AVVERTENZA.
    
    Il primo Capitolo di questo libro attende la luce sin dalla fine del
    1886. In quell'anno Francesco Crispi lo compose e divisò di
    pubblicarlo affinchè il paese, conoscendo esattamente quanto
    era stato preparato al 1877, potesse meglio giudicare gli errori
    dappoi commessi, e ripararli. Correvano gli ultimi mesi del governo
    di Agostino Depretis; l'Italia appariva malcontenta di una politica
    estera debole e incerta; la pubblicazione dell'on. Crispi non era
    inopportuna.
    Avvertito, l'on. Depretis tentò di distogliere il suo antico
    collega da un divisamento che personalmente doveva dispiacergli;
    mise innanzi ragioni di pubblico interesse, fece appello al
    patriottismo, obiettò che la pubblicazione non potesse esser
    fatta senza il consentimento del Governo.
    L'on. Crispi, in una lettera del 19 settembre, dichiarò al
    Depretis:
    
    "Io non ho bisogno dell'approvazione di alcuno per la pubblicazione
    di tutti quegli atti politici ai quali ho preso parte. Nego in
    conseguenza la necessità di un consenso al quale tu non hai
    diritto.... Nei governi parlamentari nulla vi può essere di
    segreto, perchè sono governi di responsabilità.
    Possono volere il segreto quelli che non hanno adempito ai loro
    doveri, e che temono perciò di poter incorrere nella pubblica
    riprovazione.
    Nelle materie d'interesse internazionale non havvi che una sola
    regola, ed è: che si attenda il compimento di un fatto
    storico, appunto per non turbare agli uomini che sono al potere
    l'azione diplomatica. Orbene, per ciò che si riferisce alla
    mia pubblicazione tutto finì col trattato di Berlino, il
    quale non solamente affermò uno stato di cose che non puossi
    mutare, ma dà pienissimo diritto a chiunque di esaminare gli
    atti che lo precedettero e di giudicarli.
    Nella storia parlamentare degli altri paesi potrei trovare numerosi
    esempi a sostegno della mia tesi.
    Sono scorsi nove anni dal giorno della mia missione all'estero; ed
    in quanto alle persone abbiamo
    che sono morti Vittorio Emanuele, Decazes, de Bülow, Gambetta e
    Melegari;
    che non sono più ministri Derby e Andrássy.
    Il principe di Bismarck, del quale mi occupo, resta nella sua
    splendida figura, perchè trionfano oggi i concetti da lui
    svolti nei due colloqui avuti con me.
    E poi, scusami, caro Depretis; il 4 marzo di quest'anno, avendo io
    accennato alla Camera di rivelare le cose del 1877 e di leggere i
    documenti relativi, tu non solamente consentisti, ma mi provocasti a
    farlo, come uomo sicuro degli atti suoi."
    
    Nonostante questa affermazione del suo diritto, e nonostante anche
    l'interesse personale a rivelare una pagina della sua vita politica
    in confronto di avversarii che in ogni modo avevano ostacolato la
    sua carriera, l'on. Crispi sospese la propostasi pubblicazione;
    sinchè, divenuto ministro qualche mese dopo, ne dimise il
    pensiero.
    Quell'autentico racconto della missione del 1877 può
    considerarsi come una prefazione all'opera governativa di Crispi che
    viene esposta nei capitoli seguenti di questo volume. La concezione
    che egli ebbe della politica estera necessaria all'Italia, la
    visione dei nostri interessi e quella degli scopi ai quali tendeva
    la politica delle grandi Potenze d'Europa, sono delineate in quel
    racconto, sobriamente, ma lucidamente.
    
    Questo libro non vuole essere la esposizione completa della politica
    estera di Francesco Crispi, che fu molteplice e riparatrice in ogni
    campo, e ricca d'iniziative. Esso ne abbraccia più
    specialmente un periodo, - dal 1887 al 1890, - e di questo si limita
    ad esporre alcuni dei più importanti avvenimenti che si
    collegano con l'esistenza della Triplice Alleanza.
    La figura del principe di Bismarck, ne' suoi diversi atteggiamenti
    di fronte all'Italia, acquista singolare rilievo dai documenti nuovi
    che pubblichiamo; crediamo, anzi, che questi integrino la conoscenza
    della politica dell'Uomo di Stato tedesco, il cui pensiero verso il
    nostro paese è stato rappresentato sinora come dominato dalla
    diffidenza e quasi dal disdegno.
    I diarii, costituiti di note gettate giù in fretta e per
    memoria, alla fine di un colloquio o di una giornata d'intenso
    lavoro, - sono nella loro sincerità preziosi, sia per i dati
    politici che contengono, sia per la nozione sicura che dànno
    dell'intima mente di Crispi.
    È superfluo dichiarare che tutto è stato pubblicato
    con scrupolosa esattezza; qualche reticenza qua e là era
    doverosa, ma non ci siamo presi la libertà di modificare o di
    alterare comunque i documenti, i quali dicono quel che dicono. La
    situazione internazionale, in gran parte cambiata, dà ad essi
    un valore puramente storico.
    Molto altro resta a dirsi, che si dirà.
    
    Roma, decembre 1911.
    
T. Palamenghi-Crispi.    
    
    
    
    Capitolo Primo.
    
    Una missione segreta.
    
    
    La Grande Italia. - Il nuovo Regno. - La politica estera della
    Destra. - Andrássy e Bismarck nel 1873 chiedono invano una
    entente intime ai ministri della Destra. - L'irredentismo e le
    relazioni italo-austriache, - La guerra russo-turca. - Le
    istituzioni repubblicane francesi in pericolo. - Necessità
    per l'Italia di uscire dall'inerzia. - La missione da Vittorio
    Emanuele e da Depretis affidata a Crispi alla fine di agosto 1877. -
    Memorie originali di Crispi e carteggi con Vittorio Emanuele e
    Depretis, resoconti di colloqui con Decazes, Thiers, Gambetta,
    Bismarck, Derby, Gladstone, Andrássy, ecc. - Crispi conviene
    col principe di Bismarck il negoziato per un trattato d'alleanza
    italo-germanica.
    
    I sommi Italiani ai quali il mondo deve l'Italia moderna, attinsero
    forza a soffrire esilio, prigionie e ogni maniera di persecuzioni
    dei governi dispotici nella visione di una grande Italia. Nella
    mente di Mazzini l'idea di grandezza era correlativa all'idea di
    Unità, così come nella federazione egli vedeva la
    "perpetua debolezza". Le glorie della nostra gente divisa erano
    considerate arra di glorie maggiori quando essa fosse raccolta in un
    solo Stato; lo stesso Mazzini predicò per trent'anni che vi
    era una "missione di civiltà universale" da riprendere,
    quella che assunta da noi con le armi sin dai giorni della potenza
    romana, continuata cogli esempi della libertà dei Comuni nel
    Medio evo, avevamo diffusa nel Rinascimento con le lettere e con le
    arti.
    Il nuovo regno non sorse nella pienezza della sua indipendenza, e la
    politica che aveva chiamato nel 1859 sui piani lombardi le armi
    francesi, tenne l'Italia in soggezione di Napoleone III per lunghi
    anni. Francesco Crispi, il quale, con Mazzini, avrebbe voluto che
    l'Unità fosse conquistata senza aiuti stranieri, per sola
    virtù nostra, combattè sin dal primo Parlamento
    italiano l'ingerenza della Francia nei nostri affari: fu uno dei
    più caldi avversarii della "Convenzione di settembre" (1864)
    - osteggiò la permanenza delle truppe francesi nel territorio
    romano - fu, nel 1870, l'anima della Sinistra, la quale sospinse il
    governo della Destra, più che esitante, alla rivendicazione
    del diritto nazionale occupando Roma.
    Dalla proclamazione della repubblica in Francia all'avvento della
    Sinistra italiana al potere (18 marzo 1876), la nostra politica
    estera, rimasta priva della direttiva che soleva cercare a Parigi,
    fu nulla. Disorganizzato l'esercito e distrutta dopo Lissa la marina
    da guerra, i governanti avevano trovato nella nostra debolezza e nel
    programma di riordinamento interno dello Stato, giustificazioni alla
    loro inerzia. Lo stesso viaggio fatto compiere da re Vittorio
    Emanuele II alle Corti di Vienna e di Berlino, nel settembre 1873,
    non recò vantaggi, anzi peggiorò ancora la situazione
    internazionale dell'Italia; poichè, mentre accennò
    soltanto al desiderio di appoggiare dippiù verso le Potenze
    Centrali, avvertì la Francia che erano passati i giorni
    dell'alleanza franco-italiana. Gli on. Minghetti e Visconti-Venosta,
    i quali accompagnarono il Re in quel viaggio, ebbero dal Cancelliere
    austroungarico conte Andrássy, come dal Cancelliere germanico
    principe di Bismarck, espresso "très vivement le désir
    d'une entente intime". L'Andrássy per ingraziarsi i Ministri
    Italiani dichiarò esplicitamente e francamente che non
    avrebbe appoggiato in alcun modo le querimonie del Papa, in quel
    tempo ancora fervide e speranzose, e che si sarebbe astenuto da
    qualsiasi azione comune con la Francia in tutti gli affari relativi
    al Papato. Dette anzi una prova delle sue amichevoli disposizioni,
    partecipando che aveva rifiutato una località che gli era
    stata richiesta dal Vaticano pel futuro Conclave e avrebbe
    persistito nel rifiuto. E il Bismarck non si chiarì
    più favorevole verso il Papa, al quale appunto in quel mese
    (3 settembre) aveva fatto rifiutare dall'Imperatore ogni
    modificazione della legislazione ecclesiastica; ma riconoscendo
    l'utilità per l'Italia di usare dei riguardi al Pontefice,
    chiese ch'ella non facesse una politica di concessioni con la
    Francia, la quale avrebbe accresciuto sempre più le sue
    pretese; infine, dichiarò recisamente che la Germania non
    avrebbe mai permesso un attacco contro l'Italia.
    I due Ministri, i quali sembravano esser partiti da Roma con
    l'intento di proporre un accordo a due alla Germania, si astennero
    da qualsiasi proposta, e tornarono in Italia illudendosi di potere,
    non assumendo impegni, contare sulla Germania e sull'Austria, senza
    perdere la benevolenza della Francia. Ma fu il sogno di un mattino
    di primavera.
    Ben presto le agitazioni irredentiste dettero pretesto di allarmi
    all'Austria. Il governo italiano non fu dapprima sospettato
    d'incoraggiare le speranze del "partito esaltato", il quale si
    proponeva un ingrandimento territoriale a spese dell'Austria; e il
    conte Andrássy fece dal suo Ambasciatore a Roma, conte
    Wimpffen, proporre una azione comune per combattere i pericoli che
    minacciavano i buoni rapporti dei due paesi, - azione comune, la
    quale doveva manifestarsi specialmente nell'aiutare l'Austria "a
    scoprire i promotori e gli intermediarii della propaganda
    annessionista"!
    Le relazioni italo-austriache migliorano nei primi mesi del 1875;
    l'imperatore Francesco Giuseppe restituisce a Venezia la visita
    ricevuta a Vienna dal Re d'Italia, ed ha festosa accoglienza.
    L'irredentismo ridiventa più attivo nel febbraio del 1876; si
    preparano spedizioni di volontarii italiani in Dalmazia; il governo
    austriaco prende misure energiche, opera numerosi arresti d'italiani
    a Ragusa e a Trieste. In giugno, le feste di Milano e di Legnano per
    commemorare il centenario della Lega dei Comuni Lombardi, e le
    rievocazioni di circostanza fatte da buona parte dei giornali
    italiani, destano impressione sfavorevole in Austria.
    Scoppiata la guerra serbo-turca con conflitti nel Montenegro e in
    Albania, l'Austria comincia a diffidare della nostra politica. La
    Serbia chiede la mediazione dell'Italia, ma il gabinetto
    austroungarico la osteggia. Avvengono meetings a Milano, a Roma e in
    altre città, avversi tutti alla politica austriaca. L'Austria
    lascia vacante la sua ambasciata presso il Quirinale, e la stampa
    dell'Impero, con i giornali ufficiosi in prima linea, fa vivacissimi
    attacchi all'Italia, accusandone il governo di connivenza con
    gl'irredentisti. L'ambasciatore, conte di Robilant, si trova a
    disagio a Vienna e manifesta il desiderio di un lungo congedo.
    È naturale che l'Austria fosse furente contro l'Italia: non
    sicura di questa, essa non poteva liberamente fronteggiare la
    Russia, la quale si preparava alla guerra contro la Turchia, e si
    trovava in balìa della Germania. In gennaio 1877 fa nominato
    il nuovo ambasciatore presso il Quirinale nella persona del barone
    Haymerle. Il malumore non diminuiva. L'offerta del governo italiano
    di uno scambio di idee sulla questione orientale, veniva declinata
    da Andrássy; il quale trovava un nuovo motivo di irritazione
    nel sospetto, insinuatogli - si disse - da un governo straniero, di
    trattative segrete esistenti tra Ignatieff e Robilant per una intesa
    italo-russa. In maggio si ha notizia che l'Austria arma alle nostre
    frontiere, e un'ambasciata straordinaria austriaca e quindi duemila
    pellegrini austriaci giungono a Roma a rendere omaggio al Papa. In
    luglio è male accolto in Vienna il nostro intervento
    diplomatico a favore del Montenegro, sospettato quale mossa
    preparatoria di un nostro intervento militare in Albania. In agosto
    sorgono gravi incidenti: il commesso del Consolato italiano a Vienna
    prima, poi l'addetto militare alla nostra Ambasciata sono accusati
    di spionaggio; e gli attacchi della stampa sono così
    furibondi che l'addetto militare è costretto a partire da
    Vienna.
    Frattanto era scoppiata e si combatteva con varia fortuna la guerra
    tra la Russia e la Turchia. Il 27 aprile l'Incaricato d'affari
    russo, Nelidoff, con tutto il personale dell'Ambasciata, lasciava
    Costantinopoli. Il giorno seguente l'esercito russo varcava la
    frontiera turca; il 28 aprile la Camera rumena approvava una
    convenzione con la Russia pel passaggio sul territorio del
    principato delle truppe russe, e il 10 maggio il principe Carlo
    assumeva il comando dell'esercito; il 20 maggio era proclamata in
    Turchia la guerra santa, e la Rumania proclamava la propria
    indipendenza e dichiarava la guerra ai turchi. I russi passavano il
    Danubio il 22 giugno; il 5 luglio la loro avanguardia occupava
    Tirnovo; il 19 luglio erano sconfitti a Plewna e il 30 a Kassanyk.
    Poi, le sorti della guerra sembravano mutare; il 24 agosto il
    principe di Rumania assumeva il comando degli eserciti russo e
    rumeno che investivano Plewna, il 28 Suleyman pascià era
    battuto a Schipka.
    Gravi avvenimenti si svolgevano anche in Francia, i quali tenevano
    in grande apprensione tutta l'Europa. Il 4 maggio di quell'anno 1877
    la Camera francese aveva adottato un ordine del giorno invitante il
    governo a valersi dei mezzi a sua disposizione per reprimere le
    agitazioni clericali, e Giulio Simon, presidente del Consiglio, lo
    aveva accettato. Ma il maresciallo Mac-Mahon, presidente della
    Repubblica, il 16 maggio dirigeva al Simon una lettera nella quale
    gli imponeva di spiegare il contegno passivo da lui tenuto alla
    Camera e lo rimproverava di non aver saputo conservare l'influenza
    necessaria a far trionfare le sue idee. Il Ministero Simon si era
    dimesso; il giorno dopo era già costituito il Ministero
    reazionario De Broglie-Fortou, nel quale per la pressione del
    Mac-Mahon restò il duca Decazes, come ministro degli Affari
    esteri. Nella seduta del 17 la Camera, sulla proposta di Leone
    Gambetta, deliberava "di non poter avere fiducia che in un gabinetto
    libero di agire e deciso a governare secondo i principii
    repubblicani che soli possono assicurare la tranquillità
    all'interno e la pace all'estero".
    Il 18 il presidente della Repubblica inviava un messaggio alla
    Camera, nel quale, annunziando la proroga della Sessione, spiegava
    la necessità della crisi ministeriale.
    Allora la Sinistra del Senato pubblicava un manifesto al paese per
    dichiarare provocata senza ragione la crisi; un altro manifesto
    pubblicavano i deputati dell'Estrema Sinistra della Camera, nel
    quale l'atto del 16 maggio e i posteriori venivano dichiarati
    ingiusti e incostituzionali.
    Il 29 maggio il ministro De Broglie spediva una circolare ai
    Procuratori generali per invitarli a raddoppiare di vigilanza ed
    energia e a fare osservare con fermezza le leggi proteggenti la
    morale, la religione e la proprietà contro gli attacchi della
    stampa e specialmente contro la diffusione di false notizie capaci
    di turbare la pubblica opinione. Il 2 giugno veniva arrestato il
    presidente del Consiglio municipale di Parigi per aver pronunziato a
    St. Denis un discorso sedizioso contro il presidente della
    Repubblica. Nello stesso giorno il ministro dell'Interno, Fortou,
    diramava una circolare per ordinare severa sorveglianza sulle
    persone che mettevano in circolazione giornali e libelli. L'8 giugno
    il presidente del Consiglio municipale era condannato a quindici
    mesi di carcere e a duemila franchi di multa. Il 17 giugno il duca
    De Broglie leggeva al Senato un messaggio del presidente della
    Repubblica invitante, conformemente all'art. V della legge per
    l'ordinamento de' pubblici poteri, il Senato stesso a consentire lo
    scioglimento della Camera. Lo scioglimento della Camera era
    autorizzato il 22 giugno. Alla Camera, intanto, si votava un ordine
    del giorno di sfiducia nel Ministero il 19 giugno, e il 21 veniva
    rifiutato il voto delle imposte, accordandosi solamente i crediti
    supplementari al ministro della Guerra. Il 24 le Sinistre della
    Camera e del Senato dichiaravano debito d'onore del paese la
    rielezione dei deputati che avevano votato la sfiducia nel
    Ministero. Infine, il 25 la Camera veniva sciolta, e il 22 settembre
    i comizii erano convocati pel 14 ottobre.
    Nei gravi momenti che attraversava l'Europa, l'Italia non poteva e
    non doveva rimanere inerte. Si doveva prevedere il caso del trionfo
    del partito clericale in Francia, che avrebbe costituito un pericolo
    serio e immediato per noi; inoltre, il contegno dell'Austria, nelle
    sue relazioni con l'Italia, s'era fatto così irritato e
    irritante, che appariva urgente la necessità di correre ai
    ripari; infine, erano in vista, come conseguenza della guerra
    russo-turca, mutamenti nella penisola balcanica, dei quali l'Italia
    non poteva disinteressarsi.
    Di ciò convinto e pensando che, giunta al potere, la Sinistra
    dovesse imprimere anche alla politica estera un indirizzo nuovo,
    prudente ma ardito e più rispondente all'importanza del
    nostro paese in Europa e ai nostri legittimi interessi, Francesco
    Crispi riuscì a farsi affidare la missione, della quale egli
    stesso rende conto nelle pagine che seguono:
    
    «Roma, 25 agosto 1877.
    
    Onorevolissimo Signore,
    
    Fin dall'anno 1861 il comm. Mancini proponeva a S. E. il barone
    Ricasoli, allora presidente del Consiglio dei Ministri, d'iniziare
    trattative presso i vari Governi Europei allo scopo di concordare la
    stipulazione di un Codice internazionale, destinato a regolare la
    condizione giuridica dei cittadini dei rispettivi paesi ed i diritti
    civili spettanti ai medesimi di fronte alle legislazioni vigenti nei
    diversi Stati. A tale proposta, per le circostanze dei tempi, non si
    potè allora dare alcun seguito. Però il Governo
    italiano, ispirato a sentimenti di civiltà e progresso, non
    esitava a sanzionare nel Codice Civile del 1865, all'art. 3, il
    principio che lo straniero venga ammesso a godere dei diritti civili
    attribuiti ai cittadini.
    Però affinchè questo principio possa veramente esser
    fecondo di utili e generali conseguenze, uopo sarebbe che venga
    sanzionato dalle legislazioni degli altri Stati e reciprocamente
    guarentito mediante accordi internazionali.
    Il Governo del Re ha cercato in ogni modo di promuovere la
    conclusione di simili accordi. Nell'anno 1867, il comm. Mancini,
    avendo intrapreso un viaggio a Parigi, Bruxelles e Berlino, si
    assumeva l'incarico di presentire, in via ufficiosa, gli
    intendimenti di quei Governi su questo grave argomento.
    Le entrature di quell'insigne giureconsulto venivano ricevute con
    favore, però gli avvenimenti impedirono che si venisse ad
    alcuna pratica conclusione.
    Poichè l'Eccellenza Vostra ora è in procinto di
    visitare quelle capitali, Le sarei grato se nelle sue conversazioni
    con i personaggi influenti e competenti, coi quali si troverà
    in rapporti, Ella volesse indagare se quei Governi siano disposti a
    riprendere le interrotte negoziazioni. L'Eccellenza Vostra che tanta
    parte ha avuto nella compilazione delle leggi che regolano i civili
    rapporti in Italia, saprà meglio di chicchessia far risaltare
    l'utilità delle proposte nostre.
    Ringraziando anticipatamente l'Eccellenza Vostra dell'opera Sua,
    colgo quest'occasione per rinnovarle i sensi della mia alta
    considerazione.
    
    Melegari.
    
    A sua Eccellenza
    il Sig. Comm. Crispi
    Presidente della Camera dei Deputati."
    
    Torino 26 agosto. - Alle 11 antim. visita al Re.
    » 27 agosto. - Alle 10 antim. altra visita al Re.
    
    «Torino, 27 agosto 1877.
    
    Mio caro Depretis,
    
    Siccome ti telegrafai, io partirò stasera alle 8,50. Alla
    stazione incontrerò Bargoni,1 il quale mi darà la tua
    lettera.
    S. M. mi fece chiamare e stetti con lui lungamente. Era di buon
    umore, come al solito, quantunque Correnti che lo vide stamane alle
    8 mi abbia detto di averlo trovato un po' conturbato. Egli nulla
    spera da una combinazione in conseguenza della guerra d'Oriente.
    Crede anche lui che sia tardi e che non vi sia posto per noi.
    Nulladimeno mi raccomandò di fare tutto il possibile onde
    vedere di entrarci con qualche profitto. Fu diverso il suo
    linguaggio per l'altra operazione, cui realmente mira il mio
    viaggio. Il re sente il bisogno di coronare i suoi giorni con una
    vittoria per dare al nostro Esercito la forza e il prestigio che in
    faccia al mondo gli mancano. È linguaggio da soldato e lo
    comprendo. Aveva lo stesso desiderio il povero Bixio, il quale
    è poi morto così miseramente senza poter combattere
    un'ultima volta per la gloria del nostro paese.
    E il Re ha purtroppo ragione. Se nel 1866 i generali non ci fossero
    mancati ed avessimo vinto nel Veneto e nell'Adriatico, gli austriaci
    non oserebbero parlare e scrivere di noi siccome fanno. L'Esercito
    Italiano avrebbe in Europa quell'autorità che gli fa difetto,
    e la parola d'Italia avrebbe una maggiore importanza presso i
    Gabinetti.
    Ripariamo, se è possibile, il vuoto, e poichè ci
    credono buoni diplomatici, facciamoci valere affinchè la
    Patria nostra provi a coloro che non la rispettano abbastanza, che
    essa è qualche cosa nel vecchio continente.
    Ti scriverò appena potrò darti notizie, da Parigi. Se
    per le questioni delle quali ti occupi hai bisogno di me, scrivimi
    pure.
    
    Il tuo dev.mo
    F. Crispi.»
    
    - Alle 8,50 pom. partenza per Parigi, dopo avere ricevuto da Bargoni
    la seguente lettera di Depretis:
    
    "Presidenza del Consiglio
    dei Ministri.
    
    Roma, addì 27 agosto 1877
    
    Eccellenza,
    
    Ho fatto conoscere a S. M. che V. E. si compiacque di accettare
    l'incarico che le fu affidato dal Ministero di riaprire trattative
    presso i governi delle principali potenze al fine di far prevalere
    nelle rispettive legislazioni i principii liberali sanciti nel
    Codice Civile italiano. Profittando del viaggio all'estero dell'E.
    V. è desiderio
    dell'Augusto nostro Sovrano che l'E. V. assuma una missione speciale
    e confidenziale presso il governo di S. M. l'Imperatore di Germania.
    Il governo germanico, or non è molto, ha interpellato il
    governo italiano intorno ad una più intima unione dei due
    Stati, ed il Ministero degli Esteri d'Italia non esitò ad
    esprimere la sua adesione al concetto di una unione a comune difesa.
    Ora S. M., pienamente d'accordo col sottoscritto, sente il bisogno
    di stringere in modo più intimo i rapporti amichevoli
    dell'Italia con la Germania e desidera che V. E. faccia conoscere a
    S. A. il principe di Bismarck come sarebbe conveniente di addivenire
    ad un accordo concreto e completo col mezzo di un trattato di
    alleanza che fondandosi nei comuni interessi provveda a tutte le
    eventualità. Gl'interessi italiani possono essere offesi non
    solo dalla prevalenza del partito oltramontano, ma anche
    dall'ingrandimento dell'Austria coll'annessione di alcune provincie
    ottomane, possibile conseguenza della guerra d'Oriente. È
    desiderabile che i due governi si mettano d'accordo anche su questo
    punto.
    V. E. conosce pienamente i principii che informano la politica
    italiana sia all'interno che all'estero, e sarebbe superfluo
    rammentarli. La Germania e l'Italia non hanno interessi contrari, e
    le due nazioni devono essere ugualmente determinate a difendere
    l'edificio dell'unità nazionale e delle politiche e civili
    libertà: per l'Italia lo scopo principale è quello di
    preservare da ogni nemica offesa i beni inestimabili che abbiamo
    acquistati, e i principii sui quali è fondata la sua
    esistenza.
    Procuri l'E. V. di esprimere e spiegare in via confidenziale i
    desideri di S. M. e del suo governo a S. A. il principe di Bismarck
    e di attestargli ad un tempo la riconoscenza nostra per la
    benevolenza da lui costantemente dimostrata all'Italia.
    Aggradisca l'E. V. l'espressione della mia alta stima, mentre mi
    dichiaro di V. E.
    
    Dev.mo Obbl.mo
    A. Depretis
    Presidente del Consiglio dei Ministri.
    
    A S. E.
    Il Sig. Comm. F. Crispi
    Presidente della Camera dei Deputati
    Torino."
    
    «Parigi, 2 settembre 1877.
    
    Eccellenza,
    
    Ieri fui ricevuto dal Ministro degli Affari esteri. L'ora tarda non
    mi permise di riferire immediatamente a V. E. la lunga nostra
    conversazione, la quale versò su vari argomenti riferentisi
    ai due paesi.
    Il duca Decazes cominciò col ringraziarmi del contegno nostro
    in occasione della interrogazione alla Camera del deputato Savini.
    Risposi, che Camera e Governo nulla fecero che non fosse stato il
    loro dovere, non potendo certamente permettersi che alla tribuna
    italiana si discutessero e si criticassero le cose interne della
    Francia, ed espressi l'opinione ch'essi a Versailles avrebbero fatto
    lo stesso per noi.
    S. E. venne quindi discorrendo della necessità di un accordo
    completo fra le due nazioni, e su questo punto parlò
    lungamente sforzandosi di dimostrarmi come la Francia non possa
    avere che sentimenti di amicizia per noi. Al di là delle Alpi
    - S. E. disse - è una nazione alla quale la Francia è
    legata da interessi economici, morali e politici, e sarebbe un vero
    delitto conturbare la necessaria armonia dei due popoli.
    Accennò intanto, come ad un elemento di possibile dissidio,
    all'esistenza fra noi di un partito ch'egli definì
    «prussiano», ma lo fece con un tal garbo da lasciare
    intravedere il desiderio che cotesta opinione non lasciasse una
    disaggradevole impressione sull'animo mio.
    Alla mia volta dichiarai subito che nel nostro paese noi siamo
    Italiani; che tutti, senza distinzione di partito, esclusi
    unicamente i clericali, non abbiamo altro interesse che quello della
    nazione, e che sarebbe un errore il presumere che potessimo o
    volessimo governarci seguendo i consigli o ricevendo l'influenza di
    un governo straniero qualunque. In quanto alla Francia, tutto ci
    spinge a sentire per lei e praticare una sincera amicizia: le
    tradizioni di civiltà, l'educazione, gli studi, le leggi, i
    commerci ci uniscono alla medesima, e nulla sarà fatto da
    parte nostra per rompere cotesto legame onde sono naturalmente
    congiunte le due nazioni.
    S. E. allora riprese dicendomi che non sapeva però spiegarsi
    lo scopo dei nostri armamenti e sopratutto delle
    fortificazioni di Roma state ordinate ultimamente; ritornò
    quindi sull'argomento delle intenzioni affatto pacifiche del suo
    Ministero ed affermò che in Francia nessuno dei partiti
    possibili al governo commetterebbe la follia di far guerra
    all'Italia. Sono passati i tempi - il ministro soggiunse - in cui
    portavamo le nostre idee con le armi negli altri paesi. Dopo i
    nostri disastri abbiamo appreso che sono altre le vie da prendere
    onde far valere nel mondo le proprie opinioni.
    Su ciò sentii il bisogno di esplicare la condotta del nostro
    governo e dissi che quanto si fa oggi da noi non ha nulla di
    eccezionale. L'Italia ha bisogno di pace perchè ha bisogno di
    compiere le sue riforme amministrative e finanziarie, e di
    sviluppare e consolidare le sue istituzioni pubbliche. In quanto
    all'esercito noi non facciamo che trasformarne l'armamento e
    completarlo e ci vogliono ancora molti anni per raggiungere cotesto
    scopo. Le fortificazioni di Roma, poi, non sono un fatto speciale,
    ma la parte di un complesso di disposizioni per la difesa
    territoriale dello Stato. Ricordai che sin dalla costituzione del
    Regno era stata nominata una commissione, sotto la presidenza di S.
    A. R. il principe di Carignano, coll'incarico di studiare un sistema
    di fortificazioni il quale rispondesse alle nuove condizioni della
    penisola. Dissi che cotesti studi furono già terminati, che
    furono votate le somme necessarie dal nostro Parlamento sin da
    parecchi anni addietro, ma che nulla ancora fu fatto, essendo anzi
    tutt'ora integre le fortezze elevate dai principi caduti con
    intendimenti e scopi contrari all'attuale ordine di cose. Dimostrai
    quindi che le fortificazioni di Roma entrano in cotesto piano
    generale di difesa nazionale e conclusi che la Francia non ha motivo
    di allarmarsene, coteste opere non essendo e non potendo essere
    interpretate quale una dimostrazione ostile contro di lei.
    S. E. parve acchetarsi al mio ragionamento e poichè lo vidi
    così ben disposto credetti propizia l'occasione di portare la
    nostra conversazione sopra un altro argomento, quello cioè
    dell'applicazione ai nostri concittadini, nel territorio della
    Repubblica, delle disposizioni dell'art. 3 del nostro Codice Civile.
    Spiegai lo scopo e le origini di cotesto articolo, ricordai le
    trattative intavolate altra volta perchè ne fossero
    accolti i principii in Francia, mercè una convenzione
    internazionale, e finalmente accennai alla giurisprudenza delle
    Corti Supreme le quali, per diritto di ritorsione, cominciano ad
    applicare ai francesi in Italia l'art. 14 del Codice Napoleone. Non
    omisi di dimostrare che, allo stato, farebbe un ottimo effetto nel
    nostro paese la stipulazione di un trattato che sanzionasse cotanto
    progresso.
    S. E. ascoltò con benevola attenzione e si dichiarò
    pronto a trattare. Disse che avrebbe richiamato i precedenti e li
    avrebbe studiati affinchè potessimo altra volta ragionare
    consideratamente per venire ad una conclusione. Anch'egli, il
    Ministro, sente il bisogno che l'art. 3 del nostro Codice Civile sia
    ricevuto in Francia in favore degli italiani e mi promise che
    metterebbe tutta l'opera sua perchè la domanda fosse
    esaudita.
    Dal discorso di S. E. appariva chiaramente il desiderio di provare
    con nuovi atti che la Francia ci è e ci sarà amica, ed
    a tal uopo mi parlò della sollecitudine con la quale il suo
    governo aveva consentito alla sottoscrizione del trattato di
    commercio. Mi disse che ci saremmo nuovamente veduti.
    Del contegno del duca Decazes e del complesso delle sue parole,
    restai pienamente soddisfatto. Bisognerebbe supporre che egli fosse
    un grande simulatore per dubitare del suo linguaggio. Egli non fece
    che lodarsi del nostro governo e del nostro popolo e parlò
    pieno di ammirazione del nostro Re. Disse che noi abbiamo dato prova
    di grande saggezza politica e che la nostra condotta col Vaticano
    è stata corretta. Sul che sento il bisogno di riferire a V.
    E. un'opinione manifestatami da lui e la cui importanza non
    isfuggirà alla di lei sagacia: il duca Decazes si disse
    convinto e mi dichiarò di averlo ripetuto ai suoi colleghi,
    che alla morte del Papa il conclave funzionerà nel Vaticano
    con tutta la pienezza della sua libertà. Mi soggiunse che
    tale sarebbe pur l'avviso del cardinal Guibert, dopo il di lui
    ritorno da Roma.
    Dopo ciò chiudo la lunga lettera con dirmi dell'E. V.
    
    Il devot.mo aff.mo amico
    F. Crispi.»
    
    «Parigi, 5 settembre 1877.
    
    Mio caro Depretis,
    
    Il 2 corrente ti spedii una mia ufficiale, alla quale dà
    seguito, anzi complemento l'acclusa. L'ho scritta in modo che tu
    volendo potrai, dopo averne preso copia, consegnarla al ministro
    degli Affari esteri.
    Lasciamo da parte le pastoie ufficiali e ragioniamo da vecchi amici
    e patrioti.
    Ho visto i principali uomini politici del paese, tra cui il
    Gambetta2, col quale sono rimasto lungamente, e il 3 corrente
    pranzai. Ho potuto quindi farmi un'esatta opinione delle cose
    francesi e saperne, per quanto possibile, le intenzioni.
    La Francia traversa una terribile crisi, di cui è difficile
    prevedere la fine. Il Governo attuale rappresenta una impercettibile
    minoranza, ma è ispirato da un comitato bonapartista, audace
    e senza scrupoli, ed ha nel suo seno un paio d'individui anch'essi
    audaci e senza scrupoli.
    I repubblicani si dicono sicuri della vittoria nelle prossime
    elezioni generali e mi espressero la stessa opinione, due giorni fa,
    alcuni conservatori, i quali dichiararono francamente: nous serons
    battus. Dubito che coteste convinzioni si mantengano dopo la morte
    avvenuta ier l'altro del sig. Thiers, o per lo meno dubito che
    l'importanza della vittoria possa essere tale quale si prevedeva
    prima di cotesta morte fatale. Ma avvenga pure la sconfitta del
    Governo, che ne verrà alla riunione delle Camere?
    
    
    Il sig. Thiers mi diceva nella nostra conferenza del 31 agosto che
    dopo quella riunione, Ministri e Presidente della Repubblica si
    dimetteranno, e che le due Camere allora, raccolte in Congresso
    nazionale, nomineranno un nuovo Presidente. Gambetta precedentemente
    mi aveva dette le stesse cose.
    Avverrà lo stesso ora che, morto il Thiers, è mancato
    il candidato sul quale avevano piena fiducia i conservatori che
    avevano accettato la Repubblica? I repubblicani rispondono di
    sì, e a leggere i giornali ne dedurrei che dopo la perdita
    gravissima dal paese patita, tutto procederà regolarmente e
    secondo i loro desideri.
    Lo auguro, ma la mia fede è molto scossa.
    E se Ministri e Presidente non si dimetteranno?
    I repubblicani dichiarano che non voteranno i bilanci.
    E se il Governo farà un colpo di Stato? Thiers non lo temeva,
    e perchè l'esercito non si presterebbe e perchè
    Mac-Mahon non n'è capace per povertà d'ingegno e di
    mezzi personali. Gambetta soggiunge che, in caso di un colpo di
    Stato, l'Esercito si scinderebbe in due e vi potrà essere la
    guerra civile.
    Comunque sia e quali possano essere gli avvenimenti, consideriamo
    questi dal punto di vista italiano.
    I republicani e i reazionari affermano che vogliono essere amici con
    l'Italia e che nulla tenteranno contro di lei. Credo ai primi,
    dubito dei secondi.
    Dubito dei secondi perchè il Comitato ispiratore dell'Eliseo
    è clericale, e il loro organo è il Figaro, che ha
    tanto insultato il nostro paese e il nostro Re....
    Non dirò che domani ci farebbero la guerra, perchè
    tutti, senza eccezione, i partiti politici hanno una salutare paura
    del principe di Bismarck, il quale essi credono non ci lascerebbe
    soli. Certo però ne cercherebbero l'occasione e coglierebbero
    il menomo pretesto per attaccare brighe con noi.
    E vedi quel che m'è avvenuto di constatare: in tutte le
    classi del paese si è fatta radicare l'opinione che l'Italia
    vuole fare la guerra alla Francia. L'ho combattuta
    questa opinione in quanti me l'hanno manifestata, ma ho dovuto
    riflettere che coloro che sono stati i primi a divulgarla hanno
    avuto in animo di prepararsi il motivo presso questo popolo per
    legittimare la guerra nel caso che un giorno essi ci attaccassero.
    Il certo però è questo, che i Francesi continuano i
    loro armamenti, e che tutti gli stabilimenti privati fabbricano armi
    d'ogni genere per questo Ministero della Guerra. Pensiamo dunque ai
    casi nostri, e teniamoci pronti a tutte le eventualità.
    Rispondimi a Londra per mezzo dell'Ambasciata, se non altro
    perchè io sia sicuro che ti siano giunte le mie lettere.
    
    Tuo di cuore
    F. Crispi.»
    
    «Parigi, 5 settembre 1877.
    
    Eccellenza,
    
    Prima di lasciar Parigi mi sento in dovere di darle conto delle
    ulteriori mie pratiche con questo governo.
    Il duca Decazes, l'indomani della nostra conferenza, è venuto
    a rendermi la visita. Ero assente e non ci potemmo quindi vedere.
    Quel giorno, era il 31 agosto, ero andato a St. Germain-en-Laye dal
    sig. Thiers, il quale, siccome l'Ec. V. ha potuto saperlo
    telegraficamente, è morto ier l'altro.
    Il ministro degli affari esteri avendo dovuto poi lasciar Parigi,
    mandò un suo impiegato dal sig. Ressman, primo segretario
    dell'Ambasciata italiana, onde disimpegnarsi della promessa datami
    per le chieste trattative in ordine all'art. 3 del nostro Codice
    Civile. Il Ressman e il detto impiegato si videro il 2 settembre e
    discorsero del suddetto argomento.
    S. E. mi fece sapere che avendo esaminato ciò che noi
    chiedevamo, dovette persuadersi che l'applicazione dell'art. 3 del
    nostro Codice Civile agli italiani in Francia non potrebbe farsi che
    con una riforma nella legislazione di questo paese e che a
    ciò sarebbe necessaria l'opera del Parlamento. Per ora di
    cotesta riforma non saprebbero occuparsi; più tardi se ne
    potrebbe parlare, ma a tal uopo converrebbe che l'Italia ne
    iniziasse le trattative nelle vie ufficiali.
    Il duca Decazes non è un simulatore, ma un uomo debole. A
    quanto pare avrà parlato col signor De Broglie, ministro di
    Giustizia, il quale presentemente ha tutt'altro in mente che il
    Codice Civile.
    Colgo quest'occasione per ripetermi ecc.
    
    F. Crispi.»
    
    7 settembre. - Colazione da Emilio de Girardin, rue La Perouse 27,
    Champs Elisées. Visita alle Camere di Versailles. Il Questore
    Baze.
    
    8 settembre. - Funerali di Thiers.
    
    9 settembre. - Da Garnier-Pagès. Henri Martin.
    
    «Parigi 9 settembre.
    
    Caro Depretis,
    
    Ebbi ieri il tuo telegramma, il quale tradotto suona così:
    «Approvo completamente quanto hai fatto e credo bene che senza
    recarti a Londra, ti rechi senz'altro a Berlino.»
    Martedì alle 3 di sera partirò per Berlino, dove
    giungerò l'indomani alle 7,45 di sera. Se lo crederò
    necessario, al mio ritorno passerò per Bruxelles e Londra. Mi
    regolerò secondo il bisogno.
    Sarei partito anche prima, se non fossi stato un po' incomodato. Da
    otto giorni fui turbato in modo che ho dovuto ricorrere al medico.
    Oggi sto meglio, e spero che potrò fare comodamente il
    viaggio.
    Qui ieri la giornata è passata tranquilla. Si temeva che i
    funerali di Thiers avrebbero dato il pretesto a qualche disordine.
    La calma del popolo fu veramente ammirabile. Qualche grido di vive
    la République, honneur à Thiers, vive Gambetta, e
    tutto procedette nell'ordine.
    Se il parigino dimenticherà di correre alle barricate, ma si
    condurrà ubbidiente alle leggi, la causa della libertà
    trionferà in Francia, e sarà un pegno di pace per
    l'Europa.
    Ai funerali intervennero tutti i rappresentanti esteri, ed anche il
    tuo amico, per ispeciale invito della Famiglia Thiers.
    Se vuoi scrivermi dirigi le lettere a Berlino all'ambasciata
    italiana.
    I miei omaggi alla tua signora e tu credimi
    
    L'aff. tuo
    F. Crispi.»
    
    9 settembre. - Colazione da E. de Girardin. - Viene Gambetta.
    
    «Parigi, 11 settembre 1877.
    
    a S. M. il Re d'Italia.
    
    Sire!
    
    Prima di lasciar Parigi sento il dovere di dar conto a V. M. della
    prima parte del mio viaggio, e per lo meno di riferirle le
    impressioni che io ne porto.
    Giunsi in questa città alle 6 pom. del 28 agosto, e ne
    partirò domani. Vidi il ministro Decazes, ed i principali
    uomini politici della Francia, dinastici e repubblicani.
    Tutti rendono giustizia alla lealtà ed alla grande saggezza
    di V. M., alla bontà ed alla prudenza del nostro popolo.
    Tutti ritengono gli italiani dotati d'un gran buon senso politico,
    fortunati di avere un Re il quale ha saputo comprenderne le tendenze
    e che, in mezzo a tante difficoltà, li ha mirabilmente
    condotti a buon porto. Ma in fondo a questo splendido quadro appare
    un punto nero, sul quale dev'essere richiamata la nostra attenzione.
    I francesi diffidano di noi, ed al tempo stesso sospettano che noi
    diffidiamo di loro.
    Diffidano di noi, e più d'uno crede o finge di credere che
    l'Italia ha l'intenzione di far la guerra alla Francia. Lo stesso
    sig. ministro Decazes non espresse chiaramente siffatta opinione, ma
    parlò con molto interesse dei nostri armamenti e delle
    fortificazioni di Roma, e parve considerare coteste fortificazioni
    come aventi uno scopo anti-francese.
    Ragionando col detto sig. ministro e con gli altri signori che me ne
    avean tenuto discorso, dichiarai che l'Italia ha bisogno di pace, e
    che riordinando l'esercito e fortificandoci non abbiamo punto
    l'intenzione di far la guerra, ma di provvedere ai mezzi di difesa
    del nostro territorio.
    «Il Re d'Italia» - ho detto e ripetuto - «fedele
    ai trattati ed agli impegni internazionali, non ha dato nè
    darà mai l'esempio di mancare al suo dovere, ma forte del suo
    diritto esige solamente che sia rispettato».
    I francesi sospettano che noi diffidiamo di loro, ed a dileguare i
    dubbii che credono possano essere nell'animo nostro, si sforzano a
    testimoniarci la migliore amicizia. Il duca Decazes fu molto
    esplicito in tale argomento, e mi disse e mi ripetè che
    nissuno dei partiti politici, i quali possono pretendere al governo
    della cosa pubblica, commetterebbe la follìa di far la guerra
    all'Italia. Vi sono - egli soggiunse - i partiti estremi i quali
    oserebbero tentarlo, ma costoro non hanno probabilità di
    dominio, e poi non avrebbero alcun seguito nel paese.
    A quali partiti S. E. accennasse, io non ho bisogno di ricordarlo a
    V. M. Sono pur io dell'opinione del signor ministro, che la Francia
    in questo momento non li seguirebbe; ma nella storia di questo paese
    l'ignoto è un mostro del quale dovremo temere, e siccome qui
    non si può essere sicuri dell'indomani, la prudenza c'impone
    di pensare ai casi nostri.
    La Francia subisce una crisi la cui soluzione è ancora
    incerta. Repubblicani e governativi si dicono sicuri del fatto
    proprio e gli uni e gli altri usano i mezzi di cui possono valersi
    onde riuscire vincitori.
    Non mi occuperò dell'ipotesi del successo dei governativi. Le
    conseguenze sono prevedibili: Mac-Mahon andrebbe sino al 1880,
    cioè compirebbe il settennato, col proponimento di chiedere
    nell'ultimo anno della sua presidenza una revisione della
    costituzione in senso monarchico. Esaminerò quindi il caso in
    cui la vittoria toccasse ai repubblicani.
    Se i repubblicani vincessero, quale sarebbe il contegno di coloro
    che furono gli autori dell'atto del 16 maggio? Faranno essi un colpo
    di Stato? E se lo tentassero e vi riuscissero, chi ne raccoglierebbe
    i beneficii?
    Il gabinetto è composto di orleanisti e bonapartisti, e se
    tutti cospirano concordi per la distruzione della repubblica,
    ciascuno dei due partiti lavora per il trionfo della dinastia
    prediletta.
    Nel paese però il partito, il quale ha maggiore
    vitalità dopo il repubblicano è il bonapartista, il
    quale parimenti è il più audace. Ma poco importa di
    ciò, e siccome uno dei due bisogna che soccomba nel caso in
    cui il colpo di Stato deve esser fatto, il più furbo dei due
    saprà disfarsi del suo competitore.
    Chiunque dei due vinca, e mettiamo che vincendo possa assumere senza
    contrasti il governo della Francia, dovrà il suo trionfo
    all'esercito ed al clero. L'esercito ed il clero - essendo le due
    forze di cui si sarà valso il vincitore - avranno delle
    pretese alle quali bisognerà dar soddisfazione.
    Quello che domanda il clero, tutti lo sanno: il ritorno al passato,
    ed in questo è prima condizione il ristabilimento del potere
    temporale del papa. L'esercito alla sua volta vorrà rifare
    con qualche vittoria il prestigio perduto nell'ultima guerra con la
    Germania.
    È facile il comprendere che il terreno che meglio conviene
    alla reazione, e nel quale essa crede trovar facile successo,
    è l'Italia nostra.
    Coteste mie congetture svanirebbero, qualora la Francia abbandonasse
    le sue male abitudini, giungesse a costituire un regime di
    libertà, e smettesse per sempre il brutto giuoco delle
    rivoluzioni e dei colpi di Stato, dai quali nulla può sorgere
    di stabile e duraturo, la violenza ai tempi nostri non potendo
    essere buona arte di regno. Noi però dobbiamo regolarci e
    provvedere come se fosse possibile l'attuazione delle ipotesi da me
    contemplate. Guai, se un mutamento di governo in Francia non ci
    trovasse pronti a difendere il trono italiano e l'indipendenza
    nazionale!
    Non nascondo a V. M. che i repubblicani ritengono impossibile un
    colpo di Stato. Essi son d'avviso che a Mac-Mahon mancherebbero
    l'ingegno ed i mezzi morali per un atto così audace, e che
    l'esercito non si presterebbe a tanto. Era pur di cotesto avviso il
    signor Thiers che vidi il 31 agosto, cioè tre giorni prima
    della sua morte e che mi parlò con molta devozione di V. M.
    Dopo tutto quello che le ho rassegnato ho adempiuto al mio ufficio.
    Nei 29 anni di regno, V. M. ha saputo con la sua intelligenza e col
    suo coraggio superare difficoltà più gravi di quelle
    da me prevedute, ed ha saputo evitare pericoli di maggiore
    entità. Il suo senno, la sua esperienza le suggeriranno
    quello che converrà fare in previsione degli avvenimenti,
    intesi i consiglieri responsabili della Corona.
    Mi permetta ora, Sire, che chiuda la presente, dicendomi con tutta
    devozione e con affettuoso rispetto della M. V.
    L'umilissimo, obblig. servitore
    
    F. Crispi.»
    
    12 settembre. - Partenza per Berlino, via Bruxelles, alle 2,45 pom.
    Pernotto a Bruxelles.
    
    14 settembre. - Arrivo a Berlino alle 7 ant.
    Alle 12 e mezzo visita al barone Holstein, del Ministero degli
    Affari esteri, e quindi al conte di Bülow, segretario di Stato.
    Il conte di Launay, ambasciatore d'Italia, viene a trovarmi alle 3
    1/2.
    Visitiamo il Reichstag; scrivo al presidente Bennigsen3.
    
    15 settembre. - Rodolfo di Bennigsen telegrafa da Hannover:
    «Je viendrai cette nuit Berlin pour avoir l'honneur et le
    plaisir d'être avec vous».
    Vado insieme a di Launay da Leonhardt, ministro di Giustizia del
    regno di Prussia, il quale ci manda per competenza da Friberg,
    presidente della Commissione germanica di giustizia. Parlo a questi
    dell'adozione in Germania dell'art. 3 del Codice Civile italiano.
    Egli sarebbe lietissimo di accoglierlo; ma soltanto Bismarck
    è in grado di superare le difficoltà.
    Parto alle 8 pom. per Monaco di Baviera, dalla stazione di Anhalt. A
    mezzanotte sono a Lipsia.
    
    16 settembre. - Sono a Monaco alle 12,30. Parto all'una e mezza per
    Salisburgo, dove pernotto all'albergo d'Europa.
    
    17 settembre. - Alle 9,45 ant. per Lend. Di là a Gastein,
    dove arrivo alle 6.
    Wildbad, la città dei bagni, siede in cima alla vallata di
    Gastein, sul versante orientale del monte. Ivi è una sorgente
    di acque minerali, alle quali molti ricorrono per guarirsi dal
    torpore delle membra e dalla inerzia dei nervi. Ogni anno vi
    arrivano più di 3000 forestieri a cercarvi salute.
    Ordinariamente, le persone che vi convengono appartengono alle alte
    classi sociali.
    Il monte dà origine al fiume Ache, il quale esce furioso da
    profondi crepacci, precipitandosi con due splendide cascate l'una
    sotto l'altra. Fino a pochi anni addietro, la più parte delle
    case di Wildbad erano di legno. Dopo che l'imperatore di Germania ed
    il suo Gran Cancelliere preferirono i bagni di quel luogo, vi
    sorsero begli edifici e magnifiche ville.
    Giunsi a Wildbad alle 6 p.m. e ne avvisai il principe di Bismarck,
    mandandogli una carta da visita, e, immediatamente dopo, un
    biglietto così concepito:
    
    «Hotel Straubingen, h. 6.40 du soir.
    
    Altesse,
    
    Dans le doute que vous n'avez pas encore reçu ma carte, je
    vous écris ces quelques lignes pour vous prier de vouloir
    bien me fixer l'heure dans la quelle je pourrais avoir l'honneur de
    vous voir.
    En attendant etc.»
    
    Il principe di Bismarck mandò subito a scusarsi per mezzo del
    suo segretario, che egli non poteva venir di persona per la sua
    malferma salute e che mi avrebbe all'istante medesimo ricevuto.
    Il principe di Bismarck dimora alla destra del fiume in una modesta
    casa di proprietà dello Straubingen che raggiungemmo in pochi
    minuti. Mi fecero salire al primo piano. Il principe era nel suo
    gabinetto, il cui uscio dà sul pianerottolo rimpetto alla
    scala. Nella camera erano poche sedie, un tavolo, una magnifica
    stufa di porcellana e, sdraiato a poca distanza dal padrone, un
    superbo cane. Sul tavolo era una piccola pistola col manico bianco.
    Aperta la porta, il principe si levò in piedi e mi venne
    incontro offrendomi la mano.
    - Sono lieto, Altezza, di poter fare la vostra personale conoscenza.
    - Noi ci conosciamo da molto tempo!
    - Sì, Altezza, oggi però ho il bene di vedervi la
    prima volta e di potervi stringere la mano.
    Essendo venuto in Germania, io non potevo partirne senza avervi
    recato i saluti del mio Re; e vi ringrazio cordialmente di avermi
    concesso di venirvi a trovare sin qui.
    - Che notizie mi portate d'Italia? Siete stato in Francia? Che
    dicono a Parigi?
    - In Roma si è preoccupati per le probabilità d'una
    guerra nel caso che nelle prossime elezioni politiche in Francia
    vinca il partito reazionario. E poi non si è sicuri
    dell'Austria, il cui contegno non è punto amichevole verso il
    nostro governo.
    Voi ci avete fatto dire dal barone Keudell che vorreste stringere
    sempre più col nostro paese legami di amicizia, e pertanto io
    son venuto d'ordine del Re a parlarvi di parecchie cose.
    La primissima è d'interesse tutto particolare per l'Italia e
    la Germania, le altre di natura affatto internazionale.
    Comincio da quella che riguarda noi e voi.
    Io non so se bisognerà ritoccare il nostro trattato di
    commercio del dicembre 1865. Sono però convinto che con
    l'apertura del Gottardo le relazioni fra i nostri paesi saranno
    più frequenti e che in conseguenza sarà utile di
    mettere i cittadini delle due parti in condizioni tali che non
    trovino ostacoli nei commerci ed in tutti gli atti della vita
    privata. A tale scopo il mio governo vorrebbe che Vostra Altezza
    accettasse un trattato mercè cui i tedeschi in Italia e gli
    italiani in Germania fossero in uno stato di vera uguaglianza coi
    nazionali nello esercizio dei diritti civili.
    Andiamo ora agli argomenti di maggiore interesse e sui quali mi
    spiegherò in poche parole.
    Io sono incaricato di chiedervi se voi siete disposto a stipulare
    con noi un trattato di alleanza eventuale, nel caso che fossimo
    costretti a batterci con la Francia o con l'Austria.
    Il mio Re vorrebbe inoltre mettersi d'accordo con l'Imperatore per
    la soluzione della questione orientale.
    - Accetto di tutto cuore la proposta per un trattato che metta gli
    italiani in Germania e i tedeschi in Italia allo stesso livello dei
    nazionali e che per gli uni e per gli altri vi sia una perfetta
    uguaglianza nello esercizio dei diritti civili. Non posso
    però farlo senza averne prima parlato ai miei colleghi. Un
    trattato di tal genere mi conviene, perchè sarebbe una
    pubblica manifestazione del nostro accordo con l'Italia.
    Andiamo al resto.
    Voi conoscete le nostre intenzioni. Se l'Italia fosse attaccata
    dalla Francia, la Germania si riterrebbe solidale e si unirebbe a
    voi contro il comune nemico. Per un trattato a codesto fine potremo
    intenderci. Giova, però, sperare che la guerra non si
    renderà necessaria e che potremo mantenere la pace. La
    repubblica non può vivere in Francia che essendo pacifica; e
    se tale non fosse, correrebbe rischio di perdersi. A mio avviso la
    guerra sarebbe solamente possibile nel caso d'un ritorno della
    monarchia.
    Le dinastie, in quel paese, sono per necessità clericali, e
    perchè il clero vi è irrequieto e potente, e
    perchè i Re, onde illudere le plebi, hanno bisogno di essere
    battaglieri, ne viene per conseguenza ch'essi son costretti ad
    attaccar lite coi vicini. È stato sempre così in tutti
    i tempi, e ne troverete esempi a cominciare dal regno di Luigi XIV.
    Per l'Austria la posizione è tutta diversa. Io non oso
    supporre il caso che essa ci possa essere nemica; e vi dirò
    francamente che non voglio neanche prevedere codesta
    eventualità.
    Domani dovrò trovarmi col conte Andrássy, e parlando
    con lui voglio in fede mia assicurarlo che non ho impegni con alcuno
    e che gli sarò amico.
    La guerra russo-turca è proceduta contrariamente ad ogni
    previsione, e però l'Austria non ha avuto bisogno di passare
    la frontiera. Spero che questo bisogno non verrà, e che la
    lotta sarà limitata fra i due combattenti e potrà
    rimanere localizzata.
    Noi teniamo a che l'Austria e la Russia siano amiche e cerchiamo di
    mantenerle tali.
    Si possono discutere le varie ipotesi secondo le quali convenga
    risolvere la questione d'Oriente, e si possono anche determinare
    certi criteri onde procedere d'accordo.
    Bisogna però convenire che l'esercito russo non è
    stato fortunato fin oggi e che ci è ignoto per ora quale
    possa essere la fine della guerra.
    Lo Czar deve fare grandi sforzi ancora. Se l'esercito russo
    ritornasse sconfitto, lo Czar potrebbe avere fastidi in casa sua.
    Comunque sia è un affare che lo riguarda, anzi dovrò
    confessarvi, che in cotesta questione d'Oriente, la Germania non ha
    interesse alcuno, e per noi qualunque soluzione la quale non turbi
    la pace europea, sarà sempre accettata.
    - Ammiro la vostra franchezza, e vi dico che se fossi al vostro
    posto non parlerei diversamente.
    Resta, dunque, inteso che faremo una convenzione per assicurare ai
    tedeschi in Italia ed agli italiani in Germania l'esercizio dei
    diritti civili, come ne godono i nazionali. Potrebbe alla
    convenzione servir di base l'articolo 3.° del Codice Civile
    italiano, il quale accorda questo beneficio agli stranieri.
    Siamo pure d'accordo per quanto si riferisce alla Francia.
    Permettemi ora, pel resto, che io vi sottoponga alcune domande:
    Credete voi che l'Austria vi sarà sempre amica? Per ora essa
    ha bisogno di voi, dovendo riparare ai danni patiti al 1866 e voi
    soli potendo assicurarle la pace senza la quale essa non potrebbe
    riordinare le sue finanze e ricostituire il suo esercito. Ma
    l'Austria non può dimenticare il passato, nè
    può vedere di buon occhio il nuovo imperatore di Germania.
    Voi dite che la Germania non ha alcun interesse nella questione
    d'Oriente. Sia pure. Devo, intanto, ricordarvi che il Danubio per
    una buona parte è fiume tedesco; esso tocca Ratisbona e vanno
    per la via del Danubio le merci tedesche al Mar Nero.
    Noi italiani non possiamo essere disinteressati come voi nella
    soluzione della questione d'Oriente. Le voci che corrono ci fanno
    temere che noi ne saremo danneggiati. Se le grandi Potenze
    stabiliranno d'accordo di astenersi da ogni conquista nelle
    Provincie balcaniche e converranno che il territorio tolto ai turchi
    dev'essere lasciato alle popolazioni del luogo, noi nulla avremo a
    ridire. Vuolsi però che la Russia, per assicurarsi l'amicizia
    dell'Austria, abbia offerto a questa la Bosnia e la Erzegovina. Or
    l'Italia non potrà permettere che l'Austria occupi quel
    territorio.
    Voi lo sapete: al 1866 il regno d'Italia rimase senza frontiere
    dalla parte delle Alpi orientali. Se l'Austria ottenesse nuove
    provincie, le quali la rinforzassero nello Adriatico, il nostro
    paese resterebbe stretto come entro una tenaglia e sarebbe esposto
    ad una facile invasione tutte le volte che ciò convenisse al
    vicino impero.
    Voi dovreste aiutarci in questa occasione. Noi siamo fedeli ai
    trattati e nulla vogliamo dagli altri. Voi dovreste domani
    dissuadere il conte Andrássy da ogni desiderio di conquiste
    nel territorio ottomano.
    - L'Austria segue una buona politica, ed io devo credere che vi
    persisterà. Un solo caso vi potrebbe essere che valga a
    rompere ogni accordo tra l'Austria e la Germania ed è una
    differenza nella politica dei due governi in Polonia.
    In Polonia esistono due nazioni: la nobiltà ed il contadiname
    (la noblesse et le paysan), di natura ed abitudini diverse. La prima
    è irrequieta, faziosa; il secondo è tranquillo,
    laborioso, sobrio. L'Austria accarezza la nobiltà.
    Se scoppiasse un movimento polacco, se l'Austria lo aiutasse, noi
    dovremmo opporci. Noi non possiamo permettere la ricostituzione di
    un regno cattolico alle nostre frontiere. Sarebbe la Francia del
    Nord. Oggi, ne abbiamo una; allora avremmo due Francie, le quali
    naturalmente sarebbero alleate e noi saremmo in mezzo a due nemici.
    La risurrezione della Polonia ci nuocerebbe anche per altri motivi;
    essa non potrebbe avvenire senza la perdita di una parte del nostro
    territorio. Ora noi non possiamo rinunziare a Posen e a Danzica,
    perchè l'impero tedesco resterebbe scoperto dalla parte dei
    confini russi e perderebbe i suoi sbocchi nel Baltico.
    L'Austria sa che non può ritornare indietro e sa che noi
    siamo amici leali. Essa è in una buona via e non ha interesse
    di abbandonarla. Se mutasse, se si facesse protettrice del
    cattolicismo, muteremmo anche noi, ed allora, per conseguenza,
    saremmo con l'Italia. Per ora nulla ci dà a credere che
    questo avvenga.
    Non cerchiamo coi sospetti di dar pretesto a che l'Austria cangi
    politica. Vi sarà sempre tempo a provvedere.
    Il Danubio non ci riguarda. Esso è navigabile da Belgrado in
    poi; a Ratisbona non vi sono che alcune zattere (quelques radeaux).
    L'Austria al 1856, nel Congresso di Parigi, per suo proprio
    interesse trascurò la Confederazione germanica nella
    Commissione pel Danubio ed in verità non ce ne era bisogno.
    L'Austria fa i suoi commerci per la via di Trieste e di Amburgo.
    La Bosnia, come tutta la questione orientale, non tocca gli
    interessi tedeschi. Se potesse esser causa di dissidi tra l'Austria
    e l'Italia ce ne dorrebbe, perchè vedremmo combattersi due
    amici, che vogliamo siano in pace.
    Del resto, se l'Austria prenderà la Bosnia, l'Italia si
    prenda l'Albania o qualche altra terra turca sull'Adriatico.
    Io spero che le relazioni del vostro governo con quello di Vienna
    diverranno amichevoli e col tempo anche cordiali. Nulladimeno, se
    v'impegnaste contro l'Austria me ne dorrebbe, ma non faremmo la
    guerra per questo.
    
    A questo punto si apre la porta ed entra il conte Erberto di
    Bismarck con un fascio di telegrammi. Egli li dà al padre, il
    quale, dopo averli letti, ordina le relative risposte e l'altro se
    ne parte.
    Quasi immediatamente dopo si presenta la principessa di Bismarck, la
    quale porta al marito una limonata minerale.
    Mi alzo ed egli:
    - Mia moglie.
    Presento alla signora i miei complimenti. Il Principe beve e la
    Principessa esce. Rimasti di nuovo soli riprendo la parola.
    
    - Comprendo il vostro contegno verso la Corte di Vienna e lo
    rispetto.
    Permettemi, però, di farvi osservare che l'unità
    germanica non è ancora compita. Dal 1866 al 1870 avete fatto
    miracoli, ma avete molte popolazioni tedesche fuori del territorio
    dell'impero e certamente presto o tardi saprete attirarle a voi.
    A voi non dispiace il territorio austriaco. Voi venite qui ogni
    anno, e Gastein, che segna con le Alpi la vera
    frontiera della Germania, ha per me un significato; può
    essere anche una predizione....
    - Ah! no, voi v'ingannate. Io son venuto qui anche prima del 1866. E
    poi ascoltate:
    Noi abbiamo un grande impero da governare, un impero di 40 milioni
    di abitanti, con vaste frontiere. Esso ci dà molto da fare, e
    non vogliamo, per ambizione di nuove conquiste, rischiare quello che
    abbiamo. L'opera alla quale ci siamo dedicati assorbe la nostra
    mente ed il nostro tempo.
    Noi abbiamo molte difficoltà da superare. Il Re, alla sua
    età, non può ricevere grandi scosse. Ha fatto
    moltissimo per la Germania e bisogna che riposi.
    Abbiamo, nel nostro territorio, parecchi principi cattolici, una
    regina cattolica ed anche francese, un clero irrequieto che a tener
    tranquillo bisogna sottoporre a leggi speciali. Noi siamo
    interessati al mantenimento della pace. Se ci offrissero qualche
    provincia cattolica dell'Austria, la rifiuteremmo.
    Ci venne imputato che vogliamo l'Olanda e la Danimarca.
    Che mai ne faremmo? Abbiamo abbastanza popolazioni non tedesche, per
    non doverne volere delle altre. Con l'Olanda siamo in buoni termini
    e con la Danimarca le nostre relazioni non sono cattive.
    Finchè sarò ministro sarò con l'Italia, ma pur
    essendo vostro amico non intendo romper con l'Austria.
    Al 1860, io mi trovava a Pietroburgo, ma ero con voi di cuore.
    Seguendo i vostri successi, n'ero contentissimo, perchè i
    vostri successi convenivano alle mie idee.
    Dopo tutto ciò dovrò ripetervi che noi desideriamo voi
    siate amici dell'Austria. Nella soluzione della questione d'Oriente,
    si può trovare un accordo, prendendo voi in compenso una
    provincia turca dell'Adriatico, qualora l'Austria prendesse la
    Bosnia.
    - Una provincia turca sull'Adriatico a noi non basta, non sapremmo
    che farne.
    Noi verso l'Oriente non abbiamo frontiere; l'Austria è al di
    qua delle Alpi e può entrare nel regno quando a lei piaccia.
    Noi nulla vogliamo dagli altri; saremo fedeli ai trattati, ma
    vogliamo essere sicuri in casa nostra.
    Parlatene al conte Andrássy.
    - No, non voglio toccare la questione della Bosnia e molto meno
    quella delle vostre frontiere orientali. Lasciamole per ora. Io non
    voglio trattare argomenti che possono dispiacere al conte
    Andrássy, perchè voglio tenermelo amico.
    - Va bene; fate come meglio credete.
    Ora ditemi un poco.
    Voi tenete alla pace e sperate che questa possa durare.
    Abbiamo trattato l'ipotesi che in Francia possa vincere il partito
    reazionario e che possa ritornarvi la monarchia. Contro questo
    avvenimento, abbiamo convenuto che bisogna provvedere.
    Ma facciamo un'altra ipotesi:
    Se dalle elezioni generali in Francia riuscissero vincitori i
    repubblicani, non potreste trovare il modo d'intendervi?
    Questa domanda non ve la fo a caso.
    Io vidi a Parigi il deputato Gambetta, il quale ha molta influenza
    nel suo paese. Abbiamo discorso a lungo sulle condizioni politiche
    della Francia e sulla necessità della pace europea, anche pel
    consolidamento della repubblica. Io non gli nascosi che sarei venuto
    da voi ed egli mi manifestò il desiderio di un accordo con
    voi e volle che io ve ne parlassi.
    Io comprendo che un'alleanza tra la Francia e la Germania non
    è ancora possibile, perchè gli animi in quel paese
    sono troppo inaspriti (aigris) dopo le sconfitte patite. Ma havvi un
    punto sul quale potreste intendervi, e l'Italia vi seguirebbe;
    è quello del disarmo.
    - Un'alleanza con la Francia repubblicana sarebbe senza scopo per
    noi4. Il disarmo dei due paesi non sarebbe possibile. Questo
    argomento prima del 1870 fu trattato con l'imperatore Napoleone, e
    dopo tanto discutere fu provato che il concetto di un disarmo non
    può riuscire nella pratica. Non furono trovati ancora nel
    dizionario i vocaboli che fissino i limiti del disarmo e
    dell'armamento. Le istituzioni militari sono diverse nei varii
    Stati, e quando avrete posto gli eserciti sul piede di pace, non
    potrete dire che le nazioni, le quali hanno aderito al disarmo,
    siano in eguali condizioni di offesa e di difesa. Lasciamo questo
    argomento alle Società degli amici della pace.
    - E allora limitiamoci al trattato di alleanza pel caso che la
    Francia ci attacchi.
    - Prenderò gli ordini dell'Imperatore per trattare in via
    ufficiale un'alleanza eventuale.
    
    L'ora essendo tarda ed essendo esauriti gli argomenti che dovevo
    trattare, mi levai per congedarmi.
    - Resterete ancora a Gastein? - chiese il Principe.
    - No, Altezza. Ogni permanenza in questi luoghi sarebbe inopportuna.
    Non ho dato il mio nome nè all'albergo di Europa a
    Salisburgo, nè qui all'albergo Straubingen.
    - Allora, arrivederci.
    - Arrivederci.
    
    18 settembre. - Alle 9 3/4 del mattino lasciai Wildbad-Gastein,
    prendendo posto in un carrozzino, il quale in tre ore mi
    portò a Lend. Il treno non era ancora giunto e bisognò
    attendere qualche ora alla stazione.
    Cotesta di Lend è la ferrovia che viene dal Tirolo e conduce
    in Germania. Alle 2 p. partimmo; alle 5 p. eravamo a Salisburgo e a
    Monaco alla mezzanotte. - Scesi all'albergo delle Quattro Stagioni.
    
    Monaco di Baviera, 19 settembre. - È a Monaco un Inviato
    straordinario e ministro plenipotenziario del Re d'Italia. In
    verità io non comprendo perchè debba tenersi una
    rappresentanza diplomatica in Baviera. Dopo la costituzione del
    grande impero, i principotti tedeschi non hanno più voce in
    capitolo nella politica europea. I trattati si fanno a Berlino ed il
    Gran Cancelliere pensa ed agisce nell'interesse di tutti i popoli e
    di tutti gli Stati tedeschi.
    La legazione a Monaco è tenuta dal conte Rati-Opizzoni. Il
    suo ufficio è una vera «sine cura». Ancora non ha
    casa e vive in albergo, dove lo trovai. Il foglio prediletto che a
    lui giunge d'Italia, è l'Unità Cattolica.
    Da Monaco telegrafai al Re e al presidente del Consiglio i risultati
    del mio colloquio col principe di Bismarck.
    Al Re, col quale avevo la cifra in francese, scrissi così:
    
    «J'ai parlé avec Bismarck. Il accepte traiter alliance
    défensive et offensive dans le cas où la France nous
    attaque. Il prendra les ordres de S. M. l'Empereur pour traiter
    officiellement.
    «Je retourne à Berlin, toujours aux ordres de V.
    M.».
    
    Il dispaccio all'on. Depretis fu nei termini seguenti:
    
    «Ebbi a Gastein conferenza due ore con Bismarck. Accetta
    trattare alleanza eventuale, qualora Francia attacchi. Accetta art.
    3 Codice Civile quale dimostrazione politica. Rifiuta trattato
    eventuale contro l'Austria. Questione Orientale non tocca interessi
    Germania. Prenderà ordini dell'Imperatore onde trattare
    ufficialmente. - Scrivimi Berlino».
    
    Alle 3 1/4 p. sono partito da Monaco. Il conte Rati-Opizzoni ebbe la
    cortesia di accompagnarmi alla stazione.
    
    Berlino, 20 settembre. - Arrivo a Berlino alle 7,45.
    Trovo una lettera del dottor Giovanni Valeri, professore di lingua e
    letteratura italiana della principessa imperiale Vittoria, moglie
    del principe Federico Guglielmo, erede del trono germanico. Il
    Valeri, che era venuto personalmente all'albergo nella mia assenza,
    mi scrive che avrebbe a parlarmi di qualche cosa d'importante e
    però chiede di vedermi. Lascia il suo indirizzo: Deutsch Haus
    - -Potsdam.
    Gli telegrafo che poteva venire in giornata, in quella ora che a lui
    sarebbe parsa opportuna.
    Verso le 11 ant. gli onorevoli Ludwig Loewe e Federico Dernburg,
    deputati al Reichstag, vengono a nome dei colleghi e dei membri del
    Landtag a manifestare il loro desiderio di tenere un banchetto
    parlamentare per me. Consento, lasciando ai medesimi la scelta del
    giorno.
    Il Loewe è progressista, il Dernburg è del partito
    nazionale-liberale.
    Il conte di Launay viene a visitarmi e mi reca due telegrammi del
    Re. Annunzio al nostro ambasciatore che il principe di Bismarck
    aveva accolta favorevolmente la proposta di un trattato che accordi
    ai cittadini italiani in Germania l'esercizio dei diritti civili
    alle uguali condizioni dei nazionali.
    I telegrammi del Re sono uno del 17, in risposta alla mia lettera da
    Parigi dell'11 settembre, e l'altro del 20, in risposta al mio
    dispaccio da Monaco.
    Il primo è così concepito:
    
    «Merci pour votre lettre, qui m'a fait beaucoup de plaisir
    parce que je vois que vos idées sont parfaitement d'accord
    avec les miennes. Je remarque cependant que vous ne me parlez pas
    des aspirations ministerielles.
    Faites moi le plaisir de me télégraphier si je dois
    écrire quelque chose au prince de Bismarck, ou si vous ferez
    de vous-même sans moi. Je vous souhaite bonne réussite
    dans tout et je me fie entièrement dans votre
    expérience et habileté. Bien des amitiés
    
    Victor Emmanuel.»
    
    Il secondo telegramma è del seguente tenore:
    
    «Je vous remercie. Tachez d'avoir quelque document positif
    pour pouvoir traiter.
    
    Victor Emmanuel.»
    
    L'onorevole Depretis non si affrettò a rispondere al mio
    dispaccio da Monaco, talchè dovetti sollecitarlo. Ed allora
    egli, la sera del 20, telegrafò:
    
    «Ricevuto ieri tuo dispaccio».
    
    Gli scrivo la seguente lettera nella quale gli fo una narrazione del
    mio colloquio col principe di Bismarck:
    
    «Berlino, 20 settembre 1877.
    
    Caro Depretis,
    
    Ieri da Monaco di Baviera ti trasmisi in cifra il seguente dispaccio
    telegrafico: «Ebbi a Gastein una conferenza di due ore con
    Bismarck. Accetta trattare alleanza eventuale, qualora Francia
    attacchi. Accetta art. 3 del Codice Civile quale dimostrazione
    politica. Rifiuta trattato eventuale contro Austria. - Questione
    Orientale non tocca interessi Germania. - Prenderà ordini
    dell'Imperatore onde trattare ufficialmente. - Scrivimi a
    Berlino».
    A S. M. che avevo promesso tenere informato dello stesso argomento,
    telegrafai anche in cifre nei termini seguenti: «J'ai
    parlé avec Bismarck. Il accepte traiter alliance
    défensive et offensive dans le cas où la France nous
    attaque. Il prendra les ordres de S. M. l'Empereur pour traiter
    officiellement. Je retourne à Berlin, toujours aux ordres de
    V. M.».
    Ti avverto che nulla ho detto a Launay delle nostre pratiche per
    l'alleanza, con lui essendomi soltanto limitato a discorrere
    dell'art. 3 del Codice Civile.
    Eccoti come sono andate le cose:
    Giunsi in questa città il 14 alle 7 del mattino. A
    mezzogiorno fui a trovare il barone Holstein, al quale manifestai il
    desiderio di vedere il principe di Bismarck. Egli affacciò
    varie obiezioni di forma e di sostanza.
    Il Principe è a Gastein. Una visita colà, essendo una
    località molto piccola, salterebbe agli occhi di tutti e
    darebbe occasione ad ampi commenti alla stampa europea. Sarebbe
    più conveniente vederlo qui, in una grande città molte
    cose potendo farsi senza che il pubblico se ne avvegga. Soggiunse
    che il Principe sarebbe lieto di vedermi e di parlarmi, essendo
    già stato avvertito del mio viaggio in Germania.
    Queste erano le obiezioni sulla sostanza.
    In quanto alla forma, l'Holstein fu d'avviso che bisognava valersi
    dell'opera del barone di Bülow per chiedere una udienza al
    Principe. Nel ministero degli esteri havvi disciplina e non si osa
    fare cosa alcuna fuori della gerarchia.
    - «Del resto il di Bülow, egli concluse, è nella
    piena confidenza del Principe, anzi in questi tempi egli è il
    vero ministro degli affari esteri in assenza del gran
    Cancelliere».
    Fui introdotto dal sig. di Bülow5. È un uomo sui
    sessant'anni, gentilissimo, che mi accolse come un vecchio amico.
    Egli sapeva che sarei venuto a Berlino, essendone stato informato
    dal conte Launay. Dopo una discussione generica sugli interessi
    politici della Germania e dell'Italia, dopo aver convenuto che le
    due nazioni, avendo gli stessi principii a sostenere, lo stesso
    nemico a combattere, debbano essere unite e concordi, il di
    Bülow promise che avrebbe scritto al Principe e che lo avrebbe
    prevenuto del mio desiderio di vederlo.
    Il 15, di Bülow ed Holstein vennero a cercarmi all'albergo, ma
    io era uscito. L'Holstein mi scrisse allora che doveva darmi qualche
    notizia.
    Andai subito e seppi che il Principe aveva risposto affermativamente
    e che mi aspettava a Gastein. Senza metter tempo in mezzo, la sera
    alle 8 partii e in 17 ore fui a Monaco, donde mi recai a Salisburgo,
    pernottandovi.
    Il 17 alle 9,45 del mattino presi la via di Lend, dove arrivato alle
    2 p. m. fittai una vettura, la quale in sei ore mi portò a
    Gastein.
    Da Lend salendo la montagna dalla quale si precipita l'Ache, la
    strada è difficile ed i cavalli stentano a camminare. Si
    entra in una gola detta il Klamm-Pass, stretta, scura, fredda, donde
    poi si esce nella vallata di Gastein, tortuosa, lunga parecchie
    miglia. Le cime del Klamm-Pass ed i monti che chiudono la vallata
    erano ricoperti di neve ed io non mi ero provvisto di forti abiti,
    onde ripararmi dal freddo.
    Giunto a Gastein, che è alla fine della vallata, anzi sotto
    la cima del Reichenberg, ero stanco e mi sarei volentieri riposato.
    Nonostante, trasmisi una mia carta e poscia scrissi un biglietto al
    principe di Bismarck, il quale mandò subito il suo segretario
    per scusarsi che non poteva venire lui stesso di persona per la sua
    malferma salute, ma che mi avrebbe subito ricevuto.
    Andai e stemmo insieme dalle 7-1/2 alle 10 di sera, discorrendo di
    tutto ciò che d'interessante presenta l'Europa e che, per
    quanto specialmente ci riguarda, troverai in sunto nei miei
    precedenti telegrammi.
    Della nostra conferenza avrai una ampia relazione. Per ora ti
    dirò che, se per la questione d'Oriente non esiste un
    trattato scritto fra i tre imperatori, sono fissate, però, da
    loro le condizioni secondo le quali in date evenienze la questione
    medesima deve esser sciolta. Se la Russia si avanzerà,
    l'Austria occuperà la Bosnia e l'Erzegovina e, in caso d'una
    ripartizione del territorio
    turco, se le annetterà. Avendo io osservato che l'Italia non
    potrebbe vedere con indifferenza l'ingrandimento dell'Austria alla
    sinistra dell'Adriatico, Bismarck mi rispose:
    «Prendetevi l'Albania».
    Ed avendogli dichiarato che non ci pensavamo punto e che bisognava
    ch'egli si frapponesse affinchè ci fosse dato un compenso con
    una rettificazione delle frontiere dalla parte delle Alpi, mi
    osservò che di ciò non si poteva parlare a Vienna e
    che la Germania, amica delle due potenze, doveva desiderare e
    procurare la pace tra l'Austria e l'Italia, e che nello stato
    attuale e finchè l'Austria non mutasse politica, doveva
    tenere il silenzio per non suscitare sospetti.
    Ora, io sarei d'avviso che stante gl'insuccessi russi ed in
    previsione d'una ripresa d'armi in primavera, convenisse parlar
    chiaro e franco a Vienna e Londra, e dir netto il nostro pensiero.
    Intanto, bisognerebbe affrettare i nostri armamenti e provare che
    anche noi abbiamo tutti gli argomenti per farci ascoltare.
    La mia corsa da Berlino a Gastein fu un mistero. A Salisburgo ed a
    Gastein agli alberghi non fu rivelato il mio nome.
    Di Launay seppe della mia visita a Bismarck, ma secondo le tue
    istruzioni gli tacqui il vero scopo della visita.
    E qui fo punto per oggi, e cordialmente ti saluto.»
    Alle 8 di sera viene il dottor Valeri per dirmi che la Principessa
    imperiale desiderava una mia visita.
    Risposi che mi sentivo onorato della cortese manifestazione della
    nobile Principessa e che lasciavo a S. A. I. di fissare il giorno
    che avrei potuto vederla.
    Il Valeri disse che la Principessa era invaghita dell'Italia e che
    ne seguiva con amore i progressi. Lieta della visita a Berlino del
    Presidente della Camera Italiana, S. A. I. avrebbe gradito che egli
    si fosse recato a Potsdam.
    Pregai il cortese messaggero di ringraziare l'illustre Principessa e
    di dirle che sarei stato fortunato di poterle ripetere a voce
    l'omaggio della mia devozione.
    
    Berlino, 21 settembre. - Il telegramma di ieri dell'on. Depretis non
    essendo soddisfacente replicai col seguente:
    
    «Ebbi tuo laconico dispaccio telegrafico. S. M. il Re fu
    più gentile di te. Avverti che di Launay ignora trattative
    alleanza contro Francia».
    
    Il sig. di Holstein mi scrive:
    
     «Berlin, 21 sept. 1877.
    
    Monsieur le Président,
    
    Pouvant parfaitement imaginer à quel point toute tentative de
    vous trouver chez vous serait une pure formalité, je me
    permets de m'annoncer d'avance, pas par égard de la personne
    du soussigné, mais parce que j'ai quelque chose à
    communiquer.
    J'aurai donc l'honneur de passer chez vous demain samedi vers deux
    heures.
    Dans le cas où cela viendrait à déranger des
    combinaisons antérieures, je vous prie de croire que je serai
    ici à votre disposition depuis midi à 5 heures.
    Veuillez agréer, monsieur le Président, l'expression
    de mes sentiments de très haute considération.
    
    Holstein.»
    
    All'una pomeridiana vado dal sig. di Holstein; mi dà la
    notizia che il principe di Bismarck sarebbe venuto a Berlino.
    Mi chiede quale impressione aveva io portato del mio viaggio a
    Gastein. Gli rispondo che n'ero contentissimo e che speravo, al
    prossimo ritorno del Principe alla capitale, di potermi confermare
    in quei convincimenti che avevo tratti dal mio colloquio con S. A.
    pel bene delle due nazioni.
    Il sig. di Holstein è d'avviso che difficilmente avrei potuto
    rivedere il principe di Bismarck. Questa volta S. A. sarà
    molto occupato e difficilmente avrà tempo a ricevere. Nulla
    di meno potrebbe fare una eccezione.
    L'Holstein ha l'incarico di dirmi che S. A. R. e I. la principessa
    Vittoria desiderava una mia visita e che facilmente mi avrebbe
    invitato a pranzo al palazzo di Potsdam. Egli soggiunge che non
    avrei tardato a ricevere l'invito.
    Ritornato all'albergo, trovo una lettera del deputato Dernburg che
    mi annunzia per domenica, 23, il banchetto parlamentare. La lettera
    è così concepita:
    
    «Berlin, den 21 sept. 77.
    
    Monsieur le Président,
    
    Vous avez bien voulu accepter le petit banquet, que les membres du
    Reichstag et du Landtag, présents à Berlin, ont eu
    l'honneur de vous offrir comme témoignage des leurs
    sympathies pour vous, Monsieur le Président, pour vos
    collègues et pour votre grande et belle patrie.
    Puisque vous avez eu la bonté de nous laisser le choix du
    jour, nous nous avons proposé le dimanche prochain. Nous nous
    permettrons de venir vous chercher à cinq heures moins un
    quart.
    Je suis heureux de pouvoir vous exprimer, au nom de mes
    collègues et dans mon nom personnel, le vif plaisir et la
    grande satisfaction que votre présence en Allemagne nous
    inspire. J'en tire les meilleurs conséquences pour les
    relations futures des deux peuples déjà si
    étroitement unis.
    Agréez l'expression de ma considération la plus
    distinguée avec laquelle je suis, Monsieur le
    Président, votre très dévoué
    
    F. Dernburg
    membre du Reichstag et chef rédacteur de la
    Nationalzeitung.»
    
    Rispondo così:
    
    «Kaiserhof, ce 21 7mbre.
    
    Monsieur et cher collègue,
    
    En remerciant vous et vos collègues, au Reichstag et au
    Landtag, de l'honneur que vous me faites, j'accepte l'invitation et
    je vous attendrai à l'hôtel dimanche 23 courant
    à l'heure que vous m'avez indiquée. Agréez,
    monsieur, mes salutations bien cordiales».
    
    Scrivo all'on. Depretis:
    
    «Il conte di Launay, avendo ricevuto un biglietto dal
    Maresciallo di Corte, il quale annunziava che la Principessa mi
    voleva a pranzo la sera di domenica 23, egli venne ad informarmene.
    La coincidenza dei due inviti ci mette in imbarazzo, non sapendo
    come svincolarci dall'uno o dall'altro. L'ambasciatore di S. M.
    assume l'incarico di trovar modo a risolvere il problema».
    
    La sera, ad ora tarda, ricevo da Roma il seguente dispaccio dell'on.
    Depretis in risposta al mio del mattino:
    
    «Mio laconismo solito cresce maggiormente per malattia che mi
    tiene da otto giorni obbligato a letto. Ma tu devi dargli
    interpretazione come attestato di prudenza che non esamina e
    riconosce per opera tua il risultato del colloquio del quale mi hai
    dato notizia. Lasci in sospeso una grave quistione e la più
    urgente. Procura, se non puoi ottenere altro, di lasciare un
    addentellato che ci permetta di ritornarci sopra e d'insistere6.
    Pare a me si dovrebbe comprendere che nella questione Orientale non
    è possibile rimanere indifferenti ad una soluzione che
    ingrandisce Austria».
    
    Immediatamente risposi telegrafando così:
    
    «Con vivo rincrescimento apprendo tua malattia. Eventuale
    ingrandimento Austria fu trattato e può essere ripreso7.
    Bisogna però trattare a Vienna e Londra la questione».
    
    22 settembre. - Pel pranzo a Potsdam e pel pranzo parlamentare fu
    trovata una conveniente soluzione, grazie a S. A. I. la principessa
    Vittoria, che diede la priorità alla rappresentanza
    nazionale.
    Il conte di Launay mi scrive su cotesto argomento:
    «Tutto è regolato per lo meglio. In risposta al mio
    dispaccio al Maresciallo di Corte, ricevo l'avviso che l'invito a
    Potsdam è rimesso a lunedì».
    
    Il signor Federico Goldberg, corrispondente di varii giornali
    tedeschi e stranieri, avendomi domandato un colloquio consentii che
    fosse venuto a vedermi.
    Giunto all'ora indicatagli mi domandò prima di tutto se io
    fossi qui con una missione del governo italiano presso quello
    dell'Imperatore germanico e se ero contento della mia visita a
    Berlino. Risposi ch'ero venuto nella capitale dell'impero germanico
    senza alcun incarico officiale, e che ero soddisfatto del mio
    viaggio, perchè avevo potuto constatare personalmente le
    simpatie dei tedeschi per l'Italia.
    Il sig. Goldberg lodò la politica italiana. Disse che nelle
    condizioni dell'Europa era molto difficile il mantenimento della
    pace e che per la Germania e per tutte le altre nazioni una guerra
    avrebbe potuto riuscire disastrosa, perchè non ben definite
    ma incerte ancora le alleanze.
    Avendomi chiesto che cosa io pensassi della guerra turco-russa,
    risposi:
    - È un atto di prepotenza alla quale l'Europa assiste
    impassibile. Ciò non sarebbe avvenuto senza la dissoluzione
    delle antiche alleanze.
    - Avete ragione, ma l'impero tedesco non può condursi
    altrimenti. La Germania non ha alcun interesse in Oriente, e se
    prendesse parte per la Turchia ne avremmo la guerra generale,
    perchè la Francia avrebbe facile pretesto per correre sul
    Reno e vendicarsi delle sconfitte patite al 1870. Vi assicuro,
    però, che ai tedeschi non è simpatica la Russia e che
    le perdite da essa subite sul Danubio hanno fatto piacere alla
    nostra popolazione.
    - Non comprendo tutto ciò. Al 1870 la Russia, restando
    neutrale, influì ai vostri trionfi. Se la Russia fosse
    intervenuta anche diplomaticamente - e il povero Thiers fece tutto
    il possibile per riuscirvi - l'esercito tedesco non sarebbe giunto a
    Parigi. Voi dovreste in conseguenza essergliene grati.
    - È purtroppo così; ma bisogna distinguere i tedeschi
    dalla Corte imperiale di Germania, i primi avversarii, l'altra amica
    della Russia.
    Le frontiere della Russia sono rigorosamente chiuse alle nostre
    merci ed ai nostri cittadini. Voi non potete immaginare quante noie
    diano la polizia ed i doganieri russi ai tedeschi e quanto sia
    difficile viaggiare in Russia.
    Ora, coteste voci si ripetono tutti i giorni e tutti i momenti, e
    siccome il popolo giudica dai fatti che toccano da vicino i suoi
    interessi, così le antipatie aumentano in proporzione del
    danno che esso riceve.
    - È possibile tutto ciò, ma la Germania ha vincoli
    politici con la Russia e bisogna che tutte e due sappiano intendersi
    e procedere d'accordo.
    La Prussia è interessata come la Russia a mantenere le
    provincie acquistate sul finire del secolo XVIII nel riparto della
    Polonia. Or bene, a cotesto scopo le Corti di Berlino e di
    Pietroburgo sono costrette a fare una eguale politica.
    - No, voi v'ingannate. Cotesto è un affare d'interna
    amministrazione e la Germania non ha bisogno dell'ausilio degli
    altri per garentire i suoi possedimenti nelle provincie dove le
    popolazioni non sono tutte tedesche. Nella Prussia occidentale e nel
    ducato di Posen, i veri polacchi sono in campagna e questi sono
    docili, operosi ed obbedienti. Ivi i signori non hanno una vera
    influenza.
    Le città sono in gran parte germanizzate. A Posen è
    tedesca metà della popolazione, e a Danzica se i polacchi
    sono in maggioranza, non per questo sono temibili (ils ne sont pas
    à craindre pour cela). La città fiorisce pei suoi
    commerci, e la popolazione non ci guadagnerebbe a separarsi dalla
    Germania.
    Del resto, Danzica ha una forte guarnigione, e una piazza militare
    di prim'ordine ed in conseguenza non è facile a prendersi, e
    ricordate quello che ci volle al 1813 per farla capitolare.
    - Che la Germania nella Prussia occidentale possa in tempi ordinarii
    mantenere la sua autorità, non ho ragione di contrastarlo.
    Dubito, però, che ciò possa fare in caso di una
    rivoluzione.
    Ricorderete certamente la insurrezione polacca del 1863 e non avrete
    dimenticato che, allora, Prussia e Russia credettero necessario un
    trattato8 per cooperare a reprimerla. Le insurrezioni sono
    contagiose, massime quando sono animate dal principio di
    nazionalità.
    - Ma al 1863 non avevamo la Germania.
    - Sia pure, ma bisogna anche ricordare che nelle provincie di
    origine polacca la popolazione è cattolica ed i cattolici
    danno molto da fare. Fra i cattolici, il clero e la popolazione di
    Posen sono i più attivi ed i più arditi.
    - Questa è tutt'altra cosa. Il partito cattolico è
    forte in tutta la Germania; ha danaro, ha giornali, ha una potente
    organizzazione. Il partito cattolico però costituisce una
    vera minoranza in tutto l'impero. Può dare fastidii, ma non
    sarà mai temuto. È un partito come un altro, il quale
    è obbligato a rispettare le leggi e però può
    essere tenuto a freno.
    - Permettetemi intanto di farvi osservare che nelle provincie
    polacche la questione è del tutto diversa.
    Nelle provincie tedesche i cattolici sono tedeschi ed essi non
    possono volere la caduta dell'impero. I cattolici polacchi nulla
    hanno di comune con la Germania; la loro patria è altrove e
    nella lotta religiosa troverebbero anche il modo di rivendicare la
    loro nazionalità.
    - Convengo con voi sulla gravità della questione, ma il
    principe di Bismarck sa il suo mestiere e ne ha dato prove in tutte
    le occasioni. A lui non riuscirà difficile tenere i polacchi
    al posto, qualora volessero turbare la pubblica pace. Nel novembre
    1870, il clero di Posen, con lo arcivescovo alla testa, prese
    l'iniziativa per una agitazione in favore del potere temporale del
    Papa. Fu un inutile conato innanzi alla ferrea volontà del
    Principe. Il movimento si estese, ma non prese mai forma politica.
    Vennero le leggi di maggio col voto di tutti i partiti nazionali e
    col plauso di tutta la Germania ed altre leggi verrebbero, se mai
    fossero necessarie. Il Principe era interessato a mantenere salda
    l'amicizia della Germania coll'Italia, ed i cattolici dovettero
    cedere ed obbedire.
    - Come italiano io devo essere riconoscente al governo tedesco pel
    suo contegno in tutto ciò che possa interessare il mio paese.
    Ma voi non avete trovato ragioni sufficienti per convincermi che,
    nella questione polacca, la Russia e la Prussia non abbiano bisogno
    di procedere d'accordo.
    Dopo ciò, mi sono alzato ed il mio interlocutore comprendendo
    quale fosse il mio desiderio, si è congedato.
    
    Vedo il di Holstein e lo prego a volermi avvisare se e quando potrei
    vedere il principe di Bismarck.
    
    23 settembre. - Ricevo la seguente lettera del signor di Holstein.
    
    «Monsieur le Président,
    
    Le Prince part dans l'après midi de demain, lundi, plus
    tôt qu'il n'en avait eu l'intention. Cependant il
    espère vous voir encore. Peut-être aurez vous
    l'obligeance de venir me trouver un peu avant une heure. À
    une heure, le Prince compte être libre. Veuillez
    agréer, monsieur le Président, l'expression des mes
    sentiments de très haute considération.
    
    Dimanche.
    
    Holstein.»
    
    Alla mezza mi recai dal sig. di Holstein, nell'ufficio della Grande
    Cancelleria. Egli mi annunziò che il Principe era molto
    occupato e che non aveva potuto ricevere alcuni ministri esteri.
    Soggiunse che mi riceverà domani all'una pomeridiana.
    Il sig. Holstein mi disse che il Principe aveva incaricato il dottor
    Leonhardt, ministro di Stato, dello studio della tesi sulla
    parificazione degli italiani ai tedeschi nell'esercizio dei diritti
    civili in Germania. Mi consigliò di andare da Leonhardt e
    d'intendermi con lui su cotesto argomento.
    Si parlò del banchetto e del pranzo alla Corte di Potsdam. Il
    Principe era lieto di coteste manifestazioni.
    Alle due e mezza, accompagnato dal conte di Launay vado al Ministero
    di Giustizia per rivedere il dottor Leonhardt. Questi è un
    uomo sui 60 anni: viso aperto, maniere affabili. Entrammo subito in
    materia. Dissi come sia oramai giunto il tempo che all'infuori della
    vita politica cessi ogni disparità di trattamento tra i
    cittadini dei vari Stati. Nella sfera delle relazioni individuali un
    giure universale deve garentire gli stessi diritti in ogni paese a
    tutti gli uomini, senza distinzione di nazionalità. Ricordai
    che l'Italia col suo nuovo Codice aveva dato l'esempio agli altri
    popoli, ammettendo gli stranieri al pieno esercizio dei diritti
    civili. Osservai essere deplorevole che nessun governo ci avesse
    seguito in quella via. Dimostrai la necessità di un trattato
    tra la Germania e l'Italia per togliere ogni difformità nelle
    legislazioni dei due paesi.
    Il Leonhardt si dichiarò favorevole e promise che si sarebbe
    adoperato per esaudire i nostri desideri.
    
    23 settembre. - Alle 4-1/2 giungono al Kaiserhof gli onorevoli Loewe
    e Dernburg; e ci rechiamo insieme alla trattoria dell'Europa
    (Poppenberg), la quale è sita nella strada Unter den Linden
    (Sotto i tigli).
    Il banchetto era preparato nella gran sala, con molta
    semplicità, ma con vera eleganza.
    Vi trovai il conte di Launay, il quale mi aveva preceduto, membri
    del Reichstag e delle due Camere del Landtag, plenipotenziarii al
    Consiglio Federale, direttori ministeriali, e sottosegretari di
    Stato, il Borgomastro di Berlino, artisti, scienziati, giornalisti.
    Al banchetto era rappresentato ogni partito politico, il nazionale
    in maggioranza, il progressista quasi al completo, e per la Destra
    era il sig. Grävenitz.
    Appena arrivai, il presidente von Bennigsen fece le presentazioni; e
    poco dopo ci siam posti a mensa. Il presidente della Camera
    Prussiana aveva me alla sua sinistra, il conte di Launay a destra.
    Venuta l'ora dei brindisi, il signor de Bennigsen si levò e
    propose un evviva a Guglielmo imperatore ed al re Vittorio Emanuele.
    Tutti si alzarono entusiasti, acclamando i due sovrani.
    Vi fu un momento di pausa; ed il Bennigsen surse nuovamente, e
    propose un brindisi in onore del Presidente della Camera italiana.
    Egli parlò in francese, ed i brindisi, che poscia seguirono,
    furono quasi tutti in francese9.
    L'oratore ricordò gli antichi rapporti intellettuali e
    scientifici fra l'Italia e la Germania. Parlò delle bellezze
    artistiche e naturali della penisola, le quali in ogni tempo
    attrassero i tedeschi a visitarla ed esercitarono sui medesimi un
    predominio morale.
    Accennò di volo alle lotte medioevali, ma subito soggiunse
    che, alle guerre di conquista, succedettero i tempi di pace, nei
    quali il mutuo affetto fra le due nazioni fu cementato dal vincolo
    degli interessi comuni.
    «La Germania - egli disse - sente per l'Italia una franca e
    leale amicizia. Le due nazioni hanno le medesime aspirazioni e gli
    stessi scopi, il mantenimento dell'unità nazionale, lo
    svolgimento di una costituzione liberale e parlamentare. Esse devono
    difendere in comune cotesti beni, e devono con la loro unione
    rendersi prospere all'interno, forti e rispettate all'estero.
    Così nel presente, come nell'avvenire, l'Italia e la Germania
    sono interessate a procedere d'accordo.
    Saranno pochi in questa sala coloro i quali non abbiano visitato
    l'Italia, mentre avvien di rado che un italiano giunga fra noi, ed
    affronti il nostro clima, forse troppo temuto. Quindi è che
    ci dobbiamo tanto più rallegrare della presenza del nostro
    ospite.
    Nel sig. Crispi, noi onoriamo uno dei più valorosi uomini del
    suo paese, un uomo animato da un entusiastico amor di patria,
    eminente per grande avvedutezza politica e per conoscenza di tutto
    ciò che possa meglio giovare alla terra natia.
    Vogliate dunque associarvi a me con un evviva all'unione delle due
    nazioni, alla gloria ed alla grandezza d'Italia, al Presidente della
    Camera dei deputati italiani, uno dei più nobili figli del
    suo paese».
    Tutti si alzarono ed acclamarono. Fui quindi anch'io obbligato a
    parlare e mi dichiarai innanzi tutto dolente di non poter adoperare
    la lingua tedesca. Ringraziai in nome dell'Italia e dissi che al di
    là delle Alpi viveva per i tedeschi un popolo di fratelli. Il
    giorno in cui l'Italia e la Germania si sono rilevate, esse hanno
    compreso la solidarietà dei loro interessi. Ricordai lo stato
    dei due paesi dal medio-evo al 1815. L'antico impero non ebbe vera
    grandezza, fu reazione e dispotismo; il Congresso del 1815
    negò all'Italia come alla Germania ogni esistenza politica
    nel vecchio continente. Fortunatamente il movimento nazionale
    iniziato nel 1848, dopo infinite prove e sacrifizi, e grazie alle
    due dinastie che compresero lo spirito del popolo e le tendenze dei
    loro tempi, ci ha condotto alla costituzione di due nazioni le
    quali, vivificate all'interno dalla libertà, sono all'estero
    un pegno di pace per l'Europa.
    Il nuovo impero germanico nulla ha da fare con l'antico, la bandiera
    di Ratisbona fu abbassata; la bandiera attuale è segnacolo di
    libertà e di unità, e ispira fiducia all'Italia.
    Conclusi proponendo un brindisi all'Imperatore, rappresentante
    dell'unità germanica, e alla perpetua amicizia della Italia e
    della Germania.
    Parlarono poi Schulze-Delitzsch; l'ambasciatore d'Italia di Launay,
    e il borgomastro di Berlino, Dunker, il quale dopo aver ricordato
    che l'Italia fu madre di civiltà agli altri popoli, propose
    un saluto a Roma, applauditissimo.
    
    24 settembre. - Alle 11 visita alle carceri correzionali. Divisione
    dei giovani dagli adulti - gli opifici comuni e le nicchie da letto
    - la sinagoga e la cappella - le celle ed il lavoro - trenta
    mestieri - le scuole - la cucina, l'infermeria - gl'impiegati - i
    soldati di guardia alla porta del carcere.
    All'una, visita al principe di Bismarck.
    Seguendo il consiglio del barone di Holstein salii all'appartamento
    del Gran Cancelliere. Appena introdotto, il Principe si levò,
    ci siamo stretti affettuosamente la mano, ed io:
    - Non volevo lasciar Berlino senza avervi veduto.
    - Ed io son venuto apposta a Berlino per darvi la promessa risposta.
    Per la reciprocità, fra i due paesi, nel godimento dei
    diritti civili, sulla base dell'art. 3 del vostro Codice, noi siamo
    pronti a stipulare il trattato.
    Mandate la regolare autorizzazione e faremo tutto.
    - Non è questo solo che io desidero, e che il mio Re domanda.
    Che mi dite del progetto di alleanza tra il regno d'Italia e
    l'impero germanico nel caso che l'uno o l'altro o ambedue fossero
    attaccati dalla Francia?
    - Non ho visto ancora il Re e non è cosa di cui potrò
    scrivergli. Bisogna parlargli e riceverne gli ordini a voce.
    - Ma in Germania chi più potente di Bismarck? Se siete
    deciso, se ritenete che quello che io propongo è utile ai due
    paesi, il Re non ha motivo di esservi contrario.
    - Io sono pronto a negoziare. Fatevi spedire il mandato e ci
    metteremo d'accordo per la stipulazione del trattato.
    - Su quali basi? Quali dovranno essere i principii regolatori? E che
    faremo per l'Austria?
    - Vi dissi, che per la Francia son pronto a trattare: per l'Austria
    no. La posizione nostra coi due paesi non è la stessa. Lo
    stato attuale della Francia è incerto. Nella lotta tra
    Mac-Mahon e il Parlamento non sappiamo chi riuscirà
    vincitore. Il General Presidente, col suo proclama elettorale, si
    è molto compromesso e non sappiamo se dalle prossime elezioni
    generali verrà una Camera monarchica. Un Re non si
    potrà sostenere che con l'esercito, il quale vorrà la
    rivincita....
    - Ed io vi soggiungo che si appoggerà anche sul clero, il
    quale vorrà la restaurazione del potere temporale del Papa.
    - Nissuno di cotesti pericoli possiamo temere dall'Austria, ed a noi
    conviene tenercela amica. Vado anche più in là: io non
    voglio neanco presumere che possa divenirci nemica. Del resto, se
    essa cangerà politica, il che non credo, avremo sempre tempo
    per intenderci.
    - Limitiamoci dunque alla Francia.... Ma su quali basi dovrà
    essere il nostro trattato?
    - L'alleanza dovrà essere difensiva ed offensiva. Non
    perchè io voglia la guerra, che farò tutto il
    possibile per evitare, ma per la natura stessa delle cose.
    Immaginate, per esempio, che i francesi raccolgano duecento mila
    uomini a Lione. Lo scopo è manifesto. Dovremo noi attendere
    che ci attacchino?
    - Va bene. Riferirò al Re le vostre idee, e manderemo i
    regolari mandati per la stipulazione dei due trattati.
    - Pel trattato sulla reciprocità nello esercizio dei diritti
    civili nei nostri paesi, i poteri potrete mandarli a di Launay, per
    l'alleanza preferirei trattare con voi.
    - Va bene. Di questo argomento parlerò a S. M. il Re e
    prenderò gli ordini suoi.
    - Vidi Andrássy, e gli dissi che eravate stato da me, e che
    il Governo italiano vuol vivere in una buona amicizia coll'Austria.
    Ne fu lieto e mi incaricò di salutarvi.
    Ragionando, gli riferii che l'Italia non vorrebbe che l'Austria si
    prendesse la Bosnia e l'Erzegovina.
    - Gli affari russi vanno male, e quest'anno la campagna è
    finita. L'Austria non ha intenzione alcuna di muoversi.
    Fareste bene di vedere Andrássy. Troverete in lui un
    buonissimo amico.
    - Permettetemi, Altezza, che or v'intrattenga di un argomento il
    quale è di vitale interesse per l'Italia.
    Pio IX è avanzato negli anni e non tarderà quindi a
    partire da questo mondo. Avremo forse presto un conclave per la
    nomina del successore. È vero, che voi, Governo protestante,
    non siete nella posizione dei governi cattolici per preoccuparvi
    della futura elezione del romano pontefice, ma nella Germania avete
    popolazioni cattoliche e clero cattolico e non potete
    disinteressarvi di quello che avverrà nel Vaticano.
    - A me importa poco chi possa essere il successore di Pio IX. Un
    Papa liberale sarebbe forse peggiore di un reazionario. Il vizio
    è nell'istituzione, e l'uomo, chiunque esso sia, qualunque
    siano le sue opinioni e le sue tendenze, poco o nulla potrà
    influire nell'azione della Santa Sede. In Vaticano quella che domina
    è la Curia.
    - Purtroppo è così, e voi avete dovuto farne la prova
    nella acerba lotta che avete durato dal 1870 in poi col clero
    cattolico. Noi italiani ve ne siamo grati.
    - Ma io non posso parimenti esser grato al Governo italiano.
    Voi avete messo il Papa nella bambagia, e nissuno lo può
    colpire10. Sin dal marzo 1875 noi avevamo richiamato l'attenzione
    del governo italiano sui pericoli che contiene, per le altre
    Potenze, la legge sulle guarentigie della Santa Sede.
    La questione è rimasta aperta.
    - Come saprete, io combattei quella legge quando fu discussa in
    Parlamento.
    Dopo lo scambio d'idee di minor importanza, ci siamo congedati con
    un arrivederci.
    
