana.
* * *
Il contrasto era naturale come era naturale e logica la diffidenza
degli elementi democratici verso l'intervento francese nelle cose
d'Italia.
Sia tradizione dei liberi comuni, orgoglio delle sue vecchie
republiche gloriose, sia coscienza istintiva della varietà etnica
dei suoi elementi costitutivi, complicata dalla eccentricità
geografica delle sue regioni, la gente nostra – nella cui storia la
tradizione monarchica, eccezione fatta per la Sicilia, ha soluzioni
violente e frequenti di continuità – non poteva concepire che in
senso repubblicano la ricostruzione nazionale, e cotesta aspirazione
non poteva non abbattersi irreconciliabile sull'egemonia piemontese.
E questa, cui mancava il suffragio della fiducia e della
cooperazione popolare, doveva necessariamente cercare allo
straniero, a Napoleone Bonaparte, alla Francia, come scrive
Kropotkine, l'aiuto che in patria non trovava.
Pietro Kropotkine non ispenderà certo una parola in difesa dell'uomo
del 2 dicembre, e comunque giudichi l'opera sua non mi dirà certo
che fosse un uomo da preoccuparsi della indipendenza d'Italia, se
non in quanto in Italia potesse realizzare la mal celata ambizione
di rifare ai napoleonidi dispersi dalla restaurazione i regni di
Etruria o del Napoletano.
«L'alleanza della Francia col Piemonte rende irrisoria l'efficacia
della volontà nazionale, turba negli italiani la coscienza di sè e
dei loro doveri, li ha resi immemori del loro decoro», scriveva
Alberto Mario nell'ottobre del 1859; e soggiungeva: «Prima di
quell'alleanza l'Italia era dominata dall'Austria, dopo si trovò in
balia ad un tempo dell'Austria e della Francia. Due imperatori se la
contendono; l'austriaco vuole il corpo, il francese l'anima...; e la
dipendenza morale... è modificata da cinquantamila soldati che dio
sa se e quando rivalicheranno le Alpi».
E non si nascondeva affatto le intenzioni dell'Imperatore dei
francesi.
«Napoleone III è un imperatore in embrione: possiede la corona senza
le gemme, e le cerca. Napoleone zio le ha trovate per primo e della
miglior acqua in Italia: il nipote... calò in Italia a ripescarvele,
smarrite nel 1815. Lo zio le ha incastonate di sua mano nella corona
d'oro senza cerimonie, il nipote lascia questa cura ai compatriotti
di Benevenuto Cellini orafo. Più tardi impareranno l'arte anche i
Napoletani».
Il Moniteur del 28 settembre 1859 sentiva l'obbligo di rassicurare
gli italiani; ma la malleveria del «Moniteur» era negli impegni di
Villafranca e nella parola del boia del 2 Dicembre.
Più brutale il Mazzini, a cui pure ogni forma di violenza ripugnava:
"Quell'uomo", – scriveva da Londra nel 1858 – «è l'assassino di
Roma; ei vi mantiene senz'ombra di diritto un esercito, quasi
avamposto ad incarnare un giorno disegni di grandi ambizioni; ei
cospira celatamente a pro di una insurrezione Muratiana a
Napoli...».
E del conte Camillo di Cavour, cui l'intervento si doveva,
smascherava i subdoli avvolgimenti gridando sdegnato:
«Noi crediamo nella iniziativa del popolo d'Italia, voi la temete, e
vi studiate d'allontanarla... Noi vogliamo che il paese, sorto una
volta che sia, scelga libero la forma di istituzioni che dovrà
reggerlo; voi negate la sovranità popolare e fate della monarchia
una prepotente condizione d'ogni aiuto nell'impresa. Noi cerchiamo i
nostri aiuti fra i popoli che hanno con noi comunione o d'intenti,
di dolori, di lotte, voi li cercate fra i nostri oppressori, fra i
poteri deliberatamente, necessariamente contrari alla nostra unità.
Noi consacriamo tempo, mezzi, anima, vita a persistere in una guerra
che attraverso una serie inevitabile di sconfitte educa il nostro
popolo a combattere... voi consacrate tempo, mezzi, politica ad
attraversarci la via, a perseguitarci dovunque... a denunziarci alle
polizie dei governi assoluti...»13.
Si potrebbe abbondare, ma ci pare che bastino le sommarie citazioni
precedenti a persuadere il Kropotkine che, se proprio è soggiogato
da questo suo democratico ritorno ai simboli collettivi, è giustizia
essere più esatto, parlare cioè della alleanza dell'Impero colla
Monarchia del Piemonte, ed assolverci dal debito di gratitudine come
italiani, anche senza pensare ai compensi territoriali che allora
all'Impero furono pagati, anche senza approfondire i reconditi fini
per cui l'ultimo Buonaparte aveva, in aggiunta al presidio di Roma,
portato in Italia tante legioni di fanti e di cavalli. E senza
ricordarci sopratutto i disastri del 1866, voluti, dal conserto
proposito di Napoleone e di Vittorio Emanuele ad impedire che la
Prussia ruinando da Sadova a Vienna diventasse fin d'allora la
terribile Germania che doveva quattro anni più tardi cingere a
Versailles la corona imperiale.
* * *
Senza fermarci al 1866 che segna il più torbido e fosco raggiro di
cui si adombri la storia italiana degli ultimi cinquant'anni, ed il
tradimento più infame di cui si sia macchiata la dinastia savoiarda
in cui il tradimento e la vigliaccheria sono tradizione e storia;
tradimento insieme delle più fervide speranze italiane, e dei soli
alleati da cui potesse, da cui abbia realmente avuto la causa
dell'indipendenza italiana efficacia vera di cooperazione e d'aiuto.
A Custoza ed a Lissa volute, imposte dalla paurosa complicità del
Bonaparte e del Padre della Patria perchè l'Austria avesse man
franca contro il suo nemico del Nord, non la Germania ha tradito
l'Italia, buon amico Kropotkine, se non faccia velo alla tua
serenità la disgraziata crisi del sentimento, ma Vittorio Emanuele e
Napoleone III hanno tradito la Germania e l'Italia.
Noi ce ne appelleremmo alla tua lealtà della quale non abbiamo
dubitato mai, della quale non dubitiamo neanche ora che i nostri
nemici ti inalberano contro di noi rampogna tanto più dolorosa che
essa è immeritata, se intorno a cotesto superato momento di storia
la discussione avesse altro valore che di chiarire una trascurabile
contingenza.
Perchè se nell'episodio storico della polemica ci siamo indugiati,
le denominazioni astrattamente collettive e simboliche di Francia di
Germania di Russia di Austria d'Italia, che per un momento ti
abbiamo rubato, non rimangono della polemica se non un espediente
che non infirma nè intende emendare in alcun modo la impenitenza
nostra a distinguere, sotto il velame fraudolento dell'unità etnica,
la doppia patria di chi opprime e di chi è oppresso, di coloro che
creano nella pena sotto la croce della sanguinante passione, e
coloro che nell'ignavia fanno cinico strazio del sangue e del sudore
proletario; e noi persistiamo a ritenere che la guerra comunque
s'accenda, dovunque imperversi, sia la forma più sciagurata di
quella collaborazione di classe contro la quale con ogni tua parola,
colla parola e coll'esempio, con ogni tuo gesto, col meraviglioso
fervore della tua giovinezza superstite ad ogni strazio ad ogni
lusinga a tutte le insidie corrosive agli anni, hai risvegliato
diffidenze e disdegni, proteste e rivolte, suscitando fra gli umili
di ogni terra da Angiolillo a Bresci, da Vaillant a Masetti,
nell'olocausto, la nostalgia della giustizia e della rivoluzione
sociale.
Dopo di averci asciugato stilla a stilla il sudore d'ogni fibra come
a dannati, nelle miniere, nelle officine, nei cantieri, in tutti i
suoi bagni industriali il sangue ed il sudore, la borghesia ci
chiede nelle ecatombi paradossali sulla Vistola e sul Reno l'estrema
salvezza dal fallimento che contro il suo regime abbominevole ha
inesorabilmente pronunziato il tribunale della ragione maggiorenne,
della ragione inesorata.
Vi sapremmo tanto meno indulgere che quelli che vorrebbero essere
nel tuo linguaggio i termini di un sillogisma si riducono ad una
deplorevole ambiguità, per non dire ad un'obliqua inversione.
Alla Francia di Diderot, di Voltaire, di Beaumarchais, alla Francia
della Rivoluzione, della Dichiarazione dei Diritti, della Comune, tu
poni, antitesi irreconciliabile, la Germania medioevale del diritto
divino del Kaiser del Krupp, invocando per quella le braccia le armi
degli uomini di libertà, dell'internazionale proletaria, conclamando
su la seconda la distruzione e la morte necessariamente.
La logica non è che apparente; navighiamo in pieno sofisma, in un
equivoco sciagurato.
Alla Francia di Lamark e di Pasteur, alla Francia dell'Enciclopedia
e della libertà non devi tu logicamente, onestamente opporre la
Germania di Goethe e di Schopenhauer, di Lassalle e di Marx, di
Wirchow, di Haeckel, di Kock?
Ed alla Germania del Kaiser, del diritto divino, del Krupp non trovi
tu la Francia corrispondente delle Congregazioni, dello Stato
Maggiore, dello Schneider, del Comptoir National d'Escompte che ieri
rinnovava le Sambartolomeo dell'antisemitismo domenicano ed oggi
giuoca in Borsa il sangue dei lavoratori massacrati ad Ypres?
Ristabiliti equamente, logicamente i termini contradditorii della
tua proposizione non potresti più chiedere, certo, le simpatie
libertarie per cotesta Francia, la sola che, come la Germania
dall'altro lato del Reno abbia voluto la grande guerra, la triste
guerra che non dobbiamo sorreggere anche se non l'abbiamo saputa
evitare; ma non ne trarresti tu, il fratello nostro più grande e più
caro, nell'angustia di questi giorni, al morso della coscienza – che
alla follia travolgente dell'ora insana può indulgere, ma non è
morta e non dimentica e riprenderà domani intiero il proprio dominio
– tu che raccogli sotto ogni cielo, in ogni cuore, tanta sincera
confidenza, così profondo affetto di umili, la forza di dire ai
proletari di qua e di là dalla frontiera: nelle vostre mani
incallite sono i destini della civiltà e del progresso, tra i
lavoratori del mondo ha il suo rifugio inviolato la civiltà che non
guarda alle bandiere, alle frontiere, alle livree, agli idiomi,
sterpi effimeri, barriere fugaci sotto l'agile piede, sulla via
luminosa, dinnanzi al progresso incoercibile; non l'abbandonate, non
la precipitate sotto le zampe ferrate degli ulani o dei dragoni o
dei cosacchi, non la prostituite ai giuocatori di borsa che ne
conieranno moneta o ritorte, moneta per sè, ceppi per voi; opponete
alla coalizione degli oppressori e degli sfruttatori la coalizione
degli oppressi e degli sfruttati, e nel girone ardente della patria
frontiera affogate il nemico secolare, il comune nemico per sempre,
per la salvezza vostra, per la salvezza di tutti!
Vox clamantis in deserto?
Dal Battista della leggenda all'ultimo fucilato di Montjuich è nelle
voci clamanti sul deserto l'auspicio dell'avvenire.
Più cambia e...
«Ed essi presero così la città...
«E massacrarono quanti si fecero sul loro cammino, dagli uomini fino
alle donne, dai bambini fino ai vegliardi.
«Misero a fil di spada buoi, asini, agnella...».
Non è un telegramma che celebri da Lodz o da Bruges il vittorioso
incedere dei tedeschi barbari o dei russi cresimati avantieri, dagli
entusiasmi alleati, araldi novissimi di civiltà.
È nel libro di Giosuè (VI, 20, 21) in istile telegrafico la
conquista ebrea di... Gerico.
Possono da Bismarck a Moltke, a Mario Morasso, ai Federzoni
spiccioli del nazionalismo o dell'imperialismo borsaiolo gridare gli
apologisti della forza, i profeti della guerra, che sulle picche o
sugli howitzer da quarantadue incedono il progresso per le contese
vie del mondo, la civiltà per gli anfratti scoscesi della storia e
dell'avvenire; possono mutare gli avvolgimenti, i riti, le forme; ma
i guerrieri, guerrieri d'ogni tempo e d'ogni gente, rimangono
immutati, disperatamente immutabili, gli ebrei di Gerico di Giosuè e
del vecchio testamento.
Immutati, immutabili!
(6 dicembre 1914.).
Tutto il mondo... è paese
Non saprei trovare miglior titolo ad una nota sovversiva di
carattere generale, tanto più che riferito alla civiltà, la quale è
in quest'ora turbinosa il luogo comune abusato, il vecchio
proverbio: trova la più vasta applicazione.
Mi spiego: alla «Cronaca», non si conosce l'intolleranza che è dei
preti, dei preti neri come dei preti rossi; e se non si dà tregua ai
voltagabbana professionali e mercenarii, non si saprebbe coltivar
neppure un'ombra di rancore a quanti sinceramente, ingenuamente,
anche nel campo sovversivo si schierano per la guerra.
Perchè odiarli? Sono deboli che il ciclone ha travolto; innocenti
che si appagano di un miraggio, che abboccano ad un'apparenza, che
non osano degli omeri fragili opporre un argine a la fiumana. Sono
per la guerra? Domani, doman l'altro, fra un mese o un anno, quando
la vittoria si torcerà in tradimento, le responsabilità della guerra
in corona atroce di spine, e l'orgoglio in umiliazione ineluttabile
e sanguinosa, non lo saranno più.
* * *
Non domandiamo che una cosa a questi sperduti nel buio: che sulla
pietra di paragone della cronaca di ieri, di oggi, di domani saggino
le ragioni per cui alla guerra hanno dato il loro consenso. Alla
fiamma dell'esperienza tornerà il più squallido dei pretesti anche
quella che è nella loro argomentazione la base fondamentale delle
ingenue preferenze per la guerra; la superstizione diffusa che col
Belgio, colla Francia, coll'Inghilterra si accampi la civiltà, in
contro a la barbarie che bivacca all'ombra degli howitzer tra gli
ulani dei due imperatori; quanto meno che se cogli alleati non è
tutta la civiltà, è tuttavia una civiltà superiore a quelle
dell'Austria e della Germania, e che tra i due mali sia forza
scegliere il minore.
* * *
È anzi più che una superstizione, è un compromesso che porta
lontano, ad estremità insospettate.
Vedete un po'!
Ci gridano i nostri compagni a la deriva: «Siamo anarchici, non
siamo per la guerra, non possiamo esser per la guerra; ma intanto la
guerra è la grande realtà con cui bisogna fare i conti, e poichè la
guerra è tra la Francia democratica e la Germania feudale, scegliamo
dei due mali il minore, siamo nella guerra presente per la Francia e
per la repubblica».
Non è così?
Ed a dispetto dell'apparenza logica è il salvacondotto d'ogni
transazione, di tutti i voltafaccia.
Se invece che nel campo industriale e militare la competizione
borghese infuriasse nell'aringo religioso, i nostri buoni compagni
ci ripeterebbero colla stessa disinvoltura: «Siamo anarchici, non
siamo per la religione, non possiamo essere per la religione; ma
intanto la religione è la grande realtà con cui bisogna fare i
conti, e poichè l'urto è fra il dogma e la riforma, scegliamo dei
due mali il minore contro l'immacolata concezione stiamo per Lutero
e per Calvino».
Ancora: «Siamo anarchici, non siamo quindi, non possiamo essere per
l'autorità; ma intanto la rivoluzione è podagrosa, l'anarchia
remota, mentre lo Stato è la grande realtà con cui bisogna fare i
conti. È una realtà autocratica in Russia, è una realtà
costituzionale in Italia: dei due mali scegliamo il minore,
rimaniamo anarchici ma siamo... monarchici, ed inchinandoci a Bresci
stiamo per Gennariello».
* * *
Neanche si sognano che il loro atteggiamento comporti riflessi così
sciagurati. Se ragionassero un momentino butterebbero alle ortiche
la fregola vana di snobismo, la devozione ai pastori della breve
chiesa, la docilità pigra al tradizionalismo che rigurgita violento,
il furore d'incoerente praticismo ad ogni costo che li aggioga al
carro del nemico; e stendendoci la mano con franchezza sbarazzina ci
direbbero nell'impeto del ravvedimento: Avete ragione! La divisione
delle classi è così recisa, così abrupta che non consente la zona
neutra del male maggiore o del male minore su cui istituire una
preferenza. O si è di qua o si è di là; o si è per la conservazione
dell'ordine borghese, o si è per la rivoluzione sociale; e se non
siamo fino ad oggi in grado d'impedire una guerra perchè la parte
maggiore dei proletariato evirato dalla disciplina ha seguito i mali
pastori nell'abiura e nell'apostasia, non è ragione perchè dalla
parte dei guerraioli e per la guerra ci dobbiamo schierare rifacendo
sull'ali della fantasia a benefizio dei capitalisti i confini della
stirpe ed al privilegio la fortuna, giacchè una sola è la realtà con
cui bisogna fare i conti, e questa è che nessuna civiltà sia
sincera, possibile, degna del nostro entusiasmo e del nostro
sacrifizio, se, consacrando il privilegio esoso di chi ozia nella
più stridente delle iniquità, neghi a chi lavora e crea il diritto
alla vita, alla conoscenza, alla gioia; unica realtà la rivoluzione,
la quale se intorno a troppe inerzie, a troppe diffidenze, a troppi
interessi misteriosi e tenaci ha dovuto tendere le fila innumeri del
suo ordito sovvertitore, per avere oggi ragione dei nemici, oltre
ogni frontiera congiurati alla rovina ed alla nostra perenne
servitù, non è per questo meno imperiosa, meno ineluttabile, nè così
destituita nelle sue aspirazioni e ragioni che noi abbiamo a
rinnegarla od a tradirla per la patria o per 1a civiltà di lor
signori.
E queste realtà, che a noi piacciano o non piacciano, c'impongono un
solo atteggiamento: contro la guerra dei grandi ladri se dobbiamo
farne le spese, contro la neutralità dei pusillanimi o dei castrati,
contro la pace obesa d'usura e d'ipocrisia, per la rivoluzione
livellatrice! ora e sempre, fino alla palingenesi piena e
definitiva, senza remissioni, senza tregua, mai!
* * *
Questo ci direbbero se riflettessero un minuto soltanto, questo ci
diranno domani senza alcun dubbio se vorranno prendersi la cura di
riesaminare i connotati alla civiltà di cui ci assordano, attingendo
alle fonti ed alle testimonianze insospettabili.
Perchè se è vero che barbaro sia il governo tedesco quando sotto
l'egida di Ottone di Bismarck e per conto degli industriali, dei
finanzieri tedeschi, si apre nel petto delle donne, sullo strazio
dei vecchi e dei bambini, la via all'impero coloniale dell'Africa
occidentale, e J. Scott Keltie della Società Reale Geografica
Inglese, il quale pur pensa che laggiù in Africa non si possa fare a
meno di «certain amount of compulsion» (una certa coercizione), è
costretto ad ammettere, lui! che the natives have been... treated
with great cruelty (gli indigeni sono stati trattati con molta
crudeltà) e venduti, occorrendo, come schiavi; dall'altra riva del
Reno o della Manica non sì è certo adoperato meno atroce, meno
barbara procedura.
Quanti anni sono dunque corsi dal giorno che al Parlamento belga il
deputato Laurent agitava milletrecento e otto mani tagliate ai
poveri indigeni del Congo, ed affumicate debitamente perchè il
trofeo civile non andasse a male, sull'ordine di uno dei tanti
ufficiali belgi che ora fanno prodigi alla frontiera?
Non è un episodio di ieri? Non lo ricordava recentemente ancora la
buona Sévérine mentre a confortare l'antico adagio che in materia di
civiltà, tutto il mondo è paese, ci raccontava le meraviglie del
valore francese alla presa di Sikasso?
Riproduco testualmente:
«Il colonnello ha cominciato a scrivere sul suo carnet la lista dei
prigionieri, la ripartizione che ben tosto si farà. Ma son troppi, i
disgraziati; quattromila! Troppi come a Waterloo.
«Se ne stanca presto il colonnello, rinunzia alla contabilità
fastidiosa e, poichè all'ombra dello stendardo repubblicano la
tratta è abolita, rimette in tasca il suo lapis:
«– Spartitevi questa roba.
«E si spartisce. Chi piglia una donna, chi ne piglia due, chi tre,
chi ne toglie anche nove. Per affrancarle da ogni rimpianto e dalla
fatica di portare oltre il bottino dei nuovi padroni, si sono
massacrati i bambini. Anche i vecchi sono stati ammazzati.
«La colonna avanza, marcia gloriosa. Le prigioniere bevendosi le
lacrime allungano il passo, accarezzate del resto dalla sferza al
menomo segno di stanchezza.
«Una di esse è incinta, vacilla, stramazza. I calci dei fucili le
rullan nei fianchi «l'avanti!» Si sconcia lì, sulla nuda terra,
spezza il legame, procede sanguinante.
«E, dietro, sul suolo, non resta più nulla, più nulla all'infuori di
un piccolo bimbo morto a testimoniare nel cospetto dei cieli la
nostra civiltà.
Les Francs ont passè là, tout est misère et deuil!
«Povero Victor Hugo, che cosa direbbe egli che nei «Chatiments»
votava all'esecrazione dei posteri l'aguzzino che sulla madre sacra
aveva levato la mano?»14.
* * *
Se l'economia del giornale non imponesse limiti discreti a questa
nostra rubrica, vorremmo insieme coi nostri lettori ricercare alle
Indie, in Egitto, nell'Africa australe i connotati dell'ipocrita
civiltà inglese, negli stessi confini del Reame Unito, rimasto oggi
quello che era cento anni fa quando a mezzo del Lord Cancelliere
negava a Percy Bisshe Shelley, soltanto perchè in dio non credeva,
il diritto di crescere, di tenere presso di sè i proprii figlioli; i
connotati della civiltà austriaca che si delineano tra il bastone e
la forca, quelli della civiltà italiana che i Livraghi e i Caneva
hanno portato a Massaua od a Sciarasciat. Quanto alla Russia che
Maria Rygier e Pietro Kropotkine veggono sulla via di Damasco, su
cui la Germania di Guglielmo non si sarebbe ancora affacciata,
basterà la statistica che il deputato Tcheidze presentava soltanto
cinque anni fa alla Duma: Nel breve giro degli ultimi quattro anni,
trecentoquarantasette deputati sono stati arrestati e condannati al
carcere, diciotto relegati in Sibera, mentre quattrocentosei editori
di giornali furono chiusi nelle fortezze o mandati al bagno, e mille
e ottantacinque periodici sono stati soppressi; dati e fatti che
inducevano l'onorevole Tcheidze a conchiudere che «in Russia la
civiltà è ancora nelle mani del boia, e le esecuzioni capitali
rimangono l'episodio obbligato della cronaca quotidiana».
Riprenderemo il compito ingrato in un altro numero, conchiudendo per
ora che non dubitiamo e non abbiamo dubitato mai del sincero amore
dei sovversivi guerraioli per la civiltà.
Deploriamo soltanto che essi ne abbiano consentito la tutela ai
manigoldi della borghesia, feudale e barbara dovunque s'accampi, in
Germania od in Inghilterra, in Austria od in Francia, in Italia o
nel Belgio; perchè la borghesia, della civiltà e della libertà è
l'antitesi per... definizione.
(6 dicembre 1914).
La Repubblica di Sant'Ignazio
Tre mesi fa, proprio di questi giorni, sul rescritto del loro
magistrato supremo, si rovesciavano i cento milioni di cittadini per
tutte le piazze, si affollavano per tutte le chiese invocando nelle
cento favelle diverse dal signore dei cieli – disperatamente sordi i
semidei della terra – che l'onta barbara della guerra, che la
paradossale carneficina atroce in cui si svenano, di là dal mare,
cinque stirpi e si scava la fossa al progresso umano, avesse a
cessare per la gloria di Cristo e per le fortune della civiltà.
Percossa d'ammirazione ogni gente.
La grande repubblica si ricongiungeva con quell'atto di suprema
pietà e di civile coraggio insieme, alla gloria delle sue cristiane
origini ed alle promesse del suo civile divenire, confondendo le sue
voci generose all'anelito dei grandi cuori, dei materni cuori d'ogni
patria, all'anelito estremo del vicario di Cristo sulla terra
insanguinata.
Degna di pietà, invero, la tragedia immane: non infuriava che da
quattro mesi la guerra, contenuta come da un senso di pudore degli
stessi energumeni che pure l'avevano sferrata, nelle Fiandre
occidentali ridotte ad un carnaio spaventevole, ad una ruina
disperata; e mezzo milione di giovani vite erano falciate dalla
mitraglia, ed ogni più ardita creazione della bellezza e del genio
fiammingo erano mutate dalla cieca furia sterminatrice degli
howitzer in un cumulo di macerie pietose.
Bruxelles e Gand, Anversa e Bruges, la cattedrale di Reims e la
università di Lovanio, i templi di dio, l'austero albergo degli avi,
le arche della gloria e della sapienza, vi erano ugualmente passate,
ed il fato sinistro delle grandi cattedrali strappava più rimpianti,
più lacrime che non lo scempio di mezzo milione di umane giovinezze,
d'ogni grande guerra necessario, irrecusabile tributo.
* * *
Nella penombra del tempio qualcuno ghignava.
EUROPE DESTROYS AMERICA PRODUCES!
«Today the american laboring man enjoys his day of rest.
«Today, in Europe, 19.000.000 laboring men and other are engaged in
the wholesale slaughter of each other – in the demolition of homes,
humble and great – in the destruction of the crops of the field and
the cities which it has taken a thousand years to build.
«Europe is spending doll. 40.000.000 a day for destruction.
«Six million, six hundred and fifteen thousand american laboring men
are peacefully and coutentendly at work on their annual doll.
28.530.261.000 worth of manufactured products.
«Over doll. 15.000.000 is being spent for food to feed a vast horde
of destroyers In Europe.
«In America 6.340.357 farmers are busily engaged in harvesting
America's doll. 28.386.770.000 farm crop.
«Millions are being spent daily on gunpowder and equipment in the
work of carnage across the sea.
«America's 1.139.332 miners are engaged in producing aur annual
mineral budget – valued on doll. 1.042.642.69315».
Ghignavano i mercanti, i grandi mercanti che, come ognuno sa, hanno
nel libro mastro, nel portafoglio, nella cassa forte, nel dividendo,
tutta la carità e tutta la civiltà di cui il loro calcolo sia
suscettibile.
Le voci di giubilo, di cui l'alleluia! del «Boston American» non è
che un preludio discreto, crescono colle ordinazioni, che si fanno
di giorno in giorno più pingui e più fitte, all'osanna forsennato e
sbracato.
«La guerra rovescia su di noi «semplicemente il benessere», grida
alla Convenzione di Chicago, interprete dei più grandi affaristi
della Repubblica A. H, Mc Quilken del «Business Equipment Journal»,
ed il President della Central Trust Co. dell'Illinois, rincara
«Comincia per gli Stati Uniti tale era di prosperità che nessuno ha
mai veduto, nessuno avrebbe saputo prevedere», mentre è in ognuno
dei quarantotto Stati dell'Unione una gara orgogliosa: nell'Indiana,
a La Porte, è venuto dall'Inghilterra un ordine di quarantamila
arnesi completi, nel Missouri, a St. Louis, si apprestano
centodiecimila barili di farine; nel Michigan, a Detroit, si lavora
giorno e notte ad allestire qualche migliaio d'automobili, nella
Pensylvania, i Baldwin di Philadelphia non sanno come assolvere
un'ordinazione di parecchie migliaia di locomotive per quanto ne
mandino fuori regolarmente una al giorno dai loro cantieri, ed a
Pittsburg seimila uomini sgobbano a fare diecimila gomitoli di
reticolati; nel New England l'enumerazione degli ordini che vi
piovono giornalmente toglierebbe parecchi numeri del giornale;
borraccie d'alluminio, coperte di lana, scarpe, calze, camicie, a
centinaia di migliaia per un complessivo di milioni fantastico su
cui le fortune di lor signori ingigantiscono all'iperbole nel giro
di ventiquattro ore.
I mercanti sono mercanti: ai loro scrupoli cristiani hanno abdicato
il giorno che sul groppone sul sudore su l'ignominia su lo strazio
dei servi hanno coniato, leva al miliardo, il primo centinaio di
dollari; non li risusciteranno oggi che il miliardo si leva
improvviso, tinto di sangue e d'obbrobrio, dalla carneficina e dalla
ruina.
Nel coro delle lamentazioni universe, non era la loro voce.
* * *
Ma la repubblica? la repubblica che allo scoglio di Plymouth approdò
col patto nazareno del Mayflower illividita dalla persecuzione, e
cresimò Abramo Lincoln del suo sangue propiziatore a tutta la
liberazione, pegno di civiltà e di fratellanza temerarie, – ha
potuto mentire al buon dio nelle sue preci, ai suoi cento milioni di
cittadini ora, che a continuare la superba tradizione di Jefferson,
è alla Casa Bianca Woodrow Wilson?
* * *
Ha mentito, mente a tutti, mente agli umili ai servi ipocrita,
sfacciata, impudica.
Ricordava giorni sono al Congresso il senatore Gilbert Hitchcock del
Nebraska che la grande repubblica – la quale della guerra, delle sue
stragi, delle sue ruine ostenta l'orrore così acre quanto la
nostalgia della pace, dell'amore, della fratellanza universale,
cristianamente invocata nei messaggi del suo più grande magistrato –
la grande repubblica che, nei giudizii di George Sylvester Viereck
del «The Fatherland», potrebbe nel giro di un paio di mesi spegnere
la grande guerra, ricondurre le potenze belligeranti, di buona o di
mala voglia, alla tregua, nella guerra soffia con impetuoso furore
arrovellandone al delirio, alla pazzia, la libidine sterminatrice.
E dinnanzi al Congresso il senatore Gilbert Mc Hitchcock del
Nebraska ha letto la nota interminabile delle ordinazioni che per
conto dell'Inghilterra, della Francia, del Belgio, della Russia si
stanno assolvendo nelle grandi officine, nei grandi cantieri
d'America in onta agli impegni della neutralità formalmente
dichiarata, ad irrisione del pietoso fervore e delle preci bugiarde
con cui dai suoi tribuni, dai suoi ministri, dai suoi preti, dai
suoi cittadini si invocavano, or son tre mesi, la tregua, la pace
plebiscitariamente.
Il plebiscito era d'ipocrisia
La Remington Arms Co. ha l'ordine di duecentomila carabine;
L'Union Metallic Cartridge Co. lavora a fornire duecento milioni di
cartucce;
Duecentomila moschetti e duecento milioni di cartucce si
allestiscono dalla Winchester Arms Co.;
Quattro milioni di libbre di polvere si preparano dalla Dupont
Powder Co.;
Millecinquecento mitragliatrici dalla Colt Works, la quale ha pure
un ordine di cinquantamila revolvers;
Tredici milioni di cartuccie, centomila carabine deve consegnare la
Remington Arms Co.;
La Crucible Steal Co. ha ordini per oltre dodici milioni di dollari,
in materiale d'artiglieria;
La Winchester Arms Co. ha poi altri ordini per:
Cinquecentomila carabine calibro 22;
Centomila carabine calibro 30-40;
Cento milioni di cartucce relative;
Come del resto la Dupont Powder Co. oltre alle ordinazioni già
accennate si appresta a fornire sette milioni di libbre ad un
committente, duemila tonnellate di polvere d'artiglieria ad un
altro.
La Bethlehem Steel Co. dà novecento mortai, howitzer, da 6 inches,
ed un altro centinaio da 9 inches con tutti gli annessi e connessi;
mentre l'Autocar Co. si affanna alla confezione di duecento
automobili corazzate, mentre le diverse ditte dànno aeroplani d'ogni
genere, quattro milioni di frecce in acciaio; e tre milioni di
cartuccie pigliano settimanalmente la via della Francia come
denunziava al ministero degli Esteri il conte Von Bernstorff
ambasciatore di Germania a Washington.
La guerra divampa, s'aggrava travolgendo nel suo ciclone di sangue
di fiamma di pianto una gente nuova, una nuova nazione ogni dì,
soltanto perché la grande repubblica per turpe libidine dei sùbiti
guadagni, oggi; per le avide ipoteche sornione del domani, ne
attizza la mania suicida, ne arrovella il cannibalismo imbestialito.
I cinque milioni di giovani d'ogni stirpe che, dalle gole dei
Carpazii alle dune fiamminghe, hanno del loro sangue generoso,
inconsapevoli disperatamente, irrorato della patria i destini, dei
suoi grandi ladri costellati la fortuna; e dal campo inglorioso non
tornarono o tornarono mutilati, inutili per sempre agli altri ed a
sè, pendono alle forche della frode puritana svergognata.
Loro beccai maramaldi – feroci, spietati quanto Guglielmone o
Nicola, quanto Cecco Beppe e Giorgio V, i Carnegie, i Rockefeller –
i Bryan, i Wilson che biascicavano di pietà di civiltà di
fratellanza universale all'Aja ed a Washington, in parlamento in
chiesa in piazza, mentre insaponano, all'ombra, la corda e
s'avventano insaziabili alla strage, al sacco universale.
La repubblica bagascia di Sant'Ignazio da Loyola!
(9 Gennaio 1915).
Minime della Patria e della Guerra
L'ora precipita! Fra due, fra tre settimane al più, e potrebbe
essere anche prima, la patria sarà travolta nel girone della guerra
a cui si prepara da mesi con attività indefessa e per la quale ha
speso oramai – scrive al suo Imperatore il Principe van Bülow che è
di casa, e certe cose le può sapere, e se ne intende – la bellezza
di un paio di miliardi e forse più.
Precipita alla guerra, la patria; ed è ancora un'orrenda vigilia
d'ansie di spasimi d'angoscie alle povere madri d'Italia cui strappa
un editto del re tre milioni di figli gagliardi per l'inutile
olocausto al bugiardo feticcio della patria o per la torbida
restaurazione d'interessi di istituti, di classi a noi, più che ogni
esterno nemico, implacati.
E, come in ogni tragica ora delle patrie fortune, il cuore le
preoccupazioni del re sono pel suo popolo beneamato.
Bisognerà pur nutrirli questi tre milioni di armati figli della
patria... finchè la mitraglia di Cecco Beppe o di Guglelmone, degli
alleati di ieri, non li abbia mietuti!
E se ad organizzare la vittoria, a realizzare il vecchio sogno della
gente, il riscatto delle irredente provincie sorelle, si sono fino
ad oggi profusi duemila milioni di lire – e non s'è peranco
incominciato – pochi bajocchi vogliono rimanere pel pane quotidiano,
con cui tener ritti incontro al nemico, lungo l'Isonzo o tra le
balze del Trentino, gli incliti figli de la patria, e docile,
dentro, la marmaglia famelica e turbolenta degli straccioni.
Ed il re ha preveduto e provveduto. Non del suo, s'intende! Non
rinunziando alla sua lista civile, non al pingue appannaggio dei
lupicini, alla ventina di milioni in oro che annualmente asciuga
dalla ventina di milioni d'anemici, di pellagrosi, d'affamati della
terra. L'esempio del suo grande avo non gli dice nulla al riguardo;
ma ha provveduto che si confezioni il pane di guerra nel quale a
supplire la farina, rara e cara, sarà il 12 per cento di crusca o di
riso, secondo le circostanze, e l'uso del quale sarà, occorrendo,
imposto da un reale decreto o da una deliberazione del parlamento
non appena le circostanze esigano.
Il pane è squisito; lo dicono concordemente il Re ed il Presidente
del Consiglio, che l'hanno assaggiato e... non ne mangeranno mai;
squisito lo troveranno i ventri vuoti che non l'hanno assaggiato,
che potrebbero anche conchiudere ad un diverso giudizio, ma posti
tra l'inamovibile vigilia ugoliniana ed il pan di crusca o di riso,
avranno scarsa libertà di scelta e, bandita ogni smorfia, lo
troveranno sempre un po' meglio, giusto giusto un po' meglio del
crampo e dell'inedia.
S'inizia con un gesto spartano la nuova epopea; chi oserebbe
dubitare dell'epilogo?
* * *
Si rivive un capitolo, il più solenne capitolo, delle Cronache di
Dino. Come in Santa Croce ottocento anni addietro, nei delubri della
patria ai mali cittadini smarriti nelle gare fratricide di parte,
suadono i magistrati – ogni sterile competizione bandita – la
sallustiana concordia per cui parvae res crescunt mentre, discordia
maximae dilabuntur, e nell'«ufficio» civile non v'è più che un
salmo: nessuno vi nega o vi contende il diritto alla libertà di
coscienza, la libertà di essere repubblicani o socialisti o,
sindacalisti o magari anarchici, anche anarchici, sicuro! purchè vi
ricordiate oggi, mentre il compimento dei patrii destini matura, e
dalle contese vette delle Alpi minaccia il secolare nemico, che
prima ancora di essere repubblicani o, socialisti o sindacalisti od
anarchici, voi siete italiani e gli italiani,
uno il voto uno il patto uno il grido
vogliono essere oggi l'inscindibile forza che la fortuna della
stirpe sospinga al suo glorioso e vittorioso destino.
Irresistibile!
Benedetto XV oblìa la deposizione violenta, le spoliazioni
sacrileghe, le mutilazioni atroci di cui sanguina il suo cuore di
Vicario di Cristo e di padre universo dei fedeli, e nelle pastorali
dei vescovi esige perentorio il comandamento che al primo rombo del
cannone alla frontiera, tutti i cattolici raccolti sotto il
tricolore facciano del loro petto usbergo al re ed al governo
d'Italia, al nipote dell'usurpatore, a colui che detiene, ai suoi
complici ed ai suoi manutengoli, senza una riserva: il Vaticano non
deve essere sospettato d'antipatriottismo.
Respiriamo l'atmosfera del miracolo!
* * *
Poteva resistervi Enrico Ferri che, sull'abjura frettolosa delle
recenti guasconate rivoluzionarie, col vecchio ordine si era da un
pezzo riconciliato, ed all'Argentina aveva già veduto nel re il
simbolo della patria, ed avantieri all'Augusteo nella pensosa figura
del sovrano «che nel suo cuore accoglie tutti i palpiti della patria
comune per offrirli in olocausto alla sventura...» risalutava
commosso devoto il simbolo di concordia solidale contro le insidie
della morte per questa Italia bella, immortale che dall'Etruria
misteriosa a Roma signora del mondo, dal rinascimento meraviglioso
alla epopea del risorgimento, in ogni forma di vita, ha sempre
toccato le glorie più luminose?».
Enrico. Ferri che agognava da anni all'alto onore di essere sentito
nei consigli della corona, e nell'ostinata recidiva delle smorfie
dei contorcimenti delle genuflessioni cortigiane vi è finalmente
riuscito?
* * *
Così l'idillio è completo.
Al primo te deum! con cui al Pantheon d'Agrippa, Benedetto XV, evaso
dalla fastosa ed accidiosa prigionia Vaticana, benedirà alla prima
vittoria degli eserciti regi sull'Isonzo, saranno nella polimelia
solenne tutte le voci: gli acuti di Maria Rygier contrita del suo
giovanile peccaminoso «Rompete le File!» i do di petto d'Enrico
Ferri emendato dai robespierrani furori contro l'esosità della lista
civile, su, su fino al canto fermo dei canonici riconciliati, dei
vescovi in fregola di decorazioni, di prebende, d'exequatur...; sarà
nel nome della patria, dopo la tregua di dio, l'eucarestia di tutti
gli interessi, di tutte le fedi, di tutti i cuori di tutti gli
ordini riconciliati rasserenati solidali.
Non c'è che una spina in cotesta gloria di gioie, di rose, di
risorte fratellanze insospettate: non comunica la plebe.
Sieno le doccie di sangue e di vergogna rovesciatele sulla cervice
dalla gloriosa impresa d'oltre mare, dagli agguati di Sciarasciat,
dalle forche di Piazza del Pane, dalla vanità dello sforzo eroico
commisurata allo squallore spaventoso dei risultati, sia diffidenza
esperta od intuito avventurato della inconciliabilità degli
interessi e dei rapporti che la minaccia della guerra e la
chiacchiera dei mezzani s'arrovellano a confondere, siano altre
cause altre ragioni che sfuggono all'ambito ed alla pretesa. di
queste note modestissime, fatto si è che l'entusiasmo per la guerra,
al proletariato della patria non si è comunicato.
Resiste colla stessa sprezzante indifferenza a chi la guerra
sobbilla per la patria come a chi la preconizza per la civiltà,
mentre di fuori, dai campi riarsi delle Fiandre, dalle gole dei
Carpazi, dalle spiaggie del Mare del Nord non vengono che ruggiti di
belve, echi di atrocità e di misfatti di cui vergognerebbero,
tornando nel nostro mondo civilissimo, i pirati leggendarii della
Barberia o del Pacifico, mentre in casa la messe remota, effimera,
bugiarda, della gloria si irrora di lacrime, matura fra stenti
miserie strazii che sono un supplizio, una maledizione.
Ed è la, sola grande incognita della guerra.
Se intravvedessero i miserabili che al nemico secolare, appostato
indarno ad ogni svolta della storia, ed oggi alle prese, aspramente,
coi nemici di fuori, si potrebbe dare con fortuna il colpo di
grazia, ed osassero complicare la guerra allo straniero colla guerra
ai nemici, agli oppressori, agili sfruttatori di dentro, a quelli
che hanno alle reni, sul collo, ogni giorno ed ogni ora, non sarebbe
sui salmi civili e su le fanfare patriottarde, e sui connubii
arruffianati la sorpresa del dies irae?
C'è esso pure tra i salmi dell'ufficio, se la memoria non m'inganna
e la storia non mente.
(27 Febbraio 1915).
Contro la guerra, per la rivoluzione sociale!
— Che cosa fa ogni uomo, ogni animale, ogni organismo minacciato,
attaccato nelle cose, nella persona, nel suo diritto, nella libertà,
nella sicurezza, nella vita?
— Si difende; è naturale, è nell'istinto stesso della propria
conservazione, è la condizione fondamentale intessa su cui riposa
tutta la evoluzione della vita, ogni forma di progresso e di
civiltà.
— E che cosa fa un uomo di cuore, un uomo di libertà, di giustizia,
quando vede dalla prepotenza del più forte sopraffatto il diritto,
minacciata la vita del più debole?
— Accorre sollecito con tutti i mezzi, con tutte le armi in difesa
del più debole e lo aiuta a rintuzzare la prepotenza bestiale del
sopraffattore, meno in obbedienza ai comandamenti della morale
cristiana che alle preoccupazioni della propria salvezza: l'impunità
della sopraffazione è stimolo ai violenti che, non trovando freno,
imperversano su tutti; e può venire la volta nostra.
— E diteci, allora, come si fa ad essere contro la guerra, se in
ogni guerra è una minaccia, una provocazione, un'aggressione?
Diteci, allora, che cosa doveva fare la piccola Serbia minacciata
nella sua indipendenza, che cosa doveva fare il Belgio, minacciato
nella sua integrità, posto a ferro, a fuoco e a sacco? E diteci
ancora, di fronte al duello ineguale fra l'Austria e la Germania da
una parte, forti di una dozzina di milioni d'armati ed il piccolo
Belgio, mal sorretto nella difesa della propria integrità
territoriale da meno che mezzo milione, che dovevan fare le nazioni
che si pretendono civili se non schierarsi pel più debole contro il
più forte, per la Serbia, per il Belgio contro l'Austria e contro la
Germania?
Potevano diversamente agire la Francia, l'Inghilterra, la Russia?
Potrebbero gli uomini di giustizia e di libertà in ogni paese, – in
Italia, ad esempio, dove della violenza straniera si è tanto e così
lungamente sofferto che le lividure sono sempre nelle carni e lo
strazio è sempre nella memoria – disinteressarsi del conflitto, non
parteciparvi con entusiasmo nutrito di nobili preoccupazioni e di
civili previdenze, quando in giuoco sono le stesse cose, gli stessi
diritti, la stessa indipendenza, la stessa libertà che voi
riconoscete, che voi esigete siano difesi, tutelati, rivendicati in
ogni organismo, in ogni individuo minacciato e sopraffatto?
La libertà, l'indipendenza, la sicurezza di una stirpe, di una
nazione non varrebbe dunque quella del più tenue organismo, quella
d'un uomo, la vostra?
Sottraetevi, se potete, alla contraddizione su cui v'inchioda il
vostro dottrinario orrore della guerra; conciliatelo, se potete,
colle conseguenze che rompono irrecusabili dalle premesse in cui
consentite.
* * *
Noi riaffermiamo – noi contrarii ad ogni guerra che non sia la
guerra di classe, che non sia la rivoluzione sociale – che ogni
organismo minacciato nella sua sicurezza, insidiato nel suo
sviluppo, nella sua esistenza abbia, più che il diritto, il dovere
di difendersi, di rintuzzare l'insidia e l'aggressione con tutti i
mezzi, fossero gli estremi; e non intendiamo affatto eludere le
conseguenze che da questa esplicita premessa discendono. Anzi! alle
responsabilità che quelle conseguenze comportano richiamiamo
voialtri che cercate sottrarvene con un sofisma, coll'abusato
sofisma della patria proletaria, dell'imperialismo di classe, della
guerra rivoluzionaria e delle altre aberrazioni guerraiole
congeneri, invocate a salvacondotto d'una disperata mancanza di
convinzioni, di fede, di idealità; salvacondotto arruffianato, molte
volte, ai calcoli dell'arrivismo voltagabbana.
— Con un sofisma?
— Sbaragliando il sofisma; giacchè se è sofisma ogni fallace
argomentazione che da premesse vere, giunga, traverso l'apparenza
logica delle sue proposizioni, a conclusioni errate, sofisma tipico
è il vostro che nella Serbia, nel Belgio, nella Francia,
nell'Inghilterra o nella Germania, di abdicazioni, di abiure, di
apostasie frettolose ricostruisce solidarietà d'interessi, identità
di sentimenti, comunanza di destini, di diritti, di aspirazioni, di
propositi che avete fino a ieri negato, che vi siete fino a ieri
sforzati a distinguere ed a distruggere come la più turpe delle
frodi, come la più invereconda delle menzogne convenzionali, come
l'ostacolo più grave alla ascensione del proletariato verso la sua
integrale emancipazione. Eravate ieri contro la patria, per
l'Internazionale?
— Una cosa è l'ideologia remota, un'altra, ben diversa, la realtà
concreta.
— Non discuto il ripiego. Vi sono accantonati in fregola di
riconciliazioni col vecchio ordine gli sfiniti, gli stanchi, gli
esausti, da Andrea Costa a... Benito Mussolini, ed i pusillanimi che
l'inno alla anarchia hanno sempre frenato di qualche provvida
riserva utilitaria: quando tutti i lavoratori saranno d'accordo,
saremo più rivoluzionari di voialtri! e più anarchici di voi quando
sarà l'anarchia! Per ora domina la borghesia e
la pentola non bolle
a sognar di Bruto impeti e forme.
Ma so concrete pratiche immanenti le ragioni che vi avevano erti
contro la patria per l'Internazionale.
Perchè avete rinnegato la patria?
Perchè relegando oltre frontiera tra diffidenze arcigne ed odii
insani – come stranieri – servi, oppressi, sfruttati come voi, come
noi, e suadendoci entro i confini dell'Alpe e del mare l'amore, la
fratellanza, la solidarietà cogli sfruttatori di cui, servi
consapevoli dell'iniquità e dell'abbominio avevate conclamato lo
sbaraglio e la distruzione, la patria vi era, da un lato, apparsa
ideologia superata, assorbita dall'aspirazione radiosa alla patria
universale, e si torceva dall'altra nella frode volta a nasconderci
che i nemici gli stranieri
non son lungi ma son qui;
e so che dei cori nottambuli e delle maggiolate mitingaie era,
monotono fino alla noia, il ritornello obbligato
guerra al regno della guerra
morte al regno della morte
e che nel coro era la vostra voce.
La realtà, va bene, la tragica realtà che tutti soggioga, che
supera, cancella, annichila ogni altro sentimento, ogni altra
visione; ma ha pure un aspetto che non sfugge ad alcuno di voi, un
contrasto che è d'ogni ora e d'ogni terra perchè possiate ricusarvi
a vederlo: borsaioli, mercanti, filibustieri che confessano senza
scrupoli – senza pure l'ipocrisia di velare di rancidi idealismi
sentimentali la loro libidine d'arrembaggio – di non cercare nella
guerra che il trionfo, sui concorrenti d'oltralpe e d'oltremare,
dell'avida fortuna del dividendo rapace, mentre alle sorti del
disperato giuoco di borsa – deferito all'estrema ragion delle armi
sui campi di Fiandra, nelle gole dei Carpazi o nelle maremme di
Memel – sacrificano a milioni nelle sue giovinezze più gagliarde la
folla dei servi che per gli armamenti si è logorata anemizzata
esausta durante mezzo secolo di digiuni; ed alla guerra ora si
avventa briaca di menzogne e di fanfare pur prevedendo che fra
l'armi restaurerà più formidabile la piramide del padrone e dello
Stato, ribadirà più esoso sul destino dei figli il giogo della
servitù e della miseria e dell'abbiezione.
— Non è la sorte dell'armento, crescere docile al pastore la lana
finchè non giunga l'ora di dar la carcassa al beccaio?
— La divagazione non mi interessa. Sarebbe forse curioso vedere
quanta logica sia nei cerretani che per le fiere sovversive del
vecchio e del nuovo mondo, in cambio del disprezzo e dei nietzchiani
disdegni con cui lo ripagano, chieggono al popolaccio – quasi del
popolaccio non fossero essi stessi la pidocchiosa marmaglia, la meno
dionisiaca, la meno sincera e la meno eroica – il miracolo più
incoerente e più assurdo: l'alleanza coi cosacchi del piccolo padre
e la benedizione del pontefice, per le costellate salvazioni
dell'ordine della libertà della civiltà... borghese. Ma ci sospinge
altro cammino.
Mettere in luce a questo punto la fallacia del ragionamento con cui
v'ingannate od ingannate: non potete applicare ad un'entità
inesistente il dovere della difesa, l'obbligo umano interessato
rivoluzionario o civile della solidarietà da voi invocato, da noi
senza riserve consentito, della solidarietà con ogni debole oppresso
dal forte, con ogni organismo minacciato nella sua sicurezza,
insidiato nel suo divenire, assalito nella sua libertà o nella sua
integrità.
— Ma il Belgio....
— Non è un organismo, se di ogni organismo le parti non sono
solidali ed armoniche. Il conflitto fra il ventre e le braccia non è
che negli apologhi scaltriti di Menenio Agrippa; ogni turbamento di
una qualsiasi delle funzioni di un organo trae con sè,
inevitabilmente, la perturbazione di tutta l'economia dell'organismo
precipitato alla rovina alla morte ove l'equilibrio, l'armonia delle
funzioni non siano prontamente ristabiliti.
Ora, v'è una realtà che supera la realtà della guerra ed è per lo
meno altrettanto tragica: nel Belgio, come in Serbia, come in
Italia, sono sfruttati e sfruttatori, sono oppressori ed oppressi,
sono produttori della ricchezza che muoiono di esaurimento, di
inedia, e parassiti che l'inutile esistenza conchiudono nell'ozio e
nell'orgia; sono, irreconciliabili, due classi; e nessuno di voi,
pur affannato oggi a schernire l'Internazionale, sarà peranco
arrivato, credo, a negare che, se scomparisse domani la borghesia
belga o francese o tedesca od italiana, il proletariato d'ognuna di
queste cosidette nazioni starebbe assai meglio che oggi non stia;
non soltanto, ma che l'affrancamento del proletariato belga, come di
quello tedesco od italiano, è condizionato alla sparizione della
borghesia belga tedesca od italiana, della borghesia internazionale;
e dovrà pur conchiudere che dove, in luogo di armonia, è mortale
implacato antagonismo d'interessi attuali e futuri, economici e
politici, materiali e morali, il parlare di organismi, d'entità
solidali armoniche unitarie, e della necessità intima civile o
rivoluzionaria della loro protezione, della loro conservazione, è
per lo meno temerario.
Che la borghesia fiamminga o inglese o francese o russa abbia vitale
interesse a coalizzarsi per fronteggiare o superare nel campo dette
competizioni finanziarie industriali o politiche la borghesia
tedesca od austriaca, si spiega; che per l'uno o per l'altro dei
gruppi contendenti, per la guerra in sè, abbiano a schierarsi tutti
i partiti di conservazione, dal clericale al democratico, al
socialista magari, fatti come gli sciacalli unanimi su le carogne,
si comprende ancora benissimo. Nel violento rigurgito del
nazionalismo moribondo, sospetto, sfiduciato; nella coreografia
tenebrosa della guerra fra gli schianti della mitraglia intorno alle
bandiere erte su milioni di cadaveri, mentre orrenda insaziata
mostruosa ghigna la morte dagli, abissi fondi dell'aria e del mare,
è un violento diversivo alle improntitudini temerarie, alle
iconoclaste turbolenze del proletariato internazionale che assurge
lento, ma irresistibile oltre ogni frontiera, alla consapevolezza
degli interessi comuni delle rivendicazioni comuni del destino
comune, della comune universale integrale emancipazione: si spiega.
Non si comprende più che dopo cinquant'anni di meditata, faticosa
scissione teorica e pratica dalla classe dominante, da tutti i
partiti che ne custodiscono con minore o maggiore avvedutezza la
sorte, gli anarchici che forse non veggono costante tra i fattori
della storia la lotta, di classe, ma non saprebbero disconoscerne la
costanza atroce nella vita d'ogni giorno, e non concepiscono
l'emancipazione del proletariato che sullo sbaraglio definitivo
della classe dominante, nè le armonie future senza il livellamento
delle classi sulla terra fatta strumento e clima alla gioia, alla
libertà, al benessere di tutti – possano sotto qualsiasi pretesto,
in qual si sia contingenza riconciliarsi coll'abborrito ordine
sociale senza rinnegare la dolorosa passione per cui sono assurti
alla coscienza, all'orgoglio del loro fiero e luminoso ideale. senza
negare sè stessi.
Tanto più che ristabilito nei suoi termini logici il ragionamento,
conciliate le premesse colle conseguenze, erompe definito, limpido,
preciso un compito più degno della loro fede, del loro coraggio,
della loro azione.
* * *
Se vi è, nella. fattispecie, minacciato nella sicurezza,
nell'esistenza, nello sviluppo del suo storico divenire, in ciascuna
delle cellule che lo compongono e nel suo insieme ritmico, armonico,
solidale, un organismo degno del nostro interesse, della nostra
simpatia, della nostra difesa, quest'organismo, è il proletariato,
identico ieri, oggi, domani, sempre, a dispetto delle bandiere e
delle latitudini sotto cui si accampa, identico nei dolori e nelle
miserie, nelle aspirazioni e nelle sorti, in Belgio come in
Germania, in Italia, come in Austria, in Inghilterra od in Russia.
E se è di mediocre interesse chiederci che cosa dovessero fare la
borghesia od il governo belga, che scontano coll'invasione tedesca
la loro solidarietà colla borghesia, e col governo di Francia e
d'Inghilterra, solidarietà d'interessi e di cimenti liberamente
eletta, liberamente consentita, troppo a lungo meditata, preveduta,
calcolata, pesata nei suoi rischi e nelle sue conseguenze, negli
strazii dell'oggi come nei premii lauti del domani, perchè non
abbiano ad averne la vergogna od il merito, tutte e consapute le
responsabilità, ben altri e diversi debbono essere l'animo
l'atteggiamento nostro di fronte ai lavoratori.
Siamo stati col proletario ieri, contro tutti i suoi nemici: con
esso e per esso abbiamo dato l'assalto ad ogni bastiglia, ad ogni
menzogna, a tutte le frodi, alla proprietà, nel nome e
nell'interesse della quale la guerra si fa; allo Stato che la guerra
ha scatenato ed infosca d'odii selvaggi e di carneficine
iperboliche; alla Chiesa che sull'insana tormenta fratricida, tende
con fortuna le reti dell'agognata restaurazione cattolica del suo
dominio spirituale e temporale; contro la Patria, che l'inganno
sapiente copre dei suoi vessilli; contro il militarismo che,
abbrutiti i figliuoli nostri alla caserma, li immola nella ecatombe
premeditata alla fortuna ed alla gloria del capitale; ed ora che la
frode, la menzogna, l'agguato lo artigliano da ogni parte, ora che
istrioni, demagoghi e redentori lo ricacciano concordi sotto il
giogo, possiamo abbandonarlo noi senza protesta, senza rivolta,
sottraendoci alle responsabilità spaventose ma irrecusabili che
dalla nostra pertinace insurrezione teorica, dal nostro
atteggiamento iconoclasta, da tutta la nostra propaganda conseguono?
* * *
Non noi, non in quest'ora del suo Getsemani atroce donde lo
sospingono la viltà di Pilato e il tradimento di Giuda su per l'erta
della sanguinante, ineffabile passione.
La guerra è; e se in ogni guerra è una provocazione, un'aggressione,
nella grande guerra – come del resto nell'oscura guerra d'ogni
giorno – ludibrio della provocazione, dell'aggressione, dello
scherno e della morte è, soltanto e dovunque, il proletariato; e col
proletariato debbono essere gli anarchici con affetto vibrante di
nobili preoccupazioni e di civili previdenze. Col proletariato
soltanto, perchè mentre la borghesia degli incerti della guerra si
rifarà agevolmente nella spartizione del bottino all'ora buona, e
riconciliandosi delle fugaci competizioni attuali sulle rinnovate
devozioni plebee avrà nella lampada del suo destino mesciuto, in
ogni cosa, l'olio d'un altro secolo di vita e d'imperio, il
proletariato non miete sui campi di battaglia che morte, miseria e
servitù oggi, che l'insidia e la minaccia al suo riscatto domani.
Col proletariato dovunque, perchè la lingua diversa, la fede
diversa, la tradizione, la patria, la bandiera diverse, non possono
infrangere – metteranno anzi in miglior luce – la solidale armonia e
la comunanza fondamentale degli interessi e delle aspirazioni che
persistono identiche anche laddove l'aberrato atteggiamento di
qualche sua fazione su tale comunanza essenziale sia passata colla
furia cieca della sua domesticità superstiziosa e bestiale.
* * *
Col proletariato che nell'ordito della frode millenaria è caduto,
l'odio fratricida nel cuore avvelenato, l'arma omicida nel pugno
convulso, in Germania od in Belgio, in Austria od in Serbia, come
col proletariato che acciecato dallo stesso superstizioso furore,
sulla cote degli stesi odii, in Italia, in Grecia, in Rumania, in
Bulgaria, affila i coltelli alle stragi fratricide del domani; per
il più umano, il più rivoluzionario, il più civile dei cimenti; per
far onore ad un impegno che in cospetto del proletariato abbiamo
solennemente contratto, per gridare una verità che freme nell'anima
di tutti, e che tutti, tutti quanti impastoiati di paure, di
scrupoli, di pudori religiosamente eunuchi, si sforzano di eludere e
di soffocare.
Quando alla rude anima proletaria, riscattata alle consuetudini
mendiche ed alle bugiarde lusinghe della redenzione ultra-terrena,
strappata anche più laboriosamente alla tutela dei semidei della
terra, alla fede ingenua nella protezione della legge e dello Stato,
noi abbiamo sui ruderi delle grandi menzogne convenzionali mostrato
superstiti un diritto ed una forza, la forza delle menti che si
curvano sul mistero, la forza delle braccia che si inarcano sul
solco, la forza del lavoro che è la sua forza intenta a ricondurre
sulla terra, concittadine, insieme con la dovizia uguale, la verità
e la libertà; il diritto per chi la vita circonda di sicurezza, di
benessere, di gioia, ad assidersi uguale, ai suoi conviti, non
abbiamo noi le cento volte detto e ripetuto che nè quella forza nè
quel diritto avrebbero visto mai le aurore del trionfo finchè dalla
terra non fossero cancellati, banditi per sempre, il privilegio
fonte d'ogni disuguaglianza, la menzogna presidio di tutte le
servitù?
Ed all'anima proletaria vacillante, incerta, dubbiosa sotto lo
scoscendere delle nostre temerità iconoclaste, non abbiamo noi con
pertinacia inesausta inculcato che, più assai che del vigore e del
diritto proprio, il nemico era forte della fede, del braccio, delle
armi che neghittosi od incoscienti gli rechiamo noi stessi? E che,
ridotti oramai a non dover contare che sulle nostre forze, urgeva
liberare, dal fango e dall'abbiezione rassegnata dello schiavo la
consapevolezza indocile dell'artefice della vita, sfrenarne le
volontà, attivarne e convergerne le energie che agli ammonimenti
dell'esperienza avrebbero chiesto l'auspicio dei liberi patti,
l'irresistibile concordia e l'audacia delle supreme risoluzioni, non
appena squillassero a stormo le campane del dies irae?
E che con essi, coi lavoratori d'ogni patria., all'avanguardia, noi
saremmo stati nell'ora del cimento estremo?
* * *
L'ora è scoccata. Ed è di mezzo a noi chi butta armi e bagaglio per
affrettarsi tra le schiere del nemico, soldato della patria,
crociato della civiltà borghese, sgherro dell'imperatore, del re,
della repubblica.
Non è serena, nè agevole l'ora delle responsabilità; benedetti i
sofismi che ce ne liberano.
* * *
Senza sofismi, che cosa dovremmo noi dire ai lavoratori dei paesi in
guerra, a quelli che vi saranno travolti domani, a quelli che
assistono da ogni patria sgomenti e diserti alla carneficina immane?
"Prima, assai prima che valicassero il Reno e la Mosa gli ulani
irsuti del Kaiser, prima assai che sui vostri tugurii passasse
sterminatore il flagello della guerra a togliervi i figlioli, a
lesinarvi la crosta del pane, a calpestare sotto le zampe ferrate
dei suoi cavalli il diritto, le donne, la libertà, e scrosciasse
sulla rovina il cachinno briaco del vincitore, in patria, nella
patria che oggi contendete del vostro petto allo straniero, il
capriccio dei vostri padroni negli ergastoli, nei cantieri, nelle
miniere ansanti della vostra generosa fatica hanno fatto strazio
delle vostre carni, del vostro sudore, del vostro sangue, del vostro
diritto, dei vostri figlioli, vi hanno ripagato la dovizia con una
crosta di pane, un calcio nel ventre, una manata di baiocchi e di
scherni; quando adeguato alla fatica avete supplicato il riposo,
adeguato al sudore il pane, adeguati al compito sacro la
gratitudine, il rispetto, per le piazze, per le vie, tra le gole dei
monti, pei campi, i gendarmi del re, i soldati della patria, sul
lastrico, sui solchi, con un rutto di piombo vi hanno reclinato in
una pozza di sangue, inesorati quanto non osano, pure rotti a tutta
l'ignominia del mestiere, i beccai dell'imperatore; la giustizia del
re nelle galere della patria ha soffocato il rantolo dei superstiti;
e domani, riassiso sul trono il re fuggiasco, riassisa domani la
patria nei confini riconquistati, contro i vostri petti ignudi,
contro i figli inermi, contro le turbe esauste dalla fatica e
dall'inedia, contro il vostro diritto alla vita, saranno volte le
armi che avete impugnato a difesa del re e della patria contro
l'invasore".
"Non è stato sempre così? A Parigi nel maggio del 1871 dopo l'eroica
abnegazione dell'assedio, a Pietroburgo nel gennaio del 1905 dopo
gli olocausti di Port Arthur?"
"Vi sanguina veder preda del nemico d'un'ora d'un mese d'un anno le
vallate pingui delle Fiandre e del Brabante, le cattedrali, le
università, le officine meravigliose, i musei, delubri fulgenti
della fede della sapienza dell'operosità dell'arte del genio della
vostra gloriosa stirpe fiamminga; ed a ritoglierli tendete ogni
ansia ogni ardimento ogni tenacia fino all'eroismo fino al
sacrifizio".
Ritoglierli, per chi?
"Pel nemico di tutti i giorni, di tutti i tempi, pel nemico della
schiatta fin dove lungo le età revolute risalga la memoria, pel
nemico della progenie fin dove il pavido sguardo e la rassegnata
previsione scrutino nelle brume dell'avvenire; pel nemico secolare
ed immutato".
"Non per voi! Non per voi le terre pingui del Brabante che pure
s'irrorarono feconde del vostro sangue del vostro sudore; non per
voi le officine pregnanti il miracolo sotto la stretta titanica
delle braccia nel ritmo sapiente del vostro lavoro; non per voi le
accademie le università i musei, l'orgoglio fiero del conoscere,
l'estasi divina dell'arte e della bellezza: pel nemico secolare
inesorato ed immutato».
«Ebbene è oggi, per un attimo nel campo nemico la discordia, e
dentro la cerchia dei patrii confini, il nemico più vero e maggiore
ha nell'anima codarda il brivido della paura, e si china, vile e
mendico – egli che non ebbe mai pei nostri dolori, pel nostro
diritto, per le nostre miserie che fiele e scherni e piombo – a
chiederci negli editti del re per la salvezza della dinastia e della
patria, nelle pastorali dei suoi vescovi per la vittoria e per la
gloria della fede avita, nell'arruffianata menzogna dei suoi epigoni
per la difesa dei campi e delle miniere, delle officine e dei
mercati, per la custodia della turgida prosperità fiamminga –
baluardo necessario al triplice dominio minacciato – il petto, il
sangue dei sudditi, dei reietti, dei fedeli».
«Ei ci dà per la crociata gloriosa il viatico, le benedizioni, le
armi».
«Le armi! Le armi sospirate ed attese: l'ora, l'ora annunziata od
agognata della risurrezione! L'ora che non torna due volte sul
quadrante della storia, le armi che, ritolte domani su la sconfitta,
o su la vittoria, saranno ancora una volta spianate sui nostri petti
contro il nostro destino!».
«Se le impugnassimo a riprendere la terra che è nostra, la casa che
è nostra, il pane, la libertà, il riposo, l'amore, la gioia,
l'avvenire, a riprendere il nostro posto al sole, il nostro posto
nella vita, il nostro posto nella storia, a chi ce ne ha usurpato e
ce li contende, da secoli, più aspramente, più ferocemente che non
l'invasore sbucato d'oltre Reno od appollaiato sui gioghi del
Trentino e su le balze di San Giusto, insorgendo nel nome del
diritto e della giustizia, piuttosto che prostituirci al capriccio
del re od ai calcoli dei borsaioli: non inizieremmo noi quell'opera
di rivoluzione e di rigenerazione che nelle disfatte eroiche matura
ed affretta la vittoria, che intisichisce nell'auspicio, nei
veggenti, nelle sterili invocazioni dei tribuni e dei poeti»?
* * *
Non questo l'impegno che in fronte al proletariato randagio fra le
sue illusioni tenaci e la scaltra doppiezza dei suoi arruffoni
abbiamo assunto e ogni giorno sinceramente rinnovato?
Non questa la voce che grida anche oggi incoercibile in fondo, nella
migliore e più sana parte di ciascuno di noi?
Non questa necessità improrogabile ribadisce ogni giornata ogni
episodio della paradossale carneficina al cui epilogo tragico
chiedono le masnade internazionali dei grandi ladri, sul nostro
groppone, l'egemonia ?
E non è l'ora che, buttati sofismi, ripieghi, cavilli, raggiri,
obliquità idiote ed indegne, in ogni patria dove la guerra sia
passata colle sue stragi colle sue angoscie colle sue ondate di
piombo di sangue di lacrime, in ogni patria dove si affretti a
divampare negli strazii nelle ruine nell'onta del domani, debbono i
libertari d'ogni fazione ritrovare la necessaria concordia di
propositi di intenti di azione a cui si apre insolitamente,
inaspettatamnente propizio il vasto campo che illumina la guerra dei
suoi sinistri bagliori?
* * *
Lapidatemi di ostracismi, d'anatemi, di vituperii: quello che dentro
di voi non è infracidito dal calcolo, dalla paura, non ha che
consensi per la mia eresia, non ha che un'eco un voto un grido
contro la guerra per la rivoluzione sociale!
(3 aprile 1913).
Tanto tuonò che piovve
È la guerra, la guerra che urtandoci ai santomaso dell'ottimismo
cieco come ai miopi delle apparenze bugiarde noi abbiamo preveduto
indeprecabile da molti mesi – ed era da troppo lungo tempo decisa
perchè si possano le compagnie di ventura del sovversivismo
guerraiolo illudere d'avere delle loro ossessioni forzata la mano al
re od al suo governo – la guerra è da tre giorni l'insano tripudio
d'entusiasmi aberrati e dei calcoli ruffiani che ogni grande
tragedia intorbida ed abbica sciaguratamente16.
Nelle acque di Lissa, riprendono Luigi di Savoia ed Anton Haus, il
duello interrotto fra Tegetthoff e Persano nel 1866, mentre a
riscossa degli aulici tradimenti di Custoza, gli eserciti di Cadorna
e di Caneva, addensati ai passi dello Stelvio, sui margini estremi
dell'Isonzo, guardano a Trento, a Trieste come alla preda a la
vittoria del domani – giubilanti in ogni cuore dei suoi figli
dall'Alpe al Lilibeo, la patria fremente di vendetta e di giustizia,
di gloria e di valore.
* * *
In ogni cuore: nei cuori umili delle folle aspettanti più che la
tregua degli odii e delle ansie della gente – in cui non comunicano
che per contagio, fugacemente per risvegliarsi disingannate, troppo
tardi ad Abba Carima a Sciarasciat – un po' più di pane, un po' più
di quiete.
Nel cuore dei grandi: nel cuore di Benedetto XV che, raccolta la
spada il coraggio il grido di Giulio II, propizia nei te-deum,
insoliti la vittoria e la gloria su le armi, su le sorti d'Italia.
Nel cuore grande del re che, come l'avo omonimo, riscuote commosso
il «grido di dolore» riecheggiante di là dalle Retiche, di là dalle
Giulie lo strazio ed il martirio.
Nel cuore dei legionari superstiti di Monte Suello e Bezzecca
defraudati, dalle regie paure, della vittoria che l'impeto
irresistibile del Duce, l'eroismo ed il sacrificio delle camicie
rosse avevano su le balze, del Trentino avvinghiato cinquant'anni fa
ai vessilli della patria risorta; e veggono ora non inutile
l'olocausto se del suo sangue radioso ha segnato la vita sacra ai
nepoti. Nel cuore dei socialisti tutti quanti, snidati dal
vassallaggio parlamentare fuori di un'obliqua neutralità e stretti
al bivio di coscriversi per la guerra odiosa o di abdicare alla
rivoluzione, anche più odiata, l'ordito delle riconciliazioni
laboriose di classe a cui s'affaticano da cinque lustri
cristianamente.
* * *
Non manca all'idillio che un fervore ed un entusiasmo, non manca al
coro se non una voce: la nostra.
Ma chi bada in quest'ora di delirio ai quattro straccioni
zingarescamente accampati oltre i margini d'ogni legge divina ed
umana, fuor d'ogni civile sentimento, fuor della vita che pulsa e
vibra radiosa di speranze e di sogni, fuori d'ogni anelito che non
sia la libidine torva e criminosa della negazione e della
distruzione nichilista?
S'imbavagliano, o si cacciano rinnegati della patria di là dalla
frontiera, ove non li abbia ancora cacciati la disperazione; si
suggellano, alla peggio, al manicomio od in galera.
E noi rimaniamo ancora una volta soli, disperatamente soli, colla
nostra amarezza col nostro tormento: coll'amarezza di vedere dal
rigurgito insano ricacciati su la via faticosamente dolorosamente
percorsa, gli schiavi che ci confortavamo d'aver su per l'erta
dell'avvenire sospinti alla conquista del pane della libertà della
gioia, su lo sbaraglio d'ogni rinuncia d'ogni menzogna d'ogni frode
d'ogni giogo. Col tormento di trovare, ad ogni prova inaccessibili
all'animo alla riflessione dei servi – preda irresistibile delle
insidie più grossolane e più smaliziate – anche gli appelli meno
indiscreti dell'esperienza e della ragione.
* * *
Non appariva, anche ai più ottusi, fatale ineluttabile la
partecipazione dell'Italia alla guerra? e, in ispregio d'ogni
trattato d'alleanza, a fianco dell'Inghilterra, del Belgio, della
Francia, della Russia?
Al governo italiano uscito dalla gloriosa impresa d'oltremare,
oberato di un paio di miliardi di maggior debito; all'esercito
italiano che nei tre anni della guerra libica aveva bruciato fino
all'ultima cartuccia, logorato anche l'ultimo paio di scarpe,
divorato l'ultimo sacco di galletta, chi riforniva credito e
baiocchi, scarpe ed armi, viveri e munizioni?
Cecco Beppe ed il Kaiser?
Dovevano badare a sè; non potendo costringere l'alleata a marciar
senza scarpe, a pancia vuota, nè a far la guerra senz'armi, le
menarono buono il cavillo con cui eludeva gli impegni dell'alleanza:
stesse a casa a grattarsi accanto al fuoco la sua miseria rognosa.
Cominciò il mercato:
...dietro una tomba vid'io Machiavello
Degli occhi ammiccare con un
che passò
E dir sottovoce – Crin morbido e bello,
Sen largo ha mia
madre; nè dice mai no.
Son fori fulgenti di dorie colonne
I talami
aperti di sue voluttà:
Sul gran Campidoglio si scigne le gonne
E
nuda su l'urna di Scipio si dà.
* * *
Passarono i francesi lasciando cader qualche luigi, passarono gli
inglesi briachi di sterline, e la patria si è prostituita a chi le
dava modo di rattoppare i bilanci, di riorganizzar l'esercito, di
preparare la mobilitazione.
I sei mesi di trattative diplomatiche non mascherano il trucco
volgare, e se potevano illudere Cecco Beppe che con qualche paterna
larghezza il conflitto si sarebbe evitato – mentre in fondo
conciliavano le differenze di dettaglio cogli alleati nuovi –
sull'epilogo non consentivano due previsioni: rimpannucchiati a
marenghi ed a sterline, governanti e soldati d'Italia non potevano
marciare che per la Francia e l'Inghilterra.
Quando?
Quando?
All'ora che scocca, immutata nel ritmo, in tutte le grandi giornate
della fortuna savoiarda.
Quando è passata per la breccia la patria?
Quando la Francia era dissanguata, smembrata, perduta..
Quando si è ricordata che Tripoli e Cirene erano provincie romane?
Quando la Turchia non trovava un soldo, non aveva una tartana da
mettere in mare, e stavano alle poste da tre frontiere la Bulgaria,
la Serbia, la Grecia a dilaniarla.
Quando assale l'Austria?
Quando ha perduto in Galizia più che la metà dell'esercito, quando è
esausta da dieci mesi di guerra sfortunata, quando è,
economicamente, alla bancarotta.
L'ora dell'agguato e della vigliaccheria! che non deve ad ogni mordo
increspare nè una rivolta, nè uno sdegno, nè uno scrupolo in quanti
sanno che «la guerra è la guerra», e che le cavalleresche ipocrisie
di cui va comunemente vestita non la mandano un passo avanti alla
legge delle XII tavole: adversus hostem aeterna auctoritas, od in
buon volgare: tutti i mezzi sono buoni contro il nemico.
Ma che basta a destituire la guerra attuale e coloro che l'hanno
voluta degli orpelli crociati d'una rivendicazione nazionale o
civile.
È un arrembaggio ladro, inalberato su di una prostituzione
mercenaria, imbellettata di svergognate imposture.
Il grido di dolore degli irredenti della patria ha potuto straziare
il cuore magnanimo di Guglielmo Oberdank e fermentarvi la nostalgia
eroica del sacrificio, ma nel cuore dei Savoia ha trovato così muti
tutti gli echi che nel Novembre del 1882, mentre dalle forche
imperiali dava gli estremi sussulti la spoglia dell'ultimo martire
dell'unità italiana, Umberto I, colonnello degli ulani austriaci,
stringeva col boia il patto d'alleanza che spezzano oggi nelle mani
riluttanti del figliuolo la mancia e la scaltrezza conserte dei
capitalisti e del governo inglese; e durante sei lustri anche il più
innocente appello al riscatto di Trento e di Trieste si è urtato
alla bestialità dei birri, al furore implacato dei giudici,
all'anatema spietato dei governanti d'Italia, così come in tutti gli
strati dell'ordine si è trovata, per gli oltraggi, per le
persecuzioni, pei dileggi, per gli strazi che di quanto è italiano
si è fatto dai proconsoli del giallo imperatore nelle terre
irredente, la sistematica remissione incitatrice delle selvaggie
recidive bestiali.
* * *
Inorgoglite quanti siete italiani e patriotti di cotesta vostra
Italia, di cotesta vostra patria che
lesta e scaltra
Scote la polve di un'adorazione
Per cominciarne
un'altra
e raccapezza
a frusto, a frusto, via, tra una pedata
e l'altra, su, bel
bello...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
quel
che sventura e noia
altrui le lascia andare
come brontolava irsuto Enotrio nel giambo corrusco dell'indocile
giovinezza incorrotta.
Noi non abbiamo patria, noi della patria bastardi! Nè è così cieco
il nostro odio che non iscovi tra le pieghe del tricolore più bieca
tirannide d'ogni più odiosa tirannide straniera; nè è così squallido
l'amor nostro che non cerchi oltre l'Alpi esose, oltre il mare
lontano, in Austria od in Francia, in Inghilterra od in Germania od
in Russia i fratelli aggiogati alla servitù, alla menzogna, alla
miseria, all'angoscia, e da questa solidarietà universa di strazii,
di diritti, di speranze e di destino fra tutti i vinti della vita,
non tragga la fede e la forza alla più vasta redenzione, che possono
le aberrazioni dell'oggi protrarre non contendere e precipiterà, più
grave, intollerabile domani il disinganno finale; la fede e la forza
alla nostra guerra che non sottrarrà gli irredenti dell'Istria o del
Trentino al bastone di Francesco Giuseppe d'Ausburgo per
assoggettarli alla mordacchia, alle manette, alla pellagra, sotto le
raffiche di piombo dei regi moschetti fraterni o nelle sororali
galere di Vittorio Emanuele III di Savoia nella patria
riconquistata; ma per raccogliere nel turbine incoercibile degli
odii millenarii sfrenati gli sfruttati ed i reietti del mondo
avventandoli alla distruzione del privilegio, al riscatto di questa
grande madre comune che è la terra universa, alla redenzione di
questo suppliziato eterno che è il lavoro, alla conquista di cotesta
gloria immarcescibile che è la libertà, alla restaurazione di
cotesta patria, ospitale alla pace ed alla gioia, che è l'anarchia.
Soli oggi, derisi, oltraggiati, saremo domani legione.
Acri del cilicio della nuova delusione, l'animo avvelenato da
l'ultimo scherno, svanito ogni miraggio di grandezza e di benessere,
straziati da lutti immani, dalla cresciuta miseria, dalla servitù
ribadita, a noi torneranno, si stringeranno a noi d'intorno più
ardenti e più fidi gli inconsapevoli oggi travolti dal ciclone folle
allo scherno ed al tradimento del proprio destino; e da milioni e
milioni di petti, alto nel cielo d'ogni patria non romperà che un
grido, un patto, un voto: maledizione alla guerra ed alla patria;
viva la rivoluzione sociale.
Col viatico di questa fede il domani si può attendere, e fare del
cammino.
(29 maggio 1915).
Figli, non tornate!
Non tornate! neppure se strida su le fronti la raffica de le
minaccie fosche, neppure se dei baci e delle carezze materne vi
riarda cocente la sete.
Non tornate!
Non per la gioia dei focolari tornereste, non per la nostra, non per
la vostra gioia.
Si è assisa la guerra su le vecchie soglie e del suo alito mortifero
ha spento sui focolari ogni fiamma, ogni sorriso su le labbra, nei
cuori ogni speranza ed ogni fede in sè, nella vita, nel domani.
Nessuno più sorride, nessuna cosa. Se vedeste che desolazione!
Sono passati gli uomini del re, sono passati gli uomini della legge,
ed hanno portato via ogni cosa: i giovani, rosei come la speranza,
turgidi come la primavera, spensierati e giocondi come la stessa
giovinezza; hanno portato via gli anziani accigliati sui solchi su
le donne sui bambini, sul solco che non darà spighe, sui bimbi che
non avranno pane, su le donne che ai cieli deserti ed alla patria
ingrata chiederanno indarno i fratelli i mariti i figlioli; ed hanno
frugato, per domani, il petto fragile delle creature appena
sbocciate, il cavo petto di vecchi, lunato sotto il doppio giogo
degli anni e della fatica.
Ed hanno domandato, acerbi, di voi.
Non tornate, figli!
Vi agguanterebbero come ladri come schiavi sulle calate, e senza
consentirvi neanche di rivedere, di riabbracciare, l'ultima volta
forse, i vecchi che pur vi hanno dato la vita, il cuor sincero, la
forza feconda, vi immolerebbero lassù nelle gole d'Ampezzo o
sull'altipiano del Carso a propiziare il trionfo d'una menzogna
orrenda e sanguinosa: la patria!
La patria che, pure edificata coll'abnegazione, col sacrificio, col
sangue dei nonni ingenui ed eroici, di noi, non volle mai sotto le
grandi ali benigne ai parassiti ed ai vampiri; mai! Nelle sue
accademie, nei teatri, nelle scuole, nei musei, dovunque pulsi
d'audacie, di consapevolezza, di orgogli la vita, non ci volle mai;
relegandoci in perpetuo iniqua, ingrata, spietata fra la chiesa ed
il trivio, fra il lupanare e la fabbrica, fra la caserma e la
galera, dovunque alla esosa voracità degli epuloni paghino
l'ignoranza, la servitù, la corruttela abbietta dei vinti, il
tributo inamovibile della forza o della bellezza; del sangue o della
fede, del pudore o della libertà; che in ogni caso nessun nemico
insidia nella sua integrità nella sua indipendenza, mentre, immemore
della sua storia recente, essa muove di là dal Gargano, di là dal
Jonio, di là dall'Egeo, in Albania, in Tripolitania, nel Dodecaneso,
nel Benadir o nell'Eritrea a soggiogare terre e uomini stranieri
alla sua storia, al suo destino.
Figli, non tornate!
Non cedete a la menzogna! Ci potevano illudere cinquant'anni fa che,
riscattati ai Borboni al Papa agli Ausburgo ai Lorena, ci avrebbe la
libertà benedetti della sua luce, il lavoro dei suoi premii, dei
suoi presidii la patria rinata! È passata gelida su quelle illusioni
l'onda torbida del cinquantenario con le sue fami, con le sue
stragi, col saccheggio impunitario delle banche, il mercato dei
pubblici uffici, la prostituzione d'ogni magistratura,
coll'analfabetismo e colla pellagra custoditi come la reliquia della
stirpe; e gli eccidii proletarii, unico ritmo della nostra libertà e
della nostra civiltà.
Sarebbe atroce gabellare ai lavoratori di Trento o di Trieste come
la redenzione siffatto regime di corruzione, di miseria, di
vergogna.
Figli, non tornate!
Non cedete alle minaccie dei proconsoli della patria, non alle frodi
dei giornali che saziano alla greppia dei fondi segreti il ventre e
l'abbiezione.
Non è vero che, ricusandovi ora idi rimpatriare, il governo possa
confiscarvi la proprietà, la capanna in cui siete nati, il lembo di
terra che vi crebbe il sudor della fronte e nessuno vi può toccare.
Non è vero che, sdegnando oggi di ubbidire ai decreti di
mobilitazione sarete, tornando in patria, arrestati e condannati a
trenta anni di galera. Non farete neanche un giorno di pena! Perchè
delle due l'una: o il governo sorte dalla guerra vittorioso ed avrà
allora bisogno di acquistar indulgenze, di farsi perdonare la
carneficina e la rovina, ed assolverà con una delle solite amnistie
quanti per una ragione o per l'altra non si saranno presentati;
oppure uscirà dalla guerra sconfitto; ed allora il governo attuale
non sarà più ed il nuovo che gli dovesse succedere avrà tutt'altra
voglia che d'infierire.
Non è vero, nella peggiore delle ipotesi, che non ci rivedremo, che
non ci rivedremo più mai, se non ubbidite oggi agli editti del re e
del suo governo.
Se è vero che la vostra patria sola e migliore sia il grembo materno
da cui siete scaturiti, rassicuratevi, figli! Il giorno che
avversità di fortuna o ferocia di governanti dovesse fra quel grembo
e voi levar la muraglia d'una condanna, l'abbasseremo, la
livelleremo noi, abbandonando l'Italia per sempre, venendo costì per
vivere accanto a voi e per sempre la vita d'ogni giorno, d'ogni ora
che, voi lontani, ci torna supplizio.
Purchè non torniate! purchè non tuffiate le mani nel fratricidio
orrendo che insanguina il vecchio mondo, scatenando sul destino dei
servi le maledizioni della civiltà e le vendette della storia;
purchè – lontani, ma sacri al nostro affetto ed al vostro nobile
lavoro – persistiate costì nell'amore riconoscente per coloro che vi
amano; nel compito generoso che contro gli orrori della guerra,
nell'odio dei suoi provocatori infami, nella severa pietà per gli
incoscienti, raccogliere gli sdegni, le rivolte, gli impeti d'ogni
cuore, d'ogni mente, e la terra restituirà madre uguale e benigna ai
figli riconciliati oltre ogni frontiera, araldi d'amore, sacerdoti
di giustizia, soldati di libertà!
Figli, per l'amore santo alla mamma che nello strazio vi concepì, e
vi partorì nel dolore, e vi crebbe di lacrime, di sangue, di baci, e
non vive, non pensa, non soffre che di voi e per voi, per l'amor
nostro, figli, non tornate!
(Palermo, 5 luglio 1915).
Le madri d'Italia ai figli emigrati nelle due Americhe17
Pan prestato, buon da rendere!
Gli anarchici hanno, in genere, dei più gravi problemi sociali un
criterio una soluzione loro propria e, di conseguenza, dinnanzi alle
grandi commozioni collettive un atteggiamento corrispondente,
logico, tutto proprio, diverso ed acerbamente contrario ai giudizii,
ai criterii, agli atteggiamenti in cui si placano e si adagiano le
preoccupazioni, gli interessi, gli uomini, i partiti dell'altra
riva.
È spiegabile, diremo così, per definizione, ed è risaputo per tanta
esperienza non sempre sterile ed ingloriosa, che l'insistervi
tornerebbe superfluo.
— Che, cosa vi guadagnano? chiede la gente saggia la quale –
ripudiato o soffocato ogni spontaneo moto dell'animo ed ogni diritto
della ragione – non consente ai proprii atti altra bussola che della
pitocca speculazione utilitaria; che cosa vi guadagnano?
La più alta soddisfazione che sia promessa agli uomini i quali nella
tenebra densa, muta, insidiosa della superstizione e della menzogna
si sforzano di aprire alla verità uno spiraglio, e fra i rovi, gli
agguati del calcolo, della frode, dell'oppressione, l'arduo sentiero
alla libertà: l'armonia superba tra il pensiero e la parola, tra la
fede e l'azione, fra l'ideale lontano e la realtà nemica che reca,
ad ogni tregua, oltre le conquistate trincee, nella vita vissuta un
po' del sogno luminoso propiziandone la realizzazione agognata.
È un orgoglio più superbo ancora, nella sanzione che alle loro
previsioni ed alle loro audacie contrastate, subissate, maledette
oggi con domenicano furore, porta lento, terribilmente lento in ogni
suo minuto ma ineluttabile, inesorabile, il domani immediato.
* * *
Pagano caramente soddisfazioni ed orgogli: comincia nella famiglia
il dissidio che si amareggia più lontano dell'abbandono degli amici
e si incilicia di squallori, di disinganni, di persecuzioni, di
strazii intossicati e disperati finchè tutta la vita non sia più che
una sanguinosa ineffabile passione; ma se dalla forca o dalla triste
corsia di un ospedale veggono libertà e verità riportare su per
l'erta dell'avvenire il sasso di Sisifo sotto cui si illudevano
sinistramente scribi, farisei e pubblicani averle precipitate e
soffocate per sempre, anche l'agonia è gioia dei pionieri che
nell'oblìo ingrato si scavano la fossa ed il riposo, lieti
d'affrettare coi loro olocausti l'ora della liberazione, d'aver sul
labbro cinico degli effimeri trionfatori ammutolito lo scherno,
d'aver soggiogato riluttante il consenso universale alla sincerità,
del loro pensiero e della loro azione.
«Saranno sognatori o criminali; ma la sincerità della loro fede, pur
aberrata ed assurda; ma il disinteresse e l'abnegazione di tutta la
loro vita, pur traviata e nefasta, non può impugnare alcuno».
Da Cesare Lombroso a Deibler è il verdetto unanime dei famuli del
Sant'Uffizio borghese.
* * *
L'umanità, sempre che non si abbia a tener conto della gente che sta
al di sotto del boia: la lurida canèa dei mezzani professionali, dei
bottegai ottusi, dei politicanti barati, dei banchieri fugaci e dei
famelici parassiti che di ogni pensiero, d'ogni parola, d'ogni gesto
saggiano su la pietra di paragone del tornaconto o della mancia, del
sacco o della bottega o del lupanare: depravati soverchio perchè
abbiano della gente di cuore gli impeti temerarii, generosi, troppo
vili perchè osino del padrone i corruschi sdegni di classe;
oscillanti in perpetuo fra un colpo di turibolo ed un colpo di
coltello, pronti a levarvi gli anarchici ai sette cieli oggi se li
schieri il loro ardore di giustizia contro un concorrente temuto,
pronti ad accoltellarli nella schiena allo svolto del trivio se le
mutate sorti della battaglia li cacci domani coi piedi innanzi nel
truogolo cui chieggono la biada.
Perchè v'è della gente che è al disotto del boia.
* * *
Per quanto si rimpiattasse poltrona alle spalle dei birri che aveva
sul luogo affollato delle sue spaurite denunzie, e giù nel fitto
della ciurma arrovellata, per le mancie consolari, dalle sue
maramalde sobbillazioni, l'ho veduta ieri a Philadelphia.
Alcuni compagni nostri avevano organizzato alla Fulton Hall,
domenica, una conferenza contro la guerra.
Dal momento che si può essere a Philadelphia per la guerra; che alla
più grande patria si possono a Philadelphia coscrivere gli
entusiasmi, i baiocchi e la pelle... altrui, parrebbe, ed è parso ai
compagni nostri, che potesse Nicola Cuneo liberamente manifestare le
ragioni per cui al proletariato gioverebbe di quegli entusiasmi
diffidare, negando alla guerra ed alla patria il tributo di sangue e
di giovinezza che le negano per intanto i pappatriottardoni della
colonia.
Tanto più che, a differenza dei consueti comizii promossi da lor
signori, in cui non si consentono voci discordi e si ammutoliscono
col randello dei poliziotti, nelle riunioni promosse dagli anarchici
la libertà di parola in contradditorio è tradizione immutata e
consacrata da un numero infinito di precedenti, dall'assidua,
inalterata testimonianza della civile educazione del proletariato
libertario; ed avrebbero potuto i patriottardi, i guerrafondai della
prominenza coloniale subissare vittoriosamente della loro eloquenza,
dei loro travolgenti entusiasmi, le eresie internazionaliste e la
modesta oratoria del nostro compagno Cuneo18.
Hanno invece diffuso alla sordina nei quartieri meridionali della
città, nella piccola Italia buona ma superstiziosa e pedissequa, che
alla Fulton Hall il domani si sarebbe celebrato un mostruoso comizio
contro l'Italia, che lo avevano organizzato austriaci e tedeschi, i
quali ne avevano pagato la sala, diffusi gli inviti, salariati gli
oratori; e che era una vergogna da non tollerare, ed i traditori
volevano essere linciati; mentre andavano poi favoleggiando che gli
organizzatori del comizio, austriaci e tedeschi, avevano offerte
centinaia di dollari per dissuadere i riservisti italiani dal
partire per la guerra.
Denunziavano nel contempo alla polizia che dal Comizio anti-italiano
della Fulton Hall dovevano attendersi conflitti tragici, e che
sarebbe stato saggio prevenire.
In questa organizzazione turpe di patriottici linciaggi, di
sobillazione caine, di perfide denunzie, hanno intanto riconciliate
finalmente nell'infamia e nella viltà le due fazioni che si
contendono da un decennio l'egemonia della colonia, egualmente.
* * *
Il comizio ebbe luogo ad ogni modo ed al pubblico rigurgitante,
applaudito fragorosamente fin dalle prime battute. Nicola Cuneo
parlava da mezz'ora all'incirca quando un bulo, salariato per la
triste bisogna, l'interruppe promettendogli il linciaggio dovuto ai
rinnegati ed ai traditori.
Il pubblico, è bene rilevarlo, zittì della sua unanime protesta
l'interruttore che riguadagnò la porta sotto la protezione dei
birri; ed allora i buli, di fuori, mortificati del primo smacco
arrovellarono la folla a tirar sassi contro le finestre, a
conclamare il linciaggio degli austro-tedeschi porgendo così alla
sbirraglia l'opportunità di tener la consegna. Il comizio è sciolto,
gli oratori Cuneo e Canzanelli sono arrestati, il pubblico cacciato
dalla sala a randellate in istrada nelle fauci della bordaglia che,
imbestialita dalle perfide menzogne degli sparafucili consolari, si
avventa facendone scempio sui compagni Scussel, Erasmo, Vallorani,
Loreti che grondan sangue e sono patriotticamente svaligiati, nel
nome e per la gloria della più grande Italia, dell'orologio e dei
pochi soldi della settimana, mentre a nugoli i birri, colla consueta
procedura, sbarazzano la strada alla circolazione.
L'epilogo?
Sempre lo stesso. Agli aggressori salariati l'impunità, la
protezione della polizia; agli aggrediti randellate, manette, ed in
vista un processo penale per cui Canzanelli e Cuneo sono sotto
cauzione di parecchie centinaia di dollari.
* * *
E la stampa locale?
È per la forca insaponata di vituperii infami: «gli organizzatori
del comizio sono stati evidentemente pagati dall'Austria», il
linciaggio dei rinnegati preconizzato con domenicano furore.
E farebbe ridere se non muovesse a schifo.
Barattieri, falsari, gazzettieri analfabeti e voltagabbana, scampati
alle patrie galere per levar qui il baraccone d'ogni raggiro ed
ammucchiar palanche sul sudore altrui e sulla propria quotidiana
prostituzione agli avventurieri da sentina; patriottardi che gridano
l'inno eroico ed augurale all'Italia, alla Francia, all'Inghilterra
ed alla Russia perchè alla greppia la biada viene dai fondi segreti
del regno o dalla subdola generosità dei consolati della repubblica,
dello Czar o di Giorgio V., come ieri la patria d'origine
barattavano con quella d'adozione per un pugno lurido di scudi, per
la «giobba» e per la vergogna – a trattar d'austriaci e di tedeschi
gli anarchici che, se vogliono essere cittadini della terra oltre il
confine esoso del natio loco, ripudian frontiere, cittadinanze ed
orgogli d'ogni patria, coltivando uguale per tutti i simboli
dell'oppressione, l'orrore, augurandosi che la nemesi della storia
travolga dei suoi cicloni egualmente inesorabili e Cecco Beppe e
Gennariello, e Guglielmone e Giorgio e Poincarè e Nicola, vampiri de
la stessa voracità insaziata, se la diversa fortuna abbeverano nelle
vene del proletariato uguale ovunque nel miserando destino; e
chiamino, essi i bagascioni, venduti i compagni nostri che alla
vanga ed al martello, all'ascia, al piccone, alla fatica impervia al
sudor sacro e dispregiato chieggono il pane, la fierezza, il diritto
alla giustizia ed alla libertà – parlano di corda in casa
dell'appiccato, cimentando l'impudenza oltre ogni più temerario
confine della fantasia; innocui ad ogni sdegno.
* * *
Altro ammonimento gorgoglia dall'ultimo agguato.
Sdegna la prominenza patriottarda ogni forma ed ogni occasione di
attriti fecondi, di civili dibattiti, di libere discussioni, per
risuscitare contro il nonconformismo internazionalista od anarchico
l'obbrobrio delle calunnie consapevoli perfidamente, le organizzate
grassazioni. delle sue Corti di Miracoli, l'anatema feroce, il
linciaggio bestiale, le San Bartolomeo tricolori?
E sta bene; è questione d'intenderci: ma nessuno neanche, a
cominciar da oggi, celebrerà oltre la sagra delle intolleranze
conventicole nè il re, nè la patria, nè la guerra, nè le sue
fantastiche vittorie : nessuno, più mai.
Pan prestato è buono a rendere!
Vedremo che cosa avrà guadagnato.
(31 luglio 1915).
Huitzilopochtli
Storia vecchia di là da quattrocent'anni.
S'incorona Montezuma sovrano benedetto delle nazioni confederate di
Mexico, di Tezcuco, di Taclopan; e dall'altipiano tragico su fino ai
contrafforti nevosi che domina della sua vetta corrusca il
Popocatepetl, giù per la valle perfida e lussuriosa, fino al mare,
nella gloria del sole divino, nella sargra di tutti i templi, da
Tula a Tenochtitlan è il delirio dell'eroica gente dell'Anahuac.
Non si specchiò nei cinque laghi, intorno a cui crebbe fra il
fragore delle armi e lo squisito raccoglimento dell'arte il genio
vario e la potenza invitta della stirpe, tanto fasto, tanto fervore,
mai; così come non mai pesò tanto angosciosa sul suo destino
l'artigliata avversità della fortuna.
Grande in ciel l'ora del periglio passa!
«Apprestano le vele di là dal mare infinito, nemici insoliti nel
volto, nel linguaggio, nella fede e nell'armi nell'audacia sacrilega
e nella potenza fatale, minacciando la santità, degli altari, l'onor
delle donne, e su la terra che non conobbe culla di schiavi, la
libertà dei figli, la sicurezza del pane e dei focolari, il fato
estremo della nazione» – hanno rivelato convulse sotto il coltello
dei sacerdoti le vittima degli olocausti espiatorii.
* * *
Così a placar gli sdegni di tutti gli dèi di Quetzalcoatl, di Tetloc
e di Tetzcatlipoca, a placar la sete di Huitzilopochtli, il grifagno
iddio della guerra e della gente che l'orgia sadica inaffia di
torrenti del puro sangue di vergini e di bambini, ascendono ad ogni
altare, da ogni borgo, da ogni «calpullo» innumeri le vittime ebbre
di perdizione, nell'insano tripudio della turba che inonda la valle,
torreggia da ogni balza, urge da ogni valico, travolta dallo stesso
delirio di rinuncia e di olocausto. Caciques ingemmati ed
impennacchiati, guerrieri briachi di fede e di pulque, machuals
sbucati dagli angiporti, dalle sentine, dal sottosuolo, si curvano
nella stessa polvere dinnanzi ai sacerdoti che si flagellano colle
serpi, che si squarciano le vene cogli aculei spaventosi dell'aloe
ed objurgano nelle ossessionanti cantilene la penitenza e
l'espiazione:
«L'uomo che ha peccato meno per la sua propria volontà che pel mal
segno sotto cui è nato non trova redenzione che assicurando, a
Huitzilopechtli uno schiavo pel Sacrifizio».
I ricchi, i caciques, affastellano ai piedi dell'orrendo, insaziato
feticcio, ambra e cocciniglia, copale e polvere d'oro, ascie di rame
e tappeti di piume.
I poveri, i machuals, danno le vergini incontaminate, i lattanti
inconsapevoli, il sangue e la vita.
Clavigero e Torquemada dissentono intorno al numero, ma asseverano
concordi che la processione delle vittime anelanti al sacrifizio è
lunga più di due miglia.
La strage dura una settimana.
In alto, sul frontone del tempio, fra le are minori di Tatloc e di
Quetzalcoatl, il vittimario affonda nel seno immacolato de le
vergini l'itztli, il coltello scintillante di diaspro, traendone il
cuore che innalza palpitante al bacio del sole ed offre poi su l'ara
di cavo smeraldo a Huitzilopochtli implacato19.
* * *
La strage dura una settimana.
V'infuriano inesausti cinquemila, sacerdoti, ed in un sol giorno vi
sono sventrati ventimila bambini, scrive Torquemada, e mentre Acosta
s'indugia a fissare in ventimila le vittime di ciascun giorno,
Ixtilxochitl, lo storico nazionale, leva a centomila il numero
complessivo delle vittime della sagra spaventosa.
Il sangue cola a rivi da la piramide fumante d'incensi, sonante di
preci, s'aggruma lungo le colonne, stagna in pozze livide, e la
valle non è più che un carnaio pestilenziale.
Montezuma ghigna bisbigliando al gran sacerdote: «Tu comprendi ora
perchè alla piccola repubblica di Tlascala non abbiamo insidiato mai
la libertà; dove avremmo trovato all'ecatombe vittime così
numerose».
Ventimila bambini in un giorno, centomila uomini scannati in una
settimana a propiziare da un feticcio orrendo, in omaggio ad una
superstizione obbrobriosa, la salvezza dei Montezuma, la prosperità
del vecchio Messico, indarno.
Indarno: sull'effeminato Montezuma e su l'impero esangue passò un
pugno di avventurieri, gli avventurieri di Hernando Cortez
irresistibilmente e la gloriosa terra di Anahuac rimase feudo
trascurabile nel vasto impero di Carlo V su cui neppure il sole,
mancipio, osava tramontare.
Vecchie storie di là da quattrocento anni!
* * *
L'umanità e la civiltà pretendono aver fatto del cammino, di poi: a
la gloria di dio e pei trionfi della fede negano l'obbrobrio dei
sacrifizii umani. I roghi di Michele Servet, di Giordano Bruno, di
Lucilio Vanini o di Francisco Ferrer si riaccendono volta a volta a
testimoniare che il cannibalismo religioso ha sempre forse le
vecchie voglie e gli inesausti appetiti, ma gli mancano zanne ed
artigli: la grande orgia di sangue della San Bartolomeo di Carlo IX
e di Caterina rimane eccezione, ricordo lontano.
Le vergini ed i bambini non si offrono più al coltello del
vittimario, in una società che ha nelle vene, come imprecava Enotrio
ai bei dì,
...l'Aretino ed il Loyola
e si masturba cristianamente di passione, di grazia e di pietà. Si
soggiogano tutto al più alla lenta macerazione conventuale ed alla
recondita libidine dei confessori; i ragazzi si mandano a dottrina,
si danno ai frati perchè dell'incurabile bestialità, facendo strazio
delle menti irrequiete e delle grazie precoci, ne tirino su dei
bravi cristiani, rassegnati e fedeli.
Contro gli eretici non si osano nè la corda, nè il rogo; si spiana
tutt'al più la diminuzione civile giuridica o morale per cui, come
nella grande repubblica; chi non crede in dio non può essere un
galantuomo e non deve trovare pane dai padroni, fede nei giudici,
stima fra cittadini.
Direi che cogli orrori dei sacrifizii, anche la fede se ne sia
andata, non lasciando nelle mani dei sacerdoti che la larva
trasparente e vana che basta giusto giusto ad illudere la buona
gente ed a vestire gli arruffianati trabocchetti del mestiere.
* * *
Soltanto, esulando la fede, retaggio infausto dei più allora che
rimane privilegio d'aristocratiche minoranze l'appannaggio della
conoscenza e della verità da cui è stata debellata e bandita, il
campo resta piuttosto al feticismo, superstite in ogni animo, che
non al progresso pressochè inaccessibile; ed in luogo d'illuderci su
le radiose e vertiginose ascensioni della civiltà sarebbe più
coscienzioso riconoscere e più onesto il dire che nei contesi
periodi di transizione –alle prime fasi effimere e fugaci, almeno –
il passato nelle sue rivincite ha miglior giuoco che non l'avvenire
nelle sue incursioni. Con questa disgrazia di soprassello: che il
fugace, l'effimero, l'attimo, nella storia, nel meccanismo dei suoi
ricorsi, si misura a secoli quando non a millennii, e ci sorprende
inatteso, insospettato l'uragano rinnovatore fra la mefite delle
stagnanti restaurazioni.
Gli estremi si toccano, brontola il proverbio, ad ammonire che se
non dobbiamo disperare non pretendere dall'alba pallida sorta appena
su le tetraggini dell'antico regime, nè i bagliori dell'aurora, nè
le fiamme ardenti del meriggio, neppure dobbiamo dinnanzi alle
fioche promesse antelucane ammainar diffidenze e vigilie, coraggio e
tenacia, illudendoci di aver tanto avanzato e la tenebra della notte
orrenda e le cupe insidie e le mortali minaccie e le cieche violenze
di cui si abbuia, che non possa la belluina primordiale bestialità
riafferrarci nelle sue estreme convulsioni al primo svolto,
precipitandoci, giù per gli abissi della storia, a ritroso, oltre
gli evi di orrore, di sangue, di ferocia, di vergogna che ci era
speranza ed orgoglio aver superato per sempre.
Al di là dei quattrocent'anni dalle sacre ecatombi umane di Tuta, di
Tezcuco e di Tenochtitlan.
Come, oggidì.
* * *
Chi avesse la sciocca velleità di dubitarne può con un certo
profitto consultare le cifre che qui desumiamo alla meno
sospettabile delle fonti, al quadro cioè che dei probabili risultati
del primo anno di guerra la Croce Rossa ha eretto sui dati ufficiali
dei primi sei mesi.
Gli ostinati che volessero cavillare d'esagerazioni e di pessimismo
tengano conto che non figurano nella statistica della Croce Rossa nè
la Serbia che dai primi sei mesi di guerra è uscita decimata, nè il
Montenegro che vi ha lasciato tutti i suoi uomini validi, nè la
Turchia, nè l'Italia che per essere venute tardi non hanno meno
pagato alla guerra e in Asia e sui Dardanelli, nell'Istria e nel
Trentino il loro tributo di parecchie centinaia di migliaia di
vittime; e che quindi le cifre che della Croce Rossa noi diamo qui
sono sensibilmente inferiori al vero, e che se vi è un'esagerazione,
essa è nell'ottimismo dei risultati preveduti.
