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FRANCESCO CRISPI

Questioni Internazionali

DIARIO E DOCUMENTI
ordinati da T. Palamenghi - Crispi.
Il Cancelliere Caprivi e Crispi.  - La Tripolitania e la Francia. - Le fortificazioni di Biserta. - Le relazioni italo-austriache e l'irredentismo. - Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896. - La Francia contro il credito italiano. - Un incidente italo-portoghese. -La questione balcanica. - Le stragi d'Armenia e il concerto europeo. - 1896. La crisi delle alleanze e degli accordi.
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1913

AVVERTENZA.

Questo volume, che fa seguito all'altro pubblicato or fa un anno sotto il titolo di Politica Estera, non esaurisce la documentazione dell'opera compiuta da Crispi nell'ufficio di Ministro degli Affari esteri.
Su di una parte dell'attività prodigiosa di Lui ho creduto opportuno sorvolare, su quella che spiegò a vantaggio degli italiani dimoranti all'estero, sia proteggendoli dalle sopraffazioni, sia moltiplicandone le scuole, sia sottraendo le missioni cattoliche nazionali al protettorato di altra potenza. Non ho potuto raccogliere una messe adeguata di documenti, ed anzichè esporre incompiutamente questioni così importanti, ho preferito, per ora, tacerne.
Sono belle pagine di energia fattiva, di alto sentimento di dignità, di amore alla stirpe che mancano a questo libro.
Dall'elevato concetto che Crispi aveva della solidarietà patria rampollava gagliarda la coscienza del dovere di tutela per ogni italiano che si trovasse al di là dei confini d'Italia. E gl'italiani lontani sentirono durante il governo di Lui di non essere abbandonati al destino, e più vivo l'attaccamento alla loro terra.
Le scuole nei paesi esteri, strumenti di cultura e di nazionalità, ebbero da Crispi le maggiori cure. Le poche esistenti quand'egli salì al potere erano affidate a Corporazioni religiose, le quali non impartivano un insegnamento che potesse soddisfarci e non permettevano ai nostri Consoli alcuna efficace vigilanza; in qualche luogo, come in Tunisia, specialmente durante la primazia  del cardinale Lavigerie, erano esclusi da scuole, che si dicevano italiane, anche i maestri italiani. Crispi le tolse alle Corporazioni religiose che insegnavano a beneficio di una influenza che non era la nostra, trasformandole in scuole laiche, con metodi didattici moderni e con mezzi sufficienti affinchè in Levante riconquistassero alla nostra lingua il primato che vi ebbe una volta. E molte altre ne istituì ex novo, vincendo ostilità d'ogni genere.
Nè trascurò nell'Oriente vicino ed estremo un altro organo di propaganda italiana, i missionari di nostra nazione, i quali, protetti dalla Francia quando l'Italia era divisa, dovevano poter contare sulla loro patria unita e grande potenza. Crispi considerando tutti i connazionali alla stessa stregua, accordò protezione in Turchia a tutte le missioni italiane che la richiesero, ed in Cina ottenne che non fossero ammessi i missionari del nostro paese sprovvisti di passaporto italiano.
Ma sebbene in questo volume manchino così belle pagine, altre ve ne sono straordinariamente interessanti nelle quali troverà solido fondamento il giudizio definitivo sulla concezione che Crispi ebbe della politica estera necessaria al nostro paese e sugli accorgimenti coi quali applicò le sue idee.
Allontanato dal potere nel 1891 e nel 1896, due volte alla vigilia della scadenza della Triplice Alleanza, Francesco Crispi ebbe il dolore di vedere isterilire il terreno che aveva lavorato con saldo aratro e con lena infaticata.
Ma se i frutti dell'opera di Lui non furono raccolti, se l'influenza acquistata all'Italia fu perduta, rimarrà ad onor suo e ad insegnamento altrui il solco profondo, nè andrà dispersa pei silenzi della storia la voce di questo Italiano per eccellenza che agli italiani a venire, fusi nel bronzo dell'unità e capaci d'intendere, griderà parole di fede, di ardire, di gloria.

Roma, gennaio 1913.

T. Palamenghi-Crispi.


GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.
Capitolo Primo.
Il cancelliere Caprivi e Crispi.

Leone di Caprivi annunzia a Crispi di avere assunto la direzione degli affari politici della Germania. - Scambio di saluti e proteste di fedeltà. - Caprivi viene in Italia per conferire con Crispi. - Colloquii del 7 e dell' 8 novembre 1890.

Il 20 marzo 1890 Guglielmo II di Germania nominava Cancelliere
dell'Impero e Presidente del Ministero prussiano il generale
conte Leone di Caprivi, in sostituzione del principe Ottone
di Bismarck. Assumendo gli altissimi uffici il di Caprivi dirigeva
a Francesco Crispi, il quale dall'agosto 1887 reggeva il Ministero
degli Affari esteri d'Italia, la seguente lettera:

[Confidentielle]

«Berlin, le 3 avril 1890.

Monsieur le Président et cher collègue,

La volonté de mon Souverain m'a imposé la tâche de prendre la direction des affaires politiques de l'Allemagne après le plus grand ministre que ce pays ait jamais vu.
Amené depuis longtemps par la logique des choses comme par mes inclinations à un sentiment de ferme sympathie pour le groupement actuel des amitiés politiques, je m'étais familiarisé avec l'idée d'avoir peut-être à defendre ce principe en soldat, le jour où la défense en serait devenue nécessaire.
Mais mon Auguste Maître en a décide autrement. Il m'a appelé à collaborer avec les hommes d'état, qui ont à coeur de défendre essentiellement par des moyens pacifiques l'état des choses existant.
Puisqu'il en est ainsi, je Vous prie, Monsieur le Président, de croire que, tant que je resterai dans ma position actuelle, l'Empire d'Allemagne continuera sa politique sincère et pacifique, sans s'écarter jamais du principe de rester en toute circonstance l'ami de ses amis. C'est là la tâche qui m'est prescrite par mon Souverain comme par ma conscience. A ce titre je viens réclamer, pour le travail en commun qui est devant nous, la confiance de Votre Excellence. La mienne est acquise de longue date au ministre éminent que ma patrie est heureuse d'appeler son ami.
Je Vous prie, Monsieur le Président et cher collègue, d'agréer l'expression franche et cordiale des sentiments de haute estime de

Votre tout dévoué
von Caprivi.»

A questo saluto rispondeva Crispi:

[Confidentielle]

«Rome, 7 avril 1890.

Monsieur le Chancelier et cher Collègue,

J'ai reçu la lettre, que vous avez bien voulu m'adresser en date du 3 courant pour m'apprendre dans quel esprit vous avez accepté l'héritage du grand homme d'Etat, dont la volonté de l'Empereur, votre auguste maître, vous a donné la succession.
Je vous remercie de la franchise cordiale avec laquelle vous m'avez ouvert votre pensée.
Je connaissais en vous le vaillant soldat, le Général habile, l'administrateur expérimenté; je suis heureux de connaître l'homme politique, et de constater en lui des sentiments conformes à ceux qui m'animent moi-même.
Les principes de politique générale qui vous inspirent, sont tels que vous pouvez compter sur mon concours loyal pour les faire triompher. De même qu'avec le prince de Bismarck, je travaillerai consciencieusement avec vous au maintien de la paix. Mais si, par malheur, le jour devait venir où l'Italie et l'Allemagne, attaquées, se trouvassent dans la pénible nécessité de se défendre, vous me verriez aussi, à l'exemple du Roi, mon souverain, et d'accord avec la Nation italienne toute entière, prêt à remplir dignement et jusqu'au bout le devoir qui nous serait imposé.
C'est dans cet ordre d'idées que je me déclare heureux d'entrer en collaboration avec vous pour assurer, autant qu'il est en nous de le faire, le bonheur et la prospérité des deux Dynasties et des deux peuples que nous servons.
Veuillez agréer, monsieur le Chancelier et cher Collègue, l'expression sincère et cordiale des sentiments de haute estime de

Votre tout dévoué
F. Crispi.»

Questa lettera, presentata personalmente al nuovo Cancelliere dall'ambasciatore d'Italia, conte De Launay, fece la migliore impressione. «Egli l'ha letta in mia presenza - scriveva il De Launay - ed ha manifestato vivissima soddisfazione pel suo contenuto che si accorda perfettamente col suo modo di vedere e con gl'interessi reciproci degli Stati che formano la Triplice Alleanza, il cui programma è diretto essenzialmente al mantenimento della pace. Egli si è compiaciuto di osservare che ad un novizio come lui in materia di politica estera era prezioso il concorso di un uomo di Stato così illustre e sperimentato come il primo Ministro d'Italia.»
Il generale di Caprivi era un uomo grandemente stimato in tutta la Germania. Nella guerra franco-prussiana aveva dimostrato scienza militare e doti eccezionali di carattere che erano state riconosciute e premiate con la Croce di ferro di prima classe e con l'Ordine Pour le mérite. Nella direzione dell'Ammiragliato, assunta nel 1883, aveva reso servizi preziosi migliorando con mezzi esigui il materiale e con tenacia prussiana l'organizzazione della Marina da guerra.
Però, in politica il nuovo Cancelliere era una incognita. Egli aveva certamente le sue idee, ma non le aveva mai manifestate pubblicamente, e nei cinque anni ch'era intervenuto alle sedute del Reichstag sua cura costante era stata quella di rimanere fuori dalle lotte dei partiti e di tenersi sul terreno tecnico.
Si può avere alta intelligenza e vasta cultura, possedere anche facoltà d'iniziativa in taluni campi d'azione, ed essere inadatto al governo politico. L'Imperatore, scegliendo, tra i molti candidati alla successione di Ottone di Bismarck, il generale di Caprivi, giuocò d'azzardo, non avendo alcun dato per presumere che quest'ultimo sarebbe riuscito nell'ardua missione.
In luglio, il conte di Caprivi fece manifestare a Crispi il desiderio di fargli visita in Italia. All'ambasciatore a Berlino, De Launay, Crispi telegrafava l'11 di quel mese:
«Il conte di Solms al suo ritorno da Berlino, portandomi i saluti di S. E. il conte Caprivi, mi espresse il di lui desiderio di venire in Italia per abboccarsi con me. Risposi all'ambasciatore germanico, che io era lietissimo del gentile pensiero del Gran Cancelliere, ch'egli sarebbe il benvenuto tra noi, e che io sarei fortunato di averlo ospite in casa mia, o qui od a Napoli, dove a S. E. sarebbe più comodo od opportuno.»

Si trattava di stabilire l'epoca di cotesta visita. I primi mesi di cancellierato erano per il generale di Caprivi singolarmente operosi, e l'allontanarsi da Berlino gli era difficile. In una lettera del 1.° ottobre il conte De Launay riferiva a Crispi di aver avuto un colloquio col Cancelliere, nel quale questi gli aveva confermato

«il suo vivo desiderio e la sua ferma intenzione d'incontrarsi in Italia con Vostra Eccellenza. Il ritardo è dovuto a circostanze estranee alla sua volontà. Sinora si è allontanato da Berlino soltanto per accompagnare l'imperatore a Narva e alle grandi manovre nella Slesia. Ma è tale la quantità degli affari che deve esaminare per adempiere nel miglior modo possibile alle sue nuove funzioni, che per il momento non può realizzare il suo progetto di un viaggio al di là delle Alpi. Egli, tra l'altro, non ha ancora potuto restituire le visite, fattegli quando assunse il potere, dai ministri della Baviera e del Würtemberg. Il generale di Caprivi aggiungeva che il ritardo involontario aveva il vantaggio di lasciargli il tempo per mettersi al corrente delle questioni che interessano i due Stati e per potere quindi meglio discorrerne con Vostra Eccellenza.»

Crispi ritornava il 20 ottobre sull'argomento di questa visita dopo avere ricevuto, da parte dell'Ambasciata germanica a Roma, un'altra comunicazione analoga alla precedente:

«Sento - scriveva al conte De Launay - che S. E. ha dovuto ritardare l'esecuzione del suo progetto per ragioni di pubblico servizio. Se le condizioni politiche dell'Italia e le prossime elezioni generali non esigessero la mia permanenza nel Regno, mi sarei avvicinato io stesso alla Germania ed avrei risparmiato a S. E. un incomodo viaggio. Il governo della cosa pubblica mi inceppa, e se S. E. potesse nello scorcio di questo mese o nei principii del novembre recarsi a Milano dove io sarei pronto a raggiungerla, potremmo nell'interesse delle due monarchie, le quali ambidue con onore serviamo, avere uno scambio di idee utili e prendere delle deliberazioni giovevoli alle due nazioni.»

Il Cancelliere germanico avendo risposto che tra il 1.° e il 10 novembre era a disposizione del suo collega italiano, questi telegrafò il 22 ottobre al De Launay:

«Dica al signor Cancelliere che sarò felice di riceverlo in Milano il 7 novembre1.»

Il Cancelliere germanico giunse a Milano nel giorno fissato. Fu ricevuto cordialmente da Crispi, dalle autorità e dalla popolazione della grande città che visitò con la guida del Sindaco; l'indomani, 8 novembre, fu invitato a Monza dal Re Umberto, il quale dette un pranzo in suo onore e gli conferì l'ordine supremo della Ss. Annunziata. Il Caprivi ispirò subito in Crispi simpatia e fiducia. Aveva statura e forme gigantesche, fisionomia severa, ma aperta, sguardo sereno sotto sopracciglia foltissime che ricordavano quelle di Bismarck. Dei due colloqui segreti che ebbe con Crispi, questi conservò memoria, siccome soleva, nelle seguenti note del suo Diario:

«Dopo la colazione (una pom.) Caprivi ed io siamo entrati nel suo salotto per uno scambio d'idee.
Ricordai che il 30 maggio 1892, cioè da qui a 18 mesi scade il trattato di alleanza delle tre Monarchie. Soggiunsi,.... Necessario rivedere.... se vi ha altro da aggiungere. Dovrò credere che il governo tedesco vorrà rinnovare il trattato per un altro periodo di anni.
La triplice alleanza giova ai governi che la firmarono ed assicura la pace d'Europa. Ora, noi essendo interessati alla garanzia territoriale dei tre paesi ed alla pace d'Europa, dobbiamo volere la continuazione dell'alleanza.
Il conte Caprivi dichiarò che era pienamente d'accordo con me, e, quasi a conferma, mi strinse la mano. Era lieto poter essere d'accordo con me, e promise di occuparsi del trattato.

Allora ricordai che al 1887, con uno scambio di note, avevamo associato la Spagna. Il duca di Vega de Armijo non curò le prese intelligenze, nè curò di alimentarle. Oggi essendo ritornato al potere il duca di Tetuan, amico nostro, bisogna ripigliare le pratiche e rendere più stretti i vincoli con la Spagna.
Le tre grandi potenze alleate si devono interessare delle altre minori Monarchie e difenderne le istituzioni. Per lo che sarebbe pure necessario di trovar modo di comporre la vertenza tra l'Inghilterra ed il Portogallo.
La Spagna ed il Portogallo sono minati dagli emissarii repubblicani, e non sono abbastanza forti per resistervi. Bisogna che la Spagna riordini la sua marina militare, e possa esserci di aiuto nel Mediterraneo e fare, quando ne fosse il caso, un colpo sull'Algerìa. Così il Corpo di esercito francese che siede colà si troverebbe impegnato. Inoltre un esercito spagnuolo al di là dei Pirenei e pronto a varcarli, immobilizzerebbe un corpo di truppe francesi.
La propaganda repubblicana in quei paesi è attiva. I francesi fanno altrettanto in Italia.
- Non l'avrei creduto.
- La fanno anche in Italia, ma il nostro paese vi resiste. La grandissima maggioranza della nostra popolazione è conservatrice. Il paese è monarchico. La propaganda repubblicana pei francesi è una necessità. Pel governo di Parigi è una quistione di vita. Avvenne lo stesso sotto la prima repubblica. Ma allora lo stato dell'Europa era diverso. Non vi erano i due grandi Stati al di qua delle Alpi e al di là del Reno, l'Italia e la Germania. Bisogna dunque tenerci stretti, e difendere le istituzioni che ci siamo date.
- Sono pienamente d'accordo con V. E. e lavorerò insieme per la difesa dei principii monarchici.
- Bismarck fece delle grandi cose, e il vostro paese deve essergliene grato. Ma commise un gravissimo errore; quello di non aver favorito la restaurazione della Monarchia in Francia. Egli credeva che la Repubblica sarebbe stata rôsa dai partiti e non sarebbe stata forte abbastanza. Avvenne tutto il contrario; giammai la Francia fu forte come oggi.
- La stessa osservazione me la fece l'imperatore di Russia.
- Bisogna opporre alla propaganda repubblicana tutti i mezzi dei quali possono disporre le Monarchie. La Francia avrà fra breve una nuova tariffa doganale. Questa offenderà grandemente noi, perchè con essa potranno esser chiusi i mercati francesi ai nostri prodotti agricoli. Ne sarete colpiti anche voi. Pel trattato di Francoforte voi godete i beneficii della nazione favorita. Esiste cotesta condizione, quando esistono tariffe convenzionali; cessa, quando mancano i trattati. Ora la Francia va a denunziare tutti i trattati, e va ad applicare a tutte le nazioni una tariffa autonoma. È una minaccia di guerra, guerra economica, non meno terribile della guerra coi fucili e le artiglierie. Giova prepararsi a rispondere, ed io credo che lo si potrà. Non dico di fare una lega doganale fra le tre potenze alleate: questa non sarebbe di facile attuazione. Puossi però studiare un sistema di tariffe di favore mercè cui si rendessero più facili i commerci, più strette le relazioni. Sarebbe necessario che alla lega militare e politica si aggiungesse questa lega economica, la quale, senza offendere l'autonomia dei tre Stati, li rendesse talmente forti da resistere alla Francia. Io proporrei che i tre governi dessero a studiare la grave quistione ad uomini tecnici. Compiuti gli studii, ognuno di noi nominerebbe due delegati ciascuno, i quali, riuniti, concreterebbero le proposte che converrà tradurre in un trattato.
- Trovo savie le considerazioni di V. E. e farò studiare il grave argomento, e avvertirò V. E. dei risultati.
La conversazione continuò su cose di minore importanza, e ci siamo congedati con espressioni sincere di cordiale amicizia.

8 novembre. - Alle 11 ant. il conte Caprivi viene a restituirmi la visita. Siamo ritornati sugli argomenti toccati nel colloquio di ieri.
Biserta. Muta lo stato del Mediterraneo. Pericoli in caso di guerra.
Caprivi ne comprende l'importanza. Obietta che il reclamo potendo condurre ad una rottura con la Francia, è necessario attendere. In aprile, compiendosi la trasformazione dei fucili, si potrà iniziare il reclamo.» #/

Il Cancelliere partì da Milano il 9 novembre, soddisfatto delle accoglienze ricevute e dei risultati della sua visita. L'ambasciatore  d'Italia a Berlino, tre giorni dopo, il 12 novembre, inviava a Crispi il seguente rapporto:
«Il Cancelliere dell'Impero è venuto a vedermi in questo momento. Confermandomi ciò che avevo già appreso ieri al Dipartimento Imp.le degli Affari Esteri, egli era profondamente commosso e riconoscente per le bontà del Nostro Augusto Sovrano e per l'alta distinzione che gli fu conferita da Sua Maestà. Egli era pure assai soddisfatto dei colloquii avuti con V. E. dichiarandosi completamente d'accordo in massima sopra gli argomenti circa i quali vi fu scambio d'idee, tanto sotto l'aspetto politico, quanto sotto l'aspetto commerciale. S. E. si era affrettata di far rapporto all'Imperatore della missione compiuta. Sua Maestà Imperiale manifestò viva soddisfazione di constatare una volta di più che le relazioni fra l'Italia e la Germania sono e resteranno sul miglior piede a tutto vantaggio della triplice alleanza e del principio monarchico. Il Cancelliere mi pregò di rendermi interprete dell'eccellente impressione riportata da questo suo viaggio e di ringraziare per tutte le cortesie di cui fu colmato alla nostra Corte e da V. E. Egli ha solo rammarico che le esigenze di servizio l'abbiano costretto ad abbreviare il suo soggiorno in Italia. Il Cancelliere si dimostrò pure assai grato dell'accoglienza che gli fu fatta dalla popolazione di Milano e dalle Autorità municipali.»

Naturalmente, della sostanza dei colloqui di Milano fu informato il Cancelliere austro-ungarico conte Kálnoky, per mezzo dell'ambasciatore imperiale a Roma barone de Bruck, e dell'ambasciatore reale a Vienna, conte Nigra. Quest'ultimo telegrafava in data 1.° dicembre:

«Kálnoky mi ha pregato di ringraziare V. E. per la comunicazione da lei fatta a Bruck, i cui particolari gli furono confermati da Reuss e Caprivi. I due argomenti saranno studiati ed esaminati a suo tempo. Oggi cominciano le conferenze commerciali fra Austria-Ungheria e Germania. Da esse si vedrà se, e sino a che punto, i due imperi possano procedere sempre meglio d'accordo fra loro e preparare via a una intesa fra i tre Stati alleati sul terreno economico.»

Tra lo stesso Conte Nigra e Crispi seguiva la seguente corrispondenza:

«4 dicembre 1890.

Mio caro Sig. Conte,

Adempio con ritardo - ed ella ne comprenderà il motivo - alla promessa fattale con mio telegramma del 18 novembre da Torino.
Nei colloquii, tenuti il 7 e l'8 novembre, Caprivi ed io ci siamo occupati della Triplice, tanto dal lato politico, quanto dal lato economico e commerciale. Siamo riusciti d'accordo in tutto; e parmi che basti, senza ricordare qui i nostri ragionamenti, scrivere per lei sulle varie tesi il concluso.
Nissun dubbio che l'alleanza delle tre monarchie debba essere prorogata. Nissuno di noi può credere che nel maggio 1892 le condizioni politiche dell'Europa possano essere mutate. Le ragioni, per le quali il trattato fu stipulato al 1882 e rinnovato al 1887, è a prevedersi che saranno le medesime.
Giova apportarvi qualche modificazione, e qualche aggiunta? È quello che si deciderà dai tre governi, i quali han tempo ancora a meditarvi. Una cosa intanto appare evidente..... Il conte di Caprivi su questo fu meco d'accordo.
Fummo anco d'accordo sulla necessità di migliorare le condizioni commerciali dei tre Stati, stipulando dei favori speciali che ne rendano più facili le relazioni, e talmente intimi i vincoli da resistere alla guerra che potrebbe venirci dalla Francia, qualora la nuova legge doganale uscisse così aspra da quel Parlamento da non permetterci di venire a patti. Non una lega doganale si vorrebbe fra i tre Stati, ma una maggiore mitezza nei dazii d'importazione.
Ciò posto, siam rimasti intesi che i tre governi metterebbero allo studio le varie questioni, che il grave argomento comprende. Quando gli studii saran terminati, affideremo a delegati speciali, che potrebbero esser due per ciascuno Stato, l'esame del problema e le proposte per la sua soluzione.
Finchè la Francia è in repubblica - ed ormai questa forma di governo colà sembra consolidata - essa sarà sempre una minaccia per le monarchie in Europa. La Russia deve capirlo, essendo ormai Parigi l'asilo dei nihilisti - e le due penisole, l'Italiana e l'Iberica, lo sanno per la propaganda morale e gli aiuti finanziari dati ai partiti sovversivi dal governo del finitimo territorio.
Noi in Italia siamo abbastanza forti: il sentimento monarchico nelle nostre popolazioni è profondo, e resiste all'apostolato rivoluzionario. Ci battiamo e non ci faremo vincere. Non bisogna però nascondere a noi stessi che il Vaticano accenna a valersi dei radicali, e si è visto nelle ultime elezioni. Il cardinale Lavigerie, nella sua nuova fase, lavora d'accordo col Papa. I cardinali in parte dissentono, ed anche il clero francese non è compatto; ma ignoriamo quello che ne potrà avvenire più tardi.
Le monarchie pericolanti sono la portoghese e la spagnuola, e la prima più della seconda. Ove esse cadessero, e a Lisbona e Madrid la repubblica fosse proclamata, nissun dubbio che codesto sarebbe il principio di una trasformazione politica, che la Francia è interessata ad apportare in Europa. I tre governi alleati dovrebbero meditare sul possibile avvenimento, comunicarsi le loro idee, ed agire, ove d'uopo, nelle vie diplomatiche.
Il conte di Caprivi si disse convinto di ciò, e promise di procedere d'accordo.
Stabiliti gli argomenti che importa meditare e determinati i criterii secondo i quali i governi delle tre monarchie alleate dovrebbero condursi, resta a Lei, signor conte, di ragionarne con codesto ministro degli affari esteri, prendere con lui gli accordi necessarii, e manifestarmi le sue intenzioni. La lunga esperienza dell'E. V. supplirà alle lacune che può presentare questa mia lettera, affinchè si possano raggiungere gli scopi che io mi son prefisso, e nei quali è consenziente il Cancelliere germanico.
E dopo ciò accolga i miei più cordiali saluti.

Devotissimo
F. Crispi.»


«Vienna, 10 dicembre 1890.

Le confermo mio precedente telegramma. Esposi a Kálnoky il contenuto della lettera. Egli d'accordo in massima con V. E. e Caprivi,
Quanto alle questioni commerciali prevede un intoppo nell'articolo XI del Trattato di Francoforte2. Chiede tempo per studiare le due questioni. Intanto si vedrà fra non molto su quali basi si potranno fare concessioni commerciali fra l'Austria-Ungheria e la Germania, il che faciliterebbe la soluzione anche per l'Italia. Nell'esame delle due questioni Kálnoky apporterà vivo desiderio d'accordo completo. Divide poi l'opinione di V. E. sulla convenienza di una direzione diplomatica uniforme per la difesa delle istituzioni monarchiche.

Nigra.»

[Telegramma]

«Roma, 15 dicembre 1890.

Il barone de Bruck mi ha letto una nota del conte Kálnoky con la quale dichiara che il ministro austriaco è meco d'accordo in tutte le quistioni le quali furono oggetto del colloquio col conte Caprivi e che riassunsi a Lei con mia particolare del 4 corrente. Chiede intanto che io concreti le mie idee sulle modificazioni alla convenzione del 1887, il che sarà fatto.
Discorrendo col Bruck intorno al miglioramento delle relazioni commerciali ed economiche, si cadde d'accordo sulla necessità della proroga, di un anno almeno, del diritto alla denunzia del trattato 7 dicembre 1887, affinchè le due parti avesser agio a studiare la grave quistione. Bruck scrive oggi stesso a cotesto scopo a Kálnoky affinchè fosse autorizzato ad uno scambio di note. Voglia parlargliene e fare le debite sollecitazioni, stringendo il tempo e dovendo io rispondere ad interpellanze parlamentari sull'argomento.

Crispi.»

[Telegramma]

«Vienna, 16 dicembre 1890.

Ho vivamente impegnato Kálnoky allo scambio di note per proroga di un anno del diritto di denunzia del trattato di commercio. Kálnoky consente pienamente con V. E.; ha subito telegrafato a Pest ed ha fatto la proposta al Ministero austriaco d'agricoltura e commercio. Egli crede che non vi sarà ostacolo, ma forse bisognerà sottomettere scambio di note alla sanzione del Parlamento, che secondo Kálnoky potrebbe essere data anche dopo il dicembre.
Kálnoky mi ha promesso che non porrà indugio alla soluzione ed io lo solleciterò più che posso.

Nigra.»



Capitolo Secondo.

La Tripolitania e la Francia.

La Triplice Alleanza e gl'interessi italiani nel Nord-Africa. - La Francia sulla frontiera tripolo-tunisina sino al 1890. - Una memoria del generale Dal Verme sul confine storico tra la Tunisia e la Tripolitania. - L'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890. - Rimostranze di Crispi presso il governo inglese. - Nota di Said pascià su l'hinterland tripolitano. - Come si potevano impedire le ulteriori usurpazioni della Francia. - Crispi e il governo francese; questo nega di aver delle mire sulla Tripolitania. - Una nuova carta francese dell'Africa. - Dichiarazioni del ministro Ribot alla Camera. - Protesta di Crispi. - Stato della questione al 1894. - La convenzione franco-germanica. - La Francia tenta avanzarsi nel Sudan egiziano. - Fascioda. - Nuovi accordi anglo-francesi a danno dell'hinterland tripolitano. - L'Italia rinunzia senza compensi ai suoi diritti in Tunisia. - L'accordo franco-italiano del 1902. - L'opera di Crispi nel Marocco. - L'occupazione italiana della Tripolitania e un cattivo presagio.

Dai documenti che precedono - i quali, per quanto si riferisce alle precise stipulazioni della alleanza dell'Italia con la Germania e con l'Austria, sono necessariamente reticenti, un dovere elementare vietandoci di rivelare segreti di Stato - si deduce tuttavia quali fossero, alla fine del 1890, gli obiettivi della politica estera di Crispi. Il trattato d'alleanza non era lontano a scadere; l'esperienza aveva dimostrato che se esso garentiva la pace, l'Italia era esposta per questo beneficio comune alle tre potenze, a sopportare da sola i danni della guerra accanita che la Francia le faceva nel campo economico e, fuori d'Europa, anche nel campo politico. La teoria che i rapporti economici e i rapporti politici non debbano influirsi scambievolmente, non poteva convenirci perchè era innegabile che a cagione dell'alleanza noi subivamo danni ingenti dalla ostilità francese, con la rottura delle relazioni commerciali e coi colpi incessanti al nostro credito internazionale.
Crispi aveva dimostrato al Cancelliere germanico che le grandi alleanze politiche non possono essere limitate a categorie d'interessi e che il trattato della Triplice per arrecare tutti i suoi benefici doveva comprendere, oltre la garenzia territoriale, la difesa d'ogni interesse essenziale di ciascuno degli alleati nelle complesse relazioni della vita internazionale. E il generale Caprivi aveva aderito a tali vedute e domandato che il ministro italiano concretasse le sue proposte.
Ma l'argomento sul quale Crispi richiamò più vivamente l'attenzione del suo collega, come quello che racchiudeva un pericolo imminente e grave per l'Italia, fu la condotta della Francia nel Nord-Africa.
Crispi aveva nei mesi precedenti denunciato ai gabinetti di Londra, Berlino e Vienna il progetto francese di convertire nell'annessione il protettorato sulla Tunisia, ed era riuscito a promuovere le rimostranze delle tre Potenze a Parigi contro quel progetto3. Ma egli non s'illudeva sulla efficacia duratura di una pressione diplomatica e cercò di giovarsi senza indugio di questa per ottenere dalla Francia una maggiore considerazione degli interessi italiani. Posto che prima o poi la Francia si sarebbe resa padrona della Tunisia, Crispi pensò di trarre vantaggio da un evento ineluttabile, transigendo sui diritti garentiti dai trattati che l'Italia vantava nell'antica Reggenza. Il compenso non poteva essere che il dominio italiano sulla Tripolitania.
Le difficoltà però non erano lievi. I francesi aspiravano essi a estendersi ad oriente. Come avevano occupato la Tunisia col pretesto di assicurarsi il pacifico possesso dell'Algeria, l'occupazione della Tripolitania avrebbe dovuto assicurare il possesso della Tunisia, e l'impero francese nel Mediterraneo sarebbe stato un fatto compiuto. Le prove che queste aspirazioni imperialistiche erano entrate nel programma positivo del governo, non mancavano.
L'accordo anglo-francese, che porta la data del 5 agosto 1890, per la delimitazione delle sfere d'influenza della Francia e dell'Inghilterra in Africa, dimostrò chiaramente il piano della Francia d'insignorirsi dell'hinterland della Tripolitania. Quell'accordo  rappresentò il corrispettivo che l'Inghilterra dava alla Francia pel riconoscimento che questa faceva del protettorato inglese sullo Zanzibar - e fu ventura che lord Salisbury resistesse alle pretese francesi di concessioni a Tunisi. Probabilmente il Primo ministro della Regina avrebbe ceduto se Crispi, appoggiato dalle Cancellerie di Berlino e di Vienna, non avesse fatto a Londra vive rimostranze. Egli fece dire al Salisbury

«che il governo del Re, nelle varie occasioni presentatesi per discorrere delle cose di Tunisi fra Roma e Londra, credeva essersi accorto che nel gabinetto inglese esistesse una tendenza a fare delle concessioni alla Francia a scapito d'interessi italiani che l'Italia riteneva comuni coll'Inghilterra e sui quali nè il governo italiano intendeva transigere, nè l'opinione pubblica lo avrebbe permesso; che, in conseguenza di ciò, era nell'interesse del mantenimento e sviluppo delle intime relazioni fra i due paesi, sul quale riposava principalmente la pace europea, che l'Italia doveva far conoscere al governo inglese che non sarebbe disposta a seguirlo in una via che conducesse a modificare politicamente o materialmente lo statu-quo nella Tunisia a favore della Francia.»

Allorquando la Francia occupò la Tunisia, nel 1881, la linea frontiera fra la Tripolitania e la Reggenza di Tunisi passava ad ovest della baia di El Biban, sul mare. Se ne ha facilmente la prova consultando le carte francesi più autorizzate, quella dei Signori Prax e Renou, e quella del «dépôt de la guerre» con le osservazioni del capitano di vascello Falbe. L'occupazione francese non era ancora un fatto compiuto che l'attenzione dell'esercito d'occupazione si volgeva verso la frontiera tripolitana.
Durante i mesi di agosto e settembre 1881, tre spedizioni militari si diressero simultaneamente verso il sud-est tunisino. I generali Logerot, Philibert, Jamais comandavano i tre corpi di spedizione. Il primo aveva ai suoi ordini circa 13000 uomini. La sua marcia non fu scevra di difficoltà; fu ostacolata presso Fum-el-Bab dalla tribù degli Slass, ma dopo un combattimento vittorioso il generale Logerot arrivò a Gafsa e la occupò. Da Gafsa cotesto generale si diresse verso Gabes, dove ebbe luogo la riunione dei tre corpi di spedizione. Egli percorse tutto il sud della Tunisia, senza tuttavia - cosa importante a rilevarsi - oltrepassare lo Uadi-Fessi.
In seguito a questa spedizione, le tre grandi tribù tunisine degli Slass, Hamamma, Beni-Zid con altre dissidenti delle vicinanze di Sfax, complessivamente circa 260000 persone, passarono sul territorio tripolitano sotto il comando supremo di Ben Khalifa, il capo che aveva organizzato la difesa di Sfax. Cotesti ribelli costituivano, presso la frontiera tunisina, un focolare permanente di rivolte e di torbidi.
Il governo francese si preoccupò di questo pericolo e tutti i suoi sforzi furono da allora diretti a favorire la pacificazione dei ribelli e il loro ritorno in Tunisia. Il Console Generale di Francia a Tripoli, Féraud, e il generale Allegro, soprannominato Jusef Negro - che i francesi avevano fatto nominare dal Bey governatore della provincia di Arad in ricompensa dei servizi resi nel tempo dell'occupazione - si adoperarono a raggiungere tale risultato, e a poco a poco vi riuscirono.
Nel mese di aprile 1885, il Féraud era sostituito a Tripoli dal Destrées, il quale continuò a seguire la linea di condotta del suo predecessore e facilitò il ritorno in Tunisia degli ultimi dissidenti.
In grazia di questo felice risultato la Francia poteva oramai avanzare verso l'Est.
Nel mese di maggio del 1885 il Ministro residente di Francia a Tunisi, Cambon, visitò il sud della Tunisia. Oltrepassando la frontiera egli si avanzò sino all'Oglad Djemilia. Più tardi, nel mese di luglio del 1887, egli dichiarò al nostro ministro a Madrid, marchese Maffei, che quell'escursione gli aveva permesso di convincersi che la vera frontiera della Tunisia è l'Uadi-Mochta. Il nome del largo torrente al quale il Cambon dava il nome di Uadi-Mochta era stato sino allora quello di Uadi-Sigsao, mentre in arabo «mochta» significa «frontiera».
Nel mese di ottobre 1886 tre navi francesi si presentavano sulla costa tripolina fermandosi presso il capo Macbes, donde cominciarono a fare i rilievi delle coste vicine. Il governatore generale di Tripoli, avvertito, inviò sui luoghi una corvetta turca sotto gli ordini del comandante la stazione marittima di Tripoli. Cotesto ufficiale superiore chiese al comandante francese con qual diritto e con quali intenzioni procedesse ai rilievi di una costa appartenente alla Turchia. Il comandante francese eccepì la propria ignoranza: egli credeva di rilevare una costa tunisina, della quale doveva fare la carta idrografica. Il turco avendo insistito nell'affermazione che la costa era tripolitana, le navi francesi si ritirarono, lasciando tuttavia eretta, a Ras Tadjer o Adjir, una colonna in muratura. Il Console Generale di Francia, signor Destrées, poco dopo si presentò al Governatore Generale di Tripoli e gli chiese per quali motivi il Comandante turco avesse imposto al Comandante francese di allontanarsi dal capo Macbes. Il Governatore Generale dette le spiegazioni richiestegli, alle quali il Console di Francia oppose che la proprietà del punto del quale si trattava era dubbia.
Nel mese di dicembre 1887, il Bollettino della Società di Geografia di Parigi annunciava che un accordo era stato concluso tra la Turchia e la Francia per la delimitazione della frontiera tripolo-tunisina, e che la nuova frontiera era portata a Ras Tadjer, a 32 chilometri al di là dell'antica demarcazione. Il Governo del Re comunicò immediatamente questa notizia all'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, Blanc, il quale si recò tosto dal Gran Visir. Il Gran Visir smentì perentoriamente l'esistenza della pretesa convenzione e dichiarò inammissibile che la Turchia, la quale non riconosceva il protettorato francese sulla Tunisia, potesse entrare in pourparlers colla Francia circa una delimitazione della frontiera tunisina. L'indomani il Sultano faceva al barone Blanc una dichiarazione non meno categorica: Sua Maestà assicurava che non avrebbe tollerato nè lo spostamento della frontiera, di cui parlava il Bollettino della Società francese di Geografia, nè alcun accordo che potesse implicare il riconoscimento del protettorato francese a Tunisi. Secondo il Sultano, gl'intrighi e le informazioni francesi non avevano altro scopo che quello di spingere l'Italia a impegnarsi in una «questione tripolitana».
Le medesime notizie continuavano a stamparsi sui giornali e l'ambasciatore italiano a Costantinopoli insistè di nuovo presso la Sublime Porta e ottenne da Said pascià, allora Gran Visir, che l'ambasciatore del Sultano a Parigi, Essad pascià, fosse incaricato di chiedere al governo della repubblica il richiamo del generale Allegro e la smentita categorica di qualsiasi modificazione di frontiera.
Verso la stessa epoca il Governo ottomano aveva deciso di cacciare dalla Tripolitania la frazione degli Uargamma, che erasi stabilita nella regione situata tra le antiche frontiere della Tunisia, regione denominata Giufara el Garbia e che è tra le più fertili e le più ricche di pascoli della Tripolitania. La presenza di cotesti tunisini nel territorio tripolitano poteva fornire alla Francia un pretesto per pretendere che cotesto territorio appartenesse alla Reggenza di Tunisi, dacchè una tribù tunisina vi si era pacificamente stabilita e vi faceva atto di proprietà.
Una spedizione partì da Tripoli sotto gli ordini del generale di brigata Mustafà pascià. Il corpo di spedizione si componeva di 1400 uomini, dei quali 800 di fanteria, 320 cavalieri, il resto di artiglieria. Ma si arrestò a Zuara e non andò oltre. Il generale, a mezzo d'intermediarii, fece intimare ai capi degli Uargamma l'abbandono del territorio abusivamente occupato, concedendo loro di stabilirsi, se lo volessero, nelle grandi Sirti. Gli Uargamma, poco curandosi della intimazione ricevuta, si stabilirono in parte a Gibel Nalut, in parte a Djemilia, restando così sul territorio tripolitano.
Il Console di Francia a Tripoli, avvertito ufficialmente della spedizione dal valì, si affrettò a informarne il Residente francese a Tunisi. Una commissione composta del segretario generale della Residenza e del segretario francese per gli affari indigeni, partì tosto su di una nave da guerra per raggiungere a Zarzis il generale Allegro che l'aveva preceduta. Costui, sulla fede di informazioni inesatte, ovvero con lo scopo di prevenire un fatto possibile, aveva avvertito il Destrées di una pretesa marcia di Mustafà pascià sopra Djemilia. Il Console si presentò al valì e non senza emozione, vera o finta, gli domandò se la notizia fosse esatta. Aggiunse che Djemilia apparteneva alla Tunisia e dichiarò che qualsiasi altro tentativo da parte della Turchia sarebbe stato considerato dalla Francia come un casus belli. Il valì, intimidito, si affrettò a rassicurare il signor Destrées circa la falsità della notizia, affermando tuttavia nuovamente i diritti incontestabili della Turchia su Djemilia, come appartenente alla tribù tripolitana degli Huail.
Il 31 dicembre 1887 l'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli interrogò di nuovo il gran visir per conoscere con precisione le intenzioni della Turchia. In un promemoria mandato a Photiadès pascià, ambasciatore del Sultano a Roma, la Sublime Porta spiegò le sue vedute. L'ambasciatore italiano aveva fatto osservazioni su quattro punti:
1. La Porta, malgrado le macchinazioni francesi, non aveva occupato l'antica linea di confine della Tripolitania, nè aveva inviato colà degli ufficiali commissari;
2. La Porta non aveva domandato la sconfessione ufficiale e pubblica delle carte dello Stato maggiore francese;
3. La Porta non aveva dichiarato pubblicamente che il territorio ad est di El-Biban era e resterebbe tripolitano;
4. La Porta non aveva domandato l'allontanamento del generale Allegro, sebbene suggerito dal valì.
Il governo ottomano rispose che non sapeva spiegarsi la prima osservazione, giacchè le autorità imperiali della provincia non avevano giammai abbandonato un solo dei punti posti sotto la loro amministrazione, la qual cosa rendeva inutile l'invio sui luoghi di commissari speciali.
In secondo luogo il governo ottomano aveva creduto superfluo domandare la sconfessione ufficiale e pubblica della carta dello Stato maggiore francese, dopochè il Ministero degli Affari Esteri di Francia, precedentemente interpellato, aveva dichiarato di ignorarne l'esistenza (!) e aveva soggiunto che, se anche tale carta fosse esistita, essa non avrebbe avuto valore che dal momento in cui i due governi ne avessero approvato il tracciato, dichiarazione questa della quale la Porta aveva preso atto.
Sul terzo punto la Porta rispose di aver fatto smentire dai giornali di Costantinopoli l'esistenza della convenzione di delimitazione menzionata in uno dei bollettini della Società geografica di Parigi, e che i giornali francesi stessi avevano pubblicato un comunicato di smentita di tutte le voci lanciate circa negoziazioni che su quell'argomento avrebbero avuto luogo tra la Francia e la Sublime Porta. Vi era stata altresì una promessa che il bollettino successivo della Società avrebbe contenuto una rettifica.
Finalmente per l'allontanamento del generale Allegro, la Porta assicurava di averlo domandato, senza tuttavia dare un carattere ufficiale alle comunicazioni fatte a Parigi, non potendo riconoscere lo stato di cose creato in Tunisia dall'occupazione francese.
In conclusione, la Turchia rivendicava come tripolitano il territorio ad est di El Biban, ossia manteneva l'antico confine.
Nel 1888, dopo la spedizione turca, il resto dei rifugiati tunisini in Tripolitania ritornava in Tunisia.
La Francia si mise allora a fortificare il Sud della Tunisia, ossia Zarzis, Matamma, Tatauin, Duirat, dopo aver portato l'effettivo di Gabes a 2650 uomini e inscritto nel bilancio tunisino una somma di circa 900 000 franchi per le fortificazioni delle prime tre località suindicate.
Verso la fine del 1887 il giornale officioso della Residenza, La Tunisie, pubblicava un comunicato ufficiale circa le frontiere della Tunisia. In esso era detto che l'Italia «aveva sollevata una questione di rettificazione della frontiera tripolitana e parlato di negoziati aperti con la Porta, sotto pretesto di non lasciar distruggere l'equilibrio del Mediterraneo, ma in realtà perchè l'Italia, precocemente forse, considerava la Tripolitania come sua propria». Era necessario, dunque, descrivere esattamente la frontiera tripolitana; la quale, secondo La Tunisie, partendo dal mare, era nettamente stabilita col Mochta e lo Chareb Saonanda, sino all'Oglat-ben-Aisar, da una linea che parte da questo punto, passa per ben-Ali-Marghi e quindi al nord di Uessan, e in fine dall'Ued Djenain, che si perde nel Sahara.
Il comunicato continuava così:
«È noto quanto i turchi siano gelosi della difesa del territorio tripolitano; ora, i loro forti sono tutti al sud di questa linea che i soldati turchi non oltrepassano mai e sulla quale essi consegnano alle autorità tunisine i dissidenti che rientrano. Tale frontiera, del resto, conquistata or sono quattro secoli dagli Uargamma sugli Uled-Debbar, è stata consacrata verso il 1815 da un trattato intervenuto tra la Reggenza di Tunisi e la Porta. Salem Ben Odjila, capo degli Uderna, possiede altresì un atto recante i sigilli dei magistrati tunisini e tripolitani, nel quale è descritta dettagliatamente la frontiera da noi indicata. Quest'atto rimonta alla fine del secolo scorso. Il viaggiatore  Barth nel 1849 dà ugualmente il Mochta come limite della Tunisia e della Tripolitania.
«Ricorderemo il viaggio fatto nel 1886 dal signor Cambon in compagnia del signor Fernand Faure, deputato, e del comandante Coyne. L'esercito stesso il quale, ingannato al momento dell'occupazione, si era arrestato all'Ued-Fessi, non tardò a sapere dagli stessi indigeni che la vera frontiera doveva essere riportata ad una trentina di chilometri più al sud.
«La Turchia non avendo giammai contestato cotesta frontiera alla Reggenza, ha fatto smentire l'accordo franco-turco del quale si è parlato alla Camera italiana. Non vi era materia a negoziati, nè ad accordo su di una questione che non è contestata e che soltanto gl'italiani han cercato di far nascere.
«E affinchè l'opinione pubblica non sia traviata terminiamo dicendo che si lavora all'organizzazione militare e amministrativa della suddetta regione-frontiera. Lo stabilimento di posti militari su cotesto territorio, garentendone la sicurezza, avrà altresì il vantaggio di porre i possedimenti francesi al riparo da ogni cupidigia nel caso in cui una potenza Europea si stabilisse in Tripolitania.»
È facile rilevare gli errori di questo comunicato. In esso è affermato che la Turchia non aveva mai contestato alla Reggenza la frontiera del Mochta, e qui sopra abbiamo riferito il linguaggio tenuto dal Sultano e dal suo Gran Visir all'ambasciatore d'Italia. Vi si parla di un trattato del 1815, che non è mai esistito e che non era neppur possibile, poichè la Porta non occupava allora la Tripolitania, dove regnò la dinastia dei Karamanli sino al 1835; e l'atto recante i sigilli degli Sceicchi degli Uderna non esiste, o se esiste non può essere che falso. Quanto al Mochta, che il viaggiatore Barth vide nel 1849, non può trattarsi dello chott al quale i francesi hanno attribuito quel nome, mentre esso è stato sempre precedentemente chiamato Uadi-Sigsao; era (e il Barth lo dice chiaramente) un pendìo leggero ch'egli vide a due ore dalle rovine di El Medeina, e quindi molto avanti l'Uadi-Sigsao. Dal punto dove arrivò gli sarebbe stato difficile scorgere lo chott ora chiamato Mochta dai francesi, poichè si tratta di un bassofondo situato a circa trentacinque chilometri dalle suddette rovine.
Al principio del 1887, dopo il ritiro di Mustafà pascià, la Turchia cominciò a ritirare le sue guarnigioni dalla frontiera ovest. Richiamò da Remada, punto importante incluso nella nuova demarcazione tunisina, i venticinque uomini che vi teneva. Fece lo stesso per la guarnigione di Kasr-Fazua, presso il capo Tadjer, la quale si ritirò nel forte di Bu-Kammech. Anche la guarnigione di Zuara fu diminuita di 400 uomini. Cosicchè la Turchia non solamente s'indebolì sulla frontiera minacciata, ma cedette volontariamente e di fatto i territori che poco prima rivendicava in diritto.
Il rimanente del 1887 e il 1888 passarono senza fatti notevoli; non vi furono che delle razzie fra tribù tripolitane e tunisine. Nulla faceva presagire altri cambiamenti, quando nel mese di febbraio del 1890 il Console italiano a Tripoli venne a sapere che alcune tribù del caimacanato di Nalut, dette Oglad Dahieba, avevano inviato dei commissari al valì per reclamare protezione contro nuove invasioni dei francesi. Alcuni spahis francesi erano comparsi sul loro territorio e l'avevano dichiarato appartenente alla Tunisia; quindi, avevano voluto obbligarli a pagare le decime al Bey, cessando di pagarle alla Turchia. Secondo le stesse informazioni il governatore generale aveva dichiarato ai capi di coteste tribù che si trattava di una questione da discutere tra Francia e Turchia e che essi non avevano a preoccuparsene. E aveva finito con l'invitarli a ritornare nel loro territorio senza comunicare ad alcuno il reclamo che avevano fatto.
Tali prime informazioni furono in parte confermate, in parte modificate in seguito. Realmente, nel mese di maggio di quell'anno il valì, alle interrogazioni del console generale d'Italia, aveva risposto che due o tre mesi prima nella parte del territorio tripolitano che era in contestazione (il valì ammetteva l'esistenza di una contestazione) i francesi avevano obbligato un arabo tripolino il quale aveva seminato un campo, a esibire il suo titolo di proprietà (hoget). Essi avevano affermato che, conformemente alle loro carte geografiche, quel territorio apparteneva alla Tunisia. L'arabo avendo ottemperato alla loro domanda e presentato il suo hoget, i francesi se n'erano impadroniti e non avevano voluto renderglielo. Venuto a conoscenza del fatto, il governatore, per evitare che si rinnovasse, aveva chiamato i capi della tribù cui apparteneva il coltivatore tripolino,  e li aveva invitati a recargli i documenti attestanti i loro diritti di proprietà. Venuto in possesso di quei documenti, il valì ne aveva fatto fare delle copie che aveva rimesse ai proprietari, e aveva trattenuto gli originali. Il governatore dichiarò altresì che una tribù tripolitana, stabilita da circa 60 anni in Tunisia, l'aveva fatto pregare per il rilascio di una dichiarazione dalla quale apparisse che essa era originaria di Tripoli e, in conseguenza, non obbligata a pagare le decime al Bey. Aveva risposto di non poter consentire a tale domanda e invitato la tribù a ristabilirsi sul territorio tripolitano.
Contemporaneamente il valì aveva informato il console generale d'Italia che i francesi avevano anche tentato di guadagnare alla loro causa i Tuaregs, di averli incitati ad avvicinarsi a Gadames, e ad annettersi il territorio che, per effetto della nuova frontiera, si estende dall'Algeria da una parte, e la Tripolitania dall'altra, sino alla Tunisia. Nei loro intrighi i francesi erano aiutati dalla tribù algerina degli Sciamba.
Questi furono i fatti riferiti dal valì, dai quali si desume che la Turchia, o almeno il suo rappresentante a Tripoli, ammetteva che vi fosse contestazione su di un territorio dalla Sublime Porta e dal Sultano dichiarato appartenente alla Turchia, e che il valì riconosceva che potessero esistere dei diritti della Tunisia su territorii situati all'ovest dell'Uadi-Sigsao, che i francesi volevano chiamare Mochta.
Un altro fatto non deve passarsi sotto silenzio. Nel mese di novembre del 1888, la Francia fece in modo che la tribù tunisina degli Akkara si stabilisse a Djemilia. Circa cento tende di cotesta tribù rimasero durante un mese in quella località. Evidentemente si voleva creare uno stato di fatto per potere, a momento favorevole, rivendicare la proprietà di quel territorio e occuparlo facilmente. La Turchia non protestò, nè sollevò obbiezioni.
Mentre la questione della frontiera tripolo-tunisina era allo stato acuto e l'Italia ne informava le potenze interessate, una rivoluzione scoppiò nel territorio di Ghat. Essa venne suscitata da un preteso sceriffo che si disse francese, non avendo punto il tipo arabo, e che il pascià di Tripoli ritenne per un emissario del governo della Repubblica. Lo sceriffo predicava la guerra contro i turchi e contro i francesi. I Tuaregs si ribellarono contro i turchi, occuparono Ghat, uccisero il caimacan, imprigionarono il cadì. Quaranta soldati della guarnigione perirono combattendo; gli altri furono passati per le armi. Il governo dei Tuaregs a Ghat si sostenne per poco, ossia sino a quando il governatore di Tripoli inviò in quella città, come governatore del Fezzan, un arabo di Tripoli che godeva di una grande influenza e che riuscì a ristabilire l'autorità della Turchia. È da notarsi che cotesta rivoluzione fu eccitata dalla fazione del capo Knuken, amico fedele della Francia, quello stesso che stabilì l'accordo tra i Tuaregs e il maresciallo Mac-Mahon nel 1870 col trattato che fu detto di Gadames. È evidente che la Francia, stabilita allora da sessant'anni in Algeria e da nove anni in Tunisia, possedeva mezzi d'azione i più diversi ed efficaci per esercitare sulla Tripolitania, sul Fezzan, sulle popolazioni del deserto l'influenza più funesta.
Nè vanno passati sotto silenzio altri fatti, come le frequenti incursioni dei francesi in Tripolitania. Nel 1886 il generale Allegro percorse le vie di Tripoli accompagnato da due sceicchi tunisini, senza far visita al valì, ma intrattenendosi lungamente col console di Francia. Fatti analoghi si ripeterono più volte sotto gli occhi delle autorità turche. Anche in luglio 1890, il valì informava il Console Generale d'Italia di nuovi intrighi francesi nella regione di Gadames. Testimonianze sicure non lasciavano dubbio circa l'esattezza delle informazioni ricevute. Agenti francesi, partiti dal sud dell'Algeria, si recarono a Tamassinin, capitale dei Tuaregs Ajasser, e trattarono coi capi per la cessione di quella città alla Francia, o quanto meno per la sua occupazione temporanea. Tamassinin è punto d'importanza capitale per le carovane che vanno da Gadames al Tuat e di là al Sokoto. I Tuaregs ricevettero il prezzo della cessione, ma, come accade di frequente con quella gente, disparvero senza mantenere la loro parola. Degli spahis furono inviati dal governo francese a Gadames alla ricerca dei Tuaregs fuggitivi. Essi portavano altresì lettere per i notabili di Gadames e tra gli altri per uno dei più ricchi commercianti di quel centro, il quale aveva pure domicilio a Tripoli, tal Toher Bassiri, antico agente segreto del console Féraud. Il caimacan di Gadames sorprese cotesta corrispondenza e la spedì al governatore generale. Bassiri fu arrestato e condotto a Tripoli, dove però fu rimesso in libertà. La sera stessa dell'arrivo di Bassiri a Tripoli, il valì si recava secondo l'abitudine dal console di Francia per passarvi la serata e vi restò sino a notte tarda. È noto, del resto, che i rapporti tra il valì e il signor Destrées erano intimi.
In conclusione alla metà del 1890 la situazione era questa: la frontiera tunisina si era, di fatto se non di diritto, estesa al sud-est di qualche migliaio di chilometri quadrati; e i punti principali del sud-est tunisino erano stati fortificati, mentre la Turchia aveva diminuito i suoi effettivi sulla frontiera. Tutto era pronto in Tunisia per una rapida concentrazione di truppe sulla frontiera tripolitana. Grazie alla ferrovia Bona-Guelma, aperta all'esercizio il 1.° maggio 1887, forti contingenti di truppe potevano essere trasportati dall'Algeria sino a Tebessa, e da qui una strada militare conduceva per Feriana e Gafsa a Gabes. Dinanzi ad un movimento offensivo in tal modo preparato, il valì di Tripoli non avrebbe potuto opporre una resistenza seria.
A meglio chiarire lo stato della questione quale si presentava al governo italiano alla fine del 1890 giova riferire la seguente memoria che per incarico di Crispi fu redatta dal compianto generale Luchino Dal Verme:

«I) prescindendo da qualsiasi argomentazione desunta da documenti diplomatici, il solo esame delle carte della regione dimostra che il confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania non è quello preteso dalla Francia, ma un altro 30 chilometri all'incirca più a ponente; e così pure che la Tripolitania ha un deserto proprio a mezzodì del Suf algerino;
II) l'usurpazione del territorio interposto fra l'antica e la nuova frontiera danneggia la situazione strategica della potenza che sta in Tripolitania, sia pel fatto dell'avvenuta occupazione come per l'usurpazione ulteriore a cui quella ha additata ed aperta la via;
III) l'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890, pur avendo l'apparenza del rispetto all'hinterland tripolino, lascia alla Francia, all'atto pratico, libertà d'azione verso levante, con grave danno della potenza che è padrona della Tripolitania.


I.

Della contrada in contestazione si sono prese in esame nove diverse carte, la più parte francesi, tutte ufficiali meno una, due inglesi ed una tedesca, nessuna italiana. Di tutte si espongono qui, per ordine cronologico, le risultanze in ordine alla vertenza.
1.° Chart of the gulf of Kabes, 1838. È questa la carta idrografica dell'ammiragliato inglese (n. 249) sulla quale appare distinta la linea di confine di cui è questione, colla leggenda Boundary between Tunis and Tripoli. Il Mediterranean Pilot (official) la illustra colle seguenti parole: «Within ras el Zarzis is a fort of the same name. A short distance west of the fort is the boundary between the States of Tunis and Tripoli».
2.° Carte de la Régence de Tripoli, dressée par M. M. Prax et Renou, Paris, 1850 (scala 1 a 2 000 000), la più antica ed una delle più attendibili, perchè redatta dietro osservazioni fatte ed informazioni raccolte sul luogo, e perchè costruita in un'epoca in cui non eravi alcun interesse a spostare sulle carte le frontiere naturali a scopo politico; reca il confine sud-orientale della reggenza di Tunisi dal forte El Biban sul mare direttamente al Gebel Nekerif. Da questo, continuando per poco nella stessa direzione, volge poi a nord-ovest, quindi a ovest e poscia a sud-ovest, lasciando a settentrione la contrada algerina del Suf. Viene così a comprendere nella Tripolitania un territorio che, per quanto deserto, si estende a nord-ovest verso il Suf per circa 180 chilometri da Ghadames, e va verso ponente ben oltre il 3.° meridiano orientale di Parigi.
3.° Carte de la régence de Tunis, dressée au dépôt de la guerre d'après les observations et les reconnaissances de M. Falbe, capitaine de vaisseau danois et de M. Pricot de St. Marie, chef d'escadron d'état major français, étant directeur le colonel Blondel - Paris, 1857 (scala da 1 a 400 000). Questa, che è la prima carta di fonte governativa francese della Tunisia, non porta nessun confine politico nè a sud nè ad est; ma termina a sud-est col uadi Fissi (altrove scritto Fessi), oltre il quale, a mezzodì del lago Biban, e precisamente in quella plaga che le carte odierne dello stesso stabilimento del governo comprendono nella reggenza di Tunisi, sta scritto a grandi caratteri Ouled Houeil, e fra parentesi, immediatamente sotto: Tribu de Tripoli.
4.° Côte septentrionale d'Afrique entre Zarzis et Tripoli; levée en 1871 par le capitaine de vaisseau E. Mouchez, membre de l'Institut ; publiée au dépôt des cartes et plans de la marine en 1878; corrigée en novembre 1880. In questa, che è la carta ufficiale idrografica della marina francese, pubblicata un ventennio più tardi della precedente, si scorge l'identica ubicazione degli Ouled Houeil e la loro qualificazione di Tribu de Tripoli.
5.° Karte des Mittelländischen meeres, Dr. Petermann; edita da J. Perthes, Gotha nel 1880 e 1884 (scala da 1 a 3 000 000). Il confine in discorso vi si vede tracciato dalla estremità occidentale del lago Biban alla catena montana del Duirat, in un punto che dista da Nalut da 70 a 75 chilometri. Il uadi, che scorre a una trentina di chilometri più a levante dell'accennata frontiera, è denominato uadi Segsao in tutto il suo corso.
6.° Wyld's Map of Tunis, senza data, ma anteriore al 1886 (scala da 1 a 1 107 532). Porta il confine tra la Tunisia e la Tripolitania ben definito con una retta che dal forte El Biban attraversando il lago omonimo, va alla catena del Duirat ad un punto presso a poco alla stessa distanza da Nalut indicata sulla carta precedente. Pure come in questa (colla sola sostituzione della z alla s), è nella carta del Wyld detto Zegzao il uadi che scorre più a levante.
7.° Carte des itinéraires de la Tunisie, dressée et publiée par le service géographique de l'armée; due edizioni, 1885-87 (scala da 1 a 800 000). Sull'edizione del 1885 si ritrova per la prima volta la denominazione di Mokta data al uadi, che per lo addietro tutte le carte chiamavano Zegsao, Sigsao, Segzao. Makatà in arabo significa linea, trincea, fossato, ed implica il concetto della frontiera. Moktà, riferisce l'illustre Barth, vale grenzgebiete, ossia «paese di frontiera». Lungo cotesto uadi, altra volta Segsao, oggi Mokta, è tracciato il confine politico.
8.° Carte d'Afrique (F.lle n. 6) publiée par le service géographique de l'armée, 1887 (scala di 1 a 2 000 000). In questa sono naturalmente riportate tutte le novità introdotte nella precedente, uscita dal medesimo istituto governativo. Come però si estende maggiormente in ogni direzione, lascia scorgere tutto l'andamento del nuovo confine; il quale, passando in prossimità di Oezzan, rimasto alla Tripolitania, si dirige al deserto che contorna sino all'oasi di Ghadames, a nord della quale s'arresta, a 24 chilometri dalla città.
9.° Carte de la Tunisie, par le service géographique de l'armée; édition provisoire, 1890 (scala di 1 a 200 000). È questa la carta più recente della Tunisia edita dal Service géographique de l'armée. In essa è ben particolareggiato il nuovo confine partente dal mare a Ras Adjir, seguendo il uadi detto Mokta fino al confluente del Khaoai Smeida e che corre poi verso ponente e quindi verso sud-ovest in modo da lasciare Oezzan alla Turchia, sulla frontiera. Non si può vedere come sia definito il confine più al sud, non essendo ancora pubblicati i due fogli meridionali. In sostanza, conferma il confine dato dalle precedenti due carte pubblicate dallo stesso stabilimento governativo. Soltanto è da notarsi che la distanza lungo il littorale, fra l'antico confine al forte El Biban e il nuovo a Kas Adijr, appare in questa carta ridotta a 25 chilometri.
Riepilogando, dall'esame di tutte queste carte evidentemente risulta:
a) Che in nessuna di esse, nè francese (ufficiale o privata) nè tedesca nè inglese, anteriori al 1885, si trova segnato l'attuale confine e neppure altro che vi abbia qualche punto di contatto, dal mare alla catena del Duirat. Così pure in nessuna si trova il nome di Mokta applicato al uadi Segsao o Zegzao.
B) Che il territorio considerato nelle carte del service géographique de l'armée 1885-87 siccome appartenente alla Tunisia e perciò soggetto al protettorato francese, è l'identico che nel 1857 dallo stesso stabilimento governativo e nel 1878 dall'analogo istituto della marina, veniva esplicitamente dichiarato «territorio di Tripoli».
c) Che la denominazione di Mokta data dalla carta del service géographique de l'armée (1885-87) all'uadi Segsao, presumibilmente fu intesa a giustificare il tracciamento della frontiera lungo il medesimo. A tale proposito giova rammentare come l'esploratore Barth si sia servito del vocabolo arabo mokta per indicare il paese di frontiera (grenzgebiete) dove egli si trovava, a ponente del forte El Biban. Con ciò, anzichè designare la frontiera fra la Tunisia e la Tripolitania lungo l'attuale El Mokta, come si pretese in Francia, egli l'indicava là dove tutte le carte anteriori al 1885 la portavano, a El Biban.
Come se tutto ciò non bastasse, si può ancora aggiungere l'avviso del più autorevole geografo vivente, Eliseo Réclus, il quale nel suo volume XI pubblicato alla fine del 1886, quando cioè da un anno era apparsa la carte des itinéraires de la Tunisie, anzichè riconoscere la nuova frontiera del Mokta, scriveva a pag. 174: «L'îlot du cordon litoral situé entre les deux passages est occupé par le fortin des Biban ou des portes, ainsi nommé des ouvertures marines qu'il defend; en outre il est aussi la porte de la Tunisie, sur la frontière tripolitaine».
Che più? Lo stesso governo della repubblica, quando si sollevarono obiezioni in Italia e a Costantinopoli contro il nuovo confine segnato sulla carta del service géographique de l'armée ebbe a sconfessare quella carta e quel confine4 affermando che non aveva carattere ufficiale. Una tale sconfessione era del resto assurda, perchè non si saprebbe davvero immaginare quale altra carta possa avere quel carattere, se non lo si riconosce in una «dressée, gravée et publiée par le service géographique de l'armée, étant chef du service géographique le général Perrier»5.
La Turchia, com'è facile immaginare, non ha riconosciuta la nuova frontiera. Se ne ha una prova nella dichiarazione fatta il 27 novembre 1890 dal governatore generale di Tripoli al reggente il consolato d'Italia. «La Francia - così egli si espresse - oggi tratta per conoscere la nostra linea di confine verso la Tunisia. Ma noi non possiamo aderire a simili trattative, perchè sarebbe riconoscere il governo del protettorato. Anzi ho già protestato contro una carta di confine tracciata dal genio francese e che mi fu presentata per la debita ratificazione».


II.

Da quanto si è precedentemente esposto, si avrebbero elementi per provare come il confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania fosse, sul mare, in vicinanza al forte Zarzis, e nell'interno seguisse, in parte almeno, il corso dell'uadi Fessi. In ogni modo volendo considerare come antico confine quello dato dalla carta francese di Prax e Renou e confermato dal Wyld, dal Petermann e dal Réclus, il confine cioè che dal forte El Biban va alla catena del Duirat ad un punto distante da 70 a 75 chilometri da Nalut, la superficie usurpata misurerebbe all'incirca 3000 chilometri quadrati; senza tener conto, si noti bene, di quanto è avvenuto a libeccio della catena stessa, di cui si dirà in seguito.
Ma questo non è il peggior male, poichè si potrebbe dire che una tale distesa di territorio è improduttiva e pressochè deserta. Il danno che sotto il punto di vista strategico deriva alla potenza che è padrona della Tripolitania sta in ciò, che anzitutto il confine tunisino, s'accosta alla capitale di 30 chilometri circa, cioè una tappa; inoltre, che il confine attuale si trova dove è maggiore la distanza dall'altipiano al mare, in modo che la difesa ne riesce più difficile. Fra le altre difficoltà poi a cui l'andamento della nuova frontiera dà luogo, vi è questa principalissima, che la piazza di Oezzan sulla catena di Nafusa, anzichè difendere la frontiera stessa, siccome sarebbe suo ufficio, viene col trasporto della medesima a ritrovarsi in posizione eccentrica rispetto a Tripoli, cosicchè riuscirebbe agevole a truppe francesi stabilite sin dal tempo di pace sul Mokta, d'impossessarsi appena rotte le ostilità di Nalut o d'altre posizioni sul ciglio dell'altipiano, in quella plaga, tagliando fuori per tal modo Oezzan e tutta la frontiera che si stende a ponente sino al deserto.
Senonchè, per quanto sotto il rispetto militare gli accennati inconvenienti sieno gravi, perchè non è cosa di poco momento l'accostare alla frontiera la capitale di uno Stato di un milione di chilometri quadrati che si trova già tanto spostata da quella parte, ed altresì perchè padrone di Nalut e del ciglio dell'altipiano, il nemico può agevolmente piombare su Tripoli, pure v'ha un altro inconveniente ancora più grave.
L'oasi di Ghadames per effetto della nuova frontiera, che contornando il margine orientale del deserto fu condotta a passare appena a 24 chilometri dalla città, si trova ora all'estremo angolo sud-ovest del possedimento turco, mentre altra volta questo si estendeva, come già s'è veduto, a mezzodì del Suf algerino fin oltre il 3.° meridiano orientale di Parigi. Ora, per questa sua posizione e per effetto dell'accordo anglo-francese (come si vedrà in appresso) l'oasi di Ghadames è divenuta un'appendice della Tripolitania, unita alla stessa soltanto a nord-est e ad est.
Il trasporto della frontiera verso levante, che lascia esposte le posizioni militari di Oezzan e l'altre sul ciglio dell'altipiano, minaccia pure nella sua esistenza Ghadames. Difatti, quando il nemico sia padrone di Nalut, le comunicazioni della capitale con Ghadames sono in mano sua, e riesce pertanto senza colpo ferire in suo potere Ghadames stesso, accerchiato da ogni altra parte com'è dal deserto francese. Ora, come il possesso di quella importantissima oasi, l'antica Cydamus dei Romani che vi dominarono per 250 anni, punto di partenza necessario delle carovane provenienti da Gabes e da Tripoli e dirette al lago Tciad, al Bornu e al Niger, e quindi centro ed emporio commerciale, è da tempo vivamente ambito dai francesi, si deve scorgere in quell'avanzata di frontiera verso levante, il fine ultimo, essenziale, di disgregare l'unità del possedimento, accostarsi alla capitale, minacciarne le comunicazioni colla sua più importante oasi e ridurla a tale isolamento che un dì abbia a finire per cadere nelle loro mani. La sospensione del tracciato della frontiera6 a 24 chilometri a nord di Ghadames, quale si vede sulla carta del service géographique de l'armée (1887), è un evidente indizio che dai Francesi non si vuol riconoscere il dominio turco appena ad ovest e neppure appena a sud dell'oasi. Gli è questa, nel concetto francese, come una sentinella turca perduta nel deserto, che si molesta, si accerchia, si minaccia, tanto da giungere ad obbligarla a ritirarsi per lasciare ad altri il suo posto.
È superfluo il dire che la perdita di Ghadames sarebbe per la potenza che sta a Tripoli un gravissimo colpo, oltrechè sotto il punto di vista commerciale anche sotto quello strategico; innanzitutto perchè è nodo di comunicazioni allaccianti nientemeno che due mari, il Mediterraneo e il golfo di Guinea, e il bacino interno del Tciad; e poi perchè la sua perdita trarrebbe seco quella di tutto il territorio fino alle oasi di Dergi e di Sinaun, alle quali sarebbe in progresso di tempo riservata la stessa sorte. Al quale proposito giova ricordare come nelle sterminate regioni dei deserti africani, le oasi ritraggono dall'acqua che le creò una capitale importanza, giacchè fuori di esse non vi è vita; di guisa che a buon dritto possono dirsi i punti strategici del deserto.


III.

Fu accennato or ora come l'accordo anglo-francese del 5 agosto sia una minaccia per l'oasi di Ghadames. E difatti quell'accordo riconosce la zona d'influenza francese a sud dei possedimenti mediterranei fino ad una linea determinata da Say sul Niger a Borruva sul lago Tciad, senza che vi sia in nessuna guisa indicato il limite orientale di questa immensa contrada. Soltanto si può dedurlo col riunire il punto estremo orientale del confine dei possedimenti mediterranei con Borruva, sul lago Tciad, avendo cura di lasciare intatti a levante i diritti spettanti alla Porta in forza della dichiarazione di Waddington in risposta alla richiesta (5 agosto) di lord Salisbury.
E così la linea verrebbe a riuscire il prolungamento di quella che rasenta l'oasi di Ghadames e che passando a ponente di quella di Ghat o Rath, anche appartenente alla Tripolitania, dovrebbe andare direttamente a Borruva.
Or quando si consideri che siamo in pieno Sahara, con distanze enormi, rarissime vie di comunicazione, ancor più radi centri abitati, cioè le oasi; che quindi le notizie dell'interno impiegano mesi a giungere alla costa, quando giungono; che i francesi hanno il diritto, in forza dell'accordo, di stabilirsi sulla sponda occidentale del lago Tciad; che essi hanno proclamato il confine sud-orientale dei loro possessi mediterranei scorrente a soli 24 chilometri dalla città di Ghadames; che la Turchia non ha trovato la vigoria di contestarlo, la Turchia che ne riceve il danno immediato e che si prepara a sottostare alla perdita di Ghadames od almeno, quasi preludio alla perdita, alla deviazione dei commerci tendenti a Tripoli, ai porti francesi; che infine l'oasi di Rhat così lontana ha una dipendenza non certo diretta dal valì di Tripoli; quando si sia considerato tutto ciò, si può chiedere: che v'ha di più facile pei francesi di divenire di fatto poco a poco gli arbitri, se non i diretti padroni e di Ghadames e di Rhat e quindi di tutto l'hinterland tripolitano? Poichè occorre rammentare che in regioni di deserto come queste di cui è questione, il padrone effettivo è chi si trova sul luogo in forze e con denari in modo da disporre dei commerci e delle vie di comunicazione; ed inoltre che la dichiarazione supplementare all'accordo del 5 agosto, non garantisce che i diritti del Sultano, e riesce assai dubbio lo stabilire se siasi voluto comprendere fra questi anche i diritti sorti dalla recentissima teoria dell'hinterland. V'ha anzi molta ragione per ritenere che si sia inteso di salvaguardare soltanto i diritti sui territori riconosciuti parte integrante della Tripolitania, di guisa che pur volendo ammettere il rispetto di quelli per parte della Francia, cioè di Ghadames e di Rhat, nessuna esplicita garanzia si ritrova nè nell'accordo, nè nella dichiarazione supplementare, che valga ad arrestare i francesi nella loro lenta, pacifica ma costante marcia verso levante, dove oggi possono procedere a sud della Tripolitania, senza incontrare nessuna linea di delimitazione.