    24 settembre. - Alle 8 pranzo a Potsdam - -Il fidanzato della
    principessa Carlotta - Le fortificazioni di Roma - Principe di
    Sassonia-Meiningen. -
    
    25 settembre. - Pranzo da di Launay - Prima al Municipio.
    
    «Berlino, 25 settembre 1877.
    
    a S. M. il Re d'Italia.
    
    Sire!
    
    In esplicazione del mio telegramma del 10 corrente e di quello
    d'oggi, sento il dovere di rassegnarle come io abbia adempiuto
    presso S. A. il principe di Bismarck alla missione affidatami da V.
    M. d'accordo col Presidente del Consiglio dei Ministri.
    I temi della missione, i quali furono oggetto dei colloqui avuti il
    17 a Gastein ed il 24 a Berlino erano questi:
    Alleanza eventuale con la Germania nel caso di una guerra con la
    Francia o con l'Austria.
    Accordi nella soluzione delle varie questioni che potran sorgere in
    conseguenza della guerra turco-russa in Oriente.
    Parificazione dei tedeschi e degli italiani nell'esercizio dei
    diritti civili in ciascuno dei due Stati.
    Il Principe fu assolutamente negativo per un trattato contro
    l'Austria. Lo accolse volentieri contro la Francia, quantunque
    esprimesse la speranza che quest'ultima Potenza saprà tenersi
    tranquilla e non vorrà rompere la pace europea.
    Anch'io dichiarai che noi nutrivamo cotesta speranza; ma feci
    riflettere - ed il Principe fu del medesimo avviso - che in caso di
    un trionfo, nelle prossime elezioni politiche, del partito
    reazionario, e della possibile caduta della repubblica, il governo
    il quale gli succederebbe avrebbe bisogno di ricorrere alla guerra
    per rifarsi delle sconfitte del 1870, e per avere autorità
    nel suo paese.
    In quanto al contegno dell'Austria verso di noi, il Principe se ne
    disse dolente ed espresse il desiderio che fra i due governi si
    potesse stabilire un accordo cordiale.
    Avendogli intanto fatto osservare, che se dopo il 1866 l'Austria ha
    bisogno di pace, essa non potrà dimenticare i danni patiti e
    sentirà, in un avvenire più o meno lontano, la
    necessità di riprendere la sua posizione in Germania, Sua
    Altezza rispose voler credere che ciò non avvenga. Una sola
    ragione vi potrebbe essere di dissidio tra i due imperi, e sarebbe
    quella in cui l'Austria volesse incoraggiare col suo contegno un
    movimento in Polonia. L'Austria - disse il Principe - solletica le
    ambizioni della nobiltà polacca. Nulladimeno - soggiunse - le
    cose non sono al punto da suscitar pericoli. Lasciatemi aver fede in
    quel governo. Se venisse il giorno che le mie previsioni fosser
    deluse, avremmo sempre tempo per intenderci, e potremmo allora
    stipulare un'alleanza.
    La mia convinzione è che il Principe vuol tenersi stretto
    all'Austria, e parmi poter dedurre dalle sue parole che egli intenda
    esser d'accordo col gabinetto di Vienna, e vorrebbe che anche noi lo
    seguissimo in cotesta politica. La lontana ipotesi di una rottura
    fra i due imperi non mi parve conturbare l'animo di S. A. In quanto
    all'Italia mi dichiarò francamente che se Essa rompesse con
    l'Austria se ne dorrebbe, ma egli non farebbe la guerra per questo.
    Sulle cose d'Oriente il Principe dichiarò che la Germania
    è disinteressata e che, in conseguenza, S. A. accetterebbe
    qualunque soluzione, la quale non turbasse la pace europea.
    Immantinenti risposi, che l'Italia non potrà dirsi
    disinteressata anch'essa. Parlai allora delle voci in corso di
    mutamenti territoriali e delle proposte russe di far prendere
    all'Austria la Bosnia e l'Erzegovina onde averla amica.
    Sul proposito ricordai le condizioni in cui ci troviamo dopo il
    trattato di pace del 1866 e come ogni aumento di territorio pel
    vicino impero sarebbe al nostro paese di danno. Le nostre frontiere,
    io dissi, sono aperte ad oriente, e se l'Austria si rinforzasse
    nell'Adriatico noi saremmo stretti come da una tenaglia e non
    saremmo punto sicuri.
    Soggiunsi: «Voi dovreste aiutarci in questa occasione. Noi
    siamo fedeli ai trattati e nulla vogliamo dagli altri. Voi dovreste
    domani dissuadere il conte Andrássy da ogni desiderio di
    conquiste nel territorio ottomano».
    Il Principe rispose ch'egli non voleva discorrere con
    Andrássy di tutto ciò, cotesti argomenti potendo
    essere dispiacevoli al Gran Cancelliere austriaco. Crede però
    che un accordo sarebbe possibile e propone, nel caso in cui
    l'Austria avesse la Bosnia e l'Erzegovina, che l'Italia si prendesse
    l'Albania, od altra terra turca sull'Adriatico.
    Nel colloquio di ieri avendo discorso nuovamente delle varie materie
    trattate a Gastein, il Principe, mentre ero per congedarmi, mi
    dichiarò ch'egli aveva parlato col Cancelliere austriaco
    della nostra opposizione a che l'Austria prendesse la Bosnia e
    l'Erzegovina. E soggiunse: «Andate a Vienna. Son sicuro che
    potrete intendervi col conte Andrássy».
    Un viaggio a Vienna è necessario per conoscere meglio le
    intenzioni dell'Andrássy sul problema orientale e per vedere
    se un accordo con l'Austria sarebbe possibile. Lo farò dopo
    essere stato a Londra, dove andrò domani, siccome ho
    già telegrafato a V. M.
    Sulla parificazione dei tedeschi e degli italiani in ciascuno dei
    due Stati, nello esercizio dei diritti civili, il Principe non fece
    alcuna obbiezione, anzi l'accolse di buon animo. Il Principe mi
    parlò di un trattato che la Germania ha con la Svizzera,
    credo per i cittadini di Neuchâtel, e vorrebbe che lo
    prendessimo a base di quello che dovrebbe essere stipulato tra
    l'impero di Germania e il regno d'Italia.
    Pel trattato eventuale di alleanza contro la Francia il Principe mi
    disse che avrebbe preso gli ordini dall'Imperatore. Per quello
    speciale per l'esercizio dei diritti civili, desidera che sia fatto
    presto, ed in conseguenza che se ne diano da V. M. i poteri al conte
    di Launay.
    Altri argomenti di minore importanza furono discussi il 17 e il 24
    corrente, ma tralascio di parlarne perchè dovrei estender
    molto i limiti di questa lettera. Ne farò una speciale
    esposizione a V. M. al mio ritorno in Italia in quella udienza che
    la M. V. si degnerà di accordarmi.
    Sempre agli ordini di V. M., mi ripeto con tutta devozione e con
    affettuoso rispetto, etc.»
    
    26 settembre. - Visita di congedo al segretario di Stato Friedberg e
    al ministro di Bülow.
    
    27 settembre. - Prima di lasciare Berlino invio il seguente
    telegramma:
    
    "a S. M. l'Imperatore Guglielmo.
    
    Baden-Baden.
    
    Essendo sul punto di dire addio alla Germania, sento il vivo
    rincrescimento di non aver potuto ossequiare personalmente Vostra
    Maestà, e l'obbligo di ringraziare vivamente la M. V. come
    capo supremo della grande nazione per le prove di simpatia date
    all'Italia dal nobile popolo tedesco.
    
    Francesco Crispi.»
    
    Parto da Berlino alle 10.45 di sera dalla stazione di Potsdam. A
    Potsdam il sonno mi coglie malgrado il freddo intenso.
    
    27 settembre.  -  Mi risveglio a Kreiensen.
    Alle 5 pom. siamo ad Ostenda; alle 8-1/2 c'imbarchiamo per
    l'Inghilterra.
    
    28 settembre. - Giungo alla stazione di Connon-Street alle 4 del
    mattino.
    Il marchese Menabrea - Alla ricerca di Stansfeld - Presentazione
    all'Athenaeum Club - Carte da visita allo Speaker, al lord
    Chancellor, al lord Chief-Justice, a lord Beaconsfield, a lord
    Derby.
    
    «Roma, 26 7.bre 1877.
    
    Caro Crispi,
    
    La mia salute s'è guastata a Stradella. Era uno de' soliti
    attacchi artritici che fu da me trascurato e mal curato dal medico.
    Costretto a recarmi a Roma ove la mia presenza era necessaria, ho
    inasprito il mio male colla fatica del viaggio, e a Roma l'attacco
    artritico si estese ai visceri. La malattia era nojosa e minacciava
    d'essere lunga quantunque non fosse grave. Vinse, però, la
    mia buona natura e mediante purganti e senapismi il male si è
    mitigato. Non posso ancora reggermi in piedi, ma è affare di
    qualche giorno. Fra tre o quattro giorni sarò intieramente
    libero considerandomi adesso in piena convalescenza.
    Il tuo viaggio avrà questo notevole risultato: la diplomazia
    ha cominciato a conoscerci, a renderci giustizia, a trattare
    apertamente con noi. Fummo lungamente cospiratori per l'unità
    del nostro paese, siamo stati rispettati come deputati di parte
    liberale, ora otterremo di essere apprezzati come uomini di governo.
    Quando sarai qui c'intenderemo per rendere fruttuoso e sicuro il
    risultato della tua missione.
    Ora eccoti alcune notizie che è bene tu sappia per regolare
    l'epoca del tuo ritorno a Roma.
    E prima delle cose interne.
    Zanardelli aveva offerto le sue dimissioni perchè gli avevo
    telegrafato che il ritardo nella stipulazione delle convenzioni era
    una calamità. Risposi con moderazione ed ottenni il suo
    assenso a proseguire i negoziati. Spero dunque ancora di conchiudere
    senza attraversare una crisi.
    Da Mancini spero poco perchè non spero che la sua salute si
    ripristini completamente. Sarà uno dei nostri più
    grossi fastidj.
    Ma vi è un altro guajo.
    Venne a Roma Cialdini e si mostrò molto malcontento di
    Mezzacapo per le giubilazioni nell'esercito, e di Nicotera pei
    settanta commendatori, e parlò della sua dimissione non
    immediata, ma fra breve. La dimissione di Cialdini ci farebbe molto
    male ed è perciò che se ritornando in Italia passi da
    Parigi faresti bene a vederlo ed a persuaderlo di non toglierci il
    suo appoggio. Egli mi disse di averti parlato e che tu gli hai detto
    che un allargamento dei quadri sarebbe stato accettato dalla Camera.
    Io non so se la cosa sarebbe passata facilmente, e non voglio
    sostenere che nelle disposizioni date da Mezzacapo non ce ne siano
    di sbagliate, ma il certo si è che qualche cosa bisognava
    fare, e che adesso bisogna ad ogni costo impedire che il generale
    Cialdini si dimetta. Sai che il partito ha accolto bene i
    provvedimenti di Mezzacapo e che un atto ostile contro di lui
    ferirebbe e partito e ministero e forse aprirebbe una breccia per la
    quale potrebbero entrare i nostri avversarii politici.
    Venendo alle cose estere, è bene che sappi che di Launay ha
    scritto a Melegari della tua visita a [Bismarck]11 e fece notare le
    parole che [Bismarck] disse ad [Andrássy]. Quelle parole sono
    però diventate per noi un programma, all'attuazione del quale
    è d'uopo adoperarci. Purtroppo non conosciamo la risposta di
    [Andrássy] e certo a [Vienna] le nostre esigenze
    incontreranno opposizioni vivissime; ci vorrà da parte nostra
    molta abilità, molta fermezza, ed anche un po' di fortuna per
    riuscire.
    Le osservazioni che a questo proposito tu hai fatte a [Bismarck]
    bisognerà che le faccia con prudenza a [Derby]. Colla
    [Inghilterra] noi abbiamo molti interessi comuni, nessun interesse
    contrario. Vivissimo è il nostro desiderio di mantenerci con
    essa in perfetto accordo. E questo è anche il nostro
    interesse, poichè quando fossimo involti in una guerra
    l'amicizia del [Inghilterra] è la sicurezza delle nostre
    [piazze], cioè delle nostre grandi città.
    Tu parlando con gli uomini di Stato [Inglesi] potrai toccare un
    argomento delicato e che non devesi sviluppare se non si presenta
    occasione propizia e sempre adoperando molta prudenza.
    In questi ultimi tempi fummo male giudicati da una parte della
    stampa inglese. Vi fu chi sospettò un'alleanza dell'Italia
    con l'Austria, alleanza che non ha mai esistito nel pensiero di
    nessuno. Ultimamente il Foreign Office pubblicò un manifesto
    sui passaporti che i sudditi inglesi erano invitati a ritirare
    quando volessero recarsi in Italia. Quell'annunzio era un'offesa
    immeritata all'Italia e al suo Governo che sempre ha accolto, ed
    accoglierà sempre i sudditi britannici colla più
    grande simpatia. E non siamo noi gli avversarj del papato, che
    è il più antico nemico dell'Inghilterra? - Ora, molti
    credono in Italia che questi umori dipendono in gran parte da una
    sola persona. Noi non godiamo le simpatie dell'attuale Ambasciatore
    britannico a Roma, che è un amico intimo dei nostri avversarj
    politici.
    Su questo punto, ed anche perchè ne dica una parola al nostro
    Ambasciatore, io mi rimetto alla tua prudenza.
    Io ti sarò molto grato se vorrai telegrafarmi da Londra
    quello che vi si pensa sul risultato delle prossime elezioni in
    Francia. Questi pronostici mi saranno utili anche dal punto di vista
    finanziario.
    E ti prego ancora di telegrafarmi il tuo itinerario per mia norma, e
    il giorno in cui speri di poterti trovare a Roma. La situazione
    parlamentare io la spero buona perchè la situazione delle
    finanze è buona: ma questo non è che un lato del
    problema che dobbiamo risolvere, e per consolidare al potere il
    partito liberale occorre ancora studio e lavoro non poco e fatica
    molta.
    Credimi sempre
    
    l'aff.mo tuo
    A. Depretis.
    
    P.S. Telegrafa la ricevuta di
    questa per mia quiete.»
    
    «Londra Oggetto OLE
    
    (Telegramma).
    
    Ho tua lettera.
    Telegraferò mio ritorno, dopo che avrò visto Derby.
    
    Crispi.»
    
    «Londra, 3 ottobre 1877.
    
    Caro Depretis,
    
    Ebbi ieri la tua lettera....
    Vedrò Cialdini al mio passaggio da Parigi, e se
    affretterò il mio ritorno tenterò di vederlo in
    Italia.
    Parlammo con lui dell'esercito e della difesa del paese.
    Non si mostrò contento delle disposizioni date da Mezzacapo.
    Ma venendo ai particolari convenne che molti dei giubilati erano
    ferri vecchi, e che quei messi in disponibilità o trascurati
    potrebbero alla prima occasione essere rimessi onorevolmente a
    posto. In verità, al Ministero della Guerra si fu poco
    rispettosi degli elementi che venivano dalla rivoluzione, mentre si
    usarono tutti i riguardi a coloro che fino al 1860 furono nemici
    nostri. Che ti pare di Pianell, il quale comanda Verona, alle porte
    d'Italia, a pochi passi dal Tirolo? Ed aggiungi, che è una
    fortezza, cotesta, che avrebbe dovuto esser distrutta, e che gli
    austriaci ambiscono, che riprenderebbero alla prima occasione, e che
    facilmente muterebbero a nostra offesa. In Germania mi dicevano che
    non si è voluto atterrarla per non dispiacere al Pianell.
    Comunque sia, coteste son cose che accomoderemo.
    Cialdini se ne persuaderà ed io metterò tutta l'opera
    mia, perchè egli non proceda ad un atto che sarebbe
    interpretato a nostro danno.
    Io non poteva nascondere a di Launay ch'ero stato con Bismarck.
    Siccome ti telegrafai, tenni a lui solamente segrete le trattative
    per l'alleanza contro la Francia. Egli però mi portò
    sempre a leggere le lettere ed i telegrammi, prima che fossero
    spediti. E voglio credere che tu li abbia letti tutti.
    Bisogna assolutamente andare a Vienna e vedere Andrássy.
    Colà il partito militare è deciso, appena glie se ne
    offrirà l'occasione, di occupare la Bosnia.
    Il Governo germanico non si oppone, ma non ha dichiarato che lo
    permetta. Anche qui non erano contrarii, a quanto me ne dice
    Menabrea, ma quando seppero che noi non potevamo permetterlo senza
    compenso territoriale alle Alpi, finirono per darci ragione.
    In tale stato di cose un linguaggio franco e risoluto, una
    dichiarazione che li assicuri del nostro consenso e del nostro aiuto
    a condizioni nettamente determinate, ci dovrà giovare, e non
    potrà nuocere.
    Io mi sento la potenza di farlo cotesto discorso e se tu consenti
    prenderò la via di Vienna. Se pensi altrimenti farò
    subito ritorno in Italia. Su questo attendo un tuo cenno col
    telegrafo, all'arrivo della presente.
    Disraeli è malato. Derby è a Liverpool ed attendo un
    suo avviso per sapere il giorno in cui ci potremo vedere.
    Farò a lui le osservazioni opportune sull'argomento di cui
    più innanzi ti ho intrattenuto, e non dubito della favorevole
    di lui risposta. Mi verrà agevole discorrere di tutto
    ciò, dopo che so ch'egli è ben disposto.
     La stampa inglese non ci è stata amica, e ne siete
    colpa un po' voi, perchè non l'avete curata e l'avete
    lasciata in balìa dei moderati. Ed in questo paese i giornali
    sono potentissimi, e bisogna saperne far conto. E vedi in proposito
    di ciò qualche cosa che mi riguarda. Ieri il Times
    pubblicò un telegramma del suo corrispondente romano, nel
    quale si dice che il mondo officiale e diplomatico di costà
    è male impressionato dei miei discorsi in Berlino e del mio
    telegramma all'imperatore Guglielmo. Cotesto è un eco di
    alcune parole dell'Opinione del 29, che i vostri giornali lasciarono
    passare.
    I miei discorsi a Berlino furono costituzionalissimi e corretti.
    Nelle alte sfere ne furono contentissimi e me n'espressero la loro
    approvazione.
    Del mio telegramma all'Imperatore ne parlai al ministro Bülow
    ed al barone Holstein, e non solo nulla mi osservarono sulla forma,
    ma si compiacquero che io abbia fatto risalire all'Imperatore il
    merito delle dimostrazioni fatte a me ed all'Italia dalla
    rappresentanza del popolo tedesco.
    Ed aggiungi che questa volta anche l'etichetta di Corte fu messa da
    parte. Appena la Principessa Imperiale mi seppe a Berlino,
    mandò persona sua per manifestarmi il desiderio di una mia
    visita. E siccome l'Imperatore ed il Principe erano al campo delle
    manovre, essa tenne per me un pranzo alla residenza di Potsdam. A me
    personalmente tutto ciò poco importa, ma io ne son lieto pel
    mio paese e pel mio partito.
    Farò al Foreign Office le tue dichiarazioni, e vedrò
    anche d'interessarne Menabrea, perchè possa anche lui
    togliere la cattiva impressione prodotta per l'affare dei
    passaporti. Non trascurerò cotesto argomento quando
    vedrò il conte Derby.
    Avrai le notizie che mi chiedi sulle elezioni generali di Francia. E
    saprai il mio itinerario appena mi avrai telegrafato alla ricezione
    di questa mia.
    Godo che lo stato delle finanze sia buono. Con la buona finanza
    potremo fare delle grandi cose. Pel resto, lascia a me la cura. Alla
    Camera tutto procederà in regola.
    Ed ora lascia che ti stringa cordialmente la mano.
    
    L'aff.mo tuo
    F. Crispi.»
    
    
    4 ottobre. - Visita a Woolwich.
    Telegrafo a Depretis: «Derby verrà domattina dalla
    campagna apposta per ricevermi. Sabato vedrò Gladstone.
    Domenica partirò pel Continente. Alla City ritengono sicuro
    il successo del partito repubblicano nelle elezioni generali
    francesi; all'Ambasciata francese non lo contrastano, ma credono che
    Mac-Mahon guadagnerà voti e governerà col Centro
    Sinistro».
    
    5 ottobre. - All'una colloquio con lord Derby. Il mio viaggio in
    Germania - Convenzione per la reciprocità dei diritti civili
    - Mutue simpatie - Francia e Germania: mutua diffidenza. Mi chiede
    l'opinione di Bismarck: dico che non farà la guerra se non
    trascinatovi - La Francia: alleati - Statu-quo territoriale -
    Mutamenti nell'Oriente: appello alla giustizia delle Potenze. Derby:
    «prendete l'Albania». - Nostra condizione rispetto
    all'Austria, potenza finitima.
    Telegrafo al re: «J'ai été avec le ministre des
    affaires étrangères. Il a trouvé justes nos
    observations contre la occupation de la part de l'Autriche d'une
    province ottomane et le cas échéant il en tiendra
    compte. Il n'a pas fait aucune objection lorsque je lui ai dit que
    dans ce cas nous aurions droit à prétendre une
    compensation aux Alpes».
    Telegrafo a Depretis: «Fui con Derby, soddisfatto della
    conversazione con lui. Accetta trattare per articolo 3 Codice Civile
    e terrà presenti nostre obiezioni circa evenienza
    ingrandimento Austria nello Adriatico».
    Alle 8 partenza per Chester.
    
    6 ottobre. - Parto da Chester alle 9-3/4 e giungo ad Howarden-Castle
    alle 10-1/2. Coloro che non conoscono la Gran Brettagna restano
    meravigliati vedendo queste campagne tutte popolate e tutte
    coltivate.
    Howarden-Castle è nella contea di Flint, nel paese di Galles,
    quasi alla frontiera dell'Inghilterra, alla quale fu annessa sotto
    Arrigo VIII.
    La proprietà di Gladstone è proprio nel luogo in cui
    era il castello di Eduardo I.
    Il castello è su di una collina e domina tutta la pianura. In
    cima al medesimo è issata la bandiera britannica a indicare
    la presenza di Gladstone.
    
    La casa, in cui questi abita, è a pochi passi dal parco.
    È di stile gotico; fu costruita 60 anni addietro. Entrandovi
    si vedono libri da per tutto.
    Il signor Gladstone mi ricevette come un amico di antica data. Mi
    espresse la contentezza di avermi con lui ed io gli manifestai la
    soddisfazione di stringere la mano ad un fedele amico d'Italia. Mi
    presentò la sua signora, gentilissima e cordiale donna, la
    quale, sentendo che io aveva interesse a ripartire subito per
    Londra, ebbe la cortesia di mostrarsene contrariata.
    Il signore e la signora Gladstone desideravano che io rimanessi un
    paio di giorni con loro.
    Il signor Gladstone, cui pel primo dichiarai che non potevo restare
    al di là di una giornata, esclamò: ma io vedo un baule
    con voi, quasi per dirmi: «non siete certo venuto per restare
    poche ore con me».
    Cominciò subito la conversazione sulle cose del giorno e
    specialmente sulla guerra d'Oriente e sulle sue conseguenze.
    Il signor Gladstone fu d'avviso che i russi finiranno per vincere.
    Egli dubita che vi possa essere una campagna d'inverno; ma non crede
    che i turchi ne usciranno vincitori.
    - Ai turchi toccherà come ai sudisti d'America - egli disse.
    - Fin oggi hanno potuto resistere ed avere anche dei successi,
    perchè meglio armati dei russi, ma il numero
    trionferà, un impero di 80 milioni avendo maggiori mezzi d'un
    impero di 26. È una disgrazia che la questione orientale
    debba sciogliersi colle armi, ma non avvi altro mezzo. Per la Russia
    oggi trattasi di vita o di morte.
    Richiamai l'attenzione del signor Gladstone sul malumore, e direi
    sulla malevolenza della stampa inglese per l'Italia.
    - È difficile trovarne il motivo, perchè realmente non
    ce n'è. Bisogna cercarlo nella russofobia, la quale è
    giunta a tal punto che è proprio ridicola. Siccome l'Italia
    è amica della Germania e questa è amica della Russia,
    si suppone che voi partecipiate alla stessa amicizia. Ma anche
    questo sentimento non è nel popolo, è nella classe
    alta. Ora la classe alta fra noi è alla coda ed il popolo
    è alla testa. Fortunatamente non havvi più una
    questione italiana, nè ce ne può essere;
    ma se sorgesse, voi vedreste tutto il paese sollevarsi per voi.
    - Io godo di quello che mi dite e non lo dimenticherò. Noi
    siamo amici della Germania, perchè abbiamo interessi identici
    ed abbiamo gli stessi nemici, ma non per questo abbiamo le relazioni
    politiche e le amicizie della Germania. Anche con voi siamo amici
    per motivi quasi identici.
    Il colloquio si estese sul papato e sulla questione orientale, su
    l'Austria e su la Francia.
    - L'Italia è in condizioni tali da potere essere per voi un
    buon alleato alla vece dell'Austria e della Francia, a cui non
    potete ricorrere.
    - Avete ragione, ma vi assicuro che nel popolo inglese tutte le
    simpatie sono per voi e non dovete dare importanza a qualche
    articolo di giornale, che è l'effetto della russofobia, e non
    esprime il sentimento nazionale.
    Viene la signora - Passeggiata al Castello - Camera - Merenda -
    Passeggiata nel parco - La parrocchia.
    Lord Derby debole, ma senza pregiudizii per lo straniero. In fondo
    è liberale.
    L'elezione dei parroci - Il papato - Il nuovo Papa - i candidati -
    Il cardinale Simeoni - il cardinale Antonelli - Le sue figlie - Il
    processo.
    Il castello di Howarden fu assediato e distrutto dai parlamentarli
    ai tempi di Carlo I.
    La parrocchia di Howarden conta seimila abitanti - è del
    secolo XVI - fu bruciata alcuni anni fa e non ne rimasero che le
    mura.
    Il parroco vive con le decime.
    Il pranzo - La partenza.
    
    7 ottobre. - Ricevo il seguente telegramma dal Re: «Je vous
    remercie de votre dépêche. Je vous souhaite que les
    espérances ministerielles se réalisent. Je vous prie
    de me dire quand vous serez de retour.
    
    Vittorio Emanuele».
    
    Rispondo: «Je serai de retour le 22 ou 24 courant. Je vais
    partir pour Vienne où j'attends les ordres de V. M.».
    
    8 ottobre. - Partenza da Londra alle 8-1/2 pom.
    
    9 ottobre. - Arrivo a Parigi alle 6-1/2 del mattino - Gambetta.
    
    11 ottobre. - Partenza da Parigi alle 9,20 del mattino.
    
    12 ottobre. - Arrivo a Vienna alle 9-1/2 di sera.
    
    13 ottobre. - L'ambasciatore, generale Robilant, mi scrive di
    mettersi a mia disposizione; alle 12.30 vado a visitarlo - M'informa
    - Telegrafo a Depretis: «Ho tua lettera. Andrássy
    è in campagna. Sarà a Pesth il 20. Qui posizione molto
    difficile. Scriverò domattina. Fa' smentire notizia che io
    fui al discorso elettorale di Gambetta».
    
    14 ottobre. - Ricevo da Depretis il seguente telegramma:
    «Attendo tua lettera. Intanto è necessario ti faccia
    conoscere che qui è giunta raccomandazione vivissima del di
    Launay, affinchè a Vienna si usi la più grande
    circospezione. Se ti riesce parlare con Andrássy, procura di
    stare sulle generalità esprimendo la nostra simpatia, ma
    restando nella maggiore riserva in ogni quistione che possa sorgere
    fra i due Stati. Noi desideriamo nella questione orientale poter
    procedere di accordo. Procura a questo titolo di affrettare tuo
    ritorno qui. Le cose si fanno gravi e la tua presenza qui è
    assolutamente necessaria».
    Visita al ministro Glaser - Articolo 3.° del Codice Civile. -
    Procedura - Questioni che vi si rannodano. Accordo per una
    convenzione internazionale.
    Visita al signor Orczy - Articolo 3 - Trattato di commercio.
    Visita a Schönbrunn.
    
    «Caro Crispi,
    
    Ti scrivo da Stradella ove ho potuto arrestarmi per alcune ore: non
    ebbi in questi tre giorni un minuto di libertà. Dopo aver
    assistito all'inaugurazione delle nuove ferrovie venete mi recai a
    Brescia, o per dir meglio in una campagna nelle vicinanze di
    Brescia, per veder Zanardelli:
    ebbi con lui un lungo colloquio, si mostrò decisamente
    avverso all'esercizio governativo e parvemi disposto ad
    assecondarmi. Io non gli tacqui la mia determinazione di non
    presentarmi alla Camera che con le convenzioni stipulate: fra pochi
    giorni Zanardelli, oramai guarito, verrà a Roma ed ivi la
    questione sarà risolta, essendo io in grado di conchiudere da
    un giorno all'altro. Bisognerà però che tu pure ti
    trovi a Roma giacchè se mai nascesse dissenso fra me e
    Zanardelli la posizione diventerebbe gravissima.
    Venendo allo speciale argomento di questa mia lettera che ti ho
    annunciata nel telegramma che ti ho inviato da Padova, non occorre
    che ti preghi che a [Vienna] non bisogna parlare delle tue
    [conferenze] con [Bismarck] ed usare la più grande [riserva].
    Il [partito] [cattolico] è a [Vienna] numeroso e potente e
    non mancherà di stare attento ad ogni tuo passo e di pesare e
    raccogliere ogni tua [parola] per divulgarla. La stampa dei nostri
    [avversarii] cerca di spargere tutte le più [maligne]
    [supposizioni] e sarebbe felice di trovare [nuovi] [pretesti].
    Riguardo alla [conferenza] che avrai con [Andrássy] oltre
    l'art. 3 verrà certamente in discussione il [trattato] di
    [commercio] ed il possibile [ingrandimento] dell'[Austria]
    coll'[annessione] della [Bosnia].
    Sul [trattato] di [commercio] basterà esprimere il nostro
    [desiderio] di riprendere e [condurre] a [termine] i [negoziati]; se
    non si può conchiudere con un [trattato] a lunga [durata] si
    veda almeno di mettersi d'accordo sopra un modus vivendi o
    [trattato] a breve [scadenza] ed in via di esperimento. Le basi del
    [trattato] definitivo furono da noi indicate ad [Haymerle] in un
    memoriale consegnatogli, nel quale abbiamo esposto che ad alcune
    dimande fatteci nei precedenti [negoziati] per esempio l'abolizione
    del dazio d'entrata in Italia sui [cereali] noi non possiamo
    consentire per gravi ragioni di [finanza]. Procura però di
    persuadere [Andrássy] che noi desideriamo vivamente di
    metterci d'accordo su altri [punti] che interessano il [governo]
    d['Austria.]
    Vedi poi di spiegare la [posizione] del nostro [governo] nella
    questione della 9145 [?]
    L'[Italia] ha bisogno di [pace] desidera conservare relazioni
    [amichevoli] coi paesi vicini; le nostre [simpatie] sono per
    [Andrássy] e pel suo [ministero] e pel [partito] liberale che
    lo sostiene, siamo disposti a fare ogni [sforzo] per mantenere le
    [buone relazioni] con lui, ma che non saremmo [capaci] di [dominare]
    la [opinione] in [Italia] in faccia ad un [ingrandimento]
    dell'[Austria] senza [compenso]. Questa è la verità.
    Quello poi che avverrà in [Italia] è difficile
    prevedere, ma è evidente che il [ministero] attuale non
    potrebbe restare al suo posto.
    Converrà, mio caro Crispi, che tu usi molta [moderazione] di
    linguaggio sia per un riguardo alla grande [suscettibilità]
    di [Robilant] sia per non dar ragione al [partito] [cattolico e
    militare] di destare [apprensione] che importa assaissimo di
    evitare: le tue parole siano la [espressione] della franca tua
    [opinione personale]. Quello che ti dirà [Andrássy] ci
    servirà di norma.
    Eccoti, mio caro Crispi, riassunta la mia maniera di vedere che ti
    espongo per debito di coscienza e che forse reputerai [superflua] ma
    tu devi essermi [indulgente] perchè sono ispirato dalla
    gravità della situazione attuale e dal desiderio di nulla
    trascurare che possa riuscire utile al nostro paese.
    Credimi sempre
    
    Tuo aff.mo
    Depretis.
    
    Stradella 10 8bre 1877.»
    
    «Vienna, 15 ottobre 1877.
    
    Caro Depretis,
    
    Siccome ti telegrafai la sera del 13, qui la posizione è
    molto difficile. La stampa, gli uomini politici, il Ministero, la
    Corte, tutti ci sono avversarii. Chi ci abbia creato queste
    antipatie non te lo saprei dire: constato un fatto, il quale
    è della massima importanza.
    Robilant, il quale me ne ha fatto il ritratto, mi diceva che gli
    austriaci ritengono noi causa di tutte le loro sventure. Noi
    destammo lo spirito di nazionalità in queste contrade, e noi
    lo teniam desto con le nostre pretese sull'Illiria e sul Trentino.
    Senza di noi non sarebbe avvenuta la guerra del 1866, il cui
    risultato fu di escludere l'Austria dalla Confederazione germanica.
    Noi potremmo esser causa e dar principio allo sfasciamento
    dell'Impero se insistiamo nel volere il territorio italiano che
    l'impero possiede al di là delle Alpi.
    Io non ho bisogno di rivelarti l'ingiustizia di cotesta accusa.
    Quando si dà corso al sentimento d'interessi inopportuni, i
    giudizii non possono esser sani.
    Così stando le cose, il mio primo ufficio ha dovuto essere di
    calmare le ire e di riconquistare all'Italia le simpatie dei
    liberali austriaci.
    Son venuti a visitarmi i redattori di vari giornali, tra cui il
    proprietario della Neue freie Presse e quello del Tagblatt, che
    hanno la più estesa pubblicità qui e fuori. A tutti
    chiesi il motivo pel quale han fatto da due anni la guerra al nostro
    Ministero. Quello della Presse mi rispose che il motivo era
    perchè il Melegari non ha una politica chiara nella questione
    d'Oriente, anzi dal suo contegno appare che noi parteggiamo per la
    Russia. Tutti poi, dicendosi amici d'Italia e desiderosi di
    mantenere con noi buoni ed amichevoli rapporti, han fatto
    comprendere che diffidano di noi.
    Per la questione orientale ho detto che noi siamo stati e siamo in
    una perfetta neutralità, che non parteggiamo per alcuno dei
    belligeranti, ma siamo dolenti della peggiorata condizione delle
    popolazioni che si vorrebbero redimere. In quanto all'Austria ho
    soggiunto che siamo suoi amici e che vogliamo mantenerci con essa
    d'accordo in tutto ciò che possa giovare ai comuni interessi.
    Su cotesto argomento ho voluto estendermi un poco, ed ho sostenuto
    la tesi del necessario mantenimento e del consolidamento dell'Impero
    dell'Austria, la quale noi riteniamo esser elemento di
    civiltà verso l'Oriente.
    Il proprietario della Neue freie Presse mi promise che ci
    ritornerebbe amico. Con quello del Tagblatt ebbi poco da fare,
    perchè venendo a trovarmi portò con sè un
    numero del suo giornale con un articolo lusinghiero sul conto mio,
    quantunque storicamente non sempre esatto.
    Quando ieri sera mi giunse il tuo telegramma, io era stato dal
    ministro di Giustizia e dal barone Orćzy, quest'ultimo il braccio
    destro del conte Andrássy ed il suo rappresentante al
    Ministero degli Affari esteri. Quasi indovinando il tuo pensiero mi
    ero condotto con loro siccome desideravi. Il Robilant, che fu
    presente
    alla mia conversazione col sig. Orćzy, non potè fare a meno
    di esprimermi la sua completa approvazione.
    Il conte Andrássy è nelle sue terre di Ungheria.
    Alcuni dicono che aveva prorogato di 24 ore la sua partenza,
    aspettando il mio arrivo; altri, al contrario, che aveva anticipato
    la partenza per evitarmi. Il conte Robilant è di avviso che
    nessuna delle due versioni sia esatta.
    Il conte Andrássy sarà a Pesth dopo il 17, ed io
    andando in quella città facilmente potrò vederlo.
    Avendo annunziato il mio divisamento di fare cotesto viaggio ed
    avendone scritto ad amici di colà, i quali me ne avevan
    domandato, non posso cangiar di proposito senza suscitar sospetti e
    dar pretesto a malevoli congetture. Ti assicuro però che il
    mio contegno sarà riservato e che non comprometterò
    punto la nostra politica.
    Immediatamente dopo la gita a Pesth ritornerò in Italia.
    Niente altro che stringerti la mano.
    
    Il tuo aff.mo
    F. Crispi.»
    
    15 ottobre. - Visita del ministro Glaser. Si ritorna a discorrere
    lungamente della convenzione pel godimento dei diritti civili nei
    due Stati. Esecuzione dei giudicati. - Sequestro e questioni di
    merito - Limiti - La deliberazione senza il contraddittorio.
    Carta da visita al Presidente della Camera.
    Alle 7 pom. all'Opera con Robilant.
    
    16 ottobre. - Il Presidente della Camera viene a visitarmi - Si
    discorre della procedura parlamentare.
    A mezzogiorno vado alla Camera. Il vice-presidente Vidulich,
    istriano, m'accompagna. Sopraggiunge il Presidente.
    Visita alle prigioni, alla Corte d'Assisie e al Tribunale.
    Alle 4-1/2 pom. visita al ministro del Commercio.
    
    17 ottobre. - Viene il vice-presidente Vidulich - I comuni in
    Austria - Sistema elettivo - Il Consiglio comunale - La deputazione
    comunale e il podestà elettivo.
    Tre ordini di elettori secondo il censo. Nei comuni con statuti
    proprii il podestà o borgomastro proposto dal Consiglio
    Comunale ed approvato dall'Imperatore. Le Diete provinciali -
    Potestà legislativa per l'amministrazione locale - da essa
    dipende la circoscrizione territoriale.
    
    18 ottobre. - Parto da Vienna alle 8-1/2 ant. Arrivo a Pesth alle
    5-1/2 pom.
    
    19 ottobre. - Visita alle due Camere ungheresi e al Museo.
    
    20 ottobre. - Alle 4.30 pom. visita a Buda al Presidente del
    Consiglio ungherese, signor Tisza.
    - V. E. ha fatto un lungo viaggio. Andrà in Oriente?
    - No, non ho motivo di andarvi. Vienna e Pesth sono le ultime tappe
    del mio viaggio. Avevo così stabilito partendo dal mio paese.
    Prima tesi: Convenzione internazionale pel godimento dei diritti
    civili degli austro-ungheresi in Italia, e degli italiani in
    Austria-Ungheria. In principio non rifiuta, ma senza affermarsi su
    alcuna delle questioni che vi si riferiscono.
    Seconda tesi: Trattato di commercio. Prorogando l'attuale si
    vorrebbero delle facilitazioni per i vini ungheresi. Avendo io
    osservato che iniziandosi una discussione, la proroga potrebbe non
    approdare, Tisza dichiara di voler questa brevissima.
    Terza tesi: Accordo tra i due paesi. Risposta: non tutti la pensano
    come voi nel vostro paese. Osservo che il paese è
    rappresentato dal Parlamento e dal Governo. Il Parlamento è
    interprete legale della pubblica opinione. Serietà del regime
    costituzionale. Tutto in Italia si tratta alla luce del sole:
    questioni militari e internazionali. Potremo essere attaccati, non
    attaccheremo mai - I tre imperatori - Questione Orientale - Al 1854
    il Piemonte profuse sangue e danari.
    - Non fu una cattiva politica.
    - Poichè lo riconoscete, dovete comprendere che non ce ne
    allontaneremo. Del resto, non fu tale quella dell'Austria.
    Dichiarazioni di simpatia per l'Italia.
     Mi congedo alle 5 meno un quarto.
    Il Tisza sembra un presbiteriano. Ha un viso impassibile. Grandi
    lenti gli nascondono gli occhi. Non discute, sentenzia. Delle
    questioni di diritto civile si comprende che capisce poco o nulla.
    Vorrebbe un trattato internazionale europeo. Buono, se fosse
    possibile; ma è posto innanzi perchè non si concluda
    nulla.
    Alle 5 ricevo la visita del ministro di Giustizia e del suo
    sottosegretario di Stato. Il Ministro mi dice:
    «Nous ne voulions pas que vous quittiez Pesth sans que vous
    reste une bonne impression de nous».
    Pranzo dal Presidente Ghyczy; v'intervengono deputati dei varii
    partiti e varii ex-ministri: Szlávy (Jórsef)
    già ministro-presidente - Gorosc, già ministro del
    Commercio, ora presidente del Club della Destra - Simonyi,
    già ministro del Commercio - Szapáry, già
    ministro dell'Interno - Bittò (István), già
    ministro-presidente - Eber, deputato - Wahermann Mór,
    deputato - Csernátory, deputato e direttore dell'Ellenor -
    Falk, deputato e direttore del Pester Lloyd - Zsedénzi,
    presidente della Commissione di Finanza - Pulszky, direttore del
    Museo - Kállay Beni, deputato di estrema destra -
    Hélfy Ignáez, deputato di estrema sinistra, ecc.
    Telegrafo al Re: «Conto essere a Torino il 24. Prego V. M. di
    volermi telegrafare il giorno e il luogo dove potrò vederla.
    Agli ordini di V. M., ecc.».
    Visita ad Andrássy alle 12 e mezza.
    Questione dei diritti civili - Trattato di commercio.
    - Non mi sono allarmato del vostro viaggio a Gastein ed ho lasciato
    dire ai giornali.
    - Non avreste avuto ragione di allarmarvene perchè il
    principe di Bismarck ve ne parlò e vi disse quali erano le
    mie idee. Nulla dissi di cui potreste lagnarvi.
    Mi parla della sua politica con l'Italia - Ultramontanismo - vecchie
    opinioni - non sono nell'interesse dell'Austria-Ungheria. Se fosse
    stato italiano, avrebbe fatto lo stesso. Necessità ora di
    tenersi amici e di non turbare l'accordo con esigenze praticamente
    non attuabili. Non crede ai giornali, convinto della nostra buona
    volontà. Soggiunge:
    - Non sempre il principio di nazionalità è applicabile
    in tutti i luoghi, nè è norma la lingua a stabilire la
    nazionalità; non si fa la politica con la grammatica. La
    nazionalità è stabilita da varii elementi: precede
    innanzi tutto la topografia, e seguono le condizioni economiche che
    valgono ad alimentare la vita delle popolazioni. Prendetevi Trieste,
    se pur noi ve la dessimo, e voi non potreste starvi un giorno:
    sareste maledetti. Ho una nota su tale argomento, che vi farei
    leggere se avessi qui, nella quale svolgo questi concetti. E poi,
    bisogna parlar franco: volete altre terre? Ditelo; è una
    politica che comprendo. È questione....
    - Accordo nei principî. La lingua non è da sola
    argomento di nazionalità, e se noi la prendessimo a norma
    dovremmo inimicarci molti Stati e far la guerra. Ora, la nostra
    è politica di pace. Vogliamo star bene coi vicini, stabilire
    accordi sulla base degl'interessi e rispettare i trattati. - Non
    attaccheremo; ci difenderemmo se fossimo attaccati. Fummo
    rivoluzionarli per fare l'Italia; siamo conservatori per mantenerla.
    Voi solo potete comprenderci, perchè anche voi foste
    rivoluzionario.
    - Fui impiccato in effigie12.
    - Orbene, voi sapete che quando l'indipendenza e la libertà
    di un paese furono acquistate con sacrificii, chi li ha fatti
    cotesti sacrificii non può con audaci avventure mettere in
    pericolo i beni raggiunti. - Fiume - ridicola imputazione; i porti
    sono sbocchi necessarii al commercio; chi li ha, deve possedere il
    territorio donde vengono i prodotti. Di Fiume che potremmo farcene?
    L'opinione pubblica è interpretata dal Parlamento e dal
    Governo. Avete da lagnarvi del loro contegno? È necessario
    che i due Stati siano amici, e i governi d'accordo.
    - Ho fatto sempre cotesta politica e nei sei anni che fui ministro,
    e nei cinque dacchè son Cancelliere - Non mi curo dei
    giornali, nè dei parlamenti - Sfido l'impopolarità, so
    quello che è necessario nell'interesse dell'impero. Una
    politica di ostilità con voi è contraria agl'interessi
    dell'Austria-Ungheria - Finchè sarò ministro non me ne
    distaccherò.
    - Concludiamo da tutto questo. Trattato di commercio, relazioni
    civili.
    - Adagio. La politica ha poco da fare con le relazioni commerciali.
    Sviluppo di questa tesi - Esempio con la Germania.
    - Penso anch'io così; ma guardiamo alle conseguenze. Non dico
    che il trattato di commercio debba farsi ad occhi chiusi. Penso che
    convenga cominciare a trattare per venire ad una conclusione. La
    sospensione delle trattative farebbe cattiva impressione.
    - Così va bene.
    - Accordo sulla questione orientale?...
    - Guerra russo-turca; come finirà. Questione di
    nazionalità anche qui; come scioglierla. Autonomia dei
    bulgari: fin dove - ai Balcani. E degli altri? Questo se vincono i
    russi - Ma se vince la Turchia? Bisogna dunque attendere la fine
    della guerra.
    - Ma giusto allora dobbiamo già esser d'accordo.
    Denari e uomini spesi - Questione rinascente periodicamente -
    necessità di scioglierla per sempre - Impossibile determinare
    il come e se quello che convenga stabilire è lo statu-quo
    territoriale.
    - Ed anche su questo nulla può essere assoluto; bisogna
    attendere il giorno in cui le Potenze si riuniranno a congresso.
    - Va bene. Vorreste però dare un territorio alla Russia?
    - Questo no, ma per ogni altro riordinamento bisogna rimettersi al
    giorno opportuno.
    - Benissimo. Anche su questo desideriamo esser d'accordo con voi.
    
    Alle 3.30 da Helfy.
    Ricevo questo telegramma, in risposta al mio di stamane:
    «Je vous prie de venir loger à mon palais à
    Turin. Mercredi je vous ferai dire heure que j'aurai le plaisir vous
    voir. Bien des amitiés.
    
    Victor Emmanuel.»
    
    Alle 9.30 partenza per Vienna.
    
    22 ottobre. - Arrivo a Vienna alle 6 del mattino. Alle 9 pom. sono
    alla frontiera.
     23 ottobre. - Alle 7 a Verona.
    A Torino. Conferenza col Re.
    
    «Napoli, 30 ottobre 1877.
    
    Caro Depretis,
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Spero che non avremo la guerra, ma siccome non possiamo noi
    arrestare il corso degli avvenimenti europei, ed abbiamo bisogno che
    l'Europa ci ritenga essere abbastanza potenti da far valere la
    nostra forza in caso di complicazioni in conseguenza della guerra
    d'Oriente, è giuocoforza tenersi pronti ad entrare anche noi
    in campagna. Su questo, amico mio, non ho parole per ripeterti che
    l'Italia deve, con qualunque sacrifizio, compiere i suoi armamenti.
    All'estero siamo considerati quale popolo prudente e savio, ma non
    tutti ci credono forti abbastanza.
    A me Andrássy non lo accennò, ma Robilant mi disse che
    ragionando col Cancelliere austro-ungarico, questi in tutte le
    questioni territoriali avrebbe sempre risposto che l'Impero era
    pronto a farle decidere con le armi.
    È quindi interesse di patria di tenerci in condizioni da
    poter dire anche noi di poter ricorrere alle armi se tale debba
    essere la sorte cui ci spinge l'avversario.
    È il solo modo con cui potremo evitare la guerra.
    Quando rifletto che fino dal 1870 io chiedeva al Ministero di destra
    di armare la nazione in previsione di grandi avvenimenti, e che non
    fui ascoltato, ne sento doppio dolore.
    Ma oggi siamo noi al governo, e se qualche disgrazia avvenisse, i
    nostri avversarii direbbero subito che non abbiamo saputo fare il
    debito nostro. Mettiamoci dunque con ogni zelo all'opera, facendo
    tutto ciò che possa essere necessario.
    Prego di telegrafarmi, e ti assicuro che mi avrai sempre con te in
    tutto ciò che possa fare il bene del nostro paese.
    Spero che con Zanardelli finirai per metterti d'accordo.
    Quella delle ferrovie è una quistione anche essa capitale, e
    che bisogna in un modo qualunque risolver presto.
    In caso di guerra bisogna aver riordinato le grandi linee di
    comunicazione tra le varie parti d'Italia. Zanardelli è un
    gran patriota e deve comprendere quale responsabilità pesi su
    lui. Non deve passare il mese di dicembre senza essersi ricostituito
    questo ramo di pubblico servizio. È impossibile lasciare
    più a lungo le ferrovie dell'Alta Italia in potere della
    Südbahn. Quantunque il Direttore sia di tua fiducia, esso
    è costretto ad ubbidire ad una Società non amica. La
    quistione, a mio modo di vedere, non è solamente finanziaria,
    ma eminentemente politica.
    Se tu parlando col ministro dei Lavori pubblici, toccherai questa
    corda, son sicuro che riuscirai.
    
    Il tuo affmo
    F. Crispi.»
    
    
    Capitolo Secondo.
    
    La politica estera dell'Italia dal 1878
    alla Triplice Alleanza.
    
    Il conte Corti respinge la proposta di accordi segreti con
    l'Inghilterra alla vigilia del Congresso di Berlino. - Come la
    Francia ottiene carte blanche per Tunisi. - La politica
    dell'isolamento. - Causa l'irredentismo l'Austria minaccia di
    passare la frontiera. - La francofilia di Benedetto Cairoli non
    evita l'occupazione francese della Tunisia. - Storia documentata
    dell'impresa tunisina e del disinteressamento dell'Inghilterra. -
    L'Italia avrebbe allora potuto occupare la Tripolitania. - Disillusi
    della Francia, ci rivolgiamo alla Germania. - Prodromi della
    Triplice Alleanza. - Il conte Maffei. - Il trattato del 20 maggio
    1882.
    
    Il viaggio dell'on. Crispi se fu salutato con grande fervore in
    Germania, insospettì il governo francese e la sua stampa, che
    videro profilarsi sull'orizzonte un'alleanza italo-germanica. Il
    Figaro faceva rilevare in un suo articolo "M. Crispi à
    Berlin" le accoglienze straordinarie fatte all'uomo di Stato
    italiano, le frasi più significative dette dal presidente
    Bennigsen nel suo discorso al pranzo parlamentare del 23 settembre;
    e tra le altre sottolineava quella che "i due popoli - italiano e
    tedesco - avevano gli stessi nemici da combattere". Anche in Italia
    la stampa del partito moderato si propose di togliere valore alle
    manifestazioni di Crispi; il quale, sebbene presidente della Camera
    dei deputati, - scriveva la Gazzetta d'Italia - non rappresentava
    che questa, cioè una impercettibile minoranza: "la Camera
    è eletta da 300 mila elettori e gl'italiani sono 27 milioni!"
    E l'Opinione, il più autorevole giornale dei moderati,
    giungeva (3 ottobre) a rimproverare al governo italiano di mantenere
    buone relazioni col gabinetto di Berlino "a spese della nostra
    dignità"! Del qual giudizio si risentiva il buon ambasciatore
    di Launay, che scriveva a Crispi: "Questa poi è troppo forte.
    Il rimprovero ricade in parte sul rappresentante in Germania di
    questa politica.... Scrissi al Melegari di fare ribattere con
    energia quelle accuse".
    In verità, l'on. Crispi in quella sua escursione attraverso
    l'Europa aveva perorato efficacemente per i diritti d'Italia,
    ravvivato simpatie e gettate le basi di una politica la quale, se
    fosse stata seguita con diligenza e lealtà, avrebbe evitato
    al nostro paese i danni e le offese che raccolse dappoi da ogni
    lato. Trovò la vecchia Austria ancora viva, e arcigna; e
    comprese esser lontano il giorno di una amicizia italo-austriaca
    sincera e duratura. Ma in Germania quello era il momento per
    un'alleanza coll'Italia: l'opinione pubblica ben disposta e il
    principe di Bismarck ancora senza altri impegni. Egli voleva
    procedere d'accordo con l'Austria; ma ad un'alleanza con essa non
    pensò che dopo il Congresso di Berlino per rispondere alle
    minacce dei panslavisti, e non vi giunse che nel 1879, dopo molti
    sforzi per convincere l'imperatore Guglielmo13. A prescindere da
    ogni altro vantaggio morale, politico ed economico, l'alleanza
    italo-germanica ci avrebbe garantito al Congresso di Berlino; non
    avrebbe impedito probabilmente l'alleanza austro-germanica, ma
    l'Austria, non l'Italia, sarebbe entrata terza nel sistema di
    alleanze della Germania, e avremmo evitato la mortificazione che nel
    1882 ci fu imposta di passare da Vienna per giungere a Berlino;
    infine, la Francia non avrebbe avuto nel 1878 carte blanche per
    occupare Tunisi e non avrebbe osato infliggerci quella umiliazione
    abusando del diritto del più forte.
    Il Re e il Presidente del Consiglio convennero nel nuovo indirizzo a
    darsi alla politica internazionale dell'Italia; il 29 dicembre 1877
    l'on. Crispi entrava nel Ministero Depretis, come ministro
    dell'Interno. Ma, sventuratamente, Vittorio Emanuele si ammalava di
    lì a pochi giorni, e moriva il 9 gennaio. I funerali del
    primo re d'Italia, i primi atti del re Umberto, poi la morte del
    papa Pio IX e il Conclave di Leone XIII assorbirono
    l'attività ministeriale. Quando si avvicinava il momento di
    rivolgere la mente agli accordi presi a Gastein col principe di
    Bismarck, l'on. Crispi cadeva vittima di un turpe complotto, che, in
    nome della morale, uomini di pochi scrupoli morali nella vita
    pubblica come nella privata, architettarono con grande
    abilità trovando facile credito nel pubblico politico, avido
    in tutti i tempi di scandali e di esecuzioni. L'on. Crispi, il
    quale, toccando l'accusa intime sue circostanze famigliari, si
    limitò a difendersi dinanzi al magistrato - ottenendo da esso
    il riconoscimento della legalità della sua condotta - dovette
    rinunziare con indicibile dolore a rendere alla patria i servigi
    ch'era sicuro di poterle rendere.
    E il cruccio per il male che i suoi nemici irrimediabilmente avevano
    fatto più all'Italia che a lui, non lo abbandonò mai.
    Da un suo diario del 1896, nel quale è riferito un colloquio
    avuto il 26 ottobre col presidente del Senato, Domenico Farini,
    trascriviamo:
    (Crispi al suo interlocutore)
    
    - «Siccome sai, al 1878 fu stabilita la convocazione di un
    Congresso a Berlino, e l'Italia dovette mandarvi il suo
    rappresentante. Allora, come oggi, ero maltrattato dai miei
    avversarii. Gli attacchi personali, però, non mi fecero
    dimenticare gl'interessi della patria nostra. Vidi Bertani, e
    parlandogli del mio viaggio nei vari Stati d'Europa, e della nostra
    situazione all'estero, lo pregai di veder Cairoli e di consigliargli
    a leggere la mia corrispondenza epistolare e telegrafica, e poscia
    di avere un colloquio con me. Nelle cose internazionali non tutto si
    scrive, e però molto avrei potuto aggiungere allo scritto. Lo
    crederesti? Cairoli non volle leggere la mia corrispondenza,
    nè avere un colloquio con me! Bertani, indignato, se ne
    partì, ed a Berlino invece di combattere la proposta
    occupazione della Bosnia e della Erzegovina da parte dell'Austria,
    la favorirono.»
    
    Le dichiarazioni fatte nel colloquio del 5 ottobre da Crispi a lord
    Derby in nome dell'Italia, furono seme gettato in terreno propizio.
    Non supponendo il governo britannico che la politica estera in
    Italia fosse mutevole come giuochi di fanciulli, nei primi giorni
    del marzo 1878 lord Derby offriva uno scambio di idee sugli
    interessi comuni anglo-italiani nel Mediterraneo. L'onorevole
    Depretis accettò con premura l'offerta, tanto che il generale
    Menabrea, ambasciatore a Londra, gli telegrafava il 9 marzo:
    
    «Conformemente al telegramma di V. E. in data di ieri, ho
    incominciato a intrattenere Derby su gli affari di Egitto, di
    Tripoli e di Tunisi. Egli mi ha detto essere evidente che l'Italia e
    l'Inghilterra avevano interessi comuni nel Mediterraneo, e che
    desiderava su tale argomento uno scambio di idee, riservandosi di
    riparlarne.»
    
    Il 13 marzo Menabrea telegrafava nuovamente:
    
    «... Derby mi ha ripetuto che desiderava intendersi con
    l'Italia sulle questioni relative al Mediterraneo e che aveva
    incaricato Paget [ambasciatore britannico a Roma] di fare su tale
    oggetto delle aperture a V. E.»
    
    Il 16 marzo il gen. Menabrea insisteva:
    
    «... Il conte Derby sembra fare assegnamento sull'Italia per
    difendere gli interessi comuni nel Mediterraneo e nel Mar Nero. Egli
    mi disse di avere dato incarico a sir A. Paget di fare delle
    aperture in quel senso all'E. V. stessa, come l'E. V. lo suggeriva
    col suo telegramma dell'8 marzo corrente.»
    
    Il ministero degli Affari Esteri taceva dal giorno 8. Depretis si
    era dimesso il 9; la crisi ministeriale si chiuse il 24 con la
    nomina di Benedetto Cairoli alla presidenza del Consiglio.
    Finalmente Roma rispose. Il conte Corti, preso possesso dell'ufficio
    di Ministro degli Affari Esteri il 26, due giorni dopo non esitava a
    respingere la mano offertaci dall'Inghilterra, con la seguente
    incredibile lettera nella quale, non si comprende perchè,
    limitava al mar Nero e agli Stretti il campo degli accordi proposti
    anche per il Mediterraneo:
    
    «Roma, 28 marzo 1878.
    
    Signor ambasciatore,
    
    È venuto oggi da me l'ambasciatore d'Inghilterra, e, per
    incarico avutone dal suo governo, mi ha fatto la comunicazione che
    già V. E. aveva annunciato.
    In previsione dei mutamenti che la presente guerra può
    arrecare nell'equilibrio di forze finora mantenutosi in ordine alle
    comunicazioni tra il Mediterraneo e il Mar Nero, i governi
    più immediatamente interessati in quelle acque dovrebbero,
    secondo il pensiero del governo della Regina, essere concordi nel
    considerare la preservazione, per tale rispetto, dei loro interessi
    commerciali e politici, nel Mar Nero e negli Stretti, e, in
    conseguenza, qualsiasi atto che miri a violare quegli interessi,
    siccome questione di generale portata; e però di tempo in
    tempo, per quanto la cosa riesca praticamente possibile, dovrebbero
    procedere ad accordi circa le misure che fossero per essere
    necessarie per la preservazione di quegli interessi.
    Ho risposto a sir Augustus Paget che il governo del Re annette molto
    pregio a tenersi col governo Britannico nelle più cordiali e
    intime relazioni; che senza dubbio l'Inghilterra e l'Italia hanno,
    in materia di commerci, degli interessi comuni per ciò che
    concerne il regime degli Stretti e del Mar Nero; che saremo quindi
    sempre lieti di ricevere e di prendere nella più seria
    considerazione le comunicazioni e le avvertenze che il governo della
    Regina fosse per farci pervenire in proposito; che, però, il
    governo di Sua Maestà non stimerebbe di poter prendere, a
    tale riguardo, degli impegni che possano condurlo ad una azione.
    Della comunicazione fattami dall'ambasciatore britannico e della mia
    risposta, mi giova pigliar nota in questo mio dispaccio destinato a
    personale informazione dell'E. V. Gradisca ecc.
    
    L. Corti.»
    
    Dinanzi alla inconsistenza della politica italiana, lord Derby - il
    quale aveva probabilmente fatto assegnamento sull'Italia per la
    riuscita del suo piano diplomatico, dove, secondo la promessa fatta
    all'on. Crispi, era certamente la garanzia degli interessi italiani
    dinanzi al ventilato ingrandimento dell'Austria, - dovette pensare
    molto male dei "nipoti di Machiavelli", e si affrettò a
    dimostrarsi zelante degli interessi... austriaci. Tantocchè
    al Congresso riunitosi il 13 giugno di quell'anno 1878 in Berlino,
    nella seduta del 28 giugno fu uno dei plenipotenziarii inglesi, lord
    Salisbury, quello che "esaminata la gravità delle condizioni
    della Bosnia e dell'Erzegovina, e l'impossibilità nella
    Turchia di farvi fronte", propose che "quelle due provincie fossero
    occupate militarmente e amministrate dall'Austria-Ungheria".
    E il principe di Bismarck - che forse aveva invano atteso chi gli
    continuasse i discorsi fattigli in nome del Re d'Italia dall'on.
    Crispi a Gastein e a Berlino - si affrettò ad associarsi, in
    nome della Germania, alla proposta del marchese di Salisbury.
    L'Italia era assente; e il conte Corti che la rappresentava al
    Congresso, non seppe neppure tacere. Chiese al plenipotenziario
    austriaco, Giulio Andrássy, "se era in grado di fornire sulla
    combinazione proposta qualche ulteriore spiegazione dal punto di
    vista dell'interesse generale dell'Europa". E lo Andrássy non
    rispose alla vana domanda, ma disse semplicemente "essere convinto
    che il punto di vista europeo, che aveva ispirato il governo
    austro-ungarico, sarebbe stato apprezzato dal gabinetto italiano,
    come era stato apprezzato dagli altri gabinetti".
    Non mancò neppure l'adesione della Francia. Il primo
    plenipotenziario di quella potenza, il signor Waddington, espresse
    l'opinione che "la combinazione indicata dal gabinetto inglese era
    la sola che assicurasse un'esistenza tranquilla alle popolazioni
    della Bosnia e della Erzegovina, e che l'intervento
    dell'Austria-Ungheria dovesse considerarsi come una misura di
    polizia europea".
    Quest'adesione non poteva mancare. Come l'Inghilterra ebbe l'isola
    di Cipro - con una convenzione stipulata con la Turchia
    precedentemente al Congresso (4 giugno) - la Germania cercò
    il suo vantaggio nel salvaguardare gl'interessi della Russia e
    accaparrarsene la riconoscenza - e l'Austria-Ungheria ebbe la Bosnia
    e l'Erzegovina, - così la Francia, negli accordi del
    retroscena, ebbe concessa la facoltà di occupare la Tunisia
    quando avesse voluto.
    La concessione di questa facoltà - la quale spiega l'ambigua
    condotta tenuta nella questione tunisina dal gabinetto inglese,
    dinanzi alle rimostranze dell'Italia - è stata per molti anni
    affermata e negata. Ma dubitare di essa non si può
    più.
    Il Gambetta - lo scrisse il gen. Cialdini il 26 giugno 1880 -
    "rammentò come all'indomani del trattato di Berlino la
    Francia fosse consigliata dal principe di Bismarck, fosse spinta,
    eccitata da lord Beaconsfield, a prendersi Tunisi, senza che la
    Germania e l'Inghilterra si preoccupassero punto nè poco
    delle aspirazioni e delle convenienze italiane".
    Il Waddington stesso ebbe cura di vantarsi di quella concessione,
    come di un grande successo della sua carriera. Ciò è
    ben messo in luce nella lettera che segue dell'ambasciatore
    Tornielli all'on. Crispi:
    
    «Londra, 9 gennaio 1894.
    
    Nella campagna elettorale che riuscì sfortunata per il sig.
    Waddington, questi, giustificando l'operosità sua a
    prò della Francia nel servizio diplomatico, addusse in una
    lettera pubblicata nei giornali, fra gli altri titoli di merito, lo
    aver egli durante il Congresso di Berlino e mediante una segreta
    stipulazione con l'Inghilterra, ottenuto per la Francia «carte
    blanche» a Tunisi, sicchè potè essere più
    tardi stabilito il protettorato francese senza che occorresse alcun
    incidente europeo.
    Mentre era al governo lord Salisbury, quando io, in obbedienza alle
    insistenti istruzioni del R. governo, dovetti ripetutamente urtarmi
    contro le evasive sue risposte alle nostre comunicazioni intese a
    conseguire che il Gabinetto di Londra s'interessasse al par di noi
    nella questione di Biserta, non mancai di riferire che, a parer mio,
    questo ministro britannico che era stato plenipotenziario al
    Congresso di Berlino, doveva essere trattenuto in questa questione
    dai personali impegni colà presi appunto col sig. Waddington.
    Quelle che erano supposizioni, suggerite dal singolare contegno di
    lord Salisbury, divennero in me quasi una certezza durante un
    colloquio avuto con lord Rosebery nel luglio 1893, quando
    incidentalmente S. S. affermavami che l'occupazione della Tunisia
    per parte della Francia era stata, tra questa e le altre potenze,
    regolata all'epoca del Congresso di Berlino.
    La lettera recente del sig. Waddington ai suoi elettori toglie di
    mezzo ogni incertezza. Non è l'antico ambasciatore francese a
    Londra persona tale da equivocare nell'uso di parole delle quali
    perfettamente conosce il proprio significato ed il valore. Non ho
    veduto il testo francese del suo scritto, ma ne ho sotto gli occhi
    la versione inglese data dal Times: «Finally, by a secret
    stipulation with England, I obtained carte blanche for France in
    Tunis, which later on permitted us to establish there our
    protectorate without the occurrence of any european incident».
    Se il sig. Waddington ha scritto che una stipulazione segreta ha
    avuto luogo con l'Inghilterra, ciò vuol dire che un impegno
    scritto esiste. E le ultime parole da lui adoperate indicherebbero
    che altre Potenze dovrebbero averne avuta notizia senza muovere
    contro la medesima alcuna obiezione. Questa interpretazione sarebbe
    conforme a ciò che lord Rosebery ebbe a dirmi
    occasionalmente.»
    
    È da notarsi che i plenipotenziarii italiani a Berlino ebbero
    un vago sospetto di accordi altrui relativi alla Tunisia, stipulati
    o in via di stipulazione. Infatti il 18 luglio 1878, cinque giorni
    dopo la firma del trattato, l'ambasciatore di Launay telegrafava a
    Roma:
    
    «Il serait prudent d'avoir l'œil ouvert à Paris
    relativement à des combinaisons éventuelles se
    rattachant à Tunis.»
    
    Questo avvertimento, trasmesso all'ambasciatore a Parigi,
    irritò questi, ch'era il general Cialdini, il quale rispose
    il 18:
    
    «En réponse à votre télégramme
    d'avant-hier soir concernant la question de Tunis, j'envoie
    aujourd'hui à V. E. nouveau rapport aussi rassurant que
    possible. Je prie de faire savoir à S. E. l'ambassadeur de S.
    M. à Berlin qu'il serait prudent d'avoir l'œil ouvert sur le
    prince de Bismarck relativement à des combinaisons
    éventuelles se rattachant à la Hollande.»
    
    L'ironia del gen. Cialdini era fuor di luogo, perchè la
    combinazione relativa alla Tunisia era un fatto reale; ma non a
    Parigi bisognava tener gli occhi aperti, siccome consigliava il di
    Launay: sarebbe stato, invece, più opportuno averli tenuti
    aperti a Berlino.
    Il conte di Launay, il quale, se non un'aquila, era un diplomatico
    zelante, cercò di approfondire il mistero. Le informazioni,
    però, a lui fornite dai suoi colleghi, glielo resero
    impenetrabile.
    L'ambasciatore inglese, lord Odo Russell, gli disse che "le idee
    della Francia per una presa di possesso della Tunisia, o almeno per
    un protettorato, avevano fatto notevoli progressi, e che bisognava
    badare a non lasciarsi sorprendere dagli avvenimenti"; il sig.
    Radowitz espresse l'opinione che delle "insinuazioni" fossero state
    fatte al sig. Waddington, il quale aveva "décliné
    d'entrer en pourparlers, même académiques".
    Cosicchè, facendo delle ipotesi per non potersi fondare sul
    sodo di notizie sicure, il di Launay argomentava che dal suo stesso
    punto di vista l'Inghilterra doveva desiderare che l'Italia, a
    preferenza della Francia, si rafforzasse nel Mediterraneo, e che
    eziandio la Germania avrebbe preferito che la Tunisia cadesse in
    mani italiane, anzichè in mani francesi. Quindi, niente
    paura. "È evidente - concludeva - che noi non potremmo
    consentire che la Reggenza divenisse provincia francese per essere
    all'occorrenza base d'operazione, sia ad organizzare insurrezioni
    nel nostro territorio, sia per paralizzare, in caso di guerra, i
    nostri movimenti nel Mediterraneo. La Francia ci stringe di
    già abbastanza con la Savoia, Nizza, l'Alto Delfinato, la
    Corsica, ecc., perchè possiamo consentire a farle prendere
    altre posizioni strategiche a nostro danno".
    
    La politica seguita dall'on. Benedetto Cairoli - che fu presidente
    del Consiglio quasi ininterrottamente dal marzo 1878 al maggio 1881
    - mantenne l'Italia nell'isolamento. Le simpatie del Cairoli
    volgevano verso la Francia; ma mentre egli non otteneva
    ufficialmente che il governo di quel paese tenesse in equa
    considerazione gl'interessi italiani, mantenendo intelligenze e
    avendo quasi degli occulti compromessi con le individualità
    più spiccate del partito repubblicano non al potere, faceva
    gran conto di costoro, che facilmente, appunto perchè senza
    responsabilità pubblica, largheggiavano in proteste di
    amicizia. Di fronte all'Austria, egli, appartenente a famiglia
    lombarda nobilissima per patriottismo, non seppe, salendo al
    ministero, spogliarsi dei ricordi delle lotte passate e considerare
    l'ufficio con la serenità fredda e obbiettiva dell'uomo di
    Stato. Non risulta che egli facesse dell'irredentismo stando al
    governo; ma molti, i quali pubblicamente gli si dicevano amici,
    erano irredentisti militanti, e il complesso della sua azione
    accennava per lo meno a tolleranza verso le agitazioni
    anti-austriache, mentre il partito costituzionale e la stampa sua
    non reagivano con un vigore apprezzabile.
    Quelle agitazioni, invero, fecero all'Italia molto male; e non erano
    serie, sia che gli irredentisti pensassero alla possibilità
    di strappare all'Austria le Provincie italiane con le armi in pugno,
    sia che immaginassero di rivendicarle coi clamori. Ci fecero molto
    male anche perchè popolarizzarono in Austria il concetto che
    la lotta all'irredentismo italiano si identificava con la difesa dei
    principii sui quali poggia la saldezza dell'Impero, e resero,
    quindi, più difficile una futura consensuale rettifica delle
    frontiere, che ogni patriota italiano deve desiderare.
    Crispi pensò sempre che l'Italia avesse sommo interesse ad
    ottenere le sue frontiere naturali; ma ritenne che incombesse alla
    diplomazia il definire la questione, e che gl'irredentisti non
    ottenessero altro scopo che quello di rinviare all'infinito tale
    definizione.
    Fu denunziato più volte a Vienna e a Berlino che
    l'irredentismo in Italia, come certe manifestazioni panslaviste in
    Russia, erano macchine da guerra montate dal partito d'azione
    francese, - delle quali le polizie austriaca e tedesca pretesero di
    aver sorpreso le fila, tese specialmente nelle nostre loggie
    massoniche - allo scopo d'inimicare l'Italia all'Austria e alla
    Germania, anche suscitando in Italia un movimento repubblicano con
    tendenze irredentiste per paralizzare l'Austria e renderne
    l'alleanza inutile alla Germania. Per una strana e infelice
    coincidenza, quella denunziata propaganda in Italia del partito
    d'azione francese si svolgeva mentre la politica della Consulta
    sembrava considerasse l'Austria come una nemica naturale nostra e
    delle subnazionalità del Danubio e dei Balcani. E le
    diffidenze del governo di Vienna non poterono mancare. Esse dettero
    giorni molto amari alla Consulta. In settembre 1879 il colonnello
    Haymerle, già addetto militare all'ambasciata austriaca
    presso il Quirinale retta da suo fratello, espose in un opuscolo
    intitolato «Italicae res» gli argomenti secondo i quali,
    dal punto di vista austriaco, l'irredentismo era fondato sull'errore
    e doveva avere l'Austria irremovibilmente avversa. Questa
    pubblicazione suscitò polemiche senza fine. Poco dopo, nei
    primi del 1880, irritò grandemente l'Austria il fatto che ai
    funerali del generale Avezzana, presidente dell'Irredenta, due
    ministri e un segretario generale avevano retto i cordoni del
    feretro insieme al sig. Matteo Imbriani, fanatico irredentista. Non
    soddisfatto delle spiegazioni date dall'on. Cairoli, il governo
    austriaco assunse un'attitudine minacciosa. Il 31 marzo il Comando
    del III Corpo d'Armata a Verona informava il ministero di truppe
    raccolte alla frontiera sotto il comando dell'arciduca Alberto; ve
    ne erano a Bezzecca, a Pieve di Ledro e a Riva; l'arciduca era ad
    Arco col suo Stato Maggiore. Il 10 aprile l'ambasciatore a Vienna,
    conte di Robilant, avvertiva che l'avvicinamento delle truppe
    austriache nel Tirolo doveva considerarsi come una minaccia.
    Gl'incidenti sollevati ad ogni momento continuarono a tenere accesi
    gli animi per tutto il 1880 e oltre. Il 14 aprile il deputato
    Cavallotti fu espulso da Trieste; in giugno l'Austria disapprovava
    la conversione dei beni del Collegio di Propaganda Fide, ritenendo
    questo come un'associazione internazionale; in agosto si opponeva
    alla concessione di decorazioni italiane a cittadini del Tirolo e di
    Trieste; in ottobre protestava contro la deliberazione del Comitato
    dell'Esposizione Nazionale di Milano pel 1881, di ammettere
    espositori delle provincie di lingua italiana appartenenti
    all'Impero. E altri incidenti che non giova ricordare si
    verificarono finchè l'on. Cairoli tenne la direzione del
    Governo e della politica estera, cioè sino alla fine di
    maggio 1881.
    L'on. Cairoli cadde dal potere in seguito al protettorato imposto
    dalla Francia alla Tunisia; la sua inabilità, che poteva
    condurci ad una guerra contro l'Austria, ci condusse, invece, ad un
    disastro morale e politico nel campo ch'egli prediligeva.
    
    La spinta data alla Francia a rivolgere la sua attività verso
    la Tunisia, fu molto abile; fatalmente, il principe di Bismarck
    allontanava dall'Europa lo spirito ambizioso dei francesi. I quali,
    nonostante considerassero dapprima l'offerta come un inganno, e come
    un delitto il distrarre energie e pensare ad altro che non fosse la
    rivendicazione dell'Alzazia e della Lorena, si compiacquero poco
    alla volta di trovare in Africa un compenso materiale e un
    temporaneo conforto morale alle sconfitte subite; e forse qualcuno,
    chissà? pensò alle nuove forze che la Francia avrebbe
    trovate nell'Africa da gettare un giorno sulla bilancia dei destini
    d'Europa. In un rapporto del 18 luglio 1878, l'ambasciatore Cialdini
    scriveva:
    
    «Conviene riconoscere essere divenuto un dogma repubblicano
    (almeno per ora) che la Francia non debba permettersi conquista od
    annessione alcuna, prima di avere rivendicate e ricondotte alla
    repubblica le perdute Provincie dell'Alsazia e della Lorena.»
    
    Se la Francia avesse badato soltanto a non offendere le
    suscettibilità e gl'interessi italiani, la Tunisia sarebbe
    ancora aperta alla libera attività delle due nazioni. Ma alla
    Francia premevano sopratutto le ragioni della sua efficenza
    internazionale e della sua potenza. Che pretendeva l'Italia, isolata
    ed inerme? Che la Francia ansiosa di dominio, vedendo la via libera
    da ostacoli materiali, si astenesse per considerazioni di
    equità e di simpatia verso un giovine Stato sorto
    inopportunamente, che si atteggiava a suo rivale? Questo potè
    pensarlo chi della politica internazionale aveva un concetto
    puerile. Spettava al governo italiano, il quale vide nascere il
    pericolo e potè seguire, sulle diligenti informazioni del
    generale Cialdini, l'evoluzione dell'opinione francese circa
    l'utilità di quell'impresa, di prevenirla, di assicurare lo
    statu quo del Mediterraneo mediante le alleanze alle quali ricorse
    troppo tardi.
    L'on. Cairoli non ha scusa poichè dal 1878 al 1881 fu tenuto
    esattamente al corrente delle intenzioni del gabinetto francese
    rispetto a Tunisi.
    In un primo periodo fu riconosciuto formalmente dalla Francia il
    diritto dell'Italia a non essere chiusa nel suo mare, e il Cialdini
    riferiva il 19 agosto 1878 le seguenti dichiarazioni del signor
    Waddington, ministro degli Affari esteri e di Gambetta:
    
    «Che la questione di Tunisi non era mai stata posta sul
    tappeto e che non se n'era nemmeno parlato a guisa di passeggera
    conversazione nel Consiglio di ministri.
    Aggiunse che se in seguito alla posizione fatta alle Potenze
    mediterranee dal Congresso di Berlino e sovratutto dal trattato
    anglo-turco, sorgesse la necessità o la convenienza di
    prendere qualche misura di precauzione nel bacino del Mediterraneo a
    tutela degli interessi francesi, non si farebbe nulla, assolutamente
    nulla, senza previo e completo accordo con l'Italia. Aggiunse che a
    parer suo, si perde sovente in profondità ed in forza
    ciò che si guadagna in estensione e superficie; che Algeri
    è un inciampo, un peso, una debolezza per la Francia; quindi
    essere egli personalmente contrario all'acquisto di Tunisi.
    Pur tuttavia - seguitò - l'avviso altrui potrebbe prevalere,
    ma io vi dò la parola d'onore che sino a quando io
    farò parte del governo francese, nulla di simile sarà
    tentato, nessuna occupazione avrà luogo di Tunisi o di altro
    punto, senza andare di concerto con voi, senza prima riconoscere il
    diritto che avrebbe l'Italia di occupare un altro punto d'importanza
    relativa e proporzionata.
    Ieri al tardi venne da me il sig. Gambetta, al quale io desiderava
    parlare nuovamente su questo argomento. Egli mi rinnovò con
    maggior calore ed espansione le assicurazioni già datemi
    tempo addietro, che il governo francese attualmente al potere ed il
    partito repubblicano che lo sostiene, non avevano pensato mai
    all'occupazione di Tunisi; cosa che non entrava punto nelle loro
    viste. E se mai arrivasse giorno in cui fossero condotti ad
    occuparsi di un simile progetto, essi si porrebbero anzitutto
    d'accordo coll'Italia, non potendo convenire alla Francia di farsene
    una nemica irreconciliabile; mi pregò di dire al governo del
    Re che, a parer suo, fra i vari risultati del Congresso di Berlino
    spicca la necessità di unirsi sempre più, massime poi
    sulle questioni orientale e mediterranea.
    Le dichiarazioni somigliantissime di questi due uomini politici mi
    sembrano rassicuranti, perchè mi sembrano sincere.»
    
    In un secondo periodo ferve a Tunisi la lotta d'influenza; due
    consoli bellicosi, Roustan e Macciò, si disputano il terreno.
    Col gen. Cialdini, il 26 giugno 1880 il presidente della Repubblica,
    Grévy, deplorava che la questione di Tunisi - la quale,
    secondo lui, non valeva un sigaro da due soldi - potesse divenire
    cagione di dissidio; e il ministro Freycinet si augurava di poter
    conciliare i desideri italiani con gl'interessi della Francia. Ma
    Leone Gambetta "forse più franco, certamente più
    chiaro", diceva l'Italia non dovere contrastare l'influenza francese
    in Tunisia. Non voleva essa tener conto della prudenza e della
    moderazione di cui la Francia dava prova astenendosi dal prendersi
    un paese offertole da tutte le Potenze?
    L'on. Cairoli credette che a trattenere la Francia, sulla via nella
    quale ora non più involontariamente procedeva, bastassero le
    dichiarazioni sentimentali sulla fratellanza dei due popoli, le
    proteste delle sue pure intenzioni, la minaccia di mutare indirizzo
    politico. Codesti argomenti verbali non fecero alcuna impressione;
    ma la sollecitudine, invece, dimostrata dal Cairoli per il tronco di
    ferrovia Tunisi-Goletta e per il cavo telegrafico Sicilia-Tunisi,
    cioè per due iniziative non private, ma in realtà del
    governo italiano e tali quindi da dare a questo una maggiore
    influenza politica, quella sì che fece impressione, anzi
    allarmò la Francia, la quale andava abituandosi a considerare
    prevalenti i propri interessi nella Reggenza. E così il
    Freycinet, il 9 luglio 1880, modificò le dichiarazioni fatte
    il 19 agosto 1878 da Waddington: "La Francia non pensa ora ad
    occupare Tunisi, ma l'avvenire sta nelle mani di Dio". E
    rifiutò di consentire alla concessione da parte del Bey della
    posa di un cavo diretto indipendente tra Tunisi e la Sicilia.
    
    La esclusività dell'influenza francese divenne nel terzo
    periodo lo scopo del gabinetto di Parigi. Si era ancora lontani
    dalla decisione di un'azione militare, ma era entrata in azione una
    gran forza, l'opinione pubblica; la quale, aizzata dalla stampa,
    finì con l'esercitare un'azione determinante sul Governo. Gli
    speculatori non mancarono di ispirare i sentimenti che dividono e
    furono denunziati anche alla Camera francese; si disse anche che
    individualità spiccate, le quali circondavano il Gambetta, si
    preoccupassero di far denaro. Pochi pubblicisti, come Mad. Adam,
    tentarono a Parigi di opporsi alla corrente, non riuscendo ad altro
    che a farsi accusare di poco patriottismo.
    Prevedendo che un giorno o l'altro sarebbe stato spinto ad occupare
    la Tunisia, il Freycinet si preoccupava naturalmente delle
    conseguenze di tal fatto. Il 25 luglio 1880 il nostro ambasciatore
    era in visita presso di lui, quando ad un tratto il Freycinet gli
    disse:
    
    «Ma perchè vi ostinate a pensare a Tunisi, dove la
    vostra concorrenza può turbare un giorno o l'altro i nostri
    buoni rapporti, perchè non volgereste piuttosto gli occhi su
    Tripoli, nel qual luogo non avreste a lottare con noi, nè con
    altri?»
    Queste parole - osservava il Cialdini - mi ricordarono una frase
    analoga sfuggita al duca Decazes, e dovetti convincermi sempre
    più che esiste un pensiero politico permanente, tradizionale
    rispetto alla costa mediterranea dell'Africa, pensiero a cui tutti i
    partiti si mostrano ossequenti e si studiano di custodire,
    trasmettere e sviluppare.
    Risposi che una simile indicazione mi rammentava il consiglio dato
    da Bismarck a Napoleone III di prendersi il Belgio e lasciare la
    provincia Renana in pace; che noi non aspiravamo a Tripoli
    più che a Tunisi, ma desideravamo soltanto che codeste
    Reggenze fossero mantenute in statu-quo. Aggiunsi che di Tripoli non
    occorreva parlare neanche a titolo di compenso, se mai la Francia
    occupasse Tunisi un giorno, a meno che Tripoli non cessasse di far
    parte dell'impero turco.
    L'avvenire è nelle mani di Dio (frase prediletta del sig.
    Freycinet) e potrebbe darsi, seguitò egli a dire, che un
    giorno, senza dubbio lontano, la Francia fosse condotta dalla forza
    delle cose ad occupare e ad annettersi la Reggenza di Tunisi. Noi
    non vorremmo che ciò avvenisse, se pur deve avvenire, a
    prezzo dell'amicizia che ci lega all'Italia e che desideriamo
    sinceramente di conservare. Voi partite ed io pure partirò in
    breve. Ci rivedremo ai primi di ottobre e ripiglieremo allora a
    parlare di questo argomento nella certezza che gli animi si saranno
    calmati in Italia ed in Francia e che potremo ragionare
    tranquillamente. Io potrò dichiararvi che la Francia non
    pensa punto nè poco all'occupazione di Tunisi; ma siccome
    l'avvenire è nelle mani di Dio e potendo accadere, in tempo
    più o meno remoto, che la Francia fosse proprio spinta dalla
    necessità d'una situazione qualsiasi ad occupare la Tunisia,
    io vi dichiarerò in pari tempo che, se un caso simile si
    presentasse, l'Italia ne sarebbe avvertita con ogni possibile
    anticipazione, ed ajutata dalla nostra influenza cordiale ad
    ottenere nel bacino del Mediterraneo un compenso proporzionato e
    sufficiente, affine di conservare l'equilibrio della rispettiva
    preponderanza.»
    
    Appariva manifesto che l'occupazione della Reggenza da parte della
    Francia era questione di tempo; il Cialdini avvertì che
    l'unica via per impedirla era di "promuovere altre combinazioni".
    Alla fine di settembre assunse la direzione del Quai d'Orsay il sig.
    Barthélemy di Saint-Hilaire (ministero Ferry), e il Cairoli,
    sebbene ne fosse evidente l'inopportunità, ordinò al
    Cialdini di insistere affinchè il Gabinetto di Parigi non
    contrastasse la concessione del filo telegrafico diretto e
    indipendente dalla rete telegrafica francese. Il Cialdini, sebbene
    riluttante, obbedì e non ottenne nulla:
    
    «Non si tratta - scriveva il 20 novembre - di buone
    ragioni.... ma semplicemente di un programma politico che la Francia
    ha adottato e non abbandonerà più. L'influenza
    francese, cacciata dall'Europa dal principe di Bismarck, s'è
    abbattuta sull'Africa, dove non teme di urtarsi con la Germania. Noi
    non riusciremo ad ottenere alcuna concessione dalla Francia con dei
    ragionamenti e delle mosse diplomatiche. È questa, da molto
    tempo, la mia convinzione. La Repubblica sa bene che questa politica
    ci ferisce e allontana - e bisogna riconoscere che di ciò
    essa non si preoccupa.»
    
    Il 1.° febbraio 1881 il console italiano a Tunisi,
    Macciò, telegrafa a Roma:
    
    «Oggi il Console francese ha informato il Bey che, considerate
    le condizioni attuali della Tunisia, la Sublime Porta ha deciso di
    destituirlo e di mandare Keredine ad amministrare il paese. La
    Francia essendo a ciò assolutamente contraria, era obbligata
    a fare una dimostrazione navale, e poichè questa avrebbe dato
    luogo nell'assemblea a interpellanze spiacevoli, era opportuno
    che Sua Altezza chiedesse l'invio di una squadra alla Goletta. Il
    Bey ha risposto che si rifiutava di credere al prospetto attribuito
    alla Sublime Porta, che non stimava di dover esprimere alla Francia
    il desiderio della dimostrazione navale, nè aveva da dare
    consigli su tale argomento.
    È il Bey stesso il quale ha desiderato che io v'informassi di
    quanto precede.»
    
    Interrogato sulla verità del fatto denunziato dal
    Macciò - che sarebbe stato un tentativo per ottenere dal Bey
    stesso la domanda di protettorato - il signor Barthélemy
    rispose che si trattava di una favola; ma il Cialdini, pur prestando
    fede allora alla sincerità del Ministro, non escludeva che a
    Tunisi il console Roustan obbedisse a ordini di persone più
    potenti del ministro degli affari esteri, appunto in quei giorni
    combattuto aspramente sui giornali devoti al Gambetta.
    Il Bey, informato che a Parigi smentiscono la pressione tentata su
    di lui dal console francese, fa trascrivere il discorso tenutogli da
    quest'ultimo, e manda a Roma copia autentica del protocollo
    relativo. Messo il documento sotto gli occhi del Barthélemy,
    questi dichiara di non credere alla sua veridicità.
    Però, informazioni raccolte dal gen. Cialdini anche presso il
    suo collega d'Inghilterra, assodano che il Barthélemy aveva
    lui stesso consigliato la mossa al Roustan e che per aiutarne la
    riuscita aveva mandato due navi da guerra nelle acque tunisine.
    Fallito questo piano, si diffonde la voce che la potente
    tribù dei Krumiri aveva fatto incursioni sul territorio
    algerino, e minacciava il tronco ferroviario francese Bona-Guelma;
    s'insinua anche la possibilità di una esplosione del
    fanatismo religioso in Algeria. La stampa francese s'impadronisce
    del tema e commuove l'opinione pubblica: il governo fa partire da
    Tolone navi e truppe "per non sguarnire l'Algeria in circostanze
    così gravi"!
    Grande emozione in Italia; il Ministero Cairoli è in pericolo
    e domanda spiegazioni. Il Barthélemy, il 6 aprile, assicura
    il gen. Cialdini che l'invio di un considerevole corpo di truppe non
    ha altro scopo che di punire le tribù alla frontiera algerina
    - e che il governo francese "non pensa punto ad un'occupazione
    militare permanente e meno ancora all'annessione della Tunisia".
    L'indomani le stesse spiegazioni sono rinnovate con questa aggiunta,
    che "ingaggiata la lotta non poteva prevedersi quello che sarebbe
    stato necessario di fare". Intanto la Camera francese votava quel
    giorno stesso, 7 aprile, un credito di lire 5,695,000 per la
    spedizione militare.
    Varcata la frontiera tunisina senza incontrare alcuno ostacolo,
    facendo, come fu detto a Parigi, al Palazzo Borbone, "une promenade
    militaire", le truppe della Repubblica si avvicinano a Tunisi e le
    navi da guerra sbarcano soldati a Biserta. L'11 maggio il ministro
    Barthélemy informa l'ambasciatore Cialdini che le truppe non
    entreranno in Tunisi se il Bey firmerà il trattato che gli
    verrà sottoposto; che l'occupazione militare cesserà
    appena avuta la prova della buona fede del Bey e del suo rispetto al
    trattato, e che anche Biserta sarebbe stata evacuata subito dopo.
    Il trattato, così detto di garenzia, fu firmato l'indomani,
    12 maggio, dal Bey e dal generale comandante le truppe invadenti. Il
    Bey, che invano si era rivolto alle Potenze, accettò tutto
    quello che gl'imposero, consenti anche l'occupazione militare come
    gliela chiesero, cioè ristretta a taluni punti, sino al
    ristabilimento dell'ordine.
    La Francia non si arrestò al trattato. L'agitazione
    naturalmente sorta nella Tunisia per l'invasione straniera, dette
    argomento a estendere le operazioni di guerra. Un nuovo credito di
    14 milioni fu approvato dal Parlamento; il 12 luglio la squadra
    francese occupava Sfax, il 24 luglio Gabes; il 9 ottobre le truppe
    repubblicane entravano a Tunisi.
    Così la Francia conquistò la Reggenza.
    Tutte le promesse fatte al gen. Cialdini dai tre ministri che
    trattarono la questione, Waddington, Freycinet, Barthélemy,
    furono, una dopo l'altra, violate, e l'ingenua fiducia del Cairoli
    fu molto male ricompensata. Alla Camera italiana il Cairoli, prima
    che l'azione francese raggiungesse i fini propostisi, si difese
    mettendo innanzi la sua buona fede - innegabile come la sua
    incapacità - e si fece garante che i francesi si sarebbero
    ritirati dalla Reggenza appena vinti i Krumiri; ma Crispi lo
    ammonì: "Bisogna aver dimenticato la storia, per credere che
    l'esercito francese, dopo punite le tribù ribelli,
    uscirà dalla Tunisia".
    
    Il Cairoli dichiarò, altresì, in Parlamento, di avere
    con l'Inghilterra "una identità di idee nell'apprezzare la
    questione di Tunisi", e volle così smentire quelli che
    affermavano "immaginarii isolamenti".
    Non si comprende perchè un uomo probo come il Cairoli
    affermasse cosa talmente lontana dal vero. Bisogna supporre che egli
    non leggesse i documenti, o che, letti, li dimenticasse;
    perchè i documenti della Consulta contenevano la prova del
    contrario.
    Il 7 gennaio 1879 conversando col marchese Menabrea, ambasciatore
    d'Italia a Londra, il ministro Salisbury, interrogato sulle voci dei
    giornali, secondo le quali anche il governo della Regina spingeva la
    Francia ad annettere la Reggenza di Tunisi all'Algeria, rispose
    ch'egli "stava neutro nella questione", cioè si asteneva, e
    che aveva dichiarato alla Francia "che scorgendo l'Italia contraria
    ad un tale divisamento, lasciava che quelle due Potenze se la
    intendessero fra loro". Il 13 febbraio dello stesso anno il
    Menabrea, avendo domandato al Salisbury che l'Inghilterra facesse
    una dichiarazione di voler mantenere lo statu quo in Tunisia, il
    Salisbury "si astenne da nulla promettere circa la dichiarazione
    dianzi suggerita". L'11 luglio 1880 lo stesso Menabrea riferiva aver
    il ministro conte Granville dichiarato "che la Tunisia essendo uno
    Stato indipendente, salvo i diritti della Sublime Porta,
    l'Inghilterra non poteva intervenire in quelle questioni che si
    riferiscono al governo interno della Reggenza". Il 22 di quel mese
    il Cairoli ritenendo che l'atteggiamento inglese potesse mutarsi,
    insisteva: "A noi non sembra ammissibile.... che le altre Potenze,
    l'Inghilterra in specie, vogliano accogliere una teoria [cioè
    che la Tunisia dovesse considerarsi come un'appendice dell'Algeria]
    che già fin d'ora turberebbe l'equilibrio delle forze nel
    Mediterraneo". Ma il Granville rispondeva il 29 luglio "che
    l'Inghilterra non avendo che interessi secondarii nella Tunisia, non
    voleva intervenire nei dissensi insorti tra noi e la Francia, a meno
    di esservi direttamente invitata" - e non occorre avvertire che il
    nobile lord era sicuro di non ricevere un invito simile dalla
    Francia!
    Naturalmente, le cose non mutarono quando la crisi fu prossima; il
    17 febbraio 1881 toccò a lord Lyons, ambasciatore britannico
    a Parigi, di avvertire il generale Cialdini che l'Inghilterra
    "teneva molto a non far nulla che possa dispiacere alla Francia".
    Alla Consulta si presumeva allora di sapere quale fosse la politica
    che nel Mediterraneo convenisse all'Inghilterra; e su tale
    presunzione si fondava. Anche dappoi abbiamo vissuto di illusioni su
    questo argomento, perchè in realtà, tranne durante un
    periodo del quale ci occuperemo più avanti, l'Inghilterra ha
    trovato sempre il suo interesse nell'intendersi con la Francia.
    Può darsi che al 1878 i ministri inglesi avessero
    sull'avvenire della Tunisia le idee che loro attribuiva uno
    scrittore francese, il Constant d'Estournelle14:
    "Du jour où le gouvernement anglais constate que la Tunisie
    est condamnée et qu'une intervention étrangère
    y est inévitable, entre quelles mains doit-il souhaiter de la
    voir tomber? les notres ou celles de l'Italie? Entre les notres sans
    aucun doute. De deux maux on choisit le moindre. Il a tout
    intérêt à ne pas abandonner à l'Italie la
    garde du vaste goulet qui met en communication les deux bassins de
    la Méditerranée. Son action en 1871 auprès du
    cabinet de Florence en était déjà une preuve.
    Or l'Italie serait maîtresse de ce passage, dans le cas
    où le promontoire tunisien qui s'avance vers la Sicile lui
    appartiendrait. Possédant, avec la Sardaigne et l'îlot
    de Pantellaria, la pointe du cap Bon, le sommets de Carthage,
    Bizerte, on peut dire qu'elle commanderait les communications
    maritimes de l'Europe avec l'Orient et qu'elle pourrait, au besoin,
    sinon les arrêter tout à fait, du moins les gêner
    considérablement. Il est clair que ce n'est pas l'Angleterre
    qui favorisera jamais la création d'une pareille entrave et
    qui s'exposera à faciliter l'interception de la grande route
    que sillonnent aujourd'hui librement par milliers ses
    bâtiments. Elle a tout avantage, au contraire, à ce que
    les deux côtes du passage appartiennent à deux
    puissances différentes: c'est pour elle le plus sûr
    moyen d'en assurer la neutralité".
    
    La conquista francese di Tunisi non fu discussa alla Camera
    italiana; il ministero Cairoli si ritirò il 14 maggio, appena
    potè apprezzare l'effetto prodotto in tutta l'Italia dalla
    notizia del trattato del Bardo. L'on. Crispi che aveva diretto gli
    oppositori con moderazione, era in predicato di succedergli; ma i
    capi della Sinistra furono concordi, come sempre, nel volerlo
    lontano dal governo. Dissero che il nome di Crispi suonava guerra
    alla Francia, e non era prudente. In realtà, Crispi aveva,
    pochi giorni prima, ripetuto alla Camera che "un conflitto tra la
    Francia e l'Italia sarebbe una guerra civile" e aveva deplorato che
    le buone relazioni tra i due paesi fossero state compromesse da una
    politica imprevidente e leggera. Non può infatti negarsi che
    se i diritti dell'Italia fossero stati validamente difesi, il
    governo francese non avrebbe potuto con l'impresa di Tunisi alzare
    una barriera tra i due Stati.
    Quell'impresa ci offese dippiù pel modo onde fu compiuta e
    per l'alterigia con la quale ci si trattò. Eravamo isolati,
    deboli, con le finanze in disordine, in conflitto con l'Austria; e
    la Francia non soltanto profittò di tali circostanze per
    cacciarci da un paese vicinissimo al nostro e dove avevamo interessi
    maggiori dei suoi; ma s'irritò delle nostre naturali e
    legittime proteste, e aggiunse all'azione prepotente le minacce, e
    colpì col disprezzo l'ira nostra impotente.
    È vero - come si affermò - che se l'Italia avesse
    risposto al protettorato francese sulla Tunisia con l'occupazione
    della Tripolitania, avrebbe trovato le grandi Potenze neutrali e
    l'appoggio dell'Inghilterra?
    Un giornale inglese, lo Standard, pubblicò (22 o 23 maggio
    1881) un documento diplomatico sin allora inedito, nel quale si
    affermava che in una conversazione tra i signori Waddington, Corti e
    lord Salisbury era stato convenuto che l'Italia potesse occupare la
    Tripolitania, se la Francia si fosse annessa la Tunisia.
    Il conte Corti - che era in quei giorni ambasciatore a
    Costantinopoli - si affrettò a mandare una smentita con la
    fretta che avrebbe posta nel respingere una insinuazione ingiuriosa:
    
    «Siffatta conversazione - egli scriveva il 24 maggio - non
    è mai seguìta, nè a Berlino, nè altrove.
    I plenipotenziari d'Italia non avevano missione di trattare della
    distribuzione di territori appartenenti ad altre potenze,
    all'infuori di quelli che costituivano le conseguenze immediate
    della guerra.
    Il documento diplomatico cui si riferisce il telegramma è
    dunque apocrifo, oppure contiene la relazione d'un colloquio non
    avvenuto. Per lo che mi presi la libertà di pregare l'E. V.
    di far smentire l'asserzione del giornale inglese.»
    
    La mentalità del conte Corti è tutta rispecchiata in
    questa smentita. È chiaro che come diplomatico egli era un
    pesce fuori d'acqua. Forse sarebbe stato un buon prete.
    Il marchese Menabrea, al quale fu telegrafato da Roma il desiderio
    del Corti, rispose il 31 maggio:
    
    Nel medesimo giorno io telegrafavo in chiaro a codesto ministero nei
    termini seguenti:
    «Le Times publie aujourd'hui un télégramme de
    Rome informant que M. Corti dément la conversation avec lord
    Salisbury qu'on lui attribue, pour faire donner Tripoli à
    l'Italie, dans le cas où Tunis serait annexé à
    la France. Cette question a provoqué une interrogation de M.
    Arnold, dans la dernière séance de la Chambre des
    communes. Sir Charles Dilke a répondu qu'il n'y avait pas eu,
    au sujet de Tripoli, d'échange de correspondance entre les
    deux gouvernements anglais et italien. D'autres interrogations ont
    également eu lieu sur Tunis; elles n'ont amené aucune
    résolution. - Menabrea.»
    La sera stessa del giorno 25, in cui erano stati ricevuti e spediti
    i telegrammi anzidetti, io incontrai, al ballo di Corte, il
    sotto-segretario di Stato per gli Affari esteri, sir Charles Dilke,
    che, fermandosi, mi disse spontaneamente di essere stato sorpreso
    della smentita data dal conte Corti, imperocchè esistevano al
    Foreign Office prove, o documenti che fossero, che si riferivano
    alla sovraccennata conversazione. Egli soggiunse che questa doveva
    essere, all'indomani, oggetto di una nuova interrogazione nella
    Camera dei Comuni, ma che egli eviterebbe di entrare in discussione
    in proposito, rifiutando di dare ulteriori spiegazioni.
    Infatti, nella seduta del 26 corrente, ebbe luogo nella Camera
    l'interrogazione annunziata. Traduco dal Times del 27 maggio il
    resoconto che vi si riferisce: «Tripoli e Tunisi - Il sig.
    Arturo Arnold chiede se vi sia qualche documento della conversazione
    tenuta da lord Salisbury, relativamente all'occupazione di Tripoli
    per parte dell'Italia, in compenso dell'ingresso della Francia a
    Tunisi. Sir Charles Dilke risponde: «Tutte le informazioni che
    il governo di Sua Maestà è in grado di somministrare
    sono contenute nei documenti che sono stati deposti sulla tavola
    della Camera; ed io non sono disposto (I am unwilling) ad essere
    trascinato, rispondendo all'interpellanza del mio onorevole amico,
    in una discussione sopra quell'argomento.»
    Una tale risposta essendomi sembrata alquanto equivoca, mi recai
    l'indomani, 27 corrente, dal conte Granville, al quale domandai
    qualche spiegazione esplicita in proposito, affine di non lasciare
    pesare un dubbio sopra un fatto pubblicamente smentito.
    Il nobile lord mi rispose che non v'era stato scambio di
    corrispondenza fra i due governi a proposito di Tripoli; che non vi
    erano documenti ufficiali relativi a quell'argomento; ma nello
    stesso tempo, mi dichiarò, confidenzialmente, che non poteva
    rispondermi, nè dirmene di più.
    Nel congedarmi dal conte Granville, io gli dissi ridendo:
    «Je vois que V. E. fait comme un de nos anciens ministres, le
    commandeur Galvagno, qui, pressé de donner à la
    Chambre des explications sur des faits qu'il ne croyait pas devoir
    discuter, se débarrassa des interpellations en disant ces
    mots restés célèbres: Je réponds que je
    ne réponds pas.»
    Il nobile lord si mise a ridere dicendomi in francese: Anch'io
    rispondo che non rispondo.
    Io vidi di nuovo il conte Granville l'indomani, 28 corrente, alla
    serata data nel Foreign Office, in onore del giorno onomastico della
    Regina. Egli mi prese a parte e mi disse con molto garbo:
    «Ieri le ho parlato confidenzialmente sulla questione
    tripolitana, ma mi accorgo che quella mia riserva è inutile,
    ed Ella è padrone di scrivere che ho risposto ch'io non
    rispondeva alle di Lei interrogazioni».
    Questi fatti mi hanno lasciato l'impressione che, presso il Foreign
    Office esiste il convincimento che la quistione della cessione di
    Tripoli all'Italia, in compenso dell'abbandono di Tunisi alla
    Francia, venne ventilata in qualche conversazione al Congresso di
    Berlino.
    Ho creduto dover mio di riferire questo fatto all'E. V., sia per
    rispondere adeguatamente al telegramma sopra trascritto di codesto
    Regio ministero, sia per metterla in grado di apprezzare quale
    influenza abbiano potuto avere certi incidenti sullo svolgimento
    della quistione tunisina.»
    
    L'impressione del generale Menabrea era esatta; infatti la cessione
    di Tripoli all'Italia venne ventilata a Berlino in una conversazione
    ch'ebbe luogo tra lord Salisbury e il secondo dei plenipotenziarii
    italiani a quel Congresso, conte di Launay. E questi ne aveva
    riferito l'11 agosto 1878. Ma alla Consulta non leggevano i
    documenti?
    Il di Launay aveva scritto:
    
    «.... tout récemment, j'ai eu à ce sujet un
    entretien avec mon collègue d'Angleterre. Je lui parlais des
    conversations que j'avais eues dans les derniers jours du
    Congrès avec lord Salisbury, auquel j'exprimais le regret que
    le Gouvernement anglais ne nous eut au moins pas
    épargné la surprise d'apprendre par la simple voie des
    journaux la nouvelle de la convention relative à l'occupation
    de l'île de Cypre. Le chef du Foreign Office expliquait la
    chose de son mieux, et laissait entendre à mots couverts que
    l'Italie à son tour pourrait songer à un
    agrandissement vers Tripoli ou Tunis. Je n'etais pas autorisé
    à aborder une discussion à ce sujet.»
    
    Dunque è indiscutibile che lord Salisbury ritenne che un
    compenso spettasse all'Italia, e se il suo pensiero fu manifestato
    in maniera che non parve chiaro al di Launay - e si comprende
    giacchè il ministro inglese non voleva rivelare l'accordo con
    la Francia - il "velame delli versi strani" avrebbe dovuto
    stracciarsi nel 1881, quando la Francia andò a Tunisi.
    
    La violenza adoperata dalla Francia per escludere dalla Tunisia
    l'influenza italiana, ebbe virtù di determinare in Italia un
    mutamento radicale nella pubblica opinione. Delusa della Repubblica
    francese - che la nostra democrazia aveva esaltato in confronto del
    caduto Impero - essa non vide scampo, per garentirsi da ulteriori
    sgraffi della sorella latina, che in un ritorno all'alleanza con la
    Germania.
    Per la verità storica è opportuno ricordare che
    già nel 1880 il conte Maffei, segretario generale del
    ministero degli Affari esteri, autorizzato dall'on. Cairoli, aveva
    esplorato ufficiosamente il terreno a Berlino "circa la convenienza
    di dare ai rapporti fra l'Italia e la Germania un carattere
    più intimo, e avviarsi ad una vera e propria alleanza". Il
    principe di Bismarck gli aveva fatto rispondere "che la via per
    arrivare a Berlino era quella di Vienna, e che anche colà
    dovevamo stabilire ottime relazioni se volevamo rinnovare gli
    antichi legami con la Germania".
    Ministro dell'Interno sotto la presidenza del Cairoli era
    l'onorevole Depretis, ed è probabile che per consiglio di
    questi - memore della missione Crispi - il Maffei fosse abilitato a
    interrogare l'oracolo di Berlino. Ma quando fu conosciuta la
    risposta del Bismarck, anche il Depretis, il quale divideva gli
    scrupoli e le esitazioni del Cairoli ad entrare in una via che ci
    allontanava decisamente dalla Francia, si dichiarò avverso ad
    un'alleanza con l'Austria.
    Tuttavia, il Maffei - così egli raccontava a Crispi -
    insistette vivamente affinchè non si lasciassero cadere le
    probabilità offertesi di giungere ad una intelligenza intima
    con la Germania, sia pure trattando con Vienna.
    Era allora Cancelliere austro-ungarico il barone Haymerle,
    ex-ambasciatore a Roma, che aveva dato prove di concilianti
    disposizioni in momenti gravi. Ambasciatore in Italia della Germania
    era il Keudell, il quale, tornando dal congedo, esternò il
    parere, che protestava esser suo personale, che a Berlino
    produrrebbe ottimo effetto la stipulazione d'un accordo segreto tra
    i due capi del governo italiano e dell'austriaco, a' termini del
    quale entrambi s'impegnassero a mantener la pace fra i loro
    rispettivi paesi, rinnovando il patto d'anno in anno. Appena questo
    fosse conchiuso, la Germania ci avrebbe formulato delle proposte
    circa il miglior modo di stabilire con noi un'alleanza per la
    reciproca tutela dei nostri interessi.
    