Nei primi sei mesi della guerra
morti
feriti
La Germania ha avuto
L'Austria ha avuto
341000
701000
La Francia ha avuto
464000
1157000
L'Inghilterra ha avuto
116000
234000
La Russia ha avuto
753000
1982000
Totale dei primi sei mesi di guerra
2156000
4931000
Su questi risultati d'assoluto rigore ufficiale, per essere le cifre
consentite rispettivamente dai governi interessati, la Croce Rossa,
badate bene! non noi, si crede autorizzata a conchiudere che il
primo anno della guerra sia costato
morti
feriti
prigionieri
Alla Germania
1000000
1700000
485000
all'Austria
700000
1475000
360000
alla Francia
960000
2500000
1300000
all'Inghilterra
300000
375000
250000
alla Russia
1000000
4300000
1600000
Perdite totali del primo anno
3960000
10350000
3995000
Venti milioni, centoventicinque mila uomini perduti nel primo anno
di guerra, non contati i morti, i feriti, i prigionieri che vi hanno
lasciato la Serbia, il Montenegro, la Turchia e l'Italia.
Cinque milioni di morti, dieci milioni di mutilati!
I patriotti che hanno sfondato le porte del tempio di Giano possono
tener il fiato: so che è la guerra; che alla guerra non si va per
scambiarci un bacio od un mottetto; e che essa deve contare tanto
più numerose le sue vittime oggi che, mancipio, ludibrio, giullare
del dollaro o della sterlina, l'ingegno umano – immenso Leonardo tu
non l'avresti sognato! – s'arrovella a servirne la voracità ed i
furori con armi di distruzione e di sterminio fantastiche di
rapidità e di potenza.
Dinnanzi all'ara che accoglie nel grembo della morte, universa
patria che ignora le frontiere, cinque milioni di cadaveri, cinque
milioni di esistenze gagliarde sbrandellate dalla mitraglia,
rivomitate dalle sazie fauci del mare, non osa neppure il più
scettico dei miscredenti la fragorosa truculenza delle inutili
imprecazioni; malediremo poi.
* * *
È la guerra, d'accordo! e cinque milioni di cadaveri nel giro d'un
anno, l'aurora che si leva su tredicimila settecento cadaveri ogni
giorno, sono un'inezia senz'alcun dubbio per un uomo di nervi, pel
condottiero a cui i soldati sono pedine o matricole, pel capitalista
che sul mercato non ne ha voluto neanche ad un pane l'uno.
Ma per noi il soldato è un uomo pur sotto la sconcia livrea servile
repubblicana e regia, un uomo che ha dentro, animoso o pusillo, un
cuore per cui è legato oltre la caserma e la trincea e la consegna
al resto del mondo, schiavo, prima ancora che del re o della
disciplina, dei suoi affetti, dei rapporti, degli interessi che
intorno agli affetti sono cresciuti.
Sarà un disgraziato fin che volete, lo potrete affogar senza un
rimpianto, ma da una madre egli è nato, ad un'altra madre egli ha
dato figlioli; ed io domando alla vostra aritmetica spedita quante
madri piangano, quanti orfani cerchino in cotesto paradossale
carnaio il volto, lo sguardo, la carezza ed il pane di cui faceva il
povero perduto la gioia delle vecchie fronti, la forza delle giovani
vite, la provvidenza, la sicurezza, la ragione stessa del focolare.
E quando pur ritrose, pur discrete, mi dovranno consentire le cifre
vostre che quindici milioni di madri e di spose, cinquanta milioni
di orfani piangono indarno il figlio, il marito, il padre, chieggono
indarno a dio, al re, alla patria, il pane che fioriva dalle mani
incallite del guerriero caduto, io che non so più dinnanzi allo
strazio disperato la parola dell'odio, non rampognerò neppure la
discinta impudica ipocrisia con cui lacrimando ieri su le vittime –
trascurabili nel confronto – dei terremoti di Calabria o di Sicilia,
frugate, sciacalli avidi ed insaziati, nel carnaio, lungo le rive
della Vistola o del Reno, su pei valli del Tirolo o dei Carpazi, nei
piani di Fiandra o di Polonia, in ogni grembo di madre fra il sangue
e lo strazio, l'investitura e la fortuna.
* * *
Diteci soltanto, buona gente che ciancia di patria e di libertà, di
civiltà o di cultura perchè siano passati quattrocent'anni senza che
nulla siasi innovato nel culto dei feticci, nel rito degli
olocausti, e come ieri nella vecchia Anahuac al feroce
Huitzilopochtli, rivestito appena del tricolore latino o dei gialli
aquilati stendardi dall'impero, non sappiano i vostri aruspici, i
vostri sacerdoti propiziare che coll'ecatombe monotona, inamovibile,
con questo in peggio ed a comune mortificazione, che allora vi
cedeva ottuso e cieco il fanatismo inconsapevole, mentre oggi le
reclama e le organizza il calcolo cinico e ruffiano; che allora,
comunque assurda e feroce, se ne alimentava la speranza de la comune
salvezza, la fede della gente ne la vittoria, e nella gloria del
comune destino, mentre oggi dal sangue plebeo non rigogliano che la
borsa e la boria degli stemmati filibustieri su la rinnovata servitù
e su l'inasprita miseria degli umili; e che i sacerdoti del bieco
iddio il cuor delle vergini e dei bambini strappavano dai petti
lacerati d'un colpo del loro formidabile coltello di diaspro, mentre
voi, voi cristiana e civile progenie di Cristo e di Rousseau, il
cuor delle madri dissanguate lenti, a colpi di spillo, e le fragili
vite dei figli superstiti soffocate d'inedia, fiato a fiato,
assaporando nell'artiglio convulso e nell'occhio rapito lo spasimo
della lunga agonia.
* * *
Se davvero negli ossarii di Tezcuco inorridirono dinnanzi alla
piramide di centotrentamila cranii i compagni di Hernando Cortez
quattrocent'anni fa, che cosa diranno i nuovi conquistatori, che
urgono alle porte del vecchio mondo, quando domani dinnanzi alle
chiuse di scheletri che avranno colmato le paludi, deviato il corso
dei fiumi, sbarrato il passo dei monti, perderanno la stessa nozione
del numero, cercando indarno i segni della pietà e della civiltà di
cui andiamo così orgogliosi? Che cosa diranno?
Perchè sono alle porte i conquistatori. Perchè essi verranno; essi
vengono, rumoreggiano alle porte: badate a voi, buona gente, che
chiede al macello il vigore, al sangue il battesimo, allo strazio la
gioia, alla rapina la fortuna.
Badate a voi! Potrebbero venire prima che sia esausto il seno delle
madri, il ventre dei figli, la pazienza eroica dei servi.
Innumeri, irresistibili, inesorati come il ciclone.
Insegnate il disprezzo d'ogni imbelle senso umano e civile: vi
mostreranno essi al primo incontro che la vendetta fatta giustizia
non conosce pietà.
(21 agosto 1915).
"Evviva la guerra!"
È, fra i guerrafondai, della gente seria, che vi persuade.
Non fra i Tirtei del nazionalismo strillone, badiamo bene! Non fra i
Rostand, i Kypling, i D'Annunzio che sulla lira malconcia – ridotta
oramai al solo monotono episodio della grande guerra fascinatrice –
vi chieggono pel buon dio e pel re, per la civiltà e per la patria,
discretamente, la pelle, il sangue e la giovinezza dei figlioli, le
lacrime di tutte le madri; e vi persuadono tanto meno che il
fervore, l'estro e l'entusiasmo essi dànno in affitto a chi meglio
paghi.
Bisogna d'altra parte riconoscere che hanno per le mani così aspra
bisogna cui non basterebbero nè il genio nè il plettro nè gli anni
d'Omero.
Persuadere al proletariato che per la causa della civiltà – a cui
esso è rimasto fin dalle origini, traverso i millennii, straniero
immutabilmente – egli non ha dato fino ad ora che una miseria:
cinque milioni duecentonovanta mila morti, sei milioni quattrocento
settantotto mila feriti, due milioni seicentoventi mila prigionieri,
quattordici milioni trecentonovantotto mila perduti in totale, nel
primo anno di guerra20; e che deve darne ancora, in proporzioni
maggiori, per altri due o tre anni, finchè le sorti del progresso e
della libertà non siano vittoriosamente decise, non è compito del
resto che si possa onestamente pretendere dai giullari di corte; nè
che si possa risolvere con un peana, con una fanfara, con quattro
chiacchiere garbate.
* * *
La gente seria non fa tanti discorsi, ha in eguale dispregio il
ciarpame venerando delle tradizioni come le dubbie promesse
dell'ideale, così remoto fra le nebbie dell'avvenire quanto è dubbia
e lontana nella tenebra dei tempi la scaturigine degli orgogli e dei
miti della stirpe. Non crede che all'oggi, alla realtà immediata,
concreta, ponderabile; e la coglie e la pesa nel minuto che passa,
al di là del quale essa è completamente diversa, così diversa che è
orrore domani quel che oggi è gloria, rovina ed onta quello che oggi
è fasto o dovizia.
Vivere l'ora! e viverla piena ed intiera, con la tensione di tutti i
nervi, di tutta la volontà, di tutta la forza, al fine limpido ed
immediato; e la meta attingere coll'impeto subitaneo del ciclone,
travolta ogni barriera del sentimento e della ragione, della
giustizia e della pietà, nel dominio, nell'onnipotenza dell'attimo
fugace.
Poi? domani? dopo?
Venga il diluvio; altri andrà sommerso. Essi non vi saranno più.
* * *
Non è così la gente seria?
Misuratela alla stregua della grande guerra.
Non le ha mai cercato una giustificazione all'infuori del calcolo
cinico e brutale: la guerra urge! urge sbucare dalla mediocrità e
dal marasma, a non asfissiare tra il pidocchiume, a restituire agli
arrembaggi ed alle corse l'antica maestà soggiogata dalle
convenienze, dai trattati laboriosi, accidiosi, subdoli o taccagni:
a restaurare sopratutto l'epica grandezza e la dovizia tragica del
sacco e del bottino: urge a ricondurre nelle ciurme, che farneticano
briache di diritti e di rivolte, la fedeltà, la disciplina, la
soggezione.
Ha buttato fra pretoriani citaredi e giullari della chiesa e della
caserma, del parlamento e dell'Ateneo e della stampa, una manciata
d'oro e l'ordine sovrano egualmente irresistibile: squillate alla
guerra.
E la guerra fu: la bandirono nel nome di Gesù i sacerdoti del
tempio, la benedissero i sofi nel nome del diritto, la sancirono i
parlamenti nel nome della stirpe, le coscrissero i cortigiani nel
nome del re gli eserciti fra le ciurme tornate nel nome della legge
e della patria dallo scisma pavido e discreto alle cieche sudditanze
sotto i vecchi labari riconsacrati.
Dio e la fede, il re e la legge, il diritto e la patria hanno dato
l'aureola, il viatico, le armi e gli entusiasmi di una crociata alla
cinica avventura, a l'editto bestiale che in origine, spogliati de
li orpelli bugiardi, dicevano semplicemente: sgombrate il mercato
dalla marmaglia taccagna che qui si hanno a coniare quattrini, e
restaurare su le disperse trincee dell'avvenire le provvidenziali
bastiglie dell'antico regime.
* * *
S'è urtato il proposito ad ostacoli insospettati e, trascendendo
ogni più temeraria previsione, la rovina ha levato da lutti i cuori
lo sciame sgomento d'inquietudini disperate: «Nel gorgo le
cattedrali e le fortune; a fiotti, nel gorgo, sudor di fronti,
tesori di fatiche, d'ingegni, d'invenzioni, d'ardimenti millenarii,
nel gorgo incommensurato i tesori del dornani, le volontà più
fervide, il sangue più generoso, le energie più agguerrite,
l'inapprezzabile necessaria guarentigia della vita e del progresso:
la minaccia d'un più fosco millennio sul conserto destino delle
genti... Troppo, troppo!».
E la diana squillante ieri su per la gamma degli entusiasmi
universi, le promesse della vittoria fulminea e decisiva, la magica
rinnovazione della vita, il trionfo delle audacie giovanili, della
forza turgida incoercibile, dilegua su l'inutile desolazione, tra la
sfiducia, l'orrore e la paura, in singulti disperati da cui
gorgogliano la protesta e la maledizione.
* * *
La gente seria sogghigna; squaderna su gli sgomenti il libro mastro,
l'indice grifagno su la colonna: "Profitti e perdite''.
Rovina e desolazione? Dopo un anno di guerra prodigalmente vorace
zampilla a torrenti l'oro dalle terre devastate.
Cinquecento milioni in oro si rovesciano dai galeoni britannici nei
forzieri di J. P. Morgan a dirvi l'immensità riparatrice delle
taglie che li riscatteranno domani, mentre dal sangue degli
olocausti propiziatori s'irrorano, miracolosamente ringiovanite,
fortune decrepite e moribonde.
— Qui, qui, isterici cristianissimi della pietà, che vi pascete di
brividi, di giaculatorie e di genuflessioni; qui: chi avrebbe ieri
arrischiato un soldo su la risurrezione delle nostre industrie
anemizzate? La più potente delle nostre organizzazioni
metallurgiche, la Bethlehem Steel Trust Co., non trovava nel gennaio
scorso un cane che volesse delle sue azioni a quarantasei dollari ed
un quarto.
Urge la guerra, soggioga tutte le braccia alle armi, tutte le
officine del vecchio mondo al vassallaggio della nostra
intraprendenza, e le azioni della Bethlehem Steel Trust Co. da
quarantasei dollari salgono a cento l'8 di aprile: balzano a
duecento il 22 luglio, valicano due settimane dopo, nell'agosto, i
trecento dollari; ed inseguono irresistibili l'eccelso livello del
domani.
Chi aveva nel gennaio scorso, con dieci azioni della Bethlehem Steel
Trust Co. un patrimonio miserabile di quattrocento sessanta dollari,
oggi vive di rendita se del poco s'accontenti: ha nelle stesse dieci
azioni tremila dollari di capitale.
A chi li deve se non alla guerra?
Le azioni dell'American Can Co. che valevano quarantacinque dollari
tre settimane addietro sono oggi a sessantadue; la produzione del
rame, una industria in fallimento nel nostro paese, ha ritrovato
sotto la stretta della guerra il coraggio, il vigore, la fortuna: i
profitti della Ray Consolidated Co. che erano zero sui primi
dell'anno salivano nel marzo a 741,000 dollari ed alla fine del
secondo trimestre, nel giugno scorso, si realizzavano in 1.340.000
dollari!
Fino a ieri, con tutte le nostre risorse, con le nostre miniere, le
nostre ferrovie, la ricchezza smisurata del nostro paese, non
eravamo costretti a togliere denaro a prestito sui mercati
finanziarii d'Europa accollandoci un debito d'oltre mezza dozzina di
miliardi pei quali paghiamo ogni anno duecento venticinque milioni
d'interessi? È scoppiata la guerra e noi abbiamo dato denari in
prestito a tutte le nazioni; il vecchio debito è estinto, ed i
nostri debitori pagheranno quind'innanzi a noi quello che fin qui ci
è toccato sborsare a loro.
Le nostre esportazioni che arrivavano ieri alla cifra
compassionevole di 807 milioni, s'approssimano oggidì ai tre
miliardi, e se dobbiamo giudicare dalle cifre più recenti dateci dal
Bureau of Foreign and Domestic Commerce di Washington, cinquanta
milioni di dollari pel solo mese del luglio testè scorso, nessun
paese del mondo, in nessun periodo più avventurato della sua
prosperità, ha mai attinto il vertice di ricchezza e di grandezza
donde irradia la repubblica tanta luce di potenza e di gloria.
— Tutto per la guerra?
— Per la guerra!
— Grondan sangue i vostri forzieri, ed è bieca d'usure adunche la
gloria della nazione.
* * *
Compatisce la gente seria, pietosamente: La miseria ed il sangue del
prossimo! Mettiamo da banda un minuto, i convenzionalismi superati
od ipocriti: del nostro prossimo nessuno fa conto se non per
spogliarlo. Su le bilancie della nostra provvida morale, il suo
sudore, il suo sangue non pesano se non in quanto ci appaiano il
necessario ricostituente della vita, della forza, dell'ordine, del
dominio nostro, ieri che la guerra non c'era, domani e sempre,
finchè esso non ritroverà nella coscienza sua, sapientemente,
provvidamente farcita di tutte le devozioni, l'improvvisa
rivelazione della sua irresistibile forza.
— Non era ieri, quando la pace benediva ogni terra, così nudo, così
affamato, così vile come oggi?
E del suo sangue, delle sue carni non ci siamo abbeverati e nutriti
ieri, allorquando era tutto un idillio la terra, su tutti i solchi,
a Chalons od a Berra, a Cherry Valley od a Ludlow, a Berlino o a
Buenos Ayres, a Mosca od a Pretoria, per la salvezza di quell'ordine
cui siete pur voi, piissima gente che crede in dio e si confessa
nella sua parola, palladio e scudo?
Così come negli abissi della miniera o nell'androne avvelenato de la
fabbrica, noi suggiamo, stilla a stilla, dalle vene pallide dei suoi
mocciosi, dal seno esausto de le sue femmine, dalla cervice prona di
tutti gli schiavi rassegnati, il sangue del corpo ed il sangue
dell'anima a colorir le guancie delle nostre donne, a costellar un
sorriso su le labbra dei nostri bambini ad irradiare l'aurora della
giornata fugace, a tingere la porpora del sovrano dominio in cui,
venerando, consentite devoti?
La guerra, mischia bestiale d'armi e d'armati o trama subdola
d'insidie esperte, è l'aspetto costante ed immutato della vita
finchè nelle nostre mani, cinto dalle triplici ritorte del ferro,
della fede e della viltà, è ligio vassallo il prossimo nostro.
Non v'impietosite sul vinto, su lo schiavo incatenato e ferito;
potrebbe sotto le ceneri del rassegnato torpore ritrovare la memoria
e le faville d'un diritto che l'oblio millenario non è giunto a
prescrivere; temprare delle sue ritorte, accendervi dei suoi
belluini furori, l'ascia di Spartaco, la face dei Jacques corruschi
ed implacati, far la sua guerra invece che la nostra, conquistar la
sua libertà invece che la nostra fortuna, fare della terra riarsa e
livellata il regno della gioia e dell'amore in luogo dell'arena
selvaggia di competizioni feroci su cui si estolle il nostro imperio
glorioso.
Per la salvezza di tutti: viva la guerra!
Per la gloria di dio e del re, per l'estrema salute dell'ordine
sociale, non sappiano le vostre labbra altro grido: viva la guerra!
(11 settembre 1915).
Alla ricerca della patria
Non so quale impressione vi facciano le lettere che vengono
dall'Italia, dalle trincee e dai focolari, alle quali facciamo posto
man mano che dai compagni ci sono comunicate perchè sono un
documento umano, l'indice più schietto, cioè, dello stato d'animo in
cui si arrovellano desolate, disperate, impotenti le plebi della
patria strette dalle esigenze della triste guerra allo spaventoso
tributo del sangue, ad uno squallore di miseria che cimenta ogni
pazienza ed ogni abnegazione.
So che a sbugiardare la menzogna salariata dei trans-oceanici
guerraioli, a smontare il calcolo e le frodi dei mercenarii
incettatori, di carne da cannone e da macello, quella pubblicazione
è compito necessario, improrogabile; ma quanto doloroso ed amaro!
Amaro!
La protesta contro la guerra prorompe unanime, è vero. È nella
contrizione postuma di quelli che sono tornati al richiamo dei
consigli di leva sotto le bandiere, e imprecano ora dalle trincee al
giorno sciagurato in cui sono partiti; come è nella maledizione
delle madri per cui il focolare deserto non è più che la geenna di
torturanti memorie, d'angustie cocenti, d'ineffabili miserie, di
rimpianti desolati, di ansie mortali da cui scroscia concorde,
imperativo il «non tornate! non tornate figli che la guerra è
strage, orrore, miseria!»
* * *
Protesta, senz'alcun dubbio; ma se togliete il primo appello che ha
suscitato tanto scandalo, l'appello che i giannizzeri dei consolati
regi si sono stupidamente illusi di demolire gabellandolo alla
clientela come esercitazione retorica d'arrabbiati senza patria21;
se togliete qualche lettera, scarsa, che nella patria, nel governo
della patria ad essere più precisi, riassume le responsabilità
dell'ecatombe mostruosa, non avrete più contro la guerra che la
rivolta automatica dell'istinto di gretta conservazione, la rivolta
della paura, contumace universalmente non dico il bagliore di una
idealità temeraria, ma ogni senso, ogni voce a contendere i
privilegi, gli arbitrii, le ipoteche del re, del governo, della
legge, esosi, odiati e maledetti quanto incontestati.
È nella latitanza d'ogni rivendicazione civile o giuridica o
politica il guaito monotono, ossessionante della miseria e della
fame: il pane caro, il sussidio ironico, la disoccupazione
permanente, il vino, il tabacco un ricordo lontano, il domani una
sciagura indeprecabile: senza l'accenno neppur qui a quella che è la
risorsa estrema d'ogni meno consapevole, d'ogni meno evoluta
disperazione, ed a Milano tre secoli addietro od a Figline22 or sono
tre lustri, sferrava gli affamati sui granai e sui forni giù per la
china lubrica d'una constatazione elementare ed in un proposito
fatale: «grano e pane ci sono! abbondano tanto più esuberanti nei
magazzini e nei forni di lor signori quanto più s'attardano all'arca
ed al desco della povera gente avida e rassegnata; ed andiamoceli
dunque a pigliare in loro malora! dovessero accorparci come tanti
cani chè tanto sul lastrico dovremmo oggi o domani crepar d'inedia
ad ogni modo!».
Niente!
Una querimonia monotona, triste d'iloti in cui il millenario abito
servile ha soffocato ogni ribelle sdegno della natura e della
ragione, piegate le ginocchia e gli animi, le fronti e gli sguardi
nell'abbiezione inamovibile delle lacrime, della mendicità, della
preghiera. Non un brivido di fierezza, di coscienza, di ribellione;
anche se dall'altra riva non abbiano ad illudersi eccessivamente, nè
da quest'altra abbiamo noi a mortificarci senza speranza, perchè ai
primi baleni – e non mancano i reprobi a sferrarli in buon punto –
vedranno, attonite, le legioni dei servi così facile, così
lusinghiero, così sicuro il bottino alle braccia, conserte
irresistibilmente, che oseranno quello che non osarono mai nella
concordia dell'ardimento così unanime quanto è oggi nella
rassegnazione e nella depravazione.
* * *
Niente rivoluzione fino ad ora, niente anti-patriottismo; ma nessuno
anche dei patriottici entusiasmi, nessuno degli orgogli e degli
aneliti della stirpe pei quali, a sentire i gazzettieri della biada,
urgerebbero ai contrafforti tirolesi od alle abrupte scarpate
dell'Isonzo i figli della patria ebbri di sacrifizio, d'eroismo, di
perdizione.
Un agnosticismo assolutamente immacolato. I proletarii della terza
Italia, di quella redenta, ignorano la patria collo stesso
indifferente candore con cui dalla patria sono ignorati. E non è
davvero colpa loro se da cotesto civile agnosticismo non germogliano
che le immediate sensazioni dell'orrore e della paura, che le
sterili imprecazioni all'inutile carneficina, che i calcoli gretti e
le quotidiane preoccupazioni del pane.
Conveniamocene lealmente: se nessuno concepisce l'epopea del
cinquantenario glorioso, che albeggia nel 1821 su le forche degli
annunziatori e tramonta in un ciclo di gloria su la breccia del
1870, se non come il civile riscatto alla tirannide ed al servaggio,
all'ignoranza, alla superstizione, alla scrofola, alla clorosi, alla
pellagra che sono il clima storico, caratteristico d'ogni più
diverso regime di barbarie; bisogna con altrettante lealtà e
sincerità convenire che se il regime costituzionale, su la
devastazione, sul tradimento d'ogni più discreta speranza, non ha
suscitato che il rimpianto dei regimi paterni scaduti, ed i Savoia
non vanno più in là dei Lorena, del Papa, o dei Borboni; e nelle
progredite condizioni dell'industria si sono aggravate ed inasprite,
nella indifferenza cinica delle pubbliche tutele, quelle dei servi,
ludibrio perenne della coscrizione e dell'analfabetismo, della
disoccupazione e della tubercolosi, della superstizione e della fame
e della mitraglia a Verbicaro, a Roccagorga ed a Calimera23 segno è
che la patria ha beniamini e bastardi: beniamini cui nell'alveare
dell'oziosa e complicata burocrazia, nelle organizzate camorre
dell'esercito, della magistratura, della banca, ha fatto la nicchia
ed il ventre; ed i bastardi sulle cui spalle ha rovesciato il giogo
d'ogni peso, la soma di ogni compito, il fardello d'ogni abbandono,
d'ogni onta e d'ogni disprezzo.
E che di conseguenza pei nove decimi dei reietti d'Italia, la
rivoluzione nazionale non è avvenuta, la patria rimane ad edificare
se la patria vuol essere maestra di civiltà, madre di benessere
egualmente a tutti i figli suoi.
È limpido come l'acqua di fontana: non conoscono la patria! e
bisogna pure compatirli.
* * *
Ma quegli altri? quelli che alle sue mammelle turgide si sono
nutriti, quelli che del suo affetto ebbero cure, sollecitudini,
ansie, carezze assiduamente? Quelli che trasse benigna essa
dall'angustia alla fortuna, dall'oscurità alla gloria? Quelli che
della patria sanno il martirio, gli ardimenti, le audacie eroiche,
l'epica passione, e non potrebbero senza ingratitudine, senza
abbominio, senza tradimento ignorarla o ripudiarla, le sono meglio
riconoscenti?
Quelli della matrigna non conobbero se non gli abbandoni ed i
rigori, e ricusano di condividerne le ansie ed il destino: questi la
patria non videro che sotto la specie del benessere e della
prosperità e dove questi pericolino la baratterebbero settanta volte
e sette.
Non sarebbe forse assolutamente peregrino ma istruttivo sempre
cogliere nelle cronache della grande guerra i fasti ed i nomi dei
grandi patrioti, dei più grandi e dei più cospicui, che sono di
tutti i comitati di preparazione, di tutte le baldorie tricolori, di
tutti i patronati di soccorso, epigoni più veri e maggiori del
nazionalismo idrofobo e linciatore; e pur di fare baiocchi molti ed
alla svelta, pur d'acciuffare per le chiome, nel rapido scoccar
dell'ora tragica, la fortuna, non si indugiano, scavalcato ogni
scrupolo, a trescare col nemico e costituirglisi di qui, di dentro
alle frontiere vigilate e contese i migliori e più efficaci alleati.
In ogni guerra, in tutte le patrie.
Il Cresta, che commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia e
presidente della Camera Italiana di Commercio a Parigi, al tempo
della guerra libica incettava e spediva agli arabo-turchi, cannoni,
mitragliatrici e munizioni, è il tipo o del patriotta fuso nello
stesso stampo dei Dupont, dei Remington e dei Winchester che
contrabbandavano nel Messico, per le truppe di Huerta fronteggianti
a Vera Cruz ed a Tampico le legioni della patria repubblica, armi e
munizioni per l'importo complessivo di centinaia di milioni: del
calibro, se vi par meglio dei tedeschissimi Kuhn e Loeb & Co.,
che sottoscrivono oggi per cinque milioni di dollari al grande
prestito di mezzo miliardo di dollari con cui gli alleati
s'apprestano a dare alla loro vecchia patria tedesca l'estremo colpo
di misericordia.
* * *
Al Sault du Tarn, in Francia, si scopriva avantieri che i
controllori dei ministeri della Guerra e della Marina, mediante un
sbruffo mensile di parecchie centinaia di franchi, chiudevano gli
occhi sui proiettili avariati, insufficienti od inservibili che si
fabbricano in quelle officine; ed a quetare lo scandalo si è dovuto
procedere all'arresto del direttore Leblond e di un capo sezione del
Ministero della Marina; mentre pende un'istruttoria contro una delle
più potenti compagnie francesi di navigazione che avrebbe scroccato
centocinquantamila franchi all'incirca in più sul valore di ciascuno
dei piroscafi requisiti dal governo pel trasporto delle truppe in
Oriente; e non si sono fino ad oggi scovati nè freni nè armi a
rompere il monopolio dell'industria del carburo che delle usure
caine compromette la stessa opera di difesa della repubblica
minacciata ed invasa.
Così come in Italia, a Thiene, a due passi cioè dal quartier
generale militare, i tribunali militari hanno dovuto occuparsi di un
cavalier ufficiale, Antonio Peron, il quale aveva falsificato la
cubatura del legnarne fornito al Genio militare per l'inezia di
venti o trenta mila franchi, maggiorando le fatture di altri due o
tre mila franchi che in nome della patria e della guerra si è
intascato; ed a Firenze l'autorità giudiziaria ha ordinato
l'apposizione dei suggelli al grande calzaturificio Pacetto nel
quale la fornitura delle scarpe ai soldati che si ammazzano al
fronte era l'ordito di truffe paradossali, sistematiche e recidive.
A ribadire poi che tutto il mondo è paese, e che sotto qualsiasi
latitudine la borghesia non ha che un'idealità: il ventre, ed una
patria: la cassa forte, ed una bandiera: il dividendo, il
«Vorwaerts!» di Berlino denunzia al governo gli sfruttatori, gli
speculatori della guerra, gli incettatori di bestiame che hanno in
un anno intascato mille novecento cinquanta milioni di profitto, gli
incettatori di grano che nel primo anno della guerra, mentre tutti
stringono la cintola offrendo alla patria un anno di stenti,
d'angustia, di abnegazione, hanno messo in saccoccia cinquecento
milioni di profitti elevando il costo della vita, nella patria in
armi contro l'universo, del cento, del duecento, del trecento per
cento sul livello normale.
* * *
Non è da questa nè da quell'altra parte della barricata, la patria!
Di là non v'è che il calcolo cinico dei mercanti che su l'ara dei
subiti guadagni buttano propiziatori, ad ogni uragano della storia,
e la patria e la stirpe ed i loro destini e la bandiera così
giocondamente come, a presidiarne la vigna, barattavano ieri il buon
dio e le sue indulgenze, il mite Gesù e la sua passione, la
carnaccia plebea per gli angiporti tetri del Sant'Uffizio.
Di quà le sono sbarrati tutti i cuori, turgidi del nostalgico avido
insaziato bisogno di vivere, così aspramente conteso tuttodì che non
ha fino ad oggi superato il livello del cieco bisogno, non è andato
fino ad oggi oltre la quotidiana invocazione del pane, senza
assurgere mai alle superiori eucaristie della luce e della libertà.
Non è apparsa la patria ancora fra gli umili, e non vi apparirà più.
Nata ieri, quando sui ruderi della Bastiglia e sull'orizzonte
corrusco della storia si è affacciato, agitando la dichiarazione dei
diritti, il cittadino anelante a tutta la redenzione, la patria è
mancata alle promesse di libertà d'eguaglianza di fratellanza per
cui aveva trovato annunziatori, confessori, martiri e guerrieri,
fede e vittorie.
Guardando al di là della frode orrenda e sanguinosa che s'era
saziata del suo sangue migliore, il cittadino, ribadito al giogo di
tutte le soggezioni immutatamente, l'uguaglianza non vide che nei
ceppi uguali, nella tenebra uguale, nella miseria, ne la pena, ne
l'angoscia retaggio uguale, sotto tutti i cieli, dei conserti figli
del lavoro; e nella identità del sanguinante destino ha intraveduto
la patria più vasta in cui le frontiere artificiose dubbie effimeri
delle stirpi andavan sommerse nel fulgore di una fratellanza che non
conosceva nè confini, nè odii, un ideale di giustizia esuberante
oltre i decaloghi, i vangeli, i codici a consacrare per tutti i nati
della terra il diritto alla vita, alla gioia, all'amore.
Hanno intraveduto l'internazionale gli umili che non conobbero la
patria, e la patria ha disconosciuti. Rinnegata dal socialismo
medagliettato ed ermafrodita; venduta dal sindacalismo fanfarone e
barattiere, rimane tuttavia l'Internazionale contro la convenzionale
menzogna della patria, realtà così vivente, così limpida, così
concreta che a gridarne il fallimento nel nome delle folli
aberrazioni dell'ora, bisogna essere idioti o carogne.
Che vedrà inchiodata su la stessa gogna l'alba dell'imminente
domani.
(9 ottobre 1915)
Minime della guerra
Inghilterra. – La borghesia, giova riconoscerlo, è previdente, e dal
momento che la guerra, degradando l'individuo a cieco automatico
strumento di devastazione e di strage, oblitera ogni senso morale,
fuga ogni scrupolo e ne serve il calcolo cinico, provvede a
riseminar la marmaglia nella grassa putredine delle iperboliche
carneficine.
In Inghilterra, per esempio, a la rimonta proletaria urge dal
pergamo, dalla tribuna, dalle agenzie apposite, nei pubblici
spettacoli, nei grandi giornali: «Perchè non ri sposate l'eroe,
fanciulle d'Albione?». È un po' stroncato, sgualcito parecchio,
mutilato anche, il reduce dai campi di Fiandra, di Persia o del
Corno d'Oro, è vero; ma è l'eroe a cui la patria deve la salvezza e
voi... l'amore.... quando di mutilazioni non abbia subita l'estrema,
quella di Belisario e di Narsete.
E dar figli alla patria minacciata è il più sacro dei doveri.
A la rimonta, a la rimonta!
L'arcivescovo di Cantarbury reclama al governo l'abolizione della
marca di bollo di mezza sterlina senza della quale ogni atto di
matrimonio è nullo, ed ha ingiunto ai vescovi dipendenti dalla sua
diocesi che i diritti al matrimonio ecclesiastico, che sono oggi di
due sterline, siano ridotti a mezza sterlina e non più quando si
tratti di marinai e di soldati di buona volontà. Ut hominem,
plantent! come diceva il vecchio Diogene: purchè piantino, purchè
fecondino il germe vile del diseredato mansueto e necessario.
* * *
Germania. – Nei feudi esausti dei due Kaiser teutonici si procede
nella contingenza, come in tutto il resto, col rito sommario, colla
procedura marziale: ogni tassa di matrimonio è abolita e la
coniugazione si fa in blocco. Le cerimonie individuali portavano via
un tempo prezioso, il tempo avaro dell'istruzione militare
frettolosa, contrariando gli ordini, turbando, le esigenze delle
mobilitazioni immediate ed imprevedute.
Gli ufficiali hanno protestato esigendo l'abbreviazione dei termini
e dei riti: niente pubblicazioni! L'egida, della livrea o della
giberna val meglio d'ogni cauta guarentigia dello stato civile; ed
il matrimonio per compagnie è più sbrigativo delle doppie superflue
cerimonie individuali.
Si fa la razzia delle donne nubili, disoccupate o vedovate – ce ne
sono tante, oggi – si portano in fronte al pelottone di scapoli
arrovellati dalla clausura e franchi – nella quasi certezza di non
tornar più – da ogni preoccupazione. Cinque minuti di riposo! per
l'assorbimento, l'intesa definitiva, mentre un furiere registra,
paio per paio, l'armento coniugato; e mezza giornata di licenza per
la legale consumazione del matrimonio, per la semina, pel
rifornimento delle caserme o delle galere del domani.
Mezza giornata: è anche troppo!
Simpatie, scrupoli, sentimenti, confidenza, libertà di elezione,
dignità personale, diritto della natura, condizione, orgoglio,
sorriso ed alito dell'amore: sono leziosaggini tollerabili negli
scioperati ozii della pace. Se ne trascurano ben altri in tempo di
guerra!
La guerra vuole soldati, ne miete a centinaia di migliaia, a
milioni; e bisogna rifarli, bisogna ricrescerli per custodire il
bottino o maturare la rivincita; bisogna domani riaffollarli sul
solco, intorno alle incudini, ai forni, sul remo, alla libidine dei
rinnovati arrembaggi: Su la groppa delle femmine soggiogate ed
ignude inarchi il guerriero, turgidi, il maschio rigore e la foia
bestiale! Ne la belletta del rigagnolo mieterà fra vent'anni
l'imperatore un altro e più vigoroso esercito di bruti.
Chi avesse in animo di mettere in dubbio la verità dell'episodio
atroce, consulti le corrispondenze dell'«Associated Press» al
«Boston Globe»: vedrà che il rito osceno, il saturnale immondo, in
Austria, in Germania ed in Inghilterra, infuriano dall'ottobre
scorso.
Miracolo civile della guerra fascinatrice!
(15 gennaio 1916).
Tutto... e Nulla
«Il paese dia nuove e maggiori prove di parsimonia di disciplina di
rinuncia! Non bisogna dimenticare che la guerra impone sacrifizii a
tutti; chi dà la vita, chi l'opera sua, chi la ricchezza...».
Sono parole di un economista, di un finanziere, di un professore di
un ex ministro del re, dell'on. Francesco Saverio Nitti, il quale
non coltiva intorno all'esito ed alla durata della guerra illusioni
pericolose: «vincerà questo terribile conflitto chi sia disposto in
maggiore misura al sacrificio, vincerà chi in questa notte negra
delle anime avrà più sicura fiducia dell'alba che deve spuntare».
Parole, parole, parole! ed in volgare dicono senza tanti riguardi:
«la guerra vuol durare altri due o tre o quattro anni. Disponetevi a
fronteggiarla dando il sangue, il boccon di pane, la pena e la
dovizia».
Il governo coi regi decreti del 9 Gennaio corrente sul censimento
del grano e del granturco – e colla comminatoria di un anno di
reclusione e di diecimila lire di multa a chiunque pel proprio
mantenimento durante i dodici mesi dell'anno, destini più che tre
quintali di grano o di granturco – mostra di condividere le stesse
necessità: economia abnegazione disciplina.
Tre virtù che ne' tre quintali annui di grano o di granoturco –
sempre che ci siano! – troverebbero la loro più rigida. espressione.
Perchè tre quintali di grano o di granturco equivalgono ad un
dipresso trecento chili di pane o di polenta; mica più.
Ed allora il conto è piano: se il lunario ha trecentosessantacinque
giorni tutti gli anni, i contadini della patria, che un chilo di
pane o di polenta si soffiano via senza pericolo d'indigestioni
nelle ventiquattro ore, si troverebbero a mangiare giusto giusto
dieci mesi dell'anno e... a far vacanza, negli altri due, ad offrire
su gli altari della vittoria oltre che il sangue dei figli e
l'angoscia dei cuori, due mesi all'anno di eroici digiuni.
È così?
– La guerra impone sacrifizii a tutti! commenta l'on. Nitti; ed è
giusto se il valore del sacrifizio non debba misurarsi alla
consapevolezza ed alla spontaneità.
La guerra impone sacrifizii a tutti; ed il proletariato tutti i
sacrifizii affronta e paga.
Potrebbe dar di più?
Tutto il suo patrimonio è nelle braccia e le dà; tutta la sua
ricchezza è nel boccone di pane (quando c'è), e lo dà; tutta la sua
vita, tutto il mondo dei suoi affetti e delle sue speranze è nella
compagna, nei figli che dal suo grembo sono nati: e di quella dà
singulti ed ambascie, di questi dà il sangue e la forza: non tiene
per sè che gli occhi per piangere.
Gli rimane altro?
Niente! ha dato tutto il poveraccio a cui nessuno ha dato mai nulla,
riducendosi ignudo come un verme, pur avendo davanti a sè la
certezza che dalla vittoria gli verranno soltanto maggiori triboli e
guai.
Ha dato tutto. Ed alleggerito del viatico e della bisaccia leva
intorno la fronte che solca l'orgoglio, umido l'occhio che irradia
l'intima soddisfazione e l'ineffabile gioia del dovere compiuto, a
cercare chi il sacrifizio affronti con disinteresse pari al suo, con
abnegazione uguale alla sua; chi abbia dato quanto lui.
Altri dànno la vita, altri molti che dalla culla alla scuola
all'accademia al fronte ebbero carezze e baci, maestri e scuole,
sapere e cure, onori e gradi. Da la patria ebbero, a la patria
rendono. Nella coppa vermiglia dei rischi la guerra mesce speranze e
lusinghe di onori di trionfi di gioie di gloria.
Debbono: pagano. È giustizia elementare!
Altri dà gli inni il peana le diane e le sagre dell'estro commosso;
l'entusiasmo, che prorompe, e travolge su l'ara degli olocausti
l'inerte ed ottuso armento delle vittime necessarie; su per l'orme
insanguinate de la guerra altri, pietoso, i caduti raccoglie e
compone sui letti bianchi, ne le bianche corsìe dell'ospedale,
ravvivando del sorriso divino gli sguardi perduti lacrimosi lontani,
raccogliendo delle pie mani sororali le labbra divaricate della
ferita orrenda al ritmo ed al palpito de la vita e della speranza
rinate.
Danno l'ora dell'ozio sapiente e ne colgono allori ed inchini e
medaglie; rinascono un'ora dall'accidia sazia e morosa, sentono
rifluire pulsare fervida turgida per ogni vena, la prima volta
forse, la voluttà e l'orgoglio del vivere. Godono.
Non mietono i servi che angoscia e ruina.
Eppoi, sono i nababbi che dànno il vagone di grano o di patate, di
lana o di farina o di tabacco; che dànno alla croce rossa palazzi e
ville, che sottoscrivono milioni al prestito nazionale, e, in fondo,
non dànno nulla: nè la pelle che val poco, nè la fatica che varrebbe
ancora meno; è la ricchezza come comanda S. E. l'onorevole Francesco
Saverio Nitti.
Non dànno nulla! Anzi...
Pel soldo che buttano si pigliano la lira, per la crosta che
abbandonano alla vedova ed all'orfanello si rivalgono di uno scudo
su la pigione, sul chilo di pane, su lo zucchero o sul petrolio, con
un profitto del duecento per cento traverso l'usura scandalosa; così
come pagano sessanta o settanta lire l'obbligazione del prestito che
riscatteranno a cento.
Fanno un'avida ignobile speculazione di borsa; riscuotono su ogni
fornitura la camorra esosa che mascherano di filantropia ipocrita ed
imbellettano d'abnegazione tricolore.
Non dànno la ricchezza, no: dànno la pelle nostra, il sangue nostro,
il nostro boccone di pane; investono negli appalti ladri il sudore e
il sangue che nella schiavitù feroce e adunca ci hanno spremuto; e
quello che nelle geremiadi di Francesco Saverio Nitti dovrebbe
essere «il sacrifizio di tutti» non è che il sacrifizio nostro: e
quella che nel cimento spaventoso vorrebbe apparire l'unione sacra
delle conserte abnegazioni, non è, oltre il velo degli epicedii
arruffianati, che l'abisso insuperato, l'antitesi irreconciliabile:
il servo che della sua vita, della sua pena, dei suoi amori e delle
sue angoscie tesse agli epuloni la vittoria e la gloria, la porpora
e l'aureola, l'inesausta dovizia delle bestie da soma, della carne
da cannone, della carne da piacere, è solo! spogliato e disperato:
di là non dànno nè una lacrima nè un bacio.
Ghigna beffardo dai patriottici appelli di Francesco Saverio Nitti
lo scherno: un'amara e sola verità ne traluce: la guerra, durerà
assai, due, tre, quattro anni ancora, forse; e ne pagheremo noi, noi
soli gli schiavi, i malnutriti, i pellagrosi, di sangue di lagrime
di stenti, il tributo immane e sciagurato.
Noi soli!
Sempre che, sotto la sferza, non riannodino sdegni e rivolte nel
concorde impeto a finirla, accendendo la sola guerra che sia degna
del sacrifizio, del bottino e di noi: la rivoluzione sociale che su
l'onta millenaria ci riscatti al pane all'amore alla libertà.
(15 gennaio 1916).
Contro la guerra,
contro la pace,
per la rivoluzione!
La verité est en marche et rien ne l'arretera
E. ZOLA
Ascende, e reca nelle mani purissime le faci e le palme della
giustizia. Ma allora pure che non si erge su le fronti di Galileo o
di Bruno corrusca, spietata contro la divina maestà dei dogmi e dei
concili; pur quando umile, discreta, modesta non accoglie e non
custodisce altra messe che dell'esperienza quotidiana ed universa,
per l'erta del Golgota deve ascendere! non trova altro sentiero.
Oh, voi ricordate!
Ai compagni scompigliati nella coscienza, nella fede, nell'attesa,
dal ciclone che turbinando fra il Danubio e la Schelda minacciava di
travolgere nel delirio della perdizione estrema, quanto è vasto il
continente, noi ammonivamo or sono venti mesi, al primo scoppiare
della guerra, semplicemente, fraternamente:«Se un raggio di verità
nel tetro limbo della squallida servitù è venuto a baciarvi, quella
gioia, quell'orgoglio non barattate coll'assenzio dei morbosi
entusiasmi che oltre l'ebbrezza fugace dell'ora affogano nel più
amaro, nel più sciagurato dei disinganni; a quella gioia, a
quell'orgoglio non abdicate anche se intorno sia da ogni fianco la
solitudine dell'abbandono, e le oscure falangi disertino, passando
al nemico, duci ed araldi; anche dove su le fronti pallide scrosci
il furore cieco dei volghi, l'anatema dei pontefici irosi.... se un
raggio di verità nel tetro limbo della squallida servitù sia venuto
a baciarvi.
«Non l'imbelle pugno degli uomini regge del mondo le fortune!
Tornerà l'ora nostra, non disperate, non abbandonate gli avamposti
con tanta pena raggiunti, con tanta pena custoditi; non tradite per
la restaurazione del regime contro di cui siete insorti la causa
santa della comune liberazione; non tradite per la guerra la
rivoluzione!
«È arrembaggio osceno di pirati, furor di sciacalli, rovello di
borsaioli infuriati all'usura, di bottegai di preti di fornitori di
biscazzieri ansanti al dividendo, alla decima, ai subiti guadagni,
la guerra! Civiltà, patria, libertà, progresso, non sono che la
bandiera di cui si copre il contrabbando, con cui si nasconde la
frode svergognata, a mietere pel sacco, per la taglia, per la
fortuna dei grandi ladri, il necessario tributo di energia e di
sangue che il proletariato soltanto può dare, e – pur docile, pur
tardo – non darebbe altrimenti coll'ardore, l'abnegazione,
l'impeto cieco che del successo rimangono la condizione essenziale».
Non questo scrivevamo, or sono quasi due anni, al primo scoppiar
della guerra?
Anatema!
E più voi ricordate!
Da ogni trivio, da ogni sentina, da ogni covo, da ogni pergamo, da
tutte le labbra, dalle labbra desolate della gente a modo, dalla
bocca oscena dei sicarii, dall'animo ottuso delle ciurme, dal ghigno
beffardo dei pusillanimi, densa di lusinghe, di compatimenti, di
minaccie, di scherni, d'ostracismi, di paure, montava feroce,
implacata, la gamma del vituperio e dell'abbominio: sperduti per gli
uni, bastardi per gli altri, ingenui per quelli, venduti per questi,
aberrati ostinati o temerarii pel resto, la penosa lenta
indefettibile giustizia delle cose e del tempo abbiamo nella bolgia
sospirato per venti mesi, nella fede agguerrita dall'intima
coscienza e dall'esperienza dolorosa, anelando le vindici aurore
della incoercibile verità, che ora albeggia.
Appena, appena; ma quanto basta ad augurare della giornata, a
penetrare la trama dell'orrenda frode paradossale, ad illuminarne
l'ordito spaventoso di calcoli, d'avvolgimenti, di ironie e di
cinismo, ad edificarne gli sciagurati che se ne attendevano i labari
immacolati d'una maggiore civiltà, il serto della più grande patria,
l'orifiamma sanguigno della libertà, tutte le dovizie
dell'abbondanza e del benessere, la vaticinata palingenesi del
genere umano nell'iperbolico bagno di sangue che doveva ritemprarne
la fibra, la volontà, la speranza. ed il proposito; consolandosi
alla men peggio Tartufo, che se proprio la guerra è la suprema delle
sventure, questa almeno aveva l'insolito vantaggio d'essere l'ultima
della storia.
La civiltà
Se i progressi de la civiltà si misurano alle vittorie del diritto
sull'arbitrio, della ragione su la violenza, della volontà su la
rinuncia, della coscienza sul pregiudizio, dell'orgoglio su
l'ignavia, dell'uomo su la belva o su la bestia da soma, non v'è
dubbio: la guerra, del diritto, della ragione, della verità, della
dignità, di ogni intimo, legittimo orgoglio ha fatto strame colle
coscrizioni in massa, colle rimonte forzose, colle stragi
sistematiche, colla distruzione cieca, colla chiusura delle scuole,
col violento arresto d'ogni vita di pensiero, colla meditata
restaurazione della chiesa e della caserma, sole depositarie ed
arbitre ormai dei comuni destini; la guerra ci ha in ogni patria
ripiombati nelle tenebre del medio evo, nell'ora più fosca della sua
barbarie.
La nazione
E se la nazione non è più lo strupo dei vassalli «corveables et
taillables à merci» dell'antico regime, delle abolite monarchie
nobiliari, ma dalla grande rivoluzione è l'universalità dei
cittadini che hanno comune l'origine, la tradizione, la storia ed i
costumi, non può essere dubbio neanche qui: la guerra è tutto ciò
che di meno nazionale si possa immaginare.
Perchè delle due l'una: o queste sofisticherie antropologiche si
ripudian – e non sarebbe irragionevole dinnanzi all'impossibilità di
rintracciare oggi, dopo millennii d'incroci varii e di promiscuità
diffuse, i caratteri differenziali dei particolari gruppi etnici; ed
allora l'invocazione guerriera nel nome della gente è arruffianata
ed idiota. O si accettano, ed allora bisogna pure accettarne la
conclusione, e riconoscer che dagli altipiani del Punjab per tutta
la Russia meridionale, per l'Ungheria, la Baviera, la Lorena,
l'Italia Settentrionale, i dipartimenti orientali della Francia e la
maggior parte del Belgio, noi non abbiamo che Celti, scaturiti dal
medesimo ceppo tutti quanti, così come abbiamo nel Nord prussiani,
scozzesi, irlandesi che sono teutoni tutti, tutti fratelli nella
stirpe per quanto, posti dal caso dall'una o dall'altra parte de la
frontiera, si scannino oggi in Fiandra nei Vosgi o nel Trentino, nel
nome della stirpe col più fraterno entusiasmo.
Così che poteva Sir Ray Lankester – un antropologo dei meglio
autorevoli – conchiudere in un suo studio recente che «se a
determinare la grande guerra pesarono ambizioni ed interessi di
varia natura, esula l'istinto di razza completamente»24.
La patria
Esuliamo noi pure da un campo così incerto, così mal fido,
stringendoci nei confini della patria che è nata colla
«Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo» insieme col cittadino che
doveva costituirne la base angolare, edificarne la storia e la
gloria.
Della patria che – come il cittadino nel libero esercizio dei suoi
diritti riconosciuti, salvi sempre gli uguali diritti del suo vicino
– reclama, nella territoriale integrità dei confini che le sono
dalla natura e dalla storia assegnati, il diritto di governarsi da
sè, secondo le proprie tradizioni, secondo le proprie leggi, secondo
le proprie consuetudini, senza ingerenze straniere, salvo soltanto
l'omaggio dovuto all'eguale diritto delle altre genti, delle altre
nazioni.
Perchè, soltanto in questa reciprocità di uguali diritti è il
fondamento delle patrie. Spezzate questo vincolo, umiliate nel
vostro vicino cotesto diritto asservendovi una patria meno numerosa,
meno forte, ed il vostro diritto all'integrità alla stessa esistenza
nazionale, sarà invalidato, abolito.
L'Italia, per riferirci ad un esempio attuale e pratico, reclama
all'Austria la restituzione di Trento e di Trieste; va bene. Ma
l'Italia tiene sotto il suo giogo l'Eritrea, il Benadir, la
Tripolitania, la Cirenaica, tiene un piede nel Dodecaneso, un altro
in Albania: calpesta cioè in quelle popolazioni il diritto che
accampa su l'Austria, manda su le Giulie e su le Retiche a
rivendicare l'integrità nazionale i figli nostri, tornati ieri dal
contendere alle popolazioni mussulmane dell'Africa od alle
popolazioni greche dell'Egeo – colle quali non ha comuni nè
l'origine, nè la tradizione, nè la lingua, nè la fede – i diritti e
le aspirazioni che su Trento e Trieste pretenderebbe riconosciuti.
È ovvio che, quando si dice dell'Italia si può con eguale e talora
maggiore ragione, dire dell'Austria, della Germania,
dell'Inghilterra, della Russia, della Francia la cui potenza si
esercita in odio di cento nazioni diverse egualmente asservite e
ferocemente dissanguate. Ed è esuberante a dimostrare che dalle
cause determinanti della guerra non bisogna soltanto escludere
l'antagonismo di razza, ma bisogna sopratutto escludere le
preoccupazioni civili e la sincerità «liberatrice» dei molti e varii
governi che da anni la covarono e l'hanno al buon momento scatenata
in tutto il suo selvaggio furore.
La realtà è ben altra.
Di fatto la patria non è nella storia recentissima dell'ultimo
secolo più che una fiammata: non c'è più, per nessuno.
Affrancando la proprietà dai privilegi nobiliari, elevando il terzo
stato all'egemonia del paese; ed il villano, l'artigiano alla
dignità di cittadino, la rivoluzione, la Dichiarazione dei Diritti,
il Terrore, le grandi guerre della repubblica, avevano creato la
nazione, la patria; e, recati dai sanculotti per ogni terra, i
principii del 1789 vi iniziarono il ciclo delle rivendicazioni e
delle rivoluzioni nazionali di cui lampeggia il secolo XIX che vide,
particolarmente cara ai nostri ricordi, tra il 1848 ed il 1870,
epilogo dei moti costituzionali del 1821, l'assunzione dell'Italia
libera ed una in Campidoglio.
Nella patria assommavano i nostri vecchi, che ne cementarono col
sangue l'edificio, tutte le aspirazioni della libertà e del
benessere.
Ma, nata appena, dileguava la patria nello scherno degli uni e nel
disinganno degli altri.
La borghesia ne trovò angusti i confini all'esuberanza dei suoi
prodotti, nelle esigenze del suo traffico e li scavalcò alla
conquista dei mercati del mondo; disperse la patria ovunque, la
ritrovò sotto ogni cielo che benedicesse di insperati profitti la
propria intraprendenza, il proprio fervore: fu patria sua il mondo.
Il proletariato dal canto suo, dopo di aver chiesto indarno alle
convulsioni politiche intermittenti una liberazione che non si può
scindere dal contemporaneo riscatto dello strumento di produzione,
non vide nella patria se non la riorganizzazione più esosa dei
privilegi che si illudeva di avere seppelliti per sempre tra i
ruderi della Bastiglia, ai piedi della ghigliottina. Esulò,
esperimentando che ogni patria si assomiglia, che la lingua e gli
usi rimangono qualche volta diversi, ma che sono dovunque padroni e
servi, oppressori ed oppressi, ricchi e poveri, eletti e dannati;
dannati sopratutto, coi quali aveva comuni dolori, catene, miserie.
E le frontiere della patria spostò, laddove pel sudore delle fronti
buscò il povero pane oltre il breve termine che la tradizione aveva
murato fra la culla e la bandiera, lontano, ogni giorno più lontano,
oltre le alpi, oltre il mare a l'orizzonte estremo, sorprendendo nei
suoi pellegrinaggi desolati una frontiera sola, scoscesa, antica,
immutata; la frontiera che si erge fra chi ozia e chi lavora tra chi
gavazza e chi geme: fu sua patria il mondo.
La piccola patria è morta: la verità è in marcia!
Senza fede!
Si battono sempre laggiù, al vario fronte, ventun milioni di
proletarii. Senza fede tuttavia, per ordine e per paura.
Perchè si scannino, ignorano.
Il popolo tedesco, il quale – a sentire il generale von Bernhardi
che se ne gloria, e gli alleati che lo vilipendono – sarebbe stato
da quarant'anni con sapiente ostinazione negli asili d'infanzia,
nelle scuole, nei clubs, nelle chiese e nelle caserme, educato,
agguerrito alla grande contesa che ueber alles deve issare
dominatrice la vecchia Germania, continua a chiedersi per bocca dei
suoi interpreti meglio spregiudicati, del «Worwaerts!», «perchè? per
che cosa dia il suo sangue? quale della guerra sia la meta?»25, e
con tanta insistenza che la cancelleria imperiale sopprime
senz'altro l'indiscreto quotidiano socialista.
Il parlamento inglese è costretto, per evitare lo sfacelo ed il
disastro, ad escludere dal Compulsory Act sudditi irlandesi ed a
mitragliare in Egitto le guarnigioni Hindus ribelli in conspetto del
nemico; i soldati francesi gridano in faccia a Poincaré che della
guerra «ils en ont assez soupé»; dalle frenesie irredentiste dei
primi giorni siamo in Italia arrivati alle insubordinazioni armate
ed alle fucilazioni in blocco che non giungono tuttavia a
galvanizzarle; mentre per le vie di Vienna o di Pietroburgo gli
affamati imprecando alla guerra saccheggiano i forni sfidando la
bestialità ed il piombo dei cosacchi imperiali.
Si battono ancora ventun milioni di uomini dal vario fronte; ma
senza fede, per ordine e per paura.
Se si battono! È nei rapporti statistici della «Peace Society» di
Londra un paio di cifre che sobbillano un raffronto.
Le vittime della guerra dell'ultimo secolo, dalla guerra inglese
delle Indie nel 1800 fino alle guerre del Transvaal nel 1899,
sommano complessivamente a dieci milioni; mentre la spesa totale
delle varie nazioni che vi parteciparono si riassumono in
centoventitrè miliardi di franchi.
Le vittime di questi venti mesi di guerra, sulle cifre ufficiali dei
governi alleati e su quelle estimative degli imperi centrali,
raggiungono oggi i quattordici milioni novecentossessanta mila
uomini, mentre il debito totale, il debito nuovo, quello che per la
guerra si è in questi venti mesi incontrato, attinge
complessivamente la cifra di centoquarantacinque miliardi di
franchi.
E non siamo a metà del cammino?
* * *
Senza fede! Dove n'attingerebbero?
Quos vult perdere dementat deus! gridava il poeta un dì: «il buon
dio toglie il senno a coloro che vuol perdere». Mentre gli storici
aulici, i poeti cortigiani, il pontefice nelle encicliche, gli
ascari famelici dell'arrivismo nazionalista, si affannano nelle
aule, nelle sagre, per le fiere e ne le sacre botteghe, a conclamare
per la fede e la patria e la civiltà minacciate, per la grandezza e
l'avvenire della stirpe, tributi ed olocausti, è ogni patria il
pelago delle feroci guerre da corsa.
Volete stare al di qua di ogni più modesta discrezione? E valutate
al sei per cento soltanto la commissione che i banchieri si sono
tolta sui varii prestiti nazionali, ed avrete che tre miliardi di
franchi almeno – in grazie della guerra fascinatrice – sono andati a
nascondersi nelle loro tasche.
Volete aprire un occhio solo alla verità che traluce dalla cronaca
quotidiana dei grandi giornali? E dovete consentire che la pubblica
indignazione non conosce e non denunzia ormai più che un reato, nè
di altro si occupano oramai più i tribunali delle patrie diverse: le
frodi sulle forniture, le scarpe di cartone, il latte calcinato, il
legname fracido, le coperte d'ortica, le conserve secolari gabellate
ai soldati in guerra colla complicità dei commendatori, dei
senatori, dei deputati, dei gallonati che, come gli sciacalli su le
carogne, appaiono in tutti i momenti di crisi e di pubbliche
calamità. E mentre tutti si stringono la cintola, e saltano il
pranzo o la cena per alimentare della patria le fortune, i
bollettini della borsa vi cantano in note di miliardi i profitti del
Krupp e dello Schneider, della Navigazione Generale, della Terni,
della Barklay Co., della Capital & County Bank che non hanno
avuto mai vigna così pingue e così beata!
Non concima altra fortuna ed altro avvenire che quello dei pirati
della finanza e dell'industria, il sangue sparso dai miserabili, a
fiumi, per le gole delle Alpi, per le dune fiaminghe, su tutti i
campi d'Europa.
Ce ne vorrebbe della fede!
La pace
Si battono tuttavia!
È umiliante; e, diciamolo con tutta franchezza, la rabbia ci monta
alla gola quando pensiamo all'enorme strupo di gladiatori che – come
i loro avi nel Colosseo – senza ragione e senza odio, pel calcolo,
pel capriccio o pel chilo dei governanti e dei borsaioli, si
sgozzano con furia cieca su ogni frontiera del vecchio continente.
Ma in gola rimane.
Perchè non si batterebbero?
Per amore della vita? della libertà? della pace?
Ricorderò fino a che io viva. Esploravo anni sono con un compagno,
vecchio minatore, una delle più vaste miniere dell'Illinois e sulla
soglia della "piazza" m'ero fermato a guardare una delle travi di
sostegno che sotto la pressione enorme della roccia accennava
spezzarsi.
— Mi pare che voglia andarsene in due.
— Non oggi. Durerà fino a domani certamente.
— Ma se le saltasse d'anticipare di qualche ora, chi verrebbe più a
disseppellirci?
— Oh, quanto a questo, non v'è guari ad illudersi, deve finire così
un giorno o l'altro! brontolò il mio compagno sdraiandosi nella
belletta a scalzare del suo piccone la roccia. Non disse altro, ma
il piccone aveva ripreso il dialogo interrotto, e martellava
nell'animo mio:
«Vale davvero la pena di essere vissuta, di essere custodita, la
cieca, reclusa, monotona esistenza a cui siamo condannati? La vita
che non sa le carezze dell'amore, nè le febbri del conoscere, nè gli
orgogli della libertà, nè le tregue del riposo, nè le promesse del
domani? la vita che è tenebra, miseria, angoscia, passione soltanto,
e rode lento, inesorato l'anchilostoma o la tubercolosi? o soffoca
la frana silenziosa o schianta dei suoi turbini di fiamma il grisou?
Vale? Se non è un sorriso di gioia nel nostro lunario, morire in
guerra o su la strada, morire d'uno sbocco di sangue o d'una
manciata di piombo, è tutt'uno. I rigori e le mutilazioni della
disciplina non sono più umilianti che il regime penitenziario della
fabbrica e del lavoro: non abbiamo conosciute mai che sia libertà. I
disagi, i cimenti, i rischi, gli orrori della guerra non sono
maggiori nè più gravi che quelli della pace, non più acerbe le ansie
dei vecchi, le angustie dei figli, nè più torve le minaccie del
domani: non abbiamo conosciuto mai che cosa sia pace!
E si battono.
* * *
Perchè non si batterebbero? se quelli che ne sanno di più, quelli
che hanno studiato, conosciuto, discoverto nei millenarii sedimenti
della storia la radice sciagurata del male, intraveduto oltre le
brume livide del presente sciagurato i bagliori dell'avvenire
felice; e di mezzo agli umili hanno levato, contro tutte le
tirannidi, maledizioni e sdegni ed alle riscosse generose avevano
costellato braccia e cuori e impeti, e delle prometee rivolte
avevano sfolgorato dio, il re, il padrone; rinnegando – farisei
inverecondi – l'indocile apostolato, in combutta col nemico, li
hanno chiamati sotto le bandiere? Se quelli pure che tra gli umili
si erano accampati dando il sangue dell'anima e le fiamme del
cervello e l'abnegazione eroica e la passione ardente di ogni
giornata, dando sempre e tutto, senza chieder nulla, mai, nell'ora
tragica che alla furia impetuosa delle menzogne, delle frodi, delle
abiure, del tradimento, urgeva levar l'argine delle temerità
conserte, sgomenti, smarriti, divisi, imbelli si sono essi pure
ripiegati, squallido rottame in balia del ciclone irresistibile e
scellerato?
Non indarno
Si battono; ed è un carnaio ogni valle ogni duna, una pozza di
sangue aggrumato ogni gola, un ossario ogni vetta; ma i venti mesi
non sono passati indarno, se i miserabili di tutte le patrie
un'esperienza hanno mietuto, se nella colluvie che stagna e fermenta
fra le trincee contese, sotto le loro pupille sbarrate,
imputridiscono l'ironica impotenza di dio, la maschera ipocrita
della civiltà, l'arca de la pace, la superstizione dei redentori, la
maestà dei semidei, tutte le cariatidi dell'ordine sociale: se dalla
orrenda prova emerge il proletariato superstite colla disperata
certezza che non si è battuto per la salvezza degli indigeti e dei
lari, per la gloria o pel pane, per la civiltà o per la libertà: che
s'è battuto soltanto per rifare al vitello d'oro il tempio e la
fortuna, e ribadire sui tugurii, su le cervici dei miseri più
atroce, più esoso il giogo della protervia e della rapina.
Se nell'animo suo, lacerato dall'ultimo tradimento un'eco troveranno
le imprecazioni che montano dai campi desolati, dalle città in
ruina, dai ventri convulsi e dai cuori sanguinanti, addensando così
sinistramente su le fronti degli assassini incoronati e ventruti il
nuovo uragano della storia, che Nicola II di Romanoff e Vittorio
Emanuele di Savoia e Guglielmo II di Hohenzollern non trovano altro
rifugio se non al Quartiere Generale, fra la selva delle baionette e
le schiere dei pretoriani, mentre Joffre, ben augurando dalla
propria tenacia alla vittoria finale delle aquile repubblicane è
costretto a dirvi con labbra e parole amare che «egli non sa, se il
proletariato in Inghilterra, in Francia, in Italia terrà fermo
altrettanto; quel che è essenziale»26.
Non indarno.
L'esperienza lascia il solco, ed in quel solco vigoreggia la
gramigna dell'inerzia soltanto perchè nessuno vi ha buttato altro
seme; e la disperazione è tormento, angoscia, rassegnazione ed
ignavia soltanto perchè le responsabilità evadono, energie e forze
si ignorano, ed i fini non s'intravedono: ma date alle
responsabilità un sembiante, date la consapevolezza alla forza,
datele un lume, datele una meta, ed avrete fatto della disperazione
l'audacia, della rassegnazione l'eroismo, dell'ignavia la rivolta,
del vassallo un sanculotto, delle ''lettres de cachet" un pugno di
cenere, della Bastiglia un mucchio di rovine; e della guerra
borsaiola la rivoluzione sociale.
Responsabilità e responsabili assumono da venti mesi lineamenti ogni
giorno più precisi e più definiti, mentre fremendo inesausta da
milioni di petti la forza va da venti mesi rivelandosi a sè stessa
incoercibile.
La meta? Chi additerà agli sviati impeti conquistatori la meta?
Chi darà l'occhio al ciclope?
La guerra e la rivoluzione
Gli anarchici, che non sono andati alla deriva dell'orrenda piena
d'odio e di sangue, e seguono e vivono ansiosi ogni giornata ed ogni
episodio della truce Iliade, si apprestano a togliere la propria
rivincita non appena la guerra sia finita, e si chieggono
tormentosamente in quale dei grandi crepacci ficcheranno a
sovvertire l'iniquo ordine sociale la prima cartuccia di dinamite; e
molti compagni, molti e dei migliori, chieggono a noi, quasi
pitonesse depositarie di ogni arcano del destino, se questa sarà
davvero la volta buona e che cosa faremo? come se da noi potessero
attendersi più che qualche sparuta e modesta previsione soggetta a
molto, a molto beneficio d'inventario, qualche giudizio che, pur
discreto, è dall'intimo desiderio e dall'ardente aspettazione
viziato prima ancora che dalle inevitabili sorprese
dell'impreveduto.
Noi crediamo sinceramente che questa volta sia la buona, che siamo
ad un brusco "tournant de l'histoire" comunque la guerra abbia a
finire, anzi – dove non vi sembri un paradosso – perchè non sappiamo
immaginare come potrebbe la guerra altrimenti finire.
Chi si attende di vedere precipitato l'epilogo dall'esaurimento,
dovrà aspettare un bel pezzo! non potendo supporsi l'esaurimento
esclusivo di uno solo dei gruppi belligeranti a beneficio degli
altri; ma dovendosi ragionevolmente ammettere che esso sia, ad un
dipresso, eguale proporzionale in entrambi; per cui la soluzione del
conflitto dovrebbe quanto meno rinviarsi alla consumazione... del
genere umano; un po' tardi invero se il salmo della rivoluzione deve
intonarsi a guerra finita.
L'insurrezione precederà la tregua, irromperà anzi ad impedire che
la pace riassida su le rovine della guerra l'ordine sociale, che ne
ha sfrenato gli orrori e l'infamia.
Deve precederla! Deve sorprendere le armi nel pugno esausto a le
spalle, a le reni, l'augusto malandrinaggio internazionale che per
un pugno di ghinee, per un lembo di terra, per una corona, ha
sull'altare di Molok barattato il più fervido, il più puro sangue
del mondo. E non domandateci dove, quando scroscierà. sobillatrice
di tutta la perdizione!
Nessun veggente ha prefisso mai palpiti e cammino alla storia, ed
abbiamo noi così magra fede nell'astrologia sociale che non le
abbiamo chiesto mai i numeri ed i segni del divenire. Numerose
gravi, persistenti, urgenti, convergenti si snodano sotto ai nostri
sguardi fatti e cause che hanno un aspetto, che hanno un linguaggio;
e parlano per sè. Nel crogiuolo di ogni patria, fremono, sotto la
scorie delle stagnanti rassegnazioni diffuse, delusioni attossicate,
sdegni compressi, odii antichi, implacati; nella vecchia Germania
che di ogni palpito, di ogni boccone di pane ha nudrito l'esercito
più formidabile del mondo, perchè insieme con la facile vittoria le
recasse l'ambita egemonia del mondo, e numera angosciata, affranta,
odiata, aggredita per ogni fianco, i giorni dell'atroce agonia;
nella vecchia Gallia repubblicana che su le bilancie della vittoria
sospirata, lontana, sente smisurato alla rivincita il sacrifizio:
della vecchia Inghilterra, lubrica sentina d'usure a cui sono magra
foglia di fico le smaliziate ipocrisie liberali e pietiste: nella
vecchia patria che agli omeri pellagrosi sente inadeguato l'orgoglio
di dissanguarsi per la dubbia redenzione altrui prima che per la
propria; in Austria, in Russia, in Turchia, vario centone di feudi e
di servi irreconciliabili; dovunque è un solco, una capanna, un
ventre, una soffitta, un bimbo, un amore, una speranza, queste cause
urgono, martellano, s'incalzano sovrapponendosi riannodandosi nella
maglia fitta delle ansie, delle prove, degli strazi, delle
maledizioni comuni, dei bisogni, degli aneliti, delle speranze, dei
propositi comuni. E noi diciamo semplicemente che quelle cause
conchiuderanno ad un effetto.
E possiamo soggiungere senza temerità che, convergenti sopra ed
oltre il più vasto dissidio che il mondo abbia mai veduto, queste
cause, fra molti effetti varii e complessi, fioriranno una
conseguenza generale; e che se nella storia le insurrezioni di
carattere generale prendono il nome di rivoluzione quando,
stracciato l'involucro dei rapporti incoerenti e superati, portano
in grembo viatico e bussola a nuovo e migliore cammino, noi non
abbiamo soltanto alle porte la insurrezione e la rivoluzione,
abbiamo anche limpido e preciso il compito che esse assegnano alle
avanguardie.
Il vespro
Le quali sanno, per l'antica esperienza e per la nuova, che se non
le chiese, le sette, i partiti fanno la rivoluzione, ma –
inconsapevolmente il più delle volte – le grandi masse flagellate
dalla collera e dal bisogno, tanto che di regola s'adagiano alla
prima tappa non tosto lo sdegno si placa e si sazia il bisogno;
soltanto i manipoli d'avanguardia possono dell'ascia inesorata
squarciare la buona breccia, suscitare della face sacrilega in ogni
bastiglia, in ogni covo della menzogna e del privilegio, l'incendio
livellatore.
In casa od in trincea, sotto le raffiche della mitraglia o sotto il
morso dell'inopia, si stancheranno della guerra oggi o domani gli
straccioni delle cento patrie devastate: oggi o domani insorgeranno
in Germania in Francia in Russia in Asia determinando, come un
secolo addietro, le coalizioni frettolose, la subita riconciliazione
degli Ausburgo e dei Savoia, degli Hohenzollern e dei Romanoff, se
in ogni patria non sapremo disorientare il potere centrale
decapitandolo, sgominare la classe dominante togliendone, nel suo
seno gli ostaggi più preziosi, eliminando senza pietà quanti alle
sorti della insurrezione possano tornare insidia freno barriera; se
ad ogni insorto non daremo un'arma ed un pane, se scompigliata la
trama degli interessi e delle solidarietà conservatrici non
assicureremo vittoriosamente le comunicazioni ed i mezzi all'intesa
ed alla mobilitazione rivoluzionaria; se non avremo coscienza del
compito enorme che dobbiamo assolvere, se non avremo la visione
limpida della meta che vogliamo attingere, se non sapremo trarre
profitto della inesausta varietà di risorse che metteranno a nostra
disposizione i primi impeti avventurati; se non sapremo ai dubbiosi,
agli incerti, agli sfiduciati guarentire inusitati i beneficii del
nuovo regime: se delle responsabilità implicite e spaventose non
avremo il coraggio eroico; e sopratutto se non avremo fede nella
giustizia della nostra causa e nel trionfo del nostro diritto; se di
questa fede non intrideremo il pane ed il sangue, l'audacia e la
tenacia di ogni legionario della rivoluzione.
Mai più propizia l'ora!
Mai così unanime nei cuori l'intima rivolta contro la turpitudine,
la ferocia, il cinismo, inseparabili, fatali, del regime; mai più
conserta nel dolore, sotterranea a tutte le frontiere
l'Internazionale; mai più conserta negli aneliti e nei voti; alto,
nei cieli della speranza! mai così viva, così fervida nei decaloghi
come oggi nei cuori, oggi che le cantano il funerale quattro
scagnozzi che hanno trovato miglior foraggio nelle mangiatoie del
nemico; mentre dall'orizzonte lunato infinite innumeri si levano
mani rosee di bimbi, aduste fronti di vegliardi, vellose braccia di
titani, spasimi e singulti di madri in gramaglia, a maledire collo
stesso cuore e collo stesso orrore alla guerra sterminatrice ed alla
pace obbrobriosa, conclamando urgendo d'un'ansia e d'una voce il
vespro, il vespro atteso della liberazione..
È l'ora che non ripassa!
A vespro! a vespro! al vespro che non dà quartiere e non conosce
pietà.
(18 marzo 1916).
Può venire, l'attendiamo di piè fermo
Due mesi fa, commentando l'arresto di Emma Goldman a New York e
quello del compagno Allegrini a Chicago, esprimevamo il sospetto –
dinanzi agli iperbolici domenicani furori della stampa latrinaia –
che il neo-maltusianismo di Emma Goldman e le coliche
dell'arcivescovo Mundelein27 fossero semplicemente «il pretesto alla
reazione urgente ed inevitabile a sbaragliare sul primo ordito gli
ostacoli che nelle falangi libertarie incontreranno senz'alcun
dubbio la fregola patriottarda, la libidine guerraiola, l'agognata
irregimentazione della carnaccia immigrata, sotto i costellati
vessilli della repubblica in servizio e per le avide piraterie dei
suoi proconsoli della banca e della borse». Lontani le mille miglia,
tuttavia, dal pensiero che di quel sospetto dovesse venire così
rapida e così piena la conferma.
Oggi la situazione si è repentinamente inasprita, i sintomi
convergono a denunziarne l'irrimediabile gravità, ed il dubbio si fa
certezza: l'uragano reazionario s'addensa, scroscierà nel domani
immediato.
Le colonne del generarle Pershing invaso il Messico coll'obliquo ed
ingrato assenso del Carranza, a lavare nel sangue di Pancho Villa
l'ultima onta di Columbus, non torneranno più certamente28.
Galoppano tra la diffidenza e l'insidia verso il baratro, al
macello. Non scoveranno Pancho Villa, non trarranno vendetta della
mezza dozzina di yankees cenciosi massacrati ignobilmente lungo la
frontiera; ma schiuderanno il Messico alla più vasta rivincita dei
Rockefeller, dei Cugenheim, degli Harriman, degli Otis, degli
Hearst, dei banditi miliardari i quali vogliono integrata delle
guarentigie politiche la sovranità che di fatto esercitano su
l'industria, l'agricoltura, il traffico, su tutte le risorse, su
tutta l'esistenza economica del vecchio Messico in cui si sono come
piattole immonde da mezzo secolo incarnati.
Prima che scovino Villa nelle gole di Satevo il casus belli sarà
scaturito. A fomentarlo s'affannano troppa gente e tanti quattrini,
con tanto zelo e tanta prodigalità che una di queste mattine ci
recherà il telegrafo l'imminente l'agognata novella del primo urto
fra il corpo d'invasione e le truppe del Carranza, o del competitore
che nel nome della patria, della sua indipendenza, della sua
integrità ne avrà riannodati gli eserciti sfiduciati e ribelli, ne
avrà raccolto la facile successione.
E sarà domani o dopo la guerra, sarà la conquista, la guerra lunga e
penosa, la guerra che durerà un decennio, la guerra che non finirà
più, e vorrà uomini e danari a torrenti; e vorrà in conspetto dello
straniero in armi al di là del confine, ligia e devota la composita
marmaglia di dentro, avulso dal suo grembo ogni mal germe
d'insommissione e di rivolta.
* * *
Dove volete che le trovi queste Regioni di guerrieri la repubblica
miliardaria?
Nel proletariato indigeno che alla bandiera costellata acclama
delirante nei parchi del base-ball o sul telone dei cinematografi,
ma agili angiporti della caserma abbandona a mala pena la schiera
smilza degli ubbriachi, dei fannulloni inutili agli altri ed a se
stessi, qualche scemo, qualche sviato, molti negri che si insaccano
nella divisa militare pei cinquanta soldi dell'ordinario ed a patto
esplicito che sia bonaccia; ed a Vera Cruz, a rialzar i calpestati
vessilli della repubblica è contumace, ed a Columbus, dove la patria
è schernita nelle stragi meditate ed organizzate, rimane latitante a
dispetto della cantaride nazionale diffusa dalle cento colonne dei
grandi quotidiani, a dispetto delle sapienti lusinghe e delle
mirabolanti promesse degli uffici di leva? Tanto che s'arrovella
indarno il Congresso da sei mesi ad erigere i quadri d'un esercito
che non c'è, e lamentava anche ieri al Senato un ammiraglio che di
ventuna corazzate non ha oggi la repubblica equipaggi sufficienti a
mobilizzarne una dozzina?
Mieterà, dovrà mietere necessariamente fra la marmaglia scaricata
periodicamente sulle sue spiaggie dalle cento patrie del vecchio
mondo, la repubblica in pericolo! E d'altra parte che cosa farebbe
qui lo strupo indesiderabile degli immigrati se neanche sapesse
battersi e morire in luogo e per conto degli ospiti che gli danno il
pane ed il rifugio, «troppo prodi per battersi» direbbe Wilson,
troppo evoluti, troppo progrediti e superiori per cimentarsi in
questo rischio stupido, selvaggio e primordiale che è la guerra?
Mieterà nella marmaglia immigrata.
* * *
E dove volete che scovi il lievito delle sacrileghe fermentazioni e
delle sobbillazioni dannate che gliene contendono l'incetta vasta e
necessaria?
Nelle grandi organizzazioni del lavoro che ieri ancora ripetevano
solennemente per bocca di Samuele Gompers, il loro voto d'inalterato
lealismo alla repubblica ed alle sue fortune, offrendo
incondizionato il loro assenso anche alle più acerbe esigenze della
«preparazione» militare?
O nelle confraternite del socialismo pratico, ben pensante, a modo,
ansante a la cuccagna, avverso teoricamente ad ogni proposito di
guerra... in tempo di pace, e rinnegatore sistematico della pace in
tempo di guerra se può schiudersi un alibi nel sofisma ipocrita
della patria, della civiltà e della libertà, e discepolo di Ponzio
Pilato nella più benigna delle ipotesi, lesto a lavarsene le mani, a
lasciar fare, a rassegnarsi per non creare imbarazzi al governo alle
prese collo straniero?
O nelle fungaie di quel sindacalismo da conio che tanto per non
tradire l'ermafroditismo originario di cui porta nel volto,
nell'anima, nella parola e negli atti lo stigma impudico, nella
ciotola della broda mesce l'obolo di Cristo e di Barabba e di Giuda
ed è ad un tempo per l'internazionale e per la patria, per la guerra
e per la rivoluzione, per la lotta di classe e per la nazione quando
non è per la guerra dentro di sè, e non acclama da buon fariseo alla
neutralità od alla pace per la palanca dei fedeli?
Sa la grande repubblica di potere fino alla complicità contare su
l'alleanza di coteste maschere; e glie ne fosse venuto mai il
dubbio, avrebbe oggi dinnanzi a sè rassicurante, edificante, dal
tedescume social-democratico al riformismo italico al sindacalismo
francese 1'insospettata testimonianza.
* * *
Ma vi è un elemento con cui non si stipulano compromessi o
transazioni, che si è accampato fuor della religione, fuori della
legge, fuori della morale, fuori di ogni realtà pratica immediata ed
inebriandosi di eresie, di sacrilegio, di perdizione, sogna torbido
ed inesorato il crepuscolo degli dei del cielo e della terra, la
nihilista distruzione di ogni simbolo e d'ogni vincolo, d'ogni freno
e d'ogni confine, di ogni istituto e di ogni ordine sociale,
squarciandosi fra gli schianti della rivolta la via ad un'Atlantide
impossibile e spaventosa.
L'elemento anarchico che dilaga., che fra il proletariato indigeno,
sempre corazzato di religiosi orrori, cristallizzato nelle vecchie
devozioni, sviato dagli stupidi orgogli di razza o dal bestiale
furore dei circensi, stenta ad aprirsi la breccia; ma il torvo
esercito coscrive ogni dì più denso e più minaccioso nei bassifondi
di quella varia immigrazione a cui bisognerà chiedere domani gli
argonauti ed i guerrieri della gesta gloriosa che ai pirati di Wall
Street assicuri il vello d'oro, l'agognata conquista del Messico
dovizioso e malsicuro.
E contro gli anarchici è bandita dall'Atlantico al Pacifico la nuova
crociata in attesa della San Bartolomeo.
* * *
Emma Goldman29 è trascinata a New York dinnanzi ai giudici perchè
alle madri rivela l'ignorato valore delle vite sacre a cui schiudono
il grembo inconsapevole; e la magistratura repubblicana, scavalcate
le guarentigie costituzionali torna ai riti sommarii della
santissima inquisizione.
L'anarchico non crede nella legge, non deve trovarvi rifugio o
protezione.
L'anarchico è fuori della costituzione, non può senza contraddizioni
invocarne le garanzie, nè sperarne senza ingenuità la tutela.
A Chicago gli anarchici sono braccheggiati dalla polizia,
sequestrati dai togati manoneristi della giustizia repubblicana,
vituperati dalla stampa fognaiola durante un paio di mesi perchè una
geldra di insottanati ghiottoni festeggiando l'arcivescovo con
un'indigestione e con una sbornia, e cogliendovi l'obbligato mal di
pancia e la diarrea, imputa al cuoco le conseguenze della propria
incontinenza, della propria intemperanza ciacca e disastrosa.
A San Francisco il compagno Macario è arrestato, malmenato, tratto
innanzi ai giudici, condannato sommariamente a sei mesi di carcere
per aver distribuito pubblicamente qualche neo-malthusiana
prescrizione innocentissima.
«The Blast», il giornale di battaglia che Alessandro Berkman30
pubblica da tre mesi a San Francisco, è stato sequestrato la scorsa
settimana, e ne è stata interdetta la circolazione a mezzo della
posta federale.
Da una settimana, dal giorno cioè che lo State Attorney di Chicago
Maclay Hoyne ha rivelato al pubblico ciondolone che Lynn è il
«hot-bed» delle congiure anarchiche e che i compagni editori della
«Cronaca Sovversiva» sono in combutta con quelli di Paterson, di
Chicago, di New York, di San Francisco per somministrare le pillole
di Crones, la coltellata di Caserio o la revolverata di Czolgosz a
Morgan, a Schwab, a Wilson, a Gennariello od a Guglielmone; ed il
«Boston American» si è finalmente accorto, dopo tanti anni, che qui
si stampa... «Mother Earth», ed il «Lynn Evening News» ha saputo
persuadere al capo Burckes della polizia locale che quelle dello
State Attorney Maclay Hoyne non sono chiacchiere, ma fatti che
conosce esso pure come sa positivamente che a Lynn in mezzo a noi ha
trovato Crones il suo rifugio dopo la burla atroce di Chicago, che
qui sono venuti a stringere gli accordi definitivi i bombardieri che
hanno attentato alle varie Corti ed alla Cattedrale di San Patrick a
New York31, la nostra tipografia è in istato d'assedio, vigilata il
giorno e la notte; vi si affacciano le figure losche delle grandi
circostanze, mentre l'agente delle tasse fruga a trovare ed insiste
a volere un proprietario responsabile e contabile dell'azienda e del
giornale per ogni eventuale provvidenza del domani.
* * *
Intendiamoci subito e bene: la levata di scudi improvvisa dei
giannizzeri del capitale e dell'ordine non ci meraviglia nè ci
spaura. Ci inquieta così poco che non sappiano fare neanche oggi
all'Arcivescovo Mundelein le nostre condoglianze, nè di Carnot o di
Umberto o di McKinley la postuma apologia; che anche oggi
testimoniamo ai pionieri generosi ed iconoclasti che della loro
audacia e dei loro olocausti ci hanno schiuse le vie dell'avvenire,
la nostra solidarietà, la nostra gratitudine, la nostra ammirazione:
che lungi dal ripudiare la violenza individuale e collettiva ne
riconosciamo la necessità e ne rivendichiamo il diritto dinnanzi e
contro l'ordine sociale che dalla frode e dalla violenza è nato,
colla frode e colla violenza si regge e prospera: adversus hostem
aeterna auctoritas!
* * *
Il pericolo d'altra parte non è in queste avvisaglie: Emma Goldman
può trovare come Margaret Sanger giudici cauti e prudenti se non
imparziali ed equi, ed uscire trionfante dalla prova, così come
Giovanni Allegrini nella giuria di Chicago, costretta fra il
ridicolo e l'abbominio, ha trovato l'assolutoria, così come il
compagno Macario, condannato la vigilia a sei mesi di carcere, è
stato l'indemani mandato in libertà dal giudice inseguìto alla
contrizione dalla sdegnata protesta universale prima, che dalla
coscienza della propria domesticità e vigliaccheria; così come
«Revolt» «The Blast» potranno riprendere con qualche sforzo ed un
po' di tenacia le pubblicazioni regolari in barba alle Sacre
Congregazioni dell'Indice repubblicano, così come la «Cronaca
Sovversiva» tira diritto per la sua via lasciando abbaiare alla luna
i botoli della polizia e della sacrestia, delle sentine borsaiole e
consolari.
Il pericolo è nello spirito pubblico che contro l'anarchia e gli
anarchici arrovella, alle dragonate ed ai linciaggi cotesta
sistematica assiduità di sobillazioni maramalde, e che, laddove pure
si dispone alla tolleranza delle eresie libertarie, vuole sacro,
inviolato il palladio dell'ordine nella santità, nell'inviolabilità
dei suoi ministri, depositarii e custodi; nello spirito pubblico
misoneista, superficiale ed empirico che si nutre d'impressioni, di
convenzionalismi e di leggende più che di riflessione e di verità;
nello spirito pubblico che continuerà a ritenere Emma Goldman una
maddalena impenitente, John Allegrini un criminale, Macario un
impudico e la «Cronaca Sovversiva» «hot-bed» e lievito di tutte le
congiure anche allora che il giudice abbia assolto, la polizia
dimenticando sia tornata da un pezzo ai suoi ricatti professionali,
e la «Cronaca» da quattordici anni congiuri alla luce del sole
meridiano.
Nel misoneismo empirico, ottuso, volgare su cui speculerà il
governo, domani, quando per le ecatombi fruttifere avrà bisogno
delle legioni di schiavi, della carne da basto e da cannone; e ci
troverà erti, inflessibili, decisi traverso il suo cammino.
— Chi contrasta la grandezza, la fortuna; la gloria dell'America
libera ed antesignana, ansiosa di diffondere pel doppio continente
il fulgore e le dovizie della sua civiltà e della sua prosperità?
Chi contrasta la preparazione cimentandone la sicurezza e
l'integrità, abbandonandola agli agguati, agli oltraggi, alle
aggressioni dello straniero?
— Il solito canagliume anarchico che non crede in dio, che ha
accoppato McKinley, che ha attossicato l'arcivescovo ed il capitolo,
che ha minato San Patrick, e si burla della patria e della legge,
dei sacramenti del governo e dei giudici del padrone e della
bandiera, che sono l'immarcescibile conquista de la nostra gloriosa
rivoluzione, il patrimonio glorioso della stirpe rinata: raca! raca!
crucifige! crucifige!
Non credere in dio, non inchinarsi agli evangelii, alla bandiera,
alla cassa-forte, al birro sono tanti casi di crimenlese che sotto
l'antico regime si scontavano alla Bastiglia, allo Spielberg ad alla
Favignana, da cui si tornava... qualche volta; ma qui non trovano
altra forma di espiazione che l'interditio aquae et ignis, il rogo
od il linciaggio.
Ed i compagni non debbono coltivare un'illusione, non debbono
contare che sulle loro forze, ridotte numericamente alla loro minima
espressione.
I compagni di ventura che sono pullulati, facinorosi e numerosi
intorno a noi soltanto perchè fino ad oggi ad essere anarchici o
rivoluzionarii in America non s'incorreva altra disgrazia che un po'
di vanità e di millanteria, dilegueranno alla prima folata di
reazione, mentre i cugini, gli affini che ieri ancora invocavano lo
zampino anarchico a trarre la castagna dalle brage, ci daranno la
seconda di cambio del 1894 o del 1910 vendendoci a Crispi per la
paura, consegnandoci per viltà fra le ritorte delle leggi
eccezionali, conclamando su l'anarchismo, antitesi del socialismo le
folgori, gli ostracismi e la mordacchia del Sant'Uffizio
repubblicano.
* * *
Soli; sarà la nostra forza. Liberati dalla zavorra dei mezzi
caratteri delle dubbie coscienze e delle alleanze posticcie ed
equivoche, noi possiamo raccogliere sereni il guanto che la reazione
ci butta, tagliando i ponti, ricacciandoci oltre l'ipocrita
transazione costituzionale dell'irrisoria libertà di pensiero, di
stampa e di riunione, sotto il regime della nagaika e della forca.
Sereni e fiduciosi nell'ultima fortuna.
Poichè siamo nella giurisdizione mosaica del taglione vedremo se,
violenza per violenza, la storia si smentirà in ossequio ai quattro
somari carichi di palanche rintanati in Wall Street, ed alla
repubblica berroviera che monta di guardia alla loro cassaforte; e
se nell'urto fatale tra il passato e l'avvenire, tra la forca e la
libertà, darà torto a quest'ultima e a sè stessa.
La reazione può venire: l'attendiamo di piè fermo.
(15 aprile 1916).
Maggio di passione
Quanto fremito di alate speranze e di propositi eroici nei cuori
giovani su cui del Maggio proletario scendeva dalle forche di
Chicago trent'anni fa, sanguinante del martirio, la fatidica
annunciazione!
Nessuno, nessuno più che noi quella giornata di speranza ha più
intensamente vissuto allora che sui ruderi della vecchia
Internazionale, disfatta da più profondi dissidii che non fossero
quelli dei suoi irosi epigoni, affrancata dai dogmi, dai decaloghi,
dai riti, raccogliendo la truce sfida di Haymarket, rispondeva la
corrusca internazionale degli indocili cuori plebei convitando da
Parigi, fuori dalle chiese, fuori dalle officine, dai parlamenti,
dalle miniere fuori da ogni galera del quotidiano supplizio, gli
schiavi ciechi della fede, gli schiavi devoti della legge, gli
schiavi rassegnati del salario e su su dal trivio, dal lastrico, dal
sottosuolo, i bastardi i reietti dell'amore del pane della luce, in
piazza, negli animi negli sguardi nelle braccia nel pugno convulso,
gli sdegni e le armi della millenaria passione; incontro al nemico
secolare ed immutato, incontro ai mercanti di superstizione e di
abbominio, incontro ai mercanti di frode e di fame, di sudore e di
pudore, incontro ai mercanti di carne, d'ipocrisia di ciarle e di
putredine, nell'ebbrezza della rivincita attesa, nel delirio
dell'ultima perdizione, nell'anelito de la liberazione estrema.
Non echeggiarono che d'un'irriverente bestemmia, non si illuminarono
che di un effimero baleno di rivolta le vie e le piazze di Amburgo e
di Fourmies, di Barcellona e di Mosca, di Milano e di Roma; ma la
borghesia ebbe paura. La bestemmia suggellò indarno ne le sue
bastiglie, sferrò indarno sul pugno d'audaci il peso enorme della
sua spada, le raffiche incessanti della sua mitraglia: durante il
tragico lustro che va dal 1890 al 1895 si vide innanzi a tergo, per
ogni fianco, ad Homestead ed in Catalogna, a Bruxelles e nel
Borinage, in Lunigiana ed in Sicilia la ricorrente insurrezione
degli iloti, ed alla gola da Pietroburgo a Lione, da Livorno a Roma,
a Parigi, a Madrid temeraria, iconoclasta, implacata la rivolta
degli avamposti, tenaci a sopperire del volontario olocausto
l'ignavia delle turbe, irredente, prima che ai gioghi esteriori,
alle intime devozioni millenarie, del sacrilegio sgomente ed
inorridite.
Ebbe paura non ragione.
L'esempio temerario lasciava il solco; le recidive ostinate
l'allargavano, l'approfondivano ogni giorno più vorace e più
spaventoso, rodendo insieme colle fondamenta, dell'ordine minacciato
e gramo, disegni ambizioni e calcoli degli eredi avidi ed
impazienti.
* * *
A salvare col vecchio ordine il nuovo si affannano durante vent'anni
coll'anatema domenicano, collo scisma avveduto, coll'avvolgimento
caino, colla calunnia metodica e perfida, i padroni del domani.
Farisei, giullari, poltroni, ansanti alla cuccagna buttano la
maschera. Disertano a Genova la rivoluzione per la medaglietta e
Carlo Marx per la livrea, in attesa delle seimila. Tra il socialismo
in foia di contrizioni e di domesticità e l'anarchismo tetragono
alle seduzioni ed alle persecuzioni piantano termine divisorio la
testa insanguinata di Sante Caserio; Ferri e Prampolini consentono a
Crispi le leggi d'eccezione del 19 luglio 1894 contro gli anarchici,
mandandoli in galera; Filippo Turati ripudia i villani massacrati a
Berra dal piombo regio per chi «fanno barriera su la via della
libertà» invocando da Giovanni Giolitti l'intervento armato omicida
dei mammalucchi regi nelle insurrezioni della fame; Leonida
Bissolati riscatta i suoi peccati giovanili, la gratitudine e la
fiducia dei Savoia relegando Bresci nel museo lombrosiano dei
delinquenti nati; e tutto quel che resta del socialismo italico
guaisce il confiteor dinnanzi ai cosacchi di Bava Beccaris o bela il
bonomelliano panegirico, accanto alla regina Margherita, su la tomba
del re buono.
E la manifestazione del Primo Maggio ammansita, sfibrata, castrata,
monotona, ventenne baldoria delle taverne fuori dazio, rientra nel
lunario dei santi o nel bollettino dei protesti, data commemorativa
senza significato o senza contenuto, cambiale screditata di cui non
si tollera la circolazione.
* * *
Oggi si miete.
Ed è sangue, son lacrime, le messi del tradimento e della viltà.
Di ruzzolone in ruzzolone su la sobillazione maramalda, se non su
l'orma contumace dei mali pastori, i servi si affollano imbestialiti
e ciechi al fronte conteso, murando della carne stracca e del sangue
disprezzato a la patria l'altare che avevano ieri abbattuto a
confondere coi reietti del mondo universo miserie e palpiti e
destino; abbeverando di odii, di maledizioni del pianto amaro delle
madri – madri dolorose di qua e di là dalla frontiera – la terra che
avevano ieri giurato di ribattezzare alle supreme eucarestie della
giustizia, della libertà, della redenzione, nel sangue degli
usurpatori.
* * *
Maggio di passione, maggio orrendo d'aberrazione, maggio caino,
maggio grifagno all'ultima e più devota speranza; se, immutati sotto
l'infuriare del ciclone, custodi severi della verità della
fratellanza del diritto, pronti ad ogni sbaraglio domani, non
vigilassero i manipoli d'avanguardia confortati dalla ragione e
dall'esperienza vive della leggenda e della storia: che dalle croci
del Golgota assurge la transfigurazione; che un pugno di sanculotti
«sol di rabbia armati» può schiudere vittoriosamente a la nuova
storia, al nuovo diritto il varco traverso le schiere superbe e le
dense forche del Brunswick; che l'ora turgida d'ogni angoscia e
d'ogni desolazione può la sassata di Balilla traboccare nelle Idi
sacre della vendetta e de la riscossa.
De la vendetta prima, avida, spietata, inesorata: feconderà delle
sue rugiade vermiglie le messi de la giustizia e della libertà.
(29 aprile 1916).
Prefazione all'opuscolo «La Voragine»32
Abbiamo raccolto e presentiamo ai lettori il breve studio che
intorno alla finanza della grande guerra ha pubblicato «Mariuzza» in
varie puntate della «Cronaca Sovversiva» nel Maggio ultimo;
sembrandoci degno di più vasta diffusione, di maggiore pubblico e
più vario.
Giacchè, fino ad oggi, la grande guerra non è stata, a nostro
modesto avviso, considerata – da coloro i quali vi acclamano e da
coloro i quali v'imprecano – che da un punto di vista convenzionale
superstizioso artifizioso, con grave scherno della verità non
soltanto ma dei più gravi e reali interessi, travolti o minacciati
da
La bufera infernal che mai non resta
e
mena gli spirti con la sua rapina
senza che
nulla speranza gli conforti...
non che di posa; ma di minor pena.
Dagli araldi degli imperi centrali si grida che alle razze
teutoniche pervenute nel campo del pensiero, delle scienze positive,
delle applicazioni industriali, dei traffici più svariati ad un
livello cui mal si tengono le razze concorrenti sbarra il passo una
sordida esosa indegna coalizione iniquamente; che se il rinascimento
fu italico nel XV secolo, inglese nel XVI, francese nel XVIII, vuol
essere e sarà tedesco nel ventesimo secolo, e che saranno
violentemente abbattuti alle quattro frontiere dell'impero tutti gli
ostacoli da cui potrebbe essere contrastato.
Rispondono dall'altra gli eredi della Charta, degli enciclopedisti
che mentre dovunque, in tutti i paesi civili, il pensiero la scienza
la civiltà si sono levati sdegnosi dei vincoli della fede della
razza della nazione, lieti di essere conforto gioia gloria dell'uman
genere, in Germania, nella Germania rimasta, medievale oltre ogni
rivoluzione, pensiero e progresso, studi e traffici, cattolici e
socialisti rimangono innanzi ad ogni cosa, tedeschi, strumento
uguale di un bieco e ferrato imperialismo che è minaccia nefasta
alla civiltà alla libertà, al superiore divenire delle umane
consociazioni.
E che la spavalda minaccia vuol essere nel sangue rintuzzata, spenta
sotto un cumulo di rovine.
È qualche cosa di vero nei pretesti dell'una e dell'altra fazione,
troppo scarso per giustificare anche agli occhi dei razzisti più
esosi e dei guerrafondai professionali la carneficina spaventosa che
desola da due anni il vecchio continente falciandovi ogni vigor di
vita ogni fede di lavoro di creazione d'avvenire, allontanando
sempre più remota la speranza di vedere un giorno – placate le
taccagne miserande competizioni del breve interesse – conserta
l'umanità nella lotta contro la natura per la gioia e per la
guarentigia del suo libero civile destino.
Ma sufficiente, la magra verità che si confessa, a mascherare
l'intimo senso e la più vera, inconfessabile ragione dello scempio
orrendo meditato; covato, organizzato durante mezzo secolo, voluto e
provocato ugualmente da una parte e dall'altra ad accaparrare la
signoria del mare e del mercato internazionale, affilando cavilli,
arroventando pregiudizii fanatici, fomentando odii primordiali,
ergendo con perfida atroce sapienza i servi al di quà contro i servi
al di là della frontiera per poterli il giorno atteso avventare gli
uni sugli altri briachi di rabbia e di fanfare, di superstizione e
di epicedii, al macello, al macello insano ed immane per l'usura per
l'aggiotaggio per gli sbruffi dei pirati dei pubblicani dei farisei
senza coscienza, senza scrupoli senza pudore!
Questo ignorato capitolo di storia, questa verità che si soffoca di
rose o di gloria – come direbbe Voltaire – che si sovracarica di
lauri di orgogli di bandiere di menzogne tricolori, affinchè non ne
tralucano le folgori sobillatrici. «Mariuzza» rivela coraggiosamente
illustrandoli di cifre tanto più eloquenti che emergono da fonti
ufficiali ineccepibili, per cui se peccano di discrezione, di
reticenze avvedute e studiate, sfidano vittoriosamente ogni
smentita.
Mettendo in luce non solo che cause modi e fini della guerra sono
competizioni lubriche inconfessate, inconfessabili per l'egemonia
del mare, per monopolio dei traffici usurai per la signoria del
mercato internazionale; ma sopratutto quanto costi la grande guerra
da cui tutto il mondo è angosciato, desolato, e chi sia chiamato da
ultimo a farne tutte le spese, a pagarne in sangue in lacrime in
bocconi di pane, in servitù inasprite, l'immane tributo.
Gli editori pensano che per quanto breve e modesto lo studio di
«Mariuzza» giovi ad una più esatta valutazione del «fatto» della
guerra, ad una più onesta e più seria previsione delle sue
conseguenze immediate e lontane; giovi sopratutto al proletariato il
quale – dopo trent'anni d'impudiche guerre da corsa, dopo il
Madagascar, il Transvaal, la Cina, il Marocco, la Tripolitania ed
altre losche avventure congeneri a cui ha tenuto il sacco, a cui ha
dato il sangue suo migliore per abbandonare ai pirati il bottino –
si è lasciato riprendere all'esca delle menzogne convenzionali
smaliziate e stantie, e nel nome e sulle orme del re o della
repubblica cerca alla guerra dei suoi padroni la libertà la civiltà
la prosperità che gli può dare la guerra sua, soltanto,
La guerra che passando su le trincee di classe irresistibile bufera
estirperà ogni radice ed ogni istituto di privilegio, il monopolio
della terra della fucina della scuola, costellando sui solchi
redenti, in conspetto del diritto di vivere di conoscere di godere,
uguali, i cittadini riconciliati dell'universo.
Alla verità che serve l'educazione proletaria e la rivoluzione
sociale gli editori sono lieti di schiudere più vasto e più agevole
cammino.
GLI EDITORI
Lynn, Mass., Giugno 1916.
La Voragine
Uno sciame di cifre che non vogliono commenti, che parlano di per sè
colla solennità, coll'inoppugnabile autorità delle scaturigini, dei
decreti, delle leggi, dei bilanci o dei listini di borsa o delle
tavole mortuarie da cui suppurano, affondando oltre i calcoli e le
previsioni più temerarie la voragine spaventosa, raccogliendo su
l'insana carneficina più rovente, più implacata che ogni parola, la
condanna, o la maledizione.
Bilancio orrendo che non il sacerdote, non il dottrinario, non il
tribuno, pel decalogo, pel teorema o per la fazione hanno raccolto,
eretto, coordinato; ma un Istituto di Credito33 sgomento, dubbioso
che possa il domani, il domani senza cuori, senza braccia, il domani
esangue e mutilato, ritrovare uguale alla furia cieca, inesausta
dello scempio e della rovina, la forza ed il fervore della
restaurazione; incerto se la trama dei rapporti infinitamente varii
di cui si ordisce, su cui tutta la vita sociale si regge, ed ha
follemente reciso, scompigliato un colpo di borsa o di spada, possa
riallacciarsi domani, avanti che dalle ultime disperazioni
attizzata, la face della rivoluzione non abbia ad accendere il rogo
espiatorio alla terza civiltà che della Dichiarazione dei Diritti ha
fatto stoppaccio ai suoi cannoni e l'uguaglianza ha prostituito al
privilegio, la libertà alla caserma, la fratellanza a Caino.
Un bilancio orrendo di realtà, di sincerità.
Vedete voi.
Non tenete conto della distruzione delle città delle ferrovie, delle
fabbriche, dei ponti e delle strade, dei transatlantici e dei
raccolti, non di quindici milioni di morti o di mutilati; non vi
cimentate neanche alle previsioni della ricchezza che negli ultimi
due anni avrebbero senza sforzo creato i venti milioni di uomini che
dalla Mosa all'Eufrate imbestialiscono nello scempio vandalico.
Chiedete il conto della guerra alle cifre discrete, confessate,
consacrate nelle richieste imperiali o regie, nelle sanzioni dei
parlamenti, nelle dichiarazioni dei ministri responsabili, nei
bilanci delle grandi banche, nei titoli di prestito, nei documenti
ufficiali di varia natura.
Conchiuderete?
Che dall'Agosto 1914 all'Agosto 1915 il primo anno di guerra è
costato ottantasette miliardi di lire complessivamente; «una somma,
diceva il ministro Asquitth al Parlamento inglese, che non va
soltanto al di là di ogni precedente, ma della previsione di ogni
finanziere del nostro e di qualsiasi altro paese».
Ottantasette miliardi di lire!
Non isbalordite, ne avrete il tempo e l'occasione. La guerra che ai
suoi inizii non costava più che duecento o duecento venticinque
milioni al giorno, costa ora il doppio: quattrocentocinquanta
milioni di franchi al giorno; e si spiega. Ha coperto un'area più
vasta, ha raddoppiato uomini e materiale, ha dovuto rinnovare
l'equipaggiamento sciupato o perduto; e quel che ieri costava
cinque, oggi costa dieci.