Conclusione.

Si è veduto che la Francia ha addirittura abolito l'antica frontiera fra l'Algeria e la Tripolitania (v. Carta di Prax e Renou) dichiarando francese tutto il deserto che si stende a ponente di Ghadames, a mezzodì del Suf algerino, assai prima ancora che intervenisse l'accordo del 5 agosto 1890. Si è pure veduto che ha arbitrariamente  avanzato la frontiera della reggenza di Tunisi verso levante ai danni della Tripolitania, col fine di avvicinarsi alla capitale, girare le difese verso nord-ovest sull'altipiano e tagliar fuori Ghadames.
Quest'opera di lenta demolizione la Francia l'ha iniziata non appena posto il piede in Tunisia, e la continua. Oggi è la volta di Ghadames. Per ora semplicemente attratto nell'orbita del commercio francese, cadrà necessariamente di poi nelle mani della Francia, e con esso cadranno le dipendenti oasi di Dergi (Derdj) e Sinnaun e la lontana di Rhat. E quando la Francia sarà l'arbitra di tutto l'hinterland tripolino e padrona delle vie carovaniere dal Tciad a Tripoli, e quindi del commercio di tutto quel vasto bacino centrale africano, che ne sarà dell'equilibrio del Mediterraneo?
Il potere ottomano ridotto alla regione costiera, diverrà poco a poco una larva di potere anche in Tripoli stesso, finchè, alla prima circostanza propizia, non cadrà definitivamente in mano alla potenza che, stringendola da ponente e da sud, ne avrà già l'effettivo dominio. E allora la Francia estenderà il suo non interrotto dominio dall'Atlantico e dal Mediterraneo al lago Tciad su di una sterminata distesa di territorio, quasi un terzo del continente africano. Padrona del littorale dal Marocco all'Egitto, avrà rotto l'equilibrio del Mediterraneo; arbitra del vastissimo paese fra i due mari e il bacino interno del Tciad, giungerà al Uadai, al Darfur, alla valle del Nilo.

Roma, 2 dicembre 1890

Generale L. Dal Verme.»

Dati i precedenti, è naturale che alla Consulta si desse importanza ad ogni notizia che veniva dal confine tripolo-tunisino. Il ricordo del modo col quale la Francia aveva iniziato la occupazione della Reggenza di Tunisi, faceva pensare che ogni incidente di frontiera potesse offrire un pretesto ad una invasione del territorio tripolitano. Il 31 luglio Crispi aveva telegrafato alle ambasciate di Londra, Berlino e Vienna:

«Il nostro console a Tunisi mi telegrafa la notizia di un serio combattimento alla frontiera della Tripolitania fra tribù tunisine e tripoline.

Non vorrei fosse una ripetizione della favola dei Krumiri che diede pretesto al 1881 alla occupazione della Tunisia. Ora è la volta della Tripolitania.»

In quei giorni avevano termine tra i gabinetti di Parigi e di Londra i negoziati per la delimitazione delle zone d'influenza della Francia e dell'Inghilterra nel Sudan e veniva firmato l'accordo anglo-francese più volte innanzi citato e che porta la data del 5 agosto 1890.
Tanto il Ministro francese Ribot, che il ministro inglese lord Salisbury dichiaravano che in quell'accordo erano stati rispettati i diritti della Turchia, ma in realtà l'hinterland della Tripolitania era abbandonato alla invadenza francese, siccome dimostrava il Dal Verme nella memoria che precede.
Crispi prima della firma del detto accordo, cioè il 2 agosto, telegrafava a Londra:

«Ho più volte avvertito cotesta ambasciata degli sconfinamenti che si fanno o si tentano dalla Francia dalla Tunisia nella Tripolitania.
Or sento il dovere d'informarla, che in un colloquio su cotesto argomento tenuto il 31 luglio dal generale Menabrea col ministro Ribot, questi dichiarò che, nello hinterland preteso dalla Francia, essa intende comprendere la grande strada delle carovane che unisce il Sudan alla Tripolitania. Ove ciò fosse, la Francia verrebbe a prendere quasi tutto l'hinterland tripolino, togliendo qualunque avvenire a quella provincia.
Ne prevenga il Foreign Office.»

E il conte Tornielli rispondeva l'indomani, 3, col seguente telegramma:

«Ogni volta che codesto Ministero ha avvisato questa ambasciata di sconfinamenti francesi a danno della Tripolitania o di atti tendenti a preparare ingrandimento a pregiudizio di quella provincia ottomana, non ho mancato di parlarne al Foreign Office ed anche lasciare memoria dei nomi delle località segnalate. Ho reso conto a V. E. di quelle comunicazioni e dell'accoglienza fatta alle medesime. Non era forse ancora pervenuto a V. E. il mio telegramma d'ieri 8 pom. allorchè Ella ha telegrafato  circa pretesa confessata da Ribot a Menabrea in abboccamento del 31 luglio. Dalle cose dettemi da Salisbury circa l'hinterland tripolitano risulta che accordo stabilito lascia che Francia arrivi toccare soltanto riva occidentale lago Tciad. Sua Signoria mi ha detto espressamente che tutti i diritti del Sultano erano stati salvaguardati. La trattativa non essendo ancora stata chiusa ieri nel pomeriggio e Salisbury essendosi trasferito in campagna per tre giorni, gli scrivo oggi stesso un privato biglietto per avvisarlo che pretese Ribot tendono mettere in mano della Francia strade carovane del Sudan, che, in circostanze date, possono essere importantissime e utili allo Stato che possiede l'Algeria e la Tunisia, anche per operare nascostamente sovra altre parti di Africa. Sua Signoria comprenderà certo l'allusione all'alto Egitto e se un impegno positivo non è già stato preso, sono persuaso che porterà la sua attenzione più scrupolosa ad evitare che le strade suddette passino alla Francia.»
Naturalmente, le nuove preoccupazioni del governo italiano erano partecipate a Costantinopoli, come le precedenti. In ottobre la Sublime Porta finalmente si decise a intervenire nella questione e diresse la seguente Nota ai suoi ambasciatori a Parigi e a Londra:

«Octobre 1890.

Sublime Porte à ses réprésentants
à Paris et à Londres.

Votre Excellence sait qu'en signant le 5 Août dernier les arrangements intervenus entre eux au sujet de l'Afrique, le Gouvernement Britannique et le Gouvernement Français ont échangé des notes pour constater leur parfait accord de respecter scrupuleusement les droits appartenant à S. M. I. le Sultan au sud des provinces de ses possessions Tripolitaines.
Cependant, afin de prévenir toute équivoque le Gouvernement Imperial croit devoir déclarer que dans la partie méridionale de la Tripolitaine du côté du Grand Sahara en dehors des districts de Gadames, de Gah (Rhah) d'Argar (Asdser), Touareg, de Mourzouk (chef lieu du Tsezzan), de Ghatroun, de Tidjerri et de leurs dépendances qui sont tous administrés par les Autorités Impériales, les droits de l'Empire doivent d'après les anciens titres et la doctrine même du Hinterland s'étendre sous les territoires compris dans la zone determinée ci-après. La ligne de cette zone partant des environs de la frontière méridionale de la Tunisie du point connu sous le nom de Bin Turki au N. E. de Berresok, descend vers Bornou en passant à l'O. de Gadames et d'Argar, Touareg et en comprenant les oasis de Djebado et d'Agram. Elle passe ensuite entre les limites de Sokoto et de Bornou pour aboutir à la frontière septentrionale de Cameroun, et suit de là vers l'Est la ligne du partage des eaux entre le bassin du Congo et celui de Tchad de façon à englober le territoire de Bornou, Baghirmi, Ouadaï, Kanem, Ouanianga, Borkou et Tibesti, laissant ainsi en notre possession la grande route des caravanes qui va de Morzouk à Kouka par les oasis du Yat de Kaouar et d'Agadem.
V. E. verrà par le tracé de la ligne décrite ci-dessus que la localité de Barrowa sur le lac Tchad reste dans la sphère d'action du Gouvernement Imperial.
Les raisons qui militent en faveur de notre point de vue consistent dans le fait que la route des caravanes de Mourzouk à Kouka devant nécessairement rester à l'Empire, on ne peut laisser en d'autres mains la susdite localité de Barrowa qui se trouve précisément sur la même route des caravanes et non loin de Kouka.
Il est vrai que l'art. 2 de la déclaration franco-anglaise du 5 août semble comprendre Barrowa (sur le lac Tchad) dans la zone d'influence de la France, mais outre la double considération que cette localité n'a pas, que nous sachions, appartenu jusqu'ici à une puissance quelconque et que géographiquement même, ainsi que d'après la doctrine du Hinterland, au lieu de faire partie de la zone française elle revient à celle de l'Empire pour les raisons plus haut exposées; il y a lieu de ne pas perdre de vue que le texte même de l'article sus visé porte dans son second alinéa que la ligne doit être tracée de façon à comprendre dans la zone d'action de la Cie du Niger tout ce qui appartient équitablement au royaume de Sokoto. Or comme le tracé contourne Sokoto sans y toucher et englobe seulement Bornou, et comme d'autre part Bornou est bien en deçà de Sokoto, nous sommes en droit de croire que le tracé ne pourra pas donner lieu à une objection fondée.
Je prie V. E. de vouloir bien notifier par écrit ce qui précède au gouvernement près duquel Elle est accréditée afin que lors de la délimitation de la ligne à determiner suivant l'art. 2 susmentionné, il ne soit point empiété sur notre zone d'influence et tenir mon département au courant des phases futures de cette question et du résultat de ses démarches.

Said.»

Lo zelo dell'Italia nella difesa dell'integrità della Tripolitania era appreso a Costantinopoli con diffidenza, e a tener viva questa diffidenza contribuivano gli agenti e i giornali francesi, i quali per stornare l'attenzione del governo turco dall'azione costante della Francia, parlavano continuamente delle mire italiane. Il 14 agosto il Sultano faceva telegrafare a Zia bey, ambasciatore turco a Roma:

«Un dispaccio privato annunzia che l'Italia preparerebbe una spedizione militare. Benchè questa notizia ci sembri inverosimile prego informarci.»

Zia bey rispondeva subito non esservi in Italia indizio alcuno di una spedizione militare in preparazione.
In novembre, i giornali francesi stamparono che nei colloqui tenuti a Milano tra Crispi e Caprivi, si erano presi accordi in vista di un'occupazione italiana di Tripoli. Ma l'ambasciatore turco a Berlino, invitato ad assumere informazioni in proposito, telegrafava:

«J'ai eu une entrevue avec le baron Marschall. S. E. m'a dit que le Chancelier avait rapporté la meilleure impression de son entrevue avec Monsieur Crispi. Il a ajouté à ce propos que la Sublime Porte était eclairée pour n'attacher aucune importance aux versions mensongères relatives à la Tripolitaine. Le nom même de cette province de l'empire ottoman n'ayant pas été prononcé dans l'entrevue.»

Ma il sospetto era sempre vigilante. Il 15 dicembre Zia bey telegrafava al proprio governo:
«Osman bey addetto militare ha saputo da fonte sicura che il colonnello Ponza di San Martino è partito per la Tunisia e per Tripoli allo scopo di constatare segretamente il preteso incontro delle truppe imperiali colle truppe francesi e di indagare quali siano i mezzi di difesa di cui la Turchia dispone nella Tripolitania. Avendo io smentito la voce sparsa su quest'incontro tanto nella stampa, quanto nelle mie conversazioni con S. E. Crispi, credo piuttosto che si tratti di constatare se abbia fondamento la notizia delle usurpazioni della Francia avanzate da S. E. Crispi in base al rapporto del Console di Italia che avrebbe particolarmente studiato l'hinterland della Tunisia.»

Constatato il pericolo della usurpazione francese dell'hinterland tripolitano per la situazione creata dall'accordo 5 agosto 1890, si pensò dal governo italiano al modo di portarvi rimedio. E il modo si era trovato, come appare dalla memoria che trascriviamo e che porta la data del 19 gennaio 1891. Ma pochi giorni dopo, il 31 gennaio, avveniva la crisi ministeriale che allontanava Crispi dal potere, e i suoi successori abbandonarono la questione:

«A ricercare il modo col quale portare rimedio alla situazione, occorre prendere in esame l'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890, che solo ha dato origine alla stessa, sia con quanto ha stabilito, sia, e più ancora, con ciò che ha ommesso di stabilire.
Infatti, con quell'accordo fu concesso alla Francia di arrivare sino a Borruva sul lago Tciad, e quindi assai più a levante di quanto un'imparziale applicazione della teoria dello hinterland le avrebbe assegnato. D'altra parte, nel medesimo accordo venne ommesso di determinare il limite orientale della zona d'influenza francese, lasciando così aperto il campo ad arbitrarie interpretazioni ed alle conseguenti usurpazioni nell'avvenire.

Che l'estensione della zona d'influenza francese sino al Tciad oltrepassi la misura che l'equa applicazione della novella teoria indicherebbe, riesce evidente a chiunque esamini una carta del continente africano colle recenti frontiere politiche. Salvo il caso della presenza di fiumi, il cui corso possa venire di preferenza seguito, per regola la delimitazione dello hinterland fra due potenze vicine si fa per mezzo di una linea normale all'andamento generale della costa.
Se pertanto si prolunghi l'attuale confine fra la Tunisia e la Tripolitania (sia pure quello voluto dalla Francia) e che è appunto nel suo generale andamento normale alla costa, si vedrà come la nuova linea dovrebbe correre in direzione di sud-ovest o quanto meno di sud-sud-ovest, in guisa da lasciare allo hinterland della Tripolitania un'immensa distesa di Sahara oggi assegnata alla Francia.
Senonchè, una tale spartizione, quantunque fatta in base alla regola generale rispettivamente alla costa da Tripoli a Gabes, non sarebbe equa per riguardo al littorale algerino; e neppure lo sarebbe sotto un punto di vista più complesso, imperocchè trattandosi d'una sterminata regione nella quale pochissimi sono gli obbiettivi, questi più che la superficie del territorio debbono essere equamente divisi fra i contendenti. Giustizia pertanto avrebbe richiesto che la linea di divisione si fosse fatta scendere direttamente a sud, per meridiano, in guisa da consentire alla Francia di raggiungere la frontiera del Sokoto dal Niger insino all'incontro del Bornu, e alla Tripolitania quella del Bornu e il lago Tciad.
Invece, l'accordo del 5 agosto ha fatto avanzare la Francia assai di più verso levante, per modo da confinare essa sola col Bornu, escludendone la Tripolitania che vi aveva diritto e per ragioni geografiche in base alla nuova giurisprudenza dello hinterland, siccome fu testè dimostrato, e per ragioni di dominio commerciale, dappoichè è da Ghadames e da Tripoli che si esercita da secoli il traffico col Bornu, così da poter dire che la Tripolitania ne ha di fatto il monopolio. Inoltre, l'accordo del 5 agosto ha portato la Francia a quel lago Tciad che si trovava intero nello hinterland del possedimento turco. Nè è da passare sotto silenzio che l'avere acconsentito alla Francia di giungere al lago, significò l'aggiudicazione alla stessa di un triangolo della superficie di 200 000 miglia geografiche quadrate a levante del meridiano che avrebbe dovuto segnare il limite; tutto territorio che non è quindi situato au sud des possessions méditerranéennes, come dice la lettera dell'accordo, ma bensì au sud-est.
Oggi poi, come se la porzione toccata alla Francia nel modo così poco equo ora veduto, non bastasse, si va per mezzo di carte, di articoli, di conferenze, infiltrando nel pubblico la convinzione che la zona d'influenza francese s'estende a mezzodì della Tripolitania, tanto da comprendere gran parte della carovaniera che da Tripoli per Murzuk va al Tciad, l'oasi di Bilma e gran parte della sponda settentrionale del lago. Le carte del Temps e del Petit Journal del dicembre scorso lo dicono chiaro, alla breve distanza di cinque mesi dalla data dell'accordo. E lo possono dire, e il pubblico può crederlo, dacchè nell'accordo non venne determinato il limite orientale della zona d'influenza francese se non nei due punti estremi, uno dei quali non esplicitamente indicato, lasciando, come s'è detto sin dal principio, aperto il campo vastissimo a svariate interpretazioni, che non possono non condurre ad ulteriori arbitrarie occupazioni.
Nè vale il dire che la dichiarazione del signor Waddington a lord Salisbury in data 6 agosto precisi l'incerto confine col garantire i diritti del Sultano, dappoichè il ministro degli affari esteri semplicemente dichiara salvaguardati «les droits qui peuvent appartenir à S. M. I. le Sultan dans les régions situées sur la frontière sud de ses provinces tripolitaines»; il che non implica affatto che sieno guarentiti quei diritti sulle regioni che costituiscono l'hinterland del possedimento turco, le quali avrebbero dovuto in tal caso venire indicate con frase ben diversa nella sostanza, quantunque poco dissimile nella forma, e cioè «les régions situées au sud de la frontière méridionale de ses provinces tripolitaines».
Con una siffatta dizione si sarebbe esclusa la Francia da qualsiasi usurpazione al sud della Tripolitania, incominciando da Ghadames, mentre colla dizione contenuta nel documento diplomatico citato, nulla si garantisce, salvo ciò che sta sulla frontiera tripolina; il che può anche limitarsi a significare quanto sta entro il territorio turco lungo la frontiera.
Non sarà egli possibile trovare oggi un rimedio alla situazione creata dall'incompleto accordo del 5 agosto, situazione esiziale (siccome venne dimostrato nella precedente Memoria I) all'Italia, all'Inghilterra ed alle potenze  centrali cui interessa il mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo?
Il rimedio si presenta facile, poichè non si tratta di rinvenire sul già fatto, ma soltanto di chiarirlo e delinearlo; d'altra parte non si chiede alla Francia se non la sanzione precisata di ciò che essa per bocca del suo ministro degli affari esteri reiteratamente dichiarò d'intendere quale lo s'intende da noi. Null'altro pertanto si vuole all'infuori di una dichiarazione supplementare del ministro francese, nella quale venga specificata quella del 6 agosto, col designare nettamente quel limite orientale della zona d'influenza francese che fu ommesso nell'accordo del 5.
Basterebbe a tale effetto che si dichiarasse come il limite orientale di quella zona, indicato soltanto ed anche imperfettamente nei suoi punti estremi, sia determinato secondo una linea che partendo dal confine tripolo-tunisino a ponente dell'oasi di Ghadames, corra direttamente a rasentare, pure a ponente, l'oasi di Ghat, donde con altra linea retta raggiunga Borruva sul lago Tciad.
Non si saprebbe invero come impugnare l'equità di una tale delimitazione, dacchè nell'accordo 5 agosto sta scritto: «la zone d'influence de la France au sud de ses possessions méditerranéennes». Ora, come il punto estremo orientale di tali possessi entro terra si ritrova (pure ammettendo il confine delle carte del «service géographique de l'armée») sul lembo occidentale dell'oasi di Ghadames, così gli è da quel punto che devesi condurre la linea a Borruva, designato esplicitamente nell'accordo; la quale linea dovrà essere retta se nel suo andamento non risultasse intaccare l'oasi di Ghat, possedimento turco; sarà invece spezzata, se al giungere a quest'oasi la posizione geografica della medesima lo richiedesse.
Con una tale precisa delimitazione s'impedirebbe qualsiasi arbitraria interpretazione sin d'oggi; si garantirebbero effettivamente i diritti del Sultano a sud dei suoi possedimenti; s'arresterebbe qualunque velleità d'avanzata a levante per parte della Francia, la quale del resto non avrebbe a lagnarsi di questo assetto definitivo che è in massima quello acconsentito coll'accordo del 5 agosto, col quale, è d'uopo ripeterlo, il governo della repubblica  ha ottenuto ai danni della Tripolitania assai di più di quanto l'equa applicazione della novella teoria dell'hinterland le avrebbe assegnato.»

In quali termini la questione fosse trattata a Parigi, risulta da due telegrammi del generale Menabrea:

«Parigi, 3 gennaio 1891,

Signor Ministro,

Il colloquio che io ebbi col Sig. Ribot in occasione del suo ultimo ricevimento ebdomadario del 30 dicembre prossimo passato, fu alquanto animato per non dire vivissimo. Al primo momento egli con parole concitate mi accennò la polemica aperta sulla questione Tripolitana ed in cui si attribuisce alla Francia l'intenzione d'occupare quella Reggenza, accusa questa sostenuta dai nostri giornali qualificati di ufficiali e supposti ispirati da codesto Ministero. Secondo il suo dire l'Eccellenza Vostra avrebbe denunziato quelle intenzioni della Francia ad altre potenze e fra queste all'Inghilterra, come risulterebbe da rapporti che gli pervengono. Il signor Ribot chiudeva la sua arringa col pregare Vostra Eccellenza di smettere la continuazione di una tale accusa che potrebbe suscitare interpellanze in Parlamento e dare luogo a spiacevoli incidenti.
Ascoltai con molta calma il discorso appassionato del signor Ribot, il quale protestava contro le mire che si supponevano alla Francia di assorbire anche la Tripolitania, mentre essa non pensava che a valersi delle vie aperte colla recente convenzione Anglo-francese relativa all'Hinterland nel Soudan per volgere una parte del commercio di quella regione verso la Tunisia dove le si stanno creando nuove facilitazioni.
Prendendo a mia volta la parola, dissi al signor Ribot che potremmo con ben maggiore ragione rivolgere a lui o per meglio dire al suo Ministero i rimproveri che egli mi esprimeva sul nostro contegno verso la Francia riguardo alla questione Tripolitana, poichè non v'è giorno in cui l'Italia ed il suo primo Ministro non siano svillaneggiati dai giornali francesi che hanno note aderenze col Ministero degli Affari Esteri e ci attribuiscono in modo persistente l'intenzione di occupare Tripoli, benchè si debba sapere che ciò non è vero: eppure siamo informati che un ammiraglio francese, il Duperré, recatosi non ha guari a Costantinopoli, ebbe dal Sultano una udienza in cui cercò di mettere quel Sovrano in grave sospetto contro di noi, a proposito di Tripoli. Soggiunsi che io ignoravo quali comunicazioni Vostra Eccellenza potesse aver fatte ad altre Potenze riguardo a quella Reggenza, ma che se ciò per avventura ebbe luogo eravamo nel nostro diritto di portare la loro attenzione sopra una tale questione che non ci può essere indifferente, come non lo deve essere a qualsiasi Potenza che abbia interessi nel Mediterraneo ed alla quale importi che l'equilibrio in quel mare non sia turbato a benefizio di qualche potenza invadente. All'Italia poi più che ad ogni altro importa quella questione, e la Francia deve assuefarsi a riconoscere che l'Italia costituisce oramai una nazione di trentadue milioni di abitanti, con duecentomila veri marinai inscritti, con uno sviluppo di seimila e più chilometri di litorale Mediterraneo. Percui, benchè non aspiri alla Tripolitania, è però naturale che essa possa inquietarsi di una Potenza vicina solita a chiamare il Mediterraneo lago francese, e che sotto un futile pretesto s'impossessò se non di nome, almeno di fatto della Tunisia, la quale ogni giorno è maggiormente assorbita dalla Francia, al punto che, sotto pretesto di protettorato, il Bey ha perduto ogni libertà d'azione sino a quella di scrivere e spedire una lettera senza l'autorizzazione del Residente Francese.
Bisogna adunque aspettarsi a che se alcuno tentasse di attribuirsi la Tripolitania, incontrerebbe un serio ostacolo nella resistenza delle alte Potenze interessate. Io dichiaravo che con ciò non intendevo giustificare il linguaggio dei giornali, ma nello stesso modo che non abbiamo mai pensato a fare il signor Ribot mallevadore di tutte le sciocchezze e di tutte le falsità di cui sono ripieni i giornali francesi che si pretendono organi ufficiosi del suo Ministero, fra i quali primeggia il Siècle diretto da un antico funzionario di questo Ministero degli Affari Esteri, che figura tuttora nell'annuario diplomatico di Francia, riteniamo che sia cosa ingiusta lo attribuire alle ispirazioni di Vostra Eccellenza le elucubrazioni dei nostri giornali sulla Francia.
Soggiunsi poi che in Francia si ha una falsa idea della posizione politica di Vostra Eccellenza. La si considera  come il rappresentante di una fazione, mentre il risultato delle elezioni dimostra che Ella è l'espressione del pensiero dell'opinione generale del Paese. Infatti Ella, nata in Sicilia, nell'estrema Italia del mezzodì, trovò il suo più serio trionfo nell'estremo nord, in Torino, capitale di quel Piemonte che rinunziava volontariamente alla sua preponderanza in favore della unità d'Italia. Vostra Eccellenza dopo di aver combattuto con Garibaldi e sofferto l'esiglio, si associava al gran Condottiero nel salutare la Monarchia di Casa Savoia come quella che doveva sancire e mantenere l'indipendenza e l'unità d'Italia. Il coraggio politico e civile dimostrato da Vostra Eccellenza provano ch'Ella ebbe sempre quel doppio scopo di mira tanto col mantenere le nostre alleanze, che col ricondurre ad un sistema uniforme le varie amministrazioni, avanzo di quelle degli antichi Stati in cui la Nazione era divisa, e col fare sparire i molti abusi che deturpavano alcune di esse.
Conchiusi questa digressione col dire che conveniva lasciare ai giornalisti la responsabilità del loro dire senza farlo risalire ai capi del Governo, che talvolta sono vittime delle indiscrezioni dei proprii dipendenti.
Sul finire della conversazione il signor Ribot mi parlò della delimitazione dei nostri territori rispettivi presso Assab e Obock; io risposi che dipendeva da lui di riprendere i negoziati accettando le basi stabilite dall'Eccellenza Vostra e dalle quali Ella non poteva recedere. Soggiunsi che questo suo Ministero coll'opporre a quelle condizioni trattati antiquati e colpiti da prescrizione e contratti più recenti passati con Sultanetti vassalli del Negus, sembrava volere ripetere le gherminelle ideate per Massaua.
Ciò bastava per una volta specialmente ora che in quelle regioni un Sovrano effettivo costituito aveva accettato la nostra alleanza protettrice; e conchiusi che con un poco di arrendevolezza per parte della Francia quella quistione sarebbe stata sciolta.
In questa lunga discussione parlai con molta fermezza e precisione, senza però mai uscire dai limiti di una somma cortesia. Percui il colloquio ebbe fine con pacatezza e con una reciproca stretta di mano.

Il R. Ambasciatore
Menabrea.»

«Parigi, 13 Gennaio 1891.

Signor Ministro,

In seguito al mio colloquio col signor Ribot del quale resi conto a codesto Ministero col mio rapporto del 3 corrente N. 24-7 portai particolarmente la mia attenzione sulla carta d'Africa testè pubblicata dal giornale il Temps la quale fa oggetto del pregiato dispaccio di V. E, in margine citato. Osservai come la delimitazione dell'Interland tra l'influenza rispettiva di Francia e d'Inghilterra sulle regioni costituenti il Sudan al nord dell'Algeria e della Tunisia da una parte e della Tripolitania dall'altra, non corrisponde esattamente a quella fissata dall'accordo anglo-francese del 5 agosto u. s. Infatti la linea di delimitazione toccava un punto solo del littorale occidentale del lago Tchad a Borruva dove la sponda tende a volgere a settentrione, mentre la carta estende a tutto il littorale settentrionale del lago la tinta rossiccia alquanto allargata, che sembra volere indicare l'estensione della influenza francese. Quella medesima tinta rossiccia si estende anche sulle oasi Rath e Chadames le quali posizioni appartengono alla regione Tripolitana. Questa incertezza di delimitazione è fatta per eccitare o per lo meno per segnare una direzione agli appetiti di protettorato che invadono facilmente l'opinione francese la quale, non contenta dei varii territorii sui quali la Francia estende la sua autorità più o meno solida e incontestata, ambisce ad ampliare il dominio nel nord dell'Africa e si prepara ad allestire imprese per volgere il commercio assai importante del Sudan verso la Tunisia. Così alcuni portano già le loro mire sul lago Tchad che considerano come il gran porto interno di quella regione. Queste tendenze mi spiegano il linguaggio tenutomi dal signor Ribot in occasione del suo ricevimento ebdomadario del 30 Dicembre u. s. (vedi mio rapporto suaccennato). Respingendo l'accusa fatta dalla stampa alla Francia di voler invadere la Tripolitania, egli confessava però che mentre negava tale proponimento, la Francia tuttavia intendeva trarre il miglior partito possibile dalla regione lasciata nel Sudan all'influenza francese per condurre il commercio Sudanese verso l'Algeria e la Tunisia.
Ciò essendo, le due oasi precitate di Rath e Chadames sono i punti principali di sosta delle carovane: Chadames sopratutto si può considerare come il punto strategico commerciale che domina le due vie principali dirette l'una verso Tunisi e l'altra verso Tripoli. Se si vuole evitare che questa ultima Reggenza non cada tosto sotto il protettorato francese e che, in seguito, Tunisi non sia definitivamente annesso all'Algeria, è necessario che le due anzidette oasi e specialmente Chadames non vengano in mano dei Francesi. I pretesti per occupare Chadames non mancherebbero certamente: tutti i Krumiri non sono ancora spariti; per evitare che risorgano e porgano un'occasione alla Francia di impossessarsi delle sovradette oasi occorrerebbe che fossero custodite con truppe mandatevi dal Sultano; una piccola guarnigione sarebbe sufficiente; la vista della bandiera ottomana basterebbe a frenare le velleità che si suppongono nei francesi. La forza turca però dovrebbe essere sufficiente per resistere a qualche attacco dei mahdisti.
L'Inghilterra più d'ogni altra, poscia l'Italia, hanno interesse grandissimo a che il commercio sudanese non diventi il monopolio di una Potenza che già possiede una parte estesissima del littorale africano del Mediterraneo; epperciò mi pare che l'Inghilterra specialmente ed anche l'Italia dovrebbero concorrere in qualche modo alla occupazione sovraccennata delle truppe turche, sussidiando, ove d'uopo, il Governo ottomano per il loro mantenimento. Il concorso così prestato dall'Italia avrebbe per risultato di dissipare i sospetti che si cercò di suscitare presso il Sultano circa le nostre aspirazioni Tripolitane, e di acquistare maggior influenza nell'Asia minore per contrastare la guerra che vi è fatta alla nostra lingua, ai nostri stabilimenti, al nostro commercio dalla ostile concorrenza francese.
Se al contrario si lascia che le oasi di Rath e principalmente di Chadames rimangano esposte in balia della Francia, dovremmo fin d'ora pensare a non lasciarci cogliere all'improvviso come avvenne per la Tunisia e prepararci ad opporci con tutti i mezzi a che la Francia estenda il suo dominio anche sulla Tripolitania, il che sarebbe forse Finis Italiae, almeno come Potenza marittima di primo ordine.
Dò fine a questo rapporto col conchiudere che mi pare esser necessario che il R. Governo si concerti coll'Inghilterra circa le eventualità sovraccennate e nel caso che questa vi si voglia disinteressare, l'Italia potrebbe passare oltre ed intrattenersi direttamente della quistione col Governo turco.

Il R. Ambasciatore
L. F. Menabrea.

P.S. La soluzione precedentemente indicata rispetto alla oasi di Chadames si può dire soluzione pacifica; però si potrebbe pensare ad un'altra più radicale come sarebbe quella dell'occupazione della Tripolitania per parte dell'Italia che, a difetto della Turchia, è la potenza più indicata per prendere quella Reggenza sotto il suo protettorato. Ma una tale soluzione potrebbe dare luogo a conflitti armati, sull'opportunità e le conseguenze dei quali io non sono chiamato a pronunciarmi.

L. F. M.»

Il gabinetto di Berlino, tenuto al corrente delle mene francesi,
appoggiava a Parigi e a Londra l'azione italiana. Il seguente
telegramma è del 21 gennaio:

«Berlino, 21 gennaio 1891.

In questi ultimi giorni, al suo passaggio per Berlino, vennero confermate al Conte di Münster istruzioni d'intrattenersi col Ministro degli affari esteri francese sopra la Tripolitania e sue frontiere verso la Tunisia. Ambasciatore di Germania telegrafò iersera che il Ribot avevagli categoricamente dichiarato che le apprensioni italiane su Tripoli sono affatto senza fondamento e che le notizie sparse in proposito sono false. Francia non mosse neppure un soldato in quella direzione e non pensa tagliare strada delle carovane traverso Sahara. Ministro aggiunse esser vero che le frontiere tra Tunisia e la Tripolitania sono mal tracciate; ma a scopo di evitare ogni contestazione non volere che le frontiere fossero meglio fissate. Egli non intende in nessun modo creare difficoltà all'Italia; se lo volesse, ben lungi sceglierebbe come oggetto di litigio, nè Tripoli, nè attinente deserto, ma troverebbe terreno più propizio in Abissinia. Egli stesso, allo scopo di calmare certe preoccupazioni in Italia, aveva provocato alla Camera una interpellanza alla quale risponderà domani. Quantunque Conte di Münster avesse ordine di parlare anche di Biserta, suo telegramma non ne fa cenno: forse egli avrà stimato migliore partito tacere in presenza delle dichiarazioni ricevute, qualunque possa esserne il valore, o di rinviare ad altro colloquio questione di Biserta. Intanto Segretario di Stato stima che ha importanza il fatto solo che il governo della repubblica deve dedurre dalle spiegazioni chieste dalla diplomazia tedesca come Germania invigila politica francese verso il Mediterraneo; d'altronde schiarimenti che Ribot darà domani alla Camera dei Deputati nel senso qui sopra indicato, costituiranno sino ad un certo punto impegno della Francia. Al Conte Hatzfeld furono pur confermate istruzioni di conversare sull'argomento con Lord Salisbury che segue con vivo interesse mosse della Francia in quelle regioni, ma non crede giunto il momento di accentuare il suo contegno.
Per ciò occorrerebbe appoggio opinione pubblica, che si commuoverebbe soltanto se si producessero fatti più palesi sulle intenzioni francesi.

Launay.»

Il 22 gennaio alla Camera francese si parlò della Tripolitania. Interrogante era il signor Pichon - divenuto dipoi ministro degli affari esteri - «Sulle voci sparse da giornali italiani, anche ufficiosi, relative a mire della Francia sulla Tripolitania». Il Pichon - avvertiva in un primo telegramma il Menabrea - «esprimendosi in termini assai simpatici verso l'Italia, sorriso della civiltà latina7, disse desiderare che i sentimenti della Francia verso l'Italia siano palesi, dissipandosi le insinuazioni ostili il cui solo movente era, a suo avviso, di rendere popolare in Italia la triplice alleanza». Rispose il Ribot «brevemente riferendosi alle precedenti sue dichiarazioni sulla cordialità dei rapporti tra la Francia e la Turchia, ed aggiunse che il governo non doveva preoccuparsi della campagna mossa dalla stampa italiana, tantoppiù dopo le esplicite assicurazioni fatte dall'E. V. nel suo discorso di Firenze. L'atteggiamento della Camera durante la discussione fu piuttosto favorevole».
Ma il generale Menabrea, che forse non aveva assistito alla seduta, leggendo il testo ufficiale delle parole pronunziate dai due oratori, le giudicò diversamente in successivi telegrammi:

«Parigi, 23 gennaio 1891.

Si vede chiaramente che la scena parlamentare di ieri tra Ribot e Pichon venne concertata, perchè quest'ultimo non fece che ripetere i discorsi più volte fattimi da Ribot.
Il Journal des Débats di questa mattina consacra a quella discussione un lungo articolo la cui origine ministeriale è manifesta.
Siccome queste aspirazioni della Francia su Tripoli hanno incontrato una marcata opposizione presso le grandi potenze, si cerca, mediante una risposta ironica, di dare il cambio all'opinione pubblica sulle intenzioni di questo Governo per ora paralizzate. Ma la gente di buon senso non si lascierà cogliere da tali discorsi. Basti rammentare il modo di procedere della Francia colla Tunisia. Finora non ha ancora trovato i Krumiri per la Tripolitania e così questo Governo vuole dissimulare la sua delusione scherzando contro l'Italia.
Non conosco ancora telegramma Stefani cui allude V. E.»

«Parigi, 23 gennaio 1891.

(Riservato). Ecco secondo il testo ufficiale il solo periodo mordace del brevissimo discorso di Ribot: «Quant à cette campagne, dont vous a parlé tout à l'heure monsieur Pichon, quant à tous ces articles de journaux dont la fréquence et la similitude peuvent en effet attirer l'attention, c'est peut-être leur faire beaucoup d'honneur que de s'en occuper ici. Ce n'est pas le Gouvernement français qui doit se plaindre de ces articles; c'est, il me semble, le Gouvernement italien, car, dans un discours, que vous n'avez pas oublié, l'honorable monsieur Crispi a déclaré qu'il tenait à l'amitié de la France».
L'ironia era più spiegata nel discorso Pichon che perfino in una frase di calde proteste di amicizia, chiamando l'Italia il più simpatico sorriso della civiltà latina, sembrò rinviare a V. E. il complimento di Firenze.»

L'on. Crispi il 22 stesso, ricevendo dall'Agenzia Stefani il resoconto telegrafico della interpellanza Pichon e della risposta del ministro Ribot, aveva notato l'ironia che contenevano e se ne era lagnato come di una sconvenienza col Menabrea. Il 26 telegrafava a quest'ultimo:

«(Personale). Ieri al ricevimento ebdomadario venne da me il Signor Billot. Dopo parlato di vari argomenti, egli cominciò insistere nel voler conoscere la mia opinione sulla interrogazione del signor Pichon. Avendolo io più volte pregato di non toccare quello increscevole tema ed egli seguitando a parlarne gli dissi: «Vous français vous aimez faire de l'esprit et monsieur Pichon en a fait parlant de l'Italie, comme monsieur Ribot en parlant de moi». Allora l'ambasciatore tentò scusare il suo Ministro osservando che forse non conoscevo testualmente le parole da lui pronunciate. Risposi e gli mostrai che ne avevo il testo ufficiale sotto gli occhi e lo pregai nuovamente di cambiar discorso. Non aderendo egli a questo mio desiderio dissi: «Eh bien, comme homme je me sens supérieur à votre monsieur Ribot, parce que j'ai fait pour la cause de la liberté, ce qu'il n'a fait jamais; comme ministre je suis son égal et par conséquent j'ai droit à son respect». E avendo il signor Billot esclamato: «c'est de la susceptibilité italienne» replicai: «non, c'est l'effet de l'attitude de vous français, d'autant plus que l'interpellation avait été combinée entre monsieur Pichon et monsieur Ribot. Or je comprends que dans une improvisation un ministre puisse sortir de la juste mesure. Je ne comprends pas que cela arrive lorsque le discours a été preparé d'avance».
Il signor Billot non seppe che rispondere ed io allora per mutare argomento gli chiesi del signor Desmarest, e di altro; così la conversazione procedette e finì amichevolmente come al solito.
Di quanto precede ho voluto informare Vostra Eccellenza per sua norma personale, non già perchè Ella prenda occasione d'intrattenerne il signor Ribot.

Crispi.»

Gl'incidenti di frontiera, come le esplorazioni militari nell'hinterland tripolitano, continuarono negli anni seguenti. Le autorità turche o lasciavano indisturbati i francesi o fiaccamente mostravano di ostacolarli. Al principio del 1894, quando Crispi riassunse il governo, la Francia aveva allargato il suo già vastissimo dominio africano a danno della Tripolitania, e continuava a sopraffare le timide resistenze della Turchia, con silenziosa pertinacia, impedendo ai viaggiatori di altre nazioni europee d'inoltrarsi verso il sud8 affinchè mancasse ogni accertamento delle voci, che pur correvano a Tripoli, di nuove usurpazioni, in aprile di Kuka, in giugno delle oasi di Gadames e di Ghat, più tardi di Zuara e della baia di El Biban, oltre la quale avevano portato il confine sul litorale.
Rinnovando proteste ed esortazioni ad agire diplomaticamente per impedire che l'equilibrio del Mediterraneo fosse ulteriormente turbato, Crispi trovò indifferente l'Inghilterra e tepide la Germania e l'Austria. Il 4 aprile, l'ambasciatore Tornielli telegrafava:

«Lord Kimberley non ha ancora ricevuto avviso della occupazione di Kuka, ma non mette dubbio che i francesi sieno in cammino per raggiungere il Bar-el-Ghazal. Gli domandai se a suo avviso la Turchia non avesse nulla a dire in proposito, e rimase silenzioso. Credo che malgrado che qui si continui a credere che Francia non potrà tenere un paese così vasto, tuttavia la marcia verso il Sudan egiziano inquieta Governo.»

E da Costantinopoli avvertiva l'ambasciatore Collobiano:

«La Sublime Porta sembra non dimostri interesse per la questione dell'hinterland tripolino dopo insuccessi delle pratiche fatte nel 1890.»

L'attività e la fermezza della Francia nell'estendere i confini del suo impero africano erano davvero sorprendenti. Grande era lo slancio dei suoi ufficiali e funzionari coloniali, i quali avrebbero voluto inalberare il vessillo francese su tutta l'Africa; ma anche il governo di Parigi nel suo spirito d'intraprendenza non vedeva ostacoli. Il 4 febbraio 1894 fu stipulato un accordo tra la Francia e la Germania per la delimitazione dei rispettivi territorii del Camerun e del Congo, la quale partiva dalla intersezione del parallelo della foce del fiume Campo col 15° meridiano Est Greenwich e seguiva una linea spezzata i cui lati principali erano il 13° longit. E. Greenwich, il 10° lat. N. e il thalweg dello Sciarì, sino al lago Tciad.
La Francia riuscì con quell'accordo a congiungere i suoi possedimenti del Congo coll'hinterland riconosciutole dall'Inghilterra nel 1890 e che s'estendeva dall'Algeria e dalla Tunisia al lago Tciad. Praticamente le sponde di quel lago, dalla foce dello Sciarì girando a destra fino a Barruva (limite anglo-francese), divennero francesi; e verso oriente la Francia non aveva altri impedimenti alla sua espansione che quelli che potessero esserle suscitati dall'Inghilterra il giorno in cui volesse penetrare nel bacino del Nilo9. Parve allora che tutto l'hinterland tripolino cadesse in balìa della Francia, e sebbene nell'accordo del 1890 l'Inghilterra riservasse i diritti della Porta, si prevedeva che la Turchia non avrebbe sollevato resistenze, e neppure l'Inghilterra, allorquando la Francia, impadronitasi del Wadai e del Baghirmi, si fosse avanzata verso la frontiera tripolina meridionale.
Per dare un'idea dell'attività usurpatrice della Francia riferiamo  due memorie che in giugno 1894 e in giugno 1895 l'Ufficio Coloniale del Ministero degli Affari Esteri faceva a Crispi:

«Con rapporto 2 corrente il regio console generale a Tripoli riferisce intorno ad una corrispondenza comparsa sul giornale francese La Dépêche Tunisienne del 26 maggio, nella quale, sulle traccie di un articolo del Journal des Débats, si raccomanda la prossima occupazione delle oasi di Ghadames e di Ghat da parte della Francia. Con altro rapporto del 3 corrente il cav. Grande dice d'averne parlato al governatore di Tripoli, il quale non dubita punto che i francesi mirino ad impadronirsi di quei due villaggi e che presto o tardi vi riescano.
Le oasi di Ghadames e di Ghat si trovano sulla carovaniera che parte da Tripoli, e biforcandosi a Ghat, conduce per Agades al Sokoto, oppure per Bilma al lago Tciad. La ricchezza della Tripolitania è esclusivamente commerciale, e privata delle carovaniere che mettono al Sokoto, al Bornù, ai Baghirmi e al Wadai, la Tripolitania potrebbe paragonarsi ad «uno scrigno vuoto». Ora, lo stabilimento della Francia a Barruva sul lago Tciad, permesso dalla delimitazione anglo-francese del 5 agosto 1890, taglierà le comunicazioni fra Tripoli ed il Sokoto, e renderà difficili quelle col Bornù; la occupazione francese di Ghadames e di Ghat lascierebbe alla Tripolitania la sola strada Bengasi-Kufra, la quale però perderebbe ogni sbocco colla conquista, pur troppo non impossibile, del Wadai da parte della Francia.
A Ghadames i turchi hanno una guarnigione d'oltre 500 soldati, e dominio effettivo; gli stranieri non possono risiedervi ed un algerino che intrigava apertamente a favore della Francia venne ultimamente espulso.
L'incidente relativo provocò la destituzione del kaimacan di Ghadames, che la Turchia promise, pro bono pacis, all'ambasciatore Cambon.
Adesso la Francia vuol ottenere a favore degli algerini la facoltà di risiedere a Ghadames, e ottenutala, ne approfitterà per mandarvi emissari i quali facciano deviare su Tunisi il commercio della regione del Tciad.
A questo si aggiunga che una esplorazione francese semi-ufficiale, condotta dal giovane de Maistre, è partita in questi giorni dall'Algeria nella direzione di Ghat.
Venne chiamata sulla questione l'attenzione dei governi di Berlino e di Londra, come interessati, al pari del nostro, a conservare l'equilibrio del Mediterraneo. Ma quelle pratiche, non formali, trovarono poco ascolto. La Germania non vuole contrastare alla Francia i suoi progressi africani, e l'Inghilterra, minacciata nel bacino del Nilo, cerca adesso un aggiustamento a Parigi, e tutto lascia credere che per ottenerlo sacrificherebbe di buon grado l'hinterland tripolino.»

«La Carte générale des possessions françaises en Afrique au 1er janvier 1895 edita in Parigi da Augustin Challamel (Librairie coloniale, 5 rue Jacob) a cura di quel Ministero delle Colonie, e destinata ai membri del Parlamento francese, è tale da richiamare la generale attenzione.
Affinchè l'occhio di coloro ai quali è destinata non sia distratto dallo scopo cui si è mirato, sulla distesa in bianco del continente africano sono colorati con due diverse tinte rosee solo i paesi ed i territori considerati in Francia come possessi francesi, i quali (come si apprende dalla leggenda della carta stessa) vengono distinti in due categorie; cioè:
1.a Possessions et pays de protectorat proprement dits;
2.a Zone d'influence politique;
quelli, segnati con fitte righe orizzontali continue; questi, con punteggiatura; segni che danno all'occhio l'impressione di un colore vivo per i primi, più attenuato per i secondi.
La carta è stata costruita prendendo per meridiano di base quello di Parigi.
Or, ciò che nell'esaminarla colpisce, a prima vista, l'osservatore, è oltre all'aver fatto della Tunisia una semplice continuazione, una cosa sola col diretto possesso dell'Algeria, la franchezza con la quale vi si accenna a costituire in un grande insieme, senza soluzione di continuità, tutta la sterminata distesa di territorii che va dal capo Bon a Brazzaville sul Congo, dal Capo Verde al Bahr-el-Ghazal, con tentativo di limitare alla costa, senza alcun hinterland, il Marocco ed i possessi europei di qualunque nazionalità scaglionati sull'Atlantico fin verso le foci del Congo.
La gran macchia rosea s'avanza così con una larga curva, che va dal golfo di Gabes al 5° di latitudine nord, donde s'insinua nel territorio del Bar-el-Ghazal.
Nè basta: altra macchia parte dalla baja di Tagiura con sfumatura che accenna all'intendimento di congiungersi alla precedente, in modo da avvolgere a sud la valle del Nilo, tagliandole tutte le comunicazioni con l'Africa australe.
Quando si rifletta alla tenacia dei propositi con cui la Francia continua a rodere gli hinterlands ancora rimasti al Marocco ed alla Tripolitania; al diritto di prelazione che si arroga sul territorio dello Stato indipendente del Congo, col quale, in questi ultimi tempi, ha stretto una convenzione in antitesi con la precedente stipulata dal Congo coll'Inghilterra circa la zona fiancheggiante l'Alberto-Nianza, disponendo così in favore del Congo di un territorio posto nella valle del Nilo; e si pensa, inoltre, all'opposizione non dissimulata contro l'azione inglese in Egitto, nonchè ai tentativi fatti in Etiopia a danno dell'influenza italiana sancita dai trattati; dinanzi a questa carta così recente ed ufficiale, risulta evidente che la Francia prosegue il disegno grandioso di ridurre al suo dominio ed alla sua influenza il continente nero, a partire da oltre il 10° parallelo di latitudine sud, per giungere fino alle rive del Mediterraneo.
Quando poi da una osservazione sommaria si passa ad un esame minuto della carta, ciò è eloquentemente confermato da significanti particolari.
Infatti, mentre per i paesi dell'Africa australe fin verso l'Equatore gli scompartimenti territoriali sono indicati, segnando e i rispettivi confini e la potenza che ne ha il possesso diretto od il protettorato, per quelli a settentrione non avviene altrettanto. In tutta l'Africa orientale non si trova nessun segno di confine e nessuna indicazione di possesso, tranne sulla costa dell'Oceano indiano, che va dal confine N. e N.-E. dei possedimenti tedeschi nell'Africa orientale, al capo Guardafui; costa divisa dalla foce del Giuba in due parti. Su di essa e ben prossime al mare si trovano le due leggende: «Possessions anglaises de l'Est africain» ad ovest del Giuba, e «Possessions italiennes» ad est di detto fiume.
Ma più a nord non si trova nessuna traccia dei confini fissati dal protocollo anglo-italiano del maggio 1894 per le rispettive zone d'influenza nella penisola dei Somali. E peggio ancora avviene risalendo al golfo d'Aden ed al mar Rosso; che, mentre il confine di sud-est del possedimento francese di Obock viene spinto sin presso alla città di Harar, nessunissimo cenno reca la carta sui possedimenti italiani del mar Rosso, sull'Eritrea, sul nostro protettorato in Etiopia e sui protocolli anglo-italiani del marzo ed aprile 1891, che fissano i confini occidentali della nostra sfera di influenza.
Solo confine segnato nella vasta zona d'influenza italiana ed inglese nell'Africa orientale è quello suaccennato, che fu stabilito con la nota convenzione anglo-francese del febbraio 1888; ma, senza far altri nomi o dare altre indicazioni, che potevano riuscire incomode, il confine stesso viene - come s'è già rilevato - spinto vicino alla città di Harar, la quale è lambita a nord dal colore roseo sfumato indicante i paesi d'influenza francese, invece di fermarsi a nord-est di Gildezza, come è fissato nel detto protocollo.
Ma non la sola Italia è trattata, in questa carta ufficiale, in modo fantastico.
Sulle coste del mar Rosso, come lungo tutta la valle del Nilo, è vano ricercare qualsiasi punto che accenni ad un qualche interesse od influenza inglese o d'altra potenza; così pure lungo le spiaggie africane del Mediterraneo fino al golfo di Gabes, fin dove, cioè, incomincia il roseo vivace del dominio francese.
Nel Mediterraneo è degno di nota il fatto che, mentre alla indicazione «I. de Malte» fa seguito fra parentesi  quella di (A) «anglaise», e così avviene pure per «Gibraltar», non avviene altrettanto per l'«Ile de Chypre».
Mentre poi il compilatore della carta ha sentito vivo scrupolo di far conoscere che l'Ile de Malte e Gibraltar sono inglesi, dimentica invece di segnare che sullo stretto di Gibilterra, e precisamente sulla sponda africana, la Spagna ha da secoli dei possedimenti; e del pari dimentica d'indicare essere la costa dell'Atlantico che corre da capo Bojador al capo Bianco pure possesso spagnuolo, conosciuto col nome di governo del Rio dell'Oro, e riunito alla capitaneria delle isole Canarie.
Nè minori sono le sorprese che riserva allo studioso l'ispezione degli altri paesi segnati in colore di rosa, e che a parere dell'autore della carta, formano le «Possessions françaises en Afrique».
Con lo stesso metodo con cui si è fatta giungere l'influenza francese sino alla città di Harar, si fanno lambire dalle varie tonalità del delicato colore, Figuig, finora marocchino, Ghadames e Ghat (sulla carta Rhât) appartenenti senza contestazione all'hinterland tripolino; e così Jat, donde la linea sfumata della influenza francese volge arditamente a sud-est, per terminare, come si disse, sul Bahr-el-Ghazal al 5° grado di latitudine nord. Ivi si congiunge al colore più denso, segnale di possesso effettivo, che dall'Ubangi e dal M'Bomu a sud, va a nord ed a nord-ovest, abbracciando tutto il bacino dello Sciarì superiore fino al 10° di latitudine nord e da questo punto la destra soltanto, recingendo il lago Tciad dalla foce dello Sciarì ad est, nord ed ovest fino a Cuca, rasentata, al solito, dal colore di rosa.
Dalla parte occidentale, una linea retta che parte dai possessi algerini, segnati come effettivi fino a sud di Figuig, taglia lo incrocio del 5° di longitudine occidentale da Parigi col 30° di latitudine boreale, e va a terminare al 21°20' pure di latitudine nord, sul prolungamento della linea di divisione fra il Senegal ed il governatorato di Rio dell'Oro, togliendo al medesimo ogni hinterland.
Con queste due linee sono congiunti i possessi francesi del Mediterraneo a quelli del Senegal, della Guinea francese, della Costa dell'Avorio e del Congo francese; e la congiunzione si termina, dal Niger al lago Tciad, con altra linea, che, nonostante la convenzione anglo-francese dell'agosto 1890, va direttamente secondo il 12°30' di latitudine nord, lasciando Barruva e Sokoto alla Francia.
Dal vasto aggregato rimarrebbe tagliato fuori il territorio del Dahomey poichè gli hinterlands rispettivi della costa d'Oro inglese, del Togo tedesco, del Dahomey francese e del territorio del Niger anche inglese, non furono mai oggetto di convenzione fra le potenze interessate, i cui interessi potrebbero essere in antagonismo; ma l'ingegnoso autore della carta non si scoraggia per ciò. Prolunga alquanto verso nord i confini che separano il Dahomey ad ovest del Togo germanico, ad est del territorio del Niger britannico; quindi li fa volgere arditamente, il primo a nord-ovest fino poco sopra il 10° di latitudine nord, il secondo a nord-ovest fino alla riva destra del Niger, il quale fiume è preso da lui per confine effettivo a nord-est, poi con una larga fascia del solito color di rosa attenuato, limita l'hinterland del Togo tedesco e della Costa d'Oro inglese, mentre collega il Dahomey all'impero africano francese.
Il quale impero viene così ad avere, per ora, tre basi d'espansione, senza pregiudizio dell'altra a cui si mira d'altro lato: la baia di Tadjura. Esse sono Tunisi ed Algeri a nord, quello che l'autore della carta chiama Sudan francese ad ovest, ed il Congo francese, aspettando che vi si aggiunga il Congo indipendente, a sud.
Così senza parlare dell'oasi di Tuat, che verrebbe ad essere considerata come completamente avvolta dalla zona d'influenza francese ed in essa compresa, senza parlare del modo equivoco col quale figurano Figuig, Ghadames e Ghat, modo che può offendere gli interessati all'integrità marocchina e tripolina, l'hinterland tripolino viene a subire un altro ben grave attentato.
Le due grandi strade carovaniere, le quali da Ghadames e da Tripoli per l'oasi di Bilma conducono al Tciad, sarebbero, accettando questa nuovissima geografia politica dell'Africa, a discrezione della Francia, venendo ad essere in suo potere l'oasi di Bilma stessa, ove debbono necessariamente far capo. Nè basta: venendo con tale sistema anche il Vadai ed il Baghirmi ad essere inclusi nella sfera d'influenza francese, questa non troverebbe ormai più altri limiti alla sua espansione verso est che nel suo beneplacito stesso.
Quando nella convenzione anglo-germanica del 20 novembre 1893 sul lago Tciad, l'Inghilterra proponeva e la Germania accettava che quest'ultima non avrebbe estesa la sua influenza ad est dello Sciarì, e quando nell'accordo del 4 febbraio 1894 fra la Germania e la Francia si ripeteva ancora che lo Sciarì era il limite dell'espansione tedesca ad est, non poteva essere certo nell'intenzione di tutte le parti Contraenti che quello che non veniva consentito alla Germania dovesse senz'altro essere considerato come concesso alla Francia.
Tutt'al più la questione potrà essere oggetto di ulteriori accordi fra le potenze interessate, anche per il fatto evidente che, in rapporto alla Francia, detti paesi sfuggono alla sua influenza secondo la teoria degli hinterlands, e che, rinunziandovi per parte loro e la Germania e l'Inghilterra per i possessi rispettivi sull'Atlantico (compagnia Niger e Cameron), la teoria stessa starebbe in favore della Tripolitania, anche senza tener conto dei diritti della Turchia.
Nè va omesso che, a norma di quanto venne stabilito dall'Atto Generale della Conferenza di Berlino, le affermazioni di protettorato debbono essere notificate alle potenze firmatarie, alle quali fu riconosciuto il diritto di fare le proprie eccezioni.
Ora nulla di simile è avvenuto per il Vadai e per il Baghirmi, e per tante altre delle regioni summenzionate.

Riassumendo, la carta che abbiamo esaminato, mentre segna vere usurpazioni di territori per parte della Francia, sia perchè la presa di possesso non ne fu mai notificata alle potenze firmatarie dell'Atto Generale di Berlino, sia perchè essi formano parte integrante di legittimo dominio di altre potenze, non tiene alcun conto dei diritti acquistati dall'Italia in Africa in virtù di regolari trattati, non accenna neppure a quelli dell'Inghilterra lungo il corso del Nilo, e porta un fiero colpo all'equilibrio del Mediterraneo, con una arbitraria determinazione degli hinterlands tripolino, tunisino, algerino e marocchino. Così anche i possedimenti spagnuoli del Mediterraneo, i possedimenti tedeschi e portoghesi dell'Atlantico e quelli dello stesso Stato libero del Congo sono, come si è visto, arbitrariamente delimitati.»
La marcia della Francia attraverso le vie carovaniere che congiungono Tripoli al centro dell'Africa non si arrestò più. Una nuova convenzione franco-britannica (14 giugno 1898), completata con una dichiarazione addizionale del 21 marzo 1899 dopo l'urto di Fascioda, estendeva ancora la zona d'influenza francese. La difesa che l'Italia tentò dei diritti della Turchia fu fiacca e senza effetto. A Costantinopoli si dava più importanza al sospetto che l'Italia meditasse l'occupazione di Tripoli, anzichè alla realtà delle usurpazioni della Francia.
Questa non aveva più preoccupazioni per la sua conquista tunisina. Finchè il governo italiano tenne fermo ai diritti e ai privilegi che godeva in Tunisia in virtù di trattati che la Francia aveva nel 1881 dichiarato di volere rispettare, l'Italia era in grado di proteggere gl'interessi italiani nell'antica Reggenza, e teneva una posizione che imponeva alla Francia, e l'avrebbe costretta, desiderosa com'era di consolidare la sua conquista, a scendere a patti. Ma il ministero Rudinì-Visconti Venosta, al desiderio di disarmare i malumori francesi sacrificò quella posizione senza compenso.
Già il 15 agosto 1895 il governo francese aveva denunciato il trattato di amicizia, commercio e navigazione concluso l'8 settembre 1868 tra l'Italia e la Tunisia, dichiarando di agire in nome del Bey e in virtù del trattato di Kassar-Said (detto anche del Bardo) del 12 maggio 1881. Il Ministero Crispi aveva risposto, per mezzo del conte Tornielli ambasciatore a Parigi,

«essere bensì vero che, con nota del 9 giugno 1881, il signor Rustan portava a notizia della R. Agenzia e Consolato Generale d'Italia in Tunisi il trattato di Kassar-Said; ma che di tale comunicazione non fu da noi preso atto e nemmeno segnata ricevuta. Epperò mentre fo le più ampie riserve in merito all'argomento cui si riferisce la nota del signor di Lavaur, prego Vostra Eccellenza di voler significare, verbalmente per ora, a codesto Governo, le eccezioni del Governo del Re al procedimento seguito.»

Il governo della Repubblica rispondeva come risulta dal seguente telegramma del Tornielli:
«Ministro degli Affari Esteri mi disse che la clausola di riconduzione tacita per 28 anni non gli lasciava per così dire libera scelta di condotta, e gli imponeva di denunziare il trattato italo-tunisino perchè nessuno presentemente acconsente a lasciare impegno per così lungo periodo. Fortunatamente, egli soggiunse, previdenza dei negoziatori di quel trattato ci lascia un anno di tempo, durante il quale avremo tempo scambiare insieme molte idee, e di vedere insieme il miglior assetto da dare alle cose. Il Ministro non suppone che in Italia il Governo abbia potuto attribuire alla denunzia del trattato un effetto diverso da quello che è nell'intenzione del Governo francese di darvi, cioè, di un atto reso necessario eventualità clausola di riconduzione anzidetta; ma egli tiene ad escludere che altri concetti abbiano guidato il Governo francese in questa occasione. Dissi che io non avevo ricevuto istruzioni a tale riguardo, e che avrei trasmesso a Vostra Eccellenza questa dichiarazione.»

Crispi non era disposto a rinunziare senza compenso ai benefici che le capitolazioni e le convenzioni anteriori - richiamate nel trattato del 1868, non annullate - assicuravano all'Italia, e la Francia avrebbe dovuto tenere conto degli interessi italiani. Vi era un anno di tempo per discutere e negoziare; ma ai primi di marzo 1896 il ministero Crispi si dimise, e il negoziato fu condotto dal Ministero Rudinì-Caetani, il quale volle trattare contemporaneamente la questione tunisina e il ristabilimento delle relazioni commerciali franco-italiane. In realtà le due cose erano estranee l'una all'altra; in Tunisia avevamo una posizione giuridica eccellente e diritti da far valere, mentre non era sperabile che, cedendo su quelli, la Francia ci avrebbe accordato tariffe di favore.
Infatti in Francia, dove la considerazione dei nostri diritti non entrava in mente a nessuno, anche l'idea di tornare al regime convenzionale nei commerci con l'Italia sembrò una concessione eccessiva, cioè senza corrispettivo. Il governo francese sapeva l'opinione pubblica così prevenuta contro di noi che scongiurò il ministro italiano di non insistere. Passarono alcuni mesi; il ministero Rudinì si ricompose, alla Consulta il duca Caetani fu sostituito dal Visconti-Venosta. Quest'ultimo trovò la situazione peggiorata, poichè mancata la vigilanza del governo italiano, l'Inghilterra - la quale in agosto 1895 aveva assicurato che avrebbe proceduto d'accordo con l'Italia - aveva consentito a negoziare con la Francia, rinunziando al trattato perpetuo che aveva col Bey; e anche l'Austria-Ungheria, in luglio 1896, aveva ceduto alle istanze francesi, riservandosi in Tunisia il trattamento della nazione più favorita. Insistere nella via tracciata da Crispi era, ormai, impossibile, poichè l'Italia non avrebbe trovato nelle potenze amiche e alleate l'appoggio sul quale Crispi aveva fatto assegnamento. L'on. Visconti-Venosta non insistette neppure per un accordo commerciale; e il 28 settembre 1896 furono firmate le convenzioni con le quali l'Italia riconosceva senza compensi, dopo quindici anni, la conquista francese della Tunisia con tutte le sue conseguenze. «Nous y gagnions - ha scritto recentemente10 l'ambasciatore che la Francia aveva allora in Italia, il signor Billot - de libérer notre protectorat des entraves qui en paralysaient l'exercice.... l'Italie renonçait à y demeurer avec nous sur un pied de complète égalité et reconnaissait implicitement les consequences des événements qui nous y avaient conféré une situation privilegiée.»
Nel 1902 avvenne il noto accordo franco-italiano pel quale l'Italia si disinteressò del Marocco a favore della Francia, e la Francia ci lasciò mano libera in Tripolitania e in Cirenaica.
Il governo della Repubblica fece con cotesta combinazione un buon affare, poichè mentre il valore commerciale di quei due vilayets era di molto ridotto per le erosioni fatte dagli stessi francesi nei loro hinterlands, il ministro Delcassé - che concluse l'accordo col ministro italiano Prinetti - abbandonava all'influenza italiana un territorio dove la Francia non aveva interessi e che mai avrebbe potuto far suo; l'Italia non avrebbe subìto quest'altro colpo, e non sarebbe rimasta sola a pararlo.
L'abbandono del Marocco all'esclusiva influenza francese fu un notevole sacrificio degli interessi italiani e pregiudicò irrimediabilmente l'avvenire della nostra politica mediterranea. Una Francia troppo forte nel mare che ci circonda è un pericolo  permanente per noi. Crispi intendeva che la Tripolitania divenisse italiana come compenso all'ingrandimento già avvenuto della Francia con la occupazione della Tunisia; il Marocco allora indipendente, non poteva formare oggetto di accordi che avessero relazione col passato. Per questo egli lavorò a creare interessi italiani e influenza italiana nell'impero sceriffiano e prese intelligenze con la Spagna che, purtroppo, i suoi successori non seppero mantenere.
Durante il suo primo ministero, Crispi colorì il suo disegno con importanti successi. Il Sultano Mulei Hassan dette a italiani consenso e denaro per l'impianto di una fabbrica d'armi a Fez e di una zecca, e giunse nella sua deferenza ai consigli del nostro governo sino a risolversi alla creazione di una marina da guerra e ad ordinare ad un cantiere italiano, quello degli Orlando di Livorno, la costruzione della sua prima nave11.
La Spagna aveva nel Marocco una tradizione da continuare e ingenti interessi, sia per i possessi effettivi tenuti in quell'impero, sia per i diritti che vantava per il trattato di Wad Ras e per la stessa sua posizione geografica. Era quindi sana politica quella seguita da alcuni suoi statisti, come il duca di Tetuan, di procedere di conserva con l'Italia per resistere alla invadenza francese. Crispi sinchè fu al governo dette alla Spagna l'appoggio della sua autorità presso le grandi potenze e dei suoi consigli, e le sorti dell'influenza spagnuola nel Marocco sarebbero state più propizie se Spagna e Italia avessero continuato quell'indirizzo.
L'accordo franco-italiano del 1902, sebbene oneroso per l'Italia, ebbe contraria una gran parte dell'opinione pubblica francese. Non v'è scrittore francese di questioni internazionali che non l'abbia deplorato, considerandolo da un angolo visuale esclusivo come se la Francia sola esistesse e gli altri popoli non avessero il diritto di provvedere al loro avvenire. «Lo statu-quo nella Tripolitania - hanno scritto sino a ieri - non è la migliore garenzia della durata delle buone relazioni tra la Francia e l'Italia nel Mediterraneo? Quando l'Italia si sarà stabilita a Tripoli, le buone relazioni non potranno durare!»12
E pochi mesi or sono, in febbraio 1912, quando l'Italia già guerreggiava contro la Turchia, Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli affari esteri, ha scritto che l'occupazione italiana della Tripolitania «apre un grande conflitto tra l'Italia e la Francia!»13
Se il senso dell'equità non riuscirà a penetrare nelle menti dei nostri vicini d'occidente, se il governo della Repubblica non saprà rendersi superiore alla latente ostilità del popolo francese per ogni interesse italiano, se la Francia non dimenticherà la storia del suo predominio e della sua influenza al di qua delle Alpi, le parole di Gabriele Hanotaux saranno un vaticinio. E sarà un triste giorno per i due popoli, i quali anche nell'opera d'incivilimento dell'Africa potrebbero giovarsi di una solidarietà che sarebbe gloriosa per entrambi.
Ma se l'avvenire ci riserba il «grande conflitto», siamo sicuri che non sarà l'Italia ad accenderlo.

La Porta accettò soltanto nel 1910 di trattare una delimitazione di frontiera, ma chiese ed ottenne, affinchè non fosse implicito, per tale suo atto, il riconoscimento del trattato del Bardo, che i commissarii tunisini fossero nominati dal Bey e non dal Residente francese.
La Commissione si riunì a Tripoli in aprile 1910. Dapprima i commissarii ottomani sostenevano una linea che da El-Biban, sul mare, va all'oasi di Remada, rivendicando alla Tripolitania le usurpazioni compiute dai francesi. Poi, chissà per quali influenze, ripiegarono, e il 10 maggio venne firmato un atto che indicava sulla carta il tracciato della frontiera. Cotesto tracciato si sviluppa dal Mediterraneo a Gadames su di una lunghezza di 480 chilometri; parte da Ras Adjedir (o Adijr), tocca Dehibat, passa tra Dehibat e Uezzen, volge verso i due pozzi di Zar, dei quali uno rimane alla Tripolitania e l'altro alla Tunisia, quindi si dirige verso il pozzo di Mechiguig (o Imchiguig) che rimase in Tripolitania. A partire da questo pozzo, la frontiera resta equidistante tra le carovaniere Djeneien-Gadames e Nalut



Capitolo Terzo.

Le fortificazioni di Biserta.

Biserta, la «maggiore posizione strategica del Mediterraneo». - Crispi impedisce alla Francia di fortificarla. - Gl'impegni del 1881, confermati da vari ministri francesi, sono da Ribot dichiarati senza valore. - Sorpresa della Germania per la teoria di Ribot. - Lord Salisbury presta fede alle dichiarazioni della Francia che non fortificherebbe Biserta. - Pro-memoria di Crispi a Salisbury. - Il cancelliere Caprivi e il reclamo italiano. - Possibilità di guerra. - Il ritiro di Crispi dal Governo lascia libera la Francia. - Lo Stato Maggiore germanico e Biserta. - Una lettera angosciosa di Crispi al Re Umberto. - Biserta fortificata è l'orgoglio della Francia e una minaccia per l'Italia.

La questione di Biserta, accesa, si può dire, fin dal 1881, si fece viva e ardente più che mai, sotto il primo ministero Crispi (1887-91).
L'on. Crispi, nella qualità di ministro per gli affari esteri, tenne costantemente rivolta la propria attenzione a siffatta vertenza, e non si stancò mai:
a) di far tener dietro, con vigilante cura, sul posto, al progresso e alla natura de' lavori che si venivano compiendo a Biserta:
B) di denunziare alle potenze amiche, alleate, o interessate, siffatti progressi ed ogni lieve fatto che meritasse di essere rilevato;
c) di chiedere schiarimenti e ottenere assicurazioni dal governo francese;
d) e sopratutto, di interessare l'Inghilterra a prendere l'iniziativa e ad associarsi a noi e ai nostri alleati in una azione diretta ad impedire il proseguimento di que' lavori, che si rivelavano contrari agl'impegni presi dalla Francia all'epoca dell'imposizione del suo protettorato in Tunisia, e che minacciavano di turbare l'equilibrio e lo statu quo nel Mediterraneo.
Il gabinetto britannico, dietro nostre replicate sollecitazioni, con memorandum 10 gennaio 1889 ammise e dichiarò al nostro governo di riconoscere che Biserta era la maggiore posizione strategica nel Mediterraneo, e fermamente ammonì, in conseguenza, il governo della Repubblica francese rammentando gl'impegni da esso presi nel 1881. La Germania fece altrettanto a Parigi per mezzo del proprio ambasciatore. E risulta così che la Francia non dette esecuzione ai suoi progetti perchè l'Europa teneva gli occhi rivolti a Biserta. La Repubblica francese, infatti, - (essendo ministro degli esteri il Goblet) - si affrettò a rassicurare Londra e Roma che non aveva intenzione nè di ampliare nè di fortificare il porto di Biserta, e che trattavasi soltanto di scavi necessarii e periodici.
A nuove insistenze del ministro Crispi in data 29 gennaio 1889, Salisbury risponde confermando che la questione di Biserta interessa non meno la Gran Brettagna che l'Italia, e avvertendo che fa esercitare sul luogo continua vigilanza e manda ogni tanto una nave della flotta a constatare il vero stato delle cose.
Incessante dopo d'allora fu lo scambio di comunicazioni in proposito con Londra, con Parigi, Vienna e Berlino. Ancora il 5 novembre 1889 lord Salisbury trova giustificate le apprensioni nostre rispetto al porto e ai lavori che cautamente si eseguono a Biserta.
Il 25 giugno 1890 l'ambasciatore Tornielli telegrafa a Roma:

«Salisbury mi ha detto che il signor Waddington [ambasciatore francese a Londra] nega che i lavori di Biserta abbiano carattere militare.»