    «Suggerii allora all'on. Cairoli di lasciarmi tastare il
    terreno in via riservatissima e direi quasi personale, servendomi
    dell'agente che il barone Haymerle designato m'avea come un
    intermediario di sua intera fiducia. L'opportunità d'impiegar
    un tal mezzo fu poco dopo riconosciuta. Inutile osservare che il
    sig. Keudell veniva spesso a interrogarmi sul risultato delle mie
    istanze, di cui era tenuto sempre a giorno. Egli approvava il
    divisamento di condurre le prime trattative in forma strettamente
    confidenziale. Ho il convincimento eziandio che il barone Haymerle
    era da Berlino posto al corrente di tutto questo, che vi faceva
    plauso, e aspettava con impazienza il noto messo. Autorizzatovi
    alfine, io lo mandavo a Vienna nel gennaio 1881. Non gli davo nulla
    in iscritto: le mie istruzioni furono verbali. Il patto pacifico da
    stabilirsi era tal quale lo aveva indicato il principe di Bismarck,
    per bocca del sig. Keudell, e se io prendevo necessariamente per
    base il rispetto dei trattati esistenti, mi avvantaggiavo anche di
    questo argomento per esigere che l'Austria egualmente ammettesse nel
    modo più solenne l'obbligo suo di non violare le stipulazioni
    di Berlino con una eventuale maggiore espansione nella penisola
    balcanica, a danno dell'Italia, e in ispecie per ciò che
    concerne il littorale adriatico.
    «Io dicevo, in sostanza, all'uomo di fiducia del bar.
    Haymerle: l'Italia vuole bensì essere amica dell'Austria e
    osservare i suoi doveri, ma a condizione che l'Austria faccia
    altrettanto. Bisogna che il governo imperiale s'immedesimi dei
    nostri interessi, della nostra situazione; che tenga conto del
    nostro sentimento pubblico, il quale si rivolterebbe se un
    allargamento dell'Austria ancora avvenisse in prossimità del
    mare Adriatico. Su questo particolare io non potevo essere nè
    più preciso, nè più esigente, e ne feci uno dei
    cardini del negoziato.»
    
    L'agente del barone Haymerle andò a Vienna, fece le
    comunicazioni delle quali il Maffei lo aveva incaricato, e il 17
    febbraio 1881, ritornato in Roma, partecipava che il barone Haymerle
    e il suo ad latus, barone Teckenberg, ritenevano facile l'accordo
    per un trattato di reciproca neutralità:
    
    «Fatta naturalmente astrazione della Bosnia e dell'Erzegovina,
    da un eventuale cambiamento del diritto di Stato e di
    Sovranità, e delle relative pratiche col
    Sultano riguardo all'avvenire di quei paesi, l'Austria-Ungheria
    dichiara di rispettare scrupolosamente lo statu-quo in Oriente e di
    non aver nessunissima idea di oltrepassare menomamente la linea
    tracciata da detto trattato.
    Oltre i sovraccennati eventuali, e per ora poco probabili
    cambiamenti del diritto di Stato e di Sovranità nella Bosnia
    e nell'Erzegovina, i quali potrebbero eventualmente compiersi senza
    violare menomamente lo statu quo dell'Oriente e le determinazioni
    del trattato di Berlino, e restano perciò fuori di
    discussione, l'Austria-Ungheria non intende menomamente seguire una
    politica d'espansione in Oriente; non pensa menomamente ad avanzarsi
    a Salonicco o in Albania e mantiene scrupolosamente lo statu-quo
    territoriale. In questo riguardo si è pronti a dare tutte le
    assicurazioni necessarie per dimostrare il fermo proposito
    dell'Austria-Ungheria di rispettare scrupolosamente i limiti
    assegnatile dal trattato di Berlino, e di astenersi da ogni politica
    espansione.
    Le relative dichiarazioni del ministro e del suo alter ego non
    lasciano nulla a desiderare, a mio parere, in lucidità e
    decisione, e la base di ulteriori negoziati per la conclusione di un
    trattato di neutralità sarebbe perciò, secondo me,
    trovata.
    I baroni Haymerle e Teckenberg credono che le circostanze generali
    non offrano alcuna seria difficoltà di natura a opporsi alla
    conclusione d'una sincera ed intima amicizia fra l'Italia e
    l'Austria-Ungheria.
    L'Austria-Ungheria fu ed è sempre pronta ad apprezzare i
    legittimi interessi dell'Italia come potenza grande e marittima, e
    segue con simpatia i suoi passi; perciò non metterà
    verun ostacolo, anzi vedrà con simpatia l'accrescimento della
    sfera dei poteri dell'Italia nel Mediterraneo, ben inteso che resti
    intatto lo statu quo nell'Adriatico, e che questo non diventi un
    lago italiano.
    Guidata da questo punto di vista, l'Austria-Ungheria
    accetterà volentieri ogni accomodamento favorevole agli
    interessi italiani per la quistione tunisina ed eventualmente per
    l'acquisto di Tripoli. Ispirandosi allo stesso punto di vista d'un
    accrescimento dei legittimi interessi dell'Italia nel Mediterraneo,
    l'Austria-Ungheria ha respinto la proposta russa di compensare la
    Grecia con l'isola di Candia, l'idea dell'Austria-Ungheria essendo,
    senza naturalmente assumere sin d'ora decise garanzie in proposito,
    che Candia potrebbe essere data all'Italia, precisamente per
    rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo.
    I baroni Haymerle e Teckenberg conchiusero colle più vive
    proteste di simpatia per l'Italia e il suo governo, e sarebbero
    felici di addivenire ad un accordo che guarentisse l'imperturbata
    coltivazione d'una vera ed intima amicizia fra i due paesi. Essi
    attendono, dunque, le ulteriori proposte della S. V. I., e lasciano
    libera a Lei la scelta, se per i futuri negoziati debba venire
    qualcheduno da Vienna a Roma o s'Ella creda preferibile di legare a
    Vienna una persona di sua fiducia.»
    
    L'on. Cairoli esitò o non volle seguire il suo collaboratore.
    Sopraggiunsero gli avvenimenti tunisini, i quali naturalmente
    indebolirono il prestigio dell'Italia. Quando l'on. Mancini, nuovo
    ministro degli Affari esteri (dal 29 maggio), iniziò
    risolutamente la politica di ravvicinamento all'Austria e alla
    Germania, e alla fine di ottobre mandò il re d'Italia in
    visita a Vienna, i primi passi si risentirono della situazione
    peggiorata a nostro danno. E se ne ebbe una testimonianza clamorosa
    nelle Delegazioni del novembre, dove uomini in vista, come
    l'ex-Cancelliere Andrássy e il Kallay, interpretarono
    sconvenientemente i motivi del recente viaggio a Vienna del re
    Umberto.
    Le trattative per l'alleanza, cominciate a Vienna, furono continuate
    fra i tre gabinetti; l'Austria e la Germania erano già legate
    sin dal 7 ottobre 1879 col trattato perpetuo che fu reso pubblico il
    3 febbraio 1888. L'accessione dell'Italia, con speciali condizioni
    che sono un segreto di Stato, fu firmata il 20 maggio 1882; è
    noto soltanto che anzichè un patto di reciproca
    neutralità, come voleva dapprima l'Austria, esso contiene una
    guarentigia dell'integrità territoriale delle tre Potenze15.
    "Era un primo passo ad uscire dall'isolamento - disse l'on. Crispi -
    a stornare gl'incombenti pericoli di guerra. L'opinione pubblica ne
    fu soddisfatta.... Ma nei primi anni il trattato non diede frutto. A
    Vienna e a Berlino non erano dissipati i dubbi che i precedenti
    avevano destato; nè ancora l'insieme della politica italiana,
    interna ed internazionale, era tale da riuscirvi; la
    sincerità nostra, nella esecuzione degli impegni assunti,
    parea discutibile ancora. Sicchè i patti rimanevano scritti,
    pel giorno della prova suprema; ma il nostro paese rimaneva ancor
    solo, a difesa degli interessi suoi esclusivi.
    La fiducia nasceva nel secondo periodo dell'alleanza, e incominciava
    a giovarci...."16.
    Ma prima d'intrattenerci sull'opera compiuta da Crispi per rendere
    la triplice "accordo sinceramente cordiale", la cui influenza si
    esercitò "su tutte le questioni internazionali dove eravamo
    impegnati", conviene ricordare come, sebbene la direzione della
    politica estera fosse passata in mani più abili, l'Italia
    perdette, temendo di osare, una eccellente occasione per rifarsi in
    parte del danno di Tunisi.
    
    
    
    Capitolo Terzo.
    
    La questione Egiziana nel 1882.
    
    
    L'Italia, invitata a intervenire in Egitto con l'Inghilterra,
    rifiuta. - Viaggio di Crispi a Berlino e a Londra. - Colloquii col
    conte Hatzfeldt e con lord Granville. - Nove lettere di Crispi sulla
    convenienza per l'Italia di accettare la proposta inglese.
    
    Quando la questione d'Egitto uscì, in seguito al
    "pronunciamento" di Arabì (sett. 1881), dal torpore nel quale
    si trascinava da anni, l'Italia non esercitava influenza alcuna
    nelle cose interne di quel paese, del quale l'Inghilterra e la
    Francia si disputavano l'egemonia.
    Minacciata l'autorità del Kedive, quelle due Potenze
    stimarono opportuno di fortificarla dandole pubblicamente
    l'assicurazione della loro simpatia. Questa simpatia avrebbe potuto
    determinare l'intervento militare anglo-francese? Forse sì,
    se Gambetta fosse rimasto al Governo. Ma cadutone questi il 26
    gennaio 1882 e succedutogli il Freycinet, gli avvenimenti si
    svolsero in maniera che la Francia, astenutasi dall'azione, rimase
    tagliata fuori dal dominio. D'onde la lotta tenace combattuta per
    lungo tempo di poi affinchè il leone britannico abbandonasse
    la preda egiziana, e le molteplici condiscendenze di esso, intese a
    disarmare la sua avversaria, sino alla Convenzione 8 aprile 1904 che
    consacrò lo statu quo, ossia l'occupazione inglese
    indefinita.
    L'on. Mancini prese subito partito per escludere l'azione isolata di
    ogni Potenza, e, data la posizione dell'Italia in quel momento,
    sembra che non potesse seguire indirizzo migliore. Ma il concerto
    europeo non agì: tranne l'Inghilterra e la Francia nessuna
    Potenza mostrò d'interessarsi agli affari egiziani.
    Adunati il 23 giugno in Conferenza, su proposta del Gabinetto di
    Parigi, gli ambasciatori a Costantinopoli delle grandi Potenze non
    compirono altra funzione positiva che quella di mettere allo
    scoperto la doppiezza della politica turca e di giustificare
    l'intervento europeo. Dapprima la Sublime Porta non volle prender
    parte alla Conferenza; v'intervenne alla decima seduta (24 luglio),
    dopo avere ricevuto una Nota collettiva con la quale le Potenze
    rappresentate la invitavano a mandare senza indugio in Egitto forze
    sufficienti "per ristabilire l'ordine, abbattere la fazione
    usurpatrice, porre termine alla grave situazione che affligge quel
    paese ed ha cagionato lo spargimento di sangue, la rovina e la fuga
    di migliaia di famiglie europee e musulmane, ed ha compromesso
    gl'interessi nazionali e stranieri".
    Il governo inglese sapeva che, nonostante dicesse altrimenti, il
    Sultano non avrebbe mandato truppe in Egitto; e si preparò
    quindi a sostituire l'intervento ottomano. Il Canale di Suez correva
    pericolo, e lord Granville si accordò con la Francia per la
    protezione di esso, e chiese il concorso dell'Italia. L'on. Mancini
    rispose che essendo tale questione sottoposta alla Conferenza,
    preferiva attendere la decisione di questa. Però a
    Costantinopoli la proposta italiana "di organizzare per la libera
    navigazione del Canale di Suez un servizio puramente navale di
    polizia e sorveglianza al quale tutte le Potenze sarebbero chiamate
    a partecipare" fu accettata da tutti, ma con riserve tali che la
    rendevano vana. L'ambasciatore inglese riservò "i casi di
    necessità" nei quali ogni Potenza avrebbe potuto sbarcare
    truppe ed occupare alcuni punti necessarii alla sicurezza del
    Canale; e dichiarò altresì che l'Inghilterra riservava
    "tutta la sua libertà d'azione per la cooperazione militare,
    avendo in vista il ristabilimento dell'Autorità del Kedive".
    Quando il governo inglese ritenne giunto il momento di agire per la
    salvaguardia de' suoi grandi interessi, il Mancini avrebbe dovuto
    essersi accorto che la Conferenza di Costantinopoli era stata una
    lustra, e che conveniva profittare della inattività della
    Francia per prendere in Egitto, a fianco dell'Inghilterra, quella
    posizione che sino allora era stata negata all'Italia.
    I termini nei quali fu fatta all'Italia, e rifiutata, l'offerta di
    cooperare con l'Inghilterra a ristabilire l'autorità del
    Kedive, risultano dai seguenti documenti:
    
    Sir A. Paget al conte Granville.
    
    Roma, 28 luglio 1882.
    
    Mi recai quest'oggi dal sig. Mancini in conformità degli
    ordini di V. S. contenuti nel telegramma del 25 volgente. Ho
    cominciato il colloquio col dire ch'io riteneva essere S. E. oramai
    preparata dal generale Menabrea alla comunicazione che stavo per
    farle, la quale si riduceva a questo; che mentre il governo di S. M.
    vedrebbe volentieri l'Italia associarsi all'Inghilterra e alla
    Francia per garentire la sicurezza del Canale di Suez, sarebbe pur
    lieto che essa cooperasse ad un'azione diretta all'interno, che non
    potrebbe essere differita ulteriormente e per la quale il governo di
    S. M. stava attivamente preparandosi, sebbene il governo francese
    non si mostri disposto a parteciparvi.
    Il sig. Mancini, dopo avermi pregato di manifestare a V. S. i
    ringraziamenti del governo italiano per questa nuova prova di
    fiducia e di amicizia, dissemi aver già avuto contezza di
    tale comunicazione dal generale Menabrea, che egli aveva tosto
    incaricato (ritengo la notte scorsa) di manifestare la sua
    supposizione che ella non conoscesse ancora in quella data la
    risposta della Porta alla Nota collettiva (del 15 luglio).
    Risposi aver io ragione di credere che così fosse, ma
    trovarmi nello stesso tempo in grado di riferire a S. E. che a me
    constava come tale risposta non abbia in guisa alcuna mutate le
    intenzioni del governo di S. M., o fatto ad esso supporre l'impiego
    delle forze britanniche meno necessario di prima.
    Chiesi come fosse possibile aver fiducia nel tardo consenso della
    Porta alle domande dell'Europa. Potrebbe esser vero bensì che
    all'undecima ora si facciano preparativi per l'invio di forze turche
    in Egitto, ma chi potrebbe garentire che quelle truppe, una volta
    colà giunte, sarebbero impiegate allo scopo desiderato? La
    politica della Porta in tutto l'affare egiziano ha avuto l'impronta
    di tanta tergiversazione da non potersi per l'avvenire fare sopra di
    essa il benchè menomo assegnamento.
    Per citare un esempio dissi che, allorquando nell'ultima riunione
    della Conferenza fu da lord Dufferin presentata la proposta,
    appoggiata da tutti i colleghi, che il Sultano dichiarasse ribelle
    Arabì-pascià, il commissario turco l'accolse con una
    delle sue mozioni dilatorie. Aggiunsi che recentemente un agente
    segreto di Arabì, arrestato dalle autorità inglesi in
    Alessandria, al suo ritorno da Costantinopoli, e trovato possessore
    di documenti assai compromettenti, aveva fatto confessioni
    comprovanti la complicità fra Costantinopoli e il capo dei
    ribelli.
    Laonde io faceva appello al signor Mancini per sapere da lui se la
    sfiducia del governo della Regina nelle intenzioni del Sultano non
    fosse giustificata al pari delle misure atte a sventarne tutti i
    malvagi disegni. E dissi che ritenevo il governo della Regina
    avrebbe accettato la cooperazione della Turchia, continuando
    però a recare ad effetto i provvedimenti già
    stabiliti.
    Il signor Mancini, senza contestare alcuno dei fatti enumeratigli,
    nè la logica deduzione che ne avevo tratta, replicò
    che, quali si fossero le ragioni di sfiducia esistenti rispetto alla
    Porta, sembrerebbe una contraddizione che quando essa ha accettato
    senza riserva tutte le condizioni di una Nota a cui Italia e
    Inghilterra avevano partecipato, queste due Potenze assumessero
    impegni per un altro modo d'intervento. Il tempo avrebbe in ogni
    caso permesso, a suo avviso, di accertare la buona fede con la quale
    i turchi ora agivano. Se vi fossero prove che non adempissero
    lealmente il programma che avevano accettato dalle Potenze, e se
    alcun indice vi fosse della loro parzialità a favore del
    partito ribelle o della loro poca energia d'azione per sopprimerlo,
    il complesso delle cose muterebbe e le nuove condizioni sarebbero
    allora prese in esame dalle Potenze.
    S. E. tuttavia ammise essere la posizione dell'Inghilterra diversa
    da quella dell'Italia e delle altre Potenze. L'Inghilterra aveva
    già mandato le sue truppe in Egitto ed egli pienamente
    comprendeva che fosse suo intendimento di avere colà forze
    sufficienti per controllare la condotta dei turchi. Ma l'adesione
    dell'Italia all'accordo suggeritole, sarebbe stato un punto di
    partenza non giustificato dalle circostanze. Devesi - egli aggiunse
    - aspettare il corso degli avvenimenti, nonchè la risposta
    che V. S. darà al gen. Menabrea e le pubbliche dichiarazioni
    che saranno fatte dai ministri della Regina in relazione a questa
    nuova fase della questione, prima che il governo italiano sia in
    grado di rispondere positivamente all'attuale proposta.
    A ciò rispondendo espressi la speranza che la proposta fatta
    al governo italiano non sarebbe dimenticata, onde il governo della
    Regina non possa in alcun tempo essere accusato di aver seguito una
    politica esclusiva.
    
    A. Paget.
    
    Il conte Granville a sir A. Paget.
    
    Foreign Office, 29 luglio '82.
    
    In un abboccamento avuto oggi col gen. Menabrea, S. E. dichiarava
    che il signor Mancini pareva ritenere che il governo di S. M.
    ignorasse la formale e completa accettazione per parte del Sultano
    della richiesta fattagli dalla Conferenza di spedire truppe in
    Egitto, allorchè esso fece la proposta che l'Italia prendesse
    parte alle operazioni nell'interno di quel paese. Il Sultano aveva
    ora deciso di mandare truppe in Egitto, acconsentendo per tal modo
    al desiderio espresso dalle sei Potenze. Il gen. Menabrea osservava
    che in vista di queste circostanze il governo italiano si esporrebbe
    ad una accusa di contradizione se negoziasse nel senso di un
    intervento di altra Potenza, e che solo rimanevagli di esprimere i
    suoi ringraziamenti al gabinetto inglese per avere nutrita l'idea
    che l'amicizia dell'Italia per l'Inghilterra potesse assumere la
    forma di una attiva cooperazione.
    Risposi che rimpiangevo che l'Italia avesse declinato di cooperare
    nel modo indicato, ma che non avevo eccezione a muovere circa un
    argomento che era nella competenza del governo italiano. Ero
    ciò nonostante lieto dell'occasione offerta al governo della
    Regina dal presente stato di cose, di dare all'Italia una prova
    della sua amicizia.
    
    Granville.
    
    Il generale Menabrea all'on. Mancini.
    
    Londra, 29 luglio '82.
    
    Ho comunicato oggi verbalmente a lord Granville la risposta
    contenuta nel telegramma dell'E. V. in data di ieri, alla proposta
    che egli aveva fatta all'Italia di prendere parte alla spedizione di
    Egitto. Mi sono strettamente attenuto alla riserva raccomandatami da
    V. E. Il conte Granville ha preso atto di questa risposta, come
    anche dei sentimenti amichevoli espressi dall'E. V. verso
    l'Inghilterra, la quale, dissemi, aveva creduto di dare all'Italia
    una prova d'amicizia, offrendole l'occasione di prendere parte ad
    una azione che avrebbe potuto tornare a suo vantaggio.
    Nel mio colloquio mi limitai ad insistere presso lord Granville
    sulla assennatezza delle considerazioni addotte dall'E. V. in
    seguito all'inaspettato e oramai risoluto intervento della Turchia
    in Egitto. Il conte Granville fu con me parco assai di parole, prese
    nota delle mie dichiarazioni modellate sul telegramma di V. E.,
    riconobbe la di lei risposta non conforme ai suoi desideri, e
    terminò col dirmi in termini sempre benevoli, che col
    proporci di concorrere con l'Inghilterra al ripristinamento
    dell'ordine in Egitto, il gabinetto britannico aveva creduto di dar
    prova di amicizia all'Italia, invitandola a prendere parte ad
    un'opera che sarebbe tornata di sua utilità.
    
    Menabrea.
    
    L'on. Mancini partecipò ai gabinetti di Berlino e di Vienna -
    cioè agli alleati - il rifiuto opposto all'offerta inglese.
    Attendeva forse un caloroso elogio; ma l'Hatzfeldt ringraziò
    della comunicazione l'ambasciatore italiano, evitando "con la
    massima cura tutto ciò che avesse potuto rassomigliare ad
    un'opinione favorevole o sfavorevole alla proposta britannica"; e il
    conte Kálnoky "trovò molto corretti e appropriati" gli
    argomenti del Mancini!
    
    Nella prima metà di luglio l'on. Crispi partiva da Roma per
    un viaggio all'estero. Andò prima a salutare alla Consulta il
    suo vecchio amico P. S. Mancini ed ebbe da lui una lettera di
    presentazione agli agenti diplomatici e consolari nella quale era
    detto: "Il patriottismo di questo nostro illustre Concittadino ed i
    meriti che egli ha acquistati verso il Paese sono certo sufficienti
    ad assicurargli presso tutti i Rappresentanti del governo all'estero
    una premurosa accoglienza. Ho tuttavia desiderato ch'egli fosse
    munito di una mia speciale commendatizia, e sarò
    particolarmente grato alla S. V. per tutte quelle cortesie che
    vorrà usare a questo insigne Rappresentante della Nazione".
    Insieme alla commendatizia l'on. Mancini inviava augurii: "Buon
    viaggio, e raccogli notizie e impressioni utili al tuo paese, a cui
    entrambi consacriamo i primi nostri pensieri-".
    L'on. Crispi si recò difilato a Berlino, dove giunto, il 17,
    chiese per mezzo di una sua antica conoscenza, il barone Holstein,
    di vedere il conte Hatzfeldt. Di un suo colloquio con l'Holstein,
    troviamo queste note:
    
    Alle 9,15 è venuto: si è discorso lungamente. La
    Germania nessun interesse diretto nell'Egitto. Nessun bisogno di
    colonizzazioni, o per lo meno non venuto ancora il tempo di pensare
    a stabilire colonie. In ogni caso, non sceglierebbe mai l'Egitto.
    Il principe di Bismarck con la nevralgia; i medici gli hanno
    consigliato riposo - Hatzfeldt depositario delle sue idee.
    
    L'indomani, colloquio con l'Hatzfeldt. Crispi ne prese nota
    così:
    
    18 luglio 1882.
    
    Il numero 136 della Koeniggraetzerstrasse segna la terza casa a
    diritta della strada andando a Voss-Strasse. La casa è in
    fondo a un giardino.
    Il conte Hatzfeldt era nel suo gabinetto all'una pomeridiana e mi ha
    intrattenuto sino alle due.
    Parlando dei casi del giorno si mostrò disinteressato nella
    soluzione del problema egiziano. Disse che accettò la
    Conferenza per non dare pretesto alle Potenze di dire che la
    Germania con la sua assenza impedisse una soluzione; ma senza alcuna
    fede nei suoi lavori. La Germania non ha alcun interesse diretto.
    Nulla da proporre,
    perchè non vuole assumere responsabilità. Non
    spenderà un soldo, nè un soldato per l'Egitto. Chi si
    è messo nell'imbroglio, se ne liberi. Non ha approvato,
    nè disapprovato il contegno degli inglesi. Nel canale di Suez
    non sarà contrastato loro il libero passaggio.
    Alla Conferenza vogliono mantenuto lo statu-quo. Quale ? Quello
    anteriore al movimento militare? Quello anteriore al giugno 1879? La
    frase è elastica - dice molto e dice nulla.
    L'Italia ha interessi diretti - Spagna, Olanda, vogliono
    intervenire.
    Lasciare la dinastia? Tewfick senza autorità. Prendere Halim?
    Buono, bravo, conosciuto per il buon caffè che si prendeva da
    lui - non altro.
    La posizione finanziaria, peggiorata dopo il 1879, ma hanno
    interesse a vederci coloro che ne son causa.
    La Germania accetterà qualunque soluzione che le Potenze
    troveranno a proporre d'accordo, e per il ristabilimento dell'ordine
    e per un governo egiziano. L'Egitto col Parlamento non può
    reggersi. Questa è una istituzione che colà non
    può allignare. Ma per governare ci vuole un principe di
    autorità ed energia. Noi non vogliamo far quello che faceva
    l'Impero Napoleonico; non ci mischieremo finchè i nostri
    interessi non siano lesi.
    - Io: I francesi vollero imitare i romani, ma ne seguono i vizi, non
    le virtù. La repubblica e l'impero dei romani durarono molti
    secoli; le repubbliche e gl'imperi francesi appena due decine di
    anni.
    - Lui: I romani avevano di fronte genti barbare. Oggi le condizioni
    dell'Europa sono diverse, e la Francia ha grandi e civili Potenze
    attorno a sè. È quello che i francesi non vogliono
    capire.
    Il conte Hatzfeldt mi parla del principe di Bismarck e della sua
    infermità che gli impedisce di prendere parte agli affari.
    Tutto è sulle spalle del Conte, il quale se ne duole
    sopratutto per le grandi responsabilità che ha dovuto e deve
    assumere nella politica estera.
    
    Da Berlino l'on. Crispi passò a Londra, dove si decidevano i
    destini dell'Egitto, e, per mezzo del suo amico Giacomo Lacaita,
    chiese di far visita a lord Granville, ministro degli Affari esteri.
    Lord Granville non soltanto si disse lieto di conoscere
    personalmente l'antico rivoluzionario italiano, ma lo fece pregare
    di andare al lunch da lui. Ed ecco quello che Crispi scrisse
    dell'accoglienza ricevuta e delle cose discorse:
    
    29 luglio.
    
    Lord Granville dimora nel palazzo di num. 18 a Carlton House
    Terrace.
    La riunione era fissata alle 2 pom.; all'1-3/4 Lacaita ed io siam
    partiti dall'Athenaeum, e qualche minuto prima delle 2 siamo giunti
    alla casa del Conte.
    Appena entrati, il cameriere ci disse che il nobile ministro era
    alla Camera e che ci pregava di aspettarlo. Fummo introdotti nella
    biblioteca. Non appena seduti, udiamo uno strascico di vesti di seta
    e ci appaiono di fronte lady Granville e le due figlie; lord
    Granville entra dalla parte opposta. Fatte le debite presentazioni,
    le dame procedono per la sala da pranzo e noi dopo pochi minuti le
    seguiamo.
    Lord Granville disse che vi era consiglio di ministri e che aveva
    lasciato i suoi colleghi per trovarsi con me.
    La sala da pranzo a Carlton House è grandissima.
    Sedemmo: lady Granville in mezzo a Lacaita e alla sua figlia minore;
    lord Granville aveva me a sinistra e la figlia maggiore a destra. In
    mezzo alle due figlie era il suo segretario particolare ed appresso
    un nipote del Conte; un altro nipote del Conte era alla mia
    sinistra, cioè tra me e Lacaita.
    Nei pochi minuti che fummo nella biblioteca e nei principii del
    pranzo il discorso si versò sulla stampa italiana, sul
    ministero francese e sul probabile voto della Camera francese.
    Avendo io detto che Freycinet avrebbe avuto un voto contrario e che
    probabilmente vi sarebbe stata una crisi, il Conte mi
    domandò:
    - Quali uomini credete voi che andranno al potere!
    - Un ministero di mezze figure.
    - Anch'io sono del vostro avviso.
    - Gambetta non può ritornare per ora. Egli significa la
    guerra, e la Francia non vuole, nè può farla. Gambetta
    si è troppo presto svelato, ed in Germania il suo nome
    accenna ad una levata d'armi.
     - È vero.
    - Freycinet è una garanzia di pace per la Germania.
    - Egli ha lanciato la Francia in grandi spese con le sue leggi per
    opere pubbliche.
    - È un uomo tecnico, non un uomo politico.
    - Avete ragione.
    - I francesi non hanno che due vie: o chiudersi entro le loro
    frontiere, sviluppare le loro ricchezze, assicurare il loro
    benessere materiale, o far la guerra. In questi ultimi tempi si sono
    chiariti contrarli alla guerra.
    - E non potrebbero neanche farla. L'esercito francese non è
    in buone condizioni, gli uffiziali non tutti buoni, i soldati
    indisciplinati. Del vostro esercito, al contrario, ho avute ottime
    informazioni; avete buoni soldati e buoni ufficiali.
    - Piccolo esercito, ma buono. Potremmo triplicare le nostre forze,
    facendo uno sforzo finanziario.
    - Siete stato a Parigi?
    - No, milord.
    - A Berlino?
    - Sì.
    - E che dicono colà delle cose del giorno?
    - Che nulla loro interessa della questione egiziana. E che
    lasceranno scioglierla a coloro che vi hanno interessi diretti. A
    Berlino non si pensa che alla Francia e alla Russia; sono le due
    sole Potenze delle quali si preoccupano e dalle quali temono possa
    sorgere la guerra. Pertanto il principe di Bismarck cerca di far
    forte la Turchia e di aiutare la China nel riordinamento delle sue
    forze.
    - È pur troppo così; ma la Russia per ora non
    può dar fastidii all'Europa.
    - Lo comprendo, ma non sarà così in avvenire.
    - Avete visto il general Menabrea?
    - Sì, milord.
    - E che umori ha egli in questi momenti?
    - Mi disse che si sente risvegliare i suoi spiriti militari.
    Lord Granville si pose a ridere: e la merenda (lunch) essendo
    esaurita, lady Granville, le figlie, i nipoti, il segretario
    particolare del Conte si sono alzati e andati via. Lord Granville ed
    io siamo rimasti soli.
     Avevo dimenticato di ricordare che pochi minuti prima che la
    merenda terminasse, Lacaita si era congedato, dovendo andar fuori di
    Londra, e l'ora incalzandolo. Sarebbe ritornato lunedì. Siamo
    rimasti soli nella sala da pranzo. Il Conte avvicinò una
    sedia, feci altrettanto e ci siamo di nuovo seduti.
    - Dunque non volete esser con noi in Egitto?
    - Da parte mia non perderei un momento di tempo per unirmi a voi.
    - Ma il signor Mancini ha declinato il nostro invito.
    - Me ne duole; e se ci fosse ancor tempo, e se fossi in Italia,
    farei il mio possibile per persuadere il ministro ad intervenire con
    l'Inghilterra in Egitto. Non potreste riprendere le pratiche?
    - Noi, no. Il governo italiano lo potrebbe. Ma sapreste dirmi le
    ragioni per cui il governo italiano si rifiuta?
    - Potrei supporlo; non ho visto il ministro Mancini, e non so quali
    sieno le sue idee. Forse il Mancini non crede di poter sostenere
    innanzi le Camere lo scopo del nostro intervento in Egitto.
    Voi ricorderete, milord, il modo come siamo stati trattati al 1879
    da lord Salisbury e dal signor Waddington.
    - Noi non ci entriamo nei fatti del 1879. E questa volta ci siamo
    rivolti di preferenza all'Italia per darle una prova della nostra
    amicizia. I nostri uffiziali avevano accolto con gioia la notizia di
    una possibile alleanza con l'Italia; e sarebbero stati lietissimi di
    battersi accanto ai vostri.
    - Al 1879 l'Italia fu indegnamente cacciata dalla Francia e
    dall'Inghilterra. Voi siete i primi pei commerci in Egitto, ma noi
    non siamo gli ultimi.
    - E la vostra popolazione in Egitto è superiore a tutte le
    altre.
    - Sul debito egiziano il numero dei creditori italiani è
    importantissimo. Io comprendo che mettendoci con voi, noi
    riprenderemmo la posizione che ci fu tolta al 1879.
    - Certamente.
    - Il ministro Mancini avrebbe voluto qualche assicurazione su
    ciò, per poterlo dire al Parlamento.
    - Ma noi non vogliamo mercanteggiare. Vi assicuro
    soltanto che noi non ci dogliamo del rifiuto dell'Italia e che le
    nostre relazioni con voi resteranno amichevoli e cordiali come per
    lo innanzi.
    La proposta fu da noi fatta al governo italiano con
    sincerità, con cordialità. Avremmo voluto, vorremmo
    procedere d'accordo con esso.
    - Potreste però riprendere le pratiche.
    - Ma noi non possiamo metterci a ginocchi. L'Inghilterra è
    abbastanza forte, e può anche fare da sè.
    - Quali forze credete, milord, che sieno necessarie per l'impresa di
    Egitto?
    - I francesi sono di opinione che ci vogliono 40 mila uomini; ma noi
    crediamo che 20 o 25 mila uomini basterebbero.
    La guerra non può essere lunga. I pascià non sono
    d'accordo, e bisogna contare sui loro dissidi.
    Arabì-pascià ha poca istruzione e poco ingegno; e devo
    credere che nelle sue operazioni egli sia aiutato da qualche
    europeo.
    Che tempo vi bisogna per mobilizzare il vostro esercito?
    - In un mese potremmo averlo pronto.
    - È troppo.
    - Forse m'ingannerò. Ma in Egitto non si può andar
    subito. Nell'estate il clima non è favorevole agli europei.
    - Ma non si possono lasciar le cose ancor lungamente nello stato in
    cui sono.
    - Credete voi che la Francia interverrà?
    - Per ora la Francia si vuole limitare alla tutela del Canale di
    Suez. Non sappiamo, qualora il ministero Freycinet cada, quello che
    penserà fare il suo successore.
    
    Si stette pochi minuti in silenzio, e ciascuno di noi pendeva dagli
    occhi dell'altro. Allora il Conte:
    
    - La nostra conversazione non ha nulla d'ufficiale. Forse non avrei
    dovuto dirvi che il signor Mancini ha rifiutato l'invito.
    - Milord, io sono un privato cittadino, e considero voi in questo
    momento non come il ministro della regina d'Inghilterra, ma come un
    amico d'Italia il quale parla ad un patriota italiano. Del resto, io
    non dimenticherò
    che voi siete stati amici nostri quando l'Italia non esisteva.
    
    Alzatomi e salutatolo, egli riprese:
    - Spero che ci rivedremo prima che partiate.
    - Milord, siccome è mio dovere, verrò a congedarmi.
    - Voi parlate l'inglese?
    - Milord, non oso. E poi non lo comprendo bene. Il signor Gladstone
    mi ha male avvezzato, perchè parla benissimo l'italiano.
    
    Durante la conversazione venne un cameriere con un cassettino
    bislungo. Il conte chiese il permesso di aprirlo; l'aprì, e
    prese e lesse alcuni dispacci telegrafici.
    - Voi avete i portafogli. Noi ci serviamo dei cassettini.
    Si alzò, scrisse e consegnò tutto al cameriere.
    
    Lord Granville è di statura ordinaria; barba all'inglese,
    occhi cerulei, una faccia tutta bontà. Riservato e cauteloso,
    egli parlando mette tutta la cordialità e vi ispira fiducia.
    Le seguenti lettere, inviate in quei giorni a Roma17, rendono conto
    dei giudizi di Crispi sulla questione egiziana e degli sforzi che
    fece affinchè il Mancini accettasse l'invito
    dell'Inghilterra:
    
    Londra, 25 luglio 1882.
    
    Ero partito d'Italia col pensiero di fare un viaggio di piacere; ma
    mutai proposito pensando che valeva meglio un viaggio d'istruzione.
    Mi recai dunque pel Gottardo a Berlino, dove rimasi sette giorni. Da
    Berlino, per la via di Bruxelles e Ostenda, venni a Londra, dove
    starò questi giorni di luglio.
    Quali sono le mie impressioni? Non confortanti per il nostro paese;
    se il Governo non saprà svegliarsi in tempo, avremo nuovi
    danni dopo quello di Tunisi.
    La Germania è completamente disinteressata nelle cose
    africane, e lascia fare a coloro che vi hanno o credono avervi
    interessi diretti. Bisogna dunque affrettarsi a prendere una parte
    attiva senza scrupoli, nè timori.
    L'accordo europeo è una commedia, e la Conferenza di
    Costantinopoli un giuoco da fanciulli. Le Potenze si sono riunite,
    perchè non vi era altro da fare. La nessuna importanza della
    riunione, è provata dal fatto di chi la presiede18. Chiunque
    intervenga in Egitto, sarà tollerato; non verrà una
    guerra da ciò. E chi interverrà acconcerà le
    cose a modo suo.
    Bismarck pensa all'Impero, e la sua politica ha un solo scopo: che
    l'Impero stia e si consolidi. Contro l'Impero non vede che due soli
    nemici: la Russia e la Francia. Le sue alleanze sono combinate in
    vista di una guerra che gli potesse venire da coteste due Potenze.
    Si è legata indissolubilmente l'Austria, e lavora a
    riordinare un forte esercito in Turchia. Poco si cura dell'Italia;
    sa che in caso di guerra non può esserle nemica....19 Se
    fossimo armati, la nostra posizione in Europa sarebbe tutt'altra.
    Avrebbero necessità di noi e nulla farebbero senza di noi. In
    fatto d'armamenti voi non potete immaginare con quale impulso
    febbrile si proceda qui....
    Il Mancini si consola della sua politica - e ne ha ragione,
    perchè eravamo caduti troppo in basso con Cairoli. - Ma
    ancora non ha portato alcun benefizio reale, e non può
    portarne. Non abbiamo nemici, ma non abbiamo amici, quantunque tutti
    ci desiderino come tali. Ma siccome non si fidano, e nulla noi
    facciamo per metterci davanti ed agire, tutti procedono nel loro
    interesse senza curarsi di noi, e ci lasciano indietro.
    Ormai bisogna intervenire in Egitto. La Germania non si opporrebbe e
    ci resterebbe amica; l'Inghilterra lo desidera, e ci accoglierebbe
    di buon grado. Intervenendo, nulla si farebbe nell'Africa senza di
    noi; e sopratutto s'impedirebbe che altri agisse a danno nostro. Se
    resteremo inerti, la Francia si consoliderà nella Tunisia e
    sarà in pericolo la Tripolitania. Il Mediterraneo ci
    sarà tolto per sempre.
    A proposito della Tunisia ho sentito tali cose sul contegno dei
    nostri a Berlino nel 1878, da far trasecolare. Fummo giuocati in un
    modo indegno per la imperizia di chi ci rappresentava.
    A Corte qui son dolenti della stampa italiana, e non sanno
    comprendere il motivo dei nostri risentimenti. Il principe di Galles
    se ne dispiacque e soggiunse che l'Italia farebbe male a lasciar
    passare anche questa occasione di prender parte all'intervento. E
    qui piacerebbe, perchè noi saremmo di contrappeso alla
    Francia, che non è amata.
    Se per mezzo di Fabrizj volete far leggere questa mia a Mancini,
    fatelo. Ma conservatela, perchè non me ne resta copia, e un
    giorno potrebbe essere un documento.
    
    Londra, 26 luglio 1882.
    
    L'Inghilterra ha bisogno di un'alleata militare nella impresa di
    Egitto. E sarebbe lieta se questa alleata fosse l'Italia. So che
    l'invito formale è stato fatto al nostro Ministero; Dio
    voglia che il Mancini non risponda siccome fece Corti al 1878; e le
    conseguenze miserande le conoscete.
    In Francia, per le incertezze del Freycinet, si prepara una
    coalizione contro di lui, e non è difficile che fra due o tre
    giorni avremo colà una crisi. Allora Francia e Inghilterra si
    combineranno, e noi resteremo esclusi. Bisogna dunque non perdere
    tempo ed accettare immediatamente l'invito che ci viene fatto.
    L'Inghilterra è pronta a tutto perchè al dramma
    egiziano sia data una soluzione conforme ai suoi interessi.
    Stamattina il Times parlava della necessità di un governo in
    Egitto sotto il protettorato Inglese. Se l'Italia ricusa,
    l'Inghilterra farà qualunque concessione alla Francia. Allora
    avverrà quello che io vi scrissi ieri: la Francia,
    consolidata in Tunisia, forse col permesso di aggredire la
    Tripolitania. Il Mediterraneo ci sarebbe chiuso.
    Non è difficile che la Germania, prevedendo tutto ciò
    e volendo aiutare la Turchia, persuada questa ad intervenire. In
    effetto, stamattina si dava come certo la Porta avere risposto che
    interverrebbe; e rimetteva ad
    altro giorno di dirne le condizioni. Come comprendete, sarebbe
    cotesta una nuova dilatoria per impedire, o per lo meno ritardare
    l'intervento delle Potenze mediterranee.
    La Francia però non vuol sentir della Turchia perchè
    non vuole che essa si avvicini ai suoi possedimenti africani. E
    l'Inghilterra non se ne fida, perchè vede la mano turca in
    tutto l'imbroglio egiziano.
    Il nostro intervento non sarebbe avversato dalla Germania, anzi
    sarebbe bene accolto. Parrebbe al gran Cancelliere che in tal modo
    si dissiperebbero i malumori per l'intrigo di Tunisi. Certamente non
    lo proporrebbe, nè c'inviterebbe, perchè non è
    suo interesse ed egli preferisce lavarsene le mani.
    
    Londra, 27 luglio 1882.
    
    ....La questione è grave e l'Italia è molto
    interessata nel Mediterraneo, perchè non si lasci sfuggire
    l'occasione che le si offre. Riprendo quindi la penna per parlarvene
    un'altra volta.
    Si è censurato l'invio delle navi da guerra e il
    bombardamento d'Alessandria come un attacco alla indipendenza di un
    governo e di un popolo straniero. Oggi le cose sono mutate. Tewfick
    non è più con Arabì, e questo, separandosi dal
    suo principe e servendosi delle truppe sulle quali non ha legittima
    autorità, è un ribelle contro il governo legale del
    suo paese. Perchè l'opera sua sia legittimata, bisogna che
    sia coronata dal successo, cioè che vinca, atterri il
    principe, costituisca un governo nazionale. Per ora, siccome il
    successo è ipotetico, egli è un ribelle.
    Che vogliono le Potenze mediterranee, cioè l'Inghilterra e le
    Potenze che a lei si associerebbero? Il ristabilimento
    dell'autorità del Kedive, e però il ritorno di un
    governo che assicuri l'ordine all'interno e dia garanzie all'Europa.
    Pertanto Gladstone ieri, rispondendo all'on. Lawson, diceva che non
    era necessaria una dichiarazione di guerra, le truppe inglesi
    scendendo in Egitto quali amiche del capo dello Stato e per
    ristabilirne, d'accordo, l'autorità manomessa.
    Ciò posto il nostro intervento in Egitto non sarebbe
    un'offesa ai principii di nazionalità ed all'autonomia di
    un altro paese. Noi vi andremmo per riprendere, quando dovrà
    riordinarsi il governo, quella influenza che ci compete, insieme
    alle altre Potenze che hanno interessi diretti in quel paese. La
    nostra presenza è una necessità per noi e per l'Egitto
    una garanzia, poichè sotto la nostra bandiera non sarebbe
    permesso alcun atto di conquista. Anche intervenendo in tre -
    appunto perchè tre - nessuno potrebbe restarvi, e tutti
    dovrebbero andar via dopo ristabilito l'ordine.
    Perchè l'Italia aderì alla Conferenza e chiese
    l'accordo europeo? Per rompere l'accordo anglo-francese. Soli,
    eravamo impotenti, e perchè soli e male avveduti al 1879
    fummo sacrificati. L'accordo anglo-francese non esiste più.
    Le parole dei Ministri francesi e quelle degli inglesi che parlano
    di cotesto accordo, sono una simulazione. I due paesi hanno
    conflitto d'interessi in Egitto, e scopi diversi a raggiungere. Da
    ciò lo invito che a noi viene dall'Inghilterra, la quale ama
    unirsi ad una Potenza come l'Italia, che non sogna l'Impero
    africano. Mancato lo scopo della Conferenza e noi avendo ottenuto
    quello che desideravamo con l'accordo europeo, non ci resta che
    provvedere ai nostri interessi nel Mediterraneo.
    Qual'è la posizione degli europei in Egitto, in ordine di
    popolazione e quanto ai commerci? In ordine di popolazione -
    eccettuata la Grecia - noi siamo i primi; poi viene la Francia, poi
    l'Inghilterra, poi l'Austria, ultima la Germania. E dico esser noi i
    primi perchè della popolazione detta francese, appena una
    metà è di naturali, il resto essendo protetti. In
    ordine ai commerci noi siamo la quarta Potenza; ci segue l'Austria;
    ultima è la Russia. Della Germania non se ne parla. Le
    quattro Potenze che primeggiano vanno così collocate:
    Inghilterra, Francia, Olanda, Italia.
    Quali sono le nazioni prospicienti sul Mediterraneo? La Spagna, la
    Francia, l'Italia, la Grecia. E le tradizioni, il passato? Italia e
    Grecia precedono.
    Raccogliendo codesti dati e valutando gl'interessi diretti in Egitto
    e nel Mediterraneo che non possono lasciarsi vincere, è
    chiaro che primeggiano l'Inghilterra, l'Italia e la Francia. Escludo
    la Spagna, l'Olanda e la Grecia, perchè la prima non ha
    importanza in Egitto, nè per la popolazione, nè per i
    commerci; la seconda
    se l'ha per i commerci, non l'ha per la popolazione; tutte e tre
    sono Potenze di secondo ordine e non siedono in Costantinopoli.
    Se cotestE circostanze ci obbligano a prendere ed a tenere la nostra
    posizione, ci spiegano anche i motivi pei quali la Germania se ne
    lava le mani e l'Austria non si riscalda. In Berlino dicevano:
    «La questione egiziana se la risolvano coloro che vi hanno
    interessi diretti; non trarremo la spada per essa».
    E dopo ciò parmi aver detto abbastanza per indicare quale
    dovrebbe essere il nostro contegno, per determinare i nostri diritti
    e i nostri doveri. In Egitto si scioglie la questione del dominio
    nel Mediterraneo, e possiamo rifarci delle sconfitte tunisine.
    
    «Londra, 29 luglio 1882.
    
    Mio caro Mancini,
    
    Sono dolentissimo che hai declinato l'invito che ti fu fatto
    dall'Inghilterra di intervenire in Egitto. Voglia Iddio che il tuo
    rifiuto non sia causa di nuovi danni all'Italia nel Mediterraneo.
    Bisognava accettare senza esitazione. Quando Cavour ebbe fatta
    l'offerta di unirsi alle Potenze occidentali per andare in Crimea,
    non vi pensò un istante. Il governo del piccolo Piemonte ebbe
    quel coraggio che oggi manca al governo d'Italia.
    
    Il tuo aff.mo
    F. Crispi.»
    
    Londra, 29 luglio 1882.
    
    Stamattina, stizzito, vi acclusi lettera per Mancini col
    proponimento di non parlarvi più di politica. La stampa
    italiana fa troppo la sentimentale e concorre col governo a far
    perdere all'Italia l'occasione che la fortuna ha messo in nostre
    mani. Ricevo ora il vostro telegramma che m'informa Mancini
    desiderare il mio pronto ritorno. Vi risposi telegraficamente.
    È bene inteso che quanto io vi scrivo.... vale a prevenire
    Mancini, se mai è in tempo per correggere il mal fatto.
    Il Governo inglese, nell'impresa egiziana, preferisce
    noi ai francesi. È inutile spiegarvene i motivi. Un giorno
    Granville vedendo il Menabrea gli disse: «Se vi chiedessimo
    d'esser con noi in Egitto, accettereste?». E l'altro:
    «Certamente». Non era un linguaggio ufficiale, ma parole
    gettate così per tastare il terreno.
    Alcuni giorni dopo il principe di Galles vide Menabrea e si
    congratulò con lui. Vi avverto intanto che queste cose io non
    le so da Menabrea, perchè costui fa con me il misterioso,
    tanto che non andrò più a trovarlo.
    Finalmente venne l'invito; ed io sapendolo, e Menabrea ignorando che
    io lo sapessi, venni da lui pregato di telegrafare a Mancini a nome
    mio, in cifra, esser mia opinione di dovere accettare l'impresa
    egiziana qualora gliene venisse l'offerta. Mancini ringraziò
    prima, chiedendo consigliarsi coi suoi colleghi, poi rifiutò.
    Qui mi dissero che non se ne lagnano, e che le relazioni dei due
    governi dureranno cordiali. Avrebbero desiderato una risposta
    favorevole; fecero l'offerta per provare all'Italia la loro vera
    amicizia.
    Io non posso esporvi quello che fu detto stamattina alla tavola di
    un ministro dal quale fui invitato a colazione....
    Mancini mi vuole in Roma. Perchè? Forse per mutare contegno?
    O per motivare il suo contegno e persuadermi che ha fatto bene? Pel
    primo motivo avrei bisogno di rivedere i capi di questo Ministero, e
    domani è domenica e tutto si mette a dormire per ventiquattro
    ore. Pel secondo motivo, è inutile il mio ritorno in Italia.
    
    Londra, 30 luglio 1882.
    
    Il 26 vi parlai di una possibile crisi ministeriale in Francia ed il
    28 vi telegrafai (con un giorno di precedenza) che il Ministero
    Freycinet avrebbe avuto alla Camera una votazione contraria. Nelle
    mie lettere ho preveduto che se il Ministero italiano non si fosse
    associato all'Inghilterra per intervenire all'Egitto, questa si
    sarebbe messa d'accordo con la Francia e saremmo rimasti espulsi dal
    Mediterraneo. Le cose francesi sono andate come io aveva previsto.
    La seconda parte delle mie previsioni non è ancora
    realizzata, ma è in via di
    realizzarsi. Per evitare il gran danno, ieri telegrafai a Fabrizj20
    con la vostra cifra, nella speranza ch'egli avesse potuto scuotere
    Mancini dalla sapiente inerzia nella quale si è messo....
    In Italia i giornali - moderati e progressisti - sono partiti da un
    dato falso. Essi credevano Francia ed Inghilterra d'accordo, e che
    l'invito all'Italia fosse partito da tutte e due. Nessun accordo
    fin'oggi tra Parigi e Londra, ma l'accordo può esser fatto
    domani col nuovo Ministero. Freycinet è caduto non già
    perchè voleva occupare il canale di Suez, ma perchè
    non voleva andare in Egitto. Il credito alla Camera francese fu
    respinto, non perchè si volesse rifiutare il danaro al
    Ministero, ma perchè il danaro chiesto da esso era poco. I
    francesi, dopo che gl'inglesi bombardarono Alessandria e
    cominciarono a mandar truppe in Egitto, vogliono intervenire
    anch'essi; e questo, e non altro, è il significato del voto
    di ieri; gl'inglesi avevan voluto prevenirli coll'alleanza italiana.
    Non ci sono riusciti. Non dovremo, nè potremo lagnarci se nel
    loro interesse si uniranno alla Francia e le faranno larghe
    condizioni.
    Chi andrà in Francia al potere? O Waddington o gli uomini
    suoi. Il discorso fatto da lui al Senato è segnalato come un
    capolavoro. Siccome Gambetta non può andare e Freycinet non
    può restare, bisognerà che venga un Ministero il quale
    contenti la maggioranza parlamentare e ripigli l'impresa africana
    come era stata ideata sin da principio. Waddington combinò
    l'affare tunisino in Berlino, e Waddington ci cacciò
    dall'Egitto. Con lui, dunque, ed i suoi, sappiamo quello che ci
    attende. Noi saremo bloccati nel Mediterraneo, e questa volta la
    colpa è nostra.
    Martedì sera sarò a Parigi.... Vi assicuro che la
    politica mi tiene inquieto e vorrei liberarmene.
    
    Londra, 31 luglio 1882.
    
    Ancora splende lo stellone d'Italia, e, nonostante i nostri errori,
    la posizione delle cose non è peggiorata: abbiamo tempo
    ancora per migliorare la nostra politica.
    All'ora in cui scrivo (4-1/2 pom.) nessuna notizia dalla Francia
    circa la soluzione della crisi. Ogni giorno che passa è un
    guadagno per noi. Qui grande battaglia alla Camera dei Pari per la
    legge sugli arretrati dei fitti in Irlanda. Lord Salisbury
    farà un emendamento che il Governo non accetterà; e se
    i Pari lo voteranno, non vi sarà modo d'intendersi fra le due
    Camere, e si prevede in tal caso lo scioglimento della Camera dei
    Comuni. I conservatori non credono di vincere nelle elezioni
    generali; nondimeno lord Salisbury si è incaponito e non
    v'è modo di dissuaderlo. Non voglio prevedere il caso di una
    vittoria dei conservatori, perchè allora la nostra posizione
    nel Mediterraneo deteriorerebbe.
    La crisi parlamentare in Inghilterra - ove avvenisse - e la durata
    della crisi ministeriale in Francia, la quale anch'essa potrebbe
    esser seguita da una crisi parlamentare, darà a noi tempo di
    riflettere e di prepararci ad agire.
    Nelle mie lettere ho detto abbastanza sul contegno che dovremmo
    tenere. Oggi farò poche considerazioni. L'Italia, nel
    Mediterraneo, dev'essere d'accordo con l'Inghilterra. Questa non
    teme lo sviluppo della nostra marina, anzi è lieta di questo
    sviluppo, perchè di fronte alla Francia è una forza di
    opposizione. Come vi dissi altra volta, l'Inghilterra non si
    preoccupa che della Francia. Amici degli inglesi ed alleati, non
    abbiamo da temere sui mari. Se avvenisse diversamente, non saremmo
    padroni delle nostre spiaggie.
    Nella politica continentale, poi, il caso è tutt'altro.
    È nostro dovere agire di concerto con la Germania. Non agendo
    di concerto, dovremmo essere fortemente armati, perchè la
    Germania ci rispettasse e chiedesse l'opera nostra.
    Sono identici i motivi della politica continentale e della politica
    marittima, in entrambe avendo innanzi a noi lo stesso nemico da
    combattere. Nella questione d'Egitto avevamo questo di bene, che
    unendoci all'Inghilterra, la Germania non ci era nemica. Quindi non
    v'era da esitare.
    
    «Londra, 1 agosto 1882.
    
    Siccome il telegrafo vi avrà annunziato, ieri gli emendamenti
    proposti dai conservatori alla legge per gli arretrati dei fitti
    d'Irlanda, furono votati a grandissima maggioranza. Il Governo non
    può lasciarli passare, e i Comuni non li accetteranno.
    Essendo impossibile un accordo su questo argomento fra le due
    Camere, lo scioglimento dei Comuni credesi inevitabile. Posso
    assicurarvi che il Ministero ne è preoccupato.
    Lo scioglimento della Camera dei Comuni è visto da alcuni
    uomini politici coi quali oggi ho parlato, problematico nei suoi
    effetti. Vi sono di coloro i quali credono possibile la sconfitta
    dei liberali. Per l'Inghilterra non sarebbe un bene, perchè i
    conservatori nella questione irlandese non sono una garanzia, ma per
    noi italiani sarebbe un danno, Salisbury essendo stato l'autore di
    tutto ciò che è avvenuto contro di noi in Tunisi ed in
    Egitto. A prevenire ogni pericolo, bisognerebbe che Mancini legasse
    gl'inglesi con un accordo scritto. Ed egli lo può, prendendo
    occasione dall'ultimo suo dispaccio per la polizia marittima del
    canale di Suez. Fatta una convenzione, qualunque ministro venisse
    dovrebbe rispettarla.
    In Francia sono talmente imbrogliati che la formazione di un
    Ministero diviene ogni giorno più difficile. I nostri
    fratelli in latinità ci danno tempo per agire. Voglia Dio che
    sappiamo profittarne.
    Qui sono dolenti del contegno della stampa italiana. In
    verità si potrebbe essere più cortesi, anche
    combattendo le opinioni degli inglesi. Bisogna ricordarsi che sono
    al potere in Inghilterra gli amici nostri. Gladstone fu il primo a
    sollevare la questione italiana quando l'Italia era divisa in sette
    Stati. Sono famose le sue lettere contro Ferdinando di Napoli. Al
    1860 furono essi che imponendo il non-intervento, impedirono a
    Napoleone III di mandar le navi nello stretto di Messina, per
    opporsi al passaggio di Garibaldi sul continente. Furono i soli che
    protestarono contro la cessione di Nizza e Savoia. Furono i primi a
    riconoscere il regno d'Italia. In particolare poi vi dirò che
    il 29 maggio 1860, mentre una nave del re di Sardegna ci
    rifiutò la polvere,
    ce la diede una nave inglese. Bisogna esser grati per tanti
    benefici, ed anche combattendo non si deve esser duri.
    
    Parigi, 3 agosto 1882.
    
    ....Io non credo che Mancini abbia preso impegni per le cose
    egiziane a Berlino. Se lo ha fatto, ha commesso un errore. La
    Germania non ha interessi diretti nel Mediterraneo, e gli uomini di
    Stato di quel Paese, lo dicono e lo ripetono. Noi siamo e viviamo
    nel Mediterraneo, e nel regolare le questioni relative dobbiamo
    ispirarci e regolarci secondo i nostri interessi. Per la Germania,
    poi, la nostra politica dev'esser questa: amicizia e, secondo i
    casi, alleanza; giammai la dipendenza e molto meno il sacrificio dei
    nostri diritti, massime quando questo sacrificio non giova alla
    nostra alleata e non ci è compensato....
    Le cose parlamentari in Inghilterra si accomodano. Gladstone
    troverà il modo di far passare ai Comuni un emendamento che
    possa essere accetto ai Pari. In caso contrario, chiuderà la
    sessione per aprirne un'altra in ottobre o novembre allo scopo di
    rifare con qualunque modificazione la legge per gli arretrati dei
    fitti in Irlanda. Non avremo dunque scioglimento della Camera
    inglese.
    Qui si parla di un Ministero d'affari. Sarà un Ministero di
    vacanze parlamentari per venire poi alla formazione di un nuovo
    Ministero alla riapertura della Camera.
    Abbiamo il tempo di rivedere le cose e correggere anche la nostra
    politica.
    
    
    
    Capitolo Quarto.
    
    Dal primo al secondo trattato della Triplice Alleanza.
    
    
    L'errore d'origine: l'Imperatore d'Austria non viene a Roma. - I
    Reali d'Italia, per ciò, non possono andare a Berlino. -
    Colloquio tra il principe di Bismarck e il duca di Genova: il
    pericolo di guerra è rappresentato dalla Francia e dalla
    Russia. - Il principe Federico Guglielmo a Roma. - Il gabinetto
    italiano scontento degli alleati. - Il generale Robilant ministro
    degli Affari esteri. - Un altro giudizio del principe di Bismarck
    sulla situazione in ottobre 1885. - I negoziati per la rinnovazione
    della Triplice Alleanza. - Con quali argomenti il principe di
    Bismarck indusse l'Inghilterra ad un accordo con l'Italia per il
    Mediterraneo. - Il nuovo trattato del 20 febbraio 1887.
    
    L'accessione all'alleanza austro-germanica, se tolse l'Italia
    dall'isolamento e orientò la sua politica estera, non dette
    frutti tangibili. Nessuno per qualche anno seppe nulla del trattato;
    i ministri della Triplice sia dalla tribuna parlamentare, che nei
    ricevimenti diplomatici, negarono l'esistenza di impegni scritti.
    D'altronde, se niente esteriormente apparve mutato nelle relazioni
    fra i tre Stati - tranne nell'intonazione dei giornali austriaci che
    divenne più cortese, e ne fu dato il merito al viaggio di re
    Umberto - poco o nulla si fece da parte nostra per rendere veramente
    intime quelle relazioni, e vantaggiose. Già, nei rapporti con
    l'Austria l'impresa non era agevole; il ravvicinamento degli animi
    non era stato spontaneo, la dominazione austriaca in Italia era
    tuttavia ricordata con rancore da molti che ne avevano sofferto; e
    dall'altra parte, a Vienna, si aveva poca fede in un governo che si
    reggeva sui principii di libertà ed era debole, per
    dippiù, coi partiti estremi.
    Un errore del Mancini, commesso già prima della firma del
    trattato, accrebbe gli ostacoli al miglioramento della situazione.
    Quando egli fece annunziare al gabinetto austro-ungarico il
    desiderio del re Umberto di visitare l'Imperatore, non richiese
    impegni per la restituzione a Roma della visita; anzi non fece motto
    di restituzione; e non già per oblio - che i suoi
    collaboratori, primo fra tutti l'ambasciatore Robilant, l'avrebbero
    avvertito - ma perchè, conoscendo gli umori dominanti nelle
    alte sfere austriache, sapeva che se avesse fatto condizione della
    venuta a Roma dell'Imperatore, il viaggio progettato sarebbe andato
    a monte.
    Quell'errore danneggiò nell'opinione pubblica il clima
    dell'alleanza, e ne durano gli effetti; poichè parve, e pare
    tuttavia, che l'Austria non ci trattasse colla considerazione che ci
    era dovuta. Esso ebbe anche una conseguenza a breve distanza,
    giacchè impedì che i Reali d'Italia si recassero a
    Berlino nel 1883 a visitare il glorioso Guglielmo I.
    Il principe di Bismarck aveva mosso per il primo la pedina,, facendo
    dire alla Consulta dall'ambasciatore Keudell che i Sovrani italiani
    erano desideratissimi in Germania e che l'Imperatore avrebbe accolto
    con grande gioia una loro visita. Aveva, bensì, avvertito
    nello stesso tempo che, sebbene Guglielmo non avesse
    difficoltà a recarsi a Roma, sarebbe stato poco prudente fare
    intraprendere il lungo viaggio ad un vegliardo di 86 anni. Il
    principe ereditario, Federico Guglielmo, avrebbe potuto sostituire
    il padre.
    Se fosse mancato il precedente austriaco, la proposta avrebbe potuto
    accettarsi, perchè ragionevole sarebbe stato il motivo della
    sostituzione; e del resto il principe Federico Guglielmo, già
    recatosi a Roma pei funerali di Vittorio Emanuele, aveva lasciato in
    Italia ottimo ricordo di sè. Ma dopo l'astensione di
    Francesco Giuseppe era impossibile transigere.
    Il principe di Bismarck desiderava tanto la visita dei Sovrani
    d'Italia che, il 1.° marzo 1883, conversando col duca Tomaso di
    Savoia, il quale si trovava in Germania pel suo matrimonio con la
    principessa Isabella di Baviera, portò il discorso sul
    vagheggiato viaggio reale, del quale il Duca nulla sapeva.
    È interessante, a proposito di questo incontro, riferire il
    giudizio espresso al duca di Genova dal principe di Bismarck circa
    la situazione internazionale di allora.
    
    "Egli disse che i buoni rapporti tra la Germania e l'Italia erano
    una conseguenza naturale del fatto che gl'interessi di queste due
    Potenze non divergevano, anzi cospiravano al mantenimento della pace
    generale. Lo stesso è a dirsi delle relazioni del Gabinetto
    di Berlino con quello austriaco; l'Austria aveva completamente
    rinunziato alla sua antica politica di lotta e di dominazione in
    Germania come in Italia, politica che era stata nel passato cagione
    di grande debolezza per la Casa degli Asburgo. Per ciò la
    Germania si trovava allora in una intimità perfetta col
    vicino impero, la quale non poteva non influire sui rapporti
    italo-austriaci. L'accordo di queste tre Potenze - soggiunse il
    Principe - offre una solida e mutua garanzia dal punto di vista
    difensivo. Il Gabinetto di Berlino non pensa ad attaccare nessuno,
    ma è pronto e risoluto, offrendosene l'occasione, a
    respingere energicamente qualsiasi aggressione. Il pericolo viene
    dalla Francia, dove le passioni sono sempre in ebollizione, e dalla
    Russia, dove, per non citare che un solo dettaglio, l'esercito
    è malcontento. Le truppe sono sparse su di un territorio
    vasto: l'ufficiale, relegato nelle piccole guarnigioni, si annoia, e
    preferisce la guerra ad una vita non solamente manchevole di ogni
    distrazione, ma circondata da molte privazioni."
    
    I Reali d'Italia non andarono a Berlino, e tuttavia Federico
    Guglielmo venne ufficialmente a Roma nel dicembre di quell'anno 1883
    per ringraziare - si disse - il Re delle accoglienze straordinarie
    ricevute in Genova, ma in realtà perchè il Bismarck
    volle dare una pubblica prova, ammonitrice per i presunti nemici
    della Germania, degli eccellenti rapporti che questa teneva con
    l'Italia. Della qual cosa si fu scontenti a Vienna, perchè le
    feste tributate al principe ereditario germanico fecero risaltare la
    freddezza delle relazioni italo-austriache, e ricordare che
    Francesco Giuseppe era in debito di una visita doverosa.
    Il Ministero Depretis-Mancini, timoroso di irritare la Francia,
    già in allarme per la voce corsa sui giornali dell'esistenza
    di una alleanza, era piuttosto imbarazzato che contento delle
    ostentazioni dell'intimità italo-germanica. E la sua condotta
    ispirò a tale preoccupazione, commettendo l'errore, che
    è stato di poi ripetuto, di rinunziare a trarre dall'alleanza
    i vantaggi che essa poteva dare, per correre dietro alla fisima di
    una amicizia con la Francia, chiaritasi chimerica per l'impresa di
    Tunisi, e ad ogni modo allora incompatibile coi legami stretti con
    la Germania.
    Così, mentre l'alleanza austro-germanica diveniva sempre
    più cordiale e raggiungeva lo scopo di fronte alla Russia, la
    quale nel marzo 1884 si riavvicinava ai due imperi centrali,
    l'Italia era in sospetto a tutti, e negletta dagli alleati.
    Alle Delegazioni, il ministro Tisza, rispondendo ad una
    interpellanza Helfy, aveva parlato delle relazioni estere
    dell'Austria-Ungheria senza accennare all'Italia; e nel Parlamento
    austriaco il ministro Taaffe aveva mantenuto un'attitudine passiva a
    fronte del linguaggio offensivo verso l'Italia di un deputato
    dalmata di razza slava. Le diffidenze e il malvolere delle classi
    dirigenti austriache apparivano ad ogni occasione. Nè
    migliori disposizioni si notavano nel governo germanico, chè
    anche il principe di Bismarck ci manifestava marcatamente la sua
    noncuranza.
    L'on. Mancini fortemente si lagnava di tutto ciò. All'infuori
    dei termini del trattato, dei casi previsti, non derivava dal fatto
    stesso dell'alleanza l'obbligo dell'assistenza fin là dove
    cominciasse per avventura il conflitto d'interessi tra l'uno e gli
    altri alleati? Così egli aveva interpretato il patto in ogni
    circostanza, ma diversamente gli alleati si regolavano nelle
    questioni d'interesse italiano. Perchè?
    
    L'on. Mancini restò al Ministero sino al 29 giugno 1885; gli
    successe, dopo un breve interim del Depretis, il Robilant, il quale
    il 6 ottobre di quell'anno passò dall'ambasciata di Vienna
    alla Consulta. Aveva fatto buona prova come diplomatico e acquistato
    prestigio presso le Cancellerie d'Europa pel suo carattere diritto,
    per i suoi nobili sentimenti, per la sua intelligenza. Questo
    prestigio personale giovò al paese, perchè
    conferì al nuovo ministro l'autorità necessaria presso
    il principe di Bismarck ed il conte Kálnoky per fare
    includere nel trattato della Triplice Alleanza la tutela di taluni
    interessi italiani.
    Si può dire che l'esistenza ministeriale del conte di
    Robilant sia stata tutta dedicata alla rinnovazione del trattato.
    Poco soddisfatto delle stipulazioni del 1882, pur da lui negoziate a
    Vienna in momenti nei quali l'Italia si offriva, l'esperienza gliene
    avea dimostrate le lacune, e si propose di colmarle.
    I due gabinetti di Vienna e di Berlino gli manifestarono subito il
    desiderio di continuare l'alleanza; ed egli, consentendo in massima,
    prese tempo per aprire le trattative. Scartava l'idea di non
    continuarla, come quella di rinnovarla tale e quale; ma per proporre
    nuovi patti bisognava pensarvi, e l'Italia non doveva far vedere che
    avesse fretta.
    Il 19 ottobre il principe di Bismarck, rispondendo al saluto dal
    conte di Robilant inviatogli nell'assumere il nuovo ufficio, gli
    fece sapere che le sue parole avevano prodotto in lui la migliore
    impressione, e che per fargli cosa gradita avrebbe ricevuto a
    Friedrichsruh l'ambasciatore di Launay.
    Il conte di Launay fece la visita il 24; il giorno precedente era
    stato dal Gran Cancelliere l'ambasciatore francese. Il Principe
    accennò al nuovo trattato, si disse disposto a renderlo
    più pratico ed intimo, non fece obbiezioni all'osservazione
    del di Launay che per allora non si chiedeva altro che preparare il
    terreno, migliorando la pratica dei patti esistenti. Poi, con
    evidente sincerità, gli parlò della situazione:
    
    "Allo scopo di mantenere la pace egli aveva cercato, dal trattato di
    Versailles in poi, di rimanere in buoni termini con la Francia, di
    non ostacolarla nella sua politica di espansione in Tunisia, in
    Cina, nel Madagascar e sulla costa occidentale d'Africa. Le dava
    così qualche indennizzo, qualche soddisfazione d'amor
    proprio; ma le aveva anche fatto comprendere chiaramente che doveva
    rinunziare per sempre all'Alsazia. Seguendo lo stesso ordine di
    idee, egli era divenuto in certo modo, specialmente in Egitto,
    l'ausiliario degli interessi francesi. Ma i suoi sforzi erano stati
    sterili. La sua assiduità, la sua quasi servilità nel
    corso degli ultimi quindici anni, era stata una delusione. La
    Francia, nelle sue grandi correnti d'opinione pubblica, pensa sempre
    alla rivincita, e se la prende con tutti coloro che non partecipano
    ai suoi rancori. Essa ne ha data l'ultima prova nell'affare delle
    Caroline. Le recenti elezioni generali avranno, d'altronde, come
    risultato la tendenza del suo governo verso il radicalismo. E in
    tali circostanze il Cancelliere riconosceva l'accresciuta importanza
    dell'accordo fra i tre Imperi e l'Italia. Egli aveva destinato
    allora all'ambasciata di Londra il conte di Hatzfeldt, che sarebbe
    riuscito meglio del Münster a stabilire anche un ravvicinamento
    con l'Inghilterra".
    
    Il ministro Robilant, deciso a non prendere l'iniziativa dei
    negoziati, fu contento dell'accoglienza fatta dal Principe al
    concetto che il nuovo trattato dovesse dare soddisfazione alle
    legittime e modeste esigenze dell'Italia, ed attese. Finalmente, in
    ottobre 1886, il principe di Bismarck fece il primo passo,
    dichiarandosi pronto ad aprire le trattative tanto a Roma che a
    Vienna. Il Robilant dapprima nicchiò, dichiarando che con o
    senza alleanza, l'Italia avrebbe proceduto d'accordo con la Germania
    e con l'Austria-Ungheria; poi disse che l'opinione pubblica italiana
    non vedeva i benefici dell'alleanza, che gli alleati non avevano mai
    dato all'Italia una prova di fiducia completa, che Bismarck non
    trovava mai tempo per conferire personalmente con l'ambasciatore
    d'Italia. Queste lagnanze e la riluttanza, più apparente che
    reale, a rinnovare il trattato, fecero il loro effetto. In
    realtà, grave impressione avrebbe prodotto la cessazione
    dell'alleanza, e la Germania, tra la Francia nemica e la Russia poco
    benevola, non sarebbe stata tranquilla: disse ciò
    spontaneamente il Keudell. Onde le condizioni poste dappoi dal
    Robilant, le quali si riassumevano nella garanzia dello statu-quo
    nel Mediterraneo e nella Penisola Balcanica, furono accettate.
    La redazione dei nuovi patti, dopo un lungo scambio di proposte e
    contro-proposte, fu pronta il 19 febbraio 1887; l'indomani essi
    furono firmati a Berlino.
    
    L'esigenza del conte di Robilant che l'Italia fosse garantita nel
    Mediterraneo, ispirò al principe di Bismarck l'idea di un
    accordo con l'Inghilterra. Deciso a tenersi avvinta l'Italia e fermo
    nella sua politica d'isolare la Francia per renderla impotente a far
    la guerra, il Principe vide la doppia utilità che sarebbe
    derivata alla Germania da una intesa anglo-italiana: l'Inghilterra
    avrebbe offerto quella sicurtà marittima che la Germania non
    poteva dare, e, impegnandosi con l'Italia, si sarebbe preclusa la
    possibilità di appoggiare la politica della Francia.
    Non era facile indurre i ministri della Regina, in un tempo nel
    quale lo "splendido isolamento" aveva tanti fautori, a legarsi con
    una Potenza continentale, sia pure mercè un accordo che
    sarebbe rimasto segreto. Ma per il principe di Bismarck la cosa fu
    facilissima.
    Il 1.° febbraio 1887 egli si recò a far visita
    all'ambasciatore britannico a Berlino, sir E. Malet. "Il gabinetto
    italiano - disse - gli aveva chiesto di voler appoggiare la domanda
    fatta a Londra di una più stretta amicizia dell'Inghilterra
    con l'Italia; egli pensava che il governo inglese avesse ogni motivo
    per fare buon viso a tale domanda. Esisteva una specie [!] di
    alleanza fra la Germania e l'Italia, ma aveva scarso pregio per la
    Germania, l'Italia non potendo essere la sua vera alleata efficace
    che alla condizione di essere in grado di trasportare le proprie
    truppe per mare. I valichi delle Alpi essendo irti di
    fortificazioni, sarebbe impedito ogni efficace aiuto attraverso a
    queste. Se l'Italia potesse trasportare le sue truppe per mare,
    allora soltanto essa sarebbe una considerevole alleata. Ma
    ciò potersi solo effettuare con una cooperazione
    dell'Inghilterra, per mezzo della quale il predominio del
    Mediterraneo sarebbe assicurato a queste due Potenze.
    Il Principe disse di comprendere le difficoltà che sovrastano
    ad ogni presidente dei ministri britannico il quale tenti di
    stringere un'alleanza con una Potenza estera; nel caso attuale
    però non era necessario che di venire ad un accordo basato
    sulla permanenza al potere del presente governo. Egli riteneva che
    le trattative amichevoli con l'Italia avrebbero favorevole
    accoglienza in Inghilterra, giacchè sarebbero in armonia con
    le tradizioni popolari dei due paesi. Credeva poi che la sua
    esistenza durante la crisi presente sarebbe stata un potentissimo
    fautore per il mantenimento della pace in Europa, mentre la sua
    mancanza avrebbe potuto fomentare la guerra.
    Accennando alla questione della pubblica opinione e al dovere
    riconosciuto in un ministro inglese di seguirla, il Principe disse
    che qualunque fosse la consuetudine, stava sempre nel potere del
    ministro, anzi nella cerchia dei suoi doveri, di formare questa
    pubblica opinione. Questa non è, soggiunse, che un fiume
    formato da una quantità di piccoli ruscelli, uno dei quali
    è il ruscello governativo. Se il governo alimentasse
    sufficientemente il suo ruscello, concorrerebbe efficacemente a
    formare la grande corrente pubblica; se invece aspetta di giudicare
    delle forze di tutti gli altri ruscelli, separatamente meno potenti
    del suo, pur dalla unione loro rimarrebbe sopraffatto. Agire in tal
    guisa sarebbe una imperdonabile mancanza di precauzione.
    Il Principe insistette poi sui reciproci vantaggi di una alleanza
    fra l'Inghilterra e l'Italia, asserendo che nessun desiderio di
    quest'ultima avrebbe mai potuto verificarsi in antagonismo con
    gl'interessi di quella. Nel Mediterraneo le aspirazioni dell'Italia
    convergono verso Tunisi e Tripoli, sul continente al ricupero di
    Nizza".
    Sir Malet osservò che concepiva un'alleanza fra l'Italia e
    l'Inghilterra per gli affari d'Oriente, ma dubitava che
    l'Inghilterra contraesse un'alleanza che potesse porla in
    ostilità con la Francia.
    Tutte le volte che il gran Cancelliere consigliava l'accettazione di
    una proposta, faceva osservare quali avrebbero potuto essere le
    conseguenze di un rifiuto.
    Secondo le sue vedute era dovere dell'Inghilterra di assumere la sua
    parte di responsabilità, per assicurare la pace d'Europa.
    Egli sapeva dell'esistenza di una scuola che predicava la astensione
    di quella Potenza da ogni ingerenza nella politica europea; ma egli
    pensava che l'Europa avesse ragione di desiderare la cooperazione
    inglese per il mantenimento dell'equilibrio fra le Potenze. Se
    l'Inghilterra si rifiutasse, e se tutti i tentativi per indurla ad
    assumere la sua quota di pericolo e di responsabilità che
    incombe ad ogni Potenza europea, fallissero, le Potenze interessate
    si vedrebbero costrette a cercare altre combinazioni. "Per esempio -
    disse il Principe - con tutta facilità potrei rendere
    più intimi i rapporti della Germania con la Francia
    accondiscendendo alle incessanti sollecitazioni di questa riguardo
    all'Egitto. E potrei allontanare ogni apprensione da parte della
    Russia, riducendo la nostra alleanza con l'Austria al puro impegno
    letterale di garentire l'integrità del territorio dell'impero
    austriaco, o permettendo alla Russia di occupare il Bosforo e lo
    Stretto dei Dardanelli".
    Naturalmente, a questo punto sir Malet osservò che ogni
    tentativo di tal natura da parte della Russia implicherebbe una
    guerra con l'Inghilterra, e che perciò la pace, che sembrava
    essere l'unico obbiettivo del Cancelliere, non sarebbe stata
    certamente assicurata con simili combinazioni.
    Un sorriso di soddisfazione passò sul volto del Principe, il
    quale soggiunse che aveva additato soltanto combinazioni possibili,
    che tuttavia sperava non si sarebbero mai verificate.
    
    Il colloquio finì con un giudizio del Principe sul pericolo
    di guerra con la Francia. Egli disse che fino a quando fossero al
    potere uomini come Ferry e Freycinet nulla vi era da temere, ma che
    se invece il generale Boulanger dovesse diventare presidente del
    consiglio dei ministri o della repubblica, ciò che già
    si prevedeva, il pericolo sarebbe stato imminente, essendo egli
    già compromesso dalla sua attitudine generale e non avendo
    altro modo di mantenersi al potere che continuando a rappresentare
    la parte assuntasi.
    
    
    
    Capitolo Quinto
    
    Crispi e la questione Bulgara
    
    La crisi ministeriale del febbraio 1887: il contegno dell'on.
    Crispi, suoi colloqui col Re, sua nomina a Ministro dell'Interno. -
    La questione bulgara e la condotta del Governo italiano prima che
    Crispi assumesse la direzione della politica estera, e dopo. -
    Carteggi e documenti. - L'Italia propone e fa accettare dalle
    Potenze il non-intervento in Bulgaria. - La triplice per l'Oriente.
    
    La crisi ministeriale che l'ecatombe di Dogali determinò l'8
    febbraio 1887, fu lunga e laboriosa.
    L'impresa africana, iniziata con lo sbarco di un presidio italiano a
    Massaua (5 febbraio 1885), doveva essere, secondo il ministro
    Mancini, una riparazione, un compenso per le delusioni toccate
    all'Italia nel Mediterraneo: "Perchè non volete riconoscere -
    diceva egli alla Camera il 27 gennaio 1885 ai suoi oppositori i
    quali gl'imputavano di perder di mira il vero obbiettivo della
    politica italiana, cioè il Mediterraneo - perchè non
    volete riconoscere che nel mar Rosso, il più vicino al
    Mediterraneo, possiamo trovare la chiave di quest'ultimo?"
    Purtroppo, l'Italia nel mar Rosso non trovò che disastri, e
    per dippiù una diversione esiziale intuita sin da allora
    dall'on. Crispi, che nella seduta del 29 gennaio avvertì:
    "Se nel 1882 l'on. ministro Mancini avesse accettato le proposte
    dell'Inghilterra, forse oggi sarebbe a tempo per cominciare una
    politica coloniale seria, feconda di veri risultati. Ad ogni modo
    non posso che augurare all'Italia che quel ch'egli ha fatto possa
    non riuscirci dannoso".
    Dogali fu una conseguenza della leggerezza con la quale furono
    considerate le difficoltà dell'impresa, e specialmente il
    valore dell'ostilità abissina. A Massaua il generale
    Genè riteneva di potere tener fronte alle masse nemiche con
    un pugno dei nostri; a Roma il ministro Robilant chiamava "quattro
    predoni" popolazioni bellicose, viventi in continua guerra.
    Dimessosi il Ministero presieduto dall'on. Depretis - il quale era
    al potere dal 29 maggio 1881 e non godeva riputazione presso la
    parte sana del paese - il Re incaricò dapprima lo stesso
    Depretis di ricomporre il gabinetto; ma questi dovette rinunziare al
    mandato il 23 febbraio 1887. Gli on. Robilant, Biancheri, Saracco
    essendo stati successivamente officiati a comporre una nuova
    amministrazione ed avendo ricusato, il Re, il 5 marzo,
    ritornò sui suoi passi deliberando di non accettare le
    dimissioni del Ministero.
    Qual contegno tenne l'on. Crispi durante questa crisi che doveva
    risolversi con la sua andata al governo?
    Spigoliamo nel suo Diario.
    Il 9 febbraio il Re lo chiamò a consiglio:
    
    «Alle 9-1/4 fui al Quirinale.
    Il Re chiese il mio parere sulla situazione politica e sulla
    situazione parlamentare, mostrandosi preoccupato delle condizioni
    del paese, dello stato d'Europa, delle grandi necessità onde
    siamo tormentati.
    Risposi: peggiorata la nostra posizione in Europa in questi ultimi
    anni. La Germania ci sfugge, l'Austria può essere interessata
    ad averci seco, ma non sarà un'amica costante. La situazione
    parlamentare non può essere peggiore; l'on. Depretis vi ha
    messo il disordine, tanto che neppur lui può contare sulla
    Camera. I partiti son molti, ma nessuno può contare sulla
    maggioranza. Nulla di meno il più forte è quello di
    sinistra. Il disordine parlamentare non può esser tolto che
    da un'Amministrazione composta di uomini probi, scelti fra le
    migliori capacità della Camera.
    - Nulla di meglio io chiedo. Mi indichi lei la persona alla quale
    dovrei indirizzarmi.
    - Non tocca a me di darle cotesta indicazione. Cotesto ufficio
    spetta al presidente del Ministero che si è dimesso.
    Così suol farsi in Inghilterra.
     - Io non escludo alcuno, e se mi fosse indicato un nome il mio
    ufficio sarebbe più facile. E, a proposito, le dirò
    che oggi ho letto con dispiacere in un giornale che a Corte sarebbe
    escluso il di lei nome. Cotesta è una malignità. Sento
    per lei tutta l'amicizia, apprezzo il di lei patriottismo, la di lei
    energia, la di lei esperienza. Se il di lei nome mi fosse indicato,
    o se in una combinazione ministeriale trovassi il suo nome ne sarei
    lietissimo. Io le affiderei volentieri il potere.
    - Ringrazio Vostra Maestà dei suoi sentimenti verso di me....
    - No, io non voglio che si creda che faccia delle esclusioni.
    - Non posso dubitare di quanto V. M. mi dice.
    - Va bene. Mi dica: come sta lei col conte di Robilant?
    - Benissimo. Io lo conobbi al 1877 a Vienna. Lo ho riveduto alla
    Camera, ma non ho con lui intimità.
    - È una grave questione quella degli uomini. Comprendo che
    Depretis è vecchio e non può sovraintendere al
    Ministero dell'Interno.
    - Del Ministero dell'Interno parlai altra volta a V. M. e le dissi
    che in Italia manca assolutamente la polizia preventiva.
    Fortunatamente abbiamo un buon popolo.
    Dopo pochi altri minuti il Re si alzò, mi strinse la mano e
    mi congedai.»
    
    Il 22 febbraio l'on. Saracco si recò da Crispi ad offrirgli
    il portafoglio della Giustizia nel Ministero che il Depretis sperava
    potere ricostituire. L'on. Crispi declinando l'offerta
    ricordò che avrebbe potuto essere ministro di Giustizia nel
    1866 e nel 1867; e avvertì che non avrebbe mai accettato una
    posizione che non gli consentisse di esercitare influenza su tutta
    la politica, specialmente su quella estera, della quale i ministri
    sogliono disinteressarsi.
    Non riuscito il tentativo del Depretis, l'on. Crispi divenne
    l'oracolo della situazione: il 25 e il 27 ricevette il marchese di
    Rudinì; il 3 marzo, dopo che il Depretis fece fallire, col
    negargli il suo appoggio, una combinazione Saracco perchè ad
    essa avrebbe preso parte il Rudinì, i dissidenti della Destra
    decisero in una riunione di appoggiarsi a Crispi; il quale ricevette
    il 4 marzo l'on. Tajani, il 6 di nuovo il Rudinì, il 9 gli
    on. Lacava e Giolitti, quindi gli on. Baccarini, Cairoli e Nicotera,
    l'11 gli on. Codronchi e Rudinì, Lacava e Giolitti. Il 12
    aderì ad incontrarsi con gli on. Bonghi, Spaventa, Codronchi
    e Rudinì. Trascriviamo dal Diario:
    
    12 marzo. - Alle ore 5 pom. all'albergo di Roma dove trovai gli on.
    Bonghi, Rudinì e Codronchi. Verso le 5-1/4 sopraggiunse
    Spaventa.
    Dopo spiegazioni diverse, si convenne sui seguenti punti. Ipotesi di
    una combinazione con Depretis. Crispi ritiene non offra
    probabilità alcuna; nulladimeno, ove avvenisse, non
    bisognerebbe opporsi; anzi renderla possibile.
    Politica estera. - Rinnovare gli accordi con le Potenze centrali. Il
    rifiutarsi potrebbe nuocere; Spaventa osserva che la Germania
    potrebbe sospettare di noi. Bisogna inoltre considerare la posizione
    nella quale si è messo il papato con Bismarck. Necessario,
    intanto, riannodare le nostre relazioni con l'Inghilterra,
    associarsi a lei nell'Egitto, renderle facile con l'opera nostra il
    compito assuntosi, per obbligarla ad essere con noi in tutte le
    questioni nel Mediterraneo.
    Finanza. - Rinforzarla con nuove imposte per accrescere le entrate e
    soddisfare alle spese militari ed a quelle per le opere pubbliche.
    Esercito ed armata forti.
    Legge Comunale e Provinciale. - Elettorato: censo, 5 lire.
    Capacità, quarta elementare. Sospensione agli impiegati
    municipali del diritto elettorale.
    Esplicare il nostro accordo alla Camera alla prima occasione e
    informare il Re; di questo s'incarica il Rudinì.
    Discutendo delle imposte, si accennò al dazio di entrata sui
    cereali; ma esso non potrebbe esser solo, dovendosi provvedere a 60
    milioni di nuova entrata.
    Rudinì racconta di aver visto Zanardelli, il quale anch'egli
    è di avviso che il solo possibile sarebbe un Ministero di
    coalizione. Egli lo motivava non solo con le condizioni della
    Camera, ma per le necessità in cui siamo di dover stabilire
    nuove imposte. Bisogna che la
    impopolarità sia affrontata dai patriotti dei diversi
    partiti.
    
    13 marzo. - Alle 10 ant. ho la visita del marchese Rudinì.
    Egli fu iersera dal Re, al quale diede conto dell'accordo sui punti
    principali di governo tra Crispi, Spaventa e gli altri. Questo
    accordo assicura la possibilità di un'amministrazione nel
    caso di crisi.
    Il Re ne fu contento. Egli in tutti i casi saprebbe a chi
    rivolgersi.
    Chiese se dell'accordo potesse parlare al Depretis, e il
    Rudinì rispose che S. M. facesse a suo talento.
    
    20 marzo. - Invitato, mi reco alle 4-1/2 pom. dal Depretis. Mi narra
    avergli il Re riferito il colloquio avuto col marchese di
    Rudinì circa l'accordo dell'albergo di Roma. Mi parla delle
    difficoltà della situazione e della necessità di
    comporre una nuova amministrazione. L'opinione pubblica designare un
    ministero Depretis-Crispi; lui volervisi prestare e m'invitava ad
    accettare. Risposi che sarei entrato a condizione che si potesse
    comporre un gabinetto capace di durare. Si discorre delle persone
    che dovrebbero farne parte. Depretis soggiunge di esser vecchio ed
    accasciato e di non poter rimanere al Ministero dell'Interno.
    M'informò che il trattato con le Potenze centrali era
    già stipulato con condizioni migliori delle precedenti.
    Conveniamo sul programma. Mi riservo a decidermi.
    
    24 marzo. - Alle 2 pom. viene Rattazzi a nome del Re. Sua
    Maestà desidera che io entri nel Ministero. Messaggio di
    affettuose parole e di cortesie. Aderisco.
    
    28 marzo. - Tornando a Roma da Napoli, trovo un biglietto di
    Depretis che mi avverte esser io atteso dal Re.
    S. M. mi riceve alle 11 ant. Mi ringrazia perchè avevo
    accettato di assumere il potere. Dichiara che non fa questione di
    nomi, e che accetterà quelli che indicheremo Depretis ed io.
    Informo il Re delle pratiche fatte con lo Zanardelli e della
    necessità di averlo nel Ministero. Non si può fare a
    meno di provare ai pentarchi
    la convenienza che d'accordo si tenti una composizione ministeriale
    col Depretis. Ad ogni modo giova portare le cose al punto che sia
    dimostrato che da parte nostra non manca la buona volontà.
    Il Re approva.
    
    Francesco Crispi prese possesso del Ministero dell'Interno il 4
    aprile. Della politica estera non potè ingerirsi
    finchè fu in Roma l'on. Depretis, il quale, ritiratosi il
    Robilant, si era riservato l'interim degli Affari esteri. Ma
    allontanatosi il Depretis per curare la sua salute, Crispi
    reclamò che il Consiglio dei Ministri fosse tenuto al
    corrente dell'azione della Consulta nella questione bulgara, allora
    divenuta più che mai piena d'incognite per la elezione di
    Ferdinando di Sassonia-Coburgo-Gotha a Principe (7 luglio).
    Il trattato di Berlino aveva costituito la Bulgaria in principato
    autonomo, ma tributario della Turchia, e stabilito (art. 3.°)
    che il principe sarebbe stato eletto dalla popolazione e confermato
    dalla Sublime Porta col consenso delle Potenze. Aveva altresì
    costituito al sud dei Balcani, col nome di Rumelia Orientale, una
    nuova provincia e l'avea posta sotto l'autorità politica e
    militare della Turchia.
    La elezione del primo principe, Alessandro di Battenberg, fatta
    dall'assemblea dei deputati bulgari il 29 aprile 1879, non aveva
    avuto contrasti. Nel breve regno di sette anni (abdicò il 3
    settembre 1886) Alessandro organizzò lo Stato e l'esercito,
    cementò lo spirito nazionale dei bulgari con la guerra
    vittoriosa contro la Serbia (battaglia di Slivnitza, 28 novembre
    1885) e con l'acquisto della Rumelia, indirizzandoli per la via
    d'ogni progresso verso l'indipendenza.
    L'ambizione della Russia di tenere in soggezione il principato fu la
    causa maggiore dell'abdicazione di Alessandro di Battenberg, come
    delle difficoltà incontrate dal successore di lui.
    L'indomani dell'elezione del principe di Coburgo, Crispi desiderando
    che l'Italia prendesse parte attiva e indipendente nella questione,
    iniziò col presidente del Consiglio la corrispondenza
    telegrafica che riferiamo:
    
    «8 luglio 1887.
    
    Presidente Consiglio Ministri,
    
    Stradella.
    
    Dopo nomina nuovo principe Bulgaria e incertezza risoluzione della
    Russia, il Consiglio dei Ministri è preoccupato difficili
    condizioni Europa e chiede conoscere vero stato cose e quale sia la
    parte presa e da prendere dall'Italia, se e quale l'accordo con le
    Potenze alleate.
    
    Crispi.»
    
    «9 luglio.
    
    S. E. Ministro Interni,
    
    Roma.
    
    Avrai spiegazione richiesta. Intanto prego dissipare preoccupazione
    Consiglio Ministri, sicuri come siamo procedendo correttamente sul
    terreno dei trattati e di pieno accordo con Potenze amiche.
    
    Depretis.»
    
    «9 luglio.
    
    Presidente Consiglio Ministri,
    
    Stradella.
    
    Aspettiamo tua risposta. Certamente avrai dato istruzioni ai nostri
    ambasciatori di Vienna, Berlino, Londra e Costantinopoli, ed al
    nostro ministro a Sofia sul modo come debbano regolarsi circa la
    nomina del nuovo Principe. Vienna e Londra essendo favorevoli a
    codesta nomina, noi non dovremmo essere ultimi.
    Giova anche regolare il contegno del nostro ambasciatore a
    Pietroburgo, la Russia essendo contraria alla elezione fatta
    dall'Assemblea bulgara.
    La questione bulgara può esser causa di un dissidio, e noi
    dovremmo trar profitto dalle nostre amicizie ed alleanze.
    
    Crispi.»
    
    «9 luglio.
    
    S. E. Ministro Interni,
    
    Roma.
    
    Ecco situazione. Governo Bulgaro insiste presso la Porta
    affinchè non faccia difficoltà preliminari e chieda
    assenso delle Potenze per elezione Principe, conformemente trattato
    Berlino. Se Porta aderisce converrà prepararsi rispondere
    alla sua interrogazione. Già sappiamo Russia contraria,
    Inghilterra favorevole, Germania manterrà solita riserva,
    Francia seguirà probabilmente esempio Russia. Ambasciatore
    Austria Costantinopoli si mostra scontento; però avendo
    ragione dubitare della sincerità di questo sentimento ho
    telegrafato Nigra interrogare schiettamente quel governo.
    Parmi ci convenga sospendere ogni risoluzione finchè
    situazione meglio chiarita. Intanto continuare scambio idee colle
    Potenze alleate.
    
    Depretis.»
    
    «12 luglio.
    
    Presidente Consiglio Ministri,
    
    Stradella,
    
    Godo che tua salute costantemente migliori.
    Duolmi che costantemente continui male politica estera che non fai e
    non lasci fare.
    
    Crispi.»
    
    Il 14 luglio l'on, Depretis informava l'on. Crispi di aver
    telegrafato alle RR. Ambasciate e alla R. Legazione di Sofia la
    dichiarazione seguente fatta all'ambasciatore di Turchia:
    
    «Nell'interesse della Bulgaria, della Turchia e dell'intera
    Europa è, a nostro avviso, altamente desiderabile che la
    crisi bulgara giunga il più presto possibile a propizia e
    definitiva conclusione mercè l'insediamento a Sofia di un
    principe, e il ristabilimento nel principato di un ordine di cose
    stabile e normale. La Sublime Porta deve quindi considerare come
    acquisito il nostro concorso per
    tale soluzione che, essendo l'espressione della libera
    volontà delle popolazioni in Bulgaria, si uniformerebbe ora
    nella sua pratica attuazione ai procedimenti segnati nel trattato di
    Berlino».
    
    «15 luglio.
    
    Presidente Consiglio Ministri,
    
    Stradella.
    
    Comunicai ai miei colleghi telegramma V. E. 14 corrente spedito alle
    nostre ambasciate ed al nostro agente in Sofia. Alcuni di loro non
    furono contenti perchè nulla vi è detto che valga ad
    indicare la nostra politica in Oriente.
    In verità non essendosi nulla deciso dall'Italia, si vorrebbe
    almeno conoscere quali pratiche siano state fatte presso le altre
    Potenze e quali risposte ottenute per la soluzione della questione.
    
    Crispi.»
    
    Il 21 luglio l'on. Depretis ebbe un'idea e senza comunicarla al
    Consiglio dei Ministri, la sottopose al giudizio dell'ambasciatore a
    Berlino, conte di Launay:
    
    «Consideriamo la elezione Coburgo come fallita.[!] Se la
    continuazione dello statu-quo e del provvisorio a Sofia è
    cosa indifferente per il gruppo alleato, non abbiamo che da
    attendere tranquillamente il seguito degli avvenimenti. Se al
    contrario, occorre regolare la questione al più presto, si
    potrebbe forse far andare il principe di Coburgo a Sofia in
    qualità di «luogotenente principesco (lieutenant
    princier)» anzichè di principe. Se il gabinetto di
    Pietroburgo è di buona fede nella sua opposizione, se
    contesta soltanto la legalità della elezione senza intento di
    tenere aperta la questione bulgara per i suoi fini, dovrebbe
    accettare questo espediente. A Berlino, centro naturale del nostro
    gruppo, si dovrebbe formulare un parere su questo suggerimento, ed
    eventualmente dire qual gabinetto sarebbe in migliori condizioni per
    prenderne l'iniziativa.»
    
    Ma il di Launay trovò l'espediente impraticabile,
    poichè un luogotenente principesco, il cui ufficio sarebbe
    stato quello di preparare l'elezione del nuovo principe, non poteva
    essere lo stesso candidato al trono; e d'altra parte come
    Ferdinando, già eletto Principe, avrebbe potuto presentarsi
    in Bulgaria in una veste inferiore?
    La consuetudine di camminare sulle orme degli altri era così
    inveterata che l'on. Depretis eccezionalmente si era azzardato a
    metter fuori un'idea; in tutti i documenti partiti in quel mese di
    luglio dalla Consulta, non vi sono che parole vaghe e di attesa
    delle decisioni delle altre Potenze. Mentre l'on. Crispi esortava il
    Presidente del Consiglio a prendere posizione, dalla Consulta il 13
    luglio si scriveva all'ambasciatore a Costantinopoli:
    
    «Avvenuta l'elezione del principe di Coburgo non abbiamo
    creduto di affrettarci ad enunciare la nostra opinione. Ci parve
    conveniente di astenerci dal pregiudicare, con premature
    dichiarazioni, una questione rispetto alla quale una considerazione
    elementare di reciproco riguardo, e quasi di equità
    internazionale, suggeriva che si lasciasse anzitutto la parola alle
    Potenze aventi nel problema che si agita in Bulgaria un interesse
    più diretto e immediato.»
    
    L'on. Depretis morì il 31 luglio; gli successe nella
    presidenza dei Consiglio l'on. Crispi, il quale per decreto dell'8
    agosto assunse altresì l'interinato del ministero degli
    Affari esteri. Lo stesso giorno Crispi dirigeva alle regie
    rappresentanze all'estero questa circolare:
    
    «Nel prendere la direzione degli Affari esteri, tengo a
    manifestare il mio fermo intendimento di continuare la politica di
    pace e di conservazione che nel concerto europeo caratterizza
    l'opera dell'Italia.
    Conforme a tale intendimento è l'atteggiamento che intendiamo
    prendere nella questione bulgara, nella nuova fase in cui sembra che
    entri per l'annunciato imminente arrivo del principe di Coburgo in
    Bulgaria. Non abbiamo predilezioni personali per questo piuttosto
    che per altro principe; ma il principe Ferdinando, per il fatto
    della sua elezione, rappresenta agli occhi nostri, sino a prova
    contraria, l'espressione della volontà del popolo bulgaro.
    L'Italia, politicamente costituitasi coi plebisciti, non può
    disconoscere l'alto valore di quella manifestazione con cui è
    stato soddisfatto alla prima ed alla più importante, per noi,
    delle tre condizioni poste dall'art. 3.° del trattato di
    Berlino.
    Convinto essere dell'interesse generale che la questione bulgara,
    minaccia permanente per la pace europea, venga risolta quanto
    più presto è possibile, il governo si è sempre
    dichiarato pronto ad adoperarsi per il successo di qualsiasi
    soluzione, la quale, sulla base dei trattati e del rispetto della
    volontà delle popolazioni, potesse assicurare un governo
    stabile alla nazione bulgara. Ora, l'avvenuta elezione del principe
    di Coburgo, che rappresenta un principio di soluzione, ci sembra
    appunto una combinazione che, favorita dal buon volere delle
    Potenze, varrebbe, mantenendo fisse le due basi suddette, a
    conseguire l'intento. Ad esso adunque dobbiamo desiderare che le
    Potenze aventi con noi comunità di fine e d'intendimenti
    pacifici prestino, come siamo disposti a prestarlo noi stessi, un
    volenteroso appoggio morale. Gradisca ecc.»
    
    Il 7 agosto il principe Ferdinando, dopo avere invano atteso che la
    Turchia e le Potenze assentissero alla sua elezione, cedette alle
    insistenti sollecitazioni del governo bulgaro, e passò in
    Bulgaria, dove ebbe entusiastiche accoglienze. Era trascorso appunto
    un mese dalla elezione della Sobranje, e in quei trenta giorni il
    Principe era vissuto in una tormentosa indecisione, tra
    l'irremovibile no della Russia, l'oscitanza della Turchia e la
    propria ambizione. Il 29 luglio, l'ambasciatore Nigra aveva
    telegrafato da Vienna:
    
    «Il principe Ferdinando è venuto a vedermi in questi
    giorni. Mi ha domandato consiglio. Mi sono rifiutato di dargli
    consigli dicendogli che nella mia qualità di ambasciatore non
    avevo niente a dirgli. Ma come amico privato gli ho detto che mi
    sembrava la sua via fosse tracciata dai trattati. Egli non mi
    è sembrato molto disposto a tentare l'avventura di una corsa
    in Bulgaria. Ignoro se abbia fatto qualche passo a Pietroburgo; in
    ogni caso non sarebbe riuscito.»
    Il fatto compiuto, cioè la presa di possesso da parte del
    principe Ferdinando della dignità conferitagli dal popolo
    bulgaro, accrebbe l'irritazione della Russia e le difficoltà
    della situazione.
    Si presentò subito la questione come dovessero condursi i
    rappresentanti delle Potenze in Bulgaria, col Principe. Crispi non
    esitò a telegrafare il 9 agosto al r. Agente e console
    generale in Sofia:
    
    «Un riconoscimento formale del principe Ferdinando come
    Principe di Bulgaria non è evidentemente possibile da parte
    nostra se non dopo acquistata la certezza che egli effettivamente
    rappresenta la volontà delle popolazioni e dopo
    legittimazione della sua posizione conformemente al trattato di
    Berlino.»
    
    E dopo questa dichiarazione dava istruzione al r. Agente di
    astenersi da atti che implicassero riconoscimento, pur usando al
    Principe i riguardi dovuti, e mantenendo col governo principesco i
    rapporti di fatto necessarii.
    Dopo poco, l'Austria-Ungheria dava al suo agente in Bulgaria
    analoghe istruzioni.
    L'11 agosto l'Incaricato di affari di Russia si presentò alla
    Consulta per dichiarare che il suo Governo non riconosceva la
    validità della elezione, che aveva cercato di dissuadere
    indirettamente il Principe dal recarsi in Bulgaria, e che si credeva
    obbligato di dichiarare illegale la di lui apparizione nel
    principato per mettersi alla testa del Governo. Il gabinetto
    imperiale faceva appello alle Potenze sperando di non trovarsi solo
    ad esigere il rispetto al trattato di Berlino.
    Crispi rispose che si sarebbe messo in comunicazione con gli altri
    gabinetti, e che il governo italiano non aveva cessato di
    considerare il trattato di Berlino come la base necessaria per la
    soluzione della crisi bulgara.
    Propostosi l'intento di appoggiare l'eletto della nazione bulgara e
    di cogliere l'occasione per acquistare all'Italia prestigio e
    simpatie nella penisola balcanica, l'on. Crispi cercò innanzi
    tutto di assicurarsi l'appoggio dell'Inghilterra, la quale, dapprima
    non contraria al principe Ferdinando, aveva poi fatto comprendere
    alla Russia che vedeva l'elezione di lui "con indifferenza", e alla
    Bulgaria che "non riputava vantaggiosa agli interessi del principato
    la scelta del Coburgo".
    Come l'on. Crispi regolasse la condotta dell'Italia nelle fasi
    successive della questione, e riuscisse a formare il gruppo
    italo-anglo-austriaco che impose il non intervento nelle faccende
    interne della Bulgaria, si rileva dai documenti che seguono:
    
    «12 agosto.
    
    A S. M. il Re,
    
    Monza.
    
    Lord Salisbury dette istruzioni al suo agente a Sofia di trattare il
    principe di Coburgo come un parente della Regina. I gabinetti di
    Parigi e di Vienna avranno con lui relazioni come governo di fatto e
    senza pregiudicare la questione di diritto.
    
    Crispi.»
    
    «15 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Costantinopoli,
    
    Per noi, sino a prova contraria ed equivalente, l'avvenuta elezione
    è testimonianza valida della volontà del popolo
    bulgaro. Il principio della volontà delle popolazioni
    potrebbe essere indicato come il migliore mezzo d'interpretazione
    dello spirito del trattato di Berlino nella sua applicazione ai casi
    imprevisti.»
    
    «Napoli, 16 agosto.
    
    A S. M. il Re,
    
    Monza.
    