L'Inghilterra che secondo le dichiarazioni di S. E. Reginald Mc
Kenna spendeva settanta milioni al giorno nel primo anno di guerra
ne spende centoventicinque nel secondo anno; la Francia, e lo dice
il ministro delle finanze Ribot, non spendeva l'anno scorso più che
quaranta milioni di franchi al giorno: ne spende oggi novanta: la
Russia, che non andava al di là dei quaranta milioni al giorno nel
primo anno di guerra, è costretta a spenderne settantasette e mezzo
nel secondo, come ha dichiarato alla Duma il ministro delle finanze
Barch. Aggiungete venticinque milioni di franchi che vi profonde
giornalmente l'Italia e voi avete che la guerra costa alle potenze
dell'Intesa 317.500.000 di franchi al giorno.
Per confessione del Dottor Karl Helfferich imperial ministro delle
finanze, la Germania spende per la guerra 83.000.000 di franchi
giornalmente..
L'Austria, la Turchia, la Bulgaria insieme ne mettono sulla bilancia
ogni giorno altri 54.500.000.
Ed avrete che nel secondo anno la guerra costa giornalmente ai due
gruppi belligeranti dell'Alleanza e dell'Intesa 455.000.000.
In fin d'anno: centosessantasei miliardi e settantacinque milioni di
franchi, e così dal primo agosto 1914 al primo agosto 1916 (sempre
che duri, come non è dubbio, questi altri due mesi) la guerra sarà
costata duecento cinquantatre miliardi e cinquecento settantacinque
milioni di franchi.
— E dove trovano tanti quattrini?
— A prestito.
— E i debiti poi chi li paga?
Voi vi domandate come e dove le potenze belligeranti peschino i
quattrocentocinquantacinque milioni che la guerra costa
giornalmente, i tredici miliardi e settecento cinquanta milioni che
costa ogni mese, e – poichè il sacrificio non è di un giorno o di un
mese – i duecento venticinque miliardi di franchi che le costano in
totale i due primi anni di guerra.
Una eventualità su cui non oserete un dubbio se, contro le oblique
recentissime disposizioni del Kaiser verso la pace, metterete su
l'altro piatto della bilancia le impressioni discretamente
autorevoli raccolte a Londra in queste ultime settimane da Lloyd C.
Griscom, ex ambasciatore degli Stati Uniti presso il re d'Italia, e
cioè «che è concorde fra tutte le classi in Inghilterra il pensiero
che la guerra durerà altri tre anni per lo meno, e che la
preparazione militare del paese è da questa concorde previsione
dominata».
Come e dove li hanno trovati e li trovano?
Dentro e fuori di casa, con poca pena: nei prestiti nazionali e
forestieri, coll'inasprimento delle vecchie tasse, coll'imposizione
delle nuove, coll'inorpellarsi d'un credito fittizio che le esulate
riserve metalliche e le compromesse ipotecate od esauste risorse del
paese non consentono più – tanto che i biglietti da cento valgono
sessanta oltre la frontiera, così come i dollari di Carranza non
trovano agli Stati Uniti chi li baratti per un nichelino; e con ogni
espediente, con ogni raggiro più arruffianato e meno scrupoloso.
* * *
Le cifre, che non sono un'opinione e che nei computi nostri sono le
cifre ufficiali consacrate nei bilanci dei rispettivi ministeri
delle finanze, ve ne danno la prova definitiva.
L'Inghilterra, ad esempio, che ha speso giornalmente durante il
primo anno della guerra settanta milioni di franchi, e
centoventicinque milioni al giorno nel secondo anno, ha dovuto
contrarre nel Novembre del 1914 un primo prestito, al tre e mezzo
per cento, di otto miliardi e settecentocinquanta milioni di
franchi: un secondo, al quattro e mezzo per cento, di quattordici
miliardi e seicentoventicinque milioni nel Luglio 1915; un terzo, al
cinque e mezzo per cento, di due miliardi,34 ed ha dovuto portare a
sette miliardi e cinquecento milioni di franchi il carico delle
imposte, mettendo in circolazione poi due miliardi e mezzo di
carta-moneta che avanti la guerra non esistevano.
* * *
La Francia, che durante il primo anno di guerra ha speso quaranta
milioni al giorno e ne spende settantacinque giornalmente nel
secondo, ha provveduto ai quarantatre miliardi e settecento
cinquanta milioni che la guerra le costa dal 1° Agosto del 1914 al
1° Agosto 1916, con un prestito al cinque per cento di quindici
miliardi e centotrenta milioni; con un secondo prestito al cinque
per cento di sette miliardi; un terzo di due miliardi e mezzo nel
Marzo 1916, oltre alla sua quota parte nel prestito contratto
insieme coll'Inghilterra sulla piazza di New York per due miliardi e
cinquecento milioni.
Ha dovuto contrarre poi altri prestiti direttamente coll'Inghilterra
stessa, ha dovuto raddoppiare le imposte, raddoppiare la
circolazione della carta-moneta che era di sette miliardi o poco più
avanti la guerra, ed è oggi invece di quindici miliardi di franchi
all'incirca. Ed ha dovuto vendere all'estero una parte considerevole
dei suoi buoni del tesoro.
* * *
La Russia a cui il primo anno della guerra, non è costato più che
quaranta milioni di franchi al giorno, ma ne ha speso tra
settantasette e settantotto giornalmente nel secondo anno, oltre
alle tasse enormi che ha levato, alla vendita periodica di buoni del
tesoro, alle emissioni fantastiche di carta moneta, ai debiti
contratti verso l'Inghilterra, ha stipulato poi al cinque e mezzo
per cento i seguenti prestiti nazionali:
Nell'ottobre
del 1914 per
1287500000
Nel febbraio
del 1915 per
1287500000
Nel marzo
del 1915 per
1550000000
Nell'aprile
del 1915 per
525000000
Nel maggio
del 1915 per
2575000000
Nel novembre
del 1915 per
2575000000
Nell'aprile
del 1916 per
2575000000
e così in totale
12375000000
* * *
La Germania che confessa di spendere per la guerra ottantatre
milioni di franchi al giorno, alla spesa enorme ha rimediato
coll'inasprimento delle tasse, le requisizioni forzose, la vendita
di buoni del tesoro, coi prestiti a lunga scadenza, e quindi ad un
tasso elevato, che sono qui designati:
Prestito imperiale
del settembre
1914
5600000000
del marzo
1915
11325000000
del settembre
1915
15200000000
del marzo
1916
13390000000
e così per un totale di
45515000000
* * *
L'Austria ha fronteggiato le spese della guerra che le costa una
trentina di milioni al giorno vuotando le casse della Banca
Austro-Ungarica, indebitandosi fino agli occhi coi banchieri
tedeschi, contraendo mezza dozzina di prestiti nazionali:
Prestito Austriaco, 5 e mezzo per cento
del novembre
1914
2225000000
del giugno
1915
2760000000
del novembre
1915
4000000000
Prestito Ungherese, al 6 per cento
del novembre
1914
1215000000
del giugno
1915
1165000000
del novembre
1915
2000000000
per un totale di
13371125000
* * *
L'Italia, all'infuori delle imposte atroci cui non iscampa oramai
alcuno dei generi indispensabili alla vita, all'infuori dei prestiti
contratti un po' dappertutto, degli anticipi della Banca d'Italia e
dei minori istituti di credito, all'infuori dei tre miliardi
trecentosettantacinque milioni datile dall'Inghilterra35 a
rimettersi in gambe dopo i salassi tripolini che l'avevano svenata,
ed a barattare i patti della Triplice con quelli dell'Intesa, ha
contratto tre grandi prestiti:
Prestito Nazionale, 4,50%, del dicembre 1914
1000000000
Prestito di Guerra, 4,50%, del luglio 1915
1000000000
Prestito Nazionale ultimo
4000000000
Per un totale di
6000000000
* * *
Per cui, a, trovar la fonte cui attinsero le potenze belligeranti i
duecentoventicinque miliardi di franchi che la bella guerra è
costata in questi due anni; e a cui attingeranno, occorrendo, il
fiato a durarla qualche altro anno, non dobbiamo tormentarci gran
fatto.
Rispondono le cifre ufficiali, od autorevolmente approssimative che
abbiamo allineato ed i guaìti della finanza americana che ai
quindici miliardi di franchi di crediti accampati oltre mare guarda
con iscarsa fiducia di ricupero, domandandosi sul serio se non sia
meglio tentare altrove, al Messico ad esempio, con miglior fortuna,
con più certo esito e più rimuneratore, i provvidi arrembaggi.
Dove i governi trovino per la guerra il denaro, accendendo miliardi
e miliardi di debiti, abbiamo veduto; rimane a sapersi su chi ed in
quale misura se ne scarichino.
Se fossero conchiusi nelle cifre che abbiamo squadernato sotto
l'occhio sgomento dei lettori i danni ed i gravami della grande
guerra, pur rimanendo essi così gravi che difficilmente si può
alcuno immaginare come sia possibile riscattarsene – e sta il fatto
che la più ricca delle nazioni del mondo, l'Inghilterra, non ha
saputo liberarsi fino ad oggi dei quindici miliardi di debiti
addossatile dalle guerre napoleoniche – la situazione non
apparirebbe forse così disperata.
Ma bisognerebbe che questa fosse davvero l'ultima guerra, che dopo
di essa le varie nazioni del mondo, se non nella pace universale e
perpetua, potessero contare su la tregua lunga, nobile, feconda, di
qualche secolo a sanarne le ferite immense e sanguinanti.
Disgraziatamente la guerra è lo stato naturale, il clima storico in
cui il regime borghese ha le fonti e le ragioni della propria
esistenza, la condizione del proprio sviluppo.
Il giorno in cui l'umanità avesse a comprendere che i suoi interessi
sono identici e solidali ovunque, e che la varietà infinita delle
proprie energie intellettuali e fisiche, come l'infinito tesoro dei
prodotti della terra e dell'industria sono ugualmente indispensabili
alla guarentigia, alla conservazione, all'incremento della vita e
della civiltà; e che l'universale cooperazione delle grandi e delle
piccole forze è necessaria a trionfare delle resistenze della natura
la quale non è madre indulgente e prodiga, ma ingorda ed esosa
matrigna che non si concede e non si impregna e non partorisce il
più lieve dei beneficii se non sotto la stretta forsennata dei
titani su l'ara sanguinosa dei quotidiani olocausti, il regime
borghese che è sorto dalla competizione, e su le competizioni
diuturne ed implacate si regge, sarebbe da gran tempo uno smorto e
lontano ricordo del passato irrevocabile.
Ma l'umanità non ha fino ad oggi altra religione ed altra fede che
del privilegio.
E se oggi nel nome e per conto del privilegio si sgozza la gente in
Polonia e nei Vosgi, in Mesopotamia e nelle Fiandre, nel Tirolo e
sul Baltico per decidere se la supremazia del mare e del mercato
internazionale debba essere della Germania o dell'Inghilterra, è
chiaro che – questo privilegio, questo monopolio durando – la furia
degli armamenti, la satiriasi della guerra e della distruzione si
riaccenderanno domani, dopo, fra cinque o fra dieci anni, a decidere
se l'egemonia industriale e finanziaria del vecchio mondo non debba
passare alla Russia, al Giappone, all'America, alle stirpi nuove,
alle genti che non hanno fino ad oggi scritto nella storia la loro
pagina, e vi irrompono esuberanti, impetuose, irresistibili di
verginità e di dovizie, a reclamarne il posto e la gloria.
Perchè soltanto nello sbaraglio violento e subdolo di ogni emula
competizione può il privilegio attingere le forme esclusive del
monopolio; e la guerra diventa la sola via, l'indispensabile tramite
della sua attività, delle sue ascensioni, del suo trionfo.
Non è dunque da sperare nella pace finchè le redini dell'ordine
sociale dimoreranno nel pugno adunco della borghesia ed imperversa
il regime della proprietà privilegiata.
Nasconderà il tossico delle insidie e degli scaltri avvolgimenti che
matureranno nuovi e più sanguinosi conflitti il pacifero olivo che
agiteranno dei figli su le ossa imbiancate, su le rovine del mondo
riarso, vincitori e vinti ne le ipocrite riconciliazioni.
La progenie candida di Pangloss, per cui tutto va sempre per il
meglio nel migliore dei mondi possibili, guardi al fervore di
preparazione che urge in America tutte le classi; alla sapiente,
vigile tenacia degli sforzi per cui spezzate le libere tradizioni
della repubblica e della gente, intorno alle fortune, alla
prosperità, al destino della nazione si cercano oggi e si daranno
domani, nel domani imminente, i presidii d'un formidabile esercito
stanziale; e dica lealmente, francamente, se dalle arche del
capitale e dell'ordine tubino le colombe l'idillio delle ironiche
fratellanze o non istridano piuttosto anelanti al sacco ed
all'arrembaggio, anelanti all'orgia sulle carogne, gufi ed avvoltoi;
se del militarismo sia l'occaso o la rinascita: se degli armamenti,
sia la nausea od il delirio; se invece che l'ultima non sia il
presente conflitto la prima delle grandi guerre industriali in cui
si contende tra le meglio organizzate ed avvedute coalizioni
d'interessi la sovranità economica dell'universo.
Ma da queste divagazioni teoriche, da queste previsioni amare,
necessariamente appassionate e malfide, noi possiamo esimerci,
rimanendo nel campo dei fatti positivi e delle cifre inoppugnabili,
paghi delle deduzioni che esse consentono.
Più che il presagio rantolano la maledizione.
Abbiam conchiuso sui dati e sulle cifre ufficiali che i primi due
anni della guerra pesano sul proletariato inglese per l'enorme somma
di quarantasei miliardi e centoventicinque milioni di franchi.
Dividiamo ora questa somma per la popolazione totale della Gran
Bretagna, per quarantacinque milioni, ed avremo che la bella guerra
è costata e costa in complesso mille e venticinque franchi, che è
quanto dire cinquecento e dodici franchi all'anno, una lira e
quaranta centesimi al giorno a ciascun suddito del Reame Unito.
Sui sudori del quale grava già un'ipoteca di lire 382.64 sua quota
parte dei 17.218.995.000 del debito nazionale preesistente al 1.
agosto 1914; per cui paga da anni immemorabili l'esoso interesse che
ne consacra l'atroce miseria e la schiavitù disperata.
Ripetiamo per la Germania la stessa operazione, dividiamo cioè pei
sessanta cinque milioni della sua popolazione totale, i cinquantadue
miliardi e cinquecento milioni che costano all'Impero Tedesco i
primi due anni di guerra, ed avremo che la folle ambizione di issare
ueber alles la vecchia Germania costerà franchi 807.65 al primo
dell'Agosto venturo; 403,85 all'anno, una lire e dieci centesimi al
giorno ad ogni suddito di Guglielmone d'Hohenzollern.
Bisogna anche qui tener conto che su di ogni cittadino tedesco grava
già l'ipoteca di lire 91.85, sua quota parte dei 5.970.260.000 che
costituiscono il debito nazionale preesistente all'Agosto 1914; e
per cui da anni immemorabili paga un interesse feroce, usuraio.
Così per la Francia. Divisa pei quaranta milioni della sua
popolazione la spesa totale di questi due anni di guerra:
quarantatre miliardi e settecento cinquanta milioni, il gravame sarà
di franchi 1093 e 75 costerà cioè 546.87 all'anno, una lira e
cinquanta al giorno ad ogni cittadino della repubblica che ne paga
gli interessi in moneta di angoscie e d'inedie quotidiane.
Alla Russia il primo biennio della guerra. costa trentacinque
miliardi tondi, ed essendo in molti, in centosettantuno milioni a
spartirne la spesa, non è che di franchi 204.75 la parte di
ciascuno, non costerà che 102.37 all'anno, qualche cosa come sei
soldi al giorno la guerra ad ogni suddito dello czar, sul quale
pesano tuttavia 132.65 del vecchio debito imperiale di 22.684.
695.000, di cui deve pagare a digiuni ed a nerbate l'interesse
esoso.
All'Austria la guerra costa in totale trenta miliardi, seicento
franchi a ciascuno dei suoi cinquanta milioni d'abitanti, trecento
franchi all'anno, diciassette soldi al giorno; col gravame di
franchi 104.36 sul vecchio debito pubblico di 5.218.375.000, di cui
deve naturalmente pagare gli interessi.
L'Italia ha da un pezzo compiuto il suo primo anno di guerra che le
costa, a fare i conti con pietosa discrezione, nove miliardi di
lire, i quali, ripartiti fra i suoi trentacinque milioni d'abitanti,
importano la spesa di 257,15 rispettivamente, diciassette soldi al
giorno cioè per ciascuno dei vassalli pellagrosi e famelici di
Vittorio Emanuele III di Savoia. Non contando, ben inteso, gli
interessi che ciascuno dei nostri miserandi compatrioti deve pagare
su lire 417.30 sua parte del debito pubblico preesistente alla
grande guerra fascinatrice nella rispettabile cifra di
14.605.765.000!
Diciassette soldi al giorno; per ogni giorno che scande il lunario,
per ogni creatura del «bel paese che Appennin parte ed il mar
circonda e l'Alpe» e benedice tanto riso di cieli e tanta gloria di
sole; diciassette soldi ogni giorno i bimbi che alle poppe riarse
delle madri suggono fiele e clorosi; diciassette soldi i vecchi
esausti, ansanti all'agonia come alla liberazione; diciassette soldi
ogni giorno fanciulle, artigiani, villani che sgobbando dall'alba al
tramonto non mettono insieme il becchime della nidiata; diciassette
soldi al giorno le vedove, gli orfani, i mutilati della guerra a cui
il governo ne concede sei, o dieci, o dodici di sussidio;
diciassette soldi al giorno tutti, senza riguardo a sesso, a
condizione, ad età.
— Una miseria! grugniscono con una scrollata di spalle banchieri e
salumai, fornitori e birri, puttane e beccamorti e preti a cui la
guerra ha triplicato la commissione, il profitto, il soprassoldo, la
tariffa dei sacramenti, degli abbracciamenti, dei precetti e dei
funerali, cuccagna inaspettata.
— Diciassette soldi al giorno; una miseria!
Ed ammiccando smaliziati soggiungono i cenciosi con una scrollata di
spalle altrettanto corriva e facilona: – Diciassette soldi al
giorno; e chi li paga? Non certamente noi che un soldo in tasca non
ce lo trovano. Paga chi ha!
E se ne fregano le mani; contenti fraternamente come di una
disgrazia altrui, come di un malanno del prossimo, senza pensare che
il pane, la fetta di polenta, il pugno di ceci o di fave, la cotenna
o la sarduzza non metteranno sul desco, nè su le quattr'ossa il
camicione di forra o le brache di fustagno, nè l'erede fra le
quattro tavole della culla o della bara, se prima quel debito al
dazio, allo spaccio, al banco del lotto, in chiesa, all'usciere, al
gabellotto, al padron di casa, al fornaio, al parroco abbiano
sborsato le cento volte.
Senza pensare che i diciassette baiocchi quotidiani diventano senza
sforzo, i trentaquattro, lo scudo, diventano in ultima analisi i
venticinque milioni di lire che la guerra costa giornalmente
all'Italia, appunto per questo: che ogni gravame inflitto al padrone
della casa, della fabbrica, della banca o della canonica, su le
esportazioni e su le importazioni, su le transazioni d'ogni natura,
rimbalzano sul groppone di chi non ha, della povera gente, del
proletariato il quale nel maggior prezzo a del pane o del sale,
della pigione o delle scarpe, finisce per riscattare da ogni imposta
e da ogni fastidio, dai tributi in denaro od in sangue, dal fastidio
di lavorare, di pagare, di morire – fosse pur di morire per la
salvezza del re o per la grandezza della patria – chi ha, e appunto
perchè ha, non paga mai, non lavora mai, non cimenta ad un rischio
mai nè la trippa nè la borsa, bastando al compito ingrato largamente
la rassegnazione, la fatica, l'abnegazione, il sudore, la pelle
degli straccioni.
La conclusione? È superflua: è nelle cifre stesse, nei risultati a
cui convergono. Nella voragine della guerra sono precipitati
duecentoventicinque miliardi di franchi.
Ne piombano giornalmente quattrocento cinquanta milioni; ne ingoierà
il doppio, il triplo durando un altro anno, se scarseggiando ogni dì
più avare le risorse di cui si alimenta, in ragione
proporzionalmente inversa ne raddoppierà, ne triplicherà il prezzo.
Con questo risultato: che nel nome de la civiltà siamo rinculati
alla barbarie; che nel nome della libertà siamo tornati al «bon
plaisir du roi», al taglione, alla mordicchia, alla giurisdizione
infame della giberna e della caserma; che nel nome della vita, d'una
vita più larga e più alta, andiamo brancolando, ebbri di fratricidio
e di perdizione fra il sangue, la rovina, la putredine; che nel
baratro sono precipitati con quindici milioni di vite umane i tesori
accumulati da due generazioni; che si è avvelenata sciaguratamente
la piaga dei livori e della bestialità primordiale che i postulati
del nuovo diritto umano e le prime temerarie esperienze dell'umana
solidarietà si avviavano a rimarginare; che al compito di cieca
distruzione e di stragi caine, a restaurare un passato orrendo di
servitù e di onta, a sbarrare d'odii e di cadaveri le vie
dell'avvenire, sono stati e rimangono, ludibrio inamovibile e
strumento supino, i servi, gli sfruttati, gli iloti, bastardi della
civiltà e della patria, bastardi del pane e dell'amore che al
cinico, al feroce arrembaggio hanno dato il sangue e la rabbia, i
figli e le legioni.
* * *
Dobbiamo disperare della fratellanza, della giustizia, della verità,
della libertà, del conserto destino, della risurrezione a cui la
annunciazione dei veggenti, l'olocausto dei propiziatori eroici,
l'oscura tenacia delle avanguardie tesero, sugli anni primi, l'arco
delle volontà, delle audacie, delle abnegazioni che educarono
ardente, invitta, incoercibile la nostra fede nell'ideale?
Mezze fedi, mezze coscienze, mezzi caratteri, mezzi cuori, le mezze
anime di Simone e di Giuda nelle vigilie angosciose dell'armi e
della passione vacillano, abiurano e tradiscono la verità
conosciuta; non chi la vide trionfare sui roghi di Bruno e di
Vanini, sulle stragi del Père Lachaise, sul martirio di Cafiero,
sulle forche di Chicago, sui fossati di Montjuich, immarcescibile; e
non ha la ragione più lontana di dubitare che essa non abbia a
trionfare domani di questa ora convulsa, livida, di aberrazione e di
delirio.
Sui valichi delle Alpi che sono oggi argomento e pegno della aspra
contesa, venti secoli or sono, le madri Teutoniche e Cimbre dinnanzi
alle aquile di Roma librate sulle rutilanti legioni di Mario,
dubitarono della vittoria; e l'orrore della servitù nemica temendo
pei figli più che per sè stesse, all'estremo cimento non si
avventarono che dopo di avere sulle mannaie dei carri falcati e sul
basalto dell'irta frontiera percosso il fragile cranio dei nati
buttandone i cadaveri dilaniati e sanguinanti, orrida sfida, ne le
trincee nemiche.
Nata ai liberi venti delle natie foreste la cimbra progenie si
rifugia nella morte prima che nella servitù.
Inseguite dalle fantasime esangui dei figli perduti e dall'intimo
strazio d'averli delle proprie mani ignare immolati sugli altari di
Molock alla morte, alla superstizione ed all'irrisione, sull'orlo
dell'abisso vaporante la vendetta e la perdizione le madri della
patria, delle cento patrie devastate, ed insanguinate, si
ritrarranno inorridite dall'abisso di rovina, di servitù e di
miseria che agli orfani, ai superstiti hanno spalancato della loro
inconsapevolezza e della loro rassegnazione: e vi precipiteranno col
tricolore segnacolo d'odio e di scherni, colla spada e
coll'aspersorio simboli diversi di un'eguale tirannide, coi
pretoriani e coi pubblicani dell'ordine, artefici e custodi d'ogni
rapina, coi lupi, le lupe ed i lupicini, le estreme vestigia di un
mondo iniquo ed infame che alle condanne inesorate e conserte del
diritto, della ragione e della storia non trovò altra indulgenza che
nell'ignoranza e nella viltà.
La voragine inghiottirà i nipoti di Erostrato che l'hanno
squarciata, in loro malora!
Irredentismo aulico
Una modesta pagina di storia contemporanea
Ora che «il merito di aver voluto fermamente la guerra pel
compimento della patria e per la libertà delle nazioni è dovuto
sopratutto al re», senza del quale non sarebbe stato possibile
superarne i fieri contrasti; ora che di lassù, dalle vette delle
Alpi contese, s'impegna il re a non rientrare in Roma se non «di
lauri cinto» come Radames ne l'Aida; e Lloyd George – che cosa ne sa
egli mai? – lo cresima «il primo soldato dell'eroico esercito
italiano», ed intorno al nipote si ritesse la leggenda che su le
vergogne del nonno obeso, sul lubrico tradimento di Novara e su gli
storici rimorsi per la baloussada del XX Settembre, s'adagia come la
provvida foglia di fico; ed i Savoia, nelle apologie iperboliche e
mercenarie dei cortigiani, riappaiono, straziati dal «grido di
dolore» che viene dalle provincie irredente, gli araldi, i
guerrieri, gli indigeti della patria; ora lasciateci rintracciare
fra le pagine della contemporanea storia d'Italia le origini e le
vicende di questo irredentismo, nella polvere ieri, flagellato ieri
ancora da tutte le maledizioni, da tutte le persecuzioni, benedetto
oggi dal Vaticano, dal Quirinale, dal Campidoglio, da tutti gli
altari improvvisamente.
Storia che abbiamo vissuto noi, quanti siamo nati tra le giornate
corrusche di Calatafimi o di Milazzo e le meditate infamie di
Custoza o di Lissa – una parentesi che, oltre i termini del decennio
irrequieto, segna un tragico contrasto insuperato: l'abnegazione
eroica dei liberatori plebei per una parte, il maramaldo intrigo per
l'altra dei savoiardi filibustieri; e, siamo, cresciuti fra i
superstiti dell'ultima rivoluzione italiana, e d'eco ultima ne
abbiamo colta su le labbra dei suoi epigoni gloriosi e delusi.
Delusi, fin d'allora.
* * *
L'indipendenza? era l'anelito che non tollerava dissensi; era
zampillato col sangue sotto le nerbate dall'arbitrio e
dall'irrisione, si era agguerrito ne le cospirazioni, s'era cinto di
fede ne le galere, ne le cittadelle piemontesi di Alessandria, di
Savona o di Torino, come nelle segrete dello Spielzberg, o nei
fossati della Favignana aveva temprato l'audacia e la pertinacia.
Soffocato a Mantova dal capestro, nel sangue a Brescia, squilla da
Milano la sfida, da Mentana la promessa, dalla Breccia di Porta Pia
la sua prima, la sua grande vittoria.
L'indipendenza non tollerava dissidio.
L'unità? Non ha mai riscosso uguale unanimità di consensi, non sul
limite delle aspirazioni intrinseche, non sulla forma in cui doveva
incarnarsi. Ostinata e legittima in tutte le scolte la diffidenza.
I Savoia non ne volevano, ne sgretolavano nelle fondamenta
l'edificio; barattavano insieme con la culla di Garibaldi la
propria, cospiravano coi Borboni, intrigavano cogli Ausburgo, a
Garibaldi che non badando a rischi ed a cimenti ne tentava la
riscossa contendevano a Marsala lo sbarco, al Volturno il passo, a
Bezzecca l'audacia, ad Aspromonte la vita, a Monterotondo ed a
Mentana il sacrificio. La ripudiavano atterriti se doveva
consacrarsi in Roma, su lo sbaraglio del potere temporale dei papi.
Non volevano, non hanno mai voluto che la conquista piemontese
dell'Italia; e non era un mistero per nessuno.
Così, man mano venne l'unità integrandosi, quella diffidenza,
inasprita dai compromessi che alla buona fede di Garibaldi avevano
estorto i proconsoli savoiardi, ai mezzani delle annessioni
frettolose ed incondizionate oppose una riserva significativa. Tutti
d'accordo, in principio: delle popolazioni affrancate al giogo
straniero dobbiamo costituire la grande famiglia italica, una,
indivisibile; e se l'annessione al Piemonte è un passo, una
guarentigia dell'unità, in via assolutamente provvisoria, e salvi
sempre i diritti d'una Costituente, viva l'annessione!
In altri termini: per l'Italia una, libera, indipendente, tutti un
cuore; per riscattarla a Cecco Beppo e costituirla in feudo ai
Savoia, no!
Cacciato lo straniero oltre le Alpi, oltre i tre mari nostri, dirà
la Costituente se l'istituto politico in cui s'incarnerà la patria
redenta, sarà la monarchia, e dei Savoia; se sarà la repubblica
unitaria o federale.
* * *
La Costituente non fu mai; chi osò ricordarne le esplicite riserve e
l'impegno formale fu gridato nemico del re, insidiatore della unità,
traditore della patria, e trattato di conseguenza; mentre ad
assolvere quella riserva e quell'impegno s'inscenava la burla
sconcia dei plebisciti.
Nell'urna dei plebisciti l'indignazione, lo spasimo della repubblica
francese stuprata ed irrisa, non si era mutato nell'inno delirante
di gratitudine e di fede all'uomo del 2 Dicembre? Nel mistero delle
italiche urne plebiscitarie diffidenze arcigne e riserve gelose
andarono seppellite; non ne uscì che l'augusta investitura del padre
della patria e la solenne, definitiva consacrazione della savoiarda
conquista della penisola.
La liberazione d'Italia?
Lontana, lontana, dimorò l'aspirazione dei superstiti che per tutti
gli ergastoli della patria, su tutti i campi delle sue battaglie,
l'avevano con ogni sacrifizio propiziata; e contro l'hic manebimus
optimae del re galantuomo che a Roma s'accucciava a piè del papa,
oltre le Retiche, oltre le Giulie additò il più vasto confine della
stirpe, anelò oltre l'usurpazione regia ed il compromesso papalino,
alle forme di cui lampeggiavano per ogni evo la sua tradizione, la
sua storia, e di cui si era intessuto il sogno, animata la fede dei
suoi annunziatori, dei suoi confessori, dei suoi pensatori, dei suoi
araldi più gloriosi e più generosi.
L'irredentismo prorompe, non può essere che repubblicano.
* * *
Prorompe negli sdegni di Giuseppe Garibaldi che il 27 Marzo 1875 –
mentre in Venezia il primo re d'Italia s'inchina vassallo
all'Imperatore degli impiccati biascicando la previsione del vecchio
Manin: che l'Italia ricostituita a nazione una ed indipendente
sarebbe stata la prima e più fedele amica dell'Austria – ricorda in
un suo fiero bando agli italiani che l'opera della redenzione non è
compiuta, che sotto il giogo degli Ausburgo gemono Trento e Trieste
sorelle.
È il primo squillo di battaglia e spaura la reggia, angoscia il
governo, arrovella gli eroi della sesta giornata, sbucati dalle
cantine e dalle sacrestie borboniche al sacco, a la baldoria grassa
delle Convenzioni ferroviarie e della Regìa cointeressata.
L'Austria è tabou, sacra, inviolabile come il nome di Dio. Depretis
non soffre nè al Parlamento, nè al Senato l'allusione anche più
innocua alla «nazione amica». I senatori Vitelleschi e Pantaleoni
accusano, nella tornata del 20 Gennaio 1879, come un'umiliazione,
come una minaccia al politico avvenire della patria, la manifesta
concupiscenza dell'Austria su la Bosnia e l'Erzegovina. Ma Depretis
non vede che l'irredentismo, non vede che Garibaldi, non vede che la
democrazia repubblicana raccolta in armi su la frontiera orientale,
e stride che «il governo reprimerà colla più grande energia ogni
moto che turbi i buoni rapporti fra i due governi».
La democrazia raccoglie la sfida ed al Congresso della Lega dei
Diritti dell'Uomo in Roma, il 21 aprile dello stesso anno 1879,
Garibaldi, Canzio, Alberto Mario, Cavallotti, Carducci, Pantano,
Nathan, Aporti – tutti repubblicani... allora, e dei più accesi – si
propongono di «armare la nazione perchè sia pronta a strappare
all'Austria le provincie irredente» ed il Congresso avanti di
sciogliersi acclama al saluto che Matteo Renato Imbriani manda ai
fratelli dell'Italia irredenta.
L'Italia regia è in quei giorni al palazzo Caffarelli; Umberto
gallonato in una teutonica livrea, mentre Margherita balla cogli
ulani, ed Adelaide Ristori dice un augurio orribile del marchese
Anselmo Guerrieri Gonzaga all'unione della nuova Roma col vecchio e
glorioso impero.
Pretesto alla manifestazione vassalla il Congresso archeologico.
Ma l'indomani, il 22 Aprile, si fonda in Roma, auspice Garibaldi, la
Lega della Democrazia Italiana, ed il generale Avezzana ed Aurelio
Saffi hanno mandato di disporre l'opinione popolare a favore delle
provincie irredente, e l'appello di Gorizia che alla gioventù
italiana raccomanda: «Fatevi forti, esercitatevi alle armi! giacchè
una fatalità pesa ancora su l'umana famiglia. Inutile sperare
giustizia se non dalla carabina!» è salutato da un'ovazione che dura
mezz'ora.
* * *
Fremono a Vienna, tremano a Roma.
A Vienna. uno studio del colonnello Haymerle «Italicae Res» (Cose
d'Italia) diffuso a migliaia di copie, conchiude alla necessità
della guerra ed all'invasione militare del Veneto. Al Quirinale la
paura domina lo sdegno. Villa, ministro degli interni, visita il
Generale Garibaldi persuadendolo si e no ad allontanarsi da Roma.
L'imbarca difatti il domani per Caprera.
Versando olio su la fiamma viva; perchè due settimane di poi Canzio
in un ordine del giorno ai Carabinieri Genovesi, rispondeva
egualmente a Vienna ed a Roma: «finchè l'Austria ha in Italia Trento
e Trieste, l'Italia non è compiuta: il giuramento che venti anni di
battaglie attestano immutabile sia la risposta ai vanti con cui il
nemico illude sè stesso; e sia risposta di sangue».
Il Generale Canzio è suggellato nelle Carceri di S. Andrea, ma ai
funerali di Avezzana in Roma, il popolo prende la sua rivincila. I
carabinieri che vogliono sequestrare la bandiera di Trieste,
atterrati, battuti, malconci, sono costretti a ritirarsi, e la
manifestazione assume tale calore d'entusiasmo, tanta unanime
imponenza, che il governo è sull'orlo dell'abisso. La «Newe Freie
Press» ghignava, Cecco Beppo ordinava le grandi manovre austriache
nel Trentino, Cairoli chiamava da Londra il generale Menabrea, da
Verona il generalo Pianell per avvisare al da farsi.
E la conclusione finale è sempre la stessa, la stessa agli
irredentisti di dentro, che Cecco Beppo ed i suoi proconsoli
servivano agli irredenti dell'Istria e del Trentino; nerbate, ferri,
galera: oltre la bava dei parrucconi e dei venduti.
Il deputato Marselli nella tornata dell'11 Marzo 1880 voleva dal
governo «dichiarazioni recise ed atti vigorosi a dissipare ogni
dubbio ed ogni incertezza; chè se così non facesse, la politica
estera del governo sarebbe troppo severamente giudicata oltr'alpe
dalle diverse potenze, perchè Trento e Trieste sarebbero sembrate a
tutte un pegno ed una promessa ad altre rivendicazioni, ed avrebbero
fatto perdere all'Italia non l'amicizia dell'Austria solamente, ma
quella degli altri stati».
Il domani (12 Marzo 1880) Emilio Visconti Venosta, rimproverando il
governo che non ha saputo reprimere le dimostrazioni di piazza, gli
chiede che cosa pensi delle associazioni per l'Italia irredenta, che
hanno statuti e comitati segreti, con aperto proposito di ostilità
all'Austria, mentre costituiscono un grave pericolo all'interna
sicurezza dello Stato.
E nella stessa seduta il Crispi riconosceva la necessità dell'impero
austro-ungarico che ci teneva a giusta distanza da potenze che ci
sono amiche, ma debbono esserci nemiche, come altra volta ci furono
alleate... E Benedetto Cairoli, ministro degli Esteri, ripeteva che
«il governo sarebbe stato inesorabile nel colpire gli atti o la
preparazione degli atti lesivi delle relazioni internazionali; che
il governo riprovava i criminali tentativi, pur certo che sarebbero
stati sempre inani perchè condannati dal pubblico buon senso...».
Notate bene, nessuno voleva la guerra; ma, come osservava Giovanni
Bovio coll'acume, la misura e l'eloquenza consuete, «nessuno doveva
dimenticare l'integrità del diritto nazionale, anzi affermare questo
diritto in attesa che il tempo e le sorti d'Europa ne permettessero
la realizzazione».
E il Bovio si doleva appunto che «fra le proteste di riguardo e
d'amicizia all'Austria, la Camera non avesse pensato nemmeno a farne
la semplice riserva, doverosa; perchè quei popoli sono nostri, ci
guardano con grande amore, non debbono credersi negletti, o
abbandonati, o rinnegati da noi...».
* * *
Garibaldi, ricevendo a Caprera nel novembre i delegati di Trento, i
quali gli ricordavano che nelle sue mani era sempre la bandiera
offertagli nel 1860 dalle donne tridentine, ribadiva: «Possono
dimenticarvi loro, moderati e preti, non io, non noi; a chiunque
batte in petto un cuore italiano la vostra causa è sempre presente».
Al Quirinale d'italiano non v'è nulla, nè il sangue, nè il cuore è
tutto austriaco. Così mentre la coscienza popolare riaffermava
diuturna l'integrità del diritto nazionale e ne fremeva la
rivendicazione, Umberto e Margherita di Savoia, mezzani degni il
Robilant ed il Mancini, a sconfessarle, a rinnegarle, ad umiliarne
l'abjura contrita e la definitiva rinunzia al cospetto e nelle mani
di Francesco Giuseppe d'Ausburgo, organizzavano l'espiatorio
pellegrinaggio ad Ischl.
Nell'agosto del 1881 i giornali viennesi annunziavano, con mal
celato compiacimento, che i sovrani d'Italia. avevano chiesto di
poter rendere personalmente l'omaggio della loro fedeltà ed amicizia
al vecchio imperatore, il quale aveva di gran cuore assentito.
Il 26 dello stesso agosto, Umberto e Margherita partirono da Monza,
arrivando la sera del 27 successivo a Vienna, accolti fraternamente
da Francesco Giuseppe, che al re d'Italia consegnò il brevetto di
colonnello degni ulani.
«La visita – scrive un annalista regio – fu variamente commentata
dai giornali d'oltralpe, ma vista di buon occhio in Austria perchè
portava con sè la rinuncia a qualsiasi pretesa sulle provincie
chiamate irredente».
A Roma il questore Serrao strozzava su l'ara di Mentana la voce di
Raffaello Giovagnoli e di Ricciotti Garibaldi che, rinnegando i
colonnelli austriaci, mandavano il saluto ai fratelli di Trento e di
Trieste.
* * *
Il contrasto s'accende più acre, culmina nelle tragedie del 1882.
Il 20 maggio si firma il trattato della Triplice alleanza, e
cominciano gli armamenti imposti dalla Germania.
Non per le rivendicazioni del diritto nazionale! «Considerata nelle
relazioni fra l'Italia e l'Austria – scrive lo stesso annalista
regio – la Triplice alleanza ebbe per fondamento, come era cosa
agevolissima il supporre, la rinunzia da parte dell'Italia ad ogni
velleità d'irredentismo».
L'irrisione assumeva tutti i caratteri della sfida; e la sfida
veniva raccolta.
Il 2 Agosto 1882 nel corteo che salutava a Trieste l'Arciduca Carlo
Ludovico, venuto ad inaugurarvi l'esposizione agricola ed
industriale, scoppiò una bomba seminando il terrore e la morte.
Il 17 del successivo Settembre dovevano a Trieste venire
l'Imperatore, l'Imperatrice, gli Arciduchi.
Il 16, la vigilia, Guglielmo Oberdank partiva insieme col Ragusa36
da Udine, in vettura, per la via di Gradisca. Avanti di giungere
alla frontiera vollero scendere avvertendo il cocchiere che,
desiderando sgranchirsi, volevano passarla a piedi. Proseguisse: più
innanzi sarebbero rimontati.
Il cocchiere insospettito ne avvisò i gendarmi di Viscone, ed a
Ronchi, sulla strada di Aquileja, mentre Oberdank e Ragusa stavano
mutando i panni nella camera di un albergo modestissimo,
sopraggiunsero i gendarmi. Oberdank mise mano subito alla rivoltella
e mancatogli il colpo s'avventò sul gendarme, e ne avrebbe avuto
ragione probabilmente se non fossero corsi i villani dalla borgata
che aiutarono ad ammanettarlo, ed a percuoterlo poi.
Portato a Montefalcone ed a Trieste, Guglielmo Oberdank non nascose
il suo proposito: voleva far la pelle all'Imperatore degli
impiccati, e si doleva che la fortuna non fosse stata uguale alla
fermezza delle intenzioni.
Ragusa potè attingere la frontiera, tornare in Italia, dove fu
arrestato a Prato dalla polizia italiana d'accordo colla polizia
austriaca,
Oberdank, condannato a morte per alto tradimento – egli era
triestino e suddito austriaco – non volle grazia, negò alla madre il
diritto di chiederla per lui, e fu impiccato il 20 dicembre del 1882
all'alba.
Oggi ne rialzano gli altari!
Ma all'indomani dell'attentato, ad opera del governo italiano, i
complici di Oberdank, Ragusa e Giordani erano deferiti per
assassinio alla Corte d'assise di Udine, i tribunali italiani
condannavano senza pietà chiunque maledisse All'Austria ed a
Francesco Giuseppe, ed al Parlamento italiano nella seduta del 13
Marzo 1883 Pasquale Stanislao Mancini bollava l'irredentismo come
«infame tradimento della patria».
Massimiliano Harden, che era a quei tempi il confidente del principe
di Bismark, ammoniva l'Italia a «non dimenticare che Trieste è un
antico porto dell'Impero Germanico; che dato il caso dovesse la Casa
d'Ausburgo per avverse circostanze a cedere quandochessia questo
importante baluardo, la Germania si adoprerebbe con tutti i mezzi
perchè fosse conservato all'Impero».
E conchiudeva: «Chi osasse toccare questo possedimento
importantissimo troverebbe a fianco delle batterie austriache le
bocche da fuoco tedesche. In questo campo nessun compromesso è
tollerabile. E così dicasi di Trento».
* * *
Poi?
Poi Francesco Giuseppe che nei patti della Triplice volle categorica
la rinunzia dell'Italia a Trento ed a Trieste, non restituì mai la
visita ai sovrani d'Italia in Roma non volendo ravvisarvi,
rifiutando di riconoscervi la capitale del regno, o di sancirvi la
detronizzazione temporale del papa.
Poi... l'ideale repubblicano si attenua man mano che la repubblica
appare più probabile e rassicurante; poi la democrazia diviene a
poco a poco l'unica maschera della nuova e più scaltra borghesia
industriale; e la tragedia non ricorre altro. Non è più che la
persecuzione tignosa, l'oltraggio banale e quotidiano, la croata
bestialità impenitente della polizia imperiale, non è più che il
martirio lento e consueto d'ogni mente, d'ogni cuore che in Austria
si tradisca italiano.
Infamia! oh, senza riserve; infamia che può aver riscontro soltanto
nell'infamia e nella viltà dei re nostri, dei governanti nostri che
ai giannizzeri ed al boia imperiale hanno tenuto il sacco fino a
ieri, e lo tengono oggi, e lo terranno domani se la tormenta non ne
spazzi via le complicità e l'onta.
Ma se per l'irredentismo re e governanti e dirigenti non ebbero mai
che maledizioni, dileggi e torture, non è dabbenaggine il credere
che dalla grazia siamo stati improvvisamente toccati, e che la
guerra abbiamo sferrato per placare l'anelito – sfiorito da un
pezzo, ahimè! sotto le brine di più vasta e più dolorosa esperienza
– delle integrali rivendicazioni del diritto nazionale?
Ed è calamità irreparabile la dabbenaggine quando consente alle
odierne carneficine paradossali.
Cercatelo altrove, oltre la legge e la bandiera, l'orgoglio della
stirpe; cercatele altrove, oltre le bastarde rivendicazioni
nazionali, le ragioni della guerra: cercatele nella sociale
necessità della vostra servitù economica, della vostra dipendenza
politica, dal vostro vassallaggio morale, dal vostro mentale
squallore, senza dei quali non troverebbero il privilegio ed il
monopolio nè il fondamento, nè la ragione, nè la sanzione.
Cercate altrove! Potrete trovare miglior consiglio e miglior via.
(20 gennaio 1917).
Ed ora, tocca a noi
L'ORA NOSTRA
Fino ad oggi, della guerra, del compito e delle responsabilità che
ai libertarii assegna, dell'atteggiamento che ad essi consiglia od
impone, abbiamo giudicato da un punto di vista, diremo così,
accademico, agevolmente sereno e spassionato.
Si è trattato fino a ieri di funzioni e di responsabilità
sporadiche, indirette piuttosto che personali; della responsabilità
e dell'atteggiamento dei compagni sorpresi nella zona della guerra,
prigionieri dei governi delle classi dominanti che la guerra hanno
voluto, scatenato, e delle masse fanatiche o pusillanimi che l'hanno
consentita; costretti al compito sovrumano di fronteggiare la
soverchiante condizione delle cose con forze inadeguate ed ancora
più inadeguata preparazione.
Così sopraffatti, da non saper più vedere ed ancora meno osare
quello che pure era manifesto e possibile: mentre a noi, fuori del
turbine delle passioni, franchi da ogni minaccia, una relativa
indipendenza, una certa libertà d'azione era consentita e facile.
Ora che prevedibile, preveduta, la partecipazione degli Stati Uniti
alla grande guerra precipita, e se non nella realtà immediata degli
scontri sanguinosi si tradurrà colla reazione governativa e coi
furori popolari nelle stesse ipoteche, nelle stesse insidie, nella
minaccia aperta, nelle stesse atroci sanzioni che nel vecchio
continente – uguali e precise andranno di giorno in giorno
delineandosi le responsabilità nostre, la necessità dell'azione che
senza temerarie pretese ci sarebbe piaciuto che fossero state
assunte dai nostri compagni d'oltre mare; e che sono mancate.
Nessuno può, senza viltà, ignorarle o ripudiarle; e nessuno lo pensa
qui dove la critica, a volta accesa ed aspra dei pregiudizii e dei
metodi avversarii, ama integrarsi di propositi, di considerazioni,
d'azione meglio esperta, più razionale e più spregiudicata.
Criticare gli altri, sogghignare degli espedienti o delle remissioni
con cui eludono la realtà in luogo di affrontarla, e poi fare noi
stessi quanto negli altri abbiamo lamentato e deplorato, indulgere
nelle stesse rassegnazioni, imboscarsi negli stessi spedienti,
sarebbe tale e così miserabile condanna, tale stigma di gagliofferia
e d'impotenza, a cui si ribellerebbero certo sdegnati il pensiero e
la coscienza, la dignità e l'orgoglio di tutti i compagni.
Sarebbe la liquidazione.
LA GUERRA
Occorre, ad intenderci bene, chiudere fin da ora la bocca ai
pretesti comodi, ai sofismi poltroni, ed alle distinzioni scaltrite.
La guerra degli Stati Uniti contro la Germania non ha cause nè
giustificazioni diverse da quella che infuria da trenta mesi sui
vecchi continenti.
Finchè i milioni, i miliardi si imbastivano qui senza rischio,
alimentando laggiù il massacro colle esportazioni paradossali e
fruttifere, l'America, chiuso il tempio di Giano, non ebbe altra
religione che della pace: e la pace non ebbe mai sacerdoti più
ardenti che J. P. Morgan, John D. Rockefeller, Woodrow Wilson,
l'avida canea di pubblicani e di barattieri che alle sue mammelle
incessante ha poppato il dividendo assiduo ed il miliardo insperato.
Ma quando il Canadà, l'Inghilterra, la Francia. e la Russia strette
dalla necessità hanno incominciato nell'ambito dei proprii confini
l'organizzazione del loro fabbisogno guerresco, emancipandosi dalle
sistematiche estorsioni di questi vampiri; e contro le esportazioni
dello strettamente indispensabile avventò il Kaiser la minaccia
estrema delle inesorate piraterie sottomarine, l'inno alla pace è
finito nel peana truculento, la colomba dell'arca nell'avvoltoio
famelico e la pace di casa d'altri nella guerra di casa propria.
Perchè la guerra soltanto può salvare la Borsa ed i borsaioli dalle
subite depressioni rovinose, continuare la cuccagna degli armatori e
dei fornitori, accentuare l'alto costo della vita, su cui ingrassa,
patriotticamente tanto vasta genia di mezzani e di ladri, disperdere
gli oroscopi del millennio, riavvincere al passato, alla chiesa,
alla legge, all'ordine, alla superstizione ed alla domesticità il
proletariato che, intraveduto altro destino, avesse a cercarne per
altre vie la meta radiosa.
Ma appunto perchè la guerra non sa e non può essere se non
l'arrembaggio cinico di lor signori da questa come da quell'altra
spiaggia dell'Atlantico; appunto perchè i lavoratori di questo paese
saranno chiamati a sacrificarsi, a sacrificare sull'ara polluta del
dollaro la vita propria, la vita dei figli, la vita altrettanto
preziosa dei miserabili che oltre la frontiera e la livrea,
affratella la comunanza profonda e rinnovata della storia e delle
sorti, dei dolori e delle speranze uguali e solidali, contro la
guerra bisogna essere qui come laggiù, costi quel che costi, fugati
indugi e compromessi, nella concordia decisiva e spregiudicata di
tutte le energie rivoluzionarie.
Contro la guerra!
PER LA RIVOLUZIONE
Non per la pace, tuttavia.
Se nel cristiano ardore per la pace comunicano Wilson e Morgan,
Gompers e Billy Sunday37 – che voltano gabbana con eguale
disinvoltura, ed acclamano alla guerra non appena le sorgenti della
«prosperità nazionale», della loro prosperità, siano turbate dalla
crociera dei teutonici sottomarini – è chiaro che non v'è posto per
noi nella torbida eucarestia.
E se nelle taglie del Morgan, nei messaggi del Wilson, nelle
prostituzioni del Gompers38, nell'evangelico lenocinio di Billy
Sunday ha. la pace le sue assise, i suoi presidii l'ordine sociale
che se ne bea, è più chiaro ancora: la pace non è che il proposito,
la necessità di mantenere inalterato l'ordine sociale per cui,
abbrutito dalla chiesa, schiavo del capitale, ludibrio dello Stato,
pecora dei mali pastori, il proletariato deve rimanere,
inamovibilmente ed in perpetuo, il cireneo di tutte le croci,
zimbello dell'ignoranza, della servitù, della fame, dell'abbiezione.
E la nostra propaganda, la nostra azione più ancora si propongono,
si ripromettono, se io non erri, proprio il contrario: vogliono
trarre dallo schiavo il libero cittadino della nuova era, affrancato
nelle braccia e nella fronte, nel pane e nell'amore, custodito
all'indipendenza, all'autonomia, da tutte le forze, da tutte le
attività, da tutte le energie spontaneamente consociate a spianare
della natura avversa ogni barriera, ad attingere nella fratellanza e
nella giustizia le forme superiori d'un più nobile divenire.
Non questo?
Ed allora la pace e la guerra non sono che due aspetti, due diversi
momenti dello stesso fenomeno, della stessa preoccupazione: il
proletariato deve coi proprii sudori edificare ai semidei la
ricchezza, l'onnipotenza; deve col proprio sangue, dei suoi
olocausti, presidiarle.
E non v'è scampo che nella rivoluzione.
LA REAZIONE
Una sola grave differenza fra i due momenti.
In tempo di pace, di concorrenza normale, l'antagonismo delle classi
non giunge allo stato acuto se non eccezionalmente. Sicura delle
proprie sorti, felice del godimento incontrastato, pieno dei suoi
privilegi, la borghesia indulge di sistematiche previdenze
legislative e filantropiche all'armento: gli abbandona le briciole
del festino; purchè, rugiada provvida alle sue opulenze, coli il
sudore.
L'armento s'adagia; la protesta delle minoranze, l'esercitazione
rivoluzionaria si conchiudono e si esauriscono nell'enunciazione
teorica dei diritti conculcati, nella critica dottrinale degli
istituti e della morale dominante.
In tempo di guerra, quando la concorrenza assume forme così gravi
che, se non scuote dalle sue basi giuridiche il privilegio, ne
minaccia ne dissecca alle fonti le benedizioni, la borghesia non ha
più altra salvezza che della coercizione, che della reazione: il
tributo dei sudori non le basta più, vuole quello del sangue, lo
esige, lo riscuote, lo profonde senza scrupoli, senza pietà.
Non tutto nè con uguale rassegnazione si adagia l'armento; e
l'esercitazione rivoluzionaria respinta dall'accademia sul lastrico,
è costretta a cimentare la dottrina colla realtà; nella tutela
immediata e nelle pratiche rivendicazioni le sue affermazioni
teoriche a vivere insurrezionalmente l'ora dell'apocalisse tragica e
mille volte annunziata; a viverla ora o non più, ora che scuote le
legioni del nemico l'insidia d'oltre mare, ora che essa ha di noi,
delle nostre rinuncie, delle nostre sommissioni bisogno più acuto e
più urgente, ora che più acerbo è il contrasto; ora che, tacito od
espresso, fioco o temerario, le viene, largo insperatamente, il
consenso degli sfruttati.
Pensiero che s'incarna, proposito che si snoda nell'azione!
L'AZIONE
Quale?
Ogni e qualsiasi forma d'azione accentui l'antagonismo degli
interessi e delle classi che il nuovo conflitto impegna
disegualmente: ogni e qualsiasi forma di azione, individuale o
collettiva, diretta a contenere, a rintuzzare la violenza della
reazione che qui come altrove scoscenderà cieca e furiosa dalla
paura, colla mordacchia, la deportazione, la galera e la forca sugli
indocili che alle complicità fratricide non si rassegnino
criminosamente; ogni e qualsiasi forma d'azione che al proletariato
illumini oltre il cielo torbido delle aberrazioni insane, le vie
dell'avvenire, sospingendovelo gagliardamente per la salvezza
dell'internazionale della rivoluzione del comune destino.
Avremo campo del resto a precisare fin dove l'esame «pubblico»
dell'arduo problema saprà consentire, e il pensiero nostro e quello
dei compagni nostri migliori.
Più modesto il compito di queste battute di preludio che vogliono
semplicemente accusare una grave condizione di fatto insieme con le
responsabilità anche più complesse e più gravi che essa ci assegna,
senza che abbiamo a disperare nè di noi stessi, nè della nostra
fede, nè del nostro domani.
La reazione non è sempre nè tutta infausta. Se avesse, per esempio,
a sfollare un pochino le variopinte fiere sovversive degli
arruffoni, dei sensali, dei ciancioni che le infestano, primi sempre
e soltanto dove sia da gingillarsi di chiacchiere e di sofismi,
scroccando ai gonzi la popolarità ed il baiocchetto – e molti,
statevene tranquilli, molti squaglieranno al primo baleno, rinnegati
od imboscati – non ce ne dorremmo noi di certo; e se ai compagni
bravi, generosi, fervidi, imparasse quello che non possono e non
sanno i decaloghi, le regole, i concilii, ma innesta brutalmente,
irrevocabilmente l'esperienza, imparasse un po' di disciplina,
intendiamo la disciplina, la padronanza e la confidenza di se
stessi, l'aurea discrezione che dal trionfo d'ogni miglior proposito
è inseparabile; ed è nei singoli eccezione rara, e si cercherebbe
indarno nei gruppetti facinorosi o pettegoli od inani in cui ogni
fremito iconoclasta va sommerso dalla disperata vanità delle parole,
non sarebbe ancora benvenuta la reazione? E se lungo la voragine
squarciata dai suoi cicloni, erti avessero a rimanere i tronconi
mozzi delle tempre e delle fedi che non piegò non curvò la sua
violenza, a questi come alle pietre miliari lungo la via romana non
chiederebbero i pellegrini del domani l'animo e gli auspicii alle
ascensioni vittoriose?
Contro il basalto delle energie e delle volontà consapevoli, decise,
costellate dagli stessi odii, dagli stessi amori, dalle stesse
speranze, esercita la reazione le sue livide rabbie indarno.
Non ispaura che farisei ed eunuchi.
Contro la guerra ieri, laggiù, noi siamo oggi contro la guerra, qui,
dove lampeggia gravida degli stessi intrighi e delle stesse
menzogne, avida dello stesso sangue, dello stesso bottino, delle
stesse restaurazioni.
Contro la pace bastarda ieri, laggiù siamo contro la pace oggi, qui,
dovunque consacri privilegio e servitù, disuguaglianza ed iniquità.
Per la rivoluzione ieri, con tutti gli aneliti dell'animo siamo oggi
qui contro la guerra contro la pace, per la rivoluzione sociale,
perchè la rivoluzione soltanto può vittoriosamente operare il
miracolo che fallì all'iddio onnipotente su nell'empireo ed ai suoi
eletti quaggiù: livellare le frontiere della classe e della patria,
e su la terra affrancata riconciliare gli uomini fratelli nell'amore
della vita, benedetta dall'amore e dalla libertà.
La reazione può toglierci qualche brandello di carne – lasciarvene
qualcuno suo pure – imperversare della sua domenicana bestialità
inesausta, questa fede non può soffocare, non mutilarne le speranze,
non spegnerne l'ardore, non procrastinarne le vittorie.
(10 febbraio 1917).
MARIUZZA
A la forca!
Triste privilegio quello di essere vissuto assai, e non indarno; di
avere su la fronte le rughe, nel cuore le ferite, ne la memoria
sanguinanti sempre, il ricordo e lo strazio delle prove superate.
Triste, perchè dove più fervida e più ardente vorrebbe la speranza
raccogliersi, levarsi, librarsi alta e scandere su tutti gli
sconforti l'inno augurale della vittoria, l'onda dell'esperienza
l'avvolge, la travolge acre ed implacata, soffocando gli auspici in
un gemito, in una bestemmia.
Ricordo la sera in cui dalle carceri di Barcellona trassero alle
segrete di Montjuich Francisco Ferrer, circonfuso ancora
dall'unanime voto dei semplici che si ostinavano a sperare
nell'intervento del re, del papa, della massoneria, senz'accorgersi
che era finita, che il pericolo d'ogni intervento liberatore era
fugato, che l'inquisizione brandiva la sua vittima trionfalmente,
che l'annunziatore arrancava su per d'erta, le mani strette nei
ferri, l'ultima tappa del suo calvario.
Contro la speranza ultima dea avventavano realtà e ragione
l'oroscopo dannato, l'estremo, che noi abbiamo raccolto, e nei
fossati di Santa Eulalia si compiva tragicamente quindici giorni di
poi, smarrita, inconsolabile la folla ingenua, impenitente.
Come noi avevamo preveduto...
* * *
È la volta ora di Tom Mooney39.
Squilla da ogni bivacco il coro delle speranze cieche,
irragionevoli: il processo di San Francisco accusa ogni dì più
manifesto l'ordito fraudolento. Non è ombra di verità ne l'accusa;
non è nelle testimonianze a cui si raccomanda neppure il fremito
dello sdegno e dell'orrore che l'attentato del 22 luglio ha,
senz'alcun dubbio, suscitato nelle anime devote all'ordine e gelose
delle sue fortune; non è che studiato, sapientemente premeditato
nella sua struttura generale e nei più minuti particolari un orrendo
trabocchetto reazionario, la rivincita del capitalismo arrovellato
dalla paura e dalla ferocia, ansante alla vendetta inesorata,
esemplare, sui cinque imputati, assurti, al di là delle
responsabilità vere o presunte, a simbolo, della minaccia e
dell'espiazione.
Ed è verissimo, badate bene; non è che la verità semplice e nuda.
L'impudenza degli accusatori, il cinismo dei testimonii
professionali mercenarii, cinti dalla sicurezza di tutta l'impunità,
si tradisce talora scandalosamente; e l'udienza del 6 febbraio tra
le altre, rimarrà del processo di San Francisco episodio memorabile.
L'avvocato difensore Bourke Cochran raccoglie la dichiarazione del
capitano Duncan Matheson della polizia che «nell'interesse della
giustizia si è dovuto passare sopra le leggi per acciuffare gli
imputati, per erigere contro di essi le testimonianze scellerate
dell'Oxman, di Nellie e di Sadie Edeau» e costringere l'istruttoria
nell'ordito dell'agente provocatore Swanson che della turpe
cospirazione ha assunto l'appalto per conto e per le mancie della
«Law and Order», della Merchants and Manufacturers Association: «le
leggi della repubblica, le leggi vostre, le mie, sono state alla
mercè di un poliziotto miserabile che, se le è messe sotto i piedi –
grida l'avv. Cochran sdegnato – ed è un delitto, il solo delitto di
cui si dovrebbe qui giudicare. E vi chieggo l'immediata assolutoria
di tutti gli accusati».
Dell'impressione che lascia nel pubblico, nei giurati, nella Corte
l'energico richiamo dell'avv. Cochran i lettori possono giudicare
dall'ordinanza con cui il Presidente delle Assise Franklin A.
Griffin conchiude pel proseguimento della causa: «Pare a me,
signori, che se ora, impressionato dalle ragioni della difesa io
avessi a chiedere un verdetto alla giuria, se avessi a chiederle od
a persuaderle un verdetto assolutorio – nel momento in cui si
accusano irreconciliabili le testimonianze dello Stato e degli
imputati – io indurrei nella giuria indebitamente il criterio che un
ragionevole dubbio esiste.
«Le vostre ragioni, signor Cochran, mi hanno profondamente
impressionato; e sono certo che saranno argomento di seria
considerazione ai giurati. Ma mi trattiene il pensiero di creare un
antecedente pericoloso e non accolgo la vostra domanda,
assicurandovi però che le vostre ragioni saranno nel riassunto
presentate alla giuria con tutti i riguardi che esse meritano e la
legge consente».
La montatura è dunque così spudorata che lo stesso Presidente della
Corte se ne impressiona profondamente, e vorrebbe smontarla
chiedendo un verdetto assolutorio, immediato, se per l'ora e per le
forme non dovesse uscire dalla rigida neutralità che è del suo
ufficio creando un precedente pericoloso.
* * *
Siamo d'accordo, ed il torto non è certo nel mettere in luce, nel
ribadire ancora una volta che mille Corti – malgrado le ribellioni
di qualche eccezionale coscienza, di qualche insolita fierezza – il
duello delle classi, la guerra a coltello fra chi ha tutto non
avendo prodotto nulla, e chi non ha nulla dopo di aver tutto creato,
assume le forme più acute; che l'innocenza o la colpevolezza sono
criterii estranei, trascurabili e trascurati di ogni giudizio; che
accusatori ed accusati non sono più che gli esponenti della
conservazione o della rivoluzione, i termini dell'eterno antagonismo
che ripudia ogni remissione, non dà e non vuole nè tregua nè
quartiere.
Perchè l'ordine viva, i suoi nemici debbono andare irremissibilmente
dispersi; perchè il capitalismo irradii vittorioso, gli insorti, i
refrattarii debbono rantolare in galera o sulla forca.
Questa la necessità: ad attingerla non è preferenza di mezzi: tutti
sono buoni quando raggiungono la meta.
* * *
Il torto, da parte nostra, è nel perdere la nozione di questa
necessità; di volere, condizione ed anima delle nostre agitazioni e
del loro fervore, il presupposto dell'innocenza misurata su l'auna
del codice penale; il torto più grave è nel credere, nel concedere
che tra i criterii di conservazione di classe il sentimento possa
prevalere su l'interesse; che l'innocenza possa trovare nei
magistrati, di professione o di vocazione le rivendicazioni e la
tutela; che a placare l'irreconciliabile dissidio, a disarmarne i
millenarii furori bastino le ciancie comizievoli, le suppliche
accattone, le proteste anodine, le parate magnificamente eunuche in
cui si esaurisce il nostro pigro fervore solidale.
Il torto è nell'illudersi che la «Law and Order», la «Merchants and
Manufacturers Association», le «Citizens Alliances» che pullulano
subitanee, forsennate ovunque si accenda un conflitto fra capitale e
lavoro, fra sillabo e libero esame, profondano in pura perdita il
molto danaro che alimenta le loro crociate; che comprino testimonii
e birri, giurati e pennivendoli per vedersi all'ultimo defraudati o
burlati da qualche ironia del sentimento, da qualche indiscrezione
della verità, da qualche aberrazione della giustizia.
Ed il torto in questo caso non si sconta nella Valle di Giosaphat il
giorno del giudizio universale: si sconta qui, subito.
E noi che abbiamo in bell'ordine allineati fatti, testimonianze
ragioni ad avvalorare le illusioni testarde ed il nostro imbecille
ottimismo, ci troviamo dinnanzi allo stringer dei conti Warren
Billings con novantanove anni di galera sul groppone, e Tom Mooney
col laccio al collo, nelle mani del boia.
* * *
Perchè si sono tristemente avverate le nostre previsioni d'or sono
giusto quindici giorni: la giuria dinnanzi alla quale testimonii
imparziali, numerosi, autorevoli, tutti i testimonii che non sono
birri, hanno demolito l'intero edificio dell'accusa; dinnanzi alla
quale Bourke Cochran, con coraggio uguale alla facondia
irresistibile, della trama orrenda ha squarciato ogni maglia;
dinnanzi alla quale lo stesso Presidente delle Assise Franklin A.
Griffin ha dovuto ricordare che intorno alla colpabilità
dell'imputato il dubbio permaneva legittimo, ragionevole; la giuria
perfidamente selezionata e generosamente lubrificata, è tornata
nell'aula dopo sei ore di deliberazioni con un verdetto unanime di
colpabilità senza attenuanti.
La sentenza, al momento in cui scriviamo, non è ancora venuta, verrà
stanotte, verrà domani; ma la normale applicazione della legge al
verdetto non consente che una soluzione: la forca!
La forca, com'era da noi preveduta, com'era del resto prevedibile;
la forca, com'è nelle gloriose tradizioni della repubblica da
Charlestown a Chicago40, la forca quale s'accampa in ogni pagina
delle sue cronache dell'oggi e del domani, se in luogo di affrontare
la realtà nei suoi orrori e nei suoi rischi continueremo a
baloccarci di ciarle pompose, di cavilli poltroni, di miserabili
esclusivismi.
La realtà – se la leghino all'orecchio i tartufi da quell'altro lato
della barricata, che nelle agitazioni indocili piovono all'ora
buona, suadendoci la fede nella giustizia dei pubblici poteri; ed i
tartufi da quest'altro lato che conchiuse nella breve chiesa
accidiosa folgori e salvezza hanno l'anatema frettoloso per gli
iconoclasti e per gli eresiarchi – la realtà è balenata
sinistramente nelle conclusioni del Pubblico Ministero: «Scrivete
nella vostra sentenza la condanna a morte dell'anarchia!».
L'anarchia! l'imputato che non può sperare, che non deve attendersi
dai lupanari dell'ordine nè giustizia, nè remissione. La realtà che
ci serra al bivio implacata:
O frugare dell'imputato ogni pensiero ed ogni gesto; e, dove non
appaia come i santi candido e puro, respingerlo nelle mani dei suoi
carnefici, eroicamente;
O chiedersi invece che se nell'ostaggio ferve lo stesso nostro
anelito generoso, se sia caduto agitando il nostro stesso diritto
accostandolo alla sua realizzazione; ed allora fare come lui,
riafferrare, ove dalle braccia spezzate gli sia caduto, il vessillo
delle comuni rivendicazioni, e, ricalcandone le orme portarlo di
tappa in tappa più avanti, avanti sempre! fino alla liberazione
suprema che sarà gioia e gloria del destino comune.
Di là, o di qua: via di mezzo non c'è.
(17 febbraio 1917).
Sicuro, ora tocca a noi, ma...
INTERMEZZO
«Mariuzza» ha lucidamente riassunto nell'ultimo numero della
«Cronaca» la situazione che la guerra, inevitabile ed imminente,
delinea alle masse immigrate nella grande repubblica da cento patrie
diverse, e particolarmente a noi che non possiamo con nessuna guerra
riconciliarci se non sia la guerra di classe; e ci sentiamo alle
reni quell'altra.
Benone!
Ed ha conchiuso, «Mariuzza», alla necessità dell'azione, dell'azione
rivoluzionaria – quali abbiano ad esserne gli aspetti, l'intensità,
l'estensione o la portata (chè i modi ed i limiti non si
prescrivono, ma debbono essere lasciati alle particolari attitudini
di ciascuno, ed alle condizioni di tempo e di luogo in cui dovranno
esplicarsi – egualmente necessaria a risvegliare nei compagni il
senso della realtà c della responsabilità, ed il coraggio di
affrontarle piene ed intiere; come a salvare il poco che
dell'Internazionale sopravvive, ed i pegni sacri, e molti
dell'avvenire che nel suo grembo s'affidano.
Benone!
* * *
La settimana, le due settimane che dal primo baleno sono trascorse
illustrano di quel richiamo l'opportunità e l'urgenza. Il
proletariato in genere non mostra di sentire la gravità eccezionale
dell'ora che incombe, non mostra neppure d'intenderla e ancora meno
di curarsene. Dove s'arresti a considerarla gli è soltanto per
pigliare un dirizzone: qualche giornale ha dato in questi giorni il
quadro statistico dei forestieri che, dal 1° Febbraio in qua, hanno
chiesto la prima carta di naturalizzazione, e gli italiani sono del
numero preponderante. I giovani che sono scappati d'Italia per non
fare il soldato, corrono a pigliarsi di furia la prima carta di
cittadini per riscuotere l'onore ed il privilegio di essere
coscritti pei primi nelle legioni della Repubblica Americana in
guerra. domani o dopo, su l'Atlantico, al Messico, sul Pacifico o
nelle Filippine, contro il Kaiser o il Mikado, contro Villa o contro
Carranza.
Come se al buon momento non sapessero i consigli di leva che tra
qualche settimana o qualche mese butteranno la rete, andarli a
scovare dove si rintanano, per spicciar ad essi il dilemma che
posero già agli immigrati i governi della repubblica francese o
della monarchia britannica: o fate il soldato con noi, sotto le
nostre bandiere, e la guerra per la vittoria della libertà e della
civiltà che vi ha protetti fin qui; o fate armi e bagaglio pel
vostro paese – a meno che non preferiate la relegazione in qualche
campo trincerato, fra gli scherni ed il digiuno.
Hanno furia di saltare dalla padella nelle bragie, e barattano la
patria da cui sono scappati, per la patria nuova che ne fa carne da
cannone pei macelli dell'ora prossima.
* * *
Tra questa gente c'è da far del lavoro, enorme, improrogabile, e
forse una particolare attivissima azione in questo momento, può dare
ottimi risultati; ma ditemi schietto, voialtri, per agire: contate
su gente siffatta?
Non mi dite che ci sono i partiti affini, le grandi organizzazioni
operaie gialle, rosse, ermafrodite, che, pur essendo cordialmente e
tutte contro la rivoluzione, preferiscono tutte ed egualmente la
ciambella della pace ai rischi della guerra, e verrebbero quindi a
trovarsi accanto a noi, con noi automaticamente, il giorno che
contro la guerra oseremo il gesto decisivo.
Pigliereste una cantonata anche più madornale.
Gli affini... sono gli affini della borghesia, ne avete colto le
mille prove ad ogni incontro, e la guerra ve ne ha dato sul muso
l'ultima, incontrovertibile. Di là dal fosso; e di qui sono anche
peggio.
Le grandi organizzazioni, le gialle, le neutre, le rosse, e me ne
avete offerto voi altri la dimostrazione quotidiana, non vi possono
offrire che quanto reca a ciascuna lo stato d'evoluzione dei suoi
costituenti; e che roba sia lo sapete pure, lo sappiamo noi che con
questa gente dobbiamo spartire tutti i giorni il pane, condito di
fiele e di mortificazioni. E se vi infiammasse tuttavia qualche
speranza ostinata, incollatele su questo cerotto che spacciava
ancora ieri sul mercato un cavadenti delle organizzazioni più
rivoluzionarie: «Noi lascieremo alla classe organizzata di
scegliersi, nel campo politico colla stessa, libertà che nel campo
religioso la propria direttiva; potrà star in casa come andare alla
guerra, alla chiesa come alla pesca, alla taverna come alla
fontana».
Credete vi sia cataplasma. più efficace contro le infiammazioni...
rivoluzionarie?
* * *
Dove vado a cascare?
Che non abbiamo ragione d'agire? Che l'azione essendo corrispettivo
obbligato della reazione, di fronte alla necessità di agire, a noi
non rimane altro scampo che il nunc dimitte! dell'impotenza
incurabile, disperata?
Manco per ombra!
Io arrivo semplicemente a questa conclusione: che accusandosi la
necessità di agire, dobbiamo far conto sulle nostre forze,
esclusivamente.
Anche gli altri vogliono muoversi? eh, si muovano! Muovendosi nella
stessa direttiva dovranno trovarsi fatalmente accanto a noi? E tanto
meglio, ed affari loro; mai noi, su noialtri soli dobbiamo contare.
Non brontolate, che siamo come quelli del Ponte a Rifredi: pochi e
mal d'accordo, perchè la verità è agli antipodi, ed io... io ho
paura che siamo troppi.
Troppi almeno per agire.
Ditelo schietto: non pare anche a voi? Avete mai trovato un confine
tra quelli che sono anarchici e quelli che di esserlo non si sono
mai sognati? Una volta c'era, veramente. Ma poi è venuto il
simpatizzante a colmar quella lacuna, e siamo tutti compagni. Non
scantonate la strada senza imbatterne uno; andate ad una conferenza,
vi tuffate in un comizio, andate alla deriva di una manifestazione
ed i compagni vi stringono, vi pigiano, vi sommergono, unanimi
nell'entusiasmo, nel consenso, negli applausi e nelle maledizioni:
tutti compagni!
Non è un male, tutt'altro. Sotto l'entusiasmo che dilegua fermenta
intorno ad una verità confusa, embrionale, la riflessione; il primo
germe di un'ignorata energia si risveglia che la rugiada e la vanga
de l'esperienza quotidiana avviano alla fioritura, e la discussione,
lo studio gonfiano, e indora il cimento della vita nei chicchi densi
della spiga matura, vittoriosa, accostando ancora una coscienza, una
volontà, una forza al fascio gagliardo.
Così il manipolo si è fatto legione.
Ma in mezzo a noi e un viziaccio, che in questi paesi almeno, ve lo
dico con tanto di core sulla mano, a me in principio ha fatto paura.
Sarà un po' che io vengo da una regione d'Italia in cui la gente
parla poco dei fatti suoi, e dei fatti altrui non vuole intendere,
per cui quando una confidenza si lascia cadere laggiù, laggiù rimane
fra i cinque, i dieci, i cento se occorre, superflua ogni
raccomandazione che oltre non debba straripare.
Ciascuno tiene per sè; e la ragione si deve ricercare forse nel
fatto che quella mia povera gente è ruzzolata lungo il declivio
della storia da una tirannide all'altra, senza una requie mai di
libertà, costretta a chiudersi, a tacere, a difendere la propria
sicurezza e quella delle sue donne coll'armi estreme della
disperazione; a consolarsi, in difetto dell'impossibile giustizia
col nettare dionisiaco della vendetta.
Laggiù è troppo: è di sguardi fuggevoli e di impercettibili segni il
linguaggio della confidenza; la parola, causa di tanti guai, si è
fatta densa, ma pigra ed avara; la mutua espansione che dell'animo
turgido è tanto sollievo, tanta gioia, intristisce fra la diffidenza
e lo scherno. È quasi un supplizio.
Ma qui il rovescio della medaglia è anche più disastroso. Qui, in
mezzo a noi, nessuno tiene niente nel gozzo: è una vergogna.
Fatta qualche eccezione rarissima, quello che sono i compagni ve lo
posso dire io. I più serii, quando abbiano sorpreso per accidente un
proposito... come si dice?... maleducato, od a realizzarlo abbiano
portato, non so, un chiodo od un fiammifero; o di lontano e di
sbieco ne abbiano colto un'eco od un bagliore, corrono a trovarvi
hanno il bisogno di persuadervi che sanno qualche cosa, che sono
«qualcuno» e vi ammiccano, vi piantano le unghie nel bicipite – a
saldare il giuramento che non direte fiato ad anima viva – e vi
bisbigliano all'orecchio la storia tenebrosa della gesta; poi vi
ricacciano un'altra volta le unghie nel bicipite, vi strizzano
l'occhio con un sorriso d'intelligenza, e se ne vanno, impettiti
come un tacchino che fa la ruota, a sbracarsi prima coi compagni,
poi coi simpatizzanti, poi da ultimo con gli amici, finchè il
segreto è quello di Pulcinella, e non lo sanno che due: il popolo ed
il comune.
E vi faccio grazia degli altri, di quelli che scrivono epistole
interminabili, innumerevoli ai compagni remoti; di quelli che a
sera, accanto al fuoco, ne ragionano con la moglie, col suocero,
scatenando orrori, reprobazioni, cicalecci pettegoli che penetrano
dal vicino, che scendono sul marciapiedi, dilagano nel quartiere
così scandalosamente che se la polizia non ci mette la mano nel
colletto a tutti quanti è soltanto perchè è un po' più stupida di
noi. Prima almeno; dopo, oh, dopo, il processo Mooney è lì per
testimoniare che, dopo, la sa più lunga assai.
Non sottolineo perchè non si può, perchè ho vergogna, perchè so che
porterei fiaschi a Montelupo; ma sono sicuro che converrete meco
senza sforzo che in simili condizioni si lavora male, e che a
tendere su coefficienti così dubbii e così fragili il filo della
speranza c'è da vederlo spezzato al primo urto.
* * *
Conchiudo, che mi par tempo.
Agire è condizione quotidiana di vita, di progresso, d'elementare
difesa; sarà la necessità ineluttabile del domani minacciato; ed il
contare su gli altri tornando ingenuo e pericoloso non dobbiamo fare
affidamento che su le forze nostre.
Ma, se all'azione dobbiamo imprimere coraggio, vigore ed intensità;
se in luogo del sussulto accidentale, eccezionale, insolito, il più
delle volte incompreso, dobbiamo darle – condizione assoluta
dell'efficacia, e del successo che ne compensi gli sforzi – la
continuità, il ritmo, la irresistibile armonia delle audacie varie,
ma convergenti con la stessa pertinacia al fine unico e preciso,
bisogna divorziare senza riguardo e senza indugio dai pettegoli e
dai ciarloni.
Noi pretendiamo che la massa dei compagni ritrovi sotto l'infuriare
dell'uragano il senso e la coscienza della propria funzione, delle
proprie responsabilità, e va bene; ma prima delle responsabilità
collettive si affacciano le individuali, e non mostra di averne il
senso e la coscienza il rivoluzionario che per vanità imbecille e
con leggerezza criminosa si abbandona ad indiscrezioni superflue,
pericolose tanto a chi le fa come a chi le riceve, ed imperdonabili
dove colla sicurezza propria travolgano l'altrui, compromettendo, a
tutto ed esclusivo benefizio della reazione, la possibilità, la
serietà, la continuità dell'azione.
Cantano i frati, cantano a mattutino, a vespro ed a compieta: chi ha
senso, volontà e fegato, lavora.
E con gli uomini si sta meglio che non coi frati.
(17 Febbraio 1917).
U' VIDDANU
Quante bagascie a le calcagna di Marte!
La borghesia è sull'orlo del precipizio. La guerra colle sue vicende
tragiche, colle sue convulsioni incoerenti, coi suoi cimenti
assidui, contradditorii, mortali, glie ne ha d'un tratto discoverta
la voragine beante, richiamandola dalle frivolezze epicuree e dagli
sdegni olimpici alla realtà minacciosa ed insidiosa: La guerra non
si fa senza baiocchi e senza soldati; e non è che una fonte a cui
l'oro si attinga, non è che un vivaio a cui si coscrivano i
guerrieri: il proletariato, inesauribile di sudori e di sangue; e
finchè la guerra dura, bisogna mettere da banda corrucci e boria,
bisogna accarezzarne i pastori avidi e le superstizioni annose,
mungendolo, tosandolo intanto senza tregua nè remissione.
Ravvedimento che è maturato su le prime esperienze della guerra nei
paesi che ne portarono e ne portano il peso più grave, così come ne
sostennero l'urto più violento: in Germania ed in Inghilterra.
Dall'Agosto 1914 al Marzo 1915 nei feudi di Guglielmone – dove le
dittature assumono agevolmente rigori iperbolici, e dove per altra
parte nei sindacati operai e nelle organizzazioni socialiste la
guerra ha riscosso immediato, vasto il consenso, impetuosa la
cooperazione – i conflitti fra capitale e lavoro sommarono tuttavia
a cinquantadue, impegnando cinquemila operai all'incirca con una
perdita di quindicimila giornate di lavoro.
In Inghilterra assunsero, nel periodo corrispondente, assai più
minacciose proporzioni: gli scioperi furono 535, impegnarono 406
mila 964 operai, con una perdita di 2.613.000 giornate di lavoro.
Una settimana di sciopero nelle miniere gallesi è costata sette
milioni e mezzo di dollari!
Cifre gravi in ogni tempo, indice di condizioni anche più
inquietanti durante la guerra che la subitanea interruzione, il
profondo turbamento di un ramo qualsiasi della produzione possono
mutare in disastri irreparabili.
* * *
La borghesia di quell'insegnamento ha fatto tesoro; si è persuasa
che il regime del terrore, della guerra in casa, quando tanta ne
imperversa fuori, non è nè saggio nè sicuro; che le transazioni non
sono nè indecorose, nè ripugnanti quando fanno da palo nella vigna
dei profitti; che l'unico mezzo di vincolare il proletariato alle
proprie sorti oggi che le masse sono dovunque organizzate e
disciplinate – è ancora quello di stipulare coi sacerdoti delle
grandi organizzazioni la tregua di dio, accaparrandosene
coll'intrigo, coi compromessi, la fedeltà, solleticandone con acuto
senso pratico l'arrivismo e la boria, issandoli al posto delle
responsabilità maggiori e più pericolose.
In Francia sono «commissarii del governo» gli epigoni del
sindacalismo più acceso, tutti i ciambelloni della Confederazione
Generale del Lavoro; in Inghilterra depositario delle responsabilità
ministeriali più arrischiate è il rappresentante parlamentare
dell'operaismo; in Germania, il segretario della Federazione dei
Sindacati: e di scioperi, nell'ora più tormentosa della vita e delle
vicende della borghesia, nell'ora particolarmente propizia alle
rivendicazioni proletarie più audaci ed alla più promettente delle
vittorie non se ne sono viti più che in via d'eccezione, e nelle
industrie estranee ad ogni giurisdizione sindacale.
La borghesia ha fatto tesoro dell'esperienza, da cui il proletariato
non ha saputo cogliere l'insegnamento.
* * *
Che cosa ha detto il grande sciopero dei minatori del Galles,
proclamato e composto con sollecitudine inusitata nel rapido giro di
una settimana, col pieno assentimento delle Compagnie a tutte le
rivendicazioni affacciate?
O, per togliere un esempio meglio notorio, più vicino a noi nello
spazio e nel tempo, come si spiega che l'Adamson Bill41, maledetto
dal coro infuriato dei grandi quotidiani come estorsione
invereconda, irriso come il più incostituzionale degli arbitrii,
destinato alle esecuzioni sommarie ed alle esequie definitive nelle
catacombe della Suprema Corte Federale, il Dicembre scorso, quando
la guerra era ipotesi lontana, riscuote nel Marzo – quando la guerra
è su le soglie – il consenso delle Compagnie che il 27 Dicembre
inalberavano sfacciatamente il proposito di ignorarlo: il plauso
della grande stampa che lo celebra come un monumento di sapienza
giuridica e di giustizia sociale; la consacrazione ultima della
suprema magistratura dello Stato?
Potrebbe qualcuno obbiettare che, come ogni immediata conquista, non
risolvendosi l'Adamson Bill che in un momentaneo e superficiale
spostamento di interessi, non poteva suscitare se non un'opposizione
di parata da parte delle Compagnie, le quali se ne rivalgono oggi
reclamando dal 15 al 18 per cento d'aumento su le tariffe dei
trasporti.
Ma non sarebbe rispondere: i termini in cui si inquadrava il
contrasto rimangono inalterati: allora nè le Compagnie erano
disposte a concedere, nè la Corte a sancire; la minaccia dello
sciopero era allora come oggidì; oggi questa e quelle si arrendono.
Un solo termine è mutato: l'ambiente politico ostinato nella pace
allora, delirante oggi per la guerra: ed alla prima deduzione di
fatto, mi pare che potrebbe sottoscrivere anche il Signor De la
Palisse. Sulla classe dominate stretta da eccezionali, improrogabili
esigenze, la pressione delle classi asservite si esercita con meno
sforzo e con eccezionale fortuna.
Banale vero? anche un bambino vi arriva, anche il più ottuso dei
servi!
Eppure non v'è modo nè speranza di vedervi giungere gli antesignani
del movimento operaio indigeno. Non Samuele Gompers il quale è pur
costretto a riconoscere che le classi dominanti, che lo Stato, non
contenti di negare al lavoro ed ai suoi diritti ogni tutela, «lo
hanno spogliato sempre d'ogni mezzo di difesa, dei vantaggi, delle
conquiste, delle guarantigie che gli sono costati secoli e secoli di
guerra»; non i socialisti che pur conchiudono, teoricamente, alla
negazione della proprietà e dello Stato: non i sindacalisti che
l'antagonismo millennario delle classi si propongono, teoricamente,
di placare sull'espropriazione della borghesia, nella simultanea
abolizione del padronato e del salariato.
C'è, sì, Eugenio Debs il quale grida che all'andare in guerra e
spianare le armi contro i diseredati d'oltre mare e d'oltre
frontiera preferisce di passare pel pelottone d'esecuzione; ma
Eugenio Debs è vecchio, è un fucile a pietra, un ingenuo che si
compatisce, e le sue maledizioni sincere alla guerra, i suoi
aforismi che «in ogni e qualsiasi guerra il proletariato ha tutto da
perdere e nulla da guadagnare, mentre il capitalismo ha tutto da
guadagnare e nulla da perdere»42 s'abbattono, vox clamantis in
deserto, al cinico positivismo ed all'arrivismo mal contenuto dei
giovani, che vedono in ogni grande arrembaggio il sacco, ed al
traguardo la sinecura e la prebenda, i Meyer London, gli Upton
Sinclair, Charles Edward Russell, William H. Stoddard, J. G. Phelps
Stickey, gli uomini più autorevoli del partito socialista indigeno,
che della loro adesione hanno avvallato la politica dei filibustieri
di Wall Street, e si schierano per la politica e per la guerra, a
fianco del presidente Wilson43.
Così vi sono nella sparuta falange sindacalista – oltre i farisei
del sinedrio che sono tutti per la guerra collo stesso accanimento
con cui contro la guerra scrivono, legando l'asino dove vuole il
padrone per non vedergli mancare la quotidiana razione di biada – vi
sono i semplici, gli umili, tutta fede e sincerità, che della
guerra, dopo le ultime prove e gli ultimi disinganni amari
sopratutto, hanno l'orrore sacrosanto; ma dai concilii arruffoni e
poltroni il bromuro è somministrato a dosi violente44: per carità
non v'arroventate, non perdete il lume della ragione! La guerra
sarà, non abbiamo noi i mezzi di prevenirla, statevene alla cuccia,
lasciatela passare custodendo l'organizzazione in modo che, passato
l'uragano, possiamo farci belli del sole di Luglio cogliendo la
spiga che dall'una parte e dall'altra, i fanatici che vogliono la
guerra ed i fanatici che la contrastano, scontando della libertà e
della vita il diverso delirio, avranno del loro sangue nutrito.
Se l'uragano sarà di sangue, sarà di lacrime, se ne allagherà la
terra; se vi devasterà, se vi sradicherà ogni speranza, ed ogni
fede, se dell'immensa rovina avrà intorno al privilegio rinnovato i
baluardi, non vi turbate! statevene alla cuccia, vigilate la santa
bottega!
Disse qualcuno che nella leggenda del Nazareno la figura più losca
non è quella di Giuda del Cheriot, che l'adombra della suprema viltà
Ponzio Pilato.
Non so, ma il proconsole di Tiberio in Giudea può tornare; troverà
fra i sindacalisti nostrani, in luogo degli sdegni e del bando di
Caligola, l'investitura di organizzatore nazionale dell'Industrial
Workers of the World.
* * *
In parola, meglio Giuda!
È turpe, osceno, spregevole, ripugnante come tutti i ruffiani, che
prima dell'armento vendono sè stessi; ma ha una faccia sola, e ve la
mostra impudico, brandendo nella mano grifagna i trenta scicli del
mercimonio che senza vergogna ha pattuito al sole.
Pudore, libertà, insurrezione, emancipazione del proletariato?
Ubbìe, roba che non si mangia, non ha corso sul mercato, non si
sconta in borsa; si sconta soltanto coi digiuni, in galera.
Samuele Gompers vuole palanche; sui campi insanguinati della guerra
continentale ha raccolto il grimaldello di una esperienza che mette
a profitto:
«Una volta, passi! il proletariato non aveva voce nel capitolo che
delle paci e delle guerre decide; al primo grido: la patria è in
pericolo! era autocraticamente sacrificato.
«La guerra europea ha ora messo in luce che i governi debbano far
conto su la massa dei lavoratori; e se i lavoratori debbono dar la
pelle alle classi dominanti, debbono sapere anche ed hanno il
diritto di dire a quali condizioni sono disposti ad offrirla.
«Ebbene io, noi, l'American Federation of Labor in rappresentanza
dei suoi tre milioni di organizzati, affermiamo che le condizioni ed
i salarii del lavoro, così negli stabilimenti governativi come
dovunque debbono essere conformi al principio del benessere e della
giustizia.
«La giustizia industriale è diritto di quanti vivono in questo
paese, diritto che porta seco inseparabilmente il dovere di assumere
in tempo di guerra la difesa della repubblica contro i suoi nemici.
«Dateci migliori salvaguardie e guarantigie, e noi vi daremo la
pelle.
«Anzi, poichè non si può disconoscere che certe industrie della
guerra richiedono specialissime attitudini, fate una cosa: teneteci
a quei posti, ed alla guerra» – Gompers non ha più neanche l'obbligo
di dirlo – «alla guerra mandateci gli altri. Ce n'è tanti!
«A questo patto noi offriamo alla patria, in ogni campo d'attività,
in servizio, in difesa, a presidio della repubblica contro i suoi
nemici; quali che siano, i nostri servigi, ed invochiamo dai nostri
fratelli e compatriotti che nel nome del lavoro, della libertà,
dell'umanità diano devotamente, patriotticamente eguale
servizio!»45.
Offerta così, contro il nominale diritto ad una maggiore giustizia,
ipotetica e lontana, la pellaccia effettiva di tre milioni di
schiavi – l'organizzazione ha così esclusivo il monopolio di queste
prostituzioni in massa che non pare nata ad altro – Samuele Gompers,
nel nome dell'American Federation of Labor, è entrato a far parte
del Supremo Consiglio della Difesa Nazionale, ed il ministro
Wilson46 ha potuto comunicare ieri ai giornali che «edotto dalle
recenti esperienze dell'Inghilterra, il governo degli Stati Uniti ha
provveduto che se dovrà la nazione prendere attiva parte nel
conflitto europeo nè sarà turbata dalle insurrezioni del lavoro, nè
mancherà mai della mano d'opera tecnica, indispensabile alle
esigenze della situazione».47
Tutti per la guerra dunque, anche qui!
Tutti! dai socialisti che – salve le eccezioni rare e venerande –
relegato sul solaio Marx e la lotta di classe, vi si avventano nella
speranza di saccheggiarvi l'agognata compartecipazione ai pubblici
poteri colla borghesia, rassicurata dal loro lealismo; dai
sindacalisti che – salve sempre le ingenue e preziose eccezioni – le
spianano la via di connivenze sciagurate, nella squallida speranza
di salvare il grottesco feticcio dell'ipotetica organizzazione;
dall'American Federation of Labor che contro la guerra potrebbe
vittoriosamente levare tre milioni di servi alla riscossa, e li
precipita nella voragine ostia ed arra delle fortune di lor signori;
giù, giù fino al Cardinale O' Connel che ripudiati i comandamenti di
Dio e della chiesa, ripudiato l'evangelico: tu non ucciderai! vuole
di ogni tempio della fede baluardi e torri alla sicurezza, alla
gloria, alla vittoria della repubblica48; giù, giù fino a Bourke
Cochran che assicura il presidente Wilson, le bande trustaiole di
Wall Street e del Congresso – di cui pur conosce gesta e rapine che
possono contare su l'appoggio e la cooperazione di tutti i
cattolici49.
Tutti!
Quante, quante bagascie su le calcagna di Marte, nell'attesa d'una
carezza, d'uno sguardo, d'un sorriso, d'una palanca, d'una cicca!
Quante bagascie!
* * *
E contro la guerra nessuno?
Contro la guerra – e noi ci auguriamo, e speriamo, senza defezioni,
neppure singolari, neppure eccezionali – gli anarchici! Fragile,
schermo contro la marea lutulenta, urlante tutte le viltà e tutte le
libidini! fragile schermo a contenerla se dovessero contare su le
loro sole energie pur conserte nell'estrema ragione che l'esperienza
della lotta dà agli audaci, soli nel turbine, con la loro fede, il
loro coraggio e la loro forza; se non soccorresse luminosa ad essi
la speranza che a dispetto dei mercimonii inverecondi e dei
fraudolenti raggiri dei mali pastori, e della ragna tenace, fitta di
menzogne e di miraggi di cui hanno traviato sapientemente il suo
giudizio, onesto, il suo semplice fervore – il proletariato
ritroverà nelle esperienze antiche e recenti di cui sanguina la sua
croce l'improvvisa, miracolosa rivelazione della propria forza
l'attesa vigilia a cingerne il proprio diritto all'irrecusabile
vittoria.
Vapora dal sangue delle grandi tragedie della storia l'anelito della
palingenesi, dalle ceneri dei roghi, nella notte chiusa alla fiamma
di ogni speranza il miracolo della risurrezione; e sarebbe allora il
vespro inesorato: negrieri e mezzani, traditori e rinnegati non
troverebbero rifugio nè scampo dinnanzi al ciclone infuriato delle
collere plebee; ma se dalla bara dell'abbiezione irrevocabile non
avesse Lazzaro a sorgere, cingeranno dell'estrema prova il cilicio,
gli anarchici, sereni, sicuri che è sacro alle aurore del trionfo
l'ideale di verità e di libertà che si aureola del sacrifizio.
E saranno al loro posto!
(31 marzo 1917).
Per S. M. il dollaro, a la riscossa!
Tanto tuonò che piovve! la guerra, che nessuno credeva possibile un
mese addietro, ci è oggi sulle spalle. Vi credeva meno che tutti il
proletariato; e fino ad un certo punto si spiega: al proletariato il
torbido recondito meccanismo degli interessi essenziali e
fondamentali dell'ordine dimora impenetrato; ne dimorano sacri ed
insospettati i simboli.
Così quando sui cartelloni degli ultimi comizii elettorali, cinto
dell'aureola come i santi, come Sant'Ignazio o come San Luigi,
Woodrow Wilson appariva ai lavoratori d'America il salvatore che
«lontani, estranei alla guerra aveva tenuto noi ed i nostri» il
proletariato, benediva, versando nell'urna il suffragio della
propria riconoscenza ingenua: Wilson aveva detto che della guerra
non voleva, che, voleva ad ogni costo la pace, che «troppo fiero per
battersi» avrebbe saputo resistere alle lusinghe ed alle minaccie
dell'una e dell'altra parte belligerante. Perchè avrebbe dubitato
della parola di lui il proletariato? Come il papa, come i re, come
gli imperatori, il presidente non deve mancare, non manca mai alla
fede; e quando Wilson dice che vuole la pace, pace e non guerra ha
da essere. Dove andrebbe altrimenti la religione dei simboli e dei
numi?
Perchè poi avrebbe dovuto la guerra scoscendere? si domandavano i
lavoratori che in tutte le grandi vicende e tragedie della storia –
oscure ed ignorate le incoercibili forze dell'interesse – vogliono
la ragione del sentimento e non cercano che quella: la grandezza
della patria esuberante a Massaua e ad Abba Carima; a Tripoli ed a
Cirene la riconquista delle romane provincie smarrite; nel conflitto
europeo il duello della civiltà e della barbarie, e nella
partecipazione dell'Italia alla grande guerra la redenzione di
Trento e di Trieste?
Perchè avrebbe dovuto andare in guerra l'America? perchè sarebbe
uscita dalla provvida neutralità in cui la custodiva il presidente
Wilson così rigidamente?
Se avesse guardato ai bollettini del mercato, della borsa, delle
importazioni, e sovratutto delle esportazioni, alla spettacolosa
risurrezione d'industrie paralitiche e di valori sfiduciati, se
avesse dato uno sguardo di quando in quando al «Wall Street
Journal», si sarebbe accorto che la neutralità era maschera ipocrita
di rapine paradossali, che le sorti della pace erano sospese al filo
tenue dei profitti; e che il sentimento c'entrava giusto giusto come
il diavolo nel suscipiat.
Qualcuno ha ricordato da queste colonne come le azioni della
Bethlehem Steel Trust salissero da diciotto a seicento dollari nel
giro di pochi mesi, i profitti enormi che tutte le grandi
corporazioni industriali hanno falciato nei due anni della guerra,
ed in grazia della guerra soltanto. Bisogna guardare alle industrie
collaterali, all'industria del rame ad esempio, che in questo paese
era intisichita, ed ha l'anno scorso raggiunta una produzione di due
miliardi e trecento milioni di libbre – con un aumento del 41 per
cento su la produzione ordinaria – di cui un miliardo e 733 milioni
di libbre sono state vendute agli alleati ad un prezzo che da
quarantaquattro anni non si raggiungeva, a 37 soldi la libbra!
Bisogna guardare ai dividendi ripartiti nell'ultimo quartale dalla
Flint Cotton Mill, o dalla Borden Mfg. Co. di Fall River, che non
superarono mai l'uno e mezzo per cento, e sono oggi del cinque!
bisogna guardare alla produzione della lana, il cui raccolto è
accaparrato – nel Montana, ad esempio – per lunghi anni, ad un
prezzo inaudito che va dai quarantadue ai quarantasette soldi la
libbra! non dimenticando mai che questa produzione enorme,
eccezionale ha pigliato le vie dell'Atlantico e del Pacifico, si è
rovesciata sui mercati europei ad armare, a vestire, a nutrire gli
alleati eserciti di Francia, e d'Inghilterra, di Russia e d'Italia,
per comprendere dove accendesse le febbri cotesto amore della pace
che da Wall Street, per tutte le sentine, su fino alla Casa Bianca,
irrigidiva, pur sotto la ceffata sanguinosa d'ogni giorno,
impassibili ostinatamente le cariatidi dell'ordine repubblicano.
Il sentimento? la giustizia? l'onore del paese? l'orgoglio della
bandiera? la sicurezza dei cittadini?
Non hanno trovato nella grande repubblica un'eco, nè uno sdegno dal
dì che insieme col «Lusitania» bandiera e decoro della nazione,
fortune e vite di migliaia di cittadini, ed ogni senso di umanità e
di civiltà, furono nei gorghi dell'Atlantico affogati dalla
teutonica furia imbestialita; nè troverebbero oggi un brivido se
insieme coll'onore della bandiera, su l'oceano sbarrato, non
ammainasse ogni speranza di vendemmia, ogni lusinga di sùbiti
guadagni.
La campagna tedesca dei sottomarini ha peronosporata la vigna:
secondo le cifre insospettabili fornite dal Ministero del Commercio
di Washington l'esportazione dei generi alimentari che nel gennaio
di quest'anno, aveva raggiunto la cifra di 105.000.000 è caduta nel
febbraio successivo a 67.000.000 con una perdita di trentotto
milioni, mentre le esportazioni generali da 613.500.000 sono discese
a 466.500.000 con un minore esito di cento quarantasette milioni nel
rapido giro d'un mese. Marzo chiuderà i proprii bilanci con un
dislivello anche peggiore, con duecento milioni – ad essere discreti
– di minor esportazione, che vogliono dire in fin d'anno due
miliardi e quattrocento milioni di dollari, più, se la paralisi deve
continuare ed aggravarsi.
Non sarebbe il fallimento?
Non dovrebbero i prodotti accaparrati dagli speculatori, dagli
incettatori rovesciarsi – pei generi almeno facilmente deteriorabili
– sul mercato indigeno a prezzi disastrosi, riducendo il costo della
vita, il caro-viveri organizzato con tanta sagacia, con tanta
pazienza ad un limite sproporzionato al livello attinto dai salarii
in questi due anni di eccezionale prosperità?
Ed eccovi perchè Woodrow Wilson che al principio della pace – quando
la pace serviva alle rapine ed alle usure dei pubblicani – è rimasto
fedele sempre, pure se dalla Germania si facesse quotidiano scempio
del decoro della nazione, dell'onore della bandiera, della vita dei
cittadini, freme oggi la guerra che nel sangue e nel sudore dei
cittadini d'America affonda le ventose della piovra capitalista alla
quale i sottomarini del Kaiser hanno strappato violentemente la
preda d'oltremare.
Così la guerra ci è addosso, avida di ogni tributo, curva sotto la
soma delle inasprite miserie, perchè dei nostri petti vorrà dal
Panama al Canadà, lungo la gemina spiaggia, il baluardo alla
cassaforte dei Morgan, dei Rochefeller, degli Armour e degli Schwab;
ci vorrà, sui navigli della repubblica, argonauti a recarne per ogni
lido più lontano le dovizie che restaurino la potenza e la fortuna;
ribadita del comun destino l'inamovibile sciagura; morir di ferro,
morir di fame travolgendo nell'agonia spasmodica ogni civile
diritto, ogni umana speranza della agognata risurrezione.
E, come i gladiatori della Roma imperiale, avviati tra lo squillar
delle tube, lo sventolare delle bandiere, il fremito delle ciurme
briache, al macello, salutando delle spade rutilanti al sole,
l'augusta fronte e la immarcescibile gloria di Cesare: Morituri te
salutant!
La guerra ci è addosso; e negli stati del New York, del Rhode Island
del Maine, dell'Ohio, del Connecticut è incominciato il census of
emergency (censimento straordinario), si sono esplorati cantieri e
fabbriche, soffitte e fondachi a scovare i giovani atti alle armi,
gli anziani di ogni arte, ad accertarne l'origine, l'età, le
convinzioni, comminata la multa di dieci o di cinquanta dollari, a
chiunque neghi risposta condegna al questionario su cui debbono
erigersi i quadri dell'imminente mobilitazione non appena il
«Chamberlain Bill» sul servizio universale obbligatorio sia
diventato legge della nazione provvedendole i diciotto milioni di
difensori che ne debbono vigilare la sicurezza e la grandezza.
E come sul podio, nel Circo, intorno a Cesare divo si affollavano
tribuni e pretoriani, vestali e pontefici, tutti i sacri segni
dell'imperiale potestà, intorno alla repubblica bivaccante fra il
ghetto ed il Campidoglio si stringono Samuele Gompers, il tribuno,
che vede «nell'organizzazione del lavoro la migliore salvaguardia
contro la guerra di dentro e la migliore preparazione alla guerra di
fuori50»; Teodoro Roosevelt, il pretoriano, che la guerra vuole
senza tregua nè mercè51; le dame sfaccendate dei «quattrocento»
ansiose di consolare i malati all'ambulanza per farsi consolare dai
vedovi ufficiali nerboruti fra le trincee discrete; i padri della
chiesa che invocano la guerra nelle aule del Congresso per le preci
del cappellano Henry N. Conden, e la preparano raccogliendo i
guerrieri, «the material available in event of war» (il materiale
disponibile in caso di guerra), come dichiarava il governatore
Hollcomb del Connecticut, che ai preti ha affidato l'incarico del
censo e delle coscrizioni.
Sgualdrine, parassiti, farisei, pubblicani per la guerra, per la
loro guerra, un grido, un anelito, un cuore solo!
Se di qui, a non volerla la guerra abbietta, la guerra loro; a
volere, a sferrare la guerra nostra che il pane assicura
conquistando la terra, che il benessere e la libertà assicura
conquistando su gli sfruttatori la macchina, l'officina, strumento
del loro dominio e patto della nostra servitù e della nostra
vergogna, sapessimo noi ritrovare audacia e concordia uguali, di
tanto strazio, di tanta passione non sanguinerebbe ogni pagina, ogni
giornata della storia.
Ha aperto gli occhi ai musgicchi dello czar il flagello inutile ed
orrendo; chissà non li apra agli iloti della repubblica!
(8 Aprile 1917).
Nulla dies sine linea52!
6 Aprile 1917! una data che rimarrà nella storia: Venerdì scorso
infatti alle tre del mattino, dopo diciotto ore di acerba
discussione, la Camera ed il Senato conchiudevano che uno stato di
guerra esiste tra la Germania e l'America, ed autorizzavano di
conseguenza il presidente Wilson a valersi dell'armata,
dell'esercito, d'ogni altra risorsa della nazione a condurre la
guerra contro l'imperiale governo tedesco fino al suo esito
vittorioso.
E da venerdì siamo in guerra.
Perchè?
I perchè sono tanti che a raccapezzarcisi non è facile. Ciascuno ha
il suo perchè tutto fatto.
Winston Spencer Churchill, che fu già Primo Lord dell'Ammiragliato
britannico, diceva Giovedì in un grande discorso alla Camera dei
Comuni che «l'intervento dell'America nel conflitto europeo è un
segno, è una guarentigia anzi, del divino aiuto alle battaglie che
pel trionfo della cristianità sostengono da trenta mesi le nazioni
alleate».
In Germania dànno dell'intervento americano un perchè meno ideale,
se dobbiamo prestar fede a quello che ne dicono i diarii più
autorevoli. La «Reinische Westfalische Zeitung» scrive che «gli
americani non hanno altro ideale se non di ammucchiar dollari», e
che a travolgerli nella guerra è proprio questo delirio, questa
libidine dell'oro. La «Koelnische Volkis Zeitung», precisa anche
meglio: «L'America ha impegnato così vaste somme di denaro nelle
intraprese antitedesche che i crediti dei suoi Morgan sarebbero in
serio pericolo se la Gran Bretagna avesse a diventar insolvibile.