Ma in ottobre il ministro degli affari esteri della Francia, Ribot, mentre assicura che non sono in corso studi per l'erezione a Biserta di opere militari, afferma che la Francia ha facoltà di erigervene, e alla obiezione mossagli dall'ambasciatore italiano che per bocca dei ministri suoi predecessori la Francia ha assunto impegno di non fortificare quel porto, risponde che qualunque  dichiarazione precedente non lega il governo francese, e che il Bey, in ogni caso, ha piena libertà di premunirsi.
Questa arditissima teoria del ministro Ribot, comunicata alle Cancellerie amiche col rapporto del generale Menabrea che la riferiva, parve ed era una sfida. La Cancelleria germanica l'accolse severamente, secondo si legge nella lettera che segue dell'ambasciatore di Launay:

«Berlino, 5 Novembre 1890.

Signor Ministro,

Nel ricevimento ebdomadario di ieri ho dato lettura al Segretario di Stato del dispaccio di V. E. del 30 ottobre scorso num.... Mi sono giovato dell'allegato per redigere un promemoria confidenziale che rimetterò in copia, omettendo le due ultime frasi che concernono l'attuale attitudine dell'Inghilterra. Ma nel senso di esse mi sono espresso verbalmente.
Il barone de Marschall criticò vivamente la dottrina enunziata dal signor Ribot sul non valore delle dichiarazioni scritte e verbali fatte dai suoi due predecessori circa il porto di Biserta. Una dottrina simile sarebbe contraria a tutte le regole adottate nelle relazioni internazionali ed in opposizione con la buona fede, dalla quale nessuno saprebbe fare astrazione. Sarebbe altresì un atto cinico ed una vera mistificazione il porsi dietro la sovranità del Bey di Tunisi, ridotto a rappresentare una parte da marionetta, per mascherare i progetti della Francia. È questa una nuova goffaggine da aggiungere alle altre commesse dal ministro degli affari Esteri della Repubblica. Egli avrebbe fatto meglio dal suo punto di vista limitandosi a sostenere che la natura dei lavori progettati o in corso di esecuzione a Biserta, e il loro scopo, non hanno e non avranno che un carattere commerciale.
Il Segretario di Stato m'ha promesso di scrivere all'ambasciatore di Germania a Londra affinchè parli al Foreign Office nel senso del promemoria predetto e ne richiami l'attenzione sul contenuto del medesimo. Se lord Salisbury - forse perchè l'opinione pubblica del suo paese non si appassiona ancora a tale questione - non crede che sia venuto il momento per ricordare al gabinetto francese i suoi impegni formali, questo ministro  è però animato da buone intenzioni verso di noi e sorveglia da vicino le mene francesi. Nondimeno è utile dare al marchese di Salisbury una spinta.
Il Cancelliere dell'Impero, che ho accompagnato ieri alla stazione per prendere congedo da lui nel momento che partiva per l'Italia, mi ha confermato in termini generali quello che mi ha detto il Segretario di Stato.

Launay.»

Lord Salisbury, in verità, si dimostrava proclive a prestar fede alle assicurazioni francesi, e all'Incaricato d'affari della Germania esprimeva il parere

«non essere opportuno risolvere la questione a Parigi finchè non si produca qualche fatto palese sulle intenzioni del governo francese, mentre il Waddington l'aveva assicurato in modo positivo che il suo governo non mirava a fare di Biserta un porto fortificato.»

Dovette Crispi dimostrare a Londra l'irrefutabile carattere militare dei lavori, la gravità della questione e le irreparabili conseguenze che sarebbero per derivarne.
Il pro-memoria che fece presentare a lord Salisbury è questo:
«Bizerte ou Benzert, l'ancienne Hippo-Zarytos des Phéniciens, située sur la côte de la Tunisie, là où le continent africain s'allonge vers la Sicile, est à cheval sur le bras de mer qui mène au lac du même nom. Ce lac a une étendue et une profondeur suffisantes pour offrir aux plus gros navires, à l'achèvement des travaux, cinquante milles carrées de mouillage. Ainsi placée sur la Mediterranée, favorisée par la nature qui lui a donné un port très vaste et parfaitement à l'abri des colères de la mer et des attaques des flottes ennemies, et se trouvant aujourd'hui aux mains d'une puissance maritime de premier ordre, Bizerte est un élément de grande valeur dans le calcul des ressources défensives et offensives actuellement à la position des différentes puissances européennes.
Cette nouvelle situation, créée par les événements de 1881, attira immédiatement l'attention des cabinets intéressés au maintien de l'équilibre dans la Mediterranée, et il en vint cet échange de notes, de remontrances d'un côté et de vagues assurances de l'autre, qui, commencé dès la descente des Français en Tunisie, n'a pas encore pris fin.
Il appert de cet échange de notes qu'au commencement de 1889 le premier ministre de S. M. Britannique paraissait avoir pris un grand intérêt à cette affaire, à cause de laquelle de pressantes démarches avaient été faites auprès de lui, même de Berlin; mais que, plus tard, des explications fournies à Paris l'avaient persuadé que «les travaux projetés n'avaient point de grande importance». Une année après, le 3 juin dernier, toujours convaincu que ce qu'on était en train de faire ou de projeter pour Bizerte n'offrait qu'une mediocre importance, il disait à l'ambassadeur du Roi que «si, comme il le désirait et l'espérait, l'Angleterre et l'Italie restaient unies, leurs forces navales suffisaient à leur donner la supériorité sur toute autre puissance, et n'avaient rien à redouter des fortins de Bizerte». Plus tard, en septembre, le sous-secrétaire d'Etat aux affaires étrangères déclarait que «les travaux en voie d'execution ne paraissaient pas encore avoir un but militaire».
Les considérations suivantes pourront démontrer que l'avis exprimé par le Foreign Office n'est guère conforme à l'état réel des choses.
En creusant de quelques mètres le port actuel de Bizerte et en élargissant le canal d'entrée moyennant la démolition de la Kasba, on répondrait suffisamment aux exigences du commerce qui est à peu près nul, comme il est démontré à l'evidence par les récettes de la douane qui n'atteignent jamais 50 000 fr. par an. Or, comme il n'est guère admissible qu'on songe à faire de Bizerte le port commercial de la Tunisie, de grands travaux étant en même temps en cours d'exécution dans le port de Tunis14, à 32 milles de Bizerte, il est facile d'en conclure que tout ouvrage visant non pas à améliorer le port actuel, mais à en créer un nouveau de grands proportions, a un but essentiellement militaire. Et les travaux qu'on est en train d'executer à Bizerte ont précisément en vue un port immense, l'un des plus grands du monde, pour lequel on creuse un canal d'entrée de 200 mètres de largeur et de 12 de profondeur.
Il est à remarquer que quand même le mouillage serait de beaucoup plus limité, la profondeur que l'on veut donner à ce canal suffit à prouver qu'il est destiné aux grands navires de guerre. En effet, il n'y a pas aujourd'hui de navire marchand ayant un tirant d'eau de 8 ou 9 mètres, qu'atteignent seulement les navires de combat de 1re classe, jaugeant de 12 à 14 000 tonnes. Le canal de Suez qui interesse tous les pays, qui a été creusé exclusivement pour le commerce et donne passage aux plus grands steamers de toutes les marines marchandes du monde, n'a qu'une profondeur de 8 mètres.
Il existe d'ailleurs des preuves directes que dans ce que l'on fait ou qu'on compte faire a Bizerte, on s'est proposé pour but non le commerce mais la guerre. On trouve ces preuves dans la construction d'une grande caserne pour laquelle on a publié dès le mois de mai dernier le décret d'expropriation du terrain nécessaire; dans la construction déjà achevée de baraques pour le génie militaire; dans l'augmentation de l'effectif de la garnison qui a eu lieu ces derniers jours; dans la construction imminente d'ouvrages de fortification en vue desquelles le gouvernement tunisien vient de publier (le 3 de ce mois) un décret du Bey portant constitution de servitudes militaires15. En dernier lieu la fondation d'une grande compagnie appelée du Port de Bizerte16 avec un capital de neuf millions, prouve qu'il ne s'agit point de travaux de petite importance, mais bien de travaux grandioses dans lesquels, d'après ce qu'on vient d'exposer et malgré le caractère privé qu'on leur a artificiellement donné, on peut, selon toute raison, reconnaître l'intention de faire de Bizerte un port militaire.
Il est inutile d'objecter qu'il faudra de plus grandes sommes et beaucoup d'années pour que cette transformation s'accomplisse; on ne sait que trop que lorsqu'il s'agit de pareils travaux, qui intéressent la défense nationale, les crédits sont toujours accordés aussitôt qu'ils deviennent nécessaires. Il faut au contraire remarquer, ce qui n'est pas aussi universellement connu, qu'il ne faut point de travaux de grandes proportions pour faire de Bizerte un port de guerre, mais qu'il suffit relativement de peu de chose, de façon que le temps et les dépenses nécessaires ne seraient rien moins que proportionnés aux résultats que l'on obtiendrait17. Il ne faut d'ailleurs pas oublier que quand même la place ne serait point fournie de tout le nécessaire dès le commencement des hostilités, elle n'en serait pas moins une grande ressource pour la France et une menace sérieuse pour ses ennemis, si seulement le canal en était rendu praticable aux grands navires sous la protection de quelques puissantes batteries côtières, et si la place contenait les approvisionnements indispensables de charbon, vivres et munitions de guerre et les moyens nécessaires pour radouber des navires.
Il n'y a par conséquent rien que de vraisemblable dans la supposition que la France si elle veut (et tout nous prouve qu'elle le veut) possédera à Bizerte, dans un peu plus de cinq ans, un port militaire vaste et sûr qui lui servira de base pour des expéditions maritimes dans la Mediterranée meridionale, et de port de refuge en cas d'insuccès. Et quand même cela n'arriverait que dans dix ans, y a-t-il moyen de ne pas voir que sa puissance sur mer en serait énormément augmentée?
La France ne possède actuellement sur la Méditerranée qu'un seul port militaire, celui de Toulon, qui occupe par rapport à l'Italie méridionale et à la mer Jonienne, une position tellement excentrique qu'un gros convoi de troupes de débarquement ne pourrait mettre à la voile de ce port pour le sud de la péninsule ni pour la Sicile, sans courir de graves dangers, soit à cause de la distance à franchir, soit à cause de la flotte italienne qui, de la Madeleine, surveillerait ce mouvement. Mais lorsque Bizerte sera devenue accessible aux grands navires et ceux-ci pourront y trouver du charbon, des vivres, des munitions de guerre et des moyens pour réparer leurs avaries; lorsque cette place sera munie de fortifications maritimes et terrestres, les Français seront alors en mesure de menacer, de la côte tunisienne, les escadres ennemies manoeuvrant dans le bassin méridional de la Méditerranée, et pourront se porter en 20 heures sur Naples, en évitant les eaux surveillées de la Madeleine par la flotte italienne, et se jeter en 8 heures sur Cagliari et sur la Sicile.
Il n'y a rien d'exagéré dans l'importance que nous attribuons plus haut aux difficultés provenant de la distance à la quelle Toulon se trouve des côtes de l'Italie méridionale. Il ne s'agit, en effet, ni d'une escadre ni d'une flotte qui peuvent naturellement parcourir la Méditerranée quel que soit l'état de la mer; il s'agit d'un convoi de navires de transport (plus de cent) qui doivent naviguer de conserve sous la protection d'une escadre et par conséquent marcher lentement.
Ce convoi, au surplus, ne serait pas en mesure d'opérer le débarquement par un mauvais temps et devrait, dans ce cas, chercher un abri, ou rebrousser chemin, jusqu'à Toulon, en s'exposant, dans le deux hypothèses, au danger d'une attaque de la part de la flotte italienne s'appuyant sur la Madeleine. Ces difficultés ne proviennent donc pas de la distance, mais des dangers que le convoi doit courir pendant cette longue traversée, et qui peuvent venir de deux differents côtés, - de la mer, l'état de laquelle peut rendre impossible d'atteindre à temps le point d'atterrissage, ou empêcher l'opération même du débarquement, - et de la flotte ennemie, à laquelle on offre de cette manière une occasion favorable pour attaquer en route le convoi.
Bizerte, étant donnée comme point de départ, tous ces dangers disparaissent. On y concentre le corps de débarquement (la France n'est pas obligée de faire venir, à cet effet, des troupes d'Europe attendu qu'elle a en Algérie un corps d'armée permanent et pourvu de tout ce qu'il faut), on y rassemble et on y tient prêts les transports, on attend ensuite que les conditions générales de la guerre soient favorables à l'opération, et par un soir de calme le convoi met à la voile, se présente le lendemain au point du jour, sans avoir été signalé, sur la côte de Sicile, et opère le débarquement bien avant que le forces destinées à la défense de l'île aient eu le temps d'accourir.
Il est inutile d'ajouter que la descente en Sicile d'un gros corps d'armée (35 à 40 000 hommes) aurait une grave influence sur le sort de la guerre. Un pareil évènement serait un désastre matériel et moral et pourrait même entraîner une défaite définitive. Il faut plutôt faire remarquer que si la France voulait renforcer, dès le début des hostilités, ses garnisons d'Algérie, ses ressources maritimes et le nouveau port de Bizerte lui permettraient, la traversée étant très courte et la Madeleine bien éloignée, de porter en Sicile jusqu'à deux corps d'armée, c'est-à-dire 60 000 hommes, en s'assurant par là la supériorité numérique sur les troupes chargées de la défense de l'île18.
Cependant l'accroissement énorme de force que la France tirerait, le cas échéant, de la possession d'une nouvelle base d'opérations maritimes dans la Méditerranée, n'est pas fait pour préoccuper seulement l'Italie et ses alliées, les puissances centrales; cela regarderait aussi de très près l'Angleterre, quand même l'alliance de cette puissance avec l'Italie serait un fait accompli. Ce ne sont pas en effet, les «fortins de Bizerte» qu'on aurait à craindre, mais la nouvelle situation qui serait créée par l'existence, sur la côte d'Afrique, d'un port militaire français, d'où la France pourrait aisément attaquer l'Italie du sud et la Sicile sans avoir à redouter les mouvements de la flotte italienne opérant de la Madeleine. Ce nouveau port militaire paralyserait l'action de la Madeleine dans la Méditerranée méridionale, rendrait  nécessaire le maintien d'un gros corps d'observation en Sicile et d'autres forces considérables dans les villes maritimes de l'Italie du sud. Il deviendrait par conséquent nécessaire de diminuer d'autant les troupes à porter au delà des Alpes, et cela même si l'Angleterre et l'Italie étaient alliées.
Telles sont les conséquences de la création, à Bizerte, d'un nouveau Toulon; tels sont les dangers que l'Italie doit redouter bien plus que les attaques directs sur ses navires pouvant partir des fortifications du nouveau port. Ces fortifications ne seraient que le complément nécessaire de toute place maritime, et doivent être considérées comme telles, et non comme des ouvrages placées sur un bras de mer par où il serait indispensable de passer.
Mais ceci n'est pas tout. Si la création du nouveau port militaire nuit directement à l'Italie et indirectement à ses alliées à cause de la diminution de la puissance offensive du royaume et du danger que courrait la Sicile, l'Angleterre aussi, bien qu'elle soit, ou plutôt parce qu'elle est la première puissance maritime du monde, en ressentirait un préjudice sérieux, même si elle était l'alliée de l'Italie et indépendamment du dommage indirect auquel elle serait exposée en cette dernière qualité.
Il suffit, en effet, de se rappeler quelle est la situation respective de Gibraltar, Bizerte, Malte e Port-Saïd pour voir que le jour où Bizerte sera un port militaire, elle occupera une formidable position offensive sur le flanc de tous les navires se rendant de l'orient à l'occident et viceversa. Elle sera parfaitement en mesure de harceler et même d'arrêter complètement le commerce de Gibraltar à Malte et à la mer Rouge, c'est-à-dire le commerce de l'Angleterre avec les Indes, et d'empêcher la jonction des flottes anglaises ou anglo-italiennes dans la Méditerranée méridionale. Ce qui forcerait l'Angleterre, si elle était l'alliée de l'Italie aussi bien que si elle demeurait neutre, a augmenter ses forces navales dans la Méditerranée, en restant néammoins menacée dans son commerce, qui est pour elle la vie, et en dégarnissant nécessairement la Manche où, en cas de conflagration européenne, il lui faut absolument être maîtresse de la mer.»
Nel colloquio di Milano dell'8 novembre 1890 Crispi aveva detto al Conte di Caprivi non poter permettere che Biserta divenisse un porto militare, e al Cancelliere germanico non era sfuggita tutta l'importanza che la questione aveva per l'Italia. In gennaio 1891, essendo evidente che la Francia non si curava delle proteste italiane e tirava diritto nell'attuazione di un piano prestabilito, Crispi reclamò l'appoggio delle potenze alleate e dell'Inghilterra per una comune azione a Parigi la quale imponesse l'abbandono dei lavori iniziati a Biserta e li vietasse per l'avvenire. L'ultima ratio di questo passo poteva essere la guerra, e Caprivi ne ammise l'eventualità. Egli infatti diceva al nostro ambasciatore che, pur sperando si raggiungesse lo scopo senza conflitti,

«nondimeno bisogna tenersi preparati ad ogni peggiore eventualità e, questa presentandosi, avere in mano tutti i possibili elementi politici e militari di successo. Ora, l'armamento della fanteria germanica col fucile a piccolo calibro sarà compiuto soltanto nella primavera ventura e la formazione dei due nuovi corpi d'esercito soltanto nel prossimo inverno. Tutto, dunque, consiglia di camminare adesso con prudenza e sicuramente.»

Pochi giorni dopo il ministero Crispi cadeva, e l'energica sua azione veniva abbandonata. L'Inghilterra e la Germania avvertirono subito ch'era mutata la mano al timone della politica italiana, e ne profittarono. Lord Salisbury sentiva in tutta la questione tunisina la prevalenza degl'interessi italiani su quelli inglesi, e aveva opposto alle premure di Crispi un contegno di cortese passività, senza tuttavia osare di opporsi alla logica stringente del ministro italiano e sconfessare le sue proprie precedenti dichiarazioni. Alla Cancelleria germanica la scomparsa della pressione esercitata da Crispi in base ad argomenti validissimi, sembrò una liberazione.
D'altronde, il successore di Crispi, on. Di Rudinì, recando al governo scarsa coscienza degl'interessi d'Italia, prevenzioni mal fondate e minore autorità personale, si adattò alle risposte evasive del Foreign Office, il quale facendo propria la teoria dell'Ammiragliato Britannico finì con l'affermare che dalle fortificazioni di Biserta l'Italia e l'Inghilterra nulla avevano a temere, e altresì che Biserta, operando una diversione delle forze navali francesi, sarebbe stata una debolezza e un danno per la Francia19.
Cosicchè la Francia preso coraggio dalla remissività del nuovo ministero italiano che si preoccupava di fare una politica estera diversa da quella di Crispi - caduto dal potere con grande e non dissimulata gioia della Francia - dopo avere raccolto a poco a poco i materiali necessarii, iniziò nel 1892 le fortificazioni sull'estremo punto nord dell'Africa, dissimulandone con la lentezza dei lavori il valore bellico per poter negare l'opera che andava compiendo in dispregio degl'impegni presi dinanzi alle potenze, quando nel 1881 impose il suo protettorato al Bey di Tunisi.
L'on. Crispi, ritornato privato cittadino aveva continuato a seguire la questione con cuore di patriotta. Qualche amico lo informava di quanto avveniva nella Reggenza in fatto di armamenti.
Ecco un saggio delle notizie che gli pervenivano:
«29 maggio. - Arrivarono col postale francese Ville de Naples 80 casse polveri.
31 maggio. - Arrivarono col postale francese via Algeri casse 50 cartucce.
3 luglio. - Arrivarono col postale francese Ville de Bône 750 barili polveri.
6 luglio. - Arrivarono col postale francese Ville de Rome 27 casse cartucce.
10 luglio. - Arrivarono col postale francese 350 barili polvere; peso di ogni barile cg. 5».
In settembre 1891, in seguito a informazioni allarmanti pubblicate da qualche giornale intorno a una intensa preparazione militare dei francesi in Tunisia, il ministro Rudinì ordinò al Console generale Macchiavelli di recarsi a Biserta per verificare quali lavori si facessero in quel forte. Il Macchiavelli fu respinto dal Comando militare perchè non aveva un permesso da Parigi! Parecchi giornali osservarono che quella mortificazione poteva esserci risparmiata, giacchè non occorreva mandare a Biserta il rappresentante ufficiale d'Italia per apprendere ciò che in Tunisia era noto a tutti. Un giornale ispirato da Crispi, la Riforma, scriveva il 1.° dicembre:
«Non sa il Governo italiano che le fortificazioni di Biserta sono in opposizione con gl'impegni assunti formalmente dalla Francia?
E non pensa a richiamare quegli impegni alla memoria del Governo di Parigi?
Non potendo far altro, il 14 febbrajo 1892 Crispi espresse al Re la sua angoscia con la seguente lettera:

«Sire!

Qual'è la miglior politica, lasciar fortificare Biserta o impedire che sia fortificata? Delle due vie l'Italia, sotto il mio ministero, scelse la seconda.
La questione fu trattata a Londra e a Berlino.
Lord Salisbury in conseguenza dei nostri reclami interpellò due volte Waddington su cotesto argomento: e l'ambasciatore francese assicurò Sua Signoria in modo positivo che il suo governo non mirava a fare di Biserta un porto militare. Ciò risulta da un telegramma giuntoci da Berlino il 28 gennaio 1891.
Da due dispacci del 5 e del 13 agosto 1890 fummo informati che circa la questione tunisina Caprivi aveva detto al nostro Incaricato d'affari che «la Germania non trascurerebbe gl'interessi italiani e saprebbe all'occasione fare onore agli impegni contratti verso di noi».
Alla sua volta il conte di Kálnoky il 5 agosto 1890 faceva al conte Nigra, sullo stesso argomento, la seguente dichiarazione: «Il governo Austro-Ungarico è disposto associarsi a qualunque azione diplomatica, insieme alle altre potenze amiche, in favore dell'Italia».
Io devo credere che nulla fu fatto negli ultimi dodici mesi che il mio successore ha tenuto il Ministero degli affari esteri. Dovrò anche supporre che sia rimasto senza risposta un dispaccio giunto da Londra alla Consulta dopo il 31 gennaio 1891. Intanto è constatato che a Biserta son cominciate le opere di fortificazione!
Con Biserta e Tolone i Francesi diverrebbero gli assoluti padroni del Mediterraneo20. A lord Salisbury io scrissi un giorno che, ciò avverandosi, l'Inghilterra non sarebbe più sicura in Malta e che potrebbe essere cacciata dall'Egitto.
Sarebbero maggiori i pericoli per noi, e ci si renderebbe necessario munire potentemente la Sicilia e la Sardegna, le quali, in caso di guerra, sarebbero le prime ad essere minacciate. Nè basta: dovremmo tenere forti eserciti nelle due grandi isole del Regno, ed occupata la nostra flotta nelle acque africane.
Per munire potentemente la Sardegna e la Sicilia vuolsi una enorme spesa, per la quale al Tesoro italiano mancano i mezzi. Comunque, in un momento in cui il governo di V. M. è obbligato a fare dolorose economie, è strano che per una falsa politica il governo medesimo debba esser causa di una nuova spesa.
Quello che importerebbe Biserta fortificata fu fatto palese a Berlino, e fu aggiunto che qualora scoppiasse la guerra, e la Germania fosse attaccata, noi non potremmo disporre di tutte le nostre forze, imperocchè saremmo costretti a localizzare la maggior parte delle truppe per prevenire gli attacchi che sicuramente verrebbero dal mare, ed in conseguenza per difenderci.
Quando la Francia occupò Tunisi promise che non ne avrebbe fatto una piazza di guerra. Oggi, fortificando Biserta, il governo della Repubblica non solamente manca alla promessa, ma muta lo statu-quo nel Mediterraneo. Con gli accordi del 12 febbraio e del 24 marzo 1887, la Gran Brettagna, l'Italia e l'Austria-Ungheria s'impegnarono a non permettere che questo mutamento avvenisse e, in ogni caso, si obbligarono a procedere d'accordo.
Io non porto la questione alla Camera perchè una pubblica discussione su così grave argomento nuocerebbe agl'interessi nazionali. Io poi personalmente ne raccoglierei nuovi odii dai Francesi senz'alcun beneficio pel nostro paese: e mi taccio.
Il silenzio del Parlamento e l'inerzia dei Ministri, mi permetta, Sire, di dirlo schiettamente e lealmente, non salvano il Re dalla sua responsabilità verso la Patria comune.
Costituzionalmente V. M. non è responsabile di quello che avviene, ma lo è moralmente dinanzi alla Nazione della quale è il Capo e il tutore. Or l'avvenire della Nazione può essere compromesso dalla politica attuale.
Questa lettera da parte mia non sarà comunicata ad anima viva; rimarrà segreta. È scritta per V. M. e per V. M. soltanto.
Ho creduto un dovere di coscienza di scriverla. Ho voluto anche questa volta testimoniare la mia piena fede nel Re, nel quale è personificata l'unità nazionale.
Al Re dunque doveva rivolgere la franca parola.
Ho l'onore di ripetermi di V. M.

L'umil. Dev. Servit. e Cugino
Francesco Crispi.»

Non risulta che il governo italiano facesse opera diplomatica efficace. I lavori furono incessantemente proseguiti, e quando Crispi ritornò al potere, nel dicembre 1893, essi erano giunti a tal progresso che ogni contrasto sarebbe giunto tardivo. Il 7 marzo 1894 l'ambasciatore Ressman, in seguito ad una pubblicazione che annunziava l'inizio dei lavori ch'erano, invece, molto innanzi, interpellò il Presidente del Consiglio, Casimir-Périer;  il quale, abbandonato il sistema di denegazioni seguito in passato dai ministri francesi, dichiarò la realtà, giustificando però la decisione di fortificare Biserta col concentramento di truppe italiane in Sicilia, come se questo, invece che determinato dalle condizioni allora allarmanti dell'ordine pubblico in quell'isola, nascondesse il proposito di un colpo di mano sulla Tunisia!
Ma ecco la lettera del Ressman:

«Signor Ministro,

Sotto il titolo «Bizerte et la Spezia» il Figaro pubblica stamane in prima pagina un articolo che principia colle parole:
«Ci si assicura che sono stati testè dati ordini per cominciare i lavori militari di Biserta: felicito il Governo di questa patriottica risoluzione».
Riferendomi a quest'asserzione del Figaro, ho nell'odierna udienza domandato al signor Casimir-Périer se vi fosse alcun che di vero, non senza premettere che più volte i suoi predecessori, interpellati sui lavori che il Governo francese faceva eseguire nel porto di Biserta, avevano dichiarato che quei lavori avevano per solo scopo di facilitare alle navi mercantili l'accesso del lago interno e che erano intrapresi esclusivamente per ragioni e scopi di commercio.
Il Ministro degli Affari Esteri mi rispose che egli diede difatti gli ordini di proteggere l'entrata del canale di Biserta, dietro ripetuta richiesta del Bey di Tunisi e del signor Rouvier, circa sei settimane addietro. Egli ebbe la franchezza d'aggiungere che a tale risoluzione lo avevano determinato le apprensioni che allora qui si manifestarono per il sì considerevole accentramento di truppe italiane in Sicilia. Mi disse poi che i lavori militari a Biserta si limitavano all'armamento di due batterie, una sulla destra e l'altra sulla sinistra della entrata del canale, per le quali già da tempo erano state costruite le spianate e tracciati gli accessi, e che l'ammontare della spesa incontrata, che fu di soli 600 000 franchi, prova non essersi fatto nulla di eccessivo. Gli pareva d'altronde che non vi fosse ragione di giudicare questi lavori diversamente dai lavori di fortificazione di Tunisi pei quali si erano spesi 300 000 franchi.»
A poco a poco la verità non fu più negata; anzi il lavorìo dissimulato divenne aperto e le opere di fortificazione e di armamento furono accelerate.
La Dépêche Tunisienne dell'11 giugno 1895 pubblicava:

«Paroles significatives:
En réponse aux souhaits de bienvenue que lui adressaient à Bizerte le vice-consul de France et les députations du conseil municipal, du syndicat de Bizerte et de la compagnie du port, M. le vice-amiral de la Jaille, commandant l'escadre active de la Méditerranée, a exprimé, nous apprend le Courrier de Bizerte, toute sa satisfaction de voir arriver à bonne fin, et en un si court laps de temps, ces travaux qui font de Bizert un port si précieux pour la France.
Jusqu'ici, a-t-il ajouté, retenue par de vains prétextes, la flotte française avait évité d'y jeter l'ancre. Mais le charme est maintenant rompu, car dédaignant certaines susceptibilités ménagées jusqu'ici, la marine française vient de prendre définitivement possession de Bizerte. Comme le croiseur Suchet, dit-il, les cuirassés de mon escadre auraient pu entrer dans le canal et le lac, n'eût été ce banc de rocher qui reste à enlever sur une cinquantaine de mètres et qui rétrécit à 37 mètres le chenal navigable; mais ce n'est que partie remise, puisque ce travail n'est plus qu'une affaire de semaines. A sa prochaine tournée l'escadre de la Méditerranée commandée alors par l'amiral Gervais, ne manquera certainement pas de venir y jeter l'ancre et de séjourner dans le lac.»

Quanto fossero fondate le ansie di Crispi e colpevole l'indifferenza dei suoi successori dinanzi al pericolo che sorgeva con la creazione del porto militare di Biserta, lo desumiamo dall'orgoglio col quale autorevoli uomini politici e scrittori francesi hanno esaltato dipoi l'accrescimento di potenza che n'è derivato alla Francia.
Un ministro della marina francese, il signor Pelletan, con poca diplomazia, ma con grande sincerità, affermò nel 1902 che Biserta assicurava al suo paese il dominio del Mediterraneo.
E Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli Affari Esteri, in un libro intitolato La Paix latine si compiacque nell'enumerare le difficoltà superate e magnificare la conquista compiuta. Giova riprodurre e meditare alcune pagine di quel libro:

«.... Du côté de l'Italie, enfin, sous le ministère de M. Crispi les relations étaient telles que l'on pouvait tout craindre.
Cette situation générale, qui résultait d'une accumulation de circonstances, pour la plus part indépendantes de la volonté des hommes, était franchement mauvaise. Je n'avais qu'à suivre les exemples qui m'étaient laissés par mes prédécesseurs, pour m'efforcer d'y porter remède. J'eus le bonheur d'y réussir. L'incident franco-congolais fut promptement réglé.......... Enfin, entre la France et l'Italie, après une période difficile qui eût son point de tension extrême au moment du rappel de l'ambassadeur Ressman, les dispositions se modifièrent. Une grave difficulté était en perspective: l'échéance des conventions qui engageaient la Tunisie à l'égard des puissances européennes. Le sort de la Régence et celui de la Méditerranée étaient en suspens. Mais, par une volonté réciproque, l'orage menaçant se dissipa. Un esprit de conciliation et de concessions dû surtout à l'influence de M. le marquis de Rudinì et de M. le marquis Visconti-Venosta, inspira les pourparlers qui eurent finalement pour résultat les divers arrangements qui confirmèrent le protectorat de la France sur la Tunisie, qui laissèrent à celle-ci la disposition pleine et entière de la puissante position maritime de Bizerte....21

Le vaste établissement militaire qui s'achève à Bizerte intéresse à la fois l'Europe et l'Afrique. Il commande un des grands chemins du monde. Il est place dans une région où l'antiquité a toujours connu de grands ports, Utique, Hippone, et surtout Carthage. Plus d'une fois, les destinées du monde ont basculé sur cette pointe de terre où la nature a creusé - comme un abri et comme une menace - ce double lac dont les dimensions et la profondeur sont faites pour l'armada des léviathans modernes.
La mer Méditerranée est divisée en deux parties nettement définies: l'une forme la tête du lion, l'autre le corps; l'une, à l'Occident, baigne l'Espagne et le Maroc, la Provence et l'Algérie; l'autre, dans la partie orientale, réunit les trois continents: Europe, Asie, Afrique; elle caresse, de son flot bleu, la Grèce et ses îles, l'Asie-Mineure et l'Égypte: elle se prolonge par les détroits, jusque dans la mer Noire; elle débouche sur le reste du monde par le canal de Suez.
Or, ces deux parties, se rejoignent en un point qui forme comme le col de la bête; c'est à l'étranglement qui se produit entre la Sicile et la terre d'Afrique. L'île de Malte, un peu en arrière de ce détroit, en surveille la sortie; mais Bizerte est mieux située encore, car elle le domine. Bizerte prend la Méditerranée à la gorge.
En ce point décisif, une volonté de la nature a creusé ce lac offrant une surface de 15.000 hectares sur lesquels 1.300 sont assez profonds pour recevoir les plus grands bâtiments. Un des plus beaux ports du monde se trouve donc dans un des points les plus importants du monde. Il fallait avoir le point et il fallait avoir le port.
Telle est l'entreprise à laquelle la France s'est consacrée depuis vingt ans et qu'elle a réalisée avec une ténacité et un esprit de suite qui peut-être, un jour, seront comptés à notre pays, si méconnu par les autres et si souvent calomnié par lui-même.
Pour avoir Bizerte, il fallait avoir la Tunisie: ce fut la première partie de l'entreprise. Au début, il ne fut guère question de Bizerte: on était tout aux Khroumirs. Seules, les puissances européennes, connaissant à merveille l'importance de la partie qui se jouait, prétendirent mettre un veto sur l'entreprise éventuelle d'un grand port à Bizerte, et M. Barthélemy Saint-Hilaire, alors ministre des affaires étrangères, agit sagement, en remettant à l'avenir le dessein d'un établissement militaire au sujet duquel on l'interrogeait.
Contre vents et marée Jules Ferry en vint à ses fins; l'occupation française imposa notre protectorat à la Régence. La question de la défense militaire fut posée du même jour. Elle se combinait naturellement avec celle de l'Algérie. La Tunisie, faisant l'effet d'un bastion avancé vers la mer et vers l'Orient, attira donc toute l'attention.
En quel point établirait-on la citadelle et l'arx de la nouvelle conquête? Quelques-uns, songeant à l'esprit turbulent des populations indigènes et aux difficultés que rencontrerait éventuellement une expédition venue du dehors, si elle était obligée de pénétrer dans les terres, désignaient comme nœud de la défense, cette antique ville de Tébessa qui avait été longtemps le refuge de la domination romaine en péril. D'autres, prévoyant le développement africain de l'Empire colonial français vers les régions centrales et vers le lac Tchad, insistaient pour qu'on utilisât l'angle et le port naturel que fait, au coude de la Syrte, derrière l'île de Djerba, la baie de Bougrara.
Mais Bizerte s'imposa: Bizerte, point propice, à la fois, à la défensive et à l'offensive, également bien situé si on envisage la terre et si on envisage la mer, dominant la capitale, Tunis, sans être entravé par elle, aboutissant presque immédiat du plus grand fleuve de la Tunisie, la Medjerda, et de la plus importante voie ferrée du Nord de l'Afrique, celle qui réunit Alger à Tunis.
Quant aux avantages militaires de ce port, véritablement unique, ils sont exposés, avec la plus grande précision, dans une étude du lieutenant-colonel Espitalier: «Le rayon tactique d'action, d'un cuirassé filant 18 nœuds, autour d'un point d'appui, est de 180 milles environ, si l'on veut qu'il puisse revenir à son port d'attache. Dans ces conditions, le cercle tactique de Bizerte coupe le rivage de la Sicile et couvre tout le passage entre ce rivage et la côte africaine. Il coupe aussi le cercle d'action des navires anglais de Malte. Si l'on combine le cercle d'action de Bizerte avec ceux de Mers-el-Kébir, d'Alger, d'Ajaccio et des ports métropolitains, il est facile de voir que tout le bassin occidental de la Méditerranée est sous notre dépendance tactique et que Bizerte est la clef de notre action du côté de l'Est».
Ces raisons confirmèrent les impressions favorables que la situation géographique et la convenance du site avaient fait naître dans les esprits. Mais comment rompre les engagements, comment déjouer la surveillance étroite des diplomaties rivales qui tenaient en suspens l'avenir de Bizerte? L'histoire éclairera un jour, ces points. [?]
On n'eut, d'abord, d'autre dessein patent que de transformer la vieille station à demi abandonnée de «Benzert» et qui remontait à la conquête espagnole, en un port de pêche et un port commercial à tout le moins abordable. Ce fut ainsi que, le plus simplement du monde, on mit, pour la première fois, la pioche en terre et qu'on commença à élargir et à régulariser le chenal.
Même, pour ces premiers travaux, si insignifiants qu'ils parussent, il fallait de l'argent; une combinaison ingénieuse le procura. C'est Bizerte lui-même qui subventionna l'avenir de Bizerte.
Dans ces lacs ouverts sur la Méditerranée comme des viviers immenses, le poisson, à des époques et à des heures régulières, monte et descend. L'armée innombrable des dorades, des loups, des rougets, des bars, entre et sort par un mouvement régulier et se précipite comme un torrent alternatif et vivant par l'étroit passage du goulet.
Le monopole de la pêche maritime à Bizerte fut un des avantages principaux de la concession qui fut consentie à la maison Hersent et Couvreux, à charge de commencer les premiers travaux du port commercial.
Ainsi, l'inépuisable richesse que le flot emporte et ramène a redressé le chenal, aligné les premiers quais, poussés au loin, dans la mer, les rocs des premières jetées. La chair s'est faite pierre, et c'est sur cette fondation animée que Bizerte s'élève maintenant.
La conception initiale se transformait progressivement, ou plutôt, poursuivie longuement dans le silence, elle put, sans inconvénient, se manifester au grand jour.
En 1897, l'Europe était, comme elle l'est aujourd'hui, attentive au problème oriental qui paraissait sur le point de se poser. Parmi les difficultés et les lenteurs du concert européen, l'affaire crétoise évoluait péniblement vers une solution pacifique. Cette heure parut opportune pour régler définitivement la question tunisienne et pour délivrer Bizerte.
Ainsi, de ce conflit redoutable de sentiments et d'intérêts, la France tirait du moins un avantage positif. Son autorité navale dans le Méditerranée se multipliait, en quelque sorte, par ce «doublet» de Toulon. Selon le mot de l'amiral Gervais, «près de Tunis la Blanche on aurait désormais Bizerte la Forte».
Depuis lors, une immense activité règne sur les lacs. Le chenal se trouve porté de 100 mètres de large à la surface, à 200 mètres. Les jetées sont prolongées en mer, couvertes par un môle construit par 17 à 20 mètres de profondeur; elles font un immense avant-port et permettront, en tout temps, l'entrée et la sortie aux bâtiments français, interdisant, par contre, à une flotte étrangère de forcer le passage comme à Santiago et «de mettre en bouteille» la flotte française, abritée sans être enfermée.
Dans le port, de vastes bassins de radoub sont achevés; plus loin encore, l'arsenal maritime s'élève, plus loin encore les fortifications construites partout sur la ceinture des collines, défendent la terre, menacent la mer. Il faudrait un siège en règle, soutenu par une flotte et une armée formidables pour venir à bout de la résistance qu'offrirait, dès maintenant, Bizerte. Je ne connais pas de spectacle plus imposant et, si j'ose dire, plus merveilleux, que celui que présente à la tombée du jour, sous les lueurs du soleil couchant, cette immense nappe plane et glauque que dominent, au loin, les défenses formidables du Djebel-Kébir, et du Djebel-Rouma.22»



ITALIA E AUSTRIA.



Capitolo Quarto.

Le relazioni italo-austriache e l'irredentismo.

Come nacque l'irredentismo anti-austriaco. - La campagna del 1866. - Il punto di vista di Andrássy e il compito della diplomazia. - Il movimento irredentista nel 1889. - Dichiarazioni parlamentari e parallela azione diplomatica di Crispi. - Scioglimento del «Comitato per Trento e Trieste». - Un giudizio di Francesco Giuseppe su Crispi. - L'imperatore deplora di non poter venire a Roma. - Il processo Ulmann; come fu abbandonato dal governo austriaco. - Lo scioglimento della Società Pro Patria e la Dante Alighieri. - Protesta di Crispi. - Corrispondenza Crispi-Nigra. - Agitazioni irredentiste. - Scioglimento dei Circoli Oberdank e Barsanti. - La Società Pro Patria può ricostituirsi sotto il nome di Lega Nazionale. - Le dimissioni di Crispi nel 1891 e l'Austria. - L'agitazione dell'Istria nel 1894. - Crispi domanda l'intervento dell'imperatore Guglielmo e l'ottiene. - L'ambasciatore Lanza. - Il ritiro di Kálnoky.

L'irredentismo anti-austriaco nacque all'indomani della disgraziata campagna del 1866. Ognuno sa che il 25 luglio di quell'anno Garibaldi fu fermato sulle balze del Trentino e obbligato a ripassare la frontiera da un telegramma del Capo dello Stato Maggiore, e ministro presso il Re, generale Lamarmora, nel quale era detto che «considerazioni politiche esigevano imperiosamente la conclusione dell'armistizio» e il ritiro dal Tirolo delle schiere garibaldine. Garibaldi obbedì a malincuore e nel paese rimase l'impressione che si sarebbero allora ottenuti i confini naturali d'Italia alle Alpi Giulie se la guerra non fosse stata condotta con incoerenza inesplicabile e se la pace non fosse stata conclusa affrettatamente.
«Una sera - ha lasciato scritto Crispi - il discorso cadde sulla guerra del 1866. Io gli chiesi [al principe di Bismarck] perchè non levò la sua voce per fare avere all'Italia il Trentino. Egli mi rispose: la questione della cessione dei territorii fu trattata e definita tra i due imperatori, Napoleone e Francesco Giuseppe, prima della conchiusione della pace, senza il nostro intervento.
Appare chiarissimo - soggiunge Crispi - che l'intervento di Napoleone nelle cose nostre fu anche nel 1866 funesto all'opera della unificazione italiana. Nè noi, nè la Prussia potemmo spiegare la nostra volontà. Fu dato il Veneto entro i limiti delle frontiere amministrative impedendoci di ottenere le Alpi orientali.»

Altrove abbiamo narrato le vicende del movimento irredentista, che ebbe dapprima (1868) a suo centro il comune di Palmanova presso la frontiera austriaca, e un giornale, Il Confine orientale d'Italia, che cominciò le sue pubblicazioni a Udine in gennaio 1870; abbiamo altresì accennato incidentalmente all'azione esercitata da Crispi in favore dei sudditi austriaci di nazionalità italiana. Qui vogliamo documentare con dati precisi l'accorgimento col quale l'on. Crispi regolò durante il suo governo le relazioni italo-austriache, difficili e delicate tra le agitazioni irredentiste e le esorbitanze della polizia politica dell'Austria.
Non si deve tacere che Crispi non pensò mai che gl'italiani potessero rinunziare ad ottenere la loro frontiera naturale coll'impero austriaco. Egli pensava che è debole uno Stato le cui frontiere sieno aperte e deplorò più volte che i ministeri italiani non avessero saputo cogliere le occasioni favorevoli per definire la questione rimasta insoluta nel 1866. Una lettera privata del 1.° luglio 1891 ci rivela che Crispi contava di affrontare quella questione in occasione del rinnovamento del trattato della Triplice Alleanza. Dopo avere risollevato il prestigio dell'Italia e acquistato personalmente autorità e fiducia presso il governo austriaco, Crispi sperava di riuscire. Ma, come è noto, egli lasciò il governo (31 gennaio 1891) circa un anno e mezzo prima che il trattato scadesse (30 maggio 1892). Nella citata lettera Crispi scriveva:

«Al 1882 non ci volevano nella lega perchè non avevamo un esercito importante; perchè si diffidava di noi, e per gli elementi irredentisti nel gabinetto e pei ricordi del 1866.
Oggi ci vogliono, e l'alleanza con l'Italia è festeggiata a Berlino e Vienna. Perchè? Pel milione dugentomila soldati che possiamo mettere in campo, e per la sicurezza che faremo il nostro dovere.
Nel rinnovamento del trattato potevamo far sentire il peso delle nostre forze. Lo si poteva e si doveva, chiedendo per compenso almeno una rettificazione delle frontiere. E l'avremmo potuto ottenere, sapendo agire. A Vienna se l'aspettavano; e Berlino avrebbe pesato sopra Vienna.»

È certo che l'Austria non rinunzierà al Tirolo italiano se non sotto la pressione di circostanze eccezionali. Ma al 1891 quando Crispi cedette all'on. di Rudinì la direzione della politica estera si era già lontani nelle sfere ufficiali austriache da quello stato d'animo che ispirava al Cancelliere dell'Impero, conte Andrássy, la lettera del 24 marzo 1874 all'ambasciatore imperiale a Roma, conte Wimpffen.
In essa l'Andrássy scriveva:

«Rapporti provenienti da fonti diverse ci hanno segnalato il partito preso col quale certi giornali italiani incoraggiano le speranze di alcuni malcontenti a Trieste e nel paese di Trento. Il colloquio che recentemente avete avuto col signor Visconti-Venosta sull'argomento e del quale m'informate nella vostra lettera particolare del 18 aprile offrendomene l'occasione, ne profitto per indicarvi le mie vedute.
Io sono convintissimo della riprovazione che incontra e incontrerà in avvenire, tanto presso il Re che presso i ministri, ogni velleità d'annessione, e noi non possiamo che essere riconoscenti al Governo italiano della premura messa nello sconfessare qualsiasi agitazione in tal senso. Non mi sembrerebbe meno conforme al nostro comune interesse d'intenderci per impedire un movimento sostenuto da una parte della stampa italiana, del quale uno dei più grandi inconvenienti è di fornire le armi al partito che non vede di buon occhio il consolidamento dei rapporti d'amicizia tra l'Austria-Ungheria e l'Italia.
Trattando di tale argomento con gli uomini di Stato italiani, mi sembra opportuno che noi ci poniamo non al nostro punto di vista, ma a quello dell'Italia. È questo lato della questione che tengo a chiarire con le osservazioni che seguono.
Il partito esaltato in Italia, sperando di ottenere un rimaneggiamento territoriale a spese nostre, sembra che confonda la situazione esistente quando fu compiuta l'unificazione dell'Italia, con quella oggi esistente.
Dal tempo in cui l'imperatore Napoleone era sul trono e dava la mano alle aspirazioni nazionali, allorchè l'Austria, trovandosi isolata, senza alleanze, di fronte ad una Prussia mal disposta e ad una Russia ancora irritata per la nostra attitudine durante la guerra di Crimea, era obbligata a difendere contro il sentimento nazionale le Provincie che possedeva in Italia, non era difficile provocare una crociata contro l'occupazione straniera, la quale, si diceva, calpestava il suolo della patria, e la parola d'ordine dell'Italia libera sino al mare poteva infiammare gli spiriti anche oltre i confini della Penisola.
Di tutti i motori che alimentavano allora tale movimento, non ne esiste più alcuno. Non occorre entrare in spiegazioni minute per mostrare che la situazione è cambiata da cima a fondo.
L'Austria-Ungheria, da parte sua, non pensa a rivendicare i suoi antichi possessi italiani.
Oggi le relazioni fra i due paesi riposano sul mutuo riconoscimento delle circoscrizioni territoriali quali sono state stabilite dai trattati. Bene o male che siano stati tracciati, i confini esistenti sono la base invariabile della conservazione dei buoni rapporti fra i due paesi. Se un partito qualsiasi, col pretesto della comunanza di lingua, volesse domandare la cessione del Tirolo meridionale o d'una parte del nostro litorale, non sarebbe l'Austria anch'essa in diritto di reclamare il quadrilatero come indispensabile alla buona difesa del suo territorio? Ritornare su tale questione significherebbe dare a priori ragione al diritto del più forte.
Dinanzi ad una situazione così pienamente mutata, la persistenza d'una agitazione simile a quella che il Governo imperiale e reale dovette combattere in altri tempi, non è più motivata nè dai bisogni, nè dagli interessi dell'Italia.
Ciononostante, non è ancora raro veder sorgere delle opinioni che denotano una tendenza a disconoscere l'inviolabilità del nuovo stato territoriale. Taluni giornali, specialmente, sembra che si propongano lo scopo d'incoraggiare le velleità di coloro che guardano con occhio di cupidigia una contrada situata al di qua delle nostre frontiere.
Taluno di questi giornali, è vero, fa appello non già ad una soluzione con la forza, ma ad un accomodamento amichevole. Ma anche per questa via, è necessario ch'io dica che non potremmo consentire a modificare l'ordine di cose consacrato dai trattati? Ce lo impedirebbe, innanzi tutto, il principio stesso che sarebbe messo in questione. Il giorno che ammettessimo un mutamento siffatto sulla base di una delimitazione etnografica, analoghe pretese sorgerebbero e sarebbe quasi impossibile respingerle. Non potremmo infatti cedere all'Italia popolazioni affini per lingua senza provocare artificialmente, presso le nazionalità poste sulle frontiere dell'Impero, un movimento centrifugo verso le nazionalità sorelle prossime ai nostri Stati. Cotesto movimento ci porrebbe nell'alternativa di rassegnarci alla perdita di quelle provincie, ovvero, sempre conformemente al sistema delle nazionalità, d'incorporare nella monarchia le contrade limitrofe. Consentire ad un principio siffatto sarebbe lo stesso che sacrificare l'integrità della monarchia o essere trascinati a deviare dalla politica di conservazione della pace e dello statu-quo che seguiamo nell'interesse nostro e dell'Europa in generale.
Si consideri, d'altronde, dove condurrebbe l'idea delle frontiere etnografiche se potesse generalizzarsi. Se una questione di tale natura si volesse sollevarla tra l'Austria-Ungheria e la Germania, dove si troverebbe il punto d'arresto, e non sarebbe una sorgente dei più gravi conflitti? Che cosa avverrebbe se delle rivendicazioni analoghe nascessero tra la Germania e la Russia, tra le razze slave incuneate nello stesso territorio tedesco, tra le popolazioni di diversa origine che abitano nell'Impero ottomano, le quali, frazionate e commiste come sono, formano le configurazioni territoriali più bizzarre e più ribelli a qualsiasi tracciato di una razionale frontiera? Evidentemente la guerra di tutti contro tutti sarebbe la conseguenza di simili discussioni.
Un lavoro di decomposizione e di ricostituzione, quale lo sognano taluni utopisti non farebbe altro adunque che dar campo a innumerevoli competizioni e comprometterebbe, così, il riposo e la sicurezza generale.
Certamente, la corrente da cui sono derivate le grandi agglomerazioni nazionali, ha avuto la sua ragion d'essere; ma se oggi ch'esse sono costituite si pretendesse riprendere questo lavoro en sous œuvre e proseguire, sino nei minimi dettagli, l'applicazione dell'etnologia alla politica, si metterebbe imprudentemente in questione l'ordine europeo formatosi attraverso tanti dolori e si evocherebbe il caos.
Gli uomini di Stato che trovansi ora al potere in Italia sono troppo illuminati perchè occorra entrare con essi in ampie spiegazioni su tale argomento.
Oggi che non esiste in Austria-Ungheria nessun partito importante che aspiri a rivendicare le antiche possessioni italiane dell'Impero; oggi che tutti nel nostro paese, obliando i dissensi del passato, riconoscono l'Italia unita quale esiste attualmente, come una garanzia essenziale della pace e dell'equilibrio europeo; oggi quello di cui l'Italia potesse voler appropriarsi a nostre spese, non potrebbe avere per essa un valore comparabile ai vantaggi assicuratile dalle buone intelligenze con la Monarchia austro-ungarica. Io ho la convinzione che S. M. il Re, al pari de' suoi consiglieri, si trovino in quest'ordine d'idee. E quindi non v'è ombra di rimprovero al loro indirizzo nelle osservazioni che precedono. Vi ho insistito unicamente per impegnarli a unirsi a noi nello scopo di combattere d'accordo i pericoli derivanti dalle agitazioni annessioniste per il mantenimento dei buoni rapporti tra i due paesi.
Noi siamo lontani dal chiedere garanzie contro siffatte agitazioni al Governo italiano: la nostra Monarchia trova nelle sue proprie forze il rimedio contro il male ch'esse potrebbero cagionare. E neppure pensiamo a imputare al Governo del Re il linguaggio della stampa indipendente: sappiamo per esperienza che sarebbe irragionevole prendersela con le autorità di un paese per tutte le aberrazioni dei giornali che vi si pubblicano.
Tutto quello che noi desideriamo è, che i ministri italiani, nella misura dell'influenza che sono in grado di esercitare su taluni organi, vogliano adoperarsi a far cessare le agitazioni di cui si tratta. Io penso che basterà  di richiamare la loro attenzione sulle considerazioni che ho segnalate, perchè provvedano ai mezzi d'imprimere allo spirito pubblico una direzione conforme alla nuova situazione.»

L'argomentazione del conte Andrássy non era senza valore dinanzi alle rivendicazioni più larghe dell'irredentismo, a quelle cioè che si estendono a tutti i paesi di lingua italiana dell'Impero; era, invece, poco efficace dinanzi al reclamo del confine che la natura stessa ha segnato all'Italia23. E Crispi riteneva che su questa base più limitata l'intransigenza di un tempo non esistesse più, e che fosse possibile alla diplomazia italiana di condurre l'Austria a una considerazione più equa del problema, gli eventi aiutando.
Ma se egli assegnava alla diplomazia cotesto compito, era ben convinto che le agitazioni popolari allontanavano la soluzione  desiderata, compromettendo interessi superiori. E combattè l'irredentismo irresponsabile, non soltanto nelle sue rumorose manifestazioni e nei suoi disegni segreti, ma anche negli eccitamenti che spesso, per reazione, venivano dall'Austria stessa, da una polizia politica irritante e poco accorta. Ispirando fiducia nella fermezza e nella lealtà del governo italiano, Crispi lavorava a realizzare l'obbiettivo di un illuminato patriottismo.
Nel 1889 il movimento irredentista, traendo pretesto da ogni incidente e impulso dagli atti di rigore o di arbitrio delle autorità austriache, dilagò in buona parte d'Italia. Centri dell'attiva propaganda erano Roma e Milano, e ad essa partecipavano i più noti del partito radicale; ma, taluni per amore all'idea di nazionalità, altri, francofili a tutti i costi, per la speranza di creare tra l'Italia e l'Austria tali antipatie e dissensi che imponessero lo scioglimento della Triplice Alleanza.
In maggio e in giugno i deputati Imbriani e Cavallotti trovarono modo di fare per alcuni giorni dell'irredentismo dalla tribuna parlamentare a proposito della condotta tenuta dal Console generale a Trieste, Durando, verso un notaio italiano. Avendo l'on. Crispi ordinata un'inchiesta, sulla relazione di essa si discusse lungamente alla Camera nella tornata del 10 giugno, e poichè gli oratori d'opposizione avevano toccato abilmente la corda patriottica e l'assemblea ne era impressionata, Crispi credette opportuno che la discussione terminasse con un voto chiaro ed esplicito, il quale ebbe luogo su di una mozione di fiducia nella politica del governo, presentata dal venerando deputato Cavalletto. La prudenza dell'uomo di Stato e l'intimo sentimento di Crispi risaltano nei brani seguenti del discorso ch'egli pronunziò in quella occasione:24

«... Gli onorevoli autori della mozione comprenderanno dalla lettura di questa risposta del Piccoli, come cada interamente l'accusa che si faceva al Durando.
Essi sono dolenti dei risultati negativi. Avrebbero voluto, e non so con qual beneficio, che il Durando fosse apparso delatore, e che il Piccoli fosse appunto un irredentista.
La questione tra il Durando e il Piccoli non è questione  di fiscalità; e benissimo disse il Piccoli che neppure il Durando, in quel dissidio, era animato da venalità.
La questione, o signori, è questione giurisdizionale. Trattavasi di vedere se, rispetto ai nostri cittadini morti all'estero, debba reggere la legge italiana o la legge del luogo. Questa è la tesi e la vera tesi. (Commenti.)
Con la Convenzione del 15 maggio 1874, che i predecessori del Durando fecero male a non applicare, era stabilito ed è stabilito (del resto, uguali convenzioni consolari abbiamo con tutte le potenze del mondo) che quando un cittadino muore nell'Impero austro-ungarico, agli atti di apertura della successione e agli atti consecutivi debba essere presente il console, o chi lo sostituisca, e gli atti debbano farsi in concorrenza con lui, il quale ha la suprema tutela dei nostri concittadini.
Che cosa si voleva dalla parte opposta? Che la legge austriaca (e questo per fine di uguaglianza) debba imperare anche sui cittadini italiani. Bel sistema d'irredentismo, o signori, e proprio mi congratulo con coloro che difendono questa tesi! Ma per i principii generali di diritto, per il principio della dignità nazionale, in tutte le questioni in cui è impegnato lo stato personale, è la legge del paese di origine quella che impera. Civis romanus sum in qualunque parte del mondo che io sia, è la legge nazionale che deve essere rispettata, e il console Durando, in questo caso, difendeva l'Italia e le leggi sue. (Bene!)
.... Il corpo consolare ha, in parte, abitudini che non posso tutte lodare. Vi sono in esso dei valorosi, degli intelligenti, degli uomini i quali sentono la dignità nazionale e s'interessano, come ogni altro italiano, alle cose nostre. Ve ne sono di quelli che hanno abitudini antiche e antichi pregiudizi.
Il nostro corpo consolare, signori, nelle sue varie persone, discende in parte dagli antichi corpi consolari delle distrutte amministrazioni italiane, nelle quali ebbe un'educazione che non è la nostra. Quindi non v'è nulla di strano che vi sia in esso chi possa commettere, credendo di essere zelante, e di fare opera utile nei paesi dove sia accreditato, atti che offrano il fianco a qualche censura. (Commenti.)
Quante di queste false abitudini non ho trovato, che io ho fatto di tutto per distruggere!
Al Ministero degli Esteri non si parlava che francese prima che io vi arrivassi. Era francese il cifrario, francesi le corrispondenze. Cominciai per distruggere tutto ciò: il cifrario è ora italiano, le corrispondenze sono italiane: ed in questo io non faccio che seguire quello che fanno le altre potenze: gl'inglesi, i tedeschi, gli spagnuoli, tutti scrivono nella loro lingua; è giusto che noi scriviamo nella nostra.
I cifrari della Germania e delle altre potenze, sono nelle loro lingue rispettive, è regolare che anche il nostro sia nella lingua che possediamo.
Questo riguarda la forma, ma è una forma la quale tiene alla sostanza. La lingua nazionale è il gran fattore della nazionalità. L'obbligo di scriverla ricorda anche ai nostri rappresentanti la loro patria nella sua forma più nobile e più grande, che è quella della lingua. (Benissimo!) Vado un poco più in là, o signori.
In alcuni luoghi i nostri consoli, i nostri rappresentanti, danno educazione non italiana ai loro figli, li mandano in collegi stranieri, e capirete benissimo come, dopo ciò, difficilmente possano avere sentimenti italiani.
.... La pace dell'Europa ha base nei trattati. Noi, da uomini onesti, rispetteremo questi trattati, e, se avvenga che qualcuno li violi, sapremo fare il nostro dovere.
L'illustre Marco Minghetti, sedendo su questi banchi, in una discussione politica alla quale ei fu chiamato e nella quale seppe rispondere con fulgore di parola e con quella chiarezza d'idee che gli erano particolari, disse che per la questione della nazionalità bisogna scegliere tempi ed anche momenti opportuni, ma che, se mai questa questione risorgesse, se mai le guerre portassero a modificare la carta geografica di Europa, non sarebbe l'Italia quella che dovrebbe temere, perchè noi nulla abbiamo a dare, molto potremmo avere a raccogliere. (Bene! Bravo!)
Ma, se questi sono i principii che devono animare ogni patriota, segga a quei banchi [accenna ai banchi dei deputati] od a questi [accenna a quelli dei ministri], la virtù principale, e degli Stati, e degli uomini politici, è la prudenza. (Bene! Bravo! a Destra e al Centro.)
Marselli: - E la fede.
Crispi, presidente del Consiglio: - La virtù della prudenza è quella che ci condusse a Roma; (Bene! Bravo! a Destra e al Centro) la virtù della prudenza è quella che valse a costituire questa grande unità che tutti invidiano, e non tutti oggi ancora rispettano. Noi abbiamo molti nemici che insidiano la nostra posizione; e ne abbiamo uno più operoso di tutti, che è nel seno stesso della patria nostra, e che sarebbe lieto se, con le arti sue, potesse giungere a rompere quel fascio delle tre potenze che mantiene la pace del mondo. È un lavoro continuo, è una insidia implacabile che ci viene da quel lato; e, sventuratamente, talora, ha le lusinghe, e talora gli aiuti di qualche potenza. (Commenti, interruzioni).
Aspettiamo dunque gli eventi, e, aspettandoli, rispettiamo i trattati, che sono la base della pace del mondo. Questo è il nostro primo dovere: lo abbiamo adempiuto e lo adempiremo. (Bravo! Bene! Vive approvazioni.)»25

Altra discussione fu fatta alla Camera nella tornata dell'8 luglio, su interpellanza del Cavallotti. Questi si occupò specialmente di due fatti: del divieto posto dalle autorità austriache di Riva di Trento allo sbarco di una comitiva di gitanti italiani, e dell'arresto prolungato di un giornalista, certo Ulmann. Al discorso violento del Cavallotti il presidente del Consiglio rispose calmo, conciso. Non aveva notizie esatte sull'Ulmann, che affermò essere suddito austriaco, mentre aveva ottenuto la cittadinanza italiana; giustificò il divieto opposto allo sbarco dei gitanti perchè, secondo un telegramma dell'ambasciatore Nigra, una comitiva di essi, sbarcata a Riva il 23 giugno, non aveva rispettato le leggi del luogo gridando per le vie della città «Viva la repubblica. Viva Trento e Trieste irredente». Ma mentre pubblicamente scagionava la condotta del governo austriaco dalle accuse, comunque esagerate, che gli si muovevano, e affermava il dovere della dignità e della prudenza ricordando che l'on. Cavallotti aveva «cantato in versi e in prosa, prima e dopo il 1875 l'alleanza con la Germania, e nel 9 aprile 1878 aveva consigliato al conte Corti un'alleanza con l'Austria», l'on. Crispi non rinunziava a compiere il suo dovere patriottico presso il governo austriaco:

«2 luglio 1889.»

Ambasciata Italiana

Vienna.

(Riservato). I giornali pubblicano essere stato proibito lo sbarco a Riva di Trento ad una comitiva di regnicoli, organizzata a scopo di gita di piacere. Questo fatto essendo contemporaneo a quello della sospensione delle corse dei vapori tra Venezia e Trieste preoccupa sfavorevolmente la pubblica opinione in Italia e non è certo l'Austria che ci guadagna; mette inoltre il Governo del Re in una difficile posizione, tanto più se verrà portato innanzi alla Camera. Voglia dunque chiedere schiarimenti intorno al medesimo, e qualora i relativi ordini sieno stati dati da Vienna, voglia fare i passi opportuni perchè la proibizione sia revocata. Sono atti di polizia che ricordano tempi che io credeva per sempre tramontati. Il Governo del Re ha lasciato correre atti ben altrimenti importanti, come le manifestazioni a favore del papa-re.
Gradirò una pronta risposta.

Crispi.»

«Vienna, 13 luglio 1889.»

(Personale). Ho chiesto a Kálnoky di procurare informazioni sull'andamento del processo Ulmann. Egli mi ha promesso domandarle al Ministero di Grazia e Giustizia e di comunicarmele, ma mi ha fatto osservare che i consoli, all'infuori del levante, non hanno diritto di chiedere alle autorità giudiziarie comunicazioni di processi criminali pendenti. Quanto alle ragioni svolte nel telegramma di V. E., io le esposi amichevolmente al conte Kálnoky, il quale si rende perfettamente conto della situazione e apprezza gli sforzi da Lei fatti per fare cessare agitazioni irredentistiche, ma d'altra parte egli mi disse che sarebbe ingiusto e di pessimo esempio risparmiare i rei unicamente perchè protetti dal partito ostile all'alleanza.

Nigra».

Il 17 luglio il Comitato irredentista radicale per Trento e Trieste diramò il seguente manifesto firmato da Giovanni Bovio, Matteo Imbriani, Antonio Fratti e da altri:

«Italiani!

Quando governi e parlamenti - obbliano i diritti ed i doveri della Nazione - dalla grande anima del popolo sorge una voce, che i diritti ed i doveri tutti del presente raccoglie e compendia in un motto: Trieste e Trento.
È l'istinto dell'ente collettivo, è la coscienza nazionale, che proclama alto questi nomi, nel momento storico necessario.
E il pericolo è grave, immediato.
Patti che non conosciamo ci vincolano. Sappiamo solamente che una odiosa alleanza ci lega ai nemici nostri.
L'Italia è minacciata da una guerra che dovrebbe sostenere per interessi di altri - contro i proprî - e dalla quale, vinta o vincitrice, uscirebbe mancipio dello straniero.
E frattanto mancipii viviamo, quasi fossimo condannati a servire sempre.
Ma dei fatti nostri noi soli siamo arbitri.
Avvaliamoci di tutti i mezzi che ci vengono consentiti; l'opinione pubblica può impedire grandi sciagure - la volontà determinata del popolo s'imporrà a tutti.
Scongiuriamo i pericoli sovrastanti; stringiamoci in un patto nei sacri nomi di Trieste e Trento. - Questo motto e grido che scuote - è squillo che unisce - è monito che avverte.

Roma, 17 luglio 1889.

Avvertenze.

Le associazioni operaie, patriottiche e politiche, le Società dei Veterani e reduci dalle patrie battaglie, Circoli popolari e quanti fra i patrioti curanti la causa nazionale aderiscono al presente appello, sono vivamente pregati d'inviare sollecita dichiarazione e di costituire immediatamente nelle rispettive località Comitati e nuclei con identico programma, mettendosi tutti in diretta comunicazione con questo Comitato di Roma, per le opportuna intelligenze sul lavoro da compiersi in comune.
Tutte le comunicazioni dovranno essere inviate al seguente esclusivo indirizzo:
Comitato per Trieste e Trento

Roma.»

L'on. Crispi ordinò che s'impedisse l'affissione di questo manifesto e sciolse il Comitato, con grande sdegno del partito democratico che moltiplicò le proteste e votò anche una querela contro l'autorità di pubblica sicurezza, la cui redazione fu affidata ai 24 avvocati del Circolo radicale, tra i quali erano Barzilai, Gallini, Vendemini, Pellegrini.
Con circolare del 19 luglio Crispi proibì i Comizii che la Commissione esecutiva segreta del Comitato irredentista aveva predisposti dovunque. L'agitazione, tuttavia, promossa dai Comitati «pro Trento e Trieste» sorti dai fianchi delle Associazioni radicali, era vivace, e i tentativi di dimostrazioni contro l'Austria continui. Crispi era risoluto a prevenirle e a reprimerle. Al prefetto di Ravenna telegrafava il 22 luglio dolendosi che a Conselice non fossero state deferite all'autorità giudiziaria grida sediziose emesse in una dimostrazione irredentista, perchè «questo nuoceva al prestigio del governo e accresceva l'audacia dei perturbatori dell'ordine pubblico».
Dopo quest'atto di rigore, l'on. Crispi telegrafava a Berlino:

«Roma, 29-7-89.

Ambasciata Italiana

Berlino.

(Riservato). Nel suo telegramma del 25 luglio V. E. accenna che costì fece buona impressione il decreto di scioglimento del Comitato per Trento e Trieste. Ho fatto quello che era mio dovere. Ma non posso celare il mio pensiero, che nel regolarsi cogli italiani dell'Impero le autorità austriache non sono nè sapienti nè prudenti. Sevizie e processi a nulla giovano, ed inaspriscono gli animi. Desidero quindi che V. E. preghi il Principe Cancelliere a nome mio di far giungere a Vienna consigli di prudenza e di temperanza. Il Governo austriaco comportandosi paternamente verso gli italiani della Monarchia renderebbe più facile il mio compito verso gli irredentisti.

Crispi.»

Il principe di Bismarck non ricusò il suo intervento:

«Berlino, 7 agosto 1889.

S. E. Crispi

Roma.
 (Riservato). Cancelliere, cui venne riferito sul messaggio contenuto nel telegramma di V. E. 29 luglio, volendo per quanto è possibile tener conto del desiderio da Lei espresso fece trasmettere al Principe Reuss istruzioni confidenziali di parlare in tempo opportuno ed in via privata al conte Kálnoky sull'argomento delicato riguardo contegno prudente e moderato da osservare dalle Autorità austriache verso Italiani dell'Impero. Quell'Ambasciatore dovrà dunque nei suoi colloquii evitare perfino apparenza d'intervento ufficiale come dal dare appiglio a sospetto qualunque che il Gabinetto di Berlino miri ad esercitare anche indirettamente una pressione sul Governo Austro-Ungarico, e ciò appunto per non correre rischio di ottenere risultati contrarii al compito di V. E. verso gli irredentisti.

Launay.»

Frattanto la causa dell'irredentismo, sostenuta dal partito radicale, continuava ad agitare il paese. Quale rapporto vi fosse tra cotesto movimento e l'ingerenza che segretamente il governo francese non ha mai cessato di esercitare in Italia, è difficile stabilire. Le autorità politiche delle maggiori città ritenevano che gl'irredentisti avessero accordi in Francia e probabilmente anche pecunia.
Il 9 e 12 agosto il prefetto di Napoli, senatore Codronchi, telegrafava al ministro dell'interno:
«Imbriani - d'accordo con Cavallotti - lavora per arruolare un numero di giovani, e tentare un'invasione nel territorio austriaco al solo scopo di turbare le relazioni fra lo Stato e l'Impero Austro-Ungarico. Si raccolgono armi.»

«In aggiunta miei precedenti telegrammi comunico che deputato Imbriani fu recentemente in Francia per prendere  accordi sugli arruolamenti clandestini che dovrebbero servire a gettare alcune bande sulla Dalmazia.... Tra Parigi e Milano è vivissimo lo scambio di corrispondenze e di visite.»

L'on. Crispi fece quanto era possibile per mandare a monte gli insensati progetti, dispose buona guardia al confine e convinse i capi del movimento della vanità dei loro sforzi.
Il 13 settembre un certo Enrico Caporali attentò alla vita di Crispi, colpendolo al viso con un grosso selce. Si disse che dall'istruttoria penale fosse risultato che il Caporali aveva frequentato le riunioni segrete tenute dall'Imbriani. Comunque, simili atti di violenza sono ordinariamente il frutto delle intense agitazioni politiche, e la campagna che da mesi si faceva contro Crispi a cagione del suo fermo governo verso gl'irredentisti, non fu di certo estranea all'attentato.
L'8 di ottobre in un banchetto offertogli a Firenze, Crispi fece dichiarazioni recise sull'irredentismo:

«Da qualche tempo, con parole seduttrici, una pericolosa tendenza cerca adescare l'animo delle popolazioni: quella che grida la rivendicazione delle terre italiane non unite al Regno. I nostri avversari vi cercan materia di agitazioni, ed è materia che può appassionare le menti, sia pur generose, ma deboli ed irriflessive.
Circondato, però, in apparenza, dalla calda poesia della Patria, l'Irredentismo non è meno oggi il più dannoso degli errori in Italia.»