    Riparto stasera per Roma. Telegrafai confidenzialmente a Nigra e a
    Catalani quale a mio avviso dovrebbe essere la linea di condotta del
    governo di V. M. nella questione bulgara: aiutare, cioè, la
    Bulgaria ad uscire dallo stato provvisorio in cui si dibatte e che
    costituisce una minaccia immediata e permanente per l'Europa. Il
    principe di Coburgo, eletto per acclamazione, ricevuto con
    entusiasmo, ha almeno il merito di rappresentare una soluzione
    accettabile e per metà realizzata. Noi crediamo
    quindi di dover aiutarlo per quanto è possibile, senza
    beninteso staccarci dall'accordo di principii che abbiamo
    coll'Austria e con l'Inghilterra, e ciò tanto più che
    la Germania vede di buon occhio tale accordo. La unanimità di
    tutte le Potenze è una utopia. Il principe o il generale
    russo, che solo potrebbe esser gradito a Pietroburgo, spiacerebbe a
    Vienna. Aggiungerò che l'Italia, per esser fedele alle sue
    tradizioni, ai suoi principii, ai suoi interessi, deve mirare a che
    la Bulgaria come tutti gli Stati balcanici si avvii
    all'indipendenza. Essendo però questo scopo ancora lontano,
    dobbiamo, nell'intervallo, favorire l'influenza dell'Austria a
    preferenza di quella di ogni altra Potenza; locchè equivale
    ad aiutare lo spostamento verso Oriente del centro dei suoi
    interessi.
    Telegrafai poi a Blanc autorizzandolo, previo accordo coi suoi
    colleghi d'Austria e d'Inghilterra, di esprimere l'opinione che
    l'avvenuta elezione è, sino a prova contraria ed equivalente,
    una testimonianza valevole per noi della volontà del popolo
    bulgaro, e di aggiungere che ai nostri occhi il principio del
    rispetto della volontà delle popolazioni è il migliore
    elemento d'interpretazione dello spirito del trattato di Berlino
    nella sua applicazione ai casi imprevisti.
    
    Crispi.»
    
    «17 agosto.
    
    L'ambasciatore di Turchia domanda per parte del suo governo
    all'Italia ed alle altre grandi Potenze:
    1. I loro apprezzamenti circa la presa di possesso, per parte del
    Principe, del governo della Bulgaria;
    2. Le istruzioni che, in considerazione di questo fatto, hanno
    impartito ai loro agenti nel principato;
    3. Il loro modo di vedere circa i mezzi di eliminare le presenti
    difficoltà e conseguire una soluzione.
    Ho risposto:
    1. Riconosciamo che, prendendo possesso del potere principesco, il
    principe Ferdinando, allo stato attuale delle cose, si è
    allontanato dalle prescrizioni del trattato di Berlino;
    2. Che le nostre istruzioni si riassumevano così: Nessun atto
    che implichi riconoscimento; rispetto alla
    persona del Principe; continuazione dei rapporti di fatto necessari
    col governo principesco;
    3. La soluzione della questione bulgara doversi cercare sul terreno
    pacifico del trattato di Berlino. Su quel terreno, il concorso
    dell'Italia essere assicurato a quella qualsiasi soluzione che,
    soddisfacendo ai legittimi voti delle popolazioni bulgare, abbia
    probabilità di essere accettata da tutte le Potenze, ed in
    primo luogo dalla Potenza alto-sovrana.»
    
    «18 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Costantinopoli,
    
    Due fini essenzialmente ci proponiamo: l'uno immediato, cioè
    il mantenimento della pace; l'altro mediato ed a più lunga
    scadenza, che è l'assetto definitivo su basi salde e
    razionali, di popolazioni europee e cristiane non ancora costituite
    a nazioni, benchè aventi in sè stesse tutti gli
    elementi etnici e morali che valgono a determinare le
    nazionalità. Entrambi codesti fini ci sembrano di capitale
    importanza, l'uno perchè ispirato agli interessi del nostro
    paese, il quale vuole la pace con dignità; l'altro
    perchè risponde ai principii di giustizia e di diritto, sui
    quali si è costituita la nazione italiana e che ne sono la
    base più salda.
    A conseguire il primo fine abbiamo le nostre alleanze ed i nostri
    accordi. Il secondo fine propostoci spiega il nostro contegno verso
    la Bulgaria.»
    
    «18 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Costantinopoli,
    
    Con rapporto del 13 corrente, V. E. m'informava degli uffici di
    cotesto ambasciatore di Russia per indurre la Porta a fare passi
    energici a Sofia allo scopo di conseguire l'allontanamento dalla
    Bulgaria del principe Ferdinando, l'elezione del quale, al dire del
    sig. Onou, sarebbe stata disapprovata da tutte le Potenze.
    Riguardo al modo di considerare questa elezione, non posso che
    confermarle il mio telegramma del 16 di questo mese, col quale lo
    autorizzava a porsi d'accordo coi suoi colleghi d'Austria-Ungheria
    ed Inghilterra per esprimere
    l'opinione che nella avvenuta elezione noi dobbiamo ravvisare, fino
    a prova contraria ed equivalente, una valida testimonianza della
    volontà del popolo bulgaro.
    Il principio del rispetto della volontà delle popolazioni,
    come l'E. V. giustamente osservava, è, agli occhi nostri, il
    migliore elemento d'interpretazione dello spirito del trattato di
    Berlino, ogni qual volta si tratti di applicarlo a casi non
    preveduti.»
    
    «20 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Vienna,
    
     Non accetteremmo, come non l'accetta l'A. U., una reggenza
    affidata ad un generale russo [Ehrenroth]. Si prolungherebbe
    così, peggiorandolo, l'eterno provvisorio bulgaro. Non
    abbiamo predilezioni, ma il principe Ferdinando rappresenta per noi
    un principio di soluzione.
    L'accordo su questo punto è completo con Londra e con
    Vienna.»
    
    «23 agosto.
    
    Agli Ambasciatori a Londra e a Berlino,
    
    La proposta fatta dalla Russia alla Turchia di scacciare il principe
    Ferdinando ed insediare un agente russo, non sarebbe attuabile che
    con l'uso della violenza.
    Non è dunque accettabile da chi vuole che il trattato di
    Berlino serva di base pacifica alla soluzione della questione
    bulgara.»
    
    «24 agosto.
    
    A tutti gli Ambasciatori,
     In presenza dell'eventualità ravvisata possibile
    dell'occupazione russa di Varna e di Erzerum, qualora la Turchia non
    intervenisse attivamente in Bulgaria, il gabinetto italiano si
    dichiara contrario ad ogni violenza e ad ogni violazione del
    trattato di Berlino, ed interroga gli altri gabinetti circa
    l'atteggiamento che prenderebbero.»
    
    «30 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Pietroburgo,
    
    Nel tenere, rispetto alla questione bulgara, l'atteggiamento di cui
    non facciamo punto mistero, e del quale abbiamo alla Russia stessa
    lealmente dichiarate le ragioni, noi intendiamo esclusivamente
    giovare alla causa della pace in Oriente, senza che la condotta
    nostra abbia mai obbedito a sentimenti che fossero meno che
    amichevoli per la Russia. Con la Russia abbiamo, invece, sempre
    desiderato e desideriamo mantenerci nei termini della più
    cordiale amicizia, non essendovi tra i due Stati ragione alcuna di
    dissidio.»
    
    «31 agosto.
    
    All'Ambasciatore a Costantinopoli,
    
    Parlando, nel momento attuale, di reggenti, di luogotenente
    principesco, di commissario da mandare in Bulgaria, si perde di
    vista la realtà delle cose. Prima di discutere il nome e la
    nazionalità di quel personaggio, dobbiamo chiederci in qual
    modo, ammesso che venisse designato, egli sarebbe accolto in un
    paese in cui non è nè chiesto, nè desiderato. I
    bulgari, sotto un principe di loro scelta, il quale malgrado gli
    errori che ha potuto commettere dispone certamente di un partito non
    indifferente, sono in procinto di organizzare un governo. Il meglio
    è di non intralciare l'opera loro. Un tentativo d'ingerenza,
    o peggio d'intervento, esporrebbe l'Europa o a dover confessare la
    propria impotenza a dar soluzione alla crisi, oppure, se si
    ricorresse alla violenza, a provocare essa stessa il conflitto che
    si vuole appunto evitare.»
    
    «2 settembre.
    
    All'Ambasciatore a Costantinopoli,
    
    Mi è debitamente pervenuto il suo rapporto del 20 agosto
    volgente e ne ringrazio particolarmente V. E.
    Il linguaggio tenuto alla Porta dal barone di Calice e da sir W.
    White si riassume così: la elezione del principe
    di Coburgo non essere illegale; non doversi dalla Porta nè
    tentare un'occupazione militare, nè imporre ai bulgari un
    reggente a loro inviso, nè prendere una decisione non
    approvata dalle Potenze firmatarie del trattato di Berlino.
    Da parte sua, Ella, secondo le autorizzazioni ed istruzioni avute,
    dichiarò l'elezione del Principe essere per noi, sino a
    dimostrazione contraria ed equivalente, una valevole testimonianza
    della volontà del popolo bulgaro; il principio del rispetto
    delle popolazioni, costituire, secondo noi, uno dei migliori
    elementi d'interpretazione del trattato di Berlino; non doversi
    usare mezzi di coazione per imporre alla Bulgaria un reggente o dei
    commissari stranieri da essa non richiesti; e finalmente ogni azione
    isolata, concertata tra Russia e Turchia senza preventiva adesione
    delle altre Potenze, essere illegale e pericolosa.
    Rilevo con soddisfazione che continua l'accordo d'intenti e
    l'analogia di linguaggio di V. E. e dei suddetti suoi
    colleghi.»
    
    Nel momento in cui sembrava che il governo di Pietroburgo, non
    rendendosi esatto conto delle reali disposizioni delle grandi
    Potenze, volesse col suo intervento armato riprendere in Bulgaria
    l'influenza che gli sfuggiva, Crispi ebbe la visione della guerra e
    ricordò gli impegni assunti dall'Italia per il mantenimento
    dello statu quo. Certamente egli non desiderava la guerra e fece
    quanto era in lui perchè la Russia abbassasse il tono delle
    sue proteste accorgendosi di aver contro sè quasi tutta
    l'Europa; ma sentiva il dovere di preparare l'Italia al possibile
    cimento. Il ricordo di Crimea era presente al suo spirito; come
    allora il Piemonte, in rappresentanza dell'Italia, aveva conquistato
    il diritto di farsi ascoltare, la partecipazione ad una guerra ben
    condotta avrebbe potuto dare gloria all'Italia e l'animo e il
    prestigio necessarii a riguadagnare il tempo e le occasioni perdute.
    Dato che il conflitto nascesse, in qual modo l'Italia avrebbe
    mandato sul teatro di esso il proprio contingente? Non vi avevano
    pensato. Onde Crispi, il 29 agosto, telegrafò
    all'Ambasciatore italiano a Londra:
    
    «Speriamo che si allontani il caso di una comune
    azione, ma le minaccie della Russia contro la Bulgaria, delle quali
    fu tenuto discorso nei vostri dispacci del 26 volgente, ci devono
    preoccupare ove fossero ripetute e seguite dai fatti. Ciò
    posto, credo necessario che fra i due governi si stabiliscano le
    linee principali del possibile intervento armato e la parte di
    cooperazione che competerebbe all'Inghilterra ed all'Italia.
    Ove Sua Signoria fosse del nostro parere, converrebbe stabilire la
    relativa convenzione militare, e nell'affermativa noi saremmo
    disposti a mandare in Londra uno dei nostri ufficiali, qualora Sua
    Signoria non preferisse di mandare un ufficiale inglese a Roma.
    In coteste materie non bisogna attendere il momento del pericolo, ma
    tenersi pronti e preparati pel momento opportuno.»
    
    L'Incaricato di affari italiano, T. Catalani, rispose il 31 agosto:
    
    «Lord Salisbury mi ha pregato di far gradire a V. E. i
    sentimenti della sua viva riconoscenza per la proposta relativa ad
    una convenzione militare. Egli mi ha detto che presentandosene
    l'occasione sarebbe fiero della cooperazione dell'esercito italiano
    e che poteva giungere il momento in cui essa fosse necessaria. Ma S.
    S. ha soggiunto che sino a quando il pericolo di guerra non era
    imminente, la costituzione politica di questo paese e la tradizione
    legatagli dai suoi predecessori lo ponevano nella
    impossibilità di stipulare un atto di tal genere.
    Nel momento attuale, sembra che ogni pericolo in Bulgaria sia da
    scartarsi. Il sig. De Giers ha vivamente smentito i progetti di
    occupazione attribuiti alla Russia, attenuato il significato della
    comunicazione a Chakir pascià ed espresso il suo desiderio di
    mantenere la pace.
    Inoltre l'ambasciatore di Germania, che aveva allora allora lasciato
    il Foreign Office, l'aveva assicurato che il principe di Bismarck
    vede schiarirsi l'orizzonte; e una comunicazione ricevuta dal conte
    Kálnoky riguardava la situazione nello stesso modo. Non era
    più questione dell'invio del generale Ehrenroth, il quale
    d'altronde non avrebbe potuto entrare in Bulgaria, poichè i
    bulgari l'avrebbero impedito con la forza.
     Nulla dunque giustifica la stipulazione di una convenzione, la
    quale avrebbe presentato un pericolo per il governo, poichè,
    malgrado tutte le precauzioni possibili, il segreto non potrebbe
    mantenersi e una interpellanza alla Camera metterebbe il governo
    nella condizione di renderla pubblica.
    Tuttavia, se la situazione verrà a mutarsi
    «poichè la politica - egli ha detto - è mutevole
    come il clima di queste isole», saremo sempre in tempo a
    stipulare una convenzione militare.»
    
    L'on. Crispi fece, come risulta da una lettera del Catalani a lord
    Salisbury, che si era recato a Royat, talune osservazioni alle
    argomentazioni del ministro inglese, ma non insistette. Il Catalani
    scriveva:
    
    «Il sig. Crispi vi è riconoscente per le vostre cortesi
    spiegazioni. Egli comprende la vostra posizione e, come voi sapete,
    egli è assai dotto ed è un ammiratore della
    costituzione politica inglese, la quale, come voi accennate,
    impedirebbe al governo di stipulare una convenzione militare
    finchè non sia in vista il pericolo. Senonchè il sig.
    Crispi domanda: È il pericolo così remoto da rendere
    non necessarie le precauzioni? Suppongasi che un esercito russo
    entri in Bulgaria, le cui linee di difesa non sono più quelle
    che erano: avremmo noi il tempo di discutere e di concludere una
    convenzione militare con la rapidità richiesta ai nostri
    giorni dalle eventualità militari? Dovremmo noi lasciarci
    sorprendere alla sprovvista?
    Il sig. Crispi non crede tale ipotesi remotissima. Non mi diceste
    voi stesso il 25 dello scorso mese che avevate indirettamente
    avvertita la Russia che sarebbe, è vero, facile per un
    esercito russo di entrare a Varna, ma non così facile di
    uscirne, poichè avrebbe trovato la via sbarrata dalle forze
    alleate dell'Inghilterra e dell'Italia?
    Tuttavia, poichè voi declinate d'intrattenervi di tale
    proposta, il sig. Crispi non insiste e la questione è
    chiusa.»
    
    Nondimeno, l'identità d'interessi constatata durante lo
    svolgersi del periodo acuto della questione bulgara, suggerì
    un accordo speciale per gli affari d'Oriente tra l'Italia,
    l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria:
    
    «Londra, 21 settembre.
    
    «Salisbury divide intieramente idee di V. E. circa
    l'avviamento di trattative fra i tre ambasciatori a Costantinopoli
    allo scopo di stabilire un accordo.
    
    Catalani.»
    
    In Russia il nuovo presidente del Consiglio italiano non
    acquistò simpatie col suo contegno attivo e fermo, e da
    allora in poi l'on. Crispi ebbe in quell'impero una cattiva stampa.
    Le sue idee sul complesso problema orientale, più volte
    esposte alla Camera, non gli consentivano di seguire una politica
    diversa, e non fu una cattiva politica se essa riuscì a
    formare un blocco formidabile di tre Potenze - ben visto e
    incoraggiato dal principe di Bismarck - che dette alla Turchia animo
    a resistere alla pressione del colosso moscovita. Che quell'accordo
    fosse precipuamente opera dell'on. Crispi si rileva anche dal fatto
    che non sopravvisse al suo primo ministero.
    Della condotta del governo di Pietroburgo sembra non fosse
    soddisfatto neppure lo Czar. In un Diario di Crispi è
    annotato quanto segue:
    
    «4 ottobre. - Kálnoky riferì al conte Reuss,
    ambasciatore germanico, un colloquio avuto col re Giorgio. Il re
    Giorgio, essendo a Copenaghen, parlò con lo Czar delle cose
    di Bulgaria. Il Re di Grecia ritiene che sebbene il gabinetto russo
    mantenga ancora ostensibilmente la missione del generale Ehrenroth e
    che questa si discuta ancora tra Pietroburgo e Costantinopoli,
    l'Imperatore l'abbia già abbandonata. Secondo l'Imperatore,
    l'affare sarebbe stato eseguibile prima della entrata in Bulgaria
    del Principe di Coburgo. Adesso non vi si può più
    pensare. Quindi il cattivo umore dello Czar contro il Principe, il
    quale avrebbe rovesciato i piani della Russia col suo intervento
    inopportuno in Bulgaria. La Russia aveva fatto assegnamento sulla
    discordia tra gli statisti bulgari e sulla dissoluzione che ne
    sarebbe risultata. L'Imperatore non ha detto quello che
    farà.»
    Riproduciamo un giudizio dell'on. Crispi sulla Russia:
    
    «La posizione della Russia è privilegiata. Essa
    può assalire i suoi nemici in Europa; difficilmente essere
    assalita. Quindi può scegliere, a suo agio, il giorno che
    meglio le convenga a far la guerra.
    Gl'indugi, dunque, le giovano.
    Dopo il 1871 essa si trova in una condizione assai migliore di
    prima. Distaccata la Francia dal concerto delle Potenze centrali, la
    Russia ha un nemico di meno. L'alleanza del 1854 non è
    più possibile.
    Alla Russia poco importa che la Francia riprenda l'Alsazia e la
    Lorena. Direi anzi che le conviene lasciar la Francia
    irreconciliabile con la Germania.
    La Germania si è detta disinteressata nelle cose di Oriente,
    e si è visto alle prove, non avendo preso parte diretta a
    tutte le questioni che sono sorte nella penisola dei Balcani dopo il
    1871. Contro la Russia adunque non possono schierarsi che l'Italia e
    l'Austria, Potenze territoriali, la Gran Brettagna Potenza
    marittima. La Russia, spingendo i suoi armamenti, ed aspettando
    finchè questi siano compiuti, dubito che i suoi avversari
    possano opporre contro di lei forze sufficienti per vincerla.
    L'Austria e l'Italia potrebbero raddoppiare gli eserciti, ma i loro
    bilanci non lo permettono. E poi, se la Francia rompe in guerra per
    rivendicare le provincie perdute, e la Russia vuol cogliere quel
    momento per gettarsi sui Balcani, la partita per le Potenze centrali
    diventerebbe difficile. Occupate al Reno ed alle Alpi, non
    potrebbero disporre di grandi forze verso l'Oriente. Si correrebbe
    il rischio, che la Russia fosse sola a lottare contro la Turchia
    come nell'ultima guerra, l'Inghilterra non avendo un forte esercito
    da mettere in campo.
    Aggiungi che nessun aiuto la Turchia potrebbe avere dai piccoli
    Stati balcanici; primieramente perchè alcuni di essi, come la
    Serbia e il Montenegro, sono nell'orbita russa; secondariamente
    perchè altri, come la Bulgaria e la Grecia, mirano a
    conquistare quei territori che da gran tempo ambiscono per
    completare la loro nazionalità.
    Certo, per la Russia, l'impero austriaco è un imbarazzo,
    quando non le è amico.
    Nelle guerre del 1854 e del 1876 lo Czar potè ottenerne la
    neutralità. Al 1854, era molto vicina la campagna
    contro l'Ungheria, l'imperatore Francesco Giuseppe dovendo a.... la
    conquista del Regno di Santo Stefano. Al 1876 l'Austria ebbe il
    compenso della sua neutralità con la cessione della Bosnia e
    dell'Erzegovina.
    Oggi la posizione è mutata. L'Austria e la Russia sono due
    rivali in Oriente. L'Austria non può permettere che la Russia
    giunga a Costantinopoli; la sua autonomia ne sarebbe scossa, ed il
    suo avvenire compromesso.
    Nell'impero vicino la guerra contro la Russia sarebbe popolare. A
    Buda-Pest i russi sono detestati; ed a Vienna non sono amati. Gli
    ungheresi non hanno dimenticato il 1849.»
    
    
    
    Capitolo Sesto.
    
    Il primo viaggio a Friedrichsruh.
    
    Crispi e la Francia - Giudizii di Crispi su l'Impero e su la
    Repubblica. - L'Esposizione di Parigi del 1889 e l'Europa
    monarchica. - Primo viaggio di Crispi a Friedrichsruh per visitarvi
    il principe di Bismarck: loro colloquii. - Il discorso di Torino.
    
    Quando l'on. Crispi giunse alla direzione degli affari, la Francia
    era in un periodo di agitazioni. Il 17 maggio il ministero Goblet,
    ch'era al potere soltanto dal 13 dicembre 1886, aveva rassegnato le
    dimissioni; il signor Freycinet, incaricato di ricomporre il
    ministero, trovatosi dinanzi a difficoltà insormontabili,
    aveva rinunziato al mandato, che era stato dal Presidente della
    Repubblica offerto al signor M. Rouvier. Questi riuscì,
    escludendo dal nuovo gabinetto il gen. Boulanger, già
    popolare e indicato calorosamente dal partito radicale come il solo
    uomo capace di salvare il paese. Il ministero Rouvier, peraltro,
    sembrava dovesse essere un'amministrazione transitoria che avrebbe
    ceduto il posto ad un gabinetto opportunista presieduto dal Ferry e
    appoggiato dalla Destra. Queste previsioni non si avverarono
    intieramente; il Rouvier consegnò dopo pochi mesi il potere
    ad un ministero Tirard (12 dicembre 1887), che alla sua volta non
    durò quattro mesi. Anche la posizione del Presidente della
    Repubblica, Giulio Grévy, era scossa e il suo ritiro sembrava
    questione di tempo, ma tale eventualità era attesa con
    preoccupazione, temendosi che i radicali e i monarchici si
    mettessero d'accordo per elevare all'altissimo ufficio il generale
    Boulanger.
    Le idee di Crispi sulla Francia erano note: conosceva profondamente
    la storia di quel paese, e aveva potuto meglio comprenderla
    soggiornandovi per lungo tempo; e se, astraendo dalla sua
    nazionalità, ammirava il genio del popolo francese, i grandi
    servigi da esso resi alla civiltà, come italiano era convinto
    che, e per le tradizioni storiche e per le diverse condizioni di
    sviluppo sociale e per i contrastanti interessi, un'Italia fiera
    della sua dignità, gelosa dei suoi diritti, non avrebbe
    trovato nella Francia che un'avversaria prepotente.
    L'Impero e la Repubblica tennero con l'Italia contegno diverso?
    Per essere più esatti, riferiamo giudizi e opinioni dello
    stesso Crispi sui due periodi.
    
    Quali benefici ricevette l'Italia da Napoleone III?
    Nel 1849 la rivoluzione italiana va estinguendosi nei suoi focolari:
    sole resistono la Sicilia, Venezia, Roma. La Francia non interviene
    in favor nostro, ma col pretesto di difenderne la libertà
    assalisce la Repubblica Romana, invade Roma, vi ristabilisce il
    papato; nello stesso tempo sequestra le armi e i vapori siciliani, e
    aiuta il Borbone a impadronirsi della Sicilia. Ancora una volta il
    dispotismo si aggrava sopra l'Italia; ma la Francia è stata
    punita; il dispotismo si aggrava anche su lei.... Ed è nella
    piena servitù dell'Italia che si solleva, o meglio, si
    risolleva in Francia una delicata questione: la questione delle
    frontiere. Nel 1858 incominciano infatti ad uscire opuscoli
    dimostranti la necessità che la Francia abbia le sue
    frontiere, e sul Reno e sulle Alpi. Si tratta di ottenerle, e lo si
    cerca. - Come? Con una guerra di conquista? Il tiranno abilmente non
    lo crede opportuno; piuttosto, con la conclusione di un affare.
    Nella mente di Napoleone III - è dimostrato - la guerra
    d'Italia non fu invero che un affare.
    Con l'alleanza franco sarda, la Francia s'impegnava infatti ad
    aiutare il Piemonte ad avere il Lombardo-Veneto; da parte sua, il
    Piemonte s'impegnava ad indennizzare la Francia di tutte le spese di
    guerra, e, in più, a darle le volute frontiere.
    Nella mente di Napoleone era un gran disegno che
    incominciava a colorirsi, nella lusinga di potere, rinnovando le
    gesta dello zio, legittimare in certo qual modo l'usurpazione, e
    rassodare il trono vacillante.
    Egli fu tradito dagli eventi e da sè stesso. La guerra contro
    la Germania, che doveva essere il coronamento dell'edificio, fu
    invece l'ultima causa della sua rovina.
    Giova intanto stabilire e constatare che il pensiero italiano non
    entrò affatto nella mente di Napoleone, con la conclusione
    dell'alleanza franco-sarda....
    Ma oltre alle frontiere dell'Alpi, Napoleone III scendendo in Italia
    aspirava a raggiungere un altro ideale.
    Napoleone III aveva lasciato l'Italia nel 1831, quando ancora l'idea
    unitaria non aveva fecondato che poche menti elettissime, ed era
    straniera alla grande massa della popolazione. Egli credeva quindi
    ancora alla virtù, presso le masse, del principio federativo;
    e, ravvivando l'antico concetto dell'antagonismo franco-germanico,
    il cui campo di lotta era il nostro paese, egli ebbe in animo di
    vincere l'Austria, di cacciarla da quella parte d'Italia che gli
    conveniva, per costituire questa parte in una Confederazione di
    Stati piccoli e deboli, che dovevano riuscire mancipii della
    Francia, liberti in tempo di pace, alleati per le sue guerre.
    A chi vorrà fare sul serio la storia di questo periodo
    importantissimo della vita mondiale - e diciamo mondiale,
    poichè fu per l'Italia che il principio di nazionalità
    venne riconosciuto - apparirà a questo punto un fenomeno
    singolare: la stessa idea napoleonica era nutrita dall'Austria, per
    proprio conto.
    Essa prevedeva forse i tempi nuovi, e tendeva a prevenirli con una
    certa quale trasformazione della sua signoria - cercando di
    collegare i suoi interessi politici agli interessi materiali delle
    popolazioni italiane.
    Non potendo spingersi sino a Napoli, ove il Borbone non
    accettò mai l'ingerenza austriaca, l'Austria progettò
    infatti allora, pei Ducati e per la Santa Sede, dei trattati di
    commercio che, sussidiati da guarnigioni austriache, dovevano
    costituire gli Stati italiani in uno Zollwerein da lei diretto ed
    ispirato.
    È in questo conflitto d'influenze e d'ambizioni fra la
    Francia e l'Austria, oltre che nel desiderio delle frontiere, che
    bisogna ricercare le ragioni della guerra d'Italia. Se dubbio fosse
    stato possibile da principio, l'avrebbe
    dimostrato chiaramente il modo con cui la guerra fu condotta.
    I mazziniani, i quali erano allora si può dire i soli
    apostoli dell'idea unitaria, sentirono tutto questo. Mazzini
    definì esattamente lo scopo e predisse il termine della
    guerra, ed in un suo manifesto - tanto egli ne era convinto - disse
    che la guerra sarebbe stata comandata da Napoleone, e terminata
    quando a lui sarebbe piaciuto e convenuto.
    Intanto, ad estrinsecare l'idea della federazione, Napoleone manda
    in Toscana un corpo d'esercito comandato dal principe Gerolamo.
    Nella mente dell'Imperatore, la Toscana doveva costituire il regno
    d'Etruria, del quale Gerolamo stesso sarebbe stato il Re, o meglio
    il vicerè, dovendo lo Stato da Parigi ricevere la parola
    d'ordine della propria esistenza politica e commerciale.
    Ma le previsioni napoleoniche andarono fallite. Gerolamo invece che
    alle voci di: Viva la Toscana! Viva la Francia! è accolto
    dalle grida di: Viva l'Italia! Il seme gettatovi dai mazziniani
    già aveva germogliato e l'idea federativa, sulla quale
    contava Napoleone per dominare i piccoli Stati che egli andava
    formando nella sua mente, aveva ceduto il posto alla grande idea
    italiana unitaria.
    I rimproveri di molti francesi furono dunque ingiusti. Al pari di
    Thiers, anche Napoleone III credeva, e prima di lui lo aveva creduto
    Napoleone I, che un'Italia debole e disunita fosse nell'interesse
    della Francia: e fu appunto per tenerla debole e disunita, e per
    sottrarla al dominio dell'Austria, per farla tributaria della
    Francia, che egli vi scese.
    S'egli non vi riuscì, non fu sua colpa. Gli avvenimenti lo
    ingannarono e furono maggiori di lui e della sua volontà; ma
    egli non trascurò mezzo per arrestarne il corso, e per
    annullarne le conseguenze.
    Accortosi, infatti, del grande progresso fatto dall'idea unitaria,
    egli dimentica il programma con cui aveva lusingato gl'italiani per
    averne il concorso, e dopo una vittoria che gli avrebbe permesso di
    cacciar l'Austria da tutta l'Italia, conclude l'armistizio, e, senza
    nemmeno avvertirne il suo alleato, firma i preliminari di quella
    pace di Villafranca che dapprincipio non voleva
    essere creduta nemmeno dai ministri di Vittorio Emanuele.
    Con Savoia e con Nizza la Francia ebbe allora le ambite frontiere, e
    assai più; perchè Nizza francese è, oltre a
    tutto, un controsenso geografico; coi cinquanta milioni
    d'indennità, ebbe pagate tutte le spese di guerra. Ed ecco
    che il trattato di Zurigo viene a dar corpo all'altra idea della
    federazione italiana.
    Napoleone III, piuttosto che accettare l'idea dell'Italia una, si
    appaga di dividere in quella confederazione, che doveva essere
    presieduta dal Papa, la sua influenza coll'Austria, la quale doveva
    esservi rappresentata dal Veneto, senza avvertire, da pessimo
    politico, quale germe di continue guerre deponeva così.
    Il trattato di Zurigo è però così favorevole
    all'Italia, che l'Italia lo respinge. L'Italia non si ingannava
    sulle mire di Napoleone, ed ebbe, gran virtù, il senso esatto
    delle intenzioni e degli avvenimenti. Ond'è che la Toscana e
    l'Emilia dichiarano la propria autonomia, e proclamano il principio
    dell'unità.
    Napoleone, che vede crollare l'edificio delle sue previsioni e delle
    sue speranze, contrasta l'unione di quelle popolazioni al Piemonte,
    e impedisce il movimento delle popolazioni pontificie. Garibaldi non
    può passare la Cattolica.
    Ma il gran giorno dell'Italia era venuto. Palermo insorge: è,
    a miracolo, organizzata la leggendaria spedizione dei Mille, la
    quale non conosce ostacoli, e vince quelli di ogni genere che le
    sono suscitati da tutti....
    A quel punto, se veramente Napoleone fosse stato quel grande uomo
    politico che molti, per troppi anni, vollero credere e far credere,
    avrebbe compreso che ormai gli conveniva mutar tattica, e che, non
    potendo far degl'italiani altrettanti clienti, gli era utile farsene
    almeno degli amici, degli alleati.... Garibaldi giunge dunque a
    Napoli contro la volontà di Napoleone....
    .... Vince il Borbone al Volturno, e preparasi a marciare su Roma.
    Ma Napoleone non cede, e, pari all'avaro, costretto a separarsi dal
    proprio tesoro, egli si lascia strappare solo dai fatti compiuti il
    consenso, e non interviene che per impedire. È così
    che, di fronte al pericolo di vedere Roma data addirittura
    all'unità italiana, cemento e
    centro di essa, egli conclude con Vittorio Emanuele una Convenzione,
    per la quale l'esercito regio penetra nelle Marche e nell'Umbria,
    che sono riunite alla monarchia, per impedire gli ulteriori
    movimenti di Garibaldi.
    E intanto la flotta francese proteggeva a Gaeta il Borbone, che
    resisteva per essa, prolungandosi così, per colpa della
    Francia, una inutile guerra....
    Salvato infatti il patrimonio di San Pietro e posto sotto la tutela
    delle armi francesi, ecco Roma divenire, per la Francia, il covo
    della reazione italiana. Asilo dei principi spodestati, è
    là che si ordiscono, sotto gli occhi di Napoleone, tutte le
    cospirazioni a danno della nostra unità, è là
    che si organizza il brigantaggio e si mantiene viva così la
    più orribile agitazione in una parte tanto importante del
    nuovo regno. Era quella la caricatura della politica per parte di un
    grande Stato, ma una caricatura sanguinosa, che non può
    essere così facilmente dimenticata.
    Gli sforzi dell'Italia indignata s'infrangono ad Aspromonte, e
    l'alba del nuovo regno è così, per la Francia,
    funestata da una tragedia, che è ancor viva e palpitante nel
    cuore di tutti gli italiani.
    Ma la politica francese non muta. L'organizzazione del brigantaggio
    non bastandole più, eccola infatti affacciarne dinanzi al
    mondo la più patente protezione.
    Il 10 luglio 1863 approda a Genova l'Aunis delle Messaggerie
    Marittime, portando seco sei briganti disposti ad esiliarsi; fra
    essi è La-Gala. Il governo italiano vuole impadronirsene. La
    Francia pretende che non si arrestino, che le vengano consegnati. E
    così si fa; il tricolore francese garentisce la vita e la
    libertà di assassini infami, infliggendo all'Italia la
    vergogna di non poter punire il delitto, il delitto contro la patria
    e contro l'umanità.
    Ma non basta.
    Napoleone, per quanto lungi dall'essere un grand'uomo politico,
    aveva però criterio sufficiente a comprendere come, dopo la
    proclamazione di Roma a capitale d'Italia, fosse quella una
    questione destinata a rimanere aperta. Ed ecco che, a chiuderla,
    egli escogita la Convenzione del 15 settembre 1864, la quale altro
    non voleva nè poteva significare che una rinunzia a Roma.
    Per essa infatti si trasportava la Capitale in un punto centrale
    d'Italia, e s'impegnava l'Italia non solo a riconoscere lo Stato
    Pontificio, non solo a non attaccarlo, ma ad impedire che fosse
    attaccato: più, le si faceva assumere una parte del Debito
    pubblico della Santa Sede, dando così a questa i fondi per
    organizzare e pagare quell'esercito che doveva vegliare a che Roma
    non divenisse italiana.
    Tutti si attendevano che Napoleone avrebbe almeno rispettato cotesta
    Convenzione di settembre, così umiliante per l'Italia. Niente
    affatto.
    Nella Convenzione era scritto, che la Francia avrebbe ritirato le
    sue truppe dal territorio pontificio. Parve che le ritirasse, ma in
    sostanza i soldati francesi furono arruolati nell'esercito papale21.
    Ma era Roma soltanto che Napoleone contendeva all'Italia?
    Il 1866 reca l'alleanza italo-tedesca. Napoleone III accorda
    generosamente il permesso di quell'alleanza, ma impone il modo e la
    durata della guerra all'Austria. Con l'Austria egli tratta anche
    segretamente. Egli comprende che la guerra era inevitabile per
    l'Italia, ma teme che questa esca troppo rafforzata dalla vittoria.
    Quindi ogni suo sforzo è inteso ad impedire una buona prova
    delle nostre armi: ed egli fa sì che la guerra si chiuda con
    una vergogna della nostra politica, imponendo al Governo italiano
    l'accettazione del Veneto dalle mani non più dell'Austria, ma
    della Francia stessa, lasciando l'Italia senza frontiera orientale,
    dopo averle tolto la frontiera occidentale.
    Il conte Vitzthum, confidente del conte di Beust, era stato da lui
    incaricato di una segreta missione presso il governo imperiale di
    Francia. Egli arrivò a Parigi il 26 giugno 1866, quando
    giungevan colà le notizie di Custoza. Egli ha narrato
    l'impressione prodotta colà da quelle notizie nel suo libro
    London, Gastein und Sadowa, così:
    «Trovai che tutta la capitale era entusiasmata ed allegra per
    le notizie delle vittorie austriache in Italia.
    «Mi si assicurava, - e potei constatarlo - che in tutte le
    classi della popolazione il giubilo per la sconfitta degli italiani
    era universale, e quasi indescrivibile nelle caserme.
    «I soldati insistevano da per tutto per potere illuminare i
    loro quartieri in onore dell'esercito austriaco. E posso assicurare,
    che questo stato di cose aveva fatto la più profonda
    impressione sull'italianissimo imperiale delle Tuileries».
    ....E invero, un'altra data ricorre al nostro pensiero, una data
    fatale, un altro nome: Mentana; al quale la generosità
    italiana ha contrapposto un'altra data, un altro nome: Digione.
    ....Al 1869 Napoleone propone alle Potenze di mettere il territorio
    pontificio sotto la garanzia dell'Europa. Egli vuole con un trattato
    internazionale impedire all'Italia la conquista della sua capitale;
    ed avrebbe ottenuto il suo scopo, se Berlino e Londra non si fossero
    opposte.
    La fatalità spingeva Napoleone alla rovina. Il fantasma
    dell'Italia Una poteva sopra di lui più dell'evidente
    interesse.
    L'Austria stessa vide nel 1870 quale sarebbe stato l'interesse della
    Francia, Napoleone nol vide; l'Austria stessa spronava Napoleone a
    dare Roma all'Italia, per assicurarsi l'alleanza italiana; Napoleone
    nol volle. È così che tutti i negoziati tornarono
    vani, e che la Francia rimase, per propria sua colpa, isolata in
    Europa.
    Ed è di questo isolamento che si fa da quel giorno un delitto
    all'Italia. Or non occorrono parole per dimostrare che, non solo una
    follìa, ma sarebbe stato invece un delitto da parte
    dell'Italia il prendere le armi contro una Potenza amica ed alleata,
    per aiutare un padrone il quale, mentre pure chiedeva la nostra
    cooperazione, si rifiutava di riconoscere i nostri diritti e
    persisteva nel volerci opprimere.
    Nè si creda che quello fosse un errore personale di Napoleone
    III. Napoleone crolla, traendo con sè nell'abisso la Francia;
    ma la Francia non rinuncia a Roma per questo.
    L'Italia viene a Roma, ma il pensiero di Thiers non è diverso
    da quello di Napoleone; l'Italia viene a Roma per merito delle
    vittorie tedesche, che essa avrebbe dovuto impedire, e la Francia,
    impotente, tollera, ma non accetta; e una nave francese, protesta
    permanente, e segno del protettorato esercitato dalla Francia sulla
    Santa Sede, staziona a Civitavecchia. Ci vollero anni prima che
    quella nave si risolvesse a partire. Solo il ridicolo, l'unica arma
    che uccida moralmente in Francia, e di cui la Francia era minacciata
    per quel fatto, potè far sì che quella nave venisse
    ritirata.
    Dopo il 1870 la Francia non ha praticato verso l'Italia che una
    politica di dispetti e di risentimenti. Convinta che l'Italia non
    volle aiutarla nel terribile conflitto ch'ebbe a sostenere con la
    Germania, il governo repubblicano, seguendo i pregiudizi del governo
    imperiale e tenendo lo stesso contegno orgoglioso, anzichè
    dissipare i malintesi e lavorare a rendersi amico il popolo
    italiano, lo ingiuriava, lo disprezzava, lo minacciava, e
    però se lo rendeva più ostile. Se avesse studiato i
    precedenti, avrebbe compreso che giustamente il popolo italiano
    aveva veduta come una liberazione la scomparsa dell'Impero, il quale
    con le sue esigenze ed i suoi arbitrii aveva dispotizzato
    sull'amministrazione italiana e impedito la liberazione di Roma. Si
    aggiunga che, anche volendo, l'Italia non avrebbe potuto aiutare
    l'Impero, poichè, pochi mesi prima che cominciassero le
    ostilità, il governo, incauto e impreviggente, aveva
    disarmato. Ed esponendoci a tutti i danni, compreso quello di non
    aver Roma, chi ci avrebbe inoltre garantito del contegno
    dell'Austria? Non era possibile che la Prussia, vedendosi attaccata
    dall'Italia, che non aveva alcun motivo per dichiararle la guerra,
    avrebbe trovato modo d'intendersi con l'Austria? Date queste
    eventualità, noi avremmo potuto perdere i beneficî
    ottenuti nell'ultimo decennio per l'unificazione della Patria!
    Orbene, considerando tutte coteste cose, il governo della Repubblica
    avrebbe dovuto fare una politica amica per conquistarsi l'amicizia
    dell'Italia che l'Impero aveva perduta. Una politica di pace, di
    rispetto, di fratellanza avrebbe impedito la costituzione della
    Triplice Alleanza, e ci avrebbe avviati veramente all'unione delle
    Potenze mediterranee.
    La terza repubblica in Francia surse dopo un disastro
    nazionale. Non fu l'effetto di una rivoluzione, nè di una
    cospirazione.
    L'Impero ucciso a Sedan, difficilmente avrebbe potuto risorgere. Il
    solo che avrebbe potuto dargli vita era Bismarck, ed egli non volle.
    La monarchia del diritto divino non era pronta ad occupare il trono.
    La monarchia di luglio non aveva il coraggio di assumere il potere,
    ed in quei momenti di abbattimento per le inattese sconfitte,
    nissuno avrebbe osato rilevare una dinastia che nulla aveva fatto
    per meritarsi l'amore della Francia.
    La sede essendo vacante, fu facile ai parigini di proclamare la
    sovranità del popolo. E lo fecero con timidezza e quasi
    incerti del domani. Il governo provvisorio assunse il titolo di
    difensore della nazione, si costituì come una
    necessità del momento, e pei bisogni del momento, che erano
    quelli di respingere la invasione straniera.
    Quando nella sala dei Cinquecento, a Firenze, giunse la notizia che
    il 4 settembre a Parigi era stata proclamata la Repubblica, coloro i
    quali ricordavano i prodigi del 1792, credettero che la Francia
    avrebbe dato una nuova prova della sua energia e che i prussiani
    sarebbero stati cacciati.
    I più prudenti riflettevano che i tempi erano diversi, e che
    l'Europa d'oggi non era quella del '92. Soggiungevano che l'eroismo
    oggi non ha l'efficacia dei tempi antichi e che il valore del
    soldato non influisce più sulla sorte delle battaglie. L'arma
    moderna è una macchina che lavora in lontananza e che rende
    impossibile la lotta a corpo a corpo. Vince colui che ha saputo
    raccogliere il maggior numero di soldati ed ha saputo armarli del
    fucile a tiro rapido e di più lunga gettata. Anche le
    insurrezioni oggi non possono più avere il successo di prima.
    E dubito molto che una insurrezione sarebbe stata possibile a
    Parigi, e che la Repubblica sarebbe potuta nascere in conseguenza di
    un movimento popolare. I francesi in genere non sono fatti per
    cospirare, e lo vidi e me ne convinsi durante il mio soggiorno nella
    grande capitale.
    Dopo le giornate di giugno 1848 e dopo il colpo di Stato del 2
    dicembre, Cavaignac prima e Luigi Bonaparte
    dopo purgarono Parigi di tutta quella massa di spostati, uomini di
    una vita costantemente incerta, speculatori nel disordine, che sono
    l'avanguardia delle insurrezioni e dei quali si valgono tutte le
    fazioni politiche.
    Oggi, bisogna che la Francia dimentichi la storia del suo predominio
    e della sua influenza al di qua delle Alpi. Bisogna che riconosca e
    si abitui a riconoscere che la nazione italiana vale quanto la
    francese, e che deve, come la francese, godere della sua
    indipendenza e fruirne nel consesso delle nazioni».
    
    Per la prima volta il 25 giugno 1887, alla Camera, l'on. Crispi fece
    una dichiarazione riflettente la Francia, dal banco dei ministri, in
    rappresentanza dell'on. ministro degli Affari esteri che era
    assente. S'interpellava "sugli intendimenti precisi del governo in
    merito al concorso dell'Italia all'Esposizione universale di Parigi
    nel 1889".
    Quella glorificazione della grande rivoluzione e quindi del
    rovesciamento della monarchia in Francia accompagnato dagli orrori
    ben noti, non poteva andare a genio ai governi monarchici d'Europa;
    e infatti tutte le grandi Potenze, a incominciare dall'Inghilterra,
    declinarono l'invito di partecipare ufficialmente all'Esposizione di
    Parigi; la Russia dichiarò espressamente
    "l'impossibilità del governo imperiale di associarsi ad una
    solennità intesa a glorificare dei principii che stanno in
    diretta dissonanza con quelli su cui poggia la sovranità
    degli Czar".
    Quando l'on. Crispi manifestò gl'intendimenti del governo
    italiano, gli altri governi avevano già declinato l'invito;
    ond'egli potè dire che se l'Italia fosse intervenuta, mentre
    le altre grandi Potenze si astenevano, il suo intervento avrebbe
    assunto un significato politico che non gli si voleva dare. Ma fece
    altresì calde dichiarazioni di amicizia per la Francia, la
    quale non poteva lagnarsi dell'Italia perchè non prendeva
    parte ad una Esposizione Universale che non sarebbe stata più
    tale.
    La stampa francese però non volle perdere l'occasione per
    imputare all'on. Crispi preconcetti miso-gallici e passiva
    obbedienza alla Germania; la quale, invece, aveva dapprima
    circondato il suo rifiuto di perifrasi e promesse d'incoraggiare
    gl'industriali tedeschi ad esporre, e mutò contegno solo
    quando ebbero luogo a Parigi dimostrazioni anti-tedesche in
    occasione della rappresentazione del Lohengrin.
    
    Quando, alla fine di settembre, i giornali francesi per i primi
    annunziarono che l'on. Crispi era in viaggio per recarsi a far
    visita al principe di Bismarck, parve si compiesse un avvenimento di
    gravità eccezionale; e chi s'era proposto d'impressionare
    l'opinione pubblica accennò a disegni bellicosi contro la
    Francia che si sarebbero concretati a Friedrichsruh. L'on. Crispi
    era denunziato dai suoi avversari palesi ed occulti come un
    impulsivo, e quindi come un uomo pericoloso. Se avesse battuto la
    via dei suoi predecessori, gli avrebbero ricordato che la politica
    da lui, deputato, sempre combattuta non era poi così cattiva
    se da ministro la faceva sua; mettendosi egli, invece, per una via
    nuova, prevedevano il finimondo.
    I ministri italiani non usavano, sin allora, di varcare i confini
    d'Italia per abboccarsi coi loro colleghi stranieri. Anche il
    Robilant, prima della rinnovazione del trattato, a chi gli proponeva
    d'incontrarsi col principe di Bismarck aveva risposto "non aver
    nulla da dirgli". Ma l'on. Crispi pensò di aver molte cose da
    dire al Gran Cancelliere germanico; aveva fede in sè,
    nell'efficacia della propria azione personale, e ricordava,
    d'altronde, che nel 1877, a Gastein, era riuscito a fare apprezzare
    il valore dell'alleanza italiana quando questa era ancora un evento
    remoto.
    L'invito venne dal Principe. In una lettera particolare del 18
    settembre, il conte di Launay scriveva all'on. Crispi di "avere
    ricevuto il giorno innanzi la visita del conte Erberto di Bismarck,
    il quale tornava da Friedrichsruh. Il conte gli aveva parlato di
    molte cose: della questione bulgara e della situazione nella quale
    si trovava il governo tedesco tra la politica dell'Italia e
    dell'Austria e quella della Russia, delle cose discorse tra il
    principe e il conte Kálnoky nella recente visita di
    quest'ultimo a Friedrichsruh, e del pregio che i due Cancellieri
    attribuivano all'alleanza con l'Italia; infine, gli aveva anche
    recato un messaggio del Principe per lui personalmente: egli sarebbe
    stato felice se le circostanze gli avessero permesso d'incontrarsi
    col collega italiano come soleva incontrarsi col conte
    Kálnoky, che dal 1881 si recava ogni anno da lui;
    l'età e la salute erano un ostacolo ad un viaggio in Italia
    del Principe, che non osava, temendo di mancargli di riguardo,
    invitare Crispi ad un colloquio; ma a Friedrichsruh, come a Varzin,
    o a Berlino, se un buon vento l'avesse spinto verso quelle regioni,
    sarebbe stato lietissimo di riceverlo con lo stesso sentimento di
    soddisfazione provato in occasione della sua amabile visita a
    Gastein nel 1877. Spettava all'on. Crispi di pronunziarsi
    sull'opportunità di una tal visita; se motivi personali o
    politici l'avessero sconsigliato, o ritardato, nessuno gliene
    avrebbe fatto carico".
    L'on. Crispi rispose al di Launay che un incontro col principe di
    Bismarck era "uno dei suoi più vivi desideri". Avrebbe
    preferito che tale incontro avvenisse in maniera da sembrare
    fortuito; ma comprese che, sebbene il Principe gli avesse, per
    delicatezza, lasciato la scelta del luogo, in verità sarebbe
    stato più contento che l'incontro avvenisse a Friedrichsruh,
    dove pochi giorni prima era stato il Cancelliere dell'Impero
    austro-ungarico.
    Crispi, cui non mancava il coraggio dell'amicizia, si decise subito,
    e poichè doveva trovarsi in Roma nei primi di ottobre,
    profittò di quegli ultimi giorni del settembre per recarsi in
    Germania. Egli stesso narra nelle pagine che seguono del viaggio e
    dei colloqui avuti col Bismarck. Ma prima di muoversi dall'Italia,
    il 23 settembre, avvenne tra il re Umberto, Crispi e il Cancelliere
    germanico, questo scambio di cortesie:
    
    «A Sua Altezza il Principe di Bismarck.
    
    Sono felicissimo di esprimere a V. A. le mie felicitazioni per il
    25.° anniversario della Sua elevazione alle funzioni nelle quali
    Ella rende così eminenti e gloriosi servigi all'Imperatore,
    mio amico venerato, e alla Nazione che è nostra fedele
    alleata. Che Dio conservi V. A. per lunghi anni alla grandezza della
    Germania, alla pace dell'Europa, alla mia amicizia ed alla mia
    ammirazione, sentimenti che sono condivisi dall'intera Italia.
    
    Umberto.»
    
    «A Sua Maestà il Re d'Italia.
    
    Prego V. M. di gradire i miei umilissimi ringraziamenti per le
    graziose felicitazioni ch'Ella si è degnata indirizzarmi
    nell'occasione del mio anniversario. Sono
    felice della augusta approvazione che Vostra Maestà vuole
    accordare allo zelo che pongo nella realizzazione delle intenzioni
    dell'Imperatore mio Signore, mantenendo la politica di S. M. sulla
    via tracciata dall'alleanza e garentita dall'amicizia provvidenziale
    che unisce i Sovrani, le dinastie e le nazioni dell'Italia e della
    Germania.
    
    Von Bismarck.»
    
    «A Sua Altezza Serenissima il Principe di Bismarck.
    
    In questo venticinquesimo anniversario del giorno nel quale un
    Sovrano illuminato vi chiamava nei suoi Consigli, il mio pensiero
    ritorna sulle grandi cose che avete compiuto. La patria tedesca
    unificata sotto uno scettro glorioso, l'Impero germanico rialzato
    dalle sue rovine e diretto da sedici anni verso uno scopo di pace e
    di conservazione, ecco i grandi titoli alla riconoscenza del popolo
    tedesco e all'ammirazione di tutti i vostri contemporanei,
    anticipatori della posterità e interpreti della storia. In
    nessun luogo meglio che in Italia si apprezza la grandezza della
    vostra opera: grazie al genio politico secondato dalle armi, pochi
    anni sono bastati per fare, di due popoli smembrati, due grandi
    Stati degni di comprendersi.
    Vostra Altezza che conosce i miei sentimenti personali a suo
    riguardo, voglia gradirne ancora una volta l'espressione in questo
    giorno.
    
    Crispi.»
    
    «A Sua Eccellenza il Signor Crispi.
    
    Con tutto il cuore ringrazio V. E. delle buone parole che ha voluto
    farmi giungere col telegrafo. L'analogia dei nostri precedenti
    storici, delle nostre aspirazioni nazionali e dei pericoli che
    possono minacciarci, ha creato tra i nostri due paesi quella
    solidarietà d'interessi che li ha predestinati ad una
    alleanza naturale e costante.
    Io sono felice di essere chiamato a cooperare con V. E. al nobile
    compito di conformare la nostra politica all'amicizia dei nostri
    sovrani e ai principî di pace e di conservazione che dirigono
    le intenzioni delle Loro
    Maestà, prestandoci noi mutuamente l'appoggio morale e
    materiale contro qualsiasi attentato all'indipendenza dei due
    alleati.
    L'elevatezza dei sentimenti di V. E. e dei ricordi nazionali onde la
    generazione è compresa in Italia come in Germania, ci
    dànno la fiducia che questa politica deve riuscire.
    
    Von Bismarck.»
    
    27 settembre. - Alle 9.50 pom. partenza da Roma.
    
    28 settembre. - Arrivo a Milano alla 1 pom. Alle 5 a Monza. Alla
    stazione viene a ricevermi il general Pasi.
    Alle 5.30 sono dal Re, col quale m'intrattengo sino alle 7. - Alle
    7.30 pranzo. - Ritorno a Milano.
    
    29 settembre. - Mi si scrive dal Rattazzi, che il Re verrebbe a
    Milano e che mi riceverebbe alle 5.30 pom.
    Sono dal Re. - Alle 8.30 si parte.
    
    30 settembre. - Alle 6.30 pom. a Francoforte, dove troviamo varii
    telegrammi. Pernottiamo al «Frankfürterhof».
    
    1 ottobre. - Alle 8.30 ant. si parte per Friedrichsruh. Poco prima
    di giungere a Büchen, ci raggiunge il conte di Bismarck.
    Alle 9.15 siamo a Friedrichsruh. Il conte mi avvisa: «Mon
    père». Il Principe è alla stazione a ricevermi,
    e si avvicina al vagone in atto di aiutarmi a scendere.
    Mi fa salire nella sua vettura e mi conduce a casa, che è a
    pochi passi. Sono ricevuto dalla Principessa, che si ricorda di me.
    Presento i miei segretarii: mio nipote Palamenghi-Crispi,
    Pisani-Dossi, Mayor.
    Piccolo circolo. - Arrivo del dottore Schweninger. - Si va a
    riposare.
    
    2 ottobre. - Mi alzo alle 6.30 del mattino.
    Alle 11 il Principe sale nel mio appartamento a visitarmi. Si scusa
    di essersi alzato tardi. Ha dovuto obbedire al suo medico. Andrebbe
    ad aprire il suo corriere, e fra un quarto d'ora sarebbe libero;
    discenderei io nel
    suo gabinetto. Da lì a poco avvertito, scendo al pianterreno,
    e traversando poche stanze che si seguono in fila, giunto alla sala,
    d'ingresso trovo a destra una saletta dalla quale, saliti alcuni
    gradini, passo nelle stanze di studio del Gran Cancelliere. Nella
    terza stanza è il gabinetto, il quale è mobigliato
    molto semplicemente.
    Il Principe siede alla sua scrivania. Al vedermi si leva e ci
    sediamo l'uno di fronte all'altro.
    Il Principe fa un'esposizione della politica generale nei suoi
    rapporti con la Germania.
    Egli vuole la pace; e constata con dispiacere come a turbarla
    esistano due sole Potenze, la Russia e la Francia. Egli però
    non ne teme. La triplice alleanza è una potente garanzia alla
    conservazione della pace.
    Ha fatto tutto il possibile per rendersi amica la Russia; ma non vi
    è riuscito. Al 1878 assunse su di sè il peso del
    Congresso di Berlino per renderne meno dolorose le conseguenze allo
    Czar. Pregato a prenderne l'iniziativa, si rifiutò; ma poscia
    recatosi da lui Schouvalow a nome dell'Imperatore, consentì.
    Quale ne fu il compenso? La Russia pose 200 mila uomini alla
    frontiera tedesca!
    Ripete ch'egli vuole la pace; ma che, se la deplora, non teme la
    guerra. La Germania può mettere subito sotto le armi un
    milione e mezzo di soldati, e se è costretta da forti
    necessità, levando tutti gli uomini validi, può
    mobilizzare 3 milioni di soldati. E vi sono, per tre milioni
    uniformi, armi e quanto occorre a portare parecchi eserciti sui
    campi di battaglia. Collocandone un milione alle frontiere del sud
    ed un milione a quelle del nord, la Germania non temerà
    l'offesa.
    Al resto penseranno gli alleati.
    La Russia non è sicura dei suoi eserciti. Le truppe,
    ufficiali e soldati, sono lavorate dagli elementi rivoluzionarii. Il
    grande impero pare invulnerabile, ma non lo è del tutto. La
    Polonia è una debolezza e l'Austria in Polonia è
    simpatica. Per poco che si aiutino ad insorgere, i polacchi potranno
    essere emancipati e costituire uno Stato da potersi dare ad un
    arciduca austriaco.
    Alessandro III non è partigiano della guerra. E quando pure
    volesse farla, non gli converrebbe andare in Bulgaria. Là, a
    poca distanza, è la Transilvania, e l'Austria avrebbe facile
    via per piombare sopra i russi.
     Al principe di Bismarck poco importa che i russi vadano a
    Costantinopoli. La Russia con quella conquista sarebbe più
    debole.
    A lui poco importa la soluzione della quistione bulgara e se mai ne
    sorgesse la guerra, non vi prenderebbe parte finchè la
    Francia restasse tranquilla. Il contegno della Francia potrebbe
    soltanto spingerlo a prendere le armi.
    Egli conta molto nella triplice alleanza, ed ha fiducia nelle due
    Potenze amiche. Non dubita della lealtà dell'Austria.
    È popolare in Austria l'alleanza con la Germania e l'Italia.
    Vi sarebbe impopolare un accordo con la Russia. Contro la Russia la
    guerra sarebbe popolare; con la Russia impossibile.
    Risposi esponendo le condizioni d'Italia. Il nostro esercito,
    quantunque non raggiunga il milione di soldati, è ormai forte
    e compatto per poter sostenere gli obblighi assunti con le due
    alleanze. In aprile noi potremo mettere mezzo milione di soldati in
    prima linea, oltre la riserva e la territoriale.
    Il nostro paese è tranquillo; noi non temiamo i partiti
    sovversivi. I nostri internazionalisti sono rari e non verrebbero
    mai all'azione. In caso di assalto straniero, tutte le classi
    sociali concorrerebbero alla difesa del territorio nazionale. In
    caso di spedizione all'estero potremo fare i maggiori sforzi,
    perchè all'interno non avremmo a temere insurrezioni.
    Noi non possiamo dirci disinteressati nella questione orientale. Non
    possiamo permettere che la Russia vada a Costantinopoli. La Russia a
    Costantinopoli sarebbe padrona del Mediterraneo; le sarebbe facile
    valersi dei marinai che offre la Grecia, con la quale, pei suoi
    vincoli religiosi, potrebbe essere d'accordo.
    Io non credo che la Russia diverrebbe più debole, prendendo
    Costantinopoli. Cotesto grande impero, allargando il suo dominio in
    Europa, potrebbe farne sua base, imperando facilmente sull'Oriente e
    sull'Europa.
    Ad impedire che ciò avvenga, l'Italia segue la sua politica
    tradizionale. Al 1854 Cavour concorse alla guerra in Crimea,
    unendosi alla Francia ed all'Inghilterra, giusto a cotesto scopo; ed
    oggi l'Italia non potrebbe fare altrimenti.
     Noi comprendiamo i pericoli che minacciano l'Europa, ed a
    scongiurarli ci siamo opposti a qualunque atto, che da parte della
    Russia o della Turchia potesse produrre la guerra.
    A noi poco importa che in Bulgaria regni Alessandro di Battenberg o
    Ferdinando di Coburgo. È nostro interesse soltanto che
    colà non sia turbata la pace. E la pace vi sarebbe turbata,
    se le grandi Potenze accettassero la proposta russa di demolire in
    Bulgaria quello che di fatto vi esiste, con l'invio di un
    luogotenente principesco. Il principe Ferdinando non partirebbe di
    buona voglia da Sofia, e se pur ne partisse i bulgari si
    opporrebbero anche con le armi al Luogotenente russo ed al
    Commissario turco.
    Io non m'illudo sulle condizioni della Turchia. Quell'Impero
    è in dissoluzione, e da un momento all'altro può darsi
    che se ne apra la successione. Nei nove anni che seguirono al
    trattato di Berlino, nulla ha fatto il Sultano per riordinare la sua
    amministrazione. È un miracolo, anzi, ch'egli continui a
    sostenersi, il suo governo mancando dell'alimento principale della
    vita degli Stati, cioè delle finanze. L'art. 23 del trattato
    di Berlino gli imponeva di dare alle sue Provincie regolamenti
    somiglianti a quelli di Creta, ed il Sultano nulla ha fatto e le
    Potenze non lo hanno richiamato allo adempimento de' suoi doveri.
    Il disordine attuale della Turchia può giovare alla Russia,
    che l'agguata, pronta a darle l'ultimo colpo. Ciò non
    può convenire alle grandi Potenze, le quali non possono
    permettere alla Russia d'impossessarsi di quel territorio.
    In tale stato di cose, il dilemma che a noi si presenta è
    questo; o unirci per riordinare l'amministrazione della Turchia,
    difenderla ove ne fosse il caso, impedire insomma che essa
    precipiti, o preparare le basi per un governo o più governi
    che dovrebbero essere sostituiti al turco.
    In questo secondo caso io non vedrei altro di meglio che,
    rispettando le autonomie delle differenti regioni, come la
    Macedonia, l'Albania, la vecchia Serbia, ecc., costituirle nel modo
    istesso, siccome oggi sono la Rumenia, la Bulgaria e gli altri Stati
    balcanici.
    Il concetto delle autonomie è accettato a Vienna.
    Dai dispacci del nostro Ambasciatore in quella città risulta
    che il conte Kálnoky vuole il rispetto delle autonomie locali
    nella penisola balcanica. Non so come il Kálnoky intenda
    attuare il suo pensiero, ma a me basta constatare che nei principii
    siamo d'accordo.
    Il Principe allora riprese che egli vedeva di buon occhio il gruppo
    delle tre Potenze, e desiderava anzi che fosse compatto, e che
    facesse valere la sua autorità.
    Nella Bulgaria nulla egli ha da vedere. Sarebbe stato meglio vi
    fosse rimasto il principe Alessandro. Esso però fu
    imprudente, ed affrettò la sua fine, violando il trattato di
    Berlino. Fece anche dippiù: offese la suscettibilità
    dell'Inghilterra co' suoi progetti di matrimonio. Comunque sia, egli
    non è più principe.
    La Russia insiste nelle sue proposte. Bismarck le appoggerà
    se verran fatte proprie dalla Turchia. È però di
    avviso che non approderanno. Libero però il governo italiano
    di seguire in Oriente la politica sua; la Germania sarà
    sempre d'accordo con l'Italia in tutto ciò che giovi al
    mantenimento della pace. Se la pace in Oriente venisse turbata, la
    Germania sarà co' suoi alleati, stando alla retroguardia.
    Per quanto si riferisce alle cose dell'Oriente - soggiunge il
    Principe - vedetevela col conte Kálnoky. Combinate tutto con
    lui, stabilite con lui. Potrà essere l'oggetto di un trattato
    speciale.
    Riprendendo la parola, soggiunsi che la conservazione della pace era
    il mio desiderio ed il mio proponimento. Manifestai il mio
    rincrescimento per le condizioni eccezionali nelle quali ci troviamo
    in Massaua. Quella occupazione non è un fatto mio: la trovai.
    È mio dovere però, è dovere del governo
    italiano di riparare all'offesa patita. Sarà una guerra di
    poco momento, alla quale siamo obbligati; è una guerra dalla
    quale non possiamo liberarci.
    Io voglio sperare che la Francia sarà tranquilla, ma
    dovrò osservare che i trattati del maggio 1882 e del febbraio
    1887 sono incompleti. Si previdero le ipotesi del concorso reciproco
    di una delle due Potenze in caso di una guerra; ma non si
    pensò a fare una convenzione militare, la quale io ritengo
    sia necessaria.
    Nissuno può sapere nè quando nè come
    scoppierà la guerra. Può essere un fatto improvviso; e
    non si deve
    attenderlo per metterci d'accordo nella parte che ciascuno di noi
    dovrà prendere alla difesa comune. Giova stabilire il
    più presto possibile un piano di difesa e di offesa
    prevedendo tutte le ipotesi, affinchè, scoppiata la guerra,
    ciascuno di noi sappia quello che deve fare.
    Insomma una convenzione militare è complemento ai trattati di
    alleanza.
    Il Principe rispose che comprendeva la ragionevolezza della mia
    proposta e che l'accettava. Era necessario però ch'egli ne
    parlasse con l'Imperatore e prendesse all'uopo gli ordini di S. M.
    L'Imperatore è il capo dell'esercito.
    Replicai, che ammessa in principio la mia proposta, nulla avevo da
    aggiungere, se non che ad esprimere il desiderio che altrettanto si
    dovesse fare con l'Austria.
    L'Austria - soggiunsi - è quello che è, impero
    poliglotta, composto di varie nazionalità. Io la rispetto,
    perchè rispetto e dovrò rispettare i trattati.
    Per me l'esistenza dell'Austria è necessaria all'equilibrio
    d'Europa. Lo riconosco, e l'Italia sarà una fedele alleata
    del vicino impero.
    Tengo a dirlo poichè fui suo nemico, e cospirai contro di
    esso sino a quando possedette provincie italiane. E perchè
    sono sincero nelle mie dichiarazioni, dovrò pregarvi
    d'interporvi presso il gabinetto di Vienna in una questione la cui
    soluzione ci interessa tutti, l'Austria e noi.
    Nello Stato austriaco vi è una forte popolazione italiana,
    una popolazione importante in ogni senso, che giova al governo
    austriaco tenersi amica.
    Io non domando privilegi per la popolazione italiana. Domando che
    sia trattata come tutte le altre nazioni dell'Impero. Il governo
    austriaco ci guadagnerebbe, perchè toglierebbe ogni motivo a
    lagnanze e se la renderebbe amica.
    V. A. non può comprendere qual danno derivi dai cattivi
    trattamenti ed in quale imbarazzo l'Austria metta il governo
    italiano. Tutte le volte che giungono in Italia notizie di violenze
    fatte agli italiani dall'Austria, il sentimento nazionale si ridesta
    ed i partiti politici se ne valgono di pretesto per turbare la pace
    pubblica.
    Del resto, l'Austria non può vivere ed esser forte che a
    condizione di rispettare le varie nazionalità dell'impero.
    Il Principe mi ringraziò di tali dichiarazioni, e promise che
    avrebbe fatto giungere la sua parola a Kálnoky.
    Dopo ciò riputai necessario di toccare un altro argomento, il
    quale interessa l'Italia e la Germania soltanto: l'esercizio dei
    diritti civili degli italiani in Germania e dei tedeschi in Italia,
    sul piede di perfetta eguaglianza; lo pregai di affrettare
    l'attuazione di codesto concetto.
    Il Principe, ricordandosi la promessa fattami in proposito per mezzo
    dell'Ambasciata tedesca in Roma, dichiarò che l'affare era
    allo studio e che l'avrebbe sollecitato. «Si studia un Codice
    Civile per tutto l'Impero per togliere la molteplicità dei
    Codici attualmente in vigore. Si è dovuto quindi sentire i
    ministri di Giustizia dei varii Stati. Ci vuol tempo, ma si
    farà presto».
    Era ormai mezz'ora dopo le 12 meridiane. Il Principe mi pregò
    di sospendere il colloquio, che avremmo ripreso dopo la colazione, e
    di andare a passeggiare nella foresta.
    Lui, io ed Herbert, appoggiati ciascuno al nostro bastone - me ne
    aveva dato uno di quelli che erano nell'anticamera - procediamo per
    un viottolo che si apre alla sinistra della casa. Si gira per oltre
    una mezz'ora e di tanto in tanto il discorso politico è
    interrotto dal Principe con le notizie ch'egli mi dà dei
    luoghi che traversiamo.
    Il Principe mi domanda di Cucchi - un deputato italiano che nel
    1870, durante la guerra, fu inviato al Quartier generale germanico
    dal Comitato della Sinistra - e vuole che io glielo saluti. Il che
    dà occasione a discorrere della origine dei nostri rapporti
    anteriori alla guerra del 1870, del viaggio di von Holstein a
    Firenze, degli aiuti che furon dati alla Prussia impedendo l'invio
    di truppe italiane in Francia.
    Si camminava a passo accelerato. Ricordando il 1870 e caduto
    naturalmente il discorso sulla Francia, mi venne fatto di avvertire
    come il Matin avesse esplicato il mio viaggio a Friedrichsruh. Il
    Matin aveva stampato che scopo della mia visita era stato la
    conciliazione col Papa. Ed il Principe:
    - Giusto quello di cui non abbiamo parlato. I francesi cercano
    «mezzogiorno a 14 ore».
     - E del resto non ve n'era ragione.
    - È una questione che non c'interessa, e della quale non
    dobbiamo occuparci.
    E vi dirò che nessuno dei prelati mi ha parlato del potere
    temporale, prevedendo purtroppo quale sarebbe stata la mia risposta.
    
    Come notizia storica parlai del padre Tosti, del suo opuscolo, delle
    intenzioni del Papa, delle contraddizioni, della lettera di Leone
    XIII e dell'altra di Rampolla, che bastarono per obbligarmi a non
    essere neanco cortese in alcune materie, nelle quali avremmo potuto
    condiscendere restando nei confini della legge per le guarentigie
    pontificie.
    
    Pochi minuti prima dell'una, siamo già ritornati a casa, e si
    va a far colazione.
    Dopo la colazione si tien circolo in una delle stanze attigue alla
    sala da pranzo. È lì un grande armadio di noce pieno
    di carta da scrivere, penne, ecc., regalato al Principe da alcuni
    fabbricanti di oggetti di cancelleria in uno de' suoi anniversarii.
    «Vi è più di un quintale di carta», dice
    ridendo la Principessa.
    La Principessa mi presenta un album veramente albo, cioè
    tutto bianco; e chiede che io pel primo vi scriva qualche parola.
    Scrivo: «In questo asilo del patriottismo, dove si veglia al
    mantenimento della pace di Europa, lascio questo mio ricordo - 2
    ottobre 1887 - F. Crispi». Il pensiero è molto gradito
    e il Principe esclama in tono solenne: «Vostra Eccellenza ha
    bene interpretato l'animo mio. Io lavoro al mantenimento della pace,
    non vivo che per questo... Abbiamo fatto abbastanza per la guerra;
    agiamo ora, e agiamo d'accordo, per la pace».
    
    Verso le 3.30 il Principe mi invita a fare una passeggiata in
    vettura nel parco. Consento.
    La Principessa, temendo che il mio soprabito fosse leggiero, mi
    getta sulle spalle il gran mantello militare del marito.
    Si corre traverso la foresta per lungo e per largo. Pioviccica un
    momento, e poscia le nubi si diradano per raccogliersi e condensarsi
    di nuovo, tanto che fa d'uopo alzare il mantice della vettura.
    Finalmente il
    cielo ci concede un armistizio, e ci mostra un po' di turchino.
    Verso le 5.30 siamo ritornati a casa.
    Nelle due ore di corsa abbiamo ripreso il colloquio della mattina, e
    siamo venuti ad una conclusione.
    Si farebbe la convenzione militare. Presi gli ordini
    dell'Imperatore, il Principe scriverà una lettera proponendo
    la negoziazione e noi risponderemo affermativamente.
    Alle 6 si va a pranzo: siamo a tavola: i miei segretarii, i due
    Consiglieri della Cancelleria, Herbert, il medico del Principe, la
    Principessa, il Principe, io.
    Alla fine del pranzo si passa nel salotto. Bismarck si adagia nel
    suo seggiolone e si mette a fumare le sue pipe. Gli chiedo quando
    potrebbero iniziarsi i negoziati. Il Principe chiede al figlio
    quando ritornerà l'Imperatore. E avuta risposta che sarebbe
    ritornato dopo il 20 ottobre, dice: «Appena l'Imperatore sia a
    Berlino, farò l'invito».
    La conversazione versò su vari argomenti: su Napoleone III,
    sulla guerra del 1859, sulla formazione del Regno d'Italia. Bismarck
    opinò che Napoleone III avesse cuore, ma difettasse di mente.
    Raccontò che l'Imperatore gli aveva confidato sin dal 1857 di
    aver deciso di far la guerra all'Austria e che commise a lui di
    persuadere il Re di Prussia a essergli alleato. Prometteva in premio
    l'Hannover o qualche altra terra tedesca. Bismarck aveva risposto
    che la comunicazione del progetto al suo Re sarebbe stato un errore,
    perchè il Re l'avrebbe rivelato all'Austria.
    
    3 ottobre. - Mi alzo alle 6 del mattino. Verso le 7 viene a trovarmi
    il conte de Launay, ambasciatore d'Italia a Berlino, che metto a
    giorno delle cose discorse col Principe. Egli n'è
    soddisfatto.
    Mezz'ora dopo mi si annunzia il Principe. Gli dò notizia dei
    casi del Marocco, e gli dichiaro qual sarebbe il contegno
    dell'Italia perchè, in caso di morte del Sultano, al trono
    sceriffiale non andasse un favorito della Francia e perchè la
    Francia non prendesse pretesto di quel fatto per estendere le sue
    frontiere dal lato del Marocco.
    Alle 8 ci disponiamo alla partenza. Il Principe e la
    Principessa mi accompagnano sino al vagone. Mentre si scambiano gli
    ultimi saluti e il treno si muove, Bismarck dice: «Siamo
    d'accordo su tutto... possiamo esser soddisfatti... abbiamo reso un
    servigio all'Europa».
    Si arriva alle 11 ad Hannover, dove, prevenuto dal Gran Cancelliere,
    si trova il sig. di Bennigsen, capo del partito nazionale-liberale.
    Si fa colazione insieme, quindi ripartiamo.
    Alle 8,30 pom. si giunge a Francoforte sul Meno, dove pernottiamo.
    
    4 ottobre. - Compio oggi 67 anni. Svegliandomi, uno dei miei
    segretari mi reca il seguente telegramma:
    «Agréez, cher Collègue, de ma part et de celle
    de ma femme nos felicitations les plus empressées à
    l'occasion de l'anniversaire de votre jour de naissance, et les vœux
    que nous formons pour votre santé et pour vos succès
    au service de la patrie.
    
    von Bismarck.»
    
    All'una del pomeriggio siamo nuovamente in treno per ritornare in
    Italia, via Gottardo.
    
    5 ottobre. - Alle 7 antimeridiane sono a Monza, dove conferisco col
    Re.
    All'una riparto per Milano, dove pernotto.
    
    6 ottobre. - Alle 10 ant. viene a visitarmi il conte Nigra,
    ambasciatore d'Italia a Vienna. Conferenza sino alle 11,30. Il conte
    Nigra mi comunica una proposta del barone di Calice, ambasciatore
    austriaco a Costantinopoli, da servire di base ad un accordo tra
    l'Italia, l'Austria e l'Inghilterra nella questione d'Oriente:
    «1.) Mantenimento della pace - 2.) Status-quo fondato sui
    trattati. Esclusione di compensi - 3.) Autonomie locali - 4.)
    Indipendenza della Turchia e degli Stretti, etc., da ogni influenza
    straniera preponderante - 5.) La Porta non potrà far cessione
    dei suoi diritti sulla Bulgaria ad altre Potenze - 6.) Associazione
    della Turchia per guarentire quanto sopra - 7.) In caso di
    resistenza della Turchia e pretese illegali della Russia, le tre
    Potenze si concerterebbero per l'appoggio a darle - 8.) In caso di
    connivenza o passività della Turchia, le tre Potenze si
    concerterebbero per occupare certi punti a scopo di
    equilibrio.»
    Partiamo per Roma alle 8,15 pom.
    
    La visita dell'on. Crispi al principe di Bismarck fu commentata
    sgarbatamente dai giornali francesi, cui fecero eco i nostri
    giornali radicali; ma nella grande maggioranza l'opinione pubblica
    italiana ne intuì l'importanza, e fu lieta della
    manifestazione di simpatia fatta all'Italia dalla stampa germanica
    unanime. La Norddeutsche Allgemeine Zeitung pubblicò un
    notevole articolo nel quale, dopo aver mostrato come l'analogia dei
    destini politici e la comunanza degli interessi legassero con
    stretti vincoli fra loro, Italia e Germania, costituite entrambe in
    nome dell'idea nazionale, attribuì al convegno di
    Friedrichsruh il significato di un nuovo pegno dei pacifici
    propositi dei due paesi. La National Zeitung notò che
    l'affermazione dell'accordo dell'Italia con gl'imperi centrali
    avrebbe giovato "a fortificare gli elementi pacifici in Russia e in
    Francia". Anche la clericale Germania osservò che
    poichè l'Italia esisteva e Crispi ne dirigeva la politica,
    era confortante il vedere che la forza dell'Italia stava con le
    Potenze che si adoperavano al mantenimento della pace.
    
    Il 25 ottobre all'on. Crispi fu dato a Torino per iniziativa degli
    on. Giolitti, Roux, e pochi altri deputati, ai quali si unirono poi
    i personaggi più cospicui del Piemonte, un grande banchetto
    al quale intervenne il ministero quasi al completo e aderì
    gran parte dei membri delle due Camere legislative. In
    quell'occasione, memorabile anche per le accoglienze cordialmente
    festose che il Piemonte fece al primo meridionale assunto alla
    direzione del governo d'Italia, l'on. Crispi pronunciò
    importanti dichiarazioni sulla politica estera che intendeva
    seguire. Giova qui riprodurle:
    «Ed eccomi condotto a parlare della politica con cui miriamo a
    mantenerla e a rafforzarla. Argomento delicato e geloso!
    poichè la politica estera ha duopo di abili fatti, ma di
    poche parole. Esso è argomento, però, sul quale voi vi
    aspettate che io vi apra l'animo mio. E
    parlerò, schietto e sincero, conforme alle norme della
    moderna diplomazia, la quale disprezza le antiche arti dell'inganno
    e della menzogna.
    La pace! ecco l'intento supremo che perseguiamo. La pace, la quale
    è così necessaria al nostro progressivo sviluppo
    interno, all'attuazione delle riforme invocate, all'impiego utile e
    fruttifero dei nostri redditi, al compimento delle opere di pubblico
    vantaggio che tanta parte d'Italia reclama ancora. E in quali modi
    cerchiamo dunque di assicurarla?
    Noi siamo amici di tutte le Potenze, con tutte desideriamo mantenere
    i migliori rapporti.
    Ve ne hanno con le quali quei rapporti sono più intimi.
    Ma se siamo, sul continente, alleati colle Potenze centrali, se sui
    mari procediamo d'accordo con l'Inghilterra, nessun obbiettivo ci
    proponiamo da cui gli altri si debbano sentir minacciati.
    Il mio recente viaggio in Germania inquietò la pubblica
    opinione in Francia.
    Fortunatamente però non alterò la fiducia di quel
    governo, il quale conosce la lealtà delle mie intenzioni, e
    sa che nulla io vorrò ordire contro il popolo vicino, a cui
    l'Italia è legata per analogia di razza e tradizioni di
    civiltà. Vissi due anni in Francia, dal 1856 al 1858, e i
    figli di quella generosa nazione, coi quali fui intimo ed ai quali
    schiusi il mio cuore, ben sanno quanto io ami il loro paese, e come
    non partirà mai da me alcuna provocazione ed alcuna offesa.
    Sanno che sarebbe il più felice dei miei giorni quello in cui
    potessi contribuire a portar la pace nei cuori francesi.
    Una guerra fra i due paesi nessuno potrà desiderarla e
    volerla, imperocchè la vittoria o la sconfitta sarebbero del
    pari funeste alla libertà dei due popoli, perniciose allo
    equilibrio europeo. Con tali convinzioni, e per calcolo, noi
    lavoriamo al mantenimento della pace.
    Il nostro sistema di alleanze è dunque inteso a scopo di
    preservazione, non di offesa; di ordine, non di perturbamento. Esso
    giova all'Italia, ma giova pure agli interessi generali.
    Nè siamo i soli in Europa a volere il progresso nella
    conservazione, il lavoro operoso nella pace.
    La storia del periodo in cui viviamo è dominata da
    un nome: quello di un uomo di Stato, pel quale la mia ammirazione
    è antica, come antichi già sono i vincoli personali
    che a lui mi legano; di un uomo il cui programma di governo si
    distingue per meraviglioso coordinamento delle varie parti di un
    medesimo fine: questo fine, duplice in apparenza, è uno in
    fondo: la pace e la grandezza del suo paese. Quest'uomo da
    trent'anni ha lavorato, prima a conseguire quel fine, poi,
    conseguitolo, a conservarlo. Quest'uomo, che seppe quel che volle, e
    ciò che volle fortissimamente volle, voi l'avete tutti
    nominato. Tutti lo conoscono per un grande patriotta, ed io
    aggiungerò che egli è un antico amico dell'Italia, un
    amico della prima ora, un amico dei giorni d'infortunio e di
    servaggio, poichè dal 1857 egli era nel segreto di ciò
    che stava maturando, in mezzo a tante difficoltà, la politica
    del conte di Cavour, e taceva, ed a chi avrebbe potuto parlare
    imponeva di tacere, ben sapendo quanta opposizione il parlare
    avrebbe suscitato e quanto convenisse al suo proprio paese che i
    destini d'Italia si compissero, poichè l'unità
    germanica si preparava con l'unità italiana.
    Non mi dilungherò sui recenti colloqui avuti con lui.
    Solo dirò che l'accordo di pensieri e di sentimenti che tra
    noi già esisteva, ha persistito attraverso alle opposte
    vicende, e si è affermato nuovamente dacchè la
    politica dell'Italia mi è affidata. Si è detto che a
    Friedrichsruh abbiamo cospirato. E sia pure: a me, vecchio
    cospiratore, la parola non fa paura. Sì, se si vuole; abbiamo
    cospirato, ma abbiamo cospirato per la pace, e però alla
    nostra cospirazione tutti coloro che amano questo bene supremo
    possono partecipare. Dei detti memorabili uditi, uno solo la
    discrezione mi permette di ricordare innanzi a voi, pronunciato nel
    momento del comiato, e nol tacerò, poichè è in
    esso la sintesi del nostro convegno. - È questo:
    «Abbiamo reso un servigio all'Europa».
    Io vado, pel mio paese, altero di ricordarlo - poichè mai, in
    una unione completa e cordiale come quella dell'Italia e dei suoi
    alleati, è stata tanto rispettata la sua dignità, sono
    stati tanto garantiti i suoi interessi.
    Ma, oltrechè con le alleanze, perseguiamo l'intento della
    pace col volere la giustizia. Ciò vi spiega, o signori, la
    nostra politica in Oriente. Ivi ciò che domandiamo si
    è il rispetto dei diritti dei popoli, conciliato, in quanto
    è possibile, col rispetto dei trattati che formano il diritto
    pubblico ed europeo; ciò che speriamo si è lo sviluppo
    progressivo delle autonomie locali. Si hanno nella penisola dei
    Balcani quattro nazionalità distinte, ciascuna avente la sua
    lingua, la sua sede secolare, le sue tradizioni antichissime, e -
    ciò che è più - la coscienza della propria
    individualità come nazione e l'aspirazione all'indipendenza.
    Ebbene, questi popoli che anelano, come ogni ente, a vita libera,
    aiutiamoli a riprendere possesso di loro stessi, senza lotte, senza
    spargimento di sangue, senza nuovi martirii. Non è questa la
    politica la più degna dell'Italia, la più conforme
    alle sue origini ed ai nostri principii? E riflettete, signori:
    codesta non è soltanto politica di principii e di sentimenti:
    è altresì politica d'interessi bene intesi. I popoli
    balcanici, che colà rappresentano la giovinezza con le sue
    inesperienze, ma anche l'avvenire con le sue speranze e le sue
    forze, non dimenticheranno l'aiuto disinteressato che l'Italia
    avrà loro prestato. Abbiamo forse, noi, dimenticati i servizi
    disinteressati a noi resi? Chi proferisce questa bestemmia, si
    rivolga al popolo inglese, a cui ci legano tosto quarant'anni di
    amicizia non mai turbata, e saprà da esso se nella sua storia
    abbia mai avuto alleato più fedele, amico più sincero
    del Piemonte dapprima e dell'Italia oggi giorno.
    E nella stessa Francia vi è forse uomo di senno retto e
    imparziale che sia disposto ad accreditare col suo consenso le
    accuse d'ingratitudine che spesso da quel suolo, così caro ad
    ogni italiano, contro l'Italia si sono elevate?
    Ma pace senza scambi è pace infeconda, e però,
    perseguiamo ancora il nostro intento con lo stringere vincoli
    commerciali con le Potenze vicine. Un trattato era stato denunciato.
    Fu mia cura, appena venuto al potere, di fare pratiche per il
    rinnovamento dei patti e per evitare, anche per un sol giorno, una
    guerra di tariffe fra due paesi i cui interessi sono così
    strettamente commisti come la Francia e l'Italia. Un altro trattato
    con un impero amico ed alleato veniva a scadenza. Non esitai a
    intavolare negoziati. Avviate a Vienna, le trattative continuano a
    Roma, ove ho, prima di partire, salutato, nella fiducia di un non
    difficile successo, i negoziatori dell'Austria e della Ungheria.
    La reciproca tutela della diversa produzione e del lavoro diverso,
    che in tanto combattersi di teorie economiche è la sola guida
    pratica che si possa ascoltare, ci offre larga base ad equi compensi
    ed a giusti compromessi. Ed il successo ci sarà tanto
    più caro, perchè i due Stati fra i quali esistono
    già i vincoli politici leali e non oziosi, non conservano di
    lotte, ormai antiche, altra memoria che la stima del reciproco
    valore.»
    
    Il discorso-programma dell'on. Crispi, non solamente ottenne un
    grande successo in Italia, ma fu considerato in tutta l'Europa come
    un avvenimento di notevole importanza per la politica
    internazionale. Dimostrano ciò i documenti e i giudizii che
    riferiamo.
    L'Incaricato d'affari italiano a Parigi scrisse il 27 ottobre:
    
    «Nell'udienza che io ebbi ieri presso questo sig. ministro
    degli Affari esteri, gli feci leggere il testo stesso quale mi venne
    telegrafato dall'Eccellenza Vostra, dei punti relativi alla politica
    estera, del discorso da Lei pronunciato il giorno innanzi a Torino.
    Il sig. Flourens se ne mostrò soddisfatto, mi disse che il
    governo francese non aveva mai dubitato delle intenzioni di Vostra
    Eccellenza a suo riguardo; che ciò nondimeno le dichiarazioni
    pacifiche ed amichevoli per la Francia, contenute in quel discorso,
    erano tali da produrre un'influenza favorevole e benefica
    sull'opinione pubblica, quantunque la prima impressione, seguita
    alla sorpresa del viaggio di Vostra Eccellenza a Friedrichsruh, si
    fosse già sensibilmente calmata. Il sig. Flourens non
    accennò ai punti relativi all'Inghilterra ed al principe di
    Bismarck: non poteva lodarli e preferì tacerne.
    Quanto all'accoglienza fatta al discorso da parte della stampa
    parigina, egli è evidente che non potevamo attendere
    apprezziazioni favorevoli e spassionate: per i francesi noi restiamo
    gli alleati della Germania; ai loro occhi questo fatto domina
    qualsiasi altra considerazione. «Consentiamo pure, dice il
    Matin di stamane, a ritenere sincere le proteste d'amicizia
    dell'antico rivoluzionario, il quale ricevette durante il suo esilio
    in Francia la cordiale ospitalità di cui non ha perduto il
    ricordo, ma d'altra parte non possiamo non conservare una certa
    diffidenza contro l'uomo di Stato il quale corrispose con sì
    viva premura agli inviti del nostro più mortale
    nemico». Tale, in poche parole, è il sentimento reale
    della maggioranza. Il Journal des Débats, pur accogliendo le
    parole dell'Eccellenza Vostra sull'eventualità di una guerra
    contro la Francia, secondo il sentimento che le ha ispirate, si
    domanda perchè l'Italia, che non è da nessuno
    minacciata, ha creduto di contrarre alleanze che possono spingerla,
    suo malgrado, ad una guerra di cui essa ripudia anche il pensiero, e
    per interessi che non sono i suoi? Quel giornale si dichiara
    perciò preoccupato precisamente di ciò che
    l'Eccellenza Vostra ha taciuto. Il Temps, riconoscendo che la nostra
    professione di simpatia per la Francia non è stata
    accompagnata da alcuna riserva, prende atto della dichiarazione che
    mai da parte nostra vi sarà provocazione od offesa.
    Dal complesso di questi commenti si può dedurre che il
    discorso di Torino ha disorientato alcuni fra i più malevoli
    a nostro riguardo. Taluni, in mancanza d'argomenti seri,
    attribuiscono le parole amichevoli dell'Eccellenza Vostra al
    desiderio di conchiudere con la Francia un trattato di commercio
    favorevole ai nostri interessi. Altri, avrebbero preferito puramente
    e semplicemente che ella avesse palesate le clausole dei nostri
    trattati di alleanza, e insinuano nuovamente che ve ne hanno di
    offensive.»
    
    L'Incaricato d'affari a Berlino, avendo comunicato alla Cancelleria
    imperiale il testo del discorso, riferì quanto segue:
    
    «Il conte di Bismarck mi fece esprimere oggi il desiderio di
    vedermi e mi disse che, avendo inviato a Friedrichsruh la copia da
    me mandatagli del telegramma di Vostra Eccellenza, il Principe
    Cancelliere lo aveva incaricato di fare a Lei pervenire, per mezzo
    mio, i suoi migliori ringraziamenti per la fattagli comunicazione ed
    insieme i suoi rallegramenti sinceri per il «bel»
    discorso. Sua Altezza desiderava inoltre che fosse inviata in suo
    nome all'Eccellenza Vostra l'espressione di tutta la sua
    riconoscenza per la parte che lo riguarda personalmente nel discorso
    medesimo. In quanto poi alle varie idee in esso sviluppate a
    proposito della politica estera, il principe di Bismarck fa dire a
    Vostra Eccellenza che egli le
    divide interamente, ma che però troverebbe opportuno di
    manifestare un suggerimento circa la frase in cui parlasi delle
    «quattro distinte nazionalità» insediate nella
    penisola balcanica. Egli teme che quella frase possa servire di
    facile pretesto alle Potenze interessate nel contrariare l'azione
    nostra a Costantinopoli, per risvegliare nell'animo del Sultano,
    tanto proclive alla diffidenza, una recrudescenza di sospetti a
    nostro riguardo. Come rimedio a questo pericolo, sarebbe suo avviso
    che l'Eccellenza Vostra avesse a dare incarico all'Ambasciatore di
    S. M. in quella residenza di far comprendere come Ella non
    intendesse far allusione ad altro, colle parole pronunciate, se non
    se allo stato di cose già esistente nella regione dei
    Balcani. Il Cancelliere opina che Vostra Eccellenza potrebbe
    facilmente conseguire lo scopo, sia collocandosi al punto di vista
    etnografico, vale a dire delle quattro nazionalità, rumena,
    greca, slava ed ottomana, che si trovano in quella penisola, sia
    seguendo la distinzione politica dei quattro Stati attuali, Rumania,
    Serbia, Grecia e Bulgaria. Sembra a lui che in un modo o nell'altro
    si possa ottenere di spuntare, con questo mezzo, prima ancora che
    venga lanciata a pregiudizio degli interessi comuni, la freccia che
    certamente si saprebbe fabbricare con quella materia.»
    
    Dei grandi giornali, il Times così giudicò il discorso
    di Torino:
    
    «Ho l'onore di trasmettere qui unita all'Eccellenza Vostra la
    traduzione di un brano di un articolo del Times d'oggi circa il
    discorso pronunziato dall'E. V. in Torino. L'apprezzamento è
    degno di nota e pari alla riputazione del giornale. Il Times
    riepiloga maestrevolmente ciò che si pubblica da tutti gli
    altri giornali del Regno Unito, conservatori e liberali,
    sull'importanza di quel discorso per l'Europa. Gli articoli degli
    altri giornali sono così numerosi che sarebbe quasi
    impossibile poterne dare contezza.
    Gradisca, sig. Ministro, l'espressione della mia più profonda
    osservanza.
    
    T. Catalani.»
    
    
    Articolo di fondo del "Times" del 3 novembre 1887.
    
    "Pochi statisti hanno avuto la sorte di raccogliere l'approvazione
    universale ch'è stata ottenuta dal discorso pronunziato dal
    signor Crispi in Torino, or è poco più di una
    settimana. Quel discorso fu salutato a Berlino come prova conclusiva
    dell'esistenza di un'alleanza fra l'Italia e le Potenze Germaniche,
    mentre esso non fu accolto con minor soddisfazione a Parigi per
    cagione della simpatia verso il popolo francese manifestata dal
    Ministro italiano. Il discorso non fu meno gradito ai connazionali
    del signor Crispi, il quale ha avuto l'onore di ricevere le
    congratulazioni del re Umberto. Risulta che il principe di Bismarck
    ha dichiarato di essere in grado di sottoscrivere ogni dichiarazione
    fatta dal signor Crispi circa gli affari esteri, sanzione tanto
    più notevole in quanto che noi sappiamo che, sopra taluni
    punti, il discorso di Torino andò considerabilmente
    più avanti di ciò che la Germania ha mai detto in
    termini espressi. Nel trattare la questione Bulgara, per esempio, il
    signor Crispi sposò la causa delle autonomie locali nei
    Balcani con un calore che in apparenza fa contrasto colle ripetute
    dichiarazioni d'indifferenza della Germania. Ma benchè il
    principe di Bismarck abbia dimostrato ai Bulgari un aspetto
    piuttosto severo, ed all'occasione li abbia ripresi con un tono
    alquanto aspro, la politica della Germania è stata, in tutto
    questo tempo, essenzialmente favorevole alle libertà bulgare,
    perchè sempre scrupolosamente memore dei trattati, che
    mettendo la Bulgaria sotto la tutela dell'Europa, l'allontanano dal
    sindacato esclusivo di una sola Potenza. Il signor Crispi, mentre
    parlò con calda simpatia della lotta dei Bulgari per la
    libertà e rammentò i sentimenti con cui gli Italiani
    guardano coloro che stesero una mano amica al Piemonte, non ebbe
    minor cura del principe di Bismarck a far notare che i trattati
    debbono essere strettamente e scrupolosamente osservati. In tal
    guisa l'adesione del principe di Bismarck alle dichiarazioni del
    signor Crispi, fornisce gradita prova dell'esistenza di un accordo
    ben chiaro fra l'Italia e le Potenze Germaniche sopra una base che
    tutti possono apprezzare e che esclude gli elementi di capriccio e
    di disegni segreti. Il principe di Bismarck ed il signor Crispi
    s'incontrano sul programma dell'inviolabilità degli accordi
    formalmente sanzionati dall'Europa, mentre l'Inghilterra, i cui
    interessi sono tutti legati alla pace ed allo svolgimento ordinato
    delle cose, mette la sua preponderanza dal lato di questa
    combinazione eminentemente conservatrice."
    
    Ed ecco i giudizii di due dei più autorevoli giornali
    germanici:
    
    Articolo del giornale "Die Post" N. 297. 30 ottobre 1887.
    
    Il discorso di Torino.
    
    "Il 25 ha avuto luogo a Torino il banchetto che i cittadini di
    quella città tutt'ora così importante, la quale
    gettò le fondamenta della nuova Italia, già da tempo
    avevano preparato pel Ministro Presidente Crispi, un italiano del
    Mezzogiorno. La festa era stata originariamente ideata come
    dimostrazione della piena fusione del Settentrione col Mezzogiorno
    d'Italia, e della rinuncia che la culla della nuova Italia aveva
    fatto ai suoi antichi diritti, con lieto animo per amore della
    fausta unità. In quel mentre accadde che poche settimane
    prima della festa, l'uomo che si voleva festeggiare ricevette
    l'invito di recarsi a Friedrichsruh, ed il risultato di quella
    visita, felicemente conseguito, fu accolto subito in tutt'Italia con
    gioia, come conferma ed indizio della cresciuta importanza dello
    Stato, quale non si sarebbe potuta desiderare più manifesta.
    Così la festa assunse un nuovo carattere. Si era ottenuto il
    frutto di un lungo lavoro giacchè l'Italia compariva davanti
    all'Europa come una indiscutibile grande Potenza; frutto che
    racchiudeva inoltre in sè l'aspettativa di un avvenire ancor
    più bello. E così invece di un allegro banchetto si
    ebbe un atto solenne. Tutti i Ministri erano presenti, eccettuato
    quello della Guerra, il quale doveva dar mano agli ultimi
    preparativi per la spedizione abissina. Il numero dei Deputati,
    Senatori ed alti impiegati convenuti, ammontava a circa 600. Dopo
    che il Presidente dell'adunanza ebbe salutato il festeggiato, non ci
    fu durante la serata alcun altro discorso da quello di Crispi
    all'infuori. Di questo discorso non possediamo ancora il testo
    integrale, ma gli estratti telegrafici contengono certamente i passi
    essenziali. Il discorso si diffuse egualmente sopra la politica
    interna ed estera.
    Il passo eccezionalmente importante circa il principe di Bismarck ed
    il convegno di Friedrichsruh viene da alcuni giorni commentato in
    tutta Europa; eppure, caso singolare, esso non rivela nulla affatto
    dei risultati del convegno, da quello in fuori che tutti già
    sapevano, o s'immaginavano. Un uomo d'ingegno può tacere
    tutto e nondimeno soddisfar tutti. Crispi si è mostrato
    maestro in quest'arte. Certamente fu convenuto in Friedrichsruh che
    toccava al signor Crispi di dire pubblicamente la prima parola sopra
    il convegno. E colà furono anche tracciati i confini del
    tacere e del parlare. Il Cancelliere tedesco è indifferente
    all'enunciare cose grandi colla propria bocca, e questa volta doveva
    tanto più volentieri cedere il passo all'uomo di Stato amico,
    perchè la politica vien fatta in Italia in altro modo che da
    noi. In Italia bisogna toccar la corda dell'anima. Che cosa ha
    dunque detto l'oratore? Affermò che si pretendeva essersi
    cospirato a Friedrichsruh. Il rimprovero non tangere lui, vecchio
    cospiratore; però, non essersi cospirato colà che per
    la pace, ed ognuno poter partecipare alla congiura. Ciò
    è detto ingegnosamente, ed è efficace; ma i curiosi
    non ne saranno contenti, giacchè questi vorrebbero sapere
    quali provvedimenti in quel convegno si siano presi per assicurare
    la pace e da qual parte siano da temerne le perturbazioni. Senza tal
    timore non sarebbe necessario di cospirare. Qualche volta si parla
    di un silenzio eloquente: qui ci fu una eloquenza silenziosa, e noi
    che giudichiamo la situazione politica dal punto di vista tedesco,
    ne siamo contenti, e stimiamo l'uomo di Stato che s'è
    mostrato così perito in quest'arte.
    Ma entriamo nell'esame dei passi del discorso che contengono
    qualcosa di più d'un'ingegnosa parafrasi del silenzio. Questi
    sono ben importanti. L'oratore osservò: l'Italia non aver mai
    stretto un'alleanza così piena e cordiale; la dignità
    sua non esser mai stata così rispettata, nè mai
    così garantiti i suoi diritti e bisogni, sono parole dietro
    le quali si può cercar tutto, ma però bisogna
    collegarle con le altre: essersi cospirato solo per la pace. Il modo
    di conciliare queste e quelle fu indicato dalla Norddeutsche
    Allgemeine Zeitung nel suo numero del 6 ottobre, nel quale
    notò che la visita del signor Crispi aveva provato l'accordo
    pieno dei due uomini di Stato nella loro risolutezza d'impedire, in
    unione all'Austria-Ungheria, una guerra europea, per quanto è
    possibile e, in caso di necessità, in unione, di difendersi.
    Stando a ciò, i due uomini di Stato si saranno accordati
    circa il modo di respingere l'attacco, e in ciò starebbe
    l'importanza capitale ed anche il segreto del convegno.
    Ora, poichè noi crediamo fuor di luogo ogni tentativo di
    penetrare il segreto, dobbiamo aggiungere un'altra osservazione. Il
    Ministro Presidente annunciò davanti ad una adunanza numerosa
    di uomini politici del suo paese che l'Italia non strinse mai
    un'alleanza così piena e cordiale. Un atto tanto importante
    per le sorti d'Italia fu compiuto dal Re e dal Ministro, da soli.
    Nessuno ha protestato, e tuttavia l'Italia è tenuta in conto
    di uno dei paesi più liberi. E noi crediamo ch'essa
    giustamente venga tenuta in tal conto, e che però meriti tal
    libertà molto più di altri paesi. Nessun Ministro
    avrebbe potuto stringere una tale alleanza in un altro paese retto a
    sistema parlamentare: nessuno nè in Inghilterra, nè in
    Francia. In Francia, forse nel solo caso in cui tutti i partiti
    fossero convinti che nel segreto stesse nascosta la rivincita. - In
    Inghilterra fu un tempo in cui i Ministri potevano talvolta compier
    qualcosa di somigliante. Siccome nella politica estera i partiti di
    governo erano concordi nel fondo, ciascun partito poteva ritenersi
    sicuro che i successori eseguirebbero gli impegni assunti dal
    governo precedente. Eppure di rado s'usò anche allora di
    quella facoltà. Del resto, era necessario di usarne,
    poichè al tempo delle grandi guerre un uomo solo fu alla
    testa degli affari in Inghilterra e vi restò fino alla morte,
    Guglielmo Pitt, e non ebbe necessità di segreti di fronte al
    Parlamento, a causa della chiarezza della situazione e dello stato
    esistente di aperta guerra. Oggi ciò riescirebbe impossibile
    in Inghilterra. Ma il dominio mondiale di essa va tramontando. Un
    popolo, però, il quale è in grado di riporre piena
    fiducia nella volontà di un sol uomo quando ciò
    è necessario, e di dargli un mandato illimitato rinunciando
    ad ogni tentativo di sollevargli delle difficoltà, dimostra
    di essere degno della libertà, appunto perchè sa a
    tempo opportuno deporre le armi, di cui è fornito a difesa di
    essa."
    
    Articolo della " Kölnische Zeitung " N. 300
    (Morgen Ausgabe) 29 ottobre 1887.
    
    "Quantunque noi non possediamo ancora il testo del discorso di
    Torino tenuto da Crispi, oggetto di tanti commenti, pure l'estratto
    telegrafico autentico conferma, in ogni punto, quanto da buona
    sorgente già era trapelato intorno all'Alleanza stipulata
    nella primavera scorsa e intorno al consolidamento della stessa in
    faccia all'estero mediante il convegno di Friedrichsruh. Crispi ha
    negato anzitutto espressamente il carattere offensivo della
    alleanza. Egli ha fatto risaltare che ogni Governo potrebbe far suoi
    gli scopi pacifici dell'unione. Egli ha inoltre accennato ben
    chiaramente che l'accordo esiste da tempo e che la visita sua lo ha
    soltanto messo in luce. A tal proposito vogliamo ricordare che la
    Norddeutsche Allgemeine Zeitung ristampa oggi senza commenti un
    articolo d'un giornale italiano nel quale si dice che in
    Friedrichsruh non fu stretto nessun nuovo trattato. Anche a
    proposito dei rapporti coll'Inghilterra vanno in giro tutto
    dì delle opinioni erronee. Come fu già osservato, non
    esistono patti formali coll'Inghilterra, nè sul Continente
    nè sui mari. Ciò che Crispi disse circa l'intesa
    coll'Inghilterra concorda quasi letteralmente con quanto fu detto
    più d'una volta in questo stesso giornale, come a mo'
    d'esempio il 1.° ed il 15 marzo, subito dopo la conclusione
    dell'alleanza. Già venne annunziato e confermato che delle
    stipulazioni conchiuse fra i tre, una riguarda l'Austria, ed ha per
    iscopo l'equilibrio del Mediterraneo, col consenso e d'accordo
    coll'Inghilterra e che questa appunto era la base più larga
    che l'Italia aveva posto per condizione del rinnovamento
    dell'Alleanza.
    Quantunque pertanto, per quel che si sa da fonte degna di fede, un
    patto formale coll'Inghilterra, per le ragioni già note, non
    abbia avuto luogo, l'intesa suaccennata servirà tuttavia di
    norma anche per gli eventuali eredi dell'attuale Ministero inglese,
    pel solo fatto della comunanza degli interessi, e contribuirà
    come gli altri patti al mantenimento della pace."
    
    
    
    Capitolo Settimo.
    
    La rottura delle relazioni commerciali con la Francia.
    
    
    Negoziati per la rinnovazione del trattato di commercio
    italo-francese. Una missione officiosa dell'on. Boselli a Parigi:
    sue lettere a Crispi. Ragioni politiche ed economiche che condussero
    alla guerra di tariffe. - Dal Diario di Crispi, ottobre-dicembre
    1887: questioni internazionali - colloquio tra lo Czar e il principe
    di Bismarck - documenti falsi - l'incidente consolare di Firenze.
    
    Il trattato di commercio italo-francese del 3 novembre 1881 fu
    denunziato dal governo italiano il 15 dicembre 1886 per voto del
    Parlamento e dopo maturo esame, contemporaneamente al trattato
    italo-austriaco. All'atto della denuncia il ministro degli Affari
    esteri, conte Robilant, dichiarò esser sua intenzione di
    aprire negoziati per un nuovo trattato più rispondente ai
    bisogni nuovi o meglio accertati dell'Italia; ma la stampa francese
    considerò la denunzia come una rappresaglia pel rigetto,
    fatto pochi mesi prima dalla Camera dei deputati di Francia, della
    Convenzione di navigazione tra i due paesi già approvata dal
    Parlamento italiano.
    L'opinione pubblica in Francia, mal disposta verso di noi sin dal
    1882 per la nostra adesione all'alleanza austro-germanica, non
    faceva presagire nulla di buono circa il risultato dei negoziati per
    il nuovo trattato di commercio. Questi non erano ancora stati
    intavolati, quando, l'8 agosto 1887, l'on. Crispi assunse la
    direzione degli Affari esteri. Dopo pochi giorni, il 12 agosto, egli
    scriveva all'ambasciata d'Italia a Parigi esser
    
    «nostra speranza che si giunga alla stipulazione di un
    trattato di commercio. Non sapremmo intanto dissimulare che un nuovo
    insuccesso nella Camera francese farebbe in Italia la più
    spiacevole impressione, al momento stesso in cui desideriamo
    vivamente di vedere raffermarsi l'amicizia tra i due popoli. Noi
    siamo risoluti a fare i primi passi, bene inteso però nel
    caso in cui il ministero francese si dichiari previamente pronto a
    corrispondere alla nostra iniziativa e vi sia possibilità di
    accordo.»
    