Per questa ragione, e per questa soltanto, essa dichiara oggi
apertamente la guerra a noi».
Ai giornali tedeschi non bisogna prestar fede soverchia: hanno in
corpo troppa rabbia perchè di sincero passano avere più che... il
dispetto. Meglio d'altra parte non andar a cercare troppo lontano le
ragioni della guerra. L'ultima discussione parlamentare ne ha
scovata ed allineata tutta una collezione, tra cui non abbiamo che a
scegliere. «Per la vittoria della civiltà, della libertà, della
democrazia, contro il feudalismo monarchico della vecchia. Europa»,
vuole la guerra il presidente Wilson. «Per vendicare l'onore e
l'indipendenza della nazione!» la vuole il senatore Hitchcock, uno
dei democratici più competenti di politica internazionale; mentre il
senatore Cabot Lodge, il quale tiene nel campo repubblicano credito
ed autorità corrispondenti, la guerra vuole «ad attingere e ad
assidere la pace del mondo su la libertà più generosa e sulla più
schietta democrazia custodita dalla libera volontà dei popoli contro
il feudalismo dinastico e militare degli Hohenzollern e degli
Ausburgo».
C'è chi ha trovato della guerra cause e fattori più positivi. Il
senatore Norris del Nebraska ha denunciato, levando nell'aula un
casaldiavolo, che la guerra si fa semplicemente per la volontà in
vassallaggio ed a profitto esclusivo delle camarille finanziarie
insaziate, e che allora, invece dei sacri segni della libertà «la
grande repubblica avrebbe fatto meglio ad inquadrare nella sua
bandiera il dollaro», un enorme dollaro d'oro, il simbolo più
schietto della nostra democrazia ventruta ed usuraia.
Il senatore La Follette del Wisconsin ha ripudiato come insincero il
pretesto dell'indipendenza, dell'onore, dei conculcati diritti
dell'America sul mare: «i vostri piroscafi sono stati sequestrati
dagli inglesi in violazione dei trattati internazionali, anche
quando non portavano contrabbando, svaligiato regolarmente il
corriere postale, confiscate lettere, pacchi, valori: minato il Mare
del Nord che leggi e convenzioni vogliono franco al commercio d'ogni
paese.
«Voi non avete sognato mai di marciare contro gli inglesi; allo
scherno con cui si rispondeva alle vostre recriminazioni vi siete
accucciati; ed in quanto a barbarie non vedete, se non quella
tedesca che affonda le vostre navi, a cui attingono gli inglesi la
rinnovata forza della guerra; la barbarie britannica che a morir di
fame condanna vecchi, donne, bambini della Germania esausta, quella,
non la vedete!».
— Voi ci accusate di fare del dollaro la bandiera della nazione e
voi vi inquadrate, simbolo della patria, il Kaiser —, ha risposto al
La Follette il senatore John Sharp Williams del Mississipi.
E allora? Si fa la guerra pel dollaro o per la civiltà?
* * *
Bisognerà cercare la risposta fuori del parlamento, a qualche cifra
che parli per sè, e più sinceramente che non tutti i discorsi dei
senatori e dei deputati.
La Mechanics and Metals National Bank di New York, uno dei più
solidi istituti finanziarii di questo paese crede, modestamente, che
debba essere «matter of importance to every american citizen» il
fatto «that Europe, to finance huge military requirements, is
drawing on its capital and credit at a rate of ten millions of
dollars a day»; nè che sia da trascurare «the opportunity offered
for favorable investment of american capital in foreign security;
nor the opportunity offered forr widening America's influence
financially and commercially»53.
L'altro ieri le Camere hanno approvato l'immediata appropriazione di
duecento quaranta milioni di dollari per l'esercito, 138.241 mila
dollari per la preparazione civile; 62.583.000 a coprire le varie
deficienze; 1.349.000 per le accademie militari; e se aggiungete a
queste somme ottocento cinquanta milioni che la preparazione si è
già ingoiati, tre miliardi di dollari che stanno per essere da un
giorno all'altro sottratti alla nazione per crearvi un primo
esercito d'un paio di milioni di uomini; un centinaio di milioni che
occorrono subito per allestire una flotta di caccia-sottomarini, a
questa conclusione verrete senza sforzo: che se tra le cause da cui
la guerra è stata precipitata, una parte – fosse pure della quinta
ruota del carro – potrebbero avervi la civiltà e l'umanità, una
parte cospicua, preponderante, vi debbono avere avuto pure cotesti
milioni, cotesti miliardi che trasudano con insolita copia da tutte
le fibre, da tutti i muscoli d'ogni rinnovata energia di produzione
e di traffico, dalle casseforti dei pubblicani urgendo il delirio
delle moltiplicazioni fulminee e paradossali che le stragi e le
rovine, il sangue e le lacrime della guerra soltanto possono
fecondare.
La guerra soltanto; e ve lo riconoscono senza un pudore,
cinicamente, gli stessi capitalisti. La Sagamore Mfg. Co. di Fall
River annunziando mercoledì scorso un dividendo del settanta per
cento su l'insperata capitalizzazione di 1.800.000, chiude il
resoconto annuo dell'azienda felicitandosi che il terzo anno della
bella guerra gli abbia assicurato in materia di profitti vendemmie
inusitate: «the largest in the history of the cotton manufacturing
industry in the city»54.
Nel corriere finanziario del «Christian Science Monitor», i profitti
della United States Steel Corporation per l'anno 1916 testè decorso
superano abbondantemente i profitti dei sette anni precedenti presi
insieme, e il dividendo è del 75,4 per cento!
Sono denari, vero? E la stessa cuccagna è di ogni industria, come di
ogni traffico.
Ora, sbarrate d'un subito le vie del mare alla produzione
caratteristica, inseparabile dalla guerra, all'esportazione
dell'acciaio o del cotone, delle munizioni o delle conserve, e la
fonte dei guadagni sarà d'un subito disseccata, amputato il
dividendo, il trust nell'angustia sotto la minaccia del fallimento;
ed a cansare la bancarotta un mezzo solo: rifare su la guerra da
questa parte dell'Atlantico i profitti che i sottomarini tedeschi
contendono su d'altra spiaggia!
* * *
Auri sacra fames! La cupidigia sacrilega dell'oro ha travolto nel
conflitto immane la grande repubblica. Chissà per quanti anni,
chissà con quali risultati! «This will be a war of several years,
and not a short one. It will not be 500.000 men that we will need.
Instead it will be one million men, or perhaps 3.000.000 men»55,
ammoniva il colonnello Beaumont B. Buck al comizio celebratosi al
Common mercoledì scorso sotto gli auspici del municipio di Boston.
Parecchi anni, tre milioni di soldati vogliono dire in linguaggio
volgare, tasse enormi, coscrizione generale, miseria spaventosa,
regime da forca.
Al Congresso si studia una fondamentale revisione del sistema
tributario; allo Stato Maggiore il servizio obbligatorio per tutti i
cittadini si affaccia ineluttabile necessità; ed il regime del
sospetto, della paura, dello spionaggio infuria pei quarantotto
stati dell'Unione. Non si tollera voce discorde: a San Francisco,
Ram Chandra, editore dell'«Hindustan Gadar», è insieme con dodici
compagni arrestato, deferito alle Corti federali per cospirazione,
soltanto perchè della guerra non vuole; a Toledo, Ohio, Scott
Nearing un professore di quella università deve abbandonar la
cattedra ad evitare il linciaggio, perchè della guerra non vuole; a
New York Henry Yager è condannato a sei mesi di carcere per aver
criticato l'atteggiamento di Woodrow Wilson, sacro ed inviolabile
come lo Czar o come il Kaiser; a Boston un cenciaiuolo ebreo è
arrestato, deferito ai tribunali, condannato per sacrilegio: ha
raccolti i suoi cenci, i suoi rottami in una struscita bandiera
raccattata nell'immondezzaio; a Paterson uffici e tipografia
dell'«Era Nuova»56 sono invasi dagli sbirri, sono arrestati i
tipografi colpevoli di aver stampato l'avviso di convocazione d'un
comizio contro da guerra; ed a Boston la settimana scorsa il
district attorney Pelletier denunziava alla Commissione municipale
della sicurezza pubblica l'irrequietezza degli anarchici dei
dintorni invocandone il censo, la vigilanza incessante, le estreme
misure; e se dall'alba è lecito auspicare della giornata quale sorte
sia riserbata alla libertà ed alla civiltà possiamo fin da ora
prevedere. Ieri a Portland, Me., hanno arso in effigie il Rev.
Charles E. Joy della prima chiesa unitaria, perchè ha giudicato
«unrighteous» (ingiusta) la guerra; domani, in piazza, arderanno, e
non più in effigie, quanti leveranno contro il turpe arrembaggio la
protesta civile.
«Se fosse vivo oggi, Cristo sarebbe un cittadino americano!»
sofistica un reverendo dottor Stelzle in una serie d'articoli che
manda in visibilio la beozia americana. Se Cristo, che non è
esistito mai, avesse ad apparire in quest'ora al mondo, nutrito del
vangelo e del coraggio che la leggenda gli presta, darebbe mano al
nerbo con cui cacciò dal tempio i mercanti, tempestando a due mani
sul groppone dei farisei e degli epuloni che contro un pugno di
dollari bisunti si giuocano la fede e il sangue di tanti
disgraziati. E quante vergate pure su la schiena dei servi per cui
si addensa e si attetra l'esperienza indarno; a cui non ha imparato,
non ha detto nulla la tragedia che devasta da trenta mesi la terra;
da cui mietono immutata, inamovibile, cieca, supina la devozione i
feticci beffardi dell'ordine, vigilante su le soglie inviolate
dell'avvenire.
Quante nerbate, e salutari, e degne!
(14 aprile 1917).
Carpe Diem!
Cogli l'ora, che impende e due volte sul quadrante non torna!
Cogli l'ora! se, urgendo su l'onda della memoria, di questo scorcio
di secolo, che dei padri affaticò l'eroismo, di te, dei tuoi
l'abnegazione diuturna – s'affolli sanguinante il ricordo.
Tu non ignori, tu non hai dimenticato! La repubblica era nel tacito
patto di tutti i cuori, nel patto fraterno del Mayflower più
profondamente che nell'omaggio riconsacrato al re, quando avanti di
porre il piede su la terra d'esilio e di rifugio si impegnarono i
padri ad assidere su l'eguaglianza e su la giustizia le sorti della
fede perseguitata, l'avvenire dei pionieri avventurosi.
Prima! Prima che a New York colle nove colonie osasse la
dichiarazione dei diritti, prima che a Lexington impugnasse le armi,
prima che a Philadelphia gridasse la sua indipendenza, e la
consacrasse il trattato di Parigi. Quando Grant e Lee le
inchinarono, salutando, le armi riconciliate, la repubblica si
accampava sovrana fra l'Atlantico ed il Pacifico. Il sangue di
Abramo Lincoln ne cresimava l'anno di poi la redenzione auspicandone
la grandezza.
Ma tu sola, convenuta da cento patrie infide, tu sola plebe
d'America quella grandezza le hai del tuo fervore, del tuo sangue,
dei tuoi sudori edificato; sfidando de le maremme le insidie, de le
savane squallide la solitudine paurosa, dei monti inaccessibili il
basalto e la minaccia, del deserto gli agguati squarciando solchi,
vie, canali, levando cantieri e fucine, strappando alle viscere
della terra nel cimento mortale, prometea plebe d'ogni patria, la
favilla che doveva accendere ogni più recondita energia, estollere,
miracolo d'audacia, di forza, d'esuberanza, alta sulle vecchie
nazioni custodite da millennii di tradizioni venerande, orgogliose
di tre civiltà, antesignana la tua patria nuova.
Tu sola; ed hai dato senza contare: fiamme di pensiero, impeti
dell'anima temeraria, pertinacia dei muscoli inesausti, lasciando ad
ogni sterpo brandelli di cuore, brandelli di carne, e su la bocca di
ogni mina riarse, per ogni valico biancheggianti al sole, pei gorghi
dell'oceano disperse, le ossa dei tuoi figli gagliardi. Perchè della
ascensione radiosa ed incessante ritrovassero i nepoti i segni, le
pietre miliari, il rinnovato incitamento.
Tutto! senza custodire per te una spiga, senza tessere ai figli una
speranza, senza costellare un sorriso sull'inquieta fronte delle
madri, senza comporre ai vecchi il rifugio degli anni morosi.
Tatto, per nulla! Tutto per un pugno di scherni.
Ricordi?
Tinte del tuo sangue a la patria la porpora e le bandiere,
incoronata l'augusta fronte dei lauri mietuti a BunkerHill ed a
Yorktown, deposte ai suoi piedi glorie e tesori colti per ogni
solco, su di ogni spiaggia, non tu, plebe fiera e generosa, tra la
folla avida dei sollecitatori, hai chiesto alla patria la
liquidazione del tuo semplice eroismo.
Paga d'una crosta, d'una cipolla, sei tornata al tuo compito oscuro
di creazione prodiga e disconosciuta; e soltanto allora che delle
tue braccia nessuno volle, soltanto allora che coll'accidia dei
cantieri ammutoliti s'assise torpida l'inopia sui focolari, e
negarono o rubarono le mani ladre alla nidiata il becchime, e nelle
ritorte immutate ricostrinse la patria ogni anelito ed ogni
conquista di libertà, della libertà del pensiero, dell'amore, del
pane, allora soltanto strapparono ingratitudine e disinganno al tuo
cuore esulcerato, alle tradite aspettazioni, all'esausta pazienza,
la rampogna e la bestemmia.
Non avvolgeva dei suoi colori fiammanti che una menzogna orrenda ed
una frode spaventosa la bandiera della patria, se ai generosi che
l'avevano inalberata nella grande ribellione altro retaggio, altro
destino non riconosceva che di abbandoni, di miseria e di scherni;
ed indarno aveva dei servi propiziato la redenzione il sangue
generoso di Abramo Lincoln, se grave sul collo dei paria d'ogni
terra ribadiva il giogo della schiavitù; se cacciati di là dal mare
gli assiani di Giorgio d'Hannover, nei constabularies di Carnegie e
di Rockefeller ne reincarnava la bestialità e la ferocia; se per le
voci sacre del diritto, pel fremito eroico del lavoro e della vita
non aveva che roghi e forche, piombo e galera!
Perchè non ebbe delle tue angustie, delle tue angoscie, del tuo
martirio altra carità la patria, la grande repubblica, nè altro ti
diede a Chicago quando chiedevi discreta la tregua alla pena
quotidiana, nè altro a Homestead, a Croton Dam, ad Hazleton, a
Kellogg, a Cripple Creek, a Tampa, ad Elizabeth, nel Mesaba quando
le chiedevi mendica il pane; non altro a Ludlow, a Salt Lake, a Los
Angeles, a San Francisco, ad Everett57 quando le chiedevi
l'inviolabilità delle franchigie consacrate dalla rivoluzione e
dalla Costituzione.
E sui cadaveri di Alberto Parson e di Joe Hillstrom58 dei martiri
innumerevoli ed oscuri caduti lungo l'erta, nell'ora della tragica
passione, tu hai intraveduto, plebe eroica ed irrisa, che rintanata
nel privilegio, irta di frontiere e di codici, di sgherri e di
forche, di ladri e di preti, la repubblica era dubbia ministra
d'eguaglianza, di libertà, di civiltà, di benessere; oltre le
frontiere della stirpe, le leggi della classe, i dogmi del
Sant'Uffizio, le mannaie dell'ordine hai ritrovato della più grande
patria i confini ed i cittadini nella identità delle miserie, dei
dolori, delle onte che straziano ed oltraggiano, obbrobrio uguale,
la terra e l'uomo, tutta l'umanità e tutta la terra; auspicando e
preparando nell'aspra vigilia dell'armi l'ora tua.
Che è venuta, sovrasta e vuol essere colta, perchè sul quadrante due
volte non torna.
* * *
La patria che durante il secolo d'arrembaggi forsennati e di orgie
scandalose non ebbe di noi un pensiero, viene a cercarci nei
fondachi, su le soffitte, per le stamberghe, nel rigagnolo in cui ci
ha relegati bastardi, oggi che le usure pericolano, ed ansano al
sacco su le rovine d'oltremare pubblicani e corsari; viene, dati al
vento i costellati vessilli, rievocando fra le fanfare i grandi
pensieri, le grandi parole, le grandi promesse che del diciottesimo
secolo frugarono tutti i cuori, accesero tutti gli entusiasmi; e
negli animi del ventesimo secolo riecheggiano come la più beffarda
delle ironie.
Viene a chiederci di impugnare le armi, di darle la vita, di
sacrificarle ancora una volta i figlioli per la libertà, per la
civiltà, per la cristianità, minacciate dalle orde teutoniche
imbestialite.
Che cosa le risponderai, ingenua plebe d'America?
Che orrenda è la rabbia tedesca, più che il flagello di dio; che si
tende nella maledizione disperata ogni fibra dell'anima tua sgomenta
al pensiero delle scelleraggini che per le Fiandre dirute, nel
cielo, sul mare, hanno consumato gli unni del Kaiser, scavando così
profondo l'abisso dell'orrore e dello sdegno che contro il Kaiser, i
suoi giannizzeri, la sua guerra vandalica tu sei stato sempre, tu
sarai oggi, domani, senza remissione, irreconciliabilmente.
Ma che non si affidano di miglior guerra quelli che incontro al
Kaiser s'accampano dall'altro lato della frontiera? Le dragonnate di
Omdurman, i campi trincerati del Transvaal, l'inquisizione militare
delle Indie, le fucilazioni di Dublino, le stragi dell'Annam, della
Cocincina, del Madagascar, del Congo, di Fourmies e di Draveil, di
Berra, e di Giarratana, di Kishineff e di Pietroburgo59 non
collocano così alto, nè così innanzi a quella del Kaiser la civiltà
e la pietà dell'Impero britannico, del regno d'Italia, o della
Repubblica francese, che possa l'animo tuo francarsi dal sospetto di
dover servire nel nome della repubblica americana ad un calcolo
altrettanto abbietto, ad una guerra altrettanto scellerata, ad una
barbarie altrettanto feroce.
Perchè la barbarie è nel regime, più che nei suoi guerrieri
sciaguratamente inconsapevoli.
E nessuno oserà mai su le altre levare, simbolo di superiore
civiltà, la grande repubblica nostra che ha nelle pagine della sua
storia, macchia incancellabile di sangue e di fango, il linciaggio
di razza, le forche di Chicago, i roghi di Ludlow, le stragi di
Bayonne60.
La barbarie è connaturata al regime di privilegio, fermenta in
ciascuna delle sue sentine: in borsa col malandrinaggio organizzato
ed impunito, in chiesa colle frodi paurose, in caserma
coll'abbrutimento disciplinare, nella fabbrica coll'estorsione
feroce, nelle campagne colle superstizioni fanatiche, nelle città
colla prostituzione patentata; dovunque. Nella guerra celebra i suoi
saturnali, al rito sadico sbrigliate le ciurme deliranti la
perdizione e lo sterminio.
Nel delirio irresponsabili, queste. Non sono i miti artigiani, i
contadini mansueti di ieri, devoti alla terra ed alla casa, pietosi
ai figli, agli armenti, alle quercie ed ai nidi, contenuti e sobrii
nel senso, nel gesto, nella parola, i vandali che come un ciclone di
follia sono passati su la cattedrale di Reims e l'ateneo di Lovanio,
sui ventri delle madri, sui tugurii degli iloti e su le spighe del
grano non lasciando dietro di sè che devastazione e pianto?
Chi operò l'insana metamorfosi repentina? E chi ne darà conto? E
quando?
Chi la guerra ordì e scatenò per sè, su la rovina, lo strazio, la
passione di tutti.
Al campo, su l'incudine non conoscono operai e villani, nè celebrano
altro culto che non sia del lavoro, dell'amore; della vita.
Toglieteli di lì, vestiteli della livrea imperiale o regia,
cingeteli d'una coccarda, armateli d'una picca o d'una scure,
abbeverateli d'odio, acciecateli di sommissione, dite che di là
dalla trincea è il nemico degli dei e delle leggi e dei riti della
gente, il nemico che di lui, delle sue donne, dei suoi figli, delle
sue case farà strazio vincendo; raccoglietene le orde nel pugno di
Tamerlano o del Guisa, del Kitchener, del Gallifet, del Weyler, del
Bava Beccaris o del Linderfelt61, in servizio di Maometto, di Carlo
IX o del Thiers o dell Rockefeller, a soffocare la protesta degli
Ugonotti, della Comune, dei morti di fame, e ne avrete fatta la più
turpe masnada di parricidi.
Amore, fede, entusiasmi, ire magnanime possono dalla ruvida scorza
del villano, dell'operaio, del marinaro trarre il più luminoso degli
apostoli, il più nobile degli eroi, Armodio, Spartaco, Lincoln,
Garibaldi; la rinuncia, la caserma, la disciplina, la livrea non vi
arrovellano che sicarii stupratori e boja.
* * *
La barbarie è del regime e tu a difenderlo cotesto regime di usura,
di morte, d'obbrobrio, a consumarne le rapine e le infamie, a
servirne le libidini, a raddrizzarne le fortune, a perpetuarne la
vergogna non impugnerai le armi, non darai il tuo sangue, non il
pane dei figlioli, nè l'angoscia delle madri.
L'ora è venuta, in cui la grande repubblica edificata sui tuoi
olocausti, magnificata sul tuo servaggio, pingue dei tuoi digiuni,
beffarda alle tue miserie, sorda ai tuoi gemiti, implacata alle tue
rivendicazioni, travolta dai raggiri torbidi, dagli appetiti osceni
dei suoi filibustieri nel girone della guerra, cinta d'insidie
tragiche, ha bisogno di te.
È l'ora! Chiedile stretto conto del secolo di scherni con cui ripagò
la tua abnegazione eroica; di ogni giorno d'inedia, di ogni ora di
spasimo, di ogni stilla di pianto che esacerbò le vigilie della tua
servitù immutata; e l'odio che incontro a la barbarie arroventa, e
la fede che per la libertà accende nell'animo tuo, e le armi che ti
offre ad umiliare di quella le tracotanze, a salvare di questa il
destino, convergi irresistibili, inesorate su la più orrenda
barbarie che abbia mai desolato la storia, su la barbarie
dell'infame regime borghese, pel trionfo di una libertà che in ogni
nato di donna consacri il diritto di vivere, di conoscere, di amare,
di gioire; così alta, così radiosa, così piena che veggenti e poeti
e sofi non pure osarono nel vaticinio, ed ha nel tuo diritto le
propaggini, nel tuo ardimento le promesse, nella tua concordia i
pegni sicuri della vittoria.
Cogli audace l'ora che sovrasta e due volte sul quadrante non torna,
rispondendo alla guerra di lor signori, colla diana e con lo
schianto della rivoluzione sociale!
(14 aprile 1917).
Nulla dies sine linea
Dal giorno che l'America è precipitata nel girone della guerra io
frugo quotidianamente una ventina di giornali con la più benevola
delle intenzioni: di persuadermi cioè che, a mortificazione dei
Norris, dei La Follette, degli Stone, dei Bryan, dei senatori, dei
deputati, degli scribivendoli manifestamente tedescheggianti, a
mortificazione di intimi ostinati sospetti anche, la grande
repubblica alla guerra si è indotta nostalgica di una grande,
serena, luminosa affermazione di libertà, di civiltà, di umanità,
sdegnato ogni calcolo di tornaconto volgare, urgente una sola
preoccupazione, quella di tradurre nella nobile coerenza di ogni
gesto e di ogni parola e di ogni più austera provvidenza la purezza
del sentimento che sfolgora nel messaggio del suo magistrato
supremo.
Quando a sera allineo della mia inchiesta, attinti coscienziosamente
a fonti insospettabili, i risultati, quell'intenzione è frustata,
livida dei disinganni, delle ironie che le sogghignano beffarde.
Ho un bel figurarmi circonfusa di stelle e di fiamme, erta nel pugno
la face della libertà, stretta nel pugno la spada rutilante della
giustizia, corrusca la fronte e lo sguardo di magnanimi sdegni
prorompere vindice la repubblica, bella come un arcangelo, su l'idra
della barbarie che si indraca nelle tenebre e nella belletta d'ogni
abbiezione più nefanda.
* * *
Tempo perso! Il fantasma della repubblica dilegua, dico meglio
s'abbuia, s'incarna nelle sembianze e nelle proporzioni d'un mostro
convenzionale e notorio, qualche cosa tra il cavadenti da fiera ed
il mercante di puttane, d'indulgenze, di salme, petulante e
sbracato, il ventre nitido, illustre di ciondoli, di medaglie, di
palanconi, d'amuleti, il grifo adunco, nella destra enorme la
sferza, nella sinistra un mazzo di grimaldelli, un fascio di
dollari, di cartaccie bisunte che squassa trionfalmente su la ciurma
di donne esauste e di bimbi agonizzanti che gli bulica tra i piedi:
«Su, tutti un cuore per le rivincite della libertà, contro l'assurdo
feroce dell'autocratismo medievale! Per la salvezza estrema della
cristianità lapidata, date i figli, date il sangue, date il pane,
date il sudore!»
Ed ai venti il peana, ai venti le bandiere!
Tutti un cuore!
E sghignazza, traendo sul ventre, convulso, dollari e grimaldelli,
numerando su la turba cenciosa, milioni e miliardi che la guerra, la
crociata santa gli ha mietuto.
Due miliardi di dollari per le necessità immediate della difesa.
Cinque miliardi di dollari per gli alleati, per la simpatia che la
loro causa inspira, in testimonianza della più potente e della più
giovane repubblica del vecchio mondo, per la Francia e per la
Russia.
Sette miliardi di dollari di cui non un penny varcherà l'Atlantico
malfido; che andranno innanzi tutto a rifondere i crediti
pericolanti dei filibustieri di Wall Street; che riapriranno i
crediti nuovi, l'era dei guadagni folli di questi due anni della
nazionale prosperità. Sette miliardi estorti nel più arruffianato
dei raggiri al proletariato americano ed immigrato ad esclusivo
beneficio di una dozzina di vampiri americanissimi; sette miliardi
di debiti che si riscatteranno sul piatto di broda, sul tozzo di
pane, sul gotto di birra, su la cicca della marmaglia, abilitata
così a farsi sgozzare su l'Atlantico, sul Pacifico, con maggiore
probabilità sul Rio Grande, perchè rimangano inviolate la bottega e
la cuccagna di lor signori.
* * *
Tutti un cuore, tutti un voto!
Ed i sette miliardi di crediti nuovi hanno riscosso l'unanime
suffragio del parlamento: 386 contro zero.
— C'è pure un deputato socialista in parlamento, Meyer London, un
grande avvocato...
— e sotto la toga la povera anima di Pier Soderini che al momento
del voto si è squaiato senza comprendere la bellezza del gesto,
quella di erigersi fiero della sua fede e della sua protesta, solo,
incontro alla panciuta camorra di ruffiani ansanti dall'altra riva
alla prostituzione ed all'arrembaggio.
* * *
L'ingenuo proposito si abbatte alla realtà scandalosa: ci vuole una
fede superumana a vedere nell'intervento guerriero degli Stati Uniti
la crociata della cristianità contro la barbarie, della libertà
contro l'autocrazia.
Tanto più che il subito fervore civile si complica di stridenti
contraddizioni. L'altro ieri l'università del Vermont destituiva
dalla cattedra il più autorevole ed il più stimato – lo riconosce lo
stesso Consiglio accademico – dei suoi docenti soltanto perchè nella
necessità della guerra attuale non consente: e qui la libertà non fa
certo buona figura. Ieri in uno dei tanti cinematografi di Boston,
un poveraccio che non si è alzato subito ad acclamare la old glory è
stato ridotto da un paio di marinai in tale stato che si è dovuta
chiamare d'ambulanza, e farlo ricoverare d'urgenza all'ospedale: e
qui, ditemi quel che volete, la cristianità fa una figura anche più
magra. Quanto al giudizio che chiunque si schieri contro la guerra
sia un traditore, un manutengolo del Kaiser, un venduto alla
Germania, è così generale, così monotono, tale ossessione, che
impronta oramai del suo livore e della sua vergogna tutta la
eccezionale legislazione dell'ora.
Sabato scorso la Commissione Giudiziale del Senato – e voi sapete se
sia costituita di parrucconi! – è dovuta intervenire con un
emendamento alla famosa legge su lo spionaggio in forza della quale
il Ministro delle Poste non ha facoltà soltanto di confiscare
lettere, opuscoli, giornali «insidiosi alla difesa nazionale, e più
particolarmente la stampa anarchica e sediziosa», ma di appioppare
senza renderne alcun conto all'autorità giudiziaria fino a cinque
anni di reclusione e cinque mila dollari di multa agli autori od
editori.
A me, che la Commissione del Senato giunga o meno a deferire
l'ultima soluzione dei possibili conflitti alle Corti Distrettuali,
non fa nè caldo nè freddo: tra gli sciacalli del Ministero delle
Poste ed i lupi del Ministero della Giustizia non si morderanno di
certo. Se vi sarà una gara, sarà tra chi insapona meglio la corda e
chi sarà del boia più svelto tirapiedi. Così come del vedere colla
guerra instaurato il Sant'Uffizio nelle sue forme più lubriche non
mi meraviglia gran fatto.
C'è da aspettarsi di tutto.
* * *
Ma un orgoglio, una soddisfazione nessuno ci potrà togliere mai, nè
soffocare una verità che trova anche dei cuori appena dischiusi la
buona via: la grande repubblica ha paura!
Se noi fossimo per la guerra comunque, per la guerra del Kaiser, di
Carlo I, per la guerra magari del Sultano, non si allarmerebbe più
che tanto: mutano così agevolmente le sorti della guerra! ed in ogni
caso le tornerebbe facile bandirci oltre le sue frontiere,
stringerci in uno dei tanti campi di concentramento, delle tante
Isole della Salute che guadagnano ogni giorno area più vasta nella
sua geografia politica, e dormirebbe tranquilla i propri sonni in
attesa della facile vittoria.
Ma noi siamo contro Guglielmo di Hohenzollern come contro la
repubblica borsaiola di Poincaré, contro Carlo I d'Ausburgo come
contro Vittorio Emanuele III di Savoia, contro Giorgio V
d'Inghilterra come contro Maometto, Woodrow Wilson o Bendetto XV;
contro tutti i feticci che nel nome del buon dio o del suffragio
universale pretendano al vassallaggio delle stirpi; ma noi siamo
contro ogni guerra che consacri l'imperio grottesco dei simboli ed
il sacco impunitario dei cortigiani; noi siamo contro l'orda
squallida dei mammalucchi che incapaci di levare un grido, le
fronti, le braccia, a gridare l'onta e la miseria della propria
servitù, a cogliere un raggio, un pane, a forzare le porte
dell'avvenire, ad inghirlandarle d'una audacia e d'una speranza,
cosacchi od higlanders, brandeburghesi od honweds, giannizzeri,
poilus, bersaglieri, blue-jackets, persistono gladiatori abbrutiti,
e non sanno che vendersi e non sanno che prostituirsi, mutilarsi,
propiziare nel Circo, fra le trincee, su le galee, in Palestina,
nelle Crociate, ne le San Bartolomeo, nei pogroms, altro trionfo che
della menzogna o del privilegio o dell'odio, altra disfatta che la
propria, altra mortificazione che del diritto, altra condanna che
della libertà, altro sbaraglio che non sia della loro propria
redenzione.
Ed infaticati, inesausti, ostinati come la stilla che rode il
macigno, tetragoni alla lusinga come alla persecuzione ed al
disinganno, fra la turba vinta, ignara, rassegnata degli iloti,
frugando le ceneri della millennaria rinunzia, soffiando su le
bragie profonde dell'immortale speranza, attizziamo sereni la fiamma
della coscienza nuova che alla plebe, artefice d'ogni ricchezza e di
ogni grandezza, restituisce le folgori strappate all'inutile Iddio,
che torna al suddito la sovranità carpitagli dal re, che nel lavoro
riedifica il diritto annichilito dai codici, alla terra la generosa
materna fecondità che l'usura isterilì alla verità il fulgore che
oscurarono i dogmi e gli auto-da-fè, sul destino dell'uomo,
rutilante dalla più spaventosa delle tragedie che abbiano mai
insanguinato la storia, la promessa, l'arra, il presidio della
suprema giustizia e di tutta la redenzione.
* * *
Voce che non soffoca la tortura, non la cenere dei roghi, non le
ritorte, non la galera. Singulto, bestemmia, auspicio, maledizione,
sfida le ire dei numi, l'onda del tempo, l'ignavia del gregge,
addensando su le menzogne, su le iniquità, su le infamie del
privilegio lo schianto delle finali espiazioni.
Cinta di armi di giudici, di birri, di guerrieri, di sacerdoti;
cinta dell'ispido, ottuso misoneismo dei vassalli, aureolata d'oro,
di ferro, la grande repubblica di questa serena voce che sul clamore
dei pubblicani arruffianati e delle soldatesche briache, sul delirio
della guerra sovrasta annunziando la rivoluzione sociale, la grande
repubblica ha paura!
È nella verità qualche cosa di più forte che non siano le sue frodi
e le sue armi conserte.
(21 aprile 1917).
Nulla dies sine linea
Straripa nel delirio l'entusiasmo per la guerra.
Sventolano bandiere dovunque, sui tetti delle chiese e delle scuole,
su la porta dei teatri, delle taverne, dei lupanari, sul petto delle
signore stagionate, all'occhiello, su la cravatta, sui cappelli
degli elegantissimi imboscati. Bandiere dappertutto, tante, che non
v'è oggi, nella deplorata penuria delle patate e delle cipolle,
commercio più florido, già monopolizzato, trustificato, come
denunziava alla Camera indignata il senatore Pomerene dell'Ohio
lunedì scorso invocando una pronta inchiesta e le più severe
disposizioni del governo contro gli incettatori del fremente
patriottismo della nazione.
E dappertutto fanfare! Nelle caserme e nelle sacrestie e nelle
accademie, nelle serenate ai treni che partono, ai treni che vengono
portando cannoni e muli e soldati.
Dovunque discorsi, diane, epicedi; alla Casa Bianca, al Senato,
all'Arcivescovado, nelle sinagoghe, nelle loggie massoniche, nelle
allocuzioni, nelle pastorali, negli ordini del giorno: l'unanimità
del delirio!
* * *
Soltanto l'eroismo si attarda contumace.
Tutti vogliono la guerra, la conclamano, la benedicono; i vecchi che
ne hanno il ricordo lontano, i giovani ansiosi di eludere l'accidia
imbelle, le madri anche, disgraziate! che la malediranno tra un
mese, indarno, sull'esanime spoglia dei figlioli; tutti. Ma nessuno
vuole della guerra, dei suoi gravami, dei suoi rischi, dei suoi
cimenti; ed è la gara a chi scova il più arguto dei sotterfugi ad
evaderli.
«La patria ha immediato bisogna di un milione di soldati – diceva la
settimana scorsa ad un comizio della Filene's Association il
capitano J. H. Pearson – «ma se si va di questo passo, avanti che il
milione di uomini sia coscritto, le reclute di questi giorni saranno
morte le cento volte di vecchiaia. Boston ha sventolato più bandiere
che non alcuna altra città degli Stati Uniti, ma di soldati non sa
nè trovarne nè darne».
L'eroismo è latitante.
* * *
Quando pel pubblico sono corse le prime bozze del Chamberlain Bill
sul servizio militare obbligatorio per tutti, le preoccupazioni dei
nostri efebi repubblicani – che pur sono di tutti i comizi
tricolori, di tutte le parate guerraiole, di tutti i linciaggi
patriottardi – si sono concentrate in un punto solo: su le patetiche
riserve, su le indulgenti eccezioni che quel progetto di legge
enuncia a beneficio dei «sostegni di famiglia». E poichè dal
servizio militare parvero esclusi coloro che hanno carico dei
vecchi, delle mogli, dei figlioli, l'eroica gioventù della grande
repubblica, in luogo di correre all'ufficio di leva, facendo onore
agli impegni della coccarda, è corsa all'ufficio dello stato civile
a togliersi una licenza di matrimonio.
I matrimonii sono sempre una disgrazia, e che cosa vi sia dietro il
sorriso lusingatore delle improvvisate war brides («spose di
guerra») non saprebbe scovare neanche Edipo; ma le amarezze, le
sorprese tragiche, le calamità facilmente prevedibili di questi
spedienti matrimoniali, appaiono alla nostra gioventù il più soave
dei rifugi di contro ai rischi della guerra cui tributa così ardente
fervore di inni e di auspicii, tanta febbre d'aneliti e tanta gloria
di bandiere.
* * *
Lunedì si sono iniziati a Boston gli arruolamenti volontarii.
Storditi dal casaldiavolo della prima ora, voi vi immaginate che
almeno nella prima settimana vibrante di tanto impetuoso entusiasmo,
le stazioni di reclutamento si siano affollate di vecchi legionari
riarsi, di madri spartane, del fior fiore della gioventù del paese
nostalgica d'eroismo e di sacrifizio.
E pescate un gambero paradossale.
La gioventù del paese è incallita nel cauto positivismo degli
affari, e la guerra è ancora un business di cui essa vaglia, del suo
spirito pratico, acutissimo, profitti e perdite conchiudendo che
dopo tutto meglio ancora è... pigliar moglie, per quanto della
moglie abbia quasi altrettanto paura che della guerra.
Desumo da un giornale ortodosso un contrasto, eloquente tra le
coscrizioni ed i matrimonii dei primi cinque giorni della grande
preparazione
Reclute
Matrimonii
Lunedì
58
83
Martedì
60
92
Mercoledì
67
83
Giovedì
48
82
Venerdì
62
66
Totale
295
406
Neanche trecento volontarii e più che quattrocento mariti nuovi!
È pratico!
* * *
La licenza matrimoniale non è soltanto una polizza d'assicurazione
contro i rischi e le traversie della guerra, che è già qualche cosa
di rispettabile, ma è una guarentigia contro la disoccupazione e la
miseria che ne consegue inevitabilmente.
Sicuro! Voi gridate viva la civiltà e morte alla barbarie! e grido
evviva io pure. Voi gridate, viva la guerra! e partite; e siete un
eroe, voi: io vi ammiro, v'incorono di lauri, vi accompagno... con
tutti i miei voti, auspicando alle vittorie conserte dell'umanità e
della patria; ma... rimango a casa, piglio nei cantieri, nelle
fucine, nei pubblici uffici, a tavola, fra le coltri, il posto che
avete abbandonato; quando tornerete – poichè qualcuno, talvolta,
dalla guerra anche ritorna – quando tornerete, ad accogliervi, a
salutarvi, a cingervi la fronte della corona civica, a decorarvi de
la medaglia dei forti, saremo noi, noi che siamo stati a casa.
Non è eroismo, siamo d'accordo; ma è pratico, savio, positivo.
Ed è così che, vacanti, deserte le stazioni di reclutamento, si sono
tanto affollati gli uffici dello stato civile a New York, a
Baltimore, a Chicago, a Pittsburgh, a Philadelphia che se ne sono
dovute sbarrare le porte, ed il governo federale ha dovuto ammonire
che «il matrimonio non costituirà un'eccezione all'obbligo
universale del servizio militare», e minacciare le più severe
disposizioni contro gli slackers, gli imboscati di ogni paese.
* * *
Che scompiglio nelle nostre colonie mercoledì scorso, quando venne
da Washington la notizia che la Camera ed il Senato, senza pure un
voto contrario, avevano riconosciuto nei governi alleati la facoltà
di reclutare tra i loro sudditi in America quanti soldati volevano!
Renitenti e disertori del regio esercito italiano qui si contano a
centinaia di migliaia. Notava l'on Webb che se all'appello del
nostro governo avevano risposto settantamila renitenti, più che
duecento mila avevano fatto il sordo e rimangono qui, e che allo
sconcio giovava trovare un rimedio. Strillava dall'altra l'on. La
Guardia di New York che le disposizioni della nuova legge venivano a
consegnare al governo italiano tutta una falange di renitenti e di
disertori i quali, appena giunti in patria, sarebbero stati passati
in galera od al pelottone d'esecuzione.
Per cui dall'on. Webb è dovuta venire un'assicurazione autorevole:
«The fear that it would permit coercion of their citizens by allied
governments were largely immaginary62; e siamo per una volta tanto,
e fatte le debite riserve, d'accordo anche noi col presidente della
Commissione giudiziale del Senato.
* * *
Sono capaci di tutto, fuorchè di un'azione pulita i nostri
legislatori, è vecchia esperienza; ma sanno fare troppo bene le cose
loro per abbandonarsi ad atti di solidarietà così energici e
compromettenti.
Renitenti e disertori d'ogni terra si sono rifugiati in America
perchè ad essi il governo degli Stati Uniti garantiva diritto
d'asilo. Ora, una legge che il diritto d'asilo pervertisse d'un
tratto nel diritto d'estradizione non potrebbe mai avere effetto
retroattivo. Vale a dire che potrebbe essere applicata, se mai – e
non è il caso neppure – ai renitenti o ai disertori che avessero a
venire poi, non a quelli che vi sono, e tornati in patria vi
sarebbero gravemente, forse estremamente condannati.
D'altra, parte è diritto sovrano quello di levare truppe, e se
questo diritto potessero esercitare in America le potenze del
continente, gli Stati Uniti, tollerando nei loro confini l'esercizio
di altra sovranità che non la propria, si costituirebbero in uno
stato di vassallaggio, ripugnante al patto fondamentale ed
all'indipendenza stessa della nazione.
La nuova legge, così almeno quale essa appare dalla discussione,
vuole intendersi quindi nel senso che è rigorosamente punito
chiunque nella giurisdizione degli Stati Uniti coscriva soldati per
le nazioni che si trovano in istato di guerra coll'America, chi
coscriva soldati per la Germania, per l'Austria, per la Turchia, per
la Bulgaria; e che da queste sanzioni penali va esente chi coscriva
soldati per la Francia, l'Inghilterra, l'Italia, la Romania e paesi
alleati. E s'intende coscrizione di volontari perchè la distinzione
tornerebbe superflua se negli agenti dello potenze alleate si
riconoscesse il diritto alla leva obbligatoria dei loro sudditi in
queste terre.
* * *
Non voglio conchiudere, badate bene! che gli stranieri accampati fra
il ventesimo ed il trentesimo anno abbiano a mettersi il cuore in
pace illudendosi che della tragedia imminente rimarranno gli
spettatori, e che la loro paura di vedersi colti da un momento
all'altro sia immaginaria.
No: saranno soldati ad ogni modo, saranno costretti al servizio
militare sotto le insegne della grande repubblica; prima che il
Maggio tramonti.
Se ne persuaderanno guardandosi attorno: Wilson vuole due milioni di
soldati, e sa che non si potrebbe altrimenti racimolarli che con la
coscrizione. La Camera, che avversa il servizio universale
obbligatorio raccomandando il sistema del reclutamento volontario,
non sa garantirgli più che mezzo milione di uomini.
Wilson proclama che l'entrata dell'America nella guerra ne
affretterà l'epilogo, ed in Wall Street scommettono dieci contro uno
che entro novanta giorni la pace sarà conchiusa.
Wilson ripeteva anche stamani, anche dopo i suoi primi colloquii col
Balfour, che l'America non manderà di là dal fosso neppure un
battaglione, ed è persuaso e consente che ad allestire un esercito
di due milioni di uomini, due anni sono pochi.
Possiamo già arrischiare una deduzione: Wilson vuole un grande
esercito, una armata formidabile tra due anni, quando la pace – a
suo avviso – sarà da gran tempo conchiusa.
Per un'altra guerra dunque che non sia l'attuale? per un'impresa che
esigerà il massimo degli sforzi, se rompendo in breccia la
tradizione veneranda, ricorre alla leva forzosa, con un limite
minimo di due milioni di soldati!
Per la conquista del Messico, tentata quattro anni fa dalla parte
del mare, a Vera Cruz?63 ritentata lo scorso anno sul Rio Grande, e
fallita l'una volta e l'altra per mancanza d'equipaggi e di sodati?
Potrebbe darsi; e molti fervori strani, contraddittorii e misteriosi
troverebbero la loro spiegazione.
I cinque miliardi agli alleati non sarebbero che il prezzo che gli
Stati Uniti pagano per avere mano libera nella conquista del
Messico.
I due milioni di soldati rappresenterebbero il contingente minimo ad
una guerra che si prolungherebbe certo per un decennio.
La coscrizione, il solo mezzo per strapparli al paese che si ostina
a negarli.
La coscrizione degli stranieri una logica fatalità ineluttabile: è
ammissibile che i cittadini americani abbiano ad essere coscritti,
incasermati, sospinti alla frontiera, precipitati nel baratro della
guerra, mentre gli immigrati starebbero a casa a fare baiocchi ed a
grattarsi la pera?
No. Tutti soldati, dai venti ai cinquant'anni, senza scampo per
nessuno, giacchè ogni frontiera sarà sbarrata, ed ogni paese
all'intorno, dal Canadà alla Patagonia, sarà avvinghiato da
un'alleanza o da un compromesso, travolto nella guerra dalla rete
folta d'insidie, d'usure, d'appetiti che copre i due emisferi: tutti
soldati!
E tutti ad un bivio: o battersi per la repubblica, pei suoi farisei,
pei suoi corsari, pei suoi imboscati; o battersi pel pane, pei
figli, pel domani. O servire al regime borghese nella sua libidine
di conquista, di tirannide, di sfruttamento, di oppressione; o
servire al proprio destino, dargli nel turbine della rivolta la
speranza, l'abnegazione, i pegni, il sangue che ne avvivino la fede,
ne accendano l'audacia, ne affrettino il compimento, riconciliati
per sempre la terra e l'uomo, la giustizia e la libertà.
Di là o di qua.
Per la guerra di lor signori, in cui abbiamo tutto da perdere e
nulla da guadagnare;
O per la rivoluzione sociale, in cui abbiamo tutto da guadagnare
nulla da perdere, se non siano la miseria e la servitù.
E noi siamo da questa parte: contro la guerra, per la rivoluzione!
(28 aprile 1917).
Primo Maggio
Meglio sotterrarla pietosi nell'oblio la corrusca tradizione del
Primo Maggio, se alle plebi non sa ridare il generoso fremito di
giustizia, il compito sacro de la vendetta che al proletariato del
mondo affidarono, or sono trent'anni, dalle forche repubblicane i
martiri di Chicago; e raccolsero, e tennero ambito retaggio i
pionieri che di là dall'Oceano, confidenti, decisi, l'inalberarono
estrema condanna di ogni rinunzia, di ogni viltà, proposito unanime
e pegno eroico della comune liberazione.
Se dobbiamo vederla trascinata nei ricorrenti saturnali briachi,
lenocinio di istrioni ansanti alla nicchia ed alla biada, sacrilego
pretesto alla crapula degli abbrutiti e dei lestofanti meglio
seppellirne anche il ricordo.
Ditelo voi, superstiti compagni rari che ne avete vissuto le trepide
ansie, che ne avete vissuta la disfatta sanguinosa, numerate le
angoscie corrosive, ed a piè del patibolo ne avete raccolto il
messaggio, e nel vigile, pertinace apostolato ne avete diffuso per
ogni plaga della terra la parola, in ogni cuore derelitto la
promessa, e negli impeti insurrezionali di Amburgo, di Barcellona,
di Roma, di Vienna, di Parigi, ne avete salutato l'animosa
affermazione, e nel sangue delle vergini e dei legionari, a
Fourmies, a Santa Croce di Gerusalemme64, tra i bastioni di Porta
Garibaldi e di Montone ne avete vista la passione e la crocifissione
inesorata: ditelo voi!
* * *
Ditelo ai fiacchi, agli esausti che nei giovanili ricordi lontani si
rifugiano e si appagano, ditelo ai giovani che ignorando s'adagiano
all'ignobile parodia; ditelo agli incettatori di voti e d'eunuchi
che si giuocano per la medaglietta, pel canonicato, pel soldino, le
reliquie dei precursori e la dabbenaggine dei gregarii; ditelo
coll'accento severo di Alberto Parsons, ditelo colla sfida magnifica
di Luigi Lingg, se fosse palinodia di castrati, genuflessione di
mendicanti, parata di cialtroni, compromesso obliquo di mezzani il
Primo Maggio nella sua prima aurora.
La guerra di classe è ingaggiata.
Meglio morir di piombo che di fame.
La necessità ci costringe ad impugnare le armi.
Tergete l'inutile pianto, donne e bambini. Schiavi, abbiate cuore:
insorgete! balena nella memorabile «circolare della rivincita» di
Augusto Spies, e s'impaurano i lupi nel covo; in piazza, sul
lastrico ritrovano gli straccioni la vecchia audacia, e la
sbirraglia morde la polvere.
L'ordine è costretto a rifarsi del tracollo ne le sentine della
giustizia domestica, mendicare al boia la salvezza estrema.
* * *
Perchè queste le grandi linee della tragedia da cui si inaugura
l'agitazione del Primo Maggio, che paga, è vero, alla realtà
immediata ed urgente l'ingenuo tributo: contro la macchina che
soverchia evincendo a poco a poco da ogni ergastolo le fragili
braccia dei servi, aggravandone la pena, l'inadeguata rivendicazione
della giornata di otto ore; vero.
Ma la giornata di otto ore non chiede alla pietà degli sfruttatori,
alla magnanimità dei parlamenti, alla sanzione dello Stato, alla
dubbia sagacia dei tutori, il proletariato conserto. Ripudiate le
odiose e stupide coercizioni disciplinari, chiede a se stesso, alla
propria forza, al libero, spontaneo, solidale concorso di quanti
fremono sotto lo stesso giogo ed ange lo stesso fiero senso di
dignità e di libertà, il diritto di regolare da sè il proprio
lavoro, il pane, il riposo, il destino: a cominciare da oggi nessuno
lavorerà più che otto ore al giorno: otto ore di lavoro, otto ore di
riposo, otto ore di educazione.
Posto fuori del campo e dei termini tradizionali – ahimè, superstiti
sempre! – il conflitto tra sfruttati e sfruttatori non ha più che un
terreno: il lastrico, e sul lastrico il proletariato ha sempre
ragione anche quando e dove pare che la sua voce e la sua ragione
siano soffocate, così come ha sempre la peggio nei tribunali o nei
parlamenti anche quando le apparenze sieno della vittoria più
clamorosa; perchè di qui non giunge a maturanza che la spiga amara
del disinganno; mentre laggiù su le vette delle Calabrie, in Campo
di Fiori, sui fossati della Bastiglia o di Montjuich o sul
Newsky-Prospect con Spartaco, con Bruno, con Ferrer, coi Sanculotti
o coi Musgicchi armati di verità e di sdegni, vittorie e disfatte
levano di cadaveri, di roghi, di ceneri, di rovine, le pietre
miliari dell'indefettibile divenire.
E la plebe che – fuori di ogni compromesso cogli dei, cogli
istituti, con le leggi, con la morale, coi riti dell'ordine –
affaccia il diritto di regolare da sè il proprio destino di oggi e
di domani, è, in re et in modo, nei fini e nei mezzi, la rivoluzione
sociale al traguardo.
Rivoluzionaria nelle sue aspirazioni, nei mezzi con cui le annunziò
e le agitò, tempestosa giornata di rivolte, di battaglie, la
giornata della piazza e della marmaglia, rimase per anni parecchi la
manifestazione del Primo Maggio in tutti i paesi del vecchio
continente, atterriti dinnanzi allo spettacolo d'inattesa
irriverenza e d'insospettata concordia, rintanati nel covo cinto
d'armi e d'armati, i numi dell'empireo borghese insidiato e
pericolante.
Poi venne la gente cauta, seria, pratica, quella che su dalle
cantine e dai solai in cui s'era cacciata dissenterica alla prima
sassata ed al primo squillo di tromba, a Fourmies aveva udito lo
scroscio della mitraglia, e sui bastioni di Porta Garibaldi il rombo
dei cannoni di Bava Beccaris, e fra selve di birri e fragori di
anatemi e di catene sospinti, dispersi per le galere delle cento
patrie i temerarii che al proprio diritto avevano serbato la fede, e
della forza per cui deve trionfare avevano di paziente abnegazione e
di generosa audacia tessuto ogni fibra.
Venne tremebonda ed untuosa da prima, venne cinica e beffarda poi,
giuocando di sofismi e di distinzioni avvedute, giuocando di
irrisioni e di riserve, di rinuncie e di denuncie: dovevamo volere
la rivoluzione, e non confondere: la rivoluzione che si conchiude
nei postulati della dottrina, non la rivolta della piazza,
scapigliata ed ingenua.
Ci additò le vie diritte delle grandi città, la gola insidiosa dei
bacini, le nude spianate dei cantieri su cui della canaglia insorta
ha ragione un manipolo di cosacchi, uno squadrone di ulani, un'esile
mitragliatrice: irrise alle sassate, alle barricate, ai bombardieri,
grottesco ciarpame quarantottesco, denunciò «le teste calde»; sotto
l'occhio del boia imprecò ai caduti «barriera infausta sulla via
della libertà» ai sicarii, alla mitraglia errabonda indulse benigna:
disorientò e sgominò le folle che attendevano dubbiose incitamento,
conforto, difesa; e trattele fuori porta, a le taverne da barriera,
le bearono di tarantelle, di ciancie, di contrizioni e di malo vino
colla tenacia sapiente di perversione, di demoralizzazione, di
evirazione che ha dato i suoi frutti, il frutto che vendemmiano da
tre anni: spasimi, lacrime, sangue.
* * *
Il proletariato che intorno ai martiri di Chicago aveva da ogni
patria costretto propositi e voti delle rosse eucarestie per cui
deve fremere la storia del mondo l'ora gloriosa della fratellanza e
della giustizia, guardatelo! Cinti i polsi delle ritorte, vigila,
scherano, gendarme, aguzzino su le fortune, su la salvezza dei suoi
nemici secolari, e ne accompagna e ne sazia, torva progenie di
caino, le avide piraterie, il vandalismo bestiale, la riarsa
libidine d'eccidio e di rovina, maniaco soltanto di perdizione e di
fratricidio!
La sementa della viltà, della menzogna, della frode non dà altra
messe che d'aberrazione, di servaggio, di pianto, di sangue.
* * *
Non così acre mai la cicuta!
Io vorrei leggere negli animi vostri così sinceramente come voi
cogliete del mio la profonda amarezza. Sono certo che vi
sorprenderei oltre ogni acerbo dissidio un consenso: noi avremmo
potuto il 1 agosto 1914 – che su la fronte della civiltà borghese
rimarrà stigma d'indelebile infamia, e stigma di viltà su la nostra
– noi avremmo potuto scongiurare la guerra, noi soli. Ed avremmo
trovato nel proletariato internazionale cooperazione sufficiente a
frenarne gli impeti, ad estirparne per sempre le cause, se da
venticinque anni il partito socialista non avesse ogni cura, ed ogni
sforzo rivolti a riconciliarsi colla classe dominante, a
condividerne il dominio e le sorti, a riaggiogarla vassalla,
sospingendola a ritroso del cammino percorso dalla grande
Internazionale, la massa proletaria, disarmata degli odii
millenarii, rituffata nel gorgo abbietto di tutte le superstizioni,
frenata dalla regola, dalla disciplina, dai concilii all'orrore
dell'azione e della rivoluzione.
Alle speranze ed alle fortune della rivoluzione il proletariato è
venuto meno nell'ora che la sua vigilanza, la sua audacia, la sua
salvezza più violentemente urgevano. Perchè se gli epigoni del
socialismo al fronte hanno raccolto la feluca, la livrea e nei
consigli della corona la fiducia ed il canonicato egualmente regi,
il proletariato sconta nella più tragica delle espiazioni le
abdicazioni sciagurate e non miete da tre anni che morte e ferro e
fame.
Se trent'anni di coscienziosa, paziente, concorde preparazione
rivoluzionaria tenessero nella storia contemporanea del proletariato
internazionale il corrispondente periodo dell'infausto apostolato di
emascolazione, di rinuncia, d'ottusa soggezione, d'abbietta
domesticità di cui si è compiaciuto il partito socialista, e di cui
riscuote oggi nelle anticamere di corte o nei corridoi del
parlamento il premio lungamente agognato, saremmo noi a questo
rovello?
* * *
Ascolti ciascuno la risposta che dentro gli bisbiglia l'onesta eco
delle memorie e dell'esperienza vissuta.
Ascolti e ricordi! perchè le brume sanguigne che oscurano di questo
Maggio le livide aurore diraderanno, e splenderà domani il sole su
altri mercimonii iscarioti, su altre angoscie, su altre croci.
Stringe qui pure l'artiglio adunco dei pubblicani all'avida
mietitura la spiga fiorente della giovinezza e della speranza, e
passerà domani spietata la morte falciando su le contese trincee,
falciando pei casolari, pei trivii, lenta, inesorata la fame.
L'arme sola con cui potrebbero i servi all'esosa ipoteca contendere
e la vita propria e il pane dei figli e la gioia dei focolari:
l'abbandono delle mine, delle fabbriche, delle darsene, delle calate
a cui attinge la guerra il suo viatico macabro, è spezzata, bollata
di scomunica dell'interditio aquae et ignis che è maledizione dei
traditori: nessuno scioperi finchè la guerra duri!
È l'ultimo decreto del sinedrio. Nessun sciopero, sia!
Ma la guerra non è ancora incominciata ed il pane, la carne, quanto
urge alla vita quotidiana ha raggiunto oramai prezzi inaccessibili.
Tutti lavorano, tutti: il giorno quanto è lungo, buona parte della
notte anche, e guadagnano salarii così alti come non videro, non
sognarono mai; e nessuno può campare!
Come rifarsi?
Allo sciopero non bisogna pensare più; grava su di esso, fatto
sacrilegio e tradimento, l'interdetto.
Abbasso lo sciopero! va bene.
Ma chi sgobbando peggio che un negro ai vecchi dì, è costretto fin
da ora a stringer la cintola e dando ai padroni sudore e sangue
vedrà l'inopia sovrana al focolare, e sotto gli occhi tra le braccia
convulse vedrà, sentirà svanire nell'inedia i figliuoli non scenderà
in istrada, non chiederà ai vicini dolenti, ai compagni di pena e di
angustia, chi della carestia, della fame, della guerra che ne
martoria ventri e cuori, sia l'artefice sinistro, l'organizzatore
sciagurato?
Nessuno dirà all'afflitto che tutto il grano degli Stati Uniti e del
Canada, milioni e milioni di sacchi di grano di cui camperebbe il
mondo per l'annata tutta quanta, è accaparrato da mezza dozzina
d'incettatori miliardari?
Non gli dirà nessuno che tutte le carni di cui si alimenta il
mercato indigeno e se ne stipa da mesi e mesi tanta che basta ai
bisogni di questo continente e di quello per anni – è nelle mani
d'un pugno di ladri venerandi e temuti? Che l'esistenza, la libertà
di tutti noi è alla discrezione del capriccio, nella fragile mano
d'un vecchio che, insaziato, ad ottant'anni continua a barattare in
lucenti monete d'oro il sangue, il sudore, le lacrime sante delle
madri e dei bimbi e di tutti noi?
Non gli dirà nessuno che in ogni città, in ogni borgo lo strupo di
vampiri inverecondi ed insaziati ha ricettatori, complici e
manigoldi senza scrupoli nè discrezione?
E se dalle vetrine sfolgori il bel pane dorato ed ammicchi il
prosciutto roseo e gaio come il topazio rida nei fiaschi pingui il
buon vino, e dai colmi sacchi la farina, sospiro delle massaie,
ribocchi più candida della neve, non ricorderà il malnutrito che
egli della terra squarciò il solco, e vigilò le spighe ed i tralci,
ed addensò i covoni e la vendemmia, che egli, il paria soltanto,
crebbe al sole ed al padrone quell'abbondanza gelosa, sobillatrice?
E non allungherà la mano a togliersi quello che è suo?
* * *
Bisognerà essergli accanto nell'ora dubbiosa, vincerne le ultime
ritrosie, spezzare i lacci delle inibizioni paurose, dirgli: piglia
che non è peccato! piglia che è tuo, che è il tuo diritto, che è la
tua vita! piglia per te, pei tuoi, per tutti; bisogna pigliare per
lui, pigliare e dare tutto, a tutti, sfrenando i cenciosi a la
riscossa, sfrenando oltre l'inutile interdizione dello sciopero,
alle reni della guerra, a sbaraglio dei ladri che la scatenarono, il
ciclone espiatore, riscattando col sacrifizio il revoluto trentennio
di impotenza e di viltà.
E se non sarà il Primo Maggio, emenderemo il calendario... poi.
(5 maggio 1917).
Tra il martello e l'incudine
Ora sono due mesi all'incirca i grandi sacerdoti dell'American
Federation of Labor in rappresentanza «not only of those who
constitute it», ma nel nome di tutti i lavoratori indigeni ed
immigrati«of all those who have common problems and purposes but who
have not yet organized for their achievements» si schieravano a
favore della guerra facendo atto pubblico di sudditanza e di fedeltà
alla borghesia del paese sacrificandole dieci milioni di lavoratori
immigrati ed indigeni; giurando solennemente «to stand in peace and
in war, in stress and storm, unreservedly by... the safety and
preservation of the institutions and ideals of the Republic...65.
Del mercimonio inverecondo coglievano la mancia pochi giorni di poi:
Samuele Gompers era accolto nel supremo Consiglio della Difesa
Nazionale, zelantissimo in questo suo proposito limpido ed
esclusivo: al concilio augusto egli assurgeva non a tutela del
lavoro, dei suoi diritti, dei suoi militi, ma a difesa della
nazione, dei suoi istituti, delle sue fortune. Anzi, poichè la
rivendicazione di superiori diritti, in quest'ora di particolari
ineluttabili angustie, alle sorti della guerra poteva apparire
insidia, e fellonia alla patria, doveva intendersi bene e da tutti
che agitazioni e scioperi non sarebbero quindinnanzi per alcuna
ragione tollerati.
E il periodo idei grandi scioperi è finito.
* * *
L'obbiezione che si può in America scioperare anche senza il
beneplacito di Samuele Gompers non resiste neanche ad un esame
superficiale. Vi sono bene industrie e lavoratori che si sono fino
ad oggi mantenuti indipendenti dall'American Federation of Labor e
potrebbero con tutte le apparenze mettersi in isciopero sempre che a
tutela del loro lavoro avessero a crederlo opportuno. Ma sono
apparenze: delle sorti di un'agitazione che sugli ordini e dai
vassalli dell'American Federation of Labor vedesse occupato illico
ed immediate il posto degli scioperanti, non è alcuno che possa
nutrire illusioni eccessive.
Non per nulla si coltiva da trent'anni nei lavoratori del
continente, in luogo e vece del sentimento di solidarietà, il culto
dell'organizzazione e della disciplina; ed a stringer nel pugno dei
mali pastori l'armento castrato, si sbarrano delle grandi
confraternite porte e finestre ad ogni indagine critica, ad ogni
spontaneo fervore di iniziativa, ad ogni intima confidenza nelle
proprie forze, allo spirito d'indipendenza e di rivolta!
Regola e disciplina hanno maturato la loro spiga che è di rinunzia,
d'obbedienza, di rassegnazione e di abbiezione; e si è consumata
pacificamente ad opera dei grandi sacerdoti del sindacalismo operaio
la confisca del diritto di sciopero e di coalizione nell'ora che dai
rappresentanti della nazione si perpetra la confisca del diritto di
parola, di stampa, di riunione; nell'ora cioè in cui le lotte sul
terreno economico rimangono il solo mezzo di protesta e di riscossa
proletaria.
* * *
Confisca senza riserve. I lavoranti della «Wheeling Steel & Iron
Co.» di Wheeling. W. Va., il 14 dello scorso aprile si sono messi in
isciopero compromettendo la giornaliera produzione di due milioni di
scatole per conserve che assicurano la vendemmia dei dividendi
opimi, e sono indispensabili al vettovagliamento delle truppe
mobilizzate. Ha risparmiato il tradizionale ricorso e la congrua
spesa dei«constabularies» e dei «pinkertons»66 la «Wheeling Steet
& Iron Co.» ha diffidato semplicemente il Ministero del
Commercio che, perdurando lo sciopero, non potrà fare a termini del
contratto le consegne; e S. E. William C. Redfield ha ricordato
semplicemente a Samuele Gompers l'impegno pubblico e solenne: «There
would be no strikes during the war!». La controversia è stata subito
appianata: non hanno vigilato mai intorno alle fortune del
privilegio, a custodia delle usure capitaliste impunitarie e
dell'esoso implacato sfruttamento dei servi, gendarmi più
coscienziosi che le grandi organizzazioni del lavoro.
Contano sul pegno con sicurezza tanto maggiore i falchi rapaci
dell'industria e della finanza che la domesticità dei grandi
sindacati operai, li abilita alle ragioni estreme del rito sommario.
Abbandonate dai loro tutori, dai santoni che hanno investito di
tutta la loro fiducia che hanno eletto depositarii della loro
volontà, su chi potrebbero oramai contare le minoranze che contro il
patto simoniaco avessero eccezionalmente ad insorgere?
Gompers ha spezzato loro nelle mani anche l'ultimo filo della
speranza: al primo brivido d'insurrezione their charter in the
American Federation of Labor will be withdrawn67; che non soltanto è
l'anatema, l'interdetto con tutte le sue conseguenze, è una vera e
propria denunzia di fellonia alle competenti autorità, le quali si
vedono così francate da ogni riguardo.
* * *
Esagerazioni?
Non sono nella nostra consuetudine, e nel caso tornerebbero
superflue.
A Brooklyn gli operai della «E. W. Bliss Co.», che fabbrica siluri
per conto del governo americano e per quelli alleati, non sanno
persuadersi che essi debbano sgobbare come schiavi accumulando
miseria in grazia della bella guerra che conia miliardi,
patriotticamente, ai loro sfruttatori; e brontolano che
abbandoneranno il lavoro dichiarando lo sciopero.
Samuele Gompers ha enunciato con soverchia precisione il suo
pensiero perchè abbia ad indulgere con un emendamento: there would
be no strikes during the war; Samuele Gompers è del Comitato della
Difesa Nazionale; quella dei siluri è industria essenziale della
guerra e della difesa. È logico che egli abbandoni la vertenza alla
competente autorità militare. Questa interviene e diffida, gli
scioperanti che «ove abbandonino il lavoro saranno deferiti per alto
tradimento alle Corti Marziali e trattati di conseguenza»68.
E dello sciopero non si è parlato più, manco a dirlo.
Così su l'incudine ci attanaglia l'organizzazione operaia, e sul
ferro che la conserta ingenua fede degli umili s'illuse d'aver
fucinato per la comune difesa del pane e della libertà martella il
privilegio lo strumento delle sue rapine, le ritorte del nostro
servaggio,
* * *
So: è chi pretenderebbe ad una riserva, ad una distinzione: non
tutte le organizzazioni sono coniate nel medesimo stampo, nè
inalberano lo stesso programma, nè agitano le stesse rivendicazioni,
nè gli stessi mezzi, nè per le stesse vie; e distinguere bisogna.
Ma la pretesa è mortificata dall'esperienza, e dalla realtà, così
come esperienza e realtà hanno fatto giustizia inesorabilmente di
altre distinzioni paurose di scavalcare l'innocua barriera delle
apparenze e delle forme per cimentarsi alla frode essenziale che vi
si rimpiattava inalterata e sciagurata. La proprietà, sacra,
quiritaria, signorile, borghese, è rimasta, mutatis mutandis, quella
che era in origine: rapina e flagello. Il governo, di sacerdoti o di
maghi o di faraoni, autocratico, costituzionale, repubblicano, nel
nome di dio o del suffragio universale, è rimasto quel che era alle
scaturigini; dominio della minoranza sulla maggioranza; e fosse
domani il dominio della maggioranza sulla minoranza, non cesserebbe
di essere quello che fu sempre: usurpazione e tirannide. Perchè non
nel modo di essere della proprietà o dello Stato, ma nel fatto che
vi è la proprietà, che vi è il governo, consistono e si inaspriscono
ragioni e cause della miseria e della servitù che ci affliggono.
Fatte le debite proporzioni è lo stesso dell'organizzazione. Il
danno e la vergogna che sono inseparabili da ogni parola e da ogni
gesto dell'American Federation of Labor, sono di tutte le
organizzazioni, anche di quelle che si imbellettano dei programmi
più sovversivi e dei postulati più radicali, se contro lo
sfruttamento, contro l'oppressione borghese, in luogo della critica
nihilista e dell'azione rivoluzionaria non ispianino che la minaccia
apocalittica dei programmi massimi, obliterati ogni giorno dai
compromessi vergognosi dall'assidua contraddizione e dall'empirica
conquista dei vantaggi immediati; ed a realizzarla – sfoderato il
dogma de l'organizzazione per l'organizzazione – esigano la cieca
obbedienza delle masse, disciplinate perinde ac cadaver, alle sue
gerarchie casermiere ed alle sue «regole» conventuali.
Conventi e caserme non furono mai asilo di libertà nè focolari di
rinnovazione; non ne sbucarono mai che l'ipocrisia, l'intolleranza o
la bestialità, Sant'Ignazio, San Domenico, Muraview o Gallifet o
Bava Beccaris.
Non è nei programmi la contraddizione; non nel modo, ma nel fatto
stesso dell'organizzazione.
* * *
— Possiamo fare qualche cosa stando appartati, isolati?
— Non gioverebbe a nulla saltare da un assurdo in un assurdo
peggiore e ad invocare l'isolamento non saranno certo coloro che più
ne hanno sofferto e «l'uomo solo» hanno visto, più che una volta,
del dolore, dell'angoscia, dell'onta universa togliersi la croce
solo, portarla solo lungo l'erta atroce e sanguinante del calvario.
Ragione e forza non sono tuttavia del numero; cento menzogne per
essere cento non valgono ragione di una verità che pur sia sola.
Ragione e forza che hanno scosso ne la storia dalle fondamenta
l'ordine sociale, sono scaturite dalla fede nel diritto quanto più
era vilipeso, dalla consapevolezza della forza su cui potrebbe
contare, dalla volontà fervida e tenace a rivendicarlo, dalla
spontanea coesione delle libere energie solidali che, pur dove
caddero, trionfarono auspicando alle vittorie del domani additandone
le vie e le promesse.
Cerchiamole, coteste energie disperse ed ignare, coteste coscienze
sopite, coteste volontà contumaci: rizziamoli su in piedi col
fervore irresistibile della fede, dell'amore, dell'esempio, cotesti
servi sfiduciati ed abbandonati rivelando, ad essi l'identità delle
miserie e dei dolori, l'identità sciagurata delle origini, della
passione, del destino, ed il sentimento di solidarietà che verrà in
essi sviluppandosi ogni dì più profondo, più operoso, più audace ci
darà nell'irrefragabile spontanea consaputa concordia delle
attitudini infinitamente varie, la leva formidabile alle più
temerarie rivendicazioni, a tutta la liberazione.
* * *
Che si chiede indarno al gregge prono alla regola ed ai concilii,
indarno all'armento sommesso al gioco ed alla ferula dei mali
pastori, tanto meno confidente in sè e nelle proprie sorti quanto
più è devoto ai cacichi ed ai santoni, zimbello dei loro capricci,
strumento dei loro calcoli, vittima perpetua dei loro raggiri e
della loro vigliaccheria.
A Parma il sindacalismo rosso che impreca alla guerra di Tripoli
perchè vi impreca il mandriano, ma inneggia alla bella guerra
l'indomani perchè il mandriano acclama al tricolore; a Parigi la
rossa Confederazione Generale del Lavoro che si costituisce in
commissariato del governo dopo di avere affondato nel letamaio i
vessilli della repubblica; dall'altro lato della frontiera la
tedesca Confederazione Generale dei Sindacati che spegne ogni fiamma
di scioperi e di agitazioni «perchè la salvezza dell'Impero è il
solo compito, il solo dovere dell'ora presente»; in Russia il
comitato rivoluzionario degli operai e dei soldati che disarma la
rivoluzione a beneficio dell'ultimo colpo di stato borghese; qui
l'American Federation of Labor, costituita, dopo tanti appelli
antimilitaristi e paciferi, in arca santa delle istituzioni e degli
ideali della repubblica; qui – con la sincerità in meno – su la
china delle stesse abdicazioni lubriche, tutte, tutte le
organizzazioni concorrenti.
Tutte!
* * *
Nei gregarii ingenui di certo sindacalismo di nostra conoscenza –
accampato tra il ghetto e la sacrestia, che non sa coltivare altra
fede se non dell'organizzazione e della palanca, e tratto fuori dal
minuto commercio dei rosarii, delle marchette, delle medagliuzze e
dei bottoni non sa più che pesci pigliare, giacchè ha nei raggiri e
nel ventre tutto l'ideale, e del riempirlo a spese dei gonzi –
dovesse venderli al primo che capita settanta volte e sette – la
sola nobile preoccupazione; e non ha se non insidia, calunnia,
vituperii, anatemi per chiunque non gli tenga il sacco; nei
gregarii, che sono straccioni, che della guerra ignorano le cause
misteriose e non ne vedono la giustificazione, e ne pagano, quali
che abbiano ad esserne le fortune, l'esoso tributo di lacrime, di
pane, di sangue, nei gregarii l'orrore della guerra è istintivo,
sincero, inalterato.
Non ne vogliono sapere a nessun costo e per nessuna ragione; e
guardano diffidenti, inquieti al giornale dell'organizzazione che
nicchia – rinterzato del più bel paio d'interventisti che... non
intervengono, anche se per amore della tana e della biada ai
confessati furori bellicosi mettano la sordina – e non fiata su
l'argomento da un paio d'anni, e tacerebbe ora tanto più volentieri
che urgono responsabilità di cui non ha il coraggio, e fierezza,
sincerità, coerenza d'atteggiamenti manderebbero la vigna a
rifascio, se giù dalla platea i gregarii non gli intimassero di
parlar chiaro, di precisare una volta il suo pensiero.
o, del presente
che avete in mente?
Che cos'ha in mente? Potesse dirvelo!
Se la parola – come gli ha felicemente insegnato il signor di
Talleyrand – non gli fosse stata data per nascondere il proprio
pensiero, egli ci direbbe, schiettamente: «Sentitemi, io sono per la
guerra, ma se ve lo dico mi mandate a spasso. Mi volete contro la
guerra? e sia fatta la volontà vostra poichè ministri della sbobba e
della pagnotta siete voi; ed abbasso la guerra! Ma...
«Ma badate che vent'anni di propaganda antimilitarista non hanno
conchiuso a nulla, che la vernice sovversiva con cui avevano creduto
d'immunizzare contro la peste militaresca il proletariato si è
scrostata tanto più alla svelta che a sgretolarla fummo primi... noi
colle nostre abiure, le nostre defezioni, le nostre reticenze
lazzarone; badate che la guerra è implicita nel regime capitalista,
e che il ricercarne le cause, denunziarne la cinica avidità, il
parossismo omicida, le restaurazioni scellerate come fanno quei
perdigiorni ciancioni che sono gli anarchici, è tempo perso, com'è
tempo perso d'attaccarsi al buon dio ed alla religione, alla
proprietà ed allo stato, alla legge ed alla morale che del poliedro
borghese sono le faccie multiple e gli organi indispensabili, i
quali spariranno soltanto col trionfo della classe proletaria sul
regime capitalista.
«Per cui, siatemi savii ed indulgenti non mi scocciate il buon dio
cogli scandali clericali, non iscreditatemi la proprietà colle
critiche negative, non contrastate d'una protesta, di una
resistenza, di una rivolta il fatale andare della guerra, flagelli
che spariranno insieme col capitalismo da cui suppurano.
«L'unico mezzo di demolire il regime, credetemi pure, è ancora
quello di lasciargli man franca, di cedergli il passo, di
accordargli tutta l'impunità, di rifugiarsi nell'organizzazione che
avvisa, provvida, ad edificare... anche prima di demolire, e se si
burla di voi tutti quanti, ha per me tanti risultati positivi,
pratici, sensibili, ed in nome d'un ermafroditismo avveduto ci
consente di essere alla guerra favorevolmente contrarii.».
Questo direbbe il tartufo sindacalismo nostrano se il signor di
Talleyrand non gli avesse dato la parola per nascondere il proprio
pensiero, se della verità e della sincerità non avesse l'orrore e
della palanca la satiriasi, e per tener questa non buttasse quella
alle ortiche ogni volta che, implacate, decenza e logica lo
richiamano alla responsabilità ed alla coerenza di cui non ha il
coraggio. di cui ha soltanto la paura.
* * *
Ad ogni modo, questa la situazione del proletariato d'America
nell'ora che – invertite nel motu-proprio, nel bon plaisir du roi,
nel crimenlese e nella forca le guarentigie costituzionali, messe e
gloria dell'ultima rivoluzione – la repubblica precipita alla
dittatura militare, la borghesia urge alle forsennate restaurazioni
feudali, e la guerra fermenta le tragiche vigilie del sangue,
dell'inopia, del disinganno: nel Ghethsemani atroce in cui solo,
inerme diserto, ludibrio d'ogni strazio, d'ogni tributo dovrebbe
meglio contare su gli istituti di protezione e di difesa creati in
mezzo secolo di sacrifizii, di tenacia, d'abnegazione, di battaglie,
Giuda lo vende e Simone lo rinnega.
* * *
Da una parte l'American Federation of Labor che soggiogandolo alla
patria, alla guerra ed alle sue taglie; precludendogli ogni libertà
ed ogni via a rivendicare pane, quiete, compensi adeguati se non
alla pena, alle esigenze del momento eccezionale ed agli eccezionali
profitti che si mietono dall'altra riva, lo consegna, legato piedi e
mani alle bande nere di Wall Street, ai pretoriani della Casa
Bianca, ai pubblicani della Camera e del Senato; lo vende al nemico
secolare ed immutato.
Dall'altra gli istrioni dell'operaismo professionale, i farisei del
sindacalismo rigattiere che alla privilegiata, esclusiva tutela del
lavoro pretendono dal giorno... che gli hanno dato un calcio come
alla più ingrata delle espiazioni, cavandosi nel formaggio della
burocrazia operaista il buco fruttifero; e gridano incontro agli
intelligenti quanto più coscienziosi, la crociata implacabile nel
nome di un intellettualismo pagliettaro che per la palanca
s'accomoda a tutte le smorfie, a tutte le ipocrisie, a tutti i
raggiri, fino a scompisciarvi il giornale patriottardo per la
gloria... dell'Internazionale o, viceversa, pur credendo nella
patria e nella guerra devotamente, ad inalberarvi la protesta
antimilitarista sempre che vengano baiocchi e la ciambella non
pericoli; fino a vendervi per le fiere ed in contanti il fumo di
un'azienda che non c'è, che non è esistita mai fuori della cimiciaia
dei cavadenti ventruti, costretti a campare d'accattonaggio e
d'estorsioni.
I quali dopo d'aver sbraitato che la rivoluzione l'avevano
immagazzinata essi soli e tutta quanta; che ai privilegiati «il buon
dì de la morte» sarebbero andati a darlo essi soli; oggi che la
borghesia sputa ad essi in faccia la provocazione e la sfida, e sui
vassalli avventa l'artiglio grifagno, piantano il gregge sparuto nel
sugo, si rifugiano la coda fra le gambe nella reticenza codarda, e
snidati dagli ammutinamenti della congrega, non sanno cantarle altro
salmo che delle fatalità inamovibile, altro miserere che della
fatale vanità della rivolta, altra laude che della tolstoiana
resistenza passiva, nè altro peana che della bottega: salviamo la
bottega
Se il tempo brontola,
Finiam d'empire il sacco;
Poi venga anche il
diluvio;
Sarà quel che sarà.
* * *
— Non pare allegra la situazione!
— Quella che si rinnova ad ogni profonda crisi sociale, ad ogni
svolto della storia.
Arrovellata dall'inedia, seviziata dalla schiavitù, umiliata
dall'ignoranza, ugualmente inique ed immeritate, prorompe sola la
plebe oltre le trincee del vecchio ordine a cercarvi il pane, la
libertà, la verità, contese. Sfida sola l'ira dei numi, l'anatema
dei concilii, la ferocia dei berrovieri, perchè sa essa sola
l'angoscia dei crampi, delle tenebre, delle ritorte.
Prorompe, sommerge, travolge ogni termine ed ogni simbolo ed ogni
barriera, valanga incoercibile di ferro, di fuoco, di odio e di
amore, selciando di ruderi le vie del divenire.
Gli altri... vengono poi, la sesta giornata, a spulezzare al
terribile e corrusco sovrano dell'ora le riverenze e gli omaggi che
la vigilia, agli idoli percossi; vengono ad inebriarlo ad ammansarlo
suadendogli dopo lo sforzo titanico la sosta necessaria, e gli
ribadiscono, nel sonno, le vecchie catene, rifacendosi l'aureola
delle mitre, delle corone, degli scettri spezzati.
Non è stato sempre così?
È solo anche oggi il proletariato! Sarà solo domani quando butterà
la croce, tutte le croci e l'ultima fede nell'obliqua salvazione dei
taumaturghi, dei sinedrii, dei farisei d'ogni grado e d'ogni colore;
e non avrà fede che in sè, nel proprio diritto, nella propria forza,
e ne fucinerà solo il proprio destino.
Domani, nel domani imminente in cui l'insurrezione dovrà chiedere il
pane che gli contendono e gli rubano le superne minaccie, gli
interdetti ed i mercimonii, la perfidia e la vigliaccheria dei suoi
tutori miserabili.
Solo! e sarà la sua forza e la sua fortuna.
(12 maggio 1917)
Matricolati!...
Nulla dies sine linea
Il progetto di legge sul servizio militare obbligatorio ha riscosso
– salvi pochi emendamenti formali – la concorde approvazione della
Camera e del Senato, la sanzione definitiva dal Presidente Wilson,
ed è oggi legge dello Stato, ancora una benedizione della guerra,
civilissima, ancora una vergogna della grande repubblica che vi
affoga l'ultima delle sue tradizioni democratiche, che vi affoga lo
spirito e la lettera, la gloria e le franchigie del suo patto
fondamentale, se «neither slaverv nor involuntary servitude... shall
exist within the United States, or any place subject to their
giurisdiction»69, e non è al mondo professore di diritto
costituzionale il quale neghi che la schiavitù militare sia la più
obbrobriosa e la più esosa di tutte le forme di servitù
involontaria:
Ed è già entrata in vigore.
Il Presidente Wilson che dalla Legge 18 Maggio 1917 è autorizzato a
chiamare sotto le armi tutti i cittadini americani e tutte le
persone di sesso mascolino che abbiano dichiarato la loro intenzione
di naturalizzarsi cittadini americani – sempre che abbiano compiuto
il ventunesimo anno di età e non superino il trentunesimo, ha
ordinato immediatamente il censo militare.
Il che vuol dire – ed a noi che siamo qui l'ha detto nel suo
proclama di ieri il governatore Samuel Mac Call –che «tutti i maschi
residenti nello stato i quali abbiano attinto il 21° anno di età e
non abbiano raggiunto ancora il trentunesimo al 5 del Giugno
prossimo, debbono comparire fra le sette antimeridiane e le nove
pomeridiane di detto giorno ed inscriversi debitamente presso
l'ufficio di registrazione nel quartiere di loro abituale dimora».
* * *
— Ma la legge su la coscrizione non parla che dei cittadini e di
quelli che hanno manifestato la loro intenzione di diventarlo, e
siano tra i ventuno ed i trentun anni di età! Come qui i proclami
dei varii governatori non fanno più cotesta distinzione tra
cittadini e non cittadini?
— È qui il trucco! oggi non vogliono sotto le bandiere della
repubblica che i cittadini e quelli che hanno avuto fretta di
togliersi la prima carta di cittadinanza: ma domani?
Chi può dire che cosa avverrà domani? Per la patria d'adozione o per
quella d'origine, per la mobilitazione civile od industriale od
agricola non potrebbero occorrere anche gli uomini di cui la legge
non contempla la immediata coscrizione militare?
Ed averli matricolati tutti quanti, sotto mano tutti quanti, sapere
donde vengono; dove stanno, quel che valgono, quello che pensano, e
poterli ad ogni occorrenza requisire per le darsene, per gli
arsenali, per le ferrovie, a far munizioni a vangar la terra a
spazzar le strade, a sfruttarli per sè, a tenerli d'acconto per
Poincaré per Giorgio o per Gennariello, e mandarli, ove le esigenze
della guerra impongano, a pigliare il posto di quelli che al fronte
sono caduti, e cadono tutti i giorni, e cadranno per mesi ed anni
ancora; per relegare i sudditi del Kaiser o di Maometto in qualche
campo trincerato, per metter la mano sui sovversivi indocili e
cacciarli in galera, o tradurli dinnanzi ai tribunali giberna od al
pelottone d'esecuzione, non è sagacia politica di quella raffinata?
non è pigliare con una fava mezza dozzina di piccioni?
* * *
— Brutti guai! Siamo scappati di casa per non affogar d'accidia e di
umiliazioni nelle caserme della patria, per non crepar di rabbia e
di supplizi sul tavolaccio delle compagnie disciplinari, abbiamo
lasciato i vecchi ed i figlioli e le nostre povere compagne per non
andare a farci ammazzare sul Tonale o sul Carso pei begli occhi e
per la fortuna dell'ultimo sgorbio Savoiardo, ed eccoci qui, in
grazia della bella guerra, a discrezione d'un esotico pugno di
pubblicani svergognati e d'insaziabili strozzini. Gran brutti guai!
— I guai lasciamoli da parte che tanto con un piagnisteo od una
bestemmia non si smuovono; e d'altra parte ve li siete tirati
addosso voi soli.
Non avete fino a ieri inneggiato alla patria che dai suoi confini
v'ha banditi a calci nel deretano? E, qui, della patria non avete
ravvivato subito le vergogne che la rodono? Non ieri ancora a le
calcagna del prominentume imboscato, comparse grottesche d'ogni
pagliacciata tricolore, ne avete agitato i simboli acclamate le
bandiere, auspicate e benedette le guerre che fanno strazio dei
figli malnutriti e delle madri dolorose? Stupidamente bardati nella
livrea del carabiniere, del bersagliere, dell'alpino della patria?
E quando da l'esile schiera nostra indocile e malveduta una voce è
sorta ad ammonirvi del giuoco pericoloso, sforzandosi di suscitare
negli animi vostri il ribrezzo di ogni forma servile, del soldato
che si prostituisce, dell'elettore che si vende, del servo che adora
la catena e bacia la mano del negriero che lo flagella, non ieri
ancora alla canea forsennata degli sgherri dell'ordine avete
mesciuto l'imprecazione vostra a soffocar la voce che v'annunziava
la più grande patria senz'odii nè frontiere che avrà per tutti i
pargoli una carezza, di ogni madre la religione, dei legionarii del
lavoro la gratitudine amorosa; e schiuderebbe domani ospitali le sue
mure all'impeto irresistibile delle vostre energie consapevoli e
spregiudicate?
Non avete saputo volere, osare mai; ed oggi la patria in bancarotta
per mezzo miliardo di lire vi ha venduto allo straniero; oggi la
guerra da voi invocata e benedetta vuole sul fronte altri gagliardi,
altri cadaveri a colmare la voragine beante, e qui o laggiù, sotto
la mitraglia o sotto le nerbate, lascierete la pelle che non avete
rischiato mai per assicurare al ventre il pane quotidiano, per dare
alle menti od ai casolari il raggio di luce che su le fronti e su le
vie dell'avvenire il pensiero avvampa ed i propositi e le speranze e
le audacie ed i destini della libertà.
Avete i guai che vi siete cercati.
Non vi dice l'esperienza vissuta che dove lo schiavo s'adagia e si
rassegna al giogo non hanno più freno la tracotanza e l'avidità del
padrone?
E dovevano tenervi più che ciurma spregevole i capitalisti ed il
governo americano che hanno visto ripagato di devozioni supine e di
rinunzie illimitate il disprezzo che non vi hanno nè nascosto nè
lesinato mai, che vi hanno sputato in faccia nei giudizii
irrevocabili del Wilson e nel pertinace ostracismo del Burnett
Bill?70
— Carnaccia da bastone e da cannone questa che rifiuta dalle sue
cloache nauseabonde l'Europa meridionale! e carnaccia disprezzata vi
ipoteca alle sue galere, vi rovescia senza uno scrupolo od un
rimpianto in tutti gli arrembaggi di frontiera.
* * *
— Però, non rimarrebbe sempre uno scampo? se all'immatricolazione ci
avessimo a ricusare, ed in luogo d'affollarvi Martedì 5 giugno agli
uffici di registrazione andassimo a pigliarci lungo la spiaggia, pei
boschi, un sorso d'aria buona, che cosa ci potrebbero fare?
— Articolo V della Legge 18 Maggio 1917: «Ogni persona che
deliberatamente manchi o ricusi di presentarsi da sè alla
registrazione, o di sottomettersi alle disposizioni prevedute, sarà
colpevole di fellonia, e potrà, essere, in seguito a regolare
processo, condannato fino ad un anno di carcere, dopo di che sarà
debitamente registrato»
— Dalla padella nelle bragie; che cosa ci consigli tu?
— Non si danno consigli in materia, figlioli miei! Non ai sovversivi
che sanno trovar la loro via anche senza padri spirituali, e
batterla impavidi senz'altra bussola che della propria coscienza,
senz'altro viatico che dell'intima soddisfazione; non si danno a
quegli altri che non avrebbero nè il coraggio nè la forza di
seguirli, e battono ansiosi, in moltitudine insolita, di questi
giorni alle porte dei gruppi e dei giornali sovversivi chiedendo
consiglio ed aiuto. E non dà consigli che implicano responsabilità e
rischi chi sia dagli anni molti posto oltre, al sicuro dai cimenti e
dai pericoli a cui precipiterebbe l'altrui.
* * *
Consigli dunque no, ma un esame schietto: delle condizioni che da
nuova legge ci fa, e delle conseguenze del vario atteggiamento che
essa può consigliare.
Perchè – si deciderebbe su l'argomento anche il Marchese Colombi che
tra il sì ed il no ora quasi sempre di parere contrario – o vi
registrate o non vi registrate.
Vi registrate?
Incominciate a sancire un arbitrio. La legge votata il 18 Maggio,
dal Congresso dà al Presidente la facoltà di coscrivere cittadini
Americani e quanti hanno dichiarato di volersi naturalizzare
Americani, che siano tra i ventuno ed i trentun anni, lasciandogli
la libertà di eleggere e di prescrivere i modi della coscrizione
sempre che questa procedura non sia «inconsistent with the terms of
this act».
In altri termini il Congresso riconosce al presidente il diritto di
occuparsi per la leva dei cittadini americani e dei candidati alla
cittadinanza, e quando limita in questi confini i diritti del
presidente, vuol dire che gli nega ogni diritto di occuparsi – pel
momento di quanti non siano cittadini americani o non abbiano
mostrato alcuna ambizione di naturalizzarsi americani.
La registrazione coatta di quanti non siano cittadini americani, di
quanti non abbiano dichiarato l'intenzione di naturalizzarsi è
dunque «inconsistent with the terms of the Act» 18 Maggio 1917; è un
arbitrio; ed è nel vostro diritto – nei termini della legge stessa –
di rifiutarvi alla registrazione.
Voi sapete per esperienza che la legge è come quella tal pelle...
che si allunga e si accorcia a seconda della temperatura...
politica, e che sarebbe ingenuo fidarsi delle interpretazioni meno
ortodosse; ma sareste, a parer mio anche più ingenui a credere che
vi registrano, così, tanto pel gusto di sapervi al mondo, nel fiore
dell'età e della salute.
Se vi registrano anche dove la legge della coscrizione vi ignora,
per qualche cosa vi registrano, e se il perchè non vi dicono si è
che a dirvelo hanno paura, paura di scoraggiarvi, di ribellarvi o di
buttarvi alla campagna.
Vi registrano per mandarvi pei primi in Italia che di questi giorni
con due decreti del vicerè ha largito l'amnistia ai renitenti ed ai
disertori, e che appena vi avrà nelle mani vi manderà al fronte pei
primi a riscattare questi tre anni d'antipatriottica latitanza.
Vi registrano per disporre della vostra pellaccia, per togliervela
alla prima occasione.
* * *
Non vi registrate?
E vi arrestano, se a rifiutarvi non sarete che qualche dozzina,
perchè se sarete qualche migliaio, molte migliaia – e dal vento che
tira sembra che le migliaia si conteranno a dozzine – non avranno
alcuna voglia d'inferocire, nè tante galere in cui suggellarvi.
Vi arrestano e vi possono condannare ad un giorno, a quindici, a tre
mesi, nel caso disperato ad un anno di carcere.
Non è ancora la pelle!
— Sì; ma non vi registrano poi lo stesso?
— Siamo perfettamente d'accordo, vi registrano subito; ma con
un'esperienza: che vi registrano per forza, che siete un malarnese,
refrattario all'arbitrio, refrattario al servizio militare,
refrattario ad ogni tributo di mobilitazione industriale o politica;
vi registrano, ma colla certezza che se vi mandano in caserma sarete
pietra di scandalo e d'indisciplina, che sarete un pessimo guerriero
se vi mandano al fronte, che disperderete il grano se vi mandano
alla mietitura, che saboterete telai e tornii, ponti e strade,
telefoni e locomobili, cotone, lane, foraggi, se di forza, contro
ogni vostra volontà ed attitudine, vi coscriveranno nei quadri della
svariata mobilitazione.
E vi sono novanta probabilità su cento che vi lascino perdere o
quanto meno vengano a cercarvi il più tardi possibile.
Pesatele voi le conseguenze probabili del diverso atteggiamento, e
se vi bastano l'animo e le reni di rifiutarvi alla usurpazione
esosa, se v'affida la vita di più nobile compito che non del
lanzichenecco o del tagliagole o del birro, se avete affetti ideali
cui consacrare più nobilmente il vostro fervore, la vostra
abnegazione, il vostro pane, non andate a registrarvi.
* * *
Ma se dalle caserme della patria e dai rischi della guerra, per
viltà, non per serbarvi a vita più dignitosa ed a più generose
battaglie, siete disertati; se in America col fardello delle
superstizioni grette e della domesticità tradizionale non siete
venuti che a cercare la pezza, e non avete vissuto mai che ad
arrancarla ad adorarla, stranieri ad ogni altra religione ad ogni
altra fede, ad ogni altro amore che non fosse dei vecchi dei, del
vecchio ordine, del re o del prete, del padrone o del birro, ed
allora rassegnatevi! Vuole altro sangue il buon dio, vuole altri
sudditi il re, vogliono altri miliardi i pubblicani, altri olocausti
vuole la bandiera, altre vittime, altri milioni di vittime i feticci
mostruosi che voi avete venerato, custodito, levato su le cervici
prone e su le braccia servili fino a ieri.
E voi dovete dare, dare ancora, dare sempre, dare la pelle vostra,
le carni dei nati, gli strazii delle madri, il pane ed il destino di
tutti, perchè altrimenti non è più empireo per gli dei, non sono più
corone per feticci, nè gloria per le bandiere nè storia per la
patria nè gladiatori per la guerra, nè servi pel solco, nè ceppi pei
servi.
E dite, dite! Che cosa sareste voi senza dio, senza re, senza
padroni, senza ceppi, senza lacrime?
Il finimondo!
* * *
Su, su a le vedette, ottuso armento di schiavi fedeli!
Romba dall'oriente estremo la procella e nei cieli torbidi balena
l'apocalisse d'inattese espiazioni e su dagli strati più profondi e
meno esplorati della storia l'eruzione di eresie di flagelli
d'aneliti di forze insospettate ed incoercibili.
Si scopron le tombe
Si levano i morti,
fantasime pallide tornano da le segrete di Schlusselbourg, da le
tundre de la Siberia orrenda volti e voci che gli anatemi del Santo
Sinodo ed il capestro degli Czar s'illudevano di avere per sempre
ammutolito, ed a cui risponde dalle spiagge Lusitane e dalla vecchia
Aragona in fiamme lo schianto della rivolta che la pietà di nostra
Signora del Pilar e la mitraglia conserta della repubblica e del
Borbone non giungono a disarmare nè a spegnere.
Il vecchio ordine traballa spaurito.
Corri a salvarlo tu, armento ignavo ottuso di servi fedeli; franca
nel pugno massiccio il coltello sanfedista, ed assesta alle reni
della libertà che rialza la fronte ed accende tutte le speranze il
colpo di misericordia.
Incidendo nel libro aureo delle coscrizioni imminenti il tuo nome e
la tua vergogna.
(26 maggio 1917)
MENTANA
Anticipazioni
Martedì scorso verso le due del pomeriggio tre agenti del governo
federale accompagnati dal sceriffo della Contea si sono presentati
all'ufficio della «Cronaca» chiedendo del suo redattore che il
Procuratore del governo federale voleva vedere in Boston
immediatamente.
Dopo una sosta al locale ufficio di polizia il compagno Galleani è
comparso in Boston dinnanzi all'U. S. Attorney71, curioso di sapere
quale era lo scopo dell'articolo Matricolati! apparso nella
«Cronaca» della settimana scorsa.
— Semplicissimo, ha dichiarato il nostro Galleani, quello di
rispondere a centinaia di lettori i quali chieggono che cosa debbano
fare dinnanzi alla perentoria diffida di doversi registrare.
— E che consiglio date voi?
— Non dò consigli gravi di conseguenze che non sono chiamato a
condividere. Se dovessi rispondere in coscienza dovrei dire ai
lavoratori: non andate a registrarvi. Ma li manderei in galera, e
non ne ho il diritto, io che da tali conseguenze sono immunizzato
dall'età: ho cinquantasei anni.
— E perchè, in coscienza, gli dovreste dissuadere dalla
registrazione.
— Perchè a prescindere dalle mie personali convinzioni...
— Siete socialista?
— No, sono anarchico, e refrattario come tale ad ogni coercizione,
contrario ad ogni legge, a questa particolarmente che avvalora
un'ipoteca indebita ed esosa. Ma anche a prescindere dalle mie
convinzioni e rimanendo nell'ambito vostro dovrei dirà in coscienza
ai miei lettori che la legge 18 Maggio 1917 essendo in aperta
contraddizione collo spirito e colla lettera del tredicesimo
emendamento della Costituzione, nessuno è tenuto ad osservarla:
dovrei dire che nei modi e nelle forme con cui si esige il
censimento obbligatorio del 5 giugno è un'arbitrio a cui nessuno è
tenuto a piegarsi, come quello che esorbita i diritti riconosciuti
ai presidente dal Congresso che non gli ha consentito alcuna facoltà
di occuparsi degli stranieri.
— Mi pare che l'avete detto....
— Senza esagerare e senza rinunziare al mio diritto di esaminare, di
criticare, di aborrire occorrendo un atto del Parlamento. Se vi è
chi può gridare che la guerra è una cosa magnifica, un provvedimento
sagace la coscrizione, un dovere la registrazione, vi può essere chi
pensi che siano insieme tre calamità, e rivendichi, come rivendico
io, il diritto di dirlo. Vorreste pretendere che la legge sia al
disopra di ogni discussione?
— Non si affaccia questa pretesa, risponde l'U. S. Attorney con un
colpo di tosse, e di evidente mala voglia.
— E allora non è lecito inferire che una legge la quale contrasta
l'espressa volontà della nazione è tutto quello che di più
antidemocratico si possa desiderare?
— Come sarebbe a dire?
— Il proletariato d'America non vuol saperne, di guerra.
— Tutto il popolo Americano è per la guerra.
— Quando il governo ha chiesto pel fabbisogno immediato della guerra
mezzo milione di volontarii, il proletariato non vi ha dato un uomo.
V'è prova manifesta che della guerra non vuole: Perchè non si
dovrebbe dire?
— Potete dirlo con molta moderazione, non dimenticando che l'America
è oggi in guerra ben decisa ad andare fino in fondo, e che ogni atto
il quale possa interferire colla sicurezza e colla difesa del paese,
sarà punito colla maggiore severità.
C'è qui ad esempio un manifesto... che voi dovete conoscere.
— Lo vedo oggi per la prima volta; se ne fossi l'autore ne
rivendicherei la paternità, come dell'articolo «Matricolati», se
l'avessi letto e mi piacesse, vi direi francamente che mi piace, se
ne avessi aiutato la diffusione rivendicherei del mio atto la piena
responsabilità.
— Mio dovere è di diffidarvi che saranno prese misure severissime
contro chiunque contrasti in un modo qualsiasi le operazioni
d'arruolamento. Non ve ne dimenticate. Per oggi potete andarvene.
Ed il compagno Galleani è tornato al lavoro coll'impressione che su
in alto guardano al 5 Giugno come ad un'incognita densa di sorprese,
lietissimo di aver lascialo nell'animo dei suoi inquisitori un'altra
non meno schietta nè meno benefica impressione, che si può essere
contro la guerra, contro la coscrizione e contro la registrazione
anche senza essere un agente del Kaiser.
Ed ai compagni agli amici che con fraterna sollecitudine si sono del
rapido eclissi preoccupati amorosamente, manda un grazie sincero e
cordiale.
Non è stata che un'anticipazione del regime che s'addensa minaccioso
su tutti e scroscierà, aspettatevelo pure, compagni fervidi e buoni,
scroscierà per tutti dopo domani.
Senza devastazioni se troverà conserte e decise le energie
d'avanguardia.
(2 giugno 1917)
No, non torna!
Fra i tedeschi del Kaiser che in Fiandra stupran fanciulle, deportan
vecchi, fucilan donne, squartan bambini, ed i tedeschi di Wall
Street che delle donne comprano con una manciata di dollari la
vergogna o le condannano a prostituirsi di miseria sul marciapiedi,
ed affogano d'inedia pei cento ergastoli industriali venti milioni
di cittadini della repubblica, e ne ardono tra le fiammate di
Bayonne o sui roghi di Ludlow i figlioli; tra i tedeschi del Kaiser
e quelli di Wall Street, è vecchia ruggine di mercadanti che nel
gorgo della guerra immane ha travolto anche l'America.
La patria è in pericolo! Bisogna stringere la cintola, bisogna
stringere in un solo fascio irresistibile cuori braccia impeti alla
prova, a la vittoria. Misurare il pane, dare la vita.
Eroico!
Dai tugurii, dai fondachi, dalle soffitte, dai monti, dai campi,
dalle miniere, la marmaglia si addensa al cimento.
Dà il tozzo di pane, dà il soldino, dà i figli, dà la pelle. Non ha
altro; dà tutto quello che ha, la marmaglia.
Dall'altra riva non danno nulla.
Comprano le cartelle del Liberty Loan, sottoscrivono per qualche
centinaio di scudi alla Croce Rossa, mettono a disposizione del
governo cantieri ed officine; è vero, è vero!
Ma tornando dai pic-nic tricolori in cui il signore ha buttato un
migliaio di dollari per una gardenia e la signora ha venduto per un
pugno di ghinee un sorriso od un bacio a... sollievo degli orfani
della guerra, i patriotti dall'altra riva crescono d'un dollaro al
coppo la farina e le patate, le cipolle e le fave, e dell'attimo
d'insolita prodigalità si rivalgono al cento per uno, onestamente.
E su la guerra vendemmiano.
I miserabili si spogliano di tutto e della pelle sul conto.
Ma il conto non torna, e bisogna rifarlo.
Facciano quel che fa la marmaglia i patriottissimi dall'altra riva:
diano alla patria, come la marmaglia, tutto quello che hanno, diano
il campo e la fabbrica, diano il cantiere e la mina, diano il
gruzzolo e la pelle, ed andremo d'accordo.
La comunanza degli entusiasmi e della fede si integri della
comunanza dei cimenti, dei sacrifizii, dell'abnegazione; se no, no!
La patria che agli uni impone l'inopia, agli altri l'indigestione;
che gli uni precipita nell'abisso ed agli altri custodisce la tana;
che a quelli nega la libertà, a questi consente l'arbitrio; che ai
miserabili può togliere la pelle, e non può togliere un soldo agli
epuloni, la Patria è la più sanguinosa delle ironie, la guerra un
trabocchetto scandaloso.
E può farsi la sua guerra allora la patria dei Morgan, dei
Rockefeller, degli Schwab, degli Armour e degli altri Vanderbilt
congeneri.
Il proletariato non ha che a farsi la sua, il proletariato che da
qualche millennio toglie la castagna dal fuoco a tutti i
filibustieri, per mieter soltanto pellagra e pedate.
No, il conto non torna, e alla guerra non si va.
(2 giugno 1917).
Vecchi, ditelo voi!
Parlate voi che lo strazio e l'orrore della guerra avete veduto,
avete vissuto; che nella retina avete sempre il bagliore degli
incendii, e acerbo, implacato nella memoria il gemito degli
agonizzanti di Atlanta, di Iloilo, di Manila72.
Ai figli, ai nipoti che la patria riaggiogano all'antico
vassallaggio britannico, abdicando alle franchigie che della «grande
ribellione» sono la gloria più pura, dite voi che non per questo a
Lexington ed a Gettysburg avete impugnato le armi, dato il sangue e
la fede, anelando a la gloria ed alla vittoria.
Non perchè la patria s'arrendesse baldracca a le voglie dei farisei,
dei pubblicani e dei ladri; non perchè la repubblica irridendo al
sogno ed all'olocausto di Abramo Lincoln, crocefiggesse tra la
miseria ed il privilegio l'uguaglianza, la fratellanza e la
giustizia; ed alla doppia prostituzione s'adagiassero mezzani i
figli ed i nipoti.
Dite che una sola guerra è oggi ambita e degna: la nuova guerra che
spezzati i nuovi gioghi – più dell'antico esosi – compirà degli
annunziatori, dei martiri, dei legionari l'aspirazione ed il voto,
restituendo colla terra e la miniera e la fabbrica ai figli della
patria uguali, il pane e la libertà.
(2 giugno 1917).
Madri, difendeteli!
Proteggete i nati! Li abbagliano d'orpelli e di bandiere, li
assordano di ciancie, di sofismi, di menzogne, li ubbriacano di
fanfare e di epicedii.