E svolse questo tema dimostrando che il principio di nazionalità non poteva essere la norma esclusiva della politica italiana, - che disarmo e guerra, cui miravano gl'irredentisti, erano termini antitetici che avrebbero condotta l'Italia a perdere unità e libertà, - che l'alleanza con l'Austria, togliendoci dall'isolamento, ci garentì nel 1882 dall'Austria stessa e ci garentiva la pace; e invocando, infine, la fede ai trattati, accennò altresì alla «virtù del silenzio» imposta dalla politica che ci conveniva.
In Austria, mentre si apprezzava la politica ferma e leale di Crispi, non s'ignorava ch'egli, venuto dalla rivoluzione, era uomo d'idee tenaci, e che non avrebbe subordinato gl'interessi del suo paese al tornaconto austriaco. E lo stimavano e l'onoravano per la sua abilità, come pel suo patriottismo. In un telegramma del 14 agosto, l'ambasciatore de Launay facendo una relazione del soggiorno dell'imperatore Francesco Giuseppe a Berlino, riferiva di un colloquio col Segretario di Stato:

«Imperatore d'Austria dichiarò quanto sia soddisfatto che il nostro augusto Sovrano abbia un primo ministro di tanta vaglia. S. M. imperiale è convinta di tutta l'importanza dei vincoli con l'Italia pure pel mantenimento della pace. Il conte Kálnoky farà tutto il possibile riguardo al contegno da osservarsi verso gl'Italiani dell'Impero.»

Il Fremdenblatt, giornale officioso della Cancelleria austriaca, scriveva il 18 settembre in occasione dell'attentato Caporali:

«Il criminoso attentato alla persona del ministro presidente italiano, del quale per fortuna le conseguenze non sono gravi, diede occasione ad un numero straordinariamente grande di dimostrazioni di simpatia per l'illustre uomo di Stato. Sovrani e ministri attestarono al mondo colle parole di loro condoglianza quanta stima egli possegga all'estero. Nell'Italia stessa le principali rappresentanze civiche, le società, e persone private diedero a conoscere con telegrammi e con indirizzi di saper apprezzare condegnamente l'alto valore d'un Crispi, seguendo in ciò l'esempio dello stesso Re, le cui affettuose e ripetute domande sulla salute del ministro, onorano in egual misura il monarca ed il ministro stesso. Il giovane che lanciò il sasso contro del Crispi per ucciderlo, siccome egli medesimo confessa, ha con ciò provocato una corrente di simpatia, tale da mettere appunto in piena luce l'importanza del personaggio, ch'egli erasi prescelto a vittima. L'importanza di Crispi non è già riposta nelle sue eminenti doti politiche, o nella sua intelligenza, o nella presenza di spirito, o nella sua risolutezza ed infaticabile attività; no: essa è riposta in ciò, che egli tutte queste qualità le mise al servizio di una grande causa, che egli (e ciò appartiene senz'altro in prima linea al talento politico) è l'ardita guida su quella via, che egli stesso, uno fra i primi, riconobbe per la retta....
È questa l'epoca d'un'Italia veramente indipendente, vincolata a nessun patronato, che da vera grande potenza entra libera di se in una lega di grandi potenze. Il nome di Crispi è strettamente congiunto a questa evoluzione; più strettamente che quello d'alcun altro. Egli è il rappresentante dell'Italia novissima, e la sua posizione fra i personaggi politici d'Europa segna qual posto tenga l'Italia in Europa.»

Dal Diario di Crispi:

«1890 - 13 ottobre.

Verso le 11 ant. è venuto il barone de Bruck di ritorno in Roma dopo la villeggiatura.
Dichiarò aver visto due volte l'Imperatore Francesco Giuseppe, in luglio ed in questo mese prima della sua partenza per l'Italia.
L'Imperatore gli manifestò il desiderio di poter vedere spesso il nostro Re. Se il nostro Re lo invitasse alle manovre militari, l'Imperatore vi andrebbe volentieri. Queste visite potrebbero essere annuali, e ricambiarsi anche, andando il nostro Re alle manovre militari in Austria.
I Sovrani dovendo essere accompagnati dai rispettivi ministri, ne verrebbe che tra questi si renderebbero facili le comunicazioni e lo scambio delle idee. Grande sarebbe il beneficio che si otterrebbe da ciò e per le relazioni che diverrebbero cordiali fra i due monarchi e per la intimità che si costituirebbe fra i due ministri.
Venendo l'Imperatore alle manovre non intenderebbe aver soddisfatto all'obbligo della restituzione della visita al Re, dovuta dopo il viaggio di S. M. a Vienna nel 1881.
La restituzione della visita, lo comprende l'Imperatore, dovrebbe farsi a Roma. Egli non può farla nella posizione in cui si trova col Vaticano. S. M. I. e Reale se venisse in Roma non sarebbe ricevuto dal Papa; e il Monarca austriaco non potrebbe subire questo affronto: dovrebbe rompere col capo della Chiesa ed egli deve evitare un avvenimento di tanta importanza.
Francesco Giuseppe parlò di me al de Bruck con parole lusinghiere. Disse che il mio contegno, tenendo saldi i vincoli di alleanza fra i due Stati, assicura la pace e garantisce il benessere dei due popoli. L'Imperatore incaricò il de Bruck di portarmi i suoi saluti e le sue speciali felicitazioni.
Alle 7 di sera il de Bruck ritornò da me per darmi lettura di un dispaccio di Kálnoky, ricevuto nel pomeriggio. Il ministro si felicita del mio discorso di Firenze, dandone il più lusinghiero giudizio.»

Il testo del telegramma del conte Kálnoky è questo:

«Io prego Vostra Eccellenza di esprimere al signor Crispi le mie più fervide congratulazioni per il suo discorso di Firenze e di dirgli che egli, colla sua geniale e logicamente inconfutabile esposizione degli interessi politici d'Italia, ha dimostrato al suo Paese non solo, ma a tutta Europa la rettitudine [die Richtigkeit] della sua politica. La qual cosa giova all'Italia e alla sua situazione internazionale.
Il suo linguaggio coraggioso e da vero uomo di Stato può, dagli alleati d'Italia che hanno iscritto sulle loro bandiere il rispetto ai trattati ed ai principii monarchici, essere considerato come una nuova prova che la Triplice alleanza così necessaria alla pace d'Europa, poggia sopra una solida base e possiede nella prudente ed energica personalità del Crispi un custode fedele preparato ad ogni eventualità.»

La corrispondenza che segue dimostra l'interessamento che Crispi metteva nell'eliminare le cause di dissenso tra l'Italia e l'Austria, e il buon volere del conte Kàlnoky, e anche della Cancelleria germanica, nel secondarlo:

«Roma 3-9-1889.

Ambasciata Italiana


(Riservato). Prego Vostra Eccellenza far pratiche, adoperando tutta sua influenza personale, perchè il Governo Imperiale solleciti per quanto sta in lui l'azione della giustizia nell'affare Ulmann. Comunque debba essere la sentenza, è interesse politico dei due paesi che si termini presto un processo che rimane causa permanente di disagio, e che ad un dato momento potrebbe provocare nuovi serii imbarazzi. Vorrei Ella ottenesse prima di partire un impegno formale. Pregola telegrafarmi.

Crispi.»

«Vienna, 3-9-1889.

S. E. Crispi

Roma.

(Riservato). Appena ricevuto il telegramma di V. E. mi recai da Kálnoky e gli rinnovai l'istanza anche a nome di V. E. perchè facesse tutto ciò che dipendeva da lui per sollecitare esito del processo Ulmann. Feci notare a S. E. esser di grande interesse politico per i due Stati il tôr di mezzo questa causa permanente d'imbarazzo per ambedue. Kálnoky mi promise di fare passi solleciti presso il Ministero della Giustizia nel senso desiderato e di farmi conoscere l'esito che non mancherò di telegrafare.

Nigra.»

«Vienna, 10-9-1859.

S. E. Crispi

Roma.

(Riservato). Kálnoky mi ha detto che la istruzione relativa ad Ulmann è finita, e che il giudizio è ora deferito alla Magistratura ed al Giurì d'Innsbruck. Egli crede che il processo sarà terminato prima della riunione del nostro Parlamento e mi ha promesso che farà tutto ciò che dipende da lui per accelerarlo attivamente. Ho preso atto della sua promessa.

Nigra.»

«Vienna, 2-10-89,

S. E. Crispi

Roma.

(Segreto). Attenendomi istruzioni impartitemi dall'E. V. col telegramma di ieri, ho toccato oggi al conte Kálnoky colla dovuta prudenza e nel modo che ho creduto più confacente allo scopo, la questione dei recenti provvedimenti presi contro sudditi italiani a Trieste. Ricordando poscia a S. E. le promesse da esso fatte all'ambasciatore di S. M. l'ho pregato caldamente di volersi adoperare perchè il processo Ulmann fosse terminato al più presto possibile.
Il conte Kálnoky mi ha risposto che ignorava i particolari dei fatti a cui io avevo fatto allusione, e che avrebbe assunto presso il conte Taaffe le necessarie informazioni, ma mi ha soggiunto che da quanto aveva potuto apprendere dai giornali, quei provvedimenti riguardavano sudditi italiani che avrebbero preso parte al getto di petardi di cui si avrebbero le prove, e che tali provvedimenti non avevano certamente nulla di rigoroso. Osservai al conte Kálnoky che nell'interesse di tutti e due i paesi sarebbe però necessario di evitare ogni misura che potesse servire di pretesto a qualsiasi agitazione, ma S. E. mi replicò che detti provvedimenti non avevano un carattere vessatorio e che non costituivano altro che una semplice misura di sicurezza pubblica che incombe ad ogni Stato di prendere. In quanto al processo Ulmann il conte Kálnoky mi ripetè quanto aveva già fatto conoscere all'ambasciatore di S. M. e disse che esso aveva fatto tutto il possibile per accelerarne la soluzione e che era a tale proposito in trattative con il conte Taaffe. Avendo io accennato alla urgenza che tale processo fosse terminato prima di novembre, cioè prima della riunione del Parlamento italiano, S. E. mi rispose che non dubitava che esso sarebbe già terminato per quella data e che il ritardo attuale proveniva dalla solita procedura giudiziaria indispensabile.

Avarna.»

«Berlino, 3-10-89.

S. E. Crispi

Roma.

(Riservato). Il Sottosegretario di Stato scrisse ieri al principe Reuss di parlare al conte Kálnoky nel senso del telegramma di V. E. del 1° ottobre riguardo al contegno delle autorità austro-ungariche a Trieste. Non occorre notare che condizione essenziale di riuscita di tale entratura sia di osservare segreto il più assoluto sull'istruzione trasmessa dal Governo imperiale al suo rappresentante a Vienna.

Launay.»

«Vienna, 22-10-1889.

S. E. Crispi

Roma.

Nel ricevimento ebdomadario di oggi ho fatto presso S. E. il conte Kálnoky nuove insistenze nel senso delle istruzioni impartitemi dall'E. V. con telegramma del 12 relativamente processo Ulmann. Egli ha detto che s'era anche recentemente occupato di questo affare, che ne aveva parlato col Ministro della Giustizia, perchè si adoperasse per sollecitare al più presto la soluzione del medesimo, e che sperava sempre che avrebbe potuto essere terminato prima della fine del mese. Nel caso contrario, egli ha aggiunto che si sarebbe provveduto perchè si riunisse per questo processo una sessione straordinaria.

Avarna.»

«Vienna, 27-10-1889.

S. E. Crispi

Roma.

Kálnoky mi ha pregato oggi di recarmi da lui per parlarmi del telegramma di V. E. da me comunicato ieri a Szögyeny relativo al processo Ulmann. Egli ha detto che, malgrado desiderio che qui si ha di corrispondere ai desideri di Lei, non era possibile accordare al R. Console la facoltà di assistere, nella sua qualità ufficiale, a quel processo, giacchè la concessione di tale facoltà, che non venne mai data ad alcun console estero, era contraria alla legislazione austriaca. Se questa fosse ora accordata al R. Console, il Governo sarebbe costretto concederla pure ai consoli degli altri Stati, ciò che non potrebbe ammettere. Feci nuovamente osservare a Kálnoky, che simile facoltà era però accordata ai consoli esteri in Italia e che sarebbe stato opportuno per i legami d'amicizia esistenti fra i due governi, essa fosse concessa ai RR. Consoli in Austria-Ungheria; ma il Ministro rispose che ignorava essa fosse stata accordata ai consoli austro-ungarici in Italia e da quanto a lui risultava essi non ne avevano almeno fatto mai uso. Del resto, egli aggiunse che il Ministro di Grazia e Giustizia austriaco erasi già pronunziato contrariamente a questa concessione nel progetto di dichiarazione (di cui mi diede lettura e che verrà in seguito comunicato alla R. Ambasciata) da esso preparato in contrapposto a quello del R. Governo relativamente all'interpretazione dell'articolo 16 della Convenzione consolare del 1874. Kálnoky mi pregò infine d'esprimere a V. E. suo rammarico che la legislazione austriaca impedisse al Governo Imperiale di soddisfare in questa occasione la di Lei domanda.

Avarna.»

«Berlino, 7-11-1889.

S. E. Crispi

Roma.

(Riservato). Prima di ricevere telegramma di V. E. del 5 corr. avevo domandato per ben due volte a questa Cancelleria imperiale quale fosse il risultato delle istruzioni trasmesse al principe di Reuss in conseguenza del desiderio espresso nel telegramma di V. E. del 1.° ottobre. Mi fu risposto che era in corso a Trieste una inchiesta la quale avrebbe già messo in rilievo seri gravami contro Ulmann ed altri imputati politici di quella città: mi fu d'altronde assicurato che verso l'epoca della gita dell'Imperatore Guglielmo a Monza, furono da noi esposti gli inconvenienti che il giudizio non avesse luogo prima della riunione del nostro Parlamento. Supponeva che di ciò fosse stata fatta menzione nei colloqui di V. E. col conte di Bismarck. Mi feci premura di parlare colla voluta prudenza al sotto-segretario di Stato e d'insistere nel senso del telegramma giuntomi ieri sera; egli ne riferirà a Friedrichsruhe, il Principe Cancelliere non essendo aspettato a Berlino che verso metà di questo mese. Intanto il S. S. di Stato non taceva quanto riuscirebbe malagevole di tornare con Kálnoky sopra argomento così delicato e che sta fuori della sua competenza. Il Gabinetto di Berlino per quanto gli spetta evita di sporgere querela sia in Austria-Ungheria che in Russia per certe amministrazioni che sicuramente non procedono coi dovuti riguardi per gli interessi dei tedeschi nei due Imperi.

Launay.»

«Vienna, 7-11-1889.

S. E. Crispi

Roma.

Kálnoky non dovendo tornare a Vienna che domani, ho comunicato stamane a Szögyeny telegramma di V. E. in data di ieri, relativo processo Ulmann. Ho insistito presso lui sugli inconvenienti risultanti dal ritardo frapposto nel terminare quel processo, specialmente in vista della prossima riunione del Parlamento italiano. Egli mi ha risposto che avrebbe riferito a Kálnoky, appena fosse tornato, la mia comunicazione, e che oggi stesso avrebbe parlato a Taaffe perchè si adoperasse altrimenti per fare dare un pronto compimento al giudizio, che egli disse non essere infatti ancora cominciato, malgrado le promesse state fatte al Ministero Imperiale e Reale. Szögyeny ha aggiunto che si rendeva perfettamente conto degli inconvenienti da me accennati, e che per ciò qui si metteva ogni impegno per accelerare la soluzione del processo, che sperava avrebbe potuto essere terminato prima della riunione del nostro Parlamento.
Appena avrò potuto vedere Kálnoky, non mancherò di far nuove insistenze nel senso delle istruzioni di Lei.

Avarna.»

«Vienna, 10-11-1889.

S. E. Crispi

Roma.

Ho profittato dell'udienza datami oggi da Kálnoky per insistere nuovamente presso di lui perchè il processo Ulmann fosse terminato prima della riunione del Parlamento italiano. Egli mi ha risposto che, subito dopo il suo ritorno da Friedrichsruhe, aveva in questo senso adoperato tutta la sua influenza personale presso il Ministro di Giustizia, il quale però avevagli rappresentato le difficoltà che tuttora si opponevano a che il processo potesse essere terminato nel termine desiderato, giacchè era necessario procedere alla traduzione dall'italiano al tedesco di tutti gli atti voluminosi del processo. In tale stato di cose Kálnoky mi ha pregato di annunziare all'E. V. che egli per far cosa gradita e per togliere di mezzo questa causa d'imbarazzi tra i due Governi aveva proposto che non si desse più seguito al processo Ulmann e che questi fosse rinviato in Italia. Egli sperava che l'Imperatore avrebbe acconsentito a tale sua proposta.

Avarna.»

«Vienna, 16-11-1889.

S. E. Crispi

Roma.

(Personale). Kálnoky mi annunziò oggi che fedele alla promessa fattami e tenendo conto speciale delle istanze di V. E. di abbandonare il processo contro Ulmann e di espellerlo in Italia, S. M. diede il suo consenso e l'ordine relativo è stato impartito. Ho ringraziato in di Lei nome il Conte Kálnoky di questo provvedimento che fa testimonianza di moderazione governo imperiale e di deferenza verso il governo del Re.

Nigra.»

«Come fulmine a ciel sereno - annunziava il 19 luglio 1890 il giornale slavo Narodni List di Zara - è scoppiata la notizia che il governo ha sciolto la Società Pro Patria la quale aveva la sua sede a Trento e diramazioni in tutte le terre «irredente» della nazione italiana in Austria.... Si racconta che nell'ultimo Congresso tenuto a Trento, inter-pocula se ne intesero tante e tante che obbligarono il governo allo scioglimento della Società. Benedetto vino che compromise Noè....»

La notizia che con gioia non dissimulata dava l'organo dei croati, era vera. I motivi del decreto di scioglimento erano questi che trascriviamo testualmente:

«La Società non politica Pro Patria la quale, a mezzo di gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al Litorale ed alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29 giugno 1890 in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dr. Dordi e fra vivi applausi ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via telegrafica alla Società Dante Alighieri in Roma, nonchè al presidente della stessa, Bonghi, la piena adesione e le più sincere felicitazioni;
Essendo notorio che la Società Dante Alighieri in Roma osserva un contegno ostile alla monarchia austro-ungarica ed emergendo da ripetute comunicazioni pubbliche, portate a generale conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le aspirazioni di quella Società sono rivolte direttamente contro l'interesse dello Stato austriaco, la Società Pro Patria, col summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre agli scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima linea, mira anche ad altri scopi e precisamente a scopi politici, i quali secondo le circostanze potrebbero cozzare con le disposizioni del codice penale;
Questa tendenza sleale ed anti-patriottica della Società Pro Patria si è palesata anche in modo indiretto col fatto, che il comitato, costituito per l'organizzazione di festività in occasione del Congresso generale della Società Pro Patria in Trento, a capo del quale era il presidente del gruppo locale di Trento, l'avvocato Carlo Dr. Dordi, tralasciò di imbandierare la città, come era progettato ed anche notificato all'Autorità, in seguito al decreto di quell'i. r. Commissario di polizia, a tenore del quale l'imbandieramento non venne concesso che a condizione che contemporaneamente venisse pure inalberata in posizione distinta una bandiera dai colori dell'impero austriaco....»

Lo scioglimento della Pro Patria di una associazione cioè che si proponeva fini non politici, ma di cultura, era stato da parecchi mesi deciso, da quando, in aprile, l'idea di un monumento a Dante in Trento veniva accolta e suffragata in Italia da numerose sottoscrizioni come affermazione d'italianità. La pubblica sottoscrizione per l'erezione della statua era stata permessa in Austria dall'Imperatore; in Italia, quando ad essa vollero partecipare Consigli Comunali e provinciali con esplicite deliberazioni politiche, fu vietata da Crispi. Ma ciò non bastò al governo austriaco, il quale credette opportuno di colpire il sentimento italiano, come se questo potesse mortificarsi o distruggersi  con una misura di polizia. Il pretesto non era neppure ben scelto, poichè non era vero che nell'incriminato e non trasmesso telegramma alla società Dante Alighieri, allora costituitasi, il congresso della Pro Patria avesse fatto «piena adesione», mentre invece aveva soltanto espresso «la propria soddisfazione per la costituzione» di quella Società. Ed era anche infondato che la Dante Alighieri «osservasse un contegno ostile alla monarchia austro-ungarica» e che le aspirazioni di essa fossero «rivolte direttamente contro lo Stato austriaco». Il secondo motivo del decreto era anch'esso insussistente, perchè a Trento, in occasione del congresso, non era stata esclusa la bandiera dell'impero essendosi dal Comitato locale - che nulla poi aveva da fare con la presidenza della Società Pro Patria - rinunziato all'imbandieramento della città.
La Dante Alighieri, chiamata in causa nel decreto dell'i. r. Ministero dell'interno, protestò con la seguente lettera diretta a Crispi, quale Presidente del Consiglio e ministro degli affari esteri:

«Eccellenza,

Nel decreto di scioglimento della Società Pro Patria, dal Governo austriaco è dato a prova della condotta sleale e antipatriottica di essa - così dice - il seguente principale motivo:
«La Società non politica Pro Patria, la quale, a mezzo di gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al litorale ed alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29 giugno 1890 in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dott. Dordi e fra vivi applausi, ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via telegrafica alla Società Dante Alighieri in Roma, nonchè al presidente della stessa. Bonghi, la piena adesione e le più sincere felicitazioni;
«Essendo notorio che la Società Dante Alighieri in Roma osserva un contegno ostile alla monarchia austroungarica, ed emergendo da ripetute comunicazioni pubbliche portate a generale conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le aspirazioni di quella Società sono rivolte direttamente contro l'interesse dello Stato austriaco, la Società Pro Patria col summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre agli scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima linea, mira anche ad altri scopi, e precisamente a scopi politici, i quali, secondo le circostanze, potrebbero cozzare con le disposizioni del codice penale».
Il Consiglio centrale della Società Dante Alighieri non può scegliere migliore testimone della erroneità patente di tali asserzioni che il Presidente dei ministri del Regno d'Italia.
La Società Dante Alighieri non si è tenuta segreta; ha operato e discorso alla luce del giorno; ha comunicati i suoi intendimenti al Governo e dal Governo ha ricevuto conforto e aiuto.
Ciò basta a provare che nessuno dei fini che le attribuisce il decreto austriaco le si può legittimamente attribuire; ed è obbligo, non diciamo soltanto nostro, ma del nostro stesso Governo, di protestare contro asserzioni che impugnano la lealtà nostra e la sua.
La Società Dante Alighieri non si è proposta di esercitare altre influenze in ogni paese dove vivano italiani, se non quelle che Società della stessa natura esercitano dappertutto, senza nessun sospetto di adoperarsi ad altro che a mantenere vivaci e fecondi alcuni vincoli intellettuali, morali e storici.
In Austria stessa i Tedeschi e gli Slavi fuori dei suoi confini le esercitano rispetto a' Tedeschi e agli Slavi dentro i suoi confini. Perchè solo agli Italiani, che non sono retti dal Governo austriaco, dovrebbe esser vietato di esercitarle rispetto a quelli che sono retti da esso? Gioverebbe al Governo austriaco stesso mostrare al mondo che solo gli Italiani considera come nemici, e dove per gli altri popoli il Governo austro-ungarico è monarchia, solo per essi non schiva di parere tirannide?
Noi non entriamo a giudicare l'atto altamente rincrescevole per il quale è stata sciolta la Società Pro Patria, che aveva comuni i fini con noi, fini supremamente civili, razionali e degni di osservanza e rispetto. Noi sappiamo che non potremmo dirigerci al nostro Governo se intendessimo chiedergli che esso comunicasse all'austriaco un nostro giudizio e suo. La libertà e l'autonomia dei governi, o bene o male usate, sono un principio supremo di condotta per tutti.
Questo soltanto ci preme di accertare: che cotesto atto di scioglimento di una Società tanto benemerita, fin dove presume di avere avuto motivo dalle sue relazioni colla nostra, da telegrammi supposti che non abbiamo mai ricevuti, da giornali italiani dei quali nessuno è organo nostro, e da simili altre accuse in tutto fantastiche, non ha in realtà motivo di sorta o almeno nessun motivo che si confessi apertamente.
Sicuri che Ella vorrà tener conto di questa nostra protesta e usarne nei modi che Ella creda meglio opportuni, le attestiamo il nostro ossequio.
Dell'Eccellenza Vostra

Dev.mi

I Membri presenti in Roma del Consiglio Centrale della Società Dante Alighieri: Ruggero Bonghi, deputato al Parlamento, presidente - G. Solimbergo, deputato al Parlamento, vicepresidente - Giulio Bianchi, deputato al Parlamento - Ferdinando Martini, deputato al Parlamento - Avvocato Pietro Pietri - Dottor Gaetano Vitali, segretario.»

L'azione diplomatica che in quella circostanza spiegò l'onorevole Crispi risulta dai seguenti documenti:

«[Telegramma]

Conte Nigra ambasciatore d'Italia

Vienna.

Roma, 22 luglio 1890.

(Riservato-personale). Che il conte Taaffe abbia sciolto il Pro Patria, nulla ho da obbiettare, perchè trattasi di un atto interno di governo. Quello che dovrò osservare a V. E. è che il ministro austriaco ha commesso due gravissimi errori nella sua ordinanza: il primo nell'aver asserito esser stato spedito dal presidente del Congresso un telegramma alla Società Dante Alighieri, il che non fu; il secondo, nell'aver detto che questa abbia scopi politici ed irredentisti.
La Dante Alighieri è un'associazione meramente letteraria, e basta conoscere i nomi del suo Presidente e dei suoi socii per convincersi come essi sian di opinioni temperate e come nulla farebbero che potesse suscitare al Governo italiano imbarazzi internazionali.
Non posso intanto nasconderle che l'ordinanza austriaca ha prodotto una dolorosa impressione negli elementi più moderati del nostro paese, i quali si domandano se questo sia il modo col quale si possa mantenere tra l'Italia e l'impero vicino quell'alleanza che tanto ci è necessaria.
Qui tutti sospettano che il Taaffe, devoto al partito cattolico, sia contrario alla triplice alleanza e che vedrebbe di buon occhio lo scioglimento della medesima.
Voglia tener per sè queste informazioni e se ne serva col conte Kálnoky qualora lo crederà opportuno.

Crispi.»

«S. E. Conte Nigra

Vienna.

Roma, 24 luglio 1890.

Signor Ambasciatore,

La Luogotenenza di Trento ha sciolto la Società Pro Patria. Il Governo del Re nulla ha da dire circa un atto di amministrazione interna che in sè stesso sfugge al suo giudizio, ciascuno Stato essendo padrone di governarsi con i criteri che gli sembrano più opportuni.
Debbo però affermare nell'interesse dei rapporti internazionali, che la notizia del fatto ha prodotto nel Regno la più penosa impressione, sovratutto per i motivi che dicesi abbiano ispirato il decreto di scioglimento.
In questo, difatti, si dichiara che due sarebbero le ragioni dell'atto luogotenenziale. La prima è che il Presidente del Congresso tenutosi a Trento il 29 giugno avrebbe inviato alla Società italiana Dante Alighieri, per mezzo del telegrafo, la sua piena adesione e le più sincere felicitazioni per l'opera della Società medesima. La seconda sarebbe, che la Società Dante Alighieri osserverebbe un contegno ostile alla Monarchia Austro-Ungarica e che le aspirazioni di detta società sarebbero rivolte direttamente contro gli interessi dell'Impero.
Or mi permetto di osservare, Signor Ambasciatore. che codeste considerazioni sono prive di fondamento. Anzitutto la Società Dante Alighieri presieduta dall'Onorevole Ruggero Bonghi, non ricevette alcun telegramma dal Congresso Trentino e per conseguenza la Luogotenenza imperiale e reale è stata male informata. È deplorevole che per un atto di tanta importanza s'invochino a motivo due notizie false.
Passo a ciò che più giova conoscere e che interessa un'associazione nazionale, quale è la Società Dante Alighieri.
La Società Dante Alighieri non ha scopi politici. I soci che la compongono appartengono al partito moderato e non vanno confusi - sarebbero i primi a sdegnarsene - con coloro i quali fanno professione d'irredentismo. La Società Dante Alighieri si propone il culto della lingua italiana in tutte le regioni in cui questa è parlata e non oserebbe far cosa che potesse influire sulla politica internazionale del Governo o pregiudicare l'azione di questo all'estero. Le relazioni della Società Dante Alighieri col Governo sono tali e così notorie che ritengo come un'offesa fatta a noi ogni imputazione che le si possa fare di tendenze faziose, o di atti che in qualunque modo o misura potessero ledere le buone relazioni che l'Italia mantiene coll'Impero vicino.
Voglio sperare che il Conte Taaffe, presa notizia delle cose come realmente sono avvenute, saprà correggere l'opera della imperiale e reale Luogotenenza di Trento. Non intendiamo con ciò influire sugli atti amministrativi del governo austriaco, ma solamente osservare che a nessuno è dato, ancorchè pubblico funzionario, offendere gratuitamente con ingiustificate imputazioni un governo amico. Il contegno del Luogotenente non è certamente di tal natura da mantenere quell'accordo che noi cerchiamo e ci sforziamo di tener saldo, a costo anche della nostra popolarità.
Allorchè io seppi che a Trento volevasi innalzare una statua a Dante e che il Governo austriaco aveva permesso non solo questo omaggio all'altissimo poeta, ma anche l'istituzione di una Società che tende a favorire il culto della lingua italiana, me ne compiacqui e rallegrai, vedendo in quell'atto di buona politica un fatto reale che alla nazionalità italiana guarentiva nel poliglotta Impero gli stessi diritti che sono guarentiti ai Tedeschi, agli Slavi, agli Ungheresi, ai Boemi, ai Rumeni ed a tutti gli altri popoli che fanno parte dell'Impero.
Ora sono dolentissimo di dover constatare le condizioni difficili che vengono fatte al Ministero Italiano in questa occasione. Finchè la fiaccola dell'Irredentismo si trovava accesa dai radicali, io non li temevo. Ma l'atto ultimo, il quale ravviva la memoria di altri atti non pochi che ogni tanto rivelano l'intolleranza di codesto governo, basterà, temo assai, a turbare o per lo meno a raffreddare la gente moderata e tranquilla, sul cui appoggio il governo sapeva di potere sino ad ora contare.
Non so se Ella riuscirà a far comprendere tutto ciò al Governo austro-ungarico e se il Conte Kálnoky dispone di sufficiente autorità per richiamare il suo Collega dell'Interno a migliori consigli. Dirò soltanto a Vostra Eccellenza come l'alleanza con l'Austria, che solo io potevo difendere, avrebbe contro di sè un maggior numero di nemici, e che non so se al 1892 o il mio successore od io avremmo la forza necessaria a rinnovarla.
Comprendo che il Conte Taaffe, che è cattolico convinto, potrebbe venire dalle ispirazioni del Vaticano indotto ad atti che lo obbligassero a combattere l'alleanza delle potenze centrali. Però al di sopra di lui sta S. M. l'Imperatore e Re, che si distingue per tanto buon senso e per tanta esperienza di governo, ed all'Augusto Sovrano non può sfuggire la considerazione che l'opera nostra, la quale è utile alla Monarchia, è resa oltremodo difficile se il suo Ministro non agisce d'accordo con noi per raggiungere lo scopo cui tutti miriamo.
Con ciò fo seguito al mio telegramma dei 22 sera. Le accludo copia della protesta direttami il 21 luglio dalla Società Dante Alighieri, e desidero che Ella si ispiri alle considerazioni che sono contenute in questa lettera per discorrere del delicato argomento con quelle riserve ed in quei modi che crederà più opportuni, avvertendo sempre che è mio intendimento evitare ogni causa di dissapori col Governo Imperiale e Reale.
Gradisca, signor Conte, gli atti della mia alta considerazione.

Crispi.»

S. E. Crispi

Roma.


Vienna, 27 luglio 1890,

Signor Presidente,

Mi pregio di segnar ricevimento della lettera che V. E. mi fece l'onore di dirigermi il 24 corr. relativamente allo scioglimento della Società Pro Patria la quale fa seguito al telegramma ch'Ella mi diresse il 22 corrente, ricevuto il 23, e redatto nel medesimo senso; nonchè della copia di lettera annessa, diretta a V. E. dal Consiglio Centrale della Società Dante Alighieri.
Al suo telegramma ebbi l'onore di rispondere col mio telegramma del 25 corrente che mi pregio di confermare e di qui trascrivere:
(Riservato). «Ringrazio V. E. della informazione che mi dà rispetto alla Soc. Dante Alighieri. Essa sa che il Governo Austro-Ungarico non ammette alcuna ingerenza estera per ciò che riguarda i sudditi italiani dell'Austria. Io non posso perciò parlare della soluzione della Società Pro Patria a Kálnoky, tanto meno dopo che un telegramma da Roma inserito nella Neue Freie Presse annunzia che io fui incaricato di far passi in proposito. Ora mi permetta di rilevare un'espressione del suo telegramma. Ella sembra credere che la dissoluzione sia stata fatta per sentimenti clericali del Ministero. La quistione non è clericale, giacchè nella società disciolta vi erano parecchi preti e d'altra parte fra quelli che applaudirono alla dissoluzione vi è la stampa liberale tedesca dell'Austria. Il fatto è che la dissoluzione è dovuta a certe imprudenze della detta società, a proposito delle quali il Governo Austro-Ungarico non ammette che noi siamo meglio informati di lui, trattandosi di società esistente in Austria».
V. E. mi rispondeva col telegramma seguente:

«Roma, 26 luglio 1890.

(Riservato). Non ebbi mai in mente ch'Ella reclamasse presso codesto Governo contro il Decreto Pro Patria ed i giornali che lo scrissero fantasticarono. Nella mia lettera del 24 che non tarderà a ricevere, le ho dichiarato che ogni Governo entro i confini dello Stato ha pienissimo diritto e nessuno può ingerirsi negli atti della sua interna amministrazione. Lo scopo per il quale a V. E. mi diressi col telegramma e con la lettera fu d'informarla delle impressioni sentite in Italia dal decreto per lo scioglimento del Pro Patria e del contegno e degli scopi dell'associazione italiana Dante Alighieri, che non mira alle provincie italiane dell'Austria, ma estende la sua azione in tutti i paesi nei quali sono italiani, questa istituzione completa l'opera iniziata dal Governo coll'istituzione delle scuole italiane all'Estero».
Confermandole che io non posso fare dello scioglimento della Società Pro Patria e delle circostanze in cui si produsse, l'oggetto di una conversazione col conte Kálnoky, mi riservo però la prima volta che avrò occasione di vedere il conte Taaffe, senza entrare nel merito della questione, di fargli notare l'errore di fatto in cui cadde nelle considerazioni che precedono il decreto relativamente alle comunicazioni della Società Pro Patria con quella della Dante Alighieri di Roma, e intorno agli scopi di quest'ultima. Ma quest'errore è già stato rilevato da una parte della stampa, ed il miglior modo di metterlo in rilievo è quello di dare la maggior pubblicità possibile alla lettera che in proposito fu diretta all'E. V. dal Consiglio Centrale della Società Dante Alighieri in Roma.
Per quanto mi risulta da ogni fonte il Vaticano ha potuto bensì compiacersi dell'accaduto come di cosa che possa nuocere alle buone relazioni tra i due paesi, ma non ebbe nessuna parte nella determinazione di cui si tratta. La questione, ripeto, non è clericale, ma essenzialmente politica ed irredentista. L'E. V. tocca, nella sua lettera, una questione assai grave, quella della continuazione dell'alleanza dell'Italia all'Austria-Ungheria, che sarebbe, a di lei giudizio, resa più difficile dalla cattiva impressione che l'atto di cui si tratta fece in Italia e si può aggiungere dall'impressione non meno cattiva che produssero in Austria-Ungheria alcuni atti della Società Pro Patria. Non è certo intenzione di V. E. come non è la mia, di trattare una simile questione per incidenza. Mi limito soltanto a ricordare qui ciò che a Lei è ben noto, cioè, che tale alleanza, la quale del resto non fu fatta da Lei nè da me, fu consigliata all'Italia da circostanze imperiose che ignoro se siano modificate, che fu chiesta dall'Italia, non dall'Austria-Ungheria; che fu mantenuta con lealtà da ambe le parti, e suppongo con reciproco vantaggio. Spetterà alla saviezza dei Governi che presiederanno più tardi alla direzione politica dei due Stati lo esaminare se convenga rinnovarla nel 1892.
Gradisca, signor presidente, i sensi della mia alta considerazione.

Nigra.»

«S. E. Conte Nigra

Vienna.

Roma, 31 luglio 1890.

Signor Conte,

(Personale). Ho la sua del 27.
Nulla ho da aggiungere alla mia lettera del 24 ed ai telegrammi del 22 e del 26. Sento quanto ella mi scrive nella sua del 27, e sul decreto per lo scioglimento del Pro Patria ritengo inutile per ora ogni ulteriore discussione.
Mi permetta, però, che io spenda poche parole sovra un argomento che scivolò quasi per incidente nella nostra corrispondenza e che è della massima importanza.
Io non voglio riandare le origini del trattato d'alleanza. Ammetto che se ne deve all'Italia l'iniziativa. Posso però giudicare la situazione quale essa è, ed in questo giova alle due parti parlarne senza preconcetti e con vero disinteresse.
Io sono di parere che l'alleanza sia utile all'Italia ed all'Austria.
L'Italia deve aver sicure le sue frontiere. Non potendo pel momento aver amica la Francia, ed è una sventura, deve ad ogni costo tenersi stretta all'Austria, e non comprometterne l'amicizia.
Se l'Austria ci sfuggisse, si alleerebbe subito alla Francia in difesa del Papa. Le conseguenze sarebbero incalcolabili.
L'Austria alla sua volta ha bisogno dell'Italia, la quale, in certe occasioni, potrebbe renderle segnalati servizii. L'Austria, sicura alle Alpi e nell'Adriatico, avrebbe piena libertà d'azione verso l'Oriente, dove sono i suoi veri interessi e donde può essere assalita dai suoi veri nemici.
L'Austria è quella che è, e se volesse modificarsi correrebbe il rischio di andare in rovina. Per vivere però è obbligata a rispettare tutte le nazionalità racchiuse entro i confini dell'Impero.
Dalla parte nostra dirò che l'Italia è interessata perchè l'Austria non si sfasci. Per noi essa è una grande barricata di fronte ad eventuali e più pericolosi avversarli, che giova tener lontani dalle nostre frontiere.
Posto ciò, tra l'Italia e l'Austria non ci dovrebbero essere quistioni. Quella dei confini sarà, un giorno o l'altro, risoluta amichevolmente.
Vuolsi intanto osservare che in Italia l'alleanza coll'Austria non è simpatica, essendo pur troppo recenti i ricordi delle lotte nazionali e del mal governo imperiale.
Necessario, quindi, che l'Austria faccia dimenticare il suo passato, e che negli atti di governo eviti di ferire il sentimento di nazionalità, che è ancora vivo negli italiani.
Queste considerazioni, signor Conte, le proveranno che le mie opinioni sono abbastanza concilianti, e che quando io chiedo qualche cosa da cotesto Governo, lo fo sempre nell'interesse dei due paesi.

Dev.mo suo
F. Crispi.»

S. E. Crispi

Roma.


Vienna, 7 agosto 1890.

Signor Presidente,

(Personale). Ho il suo autografo del 31 luglio e ne La ringrazio. Il suo linguaggio è da uomo di Stato, e la sua lettera dalla prima all'ultima sillaba è oro di coppella. Ella stima l'alleanza utile all'Italia e all'Austria. Posso assicurarla che tale è pure l'opinione di Kálnoky e di tutto il Ministero austriaco. Questi Ministri si rendono perfettamente ragione della cattiva impressione che produce in Italia la dissoluzione della Società Pro Patria. Ma fra i due mali essi preferiscono quello che credono il minore per loro. Preferiscono, cioè, che la cattiva  impressione si produca in Italia, anzichè in Austria. Vogliono l'alleanza e sono pronti a eseguirne fedelmente gli obblighi, ma a condizione che non si voglia imporre l'irredentismo in casa loro. La situazione è tale; e nessun Ambasciatore o Ministro può cambiarla.
Certo, sarebbe desiderabile che ai sudditi Italiani dell'Austria fosse concessa una posizione eguale nel fatto a quella accordata alle altre nazionalità dell'Impero. Ma per ottener ciò converrebbe che gl'Italiani sudditi dell'Austria si mettessero dal loro canto nella situazione delle altre nazionalità, ciò che non fanno. Bisognerebbe, cioè, che rinunciassero all'irredentismo.
Invece non lasciano passare occasione senza affermarlo; e la Società Pro Patria spinse il suo zelo fino ad una dimostrazione contro la bandiera austriaca. Io non mi arbitro di giudicarli. Accenno il fatto. E constato, una volta di più, che ogni indizio d'un'immistione da parte del Governo italiano in questi affari, peggiora, invece di migliorarla, la situazione degl'Italiani sudditi dell'Austria. E viceversa, ogni atto di questi che miri all'Italia, rende più difficile la situazione del Governo italiano verso l'Austria-Ungheria.
E qui potrei terminare la mia lettera, attesochè in sostanza Ella comprende perfettamente la situazione, e sa che non c'è da insisterci.
Ma non posso dispensarmi dal ripeterle qualche altra considerazione, già toccata in precedente corrispondenza. Ella sembra credere che le disposizioni contro il Pro Patria si debbano in parte al clericalismo del Conte Taaffe. Ora mi preme il levarla da questo errore. Anzitutto in questo paese sono tutti, più o meno, clericali. Ma nel caso presente il clericalismo non ha nulla che fare. Se invece del Conte Taaffe, il Ministro dell'Interno fosse il più liberale degli Ebrei di Vienna, la situazione non cambierebbe d'un punto solo intorno a questo affare. Ella ha visto gli applausi con cui la dissoluzione fu accolta dalla stampa liberale viennese. Non è dunque questione di clericalismo. Ma bensì questione politica irredentista. Per carità. La supplico di non vedere i Gesuiti là dove proprio non ci sono.
Mi preme inoltre di ben constatare un altro punto. Io non vorrei ch'Ella credesse che io rifugga dal fare a Kálnoky o agli altri Ministri imperiali comunicazioni sgradevoli. Abbia la bontà di persuadersi che io da questi signori non ho nulla, ma proprio nulla, da sperare, nè da chiedere, nè da temere; e che non tengo punto a restar qui. Nella posizione mia posso dire molto liberamente a loro, come a Lei, come ad ognuno, quello che penso, anche quando ciò che penso possa tornar sgradevole. Ma non amo dar colpi di spada nell'acqua e far passi non solo inutili, ma dannosi, tali, cioè, da raffreddare senza profitto le relazioni fra i due Stati.
Ancora una parola sull'alleanza coll'Austria, ch'Ella mi scrive non esser popolare in Italia. Anzitutto io penso ch'Ella renderà a Kálnoky la debita giustizia. In ogni questione che finora si presentò, il concorso dell'Austria-Ungheria non ci fece mai difetto, e fu talora più pronto e più largo di quello della Germania.
Deploro che quest'alleanza non sia popolare presso di noi, e che non se ne comprenda la necessità. Le mie simpatie per la Francia datano da un pezzo e non le ho mai celate; e, certo, se avessi visto la possibilità di un'alleanza tra la Francia e l'Italia, io non sarei ora qui. Ma anche quando la direzione delle relazioni fra l'Italia e la Francia era in mano d'uomini notoriamente amici alla Francia, come Cairoli e Cialdini, non solo non fu possibile un'intesa fra i due Governi, ma ci fu lo schiaffo di Tunisi.
Se, ciò non ostante, non vi è simpatia fra noi per l'alleanza Austro-Italica, questo prova che il nostro povero paese non è ancora stato abbastanza miserabile, e che ha bisogno di altre lezioni più disastrose e più umilianti. Si scosti dall'alleanza attuale, e le avrà. All'Italia nella situazione presente dell'Europa si presentano tre alternative:
O l'alleanza attuale, con tutti i suoi pesi, ma con la sicurtà; o in ginocchio dinanzi alla Francia; o diventare un grande Belgio, senza l'industria. E ancora, non è ben certo che il grande Belgio, mercè le divisioni e le amputazioni, non diventasse piccolo.
Mi creda, signor Presidente

Suo devotissimo
Nigra.»

«Il R. Console Generale d'Italia a Trieste a Crispi
Roma.

Trieste, 3 agosto 1890.

Signor Ministro,

Anzichè riferire e necessariamente ripetere le notizie già pubblicate e diffuse dalla stampa, mi sembra di dover piuttosto riassumere e considerare i fatti di maggior rilievo e d'interesse per il R. Governo.
L'ordinanza ministeriale che pronunciò la dissoluzione del Pro Patria è stata dappertutto e con estremo rigore applicata ed eseguita.
Chiuse le scuole e gli asili d'infanzia dipendenti dalla Società, il Governo con una lunga serie di provvedimenti che i più giudicano errori, se ne appropriò i documenti ed i fondi: vietò le collette, proibì ogni pubblica adunanza e manifestazione e tutti quasi sequestrò i giornali del Regno.
Ma queste severe misure non fecero che accrescere i malumori nazionali ed inasprire una situazione già per se stessa difficile, nè scevra di pericoli: offesero ma non sgominarono gli italiani; dispiacquero ai tedeschi, inquieti della parte d'influenza che lo Stato concede agli Slavi; nè i Croati e Sloveni contentarono, perchè parvero miti troppo e insufficienti.
Impensierisce per vero il loro contegno e l'aggressivo linguaggio della stampa slava la quale fin d'ora proclama il proprio trionfo e la rovina di nostra nazionalità.
Rassicura invece il calmo e dignitoso atteggiamento degli italiani regnicoli e non regnicoli.
I cittadini del Regno, infatti, provano tuttodì d'intendere non solo le esigenze della politica internazionale, ma di sentire quanto importi, nell'interesse dei connazionali soggetti all'Austria, di starsene assolutamente da parte; i non regnicoli hanno saputo resistere al partito che tentò trascinarli più in là del dovere, e non colle dimostrazioni nè con clamorose proteste, ma servendosi dei mezzi legali forniti dalla costituzione, seriamente rivendicano l'uso dei diritti, che la stessa costituzione loro consente.
A Trieste frattanto di giorno in giorno si aspettano le decisioni del supremo Tribunale dell'Impero, e tali si sperano da permettere che il soppresso sodalizio su altre basi risorga.
Nell'Istria, dove sono più numerose che altrove le scuole italiane, l'agitazione è maggiore: e le fiere parole pronunciate dal Podestà di Rovigno nell'ultimo recente Congresso della Società Politica Istriana (V. E. potrà leggerne il testo nell'accluso foglio) tutta ne rilevano la gravità e l'importanza.
In Dalmazia, e secondo risulta dal pur qui compiegato rapporto, gli Slavi danno quasi per finita la lotta, e dettano a dirittura patti e condizioni.

Malmusi.»

L'atto del governo del conte Taaffe suscitò in Italia un vivo malumore, del quale naturalmente profittarono i radicali. L'agitazione irredentista divampò, e l'on. Crispi dovette adoperare tutta la sua autorità ed energia per frenarla.
Ecco un saggio delle istruzioni ch'egli dava ai prefetti:

«Commendator Basile Prefetto
Milano.

26-7.

(Riservato). Ripeto a lei quel che telegrafai al suo collega di Bari:
Il decreto per lo scioglimento del Pro Patria è un atto di politica interna di un governo straniero, contro il quale non abbiamo il diritto di agire.
Rispettiamo l'indipendenza degli altri Stati, se vogliamo rispettata la nostra.
La dimostrazione popolare che si minaccia di fare costà sarebbe un reato ai termini dell'articolo 113 del codice penale, il quale punisce con la detenzione da tre a trenta mesi ogni atto che possa turbare le relazioni amichevoli del Governo italiano con un Governo straniero.
Faccia modo di persuadere i promotori della dimostrazione a starsi tranquilli. Qualora i consigli non giovino, esegua la legge.

Crispi.»

«Commendatore Basile Prefetto
Milano.

31 luglio 1890.

(Personale). I comizi e le dimostrazioni contro il decreto di scioglimento del Pro Patria sarebbero atti antipatriotici che darebbero ragione al Governo austriaco del preso provvedimento.
I soci del Pro Patria affermavano che il loro era un sodalizio che aveva solo per iscopo la cultura nazionale e la diffusione della lingua patria nelle provincie nelle quali si parla l'italiano.
Le dimostrazioni ed i comizi indicherebbero che il Pro Patria era realmente un'associazione irredentista, siccome la disse la luogotenenza di Trento. Ne verrebbe danno ai soci, ai quali sarebbe tolta anche la possibilità di ricostituirsi sotto altro nome.
Veda Missori, Antongini ed altri patrioti e tenti di valersi dell'opera loro per dare sani consigli a coloro che con un preteso patriottismo turberebbero l'ordine in Italia e nuocerebbero a quelle popolazioni che dicono di voler redimere.
Invoco da tutti che sentano i doveri di patria e li adoperino.

Crispi.»

Nella seconda metà di agosto Crispi fu costretto ad adottare un provvedimento che diremo dimostrativo della sua ferma volontà di troncare l'agitazione irredentista: sciolse (decreto 22 agosto) le Associazioni, i Comitati, i Circoli e i Nuclei (denominazioni diverse di enti che si proponevano scopi identici) intitolati a Guglielmo Oberdank e a Pietro Barsanti.
Non vi furono contumelie che i radicali non lanciassero a Crispi, pel suo «servilismo austriaco». Ma egli, in verità, compiva un dovere penoso, e dei suoi sentimenti fanno testimonianza i telegrammi scambiati col Re Umberto, il quale era in grado di apprezzare il patriottismo del suo primo ministro:


«A S. M. il Re

Montechiari.

25 agosto 1890.

Oggi contemporaneamente in tutte le città nelle quali esistevano, furono sciolti i sodalizii intitolati Barsanti ed Oberdank.
I funzionari della pubblica sicurezza fecero il loro dovere e però le operazioni riuscirono.
In Roma furon trovate delle bombe.
Gli atti furono mandati all'autorità giudiziaria.
Sempre agli ordini di V. M.

Il devotissimo servo
F. Crispi.»


«S. E. Cav. Crispi Pres. Cons. Ministri

Montechiari, 28 agosto 1890.

Ho ricevuto il suo telegramma di avant'ieri sera.
I provvedimenti presi per lo scioglimento dei Circoli Oberdank e Barsanti sono ottimi, essendo tali da far cessare una equivoca tolleranza indegna di paese reputato civile e liberale. La schietta energia di lei varrà a persuadere i facinorosi che hanno da fare con un Governo deciso a farsi rispettare e lo rispetteranno. Spero che d'altra parte un Governo alleato non renderà più difficile il patriottico compito di lei con atti eccessivi ed inutili.
Ad ogni modo di tutto la ringrazio di cuore.
Qui procede ogni cosa bene. Sono molto soddisfatto dello spirito delle truppe, come pure dell'accoglienza che dovunque ricevo dalle popolazioni.
Con sentimenti di viva amicizia

aff.mo
Umberto.»

«A S. M. il Re

Montechiari.

28 agosto 1890.

L'Austria faccia la sua via. La deploro, ma non devo inquietarmene.
Facendo il nostro dovere e governando fortemente l'Italia, potremo a suo tempo aver ragione di dichiarare che non fu nostra la colpa se le sorti dell'impero vicino precipiteranno.
Sempre agli ordini di V. M.

Il devotissimo servo
F. Crispi.»

Nel settembre un incidente del quale un suo collega del Ministero fu piuttosto vittima che responsabile, contrariò vivamente Crispi e rese inevitabile un provvedimento che lo addolorò molto.
In un banchetto offerto in Udine all'on. Seismit-Doda, ministro delle Finanze, uno dei commensali, l'avv. Feder, brindando al Doda e ricordando che nel 1848

«udita la rivoluzione di Vienna che fece scappare S. M. Cattolica Apostolica Romana» da Trieste si recò a Venezia per «partecipare a quell'Assemblea gloriosa che votò la resistenza ad ogni costo», augurò che «Sua Eccellenza chiudesse la sua laboriosa carriera.... con il viaggio inverso, su nave italiana, col tricolore italico spiegato vittoriosamente al vento.»

L'on. Seismit-Doda sentì l'augurio e tacque; ma la stampa s'impossessò dell'avvenimento e gli attribuì il valore che aveva, quello cioè di una manifestazione irredentista, presente e presunto consenziente un ministro del Re.
Crispi telegrafò subito al Doda meravigliandosi del suo contegno, e rimproverandolo perchè lui e il prefetto non avevano abbandonato la sala del banchetto.

«Rimanendo indifferenti - soggiungeva - avete implicitamente aderito agli oratori e agli applausi. Capo del Governo, non devo permettere che si dubiti della lealtà con la quale vengono eseguiti i patti internazionali, nè far sospettare che uno solo dei miei colleghi sia contrario alla mia politica.»

L'on. Seismit-Doda non poteva più rimanere ministro. Ma invece di persuadersene s'irritò, fece comunicazioni ai giornali d'opposizione e non si arrese all'invito amichevole di dar le dimissioni; cosicchè Crispi fu costretto a proporre al Re un decreto di esonerazione dall'ufficio.
La questione fu portata alla Camera e discussa nella tornata del 19 dicembre. Crispi reclamò un voto e la Camera, su di una mozione presentata dall'on. Angelo Muratori, approvò la condotta di Crispi con 271 sì, contro 10 no e 16 astenuti.
La sentenza della Corte suprema dell'Impero sullo scioglimento del Pro Patria fu pronunziata il 28 ottobre. Essa dette un colpo al cerchio e l'altro alla botte: approvò l'ordinanza governativa, ma permise che la Società disciolta si ricostituisse sotto la denominazione di Lega Nazionale. In conclusione al decreto del 16 luglio si volle dare il valore di un monito: che la Società italiana non si occupasse di politica.
L'ultima fase dell'azione diplomatica di Crispi è rappresentata dai seguenti telegrammi:

«Ambasciata Italiana,

Vienna.

Roma, 26 ottobre 1890.

(Riservato). Le parole dell'avvocato del governo imperiale regio riferentisi società Dante Alighieri innanzi al supremo tribunale dell'Impero ed il giudizio dato sul signor Bonghi non avrebbero grande importanza se fossero stati pronunciati da chi non avesse avuto l'obbligo di conoscere le cose italiane. Dette a Vienna producono fra noi impressione così strana da costringerci a chiedere che almeno non ne resti traccia nella sentenza che emanerà il 28 corrente il Tribunale contro il Pro Patria. Il nostro onesto desiderio dovrebbe essere assecondato poichè, altrimenti, il falso concetto ove si ripetesse in un atto officiale, farebbe pessimo senso in Italia, specialmente in questo momento. Del resto, lo stesso conte Kálnoky, parlando al conte Nigra, avrebbe già riconosciuto l'errore di avere nella questione del Pro Patria citato la Dante Alighieri. Nell'intrattenere d'urgenza su quanto precede il signor Szögyeny, Ella vorrà inoltre adoperarsi perchè il Fremdenblatt non continui co' suoi comunicati intorno la corrispondenza vaticana col Nunzio Galimberti, poichè diversamente ci troveremmo obbligati a pubblicare i documenti pontifici nella loro integrità, il che nuocerebbe a tutti, salvochè a noi.

Crispi.»

«S. E. Crispi,
Roma.

Vienna, 26 ottobre 1890.

(Riservato). Ho comunicato a Szögyeny telegramma di V. E. di iersera relativo nota Fremdenblatt. Szögyeny mi ha detto che detta Nota era stata pubblicata soltanto per rispondere alle domande che da varie parti erano state dirette al Ministero a tale riguardo, e che essa non aveva altro scopo che di constatare che qui non si aveva notizia alcuna della corrispondenza scambiata tra il Vaticano e Monsignore Galimberti. Szögyeny aggiunse che sarebbe stato dolentissimo se si attribuisse un'intenzione qualsiasi sfavorevole verso l'Italia al governo austro-ungarico, il quale non desiderava punto ingerirsi in questione siffatta. Szögyeny mi pregò di assicurare l'E. V. che, per quanto era in suo potere, avrebbe provveduto a che pubblicazioni ufficiose in tal senso non avessero luogo in avvenire.
Avarna.»

«S. E. Crispi.

Vienna, 27 ottobre 1890.

(Confidenziale). Szögyeny è partito stamane di buon mattino per la caccia e non sarà di ritorno che sul tardi nella sera.
La comunicazione, di cui Ella m'incarica, non potrà quindi essergli fatta che domani.
Profitto occasione per sottometterle alcune considerazioni.
Il principale capo di accusa contro il Pro Patria è.....(?) di essa con la Dante Alighieri.
Questa accusa fu ribattuta dall'avvocato Lovisoni che difese vittoriosamente la Dante Alighieri e l'on. Bonghi, dimostrando i loro scopi leali. Contro ciò il rappresentante del Governo mantenne l'accusa con parole ch'Ella desidera non ne resti traccia nella sentenza.
I passi di cui Ella m'incarica, ove fossero bene accolti, metterebbero questo Governo in contradizione e giustificherebbero la domanda sporta dal Pro Patria di essere riabilitato, ciò che il Governo austro-ungarico non sembra disposto a fare.
Qualora l'E. V. giudicasse che, malgrado ciò, io faccia a Szögyeny la comunicazione in discorso, io non mancherò di eseguire col maggior impegno e premura le di Lei istruzioni. In tal caso io la pregherei di telegrafarmi di urgenza i suoi ordini.
Avarna.»

«Ambasciata Italiana,
Vienna.

Roma, 27 ottobre 1890.

(Urgente). Il fatto d'avere noi lasciato sussistere la Dante Alighieri, dovrebbe bastare di prova a codesto Governo che quella società non ha scopi politici, ma solamente letterari. Altrimenti sarebbe stata sciolta come sciogliemmo altri sodalizi. Voglia quindi dar corso alle mie istruzioni facendo conoscere anche quanto precede al signor Szögyeny.

Crispi.»

«S. E. Crispi,
Roma.

Vienna, 28 ottobre 1890.

Ho comunicato a Szögyeny i due telegrammi di V. E. relativi alla Dante Alighieri, esponendogli le varie considerazioni in essi svolte. Szögyeny mi ha detto che Kálnoky non aveva mancato di far conoscere a Taaffe il colloquio da esso avuto col R. Ambasciatore relativamente ai falsi apprezzamenti qui portati sopra la Dante Alighieri e sopra l'onorevole Bonghi. Szögyeny ha aggiunto che, siccome il Ministero degli Affari Esteri non aveva alcuna azione diretta sul Presidente della Corte Suprema, egli si sarebbe oggi stesso recato d'urgenza dal Conte Taaffe per parlargli nel senso dei due telegrammi di V. E. da me comunicatigli, manifestandogli il desiderio di lei. Szögyeny mi ha detto che, a parer suo, la sentenza non conterrebbe alcuna cosa che potesse essere spiacevole al governo del Re e alla E. V.

Avarna.»

Le elezioni generali del dicembre 1890 venendo dopo un lungo periodo di agitazioni promosse dal partito radicale, furono per questo una grande sconfitta. Tra le felicitazioni giunte d'ogni parte a Crispi non mancarono quelle austriache. Il conte Nigra in un telegramma dell'11 gennaio 1891, interessante anche perchè toccava altro argomento spinoso, si faceva eco delle felicitazioni di Francesco Giuseppe:

«Ieri essendo a pranzo dall'Imperatore, S. M. si congratulò con me delle ultime elezioni in Italia e rese in termini calorosi testimonianza della fermezza e abilità con cui è condotta la politica interna ed esterna dell'Italia. Le ripeto le stesse frasi perchè l'Imperatore è in generale molto sobrio di apprezzamenti. Aggiunse che la Triplice alleanza costava sacrifici, ma che era riuscita ad ottenere il fine di preservare la pace in Europa. Passato il discorso alla questione economica spiegai a S. M. la vera ragione della prorogata facoltà di denunciare il Trattato vigente, che è di dare ai due Governi la possibilità di esaminare la nuova situazione quale uscirà dai negoziati in corso fra l'Austria-Ungheria e la Germania allo scopo di migliorare possibilmente il Trattato per ambo le parti.
L'Imperatore s'informò poi con interesse del Re e della Regina. L'Imperatrice mi disse che era dolente di non avere avuto occasione nel suo viaggio in Italia di far visita alla Regina, della quale parlò nei termini i più lusinghieri e mi domandò se le sarebbe possibile visitarla altrove che a Roma.
Io risposi che credevo che la Regina sarebbe stata per parte sua sempre felice d'incontrarsi coll'Imperatrice in qualunque luogo, ma che vi era qualche cosa più potente  che la volontà dei Re e delle Regine, e questa era la pubblica opinione del paese, la quale non avrebbe approvato la visita altrove che a Roma.»
E quando pel voto di dispetto del 31 gennaio 1891 Crispi fu lasciato andar via da chi avrebbe avuto dovere e interesse di mantenerlo al governo, il Cancelliere d'Austria-Ungheria telegrafava al suo ambasciatore a Roma, barone de Bruck, come segue:

«5 febbraio 1891.

Je prie V. E. de chercher sans tarder une occasion pour exprimer à Mr. de Crispi mes plus vifs regrets sur sa decision de se retirer et de lui dire que pendant tout le temps qu'il était au pouvoir, la manière loyale et caracteristique d'un homme d'état superieur avec laquelle il a su conduire d'une main énergique les affaires politiques, était d'un avantage inappreciable pour la cause de la paix européenne et pour les rapports entre nous et l'Italie.
Je doute que l'Italie possède un autre homme d'état qui sache juger et mener les affaires intérieures et extérieures de son pays d'une façon aussi éminente que Mr. de Crispi, ce qui me porte à admettre qu'il ne se retirera pas de la scène politique sur laquelle il occupe un rôle aussi prépondérant.

Kálnoky.»

E l'organo della Cancelleria, il Fremdenblatt, dedicava all'avvenimento un articolo di fondo (4 febbraio) di cui riferiamo solamente le prime righe:

«Con Francesco Crispi è caduto un grande ministro. Crispi è uno dei più eminenti fra i personaggi che nell'odierna Europa rappresentano una parte politica; è una figura sorprendente, caratteristica, superiore. Egli portò seco nella vita pubblica il temperamento del siciliano; uno spirito vivace e bollente, ma insieme avveduto, calcolatore, che in lui si accoppia a sommi talenti e ad una indomabile energia. È in questi ultimi anni che il mondo imparò a conoscere in quest'uomo, che fin'allora aveva sostenuta una parte soltanto nel ristretto cerchio della politica interna italiana, un personaggio singolare ed importante.»

In dicembre 1893 Crispi riassunse il governo del paese nelle note gravi condizioni, e il barone de Bruck, tuttavia ambasciatore a Roma, fu tra i primi a recargli, coi suoi, i saluti del Cancelliere Kálnoky e i migliori augurii «pour la grande tâche» che si era addossata. E il conte Nigra, ancora da Vienna con le «sincere congratulazioni per il suo ritorno al potere» gli telegrafava:

«Vostra Eccellenza avrà visto che la di Lei presenza al Governo è salutata con fiducia dall'opinione pubblica di questo paese, conforme a quello del Governo imperiale.»

L'opera di Crispi per ristabilire l'ordine pubblico, turbato specialmente in Sicilia e in Lunigiana, era seguìta con simpatia anche in Austria; e quando in giugno 1894 l'energico ministro fu oggetto di un secondo attentato, quello di Paolo Lega che gli sparò contro a bruciapelo, fortunatamente senza colpirlo, il conte Nigra scrivendo al Ministro degli affari esteri attestava che il fatto aveva suscitato «l'indignazione contro l'assassino e la calorosa simpatia verso l'illustre patriotta italiano».
Ma in ottobre di quell'anno, Crispi ebbe motivo di forte lagnanza contro il governo imperiale per un'ordinanza che imponeva agl'italiani dell'Istria l'uso delle iscrizioni e diciture anche in lingua croata, facendo nascere una grande agitazione in tutti i paesi austriaci di lingua italiana, la quale si ripercuoteva in Italia. Le difficoltà contro le quali Crispi lottava allora strenuamente erano così gravi, che la nuova vessazione austriaca l'irritò. Al conte Nigra egli scriveva in lettera privata:

«Procediamo con difficoltà nel governo del paese, ma procediamo.... Giunge intanto inopportuno il movimento dell'Istria. Esso è argomento di agitazione per gli avversari del Governo.... L'Austria intanto avrebbe potuto essere più prudente. Impero poliglotta, la sua potenza verrebbe dal rispetto di tutte le nazionalità, delle quali si compone lo Stato. E poi parmi che mal cotesto Governo si fidi degli Slavi, i quali tengon fissi gli sguardi a Pietroburgo. Aggiungasi, che l'opera di annullare la lingua italiana nelle opposte sponde adriatiche è difficile, e con la violenza diviene impossibile. È più facile italianizzare gli Slavi, che slavizzare gl'Italiani.
Cotesta politica, praticata prima del 1848, aveva la sua ragione d'essere. Oggi manca di scopo, perchè il Governo italiano mantiene lealmente l'amicizia col vicino Impero.
Io non oso far proposte, ma se Ella potesse dire una buona parola a Kálnoky, farebbe opera saggia. Accordino agl'Italiani gli stessi diritti accordati alle altre nazionalità e conserveranno la pace all'Impero, e l'eco dei disordini non si ripercuoterà nella penisola nostra.»

Come in passato, dopo aver fatto direttamente al governo austriaco le sue rimostranze, sul successo delle quali non poteva avere una fiducia assoluta per lo spirito tenacemente sospettoso di quell'ambiente governativo, Crispi chiese l'intervento a Vienna della potenza ch'era interessata alle buone relazioni italo-austriache, e si rivolse all'imperatore Guglielmo:

«Conte Lanza Ambasciatore d'Italia,
Berlino.

Roma, 5 novembre 1894.

La condotta del Governo austriaco nella Istria manca di ogni buon senso.
L'Impero essendo poliglotta, è necessità di vita per esso rispettare tutte le nazionalità e specialmente l'italiana e la tedesca che sono le sole civili.
La preferenza per gli slavi è a danno suo e a danno di tutti. Non devo nascondere che quella agitazione mette il Governo italiano in una difficile situazione e rende nel popolo sempre più antipatica la nostra alleanza con l'Austria, che non è punto amata nel paese.
Io farò il mio dovere, ma non mi si ponga in condizione da essere obbligato a dimettermi.
Vegga subito l'Imperatore e lo scongiuri ad interporsi perchè cessi cotesta questione delle lingue e si rispetti l'italiana come la slava.

Crispi.»

L'ambasciatore forse non indovinò l'animo di Crispi e gli parve che l'incarico che gli veniva dato non potesse eseguirsi con la rapidità richiestagli; certo, rispose in maniera che a Crispi parve accusasse tepidezza:

«Non posso, naturalmente, vedere Imperatore quando voglio, ma devo aspettare propizia occasione, oppure chiedere udienza, cosa troppo insolita e lunga non essendo S. M. mai ferma.
In tutti i modi, se non direttamente almeno per mezzo Cancelliere farò oggi pervenire orecchio S. M. Imperiale condizioni in cui politica Austria-Ungheria in Istria mette Italia.
Non dubito S. M. Imperiale farà, come meglio potrà, pervenire consigli a Vienna.»

Crispi replicò:

«Dopo ventisette mesi che ella, generale del nostro esercito e ambasciatore, è di residenza a Berlino, mi stupisce che non abbia ottenuto il benefizio di vedere l'Imperatore tutte le volte che l'esigenza della politica internazionale possa richiederlo.
Non posso nasconderle che il di lei telegramma è molto sconsolante.»

A questo brusco rimprovero l'ambasciatore inviò telegraficamente le sue dimissioni. Crispi non le accettò: «Faccia il dover suo innanzi tutto e poscia vedrò come convenga provvedere». Ma nel mentre si svolgeva questa concitata corrispondenza, l'imperatore, informato, ordinava al conte Eulenburg, ambasciatore germanico a Vienna che si trovava in quei giorni a Berlino, di raggiungere subito la propria residenza e di dar consigli nel senso desiderato da Crispi e nell'interesse della saldezza dell'alleanza.
Il 7 novembre l'ambasciatore di Germania a Roma, de Bülow, si recava a visitare Crispi per assicurarlo che l'imperatore aveva esaudito il di lui desiderio. Lo pregava altresì a nome del suo Sovrano di non accettare le dimissioni del Lanza. Il generale Lanza era molto stimato a Berlino e l'imperatore ne apprezzava il tatto e le qualità di perfetto gentiluomo. L'incidente fu risoluto come risulta dai seguenti telegrammi:

«S. E. Lanza,
Berlino.

Stassera è venuto il signor De Bülow e mi ha pregato di non accettare le di lei dimissioni. Ha soggiunto che lasciando lei a Berlino avrei fatto un favore all'Imperatore. Ho risposto che giammai ebbi in mente di fare cosa sgradita all'augusto sovrano della Germania ed or dichiaro a lei che ciò mi è tanto più grato inquantochè il fatto mi assicura ch'ella potrà essere utile al nostro paese presso S. M. I. R.

Crispi.»

«S. E. Crispi,
Roma.

Berlino, 8 novembre 1894.

Ringrazio l'E. V. telegramma di questa notte, in seguito al quale metto naturalmente ogni decisione nelle sue mani.
Segue lettera particolare.

Lanza.»

«Generale Lanza Ambasciatore Italiano,
Berlino.

Roma, 8 novembre 1894.

Quello che a me preme è soltanto questo, ch'ella mi faccia conoscere i risultati delle sue pratiche di cui la incaricai col mio telegramma del giorno 5.

Crispi.»

«S. E. Crispi,
Roma.

Berlino, 11 novembre 1894.

(Riservato). Avendo fatto esprimere a S. M. l'Imperatore mio desiderio di parlargli, Egli, che oggi era a Potsdam, mi mandò invito recarmi colà, e, cosa insolita, in giornata di festa. Mi trattenne varie ore nel circolo di famiglia. Gli ripetei le cose fattegli esporre dal Cancelliere. S. M. mi ha tenuto presso a poco seguente discorso:
«Dite a Crispi che ammiro energia che spiega in servizio del Re e della Patria rispetto patti internazionali. Deploro vivamente difficoltà che gli suscita condotta Governo austro-ungarico in Istria, come ne suscitò a me nelle provincie polacche. Vi ho fatto già comunicare ordine che ho personalmente dato mio ambasciatore a Vienna. Insisterò in quel senso, dolente non potere, come vorrei, agire direttamente verso l'Imperatore Austria, dal quale non soffrirei menomo accenno a mie cose interne e al quale, quindi, non posso toccare argomento sua politica interna. Continuerò, però, a fare quanto sta in me per mettere Governo austro-ungarico in guardia contro pericoli che la sua condotta verso nazionali italiani può fare correre saldezza alleanza.

Lanza»

«Conte Lanza Ambasciata Italiana,
Berlino.

Roma, 12 novembre 1894.

La ringrazio del telegramma di stanotte, il quale mi prova che io non avevo torto quando la spinsi a vedere l'Imperatore. Ella, soldato e patriotta, mi comprende e spero che sempre andremo di accordo.
Faccia arrivare allo Imperatore l'espressione dei miei sentimenti di gratitudine e vedendolo o scrivendogli manifesti a S. M. I. R. che la tranquillità delle provincie italiane dello Impero austriaco è necessaria alla sicurezza dell'alleanza.

Crispi.»

È fuori di dubbio che facendo una politica interna severa e leale, Crispi potè ottenere dall'Austria tutto quello che era possibile, costringendo la stessa Cancelleria dell'Impero a temperare prevenzioni e sistemi di polizia inveterati del governo austriaco. Quando il conte Kálnoky giunse alla fine della sua carriera, abbandonando l'eminente posizione tenuta durante i due periodi del governo di Crispi, espresse al conte Nigra il giudizio ch'è riferito qui appresso:

«S. E. Crispi,
Roma.

Vienna, 18 maggio 1895.

Caro signor Presidente,

Il conte Kálnoky, nel prendere oggi congedo da me, mi incaricò espressamente di farle sapere come esso porti il migliore ricordo delle relazioni ufficiali e personali che ebbe con Lei. Egli rese in termini commossi testimonianza della lealtà di procedere del Governo da Lei diretto verso Austria-Ungheria, e degli eminenti servizii che Ella rese e rende alla causa della Triplice Alleanza, e a quella, che ne dipende, della pacificazione europea, mediante la sua autorevole e ferma azione all'interno e all'estero. «L'Imperatore, mi disse egli, divide con me questo modo di vedere e posso assicurarvi che il mio successore, interprete della volontà del suo sovrano, seguirà verso l'Italia le tradizioni di amicizia sincera e di fiducia reciproca, che formano uno dei principali legati della mia successione».
Compio l'incarico affidatomi scrivendole queste proprie parole del conte Kálnoky, e aggiungendo soltanto che esse hanno tanto maggior valore, quanto più grande è, per indole, la riserva in chi le pronunziò nell'abbondare in dimostrazioni di tal natura.
Voglia credermi, come le sono di cuore,

Dev.mo amico
Nigra.»