    Il 21 agosto l'on. Crispi, non avendo ricevuto assicurazioni
    sufficienti dal presidente del Consiglio dei ministri di Francia,
    signor Rouvier, soggiungeva:
    
    «....Ma poichè sembra che il signor Rouvier non si
    creda in grado di poterci dare quanto all'atteggiamento del
    Parlamento francese riguardo al futuro trattato, quella malleveria
    ch'io non esito, dal canto mio, a dargli per il nostro Parlamento,
    preferirei di non esporre i due paesi agli attriti che sarebbero
    evidentemente la conseguenza di un terzo rigetto da parte delle
    Camere francesi.»
    
    Non di meno, poichè il Rouvier suggeriva che le nostre
    domande gli fossero notificate in via preliminare ed ufficiosa, sia
    per mezzo di persone di fiducia del governo italiano, che per mezzo
    dell'Ambasciata, l'on. Crispi affidò la missione di esplorare
    le vere intenzioni dello stesso Rouvier all'on. deputato Paolo
    Boselli, che aveva, come negoziatore della Convenzione di
    navigazione, conosciuto il ministro francese e stretto buone
    relazioni personali con lui.
    Dalle lettere scritte dall'on. Boselli a Crispi il 5, il 7 e il 10
    settembre, stralciamo i brani più interessanti.
    "In sostanza il signor Rouvier non può far previsioni
    positive e sicure circa l'esito che un nuovo trattato avrà
    nel Parlamento Francese, se prima non conosce, almeno per sommi
    capi, le domande, le concessioni, le intenzioni del Governo
    italiano, il quale avendo esso denunziato il trattato, pare a lui
    debba esporre pel primo i desiderii, almeno fondamentali, dei nuovi
    patti commerciali e marittimi. Già fin da ora però
    egli può affermare che non sarebbe approvato dal Parlamento
    Francese un trattato la cui durata oltrepassasse l'anno 1892, epoca
    in cui scadono i trattati che la Francia ha con altri paesi.
    Nè spera, come pure vorrebbe poter fare, che sia possibile
    ottenere l'approvazione di un trattato più liberale di quello
    da noi denunziato. Privo di qualsiasi altra notizia in proposito del
    Governo italiano, vide solamente due articoli, che a lui furono
    segnalati come scritti per ispirazione dei nostri on. negoziatori
    Ellena e Luzzatti, uno dei quali trattava del dazio sul bestiame e
    nell'altro era espresso il desiderio di ridurre il nuovo trattato a
    poche voci. A lui non sembra nè agevole, nè probabile
    il soddisfare questo desiderio; per contro invece egli sarebbe
    disposto, fermo l'attuale dazio, a vincolare la voce relativa al
    bestiame, ma trovò opposizione nel Ministero dell'Agricoltura
    e prevede che la troverebbe anche maggiore nel Parlamento.
    Il Sig. Rouvier, reputando impossibile conchiudere un nuovo trattato
    di commercio e farlo approvare dai due Parlamenti (il Parlamento
    francese dovrà prorogarsi al 15 dicembre per le elezioni
    senatoriali) in tempo perchè possa andare in vigore il
    1.° gennaio 1888, e parendogli che si debba evitare sia per
    ragioni economiche, sia per ragioni politiche, l'applicazione delle
    rispettive tariffe generali fra i due paesi, crede opportuna una
    proroga del trattato attuale per un anno, o almeno per sei mesi,
    cominciando intanto i negoziati.
    Il Sig. Rouvier comprende come debba evitarsi assolutamente un terzo
    rigetto da parte del Parlamento francese, ma soggiunge che,
    conosciute, anche ufficiosamente, le domande del Governo italiano,
    potrà fare al riguardo fondati presagi dimostrando, coi
    calcoli numerici già a Lei noti, come, se le domande stesse
    saranno tali da non urtare con certe idee che sono invincibili nel
    Parlamento francese, si potrà conseguire un voto
    d'approvazione. Come Ella vede, i propositi e le intenzioni del
    Rouvier sono eccellenti, ma per poter sapere qualche cosa di
    concreto è mestieri che si esca dalle dichiarazioni generiche
    e che gli si facciano conoscere, in modo ufficioso e preliminare, e
    sia pure sommario, ma determinato, le nostre domande, cosa che
    può essere fatta opportunamente per mezzo dell'Ambasciata, ma
    che penso non possa esser fatta se non sentiti i nostri negoziatori.
    Il Sig. Rouvier si rende perfettamente ragione del pessimo effetto
    che, anche politicamente, il rigetto della convenzione marittima
    deve aver fatto al nostro paese e attribuisce il rigetto stesso
    all'opposizione dei courtiers marittimi e alla fiducia che il
    Presidente del Consiglio di allora aveva nell'approvazione della
    convenzione stessa, cui però non diede tutta la dovuta
    importanza.
    La guerra che oggi si muove in Francia ai nostri operai fu oggetto
    di vive e ripetute osservazioni da parte mia. Il Sig. Rouvier
    cercò di attenuarne la gravità, non ristandosi
    però dal deplorare esplicitamente quanto oggi accade....
    Egli ignora che il Governo francese abbia banditi gli operai
    italiani dalle costruzioni di opere pubbliche e da altri servizi
    dipendenti da pubbliche amministrazioni e si riservò di
    prender notizie e darmi spiegazioni in proposito. Si mostrò
    però deciso sinceramente a fare quanto più gli
    è possibile per arrestare questa corrente di idee contrarie
    agli operai italiani che io gli dissi esser cagione di vivo e
    ragionevole risentimento nel nostro paese. L'eccitai a darci qualche
    solenne soddisfazione, manifestando in modo pubblico, p. es. con
    circolare ai Prefetti, il pensiero del Governo. Ma egli mi rispose
    che nei luoghi dove gli animi sono eccitati, l'intervento palese del
    Governo potrebbe rendere maggiore l'agitazione e che si potrà
    invece procedere più utilmente dando ai Prefetti istruzioni
    riservate. (Non prese però ancora positivo impegno).
    Da alcuni giorni varii giornali autorevoli trattano la questione in
    un senso giusto e liberale; però io esortai il Sig. Rouvier a
    far sì che i giornali governativi più diffusi e
    popolari anche in provincia si adoperino a far argine alle idee ed
    alle passioni che accennano, checchè egli ne dica, a prendere
    larga estensione. Del resto il signor Rouvier ammette che il
    trattato nostro ancora in vigore e il trattato tra la Francia e la
    Spagna ci danno il diritto di reclamare contro ogni offesa alla
    libertà del lavoro dei nostri operai in Francia e dichiara
    che è deciso a far rispettare il nostro diritto. Questo
    argomento, tanto interessante, sarà ancora uno dei principali
    oggetti delle nostre successive conversazioni. Politicamente le
    franche parole d'una voce amica, trovarono eco nell'animo del Sig.
    Rouvier, ma mi rispose osservandomi come si debba constatare con
    reciproco rincrescimento che i fatti non si sono svolti sempre
    conformemente ai nostri comuni voti. Riservandomi di meglio riferire
    a voce la conversazione già avuta e quelle che avrò
    ancora al riguardo col Sig. Rouvier, mi limito qui a riassumere
    alcuni dei discorsi fatti oggi con lui.
    Riconosce la verità dei concetti che gli ho esposti, seguendo
    le ispirazioni della S. V., ma afferma che l'accordo tra la Francia
    e la Russia, circa le questioni dell'Egitto, fecero credere che le
    relazioni fra i due paesi siano più intime di quanto
    effettivamente esse sono, poichè non havvi fra loro nulla di
    scritto, mentre qualche cosa di scritto esiste fra l'Italia e la
    Germania. Egli sa che i nostri impegni con la Germania riguardano il
    caso di una guerra difensiva per la Germania, guerra, egli
    soggiunse, che non avrà luogo, perchè la Francia non
    farà la guerra alla Germania (parole che vanno naturalmente
    intese come si devono intendere simili parole). Il partito,
    così detto, della revanche e della guerra alla Germania
    è, secondo il Rouvier, una ristretta minoranza in Francia, e
    quanto all'Italia, egli dice che nessuno, o ben pochi in Francia
    desiderano o promuoverebbero una guerra col nostro paese. Egli non
    crede che il generale Boulanger possa esercitare influenza sui
    destini del suo paese; fu un fuoco d'artifizio che va estinguendosi;
    fu opera ardua e di molta energia l'averlo allontanato ora dal
    governo; il Presidente Grévy non consentirebbe al suo ritorno
    e non avendo egli qualità solide, nè mezzi proprii e
    permanenti d'influenza, non è a prevedersi possa ritornarvi.
    Il Rouvier desidera schiettamente che fra l'Italia e la Francia si
    entri in un nuovo periodo di miglior entente, e da parte sua si
    adopererà all'uopo, con tutto l'animo e con larghi
    propositi."
    
    "Le lunghe e quotidiane conversazioni che io ho, in modo del tutto
    amichevole, col Sig. Rouvier valgono a darmi un concetto adeguato
    della situazione. Lo vidi oggi, dopo che egli aveva inteso dal cav.
    Ressman le comunicazioni concernenti i negoziati per i trattati di
    commercio. Egli ammette volentieri, riservandosi però di
    parlarne co' suoi colleghi, che precedano ai negoziati ufficiali
    negoziati preliminari ufficiosi e segreti; non crede però
    possibile che questi seguano in luogo intermedio fra i due paesi,
    anche perchè troverebbe difficoltà nello scegliere da
    parte sua persona cui affidarli e crede preferibile, per il buon
    successo della cosa, occuparsene egli stesso; e quanto alla sede dei
    negoziati ufficiali, contrappone alla nostra domanda le opposizioni
    che fa ad essa il suo ministro degli Affari esteri. Di tutto,
    però, conferirà co' suoi colleghi e si
    adopererà affinchè ogni cosa riesca con reciproca
    soddisfazione.
    Quanto all'avviare questi primi negoziati segreti pel tramite
    dell'Ambasciata, la cosa potrebbe riuscire opportuna, ove il Governo
    italiano non persista nel volere che si svolgano in altro luogo; ma
    quanto alla parte che mi riguarderebbe io gli risposi immediatamente
    come non mi sarebbe possibile assumerla, sia per i miei propositi
    già a lui noti, sia per riguardo ai nostri negoziatori,
    egregi colleghi ed amici miei. Ed anzi a prevenire che la mia
    prolungata permanenza in Parigi possa dare occasione a qualsiasi
    malinteso al riguardo e che essa finisca per far credere che in
    qualche modo si iniziino a Parigi quei negoziati preliminari che il
    Governo italiano desidera abbiano luogo altrove, io stimo
    conveniente di lasciare fra quattro o cinque giorni questa
    città.
    Il Sig. Rouvier mi chiese se è intenzione del Governo
    italiano che il trattato di navigazione vada congiunto al trattato
    di commercio, dal quale egli per avventura inclinerebbe a tenerlo
    separato.
    Rispetto ai nostri operai, il Sig. Rouvier mi ha ripetuto che
    è assoluto proposito suo di far rispettare i diritti che sono
    ad essi garentiti dai patti internazionali vigenti e che a lui non
    consta che, da parte di amministrazioni governative, siasi ordinata
    l'esclusione di operai italiani dall'esecuzione di pubblici lavori.
    Quanto alle amministrazioni comunali e dipartimentali non avere egli
    alcun mezzo legale contro le deliberazioni che per avventura abbiano
    emesso nel senso di obbligare gli intraprenditori a valersi
    unicamente di operai nazionali.
    Insistendo io circa talune disposizioni che si affermano inserite
    nei quaderni d'oneri formulati da amministrazioni governative per
    talune imprese, egli si riservò ancora di riesaminare la cosa
    e darmi ulteriore risposta. Ove si riesca a trovare il modo di darci
    qualche esplicita soddisfazione o guarentigia, il Governo italiano
    potrà reclamare in forma ufficiale, provocando quelle
    dichiarazioni che verranno preventivamente concordate. Ma intorno a
    ciò, nè il Sig. Rouvier ancora mi diede, nè io
    sono ancora in grado di scriverle alcuna positiva assicurazione. Il
    signor Rouvier però non tralascia di ripetermi che egli
    ritiene l'attuale movimento avverso gli operai stranieri essere un
    vero traviamento di idee contrario ai grandi principii della
    rivoluzione francese.
    Passando ad altro argomento le dico che il Sig. Rouvier molto
    ragionevolmente si rende ragione delle difficoltà trovate pel
    concorso dell'Italia all'Esposizione del 1889, dopo che se ne fecero
    promotori taluni radicali italiani e che egli vagheggerebbe
    un'alleanza delle nazioni latine da sostituirsi ad altre
    combinazioni internazionali oggi inevitabili.
    Poichè bisogna essere con qualcuno ammette che alla Francia
    è mestieri essere in buon accordo colla Russia, ma non gli
    pare che nella questione bulgara sia realmente in causa il principio
    delle nazionalità, e quanto alla questione d'Egitto gli pare
    che uguale sia l'interesse della Francia e quello dell'Italia: che
    succeda cioè alla occupazione inglese il potere di un
    Vicerè indipendente che governi di concerto coi Consoli delle
    grandi Potenze, e che si dia a quel paese un carattere come a dire
    di neutralità. (Tali le idee del Rouvier, ma il vero concetto
    della politica francese, Ella lo conosce meglio di me, è
    quello di stabilire, esclusa l'Inghilterra, la preponderanza
    francese in Egitto: ma io riferisco e per ora non commento.)"
    
    "Ella riceverà, per mezzo dell'Ambasciata, le risposte del
    Sig. Rouvier alle tre comunicazioni.
    Posso intanto dirle quali saranno.
    Il Sig. Rouvier consultati i suoi colleghi, risponde:
    Nulla in contrario a che precedano negoziati ufficiosi e segreti, ma
    questi abbiano luogo a Parigi. Non ha persona da inviare all'uopo
    altrove; inviando a ciò una persona apposita e nota
    cesserebbero di esser segreti; desidera farli egli stesso
    personalmente nell'utilità stessa della cosa.
    Circa alla sede dei negoziati definitivi, non ha potuto persuadere
    il ministro degli Affari esteri e non può prendere alcun
    impegno che si facciano a Roma. Si vedrà in seguito. O i
    negoziati preliminari a nulla conducono, ed è una questione
    inutile. O nei negoziati preliminari si va d'accordo sopra i punti
    sostanziali e così che non rimangano a definirsi che dei
    particolari e non vi sarà nessuna difficoltà a che
    l'ambasciata francese a Roma, insieme p. e. coi due Direttori
    Generali delle Dogane e del Commercio estero inviati appositamente
    nella nostra capitale, sia incaricata dei negoziati ufficiali e li
    porti a termine. O sarà mestieri anche nei negoziati
    ufficiali dibattere punti importanti ed allora tornano in campo le
    prime obbiezioni: il Rouvier non saprebbe chi mandare all'uopo in
    Italia, e dovrebbero anche tali negoziati aver luogo in Parigi.
    Intanto egli crede che nei negoziati ufficiosi preliminari
    apparirà la necessità di una proroga.
    Io gli osservai che tali risposte saranno di troppo poca
    soddisfazione in Italia; che ammessa pure l'opportunità che i
    negoziati ufficiosi siano fatti direttamente con lui, dovrebbesi ad
    un tempo e subito stabilire che i negoziati ufficiali abbiano luogo
    a Roma, ed ho soggiunto, sorridendo, che se io fossi incaricato di
    trattare con lui sopra questo punto non cederei quanto alla sede dei
    negoziati ufficiosi, condotti nel modo da lui divisato, se non a
    condizione di fissare contemporaneamente la sede a Roma dei
    negoziati definitivi.
    Ma egli ha persistito nelle sue dichiarazioni, che allo stato delle
    cose non gli è possibile prendere impegno; e che la questione
    della sede dipenderà da quella della sostanza, cioè da
    ciò che resterà a fare nei negoziati ufficiali -
    perchè s'egli fa obbiezioni e per gli uni e per gli altri a
    Roma, non è per alcuna ragione politica o di Stato, ma
    unicamente perchè non sa chi mandare a Roma, attese le
    difficoltà della cosa e la condizione degli animi in Francia:
    un protezionista rovinerebbe tutto, un libero-cambista
    pregiudicherebbe il risultato di fronte alla corrente contraria -
    perciò è mestieri ch'egli personalmente intervenga e
    del resto egli solo può fare i presagi desiderati.
    Il Sig. Rouvier mi diceva tutto ciò ieri. Oggi egli lascia
    Parigi per una breve gita in campagna ed oggi io prenderò da
    lui commiato, e partirò doman l'altro, 12, da Parigi tornando
    per la via della Svizzera a Cumiana, donde verrò
    sollecitamente a Roma.
    L'impressione ch'io reco dal mio soggiorno in Parigi è
    conforme alle dichiarazioni del Rouvier:
    La Francia, nella sua grandissima maggioranza, non vuole la guerra,
    non ha la febbre della revanche, e non è a prevedere ch'essa
    sia per attaccare la Germania: al contrario essa resisterà,
    finchè le sarà possibile, a tutti gli eccitamenti ad
    attaccarla;
    rispetto all'Italia, ben pochi vagheggiano di farci guerra; i
    più temono che noi siamo per cader addosso alla Francia
    insieme colla Germania e ci ammoniscono intorno ai pericoli che a
    noi pure deriverebbero dalla distruzione della Francia;
    il prestigio del regno d'Italia e del suo governo è qui
    grande;
    la stessa questione cattolica è qui molto attenuata e non vi
    sarebbe che un piccolo numero di persone desideroso d'ingerirsi in
    difesa del potere temporale;
    il Rouvier, che è certo che la politica italiana sotto la di
    lei mano energica e mossa dal di lei pensiero prenderà una
    parte più viva nelle questioni internazionali, fu lietissimo
    di apprendere dalle mie amichevoli assicurazioni quali sono i di lei
    sentimenti, nei quali confida pei migliori rapporti dei due paesi;
    fra le altre cose il Rouvier mi assicurò che rispetto
    all'Italia tutti i piani di battaglia preparati in Francia sono
    tutti sulla base di una guerra difensiva;
    la questione operaia, egli efferma essere questione di concorrenza
    nel salario, non di antipatia nazionale anti-italiana.
    Ma di tutto ciò meglio a voce. Solo le dirò ancora che
    in complesso le mie conversazioni col Rouvier furono opportune; e
    che avranno seguito in ulteriori corrispondenze delle quali egli
    stesso mi dimostrò il desiderio."
    
    Convenuto per l'insistenza di Crispi che le preliminari ed officiose
    trattative avessero luogo a Parigi e le ufficiali a Roma, i delegati
    italiani, on. Luzzatti, Ellena e Branca, giunsero nella capitale
    francese il 28 settembre. Però sin dal primo momento il
    Governo francese pretese che base dei negoziati fosse non la nostra
    tariffa generale, come era ovvio, ma il trattato denunciato. Il 6 di
    ottobre i delegati italiani, prima di ripartire per Roma,
    telegrafavano all'on. Crispi che i delegati tecnici francesi non
    erano preparati sui punti più importanti del negoziato, che
    le disposizioni del Governo francese erano meno buone che nei primi
    giorni. Il 2 novembre l'ambasciatore Menabrea scriveva: "Mi sono
    intrattenuto ieri sera col signor Rouvier a proposito del nostro
    trattato di commercio. Egli non si dissimula le difficoltà
    che esso sarà per incontrare nel Parlamento".
    Ai primi di dicembre l'ambasciatore de Moüy chiese all'on.
    Crispi una proroga del trattato che spirava alla fine di quel mese:
    l'on. Crispi rispose che non avrebbe potuto consentire a questa
    domanda se non vi fosse stata fondata speranza di giungere ad un
    accordo, e se i delegati francesi non venissero a Roma. Alla fine
    del mese i negoziatori Teisserenc de Bort e Marie arrivarono, e la
    scadenza del trattato fu prorogata di due mesi; ma le disposizioni
    ostili della Camera francese erano rese evidenti dalla legge votata,
    su proposta della Commissione delle dogane, il 15 dicembre, secondo
    la quale il Governo era autorizzato ad applicare ai prodotti
    italiani la tariffa generale, con un aumento che poteva elevarsi al
    cento per cento.
    Le conferenze tra i negoziatori italiani e francesi furono subito
    interrotte dopo la prima, e il 5 gennaio, annunziando questa
    interruzione che gli era di cattivo augurio, l'on. Crispi
    telegrafava all'ambasciatore a Parigi:
    
    «Rimpiango tanto più vivamente questo indugio che
    eravamo e siamo tuttora animati dalle migliori intenzioni di
    condurre presto a termine il negoziato in uno spirito di
    conciliazione. Non voglio poi neppure supporre che la Francia abbia
    voluto ottenere una proroga dell'antico trattato, e
    nient'altro.»
    
    Riprese dopo qualche giorno, le sedute furono nuovamente interrotte
    sulla domanda dei delegati francesi, i quali lasciarono Roma,
    promettendo di ritornare presto. Il 24 gennaio l'ambasciatore
    Menabrea telegrafava:
    "In una lettera direttami dal signor Flourens su altro argomento,
    rilevo questa frase: "Mi sono reso esatto conto dello stato degli
    animi in entrambe le nostre Camere. Se l'Italia non crede poterci
    fare nuove concessioni, considero lo scacco dei nostri negoziati
    commerciali come certo".
    Tutti i tentativi fatti dall'on. Crispi per indurre il Governo
    francese a condurre le trattative con propositi concilianti,
    fallirono. Il 6 febbraio il senatore Teisserenc de Bort, commissario
    francese, congedandosi dall'on. Ellena gli disse: "Finchè
    sarete nella Triplice non sarà possibile un accordo
    commerciale tra l'Italia e la Francia". E il ministro Flourens
    oppose che il massimo che avrebbe potuto ottenere dallo spirito di
    protezione che regnava nelle Camere francesi, era la rinnovazione
    del trattato del 1881. Questo l'on. Crispi non poteva concedere,
    senza andar contro alla volontà del Parlamento, che quel
    trattato aveva voluto denunciato. E del resto, il Flourens forse
    s'ingannava e ci avrebbe esposto ad un nuovo rigetto del Parlamento
    francese. L'eminente economista Léon Say, scrivendo ad un
    amico italiano in una lettera privata del 21 gennaio 1888, ammetteva
    che la Camera francese avrebbe appena potuto accettare una proroga:
    "La Chambre française avait pris le parti de denoncer
    l'ancien traité avec l'Italie avant votre denonciation
    à vous. Elle a indiqué formellement son opinion dans
    la discussion et a sursis à voter sur la demande du ministre
    des affaires étrangères. Le lendemain votre
    denonciation était connue.
    La Chambre française est donc autorisée à
    considerer qu'elle a emis préalablement à tout le
    reste, l'avis qu'elle ne voulait plus du dernier traité,
    parcequ'elle le trouvait défavorable.
    C'eût été se casser la tête contre un mur,
    que de lui demander d'accepter autre chose qu'une prorogation pure
    et simple".
    Quel che avvenne dipoi, l'applicazione delle tariffe generali e
    differenziali e perciò la guerra economica, fu posto a carico
    dell'on. Crispi. Si affermò che il di lui viaggio in Germania
    avesse determinato in Francia le correnti ostili che si concretarono
    nella rottura delle relazioni commerciali. Quanto quei giudizii
    fossero arbitrarli, si desume dalla narrazione documentata che
    precede. I negoziati e le domande di concessioni furono posteriori
    al viaggio, E nonostante questo la Francia avrebbe fatto il trattato
    se avesse potuto ottenere i vantaggi che pretendeva.
    La politica certamente rese più facile la vittoria dei
    protezionisti. Ma quei deputati francesi che si dichiararono
    contrarii ad un accordo commerciale con l'alleata della Germania,
    erano avversi all'Italia non per il viaggio a Friedrichsruh, che non
    mutò e non poteva mutare la situazione, ma per l'alleanza
    stessa, e questa non era opera dell'on. Crispi.
    Fu merito, invece, dell'on. Crispi l'avere reso più intima
    quella alleanza e più utile all'Italia, così che,
    quando la Francia ci chiuse le sue frontiere, noi trovammo nella
    coscienza di non esser isolati i conforti necessarii e la forza per
    superare la crisi, la quale non fu priva di vantaggi se
    temprò alla lotta il commercio italiano e gli fece trovare
    nuovi mercati.
    
    Dal "Diario" di Francesco Crispi.
    
    6 ottobre 1887. - Questione balcanica; in seguito alla Nota del
    segretario di Stato da Berlino, Kálnoky, ch'era favorevole
    alla istituzione degli Stati balcanici autonomi, consente a
    stabilire le basi di un accordo con l'Italia.
    - Bulgaria: la Russia insiste sulla missione di Ehrenroth, cui
    vorrebbe dare la durata di sei mesi, ed esige che sia la Turchia a
    proporla. È però contraria a misure coercitive.
    
    16 ottobre. - I francesi si agitano e vorrebbero suscitare disordini
    nel Marocco. Il ministro degli Affari esteri di Spagna, Moret,
    vorrebbe una Conferenza europea pel Marocco.
    - Notizie da Londra: Francia e Inghilterra trattano per una
    Convenzione internazionale circa la libertà del canale di
    Suez.
    
    22 ottobre. - Il ministro di Spagna viene a parlarmi delle idee del
    suo governo e dei propositi di esso per le cose del Marocco.
    È una conferma di quello che ci fu telegrafato dal nostro
    ministro Maffei. Il ministro spagnuolo degli Affari esteri, Moret,
    ha comunicato a Parigi una Nota del Sultano, dell'agosto, per una
    Conferenza.
    
    23 ottobre. - L'ambasciatore d'Austria è venuto a parlarmi di
    un colloquio del ministro di Spagna a Vienna col conte
    Kálnoky sulle cose del Marocco. Kálnoky avrebbe
    consigliato un accordo tra la Spagna e la Francia.
    
    28 ottobre. - L'incaricato di affari di Francia, Gérard, mi
    felicita pel discorso di Torino e mi ringrazia per le mie parole
    benevole verso la Francia. Parliamo del passato.
    
    31 ottobre. - Visita del conte Solms, ambasciatore di Germania.
    Convenzione militare: l'Imperatore accolse la mia idea; Moltke
    lavora.
    Gli otto punti dell'accordo per gli affari d'Oriente,
    come redatti - comunicati a me ed a Salisbury da Kálnoky. -
    Salisbury li accettò in massima, salvo il Consiglio dei
    ministri di giovedì. Io ne detti conoscenza all'Ambasciata a
    Londra per cooperarci presso Salisbury, dopo aver conosciuto la
    parte presa da Bismarck. Solms crede che Bismarck presso Salisbury
    abbia minore influenza di me.
    Marocco: La Conferenza accettata da noi a condizione che tratti e
    risolva tutte le questioni. Sui tre punti comunicati dalla Francia
    sono favorevole.
    Convenzione pel canale di Suez: non ancora firmata; scambio d'idee
    fra le tre Potenze.
    
    1 novembre. - Visita dell'ambasciatore d'Austria, de
    Bruck-Pellegrini: dimostrazioni cattoliche - Notizie di
    Costantinopoli e della Bulgaria - Maggiorati napoletani, per la
    contessa di Trani, sorella dell'Imperatrice - Convenzione per Suez.
    
    2 novembre. - Visita dell'Incaricato di Francia - Trattato di
    commercio - Capitolazioni a Massaua; il greco condannato; protezione
    greca; ordinanza del generale Saletta per la liberazione del greco,
    suo significato. Mie riserve: non capitolazioni, ma stato di guerra.
    I francesi stanno alla tesi delle capitolazioni; io no. Il trattato
    pel Canale di Suez firmato il 24 ottobre; comunicazione alla
    Turchia.
    
    3 novembre. - Visita del ministro di Spagna, conte Rascon.
    Marocco: proposta di riparto con la Francia; sospetti
    dell'Inghilterra, che sta per la neutralizzazione. Il ministro degli
    Affari esteri di Francia, Flourens, accetta la Conferenza a
    condizione che tra Spagna e Francia se ne fissi prima il programma.
    Pellegrini spagnuoli - Toson d'oro pel principe Amedeo. - Canovas
    del Castillo: suo discorso nel Club conservatore contro il governo;
    non occuparsene.
    - Visita del ministro di Grecia. Mi lagno dell'affare delle
    protezioni francesi, e minaccio rigori contro gli stranieri.
    
    6 novembre. - Nuova visita del ministro di Spagna.
    Giunse a Madrid il 4 un dispaccio del ministro spagnuolo a
    Pietroburgo. Il gabinetto russo con molta cortesia consiglia il
    governo madrileno di mettersi d'accordo con la Francia nelle cose
    del Marocco. Questa dichiarazione ha grave importanza. Conviene
    attendere il risultato delle pratiche con la Francia. È
    chiaro un accordo franco-russo nella questione marocchina, che
    potrebbe mandare a monte la progettata Conferenza.
    
    10 novembre. - Visita del conte Solms. Mi parla della malattia del
    principe di Bismarck, del viaggio dello Czar; dell'irritazione
    dell'Imperatore. Condotta dei russi contro i tedeschi. Eccitazione
    di animi.
    - Ministro di Spagna. Mi porta notizie della visita dei giornalisti
    italiani. Desiderio di una dimostrazione - Gran Croce d'Isabella
    all'on. Bonghi; in corrispettivo quella della Corona d'Italia al
    signor Caspar Mugnoz de Arce. Convenzione pel Canale di Suez; la
    Spagna attende la nostra risoluzione.
    - Visita dell'ambasciatore d'Inghilterra. Dolorose notizie del
    Principe imperiale - Convenzione di Suez; mutamenti; contemporanea
    presentazione della Francia e dell'Inghilterra. Per incarico della
    Regina il duca di Norfolk verrà a Roma, per ringraziare il
    Papa di aver mandato Ruffo-Scilla pel suo giubileo, e per
    congratularsi pel giubileo di Sua Santità. Verranno altri
    lords e deputati cattolici verso il 10 gennaio prossimo.
    
    11 novembre. - Il conte Solms viene a informarmi della missione di
    Radovitz presso il Sultano allo scopo di dissuaderlo della pessima
    opinione che aveva di me. Gli avevano fatto credere che io volessi
    la costituzione di uno Stato albano-macedone. La missione del
    Radovitz è riuscita.
    Francesi contro italiani in Tunisia. Il Cardinale Lavigerie, con
    l'ausilio del suo Governo, è divenuto prepotente ed ha
    attirato a sè anche i maltesi.
    Egitto: tribunali della Riforma.
    Mi annunzia che il Consiglio di guerra in Francia ha respinto il
    progetto di costituzione delle truppe alpine.
    Marocco: minacce della Francia al Sultano, che avrebbe rifiutato una
    indennità richiesta per la morte del Capitano Smith - Mi
    parla della necessità della
    neutralizzazione del Marocco: questo argomento dovrebbe essere
    l'oggetto della Conferenza di Madrid.
    
    13 novembre. - Visita all'ambasciatore d'Austria e alla baronessa
    sua consorte. La Baronessa è assente.
    De Bruck mi dà lettura di una Nota dell'ambasciatore
    austriaco a Parigi, nella quale riferisce una conversazione avuta
    col presidente della Repubblica, Grévy. Questi parlò
    delle cose di Bulgaria e dell'inchiesta parlamentare in Francia.
    Grévy avrebbe espresso l'opinione che l'elezione del Coburgo
    era legale e che la missione Ehrenroth non sarebbe riuscita
    più efficace di quella del Kaulbars; che in Bulgaria non vi
    sarebbe altro di meglio a fare che lasciar le cose come sono.
    Parlando dell'inchiesta disse che ne era addolorato. Egli
    però non si sarebbe dimesso; e tale sua risoluzione era presa
    per sentimento di patriottismo. La sua presenza al governo importava
    il mantenimento della pace e della tranquillità. La Francia
    andrebbe coinvolta in gravi disordini ov'egli non rimanesse al suo
    posto.
    
    14 novembre. - Viene il conte Solms.
    Finanze turche; mia proposta. Crede che ci distrarrebbe l'animo del
    Sultano. Rispondo che io non aveva fatto una proposta formale.
    L'idea, intanto, di un riordinamento delle finanze turche era venuta
    da Costantinopoli, in seguito a colloquî degli ambasciatori
    dei tre governi alleati.
    Il Solms mi chiede se avessi avuto notizie delle pratiche della
    Francia presso il Vaticano. La Francia avrebbe promesso al Papa
    qualunque appoggio.
    - L'Incaricato d'affari di Francia, signor Gérard, viene
    verso le 4 pom. al Palazzo Braschi.
    Mi dice di essere stato incaricato dal suo Governo di comunicarmi il
    progetto di Convenzione pel Canale di Suez concordato con
    l'Inghilterra, insieme ad una lettera circolare del signor Flourens
    e ad un'altra lettera del Salisbury. A proposito del trattato di
    commercio, esprime la fiducia che lui ed il suo governo hanno in me
    per un buon risultato.
    Espulsione del greco Nicopoulo; se ne dichiara dolente.
    Rispondo che il Nicopoulo doveva essere soddisfatto
    di essere stato liberato dal carcere. Gli stranieri in genere -
    ciò avviene anche in Francia - vengono espulsi dopo avere
    espiato la pena.
    
    17 novembre. - All'Incaricato di affari di Francia ho detto che
    l'Inghilterra mi aveva comunicata la Convenzione pel Canale di Suez.
    Aspettavo qualche altro documento prima di dare una risposta
    definitiva, ma in massima sono favorevole e mi adopererò
    presso i governi amici perchè accettino anch'essi.
    - Il conte Solms mi legge una lettera del signor de Holstein,
    scritta a nome del principe di Bismarck, nella quale è detto
    che il Principe mi ringrazia delle comunicazioni a lui fatte e del
    contegno tenuto in tutti gli affari trattati fra i due governi.
    Prego il Solms di ricambiare i ringraziamenti al Principe, che mi
    troverà sempre benevolo e desideroso di essere sempre
    d'accordo con lui.
    Una Nota da Berlino dell'11 novembre dà notizie della
    questione marocchina. È contrario il Bismarck ad una
    Conferenza europea pel solo argomento della protezione
    degl'indigeni. Parrebbe necessaria la neutralizzazione del Marocco.
    Féraud, ministro francese, è ritornato a Tangeri per
    agire nell'interesse francese. Moret resiste alle esigenze della
    Francia. Fu presentato un progetto di divisione del Marocco, ma la
    Regina Reggente è di opinione contraria, anzi
    manifestò le sue meraviglie.
    
    18 novembre. - L'Incaricato d'affari di Francia si presenta per
    dirmi che ieri aveva telegrafato al suo governo la mia risposta
    favorevole per la Convenzione del Canale di Suez, e la mia promessa
    di adoperarmi presso i governi amici. Il signor Flourens mi
    ringrazia per esser stato il primo e per la promessa fatta.
    Avvertenza mia contro gl'intrighi dei monarchici. Consiglio a
    sorvegliarli per evitare sorprese. L'Italia è interessata al
    mantenimento della Repubblica, la quale è elemento di pace.
    Che il Grévy resti al suo posto.
    - Il conte Rascon è venuto a dirmi che l'ambasciatore di
    Francia gli dette comunicazione della Convenzione per Suez. - Chiede
    se l'Italia accetta, e se consiglia la Spagna di accettarla.
    Rispondo che l'Italia in genere è favorevole. Però non
    avendo ricevuto tutti i
    documenti non ho dato la mia risposta definitiva. Prego di aspettare
    sino a martedì.
    
    19 novembre. - L'ambasciatore d'Inghilterra mi porta a leggere la
    lettera del 4 novembre con la quale Salisbury lo incaricava di
    comunicarmi la Convenzione per Suez e i documenti che vi si
    riferiscono.
    
    20 novembre. - Il conte Solms mi comunica il seguente telegramma del
    principe di Bismarck:
    «Sua Maestà l'Imperatore Alessandro, trovandosi alla
    corte di Berlino, ha manifestato nella maniera più positiva a
    S. M. l'Imperatore e in una lunghissima udienza accordata a me, i
    suoi sentimenti pacifici e la sua risoluzione di non impegnarsi in
    alcuna coalizione aggressiva e di non attaccare mai la Germania.
    Vedremo se i sentimenti di S. M. avranno un'influenza calmante
    sull'attitudine della stampa russa, su quella degli impiegati e
    degli ambasciatori, e sopratutto dell'ambasciatore a Parigi.
    Non abbiamo mai creduto che l'Imperatore personalmente avesse ora e
    per un certo tempo l'intenzione di assalirci.
    Che un attacco della Russia contro l'Austria ci obbligherebbe,
    conformemente ai trattati, a prestare soccorso a questa ultima,
    è noto all'Imperatore Alessandro in seguito alle nostre
    comunicazioni ufficiali, e gli è stato ricordato nuovamente
    ieri nella nostra conversazione.
    D'altro canto l'Imperatore è informato che l'avvenire della
    Bulgaria non sarebbe giammai per noi una ragione per uscire dalla
    neutralità, e che la nostra attitudine diplomatica
    relativamente alla questione bulgara sarà regolata come in
    passato dalle stipulazioni del trattato di Berlino.
    I due monarchi non hanno preso impegni. L'avvenire dimostrerà
    se saremo liberati dalla preoccupazione che l'agitazione in Russia e
    in Francia aumenti ogni giorno per la passività del governo
    russo dinanzi alle provocazioni dei suoi organi e dei suoi
    impiegati, e se alla fine cotesta agitazione minaccerà la
    pace in un avvenire più o meno prossimo, ovvero se dopo il
    suo ritorno in Russia l'imperatore Alessandro vi porterà
    rimedio.»
    
    
     21 novembre. - Visita del barone de Bruck.
    Mi parla delle dichiarazioni pacifiche dello Czar a Bismarck. Esse
    collimano con quelle comunicatemi ieri da Solms.
    Fa cenno al diritto dei Borboni alla restituzione dei beni di
    diritto privato, e vorrebbe una dichiarazione di principio come
    quella fatta da Lamarmora alla Spagna quando questa riconobbe il
    regno d'Italia. Rispondo che bisogna esaminare il caso speciale se
    esistano ancora beni privati dei Borboni nel regno. Prometto di
    studiare la questione, appena me ne saranno dati gli elementi.
    - Visita dell'ambasciatore di Francia, conte di Moüy, di
    ritorno dalle vacanze.
    Si parla della crisi francese; egli non ha una sicura opinione sul
    risultato della medesima. Mi narra che vide a Parigi l'on. Villa,
    Presidente del Comitato Italiano per la Esposizione universale del
    1889, e che si adoperò per contentarlo; agli italiani fu
    concessa una speciale località che desideravano.
    Il de Moüy mi ringrazia della mia adesione alla Convenzione pel
    canale di Suez. Rispondo che in massima accetto la Convenzione, ma
    che non potrò dare una risposta ufficiale finchè non
    avrò ricevuto e letto tutti i documenti che si riferiscono a
    codesto grave argomento. Negli articoli V e VIII della Convenzione
    trovo quello che l'Italia aveva domandato.
    Il viaggio di Friedrichsruh è anch'esso tema della nostra
    conversazione. L'impressione in Francia non poteva essere gradita,
    ma fortunatamente si va dissipando. Alla mia osservazione che a
    Friedrichsruh nulla fu stabilito contro la Francia e che i discorsi
    furono tutti di pace, egli oppose che io non avrei avuto bisogno di
    fare un così lungo viaggio per così poco. Ricordai i
    propositi di Gambetta al 1877 e la necessità d'intendersi fra
    i due paesi. Secondo lui può combinarsi un modus vivendi tra
    la Francia e la Germania; ma finchè esiste la questione
    dell'Alsazia e della Lorena non è possibile un accordo. La
    Francia vuole la pace - egli soggiunse - e ne ha bisogno; essa,
    quantunque abbia un esercito formidabile, non si lascia tentare a
    far la guerra. Crede quindi strano che le altre Potenze
    costituiscano delle alleanze per conservare una pace che la Francia
    non vorrà mai turbare.
     Il signor de Moüy mi parla del trattato di commercio. Ho
    osservato che il governo francese non ha mandato che due sole note e
    con quella in risposta alle nostre domande ha chiesto cose
    impossibili; ed ho soggiunto che cotesta è una prova di non
    voler stipulare trattato alcuno. Egli si difese attaccandoci. Per
    lui il trattato è più utile a noi che alla Francia. A
    questa gioverebbe il regime comune delle tariffe. Gli ricordai che
    dopo il 1878 siamo rimasti sette od otto mesi sotto il regime delle
    tariffe. Egli riprese ricordandomi che noi diamo alla Francia meno
    di quello che prendiamo, e che le esportazioni e le importazioni si
    bilanciano con moneta a favor nostro. Concluse per una proroga del
    trattato attuale.
    
    22 novembre. - Il conte Solms mi parla degli intrighi presso il
    Sultano. La Russia vi lavora più di tutti e incute paura a
    quel principe. Pericoli corsi dal gran visir Kiamil-pascià di
    essere supplantato da un partigiano della Russia.
    Marocco: quell'Imperatore invitò i notabili a deliberare
    circa le concessioni che potrebbero esser fatte alle Potenze
    straniere. Cotesto sarebbe un preliminare della Conferenza.
    
    25 novembre. - Visita del conte Rascon.
    Convenzione pel canale di Suez.
    Elevazione della Legazione ad Ambasciata. La Spagna, avendo una
    Ambasciata presso il Vaticano, la vorrebbe anche presso il
    Quirinale; naturalmente l'Italia dovrebbe far lo stesso. Il governo
    spagnuolo avrebbe fatto l'identica proposta a Berlino e a Vienna.
    Rispondo che consento in massima e che ne parlerò coi miei
    colleghi e prenderò gli ordini di S. M.
    
    27 novembre. - Il conte Solms viene ad annunziarmi che l'Inghilterra
    accetta che la Conferenza pel Marocco avvenga sull'argomento della
    protezione. I rappresentanti delle Potenze a Tangeri dovrebbero
    riunirsi per intendersi sulle altre questioni. La Francia accetta
    che la Conferenza si occupi di tutte le questioni che possano
    interessare il Marocco. Il Moret vorrebbe spedire subito le lettere
    d'invito.
    Da Berlino si scrive che dopo i colloqui di Friedrichsruh, nella
    Tripolitania si sarebbero prese delle precauzioni. Adombra il
    Sultano anche il riordinamento delle scuole italiane in Tripoli.
    Pure a Tunisi s'intriga contro di noi.
    Il Solms chiede se io abbia notizia dei documenti che diconsi
    falsificati e dei quali parla la Kölnische Zeitung. Egli
    dà importanza a quel giornale per le sue relazioni col Gran
    Cancelliere. Rispondo non avere altre notizie che quelle dei
    giornali; anche S. M. me ne aveva domandato. Quei documenti, rimasti
    in potere dello Czar, non furono veduti da alcuno. Il principe di
    Reuss, del quale si era detto che avesse scritto una delle lettere,
    si rivolse al principe Ferdinando per avere una spiegazione. Il suo
    cugino gli rispose non aver ricevuto mai alcuna lettera da lui, e di
    ignorare l'esistenza di quella che gli si attribuiva.
    L'ambasciatore mi parla dell'alta posizione raggiunta a
    Costantinopoli dal barone Blanc, secondo le informazioni della
    Cancelleria germanica.
    
    Circa i documenti ai quali accennava il conte Solms; l'on. Crispi
    ricevette in dicembre le informazioni seguenti:
    
    «Vienna 18 dicembre 1887.
    
    I documenti falsificati di cui parlò la Gazzetta di Colonia,
    e che furono mandati a Copenaga a S. M. l'imperatore di Russia poco
    prima della sua partenza dalla Danimarca, sono in numero di quattro.
    1. Una lettera del principe Ferdinando di Coburgo a S. A. R. la
    Contessa di Fiandra in data del 27 agosto 1887;
    2. Una nota che il principe di Reuss, ambasciatore germanico in
    Vienna, avrebbe rimesso al principe Ferdinando di Coburgo e che
    è annessa alla lettera precedente.
    3. Una seconda lettera del principe Ferdinando alla Contessa di
    Fiandra in data del 16 settembre 1887.
    4. Una nota riassuntiva che da Brusselle sarebbe stata mandata al
    principe Ferdinando e che porta la data del 28 ottobre 1887. */
    Questi documenti furono fatti pervenire (credesi per mezzo di un
    certo signor Hansen) da Parigi a Copenaga, dove furono messi sotto
    gli occhi dell'imperatore Alessandro; una copia di essi fu inviata
    contemporaneamente a Pietroburgo al signor de Giers. Questi,
    scrivendone all'imperatore Alessandro, espresse l'avviso che i
    documenti non fossero autentici. Ma la loro falsità non
    diventò evidente agli occhi dello Czar se non dopo il
    colloquio che S. M. I.le ebbe a Berlino col principe di Bismarck e
    dopochè lo stesso principe di Reuss li smentì con una
    lettera che fu messa sotto gli occhi della predetta S. M. I.le
    mentre d'altra parte S. A. R. la contessa di Fiandra faceva
    dichiarare che non aveva mai ricevuto le lettere attribuite al
    principe Ferdinando. I quattro documenti furono compilati nell'unico
    intento di dimostrare all'imperatore Alessandro come il principe di
    Bismarck, mentre pubblicamente e ufficialmente si disinteressava
    degli affari di Bulgaria e anzi favoriva la politica russa in questa
    questione, sotto mano invece appoggiava la candidatura e poi la
    consolidazione del principe Ferdinando sul trono di Bulgaria.
    Chi sia l'autore del falso non è ancora noto.
    Si sospetta però che sia di origine russa e che dimori o
    almeno dimorasse in Francia. La falsità dei documenti risulta
    abbastanza chiara da tutto il loro contenuto e anche dalla loro
    forma. I documenti sono dichiarati traduzioni (in francese) dal
    tedesco. Ma sembra evidente che furono redatti in francese. Essi
    tradiscono nell'autore una persona accostumata a leggere documenti
    diplomatici e una penna solita a scriverne. Ma in pari tempo vi si
    incontrano apprezzamenti molto inesatti su uomini e cose e anche
    errori di fatto. Così per esempio nella prima lettera il
    principe Ferdinando farebbe allusione al suo incontro colla contessa
    di Fiandra a Ischl, nel quale luogo quella principessa non pose mai
    il piede.
    Nell'ultimo degli accennati documenti è detto, fra altre
    cose, che nel colloquio tra Vostra Eccellenza ed il principe di
    Bismarck fu discussa e regolata la quistione bulgara in un senso
    favorevole al mantenimento del principe Ferdinando sul trono di
    Sofia.
    Pare che il principe di Bismarck desideri che oramai quest'affare
    non abbia seguito ulteriore. Tuttavia si crede che continueranno le
    ricerche per lo scoprimento dell'autore."
    
    28 novembre. - Il conte de Moüy mi rimette una Nota del 25
    corrente che contiene le proposte della Francia circa le seterie, in
    previsione della stipulazione del nuovo trattato. Egli desidera un
    accordo, affinchè tra i due paesi non si innalzi la muraglia
    chinese delle tariffe. Anch'io desidero un accordo; bisogna che si
    trovino i termini di una transazione.
    Notizie di Francia: il de Moüy crede probabile l'elezione di
    Freycinet a presidente della Repubblica. Ne sarebbe contento
    perchè da lui ebbe il posto di ambasciatore. Rispondo che
    anch'io riterrei quella elezione come un gran bene per la Francia,
    della quale lodo la calma. Se i radicali non commetteranno degli
    eccessi e avranno patriottismo, le sorti della Francia saranno
    assicurate. Il de Moüy è dolente degli indugi, e spera
    in una buona soluzione.
    
    29 novembre. - I due governi di Berlino e di Vienna stabilirono di
    accordo di comunicarmi il trattato segreto del 1879 tra l'Austria e
    la Germania. Essi sono d'avviso che nulla debba esser nascosto
    all'Italia. Con lettera di Bismarck del 20 volgente e con altra di
    Kálnoky del 24, i due ambasciatori sono stati incaricati di
    recarsi da me, per darmi copia del trattato. Il primo a giungere fu
    de Bruck; dopo venne de Solms. I due ambasciatori fecero rilevare
    l'importanza dell'atto, come dimostrazione di grande fiducia in me
    dei due gabinetti. Ringraziando, dissi di meritarla.
    
    1 dicembre. - Armamenti nella Tripolitania. Ho dato a Solms due mie
    Note di reclami contro gl'intrighi francesi in quella regione.
    L'ambasciatore di Russia, barone di Uxkull, mi afferma che lo Czar
    fu contentissimo della sua gita a Berlino; ma non muta parere sulla
    questione bulgara, quantunque oggi essa sia posta a tacere. Mi
    chiede se il conte Greppi, già ambasciatore a Pietroburgo,
    sarebbe tornato al suo posto. Rispondo che non vi sarebbe tornato,
    ma che il suo successore era un personaggio che gode le simpatie
    dello Czar.
    - Il ministro di Spagna mi riparla della progettata Conferenza pel
    Marocco. Gli Agenti locali si metteranno d'accordo. Si aspetta una
    risposta della Francia ad una
    Nota spagnuola. La Russia non ha interesse diretto, ma è
    pronta a partecipare alla Conferenza se le altre Potenze vi
    parteciperanno.
    - Visita del conte de Moüy. Mi parla di varie cose e anche di
    una «Société d'histoire diplomatique»,
    della quale fanno parte varii diplomatici. Chiede la mia adesione.
    Avevano pregato la Regina che consentisse ad essere inscritta fra i
    soci, ma poi per un articolo poco conveniente contro l'Italia,
    dovettero rinunziarvi.
    Fa pure qualche osservazione sulla circolare con la quale ho
    ordinato che da ora innanzi si corrisponda in lingua italiana con
    quelle Potenze che scriveranno nella loro lingua. Crede che questa
    innovazione sia fatta per la Francia; di che lo dissuado.
    
    12 dicembre. - Visita dell'ambasciatore Solms.
    Atkinoff, capo dei Cosacchi, a Parigi; non volle andare
    all'Ambasciata russa. Armamenti russi; pericoli.
    Il Re: Bismarck crede che il Re si occupi poco dell'esercito.
    Disinganno il Solms. Il Re oggi prende parte principale agli
    interessi dell'esercito ed ai nostri rapporti internazionali.
    - Viene Bavier, ministro della Svizzera. Si discorre del trattato di
    commercio. Gli dico che non posso accettare una proroga pura e
    semplice del trattato che sta per scadere; mi indichi gli articoli
    sui quali bisogna discutere, e son pronto a negoziare. Ho domandato
    al Parlamento le facoltà per concludere e mettere in
    esecuzione anche il trattato italo-svizzero. Bavier risponde che
    chiederà al Consiglio Federale che indichi codesti articoli.
    Mi dice che l'opinione pubblica in Svizzera è commossa per le
    nostre tariffe. Ragione di più - rispondo - per fare il
    trattato. Se lo volete provvisorio, teniamoci a poche voci; se lo
    volete definitivo, discutiamo e trattiamo su tutte le voci che il
    Consiglio Federale crederà doverci indicare. Si conclude che
    il Bavier telegraferà a Berna per l'invio dei delegati
    tecnici.
    - Il conte Rascon viene a domandarmi se può annunziare come
    conclusa la Convenzione per la cessione alla Spagna di un terreno in
    Assab per deposito di carboni, dovendo il ministro Moret parlarne in
    Parlamento. Rispondo che può telegrafare a Madrid che
    ritengano la Convenzione come firmata.
     - Con l'ambasciatore d'Austria-Ungheria parliamo degli
    armamenti russi. Notizie non allarmanti. L'Austria ha 150 a 200 mila
    uomini in Gallizia, le ferrovie sono in condizione di poter
    trasportare subito altre truppe nei luoghi minacciati.
    Mi lascia una Memoria circa i beni dei Borboni.
    - Anche col ministro di Rumania parliamo degli armamenti russi.
    Notizie di pace, ma non conviene fidarsene troppo.
    
    16 dicembre. - Photiadès-pascià, ambasciatore di
    Turchia, mi dà lettura di una Nota di Said, nella quale si
    parla della rettificazione della frontiera tripolina. Il Ministro
    turco assicura che nulla fu innovato e che è inesatto quanto
    fu scritto nel «Bulletin de la Société de
    Géographie».
    M'informa pure del pranzo dato dal Sultano all'ambasciatore
    d'Italia, barone Blanc e alla di lui signora, e degli onori resi
    loro.
    
    18 dicembre. - Il conte Rascon viene ad informarmi avere il suo
    ministro, Moret, scritto al rappresentante della Spagna a Tangeri di
    fare un rapporto che serva di base per la Conferenza marocchina.
    Rascon chiede che sia dato lo stesso incarico al Console italiano;
    il rapporto dovrebbe trattare della questione delle protezioni e di
    quanto ad essa si rannoda.
    Tra giorni verranno i poteri per la proroga del trattato di
    commercio.
    - De Moüy viene a parlarmi ancora del trattato, chiedendomi una
    proroga di quello vigente. Mi rifiuto. La proroga oggi, dopo il voto
    del Parlamento francese (che autorizza l'applicazione alle merci
    italiane della tariffa generale aggravata di tariffe differenziali
    del 100 per 100) sarebbe per l'Italia una viltà.
    Voi - dissi - ci mettete un dilemma nel quale, per un governo che
    sente la sua dignità, non vi può esser scelta. Ci
    minacciate la guerra nel caso che non accettiamo la proroga pura e
    semplice del trattato attuale. Del resto, io non ho la
    facoltà di prorogare puramente e semplicemente il trattato.
    La legge mi autorizza soltanto a stipulare un trattato provvisorio.
    Il de Moüy mi chiede una proroga che ci dia il tempo
    per intenderci. Il governo francese, col protezionismo che spira,
    stentò ad aver la legge com'è; difficilmente potrebbe
    aver altro. Rispondo che non è colpa mia. Dissi già
    parecchi mesi or sono che avrei accordata una proroga durante le
    negoziazioni, ma senza speranza di un nuovo trattato è
    impossibile. Il governo francese mandi uno o più delegati a
    trattare; provatemi che volete negoziare per raggiungere lo scopo,
    ed allora accorderò la proroga. Il de Moüy osserva che
    il tempo stringe e che difficilmente potremo in questo mese
    combinare qualche cosa. Replico che vi è ancora tempo per una
    dimostrazione di buon volere. Son pronto anche a prorogare il
    trattato con un decreto reale, ma ho bisogno che i vostri delegati
    siano qui e mi offrano con la loro presenza un motivo legittimo per
    giustificarmi dinanzi al Parlamento.
    Il de Moüy promette di scriver subito a Parigi affinchè
    mandino i delegati. Raccomando che si tenga il segreto su quanto gli
    ho detto. Se i giornali parleranno, rompo i miei impegni e non
    accorderò la proroga. Così si resta intesi.
    Mentre era per andarsene mi chiede se della nostra conversazione
    avrebbe dovuto parlarne col Re: rispondo negativamente.
    
    21 dicembre. - Il conte Solms mi ha dato a leggere una Nota del 15
    corrente del conte di Bismarck. Il Conte aveva fatto rimostranze a
    Vienna contro le dimostrazioni clericali. Il Kálnoky faceva
    promessa che avrebbe invigilato affinchè in altre occasioni i
    funzionarii pubblici non vi prendano parte. Nella lettera è
    detto che nella riunione di Linz il governatore, barone Weber, vi si
    trovò per caso. Egli sarebbe un liberale.
    Un'altra Nota si occupa dell'affare di Tripoli. Radovitz ne avrebbe
    parlato col Gran Visir, il quale avrebbe smentito che siasi pattuita
    alcuna convenzione con la Francia per la rettificazione della
    frontiera tunisina. Il Gran Visir avrebbe inoltre ordinato al
    governatore di Tripoli di non aver contatto coi francesi.
    Il Solms mi chiede in qual modo siasi fatta alla Spagna la cessione
    di un terreno in Assab. Rispondo essersi seguite le stesse forme del
    contratto per Fernando Po.
     Mi legge una Nota nella quale si dice che in Francia si
    dà grande importanza alla marina italiana.
    A Costantinopoli la Russia ha ripreso le domande pel pagamento della
    indennità di guerra. La Porta avendo obbiettato di non poter
    pagare per le condizioni cattive delle sue finanze, la Russia ha
    risposto che il Sultano aveva speso molti milioni per la compera dei
    nuovi fucili, e che avrebbe fatto meglio a pagare i suoi debiti.
    
    24 dicembre. - De Moüy viene ad informarmi del prossimo arrivo
    del negoziatore francese pel nuovo trattato di commercio, e
    dell'invio dei pieni poteri per la proroga del trattato vigente.
    Mi parla di un fatto avvenuto a Firenze a danno di quel Console
    francese. Il pretore si sarebbe recato al Consolato, avrebbe forzato
    le porte, violato gli archivi e messo i suggelli ad alcune carte
    degli archivi.
    Rispondo che ignoravo il fatto, e che ne avrei preso conto.
    
    27 dicembre. - Il conte Rascon viene a darmi l'avviso ufficiale del
    gradimento del governo spagnuolo per la nomina del conte Tornielli a
    Madrid.
    
    29 dicembre. - Photiadès: Vernone, confine tripolino.
    I francesi avendo proposto di delimitare il confine, hanno agito
    profittando del silenzio della Porta. Il Gran Visir, Said, diede al
    Vernone la dichiarazione di non aver ricevuto alcuna proposta. La
    Sublime Porta non fu mai consultata.
    - Il Ministro di Olanda viene a dirmi che il suo Re manda al Papa un
    ciambellano pel giubileo, e che è incaricato di dirmi che a
    cotesta missione il governo olandese non dà alcun significato
    politico, essendo un atto di mera cortesia.
    
    Sul reclamo per l'incidente di Firenze, al quale si accenna qui
    innanzi, l'on. Crispi ordinò immediatamente due inchieste,
    una giudiziaria, e l'altra amministrativa; quindi, prima di prendere
    una decisione, interpellò due volte il Consiglio del
    Contenzioso diplomatico.
    Con un primo parere sull'operato del Pretore, il quale aveva, usando
    la forza, portato ad esecuzione nella residenza del Console di
    Francia, una sentenza del Tribunale, il Consiglio ritenne che esso
    "fu corretto dal punto di vista strettamente giuridico, ma troppo
    rigido, perchè, nell'applicazione della legge, non tenne
    conto di quei riguardi che la legge stessa gli consentiva, e che
    sarebbero stati tanto più desiderabili verso una nazione
    amica".
    Questo parere era fondato su l'ipotesi che alla successione del
    suddito tunisino in questione fossero applicabili le norme della
    Convenzione consolare in vigore tra l'Italia e la Francia; l'on.
    Crispi dubitò che quella Convenzione, trattandosi della
    eredità di un suddito non francese, fosse applicabile al
    caso, e provocò un nuovo parere del Consiglio sulla posizione
    giuridica dei tunisini in Italia, sulla validità del trattato
    italo-tunisino del 1868, e, nel caso speciale, sulla ingerenza
    avutavi dal Console di Francia.
    Il responso del Consiglio non poteva esser dubbio: nonostante
    l'occupazione francese della Tunisia, la condizione giuridica dei
    tunisini in Italia non era cambiata, e il trattato del 1868 era in
    pieno vigore; l'azione spiegata dal Console di Francia a Firenze era
    quindi illegittima e illegale.
    Sicuro di essere assistito dalla ragione, l'on. Crispi resistette
    alle domande di soddisfazione del Governo francese sinchè
    questo non volle riconoscere il torto del suo Console; e difese con
    fermezza in tale circostanza i superstiti diritti dell'Italia in
    Tunisia.
    La discussione diplomatica alla quale questo incidente dette luogo,
    fu naturalmente giudicata in Francia con le consuete prevenzioni
    contro l'on. Crispi.
    
    
    
    Capitolo Ottavo.
    
    Dal "Diario" di Crispi: Ricevimenti diplomatici
    dal gennaio a tutto giugno 1888.
    
    
    Germania e Russia in un colloquio del principe di Bismarck. - La
    pubblicazione del trattato austro-germanico del 1879. - Italia e
    Russia in un colloquio tra Crispi e l'ambasciatore Uxkull. -
    Flourens vuole evitare l'alleanza franco-russa. - Informazioni sulla
    situazione interna della Francia. - Preparativi militari in Francia.
    - Il principe imperiale di Germania in Liguria. - Morte di Guglielmo
    I. - Le squadre italiana e austriaca a Barcellona. -
    Cordialità tra Crispi e Bismarck. - Un aspro colloquio tra il
    conte Bismarck e l'ambasciatore Herbette. - Morte di Federico III. -
    Re Umberto esprime il desiderio di recarsi a Berlino.
    
    3 gennaio 1888. - Il conte Rascon mi dà copia delle lettere
    credenziali che lo accreditano quale ambasciatore di Spagna presso
    il Re d'Italia.
    
    9 gennaio. - Il conte Solms mi legge una Nota nella quale è
    detto che le solite influenze vogliono dare a credere al Sultano che
    l'Austria e l'Italia siano unite per togliergli la Macedonia e la
    Tripolitania. Mi parla altresì, sulla base di una lettera del
    console tedesco a Tripoli, delle minaccie alla frontiera tunisina.
    Il Sultano, nello scopo di rendersi amici i Principi degli Stati
    balcanici, ha mandato al Re dei greci il gran cordone.
    A Pietroburgo sono lietissimi del nuovo ambasciatore italiano
    Marocchetti.
    Dalla Bulgaria buone notizie. Il Sultano sarebbe in buoni rapporti
    col governo bulgaro.
    
     18 gennaio. - Solms ha ricevuto una Nota nella quale si parla
    della missione Portal22. Nulla di nuovo; le cose ivi dette ci sono
    note per i rapporti recentemente ricevuti. Il Negus non vuole che
    gli italiani restino negli attuali possedimenti; nè a
    Massaua, nè a Sahati. I missionari francesi si prestano come
    spie in favore degli abissini.
    In Costantinopoli si lavora dall'ambasciatore italiano barone Blanc
    a patrocinare gl'interessi cattolici. Una Memoria ha dovuto essere
    spedita da lui al Ministero degli Affari esteri su cotesto
    argomento. La Francia resiste, e l'Austria anch'essa aspira al
    primato. L'unico rimedio sarebbe che il Papa inviasse un nunzio
    apostolico a Costantinopoli.
    La questione del Marocco è risollevata. A Tangeri vi è
    eccitazione contro i francesi.
    Il barone Calice, ambasciatore austriaco, ebbe una lunga conferenza
    con Said sulla banda di Lobanoff nella Bulgaria. Fu scoperto che il
    console russo a Burgas aveva quarantamila lire turche, e di queste
    spese una minima parte per sussidi alle chiese bulgare, e il
    rimanente per la tentata e non riuscita insurrezione.
    
    19 gennaio. - Conte Solms: Churchill in Russia; l'Inghilterra non
    vuole la guerra contro la Russia.
    In seguito ad una comunicazione ufficiale del governo spagnuolo, la
    Francia è ritornata di un tratto alla mia antica domanda che
    la conferenza di Madrid si limiti alla discussione della questione
    delle protezioni. Inoltre la Francia desidera un accordo preventivo
    con la Spagna sulla questione Schaar-al-Abel, che non conosciamo.
    Sembra quindi che la Francia voglia impedire la discussione sulla
    neutralità. E poichè questa ultima questione interessa
    meno la Germania che l'Inghilterra e l'Italia, il conte Solms mi
    chiede di conoscere il mio avviso circa l'esclusione del tema della
    neutralità dal programma della Conferenza.
    
    27 gennaio. - Il sig. Stourdza, ministro dell'istruzione pubblica in
    Rumania, trovandosi a Berlino ha espresso il desiderio di abboccarsi
    col Gran Cancelliere, che l'ha invitato a Friedrichsruh il 22
    corrente.
    Il Principe gli ha fatto le seguenti dichiarazioni politiche:
    «Io desidero il mantenimento della pace. Debbo ciò
    all'Imperatore, troppo anziano per lanciarsi in una grande impresa;
    lo debbo al Principe Imperiale, colpito da un male misterioso e
    più malato che non si creda generalmente; lo debbo al mio
    paese, che non avrebbe niente a guadagnare da una campagna
    vittoriosa contro la Russia.
    In verità la Germania, le cui frontiere sono assai bene
    stabilite, non ha nulla da prendere a' suoi vicini dell'est. Qual
    territorio potrebbe ella annettersi? Essa ha di già una parte
    sufficiente della Polonia. Cercando nuove conquiste, l'Impero
    germanico si esporrebbe a guerre senza fine con la Russia e con la
    Francia, la quale non attende che una occasione per rivendicare
    l'Alsazia-Lorena. In queste condizioni, i progetti bellicosi, da
    qualunque parte vengano, non entrano nelle mie vedute».
    Il Principe aggiunse che, d'altronde, la guerra non potrebbe
    avvenire per fatto delle Potenze alleate. Nè la Germania,
    nè l'Austria attaccheranno la Russia. L'aggressione non
    potrebbe venire che dai russi. Ed esaminando la questione, se la
    Russia possa passare all'offensiva, disse che fino a quando
    l'imperatore Alessandro e il signor de Giers domineranno la
    situazione, egli non credeva che avrebbero messo il fuoco alle
    polveri. Però esiste in cotesto paese un sordo malcontento,
    una agitazione panslavista che potrebbe esplodere e forzare la mano
    allo Czar. In vista di questa eventualità, gli alleati
    debbono proseguire i loro armamenti e tenersi pronti. Per ciò
    che concerne la Germania, essa è già in istato di
    difesa. «Io son pronto e non temo niente. In attesa, non posso
    far mia l'opinione di chi pretende che sarebbe preferibile sin da
    oggi prendere l'iniziativa della guerra, per il fatto che questa
    potrebbe esserci dichiarata domani».
    Parlando con un uomo di Stato rumeno, si comprende come il principe
    di Bismarck abbia principalmente portata la sua attenzione sopra le
    relazioni con la Russia.
    Risulta dalle sue parole che se la guerra non sembra vicina, il
    mantenimento della pace esige una vigilanza continua.
    
    31 gennaio. - Gli ambasciatori di Germania e d'Austria-Ungheria
    vengono a parteciparmi che i loro governi hanno riconosciuto
    l'opportunità di rendere pubblico il testo del trattato
    segreto austro-germanico del 7 ottobre 1879, come salutare
    avvertimento alla Russia a non turbare la pace. E chiedono il mio
    parere. Rispondo che i governi di Germania e d'Austria-Ungheria sono
    i migliori giudici in un affare che li riguarda direttamente, e
    ringrazio della cortese domanda.
    
    Il trattato fu pubblicato il 3 febbraio contemporaneamente a Vienna
    (nella Wiener Abendpost) e a Berlino (nel Reichsanzeiger) insieme a
    questa nota:
    "I governi della monarchia austro-ungarica e della Germania, hanno
    ritenuto conveniente di pubblicare il trattato di alleanza concluso
    tra loro il 7 ottobre 1879 per fare cessare i dubbi che da parti
    diverse si sollevavano sullo scopo assolutamente difensivo di
    cotesto accordo, dubbi che sono stati variamente sfruttati. I due
    governi alleati sono guidati nella loro politica dal desiderio del
    mantenimento della pace e lavorano quanto è in loro
    affinchè questa non sia turbata. Essi hanno la convinzione
    che la conoscenza del testo del loro trattato di alleanza
    farà scomparire tutti i dubbi esistenti a tale proposito, e
    per questo motivo si sono risoluti a pubblicarlo".
    Questa pubblicazione dimostrò - secondo il conte Nigra - "che
    la situazione era tutt'altro che rassicurante e che il principe di
    Bismarck, il quale ne aveva preso l'iniziativa, non era riuscito
    fino allora ad avere dalla Russia le guarentigie di pace cui
    aspirava". E l'impressione che produsse fu grande; non sui governi,
    che non ignoravano l'esistenza di quel trattato - lo Czar ne
    conosceva da sei mesi anche il testo - ma nella stampa e quindi
    nell'opinione pubblica europea. Il Times scrisse che era una grave
    offesa (a slap in the face) che le due potenze avevano dovuto
    infliggere alla Russia per non essere accusate di aver celato
    ciò che avrebbe potuto evitar la guerra. In Russia, il
    partito della guerra non fu lieto della diffida, e uno dei
    più autorevoli giornali, il Novoie Wremia, non potendo dire
    che non desiderava la pace, disse che non la desideravano i due
    alleati; un altro giornale, anch'esso importante, andò
    più in là, considerando l'alleanza austro-germanica
    come la pietra fondamentale dell'egemonia germanica, e la
    pubblicazione del trattato come un espediente per allontanare dalle
    due potenze alleate la responsabilità della guerra che
    avevano risoluto di fare. E concludeva che quella pubblicazione
    aveva sancito la tacita alleanza tra la Russia e la Francia.
    
    3 febbraio. - Solms: circa le agitazioni dei partiti nella Rumania,
    le notizie ricevute da Solms sono identiche alle mie.
    Una lettera fu trovata sul cadavere di Nabukoff, stata indirizzata a
    costui da Ignatieff, fratello del ministro. In essa è pur
    compromesso il ministro di Russia a Bukarest (Hitrovo). In Rumania
    è lui, Hitrovo, che alimenta le cospirazioni contro la
    Bulgaria. È con la Russia il partito locale d'opposizione, il
    quale tiene pronto un pretendente al trono, che sarebbe il principe
    Bibesco, cui Hitrovo rende gli onori reali quando va alla Legazione
    russa. Il Bibesco ha fatto educare i suoi figli a Parigi.
    Continuano le trattative per il canale di Suez. Il Sultano vorrebbe
    anche per questa via riprendere almeno moralmente il suo alto
    dominio in Egitto.
    Ismail-pascià è andato a Costantinopoli allo scopo di
    agire per poter ritornare in Egitto. Egli mandò dieci cavalli
    inglesi al Sultano, che li rifiutò. Il Sultano è
    esitante, però non vuole mettersi contro la Francia, della
    quale rispetta la suscettibilità.
    Il ministro Moret si trova imbarazzato per la Conferenza relativa al
    Marocco. È interessato perchè sia tenuta, anche per
    scopi parlamentari.
    
    5 febbraio. - Visita di Bavier, ministro di Svizzera.
    Trattato di commercio. Nego ogni proroga del precedente. Siamo
    pronti a negoziare il nuovo e vi metteremo tutta la buona
    volontà. Il Bavier dice che sarebbe dolente di una guerra di
    tariffe, anche nell'interesse morale dei due paesi. Rispondo che
    siamo amici della Svizzera nostra vicina, e vogliamo continuare ad
    esserlo.
    Faremo tutte le concessioni possibili, ma vogliamo un trattato. Nel
    caso contrario, il primo marzo avremo la tariffa generale.
    - Solms: Flourens irritato per la pubblicazione del trattato.
    Pel Marocco gli Agenti di Francia e di Spagna a Tangeri avevano
    combinato il programma della Conferenza. Flourens sconfessò
    il suo Agente.
    - Uxkull: quale l'impressione della pubblicazione del trattato
    austro-germanico? Dico che essa non ha potuto avere altro scopo che
    quello di togliere il dubbio sulla sua portata. La nota che
    accompagna la pubblicazione spiega che le due Potenze alleate non
    hanno alcuna tendenza aggressiva, e questo deve far piacere alla
    Russia. «Non ne avevamo bisogno, mi risponde. Noi conoscevamo
    da sei anni addietro il trattato. E il vostro? Voi avete fatto
    adesione a codesto trattato». - «Noi non abbiamo che
    vedervi. L'Italia e la Russia sono lontane l'una dall'altra, e tra
    loro non può esservi alcun conflitto d'interessi». -
    «Benissimo. Ma allora perchè vi siete alleati?» -
    «Il nostro trattato nulla ha da fare con quello pubblicato.
    Del resto, anche il nostro è un trattato difensivo». -
    «Ma noi non attaccheremo, e se dovessimo fare la guerra,
    manderemmo altrove le nostre truppe. Noi ci difenderemo se saremo
    attaccati». - «Ma chi volete che vi attacchi? La Russia
    non può temere una guerra aggressiva. È difesa dal suo
    clima e da' suoi soldati. Napoleone I, che volle invadere il vostro
    paese, dovette pentirsene. E se la Russia non vuole la guerra,
    perchè non si accorda con l'Europa per sciogliere la
    questione orientale?» - «Credete anche voi nella favola
    del testamento di Pietro il Grande? Noi non vogliamo che la
    libertà degli Stretti». - «E allora perchè
    non proporre un accomodamento?» - «E a chi dareste
    Costantinopoli?» - «Si determinerebbe». -
    «Noi sosteniamo la Turchia e la sostenete anche voi». -
    «Non se ne può fare a meno. Però voi l'avete
    assalita più volte, e avete dichiarato che non può
    reggersi e deve finire». - «Ebbene, lasciamola
    vivere».
    
    7 febbraio. - Solms, incaricato dal principe di Bismarck, viene a
    domandarmi scusa per aver egli nel suo discorso di ieri commesso una
    étourderie, col parlare del
    trattato di alleanza con l'Italia senza avermene chiesto il
    permesso. Il Principe si dichiara dolentissimo di ciò.
    Rispondo che dò al principe l'assoluzione papale. Del resto,
    il silenzio non avrebbe giovato a nulla: tutti sanno dell'esistenza
    del trattato italo-tedesco. Lo informo del colloquio avuto il 5
    corrente coll'ambasciatore di Russia.
    - Il ministro della marina mi avverte che due ufficiali francesi,
    sotto la veste di pittori, furono in questi giorni alla Spezia, e
    che abbiamo quest'anno in Italia molti sedicenti artisti francesi.
    Anche il giubileo ha facilitato questa calata di ufficiali.
    
    10 febbraio. - Ressman, Incaricato d'affari a Parigi, mi fa sapere
    che il signor Flourens ha compreso la necessità di dare un
    successore al signor de Moüy e fatto analoga promessa; ma che
    gli sembra di non poter fare immediatamente tale richiamo,
    perchè molto lo imbarazza la scelta di un nuovo ambasciatore.
    Anche l'ambasciatore Menabrea aveva insistito presso il Flourens
    perchè fosse dato, sino al suo definitivo richiamo, almeno un
    pronto congedo a quel diplomatico, senza aspettare un nuovo
    incidente di Firenze.
    Il ministro francese desidera un accordo sulla situazione dei
    sudditi tunisini dimoranti in Italia, rispetto agli Agenti del
    governo francese, e sull'interpretazione del trattato italo-tunisino
    del 1868. Il Flourens accolse con premura la proposta di uno scambio
    di note o dichiarazioni per definire l'inviolabilità degli
    archivi consolari.
    Alle osservazioni sul contegno di una parte dei giornali francesi,
    fatte al signor Flourens e al signor Tirard, i due ministri
    risposero di esservi estranei; il Tirard si dichiarò pronto a
    pubblicare qualunque dichiarazione che ci potesse convenire per
    ripudiare gli attacchi mossi contro il governo italiano e il suo
    capo.
    Sembra che gli attacchi perfidi del Figaro contro di me siano
    inspirati dal Vaticano, del quale sarebbe portavoce Mgr. Galimberti.
    
    11 febbraio. - Solms: l'arrivo della flotta inglese della Manica nel
    Mediterraneo ha suscitato i sospetti della Francia.
     Si è detto da alcuni giornali che l'imperatore di
    Germania avrebbe scritto al Negus. Cotesta notizia è falsa.
    La restituzione di Zeila al Sultano non si farà più. I
    colleghi di Salisbury furono anche contrari che fosse data
    all'Italia per timore di complicazioni con la Francia.
    Said-pascià è favorevole che Zeila resti agli inglesi
    per timore che vi vadano i francesi.
    Prestiti russi: all'Aja, di 300 milioni col Comptoir d'escompte,
    Banca di Parigi, Banca dei Paesi Bassi.
    
    12 febbraio. - Visita dell'ambasciatore turco: mi parla dei
    conflitto di Beyrouth tra cristiani e mussulmani.
    Presenta una protesta per la cessione di Assab. Rispondo che non ne
    prendo atto; l'acquisto nostro fu legittimo.
    - Rascon, ministro di Spagna:
    Mi annunzia che sono giunti i delegati spagnuoli per il trattato di
    commercio. Li vedrò domani al palazzo Braschi.
    Voci di guerra. Pessime impressioni a Madrid. La guerra sarebbe
    minacciata dalla Francia. Gli spagnuoli metterebbero un corpo di
    truppe dinanzi Perpignano, ed un altro dinanzi Baiona.
    
    14 febbraio. - Apprendo che il ministro Flourens ha detto
    all'ambasciatore britannico a Parigi, lord Lytton, che il trattato
    di alleanza tra la Germania, l'Austria e l'Italia metteva la Francia
    in una situazione penosa. Cotesto trattato forzerebbe la Francia a
    gettarsi nelle braccia della Russia. Per evitar ciò Flourens
    ha proposto un trattato segreto tra la Francia, l'Inghilterra e le
    altre Potenze interessate al mantenimento dello statu-quo nel
    Mediterraneo.
    
    20 febbraio. - Il conte Solms è venuto ad informarmi delle
    comunicazioni fatte dall'ambasciatore russo a Berlino al Gran
    Cancelliere per la questione bulgara. Il conte Schouvalow con sua
    lettera del 13 corrente chiedeva al principe di Bismarck di
    associarsi alla Russia allo scopo di persuadere la Turchia a voler
    dichiarare la illegalità del soggiorno del principe
    Ferdinando in Bulgaria. A questa lettera erano aggiunti due
    documenti, uno senza data e senza firma, nel quale si spiegavano
    le intenzioni del Gran Cancelliere, ed un altro del 31 dicembre
    1887, firmato Giers, nel quale si spiegavano gli scopi del gabinetto
    di Pietroburgo. Bismarck crede che quella dichiarazione
    soddisferebbe l'amor proprio dello Czar e che noi dovremmo
    adoperarci a farla ottenere. Rispondo quello che ho già detto
    ad Uxkull; dubito delle conseguenze di quella dichiarazione, le
    quali non potrebbero essere benigne.
    Il Solms mi parla della impressione fatta sull'animo del Sultano
    dalla pubblicazione di sir Elliot. Il Sultano sarebbe inquieto
    contro Kiamil pascià, Gran Visir, che ritiene partigiano
    della Gran Brettagna; egli teme altresì che si attenti alla
    sua vita. Si è stentato molto a fargli riacquistare la calma.
    L'affare di Damasco non suscita più i malumori della Francia,
    la quale, considerata la loro poca importanza, non pensa più
    ad agire.
    La Francia si oppone all'intervento della Turchia alla Conferenza
    pel Marocco. La Turchia non prese parte al trattato del 1880 e non
    ha interesse nel territorio marocchino. Il signor Moret, invece,
    sarebbe favorevole a cotesto intervento.
    
    23 febbraio. - Il signor Flourens si è lagnato con
    l'ambasciatore d'Inghilterra a Parigi dell'Italia e di me, che
    accusa di un contegno ostile e provocatore. Cotesta imputazione
    è formulata troppo vagamente per avere un valore. La tendenza
    del governo francese è di posare a vittima. Se si
    esamineranno i miei atti uno ad uno, si troverà che in ogni
    occasione ho spinto la condiscendenza sino agli estremi limiti.
    
    Sulla situazione politica della Francia l'on. Crispi ricevette nei
    primi giorni di febbraio le seguenti informazioni:
    
    «Il governo appare ogni giorno più debole di fronte
    alle esigenze che intorno a lui si accampano. Una minoranza audace e
    irresponsabile gli forza continuamente la mano, senza che gli
    elementi d'ordine ancora numerosi, nella provincia specialmente,
    valgano a controbilanciare tale azione. Speculatori intelligenti e
    spregiudicati, molti dei quali forestieri, che al primo pericolo
    scomparirebbero, prezzolano una stampa senza convinzioni
    che crea tali correnti di opinione nel pubblico, le quali porranno
    il governo in balìa della piazza.
    Sullo scorcio del 1887 il governo non era fortissimo, ma resisteva.
    Il vecchio presidente Grévy era un elemento pacifico e
    moderatore, e il Ministero abbastanza buono, sbarazzato di persone
    compromettenti come il generale Boulanger e l'ammiraglio Aube. Ma
    appunto per questo era inviso alla piazza, la quale andava
    lagnandosi che il presidente parteggiasse per l'opportunismo. I
    radicali decisero perciò di muovergli guerra, e profittarono
    della condotta scorretta del genero del presidente, il deputato
    Wilson, affarista noto già da anni nei circoli parlamentari.
    Lo scandalo appassionò l'opinione pubblica, e il presidente
    Grévy fu costretto a dimettersi.
    Nella confusione, che regnò durante i giorni della crisi
    presidenziale, i radicali cambiarono parte. Spaventati dalla
    possibilità di cadere da Grévy a Ferry, si provarono a
    rimontare l'opinione pubblica per la rielezione di Grévy e ad
    ogni modo minacciavano le barricate a Parigi se Ferry fosse stato
    eletto presidente. Una forte corrente moveva l'assemblea di
    Versailles a dare il voto a Giulio Ferry, ritenuto come l'uomo di
    Stato più energico e di maggior valore dei concorrenti; ma,
    in verità, la Francia e Parigi stessa assistevano
    indifferenti alla soluzione di quella crisi strana e improvvisa. I
    radicali soli si agitavano, i parigini sopra tutti, e nell'assemblea
    trovarono alleata una frazione della destra, la quale, odiando la
    repubblica, la desidera debole e perfino comunarda, per potersene
    sbarazzare più presto.
    Mentre il Congresso sedeva a Versailles, tutte le misure erano state
    prese dalla maggioranza radicale del Consiglio municipale per
    proclamare un governo provvisorio nel caso che il signor Ferry
    avesse riunito sul suo nome la maggioranza dei voti. I consiglieri
    municipali si erano dichiarati in seduta permanente e avevano
    chiamato all'Hôtel de ville parecchi delegati del Comitato
    rivoluzionario centrale, per poter disporre, occorrendo, del loro
    concorso. Avevano anche cercato di ottenere dal prefetto della Senna
    le chiavi delle porte che chiudevano i corridoi sotterranei per i
    quali l'Hôtel de ville era messo in comunicazione con altri
    edifici, specialmente con le caserme «Lobau» e
    «Napoleone». Il prefetto della
    Senna avendo rifiutato di consentire alla predetta domanda, i
    consiglieri municipali avevano sbarrato il passaggio con una catena
    di ferro per impedire che per quella via si potesse penetrare
    nell'Hôtel de ville.
    Le minaccie dei radicali portarono frutto: la maggioranza, sempre
    timida, se ne commosse, e credendo prossimo un gran pericolo
    abbandonò il Ferry ed elesse il signor Sadi-Carnot, senza
    partito e senza amici.
    Tutti ormai sanno che, se fosse stato eletto Ferry, qualche migliaio
    di arruffoni sarebbe sceso da Montmartre e da Belleville. Il
    governatore militare di Parigi, generale Saussier, che aveva
    accresciuto il presidio della capitale e di Versailles e prese
    misure energiche, era preparato agli eventi, e sarebbe stato gran
    ventura lo sbarazzarsi in una volta di una caterva di souteneurs,
    ladri e assassini che insozzano la capitale, e di sottrarre il
    governo alla tirannia dell'estrema sinistra che lo paralizza.
    La crisi presidenziale si mutò in crisi ministeriale, che
    finì con la formazione di un gabinetto senza forza. A dare un
    saggio delle difficoltà che si dovettero superare per
    comporre il gabinetto, basti ricordare in qual modo divenne ministro
    il generale Logerot. Quel portafoglio, offerto a molti che lo
    rifiutarono, era rimasto vacante, quando il presidente del
    Consiglio, Tirard, si presentò all'Eliseo per annunziare la
    composizione del suo Ministero. Il Tirard, riferiti i passi
    inutilmente fatti per trovare un ministro della guerra, opinava per
    l'annunzio della composizione ministeriale senza il titolare del
    Ministero della guerra; ma la proposta non garbò al signor
    Carnot. Cercando come uscire d'imbarazzo, il Presidente si sovvenne
    di avere udito presso Digione, dove possiede una terra, ma non
    ricordava da chi, forse da un guarda-caccia o da un giardiniere, che
    il generale comandante della guarnigione era un brav'uomo. Non ne
    sapeva il nome. Un ufficiale d'ordinanza, interrogato, rispose che
    il corpo d'armata di Digione era l'ottavo, e che il suo comandante
    si chiamava Logerot. Il signor Tirard ebbe ordine di telegrafargli
    subito per proporgli il portafoglio della guerra. Logerot rispose:
    «Arriverò domani ore 9 ant.». Queste parole
    furono interpretate come un consenso, e il Journal officiel si
    affrettò a dar l'annunzio del nuovo Ministero, compreso
    Logerot alla
    guerra. Quando questi arrivò alle 9 per scusarsi, la cosa era
    fatta, e lo persuasero a star tranquillo per non mettere il governo
    in imbarazzo e, peggio, in ridicolo.
    Questo gabinetto ebbe così poca vitalità sin da
    principio che, appena insediato, non essendo ancora discusso il
    bilancio per il 1888, la Camera non volle accordargli che tre
    dodicesimi provvisori, ed i profeti di crisi ministeriali ne
    proclamano la fine ad ogni episodio parlamentare.
    Ma se esso pare debole all'interno, dimostra qualche energia
    all'estero, resistendo alle seduzioni russe. Da molto tempo la
    Russia semina in Francia, e se ne vedono già i frutti.
    Granduchi e granduchesse vengono, vanno, cercando simpatie nella
    grande società. Letterati francesi più o meno
    convinti, e probabilmente ben pagati, traducono le novelle e i
    romanzi russi, pieni d'ingenuità grossolane e barbare, come
    di nomi strani che li rendono originali. Il giornalismo chiama la
    Russia «la nation sœur». Il popolo francese si abitua
    così a considerare la Russia come un'alleata; non sono
    mancate neppure manifestazioni di militari, certi passi del generale
    Boulanger, un discorso del generale Saussier, molti discorsi
    dell'addetto militare russo. Ma il governo sembra sinora non esser
    vinto da questa corrente, forse perchè sa di potervisi
    abbandonare quando vorrà, e malgrado che l'ambasciatore di
    Russia, barone di Mohrenheim, non tralasci occasione per accarezzare
    la Repubblica.
    In una delle ultime crisi ministeriali pareva che il solo Floquet
    potesse formare un gabinetto, ma la sua candidatura venne scartata
    per non dispiacere allo Czar che ricordava il grido di «Vive
    la Pologne, monsieur», lanciato dal Floquet nel 1867 allo czar
    Alessandro. Un anno fa il Floquet era studiosamente evitato da tutti
    i russi. Un giorno il barone di Mohrenheim trovandosi in visita
    dalla marchesa Menabrea, era seduto presso alla signora Floquet, e
    senza conoscerla conversò con essa, trovandola amabile e
    spiritosa. Quando essa uscì dal salone, il barone
    domandò chi fosse, e, saputolo, scattò come una molla,
    esclamando un «bigre» che stupì tutti i presenti,
    ai quali non dissimulò il suo dispiacere. Pochi mesi son
    passati, e due o tre giorni sono il signor di Mohrenheim si è
    fatto presentare dal ministro degli
    esteri, in un ricevimento del ministro del commercio, al presidente
    della Camera, signor Floquet.
    Per l'appunto un gabinetto Floquet si disegna all'orizzonte in caso
    di crisi, e questo passo dell'ambasciatore russo sembra diretto a
    far comprendere che la Russia è disposta ad assolvere il
    signor Floquet per amore della Repubblica.»
    
    Il 21 gennaio l'agenzia telegrafica Reuter comunicava che una grande
    attività era notata nell'arsenale di Tolone. Si preparava una
    squadra di corazzate e d'incrociatori, e si facevano esperimenti di
    mobilitazione. Le maestranze dell'arsenale lavoravano oltre il
    consueto. Il Petit Journal, il più diffuso foglio della
    Francia, spiegava quell'insolita attività con l'irritazione
    prodotta dall'incidente di Firenze.
    In febbraio e in marzo a Modane erano giunti un vagone di dinamite e
    grande quantità di munizioni; i forti di Esseillon, Braman,
    Sassey e Replaton erano stati rinforzati di mille uomini di
    fanteria, artiglieria e genio.
    Il primo febbraio l'ambasciatore Menabrea telegrafava:
    
    «Debbo prevenire V. E. che qui all'Ambasciata di Germania si
    è molto preoccupati della mobilitazione e concentramento
    Mediterraneo della maggior parte della flotta francese. Il Prefetto
    Marittimo di Tolone ha ricevuto l'ordine di allestire la squadra
    d'evoluzione e quella di riserva, in tutto quattordici corazzate che
    debbono essere pronte in pochi giorni. Inoltre debbono poter entrare
    in servizio entro due o tre settimane, altre otto corazzate. Nella
    Manica non resterebbero che quattro o cinque corazzate, oltre
    qualche guarda-coste non destinate all'alto mare. Sarebbe utile
    conoscere che cosa pensino di questo concentramento l'Inghilterra e
    la Germania.»
    
    Pochi giorni dopo era annunziato l'arrivo nel Mediterraneo della
    squadra inglese della Manica.
    
    Nel campo finanziario le ostilità della Francia erano
    principiate mentre si negoziava per la rinnovazione del trattato di
    commercio. Tutti i titoli italiani furono artificiosamente
    deprezzati da un'acerba campagna della stampa, a cominciare dal
    Consolidato, che i giornali, nei bollettini della borsa, indicavano
    col dispregiativo di "macaroni"; il piccolo risparmio francese, che
    lo prediligeva e ne possedeva grandi quantità, fu consigliato
    a disfarsene.
    La finanza germanica, per i buoni uffici del principe di Bismarck,
    fece quanto potè per attenuare i danni di questa guerra, e
    opporre una diga alla discesa dei corsi della rendita italiana, sia
    acquistandone sul mercato di Parigi, sia scontando gli effetti
    cambiari del nostro commercio e mostrandoci quella fiducia che la
    Francia ci negava.
    
    Nella tornata del 5 marzo della Camera dei Deputati, l'on. Sonnino
    propose con elevate parole l'invio di un telegramma di auguri al
    Principe Imperiale di Germania, venuto a chiedere salute al mite
    clima della nostra Liguria. L'accoglienza che la Camera fece a
    quella proposta, appoggiata calorosamente dall'on. Crispi, fece la
    migliore impressione. Il principe di Bismarck ringraziò
    l'assemblea italiana della "nobile manifestazione", la quale provava
    che l'amicizia dei due paesi, oltre che sulla identità dei
    loro interessi, era fondata sulla base solida e durevole
    dell'aspirazione comune al mantenimento della pace.
    Ma il soggiorno in Liguria di Federico Guglielmo ebbe breve durata.
    Il 7 marzo l'ambasciatore germanico comunicava a Crispi questo
    telegramma del principe di Bismarck:
    
    «Je prie Votre Excellence de communiquer confidentiellement
    à Monsieur Crispi que depuis quelques jours l'état de
    santé de S. M. l'Empereur est devenu inquietant. Sa
    Majesté n'a pas pu recevoir des communications et
    malheureusement pas non plus celle de l'imposante manifestation au
    Parlament Italien. J'avais l'intention de prendre des ordres de Sa
    Majesté qui m'auraient autorisé à une reponse
    destinée à Sa Majesté le Roi Humbert.
    L'état de l'Empereur ne le permet pas. Nous sommes depuis ce
    matin très-alarmés.
    
    Bismarck.»
    
    Dopo due giorni l'imperatore Guglielmo I moriva e il Gran
    Cancelliere rispondeva nei seguenti termini alle condoglianze di
    Crispi:
    «Le télégramme que Votre Excellence vient de
    m'adresser prouve qu'elle comprend la profonde douleur dans laquelle
    m'a plongé la mort du Souverain que j'ai eu le bonheur de
    servir jusqu'à la dernière heure de sa vie.
     Je remercie Votre Excellence de ce témoignage de
    sympathie. Il m'a apporté une grande consolation en ce moment
    d'épreuves et m'a profondément touché. C'est
    dans la certitude de voir notre deuil partagé par tous les
    hommes de bien dans ce monde, qu'avec l'aide de Dieu je puise la
    force dont j'ai besoin pour remplir la tâche qui m'incombe.
    
    Von Bismarck.»
    
    Federico III dovette partire subito per recarsi ad assumere l'Impero
    e a rendere al Padre gli estremi onori. Re Umberto volle fare
    personalmente al suo augusto amico gli augurii in terra italiana, e
    giunse alla stazione di Sampierdarena mentre dalla riviera di
    ponente vi giungeva il convoglio germanico. In quella piovosa e
    fredda mattina del 10 marzo l'incontro dei due Sovrani fu molto
    triste. L'Imperatore chiuso nella sua vettura, ricevette commosso il
    Re e Crispi. Non poteva parlare: ascoltava e dava risposta scritta
    sui fogli del suo taccuino. A Crispi porse un foglietto sul quale
    erano queste parole: "J'ai été bien touché des
    paroles prononcées dans les deux Chambres".
    
    
    È ignorato che durante il soggiorno di Federico Guglielmo in
    Liguria gli anarchici avevano deciso un attentato contro di lui. Un
    rapporto su questo argomento dava le seguenti notizie:
    "Nei conciliaboli già segnalati era stato dapprima deciso che
    l'assassinio del Principe imperiale sarebbe stato tentato per mezzo
    di bombe cariche di dinamite, in occasione del viaggio a San Remo di
    S. M. il Re d'Italia, che sarebbe stato ucciso insieme al Principe.
    Il Re non avendo fatto quel viaggio, l'esecuzione del delitto
    è stata aggiornata.
    Una nuova riunione ha avuto luogo recentemente a Nizza, e in essa si
    sarebbe deciso che l'esecuzione del Principe imperiale solo avesse
    luogo in quella stessa settimana. L'individuo incaricato del delitto
    sarebbe un certo G. A., garzone di cucina a Mentone.
    Gli anarchici sanno benissimo che il successo dell'attentato non
    potrebbe avere nessuna conseguenza politica favorevole alla loro
    causa; essi vogliono solamente affermare pubblicamente la potenza
    del loro partito con un gran fatto."
    
    Dal Diario:
    
    27 marzo. - Il conte Solms mi annunzia che Moret ha ritirato
    l'invito mandato alla Porta per intervenire alla Conferenza sul
    Marocco. Chiede il mio parere, ed io gli dichiaro di esser contrario
    e di essermi manifestato in tal senso col conte Rascon. Ho
    telegrafato a Londra per conoscere l'opinione di lord Salisbury. Il
    Solms mi previene che l'Austria ha risposto che avrebbe
    seguìto il parere delle Potenze mediterranee.
    
    27 marzo. - In seguito ad una lettera particolare dell'ambasciatore
    d'Italia a Madrid, conte Tornielli, nella quale si partecipava la
    speranza del ministro Moret che l'Italia volesse fare una
    dimostrazione di simpatia alla Spagna, inaugurandosi nel prossimo
    maggio dalla Regina Reggente l'Esposizione di Barcellona, telegrafo
    al conte Nigra, a Vienna:
    «Mi risulta che il governo spagnuolo vedrebbe con viva
    soddisfazione che la nostra squadra, sotto il comando del duca di
    Genova, si trovasse a Barcellona alla metà del mese di
    maggio, cioè per l'arrivo colà della Regina Reggente.
    Questa dimostrazione di simpatia, la quale gioverebbe a rafforzare
    il principio monarchico in Ispagna in un momento in cui la Francia
    cerca d'indebolirlo,
    e ad affermare l'intesa dei due paesi, potrebbe acquistare una
    significazione politica d'importanza anche maggiore se la squadra
    austro-ungarica si unisse alla nostra. Parmi che cotesto governo non
    possa non essere favorevole a tale progetto. Voglia parlarne a
    Kálnoky e telegrafarmi se l'idea è da lui bene
    accolta.»
    
    29 marzo. - Risposta di Nigra:
    «Kálnoky mi dice che divide il parere di V. E. circa la
    convenienza dell'invio delle squadre a Barcellona durante il
    soggiorno colà della Regina Reggente, ma che deve informarne
    l'Imperatore e prendere i suoi ordini. Egli si riserva di far
    conoscere la decisione di S. M. a V. E.»
    
    (?) aprile. - L'ambasciatore d'Austria-Ungheria mi comunica il
    seguente telegramma di Kálnoky:
    «Vogliate dire a S. E. il signor presidente del Consiglio che
    noi ci associamo con grande soddisfazione al progetto di riunire le
    squadre dei due Stati per salutare S. M. la Regina Reggente di
    Spagna a Barcellona, e che diamo un gran valore all'incontro e alla
    riunione delle squadre che mostreranno così unite le due
    bandiere delle due Potenze alleate. S. M. l'Imperatore e Re ha
    consentito col più grande piacere a questa idea e ha
    già dato gli ordini necessari al Comando della marina.»
    
    6 maggio. - Avendo proposto al conte Kálnoky che le squadre
    italiane e austro-ungarica giungessero a Barcellona simultaneamente
    a quella inglese, l'ambasciatore Nigra mi comunica che la squadra
    imperiale è partita ieri per Barcellona, dove arriverà
    l'11 maggio. Le due squadre potrebbero partire insieme da
    Barcellona.
    
    30 marzo. - Ambasciatore di Spagna: gli dico di non opporsi
    all'intervento della Turchia alla Conferenza sul Marocco. La Spagna
    avendo fatto l'invito, non può ritirarlo.
    
    1.° aprile. - Telegrafo al principe di Bismarck: «Prego V.
    A. di gradire nel giorno anniversario della sua nascita i miei voti
    più sinceri. Confrontando la Germania di oggi, ch'è in
    gran parte opera vostra, con la Germania
    del 1815 che vi vide nascere, ammiro la grandezza del vostro genio e
    la potenza della vostra volontà; sono orgoglioso dei buoni
    rapporti che intercedono tra noi e mi conforta che il mio paese
    proceda di conserva nella storia della nostra epoca con quello di
    cui V. A. con mano sicura e ferma guida i destini».
    - Il conte di Launay mi telegrafa di essersi recato a far visita al
    Gran Cancelliere. «Egli mi ha detto - così il Launay -
    di essere stato commosso del telegramma grazioso in ogni modo che in
    occasione del suo giorno natalizio gli ha indirizzato V. E. Il
    Principe non potrebbe essere più soddisfatto dell'amicizia
    che regna tra i due governi. Una perfetta intesa è tanto
    più necessaria dinanzi all'avvenire incerto. Nessuno
    può prevedere ciò che avverrà in Francia, dove
    i partiti estremi prevalgono sugli elementi moderati. Noi non
    attaccheremo perchè non vogliamo rappresentare la parte di
    provocatori. Il vostro governo evita saggiamente tutto ciò
    che possa aver l'aria di una provocazione. Ma se malgrado questa
    attitudine, la guerra dovesse scoppiare, noi siamo in condizione di
    affrontare la sorte con successo. Ho approfittato di questa
    occasione per ringraziare il Cancelliere dell'appoggio che continua
    a darci per impedire il deprezzamento della nostra rendita. S. A. mi
    ha risposto che faceva questo di gran cuore. Sono questi i servizi
    che si debbono rendere gli amici».
    
    3 aprile. - Solms mi dà lettura di una Nota colla quale si
    risponde ad un mio telegramma diretto ad ottenere che il principe di
    Bismarck volesse persuadere Salisbury a permettere alle nostre
    truppe di Massaua, che soffrono per il gran caldo in quel porto del
    Mar Rosso, di passare l'estate in Egitto. Il governo inglese ci ha,
    invece, offerto l'isola di Cipro, ed ho risposto che tanto valeva
    ritirare le truppe in Italia.
    
    4 aprile. - Il conte Rascon viene a parlarmi dell'intervento turco
    nell'affare del Marocco. Il Marocco rifiuta tale intervento.
    
    13 aprile. - Solms mi dà notizia di una Nota di Radowitz da
    Costantinopoli, secondo la quale i francesi avrebbero dato a credere
    al Sultano che noi abbiamo
    mandato da Massaua ottomila soldati a Suez, con animo di occupare
    l'Egitto.
    La sera del 10 Radowitz ha pranzato a Yldiz-Kiosque. Poco avanti il
    pranzo, il Gran Visir gli ha comunicato la notizia ricevuta
    dall'Ambasciata di Francia relativa all'invio delle nostre truppe a
    Suez, soggiungendo confidenzialmente che il conte di Montebello
    aveva offerto alla Turchia tutto l'appoggio della Francia per quelle
    misure che giudicasse necessario prendere in vista di un tal fatto.
    Era cotesta una maniera di spingere la Porta a una decisione
    irriflessiva. Il Gran Visir dubitava egli stesso dell'esattezza di
    tale notizia; ma non poteva non esserne preoccupato. Il Sultano
    pareva allarmatissimo, e durante il pranzo ha parlato continuamente
    con l'Ambasciatore di Germania. Radowitz non ha mancato di fargli
    osservare che la notizia, venendo da fonte che non offre garanzie
    d'imparzialità, non poteva essere accettata senza controllo,
    e che prima di emettere un giudizio qualunque bisognava assicurarsi
    della sua esattezza; in ogni caso la sua opinione personale era che
    la politica italiana escludeva qualsiasi attentato
    all'integrità dell'Impero Ottomano e ai diritti del Sultano.
    Coteste parole hanno contribuito a calmare lo spirito di Sua
    Maestà.
    
    15 aprile. - Photiadès-pascià m'informa di essere
    stato interpellato da Costantinopoli circa l'invio a Suez di
    ottomila soldati nostri sotto il comando del generale Saletta. Egli
    avrebbe smentito la notizia soggiungendo che si tratta del ritorno
    delle truppe da Massaua. L'insinuazione sarebbe stata fatta dal
    vice-console francese a Massaua.
    
    3 giugno. - Il conte Solms m'informa di un colloquio tra il conte di
    Bismarck e l'ambasciatore di Francia a Berlino, signor Herbette.
    Rispondendo alla domanda che la Germania concorra alla sola
    esposizione di belle arti del 1889, il Conte si sarebbe rifiutato
    con parole assai vive. Egli avrebbe detto che il governo francese
    sarebbe impotente a tutelare l'ospitalità dovuta ai tedeschi.
    Se i francesi li oltraggiassero e maltrattassero le loro opere
    d'arte, il governo francese si troverebbe in una posizione
    difficile, e siccome la Germania vuole conservare lo stato di pace
    tra le due nazioni, è meglio evitare ogni occasione di
    dissidio. Dopo i casi di Belfort, i tedeschi non sono punto sicuri
    in Francia e fanno male ad andarvi; si troverebbero più
    sicuri ed incontrerebbero minori pericoli nel fondo dell'Africa.
    Herbette restò scosso da coteste parole ed esclamò:
    «C'est que vous êtes les vainqueurs et nous les
    vaincus.»
    Il Bismarck rispose che vi erano state altre guerre tra i due paesi,
    e qualche volta furono vinti i tedeschi; ma non avvenne mai quello
    che è avvenuto dopo il 1870, cioè che gli spiriti in
    Francia fossero rimasti così inquieti e molesti da rendere
    difficili le relazioni che sono necessarie tra popoli civili.
    L'Herbette osservò che in Francia vi sono trentamila tedeschi
    che vi fanno affari.
    - Ve n'erano più di trecento mila prima del 1870, -
    replicò il Bismarck, - e tutta cotesta massa di nostri
    concittadini dovette ritirarsi. Desidererei che tra la Francia e la
    Germania vi fosse una muraglia chinese e nessuna ragione di rapporti
    e di dissidi.
    Herbette espresse l'avviso che francesi e tedeschi avvicinandosi e
    frequentandosi, finirebbero per conoscersi e stimarsi. Così
    solo potrebbero cessare i rancori. Ma il conte di Bismarck non nutre
    la stessa speranza.
    Così il colloquio terminò.
    Il Solms torna a parlarmi della favola che le flotte unite di
    Italia, Austria e Inghilterra sarebbero andate a Costantinopoli per
    fare una dimostrazione. Il Radowitz assicura che la notizia a
    Costantinopoli sia stata mandata da Photiadès-pascià.
    Costui sarebbe l'organo, volontario o involontario, delle due
    legazioni di Francia e di Russia presso il Quirinale. Gérard
    e Paparigopoulo sarebbero l'anima di cotesto intrigo.
    
    15 giugno. - Il re Umberto riceve il seguente telegramma:
    «Accablé de douleur je fais part de la mort de mon
    père bien aimé Empereur et Roi Frédéric
    III. Il s'est éteint doucement ce matin à onze heures
    et quart.
    
    Guillaume.»
    
    - Ricevo dal Re questo telegramma:
    
    «La morte dell'Imperatore di Germania mi impone il doloroso
    obbligo di richiamare la di Lei attenzione sui provvedimenti che si
    debbono prendere per questo triste avvenimento.
    Ella avrà notato che in varj giornali e ad epoche diverse si
    è accennato alla probabilità della mia gita a Berlino
    per porgere ancora una prova di amicizia all'Augusto infermo.
    Ciò che io non avrei creduto opportuno vivente l'Imperatore,
    diverrà invece conveniente ed utile dopo la sua morte?
    Certo risponderebbe ai sentimenti del mio cuore e forse al delicato
    sentire del Popolo Italiano, che io rendessi questo estremo onore a
    chi fu per lunghi anni il migliore amico mio e dell'Italia.
    Ma poichè il sentimento non dev'essere la sola e precipua
    guida delle decisioni di Stato, è dovere nostro di ponderare
    se le considerazioni politiche conducono alla stessa risoluzione.
    Non nascondo che non mi sentirei molto propenso a far il primo la
    visita al nuovo Imperatore, che è più giovane di me e
    che non ha ancora avuto occasione di compiere atti dai quali tragga
    speciale autorità.
    D'altra parte, però, non mi rifiuterei al sacrifizio di un
    viaggio a Berlino, se con questo avessimo la certezza di raggiungere
    lo scopo di rendere saldi ed intimi i nostri rapporti anche col
    nuovo Imperatore e di dargli nel tempo stesso occasione di
    ricambiarci la visita in Roma nell'epoca che Ella preventivamente
    stabilirà col P.pe di Bismarck.
    Questo scopo è di fronte alle Potenze Europee pienamente
    coperto dalla nota mia amicizia con Federico Guglielmo e dalla mia
    intimità colla sua famiglia.
    La prego di considerare tutto ciò e di telegrafarmi se Ella
    crede necessario il mio viaggio nell'interesse del Paese; ed in caso
    affermativo, se Ella pensi di poter stabilire preventivi accordi col
    principe di Bismarck.
    In qualunque ipotesi Le sarò grato se vorrà
    sollecitamente telegrafarmi le sue proposte.
    Ho telegrafato direttamente all'Imperatore di Germania le mie
    condoglianze.
     La prego, malgrado ciò, di volere esprimere in nome mio
    i sentimenti di rammarico all'ambasciatore conte Solms.
    Le stringo la mano
    
    Aff.mo
    Umberto».
    