Ve li rubano! Per avventarlo di là dal mare al sacco, allo stupro, a
la devastazione, alla morte, il bel figliolo cresciuto dalla vostra
eroica abnegazione al lavoro, all'amore!
Per non tornarvi domani che un abbrutito, orgoglioso della propria
vergogna; per non tornarvi che un mutilato od un cadavere.
Madri, difendeteli! Non abbandonate al vortice insano della guerra i
figlioli.
(2 giugno 1917).
Vi guadagneranno proprio?
TRATTI DI CORDA
L'ultimo numero della «Cronaca Sovversiva» è stato colpito
dall'interdetto. Il Postmaster di Lynn ci faceva sabato scorso
avvertire che in obbedienza ad ordini precisi venuti da Washington
la spedizione del giornale era sospesa; che ci avrebbe notificato
più tardi l'analoga decisione delle autorità federali.
Martedì, al nostro redattore il sopraintendente dell'ufficio postale
notificava difatti che la circolazione del N. 22, Anno XV della
«Cronaca Sovversiva», 2 Giugno 1917, era interdetta, e che i pacchi
volevano essere ritirati.
— Quali le ragioni che determinano e sorreggono la curiosa pretesa?
chiede il nostro redattore.
— I don't-know! (Non so!).
Va bene : capirete tuttavia che la disposizione è ben lontana dal
soddisfarci. Voi ritenete che questo numero della «Cronaca» non
possa circolare; noi ci permettiamo di essere pel momento di parere
contrario, e non pretendiamo troppo certo quando vi chiediamo
rispettosamente chi abbia dato l'ordine e...
— I don't know; may be the judge.
— Qui i giudici, non c'entrano. Non può esservi alcuna istruttoria
in corso, nè alcun processo in vista, ed io trovo semplicemente
curioso che mancando fino ad oggi l'istituto della censura
preventiva, quest'ufficio si sia arbitrariamente arrogato il diritto
di sospendere la circolazione del giornale; e quello d'interdirla
oggi dispoticamente senza alcuna motivazione.
— I don't know; unless some things in the paper are not suitable to
their taste... («Non so; a meno che nel giornale non vi siano cose
che non piacciono...»).
— Non si scrivono giornali per far piacere ai signori di Washington.
La «Cronaca», espone fatti, convinzioni, giudizii che possano urtare
o meno negli statuti o nelle leggi che regolano la stampa del paese.
Dove la sostanza o la forma di questi suoi fatti e giudizii,
costituiscano un reato voi potete denunciarli all'autorità
giudiziaria pel relativo procedimento, ma dovete ad ogni modo
continuarne la circolazione, fin che la censura preventiva non sia
un istituto della repubblica; e dove gli estremi del reato non
siano, la circolazione del giornale non deve essere nè ritardata nè
sospesa. Non vi pare?
— I don't. know...
— Fermo in queste ragioni, io protesto contro l'arbitrio consumato a
nostro danno senza l'ombra di una giustificazione, e reclamo che
senza altro ritardo la «Cronaca» sia, come sempre, spedita a
destinazione.
Nella giornata la redazione faceva pervenire la stessa diffida «in
iscritto» al direttore dell'ufficio postale di Lynn che al momento
in cui scriviamo non ci ha fatto pervenire la sue deliberazioni.
UN CONFRONTO
Nell'episodio sintomatico i compagni attingeranno più che non le
semplici ragioni per cui il giornale non è stato spedito, ed essi ne
hanno atteso indarno l'ultimo numero la settimana scorsa; e più che
non l'assicurazione che essi l'ultimo numero della «Cronaca
Sovversiva» riceveranno ad ogni modo. Attingeranno i termini di un
confronto istruttivo – se non troppo lusinghiero per la grande
repubblica – sopratutto, se in essi la necessità di distinguere si
indugi empiricamente su le forme costituzionali, e la repubblica vi
appaia un grande progresso su la monarchia; ed i presidii della
libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione cerchino, più
che nella loro propria vigilanza diuturna, negli statuti o nelle
costituzioni: un misero scrap of paper («un pezzo di carta
straccia») per Woodrow Wilson come per Guglielmone di Germania.
Dove non peggio.
Perchè in Germania, nella Germania feudale del Kaiser, nella
Germania stanca della guerra, nella Germania alla vigilia del primo
grande rivolgimento della sua storia, nella Germania della censura
militare occhiuta e grifagna, i fogli d'opposizione dalle tinte e
dalle aspirazioni più radicali continuano a veder la luce, aspri di
giudizii e di condanne sui responsabili della guerra, sui modi con
cui la guerra è condotta e la nazione precipitata a la ruina; in
Francia due giornali anarchici: «Par delà la melèe» e «Ce qu'il faut
dire» si pubblicano regolarmente, e regolarmente attingono coteste
spiaggie senza rigori eccessivi da parte della censura militare; in
Austria, in Ispagna, in Italia si pubblicano gli stessi giornali
anarchici che prima della guerra; ed a placare gli scrupoli
lojoleschi di S. E. Albert Sidney Burleson noi possiamo offrirgli,
sempre che le voglia, le collezioni del «Libertario» di Spezia,
dell'«Avvenire Anarchico» di Pisa, di «Tierra y Libertad» di
Barcellona.
Qui nella grande repubblica che a custodia della civiltà e della
libertà si appresta a la crociata eroica; qui Woodrow Wilson che
sferra nei suoi messaggi l'anatema contro la vergognosa
superstizione del privilegio monarchico nel nome della democrazia
più illuminata; qui Woodrow Wilson a cui Camera e Senato negano
concordemente autorità e mezzi d'imbavagliare, anche soltanto
d'infrenare la libertà della stampa, in ispregio ed a vilipendio
della costituzione, del parlamento, della legge, della repubblica,
strozza «l'Era Nuova» di Paterson con un raggiro, interdice «The
Blast» di San Francisco con un sofisma, affoga «The Social War» di
Chicago tra un arresto e l'altro dei suoi redattori, e con una
lettre de Cachet, quasi egli fosse Re Sole, butta il laccio
insaponato alla «Cronaca Sovversiva» stupidamente; e la guerra,
badate bene, non è peranco alle fucilate d'avanguardia!
L'INUTILE COSACCHERIA
Stupidamente!
Che razza di storia insegnava dunque ai suoi pupilli della Princeton
University il professore Woodrow Wilson il quale dimentica che
contro le Proposizioni di Wittemberga si arrovellano di Leone X i
sarcasmi, di Carlo V gli editti, di Melantone gli scrupoli indarno,
ed ignora che il silence aux pauvres! delle ordinanze di Polignac
non schiude a Carlo X se non le vie dell'esilio, non arma contro le
sanguinose restaurazioni di Alfonso XIII, e di Carnot, e di Umberto
di Savoia se non gli sdegni di Angiolillo, di Caserio e di Bresci,
senza arrestare nè la Riforma n'è l'Anarchia su le vie del destino?
Noi non minacciamo la tragedia – si rassicurino e Woodrow Wilson e
la piccioletta anima domenicana di S. E. il Ministro Burleson – noi,
non minacciamo la tragedia; ci accontentiamo di una previsione e di
un impegno discretissimi.
A che cosa conchiuderanno gli anatemi, gli interdetti, le confische,
esose di cui si compiacciono lassù negli empirei dell'ordine
repubblicano?
A riconsacrare, nei sudditi la fede nella costituzione, il rispetto
alla legge, la maestà della repubblica, egualmente calpestate ed
irrise?
Non vorranno sognarselo neppure. Le folle giudicano dei simboli a
seconda della fiducia che ispirano, e dei benefici che se ne
ripromettono; e quando gli unti del suffragio universale non hanno
per la libertà che l'orrore, le maledizioni e le ritorte di cui la
suppliziano gli unti del Signore, e nella rabbia dispotica cieca ed
insana vedono comunicare colla stessa libidine Woodrow Wilson e
Guglielmo di Hohenzollern, fanno tutto un fascio le turbe;
conchiudendo che, autocratico o repubblicano, lo Stato non è che un
gendarme ottuso, che è oppressione e vergogna ogni governo, che i
presidii della libertà si debbono cercare fuori dello Stato, contro
lo Stato, su le rovine dello Stato.
SI PASSERÀ AD OGNI MODO
Per questo infuriano a Washington contro la stampa sovversiva?
Perchè neppure debbono sognarsi di ridurre in silenzio le minoranze,
in cui si rifugiano il diritto, gli orgogli e le speranze della
libertà.
Noi, che protestiamo unicamente per negare all'arbitrio una anche
tacita sanzione, riaffermiamo, primi, senza spavalderie e senza
paure che il Sant'Uffizio repubblicano sciupa le bolle e la corda.
La «Cronaca Sovversiva» non abdica di fronte alle insidie oblique
dell'oggi, non abdicherà di fronte alle aperte minaccie, sotto lo
scroscio della selvaggia persecuzione domani.
Può interdirci l'uso delle poste federali Sidney Burleson: ma con
quale risultato, se non potrà toglierci di pensare che la grande
guerra è arrembaggio impudico di corsari a cui il proletariato non
deve dare nè un uomo, nè un soldo? e turgido di rinnovate esperienze
questo pensiero troverà senza il beneplacito dei superiori la
propria via?
Che, francata dalla tormentosa preoccupazione della forma, della
misura, delle cautele in cui si è fino ad oggi contenuta
inalterabilmente, non offrendo in quindici, anni di vita
l'addentellato ad un richiamo delle autorità federali, nè ad una
privata querela, la «Cronaca Sovversiva» alla persecuzione senza
freno e senza pudori risponderà colla guerra senza pietà nè
quartiere.
Si starà meglio da una parte e dall'altra. Di là si accorgeranno
finalmente che questa delle esecuzioni amministrative è viltà
inutile e pericolosa: dei loro furori torquemadeschi assumeranno la
responsabilità eroicamente e consegnandoci ai famuli della santa
romana rota repubblicana diranno al mondo che in America la libertà
di coscienza, di parola e di stampa è così larga... come in Roma ai
tempi di papa Aldobrandini, o come in Russia al tempo di Romanoff:
che siete cioè liberissimi di pensare della Repubblica quel che vi
piace, ma che vi tocca mezzo secolo di galera se non v'inchinate al
baciamano di suoi magistrati, ed un linciaggio se, come i cittadini
dell'Uri nel XIV secolo dinnanzi al cappello di Gessler, non vi
sberrettate al tricolore. E di qui si dirà pane al pane e vino al
vino senza il supplizio quotidiano, di dover conciliare l'integrità
del pensiero coll'ardua verecondia della parola.
PARLANDO CHIARO...
E diremo, allora, ai pezzenti delle cento patrie qui rifugiati, ai
pezzenti cresciuti qui orgogliosi della servitù inconsaputa: ogni
guerra. è reversione barbarica alla bestialità primordiale; è
fratricidio orrendo che sanguina di odii scellerati ed implacabili,
la guerra; è insania, devastazione, rovina di cui scontate voi soli
e gli strazii e le morti e le rovine; è frode macabra che
irresponsabili augusti e ladri matricolati attizzano per libidine
d'imperio, per libidine di subiti guadagni, per avventare gli uni
sugli altri i servi anelanti sotto la stessa croce, nei secoli, alle
stesse eucaristie della gioia e della libertà; e dissanguarvi le
vene, la fede, l'audacia, e ricacciarvi sotto il giogo, e sul sacco
rifarsi; nel nome della patria che vi affoga di ritorte, di tributi
e di fame; nel nome della bandiera, che nella gelosa custodia d'ogni
più iniquo, d'ogni più assurdo privilegio consacra i ladri
all'impunità, i derubati a tutte le umiliazioni, a tutte le
angoscie, a tutta la vergogna.
Ogni guerra! comunque si mascheri, di là e di quà, dai due mari: la
guerra del Kaiser che, ansando alla teutonica egemonia del vecchio
mondo e del nuovo, sferra dal Baltico al Danubio, da Varsavia a
Lovanio le orde dei suoi unni abbrutiti a stuprar donne e bambini, a
scannar vecchi, e malati, ad incendiar biblioteche ed atenei, nel
nome della cultura. Di contro, l'Inghilterra, la Francia,l'Italia,
che nei campi di concentramento del Transvaal e nei massacri di
Dublino, nelle stragi del Madagascar, del Tonchino, di Fourmies o di
Draveil, negli eccidii di Berra e tra le forche di Piazza del Pane,
si sono cinte antesignane di libertà e di civiltà, e fremono al
varco delle Alpi o dei Vosgi il sadico lupercale de la rivincita,
nel nome della libertà e della civiltà.
Arriva ultima, ora, la grande repubblica nel nome dell'umanità:
arriva densa di uomini e di miliardi, dieci milioni di armati se
dobbiamo credere al suo Prevosto, il generale Crowder, venticinque
miliardi di dollari se dobbiamo contare sui preventivi di E. Kerr,
un finanziere tra i più autorevoli; e il primo milione di uomini
partirà in Settembre, ed i primi sette miliardi di prestiti sono
oramai liquidati.
E voi non vi fate un'illusione sul destino di quei miliardi che
riscatterete, soli, d'inedia e di taglie: «the 7.000.000.000 just
set aside by the governement will be almost wholly spent in this
country for foodstuffs, implements, etc.»,73 dichiarava pochi giorni
sono un grande uomo d'affari di questo paese; diceva in altri
termini: voi sottoscrivete al prestito, al prestito della libertà,
ed i sette miliardi da voi sottoscritti andranno a finire nelle
tasche dei grandi fornitori che, a vender cento quanto non vale
dieci, ne vendemmieranno un'altra ventina, mentre le vostre donne
mendicheranno il tozzo sul lastrico, ed i figlioli moriranno di fame
su la paglia.
E neanche vi illuderete intorno a l'umanità che scatena la guerra, e
bandiranno – penetrati oltre le disfatte barriere tedesche – i
soldati della grande repubblica.
Non ricordate i soldati del Grant ad Atlanta? non avete visti quelli
del Pershing, del Funston, dello Smith,74 del Linderfelt a le
Filippine, ad Hazleton, a Ludlow, a Bayonne?
Non li maledite più che in cor vostro non imprechiate agli Unni del
Kaiser, del Gallieni, del Kitchener o del Caneva: la guerra è la
guerra!
Li avete visti innanzi e dopo: sul lavoro, compagni vostri nel
fervore e nella pena; al focolare padri, mariti, fratelli amorosi ed
esemplari, dovunque buoni, pietosi, degni, gli uomini che agli
ordini del Grant o del Pershing, dello Smith o del Linderfelt hanno
fatto della Georgia un inferno, che sui Moros hanno sperimentato la
cura dell'acqua, che su le Mesas del Colorado hanno sul rogo
sospinti all'olocausto estremo donne e bambini: la guerra è la
guerra!
Ed è la guerra che dei cittadini pacifici, dei villani innocui,
degli operai timorati fa lo strumento d'ogni turpitudine, d'ogni
infamia, d'ogni più esecranda vergogna.
Non li maledite in cuor vostro più che non imprechiate agli Unni del
Kaiser.
Maledite alla guerra! contenetene, finchè sia in poter vostro, la
piena scellerata; negatele l'entusiasmo, le giovinezze, le braccia,
le armi; serbate gli sdegni, il sangue, gli impeti, i figli a più
civile, a più nobile riscossa che non sia delle bische e dei
ciurmadori della patria o della repubblica; al riscatto vostro,
della terra, del pane, della libertà sullo sbaraglio dei vampiri che
ve ne spogliarono colla violenza e colla frode, che colla frode e
colla violenza ve ne contendono i sorrisi e le benedizioni.
Nè un soldo nè un uomo per la guerra! fino all'ultima stilla il
sangue d'ogni vena per la rivoluzione sociale!
* * *
Questo, da questa stessa tribuna, per più libere vie, diremo ai
lavoratori il giorno che l'ultima speranza di riprendere in faccia
al sole l'ebdomadaria conversazione teorica, ci sarà sbarrata
dall'ottusa protervia dei nostri censori.
E se alla provocazione bestiale risponderanno altra voce ed altra
favilla che non quella del pensiero, non ve ne dorrete: è messe
della violenza la violenza, messe della reazione la rivolta, messe
della guerra la rivoluzione.
Ci direte allora, se ve ne rimarrà l'animo, quel che nel cambio
avrete guadagnato75.
(9 giugno 1917).
Per questa volta...
Vanno per la più spiccia in terra di libertà quando questa si vuol
togliere ad un... noioso brontolone.
Una raccomandazione ad uno sbirro in busca di benemerenze e costui
vi si mette alle calcagna, al primo cantone vi sbattacchia contro un
muro, v'insulta, vi bastona e se avete ancora l'angelica bontà di
tacere e di rassegnarvi il meglio che vi possa incorrere sarà sempre
un viaggetto alla prossima stazione di polizia e di lì in
processione per le corti municipali e, a questi lumi di
escandescenze patraiuole, per le corti federali: salvo poi a ridarvi
alle vie cittadine, previo paterno sermone e grazioso ammonimento.
Ha di Torquemada l'inclinazione e l'invidia ma manca ancora al
Sant'Uffizio repubblicano l'esperienza e la preparazione; per cui
alla caratteristica rapidità dell'impudente violenza succede un
immediato allentamento di freni che pur non è tra i numeri del
programma. Forse con l'esercizio verrà l'accuratezza che eviti le
contraddizioni del dire e del disdire, del fare e del disfare.
Ci rallegriamo ad ogni modo che nella contraddizione siano incappati
Ippolito Havel e Theo. Appel di «The Social War».
L'imputazione tanto stupidamente montata contro i nostri compagni
cadde con la stessa facilità con cui era stata architettata, non
ostante il pio desiderio del giudice della corte federale di Chicago
il quale s'era proposto: «neither will we believe in organized
government, we will give you your own-medicine» ed evangelicamente
«I will send men after you and they will beat you to pieces».
Chiaro!76.
Ma non sempre è possibile accoppiare il proposito con la realtà e
rimane ancora una trepidanza: che non abbia il buon giudice a
subissare la indignazione degli spettatori.
Certo, Ippolito Havel e Appel sono provvisoriamente liberati da
qualunque accusa e han dovuto ritirar le unghie i felini delle
gabbia di Chicago. Torneranno alla carica più tardi, non è da
illudersi, perchè siamo appena alle prime mosse della battuta.
Ciò non c'impedisce di stringere idealmente la mano ai buoni
compagni di «The Social War».
(9 giugno 1917).
Qui incomincian, le dolenti note...
It is a fearful thing to lead this great people into war, into the
most terrible and disastrous of all wars...
Messaggio del Pres. Wilson al Congresso il 2 Aprile 1917.
CONSUMMATUM EST!
La registrazione è un fatto compiuto. Di contro alle date memorabili
che della sua redenzione segnano tappe eroiche e vittorie gloriose,
il popolo americano ha scritto quella del 3 Giugno 1917 in cui alla
conquista della grande rivoluzione ed alle franchigie della
costituzione repubblicana ha sciaguratamente abdicato, squallidi
della stessa ignavia l'animo, il gesto e la parola.
Perchè la nota caratteristica della giornata è stata proprio
l'ignavia.
Il proletariato d'America è contro la guerra: contro questa guerra,
intendiamoci bene. Se lo straniero avesse a minacciare l'integrità,
l'indipendenza, la sicurezza della patria americana, noi lo vedremmo
insorgere come un uomo solo. È così giovane la patria qui! ed è
ricca tanto ancora per la gente che ospita, generosa ed indulgente,
che certi orgogli e certe devozioni si spiegano. Se patria est ubi
bene est, c'è da scommettere che a difendere questo suo tozzo,
questo suo costellato cencio di repubblica, questo suo fantasma di
libertà, il proletariato americano sfolgorerebbe degli impeti, degli
entusiasmi, degli eroismi di cui freme ogni pagina della sua storia
recente, e ribalenarono a San Juan, a Manila, a Santiago or sono
vent'anni; e Woodrow Wilson ha chiesto indarno ai plebisciti
d'avantieri.
Ma perchè deve lasciare la patria, la famiglia, il lavoro, e
battersi in Francia per... Giorgio V d'Inghilterra e per la muta
avida di pubblicani, di usurai, di barattieri e di filibustieri che
si rimpiattano dietro di lui? Perchè?
E della guerra non vuole. Lo ha detto in linguaggio che sfida ogni
equivoco, ogni dubbio, ogni sofisma. Gli ha chiesto cinquecentomila
volontarii il Presidente Wilson, per gli immediati bisogni
dell'esercito e dell'armata, glie li ha chiesti due mesi fa, ed il
proletariato non gli ha dato un uomo. Ho qui il rapporto
mortificante dell'Aiutante Generale McCay, in data degli ultimi del
Maggio scorso: «dopo due mesi di rogazioni clamorose, sfacciate,
ostinate, lo Stato di New York che doveva dare 5942 volontarii ne ha
racimolati 98, il Texas di 3113 ne ha messi insieme giusto, giusto
46, ed il Massachussetts sul quale si contava per 2329 volontarii ne
ha coscritti 68!»77.
Ha risposto così male il proletariato d'America che gli si è dovuto
estorcere colla violenza il tributo che di buona voglia non si
disponeva a dare, ed imporgli, nel nome della democrazia e della
repubblicana sovranità popolare, contro la sua volontà espressa e
precisa, il servizio militare universale ed obbligatorio.
CONTRO LA GUERRA, SEMPRE!
Della guerra non vuole neanche oggi.
Fate i conti con la psicologia, diremo così, civile, del popolo
americano che un progetto di legge contrasta nella stampa, nei
pubblici comizii, nei corridoi e nelle aule del parlamento, dinnanzi
alla Corte Suprema, con ogni mezzo, ove non gli piaccia; ma
accoglie, ubbidisce, inchina non appena sia diventato legge della
nazione perchè nel rispetto alla legge conchiude espressione,
fondamento e guarentigie della libertà; ed i conti rivedete poi al
lume del contrasto che stride fra preventivi e risultati della
registrazione.
Il Prevosto Maresciallo Generale Crowder si riprometteva dalle
operazioni del 5 Giugno, in base dell'ultimo censimento ed esclusi i
territori dell'Alaska e delle Isole Hawaii, un contingente di dieci
milioni duecentosessantaquattro mila ottocentonovantasei uomini tra
i ventuno ed i trentun'anni; e la sera stessa del martedì i grandi
giornali davano per sorpassata ogni previsione iperbolicamente: il
totale dei coscritti andava al di là degli undici milioni!
Soltanto, l'indomani un termine ulteriore era concesso ai
refrattarii, e questi debbono essere numerosi se il ministro della
giustizia Gregory constatato che «the failure of more than 1.000.000
men to register, now that a week has passead...-» rende manifesto
«that those who have not registered do not intend to do so78», ne
ordina d'accordo col Prevosto Generale Crowder l'immediata cattura.
Un brutto guaio, perchè quando consentono a Washington oltre un
milione di renitenti, si può essere sicuri che essi sono un milione
e mezzo o due milioni almeno, ed a trovare alloggio nelle galere
della repubblica per due milioni di refrattarii è cosa più facile a
dirsi che non a farsi; un guaio anche maggiore se si pensi che dopo
tutto la registrazione era un impegno vago, che la leva essendo
minaccia ben più categorica i refrattarii saranno raddoppiati a
Settembre, quando si dovrà infilare la casacca, e triplicati in
Dicembre od in Gennaio quando bisognerà imbarcarsi per la guerra
d'oltremare.
FINISCE PER VEDER CHIARO
Anch'esso il proletariato della grande repubblica: della guerra
discopre gli obbiettivi inconfessati traverso i caratteri manifesti,
e ne misura le conseguenze spaventose.
Non sono due settimane Arthur Henderson del Consiglio di Guerra
britannico concedeva in un suo discorso a Richmond che i morti della
guerra sono almeno sette milioni; che il numero dei feriti, dei
mutilati, degli inabilitati per sempre al lavoro supera di gran
lunga gli attuali quarantacinque milioni della popolazione del Regno
Unito; e che «there was no prospect of cessation of hostilities79»;
e domenica scorsa l'ex-presidente W. H. Taft al Congresso nazionale
delle opere pie e di correzione in Pittsburgh richiamava il popolo
americano alla realtà della situazione: «la guerra costerà miliardi
di dollari e milioni di uomini. Il Canadà con sei milioni di
abitanti ha dato alla guerra quattrocento mila uomini; noi,
mantenuta questa proporzione, dobbiamo mandare al fronte sei milioni
di soldati80».
Così, hanno un bel ricantare pei trivii delle nostre colonie
svariate i prosseneti della stampa bordelliera che la «registrazione
non impegna gli stranieri al servizio militare nè di là nè di qua,
in alcun modo».
Le prime applicazioni della legge 18 Aprile 1917 per cui i governi
alleati possono coscrivere qui volontariamente i sudditi rispettivi,
la dicono più lunga che non le antifone della stampa consolare.
Il generale Tom Bridges della British War Commission vi dice chiaro
nei proclami con cui inaugura le operazioni di arruolamento
volontario: o vi arruolate alle buone o sarete privati dei diritti
civili!... «while affording this opportunity for voluntary
enlistment, it must be remembered that the law of nations does not
recognize a man without a country... Every man who enjovs the
privilege of citizenship has corresponding obligations... Both
countries will insure that there is no escape from these
obligations81».
Domani, dopo, tra una settimana od un mese, verranno a fare
altrettanto il principe di Udine, il generale Guglielmotti, il
senatore Marconi tra i fedeli sudditi d'oltre mare che...
s'incoronano pel sacrifizio, ed agli incettatori di carne da cannone
apprestano, in luogo e vece di quattro buone legnate, ricevimenti,
banchetti, luminarie e marcia reale: «Su, su, figlioli, smettete il
broncio, la diffidenza, la paura! Su, tornate in patria alle buone,
andate a farvi ammazzare sul Carso o sul Tonale, andateci ora,
subito, avanti che vi buttino il laccio al collo da quest'altra
parte; both countries will insure that there is no escape from these
obligations».
SBARRATO L'ULTIMO SCAMPO
DALLE MANI FRATERNE
Che l'ex-sindaco di Boston, Fitzgerald, chiegga a Wilson la
deportazione immediata di tutti gli stranieri atti alle armi, prima
di coscrivere i cittadini della repubblica, è logico, naturale.
Che irridendo all'Inghilterra, al Giappone, ai governi dell'Intesa,
l'attuale sindaco di Boston, il Curley «do not want to see one of
our american boys go across lo fight in Europe's trenches until the
countries now at war have done their share first82» è ragionevole,
discreto anche; e non istupirà nessuno.
Credono alla patria, credono alla guerra, poppano alle mammelle
dell'una e dell'altra, nel mondo della finanza, della politica e
della sacristia, in cui i Fitzgerald ed i Curley spiegano il loro
eroico fervore83.
Ma ad urgere la guerra, la coscrizione forzosa degli stranieri, la
taglia, od il bando, berrettoni e cacichi dei grandi sindacati del
lavoro danno qualche punto ai mezzani di Wall Street ed ai
pretoriani della Casa Bianca.
Lasciamo da banda i sinedrii delle mille unioni di mestiere che
disponendo arbitrariamente dei fondi dell'organizzazione alimentano
la guerra colle iperboliche sottoscrizioni al prestito della
libertà; e da parte lasciamo pure i grandi sindacati dei ferrovieri,
telegrafisti, conduttori, macchinisti e fuochisti che a Philadelphia
domenica scorsa del pane e del destino di cinquecentomila
organizzati hanno disposto offrendosi «to suspend any law of
organization if Prcsident Wilson request it, in order that all
instrumentalities of this nation may be used for tbc common cause of
universal freedom84», raccomandata all'orrendo macello d'oltremare;
due episodii superflui a dimostrare che non vi è nel privilegio
borghese miglior presidio e più devoto e più fido che nei sindacati
operai.
Stiamo ai deliberati dei loro poteri esecutivi, a quello, per
citarne uno, del Boston Central Labor Council, il quale non chiede
soltanto ai deputati, ai senatori, a Samuele Gompers che usino tutta
la loro influenza «to push trough a. la.w whereby all aliens who
refuse to join the army or navy of their own countries shall be
subject to draft into the United Stales service»; ma comanda a tutte
le organizzazioni federate «to refuse as member any alien between
the ages of 21 and 30 inclusive who would be subject to draft,
during the duration of war.
«...these foreigners who will not even fight for their own homes are
preparing to act like a flock of vultures, and pick the bones of
thoose who are left in the field of battle85», ha conchiuso, il
segretario del Boston Central Labor Council, la settimana scorsa, e
su mentalità cosiffatte che cosa volete che possa il ragionamento se
realtà ed esperienze quotidiane, tragiche, inesorate non lasciano
una scalfittura?
— Ma tengono alla pelle? tengono al pane? e questo non vogliono
abbandonare agli avvoltoi on the field of battle? Ma non vadano a
registrarsi! si ricusino alla coscrizione! non vadano alla
guerra!... come facciamo noi – brontola un compagno commentando quel
deliberato – Oh che ce li mandiamo noi a la guerra 'sti bauli?
Oh, non vedono che cos'è la guerra?
E perchè invece di ribellarsi a chi la vuole, perchè vi fa su alla
svelta il milioncino, se la pigliano con noi che ne portiamo tutte
le conseguenze?
LA PRIMA MIETITURA
Nessuno ha fatto mai i salarii che si pagano oggidì in quasi tutte
le industrie, e nessuno è stato mai così male. La sproporzione tra
l'aumento dei salarii e quello dei generi di consumo è tale da far
rimpiangere a chi lavora i giorni in cui buscava un salario
inferiore, è vero, ma non così inadeguato al costo della vita.
Quello che una volta si comprava sul mercato di Boston, con tre
scudi non si compera più oggi con quattro scudi e mezzo, e mentre
tutti raccomandano l'economia consigliando alla povera gente di
farsi il pan di cruschello e la zuppa di buccie di patata o di
cicorie bollite perchè la guerra è un disastro che cimenta e
preclude ogni bisogno, dall'altra riva fanno affaroni d'oro, e sui
sacrifizii degli umili tendono la rete delle vendemmie paradossali,
rubando a man salva sui contratti e sulle forniture della
«preparazione».
Un'inchiesta reclamata dall'On. Fitzgerald di New York su certi
lavori di costruzione hanno messo in luce che il governo paga 60
dollari ogni mille piedi di legname che i privati comprano sul
mercato a trenta, che in certi lavori ad economia i carpentieri che
buscano quattro scudi al giorno figurano per sette dollari
giornalieri sui contratti del governo.
Su di un contratto d'una sessantina di milioni per sedici
baraccamenti dell'esercito i profitti degli impresarii sono andati
al di là della mezza dozzina di milioni, ed il «Boston Post» – un
giornale ufficioso dei più autorevoli e dei più cauti – è costretto
a deplorare che si torni alle camorre ed agli scandali di cui puzza
ogni ricordo della guerra ispano-americana.
E se da un contratto di sessanta o settanta milioni gli impresarii
hanno tratto sei milioni di profitti, che cosa avranno messo in
tasca i negoziatori del prestito di sette míliardi? I fabbricanti
delle munizioni avariate che sono scoppiate nelle mani agli
artiglieri del St. Louis, del St. Paul e del Mongolia, e che il
contrammiraglio Earle ha dovuto rifiutare? Quanti miliardi hanno
intascato in quei sei mesi d'affannosa vigilia gli incettatori di
grani, di carboni, di carni, che ci fanno pagar la farina a diciotto
scudi il quintale, il carbone a quindici scudi la tonnellata, i
fagiuoli a tre franchi al chilo, a prezzi inaccessibili l'osso
spolpato della broda quotidiana? Quanti?
I MANUTENGOLI
— Interverrà il governo, mozzerà l'artiglio agli organizzatori della
carestia e della fame, scompigliando colla dittatura dei viveri e
coll'imposta progressiva sulla rendita la camorra degli usurai
inverecondi od insaziati.
— Se non avete altra speranza potete andarvene a letto senza cena ed
al buio. Tengono il sacco i pubblicani, dovunque siano annidati.
Quando si tratta di togliere a noi per darne a quegli altri hanno
sollecitudini meravigliose ed impetuose.
Il Prestito della Libertà che vi toglie al 3 per cento i risparmi
cui mungeranno il venti, il trenta per cento lor signori, è stato
autorizzato per acclamazione; le appropriazioni di mezza dozzina di
miliardi per l'esercito, la marina, i baraccamenti militari, le
sovvenzioni agli alleati, per la rinnovazione della flotta
mercantile, non si sono urtate ad un voto contrario; la legge sulla
coscrizione obbligatoria che di casa ci strappa i figlioli ha
trovato subito una maggioranza decisiva e aggressiva. Ma il
bagarinaggio che si sarebbe potuto strozzare nelle ventiquattro ore
chiudendo le borse, è sempre flagello impunitario; ma la dittatura
dei viveri che avrebbe potuto frenare, se non sgominare la libidine
degli affamatori: ma l'imposta su la rendita che d'una maschera
pietosa avrebbe coperto l'atroce ineguaglianza per cui alla guerra i
poveri danno tutto, i ricchi non danno nulla, non sono finora usciti
dal truculento fragore della minaccia che ai ladri dà l'allarme
perchè mettano il bottino al sicuro:
Aspetta cavallo, aspetta a morire
che l'erba di maggio deve venire.
Anzi mentre il Senato protesta fin da ora che l'imposta su la
rendita deve calcolarsi sui cespiti e su le cifre anteriori alla
guerra, i borsaioli dell'alta finanza colgono due piccioni ad una
fava: lasciano alle serve ed ai pitocchi la gloria e la vigna del 3
per cento del «Prestito della Libertà» minacciandone l'esito,
ammoniscono il governo che è destinata al fallimento ogni sua
impresa finanziaria, ove alle loro estorsioni non lasci libero il
campo, libere le mani86.
(16 giugno 1917).
Rimane incompleto l'articolo. perché l'autore è stato messo
nell'impossibilità di continuarlo, per ora. Si vedrà in seguito di
riprenderlo. D'altronde non sappiamo privare i lettori delle acute
osservazioni che vi sono contenute e lo diamo così, anche se
incompleto, tanto più che le deduzioni sono facili ed i lettori le
potranno fare ciascuno per conto proprio. (Nota del compilatore).
Mandateci in galera!
Dove eravamo dunque rimasti al momento in cui il maresciallo
Bancroft della polizia federale veniva ad interrompere la sinfonia
ingrata di queste dolenti note consegnandoci, le manette ai polsi
anche una volta, nelle carceri della Contea di Middlesex, colpevoli
di oltraggi al presidente della repubblica e di cospirazione ai
danni della coscrizione militare e della sicurezza dello Stato?
A questa conclusione largamente documentata, se io non isbagli:
1 – Che il proletariato d'America, pronto a difendere l'integrità,
la sicurezza della Patria da ogni eventuale minaccia, ingenuamente
non ha un entusiasmo pel tragico arrembaggio a cui, libidinosi del
sacco, l'avventano i pirati della banca e della borsa di qua e di là
dall'oceano.
2 – Che alla guerra nega consensi ed entusiasmi, perchè vede dalle
prime avvisaglie riconsacrata l'iniqua disuguaglianza di cui
sanguina – immutato nel mutare incessante degli evi e degli istituti
– il suo destino servile: alla guerra il proletariato deve dare il
pane, il sangue, i figli, pure sicuro di non mietervi che inedia,
ritorte, disprezzo; mentre lor signori, che alla guerra non
cimentano uno spasimo od un'infreddatura, vendemmiano fin da ora
dividendi e profitti paradossali.
3 – Che al suo fermo proposito di difendere contro l'ipoteca
grifagna la libertà ed i nati, dall'angoscia orrenda le madri, dallo
squallore disperato i focolari, hanno di qua e di là dalla barricata
irriso i pastori consacrati dell'ordine, egualmente beffardi.
* * *
Quando nel nome di dio ha chiesto al cardinale O'Connell se non
bastassero sette milioni di cadaveri, quarantacinque milioni di
mutilati, cento milioni di vedove e di orfani a placare l'ira di
dio; e se non fosse cristiana pietà contenere l'ecatombe nel girone
insano che dell'anima e delle vene del mondo ha travolto la fede più
pura ed il sangue più generoso, il cardinale O'Connell ha risposto
nel nome di dio, che la guerra è santa, tradimento negarle il
tributo.
* * *
Quando a Woodrow Wilson ha ricordato che alla magistratura suprema
della repubblica l'aveva il proletariato d'America riassunto, a
sbaraglio di competitori obliqui ed infidi, perchè su l'orlo
dell'abisso aveva trattenuto la nazione, perchè sè ed i suoi aveva
salvato dagli strazii e dall'onta della guerra, e soltanto per
questo: ed il volontario olocausto gli negò, intimandogli che alla
sovrana volontà della nazione manifestamente avversa alla guerra
egli avesse ad ubbidire più rispettosamente che non ai raggiri dei
filibustieri e dei pubblicani, Woodrow Wilson ha risposto, nel nome
della democrazia, col messaggio del 2 Aprile, colla coscrizione
universale, con l'invio dell'ammiraglio Sims e del generale Pershing
nella Manica e nei Vosgi, levando dieci miliardi di taglie.
apprestandosi a rovesciare dieci milioni di giovani, tra i più sani
e generosi della repubblica, nel baratro della grande guerra
continentale.
* * *
Quando ha detto al suo padrone: poichè la guerra libra su le messi
del dividendo rugiade sanguigne, dammi dei profitti iperbolici, che
t'addensa e t'assicura la mia fatica, almeno le briciole: allentami
i ferri! misurami il pane quotidiano con meno avara bilancia! mostra
che se la guerra avesse a travolgerci imponendo uguali i cimenti, i
rischi, le privazioni, comuni sarebbero anche benefici, conquiste e
glorie; il padrone ha risposto colle estorsioni forzose del liberty
bond, colla denunzia dei renitenti alla polizia, col piombo e colle
nerbate come a South River avantieri: ha risposto il padrone
esigendo la borsa e la vita!
* * *
Ed il peggior disinganno ha raccolto quando cercò il rifugio tra i
compagni di stenti, di servitù, di pena: nei sindacati, nelle
maestranze, nelle grandi organizzazioni del lavoro, a cui aveva
recato la parola, l'appello discreto dell'esperienza e della
ragione: non la strage, non la distruzione è compito nostro, non la
guerra! ma di crescere spighe ed armenti, ma di alimentare turgida e
sicura la vita, schiudere vie novelle alle sue esuberanze, nuovi
campi e più vasti e più illuminati alle sue energie, più puri ideali
alla sua fede ed alle sue audacie, più nobili e più salde
guarentigie ai suoi fervori ai suoi amori. Non la guerra che nel
petto, nella memoria dei fratelli, squarcia insanabile, avvelenata
la piaga dell'odio e delle furie caine.
Venuti di lontano soggiungevano in cento diverse favelle i bastardi
errabondi di cento patrie diverse: noi al re abbiamo negato
l'omaggio, alla bandiera della patria la devozione, alle leggi della
patria l'obbedienza, alle guerre della patria gli olocausti: patria
la terra di chi soffre e lavora, unica legge la vita, unica meta la
libertà; sola barriera su le vie del divenire la geldra immonda dei
parassiti e dei vampiri che di sangue, di lacrime, d'onta e di morte
– dell'onta e del sangue nostro – placano il sadico furore, la
lubrica foia d'oro, d'ozio e d'imperio.
Per la più grande patria che ha l'orizzonte unico termine, figli
uguali i cittadini dell'universo, legge comune l'amore, meta radiosa
la libertà convergete le armi che per l'impudico arrembaggio vi
affidano, a lo sbaraglio estremo d'ogni tirannide, di ogni barbarie
soffocando la guerra della patria nel ciclone inesorato della
rivoluzione sociale! È l'ora nostra! mormoravano nelle cento favelle
diverse i bastardi errabondi delle cento patrie matrigne,
conclamando unanime la diserzione dalle caserme e dalle galere.
E dai sindacati, dalle grandi organizzazioni del lavoro, mancipie
dovunque del privilegio e della superstizione, cloache dovunque di
domesticità e d'abbiezione, all'eroico appello fraterno altro eco
non rispose che di minaccia e d'anatema:
— Lo sciopero è insidia, tradimento, ha sentenziato irrevocabilmente
Samuele Gompers, non sarà mai consentito dall'organizzazione in
quest'ora, ed i sobillatori saranno deferiti alle Corti Marziali.
— Voi ci farete questa volta almeno il piacere d'andarvene a morir
ammazzati al vostro paese, ha detto chiaro e tondo il Central Labor
Council di Boston ai lavoratori immigrati che si librano tra i
ventuno ed i trentun anni. – Le porte dell'organizzazione vi sono
inesorabilmente sbarrate: o morir laggiù d'una buona razione di
mitraglia, o crepar qui d'accidia e d'inedia su la strada: non vi
sarà dato altro scampo!
Ci sono i sindacati rossi, quelli che si ispirano alla lotta di
classe e non vedono altro; ma troppo pusillanimi per assumere gli
atteggiamenti e le responsabilità schiettamente patriottarde delle
analoghe organizzazioni del vecchio continente che si sono schierate
apertamente in Francia per la repubblica, in Germania pel Kaiser,
per l'impero in Inghilterra, pel re e per l'Irredenta in Italia;
troppo vili per cimentare il canonicato e la prebenda, per cimentare
la pelle o la galera nell'aperta condanna della guerra, nel
contrasto fecondo ed assiduo che ne sarebbe il freno più efficace –
e sarebbe la sola attitudine consentita dai postulati teorici e
dall'esperienza concreta – rovesciano sui fervori insurrezionali
delle minoranze tenaci il bromuro dei sofismi pilateschi e lazzaroni
che salvano ad un tempo la capra dell'organizzazione ed i cavoli
degli organizzatori.
Così che a fianco del proletariato, nell'ora in cui il suo pane, i
suoi interessi, i suoi affetti, il suo diritto ed il suo avvenire
sono minacciati, mortalmente insidiati, dai custodi dell'ordine,
bivaccanti da questo o da quell'altro lato della barricata, non
rimane alcuno.
È solo come un cane.
Questa dei fatti, così manifesti, così eloquenti di per sè, la
constatazione nuda e cruda che ci esime da ogni commento.
* * *
Peccato che il maresciallo Bancroft sia il più glorioso degli
analfabeti o che alla natia vocazione del berroviere conceda la
funzione troppe manette perchè egli abbia a cimentarsi nell'eroico
sforzo di ragionare come il resto del trascurabile genere umano;
peccato che alla procura federale, all'Avv. Anderson di ragionare
serenamente abbia tolto la voglia il ministro della Giustizia
imponendogli di inquisire la matricolata pagina della «Cronaca
Sovversiva» che – congedando libero, franco e, bisogna dirlo, con
insolita cortesia il suo redattore – aveva finito per trovare
tollerabile colla legge e colla costituzione della repubblica.
Peccato, giacchè alla conclusione che, grata od ingrata, dai fatti
suesposti discende, si potrebbe venire concordemente.
Ci vogliamo provare ad ogni modo?
* * *
I lavoratori d'America odiano la Germania del Kaiser, la Germania
cioè che la guerra rievoca nella sua primordiale ferocia, nel
vandalismo inutile, negli stupri bestiali, nei guidrigildi esosi,
nella ecatombe dei vecchi, delle donne, dei bambini. Ed è in
quell'odio la migliore testimonianza del suo sentimento civile ed
umano; è forse qualche cosa di più, il senso pauroso che, sfrenati
dalla stessa follia su la stessa irresistibile china, gli eserciti
della repubblica abbiano a fare tal quale e peggio; è già, in
potenza almeno, il proposito di non emulare gli unni imbestialiti
del Kaiser nella turpitudine e nell'infamia.
Che ha, come noi, di gran cuore maledette, augurandosi più che la
mortificazione della Germania per le armi e le vittorie degli
alleati, l'insurrezione contro il Kaiser del proletariato tedesco,
sul quale la tolleranza del regime criminoso pesa come l'estrema
delle condanne e delle vergogne.
Ma forzano ogni più ardito sofisma tre fatti eloquentissimi, i quali
documentano che nella guerra il proletariato d'America non riconosce
la virtù della purificazione e della liberazione democratica.
Deve convenirne anche il Procuratore Federale Avv. Anderson.
Come potrebbe egli, ad esempio, negare ogni valore al suffragio
universale ed al sistema rappresentativo di cui è depositario e
custode?
E se, diversamente da noi, un po' di fiducia e di credito vi
accorda, dovrà consentirci che l'elezione del Wilson, il quale era
contro la guerra, e la sconfitta dell'Hughes che era per la guerra
apertamente, sono la prova costituzionale dell'avversione che, tolta
una minoranza senza ideali e senza scrupoli, coltiva in odio della
guerra il popolo americano,
Ancora! Quando il presidente Wilson, custode vigile della tradizione
democratica, al proletariato americano ha chiesto mezzo milione di
volontarii per gli immediati bisogni della difesa, il proletariato
d'America, non glie ne ha dati neppure una dozzina, di migliaia,
così come non glie li aveva dati quattro anni or sono per la
spedizione di Vera Cruz, così come glie li ha negati l'anno scorso
per la spedizione del Pershing...
Ancora! Le organizzazioni del lavoro, i loro interpreti meglio
autorizzati negano alla guerra il tributo indispensabile: lo
condizionano cioè ad un fatto che equivale ad un rifiuto. Dicono: la
guerra non si fa, con quella compagnia, per la civiltà; neanche si
fa per la patria che nessuno minaccia. Si fa in Francia, in Italia,
in Russia – ed in Russia ne sono stufi da un pezzo – ad esclusivo
beneficio dell'Inghilterra. Perchè dobbiamo batterci noi? Mandate
laggiù francesi, italiani, inglesi, russi, imboscati qui a centinaia
di migliaia, imboscati qui a milioni. Quando alla loro guerra non
bastino, vedremo e, se sarà del caso, partiremo noi pure.
Potete trovare meschino, assurdo, contraddittorio il pretesto; ma
ricollegatelo cogli antecedenti, e diteci voi, egregio Procuratore
Federale, se sia temeraria la nostra prima conclusione, e se di
buona o di mala voglia non dobbiate sottoscriverla voi pure: il
proletariato americano della guerra non vuole.
* * *
Non vuole. Per indurlo al censimento – innocuo dopo tutto, anche se
arbitrario – avete dovuto minacciargli un anno di galera, un
migliaio di dollari di multa; e la minaccia non è bastata se un paio
di milioni a registrarsi non sono venuti lo stesso.
Per tirarlo in caserma il mese prossimo o quell'altro, siete
costretti a raddoppiare dei provvidi terrori la dose, e ricordargli
ogni giorno le sanzioni terribili che il codice penale militare
serba ai renitenti ed ai disertori: e sulle calate, lungo la doppia
frontiera avete dovuto scaglionare tutto un esercito di birri per
chiudere il varco a quanti si sono registrati soltanto per aver
tempo ed agio di buttarsi nel Canadà o nel Messico?
Per imbarcarlo, rovesciarlo su le dune fiamminghe o sui contrafforti
dei Vosgi a quali estremi rigori dovrete fra sei mesi raccomandarvi?
se cauto, ma persistente si diffonde il sottovoce che le prime
spedizioni non si siano compiute senza proteste, senza
pronunciamenti disperati?
Lo so, avete la censura e la mordicchia pei sobillatori impenitenti;
avete manette, gendarmi, pei ribelli; per gli ostinati la galera,
per gli iconoclasti il pelottone d'esecuzione: farete la guerra ad
ogni costo, per forza.
Per forza! ed è il guaio. Per forza non si fa a lungo nè con
successo la guerra, insegnano gli ultimi capitoli della storia russa
contemporanea, ammoniscono le convulsioni meno vaste e meno tragiche
che preludono in Germania ai funerali del Kaiser, in Austria a
quelli degli Ausburgo, in Italia a quelli dei Savoia, in Inghilterra
allo sfacelo dell'incongrua mole imperiale.
Laggiù per forza! laggiù dagli esausti e sparuti commilitoni, i
quali da tre anni, per forza pure, all'ombra del tricolore – che
sulle stesse Argonne inalberavano gli avi segnacolo d'uguaglianza e
di libertà – si battono pel più sordido dei calcoli pel più assurdo
dei privilegi, per la più odiosa delle egemonie, coglieranno i
soldati della repubblica, i soldati vostri, tra le imprecazioni e le
bestemmie del disinganno che le giovinezze fiorenti e le armi
impeccabili avrebbero potuto consacrare, potrebbero dare ancora, a
più nobile, più civile impresa che non di spogliare dei segni
augusti l'ultimo degli Hohenzollern, per investirne l'infausta
oligarchia che, di contro, l'equivale.
Raccoglieranno, tornando, dal labbro amaro dei superstiti che mentre
essi, laggiù, per la maggior fortuna e per la più grande gloria
della patria versavano il sangue generoso ed eroico, qui, in casa,
protetti dalla stessa bandiera costellata, feroci, onnipossenti,
impunitarii, i caimani della banca e della borsa si saziavano
dell'inedia dei vecchi, delle spose, dei figli.
Qui, essi, i legionarii della repubblica torneranno portando nel
cuore l'anelito d'una fede nuova, di un diritto nuovo,
improvvisamente rivelati dalla prova terribile ed angosciosa,
cercheranno oltre ogni sacro presidio i responsabili, oltre ogni
sacra trincea dei divini e degli umani comandamenti il pane,
consacrandone le intravvedute eucarestie della fratellanza e della
libertà; l'uragano.
Non l'avremo provocato noi, nè voi vi potrete far nulla, egregio
Procuratore Federale: è nel fatale divenire di ogni cosa, è nei
contagi provvidi della verità e della storia. Brunswick, gli
emigrati di Coblenza e di Quiberon non ebbero ragione dei sanculotti
nè della Dichiarazione dei Diritti. La nuova Santa Alleanza di cui
Woodrow Wilson gitta il primo ordito, sarà fragile schermo alla
rivoluzione sociale che la terra promette ai figli che due volte la
rifecondarono del sudore d'ogni fronte, del sangue d'ogni vena.
Voi non potete nulla. Potete schiuderci per qualche anno la galera,
ma badate! nell'aforisma romano: cogitationis poenam nemo patiatur,
era più che l'omaggio alla maestà del pensiero, era l'ammonimento
dell'esperienza e della storia: a Sibari poteva l'arconte bandire i
galli che annunziando l'aurora turbavano degli effeminati cittadini
i sonni, gli ozi beati; non contenere le falangi di Milone, nè la
fatalità delle espiazioni supreme.
Suggellateci in galera, cacciateci in bando! egregio Procuratore
Federale; affogate gli annunziatori coll'infausta verità che vi
spaura! Ma essa riapparirà domani, corrusca di folgori e di faci,
nemesi implacata, squillando l'ora estrema d'ogni menzogna, d'ogni
frode, di ogni tirannide. Cinto di codici e di birri non vivrete
voi, così sereno come noi in galera od in bando, lo spasimo
crepuscolare dell'attesa.
Irromperà trionfale sulle tenebre l'aurora, l'aurora fiammante della
liberazione. È l'epilogo d'ogni notte l'aurora, e l'attendiamo noi
tanto più sicuri che l'affretta col fervore dei nostri voti
l'insania delle vostre persecuzioni.
(30 giugno 1917).
E bazza a chi tocca!
29 Luglio 1900
Vano su gli ignavi rassegnati al giogo rievocare degli araldi la
memoria gloriosa ed il sacrifizio eroico.
Vano. Non increspa d'uno sdegno la morta gora in cui stagna
l'armento, abbrutito di rinunzie di domesticità di viltà.
Ma prorompe cinto di sdegni, corrusco di fiamme, ai tristi monito,
rampogna ai codardi, promessa ai generosi, irresistibile il ricordo
nel crepuscolo d'ogni grande giornata della storia ed un mondo
condannato si dissolve dinnanzi ad una più alta speranza che
albeggia.
Prorompe colle voci che non arrestano lo spazio, nè il tempo
affievolisce, nè l'uragano disperde.
Sui campi di Filippi il pugnale suicida di Bruto non ferma la
maledizione, non il precipite destino della corrotta repubblica di
Roma: a Campo di Fiori non si spegne colle ceneri del rogo la fiamma
del libero pensiero audace oltre il dogma di tutte le eresie,
fremente nel vaticinio del Nolano alla vittoria di tutta la verità.
Potete ad Harper's Ferry rizzare a John Brown la forca. A Chicago, a
Lione, a Pietroburgo, a Tokio potete dare nelle mani del boia gli
annunziatori; ma la redenzione dei servi trarrà dal sangue generoso
di Abramo Lincoln il suo battesimo, la sua consacrazione; ma le
convulsioni russe che scuotono da le fondamenta il regime feudale e
raccolgono oltre i monti, oltre i mari tanto plebiscito di consensi
e di auspicii, vi diranno che è fragile schermo il capestro
all'anelito di cuori devoti alla civiltà in cui il destino degli
uomini, sanguinante ovunque della stessa. angoscia, della stessa
servitù, della stessa miseria, non si riconcilii nella fratellanza e
nella libertà.
Ai tristi monito implacato, ai pertinaci conforto e sprone la voce
che dalle tombe e dalle secrete squilla le fatidiche ammonizioni.
Lampeggiò a Monza or sono diciasette anni sui biechi restauratori
dell'antico regime che nessuna forza divina, che nessuna forza umana
fioriscono nel pugno dei temerari che ne abbiano la forza, l'ardore.
E su lo sbaraglio dei cortigiani ansanti al colpo di stato, tuonava
l'indomani della tragedia di Monza, l'onorevole Saracco, a bandire
che l'ordine si riassideva sul patto nazionale sdegnoso d'inutili
vendette: eresia, delitto l'anarchismo non meritava il rigore di
leggi eccezionali: delitto si urtava nei codici, pensiero non doveva
trovare altro contrasto, altro ostacolo che del pensiero avverso.
Le segrete di Santo Stefano non custodirono a lungo l'ostaggio
corrusco: a le paure dei cortigiani smarriti e delle auguste
baldracche implacabili lo consacrarono le mani adunche d'un aguzzino
bestiale: ma stride ancora la sua maledizione, ma torna inesorato
l'ammonimento, ma si libra oggi, oggi che il patto nazionale è
stracciato, oggi che la tirannide si riaffaccia esosa, debellate,
disperse le conquiste della grande rivoluzione ed in conspetto della
sovranità nazionale irrisa ghigna il «bon-plaisir» dei satrapi
borsaioli, squillando l'obliato ammonimento: non si ricacciano a
ritroso del proprio cammino nè la storia, nè la civiltà, nè il
progresso: mostrando ai servi quanto sia fragile la barriera che ne
contende il diritto ed il divenire; bisbigliando alle sentinelle
perdute che fioriscono nelle mani degli audaci le vittorie
dell'ideale...
Indarno per quelli che appollaiati su la vetta della piramide si
ubriacano di sole e di gioie, sdegnosi dell'abisso e della marmaglia
che vi pullula angosciata.
Non indarno agli umili cui la tragedia orrenda insegna il disprezzo
della vita propria e dell'altrui, e, ravvisati al bagliore della
folle ruina i nemici secolari avventeranno contro i simboli, i
sacerdoti ed i pretoriani dell'iniquo ordine sociale, conserti gli
sdegni e le rivolte di cui attizzò Gaetano Bresci or sono diciasette
anni la prima fiamma.
E bazza a chi tocca!
(29 luglio 1917).
Eh, se governasse il buon senso...
Mentre è rinviata a dopo le vacanze, ai primi del Settembre prossimo
la causa per congiura ai danni della coscrizione militare che in
odio dei compagni Galleani ed Eramo doveva discutersi mercoledì
scorso dinnanzi alla Corte Federale di Boston, al Commissariato
dell'Emigrazione si deciderà fra oggi e domani se Luigi Galleani e
Giovanni Eramo debbano dopo sedici anni di permanenza agli Stati
Uniti essere deportati nella loro patria d'origine in omaggio della
legge 5 Febbraio 1917.
Se comandasse la legge, se governasse il semplice buon senso non ci
sarebbe ragione d'inquietitudine.
Dal momento che la preposta di deportazione ha le sue scaturiggini
in quell'articolo «MATRICOLATI» di cui deve giudicare la Corte
Federale in Settembre; e che a giustificarla vuole la legge non
soltanto la qualità di anarchico nell'autore o nel complice del
reato, ma la prova di una sistematica predicazione della violenza,
della violenta distruzione della proprietà dello stato della
famiglia, è chiaro che è mal posta, alla deportazione la candidatura
di Giovanni Eramo il quale da un anno e più non ha alcun rapporto
colla amministrazione della «CRONACA SOVVERSIVA» e non ne ha mai
avuto colla sua redazione, e sotto nessuna forma ha mai predicato la
distruzione della proprietà o dello stato: non avendo mai tenuto una
conferenza, parlato ad un comizio, scritto un qualsiasi articolo di
giornale.
In America vige il criterio giuridico che l'operaio tipografo possa,
in mancanza di maggiori responsabilità, essere tenuto come un
accessario – secondo che si dice qui – come un complice necessario
dei varii reati commessi a mezzo della stampa. Ma il criterio non è
qui applicabile avendo il Galleani assunta piena ed esclusiva la
responsabilità dell'articolo «MATRICOLATI», ed essendo notorio che
Giovanni Eramo nella sua qualità di tipografo è estraneo alla
composizione della prima e della seconda pagina del giornale,
confinandosi la sua materiale cooperazione tipografica alle due
pagine rimanenti.
Per cui se governasse il buon senso, la legge, anche soltanto i più
gretti criterii giuridici, Giovanni Eramo avrebbe dovuto fin dal
primo giorno essere da ogni accusa ed a ogni minaccia esonerato,
risultando al Governo Federale dagli «Statements» semestrali voluti
dalla legge, e regolarmente apparsi nelle colonne della «Cronaca
Sovversiva» in questi ultimi due semestri che da oltre un anno egli
ha nulla da spartire col giornale che gli è causa di tanti guai.
Ma governa, la paura!
* * *
Il caso del compagno Galleani non è meno curioso.
È qui da sedici anni insieme colla famiglia, ed in America gli sono
nati tre figli i quali pel semplice fatto che qui sono nati si
trovano ad essere cittadini americani.
Supponiamo che facendo strazio della legge il Commissariato Federale
concluda alla deportazione del Galleani e che il Dipartimento del
Lavoro approvi. Non potendosi in alcun modo supporre che il governo
puritano si proponga la distruzione della famiglia di cui si presume
il custode, o voglia fare carico all'Assistenza pubblica dei tre
figli che al Galleani son nati in America, forza è conchiudere che
insieme con lui tutta la sua famiglia debba essere deportata.
Ma ne conseguirebbe allora la deportazione incostituzionale ed
assurda di tre cittadini americani. E non sarebbe questa delle
applicazioni del Burnett Bill la più curiosa.
Se il governo italiano per chiudere al mal seme le porte, o per
rappresaglia contro la minacciata deportazione generale dei suoi
sudditi, non volesse in Italia dei tre figli del Galleani che per
essere nati agli Stati Uniti si trovano ad essere cittadini
americani, dove andrebbe a deportarli la grande repubblica?
* * *
Vi ha di più il Galleani è qui un rifugiato politico: è evaso
dall'Isola di Pantelleria quando gli rimanevano a scontare altri due
anni di relegazione.
Il domicilio coatto che è disposizione amministrativa di Commissioni
speciali, eccezionali, esclude ogni beneficio d'indulti o
d'amnistia. Il rimpatrio del Galleani equivarrebbe di fatto ad una
estradizione per reato politico, quale non è consentito neppure
dalle tradizioni poliziesche ed autocratiche della Turchia della
Russia o della Germania.
L'Egitto mussulmano e medievale ha negato, malgrado le
«Capitolazioni» sempre vigenti, al Consolato Italiano di Alessandria
il diritto di disporre della libertà del Galleani quando evaso da
Pantelleria, fece laggiù la sua prima tappa e vi fu dopo qualche
mese arrestato.
Se governassero la legge, la costituzione, il più modesto buon
senso, non vi sarebbe ragione d'inquietitudini: Giovanni Eramo e
Luigi Galleani dovrebbero trovare presso il Commissariato Federale
non soltanto la tutela del loro diritto elementare ed inalienabile,
ma la riparazione dell'accusa assurda dell'inquisizione arbitraria
dell'oltraggio immeritato.
Se governasse il buon senso...
Ma sovrana dell'ora convulsa è la paura, e la paura è sempre cieca e
feroce.
(29 luglio 1917).
Vuoi tu sorridere
al guerrier che parte?
Send them away with a smile! canta della guerra l'ultima canzone,
che va a ruba e trova coristi per ogni trivio.
Ne ho inciampato più che una dozzina ieri lungo la via ombrata di
Fore River. Tornavano dal contiere enorme nelle nitide automobili
sfavillanti nei raggi del tramonto d'oro, e cantavano felici,
fiorenti di giovinezza e di salute.
Send them away with a smile...
L'abito impeccabile, le mani bianche, i volti rosei, l'esuberante
gaiezza non denunciavano la consuetudine mortificante della fucina e
del lavoro. Eppure venivano di là, dal ciclopico arsenale che ansa
giorno e notte la tragica preparazione della guerra.
— Gioventù felice! bisbiglia un vecchio che nella scia di polvisculi
d'oro ne segue la corsa vertiginosa ne coglie l'eco gioconda.
— È gioia e gloria il lavoro quaggiù, perchè non sarebbero felici i
suoi legionari? Lavorano per la patria e per le sue fortune, e
pingui, ben pingui debbono esserne i compensi se a casa possono
tornare dopo l'aspra giornata, cantando, in un'automobile che costa
qualche migliaio di dollari.
— Il lavoro di quella gente? È un impostura. Lavorano per burla.
Sono i figli di papà annidati nelle palazzine di Brookline, di
Jamaica Plains, lungo il Fenway Park, nei quartieri aristocratici
dell'Atene americana.
Il primo squillo della grande guerra li ha svegliati di soprassalto
affacciando alla loro ignavia di perdigiorni l'orribile cimento ed
il mortal rischio delle trincee laggiù, sotto lo squallido cielo
delle Fiandre straziate.
E si sono eroicamente giurato che alla guerra non andranno.
Fingono da un mese di lavorare pel governo, per l'esercito, per la
marina, per la guerra nei cantieri di Fore River, vi staranno,
burlando il prossimo e la patria, un altro paio di settimane, finchè
visite, rassegne, liste di mobilitazione e di esenzione non siano
compiute, poi... poi torneranno a casa infingardi, poltroni ad
inneggiare alla guerra della democrazia e della civiltà, mentre a
rompersi il collo, a morir di strazio o di piombo al fronte; saranno
partiti gli straccioni.
Send them away with a smile...
recava ora fioco il sospiro del crepuscolo sanguigno, ed errava
davvero su le labbra smorte del vecchio un sorriso; ma era d'odio e
di scherno.
* * *
Io non credevo. La patria è quaggiù nell'adolescenza. Non ha che un
secolo di vita. Come tutti i giovani accessibile agli impeti, alle
febbri, agli entusiasmi generosi. Nelle parole acri del vecchio
qualche altra passione mordeva che non fosse l'amor della patria e
la fierezza della stirpe egualmente mortificati.
Ma tornando più tardi m'è venuto fra le mani il «Boston Traveler»
della giornata: Kingdon Gould, il pronipote miliardario di Jay Gould
non vuol fare il soldato, non vuol partire per la guerra, ha moglie,
è sostegno di famiglia, non partirà.
Ha una rendita di parecchi milioni all'anno Kingdon Gould, è anzi
disposto a pagar di borsa se la patria avrà bisogno di quattrini, ma
di pelle no, not of his blood, ha dichiarato fermamente. Ed è sano
come un pesce.
Ma non partirà, la legge che trova uno sceriffo pronto a sfondarvi
le porte di casa la notte, se siete poveri straccioni, ed a
strapparvi dalla cuccia, dalle braccia della moglie e dei figlioli
in pianto, la legge su la soglia aurea di Kingdon Could, si arresta,
posa la spada e le bisacce, e scioglie le gonne come l'ultima
baldracca del quadrivio.
Kingdon Gould non andrà alla guerra; non vi andrà che la
marmaglia...
Send them away with a smile...
* * *
Non vi andrà neanche Noble Foss il figlio dell'ex-governatore del
Massachusetts. È giovane, forte, milionario direttore anche lui
della Sturtevant Aeroplane Co.; ma non partirà. Ha moglie – la
moglie è ricca quanto lui – e resterà a casa come sostegno di
famiglia.
A Marion, dove Noble Foss ha il suo aristocratico villino, la gente
di pudore e di buon senso è scoppiata, a quel pretesto, in una
sghignazzata. Ma l'ex-governatore è intervenuto.
– Quello di esser sostegno di famiglia non è che un pretesto; in
fatto Noble Foss, il mio figliolo, resta a casa per dare alla patria
e consacrare alle fortune della guerra le risorse del suo genio
meravigliosamente inventivo. Bisogna vedere nelle officine della
Sturtevant Aeroplane Co. di che cosa Noble sia capace!
Io non contesto. È stato a scuola vent'anni, nelle officine paterne
tra macchine sapienti ed operai geniali ha passato le sue ore
d'ozio, le sue giornate di vacanza; è passato per l'Istituto di
Tecnologia e per I'Harvard University, e se non sapesse neanche
tagliare un cavicchio, o ribattere un bullone avrebbe davvero
mangiato fin qui il suo pane a tradimento.
Ma c'è qualcuno che contesta.
L'ufficiale sanitario che al consiglio di leva gli ha passato la
visita l'ha visto serrato in un cinto erniario a due cotiledoni:
— Soffrite?
— Assai, dottore.
— Reclamate la riforma per imperfezione fisica?
— Una doppia ernia.
Il dottore toglie il cinto passa la mano cauta su l'inguine
accusato, a destra, a sinistra, tasta, preme, fa respirare forte,
tossire ripetutamente il suo paziente, e non trova nulla, non ha nè
un'ernia doppia nè un'ernia semplice, Noble Foss non ha nulla, non
ha nell'animo che il tumore infetto e turgido della poltroneria,
della vigliaccheria: è per la patria, è per la guerra, l'ha
conclamata nei comizi, nelle mascherate tricolori, nelle baldorie
della croce rossa, e nelle piazzaiuole campagne dei prestiti con
indemoniato fervore. Ora che la guerra è venuta è anche lui del
parere di Kingdon Gould, di Stuart Chase, degli imboscati milionari
di Fore River: fino ad un pugno di palanche, va bene! quanto alla
pelle no, basta alle esigenze della guerra la pellaccia della
marmaglia.
Send them away with a smile...
Ed è così dappertutto: la marmaglia s'aggioga senza recalcitrare,
s'allena ad Ayer, nei baraccamenti del Maine e del Virginia con
rassegnata tenacia, e domani su le galere in armi, pronte a
sciogliere vele e bandiere per l'impresa gloriosa, domani...
Veramente che cosa farà domani non può dire nessuno.
Non potrebbe darsi che vedendo rintanati nel covo dei pretesti
scurrili e delle complicità nepotiste gli eroissimi lupicini, si
decidesse a rimanere essa pure, non fosse che per snidarli,
inchiodarli su la gogna, iniziando incontro a cotesti alleati del
peggiore kaiserismo la guerra e le rivendicazioni della più vasta
democrazia che a la giustizia strapperà le bende, e non consentirà
freno di statuti e di codici alla libertà, nè scherno di privilegi
sulla fronte gloriosa della fratellanza?
Nel grembo del domani ha l'impreveduto le sue sorprese, che la
poltroneria di classe precipita espiatrici.
Non v'è che da aspettare.
(11 agosto 1917).
Un santo nuovo nel Calendario Repubblicano
Se derogando al vecchio romano aforisma per cui de minimis praetor
non curat, Woodrow Wilson ha degnato d'uno sguardo i rapporti, gli
affidavit, le fotografie mandategli dal Civil Liberties Union Bureau
di Boston la settimana scorsa, c'è da scommettere che sui
presidenziali entusiasmi per i nostri american boys sia piovuta una
doccia severa.
Marinai e soldati della grande repubblica lungi dal rivelarsi «in
some special sense the soldiers of freedom87, come li battezzava il
Presidente Wilson avantieri, si sono traditi emuli vittoriosi degli
scherani fanatici del Guisa nella notte del 24 Agosto 1572 e della
cafonaglia sanfedista del Ruffo nella rinnovata San Bartolomeo in
cui andò sgozzata nel 1799 la repubblica partenopea.
Il rapporto della Civil Liberties Union di Boston oltrechè dalle
fotografie che hanno colto i guerrieri della democrazia, mentre
sfondano col calcio dei moschetti la sede centrale del Partito
Socialista, è accompagnato dalle testimonianze di mezza dozzina di
vittime della bestiale cosaccheria repubblicana.
Le Signore S. Levemberg, Giulia Rashman, Annie Sweeney e Minnie
Yanus giurano infatti che i vendicatori del Belgio crocifisso e
della Serbia dolorosa si sono aperta la via sfondando eroicamente il
petto, rompendo le costole alle donne pigiate tra la folla o
raccolte – spettatrici inorridite – sul marciapiedi, peggio che non
usano i dragoni del Kaiser per le vie di Bruxelles o di Belgrado.
Così dappertutto i soldati! Gli eserciti francesi che dinnanzi alle
legioni del Moltke rassegnano armi e coraggio, si rifanno nel Maggio
1871 su la canaglia inerme a Satory ed al Père Lachaise; e chi ha
visto per le vie di Milano nel 1898 le eroiche truppe della patria
che tre anni innanzi si erano buttate allo sbaraglio pei greppi e
per le forre di Abba-Carima dinnanzi alle fanatiche orde del
Menelick, sa che il fulgore antico delle tradizioni, della storia,
degli istituti civili non muta le conseguenze uguali e fatali degli
insegnamenti casermieri. Vestite della livrea un borghese annoiato
della propria onnipotenza od un contadino ottuso dalla servitù,
dall'ignoranza, dall'abbandono, dal disprezzo; dite ad essi che sono
il diritto, la patria, la legge e l'ordine, date ad essi una
sciabola, ed un archibuso, e, sobbillate dalla certezza,
dell'impunità, albagia gentilizia e bestialità primordiale non
troveranno più freno nè in quello nè in questo. Gallifet, Bava
Beccaris, Linderfelt, a Parigi, a Milano, a Ludlow non sono nè
meglio nè peggio degli ingibernati mandrilli che per le foreste del
Maine o del Vermont svergognano le bandiere, inorridiscono le comari
ed angosciano di questi giorni le Corti della grande repubblica
stuprando e sgozzando le minorenni ingenue ed indifese. I soldati
sono soldati; non sempre nè tutti abbrutiti, ma in cui la bestia
umana rivive e s'indraca sempre che l'immondo saturnale della guerra
sommerga delle civili inibizioni ogni scrupolo ed ogni freno.
È la psicologia del militare di professione ben nota, documentata da
un'esperienza sinistra ed antica ben prima che la costringesse
Agostino Hamon nell'irrecusabile severità del teorema.
Ora che cosa pensate voi del progetto di legge dall'onorevole Myers
del Montana sottomesso avantieri all'approvazione del Senato, per
reprimere «disloyal, threatening, profane, violent. scurrilous,
contemptuous, slurring, abusive or seditious language about the
government, the Constitution, the President, the army, the navy, the
soldiers, the sailors, the flag, the good and well fare of the
United States, or any other language likely to bring the United
States into disrepute or contempt»88, pena ai contravventori
cinquemila scudi di multa, cinque anni di carcere, o quella e questi
assieme.
Io non so che cosa penserà e farà il Senato del progetto Myers che
in questo infuriare di guerra per la democrazia riaffaccia con tutti
i rigori del crimenlese la santità e l'inviolabilità del Presidente
Wilson ridotto di colpo all'augusta irresponsabilità d'un
Hohenzollern, d'un Ausburgo o d'un qualsiasi Gennariello di Savoia.
Monarchia e repubblica non si differenziano al giorno d'oggi neppure
nella maschera. Chi ha fatto il giro della Casa Bianca e l'ha vista
piantonata di birri, di soldati con tanto di baionetta innastata;
chiusa sdegnosamente ad ogni incesso, ad ogni voce di umili; chi ha
visto l'automobile del Presidente Wilson preceduta, seguita, cinta
per ogni lato dalla sbirraglia a piedi, a cavallo, in bicicletta,
non s'illude: per essere in manica di camicia, il randello nel pugno
invece che la spada o la lancia, i pretoriani del Wilson
rappresenteranno sì una degradazione estetica ultrademocratica dei
corazzieri di Vittorio Emanuele o degli ussari della guardia di
Guglielmone, ma significato e funzione rimangono i medesimi; ed il
Senato può accordare senza scrupoli e senza rimpianti all'onorevole
Myers che, salito dall'umile cattedra di Princeton alla Casa Bianca,
Wilson è sacro ed inviolabile come il re.
Ma quando il senatore Myers vuole che la repubblica della stessa
santità, della stessa inviolabilità benedica alla criminale masnada
d'abbrutiti che dalle maremme del New Yersey alle Filippine, dalle
vallate di Hazleton a quelle di Ludlow, dal cuore dell'Atene
Americana alle rive del Mississipi od alle giogaie del Vermont o del
Maine non si compiace che di stragi caine, di organizzate,
impunitarie violazioni di domicilio, di stupri sacrileghi, di tutti
gli arbitrii e di tutte le onte, che cosa potrà fare mai il Senato?
Indulgere alle follie dell'ora?
Non servirebbe a nulla: dove passa un guerriero passa la minaccia,
passa il terrore, passa la vergogna. E finchè quel terrore, quella
minaccia, quella vergogna rabbrividiranno nello sguardo delle madri,
nel corpo esile delle fanciulle violate, nei volti smarriti dei
vecchi e dei bimbi, accuseranno nei soldati della repubblica, nei
guerrieri della democrazia i custodi feroci dell'intolleranza e
della superstizione, il simbolo d'ogni infamia, lo strumento d'ogni
abbiezione, sterile e vana tornerà all'onorevole Myers la
canonizzazione della giberna e della caserma.
Non raccoglieranno mai che orrore e maledizione.
Ne volete la prova?
A Cork, in Irlanda, avantieri, certe ultrademocratiche licenze dei
guerrieri della repubblica hanno levato un casaldiavolo, e le
legnate sono piovute giù, più fitte della grandine.
E non saranno le ultime, statevene certi! se le debbono scongiurare
soltanto le beatificazioni grottesche dell'onorevole Myers e del
Senato.
Non saranno le ultime!
(8 settembre 1917).
Purchè non ci trovi colle mani in mano!
Uomini di poca fede che il ciclone della guerra, la sua rabbia
incommensurata ed inattesa, la sua cieca ostinazione hanno travolto
paurosamente al dubbio ed all'apostasia, e dei destini della
libertà, dei fini stessi della vita avete disperato, conchiudendo
che la marmaglia è tanto adusata alla domesticità, alla rinunzia,
alla rassegnazione, precipitata così basso lungo la china
dell'abbiezione che sognarne, volerne, tentarne la emancipazione è
stupida, imperdonabile follia, uomini di poca fede, riconfortatevi,
rasserenatevi!
Nel tenebrore sciagurato, in cui ogni giudizio si è smarrito,
scorato ogni proposito, dileguata ogni speranza, si apre esile uno
spiraglio od un primo pallido raggio traluce illuminando su la
rovina, sul carnaio immani, la rivincita auspicata ed ineluttabile
della ragione.
* * *
Voi aspettavate, premio indiscreto al magro sacrificio ed alle
ciancie comizievoli, il miracolo: al primo squillo guerriero lo
stormo delle campane a distesa sui solchi ingrati, sui cantieri
ansanti, su le mine tenebrose, protesi degli iloti gli animi, gli
odii, le braccia: levate falci, picconi ed ascie a soffocare per
sempre l'anelito fratricida!
Voi aspettavate il miracolo: la rivoluzione sociale, l'anarchia
subito, ad opera di servi cresciuti dalla chiesa nel santo timor di
dio e nell'eunuco fervore di ogni rinunzia; cresciuti dallo Stato
nell'orrore della propria indipendenza e della roba altrui;
cresciuti dalle nuove oblique demagogie nella religiosa devozione
della legge, dell'ordine, dei loro simboli augusti; cresciuti dal
tradimento assiduo e dal rinnovato disinganno alla desolata sfiducia
di sè, del proprio diritto, della propria forza, del proprio
destino.
* * *
Nel clima delle contingenze reali, irrespirabile alla taumaturgia
cattolica ed alla fede nel miracolo, che ne è il fondamento e la
sopravvivenza, la genesi e lo sviluppo dei fenomeni sociali segue
altra procedura.
Quando la guerra è scoppiata or sono tre anni, tra il Luglio e
l'Agosto del 1914, la maggior parte dei lavoratori, ignara delle
ragioni antiche, profonde, complesse da cui era attizzata, ne ebbe
come un senso di dolorosa sorpresa; dolorosa anche laddove
l'ingenuità delle superstizioni nazionaliste e dei mal collocati
entusiasmi patriottici permaneva tenace ed orgogliosa.
Perchè non si disconosce, neppure laddove si indulge apertamente
alle rivendicazioni della stirpe e della democrazia, che di ogni
guerra tributi, angoscie, lutti piombano con preferenza costante ed
iniqua sulla povera gente; mentre gloria, onori e bottino, si
ripartiscono esclusivamente fra i privilegiati che in genere e nel
maggior numero se ne stanno a casa; e sopratutto perchè non è, oggi,
indifferente il numero dei lavoratori che della guerra ha nozione
precisa ed esperienza dolorosa, e vorrebbe i tributi negarle, e
sente che gli mancano l'audacia propria e la proletaria cooperazione
internazionale a contrastarla utilmente.
L'olocausto di Francisco Ferrer a la vigilia dei borbonici
arrembaggi marocchini, gli attentati di Antonio d'Alba e di Augusto
Masetti alla vigilia della gloriosa impresa d'oltremare – rivolta
meditata, od istintiva, di libere coscienze che tra l'oggi perfido
od il domani sorridente non consentono indugio o transazione – a chi
non li guardi abbacinato dalle traveggole lombrosiane non parleranno
che come la voce sensibile di questo doloroso stupore. Il quale ci
troverà concordi dall'un campo e dall'altro a riconoscere che il
proletariato ha subito la guerra come una calamità a cui non poteva
efficacemente opporsi, e che se allo sforzo ciclopico ha dato il
fiore di tutte le energie ed il sangue di tutte le vene, entusiasmi
e fervori le ha negato anche nei giorni che lo sorreggeva piena
inconcussa la fede nella vittoria.
Ma se questa prima constatazione non è temeraria, due conseguenze è
lecito indurre logicamente: che nessun organismo, neanche il meglio
temprato nello sforzo resiste perpetuamente; che lo sforzo elude
quando gli appaia sproporzionato ai risultati, e questi gli si
rivelino inaccessibili od eccessivamente remoti.
Mi pare il caso nostro.
* * *
Lo sforzo dura da tre anni, e si accusa ogni dì più sproporzionato
al fine; nè questo apparve mai più lontano e più arduo.
A contenere sul Reno le orde rapaci del Kaiser, a strappare dai loro
artigli grifagni l'Alsazia e la Lorena, a custodire la devastata
eredità della sua grande rivoluzione, il popolo francese avrebbe
dato volentieri un milione dei suoi giovani gagliardi, qualche
miliardo dei suoi risparmii, un anno d'eroica miseria, senza un
rimpianto. Ma la guerra imperversa da tre anni senza speranza di
tregua o di vittoria; ma oggi i morti, i mutilati, i dispersi si
contano a milioni; ma oggi i miliardi buttati nella voragine beante
non si contano più. In tre anni – vana la enormità del sacrificio e
dell'eroismo – non si sono riscattate le poche leghe che del patrio
suolo il nemico ha invaso nella prima settimana della guerra; il
patrimonio di libertà che si contende alle straniere minaccie va
liquidato nelle restaurazioni esose e nel rito sommario delle corti
marziali; e sono magro ricostituente della stanchezza e della
sfiducia le fucilazioni in massa che tengono insieme per poco
ancora, fino al primo grande urto, la compagine degli eserciti in
conspetto del nemico in armi.
La Francia non ne può più!
* * *
E se brontolano ad Atene non ridono a Sparta. Il proletariato
tedesco è guarito radicalmente dall'illusione di potere sul vecchio
occidente latino imporre l'egemonia della stirpe. Dal Kaiser
all'ultimo contadino brandeburghese non è più oggi che una certezza
ed una preoccupazione: che la guerra è perduta ad onta della
preparazione sagace, della ferrea organizzazione militare e
dell'unanime pertinace eroica resistenza plebea, senza speranza; e
che in luogo di affettare la ciambella delle conquiste lungamente
accarezzate bisognerà convergere gli ultimi sforzi, irrigidire
l'estrema tenacia a salvar la patria dalla rovina, dalla
mutilazione, dal vassallaggio del nemico implacato ed inesorabile.
Un fremito di rabbia e di rivolta pervade e scuote la vecchia
Germania delusa: la grassa borghesia non perdona al Kaiser d'averla
ridotta al fallimento, il proletariato rampogna ai militanti del
socialismo parlamentare d'averlo soggiogato alla fortuna degli
Hohenzollern e di averlo sospinto nel baratro della guerra
sfortunata; mentre fra i due estremi le faine del centro cattolico
giuocano, a salvare le fortune dell'ordine, audacemente l'ultima
carta, quella delle tardive ed anodine riforme costituzionali, e
l'urlo dei mutilati, degli orfani, delle vedove, dei derelitti rosi
dall'angoscia e dalla fame annunzia a Nerone briaco d'orgoglio e di
paura che Galba è alle porte.
La Germania non ne può più! Con cinque milioni trecento quarantasei
mila tra morti, feriti, prigionieri alle spalle, guarda con
isgomento all'inverno che precipita: «nobody thinks another winter
of war can be endured!» diceva giorni sono in Stoccolma al
corrispondente del «Chicago Daily News» un grande industriale
tedesco riuscito ad evadere dalla patria. E parlando
dell'indifferenza con cui il popolo tedesco guarda alle vicende
della guerra soggiungeva: «it is all the same to us if we come under
the french or british flag if only this business ends, because we
cannot suffer more than we do now!»89.
La Germania non ne può più!
* * *
È carità non discorrere di quello che avviene in patria.
Alla ribalta delle platee, deluse gli istrioni dell'irredentismo
salariato da Federzoni a Mussolini a De Ambris, non si riaffacciano
volentieri. Trieste che su l'Austria disfatta e sugli Ausburgo allo
sbaraglio doveva conquistarsi – come Tripoli ai bei dì dei
d'annunziani epicedi – nel turbine irresistibile di un paio di
settimane, prima tappa della marcia trionfale che da Fiume a Leibach
a Bolzano avrebbe suggellato di libertà e di gloria il sogno antico
dalla gente ed il nuovo confine della più grande patria, Trieste è
sempre a venti miglia dalle avanguardie del Cadorna; e di Trento non
si parla più.
Il proletariato sull'altro piatto della bilancia mette un milione di
cadaveri, il maggior debito di una trentina di miliardi, le lacrime
di tutte le madri, l'ineffabile tortura dei cuori e dei ventri, e
trova che male essi librano lo squallido orgoglio di mutare il basto
ed il bastone alle ingenue popolazioni istriane e tridentine,
esangui su le città fumanti di stragi e di rovina.
Non vuole più della guerra il proletariato della patria, e mentre
spia la sua giornata, l'ora indeprecabile in cui appenderà alla
lanterna cavadenti e lenoni dell'irredentismo cesareo, spiana sui
proprii ufficiali, sui colonnelli, sui generali, sui tricolori
artefici della guerra, le armi che non sa più impugnare a sterminio
dei disgraziati fratelli d'oltr'atpe e d'oltre mare. E se le
decimazioni sistematiche, le fucilazioni quotidiane che or sono due
mesi denunziava al parlamento italiano l'onorevole Fabio Maffi
possono di qualche mese differire lo sfacelo, non è chi coltivi su
l'epilogo estremo un'illusione. Non Gennaro di Savoia che dalla tana
non esce più, non i suoi cortigiani, non i suoi ministri, nè i suoi
giannizzeri che prima delle torri di San Giusto affaccieranno la
ghigliottina; non la nuova borghesia industriale che a restaurare le
sorti del capitalismo insidiate dalle plebee coalizioni
internazionali ha riacceso improvvidamente il furore delle
patriottarde insanie, il rogo espiatorio delle guerre nazionali.
L'Italia non ne può più!
* * *
Le migliori condizioni economiche che l'industria progredita, il
libero traffico, gli accaparramenti paradossali, il credito
illimitato, la diplomazia scaltrita, le sapienti estorsioni, le
colonie doviziose assicurano all'Inghilterra per cui tutto il resto
del mondo si denuda e svena, salveranno il regno unito dal fato che
attende le nazioni continentali e la guerra precipita?
Parrebbe, a giudicare dal lealismo generoso e fedele che le
testimoniano le sue vaste colonie antiche e recenti.
L'Inghilterra è certo all'apogeo della sua potenza. Come la vecchia
Roma essa coglie l'omaggio del mondo universo tributario e vassallo;
ed oggi che le si accosta, massiccia d'oro e di uomini e più di
preoccupazioni e di libidini conservatrici, l'America dei Morgan,
dei Rockefellers, degli Armour, degli Schawb, legittimerebbe il
sospetto che sul vecchio continente in fiamme essa non abbia a
riprendere l'ufficio che in ogni tempo esercitò con fortuna, a
Waterloo come a Cartagena, quello di procedere alle restaurazioni
sommarie sotto la maschera di salvare dai sacrileghi eccessi della
rivoluzione francese o dell'insurrezione cantonalista l'ordine e la
libertà; se non confortasse la storia che per la sua stessa mole,
attinto lo zenit della parabola, è caduta la potenza di Roma; se non
mordesse le più ricche delle sue colonie, le Indie, l'Egitto, il
Transvaal, un'acuta nostalgia d'indipendenza; se nel suo
proletariato, fino a ieri così orgoglioso dell'insuperato fastigio
della patria., non si delineasse precisa, decisa fino a vestirsi
delle inesorate forme del diritto, la consapevolezza delle proprie
benemerenze disconosciute ed irrise; se da ultimo i tre milioni
d'armigeri che il Kitchener le ha coscritto ed essa si guarda bene
dal profondere in Francia o nei Vosgi, potessero, col problematico
rinforzo di uno o di due milioni di caccialepri della grande
repubblica, arginare il proletariato in rivolta dalla penisola
Iberica al Giappone, e dalla Finlandia al Capo di Buona Speranza.
* * *
Perchè dagli ammutinamenti degli equipaggi portoghesi, ufficialmente
riconosciuti per gravissimi dall'ammiragliato inglese che ne ebbe
primo la novella, all'insurrezione spagnuola cui ricantano il
miserere da qualche settimana le docili agenzie officiose, e divampa
invece così vittoriosa che in una dozzina di provincie almeno la
repubbilica, è stata proclamata ed Alfoncito di Borbone tentenna fra
il colpo di stato e la fuga, fino al Brasile dove, mi scrive un
amico, i conflitti tra capitale e lavoro si risolvono in istrada
colle armi in pugno e collo sbaraglio dei lanzichenecchi
dell'ordine, fino all'Argentina, teatro in questi giorni del più
vasto e del più tragico sciopero generale che le cronache del
proletariato abbiano mai registrato, su, traverso il vecchio
continente irrequieto, traverso la Russia inesorata in armi contro
il nuovo regime oligarchico come ieri contro l'autocrazia ingorda e
bestiale, fino al Giappone dove i lavoratori «becoming slowly but
steadily more intelligent and more self-conscious» reclamano in
piazza la loro parte enormi profitti industriali della guerra: e
dove «unless the officers and employers atre large-minded and
willing to meet rightful demands... conflicts are pratically certain
to breah out90» non si è vista mai più spontanea nè più decisa,
polarizzata alla stessa meta, traverso le stesse vie,
all'emancipazione economica traverso le quotidiane rivendicazioni
fondamentali, l'insurrezione del proletariato internazionale.
* * *
I sognatori del miracolo pretendevano imprimerle colle
organizzazioni disciplinarle e coi fantastici trattati di alleanza,
ritmo ed armonia: l'identità degli interessi di classe che tradisce
il cinico contrasto della guerra; la minoranza privilegiata che
senza un rischio conia su la strage degli umili la fortuna, per una
parte: per l'altra la grande maggioranza degli straccioni che senza
pure il sorriso di una promessa o di una speranza, è incalzata dalla
violenza e dalla paura a raddoppiare del sangue, di tutte le
angoscie, di tutte le lacrime, il millenario tributo del sudore e
della pena; l'identità dello strazio che la guerra liberatrice
inasprisce ed arrovella nel proletariato belligerante come in quello
delle nazioni neutrali, quel ritmo, quella concordia, quell'unità
d'azione, senza di cui la rivoluzione sociale nè si integra nè
trionfa, hanno attinto senza sforzo.
A Oporto ed a Lisbona l'ammutinamento degli equipaggi repubblicani è
soffocato dalle esecuzioni capitali; a Barcellona gli insorti sono
snidati dalla guardia civile colla dinamite, e sbrandellati in
piazza colla mitraglia; a Sao Paulo l'impeto insurrezionale è
placato dalle concessioni padronali frettolose, mentre è disarmato a
Buenos Ayres dall'equivoca sollecitudine del governo che
dall'inutile repressione sanguinosa è costretto a minacciare la
confisca delle ferrovie; a Mosca hanno avuto ragione ancora una
volta la forca e la frode, Korniloff e Kerensky; così come in questa
vandea interoceanica agli altari polluti di Mida non montano che
salmi di devozione, che omaggi di lealtà.
Il miracolo non si è compiuto, uomini di poca fede! È aspra, ardua,
lunga la via del divenire: ma la rivolta non ha più argini nè
confini, ma l'eco minacciosa ripercotendosi da piaggia a piaggia
sveglia i dormienti, rizza le scolte, coscrive le legioni, le
accende di speranza e di ardimento, dell'ultima speranza,
dell'ardimento estremo; e la favilla sarà incendio, l'insurrezione
rivoluzione...
Che essa non vi colga, uomini di poca fede, senza coraggio e
senz'armi nell'ora imminente della prova!
(8 settembre 1917).
Ma si contenta di poco!...
Woodrow Wilson è un genio: dopo di Giorgio Washington che la patria
compose indipendente ed una su le colonie disperse, e le soffiò il
primo alito di vita e di libertà; dopo di Abramo Lincoln che nella
furia tragica delle civili dissensioni ne raccolse e ne guidò in
porto le minacciate fortune vittoriosamente, il «Boston Post» nel
famedio della patria il terzo altare leva a Woodrow Wilson che in
questo «critical period of the world history, wherein not only the
fate of this great nation but the very existence or modern
civilization is at stake... is rendering, to his country and to all
mankind a service that no words can measure»91.
Il «Post» è giornale officioso che a Washington attinge
l'ispirazione e la biada, ed il suo non può essere che il linguaggio
dell'apologia e della cortigianeria; ma non monta. Si comprende che
di essere evaso alle smargiassate pericolose del Roosevelt ed alle
predaci bande del Taft il popolo americano si feliciti, si rassicuri
tra le dande del Wilson, che non è come Teddy un ignorante od un
irresponsabile, nè delle camorre trustaiole mezzano così impudico
come Vitellio, e sa quanto meno salvare le apparenze, urgendo dei
suoi editti la crociata al monopolio cui si arrese tuttavia nel
brusco voltafaccia che tra la vigilia ed il domani delle ultime
elezioni presidenziali lo mutò di ostinato pacifista, in idrofobo
guerraiolo.
La grande maggioranza del popolo americano, troppo diverso per
fremere la patria, troppo giovane per avere una storia ed il
bagaglio d'esperienza che essa accumula, e troppo ben custodito
dalle sapienti ipocrisie e dall'effimera prosperità, per cercare
fuori delle costituite tutele, il nettare sacrilego, l'orgoglio
delle rivolte, le guarentigie ed i presidii dell'indipendenza
spirituale ed in questa sua ingenuità primordiale rimane schiavo dei
feticci e dei simboli, di dio, della costituzione, della repubblica,
del tricolore, del presidente; mistero inviolato fino ad oggi la
bieca realtà degli organi e delle funzioni che nei feticci si
incarna, e nasconde fraudolento l'orpello dei segni venerati e
pomposi.
Il popolo americano soggiogato ai dogmi ed alle clientele; non noi
che oltre la maschera politica, autocratica, costituzionale,
repubblicana, democratica, egualmente insignificante sia che
digrigni in Guglielmone od in Roosevelt, o si distenda alle
pantagrueliche digestioni del Taft, o si irrigidisca nell'austerità
giansenista del Wilson – cerchiamo la struttura economica di cui è
condannata a travestire le violenze bestiali e le frodi organizzate
e venerate.
* * *
Il genio del Wilson conta ben poco a questa stregua ed ancora meno
la costituzione della repubblica, se l'uno e l'altra non raggiungono
l'eguaglianza di doveri e di diritti su cui libra la giustizia le
sue bilancie, asside le sue guarentigie la libertà, stringe il primo
e più saldo dei suoi vincoli la fratellanza, senza delle quali la
repubblica rimane la più beffarda delle menzogne convenzionali, e
l'uomo di stato, Machiavelli o Talleyrarld, Bismark o Wilson è
condannato nell'impotenza cronica a naufragare fra trabocchetti,
avvolgimenti, contraddizioni.
La frode è alle scaturigini, è nei termini la contraddizione: dove
sono privilegio e destituzione, dove l'antagonismo degli interessi
di classe stride irreconciliabile, voi avete padroni e servi, non
cittadini; ed invece che palladio di giustizia, e di libertà, la
repubblica si torce fra le mani delle oligarchie nuove
nell'impunitario strumento di corruzione e di tirannide, di violenza
e di rapina che voi credevate di aver seppellito. irrevocabilmente
fra i ruderi dell'antico regime.
È verità così piana e così trita che può esimerci da ulteriori
conferme e che ribadiscono d'altronde, ad uso e consumo dei San
Tomaso del lealismo incondizionato, le cronache di questi tre mesi
di preparazione guerresca.
* * *
Woodrow Wilson che del suo messaggio del 6 Aprile misura le
responsabilità, le conseguenze immediate e lontane, e non si illude
di poterle fronteggiare e superare ove del paese non rispondano
unanimi tutte le voci, le attitudini, le forze e le risorse, si è
trovato dinnanzi una strana condizione di cose: frementi l'amor
della patria, deliranti per la guerra della democrazia le classi
dominanti: recalcitrante come sempre, come a Vera Cruz, come sul Rio
Grande, il proletariato composito della nazione; refrattario in
tutti i suoi strali alla grande guerra di là dal mare, lontana,
oscura nelle sue cause determinanti come nei suoi fini complessi.
Non si è certo nascosto che in condizioni siffatte nè la guerra nè
la vittoria erano possibili: i borghesi dovevano dare più efficace
contributo che non d'applausi, di ciancie e di bandiere; il
proletariato doveva, in mancanza di meglio, dare il sangue e la
pelle.
Da queste indeprecabili esigenze due ordini di provvedimenti: la
coscrizione militare e la coscrizione economica.
Della prima, ogni difficoltà fu agevolmente superata; e, fatta alle
eccezioni la debita parte, ogni resistenza fu vinta. Caserme,
baraccamenti, darsene, cantieri del Nord e del Sud, rigurgitano di
marinai e di soldati. I primi contingenti sono in Francia da un
mese, altri convogli seguono per insolite rotte dell'oceano
insidiato, infido; i quadri della seconda leva sono all'ordine, e
coi primi del Giugno prossimo due milioni di soldati saranno sul
vecchio continente raccolti all'estremo sbaraglio degli Hohenzollern
od a custodire le sorti dell'ordine ove ai proprii destini il
proletariato tedesco abbia di per sè provveduto travolgendo alla
riscossa, i paria delle nazioni alleate.
Gli straccioni hanno, come sempre, pagato di persona.
Come sempre, i figli di papà non hanno fatto onore alla firma.
* * *
Chi ha seguito nelle cronache giudiziarie della grande repubblica i
processi che per le indebite mercenarie esenzioni dal servizio
militare si sono svolti un po' dappertutto, ma con maggior scandalo
negli stati di New York e dell'Illinois; chi dai membri del
Consiglio di Leva dello stato del Missouri, ha udito senza proteste
denunziare che «intiere famiglie di privilegiati sono state dal
servizio militare esonerate in massa»92; chi a Washington, nell'aula
senatoriale della Commissione per gli affari militari ha assistito
all'indisturbata apologia della renitenza e della diserzione per
parte di Frank Stevens del Delaware, presenti in gran numero
senatori e deputati; chi ha visto appollaiati in tutti gli uffici,
benedetti da tutte le sinecure, immuni da ogni rischio i lupicini,
non mi chiederà più ampia documentazione. Gli straccioni sono
partiti, anche quelli che non erano troppo in gambe, anche quelli
che il pane dovevano spartire coi vecchi e coi figlioli; primi agli
spettacoli, alle parate, agli onori; alla greppia; i figli di papà
non sono partiti e non partono. Tutta l'autorità del presidente
Wilson che è pure illimitata, dittatoriale, discrezionale, il suo
orrore per le preferenze inique, pei mercimonii vergognosi non vi
possono nulla, non ristabiliscono l'equazione.
* * *
— Ma quelli dànno sotto altre forme, per altre vie, contributo
equivalente: pagano!
— Manco ad ammazzarli pagano; pagate voi, citrulli! Dove delle
lacrime e del sangue irrorate dei profitti la vigna, essi
vendemmiano, soli; e sulla nuova e più oltraggiosa sperequazione i
poteri discrezionali del presidente Wilson, le sue democratiche
preoccupazioni di eguaglianza e di giustizia s'abbattono egualmente
sterili e vane.
* * *
Il messaggio bellicoso dell'Aprile, preveduto in borsa da qualche
settimana, ci ha trovati colla farina a diciotto scudi al barile,
col pane a sedici soldi la pagnotta, col carbone a tredici scudi la
tonnellata, il latte a quindici soldi il litro, lo zucchero a
diciotto soldi la libbra, la carne ad uno scudo il chilo, col prezzo
dei generi di consumo ad un livello che sugli squallidi mercati
della Germania e dell'Austria bloccate, della Francia, della Russia,
dell'Italia svenate da tre anni di sacrifizi non hanno
osato-attingere mai.
Romba la guerra, gli sciacalli s'avventano sul carnaio all'orgia con
tanta fretta che per poco non compromettono la cuccagna.
Il governo è costretto ad intervenire.
Wilson indignato esige pieni poteri a scompigliare le camorre, ad
infrenare la speculazione ladra, vuole centocinquanta milioni per
una rapida inchiesta sullo stato delle risorse disponibili a cui la
Federal Trade Commission procede con sollecitudine e coscienza
inattese, conchiudendo a risultati sbalorditivi:
Innanzi ad ogni cosa non è penuria di generi di consumo. Joseph
Hartigan, ispettore dei pesi e delle misure, consacra in un
documento ufficiale che «il caro-viveri è assolutamente
ingiustificato, e falso l'allarme della carestia: such vast
quantities of food have never before been stored here».
Non abbiamo avuto mai tanta abbondanza! I prezzi imposti ai
consumatore sono estorsione vergognosa!
Il miglior carbone, l'antracite, alla mina, fatta la parte del leone
alle compagnie, non costa che 4.15 la tonnellata. Aggiungetevi 1.25
per le spese di trasporto, ed altrettanto per la consegna a
domicilio, e dovrete conchiudere che sui mercati di New York, di
Boston, di Portland non costa più di dollari 6,65 il carbone che
abbiamo pagato durante tutto l'inverno tredici, quattordici ed anche
quindici dollari la tonnellata; e che i bottegai patriottissimi ci
hanno estorto un profitto usuraio del cento per cento!
È così di tutti i generi. Comprato dove si miete, avanti che la
speculazione borsaiola se ne sia impadronita, il grano costa meno di
un dollaro al bushel che, gravato d'un lecito profitto e delle
debite spese di trasporto, vorrebbe dire la farina a sei o sette
scudi il barile, come si pagava avanti che la guerra fosse
scoppiata. Il produttore non lo vende oggi a maggior prezzo, e se
noi abbiamo pagato la farina a sedici, a diciotto scudi il barile,
vuol dire semplicemente che gli accaparratori guerraioli ci hanno
estorto un profitto ladro del duecentocinquanta, del trecento per
cento!
La Commissione Federale d'inchiesta ha accertato che salmone,
piselli, pomidori in conserva, che noi abbiamo pagato e paghiamo
venti e venticinque soldi la scatola, non costano più che sette
soldi e mezzo ai rivenditori, i quali per amore della patria e della
guerra si sono tagliato e si tagliano l'onesto profitto del duecento
per cento.
Portate lo stesso esame sugli altri generi di necessario consumo,
sugli zuccheri, sulle carni, sul cotone, le scarpe, le lane, su
tutti i prodotti industriali, e giungerete sulla scorta delle
medesime cifre ufficiali ad identico e non meno desolante risultato:
mentre i diseredati per la guerra sciagurata, di cui ignorano cause,
propositi, meta, al primo appello della patria si apprestano a darle
la giovinezza, il sangue, la vita, quelli dall'altra riva, sordi ad
ogni voce che non sia del più gretto interesse, dei più luridi
appetiti, elusi del compito comune tributi e rischi, si avventano al
sacco, all'estorsione, alla rapina, all'arrembaggio accumulando
milioni, accumulando miliardi, senza scrupoli e senza freno.
* * *
Senza freno: qui è il nodo.
Wilson, malgrado gli intrighi del lobbysmo professionale, ha
strappato al Congresso i centocinquanta milioni che lo debbono
abilitare al controllo delle vettovaglie; ed i poteri discrezionali
di cui ha potuto investire a sua volta Herbert Hoover ed Harry
Garfield93.
È passato incurante sulle proteste delle grandi compagnie, ha
sventato le loro trame, irriso i minacciosi ricorsi al Congresso ed
alla Suprema Corte federale, ha fissato il massimo prezzo dei
carboni, ha chiuso la borsa dei cereali mentre organizza la
nazionalizzazione dell'industria degli zuccheri e degli spiriti,
corazzato delle più generose intenzioni e della tenacia più eroica.
Con quale risultato, volete dirmelo?
Che il carbone è sempre a dodici scudi la tonnellata.
Che la farina è sempre a dodici scudi il barile, ed il pane a sedici
soldi la pagnotta.
Che lo zucchero costa oggi come l'inverno scorso.
Che in luogo di diminuire il prezzo delle carni è divenuto
inaccessibile: «civil war prices for meats were outdone to-day», «i
prezzi della carne al tempo della guerra civile sono oggi superati»
scrive il corrispondente speciale del «Boston Globe» da Chicago
avvertendo che «the increase has only started», («l'aumento è appena
incominciato»).
Che stiamo oggi peggio che non ieri; che disperato di non poterci
tornare, come si era avventatamente impegnato, al soup-bone di mezzo
franco ed alla pagnotta di cinque soldi, H. Hoover scendeva ieri coi
rappresentanti del trust della carne e con quelli della Masters
Paker's Association ad un compromesso – non destinato alla
pubblicità – per cui «egualmente protetti durante la guerra gli
interessi del produttore e del consumatore» egli ci annunzia, senza
fede, che «da oggi innanzi la situazione andrà migliorando»; ed
Harry Garfield, incapace di rompere la fitta maglia d'intrighi che
da ogni parte lo soffoca, è costretto a raccomandarci, rimedio
eroico all'alto prezzo dei viveri e dei combustibili, di saltar
qualche pasto, di accendere un'ora dopo e di spegnere un'ora prima
la stufa di casa, mandando a letto di buon ora la nidiata.
* * *
Non occorreva sciupar tanto tempo e tanti baiocchi, scomodare il
genio di Wilson, nè consultare tanti oracoli, nè avvelenare la
digestione di tanti onorevoli se dovevasi conchiudere a questo
acrobatico semplicismo dell'Hoover e del Garfield: ogni tramp sa
stare senza cena quando non ha una mica nella bisaccia, ed ogni
massaia risparmiare la fatica di accender la stufa quando il sacco
del carbone non sta in piedi.
E questa miseria di risultati è troppo intimamente legata
all'organica contraddizione degli istituti perchè noi sappiamo farne
colpa alla protervia, all'incuria, al vizio degli uomini.
I depositarii della nazionale sovranità al Congresso ed alla Casa
Bianca, non mostrano d'accorgersi che dall'istituto economico,
fondamento essenziale di ogni rapporto sociale, sono determinati la
natura, la funzione, le leggi, gli organi dell'istituto politico,
dello Stato; che dove la forma della proprietà sia privilegiata,
Stato, legge, magistratura, esercito, polizia, non saranno mai che
depositarii, voci, strumento, di cotesto privilegio e che cercare
l'uguaglianza nella repubblica, l'indipendenza nei parlamenti e la
giustizia nei tribunali, i presidii della democrazia negli eserciti
e della costituzione nella sbirraglia; e contro Morgan Rockefeller,
contro Armour e Schwab – dai loro monopolii economici investiti del
quiritario diritto di vita e di morte sui cento milioni di pezzenti
della grande repubblica – pretendere nel nome della guerra, della
giustizia o della pietà l'insurrezione del Wilson, il pronunciamento
della Camera, del Senato, delle Corti federali, è ingenuità
predestinata ad umiliazioni e scherni peggiori di quanti ne abbia
asciugati lungo l'erta del Golgota il Cristo della leggenda.
E deve esserne guarito Woodrow Wilson il giorno che alle sue vaghe
minaccie di una severa imposta sui profitti di guerra i pubblicani
della patria hanno risposto sabottando, fino a metterne l'esito
seriamente in forse, il primo prestito della libertà.
* * *
Non si governa senza il privilegio, contro il privilegio; non si
governa che a custodia, in obbedienza, in servizio del privilegio e
delle oligarchie dominanti che ne sono investite.
Lo Stato non può fare il bene, non può fare opera di giustizia o di
pietà neppure quando vuole, neppure quando è la più doviziosa delle
repubbliche, neppure quando vigilano al timone la sagacia politica e
la rigida onestà dei suoi tribuni, neanche quando pendono
dall'abnegazione di tutti le fortune insidiate della patria.
Ed è costretto a fare il male anche quando non voglia.