ITALIA E FRANCIA.



Capitolo Quinto.

Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.


L'ambiente e gli statisti in Francia. - Gli ambasciatori De Moüy e Mariani e il ministro Spuller. - Come fu ricevuto il signor Billot. - La sua azione conciliante. - Il varo della Sardegna e la mancata visita della squadra francese alla Spezia. - Illusioni francesi su l'on. di Rudinì. - La Triplice alleanza rinnovata. - Secondo Ministero Crispi. - Strascico dei fatti di Aigues-Mortes. - Politica di conciliazione. - Una missione segreta di Maurizio Rouvier. - Corrispondenza dell'ambasciatore Ressman. - Il richiamo di Ressman e le sue vere ragioni.

Sino al 1890 le relazioni franco-italiane erano state difficili. L'ostilità della Francia per la nostra alleanza con la Germania si era manifestata in tutti i modi e in tutti i campi, cagionando incidenti che avevano sempre più rafforzato la posizione dell'Italia in Europa e stretto i vincoli che la legavano ai due imperi centrali pel trattato rinnovato il 20 maggio 1887.
Deve però riconoscersi che nella lotta accanita che il governo francese aveva fatto ad ogni interesse italiano, gli uomini erano stati talvolta sospinti agli eccessi dall'ambiente, esagitato da una stampa che non ignorava alcuna intemperanza. L'ambasciatore conte de Moüy, ponendo fine alla sua missione a Roma, scriveva privatamente a Crispi, da Parigi, il 6 aprile 1889:

«J'avais à Rome la conviction d'avoir obtenu votre sympathie et votre estime: vous avez toujours compris, au cours des affaires que j'ai été chargé de suivre, combien souvent ma tâche m'était pénible, et combien aussi je m'efforçais d'y apporter de conciliation et cordialité.... Je n'oublierai jamais nos derniers entretiens qui m'ont si vivement ému; mon eloignement de Rome a été la grande douleur de ma vie diplomatique.»

Il de Moüy era stato il rappresentante di una politica irritante che nel 1888 s'impersonò nel ministro Goblet, del quale lo stesso de Moüy scrisse in un suo libro26 ch'era "mal preparé, par son caractère raide et irascible, au maniement des choses diplomatiques qu'il traitait pour la première fois; on lui reprochait ses opinions anguleuses et son style peu engageant".
E. Spuller, che succedette al Goblet come ministro degli affari esteri (febbraio 1889) e il Mariani che venne a Roma dopo il richiamo del de Moüy, non riuscirono ad agire contro la corrente ostile che in Francia travolgeva tutti27, ma non si astennero da dichiarazioni ch'erano la condanna di quell'ostilità senza misura. Nel diario dei ricevimenti diplomatici di Crispi, sotto la data del 5 gennaio 1890 è scritto:

«Il signor Mariani mi legge una lettera dello Spuller. Il ministro scrive all'ambasciatore di dirmi ch'egli è rimasto sensibile alle parole da me pronunziate in Parlamento in occasione della legge che aboliva le tariffe differenziali. Incaricò quindi il Mariani di volermi ringraziare.
Lo Spuller desidera che le relazioni fra i due paesi divengano cordiali, ed egli farà tutto il possibile perchè le cose migliorino nel campo economico.
Il Mariani mi lesse una lettera fatta da lui a Spuller contro il corrispondente dell'Havas in Roma. Egli ne rileva il contegno strano, e fa considerare al suo ministro come cotesto sia un metodo che non può riuscire a vantaggio dei due paesi.
Il signor Lavallette, oltre essere qui per l'Havas, è qui pel Matin, di cui tutti riconoscono il contegno ostile all'Italia. Il Mariani vorrebbe che il detto individuo servendo un'agenzia semi-ufficiale, lasciasse di collaborare in un giornale a noi nemico.»

Lo stesso Spuller, ricevendo il 10 ottobre precedente l'ambasciatore italiano a Parigi, aveva inveito «in termini violentissimi» contro il giornalismo francese,28 e il 4 dicembre seguente non aveva taciuto al generale Menabrea i suoi sentimenti:

«Parigi, 5-12-1889, ore 2.10 s.

Il telegramma del 1.° corr. che mi riferisce la conversazione di V. E. col Mariani, venne da questi confermato allo Spuller, il quale me ne espresse ieri la di lui viva soddisfazione. Egli mi disse essere vivamente contrastato da un partito che lo vorrebbe rovesciare coll'accusarlo di mostrare troppa condiscendenza verso l'Italia a detrimento della Francia stessa. Cionondimeno egli non tralascerà di lavorare attivamente per migliorare i rapporti fra i due paesi e stabilire fra loro un modus vivendi, proprio  a soddisfare i rispettivi interessi. Un violento articolo del Figaro di oggi si fa interprete dei sentimenti ostili che sono tuttora attizzati contro l'Italia; tuttavia, contro il gruppo opposizionista, che ci è il più contrario, sorge un nuovo gruppo assai più mite, capitanato da Léon Say, che propugna una politica economica più liberale!

Menabrea.»

Il signor A. Billot, nominato dallo Spuller ambasciatore a Roma alla morte del Mariani, aveva ricevuto istruzioni di adoperarsi ad «appianare ogni screzio». Egli ha narrato in un libro29 non scevro di prevenzioni, di errori e di reticenze, le vicende della vita politica italiana dal 1881 al 1899. Appena giunto fu informato che il giorno precedente erano stati espulsi dall'Italia i corrispondenti dell'Agenzia Havas e del Figaro (uno, il Lavallette, era appunto quello la cui condotta era stata biasimata dal Mariani) e cotesto atto di rigore gli fece cattiva impressione, sebbene contemporaneamente fosse stato espulso anche un giornalista tedesco30. Il Billot manifesta ingenuamente con quale animo mettesse il piede in Roma raccogliendo la malignità che non fosse estraneo alla decisione di Crispi il fatto che quei giornalisti avevano annunziato il fallimento «d'une banque particulière, à la prospérité de laquelle Crispi, disait-on, avait des motifs de s'intéresser. C'en était assez pour motiver leur expulsion!31»

Il nuovo ambasciatore chiese udienza e fu ricevuto il giorno stesso del suo arrivo. L'on. Crispi informava di cotesta visita l'ambasciata a Parigi col seguente telegramma:

«Ambasciata Italiana,
Parigi.

Roma, 13 aprile 1890.

Il signor Billot è giunto questa mattina; mi ha subito domandato udienza e l'ho ricevuto alle cinque.
Mi narrò le vicende della sua nomina, spiegando il ritardo della sua venuta a Roma. Disse aver esposto a Ribot ciò che si proponeva di dire a Spuller quanto alla sua linea di condotta verso l'Italia: circa la politica coloniale italiana, non intralciare la nostra espansione; circa la questione tunisina far sì che gli Italiani dovessero trovarsi nella Reggenza ed esservi trattati come a casa loro. Su tutte le altre questioni disse proporsi di procedere amichevolmente per appianare ogni screzio, nel quale compito la via gli era stata facilitata da Mariani, alla cui memoria era grato. Gli dissi, a mia volta, che ero animato da intenzioni identiche alle sue; che la stampa francese non ci era amica, il che non mi impedisce di amar la Francia, di amarla anzi come un francese, senza cessare di essere conscio dei doveri che mi impone la mia qualità di Ministro, ossia di difensore degli interessi italiani. Gli ricordai che ho trovata la Triplice Alleanza fatta e che da uomo onesto devo esservi fedele. Gli dissi che mi si imputavano colpe che non sono mie, come gli incidenti di Firenze e di Massaua, nei quali la ragione era nostra, come tutta Europa riconobbe. Gli narrai come nel 1877, essendo non ministro, ma presidente della Camera, fossi andato a Berlino ed a Gastein per vedervi il Principe di Bismarck, con cui avevo già rapporti; come, per andarvi, fossi passato per Parigi e là avessi veduto Gambetta; come Gambetta mi avesse pregato di far aperture a Bismarck in vista di un disarmo; come, tornando dalla Germania, fossi nuovamente passato da Parigi ed avessi riferito a Gambetta, a Emilio di Girardin e ad altri quanto avevo detto ed udito, e che, circa al disarmo, Bismarck lo avrebbe desiderato, ma non lo riteneva possibile. Soggiunsi  che, venuto al potere, il mio desiderio e la mia speranza erano stati di poter servire di tratto d'unione tra la Francia e la Germania e di curare che la Triplice Alleanza non riuscisse alla Francia di pregiudizio; che queste erano tuttora le mie intenzioni e che egli mi troverebbe sempre disposto a far tutto il possibile per riavvicinare maggiormente l'Italia alla Francia, a cui sarebbe follìa voler muovere guerra e che, come ogni italiano, considero necessaria all'Europa ed al nostro paese, per la sua posizione geografica, per le sue tradizioni, per la sua affinità con noi, ecc. Ho trovato nel signor Billot una persona ammodo e simpatica, e credo non errare dicendo che ci lasciammo egualmente soddisfatti l'uno dell'altro.

Crispi.»

In realtà la politica francese verso l'Italia non accennò a mutare sebbene Crispi non tralasciasse occasione di manifestare le sue intenzioni amichevoli, e l'ambasciatore Billot non fece nulla per eliminare gli screzi, non solo, ma s'impose il compito ch'egli stesso confessa nel suo libro:
«Le discours de Florence32 laissait l'impression générale que Crispi était plus que jamais convaincu de la nécessité de la Triple-Alliance et décidé dès lors à en renouveler les engagements à l'échéance ou même auparavant.... Tant que Crispi resterait aux affaires, notre diplomatie n'aurait qu'à s'appliquer patiemment, par une action conciliante, à faciliter l'évolution que les intérêts réussiraient sans doute à déterminer avec le temps33.»
L'azione conciliante fu dimostrata dalla diplomazia francese in tutte le questioni che si presentarono, a cominciare dalla conferenza anti-schiavista di Bruxelles, dove non si prese la pena di dissimulare il suo astio per la posizione che l'Italia aveva acquistato in Etiopia; e quanto a facilitare l'evoluzione, il Billot non esitò a ricorrere a mezzi poco corretti, dei quali Crispi si lagnava nel seguente telegramma del 12 novembre 1890:

«General Menabrea Ambasciata Italiana,
Parigi.

Il Governo francese, continuando le tradizioni della prima Repubblica, fa propaganda repubblicana in Italia, spendendo danari per la stampa ostile a noi. Al palazzo Farnese vanno continuamente a confabulare giornalisti nemici della Monarchia e da parecchi mesi vengono da Parigi emissarii a scopo di favorire coloro che combattono le istituzioni. Ultimamente è venuto anche il signor M.... della P.... il cui contegno fu assai biasimevole.
La mia condotta corretta, irreprensibile verso i Bonaparte congiunti della nostra famiglia reale, quando le discordie politiche in Francia erano ardenti, prova che io non uso di armi insidiose contro il Governo della Repubblica.»

Il Billot, naturalmente, afferma che il governo italiano non secondasse il desiderio del governo francese di rannodare relazioni di benevolenza e di affari, e cita, a prova della sua asserzione, l'incidente del varo della Sardegna.
Il varo di questa corazzata - egli racconta - doveva farsi a Spezia nella seconda metà del settembre; i giornali italiani avevano annunziato che probabilmente vi avrebbe assistito il Re. Il ministero francese volendo ricambiare la visita a Tolone di una squadra italiana, fatta in occasione della presenza colà del Presidente della Repubblica, «decise prontamente» di mandare a Spezia, per ossequiare il Re Umberto, una squadra francese; e il 28 agosto l'ambasciatore di Francia fece analoga comunicazione alla Consulta, domandando quale fosse la data fissata pel varo. Ma Crispi si affrettò a rispondere «qu'il ne croyait pas que sa Majesté eût l'intention» di recarsi alla Spezia e tre giorni dopo faceva pubblicare dall'Agenzia Stefani il seguente comunicato:

«Spezia, 31 agosto.

Il varo della Sardegna avrà luogo il 21 settembre.
S. M. il Re, dovendosi trovare in quel tempo a Firenze per assistervi, come fu già annunziato, all'inaugurazione del monumento di Re Vittorio Emanuele, ha delegato a rappresentarlo al varo della Sardegna S. A. R. il Duca di Genova.»

Il Billot nel trascrivere questo comunicato salta le parole «come fu già annunziato». E registra tutte le ipotesi che furono fatte in Francia e in Italia per spiegare «la decisione improvvisa di Crispi», mostrandosi incerto se credere a quella che accennava al proposito di evitare un avvenimento favorevole al ravvicinamento franco-italiano per non fare dispiacere alla Germania, o all'altra che si riferiva a considerazioni di politica interna. Comunque, egli conclude, «personne n'hésitait à en rejeter sur Crispi la responsabilité exclusive».
La verità non è quella narrata dal Billot. Il governo italiano sarebbe stato lieto dell'atto di cortesia della Francia, ed era assurdo credere altrimenti, dopochè l'Italia aveva spontaneamente per la prima mandato una squadra a Tolone. Quello che dispiacque al Re fu la discussione fatta dalla stampa francese circa l'opportunità di quell'atto, discussione nella quale l'idea della visita era stata aspramente criticata, e, come allora soleva, le ingiurie all'Italia e al suo Re erano state dispensate a piene mani.
Quando il governo francese annunziò la sua decisione, questa era passata attraverso tali dissensi che aveva perduto il profumo della spontaneità; non era la prima volta che i giornali rendevano un cattivo servizio alla politica della Francia. E fu proprio il Re, senza alcun suggerimento di Crispi, che decise di non recarsi al varo della Sardegna. Infatti è del 27 agosto - e non del 28, come narra il Billot - la domanda che questi fece alla Consulta, e porta la data del 27 il seguente telegramma:

«S. E. generale Pallavicini, primo aiutante di campo di S. M.
Montechiari.

Ambasciatore di Francia mi ha fatto chiedere epoca nella quale S. M. il Re si troverebbe alla Spezia, accennando intenzione suo Governo di mandarvi parte squadra francese per ossequiare la Maestà Sua. Attendo gli ordini di S. M, per la risposta da dare al signor Billot.

Crispi.»

Questo telegramma era appena partito quando giunse a Crispi una lettera del Rattazzi, ministro della real Casa, datata da Montechiari, 26 agosto, nella quale riferiva in questa guisa la volontà del Re:
«I giornali francesi continuano a discorrere della visita della squadra francese alla Spezia in occasione del varo della Sardegna. Per norma di V. E., è intenzione di S. M. di astenersi dall'assistere al varo della Sardegna.»
Crispi approvò la decisione del Re di non recarsi alla Spezia, ne fece avvertito il Billot e telegrafò a Parigi il 28:

«Ambasciata Italiana,
Parigi.

Ringraziando il signor Ribot della cortese intenzione, Ella può prevenirlo - quando le occorra vederlo - che S. M. il Re non è per recarsi alla Spezia per il varo della Sardegna, nè che a tale gita potrebbero offrire occasione le manovre della nostra flotta, essendo queste terminate.

Crispi.»

Il ritiro dell'on. Crispi dal governo pel voto parlamentare del 21 gennaio 1891, se fu salutato unanimemente dalla stampa francese come un fausto avvenimento, non migliorò punto la condotta della Francia verso l'Italia. Non era da attendersi il ritorno immediato ai rapporti commerciali convenzionali tra i due paesi, poichè sussisteva nel protezionismo dominante in Francia l'ostacolo che aveva reso impossibile, al principio del 1888, la stipulazione di un nuovo trattato di commercio; ma una prova di migliori disposizioni e un incoraggiamento alla presunta francofilia del Ministero Rudinì poteva esser data con la rinunzia alle tariffe differenziali che Crispi aveva abolito, per parte nostra, sin dal 1.° gennaio 1890. La Francia, in fondo, attraverso Crispi, aveva combattuta l'Italia perchè alleata con la Germania, e non era disposta a contentarsi delle dichiarazioni amichevoli del nuovo gabinetto italiano, come non si era arresa alle ripetute dichiarazioni amichevoli di Crispi; essa esigeva che l'Italia si ritirasse dalla Triplice alleanza. E il suo ambasciatore a Roma aspettava fidente la scadenza del trattato, cioè il 20 maggio 1892:

«Si M. Rudinì s'abstenait, par une réserve bien explicable, de manifester ses intentions relativement à la prolongation de la Triplice, divers motifs permettaient de supposer qu'il était, au fond, d'accord avec ceux qui désiraient, à l'échéance, rendre à l'Italie sa complète liberté d'action34.»

Ma l'illusione non fu di lunga durata; l'on Rudinì, che aveva chiamato alla Consulta come suo collaboratore il conte d'Arco, anti-triplicista dichiarato, dopo qualche mese di ambiguità rinnovò (giugno 1891) il trattato che aveva ancora quasi un anno di vita.
Rinnovato il trattato del 1887 senza portarvi alcuna modificazione, l'on. Rudinì iniziò quella politica «in partita doppia» il cui primo effetto fu di alienarci l'appoggio incondizionato degli alleati, senza disarmare l'inimicizia della Francia. L'unico vantaggio raggiunto da questa politica fu di mitigare il linguaggio della stampa francese; ma lo spirito pubblico in Francia non mutò a nostro riguardo, e i deplorevoli eccessi di Aigues-Mortes lo dimostrarono. Perchè i nostri vicini d'oltre Alpi ci guardassero con occhio meno arcigno, l'Italia dovette abbandonare senza compensi la difesa dei suoi diritti in Tunisia, e fu l'on. Rudinì che si assunse questa responsabilità tra il primo e il secondo suo ministero, con la rinunzia al nostro veto per le fortificazioni di Biserta e con le convenzioni italo-tunisine del 28 settembre 1896.
Sembra che facesse dippiù. Il 13 ottobre 1891 il signor Giers, Cancelliere russo, trovandosi di passaggio in Italia fu invitato dal Re Umberto a recarsi a Monza. Presente al colloquio era il marchese di Rudinì. Si discorse della situazione politica europea e della necessità di adoperarsi al mantenimento della pace. Il Re avrebbe detto al barone Blanc che si sarebbe convenuto in quell'incontro l'intervento della Russia in nostro favore, ove mai avvenisse un casus foederis. Non si comprende bene la possibilità di un tale intervento se non supponendo che l'Italia, offesa dalla Francia, rinunziasse al casus foederis in vantaggio dei suoi alleati, o che questi facessero altrettanto nel caso che il casus foederis si verificasse nel loro interesse. Nell'un caso o nell'altro la Russia interverrebbe come mediatrice e sarebbe l'arbitra della pace in Europa. Ma è da osservarsi che si sarebbe fatta astrazione dall'importanza del litigio, e la pacificazione sarebbe sempre a danno del più debole.

Crispi compose il suo secondo ministero in dicembre 1893, all'indomani dei tristi fatti di Aigues-Mortes, dove molti operai italiani erano stati uccisi o feriti determinando in Italia un vivo risentimento, accresciutosi dipoi pel verdetto della Corte di Angoulême che assolse gli uccisori. Si presentò subito una questione delicata per l'indennità dovuta alle vittime o alle loro famiglie. Il governo francese si dichiarò pronto a presentare alle Camere un progetto di legge pel pagamento della somma di 420 000 franchi, ma esigeva che anche da parte del governo italiano si riconoscesse dovuta una indennità di 30 000 franchi ai cittadini francesi residenti in Italia, i quali erano stati danneggiati durante le dimostrazioni popolari provocate da quei fatti. Cotesta esigenza era ingiustificata, e senza precedenti; tuttavia, per troncare l'increscioso incidente, Crispi ordinò che i 30 000 franchi fossero pagati, senza indagare circa l'esistenza degli asseriti danni.
L'emozione prodotta in Italia per le manifestazioni di odio che avevano determinato e accompagnato le uccisioni di Aigues-Mortes, dette occasione al governo francese ad apprestamenti militari alla frontiera italiana. E quando Crispi fu obbligato, appena ripreso il potere, a richiamare una classe sotto le armi e a rimandare in Sicilia navi della R. Marina, che aveva dapprima richiamate, per ristabilire l'ordine pubblico gravemente compromesso, la stampa francese volle vedere in quelle misure nientemeno che i prodromi di una prossima dichiarazione di guerra! L'ambasciata d'Italia a Parigi riferiva che la nuova campagna giornalistica suscitava inquietudini anche nei circoli parlamentari francesi, e Crispi dovette far dire direttamente e per mezzo delle Cancellerie delle potenze amiche che quelle inquietudini erano davvero assurde e quasi puerili.
Il 19 marzo 1894 il duca di Cambridge, il venerando capo dell'esercito britannico, trovandosi di passaggio a Madrid, esprimeva all'ambasciatore Maffei la profonda impressione che aveva ricevuto osservando sulla frontiera franco-italiana alle Alpi marittime «uno straordinario aumento di truppe in pieno assetto di guerra» come se quel paese, da Cannes a Ventimiglia, «fosse attualmente oggetto di una occupazione militare».
Il portafoglio degli affari esteri era stato affidato al barone Blanc, già ambasciatore a Costantinopoli e bene al corrente della situazione internazionale. La Francia, come si è detto, stava tuttavia in armi, mentre le relazioni con la Germania, l'Austria-Ungheria e l'Inghilterra, da ottime che erano state sino al 1891, si erano fatte tepide durante i tre anni seguenti. Pur cercando, per quanto era possibile, di rinnovare la intimità che aveva dato eccellenti risultati governando in Germania il principe di Bismarck, l'on. Blanc volle fare il tentativo di troncare la politica di dispetti della Francia, mostrandole il sincero desiderio nostro di amicizia.
Occorreva per ciò un ambasciatore di grande autorità a Parigi, e l'on. Blanc ebbe l'idea che cotesto rappresentante potesse essere il conte Nigra, il quale si trovava a Vienna, ed era stato ambasciatore in Francia per lunghi anni, sotto l'Impero e anche con la Repubblica, sino al 1876. La corrispondenza che segue fa testimonianza del proposito del Blanc, cui non mancò l'appoggio di Crispi:

«Conte Nigra Ambasciata Italiana,
Vienna.

Roma, 18-3-1894.

(Personale). D'accordo col Presidente del Consiglio, La prego rendere un grande servizio al Re e al Paese accettando di ritornare a Parigi. Conoscendo il Suo alto patriottismo sono convinto che nessuna considerazione secondaria la farà esitare, potendo Ella meglio di chicchessia assecondarci in una opera di pacificazione che richiede speciale autorevolezza. Pensi alle gravi circostanze del Paese che più che mai domandano l'incondizionata abnegazione già da Lei tante volte dimostrata per il bene pubblico.

Blanc.»

«S. E. Blanc,
Roma.

Vienna, 18-3-1894.

(Personale). Se fossi persuaso che la mia presenza a Parigi potesse giovare all'opera di pacificazione che è nelle intenzioni del R. Governo, non esiterei, malgrado ogni convenienza personale, ad accettare la proposta fattami in termini così lusinghieri; ma io sono convinto che i miei precedenti ben noti devono precludermi per sempre l'ambasciata a Parigi. Le ricorderò che questi stessi precedenti impegnarono il Ministero Depretis nel 1876 a richiamarmi da quel posto. In tale convinzione, debbo ricusare un incarico che io so positivamente di non potere disimpegnare. Ho poi qualche ragione di credere che il mio trasloco farebbe cattiva impressione qui dove la mia azione sembra essere apprezzata. Non insisto su quest'ultimo motivo non avendo io la presunzione di credere che altri non possa fare in questo posto quanto io fo. Insisto invece sulla mia incompatibilità a Parigi, circa la quale la mia convinzione è inconcussa.

Nigra.»

«Conte Nigra Ambasciata Italiana,
Vienna.

19-3-94.

(Personale). Sua accettazione avrebbe alto valore di confermare programma suo e del Conte Kálnoky che alleanze pacifiche sono conciliabili con buone relazioni con Francia come con Russia. Suo rifiuto porrebbe in gran dubbio possibilità di tale programma.
Il Governo, giudice delle necessità attuali, deve insistere nel fare appello al suo patriottismo ed alla sua deferenza ai desideri di Sua Maestà.

Crispi.»

«A S. E. Crispi,
Roma.

Vienna, 19-3-1894.

(Personale). Il programma cui Ella accenna può e dev'essere tentato, ma appunto perchè l'esito è difficile e dubbio conviene scegliere per un tale tentativo la persona adatta. Io non sono questa persona e i miei precedenti mi rendono incompatibile col posto di Parigi. Voglia farmi l'onore di credermi perchè so positivamente ciò che le affermo. Sarei lieto se potessi impiegare le forze che mi restano nel modo desiderato dal Re e da Lei, ma il mio ritorno a Parigi è da me considerato come una impossibilità storica e morale e nuocerebbe anzichè giovare all'attuazione del programma che si ha in vista. Scrivo questo all'amico più che al ministro. La prego di non insistere e di non rendermi più dolorosa la necessità in cui Ella mi mette di negarle qualche cosa. Io la servo qui con fedeltà e devozione e amo credere con soddisfazione dei due Governi.

Nigra.»

Il proposito del ministero Crispi di migliorare le relazioni franco-italiane era ben accetto a taluni uomini politici influenti della Francia, quali Léon Say e Maurizio Rouvier, ex-ministri.
In aprile il Rouvier venne segretamente a Roma, ed ebbe due colloqui con Crispi, il 14 e il 16 di quel mese, nei quali fu convenuta un'azione simultanea a Parigi per indurre il governo francese e la stampa parigina a cooperarsi per un riavvicinamento tra le due nazioni, il quale avrebbe avuto per base la riattivazione dei rapporti commerciali mediante la concessione reciproca della condizione della nazione più favorita, e la cessione della ferrovia Tunisi-Goletta alla Francia. Naturalmente, il primo ostacolo da superarsi era l'ostilità dell'opinione pubblica francese, della quale era schiavo il governo, presieduto allora dal signor Casimir-Perier. Questi, informato dal Rouvier dei colloqui avuti con Crispi, si dichiarò favorevole in massima; disse anzi al suo interlocutore: «la politica che noi seguiamo non ha altro risultato che di éterniser et aggraver la Triplice, la quale non è causa, ma conseguenza dei malintesi. «E aggiunse che se a stipulare un accordo poteva rattenerlo prima la considerazione ch'esso avrebbe rafforzato la posizione di un uomo considerato in Francia come gallofobo, doveva ora convenire che tale prevenzione era vinta dal procedere leale di Crispi e riconoscere che questi poteva fare in Italia ciò che altri non avrebbe potuto, nè osato. Circa l'accordo commerciale il Casimir-Perier disse che la corrente protezionista in Francia aveva ecceduto i limiti, e che v'era qualcosa da fare per modificare un indirizzo anche politicamente nocivo; ma che temeva l'opposizione dei meridionali per i vini. Concluse che era necessario assicurarsi della Camera.
Il gabinetto Casimir-Perier rimase in minoranza alla Camera il 30 maggio; lo sostituì un gabinetto Dupuy, nel quale il signor Hanotaux ebbe la direzione degli affari esteri. Il 24 giugno un anarchico italiano, Caserio, uccise a Lione il presidente della Repubblica, Sadi Carnot. Il governo e il popolo d'Italia, sinceramente commossi per quel delitto, manifestarono il loro cordoglio con tale solennità che a molti in Francia parve rivelare sentimenti non sospettati. Disgraziatamente, il buon effetto di quella manifestazione fu in gran parte perduto per i maltrattamenti usati in Francia a italiani colà residenti e per la ripercussione che essi ebbero in Italia.
In luglio il Rouvier riprese l'opera sua presso il ministro Hanotaux, dal quale ebbe la promessa che durante le prossime vacanze parlamentari gli si sarebbe affidata la missione di venire in Italia per discutere con Crispi le basi di un accordo. Ma quando venne a concretare i suoi desiderata, l'Hanotaux chiese che l'Italia riconoscesse senza restrizioni il protettorato francese in Tunisia e accettasse una convenzione per la neutralizzazione dell'Harrar. Come corrispettivo offriva di non sollevare questioni per l'occupazione italiana di Kassala, che non interessava la Francia, e di non prendere partito in Etiopia nè pro, nè contro l'Italia. Nulla circa le relazioni commerciali; nulla circa la Tripolitania.
Il signor Rouvier pensò bene che non si voleva un accordo con l'Italia e rinunziò alla propria iniziativa.
Sulla politica francese verso l'Italia gettano luce le lettere private che a Crispi scriveva il Ressman, succeduto al generale Menabrea come ambasciatore a Parigi. Ne riferiamo alcuni brani, avvertendo che il Ressman, per la sua lunga permanenza in Francia e pel suo carattere conciliante, era un ottimista:

«Qui la situazione è molto chiara. La Francia non vuole per ora la guerra. In tutti i casi, non avendo un Trattato formale colla Russia, avendo soltanto o la fede, o la promessa d'essere assistita dalla Russia se fosse attaccata, non vuole attaccare ed evita possibilmente ogni provocazione. Profondamente turbata da un continuo lavorio sotterraneo, essa guarda da ogni parte, è facile ai sospetti e sospetta noi più di tutti. Su Lei in ispecie ha fermi gli occhi, diffidando ma non sapendo ancora se debba sperare o temere. Epperò le più strane interpretazioni di ogni suo atto sono ammesse, discusse e influiscono talvolta sullo stesso atteggiamento degli uomini del Governo» (24 gennaio 1894).

«Illustre Presidente ed amico carissimo,

Non volli dopo il mio ritorno a Parigi attediarla con lettere vuote e non Le scrissi, ma agii indefessamente con anima, per secondare nel limite delle mie attribuzioni l'opera di pacificazione ch'Ella sì magistralmente va compiendo all'interno e che deve anche nei rapporti con questo paese produrre i risultati ai quali mira la Sua politica. Non v'è dubbio che l'orizzonte qui, verso il confine italiano, si rischiara a poco a poco, che v'è intransigenza molto minore e che si comincia a renderle giustizia, l'ingiustizia in fondo non essendo mai consistita che nei timori che in diverse circostanze il suo patriottismo ed il suo valore ispiravano. Fu un buon sintomo anche il modo con cui le due Camere votarono l'accordo monetario. In altri tempi sarebbe bastata l'idea che ciò potesse giovare all'Italia per suscitare proteste.
Già un paio di volte, in conversazioni puramente confidenziali col signor Casimir-Perier, esprimendogli il voto che si potesse qui darci qualche prova di buon volere lo condussi a parlarmi per il primo dei rapporti commerciali. La sua personale influenza sulla Camera è grande, e le sue intenzioni sono buone. Ne ho la prova anche dal fatto che in un recente convegno coi Ministri delle Finanze, del Commercio e dell'Agricoltura, egli accampò la questione se fosse possibile di trovare una maggioranza in caso d'accordi con noi, almeno parziali, sulla base della tariffa minima. Senza parlarmi di questo convegno, egli ieri mi disse che non si fiderebbe di presentare alla Camera un accordo con noi, se non fosse preceduto un accordo più facilmente accettabile con altra Potenza (la Svizzera), e che rispetto a noi una insormontabile difficoltà verrebbe sempre dai vini, giacchè coll'eccesso della presente produzione nel mezzogiorno della Francia tutti i viticoltori si alzerebbero come un solo uomo contro il Ministro che proponesse di riaprire più larghe le porte della concorrenza italiana.
Gli risposi che forse a questo punto, abbassando pure alquanto la tariffa massima, potrebbe esservi modo d'intendersi mediante altri compensi. A questo proposito Vostra Eccellenza stimerà senza dubbio utile, come lo chiesi costì al conte Antonelli, di far studiare in confronto della tariffa minima francese le concessioni da noi offribili nell'eventualità di una futura trattativa. A me, ora per allora, gioverebbe d'essere informato delle intenzioni del E. Governo e del limite delle possibili sue concessioni.
Il signor Casimir-Perier, che ha agito in un senso conciliante verso di noi sopra una buona parte della stampa, mi disse d'avere visti personalmente otto Direttori a tal fine e m'espresse il suo compiacimento per il linguaggio che ora tien verso la Francia la stampa italiana. A ciò il Quai d'Orsay bada molto» (22 marzo).

«Malgrado l'atteggiamento preso da questa miserabile stampa nella questione economica dopo il viaggio del Re a Venezia e dopo la delusa speranza di vederci ridurre l'esercito, malgrado le dichiarazioni mezze negative e mezze dilatorie fattemi da Casimir-Perier, io non rinuncio alla speranza di approdare ad un accordo commerciale quando le nostre più gravi questioni interne saranno regolate. Abbiamo nel Consiglio qualche ministro favorevolissimo, e più di tutti Burdeau. Egli già da tempo incaricò il Direttore generale della dogana di preparargli uno studio comparativo della nostra tariffa convenzionale colla tariffa minimum francese. Il Direttore signor Pallain che lo fece e me ne informò confidenzialmente, mi disse che secondo i suoi calcoli la tariffa minima francese sarebbe notevolmente più vantaggiosa per noi, che la nostra convenzionale per la Francia.
E mi espresse l'avviso che in previsione della possibilità di future trattative gioverebbe che un lavoro simile fosse preparato anche da noi. Ella vedrà se non convenga seguire il consiglio per essere pronti se mai.... matureranno le nespole. Ad ogni modo, si perde il tempo anche peggio negli uffici. Intanto spinge attivamente ad un'intesa anche Rouvier, che de' suoi convegni con Lei riportò qui la migliore e la più utile impressione. Oltre ai protezionisti arrabbiati ed agli chauvins, abbiamo da lottare anche contro ogni specie d'intrighi stranieri, d'ordine politico e d'ordine economico. Gli Svizzeri e gli Spagnuoli tengono l'orecchio alle porte. Bisognerà dunque, venuta l'ora, fare presto e segretamente e fino a tanto che venga mi augurerei che la nostra stampa, la quale già abbastanza accentuò il voto del nostro paese e le buone disposizioni del nostro Governo, serbasse un prudente e dignitoso silenzio. M'illudo forse persistendo a credere alla possibilità d'una non lontanissima intesa; ma so quanto facilmente qui si passa dal bianco al nero e l'ardente mio desiderio di mettere questa vittoria al Suo attivo mi mostra gli ostacoli meno insormontabili che taluno non creda.
E quantunque in questo Gabinetto vi sia un paio di giannizzeri di Méline (i ministri del commercio e dell'agricoltura, questo secondo ferocissimo), a noi conviene desiderare che si mantenga il Presidente del Consiglio, essendo uomo di pronta risoluzione e in tali disposizioni che la parte a noi più favorevole potrà trascinarlo. Pur troppo, già battuto in breccia dai socialisti e dai radicali, egli ora deludendo nei clericali le speranze che la proclamazione dello «spirito nuovo» di Spuller aveva fatte risorgere, si espone anche alle congiure pretine.
I nostri nemici vollero sfruttare contro di noi anche gli atti addebitati al Generale Goggia, l'arresto e l'espulsione del quale fecero qui non poca impressione. Ma fra otto giorni nessuno ne parlerà più ed il savio e giustissimo linguaggio di Lei nella nostra Camera fu un'opportuna prova che non cerchiamo discussioni irritanti....
L'altr'ieri ho messo in vettura il nostro Verdi che si diportò qui come un uomo di quaranta anni e fu instancabile dalla prima ora all'ultima. Ogni pomeriggio, durante cinque ore, egli dirigeva le ripetizioni del suo Falstaff, e quando lo ebbe condotto in buon porto e ottenuto un vero trionfo, volle darsi anche un po' di divertimento e salì fino alla lanterna della Torre Eiffel! È vero che nella lanterna il celebre ingegnere aveva fatto mettere fino dal 1889 un pianoforte in previsione di visite simili. Nell'aprile del prossimo 1895 il grande maestro farà dare qui il suo Otello e spera di ritornare a metterlo in scena. Non si potè dargli, come pure si sarebbe voluto, il Gran Cordone della Legion d'Onore perchè non lo ebbe mai nessun maestro nazionale. E Rossini morì semplice «commendatore dell'ordine rosso» (26 aprile).

«Ho ringraziato Iddio con tutta l'anima di averla anche questa volta preservata dal colpo d'un miserabile assassino e di non aver lasciato distruggere da una palla la rinascente speranza del nostro paese. Se potè esservi nell'istante dello scoppio un baleno di amarezza nel suo cuore, se Ella sentì, una volta di più, a quanta ingratitudine le imbecilli passioni possono far scendere la bestia umana, ho per certo che grande deve essere la Sua consolazione, immenso il Suo conforto vedendo come dall'insano attentato scaturisca un vero plebiscito europeo che proclama e consacra la sua altissima missione e trova rispetto anche nelle file degli avversari.
Ho immediatamente ringraziato, nei termini stessi del Suo telegramma, il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli affari esteri della Repubblica.
Il primo mi aveva espressamente detto che nel felicitarla lo faceva in nome di tutto il Governo francese. Vari altri Ministri che incontrai ieri alle corse di Longchamp, ov'era invitato da Carnot al pari degli altri membri del Corpo diplomatico, mi manifestarono anche individualmente sentimenti di simpatia per Vostra Eccellenza.
Non contento di averle telegrafato, il Conte d'Aquila venne pure a pregarmi di felicitarla scrivendole. E così fece Lord Dufferin che serba il migliore ricordo dei rapporti avuti con Lei» (18 giugno).

«Jersera il Presidente della Repubblica35 invitò a pranzo tutti i Rappresentanti esteri qui accreditati e gl'inviati speciali ch'erano stati incaricati dai loro Sovrani d'intervenire in nome loro ai funerali Carnot. Sedendo alla sinistra del Presidente, che continua a trattarmi da amico, parlai a lungo con lui cercando con ogni parola ad agire sull'animo suo nel senso dei voti da Lei espressi nel telegramma direttomi in data del 29 giugno. Il signor Casimir-Perier è uomo di mente molto aperta, uomo di iniziativa e di risoluzione, e lo ha già provato. È sincero nel desiderio che i nostri due paesi si ravvicinino. È sensibile al favore col quale la sua nomina fu accolta in Italia. (E credo sarà buona politica quella d'inspirare alla nostra stampa note simpatiche per lui e gli elogi che merita il suo atteggiamento). Mi parlò con apprezzamenti giusti ed in termini eccellenti dell'opera già da Lei compita e ch'Ella andava continuando. Confessò che nello scorso dicembre non avrebbe osato credere ad una sì felice riuscita. Le rese ampia giustizia» (4 luglio).

«L'occasione di discorrere delle cose nostre col Presidente della Repubblica s'è offerta naturalmente e l'ho afferrata a volo. Invitato da lui, andai ieri a Pont-sur-Seine (due ore e mezza di ferrovia da Parigi), ove passa le sue vacanze in una vasta e splendida proprietà di sua madre, per presentargli la risposta del Re alla lettera notificante la sua elezione e per riverirlo prima della mia partenza in congedo. Fu meco quant'era possibile gentile e cordiale, mi tenne a colazione e dall'ora del mio arrivo fino a quella della mia partenza, dalle 11-1/2 fino alle 4-1/2 non mi lasciò un momento, compiacendosi a farmi visitare da un'estremità all'altra l'esteso dominio (seicento ettari) di casa Perier.
Le do in poche parole il sunto della parte politica de' nostri lunghi colloqui. Il Presidente non vede nessun punto nero pericoloso all'orizzonte e confida nel mantenimento della pace. Egli constata con soddisfazione il procedere corretto e cortese della Germania verso la Francia e ne attribuisce il merito, oltrechè alla saviezza dell'Imperatore, alle concilianti disposizioni del mio vecchio collega ed amico Münster, sempre disposto ad evitare attriti. Non è ancora ufficialmente informato di chi succederà all'ambasciatore d'Austria-Ungheria, conte Hoyos, che per ragioni di famiglia decise di ritirarsi nella vita privata, ma crede anch'egli probabile la nomina di Wolkestein, ora ambasciatore austriaco a Pietroburgo.
Di Vostra Eccellenza mi parlò rendendo omaggio all'opera da Lei compita, riconoscendo quali fossero le difficoltà di questa e notando come anche la stampa ostile, soggiogata dai fatti, poco a poco disarmava di fronte a Lei. Caddero pure tra noi alcune parole sulla visita fattagli da Bonghi, il quale non gli lasciò una.... grande impressione. Fece un'allusione, ma senza rancore, alla frase allora attribuitagli circa la triplice alleanza, mostrandosi contento che Bonghi stesso la avesse poi smentita.
I due capitoli principali su cui mi premeva di conoscere il sentimento presente del signor Casimir-Perier erano, s'intende, la questione commerciale e quella della delimitazione africana. Come in conversazioni confidenziali recenti già me l'avevano detto il Ministro degli affari esteri e il Direttore generale delle Dogane, così anche il Presidente crede che sarà possibile, prima che finisca l'anno, di rifare un accordo commerciale colla Svizzera, una buona parte degli stessi meno arrabbiati protezionisti desiderandolo. Il Direttore delle Dogane, come altre volte lo scrissi all'Eccellenza Vostra, era stato personalmente d'avviso che intavolando prima trattative coll'Italia si avrebbe più facilmente ragione delle esigenze della Svizzera; ma il Governo segue la corrente dell'opinione parlamentare e non si fida di poterla dirigere o non osa tentarlo. «Quantunque sia più facile un accordo colla Svizzera, mi disse il Presidente, le condizioni politiche esistenti fra le due repubbliche consigliandolo anch'essa, non dovete credere che per motivo politico si indugi a trattare coll'Italia: le difficoltà sono veramente e puramente d'ordine economico e dipendenti da ragioni di concorrenza». E menzionò ad esempio il vino. Gli risposi che considerando da un lato quanto sia protezionista la stessa tariffa minima francese e osservando  d'altra parte che la Francia l'applica ormai a quasi tutti gli Stati, sarebbe tanto più difficile di vedere sole ragioni economiche nell'esclusione dell'Italia inquantochè il danno economico era reciproco. E gli citai, in quanto al vino, le continue rimostranze della Camera di commercio francese di Milano la quale in più articoli del suo bollettino diede la prova del vantaggio che vi sarebbe per la Francia di prendere in Italia, anzichè in Ispagna, quel vino di cui pur sempre abbisognava l'industria di Bordeaux.
Quand'egli era Ministro degli affari esteri, io già tante volte aveva espresso di mia iniziativa al signor Casimir-Perier il desiderio che mediante una concordata delimitazione intorno ad Obock fosse eliminata la possibilità d'attriti fra noi in Africa, che un nuovo mio suggerimento a tal fine non poteva nè sorprenderlo, nè parergli inopportuno. Gli raccontai ciò che da ultimo era accaduto tra il signor Hanotaux e me e come la questione fosse rimasta in sospeso, non senza mostrargli i pericoli d'una situazione abbandonata al caso o alle conseguenze di fatti compiuti. Gli dissi che per il Ministro degli affari esteri di Francia le vacanze parlamentari mi sembravano specialmente favorevoli per iniziare una trattativa senza la pressione quotidiana della Commissione coloniale ed aggiunsi d'essere certo che le entrature non sarebbero respinte da Vostra Eccellenza. Il Presidente non si addentrò in una discussione, nè recriminò contro il protocollo anglo-italiano; mostrò invece buona volontà e prese l'impegno di parlarne con Hanotaux. Non dubito che lo farà e che lo farà con buona intenzione; ma Hanotaux già in precedenza m'aveva dichiarato che prima di trattare egli avrebbe voluto assicurarsi della possibilità di un'intesa. Allora egli non era preparato a formolare un programma e disse che avrebbe ripresa la questione in serio esame: ma se il risultato di quest'esame lo condusse a scoprire un diritto della Francia sulla città di Harrar, come recentemente affermò a Lord Dufferin, prevedo che la buona volontà del Presidente della Repubblica lascierà il tempo che trova. Non è però meno vero che la persistente migliore intuonazione della stampa francese a nostro riguardo rende poco a poco il terreno più arabile, e se con ciò le tendenze generali si modificheranno, crescerà pure l'influenza più benefica degli amici nostri e degli uomini savii sui politicanti chauvins e intransigenti.
Per ora la grande preoccupazione del Governo francese sono gli anarchici. Si avvedono un po' tardi d'aver lasciato fare al male progressi enormi. Le minacce piovono su tutti i membri del Governo e ciò che rivelano arresti, perquisizioni ed interrogatorii non diminuisce le apprensioni. La sua naturale arditezza e noncuranza del pericolo espone l'attuale Presidente molto più che non fosse esposto l'infelice suo predecessore» (24 agosto).

«Profittai dell'occasione per invocare il suo intervento presso il Ministro degli affari esteri cui la dimane (come difatti ieri feci) io doveva parlare degli intrighi sempre continuati dei signori Chefneux e consorti in Etiopia. Gliene potei discorrere tanto meglio inquantochè già sovente, quand'era Ministro degli affari esteri, io mi era con lui querelato di quegli intrighi. Protestò, come sempre fece, che il Governo non c'entrava per nulla e non incoraggiava punto i maneggi di alcuni speculatori o negozianti, e mi promise di raccomandare al signor Hanotaux ogni possibile vigilanza.
La gioia del vecchio amico di Verdi, del signor Ambroise Thomas, nel ricevere dalle mie mani il Gran Cordone Mauriziano che Vostra Eccellenza m'inviò per lui, non ebbe limiti. Egli mi creò perfino barone nella lettera di ringraziamento che mi pregò e che ho l'onore di trasmetterle qui unita. Peccato che non sia più vegeto, e con ciò più capace di propaganda attiva, il caldo amico francese che Ella ha nell'illustre decano di questi compositori.
Sapendo di fare cosa grata a Verdi, io suggerii a questo Ministro dell'Estero di dare la croce anche a Ricordi ed a Boito. La mia proposta fu immediatamente accolta, talchè sono in fatto compensate anche le decorazioni da Lei accordate ai Direttori ed al Capo d'orchestra dell'Opera» (1 novembre).

Molti francesi vennero in quell'anno 1894 a Roma e furono ricevuti da Crispi: i deputati Deloncle, Mermeix, Pichon, Léon Bourgeois, Ferdinando Brunetière, il senatore R. Waddington, Emilio Zola e altri. Tutti promisero di adoperarsi presso i loro amici per una pacificazione tra la Francia e l'Italia, ma tornati in patria o non tennero parola o constatarono la loro impotenza. «Il Billot - scrisse Crispi nel suo diario - invece di aiutare l'opera mia, ha cospirato e continua a cospirare coi miei nemici. Egli fa al suo governo dei rapporti velenosi.»
In gennaio 1895 sollevò grande scalpore il richiamo da Parigi dell'ambasciatore italiano. Il Ressman era da lunghi anni devoto personalmente a Crispi; maggiore fu quindi il rammarico di questi quando dovette constatare che dinanzi alla condotta malevola e insidiosa dell'Hanotaux, l'azione del Ressman era inefficace. Nel diario di Crispi, sotto la data di giovedì, 6 gennaio 1895, si legge:

«Del resto, sono otto mesi da che Ressman doveva essere allontanato da Parigi. Io l'ho impedito difendendolo presso il barone Blanc. Ora ho dovuto convincermi che Ressman non poteva rendere utili servigi all'Italia.... Egli non ha influenza presso il Governo francese.»

Il Billot, nel libro più volte citato36, ha scritto a proposito del richiamo del Ressman molte inesattezze. Lo ha attribuito a Crispi - «car nul ne songeait à imputer au baron Blanc la responsabilité de la décision prise» - e per motivi personali, cioè perchè il Ressman non seppe ottenere dal governo francese soddisfazione per alcuni articoli del Temps ingiuriosi contro il presidente del ministero italiano. È certo che Crispi fu irritato dell'ingerenza di quel giornale ufficioso del governo francese nella campagna personale condotta allora contro di lui dal Cavallotti e compagni, ingerenza la quale gli confermava che quella campagna di denigrazione aveva ispiratori e collaboratori francesi. Egli aveva rilevato in uno degli articoli del Temps talune dichiarazioni fatte imprudentemente in Roma, con parole quasi identiche, dal Billot, il 13 dicembre precedente, a un collega del corpo diplomatico che glie le aveva riferite. A conferma di cotesto legittimo risentimento valga il seguente telegramma:

«Ressman ambasciatore Italia
Parigi.

Roma, 1.° gennaio 1895.

Il Temps del 30 dicembre conferma la mala volontà ed il contegno in questi ultimi tempi dell'ambasciatore di Francia in Roma. Il signor Billot è stato una eccezione nella diplomazia straniera presso il Quirinale, cospirando coi nostri avversarii e riferendo cose strane al suo Governo. Il suo linguaggio con alcuni suoi colleghi è stato sconveniente, e prova che nulla è possibile tra la Francia e l'Italia quando coloro che dovrebbero cooperarsi ad un accordo fra i due paesi lavorano a sempre più inimicarli.
Vi scrivo ciò per vostra norma, convinto come io sono che anche voi sarete impotente nella missione conciliatrice che vi avevo affidata.
Sbagliano però Billot ed il suo Governo nei loro giudizii e nelle opere loro; il Governo italiano resisterà alle congiure comunque favorite dallo straniero.

Crispi.»

Ma se in quella circostanza la debolezza del Ressman potè dispiacere a Crispi, le ragioni del richiamo erano più lontane e furono sostanzialmente quelle indicate nel brano di diario qui avanti riferito.
È poi insussistente, anzi è contrario al vero, ciò che il Billot ha affermato circa la cattiva impressione che il provvedimento del governo italiano avrebbe prodotto presso gli alleati e circa i consigli di prudenza che da essi sarebbero stati dati.

Nel Diario di Crispi troviamo:

«6 gennaio ore 16-1/2 - Visita del barone de Bülow. Felicitazioni per richiamo di Ressman. Non godeva la fiducia nè dell'ambasciatore inglese, nè del germanico.»
Al posto del Ressman fu inviato a Parigi il conte Tornielli, ambasciatore a Londra, il quale il 18 febbraio 1895 presentò le lettere credenziali al Presidente della Repubblica, Félix Faure, succeduto a Casimir-Perier, dimissionario il 15 gennaio di quello stesso anno. Il Tornielli, ricevuto con freddezza, potè grazie al suo tatto vincere dappoi le diffidenze e tenere degnamente la rappresentanza del suo paese. Le relazioni italo-francesi non mutarono, sebbene si evitassero nuovi incidenti. L'alleanza franco-russa, proclamata per la prima volta il 10 giugno alla tribuna parlamentare dai ministri Hanotaux e Ribot, non giovò davvero a ispirare idee pacifiche alla politica della Francia, la quale divenne più che mai altezzosa e attivamente malefica in Etiopia agl'interessi italiani.
Di quest'azione parleremo altrove.



Capitolo Sesto.

La Francia contro il credito italiano.

Tutto il mondo finanziario francese ostile. - La guerra ai titoli italiani. - Crispi chiede l'intervento della finanza germanica. - Bismarck e gli accordi del 1888. - La campagna al ribasso del 1889. - La stampa francese unanime consiglia l'espulsione dalla Francia dei titoli italiani. - Nuove difese dei banchieri tedeschi che si uniscono in Sindacato nel 1890. - Fondazione dell'Istituto Italiano di Credito Fondiario. - Fondazione della Banca Commerciale Italiana sotto gli auspicii di Crispi.

Una delle armi, la maggiore forse, che l'ostilità francese adoperasse per punire l'Italia di essersi alleata alla Germania, fu il discredito col quale colpì il Consolidato e gli altri valori italiani quotati alla Borsa di Parigi.
La cospirazione ai nostri danni si estendeva a tutto il mondo finanziario francese, ed era popolarizzata da una letteratura impressionista che descriveva sui giornali la miseria delle popolazioni italiane, costrette ad emigrare in massa quando erano stanche di nutrirsi d'erba, e contristate dal brigantaggio; denunziava la precarietà delle condizioni del Tesoro italiano, che affermava prossimo al fallimento; e attribuiva tale stato spaventevole alle spese militari, imposte da una politica estera anti-francese.
La speranza di «prenderci per fame», come dicevano, di costringerci ad abbandonare la Triplice Alleanza col ritiro dei capitali investiti in valori italiani e di determinare la sfiducia internazionale verso l'Italia, era sicuramente mal fondata. Ma il danno di questa guerra senza quartiere raggiungeva proporzioni  considerevoli, poichè, dagli inizii del Regno, la finanza nostra era orientata verso Parigi, e in mani francesi si trovavano miliardi di rendita italiana. Gli avversari interni dell'alleanza italo-germanica si giovavano, naturalmente, del malumore che ne derivava e che si aggiungeva all'altro provocato dalla rottura del trattato di commercio e dall'applicazione di tariffe differenziali quasi proibitive. Il Governo italiano aveva il dovere di preoccuparsene e di esigere che il Governo germanico si adoperasse a neutralizzare, nella misura del possibile, questo effetto doloroso per l'Italia di una politica che alla Germania non arrecava che beneficii.
Il principe di Bismarck interessato dall'on. Crispi nei primi mesi del 1888, influì premurosamente a decidere l'alta banca germanica a intervenire in favore dei valori italiani. In una lettera del 18 febbraio di quell'anno il ministro Magliani scriveva a Crispi:

«Non ho risposto subito perchè desidero vedere la comunicazione fatta dai banchieri berlinesi alla nostra Banca Nazionale. Questa non è ancora giunta. Frattanto mi pare che possa rispondersi mostrando la soddisfazione del nostro Governo, e dichiarando che saranno prontamente spediti articoli, documenti e notizie perchè la stampa tedesca faccia una campagna a favore del credito italiano, e che si farà anche nota la forma che a noi sembra più conveniente per un'operazione finanziaria a Berlino.
Indicheremo con precisione l'opinione nostra, dal punto di vista tecnico, su quello che meglio corrisponde allo scopo nelle condizioni attuali. Fin d'ora si può dire che mezzi efficaci sono:
1.° Ricomprare sul mercato di Parigi quanto più sia possibile di rendita italiana;
2.° Indurre le Banche tedesche a scontare gli effetti cambiarii del commercio italiano, mostrando di avere in noi la fiducia che la Francia ci nega nel momento attuale.
Col più affettuoso ossequio etc.»

Il sindacato costituito da Bleichroeder, Disconto Gesellschafft e Deutsche Bank, cui si associarono i banchieri inglesi Baring e Hambro e le maggiori banche italiane, raggiunse lo scopo di arrestare la discesa del nostro Consolidato alla Borsa di Parigi. Il Tesoro italiano compensò tale servizio coll'impegnarsi ad affidare al Sindacato l'emissione di obbligazioni ferroviarie.

Nel 1889 la campagna al ribasso riprese a Parigi nuovo vigore. Il 28 luglio l'on. Crispi telegrafava all'Ambasciatore d'Italia a Berlino:

«Da venti giorni a Parigi con manovre organizzate dal Governo della Repubblica si lavora a far ribassare il prezzo della nostra rendita tanto che da 96 siamo giunti a 92 e 90.
Voglia pregare il Principe affinchè impegni il solito banchiere amico a comprare siccome fece al 1888, onde arrestare una discesa la quale moralmente influisce sul nostro paese e della quale nessuno sa darsi conto.»

Il 2 agosto giungeva la seguente risposta:

«Iersera solamente il sottosegretario di Stato, dopo avere riferito a Varzin, mi comunicò che il Cancelliere accolse di buon grado la domanda di V. E. ed impartì istruzioni per reagire contro il ribasso del prezzo della nostra rendita verificatosi nel luglio. Alcuni giornali impegneranno l'azione, anzi uno di loro l'ha già iniziata sino dal 24 dello stesso mese, ma ciò avrà luogo nella misura richiesta dal fatto che da qualche giorno si manifesta un rialzo della rendita. Un'azione più determinata ed un eventuale concorso dei finanzieri di Berlino sarebbero meglio indicati allorchè non si mantenesse l'attuale rialzo.»

Queste assicurazioni erano confermate a Roma dall'Ambasciatore germanico, come si rileva dal seguente telegramma diretto da Crispi al conte de Launay a Berlino in data 6 agosto:

«Il 4 corrente il conte di Solms è venuto ad assicurarmi che S. E. il Principe di Bismarck aveva fatto pratiche affinchè si arrestasse il movimento di ribasso provocato contro la rendita italiana alla Borsa di Parigi. Soggiunse che i banchieri ai quali S. E. si era diretta vorrebbero che ci valessimo di loro per le operazioni di credito alle quali l'Italia potrebbe ricorrere. Risposi che per il momento non abbiamo bisogno di prestiti, i servizi della Tesoreria essendo pienamente assicurati; ma che all'occorrenza ed in ogni occasione ci varremmo dei banchieri tedeschi. Voglia confermare questa mia assicurazione al Principe prevenendolo che il lavoro al ribasso ha ripreso nuovamente alla Borsa di Parigi e dicendo essere ormai necessario che da Berlino si provveda ad arrestare la manovra dei nostri avversari, come già fu fatto con successo lo scorso anno.»

Ma l'intervento dei banchieri berlinesi ritardava. Il 10 settembre l'Ambasciata italiana a Parigi telegrafava ripetutamente:

«Un malevolo articolo del Matin dice imminente in Italia il decreto che ristabilisce il corso forzoso come fatale conseguenza dell'autorizzazione data al ministro del Tesoro d'emettere per 90 milioni di biglietti consorziali da 10 e da 5 lire. I bollettini finanziari dello stesso e di altri giornali spingono con crescente accanimento alla vendita ed espulsione dei titoli italiani.
Il fatto che la rendita italiana ribassò qui oggi fino a 91 produce molta impressione nella nostra Colonia, taluni membri della quale vorrebbero che dal R. Governo in qualche modo si provvedesse per impedire un panico che potrebbe diventare dannosissimo al nostro credito.»

E Crispi incalzava a Berlino lo stesso giorno:

«Dal Gabinetto germanico fummo assicurati che l'azione dell'alta Banca tedesca a favore della nostra rendita si spiegherebbe allorchè fosse discesa al disotto del corso di 93. Essa è attualmente a Parigi scesa a 91 ed a Berlino a 92 e frazioni. Il momento è dunque giunto. Desidero che V. E. riprenda immediatamente le pratiche presso cotesta Cancelleria acciocchè i signori Bleichroeder ed altri siano interessati ad entrare in campagna per il rialzo dei nostri fondi.
In seguito mio telegramma odierno la prego far notare a codesta Cancelleria come la cospirazione alla Borsa di Parigi contro il nostro 5% sia evidente. I bollettini finanziari dei giornali francesi lo dimostrano tale, ed ormai bisogna esser ciechi per non vedere che la guerra che per il momento non ci si fa militarmente, ci vien fatta deprezzando il nostro credito. La rendita in pochi mesi è ribassata di sei punti e continua a ribassare per le false notizie diffuse dalla stampa.»

Contemporaneamente Crispi telegrafava all'on. Giolitti, succeduto al Magliani nel Ministero del Tesoro:

«La rendita continua a discendere a Parigi, e siccome il movimento di ribasso in quella Borsa colpisce solamente il nostro 5% e non gli altri titoli stranieri, bisogna provvedere senza ulteriore indugio. Al 1888 Magliani ed io abbiamo resistito alla guerra che ci si voleva fare.
Parmi che si potrebbe oggi fare lo stesso. Ho telegrafato a Berlino. Chiamate Grillo ed Allievi, e ricostituite altra volta il Sindacato. Allora c'eravamo anche rivolti a Londra con buon successo, siccome potrete sapere dal Cantoni.»

L'on. Giolitti si affrettava a rispondere:

«Dopo conferenza avuta con V. E. quindici giorni fa incaricai comm. Grillo scrivere Berlino al banchiere Bleichroeder. Questi gli rispose parergli cause ribasso attuale diverse da quelle del 1888, perchè più generali. Mostrossi preoccupato disavanzo bilancio italiano che credeva maggiore di quanto è; inoltre temeva vendita rendita Cassa Pensioni; tuttavia dichiaravasi pronto intendersi con Banca Nazionale. Giorno stesso in cui si conchiuse accordo circa crisi, diedi al comm. Grillo elementi necessari per dimostrare a Berlino condizioni bilancio, e lo incaricai trattare con Bleichroeder 126 milioni obbligazioni ferroviarie d'accordo col gruppo che fece precedente emissione, con dichiarazione che trovando concludere a buoni patti tali operazioni, non venderei più rendita Cassa Pensioni, ma proporrei creare titolo netto da imposta, da collocare a Berlino e Londra. Così sarebbe tolta difficoltà principale creazione Sindacato, e assicurata azione efficace di questo.
Aspetto risposta. Appena la riceva agirò subito e informerò Vostra Eccellenza.»

Il giorno 11 settembre l'on. Crispi ricevette a Napoli l'Incaricato d'affari germanico, conte de Goltz, che gli fece la seguente comunicazione:

«Impegno del Governo Germanico di far intervenire le Banche tedesche quando il corso della rendita italiana fosse discesa al disotto di 93.
Negli ultimi giorni tale corso essendo disceso a 92 e 91 e frazioni, il gruppo finanziario berlinese, composto della Berliner Handelsgesellschaft e dalla Deutsche Bank, si è dichiarato pronto a formarsi un nuovo portafoglio di cinquanta milioni di lire di rendita italiana, nonchè a facilitare i «reports» e la «Lombardirung» (imprestiti su depositi).
Considerando però che quelle operazioni non lasciano sperare profitto, mentre potrebbero esporre a qualche rischio, il gruppo suddetto desidera che, in compenso, il Governo Italiano nelle sue future eventuali operazioni all'estero s'indirizzi ad esso prima di far capo ad altri. Il gruppo in parola si appoggia su buone case inglesi e sul Crédit Mobilier di Francia.
Qualora S. E. il cav. Crispi si dichiari pronto ad accettare la condizione suespressa, il gruppo bancario tedesco si farà premura di negoziare i particolari dell'operazione direttamente con Roma.
Quando occorra al Governo Italiano di fare, in avvenire, qualche emissione nuova, il gruppo accennato interesserebbe in essa, d'accordo col Governo Imperiale, le principali case bancarie tedesche.»

L'indomani, 12 settembre, l'onor. Crispi telegrafava all'onorevole Giolitti:

«Ieri sera è venuto espressamente da Roma l'Incaricato d'affari di Germania per dirmi che il gruppo dei banchieri tedeschi è pronto ad entrare in campagna contro i ribassisti francesi a condizione che il Governo Italiano in caso di un prestito si rivolga a preferenza ad esso gruppo. Ho accettato, e mi fu risposto che il Bleichroeder si sarebbe subito posto in relazione con la nostra Banca Nazionale per operare a siffatto scopo.
Bisogna lavorare in guisa da emanciparci dalla tirannide del mercato francese, pericoloso tanto più per la mobilità di quella popolazione.

Crispi.»

Con l'intervento del Bleichroeder il nostro Consolidato ebbe qualche sostegno a Berlino, sebbene non tutti i milioni promessi fossero stati investiti in rendita italiana e alcuni membri del Sindacato non trascurassero il giuoco di borsa per conto proprio, rivendendo, cioè, la rendita comperata appena vi era un piccolo margine di utile. A Parigi la campagna contro di essa era diretta da un Comitato di ribassisti, che la chiamava nei suoi manifesti «la rente de M. Crispi». Si trattava senza dubbio di una campagna politica, e Crispi non si stancò di metter ciò in evidenza presso il Governo Germanico per reclamarne l'interessamento.

Nel 1890 le principali banche tedesche si associarono per la difesa del credito italiano.
In Francia persistevano le ostilità.

«La campagna - scriveva il Menabrea - aperta in questa piazza contro il credito dell'Italia, che sembrava alquanto smessa, si è di nuovo ravvivata sotto diverse influenze. Anzitutto vi ha il nuovo prestito di 700 milioni che sta per aprirsi dal Governo Francese, per il quale si richiede che il danaro, anzichè portarsi sui valori esteri e specialmente sui nostri che avevano ripreso un poco di favore, si riservi al contrario per il sovradetto prestito. Indipendentemente da questa circostanza, vi ha sempre la dominante passione d'inceppare il Governo Italiano in tutti i modi, specialmente nelle cose economiche, colla speranza di ridurlo ad arrendersi in balìa della Francia.»

L'ambasciatore germanico, conte Solms, scriveva a Crispi il 3 aprile:


«Mon cher Président,

Comme je vous l'avais promis hier, j'ai télégraphié au Ministère des Affaires Étrangères à Berlin en lui communiquant votre désir au sujet de M. de Bleichroeder, à qui j'ai en même temps adressé une lettre particulière.
J'ai aujourd'hui la satisfaction de vous informer qu'on m'a télégraphié de Berlin que dès qu'on a pris connaissance de l'intérêt que vous témoignez à cette affaire financière, on a exercé, avec le consentement de M. le Chancelier, une vive pression sur M. Bleichroeder pour créer avec son concours et celui de la «Disconto Gesellschaft» un puissant consortium allemand en faveur de l'entreprise financière italienne; que le succès, quoique pas encore assuré, était néanmoins vraisemblable.
Je suis chargé de communiquer cette nouvelle très confidentiellement à Votre Excellence et je suis heureux que ma démarche promet un bon résultat.»

Lo stesso giorno il banchiere S. Bleichroeder, amico personale del Principe di Bismarck, telegrafava a Crispi:

«Je suis heureux de pouvoir annoncer à Votre Excellence entente établie entre moi et groupe des banques.»

Ancora nel 1890 l'on. Crispi appoggiò diplomaticamente la creazione dell'Istituto Italiano di Credito Fondiario col concorso di un Sindacato finanziario germanico. Esso fu un fatto compiuto il 25 agosto di quell'anno. Il comm. Giacomo Grillo, direttore generale della Banca Nazionale, inviava in quel giorno da Lucerna il seguente telegramma a Crispi:

«Protocollo per creazione nuovo Credito fondiario italiano sottoscritto oggi Lucerna fra Sindacato Italo-tedesco, Banca Nazionale e Società Immobiliare. Nuovo Istituto che avrà cento milioni di capitale comincierà con trenta milioni versati, assunti metà Banca Nazionale e metà Sindacato e Immobiliare.

Grillo.»

Tornato alla fine del 1893 al Governo, l'on. Crispi trovò a Parigi le stesse cattive disposizioni nel mondo finanziario e bancario. La visita del Principe ereditario d'Italia a Metz, avvenuta sotto il Ministero precedente, era stata considerata in Francia come un oltraggio, e la Borsa di Parigi ne aveva profittato. Il programma dei ribassisti francesi era in quei giorni di portare la rendita italiana a 75, cioè al corso di quella spagnuola, e l'aggio al 20%, per mettere il Governo della Repubblica in grado d'infliggere all'Italia un grosso scacco con la denunzia della Convenzione monetaria. Il Sindacato Italo-Germanico fu ricostituito, ma alla testa del governo di Germania non vi era più il principe di Bismarck, e la sua efficacia fu scarsa.

Alla metà del 1894 fu fondata in Italia la Banca Commerciale Italiana con capitali germanici, austriaci, svizzeri e italiani, cinque milioni in tutto, ed ecco in quali circostanze.
L'idea di fondare una banca italo-germanica fu una conseguenza dell'interessamento dell'alta finanza della Germania al credito italiano, reclamato da Crispi e incoraggiato dalla Cancelleria di Berlino.
Sollecitati ad occuparsi degli affari italiani, i banchieri tedeschi furono naturalmente portati a considerare la convenienza della creazione in Italia di un istituto col quale potessero esercitare più facilmente il controllo su quegli affari.
Ritornato appena al governo e informato del progetto, ancora vago, manifestato dal capo della casa Bleichroeder, sig. Schwabach, all'ambasciatore conte Lanza, il 21 dicembre 1893 Crispi fece mandare parole d'incoraggiamento. Come l'idea divenisse realtà risulta dai documenti che seguono:

«Berlino, 3 giugno 1894.

Signor Ministro,

Esce da casa mia questo momento il signor Schwabach, Capo della Casa Bleichroeder, il quale più di noi forse desidera creare una Banca in Italia col concorso di capitali tedeschi ed austriaci, e che sempre fu trattenuto dai suoi soci in quest'affare, in attesa della soluzione delle nostre questioni finanziarie pendenti davanti al Parlamento. Egli vorrebbe, se ancora il R. Governo avrà un voto favorevole in questi giorni, tentare di nuovo trascinare i suoi compagni ad una sollecita decisione e crede farsi forte di ottenere lo scopo se solo potesse aver fra mani un documento che provi il R. Governo vedrebbe con piacere l'istituzione della Banca in discorso.
Che questo sia il sentimento del R. Governo ebbi già a dichiararlo in tutti i modi, in conformità agli ordini ricevuti; il signor Schwabach però insistè nella sua domanda, dicendomi che gli basterebbe una parola del Presidente del Consiglio, la quale confermasse il discorso che S. E. avrebbe, pare, tenuto a certo signor Veil37 venuto qui ultimamente, il quale rientrato in Italia avrebbe appunto parlato a Roma con Sua Eccellenza Crispi. Ignoro quanto siavi di vero in ciò che il Veil ha riferito qui dopo quel discorso; ad ogni modo non potendo la cosa impegnare a nulla, io sarei del remissivo parere volesse Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio spedirmi un telegramma che io possa far vedere allo Schwabach e concepito all'incirca così: «Ringraziola comunicazioni fatte: come Vostra Eccellenza sa, R. Governo vedrebbe con sommo piacere l'istituzione di una Banca tedesca in Italia e spera che i signori Banchieri tedeschi, i quali paiono disposti a concorrere coi loro capitali alla creazione della Banca, si persuaderanno che sia, anche nel loro interesse, giunto il momento di prendere una decisione.»

Lanza.»

«Ambasciata Italiana,
Berlino.

Roma, 7 giugno 1894.

[Telegramma]

Ringraziola comunicazione fatta. Come V. E. sa, R. Governo vedrebbe con sommo piacere l'istituzione di una Banca tedesca in Italia e spera che i signori banchieri germanici, i quali paiono disposti a concorrere coi loro capitali alla sua creazione, si persuaderanno che anche nel loro interesse, sia giunto il momento di prendere una decisione.

Crispi.»

«Berlino, il 9-6-1894.

Capo della Casa Bleichroeder, con lettera di iersera, m'informa che 15 corrente saranno Milano delegati per costituzione nota Banca italo-germanica. Di là si porteranno a Roma. Aggiunge sperare Banca possa essere costituita fine corrente. Segue rapporto.

Lanza.»

«Berlino, 10 giugno 1894.

Signor Ministro,

(Riservato). Facendo seguito al mio telegramma di ieri, pregiomi trasmettere qui unito a V. E. copia della lettera direttami dal signor Schwabach, capo della Casa Bleichroeder, per comunicarmi la decisione presa dal gruppo da lui rappresentato, di fare incontrare il 15 corrente a Milano i propri delegati con quelli dell'Austria-Ungheria e della Svizzera, per risolvere le questioni le più importanti di massima, e venire in seguito a Roma. Egli soggiunge sperare una prossima favorevole soluzione della questione.

Lanza.»

[Annesso]

«Berlin, le 9 juin 1894.

Excellence,

Mon intention était de vous faire personnellement la communication qui suit, mais la conférence a duré si longtemps que je n'ai plus pu arriver à temps pour me présenter à V. E. Comme d'un autre côté nous avons demain dimanche et que je voudrais bien pouvoir me reposer un jour sur ma propriété à la campagne, mes nouvelles ne vous parviendraient que Lundi très tard, de sorte que je me permets de choisir la voie épistolaire.
Les amis ont pris note avec satisfaction des informations  que V. E. a bien voulu nous faire, et ont décidé par suite d'envoyer des délégués en Italie. Délégués qui se rencontreront à Milan le 15 juin a. c. avec leurs collègues Austro-Hongrois et Suisses pour résoudre en Italie même les questions les plus importantes, telles que: qui du côté Italien devra participer à l'affaire, et ce qui concerne la question du personnel.
Aussitôt que l'on se sera entendu par rapport au Groupe à former, tous les Délégués ou quelques uns d'eux, se rendront à Rome pour les négociations avec monsieur le ministre, de sorte que j'ose espérer que la fondation de la Banque pourra se faire avant la fin du mois.
Tout en laissant à V. E. le choix si elle veut porter cette information confidentielle à la connaissance de S. E. le président du Ministère Crispi, je prie V. E. d'agréer (ecc.)

(Signe): Schwabach.»

«Berlino, il 23 giugno 1894.

Constami che Casa Bleichroeder ha versato Banca Imperiale nome fondatori Banca Commerciale Italiana somma marchi quattro milioni ottocento sessantamila a disposizione Banco Sicilia in Milano.