    - Mia risposta al Re:
    
    «Il consiglio dei ministri esprime la sua ammirazione per lo
    slancio generoso del cuore di V. M. Il Consiglio però fu
    unanime nell'avviso che politicamente non convenga che il Re
    d'Italia vada a Berlino, sopratutto perchè i funerali
    dell'imperatore Federico, per espressa volontà del defunto,
    saranno fatti in forma privata, senza l'intervento di principi
    esteri o di missioni speciali.
    Una visita a Berlino sarà argomento da trattarsi a tempo
    debito e quando le convenienze delle due Corti e dei due paesi
    permetteranno».
    
    - Telegrafo al principe di Bismarck:
    «Le malheur qui frappe votre pays plonge aussi l'Italie dans
    le deuil.
    Quoique prévue et redoutée depuis long temps, cette
    fin tragiquement simple et grandiose est un coup cruel pour nos
    souverains qui perdent un ami éprouvé, pour la nation
    italienne qui voyait en Frédéric III la
    personnification sympathique et vénérée de la
    glorieuse nation allemande, sa fidèle alliée. Le
    Gouvernement du Roi transmet, par mon entremise, à Votre
    Altesse et au Gouvernement Impérial et Royal les expressions
    d'une douleur profonde et les vœux les plus ardents pour la
    prospérité du nouveau Règne. Je prie Votre
    Altesse de recevoir personnellement l'assurance de la part
    très-sincère et très-large qui je prends
    à sa douleur. Il faut toute la force d'âme dont Votre
    Altesse a donné tant de preuves pour supporter avec
    fermeté des pertes si rapprochées et si
    douleureuses.»
    
    16 giugno. - Ricevo questa risposta:
    «En ces temps de douleureuses épreuves que traverse
    l'Allemagne, les paroles si sympathiques que Votre Excellence vient
    de me transmettre et que j'ai fait connaitre
    aux membres du gouvernement Impérial, ont apporté des
    consolations qui nous aident à supporter les grandes douleurs
    qui depuis trois mois se sont appesanti sur l'Allemagne. Les
    sentiments du noble peuple italien qui se confondent en ce moment
    avec les nôtres dans le mêmes regrets et les mêmes
    espérances, trouveront un écho reconnaissant dans tous
    les cœurs allemandes; les condoléances que votre Excellence
    m'adresse personnellement m'ont profondément touché.
    Elle voudra bien ne pas en douter et croire à la
    sincérité de ma gratitude et de mon affection.
    
    De Bismarck.»
    
    - Visita di Solms: Ringraziamenti per le parole pronunziate alla
    Camera e al Senato per la morte dell'Imperatore Federico. Il Solms
    fa gli elogi del nuovo Imperatore.
    In conseguenza della rottura di relazioni dell'Italia col Sultano di
    Zanzibar, il conte di Bismarck ha sospeso l'invio a quel Sultano
    della decorazione decretatagli. Aspetterà l'accordo.
    
    17 giugno. - L'ambasciatore Rascon mi partecipa la costituzione del
    nuovo ministero spagnuolo. Moret ha il portafoglio dell'interno, e
    il marchese de la Vega quello dell'estero. Il gabinetto ha un colore
    più democratico.
    
    24 giugno. - Visita di de Moüy: mi parla delle tasse a Massaua,
    e gli rispondo sostenendo il nostro diritto, non vigendo più
    colà le Capitolazioni pel fatto della nostra conquista.
    Sostenni questa tesi col Gérard l'estate scorsa, a proposito
    del giudizio contro un greco.
    
    
    
    Capitolo Nono.
    
    Un altro incidente franco-italiano.
    
    La questione con la Francia per le tasse di Massaua: tre Note
    diplomatiche di Crispi sui diritti dell'Italia e sulle vessazioni
    francesi. - Le Potenze danno causa vinta all'Italia. - Dal Diario di
    Crispi: Spagna e Vaticano. - Un allarme del re Luigi di Portogallo
    pel viaggio dei Sovrani italiani in Romagna. - Seconda visita di
    Crispi al principe di Bismarck. - Il Gran Cancelliere austriaco
    incontra Crispi a Eger.
    
    La questione accennata dal de Moüy e sollevata poi dal governo
    francese per l'applicazione a Massaua delle tasse municipali a tutti
    i suoi abitanti, italiani e stranieri, offrì un'altra prova
    della tendenza della Francia a cercare pretesti di litigi
    coll'Italia.
    Crispi fu accusato di essere un provocatore, di obbedire così
    agendo alla volontà del principe di Bismarck che voleva la
    guerra, di dare alla triplice alleanza un atteggiamento inquietante.
    Per molti anni la stampa francese e quella parte della stampa
    italiana che le faceva eco, hanno ricamato su cotesto tema, e si
    continua ancora in pubblicazioni recentissime a dipingere un Crispi
    di maniera, arrogante, dalle passioni autoritarie, precipitoso nei
    giudizi23.
    Quanta giustizia contenessero tali accuse, può rilevarsi
    dall'incidente per le tasse di Massaua.
    Il fatto che vi dette occasione e gli argomenti messi in campo dal
    ministro Goblet, succeduto al Flourens, per contrastare l'esercizio
    della sovranità dell'Italia su quella terra già
    bagnata da tanto sangue italiano, si desumono dai documenti che
    riferiamo.
    In tre Note, due del 25 e una del 31 luglio, dirette agli
    ambasciatori per essere comunicate alle Cancellerie delle grandi
    Potenze, Crispi combatteva le obiezioni francesi. Le riassumiamo:
    
    «Il generale comandante superiore a Massaua, per sopperire in
    parte alle spese d'igiene, illuminazione, ecc., ha imposto il 30
    maggio scorso, a tutti i proprietari di immobili e a tutti i
    commercianti della città, nazionali e stranieri, una tassa
    variante da 2 a 7 lire al mese. Un'altra ordinanza, data con lo
    stesso scopo il 1 giugno, ha sottoposto ad una tassa di patente le
    rivendite di bibite, di commestibili, ecc. Ventitrè
    commercianti, tra i quali, oltre due francesi, uno svizzero e venti
    greci che nell'assenza di un console della loro nazione godono della
    protezione del vice-console di Francia, solo Agente straniero che vi
    sia a Massaua (tale è lo stato delle cose da noi trovato al
    momento della nostra occupazione), hanno rifiutato di pagare.
    Il governo francese sostiene i loro reclami e ci contesta il diritto
    d'imporre tasse sui suoi nazionali e protetti, invocando le
    capitolazioni esistenti a Massaua.
    Data e non concessa l'ipotesi dei nostri avversari, che a Massaua
    vigano le capitolazioni, saremmo obbligati a non sottoporre ad una
    tassa, di natura municipale, i soggetti e i protetti stranieri senza
    il consenso dei loro governi?
    Vediamo quello che avviene a questo proposito nelle antiche
    provincie ottomane, sebbene esse si trovino giuridicamente in
    condizioni ben diverse da Massaua, e anche nei paesi di
    capitolazioni. Nella Bosnia-Erzegovina tutti i privilegi fiscali e
    comunali in favore degli stranieri sono scomparsi al momento
    dell'occupazione austro-ungarica. A Cipro la facoltà
    d'imporre tasse sugli stranieri è limitata dai trattati di
    commercio con la Turchia e non dalle capitolazioni. La Bulgaria, che
    ha ora creato i municipii, ha dovuto imporre tasse comunali, contro
    le quali le Potenze europee non hanno fatto obiezioni.
     L'Egitto ha promulgato una legge che sottopone tutti gli
    stranieri ad una tassa di patente, e sinora nessun governo ha fatto
    rimostranze al Cairo. La Sublime Porta ha tentato di applicare
    cotesta tassa di patente nel territorio dell'impero; i
    rappresentanti delle grandi Potenze, pure riconoscendo la violazione
    delle capitolazioni, non hanno fatto opposizioni di principio e si
    sono limitati a volerne regolata l'applicazione. A Tunisi il
    Municipio, creazione francese, percepisce le tasse.
    Ma l'ipotesi che a Massaua vigano le capitolazioni non regge.
    Innanzi tutto la Turchia non ha mai esercitato a Massaua
    un'autorità incontestata, e i tribunali ottomani non vi hanno
    mai funzionato; ma se pure vi fossero esistite, esse sono venute
    meno dopo l'occupazione italiana. Allorquando una nazione cristiana
    amministra un paese musulmano, le capitolazioni non hanno più
    ragion d'essere. Le capitolazioni sono possibili quando tra due
    popoli, dei quali l'uno si è stabilito nel territorio
    dell'altro per esercitarvi la sua attività commerciale,
    esiste una grande differenza di religione, di costumi, di leggi e di
    consuetudini. Senza garenzie eccezionali, a cominciare
    dall'introduzione della giustizia nazionale, non vi sarebbe per gli
    stranieri alcuna sicurezza nè per le persone, nè per i
    beni. Or questa non è certamente la condizione delle cose a
    Massaua dove un'amministrazione regolare, la quale presenta tutte le
    desiderabili garenzie d'ordine e d'imparzialità, funziona da
    quasi tre anni. Inoltre a Massaua abbiamo stabilito tasse di natura
    fiscale, come quelle marittime, di porto, di dogana, che sono state
    pagate da tutti indistintamente e senza reclami. Ed è
    avvenuto questo fatto singolare, che i greci i quali ora, per
    pressioni e istigazioni che non vogliamo qualificare, si rifiutano
    di pagare tasse d'interesse locale, hanno tutti ricorso in questi
    ultimi tempi alla giustizia italiana, ovvero ne hanno, senza
    obiezioni, accettato le sentenze.
    Non è, infine, inutile rilevare che il governo ellenico,
    prima di essere stato dalla Francia attirato alla sua tesi, non
    aveva invocato le capitolazioni, ma l'art. 2 del trattato di
    commercio del 1877 tra l'Italia e la Grecia, dove è stabilito
    che «i cittadini dei due Stati saranno perfettamente
    assimilati ai nazionali nel pagamento delle imposte». Le tasse
    in questione, colpendo egualmente 
    gl'italiani e i greci residenti in Massaua, la Grecia ha dovuto
    ammettere il nostro diritto.
    Abbiamo seguito i nostri avversarii sul terreno da loro stessi
    scelto, e confutato i loro argomenti; ma la discussione è
    ormai inutile per noi, giacchè la sovranità
    dell'Italia su Massaua è effettiva e incontestabile.
    L'Italia occupò Massaua il 5 febbraio 1885 in circostanze che
    meritano di essere ricordate.
    Dinanzi ai progressi minacciosi dell'insurrezione mahdista, l'Egitto
    concentrava le sue forze e richiamava le guarnigioni lontane.
    Massaua posta al di là della linea di difesa adottata dal
    governo Kediviale, doveva essere evacuata. Invitata ad occuparla, la
    Turchia si rifiutò, e con tale rifiuto rinunciava
    implicitamente ai diritti, molto incerti del resto, che si era
    attribuiti su quel punto importante del mar Rosso.
    Massaua, così abbandonata, stava per essere esposta al doppio
    pericolo di cadere in balìa dell'insurrezione mahdista o
    nell'anarchia. Nell'interesse generale bisognava che una Potenza
    occupasse quella città e la difendesse, occorrendo. L'Italia
    era pronta; ella possedeva uno stabilimento coloniale non lontano di
    là, che poteva essere a sua volta minacciato. Gli Stati amici
    vedevano senza dispiacere e gelosia, anzi forse con soddisfazione,
    estendersi la sua autorità sulle rive del mar Rosso.
    L'occupazione di Massaua fu decisa....
    L'Italia non solamente occupò Massaua quando, pel ritiro
    degli egiziani e per l'abbandono della Porta, ogni autorità
    vi cessava, ma cominciò subito a esercitarvi i diritti
    afferenti alla sovranità. Dieci mesi non erano trascorsi che
    tutti i servizi pubblici si trovavano nelle nostre mani e
    scomparivano le ultime tracce dell'occupazione precedente....
    L'occupazione di Massaua fu portata alla conoscenza delle grandi
    Potenze da due telegrammi del 9 e del 13 febbraio 1885....
    D'altronde i reclami non ci vengono dalla Turchia, la quale, dopo
    aver fatto per un momento delle riserve, si adattò al fatto
    compiuto. Non vogliamo citare di questo altra prova che il testo,
    emendato dalla Porta, della Convenzione pel Canale di Suez dove,
    all'art. 10, è riconosciuto che la Turchia non ha nel mar
    Rosso altre possessioni che sulla costa orientale.
    Le obiezioni, ci vengono, come sempre, dalla Francia,
    che ha saputo attrarre la Grecia nell'orbita dei suoi reclami, dalla
    Francia, alla quale i progressi pacifici della nazione italiana
    sembrano una diminuzione della sua propria potenza ed
    autorità, come se il continente africano non offrisse
    sufficiente posto all'attività e alla legittima ambizione
    civilizzatrice di tutte le Potenze che ne occupano i confini.
    
    31 luglio. - Col dispaccio che ho indirizzato a V. E. il 13
    corrente, e cogli altri due successivi del giorno 25, dei quali l'ho
    autorizzata a dar lettura e lasciar copia a codesto ministro degli
    affari esteri, parmi aver dimostrato all'evidenza il buon diritto
    dell'Italia su Massaua, e come la Francia, senza alcun plausibile
    motivo, avesse tentato di sollevare contro noi la questione delle
    capitolazioni, le quali in quel territorio posseduto da Potenza
    cristiana e civile non possono essere invocate.
    Rimane ora a far conoscere quale sia stato costantemente il contegno
    degli agenti francesi a Massaua fino dai primi giorni della nostra
    occupazione, poichè è da quel contegno che si
    originarono le presenti difficoltà.
    Gioverà premettere che la Francia è la sola Potenza
    che mantenga una rappresentanza a Massaua, benchè non abbia
    colà interessi commerciali, e solo due sudditi francesi vi si
    trovino da pochi mesi esercitandovi il piccolo commercio.
    La sua rappresentanza non ha dunque evidentemente che uno scopo
    politico. Vuolsi che essa si colleghi ad una missione di lazzaristi
    residenti in Abissinia, ma il contegno dei suoi agenti lascia pur
    troppo supporre che ben diverso e più vasto ne sia
    l'obbiettivo.
    Al momento della nostra occupazione noi non abbiamo trovato a
    Massaua alcun agente consolare francese, e solo otto mesi dopo, e
    propriamente il 20 ottobre 1885, quando gli egiziani, abbandonando
    quella località, ce ne lasciavano il pieno dominio, giunse
    colà un signor Soumagne, il quale si disse vice-console di
    Francia.
    Scambiate le visite colle nostre autorità, più che di
    mantenere con esse quei rapporti di cordiale amicizia che avrebbero
    dovuto essere scopo precipuo della sua presenza a Massaua, pare egli
    si preoccupasse di stringere
    legami coll'Abissinia. Lo vediamo infatti recarsi nella primavera
    seguente ad Adigrat, dove si incontra con Ras Alula, e pochi mesi
    dopo, nell'agosto del 1886, ad Adua per ossequiarvi il re Giovanni.
    E de' suoi intimi rapporti col Negus egli stesso teneva discorso col
    Comandante superiore delle nostre truppe, al quale confessava di
    aver proposto al Re di stringere colla Francia formale trattato; del
    quale trattato la clausola più importante, come si venne poi
    a conoscere da altra fonte, sarebbe stata la protezione della
    Francia, accordata all'Abissinia contro qualsiasi Potenza.
    Questi segreti rapporti e maneggi del rappresentante di Francia col
    Negus e con Ras Alula autorizzarono il sospetto che egli intrigasse
    contro di noi, sicchè quando per motivi di salute, ottenuto
    un congedo, lasciava Massaua, nel marzo del 1887, quelle
    autorità ebbero a rallegrarsene come dell'allontanamento di
    persona non amica.
    Ma pur troppo dalla sua non dissimile doveva essere la condotta del
    suo successore, certo signor Mercinier, commesso del consolato
    francese in Alessandria, che il signor Soumagne prima di partire
    presentava al Comandante in capo come incaricato di reggere
    provvisoriamente il vice-consolato di Francia.
    Anzi da quell'epoca ebbe principio una serie non interrotta di
    reclami e di difficoltà sollevate dal nuovo rappresentante
    francese, il quale non perdeva occasione di ingerirsi
    inconsultamente anche negli affari che non lo riguardavano.
    Così egli teneva nel suo ufficio un registro aperto a tutti
    coloro che volevano farsi inscrivere tra i protetti, ed aveva
    rilasciato patenti di protezione, non solo a Greci, ma anche a
    Persiani, Turchi, Svizzeri e perfino ad un cittadino nord-americano,
    e quella protezione pareva accordasse più segnatamente a
    tutti coloro che avevano relazioni coi nostri nemici.
    Inutile qui far menzione dei reclami e delle proteste elevate
    sistematicamente dal signor Mercinier contro pressochè tutti
    i provvedimenti adottati dalle autorità italiane di Massaua,
    fino a minacciare che userebbe la forza contro le nostre
    autorità e ad istigare alla resistenza ed all'aperta
    ribellione, come ha fatto ultimamente in occasione delle tasse
    municipali alle quali
    erano stati sottoposti tutti, senza distinzione di
    nazionalità, gli abitanti del paese. Inutile pure far parole
    degli abusi di autorità da lui commessi, abusi che giunsero
    fino a minacciare d'infliggere multe ed anche di espellere da
    Massaua coloro fra i protetti che non avessero obbedito ai suoi
    ordini ed avessero pagate le tasse suddette.
    Questo contegno continuamente ed apertamente ostile degli agenti
    francesi, e la necessità di mantenere l'ordine in una piazza
    forte ed in un territorio dove vige tuttora lo stato di guerra, in
    faccia ad indigeni che dobbiamo amministrare ed a stranieri che vi
    frequentano, ci hanno costretti a non tollerare più oltre il
    signor Mercinier nella assunta sua qualità di reggente il
    vice-consolato di Francia. Non potendo esser questione di ritirare
    l'exequatur a un funzionario il quale provvisoriamente suppliva ad
    un vice-console che non ne era munito dal regio governo, il generale
    Baldissera dovette naturalmente limitarsi a fargli noto (il 23
    luglio) che non avrebbe più avuto relazioni con lui.
    Appena occorre, poi, avvertire che al signor Mercinier, tornato
    così privato cittadino, non poteva essere consentito di
    corrispondere in cifra col suo governo, questo metodo di
    corrispondenza essendo vietato a Massaua a qualsiasi privato.
    Ho stimato opportuno d'informare di questi fatti V. E.,
    affinchè ne possa trarre norma di linguaggio nelle sue
    eventuali conversazioni, su tale argomento, con codesto ministro
    degli Affari esteri.»
    
    È naturale che il ministro Goblet24 non si arrendesse alle
    argomentazioni del governo italiano e che sull'on. Crispi si
    rovesciasse l'ira della stampa francese. Ma Crispi fu inflessibile.
    Aggredito, difese la posizione senza eccessi verbali, ma
    energicamente. Portò la contesa dinanzi alle Cancellerie
    europee; dimostrò che la Francia sosteneva una tesi sbagliata
    e che, non questioni di principio o di dignità la movevano,
    ma bensì il dispetto per lo spirito d'indipendenza che
    animava la politica italiana.
    Come risulta dai documenti che seguono, l'Europa dette ragione a
    Crispi, il quale, dopo ottenuto tale consenso, chiuse la vertenza
    dichiarando che non avrebbe più risposto al signor Goblet.
    
    «Parigi, 25 luglio 88.
    
    Oggi Goblet si lamentò con me perchè V. E. non aveva
    potuto ricevere ancora il signor Gérard e perchè il
    comandante militare di Massaua aveva dichiarato al signor Mercinier
    di cessare di considerarlo come rappresentante della Francia, non
    essendo egli provveduto d'alcun exequatur regolare. Mi parve venuto
    il momento di dare al signor Goblet conoscenza della sostanza dei
    due ultimi telegrammi di V. E. relativi all'incidente di Massaua, ma
    le buone ragioni svolte dall'E. V. non valsero a rimuovere Goblet
    dalle sue prime idee. Egli persiste ad invocare le capitolazioni che
    noi non riconosciamo, ed a pretendere che ogni atto coattivo per far
    pagare la tassa doveva cessare dopo la protesta inoltrata contro la
    medesima; mentre noi riteniamo che anzitutto si doveva obbedire alle
    autorità governative, salvo ad esaminare dopo le proteste.
    Goblet si animava sempre più, mentre io prontamente
    dichiarava che, visto assoluta divergenza sui due punti capitali
    anzi accennati, io non poteva continuare la discussione, che avrebbe
    finito per sviare. Goblet fra altre cose mi disse che la Francia era
    disposta condiscendere ai nostri desideri in cambio di qualche
    concessione per parte nostra. Non mi disse quale, ma suppongo che
    alludesse alla Tunisia, giacchè questo ambasciatore
    d'Austria-Ungheria che aveva avuto una conversazione in proposito,
    mi disse riservatamente che Goblet aveva nel suo discorso, parlando
    di Massaua, fatto anche allusione alla Tunisia.
    Mi si assicura che a questo Ministero degli Affari esteri si
    è alquanto preoccupati del contegno della Grecia, dalla quale
    da più giorni non si hanno comunicazioni....
    
    Menabrea.»
    
    «Londra, 26 luglio.
    
    Salisbury m'ha detto aver già dichiarato all'ambasciatore di
    Francia e quindi all'ambasciatore di Germania, che, secondo il
    governo inglese, allorquando un paese musulmano è
    amministrato da una nazione cristiana civile, le capitolazioni non
    hanno più ragione d'essere. Avendo proposto a Salisbury di
    firmare sul momento un documento analogo a quello tra l'Inghilterra
    e l'Austria-Ungheria, Sua Signoria mi manifestò la fiducia
    che l'E. V. sarebbe senz'altro soddisfatta della dichiarazione
    chiara ed esplicita che mi aveva fatto.
    
    Catalani.»
    
    Lettera di lord Salisbury al comm. Catalani, del 29 luglio 1883:
    
    «Ella mi chiese l'opinione del governo della Regina rispetto
    l'obbligo delle capitolazioni nei territori i quali, come Massaua,
    sono stati sotto un'amministrazione musulmana, ma che più non
    vi sono sottoposti. La mia risposta è la seguente. L'opinione
    del governo della Regina è contraria alla validità
    delle capitolazioni in tal caso. Le capitolazioni debbono la loro
    origine alla difficoltà di adattare le singolarità
    della legge e dell'amministrazione musulmana ai negozianti che fanno
    il commercio coi paesi cristiani; quindi nei territori che sono
    giunti ad esser sottoposti all'amministrazione di un governo
    cristiano, come quello d'Italia, le capitolazioni cessano d'essere
    applicabili e perdono la ragione d'essere.»
    
    «Roma, 1 agosto.
    
    A S. E. il Cav. Nigra,
    
    Signor Ambasciatore, V. E. mi ha fatto conoscere che S. E. il conte
    Kálnoky, in risposta alla domanda che gli ha indirizzata in
    nome del governo del Re, ha
    dichiarato che il governo I. e R. Austro-Ungarico ritiene le
    capitolazioni inapplicabili a Massaua e che per conseguenza i
    sudditi austro-ungarici dovranno sottomettersi alla legislazione ivi
    vigente.
    Invito V. E. a informare il governo I. e R. Austro-Ungarico che il
    governo del Re prende atto di codesta dichiarazione, e la prego di
    volerne ringraziare S. E. il conte Kálnoky.
    
    Crispi.»
    
    Infine, i tentativi fatti dalla Francia per indurre la Turchia a
    protestare contro l'Italia, fallirono. Il signor di Radowitz
    telegrafava il 6 agosto aver l'impressione che la Porta non si
    sarebbe fatta influenzare dalla Francia, e che egli aveva dichiarato
    al Sultano che se avesse servito la politica della Francia e della
    Russia, non poteva nello stesso tempo rimanere amico dalla Triplice.
    
    Dal Diario:
    
    11 luglio. - Visita del conte Solms: questione dei passaporti per i
    missionari in Cina. La Germania segue la nostra politica. Ha
    prevenuto il governo del Celeste Impero affinchè non permetta
    che i cattolici tedeschi vi siano ricevuti con passaporti non
    tedeschi.
    Durante la visita delle squadre a Barcellona, fu tenuto un
    banchetto, al quale intervennero l'ambasciatore d'Italia, Tornielli,
    e l'ambasciatore di Francia, Cambon. Facendo un brindisi, il
    ministro spagnuolo non ricordò la Francia. Si alzò il
    Tornielli e riparò all'omissione. Dopo questo brindisi
    avvenne il riavvicinamento delle squadre italiana e francese.
    
    28 luglio. - Solms: esprime la speranza che la questione con lo
    Zanzibar sia risoluta amichevolmente. La Germania non fa obbiezioni
    che l'Italia acquisti colà dei terreni. Ricordo il contegno
    seguito dal Cecchi, le scuse del Sultano, e manifesto la speranza di
    un amichevole componimento.
    Massaua. La Germania compromessa nella questione di diritto, avendo
    sostenuto la tesi contraria alla nostra.
    Pronta a rinunziare alle capitolazioni, finchè gl'italiani
    siano a Massaua.
    
    3 agosto. - L'ambasciatore a Madrid, conte Tornielli, ha conferito
    col ministro de la Vega de Armijo sulla Circolare Rampolla relativa
    alla cosidetta Conciliazione tra l'Italia e il Vaticano.
    «Appena il Nunzio Mons. di Pietro entrò nell'argomento
    lo interruppi - gli ha riferito il Ministro - dicendogli:
    «Non venga, Mgre, a parlarmi della necessità in cui si
    troverà il Papa di andar via da Roma. Vi sono due cose
    ugualmente impossibili, la partenza del Papa dal Vaticano e la
    sortita degli Italiani dalla loro Capitale. Gl'incidenti che possono
    creare qualche difficoltà, non renderanno mai possibili le
    cose impossibili. Miglior consiglio sarebbe acconciarsi in pace ai
    fatti compiuti.» Poi, soggiunsemi il Mse de la Vega de Armijo,
    la conversazione fu da lui portata sovra le provocazioni che negli
    ultimi tempi non erano mancate per parte della Santa Sede e che
    doveano necessariamente aver prodotto qualche risentimento
    nell'opinione pubblica in Italia. Prima di lagnarsi della sua
    situazione, la Santa Sede avrebbe dovuto evitarsi il rimprovero di
    aver eccitato il clero alla resistenza circa l'applicazione della
    legge sulle decime, e nella sua condotta politica il Vaticano
    avrebbe potuto evitare il dispetto provato dell'amicizia intima
    stabilitasi fra l'Italia e la Germania. Pare che il Nunzio, il quale
    in verità non suole mettere insistenza molta in siffatte
    comunicazioni, lasciasse tosto cadere il discorso e che più
    non abbia tentato di ripigliarlo in altro giorno.
    
    6 agosto. - Solms mi comunica che il console tedesco a Zanzibar ha
    annunziato essere quel Sultano pronto a recarsi al Consolato
    italiano ed anche a bordo dell'Archimede per offrire le sue scuse al
    governo italiano. Avverto il Conte che l'affare sta per essere
    composto.
    
    8 agosto. - Solms mi legge un telegramma di ier sera del principe di
    Bismarck. Il Principe accoglierà con gioia una mia visita a
    Friedrichsruh. Egli non può muoversi da quella sua residenza,
    e quest'anno non potrebbe recarsi a Kissingen.
     Mi legge un dispaccio della Cancelleria sulla visita
    dell'imperatore Guglielmo a Peterhof. La visita avrebbe tolto ogni
    dubbio e resa più cordiale ed intima l'amicizia dei due
    Sovrani. Non si sarebbe parlato di politica, ma confermata
    l'opinione che la pace sarà conservata. L'imperatore
    Guglielmo ritornò soddisfatto della visita.
    Alla vigilia del viaggio dei Sovrani italiani in Romagna, dove non
    si erano mai recati pel pregiudizio che quella regione fosse
    pericolosa e inospitale per i principii repubblicani che vi erano
    largamente diffusi, l'on. Crispi, che quel viaggio aveva consigliato
    sfidando gli asseriti pericoli, ebbe dal re Luigi di Portogallo,
    padre dell'infelice re Carlo, l'avviso che un attentato anarchico
    minacciava la vita di Umberto:
    
    «Berlino, 12/8/88.
    
    Ho visto or ora il Re di Portogallo che aveva premura incontrarsi
    con me, per dirmi sapere egli da «fonte certa che in occasione
    del prossimo viaggio del nostro augusto sovrano nelle Romagne si
    stava preparando un attentato a Bologna o altrove.»
    Profittando del momento in cui la folla circonderebbe gli equipaggi
    reali, i congiurati farebbero risuonare in mezzo alle acclamazioni
    il «viva la repubblica, abbasso il Re» e farebbero uso
    del revolver contro S. M. Sarebbe in qualche modo un'edizione
    riveduta e corretta, e meglio calcolata dell'attentato di Passanante
    a Napoli. Chiesi al Re di Portogallo se era in grado di fornirmi
    particolari ancora più precisi e sopratutto di dirmi onde gli
    era venuto un simile avviso. S. M., senza spiegarsi altrimenti,
    ripetevami tenere la cosa da «fonte certa», aggiungendo
    che si doveva comprendere il suo vivo desiderio che l'avvertimento
    ne fosse dato a chi di ragione. Il Re era assai commosso nel
    parlarmi. Io non lo sono meno nel comunicare quanto precede a V. E.
    come ho promesso di farlo, affinchè tutte le precauzioni
    siano prese a tempo per scongiurare il complotto e preservare una
    esistenza altrettanto preziosa quanto necessaria per l'Italia.
    
    Launay».
    
    «13/8/88.
    
    Launay, ambasciatore d'Italia,
    
    Berlino.
    
    Re Luigi avrebbe fatto cosa utile se invece di parlare dei modi con
    cui il complotto dovrebbe effettuarsi, avesse rivelato la
    «fonte certa» donde gli venne la notizia. Il mistero nel
    quale si è avvolto mette il dubbio negli animi, ma non
    dà le fila per giungere alla scoperta del supposto reato.
    Il governo ha già preso tutte le precauzioni perchè
    tutto proceda regolarmente.
    
    Crispi.»
    
    «Berlino, 13/8/88.
    
    Re di Portogallo, cui feci oggi di nuovo visita per ottenere
    maggiori schiarimenti, mi disse di non poterne dare essendo legato
    dal vincolo del secreto da chi teneva le notizie del complotto; ma
    che nel nostro primo incontro aveva già dato tutti i
    ragguagli, tali quali li aveva saputi da persona meritevole di ogni
    fede.
    Quella persona gli riferì quanto venne a sua conoscenza dopo
    aver preso lettura di lettere indirizzate forse da Parigi da capi
    socialisti a comitati rivoluzionari delle Romagne. S. M. ebbe in
    altre circostanze e dalla stessa persona avvisi preventivi sopra
    movimenti che si preparavano in Spagna e che si verificarono
    esattamente. Il Re Don Luigi ha aggiunto che la fonte può
    dunque dirsi sicura e che egli adempiva affettuoso dovere nel dare
    quell'avvertimento.
    
    Launay.»
    
    «13/8/88.
    
    Conte Nigra ambasciatore d'Italia,
    
    Vienna.
    
    (Personale riservato). - Il Re di Portogallo parlò
    misteriosamente a Launay a Berlino di una cospirazione contro la
    vita del nostro augusto sovrano che si spiegherebbe
    in Bologna od in altra città in occasione delle prossime
    manovre militari nelle Romagne.
    Ho ragione di credere e i miei agenti me lo confermano, che nulla
    abbia a temersi per la nostra gloriosa e patriottica dinastia.
    Prego in ogni modo V. E. voler avvicinare Re Luigi e stringerlo a
    rivelarci la fonte dalla quale ebbe la notizia, cosicchè io
    possa giudicare della sua attendibilità, e fare le necessarie
    indagini per giungere anche, ove ne sia il caso, a scoprirne gli
    autori.
    Il silenzio da parte di S. M. Portoghese non sarebbe scusabile.
    Poichè ha gettato il dubbio nell'anima nostra, ci apra la
    porta alla scoperta della verità.
    
    Crispi.»
    
    «Vienna, 13/8/88.
    
    (Confidenziale-riservatissimo). - Il Re di Portogallo deve essere in
    Vienna soltanto il 18 corrente. Mi troverò alla stazione,
    domanderò udienza e farò a Sua Maestà
    Fedelissima la commissione di cui V. E. mi ha incaricato. Intanto V.
    E. prenderà senza fallo ogni debita precauzione, ma deve
    sapere che il Re Luigi è pieno di misteri che spesso non
    esistono.
    
    Nigra.»
    
    «13/8/88.
    
    R. Ambasciata Italiana,
    
    Parigi.
    
    Per rivelazioni di un alto personaggio sappiamo essersi combinato da
    alcuni socialisti francesi, d'accordo con quelli delle Romagne, un
    complotto contro la vita del Re in occasione delle prossime manovre
    militari e della visita reale in alcune città di quelle
    provincie.
    Siccome le cose inverosimili sono anch'esse possibili, la incarico a
    fare per mezzo dei nostri agenti le indagini opportune per scoprire
    l'attendibilità di tale notizia.
    Le nostre relazioni colla Francia non permettendoci
    di ricorrere a cotesta polizia, anzi potendo questa esserci nemica,
    voglia Ella servirsi di mezzi interamente italiani nella delicata
    missione.
    M'informi di tutto.
    
    Crispi.»
    
    «Vienna, 21/8/88.
    
    Ho chiesto al Re di Portogallo d'indicarmi le fonti e i particolari
    della cospirazione di cui parlò a Launay. S. M. mi disse che
    non poteva svelare quella sorgente che al nostro Re in persona e che
    S. M. la Regina Maria Pia aveva scritto tutto al suo augusto
    fratello.
    Benchè io abbia vivamente insistito, non ho potuto ottenere
    dal Re Luigi altra notizia che quella che la sorgente procede dai
    socialisti di Ginevra e Zurigo.
    
    Nigra.»
    
    14 agosto. - Solms mi dà notizia di un colloquio che il
    signor Raindre, Incaricato d'affari di Francia a Berlino, ha avuto
    col conte di Bismarck.
    Il signor Raindre si è lagnato della diffidenza mostrata dal
    signor Crispi verso la Francia pei suoi reclami contro le tasse
    municipali in Massaua. La Francia non vuole suscitare ostacoli, ma
    desidera soltanto di veder sciogliere una questione di principii.
    Il Bismarck difese la condotta del governo italiano e diede ragione
    della sua diffidenza. Invocò la calma e pregò il
    governo francese di non ingrossare una questione che per sè
    stessa era piccola e di poca importanza. Soggiunse che aveva
    raccomandato la calma anche a Roma.
    Il signor Raindre soggiunse che il governo francese era pronto a
    riconoscere le pretese dell'Italia su Massaua; chiedeva,
    però, che in corrispettivo l'Italia cedesse i suoi diritti su
    Tunisi.
    Il Conte rispose che non potevano confondersi le due questioni, non
    essendo identiche le posizioni dei due governi a Tunisi ed a
    Massaua. Non identiche perchè a Tunisi v'è ancora un
    Sovrano musulmano, e perchè la Tunisia è un gran
    territorio, mentre Massaua è una
    piccola terra. Concluse, rinnovando consigli di prudenza e
    avvertendo che se sorgesse un vero dissidio la Germania sarebbe
    costretta a mettersi dal lato dell'Italia.
    Il Raindre ricordò che le piccole questioni surte sulla
    frontiera tedesca furono facilmente risolute dalle due Potenze. Se
    l'Italia usasse la stessa condiscendenza della Germania, potrebbero
    amichevolmente risolversi le questioni tra essa e la Francia. Al che
    il Bismarck obbiettò che la questione di Firenze e altre di
    minore importanza erano state composte.
    Il conte Solms mi conferma che Kálnoky accetta il principio
    che le Capitolazioni non possono essere applicate a Massaua e che
    gl'italiani hanno diritto ad esercitarvi la loro giurisdizione.
    Salisbury avrebbe scritto all'Incaricato d'Affari della Gran
    Brettagna in Atene che consigli il gabinetto greco a non insistere
    nella sua attitudine e ad accettare per le Capitolazioni a Massaua
    il parere del gabinetto britannico.
    Il direttore del Ministero degli affari esteri di Francia, signor
    Charmes, avrebbe detto a Münster che la Francia vedrebbe di
    buon occhio che l'Italia occupi Tripoli. L'ambasciatore di Germania
    avrebbe risposto che la Francia dà quello che non è
    suo e permette agli italiani ciò che non può proibire.
    
    16 agosto. - Il signor de Meyendorf mi legge una Nota del signor
    Giers in data del 9 agosto (28 luglio, stile russo).
    Il sig. Giers ha ricevuto le due Note italiane del 25 luglio. Sulla
    questione delle Capitolazioni non ha da pronunziarsi. Egli non
    contrasta che l'amministrazione italiana sia migliore della
    musulmana. Non crede però che le Capitolazioni siano venute
    meno pel fatto solo della occupazione italiana in Massaua. Il signor
    Giers ricorda che al 1885 Mancini dichiarò alle Potenze che
    l'Italia era andata in quel territorio a scopo d'ordine e di
    sicurezza e per salvarlo dai mahdisti.
    
    17 agosto 1888. - Alle 9,45 partenza da Roma.
    
    18 agosto. - Arrivo alle 7,40 pom. a Sant'Anna di Valdieri per
    conferire col Re che mi attende sulla terrazza
    della Casina Reale. Si va a pranzo, quindi dalle 9,40 alle 11 e un
    quarto il Re mi dà udienza.
    
    19 agosto. - Mi alzo alle 4,30; non è ancora l'alba. Fo
    toletta, esco e non trovo anima viva. Il cielo è di un puro
    azzurro. Alle 7 il Re scende sulla terrazza; alle 7,15 ant. riparto.
    Giungo alle 8,40 a Cuneo. La città è migliorata di
    molto dal 1849, l'ultima volta che la visitai.
    Giungo a mezzogiorno a Torino; alle 5,30 a Milano; alle 8,15
    partenza pel Gottardo.
    
    20 agosto. - Alle 8,30 del mattino a Basilea; alle 4 pom. a
    Francoforte sul Meno.
    
    21 agosto. - Alle 9,5 ant. da Francoforte, per Hannover a
    Friedrichsruh. A Büchen si trova l'espresso, al quale viene
    attaccato il mio vagone.
    Alle 9,30 si giunge a Friedrichsruh. Gli urrah annunziano che il
    Principe è alla stazione ad attendermi. Scendo, gli dò
    il braccio e saliamo nella vettura che ci trasporta in pochi momenti
    all'abitazione del Principe. La molta gente raccolta ci accompagna
    con applausi e grida «Viva l'Italia».
    La principessa è ai bagni di Homburg. Fa gli onori di casa la
    contessa di Rantzau, figlia del Principe, insieme al marito. I tre
    bambini Rantzau ci danno il benvenuto in italiano.
    Si prende il thè, quindi si vanno a vedere i fuochi
    d'artifizio preparati in mio onore25. Si ritorna in salotto a
    conversare. Si parla della guerra del 1870, del trattato di pace, di
    Nizza, di Garibaldi, dell'imperatrice Eugenia. Il pericolo della
    restaurazione dell'Impero affrettò la firma del trattato.
    Thiers fu minacciato e il piccolo Lulù sarebbe rientrato a
    Parigi alla testa dei duecentomila uomini prigionieri della
    Germania.
    Alle 11 e un quarto andiamo a coricarci.
    
    22 agosto. - Sono in piedi alle 6 e mezza. Alle 11 e un quarto il
    Principe viene nella mia camera. Ha con sè parecchi
    documenti.
    Impegna subito il discorso su Massaua, e spiegando una carta chiede
    di conoscere il luogo dove avvenne l'ultimo fatto d'armi. Egli
    desidererebbe che l'Italia non s'impegnasse molto in quelle
    località, ma si limitasse ai punti fortificati. Dò
    notizie del fatto di Saganeiti, ed egli conviene che non sia stato
    menomato il prestigio delle nostre armi. Dice che anche l'Austria
    teme che ci compromettiamo in Africa.
    Inghilterra: necessità di tenercela amica. Anch'essa
    però ha bisogno di migliorare i suoi armamenti per terra e
    per mare.
    Per lo Zanzibar si conchiude che scriverà a Londra
    perchè Salisbury sciolga lui la questione, o ci lasci le mani
    libere.
    Turchia. Convenienza di non distrarre da noi il Sultano e di
    trattarlo benevolmente.
    Ritorna al suo antico concetto che la Russia in Costantinopoli
    sarebbe più debole. Nei Balcani sarebbe attaccabile e
    potrebbe esservi schiacciata. Non sarebbe lo stesso entro le attuali
    frontiere.
    Francia. Boulanger. Non teme la guerra, ma preferisce la pace.
    Papa. Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. La guerra all'Italia
    gioverebbe a quest'ultima. Partenza del Papa da Roma: andrebbe
    temporaneamente in un convento della Svizzera. Cardinale Schiaffini.
    Agenzie telegrafiche.
    Gli ultimi giorni dell'imperatore Federico - uomo debole - si
    lasciava dominare dalla moglie, la quale subiva alla sua volta il
    dominio della madre: voleva britannizzare tutto. Un giorno ragionava
    coll'Imperatore; eran d'accordo. Giunge la moglie; si manifesta di
    contrario avviso; S. M. volta la testa.
    
    Alle 9 di sera, dopo pranzo, circolo. Vari aneddoti: la guerra del
    '66 - l'Italia debole - il Re vuole andare a Vienna, poscia in
    Ungheria: Bismarck si oppone. Questioni e rimproveri. Egli non volle
    prendere provincie all'Austria, perchè non volle umiliarla.
    Nè umiliata
    in Italia, grazie a Napoleone III, nè umiliata in Germania,
    grazie a Bismarck.
    
    23 agosto. - Alle 8,30 il Principe viene a visitarmi. Mi annunzia di
    aver telegrafato a Londra; teme che lord Salisbury non vi sia.
    Parliamo nuovamente dello Zanzibar. Gli manifesto che farebbe buona
    impressione in Italia se egli accompagnasse a Roma l'Imperatore.
    Risponde esponendomi le ragioni che si opponevano al suo viaggio.
    «Se l'Imperatore mi volesse, andrei con lui; ma bisogna che
    lui mi domandi. Sarei andato in Russia; egli non lo chiese. In
    verità, il giovane Imperatore se la fa meglio con
    Herbert».
    Alle 9,15 il colloquio ha termine.
    Ci disponiamo alla partenza. Commiato cordialissimo. Il Principe, la
    figlia, il genero, i bimbi, sono tutti dinanzi alla casa, dove mi
    attende la vettura. «Arrivederci l'anno venturo». Si
    parte alle 9,30.
    Alle 5,40 pom. siamo a Lipsia.
    
    24 agosto. - Da Lipsia alle 8,40 per Dresda a Karlsbad.
    
    «Vienna, 21 agosto 1888.
    
    Kálnoky ha espresso più di una volta il desiderio di
    incontrarsi con V. E. Declinare questo desiderio non mi sembra
    conveniente. Ad ogni modo se Ella non crede utile il convegno,
    voglia incaricarmi di dirne qualche motivo a Kálnoky.
    
    Nigra.»
    
    «Vienna, 23 agosto 1888.
    
    Kálnoky crede Karlsbad pericoloso perchè vi sono
    troppe conoscenze. Propone a V. E. convegno a Eger, che è
    vicino e là attenderebbe sabato 25 dalle 7 del mattino per
    tutta la giornata all'albergo Wenzel. È urgente che V. E.
    mandi risposta subito.
    
    Nigra.»
    
    «Lipsia, 23 agosto.
    
    Conte Nigra, Ambasciatore d'Italia,
    
    Vienna.
    
    Karlsbad vale Eger. Dovunque avvenga il convegno sarà
    certamente subito conosciuto. Comunque sia, accetto proposta. Mi
    fermerò sabato 25 a Eger e scenderò albergo Wenzel.
    
    Crispi.»
    
    «Wittenberga, 23 agosto,
    
    A Sua Maestà il Re,
    
    Milano.
    
    Ritorno da Friedrichsruh dove sono rimasto dalla sera del 21 sino
    alle 9 di stamane. Il Principe mi ha incaricato dei suoi omaggi per
    V. M. Bismarck ed io siamo stati d'accordo in tutte le questioni. Ho
    trovato in lui non solo il primo ministro di un potente e sicuro
    alleato di V. M., ma un amico nostro fedele e devoto. Sempre agli
    ordini di V. M.
    
    Crispi.»
    
    24 agosto. - Rispondendo ai miei ringraziamenti per l'accoglienza
    fattami, il principe di Bismarck mi telegrafa per confermarmi
    «les sentiments d'amitié personnelle et politique pour
    vous et pour la grande nation dont le gouvernement vous est
    confié par la haute sagesse de votre souverain et dont
    l'alliance avec nous donne une des garanties les plus solides de la
    paix de l'Europe».
    
    25 agosto. - Partenza da Karlsbad alle 8,30 ant. Arrivo ad Eger alle
    10,10. Alla stazione il Cancelliere austro-ungarico conte
    Kálnoky cortesemente mi attende. Andiamo all'hôtel
    Wenzel dove ci tratteniamo a conferire su tutte le questioni del
    giorno. Bulgaria, Tunisia. Turchia; situazione finanziaria di essa,
    che la tiene sotto tutela. Il Sultano, fra i due gruppi se la cava;
    sua abilità.
     Russia: ha la stessa opinione di Bismarck che s'indebolirebbe
    se andasse a Costantinopoli. Al 1877 non poteva più
    continuare la guerra. Difficile ricostruire la flotta nel mar Nero;
    deficienza di personale. Condizioni interne deplorevoli: in Russia
    tutti rubano. Il re di Grecia si dichiarò anti-russo;
    è il suo interesse, non è la politica del suo governo.
    Tricupis liberale; educato alle idee inglesi.
    Germania: l'Alsazia si germanizzerà; non così la
    Lorena; gli alsaziani in Francia. Danni alle fabbriche ed ai
    commerci. L'ultima legge draconiana, ma necessaria. Manteuffel li
    trattava bene, ma in 18 anni non si è riusciti a
    germanizzarli, e si è dovuto cangiar metodo - L'imperatore
    Federico debole di carattere.
    Difficoltà di governo in Austria in conseguenza delle diverse
    nazionalità. Confederazione. Due milioni di rumeni - La
    Rumania non russa; il partito d'opposizione si atteggia a russofilo,
    ma giungendo al potere opererebbe con spirito nazionale - Re Milano
    intelligente. Kálnoky gli ha consigliato di pacificarsi con
    la moglie. Forse il Concistoro non ammetterà il divorzio; se
    l'ammettesse, molte le questioni. Natalia dovrebbe prendere
    l'iniziativa.
    Necessità della nostra unione. Beneficio di essa nelle
    quistioni europee - Il Papa: querimonie; Galimberti - Nel 1849
    l'Austria era disposta a cedere la Lombardia a Carlo Alberto, prima
    della battaglia di Custoza, ma non la Venezia, perchè
    riteneva che essa avrebbe trascinata la Dalmazia, dove lingua e
    tradizioni sono italiane.
    Alle 2,45 pom. dopo cordiale commiato da Kálnoky, riparto per
    l'Italia.
    Lungo la via, da Ratisbona, spedisco il seguente telegramma al Re:
    «Ho passato quattro ore ad Eger col conte Kálnoky
    venuto appositamente da Vienna, e sono assai soddisfatto del
    colloquio avuto. Sempre agli ordini, ecc.
    
    Crispi».
    
    
    
    26 agosto. - Alle 3,45 pom. a Milano; alle 6,30 a Monza dal Re, cui
    fo relazione dei colloqui con Bismarck e Kálnoky; quindi di
    nuovo a Milano.
    
     28 agosto. - Telegrafo all'ambasciatore a Berlino:
    «Parlai col Principe della necessità di associare le
    Agenzie telegrafiche italiana, germanica ed austriaca allo scopo di
    stabilire un servizio in tutta Europa. Il Principe accolse l'idea
    con entusiasmo. Ho parlato oggi a Nigra perchè si adoperi in
    Vienna a fare riuscire tale associazione. Egli pure riguarda
    l'attuazione del progetto come altamente desiderabile e non
    mancherà di fare quanto occorre. Sarà però bene
    che il Principe avvisi il principe di Reuss acciocchè questi
    cooperi con Nigra al successo di questo affare».
    
    La stampa germanica e austriaca rilevò l'importanza della
    visita dell'on. Crispi a Friedrichsruh. Meritano speciale menzione
    le considerazioni fatte dalla National Zeitung nel suo numero del 23
    agosto. Dopo aver constatato che Crispi si era recato a visitare di
    nuovo il principe di Bismarck prima che il termine di un anno dalla
    prima visita fosse spirato, l'articolo esprimeva l'avviso che fra le
    tre Potenze alleate, l'Italia si trovava allora nella posizione
    più esposta. "L'Austria ha da fare con una potenza la cui
    politica estera è diretta da diplomatici di carriera che non
    si lasciano troppo sopraffare dalle passioni popolari e che danno
    fondate speranze di saper tutelare gli interessi dell'Impero degli
    Czar senza trascurare i necessari riguardi verso gli interessi
    vitali del paese vicino. In Francia il governo trovasi, invece, in
    mano di uomini come Floquet e Goblet, il cui sovrano è
    l'"aura popolaris", di semplici tribuni privi di sangue freddo e di
    moderazione, e assolutamente dipendenti dal favore di un popolo
    così vano, ardente, bellicoso, quale il francese. E un simile
    stato di cose non potrebbe che peggiorare in seguito ad un
    cambiamento di governo, che mettesse la cosa pubblica nelle mani del
    generale Boulanger. Per quante dichiarazioni pacifiche egli abbia
    fatte recentemente, il suo passato e l'appoggio degli chauvins
    più accaniti lo costringerebbero ad assumere un'attitudine
    provocatrice, sia che egli diriga lo sguardo verso l'Alsazia-Lorena,
    sia che aspiri a ricuperare la perduta preponderanza nel
    Mediterraneo. Nei due casi l'Italia sarebbe complicata in una guerra
    colla Francia o a fianco della Germania, o a fianco
    dell'Inghilterra. I disgraziati combattimenti in Africa sembra
    abbiano risvegliato le speranze dei politicanti della Senna, i quali
    credono pure che l'alleanza italo-tedesca assicuri all'Italia
    l'aiuto della Germania solo nel caso di un'invasione francese nella
    penisola, e calcolano sulla possibile astensione della Germania nel
    caso che l'Italia dichiarasse guerra alla Francia in seguito ad una
    occupazione di Tripoli da parte di quest'ultima. Nè minore
    sarebbe il pericolo per l'Italia ove di nuovo sorgesse la questione
    egiziana, nella quale i suoi legittimi interessi le impongono di
    sostenere energicamente l'Inghilterra contro le pretensioni
    francesi. Date queste circostanze, così conchiude l'articolo,
    il convegno tra i due uomini di Stato che dirigono la politica della
    Germania e dell'Italia avrà un fondo essenzialmente positivo.
    Non già che catastrofi sieno imminenti o addirittura
    inevitabili; la solidità della lega dell'Europa centrale, la
    gloria che circonda l'esercito germanico e il timore che esso
    inspira sono eccellenti istrumenti di propaganda per la pace dei
    popoli; ma le condizioni in Francia si sono dal 1.° ottobre 1887
    in poi, avvicinate di alcuni gradi al punto nel quale il caos
    comincia e l'avvenire più prossimo diventa imprevedibile.
    Quando il signor Crispi venne a Friedrichsruh l'anno scorso dominava
    un apprezzamento relativamente ottimista della situazione in
    Francia. Il ministero Goblet-Boulanger era caduto, e il ministero
    moderato Rouvier dirigeva gli affari della Repubblica francese. Le
    persone ragionevoli non vedono anche ora alcun fantasma, ma si
    dicono tuttavia, che ci avviciniamo all'esplosione a Parigi e che
    nessuno è in grado di dire fin dove si sperderanno le rovine
    o le scintille. Per il momento il viaggio del Presidente del
    Consiglio italiano avrà un buon effetto sugli animi
    irrequieti della Senna. L'alleanza tra la Germania e l'Italia presa
    astrattamente, esercita sul francese del volgo il suo giusto effetto
    di intimidazione, soltanto quando appare ai suoi occhi sotto una
    forma sensibile e palpabile."
    
    3 settembre. - Il signor Goedel, Incaricato d'affari
    d'Austria-Ungheria, mi dà lettura di una Nota nella quale
    è riferita una conversazione del conte Kálnoky con
    l'Incaricato d'affari di Francia. La Nota è del 29 agosto. Il
    rappresentante francese voleva conoscere l'opinione del conte
    Kálnoky sull'ultima Nota francese e sulla Nota turca per
    Massaua. Il ministro austro-ungarico diede consigli di prudenza.
    Disse che non conveniva dare importanza alla questione e che
    bisognava lasciarla cadere. Dal colloquio di Eger egli aveva portato
    la convinzione che il ministro Crispi non se ne sarebbe occupato
    ulteriormente. Il Kálnoky consigliava sopratutto a
    localizzare il dibattito e a non portarlo dal mar Rosso nel
    Mediterraneo. Le Potenze non permetterebbero che fosse turbato lo
    statu-quo nel Mediterraneo.
    Circa la protesta turca il Conte manifestò il pensiero che
    non convenisse darvi gran peso, e che si dovesse lasciar da parte
    anche la interpretazione dell'articolo X della convenzione pel
    canale di Suez. Non esser equo per la Francia dare appoggio alla
    Turchia. Del resto la Francia non avrà dimenticato la
    protesta fatta dal Sultano al 1881 per l'occupazione della Tunisia.
    Certamente la protesta del 1881 per la Tunisia non può avere
    un valore minore di quella fatta ora per Massaua. Se la Francia non
    dette importanza alla prima, non può darne alla seconda.
    L'Incaricato francese non seppe che cosa rispondere a questa ultima
    argomentazione. Disse che il governo francese riterrebbe chiuso
    l'incidente dopo l'ultima Nota di Goblet. Teme che non faccia
    altrettanto l'Italia, la quale mandando la sua flotta in Oriente
    potrebbe avere velleità bellicose. Il conte Kálnoky
    assicurò che la flotta italiana era andata in Oriente per i
    consueti esercizi annuali.
    - Il conte di Goltz è venuto a leggermi un telegramma
    ricevuto ieri sera da Berlino. Il conte Hatzfeldt avrebbe scritto al
    principe di Bismarck la risposta di lord Salisbury per l'affare di
    Kisimayo. Sua Signoria desidera che il governo italiano voglia
    attendere per la concessione di un territorio, garantendo che
    Kisimayo non sarà conceduto ad alcuno. L'Inghilterra si
    adoprerà affinchè l'Italia abbia quanto chiede. Lord
    Salisbury intanto chiede che gli siano mandati i termini della
    promessa fatta all'Italia dal defunto Sultano dello Zanzibar.
    Ho risposto al conte Goltz che attenderò l'opera
    dell'Inghilterra e manderò intanto a lord Salisbury copia
    dell'atto di concessione. Prego il Goltz di ringraziare il Principe
    per l'interesse da lui preso in questo affare.
    
     4 settembre. - Il signor di Goedel è venuto a
    dichiararmi che il conte Kálnoky, dividendo pienamente le
    nostre opinioni, si rifiuta di aderire alla domanda del governo dei
    Paesi Bassi per la modificazione dell'articolo IX della convenzione
    per la libertà del canale di Suez.
    
    15 settembre. - Il signor di Goedel per incarico del conte
    Kálnoky, è venuto a riferirmi le istruzioni date al
    suo Incaricato d'affari a Costantinopoli circa talune domande
    fattegli da Sadullah-pascià. L'ambasciatore turco avrebbe
    chiesto se nel colloquio di Eger il Crispi aveva manifestato i suoi
    concetti intorno alle intenzioni del governo italiano in Africa, e
    se si era convenuto qualche cosa per la Bulgaria. Il Kálnoky
    rispose che la questione di Massaua è cessata. Il ministro
    Crispi non intende farne argomento di ulteriori discussioni; ad Eger
    manifestò sentimenti pacifici, e non è suo interesse
    dar seguito ad un dibattimento ormai esaurito. Conviene però
    che la Francia non risusciti il conflitto con pretese nel
    Mediterraneo. Allora l'affare potrebbe attirare l'attenzione delle
    Potenze che hanno interesse al mantenimento dello statu-quo. Per la
    Bulgaria il governo italiano è concorde con l'austriaco circa
    la convenienza di lasciare al tempo la soluzione del problema. Nulla
    sarà fatto per ridestare questioni ormai sopite e per
    richiamare l'attenzione dell'Europa su di un popolo che fa bene i
    suoi affari. L'Italia e l'Austria si adopreranno in ogni occasione
    perchè la pace non sia turbata nei Balcani.
    
    24 settembre. - Il conte di Goltz, venuto in Napoli, mi ha parlato
    di vari argomenti, tutti di qualche importanza.
    La missione dei preti abissini presso il governo russo non ebbe
    successo. Gli abissini offrivano allo Czar un'isola nel mar Rosso;
    ma l'offerta, dubbia in sè stessa perchè manca
    l'isola, non invogliò il sovrano. Giers non celò che
    nella Russia vi sono simpatie per l'Abissinia, per motivi religiosi.
    Missionari tedeschi in Cina: ottennero quanto chiedevano
    dall'Imperatore del Celeste Impero, e il governo di Berlino domanda
    se abbiamo ottenuto altrettanto,
    essendo suo desiderio che l'Italia abbia gli stessi benefici. I
    missionari tedeschi che si recassero in Cina con passaporto non
    germanico, non otterrebbero il visto. Ho ripetuto la risposta fatta
    all'Incaricato d'affari italiano a Berlino. Il ministro di Germania
    a Pechino appoggerà le domande del governo italiano.
    In Russia si attendeva che la Bulgaria il 18 corrente avesse
    proclamata la sua indipendenza. Erano voci di giornali; tutto
    passò tranquillamente.
    
    
    
    Capitolo Decimo.
    
    Il terzo incidente con la Francia.
    
    
    Una lettera apocrifa di Felice Pyat. - Guglielmo II a Roma. -
    Colloqui di Crispi col conte Erberto di Bismarck. - Storia
    documentata dell'incidente per le scuole italiane in Tunisia. - Dal
    Diario di Crispi. - La situazione in Francia alla fine del 1888.
    
    Nei primi del settembre l'on. Crispi ricevette questa lettera:
    
    «Parigi, 7 settembre 1888.
    
    Mon cher Crispi,
    
    J'attendais des paroles pacifiques de vous avant de vous
    écrire. Le reportage vous a chargé, tous ces jours-ci,
    de tant de projets sinistres que ceux qui vous connaissent en ont
    été, eux mêmes, déconcertés. La
    vérité se fait jour enfin: vous n'avez jamais
    songé à allumer une guerre entre nos deux nations.
    Ceux qu'anime l'amour du Progrès et de la Démocratie
    souffrent de cette tension de rapports qui existent entre nos deux
    grandes et généreuses nations. Nous sommes faits pour
    nous entendre et nous aimer: vous le pensiez, du moins. Comment donc
    ne trouvez vous aucune parole pour faire tomber de ridicules
    préventions?
    Je vous assure, mon cher Crispi, que notre Démocratie
    sympathise avec l'Italie, la noble contrée des Arts et de la
    Liberté.
    Des hommes comme moi, qui vous sont attachés, sont
    désespérés de ce qui se passe. Faites un effort
    de votre
    côté. Ne vous décidez pas, au nom de la
    civilisation, à rompre tout rapport avec nous. Floquet a fait
    les premiers pas à Toulon; vous devez faire le reste. Le
    monde vous applaudirait.
    Agréez, mon cher Crispi, avec l'assurance de ma vieille
    amitié pour vous, mes vœux les plus sincères.
    
    Félix Pyat.»
    
    Crispi, anzichè rispondere direttamente al Pyat,
    telegrafò all'Ambasciata a Parigi nei seguenti termini:
    
    «Torino, 11/9/88»
    
    R. Ambasciata Italiana,
    
    Parigi.
    
    Ricevo da costì una lettera di Felice Pyat che mi prega ed
    esorta di fare quanto dipende da me per ricondurre i buoni rapporti
    tra la Francia e l'Italia. Non gli rispondo direttamente
    perchè non voglio impegnare alcuna polemica. Prego invece la
    S. V. di recarsi da lui e di dirgli che i miei sentimenti verso la
    Francia sono i medesimi di quelli che io nutriva 32 anni addietro,
    quando eravamo esuli a Londra. Io mi sono difeso contro provocazioni
    diplomatiche che non mi sarei aspettate dal governo francese. La
    politica nostra è difensiva, non offensiva, e giammai da
    parte nostra sarà mossa guerra alla Francia. Io desidero le
    più cordiali relazioni col popolo vicino, ma i francesi sono
    talmente ingannati dalla stampa locale che le mie speranze di un
    accordo fra i due paesi comincia a languire. Ora, se Félix
    Pyat si sente le forze di persuadere i suoi concittadini in nostro
    favore sciogliendo l'inganno in cui essi si trovano, io ne sarei
    lietissimo, ed Ella può assicurare l'amico Pyat che l'Italia
    non mancherebbe di fare il debito suo.
    
    Crispi.»
    
    Ma la lettera del Pyat era apocrifa:
    
    «Da Parigi, 14 settembre 1888.
    
    (Personale). - La lettera direttale con la firma Felice Pyat
    è un falso. Pyat mi ha assicurato or ora che egli non ne fu
    l'autore, nè l'ispiratore, e che non ne ebbe conoscenza
    alcuna. Siccome però egli in questa occasione mi fece le
    più ardenti proteste di simpatia per l'Italia che nella sua
    bocca sono sincere, gli dissi che mi era caro di potergli dare una
    prova dei sentimenti personali di V. E., e gli diedi lettura del suo
    telegramma dell'undici. Egli se ne mostrò lietissimo,
    assolvendo il falsario che aveva provocato tali dichiarazioni.
    Promise di fare per parte sua tutto il possibile per rendere i suoi
    concittadini più benevoli e meno ingiusti verso l'Italia e
    verso Lei e dichiarò che quando se ne verrà alla
    revisione, farà con i suoi colleghi uno sforzo supremo per
    finirla con quella perenne provocazione all'Italia che è il
    mantenere un rappresentante della Repubblica presso la Santa Sede.
    Inveì poi contro il presidente della Camera dei deputati e
    col governo repubblicano che ha alla sua testa un Re e plaudì
    a Lei che negava l'elezione del proprio sindaco ai Comuni piccoli e
    meno colti, lasciandola ai maggiori più illuminati, mentre
    qui si continua a negarla al Comune più colto della Francia,
    a Parigi. Ricordò come a Marsiglia le sue esortazioni per una
    cordiale convivenza con l'Italia siano state accolte con entusiasmo
    e disse che continuerà a seminare colà, ove fra giorni
    ritorna. Mi domandò infine se volessi lasciargli la
    traduzione del telegramma di V. E. impegnandosi a non servirsene se
    non d'accordo con Lei e con me. Io risposi che non lo potrei senza
    interpellarla, giacchè in fatto V. E. non poteva rispondere a
    lui per lettera da lui non scritta, e che io soltanto
    confidenzialmente aveva potuto mostrargli il suo telegramma. Voglia
    darmi su ciò le sue istruzioni. Alcune parole pacifiche e
    benevoli alla Francia, pronunziate ieri da S. M. il Re nell'udienza
    data ai francesi invitati dal principe Napoleone, produssero qui una
    eccellente impressione.
    
    Ressman.»
    
    «15/9/88.
    
    Leggo nel Journal des Débats d'oggi: «Si rimarcò
    ieri nei corridoi della Camera la presenza del signor Ressman,
    Incaricato d'affari d'Italia, che venne a conferire con il signor
    Felice Pyat». Fu infatti alla Camera che Pyat, venuto nel
    pomeriggio a Parigi, mi aveva dato convegno. Si direbbe che noi
    torniamo agli usi della Serenissima
    di Venezia, giacchè se questa in sè così
    insignificante notizia non vuole essere una insinuazione, essa prova
    per lo meno con quale pavida diffidenza sia qui sorvegliato ogni
    nostro passo. Crederei però prudente al momento opportuno di
    dire nella udienza ordinaria del prossimo mercoledì una
    parola al signor Goblet per renderlo consapevole della ragione del
    mio colloquio col Pyat, porgendomi occasione di leggergli il
    sì conciliante telegramma di V. E., che è una prova di
    più de' suoi personali sentimenti. Prego telegrafarmi se ella
    mi vi autorizza.
    
    Ressman»
    
    Naturalmente, l'on. Crispi dette l'autorizzazione richiestagli, e il
    Goblet ebbe una prova di più della lealtà del ministro
    italiano.
    
    Le eccellenti relazioni esistenti tra l'Italia e la Germania ebbero
    nell'ottobre di quell'anno una solenne affermazione: l'Imperatore
    Guglielmo decise di visitare Re Umberto nella Capitale del Regno.
    Era il primo sovrano di una grande Potenza che veniva a Roma e le
    accoglienze che vi ebbe furono grandiose.
    In tale circostanza vi fu tra Crispi e Bismarck, tra il Re e
    l'Imperatore, questo scambio di telegrammi:
    
    «Roma, 11/10/88.
    
    Au milieu de l'enthousiasme qui a accueilli et qui entoure, dans la
    capitale de l'Italie, votre auguste Souverain, l'ami de notre Roi et
    le chef de la grande Nation alliée de notre pays, ma
    pensée émue se reporte vers Votre Altesse. Je voudrais
    que l'écho des vivats dont Rome retentit arrive
    jusqu'à vous et vous dise combien le peuple italien aime
    l'Allemagne et apprécie l'amitié de ce pays devenu,
    par les conseils de Votre Altesse, si glorieux et si grand. Que
    notre union soit toujours aussi cordiale et aussi intime pour la
    gloire des deux dynasties, le bonheur des deux peuples et la paix de
    l'Europe!
    
    Crispi.»
    
    «Friedrichsruh, 11/10/88.
    
    Je remercie Votre Excellence de tout mon cœur d'avoir bien voulu
    penser à moi au moment où vous assistiez à
    cette entrevue de nos Souverains qui est l'expression solennelle de
    l'amitié cordiale de deux grandes nations.
    La conscience d'avoir travaillé en commun à consolider
    cette amitié mutuelle de nos Souverains et de nos pays, et
    notre ferme volonté de la maintenir en la rendant plus
    intime, forment un trait d'union, cher a mon cœur, entre les
    fêtes brillantes qui se célèbrent à Rome
    et la forêt solitaire que Votre Excellence m'a fait
    l'amitié de parcourir avec moi, il y a deux mois.
    
    Von Bismarck.»
    
    «Ala-Roma, 20/10/88.
    
    Il me tiens à cœur de te répéter en quittant
    ton beau pays si hospitalier, combien j'ai été heureux
    en Italie, et à quel point je suis sensible à
    l'amitié que tu m'as montrée. Je te prie de croire que
    je te la rends bien sincèrement et que je n'oublierai jamais
    la magnifique réception que tu m'as faite dans ta capitale.
    Je t'embrasse de grand cœur et je baise les mains à Sa
    Majesté la Reine.
    
    Guillaume.»
    
    «Roma-Ala, 20/10/88.
    
    Avant que tu quitte l'Italie je veux t'exprimer encore une fois ma
    reconnaissance pour ta chère visite et mon profond regret
    pour ton départ.
    Nous n'oublierons jamais, l'Italie et moi, la preuve
    éclatante que tu nous a donnée de ton amitié.
    Tu as entendu la voix d'un peuple entier saluer en toi l'ami
    sûr et désiré, l'allié fidèle,
    l'interprète Auguste de ta noble et grande Nation.
    Nos vœux te suivent dans ton voyage; ils t'accompagneront
    incessamment dans toute ta vie que nous te souhaitons remplie de
    gloire et de bonheur. La Reine et mon fils veulent être
    rappelés à ton souvenir et s'associent à moi
    pour te prier de déposer nos hommages aux pieds de S. M.
    l'Imperatrice ton Auguste Epouse.
    
    Humbert.»
    
    L'Imperatore fu accompagnato a Roma dal conte Erberto di Bismarck,
    col quale Crispi ebbe due colloqui:
    
    19 ottobre 1888 - 6-1/2 pom. - Visita di Bismarck Erberto.
    Mi fa una relazione del colloquio con lo Czar del principe di
    Bismarck. - Truppe russe alle frontiere (500 a 600 mila); lo Czar
    non sapeva darne conto. - Influenze danesi sullo Czar. Tutte le
    principesse, compresa la Regina, contrarie al governo imperiale
    tedesco. Queste donne influiscono sullo Czar e gli han dato a
    credere che la Germania vorrebbe attaccarlo. - Bismarck fece il
    possibile per dissuaderlo, assicurando che la triplice alleanza ha
    uno scopo puramente difensivo. Dopo la pubblicazione del trattato di
    alleanza austro-germanico, nulla v'è di segreto. Le due
    Potenze non hanno mire aggressive. Se la Russia attaccasse
    l'Austria, la Germania è chiamata a difenderla.
    La posizione della Germania e dell'Italia è identica. Bisogna
    che la Francia attacchi una delle due Potenze alleate, perchè
    l'aggredita possa invocare il casus foederis. Del resto ciò
    avverrebbe anche se non ci fosse trattato. La Germania non potrebbe
    lasciare aggredire l'Italia senza muoversi a sua difesa. Lo stesso
    farebbe l'Italia verso la Germania se la Francia tentasse di passare
    il Reno. Si è convinti che ove la Francia vincesse la
    Germania, si rivolgerebbe subito contro l'Italia per abbatterla e
    riprendere in Europa quella egemonia alla quale aspira. Farebbe lo
    stesso con la Germania nel caso che l'Italia fosse vinta per la
    prima.
    La triplice alleanza non ha alcun interesse a trarre con sè
    la Turchia. Se questo proposito fosse in lei, si saprebbe subito, il
    Sultano non essendo un principe che sappia mantenere il segreto. La
    Turchia ha buone truppe,
    ma esse non hanno potenza che in una guerra difensiva. È
    assurdo quindi il presumere che si voglia trarla nella triplice; non
    vi sarebbe scopo.
    Questo linguaggio crudo, ma leale del principe di Bismarck, fece
    impressione sullo Czar, il quale partì da Berlino convinto
    delle buone intenzioni del governo tedesco.
    Lo Czar invitò l'imperatore Guglielmo alle grandi manovre
    militari che nell'estate venturo saranno tenute in Russia. La
    convinzione dell'imperatore Guglielmo e del principe di Bismarck
    è che per un anno almeno è assicurata la pace.
    Il giudizio su Alessandro III è ch'egli ami e desideri la
    pace. Le sue abitudini, i suoi studi, la nessuna esperienza di
    governo, la nessuna cura per l'esercito, il suo fisico stesso lo
    fanno bramoso di calma. Egli però è circondato da
    qualche generale di cui il Principe teme e che può influire
    sull'animo suo. Non andrebbero meglio le cose col suo successore,
    giovine ancora e non abbastanza educato alle arti del governo.
    
    20 ottobre - 1 pom. - Secondo colloquio con Erberto Bismarck.
    Ho esposto come l'Austria sia sempre la stessa nei suoi metodi di
    governo. Costituita come essa è da varie genti, con lingue e
    civiltà diverse, non può esser salda, nè
    sperare che non si disfaccia che ad una sola condizione, cioè
    che rispetti tutte le nazionalità. Orbene, nell'Impero, meno
    l'Ungheria, la quale, avendo un governo autonomo, e grazie al buon
    senso di Tisza, si regge sicura, nell'Austria il governo favorisce
    l'elemento slavo, vive con esso a danno delle popolazioni tedesche e
    italiane. Or questo è male, e a noi crea imbarazzi. Se gli
    italiani fossero ben trattati, se la loro autonomia fosse
    rispettata, gl'italiani del Regno non avrebbero ragione a doglianze
    e mancherebbe il pretesto all'irredentismo.
    Le durezze usate a Trieste sono inopportune, non giovano all'Impero
    e nuocciono a noi. Aggiungete gl'indugi nel compimento dei processi.
    Il processo di Ulmann si protrae da oltre cinque mesi; era meglio
    non lo avessero fatto, ma ora è opportuno che lo conducano a
    termine rapidamente.
    Il conte di Bismarck, rispondendo, consente nelle mie
    idee. Egli incolpa il Taaffe, il quale per rimanere al governo non
    guarda al modo. L'Imperatore ha fiducia nel suo ministro, e fa male.
    Erberto mi afferma di aver di ciò scritto a suo padre
    affinchè ne parli al Kálnoky, il quale fra giorni si
    recherà a Friedrichsruh.
    L'argomento è di una grande importanza, io replicai.
    L'Austria non è amata in Italia, essa non ha saputo far
    obliare il suo dominio sulle terre italiane, anzi lo ricorda pel
    modo come si regola a Trieste. Noi dobbiamo tenerci stretti
    all'Impero austriaco. L'Italia non può avere due nemici,
    l'uno a destra e l'altro a sinistra delle sue frontiere. L'Austria
    deve però considerare che anche la nostra alleanza è a
    lei di vantaggio. Il Bismarck fece eco a queste mie considerazioni
    ed io soggiunsi:
    - Non vi nasconderò che l'alleanza più simpatica
    all'Italia è quella con la Germania. Io non so se il Principe
    vostro padre vi abbia mai parlato dei nostri colloqui a Gastein nel
    1877. Allora io non aveva altro desiderio che quello di congiungere
    in stretto vincolo l'Italia e la Germania, anche in previsione di
    ostilità che ci potessero venire dall'Austria. Il Principe in
    quel tempo preparava con Andrássy l'alleanza dei due Imperi,
    e vedeva lontana l'ipotesi che l'Austria, la quale ha in Polonia
    interessi opposti ai vostri, potesse divenirvi nemica. Allora
    contrastai che l'Austria ottenesse la Bosnia e l'Erzegovina.
    È vero che vostro padre proponeva di dare all'Italia compensi
    territoriali che non ebbe, ma il fatto provò che l'Austria
    uscì dal Congresso di Berlino più forte nell'Adriatico
    di quello che era prima, e le mie speranze andarono deluse.
    - Voi avete ragione! ma al 1878 non eravate più al governo, e
    le sorti d'Italia erano affidate ad un ministro il quale amoreggiava
    con la Francia.
    - Su questo non ho che dirvi. Ma la Francia anch'essa fu aiutata e
    le fu permesso di occupare a tempo opportuno la Tunisia.
    - Mio padre credeva che aiutando la Francia in Africa, avrebbe
    potuto distrarla dall'Europa.
    - Comprendo. È storia passata, e non la ricorderemo che per
    trarne insegnamento per l'avvenire. Il certo si è che
    l'Italia non ha frontiere sicure, e che alla prima occasione
    bisognerà che la Germania ci aiuti a ricuperarle. Per ora
    teniamoci uniti; teniamo per quanto è
    possibile stretta l'alleanza delle tre monarchie e non avremo nulla
    a temere.
    - Le tre monarchie unite basteranno a mantenere la pace.
    Bisognerà però non distrarci l'amicizia del governo
    inglese, le cui forze sono tanto necessarie a voi nel Mediterraneo.
    - Per parte mia ho fatto quanto potevo per coltivare l'amicizia di
    lord Salisbury.
    - E vi siete riuscito. Non sarò indiscreto rivelandovi le
    cose dette da lord Salisbury all'Imperatore nell'ultimo viaggio di
    questi in Inghilterra. Salisbury dichiarò che nel
    Mediterraneo egli agirà d'accordo col governo italiano.
    Soggiunse che in conseguenza Sua Signoria aveva dato speciali
    istruzioni al comandante della flotta inglese nelle vostre acque.
    A questo punto il colloquio è interrotto dall'arrivo del Re e
    dell'Imperatore.
    Le leggi sull'insegnamento e sulle associazioni in Tunisia
    promulgate il 15 settembre 1888 da Alì Bey, "possessore del
    reame di Tunisi," furono un tentativo di rivincita del Goblet per lo
    scacco subito nella questione delle tasse a Massaua. Quelle leggi,
    sebbene sotto una forma generale, non riguardavano che le
    associazioni e le scuole italiane. Un giornale ufficioso della
    Residenza francese, il Petit Tunisien, lo diceva esplicitamente.
    Allorchè la Francia impose il suo protettorato al Bey di
    Tunisi, nel trattato di Casr-el-Saïd si dichiarò che il
    governo della Repubblica francese garentiva l'esecuzione dei
    trattati esistenti tra il governo della Reggenza e i diversi Stati
    europei. Il trattato dell'8 settembre 1868 tra l'Italia e la Tunisia
    stabiliva all'art. 1 che "tutti i diritti, privilegi e
    immunità" conferiti agli italiani nella Reggenza dagli usi e
    dai trattati erano confermati. Il governo della Repubblica, quindi,
    si rendeva garante dei diritti derivanti dalle Capitolazioni e
    acquisiti in favore degli italiani.
    È ben vero che nel 1884 i gabinetti di Parigi e di Roma
    presero degli accordi per regolare l'esercizio della giurisdizione a
    Tunisi, e il gabinetto di Roma consentì la sospensione della
    giurisdizione consolare italiana, ma fu espressamente convenuto nel
    protocollo relativo (25 gennaio 1884) che tutte le altre
    immunità, vantaggi e garenzie assicurate dalle Capitolazioni,
    dagli usi e dai trattati rimanessero in vigore.
    Data cotesta situazione di diritto non poteva non sembrare strano
    all'on. Crispi che il Bey avesse promulgato le suddette leggi, e che
    esse portassero anche la firma del rappresentante del governo della
    Repubblica.
    La legge, la quale voleva: sottoporre le scuole italiane
    all'ispezione del direttore dell'insegnamento pubblico nella
    Reggenza o dei suoi delegati, - fare di costui il giudice della
    validità dei diplomi, - rendere obbligatorio l'insegnamento
    della lingua francese, - imporre condizioni arbitrarie
    all'istitutore italiano che volesse aprire una scuola privata, -
    proporre pene ed ammende, - era evidentemente un attentato alle
    nostre prerogative e ledeva i nostri diritti. Altrettanto deve dirsi
    dell'altra legge che pretendeva imporre condizioni agl'italiani che
    volessero riunirsi in associazione, sciogliere le associazioni
    esistenti, ecc. Infatti nelle "immunità vantaggi e garenzie"
    che ci erano assicurati dalle Capitolazioni, dagli usi e dai
    trattati con la Reggenza, erano: 1.° l'immunità delle
    associazioni e delle scuole italiane in Tunisia di non dipendere che
    dal diritto italiano; 2.° il vantaggio per i nostri connazionali
    di fare educare ed istruire i loro figli nelle istituzioni italiane
    o regolate dalle nostre leggi, - quello di associarsi, come si erano
    sempre associati, con fini di solidarietà, di beneficenza, di
    mutuo soccorso, ecc.; 3.° la garanzia che lo statu-quo non
    sarebbe stato turbato durante i trattati esistenti.
    Le proteste di Crispi e la questione che ne seguì sono
    chiarite dai documenti che qui sotto riassumiamo26:
    
    22 settembre 1888.
    
    Da Tunisi (Berio, Console generale d'Italia). - Avverte che una
    legge del Bey, ispirata a concetti annessionisti, sottomette tutte
    le scuole all'ispezione francese. Un'altra legge proibisce le
    associazioni non autorizzate. Entrambe le leggi sono evidentemente
    fatte contro i soli istituti italiani.
    
    23 settembre.
    
    Crispi, a Berlino, Vienna, Londra. - Segnala il fatto; ritiene le
    nuove leggi del Bey non applicabili agli italiani, 1.) per il
    diritto che viene loro dalle Capitolazioni (art. 2 del Prot. 25
    gennaio 1884); 2.) per l'art. 14 del Trattato colla Tunisia dell'8
    sett. 1868. Si prega avvertirne il governo locale, osservando che
    dette leggi sono un avviamento ad una celata annessione ed una
    risposta agli ultimi eventi di Massaua.
    
    24 settembre.
    
    Da Parigi (Ressman). - L'Havas pubblica che i decreti sulle scuole e
    sulle associazioni hanno un carattere permanente e furono resi dal
    Bey nei limiti de' suoi diritti alto-sovrani. Goblet fece dire
    indirettamente a Ressman che nell'applicazione di quei decreti
    sarà usata la massima arrendevolezza e prudenza a nostro
    riguardo.
    
    28 settembre.
    
    Crispi, a Parigi. - Ripete che i decreti tunisini violano le
    Capitolazioni riconosciute dal Bey e dalla Francia. «Se il Bey
    di Tunisi fosse indipendente - telegrafa Crispi - saprei come
    provvedere. Ma essendo sotto la protezione francese, quasi pupillo
    sotto tutela, sono costretto a rivolgermi alla Potenza protettrice
    affinchè voglia spiegarsi in così grave questione.
    Abbiamo in Tunisi 28 mila italiani.... Non possiamo rinunciare alle
    nostre prerogative.... Non bisogna dimenticare che la giurisdizione
    consolare in Tunisi è sospesa, non soppressa....»
    
    29 settembre.
    
    Crispi, al Console italiano a Tunisi. - Ebbe per le vie di Parigi il
    testo delle leggi tunisine. Il governo beylicale ha il diritto di
    riordinare le scuole pubbliche, ma i suoi poteri si fermano alla
    soglia delle scuole istituite da privati o da società
    straniere. Spera che le leggi in questione rispetteranno i diritti
    acquisiti e riconosciutici esplicitamente. Osserva che esse
    definiscono come delitti certi atti i cui autori dovrebbero essere
    tradotti innanzi ai tribunali. La giurisdizione consolare non
    è soppressa, ma solamente sospesa. Incarica Berio di
    presentare queste osservazioni al ministro residente di Francia,
    affinchè il nostro silenzio non s'interpreti come
    acquiescenza.
    
    29 settembre.
    
    Da Parigi (Ressman). - Ebbe un colloquio con Goblet che
    rimproverò di essersi deciso a simili atti senza previa
    amichevole intelligenza col governo italiano. Goblet rispose che
    l'affare di Massaua avevalo scoraggito: sostenne che i decreti
    beylicali non potevano dirsi lesivi nè delle Capitolazioni
    nè di alcun diritto acquisito, tutto dipendendo dalla loro
    applicazione. Goblet aveva dato istruzioni a Massicault
    perchè nulla facesse per la esecuzione dei decreti senza
    chiedere il consenso e il concorso del R. Console. Non pare a Goblet
    che si possa da noi contestare la legittimità di un
    ispettorato delle scuole, puramente igienico, ch'egli del resto
    ammetterebbe che fosse esercitato anche da noi, in Italia, sovra
    istituti francesi. Protesta di voler evitare ogni questione e
    rispettare le Capitolazioni e i nostri diritti; esige però
    che dal nostro canto si riconosca alla Potenza protettrice il dovere
    e il diritto di guidare nelle vie della civiltà il popolo
    protetto. Goblet trovò strano la nostra
    suscettibilità, mentre annunciamo di voler creare in Tunisia
    un ispettorato nostro e una direzione delle scuole. In conclusione
    dice «aspettate l'applicazione de' decreti: o non saranno
    applicati o lo saranno nella misura conveniente d'accordo tra noi e
    il vostro console.» Ressman avverte che si prevede la caduta
    del Ministero e che forse sarà più facile intendersi
    col successore, il quale sentirà meno dolorosamente le ferite
    di Massaua e Zula.
    
    30 settembre.
    
    Da Parigi (Ressman). - L'Havas pubblicò il sunto del
    colloquio fra Ressman e Goblet. Le polemiche si riaccesero.
    Ci accusano di voler dare il fuoco alle polveri. Goblet è
    assente. Ressman chiede istruzioni pel prossimo colloquio che
    dovrà avere con lui.
    
    1 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi. - «Un governo serio quando tratta con altro
    governo si astiene dal dare pubblicità ai colloquii che
    avvengono tra esso e i ministri stranieri. Di simile
    pubblicità si fa uso soltanto quando non si vuole comporre
    amichevolmente un dissidio. Noi non possiamo nè direttamente
    nè indirettamente ammettere il diritto nel Bey di decretare
    discipline per l'esercizio dell'insegnamento privato de' nostri
    concittadini in istituti italiani in Tunisia. Ripeto quanto
    già dissi. Se siffatto diritto fosse ammesso e l'Europa lo
    acconsentisse, noi ci sentiremmo in dovere di applicare analoghi
    decreti qui in Roma a tutti gli istituti e corporazioni straniere,
    la maggior parte de' quali è francese. Se avessimo voluto
    sollevare una questione internazionale col nostro reclamo, non vi
    avremmo telegrafato come già fecimo. Senonchè il
    signor Goblet pare animato da ben altri sentimenti. In conclusione
    noi non possiamo accontentarci delle assicurazioni dateci circa il
    modo di applicazione dei decreti ai nostri istituti. Sono i decreti
    stessi che respingiamo in principio come illegali, violatori de'
    nostri diritti, contrari alle Capitolazioni e ai trattati
    vigenti....»
    
    1 ottobre.
    
    Da Parigi (Ressman). - Tornerà nel prossimo colloquio con
    Goblet a parlare dei decreti tunisini. Goblet per dimostrare i
    riguardi che ci voleva usare, disse di aver prescritto a Massicault
    di nominare membro del Consiglio d'istruzione pubblica da istituirsi
    nella Reggenza anche un direttore delle scuole italiane.
    
    3 ottobre.
    
    Da Parigi (Ressman). - Ha una intervista con Goblet che gli ripete
    tutti gli argomenti delle antecedenti interviste. Ressman gli
    dichiara che noi respingiamo i decreti. Goblet risponde che non ci
    ha mai domandato
    di accettarli: da parte sua, egli mantiene che il Bey o il
    protettorato avevano il diritto di emanarli, perchè fatti a
    scopo di buona amministrazione e di civiltà. Goblet non ci
    chiede che di riservare il nostro giudizio per il caso in cui si
    venisse ad una applicazione che senza il concorso del Console
    italiano a Tunisi non sarà tentata.
    
    7 ottobre.
    
    Da Tunisi (Berio). - Conferì con Massicault: questi propone
    di escludere l'autorizzazione obbligatoria per le scuole già
    esistenti e di mettere la più gran cortesia nelle ispezioni
    che avverranno, prevenutone il Console del Re ed in presenza del
    Console. Esige però autorizzazione per le scuole da creare e
    diritto di sorveglianza. Massicault non crede che le Capitolazioni
    ci diano diritto a tale riguardo. Berio propone a Massicault (ad
    referendum) di comunicargli una o due volte all'anno la statistica
    particolareggiata delle nostre scuole con la situazione materiale e
    morale di esse. Massicault accetta la proposta e ne informerà
    Goblet.
    
    9 ottobre.
    
    Da Berlino (Riva, Incaricato d'Affari d'Italia). - L'Ambasciatore di
    Germania a Parigi informò il governo della Repubblica essere
    desiderio del Gabinetto di Berlino che la questione si mettesse in
    via diplomatica e non in via amministrativa. Fece insieme
    comprendere che il testo delle Capitolazioni non era in favore de'
    nuovi decreti tunisini. Ciò parrebbe sufficiente per far
    capire al governo francese che, come avvenne per la questione di
    Massaua, la Francia, qualora persistesse nell'atteggiamento assunto,
    si troverebbe di fronte anche la Germania.
    
    11 ottobre.
    
    Da Parigi (Ressman). - Münster (ambasciatore germanico) gli
    lesse una nota di Bismarck in cui sono date istruzioni
    all'ambasciatore di Germania a Parigi analoghe a quanto è
    contenuto nel documento precedente.
    
    12 ottobre.
    
    Da Parigi (Ressman). - Le dichiarazioni di Goblet a Münster
    furono estremamente concilianti e pacifiche. La Francia trovarsi
    nella necessità di evitare complicazioni: volersi rispettare
    assolutamente le nostre scuole esistenti: neppure l'ispezione si
    farebbe senza l'intervento del Console italiano. Lord Salisbury
    aveva dal canto suo dichiarato che non vedeva obbiezioni contro
    l'applicazione dei decreti beylicali alle scuole inglesi di Tunisia.
    Goblet soggiunse che le minaccie di una nostra rappresaglia rispetto
    le scuole francesi a Roma, non tornerebbe sgradita ai radicali
    francesi, essendo quelle scuole, in generale, clericali. Goblet
    ripetè più volte a Münster che intendeva
    rispettare integralmente i nostri diritti e le Capitolazioni.
    
    16 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi. - Ressman dovrà dichiarare a Goblet che i
    due decreti beylicali sulle scuole e sulle associazioni non sono
    applicabili ai cittadini italiani residenti nella Reggenza.
    Münster parlerà nello stesso senso. Crispi desidera
    comporre amichevolmente la vertenza.
    
    19 ottobre.
    
    Crispi, a Berlino, Vienna, Londra. - Di fronte ai decreti beylicali,
    l'Italia trovasi in una posizione diversa da quella in cui si
    trovano le altre Potenze le quali non hanno scuole od associazioni a
    Tunisi. Per essi è questione di solo principio: per noi di
    principio e di fatto. È probabile che alla ripresa dei lavori
    parlamentari, si facciano interpellanze su ciò. Occorre
    quindi di sistemare la questione.
    
    19 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi. - A Berlino fu risposto all'ambasciatore francese,
    Herbette, che la Germania ci appoggerà essendosi i
    giureconsulti dell'Impero dichiarati favorevoli alla nostra tesi,
    nella questione di diritto. A noi può bastare che Goblet
    faccia dichiarare da Massicault a Berio che i decreti non saranno
    applicati ai nostri istituti.
    
    21 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi. - «In verità il signor Goblet vuol
    ripetere la favola del lupo e dell'agnello, ed io non intendo
    prestarmi a far la parte dell'agnello. Noi reclamiamo contro i
    decreti beylicali del 15 settembre dai quali siamo stati offesi e si
    vorrebbe dare a credere che il nostro reclamo sia una provocazione.
    Il provocatore è colui che ci ha offesi, e noi siamo i
    provocati. La posizione nostra in Tunisia è singolare, e
    nessuna Potenza d'Europa si trova colà nelle nostre
    condizioni. Nessuna Potenza vi ha scuole e nessuna Potenza ha nella
    Reggenza una colonia popolare come la nostra ed alla cui educazione
    ed al cui insegnamento bisogna provvedere. Se le altre Potenze
    accettano i decreti beylicali e non reclamano, nulla danno alla
    Francia perchè non è leso alcun loro diritto. Per esse
    non sarebbe che una questione di principio. Volendo dar prova di
    moderazione, dissi al conte di Bismarck che non tenevo si
    pubblicasse un nuovo decreto che revocasse quello del 15 settembre.
    A me bastava che il sig. Massicault dichiarasse al console Berio che
    le nuove disposizioni legislative non sono applicabili alle nostre
    scuole ed alle nostre associazioni in Tunisi e che nel fatto non
    venissero applicate. Il conte di Bismarck deve avere telegrafato in
    questo senso al conte Münster e ve ne informo acciocchè
    sappiate essere nostre e non di Berlino le proposte concilianti per
    la soluzione della questione. Sappiate ancora, e ciò
    confidenzialmente, che cinque giorni addietro fu telegrafato da
    codesta Nunziatura al Vaticano che Goblet era perplesso sul partito
    a prendere e che era disposto a dar ragione all'Italia: vorrebbe
    però salva la sua dignità. Ora io non tengo alla
    forma, ma alla sostanza, e la soluzione da me proposta, appoggiata
    dalla Germania, converrebbe alle due parti. In tale stato di cose,
    dipende dal contegno di codesta Ambasciata ottenere
    giustizia.»
    
    21 ottobre.
    
    Da Vienna (Avarna, Incaricato d'Affari d'Italia). - Kálnoky
    riconosce il buon diritto dell'Italia nella quistione.
    L'Austria-Ungheria non ha però negli affari tunisini, come in
    quelli egiziani, alcun interesse speciale.
    
    21 ottobre.
    
    Da Londra (Catalani, Incaricato d'Affari d'Italia). - Il Foreign
    Office domandò il parere dei consulenti legali della Corona
    esprimendo intanto l'opinione 1.°) che la Francia non aveva
    diritto a far emanare dal Bey un decreto che quest'ultimo non
    avrebbe avuto diritto di emanare prima dell'occupazione francese;
    2.°) che l'Inghilterra, consentendo all'abolizione delle
    Capitolazioni per ciò che concerne l'amministrazione della
    giustizia, non concesse alla Francia alcun potere su ciò che
    riguarda le scuole inglesi.
    
    22 ottobre.
    
    Da Parigi (Menabrea). - Münster informò Menabrea delle
    conversazioni di Crispi con Erberto Bismarck, relativamente ai
    decreti beylicali sulle scuole ed associazioni. Menabrea si
    recò da Goblet a presentargli la proposta conciliante di
    Crispi. Goblet rispose aver dato istruzioni a Massicault di trattare
    la questione con Berio e quindi non volerne discutere con Menabrea.
    Questi chiese quali istruzioni erano state date al Residente
    francese. Goblet rispose che «nulla sarebbe mutato alle cose
    esistenti e che il decreto non verrebbe applicato alle nostre scuole
    ed associazioni esistenti se non col consenso del nostro
    Console», al che Menabrea replicò che non si trattava
    soltanto del presente e che il governo del Re non acconsentirebbe a
    che il decreto minacciasse le istituzioni future. «Pregai
    Goblet - scrive Menabrea - di ben considerare le conseguenze di un
    conflitto qualora il R. Governo rifiutasse, in tal caso, di
    permettere l'ispezione. Goblet si mantenne ostinato nella sua prima
    risposta senza accettare alcuna osservazione, interpretando a suo
    modo e il nostro trattato e il protocollo del 25 gennaio 1884,
    il cui secondo articolo è abbastanza esplicito. Non potei
    trattenermi dal dirgli che trattandosi di un decreto che muta
    sostanzialmente le condizioni di istituzioni della colonia europea
    più antica e più numerosa di Tunisi, mentre i francesi
    non sono che 3000, sarebbe stato opportuno di presentire l'opinione
    dell'Italia. Al che Goblet rispose: «Noi abbiamo le nostre
    truppe che proteggono i vostri interessi italiani.» - Allora
    andai sulle furie dicendogli che sapevo come le truppe francesi
    erano entrate in Tunisia e che l'Italia non aveva bisogno della
    protezione francese: era buona a proteggersi da sè, come si
    era protetta prima dell'entrata de' francesi in Tunisia, della quale
    non avemmo mai a lagnarci. L'Italia, d'altronde, ha diritto di
    essere rispettata, il che non si sente abbastanza in Francia. Nel
    mettere fine a questa spiacevole conversazione con un uomo impetuoso
    e cavilloso, io gli posi l'ultimatum conciliativo indicato da V. E.
    Egli non l'accettò e mi ritirai lasciandogli la
    responsabilità di tutte le conseguenze del suo rifiuto. Si
    vede ch'egli vuole lasciare la porta aperta a nuove gherminelle,
    quando verrà il momento di creare nuove istituzioni italiane
    in Tunisia. Mi pare che a Berio si potrebbe dare il mandato di
    mantenere fermo presso Massicault la proposta di V. E. Prima di
    recarmi da Goblet presi conoscenza de' suoi precedenti colloquii con
    Ressman, di cui ammiro la fermezza e la prudenza per aver potuto per
    tanto tempo sopportare i ragionamenti del suo interlocutore.»
    
    23 ottobre.
    
    Da Berlino (Riva). - Conferì con Holstein rimettendogli un
    promemoria. Holstein riconosce il favorevole cangiamento del
    Gabinetto inglese, dovuto agli ufficii della Germania; buon sintomo
    la preoccupazione dell'Inghilterra per le scuole maltesi in Tunisia.
    Nell'interesse della pace, è d'avviso di evitare tutto
    ciò che possa rappresentare pel governo francese una
    umiliazione esplicita. L'Italia potrebbe acconciarsi ad una
    soluzione meramente pratica della vertenza, limitarsi, cioè,
    a conseguire una tacita rinunzia all'applicazione dei decreti,
    riservandosi a segnalare e contestare gli atti che implicassero
    violazione di quella rinunzia.
    
    23 ottobre.
    
    Crispi, a Tunisi. - Si limiti il Console a dichiarare
    l'inapplicabilità de' decreti. Il Ministero ha deciso di
    trattare la questione esclusivamente a Parigi. Non si comprometta il
    Console col Residente francese.
    
    20 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi. - Si approva la condotta di Menabrea. La questione
    non può essere trattata che a Parigi. Berio ebbe solo
    istruzione di dichiarare che i decreti sono nulli ai nostri occhi.
    Goblet ha dato prova di non apprezzare la moderazione con cui ci
    siamo condotti. Menabrea può fare un ultimo tentativo con
    Goblet dopo di essersi inteso con Münster. Se fallirà,
    provvederassi al da fare. Si loda il contegno di Ressman.
    
    24 ottobre.
    
    Da Parigi (Menabrea). - Conferì con Goblet. La conversazione
    fu meno tempestosa della precedente. Si ripeterono da una parte e
    dall'altra le argomentazioni dell'antecedente colloquio. Menabrea
    notò che il Bey con quei decreti aveva proceduto ad un atto
    che il Sultano, suo alto sovrano, non avrebbe osato di fare
    nell'impero ottomano ed al quale i francesi stessi si sarebbero
    opposti. I tre ambasciatori di Germania, Italia e Inghilterra si
    trovarono in quel dì (24) riuniti al Ministero degli Affari
    esteri. Münster aveva già esortato Goblet ad una
    attitudine conciliante. Lord Lytton dividendo perfettamente la
    nostra opinione, aveva detto a Menabrea non essere esatto - come
    asseriva Goblet - che Salisbury accettasse i decreti, ma che la
    questione era stata sottoposta ai giureconsulti della Corona.
    Benchè Goblet non abbia accettato per ora la proposta di
    Crispi, parve alquanto scosso e si sarà forse convinto che il
    meglio a fare per lui sarà di arrendersi quando Berio
    avrà fatto le note dichiarazioni.
    
    26 ottobre.
    
    Da Vienna (Avarna). - Ebbe udienza da Kálnoky. Questi
    è lieto di riconoscere la moderazione mostrata da Crispi
    nella questione. L'Austria, quantunque non abbia diretto interesse
    nella questione stessa, ne aveva degli indiretti e principalissimo
    quello che la pace non fosse turbata, e l'Italia sua alleata non si
    trovasse complicata in un conflitto. Kálnoky sa dei consigli
    pervenuti a Parigi da Londra e da Berlino: tenere quindi fiducia che
    la Francia avrebbe cercato di evitare qualsiasi conflitto.
    
    26 ottobre.
    
    Crispi, a Parigi, Vienna, Berlino. - (Confidenziale). - Avverte come
    sia informato che lord Salisbury discorrendo col R. Incaricato
    d'affari a Londra circa i decreti beylicali abbia detto di essersi
    già pronunziato sui medesimi dal punto di vista politico,
    facendo sapere a Goblet che li riteneva come un atto insensato ed
    inopportuno.
    
    26 ottobre.
    
    Crispi, a Tunisi. - «Gli argomenti contenuti nella nota di
    Massicault (comunicata da Berio) sono senza valore. Tunisi è
    per noi paese a Capitolazioni, perchè sottoposto a Potenza
    musulmana e in virtù del diritto incontestato di cui l'Italia
    godette da tempo immemorabile. Questo diritto è ricordato
    dall'art. 1 del Trattato in vigore col Bey e fu riconosciuto dalla
    Francia nel protocollo del 25 gennaio 1884. Secondo le Capitolazioni
    tutto quanto concerne la vita intellettuale, morale, giuridica della
    colonia italiana è sottratto all'autorità del governo
    beylicale. Gli articoli 15 e 18 sono erroneamente invocati,
    perchè relativi alla vita materiale ed economica, e non
    potrebbero essere applicati alle scuole ed alle associazioni non
    industriali: di più, costituiscono una eccezione, e in
    diritto l'eccezione non ammette interpretazione estensiva. Quanto
    alla convenzione dell'8 giugno 1883 fra Tunisi e la Francia, non
    potrebbe evidentemente alterare le stipulazioni fra il Bey e le
    terze Potenze. È inoltre anteriore al protocollo del 25
    gennaio 1884 fra noi e la Francia, dove è espressamente
    stipulato che ogni immunità e vantaggio accordati dalle
    Capitolazioni, dagli usi, dai trattati, resterebbe in vigore. In
    altre parole il Bey, prima del protettorato non avrebbe avuto il
    diritto di emettere tali decreti non più della Turchia per
    quanto concerne l'impero ottomano, e se la Turchia ne emanasse, la
    Francia si opporrebbe. Ora il protettorato non saprebbe modificare
    lo stato giuridico esistente di faccia ai terzi: 1.°)
    perchè stabilito senza il loro consenso; 2.°)
    perchè pel trattato del Bardo i diritti delle terze Potenze
    furono dichiarati inalterabili; 3.°) perchè i nostri
    diritti, immunità, privilegi ci furono riconosciuti e
    garantiti dalla stessa Potenza protettrice. Il Bey si trova di
    fronte alla Francia in condizioni di vassallaggio tali che noi non
    potremmo impiegare contro di lui i mezzi che impiegheremmo verso un
    sovrano indipendente. Oltrecciò i decreti, essendo stati
    redatti a Parigi e solamente pro-forma rivestiti della firma del
    Bey, è a Parigi che la soluzione dev'essere concordata.
    Limitatevi quindi a dichiarare che, secondo il governo italiano e
    per le ragioni suddette, i decreti non sono applicabili e non
    dovranno essere applicati ai nostri istituti ed alle nostre
    associazioni presenti o future, e domandate che di queste
    dichiarazioni vi sia dato atto formale. Se il ministro residente si
    rifiuta, voi potete dichiarare che vi è interdetta ogni
    discussione ulteriore.»
    
    27 ottobre.
    
    Da Parigi (Menabrea) - Partecipò a Goblet il telegramma
    mandato da Crispi a Berio (v. doc. 26 ott.), dichiarando i decreti
    non applicabili e non da applicarsi mai ai nostri istituti (scuole
    ed associazioni) presenti e future in Tunisia.
    Pregò Goblet di prendere atto della dichiarazione. Goblet ne
    prese atto, dichiarando alla sua volta che manteneva la precedente
    interpretazione.
    
    24 ottobre, 2, 7 e 14 novembre.
    
    Da Tunisi. - (Rapporti). - Berio (contrariamente alle istruzioni
    ministeriali) entrò in discussione con Massicault. Ne' suoi
    rapporti si diffonde in particolari, riferendo i colloqui avuti col
    Residente francese. Da segnalarsi il solo rapporto in cui Berio
    dà conto delle probabilità che avrebbero le pratiche,
    suggeritegli dal Ministero, per trarre nella discussione il Console
    britannico e per mezzo suo il direttore del Collegio inglese della
    società per gli ebrei in Tunisi. Questo direttore, certo
    Perpetuo di Livorno, uomo ambizioso e senza carattere, benchè
    d'ingegno e di studi, erasi accostato alla Residenza francese: era
    quindi difficile di giovarsene.
    
    4 novembre.
    
    Crispi, al Console a Tunisi. - «Non vi siete conformato alle
    mie istruzioni del 26 ottobre. Dovevate chiedere che il governo del
    Bey prendesse formalmente atto delle nostre dichiarazioni, che i
    decreti tunisini non sono applicabili e non saranno applicati alle
    nostre istituzioni e associazioni presenti e future. Se il governo
    del Bey rifiutavasi a prendere atto di ciò, dovevate
    dichiarare che ogni ulteriore discussione vi era interdetta. Voi
    dovevate quindi ricusare di ricevere anche ad referendum le nuove
    proposte di Massicault. Il governo del Re ha una posizione
    inespugnabile in diritto e vuol mantenervisi. Dite al signor
    Massicault che voi avete sorpassato i vostri poteri accettando ad
    referendum le proposte ch'egli vi ha fatto e che il governo del Re
    si rifiuta d'esaminare. Il governo del Bey non deve che dare atto
    della vostra dichiarazione. Se lo nega, è a Parigi che
    intendiamo portare il dibattito.»
    
    11 novembre.
    
    Da Tunisi (Berio). - Riferisce di avere nel corso di una
    conversazione con Massicault parlato del mezzo di giungere ad un
    accordo; non ha però presi impegni.
    
    31 dicembre.
    
    Da Parigi (Menabrea). - Goblet intrattenne Menabrea di un equivoco
    nato tra Massicault e Berio, sulla facoltà di trattare, fra
    essi e sul luogo, la questione dei decreti. Menabrea aveva ricevuto
    istruzioni perchè fosse discussa esclusivamente a Parigi.
    Goblet vorrebbe trattarla a Tunisi.
    
    1 gennaio 1889.
    
    Crispi all'ambasciatore a Parigi. - Sin dal principio eransi date
    istruzioni a Berio di astenersi da qualsiasi trattativa sulla
    questione delle scuole. Intanto il signor Massicault, sia
    direttamente, sia per mezzo del signor Benoit segretario della
    Residenza, tentò indurre Berio ad accettare alcune condizioni
    che avrebbero potuto compromettere le ragioni di diritto da noi
    sostenute presso il governo della Repubblica, che cioè i
    decreti beylicali non erano applicabili nè pel presente,
    nè pel futuro alle nostre scuole ed associazioni. Berio
    avendoci riferito delle proposte di Massicault, gli fu proibito
    recisamente di accogliere quelle pregiudicanti i nostri diritti e di
    limitarsi a redigere da lui solo e mandare a Roma un progetto
    d'accordo perchè si potesse studiarlo e deliberare sul
    medesimo interdicendogli, in ogni caso, qualunque negoziazione colla
    Residenza. Crispi non può quindi che confermare a Menabrea le
    precedenti istruzioni perchè la questione si tratti a Parigi
    e non altrove.
    
    18 gennaio.
    
    Da Tunisi (Berio). - Massicault gli ha detto che la questione delle
    scuole si è composta a Roma e a Parigi. Le basi sarebbero
    queste: le scuole esistenti rimarrebbero sotto il regime dello
    statu-quo; le scuole future verrebbero sottoposte al decreto
    beylicale.
    
    19 gennaio.
    
    Crispi, a Tunisi. - La notizia data da Massicault a Berio è
    inesatta. Nessun accordo avvenne. Il governo italiano si
    rifiuterà sempre a riconoscere validi i decreti beylicali,
    anche per le scuole future.
    
    16 gennaio.
    
    Da Tunisi (Berio). - Trasmette copia di una Nota da lui diretta a
    Massicault per stabilire: 1.° che le trattative erano state
    iniziate non da lui (Berio) ma dal Residente; 2.° che Berio ha
    fatto proposizioni ad referendum e come sue emanazioni personali.
    