Wilson, la grande repubblica non possono togliere che il
proletariato porti solo della guerra i carichi ed i tributi esosi, i
rischi ed i pericoli orrendi; come non possono togliere che gli
accaparratori libito faccian licito in loro legge rubando
impunitariamente su tutti i contratti di fornitura: la Federal Trade
Commission non può costringere alla discrezione i corsari trustaioli
dell'acciaio; la magistratura statale e federale, pur così feroce
quando ha fra gli artigli «le brache di tela» non trova rigori
contro i fabbricanti di munizioni che, pur di far baiocchi assai ed
alla svelta, mandano ai soldati sul fronte le cartucce avariate che
il general Croyer ha trovate inefficaci e pericolose; allo stesso
modo che il ministro Raker non trova rimedio alle «unbearable
working conditions» («alle condizioni insopportabili di lavoro») che
i suoi commissarii Kelly e Kirstein hanno accertato nelle fattorie
in cui si confezionano le uniformi dei soldati; nè rintuzzare le
sistematiche estorsioni per cui dalla Standard Aeroplane Co., o
dalla, Aeromarine Plane and Motor Co. i prezzi dei contratti di
fornitura sono alla scadenza vittoriosamente raddoppiati.
* * *
Oh, che se lo palleggiano dunque tra le dande come un pupo?
— All'irriverenza non ha diritto chi il pane intriso del suo sudore
non sa nè pigliarsi, nè tenersi, e la manna della libertà attende,
impenitente, dai numi.
La marmaglia parigina ingozzando di fieno ed impiccando ad un
lampione il Foulon all'indomani della presa della Bastiglia vi ha
insegnato come si conciano gli affamatori del popolo; Zola nel suo
Germinal come se ne castighino gli sfruttatori; e tanto peggio per
voi se non avete imparato nulla, e tanto peggio per tutti se per le
vie del divenire il primo ostacolo alle ascensioni del diritto e
della libertà si erige dalle vostre rinunzie servili avanti che dai
lanzichenecchi e dalla mitraglia dell'ordine, come le contingenze
recentissime hanno per la milionesima volta confermato.
Io non so se Woodrow Wilson sia un genio, so che fra gli antesignani
della democrazia egli ha per Jefferson un culto che va fino alla
religione, e sono indotto a credere che alla confisca delle
franchigie costituzionali, alla soppressione ingiustificata e
bestiale della libertà di pensiero, di riunione, di stampa non si
sia indotto senza riluttanze dolorose sotto la pressione
irresistibile degli accaparratori privilegiati – i quali intorno
alle loro piraterie, da buoni ladri del mestiere, non vogliono che
tenebre e silenzio – e dalla melanconica certezza che a resistervi
gli sarebbe mancata, coefficiente indispensabile, l'insurrezione
dell'indignata protesta popolare.
Avete voi saputo gridare in faccia ai pubblicani ed ai ladroni che
della repubblica hanno afferrato subitamente le redini
il poco pan che del suo pianto lava
ed è nel sangue dei suoi figli
intriso
voi rubate a la patria...
...voi dall'aurea
lente
piccioletti ladruncoli bastrardi?
vi siete messi tra il pane, il sangue dei figli e le zanne grifagne
dei corsari che alla rapina sacrilega si sono buttati inesorabili?
sotto l'angoscia dei cuori ed il crampo dei ventri avete trovato uno
sdegno, una maledizione?
E si è abbandonato alla deriva anche lui, rassegnandosi al premio di
consolazione.
* * *
Interdicendogli nel modo più categorico il diritto e la libertà di
ficcare il naso nei loro proprii affari, le bande trustaiole gli
hanno ricordato che il suo preciso ufficio è di vigilare, di
custodire le istituzioni della patria e le sorti dell'ordine
sociale; e, con qualche riserva prudente, lo hanno sguinzagliato
alla caccia degli agenti del Kaiser, degli artefici di tradimenti, e
dei sobillatori di rivolta o di sedizione.
Non dei Thurn e Taxis, dei Moltke Huitfeldt, dei Von Linden, dei Von
Ketteler, dei Von Goetzen, degli Hessen e dei Ledlitz, cortigiani,
sgherri confessati del Kaiser, ma qui dallo scaltro connubio del
blasone sdrucito e del dollaro restauratore innestati, su le frivole
ereditiere nel cuore della grassa borghesia repubblicana, e sacri, a
dispetto degli intrighi più torbidi a tutta l'impunità; non dei
scellerati che storpiando i figli della patria al fronte colle
scarpaccie di chiodi e di cartone, avvelenandoli colla carne
putrida, disarmandoli dinnanzi al nemico implacabile coi catenacci
inservibili, e colle cartuccie bacate, scorandoli colla tortura e
coll'inedia dei vecchi e dei figli, sono gli organizzatori del
disastro e del tradimento; li pone al di là ed al di sopra di ogni
rigor di codici o di magistrati l'incoercibile potenza dei loro
miliardi. E neanche degli araldi del prussianismo, che dopo tutto
non è un privilegio teutonico, che ha qui tra Homestead e Bayonne
tanto sinistro fulgore di tradizioni, e trova all'ombra delle
costellate bandiere della repubblica nido così caldo da metter le
ali più vigorose che non la bicipite aquila degli Hohenzollern
laggiù.
L'hanno sguinzagliato alla caccia di quanti intendono e vigilano un
più alto e più nobile interesse che non sia dai mercanti di saime,
di chiodi o di bretelle, di Chicago o di New York o di Pittsburgh;
di quanti anelano ad una civiltà che non affoghi tra prostituzione e
sfruttamento; ad una patria che nella esile frontiera, non sia
costretta dalla diffidenza e dall'odio, fomite sciagurato di
fratricidio e dentro e fuori; ad una verità che non conosca freno di
dogmi e di concilii, che non sia mancipia di eunuchi o di
berrovieri, che sia gioconda benedizione di solchi e di uomini, per
propria virtù redenti all'abbandono, alla miseria, alla
superstizione, all'ignoranza, alla sfiducia – sereni della
immarcescibile fede che nell'eguaglianza e nell'amore poseranno
felici gli uomini che lungo la millenaria passione non hanno
dubitato del proprio diritto e del proprio destino.
* * *
Perchè essi, essi sono la minaccia, l'insidia, il pericolo. Cotesta
civiltà, cotesta patria, cotesta libertà essi non l'attingeranno che
ad un patto: che di tirannide non resti nè ombra, nè ricordo: non in
Germania, non in Austria, non al Giappone dove si cinge delle infule
imperiali: non in Italia, nè in Inghilterra, nè in Ispagna dove
s'incorona di democrazia; non in Francia, non in Isvizzera, nè in
America dove si rimpiatta fra la banca e la borsa – in una mano i
grimaldelli ed il nuovo testamento, nell'altra un capestro ed un
coltello – al democratico mestiere del malandrino e del tagliaborse.
Si può concepire sacrilegio più orrendo?
Strappare dalla cesarea gobba di Guglielmone la porpora e la corona
che ne celano misfatti e vergogne è compito di buon patriotta; ma
dove andrebbero a morire le fiamme della patria carità se la corona
non si portasse in ghetto, e della porpora non si coprissero i
delitti, le onte e le vergogne che nel grembo della patria suppurano
e dilagano?
A predicare in terra d'infedeli la virtù rara di questo
patriottismo, farisei e pubblicani della banca, della borsa, del
Congresso, hanno mandato Woodrow Wilson, cingendolo esecutore delle
loro basse opere di vendetta e di persecuzione. Ed egli, relegate
giù, giù, in fondo alla bisaccia le ultime proteste, gli ultimi
scrupoli de la sua democrazia jeffersoniana, visto che in repubblica
il bene non si può fare neppur quando si vuole, mentre anche a non
volerlo il male si fa impunemente ha trovato che il più agevole
degli uffici è ancora quello del tirapiedi. E vi si è adagiato.
Sarà un genio, come dicono i suoi apologisti del «Boston Post», non
nego; ma è un genio che s'accontenta di poco, di troppo poco!
(15 Settembre 1917).
Gli ostaggi
IRMA SANCHINI è stata alla Corte di Hartford prosciolta dall'accusa
di essersi servita delle poste federali al criminoso fine di
raccogliere fondi per la difesa del compagno Galleani e degli altri
nostri perseguitati.
È parsa troppo sporca anche ai giudici – ed è tutto dire! – la
pretesa dell'onesta polizia federale che il servizio delle poste
abbandona alla fungaia dei comitati equivoci, ansanti su la lana del
soldato, su la cassetta del soldato, il gruzzolo che alla
destinazione non arriva o vi giunge decimato dalle taglie dai
tributi e dagli sbruffi; mentre lo preclude poi alla fraterna opera
di assistenza giudiziale, così scrupolosamente condotta che la
sbirraglia stessa può controllarne la severa rigida onestà nei
resoconti pubblici e sui vaglia che può a sua voglia frugare negli
uffici della posta federale.
Ed ha prosciolto Irma Sanchini da ogni ulteriore osservanza del
giudizio.
Ci verrebbe la voglia di mandarle le nostre felicitazioni se... non
fossero premature ed insieme col suo compagno e la sua bambina di
due anni (terribile criminale anch'essa) non dovesse districarsi
ancora dalle maglie del Commissariato d'Emigrazione e dalla minaccia
della deportazione94.
GIOVANNI ERAMO ha ricevuto dal Commissario dell'Ufficio
d'Emigrazione di Boston Sig. H. J. Skiffington la comunicazione che
«l'assistente Segretario del Dipartimento del Lavoro ha ordinato la
cancellazione del mandato d'arresto dell'alieno Giovanni Eramo
coll'abbandono di ogni procedimento inteso a rimuoverlo dagli Stati
Uniti».
È già qualche cosa! ma anche qui le congratulazioni si fermano in
gola perchè Giovanni Eramo deve rispondere – le ragioni dimorano
sempre impenetrabili – di cospirazione insieme col compagno Galleani
pel famoso articolo «Matricolati!» di cui quest'ultimo ha
rivendicato, solo, la paternità e la responsabilità.
LUIGI GALLEANI ci scrive: «Già, sono cose che sapete: al
Commissariato dell'Emigrazione in Boston, dopo i laboriosi
interrogatorii e le conseguenti investigazioni, l'Ispettore Ryder
che ne era stato incaricato assicurava formalmente l'Avv. Pettine
che, salva la qualità di anarchico che il Galleani aveva serenamente
e fermamente rivendicata, non era emerso a suo carico alcun elemento
che ne giustificasse la deportazione, e che in tal senso egli
avrebbe fatto al Dipartimento del Lavoro il suo rapporto.
A Washington – sono cose che sapete anche queste – la mattina di
sabato 25 Agosto, se io non erri, il sottosegretario del Ministero
del Lavoro, l'on. Louis F. Post, riconfermava di persona
all'Avvocato Pettine e nel modo più categorico queste assicurazioni:
la procedura dal suo dipartimento iniziata per la deportazione degli
alieni Giovanni Eramo e Luigi Galleani era stata abbandonata,
ed ordini analoghi erano stati il giorno stesso impartiti al
Commissariato Federale di Boston perchè ne informasse gli
interessati prosciogliendoli da ogni accusa e dalla relativa
cauzione.
In data del 31 Agosto diffatti il Commissario Skiffington
dell'ufficio federale di Boston dava al compagno Eramo ufficiale
comunicazione che «no further action will therefore be taken looking
to his removal from the United States».
A me, niente.
Sbaglio: a me l'on. Sottosegretario del Ministero del Lavoro
notifica che ogni decisione intorno alla mia deportazione o meno
dagli Stati Uniti è differita di sei mesi durante i quali mi
sottopone a... la vigilanza speciale della pubblica sicurezza
coll'obbligo di presentarmi al Commissariato d'Emigrazione in
Boston, tutti i mesi una volta, per dargli conto dei miei
«whereabouts» (movimenti) e delle mie «activities» (attività) da
cui, s'intende, la finale decisione sarà determinata.
Dove si vede che tra il nostro avvocato difensore ed il
Sottosegretario del Ministro del Lavoro non c'è fino ad ora la più
lontana speranza di un'intesa.
L'Avv. Pettine si ostina a credere ingenuamente che la sicurezza
dello Stato e la libertà dei cittadini abbiano nella legge –
eccezionale magari in tempi eccezionali – la sola base e la sola
guarentigia, e poichè dalla propaganda, dagli attentati, dalle
insidie anarchiche lo Stato è protetto da una serie di riserve di
cautele di inibizioni legali, allo stesso rigore di queste cautele
si è aspettato ed ha detto al Ministro del Lavoro: il Galleani è
anarchico, un anarchico che è venuto in America e vi risiede colla
famiglia da sedici anni: il Galleani è un rifugiato politico; il
Galleani ha tre figli che gli sono nati qui in America e sono
cittadini americani: gli ha posto tre quesiti:
— C'è nel corpus juris della grande repubblica una legge che
contenda agli anarchici e pel solo fatto che sono anarchici, il
soggiorno agli Stati Uniti?
— C'è una legge che consenta la deportazione di un alieno che dimori
qui da sedici anni incensurato?
— Che consenta di un rifugiato politico la deportazione in tempi e
modi che l'equiparano ad una vergognosa estradizione per reato
politico?
— Che insieme colla deportazione del padre alieno ed anarchico
consenta quella dei figli nati qui e, di buona o di mala voglia,
costituzionalmente cittadini americani?
Questo chiedeva l'Avv. Pettine.
Il Ministro del Lavoro avrebbe dovuto rispondere in buona coscienza
che non solo non vi è alcuna legge del genere, ma che c'è invece una
costituzione la quale interdice al Congresso ogni legge restrittiva
della libertà di pensiero, di parola, di stampa, d'associazione; che
c'è invece una serie di decisioni della Suprema Corte che nega la
deportazione degli anarchici pel solo fatto che siano anarchici; che
una serie non interrotta di precedenti diplomatici e giudiziali
ripudia come infamia la deportazione dei rifugiati per cause
politiche; che il buon senso relega fra le contraddizioni assurde la
deportazione dei cittadini americani, e lo sfacelo della famiglia
tra le inescusabili ferocie della politica persecuzione.
Ma si sarebbe data la zappa sui piedi!
Senza contare poi che su ne l'olimpo dove
un Marcel diventa
ogni villan che parteggiando viene
non si coltiva del bestiame che rumina a valle altro sentimento
fuorchè di disprezzo.
Pei sudditi, dovunque si aggioghino o si tosino non c'è legge, non
c'è che il «bon plaisir du roi» o del presidente della repubblica, o
dei lanzichenecchi e dei proconsoli di questo o di quello; temperato
a mala pena e di rado dalla magnanimità, dalla grazia, dalla carità
del sovrano.
Come possono intendersi!
L'Avvocato Pettine grida: diritto! biascica l'altro: carità! e la
contraddizione non si solve.
Ma sono questioni di lana caprina. Io l'intendo benissimo.
Nei sei mesi di «probation» la Corte Federale di Boston avrà
giudicato di quel sacrilegio che è l'articolo «Matricolati!».
Se ci condanna e ci manda in galera, le deportazioni del Ministero
del Lavoro sono catenacci arrugginiti, e le sue ire superflue; se ci
assolve diventano l'estremo scampo e la rivincita provvida
dell'ordine tremebondo.
Ed il sottosegretario on. Post mi verrà a fare il suo discorsetto:
se metti la testa a segno, sotto il moggio il pensiero indocile, e
la berta in sacco, e pentito, contrito al Commissariato di
Emigrazione comparirai con tanto di chierica e di biglietto
pasquale, allora starai qui; se no, di là, nella patria tua, in
galera, a consumarvi gli ultimi anni della impenitente protervia.
E bisogna ben rispondergli allora – e mi permetterete di dirglielo
subito e di qui – che io preferisco la sua rabbia e le sue
persecuzioni, alla sua carità ed al suo disprezzo.
Perchè degli accattoni, dei girella che mutano secondo la paura o la
fortuna tanta stima non deve avere neppure lui.
Vostro Luigi Galleani».
I CENTOSESSANTA! sono dispersi per le galere che nella grande
repubblica sono fitte come le taverne e come le chiese95.
Alle maglie dell'agguato maramaldo sono scampati pochissimi quelli
soli che la baldanza sfogan ne l'ora pingue ed abbonacciata della
vendemmia e si rintanano nell'obliquo sofisma e nell'ammuffita
poltroneria come lumache nel guscio quando il cielo scura a
temporale.
La maglia è vecchia, e la leggenda dell'oro tedesco non è fatta
certo per rafforzarne l'ordito. Sanno anche i paracarri delle strade
che i tedeschi quelli che del Kaiser hanno quattrini maglie ed
intrighi a spartire sono altrove e sacri all'impunità, sacri a tutta
la venerazione. La polizia non tocca mica William Randolph Hearst
che a Bolo Pasha offre – e non gratis – certo i pranzi luculliani,
nè J. P. Morgan che a lubrificare i tradimenti tedeschi gli
custodisce e gli amministra qualche milione di dollari: si abbatte
sugli straccioni che non si arrendono alle avide voglie dei
traditori e non vogliono degli onesti sudori inaffiare dei ladri e
dei traditori la vigna, e ne gridano la turpitudine e l'onta.
L'accusa di cospirazione di connivenza col nemico di tradimento,
dileguerà alla luce ed alla prova del pubblico dibattimento fra
qualche mese, fra qualche anno forse; ma intanto i guastafeste sono
al buio, e la vetta della cuccagna si attinge senza pericolo di
contrasti di indiscrezioni, di proteste sdegnose e di denuncie
pericolose.
Ed è per questo appunto che sui centosessanta ostaggi dell'ultima
razzia dovrebbe culminare operosa, energica, incoercibile la
solidarietà dei superstiti; perchè la frode impudica ed enorme sia
denudata perchè nelle sue trame orrende avventi la mano il
proletariato scompigliandole, riscattando le sentinelle perdute,
riscattando sè all'ignavia ed alla servitù vergognosa il proprio
destino.
Salvo riprendere domani, oltre l'ora del pericolo e dell'insidia
comune, le fierissime batracomiomachie su le virtù e sui vizii
dell'organizzazione.
Mette a cimento ben altro la scellerata ora che passa!
(6 ottobre 1917).
Occhio, Eh!
È appollaiato di giorno e di notte nei paraggi della nostra
tipografia uno sciame d'uccellacci di malaugurio che vi spiano chi
entra e chi esce, e mettono la mano sui malcapitati al primo
sospetto e senza un riguardo.
Gli uffici della «Cronaca Sovversiva» non vogliono essere trappola
per gli agguati della polizia federale. Chi ha conti pendenti col
Sant'Uffizio repubblicano giri al largo; tanto più che se abbia
notizie da darci o da chiederci ha cento vie per arrivarvi senza
cader nella ragna.
Compagno avvisato è mezzo salvato.
La Cronaca Sovversiva
(13 ottobre 1917)
Su, da bravi, pagate!
This newspaper has no objection to filing with the Postmaster of
Lynn, Mass., the english translation of articles referred to by Act
of Congress, of October 8th, 1917.
There is none of such articles in the present issue, which is
therefore entitled to uncontrasted circulation.
Bisogna convenirne, il proletariato della grande repubblica – del
suo governo come di ogni altro delle nazioni in guerra ai giornali
che non hanno il bollettone come le taverne e le puttane, non è più
permesso discorrere dopo l'approvazione del «Trading with enemy
Act», e noi ce ne dispensiamo senza un rimpianto – il proletariato
d'America, dicevamo, ha fervido il senso e l'amore della noia.
Dagli sparuti settlements del Virginia e del New England l'ha vista.
assurgere, meravigliosa d'esuberanza e di ricchezza, tra le prime
potenze del mondo, e ne ha gelosissimo l'orgoglio in cui la grande
guerra soffia oggi col fremito della speranza che l'enorme peso
delle risorse nazionali possa confonderne i provocatori scellerati,
disarmarne la bestialità selvaggia, ricomporre su lo scempio orrendo
le torture della pace, le energie e le armonie della vita. E la
genesi del suo patriottismo è delle più naturali.
* * *
È tuttavia una successione non interrotta di episodii che su quel
sentimento, sui suoi ardori quanto meno, distende un'ombra di dubbio
e di sospetto.
Constatava desolata la cronaca dei grandi quotidiani, la settimana
scorsa, che oltre a settecento coscritti dello Stato del Connecticut
non si sono fatti vedere al campo; che altri si sono dovuti
agguantare sui transatlantici in California come nel New England e
trascinare agli accampamenti colle manette ai polsi; che in ogni
città ed in ogni borgata si rimpiatta un numero strabocchevole di
renitenti; che l'ostruzionismo dei grandi scioperi s'impenna acerbo
nei quarantotto stati dell'unione; che incendii di carattere
manifestamente doloso distruggono i docks dei grani, le fabbriche di
munizioni, gli stessi accampamenti militari del Long Island e del
Massachusett.
«Raggiri tedeschi, propaganda di Bernstorff, oro del Kaiser!» abbaia
la stampa ufficiosa.
Che il Kaiser possa avervi la mano, che i milioni profusi dal
Bernstorff gli abbiano qui, tra gli epigoni della banca del
Congresso, della stampa, della magistratura finanche, coscritto
alleati poderosi, non è più suscettibile di dubbi dopo le
rivelazioni del Lansing96.
Ma voler spiegare coll'oro del Kaiser soltanto – che è andato a
finire nella cassaforte e nel ventre dei grandi affaristi
patriottardi – il malcontento, le resistenze, le esplosioni del
proletariato, che certo dei milioni teutonici non ha visto la croce
di un pfennig, è stupido e pericoloso ad un tempo.
Pericoloso, perchè se il kaiser con un pugno di marchi può comprar
qui ogni cosa ed ogni persona, dai giudici della Suprema Corte ai
giornali dell'Hearst, la conclusione è una sola, ed è melanconica:
qui tutto è da vendere, la patria, la repubblica, il tricolore!
Ed uno solo il risultato: come infonderete nei contribuenti lo
spirito d'abnegazione, e negli eserciti la speranza della vittoria,
se ammettete voi implicitamente che dopo quaranta mesi di guerra il
Kaiser ha nelle sue casse tanto oro sempre, e nel pugno tanta forza
ancora, da governare in questo paese, traverso i magistrati venduti,
i pubblicani venduti, i pennaioli venduti, così imperialmente come
in casa sua?
* * *
Non è stupido? non è pericoloso? non è vergognoso?
Ma ci ha la mano il Kaiser? gli tiene il sacco tutta una serqua di
manutengoli rinnegati?
Le rivelazioni del Lansing, i checks del Bernstorff e di Bolo Pasha,
i libri mastri del Morgan non ve ne offrono i connotati, non ve ne
hanno dato il ricapito?
E acciuffateli, allora, nel nome dell'iddio vostro, della legge
vostra, dello sdegno vostro legittimo di patriotti burlati! e dateli
in pasto ai corvi! chè non riscuoterà lagrime, nè rimpianti il
mezzano sconcio che traffica l'onore della madre od il sangue dei
figlioli.
Dateli in pasto ai cani!
* * *
Io ho visto la luce in una terra, fra una gente che le epiche
vicende della sua storia alterna d'eroismi purissimi e di passioni
sanguinose, di ascensioni temerarie e di scoscendimenti vertiginosi,
d'audacia e di martirio, di gloria e di cenci; ma penso che Roma non
sarebbe stata senza Ninive, Alessandria, Atene; che senza la
Riforma, non sarebbero venuti nè Bruno, nè Leonardo; nè senza la
Dichiarazione dei Diritti avrebbe l'Italia ritrovato la fede, i
consensi, le vie e le fortune della propria risurrezione.
Ma so che più della fortuna è incostante la gloria; che non cresima
privilegi; che diverso, infinitamente vario è l'orizzonte a cui
strappa dei suoi cimenti la palma, i raggi della propria aureola,
come sono vani i solchi e le genti sui quali effonde, l'aureola
sanguigna delle sue redenzioni; che all'audacia degli annunziatori
più strani, all'impervio lavoro di tutte le stirpi noi dobbiamo il
retaggio di consapevolezza, di forza, di bontà, di diritto, di gioia
che chiamiamo la civiltà; e, livellata della patria l'instabile
artificiosa frontiera, si protendono gratitudine, fede, amore a
tutte le terre, a tutte le genti – che la sacra fiamma nei secoli
custodirono – verso le fatidiche eucaristie, alla universale
fratellanza che dei superbi orgogli del pensiero e della libertà non
tollera nè irredenti, nè bastardi.
E mi è cilicio la patria cinta di frontiere, di odii, di diffidenze
armate; nè servirò mai ai gnomi che l'usurpano e la straziano
affogando nella servitù, nella miseria, nel disprezzo gli umili che
del sudore e del sangue ne alimentano ogni vena.
Non voglio patria.
Ma non la vendo!
* * *
Non vendo nè quella degli altri nè la mia che sogno costellata fra
le genti di tutta la terra nello stesso anelito d'uguaglianza, di
giustizia, di verità, nel comune destino di gioia, di gloria; non
restituita dal fallimento dei Savoia al vassallaggio degli Ausburgo
o del Papa.
Barattare la patria italiana per quella tedesca o per un'altra quale
si sia, non sarebbe del resto fare ancora del nazionalismo,
accampato, collocato semplicemente al di là della frontiera? del
patriottismo una inversione abbietta ed insensata?
E noi lo lasciamo ai rigattieri.
Ne avete in casa barattieri e mezzani che trafficano l'onore della
madre ed il sangue dei figli? Le confidenze del Lansing, i libri del
Morgan, i cifrarii del Bernstorff, i checks di Bolo Pasha ve ne
danno i connotati ed il recapito?
Ed agguantateli, se incontro ai seigneurs de haulte gresse – come
direbbe il vecchio Rabelais – avete lo stesso coraggio che incontro
agli straccioni! E se vi mancano la voglia o la libertà o l'autorità
di toglierli dalla circolazione, mettete berta in sacco, non cercate
negli intrighi del Kaiser, nell'oro del Kaiser le ragioni
dell'ostinata diffidenza e delle crescenti insurrezioni del
proletariato.
* * *
Cercate altrove; guardate nelle mani, guardate nella faccia gli
iloti che misurate su l'auna della vostra propria abbiezione, e
relegate con obliqua disinvoltura tra i magnaccia del Kaiser;
guardateli quando abbandonano la miniera, l'officina, i fondachi, le
soffitte, i vecchi, le donne, i parvoli per accalcarsi ne le
caserme, sotto le bandiere, su le calate, nelle stive dei grandi
«trasporti» al primo appello della patria, e del loro sangue, vanno
laggiù, oltre il mare a ribattezzarne la gloria, come, di qua, della
oscura pena quotidiana e disprezzata ne hanno edificata la
prosperità e la grandezza, e domandatevi una buona volta, pigliato
il coraggio a due mani, che cosa avete fatto voi, che cosa ha fatto,
che cosa fa la patria per pretendere da tanta gente l'esosa
estremità d'ogni tributo.
Che cosa?
* * *
Non mentite a voi stessi, non vi trincerate nell'ironia dei vecchi
sofismi, che tanto è smaliziata. Non ci dite che ai pezzenti nati
qui, o qui dalle cento patrie d'oltre mare immigrati, la repubblica
ha dato la sicurezza del lavoro, del pane, dei focolari, che su
l'incerto destino di tutti librò l'incorrotta tutela delle sue leggi
e dei suoi istituti, e madre provvida di figli uguali nel suo grembo
ci crebbe sotto l'egida della stessa giustizia al sole della stessa
libertà; e che difendere dalle stesse meditate aggressioni dello
straniero questo comune retaggio di benessere, di giustizia, di
libertà è debito sacro ed eguale di quanti se ne siano pasciuti ed
inebbriati.
Altra verità l'esperienza vi ha rivelato ed insegna: il lavoro, il
rifugio, il pane, il pane e la vita di tutti sono qui, come
dovunque, alla mercè di un pugno di ladri che sull'armento ha
restaurato ed esercita, a dispetto del progresso e delle sue
rivoluzioni, il quiritario diritto di vita e di morte impunemente. È
condanna il lavoro, supplizio la vita, scherno la giustizia,
irrisione la libertà, qui come dovunque.
* * *
— Abbiamo trovato il pane, qui?
Ma l'abbiamo arrancato delle braccia vellose, sotto la sferza dei
negrieri, cimentando la morte ogni dì tra le maremme, giù nelle
viscere della terra, su gli abissi del mare! e quando di tra le
spire dei miasmi, all'ira delle tempeste; alle vampe del grisou
siamo scampati miracolosamente, siamo tornati incolumi al focolare,
per ogni tozzo di pane che intriso di sudore e di fiele abbiamo
portato ai figlioli, v'abbiamo farcito il ventre, il portafogli e la
cassaforte.
Ed in questo esoso mercato del lavoro e della crosta quotidiana i
creditori siamo noi!
* * *
Quando incontro al fraudolento patto di fame e di vergogna ci siamo
levati maledicendone l'iniquità e l'infamia, dite un po'! come ci
hanno risposto coloro che dalle bolgie della miseria e della servitù
abbiamo su le docili spalle issato agli empirei della dovizia e
dell'onnipotenza?
Agli ingenui che il torto caino sono venuti a guaire pei vostri
tribunali invocando le promesse riparazioni alla legge, rispose la
vostra giustizia ponendo su le spogliazioni e su le rapine il
suggello de le consacrate impunità.
Dei temerarii che la protesta osarono in faccia al sole dalla negra
bocca dei pozzi, dalla soglia delle officine deserte e dei cantieri
ammutoliti, ha avuto ragione la mitraglia repubblicana, dinnanzi
alla quale la vita di milioni di cenciosi non vale il brivido
olimpico nè l'oro sacro dei numi: e nell'obliquo compromesso tra il
diritto e la legge i creditori, siamo noi.
* * *
Un'ombra di libertà si è fino a ieri indugiata su lo strazio di
tante franchigie, su la pietosa rovina di tante illusioni. Intorno
ai polsi dei vinti voi avete ribadito le catene dell'antica servitù,
su le cervici il giogo delle vecchie tirannidi e delle nuove, e sui
vinti non conobbe il vostro imperio nè pietà nè paura, ma su le
esili fiamme del pensiero non avete osato stender la mano sacrilega,
fino a ieri. Contro ogni pericolo d'eresiarchi baleni e di incendii
livellatori v'affidava la nebbia fitta delle superstizioni, delle
rinunzie, delle devozioni sapientemente custodite, che ne spegnevano
le faville e le sobbillazioni.
Oggi anche la tenue fiamma vi mette paura, come ai ladri notturni
ogni insospettato, inatteso bagliore; e voi buttate il capestro
all'ultimo fantasma della libertà repubblicana, ne soffocate
l'ultima voce.
Avete paura!
Guai se per gli accampamenti di Mineola e di Ayer, per le centomila
caserme dell'Unione tradisse l'eco di quella voce che, artigliata di
tutti i rigori ad invadere i tugurii della povera gente, a
coscriverne gli straccioni, ad imballarli pel fronte al sacrifizio
senza pietà, la patria su la soglia delle auree case dei Gould, dei
Foss, degli Eaton, dei Robb, del milionario pidocchiume residuo, si
arresta sgomenta ed imbelle, e dalle tiepide cuccie non sa snidare i
lupicini impoltroniti, ed in questi non sa più ravvivare nè
l'orgoglio, nè il dovere, uguale in tutti i figli delta terra, di
difenderne contro ogni minaccia, ad ogni prezzo, a prezzo della vita
occorrendo, il comune patrimonio d'onore, di civiltà e di grandezza!
Guai se tra i legionarii della repubblica, angosciati dalla
separazione dolorosa e brutale, avesse quella voce a bisbigliare
che, mentre essi precipitano all'ecatombe, i lupicini stanno a casa,
al caldo, a la vendemmia; che mentre i loro vecchi dinnanzi ai
focolari desolati si soffiano sulle dita, e le madri impazzano fra
le spire dell'inedia perchè non è più carbone, non è più pane, non è
più zucchero, nè latte per la nidiata, a Buffalo97 ed a New Orleans,
in Pennsylvania e nell'Utah, a Chicago ed a New York centinaia di
migliaia di libbre di zucchero, di tonnellate di grano e di carbone
si sottraggono al mercato, si negano al bisogno, si celano e si
serbano agli scandalosi bagarinaggi della malavita borsaiola!
Guai se gonfia di sdegno, convulsa di rabbia singhiozzasse in grembo
ai traditi quella voce che mentre giù, pei tugurii, la marmaglia
eroica serra la cintola, e delle diuturne abnegazione e del sangue
generoso propizia alle fortune della patria, su ne l'Olimpo le
bagascie del gran mondo incoccardate del tricolore, a la vittoria
brindano nei festini e nelle orgie di cui paga lo scotto in
centinaia di migliaia di dollari Il Fondo per gli Orfani della
Guerra98; e che la polizia, grifagna, implacata, inesorabile ai
malnutriti in bando del settimo comandamento e del fornaio, afille
blasonate ed ingemmate prevaricatrici della pubblica pietà non serba
che indulgenze e riverenze! Guai!
* * *
Non v'è salvezza che nel capestro!
La carità della patria e le necessità della difesa comandano il
silenzio. La libertà di pensiero, di parola, di stampa, la
Costituzione della repubblica che la garantisce, l'ostinazione del
Congresso che non vi adbica s'ingibernano nel «Tradinq with the
enemy Act» che non ha manette pei ladri, nè saette pei riconosciuti
agenti del Kaiser, nè bavaglio pei salariati organizzatori del
tradimento, ma non ha grazia nè quartiere pei derubati, pei traditi,
per gli incorrotti, incoercibili araldi della verità e della
giustizia; e nell'osceno compromesso tra libertà e ragion di stato i
creditori siamo sempre noi!
* * *
Ebbene, pagate! Non siamo disposti a concedervi maggior credito.
Pagate! Pagateci il conto del pane, il conto della giustizia, il
conto della libertà.
Livellate questa beffarda sproporzione di sacrifizii per cui sugli
uni, sui più, la patria imperversa di tutte le taglie, di tutte le
estorsioni, di tutte le miserie; per cui sugli altri rovescia la
cornucopia delle impunità, delle indulgenze, dei profitti, delle
vendemmie paradossali, Pagate!
Al contadino che del proprio sudore ne feconda il solco e ve ne reca
le messi, date la terra! date la mina al minatore che ne sfida le
insidie e le tenebre, e ve ne disserra i tesori! all'artigiano che
del fervore ciclopico le anima e ve ne addensa l'inesausta dovizia,
date la macchina, date l'officina, i cantieri, le darsene, date la
patria; e nei cori della patria e nel peana della guerra non sarà
nota discorde.
Insieme coll'incubo dell'oro, degli intrighi, dei congiurati del
Kaiser, dilegueranno gli incubi, il pericolo, gli orrori e le
sventure della guerra istessa, e senza rugiade di sangue fiorirà la
libera civiltà del domani.
Riscattato il lavoro all'usura, redenta la terra alle ipoteche del
privilegio, dispersa la frode secolare ed immane, relegata sul
solaio tra i ferrivecchi la cassaforte, chi avrà più voglia o
ragione di far la guerra?
Neppur voi!
* * *
Su, da bravi, pagate!
Piagnistei, trappole, indugi non avvertono la scadenza. Onanizzarsi
della superstizione che all'efficacia ed alla pienezza della
mobilitazione contrastino soltanto gli agguati del Kaiser, e che del
suo oro si alimentino proteste, agitazioni e scioperi, è voler
chiudere gli occhi per non vedere.
Ma nei feudi del Kaiser è come qui! e gli ammutinamenti sanguinosi
di Wilhelmshawen e le defezioni di Riga o di Soissons spettacolose
non le avete sobbillate nè salariate voi.
E fuori è tutt'uno o peggio, da Pietroburgo a Torino a Sabadell, nei
paesi che la guerra ha travolto, come in quelli che essa ha
risparmiato.
E non è più salvezza per voi se non vedete neppure che nel disagio,
ond'è rosa, ogni gente ed ogni terra, tanta consapevolezza si accusa
oggi della internazionale identità delle sue proprie cause che sul
dissidio dei principi e sull'urto degli eserciti, nella identità
della storia e del destino, dei dolori e dei diritti, delle
aspirazioni e dei propositi si ricompone l'internazionale
proletaria, l'internazionale rivoluzionaria che vi eravate per un
momento illusi di scompigliare; ed è l'usciere implacabile, ed è la
procedura inesorata che alla resa dei conti estrema ed indeprecabile
vi stringerà domani.
E allora pagherete, oh se pagherete!
(27 ottobre 1917).
Note Sovversive
ITALIA. – Queste sono batoste! un milione di uomini, trenta miliardi
di debiti99 per conquistare di là dall'Isonzo, in sedici mesi di
guerra, dieci chilometri d'Italia irredenta, e perdere tutto in
venti minuti, con centomila prigionieri per soprassello, settecento
cannoni perduti, chissà quante migliaia di morti, e rivedersi
traverso la frontiera sbrecciata, gli unni padroni in casa nostra
come millecinquecento anni addietro, nella ferocia e nella
devastazione immutati; è nelle sue linee disperate l'ultimo
bollettino della bella guerra per la più grande patria..
Io non me ne rallegro, no! Non so indulgere io al sofisma dei
superuomini che il nodo gordiano dei problemi più irti spezzano di
una crollata di spalle, compiacendosi che il proletariato, la gran
bestia, la carne da cannone, strumento cieco delle ambizioni, dei
calcoli, degli odii altrui riscuota in mitraglia, fra le stragi, il
conto della rassegnazione e della viltà inamovibili.
Tanto varrebbe rallegrarsi perchè un cieco sfiorando a tentoni
l'abisso vi precipiti scavezzandosi l'osso del collo; e sarebbe
semplicemente bestiale.
Non mi rallegra, ma le proporzioni, l'enormità della disfatta
m'intrigano.
* * *
Che Austria e Germania meditassero sul fronte italiano una
rivincita, si sapeva da un pezzo; che vi si preparassero
formidabilmente era nella concorde certezza degli alleati, del
governo, dello stato maggiore, della stampa che in questi mesi
ultimi ne avevano preveduto l'imminenza, i modi, le fortune, e se ne
attendevano – arra di pace più sollecita – la vittoria.
È dunque onesto credere che prevedendo abbiano provveduto
convenientemente, e tanto più agevolmente che in Italia, su
l'estremo fronte orientale sono sempre i contingenti e le
artiglierie inglesi e francesi con cui l'ultima avanzata si è
felicemente compiuta: che il numero degli uomini eccede in Italia
tutte le esigenze della situazione, dal momento che il governo
italiano si era offerto di distribuirne un milione su quella parte
del comune fronte degli alleati che ne avesse maggior bisogno; che
il 23 Ottobre un comunicato dello Stato Maggiore tedesco della
imminente, grandiosa offensiva al fronte italiano dava notizia
ufficiale, ed un Comunicato del Cadorna il 24 Ottobre avvertendo uno
straordinario concentramento di là dalla frontiera di numerose
divisioni austro-tedesche, costituite delle migliori unità, dei due
imperi100 assicurava che il Comando attendeva preparato ad ogni
evento.
Non è dunque il caso di parlare qui di sorprese.
* * *
Ancora: chiunque abbia di quel particolare teatro della guerra la
nozione anche più discreta giunge, senza essere nè un generale nè
uno stratega, col lume del suo elementare buon senso alla
conclusione che dove sono pochi ardui i passi – come tra i monti
della Carnia – e fieramente contesi; dove gli aggiramenti vorticosi
o subdoli, dove gli spiegamenti di grandi masse non sono in alcun
modo possibili, impossibili tornano anche le grandi razzie di
prigionieri.
Come è dunque accaduto che in meno di ventiquattro ore gli
austro-tedeschi di Von Buelow abbiano razziato tra le file
dell'esercito italiano più che centomila prigionieri?
Non v'intriga?
* * *
I comunicati del governo parlano di codardia ed il patriottardo
becerume coloniale, suicidato dall'inatteso scapaccione, abbaia al
tradimento, conserti a precipitare dalla rupe Tarpea come vigliacchi
e traditori quelli che celebravano ieri nelle tricolori, crapule
avvinazzate come martiri ed eroi, gli eroi di Plava, di Gorizia, del
San Gabriele!
È naturale! Il governo deve pure su qualcuno rovesciare le
responsabilità e le espiazioni dei suoi misfatti, delle sue
imprevidenze criminose; e le ributta sui disgraziati che al fronte
da venti mesi offrono, danno il sangue propiziatore delle sacre
primavere della patria. Quanto al prominentume della mala vita
coloniale, che pei trivii accende il moccolo agli Indigeti della
patria, ed accarezza in segreto i bei scicli d'oro di Bolo Pasha,
esso deve pur gridare con quanto fiato ha in gola al tradimento di
qualcuno se alle clientele paesane, su cui troneggia e s'ingrassa,
deve con fortuna nascondere il quotidiano suo tradimento più vero e
maggiore.
È naturale; ma non appaga: ed è così piana, così accessibile d'altra
parte la verità che non val proprio il conto d'indugiarci su la
miseria di questi raggiri, neppure per smontarli di una pedata.
* * *
Se mi permetteste un'ipotesi, non fosse che per un minuto...
Non v'impennate! Io vi concedo che il vostro proletariato ama la
patria, che di vederle offerta un'occasione rara di strappare
all'Ausburgo esoso ed alle sue ciurme bestiali le irrendente
provincie di Trento e di Trieste, deve aver ritrovato gli entusiasmi
del 1848 e del 1859, tanto più irresistibili che il nemico era
svenato da due anni di guerra spaventosa e disastrosa; e la vittoria
non doveva tornargli nè ardua nè remota.
Va, bene?
Ed allora qualchecosa dovete concedermi voialtri pure d'altrettanto
ragionevole.
Se in luogo di durare pochi mesi, di non costare che uno sforzo
eroico ed un sacrificio corrispondente, la guerra dura due anni,
ingoia trenta miliardi di lire ed un milione di uomini, tutta la
ricchezza, tutta la forza, tutta la speranza della patria; e lo
sforzo è di ogni giorno, di tutti incessante ed incommensurabile il
sacrifizio, e vano, vano perchè la vittoria è lontana
disperatamente, vano perchè non sono da oggi che un orrendo cumulo
di rovine e di cadaveri le terre promesse alla redenzione, ditemi un
po'? supporre che i soldati siano stufi della trincea e della
carneficina, che stufe siano le madri dello squallore e
dell'abbandono, che in tutti i cuori la misura dell'abnegazione e
della rassegnazione sia colma, che l'abbiano fatta traboccare i regi
massacri torinesi della marmaglia angosciata ed affamata, non è
dunque nell'ordine logico ed umano delle cose?
Non debbono essersi detto i nostri poveri soldati che al fronte da
venti mesi vivono nella belletta, fra i pidocchi, di putredine, in
grembo alla morte, lontani dai cari, disperati oramai di rivederli e
di riabbracciarli, disperati pure di giunger mai nè a Trento, nè a
Trieste, di avere indarno dato alla sterile crociata il pane ed il
sangue, di veder compensato d'irrisioni, di scherni, di mitraglia,
abnegazione ed eroismo – rinnovate in casa per man dei regi le
prodezze infami di cui la tedescheria imperiale non si compiace che
fuori, in Serbia o nel Belgio – non debbono, non possono essersi
detto i nostri poveri soldati al fronte da venti mesi, da venti mesi
nel girone obbrobrioso: poichè non la voglion finire più la guerra
maledetta, poichè non ripaga che di scherni e di fame e di piombo la
patria, oh, vengano un po' a farsela lor signori che, mentre noi ci
consumiamo qui, ed a casa si consumano di stenti le donne ed i
figlioli, fanno la pancia ed i bajocchi: noi della guerra non ne
vogliamo più!
È possibile, e probabile che così abbiano pensato?
* * *
E se non è assurdo che a queste conclusioni siano venuti in una
delle ore di scoramento desolato e disperato, che debbono essere
così frequenti laggiù, quale via potevano trovare ad esprimere
cotesto loro supremo disgusto, cotesto loro nostalgico delirio di
tregua e di pace?
Renitenze e proteste – c'è tutta un'esperienza sanguinosa ad
autorizzarne la previsione – non sarebbero state soffocate
ferocemente dalle corti marziali, dal pelottone d'esecuzione?
Non rimaneva ad essi che una via, la buona: quella di buttar le
armi, levar le braccia e gli animi, passare dall'altro lato della
trincea, a fiotti, sospinti dalla fede – oh, superiore
grandiosamente alle grette preoccupazioni della personale salvezza –
che di là avrebbe trovato un'eco la loro voce, che avrebbero alla
fine compreso i miserabili insaccati dall'altra parte della
frontiera nelle gialle livree imperiali, l'assurda enormità della
carneficina da cui, più che il misero contingente destino delle
patrie, sono travolte e minacciate le sorti delle civiltà, della
libertà, dell'avvenire di tutto quanto il genere umano.
* * *
Come risponderanno dall'altra riva non so: non sono venuti fino ad
oggi che urli di gioie briache e di orde indemoniate dalla vittoria.
È vero.
Ma è pur vero che di là dalle Giulie, di là dal Reno ha lasciato la
guerra ugual solco di strazii, di disinganni, d'iniquità, di
vergogne, e che dentro germoglia ugual seme di sdegni, di
pronunciamenti e di rivolte.
Si oscura di nubi la gloria delle teutoniche vittorie: a Riga si è
dovuto dare indietro a tutto vapore perchè i guerrieri, del Kaiser
non si battono più; la settimana scorsa, a Soissons, all'ordine di
attaccare, le truppe del Kaiser hanno afferrato i loro proprii
ufficiali e li hanno fucilati come cani, ed in diecimila sono
passati al nemico. Ieri le guarnigioni tedesche in Belgio si sono
rifiutate di marciare al fronte ed hanno mitragliato gli ufficiali
che ve le volevano trascinare: e dalla Stiria ai Carpazii,
sobbillata dalla ragione che giorno per giorno si riaccende, dalla
fame che su tutti imperversa inesorata, la rivolta s'accampa e freme
in ogni feudo degli Ausburgo.
Se dallo stesso germe, concimato dallo stesso sangue e dallo stesso
pianto irrorato, non può maturare che egual frutto;
all'ammutinamento dei soldati d'Italia – che primi hanno fatto
tesoro degli insegnamenti e degli esempii del proletariato russo –
quello degli eserciti del Kaiser seguirà a breve scadenza, di tutti
gli eserciti della terra, traditori egualmente dei loro re, delle
loro patrie, legionari e precursori tutti quanti della grande
rivoluzione che dalla terra riconquistata estirperà dell'odio e
della guerra ogni radice, abbatterà della patria orgogli e pastori,
vessilli e frontiere, costellando sorelle tutte le stirpi nella
stessa gloria di giustizia e di libertà.
Gittò il tralcio di vite il centurione di Galilea quando sul
crepuscolo dell'impero una voce aleggiò più alta che non quella del
pretore,
Non maledite ai soldati d'Italia che su l'Isonzo buttaron le armi e
le bandiere del re il dì che di più nobile amore e di più vasta
patria s'accese la loro fede, e, dell'impeto sacrilego, alla
rivoluzione che freme nel grembo del vecchio mondo osarono schiudere
le vie, scatenare il ciclone livellatore.
È il monumento di Bruno in Campo di Fiori «dove il rogo arse»
folgore del dogma intangibile contro le sataniche audacie del
pensiero.
Non maledite!
Su l'Isonzo
…..da ogni ultimo scoglio
De la terra latina
E già da l'Alpi e giù
da gli Appennini
Garzoni e donne a schiera
Verranno un dì fioriti i
lunghi crini
D'aulente primavera.
a ricercare il varco per cui su le regie insegne dimesse e su le
infrante armi caine la grande audacia passò; e tra la rabbia degli
sgherri, e l'anatema dei pubblicani, e l'orrore degli eunuchi,
iniziarono i padri l'epopea della risurrezione.
Benediranno ai codardi ed ai traditori, i nipoti...
* * *
FRANCIA. – Tolgo qualche cifra da «Ce qu'il faut dire...» (un
giornale anarchico, onorevole Burleson, un giornale anarchico che è
contro la guerra in una nazione che è in guerra, e sul serio, da
quaranta mesi; che la censura amputa generosamente tutte le
settimane, ma non si è sognata mai di sopprimere, come fate voi
lojolescamente con tutti i giornali che non servono nè al Kaiser
d'oltremare nè ai suoi concorrenti di qui) qualche cifra – non
v'inquietate, onorevole Burleson – che non mortifica il governo di
alcuna nazione in guerra, che gitta soltanto un raggio di luce su la
contumacia delle forze che la guerra potevano contenere, e sono oggi
a frenarla ed a conchiuderla più latitanti che mai.
Al Congresso Nazionale Socialista di Bordeaux, intorno
all'atteggiamento del partito di fronte al governo ed alla guerra,
si sono delineate quattro correnti che in quattro diversi ordini del
giorno hanno espresso il loro pensiero ed hanno riscosso i suffragi
che qui diamo rispettivamente
I. – L'ordine del giorno Renaudel, il quale esprimeva il voto che il
partito socialista dovesse accamparsi per la difesa nazionale, per
l'alleanza delle classi, per la cooperazione ministeriale ha
raccolto voti 1552.
II. – L'ordine del giorno Pressemane che propugnava la devozione
incondizionale del partito socialista alla difesa nazionale ha
raccolto voti 831.
III. – Lo stesso ordine del giorno Pressemane coll'emendamento
Brizon contro la partecipazione ministeriale e col rifiuto simbolico
e platonico dei crediti di guerra ha raccolto voti 385.
IV. – L'ordine del giorno Saumoneau preconizzante il rifiuto puro e
semplice dei crediti di guerra, non ha riscosso più che voti 118.
In complesso: per la difesa nazionale con o senza riserve, 2768
voti: contrari 118, od in altri termini: a seppellire
l'internazionale proletaria e rivoluzionaria la borghesia guerraiola
della banca e della borsa non poteva scovare più zelanti e
beccamorti che il partito socialista organizzato.
Cifre che non si commentano, si ricordano.
Mauricius, un ottimo, studioso, intelligentissimo compagno nostro,
in un suo studio d'imminente pubblicazione: «Les profiteurs de la
guerre» rileva e dimostra, come assai più che non ai governi –
docili campieri del feudalismo borsaiolo rinnovato – le cause e le
responsabilità della guerra vogliano imputarsi all'avidità, al
cinismo, agli intrighi delle grandi camorre industriali e
finanziarie.
Gli otto milioni e quattrocentoquindici mila franchi di cui il
Bernstorff e Bolo Pasha, pel tramite delle banche americane, hanno
lubrificato il patriottismo ed arrovellato il delirio guerraiolo
della stampa parigina – dal «Bennet Ronge» dell'Almereyda, rinnegato
e suicida, al «Journal» del senatore Charles Humbert – non sono
piovuti dalla cassetta particolare del Kaiser, nè dai fondi segreti
del governo tedesco, ma dalla Lega della Patria Tedesca fondata,
ispirata e sorretta dai grandi consorzi metallurgici dell'impero,
dalla Gelsenkirken, dai Thyssen, dai Krupp.
Le ragioni?
Abbaglianti! Nell'anno finanziario 1913-14, avanti la guerra, i
profitti del Krupp nella sua azienda di Essen non raggiungevano gli
ottantun milioni, ad essere più precisi: 80.887.330.
Questi profitti si sono raddoppiati nel primo anno di guerra,
1914-15, attingendo la cifra, precisa di 157.763.688 e si sono
quadruplicati nell'anno 1915-16, l'anno scorso, in cui sommarono
all'enorme cifra di 324.285.769.
La ditta Krupp non ha fino ad oggi pubblicato i bilanci per l'anno
finanziario 1916-17, ma non vi è motivo di credere che la
progressione impetuosamente geometrica si sia fermata lì: ed in ogni
caso basterebbe a spiegare perchè la Lega della Patria Tedesca abbia
interesse che la guerra duri il più lungamente possibile; e come ad
inasprirla, ad aggravarla, spenda volentieri otto o nove milioni di
marchi.
Perchè il popolo tedesco si aggioghi alle sofferenze fisiche ed alle
torture morali alle privazioni, alle carneficine, senza rivolte, per
quaranta mesi e... dell'altro, bisogna bene dimostrargli che il
nemico di là dalla frontiera, di là dal mare congiura al suo
sbaraglio non solo, ma al suo sterminio; e che l'unica salvezza è
nella guerra ad oltranza.
Una dozzina di milioni gettati nelle fauci dei grandi giornali
parigini sferra al delirio questi propositi di sterminio,
suscitando, reazione incoercibile, il furore delle rappresaglie
atroci dall'altra sponda del Reno; la guerra infuria: ed i Thysten,
i Belgrat, i Krupp fanno bottino: trecento milioni di profitto
all'anno!
— Storia vecchia, è dappertutto così...
Storia vecchia, d'accordo; e tanto è così dappertutto che a seguir
passo passo i magistrati, i senatori, i deputati, i ministri, i
pennaioli venduti, in Francia, al Kaiser per una manciata di
dollari, vi pare di essere, salvi gli scandali, in... America.
(3 novembre 1917).
Indulgenza plenaria
True translation filed with the Postmaster at Lynn, Mass., on Nov.
9th, 1917, as required by the act of Oct. 8th, 1917.
Un fatto: c'è la guerra.
Non ricerchiamo qui le torbide fonti da cui sia scaturita, nè per
quali ragioni inconfessate il governo l'abbia voluta; e neanche se
fosse nel suo interesse o nel suo potere l'eluderla.
La guerra c'è, ed è il fatto.
Scoppiata che fu, le dettero una bandiera: la bandiera della civiltà
e della democrazia, le quali si traducono nella Giustizia che della
civiltà è il fondamento, e nell'Uguaglianza che della democrazia è
carattere e condizione.
Il governo degli Stati Uniti non ha vinto le riluttanze istintive
delle moltitudini, non ne ha strappato gli inerti consensi se non
con una promessa formale, con un impegno categorico: le rivincite
armate indeprecabili della civiltà e della democrazia non avrebbero
conosciuto nè privilegi nè privilegiati.
* * *
Ricchi e poveri, tutti i giovani atti alle armi, dovevano sotto le
bandiere della repubblica schierarsi in faccia al nemico, sostenerne
gli urti, rintuzzarne la petulanza, ricacciarlo nella tana. Tutti,
ricchi e poveri.
E venne la legge sulla coscrizione, democratica applicazione della
uguaglianza dei sacrificii all'eguaglianza dei doveri, che lascia
aperto il varco ad una sperequazione dallo stesso governo preveduta.
Applicato a condizioni disuguali il criterio dell'uguaglianza si
risolve nell'ingiustizia manifesta; e che sia ineguaglianza
stridente di condizioni fra ricchi e poveri non è più il caso di
dimostrare.
In altri termini: un ricco può andare alla guerra senza
preoccupazioni eccessive; a casa non mancheranno del pane. E può
anche... rimanervi, senza altri disastri se non siano lo strazio
morale della madre della sposa dei figli, armati ed agguerriti
contro le avversità del destino dagli stessi profitti che la guerra
togliendosi il figlio o lo sposo con una mano, avrà ad essi
rimborsato coll'altra.
S'imbarca il pezzente in tutt'altre condizioni. Non vivono in casa
che del magro frutto delle sue braccia, ed egli abbandona i vecchi,
la compagna, i figli nell'ora desolata in cui le esigenze voraci
della guerra ed il bagarinaggio sfrontato dei suoi speculatori hanno
reso il pane inaccessibile, muta ogni voce di pietà, arduo,
insolubile il problema del vivere.
E se non torni? Stretti al bivio fra la mendicità e la fame non
resterà ai tapini che di crepar sul lastrico di inedia d'abbandono
di vergogna.
E nel pio intento di ristabilire l'equazione venne per una parte la
legge su l'assicurazione dei combattenti; per l'altra il Presidente
Wilson è stato investito dei pieni poteri di disporre, ai fini della
guerra di tutte le riserve, di tutte le risorse, di tutte le
energie, di tutte le ricchezze della nazione.
* * *
Non discuto il provvedimento; lo rilevo soltanto per le illazioni
che esso comporta: l'istituto della proprietà, sacro ed inviolabile
in tempi normali, può patire di eccezione in tempi ed in condizioni
straordinarie, ed in luogo delle investiture sovrane per cui chi
possiede ha diritto assoluto di usare e di abusare delle cose
proprie senza un riguardo pel prossimo, può assumere forme e compiti
di una vera e propria funzione sociale.
A mo' di esempio: Schwab può, in tempi normali, fare quello che
vuole delle sue acciaierie di Bethlehem, dei suoi cantieri di Fore
River, come Rockefeller può disporre a suo talento delle sue miniere
di carbone e dei suoi pozzi di petrolio, ed Armour delle stockyards
di Chicago o di Kansas City, e il Dupont delle sue numerose
paradossali fabbriche di munizioni, il Morgan il Baer l'Harriman
delle vaste e complicate reti ferroviarie dell'Unione.
Diritto sovrano, incontestato in... tempo di pace.
Ma scoppia la guerra, la guerra che impegna la sicurezza la libertà
l'avvenire di tutti; la guerra che senza il consenso, senza la
convergente unanime cooperazione di tutte le forze e di tutte le
risorse del paese nè si concepisce nè si guerreggia; e la tutela
degli interessi collettivi, la salvaguardia dei diritti collettivi
superando, soverchiando ogni preoccupazione di diritti particolari,
li cancella, quanto meno li sospende.
Cantieri e darsene, miniere e campi, ferrovie e piroscafi, carbone e
grano, olio e carni, zuccheri e spiriti, lane e metalli si
coscrivono a la guerra, ad assicurarne le sorti, ad affrettarne le
vittorie, così, come per le sue tragiche fazioni si coscrivono,
confiscato l'estremo diritto, le giovinezze fiorenti della patria.
* * *
Salus populi suprema, lex! avvertiva la sapienza giuridica della
vecchia Roma, ed in ossequio a questa legge suprema il Congresso –
nel quale la rappresentanza e la tutela dei bisogni e dei diritti
collettivi si presume costituzionalmente – al Presidente Wilson ha
riconosciuto il diritto ha ricordato ove d'uopo il dovere di cercare
oltre la fragile trincea dei privilegi individuali l'arra ed il
pegno della comune fortuna, e di coscrivere, per la guerra della
nazione, della nazione ogni ricchezza ed ogni energia.
* * *
Il punto capitale è qui.
La più alta magistratura della repubblica, il Congresso, ha
riconosciuto unanime – senza neppure le solite diffide della Suprema
Corte – che, ove la comune salvezza esiga, si possono riprendere
dove sono, dove la fatica nostra ingrata e disconosciuta li addensò,
il carbone e le farine e le buone scarpe a doppia suola ed il
soffice vestito di lana e la bistecca insolita ed ogni miglior cosa
che nei ventri vuoti e nelle vene anemiche e nei cuori avviliti
infonda il calore il vigore la turgida esuberanza che del coraggio
dell'abnegazione della fede e dell'eroismo sono l'ordito
indispensabile.
Si possono riprendere senza contravvenzione ai comandamenti di dio
nè agli articoli del codice penale, anime timorate e rassegnate!
Ve lo dice il Congresso.
* * *
Il quale non fa che una riserva; lascia arbitro cioè il Presidente
Wilson della opportunità e dei modi della espropriazione.
Ma non va oltre la procedura; e su le forme del rito si può passare
senza scrupoli quando non è dissenso su le rivendicazioni
sostanziali o possano all'esperimento tradirsi inadeguate od
inefficaci i modi dal Wilson preferiti.
Ripigliatevi quel che è vostro! castroni che dall'inopia vi lasciate
cascar sul marciapiedi! poltroni che dinnanzi alle vetrine
lussuriose e provocanti rattrappite nelle tasche vuote le mani
codarde e lasciate morir su lo strame i figlioli! Ripigliate nel
turbine delle furie incoercibili quello che gli avvoltoi vi hanno
rubato, ripigliatelo ai pitocchi che di seconda mano vi rubano più
che i falchi d'alto volo e non vi danno la crosta se non snocciolate
avanti il prezzo dell'usura infame! Ripigliatelo pei sudori che
avete versato, pel sangue che siete chiamati a versare e sul capo
dei figli ricadrà maledizione indeprecabile, se per arricchire i
ladri, per ingrassare i pubblicani sapete darlo senza misura, e per
voi, pel vostro avvenire, per la vostra redenzione non osate
cimentarne pure una stilla.
Ripigliate quel che è vostro! tutto quel che è vostro: il Congresso
ve ne ha già dato l'assoluzione.
(10 novembre 1917).
Thanksgiving!
— Per l'eterna condanna che flagella ineluttabile espiazione del
peccato originale, nel nome tuo, la nostra diuturna fatica; e ci
spoglia anche del pane a circonfondere d'oro, di porpora, di ogni
dovizia e di ogni letizia neghittosi, crapuloni e meretrici,
inchiodandoci, nell'attesa del paradiso di poi a tutti i supplizii,
oggi, de l'inferno; e tu hai voluto in questo anno di guerra
esacerbare d'inedie insolite ed implacate; che tu sia benedetto, o
signore, e benedetto sia in perpetuo il tuo santo nome!
— Per lo scempio che desola la terra, ed avresti potuto risparmiare
tu che dal sommo dei cieli reggi nel pugno onnipossente,
dell'infinito, dei mondi e delle creature, le leggi e le sorti; e
non hai voluto perchè nelle messi e nei nidi, nel calice dei fiori e
nel grembo delle madri, avesse l'empietà del vivere dell'amare del
gioire la dovuta mortificazione; perchè traviata e travagliata dalla
sete del conoscere, ansante alle indagini iconoclaste, briaca di
perdizione e di eresia, tornasse l'umana schiatta al giogo dei tuoi
decreti imperscrutabili, perchè tornasse nel cilicio ogni fervore
che non sia di umiltà e di rinuncia, ogni fremito di redenzione che
non si compia fuori della carne nel nulla infinito; che tu sia
benedetto, signore, e benedetto sia in perpetuo il tuo santo nome!
— Pei turbini di fiamma in cui hai voluto costringere, cenere e
disinganno, l'umana speranza tracotante di veder qui su la terra
riedificato d'amore di orgoglio di fedi superbe l'empireo di
beatitudine, di bellezza, di gioia, di gloria, dal quale i tuoi
arcangeli hanno bandito l'orgogliosa progenie di Lucifero per
sempre; che tu sia benedetto o signore e benedetto sia in perpetuo
il tuo santo nome!
— Pei morti che innumeri imputridiscono al sole;
Per le vittime che alla tua gloria su gli altari di tutte le patrie
si sgozzano innumeri;
Per le vedove mendicanti pei trivii il pane che tu neghi;
Per gli orfani che alle poppe materne si abbeverano d'odio e di
fiele;
Per i vegliardi brancolanti ancor vivi fra le tenebre senza ritorno,
pel sangue di cui hai ribattezzato ogni solco; per le lividure di
tutta la carne, per le piaghe di tutti i cuori, per tutte le pupille
abbacinate di pianto, per la devastazione, per la rovina, per la
morte che da tutta la terra gridano nei secoli l'inesorabilità
implacata della tua giustizia e della tua vendetta; che tu sia
benedetto o signore, e benedetto sia in perpetuo il tuo santo nome:
Te deum! —
* * *
Tale il cantico che sale oggi dai templi e dai casolari; dai templi
dei farisei che di aver riallacciato i servi al giogo delle vecchie
paure e delle vacillanti devozioni, e dell'avervi riassisa la
rinnovata fortuna rendono grazie all'altissimo; e dai casolari
diserti in cui gli iloti all'universa catastrofe che ogni fede
dell'avvenire ha travolto non vedono tregua se non oltre le
frontiere della vita, nell'estremo riposo della tomba che affrettano
d'ogni voto e d'ogni remissione.
Discorde soltanto la voce dei reprobi che non si attardano a
sgretolare la millenaria decrepita fola di dio, ma dagli agguati
delle sue annunziazioni e delle sue predestinazioni, dei suoi
evangelii e dei suoi riti, snida il canagliume ipocrita che ne ha
fatto il capestro d'ogni tirannide, il grimaldello di ogni rapina;
ed agli audaci propizia le vittorie dell'avvenire.
Il musgicco che, lividi ancora i polsi delle ritorte, levava ieri
dagli altari violati della cattedrale di Kazan la mano callosa a
salutare il tramonto dei numi, dei numi del cielo e della terra, e,
riscattata al privilegio ed alla grazia, restituiva sotto l'egida
del diritto la vita di ciascuno e di tutti, dandole fondamento la
terra ed il lavoro conserti nell'eguale libertà, è certo più grande
di ogni profeta di dio!
Come più grande di ogni fasto dei secoli revoluti è la nuova istoria
del mondo che con quel gesto si inizia, e si conforta di tante
esperienze e di tanti consensi, e si protende con tanta veemenza
verso le superiori connivenze de la giustizia e della libertà.
Le voci discordi intonano di Arrigo Heine le tre maledizioni:
Maledetto il buon dio! Noi lo pregammo
Ne le misere fami, a i
freddi, inverni:
Lo pregammo, e sperammo, ed aspettammo:
Egli il
buon dio, ci saziò di scherni.
Tessiam tessiam, tessiamo!
E maledetto il re! de i gentiluomini,
De i ricchi il re, che viscere
non ha!
Ei ci ha spremuto infin l'ultimo picciolo,
Or come cani
mitragliar ci fa.
Tessiam tessiam, tessiamo!
Maledetta la patria, ove alta solo
Cresce l'infamia e
l'abominazione!
Ove ogni gentil fiore è pesto al suolo,
E i vermi
ingrassa la corruzione.
Tessiam vecchio mondaccio, il lenzuol funebre
Tuo, che di tre
maledizion s'ordì.
Tessiam tessiam, tessiamo!
ed è più che il miserere del vecchio mondo nella triplice dannazione
è il grido di Prometeo invitto che, spezzate le catene secolari, ai
vinti annunzia l'aurora della risurrezione; e delle sue diane
soverchia le nenie ipocrite od idiote dei farisei e degli eunuchi.
(24 novembre 1917).
Turlupineide
Un casaldiavolo!
Vediamo di raccapezzarci. A Seattle, Wash. la polizia irrompe nella
sede del Circolo di Studi Sociali, vi sequestra ventidue pacifici
lavoratori che leggono, studiano, discorrono del più e del meno,
della guerra, dell'enorme tributo di sangue e di lacrime che estorce
alla povera gente; incalzati dall'angoscia, dalla preoccupazione che
ange ogni cuore ed ogni tugurio; a Cle Elum ne arresta altri
quattordici, otto a Black Diamond, altrettanti, o giù di lì, a
Roslyn, a Renton, a Walla Walla, a Portland, Oregon, un centinaio a
conti fatti, tutti italiani, abbonati o lettori della «Cronaca
Sovversiva» dei quali il Dipartimento delle poste ha fornito il
recapito alla polizia federale.
La rapina è stata ordinata ed organizzata dall'ispettore Henry M.
White dell'Ufficio d'Immigrazione.
Le ragioni?
Spaventose: I Circoli di Studi Sociali non sono che le maglie fitte
di una formidabile società segreta la quale coscrive nei quarantotto
stati dell'Unione più che duecentomila appaltatori di cospirazioni
tenebrose e di nefandi attentati, «renegades and traitors to their
own country and the country which adopted them».
Congiuravano al momento dell'arresto – e se non ne sentite per la
schiena, i gricciori, gli è che avete la pelle di ippopotamo –
congiuravano innanzi tutto «the assassination of the king of Italy,
bloodv disturbances in this country, to ruin the morale of the
italian armies, to injure the cause of the allies» e – quasi non
bastasse – «planned to seize foodstuffs in various parts of the
United States...»101.
Che lavoro! E che fegato!
Le prove? Lampanti!
Come gli risulti che la setta infernale abbia meditato e si disponga
all'assassinio di Vittorio Emanuele di Savoia, e per quali vie, con
quali mezzi, dove e quando intenda consumarne l'abominio,
l'Ispettore H. M. White – che pure ha tanta fantasia da subissarne
Cervantes, Jules Verne o Saturnino Farandola – non dice. Non accenna
ad una presunzione accessibile, all'ombra di un indizio. Se lo è
sognato, evidentemente: ma un funzionario del governo è sempre di
servizio, anche e specialmente quando dorme e sogna la notte le sue
brave congiure per avere il gusto di scompigliarle il giorno, e
mietere in quest'agile penelopea fatica le raccomandazioni più
sicure ed i titoli più serii alle promozioni ed alle gratificazioni.
Ma quanto al resto, diluvia! Contro i Circoli di Studi Sociali che
s'incanagliano a distruggere il morale delle truppe italiane, a
sobbillare in patria sanguinose insurrezioni, ad insidiare la causa
degli alleati, ad affrettare di conseguenza il trionfo del Kaiser,
l'ispettore H. M. White brandisce un opuscolo sacrilego: «Buttate il
fucile!» edito a Parigi da un compagno francese... una quindicina
d'anni fa! tradotto nella parte essenziale, dato alla luce qui in
America sette od otto anni addietro, da qualche anno esaurito,
esaurito qualche anno innanzi che la grande guerra della civiltà e
della democrazia fosse non dico scoppiata, ma neanche preveduta!
Contro i Circoli di Studi Sociali che irrequieti fremono pel
continente, pronti ad insorgere, a spezzare i trabocchetti degli
affamatori, le maglie e le usure sordide della speculazione
«impudently rampant» che Wilson bollava indignato nel suo messaggio
di ieri, ed alleata più vera e maggiore del Kaiser, ignorata o
protetta dalla sbirraglia federale, castiga della inedia disperata
la devozione delle madri eroiche che su l'altare della patria e
della guerra hanno immolati i figlioli – l'ispettore H. M. White ha
accumulato congerie tale di documenti, di lettere, di opuscoli, di
giornali, di prove shiaccianti, risolutive, che in Gennaio, i
sobbillatori della cospirazione, oramai identificati, non troveranno
scampo nè quartiere.
Intendiamoci subito: l'ispettore White non è un tanghero... da
burla, e neanche il primo venuto. Quando si è ficcato in testa che a
Seattle c'erano dei cospiratori egli si è detto, coll'acume del
Signor De La Palisse, che se vi sono dei cospiratori vi deve essere
pure una cospirazione, e che se questa mirava a far di Gennariello
di Savoia un pendaglio da forca od uno scampolo della ghigliottina,
vi doveva essere anche ...«somewhere»... nella grande repubblica il
covo della cospirazione, col teschio e coi pugnali di rito, la
maschera nera, le fiaccole rosse, il sacchetto della tombola che nel
più alto estratto designerà il giustiziere; e si è messo in viaggio,
e la tana ha scoperto... a Lynn, Mass.: «Federal agents are of the
opinion that Lynn was the general headquarter of the band of
conspirators »102... A Lynn c'è la «Cronaca Sovversiva» e c'è il
Galleani, una faccenda grave; non c'è, per quanto si sia frugato, il
Valdinocci ed è caso anche più grave; c'è già contro i suddetti –
latitanti o costituiti – un'accusa precisa di cospirazione, ci sono
dei cospiratori ingenui che si sono lasciati cogliere colle tasche
piene di lettere compromettenti; se le fortune dell'ordine sono
minacciate, la congiura è a Lynn, ed a Lynn dove la minaccia
s'infosca dovrà risplendere il sole glorioso della rivincita.
Negate, se vi basta l'animo, che non abbia fiuto, che non abbia
avuto un lampo di genio l'ispettore White, il quale scopre oggi,
come se nulla fosse, l'opuscolo «Buttate il fucile!» che circola
indisturbato da quindici anni, che si può comprare a due soldi in
tutti gli spacci di giornali da New York a San Francisco, che
circola in Francia impunemente anche oggi dopochè il timone della
repubblica in guerra è stato assunto da Giorgio Clemenceau, la tigre
che si spaccia un anarchico a colazione uno a pranzo uno a cena come
fossero... tanti chéques di Cornelius Hertz e della fallita
compagnia del Panama.
E come la scoperta non bastasse alla gloria di un uomo, a collocarlo
di botto tra Galileo e Cristoforo Colombo, non vi ha scovato
l'ispettore White nelle sue minute recidive perquisizioni ai Circoli
di Studi Sociali che gli anarchici italiani d'America presentono che
«the gravity of the situation and the probability of an insurrection
by the people cannot be concealed»103 come presentono e prevedono,
senza darsi neppure il fastidio di essere anarchici, l'ortodosso e
grave «Times» di Londra, o l'ex-ambasciatore Gerard?
Non ha egli dato l'anima al diavolo per trovare, sequestrare,
affidare alla Sacra Congregazione repubblicana dell'indice
l'apocalittica. visione che «the people will rise up and take food
where they find it»104 che la «Cronaca Sovversiva» ha espresso in
tutte lettere nell'articolo Indulgenza Plenaria dopo di averne
curato, giurato e rimesso la traduzione fedele al Postmaster di
Lynn, e pel suo tramite alle autorità federali?
E nelle tasche di Ettore Giannini, arrestato un mese fa, ed assoluto
con una fretta che sa di contrizione, non ha colto l'irresistibile
ispettore White una macabra lettera con cui il Galleani – un anno
addietro – quando l'America neppur sognava la guerra, anzi non ne
voleva a nessun costo, declinava di partecipare allo sciopero di
Lawrence se questo fosse controllato dalle solite organizzazioni
gialle o rosse le quali più che delle rivendicazioni proletarie
s'interessano delle vicende e delle fortune della propria bottega?
Asmodeo! l'ispettore White, che come il diavolo del Lesage vi ficca
l'occhio per ogni toppa, l'orecchio ad ogni fessura, e vi scoperchia
i tetti d'ogni casa e vi penetra ogni più denso mistero!
Meno male che si è placato, chè altrimenti del movimento
rivoluzionario di qui, dei diecimila Circoli di Studi Sociali, dei
duecentomila anarchici che vi ordiscono segretamente la rivoluzione
sociale e l'anarchia non sarebbe rimasto più nè un mattone nè un
calamaio nè un pelo di barba!
Meno male!
* * *
Scherzi a parte: l'oscena montatura che pei baracconi della stampa
ventraiola ha inorridito dall'Atlantico al Pacifico l'idiota platea
della grande repubblica è stata, fuori di ogni dubbio, montata dalla
polizia federale che per circolare telegrafica ne ha dato officiosa
comunicazione a tutti i giornali grandi e piccini dal «Times» al
«Lynn News», parlando con poco rispetto; dalla «Voce del Popolo» di
San Francisco all'«Araldo» di New York; mentendo, mentendo con la
cinica spudorata consapevolezza di mentire, s'intende.
È bene chiarire: qui non è accusato che si difenda. Noi
rivendichiamo oggi, più fieramente che per lo innanzi, illimitato il
nostro diritto a tutta la libertà di pensiero, e se nei re per la
grazia di dio più che per la volontà della nazione si raffigura e si
ostina l'irresponsabilità criminosa che precipita le nazioni nel
gorgo della guerra, affoga l'umanità nel sangue, spezza ogni fede
nella vita e sgomina ogni fervore di civiltà e di progresso, noi
persistiamo nel credere con Patrick Henry, con Thomas Jefferson e...
con Woodrow Wilson che i sudditi hanno non soltanto il diritto ma il
dovere di affrancarsi, con le armi e per le vie di cui sono soli
giudici, d'agli «ambitious and intriguing masters interested to
disturb the peace of the world»105.
E come ci siamo felicitati il giorno che Gaetano Bresci liberava
l'Italia dalla coronata vergogna di Umberto I di Savoia, come
abbiamo gioito nel Marzo che l'insurrezione russa confinava in
Siberia l'ultimo dei Romanoff, così non sapremmo nascondere il
nostro giubilo domani se dalle turbe martoriate di Germania,
d'Inghilterra o d'Italia sorgesse di tante stragi e di tanti strazi
il vendicatore, imballando pel limbo dei santi padri Guglielmo
d'Hohenzollern, Giorgio di Windsor, o Gennaro di Savoia.
Non c'è ipocrisia che tenga: le anime più gelose, più timorate, più
devote alle vecchie forme ed ai vecchi simboli, consentono nel
mistero dell'animaccia loro che l'indocile il quale tre anni fa, od
anche ieri, avesse cacciato mezzo palmo di lama nel cuore di
Guglielmone sarebbe stato più onesto e più grande dei sei milioni di
disgraziati che per serbare obbedienza alla legge ed allo Stato si
sono fatti ammazzare alle quattro frontiere dell'Impero.
Vorrei vederlo io il grugno dell'imbecille il quale pretendesse che
sulla bilancia degli umani destini la zucca vuota del Kaiser pesi
quanto e più che sei milioni di cuori fervidi di braccia eroiche e
di petti generosi!
* * *
Qui dunque non si ammaina; si rincara sul fitto!
Anche intorno alla fatalità ineluttabile che, dove le provvidenze
legislative non giungano o non bastino, il popolo debba insorgere,
impiccare a le lanterne gli affamatori, destinando alla comune
salvezza quello che è frutto del comune lavoro, quelle che è
sopratutto necessità a fronteggiare la situazione che la guerra ha
creato, a ripagare umanamente i sacrifizii che essa ha imposto,
indipendentemente da ogni maggiore fondamentale diritto che si
potrebbe all'uopo accampare.
E ditemi quello che volete, non mi toglierete mai dalla testa che la
divergenza, in merito, tra noi e quelli dall'altra parte della
barricata, tra noi, puta caso, e l'ispettore White se egli fosse più
che uno squallido manichino vestito di terrori e di odii non suoi,
non è che di coraggio e di schiettezza.
Come? Non sanno dall'altra riva che se qualcuno ha sacrosanto
diritto al pane quotidiano questi è colui che ha cresciuto la spiga,
macinato i bei chicchi d'oro ed intriso la micca benedetta? Non
sanno che se dai tugurii sono partiti i legionarii della civiltà e
della democrazia lasciando la nidiata al buio, al freddo, senza un
pane senza un soldo, la farina, il latte, lo zucchero, il carbone,
prima che nella dispensa degli imboscati e degli sciacalli,
dovrebbero confortare la angustia dei tapini a cui la guerra ha
tolto ogni cosa e strazia nei ventri e nei cuori?
E non vedono che mentre la banda dei grandi ladri – che alla guerra
non vanno, che non v'arrischiano una graffiatura, che nel sangue
tingono la porpora dell'onnipotenza, che nel bagarinaggio coniano il
miliardo, – affoga d'indigestione, quegli altri, quelli, che hanno
dato tutto quel che avevano si stringono la cintola, impazzano
d'inedia e preferiscono al supplizio d'ogni giorno il suicidio
liberatore?
Vedono come noi e giudicano come noi, con questa sola differenza che
essi non lo dicono, dicono proprio il contrario di quel che vedono e
che sentono, per l'estrema salvezza della «giobba» della cassa forte
e della vigna; mentre noi pensiamo... ad alta voce, senza ipocrisie
e senza riguardi, senza paura neanche, badate un po' che sfacciati!
senza paura neanche dell'ispettore White ritto come un babau
impagliato sui solchi dei diecimila Circoli di Studi Sociali
fiorenti mezzo milione di anarchici alle finali Armagedoni della
libertà!
* * *
Senza consentirgli, ad ogni buon conto, di barare al giuoco. Non
arroventiamo le tenaglie al boia noialtri, nè gli facciamo da
tirapiedi, nè pel cristiano delirio della nostra propria lapidazione
diamo ai falsarii ed ai mentitori il salvacondotto; no.
Ebbene, quando afferma constargli che gli anarchici di Seattle
conspiravano in accordo coi loro compagni degli Stati Uniti e di
fuori all'assassinio del re d'Italia l'ispettore White mente per la
gola, colla piena, cinica, maramalda consapevolezza di mentire.
Quando afferma che d'accordo coi loro compagni degli altri Stati,
gli anarchici del Washington congiuravano ad un'insurrezione contro
il caro-viveri, alla espropriazione dei magazzini, dei docks, delle
botteghe, l'ispettore White mente per la gola, colla piena, cinica,
maramalda consapevolezza di mentire.
Quando afferma che egli, le autorità di polizia, la magistratura
federale hanno prove decisive, nelle mani, della doppia cospirazione
l'ispettore White mente per la gola, colla piena, cinica, maramalda
consapevolezza di mentire.
E dove egli abbia la mutria d'insinuare che è un rapporto qualsiasi,
anche d'aberrate simpatie fra la nostra propaganda e le agenzie o
gli interessi o le vittorie del Kaiser, l'ispettore White non è
soltanto un somaro, è al di sotto dei più spregevoli rifiuti da
trivio e da fogna!
Funzionario della repubblica egli ha compiti e responsabilità: deve
trovare gli agenti del Kaiser, deve mettervi su le mani,
denunziarli, suggellarli in un campo di concentramento; ma quando
passa accanto alla gente che serba fede incorrotta al proprio ideale
di giustizia di libertà, di redenzione, a prezzo di miserie, di
strazi, di abnegazioni e di persecuzioni senza numero nè tregua,
egli non ha più che un dovere se quella fede sia fuor dei decaloghi,
se siano fuori della legge i suoi araldi ed i suoi confessori:
inchiodarli su la croce, ma riconoscere che ha dinnanzi gente che
non si vende, che non vende la menzogna nè per salario nè per paura
nè per vocazione, gente che è moralmente troppo superiore a lui
perchè egli sia degno anche soltanto d'allacciarle le scarpe; e,
sbrigato il suo compito di aguzzino, inchinandosi, scantonare.
* * *
Perchè egli non burla nessuno.
Nella sua turlupineide anche i ciuchi che se lo portano in trionfo,
hanno scoverto filo per filo l'accordellato. La polizia federale ha
messo le mani sei mesi fa, su la «Cronaca Sovversiva», sui suoi
redattori, sui suoi sostenitori, perchè la «Cronaca» non abdica, non
ripiega, non mette la sordina nè all'intransigenza nè alla fierezza,
sdegna rientrare nel limbo dei settimanali anonimi, di cantar l'inno
che solletica l'orgoglio del padrone o di tacere quello che
l'infuria o l'arrovelli; e si burla cordialmente dell'interdetto e
dell'anatema.
La polizia federale ha messo, sei mesi fa, le unghie su l'articola
Matricolati! per toglierne il pretesto alle perquisizioni ed alle
sopraffazioni ammonitrici; ha mandato i suoi Bancroft briachi come
porci a sfondare di notte le porte di casa nostra, ad atterrirvi le
donne ed i bambini, nella speranza di mietere ne la sorpresa gli
elementi della famosa cospirazione che il procuratore generale della
repubblica George Anderson ha escluso e ripudiato; e da sei mesi la
sbirraglia federale quelle prove cerca affannosamente ed... indarno.
A salvarsi dal fiasco, a tessere del suo arbitrio insano e bestiale
la ragna di una giustificazione, impresario nefasto l'ispettore
White, ha montato la settimana scorsa la fiera tenebrosa che da le
colonne dei giornali di provincia, su, fino ai metropolitani solenni
ha fatto il terrore delle comari ed un'oncia di buon sangue a tutti
noi.
Bisognerà pure dirlo a questo nostro ispettore, White: la
turlupineide non ha riscosso altro significato nè altro risultato.
Bancarotta! L'introito non copre le spese: e che torzoli per
soprassello, gesummaria!
(1 dicembre 1917).
Insino alla feccia!
Quaranta mesi or sono, quando pel duplice raggiro dei borsaioli
tedeschi ed inglesi – a cui era uguale necessità – è scoppiata la
guerra, noi siamo stati dei pochissimi che hanno preveduto la
disfatta della Germania ad opera del suo stesso proletariato avanti
che dalle coalizioni alleate sul campo di battaglia! pure escludendo
la pregiudiziale, cara ai più, che a determinare sul vecchio
continente la grande rivoluzione che la guerra attuale disarmi, e ne
ovvii le future per sempre, fossero condizione preliminare
indispensabile la disfatta militare dell'Impero o l'armata
insurrezione delle sue plebi.
Sopra un punto gli eventi ci hanno dato ragione: la rivoluzione in
Russia è scoppiata e si affonda e si dilata alle rivendicazioni
estreme anche se la Germania non sia fino ad oggi battuta.
Sull'altro abbiamo avuto, abbiamo torto... fino ad oggi: il
proletariato tedesco sembra giustificare l'anatema con cui più che
un transfuga ha cercato di scusare le proprie abjure e le avvedute
diserzioni. «E così intedescato, così kaiserizzato quel popolaccio
teutonico che non si scuote neppure sotto le nerbate. Non ha in
tutta la sua storia passata una rivoluzione, e non ne avrà nella
futura. Non ci rimane che uno scampo: distruggerlo. Delenda
Germania!».
Vero! Lo cacciavano al fronte, l'avventavano sul nemico i suoi
ufficiali col pungolo a le reni, contro la gallica furia lo tenevano
insieme a forza di nerbate; e pure non è insorto si è lasciato
ammazzare con la stessa rassegnazione che di qua dal Reno, dai Vosgi
o dalle Alpi per la stessa causa pel trionfo dei proprii aguzzini e
della loro fortuna, il proletariato d'Inghilterra, di Francia,
d'Italia. Come se fosse tutt'uno!
Ed è colma la misura; quale e dove la goccia che la farà traboccare?
Non so. Quando per quaranta mesi ad una guerra di cui cerca invano
ragione e meta, dalla quale sa per antica immutata esperienza che
non trarrà per sè e per i suoi altro premio se non di ceppi e di
scherni, di peggiore servitù e di più acerba miseria, un popolo dà
il pane ed il sangue, il pane, il sangue suo e dei suoi senza
contare senza recalcitrare; ed ha dato fino ad oggi sei milioni di
gagliardi, ed ha costretto a pane cd acqua, al regime della galera
ed alla razione dei galeotti i suoi vecchi, le sue donne, i suoi
bambini, senza speranza di miglior giornata, senza una maledizione,
senza il ruggito di protesta che lo scempio della covata strappa
anche alle belve, a la iena, e a la lupa – le ragioni a disperare
soverchiano.
Perchè sembra che la devastazione orrenda sia andata, oltre lo
strazio delle carni, dei ventri, dei cuori, ad annichilire le
estreme riserve del coraggio e della fede per cui soltanto si vive,
e, uccisa la speranza, non abbia lasciato se non una nazione di
cadaveri in cui, superstiti nello sgomento nello stupore e
nell'orrore esclusivamente, anche i vivi siano morti, e su tutti
incomba la totale eclissi d'ogni luce dell'anima, d'ogni umana
virtù, d'ogni sorriso del domani.
Non so se qualcuno di voi abbia letto nella «Freie Zeitung» il
rapporto che sulla depopolazione causata dalla guerra, e sulle
provvidenze con cui rimediarvi, ha steso l'Imperiale Stato Maggiore
dell'VIII Corpo d'Armata. Constata quel rapporto che in Germania le
zitelle abbondano un po' stagionate, è vero, ma sempre in condizioni
da potersi utilizzare tollerando una specie di matrimonio cumulativo
con qualche vigoroso maschio a doppia carica. La «patria – dice
testualmente quel rapporto – dovrebbe riconoscere a queste signorine
il diritto di conchiudere un matrimonio accessorio legittimato dalla
semplice inclinazione particolare, la quale non dovrebbe avere di
mira, che un uomo già ammogliato. La legge dovrebbe in tal caso
autorizzare non solo ma incoraggiare la poligamia dei mariti».
In altri termini: i cittadini rimasti vigorosi a dispetto del
matrimonio sarebbero assunti, mezzano augusto Guglielmo di
Hohenzollern, all'onore, all'ufficio ed alle gioie di stalloni di
stato per la rimonta delle vedove schifiltose e delle zitelle
stagionate ad uso e consumo degli eserciti imperiali.
Ora, ditemi quello che vi pare: la fame si tollera, ne tolleriamo
noi fino a... morirne tutti i giorni un po', al giogo si fa il
callo, ce lo fanno i bovi e gli uomini fino a non accorgersene più
al dolore, quanto più acuti sono i suoi spasimi ed irreparabili i
suoi strazii, ci si rassegna, non si muore. Ma si muore sotto il
flagello della vergogna: si muore o s'insorge. E se fino ad un certo
segno io mi spiego che ad onta delle stragi paradossali, del
diuturno olocausto esoso, dell'ineffabile angoscia di cui sanguina
ogni cuore e si abbruna ogni casolare, il proletariato tedesco che,
come quello di ogni paese, alla miseria, alla catena, al sacrifizio
è adusato da parecchi millennii, non si sia fino, ad oggi ribellato;
non so più concepire, non so più conciliare col senso di dignità e
di libertà che è di ogni creatura, che è istintivo anche negli
animali cosidetti «inferiori», che è vivo, vigile, indomito pur
negli evi e tra le genti su cui la civiltà non è peranco apparsa,
cotesta sua rinuncia plenaria, desolata, irredimibile.
Si ribellano le piante all'innesto spurio; si ribellan le cagne agli
amori fuori di stagione, e le donne...
Su l'argomento lubrico non giurerei degli uomini... che vivono
abitualmente dalla cintola in giù; ma le donne, le donne imbragate,
soggiogate fra le stanghe della legge, sotto il controllo dei suoi
funzionarii alla satiriasi furente dei riproduttori cantarizzati!
Date ai venti l'epicedio per la bella guerra della civiltà, e della
cultura... Che c'è da averne per le schiene i gricciori.
Eppure, non dispero: la misura è colma, cadrà da qualche torbida
nube la stilla che la farà traboccare. E se ne addensano tante! su
orizzonte così vasto! su destini così fratelli i anche se
disconosciuti ottusamente o ferocemente rinnegati, che nessuna forza
canserà l'uragano. Chissà non abbia a precipitarlo l'indignazione
ribelle di un'anima ferita. Ne balenano la leggenda; la tradizione,
la storia; perchè non saluterebbe tra le folgori il grande. atteso
natale del genere umano?
E se a propiziarne l'avvento devesi la coppa del fiele e dell'onta
vuotare insino a la feccia, così sia!
(22 dicembre 1917).
Batti, ma ascolta!
Ci sorride fiduciosa una speranza: che i lettori della «Cronaca»
siano nella media se non nella totalità più intelligenti che non i
funzionarii della polizia federale; ed una certezza: che essi sono
più onesti. E che hanno di conseguenza fermato il loro pensiero su
la questione del caro-viveri, trovando nei termini del problema così
come da noi è stato posto, non le fila di una stupida cospirazione
che non è mai esistita, ma il riconosciuto diritto, e
l'imprescindibile necessità di agire.
La cospirazione è dall'altro lato della barricata. Aprite un
giornale, il più ortodosso od il più eretico, e ne coglierete ad
ogni pagina tutti i giorni la denunzia categorica e la prova
irrecusabile. Noi l'abbiamo colta nei messaggi di Wilson e nei
deliberati del Congresso. Il quale investendo il Presidente della
Repubblica di poteri discrezionali a requisire tutte le energie e
tutte le risorse della nazione ha stabilito un fatto ed un
principio.
Il fatto cioè, accertato oramai da recidive esperienze e da
inchieste svariate, che la ricchezza del paese si nega alla
cooperazione, ai tributi ed ai sacrifizii imposti dalla guerra, e
dal proletariato assoluti colla consueta abnegazione.
Il principio, che nelle eccezionali condizioni create dalla guerra
alle cui fortune sono legati l'onore, la sicurezza, la salvezza di
tutti, i diritti della nazione prevalgono ai diritti ed ai privilegi
dei singoli.
Che cosa dice la legge sulla coscrizione? Che l'inviolabilità
personale, fondamento di ogni statuto, può patire eccezione, e che i
cittadini possono essere costretti alla involontaria servitù della
caserma ed al tributo del sangue ove la patria in pericolo esiga.
Quale significato può avere la delegazione dei poteri discrezionali
al Presidente della Repubblica, se non questo? che l'inviolabilità
della proprietà, fondamento del diritto civile, è suscettibile essa
pure di eccezione ove sia minacciata la sicurezza di tutti.
In altri termini: la nazione ha il diritto di coscrivere ai migliori
fini della guerra, per ogni casa, tutti i cittadini che siano atti
alle armi e nelle casse dei banchieri, nelle mine, nei docks, nelle
acciaierie e nei mulini, l'oro e il ferro, i grani ed il carbone, le
ferrovie e le lane, tutto il fabbisogno degli eserciti al fronte e
della popolazione in casa.
Lasciamo da banda per ora il groviglio di menzogne convenzionali e
di complici raggiri per cui la carne da cannone non si coscrive che
nei tugurii della povera gente, ed i baiocchi con cui dovrebbero le
classi privilegiate scontar la loro parte di tributi, sono sempre i
baiocchi nostri.
Teniamoci alla conclusione che è ovvia, limpida, incontroversa: in
tempi di crisi acuta, quando ogni preoccupazione è accaparrata dalla
necessità della difesa la nazione ha incontestato il diritto di
requisire, di espropriare, di strappare agli artigli degli
accaparratori, degli incettatori che vi si neghino, quanto occorra
alla guerra dei suoi soldati, a la vita dei suoi cittadini.
E la nazione chi è?
La nazione siamo noi.
Se per la finzione costituzionale si presume nel Congresso la sua
rappresentanza, il suo potere legislativo, e nel presidente della
repubblica lo strumento del suo potere esecutivo non è detto che
l'esercizio dei suoi diritti, dei diritti sopratutto che preesistono
e prevalgono ad ogni legge e a tutte le costituzioni, debba essere
necessariamente regolato dal Presidente e dal Congresso. Ci
mancherebbe altro!
Si respirava, si pensava, si viveva dai trogloditi delle caverne,
anche senza il consenso dei governi che... non c'erano, dei
parlamenti che erano calamità sconosciuta, delle leggi che ciascuno
faceva a modo suo, non peggiori di quelle che un centinaio di
profeti ponza oggi per tutti. Ed anche oggi voi respirate, pensate,
mangiate... con molta discrezione, è vero, ma senz'attendere il
beneplacito del Congresso; così come vi spicciate a spegnere
l'incendio che minaccia divorarvi la casa senza aspettare
l'ipotetico ausilio dei pompieri.
Non è detto, sopratutto, che si debba attendere la manna dai cieli
parlamentari anche quando appaia al lume della tragica esperienza
quotidiana che il governo non la manda perchè non può o non vuole
mandarla.
Dice il contrario anche Woodrow Wilson il quale rivendica con
manifesto compiacimento democratico e jeffersoniano il plebeo
diritto di buttare a gambe all'aria il governo che irrida alle
aspirazioni od ai bisogni del paese.
Ora noi non coltiviamo, con buona pace dell'onorevole Burleson e
dell'on. Gregory, propositi così truci.
Constatiamo puramente e semplicemente che quantunque si sia
quest'anno mietuto più grano, che si sia cavato più carbone,
raffinato più zucchero, raccolto più cotone, fatte più scarpe,
tessuta più lana, lavorato più assai che in nessuno degli anni
precedenti, e non si siano colti mai salarii più rimuneratori, si
muore di fame, si muore di freddo, si tribola fra gli stracci senza
poter più arraffare nè un pane, nè un osso, nè un paio di ciabatte o
di calzoni, o un coppo di fagioli od una coperta.
La roba c'è: offrite un dollaro per ogni libbra di zucchero che non
vale due soldi; offrite dieci scudi per un paio di scarpe che non ne
val tre, offrite diciotto, venti scudi per il barile di farina che
ne vale cinque sì o no, e vi fanno un bagno di giulebbe ed un
monumento di pane fresco; la roba c'è.
È così? Ed a Washington ad ignorarlo sarebbero il Congresso Wilson,
Hoover, Garfield?
Lo sanno così bene che, sottoponendo a l'embargo i generi di
ordinaria esportazione, attenuando alle importazioni le fiscalità
doganali, ed imperversando di anatemi sui bagarini «nemici della
patria» hanno cercato di eludere gli uragani del malcontento se non
di derimere le cause in cui s'addensano minacciosi.
Con quale risultato?
Che dai mercati esulò anche il poco che vi affluiva. Ed abbiamo
avuto, abbiamo anche oggi, rivoltante lo spettacolo di cento milioni
di cittadini alla lassa di mezza dozzina di pirati, cento milioni di
cittadini ludibrio d'una perversa camorra di pizzicagnoli; le donne
i bambini allineati sul marciapiedi, sferzati dal rovaio, inzuppati
dal capo alle piante, attendere pazienti il loro turno per
rovesciare nella mano adunca del salumaio gli ultimi spiccioli della
settimana contro la sparuta razione di quel che bisogna, pingue
soltanto la merce dei rabbuffi e delle villanie. Chi non c'è
passato?
Chi non c'è passato è sempre in tempo: la tregenda continua,
infuria, secondata da uno strupo di panegiristi estemporanei quanto
mercenarii –, ah! volete lo zucchero voialtri? E non sapete che
v'indiavola in corpo i vermi, e vi sciupa i denti e lo stomaco e che
a farne senza avete tutto a guadagnare? raglia un dottore del
pianterreno che infesta una delle tante università americane. Un
altro, un chimico che sovraintende all'Istituto di Wood Hole,
conforta le comari che non possono pagare il salmone quaranta soldi
la libbra; – Ma non c'è il pesce cane? che è molto meglio, che ha
tenerissima la carne, densa di olio più che ogni preferito
confratello dei grandi mari? Mangiatevi del pesce cane! Ed a chi si
lagna che è incanto il petrolio risponde Endicott che è igienico
andar a letto al buio; a chi non trova farina spiega Hoover come
qualmente non sia punto necessaria a fare il pane e che vi basta in
tempo di guerra un po' di cruschello e se non trovate carbone
Garfield vi dimostrerà che si può scaldarsi tropicamente soffiandosi
su le dita, e che l'inverno sarà d'altra parte mite e brevissimo;
purchè coi catoni da barriera, e coi marrani della patria non
entriate in concorrenza per la bistecca, chè allora, il governatore
McCall vi stiafferà di botto su la lista dei traditori.
I pieni poteri di Wilson non hanno fino ad oggi, conchiuso a miglior
risultato.
E allora, delle due l'una: o il governo non può, o il governo non
vuole.
Se non può deve tirarsi da banda, restituire alla nazione il potere
discrezionale che soltanto da essa gli viene, e che nelle sue povere
mani ha perduto l'incanto dell'efficacia.
Se non vuole... Ebbene, se non vuole, non vi sarà alcuna necessità
di ricorrere agli estremi preveduti da Jefferson e da Wilson; nessun
bisogno di alter or abolish the government who become destructive106
dei fini e dei diritti che è chiamato ad assolvere ed a custodire. È
indulgente il proletariato, ed al governo svogliato o latitante che
gli riconosce il diritto di vivere... condannandolo alla inedia ed
alla disperazione, userà l'ultima cortesia: farà come se il governo
non fosse. Scoverà, dove i mercanti di fame l'avranno celato, quello
che del suo lavoro, della sua abnegazione santa ha accumulato; e
piglierà senza uno scrupolo, senza un riguardo, senza paure.
Piglierà per sè, per tutti quelli che hanno sofferto e soffrono, per
tutti quelli che hanno bisogno, per quelli anzitutto che della
guerra esosa, dei suoi carichi e delle sue angustie portano il peso
più grave.
Piglierà – senza che abbiamo a sobillarlo noi – perchè non sa
rassegnarsi a morir di fame sulla messe opima raccolta da le sue
braccia eroiche, su la soglia dei parassiti poltroni ed avidi che
glie l'hanno rubata.
Scavalcherà la legge?
Inezie! Woodrow Wilson ha scavalcato con la più allegra disinvoltura
ed il quinto comandamento di dio, ed il nono comandamento di santa
madre chiesa per promettere il tozzo del pane quotidiano alle madri
che gli hanno dato i figli.
Può ben scavalcare l'obliqua e dubbia legge della repubblica il
proletariato a toglierselo.
L'essenziale è che viva! Chi gli può contendere questo primordiale e
discretissimo diritto di vivere? Chi?
E se per vivere, il lavoro non serve più, eh, pigli! bisognerà pure
che pigli, dove ce n'è.
Piglierà: e farà benone: ha tollerato, sofferto, indugiato anche
troppo.
(22 dicembre 1917).
MININ
Tenetevi abbottonati!
Consigli pratici d'igiene elementare
Repetita juvant!
È un freddo-cane, e tira un vento da forca!
È igienico tenersi abbottonati: in fabbrica, in istrada, alla
taverna, in casa, sempre e dappertutto.
Per citarne una, voialtri avete in genere la consuetudine di
discorrere nei pubblici ritrovi delle cose vostre e delle altrui, di
sbottonarvi come se foste sempre e soltanto fra compagni serii e
fidati, senza un riguardo pei curiosi e gli indiscreti che vi stanno
alle calcagna. Ed è leggerezza deplorevole. Anzi tutto, quello di
stingersi dinnanzi al prossimo è gesto di maleducata irriverenza ed
è malsano a questi lumi di luna in cui hanno orecchio anche i
paracarri, e le parole il vento se le porta e le disperde lontano.
Tenetevi abbottonati! è una precauzione d'igiene elementare.
Nessuno vi contende, badate bene! il diritto di portare in piazza i
santi di casa vostra, di sciorinare, tra un gotto e l'altro, al
primo venuto quello che tenete in corpo, quello che avete fatto,
quello che ruminate, quello che farete domani. Dio liberi!
Andate giù, se avete stomaco d'affrontare domani le più disperate
conseguenze delle vostre millanterie ladine d'oggidì!
Ricordate soltanto che, padronissimi di disporre di voi e della
pelle vostra, voi non avete alcun diritto di tradire colle vostre
indiscrezioni i propositi, le speranze, il lavoro, la libertà degli
altri, degli amici che nei vostri discorsi ficcate a proposito ed a
sproposito con lagrimevole incoscienza.
Tenetevi abbottonati!
Ancora – poichè ho cominciato e sono una vecchia brontolona,
lasciatemi sfogare – ancora una mala abitudine è fra noi: quella di
star sempre a mezz'aria, di farcire la nostra corrispondenza oziosa
di una fraseologia da proclami, di piani tenebrosi che sono così
lontani da ogni realizzazione come da ogni nostro proposito, così,
per sport, pel gusto vano d'ambientarci in una decorazione
truculenta, da Novantatrè, e coglierne i riflessi lusingatori.
Me lo lasciate dire che è sciocco? e che ai tempi che corrono è
superlativamente pericoloso tanto a chi scrive come a chi riceve?
Gli uffici postali non sono che una succursale della polizia, la sua
prima stazione, sulla quale è sempre la spavalda insegna del
Richelieu: «datemi tre righe qualsiansi di un galantuomo e m'impegno
su quelle di mandarlo in galera per tutta la vita».
Oggi poi che la guerra, l'incubo delle cospirazioni, la spaura,
l'accieca e l'imbestialisce alle perquisizioni affannose, zelanti ed
improvvise, ed alle razzie campali, me lo dite voialtri in quale
turbine di peripezie piomberebbe un epistolario del genere gli
infelici designati alle preferite bestialità del sant'Uffizio
repubblicano?
Di regola: parlate poco ed a proposito; e scrivete ancora meno, e
buttate alle fiamme, appena le avrete colte, le confidenze
epistolari che non siate ben certi di custodire da ogni
indiscrezione e da ogni sorpresa.
Tenetevi abbottonati!
Pel vento che tira, vento di sospetto, di diffidenza e di follia, il
mio consiglio pratico è così modesto, così accessibile e così
ragionevole che a molti, ai più, l'esperienza rispettiva l'avrà di
per sè anticipato: frugate la casa dalla cantina alle soffitte;
frugate il baule, lo scrittoio, il magro scaffale della magra
biblioteca; rivoltate le tasche degli abiti da lavoro, e di quelli
festivi... se ne avete, toglietene le lettere, gli scritti, i
recapiti che non servono a nulla, e fatene una fiammata; mettete al
sicuro i libri, i giornali, le armi che non volete confinati sui
solai della polizia tra i corpi di reato; così che quando gli sbirri
vengano coll'onesto proposito di stanarvi la prova con cui ruzzolare
in galera voi o quelli che vi credettero degni della loro
confidenza, abbiano a tornarsene colle pive nel sacco, vuota
stringendo la terribil ugna...
Tenetevi abbottonati!
È precauzione d'igiene elementare.
(13 dicembre 1917).
NONNA LUISA
Nemo tenetur...
La censura s'impenna, la polizia federale ci denunzia alle furie del
volgo tricolore ed alle vendette della giustizia paesana perchè
abbiamo avuto la faccia tosta, badate un po'! di prevedere
l'imminente tracollo in patria della monarchia savoiarda, di Gennaro
Terzo, dell'ordine costituito e di altre congeneri sudicerie.
È nel loro diritto, dirò meglio, è nella loro funzione.
C'è bene a Washington una persona sospetta, il nominato Woodrow
Wilson, il quale non s'accontenta di prevedere modestamente, come
noi, lo sbaraglio delle monarchie per la grazia di dio prima che per
la volontà della, nazione; ma ne esige addirittura la ripudiazione
avanti di entrare in qualsiasi rapporto colla nazione che ne accetti
il gioco esoso e malfido.
Ma la polizia non sa spingere il suo zelo oltre la soglia della Casa
Bianca, e nessuno saprebbe darle torto: ne andrebbe di mezzo la
«giobba», colla «giobba» lo stipendio, senza contare lo scandalo che
se ne indiavolerebbe, sobbillatore delle incontinenze più
disastrose: che dio ne scampi e liberi!
Possibile tuttavia che la censura, la polizia, la giustizia federale
abbiano ignorato la presenza a Washington di un certo Hamilton Fyfe,
inviato speciale del «London Daily Mail» il quale a chi voleva ed a
chi non voleva sentirlo, ai corrispondenti della «Associated Press»
ed a Gilson Gardner – che ne ha dato conto sui giornali meglio
quotati della grande repubblica – ha espresso, egli che è stato un
po' su tutti i fronti, e più lungamente e più recentemente sul
fronte italiano dell'Isonzo, la previsione che «il primo paese in
rango per una rivoluzione fondamentale con annessa detronizzazione e
relativo bando di sua maestà il re Vittorio Emanuele III di Savoia,
sarà con tutta probabilità l'Italia».
Noi ci rifiutiamo di credere che polizia e censura federali sieno
così cieche, così sorde, così ottuse da non vedere da non sentire da
non accorgersi di quanto avviene in casa loro; e ci domandiamo
allora come mai la censura che ha per noi tanto livore e tante
folgori, non imperversi su l'«Associated Press», su Gilson Gardner,
su Hamilton Fyfe, sui giornaloni che ne hanno diffuso gli oroscopi
scellerati.