Lanza.»

Con cinque milioni, adunque, fu fondata in Milano la Banca Commerciale Italiana, che ha oggi centocinquanta milioni di capitale e un larghissimo giro d'affari in tutto il Regno.
A questo Istituto è legato il nome di Crispi, che gli creò l'ambiente propizio e gli dette l'impulso a nascere.



L'ITALIA E IL VATICANO.



Capitolo Settimo.

Un incidente italo-portoghese.

Il Re Fedelissimo a Roma pel Re d'Italia. - L'annunzio ufficiale della visita. - Il Vaticano mette il veto. - Imbarazzo e indecisione del Re Carlo e del suo governo. - Re Carlo si raccomanda a Crispi. - Linguaggio severo della stampa portoghese. - Re Carlo prega di essere ricevuto a Monza; rifiuto di Re Umberto. - Rinunzia alla visita. - Crispi rompe le relazioni diplomatiche col Portogallo. - Colloquio Crispi-Vasconcellos. - Giudizii di diplomatici sulla condotta del Ministero portoghese. - Le origini remote della caduta del regime monarchico nel Portogallo.

Il primo di ottobre 1895 il Sotto-segretario di Stato del Ministero degli affari esteri, on. Adamoli, partecipava all'on. Crispi:

«Il Ministro di Portogallo presso la Real Corte è stato oggi alla Consulta per annunciarmi ufficialmente che S. M. il Re di Portogallo verrà far visita in Roma al nostro Augusto Sovrano.
Il signor di Carvalho e Vasconcellos ha soggiunto che l'arrivo di S. M. il Re di Portogallo in Roma avrà luogo tra il 15 ed il 20 del corrente mese di ottobre. Egli si riserva di indicarlo con maggior precisione».

Per fare analoga comunicazione al Re, il Ministro Carvalho e Vasconcellos partiva per Monza lo stesso giorno primo di ottobre.
Don Carlos, Re di Portogallo e figlio di Maria Pia, sorella del Re Umberto, muoveva dal suo paese un giorno dopo per fare la prima visita dacchè era salito al trono ai capi degli Stati amici. Da Lisbona, in una corrispondenza in data 3 di ottobre, si annunziava:

«Il Re è partito ieri a mezzogiorno. Oggi sarà a San Sebastiano, ospite della Reggente di Spagna e dopo dimani giungerà a Parigi. I giornali dicono che vi si tratterrà una diecina di giorni, ma ho motivo di credere che egli prolungherà oltre quel termine la durata della sua permanenza in Francia. Verrà in seguito la visita di Sua Maestà alla nostra Real Corte, d'onde proseguirà per Berlino terminando il suo giro con un breve soggiorno in Inghilterra. È commentata l'esclusione della Corte Austro-Ungarica dal programma di questo viaggio ufficiale, tanto più che la stampa ispirata dai circoli di Corte lo dichiara provocato dal solo desiderio di visitare i Sovrani e Capi degli Stati amici. In quanto alla Russia, la lontananza e le scarse relazioni che passano tra l'uno e l'altro Stato bastano a spiegare in modo più o meno soddisfacente, come non sia compresa nell'itinerario una visita alla Corte di Pietroburgo.»

Lo stesso giorno 3 di ottobre un telegramma dell'Incaricato d'affari italiano a Lisbona, di Cariati, avvertiva:

«Mi consta da fonte sicura ed in via strettamente confidenziale, che il Nunzio apostolico ritiene che la Santa Sede romperà probabilmente le sue relazioni diplomatiche col Portogallo in conseguenza della visita del Re a Roma, dove Sua Santità ricuserà, in ogni caso, di riceverlo.»

Un altro telegramma dello stesso Ministro, in data 5 ottobre, era così concepito:

«Ministro degli affari esteri, col quale ho avuto una conversazione mi ha confermato poc'anzi che la visita del Re di Portogallo a Roma sarebbe certamente seguita dal richiamo del Nunzio, il che avrà conseguenze gravissime per questo paese. Governo portoghese, egli ha detto, è pronto a tutto per compiacere al Re e al Governo italiano, ma non può considerare senza grave apprensione  una simile eventualità che l'Italia non può desiderare, giacchè invece di creare un precedente favorevole, non farebbe che precludere definitivamente ogni ulteriore possibilità di visite di Sovrani e Capi di Stato a Roma. È nello interesse del Governo italiano di lasciare questa questione impregiudicata, tanto più nel caso presente essendo abbondantemente noti i sentimenti di profonda affezione che legano le due Corti e la simpatia tradizionale delle due Nazioni.»

Il viaggio a Roma del re Carlo, spontaneamente deciso e annunziato, incontrava dunque un ostacolo che inconsideratamente non era stato preveduto. Il signor Pinto de Soveral, ministro degli affari esteri del Portogallo, si scusava rigettando la responsabilità della decisione della visita a Roma sul defunto suo predecessore, ma egli era già in carica il 1.° ottobre quando di quella visita ne fu dato l'annunzio ufficiale. Crispi, informato esattamente di quanto avveniva in Vaticano, il 7 telegrafava al Primo Aiutante di Campo del Re, generale Ponzio Vaglia:

«Il Papa si oppone al viaggio di Re Carlo a Roma. La Segreteria di Stato pontificia ha scritto a Lisbona protestando che ove le sue domande fossero respinte richiamerebbe il Nunzio accreditato presso la Corte portoghese.
Pregola informare S. M. il Re.»

Contemporaneamente il re Carlo, ch'era giunto a Parigi, pregava il re Umberto di toglierlo dall'imbarazzo ricevendolo in incognito a Monza. Ma questa soluzione non era possibile dopo la partecipazione ufficiale della visita a Roma e la pubblicità che se n'era fatta. Alla comunicazione ricevuta della negativa fatta da Umberto al suo reale nipote, Crispi rispondeva:

«S. E. Ponzio Vaglia
Monza.

Roma, 9 ottobre 1895.

Il contegno del nostro Augusto Sovrano non poteva essere che quello che dalla M. S. mi attendevo. Noi non abbiamo bisogno di questo minuscolo Re di Portogallo, il quale non ha importanza alcuna in Europa. Se egli non può venire in Roma, che resti a casa sua - e siccome il pentimento suo e del suo Governo indica una manifestazione di principii a noi contraria, ritireremo il nostro Ministro da Lisbona, come risposta alla sua condotta.
La prego di voler rassegnare a S. M. i miei devoti omaggi.

Crispi.»

Il re Carlo, tra la negativa dello Zio di riceverlo altrove che a Roma e l'annunzio da Lisbona che il Papa avrebbe considerato la sua andata a Roma come «un insulto personale», da Sovrano «cattolico e fedelissimo» quale era, prese la risoluzione di rinunziare al suo viaggio in Italia. Ma poichè doveva preoccuparsi delle conseguenze di essa, fece giungere a Crispi la preghiera di considerare benevolmente la sua posizione e per mezzo dell'ambasciatore italiano a Parigi, gli fece pervenire l'assicurazione che sarebbero state date dal suo governo «le più amichevoli spiegazioni».
A questa comunicazione Crispi obbiettava:

«S. E. Tornielli
Parigi.

15 ottobre 1895.

Le notizie ch'ella mi dà col suo telegramma di ieri non sono segrete: esse furono contemporaneamente mandate col telegrafo ai giornali di Roma.
Ringrazio S. M. Fedelissima delle comunicazioni di cui l'ha incaricato. Ma non posso nascondere che ciò ch'è accaduto è abbastanza deplorevole, e non sarebbe avvenuto se il Governo portoghese avesse ben valutato il progetto del viaggio del Re in Italia, ed avesse saputo prevederne le conseguenze.
La spiegazione che S. M. ha voluto dare del mancato viaggio, se testimonia della sua personale delicatezza e del suo desiderio di evitare penose impressioni in Italia, dopo le polemiche delle quali da dieci giorni sono pieni i giornali di tutta Europa non può contentare la pubblica opinione in Italia.
E fatalmente ieri stesso, dal Gabinetto di S. M. il Re Carlo, usciva una conversazione, riferita dai giornali di qui, che la spiegazione sovrana mette un po' in dubbio.
Un complesso di circostanze, come si espresse S. M. di Portogallo, ma tutte all'infuori di noi, hanno reso la posizione assai difficile.
Per quanto personalmente deferente alla persona di Re Carlo, io devo preoccuparmi della pubblica opinione del mio paese, la quale nello sgradevole incidente non può non vedere offeso il sentimento nazionale.

Crispi.»

L'intervista alla quale alludeva Crispi era stata accordata dal ministro di Portogallo a Parigi e dal Segretario particolare del re Carlo al corrispondente della Tribuna di Roma, e in essa i due personaggi avevano dichiarato che il re Carlo non faceva l'annunziata visita in Italia perchè non poteva prolungare la sua assenza dal Portogallo. D'altronde, il Nunzio pontificio a Lisbona aveva fatto sapere ai giornali cattolici di quella capitale il vero motivo della decisione del Sovrano portoghese.
Un grave fermento si notava frattanto in Portogallo che faceva temere delle sorti della dinastia. Nella stampa, anche in quella più ligia alle istituzioni monarchiche, e nei circoli politici della capitale portoghese, il biasimo diveniva ogni giorno più acerbo. Il Jornal do Commercio, autorevole e diffuso organo del partito monarchico-progressista, pubblicava nei numeri del 15, 16 e 18 ottobre articoli violenti, dei quali citiamo qualche brano:

«.... Abbiamo posto in dubbio, fin da principio, la convenienza politica di tal viaggio, ma eravamo lungi dal poter prevedere gli incidenti, che si vanno manifestando e che non sono solo un disdoro pel Re, ma altresì un obbrobrio per la Nazione che egli rappresenta.
Chi lasciò partire così alla ventura di quanto potesse succedere, il Re di Portogallo?
Chi doveva essere, se non questo Governo senza scrupoli...? Giacchè consigliò il viaggio reale o lo consentì, gli incombeva di formularne il programma di completo accordo coi Governi delle Nazioni che il Re proponevasi di visitare.
Non fece ciò, lo trascurò interamente, ed il risultato eccolo, senza parlare del rimanente: - un conflitto col proprio zio Umberto, o col Santo Padre, a scelta, il quale può tosto risolversi in una rottura di relazioni, o, nel migliore dei casi, in un fiasco di più pel Portogallo; e, questa volta, ricadendo sulla stessa corona del suo Sovrano, al cospetto dell'intera Europa.»
«.... Il Governo non ha neppure il decoro di tentare una difesa; e neppure ha l'alterezza di assumere le rispettive responsabilità.
Aspettavamo oggi alcune spiegazioni alla vergognosa situazione in cui trovasi il real viaggio, tanto preconizzato, allorchè fu annunziato, come sommamente benefico pel paese.... Il Governo nega l'esistenza dell'incidente diplomatico nel quale si avvolse colla Curia e col Governo del Quirinale, non si difende della propria imprevidenza, non assume la minima particella di responsabilità, ed al contrario, la scarica sopra.... chi? Sul Re, sullo stesso Re.
Dubitate?
Aprite il Diario de Noticias e leggete:
«Nulla è ancora deciso circa l'andata di S. M. il Re a Roma, questo viaggio dipendendo dai piani che farà Sua Maestà....»
Ciò che sembra incredibile, è scritto, e scritto col tono di una informazione ufficiale. E, infatti, è noto essere il Diario de Noticias uno dei ricettacoli delle informazioni del signor Presidente del Consiglio.
In detta piccola notizia, d'apparenza così innocente, contiensi tuttavia questa enormità: di ciò che succede, la colpa non è del Governo, poichè i piani del viaggio non sono suoi, ma del Re.
Sono del Re?
Lo saranno! Il Diario de Noticias che lo afferma, lo saprà ed in tal caso è da deplorarsi che il Re non sia stato all'altezza da delinearli. Ma non è a lui che legalmente si possono far risalire responsabilità, poichè l'articolo della Carta che lo fa irresponsabile è tra quelli che la Dittatura non revocò....»
«.... I sorrisi ironici cominciano già a spuntare nella stampa straniera, diretti specialmente contro i consiglieri responsabili del Re di Portogallo, i quali gli preparano quest'avventura, ma striscianti già sulla stessa persona  del Capo della Nazione Portoghese, per modo che potrà benissimo avvenire quanto prima, che i cronisti parigini comincino a ingrandire la già troppo pesante leggenda della gaité delle cose portoghesi.
Ma il Governo più nulla sente di ciò...!
Sconcertato dall'inatteso incidente, conscio del suo grave errore e delle sue enormi responsabilità, sta come se fosse stato spaventato da un fulmine; perdette la facoltà di sentire, di pensare, di deliberare e di procedere.
È in stato di completa paralisi, di sincope; e per quanto si riuniscano a consiglio i dittatori, poco più conseguono, che di guardarsi gli uni gli altri, e di grattarsi automaticamente la testa, senza che ciò valga a dissipare la prostrazione in cui trovasi il suo contenuto.
E mentre i ministri non risolvono, il Re Don Carlos, in attesa che risolvano, si mantiene in Parigi, nel non interrotto rinnovarsi di caccie, corse e teatri, come se estraneo agli avvenimenti, nei quali è implicata la sua personalità, ed in una evidenza, in faccia all'Europa, secondo noi poco propizia ai suoi interessi ed a quelli del Paese.
È indispensabile dunque, che il Governo si svegli, e prenda una deliberazione, che tronchi prontamente l'incidente, il quale se non può ormai essere soppresso, conviene non ingrossi e non si protragga, poichè il Portogallo ed il suo Sovrano nulla hanno da guadagnare in ciò; al contrario.
Il male è fatto, lo scandalo è dato e tutto ciò è ormai irrimediabile; il Re non può andare in Italia....»

Il governo portoghese, in realtà, rimase per parecchi giorni indeciso sulla via da prendere; o meglio, deciso a non affrontare le ire del Vaticano, non sapeva quali potessero essere le «spiegazioni amichevoli» che il re Carlo avevagli ordinato di dare a Crispi. Il 17 ottobre, l'Incaricato d'affari italiano a Lisbona si recò dal ministro degli affari esteri per domandargli quanto vi fosse di vero nell'affermazione di parecchi giornali che S. M. Fedelissima avesse deciso di astenersi dalla sua visita a Roma. Il signor de Soveral rispose che «l'idea del viaggio a Roma non era definitivamente abbandonata» e affermò che «il Governo portoghese non si era impegnato con la S. Sede a rinunziarvi». Ed esprimendo il profondo rammarico suo per le spiacevoli complicazioni sorte dal viaggio del Re, aggiunse che quel viaggio aveva «una grande importanza politica, specialmente nei rapporti con la Germania e l'Inghilterra, date le pendenti questioni coloniali».
Poco tempo prima il de Soveral aveva assicurato il rappresentante di un'altra grande potenza che il Re si era messo in viaggio «per distrarsi»!
Due giorni dopo un giornale ufficioso del gabinetto portoghese, La Tarde, pubblicava un comunicato del tenore seguente:

«Ci consta che il Re non andrà per adesso in Italia, proseguendo invece il suo viaggio per la Germania e l'Inghilterra.»
Il Diario de Noticias, anch'esso governativo, riproduceva cotesto comunicato facendolo seguire da un telegramma del suo corrispondente parigino così redatto:

«Parigi 19. - Essendo stato impossibile ottenere dal Governo italiano che il Re di Portogallo fosse ricevuto altrove che a Roma, e visto l'atteggiamento del Papa, Sua Maestà ha deciso di rinunziare alla sua visita in Italia, proseguendo da qui per la Germania. È giunto il signor Visconte de Pindella (Ministro di Portogallo a Berlino) il quale accompagnerà il Re a Berlino».

L'ispirazione ufficiale di questa notizia era indiscutibile, ma intanto la Legazione italiana non riceveva alcuna comunicazione. Il ministro de Soveral era così imbarazzato, che per qualche giorno rimase invisibile al Ministero degli Affari esteri oltrecchè al di Cariati, anche ai rappresentanti degli altri Stati. La partecipazione dell'abbandono del viaggio a Roma fu fatta il 21 ottobre, contemporaneamente a Lisbona e alla Consulta.
Il governo italiano non volle aggravare la situazione. Speciali riguardi erano da esso dovuti alla Corte portoghese imparentata con la Casa reale d'Italia, ma non poteva d'altronde rinunziare a precisare dinanzi all'opinione pubblica italiana ed all'Europa come lo spiacevole incidente fosse nato e si fosse svolto. Cosicchè quando il 21 ottobre il ministro Carvalho diresse  una nota al nostro Ministro degli Affari esteri nella quale si partecipava che la visita del re Carlo era aggiornata indefinitamente «per l'assenza da Roma del re Umberto e per l'impegno del re Carlo di trovarsi a giorno fisso presso altra Corte», Crispi dovette, a salvaguardia della responsabilità e dignità del governo italiano, esporre in un comunicato dell'Agenzia Stefani la verità e annunziare che all'Incaricato d'affari d'Italia a Lisbona era stato dato l'ordine di interrompere le relazioni diplomatiche col governo portoghese e di limitarsi alla trattazione degli affari correnti. Una frase del comunicato fece impressione, quella che «augurava cordialmente al Portogallo di recuperare la propria indipendenza»38.
Nel Diario di Crispi, sotto la data del 21 ottobre ore 21-1/2 si legge:

«Visita di Carvalho e Vasconcellos in casa mia. Il Vasconcellos è una mia vecchia conoscenza. Lo conobbi a Lisbona nell'ottobre 1858. Dopo i saluti consueti, egli accennò all'incidente del viaggio del Re Carlo. Risposi:
- Quello che è avvenuto è deplorevole. Amico vostro sin dal 1858, vi ricevo quale amico e non quale ministro di S. M. Fedelissima presso il Re d'Italia.
E quale amico vi dirò che il vostro Governo ha agito con molta leggerezza. Noi non avevamo chiesta la visita del vostro Re, e non ce n'era bisogno.
- È vero, e sono io che il primo ottobre venni a comunicare l'avviso ufficiale al sottosegretario di Stato, Adamoli. Venni qui da voi, ma non vi trovai. Andai poscia a Monza per darne partecipazione a S. M. il Re Umberto.
- Or bene, fatto ciò, il vostro Governo doveva andare sino al fondo, e non doveva cedere alle minaccie del Papa. Voi lo sapete, il Vaticano fa guerra alla monarchia italiana, non ostante il nostro contegno benevolo e corretto verso il medesimo. È una questione interna  italiana, e voi vi avete dato carattere internazionale.
Noi non ci adonteremo per questo. Ma innanzi al mondo, voi avete preferito il Papa al Re d'Italia, avete soddisfatto il nostro nemico, il quale ritiene l'azione negativa di Re Carlo quale vittoria della Santa Sede. Per ora ci limitiamo a non mandarvi alcun ministro. Vedremo dappoi quello che a noi converrà.
- Fo appello alla vostra amicizia di comporre il dissidio. Non ve lo domando per me, ma pel mio povero paese.
- Comprendo la vostra premura; ma nulla ho che fare per ora. Ve lo ripeto, quale ministro del Portogallo non avrei dovuto ricevervi. Vi ho ricevuto e parlato come amico e questo nostro colloquio non ha nulla di ufficiale.
Dopo un breve silenzio, il Vasconcellos si è levato e ci siamo divisi cordialmente.»

La rottura delle relazioni diplomatiche con l'Italia ferì l'amor proprio del popolo portoghese e fu un grave colpo al prestigio del Governo e della Dinastia. Il veto del Vaticano raggiunse lo scopo di turbare ancor più un paese le cui condizioni interne erano già difficili. Il Papato, il quale non si preoccupò del male che sapeva di fare, fornì la prova della sua politica nefasta che ogni considerazione subordinava alla cieca ostilità all'Italia. Ma nessun giornale portoghese potè dolersi della decisione del governo italiano. I fogli liberali, al contrario, giustificarono questo con un linguaggio che non era mai stato adoperato. Il Jornal do Commercio interpretava fedelmente il sentimento della grande maggioranza del suo paese nel seguente articolo del 26 ottobre:

«Si è veduta mai maggiore incoscienza?
Il Governo di S. M. il Re d'Italia, di un Sovrano che è nè più nè meno che fratello di S. M. la Regina Donna Maria Pia, interrompe le sue relazioni col nostro Governo.
E qual è l'atteggiamento del Governo Portoghese?
Si limita a far inserire nel giornale officioso La Tarde quanto segue:
«Il Diario de Noticias che accenna a questa nota la commenta nei termini seguenti:
.... «Sembra pertanto dal modo in cui la stessa stampa italiana apprezza i fatti, che questo raffreddamento sarà di breve durata».
......................
«Concordano pienamente colle nostre le informazioni del nostro collega».
Questo, in poche parole, vuol dire semplicemente quanto segue:
«Il Governo italiano sta di cattivo umore? Non c'è da preoccuparsene: gli passerà!»
Tali sono le soddisfazioni che il Governo crede di dare al Re Umberto, cioè al monarca più strettamente imparentato col Re Don Carlos, per la sconvenienza [semcerimonia] del procedimento che adoperò verso di Lui.
Perchè la verità è questa: Il Governo portoghese - secondo le sue dichiarazioni - volle usare verso il Re d'Italia ogni cortesia ed amabilità, ma - in conclusione - ciò che si osserva è che l'effetto di tale cortesia e di tale amabilità fu semplicemente quello di lasciare il monarca italiano perfettamente paralizzato dinanzi al Papa e di far constare che Roma è appena la capitale d'Italia.... in partibus.
Ciò fatto, il Governo portoghese poco si cura del giustissimo risentimento dell'Italia e telegrafa al Re di Portogallo che non se ne dia pensiero, che il risentimento dell'Augusto suo zio non è che un capriccio infantile perchè non fu fatta la sua volontà, che il capriccio gli passerà e che, frattanto, Sua Maestà può continuare a divertirsi per avere una distrazione dai mali che il paese sta soffrendo e per non preoccuparsi soverchiamente delle notizie che ci giungono dall'Affrica e dalle Indie.
Lo diciamo in coscienza: tanta insensatezza, tanto sconoscimento dei proprii doveri, tanta inconsideratezza, verso il paese e pei sagrificii che esso fa, non possono che essere precursori di gravi avvenimenti perchè sono sintomi indubitabili di uno stato di dissoluzione dei poteri dirigenti che ne preannunziano già chiaramente l'ora estrema.
No! Le cose non possono continuare così. Il paese può pagare col suo danaro e col suo sangue le aberrazioni dei suoi governanti, ma non può tollerare che in faccia all'Europa, la sua onestà, il suo decoro, la sua dignità, la sua fierezza siano resi solidali delle spregevoli manovre nelle quali si tenta involgerlo.
No! l'opinione protesta ed è necessario che il Re intenda, ed intenda bene, che se acconsente a lasciarsi trascinare alla sconsiderazione universale alla quale lo conducono gli errori dei suoi Ministri ed i suoi propri errori, il paese - lo stesso paese monarchico - non vuol essere travolto in questa fiumana ed altamente protesta contro questi procedimenti di governo e di diplomazia, nei quali l'illegalità, la violenza, la leggerezza ed il solo desiderio di godere - al coperto della più pazza incoscienza - si dànno la mano per annichilirci e disonorarci.
Noi non vogliamo mancare al rispetto dovuto al Re, ma è indispensabile convincerlo che questo stato di cose non può continuare. Non v'è una voce sola che non lo dichiari. Nobili e plebei, vecchi e giovani, ricchi e poveri, tutti sono unanimi nel riconoscere e nel lamentare che il Re ed il suo Governo non soddisfano le aspirazioni politiche e morali della nazione.
Il tedio incomincia ad invadere tutte le classi, già spunta il disprezzo e se il Re non capisce l'urgenza di retrocedere sulla via che ha presa liberandosi dal nefasto suo governo ed ispirandosi a migliori e più serii esempi, male gliene avverrà, rovinerà nel dispregio pubblico e sè stesso e la Corona gloriosa di cui fu erede.
Lunedì scorso partì per l'India la spedizione comandata dal proprio fratello del Re e le tristi notizie che ci giungono da Goa non sono tali che possiamo avere piena fiducia sull'esito finale della lotta e dei sacrificii cui vanno incontro i nostri soldati.
Non sarebbe stata questa una propizia occasione perchè il Re tornasse direttamente in Portogallo, ponendo a tempo un termine dignitoso all'incidente italiano?
Tutto lo indicava, ma tanto il Re quanto il suo Governo, ciechi l'uno al par dell'altro, non lo videro, e la vigilia di quella giornata grave e penosa Sua Maestà non trovò nulla di più opportuno che di andarsi a distrarre nel teatro della «Gaité» dagli alti suoi doveri di capo dello Stato, e di rammentare le pagine della nostra epopea indiana.... ascoltando i «couplets» dei «Vingt huit jours de Clairette».
Che ufficiali e soldati abbandonino le loro famiglie, offrendo in sacrificio alla patria la miglior parte del loro sangue; che il contribuente sparga il suo sudore per soddisfare le esigenze della nazione....
In cima a tutto ciò passa trionfante il Re di Portogallo, violando i suoi giuramenti, calpestando le leggi, senz'altro pensiero ostensibile se non quello di menar vita allegra e senza fastidi.
Per quanto sia duro a dirsi, vi sono due cose che nessuno negherà: cioè la verità fotografica del quadro che abbiamo tracciato, l'opportunità di gridare ad alta e chiara voce ciò che tutti nell'intimità riconoscono.
Siccome non chiediamo dalla Corona la soddisfazione di alcuna ambizione e poichè, al contrario, siamo mossi da un irresistibile impulso di civico dovere, assumiamo di buon grado questa ingrata missione di dire la verità al Re, e non la tradiremo perchè non siamo mossi da odii, nè da timore.
Monarchici e conservatori liberali quali siamo, noi sappiamo che il nostro posto è questo!»

La soluzione data all'incidente dal Governo italiano fu giudicata favorevolmente da quasi tutta Europa (fece eccezione, naturalmente, la stampa clericale), e raffreddò le accoglienze che il re Carlo ebbe in Germania e in Inghilterra.
Da Berlino, l'ambasciatore conte Lanza scriveva in data 20 e 31 ottobre:

«.... Il barone Marschall si espresse, fin d'allora, meco in termini sdegnosi per l'incapacità, la debolezza, del resto ben note, del Gabinetto di Lisbona. S. M. Fedelissima arriverà qui il 1.° novembre. Essa aveva fatto chiedere di anticipare di una settimana il suo arrivo, ma S. M. l'Imperatore rispose che non poteva riceverlo prima di quell'epoca, già precedentemente fissata. Di feste a Corte non si parla finora e Sua Maestà non farà col re Carlos, che si tratterrà qui pochi giorni, molti complimenti, tanto più dopo l'incidente del viaggio a Roma....»

«Segretario di Stato dipartimento Esteri quasi volendo scusare ricevimento Re del Portogallo, mi disse iersera confidenzialmente che, stante l'incidente viaggio Roma, feste sono state ridotte stretto limite convenienza, non vi sarà ricevimento ufficiale Berlino, ma solo al Neuen Palais a Potsdam ove Re del Portogallo alloggia. Sabato pranzo a Potsdam senza invito Corpo diplomatico. Domenica Loro Maestà interverranno Opera ove avrà luogo non la così detta rappresentazione di gala, ma soltanto teatro paré. Giornali parlano appena arrivo Re del Portogallo.»

Al teatro l'Imperatore fece rappresentare l'opera Rienzi, divertendosi a far vedere al suo ospite Roma sulla scena.
In Inghilterra non fu meno avvertito il danno che l'incidente aveva prodotto, e l'ambasciatore Ferrero riferiva:

«Salisbury, mostrandosi vivamente preoccupato di quanto potrebbe avvenire in Portogallo, qualora nel Parlamento italiano qualche interrogazione intorno al noto incidente della visita suscitasse espressioni vivaci, mi ha chiesto caldamente di pregare il Regio Governo di evitare possibilmente ogni interpellanza al riguardo nella Camera. Egli giunge perfino a temere che il contraccolpo nel Parlamento portoghese potrebbe condurre alla caduta di quella dinastia.»

Alla caduta della monarchia portoghese, avvenuta dopo l'inaudita strage della famiglia reale, non fu estranea la supina subordinazione dello Stato all'influenza clericale, che determinò l'incidente del quale abbiamo narrato le fasi. È giustizia ricordare che il malcontento popolare aveva origini remote, ed era andato sempre crescendo. Quando penetrò nell'esercito decise delle sorti del regime monarchico.
Sin dal dicembre 1889 si scriveva a Crispi da Berlino:
«Fortunatamente non esiste alcun generale abbastanza in vista per mettersi, come al Brasile, alla testa di un pronunciamento simile a quello che ha rovesciato Don Pietro II con un colpo di mano che ha avuto quasi le proporzioni di un escamotage. Altrimenti, al primo tentativo di adoperare a Lisbona un tale procedimento, la Dinastia «crollerebbe come un castello di carta». Una rivoluzione popolare sembra in Portogallo tanto poco inverosimile come era a Rio de Janeiro; l'esercito, nel suo insieme, è senza dubbio animato da sentimenti di onore e di disciplina, ma a condizione che abbia un capo di sua fiducia. Del resto, la rivoluzione o evoluzione operatasi recentemente nel Brasile prova che i mestatori non hanno bisogno del concorso delle masse, purchè dispongano di generali come i capi del pronunciamento brasiliano. Importa quindi che il Sovrano sappia guadagnare le simpatie dell'esercito, circondarsi di ufficiali di provata fedeltà, e sopratutto ch'egli possa fare assegnamento sul comandante militare di Lisbona....
Se il movimento repubblicano avesse, come al Brasile, trionfo in Portogallo, e in seguito forse anche in Spagna, tale avvenimento sarebbe un danno grave per il principio monarchico in Europa e un vantaggio per le istituzioni della Francia, che vorrebbe trovare dappertutto alleati contro la Germania e l'Italia.»

Crispi non aveva mancato di dare consigli al governo portoghese, e si era adoperato con successo presso l'Inghilterra per una soluzione amichevole del conflitto sorto per le colonie anglo-portoghesi nell'Africa occidentale. In una lettera - si noti - dell'11 gennaio 1891, il ministro d'Italia a Lisbona scriveva a Crispi:

«Dopo il mio ritorno fui ricevuto in udienza particolare da S. M. il Re, il quale mi espresse il suo gradimento pei buoni uffici prestati da V. E. al Portogallo nella sua vertenza coll'Inghilterra.
Il Ministro degli affari Esteri mi incaricò di ringraziare V. E. pel benevolo e costante concorso prestato dal R. Governo in questi difficili momenti al Governo Portoghese.
Colsi l'occasione per eseguire le istruzioni datemi verbalmente da V. E. ed esposi al signor Du Bocage la penosa impressione che desta la soverchia indulgenza del Governo Portoghese verso il partito repubblicano per gli inconvenienti che ne possono risultare a danno delle istituzioni, e sovratutto per la rilassatezza della disciplina nell'esercito.
Il Ministro mi assicurò che la condizione interna si era molto migliorata e che il Gabinetto si studiava di mantenere l'ordine e che il partito repubblicano non era da temersi che in caso di nuovi aggravii da parte dell'Inghilterra, che desterebbero grande irritazione nel paese, la quale sarebbe poi sfruttata a suo pro dal partito repubblicano. Le notizie poi circa allo spirito dell'esercito essere esagerate.
Non devo celare a V. E. che il mio discorso non sortì molto effetto. Il signor Du Bocage accolse le mie parole come espressione della premura che dimostra il R. Governo verso il Portogallo, ma parmi che egli non si renda conto dei pericoli di una simile condizione di cose. Tale è la fiacchezza degli ordini di Governo e dei costumi politici in questo paese, che ben difficilmente si muteranno le cose ed il mio collega di Spagna, il quale, per incarico del suo Governo, tenne un simile linguaggio, ha la stessa opinione.
Il Re mi parve maggiormente impressionato e mi disse, e forse con ragione, essere ora assai difficile di prendere provvedimenti contro ufficiali, ai quali finora si era lasciata la più sconfinata libertà di parola e di azione.
Intanto, malgrado che gli spiriti siano ora più calmi e che i partiti apparentemente mettano a tacere i loro dissensi, il partito repubblicano continua la sua propaganda.
Si tenne in questi giorni un Congresso del partito repubblicano a Lisbona, con piena libertà, e si addivenne alla nomina di un nuovo Direttorio, nel quale figurano due Maggiori Generali in servizio attivo, sebbene non provvisti di comando di truppe, i signori Latino Coelho e Souza Brandão.
Altro sintomo poco rassicurante circa la disciplina dell'esercito si è l'adesione di molti ufficiali all'associazione della «Lega Liberale», fondata sotto parvenza di un'associazione patriottica dal signor Fuschini, deputato del gruppo parlamentare detto della Sinistra dinastica. L'associazione non ha carattere repubblicano, ma è certo cosa poco consentanea allo spirito di disciplina militare questa partecipazione di ufficiali a manifestazioni politiche.
Nel riferire le condizioni attuali del Portogallo mi giova ripetere quanto ho già esposto nella mia corrispondenza in proposito, cioè che i costumi e l'indole di questo popolo attenuano la gravità della situazione e rendono forse più remoto lo svolgimento di avvenimenti che altrove sarebbero la conseguenza immediata delle cause di pericoli per le istituzioni da me enunciate.
Il componimento della vertenza colla Gran Bretagna gioverà molto a rendere più sicuro il mantenimento dell'ordine vigente e toglierà al partito repubblicano l'arma più potente di cui dispone per agitare il paese.»

Date le cause molteplici del malcontento del paese contro la dinastia, la propaganda repubblicana, facilitata dalla debolezza del governo, doveva portare i frutti che ha portato.




L'EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.



Capitolo Ottavo.

La questione balcanica.


Nel 1879 Crispi esprime la sua fede nel riordinamento della penisola balcanica sulla base delle nazionalità. - Critica del Trattato di Berlino nei riguardi della Balcania. - Tre colloqui inediti tra Crispi e il principe di Bismarck. - La seconda fase della questione bulgara e la Triplice italo-anglo-austriaca. - La Turchia dichiara al principe Ferdinando l'illegalità del suo soggiorno in Bulgaria. - Insuccesso della politica russa. - Stambuloff ringrazia Crispi in nome del popolo bulgaro. - Riconciliazione russo-bulgara. - Due indirizzi a Crispi della «Confederazione Orientale». - La questione di Creta e il malgoverno turco. - Crispi e l'Albania. - Crispi trova nel Montenegro la sposa pel futuro re d'Italia. - La Confederazione balcanica con Costantinopoli capitale. - «Il Sultano se ne vada in Asia».

Le idee di Crispi intorno al complesso problema della sistemazione dell'Oriente europeo non mutarono mai; che fossero conformi ai diritti dei popoli balcanici e della civiltà, e politicamente rispondessero agl'interessi essenziali di tutta l'Europa, è dimostrato dalla guerra di liberazione mossa alla fine del 1912 dai quattro Stati alla Turchia, - guerra fatale, preferibile anche a qualsiasi soluzione che avesse potuto escogitarsi e imporsi dalle grandi Potenze. Soltanto le armi, infatti, possono col loro taglio netto dipanare siffatte intricate matasse, e operare le supreme rivendicazioni. Questa volta esse hanno altresì reso un notevole servigio alla diplomazia, riscattandola dalla politica ipocrita e umiliante che ha sostenuto per tanti decenni un regime spregevole e spregiato.
Per rimanere nel tempo a noi più vicino, ricordiamo che in occasione della discussione circa la politica estera fatta alla Camera nel febbraio 1879, nella seduta del 3 l'on. Crispi, trattando della questione orientale, disse:

«Io, o signori, ho la convinzione che la penisola dei Balcani può essere ricostituita sulla base della nazionalità. Io ho fede profonda che fra quelle genti non vi sia che il soffio della libertà il quale possa vivificarle, incivilirle, metterle in quella grande via in cui sono da parecchi secoli le altre nazioni di Europa.
La Bulgaria, signori! ma quanti atti di eroismo non furono fatti in quel paese? Avete dimenticato il libro di Gladstone, Bulgarian orrors, dove si ricordano gli alberi convertiti in forche per impiccarvi coloro che erano insorti in nome della patria e della religione?
Come mai si può dire che quei popoli fossero contenti del dominio turco, mentre hanno lottato per tanti secoli contro il medesimo?
Dimenticheremo l'eroismo di quella forte razza, la quale vive nel Montenegro, e la quale per lungo tempo, mentre altre popolazioni cedevano alla forza brutale, seppe resistere con miracoli di eroismo all'invasore straniero?
Signori: Non vedete voi che questi atti di coraggio, tanta virtù e tanta potenza di volontà, provano indiscutibilmente quella vitalità che è l'indizio vero della esistenza dei popoli?
Come volete che si affermi una nazione nei momenti della lotta di fronte ad una forza superiore che le sovrasta, e, dopo la lotta, dinanzi al carnefice? Non abbiamo forse uguali esempi nel nostro paese dal 1820 al 1860? E mettendo a paragone quello che fu fatto dall'Italia durante il lungo servaggio e che fu fatto nella penisola balcanica dalle soggiogate popolazioni dal principio del secolo in poi, avremo noi il coraggio, noi nazione costituita da ieri, di imprecare a tanto eroismo e a tanta virtù? (Bravo! Bene, a Sinistra.).
Dunque gli elementi pel riordinamento della penisola balcanica sulla base della nazionalità esistono, e bisogna fidare nel tempo perchè fruttino e si svolgano.»

Crispi non fu soddisfatto del trattato di Berlino del 1878 che

«smembrò la Rumania, tradì la Grecia, ruppe il fascio delle forze rivoluzionarie le quali sin dal giugno 1875 si erano levate per la redenzione della razza slava. Al 1878, come al 1875, fu disconosciuta la ragione dei popoli. Quello che si volle e si convenne nella capitale tedesca fu detto nel Parlamento inglese. Lord Beaconsfield, questa incarnazione del vecchio spirito britannico, dichiarò alla Camera dei Pari che i congregati sentirono la necessità di mantenere ancora il dominio degli Osmani. Ma neanco questo è definitivo, esso è piuttosto un componimento provvisorio e - siccome scriveva Lord Salisbury nella sua circolare la quale era unita al trattato - dipenderà dai ministri del Sultano se sapranno usare degli accordi conclusi, o se sprecheranno questa probabilmente ultima opportunità offerta alla Turchia.
E tutti prevedono che la Turchia non farà senno, e che tosto o tardi verrà scossa da nuove convulsioni, ond'essa andrà irremissibilmente a rovina. Pertanto l'Inghilterra si è impossessata di Cipro, la Russia riprese la Bessarabia, e l'Austria occuperà l'Erzegovina e la Bosnia. Sono tre potenti stazioni militari, le quali mentre indicano la reciproca diffidenza dei gabinetti di Londra, Pietroburgo e Vienna, fanno presumere un forzato compromesso, cioè che nulla verrà stabilito nell'Oriente senza il loro consenso. È chiaro che sono nelle mani di coteste potenze i termini della grave questione, e che dipenderà dalla prudenza dei tre governi la fortuna delle popolazioni, le quali vivono nella penisola balcanica.»

In altra circostanza Crispi disse:

«Al 1878 l'Europa ebbe una tregua e non la pace. In Oriente il problema nazionale è ancora insoluto. Si dice: o la Russia sino all'Adriatico, o l'Austria sino all'Egeo. Non accetto il dilemma. L'Italia deve essere amica dell'Austria e della Russia, ma non dobbiamo voler mai che l'una o l'altra escano dai loro confini. L'Austria ebbe a Berlino con la Bosnia e l'Erzegovina una invulnerabile frontiera all'Oriente39 e dev'esserne contenta.»
A questo programma Crispi rimase fedele anche da Ministro. Ostacolò i tentativi della Russia di esercitare un'influenza preponderante in Bulgaria e in Rumania, temperando il russofilismo del principe di Bismarck, e legò l'Austria all'impegno di garantire lo statu-quo nei Balcani. Tale politica ha mantenuto la pace ed ha dato tempo ai popoli balcanici di prepararsi a risolvere la loro partita secolare con la Turchia, con le proprie forze e nel proprio interesse. Oggi la Russia non può più pensare ad alcuna supremazia sugli Stati balcanici, usciti con quest'ultima guerra dalla minore età, nè a stabilirsi a Costantinopoli; e neppure l'Austria può ragionevolmente coltivare ancora la speranza d'inorientarsi. È finalmente avvenuto quello che Crispi auspicava nel 1879: le genti balcaniche, postesi sulla grande via del progresso civile, costituiscono oggi un baluardo insuperabile alle ambizioni russe e austriache.
Quello che Crispi pensasse della politica russa in Oriente, e come agisse per ostacolarla, risulta dai colloqui col principe di Bismarck e dai documenti sulle questioni bulgara e rumena da noi pubblicati in un precedente volume40.
Qui riproduciamo dal Diario di Crispi tre dialoghi ancora inediti tra il gran Cancelliere e Crispi del maggio 1889. In quel mese, come è noto, il re Umberto, accompagnato dal suo primo ministro, si recò a Berlino a restituire la visita ricevuta dall'imperatore Guglielmo l'anno innanzi:

22 maggio. - Alle 4.45 pom. vo dal principe di Bismarck.
Trovo nel salone il Re, il quale conversa con la principessa di Bismarck. Dopo 5 o 6 minuti il Re si congeda con queste parole: «Vi lascio col signor Crispi».
Il principe ritorna al discorso fatto altre volte sulla Russia, e sui suoi progetti nella penisola balcanica.
- Bisogna - egli dice - non impedire alla Russia di andare a Costantinopoli. Collocata quale è oggi, essa è inattacabile. Sul Bosforo diverrebbe debole e potrebbe facilmente esser battuta.
- E la Rumania e la Bulgaria diverrebbero sua preda. Comprendo che, con un Sultano russofilo, l'impresa sarebbe facile; ma l'Europa ci perderebbe.
- Lasciando la Russia libera, la Francia se ne distaccherebbe; ed avremmo anche evitato una grande guerra. Al contrario, se non si lasciasse alla Russia di avanzarsi, essa entrerebbe in Galizia, ed avremmo una crisi generale.
- Quanta è la truppa russa sulle frontiere?
- 200 mila uomini sono verso la nostra frontiera, 300 mila verso i possedimenti austriaci, nulla verso la Rumania. Siete stato mai alla caccia? Bisogna attendere gli animali al varco per ucciderli. Non abbiate fretta, e lasciate che le cose si svolgano da sè. La Russia vuol Costantinopoli, e bisogna lasciar che ci vada. Del resto, non vale la pena di occuparci del Sultano. Che si lasci al suo destino. Una volta i Russi a Costantinopoli, il Sultano si contenterà del loro protettorato; purchè gli lascino l'harem egli non domanderà altro.
- Sarebbe un danno pei piccoli Stati danubiani, i quali sarebbero assorbiti.
- No, la Russia non li toccherebbe. Il suo proponimento è quello soltanto di avere dei principi ortodossi.
- Ed in Rumania pare che si avvii a ciò, la potenza del principe Carlo essendo scossa ed il partito russofilo manifestando l'antico desiderio di mettere sul trono uno degli antichi ospodari.
- I rumeni vanno anche più in là; distruggerebbero l'unità, e rifarebbero i due piccoli Stati con Jassy e Bucarest capitali.
Mentre il principe pronunziava le ultime parole, l'orologio segnava le 5.30 pomeridiane.
Mi alzo, pregandolo a permettermi di riprender domani il discorso. Alle 6 essendovi il gran pranzo a Corte, ero costretto ad andarmene.

23 maggio. - Alle 2 e mezzo giungo alla casa del principe di Bismarck. Egli era in un salone del pian terreno.
Chiesi scusa di esser giunto mezz'ora dopo dell'ora stabilita. Il principe rispose che nulla vi era di male, egli dovendo restare tutta la giornata in casa.
Entrai subito in argomento, e ripresi il discorso al punto in cui ieri era stato interrotto.
- Orbene, Altezza, le cose dettemi ieri io le sapeva. Me ne avete parlato altre volte. Ora vi domando: le avete mai fatte conoscere a Lord Salisbury?
- No; ma ne ho parlato all'Imperatore d'Austria.
- E quale è stata la sua risposta?
- L'Imperatore crede che non bisogna lasciar passare la Russia, ma impedirle di andare a Costantinopoli. L'Imperatore teme degli Ungheresi, i quali sono contrarii a che la Russia si stabilisca sul Bosforo. Ed han torto! La Russia sul Bosforo s'indebolirebbe, finirebbe come tutti gli altri che vi stettero altre volte.
- Ma gl'Imperatori romani vi stettero per molti secoli, ed il Turco v'impera anche da secoli, e quantunque debole, nissuno ha potuto spodestarlo.
- Non l'han voluto spodestare, perchè l'Europa si è sempre opposta alla marcia dei Russi. La Russia questa volta non andrà per terra a Costantinopoli. Essa farà una spedizione per mare.
- Credete voi, che la flotta russa sia forte nel mar Nero?
- Lo diviene; e fra un paio d'anni avrà raddoppiato il suo naviglio. Essa potrà riunire subito da 30 mila a 40 mila uomini e gettarli in Rumelia. Bisogna lasciarla fare, e porre l'Inghilterra in condizione da gettarsi nella lotta.
- Ma voi non ignorate che ci siamo concordati con l'Inghilterra di non permettere alcun mutamento allo statu-quo del Mediterraneo e dello Egeo.
- Non basta. L'Inghilterra potrebbe trovar modo a sfuggire all'adempimento delle fatte promesse. Bisogna comprometterla, ed allora, essendo impegnata a far la guerra, saremo in quattro.
- Credete voi, che la Francia farà presto la guerra?
- Non lo credo. Non è pronta. La sua polvere non dura sei mesi.
- Ma l'Inghilterra anch'essa ha bisogno di tempo. Avrà bisogno di 3 o 4 anni per compiere il naviglio.
- Basterà un paio d'anni. Ma avendola anche oggi con noi, le nostre navi riunite alle inglesi potranno tener fronte alla squadra francese.
- Conoscete un signor Tachard?
- Lo conosco. Stette da me alcuni giorni. Le mie signore lo chiamavano sempre Crachard, perchè sputava sempre, anche sui tappeti.
 - Che ne dite del suo progetto, di fare dell'Alsazia e della Lorena uno Stato autonomo neutrale.
- Per darlo a chi?
- Anche ad uno dei vostri principi.
- È finito il tempo degli Stati neutrali. Lo vedete con la Svizzera, la quale arresta i miei agenti. Bisogna che lo Stato, come l'uomo, sia responsabile degli atti suoi.
- Si toglierebbe un motivo di guerra con l'Alsazia e la Lorena neutrali. Che ne dicono in Francia?
- Il Governo francese l'accetterebbe; ma anche con questo, la guerra non sarebbe evitata. Sarebbe tolto a noi di attaccare la Francia per terra, mentre la Francia ci attaccherebbe per mare.
- Avete fede nel Governo austriaco?
- Ho fede nell'Imperatore. Ma non certamente nel Conte Taaffe.
- Taaffe non è amico vostro, siccome non è amico mio.
- Bisogna aggiungere che in Austria son molte le simpatie per la Francia, e si fa tutto il possibile per distaccarla dall'Italia e dalla Germania.
- L'Austria vivrà finchè sarà con voi. L'Imperatore tiene alla nostra alleanza, perchè tiene all'esistenza dell'impero. Lo Czar sarebbe contento del distacco dell'Austria; egli non vorrebbe che la nostra neutralità, ed allora l'Austria sarebbe distrutta. La sua posizione non è come la vostra e la nostra. L'Italia e la Germania vivono delle forze proprie, perchè hanno il cemento della nazionalità.
- Lo comprendo. Ma l'Austria com'essa è, è necessaria all'equilibrio europeo, e giova mantenerla.
- Anch'io sono di questo avviso. Ed ho lavorato sempre a mantenerla. Al 1866 non volli annientarla. Oggi dobbiamo mantenerla.
- Sta bene, ma è necessario che quel Governo non turbi la nostra esistenza.
- L'Imperatore lo sa; e con lui nulla havvi da temere.
- Taaffe è troppo cattolico, e per poco che s'intenda con la Francia, potrebbe suscitarci molestie. Globet negli ultimi giorni del suo governo tentò di risuscitare la Convenzione di settembre.
- Globet non è un uomo abile; ma parmi inverosimile che abbia potuto usare un tal contegno. Il domandare
il ristabilimento della Convenzione di settembre sarebbe lo stesso che far occupare una parte del territorio italiano con un esercito. Sarebbe la guerra; e la Francia non commetterebbe cotesto errore.

25 maggio. - Alle 5 e mezzo pomeridiane il principe di Bismarck è venuto a trovarmi. Il discorso versò sull'argomento del giorno, cioè il ritorno del Re in Italia, e perciò sulla via da seguire.
- Siccome saprete, disse il principe, tutto è accomodato. L'Imperatore, spontaneamente, ha rinunziato al viaggio a Strasburgo; solamente ha espresso il desiderio che restiate fino a domani, domenica, e credo che S. M. il Re avrà consentito.
- Vi ringrazio della presa risoluzione. Io ho bisogno di ritornar presto a Roma; le Camere sono aperte, ed il lavoro, che ci resta ancora, è molto.
- Domani, domenica, credete voi che il Re abbia bisogno di un prete?
- È un affare che lo riguarda ed in materia di religione io non entro. Quando siamo a viaggiare in Italia nei palazzi reali è la cappella, e Re e Regina vanno a messa. A Roma, la domenica, vedo il Re dalle 10 alle 12 per la firma dei decreti e delle leggi; e non mi occupo d'altro.
- Avete ancora questioni col Turco?
- Quegli è una bestia; e non sa quello che fa.
- Avete ragione; ma le bestie bisogna addomesticarle e non batterle.
- E i suoi governatori bestie come lui....
- No, più di lui; ma non bisogna tenerne conto. Quando avrete bastonato un cane, sarete per ciò più forte di prima?
- Io credo che sono mal consigliati quei governatori, perchè li trovo sempre insolenti ad ogni occasione, e suscitano brighe senza motivo alcuno. Nell'affare di Hodeida mi tennero a bada per oltre due anni. Avevamo convenuto che per la ingiuria fatta al mio console, il governatore avrebbe dato soddisfazione. Un giorno ebbi da Costantinopoli la notizia che tutto era finito, che la soddisfazione era stata data. Io, per togliere nuovi contatti tra il governatore ed il console, richiamai quest'ultimo. Quale non fu la delusione! Ero stato ingannato;
era una menzogna quello che mi era stato assicurato dalla Porta Ottomana. Più tardi nel gennaio di quest'anno, alcuni artiglieri turchi scompongono la tomba di un cittadino italiano e ne violano il cadavere. Reclamiamo e ci vien risposto che si aspettano ordini dal Governo centrale. Domandiamo che li sollecitino per telegrafo e ci vien detto che il telegrafo era rotto. Anche questa era una menzogna. Allora diedi l'ordine al general Baldissera che mandasse le navi. Nel mar Rosso non potevo permettere che l'Italia fosse trattata così male. La Turchia, con le sue follìe, può essere scusata altrove, ma non nel mar Rosso.
- Andrete in Africa?
- Sventuratamente vi siamo, Altezza. Soltanto bisogna trovar modo di starvi bene. All'Asmara, nel paese dei Bogos e altrove vi sono terreni da coltivare; e anche potremo avere una frontiera naturalmente strategica.
- Gl'inglesi però, dopo aver conquistato l'Abissinia, l'abbandonarono. Se fosse stato possibile colonizzarla, vi sarebbero rimasti.
- Agl'inglesi bastò di imporvi il segno della loro potenza, e non ebbero altro scopo con la loro spedizione. Noi, l'Italia e la Germania, siamo venuti tardi. Abbiamo trovate occupate nell'Asia, nell'Africa e nell'America le regioni coltivabili e ci resta poco a fare.
- Volete comperarvi i possedimenti tedeschi dell'Africa?
- Altezza, io sono pronto a vendervi i possedimenti italiani!»

Se la Bulgaria ha potuto ordinarsi e sviluppare le sue risorse sotto il savio governo di Ferdinando di Coburgo, non piccolo merito spetta a Crispi che, dal giorno dell'elezione di quel principe, sostenne con successo nei consigli d'Europa il non-intervento, in omaggio al principio di nazionalità. L'Inghilterra dapprima si era disinteressata delle sorti dell'elezione fatta dall'assemblea bulgara di Tirnovo, e non si opponeva alla pretesa russa che il Sultano rifiutasse di confermarla, come, mancando il consenso unanime delle grandi potenze, gliene dava diritto il trattato di Berlino. Mutò atteggiamento dipoi, associandosi alla proposta italiana che si rispettasse il volere del popolo bulgaro.
Senza riprodurre qui documenti già da noi pubblicati, giova tuttavia, a esporre esattamente il pensiero di Crispi, che ricordiamo poche frasi contenute in telegrammi di quel tempo:
Crispi al Re (16 agosto 1887):

.... Aggiungerò che l'Italia per essere fedele alle sue tradizioni, ai suoi principii, ai suoi interessi, deve mirare a che la Bulgaria, come tutti gli Stati balcanici, si avvii all'indipendenza.»

Crispi all'ambasciatore italiano a Costantinopoli (18 agosto):

«Due fini essenzialmente ci proponiamo: l'uno immediato, cioè il mantenimento della pace; l'altro mediato ed a più lunga scadenza, che è l'assetto definitivo su basi salde e razionali, di popolazioni europee e cristiane non ancora costituite a nazioni, benchè aventi tutti gli elementi etnici e morali che valgono a determinare la nazionalità.»

Crispi all'ambasciatore italiano a Costantinopoli (31 agosto):

«I bulgari, sotto un principe di loro scelta, il quale, malgrado gli errori che ha potuto commettere, dispone certamente di un partito non indifferente, sono in procinto di organizzare un governo. Il meglio è di non intralciare l'opera loro. Un tentativo d'ingerenza, o peggio d'intervento, esporrebbe l'Europa o a dover confessare la propria impotenza a dar soluzione alla crisi, oppure, se si ricorresse alla violenza, a provocare essa stessa il conflitto che si vuole appunto evitare.»

La questione non ebbe termine nel 1887; ma alla fine di quell'anno l'entente italo-anglo-austriaca era un fatto compiuto ed esercitava a Costantinopoli una grande influenza. Quello che avvenne dipoi, tra la Russia irritata e irremovibile nella sua avversione al principe Ferdinando e le tre potenze concordi nel mandare a monte i suoi disegni, fu un giuoco di abilità dal quale la Russia non trasse alcun vantaggio.
Il governo russo non volendo confessare il vero motivo del suo contegno, si lagnava di pretese relazioni esistenti tra i capi del potere a Sofia ed i nihilisti. Il signor Stambuloff stesso, presidente del gabinetto bulgaro, era accusato di essere stato espulso dal seminario di Odessa a cagione dei suoi principii ultra-socialisti; e si affermava altresì la scoperta di una corrispondenza tra un membro del medesimo gabinetto e un ufficiale di marina compromesso in un attentato contro la vita dello Czar. Tali accuse venivano considerate come molto pericolose per la pace europea, poichè lo spettro del nihilismo era agitato nello intento di mantenere viva l'ansietà dello Czar e di spingerlo a risoluzioni estreme.
Il terreno legale sul quale la Russia si era posta, era questo. La Turchia, invitata ad agire, esitava per due ragioni: 1.a perchè mancava l'unanimità delle Potenze; 2.a perchè si preoccupava di quello che sarebbe avvenuto in Bulgaria tanto se il principe di Coburgo avesse obbedito all'intimazione di ritirarsi, quanto se avesse disobbedito.
Il Cancelliere russo non ammetteva che potesse esservi divergenza tra le potenze sul primo punto. Il trattato di Berlino era stato violato dal Principe il quale aveva assunto la carica prima che la sua elezione fosse confermata. Su ciò nessuna potenza dissentendo, a tutte s'imponeva, all'infuori di ogni altra considerazione, l'obbligo di ristabilire l'ordine giuridico e di manifestare la loro solidarietà a Costantinopoli.
Sulla seconda ragione delle esitazioni del Sultano, il Cancelliere Giers si limitava a protestare che le intenzioni della Russia erano pacifiche: lo Czar non voleva spingere il Sultano a misure militari, nè ricorrervi esso medesimo. La dichiarazione che si chiedeva al Sultano di fare a Sofia avrebbe raggiunto pacificamente lo scopo di togliere alla questione ciò che aveva di minaccioso per la penisola balcanica e per la pace europea.
Appare evidentemente evasiva la risposta che la Cancelleria di Pietroburgo dava al secondo quesito.
Il 17 e il 19 febbraio 1888 l'ambasciatore di Russia sig. Uxkull, conferiva sul detto argomento con Crispi. Leggiamo nel Diario di questi:

«Viene d'ordine del suo Governo a chiedere che l'ambasciatore italiano a Costantinopoli si associ all'ambasciatore russo di quella città allo scopo di ottenere dal
Sultano che dichiari al principe Ferdinando illegale il suo soggiorno in Bulgaria.
Rispondo che l'Italia ritenne sempre legale l'elezione del principe Ferdinando, illegale la sua presenza sul trono bulgaro. In quanto alla domanda russa soggiungo non comprenderne lo scopo. Chiedo tempo a rispondere. Stabiliamo d'accordo che ci saremmo riveduti domenica 19.»
«Uxkull viene a chiedermi la risposta promessagli venerdì.
Rispondo: vi ripeto che noi riteniamo legale l'elezione del principe Ferdinando, illegale la sua presenza in Bulgaria. Questa mia opinione l'ho manifestata alla Turchia, verbalmente dicendola a Photiadès-pascià, e per nota scrivendola sin dal 17 agosto 1887 al barone Blanc, che la comunicò alla Porta. Mi par inutile, ozioso, ripeterla oggi e non so comprendere lo scopo cui mira la Russia.
- La chiediamo perchè senza l'assentimento di tutte le potenze, la Porta non farebbe la dichiarazione.
- Ma quando la Porta avrà fatto cotesta dichiarazione, quale conseguenza ne trarrete? Prima di decidermi, avrei bisogno di conoscere quali sarebbero gli ulteriori propositi della Russia. Voi lo sapete: noi siamo contrari a qualunque azione militare in Bulgaria.
- Noi non intendiamo agire con la forza contro il principe Ferdinando.
- Benissimo. E allora è inutile l'opera mia in Costantinopoli. Mi deciderò quando avrò conosciuto le vostre intenzioni. Ma perchè non convocate una conferenza? Sarebbe il solo modo di uscire dall'imbarazzo.
- Le conferenze non riescono senza un accordo preventivo.
- È vero. Ma io non vedo nulla di meglio.»

«Londra, 18 febbraio 1888.

L'ambasciatore di Russia ha fatto oggi a Salisbury una comunicazione verbale analoga a quella fatta a V. E. Salisbury ha risposto che prendeva in considerazione la domanda russa, ma che si riservava di rispondervi. Egli sin d'ora credeva che l'allontanamento del principe Ferdinando potrebbe avere le più gravi conseguenze  e produrre dei disordini in Bulgaria. Occorrerebbe d'altronde sapere chi la Russia proporrebbe di mettere al posto del Principe.

Catalani.»

«Londra, 19 febbraio.

Ho comunicato a Salisbury il telegramma di V. E. di ier sera. Sua Signoria mi ha risposto come segue: «Aspetto di conoscere la maniera di vedere di Crispi e di Kálnoky, che ho consultati oggi, ma io son disposto a far sapere in sostanza alla Russia che il Governo inglese non può rispondere alla sua proposta senza conoscere che cosa il Gabinetto di Pietroburgo conti di proporre nel caso in cui, come risultato dell'azione delle potenze, il principe Ferdinando sia mandato via e la Bulgaria rimanga senza governo.»

Catalani.»

Il conte Kálnoky dette alla comunicazione russa, fattagli dall'ambasciatore principe Lobanow, risposta preliminare analoga a quella di Crispi e di Salisbury, che sviluppò dipoi in una nota. In essa il gabinetto imperiale e reale, dopo essersi associato con sincera soddisfazione e con spirito di conciliazione al desiderio espresso dal Governo della Russia di ricercare una soluzione pacifica della questione bulgara basata sull'autorità del diritto e sul corso naturale delle cose, e con esclusione di qualsiasi impiego di forza, chiedeva che le potenze s'intendessero su questi due punti:

«1.° Dato il caso che il principe Ferdinando abbandonasse il paese, quale sarebbe il governo provvisorio e la reggenza che sarebbero riconosciuti e dichiarati legali sino all'elezione di un principe?
2.° Dato il caso che il principe Ferdinando e il suo governo resistessero o minacciassero di proclamare l'indipendenza della Bulgaria, che cosa si dovrebbe fare per ovviare ai pericoli reali che ne risulterebbero per la Turchia e per la pace d'Oriente? Escluso l'impiego della forza militare, come potrebbero le potenze esporsi a una sfida della Bulgaria, senza far valere la loro autorità?»
La risposta del signor Giers alle obbiezioni austriache, comunicata a Crispi dal barone Uxkull, fu la seguente:

«Sulla prima, il Governo russo è convinto che la dichiarazione categorica della Porta, appoggiata dai rappresentanti delle potenze a Sofia, finirà con l'indurre il principe Ferdinando a ritirarsi. In caso contrario, la Russia riserverà la sua attitudine cercando, se occorresse, d'intendersi con le potenze circa i passi ulteriori.
Sulla seconda: il Governo russo dichiara non avere alcuna intenzione d'imporre i suoi partigiani al governo provvisorio, e regolerà la propria attitudine in conformità delle disposizioni che tale governo gli dimostrerà.»

Crispi precisò la sua risposta con la nota seguente:

«In conformità a ciò che il Ministro degli affari esteri ha di già avuto l'onore di far conoscere a S. E. l'ambasciatore di Russia in data 17 e 19 corrente, il Governo del Re ha dichiarato, sin dal mese di agosto decorso, per mezzo dell'ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, che secondo la sua opinione, il principe Ferdinando prendendo possesso del trono bulgaro ha contravvenuto alle prescrizioni del trattato di Berlino, l'elezione di cotesto principe non avendo avuto preventivamente l'approvazione della Porta, nè il consenso delle Potenze.
Ciò premesso, si tratta ora di esaminare se, pronunziata la dichiarazione d'illegalità, l'allontanamento del Principe potrà avvenire senza un'azione militare, sia della Porta, sia di altra potenza, e se potrà stabilirsi facilmente in Bulgaria un nuovo governo, secondo la volontà del popolo liberamente manifestata.
Delle due previsioni, quella che la partenza moralmente o materialmente forzata del principe Ferdinando provocherebbe disordini in Bulgaria, è ai nostri occhi molto più fondata che l'altra di una soluzione pacifica della questione. In conseguenza, il Governo del Re, giustamente preoccupandosi di quel che può seguirne, non crede di dover prestare il suo concorso a un passo diretto contro uno stato di cose, il quale, sebbene difetti di legalità, ha garentito sin'ora al principato un'amministrazione relativamente organizzata.
In ogni caso il Governo del Re prende atto con la più viva soddisfazione delle assicurazioni date dal Governo imperiale di astenersi dall'impiego di qualsiasi mezzo coercitivo contro i bulgari e che la volontà di S. M. l'Imperatore è di vedere la questione risolversi pacificamente.»

Dopo pochi giorni l'ambasciatore russo a Costantinopoli fece, d'ordine del suo governo, la seguente comunicazione alla Porta Ottomana:

«L'assentiment des Puissances prévu par le traité de Berlin n'a pas été obtenu pour la confirmation du Prince Ferdinand de Coburg comme Prince de Bulgarie. Dès lors, la présence à la tête de la Principauté vassale est illégale et contraire au traité de Berlin. Le Gouvernement Imperial de Russie demande en conséquence à la Sublime Porte de notifier officiellement ce qui précède au Gouvernement bulgare et de porter officiellement cette notification à la connaissance des grandes Puissances.»

Questa comunicazione fu appoggiata dagli ambasciatori di Germania e di Francia, in omaggio al trattato di Berlino. Il principe di Bismarck non negò la platonica assistenza chiestagli dalla Russia, alla quale aveva interesse di dar prove di amicizia; ma è legittimo pensare ch'egli la concedesse sapendo che non poteva nuocere alla politica seguita dall'entente italo-anglo-austriaca, che aveva incoraggiato a formarsi.
Alla comunicazione russa, seguì una dichiarazione di Said-pascià, così concepita:

«Son Altesse le Grand Vézir
à Monsieur Stambouloff,
Sofia.

Lors de l'arrivée en Bulgarie du Prince Ferdinand de Cobourg, j'ai déclaré a Son Altesse par un télégramme en date du 22 Chewal 1887 que son élection par l'Assemblée Générale Bulgare n'ayant pas réuni l'assentiment de toutes les Puissances signataires du Traité de Berlin et que cette élection n'ayant pas été sanctionnée par la Sublime Porte, sa présence en Bulgarie était contraire au Traité de Berlin et n'était pas légale.
Aujourd'hui, je viens déclarer au Gouvernement Bulgare, qu'aux yeux du Gouvernement Impérial, la situation est toujours la même, c'est-à-dire que la présence du Prince Ferdinand à la tête de la Principauté est illégale et contraire au Traité de Berlin.
Je vous prie de porter ce télégramme à la connaissance du Gouvernement auprès duquel vous êtes accrédité.

Said.»


Photiadès-pascià portando a conoscenza di Crispi questa dichiarazione, lo assicurò che la Porta non avrebbe fatto altri passi senza essersi prima intesa con tutte le potenze.
Tutte le potenze presero atto puro e semplice della dichiarazione di Said-pascià, la quale lasciò il tempo che trovò.
Il principe Ferdinando non si mosse; il suo governo, presieduto dall'energico Stambuloff, si limitò a sorvegliare e colpire i numerosi agitatori e rifugiati russi i quali lavoravano a fomentare sollevazioni, sventando così l'accusa, la quale sarebbe stata portata dinanzi all'Europa, che la Bulgaria fosse in preda all'anarchia.
Per qualche tempo dipoi la questione bulgara cessò dall'essere preoccupante per le Cancelliere delle grandi potenze: il governo principesco continuò a organizzare il paese; la Russia, pur non dichiarandosi vinta, prese un'attitudine di attesa. Alla fine del 1889 qualche timore risorse. Il mancato riconoscimento del principe Ferdinando indispettiva i patriotti bulgari e nuoceva al prestigio della Bulgaria specialmente presso i popoli vicini, allora diffidenti e ostili verso il nuovo Stato. Si attribuiva al governo del signor Stambuloff l'intenzione di proclamare la legalità della costituzione e l'indipendenza del suo paese, e questo atto era considerato come una sfida alla Russia e ancora inopportuno. Crispi, sebbene ritenesse che la situazione anormale della Bulgaria si dovesse regolare, non credeva ne fosse giunto il momento, e dette a Sofia il consiglio di attendere. Egli credeva preferibile il tentare di persuadere il governo russo a desistere dalla sua opposizione. Infatti il 1.° novembre 1889 telegrafava:

«R. Ambasciata,
Pietroburgo.

Nel colloquio col Barone Uxkull essendosi parlato della Bulgaria e del principe Ferdinando, espressi il convincimento del R. Governo che non si debba mutare lo statu-quo, ma non nascosi che l'esperimento fatto dal Principe ci sembra soddisfacente, avendo egli dimostrato contegno serio e saputo governare con lode il Principato in circostanze difficili.

Crispi.»

Del resto, nulla vi era nella situazione che consigliasse di affrettare una soluzione che non avrebbe potuto mancare. Appunto al principio di novembre i Cancellieri imperiali di Austria-Ungheria e di Germania avevano avuto la consueta conferenza annuale e avevano fatto le constatazioni che risultano dal seguente telegramma:

«Vienna, 10-11-1889.

Kálnoky non ha potuto ricevermi che oggi soltanto, dopo il suo ritorno da Friedrichsruhe. Egli mi ha detto che aveva trovato il principe di Bismarck in ottime condizioni di salute e che era molto soddisfatto dei colloqui con lui avuti, ed aggiunse che essi si trovavano in perfetto accordo in tutte le questioni pendenti. Il principe di Bismarck si era compiaciuto che gli sforzi delle potenze alleate avessero potuto assicurare la pace per un anno e sperava che avrebbero continuato ad assicurarla anche in seguito. Però Kálnoky aggiunse che Bismarck aveva riconosciuto con lui che la situazione non era cambiata e che, quantunque pacifica, poteva dar luogo da un momento all'altro a nuove inquietudini. In quanto alla Bulgaria, Bismarck aveva ammesso che bisognava conservare un piede nel Principato, cercare di mantenerlo dal nostro lato per impedire che la Russia vi sorgesse di nuovo. Per quanto riguarda la Grecia, la situazione sembrava tendere a divenire alquanto critica, perchè si cercava di fare risorgere la questione di Candia. Tricupis accennava ad agire e ad assumere un contegno ostile contro la Turchia, verso la quale dichiarava voler mettersi in istato di guerra. Kálnoky spera che egli verrà a migliori consigli. Sua Eccellenza aggiunse che lo stesso imperatore Guglielmo, nella sua recente dimora ad Atene, aveva dato a Tricupis dei consigli di moderazione e che i governi di Germania e di Austria-Ungheria avevano fatto altrettanto; ed egli non dubita che V. E. farà altresì parlare in questo senso ad Atene. In quanto alla Serbia e alla Rumania, Kálnoky disse che le questioni che potrebbero per avventura sorgervi non sembravano tali da far temere per la pace europea e che era da sperarsi che avrebbero potuto essere localizzate.

Avarna.»

In gennaio 1891 Crispi ebbe nuova occasione di dimostrare il suo interessamento alla Bulgaria. Il governo russo si lagnava che la maggior parte degli anarchici russi che riuscivano ad emigrare, trovassero buona accoglienza in Bulgaria, ed anche degli impieghi. L'ambasciatore Uxkull fu incaricato di un passo confidenziale e amichevole presso Crispi. «Noi non dubitiamo - così scrivevano da Pietroburgo all'ambasciatore - dell'effetto salutare che raccomandazioni energiche provenienti da Roma eserciteranno a Sofia, per metter fine ad uno stato di cose che sarebbe impossibile lasciar sussistere senza prevederne conseguenze funeste.»
Crispi non indugiò a secondare il desiderio del governo russo, e inviò questa lettera al Ministro d'Italia a Sofia, Gerbaix de Sonnaz:

«Roma, il 16 gennaio 1891.

Signor Conte,

Il barone Uxkull, nel ricevimento ebdomadario dell'11 corrente mi partecipò le lagnanze del suo Governo contro il Ministero bulgaro per la protezione usata da costui verso alcuni nichilisti russi. Il giorno 13, ritornando sullo stesso argomento, mi diede notizia officiosa di un dispaccio.
Cotesti emigrati non solamente godrebbero i favori del Governo di Sofia, ma parecchi sarebbero stati impiegati nella amministrazione del Principato.
Nelle condizioni politiche nelle quali è la Bulgaria, prudenza esige che si allontani una nuova causa di malumori tra il Principato ed il potente Impero, al quale cotesto paese deve la sua indipendenza. Veda il signor Stambuloff e veda anche il principe Ferdinando e li consigli a liberarsi di cotesti ospiti incomodi.
La parola di un Governo amico e disinteressato, quale il nostro, dovrà giunger gradita a cotesti signori. Noi, sin dalla costituzione del Principato, abbiamo esercitato a Sofia con amicizia cordiale un'opera di pace; e tale sarà il nostro compito anche in avvenire.
Le ho telegrafato nei medesimi sensi.

Crispi.»

Quando Crispi alla fine del 1893 tornò al potere, il riconoscimento del principe Ferdinando da parte delle potenze non era ancora avvenuto. Crispi ebbe occasione di accennare alla Bulgaria nella discussione del bilancio degli affari esteri fattasi alla Camera in maggio 1894, e ne parlò con simpatia. Le sue parole provocarono lo scambio dei seguenti telegrammi:

«Mr. Crispi
Président du Conseil des Ministres,

Sofia, 6 mai 1894.

Le discours prononcé par Votre Excellence dans la Chambre à l'occasion de la discussion du budget du Ministère des affaires étrangères a produit une grande joie parmi le peuple Bulgare qui a vu que dans les moments difficiles et critiques que notre patrie a traversé le gouvernement italien, ayant à sa tête un champion éprouvé dans les luttes pour l'indépendance et l'unité de l'Italie, a pris la défense des droits d'un Etat qui venait d'être appelé à une vie politique, en le sauvegardant de l'intervention étrangère dans ses affaires intérieures. Je remplis un agréable devoir en présentant en cette occasion à Votre Excellence les remerciements sincères et chaleureux du Gouvernement Bulgare et je prie le Gouvernement de Sa Majesté le Roi d'Italie de continuer à l'avenir son bienveillant soutien à un peuple qui lutte pour son existence dans l'unique but de son paisible développement.