    30 ottobre 1890.
    
    Da Parigi (Menabrea). - Nel convegno ebdomadario Ribot
    ricordò incidentalmente a Menabrea le discussioni che ebbero
    luogo con Goblet relativamente alla creazione in Tunisia di nuove
    scuole italiane che si volevano sottoporre ad una preventiva
    autorizzazione. La questione rimase sospesa perchè il governo
    italiano aveva finito col dichiarare che in quel momento non si
    trattava di istituire nuove scuole, ma solo di mantenere le
    esistenti come erano. Ora, vista la creazione iniziata di nuovi
    istituti, Ribot domanda se il R. Governo è sempre della
    stessa opinione intorno ai propri diritti, e se non avrebbe, non
    volendo chiedere qualche autorizzazione, almeno informato
    l'autorità beylicale delle sue intenzioni in proposito.
    Menabrea rispose di non aver pel momento incarico di trattare
    siffatto argomento, ma che teneva per fermo che il governo del Re
    non avrebbe receduto da ciò ch'egli crede suo diritto,
    poichè nello stesso modo che nel rimanente dell'Impero turco
    si riconosceva all'Italia la facoltà di stabilire le sue
    scuole come le convenisse meglio, essa manteneva i suoi diritti
    nella Reggenza, la quale, malgrado il protettorato francese, non
    cessa di essere considerata come facente parte dell'Impero ottomano,
    per cui manteniamo tuttora i diritti derivanti dalle Capitolazioni,
    eccetto in quelle parti alle quali abbiamo subordinatamente e
    provvisoriamente rinunciato e che si riferiscono all'impianto de'
    tribunali. Ribot non insistette, esprimendo solo la speranza che il
    governo italiano l'avrebbe informato della creazione di nuove scuole
    e pregò Menabrea d'interpellare su ciò il Ministero.
    
    1 novembre.
    
    Crispi, a Parigi. - Si approva il linguaggio di Menabrea. Non si
    crede però di acconsentire a promettere al governo della
    Reggenza anche la semplice partecipazione dell'apertura di nuove
    scuole in Tunisia. Del resto è questione oggi oziosa, non
    essendosi aperta colà alcuna nuova scuola, nè
    intendendosi aprirne.
    Come è manifesto, i diritti dell'Italia rimasero
    impregiudicati. Il governo francese era dalla parte del torto, e
    tacitamente lo riconobbe.
    Crispi avrebbe potuto denunziare il protocollo del 1884 e riattivare
    la giurisdizione consolare italiana a Tunisi, ch'era stata solamente
    sospesa; ma non volle. Della sua moderazione, però, nessuno
    in Francia gli tenne conto.
    
    
    
    Dal Diario:
    
    22 ottobre. - Solms mi legge una Nota nella quale si raccomanda al
    governo italiano il Sultano dello Zanzibar. La posizione di costui
    è abbastanza scossa e bisogna aiutarlo a consolidarsi.
    Mi ricorda quanto fu convenuto col conte Erberto Bismarck circa
    un'azione comune per impedire la tratta degli schiavi.
    Il Sultano del Marocco non va più a Tangeri; egli avrebbe
    paura della Spagna. La conferenza per gli affari di quel paese
    dovrebbe occuparsi a render possibile la stipulazione di un trattato
    di commercio per rendere facili le relazioni coi vari Stati di
    Europa. Dovrebbe inoltre determinare le norme per i tribunali misti,
    e definire la sorte dei protetti e i limiti dell'autorità
    consolare verso i medesimi, e infine assicurare la tutela degli
    stranieri.
    Il viaggio dei gran duchi Sergio e Paolo di Russia a Costantinopoli
    non ebbe intenti politici. Essi furono a visitare il patriarca di
    Costantinopoli, il quale parlò loro della grande Chiesa
    ortodossa, e domandò il patrocinio dello Czar. Il lavoro e
    l'influenza della Chiesa ortodossa sembrano divenire importanti ed
    estendersi in Oriente a danno della Chiesa latina.
    
    «25 ottobre.
    
    Son Excellence Monsieur de Giers,
    Ministre des affaires etrangères. S. Pétersbourg.
    
    Ce jour marque un jalon mémorable dans la carrière si
    meritante de V. E. à qui cinquante ans de services
    fìdèles et dévoués constituent le titre
    le plus enviable à la reconnaissance de Son Auguste Souverain
    et à l'admiration des gens de bien.
    Permettez-moi de Vous féliciter au nom du Gouvernement du Roi
    d'Italie et en mon nom personnel. Nous poursuivons avec le
    même zèle un but identique; le maintien de l'ordre.
    C'est donc aussi comme collaborateur que j'exprime à V. E. le
    souhait le plus sincère que ses sages conseils soient
    longtemps conservés à la Russie et à l'Europe,
    comme un gage précieux de conservation et de paix.
    
    Crispi.»
    
    A Monsieur Crispi,
    Ministre des affaires étrangères d'Italie.
    
    Je prie Votre Excellence d'agréer mes très
    sincères remercîments pour les félicitations et
    les sentiments qu'elle à bien voulu m'exprimer à
    l'occasion de mon jubilé. Veuillez croire que j'y attache
    beaucoup de prix.
    
    Giers.»
    
    27 ottobre. - Il conte Solms mi parla del nuovo ambasciatore di
    Francia signor Mariani, conciliante, souple, autorevole in materia
    di commercio27.
    China - passaporti - non sono vistati quelli dei sudditi tedeschi
    non provenienti dalla Germania. Ringraziamenti alla Francia per la
    protezione sinora prestata. L'Italia farà lo stesso. Solms mi
    chiede copia della nota che invieremo alla Francia su questo
    argomento.
    
    9 novembre. - Solms: mi dà un lavoro su Biserta.
    Mi parla del nuovo ambasciatore che il ministro Vega de Armijo vuol
    mandare a Roma. Il Vega è puro cattolico e sarebbe lieto di
    poter rendere qualche servizio al Papa. Si conserverà amico
    delle tre Potenze, senza mostrarsi ostile alla Francia.
    I francesi studiano una ferrovia da Oran a Figuig. Sarebbe una
    ferrovia militare.
    Da una Nota del 19 risulta che il Sultano fa l'amore ora col gruppo
    franco-russo, ora con la triplice. Al Sultano non converrebbe
    allearsi con le tre Potenze. Vorrebbe conoscere l'autore della
    celebre lettera della Correspondance de l'Est.
    
    20 novembre. - Il conte Kálnoky, al quale Sua Maestà
    ha conferito l'Ordine supremo della Ss. Annunziata, mi scrive
    dicendosi vivamente commosso di cotesta manifestazione di alto
    favore e dell'approvazione che il Re accorda alla linea politica che
    seguiamo, e mi esprime sentimenti di sincera cordialità.
    L'alta onorificenza conferita al conte Kálnoky attestò
    i buoni rapporti stabiliti fra l'Italia e l'Austria. L'imperatore
    Francesco Giuseppe aveva sin dal giugno manifestato la sua
    soddisfazione per i buoni risultati ottenuti dalla politica di
    Crispi. In una lettera privata del 2 giugno il conte Nigra scriveva:
    «Il conte Kálnoky mi disse confidenzialmente che S. M.
    l'Imperatore desiderava testimoniare a V. E. la sua particolare
    stima e benevolenza, conferendole il Gran Cordone di Santo Stefano,
    che è l'Ordine più elevato che si conferisca qui ai
    non-sudditi austriaci (il Toson d'Oro essendo riservato ai nazionali
    e ai principi e sovrani esteri.)»
    
    27 novembre. - De Bruck. È venuto a manifestarmi i timori di
    Kálnoky sulle cose tunisine. Gli sarebbe stato scritto che i
    rapporti tra Berio e Massicault sono tesi e che da un momento
    all'altro potrebbe esservi rottura. Il Kálnoky non vorrebbe
    che la guerra scoppiasse in Africa.
    Ho risposto che nulla v'è da temere. Berio ebbe ordine di non
    trattare la questione delle Scuole, dovendo
    di essa occuparsi il nostro Ambasciatore a Parigi, dove la questione
    dev'essere risoluta.
    A Bukarest le tre Potenze sono d'accordo.
    
    3 dicembre. - Visita di de Bruck. Boulanger dichiara di volere una
    repubblica tollerante, aperta a tutti. Qualcuno crede che egli
    sarà un secondo Monk. Audiffret-Pasquier in Senato ha
    dichiarato che si emancipa da' suoi amici della Camera. Alle
    prossime elezioni generali i conservatori voteranno per i loro e
    faranno tutto il possibile per vincere. Non potendolo, voteranno per
    Boulanger.
    Il Boulanger lavora con fortuna a preparare le elezioni. I radicali
    contano sugli opportunisti per combattere i boulangisti e la destra.
    Il presidente Carnot non darà a Floquet il diritto di
    sciogliere la Camera, riserbandolo ad un nuovo ministero Freycinet.
    
    Nei primi di dicembre l'on. Crispi riceveva sulla situazione interna
    della Francia le seguenti informazioni:
    
    «Attraversiamo una quindicina che non fu priva di incidenti ed
    emozioni; essa principiò con l'annunzio fatto da parecchi
    giornali di un colpo di Stato, ordito dal ministero Floquet contro
    il generale Boulanger ed i suoi aderenti, e si entrava in alcuni
    particolari circa le misure prese per compierlo, che al primo
    momento davano un'apparenza di verità a quella notizia; ma
    tosto si vide che essa non era che una finzione per dare luogo ad
    una interpellanza alla Camera e costringere il Ministero a spiegarsi
    sui progetti che gli erano attribuiti e smentire, in conseguenza, le
    supposte misure dichiarandole contrarie alle leggi e legandosi con
    ciò stesso in un certo modo. Benchè l'annunziato colpo
    di Stato sia stato una finzione, tuttavia non vi ha dubbio che si
    sia studiato e si pensi tuttora al modo di liberarsi dal generale
    Boulanger, la cui influenza, anzichè diminuire, tende ad
    aumentare e che si teme di più in più, a misura
    dell'approssimarsi delle nuove elezioni, che debbono aver luogo nel
    venturo anno.
    La grande dimostrazione del 2 dicembre ultimo, sulla quale si faceva
    assegnamento, da una parte, per provocare manifestazioni contro
    Boulanger, mentre dall'altra
    il municipio, che gli è ostile, sperava crearsi un
    piedistallo per coronare i suoi tentativi di assumere la suprema
    autorità sulla città di Parigi, quella dimostrazione,
    dico, andò fallita. Al contrario, in quella simultanea di
    Nevers il generale Boulanger ebbe occasione di raccogliere intorno a
    sè le opinioni diverse, ma tutte concordi per mettere fine al
    sistema attuale di governo, per il quale la considerazione pubblica
    va ogni giorno maggiormente scemando, in seguito agli scandali che
    succedono fra i membri del Parlamento, i quali si accusano a vicenda
    di corruzione pecuniaria e si abbandonano, nelle sedute pubbliche,
    ad eccessi contrari ad ogni principio di vivere civile. Così
    il Boulanger ha bel giuoco e benchè non si veda quale sia il
    suo scopo finale, se però ne ha uno, egli evita intanto di
    compromettere la sua posizione rispetto all'opinione pubblica,
    dichiarando che tutta la sua operosità ha per oggetto di
    conservare la Repubblica, minacciata e compromessa dai disordini di
    ogni specie che si rimproverano al sistema attuale.
    Quale sarà la repubblica di Boulanger se egli giunge ad
    esserne il capo? I due partiti orleanista e bonapartista sperano
    ognuno di usufruttarlo per proprio conto; ma non è
    improbabile che fra i due litiganti, il popolo esitando sulla scelta
    da fare, il generale Boulanger prenda il partito di mezzo e rimanga
    lui stesso capo della Repubblica che avrà ricostruito, la
    quale può, sotto lo stesso nome, prendere varie forme, anche
    quella di un impero, come accadde con Napoleone I, sulle cui prime
    monete si legge ancora, da una parte, République
    française, e dall'altra Napoléon empereur. È
    dubbio assai che il Boulanger possa giungere sino a questo punto; ma
    è pure inutile di pronosticare sull'avvenire,
    imperocchè in questo paese, più che in ogni altro,
    dell'indomani si è sempre incerti.
    Di questo stato di confusione d'idee in cui si trova attualmente la
    Francia si accagiona la libertà illimitata di cui abusa la
    stampa; i primi a protestare contro di essa sono quelli stessi che,
    altre volte, la propugnarono con convinzione, ed uno di questi
    è l'ex-presidente Giulio Grévy, che si confessava una
    volta di avere errato nel sostenere nel Parlamento la legge sulla
    stampa. Fra i punti che dànno luogo ad attacchi contro il
    governo, uno dei principali è il disordine finanziario dello
    Stato
    che trascina dietro sè, da un esercizio a un altro, un
    disavanzo che cresce sempre e che tosto raggiungerà il
    miliardo, senza che si veda ancora il modo di coprirlo. Si è
    proposto a tale effetto una tassa sulla rendita, ma questa venne or
    ora respinta quasi all'unanimità dalla Commissione della
    Camera; per cui, a meno che il Ministero ritiri il disegno di legge,
    questo provocherà, di certo, una discussione vivissima in cui
    esso avrà probabilmente la peggio. Ad ogni modo la questione
    finanziaria sarà quella che darà luogo alla battaglia
    dei partiti contro il Ministero, gli uni per rovesciarlo, gli altri
    per trasformarlo in senso ancora più radicale.
    In mezzo a questi intrighi ed agitazioni parlamentari il ministro
    che sembra avere preso la posizione la più solida e
    più rispettata è quello della guerra, il signor di
    Freycinet, che, nel disimpegno delle sue importanti funzioni,
    dimostra attitudini veramente speciali, per cui benchè non
    sia militare, egli ha saputo guadagnarsi la fiducia dell'esercito,
    rimanendo nei limiti delle sue specialità ed occupandosi di
    perfezionare, sotto il doppio riguardo morale e materiale, il
    potente strumento che gli uomini di guerra dovranno maneggiare. Egli
    si studia di migliorare la condizione dei soldati e degli ufficiali;
    cerca di fare sparire quelle rivalità che furono così
    funeste alla Francia; attende a specializzare le attribuzioni dei
    vari elementi che costituiscono l'esercito, fa in modo di porre un
    freno a quelle supremazie colle quali alcune armi, alcuni corpi
    tentano sempre d'imporsi; epperciò stabilisce che tutte le
    armi siano ugualmente trattate e fa in modo che le attribuzioni dei
    singoli elementi dell'esercito siano ben definite, affinchè
    ognuno concorra con tutta la propria energia, allo scopo comune.
    Nella sua qualità di distintissimo ingegnere egli si
    preoccupa dell'ordinamento delle ferrovie, affinchè la
    mobilitazione, i concentramenti si effettuino colla massima
    rapidità, e per secondare i movimenti che possano accadere
    nello attacco come nella difesa.
    L'ordinamento delle opere di fortificazioni per mettere in grado di
    resistere ai potenti mezzi di attacco testè introdotti negli
    eserciti, è oggetto della sua particolare attenzione. Questa
    si rivolge più specialmente alla fabbricazione delle nuove
    armi adatte alle potenti materie esplosive recentemente scoperte; si
    lavora con febbrile attività per dotare l'esercito di tali
    nuovi strumenti da guerra, affinchè esso ne sia interamente
    provveduto nella prima metà del venturo anno. Si ha luogo di
    pensare che la Francia, in questo momento specialmente per le
    materie esplosive, è più avanti di tutte le altre
    nazioni, ed è su questa prevalenza che si fa assegnamento per
    ottenere il vantaggio nell'attacco come nella difesa. I mezzi di cui
    questo esercito sarà tosto provveduto sono tali che una nuova
    tattica ne sarà una conseguenza necessaria; ed è
    perciò che si sta ora pensando ad elaborare una tale tattica,
    che, non avendo ancora alcun precedente, resta tuttora alquanto
    incerta. La superiorità che la Francia ha acquistato e che
    finora si mantiene nelle confezioni delle materie esplosive è
    dovuta a che quella parte del servizio di guerra è affidato
    ad un corpo di ingegneri speciale, distinto da quello di artiglieria
    ed interamente dedicato agli studi che si riferiscono a quella
    importante materia. Le ricerche che hanno condotto agli esplosivi
    ora adottati vennero eseguite nello stabilimento centrale delle
    polveri in vicinanza di Parigi, e furono sussidiate dal concorso dei
    più eminenti scienziati dell'Istituto di Francia, fra i quali
    il signor Berthelot, ex-ministro della pubblica istruzione ed autore
    di un trattato classico sulle materie esplosive. La composizione
    chimica di queste nuove polveri è sufficientemente conosciuta
    dopo che parecchie Potenze, fra le quali la Germania, ne poterono
    avere alcuni saggi; ma ciò che non si conosce bene ancora
    è la loro manipolazione. Intanto, finchè non si siano
    potuti raggiungere i risultati ottenuti dalla Francia, è
    opportuno di badare alla superiorità che sotto quel riguardo
    possiede tuttora l'esercito francese. Un ufficiale delle armi
    speciali, che ha assistito alle esperienze fatte in proposito, mi
    narrava, non ha guari, che restò meravigliato degli effetti
    di proiezioni della polvere. Essa non dà quasi fumo, il
    rumore di esplosione del fucile rassomiglia a quello di una capsula
    ordinaria; la traiettoria è talmente tesa che, sino a 500
    metri, il cambiamento dell'alzo è inutile e la forza di
    penetrazione col fucile Lebel è tale che a quella distanza le
    palle possono attraversare lo spessore di carte rilegate in libri da
    sette a otto centimetri. Si conoscono già gli effetti
    prodotti dall'esplosione dei proiettili delle bocche da fuoco; ma un
    risultato da notare è che i gaz sviluppati in queste
    esplosioni sono estremamente tossici. Dò termine a questa
    digressione militare col dire che fra i ministri attuali, quello che
    ha preso la posizione più solida è, come dissi, il
    signor Freycinet; egli si trova all'infuori delle dispute politiche,
    è tutto dedito al suo presente ufficio, si riserva per
    l'avvenire.
    Mi rimane a parlare dei rapporti apparenti attuali della Francia
    colla Russia. È da notare che molti Principi della famiglia
    imperiale russa fanno da qualche tempo soggiorni prolungati in
    Francia come a Biarritz, e specialmente a Parigi, dove trovano una
    festosa accoglienza dalla popolazione e dal rappresentante stesso
    dello Stato, il presidente della Repubblica. In questo momento la
    Russia è considerata quasi come un'alleata; il prestito di
    500 milioni, testè da essa conchiuso con una delle principali
    Banche di Parigi, è il legame che unisce i due paesi, per cui
    tutti gli sforzi degli speculatori sono rivolti a fare riuscire
    l'imprestito a detrimento degli altri valori, e specialmente degli
    italiani, che si tenta di deprimere in tutti i modi col
    rappresentare il nostro paese come rovinato per effetto della
    denunzia del nostro trattato di commercio colla Francia. Non passa
    giorno senza che nei giornali anche più seri vi sia qualche
    articolo di fondo sulla nostra condizione finanziaria per indurre i
    portatori dei nostri titoli a liberarsene per investire il loro
    denaro nei nuovi fondi russi. Però, a quanto pare, i
    detentori di fondi italiani non si lasciano facilmente sedurre, e
    quantunque il nostro paese sia dipinto sotto i più cupi
    colori, qui si sente che l'Italia è tuttora considerata come
    la Frugum alma parens, saturnia tellus, e che se vi manca un po' di
    moneta per gli scambi, vi si produce sempre abbastanza da campare
    largamente sia per il vivere, sia per il conforto della vita.
    L'irritazione contro l'Italia, benchè vada scemando, è
    lungi però dall'essere sul punto di sparire; essa è
    mantenuta dallo spirito di chauvinisme che domina anche nelle menti
    più sane, e benchè grande sia in molti il desiderio di
    un sincero e duraturo riavvicinamento con l'Italia, questo popolo
    non può ancora assuefarsi a che l'Italia, nel costituire la
    sua unità, sia sfuggita a quel protettorato, almeno morale,
    che la Francia intendeva esercitare sulla nostra nazione. Fra i
    più tenaci chauvins non è cancellata la speranza di
    uno sfasciamento dell'Italia;
    ed è perciò che i lamenti del Papa per la perdita del
    potere temporale trovano la più rumorosa eco, non solo nel
    clero, ma anche nei laici francesi, perfino in quelli che sono i
    meno praticanti ed anche liberi pensatori. Credo adunque che il
    nostro governo, mantenendo ognora fermi i principî
    d'indipendenza e di unità coi quali si è ricostituita
    la nazione, riuscirà - mostrandosi, d'altra parte,
    arrendevole nelle cose meno importanti che non compromettono quei
    principî - credo, dico, riuscirà a persuadere gli
    stranieri che siamo oramai una rispettabile nazione, mentre si
    dissiperanno quelle nubi che rendono tuttora difficili assai i
    nostri rapporti con questo paese, rapporti che abbiamo pure grande
    interesse a mantener buoni.»
    
    
    
    Capitolo Undecimo.
    
    1889.
    
    Il suicidio dell'arciduca Rodolfo di Asburgo. - La Federazione
    balcanica e una iniziativa di Crispi. - L'inaugurazione
    dell'Esposizione di Parigi. - Il pericolo di guerra con la Francia:
    missione del cardinale Hohenlohe presso Leone XIII; missione del
    deputato Cucchi presso il principe di Bismarck. - Italiani a Parigi.
    - L'abolizione delle tariffe differenziali e l'ostilità della
    Francia. - Giudizii di Spuller sulla stampa francese.
    
    Il 1889 fu nella politica internazionale un anno di gravi
    preoccupazioni e di dolorosi avvenimenti.
    Gl'incidenti di Firenze, di Massaua e di Tunisi avevano esasperato
    l'opinione pubblica in Francia, tantochè quel governo fu
    tentato di risolvere a suo vantaggio la contesa circa le scuole
    italiane in Tunisia con l'annessione della Reggenza, e, a un dato
    momento, la guerra parve imminente. L'alleanza franco-russa
    fortunatamente era ancora in fieri; chè anche in Russia
    l'irritazione era grande per la perduta influenza in Bulgaria e in
    Rumania. La triplice alleanza "costeggiata" cautamente
    dall'Inghilterra, dette allora la misura della sua forza
    fronteggiando e risolvendo man mano tutte le difficoltà,
    mostrandosi concorde e decisa, ma tenendosi sempre sulla difensiva.
    Leggendo i documenti si ha la spiegazione dell'ansietà che
    dominò in quell'epoca nelle Cancellerie d'Europa, e si
    giustificano altresì le accuse che allora si movevano alla
    Francia e alla Russia di essere esse la causa di tutte le
    inquietudini e degli enormi armamenti.
    L'amicizia e la reciproca fiducia del principe di Bismarck e
    dell'on. Crispi si erano saldate al fuoco della lotta quotidiana.
    L'Italia era senza restrizioni per la Germania, convinta che la
    politica di questa sinceramente tendeva alla pace; la Germania,
    sicura dell'Italia, ne sosteneva dovunque il prestigio e
    gl'interessi, oltre la parola del trattato di alleanza. Dai brani
    del Diario che precedono ciò risulta luminosamente.
    A capo d'anno vi fu tra i due uomini di Stato questo scambio di
    augurii:
    
    Friedrichsruh, 31/12/1888.
    
    Je prie V. E. vouloir bien agréer les vœux qu'avec ma femme
    je forme pour sa sante et pour son bonheur et de me conserver son
    amitié personnelle et les sympathies politiques qui nous
    uniront à l'avenir comme dans le passé.
    
    Bismarck.
    
    Roma, 1/1/1889.
    
    Je remercie Votre Altesse de m'avoir si aimablement devancé.
    Les vœux que Votre Altesse et Madame la Princesse de Bismarck
    veulent bien m'exprimer sont ceux que je forme de grand cœur
    à leur endroit. Mes sentiments personnels sont trop connus de
    Votre Altesse pour que j'aie à lui dire combien profondes et
    sincères sont mon amitié et mon admiration pour elle.
    Je souhaite que nos sympathies politiques soient également
    inaltérables, car de même que nous avons les amis
    communs, nos ennemis sont les vôtres.
    
    Crispi.
    
    Alla fine di gennaio, la Casa imperiale d'Austria-Ungheria fu
    colpita da una grave sciagura, il suicidio del principe ereditario
    Rodolfo.
    Su questi avvenimenti l'on. Crispi ebbe da fonte attendibile le
    informazioni che seguono: le quali pubblichiamo per contribuire a
    distruggere le varie leggende che vorrebbero gettare una peggior
    luce sull'infelice Arciduca:
    
     «Vienna, 6 febbraio 1889.
    
    Il mattino di mercoledì 30 gennaio scorso, l'Arciduca fu
    trovato nel suo letto a Mayerling, ucciso da palla alle tempia.
    Giaceva sullo stesso letto vicino a lui il cadavere, parimente
    traforato da palla alla testa, della signorina Maria Wetchera,
    figlia della vedova Baronessa e del fu barone Wetchera, già
    Agente austro-ungarico in Egitto, giovanetta diciottenne assai nota
    nella società di Vienna per la sua avvenenza.
    Si tratterebbe quindi d'un doppio suicidio.
    L'autopsia del cadavere della ragazza avrebbe rivelato che non era
    intatta, ma che non era incinta, come era stato supposto.
    Sembra che l'Arciduca avesse visto per la prima volta la giovane
    Wetchera alle corse del Derby di Vienna in primavera e fosse stato
    vivamente colpito dalla di lei bellezza. Non era mistero in Vienna
    che l'Arciduca non viveva in grande armonia colla consorte,
    arciduchessa Stefania, e che in realtà i due sposi da molto
    tempo non avevano più intimità. L'Arciduca non poteva
    più sopportare la convivenza colla moglie, e si assicurava
    perfino che avesse chiesto all'Imperatore di poter divorziare, per
    sposare la signorina Wetchera, e che ne avesse ricevuto, come ben si
    può supporre, un rifiuto accompagnato da rimproveri. La
    baronessa Wetchera madre, che non ignorava le attenzioni
    dell'Arciduca verso sua figlia, ma che si assicura avere ignorato
    fino a qual punto queste attenzioni fossero intime, aveva passato
    colla figlia qualche tempo a Londra, durante la stagione estiva, in
    giugno e in luglio; poi passò il resto dell'estate a
    Reichnau, non lungi da Vienna. L'intimità fra la giovane e
    l'Arciduca, favorita, dicesi, dalla compiacenza d'una signora, amica
    della casa Wetchera, e dal comprato silenzio della
    domesticità, avrebbe cominciato nello scorso ottobre e
    avrebbe continuato fino al momento della catastrofe. I luoghi di
    convegno sarebbero stati il Prater, il giardino ed il palazzo di
    Modena, appartenenti all'arciduca Francesco d'Austria-Este, la casa
    stessa della baronessa Wetchera, in di lei assenza, e la casa
    dell'arciduca a Mayerling. Questa casa, o meglio l'agglomerato di
    case di Mayerling, antico convento,
    poi residenza di campagna, era divenuto da qualche anno
    proprietà dell'Arciduca, che ne aveva fatto una residenza di
    caccia; ed è situato in una valle, fiancheggiata da boschi,
    che si dirama dalla Helenenthal, valle principale di Baden presso
    Vienna.
    Domenica 27 gennaio scorso, l'arciduca Rodolfo assistette insieme
    coll'Imperatore, con varii Arciduchi e Arciduchesse, e
    coll'arciduchessa Stefania, sua moglie, ad una serata presso il
    principe e la principessa di Reuss. A questa serata, a cui assisteva
    tutto il Corpo Diplomatico estero e tutta l'alta società di
    Vienna, c'era pure la baronessa Wetchera colla figlia. Parlai, io
    stesso, alla prima e stetti qualche tempo vicino alla seconda, non
    senza notare che i di lei occhi erano costantemente fissi sul
    Principe Imperiale. Mi si dice che questi le parlò. Io non lo
    vidi. Ma sembra certo che, sia di viva voce, durante quella serata,
    sia, come pure si dice, con un biglietto mandato l'indomani, la
    signorina avvertì il Principe che sarebbe andata a
    raggiungerlo a Mayerling.
    Il lunedì 28 gennaio, nel pomeriggio, l'Arciduca si
    recò a Mayerling e invitò a una partita di caccia, per
    l'indomani mattina, suo cognato il duca Filippo di Sassonia Coburgo
    ed il conte Hoyos, suo famigliare.
    La signorina Wetchera, nel pomeriggio dello stesso giorno di
    lunedì 28 gennaio, eludendo la sorveglianza della dama di
    compagnia che era entrata per qualche istante nel magazzino di Rodek
    al Kohlmarkt, si mise in un fiacchero e pervenne, la sera stessa,
    alla casa di caccia di Mayerling. La madre, inquieta di questa fuga,
    si sarebbe diretta, per avere notizie della figlia, alla polizia,
    che non seppe o non volle dargliene. Fatto è che la ragazza
    passò la notte del 28 al 29 gennaio coll'Arciduca e nella di
    lui camera. Il martedì mattina, 29 gennaio, l'Arciduca non
    prese parte alla caccia e fece dire al duca Filippo di Coburgo e al
    conte Hoyos che avessero a cacciare senza di lui. Dopo la caccia,
    nel pomeriggio, l'Arciduca, che avrebbe dovuto far ritorno a Vienna
    per assistere ad un pranzo di famiglia, pregò il duca Filippo
    di Coburgo, che doveva assistere allo stesso pranzo, di scusarlo
    presso l'Imperatore e l'Imperatrice, e telegrafò pure
    all'arciduchessa Stefania per iscusarsi, allegando una leggiera
    indisposizione.
     Il conte Hoyos rimase a Mayerling. La caccia doveva
    ricominciare di buon'ora il mattino seguente, mercoledì 30
    gennaio.
    L'Arciduca passò ancora quella notte colla signorina
    Wetchera. Il fiaccheraio dell'Arciduca, Bratfisch, fu ammesso,
    dicesi a tarda sera, alla presenza dell'Arciduca e della giovane e
    cantò per divertirli.
    E qui si passò nelle prime ore del mattino del 30, la
    tragedia del doppio suicidio.
    La giovane parrebbe essere stata uccisa la prima di mano
    dell'Arciduca, in seguito a risoluzione presa da entrambi di morire
    insieme; ma è anche possibile che essa si sia uccisa di
    propria mano. Pare certo però che sia morta per la prima,
    perchè fu trovata ben composta nel letto colle mani
    incrociate. L'Arciduca invece pendeva dalla parte superiore del
    corpo un po' fuori del letto, col braccio penzoloni, e con spruzzi
    di sangue sul petto, gettati a quanto pare dalla ferita della
    giovane morta.
    Queste sono le supposizioni fondate sull'ispezione dei cadaveri. Non
    hanno tuttavia il carattere di certezza. Le circostanze immediate e
    concomitanti della doppia uccisione non ebbero testimoni. Per quale
    straordinaria eccitazione d'animo e di sensi, per quale reciproca
    esaltazione di spirito in delirio, o per quale follia dell'uno o
    dell'altra o d'entrambi, tale catastrofe sia accaduta, è un
    segreto che starà probabilmente sepolto nelle due tombe,
    nella modesta fossa di Heiligenkreuz e nell'arca della Chiesa dei
    Cappuccini di Vienna.
    Come la notizia sia stata portata a Vienna dal conte Hoyos, come sia
    stata inviata sul luogo una Commissione imperiale di cui facevano
    parte il prof. Wiederhofer, medico della Corte e il Cappellano della
    corte, e come il corpo del defunto Arciduca sia stato trasportato a
    Vienna nella notte dal 30 al 31 gennaio, fu raccontato, fin dai
    primi giorni, dalla stampa ufficiale viennese.
    Il cadavere della giovane, dopo fatta l'autopsia, fu sepolto colla
    maggior possibile secretezza, ma coll'assistenza della madre nel
    cimitero di Heiligenkreuz, vicino circa quattro chilometri a
    Mayerling.
    Come lugubre episodio del dramma, il cacciatore dell'Arciduca,
    confidente o per lo meno conscio di questi
    amori, si sarebbe pur egli suicidato. Il di lui corpo sarebbe stato
    seppellito a Baden; la circostanza avrebbe contribuito ad
    accreditare la versione, corsa nei primi momenti, che l'Arciduca
    fosse stato ucciso da un guarda-caccia o guarda-foreste.
    La lettera dell'Arciduca al sig. De Szögyeny, resa ora pubblica
    nella sua sostanza per mezzo dei giornali, nella quale è
    annunziato il proponimento del suicidio del Principe, è stata
    scritta nel mattino del 30 gennaio, e quindi immediatamente prima,
    forse pochi minuti prima del colpo. Ma rimane incerto, per ora
    almeno, se sia stata scritta prima delle due morti, ovvero
    nell'intervallo fra l'una e l'altra».
    
    «Vienna, 14 febbraio 1889.
    
    Aggiungo alcuni nuovi particolari, appresi da fonte autorevole,
    intorno alla morte dell'arciduca Rodolfo. Il lunedì 28
    gennaio, nel pomeriggio, la giovane Maria Vetsera (così deve
    essere scritto questo nome), uscì di casa in compagnia della
    contessa Maria Larich, nata von Wallersee (figlia di S. A. R. il
    duca Lodovico di Baviera). Nella via del Kohlmarkt, la contessa
    Larisch entrò nel magazzino dei fratelli Rodeck. Maria
    Vetsera colse questo momento per fuggire, e si recò, come
    narrai precedentemente, a Mayerling, dove l'Arciduca si era recato
    nello stesso giorno. La ragazza portò con sè il
    revolver, col quale fu poi compiuto il doppio suicidio. La madre,
    baronessa Vetsera nata Baltazzi, avvertita della disparizione della
    figlia e presumendo dove essa doveva trovarsi, si recò nella
    stessa sera presso il direttore di polizia, barone Francesco von
    Krauss, e l'indomani presso il Ministro dell'Interno, che l'avrebbe
    rassicurata, dicendole che l'Arciduca doveva venire il giorno stesso
    a pranzo dall'Imperatore, che gli avrebbe parlato in proposito e che
    intanto non conveniva fare scandali. Il 30, nel mattino, la madre
    vieppiù inquieta si recò alla Burg e chiese
    dell'Imperatrice. Sua Maestà che aveva di già appresa
    la notizia della doppia morte, volle dare ella stessa alla baronessa
    Vetsera la dolorosa notizia, e appena questa introdotta in di Lei
    presenza, le disse piangendo: «I nostri poveri figli sono
    morti».
    Nessuno sa, è bene ripeterlo, come la catastrofe sia
    accaduta. Ma è certo che il revolver fu portato dalla ragazza
    e che questa morì per la prima. Si deve supporre, che essa, o
    in seguito ad un rifiuto dell'Arciduca, d'accondiscendere ad una
    proposta di fuga e di vita comune, o per disperazione in previsione
    d'un abbandono più o meno prossimo, o per sovreccitazione
    d'uno spirito dominato da prepotente passione, si tirò alle
    tempia il colpo di revolver che l'uccise. Se questa ipotesi che
    sembra probabile è vera, si spiega facilmente come
    l'Arciduca, che non aveva con sè nessun revolver, che pareva
    lieto, che aveva fatto inviti a caccia per quel giorno e per
    l'indomani, che s'era divertito nella prima parte della notte a
    sentire cantare il fiaccheraio Bratfisch, trovandosi, ad un tratto,
    in presenza del cadavere d'una ragazza di buona famiglia, che s'era
    uccisa per amor suo e nel suo letto, e prevedendo le conseguenze
    d'una tale catastrofe per la sua fama, per il suo avvenire e per
    l'onore della sua Casa, sia stato condotto al proposito d'uccidersi
    anch'esso. Sembra che un certo tempo sia difatti trascorso fra la
    morte della ragazza e quella dell'Arciduca. Nel frattempo questi
    avrebbe scritto le lettere da lui lasciate e segnatamente quella al
    sig. de Szögyeny.
    L'ipotesi che l'Arciduca e la ragazza si siano uccisi per accordo
    deliberato insieme non sembra ammissibile.
    L'Arciduca aveva notoriamente altre relazioni simultanee, il che
    escluderebbe in lui l'esistenza d'una passione prepotente e furiosa.
    È più verosimile che l'Arciduca abbia considerato le
    sue relazioni colla giovane Vetsera nello stesso modo che quelle che
    aveva avuto e aveva con altre donne, e che abbia preso l'amore di
    questa ragazza per lui con eguale leggerezza o indifferenza. Invece
    si sarebbe a un tratto trovato in presenza d'una passione violenta
    che l'avrebbe spaventato o annojato, e alla quale avrebbe voluto
    sottrarsi. Il convegno di Mayerling, se pure vi fu convegno e non
    sorpresa, sarebbe stato non chiesto, ma subìto dall'Arciduca;
    e la ragazza vi si sarebbe recata, munita di revolver da lei
    procuratosi in Vienna, come fu accertato, colla determinazione di
    uccidersi se avesse avuto la certezza di un prossimo abbandono.
    Questa, ripeto, è pura ipotesi, ma fra tutte quelle imaginate
    finora è la più fondata.
     Contrariamente a quanto fu narrato in sulle prime, la madre,
    baronessa Vetsera, non fu lasciata andare a Mayerling. Ci andarono
    invece, avvertiti appositamente dalla polizia, un fratello di lei,
    sig. Baltazzi e suo cognato barone di Stockau, e ciò nella
    sera del 30. Nel pomeriggio di quel giorno la Commissione Imperiale
    recatasi a Mayerling fece trasportare il cadavere della ragazza,
    avvolto in un lenzuolo, in una camera vicina, che fu chiusa e
    sigillata. Poi fu fatta la ricognizione del cadavere dell'Arciduca e
    questo fu trasportato nella notte a Vienna. In quella medesima notte
    il sig. Baltazzi e il barone di Stockau furono autorizzati a portare
    con sè il cadavere della propria nipote, ma secretamente,
    nella propria carrozza. Essi difatti trasportarono il cadavere fino
    al Convento di Heiligenkreuz, dove, chiuso in una cassa, fu
    provvisoriamente seppellito nel cimitero. La madre ebbe poi il
    permesso di far trasportare, quando vorrà, in altro luogo, la
    cassa, che intanto sta nel cimitero di Heiligenkreuz.»
    
    L'idea di cercare la soluzione della questione d'Oriente in una
    Federazione dei gruppi nazionali della penisola balcanica è
    antica.
    L'on. Crispi, il quale da lungo tempo l'apprezzava, anche in omaggio
    al principio di nazionalità che aveva trionfato nel
    Risorgimento italiano, prese l'iniziativa di tradurla in atto. Ne
    parlò dapprima a Bismarck e a Kálnoky; e l'intento
    immediato essendo quello di opporre una diga all'invadenza della
    Russia, e di rafforzare la Triplice in Oriente, ebbe i due
    Cancellieri consenzienti.
    In aprile 1889, Crispi propose, come avviamento alla Federazione,
    una lega militare tra Rumenia, Bulgaria e Serbia. Ed ecco in quali
    circostanze.
    Il Re Carlo e i liberali rumeni, offesi per l'ingratitudine con la
    quale la Russia, annettendosi la Bessarabia, aveva compensato il
    valido concorso dell'esercito rumeno nella guerra del 1877,
    ostacolavano l'influenza russa nel loro paese, e costruivano
    fortificazioni lungo il Seret per precludere ai russi la miglior via
    d'invasione nei Balcani.
    Il ministro rumeno a Pietroburgo presentando, nei primi di aprile di
    quell'anno, le sue credenziali allo Czar, questi gli disse che "la
    Rumania non comprendeva affatto i propri interessi"; e si espresse
    in termini vivi "contro la dinastia colà regnante di principi
    stranieri". E anche il ministro degli Affari esteri, Giers, parlando
    in quei giorni coll'ambasciatore d'Italia, Marocchetti,
    deplorò "i continui errori della politica rumena" e
    osservò che "l'attuale dinastia non essendo ortodossa, non
    corrisponde ai veri interessi del paese".
    Andato al potere, per le esigenze della situazione parlamentare
    rumena il partito conservatore, amico della Russia, il signor Lascar
    Catargi che lo presiedeva fece le seguenti dichiarazioni:
    "La politica estera che il signor Carp voleva seguire è
    talmente antinazionale, che se egli osasse confessarla non potrebbe
    probabilmente continuare a vivere in questo paese.
    Il Ministero Rossetti-Carp, al pari del Governo di Bratiano,
    è stato un governo personale del Re. - È dovere del
    Parlamento accusare qualsiasi governo personale, e se il paese vuole
    che il Re non possa più fare una politica personale, deve
    esso abbattere tutti i governi di questo genere. Non aggiustate il
    manico alla falce."
    L'irriverenza di siffatto linguaggio e l'esplicito biasimo inflitto
    alla politica estera inaugurata dal Bratiano ed accettata dal Carp,
    indisposero tutta la stampa liberale. Anche l'Inghilterra se ne
    preoccupò e lord Salisbury si affrettò a far pratiche
    attive per incoraggiare il re Carlo a non lasciarsi sopraffare dalla
    Russia.
    L'on. Crispi, il 15 aprile, telegrafava agli ambasciatori italiani a
    Vienna e a Berlino.
    
    «Dalle nostre informazioni risulta che il linguaggio tenuto
    dal sig. Catargi in Parlamento sarebbe assai poco rassicurante in
    quanto che costituirebbe una vera requisitoria contro la politica
    estera del Gabinetto caduto e sarebbe irriverente per il Re che
    accusa di avere voluto avere un governo personale. Questo contegno
    del primo Ministro rivela una situazione grave sulla quale crederei
    superfluo richiamare l'attenzione di codesto Governo se non mi
    sembrasse opportuno ed urgente stabilire una comune linea d'azione
    in vista di possibili rivolgimenti in Rumania.
    Voglia esprimere la mia preoccupazione e riferire.»
    Il 18 aprile Crispi telegrafava all'Ambasciatore a Berlino:
    Apprendo da Pietroburgo che il Governo russo togliendo pretesto
    dalla espulsione di alcuni sudditi russi dalla Rumania, ha ordinato
    al suo Ministro a Bukarest di chiedere:
    1.) Inchiesta severa;
    2.) Punizione dei funzionari che hanno espulso;
    3.) Indennità pecuniaria.
    È chiaro che tali domande conducono ad una di queste due
    conseguenze: o far cedere il Governo rumeno in una questione
    d'ordine interno e di polizia, nella quale è solo giudice
    competente; o se il Governo non cede, far seguire le accennate
    intimazioni da una azione che comprometta l'autonomia rumena.
    Ho messo in avviso i Gabinetti di Vienna e di Londra. Credo
    opportuno far notare anche a Berlino che una guerra in Oriente
    potendo avere eco sul Reno, sarebbe bene che codesto Gabinetto
    s'interessasse attivamente di quanto avviene in Rumania.
    
    Da Berlino fu risposto che il Governo germanico divideva gli
    apprezzamenti di Crispi, ma che non avendo la Germania interessi
    vitali in Rumania, spettava più specialmente all'Austria di
    vigilare verso i paesi danubiani. Il conte di Bismarck opinava che
    per ristabilire una comune linea di azione in vista di eventuali
    rivolgimenti in Rumania, sarebbe stato bene che Crispi si rivolgesse
    all'Austria e all'Inghilterra "spiegando i motivi della sua provvida
    iniziativa".
    Il conte Kálnoky, invece, rispose di essere preoccupato della
    situazione, ma che credeva il ministero rumeno poco vitale e la
    Russia aliena dalla guerra; una intesa sarebbe stata allora
    prematura.
    Il 20 aprile Crispi spediva i seguenti telegrammi:
    
    R. Ambasciata Italiana,
    Vienna.
    
    (Riservatissimo). - Mi asterrò dall'apprezzare le opinioni
    del conte Kálnoky riassunte nel suo telegramma di ieri. La
    situazione a noi pare più seria che a codesto Governo, e
    sebbene esso sia più direttamente interessato di noi nella
    questione, sento il dovere di considerare certe possibilità,
    forse probabili eventualità. Non insista per un'intesa
    poichè il conte Kálnoky non crede giunto il momento,
    ma mostri la convenienza di promuovere fra la Serbia, la Rumania e
    la Bulgaria, in previsione di una guerra, un patto militare federale
    affinchè, scoppiando le ostilità, le loro forze
    dipendano da un solo capo e procedano con un piano unico. Ho motivo
    di credere che questo concetto sorriderebbe a Cristic e che il re
    Carlo non sarebbe contrario ad unirsi agli altri Stati Balcanici,
    egli che tempo fa manifestava l'intenzione di stringere accordi
    doganali con la Bulgaria. Qualora il conte Kálnoky convenisse
    nell'idea, si combinerebbe il modo per procedere d'accordo verso i
    Governi interessati.
    
    R. Legazione Italiana,
    Agenzia Italiana,
    Belgrado
    Sofia
    
     (Riservatissimo). - Desidero sapere se il concetto di una
    federazione militare, che in caso di guerra nella Penisola balcanica
    porrebbe gli eserciti Serbo, Bulgaro e Rumeno sotto un unico capo e
    ne collegherebbe i movimenti con un unico piano, troverebbe
    favorevole accoglienza presso codesto Governo. Metta avanti l'idea
    con somma prudenza, facendone vedere i vantaggi, senza alcuna
    proposta. Tastato così il terreno, riferisca.
    
    Ma la proposta non incontrò il gradimento di Kálnoky.
    
    «Riferii a Kálnoky - telegrafava l'ambasciatore Nigra
    il 23 aprile - la opinione di Vostra Eccellenza su di un patto
    militare tra gli Stati Balcanici. Kálnoky mi ha risposto che
    non domanderebbe di meglio, ma crede: 1.) che la cosa non ha ora
    alcuna probabilità; 2.) che non avrebbe probabilità se
    non nel caso di necessità e quando gli eventi fossero
    prossimi. Ciò è ovvio; 3.) che lo Czar non ha nessuna
    intenzione di guerra e che le Potenze alleate non devono fornirgli
    alcun pretesto per cambiare attitudine, provocando una lega militare
    nei Balcani.»
    
    Alle quali argomentazioni rispondeva l'on. Crispi:
    
    Per quanto riguarda una federazione balcanica sono d'avviso che
    bisogna prepararla in tempo di calma e non quando gli avvenimenti
    siano per precipitare. Ho ragione di pensare che l'idea di simile
    confederazione non sia mal veduta a Berlino, e son certo che a
    Belgrado si sia molto propensi ad attuarla. Proponendo un accordo a
    questo riguardo tra le Potenze alleate, non dicevo che esso dovesse
    esplicarsi in modo violento e subitaneo, bensì con la
    necessaria prudenza, affinchè non sorgessero sospetti atti ad
    ottenere un effetto contrario a quello cui mirerebbe l'accordo.
    Comunque sia non turberò la calma del conte Kálnoky,
    nella speranza che le Potenze non abbiano a pentirsi dell'indugio.
    
    E il 25 aprile, in seguito a nuove notizie allarmanti circa le
    intenzioni del governo russo verso la Rumania, soggiungeva:
    
    Quest'ultimo concetto di federazione militare balcanica non
    può e non deve, naturalmente, attuarsi che per via di
    consigli, acciocchè paia spontaneamente voluta dai tre
    governi, non da altri suggerita, molto meno imposta. Nè credo
    si debba attendere l'ultimo momento per procurare quell'accordo. Ove
    la guerra scoppi non è più luogo a federazione, ma ad
    alleanze, e queste si stringono secondo l'interesse del momento. Non
    divido gli apprezzamenti ottimisti del conte Kálnoky, al
    quale auguro, come a noi pure, che la Russia si conduca con calma
    nella questione che pare voler suscitare in Rumania.
    
    Nella tornata del 3 maggio della Camera dei deputati l'onorevole
    Crispi, interpellato e biasimato da alcuni deputati dell'Estrema
    sinistra per un congedo accordato all'Ambasciatore d'Italia presso
    il governo francese alla vigilia dell'inaugurazione dell'Esposizione
    di Parigi, rispose28:
    
    «Il governo della Repubblica francese per la solennità
    del centenario del 5 maggio e per l'inaugurazione dell'Esposizione
    universale, non invitò il corpo diplomatico: quindi da parte
    nostra non ci potevano essere rifiuti. (Si ride a destra. - Rumori
    all'estrema sinistra).
    Il congedo dell'onorevole generale Menabrea non fu nè
    imposto, nè consigliato da me. Sin dal 3 aprile, il nostro
    Ambasciatore chiese al Ministro degli esteri di permettergli di
    venire in Italia, e il permesso subito gli fu concesso.
    (Interruzioni all'estrema sinistra).
    Presidente. - Non interrompano, onorevoli colleghi, li prego!
    Crispi, presidente del Consiglio. - Ciò posto cadono tutti i
    ragionamenti politici, tutte le narrazioni dei nostri onorevoli
    colleghi dell'estrema sinistra; e potrei qui terminare.
    Io non ho nulla a cangiare alle cose dette il 25 giugno 1887 quando
    risposi all'onorevole deputato Cavallotti.
    Non ho da difendermi dalle accuse di debolezza o di mancanza a
    doveri internazionali, poichè questi non sono in questione;
    non ho neanche bisogno di dire alla Camera come intenda governare il
    paese, imperocchè essa, dopo due anni da che sono al potere,
    ha potuto sapere e sa come mi conduco all'interno, come mi sono
    condotto o mi conduco all'estero.
    Duolmi soltanto che il deputato Ferrari, dopo aver combattuto i
    vivi, abbia ricordata la tomba di un principe, la quale è
    circondata dalla pietosa simpatia di tutto il mondo. (Benissimo!
    Bravo!)
    Lasciamo, signori, l'oratoria e le frasi grosse e grasse!
    (Ilarità). Giudichiamo il mondo quale è; non è
    necessario che si facciano professioni di fede: siamo tutti figli
    della rivoluzione; e qual maggiore rivoluzione, o signori, di quella
    per cui noi siamo qui? (Benissimo!)
    Ogni paese ha le sue date illustri, ed i nostri colleghi ricordando
    quella del 5 maggio 1789, credo non abbiano ricordata la migliore
    della rivoluzione francese.
    Avrei capito che avessero ricordata la notte dal 4 al 5 agosto 1789,
    quando furono aboliti i privilegi, e fu fatta la celebre
    dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Del resto, noi
    abbiamo qualche data migliore, quella del 20 settembre 1870 (Bene a
    destra e al centro) la quale, abolendo l'ultimo avanzo del
    feudalismo politico, dette ai popoli completa ed intera la
    libertà di coscienza. (Scoppio di applausi da tutte le parti
    della Camera.)
    Noi non abbiamo mai domandato agli altri che questa data
    festeggiassero, perchè ogni paese festeggia le sue, e non so
    perchè si abbia tanta fretta, tanta sollecitudine, tanto
    desiderio di festeggiare le date celebri delle altre nazioni, quando
    abbiamo le nostre che sono così gloriose. (Bravo! - Applausi
    prolungati)».
    
    Realmente, l'ambasciatore Menabrea aveva chiesto il congedo con una
    lettera del 3 aprile che cominciava con queste parole:
    "Avvicinandosi le feste Pasquali, mi rivolgo alla cortesia di V. E.
    col pregarla di darmi l'autorizzazione di recarmi per quell'epoca in
    Roma, come son solito a farlo ogni anno, per conferire con l'E. V.
    sulle cose che interessano i rapporti dell'Italia colla Francia."
    L'on. Crispi non aveva motivo di negare il congedo, poichè
    sapeva che tutti gli ambasciatori accreditati presso il governo
    francese avevano ordine dai rispettivi governi di non intervenire
    alla inaugurazione dell'Esposizione e si disponevano ad assentarsi
    da Parigi. Quello che in Italia parve un gesto ostile di Crispi
    verso la Francia, era una decisione di tutta l'Europa monarchica,
    compresa la Russia.
    Il 20 aprile fu tenuta una riunione degli ambasciatori presenti, a
    Parigi. L'Incaricato d'Affari Ressman, il quale rappresentava il
    Menabrea assente, informava l'on. Crispi che qualcuno degli
    intervenuti negava anche di far intervenire alla cerimonia
    gl'Incaricati d'Affari; però tale intervento poi fu deciso,
    ma ufficioso soltanto, così che gli Incaricati non dovevano
    indossare uniforme, nè seguire il Presidente della Repubblica
    nel giro d'inaugurazione. "Prevedendo - scriveva il Ressman - la
    resistenza d'una parte del Corpo diplomatico, il governo francese
    già da tempo dichiarò che per ben distinguere ogni
    commemorazione politica da una festa d'indole puramente industriale,
    egli celebrerebbe in Versaglia il centenario della riunione degli
    Stati Generali, il di 5 maggio, e non vi chiederebbe l'intervento
    dei Rappresentanti esteri, ma inviterebbe bensì il corpo
    diplomatico alla cerimonia non politica del 6 maggio in Parigi. Gli
    ambasciatori non ammettono questa distinzione, nè credono che
    la festa di Versaglia possa, più di quella seguente del 6
    maggio, considerarsi come un omaggio alla rivoluzione. E in questo
    ordine d'idee, essi già convennero che sarà loro
    ugualmente impossibile d'intervenire al banchetto che la
    municipalità di Parigi darà il dì 11 maggio e
    cui annunzia di voler convitare tutto il Corpo diplomatico, oppure
    alla rivista ed alle feste del 14 luglio prossimo, centenario della
    presa della Bastiglia."
    Per una doverosa riserva, l'on. Crispi affermando alla Camera che il
    Corpo diplomatico non era stato invitato, ne tacque i motivi, ma
    egli non prese alcuna iniziativa e non si dimostrò in quella
    circostanza, meno del Gran Cancelliere russo, amico della Francia.
    
    L'orizzonte politico non era sereno; le condizioni interne della
    Francia e il linguaggio aggressivo de' suoi giornali destavano gravi
    preoccupazioni. Crispi da tempo si era dedicato a rafforzare la
    difesa nazionale. Le seguenti lettere al ministro della Guerra,
    generale Bertolè, esprimono le sue ansie:
    
    «Roma, 19 aprile 1889.
    
    Caro Bertolè,
    
    Il 1889 è un anno di preparazione. A tale scopo abbiamo
    proposto alla Camera ed abbiamo ottenuto, dopo lunga e viva
    discussione, la legge del 30 dicembre 1888.
    Siamo al quarto mese dell'anno e temo, almeno mi si dà a
    credere, che tanto per la fabbricazione delle armi, quanto per la
    difesa delle coste, i forti di sbarramento e la difesa della Spezia,
    il lavoro sia appena cominciato o non lo sia ancora.
    Voi comprenderete, amico carissimo, che la vostra e la mia
    responsabilità sono gravi e se scoppiasse la guerra e non
    fossimo pronti, potremmo, voi ed io, sentire le conseguenze di un
    disastro, del quale veramente non sarebbe giusto che a me fosse data
    anche in piccola parte la colpa.
    Sento quindi il bisogno di pregarvi a voler provvedere con la
    massima sollecitudine perchè la legge del 30 dicembre 1888
    abbia la sua esecuzione. Vi prevengo, che l'uguale preghiera ho dato
    ai nostri colleghi della marina e dei lavori pubblici: al primo per
    le fortificazioni della Maddalena e per quelle opere che da lui
    dipendono per la difesa delle coste, ed al secondo per la
    costruzione dei binarî e per l'ingrandimento delle stazioni,
    gli uni e l'altro tanto necessarii in caso di movimento di truppe.
    E poichè ho ricordato le truppe, permettete che io richiami
    la vostra attenzione sul sistema di mobilitazione che la sola
    Italia, fra tutte le grandi Potenze, continua a praticare e il quale
    è costoso e lento, e in caso di guerra può essere
    pericoloso.
    Ne parlai al generale Cialdini, il quale si disse favorevole al
    metodo prussiano e per lo meno accetterebbe il metodo francese, il
    quale è una via di mezzo tra il nostro ed il prussiano. Il
    generale Cialdini fece una sola osservazione ed è quella
    della convenienza politica della quale lasciò a me il
    giudizio.
    Dopo 29 anni ch'esiste il regno d'Italia mi sembra strano, pur
    troppo strano, che si possa dubitare del nostro paese. Il sentimento
    nazionale è profondo in tutte le classi della popolazione e
    con le 29 leve si è talmente rimescolata cotesta popolazione
    che la fusione è compiuta.
    Aggiungete che la formazione dei corpi locali avrebbe il vantaggio
    che viene dal pungolo dell'emulazione. Il Borbone aveva i reggimenti
    siciliani costituiti con l'arruolamento dei volontari, e nessuno
    dubitò mai del loro valore e della loro energia. A Curtatone
    uno di cotesti reggimenti fu alla prova del fuoco e lasciò
    memorie gloriose sul campo di battaglia.
    L'impero austriaco è composto di parecchie nazionalità
    e quei governanti i quali dovrebbero diffidare della divisione delle
    razze e della varietà delle genti, non sempre amiche e spesso
    rivali, adottarono il sistema territoriale. Grazie a Dio! l'Italia
    è tutta di un pezzo e sono italiani tutti quelli che abitano
    la penisola.
    Il sistema territoriale nell'esercito porterebbe un grande
    discentramento dell'amministrazione militare e grandissime economie
    nella medesima....
    Del resto il sistema territoriale esiste nell'artiglieria e negli
    alpini, ed a nessuno venne mai in mente che cotesti corpi siano
    animati meno degli altri dello spirito nazionale e possano alla
    prima occorrenza mancare ai loro doveri.
    Coraggio, adunque, e sia vostra la gloria della riforma, della quale
    vi ho parlato e della quale molti sono i partigiani nel nostro
    esercito.
    Conchiudo dopo ciò sintetizzando i concetti della mia
    lettera: affrettate le opere della difesa nazionale e trasformate,
    migliorandolo, il metodo della mobilitazione delle nostre truppe.
    Non vi è tempo da perdere.
    
    L'aff.mo Vostro
    F. Crispi.
    
    Roma, il 10 luglio 1889.
    
    Mio caro Bertolè,
    
    (Riservata). - Richiamo la vostra attenzione sulle continue
    diserzioni, le quali avvengono nel Corpo degli Alpini. Esse indicano
    un male cronico che bisogna curare con energia e presto....
    Prendo questa occasione per farvi riflettere che i grandi comandi
    del nostro Esercito non sono tutti bene affidati. Bisogna svecchiare
    il corpo dei nostri Generali e questo il più presto
    possibile.
    La Germania ha compiuto cotesta opera, tanto gelosa quanto
    necessaria alla difesa dello Stato. Ed in Germania gli ufficiali
    avevano l'aureola delle grandi vittorie, la quale manca intieramente
    ai nostri.
    Non tralascierò, scrivendovi, di raccomandarvi la maggiore
    sollecitudine e le maggiori cure nella fabbrica delle armi, la
    quale, a quanto io ne so, va molto a rilento.
    L'Europa al presente è un vulcano, che può da un
    momento all'altro erompere, e bisogna trovarsi pronti. Ogni giorno
    ci svegliamo col pericolo che scoppi la guerra.
    I grandi Stati affrettano gli armamenti con cura febbrile. Noi
    sventuratamente siamo indietro a tutti e siamo i primi esposti agli
    attacchi nemici.
    La vicina Repubblica ha preparato, in mare e per terra, quanto
    occorre per assalirci. Grande è la responsabilità che
    pesa sul Ministero, e voi, al quale è affidata la difesa
    nazionale, dovete comprenderlo meglio di tutti.
    Ne ho parlato al Re ed ho fatto comprendere a S. M. essere suo
    diritto e dovere l'occuparsene.
    La prossima guerra non può essere ristretta nelle proporzioni
    di quelle del 1859 e del 1866, e le ire ed i risentimenti son tali -
    e gli strumenti della lotta sono così potenti, che qualunque
    ne sia l'esito, sarà una catastrofe.
    Ricordatevi che questa volta non basterà l'onore di saperci
    battere, ma bisognerà vincere, vincere a qualunque costo.
    I francesi, per darsi ragione contro di noi, han voluto costituire
    la convinzione, nel loro paese e nel nostro, che io voglio fare la
    guerra. I miei avversari in Italia si prestano a cotesta indegna ed
    antipatriottica manovra.
    Nessun uomo di Stato può volere la guerra. Ed io non posso
    volerla e perchè non siamo forti abbastanza e perchè,
    se fossimo forti, non oserei affrontare i risultati di un conflitto,
    il cui esito non è mai sicuro.
    Vogliate, caro Bertolè, riflettere a tutto ciò e fate
    per la parte vostra che il Re e la patria nostra non abbiano a
    dolersi di noi.
    
    Vostro aff.mo
    F. Crispi.
    
    In luglio, l'irritazione della Francia, cresciuta sino al
    parossismo, cagionò un grande allarme. Da varie parti, Crispi
    era informato che quel governo cercava un pretesto per rompere con
    l'Italia, e aveva notizie sicure di pressioni francesi sul Vaticano,
    intese a indurre Leone XIII a partire da Roma. L'ambasciatore di
    Francia presso il Papa, Lefèvre de Behaine, si era recato a
    Parigi alla fine di giugno ed era tornato al suo posto, autorizzato
    a promettere formalmente al vecchio Pontefice - irritato per la
    recente inaugurazione di un monumento a Giordano Bruno in Campo di
    Fiori - che la Francia assumeva su di sè la soluzione della
    "questione romana", se glie ne avesse dato occasione abbandonando la
    sua sede.
    Il 12 luglio i timori di Crispi furono corroborati da informazioni
    precise di autorevole persona avente larghe relazioni in Francia.
    Gli era impossibile non tenerne conto, conscio com'era delle
    responsabilità sue dinanzi al paese.
    Il Diario dice:
    
    12 luglio. - Viene ... e mi racconta notizie avute da S.
    La sera chiamo Rattazzi [ministro della Casa Reale], che arriva
    verso le 11. Chiedo udienza al Re. Alle 11 1/2 mi scrive che il Re
    mi riceverebbe la domani alle 10 ant.
    
    13 luglio. - Alle ore 10 dal Re. Informo delle possibili
    aggressioni. Necessità di difesa. Vedere il Ministro della
    Guerra Bertolè, e riunire un Consiglio speciale, cioè,
    Bertolè, Brin [ministro della Marina], Cosenz [capo dello
    Stato Maggiore], io ed il Re.
    Alle 11 viene Pelloux [S. Segretario di Stato alla Guerra] e mi
    dà conto di diserzioni nel corpo degli Alpini a S. Dalmazzo.
    Scrivo a Brin. Viene alle 3-1/2. Lo informo. Si discutono le
    precauzioni da prendere.
    Alle 11 torna Rattazzi. Il Re chiamò il Bertolè ed
    ebbe con lui un lungo colloquio. Bertolè è pronto a
    fare quanto desidero. Non vorrebbe spargere allarmi, ma far tutto
    con prudenza.
    
    14 luglio. - Alle 9-1/2 ant. dal Re.
    Alle 2-1/2 viene Bertolè alla Consulta. D'accordo su tutto.
    Mobilitazione - Armi - Stato Maggiore - Comando superiore -
    Comandanti dei Corpi d'armata. S'intenderà con Cosenz e con
    Brin per prendere d'accordo disposizioni atte a impedire ogni
    sorpresa, sia per terra che per mare.
    14 luglio. - Mando il deputato Francesco Cucchi29 in Germania a
    conferire col principe di Bismarck, e gli dò la seguente
    lettera di presentazione:
    «Altesse! Vous recevrez cette lettre par M. le
    député Cucchi, que vous connaissez depuis 1870. Il
    vous donnera de vive voix des renseignements bien graves, que je ne
    puis pas confier à la plume.
    Monsieur Cucchi a ma pleine confiance».
    
    15 luglio. - Il ministro Brin viene alle 11-1/2 a palazzo Braschi
    con l'ammiraglio Racchia. Si parla della flotta, dei preparativi. -
    Brin si lagna che a noi manchino informazioni dai porti francesi,
    mentre la Francia è a giorno di tutto ciò che avviene
    da noi. Racchia [S. Segretario di Stato alla Marina] mi dà
    informazioni confortanti.
    
    16 luglio. - Alle 12-1/2 giunge Catalani, chiamato da Londra. Dopo
    colazione lo conduco nel mio gabinetto. Narro che in Francia sono
    pronti alla guerra e che sembra vogliano attaccarci per mare. Il
    progetto sarebbe ardito e parrebbe una follìa, ma essendomi
    stato riferito da persona degna di fede, e conoscendo che i francesi
    sono capaci anche di una follìa, è necessario ritenere
    la cosa come vera, e prepararci alla difesa. Ho bisogno di sapere
    quali sarebbero, in tal caso, le intenzioni di lord Salisbury, e se
    egli intenderebbe prevenire un'aggressione o, al contrario,
    attenderebbe che ci attaccassero. Se noi fossimo sconfitti,
    l'Inghilterra perderebbe una sicura alleata sul mare.
    Il Catalani ritiene che lord Salisbury non attenderà che
    siamo attaccati, e che allo scopo di evitare la guerra
    manderà una potente flotta nel Mediterraneo. Partirà
    stasera, e venerdì mi telegraferà da Londra.
    - Direte a lord Salisbury che io non provocherò punto la
    Francia, che nulla farò per promuovere la guerra; se questa
    verrà, vi sarò trascinato.
    Il Catalani mi domandò se avessi nulla fatto pel
    ristabilimento della giurisdizione consolare in Tunisi. Risposi che
    la questione dorme; soggiunsi che non ho spinto neanco la soluzione
    del fatto di Gabes30.
    - Nulla farò, non darò pretesto alcuno. Bisogna che il
    paese sappia che noi non vogliamo la guerra, e che la faremo
    soltanto se obbligati a difenderci da un'ingiusta aggressione.
    
    Invito il ministro Bertolè a sollecitare le misure da
    prendere affinchè il Re possa partire da Roma. Alle 2-1/2
    viene alla Consulta e mi dice che già ha avuto parecchie
    conferenze con Cosenz. Mobilitazione - Comandanti dei Corpi d'Armata
    - Gran comando. Osservo che il Bertolè è esitante e
    incerto nel suo linguaggio.
    
    17 luglio. - Alle ore 11 ant. Rattazzi; lo incarico di pregare il Re
    a voler partire.
    Torna alle 2-1/2. Gli dò un dispaccio giunto al Vaticano ed
    un altro da Sofia perchè li comunichi al Re.
    Alle 3, Brin. Sollecitazioni.
    Alle 3-1/2 Bertolè.
    
    18 luglio. - Udienza reale. Discorsi sulla situazione. Il Re parte
    alle 11 pom. per Pisa. Nella sala di aspetto gli riferisco le ultime
    notizie del Vaticano, delle quali il sovrano resta sorpreso. Uscendo
    dalla stazione vedo il Cosenz. Gli domando se si era messo d'accordo
    con il Bertolè.
    Il Cosenz mi risponde che il Ministro gli parla delle cose di guerra
    solamente quando havvi pericolo. Lo prego di visitarmi.
    
    20 luglio. - Alle 3 è venuto a trovarmi il generale Cosenz.
    Anch'egli è d'avviso che i francesi ci attaccheranno. - Le
    fortificazioni di Messina, della Spezia e di Genova sono terminate.
    - Taranto. - I 14 corpi di esercito. - I quattro grandi comandi: -
    Duca d'Aosta, Pianell, Bariola, Ricotti. - Il concorso delle navi da
    guerra. - Compagnie dei battaglioni assottigliate per ragioni di
    economia. - Milizia territoriale. Non possibile ricorrere ad un
    corpo di volontarii come al 1866; mancano il capo e i quadri.
    Biglietto di Nigra [ambasciatore a Vienna]:
    
    «Caro signor presidente, eccomi giunto e attendo i suoi ordini
    all'Albergo Roma, al Corso.»
    
    Telegramma da Londra:
    
    «Benchè Salisbury non divida nostre apprensioni,
    manderà un potente rinforzo alla Squadra del Mediterraneo in
    agosto, dopo la rivista navale per l'Imperatore di Germania.
    Maggiori particolari col Corriere. - Catalani.»
    
    Alle 10-1/2 il conte Nigra viene al palazzo Braschi. - Gli espongo
    le notizie che abbiamo dalla Francia e quello che ci è noto
    del Vaticano. Osservo che le pressioni del signor di Mombel sono
    serie e che se non sono riuscite ciò devesi all'esitazione
    del Papa. Vienna è mal servita
    presso il Vaticano e perciò vede tutto in bene. Il Nigra
    risponde che a Kálnoky non potrebbe esser nascosta la
    partenza del Papa.
    - Comunque sia, ci occorre sapere quello che farebbe l'Austria nel
    caso che noi fossimo attaccati dalla Francia. Essa avrebbe l'obbligo
    di difenderci. È necessario venire alla stipulazione d'una
    Convenzione militare, tanto per l'azione comune sul mare, quanto per
    l'azione comune in terra. Per la convenzione marittima abbiamo avuto
    con Bismarck delle intelligenze che si debbono coltivare. L'azione
    comune delle tre flotte imporrebbe alla Francia, e se a noi si
    unisse anche l'Inghilterra, com'è probabile, la vittoria
    sarebbe sicura.
    - Per la convenzione navale, osservò il Nigra, bisognerebbe
    far prendere l'iniziativa da Berlino; da lì scrivendosi a
    Vienna tutto sarebbe fatto. La convenzione militare è un
    affare a due.
    - Potrebbe esser negoziata qui o a Vienna. Per me vale lo stesso.
    Parlo al Nigra delle vessazioni agl'italiani in Trieste e della
    necessità di porvi termine. L'Austria ha paura delle ombre.
    Le dimostrazioni non hanno nessuna importanza, e quando si è
    forti non vi è motivo di temerle. Però si è
    forti se le legittime aspirazioni dei popoli vengono soddisfatte. A
    che inveire sull'Ullman e dargli un'aureola di patriottismo? Egli
    è bavaro di origine e italiano soltanto per decreto ottenuto
    sotto Cantelli: è uno di quegli uomini che mutano
    nazionalità per convenienze personali.
    Il processo contro Piccoli è assurdo; lo lascino tranquillo.
    Il Nigra conviene che la condotta degli austriaci è inabile,
    e che gioverebbe a loro non continuare nelle vessazioni poliziesche.
    Trasloco del console Durando, dandogli però una buona
    residenza.
    A proposito di Trento e Trieste il Conte affermò che fu colpa
    di Lamarmora se noi non abbiamo il Trentino. L'Austria ce l'avrebbe
    dato.
    Avendogli manifestato le mie idee su Trieste, convenne meco che non
    ci giovi averla. Approvò la mia dichiarazione sulla
    necessità dell'esistenza dell'impero Austriaco. È
    necessario però che l'Austria muti contegno nel suo governo.
    Non può vivere suscitando le
    rivalità dei popoli, le quali tosto o tardi produrranno la
    guerra civile. Il rispetto delle nazionalità, l'uguaglianza
    dei diritti di ciascuna, devono esser base all'esistenza pacifica
    dell'impero.
    Parlando con Kálnoky della partenza del Papa da Roma, il
    Nigra ha detto che l'Italia prenderebbe possesso del Vaticano e vi
    pianterebbe la sua bandiera. È quello che avrei fatto al 1878
    se il Conclave si fosse tenuto fuori d'Italia.
    Il Nigra mi assicura che a Vienna fidano su noi e che De Bruck manda
    dei rapporti ottimisti.
    Riassumiamo. Tre incarichi: chiedere una politica liberale a Trieste
    - convenzione navale - convenzione militare.
    Prego l'Ambasciatore di assicurare il Kálnoky che non
    darò alla Francia occasione alcuna che possa servirle di
    pretesto a rompere la pace. Nessun dubbio che havvi aumento di
    truppe alle nostre frontiere e che la Francia spia il momento
    opportuno per attaccarci. Al Vaticano si fanno pressioni
    perchè il Papa parta; non sono riusciti per l'esitazione di
    Leone XIII e per l'opposizione del Sacro Collegio. Ma non ne hanno
    perduta la speranza.
    
    21 luglio. - Il cardinal Hohenlohe, dietro mio invito, è
    venuto a trovarmi all'1-1/2 pom. alla mia casa in via Gregoriana.
    Gli ho detto:
    - Altre volte è stata V. E. che è venuta a trovarmi,
    oggi son io che l'ho pregata a venire da me.
    Io dovrò parlarle di un affare gravissimo, e dovrò
    incaricarla di un delicatissimo mandato.
    Si parla della partenza del Papa, e vi ha chi lo spinge ad
    abbandonare il Vaticano. Io non ho consigli da dare. Se il Papa
    resterà, continuerà ad essere rispettato, e
    sarà garentito come prima, anche se scoppiasse la guerra, che
    io farò tutto il possibile per allontanare. Se il Papa
    vorrà partire non ci opporremo; anche nella sua partenza, e
    finchè è sul territorio italiano, sarà sotto la
    tutela delle leggi italiane, godrà di tutti i suoi diritti,
    di tutta la sua libertà.
    Fo intanto osservare, e prego V. E. di dirlo bene al Papa, che
    guardi di non essere lui la causa di una guerra,
    e ricordi quanto costò a Pio IX l'aver ricorso alle baionette
    straniere. Non solo ne perderebbe la religione; ma ne perderebbe
    l'uomo, che ne è principe sovrano.
    Il cardinale ascoltava, e spesso col capo o con interruzioni, dava
    segni di approvazione. E rispose:
    - Io non vado sempre al Vaticano; ma vi andrò, e
    adempirò il di lei incarico.
    Il Papa non se ne andrà; ma non si è sempre sicuri di
    lui. Egli vuol lasciar parlare di sè; e talora ha delle
    eccitazioni nervose, che lo spingono a proponimenti non sempre
    prudenti.
    - Non è per me, ch'io parlo, nè pel governo. Io sono
    un individuo, che da un momento all'altro può sparire dal
    mondo; ed il governo è assai forte per non temere la guerra.
    L'Italia ha mezzi sufficienti per difendersi. Ha poi due potenti
    alleati.
    Io parlo pel Papa e pel cattolicesimo. Leone XIII gettandosi nelle
    braccia della Francia, ha fatto la fortuna della Chiesa d'Oriente.
    Il culto ortodosso ogni giorno progredisce a danno del cattolico; e
    non può essere altrimenti. La Francia si è
    disinteressata delle cose d'Oriente a favore della Russia, la cui
    influenza aumenta sempre. Il Papa queste cose non le sa, e
    facilmente gliele nascondono, perchè hanno interesse a
    nasconderle.
    Comunque sia, e ritornando all'argomento pel quale chiesi di
    parlarle, conchiudo per dirle di far sapere al Papa queste cose:
    Se resta in Italia, sarà rispettato, anche se scoppiasse la
    guerra.
    Se parte, sarà rispettato, e l'accompagneremo con tutti gli
    onori. Pensi però al partito da prendere. Ci va del suo nome,
    del suo avvenire, dell'avvenire del cattolicesimo. -
    Ci siamo congedati alle 3 meno un quarto. Il cardinale prese la sua
    via; io ritornai alla Consulta.
    
    Roma, 23 luglio '89.
    
    Ecc.mo Sig. Presidente,
    
    Confidenzialmente accludo questa lettera. Siccome soltanto con il
    padrone quelle cose si potrebbero dire, conviene ch'io sospenda
    l'esecuzione de' suoi desiderii. Pare che si abbia paura di me, non
    so perchè!?
     Del resto Ella disponga di me, e mi faccia sapere quel che
    crede necessario.
    E con la maggiore stima ed amicizia mi confermo di Vostra Eccellenza
    
    Aff.mo
    G. Card. d'Hohenlohe.
    
    (Lettera in originale acclusa nella precedente).
    
    N. 82253
    Roma, 22 luglio 1889.
    
    Ecc.mo e R.mo Sig. Mio Oss.mo
    
    Secondando il desiderio espressomi da Vostra Eminenza nel suo
    biglietto in data di ieri me ne sono reso interprete presso il Santo
    Padre.
    Essendo peraltro la Santità Sua trattenuta da molte
    occupazioni e dagli attuali calori dall'accordare straordinarie
    udienze, si è degnata di autorizzarmi a conferire con Lei,
    qualora Le piaccia di far giungere per mio mezzo alla sovrana sua
    cognizione ciò ch'Ella intende di esporle.
    Ponendomi pertanto a libera di Lei disposizione, mi onoro rinnovarle
    i sensi della mia profonda venerazione, con la quale Le bacio
    umilissimamente le mani.
    Di Vostra Eminenza
    
    U.mo dev.mo servitor vero
    M. Card. Rampolla
    
    Sig. card. d'Hohenlohe.
    
    Roma, 24 luglio '89.
    
    Ecc.mo Signor Presidente,
    
    Dopo la mia di ieri sera ho notato alcune cose da scriversi a S. S.;
    e desidererei sapere se V. E. approva, e se vuole aggiungervi o
    togliere qualche cosa, faccia pure. La lettera andrà sicura
    nelle mani di S. S.  Mi mandi l'acclusa bozza con quelle
    correzioni che crede, e subito sarà copiata. E con sincero
    rispetto mi confermo di V. Eccellenza
    
    Devot.mo servo
    G. Card. Hohenlohe.
    
    
    
    (Minuta di una lettera del cardinale Gustavo di Hohenlohe - 24-7-89)
    
    «Nell'ultima udienza dissi alla S. V. di aver invitato il
    ministro Boselli il quale aveva concesso di far fare lo scalone di
    San Gregorio e ci ha promesso anche altri favori. Mi parve che la
    Santità Vostra fosse contenta. Tanto maggiore fu la mia
    sorpresa nel ricevere quella lettera (sgarbata)31 del cardinale
    Rampolla. Oggi non possiamo più (segregarci dai personaggi
    del governo italiano con un sistema cinese)32. Iddio ha disposto le
    cose in modo che la Chiesa non può più riprendere il
    dominio temporale. La salute delle anime esige che noi ci
    rassegniamo, che restiamo tranquillamente nelle sfere ecclesiastiche
    e facciamo la carità con le nostre sostanze e con i nostri
    insegnamenti ai fedeli.
    Si parla di partenza. (S. E. Crispi stesso mi disse l'altro giorno
    di dire a Vostra Santità)33 che se Lei vuole partire egli non
    vi si opporrà e La farà accompagnare con tutti gli
    onori, ma che Vostra Santità non tornerà più a
    Roma. E che se la Sua partenza suscitasse una guerra per es. per
    parte della Francia, la religione perderebbe immensamente. Che
    l'Italia non farà la guerra se la Francia non l'attacca; che
    in caso di guerra il governo italiano garentisce la sicurezza del
    Papa a Roma. Ma che il Papa non si faccia illusioni: partito che
    sarà, non tornerà a Roma e la Santa Sede
    soffrirà una terribile scossa.
    (Più; la Francia fa tutte le facilitazioni alla Russia in
    Oriente per far trionfare lo scisma, purchè abbia l'alleanza
    della Russia. Sembrerebbe dunque che poco da quella parte vi sia da
    sperare)34.
    Noi Cardinali abbiamo il dovere strettissimo di dire la
    verità al Papa, perciò eccola.
    Del tempo di Pio VI si perdettero i cinque milioni di scudi
    depositati da Sisto V. a Castello, e con tutto ciò fino al
    1839 ogni nuovo Cardinale giurava di conservare questi cinque
    milioni che non vi erano più. Non fu che il cardinale Acton
    che protestò contro quel giuramento nel 1839 e papa Gregorio
    trovava giuste le osservazioni dell'Acton. Così oggi pure si
    fa giurare ai Cardinali cose che non si possono mantenere.
    Perciò conviene rimediare35.
    
    (Relazione di Pisani-Dossi a Crispi).
    
    «4/8/89.
    
    Il Papa ebbe la lettera di Hohenlohe sabato 27 luglio per mezzo del
    suo cameriere Centra. La lettera, oltre le modificazioni fatte in
    presenza di Pisani-Dossi, aveva subite queste altre: 1.° - al
    principio - «Mando a V. S. le fotografie promesse, ecc. (Credo
    fossero le fotografie del viaggio del Re a Berlino donate dal
    Pisani-Dossi ad Hohenlohe); 2.° - Si chiedeva un'udienza al Papa
    e se ne accennava lo scopo - e qui la lettera com'era stata
    combinata; 3.° - in fine - «Ecco quanto doveva dire a V.
    S.»
    Il 3 agosto il Papa mandò monsignor Sallua, piemontese,
    commissario del Santo Uffizio e vicario di Santa Maria Maggiore da
    Hohenlohe a dirgli che S. S. era molto afflitta per la lettera da
    lui scritta e non poter accordargli la chiesta udienza. Rispose
    Hohenlohe che avrebbe dovuto piuttosto lui lamentarsi della condotta
    del Papa verso lui e che il Papa doveva ringraziare Hohenlohe di
    avergli fatto conoscere la verità sulla situazione attuale,
    soggiungendo che anche gli altri governi erano dell'opinione del
    governo italiano. Quel negare l'udienza, chiesta da Hohenlohe, era
    da questi considerata come una provocazione; che tuttavia egli non
    avrebbe data loro la soddisfazione di fare dei passi inconsiderati.
    Ringraziassero Iddio se egli si conduceva con tanta moderazione, e
    il Papa poi in particolare ringraziasse Hohenlohe se era divenuto
    cardinale, perchè Pio IX nel 1852 non voleva nemmeno ricevere
    monsignor Pecci, e fu Hohenlohe che attutì lo sdegno del Papa
    contro Pecci. Concluse che era ora di finirla con siffatte bugie e
    finzioni.
    Monsignor Sallua si fece pallido e si mise a piangere, e scusava il
    pontefice perchè vecchio.
    Hohenlohe ripigliò a dire che Leone XIII era in balìa
    di pochi intriganti e di agenti del cardinal Monaco «villano,
    di scarpe grosse e di cervello fino», il quale spaventava il
    Papa colle pene dell'inferno.
    Nel corso della conversazione tanto Hohenlohe quanto Sallua
    riconobbero che la storia della partenza del Pontefice era una
    scenata che aveva disgustato molta parte del clero contro il Papa.
    Hohenlohe il quale disse, quasi dettando, quanto sopra a
    Pisani-Dossi, crede di avere colla sua lettera cagionato una buona
    scossa al Papa e di aver reso un servizio al ministro Crispi.»
    
    Berlino 21 luglio 1889.
    
    Carissimo amico,
    
    Sono arrivato da quattro giorni. Prima visita ad Holstein. Seppi che
    il Principe stava poco bene a Varzin. Il figlio Erbert era tornato
    dal suo congedo a Berlino, il giorno precedente. Holstein mi
    osservò che riguardo alle gravi notizie ch'io portavo in tuo
    nome, il Principe non poteva conoscere che quanto essi stessi gli
    fanno sapere da Berlino. Riguardo ai provvedimenti da prendere
    bisognava certamente sentire lui. Gli si telegrafò la mia
    venuta e lo scopo. Rispose ad Erbert e Holstein che mi dassero qui
    tutte le informazioni possibili, e che mi attendeva ospite a Varzin
    domani sera, lunedì. Martedì vi sarà anche
    Erbert. È un viaggio noiosissimo di 11 ore. Varzin giace a
    poca distanza da Rugenwalder, sulla costa del Baltico.
    Da Holstein fui intanto presentato ad Erbert, al ministro della
    Guerra generale Verdy de Vernoy (appartenente a famiglia francese
    protestante, cacciata dalla Francia due secoli or sono) ed al
    Consigliere di legazione Kaschdau, che accompagnò
    l'Imperatore in Italia e che con Holstein è depositario alla
    Cancelleria delle cose più segrete.
    Qui sono assolutamente increduli riguardo alle notizie che ho
    portato, cioè, alla possibilità di un improvviso
    attacco alle nostre frontiere, a un tentativo di sbarco sulle nostre
    coste dell'Italia meridionale con due divisioni provenienti da
    Tolone, ed una da Algeri, etc. Almeno fino ad ora tutte le
    informazioni che hanno qui dai confini italo-francesi e da Parigi,
    escludono la possibilità del fatto. Però si
    telegrafò a Parigi al barone De Huene, maggiore di Stato
    Maggiore e capo dell'ufficio militare addetto all'ambasciata.
    È persona intelligentissima e che ha avuto una rara
    abilità nell'organizzare in tutta la Francia un perfetto
    servizio di informazioni.
    La risposta di De Huene, arrivata stamane, dice che non vi è
    alcun agglomeramento straordinario di truppe al confine italiano,
    nè movimento eccezionale nell'arsenale di Tolone. Ripete
    quanto aveva già detto in un recente rapporto, cioè,
    che nelle alte sfere militari francesi si è malcontenti del
    sistema di fortificazioni verso il confine italiano, e che per
    rimediarvi si intraprenderanno tosto lavori importanti. Ciò
    accennerebbe a idee di difesa, non di offesa. Le comunicazioni
    strategiche ferroviarie sono purtroppo ottime, il che darebbe la
    possibilità di ottenere in brevissimo tempo
    quell'agglomeramento di truppe che ora non esisterebbe. Le ultime
    manovre navali allo scopo di studiare la difesa delle coste sul
    Mediterraneo, lasciarono molto a desiderare. In alcuni punti dove la
    ferrovia è troppo litoranea si lavora attivamente per
    deviazioni interne. A Lione, ove ha sede il Comando dell'esercito
    che dovrebbe operare contro l'Italia, nulla si rimarca di movimento
    straordinario. Il generale in capo sarebbe Billot. Fu abile ministro
    della Guerra, ma venne presto allontanato per i suoi principi
    ritenuti monarchici. Ad ogni modo, a riguardo dell'Italia, sono
    tutti uguali in Francia, e monarchici, e repubblicani, e
    boulangisti, e anarchici. A questo proposito permettimi di aprire
    una parentesi.
    Prima di partire da Milano trovai il dep. Mazzoleni, anima candida,
    tipo da nazzareno, che, in questi tempi, prende sul serio la
    missione di predicare la pace fra gli uomini. Era reduce da Parigi,
    ove fu al Congresso della pace e dell'arbitrato internazionale.
    Messo un po' alle strette, mi confessò, nella sua
    lealtà, di essere rimasto impressionatissimo dell'avversione
    all'Italia che trovò in ogni ceto di persone. Andò,
    con Pandolfi, Boneschi, e non ricordo quali altri deputati, alla
    Camera per stringere
    la mano a quei deputati francesi che erano venuti in Italia e che
    fecero a Milano tante dichiarazioni di amicizia e fratellanza.
    Ebbene, questi signori che si erano ben guardati dal recarsi alla
    stazione per ricevere i nostri connazionali, anche alla Camera se ne
    fuggirono per non lasciarsi trovare. Nell'imminenza delle elezioni,
    farsi vedere a stringer la mano ad alcuni deputati italiani, per
    quanto radicali, voleva dire compromettersi cogli elettori, rovinare
    la propria elezione.
    Chiudo la parentesi. - Ebbi l'avvertenza di far ben capire ai nostri
    amici di qui che se tu eri allarmato per quanto avevi saputo in via
    speciale e positiva, però, tu stesso ritenevi che un attacco
    poteva verificarsi solo verso ottobre o novembre. In proposito,
    Erbert e Holstein convengono che quello che non ritengono possibile
    ora, possa benissimo divenirlo allora. Credono fermamente che gli
    uomini ora al potere in Francia non vogliono in questo momento la
    guerra, perchè occupati esclusivamente a preparare le
    elezioni, questione per loro di vita o di morte. Solamente l'esito
    delle elezioni darà l'idea di cosa possa attendersi
    più o meno prossimamente dalla Francia. Ritengono molto in
    ribasso il boulangismo, e che le notizie allarmanti che tu hai avuto
    provengano dalla parte monarchica del partito boulangista che
    intriga al Vaticano. Ad ogni modo, se chi avrà in mano i
    destini della Francia dopo le elezioni volesse fare un colpo di
    testa, qui assicurano che saranno preparati. Anche in questo
    frattempo, se qualche fatto rimarchevole ed inquietante per noi si
    verificasse ai nostri confini verso la Francia od altrove, mi disse
    Erbert che, come all'epoca della questione delle scuole a Tunisi,
    incaricherebbero l'Ambasciatore di far sapere al governo francese
    che, come nostri alleati, si interessano altamente di un possibile
    nostro pericolo, e di fronte a questo sono pronti a sostenerci. Ma
    di ciò parlerò più positivamente con il
    Principe a Varzin.
    È fatto molto gradito e rassicurante in ogni evento, il
    pregio e l'importanza che qui si attribuisce alla nostra alleanza.
    Ritengono e dichiarano indispensabile di fronte alla Russia
    l'alleanza austriaca, ma dicono che non amano l'Austria, mentre
    amano l'Italia.
    Vidi Erbert ieri alle 3-1/2 e mi disse che pochi momenti prima era
    stato a vederlo il conte De Launay con
    un tuo dispaccio che riguardava la possibile partenza del Papa, per
    eccitamento specialmente del cardinale Rampolla. Erbert ritiene che
    questo cardinale, come tuo isolano, deve odiarti più d'ogni
    altro. Mi disse di avere risposto a De Launay che se si levasse
    all'Italia questo verme roditore, non lo crederebbe un male. Cosa ne
    dirà il Principe? Sentirò anche questo, e vedrò
    se il parere del padre è identico a quello del figlio.
    S'intende che ti scriverò non appena da Varzin sarò
    reduce a Berlino, ma solo di passaggio, perchè non avrei
    più ragione di fermarmi. Invece, il ministro della Guerra,
    che s'interessa assai dei nostri approvvigionamenti verso il confine
    francese, cosa alla quale io potei inesattamente rispondere,
    desidera che, ritornando in Italia, mi fermi a Francoforte. Di
    là mi farà accompagnare da un ufficiale a farmi l'idea
    del come essi sono preparati. Credetti non rifiutare l'offerta
    trattandosi di 24, o 48 ore di ritardo.
    I più cordiali saluti.
    
    Tuo Checco.
    
    Berlino, 24 luglio 1889.
    
    Carissimo amico,
    
    Son reduce stamane da Varzin, ove ebbi una magnifica accoglienza dal
    Principe e dalla Principessa, dal conte e contessa Rantzau e da
    Erbert, che mi precedette. Tutti mi parlarono di te con affetto ed
    entusiasmo e mi incaricarono delle cose più cordiali.
    Riassumo i discorsi che ebbi col Principe.
    Non crede assolutamente alla possibilità di un attacco contro
    l'Italia, quale sarebbe indicato dalle tue informazioni ch'io ho
    riferito. Dice che tale fatto ecciterebbe l'indignazione del mondo
    civile. La responsabilità di avere provocata la guerra in
    Europa, con un fatto da briganti (testuale), costerebbe immensamente
    cara alla Francia. Sarebbe il caso del finis Galliæ
    (testuale), e ci vorrebbe ben altro che i cinque miliardi del 1871.
    Aggiunge che dal punto di vista puramente utilitario e materiale
    sarebbe quasi da desiderarsi questa pazza aggressione. Nelle alte
    sfere militari in Germania si preferirebbe la guerra subito, od alla
    prossima primavera, piuttosto che fra due anni, epoca nella quale la
    Francia
    avrà al completo i suoi quadri, gli armamenti e le
    fortificazioni. Ad ogni modo il Principe dice che la Germania sta
    cogli occhi allerti e colle polveri asciutte. Di fronte a qualunque
    pericolo, minaccia od improvvisa aggressione, essa da lungo tempo
    è preparata. In dieci giorni possono invadere il territorio
    francese 1.200.000 uomini. Gli approvvigionamenti da guerra e da
    bocca, necessari per un mese a questa immensa armata, sono
    già preparati nelle città e fortezze lungo il Reno,
    nella Lorena ed in Alsazia. Tutto ciò dopo essersi premuniti
    in modo da non temere qualunque attacco dal lato della Russia; colla
    quale spera ancora il Principe che non si venga ad una rottura, od
    almeno che possa entrare nella lotta solamente dopo una prima
    sconfitta della Francia. In questo caso, essendo tutto preparato
    perchè la prima grande battaglia sia assolutamente decisiva,
    resterebbe di molto diminuito il peso che la Russia getterebbe sulla
    bilancia.
    Riguardo alle qualità dell'armata francese, qui credono che
    manchi di compattezza e di disciplina. Senza di ciò il grande
    numero non basta, anzi in date circostanze potrebbe nuocere. Non si
    dubita però che, almeno sul principio, l'armata francese
    sarà meglio condotta che nel 1870-1871. Si ha molta stima del
    Capo di Stato Maggiore generale Miribel. I tedeschi si ritengono
    superiori nell'artiglieria, massime come mezzi di assedio. Sanno che
    il fucile francese Lebel è ottimo, ma per la prossima
    primavera tutta l'armata tedesca di prima linea avrà un nuovo
    fucile, che è il perfezionamento di quanto si è fatto
    finora. A questo si lavora febbrilmente, ma senza rumore, negli
    arsenali, fabbricandone 4000 al giorno.
    Il Principe ha fiducia non solo sulla benevolenza dell'Inghilterra,
    ma sul suo concorso, qualora la Francia rompesse prima in guerra.
    È lieto di vedere come tu coltivi abilmente l'amicizia
    inglese, senza badare se sia al potere Salisbury, piuttosto che
    Gladstone. Nel caso probabile di avere il concorso attivo
    dell'Inghilterra, l'azione delle tre flotte combinate paralizzerebbe
    completamente quella della flotta francese, obbligandola a
    rifugiarsi nei suoi arsenali, od accettare di combattere con forze
    sproporzionate. Ciò, dice il Principe, faciliterebbe assai le
    operazioni contro la Francia degli eserciti di terra. Le tre flotte
    sarebbero: l'inglese, la tedesca e
    l'italiana. Io gli osservai perchè non metteva nel numero
    anche l'austriaca. Mi rispose di questa ritenere buono il personale,
    ma cattivo il materiale. In complesso ho rimarcato nel Principe una
    certa freddezza verso l'Austria. Parlando della prossima visita
    dell'imperatore Francesco Giuseppe a Berlino, mi disse: «Meno
    male che per il lutto che porta, ha voluto che non si facessero
    feste». Invece è marcatissimo l'aggradimento che
    accompagnò la visita di re Umberto. A proposito di lutto,
    egli ritiene la morte dell'arciduca Rodolfo, avvenuta per
    assassinio.
    Molte idee del Principe sulla politica dell'Inghilterra, della
    Russia, dell'Austria e della Turchia, e sul contegno di queste
    Potenze nel caso di un primo attacco della Francia contro la
    Germania e l'Italia, oppure della Russia contro l'Austria e la
    Turchia, sarebbe troppo lungo esporle per iscritto. Ti
    riferirò a voce.
    Egualmente farò riguardo alle idee del Principe e del suo
    contorno, sul modo con cui è condotta la nostra politica
    estera. Ho pizzicato un po' da tutti, in modo che credo essermi
    fatto un concetto esatto del loro intimo pensiero su di te e su
    quelli che ti circondano alla Consulta, come sopra alcuni nostri
    rappresentanti all'estero. È tutto a tuo vantaggio il loro
    modo di vedere sulla nostra politica estera, ma dicono che dovendo
    forzatamente occuparti anche della politica interna, ti ammazzi per
    troppo lavoro.
    A proposito della politica interna, il Principe teme solamente il
    caso che tu possa cadere per cause parlamentari, cosa che, egli
    dice, sarebbe fatale. Io lo rassicurai dicendogli, che, sebbene in
    Italia non si possa pigliare il Parlamento nello stesso modo con cui
    egli lo pigliò per molti anni in Germania, tu hai nella
    Camera attuale una larga maggioranza. Aggiunsi che non discutevo le
    qualità di questa Camera, ma sta il fatto che questa larga
    maggioranza esiste. In ogni caso dissi esser certo che il Re,
    occorrendo, ti accorderebbe lo scioglimento, e nuove elezioni.
    A proposito di elezioni, il Principe non crede possibile
    l'avvenimento al potere di Boulanger, e finchè resta Carnot,
    confida nella pace. Carnot sa benissimo che se si decidesse per la
    guerra, sarebbe di fatto soppiantato nel potere dai Generali.
    Il Principe non crede affatto alla partenza di Leone XIII
    da Roma. Per lui il prestigio del Papa proviene dalla storia e dalle
    tradizioni di Roma, dai tesori e dalle pompe di San Pietro e del
    Vaticano. Fuori di Roma il Papa non gli sembrerebbe più il
    rappresentante di una grande, potente, antica istituzione, come il
    cattolicismo, ma uno Schah di Persia qualunque in viaggio attraverso
    l'Europa a spese altrui. Per le Potenze cattoliche, e per la stessa
    Francia, sarebbe un grave imbarazzo avere ospite il Papa. Mi disse
    che l'Ambasciatore tedesco in Ispagna aveva giorni sono telegrafato
    la notizia che il Papa era quanto prima atteso a Madrid. Il Principe
    rispose all'ambasciatore che gli proibiva di telegrafare simili
    bestialità (sic). Egli è informato che anche da Vienna
    si consigli il Papa a non muoversi da Roma, a meno che gli si
    usassero violenze dalla piazza, il che, egli ne è
    convintissimo, tu non permetteresti.
    Scusa la confusione di queste informazioni. A Roma o Napoli ti
    darò moltissimi dettagli. Domattina andrò a Colonia e
    Magonza per le visite che ti dissi nell'altra mia. Sabato o domenica
    sarò a Milano, lunedì o martedì a Roma.
    Tante cose.
    
    aff.mo Checco.
    
    Fortunatamente la pace non fu turbata, sia che il governo francese,
    di certo al corrente dei preparativi militari e dell'azione
    diplomatica dell'Italia, soprassedesse ai suoi disegni, sia che non
    trovasse un pretesto per assalire. Al conte di Launay il principe di
    Bismarck espresse l'opinione che i francesi non osassero far la
    guerra senza alleati, ma cercassero soltanto, con tutti i mezzi
    possibili, a far nascere e tener vive in Italia continue diffidenze
    ed inquietudini, nella speranza di nuocere così al nostro
    credito ed alla nostra economia pubblica.
    Ma nell'interesse del domani, l'on. Crispi non cessò di
    vigilare. E l'allarme recò qualche beneficio, poichè
    dette occasione a constatare le attive simpatie per l'Italia delle
    Potenze centrali e dell'Inghilterra:
    
    Berlino, 14 agosto 1889.
    
    (Riservato). - Dissi oggi al segretario di Stato che il Governo del
    Re, che si era associato con viva soddisfazione alle dimostrazioni
    in occasione della visita recente dell'imperatore Guglielmo in
    Inghilterra, si associa con lo stesso sentimento alle manifestazioni
    scambiate ora per la presenza in Berlino dell'imperatore Francesco
    Giuseppe. Il conte di Bismarck mi rispose che infatti l'Italia aveva
    ogni motivo di rallegrarsi, essa era ed è considerata come
    presente in spirito a quei convegni. L'Inghilterra «quantunque
    non parte contraente della triplice alleanza, la costeggia».
    Il Governo inglese è animato delle migliori disposizioni
    anche verso l'Italia, in caso di provocazioni da parte della
    Francia. L'imperatore d'Austria dichiarò quanto era
    soddisfatto che il nostro augusto Sovrano abbia un primo Ministro di
    tanta vaglia. S. M. Imperiale è convinta di tutta
    l'importanza dei vincoli con l'Italia pure pel mantenimento della
    pace. Il conte Kálnoky farà tutto il possibile
    riguardo al contegno da osservarsi verso gli italiani dell'Impero.
    Nè Salisbury, nè Kálnoky credono a prossima
    guerra e meno ancora che la Francia commetta l'errore di dichiararla
    all'Italia.
    
    Launay.
    
    La politica dell'on. Crispi di fronte alla Francia, era combattuta
    in Italia dai partiti estremi, e il turpiloquio dei giornali
    francesi contro il patriotta italiano era, purtroppo, imitato da
    qualche giornale nostro. È noto quale influenza eserciti
    certa stampa sugli animi deboli e impulsivi; un tal Caporali, il 13
    settembre aggredì e ferì non leggermente l'on. Crispi.
    La propaganda francofila produsse un altro effetto deplorevole;
    taluni italiani ebbero la cattiva idea di organizzare un cosiddetto
    pellegrinaggio di operai italiani, i quali si recarono in Francia a
    protestare contro il Governo del loro paese. Intorno a cotesto
    viaggio, l'Incaricato di Affari a Parigi, signor Ressman, scriveva
    privatamente a Crispi in data 14 settembre:
    
    Checchè se ne dica, la verità vera sullo scandaloso
    pellegrinaggio dei nostri operai repubblicani in Francia si è
    ch'essi non ebbero luogo di troppo entusiasmarsi per l'accoglienza
    qui ricevuta. Potevamo temere dimostrazioni ben altrimenti
    chiassose: la massa della popolazione parigina invece rimase
    assolutamente indifferente ed inerte, ignorando quasi la presenza
    d'italiani.
    Testimoni oculari mi affermarono che fu freddo anche il ricevimento
    all'Hôtel de Ville. Quattro bislacchi discorsi e le
    amplificazioni solite d'alcuni giornalacci rimpiazzarono ciò
    che i promotori forse speravano da uno spontaneo movimento popolare.
    I più savi dei francesi non s'illusero sull'efficacia pratica
    della dimostrazione, ed in molti, sopra ogni calcolo politico,
    doveva vincerla il disprezzo per così sfrontati promettitori
    di alto tradimento. Tale disprezzo invase irresistibile perfino
    l'animo di un corrispondente del Secolo, il noto Paronelli,
    astigiano, prima corrispondente a Berlino, il quale venne da me a
    dare sfogo al suo sdegno ed a dichiararmi che in presenza di tanta
    malafede egli voleva pubblicamente romperla con Sonzogno, la
    questione ponendosi oramai sul terreno della fedeltà alla
    bandiera nazionale....
    Alfieri, Visconti-Venosta, Imbriani, Nicotera sono, tra i tanti
    nostri uomini politici qui venuti, quelli che attirarono
    l'attenzione, e se non parlassi che del primo e del terzo direi
    quelli che più si studiarono d'attirarla. Visconti-V. si
    tenne quanto più potè e col massimo tatto nell'ombra.
    Nicotera, spaventato della non provocata réclame di capo
    d'opposizione colla quale il Figaro salutò il suo arrivo, si
    affrettò a scolparsi dell'importuno complimento con un
    telegramma alla Tribuna che venne a leggermi ieri protestando
    (affinchè glielo ripetessi) che malgrado la sua situazione
    parlamentare egli si batterebbe per Crispi, se lo si volesse
    sospettare d'essere venuto a combattere su questo terreno la sua
    politica estera, mentre in fatto non era venuto per altro che per
    contemplare la Torre Eiffel. Gli dissi che non avrei osato dubitare
    dell'identità del suo col mio proprio sentimento verso uomini
    capaci di venir nelle presenti condizioni a cercar dai francesi un
    puntello a' loro scopi politici in Italia.
    
    P.S. Il sig. Jules Ferry manda a chiedermi l'indirizzo del barone
    Nicotera. Non fo commenti.»
    Il 4 ottobre l'on. Crispi compì settant'anni e il principe di
    Bismarck colse l'occasione di quell'anniversario per rinnovare al
    suo amico e collega l'espressione dei suoi sentimenti:
    Aujourd'hui, cher ami et collègue, vous
    célébrez l'anniversaire que j'ai fêté il
    y a cinq ans et qui me donne l'occasion de joindre les vœux
    chaleureux que je forme pour votre bonheur et votre avenir politique
    à ceux que vos compatriotes vous adresseront au jour de votre
    fête. J'éspère que votre santé sera
    promptement rétablie et vous permettra de continuer pendant
    de longues années votre précieux concours à la
    tâche pacifique que nous unit dans l'intérêt de
    nos deux nations.
    
    Von Bismarck.
    
    Je vous remercie cordialement des vœux chaleureux que vous
    m'exprimez. Je suis profondement touché de ce
    témoignage d'amitié ainsi que du prix que Votre
    Altesse veut bien attacher au concours devoué que je lui
    prête dans la grande œuvre de paix qui unit nos deux nations.
    
    Crispi.
    
    Non mancò mai in Crispi il buon volere per ristabilire
    migliori relazioni con la Francia. Il 10 ottobre egli riceveva dal
    Ressman le seguenti informazioni:
    Non ebbi dal signor Spuller una sola udienza in cui egli ad uno o ad
    altro proposito, non abbia protestato delle sue fermamente
    amichevoli intenzioni verso l'Italia e verso il Regio Governo,
    ripetendo in frasi quasi stereotipe che mai per opera sua un
    dissidio sorgerà fra le due nazioni, che mai egli
    lascerà degenerare in conflitto alcuna contestazione fra noi,
    che sempre si studierà a darci ogni più efficace prova
    di buon volere e di animo conciliante. Anche nel colloquio che ebbi
    ieri con lui, questo signor Ministro degli Affari esteri,
    annunziandomi il prossimo arrivo in congedo del signor Mariani, che
    passerà qui due o tre settimane, mi disse che gli
    ripeterà verbalmente le più categoriche istruzioni
    affinchè dopo il suo ritorno in Italia raddoppii d'animo per
    convincere il Regio Governo delle cordiali disposizioni del Governo
    della Repubblica e si adoperi «con ardore, con
    serenità, con allegro umore» (sono le
    sue parole) a dissipare ogni possibile malinteso ed a ravvicinare di
    più in più i due paesi.
    L'occasione era buona per far sentire al signor Spuller che da atti,
    meglio che da ogni parola, l'E. V. ed il Governo di Sua
    Maestà potrebbero essere indotti a vincere i dubbi sulla
    sincerità di quelle intenzioni che troppo sovente
    risorgevano, ora perchè nessuno in Italia poteva capacitarsi
    che il Governo francese fosse interamente estraneo al linguaggio
    troppo spesso amaro, calunnioso, aggressivo della stampa parigina,
    non meno di quella dei dipartimenti verso il Regno vicino; ora
    perchè pareva difficile di non ammettere una certa connivenza
    del medesimo nella guerra così accanita che qui una
    formidabile lega di ribassisti muoveva al credito italiano; ora
    perchè in più di una questione insorta fra' due
    Governi, come per esempio in quella di Gabes, le tergiversazioni e
    gli indugii a venirne ad una soluzione non tradivano invero
    sentimenti conformi alle reiterate dichiarazioni di amicizia. Non
    nascosi al signor Spuller, che queste osservazioni non mi erano
    suggerite da un solo apprezzamento mio personale, ma che più
    volte mi venivano fatte dall'Eccellenza Vostra e che a me stava a
    cuore di poterle rispondere altrimenti che con giudizii miei propri
    dettati da desiderio di conciliazione.
    M'inspirai nel mio discorso dal telegramma che l'Eccellenza Vostra
    mi aveva indirizzato in data del 3 corrente.
    Il signor Spuller nel rispondermi cominciò dall'inveire in
    termini violentissimi contro il giornalismo ed i giornalisti.
    Riconobbe, esprimendone vivo rammarico, che il Governo era impotente
    contro la stampa, non solo per effetto della legge, ma
    principalmente pel carattere e per la qualità dei giornalisti
    coi quali aveva da fare. «Io che ogni mattina mi vedo
    condannato a riceverne qui molti, vi posso dire che nulla uguaglia
    la loro ignoranza profonda, le loro insensate prevenzioni, la loro
    passione. E la passione è retaggio dell'ignoranza,
    avvegnacchè chi è istruito, chi sa, chi ragiona non
    deve ciecamente appassionarsi. Oggi i giornalisti si reclutano fra
    tutto ciò che vi è di più basso, di più
    infimo fra gli uomini capaci di tenere una penna. Fatelo sentire al
    vostro Governo, affinchè non renda noi responsabili
    di eccessi che deploriamo e contro i quali lottiamo noi per i
    primi».
    Obiettai al mio interlocutore che sapevamo certamente distinguere
    fra una ed un'altra classe di giornali e di giornalisti, che il mio
    voto di un diverso indirizzo della stampa francese riferivasi
    specialmente alla stampa ufficiosa, della quale il Governo della
    Repubblica pure non poteva continuare ad affermarsi irresponsabile.
    A ciò il signor Spuller rispose citando quello che fu
    già il giornale di Gambetta ed il suo, La République
    Française, di cui non gli pareva dovessimo dolerci. Alla mia
    volta gli nominai Le Temps, che giornalmente riceve comunicazioni
    del Ministero degli Affari esteri ed accolse pure in non lontano
    tempo apprezzamenti assai poco benevoli circa gli uomini e le cose
    d'Italia. Il signor Spuller parve non esser meco d'accordo su questo
    punto.
    Alla guerra che qui si fa ai valori italiani il Ministro pretese
    interamente ed assolutamente estranea l'azione del Governo,
    nè trovò risposta quando gli dissi che erano per lo
    meno scusabili i sospetti che doveva far nascere la quasi
    unanimità dei bollettini finanziarii di tutti i giornali di
    Parigi nel dare quotidiani e feroci assalti al credito
    Italiano.»
    