Non frena la censura, e non inquisisce la polizia perchè esulano da
quell'oroscopo gli estremi del reato ed anche il principio
dell'irriverenza; e fa bene; e farebbe anche meglio a non accorgersi
neppure dove lo strappo alle convenzionali devozioni vi fosse
specifico caratteristico e flagrante.
Ma allora perchè quello che è la trasparente sfolgorante innocenza
sui grandi quotidiani dell'«Associated Press» diventa il più nero
dei delitti e il più orrido dei sacrilegi quando si diffonde dalle
colonne della «Cronaca Sovversiva»?
Perchè?
Nè Lamar107, nè Burleson risponderanno mai. Nemo tenetur detegere
turpitudinem suam108, concedeva la sapienza giuridica della vecchia
Roma, e Burleson e Lamar non sono tenuti a confessarci che ha la
giustizia due pesi e due misure, e che bilancie e pesi e misure sono
adulterate.
E noi compatiremo, senza dimenticare tuttavia.
(5 gennaio 1918).
Alleati del Kaiser
Dove non ve ne sono?
Pei docks e per le darsene che vanno in fiamme, per le fabbriche di
munizioni che vanno all'aria, pei transatlantici che vanno a picco
misteriosamente, assiduamente, impunemente, debbono essere legione,
disperati qui come dall'altra spiaggia dell'Atlantico, qui come
laggiù armati di milioni, di mezzi incoercibili, d'audacia
insuperata; d'inevitabili complicità anche.
Ma chi si sarebbe sognato mai che albergassero, protetti dalla
federale indulgenza, alla Camera, al Senato, nei varii Dicasteri, in
tutti i rami delle pubbliche magistrature, nell'esercito, negli
stessi accampamenti della milizia che si allena all'aspra guerra
d'oltremare?
È tuttavia quello che dice John R. Rathom del «Providence Journal»,
un pubblicista serio, dei più autorevoli e dei più stimati, di
quelli che scandono la parola, temperano il giudizio e lo circondano
di moderazione e di cautele:
«I do not see how we can hope to win this war with a pacifist, a
professed pacifist, an out-and-out pacifist at the head or the war
department. Mr. Baker is an honest and well-intentioned man, but he
makes no attempt to disguise the fast that he is a pacifst»109.
Fin qui, poco male. Un pacifista al ministero della guerra è senza
dubbio un anacronismo tanto più stridente nell'ora che la nazione
fucina della guerra gli strumenti e ne prepara l'azione inesorata,
decisiva.
L'intende così bene anche l'editore del «Providence Journal» che va
innanzi precisando:
«He – S. E. il ministro della guerra – has appointed to important
posts in the department under him a number or rabid socialists, a
majority or whom are rabid pacifists and some of whom are german
pacifists...».
Le cose cominciano ad aggravarsi, tanto più che John R. Rathom
rincara su le accuse: «There are altogether too many Germans on
guard in our governmental department. There are too many Germans at
our army camps, and but little progress is being made toward
stamping them out».
Anzi! «A great many german spies who have been under arrest have
been freed, nobody knows why!
«...when evidence is found to indicate that a certain man is a
german spy, the practice is now to look into law books and find out
if there is not some clause in some law which make it possible not
to arrest him»110.
E qui l'accusa è esplicita e terribile:
Il ministero della guerra è un covo di pacifisti tedeschi. Vi si
radica il sistema per cui, scoperta una spia tedesca, si fruga nella
legge a scovare la clausola che permetta di non arrestarlo.
Eppure non è stato spiccato alcun mandato d'arresto contro John R.
Rathom.
C'è da credere che dica la verità.
* * *
I lettori non stupiranno. Ricordano certo l'accusa più precisa che
non al governo, ma al presidente Wilson scagliava Teodoro Roosevelt
dalle colonne del «Kansas City Star» il 22 Dicembre scorso:
«Quando il presidente Wilson dice: noi non abbiamo la più lontana
intenzione di rimaneggiare l'impero Austro-Ungarico; nè quello che
essi intendano fare ci riguarda, il presidente Wilson tradisce la
democrazia.
«V'è un triplice tradimento anzi nella sua dichiarazione.
«Il tradimento degli slavi soggetti all'Austria... che sono una
democratica popolazione oppressa da un'autocrazia militaristica.
«Il tradimento della democrazia in quanto abbandona la maggioranza
che ci è amica alla minoranza che ci disprezza e ci odia.
«Il tradimeno delle nazioni libere ovunque, a benefizio della
Germania la quale è oggi minaccia al mondo perchè ha al suo servizio
Austria e Turchia che il Presidente Wilson non vuole disturbate»111.
Alleato, agente del Kaiser, nello squallido ed invidioso giudizio di
Teddy Roosevelts anche Woodrow Wilson!
Il «Kansas City Star» non è stato sequestrato. Contro Teodoro
Roosevelt, l'autore della bavosa escrezione, non è stato emesso
neppure un mandato di comparizione. Le autorità federali che
subissano con tanto giòlito la stampa libertaria la quale avversa la
guerra in nome di principii e di interessi che stanno al di sopra
delle convenienze e degli interessi personali e di classe; che è
contro la guerra di Giorgio V com'è contro la guerra dei due Kaiser;
le autorità federali, sia viltà sia paura, non hanno avuto nè pel
«Kansas City Star» nè per Teddy Roosevelt il coraggio di un
richiamo.
* * *
Se noi del rabagas di Oyster Bay abbiamo riprodotte le intemperanze
– che abbiamo dato altra volta in originale –, gli è soltanto perchè
esse hanno avuto recentemente alla Camera dei Deputati un'eco ed una
ritorsione scandalosa.
Nella tornata parlamentare del 21 Gennaio ultimo il Senatore William
J. Stone del Missouri, dopo di aver denunciato le cause da cui la
preparazione militare è anchilosata, dopo di averle addebitate in
gran parte – e noi non cercheremo se a ragione od a torto – al
partito repubblicano, ne imputa alle sguaiataggini di Teodoro
Roosevelt la responsabilità maggiore:
«On my responsability as a senator I charge that since our entrance
into the war Roosevelt by his attacks on the government has been a
menace and obstruction to the successful prosecution of the war...
«...He does his work cunningly. In the front of his propaganda he
throws a deceptive political camouflage. I charge that Theodore
Roosevelt is the most potent agent the Kaiser has in America».
Il Senatore Stone, commentati the «villainous screeds, published for
money» di Teodoro Roosevelt, conchiude melanconicamente che i
termini usati dal Roosevelt nei riguardi del Presidente e del
Governo «would subject almost any other citizen to arrest»; e
vorrebbe sapere «why Roosevelt may say things with impunity which a
citizen of lesser consequence dares not even repeat without danger
of indictment for disloyalty»112.
Se sapesse che la «Cronaca Sovversiva» ed i suoi redattori, nel cui
cervello non si sono mai adombrate le porcherie in cui diguazza la
prosaccia di Teddy, e non si sono sognati di scriverle mai, sono da
otto mesi col laccio al collo, cogli sbirri alle calcagna, su la
soglia della galera, il Senatore Stone del Missouri non avrebbe
osato l'ingenua domanda: la domesticità è lo stigma della
magistratura da servizii monarchica e repubblicana, vile come tutti
i domestici in conspetto dei mafiusi arroganti e criminali,
inesorata al diritto ed alla ragione che si agitino dagli straccioni
onesti ed inermi.
* * *
Ma non è questo l'argomento della rassegna fugace: è la deduzione
che ne salta agli occhi pur dei lettori meno avveduti:
Baker è un alleato del Kaiser;
Il Ministero della guerra è il rifugio più sicuro dei pacifisti
teutonici;
Il governo e il protettore più vigile delle spie tedesche;
Wilson tre volte traditore della democrazia a beneficio esclusivo
del Kaiser;
Roosevelt è il più potente cooperatore che il Kaiser abbia in
America;
E mentre il deputato Julius Khan della California opina candidamente
che «a few prompt trials and a few quick hangings would prove most
salutary at this time»113, cotesto magnifico rosario di traditori,
d'alleati, di agenti del Kaiser, non solo non ha una noia, ma
continua riverito, acclamato, investito della fiducia nazionale e
delle terribili responsabilità che vi si connettono a giuocarsi nel
mutuo tradimento la vita di tre milioni di soldati, la sicurezza, la
libertà, il pane, di cento milioni di cittadini.
Non è la mordacchia, non è la forca se non per noi, che al Kaiser, a
tutti i Kaiser, di là e di qua, della reggia o della cassaforte,
della cultura o dell'usura, non abbiamo pagato mai altro tributo che
di maledizioni, altro omaggio che della sedizione e della guerra
incessante ed aperta.
E la mordacchia, passi! e la forca magari! ma c'è qualchecosa, che
non ci va giù: di essere confusi nello stesso proposito di
tradimento, con genia così fatta.
Habent sua fata libella, sapevamcelo ma non ci aspettavamo, in
parola! facezia così lurida: ed abbiamo la bocca amara di fiele.
Colla speranza tuttavia di poter dimostrare in un futuro molto
prossimo, ed in modo superiore ad ogni dubbio, che facciamo altra
strada, ad altra meta.
(2 febbraio 1918).
Partenza!
Chi se ne va prima?
Carlo I d'Ausburgo i cui guerrieri non si vogliono battere più; che
ha la casa sottosopra, che contro la prosapia millenaria ed esausta
vede levarsi la plebea tracotanza dei soviets; e non vede su la
terra rifugio, nè mezzo di scaricare la soma spaventosa di delitti
che gli sanguina dagli omeri?
O Guglielmone d'Hohenzollern fatto zimbello nel rapido giro di una
settimana allo scherno degli unni inflessibili di cui sferrava pur
ieri, flagello di dio, l'ira belluina sul mondo atterrito? Ed
abbandonato da la divina provvidenza di cui era l'orgoglio e la
spada, non raccomanda la sua fortuna oramai che al piombo ed alla
forca?
O Gennaro di Savoia che vede spaventosamente abbreviati i termini
dell'oroscopo unica fiamma di lucido intervallo nello squallore
della gentilizia imbecillità per cui salendo al trono intuiva che
«non vi sarebbe entro trent'anni alcun re più in Europa?».
Ed ha visto ai piedi del Carso sfumare l'inganno vermiglio della più
grande patria a cui credeva rinsanguare le sorti anemiche della
dinastia, e sbandarsi le legioni d'eroi stanchi dell'inutile
olocausto e del quotidiano atroce supplizio dei nati?
Non so.
L'Austria, l'Ungheria, la Boemia, la Stiria sono in fiamme! Sono in
istrada – diserti i campi, i cantieri, le officine, le miniere – i
battaglioni del lavoro; nel rigagnolo le bandiere le armi, levate le
braccia eroiche a conclamare delle involontarie ecatombi
l'espiazione da cui sorga il mondo riconciliato.
Non so.
In Germania i cantieri di Hessen, le mine di Westfalia, i
siluripedi, le fabbriche di armi di Friedrichshafen, di Johannistal,
di Lichterfelde quasi mostri sgozzati rigurgitano su la strada in
fiotti tumultuarii i ciclopi a sferrar la gente, la patria, il mondo
dai ceppi in cui l'avevano stretto con amorevole orgogliosa
inconsapevolezza ieri ancora.
Non so.
In Italia le rivolte armate del disinganno che sui contrafforti
delle Alpi contiene a stento la ottusa devozione conserta delle
soldatesche di Francia e d'Inghilterra: e le rivolte della fame che
infuriano da Torino a Napoli, e che l'ultima mitraglia del re non
basta più a soffocare, sono i dirupati margini dell'abisso su cui si
librano disperate le fortune dell'ordine.
Chi parte prima?
Non so, non so neanche se riusciranno a partire, a trovare un
salvacondotto...
Ma su l'incubo livido che da quattro anni ci angoscia; ma su
l'incubo orrendo che da millennii soggioga ogni nostro diritto, ogni
nostra speranza, la verità s'è tagliato uno spiraglio. Sento che la
libertà vi passerà vittoriosa. Sento che la fermeranno, benedicente
alla redenzione di tutti i sofferenti della terra, un'audacia che il
mondo non ha mai veduto, l'immensità inesorata di una vendetta che
il mondo non ha sognato mai.
E so che in questa fede ed in questo proposito comunicano
irremovibili le rosse avanguardie della nuova civiltà.
È conforto esuberante di tante vigilie amare.
(2 febbraio 1918).
Cittadino Wilson, una parola!
Presumo che in repubblica non sia nè illecito nè impertinente
rivolgere una domanda al suo primo cittadino.
Tanto meno illecito a coloro che, come me, con lettere discrete fino
all'umiltà hanno pulsato alla redazione di tutti i grandi giornali
senza cavarne altro risultato che di perdervi i tre soldi del
francobollo.
E quando si tratta poi di un problema che interessa la grande
maggioranza dei consumatori ed intorno al quale il cittadino
presidente non è soltanto in grado di dire una parola autorevole di
schiettezza e di consapevolezza, ma di raccogliervi, che più conta,
gli elementi e le provvidenze di una congrua soluzione.
L'irriverenza, – che è le mille miglia lontana dal mio pensiero – ha
del resto la sanatoria radicale nel diritto, che al cittadino
presidente nessuno contesta, di non rispondervi affatto.
Ad ogni modo la butto giù, interesserà sempre qualcuno, i molti
forse che come me, non cedono senza una viva infrenabile sensazione
d'ironia all'apostolato di saggezza e di sobrietà cui si dedicano da
sei mesi fervidamente Wilson, Mc Adoo, Hoover, Garfield, Storrow114,
giù fino al più oscuro dei filantropi e dei pubblicisti.
Ironia che sboccia anzitutto dalla superfluità delle
raccomandazioni, ironia più acre che si artiglia poi e nelle cause
che quell'apostolato determinano e nelle oscure conseguenze in cui
finisce per risolversi.
* * *
Intorno al primo punto non occorrono delucidazioni soverchie.
Dev'essere scappato anche a voialtri di sotto i baffi un sorriso
d'ameno compatimento il giorno che insieme col magro corriere
quotidiano vi siete visto arrivare, nitido, elegante, in caratteri
azzurrini con tanto di maiuscole vermiglie, il decalogo della
domestica economia dell'ora:
Non sciupate il lardo!
Non sciupate il burro!
Non sciupate l'olio!
Non sciupate la farina!
Non sciupate lo zucchero!
Non sciupate il carbone!
Il lardo a trentasette soldi la libbra, il burro a sessanta, l'olio
ad uno scudo il litro, sono relegati nella vanità dei pii desiderii
di tanto tempo, che nessuno in casa vostra o nella mia ne ricorda
più il sapore; quanto allo zucchero ed al carbone, chi giunge ad
afferrarne qualche pizzico se lo tien più d'acconto che l'acqua
santa o la medaglia della vergine benedetta; ed ogni raccomandazione
di sobrietà di economia vien superflua e tardiva.
Così quando la mobilitazione è precipitata dai quadri dello stato
maggiore nella realtà imperiosa degli accampamenti densi d'armati, e
la crisi s'è inasprita delle vaste incette e dei bagarinaggi feroci,
e dal governo, arrembato da un pugno d'accaparratori ladri
all'impotenza, è venuta la seconda serie dei comandamenti di guerra:
rinunziate al pane ed alla carne almeno due volte la settimana!
saltate almeno un pasto al giorno! la voglia di ridere, un po'
giallo magari, deve essere scappata anche a voi che in grazia della
carestia del carbone non lavorate che quattro giorni la settimana e
portate a casa il salario smezzato al sabato, e non fate più il
dente nè alla carne nè all'osso, e dall'arcibattezzato caffè della
mattina saltate alle quattro patate inamovibili della cena, e
l'acrobatica applicate ai pasti con un abbrivio ed un coraggio che
Hoover manco si sogna.
* * *
Se il sogghigno v'è morto in gola gli è che tremava nell'appello una
nota di pianto, gli è che vibrava più alta di ogni frontiera della
patria, della fede, della stirpe, la voce dell'umana solidarietà
istintiva ed insopprimibile.
For the boys over there! per la progenie del Belgio Crocifisso! pei
profughi d'Italia raminghi fuor della terra invasa! per gli orfani
di Serbia e d'Armenia vi chiedevano aspra fino alla rinuncia, fino
all'inedia, la parsimonia; e se dentro a molti animi tra voi
s'irrigidisce lo sdegno, negando pure il compatimento alla miseria
dei servi che la guerra hanno acclamata e voluta, ed a quelli pure
che non volendala ne subirono l'esosa ipoteca senza rivolte, sdegni
e collere disarmarono al pensiero delle madri randagie per terre
inospitali senza viatico, i pargoli esausti e lividi contro il seno
inaridito, e vi siete detto nel cuore, spietato agli eunuchi, che
non era equo far scontare ai figli la squallida domesticità dei
padri, e che ogni rinunzia, la più acerba, vi sarebbe tornata
agevole se del tozzo abdicato si riscattavano le lacrime d'una madre
gli strazi d'un derelitto.
* * *
Così, fuori della breve orbita nostra, la gente che ha più che non
noi angusta la fede e meno vasti l'amore e la patria, ed ha nei
Vosgi, in Italia, od in Fiandra i figli, ha dato più che non le si
chiedeva, dà con impeto assai più che non possa, se sia for the boys
over there!
Se sia...
* * *
Qui s'aguzzano la mia curiosità e la vostra; qui si erge il
problema. In qual modo, per quali vie, il caffè e lo zucchero, le
carni ed il pane a cui i patriotti rinunziano per assicurare ed
affrettare la vittoria; a cui rinunziano i cuori buoni in obbedienza
alla pietà, in sollievo dei milioni di tapini e di afflitti che la
guerra ha travolto della sua furia cieca, in qual modo, per quali
vie attingeranno le vittime, assolvendo l'umano compito di
fratellanza, di carità?
Dai mercati fervidi rispondono i custodi delle nazionali risorse
— Non fraintendete! carestia, nel senso ingenuo della parola, non è.
Si è mietuto più grano, si sono cavate quest'anno dieci milioni di
tonnellate di combustibile più che non in qualsiasi degli anni
revoluti. La carestia è relativa. Sul vecchio continente le braccia
valide sono al fronte conserte a vigilia dei penati e dei lari. Mine
e solchi giacciono diserte, incolti. L'inopia insidia della guerra
le sorti e flagella spietata i casolari; bisogna fare a mezzo, e
stringere la cintola!
Rincalzano dal Campidoglio i depositarii dell'onore e delle sorti
della repubblica: – Togliersi di bocca il tozzo perchè del
necessario non manchino le legioni che alla barbarie minacciosa ed
inesausta contendono il comune retaggio della civiltà; perchè dalle
rive del Danubio agli altipiani d'Asiago si confortino i miseri
nella fede che ha un'eco in tutti i cuori e rispondenza di universi
palpiti, la sciagura di chi insieme colla libertà ha perduto la
patria e i cari ed il pane, è dare, nel confronto, assai poco, è
dare meno di quello che si riscuote, è assolvere al dovere senza
l'acredine del sacrifizio. Partite cogli eroi che per la sicurezza e
l'avvenire di tutti sfidano la morte; cogli sventurati che scontano
in bando, tra miserie ineffabili e strazii orrendi, orgogli ed amore
di libertà, partite ostia santa, il pane che il quotidiano sudore
intride alla più nobile e più generosa delle eucarestie.
E va bene! anche se intorno alla obliqua civiltà, alla patria
arcigna, alla libertà equivoca si possano coltivare opposti
criterii, ed intorno ai mezzi cui si raccomandano aspramente
dissentire!
* * *
Va bene: dobbiamo dare! e ciascuno di noi dà; dà pagando cento
quello che non vale dieci; dà accontentandosi d'uno straccio di
cotone dove prima mal s'adattava alla lana: dà spegnendo al
coprifuoco il lume e la stufa per cercare fra le coltri il tepore
che al carbone non osa; dà, lesinando alla nidiata il becchime; dà,
sacrificando alle improrogabili esigenze della guerra due giornate
la settimana del lavoro che gli è sola fonte del vivere quotidiano;
dà come può, quello che può; dà più ancora.
A chi?
Agli accaparratori, lasciando ad essi la libera, generosa
disposizione di tutto ciò che ci neghiamo di consumare; agli
accaparratori pagando del poco che si consuma tal prezzo per cui non
abbiano del sacrifizio a portare soli il gravame. Diamo al governo,
diamo a voi, cittadino presidente, che, investito di poteri
discrezionali, la taglia esosa sui generi di consumo avete
autorizzato e consentite; e – mosso fuor di ogni dubbio dalle
intenzioni più nobili – riducendoci di un paio di giornate la
settimana di lavoro, il salario ci avete smezzato imponendoci
sacrifizio impari alle forze ed al bisogno.
Agli accaparratori ed a voi; a quelli, che del proprio sappiamo
avari; a voi ed alla repubblica che del proprio non avete se non
quello che togliete a noi; perchè a vostra volta abbiate con mano
prodiga, a dare ove e quanto l'immensità del bisogno reclami.
Dare, non vendere! chè noi intendiamo pietà, solidarietà, carità se
vi par meglio, ma non usura: dare, non vendere!
E allora non comprendo più, se non mi soccorrano i vostri lumi.
Se dobbiamo credere ai resoconti parlamentari, ai comunicati
officiosi, ai listini del mercato, alle lettere che d'oltremare
vengono assidue, strazianti, desolate, voi pagate, voi per il primo,
le farine e le carni e le lane «for the boys over there» a tal
prezzo che sgomina pure i lobbysti del Congresso e contro ve ne
ribella le scarse coscienze oneste; e di là dal mare nel Belgio, in
Italia, il carbone, che in tempi normali non costa quaranta franchi,
è salito a trecento, il grano costa un franco al chilogrammo, dieci
e quindici franchi la carne, lusso privilegiato, esclusivo, degli
epuloni – condannata la marmaglia al cruschello ed ai torzoli che
non vogliono manco li porci.
Come se tutto ciò che di qui, a prezzo di sacrifizii inenarrabili si
offre su l'altare della fratellanza da cento milioni di cittadini, e
di cui si è saldato un paio di volte il conto pagando del poco che
si consuma cinque o sei volte l'ammontare, si fosse nelle mani degli
amministratori della pietà nazionale, mutato in esca e strumento di
malandrinesche estorsioni degne del marchio e della gogna.
* * *
Il dubbio non è temerario. Nessuno l'intenderà, cittadino Wilson,
meglio di voi che esso umilia prima e più che ogni altro.
Se il proletariato della grande repubblica avesse oggi o domani a
persuadersi che in luogo di stringere la cintola per sovvenire agli
ignudi, ai senza pane, ai senza tetto di là dal mare, delle
privazioni acri e delle vigilie angustiate ha eretto soltanto degli
affamatori gli agguati maramaldi e le estorsioni feroci con cui
strangolare noi qui coll'organizzata carestia in cui pescano il
trecento per cento d'usura, ed i tapini di laggiù sui quali si
rifanno d'altrettanto e più ancora, il vostro messaggio ultimo che
«for the boys over there», che per tutti i dolenti della terra
insanguinata vuole e trova unanime, generosa, eroica l'abnegazione,
non vestirebbe tutti i caratteri di una complicità vergognosa,
infame, criminosa che per voi, per noi, per tutti voi dovete
sdegnosamente ripudiare?
Sapevo legittima e discreta la mia domanda; non so se le farete,
cittadino Wilson, l'onore di un riscontro; non l'aspetto nè ci
tengo; ma so che quel dubbio si fa strada, rode ogni cuore,
l'avvelena di sospetti, l'amareggia del fiele di tutti i disinganni,
vi lievita dentro la ribellione.
E so che non è questa l'ora in cui le fortune dell'ordine possano
raccomandarsi al bavaglio, al piombo, alla corda senza che la
rivolta prorompa divampando nella rivoluzione finale.
Voi vedete, cittadino Wilson, che io posso attendere con serena fede
dagli eventi miglior riscontro che non mi potrebbe venire dalla
vostra augusta parola...
(9 febbraio 1918).
“Auto-da-fè” repubblicani
Non so quanta ragione, quanto torto abbia Bertrand Russell che un
tribunale inglese ha condannato la settimana scorsa a sei mesi di
carcere per aver detto che le truppe americane rovesciate sul
vecchio continente, più che a frenare gli Unni del Kaiser,
riveleranno per le diverse guarnigioni d'Italia, di Francia o
d'Inghilterra la particolare attitudine a soffocare scioperi ed a
mitragliare scioperanti per cui sono in casa loro celebri
sinistramente.
Non ho letto nulla di Bertrand Russell, non ho di lui altri
connotati fuori di quelli fornitimi dal «Boston Post» di avantieri
il quale, pur masticando amaro fino a trovare che egli sia, a volte,
incredibilmente fanciullo, è costretto a riconoscergli ingegno e
coltura più che ordinarii, e fede negli ideali più generosi.
Ma se l'antico aforisma – per cui nemo potest dare quod non habet,
che nessuno cioè possa dare altrimenti da quello che ha – rimane
proposizione logica incontrovertibile, il proletariato d'Italia, di
Francia, d'Inghilterra che le riscosse della libertà, la sicurezza
ed i progressi della democrazia nostra attendersi dalle repubblicane
legioni di questo paese, ordisce delle sue mani ingenue il più
atroce dei disinganni, e si risveglierà domani o doman l'altro a
pie' della forca, il capestro a la gola.
* * *
Non v'è paese al mondo così come non trovate nella storia un evo in
cui criterii, sentimenti, preoccupazioni, amore di libertà siano più
disperatamente contumaci che non, oggi, in America.
Qui della libertà non si coltivano che l'orrore e la persecuzione.
Nessuno ne vuole. Non nelle alte sfere dove le miliardarie
oligarchie s'appagano dell'arbitrio, onnipotenti; non nella
mediocrazia ottusa che in ogni fremito di libertà vede la rovina
della bottega e delle provvide usure che ne germogliano; non nelle
grandi organizzazioni del lavoro, vassalle di tutte le menzogne
convenzionali, presidio di tutte le superstizioni, focolare di tutta
la domesticità, per le quali fuori dei dogmi e dei codici la libertà
non è più che sacrilegio.
* * *
La documentazione è superflua, è in ogni pagina di storia degli
ultimi cinquant'anni, è nell'esperienza della vita quotidiana.
L'America è il solo paese del mondo in cui il non credere in dio
comporti la diminuzione giuridica.
Croton Dam, Hazleton, Bayonne sono di ogni terra, hanno riscontri
sanguinosi e recidivi, Villeneuve e Draveil, Giarratana e Buggerru;
ma Chicago e Ludlow non sono possibili che in America.
In questo senso almeno: che altrove, in Francia, in Inghilterra, in
Germania, in Italia od in Ispagna, identiche mostruosità avrebbero
scatenato l'indignazione popolare, invaso il parlamento, subissato
il ministero, attinto la reggia. I tormenti di Montjuich hanno
ribellato contro Alfonso di Borbone tutto il mondo civile che gli
strappò di mano le vittime, e l'inchiodò alla gogna; quando in
ispregio della miseria atroce e diffusa Guglielmo d'Hohenzollern
organizzava i «minuetti della regina», la marmaglia dei sobborghi
assalì il 25 Febbraio del 1892 il Palazzo Nuovo, e l'Unno, l'Unto
del Signore, incontro alla folla minacciosa non osò quello che
Rockefeller contro gli innocenti bambini e le donne inermi di
Ludlow. Thiers che aveva sulla coscienza i massacri del Maggio 1871
ebbe prima che dalla storia inesorato il giudizio dei suoi
concittadini: non riapparve nell'arena pubblica mai più. Umberto di
Savoia dopo le stragi del 1898, a Milano non tornò che per cogliervi
due anni più tardi... quello che aveva seminato.
Qui Ludlow, macchia incancellabile di sangue e d'onta su le bandiere
della repubblica, non ha suscitato altri brividi che del nostro
sdegno; qui la confisca della libertà di stampa, nella quale il
Congresso non volle consentire mai, si è in ispregio della
Costituzione repubblicana consumata autocraticamente
coll'ignominioso raggiro del «Trading with enemy Act»; qui le liste
di proscrizione – non dei traditori che per dispetto o per denaro
vituperano il presidente o ruffianeggiano con Bolo Pasha dando aiuto
o conforto al nemico, chè questi godono d'ogni impunità e della
pubblica considerazione; ma di quanti, nemici del Kaiser come dei
suoi concorrenti, avversi alla barbarie d'ogni guerra non danno
all'arrembaggio impudico bestialità e livori – si rizzano con furia
sillana implacabile; senza che dalle turbe vili un grido di sdegno,
di protesta, d'allarme si levi.
* * *
D'allarme sopratutto; perchè un governo si erge, nel grembo, al di
sopra della repubblica, della sua costituzione, delle sue
magistrature, sinistro, spaventoso. Non c'è più che un governo in
America: quello della polizia, non c'è più che una procedura: la
bocca del leone, non c'è più che un'atmosfera: il sospetto; non c'è
più che un benemerito: la spia. Come ai tempi foschi di Venezia
sotto i Dieci.
Chi se ne accorge? Chi se ne duole o protesta od insorge?
I repubblicani a cui la repubblica è scamottata col bussolotto dei
poteri discrezionali?
I repubblicani fanno il diavolo a quattro per avere della cuccagna
guerraiola la loro parte di bottino.
I democratici, vestali gelose fino a ieri – quando erano lontani dal
potere – della costituzione, ed oggi proni alla forma più esosa e
più stridente del regime fraterno?
I democratici sono al truogolo.
I socialisti, tengono la fiaccola sotto il moggio ed alla dieta dei
sofismi poltroni e delle remissioni oblique il proletario.
Gli anarchici hanno sempre nelle vene la tabe marxista della
fatalità del divenire sociale ed aspettano le Idi di Marzo, le mani
in tasca.
Il proletariato? Il proletariato non c'è. C'è qui soltanto un
bastardume di famelici accattoni rigurgitati dal trivio d'ogni
patria sul mercato a battere comunque il dollaro, e che nel dollaro
ha radicato la stessa morale cinica ed invereconda dei suoi
sfruttatori: chi sa mettere insieme un pugno di bajocchi è un uomo,
un eroe; traviato, pazzo chi li baratta contro le ubbie
dell'orgoglio o le fisime dell'ideale. E voi avete oggi qui ad ogni
svolto i «paesani» affannati a mandare in patria il gruzzoletto,
all'aggio del cento per cento che sanno di far pagare, di estorcere
alla fame ed alla disperazione della povera gente di laggiù! Un
letamaio.
Un letamaio su cui la repubblica ha piantato la forca, restaura la
gogna delle ipocrite atroci intolleranze puritane.
* * *
Tempo addietro i repubblicani democraticissimi dell'Ohio, persuasi
che il rifugio serbato nella legge di coscrizione ai conscientious
objectors è del tutto platonico, hanno, in piazza, su la gogna, fra
i ceppi inchiodato – come i lettori vedono nella fotografia che
desumiamo dal «Detroit Journal»115 un galantuomo il quale della sua
cristiana avversione alla guerra non fa mistero; ieri il «Lynn
Telegram» accusava di complotto tedesco in odio alla repubblica un
migliaio di donne che, ribellandosi alla riduzione abrupta e ladra
del trentacinque per cento! sul salario quotidiano, hanno
abbandonato il lavoro, su cui l'appaltatore patriottissimo, il
Plant, realizza l'onesto profitto del mille per cento! e stamani un
satrapo dei cotonificii locali, Thomas Smith di Leicester, chiedeva
alla Commissione del Sociale Benessere (s'è andato a cacciare in
buone mani il benessere sociale!) il marchio dei traditori sulla
fronte degli uomini e delle donne che osino in questa vigilia di
febbrile preparazione guerriera pretendere la giornata di otto
ore116.
Thomas Smith è un negriero, il «Lynn Telegram» un covo di mezzani,
di tirapiedi, d'idioti; e quella di Cincinnati, può sempre
considerarsi aberrazione sporadica, spiegabile – se non compatibile
colla civiltà nel nome della quale si conclama la guerra –
coll'universale turbamento delle coscienze che la guerra ha
provocato ed avvelena la stampa fognaiuola la quale all'infuori del
dollaro non ha altra fede nè lealtà; argomento troppo meschino – noi
concediamo volentieri – a generalizzare deduzioni e condanne.
Ora, noi, che troviamo abbietta ogni forma di spionaggio, vogliamo
essere di manica larga fino a comprendere se non ad indulgersi la
«confidenziale» circolare con cui il 28 Aprile ultimo il
Dipartimento del Lavoro invocava dagli «officers and members of
trade Unions... that anything heard or seen by them, which in any
way affects the safety of the United States, shall be reported to
Department of Labor, 4115 Washington D. C.»117; concediamo per
necessità polemica e, in fondo, perchè ci pare che i tedeschi i
quali lavorano pel Kaiser e per l'impero invece che per sè pei
figli, per l'avvenire, siano sullo stesso livello dei disgraziati
che per la propria redenzione non hanno un palpito od un rischio,
mentre danno senza un rimpianto la pelle a ribadire di più gravi
catene il proprio destino, di più saldo baluardo i privilegi di
Gennariello o del Morgan; e fanno la spia dall'altro lato della
frontiera.
* * *
Ma c'è di meglio, che in questo caso è il peggio.
La procedura stupidamente incoata a San Francisco in odio di tre
nostri compagni, il Centrone118, il Civello, il Jorio, procedura
così vergognosamente temeraria che l'United States Attorney John W.
Preston ha diffidato la polizia che egli metterà i tre detenuti in
libertà definitiva ove almeno un'ombra di presunzione di una
colpabilità qualsiasi non gli sia fornita entro otto giorni – ha
posto in rilievo un sistema interessantissimo di procedura.
Don Rathburn – un nome azzeccato tra di cosacco e di bashibouzouk –
che è un funzionario del Ministero della Giustizia, un mozzorecchi
di S. E. Thomas Watt Gregory, ha fatto fotografare il Centrone, il
Civello, il Jorio, ed ha curato che l'effige sacrilega sia affissa
ed esposta in tutti i luoghi pubblici e negli ufficii postali della
Confederazione in calce ad una circolare con cui egli diffida i
cittadini leali della grande repubblica a fornirgli indizii,
informazioni, tutte le possibili notizie intorno ai tre ostaggi che
egli si è tolto con un arbitrio criminale, contro i quali non sa
formulare un'accusa qualsiasi che abbia fondamento, e sulle sorti
dei quali sa fin da ora, nel modo più positivo, che la Corte
Federale pronuncierà in settimana il più mortificante dei non luogo
a procedere.
Non accampiamo pretese! non domandiamoci neppure se in ossequio alle
guarentigie sancite negli art, IV, V, VI della costituzione, in una
repubblica che non fosse la parodia od il feudo inalienabile
d'un'oligarchia di ladroni e di manutengoli equamente impudichi, Don
Rathburn non dovrebbe a quest'ora essere al manicomio od in galera;
ma chi ci accuserà d'indiscrezione se noi conchiudiamo che il
Sant'Uffizio è nel confronto mortificato, che Bertrand Russell non
ha sciupato che degli eufemismi, che le legioni della grande
repubblica non porteranno di là dal mare se non il vituperio e la
forca?
* * *
Qui non è più il raca mercenario del pennivendolo che serve per
cinquanta soldi a le rabbie del sinedrio, come l'Iscariota; qui non
è più il calcolo del negriero che a cogliere quattro baiocchi
pigierebbe la legione dei servi; nè è qui l'aberrazione selvaggia ed
effimera dei linciatori tradizionalmente abbrutiti; quì è il
ministero federale della giustizia, qui è la repubblica nella
rappresentanza autorizzata e riconosciuta dei suoi funzionarii; qui
è il regime.
Che svergogna, lasciatemelo dire, Torquemada, e Pietro Arbuez.
Col san benito sugli omeri, tra i denti la sbarra, negli auto-da-fè
pomposi Torquemada o Llorente per le sagre di Spagna o del Messico
non trascinavano su la gogna, al rogo, se non coloro che si
ostinassero nell'impenitenza finale; non v'impiccavano in effigie,
ludibrio alla pubblica esecrazione, se non coloro che nell'eresia,
in istato di peccato mortale fossero morti senza sacramenti o
andassero pel mondo randagii sotto il peso di una condanna che i
tribunali dell'Inquisizione avessero pronunziata, che il re avesse
sancita e di cui avesse con giuramento solenne consentita la
esecuzione.
Avevano scrupoli Torquemada e Llorente – il primo e l'ultimo dei
grandi inquisitori – che la grande repubblica, antesignana di
civiltà e di libertà scavalca con democratica disinvoltura!
Nei suoi auto-da-fè, Centrone, Civello, Jorio – in attesa che si
torni alla lettera rossa che i buoni e cristianissimi puritani
bollavano a fuoco, il secolo scorso, in petto ai reprobi – vanno, il
san benito del pubblico vituperio su le spalle, e su la gogna sono
incatenati quando dell'eretica macchia li lava la non sospetta nè
incerta assolutoria del grande inquisitore John W. Preston, l'United
States Attorney di San Francisco: quando l'ultimo, il più sinistro
ed il più bestiale dei famuli del sant'uffizio repubblicano, Don
Rathburn, sa che sono fior di galantuomini di cui tutta la sua bava
di rettile non sa macchiare il nome intemerato.
* * *
Non è geremiade di piagnoni lo sfogo.
Noi sappiamo quale sia il viatico delle avanguardie abbeverate di
fiele e d'irrisione ai supplizii del Golgota su tutte le frontiere,
a tutti gli avamposti della storia; ed ai numi della repubblica ci
guardiamo bene dal supplicare come il galileo su la croce un ultimo
segno della divina pietà: risparmiateci l'ultimo calice! Eli, Eli
lemma sabachtani!
Lo vuoteremo insino alla feccia, ne abbiamo lo stomaco; e, d'altra
parte la vergogna che insozza e contamina il volto della repubblica,
la vergogna è di tutti fuor che di noi, che non le abbiamo dato mai,
che non le diamo tregua, e qui mettiamo in luce ancora una volta
cogli intenti ed ai fini di una terapeutica modestissima sì ma
conscienziosa.
Sottoscrivete al regime che, franta ogni cavezza, inaugura Don
Rathburn su la costa del Pacifico, la sovranità assoluta ed
irresponsabile della polizia; consentitele di rizzare le tavole di
proscrizione, di trascinarvi, d'inchiodarvi su la gogna;
sottoscrivete d'un consenso perchè vi libera d'un avversario
molesto; sottoscrivete dell'ignavia gretta o della pitocca
indifferenza perchè finora a voi il laccio al collo non l'ha
buttato; e saprete dirmi fra un paio di mesi; se vi sarà, più
requie, sicurezza, inviolabilità di focolari, possibilità
d'apostolato, d'agitazione, in un paese che lo spionaggio eleva a
dovere civico, fa del sospetto il solo clima respirabile alla
democrazia; ed ha vivo nelle tradizioni, perenne il linciaggio nelle
consuetudini.
L'anonima denunzia d'un creditore negletto, del curato malvisto,
dell'antropofago padron di casa, d'un avversario perfido, d'una
comare delusa, nella Bocca del Leone – 4115, Department of Labor –
metterà su le vostre peste la muta dei berrovieri che vi sfonderanno
la porta, vi svaligieranno la casa, vi metteranno il laccio al
collo, ai polsi le manette, e quando non troveranno un filo della
trama ordita dagli anonimi denunciatori, quando ve ne avrà assoluti
la sentenza del magistrato come Centrone e Civello e Jorio, come
Centrone, Civello e Jorio v'inchioderanno su la gogna perchè non
troviate più un pane, perchè ramingando pei quarantotto stati della
repubblica non abbiate che a trovarvi l'ostracismo del lebbroso, la
pugnalata del sicario o le san bartolomeo delle ciurme avvinazzate.
* * *
Ai ripari finchè siamo in tempo! All'estremo dei ripari, che si
adegui all'estremo dell'arbitrio e della provocazione.
Sbuca dai covi della legge il nemico, e le straccia a suo libito per
la fortuna delle sue vendette, per l'orror sacro della libertà, per
libidine turpe di violenza, di bestialità, di persecuzione, tornando
nel nome della repubblica e della democrazia a San Domenico, a Re
Bomba, a Speziale, a Mammone?
E nella tana bisogna senza un indugio ricacciarlo con lo spiedo e
col tizzone, col ferro e col fuoco, così malconcio che non ne torni
che dinnanzi ai volghi proni ne traducano la ferocia, la viltà,
liberandoli insieme e dalle catene della servitù e dalle eunuche
devozioni con cui la custodiscono d'infauste abnegazioni e di
rinunzie sciagurate.
Col ferro e col fuoco! è a questo patto la salvezza.
(16 febbraio 1918).
Coll'acqua alla gola!
Ci siamo. La reazione democratica ci affoga, mostruosa, feroce,
ipocrita quale non vide mai, neppure ai suoi giorni più biechi, la
storia delle nazioni civili.
I Verdets della seconda restaurazione sguinzagliati dopo Waterloo
per le vie di Tolosa, d'Avignone, di Marsiglia, di Nimes, il
coltello fra i denti, l'archibuso nel pugno a spacciare quanti
avevano creduto nella grande rivoluzione e dall'Atlantico agli
Urali, per ogni patria, ne avevano ripercosso il grido liberatore,
della loro vigliaccheria avevano almeno il coraggio.
Canovas del Castillo, ancora un restauratore dei Borboni, sfidava
apertamente l'insurrezione coll'inquisizione, ne alzava in faccia al
sole il garrote, ne rivendicava la necessità e le responsabilità
audacemente, pur non nascondendosi che a Santa Agueda le sconterebbe
più tardi d'una revolverata finale.
I Romanoff, penultimi rappresentanti in Europa del regime paterno,
alla Terza Sezione hanno umiliato dal cancelliere imperiale al
procuratore del Santo Sinodo tutti i poteri dello Stato, hanno fatto
della Siberia un istituto, rifatto delle deportazioni amministrative
le lettres de cachet, rinnovando nella fortezza di Pietro e Paolo i
silenzi, gli orrori tenebrosi della vecchia bastiglia.
E la, storia non ha pel terror bianco, per le scelleraggini di
Alcalà del Valle o di Montjuich, per la Terza Sezione, per gli Czar,
pei loro Muravieff pei loro Trepoff, che la gogna dei secoli e
l'universale esecrazione.
* * *
Qui la reazione è di farisei e di cialtroni; vile, vile, vile!
Grida in piazza, oltre i mari, libertà, civiltà, democrazia; ed allo
svolto della strada se alla libertà abbiate serbato fede e culto
sinceri, vi butta il capestro, vi serve la pugnalata nelle reni, o
sciogliendo estatica gli inni a la Perla degli Oceani, a Columbia
gloriosa ed ai suoi vessilli costellati, sfrena su la vostra
sacrilega fede nella libertà e nella civiltà il linciaggio dei suoi
mozzorecchi, dei suoi verdets, dei suoi ulani, dei suoi famuli
imbestialiti.
Storia di ieri, cronaca di tutti i giorni.
Il Congresso investe il Presidente di poteri discrezionali finchè la
guerra dura; ma gli nega in modo espresso e reciso la facoltà di
smezzare le conquiste della rivoluzione, le franchigie della
costituzione, la libertà di coscienza, di pensiero, di stampa, di
associazione: tra le leggi che la pubblica salute e le necessità
impreteribili della guerra urgono quotidiane, deve essere il rifugio
per chi alla guerra non crede e non consente; il pensiero e la
parola vogliono essere immuni da freno o da censura.
— Meno male...
— Tanto peggio! avversario conscenzioso della guerra, voi siete
catalogato tra gli sgherri del Kaiser ed i lanzichenecchi
dell'autocrazia; e se v'abbindola il miraggio che costituzione e
legge siano il termine, il patto sacro tra governanti e governati,
fra le necessità del potere ed i diritti della libertà, vi svegliate
in galera con tanto bavaglio fra i denti.
Perchè se la censura, il diritto di limitare l'espressione del
vostro pensiero non sono consentiti, v'è una legge subdola ed esosa
che vieta di dare aiuto e conforto al nemico, ve n'è un'altra,
spaventosa, contro lo spionaggio; due leggi provvide che agli agenti
del Kaiser più veri e maggiori non torcono un capello, non smontano
un trucco; che alle spie danno man franca ed impunità sicura; ma non
tollerano dissensi all'unione sacra, ed a chiunque non regga il
sacco nell'arrembaggio impudico ai grandi ladri ed ai loro tricolori
mezzani non danno tregua, nè quartiere.
Freni, censure, leggi restrittive della libertà di pensiero, di
parola, di stampa sono peggio che incostituzionali, sono superflui.
Quando volete disfarvi d'un cane voi dite che è arrabbiato; quando
avrete a sbarazzarvi d'un fogliaccio impenitente o d'un libertario
intruso direte semplicemente che sono salariati dal Kaiser, che
fanno la spia.
* * *
Nella nostra esperienza appare superfluo anche il trucco.
La «Cronaca Sovversiva» ha perduto la franchigia postale di seconda
classe da quasi un anno; ma, rispettate le disposizioni della legge
8 Ottobre 1917, può circolare per le poste federali senza ostacolo.
Ci assicurava non più tardi di avantieri il direttore Higgins
dell'ufficio postale di Lynn, un bigotto della democrazia, che allo
stato degli atti non v'è contro la «Cronaca» altra ministeriale
disposizione all'infuori di quella che la priva dell'abbonamento di
seconda classe.
Ma la «Cronaca», ad evitare lungaggini, ritardi e noie, circola a
mezzo delle varie compagnie d'express; e queste la settimana scorsa
si sono al compito ricusate.
— Perchè?
— Sono gli ordini superiori.
Andiamo a cercare pazientemente i superiori, il direttore
compartimentale di Boston:
— Perchè le vostre agenzie non vogliono più della «Cronaca»?
— Sono le istruzioni della direzione centrale di New York.
— Sapete che le autorità postali non fanno eccezione alla
circolazione del nostro giornale?
— Lo so, ma le mie istruzioni sono precise.
— Potremmo sapere quali criterii determinano l'ostracismo, e quali
disposizioni di legge lo autorizzino?
— Posso scrivere a New York e sempre che me ne diano le ragioni,
parteciparvele...
aspetta cavallo, aspetta a morire
che l'erba di maggio ha pur da
venire!
* * *
Non v'è censura in America, non v'è legge che possa ammutolire un
giornale onesto, fiero, indipendente come la «Cronaca Sovversiva».
Non occorre affatto, non occorre neanche insudiciarla della stupida
calunnia che faccia gli interessi del Kaiser.
La «Cronaca» non ha Bolo Pasha dietro di sè, non ha nè Schwab, nè
Morgan, nè Rockefeller, nè Armour tra i suoi azionisti; non ha
neppur la vigna dei prestiti e della relativa pubblicità in cui i
giornali patriottissimi dell'ordine si tagliano diciassette milioni
di dollari di benefici. È un giornale straccione che campa di
croste, di bocconi di pane, dell'appoggio e del soldino di
cinquemila pezzenti; la prima folata può colarla a picco.
E ci affogano così.
L'ufficio postale accoglie senza proteste il cesto dei pacchi e lo
tiene lì, finchè dal Burleson o dal Lamar non venga il nulla osta,
che non viene mai.
L'American Express si rifiuta anche di riceverli, e noi da tre
settimane abbiamo qui, arrembati, gli ultimi numeri della «Cronaca»
senza via di scampo.
Meglio dire «avevamo», perchè due numeri sono partiti, e speriamo
che siano arrivati; e partirà anche questo in settimana; ma è sforzo
eroico nel quale non è possibile, direi quasi che non è serio,
durare.
La circolazione della «Cronaca» nel suo attuale formato, coi mezzi
estremi ai quali abbiamo fatto ricorso, costa più che tre soldi la
copia, costerebbe per cinquemila copie cento settanta scudi la
settimana; costerebbe tre volte l'importo dell'abbonamento.
Parliamoci schietto: conviene perseverare? dare al governo quattro
soldi di tassa ogni volta che diamo un soldo di giornale ai nostri
abbonati?
E, d'altra parte, è questo il momento in cui l'abdicare sia
possibile? in cui sia onesto tacere, rassegnarsi, lasciarsi andare
alla deriva?
That is the question!
* * *
Noi risolviamo perseverando! continuando cioè la pubblicazione della
«Cronaca Sovversiva» ed adoperandoci con ogni mezzo perchè ognuno
dei suoi cinquemila abbonati fedeli abbia regolarmente a riceverla
tutte le settimane.
Come?
Non sappiamo fino ad oggi, e neanche vorremmo dirlo.
Le proporzioni dell'edizione di guerra andranno prevedibilmente
ridotte; ma noi abbiamo sul canovaccio una vecchia. promessa che
domanda soltanto di essere mantenuta e compenserà largamente il
sacrifizio geometrico del formato attuale; ed in ogni caso, quale
che abbia ad essere la soluzione dell'arduo problema, i compagni che
durante sedici anni ci hanno nel tempestoso pellegrinaggio
accompagnati, ed i nuovi che coi vecchi legionari intorno al foglio
indocile e perseguitato si sono raccolti sotto lo scrosciar della
bufera, la soluzione che comunque sarà tolta, accoglieranno come la
sola che ci fosse consentita, e vorranno nel limite delle loro forze
incuorare il proposito che essa traduce irremovibile: quello di
tenere il nostro posto di battaglia, quello di dimostrare alla
repubblica, alla più grande repubblica del mondo la quale ha paura
d'un vecchio malato, d'un pugno di straccioni, d'un foglio
incorrotto e d'un bagliore di fede, che l'utopia reazionaria è così
sterile quando si raccomanda alla violenza come allora quando si
rintana ne l'iprocrisia.
Tiremm innanz!
(2 marzo 1918)
L. C. S.
(Senza titolo)
Gli Unni della grande repubblica calati negli uffici della «Cronaca»
venerdì ultimo vi hanno saccheggiato la biblioteca e lo scrittoio
portandosi fra l'altro una ventina di pagine delle Memorie
Autobiografiche di Clemente Duval di cui siamo obbligati ad
interrompere pel momento la pubblicazione.
La squadra dei tedeschi della repubblica era agli ordini del deputy
marshal Charles Bancroft il quale non solo non sa leggere, tanto che
si è portato via fra i corpi di reato anche i discorsi del
presidente Wilson! ma ci tiene assai a parere implacabile, e,
costretto a rifarsi di villanie indecenti e di sgarbi paltonieri su
l'intelligenza che la natura gli negò, e su l'educazione che rimane
sacrario inaccessibile alla sua bestialità istintiva e
professionale, si vendica a vuotare scaffali e scrittoi, a farvi il
gioco della valigia come l'ultimo dei borsaioli.
I lettori pazientino: rimedieremo.
(2 marzo 1918).
La Comune
1871-1918
Se un ricordo della Comune di Parigi v'avvampi, su la memoria dei
suoi trentacinquemila fucilati, delle sue centomila vittime disperse
per le isole della Guyana o della Nuova Caledonia, per gli ergastoli
della terza repubblica, non versate lacrime codarde, nè rimpianti
immeritati.
Hanno assoluto con fierezza conserta d'abnegazione e d'eroismo il
compito che l'ora ingiungeva e si erano essi liberamente
impetuosamente eletto, non ignari nè sgomenti dell'espiazione
terribile in cui i versagliesi del Thiers e del Gallifet avrebbero
mutato la terza disfatta del proletariato parigino.
Hanno vissuto pienamente la loro giornata, l'hanno conchiusa del
sacrifizio volontario, legando il sacro debito della vendetta e
della giustizia ai figli ed ai nepoti che di piagnistei o d'incensi
non lo riscattano.
Si possono invidiare, emulare, superare i morti della Comune, non
compiangere. Il rimpianto è mortificazione.
Perchè, comunque l'insurrezione proletaria del 1871 abbia a
considerarsi, non si può oggi – dopo mezzo secolo quasi dalla
paradossale ecatombe che nel sangue l'affogò – intorno all'indole
sua coltivare divergenza seria di opinioni e di giudizii.
Quelli che si accampano dall'altra riva, custodi del vecchio ordine
privilegiato, di dio, della legge, della cassa forte, della morale
in cui si incarna, coloro che si recano a gioia, a gloria di averla
sgozzata; e quelli che da quest'altro lato della barricata ne
inalberano i vessilli, araldi dell'ordine nuovo che per ogni nato di
donna vuole quotidiano, sicuro, d'ogni vergogna e d'ogni usura
immacolato, immune, il pane dei ventri, dei cervelli, dei cuori,
possono diversamente esecrarla o benedirla; ma consentiranno unanimi
che essa riaffaccia, più limpidi e più decisi, propositi, speranze,
voti che le due grandi rivoluzioni del 1789 e del 1848 hanno deluso,
tradito: e che essa muove dalla eredità di quella duplice
esperienza.
Dice ogni parola ed ogni gesto della sua aspirazione politica:
— Al disbrigo degli affari locali pensa il Comune;
— A quelli regionali la Provincia;
— Lo Stato non sarà che il tramite per cui la libera federazione dei
Comuni di Francia starà in rapporto colle federazioni analoghe
d'oltre frontiera119.
Dice in altri termini: il governo è tutore superfluo di pupilli che
hanno raggiunto l'età maggiore; è un simbolo senza contenuto, è un
organo senza funzione, è destinato ad atrofizzarsi, a scomparire.
Dice ogni palpito della sua attività economica: i beni di manomorta,
i beni delle congregazioni religiose, i cantieri, le officine, le
macchine abbandonate dai vecchi possessori nell'infuriare
dell'uragano, diventano retaggio dei lavoratori consociati120. Dice
in altri termini: la proprietà non deve essere privilegio
d'individui o di classi, appannaggio di latitanti o di oziosi; ha
funzione sociale, dev'essere patrimonio di tutti. In questa nuova
forma soltanto può essere fonte di diritto, pegno di giustizia, arra
di fratellanza e di libertà.
Dall'altra riva non s'illudono. Il Marchese di Gallifet ammonendo
che «il paese, la legge, e di conseguenza il diritto, sono a
Versailles e non nell'assemblea grottesca che a Parigi, s'intitola
Comune», minaccia lo sterminio: «c'est une guerre sans pitié ni
trève que je déclare à ces assassins»121; e tra il 21 ed il 28 del
Maggio successivo terrà l'impegno.
Manco da questa s'illudono. La repubblica non ha mai perdonato ai
sovvertitori della proprietà santa ed inviolabile, non a Tiberio
Gracco duemila anni fa, non al Père Duchène placate le convulsioni
del terrore, non a Francesco Natale Babeuf che le leggi agrarie
aveva su la fine del secolo riaffacciate al Direttorio; non
perdonerebbe neanche ad essi.
Ma rialzandone in conspetto dei «rurali» la bandiera fiammante, essi
appagavano il fiero intimo bisogno di giustizia, di cui violenza e
superstizione congiurate potevano differire non escludere il trionfo
definitivo: ed intorno a la fronte dei reprobi la mitraglia
disegnava sul muro tragico del Père Lachaise l'aureola degli
annunziatori.
Qualcuno sarebbe venuto a disseppellire nel carnaio quella loro
bandiera insanguinata e gloriosa, l'avrebbe piantata più in alto,
più lontano su le vie del destino, baciata di speranze più fervide,
sacrata dal loro olocausto a l'ultima vittoria.
* * *
Più che nelle memorie del passato la Comune è viva nelle promesse
dell'avvenire.
Sempre che, ad attingere l'egemonia del mercato industriale e
finanziario, gli epigoni del capitalismo senza scrupoli cimentino
all'alea dubbia della guerra la sicurezza della patria e la stanca
devozione dei sudditi, ed in luogo della vittoria della conquista
del bottino rispondano la disfatta, l'invasione, lo squallore, e si
tradirà nuda la cinica abbiezione delle classi privilegiate insieme
coll'impotenza e colla domesticità dello Stato, e fra questa e
quella pericoleranno le sorti della gente ed i destini della
libertà, la Comune, un piede sul regime che agonizza, l'altro su
l'avvenire che prorompe, ribalza nella storia, interludio fatale e
tragico fra due civiltà incompatibili.
Qualcuno ha ricordato a proposito degli ultimi avvenimenti di Russia
la strana analogia tra la rivoluzione francese del 1789 che
seppellisce le monarchie nobiliari, s'indugia alla vana ricerca d'un
compromesso, e culmina nella repubblica, che ugualmente ingrata ai
nobili come ai servi, bersaglio al terrore di dentro ed alla
monarchica coalizione di fuori, traverso le guerre del consolato
torna all'impero ed alla restaurazione; e la rivoluzione russa che,
sbaragliata l'ultima autocrazia, cacciato in bando lo Czar oscilla
paurosa con Kerenski, colle sue bande miliardarie e coi suoi
cosacchi, tra la monarchia e la repubblica finchè, sdegnosa dell'una
e dell'altra, la canaglia non torna agli avamposti, ed afferrate le
redini del proprio destino non isterza la rivoluzione per la sua via
alla meta estrema.
L'analogia è fuor di ogni dubbio sorprendente, fino all'ostracismo
del Kerenski e del Korniloff; ma dalla nuova insurrezione che pei
dilettanti di confronti storici dovrebbe corrispondere al movimento
comunalista del 1793, le preoccupazioni di carattere economico
tolgono sopravvento così deciso che ne è distanziato anche il
movimento comunalista del 1871.
Reclamando che la rivoluzione non conchiudesse puramente e
semplicemente alla investitura della borghesia, che facesse al
proletariato la parte dovuta del pane e della libertà; reclamando
che la Francia non fosse esclusivamente la patria di lor signori,
che avesse pei suoi figli più operosi e più fidi e più degni un po'
più d'amore e di gratitudine, la Comune Parigina del 1793 come
quella del 1871 metteva al di sopra di ogni preoccupazione e di ogni
voto la repubblica.
E ognun sa come la repubblica abbia ripagato.
La Comune di Pietroburgo ha fatto tesoro di quella esperienza: la
fratellanza che muore a la frontiera è uno scherno; l'eguaglianza
che tollera padroni e servi è una menzogna; la libertà avvinta di
dogmi e di codici, mancipia di preti e di birri, di rassegnati e di
fanatici, è un'insidia; la repubblica, la patria, di queste
irrisioni, di queste menzogne, di queste insidie sono la tana
augusta e venerata; repubblica e patria debbono cedere dinnanzi alla
rivoluzione che restituendo la terra al contadino, la macchina
all'operaio, al minatore la miniera, a tutti la scuola e la casa, a
tutti il pane, il sole, l'amore e la gioia, inaugura sul
cannibalismo organizzato l'era nuova, la prima dell'umana civiltà.
— Col nemico alle porte?
— Lo straniero non è sempre il nemico: la vecchia internazionale
invocava, nella destra il fucile, nella sinistra l'evangelio, che lo
straniero si negasse al fratricidio e buttasse le armi; la nuova
accoglie senz'armi lo straniero, gli spalanca. le porte della
patria, l'abbaglia delle sue redenzioni magnifiche, gli lascia nel
pugno le armi a debellare i nemici di casa propria, a riscattar nel
sangue degli oppressori la millenaria viltà, a precipitare nei
baratri del passato irrevocabile cinti della tiara o della corona,
blindati del sillabo o della cassa forte, gli autocrati d'ogni
genia, ad avvincere la gente nella patria universale che all'odio,
al privilegio, alla menzogna non darà rifugio nè quartiere.
— E se lo straniero sia nemico? Se fra voi non rechi del diritto
altra voce che del più forte? Se alle rinuncie eroiche rispondesse
colla sopraffazione bestiale, colle carneficine e cogli stupri,
coll'incendio e col saccheggio? Se villani e servi e solchi redenti
appena riaggiogasse a strani e più esosi padroni, disperdendo allori
e conquiste della vostra rivoluzione gloriosa?
— Non potrebbe a lungo nè con fortuna: la storia non cammina a
ritroso, nè una rivoluzione si è mai indarno compiuta: chi non volle
ieri dello Czar, non s'acconcierà domani al Kaiser; chi esperimentò
i cosacchi, non vorrà gli ulani. Sarà il vespro.
Questo, se dobbiamo prestar fede agli eventi, della nuova Comune il
pensiero, che può suscitare l'esecrazione o la paura, l'orrore o lo
scherno o la pietà; che è maledetto come sacrilegio, tradimento,
prostituzione; che, interpretato nella catastrofe delle ultime
abdicazioni, suscita in noi, primi, un irresistibile senso
d'angoscia e di spasimo; ma è pensiero che deve rispondere ad una
situazione di cui la stampa borsaiola ci nasconde i lineamenti, se
l'ultimo congresso dei soviets l'accettava, o la subiva, senza pure
un dissenso.
«Quando un governo più o meno nuovo, più o meno rivoluzionario, ha
esercitato durante ventiquattro ore il potere, e non ha saputo
interessare alla propria conservazione le masse profonde del paese,
è un governo di falliti, un governo di bancarottieri» – scriveva
Augusto Blanqui che, passato traverso una dozzina d'insurrezioni,
doveva, intendersene; ed il governo di Lenin e di Trotski, di
Krylenko e di Kameneff che tiene testa alle coalizzate potenze
dell'Intesa, che tiene in freno un paio di contro-rivoluzioni, che
ha lo straniero armato in casa ai due estremi del continente, e
riscuote così largo consenso, così fedele simpatia nelle masse, può
spiacere a noi, può essere ludibrio d'ogni agguato e d'ogni scherno,
mia indubbiamente «il a su intéresser à sa conservation les masses
profondes du pays», e non è governo di falliti o di bancarottieri.
Deve nel grembo custodire un pensiero, una fede, una speranza, una
meta in cui artigiani e contadini comunicano oltre, al disopra delle
frontiere delle parti.
Noi non sapremmo, in principio, essere per alcun governo, fors'anche
il più rivoluzioario; non siamo col governo di Lenin, di Trotski o
di Kameneff, in principio: non coltiviamo nè fede nè simpatie
soverchie per la sua politica, e non sottoscriveremmo certo a taluno
dei suoi atteggiamenti, i più meditati, i più gravi; ma della
insurrezione che li levò araldi e duci non disperiamo perchè della
Comune abbia spinto alle conseguenze estreme le premesse, nè perchè
l'atteggiamento conforme abbia soggiogato al Kaiser la miglior parte
della Russia.
Il Kaiser non spaura che imbecilli ed ottusi; le sue vittorie non
aggiungono che al passivo dei suoi bilanci guerrieri; e sono il
miserere dei socialisti che gli tengono il sacco, gli leccano gli
stivali, ne lisciano i domestici colla speranza d'ereditarne la
successione. Le plebi in Germania, alla guerra sono corse senza
entusiasmi, e senza convinzione; l'hanno combattuta durante quattro
anni senza conoscere la sconfitta è vero, ma senza cogliere della
vittoria che morte, fame e strazii: reggono su dalla sbornia, nella
speranza che la guerra abbia fine, che la pace, comunque, le rimandi
a casa per sanarvi le piaghe orrende avanti che abbiano ad
incancrenire.
E se questa speranza non è vitale, se la disperdano alla radice le
cause stesse che la guerra hanno scatenato, non saranno da meno
delle plebi moscovite, prepareranno al Kaiser la quarantena di
Galeazzo Sforza, implacabili agli sciacalli in agguato fra le pieghe
della clamide imperiale all'arrembaggio; inesorate all'ordine
borghese che li ha fermentati cresciuti custoditi fin qui
all'impunità.
Comunque sia, se a raggiungere questa meta della comune liberazione
suprema la giovane Russia si è inerme, offerta alla crocifissione,
se a prezzo della propria libertà e del proprio sangue ha comprato
il diritto di gridare ai rejetti della terra: non tenete la corda al
boia! non ne vigilate le galere, non ne custodite i privilegi!
radetene coll'ascia e colla face da ogni plaga del mondo, per
sempre, l'infamia, la vergogna, e su le bastiglie dirute, e sulle
avvallate frontiere, riconciliate colla vita, coll'avvenire, colla
libertà le genti umane! la giovane Russia è della Comune la più
nobile reincarnazione, e ne scrive del proprio sangue generoso
l'elogio migliore.
Viva la Comune!
(16 marzo 1918)
E sarà fiamma!
La pensée échappe toujours à qui tente de l'étouffer. Elle se fait
insaisissable à la compression; elle se réfugie d'une forme dans
l'autre.
Le flambeau rayonne; si on l'éteint, si on l'engloutit dans les
tenébres, le flambeau devient une voix, et on ne fait pas la nuit
sur la parole; si l'on met un baillon à la bouche qui parle, la
parole se change en lumiere, et l'on ne baillonne pas la lumiére.
Victor Hugo. Nella prefazione dei «Chátiments» 1853.
Al senato è un grand'uomo che sciupa lo zelo. Ve l'ha mandato nelle
ultime elezioni il collegio, di Spokane; nello stato del Washington
e si chiama Miles Poindexter.
La Commissione Giudiziaria del Senato ha accolto ieri, discutendosi
intorno ai mezzi più efficaci e più spediti con cui frenare i
teutonici raggiri criminosi, un suo draconiano emendamento «chiunque
abbia con parole od atti a sorreggere, a favorire la causa
dell'impero germanico o dei suoi alleati nella guerra presente, o ad
insidiare colla parola o coll'azione la causa degli Stati Uniti qui,
potrà essere condannato a venti anni di reclusione e a dieci mila
scudi di multa».
Noi vogliamo prescindere da ogni nostro dottrinale criterio che nega
all'uomo il diritto di giudicare un altro uomo; agli istituti
borghesi l'autorità di punire nell'individuo responsabilità che sono
tutte e soltanto sue; alla pena ogni e qualsiasi efficacia di emenda
o di riparazione. Vogliamo tenerci sullo stesso terreno che il
Senatore Miles Poindexter, riconoscere per un momento, per la
necessità della discussione, che le tedesche attività in questo
paese sono le più scellerate, che gli Stati Uniti sono nel pieno
diritto di difendersi dall'insidia bestiale e recidiva; à la guerre
comme à la guerre, bazza a chi tocca! Ma l'emendamento del Senatore
Poindexter – il censore non vorrà subordinare la discussione, finchè
legge non sia, ai freni della legge contro lo spionaggio – è
d'un'elasticità, di un'ampiezza che fa paura, che dovrebbe
seriamente preoccupare quanti non fanno di repubblica e di
inquisizione, di democrazia e di forca tutto un sinonimo; perchè
pone la costituzione degli Stati Uniti, la costituzione che si è
scritta col sangue dei precursori, che è costata una rivoluzione,
nella giberna del poliziotto, d'ordinario ottuso e bestiale.
L'emendamento del senatore Poindexter infatti ritiene «criminoso per
ogni individuo l'abbandonarsi in presenza di altri a parole sleali,
minacciose, profane, violenti, scurrili, beffarde, abusive o
sediziose contro il governo degli Stati Uniti, contro la sua
Costituzione, contro il suo Presidente, contro la sua bandiera,
contro l'uniforme dell'esercito e della marina, contro il bene e la
prosperità della repubblica; ad ogni discorso inoltre che infiammi
od inciti la resistenza all'autorità costituita in rapporto colla
continuazione della guerra, o persuada ed ecciti all'arresto della
produzione di ogni genere che al proseguimento della guerra sia
necessario».
Noi non rivendichiamo qui il diritto alla sguaiataggine od alla
scurrilità, non ci domandiamo neanche se richiamandoci alla
devozione degli stivali, delle bretelle, delle mutande dei legionari
della democrazia, l'emendamento Poindexter non ci reclini, mutatis
mutandis, dinnanzi al cappello di Gessler che ribellò, se non
Guglielmo Tell i villani dello Schwytz e dell'Uri più che sei secoli
addietro; e neanche se a circondare del debito rispetto la
costituzione della patria esso non trovi più saggio riparo che di
sopprimerla insieme cogli evangelii, i quali rimangono la
predicazione antiguerriera caratteristica e venerata.
Noi ci domandiamo soltanto quale pensiero sarà ancora lecito
esprimere agli individui ed alle folle, quale sfogo sarà più
consentito ai loro bisogni, alle loro ansie, ai loro strazii, quale
protesta contro l'eventuale mal governo tutt'altro che impossibile,
quali aneliti e quali voti il giorno in cui l'emendamento Poindexter
sarà incarnato in una legge qualsiasi della repubblica come lascia
agevolmente prevedere l'unanimità dei suffragi che ha riscosso in
seno alla Commissione giudiziale del Senato?
Sarà per tutti la cappa di piombo, sarà così bieca, così feroce come
non fu vista mai durante il dominio del Sant'Uffizio o degli Czars,
l'autocrazia del berroviere, la tirannide del capestro.
Avantieri un soldato si è tolta di tra i piedi con una revolverata
la donna che gli tornava di peso. Il giornale che darà notizia del
volgarissimo fatto di cronaca, il prosecutor che ne chiederà ai
giurati la condanna, impingeranno a rigor di termini nei sacrilegi
enumerati dall'emendamento Poindexter. Dinnanzi ad una delle solite
innocue Commissioni d'inchiesta, ieri, la Ditta J. A. Rich che
negozia di pesce, ammetteva d'aver realizzato durante l'ultima
carestia, mentre i nove decimi della popolazione si battono per una
crosta, l'onesto profitto del 900 per cento. Guai a chi griderà
all'usura! l'emendamento Poindexter lo manderà in galera.
Ed in quale penitenziario manderanno Teodoro Roosevelt in cui il
disinganno di non essere stato fatto generale si traduce
nell'assidua velenosa insinuazione o nell'esplosione sguaiata contro
il Presidente tre volte traditore?
Vedo di qui il sorriso arguto del Senatore Poindexter: gli
inquisitori avranno tatto, ed i giudici misura...
Lo sappiamo noi pure. Nessuno toccherà mai i grandi berrettoni della
industria, della finanza, della politica neppur se, rubando,
frodando, maledicendo, costituiscano, peggio assai di quella
tedesca, l'insidia recondita e permanente alla guerra, l'assiduo
attentato alla vita ed alla fortuna dei soldati e della patria.
L'ultimo tratto di corda è per noi, per noi è la mordacchia; ed è
qui che l'emendamento è stupido ed ha ragione il vecchio glorioso
esule del Jersey: «il pensiero sfugge a chi tenta soffocarlo;
inafferrabile a la coercizione, migra di una in altra forma. La face
irradia, spegnetela, avvolgetela di tenebre, e si farà voce; e sulla
parola non si fa la notte. Mettete il bavaglio sul labbro che parla,
e la parola si farà luce, e non s'imbavaglia la luce...».
Voi ci insaponate, onorevole Poindexter il laccio, la soglia delle
segrete repubblicane?
Tanto peggio per tutti! il pensiero si accenderà di fiamme, non sarà
più che fiamma, e l'incendio che per ogni terra cova sotto le ceneri
della immensa ruina divamperà liberatore.
23 marzo 1948).
Ammazza!
Anche voi l'avete veduto, no? l'annunzio che qui riproduciamo dal
«Boston American» di sabato 23 Marzo ultimo? e le stesse
considerazioni che a noi, su dall'animo vi saranno filtrate,
disegnandovi il più generoso sogghigno di compatimento: com'è
posticcia la morale della gente per bene! e di quante incoerenze, di
quali terribili conseguenze s'impregnano le sue contraddizioni!
Non sono passati dieci anni e, preoccupato dal dilagare immenso ed
intenso delle eresie sociali, dell'anarchismo sovratutto – che la
gente a modo, sacerdoti d'ogni chiesa, legislatori di ogni
assemblea, scribivendoli d'ogni partito non sanno raffigurare se non
nella delinquenza abbietta e nella bestialità feroce – il Congresso
sanciva con apposita legge che qui non potesse sbarcare nè trovare
asilo fuorchè in galera chiunque preconizzasse il regicidio, ne
sobillasse la estrema necessità o ne facesse, comunque, l'apologia.
Oggi, anche i giornali pinzocheri come il «Boston American» od il
«Boston Evening Record» ripetono su per giù il nostro ragionamento
consueto: «Se un malandrino intenzionato di spogliarvi della roba e
della libertà s'affacciasse di notte a la finestra ed osasse
strapparvi agli esseri adorati che cosa fareste voi?
«L'accoppereste! L'accoppereste certo; e per questo la democrazia
deve liberarsi da questo... demonio infuriato... da questo
autocratico demagogo; e, cittadini sinceri quanto fedeli, voi dovete
aiutarci ad accoppare il Kaiser o la belva di Berlino.
« Shoot him! Accoppatelo!».
È il grido che si leva da tutto il continente, dagli umili che nel
Kaiser antropoformizzano la guerra, il groviglio fosco d'interessi
per cui è precipitata avida sui casolari spogliandoli del pane e dei
figlioli, avviluppandoli d'angoscie e di stenti e di gramaglia; è il
grido ossessionante di Toddy Roosevelt che scoprendosi a Washington
il monumento a Federico il Grande, del Kaiser tesseva ieri il
panegirico come di un uomo «who has markedely added to the lustre of
his great house and his great nation, a man whodevoted his life to
the welfare of his people and who, while keeping ever ready to
defend, the right of that people has also made it evident in
enphatic fashion that he and they desire peace and friendship with
the other nations of the world»122, ed oggi lo vuole morto ad ogni
costo.
È il grido universale shoot him! ammazza! e va benissimo.
Woodrow Wilson che ha il cervello a segno, e cura gelosa delle
responsabilità del proprio ufficio ed ha, come tutti i dottrinarii,
la collera fredda e logica, fin lì non arriva, si accontenta delle
classiche forme delle vecchie interdizioni sacerdotali: riafferma la
sua fede nel popolo tedesco gli rinnova le offerte e le
assicurazioni della propria solidarietà sempre quando esso rompa il
giuramento di fedeltà che lo lega alla divina e criminosa
irresponsabilità degli Hohenzollern; ma allorchè contro la belva di
Berlino scroscia dalle tribune più ortodosse il sacrilego: ammazza!
ai suoi censori comanda l'indulgenza che per noi non ebbe mai.
Eppure se tra noi e quegli altri è una differenza, questa milita a
nostro favore, indubbiamente.
Noi riconosciamo – e non sapremmo nasconderlo oggi perchè la
reazione imperversa – che in certi momenti della storia, in
determinati periodi di maturazione rivoluzionaria, giovi al trionfo
de l'ordine nuovo l'audacia che il vecchio disorienti,
decapitandolo; e ci domandiamo anche oggi curiosi per quali ragioni
inafferrabili nè l'insurrezione giacobina del Kerenski, nè quella
socialista del Lenin che pur ebbe severità eccessive contro due
ottuagenarii di cui nessuno metterà in dubbio mai nè la schiettezza
della fede, nè la nobiltà della vita, il Kropotkine e la Breshkosky
– non abbiano voluto sbarazzarsi immediatamente dello Czar intorno a
cui si riannoda la trama delle mene e delle libidini restauratrici,
e gli abbian fatto invece una rendita; e siamo perfettamente
d'accordo con quelli che suppongono nella augurata e violenta
soppressione del Kaiser, nel disorientamento subitaneo degli
elementi conservatori, la favilla che precipiterebbe l'insurrezione
delle masse stanche del giogo e più del tributo orrendo che le
dissangua.
Ma oltrechè nell'azione nostra il regicidio è semplice episodio – e
dei meno caratteristici poichè da Jacques Clement a Felice Orsini,
da Barsanti a Czolgoz il regicidio può essere dei gesuiti e dei
patriotti, dei repubblicani e dei socialisti indifferentemente – noi
abbiamo sempre avuto al riguardo un convincimento preciso
immutabile: che atti densi di tanta responsabilità e di conseguenze
capitali, si compiono quando occasioni e mezzi sono a portata di
mano; che è lecito rallegrarsene quando il successo corona
l'ardimento; ma che non si consigliano mai all'altrui.
Giuocare all'eroismo colla pelle degli altri non è stato mai nella
nostra morale ed ancora meno nelle consuetudini libertarie.
Ora, quali che abbiano ad essere le conseguenze di questo aperto
incitamento al regicidio, conclamato da un centinaio di grandi
giornali fra molti milioni di lettori che esacerba la più terribile
delle prove, noi non oseremmo prevedere, nè in alcun modo dolerci;
ma è innegabile che comporta una deduzione ed una generalizzazione
le quali sorpassano l'intento dei sobbillatori.
Quando gridano: accoppate il Kaiser che vi minaccia nella casa e nei
figli e nel pane come il malandrino che la notte approccia a
svaligiarvi, a strapparvi agli esseri cari e farli morire di
spavento d'orrore, di fame, non vi levano essi armati per l'estrema
difesa della vita, del diritto, degli affetti, delle gioie vostre
contro la violenza e la rapina che hanno oggi, è vero, nel Kaiser e
nei suoi ulani l'espressione più truce, ma che potrebbero anche
celarsi e voi potreste, raffigurare in minaccie od in tirannidi meno
fracassone ma altrettanto insidiose ed esose?
E se questa minaccia ravvisassero domani le madri nel governo che
strappa ad esse i figlioli? i lavoratori nel padrone che ladro
estorce ad essi il sudore santo ed il frutto dell'irrisa fatica? ed
i semplici nei capitalisti grandi e piccini, nel borsaiolo
miliardario o nel salumaio taccagno che sulla guerra e sulle sue
universali estorsioni coniano l'iperbolico profitto? e su dai
fondachi, dalle mine, dai cantieri, dai solchi, in piazza rompessero
armati contro le diverse forme della frode e della violenza
conserte? e ruggissero il «shoot him!» l'ammazza! ammazza! che oggi
si conclama contro il Kaiser, contro uno dei tanti e varii simboli
della tirannide e della bestialità e della desolazione, dove
andrebbero a nascondersi mordendosi le dita i pennaioli ben pensanti
del «Boston American» e dell'«Evening Record»?
È tuttavia l'illazione inevitabile delle loro premesse, è quello che
potrebbe accadere domani, ed, in tal caso, ci darà una volta tanto
ragione anche il censore: a levar le turbe contro l'ordine
costituito non saremo stati noi, ma i fanatici del patriottardume
guerraiolo acciecati fino a dimenticare che sulle fondamentali
ineguaglianze l'ordine mal si asside quando si scalzi il principio
d'autorità che ne è la base angolare.
— Ammazza, ammazza! È il vangelo dell'ora, il domani ne rimbalzerà
da cento patrie in fiamme l'eco dannata.
(23 marzo 1918).
Cercando una via
(Con buona pace del Censore qui si parla di guerra colle inevitabili
allusioni al proletariato dei vari paesi che essa impegna, ma senza
un riferimento ai rispettivi governi che la legge contempla ma non
suscitano in noi il più lontano interesse. Tanto per vero, ed a
cansarci noie reciproche).
I.
La situazione.
Il quarto anno della guerra precipita, e se la vittoria, come la
sconfitta, di quello o di quello dei due gruppi belligeranti sono
egualmente inaccessibili ad ogni seria previsione, terso d'ogni
dubbio emerge un risultato. Mentre le ragioni ideali che della
grande guerra sono state il pretesto si allontanano così smarrite e
così pallide che nessuno osa più rievocarle, le ragioni materiali
che l'hanno provocata, e l'arroventano sono state da ogni gesto
della guerra, lungo la Somme ed in Palestina, con tanta pertinacia
ribadite che non si contestano più neanche da coloro che quattro
anni addietro a nasconderle impegnavano i sofismi più cauti e più
avveduti.
È oggi pacifico che il mondo è su tutti i continenti in armi per
decidere se la egemonia del mare e dei mercati internazionali debba
essere della Germania o dell'Inghilterra.
Se lo sviluppo industriale della Germania non deve essere il suo
proprio castigo, la Germania deve aver libere le vie del mare,
tramite indispensabile alle colonie proprie e d'altrui: ed è in armi
per aprirsele nell'Atlantico, nel Mediterraneo, nel Pacifico.
Se questa libertà del mare, se l'accesso ai grandi mercati del mondo
si debbono alla Germania consentire, l'Union Jack deve ammainare,
deve l'Inghilterra insieme alla egemonia abdicare ai frutti di
quattro secoli di conquiste, di politica avvedutezza, di pertinacia
e di sapienza colonizzatrice: ed è fino all'ultimo soldo, fino
all'ultimo uomo, in armi per difenderli.
Il duello è mortale.
* * *
Qui lo riaffacciamo nei suoi termini, non per cogliervi la sanzione,
amara, del presentimento che or sono quattro anni, sfidando ire e
scherni d'arfasatti e di ciancioni; abbiamo tra i primi enunciato,
ma per trarne una deduzione preliminare che susciterà ancora la
protesta degli ingenui ed il sogghigno degli scaltri, ma che si
avvalora essa pure di ogni gesto della guerra e di tutti gli aspetti
della situazione.
La quale è oggi – dopo quattro anni di scellerate prodigalità in cui
si sono giuocati venti milioni di vite e qualche,centinaio di
miliardi – la stessa che nell'Agosto del 1914, quando il primo colpo
di cannone echeggiò malaugurato.
Non si è fatto un passo verso la soluzione attesa dall'una parte o
dall'altra.
E questo non vuol dire soltanto che nel baratro della guerra venti
milioni di giovani, cento miliardi d'onesto lavoro umano si sono
precipitati indarno – che è pure conseguenza degna di qualche
considerazione – ma che tra le parti non è transazione possibile.
Se intorno ai due colossi i varii paesi finitimi avessero saputo
mantenere l'atteggiamento di semplici spettatori, per non
intervenire che dopo, al momento decisivo, incolumi e concordi fra
gli avversarii esausti, il compromesso equo – se tra lupi che si
sbranano per la preda si possa parlare di equità – si sarebbe forse
trovato nell'equilibrio delle due forze maggiori, senza danno
eccessivo pei collaterali meno gagliardi, ma numerosi e consociati,
e le speranze di una pace qualsiasi non sarebbero state fino a
questo punto deluse.
Ma solidarietà e dipendenze che nella proprietaria organizzazione
sociale del nostro beato mondo borghese sono irrecusabili e vitali,
non mi permettono di affermare, se la neutralità, la benevola
aspettativa, i conciliativi uffici delle conserte potenze minori,
sarebbero stati possibili e fortunati; ed è d'altra parte ozioso il
ricercarlo ora. In fatto, le residue potenze dei varii continenti si
sono invassallate alla Germania od all'Inghilterra col risultato che
tutti sanno e di cui è la testimonianza desolata nella Francia senza
un uomo, nell'Italia e nell'Austria senza un soldo, nella Rumania,
nella Serbia, nel Montenegro cancellati dalla carta geografica,
nella Russia intedescata per settecento ottantamila chilometri
quadrati della sua superficie, in cinquantasei milioni della sua
popolazione totale; col risultato ben peggiore che nessuna è oggi in
istato di prevedere quando e come andrà a finire.
Perchè io non so nè immagino che cosa dica agli altri la sanguinosa
vanità dei quattro anni revoluti: chi presente l'epilogo nelle
attuali fazioni ciclopiche sul fronte occidentale, mentre un
autorevole tedesco affermava ieri colla più schietta convinzione che
la guerra vera è cominciata soltanto la scorsa settimana: chi più
saggio, si vede innanzi altri due o tre anni di olocausti,
conchiudendo gli uni con isproporzionato timore, alla vittoria della
Germania, sperando gli altri con maggiore apparenza di fondamento
nella finale vittoria degli alleati.
A me dice semplicemente che la guerra non finirà più, che non finirà
mai, che la pace non verrà nè dalla vittoria delle armi, nè dagli
avvolgimenti della diplomazia.
Dalle armi, no: La Germania che coi suoi alleati ha messo insieme
nell'Agosto del 1914 quindici milioni di guerrieri non poteva
sperare di battere l'Intesa che glie ne schierava di fronte ventidue
milioni; e se è arrivata a togliersi d'attorno Rumeni e Serbi,
Montenegrini e Russi, non ha potuto rompere mai il cerchio di ferro
che la soffoca, il blocco che l'affama: nè è da temere che vi
arrivi.
Le potenze dell'Intesa, dall'altra, colla fonte inesauribile delle
risorse più varie, con un esercito che è d'un terzo almeno superiore
a quello del nemico, non sono fino ad oggi riuscite a
somministrargli una sconfitta decisiva; e se è assurdo sperare nel
trionfo della Germania – che quanto più vince, quanto più estende le
sue conquiste tanto più è costretta a frazionare, a disperdere le
proprie forze – che, per quanto sembri paradossale, ha nelle sue
vittorie parziali le condizioni della propria disfatta; sperare
nella vittoria dell'Intesa intorno alla quale si spegne ogni giorno
un alleato, nella cui compagine, dalle Indie, al Canadà,
all'Irlanda, si apre tutti i giorni una crepa, mi sembra altrettanto
temerario.
Dai compromessi diplomatici neanche: Chi conosce pure
superficialmente la storia d'Inghilterra, sa che dove essa avventi
il morso non si ritrae se non vi strappa il suo boccone, se dai
piedi con Drake o con Lancaster, con Wellington, con Napier con
Gordon o con Kitchener, nel canale di San Giorgio o alle Indie, a
Waterloo, in Etiopia, a Fashoda od al Transvaal, non si toglie i
concorrenti pericolosi, Filippo II o Aurengzeib, Napoleone, Teodoro,
Marchand o Devett; se non ne piglia il posto.
Figuratevi se può cedere; se cede oggi che sono in giuoco la sua
esistenza, tutte le sue fortune!
La guerra non finirà più! È ai di fuori, al disopra degli eserciti
in campo e degli statisti in agguato, la forza che alla impossibile
situazione creata dalla guerra può schiudere una via d'uscita.
Bisogna rintracciare questa forza e questa via; e noi ci proveremo
al numero venturo modestamente.
(30 marzo 1918).
Cercando una via
II.
La borghesia.
Abbiamo conchiuso l'articolo precedente con una constatazione amara:
d'un'equa transazione non è suscettibile l'acerbo antagonismo degli
interessi che la guerra hanno scatenato, e ravvivano in luogo di
estenuare le carneficine paradossali che ad ogni sorso – come in
queste tre settimane dell'Aprile – si bevono il sangue di un milione
di gagliardi.
Alle nostre ragioni, buone o tristi, gli uomini di stato delle varie
nazioni belligeranti, dall'una parte e dell'altra, portano la
testimonianza ineccepibile che, più o meno aperta, voi trovate nei
discorsi del Lloyd George, del Clemenceau, del Wilson, del Kaiser o
del Sonnino: «qualsiasi pace senza vittoria, senza la disfatta
completa del nemico, non sarebbe che un armistizio».
A chi consideri l'enormità dell'ultima avanzata tedesca, ed i tre
miliardi di dollari del prestito sottoscritto ieri in quel paese,
che non denunciano per ora l'esaurimento della Germania: e in
concorrenza, la superiorità numerica degli eserciti alleati e quella
anche più decisiva delle risorse finanziarie ed economiche, che ne
escludono ogni possibilità di sconfitta, una sola deduzione
s'affaccia logica e ragionevole: la borghesia non ha più mezzo di
ritrarsi, di arrestarsi su la china per cui da quattr'anni
precipita, neanche lo volesse; neanche se in fondo sia il baratro
senza speranza e senza ritorno; la borghesia non ne ha forse neanche
la voglia.
In fatto c'è borghesia e borghesia.
C'è la borghesia. essenziale e reale che ha nel pugno esoso tutte le
fonti, le arterie ed i nervi, il sangue e la vita del mondo, il
capitalismo; e c'è la borghesia, puramente simbolica,
rappresentativa, quella che dagli uscieri di pretura fino ai re da
corona – unti del diritto divino o consacrati dal suffragio
universale – ne portano le livree e le insegne, domestici o
palafranieri, gendarmi e simboli.
Quella è la borghesia che in ogni guerra disastrosa o vittoriosa, fa
il ventre e la borsa. Pigliate il più miserabile dei grandi paesi in
guerra, pigliate l'Italia da cui vi giungono ad ogni corriere
pianti, gemiti, strazii che vi frugano l'anima perchè son del grembo
da cui siete nati, dei vecchi che vi agguerrirono al golgota del
lavoro, dei nati a cui vi strapparono le sue raffiche indeprecabili;
e ditemi se c'è sulla terra un paese, un popolo più miserando, più
suppliziato del nostro in questi anni di passione.
Leggete di contro le rassegne finanziarie sui giornali più cauti,
più rugiadosi, più autorevoli. Pigliatevi l'«Illustrazione Italiana»
a mo' d'esempio, e non vi trovate più che tripudii e brindisi: «dopo
la breve depressione del Novembre in seguito ai dolorosi fatti di
Caporetto... la fiducia, le valutazioni della rendita e dei valori
ripresero moto ascendente... le contrattazioni di titoli si fecero
più attive... il denaro fu ed è abbondante. La Banca d'Italia
conferma il fatto colla riduzione del tasso di sconto al 5 per
cento».
«Il rialzo dei titoli... è giustificato dalla brillante prosperità
delle nostre industrie... Le aziende siderurgiche attraversano un
periodo d'eccezionale prosperità. Queste società distribuiranno il
massimo dividendo consentito dal decreto luogotenenziale, mettendo
da parte riserve rilevanti».
La cuccagna! la cuccagna della guerra, la cuccagna di cui la pace
segnerebbe il tracollo.
Come la potrebbero volere?
Per quell'altra borghesia, quella puramente decorativa, è diverso
paio di maniche. Sconta in ogni guerra che conchiuda alla disfatta –
od alla vittoria, se costi soverchio – i delitti dei padroni ed i
suoi proprii: domandatene al primo od al terzo Bonaparte, a Carlo
Alberto di Carignano od a Nicola di Romanoff. Si capisce che a
tenersi in soglio, cimenti senza sforzo umiliazioni, taglie e
vergogna, ed accarezzi dopo il salasso le provvide tregue e le
convalescenze della pace.
Carlo I d'Ausburgo telegrafava la settimana scorsa al cugino
Guglielmone che da Amiens ad Arras i suoi cannoni smentivano nel
modo più categorico le sue presunte nostalgie di pace.
In quel telegramma spaccone è soltanto la paura delle sculacciate.
Tutte le cancellerie d'Europa riboccano degli accattonaggi dei quali
le ha rimpinzate quello sventurato mezzano a cui egli ha dato avanti
eri gli otto giorni, il Conte Czernin; in Romania le cose sono
andate anche peggio, e se di là dalle Giulie buttassero ai
macchiavelli della patria un osso, un pretesto qualsiasi a ritrarsi
ed a mutar casacca, bah! che Gennariello vi si butterebbe addosso
con tutti gli artigli, a quattro ganascie.
Questa non isdegnerebbe forse la pace; non si sarebbe forse neanche
ingaggiata alla guerra; ma contro i padroni che cosa contano i
domestici?
Tra la borghesia che la guerra vuole perchè ci miete, e la borghesia
che a salvarsi si adagierebbe comunque alla pace, la situazione
rimane immutata, e la sola conclusione è l'assurdo: la guerra allo
stato permanente. E poichè destino dell'uomo non può essere il
suicidio, ma è la vita fervida, sempre più alta ed intensa, la via
della salvezza è altrove, è fuori della borghesia, contro la
borghesia; non può essere che nel proletariato.
Conosco l'antifona dei superuomini: il proletariato è plebe
irredimibile, è lo strame di cui si concimano tutte le devozioni, le
superstizioni, le abbiezioni; e colle sue urlanti idrofobie
misoneistiche, alle calcagna di tutti i novatori, alle calcagna di
Giordano Bruno colla torcia del rogo, e su Carlo Pisacane colla
roncola borbonica, e col linciaggio, colla pece e colla corda sugli
antimilitaristi, sugli antipatriotti, qui e dovunque, anche oggi,
nel nome della coltura, nel nome della democrazia, è il Leviathan
mostruoso ed immondo che soffoca nelle spire inesorate, nel nome di
dio, quanto di grande, di generoso, di indocile sfavilla dall'umana
creta redenta; la mala bestia che dà la groppa al basto ed alle
nerbate, e non merita più nè meglio.
Non è qui il caso di riaccendere una discussione che si è le mille
volte, inutilmente, esaurita; nè di opporre alla esecrazione
altrettanto iperbolica l'apologia. Neanche per chiedere ai
vituperatori della folla se le sovrastino d'un pollice; se abbiano
men grave su gli omeri il fardello delle superstizioni; se queste,
per essere diversamente orientate od espresse, non siano egualmente
ottuse e grottesche; se coloro i quali non le testimoniarono mai che
disprezzo, non le persuasero mai che la domesticità e la
taccagneria, e le negarono sempre una carezza, un raggio di luce,
siano i meglio venuti a chiederle il miracolo della sagacia
dell'ardimento dell'eroismo.
Noi non sappiamo divinizzare il proletariato: ha troppi lividi ai
polsi, ai garretti, su le reni; troppi calli su le mani e su la
cervice, troppo smorta di rassegnazioni secolari la pupilla perchè
sappiamo cogliervi lampeggiante di superbi orgogli la prometea
favilla del nume; ma è grande immenso, titanico fuor di ogni dubbio,
oltre ogni contrasto, se da millennii si reca nel grembo il tesoro
di forza che è la vita degli esseri, se questo destino ha sorretto
dai primi cimenti ardui alla sicurezza illuminata e gloriosa di cui
oggi si letifica. se quando intravide pel fugace spiraglio, oltre le
tenebre, i corruschi cieli della libertà seppe dirizzarvi delle
braccia ciclopiche il timone della nuova storia: e sarebbe idiota
fargli colpa se pei suoi oceani si sia smarrito e dell'Atlantide le
cento volte raggiunta abbia ai furbi cedute le spiaggie e le
benedizioni.
Qui nella realtà approssimativa si vogliono precisare fatti ed
eventi; e se tra noi è pacifico che la borghesia non può o non vuole
la tregua; che non nel suo nome si riconcilierà il mondo devastato
ed esangue; non ci rimane altra speranza di salvezza che in dio o
nel proletariato, foss'egli brutto quanto il suo creatore putativo.
E noi vedremo al prossimo numero se e fin dove ed a quali patti
possa la nostra fede rifugiarsi nel proletariato.
(6 aprile 1918).
Note Sovversive
STATI UNITI. – «I believe, that ali German literature and every
thing pertaining to German thought and culture should be gathered
together in the various cities and towns throughout the country, and
burned in huge public bonfires».
Dare alle fiamme dal Faust di Goethe ai Masnadieri dello Schiller
alle storie del Mommsen, ai quadri del Durero, agli spartiti del
Wagner, ai tesori scientifici del Wirchow del Kock, dell'Haekel,
tutto quello che è nelle sue manifestazioni più luminose il pensiero
tedesco, non c'è via migliore secondo John F. Fitzgerald «to reach
the hearts and consciences of the german people and let them know
just how they are despised123.
Noi non sapremmo tributare al popolo tedesco, che al giogo d'un
criminale paranoico e d'uno strupo d'immondi vampiri si rassegna
perchè quello è nato fracido ma incoronato, e questi come noi nudi
hanno trovato in culla l'appannaggio dei non sudati milioni,
maggiore simpatia che ad ogni altro popolo della terra, il nostro
compreso, che sulle Dolomiti si offre in olocausto ad una savoiarda
carogna che non si batte, ad una banda di ladri che altre
patriottiche febbri non ha se non di coniar baiocchi col sangue
nostro sul tradimento e la perduellione.
Di là dal Reno, di quà dalle Alpi o dal mare, nel nome di Guglielmo
d'Hohenzollern, di Carlo d'Ausburgo, di Giorgio d'Hannover, di
Vittorino di Savoia o di Rockefeller da Ludlow, la marmaglia non si
batte che di contro cuore, per forza, per la paura, della galera o
del peggio, stupidamente, indegna dell'inestinguibile odio come
dell'indomato amore che suscitano e mietono uguale nei due campi i
ribelli d'ogni credo e d'ogni tirannide; degna tutto al più di
misericordia e di pietà.
Così non sogniamo le vendette di Erostrato, la distruzione della
verità o della bellezza, delle pinacoteche e degli Atenei che è nel
delirio degli unni imperiali a Lovanio, e dei suoi fitzgeraldiani
concorrenti d'America: perchè le conquiste del pensiero sono così
laboriose, così grandi, così superiori al tributo effimero e
contingente della stirpe, che sono umane avanti di essere greche od
italiche o franche o tedesche; e negarle, violarle, annichilirle è
vandalismo che ricade su tutti, amputazione di cui sanguina ogni
cuore; ed Elia Reclus, che imperversando la Comune, si è guadagnato
dai versagliesi una condanna capitale per avere salvato i capilavori
del Louvre e del Lussemburgo alla tormenta, questa grandezza, questa
universalità del patrimonio scientifico ed estetico delle varie
civiltà ha lucidamente ed eroicamente inteso: perchè il vandalismo
non raggiungerebbe neanche il suo fine.
Andate a dire ai cafoni settentrionali o meridionali della patria,
ai pescatori di Bretagna o della Florida, ai mandriani della Scozia,
dei Pirenei, del Kansas o dell'Hymalaya, che hanno distrutte le
Loggie del Vaticano, la Biblioteca Nazionale o l'Osservatorio di
Greenwich, dove non sono penetrati mai, dove si sentirebbero
smarriti, spaesati, incuriosi, e vi risponderanno con una scrollata
di spalle, disposti a vendervi per una fetta di castagnaccio o di
polenta il Partenone, la Bibbia Mazarina o la Venere di Milo.
Credete che siano più furbi i brandeburghesi di Guglielmone, gli
slovacchi od i croati di Carlo I?
Curiosa democrazia ad ogni modo questa che s'acconcia ad
interpretazioni così contradditorie!
Lloyd George che non risparmia in alcuna occasione il Kaiser
abbietto «non si permette una parola contro il popolo tedesco che è
un grande popolo il quale ha rare virtù di braccio e di cuore anche
se sia stato educato ad una falsa idea di civiltà».
Theodore Roosevelt – che è una zucca vuota ed un ciarlatano da
fiera, ma che aveva alla Casa Bianca qualcuno che gli abbozzava, e
gli rivedeva i discorsi – si gloriava che i migliori successi della
guerra rivoluzionaria andassero dovuti a Steuben e ad Erkimer, due
tedeschi, che sia stato un tedesco il primo presidente della Camera
Americana, Muklemberg; confortandosi che «there is no student of our
national conditions who has failed to appreciate what an unvaluable
element in our composite stock the German is»124.
Ancora più esplicito Woodrow Wilson noi suo messaggio del 2 Aprile
1917: «We have no quarrel with the german people. We have no feeling
toward them but one of sympathy and friendship... We are glad... to
fight thus for the ultimate peace of the world and for the
liberation of its peoples, the German people included»125.
Da una parte, democrazia in armi contro il diritto divino, contro
l'autocrazia, contro le loro irresponsabilità e calamità, fino alla
liberazione dello stesso... popolo tedesco; la democrazia che
governa, ed è costretta alla moderazione ed alle cautele, del Lloyd
George e del Wilson.
Dall'altra la democrazia che non ha pel Kaiser altro sentimento
che... dell'invidia, ma delira a subbissare il popolo tedesco
nell'onta e nello scherno, a cancellarne dal mondo i segni e la
memoria, a volerne arsa la gloriosa messe del pensiero e del
sentimento, come già, milletrecento anni addietro in Alessandria il
califfo Omar: la democrazia sbrigliata d'ogni freno e d'ogni
maschera, la democrazia dei Knights of Columbus e del Fitzgerald.
Omar, se io non ho dimenticato il mio arabo completamente, vuol dire
somaro, e del plagio e della parentela nè il Fitzgerald nè i
Cavalieri di Colombo hanno ad inorgoglire.
Quanto alle due democrazie s'allenano per diverse prode allo stesso
arrembaggio che nel sacco riconcilia l'ipocrisia dei farisei e
l'arroganza dei pubblicani: e pantalone paga per questi e quelli.
GERMANIA. – Quanto alla liberazione del popolo tedesco noi
persistiamo nel credere e nello sperare, a dispetto d'ogni ingrato
pronostico, che esso vi giungerà di per sè, e che ove da sè non vi
giunga non sarà libero mai.
Ha la testa, dura, quadrata; ha, pertinace fino a parere insanabile,
dei numi la paura o la devozione che gli ultimi trionfi militari
cimentano di prove incredibili, superumane, se è vero che tra la
Somme ed il Lys è rimasto in queste due settimane un milione di
tedeschi. Ma a precipitare nell'imo degli abissi bisogna attingere
della follia la vetta e le vertigini, ci insegnano vicende e
sorprese dell'insurrezione moscovita..
Al principio della guerra ciascuno di noi, dopo le defezioni rosse
del proletariato occidentale, sindacalista in Francia, fabianista in
Inghilterra, ermafrodita in Italia, presupponeva ad ogni efficace
impeto rivoluzionario sul vecchio continente la necessità
preliminare della rivolta in Germania. È venuta invece la
rivoluzione in Russia, raggiungendo, dopo qualche incertezza
girondina ed effimera, aspetti fondamentalmente sovvertitori. Il
presupposto della insurrezione tedesca non era dunque la preliminare
necessità su cui noi tutti contavamo, anche se oggi, nessuno se lo
nasconde o lo nega, un contraccolpo che venisse da Amburgo, da
Brema, da Essen o da Berlino, potrebbe avere conseguenze universali
e decisive.
Gli ammutinamenti gravissimi che il 10 Aprile sono scoppiati a
Limburg nel campo di Beverloo, in cui ufficiali d'ogni grado sono
stati passati per le armi dai soldati prussiani, sono scarsa
promessa ai voti ed alle aspettazioni dell'anima rivoluzionaria; non
più che una tenue scia di fumo su lo sfondo tetro dei cieli
sconvolti, ma non è solitario episodio, ma dove c'è fumo c'è fiamma,
e sotto le ceneri dell'immensa rovina la favilla; ed il vento soffia
a l'uragano: nil disperandum! Vedremo il Kaiser a Varenne, lo vedrem
pendere dalla forca, insieme coi suoi cugini serenissimi dall'una e
dall'altra parte delle Alpi del Reno o del mare!
ITALIA. – La patria affoga nella vergogna! Magistrature politiche e
giudiziarie, tribunali ordinarii e commissioni speciali, la stampa
di ogni partito, sono affaccendati a scovare, ad ammanettare, a
deplorare una centuria di cavalieri, di commendatori italianissimi,
che hanno tratto baiocchi a milioni vendendo alle fabbriche tedesche
e austriache di munizioni quello che alla patria in bolletta hanno
cordialmente negato. E tra i milionarii commendatori che negli
agguati di borsa e nei contrabbandi a la frontiera conian l'usura
nel tradimento su la strage dei nostri poveri figlioli, madri
d'Italia! sono gli arditi dell'«Idea Nazionale», il giornale
patriottardo guerraiolo oltranzista dei Medici, dei Federzori, dei
Borgese che reclamano ad ogni pasto una costoletta del Kaiser, e
nell'attesa... s'ingrassano della sua biada.
Alla vergogna non è che un conforto: un decreto di Pasqualino
vice-re, in data d'avantieri autorizza i sudditi a mangiar carne tre
giorni della settimana!
Che cuore, quei nostri Savoia!
Non è Madama Reale che alle plebi torinesi agonizzanti d'inedia
consigliava di rassegnarsi al pane e formaggio?
Ed oggi è questo suo lontano vicereale nipote che ai malnutriti
della terza Italia, i quali non trovan la croce d'un quattrino a
comprarsi le tre oncie di pasta della razione, concede il permesso
di mangiare, tre volte la settimana, la bistecca che costa una
quindicina di franchi al chilo!
Che razza di condizione è dunque la nostra se magnanimità ed
inibizioni vi passano su colla stessa indifferenza?
La chiesa ci comanda di non mangiar carne il venerdì ed il sabato, e
noi esageriamo nell'ubbidienza fino a non assaggiarla mai nei
trecentosessantacinque giorni dell'anno, e trecentosessantasei
quando è bisestile; Pasqualino di Savoia ci autorizza a mangiar
bistecche tre volte la settimana e noi facciamo dei suoi decreti
vicereali lo stesso conto che delle proibizioni della Chiesa:
persistiamo a non mangiar carne nè quei tre giorni lì, nè gli altri,
nè mai; anzi in Italia hanno da un pezzo rinunciato anche al
contorno e non fanno altre scorpacciate che di... entusiasmi
tricolori e di speranze trionfali.
E se vogliono un ricostituente dovranno una buona volta rassegnarsi.
Invece d'ingrassar vitelli e porci e tacchini per portarli al
curato, al sindaco, al sór padrone, dovranno farsi quind'innanzi un
buon brodo, mangiarsene le polpe delicate, leccarsene le dita e
buttare l'osso ai signori che per quel che fanno è anche troppo. Ci
guadagneranno in salute, rizzeranno la gobba, faranno lo stomaco per
la libertà indigesta, risparmieranno al vice re il fastidio dei
decreti ed ai vescovi quello della dispensa, risparmieranno alla
lingua di Dante l'ultimo oltraggio perchè Pasqualino di Savoia non è
soltanto un idiota, ma un analfabeta che a mettere insieme quattro
parole di un decreto anarchizza la grammatica tutta quanta.
FRANCIA. – Ieri 16 corrente hanno fucilato a Vincennes Bolo Pasha,
che il 14 Febbraio scorso era stato condannato a morte per alto
tradimento, e di cui la Suprema Corte di Cassazione aveva respinto
il ricorso due settimane fa. L'intrigo l'aveva fatto, l'intrigo l'ha
mandato in frantumi.
Paul Bolo era nato a Marsiglia. Aveva studiato diritto, ma s'era fin
dai primi anni accorto che la fortuna si coglie per le vie traverse.
E vi si era buttato, mezzano d'ogni intrapresa più ardimentosa e più
losca, buscandosi qualche condanna per truffa. Vinaio s'era fatto
qualche soldo, s'era messo in vista; s'è sposato ad una vedova
stagionata, bacata, milionaria, e passato in Egitto s'era posto agli
ordini del kedive, sensale di prestiti usurai e di baratterie
innominabili tra cui aveva racimolalo il titolo onorifico e gratuito
di Pasha. Quando il kedive dovette far fagotto in Isvizzera, lo
seguì agli stipendii della Germania che mise qualche dozzina di
milioni a sua disposizione perchè in Francia ed in America,
comprando giornali, deputati e lobbysti, servisse alla causa
tedesca. A Parigi comprò il «Journal», ed il senatore Humbert, qui a
New York trafficò col Morgan, lubrificò l'Hearst, raccattò la solita
ciurma di rabagas venduti e da vendere.