Le Président du Conseil des Ministres
Stambuloff.»

«Son Excellence M.r Stambuloff
Président du Conseil des Ministres,
Sophia.

Rome, le 5 mai 1894.

Je remercie Votre Excellence de son télégramme, heureux de savoir appréciés les sentiments que j'éprouve pour le peuple bulgare et les principes que j'ai invoqués en sa faveur.

Crispi.»

Stambuloff cadde dal governo poco dopo, si disse per influenza dell'Austria alla quale dava ombra la politica attiva che quell'eminente uomo di Stato faceva in Macedonia. Quello che fece traboccare il vaso dell'indignazione austriaca sembra fosse la coincidenza tra lo scambio di felicitazioni sopra riferito tra Stambuloff e Crispi - quest'ultimo sospettato a Vienna di mene nei Balcani - e il vanto che lo Stambuloff si faceva di avere con la nomina di vescovi bulgari in Macedonia, ottenuta dalla Sublime Porta, assicurato l'avvenire della Macedonia stessa alla Bulgaria.
Un anno dopo (luglio 1895) lo Stambuloff venne assassinato per vendetta politica.
Lo stato provvisorio del principato bulgaro ebbe termine nel 1896, senza ulteriori lotte. La Russia, siccome Crispi aveva sperato, disarmò per stanchezza. Era impossibile negare che la Bulgaria sotto il governo del principe Ferdinando fosse diventata un elemento d'ordine nella penisola balcanica e che progredisse mirabilmente. Dovendo rinunziare al proposito di dominarla, parve saggio consiglio al governo russo adattarsi alle mutate circostanze e limitarsi a una politica più modesta. La Bulgaria non voleva essere una provincia russa, ma era disposta  a dimostrare alla Russia tutta la deferenza dovutale, specialmente per essere stata da essa sottratta al giogo turco.
Alla tranquillità e all'interesse dello Stato il principe Ferdinando sacrificò la sua fede religiosa, aderendo alla conversione all'ortodossia del suo primogenito, Boris. Venne a Roma il 27 gennaio 1896, fu ricevuto dal Papa e ottenne la licenza che invocava. L'8 febbraio lo Czar telegrafava al Principe per felicitarlo della «patriottica risoluzione» comunicatagli e per dirgli che accettava di essere padrino al battesimo di Boris. Lo stesso giorno l'organo ufficiale russo dichiarava cessato il conflitto con la Bulgaria, osservando che «la conversione del principe Boris alla ortodossia dimostrava aver la nazione bulgara compreso la necessità di affermare la sua fede religiosa come pegno dei legami spirituali che la univano alla Russia emancipatrice».
Conseguenza naturale di questo mutamento della Russia, fu l'invito della Sublime Porta alle Potenze di volere riconoscere il principe di Bulgaria in conformità dell'articolo 3.° del Trattato di Berlino. Tutte le Potenze aderirono: l'Italia potè rispondere che l'adesione dell'Italia a cotesto riconoscimento da parte della Turchia era acquisita sin dal 1887, da quando cioè dichiarò di considerare valida la manifestazione della volontà del popolo bulgaro.

In tutto l'Oriente europeo il nome di Francesco Crispi si identificò per lungo tempo con le aspirazioni all'indipendenza dei popoli oppressi dal Turco. Egli difese tutte le nazionalità, una dopo l'altra; fu capo di Comitati filelleni e parlò in ogni occasione, dalla tribuna parlamentare e nei comizii, in favore di una più grande Grecia; propugnò l'autonomia e l'indipendenza dell'Albania; cercò e trovò nell'eroico Montenegro la sposa del principe ereditario d'Italia; fece, da ministro, quanto potè per sottrarre Candia e l'Armenia ai periodici massacri turchi.
Merita in questo momento storico in cui l'idea della federazione militare dei popoli balcanici si è concretata nel fatto, speciale menzione l'ausilio chiesto a Crispi da un Sillogo ateniese per la Confederazione Orientale, con le seguenti due lettere le quali portano una firma illustre:

Confédération Orientale.

«All'Illustre Uomo di Stato Crispi.

Atene, 24 ottobre 1885.

Illustre Maestro,

Il Comitato e la Direzione della Confederazione Orientale, i quali or è più che un anno avevano fondato in Atene un giornale di questo titolo, devoto all'idea di stabilire un'alleanza federale dei popoli della penisola balcanica, hanno l'onore di domandare la vostra alta e potente protezione allo scopo di riprendere l'opera sospesa per mancanza di aiuti efficaci.
Noi abbiamo tutto sagrificato a quest'idea, convinti che la sua realizzazione condurrà alla liberazione di questi popoli per la sola via logica e pacifica desiderata dall'Europa. Ma dal momento della comparsa del nostro giornale la Turchia e l'Austria ci hanno combattuto senza quartiere: la prima perchè noi parliamo di libertà ai cristiani dell'Oriente; la seconda perchè domandiamo l'autonomia per i Macedoni, unico mezzo, secondo noi, di conciliare le pretese delle razze diverse abitanti questa provincia.
Il nostro giornale, proibito e perseguitato negli Stati dei Balcani, la nostra opera era colpita a morte. Invano noi tentammo di lottare: ci è stato giocoforza soccombere.
Questa situazione ispirerà forse qualche interessamento a voi, illustre Maestro, le cui idee liberali e l'alta intelligenza si volgono a tutti i problemi politici e sociali, e il cuore generoso si commuove dinanzi ad ogni ingiustizia e ad ogni disgrazia.
D'altronde, l'opera nostra aveva prodotto qualche frutto in Oriente, e degli spiriti lungoveggenti, in comunione d'idee con noi, c'incoraggiavano a perseverare nella ferma credenza che la confederazione dei popoli orientali è la soluzione più equa del problema posto, da più di quattro secoli, alla giurisdizione dell'Europa.
Non è forse anche di un interesse capitale per le potenze mediterranee che l'Oriente non diventi preda delle cupidigie austriache o russe? Questi grandi imperi, una volta stabiliti sulle rive del Bosforo e del Mar Egeo, minacceranno l'indipendenza degli Stati mediterranei. Ci sembra dunque utile reagire contro questi progetti e aprire gli occhi agli sventurati cristiani dell'Oriente.
Questo è il programma seguito dal nostro giornale per il quale osiamo, pieni di confidenza nella vostra alta intelligenza, sollecitare il vostro prezioso e benevolo concorso.
Abbiamo l'onore di essere, illustre e venerato Maestro, vostri rispettosi e riconoscenti servitori

per il Comitato
il Dir. della «Confederazione Orientale»
Leonidas A. Bulgaris.»

«A S. E. Il signor Crispi
Roma.

Atene, 8-20 novembre 1887.

Eccellenza,

L'idea della Confederazione Orientale di tutti i popoli della Penisola Balcanica che non è punto nuova, è il risultato di profonde meditazioni di uomini di Stato che l'accolgono come la sola soluzione possibile della questione d'Oriente senza scuotere l'equilibrio europeo. Durante lunghi secoli si sono fatte guerre terribili per risolvere questa questione con la violenza, ma è stato provato che questo metodo è inefficace poichè invece di avere fatto un passo verso la sua soluzione, questa questione si è ancor più complicata e i disgraziati popoli dei Balcani rimangono l'oggetto delle cupidigie delle potenze e dei loro antagonismi. Ne segue che la questione d'Oriente non può essere risoluta che con mezzi pacifici, cioè con una Confederazione di tutti gli Stati della Penisola Balcanica, poichè questa è la sola soluzione che non dia ombra ad alcuna delle grandi potenze.
L'associazione greca della Confederazione Orientale, fondata tre anni or sono, proclamò altamente queste idee e le sostiene nel suo giornale; ma, come era da attendersi, essa fu combattuta da tutti coloro che hanno interesse che la discordia regni in Oriente.
La stampa di Vienna si è distinta in modo speciale col suo accanimento nel combattere le idee sostenute nel nostro giornale, poichè esse inceppano la politica austriaca ponendo ostacoli ai suoi disegni di conquista nella penisola dell'Hemus, poichè lo scopo principale della nostra associazione è il protestare contro ogni conquista straniera della Turchia Europea.
Ma per riuscire nell'opera che noi perseguiamo sono necessari sforzi costanti e pratici, e le circostanze attuali ce ne fanno un dovere, giacchè nessuno dei governi degli Stati dell'Hemus può prendere l'iniziativa di proporre la Confederazione agli altri Governi, prima che questa idea non sia maturata in Oriente. Però non si potrà arrivare a questo risultato che fondando in tutti gli Stati della Penisola Balcanica delle associazioni della Confederazione Orientale, le quali diffondendo tra i loro connazionali i grandi vantaggi di una Confederazione, si mettano d'accordo per trovare la maniera di condurre in porto quest'opera di grande interesse.
E poichè, felicemente, negli Stati Balcanici cominciano a formarsi partiti potenti, i quali, prevedendo i pericoli dai quali questi Stati sono minacciati, mirano alla Confederazione come all'unico mezzo di salute, l'associazione greca che aveva interrotto i suoi lavori in seguito agli avvenimenti di Bulgaria, considerando che gli odii di razza si sono calmati e prevedendo che talune potenze sono pronte a irrompere in Oriente, riprende i suoi lavori con maggiore energia per la difesa della autonomia minacciata della Penisola.
Prima d'impegnarsi più avanti la nostra associazione ha bisogno di domandare il patrocinio morale di coloro che dividono i loro principii e sopratutto di coloro che reggono i destini di uno Stato al quale l'Associazione greca della Confederazione Orientale si rivolge oggi facendo appello al suo potente appoggio.
Voglia gradire, Eccellenza, l'espressione dell'alta nostra considerazione.

Leonida A. Bulgaris
Membro delegato della «Confederazione Orientale».

Sin dal 1877, in un colloquio col principe di Bismarck, il concetto che le grandi Potenze dovessero astenersi da ogni conquista sulle Provincie balcaniche41 era stato difeso da Crispi; il quale essendo ministro nel 1889 propose altresì quella federazione militare balcanica che i popoli hanno ora stretto di loro iniziativa42.
Tale proposta sta ad attestare una convinzione salda della necessità, una proba valutazione del diritto dei popoli e insieme degl'interessi della pace europea. Ma i tempi non erano maturi; l'Austria, che non voleva l'egemonia russa nei Balcani soltanto perchè le preferiva la propria, si oppose alla proposta di Crispi, protestando di non volere sollevare la suscettibilità della sua competitrice.

La questione cretese, dall'indomani del Congresso di Berlino, ha richiamato periodicamente l'attenzione dell'Europa. Se le Potenze fossero state concordi nell'esigere buon governo dalla Turchia, questo focolare di rivolte e di preoccupazioni sarebbe stato spento, perchè le aspirazioni dei cretesi a congiungersi con la Grecia hanno trovato sempre il maggiore incentivo nel malcontento contro la tirannide turca. Ma le potenze, gelose l'una dell'altra, anche a proposito di Candia si sono preoccupate soltanto del loro giuoco d'influenze a Costantinopoli, astenendosi, per non dispiacere il Sultano, dall'unica azione che sarebbe stata efficace. Valga un esempio. Nel 1889, Crispi telegrafò alle ambasciate italiane di Londra, Berlino e Vienna:

«31 luglio.

L'agitazione in Candia non sembra provocata dal di fuori, bensì causata dal malgoverno turco. Un accordo fra le potenze amiche ed alleate ci parrebbe necessario per consigliare alla Porta i mezzi migliori onde far fronte situazione. Crediamo che a pacificare popolazioni siano preferibili mezzi conciliativi anzichè violenti, questi ultimi lasciando germi di nuove insurrezioni. Esprimendosi in tal modo con cotesto ministro degli affari esteri voglia chiedere se e quali istruzioni siano state date al rappresentante di codesto Governo in Costantinopoli.

Crispi.»

Ed ecco i risultati di questa onesta iniziativa. Il principe di Bismarck fu contrario ad ogni pressione sulla Sublime Porta.

«Secondo il modo di vedere di Sua Altezza una simile pressione, anche semplicemente platonica, non farebbe che aumentare man mano le pretese dei cretesi. Una delle conseguenze più spiacevoli della ingerenza sarebbe quella di dare incremento alle malevoli insinuazioni franco-russe a Costantinopoli.»

Il conte Nigra da Vienna telegrafò che Kálnoky avrebbe desiderato procedere d'accordo con le Potenze alleate e con l'Inghilterra, ma che preferiva tenersi in seconda linea. «La Francia sembra essersi pronunziata in favore della Turchia.» Il Nigra concludeva:

«Io penso che V. E. non vorrà imitare Robilant e mettersi troppo ostensibilmente in prima linea. La prevengo per ogni ottimo fine che la di lei proposta del 30 luglio, secondo ciò che mi ha detto Kálnoky, venne a notizia del Sultano, il quale, sospettoso com'è, se ne mostrò inquieto.»

Da Londra: Risposta di Salisbury:

«Simpatizzo completamente colle vedute, colle apprensioni di Crispi circa le cose di Candia. Sarei favorevole ad una azione comune delle potenze, ma non è facile scorgere la via da seguire praticamente. La occupazione militare fatta da qualsiasi delle grandi Potenze o dalla Grecia, getterebbe completamente la Turchia nelle braccia della Russia e produrrebbe nel momento eccitamento assai pericoloso nella penisola balcanica.»

In conclusione, Crispi non proponeva un intervento armato, ma un'azione diplomatica, la quale, fatta collettivamente da quattro grandi potenze, avrebbe raggiunto lo scopo. Si lasciò cadere la sua proposta perchè non si volle dispiacere il Sultano richiamandolo all'adempimento dei suoi doveri. E questa astensione interessata si è ripetuta sempre per le riforme in Macedonia, in Armenia, in Albania, ed è la vera causa della durata di un regime nefasto che, divenuto un male estremo, doveva finire coll'essere distrutto coll'estremo rimedio della guerra degli oppressi contro gli oppressori.

Le simpatie di Crispi per l'Albania avevano fondamento anche nel ricordo delle origini della sua famiglia, emigrata nel secolo XV dall'Albania appunto e stabilitasi, dopo lunga peregrinazione, a Palazzo Adriano, in Sicilia. Ma, devoto al principio delle autonomie nazionali, egli augurò sempre alla nazionalità albanese di sottrarsi al dominio turco e di formare uno stato indipendente; e quando alla vigilia del Congresso di Berlino, il principe di Bismarck e il conte Derby gli accennarono all'Albania come ad un possibile compenso per l'Italia dell'occupazione austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina, Crispi non si mostrò soddisfatto dell'offerta. Non si può dire quello che egli avrebbe fatto se fosse stato al governo quando il Congresso affidò all'Austria «l'amministrazione a tempo indeterminato» di quelle due provincie turche; ma il fatto è che nei successivi accordi che da ministro prese con l'Austria-Ungheria e con l'Inghilterra, l'indipendenza dell'Albania fu considerata come la definitiva sistemazione di questo paese nell'eventualità di un suo distacco dall'Impero Ottomano.
Nel Diario di Crispi troviamo un accenno all'Albania nelle note di un colloquio da lui avuto il 26 ottobre 1896 con Domenico Farini, presidente del Senato.

«Al 1877 - tu lo saprai - noi eravamo contrarii a che l'Austria si prendesse la Bosnia e l'Erzegovina. Esposi cotesto pensiero, a nome del governo italiano, a Derby e a Bismarck, i quali con un accordo che a me parve meraviglioso, mi risposero: Prenez l'Albania.
Naturalmente, io replicai: Qu'est-ce que nous devons en faire?
E Derby allora: C'est toujours un gage.
E Bismarck: Si l'Albanie ne vous plaît pas, prenez une autre terre turque sur l'Adriatique.
Il senso delle parole dei due uomini di Stato era chiaro a me che avevo motivato il mio rifiuto di dare all'Austria la Bosnia e l'Erzegovina, dal punto di vista della difesa militare dell'Italia. Le frontiere orientali sono aperte all'invasione nemica, e rinforzando l'Austria con nuovi territorii il danno era tutto nostro.

Ma se realmente Crispi non ebbe nel suo programma positivo l'annessione dell'Albania all'Italia, neppure ammetteva che quel territorio turco potesse cadere nel dominio di un'altra potenza. In un suo scritto del 1.° maggio 1900, egli manifestò la sua mente su tale argomento colle seguenti parole:

«In questi ultimi tempi si è asserito, con molta leggerezza, che la diplomazia viennese meditava l'occupazione dell'Albania. L'asserzione è delle più singolari. L'Albania non è slava; è una nazione che ha una personalità propria, che ha lingua ed usi a sè, ricordanti le origini pelasgiche.
Così essendo, si comprenderebbe che, accogliendo un lungo ed antico voto, si consentisse all'Albania di proclamare la sua indipendenza - ma sarebbe gravissimo errore pretendere di incorporarla con i paesi slavi d'Europa.
L'Albania fu quella che, più d'ogni altra, resistette alle occupazioni turche. E se al secolo XV, dopo la morte di Giorgio Castriota, vinta, dovette subire il giogo ottomano, essa non fu mai doma; e in questo secolo fu la prima ad insorgere vigorosamente. Albanesi sono le più nobili figure degli eroi che illustrarono il risorgimento ellenico - e se la Grecia avesse avuto virtù di assimilazione, queste popolazioni, che tanti punti di contatto avevano con essa per aspirazioni politiche e per fede religiosa, oggi forse farebbero parte della Grecia. Invece, gran numero di Albanesi venne a prendere stanza nell'Italia meridionale e in Sicilia.
Concedere oggi l'annessione dell'Albania all'Austria non sarebbe un vantaggio per questo impero e sarebbe, invece, un danno incalcolabile per l'Italia che vedrebbe così cancellata e per sempre ogni traccia di sua influenza sull'Adriatico. Tanta offesa alle nostre ragioni, ai nostri diritti che una gloriosa e secolare tradizione consacra, non sarà compiuta.
L'Albania ha in sè tutti gli elementi per uno Stato autonomo, meglio che non li avessero Serbia e Bulgaria - e consentendole uguale autonomia di governo, l'Europa compirebbe opera civile. Le relazioni di intima e cordiale amicizia, coltivate per ben cinque secoli, la rendono assai più affine a noi che non all'Impero austriaco, dove l'annessione sua non farebbe che aumentare dissidii di razze e confusione di lingue.»

Tuttavia, in varie epoche, a Crispi sono dall'Albania pervenute invocazioni senza che egli le incoraggiasse o anche mostrasse di gradirle. Ne citiamo una sola registrata nella seguente lettera:

«Jannina, 6 gennaio 96.

Signor Ambasciatore,

In questi giorni è ritornato da Argirocastro, dove si era recato per affari professionali, il Dr. Fanti, nativo di Argirocastro e regio suddito. Il Dr. Fanti, appena di ritorno dal suo viaggio, mi fece chiedere un colloquio, nel quale mi manifestò quanto segue:
Egli mi disse che non appena giunto in Argirocastro venne tosto visitato dalla maggior parte dei bey albanesi, non solo mussulmani, ma bensì cristiani, i quali lo pregarono caldamente, appena ritornato in Jannina di recarsi tosto dal Cav. Millelire perchè egli volesse far giungere sino al Governo Italiano le loro idee.
I bey albanesi dissero al Fanti che oramai non vi era più dubbio come le sorti della Turchia fossero per precipitare, e che in mezzo allo sfacelo imminente gli occhi di tutti i veri albanesi, sia mussulmani che cristiani, sono incessantemente rivolti al di là dello Adriatico, all'Italia. Essi hanno pure dichiarato che giammai si uniranno alla Grecia, che piuttosto bruceranno il paese ed uccideranno i loro figli; che tutte le loro aspettazioni, i loro desiderii sono concentrati nei fratelli italiani, a capo dei quali sta la degna persona di S. E. Crispi, di cui già conoscono la energia, l'abilità ed il cuore albanese. Aggiunsero ancora che il giorno in cui il vessillo italiano apparisse sulle sponde dell'Epiro, un grido di gioia all'unisono accoglierebbe lo stendardo di civiltà e che i fratelli italiani dovunque sarebbero accolti colle braccia aperte.
Credo mio dovere di sottomettere a V. E. quanto mi fu trasmesso dai bey albanesi per mezzo del Dr. Fanti, per iscarico di ogni mia responsabilità. Io però non ho ad essi trasmesso in risposta che parole vaghe e generiche, onde non impegnare in modo qualsiasi nè la mia azione, nè quella del R. Governo.

Il R. Console
Millelire.»

Nell'ottobre del 1896 fu celebrato in Roma con solenni festeggiamenti il matrimonio tra il principe di Napoli, erede della Corona d'Italia, e la principessa Elena del Montenegro, ora felicemente regnanti.
Il primo pensiero di cotesto matrimonio era stato di Francesco Crispi; rimontava al 1894 e fu forse l'unico legato della politica sua che il successore, marchese di Rudinì, non abbia cercato di mandare in malora. Al Rudinì, anzi, ne fu attribuito il merito, e nella circostanza delle nozze gli fu conferita dal re Umberto la suprema onorificenza italiana, cioè il Collare dell'Annunziata.
Perchè tra le possibili spose delle case reali d'Europa la scelta di Crispi cadesse su Elena Petrovich, è scritto nel Diario brevemente e lucidamente.
Il 5 dicembre 1896 Crispi visitò il re Umberto.

«Dopo pochi minuti di attesa entrai nel gabinetto del Re.
Il Re mi baciò ed abbracciò, ed io presi a discorrere:
- Ricevuto il libro sul Montenegro, che Vostra Maestà si è degnato mandarmi, ho sentito il bisogno di venirla a ringraziare del prezioso dono e nel tempo stesso a spiegarle i motivi pei quali io proposi il matrimonio della principessa Elena con l'augusto figlio di V. M., il principe di Napoli.
I motivi erano tre:
apparentarsi con una famiglia che non potrebbe avere influenza su noi;
prendere una principessa di buon sangue;
in caso di guerra in Oriente avere un punto di appoggio nella penisola balcanica.»
Sino agli ultimi giorni della sua vita, Crispi augurò che il popolo turco fosse respinto in Asia e che i popoli balcanici, liberati dalla secolare barbara dominazione e collegati, formassero un forte Stato.
Ecco come in febbraio 1897, in una consultazione del Figaro di Parigi, riassunse le idee sempre professate:

«Il Turco in Europa è una permanente offesa al diritto delle genti. In quattro secoli e mezzo non ha saputo naturalizzarsi, nè fondere in unità di nazione le razze sulle quali ha esercitato ed esercita il suo crudele impero.
La sua lingua non ha letteratura, e sul suolo maledetto le arti belle non sorgono ad allietare la vita. Colà non è possibile l'ordinamento del comune; il municipio è nella Chiesa o nella sinagoga e le genti si distinguono per la religione che professano e non per la civiltà che sola potrebbe essere il pungolo alle azioni benigne ed oneste.
Sul luogo istesso, nella stessa città, - se tal nome potessero meritare quegli ammassi di case luride che l'incendio di tanto in tanto ripulisce e fa rinnovare - coabitano, non convivono, il greco, lo slavo, il rumeno, l'albanese, sospettosi e senza amore, e su tutti sovrasta il turco con la brutalità di un selvaggio, al quale l'islamismo ispira odii e vendette.
Abdul Hamid Can, ricco di vizii e di paure, essendo il califfo, cioè re e supremo pontefice, capo dello Stato e capo della religione, è inetto ai civili miglioramenti nel governo dei popoli, perchè ad ogni riforma nello interesse dei cristiani si trova l'ostacolo di un versetto del Corano.
Questo disordine morale si perpetua per l'antitesi che domina le esigenze politiche di ciascuna delle grandi potenze. Io non so quali siano i patti dell'alleanza franco-russa. Ricorderò soltanto che quando a Tilsit Napoleone ed Alessandro trattavano la ripartizione del vecchio continente, il grande imperatore era pronto a cedere le Provincie danubiane, ma si rifiutava di dare Costantinopoli allo Czar. Si parla di accordo europeo per la soluzione della questione d'Oriente. Illusione! Questo accordo è affatto negativo. Lo scopo costante delle potenze finora è stato d'impedire al russo il possesso di Costantinopoli.
Al 1854 le potenze occidentali invasero la Crimea e lo czar Nicolò dovette sospendere la marcia delle sue truppe. Al 1878 lo czar Alessandro, minacciato dalle navi inglesi, dovette fermarsi a Santo Stefano. L'impero turco era salvo, l'ambizione moscovita veniva arrestata nel suo periodico svolgimento; ma la quistione d'Oriente non era risoluta.
È un pericolo che bisogna rimuovere una volta per sempre, è un problema che dobbiamo avere il coraggio di sciogliere, e non rimandarlo di anno in anno alle future generazioni.
Al 1856 a Parigi, salvo la proclamazione di alcuni principii di diritto internazionale per la libertà dei mari, tutti gli sforzi, tutte le cure delle potenze raccolte in Congresso, furono diretti a garantire la vita dell'impero ottomano. Sangue e danaro perduti, perchè la Conferenza di Londra del 1871 restituì allo Czar quello che gli era stato tolto; premio dovuto dalla Germania alla Russia per la neutralità mantenuta nella guerra franco-prussiana.
Oggi siamo da capo colla quistione d'Oriente. Le stragi degli Armeni, che da due anni si ripetono, sono seguite da quelle dei Cretesi. L'Europa si commuove, le grandi potenze mandano le loro navi nelle acque greche, il furore turco si rivela come prima, le genti balcaniche minacciano una insurrezione.
Come finirà questa brutta tragedia? Le grandi potenze continueranno a curare con rimedii empirici questa piaga orientale, che ogni giorno più incancrenisce?
Domando ai francesi: avete una soluzione? Avreste il coraggio di dare Costantinopoli al giovine Czar per ricostituirvi l'impero bizantino? Ciò sarebbe contrario alle vostre tradizioni, le quali v'impongono di difendere i popoli oppressi. Pel mio amico, il principe di Bismarck, che non sacrificherebbe un solo soldato della Pomerania pro o contro il Sultano, la risposta sarebbe facile. Egli crede che lo Czar, padrone di Costantinopoli, diverrebbe più debole di quello ch'è oggi, chiuso entro i suoi ghiacci, e che l'Europa potrebbe batterlo con sicuro successo. Io, in verità, non vorrei fare la prova, e la mia soluzione è diversa. Il partito nazionale italiano, del quale io sono stato un modesto soldato, vorrebbe una Confederazione balcanica con Costantinopoli sua capitale. Gli elementi di questo nuovo ordinamento politico esistono nei cinque Stati, la cui indipendenza è stata riconosciuta dall'Europa: la Rumania, la Bulgaria, la Serbia, la Grecia, il Montenegro. Costituite altri Stati, se volete; od aggiungete a quelli esistenti le popolazioni della stessa razza, della stessa lingua, della medesima religione e l'ordine sarà ristabilito per sempre in quelle regioni. I mussulmani potrebbero trovarvi posto, se lo volessero, ma da fratelli, non da signori. Ma lo Czar resti entro le attuali sue frontiere, ed il Sultano se ne vada in Asia. E la Grecia non pensi a disseppellire Bisanzio, che ricorda la decadenza e non la vita di un impero. E così la quistione d'Oriente sarebbe definitivamente risoluta e conservata la pace d'Europa.
La Confederazione balcanica dovrebbe essere neutrale.»



Capitolo Nono.

Le stragi d'Armenia e il concerto europeo.

Gladstone e le stragi d'Armenia. - Le Potenze esigono un'inchiesta internazionale. - L'Italia e la Commissione d'inchiesta. - Il Sultano scongiura che i delegati delle Potenze non interroghino i testimoni. - Risultati dell'inchiesta e rifiuto del Sultano di concedere le riforme propostegli. - La Russia si oppone alle misure coercitive contro il Sultano. - Nuovi massacri. - Gli ambasciatori chiedono un secondo stazionario a Costantinopoli. - Le squadre europee in Levante. - L'Inghilterra vorrebbe spodestare il Sultano. - Le stragi rimangono impunite; la Russia protegge il Sultano.

Le stragi d'Armenia del 1894-96 riempirono il mondo di orrore. Guglielmo Gladstone - la cui voce potente tuonò contro ogni tirannide - scrisse essere sue opinioni:

«che l'Assassino (e non i suoi sudditi maomettani) è stato l'autore deliberato delle stragi armene dal principio alla fine: che queste atrocità non hanno confronto nella storia recente: che il concerto dell'Europa di fronte alla Turchia è stato una miserabile, una brutta irrisione; che il metodo delle rimostranze a cui si attengono le potenze di fronte all'evidenza estrema che non si può riuscire a nulla senza la forza, è stato una colpa morale ed uno sbaglio politico: che alcuni sovrani e governi hanno protetto apertamente e sostenuto l'Assassino e che la presenza delle ambasciate a Costantinopoli in sostanza si rivolvette in uno scherno ed appoggio dato a lui ed a' suoi misfatti: che la coercizione da un pezzo si sarebbe dovuta adoperare e potrebbe anche oggi riescire ad evitare un'altra serie di eccidii peggiori ancora di quelli di cui già fummo spettatori.»

Di quelle stragi un chiaro pubblicista italiano, in una relazione presentata a Crispi in dicembre 1895 sulla situazione della Turchia, scriveva:

«V. E. sa meglio di me che le stragi d'Armenia, come quelle di Bulgaria nel 1875, sono un natural portato della politica tradizionale turca, la quale ogni volta che ha visto gli elementi cristiani in qualche parte dell'impero prevalere su quelli turchi pel numero, per la ricchezza o per la cultura, ha ristabilito l'equilibrio col metodo primitivo della decimazione. Quando l'applicazione del regolamento di Midhat-pascià, che aveva fatto del vilayet di Bulgaria un paese amministrativamente quasi autonomo, portò i suoi frutti, e i bulgari cominciarono a fondare scuole, a mandare i loro figli a studiare in Europa, e accennarono per altre vie a svegliarsi e a riscuotersi dalla barbarie, venne da Costantinopoli la parola d'ordine; e cominciarono i massacri che condussero alla guerra turco-russa e alla liberazione della Bulgaria.
Lo stesso è accaduto in Armenia. Appena per la trasformazione del Patriarcato in una istituzione elettiva e per la costituzione a Londra di un Comitato armeno che propugnava l'idea, se non della indipendenza politica, almeno dell'autonomia amministrativa, il Sultano ha incominciato a vedere che gli armeni, i quali avevano già nelle loro mani i tre quarti della ricchezza dell'impero, acquistavano la coscienza della loro superiorità morale sui turchi e dei loro diritti, l'idea del massacro si è presentata al suo spirito.»

Alla fine del 1894 l'opinione pubblica di Europa, esasperata per le notizie d'immani eccidi di cristiani commessi dai Kurdi in Armenia - notizie che trapelavano nonostante il terrore e gli sforzi delle autorità ottomane - reclamò l'intervento delle potenze e una inchiesta internazionale.
Il governo inglese era il più designato per presentare il reclamo; gli armeni erano i protetti dell'Inghilterra, avendone questa, con la convenzione anglo-turca seguita al Trattato di Berlino, assunto ufficialmente la tutela. D'altronde il Comitato anglo-armeno di Londra, del quale facevano parte parecchie notabilità britanniche, era riuscito a creare un movimento del quale il Governo non poteva non tener conto.
La Sublime Porta, soltanto con lo scopo di gettare polvere negli occhi, mandò in Armenia dei funzionari ottomani per fare un'inchiesta. Ma poichè s'accorse subito che nessuno avrebbe prestato fede ai risultati di essa, Said-pascià cominciò coll'offrire al ministro degli Stati Uniti a Costantinopoli di aggregare un americano alla Commissione ottomana; poi, si dichiarò pronto ad accettare anche un vice-console inglese.
Ma il Governo d'Inghilterra impose che la Commissione fosse internazionale e consigliò alla Porta d'invitare la Francia e la Russia a parteciparvi con loro delegati. L'invito fu fatto e i Governi di Pietroburgo e di Parigi l'accettarono. Il Governo italiano, allora, domandò che della Commissione facesse parte anche un suo console.
L'ambasciatore d'Italia, Catalani, telegrafava il 15 dicembre:

«Nel nostro colloquio, Nelidow [ambasciatore russo] si è espresso nel modo più deciso contro la partecipazione Console d'Italia inchiesta. Ha detto che Italia non ha interessi in Armenia, che il nostro concorso darebbe carattere politico all'inchiesta, ed ecciterebbe popolazioni ad insorgere. Ho ribattuto inutilmente argomenti trattandosi di risoluzione già presa.»

Se l'Italia non aveva interessi diretti in Armenia, il suo concorso all'inchiesta era, per questa considerazione, più indicato, poichè dava maggior guarentigia alle popolazioni, alla Porta e all'Europa, d'imparzialità e di giustizia. D'altronde il Catalani, sapendo che la partecipazione dell'Italia era desiderata dall'Inghilterra, insistette e, nonostante gli intrighi russi e francesi presso Said-pascià, riuscì nell'intento di fare aggregare alla Commissione un proprio delegato.
Era stato convenuto tra gli ambasciatori d'Inghilterra, di Russia e di Francia che i Consoli europei ad Erzerum avrebbero fatto accompagnare la Commissione d'inchiesta turca da loro delegati; a questi era data facoltà d'indicare alla Commissione  i luoghi da visitare e le persone da interrogare e, in casi speciali, d'interrogare essi stessi i testimoni. Il 20 dicembre Catalani telegrafava:

«Sublime Porta non ha sinora risposto alla nota identica dei tre ambasciatori e nulla è quindi concluso circa rapporti che dovranno avere i delegati colla Commissione turca. Jeri Sultano inviò un ex-Gran Visir dall'ambasciatore di Francia dichiarando essere pronto a destituire immediatamente tutte le autorità implicate nei recenti massacri, a condizione che i delegati non accompagnino Commissione turca od almeno che non abbiano facoltà d'interrogare in caso di bisogno i testimoni. Il fatto è che il Sultano teme che Zechi pascià, comandante in capo delle truppe, non produca firmano col quale ricevette da S. M. ordine dei massacri. Proposta del Sultano è stata respinta. Tre ambasciatori hanno invitato Sublime Porta ordinare Commissione turca fermarsi dovunque essa si trovi, dichiarando nulla e non avvenuta inchiesta fatta senza presenza delegati. Ambasciatore d'Inghilterra crede che saranno necessarie due settimane prima che delegati possano raggiungere Commissione.»

I tre ambasciatori non potevano infatti - neppure quelli di Russia e di Francia più favorevoli al Governo ottomano - decentemente cedere; e il Sultano, temendo che l'Inghilterra sarebbe rimasta sola e avrebbe fatto una inchiesta per suo conto, non parlò oltre di limitazioni ai poteri dei delegati europei.
In seguito all'inchiesta, che assodò responsabilità gravissime delle autorità ottomane e del sistema, fu redatto dagli ambasciatori un progetto di riforme e proposta una Commissione europea di controllo per l'applicazione delle medesime. Il delegato italiano fece una inchiesta indipendente pel suo Governo.
Che cosa fece il Governo ottomano? Si affrettò ad accogliere i saggi consigli che gli si davano?
Il 4 giugno 1895 Catalani43 telegrafava:

«Contrariamente ad ogni aspettazione, risposta Sultano ai tre ambasciatori fu un rifiuto. Sua Maestà dichiara che le riforme da lui promulgate anteriormente saranno applicate a tutta l'Armenia, ma senza alcun controllo estero. Tre ambasciatori decisero ieri sera riferire risposta ai loro governi ed aspettare istruzioni.»

Il 17 giugno la Porta assicurò che le riforme sarebbero state attuate in base all'art. 61 del Trattato di Berlino, sotto la sorveglianza di un Alto Commissario «degno di fiducia» - e che alle ambasciate sarebbero state date informazioni circa l'esecuzione delle riforme medesime.
La Russia e la Francia, che avevano accettato di partecipare all'inchiesta soltanto per sorvegliare l'Inghilterra, furono felici di separarsi da questa nell'apprezzamento dell'affronto ricevuto. «Mentre l'ambasciatore britannico è molto irritato - si telegrafava a Roma - l'ambasciatore di Russia prende la cosa quasi con indifferenza». E a lord Salisbury - ritornato allora al Governo - non rimase che raccomandarsi a Berlino affinchè l'ambasciatore di Germania a Costantinopoli suggerisse alla Sublime Porta l'accettazione del maggior numero possibile delle riforme proposte «per non rendere difficile la situazione del nuovo Gabinetto inglese di fronte all'opinione pubblica».
Nel dissenso delle Potenze è naturale che il Governo turco continuasse nel suo sistema di mancare alle promesse. Il 1.° di ottobre una moltitudine di armeni, riunitasi al Patriarcato armeno di Costantinopoli, si diresse per varie vie alla Sublime Porta con lo scopo di presentare un memoriale relativo alle riforme. In vari punti di Stambul la gendarmeria assalì quella gente pacifica, ferendo e uccidendo parecchi, e facendo numerosi arresti.
Dall'ambasciata d'Italia si mandavano a Roma queste informazioni:
«Folla armeni continua stazionare presso Patriarcato protestando non volere disperdersi se non hanno garanzie per loro sicurezza.
Nuovi particolari sui fatti di ieri confermano ferocia repressione, prigionieri trattati con crudeltà inaudita. Oggi altri fatti isolati si produssero in diversi punti della città. Anche in Galata situazione considerata assai grave.»

Le ambasciate delle grandi potenze furono di nuovo concordi nel richiamare l'attenzione della Porta sulla eccezionale gravità di quel che avveniva sotto i suoi occhi, affermando risultare loro da informazioni sicure «che privati musulmani hanno percosso e ucciso dei prigionieri armeni condotti da agenti di polizia, senzacchè questi vi si opponessero, - che si sono prodotti attacchi di privati contro persone assolutamente inoffensive, - che i prigionieri feriti furono uccisi a sangue freddo nelle corti della polizia e nelle prigioni».
Il 4 ottobre il Patriarca armeno invocava la protezione degli ambasciatori per i suoi connazionali terrorizzati; egli affermava di non potere persuaderli ad uscire dalle chiese ove si erano rifugiati. In seguito a questo appello, gli ambasciatori presentavano alla Porta una nota collettiva nella quale, insistendo sulla gravità degli avvenimenti passati, si chiedeva al Governo ottomano quali misure contasse di prendere per calmare l'agitazione musulmana e armena, prevenire il ripetersi dei deplorati incidenti e proteggere cristiani e stranieri. Reclamavano inoltre una inchiesta immediata e severa; e frattanto risolvevano di far avvicinare a Costantinopoli le navi stazionarie.
L'8 e il 10 ottobre da Trebisonda telegrafavano:

«Terribile massacro Armeni; tutt'oggi città in balìa del popolo turco armato, truppa scarsissima impotente lasciò fare, anzi soldati presero parte massacro e saccheggio. Vittime molte. Consolato, chiesa, scuola protette, ma pericolo ancora immenso. Indispensabile immediato invio truppa da Costantinopoli.»
«Massacro ieri l'altro durato dalle undici alle quattro, seguìto completo saccheggio case, negozi armeni. Morti sopra cinquecento (?). Notte seguente, lo stesso accadde villaggi armeni vicini. Ieri, calma relativa salvo nuovo panico rumore sparso arte; Consolati tuttora quantità rifugiati. Positivamente, massacri concertati connivenza autorità civili e militari. Valì, contro formale promessa, chiese truppa solo dopo massacro. Jersera, arrivò battaglione con maggior generale nominato presidente tribunale guerra. Stato d'assedio oggi proclamato. Aspettasi corazzata russa.»

Diminuita, ma non sedata l'agitazione, la Sublime Porta si persuase a riprendere il programma, proposto dai tre ambasciatori, delle riforme armene, le quali il 17 ottobre furono promulgate con un iradè del Sultano. Non erano tutte le riforme sulle quali l'Inghilterra specialmente aveva insistito, ma lord Salisbury dovette pel momento contentarsene, sebbene senza speranza che raggiungessero lo scopo della pacificazione.
La comunicazione del testo delle riforme deliberate era stata fatta ufficialmente soltanto ai tre ambasciatori. L'Italia, insieme alla Germania e all'Austria-Ungheria, dovette reclamare in base al Trattato di Berlino uguale trattamento, per trovarsi sullo stesso terreno delle altre potenze nella sorveglianza dell'adempimento da parte della Porta degl'impegni assunti dinanzi all'Europa.
La questione, in verità, era tutt'altro che chiusa: i massacri di cristiani continuavano in Armenia; fu proposto un altro passo collettivo delle Potenze presso la Porta per invitarla ad esercitare la sua autorità pel mantenimento dell'ordine pubblico; ma gli ambasciatori russo e francese dissentirono, giudicando quel passo inutile e inopportuno. In realtà il Governo imperiale, dopo avere scatenati gli odii e il fanatismo religioso, era impotente a trattenerli; e il peggio era che l'anarchia si estendeva in altre provincie dell'Impero ottomano. Le cose giunsero al punto che i sei ambasciatori non poterono, dinanzi ai pericoli che sovrastavano, non accordarsi in un atto di protesta, che fu una diffida. Il Sultano licenziò tutti i ministri, allontanò Kiamil-pascià, di cui diffidava, relegandolo ad Aleppo; ma con la scelta dei nuovi suoi consiglieri accrebbe le diffidenze sulle sue intenzioni. Che cosa di Abdul-Hamid si pensasse in quel momento (novembre 1895) nelle sfere diplomatiche di Costantinopoli, si legge in queste righe:
«Ambasciatore di Germania a Costantinopoli opina che il Sultano si sostiene soltanto per rete inestricabile spionaggio, organizzato da tutte le parti, che rende tutti reciprocamente diffidenti, ed impedisce congiure. Marschall ritiene situazione sempre più grave. Russia ed Inghilterra assicurano non volere intervenire, ma avvenendo catastrofe, possono eventi essere superiori buon volere. Si prevede eventualità di dover spodestare Sultano attuale e mettere al posto successore naturale. Ad ogni modo Marschall confida nella stretta unione delle Potenze della triplice alleanza.»

Intanto, mentre il nuovo ambasciatore italiano in Turchia, Pansa, telegrafava:

«Kiamil partito oggi per Smirne, ove ottenne essere destinato, invece di Aleppo. Corre voce possibili nuovi cambiamenti ministeriali. Temesi ripetizione dimostrazione armena in Pera, il che creerebbe gravissimo pericolo. Sultano in preda morbosa esaltazione, che rende possibile qualunque sorpresa. Tutti gli ambasciatori si sono oggi riuniti per combinare misure eventuale protezione.»

Crispi ordinava l'invio della flotta italiana nelle acque turche. Contemporaneamente il Governo francese decideva che una divisione della sua squadra del Mediterraneo si recasse in Levante.
Le navi Re Umberto, Doria, Stromboli, Etruria, Partenope partirono da Napoli il 16 novembre.
Frattanto gli ambasciatori presso il Sultano telegrafavano ai rispettivi Governi che, in vista del crescente malcontento dei turchi e di qualche possibile catastrofe a Palazzo, era opportuna la presenza nel Bosforo di un secondo stazionario, con marinai da sbarco per la protezione delle ambasciate. Avutane l'autorizzazione, gli ambasciatori richiesero il firmano per l'entrata negli Stretti della seconda nave; ma, nonostante il parere del Consiglio dei Ministri, il Sultano, temendo che l'Europa preparasse la sua deposizione, rifiutò di accordarlo. Riunitisi i rappresentanti delle grandi potenze, quello d'Inghilterra, Currie, propose che se il firmano richiesto non fosse accordato, i secondi stazionarii entrassero nei Dardanelli sotto la protezione delle squadre; dissentirono gli ambasciatori di Russia e di Francia dichiarando di non avere istruzioni dai loro Governi.
La proposta di Currie combinava col parere del Cancelliere austro-ungarico, conte Goluchowski, comunicato ai Gabinetti delle Potenze il 15 novembre. Il Goluchowski opinava che tutte le Potenze tenessero in Levante squadre, dalle quali gli ambasciatori a Costantinopoli potessero in breve tempo distaccare navi per la protezione della vita e della proprietà dei connazionali. Non si sarebbe dovuto, in caso di necessità, fermarsi dinanzi alle proteste della Porta per l'entrata delle navi da guerra nei Dardanelli.
Vi fu allora un vivo scambio di comunicazioni tra i Gabinetti, il cui risultato fu che la Russia, temendo che Inghilterra, Austria e Italia avrebbero agito ugualmente, finì col dare ordine al proprio ambasciatore di associarsi alla intimazione proposta. La Francia, che in tutta la questione seguiva fedelmente la condotta della Russia, fece altrettanto. E il 10 dicembre i firmani imperiali erano concessi a tutte le sei grandi Potenze.
Ma il Governo russo non mancò di far sapere che non sarebbe andato più oltre, e non si sarebbe associato ad altre misure di coercizione, come quelle indicate da Goluchowski, sostenendo che bisognava sorreggere il prestigio del Sultano e non indebolirlo, se si voleva che egli riuscisse a ristabilire l'ordine nell'Impero.
Rotto così il concerto europeo, Crispi avrebbe voluto che in Oriente, come nel Mediterraneo, la politica dell'Inghilterra, dell'Austria e dell'Italia riprendesse il corso che aveva avuto durante il suo primo Ministero, in base agli accordi del 1887.
Della decisione di Crispi a prender parte in prima linea ad un'azione contro il malgoverno ottomano, che alla metà del novembre 1895 sembrò inevitabile, abbiamo più di un documento.
L'Italia, cercando di procedere d'accordo con l'Inghilterra, si era dichiarata pronta ad unire le proprie forze navali a quelle britanniche. Quando la squadra italiana al comando del vice-ammiraglio Accinni ebbe ordine di salpare per il Levante, l'on. Crispi ricevendo (16 novembre) l'Accinni e l'on. Bettolo, allora capitano di vascello, fece loro augurii di vittoria:
«Facciamo il dover nostro - egli disse - e teniamo alta la bandiera d'Italia. Ho piena fede in voi. La bandiera nazionale è affidata in buone mani. Iddio vi benedica.»

Nello stesso Diario, dal quale trascriviamo queste parole, Crispi prese le seguenti note:

«21 novembre. - Alle 9.15 i Reali giungono a Roma provenienti da Monza. Avendomi il Re invitato a recarmi da lui al Quirinale, sono ricevuto alle 10.
Espongo al Re lo stato delle cose in Oriente. Le potenze sono d'accordo nella loro azione verso la Porta Ottomana. Il passo dell'Austria fu inopportuno. Non era possibile che la Russia consentisse il passaggio degli Stretti alle flotte europee. Essa non poteva permettere un condominio, anche temporaneo, nel Mar Nero. Doveva quindi rifiutarsi. Il rifiuto però non ha rotto gli accordi. La posizione del Sultano è grave. Si trova tra due fuochi: il fanatismo musulmano e la volontà dell'Europa decisamente espressa. Sarà gran fortuna per lui e per le grandi potenze, se giungerà a ristabilire l'ordine nel suo impero.
La nostra flotta è a Smirne. Il vice-ammiraglio Accinni ebbe ordine di essere cortesissimo coi Francesi. L'ammiraglio Seymour offrì alla nostra squadra un comodo ancoraggio a Salonicco. Non ne abbiamo ancora profittato. Lord Salisbury dichiarò di ritenere in vigore gli accordi del 1887. Dichiarò che vuol procedere d'accordo con noi e che in caso di occupazione dei Dardanelli toccherebbe all'Italia la espugnazione delle fortezze turche.
Spero nella pace, ma ho preveduto il possibile caso della guerra.»

Delineatosi il dissenso tra le Potenze, lord Salisbury visse e fece vivere giorni di grande indecisione. Mentre il 15 novembre egli dichiarava all'ambasciatore d'Italia, generale Ferrero, di «voler profittare, anche in prossime evenienze, della nostra collaborazione» - mentre il barone Marschall assicurava risultargli da rapporti giuntigli da Londra che il nobile lord era «deciso ormai a rientrare nella linea della sua antica politica», e il 17 l'ammiraglio sir Seymour, comandante della squadra inglese ancorata a Salonicco, faceva premure affinchè lo raggiungesse colà la squadra italiana - quando, pel rifiuto russo di associarsi ad una dimostrazione negli Stretti, sembrava che pel suo precedente atteggiamento l'Inghilterra avrebbe dovuto passar oltre, - lord Salisbury non solo non si risolvette a muoversi coi suoi alleati, ma alla fine di novembre avanzò a Pietroburgo, isolatamente, senza prevenirne i Gabinetti di Roma e di Vienna, una proposta formale per stabilire una specie di tutela sull'Impero ottomano, che il Governo russo declinò.
Data da quell'epoca la lenta conversione dell'Inghilterra verso la duplice alleanza.



LA TRIPLICE ALLEANZA
E L'INGHILTERRA.



Capitolo Decimo.

La crisi delle alleanze e degli accordi.

La politica estera dei successori di Crispi dal 1891 al 1893. - Conseguenze immediate dell'inerzia italiana negli affari d'Oriente avvertite dal Blanc. - Germania e Austria desiderano il ritorno di Crispi al governo. - Colloqui di Crispi con gli ambasciatori di Germania e d'Austria-Ungheria. - I torbidi interni del 1893-94 deprimono il credito dell'Italia all'estero. - Guglielmo II e Crispi. - Motivi del ritiro di Caprivi dalla Cancelleria germanica. - Nomina di Hohenlohe. - Favorevoli disposizioni di Guglielmo II verso l'Italia. - Crispi e il dissidio anglo-germanico pel Transvaal. - L'Italia nella politica internazionale al principio del 1896. - La crisi delle alleanze e degli accordi. - I tentativi per ristabilire le antiche intelligenze con l'Inghilterra falliscono. - Dal Diario di Crispi. - Necessità di estendere i patti della Triplice alla protezione degl'interessi italiani nel Mediterraneo e in Oriente. - Energiche rimostranze di Crispi. - L'imperatore di Germania annunzia un suo viaggio in Italia per conferire con Crispi, ma questi prima della venuta dell'imperatore deve abbandonare il governo.

Abbiamo notato in questo stesso volume che quando riprese le redini del Governo, Crispi trovò tutta mutata la posizione dell'Italia in Europa. La Triplice era stata rinnovata, ma era tornata ad essere come nel primo periodo, dal 1882 al 1887, un legame oneroso; e gli accordi speciali con l'Inghilterra e con l'Austria-Ungheria, che formavano il complemento della Triplice, erano caduti nel nulla.
Sia perchè mancasse ai successori di Francesco Crispi l'elemento prezioso dell'autorità personale, sia perchè la loro azione fosse pregiudicata da dichiarazioni pubbliche accennanti a preferenze per un diverso orientamento della politica italiana, l'edificio innalzato con tante fatiche crollò. Germania e Austria cominciarono  a guardarci con diffidenza; - la Francia, tra le proteste di amicizia a lei e il mantenimento dell'alleanza con le Potenze centrali, non vide chiaro e continuò le sue ostilità; - l'Inghilterra, convintasi della nostra incostanza e debolezza, accentuò la sua tendenza a intendersi a tutti i costi con la sua antica nemica, la Francia. Cosicchè si andò formando questa situazione: le nostre alleanze ci garentivano l'integrità territoriale, ma ci attiravano nello stesso tempo tutti i danni della guerra tenace che i francesi, sapendoci indifesi, ci facevano dovunque; e inoltre eravamo tenuti in disparte dalle combinazioni della grande politica europea.
Uno dei nostri migliori diplomatici, il barone A. Blanc, che fu ministro degli affari esteri nel secondo ministero Crispi, aveva veduto subito nel 1891, dall'osservatorio importantissimo che era allora Costantinopoli, i danni del nuovo indirizzo e li aveva segnalati:

«Terapia, 30 giugno 1891.

.... Non si può più dissimulare al pubblico, il quale qui incomincia a scandalizzarsi dell'impotenza della diplomazia anche per la protezione dei nazionali esteri, che, distruttosi il concerto europeo, del che le ambasciate di Russia e di Francia accusano le potenze alleate, non vi fu sostituita la preponderanza effettiva di queste ultime, onde anarchia in un governo che senza ingerenza europea non può compiere i suoi obblighi interni ed internazionali. Il Sultano non crede il gruppo anglo-austro-italiano capace d'una vera e seria azione solidale; è convinto non potersi più riunire gli ambasciatori in conferenze; li oppone, più che non potè far mai pel passato, l'uno all'altro, sfidandoli, finchè osa, tutti.
I ministri ed il Palazzo in piena balìa di finanzieri, il Sultano che investe personalmente in Inghilterra ed in America quanti più capitali può, aspettano la preveduta fine; ed il Sovrano diceva testè ad un suo famigliare: «Che direste se accettassi la protezione russa?» Per ciò militarmente il Bosforo è aperto alla Russia e i Dardanelli sono chiusi a noi. Non vi sarebbe resistenza armata nè reazione di popolo contro la Russia, se questa sbarcasse una divisione a tre ore dalla capitale. Sarebbero allora in tempo le squadre inglesi o le squadre alleate a rinnovare la dimostrazione fatta nel 1878 a Santo Stefano? Non è probabile. O può dirsi che una volta a Costantinopoli la Russia sarebbe in una trappola, in condizioni insostenibili? Al punto di vista militare e navale, può darsi: al punto di vista politico, da nessuno, neppure dagli uomini di Stato bulgari si nega che intorno a Bisanzio, restituita alla ortodossia, tutti gli Slavi dei Balcani saranno trascinati da irresistibile impulso, come nel 1861 tutti gli Italiani si unirono al grido di Roma capitale. Che avverrà allora dell'ideale nostro delle autonomie, la cui unica guarentigia sarebbe stata la preponderanza politica e navale dell'Inghilterra e dell'Italia sui porti della Turchia europea? Che avverrà allora della teoria germanica dell'inorientazione dell'Austria-Ungheria? e della possibilità di soddisfazioni, a meno d'un'altra gran guerra, nell'interesse anglo-italiano d'equilibrio nel Mediterraneo? Non è forse abbastanza valutato dalla Germania e dall'Austria-Ungheria il fatto che in certi momenti la presenza d'un principe di loro fiducia a capo di tale o tal altro Stato balcanico non è punto sufficiente ad impedire rivolgimenti di volontà popolare? Basti ricordare come trionfò la causa della riunione della Rumelia orientale, tanto avversata e temuta a Vienna e a Berlino, per dimostrare che, anche in Oriente, si deve pur tener conto delle tendenze dei popoli.
Questa regia ambasciata s'inspirò fin dal 1887 al convincimento che a tale situazione è pericoloso applicare la massima inertia sapientia; che la pace e lo statu-quo legale non sospendono il corso della evoluzione delle nazioni; che in piena pace, in pieno regime d'alleanze, se l'Egitto diventò inglese e se il versante sud dei Balcani diventò bulgaro, più facilmente ancora possono stabilirsi nel Mediterraneo nuove condizioni propizie o contrarie agli essenziali interessi italiani; che il programma di pace essendo per sè negativo, non si doveva esporre l'Italia a non vedere più altri scopi positivi per l'alleanza se non quelli odiosi che le attribuiscono i nostri avversari, cioè un appoggio cercato all'estero per le istituzioni monarchiche, o un pegno preso sulla eredità d'una Francia minacciata di smembramento; e che in conclusione, perchè l'alleanza diventasse popolare e proficua, e fosse nella coscienza italiana non un espediente necessario alla sicurezza, ma una base di fruttuosa operosità, dovessimo, dopo aver rifiutato disgraziatamente quel primo premio dell'alleanza che era l'Egitto, rifarci almeno con una legittima influenza in Oriente, fondata sopra un liberale sviluppo di autonomie nella penisola balcanica e sopra la preponderanza navale e politica delle quattro potenze sugli scali del Levante.
Perciò quest'ambasciata proponeva nel 1887 quelle intelligenze che furono adottate senz'altro a Vienna e a Londra. Queste, che i miei colleghi amici chiamarono il patto fondamentale della nuova politica europea in Oriente, e che sir W. White diceva segnare una data storica, colla quale si poneva termine al secolo di guerra caratterizzato dagli spartimenti della Polonia e della Turchia; questo punto di partenza d'una nuova êra d'influenza, consentitaci in Oriente, ove col fatto si decide la questione se una potenza sia grande o piccola, dall'Inghilterra o dall'Austria-Ungheria, ambedue allora per ragioni diverse disposte ad appoggiarci per ingerenze per noi più naturali e più facili, a favore delle autonomie e della libertà degli stretti; questo programma, infine, la cui pratica attuazione, studiata in ogni particolare, ci avrebbe costato assai meno oro e meno forza della nostra politica militare nel mar Rosso, è desso rimasto finalmente lettera morta! Fin dal 1888 i miei colleghi dichiaravano non spettar più all'iniziativa di essi e mia qui, bensì a diretti concerti tra i gabinetti, la pacifica ma efficace attuazione di quelle intelligenze. Havvi luogo ancora di sperare che intervengano simili concetti, estesi, cioè, ad altri interessi pacifici nel Mediterraneo, oltre a quelli della sicurezza delle nostre coste!
Succede ora un fatto capitale, che fu appena avvertito in Italia, il riparto virtuale dell'Africa tra l'Inghilterra, Germania e Francia, le quali sole si inoltrano verso i decisivi punti centrali, ove fra le sorgenti dei grandi fiumi verrà decisa un giorno la preponderanza sul continente nero, - mentre la Tripolitania senza l'hinterland non è più, per le relazioni che a noi premono tra il Mediterraneo e l'Africa, che quasi un non valore, secondo l'espressione del signor di Radovitz. Mentre durano la pace e l'apparente statu quo, sipario calato davanti agli spettatori, velo protettore dietro il quale altri opera mutamenti di scena d'importanza mondiale, vedremo  noi troppo tardi verificarsi qui altre trasformazioni per noi non meno gravi, di cui forse oggidì i preludi passano dalla nostra diplomazia inosservati?»....

«Costantinopoli, 2 settembre 1891.

Il 26 luglio informavo Vostra Eccellenza che questo incaricato d'affari d'Inghilterra aveva, d'ordine del Foreign Office, avvisato la Porta che le condizioni dell'isola di Candia vanno peggiorando pei numerosi misfatti; al punto da far temere che ne approfitti a scopi politici chi è interessato a fomentare una nuova insurrezione nell'Isola.
Il 20 agosto sir W. White, tornato da una breve escursione in Germania, aveva con me un colloquio particolare nel quale egli mi faceva prevedere che mi avrebbe diretto prossimamente una comunicazione sugli affari cretesi in seguito ad «uno scambio d'idee avvenuto tra i gabinetti di Londra e di Parigi». Egli era in possesso della relativa corrispondenza, piuttosto voluminosa, tra lord Salisbury ed il signor Ribot, non conosciuta dai nostri rappresentanti a Parigi e a Londra. Il 23 agosto sir W. White parlò pure al signor di Radovitz di una comunicazione che gli avrebbe fra breve fatta circa le cose di Candia, ma senza spiegarsi, che io sappia, altrimenti.
Per altro Vostra Eccellenza mi segnalava il 22 agosto la coincidenza, che non le sembrava fortuita, tra l'annunzio a noi fatto dal signor de Giers con dimostrazioni di fiducia, che la Russia intende insistere presso la Porta per provvedimenti acconci alle condizioni aggravate di Candia, e una domanda fatta al regio Ministero da codesto Incaricato d'affari di Grecia, se cioè l'Italia sarebbe disposta ad associarsi alle rimostranze di alcune grandi potenze al Governo ottomano circa i casi di Candia, anche quando Austria e Germania non vi prendessero parte. Il rappresentante ellenico a Roma rinnovava l'invito il 26 agosto, chiedendo più precisamente a Vostra Eccellenza se l'Italia avrebbe voluto associarsi non solo alla Russia, che ce n'aveva avvisati, ma alla Francia e all'Inghilterra, che verso di noi mantenevano il silenzio, per ottenere un migliore Governo per Candia.
Vostra Eccellenza avendomi pregato il 28 agosto, in base a tali comunicazioni della Russia e della Grecia, di assumere informazioni circa la notizia pervenutale «da altra parte» che l'Inghilterra, d'accordo colla Francia e coll'Austria-Ungheria, aveva fatto passi presso la Porta a favore di Candia, Le risposi ricordando che già il 26 luglio precedente io aveva riferito a Vostra Eccellenza come l'Inghilterra avesse fatto presso la Porta il passo che ho accennato di nuovo più sopra, e non altro passo qualsiasi. Prima e dopo di quelle date, il mio collega d'Austria-Ungheria non ha comunicato alla Porta, mi dice egli, se non, come al solito, le informazioni dei consoli locali austro-ungarici sulle cose cretesi; anch'egli per altro aveva ricevuto l'annunzio da sir W. White d'una prossima comunicazione sulle cose di Candia, e dopo ciò sir W. White si era limitato, aggiungevami il barone di Calice, a colloqui confidenziali coi soli ambasciatori di Francia e di Germania. Così l'Austria-Ungheria dimostrava a noi essere rimasta estranea a tutto il negoziato, cosa degna di nota dopo le circostanze segnalate nel mio rapporto del 30 giugno scorso, indicanti una diminuzione di fiducia dei gabinetti di Londra e di Vienna verso la politica italiana.
Trovandomi il 28 a sera all'ambasciata d'Inghilterra, sir W. White mi disse avere aspettato l'occasione d'incontrarmi per notificarmi il risultato delle sue conferenze col collega di Francia. Egli aveva avuto, in conformità d'istruzioni del suo Governo, un ultimo colloquio col conte di Montebello sulle presenti condizioni di Candia, la quale da recenti rapporti dei consoli inglesi e francesi risultava un poco più tranquilla. Nè egli, nè il conte di Montebello si erano trovati in grado di proporre alcun passo che non si riducesse ad ufficiose osservazioni alla Porta nel senso di conservare la pace e l'ordine dell'isola. Il conte di Montebello avevagli dichiarato non essere propenso ad alcuna ufficiale osservazione alla Porta, disposizione questa nella quale sir W. White conveniva pienamente. Quanto precede era stato portato a cognizione di lord Salisbury. Sir W. White mi disse inoltre che per conto suo non avrebbe fatto, salvo ordine del suo Governo, alcun passo formale dopo quello già fatto, come le avevo riferito il 26 luglio, e aggiunse non poter prevedere se questi rappresentanti di Francia e Austria-Ungheria avranno istruzioni per analoghi  passi più o meno confidenziali, ma ritenere che ad ogni modo risulteranno passi isolati; non esservi luogo a concerti tra i rappresentanti in Costantinopoli, ogni concerto al riguardo, non potendo e non dovendo stabilirsi se non direttamente tra i gabinetti stessi. Tutto ciò mi parve nuovo sintomo dell'isolamento, conseguenza di anteriori divergenze di indirizzo dell'Italia rispetto all'Inghilterra e all'Austria-Ungheria, isolamento del quale volta per volta, ed ultimamente col mio rapporto del 30 giugno, era stato mio dovere segnalare le origini.
Il 29 agosto, ulteriori mie informazioni mi davano certezza che l'ambasciata d'Austria-Ungheria, anzichè rimanere inoperosa quando l'incaricato d'affari d'Inghilterra faceva il suaccennato passo, aveva, nelle sue comunicazioni al Gran Visir, dimostrato preoccupazioni perchè si fosse sguarnito Candia di truppe, e desiderii perchè venissero rimosse le cagioni di complicazioni provenienti da disordini nell'Isola; ed il signor di Radovitz mi confermò poi avere il barone di Calice tenuto un tale linguaggio «in espresso appoggio» al passo formale dato dall'incaricato d'affari d'Inghilterra. Ne emergono due conclusioni per noi: in primo luogo, la conferma delle notizie giunte all'Eccellenza Vostra di intelligenze dell'Inghilterra non solo colla Francia, ma coll'Austria-Ungheria per Candia, senza partecipazione al regio Governo; in secondo luogo, la conformità del linguaggio del barone di Calice con quello del signor de Giers, il quale, secondochè fu telegrafato a Vostra Eccellenza da Pietroburgo, si dimostrava preoccupato perchè il Governo ottomano continuava a sguarnire Candia di truppe per portarle allo Yemen ove la situazione si fa più critica, il Governo russo cercando di rimuovere ogni cagione di complicazione internazionale circa Candia.
Così risultava ad evidenza che le due potenze alle quali ci eravamo legati con speciali intelligenze di massima per interessi comuni nel Mediterraneo, l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria, si occupavano, insieme ai gabinetti di Russia e di Francia, e senza che Vostra Eccellenza ne avesse notizia se non da Pietroburgo e da Atene, delle cose di Candia.
In questo corpo diplomatico si spiegava ciò col fatto che in seguito a conferenze avute dal signor Tricoupis a Sofia, il Re di Grecia avesse ottenuto dai gabinetti di Londra e di Parigi, notoriamente ravvicinatisi nei negoziati che precedettero la visita della squadra francese a Portsmouth, un qualche compenso in Candia ai progressi dei Bulgari in Macedonia; l'Inghilterra era supposta non aliena dal favorire la concessione ai Candioti d'un governatore cristiano personalmente grato alla Francia, la quale così avrebbe desistito dal premere per lo sgombro dell'Egitto; l'Austria-Ungheria poi era evidentemente desiderosa ad un tempo di evitare ogni passo collettivo che ponesse, come desideravano i Greci, la questione di Candia davanti all'Europa, e di apparire ciò nullameno per conto proprio facilitare ai Greci il vantaggio di un'influenza francese in Creta, vantaggio anche per gli interessi austro-ungarici, poichè diventava così meno esclusiva la preponderanza russa in Atene, aggiungendovisi la francese.
Intanto mi giungeva inaspettatamente una lettera del signor di Radovitz dalla quale emerge che, secondo il mio collega di Germania, l'Italia potesse disinteressarsi insieme alla Germania dai negoziati iniziati dalle altre grandi potenze circa Candia. Vi era una tale coincidenza tra l'invito di lui a non unire l'Italia ai passi dell'Inghilterra e dell'Austria-Ungheria in una questione pur mediterranea, e le ripetute dichiarazioni di sir W. White a me e al barone di Calice non avere più pratico valore le intelligenze stabilite fra i tre gabinetti nel 1887, che non esitai ad alludere a tal punto delicato nella mia risposta al signor di Radovitz a proposito di lui evidente tentativo d'isolare l'Italia nella questione di Candia, della quale sole Russia e Grecia avevano fatto parola a Roma.
Sir W. White passò nell'ambasciata di Germania la serata del 29, quando già il signor di Radovitz aveva in mano detta mia lettera; e venne da me l'indomani mattina, a dirmi che credeva non esservi nulla da fare per ora circa Candia. Io gli esternai il desiderio di tenermi in ogni caso in intima relazione come per il passato con lui e con il collega d'Austria-Ungheria, a scopi comuni. Egli mi rispose non esservi base a concerti in tre in tali questioni. Io m'ispirai allora al rapporto del conte Nigra del 4 agosto, e dissi a sir W. White che il conte Kálnoky, secondo le mie informazioni, continuava a credere che le intelligenze prese nel 1887 coll'Inghilterra  non solo debbono essere considerate in pieno vigore, ma costituiscono una base preziosa ed importante dell'azione eventuale delle tre potenze alleate in Oriente. Sir W. White mi domandò se il conte Kálnoky avesse fatto qualche speciale allusione all'una o all'altra delle tante questioni che in Oriente sono criterio di una voluta e sincera comunanza d'interessi ed intenti, la quale, se manifestatasi nelle opere della pace, può tanto meglio poi esternarsi negli eventuali periodi d'azione. Replicai io non avere mai cessato dal segnalare non solo al mio governo, ma ai colleghi d'Austria-Ungheria e di Germania, le occasioni ed i mezzi di pacifica ed effettiva attuazione, per parte delle tre potenze mediterranee amiche, del convenuto scopo di benefica ed operosa preponderanza nostra comune; ma che delle tante questioni presentatesi, economiche, religiose, o puramente politiche, nelle quali antiche divergenze tra l'Italia e Austria-Ungheria erano da togliersi di mezzo, ignoravo se alcuna fosse stata trattata col conte Kálnoky, il quale menzionava soltanto l'interesse della consolidazione del principe Ferdinando, argomento sul quale in verità le tre potenze, come le tre ambasciate, non hanno per un momento mancato di dimostrare la più completa e favorevole comunanza d'apprezzamento. Ma ad ogni modo, osservai io a sir W. White, le anteriori asserzioni di lui stesso al barone di Calice e a me circa la caducità delle intelligenze tra l'Italia, Inghilterra ed Austria-Ungheria per le cose d'Oriente erano ritenute dal conte Kálnoky non conformi alla realtà delle cose. Sir W. White mi replicò dubitare che il conte Kálnoky avesse attualmente confermato le intelligenze del 1887 quali vigenti ed esecutorie; mi narrò aver egli, in una recente sua conversazione col conte Kálnoky, chiamatane l'attenzione sui pericoli per la conservazione dello statu quo in Oriente del sistema di doppio governo vigente qui, ove la Porta impotente è incaricata d'intrattenere le volontarie illusioni delle potenze alleate, mentre il solo vero potere è nel Palazzo, ostile alle potenze stesse; nè avergli taciuto il suo pensiero, essere funesto il sistema della diplomazia austro-ungherese di assicurare l'impunità al Sultano e lusingarne l'arbitrario a scopi di apparente influenza, ed a detrimento dei più essenziali interessi comuni delle potenze amiche in Oriente.
Tali gravi affermazioni dell'ambasciata d'Inghilterra, alle quali egli aggiungeva, all'indirizzo della politica italiana, altri rimproveri, sui quali la mia precedente corrispondenza mi dispensa dal ritornare, traevano per me chiaro significato da amichevoli sue confidenze relative a quella questione di Macedonia che, inseparabile per la Grecia dalla questione di Candia, è tuttora il nodo delle difficoltà balcaniche. Sir W. White deplorava che l'ambasciata d'Austria-Ungheria, approfittando degli intrighi turco-russi del Palazzo contro lo sviluppo degli interessi anche commerciali e ferroviari inglesi ed italiani nella penisola balcanica, continuasse in Turchia la politica di esclusivismo economico che le era mal riuscita in Rumenia ed in Serbia; che a Vienna si fosse osteggiata la riforma del Consiglio del debito ottomano e della banca ottomana, istrumenti di monopolio politico-finanziario avverso all'Inghilterra e all'Italia; favorito in Macedonia i Serbi quando Re Milano era sul trono, i Bulgari solo dopo che il principe Ferdinando venne a Sofia; sostenuto il principio francese e russo delle protezioni religiose a pro di protezioni austro-ungheresi sui cattolici dei Balcani, contrariamente al principio anglo-italo-tedesco delle protezioni di ciascuno sui propri nazionali; rifiutato di ammettere passi collettivi presso la Porta contro il brigantaggio sulle ferrovie ottomane sottoposte alla protezione austro-ungherese fino a Costantinopoli ed a Salonicco; dimostrato inquietudini ad ogni comparsa di squadre inglesi od italiane a Salonicco o a Smirne; ammesso la teoria russa per il passaggio di truppe russe nel Bosforo; evitato ogni adesione ai reclami inglesi e italiani contro la complicità del Palazzo col brigantaggio e contro la spoliazione sistematica dei rispettivi nazionali a beneficio della lista civile, abusi coperti dalla incondizionata protezione accordata dall'Austria-Ungheria al Sultano.
Pure malgrado tanti gravami, osservai io, l'Inghilterra aveva negoziato coll'Austria-Ungheria per l'attuale situazione di Candia, e coll'Italia no. Eravamo dunque in presenza di qualche nuova combinazione a nostro danno, come nel Congresso di Berlino? Sir W. White non rispose.
Anche il mio collega di Germania, come per dimostrarmi al pari di sir W. White non essere diminuita la nostra reciproca fiducia personale, si recò da me il 31 agosto ed intavolò francamente la conversazione sul grave argomento delle scosse intelligenze fra gli alleati in quanto all'Oriente. Sorvolando sulle divergenze verificatesi fra i gabinetti di Roma e di Berlino circa gli affari di Candia ed alludendo a disposizioni che negli ultimi tempi si erano, secondo il signor di Radovitz, dimostrate a Roma a favore della Russia, disse non potersi sperar nulla dal collega di Austria-Ungheria ormai per gli interessi politici ed i diritti privati compromessi dalla curée finale che si fa in Palazzo degli ultimi elementi di vitalità dell'impero ottomano; il barone di Calice considerare successo bastante alla propria situazione l'aver fatto prevalere nel recente incidente di Uskub il principio di protezione religiosa non ammesso nè dalla Germania, nè dall'Italia, nè dall'Inghilterra; non potersi sperare il concorso del delegato austro-ungarico al disegno di eliminare dal debito ottomano il noto sindacato speculatore; perfino riguardo al brigantaggio, che assume nella Turchia la stessa indole politica che in Creta, avere egli, Radovitz, quale decano, in assenza del barone di Calice, chiesto al suo Governo l'autorizzazione di riunire i rappresentanti delle grandi potenze per deliberare circa i passi da farsi presso la Porta a beneficio anche dei sudditi di potenze minori, ma essersi il gabinetto di Vienna opposto a qualsiasi collettività anche ristretta in proposito. Passando alla quistione di Candia il signor di Radovitz mi confidò che le istruzioni di lord Salisbury a sir W. White ordinavano a quest'ultimo non solo di conferire col conte di Montebello ma «di trovar modo di porsi d'accordo con lui», lo che produsse in essi, Radovitz e White, profonda sorpresa e preoccupazione. Le mire delle rispettive potenze essere così apparse tanto oscure che il signor di Nelidow, sospettoso contro le tendenze francesi ad accordarsi coll'Inghilterra, aveva consigliato al suo collega di Francia a non spingere più oltre il negoziato. In conclusione il mio collega di Germania aggiunse che la questione di Candia sarebbe risorta fra breve, ma che per ora era meglio lasciarla cadere. E questa conclusione è concorde col telegramma di Berlino che Vostra Eccellenza mi comunicava iersera.
In sostanza, un principio d'accordo franco-inglese avendo avuto luogo per gli affari di Candia quale compenso per l'occupazione dell'Egitto, il regio Ministero venne escluso per volontà dei nostri alleati da tutto il negoziato relativo. Tale fatto è sintomo assai chiaro del ritorno alla situazione del 1884, nella quale l'Italia, per aver sistematicamente agito negli affari d'Egitto in senso contrario allo spirito delle alleanze da essa concertate, vide sciogliersi di fatto il fascio delle alleanze stesse e rimase nell'isolamento. Vengono anche confermate da tale fatto le previsioni espresse nel mio rapporto del 30 giugno, circa la situazione disastrosa per i nostri interessi mediterranei, che risulta per l'Italia dal tornare ad essere lettera morta le intelligenze di massima coll'Inghilterra, programma che io ho pur ordine, finora non revocato, di seguire in Costantinopoli e sul quale non ho cessato di essere in pieno accordo coi miei colleghi d'Inghilterra e di Germania....»

Alla fine del 1893 l'inerzia politica dell'Italia aveva già dato tutti i suoi frutti, e non era facile cosa riprendere la posizione perduta e rimuovere le altre potenze dalle nuove combinazioni nelle quali si erano impegnate. Caprivi e Kálnoky, Cancellieri dei due imperi centrali quando Crispi nel 1891 lasciò il governo d'Italia, erano tuttavia in carica e si deve credere che desiderassero il ritorno di lui al potere, poichè mentre Crispi ne sembrava ancora lontano, gli ambasciatori conte Solms e barone De Brück gli recavano messaggi e voti.
Il Solms fece visita a Crispi il 13 ottobre 1893. Dal Diario più volte ricordato riferiamo qualche nota:

«L'ambasciatore germanico, dopo qualche accenno sulla politica generale, mi racconta con visibile soddisfazione che l'Imperatore lo aveva invitato a pranzo a Potsdam, e che con lui ragionando delle sue relazioni col Papa, lo aveva incaricato di riferirmi, appena tornato in Roma, che non aveva dimenticato le osservazioni da me fattegli sulla politica pontificia e che non si lascerebbe prendere dal Vaticano.
- Il Papa - dissi - è nemico della Triplice perchè questa è un ostacolo al ristabilimento del potere temporale ed assicura a noi il possesso di Roma.
- L'Imperatore non lo ignora e sa quello che fa. Avete visto come l'Imperatore si è condotto col principe di Bismarck? In Germania ha fatto magnifica impressione l'offerta che il nostro Sovrano ha fatto al Principe di un Castello imperiale per ristabilirsi in salute. È una riconciliazione tra l'Imperatore e il suo antico Cancelliere che ha davvero consolato il popolo tedesco. E voi che cosa fate? Continuerete con l'attuale ministero? Quale sarà il vostro contegno?
- Io? Sono fuori dalla politica militante....
- Ma l'Italia non può continuare con un ministero come l'attuale.
- Non ho alcun giudizio da emettere. Sto a guardare!»

Il De Brück si recò da Crispi il 25 ottobre. Leggiamo nel Diario:

«Visita del barone De Brück alle 3.45 pom.
Il barone è preoccupato delle condizioni d'Italia. Soggiunge che ne sono preoccupati anche a Vienna....
- Bisogna che vi occupiate delle cose del vostro paese. Che volete? Questo linguaggio parrà singolare in bocca di un austriaco, ma tanto più dovete ascoltarlo. Noi abbiamo bisogno che l'Italia sia ben governata e tranquilla; e lo stato attuale c'inquieta.
- Me ne duole; ma io non ho che farci. È la disgrazia d'Italia. È il nostro un paese cui manca la continuità nella politica; ed è la ragione per la quale all'estero non abbiamo la dovuta considerazione. Ai tempi di Mancini, non ostante il trattato della Triplice, il Principe di Bismarck non aveva fede in lui. A Berlino ed a Vienna si cominciò ad aver fede nel governo d'Italia con Robilant....
- Dite piuttosto con voi. Con Robilant ci fu una fiducia relativa. Con voi a Berlino ed a Vienna non si dubitò mai. E bisogna che ritorniate al potere.
- .... Io vengo dalla rivoluzione. Io ero repubblicano, ed accettai la monarchia perchè con essa potevamo acquistare l'unità. Sono stato fedele alla forma di governo che ho adottato, e deputato e ministro non ho mancato ai miei doveri. Il Re avrebbe dovuto comprendere tutto ciò, ed avrebbe dovuto sentire l'importanza della mia devozione.... Se non amassi il mio paese, mi sentirei legittimato a ritirarmi completamente dalla politica....
- E fareste male. Voi bisogna che continuiate a servire il Re ed il vostro paese. Io non vedo un uomo che possa giovare all'Italia e servirla come voi; ed il Re lo sa, e più d'una volta me lo ha dichiarato....»

Affidando al barone Blanc il ministero degli Affari esteri, Crispi non rinunziò ad avere una diretta ingerenza nella politica estera. Portare nella trattazione delle maggiori questioni internazionali il suo criterio e l'autorità del suo nome era un dovere ch'egli sentiva come presidente del Consiglio, e non avrebbe saputo mancarvi anche perchè la politica estera era stata sempre prediletto oggetto dei suoi studî.
Nei primi mesi del 1894 le condizioni interne d'Italia erano così gravi che richiesero tutta la sua attenzione. In Parlamento non vi furono per qualche tempo dissensi; le ambizioni tacevano; tutti i partiti, dominati dal timore, seguivano ansiosamente l'azione di Crispi rapida, energica contro un movimento anarchico che minacciava un caos sociale e politico. Ristabilito l'ordine pubblico, risollevato il morale del paese e restaurata la finanza, Crispi potè, nonostante che cominciassero ad addentarlo le ire di parte, dedicarsi maggiormente alla situazione internazionale.
La politica estera dell'Italia non poteva non risentirsi delle difficoltà interne. Dovunque eravamo meno considerati. L'Ambasciatore a Londra, conte Tornielli, scriveva l'8 gennaio 1894:

«Le notizie tendenziose della stampa francese, ripercosse nella inglese, l'opera dei pochi corrispondenti speciali di quest'ultima residenti in Italia, cospiravano negli ultimi mesi ad accrescere le prevenzioni e le diffidenze alle quali il mio linguaggio ufficiale e privato non bastava certamente a porre argine. Poche volte Lord Rosebery mi parlò delle nostre difficoltà interne e sempre con quella misura che gli è propria, piuttosto, se ben io ne intesi l'intenzione, per dare a me l'occasione di spiegare o di smentire le altrui esagerazioni. Egli accolse sempre con benevolo interesse le spiegazioni e le smentite mie.»
In Germania la fiduciosa amicizia degli anni del primo ministero Crispi, che aveva avuto una manifestazione solenne nel 1889 in occasione del viaggio a Berlino del Re Umberto, era un ricordo del passato. Il ritorno di Crispi ridestò la speranza che potessero tornare i giorni della intimità italo-germanica. «L'imperatore Guglielmo - riferiva l'Ambasciatore Lanza - non dubita che passeggere sieno le nubi che passano sulla nostra povera Italia, e che il senno del Re e l'energia del suo governo sapranno presto dissiparle». In data 5 marzo lo stesso generale Lanza riferiva:

«Ieri sera ad una rappresentazione di beneficenza ebbi l'onore di conferire con S. M. l'Imperatore, che sedeva in palco a me vicino.
S. M. si degnò esprimermi le sue felicitazioni per la vittoria riportata dal Regio Governo nelle ultime discussioni parlamentari, per la splendida votazione avuta in suo favore, ed ebbe parole improntate, come sempre, a grande amicizia per la famiglia Reale, a stima e benevolenza grandissima per l'Italia, augurando che l'energia e l'autorità da lui molto apprezzate del Capo attuale del Gabinetto, l'alto senno del Re, riescano a superare tutte le difficoltà della crisi che attraversiamo.
S. M. ebbe anche parole di grande lode per la condotta dell'esercito nelle luttuose circostanze in cui ebbe a trovarsi in Sicilia, e nella Provincia di Massa e Carrara; mi parlò con vivo compiacimento del valore dimostrato dai nostri nel combattimento di Agordat, del quale, mi disse, si era fatto spiegare tutti i particolari dal Capo del Grande Stato Maggiore, particolari che egli infatti conosceva meglio di me.»

Ai primi di aprile Guglielmo e Umberto s'incontrarono a Venezia. Il Re si compiacque di telegrafare a Crispi:

«A S. E. Cav. Crispi
Presidente del Cons. dei Ministri.

S. M. l'Imperatore lascerà Venezia domattina portando seco la migliore impressione di questa Città che ha così degnamente rappresentato l'Italia nell'onorare l'augusto nostro alleato e amico. L'Imperatore nei varî colloquî avuti con me mi ha parlato di Lei e sempre con sentimenti di viva simpatia e di alta considerazione.
Mi compiaccio di esprimerle la particolare e meritata benevolenza di S. M. l'Imperatore e di confermarle la mia cordiale amicizia.

Affezionatissimo
Umberto.»

In ottobre la Cancelleria germanica era in crisi. Il generale Caprivi, il successore di Bismarck, col quale Crispi stava per riannodare i rapporti che un'altra crisi, quella del 1891, aveva interrotti, si dimise dall'altissimo ufficio. Le cause immediate che determinarono quell'avvenimento furono narrate a Crispi nei seguenti termini:

«L'accordo fra il Cancelliere e il Ministero prussiano nella questione delle misure da adottarsi per combattere i partiti sovversivi era fatto; le misure stesse erano state concretate (non se ne conoscono ancora i particolari), ed avevano ottenuto l'approvazione dei Governi confederati, il decreto d'apertura del Parlamento per il 15 novembre era già pubblicato; Sua Maestà l'Imperatore doveva ripartire ieri sera per le caccie di Blankenburg; quando nel pomeriggio egli riceveva successivamente a Potsdam il Conte Eulenburg, Presidente del Ministero Prussiano, e il Cancelliere Conte Caprivi, e dopo tali visite contromandava la sua partenza. Nella sera si spargeva la notizia che quei due alti funzionari avevano rassegnato le loro dimissioni e queste erano accettate!! Che cosa era avvenuto?
Una breve conversazione avuta iersera col Conte Eulenburg che, come se nulla fosse avvenuto, incontrai in una soirée, mi pone in grado di desumere come siansi passate le cose.
Quando il Conte Caprivi, a proposito della legge scolastica, lasciò la carica di Presidente del Ministero Prussiano, che fu assunta dal Conte Eulenburg per deferenza ai voleri sovrani, questi era già convinto che la separazione delle due cariche di Cancelliere e di Ministro Presidente Prussiano non poteva durare a lungo, come non durò ai tempi di Bismarck senza dar luogo ad inconvenienti,  ad attriti gravi. Questi attriti giunsero al colmo, fra il Conte Caprivi e il Conte Eulenburg, a proposito delle misure sovraccennate e solo per intromissione dell'Imperatore un accordo fu possibile. Fu però un accordo, per così dire, forzato, concluso il quale e terminata la preparazione dei provvedimenti legislativi che ne erano la conseguenza, ambedue posero subito ieri i loro portafogli a disposizione di Sua Maestà. La quale dovette convincersi che realmente si doveva venire ad una soluzione radicale prima della convocazione del Parlamento. Non potendo naturalmente lasciar partire il Conte Eulenburg senza profondamente ferire il partito conservatore, già tanto ostile al Conte Caprivi, e d'altra parte non sentendosi questi, che sì frequenti volte dimostrò desiderio di ritirarsi, di assumere il peso delle due cariche, nè di difendere davanti il Reichstag delle misure cui in massima si era sempre mostrato ostile, Sua Maestà decise di dar corso alle dimissioni di ambedue e mandò ad effetto, colla sua solita rapidità di decisione, il provvedimento.
Il posto di Cancelliere dell'Impero e Ministro Presidente Prussiano è stato offerto al principe Hohenlohe, attualmente Governatore dell'Alsazia-Lorena. Se accetterà sarà il regno dei Segretari di Stato, giacchè egli non ha più, a mio parere, l'energia, la vigoria necessaria per sì alta e grave carica. Il suo nome però, il suo passato, raccoglierà su di lui i voti dei partiti conservativi e specialmente della nobiltà prussiana che in Parlamento e fuori si mostrarono sì ostili al Conte Caprivi.»

Il 29 ottobre il principe di Hohenlohe fu nominato Cancelliere dell'Impero e Presidente del ministero prussiano. Crispi inviò al Lanza il seguente telegramma:

«Il nome di Hohenlohe, già amato in Italia, viene oggi salutato con la più viva simpatia. Voglia far sentire al Gran Cancelliere che il nostro paese si felicita insieme al Governo di una nomina che siamo sicuri gioverà ai comuni interessi delle due nazioni.

Crispi.»

Hohenlohe mandò dapprima il barone Marschall, poi si recò lui stesso dall'ambasciatore d'Italia a ricambiare il saluto:

«Hohenlohe - telegrafava l'ambasciatore al ministro Blanc il 30 ottobre - venuto in persona casa mia, vuole rinnovi a V. E. e al Presidente del Consiglio vivi ringraziamenti e ricambi loro i sentimenti espressigli, lieto poter cooperare interessi comuni due paesi. Più che sue parole, la sua visita fattami oggi fra tante altre cure e prima di aver potuto ricevere la mia e quella di altri ambasciatori, dimostra il conto nel quale egli tiene il capo del R. Governo che egli disse esser lieto già conoscere, nonchè V. E. e ciò mi è di buon augurio per l'avvenire.»

Le buone disposizioni dell'Imperatore Guglielmo verso l'Italia erano confermate dal Lanza in un suo rapporto del 5 marzo 1895, del quale riferiamo questo interessante brano:
«Al suo ritorno da Vienna S. M. l'Imperatore mi onorò di una sua visita personale per esprimermi, come disse, la sua soddisfazione di aver potuto stringer la mano a S. A. R. il Duca d'Aosta in occasione dei funerali dell'Arciduca Alberto. La visita durò a lungo e S. M. parlò un po' di tutto.... Fermandosi a discorrere specialmente dell'Austria, della sua impolitica condotta nell'Istria, ecc., S. M. mi disse aver trovato il conte Kálnoky meno inquieto per le nostre relazioni con la Francia, ma pur sempre alquanto preoccupato, che noi possiamo considerare la Triplice Alleanza non sufficientemente vantaggiosa per noi sol perchè non ci dà subito in piena pace il mezzo di giungere alla realizzazione dei nostri desiderii, delle nostre aspirazioni sui territori del Nord africano e altri. Sua Maestà avendo soggiunto: «Aspettate, lasciate che venga l'occasione e avrete tutto quel che volete», mi affrettai, non volendo per avventura che le parole del conte Kálnoky lasciassero cattiva impressione sull'animo del mio Augusto interlocutore, ad osservare che S. M. e il suo Governo conoscevano troppo bene la nostra politica, l'attitudine presa dall'attuale Gabinetto verso l'Inghilterra nelle cose d'Africa, il nostro  desiderio di farci veramente il tratto d'unione fra l'Inghilterra e le Potenze della Triplice Alleanza, per dubitare che noi vogliamo con intempestivi conati suscitare complicazioni, che anzi facciamo sacrifizî per evitarle. Soggiunsi che siamo sempre stati e siamo consci dei nostri doveri e dei nostri diritti, che ci premeva anzitutto lo statu quo nel Mediterraneo minacciato dalla Francia, e non sapevo spiegarmi la preoccupazione del conte Kálnoky. Se ci allarmiamo dei continui tentativi della Francia per estendersi in Africa, questi allarmi non sono infondati, chè quei tentativi, non mai ostacolati, potrebbero un giorno condurre ad uno stato di fatti compiuti - e citai il porto di Biserta - cui la guerra sola, che vogliamo tutti scongiurare, potrebbe riparare. S. M., che mi sembra persuasa di queste cose, apprezza la nostra politica verso l'Inghilterra, è sempre disposta ad appoggiarla, e fa voti perchè sotto i successori di Rosebery e di Kimberley, i quali non possono tardare molto a venire al potere, essa trovi quella favorevole accoglienza e quella cooperazione che finora abbiamo indarno cercato....»

Le buone relazioni tra l'Inghilterra e la Germania erano state per molti anni un elemento importantissimo della nostra situazione internazionale. È noto che gli accordi nostri con l'Inghilterra pel mantenimento dello statu quo e la difesa dei comuni interessi nel Mediterraneo e in Oriente, completavano le stipulazioni del trattato della Triplice alleanza. La tendenza della politica inglese a comporre i dissidi anglo-francesi mediante compensi nel Mediterraneo e a modificare in Oriente il suo atteggiamento intransigente verso la Russia, allontanando ogni giorno dippiù l'Inghilterra dalla Triplice, giustamente allarmava il governo italiano. Il 1.° marzo 1894 Gladstone si ritirava definitivamente dal governo in seguito al voto contrario della Camera dei lords al progetto sull'Home Rule. Il suo ministero però rimaneva sotto la presidenza di lord Rosebery, che cedeva il ministero degli affari esteri a lord Kimberley. Il ritiro di Gladstone fu accolto con soddisfazione nelle sfere governative di Berlino, presso le quali fece poi anche buona impressione la caduta di Rosebery, avvenuta il 22 giugno 1895. Col ritorno al potere dei conservatori la Cancelleria germanica concepì qualche speranza nella ripresa, da parte dell'Inghilterra, dell'antica politica. Il barone Marschall, segretario di Stato al ministero germanico degli Affari esteri, divideva tale speranza:

«Potremo - diceva egli - aver divergenze coll'Inghilterra, e ne prevedo ancor molte nelle questioni coloniali, ma queste sono cose secondarie che non impediranno mai l'accordo sui grandi problemi che possono sorgere nel Mediterraneo e che toccano gli interessi dei nostri alleati; quelle divergenze daranno ragione all'Imperatore che, di recente, parlando con me su questi argomenti diceva: Bah! wer sich lieb hat, neckt sich (qui s'aime, se querelle).»

Ma sorse poco dopo a creare malumori la questione del Transvaal, venne il telegramma dell'imperatore Guglielmo al presidente Krüger nel quale felicitava questi «che senza ricorrere all'aiuto delle Potenze amiche fosse riuscito a ristabilire la pace contro le bande armate che avevano invaso il suo paese e a difenderne l'indipendenza», venne l'acre polemica tra la stampa inglese e la germanica. Crispi, a dimostrazione di sentimenti amichevoli verso i due Stati, appena dichiaratosi il dissidio che fortunatamente fu subito composto, aveva accennato a una mediazione dell'Italia con questo telegramma all'ambasciatore a Berlino:

«Il dissidio anglo-tedesco è una sventura internazionale, e bisogna trovar modo di comporlo. Esso giova ai nemici della Triplice e nuoce a noi. Il nostro Augusto Sovrano se ne preoccupa, e mi ha espresso il desiderio d'intervenire con una parola amica fra le due parti, ove questa possa esser efficace. Ne parli al barone Holstein in mio nome, e qualora egli le dia speranza di successo, ne parli al Gran Cancelliere.
Qualunque sia il risultato delle nostre pratiche, avremmo per lo meno dato prova della nostra buona volontà e della nostra amicizia.»

Nei primi due mesi del 1896 apparve chiara la crisi delle alleanze e degli accordi ai quali l'Italia aveva affidato la sua sicurezza e la garanzia dei suoi interessi.

In breve, la situazione era la seguente: col peggioramento delle relazioni anglo-germaniche la Germania nostra alleata, facendo una politica a sè, riguardosa verso la Turchia, aveva agevolato alla Russia la preponderanza a Costantinopoli, e verso la Francia aveva iniziato una politica di concessioni, della quale uno dei frutti era stato l'accordo franco-germanico, risultante dal protocollo firmato il 4 febbraio 1894, che aveva riconosciuto l'hinterland della Tripolitania nella sfera d'influenza francese.
La Francia, che nel 1891 aveva iniziato trattative per la delimitazione dei possedimenti franco-italiani nell'Africa Orientale e per una convenzione che avrebbe assicurato nella Tunisia un regime economico soddisfacente ai cittadini e ai commerci italiani, ritirò le sue proposte quando e perchè fu rinnovato il trattato della Triplice Alleanza; e continuava ad osteggiarci anche in Africa, inviando all'Harrar e allo Scioa denari e armi che dovevano essere rivolte contro di noi.
L'Inghilterra, lasciata libera di trascurare gli accordi che aveva con l'Italia per l'Oriente e pel Mediterraneo, si preoccupava soltanto della contestata sua posizione in Egitto e tendeva a cedere in Africa alla Francia, in tutte le questioni nelle quali era interessata l'Italia, così per l'Harrar e Zeila, come per Tunisi.
La Russia, come si era fatta guardiana degli Stretti, per difendere, insieme al suo dominio incontrastato nel Mar Nero, la propria influenza sulla Turchia, e aveva, rompendo il concerto europeo, impedito che anche l'Italia riprendesse, a fianco dell'Inghilterra, posizione in Oriente, intrigava, insieme alla Francia, in Abissinia, avanzando altresì la pretesa di un protettorato ortodosso con lo scopo di ostacolare l'influenza italiana.
L'Austria-Ungheria, infine, nonostante l'alleanza con l'Italia, si era sentita così libera da iniziare trattative commerciali col governo francese per la Tunisia, senza prevenirne nè informarne il governo italiano.
Da questa situazione risultava che l'Italia legata all'Inghilterra, alla Germania e all'Austria-Ungheria da convenzioni di reciproca garenzia, era, a causa di quelle convenzioni, combattuta dalla Francia in questioni vitali e, nella lotta, lasciata sola dalle alleate. Cosicchè la Francia, pur non conoscendo i patti della Triplice alleanza, era giunta con un processo intuitivo di eliminazione, a conoscerne la portata, e procedeva quindi brutalmente nella sua guerra coperta a tutti gl'interessi italiani, avendo la sicurezza di non incontrare ostacoli da parte della Germania e dell'Austria-Ungheria. Si può anche aggiungere che a nostre spese essa si era indennizzata della perdita dell'Alsazia-Lorena, acquistando preponderanza in tutto il Mediterraneo occidentale e negli hinterlands delle regioni del Nord-Africa, dall'Atlantico sino all'Alto Nilo.
Esposta per tal modo l'Italia nello stato di pace a tutti i danni della guerra, al governo italiano, per la salvaguardia degl'interessi nazionali, si presentavano due vie: sciogliersi dalla Triplice alleanza cedendo alle pressioni francesi, o denunziare il trattato per sostituirlo con un altro che non prevedesse soltanto la guerra, ma fosse una garanzia per l'Italia anche nello stato di pace.
La prima via era irta di pericoli: seguendola, l'Italia sarebbe ritornata nelle condizioni d'isolamento nelle quali si era trovata sino al 1882, cioè prima della sua accessione all'alleanza austro-germanica, in balìa delle sopraffazioni francesi e della irritazione delle ex-alleate. La seconda via era più conveniente, e Crispi la preferì.
D'altronde, egli che non aveva mai ammesso che l'alleanza dell'Italia con le potenze centrali fosse una dedizione degl'interessi italiani, doveva nei precedenti della sua azione diplomatica attingere la fede di potere rompere il ghiaccio del particolarismo austro-germanico formatosi nei tre anni della sua lontananza dal Governo.
I documenti che seguono hanno un altissimo interesse storico: essi contengono i termini del problema che s'imponeva, l'ansietà patriottica del governo di Crispi e i suoi propositi.

Diario - 20 gennaio 1896.

Il barone Pasetti, ambasciatore d'Austria-Ungheria, giusta la fatta domanda, giunse alle ore 15.
Egli cominciò a discorrere degli accordi del 1887, della insufficienza dei medesimi per lo scopo cui si riferiscono. Il barone si espresse con diffidenza del Ministero britannico, e si lagnò del medesimo per aver agito a Pietroburgo senza averne avvertito i due alleati. Soggiunse, che bisognerebbe render più precisi gli accordi, modificandoli od ampliandoli, per renderli più sicuri.
Risposi, rifacendo la storia dei fatti che ci condussero ai suddetti accordi. Dissi che per me non hanno cessato di aver vigore le obbligazioni allora assunte. Ricordai che essendo stati trascurati tali accordi sotto Rosebery, all'avvento di Salisbury abbiamo interpellato questi, e ci fu risposto ch'egli riteneva ancora esistenti quegli accordi. Soggiunsi, che avevo fede nel ministro inglese, quantunque incerto talora ed esitante.
Il barone Pasetti fu lieto della opinione mia favorevole a lord Salisbury. Ripetè che, nondimeno, era necessario dare alle note del 1887 maggiore precisione. Espose dei dubbi sul contegno del Governo tedesco.
A questa osservazione dovetti rispondere, che gli accordi del 1887 erano stati fatti coll'intesa di Berlino e conseguentemente con l'approvazione del Principe di Bismarck, il quale dichiarò che stava al di fuori degli accordi. Egli voleva che gli obblighi fossero limitati tra l'Austria, l'Inghilterra e l'Italia. La Germania, pel momento in disparte, entrerebbe quando la Francia avesse preso parte diretta nelle cose d'Oriente e del Mediterraneo.
Certamente oggi in Berlino non potrebbe prevalere una politica diversa; e non bisogna diffidarne.
Conclusi, che noi stiamo fermi agli accordi del 1887; se giova renderli più precisi, noi vi ci presteremo. In questo caso ne avverta Vienna affinchè l'ambasciatore italiano e quello dell'Austria-Ungheria a Londra facciano le pratiche necessarie presso lord Salisbury.
Se lord Salisbury ha proceduto solo, ciò ha fatto per precauzione, e nel dubbio che i due alleati non lo seguissero. Non dobbiamo dimenticare la condotta nostra al 1878 ed al 1882. Tanto nella guerra contro la Russia, quanto per la insurrezione egiziana, l'Inghilterra fu lasciata sola. Aggiungete che in questi ultimi anni, dopo il mio ritiro al 1891, dei tre Governi ciascuno ha fatto a modo suo, e noi nelle quistioni del Mediterraneo, a Tunisi per esempio e nell'Eritrea, ci siamo trovati soli; la Francia ha fatto quello che ha voluto.
E che si è fatto in Oriente? Le flotte presenziarono le carneficine turche, e nissuno se n'è impensierito. Anche l'Austria fece da sè. - Dica al suo Governo, che l'Italia procederà lealmente coi suoi alleati. Mettiamoci d'accordo, e il mio Governo non mancherà al dover suo.

Diario - 21 gennaio.

Il conte Nigra ed il barone Blanc giungono a casa mia alle ore 15 e 10 minuti.
Il discorso si è aggirato su gli accordi del 1887. Dissi al nostro ambasciatore come in fatto quegli accordi siano rimasti inefficaci. Anche nella quistione orientale, tanto l'Inghilterra quanto l'Austria, ciascuna ha agito isolatamente senza averne prevenuto i due Governi alleati.
Riferii al conte Nigra il mio colloquio di ieri col Pasetti.
Il barone Pasetti manifestò che a Vienna diffidano di lord Salisbury, e chiedono che agli accordi del 1887 si dia precisione negli obblighi e negli scopi.
Osservai che, se vi è potenza che debba lagnarsi del modo come si son condotte l'Inghilterra e l'Austria, è l'Italia. Il nostro Governo, da parecchi anni in quà non ebbe l'ausilio dei due alleati. Tanto dalla triplice continentale, quanto dalla orientale, siamo stati lasciati soli. Ciò non avvenne mai prima del 1891 e specialmente quando Bismarck era al potere. Accetto quindi che gli accordi del 1887 si rivedano e si rendano più precisi; ma chiedo innanzi tutto che i firmatarii eseguano quanto avran pattuito.
Il conte Nigra affermò che non bisogna dubitare che l'Austria possa avvicinarsi alla Russia, e n'è garentia il fatto che a Vienna il ministro degli affari esteri è un polacco. Ciò posto, dobbiamo ritenere che l'Austria è interessata a rispettare la nostra alleanza.
Il ministro Blanc espose alcune sue osservazioni sulla condotta dell'Austria verso di noi. Conchiuse anche lui che gioverebbe al mantenimento della alleanza il rivedere gli accordi del 1887.
Partito Blanc verso le ore 15 e 45, siamo rimasti, Nigra ed io, un'altra buona mezz'ora insieme.
Il conte perorò la buona fede dell'Austria verso di noi.
Ci rivedremo.

Diario - 22 gennaio.

Il barone de Bülow giunge alle ore 18.
Il barone cominciò col chiedere notizie dell'Africa, felicitandosi della condotta dei nostri soldati. Venendo poi alle cose di Europa, affermò che la Germania sarebbe stata sempre con noi. Su questo feci qualche osservazione.
Dissi che dei beneficii dell'alleanza, io mi accorsi ai tempi di Bismarck, non dopo coi successori. Prima del 1890 appena una questione sorgeva, ne avvertivo Bismarck, ed egli, tanto in Londra, quanto a Parigi faceva sentire la sua parola e tutto andava pel meglio44. Della Triplice Alleanza noi soli abbiamo sentito il peso. Alle frontiere della Francia, nostra accanita nemica, noi abbiamo quotidianamente a provare fastidi d'ogni genere.
Il barone non potè negarmi che ai tempi di Bismarck le cose procedevano in miglior modo per noi. Soggiungeva però che il suo Governo si interessa delle cose d'Italia, e che noi l'avremmo al nostro fianco tutte le volte che ne sorgesse il bisogno.
Parlammo delle cose di Oriente, e non volli lasciar passare l'occasione per dichiarargli che l'Europa, con le sue navi tenute inerti nelle acque della Turchia, ha dato prova della sua impotenza.
Ritornati alle cose di Francia, ripetei che gran danno noi proviamo per gli odii di quella nazione e per le insidie di quel Governo.

Diario - 9 febbraio, ore 17.

Sono andato dal barone de Bülow alle 5 pomeridiane. Lo scopo era di parlargli delle relazioni tra l'Italia e la Francia.
Dissi all'ambasciatore tedesco:
- Più di una volta ci son venuti consigli da Berlino perchè trovassimo modo di accordarci con la Francia in tutte le speciali quistioni che interessano i due paesi.
Non ci siamo riusciti! Sono pochi giorni ancora, avendo mandato a Parigi un nostro funzionario, ci servimmo di questa occasione per esplorare l'animo del signor Bourgeois, il quale, come sapete, è il presidente dell'attuale Ministero francese. Questo funzionario parlò delle varie quistioni pendenti tra noi e la Francia, e disse che giammai come oggi potrebbe trovarsi un accordo fra i due Governi, essendo Crispi al potere.
Il Bourgeois rispose a un dipresso nei seguenti termini:
«Un accordo tra i due paesi non è possibile, finchè l'Italia fa parte della Triplice. Il popolo francese vi si ribellerebbe. Tutti qui tengono gli occhi rivolti alle provincie perdute, e sanno che l'Italia alleata della Germania è di ostacolo al ritorno delle medesime alla madre patria. Assicuratevi che finchè voi farete parte della Triplice non è possibile intenderci».
Siccome vedete, caro barone, il signor Bourgeois fu molto esplicito e noi vediamo in tutto il contegno di lui verso di noi una asprezza tale che non lascia speranza di venire ad un accordo.
La Francia ci fa la guerra dappertutto. In Europa ed in Africa noi ci troviamo il Governo francese di fronte in ogni occasione e sempre malevolo. Dicesi che la Triplice fu stipulata per mantenere la pace. Per noi è il contrario. La Triplice per noi è la guerra. In Italia siamo insidiati per mezzo del Vaticano, e fuori con tutti i mezzi che può adoperare una diplomazia astiosa e sottile. I nostri commerci sono interrotti, e nessun trattato è possibile, nè in Tunisia, nè tra Francia ed Italia. Sventuratamente la Francia è alle nostre frontiere, e non possiamo fare a meno di avere rapporti con essa.
Ai tempi di Bismarck le cose erano meno difficili, perchè la parola del principe spesso si faceva sentire a Parigi.
E tutto ciò avviene perchè ci s'imputa a colpa di far parte della Triplice. Vi prego scriverne al principe di Hohenlohe, e far giungere queste mie dichiarazioni all'Imperatore. È una posizione intollerabile la nostra. Ve lo ripeto, per noi questo stato di cose è peggiore della guerra.
Il barone de Bülow parve impressionato delle mie parole e mi promise che ne avrebbe scritto a Berlino.

Crispi all'ambasciatore d'Italia a Berlino:

«Roma, 9 febbraio 1896.

Signor Ambasciatore,

Parmi utile che Vostra Eccellenza abbia notizia di una conversazione da me avuta oggi stesso con questo ambasciatore di Germania.
Ho creduto conveniente che il rappresentante di S. M. l'Imperatore Guglielmo in Roma fosse, al pari del rappresentante di S. M. il Re in Berlino, a perfetta conoscenza del pensiero del Governo italiano sulla situazione che ci è creata dalla ostilità della Francia e insieme dalla triplice alleanza. A conforto quindi di quanto già il barone Blanc aveva avuto occasione di esporre al signor de Bülow, ho richiamato sopra tale situazione l'attenzione del signor de Bülow stesso.
Gli dissi che, desiderosi anche noi, come sempre, di evitare complicazioni e di consolidare la pace, avevamo completamente diviso il modo di vedere, espressoci replicatamente dal Governo germanico, circa alla convenienza di venire tra Francia ed Italia ad accordi sopra le speciali questioni riguardanti i due paesi. Il regio ambasciatore a Parigi aveva quindi ricevuto istruzione di cogliere - ed aveva colto infatti - tutte le occasioni per rendere noti al Governo francese i nostri intendimenti più concilianti. Così è che, approfittando delle espressioni di simpatia e quasi di solidarietà civile contro la barbarie, dirette al regio ambasciatore dal presidente del Consiglio, dal ministro degli affari esteri e dal Presidente della Repubblica Francese a proposito della nostra guerra d'Africa, il Conte Tornielli era stato autorizzato a lasciar comprendere, ancora una volta, il nostro desiderio di venire ad accordi concreti per tutte le questioni ancora insolute tra Francia ed Italia, come la delimitazione nell'Africa orientale, il regime commerciale e personale in Tunisia, ecc.
Ancora una volta il Governo francese aveva mostrato a tutta prima di comprendere e di apprezzare il valore delle importantissime concessioni che noi ci chiarivamo disposti a fare; ma, ancora una volta, al momento di venire a qualche conclusione positiva, il Governo francese ne declinava ogni possibilità.
Aggiunsi al signor de Bülow che, mentre il Governo italiano aveva fatto così quanto gli era ufficialmente possibile, per venire agli accordi che la stessa Germania aveva mostrato di desiderare, io non aveva voluto darmi per vinto; e, approfittando della circostanza che un mio alto ed egregio funzionario, godente insieme di tutta la mia fiducia e dell'amicizia personale del signor Bourgeois, da lui stesso altra volta presentatomi, si recava a Parigi incaricato di una missione tecnica, gli avevo detto che, vedendo il Presidente del Consiglio francese, ne approfittasse per fargli presente che il momento non avrebbe potuto essere più favorevole per risolvere, d'accordo col Governo italiano, ogni questione irritante; che egli sapeva essere il Governo italiano in ottime disposizioni per ciò, mentre, d'altro lato, il paese avrebbe accettato, a questo proposito, da un Ministero da me presieduto, anche ciò che con altri Ministeri gli sarebbe sembrato costituire un atto di debolezza.
Ora, la risposta del signor Bourgeois era stata questa:
«Sentite, gli animi di tutti i Francesi sono sempre volti alle Provincie perdute, e nulla, checchè avvenga, varrà mai a distornerli; nessuno accetterà mai la separazione dell'Alsazia e Lorena dalla Francia come un fatto definitivo ed irrimediabile; a quella separazione tutti i Francesi riferiranno sempre le altre questioni; non vi potrà dunque essere mai accordo alcuno tra noi e l'Italia, finchè questa, essendo alleata della Germania, contribuirà a quella separazione».
Il signor de Bülow parve molto impressionato da ciò che io gli esponeva. Gli feci allora considerare come tutti gli sforzi nostri per la consolidazione della pace s'infrangessero contro una volontà che è stata ed è in Francia comune a tutti i ministri e a tutti i gabinetti; che fatti e dichiarazioni l'hanno patentemente chiarito; e come quella volontà annullasse per noi quei benefici della pace che ci dovevano essere garantiti dalla triplice alleanza, poichè, per la triplice appunto, la Francia si credeva in diritto di considerarsi di fatto in guerra con noi e ce lo dimostrava in ogni questione, col maggiore nostro danno; quanto è avvenuto e quanto avviene ora in Abissinia non ne era che un esempio.
Ricordai a questo proposito al signor de Bülow che, mentre era cancelliere dell'Impero il principe di Bismarck, quando i rapporti franco-italiani minacciavano di peggiorare vieppiù per le intolleranze, la indebita ingerenza e l'ostilità della Francia, il Governo germanico non esitava a far comprendere a Parigi che non si doveva passare il segno; e a Parigi lo si comprendeva. Così avevano potuto risolversi pacificamente, secondo il diritto e la convenienza internazionale, incidenti come quelli dei Greci di Massaua, del consolato francese di Firenze, della spedizione Atchinoff, delle istituzioni italiane in Tunisia, ecc. Il Governo francese aveva allora dovuto persuadersi che l'alleanza italo-germanica era un patto efficace non solo pel caso di guerra, ma per prevenire la guerra, garantendo anche in tempo di pace alle potenze alleate la difesa reciproca dei rispettivi interessi.
Ora, aggiunsi, sembra che la Francia siasi formata della triplice e specialmente dell'alleanza italo-germanica un concetto tutto diverso: un concetto, cioè, per cui la Francia potrebbe offendere impunemente l'Italia, perchè alleata della Germania, sicura, d'altro lato, che la Germania non le opporrebbe ostacolo di sorta.
Quindi, io conclusi, desideravo che il signor de Bülow facesse presente tutto questo a S. M. l'Imperatore e a S. A. il cancelliere, avendo io la fiducia che tutto ciò sarebbe tenuto da essi in amichevole considerazione.
Queste mie dichiarazioni mi parvero tanto più opportune, visto che ci avviciniamo al mese di maggio, all'epoca, cioè, in cui si dovrà da una parte e dall'altra decidere sulla opportunità di confermare o meno, puramente e semplicemente, il trattato di alleanza.
Del linguaggio da me tenuto al signor de Bülow Vostra Eccellenza potrà mostrarsi edotta presso codesto Governo.

Crispi.»

I negoziati intavolati a Londra per stabilire un'intesa concreta negli affari di Oriente e nel Mediterraneo tra l'Italia, l'Austria-Ungheria o l'Inghilterra, erano paralleli alle rimostranze che Crispi faceva alla Germania. Se i primi fossero riusciti, le seconde sarebbero divenute meno urgenti e perentorie, poichè l'Italia avrebbe trovato nella solidarietà inglese una garenzia degli interessi ai quali era estranea la triplice alleanza. In verità, la Cancelleria germanica esercitò tutta la sua abilità per indurre lord Salisbury a ritornare alla politica anteriore al 1891; l'ambasciatore Hatzfeldt in quei giorni era continuamente al Foreign-Office, ma v'incontrava sempre il signor de Courcel, ambasciatore francese. L'esito del duello tra la triplice e la duplice franco-russa fu favorevole a quest'ultima: lord Salisbury confermò il mutamento della politica estera britannica. Il 10 febbraio, infatti, il conte Nigra telegrafava:

«Goluchowski mi ha detto essere stato informato da Deym che Salisbury gli ha dichiarato lealmente che non poteva assumere coll'Austria-Ungheria e coll'Italia nessun impegno più preciso di quello del 1887».

Il che voleva dire che non s'intendeva dare pratico seguito a quell'impegno, dimostratosi inefficace quando sopraggiunse la cattiva volontà, e solo per cortesia si esprimeva una platonica intenzione di procedere d'accordo, la quale non escludeva ogni dissenso.
Non rimaneva al governo italiano che rivolgersi agli alleati. Ma in Germania si era poco ben disposti a considerare la difficile posizione dell'Italia; anzi il vecchio e stanco principe di Hohenlohe45 si mostrava allarmato delle esigenze di Crispi. Da Berlino si scriveva:

«Il timore che si ha qui che noi cerchiamo di forzar la mano alla Germania, contribuisce certo a rendere il Governo Imperiale più restìo a parlar alto a Parigi a tutela dei nostri interessi. Io mi sono astenuto dal parlar di diritti nostri e di doveri della Germania nello stretto senso della parola, ma non ho tralasciato d'insistere sul fatto che tutte le difficoltà che incontriamo a Parigi, tutte quelle che ci vengono create in Abissinia, dipendono dall'essere noi membri della Triplice Alleanza e il solo fra quei membri sul quale i nemici di essa possano sfogare le loro ire. Il barone Marschall, che di ciò conviene meco pienamente, si dimostra anche disposto ad assisterci; ma come farlo efficacemente senza andar incontro a pericoli, a danni maggiori e d'ordine generale? A Pietroburgo gli ordini dati al Principe Radolin, le recenti dichiarazioni stesse del Principe Lobanoff circa il Leontieff, non lasciano dubbio che quel rappresentante germanico agisce, con prudenza ed energia, in nostro favore, d'accordo col conte Maffei. Ma più che a Pietroburgo noi vorremmo, noi avremmo bisogno che la parola autorevole della Germania si facesse sentire sullaSenna e qui cominciano le dolenti note. Ho avuto lunghe e ripetute conversazioni col barone Marschall e col barone Holstein in tutti questi ultimi giorni; essi hanno studiato, con amichevole premura devo dirlo, la questione sotto tutti i rapporti, ma la risposta che mi si fa è sempre la stessa: «A Parigi non si ignorano le simpatie della Germania per l'Italia, si sa benissimo che la Francia non potrebbe attaccar l'Italia senza che la Germania accorra in sua difesa; ma intervenire ora, fare pressioni sulla Francia in questioni come quelle delle trattative per le delimitazioni in Africa, per le relazioni commerciali in Tunisi, senza la certezza che quell'intervento sorta immediato effetto favorevole, la Germania non può. In altri tempi, come quelli cui allude S. E. Crispi, in cui esisteva in Germania una forte corrente per la guerra, e la Francia non era forte come oggi, nè resa più baldanzosa dallo appoggio della Russia, poteva la Germania permettersi di tenir le verbe haut. Esporsi ora ad un rifiuto o ad una semplice fin de non recevoir per parte della Francia, la Germania non può; e non deve, senza essere esposta a subirne le conseguenze e rompere en visière col Governo della Repubblica. Il Presidente del Consiglio italiano e il barone Blanc, concludeva il barone Marschall, da veri uomini di Stato, devono comprendere quanto sia delicata la posizione della Germania verso la Francia e come un nulla possa turbare le nostre relazioni con essa e provocare complicazioni che è anche interesse dell'Italia di evitare.

Alle obiezioni, delle quali si faceva organo l'ambasciatore Lanza, rispondeva Crispi:

«Il barone Blanc mi comunica la di Lei lettera del 23 corr. nella quale è fatto cenno della mia del giorno 9....
Noi possiamo comprendere la delicatezza della posizione che la Germania deve considerare di fronte alla Francia, nella attuale condizione di cose internazionali; il fatto che non esiste più in Germania una forte corrente per la guerra, che la Francia è oggi più forte di un tempo e resa più baldanzosa dall'appoggio della Russia, non ci pare dispensi la Germania dal dover considerare il danno che alla forza ed alla autorità della triplice alleanza deriva da tutto ciò che viene a colpire l'Italia, ad onta della triplice stessa, e può ben dirsi pel fatto della sua esistenza.
Non ho d'uopo di ripeterle che, in realtà, le difficoltà contro cui dobbiamo ora combattere ci derivano in gran parte dai vincoli che ci uniscono alla Germania; e se non è pensier nostro pretendere dalla lettera e dallo spirito del trattato di alleanza conseguenze che a Berlino possano sembrare eccessive, non è men vero che noi dobbiamo chiederci ora più che mai se ed in qual grado e modo tuteli i nostri interessi un trattato che ha bensì lo scopo principale di prevenire ed impedire la guerra in Europa, ma che non si dovrebbe veramente poter considerare come estraneo a ciò che, in forma più o meno larvata, equivalga ad una guerra mossa fuori di Europa all'una o all'altra delle potenze alleate.
A Parigi - le si è detto dal barone Marschall e dal barone Holstein - non si ignorano le simpatie della Germania per l'Italia, si sa benissimo che la Francia non potrebbe attaccare l'Italia senza che la Germania accorra in sua difesa. Ma il fatto certo è che questi attacchi della Francia non sono più una ipotesi da considerarsi per un incerto futuro, sono un fatto ormai esistente, che mira, non solo a combattere l'Italia in Africa, ma ad indebolirla in Europa.
Non comprendo come possa ritenersi a Berlino che ciò sia in realtà destinato a rimanere senza influenza su quella situazione internazionale che ha la sua base principale per la Germania stessa nella potenza della triplice, poichè indirettamente i due imperi non possono non risentirsi di ciò che tocca la forza dell'Italia; come l'Italia si risentirebbe di ciò che in Europa o fuori d'Europa toccasse alla forza della Germania e dell'Austria-Ungheria. Comunque, se a Berlino si è risoluti a non escire assolutamente da quella riserva che induce la Francia a ritenere di poter considerare l'Italia come isolata, è ben naturale che da noi si consideri il trattato di alleanza nei suoi rapporti, non più soltanto di una conflagrazione generale, ma benanche della situazione speciale che esso produce fra Italia e Francia isolatamente.
E poichè s'avvicina il momento in cui una decisione sul patto che le unisce può esser presa dalle tre potenze alleate, ho voluto richiamare sul grave argomento tutta l'attenzione di V. E. perchè Ella ne prendesse norma nel suo linguaggio presso codesto Governo e anche presso S. M. l'Imperatore.
Ella mi si dichiara profondamente convinto dell'importanza e dell'utilità del trattato, anzi, della sua necessità, malgrado gl'inconvenienti che possa avere. Su ciò le ho espresso già in parte il mio pensiero, e mi riservo di scrivere ancora all'E. V.
Un trattato di alleanza, sia pure concluso allo scopo d'impedire la guerra, perde gran parte del suo valore quando si dimostra nella pace inetto a tutelare gl'interessi dei contrattanti. Senza dire che nella mente dell'Italia e degli Italiani, oltre e più che di un patto scritto e limitato a certe date evenienze, si tratta di una solidarietà morale e politica, che, trovando la sua ragione nella storia, nella geografia, nella logica internazionale, ha fatto sì che quel patto non avesse quasi oppositori, mentre se tale solidarietà venisse a mancare per parte della Germania, il giudizio sulla convenienza di quel patto verrebbe certo a modificarsi in molta parte del popolo nostro.
Ora, non può ignorarsi a Berlino la forza che oggi deriva ai patti diplomatici dal suffragio delle masse; tanto più quando quei patti implicano la reciproca fratellanza delle armi e del sangue. Le alleanze hanno infatti oggi tanto maggiore efficacia, quanto più sono popolari, e non possono essere popolari se non si dimostrano utili.
Il popolo italiano non è ancora disilluso dell'alleanza con la Germania; ma chi può assicurare che non lo sarà domani, così seguitando le cose? E se il Governo italiano venisse dalle circostanze chiamato all'adempimento dei suoi impegni verso la Germania, quando l'alleanza fosse divenuta impopolare, certo esso non mancherebbe ai suoi doveri internazionali, qualunque fossero gli uomini al potere; ma esso si sentirebbe ben debole di fronte al suo stesso paese, e lo sarebbe per conseguenza anche di fronte al suo alleato.
Non posso quindi a meno d'insistere sopra la gravità di uno stato di cose che si fa per noi sempre meno tollerabile, poichè facendoci subire in una pace formale i danni di una guerra a cui l'alleanza non provvede, senza gli eventuali vantaggi che in una guerra dichiarata l'alleanza  dovrebbe assicurarci, rende incerta e mal sicura la base stessa della nostra posizione internazionale».

Il problema era posto in tali termini che l'Imperatore stesso sentì l'opportunità di studiarlo per cercare una soluzione. E poichè aveva grande stima di Crispi, decise di venire in Italia per conferire con lui:

«Berlino, 29 febbraio 1896.

«S. M. l'Imperatore venne oggi casa mia per pregarmi far conoscere al Re suo vivo desiderio incontrarsi con lui profittando occasione per far prima un viaggio in mare coste italiane che i medici giudicano necessario per salute Imperatrice. S. M. l'Imperatore avrebbe quindi progettato giungere con S. M. l'Imperatrice a Genova nel più stretto incognito ed imbarcarsi subito colà nel suo yacht. Da Genova andrebbe a Napoli a visitare fratello, quindi coste Sicilia e di là a Venezia. A Venezia potrebbe essere non più incognito e aver luogo, se S. M. il Re consente, ricevimento e incontro ufficiale.

Lanza.»

Disgraziatamente, tre giorni dopo Francesco Crispi era obbligato ad abbandonare il Governo.
Scomparso il ministero Crispi per una battaglia perduta in Africa, cadde nel nulla anche il suo programma di politica estera. I patti della Triplice alleanza non furono modificati secondo la nuova situazione internazionale, e i ministeri italiani che seguirono si abbandonarono a quella politica di concessioni e di compensazioni che fruttò soltanto sospetti, danni e nessun vantaggio. Vennero le convenzioni franco-italiane per la Tunisia del 28 settembre 1896, le quali non garentirono i nostri interessi economici e morali, e la convenzione marittima del 1.° ottobre, che giovò soltanto alla marina mercantile della Francia; venne «la pace commerciale», del 21 novembre 1898, che fu difesa con la «ragione politica» e che in realtà fece riprendere al commercio francese parte del terreno perduto, e ben poco giovò al commercio italiano. Poi, il primo viaggio all'estero del nuovo Re d'Italia, dopo la tragedia di Monza, ebbe per méta Pietroburgo e non Berlino. Poi, ancora, l'Italia accettò l'egemonia francese al Marocco, in cambio di una ipotetica libertà d'azione in Libia, col conseguenziale contegno ad Algesiras, favorevole alla Francia, nel conflitto sollevato dalla Germania.
Il principe di Bülow parlò a proposito della condotta della nostra diplomazia alla Conferenza di Algesiras, dei tours de walzer dell'Italia. Ma la sua ironia non fu equa. I tours de walzer erano stati consigliati dalla Germania, siccome abbiamo documentato, per sottrarsi al ballo essa medesima. E dettero quella garenzia che potevano dare agl'interessi dell'Italia nel Mediterraneo.

FINE.



INDICE ALFABETICO
dei nomi citati nel volume.



Abdul-Hamid, sultano turco, 250.
Accinni, ammiraglio italiano, 252.
Adamoli Giulio, sotto segretario di Stato, 191.
Alberto, arciduca d'Austria, 274.
Allegro, generale tunisino, 19, 21, 22.
Andrássy conte Giulio, cancelliere dell'impero austro-ungarico, 97.
Antongini, 135.
Aosta (duca d') Emanuele Filiberto, 274.
Atchinoff, ufficiale dei cosacchi, 285.
Avarna, duca, incaricato d'affari italiano a Vienna, 115, 228.

Banca Commerciale Italiana, 185. 188.
Barsanti Pietro, 135.
Barth, viaggiatore tedesco, 24.
Barzilai Salvatore, 108.
Bassiri, notabile di Gadames, 27.
Bettólo Giovanni, capitano di vascello, 253.
Bianchi Giulio, deputato italiano, 123.
Billot Alberto, ambasciatore di Francia a Roma, 54, 66, 154, 160, 174.
Bismarck (di) principe Ottone, cancelliere dell'impero germanico, 3, 9, 155, 178, 214, 219, 225, 235, 236, 237, 279, 281, 283.
Blanc barone Alberto, ambasciatore d'Italia e ministro degli affari esteri, 20, 160, 162, 258, 268, 270, 280, 288.
Bleichroeder S., banchiere tedesco, 181, 183, 188.
Boito Arrigo, musicista, 173.
Bonghi Ruggero, deputato italiano, 123, 125, 171.
Boris, principe ereditario di Bulgaria, 231.
Bourgeois Leone, presidente del Consiglio dei ministri di Francia, 282, 285.
Bovio Giovanni, deputato italiano, 107.
Bruck (barone de), ambasciatore di Austria-Ungheria a Roma, 11, 14, 15, 112, 142, 268, 269.
Bulgaris Leonida A., 232, 234.
Bülow conte Bernardo, ambasciatore germanico a Roma, 145, 146, 175, 281, 286, 292.
Burdeau, ministro francese, 167.

Caetani Onorato duca di Sermoneta, ministro italiano degli affari esteri, 65.
Calice, ambasciatore austro-ungarico a Costantinopoli, 263, 264, 267.
Cambon, residente francese a Tunisi, 19, 24, 58.
Cambridge (duca di), 162.
Cantoni C., direttore generale del Tesoro, 181.
Caprivi (di) conte Leone, cancelliere dell'impero germanico, 3, 15, 17, 81, 85, 268, 272.
Caporali Enrico, 110.
Cariati (di), incaricato d'affari, 192.
Carlo, re di Portogallo, 191, 194.
Carvalho e Vasconcellos, ministro del Portogallo, 191, 199.
Caserio, 165.

Casimir-Périer, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica francese, 86, 164, 166.
Catalani Tommaso, ambasciatore italiano a Costantinopoli, 246, 247.
Cavalletto Alberto, deputato italiano, 102.
Cavallotti Felice, deputato, 7, 8, 102, 105, 109, 174.
Codronchi conte Giovanni, prefetto, 109.
Collobiano, ambasciatore d'Italia a Costantinopoli, 55.
Coyne, ufficiale francese, 24.
Courcel (de), ambasciatore francese a Londra, 286.
Currie, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 51, 252.

Dal Verme Luchino, generale, 28, 85.
Dante Alighieri, Società italiana, 120.
Delcassé, ministro francese degli affari esteri, 56.
Derby (lord), ministro britannico degli affari esteri, 237.
Desmarest, avvocato francese, 54.
Destrées, console francese a Tripoli, 19, 20, 21, 28.
Dordi dottor Carlo, 120.
Dufferin e Ava (lord), ambasciatore inglese, 170, 172.
Dupuy, presidente del Consiglio in Francia, 165.
Durando, console italiano, 102.

Elena Petrovich, principessa montenegrina, 240.
Elisabetta, imperatrice d'Austria-Ungheria, 141.
Essad-pascià, ambasciatore di Turchia a Parigi, 20.
Eulenburg (conte di), presidente del Ministero prussiano, 272.

Fanti, 239.
Faure Fernando, deputato francese, 24.
Feder, avvocato, 137.
Féraud, console francese a Tripoli, 19, 27.
Ferdinando di Coburgo, principe di Bulgaria, 219, 231.
Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, 111, 112, 141, 216.
Fratti Antonio, 107.
Fremdenblatt, giornale austriaco, 111, 142.

Galimberti, nunzio del Papa, 139.
Gambetta Leone, 155.
Garibaldi Giuseppe, 95.
Garrit Mohammed, visir marocchino, 67.
Gervais, ammiraglio francese, 88.
Gladstone Guglielmo, 244, 275.
Giers, cancelliere dell'impero di Russia, 160, 221.
Giolitti Giovanni, ministro del tesoro, 181.
Girardin (de) Emilio, giornalista francese, 155.
Goggia, generale italiano, 168.
Goltz (de), incaricato d'affari di Germania, 182.
Goluchowski, cancelliere austro-ungarico, 252.
Grey sir Edward, ministro britannico degli affari esteri, 56.
Grillo Giacomo, direttore della Banca Nazionale, 181, 184.
Guglielmo II, imperatore di Germania, 146, 204, 271, 274, 276, 291.

Hanotaux Gabriele, ministro francese degli affari esteri, 56, 69, 88, 165, 172.
Hatzfeldt, conte, ambasciatore di Germania a Londra, 52, 286.
Hohenlohe (de) principe Clodoveo, cancelliere dell'impero germanico, 273, 287.
Holstein (barone de), funzionario superiore della Cancelleria germanica, 287, 288.

Kálnoky (conte di) cancelliere dell'impero austro-ungarico, 11, 14, 15, 85, 106, 111, 113, 142, 143, 147, 227, 236, 264, 268, 274.
Karamanli, principe di Tripoli, 24.
Kiamil-pascià, ministro turco, 250,251.
Kimberley, lord, ministro britannico degli affari esteri, 55, 275.
Krüger, presidente della repubblica del Transvaal, 276.

Imbriani Matteo, 102, 107, 109, 110.

Jaille (de la), ammiraglio francese, 88.
Jamais, generale francese, 18.
Jornal do Commercio, 195, 200.

Lamarmora Alfonso, generale, 95.
Lanza, generale, ambasciatore italiano a Berlino, 144, 185, 274.
Launay (de) conte, ambasciatore d'Italia a Berlino, 5, 6, 51, 73, 115, 117, 179.
Lavallette, giornalista francese, 153.
Lega Nazionale, società italiana d'Austria, 138.
Lega Paolo, 143.
Lobanoff, ambasciatore russo a Berlino, 287.
Logerot, generale francese, 18.

Macchiavelli, console italiano, 84.
Mac-Mahon, maresciallo di Francia, 27.
Maffei, marchese, ministro e ambasciatore d'Italia, 19, 162, 287.
Magliani Agostino, ministro del tesoro, 178.
Maistre (de), viaggiatore francese, 58.
Malmusi, console italiano, 133.
Mancini P. S., ministro italiano, 269.
Marchand, capitano francese, 56.
Mariani, ambasciatore di Francia a Roma, 152, 153, 154.
Marschall di Biberstein, ministro germanico degli affari esteri, 41, 73, 203, 274, 276, 287, 288.
Martini Ferdinando, deputato italiano, 143.
Martini Sebastiano, viaggiatore italiano, 55.
Méline, deputato francese, 168.
Menabrea L. F., generale, ambasciatore d'Italia a Parigi, 38, 46, 52, 53, 73, 153, 183.
Millelire, console italiano, 239.
Missori Giuseppe, 135.
Montebello (conte di), ambasciatore francese a Costantinopoli, 262, 267.
Moüy (conte de) Carlo, ambasciatore di Francia a Roma, 151, 152.
Mulei Abd-el-Aziz, imperatore del Marocco, 67.
Mulei Hassan, imperatore del Marocco, 67.
Münster (conte di), ambasciatore di Germania a Parigi, 51, 52, 171.

Narodni List, giornale slavo, 119.
Nelidow, ambasciatore russo a Costantinopoli, 246, 267.
Nigra conte Costantino, ambasciatore d'Italia a Vienna, 11, 15, 85, 105, 106, 119, 128, 130, 141, 143, 148, 162, 164, 236, 280, 286.

Oberdan Guglielmo, 135.
Orlando (fratelli), proprietari del cantiere navale di Livorno, 67.

Pasetti, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 278, 280.
Pelletan Camillo, ministro francese della marina, 88.
Pervinquière Leone, scrittore francese, 70.
Philibert, generale francese, 18.
Piccoli, notaio, 102.
Pichon Stefano, deputato francese, 52, 53, 54.
Pinon R., scrittore francese, 69.
Pinto de Soveral, ministro portoghese degli affari esteri, 193, 197.
Ponza di S. Martino, colonnello, 42.
Ponzio-Vaglia generale, primo aiutante del Re, 193.
Pro-Patria, società italiana d'Austria, 119.

Radolin, principe, ambasciatore di Germania a Pietroburgo, 287.
Radowitz, ambasciatore germanico a Costantinopoli, 260, 261, 263, 267.
Rattazzi Urbano, ministro della R. Casa, 8, 159.
Ressman Costantino, ambasciatore d'Italia a Parigi, 86, 154, 166, 173, 175.
Reuss (principe di), ambasciatore di Germania a Vienna, 11.
Ribot, ministro degli affari esteri di Francia, 38, 39, 46, 49, 51, 52, 53, 54, 72, 73, 75, 154, 155, 159, 261.
Ricordi, editore di musica, 173.
Robilant (conte di) C., ministro degli affari esteri, 269.
Rosebery (lord), ministro britannico, 275.
Roustan, console francese, 64.
Rouvier Maurizio, deputato francese, 164, 168.
Rudinì marchese Antonio, presidente del Consiglio e ministro italiano degli affari esteri, 64, 65, 81, 84, 89, 159, 160, 199.

Sadi-Carnot, presidente della Repubblica francese, 165.
Said-pascià, ministro degli affari esteri di Turchia, 20, 39, 72, 225, 246.
Salisbury (lord), primo ministro d'Inghilterra, 18, 35, 38, 39, 52, 74, 81, 84, 85, 204, 216, 222, 236, 248, 253, 261, 262, 279, 286.
Say Leone, deputato francese, 164.
Schwabach, 185.
Seismit-Doda Federico, ministro delle finanze, 137.
Seymour, ammiraglio britannico, 253.
Solimbergo Giuseppe, deputato italiano, 125.
Solms (di) conte, ambasciatore di Germania a Roma, 6, 179, 183, 268.
Spuller E., ministro francese degli affari esteri, 152, 153, 155.
Stambuloff, presidente dei ministri di Bulgaria, 221, 226, 229.

Taaffe, conte, ministro austriaco, 115, 123, 128, 131.
Tachard, 216.
Tetuan (duca di), ministro degli affari esteri di Spagna, 9, 68.
Thomas Ambrogio, musicista francese, 173.
Tornielli conte Giuseppe, ambasciatore d'Italia, 38, 55, 64, 72, 175, 271, 284.
Tricupis, uomo politico greco, 263.

Ulmann, giornalista italiano, 105, 119.
Umberto I, re d'Italia, 84, 136, 157, 158, 159, 160, 193, 214, 240, 253, 271.
Uxkull, ambasciatore russo a Roma, 221, 228.

Vega de Armijo, duca, ministro degli affari esteri di Spagna, 9.
Verdi Giuseppe, 169, 173.
Visconti-Venosta marchese Emilio, ministro italiano degli affari esteri, 64, 65, 66, 89, 97.
Vittorio Emanuele, principe ereditario d'Italia, 240.

Waddington, ambasciatore di Francia a Londra, 35, 44, 72, 74, 84.
Weil Federico, 186.
White, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 260, 261, 262, 264, 266.
Wimpffen, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 97

Zechi-pascià, generale turco, 247.
Zia-bey, ambasciatore di Turchia a Roma, 41.



INDICE DEL VOLUME.


Avvertenza

GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.

Capitolo Primo.
Il cancelliere Caprivi e Crispi.


Leone di Caprivi annunzia a Crispi di avere assunto la direzione degli affari politici della Germania. - Scambio di saluti e proteste di fedeltà. - Caprivi viene in Italia per conferire con Crispi. - Colloquii del 7 e dell'8 novembre 1890.

Capitolo Secondo.
La Tripolitania e la Francia.

La Triplice Alleanza e gl'interessi italiani nel Nord-Africa. - La Francia sulla frontiera tripolo-tunisina sino al 1890. - Una memoria del generale Dal Verme sul confine storico tra la Tunisia e la Tripolitania. - L'accordo anglo-francese del 5 agosto 1890. - Rimostranze di Crispi presso il governo inglese. - Nota di Said pascià su l'hinterland tripolitano. - Come si potevano impedire le ulteriori usurpazioni della Francia. - Crispi e il governo francese; questo nega di aver delle mire sulla Tripolitania. - Una nuova carta francese dell'Africa. - Dichiarazioni del ministro Ribot alla Camera. - Protesta di Crispi. - Stato della questione al 1894. - La convenzione franco-germanica. - La Francia tenta avanzarsi nel Sudan egiziano. - Fascioda. - Nuovi accordi anglo-francesi a danno dell'hinterland tripolitano. - L'Italia rinunzia senza compensi ai suoi diritti in Tunisia. - L'accordo franco-italiano del 1902. - L'opera di Crispi nel Marocco. - L'occupazione italiana della Tripolitania e un cattivo presagio.

Capitolo Terzo.
Le fortificazioni di Biserta.

Biserta, la «maggiore posizione strategica del Mediterraneo». - Crispi impedisce alla Francia di fortificarla. - Gl'impegni del 1881, confermati da vari ministri francesi, sono da Ribot dichiarati senza valore. - Sorpresa della Germania per la teoria di Ribot. - Lord Salisbury presta fede alle dichiarazioni della Francia che non fortificherebbe Biserta. - Pro-memoria di Crispi a Salisbury. - Il cancelliere Caprivi e il reclamo italiano. - Possibilità di guerra. - Il ritiro di Crispi dal Governo lascia libera la Francia. - Lo Stato Maggiore germanico e Biserta. - Una lettera angosciosa di Crispi al Re Umberto. - Biserta fortificata è l'orgoglio della Francia e una minaccia per l'Italia.


ITALIA E AUSTRIA.

Capitolo Quarto.
Le relazioni italo-austriache e l'irredentismo.

Come nacque l'irredentismo anti-austriaco. - La campagna del 1866. - Il punto di vista di Andrássy e il compito della diplomazia. - Il movimento irredentista nel 1889. - Dichiarazioni parlamentari e parallela azione diplomatica di Crispi. - Scioglimento del «Comitato per Trento e Trieste». - Un giudizio di Francesco Giuseppe su Crispi. - L'imperatore deplora di non poter venire a Roma. - Il processo Ulmann; come fu abbandonato dal governo austriaco.- Lo scioglimento della Società Pro Patria e la Dante Alighieri. - Protesta di Crispi. - Corrispondenza Crispi-Nigra. - Agitazioni irredentiste. - Scioglimento dei Circoli Oberdank e Barsanti - La Società Pro Patria può ricostituirsi sotto il nome di Lega Nazionale. - Le dimissioni di Crispi nel 1891 e l'Austria. - L'agitazione dell'Istria nel 1894. - Crispi domanda l'intervento dell'imperatore Guglielmo e l'ottiene. - L'ambasciatore Lanza. - Il ritiro di Kálnoky.


ITALIA E FRANCIA.

Capitolo Quinto.
Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.

L'ambiente e gli statisti in Francia. - Gli ambasciatori De Moüy e Mariani e il ministro Spuller. - Come fu ricevuto il signor Billot. - La sua azione conciliante. - Il varo della Sardegna e la mancata visita della squadra francese alla Spezia. - Illusioni francesi su l'on. di Rudinì. - La Triplice alleanza rinnovata. - Secondo Ministero Crispi. - Strascico dei fatti di Aigues-Mortes. - Politica di conciliazione. - Una missione segreta di Maurizio Rouvier. - Corrispondenza dell'ambasciatore Ressman. - Il richiamo di Ressman e le sue vere ragioni.

Capitolo Sesto.
La Francia contro il credito italiano.

Tutto il mondo finanziario francese ostile. - La guerra ai titoli italiani. - Crispi chiede l'intervento della finanza germanica. - Bismarck e gli accordi del 1888. - La campagna al ribasso del 1889. - La stampa francese unanime consiglia l'espulsione dalla Francia dei titoli italiani. - Nuove difese dei banchieri tedeschi che si uniscono in Sindacato nel 1890. - Fondazione dell'Istituto Italiano di Credito Fondiario. - Fondazione della Banca Commerciale Italiana sotto gli auspicii di Crispi.


L'ITALIA E IL VATICANO.

Capitolo Settimo.
Un incidente italo-portoghese.

Il Re Fedelissimo a Roma pel Re d'Italia. - L'annunzio ufficiale della visita. - Il Vaticano mette il veto. - Imbarazzo e indecisione del Re Carlo e del suo governo. - Re Carlo si raccomanda a Crispi. - Linguaggio severo della stampa portoghese. - Re Carlo prega di essere ricevuto a Monza; rifiuto di Re Umberto. - Rinunzia alla visita. - Crispi rompe le relazioni diplomatiche col Portogallo. - Colloquio Crispi-Vasconcellos. - Giudizii di diplomatici sulla condotta del Ministero portoghese. - Le origini remote della caduta del regime monarchico nel Portogallo.


L'EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.

Capitolo Ottavo.
La questione balcanica.

Nel 1879 Crispi esprime la sua fede nel riordinamento della penisola balcanica sulla base delle nazionalità. - Critica del Trattato di Berlino nei riguardi della Balcania. - Tre colloqui inediti tra Crispi e il principe di Bismarck. - La seconda fase della questione bulgara e la Triplice italo-anglo-austriaca. - La Turchia dichiara al principe Ferdinando l'illegalità del suo soggiorno in Bulgaria. - Insuccesso della politica russa. - Stambuloff ringrazia Crispi in nome del popolo bulgaro. - Riconciliazione russo-bulgara. - Due indirizzi a Crispi della «Confederazione Orientale». - La questione di Creta e il malgoverno turco. - Crispi e l'Albania. - Crispi trova nel Montenegro la sposa pel futuro re d'Italia. - La Confederazione balcanica con Costantinopoli capitale. - «Il Sultano se ne vada in Asia».

Capitolo Nono.
Le stragi d'Armenia e il concerto europeo.

Gladstone e le stragi d'Armenia. - Le potenze esigono un'inchiesta internazionale. - L'Italia e la Commissione d'inchiesta. - Il Sultano scongiura che i delegati delle Potenze non interroghino i testimoni. - Risultati dell'inchiesta e rifiuto del Sultano di concedere le riforme propostegli. - La Russia si oppone alle misure coercitive contro il Sultano. - Nuovi massacri. - Gli ambasciatori chiedono un secondo stazionario a Costantinopoli. - Le squadre europee in Levante. - L'Inghilterra vorrebbe spodestare il Sultano. - Le stragi rimangono impunite; la Russia protegge il Sultano.


LA TRIPLICE ALLEANZA E L'INGHILTERRA.

Capitolo Decimo.
La crisi delle alleanze e degli accordi.

La politica estera dei successori di Crispi dal 1891 al 1893. - Conseguenze immediate dell'inerzia italiana negli affari d'Oriente avvertite dal Blanc. - Germania e Austria desiderano il ritorno di Crispi al governo. - Colloqui di Crispi con gli ambasciatori di Germania e d'Austria-Ungheria. - I torbidi interni del 1893-94 deprimono il credito dell'Italia all'estero. - Guglielmo II e Crispi. - Motivi del ritiro di Caprivi dalla Cancelleria germanica. - Nomina di Hohenlohe. - Favorevoli disposizioni di Guglielmo II verso l'Italia. - Crispi e il dissidio anglo-germanico pel Transvaal. - L'Italia nella politica internazionale al principio del 1896. - La crisi delle alleanze e degli accordi. - I tentativi per ristabilire le antiche intelligenze con l'Inghilterra falliscono. - Dal Diario di Crispi. - Necessità di estendere i patti della Triplice alla protezione degl'interessi italiani nel Mediterraneo e in Oriente. - Energiche rimostranze di Crispi. - L'imperatore di Germania annunzia un suo viaggio in Italia per conferire con Crispi, ma questi prima della venuta dell'imperatore deve abbandonare il governo.

INDICE ALFABETICO dei nomi citati nel volume