E di qui – dove i suoi complici beneficiano indisturbati della
impunità – sono partite le prime denuncie. Tornato in Francia cadde
nelle zanne della tigre, del Clemenceau, che ieri l'ha consegnato al
pelottone d'esecuzione.
Un episodio banale nelle cronache della guerra; che ci segnalano in
Francia più serio pericolo, un affare assai più complicato,
l'affaire de St. Etienne.
St. Etienne è uno dei centri industriali più fervidi della Francia,
ed a St. Etienne – se non sia ancora uno dei tanti loschi maneggi
che Georges Clemenceau ha imparato del secondo impero – i lavoratori
congiurerebbero, con una finezza che non offre alle inquisizioni del
governo se non un magro addentellato, od a finire tragicamente la
guerra come ha fatto in Russia il proletariato, od a convertirne
l'epilogo eventuale, la vittoria o la disfatta, nelle estreme
riscosse della rivoluzione sociale.
Clemenceau è capace di tutto sempre che non sia un'azione pulita, e
potrebbe essere questo soltanto un altro dei suoi raggiri abusati ad
imperversare contro chiunque gli sbarri il cammino, sul proletariato
che egli odia ferocemente. Ed è il giudizio che dell'affaire de St.
Etienne hanno espresso i giornali socialisti. Ma se è vero che a
dispetto dei rigori delle leggi speciali e delle occhiute vigilanze
dei birri, i libertari di St. Etienne hanno saputo tenersi in
assidua ed intima corrispondenza coi soldati al fronte, che hanno
saputo provvedersi di armi e di munizioni, di mitragliatrici
sopratutto, che il governo non è riuscito e dispera oramai di
scovare, v'è da trarne un conforto: coloro che contro la guerra
lavorano alla liberazione del proletariato internazionale non sono
soli, e più che di affliggersi e di disperare hanno ragione ed
incitamento a raddoppiare di volontà e di tenacia, intanto che
matura l'ora aspettata ed ineluttabile del coraggio e della prova.
(6 aprile 1918).
Maggio scellerato
Albeggia sui cieli foschi, su la terra devastata, riarsa, maledetto;
librate su l'orizzonte infinito rugiade livide di pianto, di sangue,
a fecondar l'acre semenza dell'odio nella messe bieca della
esecrazione e della disperazione.
* * *
Non riapparve mai che tra nimbi corruschi di tenebra e di fiamma, su
le forche, su le stragi, sull'ardimento degli annunziatori, sul
temerario impeto delle avanguardie, sul risveglio insolito delle
turbe, su la protervia omicida dei satrapi, l'aurora del Maggio, a
Chicago, a Fourmies, in Catalogna ed in Lombardia, a Roma, a
Bruxelles ad Amburgo. Ma spezzata la croce su cui nel Novembre
sognava il boia d'averlo confitto per sempre, l'anelito che nello
scempio d'Haymarket aveva ruggito l'universa liberazione delle
plebi, volle la sua rivincita, costrinse su la gogna le pollute
magistrature domestiche, alle gioie ed alle battaglie
dell'emancipazione trasse i superstiti, cinse dell'aureola i
martiri, e, valicato l'oceano, martoriato a Fourmies od in Santa
Croce di Gerusalemme, affondò l'abisso per cui non è vincolo nè
tregua fra gli straccioni che insorgono contro la schiavitù, la
superstizione, la miseria, ed i servi che dei padroni vestono la
livrea, gli odii, le fortune e le vendette; segnò di ossa imbiancate
il cammino, segnò i termini: di qua per la liberazione, la
giustizia, la gioia, di là chiunque sia pel privilegio e le ritorte
e l'abbiezione. Ritto in armi a Barcellona ed a Milano, gridò
sfolgorante d'audacia e di rivolta, in conspetto dei numi, che lungi
dallo sbarrare alle ascensioni, ai liberi destini del genere umano
la vetta radiosa, le folgori di dio, le persecuzioni del re, le
rabbie dei vampiri e la bestialità dei manigoldi, ne riaccendono il
fervore, ne propiziano, ne affrettano i trionfi.
* * *
La fede sopravviveva. Temprata dei supplizii coscriveva gagliardi ai
nuovi cimenti. Allora che ai primi baci del sole si risvegliava la
terra, schiudendo al suo raggio fecondatore la generosa matrice, su
dagli inferni sociali, dalle mine gelide, dai fondachi tetri, dai
cantieri ansanti, dai solchi ingrati, dalle officine tormentose
saliano, ad ogni Maggio più fitti e più decisi, efebi e vergini,
riannodando su la bara dei caduti, su la culla degli eredi il
proposito ed il voto di morir combattendo se di vivere lavorando non
fosse consentito che a prezzo di servitù e d'irrisione.
Ieri: il Maggio proletario che tenne fede alle origini contro le
masturbazioni arruffianate di mali pastori e la sconcia baldoria
dell'armento avvinazzato, rassegna ingenua forse, certo non vile, ad
ogni primavera delle cresciute energie e degli agguerriti propositi
anelanti a ricomporre sulle fondamentali identità degli interessi
comuni la solidarietà rivoluzionaria dell'azione senza di cui il
riscatto dimora la più inaccessibile delle utopie.
* * *
Ieri, quando giovinezze entusiasmi olocausti si offrivano al più
santo dei propositi, al più generoso degli ideali: cancellare dalla
terra madre i segni, dagli animi riconciliati i miseri orgogli della
breve patria che ci divide nemici; comporre tra i nati di donna
l'antico dissidio: per cui su la cervice di tutti si aggravò nei
millennii esoso il giogo della dolorante schiavitù.
Oggi, oggi alla devastazione infinita che su le violate frontiere
addensa, coi ruderi di ogni civile memoria di bellezza e di
grandezza, l'ossame di dieci milioni di cadaveri sovrasta più
desolata rovina, e più sinistra ascende nei lividi cieli del Maggio
l'aurora sanguigna.
Nel carnaio immane agonizza la fede; ottusi gladiatori, sotto il
pollice, verso degli augusti mandriani, i rejetti delle cento
patrie, anelanti ieri al vespro liberatore, come percossi da un
insano furore di perdizione si sgozzano infelloniti e di sangue
fraterno ogni zolla vapora.
* * *
Così straniero al destino, così inaccessibile al cuore delle plebi,
era dunque l'eroico sogno che, avvinti dalle stesse catene, derubati
degli stessi sudori, scherniti nell'uguale diritto, crocifissi su la
stessa abbiezione, sanguinanti delle stesse angoscie ravviserebbero
un giorno i pezzenti nel miserabile dissidio delle stirpi la ragione
prima dell'ironia beffarda per cui i più, i più forti ed i più degni
– se dei loro fervori soltanto la face della vita si alimenta e si
perpetua – scontano sotto la ferula delle oligarchie imbelli ed
ignave, come un debito, devozione ed abnegazione?
Ed a quanta miseria d'inutili radici e di solchi avari suggeva
dunque la linfa delle sue speranze se un editto del re, la frode di
un barattiere, lo scroscio d'una fanfara, la mercenaria truculenza
d'un demagogo l'ha ai venti disperso?
E tutta la vita nostra, gli ardori della giovinezza esuberante, la
consapevole tenacia degli anni virili, ansie, febbri, vigilie,
cimenti ad avviarne, ad affrettarne la realizzazione gloriosa,
vissuti indarno se una folata d'aberrazione ci ripiomba a ritroso di
un secolo di storia, e le stragi di Fiandra iperbolicamente recidive
e le minacciate restaurazioni autocratiche dell'altro estremo del
continente, stremano di quella speranza l'ultimo fiato, deludono la
più ostinata delle aspettazioni, e dalle vigne del privilegio
inconcussa può la briaca ciurma patriottarda ruttarci in volto
l'ultimo scherno: la plebe è bestiame cresciuto ai tributi ed alle
taglie, al basto, alle nerbate senza scampo, senza remissione?
* * *
E l'alba del Maggio reca un gemito dove ieri fioriva ghirlande ed
epicedii: «Perchè ostinarci? perchè credere ancora nella vocazione
insurrezionale, nelle rivoluzionarie attitudini del proletariato?
Come chiedergli oggi di osare per sè lo sforzo in cui senza
proteste, senza riluttanze, si è ancora una volta esaurito ad
esclusivo beneficio dei negrieri?»
«Nessuna occasione ebbe mai più propizia. Se a la frontiera doveva
l'internazionale decidersi e consacrarsi, mai più numerose, più
diverse legioni nè meglio armate fra il Reno e la Mosella, fra
l'Adriatico e le Dolomiti, fra il Danubio e gli Urali aveva raccolto
la temerità folle di dominatori; e se una vaga nostalgia di
fratellanza in quei milioni d'armati, sospinti senza ragione e
senz'odio al fratricidio, si fosse per un attimo indugiata, non si
sarebbero essi gli uni sugli altri avventati come belve. Rispondendo
all'intimo voto dei cuori, alla muta preghiera degli sguardi
materni, ai figli supplicanti, le labbra protese nel bacio
dell'addio estremo, a raccolta avrebbe squillato le fanfare, su le
frontiere superate i fratelli si sarebbero abbracciati, e la fiumana
turgida, per tutti i versanti del vecchio mondo e del nuovo, a la
deriva e per sempre avrebbe travolto come simboli sacerdoti e
manigoldi d'ogni tirannide, d'ogni ineguaglianza, d'ogni iniquità. E
se allora, avanti che scrosciasse il primo colpo di cannone, avanti
che si squarciasse nelle carni del proletariato ogni vena, la
rivoluzione non avvampò, come sperare seriamente che s'accenda oggi
pei borghi della patria in cui non errano più mute fantasime che
donne, vecchi, bambini, più fragili e più scorati delle loro stesse
lacrime?»
* * *
Non è la torva diffida che balena da l'uragano reazionario? non è il
piccolo compatimento che versa la rassegnata bontà de le vostre
compagne sul disinganno atroce? non è il consiglio dei compagni
gravi, felici di veder prorogata a ...dopo la guerra, la scabrosa
liquidazione dei conti in sofferenza? non è la voce dell'esperienza,
della sapienza, della ragione illuminate e guardinghe che vi
accompagna, vi circuisce, vi disarma, vi tiene, ossessionante,
irrecusabile ne la vigilia del Maggio caino?
Non è dentro della vostra coscienza, compagni smarriti o timorati,
il sottovoce insidioso e ricorrente?
Fra i mille tentacoli della guerra la fede rantola, affoga.
* * *
La fede mal in gambe, la fede che a reggersi bisogna il miracolo,
che alla fatalità delle catastrofi abdica necessità penose, fatiche
ingrate, cimenti oscuri, inseparabili dalla preparazione e
dall'azione; e, come gli ebrei nel deserto aspettavano la manna dai
cieli ed i cristiani in doglie di rinunzie sospirano dal buon dio il
paradiso, chiede la rivoluzione, ai taumaturghi, alle confraternite,
all'impreveduto.
Chi ne cerca le cause predisponenti nelle condizioni irrazionali
che, economicamente e politicamente, sono fatte dall'ordine sociale
al proletariato a cui suppurano soltanto l'inedia, la soggezione e
l'angoscia, ed a cui, sobbillatrice altrimenti operosa, si mesce la
coscienza più o meno sensibile della iniquità: di tali condizioni e
rapporti, alla rivoluzione che riteneva possibile e prossima ieri
crede anche oggi; serba più vivi e più fervidi il suo entusiasmo
oggi che si attenua la violenza del rigurgito superstizioso per cui
la patria, la bandiera, la guerra, sono tornate impetuosamente in
fronte delle residue preoccupazioni; e, sfatate le rumorose menzogne
tricolori, la verità incomincia a farsi strada persuadendo da questo
e da quell'altro lato della barricata: che le plebi hanno subita la
guerra, non l'hanno nè conclamata nè voluta; che dove il soldato si
batte senza livori, senza entusiasmi, senza ideali, e della guerra
strazii e rovine persistano vani, senza attingere la meta o mettendo
in luce la sanguinosa sproporzione tra l'enormità del sacrifizio e
la dubbia obliquità della vittoria, sulla frode smagata del
divenire, sul soldato che si batte per forza o per la paura, non può
la guerra, non può l'ordine che la volle – e se ne è forse pentito –
contare su la perpetuità della fortuna.
Alla guerra, nelle immolazioni paradossali che sono il riepilogo
d'ogni sua campagna, ha mietuto il proletariato al fronte e quello
di casa un'esperienza più decisiva che non nel suo lento supplizio
quotidiano di salariato: la vita sua non conta nulla, non conta la
vita dei suoi! Quella si giuoca dal re al più umile dei gallonati,
come pedina trascurabile d'una macabra partita; questa si giuocano a
dadi i barattieri cristianissimi nei bagarinaggi usurai insaziati.
Egli non è nulla, per nessuno!
* * *
Non si dirà sotto la raffica della mitraglia, uno di questi giorni,
che potrebbe essere per sè qualche cosa? non potrebbe intravedere
oltre la bruma sanguigna che se nelle sue mani sono le fortune del
trono e della patria, dell'altare e della borsa, egli potrebbe esser
tutto, e fare a meno di dio e del re, dei loro mammalucchi
insottanati ed impennacchiati, ed aggiogare la patria, i suoi campi,
le sue miniere, le sue fabbriche a servir la vita, a guarentirne il
benessere, ad incoronarla di gioia e di libertà, invece che di
servire ad orgogli non suoi, ad odii non suoi, ad interessi non
suoi, ad interessi che vigoreggiano ed impinguano soltanto in quanto
siano i proprii sacrificati vilipesi traditi?
— Intanto fino ad oggi non è accaduto.
— E perchè, come lievita l'ampolla di San Gennaro, il miracolo non
s'è compiuto giusta il quadrante delle nostre cervellotiche
previsioni, la catastrofe non sarà più? Le cause che la urgono sono
estirpate pel fatto che s'aggravano ogni dì più intollerabili, solo
perchè è mancata fino ad oggi la causa accidentale, determinante,
che ne dovea traboccare la misura?
— Intanto non è accaduto.
— E benedite! chè non istarete le mani in mano, fiorite di
chiacchiere eleganti e di casuistica arguta, le labbra smaliziate.
Se nell'attesa vana che dai campi, dalle città, dai borghi, dai
casolari, dalle donne imbelli e dai vecchi stremati venga lo
schianto finale, fossero discesi gli eserciti del re, volte le terga
dell'oste straniera, volte le fronti e le armi, sfrenati gli odii e
le vendette sul nemico di dentro, a scompigliarne le frodi, a
spezzarne lo scettro, a raderne il covo, a purificarne di fiamme
espiatorie l'orrenda mefite, chiuso alla restaurazione ogni
compromesso, chiuso alla fuga ogni scampo, vi toglierebbe il grande
vespro la voglia delle arguzie e dei cavilli.
Rompendo del vomero ferreo tra dubbiosi ed ignavi avrebbe costretto
ciascuno al suo posto, sotterrando, per una parte, del regime
superato veccie sterpi gramigne, sugli altri addossando inesorato il
compito della distruzione senza di cui la vaticinata palingenesi
nonchè compiersi non potrà validamente iniziarsi.
Benedite di cuore! benedite in fretta! domani può essere tardi. Al
Maggio caino può succedere il Giugno dannato che delle sue
convulsiosi spasmodiche sovverta il mondo e per la terra squarciata
saluti i natali della libertà e ne battezzi nel sangue le invitte
fortune!
Al Maggio succede il Giugno di regola, e la dannazione è in ogni
atomo del mondo incarognito.
(13 aprile 1918)
In articulo mortis
Ci affogano!
Ci stringono il laccio alla gola colle mani convulse dalla duplice
rabbia della paura e dell'ipocrisia.
Hanno paura degli animi incorrotti e delle libere voci.
L'ora perversa dell'inganno, l'ora cinica dell'arrembaggio e del
sacco, l'ora grassa della cuccagna non tollera dissensi nè proteste
nè rivolte; non tollera neanche la muta testimonianza dell'onestà
afflitta e dell'indifferenza sdegnosa; non vuole che soggezione e
complicità.
La democrazia è vile.
A disfarsi di Mario e delle sue caterve di pezzenti, Lucio Silla
ergeva pei trivii le sue tavole di proscrizione abbandonando al
coltello dei sicarii cinquanta mila competitori ingrati; a consumare
il 18 Brumaio il primo Bonaparte rovesciava il Direttorio, buttava a
fiume gli avvocati, strozzava d'un tratto di penna i giornali
curiosi ed indocili; così come il nipote, a consumare il 2 Dicembre,
cacciava a Mazas onusti di catene, o al limbo, farciti di mitraglia,
i rappresentanti della nazione che si negavano a tenergli il sacco.
Avevano fino all'impedenza il coraggio delle loro proprie
responsabilità, ed in conspetto dei sudditi e della storia le
assumevano intiere, prepotenti ed orgogliosi.
* * *
La democrazia è vile, non osa l'audacia, s'accampa nel raggiro.
I suoi Burleson, i suoi Gregory, i suoi Lane126, non hanno il
coraggio di spegnere con un'ordinanza questo foglio incorrotto che
li spaura e li infuria, che essi odiano implacabilmente.
— Ma perchè non lo sopprimete? chiedevo durante l'interrogatorio ad
uno dei famuli del Sant'Ufizio repubblicano piovuto da Washington
alla turpe bisogna: perchè non lo sopprimete?
— Non si può. La «Cronaca Sovversiva» non ha un articolo contro la
guerra dell'America, contro i Liberty-loans, contro la costituzione,
la bandiera, gli eserciti degli Stati Uniti...
— E allora?
— Ma ad ogni pagina, in tutti i numeri, dalla prima all'ultima
parola è tutta uno scherno atroce odioso inafferrabile di ciò che
più, ardentemente amiamo e vogliamo; la grande repubblica, i suoi
ideali, i suoi istituti, la sua morale vi sono alla gogna senza
remissione senza tregua, senza quartiere, perpetuamente.
— Processatela, condannatela...
— Non si può, non se ne possono riunire gli estremi, Ma questa volta
è finita: l'ultimo numero non ha circolato, non circoleranno i
successivi, chiunque venga a togliere la vostra successione vi
seguirà in galera senza scampo. Tanto peggio per voi se non avete
compreso che in questo momento, finchè la guerra dura, voi dovete
keep your mouth shut, conchiudeva pizzicandosi tra l'indice ed il
pollice ambe le labbra: keep your mouth shut!
* * *
Ragionamenti così fatti nelle cronache giudiziarie di Boston
ricorrono frequenti... nel XVII secolo: «that you shall go to goal
for a fortnight without bail or mainprise and the next Saturday to
stand upon the pillory... with a paper on your head with this
inscription: "for writing printing and publishing a schismatical
book..." and the next Thursday to stand in the same manner and for
same time in the market, and these, your book shall be openly burnt
before your face by the common hangman in disgrace to you and your
doctrine...». Ma i berrovieri di quel tempo non avevano veduto la
rivoluzione, non avevano altro zelo che «to keepe & pserue the
people in the true knowledge & faythe of our Lord Jesus Christ
& of or owne redemption by him»127; non peccavano d'orgogli
repubblicani e pretendevano ancora meno to make the world safe for
democracy.
La quale democrazia non si è mai in nessun luogo, in nessun tempo,
più intimamente, più simmetricamente identificata che in questo
paese colla legge, che ha qui dominio assoluto ed indiscusso.
Può essere superata fino a riflettersi nelle antinomie più stridenti
e più grottesche, la legge; può esserle intorno fiorita, impetuosa e
lussuriosa fino a nasconderne ogni lineamento, la vegetazione dei
fatti nuovi, dei criterii nuovi, delle nuove orientazioni morali per
cui sul diritto costituito s'elabora e si ordisce il diritto
costituendo, la legge persiste impassibile, immutata, venerata come
il dogma; e non è giudice che si rispetti il quale ad ogni scarto,
anche il più ingenuo e più umano, non vi ammonisca duramente che law
is law, così come non è pei trivii della grande repubblica un'erma
la quale non vi ricordi che «la libertà è nel rispetto della legge»,
e che fuori della legge non sono più se non arbitrio e licenza.
Se dalle Termopoli, sul cui basalto scrivevano col loro sangue i
trecento di Leonida che essi erano «orgogliosi di morire in
obbedienza alle leggi di Sparta», fino a Montesquieu che nella legge
trova l'espressione il patto le guarentigie della sovranità
popolare, fino a Jefferson che vi lega la vita la sicurezza il
destino l'onore sacrosanto di tutti e di ciascuno, fino a Woodrow
Wilson che al di là del termine sacro non vede più che violenza o
frode, in questo rispetto della legge è il canone fondamentale della
democrazia e l'arca santa della repubblica, pare a noi che la
situazione non tolleri equivoco.
* * *
Non è qui il caso di una discussione di merito, la quale si è
d'altronde le mille volte ed una impegnata ed esaurita; la questione
è di fatto: o la «Cronaca Sovversiva» nell'impervio cammino è stata
al di qua dell'inviolabile trincea, o l'ha scavalcata e violata.
Se vi ha dato dentro sacrilega, pigliateci pel colletto, portateci
dinnanzi al magistrato, schiacciateci delle esose sanzioni dei
vostri codici, allogateci in galera dopo di averci consentito di
dire apertamente il nostro pensiero, anche se non abbiate alcuna
velleità di dare alle nostre ragioni il peso dovuto: law is law!
Ma se dopo di aver frugato i libri della nostra sedicenne gestione
amministrativa, se dopo di avere frugato sedici anni della nostra
corrispondenza, dopo di avere accertato donde il primo soldo sia
venuto, dove e come l'ultimo sia stato speso, dopo di averci frugato
le tasche ed il conto del fornaio, dopo di aver scrutata pur colla
lente degli ultimi eccezionali rigori del nostro pensiero ogni
vibrazione più recondita, del nostro foglio ogni pagina ed ogni
riga; non avete trovato neanche le tre parole con cui Richelieu
millantava di seppellire alla Bastiglia il primo venuto, nè l'ombra
d'una presunzione che la nostra propaganda possa confondere nella
più lontana solidarietà politica o morale coi calcoli e cogli
intrighi del nemico; se avete trovato soltanto la prova e la
documentazione incontravertibili, quotidiane, che contro il Kaiser,
i suoi cortigiani, i suoi manigoldi, i suoi norcini di là e di qua
dal mare, noi siamo stati sempre – come contro tutti i Kaiser
incoronati da dio, dal suffragio o dal dollaro, dall'eguale
incoscienza dei servi – quando voi dalle tribune dei parlamenti, dai
covi della borsa, dalle fogne della stampa biadaiola gli tributavate
apologie, omaggi e quattrini, gonfiandone la boria, le libidini, la
cassaforte; se avete trovato soltanto che l'aspro compito abbiamo
assoluto a prezzo di vigilie amare, di assidui digiuni, di
privazioni ineffabili ed innumerabili, giù il cappello, famuli del
Sant'Uffizio repubblicano, che biascicando di connivenze col nemico
ed ansando al vituperio, alla proscrizione, ed alla forca annegate
nell'onta medesima la verità e la democrazia ed ogni senso di
pudore. Giù il cappello! chè alla nostra serena abnegazione, al
nostro superbo disinteresse mal si confronta la vostra suprema
vigliaccheria.
E fatevi da parte chè noi dobbiamo e vogliamo passare: law is law.
* * *
Ancora una precisa inoppugnabile circostanza di fatto: alla «Cronaca
Sovversiva» non è stata mai interdetta la circolazione per le poste
federali.
Le si è tolto con ordinanza ministeriale del 9 Agosto 1917
l'abbonamento postale, verissimo; ma la libertà di circolare come
materia di prima classe per le poste federali non le è stata
contestata mai.
S. E. Burleson si sarebbe fatto d'avvertircene conscienziosa
premura. Invece tre mesi fa, allorquando l'Adams Express Co. a
distribuire il nostro giornale si negò definitivamente, il
postmaster di Lynn, che è funzionario tutto scrupoli sollecitudine e
cortesia quanto immune da sovversive tenerezze, ci ha dato formale,
categorica assicurazione che nulla ostava alla libera circolazione
della «Cronaca Sovversiva» per le poste federali; ed anche due
settimane addietro chiedendoci della «Cronaca» per la debita
ispezione, tutti i numeri apparsi fra il 23 Febbraio ed il 20 Aprile
di quest'anno, e diffidandoci a togliere dalla testata del giornale
l'autorizzazione a circolare sotto la franchigia di seconda classe,
ammetteva implicitamente che alla diffusione della «Cronaca» pel
tramite delle poste federali non è, e non può essere ostacolo;
perchè sarebbe straniera alla sua giurisdizione ogni pubblicazione
che per le poste non si diffondesse, e andrebbe soggetta alla più
severa giurisdizione del Ministro della Giustizia qualsiasi
pubblicazione che vi circolasse abusivamente: law is law!
E, notate, l'ultima lettera del Postmaster di Lynn porta la data del
28 Maggio, tredici giorni dopo che la sbirraglia federale, a
strangolare questo foglio cui non può imputare una contravvenzione,
a cui, senza schiaffeggiare le competenti giurisdizioni, non può
contendere la libera diffusione, ha consumato sul suo redattore, sui
suoi corrispondenti, sugli innocui suoi distributori, dall'Atlantico
al Pacifico, coi complici silenzii della stampa mezzana, la
vergognosa e bestiale dragonnata che tutti sanno.
In conclusione: la «Cronaca» ha il diritto incontrastato di passare.
* * *
E passa.
Chi la scrive, chi la stampa, chi la diffonde è giuridicamente
immune da ogni penale responsabilità insino a tanto che una condanna
non l'abbia colpita, insino a che l'interdetto non la fulmini. E
mancano a tutt'oggi questo e quella, non lasciando un varco al
compromesso svergognato, dei collotorti che offrono, a patto del
silenzio la tregua.
Liquidiamo al sole.
È criminosa la propaganda della «Cronaca»? E ci sono i codici.
Insidia la sicurezza dello Stato? Le fortune della guerra e della
patria a scellerato beneficio del nemico? E vi sono nel «Trading
with the enemy Act», nella legge sullo spionaggio, nel «sedition
bill», nei poteri discrezionali del General Postmaster, più folgori
e più freni che non occorrano alla bisogna.
Subissatene in galera gli araldi! Fulminatela dell'anatema,
strangolatela, sopprimetela!
Non potete, non volete, non osate sopprimerla? Ed allora bisognerà
lasciarla passare!
I Pier Soderini della polizia federale che non hanno il coraggio
dell'una soluzione nè dell'altra, e vedono ugualmente sciupate le
minaccie e le lusinghe, sfuggono alle tenaglie spietate del dilemma
con un raggiro. Contro i sessanta arrestati del 15 Maggio non
erigono una accusa; non trovano l'ordito su cui assiderla, a cui
interessare il Ministro della Giustizia, e rovesciano la turpe
bisogna su la groppa del Dipartimento del Lavoro.
L'editore della «Cronaca», i corrispondenti ed i distributori della
«Cronaca», quanti hanno avuto colla «Cronaca» un rapporto di
solidarietà politica ed amministrativa sono denunziati all'Ufficio
d'Immigrazione come cittadini ingrati, indesiderabili e proposti
alla deportazione in via amministrativa.
Ma la deportazione in via amministrativa è il regime paterno, è la
III sezione, è la Siberia, è lo czarismo, rievocato e ravvivato
nelle violenze più scandalose, nelle aberrazioni più atroci, nelle
turpitudini più scellerate, e, dove si cinge della maschera
democratica, è la oligarchia sinistra dei Dieci, della Bocca del
Leone e dei Piombi, la sospettosa repubblica della spia, del
sicario, del boia, infame triumvirato nel quale, fuori
dell'ipocrisia o dell'ironia, nessuno saprebbe ravvisare lo
strumento od affidare le riscosse del diritto della libertà della
civiltà.
Nell'attesa della deportazione amministrativa siamo da Boston a New
York, a Scranton, a Rochester, a Cleveland, a St. Louis, a Seattle,
a San Francisco una centuria oberata, in omaggio al V Emendamento
della Costituzione repubblicana, da mezzo milione di dollari di
cauzione all'incirca.
* * *
Che cosa faranno di noi?
Poichè la democrazia «libito fa licito in sua legge» e la bufera
della reazione imperversa turgida di tutte le connivenze della paura
e della domesticità, ogni previsione sarebbe temeraria.
Woodrow Wilson che s'illudeva or sono due anni sovrastasse ad ogni
amore della terra, ad ogni andito della gente l'orgoglio che «qui
possa ciascuno affermare senza molestie e senza espiazioni il
«pensiero suo», Woodrow Wilson, il quale sa la storia e l'insegna e
la fa e ricorda che alle ordinanze del Polignac scrive la marmaglia
il codicillo estremo nel bando di Carlo X; e che cacciato
dall'Istituto di Francia colle ordinanze del Guizot, Edgardo Quinet
entra alle Tuileries col moschetto nel pugno ed alla Costituente
sull'unanime suffragio, sull'onda dell'insurrezione irresistibile,
mentre Luigi Filippo riprende la via dell'esilio, Woodrow Wilson non
ha tempo, nè ranno, nè sapone da sciupare tra lanzichenecchi e
cortigiani, tra cimati e berrovieri, arrovellati ad apparire più
monarchici del re e più spietati del boja.
E questi faranno di noi quel che vorranno, la carne d'ogni strazio,
lo zimbello impunitario d'ogni nefandezza e di ogni tortura.
* * *
Non è del resto il quesito più grave nè più urgente.
Facciano di noi quello che vogliono: e bazza a chi tocca!
Ma che cosa faremo noi?
Rimescolando violentemente, su dai fondi limacciosi della storia e
dell'anima umana, tenerezze e furori, sentimenti e calcoli,
entusiasmi ed appetiti, esperienze, utopie, dottrine, ideali,
turbata ogni mente, straziato ogni cuore, tradita ogni aspettazione,
capovolta la tavola di tutti i valori, ripiegato brutalmente
ciascuno su se stesso all'ineluttabile esame di coscienza, ci ha
detto la guerra colle sue stragi, colle sue rovine, coi suoi orrori,
che noi andiamo sulle tracce ingannevoli d'un fuoco fatuo alla
deriva d'un'aberrazione sciagurata? che la verità in cui
comunichiamo, che la fede di cui abbiamo fatto l'usbergo l'orgoglio
la passione di tutta la vita, che la meta a cui tendiamo come un
arco ogni ansia, ogni palpito, ogni forza è vanità, miraggio,
follia?
* * *
Ma se a custodire la vita e la libertà degli individui e dei gruppi,
la comune sicurezza, le sorti comuni, non si è mai tradito così
impari il vecchio ordine, nè mai così bugiardi nè così vani sono
apparsi i suoi criteri i suoi postulati i suoi istituti, gli uomini
suoi; nè, insieme col miglior sangue della gioventù universa ha
fatto mai scempio così paradossale, per mano d'un branco di pastori
scellerati, di tutto ciò che è millenario sforzo, gloriosa conquista
di evi e di generazioni, del pensiero, dell'eroismo, dell'audacia,
dello studio, del lavoro conserti; se a ribellare contro le forme
della tirannide e della rapina, la coscienza e la pazienza
universali, più che l'ardimento e l'apostolato delle avanguardie
urgono il cinismo la tracotanza il disprezzo della ciurma di farisei
e di pubblicani, d'ipocriti e di bruti, di gnomi e di ladri che ci
stanno sul groppone; se l'ansia di evadere al regime che la sua
funzione storica esaurisce nella desolazione e nel carnaio, non è
stata mai così acerba, più vicina, più accessibile, più sicura non è
apparsa mai l'Atlantide felice «...là dove i figli eguali d'innanzi
a la madre comune –partiscono il frutto e la fiamma; – dove in città
sonanti di popolo laborioso – onorasi il vecchio dei campi – che
esercitò la vita, nell'opera, sacra del pane; – dove, fuor d'ogni
giogo e fuor d'ogni vincolo, ognuno – espande il poter che in sè
chiude; – dove ognuno in sè stesso è sovrano, ha in sè le sue leggi,
– ha in sè la sua forza e il suo sogno; – dove fratello al grande
pensiero è il tenace lavoro».
Nè mai più agevole il cammino ad attingerne le gioie, se intorno
alle idee dei precursori che le annunziarono non si è mai raccolto
più vasto più profondo più sincero il consenso degli umili, se della
libertà della fratellanza così acuto desiderio ha mai torturato
l'anima dei rejetti più che in questa bolgia livida, più che in
questa infernale bufera di sangue e di pianto, di singulti e di
maledizioni.
Mai più prossima nè più sicura; nè meglio armati noi.
Ha sfollato le legioni il primo acquazzone reazionario: mezzi
caratteri, mezzi cuori, mezze coscienze, dilettanti e vanesii,
poltroni e ciancioni, sono tornati nel guscio della piccioletta
anima bastarda. Sotto la tormenta che rugge l'implacata ira dei numi
restano le sentinelle perdute, quanti videro tra roghi e forche
ascendere la libertà e non la tradirono nè per la dovizia nè per la
paura, non disperarono tra il morso dei ferri o dell'angustia, ne
propiziarono coll'abnegazione assidua e la costanza eroica il
trionfo radioso; e su da le stragi, su dalle rovine, su dal cupo
mistero degli eventi colgono le voci della speranza e della fede
immarcescibili, ravvivando delle falangi incorrotte l'audacia e la
tenacia:
o voi che il sangue opprime,
uomini, su le cime
splende l'alba
sublime
E, sprezzanti della conserta rabbia dei marosi e dei fulmini,
incontro all'aurora della redenzione ai venti sul picco di mezzana
la bandiera immacolata noi procediamo immutati e sereni.
La «Cronaca Sovversiva» continua le sue pubblicazioni.
(6 giugno 1918).
Viva l'anarchia!
Finchè giù nelle mine, sui solchi, per le officine, su la soglia
d'una chiesa, d'una caserma, d'un lupanare, a la lusinga d'un
mezzano, per gli editti del re sotto la ferula del padrone, ludibrio
della ignoranza, della viltà, della fame, si prostituisca un servo,
ed il mondo civile non sia che l'ergastolo del lavoro e del diritto;
Finchè tra i campi si erga una siepe, tra le patrie una frontiera,
tra il lavoro, ed il pane la maledizione della bibbia, la sanzione
dei codici, l'impunità dell'usura, della frode e della rapina, e tra
gli uomini – nati dalla stessa doglia – stiano l'ineguaglianza, il
livore, il fratricidio; ed il mondo non sia che un turpe mercato: in
cui le braccia ed i cuori, le fedi e gli orgogli, la coscienza e la
giustizia si barattano oscenamente per una manciata di scudi;
Finchè ascensione costante inesorabile dalla coercizione alla
libertà appaia la storia del progresso umano che di quella ha
frugato e distrutto segni e termini, e di questa non soffre remora o
barriera sì che le ha tutte superate od infrante;
Finchè nessuno pretenda – e nessuno osò fino ad oggi, nè osa – che
dopo di aver inabissato le sacerdotali autocrazie delle origini, gli
imperi di diritto divino che nell'evo medio, le monarchie nobiliari
che fino alla Dichiarazione dei Diritti ne tennero il posto; dopo di
aver minato di acerbe diffidenze e di rivolte assidue il compromesso
obliquo tra la dubbia grazia di dio e la frodata volontà della
nazione, costringendo dai cieli in terra, dividendo fra la
universalità dei cittadini, diritti e franchigie della sovranità, il
progresso abbia trovato le sue colonne d'Ercole, l'ultima Tule nella
spregevole oligarchia d'aguzzini e di ladri che ci sta sul collo e
dovizia e potenza ed ozii ripaga d'inedia di pedate di scherni;
Finchè, parallela a cotesta evoluzione del principio d'autorità –
che trasmigrando dai cieli in terra, dal creatore in ciascuna delle
sue creature, investite della facoltà e della capacità riconosciute
di eleggersi i propri governanti, implica in ciascuna di esse la
libertà e la capacità di governarsi da sè, e nell'estrema
conseguenza la negazione dello Stato – una più profonda evoluzione
s'accompagni e si accelleri per cui l'istituto della proprietà dalle
sovrane onnipotenze, dalla santità e dalla inviolabilità quiritarie,
dal diritto d'usare, d'abusare di uomini e di cose, si è dovuto
soggiogare a riserve, a doveri, a funzioni ogni giorno più varie e
più vaste di assistenza, di difesa, di guarentigia, di sicurezza
sociale, preludendo all'era prossima in cui la terra e la macchina,
come l'aria e la luce, saranno patrimonio comune ed indivisibile,
strumento ed arra della libertà, della vita, del benessere, della
gioia di tutti;
Finchè sia ribellione alla tirannide, esecrazione della iniquità,
anelito di giustizia, sogno di fratellanza, spasimo di liberazione;
finchè sia verità generosa, accessibile realtà del domani;
In faccia ai castrati che ne inorridiscono, ai farisei che
l'abiurano, ai pasciuti che v'imprecano, ai tartufi che se ne
rodono, ai poltroni che la tradiscono, ai manigoldi che la
perseguitano, ora e sempre:
Viva l'anarchia!
* * *
E fino a tanto che il progresso non si arresti, fino a tanto che non
sia pagato questo debito sacro di dare a tutti ed a ciascuno il
viatico del pane, l'usbergo della verità la tregua. dalla pena, la
gioia dell'amore, un raggio di sole, la sicurezza dell'oggi e del
domani;
Finchè dagli altari, eroiche d'abnegazione e di rinuncia, ardenti di
fede e di passione le preci degli umili salgano a dio vane, senza
mietere più che la dubbia e tarda grazia delle beatitudini
ultraterrene;
E gli annali d'ogni gente d'ogni terra d'ogni principato e d'ogni
evo documentino che alla devozione all'eroismo all'inesausto fervore
degli schiavi dei vassalli dei sudditi non hanno le aristocrazie
altrimenti risposto che colle taglie, colle estorsioni, cogli
scherni, col vituperio;
E la cronaca di tutti i parlamenti – anche laddove sono penetrati
dallo spirito dei tempi nuovi e dalle nuove rappresentanze che dal
proletariato e dalle sue rivendicazioni hanno assunto l'investitura
– non è se non la quotidiana testimonianza della loro politica
incapacità d'innovazione e di riforma, e negli istituti
rappresentativi si tradisca la custodia più gelosa e più esosa dei
privilegi di cui dovrebbero essere l'antitesi in forza della
costituzione che poggia sull'uguaglianza di tutti i cittadini, in
obbedienza al mandato che hanno sollecitato e ricevuto;
Finchè dal seno stesso dei grandi sindacati del lavoro, gli epigoni
– i quali della miseria hanno pur conosciuto i tormenti, ed hanno di
tutte le umiliazioni centellinato il fiele – pervenuti alla vetta,
non gareggiano più che di domesticità e di prostituzione a custodire
degli sfruttatori il privilegio ed il dominio;
Finchè l'apostolato inerme s'abbatta col Nazareno su la croce, con
Giordano Bruno sul rogo, con Giuseppe Mazzini nel bando perpetuo,
con Francisco Ferrer nei fossati di Santa Eulalia, mentre ad
Ildebrando cinto d'armi e d'audacia sorride l'universale trionfo del
cristianesimo, mentre dai temerari impeti di Pisacane e di Garibaldi
prorompe libera la patria, mentre su tre rivoluzioni asside la
borghesia le sue finali vittorie, ed ogni età ed ogni ordine ed ogni
uomo ha il patrimonio d'indipendenza e di benessere che di per sè,
colle sue mani stesse, ha saputo di coraggio indomito e di inesausta
costanza fucinare;
Finchè il sacrosanto diritto al pane alla conoscenza alla libertà
alla pace che la sapienza di dio, la magnanima virtù dei re, la
sagacia dei parlamenti non hanno saputo costringere su l'umano
destino, permane aspirazione legittima, compito irrecusabile del
proletariato internazionale, e l'emancipazione dei lavoratori opera
dei lavoratori stessi;
Finchè scienza e ragione, esperienza e storia grideranno su
dall'abisso dei secoli che tra nebulose di fiamma cresimò il pianeta
le origini ed i destini, che colla violenza soltanto per le zolle
tenaci trova il germe le vie del sole e la gloria delle spighe; che
non culmina senza doglie nè sangue agli orgogli della vita nuova
l'idillio d'amore; che stanno fatali gli uragani sanguinanti del
«terrore» fra rinnovamento e restaurazione;
In faccia ai castrati che ne allibiscono, ai farisei che l'abiurano,
ai pasciuti che v'imprecano, ai tartufi che se ne rodono, ai
poltroni che la tradiscono, ai manigoldi che l'inseguono, ora e
sempre:
Viva la rivoluzione sociale!
* * *
In quest'ora? mi bisbiglia smarrito il compagno a modo che non ama
sciupare all'acquazzone la giornea rivoluzionaria delle belle
mattinate di sole, delle comizievoli baldorie.
Proprio in quest'ora che nella tregua universale delle fazioni,
intorno all'ara della patria ed alla fortuna dei suoi eserciti si
stringono gli entusiasmi della nazione, e contro ogni scismatico
dissenso più livide e più furiose le rabbie conservatrici, e sulle
esili falangi d'avanguardia imperversano d'anatemi selvaggi e di
sanzioni implacate parlamenti tribunali e sacrestie? ed alla legge
sullo spionaggio che le spie ignora ma butta il capestro agli
anarchici; al «Trading with the enemy Act» che silenzia la stampa
onesta ma tiene il sacco a barattieri ed a felloni; al «Sedition
bill» che ha raccolti unanimi i voti della Camera e del Senato e
confisca brutalmente la costituzione della repubblica, la libertà di
stampa di parola di riunione, ogni civile franchigia, scrive il
senatore Hardwick l'ultimo codicillo autorizzando l'arresto e la
deportazione in massa di tutti coloro che alle aspirazioni
scellerate dell'anarchismo in tutto od in parte sottoscrivano? e la
maggior parte di voi e la più fervida è tra i lacci del nemico?
Ora proprio!
Vigilare a custodia del diritto quando non è chi l'insidia,
morfondere di truculenze retoriche sul «panciuto borghese» allorchè
intento alle ponderose digestioni neppure vi bada, imprecare del
levitico sovversivo contro la reazione quando minaccia o devasta,
lontano, il seminato altrui, e genuflettersi alle contrizioni,
abdicare alla fede, ammainarne i vessilli, nascondersi in cantina,
sul solaio, sotto le gonne delle comari quando i cieli s'abbuiano,
la tempesta infuria e s'impenna la dragonnata agli avamposti, è
comodo senz'alcun dubbio, è la sublimazione della virtù pratica e
della prudenza avveduta.
Non è che una disgrazia di mezzo: noi non siamo nè virtuosi nè
pratici nè savii.
I calcoli a cui ci hanno abilitato la vita, lunga e procellosa,
l'esperienza acre ed assidua sono elementari e si sbrigano sulle
dita.
Risponde a verità, risponde a giustizia, a fatalità indeprecabili di
progresso, ad urgenze improrogabili di liberazione questo nostro
ideale anarchico smagliante e vituperato?
Ed allora nè la verità tollera eclissi, nè la giustizia remissioni,
nè indugi l'opera santa dell'emancipazione.
E qui bisogna rimanere!
A raggiungerla dobbiamo francare gli schiavi da le ritorte dei
pregiudizii annosi e delle devozioni assurde mutando in
consapevolezza operosa, in torrenti d'energie irresistibili, in
concordia di propositi e di sforzi liberatori le ignavie scorate,
gli egoismi pitocchi, le competizioni cieche, la millenaria viltà?
Ed allora a trarre da questa ibrida colluvie di invertebrati le
ferree legioni che la terra e gli uomini riscatteranno alla servitù
ed all'obbrobrio, noi giungeremo infondendo nelle reclute sgomente
il po' di coraggio, di fermezza, di fede, di tenacia, di carattere
che in noi educarono le pugnaci avversità, piuttosto che buttando
armi e bagagli al primo urto, alla prima fucilata.
E qui bisogna rimanere!
Non ve ne sentite le reni? Tra le ragne dell'inquisitore cercate
scampo a dio, allo stato, alla legge, all'ordine che v'affogano?
proni su l'altare dei feticci che avete le mille volte bestemmiato,
ne rimormorate, compunti, battendovi il petto, gli omaggi e le
devozioni: Siete un bravo figliolo, che si è sviato forse nelle
piazzate anticlericali, ma che ha sempre creduto e crede anche oggi
al buon dio; che avete sognato, vero, le radiose eucarestie
dell'Internazionale proletaria, ma senza sacrificarle nè gli orgogli
della patria, nè le rivendicazioni della stirpe, nè i diritti
imprescrittibili della civiltà, nè la santità della guerra che li
tuteli; e che se il vostro antimilitarismo vi nega di vestire la
divisa del soldato, di impugnarne le armi, di correrne le venture ed
i rischi, non siete poi, in fondo, alla legge della nazione così
avverso da non chiederle un rifugio... in quinta categoria, nè così
indifferente alle sue fortune da non comprarle una generosa
collezione di francobolli di guerra, e da non avere nel portafogli
un certificato del prestito della libertà?
E sciupate genuflessioni ipocrisie rimorsi.
Non troverete un aguzzino che si intenerisca di queste vostre
contorsioni. Perchè vi crederebbe? Ieri per vanità, per millanteria,
per mimetismo, avete buttato il crocefisso nella stufa, avete
battezzato il figliolo col nome di Satana o di Caserio, gli avete
imparato il canzoniere dei ribelli, e vi siete abbonato alla
«Cronaca Sovversiva»; non c'era che da fare il bello al sol di
Luglio senza cimentare una graffiatura, e... viva l'anarchia!
Oggi che scura per gli anarchici la San Bartolomeo, e son nespole e
delle acerbe, vi rappattumate coi paternoster, colla repubblica,
colla legge, col padrone, col curato, salvo a ribarattarli domani se
il tempo bolscevicheggi catastroficamente sulle vostre latitudini.
Delle bagascie nessuno mai ha avuto rispetto o credito, meno fra
tutti, coloro che le hanno ruzzolate su la mala via. Perchè dovreste
trovarne voialtri?
A dispetto del confiteor e del miserere, domani, doman l'altro
v'aggancieranno pel collare, come noi, come tutti quelli che sono
rimasti quello che erano, e sullo stesso carrozzone, nella medesima
stiva vi rovescieranno tra le gole del Colorado o nelle jungle delle
Filippine, colla bocca amara e colla spina in cuore d'aver fatto il
poltrone, il vigliacco ad ufo.
Qui bisogna rimanere!
* * *
Su la breccia si resta senza jattanze nè paure, tanto più
serenamente che non occorre il coraggio di Orlando, e che di contro
il nemico, superlativamente idiota, ci dispensa da queste e da
quelle.
Idiota superlativamente! e la testimonianza esubera dalla serie di
emendamenti che, senza pure un voto di dissenso, la Camera ha la
settimana scorsa approvata, e di cui diamo qui la traduzione
letterale ed integrale:
Articolo I. – Gli alieni che siano anarchici, i quali credano od
eccitino alla distruzione, colla forza o colla violenza, del governo
degli Stati Uniti o di ogni forma di leggi; gli alieni i quali non
credano o siano opposti al governo costituito; gli alieni che
invochino od insegnino l'assassinio dei pubblici funzionarii; gli
alieni i quali invochino ed insegnino la criminosa distruzione della
proprietà; gli alieni i quali siano membri od affiliati di qualsiasi
organizzazione che coltivi, insegni, od invochi la distruzione colla
forza o colla violenza del governo degli Stati Uniti o di qualsiasi
forma di leggi; che coltivi od insegni la sfiducia o l'opposizione
al governo costituito; o preconizzi il dovere, la necessità, la
convenienza di criminosamente aggredire ed assassinare ogni
funzionario od i funzionari – come individui in particolare, o in
genere come funzionarii – del governo degli Stati Uniti o di ogni
altro governo costituito, in ragione del loro carattere ufficiale;
od invochi ed insegni la criminosa distruzione della proprietà,
debbono essere esclusi dall'ammissione agli Stati Uniti.
Articolo II. – Ogni alieno del quale, in qualsiasi tempo, dopo
essere entrato negli Stati Uniti, possa provarsi che all'epoca del
suo arrivo fosse, o sia in appresso divenuto un membro di qualsiasi
categoria di alieni nel primo articolo di questa legge menzionati,
deve, su mandato del Ministro del Lavoro, essere arrestato e
deportato nei modi previsti dalla Legge sull'Immigrazione del 5
Febbraio 1917. Le disposizioni del presente articolo sono
applicabili alle classi di alieni sopra enumerati senza riguardo al
tempo della loro ammissione negli Stati Uniti.
Articolo III. – Ogni alieno il quale – dopo di essere stato escluso
e deportato, arrestato e deportato in obbedienza alle disposizioni
della presento legge – avesse a ritornare, o rientrare negli Stati
Uniti, o tentasse di tornare o rientrare negli Stati Uniti, sarà
tenuto colpevole di fellonia, e su analoga convinzione, sarà punito
del carcere per una durata non superiore ai cinque anni, e sarà, al
termine della pena, riarrestato sopra mandato del Ministro del
Lavoro, e deportato nel modi previsti dalla Legge su l'Immigrazione
del 5 Febbraio 1917.
Accompagnando con sua lettera del 23 Maggio scorso all'on. Burnett
gli emendamenti sopra estesi, il Ministro del Lavoro pare sia
dominato da uno scrupolo che mi ricorda le parole di Saracco
all'indomani dell'attentato di Monza: «Dottrina e parola,
l'anarchismo è entrato nel campo della filosofia e della
letteratura, e non si combatte se non contrapponendogli dottrine ed
opere che gli prevalgono; rivolta e crimine, s'abbatte ai codici che
hanno sanzioni bastevoli a contenerlo ed a punirlo, per il che non
ritiene il Governo di dover proporre alla Camera alcuna legge
d'eccezione»128.
Scrive il Ministro del Lavoro: «The Bureau of Immigration from its
past connection with the history of the legislation, is clearby of
the opinion that the phrases are not definitive of the word, but are
descriptive of separate classes. It will be noted that the draft is
so worded as to leave no room for doubt on this point»129.
Nessuna definizione dunque nè dell'anarchia nè degli anarchici, come
se nel pensiero di S. E. il Ministro del Lavoro sia lecita
l'aspirazione ad un mondo in cui sulla terra, sugli strumenti del
lavoro, sui prodotti del lavoro tornati, fuori da ogni forma
privilegiata, comune retaggio, indivisibile patrimonio, guarentigia
della vita e del benessere, di tutti e di ciascuno, il genere umano
possa attingere nella consapevolezza degli interessi identici e
solidali, le ragioni spontanee ed i fraterni rapporti
d'indissolubile armonia che governi e leggi – chiamate a comporre
l'antagonismo irreconciliabile, fra chi ha e chi non ha, tra chi
crepa d'indigestione e chi crepa di fame, tra chi comanda e chi
serve – non sono riusciti a darci in tre millenni di tutela
legislativa da Confucio a Wilson, e non ci daranno mai.
Non più che la enumerazione di specifiche categorie di delinquenza:
è deportato chi preconizza la distruzione del governo degli Stati
Uniti, di ogni e qualsiasi legge, chi preconizza l'assassinio dei
pubblici funzionarii o la violenta distruzione della proprietà.
Ci sarebbe sempre da discorrerne.
Se avesse a pigliare in parola il Ministro del Lavoro, e mettere le
mani su le opere e sugli autori che maledicono allo stato, alla
legge, alla proprietà, invocandone la distruzione violenta
coll'annessa esecuzione dei rispettivi depositarii e custodi, il suo
collega della giustizia non dormirebbe più nè giorno nè notte,
dovrebbe accendere su di ogni piazza un rogo, ardervi tutte le
biblioteche ed, in effigie almeno, dai santi padri della chiesa fino
a Carlo Marx tutta l'iconografia dei filosofi, dei precursori, dei
vati di ogni tempo e di ogni paese.
Da San Tomaso d'Aquino che riedificando su le comuniste irruenze di
San Paolo e di San Basilio l'istituto della proprietà individuale, è
costretto a riconoscere che nessun campo in sè può secondo, natura
considerarsi dell'uno piuttosto che dell'altro e che l'aspirazione
al comune possesso delle cose ha nella natura il suo fondamento130,
insino a Woodrow Wilson che celebrando ieri la caduta della
Bastiglia santifica la ghigliottina, la rivoluzionaria
espropriazione delle caste nobiliari ed ecclesiastiche, il
sovvertimento criminoso dell'ordine costituito, la sommaria
esecuzione di Luigi XVI a cui il sacro deposito della pubblica
autorità era doppiamente affidato e dal sommo iddio e dalla conserta
volontà della nazione.
A Boston, a due passi dalle Corti Federali – che non hanno di questi
dì altra premura ed altro compito se non di mandare all'ergastolo
quanti osano rimontar la corrente briaca, sul lastrico tra State e
Devonshire street una chiazza di sangue, che si è mutata in una
chiazza di bronzo incancellabile, ricorda ai nipoti che la grande
repubblica la sua unità la sua indipendenza ebbero su quel trivio,
da una sanguinosa ribellione al governo legittimo ed organizzato, le
origini e la consacrazione. Io, sfido il Ministro del Lavoro Wilson
ad imprecar su quella chiazza di sangue, a maledire la ribellione
che ve ne lasciò la traccia sempiterna, ed a deportarci perchè ne
rievochiamo la gloriosa memoria.
Cento passi più giù è il vecchio Griffin's Wharf da cui
centoquarantacinque anni addietro, la sera del 17 Dicembre 1773 i
patriotti, arrampicati su tre galee dell'East India Company, in men
che due ore sventrarono trecentoquarantadue colli di thé buttandone
il contenuto in mare131 piuttosto che vedersi dall'esosa taglia
diminuita, insieme alla razione d'un alimento di prima necessità, la
civile indipendenza di cui erano gelosi ed orgogliosi.
Noi sfidiamo il Ministro del Lavoro a maledire quel caratteristico
atto di sabotaggio glorioso, di criminosa distruzione della
proprietà, ed a procedere contro il nominato Woodrow Wilson che ne
fa l'apologia.
* * *
Ma la questione non è qui di sapere se a domicilio coatto andremo
con i santi padri del vangelo, con San Tomaso D'Aquino, con Patrick
Henry che nell'Assemblea del Virginia augura a Giorgio III
d'Hannover – sovrano legittimo dell'Inghilterra e delle sue colonie
– la stessa fine di Carlo I; cogli storici paesani che registrano
compiacenti la successione di mobs che a Boston incendiano le case
degli Oliver, degli Storer, degli Hallowell e le spogliano delle
suppellettili e del denaro, ed impiccano a Fort Hill, in effigie
quanto meno, i cancellieri dell'Ammiragliato ed i controllori delle
Dogane132; che nel Rhode Island, a Newport, inchiodano sulla
berlina, ludibrio agli scherni più sguaiati, Howard, Moffat, e
Johnson; e nel Connecticut, a Wethersfield, agguantano Jared
Inghersoll e lo costringono sulla strada a dare le proprie
dimissioni ed a gridare un triplice evviva «a la libertà ed a la
proprietà» soltanto perchè difendono i diritti del parlamento i
privilegi del sovrano e lo Stamp Act che da quelli promana; o con
Woodrow Wilson che nella violenta aggressione, e nel simbolico
assassinio dei pubblici ufficiali, nella criminosa distruzione delle
loro case, e delle loro robe, riassume la eroica passione traverso
la quale ritrova la patria le membra disperse, il coraggio, la fede,
l'audacia e le fortune dell'unitaria liberazione.
Un fatto è acquisito dagli stessi termini del nuovo emendamento
Burnett: che mentre intende non potersi oggi senza vergogna
inquisire il pensiero, neppure quando è il pensiero anarchico, ed
ostenta di non volerlo perseguitare, di ignorarlo, in realtà lo
identifica in determinate forme di delinquenza che, avanti ad ogni
cosa, non sono punto caratteristiche dell'anarchismo se ogni fazione
si gloria di contare all'avanguardia un regicida, dai repubblicani
che segnano albo lapillo le Idi di Marzo e la pugnalata di Bruto, ai
cattolici che mettono fra i liberatori se non fra i santi il
Ravaillac, il frate che all'Editto di Nantes risponde colla
pugnalata ad Enrico IV; dai patriotti che nell'iconografia della
gente serbano la nicchia e levan su le piazze un'erma ad Agesilao
Milano a Felice Orsini od a Guglielmo Oberdank che a liberarli da Re
Bomba, da Napoleone il Piccolo o da Cecco Beppe hanno offerto la
vita in olocausto, fino ai socialisti che, a mortificazione di
Enrico Ferri e dei gregarii nostrani, avevano nel ruoli del partito
Leone Czolgosz133 quando nel Settembre del 1901 ha servito la
decisiva revolverata di Buffalo a Guglielmo McKinley; fino al
Ministro del Lavoro W. B. Wilson che di veder spazzata via dalla
storia la penultima autocrazia, quella abbominevole dei Romanoff –
colla procedura che tutti sanno, e che ha implicato l'assassinio di
tanti pubblici ufficiali – si è certo rallegrato così cordialmente
come noi; se nella bestemmia di Proudhon: la propriété c'est le vol!
comunica l'anima reverenda del vescovo di Meaux134; se nell'ingenuo
proposito di frenarne le usure, di costringerla in servizio della
democrazia, avocando alla nazione le darsene e le ferrovie ieri,
domani probabilmente le miniere ed i telegrafi, il Presidente Wilson
dimostri che non è poi la proprietà individuale istituto così sacro
nè inviolabile come pretenderebbe l'emendamento Burnett; il quale
non ha poi contro le catalogate forme di delinquenza che rileva, il
coraggio delle congrue sanzioni.
* * *
È chiaro. Se all'anarchismo non presta il Burnett Bill che tre
connotati: la cospirazione contro il governo degli Stati Uniti,
l'assassinio dei pubblici ufficiali, la criminosa distruzione della
proprietà; e se la repubblica vede sempre – come Giorgio
Washington135 nello spirit of encroachment la tendenza a consolidare
in uno l'autorità dei vari dicasteri «and thus to create, whatever
the form of government, a real despotism», il Dipartimento del
Lavoro non ha nella contingenza alcuna giurisdizione: è un intruso.
Siamo di fronte a tre forme di reato precise e specifiche,
contemplate da corrispondenti disposizioni del codice penale, di
competenza delle Corti in cui la Costituzione ravvisa la doppia
tutela della inviolabilità dell'ordine sociale e della individuale
libertà.
Finchè sia franchigia d'ogni imputato la pubblicità dei
dibattimenti, gloriosa conquista della rivoluzione del 1789, a cui
la repubblica ha pur ieri brindato con tanto ingenuo entusiasmo,
sottrarre gli anarchici all'impero della legge comune, ai giudici
naturali, strozzandone le voci oneste, spezzandone la famiglia,
calpestandone i diritti e gli interessi, cacciarli in bando perpetuo
soltanto per le loro convinzioni, con un provvedimento
amministrativo – come usavano i Muravieff, i Trepoff, i Plehwe della
Terza Sezione quando lo czarismo era autocrazia fortunata e
svergognata – è incorrere nella maledizione di cui Montesquieu136,
che di leggi si intendeva ed è maestro insuperato di democrazia,
fulminava coloro che accusano al principe invece che ai magistrati:
«s'ils ne veulent pas, laisser les lois entre eux et les accusés,
c'est la preuve qu'ils ont sujet de les craindre; et la moindre
peine qu'on puisse leur infiger c'est de ne les point croire».
Avete paura delle vostre leggi? dei vostri giudici? dei vostri
tribunali, on. Wilson? O l'impresa vi fa vergogna, che dinnanzi ai
giudici ed ai giurati non osate di trarla, ed arrancate fra una
denunzia anonima ed un sottovoce ribaldo, fra il mistero delle
istruttorie segrete all'epilogo delle clandestine deportazioni
amministrative, nel compro silenzio della stampa da fogna?
Sono affaracci vostri siamo d'accordo, ma sono anche i sistemi
dell'autocrazia, del Kaiser di cui vi tradite, al sole corrusco
della guerra democratica, il plagiario squallido, l'alleato più vero
e maggiore.
Affaracci vostri, d'accordo; ma con quale costrutto, poi?
Vi riuscirà di deportare un centinaio d'anarchici137, dei più noti e
dei meno pericolosi, di quelli che non nascondono il loro pensiero,
non sanno diminuirlo d'una restrizione mentale, nè mascherarlo
d'opportunismi ipocriti o di reticenze avvedute; ma quegli altri,
quelli che sono cresciuti al disinganno, quelli che il giogo acerbo
della vita ripiegò su se stessi, a cui il destino negò la tregua
d'un sorriso a cui negò la natura la valvola provvidenziale per cui
rompendo nel peana o nell'elegia si sfoga l'ardore cocente della
vendetta l'acuta nostalgia della giustizia e della liberazione, e
sotto il pungolo sanguinante dell'acredine s'aprono la via col
coltello o colla dinamite, e l'aprono, benedetti alla nuova storia,
come li scoverete; come li raggiungerete?
Affaracci vostri, sta bene; ma quale sarà di queste vostre sommarie
e feroci proscrizioni la messe?
Non v'insegna proprio nulla l'esperienza, neppure la più amara,
neppure quella di ieri?
Or fa un anno, migliaia di immigrati russi, evasi alle torture dello
czarismo, chiamati qui dalla strana leggenda che sia l'America terra
di libertà, e qui dalla bugiarda superstizione guariti al sinistro
bagliore degli incendii di Ludlow, delle stragi di Bayonne, dei
linciaggi di razza, degli auto-da-fe di San-Francisco, in patria
sono tornati al primo balenare della rivoluzione, allora quando il
Kerenski sui ruderi dell'autocrazia s'affannava ad edificare una
repubblica ad immagine e somiglianza degli Stati Uniti.
Alle turbe moscovite in delirio di palingenesi squarciarono il velo
della sinistra menzogna: una repubblica democratica, come l'America?
Ma l'America è il servaggio medievale che schianta di mitraglia, ove
si ergano alle rivendicazioni del diritto, cuori e fronti di
schiavi; che dal color de la pelle giudica delle capacità morali e
della dignità civile; che ai superbi i quali non pieghino al dogma
degli oligarchi od all'insania dei volghi serba la galera; che nel
disprezzo d'ogni idealità più nobile e più radiosa non coltiva che
pel dollaro e pel successo le sue idolatrie.
Ricordate? Emma Goldman, Alessandro Berkman, le manette ai polsi,
s'avviavano ai penitenziarii d'Atlanta e di Jefferson City; Thomas
Mooney a pie' della forca attendeva, allora come oggi, da la pietà
sovrana la riabilitazione e la salvezza che all'innocenza
perseguitata ricusano i tribunali repubblicani...
Kerenski pigliava poco di poi la via dell'esilio, il vostro
ambasciatore Francis non poteva affacciarsi per le vie di
Pietrogrado, la repubblica ad immagine e somiglianza della vostra
colava a picco miseramente e ogni riferenza all'America, agli Stati
Uniti suscitava allora, suscita anche oggi furiose procelle
d'esecrazione.
Non è così?
Che cosa diranno alle plebi d'Italia, di Spagna, di Francia gli
anarchici che per i quarantotto Stati dell'Unione avete razziato e
vi disponete ad espellere non perchè servano alle libidini del
Kaiser, chè l'oscena calunnia v'è rimasta in gola, ma perchè
sopraffatti dalla guerra che non seppero nè impedire nè contenere,
alla deriva non si sono abbandonati, e pensano che il flagello non
sarà perpetuo nè perpetua l'aberrazione che lo scatenò e l'alimenta;
e serbano ai vinti ed ai vincitori, egualmente delusi traditi
esangui disperati domani, viva fra tanta ruina e tanta morte, viva
fra lo squallore di tante rinunzie, la face della speranza, della
fede nella vita, nel progresso, nella civiltà, nella loro ultima
vittoria, nella risurrezione del proletariato, signore ed artefice
del proprio destino, alla gioia ed alla gloria della fratellanza
della giustizia della libertà?
Che cosa volete che ne dicano?
Voi siete padrone di legare all'infamia, di consacrare il nome del
vostro paese alle maledizioni, all'esecrazione del mondo civile,
tormentato oggi da così acuto così profondo così diffuso spasimo di
rigenerazione: sono affari vostri.
Noi sappiamo il compito nostro, il compito a cui abbiamo sacrato
ogni palpito ed ogni giornata, la quiete, il pane, i cari. Non lo
tradiremo per le vostre minaccie, come per le ricorrenti lusinghe
non l'abbiamo tradito ieri; neanche l'umilieremo chiedendo alle
vostre leggi la tutela, alle vostre corti di giustizia, ai vostri
aguzzini la pietà, ai vostri armenti la solidale cooperazione che
non sanno intendere nè dare qui, sdegnosi di abdicazioni e di
compromessi; qui, ribelli immutati ed immutabili ad ogni tirannide,
a tutte le iniquità, a tutte le vergogne dell'ordine privilegiato,
qui vegliamo in armi; e finchè sia anelito di giustizia, sogno di
fratellanza, spasimo di liberazione; finchè sia verità generosa,
accessibile realtà del domani.
In faccia ai castrati che ne inorridiscono, ai farisei che
l'abiurano, ai pasciuti che v'imprecano, ai tartufi che se ne
rodono, ai poltroni che la tradiscono, ai manigoldi che la
perseguitano, ora e sempre:
Viva l'anarchia!
Viva la rivoluzione sociale!
(18 luglio 1918)
"...und heute geht eine neue Epoche
der Weltgeschichte aus"
«Now the heart of the world is awake, and the heart of the world
must be satisfied.....».
«Do not let yourselves suppose for a moment that the uneasiness in
the populations of Europe is due entirely to economic motives;
something very much deeper underlies it ali than that. They see
their governments have never been able to defend them against
intrigue or aggression.....».
WOODROW WILSON
alla Metropolitan Opera House, la sera
di martedi 4 Marzo 1919.
Il cuore del mondo si sveglia, si è svegliato anzi, e quanti lauri
sfrondati, quanti calcoli dispersi, quanti ruderi accumulati sul
vecchio mondo e sul nuovo da quel suo primo fremito nel rapido giro
di pochi mesi!
E quante leggende, quanti oroscopi sfatati, anche!
Quanti eravamo, cinque anni or sono, a prevedere, a credere che non
ultima conseguenza della guerra sarebbe stato lo sfacelo del vecchio
ordine sociale e che al 1914, allo stato ed alla condizione di cose
che dell'immane flagello, per cento cause diverse e complesse ma
egualmente ineluttabili, dovevano accendere la prima scintilla e
sferrarne tutti gli orrori, non saremmo tornati più?
Scarsi. Scarsi lassù nell'Olimpo ove la protervia ladra degli
intrighi e delle usure cercava un alibi, dove la responsabilità
della provocazione s'attenuavano della comune lusinga inconfessata
che, dopo tutto, all'irrequieto e minaccioso proletariato
internazionale, briaco di utopiche palingenesi, non potevasi
ammanire diversivo più energico nè più efficace che un tuffo
violento, inaspettato, sanguinoso nel gorgo delle tradizioni
venerande e delle sacre rivendicazioni della stirpe, nel cieco
rigurgito conseguente degli odii, dei livori e delle cieche furie
patriottarde appena sopite.
Un lustro caino di fratricidi avrebbe levate più alte, più scoscese,
inaccessibili alle aberrazioni dell'internazionale proletaria, le
frontiere della patria cresimata, dell'unità incoronata della
grandezza e della gloria.
Quand'anche ogni altro calcolo fosse andato fallito, ogni altra
ambizione delusa, la guerra restauratrice dei vacillanti privilegi
di classe, era sempre la più avveduta delle speculazioni.
* * *
Scarsi pure di qua, tra noi, ove su l'accidia anemica, su l'ignavia
diffusa e su la miseria lenta d'ogni progresso nostro, se non
trascurabile, sproporzionato al fervor degli aneliti ed alla
dolorosa intensità degli sforzi, suppurava la scrofola mentale dei
sofismi a cui ciascuno chiedeva il passaporto degli opportunismi
fruttiferi, il rifugio alla propria vigliaccheria, il conforto alla
propria impotenza, la foglia di fico alle proprie vergogne,
spianandoci il volto, con un'aria tra di compatimento e di
canzonatura come fossero essi balzati da una costa di Prometeo o di
Vico, l'anatema, l'ostracismo abusato, rancido, convenzionale: «Bah!
ce ne dev'essere della ruggine cristiana sui vostri cervelli, e
della fede umanitaria nella vostra bisaccia, se vi attendete la
rivoluzione sociale dalla massa, dall'armento che serve a tutte le
tirannidi colle sue dedizioni rassegnate e le cinge arcigno a tutti
i novatori, refrattario a tutte le innovazioni, delle sue remissioni
inesauste e della sua feroce inamovibile bestialità.
La massa, è oggi, sarà domani, quella che è stata sempre, il
bestiame da soma, da corda, da macello, su cui male s'impegna una
speranza ideale.
«Bestiame senza coscienza, senza volontà, senza coraggio, senza
fede, irredimibile, ha il basto, il bastone, il padrone, il governo,
lo squallore e la schiavitù che si merita.
«Non imprecate alla guerra che aiuta colla falce e la mitraglia a le
provvide selezioni».
* * *
A credere nella rivoluzione sociale per cui si deve attingere la
superiore umana convivenza nella quale del benessere e
dell'autonomia di ciascuno siano incrollabile guarentigia la
spontanea libera associazione ed il benessere di tutti, è rimasta la
scarsa minoranza tenace a cui recano oggi gli avvenimenti il
suffragio più schietto, il conforto più generoso, un affidamento
augurale.
I PRIMI LAMPI
La Russia è tutta un incendio, è, forse meglio, il crogiuolo rovente
nel quale rapporti e forme del vecchio ordine politico ed economico
si dissolvono, residuando fra le scorie e la mefite il primo nucleo
dell'ordine nuovo: il soviet. Il quale, trasferendo dalla classe
privilegiata alla classe proletaria la gestione politica del paese e
la gestione economica del patrimonio nazionale, per la duplice
dittatoriale investitura, si tradisce fin da ora un governo, il
peggiore forse di quanti governi noi abbiamo veduto fin qui; ma
resta pur sempre il fatto nuovo in quanto colla espropriazione –
intenzionale o pratica non conta – della borghesia, chiude l'era
delle rivoluzioni puramente formali, esclusivamente politiche; ed
affaccia oltre che la soluzione di un problema, del problema
economico, che le precedenti rivoluzioni hanno sempre ignorato, lo
strumento, primitivo, goffo mostruoso finchè volete, con cui presume
attingere le conquiste superiori ed ogni trasformazione successiva.
È il fatto rivoluzionario anche se non sia ancora la rivoluzione,
anche se, pel momento, non autorizzi il fanatismo delle conventicole
libertarie pel bolscevichismo.
Il ricordo è di ieri. La insurrezione del 12 Marzo 1917 aveva fatto
appena mezza giustizia dello czarismo, che incontro al governo
provvisorio, torbida coalizione di pusillanimi, d'arfasatti e di
volponi, si levarono i soli che avessero rischiata la vita nel primo
cimento assegnandogli ben altro compito che di tessere fra i ruderi
dell'autocrazia il nido ai gufi delle oligarchie miliardarie e della
famelica travetteria democratica.
Si levarono ammonendo fermamente da prima, minacciando inutilmente
di poi, cacciando il 7 Novembre dello stesso anno, senza troppi
sforzi, ed, è a credere, per sempre, i nuovi padroni...
Il linguaggio che parlavano era nuovo, inaspettata l'audacia,
trionfale la rivincita; il nome esotico, soffuso di mistero,
corrusco di ricordi impetuosi, soggiogava tutte le simpatie:
bolscevichi!
Nessuno sapeva di preciso che cosa volesse dire, ma poichè nessuno
sapeva disgiungerlo dalle prime vittorie, della insurrezione che
aveva dall'anarchico al socialista coscritte le più fervide energie
d'avanguandia, tutti furono bolscevichi.
Niente di male, in fondo; tanto più che tutti del comune
denominatore volevano, per iscarico di coscienza, l'etimologia; il
male è che tutti volevano – mentre a traverso le maglie della
censura non filtrava una notizia e la stampa indigena vi sopperiva
delle sue lojolesche fantasie salariate – la cronaca, le vicende, i
caratteri della nuova rivoluzione; e ci vituperavano furiosamente
perchè non ammanivamo ai nostri lettori lo specchio esatto,
cinematografico, della situazione che doveva essere buia assai se
pigliavano cantonate Massimo Gorki e Caterina Breskoski, il primo
ripudiando i bolscevichi coi quali oggi si concilia; la seconda
spronandoli ieri a la riscossa per rinnegarli ora ferocemente.
Ricusarsi di esprimere, su la scorta magra e dubbia delle
informazioni interessate un giudizio temerario, era dunque non
soltanto onesta cautela, prudenza elementare, era salvarsi da molte
delusioni amarissime a cui i frettolosi sono andati a sbattersi a
capo fitto.
CIASCUNO AL SUO POSTO
Perchè oggi i bolscevichi hanno parlato, ed il processo di
differenziazione si compie assegnando a ciascuno il suo posto.
Contro lo Czar, contro l'autocrazia, contro il privilegio nobiliare
e borghese tutte le correnti sovversive in fascio, dagli anarchici
libertarii, ai sindacalisti rivoluzionarci, ai socialisti
riformisti.
Per l'apoteosi dello Stato138, per la dittatura dei soviets, per la
«nazionalizzazione» della terra, delle miniere, delle industrie; pel
monopolio, pel lavoro obbligatorio, per la sottomissione assoluta
della massa, mediante una disciplina di ferro, alla volontà unica
del direttore del soviet139 rimangono Lenin e Trotski, i bolscevichi
che i frutti della rivoluzione si sono accaparrati, ed hanno già
iniziato un periodo di involuzione, di conservazione, se non proprio
di restaurazione.
Anarchici, sindacalisti, quanti pensano che lo Stato sia tristo non
perchè autocratico o democratico, ma perchè lo Stato, perchè
nell'idea di dominio è implicita l'idea di soggezione; ed odiano il
padrone non perchè esso è Carnegie o Rockefeller, ma perchè è il
padrone, perchè è lo sfruttatore; e non s'acconciano alla dittatura
del soviet; e non hanno fede nella nazionalizzazione dei mezzi di
produzione per cui l'operaio, mutato in funzionario, rimane un
salariato, uno sfruttato, un servo, zimbello di tutti i capricci del
dittatore140; e credono sopratutto che l'opera di ricostruzione male
si inizii fino a tanto che l'opera di demolizione non sia compiuta:
ed hanno il coraggio del loro pensiero, della loro fede e del
corrispondente atteggiamento, guardano al governo del soviet come ad
un compromesso bastardo, come ad una sosta pericolosa; si schierano
apertamente all'opposizione donde sospingono le masse a tutta la
rivoluzione, a tutta la liberazione, asciugando naturalmente del
governo bolscevico, come già di quello dello Czar, il bando, le
manette ed i vituperii141.
Ciascuno al suo posto!
DILETTANTI D'ASTROLOGIA
Ora, se questo giacobinismo intollerante e feroce, che il governo
dei soviets gabella per la libertà, ha smagato i semplicioni non
dispera affatto la gente che osserva e che ragiona tenendo conto
dell'ambiente in cui la rivoluzione russa si è attizzata, e delle
cause che l'hanno precipitata sovvertendo gli oroscopi dei profeti
estemporanei.
La rivoluzione si aspettava dalla Francia, dall'Italia, tutto al più
dalla Germania; dalla Francia perchè laggiù le massime conquiste
politiche si sono vittoriosamente esperimentate e perchè la
tradizione rivoluzionaria è nello spirito della gente, senza
contestazione la più evoluta del vecchio continente e del nuovo;
dall'Italia – intendo dire dal proletariato italiano – perchè sulla
insofferenza caratteristica delle plebi e sulle loro miserie
spaventose ed immeritate, mezzo secolo di propaganda sovversiva
aveva senza alcun dubbio rivelato una coscienza di diritto e di
forza a cui le decimazioni orrende e le carestie esose della grande
guerra, avrebbero dovuto sobillare ad ogni estremo più temerario; o
dalla Germania, dal proletariato tedesco crocifisso dai nemici di
dentro come da quelli di fuori, il più esercitato alla critica
sociale dei vecchi istituti, il più agguerrito dalla educazione e
dalla disciplina all'esperimento dei nuovi.
Le plebi di Francia e d'Italia bevono invece rassegnate la cicuta
fino alla feccia, mentre quelle teutoniche non si sono mosse che
ultime ed a mezzo. La rivoluzione è venuta dalla Russia, dalla
Russia medievale, analfabeta, vassalla, rassegnata, dalla Russia
inconsapevole, indifferente di ogni fremito della intensa, febbrile,
tumultuaria vita del resto del mondo, travolto dal fervore delle sue
industrie, dei suoi commerci, della sua vita di pensiero, per bolgie
di umiliazioni, di dolori, di iniquità insospettate, e su per l'erta
di segni, di speranze, di propositi incoercibili ad una nuova e più
vasta concezione del diritto, della giustizia, della libertà
individuale e della rinnovazione sociale.
Dalla Russia! La Francia tornava, nella subita resipiscenza degli
astrologhi delusi, terra di piccoli bottegai, di piccoli
proprietari, aspri al lavoro, al guadagno, al risparmio, custode
rigida e vigilante dell'ordine che ne assicurava le benedizioni;
l'Italia non si reggeva in piedi, non aveva più nelle vene una
goccia di sangue, non aveva più un uomo valido per le campagne
desolate, ed era follia pretendere che avesse in quelle condizioni
ad imbarcarsi, dopo quattro anni di strazio, per una rivoluzione.
Quanto alla Germania, non era universalmente convenuto che essa
ignora il procedimento rivoluzionario, che non lampeggia d'una
rivolta alcuna pagina della sua storia secolare, e che intorno al
suo Kaiser non s'era mai stretta con tanto lealismo come oggi che
egli la trascinava nella sua rovina?
Miserie dell'astrologia facilona, alla quale è da preferirsi
l'interpretazione coscienziosa e modesta degli avvenimenti, e la
deduzione discreta che dai fatti stessi discende.
Considerata a questa stregua la rivoluzione russa cessa
dall'apparire una contraddizione in termini. La tradizione della
proprietà comunale non è stata sempre in Russia così viva da non
lasciare posto ad altra aspirazione nel cuore dei musgicchi? E non
si accompagnava essaa da più di mezzo secolo – avanti assai
dell'apostolato di Leone Tolstoi – ad un orrore sacro della caserma
e del servizio militare?
E non era in Russia una borghesia progredita, moderna, avida di
conquiste, d'espansione, di dominio, a cui il regime autocratico coi
suoi privilegi imperiali e nobiliari, colle sue barriere, le sue
interdizioni fiscali, era cappa di piombo intollerabile?
E la guerra che inaspriva col tributo del sangue il peso delle
taglie, già così gravi, ai contadini ed agli artigiani, confiscando
nelle persone l'ultimo patrimonio – pure così scarso – della
politica libertà; la guerra che alla grassa borghesia offriva il
destro di rivelare la propria onnipotenza, di far valere la propria
volontà, di affacciarsi una buona volta alla vita ed alla storia –
denudando contemporaneamente la corruzione, la venalità, le
turpitudini dell'aristocrazia infracidita e della dinastia
bordelliera – non doveva inalveare le due correnti nella fiumana in
cui l'autocrazia è andata travolta?
E la rivoluzione del 12 Marzo 1917 non ha qui (se non tutte le sue
cause che sono infinite e infinitamente varie e complesse) la sua
scaturigine prima e l'impronta fatale di compromesso che vorrebbe
placare l'antitesi profonda d'interessi e di aspirazioni delle due
correnti inalveate?
Il governo provvisorio di Kerenski, un mezzo socialista, del Lvoff,
un arcimilionario, del Miliukoff, un dottrinario del liberalismo
ultra borghese, è la faccia del compromesso per cui la borghesia,
che non aveva provocato la rivoluzione, che s'era guardata bene dal
rischiarvi la pelle o la fortuna, s'affrettò a metterle redini e
freno, decisa ad eludere con una largizione costituzionale ed una
pomposa Dichiarazione dei Diritti le rivendicazioni economiche degli
straccioni che alla strada si erano buttati per dare fine immediata
alla carneficina, per dare alla conquista della terra l'immediata e
reale consacrazione.
Il compromesso dura otto mesi a mala pena, ed è stracciato dalla
ripresa insurrezionale del 7 Novembre che sulla base della
nazionalizzazione della terra e degli strumenti di produzione,
instaura la repubblica socialista dei soviets.
La quale è ancora un compromesso, inevitabile forse, colla...
situazione, coll'ambiente nazionale da cui è scaturita, colla
situazione internazionale da cui è insidiata, minacciata, dominata.
E qui ci par doveroso chiarire.
LA TREGUA
Noi non siamo bolscevichi se, per definizione, essi sono gli uomini
della maggioranza. L'anarchico, dove non sia solo, è sempre della
minoranza. Sarà della minoranza probabilmente anche allora e dove
sfolgorerà in tutta la sua pienezza, un giorno, il comunismo
anarchico, perchè lo ribelleranno le forme in cui l'ideale è stato
costretto dalle pratiche necessità della realizzazione, e perchè,
giunto alla meta, altra meta avrà intraveduto più lontana ma più
pura e più radiosa in cui rifugiare il suo insaziato bisogno di
giustizia, di amore, di libertà. L'anarchico è antibolscevico per...
definizione.
Ma come i bolscevichi non sono stati sempre contro gli anarchici,
così gli anarchici non possono essere contro tutto l'atteggiamento
dei bolscevichi.
L'anarchico è il nemico implacabile della proprietà perchè è il
nemico implacabile dell'autorità.
Finchè si è trattato di abbattere lo czar, di espropriare armata
mano la borghesia, gli anarchici si sono cacciati in Russia ieri –
come faranno altrove domani e sempre – nei primi ranghi, dalla prima
ora; nè è a supporre che agli uomini dei soviets quell'intervento
sia spiaciuto; quando, infrenata la rivoluzione, la repubblica
socialista dei soviets badò più che tutto a consolidarsi, e, col
pretesto di riordinare e di ricostruire, imperversò di leggi e di
decreti, di monopolii e di dittature, gli anarchici dopo di avere
indarno tentato di continuare, di compiere l'opera di demolizione
indispensabile a costruire, dopo di avere esperimentato allo Smolnv
Institute che la mitraglia di Lenin non è più pietosa di quella
dello czar, si appartarono attendendo l'ora della rivincita, non
concedendo ai bolscevichi che la tregua necessaria a custodirli
dagli attentati contro-rivoluzionari del nemico comune sempre in
agguato; e dare agio così al proletariato delle nazioni esacerbate
dalla disfatta come a quelle esauste dalla vittoria, di schierarsi
in linea imprimendo alla rivoluzione il carattere universale senza
di cui i suoi trionfi, le sue conquiste, come l'insieme dei nuovi
più equi e più liberi rapporti, non sarebbero che effimeri,
destituiti d'ogni valore, di ogni portata, di ogni garanzia.
Una condotta che non è soltanto anarchica, ma logica e generosa;
perchè l'atteggiamento dei bolscevichi è rivoluzionario quando essi
distruggono, con essi nell'opera di demolizione bisogna essere con
tanto ardore da superarli e distanziarli; e se quando essi
ricostruiscono non possono essere che riformisti, bisogna lasciare
ad essi la responsabilità della ricostruzione ed attenderli al
varco, sfumato il pericolo della contro-rivoluzione, per sospingerli
alla liberazione integrale; o seppellirli, ove abbiamo a
recalcitrare, insieme con lo czar, tra i ferravecchi dell'ordine
superato.
I FRUTTI DELLA TREGUA
Intanto la tregua ha portato i suoi frutti. Mentre all'interno gli
attentati contro-rivoluzionari si sono fieramente rintuzzati,
all'estero, le fortune militari della Germania hanno visto l'ora
tragica dell'occaso; il trattato di Brest-Litowsk è andato in fumo
restituendo alla rivoluzione una sicurezza, ed una libertà
insperate, e coscrivendole nel cuore stesso della Germania una
falange audace ed eroica di alleati che il martirio consacra alle
vittoria.
Perchè se anche qui l'ora prima fu del compromesso, più torbido
ancora che non quello Lvoff-Kerenski, il compromesso tra i
Brockdorf, gli Hindenburg, gli Erzberger ed i residui cortigiani del
Kaiser, per una parte, e gli Ebert, i Noske, gli Scheidemann della
socialdemocrazia pagnottarda e arrivista, per altra parte, non v'è
la più lontana ragione di sbigottire, di sfiduciarsi.
Il movimento rivoluzionario in Germania non è che alle prime
battute, ed è ovvio che la borghesia, la quale nel Kaiser fallito
non trova più nè il suo simbolo, nè la insegna fortunata, nè la
tutela sicura dei suoi privilegi di classe, si butti nelle braccia
di quella socialdemocrazia, timorata di cui ha esperimentato nella
lunga convivenza parlamentare la moderazione e la docilità; e che
questa ponga ogni suo studio più geloso a rassicurare i nemici di
ieri, poichè al governo l'associano, che il rispetto alla proprietà,
l'obbedienza alla legge, la soggezione allo Stato, non sono stati
mai più rigidi; più severi che nel primo esperimento socialista.
Ma quanto durerà l'idillio?
* * *
Soldati e marinai che sono tornati dalle Fiandre, dai Vosgi, dalle
lunghe crociere angosciose; operai e contadini che hanno scontato di
sangue e d'inedia, d'abnegazione superumana i capricci dell'ultimo
Hohenzollern, e dalle trincee, dalle fucine, dai campi sono tornati
per chiedergliene conto, reclineranno la cervice sotto il giogo dei
nuovi mandriani che, mutato appena il nome e la livrea, ne hanno
pigliato il posto e ne continuano la tirannide vorace e sanguinosa?
Rispondono di no, violentemente, i lavoratori dell'Assia, della
Sassonia, della Baviera, i contadini della Slesia, i minatori della
Westfalia; rispondono di no violentemente con Rosa Luxemburg e Clara
Zetkin e Carlo Liebknecht e Franz Mehering i libertari che alla
insurrezione hanno chiesto più che un mutamento di basto e di
padrone, i socialisti che al socialismo non hanno chiesto soltanto
il viatico e la medaglietta, e non consentono di vederlo mezzano
delle rinnovate servitù del proletariato a beneficio dei rinfrancati
privilegi della classe dominante.
Dalle barricate, le armi nel pugno, la fede invitta nei cuori,
radiose su la fronte le promesse dell'avvenire, rispondono che no.
So, so, le riserve paurose onde si agghiaccia di brividi la
squallida anima dei servi che ai rischiosi cimenti della liberazione
antepongono l'ignavia della usata servitù: la coalizione è forte
d'armi e d'audacia, senza scrupoli e senza pietà, ed ha ieri, ieri
proprio, disperso colla mitraglia le ultime temerità
dell'insurrezione, ed il vecchio ordine crollante non ha mai avuto
più rapida nè più energica restaurazione.
Thiers e Gallifet sono frati zoccolanti in confronto di Ebert e di
Noske; ma Scheidemann vede erto su la quadruplice frontiera lo
spettro di Stenko Razine e cerca di placarne i furori affacciando la
immediata necessità della socializzazione dei mezzi di produzione e
di scambio, la necessità di placare la rivoluzione che scuote la
vecchia Germania, e contro la quale sono utopica barriera la
mordacchia, l'ergastolo e la strage.
Sotto la fiamma dell'idillio che sfuma non restano che le bragie
dell'esperimento ammonitore: Il regime socialista è l'ultimo rifugio
del privilegio in bancarotta e lo supera di bestialità e di ferocia.
Sotto il regime autocratico del Kaiser, Karl Liebknecht che scalza
della sua parola corrosiva la fede nella guerra, e ne contrasta le
fortune con tenace insopprimibile energia, si abbatte nei codici,
nei tribunali, nei magistrati dell'Impero che lo confinano in galera
per la durata prevedibile della guerra, per tre anni; senza negargli
alcuna delle guarentigie che all'accusato sono dagli ordinamenti
giuridici borghesi riconosciuti, anche quando infuria la guerra,
anche nelle autocrazie meno larvate; e dinnanzi all'eresia
vermiglia, quando s'incarni nel fragile petto, nell'amore immenso e
nella fine spiritualità di Rosa Luxemburg, disarmano, assolvono.
Sotto il regime social-democratico degli Ebert, dei Noske, degli
Scheidemann le guarentigie costituzionali e giuridiche, che il
Kaiser ha rispettato, diventano un ingombro, i tribunali, superflui
dove basti un sicario, ed a Karl Liebknecht i sicari della
social-democrazia hanno fracassato il cranio, in un'umile sala
d'albergo, a tradimento, col calcio dei fucili; e su Rosa Luxemburg
– infamia che sconsacra il regime nuovo – hanno avventato al
linciaggio le femmine da conio briache, i manigoldi della vecchia
polizia che della martire prima della rivoluzione sociale hanno
straziato le carni, profanato e buttato a fiume il cadavere: sugli
insorti, sui mutilati della guerra, sulle donne consunte dallo
strazio, sui bambini resi dall'inedia la social-democrazia imperante
è passata coi suoi cannoni, coi suoi giannizzeri, col fuoco liquido,
coi gas asfissianti che il Kaiser non ha mai osato che contro i
nemici di fuori.
L'episodio potrebbe rinnovarsi, si rinnoverà fuor di dubbio altrove,
domani.
Guai a chi dimentichi, guai a chi perdoni, guai a colui che sognando
un compromesso qualsiasi cogli eredi, coi successori immediati della
borghesia si inabiliterà ad ogni compito ulteriore di rinnovamento,
e tradirà se stesso, il proletariato, la rivoluzione, l'avvenire:
guai!
Il tradimento di un'ora si sconta in stille di pianto e di sangue
nei secoli dai figli, dai figli dei figli, dai nipoti più lontani.
Non deve trovare nè quartiere nè pietà.
* * *
Cavalca per valli e pendici ad ogni frontiera lo spettro, e ruggente
per le vie, in agguato pei trivi, fremente nel sottosuolo, vigile
per ogni cuore, la rivoluzione è dappertutto.
Non mi chiedete quando scroscierà su la vostra soglia, impazienti
che gli spasimi dell'indugio e le ansie dell'attesa ed il polso
delle speranze inquiete misurate sul quadrante dell'orologio:
Affilate le armi!
Chi, esausta l'ultima pazienza, ha voglia di menar le mani subito e
sul serio non ha da affaticarsi a trovarne la congiuntura: e qui non
sono, d'altra parte, nè maghi nè aruspici che il viatico e la
bussola chieggano ai sogni, alla cabala, a le stelle.
Parlano troppo schietto linguaggio le voci dei giorni e delle cose.
Quando in Inghilterra a Dover, a Folkestone, in tutto il paese di
Galles i pronunciamenti armati delle truppe che sul continente non
vogliono più tornare, che non vogliono bivaccare più nei campi
trincerati, che vogliono tornare a casa, e buttano le armi o, più
ragionevoli, le scaricano sugli ufficiali, sono di tutte le giornate
del lunario: quando a Belfast ed a Glasgow gli scioperi della
miniera, dell'industria, dei pubblici servizi, respinta la
flemmatica diplomazia delle concessioni reciproche, degli arbitrati
volponi, delle conciliazioni bugiarde, non si raccomandano più che
al sabotaggio, al boicottaggio, alla rivolta sacrilega e vandalica;
e del capitalismo l'arroganza, del governo la repressione non si
usano non si osano più e le fortune della tregua si affidano a
sommarie provvidenze legislative che sono di per sè una abdicazione,
noi conchiudiamo discretamente che laggiù le classi non arrivano più
ad intendersi e che dove esse non trovano più la zona neutra del
compromesso, la guerra di classe è ai ferri corti e la rivoluzione
sociale alle porte.
Quando in Francia nel tripudio della rivincita della gloria e della
vittoria, su l'uomo che la costrinse su la fortuna e su le bandiere
della patria, aureolato della gratitudine della devozione
dell'ammirazione universali, si spiana la rivoltella di Emilio
Cottin, noi che ai ribelli non sappiamo prestare la fede nel
miracolo a cui abbiamo chiuso i nostri cuori irrevocabilmente,
neppure sapremmo prestare ad essi arbitrariamente e stupidamente il
proposito di salvare col gesto iconoclasta dalle estreme perdizione
il genere umano.
In un ambiente sociale in cui nessuno sappia cogliere i rapporti fra
causa ed effetto, in cui non sia di fronte alla grande maggioranza
furiosa a maledire, una minoranza disposta ad intenderlo, a
spiegarlo se non pure a giustificarlo, l'atto di rivolta non si
ingenera, non è possibile neppure come ipotesi, perchè a tendersi
nell'olocausto il coraggio individuale ha bisogno di contare e conta
su le conseguenze riflesse della propria audacia, e spera che su le
bilancie dell'esito la ferocia degli oppressori minacciati o
vulnerati pesi meno che i consensi, le simpatie, le morali
solidarietà degli oppressi poi cui ha parlato ed operato
richiamandoli a la vita a la speranza, a l'azione. E perchè l'atto
di rivolta dell'individuo ha le sue cause predisponenti meglio
attive fuori del suo io, in un malessere più profondo, in un disagio
più vasto, nell'angustia collettiva – il più delle volte
inconsapevole o rassegnata – che sul suo cuore eccezionalmente
sensibile freme, gonfia, urge fino all'esplosione.
In questa sproporzione di sensibilità fra l'individuo privilegiato e
la turba incallita, è la prima favilla; in questa sua duplice
reazione alla bestialità che imperversa dall'alto ed all'ignavia che
le si adagia dal basso, è la causa determinante ed è il carattere
dell'atto di rivolta individuale che per questo si rivela in ogni
tempo e dovunque come il segno precursore delle insurrezioni
parziali e delle rivoluzioni definitive da cui è a non lunga
scadenza seguito.
Alla luce di queste considerazioni modestissime le revolverate di
Emilio Cottin142 a Clemenceau non sono più che l'eco della diffusa e
taciturna protesta plebea, e allorchè questa trova la sua via nel
delirio dell'apoteosi, trova negli indigenti della patria vittoriosa
il suo bersaglio, noi abbiamo il diritto di conchiudere che la
misura è colma, che oltre le decorazioni ed i circensi tricolori
sono in agguato, memori dei sacrifizii e dei disinganni recenti,
memori di tre rivoluzioni deluse, i proletarii, i sanculotti di
tutta la Francia erti alla più disperata, alla estrema delle
riscosse, all'ultima delle rivoluzioni, alla rivoluzione sociale.
Affilate le armi!
* * *
Che cosa vogliono di là dai Pirenei i montanari baschi, i contadini
d'Andalusia, i repubblicani di Valencia, la marmaglia catalana
indomita, che rendono da un paio d'anni impossibile in Ispagna altra
forma di governo che non sia quella degli stati d'assedio e delle
corti marziali?
Vogliono i fueros, l'autonomia cantonale, la repubblica? O vogliono
la terra e l'aratro, la spiga ed il pane, la luce e la libertà?
E perchè di quà dalle Alpi corre dunque Filippo Turati ai ripari
scongiurando i partiti socialisti ad infrenare solleciti concordi
decisi l'agitazione per la costituente iniziata dalla Confederazione
Generale del Lavoro, che è pur così tarda, così parruccona?
Per le identiche ragioni per cui i repubblicani di Spagna fanno
argine della loro indubbia preponderanza ad ogni agitazione delle
plebi iberiche: Perchè «preordinata ad un sovvertimento politico più
profondo, a darci almeno un mozzicone di repubblica», l'agitazione
per la costituente potrebbe, e per la forze delle cose e per la
sovreccitata passione popolare, rovesciare il popolo in piazza
all'insurrezione, alle barricate143; perchè sarebbe la rivoluzione
sociale.
E la bestiale reazione che soffoca qui ogni eterodossa
manifestazione del pensiero, le condanne secolari, il furore delle
proscrizioni, le dragonnate selvaggie che disperdono ai venti le
conquiste della rivoluzione nazionale, il diritto alla libertà di
pensiero, di parola, di stampa, di riunione, sì che la repubblica
oggi è, in materia di libertà, mezzo secolo più indietro e più basso
che non la Russia sotto il giogo dei Romanoff; e parallela a questi
sporadici furori inquisitoriali la più vasta rete d'internazionali
compulsioni per cui Metternich rattrappito nel cravattone di Guizot
a uso e consumo dell'ottusa mentalità indigena – Woodrow Wilson
tesse a Parigi, nella lega delle nazioni, di eserciti e di squadre
internazionali, a soffocar dovunque la rivoluzione sociale, la nuova
Santa Alleanza, non vi dicono che se la paura è qui sproporzionata
alla minaccia, non è tuttavia nè infondata nè illegittima, e che la
struttura feudale della repubblica trustaiola e palancaiola sta per
crollare irrimediabilmente condannata?...
Affilate le armi! chè la rivoluzione è dappertutto, e lampeggia per
ogni cielo ed incendierà domani tutta la terra.
È fatale!
Se nell'identità dell'ambiente e degli elementi le stesse cause non
possono altrimenti conchiudere che agli stessi effetti, quello che è
avvenuto in Russia, in Austria, in Germania, deve avvenire ed
avverrà in proporzioni e con caratteri anche più spaventosi in
Francia ed in Italia.
I patriotti di casa nostra possono millantare quanto vogliono la
sagacia dei condottieri, il valore degli eserciti, l'abnegazione del
paese ed inghirlandarne la vittoria.
La prima vittoria è stata la nostra; è stata la rivoluzione che ha
spezzato la spada nelle mani dell'ultimo Ausburgo ed ha spennato per
sempre l'aquila degli Hohenzollern. Senza gli ammutinamenti
dell'esercito austriaco, senza l'insurrezione nel cuore dell'impero,
i nostri generali sarebbero ancora sul Piave.
E perchè in Austria prima, come già in Russia, ed in Germania poi, i
soldati hanno buttato le armi, ed artigiani e contadini le hanno
impugnate disertando il solco e l'officina?
Perchè commisurate al sacrifizio la patria e la vittoria non
valevano il pane e la pace; perchè avevano lo stesso ghigno
bifronte, nelle alterne vicende dell'impresa, il trionfo e la
disfatta: dall'altra riva, capitalisti, signori, privilegiati d'ogni
rango coniavano indifferenti ed insaziati sui rovesci militari della
patria anche più lesto e più pingue che non nei giorni del trionfo
il miliardo; e di qui, nella squallida landa proletaria, ogni passo
per cui ascendeva la nazione verso la finale vittoria, non affondava
che più basso nella belletta della servitù consueta i paria
straziati nelle carni, nel cuore delle madri, nell'angoscia delle
donne, nell'inedia dei figli, oltre ogni misura di pazienza e di
rassegnazione, ineffabilmente. Più giù non si poteva cadere, nessun
dolore poteva essere più acerbo, nè più grave la croce, nè più
beffardo l'inganno, nè più angusto l'ultimo rifugio dell'ultima
speranza.
E dall'esecrazione di milioni di cuori e di vellose braccia insorte
le millenarie dinastie degli Ausburgo e degli Hohenzollern andarono
al vento disperse come il malaugurio; la nazione riconquistata a se
stessa esperimentò dopo cinque anni d'agonie quotidiane, che pur
atterrata dalla sconfitta a pie' dei vincitori, pur nel baratro
della devastazione paradossale, essa poteva ancora ai focolari
scintillanti di una fiamma e di un sorriso, riaccendere la face
degli affetti, delle speranze, della vita e della gioia.
* * *
Per escludere che quanto è avvenuto in Russia, in Austria, in
Germania possa accadere in Francia, in Italia, in Inghilterra, in
Spagna, bisognerebbe dimostrare che nei paesi baciati dalla vittoria
le condizioni di libertà politica, di benessere economico e di
morale soddisfazione siano migliori.
È invece il contrario.
In Inghilterra, in Francia, in America, in Italia la proclamazione
dell'armistizio disseccò le fonti delle varie ed immense industrie
della guerra e dei conseguenti altissimi salarii che bilanciavano
l'enormità del carovivere; la disoccupazione seguì irreparabile e
dilaga rigurgitando alla superficie l'acre universo malcontento che
la carità di patria aveva durante cinque anni ammutolito; e poichè i
governi non possono contenere le legittime rivendicazioni del
proletariato che vuole il tozzo in cambio del sangue, e rispondono
come al solito col piombo, colle manette, colla galera, ed in questa
inanità disperata di condizioni la stessa vittoria non è che un
disinganno, che un'umiliazione di più, così come dall'altra parte
delle Alpi o del Reno la sconfitta è ancora una giustificazione; noi
ci troviamo nell'identità dell'ambiente e dei suoi elementi varii,
nelle stesse condizioni politiche economiche morali che nei paesi
vinti sono state le cause predisponenti dell'insurrezione e della
rivoluzione.
— Che fino ad ora intanto non è scoppiata! interrompe ghignando San
Tomaso.
E San Tomaso ha ragione. Il proletariato della patria non si è mosso
fino ad ora: la misura delle sue evangeliche pazienze non è
traboccata. Vuol dire che non è colma, vuol dire che un'illusione
sorride ancora ai derelitti, l'illusione forse nei poveri contadini
della Venezia, del Friuli, del Cadore a cui la guerra ha raso la
capanna e confiscato la vacca e desolata ogni cosa, l'illusione che
sulla taglia imposta ai vinti – e sono miliardi! – sarà fatta la
parte loro; che memore del loro infortunio e della loro abnegazione,
il governo rifarà ad essi la casa, ridarà il gregge e la mandra e le
suppellettili, così come farà una pensione ai vecchi cui ha tolto i
figli per sempre, ed ai mutilati cui cui ha tolto per sempre la
possibilità e la speranza di guadagnarsi il pane quotidiano.
Evidentemente la misura non è colma, e San Tomaso ha ragione.
Ma se alla fine del mese i preliminari della pace saranno firmati ed
ipotecate od incassate le prime indennità di guerra e dovrà il
governo rispondere che a pagare gli interessi dei 68 miliardi del
vecchio e del nuovo debito nazionale tutte insieme le risorse della
nazione non bastano; quando dovrà confessare che la redenzione del
Trentino e dell'Istria non reca alla vecchia patria che una
successione di rovine e d'affamati; quando la demobilitazione di tre
milioni di soldati che sono sempre al fronte, rovescierà sul mercato
del lavoro, già così denso, altrettante paia di braccia per cui non
è possibile l'impiego, allorchè decorati di medaglie, di nastri, di
cicatrici, torneranno ai distretti, tra le acclamazioni e le
fanfare, gli abbronzati eroi della grande guerra, e per le vie
ritroveranno macilenti, scorati, protese le mani supplicanti, le
vecchie, le donne, i parvoli che la patria matrigna ha sul lastrico
abbandonato alla pubblica carità; e, stretti dalla disperazione e
dall'onta al bivio, dovranno pur decidersi a lasciarsi andar su lo
strame e morirvi d'inedia senza speranza, od insorgere, le armi nel
pugno, l'odio nei cuori, a riprendersi la patria che hanno rifatta e
difesa, ditemi voi, si lascieranno morire?
Affilate le armi!
Se nella rivoluzione avete creduto; se è vero che le avete affidato
il vostro destino, che l'avete invocata, attesa, affilate le armi!
tuffate la mano nei ricordi lancinanti della diuturna passione;
stillatene il fiele, stillatene il sangue, stillatene il pianto,
tingetene il sudario che s'impronti d'ogni stigma, d'ogni lividura,
d'ogni ulcere, d'ogni ferita, d'ogni onta, d'ogni scherno;
costringendolo su la legione innumere dei bastardi, dei reietti, dei
paria; testimonianza del martirio di tutti, pegno dell'inesorato
comune proposito d'affrancarci, d'affrancare il lavoro dall'inopia e
dalla servitù, d'affrancare la mente dalla superstizione, i cuori
dalla menzogna e dalla viltà, d'affrancare la vita da ogni vincolo e
da ogni macchia restituendola, pel tragico lavacro, sotto l'egida
incorrotta della verità e della giustizia, ai fremiti, alle gioie,
agli orgogli della libertà.
Affilate le armi temprate nel fiele sì che non conoscano paura o
misericordia; la rivoluzione è qui!
Viva la rivoluzione sociale!
(Marzo 1919).
INDICE
Prefazione
Per la guerra, per la neutralità, o per la pace?
Più cambia e...
Tutto il mondo... è paese
La Repubblica di Sant'Ignazio
Minime della Patria e della Guerra
Contro la guerra, per la rivoluzione sociale!
Tanto tuonò che piovve
Figli, non tornate!
Pan prestato, buon da rendere!
Huitzilopochtli
«Evviva la guerra!»
Alla ricerca della patria
Minime della guerra
Tutto... e Nulla
Contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione
Può venire, l'attendiamo di piè fermo
Maggio di passione
Prefazione all'opuscolo «La Voragine»
La Voragine
Irredentismo aulico
Ed ora, tocca a noi!
A la forca!
Sicuro, ora tocca a noi, ma....
Quante bagascie a le calcagna di Marte!
Per S. M, il dollaro, a la riscossa!
Nulla dies sine linea!
Carpe Diem!
Nulla dies sine linea
Nulla dies sine linea
Primo Maggio
Tra il martello e l'incudine
Matricolati!...
Anticipazioni
No, non torna!
Vecchi, ditelo voi!
Madri, difendeteli!
Vi guadagneranno proprio?
Per questa volta...
Qui incomincian le dolenti note...
Mandateci in galera!
E bazza a chi tocca!
Eh, se governasse il buon senso...
Vuoi tu sorridere al guerrier che parte?
Un santo nuovo nel Calendario Repubblicano
Purchè non ci trovi colle mani in mano!
Ma si contenta di poco!
Gli ostaggi
Occhio, Eh!
Su, da bravi, pagate!
Note Sovversive
Indulgenza plenaria
Thanksgiving!
Turlupineide
Insino alla feccia!
Batti, ma ascolta!
Tenetevi abbottonati!
Nemo tenetur...
Alleati del Kaiser
Partenza!
Cittadino Wilson, una parola!
«Auto-da-fè» repubblicani
Coll'acqua alla gola!
La Comune
E sarà fiamma!
Ammazza!
Cercando una via I
Cercando una via II
Note Sovversive
Maggio scellerato
In articulo mortis
Viva l'anarchia!
“...und heute geht eine neue Epoche der Weltgeschichte aus”