    Furono probabilmente queste dichiarazioni dello Spuller, suo antico
    amico personale, che suggerirono all'on. Crispi di preannunziare nel
    suo discorso di Palermo del 14 ottobre l'abolizione delle tariffe
    differenziali applicate alle merci importate in Italia dalla
    Francia.
    L'on. Crispi non pose condizioni, ma pel fatto stesso della sua
    iniziativa obbligò il governo francese a manifestare l'animo
    suo.
    
    In un colloquio del 23 ottobre con Menabrea il ministro Spuller mi
    espresse calorosamente - telegrafava l'Ambasciatore - il suo
    desiderio di corrispondere alla iniziativa di V. E., non
    dissimulando però le difficoltà parlamentari. Affine
    di ottenere dichiarazioni più esplicite dal signor Spuller,
    senza oltre impegnare V. E., gli dissi sotto la mia personale
    responsabilità, che sarei felice di dar termine alla mia
    carriera, anzitutto con il contribuire
    a ristabilire pacifiche relazioni commerciali tra Francia ed Italia,
    al che Spuller rispose che si stimerebbe pure fortunato di esordire
    nella sua carriera diplomatica con il raggiungere l'ottimo intento,
    al quale egli è disposto a mettere il massimo impegno. Mi
    invitò a conferire in proposito con il signor Tirard.»
    
    Quale atteggiamento assumesse il presidente del Consiglio, signor
    Tirard, risulta da quest'altro telegramma del Menabrea, del 25
    ottobre:
    
    In seguito alla conversazione che, mercoledì ultimo, io ebbi
    col signor Spuller e della quale io resi conto all'E. V. col mio
    telegramma di ieri, mi recai presso il signor Tirard, che aveva
    avuto tempo di leggere e meditare il discorso di V. E.
    Egli dimostrò di apprezzarlo grandemente e ne riconobbe il
    senso pacifico e conciliativo; tuttavia egli non ammette
    intieramente che il contegno stesso della Francia abbia causato, per
    parte nostra, la denunzia del trattato di commercio, che fu ed
    è tuttora pretesto di tante recriminazioni contro di noi.
    Nell'annunzio fatto da V. E. di avere la intenzione di proporre al
    Parlamento l'abolizione dei diritti differenziali rispetto alla
    Francia, senza chiedere la reciprocità per parte di essa, il
    signor Tirard si compiacque di riconoscere un atto conciliativo tale
    da calmare le asprezze tuttora esistenti nei rapporti commerciali
    dei nostri due paesi. Ma quando io gli chiesi se egli avrebbe
    seguìto nella via conciliativa apertagli dall'E. V., egli mi
    rispose che, prima di addivenire all'abolizione, per parte della
    Francia, delle tariffe differenziali, sarebbe necessario di
    riformare alcuni articoli della nostra tariffa generale, che sono
    effettivamente proibitivi per il commercio francese; al che gli feci
    osservare che la questione posta in quel modo era affatto diversa
    dall'altra, poichè egli ci suggeriva infatti per le nostre
    tariffe delle modificazioni che giustificherebbero soltanto la
    stipulazione di un nuovo trattato di commercio, al quale la Francia
    stessa in questo momento ripugnava, mentre la dichiarazione di V.
    E., relativa all'abolizione dei diritti differenziali, era un atto
    di conciliante cortesia, che non potrebbe essere ricambiato che con
    un atto consimile per ben dimostrare che i nostri due paesi,
    conservando tuttora la loro libertà commerciale, non
    intendono continuare più oltre una guerra di tariffe che non
    giova a nessuno. Il signor Tirard, tuttochè si mostrasse
    desideroso di ristabilire più facili rapporti commerciali
    coll'Italia, non nascose che temeva d'incontrare nella nuova Camera
    un ostacolo quasi insuperabile. Poichè le ultime elezioni
    furono fatte sotto l'influenza del protezionismo più
    assoluto, per cui è dubbio che, colla miglior volontà,
    egli possa compiere il desiderio espressomi con vivacità dal
    suo collega, il signor Spuller, quello cioè di ristabilire la
    pace commerciale.
    Tuttavia l'ostilità contro l'Italia va scemando; il discorso
    di V. E. produsse molto effetto sugli uomini più oculati.
    Benchè la stampa che, in generale, agisce sotto l'influenza
    della speculazione, tenti di mantenere un'irritazione che serve di
    argomento alle sue polemiche, non pertanto le idee pacifiche tendono
    a prendere il sopravvento.
    Il presidente della Repubblica, cui feci questa mattina la mia
    visita di dovere, mi parlò in quel senso, ed espresse il
    pensiero che le Potenze europee, anzichè profondere tesori
    per divorarsi tra loro, dovrebbero unirsi per resistere
    all'avversario che dalla sponda occidentale dell'Atlantico sembra
    voler minacciare il commercio e l'industria europea.
    
    Ma l'ostilità francese era irreducibile, e l'iniziativa
    pacifica dell'on. Crispi non fu corrisposta.
    Crispi non nutrì tuttavia risentimento verso i ministri della
    Repubblica. Una piccola prova della serenità del suo spirito
    è data dalla seguente lettera:
    
    Sombernon (Côte d'or) le 13 mai 1890.
    
    Monsieur le Président du Conseil,
    
    J'ai l'honneur de vous offrir la sincère et respectueuse
    expression de mes sentiments de reconnaissance pour l'insigne faveur
    qui m'a été accordée sur la proposition de
    Votre Excellence, par sa Majesté le roi d'Italie, quand elle
    a daigné me conferer la grand-croix de son ordre
    royal des Saints Maurice et Lazare dont son digne ministre à
    Paris, M. Resmann, m'a remis les insignes et le diplôme le six
    mai courant.
    Il m'a été particulièrement agréable de
    recevoir par l'intermédiaire de Votre Excellence cette marque
    de la haute estime de Sa Majesté, et je serai heureux si
    Votre Excellence voulait bien se charger d'être auprès
    du Roi l'organe et l'interprète de ma profonde gratitude.
    Je saisis cette occasion, monsieur le Président du Conseil,
    de vous assurer de la très haute considération avec
    laquelle j'ai l'honneur d'être
    
    de Votre Excellence
    le très humble et très obéissant serviteur
    E. Spuller
    Député au Parlement français
    ancien ministre des affaires étrangères de la
    République.
    
    
    
    Capitolo Duodecimo.
    
    1890 - Tunisi e Tripoli.
    
    
    Il licenziamento del principe di Bismarck: i rescritti imperiali per
    la protezione degli operai; spiegazioni dell'imperatore Guglielmo;
    Crispi e Bismarck. - La progettata annessione alla Francia della
    Tunisia; l'opposizione di Crispi; l'appoggio delle grandi Potenze;
    corrispondenza Crispi-Salisbury. - Tripoli per Tunisi. - Le
    fortificazioni di Biserta. - In previsione dell'occupazione italiana
    della Tripolitania.
    
    La sera del 20 marzo il supplemento dello Staats-Anzeiger pubblicava
    due ordinanze del Gabinetto imperiale secondo le quali il principe
    di Bismarck era, a sua domanda, esonerato dalle funzioni di
    Cancelliere dell'Impero germanico, di Presidente del Ministero
    prussiano e di ministro degli Affari esteri; e il generale di
    Caprivi, comandante il X Corpo d'Armata, era nominato Cancelliere e
    Presidente del Ministero; al conte Erberto di Bismarck si affidava
    provvisoriamente l'incarico della direzione degli Affari esteri.
    Il conte di Launay scriveva privatamente a Crispi che il ritiro
    dell'uomo di Stato eminente che aveva potuto rendere al suo paese
    servigi inestimabili, era il risultato fatale dell'antagonismo tra
    due potenze: una alla sua aurora, l'altra al tramonto; questa
    abituata a non tollerare ostacoli e a spezzare ogni resistenza, -
    quella giovine e risoluta a occupare il posto che le apparteneva di
    diritto, a rappresentare una parte preponderante e ad agire secondo
    la propria volontà. "Il suo regno - scriveva il di Launay -
    si disegna sempre più nettamente, ed è rappresentato
    da un Principe che ha un'anima elevata e virile, che dimostra un
    sentimento vivissimo della responsabilità, uno zelo ardente
    nel disimpegno dei suoi doveri, e intenzioni rette. Egli merita
    certamente che il successo risponda ai suoi nobili sforzi."
    Intorno alle circostanze determinanti dell'avvenimento che
    suscitò dovunque una grande sorpresa, l'on. Crispi ricevette
    le seguenti informazioni:
    
    Il punto di partenza del dissenso tra l'Imperatore e il principe di
    Bismarck è stato il rescritto imperiale del 4 febbraio per la
    protezione degli operai. Dopo di allora sopravvennero vari
    incidenti, i quali hanno condotto avanti ieri (16 marzo) ad una
    spiegazione tra Sua Maestà e il Principe. Questi aveva
    ricevuto la visita del signor Windthorst, capo della frazione del
    Centro. Tra i membri di questa frazione ve ne sono certamente
    parecchi che cercano di conciliare gli interessi della religione
    cattolica con quelli dell'Impero; ma non è meno vero che in
    cotesta categoria non si potrebbe annoverare il signor Windthorst,
    il quale, sotto il mantello della religione, tende a scalzare le
    fondamenta dell'Impero. Il giornale officioso, la Norddeutsche
    Allgemeine Zeitung, nello scopo di ottenere una maggioranza
    governativa al Reichstag, manovrava di già nel senso di
    ravvicinare al Centro il partito dei conservatori, sulla base del
    principio di autorità che entrambi rappresentano. D'altronde,
    l'alleanza tra i due partiti era insinuata chiaramente in un
    articolo dello stesso giornale, il quale dimostrava che, riuniti, i
    conservatori e gli ultramontani disporrebbero realmente della
    maggioranza, e che una intesa tra essi è possibile su un
    certo numero di questioni.
    L'Imperatore rimproverava al Cancelliere di non aver rifiutato la
    visita del signor Windthorst.
    Sua Maestà ha inoltre chiesto al Principe di ritirare
    un'ordinanza, in forza della quale i Ministri e i Segretari di Stato
    non possono presentarsi all'udienza dell'Imperatore senza il
    permesso del Cancelliere. Il Principe ha rifiutato il suo consenso.
    Il Sovrano desiderava poi, contro il parere di Sua Altezza, di
    ridurre allo stretto necessario ì nuovi crediti militari da
    chiedere al Parlamento, i quali dovranno
    servire ad aumentare l'artiglieria di 74 batterie. Il Reichstag
    attuale respingerebbe la legge progettata, e ne sorgerebbe un
    conflitto che Sua Maestà vuole evitare. I Capi dei Corpi
    d'armata sono convocati a Berlino per pronunziarsi sull'estremo
    limite della riduzione.
    Infine, Sua Maestà si lagnava che lo si informasse
    incompletamente intorno agli affari esteri.
    Il principe di Bismarck tradì con dei gesti
    l'impetuosità del suo carattere, e dopo cotesto sfogo di
    cattivo umore, i suoi occhi s'inumidirono. L'Imperatore
    conservò la più grande calma durante il penoso
    colloquio, e separandosi dal suo primo ministro gli disse che
    aspettava di conoscere il risultato delle sue riflessioni.
    Ieri però il generale de Hancke, capo dell'ufficio militare,
    si recava dal Cancelliere per annunziargli che era atteso al
    Castello per regolare con Sua Maestà i particolari relativi
    al suo ritiro. Il principe di Bismarck ha rifiutato di arrendersi a
    cotesta chiamata ed ha mandato oggi all'Imperatore una Memoria
    giustificativa.
    Il Segretario di Stato chiederà di essere anch'egli
    dispensato dal servizio quando la notizia delle dimissioni di suo
    padre sarà data ufficialmente. Il conte di Bismarck agisce
    sotto l'impulso di un nobile sentimento, poichè non esiste
    tra Sua Maestà e lui nessun motivo di dissenso circa la
    direzione della politica estera.
    In fondo, la ragione vera della discordia fra l'Imperatore e il
    Principe sta nell'incompatibilità dei loro caratteri. Il
    Principe è autoritario, non soffre la minima contraddizione,
    non sa piegarsi alle transazioni. L'Imperatore, sebbene renda piena
    giustizia al Principe per gli eminenti servizi resi durante
    più di un quarto di secolo alla monarchia, alla Prussia e
    alla Germania, è risoluto a prendere sotto la sua alta
    direzione la politica interna, come la politica estera, mentre il
    Cancelliere voleva tenere nelle sue mani le redini del Governo, come
    le aveva tenute negli ultimi anni del regno dell'imperatore
    Guglielmo I.
    Non si sa ancora nulla circa il successore. Persone bene informate
    assicurano che l'Imperatore da un mese avrebbe fatta la sua scelta.
    Comunque sia, niente sarà cambiato nella politica estera.
    L'Imperatore resta fedele alla triplice alleanza.
    Le notizie che precedono mi sono state fornite con raccomandazione
    di comunicarle personalmente a V. E. Le parole così graziose
    all'indirizzo di V. E., che sono oggi state dette dal Cancelliere al
    senatore Boccardo, possono essere considerate come un addio a chi,
    come Lei, ha saputo meritare l'amicizia e la stima di Sua
    Altezza.»
    
    I rescritti imperiali del 4 febbraio sul miglioramento delle
    condizioni degli operai, non erano stati accolti dal principe di
    Bismarck senza obiezioni. Pur apprezzando il sentimento umanitario
    del suo Sovrano, il Gran Cancelliere si preoccupava dell'insuccesso
    cui questi si esponeva, delle speranze difficilmente realizzabili
    che faceva nascere e della ripercussione che l'iniziativa imperiale
    avrebbe avuto sulla situazione dei partiti. Egli temeva
    altresì che nelle elezioni allora prossime per il Reichstag,
    molti elettori fossero indotti a votare per candidati, i quali sotto
    la bandiera delle aspirazioni bandite dall'alto dissimulassero i
    loro principii socialisti e anarchici. Il Principe credeva che si
    fosse fatto abbastanza pel momento, nel senso di un "socialismo di
    Stato", con le leggi relative agli accidenti sul lavoro, alle casse
    di risparmio, all'invalidità degli operai, e che lo Stato
    dovesse limitarsi a proteggere la libertà del lavoro, senza
    intervenire nelle contese tra i padroni e i lavoratori, reprimendo
    rigorosamente i disordini.
    Dopo l'annunzio della crisi, il conte de Launay scriveva
    confidenzialmente, in data 23 marzo, all'on. Crispi:
    
    Sono informato che sin dal 19 corrente le ambasciate della Germania
    a Roma, Vienna, Londra e i rappresentanti della Prussia a Dresda e a
    Monaco, sono stati avvertiti che i mutamenti che stavano per
    effettuarsi a Berlino non alteravano in nulla i rapporti
    internazionali dell'Impero.
    Oggi, alla festa degli Ordini, mi son trovato a fianco del nuovo
    Cancelliere, il quale mi ha parlato nello stesso senso. Egli ha sin
    da principio accolto a malincuore l'offerta del suo Sovrano. La sua
    ambizione era di continuare a servire attivamente nell'esercito e di
    morire, occorrendo, su di un campo di battaglia, anzichè
    consumare le sue forze su di un terreno nel quale ha lo svantaggio
    di succedere all'uomo di genio che per tanti anni
    ha rappresentato una parte immensa in Europa. Egli si è
    rassegnato quando l'Imperatore ha fatto appello alla sua devozione:
    come militare, il coraggio e l'obbedienza sono per lui virtù
    professionali. Ma mi ha assicurato che nelle relazioni estere
    seguirà le orme del suo predecessore. Gli ho detto che
    speravo mantenere con lui rapporti di mutua confidenza
    nell'interesse dei nostri due paesi e che avrei fatto tutto il
    possibile per riuscirvi. Il generale di Caprivi mi ha risposto che
    il principe di Bismarck, passando in rivista il corpo diplomatico,
    aveva indicato l'ambasciatore d'Italia nel numero dei diplomatici ai
    quali poteva accordare piena confidenza. Ho fatto allusione a
    qualche racconto della stampa tedesca che attribuisce alla sua
    famiglia origine italiana; onde i nostri giornali avevano rilevato
    questo fatto come un augurio di più per la continuazione
    degli eccellenti rapporti fra l'Italia e la Germania. Il generale ha
    contestato il fatto, i suoi antenati avendo emigrato dal Friuli
    austriaco in Germania; la parentela con i Montecuccoli non era
    provata. «Ciò non impedisce, ha soggiunto, che io ami
    gli italiani, e che vi proponga di bere con me alla loro
    salute». Dal mio canto ho brindato alla salute dei tedeschi.
    Dopo il pranzo, l'Imperatore mi ha preso in disparte. Egli teneva
    che io dessi a S. M. il Re e a Vostra Eccellenza qualche dettaglio
    sulla crisi avvenuta qui. Dopo il suo ritorno da Friedrichsruh, il
    principe di Bismarck era irriconoscibile; si notava in lui una
    grande sovreccitazione. Secondo l'opinione del medico, se cotesto
    stato si fosse prolungato, avrebbe dato luogo ad un attacco nervoso.
    Era un uomo finito per indebolimento di forze. «Il mio cuore,
    ha detto l'Imperatore, ha sofferto profondamente per la
    necessità di porre alla riserva un antico e illustre
    servitore della Corona». Sua Maestà esprimeva la
    speranza che in avvenire i consigli, l'energia, la fedeltà
    del Principe non sarebbero, occorrendo, mancati all'Impero.
    All'estero si ricorderà la politica di pace così
    saviamente seguita dal principe di Bismarck «e che io stesso
    sono risoluto a continuare con tutte le forze della mia
    volontà. Io resto fedele alla triplice alleanza». Senza
    essa, l'Europa avrebbe già sofferto per sanguinosi conflitti.
    «Ho notizie rassicuranti da Pietroburgo. L'imperatore
    Alessandro è animato dalle migliori disposizioni, e per
    ottenere che egli non se ne allontani, gli farò visita entro
    l'anno, nell'epoca delle grandi manovre a Tsarkoe-Zelo».
    Ho detto a Sua Maestà che nella mia corrispondenza avevo
    già avvertito che nessuna modificazione sarebbe stata
    apportata al programma pacifico del Gabinetto di Berlino e che
    questo si manteneva incrollabile per il mantenimento della triplice
    alleanza, la quale è una solida base della pace. Ho soggiunto
    che mi sarei affrettato a trasmettere a Roma le nuove dichiarazioni
    provenienti da chi tiene con mano ferma le redini dello Stato.
    L'Imperatore ha soggiunto: «Voi sapete che l'ambasciatore
    d'Italia è persona gratissima e che gode della nostra intiera
    confidenza».
    Ho detto ancora a Sua Maestà che io avevo avuto cura di
    negare qualunque speranza di riuscita agli intransigenti
    ultramontani che credono si avvicini il momento di ritornare ai loro
    sogni di restaurazione del potere temporale. Sua Maestà non
    ha esitato a dichiarare che certamente tali sogni non saranno da
    essa favoriti. «Io son troppo buon protestante per prestarmi a
    tali vedute. D'altronde, sento un sincero attaccamento per il vostro
    Re e per l'Italia».
    Mi risulta che l'Imperatore ha detto anche al mio collega di Austria
    che nulla sarebbe stato mutato nel suo programma di politica estera.
    Sua Maestà si è pure mostrata soddisfatta dei lavori
    della Conferenza per la protezione degli operai. Essa spera che
    dalle deliberazioni della medesima verrà qualche buon
    risultato, non fosse altro una base per Conferenze ulteriori.
    Il conte Erberto di Bismarck, malgrado tutti gli sforzi del Sovrano
    per conservarlo nelle sue attuali funzioni, persiste a volersi
    ritirare. In ogni caso prenderà un lungo congedo. Avrà
    l'interim degli Affari esteri il conte di Hatzfeldt, ambasciatore a
    Londra.
    
    Dopo pochi giorni le dimissioni del conte di Bismarck furono
    accettate, e al suo posto fu nominato il barone di Marschall,
    ministro del Granducato di Baden presso la Corte imperiale e membro
    del Consiglio federale.
    L'on. Crispi fu sinceramente afflitto pel ritiro del principe di
    Bismarck dalla direzione della politica germanica, sia per
    l'amicizia che a lui lo legava, sia per l'appoggio illimitato e
    decisivo che ne aveva avuto in ogni circostanza. Il 21 marzo appena
    apprese la pubblicazione ufficiale dello Staats-Anzeiger,
    inviò il suo saluto al Principe, che rispose immediatamente.
    Ecco i due telegrammi:
    
    Rome, 21/3/1890.
    
    Son Altesse le Prince de Bismarck,
    Berlin.
    
    Bien que Votre Altesse, en se retirant des hautes fonctions
    où la confiance de trois Empereurs l'avait placée et
    conservée, laisse à l'Allemagne le précieux
    héritage de la politique de paix à laquelle vous vous
    étiez si complètement dédié, je n'en
    éprouve pas moins les plus profonds regrets de votre
    détermination, regrets qui me sont inspirés autant par
    l'amitié qui m'unit à Votre Altesse, que par la
    confiance sans bornes que j'avais en Elle. Cette amitié et
    cette confiance, ne sauraient diminuer. Votre Altesse doit en
    être convaincue. Elle pourra toujours compter sur mon
    dévouement le plus sincère et le plus cordial.
    
    Crispi.
    
    Berlin, 22 mars 1890.
    
    Je remercie Votre Excellence de tout mon cœur des paroles
    affectueuses qu'Elle vient de m'adresser. Elles sont un nouveau
    témoignage des sentiments de confiance et d'affection dont je
    m'honore et que je vous rends du fond de mon âme. J'ai
    été heureux de me trouver placé en
    présence d'un homme d'Etat comme Votre Excellence lorsqu'il
    s'est agi de traiter les affaires des nos deux pays, et je vous prie
    de continuer avec mon successeur les relations de confiance qu'ont
    si bien servi les intérêts des deux pays. Je garderai
    toujours le souvenir de nos relations politiques et je vous prie de
    me conserver l'amitié personnelle qui restera
    inaltérable résultat de notre travail au service de la
    patrie.
    
    De Bismarck.
    
    Ricorrendo il 1.° aprile il genetliaco del Principe, l'on.
    Crispi, che negli anni precedenti gli aveva mandato i suoi augurii,
    non mancò di rinnovarglieli. E il suo telegramma fu
    ricambiato da una lettera la quale è un'altra prova della
    cordialità dei sentimenti che legavano il Bismarck al suo
    ex-collega.
    
    1 avril 1890.
    
    A S. A. le Prince de Bismarck,
    
    Veuillez agréer, mon Prince, les vœux très
    sincères et très chaleureux que je forme pour V. A. en
    ce jour anniversaire de sa naissance. Vous avez emporté avec
    vous, dans les calmes solitudes qui vous sont chères, la
    conscience d'une grande tâche glorieusement remplie, d'une vie
    laborieuse, consacrée toute entière au service d'une
    grande dynastie et d'un grand peuple. C'est un beau sort que le
    vôtre. Que Dieu vous accorde d'en jouir pour de longues
    années en vous conservant à votre souverain et a votre
    pays, qui peuvent toujours compter sur les conseils de votre
    génie et de votre expérience, à l'amour de
    votre famille, à l'affection immuable de ceux qui vous sont
    dévoués.
    
    Crispi.
    
    Friedrichsruh, le 21 avril 1890.
    
    Mon cher Ministre,
    
    Les bons vœux que Vous m'avez adressés pour l'anniversaire de
    ma naissance m'ont vivement touché et je Vous prie
    d'agréer l'expression de ma sincère reconnaissance.
    L'endroit dont je date ces lignes ne m'est cher pas seulement par le
    calme de ses forêts, mais surtout par le souvenir si
    agréable des visites, dont Vous avez bien voulu m'y honorer.
    A mon regret nos excellentes relations officielles ont
    été interrompues, mais je suis sûr que Votre
    Excellence me conservera toujours l'amitié personnelle qui
    nous lie et je serai heureux de Vous serrer la main où que ce
    soit.
    Veuillez croire, cher ami, à mes sentiments de
    très-sincère dévouement; ma femme et mon fils
    se rappellent à Votre souvenir affectueux.
    
    Von Bismarck.
    
    
    
    
    
    Durante il suo governo, l'on. Crispi non trascurò la difesa
    di alcun interesse italiano all'estero: rappresentanze diplomatiche
    e consolari, scuole, missioni, agenzie commerciali, stazioni navali,
    - ogni organo d'influenza, insomma, fu da lui attentamente curato o
    istituito. E le colonie nostre, anche le più remote, si
    sentirono vicine alla madre-patria, e sotto la vigile sua scorta
    custodirono con orgoglio i vincoli nazionali.
    Ma furono gl'interessi dell'Italia nel Mediterraneo quelli che
    ebbero le maggiori diligenze di Crispi, una predilezione fiera,
    gelosa, appassionata. Certo, egli non pensò che gli
    avvenimenti potessero retrocedere: dall'Egitto eravamo esclusi
    definitivamente, e la Tunisia era perduta in gran parte. Vide,
    tuttavia, che una politica accorta e ferma avrebbe potuto impedire
    che la situazione dell'Italia nel suo mare peggiorasse, e forse
    trovare qualche compenso ai danni subiti.
    La Francia, imponendo il suo protettorato al Bey di Tunisi, si era
    impegnata a rispettare le Capitolazioni e i diritti acquisiti dagli
    altri Stati, e a non fare in Tunisia fortificazioni che potessero
    costituire una base militare. Era naturale che col tempo quegli
    impegni divenissero una servitù gravosa, e che, modificandosi
    a poco a poco lo stato d'animo col quale i francesi si erano
    avventurati nell'impresa tunisina, essi cercassero di rendere
    assoluto e definitivo il loro dominio. Due Stati avevano interesse a
    contrastare questo proponimento, l'Inghilterra e l'Italia.
    La politica italiana tenne sempre in gran pregio l'amicizia
    britannica perchè essa rappresentava per l'Italia una
    garenzia dello statu-quo nel Mediterraneo. Ma in verità, gli
    sforzi da noi fatti per conservarla e per renderla intima, sono
    spesso stati inani per la divergenza degl'interessi anglo-italiani.
    In teoria, l'Inghilterra doveva preferire che l'Italia, pacifica e
    sincera sua amica, avesse il predominio o almeno una forte posizione
    nel Mediterraneo; in pratica, l'Inghilterra avendo interessi
    molteplici nel vasto mondo e dovendo qua e là fare i conti
    con la potenza francese, ha dovuto transigere talvolta e dare alla
    Francia i compensi che questa esigeva, nel Mediterraneo appunto.
    Nella questione di Tunisi abbiamo veduto36 come l'Inghilterra si
    fosse compromessa nel 1878, e si spiega perfettamente la successiva
    sua politica ambigua, tra la Francia che in Tunisia aveva ragione di
    non attendersi contrarietà inglesi e l'Italia che supponeva
    una solidarietà d'interessi inesistente.
    Data questa situazione, le difficoltà dinanzi alle quali si
    trovò Crispi erano insormontabili. Ma il conoscere com'egli
    cercasse di superarle, e come riuscisse a paralizzare l'azione del
    governo francese, ha senza dubbio una grande importanza.
    In giugno 1890 Crispi ha notizia da Parigi che sono in corso
    conversazioni tra lord Salisbury e l'ambasciatore francese a Londra,
    Waddington, nelle quali si tratta di concessioni da parte inglese a
    Tunisi, in corrispettivo dell'acquiescenza della Francia al
    protettorato dell'Inghilterra sullo Stato libero dello Zanzibar. E
    dà facoltà al conte Tornielli, ambasciatore
    italiano37, di dichiarare al ministro Salisbury, essere opinione del
    governo del Re che i lavori iniziati dalla Francia a Biserta
    minacciavano un turbamento dell'equilibrio delle forze nel
    Mediterraneo, e che il gabinetto della Regina farebbe delle
    osservazioni a Parigi per impedire il progresso di quei lavori;
    contemporaneamente telegrafa a Berlino che il governo del Re in
    varie occasioni crede di essersi accorto di una tendenza del Governo
    britannico a fare alla Francia delle concessioni a Tunisi, a scapito
    d'interessi italiani sui quali l'Italia non avrebbe potuto
    transigere.
    Lord Salisbury, il 25 giugno, dichiara al Tornielli di avere
    interpellato sui lavori di Biserta l'ambasciatore francese, e che
    questi gli aveva risposto non avere quei lavori carattere militare;
    e all'ambasciatore germanico, conte Hatzfeldt, dice che di Tunisi
    non si era fatta parola tra Londra e Parigi. Quanto allo Zanzibar,
    il Salisbury enuncia la massima da lui adottata "che uno Stato non
    cessa di essere indipendente se, usando di tale indipendenza, si
    metta spontaneamente sotto il protettorato di un altro", e avverte
    di aver fatto sapere al governo francese che se questo non fosse il
    suo modo di vedere, egli avrebbe preso in esame le obiezioni che gli
    fossero presentate.
    Pareva, dunque, che trattative non fossero in corso, sebbene
    restasse nella situazione che la Francia potesse avanzare pretese di
    compensi in Tunisia.
    Il 7 luglio l'on. Crispi telegrafa al conte Tornielli:
    
    (Confidenzialissimo. Personale). - Casualmente sono venuto a
    conoscere da un amico intimo di Freycinet e di Ribot che la Francia
    negozia con l'Inghilterra un trattato di commercio per la Tunisia.
    Le pratiche sarebbero state iniziate in vista della condizione
    speciale in cui si trova l'Inghilterra di aver colà un
    trattato, la cui durata è indeterminata. La persona medesima
    mi ha dato ad intendere che la Francia vorrebbe fare altrettanto con
    noi, e che sarebbe pronta a concederci le stesse condizioni che
    farebbe alla Gran Brettagna.
    Che la Francia prepari qualche cosa in Tunisia è oramai
    certo. Se indugia si è perchè non vuole scontentare
    nè l'Inghilterra, nè noi. Ciò essendo, ho
    risposto all'amico ufficioso col massimo riserbo e senza menomamente
    impegnarmi, che la questione nella Tunisia non si può toccare
    in Italia senza incorrere l'avversione pubblica; che l'argomento
    offrirebbe materia a lunghi studii; e che se conoscessi le basi
    dell'accordo sarei dispostissimo a prenderle nel dovuto esame.
    Gioverebbe intanto che io conoscessi le intenzioni di lord
    Salisbury, poichè nulla vorrei fare che non sia in perfetto
    accordo con lui. La prego perciò di volere con la più
    grande prudenza scandagliare quanto vi sia di vero nelle cose
    dettemi.
    
    Una comunicazione analoga vien fatta a Berlino. Tornielli e
    Hatzfeldt conferiscono con Salisbury il quale non nega queste
    trattative, ma dichiara esplicitamente che, "in ogni caso,
    l'Inghilterra farebbe qualche concessione alla Francia in Tunisia
    soltanto sul terreno commerciale, non mai di carattere politico,
    come sarebbe la rinuncia alle Capitolazioni".
    Il 14 luglio l'on. Crispi riceve dal Console d'Italia a Tunisi,
    Machiavelli, un allarme:
    
    Sono informato da buona fonte che, per accordo seguìto
    mercoledì, 9 corrente, tra Bey regnante e suoi due successori
    immediati, da un lato, e Residenza francese dall'altro, famiglia
    beylicale cesserebbe di regnare alla morte del primo, garantendo
    Francia lista civile dei Principi, fissata indefinitivamente a due
    milioni lire, per quello cui spetterebbe trono. Console inglese fa
    eguale comunicazione al Foreign Office.
    
    Questa notizia fece sull'on. Crispi una profonda impressione.
    Chiamò a Roma per dare loro istruzioni verbali gl'Incaricati
    d'Affari a Londra e a Parigi, Catalani e Ressman, e mise sottosopra
    le Cancellerie delle Grandi Potenze. Valgano i documenti a far
    comprendere con quale fervore e con quali intenti Crispi trattasse
    la questione:
    
    Roma, 15 luglio 1890.
    
    Regia Ambasciata italiana,
    
    Berlino.
    
    Il 9 corrente fu firmata a Tunisi una convenzione con la quale fu
    pattuita la cessazione della sovranità beylicale a favore
    della Francia alla morte del Principe attualmente regnante. La
    Francia in compenso darà al Principe successore una rendita
    annuale di due milioni di franchi. Questo atto completa il trattato
    del Bardo ed assicura alla vicina Repubblica l'impero di un
    vastissimo territorio, dalle frontiere del Marocco a quelle della
    Tripolitania.
    I pregiudizî, che da ciò verranno all'Italia, sono
    incalcolabili. L'errore commesso al 1881 dal Gabinetto di Berlino
    nel permettere l'occupazione della Tunisia, produrrà i suoi
    effetti. Se la Germania lascerà eseguire il suddetto trattato
    del 9 luglio, a noi non solamente sarà tolta nel Mediterraneo
    la libertà alla quale abbiamo diritto, ma il nostro
    territorio sarà sotto una continua minaccia.
    Se le Potenze amiche non vorranno o non sapranno opporsi a cotesto
    nuovo atto di spoliazione, dovranno per lo meno cooperarsi
    perchè l'Italia ottenga sicure garenzie contro pericoli
    inevitabili alla difesa del suo territorio.
    Voglia parlarne subito col conte Caprivi e chiedere da S. E. una
    pronta risposta per nostra norma.
    
    Roma, 16 luglio 1890.
    
    Regia Ambasciata Italiana,
    Berlino.
    
    Fo seguire altre considerazioni al mio telegramma di stanotte con
    incarico di subito comunicarle al Cancelliere dell'Impero.
    L'atto del 9 corrente, mercè il quale la Francia succede
    nella sovranità della Tunisia, ove non fosse impedito
    metterebbe l'Italia nella posizione d'invocare l'appoggio della
    Germania.
    La Tunisia venendo sotto la piena sovranità della Francia, in
    caso di guerra assumerebbe contro di noi una grande importanza
    militare.
    Biserta, al cui porto da qualche tempo si lavora, diverrebbe una
    formidabile piazza di guerra. Essa è a tre ore distante dalla
    Sicilia, contro la quale sarebbe una continua minaccia. L'Italia
    allora sarebbe costretta a tenere un forte esercito in Sicilia e non
    potrebbe, senza pericolo, allontanare da quelle acque la sua flotta.
    Per evitare mali maggiori noi ci crediamo in dovere di prevenire il
    governo alleato, il quale non mancherà di associarsi a noi
    nelle pratiche necessarie a Londra e quando ne verrà il
    momento, anche a Parigi.
    S'Ella non ha i documenti necessari, li chieda al conte di Launay.
    
    Roma, 18 luglio 1890.
    
    Ritorno sulla questione tunisina.
    L'occupazione francese di Tunisi al 1881 produsse la caduta del
    Ministero. Il paese se ne addolorò, ma allora l'Italia era
    isolata.
    Oggi esiste la triplice alleanza, ed il mutamento della
    sovranità in Tunisi produrrebbe in Italia due conseguenze: il
    ritiro del Ministero attuale, e la persuasione nel popolo nostro,
    che a nulla giovi la triplice alleanza.
    Questa seconda conseguenza sarebbe fatale, e bisogna che il
    gabinetto di Berlino ci pensi.
    Io son convinto che se la Germania farà comprendere a Parigi
    che l'esecuzione del trattato del 9 corrente
    potrebbe produrre la guerra, il governo della Repubblica
    cederà ad un accomodamento con l'Italia.
    Comunichi queste mie considerazioni al Cancelliere dell'Impero.
    
    Tunisi, 16 luglio.
    
    Signor Ministro, In conferma ed aggiunta del telegramma in cifra da
    me diretto ieri l'altro all'E. V. ho l'onore di riferirle che la
    notizia in esso contenuta mi venne data in forma confidenziale dal
    Console inglese che l'aveva, così mi disse, ricevuta da un
    personaggio della Corte tunisina, famigliare del Bey.
    Trovatisi riuniti presso S. A. mercoledì 9 corrente i
    principi Taib e Hussein, il signor Regnauld, ff. di Residente, il
    procuratore della Repubblica, signor Fabry, ed il comandante Catroux
    per le funzioni di interprete, si sarebbe convenuto che la famiglia
    beylicale cesserebbe di regnare dopo la morte del Bey attuale, e che
    la Francia garentirebbe la lista civile dei principi, fissandola a
    perpetuità a due milioni di franchi per quello di essi a cui,
    nell'ordine di successione, sarebbe spettato il trono senza la
    rinunzia fatta da Alì-Bey e dai due più prossimi eredi
    in nome della dinastia.
    Il Console inglese ha soggiunto che la qualità del
    personaggio, il modo in cui fece le sue confidenze e qualche parola
    sfuggita ad un funzionario della Residenza, davano alla notizia tale
    un colore di verità che ei credevasi in obbligo di
    comunicarla sollecitamente al Foreign Office, anche in vista delle
    trattative pendenti sulle cose d'Africa, alle quali la questione
    tunisina non è forse estranea.
    Dal modo con cui mi ha parlato il signor Drummond mi è nato
    qualche sospetto che la notizia venga dal Bey stesso o da altro
    principe tunisino, sapendo che se non hanno il coraggio di resistere
    apertamente, vedrebbero però con giubilo le Potenze europee
    intervenire per mettere argine all'azione sempre più
    invadente della Francia in Tunisia.
    È stato notato che al colloquio tra il Bey e il signor
    Massicault, subito dopo il ritorno di quest'ultimo, non è
    intervenuto il solito interprete generale Valensi, sebbene persona
    devota alla Residenza sino alla servilità,
    ma ha fatto da traduttore lo stesso figlio secondogenito di Sua
    Altezza, e se ne arguisce che siansi trattati argomenti molto
    importanti e delicati.
    
    G. B. Machiavelli.
    
    Tunisi, 18 luglio.
    
    Signor Ministro, A parziale rettifica del mio rapporto in data 16
    corrente devo informare l'E. V. che invece del principe Hussein,
    trattenuto a letto da una febbre tifoidea, è intervenuto al
    convegno della Marsa un altro Principe della famiglia beylicale.
    Il signor Drummond-Haig mi ha lasciato oggi comprendere che gli sono
    giunte dal Foreign Office comunicazioni le quali escludono che
    l'Inghilterra sia disposta a rinunciare ai suoi diritti nella
    Reggenza ed a collegare la questione tunisina con quella dello
    Zanzibar, come le ne erano state fatte vivissime istanze dalla
    Francia; ha poi soggiunto, e credo di dovere ad ogni buon fine
    ripetere, che a parer suo, il governo della Regina non farà a
    quello della Repubblica concessioni a Tunisi senza ottenere un
    compenso in Egitto, quando sia giunto il momento opportuno.
    
    G. B. Machiavelli.
    
    L'Incaricato d'Affari a Berlino telegrafava il 18 luglio di aver
    comunicato al cancelliere Caprivi i telegrammi inviatigli dall'on.
    Crispi e di avergli fatto considerare la viva emozione che la
    notizia della nuova convenzione tunisina avrebbe destato in Italia
    quando fosse conosciuta.
    
    Il Cancelliere - diceva il Beccaria - mi parve compreso della
    gravità dell'argomento; dissemi però che appunto per
    questo non poteva pronunziarsi senza maturo e profondo esame. La
    mole degli affari che lo hanno assorbito dal giorno della sua venuta
    al potere non gli lasciò tempo di approfondire la questione
    tunisina, che non si aspettava di veder sorgere così presto,
    e che lo coglie quindi alla sprovvista. Egli ne farà subito
    oggetto di un attento esame.... Stando ai ragguagli recentemente
    inviati dal conte Hatzfeldt, lord Salisbury non avrebbe conoscenza
    del fatto.
    
    Berlino, 23 luglio.
    
    Esco da un colloquio col Cancelliere. S. E. crede utile per la
    riuscita della campagna diplomatica da condursi per l'affare
    tunisino, il concorso dell'Austria-Ungheria e di somma importanza
    quello dell'Inghilterra.... Subito dopo le mie prime comunicazioni,
    il gabinetto di Berlino intavolò attive pratiche a Londra e a
    Vienna. Benchè queste non abbiano ancora approdato, il
    Cancelliere spera di poter arrivare a presentare rimostranze
    collettive a Parigi.... Intanto egli mi pregava istantemente di
    assicurare V. E che questo governo è, come per lo passato,
    animato dalle migliori disposizioni e dal maggiore desiderio di
    rendere servizio all'Italia, e che egli poi, generale Caprivi,
    sarà personalmente ben lieto d'avere occasione di
    testimoniare a V. E. il suo buon volere e l'alto conto in cui tiene
    le di Lei vedute ed apprezzamenti, sapendo con qual uomo di Stato,
    esperimentato ed illuminato, egli ha da fare.... Da certi accenni
    fattimi dal Cancelliere e da ragguagli venutimi da altra sorgente,
    ho potuto indurre che, tastato il terreno a Londra, il Gabinetto di
    Berlino, pur non dubitando della possibilità di ottenere
    l'appoggio degli Inglesi, si è convinto della
    necessità di procedere verso essi con grande cautela,
    sopratutto in questo momento in cui lord Salisbury è
    impegnato con la Francia in negoziati difficili per gli affari di
    Zanzibar e di Terranova.
    
    Beccaria.
    
    Roma, 24 luglio.
    
    Regia Ambasciata Italiana,
    Berlino.
    
    Ieri sera è venuto il conte di Solms e mi ha a un dipresso
    detto ciò che è contenuto nel di Lei telegramma. Dissi
    all'ambasciatore di Germania quali siano i pericoli per la
    libertà del Mediterraneo e la pace
    Europea, se la Francia diverrà sovrana assoluta della
    Tunisia. Soggiunsi che ove ciò avvenisse senza alcuna
    opposizione da parte delle Potenze alleate, sarebbe indubitata la
    occupazione anche della Tripolitania. Bisogna quindi o trovar modo
    d'impedire la dominazione assoluta francese in Tunisia, o premunirsi
    perchè la Tripolitania sia data a noi, come sola possibile
    garanzia di fronte all'aumentarsi della potenza militare e marittima
    della Francia.... Noi vogliamo procedere d'accordo coi gabinetti
    amici, ma siamo risoluti ad usare tutti i mezzi perchè
    l'Italia non venga colpita da un fatto che sarebbe un disastro.
    
    Crispi.
    
    Berlino, 25 luglio.
    
    Esco dal barone Holstein, il quale mi disse che i gabinetti di
    Berlino e di Londra sono venuti nella decisione di interpellare in
    forma cortese il governo francese circa affare tunisino.
    Mentre conversavo col barone, giunse un telegramma dell'ambasciatore
    di Germania a Parigi così concepito: «Appena misi
    conversazione sulla Tunisia, il signor Ribot dichiarò
    assolutamente falsa la voce sparsa dall'Italia che un accordo sia
    stato concluso dalla Francia col Bey indennizzando i di lui eredi
    mediante due milioni di franchi. Il Ministro degli Affari esteri mi
    pregò di comunicare questo al Cancelliere imperiale onde
    evitare malinteso».
    
    Beccaria.
    
    Roma, 27 luglio.
    
    Regia Ambasciata Italiana,
    Berlino,
    
    La smentita data da Ribot sulla esistenza del trattato col quale era
    ceduta alla Francia la piena sovranità della Tunisia, ha una
    importanza relativa e non ci rassicura pensando alla condotta
    precedente del Governo della Repubblica.
    Il 12 maggio 1881 fu occupata la Tunisia e fu firmato
    il trattato per il protettorato, mentre il 6 aprile dell'anno
    stesso, cioè pochi giorni innanzi, Barthélemy
    Saint-Hilaire aveva dichiarato a Cialdini che la Reggenza non
    sarebbe stata occupata.
    
    Crispi.
    
    Berlino, 28 luglio.
    
    V. E. sarà già informata da Londra, che lord Salisbury
    interpellò quell'ambasciatore di Francia circa l'esistenza
    della convenzione assicurante alla Repubblica francese la piena
    sovranità sulla Tunisia. Il signor Waddington, dopo riferito
    al suo governo, avrebbe fatto al ministro degli Affari esteri
    inglese una dichiarazione analoga a quella del signor Ribot al conte
    Münster. Quest'ultimo, dopo il telegramma di cui diedi contezza
    il 25 corrente, scrisse che le affermazioni del ministro degli
    Affari esteri francese erano state delle più formali,
    cosicchè devesi credere o che la convenzione realmente non
    esista, o che la Francia non si senta abbastanza forte per dar
    seguito alle sue mire di fronte alla resistenza intravveduta.
    
    Beccaria.
    
    Contemporaneamente Crispi agiva a Londra. Lord Salisbury
    cominciò con esprimere incredulità circa l'esistenza
    della convenzione.
    
    «Egli non vedeva - così riferiva il Tornielli - come si
    potrebbe conoscere la verità intorno all'esistenza della
    convenzione del 9 luglio, poichè la Francia certamente non la
    notificherebbe e il Bey neppure.»
    
    Dopo qualche giorno, il Salisbury avvertiva di non aver potuto
    raccogliere le prove del preteso trattato di cessione della Tunisia
    alla Francia, però qualche indizio faceva credere che un atto
    fosse stato firmato fra il Bey regnante e il Governo francese per
    assicurare alla morte del Bey, la successione; e conveniva
    
    «che se le notizie giunte a Roma fossero sufficientemente
    appoggiate da prove, il fatto sarebbe certamente di tale
    gravità da richiedere che i gabinetti amici dell'Italia
    s'intendessero per vedere quali pratiche dovessero farsi.»
    
    Ma Crispi non contentandosi delle risposte date all'Ambasciatore,
    scrisse a lord Salisbury la seguente lettera:
    
    Rome, le 23 juillet 1890.
    
    Mon cher lord Salisbury,
    
    Votre Excellence recevra cette lettre des mains du commandeur
    Catalani, qui vous ouvrira toute ma pensée au sujet de la
    question tunisienne, question dont la solution est d'un si grand
    intérêt pour l'Italie et pour la Grande Bretagne.
    La France est depuis neuf ans en Tunisie. Il serait impossible de
    l'en déloger et sa ferme intention est manifestement d'y
    rester maîtresse et en toute sécurité.
    Sans donner suite aux nouvelles contradictoires reçues de
    Tunis et voulant même prêter fois au démenti de
    M. Ribot, j'ai la conviction que, tôt ou tard, la France saura
    acquérir la plénitude de la souveraineté de ce
    pays.
    En attendant il ne faut pas oublier, que jusqu'au 6 avril 1881,
    c'est-à-dire un mois environ avant le traité du Bardo,
    M. Barthélemy Saint-Hilaire déclarait au
    Général Cialdini que le gouvernement français
    ne pensait aucunement à une occupation militaire permanente
    et moins encore à l'annexion de la Tunisie.
    Si ce changement de domination en Tunisie venait d'avoir lieu sans
    opposition et à notre insu, la Tripolitaine ne tarderait pas
    à avoir son tour. Le Gouvernement de la République
    tend à occuper cette région, comme le prouvent
    surabondamment ses empiétements continuels sur la
    frontière.
    Il arriverait alors que du Maroc à l'Egypte une seule
    puissance dominerait l'Afrique du nord, et que de cette puissance
    dépendrait la liberté de la
    Méditerranée. L'Italie, pour ce qui la concerne,
    serait sous la menace incessante de la France; Malte et l'Egypte ne
    seraient pour la Grande Bretagne une garantie suffisante.
    En présence de tels dangers, il faut se préparer et
    prévenir l'exécution des desseins de la France.
     La Tunisie ne pouvant être rendue à elle
    même, et puisque on ne peut empêcher le Protectorat de
    devenir un jour ou l'autre une souveraineté, il serait
    nécessaire de se premunir contre une occupation possible de
    la Tripolitaine de la part de la France en l'occupant avant elle.
    Si nous avions la Tripolitaine, Biserta ne serait plus une menace
    pour l'Italie, ni pour la Grande Bretagne.
    Nous sommes vos alliés nécessaires; et notre union
    vous garantirait la domination de Malte et de l'Egypte. Grâce
    à elle, l'Italie n'aurait plus à craindre qu'une
    double expédition militaire pût simultanément
    être dirigée contre elle de Biserta et de Toulon.
    Je prie Votre Excellence de peser ces considérations et
    d'agir de concert avec le Gouvernement que j'ai l'honneur de
    présider. Il s'agit de notre salut et de votre grandeur dans
    la Mediterranée.
    Je saisis cette occasion pour offrir à Votre Excellence les
    assurances de ma très haute considération.
    
    F. Crispi.
    
    Da Londra il 31 luglio, l'Incaricato d'affari, Catalani, informava
    l'on. Crispi:
    
    La lettera di V. E. ha prodotto profonda impressione su Salisbury. -
    Sua Signoria risponderà per iscritto fra breve. - Per il
    momento mi ha incaricato di telegrafare a V. E. «che egli
    è convinto che il giorno in cui lo statu-quo nel Mediterraneo
    sarà menomamente alterato è indispensabile che la
    Tripolitania sia occupata dall'Italia. Rammentò
    spontaneamente avermi manifestato altra volta tale opinione, punto
    importante della sua politica. Soggiunse: L'occupazione italiana di
    Tripoli dovrà effettuarsi indipendentemente dagli avvenimenti
    in Egitto, cioè a dire, sia che l'Egitto resti in mani
    britanniche o del Sultano. Tale occupazione è richiesta
    dall'interesse Europeo per impedire che il Mediterraneo diventi un
    lago francese. La sola questione da esaminare è
    l'opportunità del momento presente all'Impresa. Su questo
    punto Salisbury differisce da V. E. Egli crede che il momento
    dell'occupazione non è ancora giunto. Quindi la preghiera che
    Sua Signoria rivolge a
    V. E. per mezzo mio, si contiene in una sola parola: aspettare. Tale
    parola sarebbe già stata o sarà mandata a Roma da
    Berlino. Tutto porta a credere, secondo Salisbury, che nonostante la
    poca fede da darsi alle smentite francesi, il Governo francese fu
    sincero nell'affermare non aver concluso nuovi accordi col Bey.
    All'osservazione che l'accordo potrebbe essere stato concluso da un
    precedente Gabinetto, Salisbury rispose che non si era potuto
    ottenere alcuna prova. «L'ostacolo principale ad una
    occupazione immediata di Tripoli, si troverebbe nella resistenza del
    Sultano, che dichiarerà guerra all'Italia. Le condizioni
    della Turchia sono diverse da quelle all'epoca della cessione di
    Cipro. La Turchia da sè sola non è da temersi, ma
    sarà appoggiata dalla Russia, che coglierà l'occasione
    di rendersi vassallo il Sultano, difendendone il territorio. Una
    mossa italiana contro Tripoli sarebbe il segnale dello smembramento
    della Turchia, sorte alla quale essa non può sfuggire, ma
    alla quale in questo momento nè le Potenze, nè
    l'opinione pubblica inglese, sono preparate. L'Italia non
    perderà nulla coll'aspettare, se si terrà pronta ad
    agire al momento in cui la Francia desse segno di attivare i suoi
    disegni.»
    Da parte sua, Salisbury avvertirà energicamente la Francia di
    astenersi dal fare qualsiasi mutazione politica in Tunisia. Sulla
    mia domanda di dichiarare risolutamente al Governo francese che la
    flotta inglese si unirà alla italiana per mantenere lo
    statu-quo nella Tunisia, Salisbury rispose che una tale
    dichiarazione avrebbe per effetto di suscitare un incidente
    parlamentare poichè Waddington ne informerebbe ..........
    Salisbury conchiuse: «Il Governo italiano avrà la
    Tripolitania, ma il cacciatore per tirare sul cervo, deve aspettare
    che passi a portata del suo fucile affinchè, anche ferito,
    non gli sfugga».
    
    Le mie impressioni sono le seguenti:
    1.) Le relazioni fra l'Inghilterra e la Francia sono assai
    più tese dell'anno passato; 2.) Salisbury è più
    deciso dell'anno passato a non lasciarsi sfuggire l'Egitto, ed una
    mossa italiana contro Tripoli sarebbe seguita dal protettorato
    inglese al Cairo.
    La chiave di Tripoli è in questo momento a Berlino.
    Una parola risoluta da Berlino infonderebbe a Salisbury l'ardire che
    gli manca. Sua Signoria desidera tre o quattro giorni per farmi
    pervenire risposta alla lettera di V. E. Ritengo che l'indugio fu
    chiesto per mettersi in comunicazione con Berlino.»
    
    Seguì il 5 agosto quest'altro telegramma del Catalani:
    
    Ho ricevuto lettera di Salisbury diretta a V. E., che
    consegnerò domani dentro un piego al regio Ambasciatore,
    affinchè sia spedito con il corriere di Gabinetto.
    Prego V. E. di dar ordine a Tornielli di far ripartire
    immediatamente il corriere di Gabinetto per Roma.
    Se, come devo credere, la comunicazione scritta di Salisbury
    è conforme alle dichiarazioni verbali fatte a me, lo scambio
    delle lettere autografe fra i primi ministri Italia ed Inghilterra
    costituisce accordo completo nella questione di Tripoli. È
    probabile che Imperatore di Germania abbia avuto contezza della
    corrispondenza.
    
    La risposta di lord Salisbury fu la seguente:
    
    Londres, 4 août 1890.
    
    Mon cher Signor Crispi,
    
    J'ai l'honneur d'accuser réception de la lettre dont Votre
    Excellence a bien voulu m'honorer. Je l'ai lue avec le plus grand
    intérêt.
    Je suis d'accord avec Votre Excellence sur l'avenir probable de la
    Tunisie. Elle deviendra fatalement Française un jour ou
    l'autre: mais je crois cette issue assez loin. Aussi, je me trouve
    en parfaite harmonie avec vos idées sur le danger d'une
    avance ultérieure de la part de la France. Les
    intérêts politiques de la Grande Bretagne aussi bien
    que ceux de l'Italie ne comportent pas que la Tripolitaine ait une
    destinée semblable à la Tunisie. Il faut absolument
    parer à une telle éventualité, quand elle nous
    menacera. Mais je ne la crois pas proche. La France a beaucoup de
    chemin à faire avant de se trouver à ce point
    là.
    Or, dans une telle affaire, les précautions
    prématurées sont pleines de danger.
    
    
    
    Si l'Italie venait à occuper Tripoli en temps de paix sans
    que la France ait pris aucune mesure aggressive, elle s'exposerait
    au reproche d'avoir réveillée la question d'Orient
    dans des conditions fort désavantageuses. Le Sultan ne
    supportera pas la perte d'une autre province sans pousser des hauts
    cris. Pour garder son territoire il fera sacrifice de son
    indépendance, et il acceptera le protectorat et le soutien de
    la Russie.
    Ainsi, si j'osais offrir une conseil à Votre Excellence, je
    la prierais vivement d'agir avec beaucoup de circonspection et de
    patience dans cette affaire; et, tant que les desseins de la France
    n'ont pas pris corps, d'éviter toute action qui pourrait nous
    compromettre irrévocablement avec le Sultan.
    Je prie Votre Excellence de croire toujours à la sympathie
    vive que le peuple et le gouvernement Anglais ressentent pour
    l'Italie: et d'agréer l'assurance de ma considération
    et mon respect.
    
    Salisbury.
    
    La replica dell'on. Crispi a questa lettera non poteva mancare, ed
    egli l'affidò ad uno de' suoi segretarii, Edmondo Mayor des
    Planches; il quale della missione affidatagli rese conto con questo
    rapporto:
    
    La Bomboule, 26 agosto 1890.
    
    Eccellentissimo Signor Ministro,
    
    Ho rimesso oggi a lord Salisbury la lettera che Vostra Eccellenza mi
    aveva affidato per lui.
    Ho trovato Sua Signoria in un modesto alloggio, al primo piano di
    una maison meublée chiamata la Villa Medicis. È la
    prima volta che il nobile Lord fa la cura di queste acque
    arsenicali; precedentemente andava a Royat, località, poco
    distante, di questa stessa regione d'Alvernia.
    Lord Salisbury, cui aveva domandato udienza con un biglietto, subito
    dopo il mio arrivo, mi aveva risposto con un cortesissimo invito. Mi
    ricevette in un piccolo studio, stamane, alle dieci e mezzo.
    Appena seduti, gli rimisi la lettera. Questa essendo un po'
    sgualcita, dissi, pregandolo di scusarmi:
     - Je ne sais si je fais un bon diplomate, mais je suis,
    à coup sûr, un mauvais courrier de Cabinet.
    Sua Signoria si mise a ridere e fece per aprire, dinanzi a me, la
    lettera; ma si fermò.
    - Dois-je la lire maintenant?
    Risposi:
    - Je crois que Votre Excellence en peut prende connaissance à
    son aise. C'est une réponse à la lettre du 4.
    - Ah, bien!... - E la mise in disparte.
    - Et vous êtes venu expressément?! Je regrette d'avoir
    été pour vous cause da tante de trouble. Au moins
    voyez-vous un beau pays. Vous le connaissiez?
    - Nullement.
    Vantò le bellezze dell'Alvernia. Poi:
    - Vous avez quitté M. Crispi depuis peu?
    - Depuis cinq jours.
    - Comment se portait-il?
    - Il était en parfaite santé.
    - Et politiquement aussi, disse ridendo, il se porte très
    bien.
    - Je crois qu'il se sent très fort sous tous les rapports.
    - C'est un homme bien étonnant. Il nous veut toujours du
    bien, n'est-ce-pas?
    - Il a pour l'Angleterre comme nation l'admiration la plus vive, et
    de Votre Excellence une très haute estime.
    - Il est bien indulgent pour moi. Quel âge a-t-il?
    - Soixante et onze ans.
    - Et il soutient le poids de trois porte-feuilles?!
    - De trois, en effet, car la Présidence du Conseil en est un
    et qui implique de très graves responsabilités.
    - Vous ne manquerez pas de le saluer chaleureusement de ma part et
    de lui dire combien je désire que nous restions toujours bons
    amis. Vous retournerez directement à Rome?
    - Directement.... par Paris.
    Rise ancora, e poichè non soggiungeva altro, mi alzai per
    prendere commiato.
    - Je vous souhaite bon voyage et meilleur temps qu'ici.
    - Je souhaite à Votre Excellence une heureuse cure.
    Queste ultime parole furono dette in piedi. Sua Signoria mi strinse
    la mano e mi accompagnò alla porta che aperse e richiuse.
     Lord Salisbury è alto, di forte complessione, un po'
    obeso. Si tiene alquanto curvo. È un po' ansante, di soffio
    affannoso e corto. Prima che entrasse nella camera avevo sentito il
    suo respiro penoso. Appartiene alla specie degli inglesi timidi.
    Ascolta attentamente, con la testa china in avanti verso
    l'interlocutore, che guarda ogni tanto con occhio fisso e
    penetrante. Ride facilmente e brevemente in modo sempre uniforme.
    Ciò è quanto ritenni da un colloquio che potè
    durare dieci o dodici minuti.
    Sono, di Vostra Eccellenza, etc.
    
    La lettera consegnata dal Mayor era questa:
    
    Rome, le 16 août 1890.
    
    Mon cher lord Salisbury,
    
    Votre Excellence me permettra de répliquer brièvement
    à Sa lettre du 4 courant qui m'est arrivée par le
    dernier courrier.
    En vous écrivant, le 23 juillet, j'avais pour but de
    dénoncer à Votre Excellence les dangers qui nous
    menacent en Tunisie, et de vous signaler la nécessité
    d'un accord entre l'Italie et la Grande Bretagne pour les
    éventualités que je prévoyais. Ce but ayant
    été atteint grâce à l'échange de
    nos deux lettres et aux colloques qui ont eu lieu entre Votre
    Excellence et le commandeur Catalani, il ne me reste à ce
    sujet rien à demander, ni à désirer.
    Je suis en plein accord d'idées avec Votre Excellence sur ce
    point qu'il ne convient pas de précipiter une action qui
    pourrait jeter le Sultan dans le bras de la Russie. Du reste il
    manquerait actuellement à l'Italie une raison pour agir.
    
    Il appartient cependant à la prudence d'un homme d'Etat de ne
    pas se laisser surprendre; et, dans le cas spécial qui nous
    occupe, il importe de faire savoir à Paris que nous ne
    pourrions, en aucun cas, permettre qu'en Tunisie le protectorat se
    change en pleine souveraineté.
    Il y a lieu, en outre, d'avertir les gouvernements amis, que le
    fait, s'il ne se vérifie aujourd'hui, est cependant
    inévitable, et cela pour que nous ne nous trouvions
    pas surpris et non préparés le jour où il sera
    nécessaire d'agir. Bien des injustices internationales ont pu
    s'accomplir par suite de l'imprévoyance, ou de la
    négligence de ceux dont l'intervention, à un moment
    donné, eût pu les prévenir.
    La Turquie n'a pas les forces suffisantes à sauvegarder la
    liberté de la Méditerranée. Elle est
    impuissante à arrêter les empiétements qui se
    vérifient depuis neuf ans sur le territoire tripolitain du
    côté de la Tunisie. Il est donc plus que probable
    qu'elle ne saura et ne pourra s'opposer à l'occupation de ce
    territoire. La Turquie, à cause de sa position toute
    speciale, n'a que la force des faibles; elle ne peut guère
    que jeter la division parmi les forts, obligés à se
    montrer tolérants par crainte de ce qui peut survenir. Mais
    ce privilège dont jouit le Sultan, ne doit pas constituer un
    danger permanent pour les autres Etats, qui cohabitent dans la
    Méditerranée et qui ont le devoir de garantir leur
    propre existence, et de veiller au maintien de leur propres droits.
    Cela dit, je renouvelle à Votre Excellence l'expression des
    sentiments de ma plus haute considération.
    
    F. Crispi.
    
    Son Excellence
    Le Marquis de Salisbury.
    
    Mentre questa corrispondenza si svolgeva, l'on. Crispi stimò
    opportuno d'impegnare il gabinetto britannico con questa Nota:
    
    Roma, 5 agosto.
    
    Signor Ambasciatore,
    
    Mentre V. E., conformemente alle mie istruzioni, aveva iniziato col
    principale Segretario di Stato per gli Affari esteri di S. M.
    britannica uno scambio d'idee tendenti a prevenire le conseguenze
    dell'accordo che si afferma essersi stabilito fra il governo
    francese ed il regnante Bey di Tunisi per introdurre, alla morte di
    quel Principe, un mutamento sostanziale nelle condizioni della
    sovranità della Reggenza, e mentre si aspettavano i
    particolari della prima notizia in proposito ricevuta, Sua
    Eccellenza il marchese Salisbury mi fece cortesemente
    comunicare, per mezzo dell'Ambasciatore d'Inghilterra a Roma, la
    smentita formale data alle notizie stesse dal Ministro degli Affari
    esteri della Repubblica. Ai ringraziamenti che S. E. lord Dufferin
    fu da me incaricato di porgere al suo governo per tale amichevole ed
    importante comunicazione, io desidero che Ella aggiunga le
    espressioni della soddisfazione in me prodotta dalle dichiarazioni a
    Lei fatte da lord Salisbury, le quali mi danno la certezza che se la
    esplicita smentita del Gabinetto di Parigi non avesse reso, per ora,
    superflua la continuazione dell'iniziato scambio d'idee e se altre
    considerazioni di opportunità non avessero consigliato di
    soprassedere, per non recare incagli a trattative più
    urgenti, in corso fra Londra e Parigi, i governi di S. M. il Re
    nostro augusto Sovrano e di S. M. la Regina d'Inghilterra si
    sarebbero subito trovati d'accordo per indicare tutti gli Stati
    interessati alla conservazione dell'equilibrio delle forze nel
    Mediterraneo ed intendersi circa ciò che le previsioni del
    mutamento di sovranità nella Reggenza di Tunisi avrebbe reso
    necessario. È opinione del Governo di S. M. il Re, la quale
    io spero sia divisa da quello di S. M. la Regina, che mentre le
    presenti circostanze hanno permesso di sospendere l'esame di
    eventualità che non sembrano prossime, qualora dovessero
    sopraggiungere nelle circostanze stesse variazioni che suggerissero
    di ripigliare in considerazione gl'interessi comuni, impegnati nella
    conservazione di quell'equilibrio, le fiduciose dichiarazioni
    scambiate recentemente fra V. E. e S. E. il marchese di Salisbury
    offriranno la base di un pronto accordo, bastevole certamente per
    prevenire qualunque serio pericolo che sovrastasse agli interessi
    medesimi. Per questo motivo mi riuscirono preziosissime le
    assicurazioni che nel senso sovra espresso Ella fu in grado di
    comunicarmi in seguito all'abboccamento da Lei avuto col principale
    Segretario di Stato di S. M. britannica il giorno 21 dello scorso
    mese ed è mio desiderio che Sua Signoria conosca tutto il
    valore che il Governo di Sua Maestà il Re vi annette. Voglia
    perciò dare di questo dispaccio lettura a Sua Eccellenza il
    marchese di Salisbury e lasciargliene copia se egli lo desidera.
    
    Crispi.
    
    L'azione spiegata a Vienna raggiunse il doppio scopo di far muovere
    in nostro favore, a Londra e a Parigi, la Cancelleria imperiale, e
    di provocare dichiarazioni conformi ai nostri interessi. Ciò
    che realmente si trattava tra Londra e Parigi si seppe per mezzo di
    Kálnoky il quale informava l'ambasciatore Nigra che
    Salisbury, interrogato per di lui ordine da Deym, Ambasciatore
    austriaco, disse che i negoziati con la Francia riguardavano: 1. La
    conversione egiziana; 2. un territorio africano di proprietà
    contestata; 3. la revisione del trattato commerciale con Tunisi, la
    quale concerneva soltanto le tariffe e non toccava la questione
    delle Capitolazioni. "Secondo il trattato vigente, il governo di
    Tunisi ha diritto fin dal 1882 di chiedere questa revisione. Non
    è questione di vantaggi politici da accordarsi alla Francia
    in Tunisia."
    La revisione del trattato di commercio anglo-tunisino -
    avvertì successivamente il Kálnoky - non ebbe lo
    scioglimento desiderato dalla Francia, poichè lord Salisbury
    non consentì a fissare un termine al trattato. E quanto ai
    propositi attribuiti alla Francia di alterare lo statu-quo a Tunisi,
    lo stesso Cancelliere incaricò il Nigra di assicurare Crispi
    "che la questione tunisina, sebbene non tocchi in modo speciale
    l'Austria-Ungheria, è qui sorvegliata con grande interesse, e
    che per sua parte il governo imperiale e reale è disposto a
    partecipare a qualunque azione che sia stimata utile, d'accordo con
    l'Inghilterra e con noi, per evitare che essa sia modificata a danno
    dell'interesse generale".
    Le notizie giunte in quei giorni a Roma di combattimenti alla
    frontiera tripolitana provocati da tunisini, sembravano dare ragione
    ai sospetti che la Francia avesse delle mire sulla Tripolitania.
    Kálnoky non credeva che la Francia volesse tentare qualche
    cosa su Tripoli, però dichiarava al Nigra che il governo
    austro-ungarico "non aveva difficoltà che l'Italia, se
    l'occasione si presenti, abbia un compenso sulle coste africane, ma
    ci avverte amichevolmente che è della più alta
    importanza per le Potenze alleate di non gettare la Turchia in
    braccio alla Russia e alla Francia: ci avverte inoltre che esso non
    potrebbe prendere alcun impegno per dare all'Italia un concorso
    materiale."
    Di queste dichiarazioni l'on. Crispi prendeva atto con
    soddisfazione, dichiarando alla sua volta che non pretendeva
    dall'impero d'Austria-Ungheria un concorso materiale.
    Di fronte alla Francia, l'on. Crispi, dopo avere provocato la
    dimostrazione diplomatica, di cui nei documenti che precedono, e
    persuaso quindi il governo francese che senza il consenso
    dell'Italia non avrebbe potuto consolidare il suo dominio nella
    Tunisia, pensò di trarre dalla situazione i vantaggi
    possibili. Quale fosse il suo obiettivo risulta da quanto segue:
    
    Parigi 1/8/90 - ore 4.40 p.
    
    Ieri sul tardi mi recai al convegno fissatomi da Freycinet cui dissi
    che avendo per mandato di mantenere buone relazioni fra i nostri
    paesi, io, di mia iniziativa, mi rivolgeva amichevolmente a lui,
    come capo del governo, per richiamare la sua attenzione sullo stato
    della Tunisia rispetto all'Italia e sugli incitamenti fatti per la
    annessione alla Francia della Reggenza. Notai che l'Italia non
    poteva rimanere indifferente a tali atti e che se non provvedevamo
    in tempo per stabilire a questo riguardo un accordo atto a dare
    soddisfazione all'Italia, potrebbe da Tunisi scoppiare l'incendio
    che darebbe luogo ad una conflagrazione generale, che, per quanto da
    noi dipende, vogliamo evitare, perchè sarebbe per tutti
    funesta. Feci osservare che l'occupazione francese della Tunisia fu
    considerata dall'Italia come grande offesa e danno, poichè
    tendeva a privare l'Italia di un estuario necessario alle sue
    popolazioni laboriose, che da tempo immemorabile praticavano quelle
    regioni prossime alla Sicilia. Se quell'annessione, ambita dalla
    Francia, avvenisse, l'Italia dovrebbe avere un compenso
    territoriale, ed inoltre serie garanzie per i suoi nazionali che non
    potrebbero cessare di frequentare la Tunisia, dove, d'altronde, il
    concorso del loro lavoro è necessario alla prosperità
    del paese. Ricordai che una tale necessità era stata
    riconosciuta da parecchi ministri francesi, fra gli altri da Ferry,
    che mi prometteva il concorso del governo francese stesso
    perchè occupassimo Tripoli, in cambio della Tunisia, che
    rimarrebbe incontestata alla Francia. Tale divisamento non ebbe
    seguito per forza di mutamenti ministeriali avvenuti tanto in
    Italia, quanto in Francia. Ciò posto, dissi a Freycinet che
    stava a lui di escogitare un modo di dare soddisfazione all'Italia
    per ristabilire un sincero accordo, ugualmente desiderevole
    e necessario per entrambi. Freycinet, prendendo la parola,
    dichiarava riconoscere la gravità della questione tunisina e
    avere sempre raccomandato ai suoi colleghi del Ministero degli
    Affari esteri di evitare tutto ciò che potesse urtare gli
    italiani in Tunisia, moderando lo zelo intempestivo dei funzionari.
    Egli, al par di me, riconosceva l'importanza di reciproche buone
    relazioni fra i nostri paesi e non nascondeva paventare grandemente
    la guerra, le cui conseguenze potrebbero essere disastrose per
    tutti. Freycinet disse spontaneamente che i supposti accordi per
    l'annessione della Tunisia non esistevano affatto e me lo
    ripetè più volte, poscia mi promise che avrebbe
    conferito con Ribot e studiato il modo di sciogliere l'arduo
    problema.
    Aspetto dunque la risposta di Freycinet che mi mostrò la
    massima benevolenza.
    
    Menabrea.
    
    L'accenno fatto qui sopra dal Menabrea ad una promessa del Ferry
    circa la Tripolitania, trova conferma in un telegramma dell'11
    maggio 1884 dello stesso Ambasciatore, che giova qui riferire.
    Sembra che il Depretis, allora presidente del Ministero, e il
    Mancini, ministro degli Affari esteri, non profittassero
    dell'offerta per timore di complicazioni:
    
    «.... Infine il signor Ferry conchiuse la sua conversazione
    dicendo che la Francia ne aveva a sufficienza di annessioni e di
    protettorati nel Mediterraneo, che non aspirava che allo statu-quo
    al Marocco, come a Tripoli; e che se l'Italia aspirava a occupare
    quest'ultima Reggenza, egli non vi si sarebbe opposto. Quest'ultima
    dichiarazione mi è stata fatta in maniera del tutto
    confidenziale».
    
    Menabrea.
    
    Al telegramma del 1.° agosto, Crispi rispose il giorno seguente:
    
    Siccome dopo il colloquio del 31 luglio Ella dovrà rivedere
    Freycinet e forse anche abboccarsi con Ribot, credo bene determinare
    i concetti sostanziali di ulteriore discorso.
    Primamente bisognerà persuadere cotesti signori che noi non
    potremo permettere alcun mutamento politico
    nella Tunisia, e che qualora il governo della Repubblica assumesse
    la piena autorità nella Reggenza, avremmo con noi i nostri
    alleati. Il Protettorato fu tollerato perchè l'Italia era
    isolata, ma oggi non siamo più al 1881.
    La Tripolitania appartiene all'Impero ottomano, e noi per averla non
    vorremo provocare una guerra europea. La Francia, qualora si
    mostrasse disposta a facilitarcene il pacifico acquisto come
    compenso della Tunisia, dovrebbe adoperarsi con tutti i suoi mezzi a
    Costantinopoli ed a Pietroburgo, donde naturalmente verranno le
    opposizioni. È bene che questo sia posto in chiaro,
    perchè a noi non basta il solo consenso della Francia per
    occupare il suddetto territorio.
    
    Parigi 9 agosto.
    
    Freycinet oggi mi ha detto avere riferito la mia precedente
    conversazione con lui al signor Ribot, insistendo sulla
    necessità di porre fine alla esistente irritazione fra i due
    paesi, procurando all'Italia alcuna soddisfazione nei suoi interessi
    materiali e al suo amor proprio.
    Ribot rispose accettare perfettamente quell'ordine d'idee, che vi
    aveva già pensato e che sperava che mercoledì
    prossimo, al suo ritorno da una breve assenza, egli sarebbe in grado
    d'iniziare qualche apertura in proposito. Aspettare intanto ritorno
    di Ribot.
    
    Menabrea.
    
    Parigi, 13/8/90 - 7.30 s.
    
    Oggi vidi Ribot con cui ripresi la conversazione iniziata con
    Freycinet circa la necessità pei due paesi di far cessare le
    cause d'irritazione tuttora esistenti, che ebbero per origine
    l'occupazione della Tunisia per parte della Francia. Notai che
    questa, anzichè tentare di calmare, sembra volere aumentarle
    col mantenere ingiustamente i dazi differenziali e coll'opporre
    ostacoli allo sviluppo di alcune essenziali industrie nostre, come
    la navigazione e la pesca. Fra l'altro, feci osservare al signor
    Ribot che la occultazione della Tunisia aveva singolarmente scemata
    la nostra posizione nel Mediterraneo, minacciando renderla
    pericolosa, ove la Francia tentasse di
    farne una stazione navale militare importante, e che aveva tolto
    all'Italia un estuario necessario ad una parte delle sue
    popolazioni.
    Ribot rispose che al pari di me deplorava tale situazione e
    desiderava migliorarla, ma che aspettava proposte esplicite
    dall'Italia.
    A ciò replicai non avere missione alcuna di fare proposte, ma
    che avevo presa iniziativa di portare la sua attenzione sul presente
    stato di cose, e che il male essendo venuto dalla Francia, spettava
    ad essa di proporre il rimedio.
    Ribot disse che sarebbe disposto a provocare vantaggi speciali per
    noi in Tunisia, ma che, a sua volta, ci domanderebbe di rinunciare
    alle Capitolazioni, e poi accennò alla triplice alleanza.
    A tali suggerimenti risposi che le Capitolazioni erano armi nelle
    nostre mani per far rispettare i pochi diritti che abbiamo
    conservati in Tunisia e che, in quanto alla triplice alleanza,
    questa doveva mantenersi fin che non avessimo ottenuto soddisfazione
    per i nostri interessi e per la nostra dignità e fin che non
    fosse più necessaria per assicurare la pace.
    Mi astenni dal fare a Ribot alcuna proposta perchè non ne
    avevo missione, ma lasciai a lui di escogitarne una che si potesse
    sottomettere a V. E. e con ciò lo lasciai prendendo commiato
    nei migliori termini.
    
    Menabrea.
    
    21 agosto 1890.
    
    Signor Presidente,
    
    Ebbi ieri nel pomeriggio il mio primo colloquio, dopo la partenza
    del generale Menabrea, col signor Ribot. Mi era proposto di non
    tornare per il primo con questo signor Ministro degli Affari esteri
    sul terreno tentato col signor di Freycinet e con lui
    dall'Ambasciatore. Ma come io lo prevedeva, fu egli che dopo le
    prime frasi tra noi scambiate subito vi scese mettendosi a
    discorrere delle entrature fatte dal Generale e dicendo che
    nè Freycinet nè egli stesso avevano potuto capire che
    cosa in fondo volesse. Quindi una lunga e molto incisiva
    conversazione s'impegnò tra noi, dopo ch'io aveva però
    premesso
    che su tale argomento le mie parole non potevano avere che il
    carattere ed il valore di parole di un amico e che per discorrerne
    dovevamo entrambi considerarci come in colloquio non ufficiale, ma
    confidenziale e privato. Consentì con premura ed
    esplicitamente.
    Dissi in sostanza che se veramente il governo francese capiva il
    prezzo di quei più cordiali rapporti tra noi, che per parte
    nostra desideravamo, e se voleva addivenirvi, doveva anzitutto
    studiarsi a rimuovere definitivamente le cause dalle quali era nato
    lo screzio che ci divide; che in passato a Roma e poi a Tunisi ci
    furono fatte le più profonde ferite; che il tempo, la nostra
    saviezza e l'interesse presente del Governo repubblicano vanno
    sanando la prima, ma che la seconda rimane viva; che nulla la
    Francia fece nè fa per guarirla, che anzi per le tendenze che
    ogni tratto qui si manifestano di dilatare il protettorato potrebbe
    da un'ora all'altra inasprirsi e trascinare alle più gravi
    conseguenze. «Ogni passo che in Tunisia voi tentereste oltre i
    limiti delle condizioni esistenti ed oltre quelli del nostro stretto
    diritto, diss'io, ci troverebbe tutti in piedi per contrastarvelo, e
    sappiate che non saremo soli. Eliminare per sempre questa perdurante
    causa di attrito e di sospetti tra noi mi pare dunque il primo mezzo
    per rimetterci in condizioni di confidente e franca amicizia. Il
    rimedio vuole però essere proporzionato alla gravità
    del male fattoci, nè lieve dovrebb'essere il valore del
    servizio col quale la Francia volesse chiudere la piaga tunisina.
    Cercare un compenso per l'Italia in sole concessioni più o
    meno passeggiere d'ordine commerciale e finanziario sarebbe un
    assunto vano».
    Dal suo lato il signor Ribot, in progresso del colloquio, tornava di
    continuo sul quid?; finchè, quasi rispondendo a sè
    stesso: «Chiesi, disse, al generale Menabrea se mirasse a
    Tripoli, ma egli troncò protestando che l'Italia non voleva
    mettersi male col Sultano».
    A questo punto ricordai anch'io, come le ricordò Menabrea a
    Freycinet, le offerte di cooperazione che, prima a me stesso e poi
    allo Ambasciatore, erano state altra volta fatte dal signor Giulio
    Ferry e allora non accolte da Mancini, e aggiunsi che se proposte di
    cooperazione per qualche negoziazione simile oggi si producessero,
    v'era a Roma tale Ministro col quale certo si potrebbe discorrerne,
    attesocchè, malgrado tutte le calunnie, sapevo quanto gli
    stava a cuore, se poteva giovare al proprio paese riconciliandolo ad
    un tempo colla Francia, di farlo.
    Usai le maggiori precauzioni di linguaggio e devo dire ad onore del
    sig. Ribot che se io mi tenni in tutta la conversazione sulla punta
    d'uno spillo, egli più volte battè sul pomo. Messosi a
    parlare il primo senza ritegno di Tripoli, disse avere saputo che a
    Costantinopoli manifestavansi inquietudini e che vi si subodorava
    qualche cosa di progetti italiani, che d'altronde la questione d'una
    cessione, ardua in sè, urterebbe contro un non possumus
    assoluto del Sultano. «E poi, l'opinione pubblica in Francia
    non seguirebbe il Governo, se egli in una simile impresa prestasse
    la mano all'Italia senza che questa rinunziasse con ciò alla
    triplice alleanza».
    Disfare la triplice alleanza: ecco la preoccupazione ardente,
    incessante degli uomini di Stato francesi. «Finchè il
    trattato della triplice alleanza, sì offensivo per lo Czar,
    più ancora che per la Repubblica francese, non sarà
    stato denunziato, l'intimità non sarà possibile fra la
    Russia e la Germania più che fra gl'italiani e noi. Si
    potrà non trattarsi da nemici, ma considerarsi come amici,
    mai».
    Queste parole che ritrovo nel Matin d'oggi sono l'espressione pura e
    semplice del sentimento di Ribot e di tutti i suoi colleghi, anzi di
    tutti i francesi. È perciò naturale che tutta la
    politica francese verso di noi, sia quella di Ribot o d'altri, se
    negli atti ostili non eccederà mai quel limite ove sorgerebbe
    un pericolo serio per la pace, commisurerà sempre qualunque
    maggiore ed efficace concessione alla probabilità di
    raggiungere con essa quello scopo.
    Il sig. Ribot mi parlò poi della situazione in Tunisia,
    rendendo omaggio a Vostra Eccellenza che s'era mostrata conciliante
    nei piccoli incidenti. (Protestò a questo proposito che non
    divideva le ingiuste prevenzioni di molti suoi connazionali contro
    di Lei e che le aveva sempre biasimate). Affermò di voler
    mantenere scrupolosamente lo statu-quo a Tunisi, mostrandosi
    propenso a intendersi con noi per migliorare la sorte de' nostri
    pescatori, poichè il generale Menabrea se n'era querelato.
    Accennando alla scadenza che avverrà fra sei anni del nostro
    trattato di commercio col Bey, egli domandò se
    non saremmo disposti a negoziare fino da ora, com'egli ammetterebbe,
    pel suo rinnovamento, verso l'abbandono d'alcuni nostri privilegi
    nella Reggenza.
    In conclusione dunque, il signor Ribot non rinunzia alla speranza ed
    al desiderio di un qualche accordo con noi. Per procedere, io devo
    aspettare da Vostra Eccellenza quelle nuove istruzioni che Ella
    stimerà opportuno di darmi, perocchè ignoro il
    risultato degli scandagli da Lei fatti altrove dopo la mia partenza
    da Roma e le sue presenti intenzioni. Non posso in poche righe
    ripeterle tutto ciò che in un colloquio durato più
    d'un'ora mi studiai di far comprendere al mio interlocutore: avrei
    fede che il seme non sia perduto se lo credessi uomo più
    risoluto e più ardito. Ma so che ad ogni modo Ella non
    può dubitare che a seconda de' suoi concetti ogni possibile
    sarebbe sempre da me tentato a fondo.
    Mi augurerei che il comm. Mayor potesse ritornare qui, come
    annunziava, per udire da lui le sue attuali idee e come meglio si
    possa servirle. Nel prossimo settembre, il signor di Freycinet
    sarà ad Aix-les-Bains, vicino al Generale, che potrà
    pure rivederlo in un più tranquillo ambiente e più
    propizio ad espansioni che una camera d'udienze ministeriali.
    Voglia gradire, signor Presidente, gli attestati della mia
    più profonda osservanza e della mia più cordiale
    devozione.
    
    Di V. E. l'aff.mo servo
    C. Ressman.
    
    P.S. Quanto del nostro trattato d'alleanza questi signori si
    preoccupino, lo provi anche il quesito che incidentalmente nella
    conversazione il sig. Ribot mi rivolse, se cioè occorresse,
    per farlo cessare, di denunziarlo espressamente e se vi fosse la
    clausola della tacita riconduzione. Risposi lo ignoravo.
    
    Commendatore Ressman - R. Ambasciata Italiana,
    Parigi.
    
    Roma li 2/9, 1890.
    
    (Personale). - La insistenza del signor Ribot per conoscere le
    nostre intenzioni circa la rinnovazione della Triplice alleanza non
    è degna di un uomo di Stato. Ad
    un anno e mezzo di distanza nulla si può prevedere in
    politica. Giova però ricordare le ragioni che obbligarono il
    cavalier Mancini a chiedere la alleanza dell'Austria e della
    Germania.
    L'Italia dal 1879 al 1881 fu continuamente maltrattata dal Governo
    della Repubblica, minacciata dagli austriaci, disistimata a Berlino.
    Al 1880 un esercito di quaranta mila uomini era pronto ad entrare
    nel Regno, il Governo di Roma tollerando l'agitazione irredentista.
    La stampa francese ci derideva, ed il Governo francese occupava
    Tunisi. Sono celebri le parole pronunziate da Bismarck al 1879, che
    l'Italia non era una potenza militare temibile e che pochi
    reggimenti austro-ungarici sarebbero bastati per metterci alla
    ragione.
    Il cavalier Mancini pregò, scongiurò a Vienna ed a
    Berlino, e dopo molti sforzi ottenne che l'Italia fosse accolta
    nella alleanza dei due imperi.
    Oggi tutto è mutato in nostro vantaggio ed io non
    permetterò che l'Italia ritorni in quello stato di
    umiliazione nel quale pel suo isolamento fu sino al 1881.
    Ribot, prima di chiedere quali siano le nostre intenzioni sulla
    rinnovazione della triplice, dovrebbe mettersi in condizione di non
    averne bisogno, ed assicurarsi che, sciolti i nostri impegni coi due
    imperi, la Francia non ripeterebbe in altri territorii le imprese
    tunisine, che non ci insidierebbe più nella penisola per
    mezzo del Vaticano, che garantirebbe la nostra indipendenza. Or
    finora nulla fu fatto per persuaderci che il Governo ed il popolo di
    Francia vogliano divenirci amici ed amici sinceri e leali.
    
    Crispi.
    
    Gli sforzi dell'on. Crispi per togliere di mezzo i dissensi tra
    l'Italia e la Francia e stabilire su basi sicure la pace tra le due
    nazioni, furono vani. Cosicchè egli dovette rimanere in
    vedetta per sorvegliare ogni atto della Francia che potesse recarci
    nuovi danni.
    Assicuratosi che l'annessione della Tunisia non sarebbe avvenuta
    senza il nostro consenso, cioè senza compensi per noi,
    continuò a far buona guardia su Biserta che il Governo
    francese cercava di fortificare. Già da gran tempo egli
    faceva tener dietro da persone fidate al progresso e alla natura dei
    lavori che si venivano compiendo in quel porto, denunziandoli alle
    Potenze amiche ed alleate e interessando il Governo inglese ad
    associarsi al Governo italiano in una azione diretta ad impedire il
    proseguimento di quei lavori, che si rilevavano contrarli
    agl'impegni presi dalla Francia al 1881 e che minacciavano di
    turbare ancor più l'equilibrio delle forze nel Mediterraneo.
    Il Gabinetto britannico aveva già riconosciuto che Biserta
    era la maggiore posizione strategica nel Mediterraneo, e insieme
    alla Cancelleria germanica aveva fatte vive rimostranze a Parigi. E
    il signor Goblet nel 1889 assicurava Londra e Roma "non esservi
    alcuna intenzione nè di ampliare, nè di fortificare il
    porto di Biserta e trattarsi solo di scavi necessarii e periodici";
    e il signor Ribot in ottobre 1890 negava "che si compiano studi per
    l'erezione di fortilizi o di opere militari in Biserta."
    Ma i ministri francesi erano, naturalmente, reticenti; i lavori che
    si compievano a Biserta erano senza dubbio di carattere militare, e
    Crispi lo dimostrò in un memorandum. La Germania riconobbe
    che la questione era divenuta grave e appoggiò i nostri passi
    per un'azione decisiva. Il 20 gennaio 1891 Crispi fece interpellare
    l'Inghilterra se non fosse il caso di una comune azione immediata;
    ma la questione cadde col ritiro di Crispi dal potere (31 gennaio
    1891) e con l'Italia si disinteressò di Biserta anche
    l'Inghilterra.
    Quanto alla Tripolitania, Crispi ebbe per un momento, nel luglio del
    1890, la speranza che potesse divenire italiana, senza contrasto da
    parte delle grandi Potenze, le quali, tutte, in epoche diverse,
    avevano riconosciuto la prevalenza dei nostri diritti su quella
    regione. Non avrebbe voluto, per motivi di politica generale,
    rompere con la Turchia, ma prevedendo ogni ipotesi, pensò
    anche ad un'occupazione militare contrastata dai turchi e alla
    maniera di renderla più facile. Si accinse quindi a preparare
    il terreno col guadagnare all'Italia la simpatia e l'appoggio degli
    elementi indigeni della Tripolitania. Il cav. Grande, Console
    d'Italia a Tripoli, lavorò sagacemente per secondare le
    vedute del suo Ministro. Il seguente telegramma, relativo alle
    trattative con Sid Hassuna Caramanli, capo allora della famiglia che
    aveva signoreggiato il vilayet sino al 1835, indica che il lavoro di
    accaparramento degli arabi era bene avviato:
    
    Tripoli, 7 agosto 1890.
    
    (Decifri V. E. stessa. Segretissimo). - Profittando, che Sid Hassuna
    Karamanli trovasi qui, chiamatovi dal Governatore generale per gli
    ultimi avvenimenti della frontiera, gli feci parlare da un mio e di
    lui amico intimissimo e confidente. Il colloquio ebbe luogo ieri
    sera. Raccomandai all'amico che l'apertura delle trattative avesse
    carattere privato, come provenienza da una particolare iniziativa,
    esplorandone per ora animo e intenzioni.
    Sid Hassuna Karamanli mostrossi disposto coadiuvare occupazione
    italiana, convinto che, se non noi, sarebbero altri ad occupare la
    Tripolitania; disse disporre di tutte le forze delle popolazioni
    della montagna, godendone le simpatie. Per preparare terreno chiede
    tempo e denaro, non per lui, ma per gli sceiks. Accetterebbe una
    forma di governo simile a quella della Tunisia. Ciò, dice,
    eviterebbe la resistenza degli arabi e pacificherebbe il paese. Non
    dissimula la resistenza della Turchia, la quale però, non
    secondata dall'elemento arabo, cederebbe di fronte alla forza
    italiana. Raccomanda la massima prudenza, essendo sorvegliato dal
    Governatore generale. Dichiara il paese stanco della occupazione
    della Turchia.
    Karamanli mostrò di conoscere la situazione politica
    dell'Africa e di cogliere l'occasione favorevole. Egli ritorna al
    Gibel Gharian questa sera. Ha assicurato sarà di ritorno.
    
    Grande.
    
    Sicuro dell'adesione di massima da parte dell'Inghilterra, della
    Germania e dell'Austria-Ungheria all'occupazione italiana della
    Tripolitania, l'on. Crispi avrebbe facilmente guadagnato anche il
    consenso della Francia, tenendosi fermo sul terreno della difesa dei
    nostri diritti nella Tunisia sino alla conclusione di un accordo. E
    dipoi, con la risolutezza ch'era nel suo carattere, non avrebbe
    atteso molto a piantare il vessillo d'Italia sull'altra sponda del
    Mediterraneo. Quanto alla Turchia, gli accomodamenti con l'antico
    regime non erano difficili; il Sultano ch'era un fine politico e
    aveva il senso della sua responsabilità e della precaria
    situazione dell'Impero, si sarebbe adattato all'inevitabile,
    confortandosi con gli opportuni compensi.
    Ma col ritiro di Francesco Crispi dal potere in seguito al voto
    della Camera del 31 gennaio 1891, la pietra angolare dell'edifizio
    cedette. L'opposizione contro le fortificazioni di Biserta che alla
    fine di gennaio era divenuta perentoria, fu abbandonata dal suo
    successore. E la Francia, lasciata libera di consolidare il suo
    dominio in Tunisia, non ebbe più bisogno di venire a patti
    con l'Italia e di farle concessioni.
    Quando la questione della Tripolitania fu ripresa, il governo
    Italiano dovette fare alla Francia sacrificio di altri interessi.
    
    
    
    INDICE ALFABETICO
    delle persone citate nel volume.38
    
    
    Adam (madama), 84.
    Alberto (arciduca), 81.
    Alessandro di Battenberg, 140, 176, 177.
    Alessandro III di Russia, 174, 211, 278-279.
    Alfieri di Sostegno, 342.
    Alula (ras), 252.
    Amedeo di Savoja, 207.
    Andrássy Giulio, 2-4, 23, 25, 27, 46, 49, 52, 54, 59, 60-61,
    63, 65-68, 76, 98.
    Arabi-pascià, 101, 104, 112, 116.
    Arnold Arturo, 92.
    
    Baccarini Alfredo, 138.
    Bargoni Angelo, 7.
    Barthélemy di Saint-Hilaire, 86-88.
    Bavier (ministro), 217, 227.
    Beaconsfield (Disraeli), 50, 54, 77.
    Bennigsen (di) Rodolfo, 20, 42-43, 71, 182.
    Berio (console Generale), 294.
    Bertani Agostino, 73.
    Berthelot, 303.
    Bertolè-Viale (ministro), 321-324.
    Biancheri Giuseppe, 136.
    Bibesco (principe), 227.
    Bismarck (di) Erberto, 26, 173, 241, 261, 265, 278, 349, 354.
    Bismarck (di) Ottone, 2, 9, 14, 20-21, 32-35, 44-52, 54, 65, 72-73,
    76-77, 81, 85, 95, 107, 110, 126-131, 138, 153, 170-173, 182, 185,
    207-208, 210-211, 214, 216-217, 225, 230, 236, 239, 244, 257, 263,
    270, 276-277, 307-308, 325, 334, 343, 349-356.
    Bismarck (principessa), 180.
    Bittó István, 65.
    Bixio Nino, 8.
    Blanc Alberto, 148, 214, 218, 224.
    Bonaparte, Girolamo, 162.
    Bonghi Ruggero, 138, 208.
    Boselli Paolo, 196-203.
    Boulanger (gen.), 133, 159, 300, 339.
    Branca Ascanio, 203.
    Brin Benedetto (ministro), 325.
    Bruck-Pellegrini (de), 207, 209, 212, 299.
    Bülow (di), 20, 32-33, 50, 55.
    
    Cairoli Benedetto, 73-74, 79, 81-82, 84, 87-89.
    Calice (barone di), 182, 224.
    Cambon (ambasciatore), 256.
    Canovas del Castillo, 207.
    Caprivi (Cancelliere germanico), 349, 364.
    Caspar Mugnoz, 208.
    Catalani Tommaso (Incaricato d'affari), 153, 255, 326.
    Catargi Lascar, 315.
    Cavaignac (generale), 168.
    Cavallotti Felice, 81.
    Cavour Camillo, 118, 185.
    Cecchi Antonio, 256.
    Cialdini Enrico, 51, 53, 77-78, 82, 85-88.
    Chakir-pascià, 153-154.
    Charmes Francis, 262.
    Codronchi Giovanni, 138.
    Constant d'Estournelle, 90.
    Corti Luigi, 74-76, 91-92, 114.
    Csernátory, 65.
    Cucchi Francesco, 179, 325, 334.
    
    De Broglie, 5.
    Decazes, 5, 10, 12, 15, 17-18, 85.
    Depretis Agostino, 9, 13, 16, 30-31, 37, 50, 56, 59-61, 68, 72, 74,
    95, 136, 138, 139-144.
    Derby (lord), 50, 52-56, 58, 73-75.
    Dernburg Federico, 30, 36, 42.
    Dilke Charles, 92-93.
    Di Pietro (Nunzio), 257.
    Dunker (borgomastro), 44.
    
    Eber, 65.
    Ehrenroth (generale), 150, 153, 209.
    Ellena Vittorio, 197, 203-204.
    
    Fabrizj Nicola, 115, 120.
    Falk, 65.
    Farini Domenico, 73.
    Federico Guglielmo (poi Federico III), 126-127, 236-237, 242, 245,
    264.
    Ferdinando di Bulgaria, 140, 143-152, 155, 176, 209, 214.
    Ferry Giulio, 86, 133, 159, 342, 378, 381.
    Floquet, 234, 300.
    Flourens, 187, 204, 209-210, 228-231.
    Fortou, 5.
    Francesco Giuseppe, 3, 126-127.
    Freycinet (ministro), 84-85, 88, 101, 109-110, 115, 119-120, 133,
    159, 216, 300, 377.
    
    Galimberti (mons.), 229.
    Galvagno (ministro), 93.
    Gambetta Leone, 5, 13-14, 16-17, 28, 77, 82-84, 87, 101, 109, 120,
    212.
    Garibaldi Giuseppe, 122, 163.
    Garnier Pagès, 16.
    Gené (generale), 136.
    Gérard, 206-207, 209, 245, 254.
    Ghyczy, 65.
    Giers (de), 153, 231, 262, 298.
    Giolitti Giovanni, 138, 183.
    Giorgio (re di Grecia), 155.
    Girardin (de) Emilio, 16-17.
    Gladstone Guglielmo, 56-58, 113, 116, 122-123.
    Glaser, 59, 63.
    Goblet, 159, 253-254, 281-296, 385.
    Goedel (Incaricato d'affari), 269, 271.
    Goldberg Federico, 38-41.
    Goltz (conte di, Incaricato d'affari), 270, 271.
    Gorosc, 65.
    Grande (console), 386.
    Granville (conte di), 89, 93, 102, 105-106, 108-119.
    Grävenitz, 42.
    Greppi (conte), 216.
    Grévy Giulio, 83, 159, 209-210.
    Guibert (cardinale), 12.
    Guglielmo I, 50, 55, 72, 126, 236.
    Guglielmo II, 242, 258, 276-277, 353.
    
    Halim, 108.
    Hassuna-pascià, 386.
    Hatzfeldt (conte di), 107-108, 270.
    Haymerle (barone di, ambasciatore), 4, 60, 95-98.
    Haymerle (colonnello), 80.
    Hélfy Ignáez, 65.
    Herbette (ambasciatore), 241, 287.
    Hitrovo (ministro), 227.
    Hohenlohe (di) Clovis, 28.
    Hohenlohe Gustavo (cardinale), 320, 334.
    Holstein (di), 20, 32, 35, 41, 55, 107, 179, 210, 290.
    Huene (bar. di, attaché militare), 335.
    
    Kállay, 98.
    Kállay Beni, 65.
    Kálnoky, 153, 170, 177, 206, 216, 219, 239, 255, 262, 265,
    267, 269-271, 292, 299, 316, 318, 329.
    Kaulbars (generale), 209.
    Keudell, 95-96, 126, 130.
    Kiamil-pascià, 213, 231.
    
    Imbriani Matteo, 81, 342.
    Isabella di Baviera, 126.
    Ismail-pascià (ex-Kedivé), 227.
    
    Lacaita Giacomo, 108-111.
    Lacava Pietro, 138.
    La Gala, 164.
    Lamarmora Alfonso, 212, 328.
    Launay (conte di, ambasciatore), 20, 30, 32, 37, 41, 47, 52, 54, 59,
    72, 78-79, 94, 129, 143, 170-171, 181, 240, 258-259, 341.
    Lawson (deputato), 116.
    Lefèvre de Béhaine, 324.
    Leone XIII, 72, 180, 329-334.
    Leonhardt (ministro), 20, 41.
    Loewe Ludovico (deputato), 30, 42.
    Luigi (re di Portogallo), 258-261.
    Luzzatti Luigi, 197, 203.
    Lyons (ambasciatore), 89.
    Lytton (ambasciatore), 230.
    
    Macciò, 83, 86-87.
    Machiavelli (console generale), 359.
    Mac-Mahon, 5, 14, 18-19, 45, 56.
    Maffei, 95.
    Malet E. (sir), 131-132.
    Mancini Pasquale St., 6, 51, 93, 101-104, 106-107, 111-115, 118-120,
    122-123, 126, 128, 135, 262.
    Mariani (ambasciatore), 298.
    Marie, 204.
    Marocchetti (ambasciatore), 223.
    Marschall (di), 354.
    Martin Enrico, 16.
    Massicault (ministro-residente), 284-286.
    Mayor des Planches, 173, 371.
    Mazzini Giuseppe, 1.
    Mazzoleni (deputato), 335.
    Melegari L. A. (ministro), 7, 52, 62.
    Menabrea L. F. (ambasciatore), 50, 54-55, 74, 89, 92, 105-106, 119,
    204, 229, 235, 254, 289, 320.
    Mercinier, 252.
    Meyendorf (Incaricato d'affari), 262.
    Mezzacapo Luigi (generale), 51, 53.
    Minghetti Marco, 2.
    Miribel (generale), 338.
    Mohrenheim (ambasciatore), 234.
    Moltke (maresciallo), 206.
    Montebello (conte di, ambasciatore), 241.
    Moret (ministro), 206, 210, 217, 227, 231, 238.
    Moüy (de) Carlo (ambasciatore), 203, 212, 216-218, 220, 229,
    245-246, 282.
    Münster (ambasciatore), 287, 289.
    
    Napoleone III, 1, 85, 160, 168, 181.
    Nelidoff (ambasciatore), 4.
    Nicopoulo, 209.
    Nicotera Giovanni, 138, 342.
    Nigra Costantino (ambasciatore), 142, 145, 182, 239, 255, 259,
    260-261, 327.
    Norfolk (duca di), 208.
    
    Onou, 149.
    Orćzy, 59, 62.
    
    Paget Augusto, 74-75, 103.
    Palamenghi-Crispi Tommaso, 173.
    Pasi (generale), 173.
    Pelloux Luigi, 325.
    Phothiadès-pascià, 218, 220, 230, 241-242.
    Pianell (generale), 54.
    Pio IX, 46, 72.
    Pisani-Dossi Alberto, 173, 238.
    Portal Gérald, 224.
    Pulszky, 65.
    Pyat Felice, 273-276.
    
    Racchia Alberto (ammiraglio), 325.
    Radowitz, 79, 208, 219, 241, 256.
    Raindre (Incaricato d'affari), 261.
    Rampolla Mariano (cardinale), 257, 331.
    Rantzau, 263.
    Rascon (conte, ambasciatore), 210, 213, 217-218, 220, 223, 230, 238,
    240, 245.
    Rati-Opizzoni, 29.
    Rattazzi Urbano (junior), 139, 173, 324.
    Ressman Costantino (Incaricato d'affari), 16, 229, 320, 380.
    Reuss (principe di), 155.
    Ribot (ministro), 296, 365, 379-385.
    Ricasoli Bettino, 6.
    Robilant (di) Carlo, 3, 59, 61-63, 68, 81, 126, 128-130, 136-137,
    140, 195.
    Rodolfo di Asburgo, 309, 314.
    Rosebery, 77-78.
    Roustan, 83, 87.
    Rouvier Maurizio (ministro) 159, 196-203.
    Roux Luigi, 183.
    Rudinì (di) Antonio, 138-139.
    Ruiz Armando, 13.
    Russel Odo (ambasciatore), 79.
    
    Sadi-Carnot (presidente della Repubblica francese), 300, 339.
    Said-pascià (Gran Visir), 218-220, 224.
    Saletta (generale), 207, 241.
    Salisbury (lord) 76-77, 89, 91-92, 94, 121-122, 147, 153-155, 207,
    209, 230, 238, 254, 262, 264-265, 281, 292, 326, 358-375.
    Saracco Giuseppe, 136-137.
    Savini Medoro, 10.
    Say Leone, 205.
    Schouvalow (ambasciatore), 230.
    Schülze-Delitzsch, 44.
    Schweininger (dottore), 173.
    Simon Giulio, 5.
    Solms (conte di), 206, 208-211, 213-214, 219, 223-224, 227-228, 231,
    238, 240-241, 245, 256-257, 298-299.
    Sonnino Sidney, 236.
    Soumagne (vice-console), 251.
    Spaventa Silvio, 138-139.
    Spuller E. (ministro), 343-348.
    Stansfeld James, 50.
    Stourdza (ministro), 224.
    Szapáry, 65.
    Szlávy Jorsef, 65.
    
    Taaffe (ministro), 128, 280.
    Tajani Diego, 136.
    Teckenberg, 96-98.
    Teisserenc de Bort (senatore), 204.
    Tewfick (Kedive), 108, 116.
    Thiers Adolfo, 14-16, 19, 162, 263.
    Tirard (ministro), 159, 229.
    Tisza Stefano, 64, 128, 279.
    Tomaso di Savoja, 126.
    Tornielli Giuseppe (ambasciatore), 77, 238, 256-257, 358.
    Tosti Luigi (abate), 180.
    
    Ullmann, 279.
    Umberto I, 72, 136-137, 139, 147, 171, 173, 182, 237, 242-243, 263,
    267, 277.
    Uxkull (conte di, ambasciatore), 216, 228, 231.
    
    Valeri Giovanni, 30.
    Vega (de la) de Armijo (ministro), 257.
    Vidulich, 63.
    Villa Tommaso, 212.
    Visconti-Venosta Emilio, 2, 342.
    Vittoria (principessa imp. di Germania), 30, 37, 47, 55.
    Vittorio Emanuele II, 2, 7, 30-31, 47, 56, 58, 65, 67-68, 72, 164.
    Vitzthum (conte), 165.
    
    Waddington (ministro e ambasciatore), 76-79, 82, 84, 88, 91, 120.
    Wahermann Mor, 65.
    Wetsera Maria, 309-314.
    White W. (sir) (ambasciatore), 151.
    Wimpffen, 3.
    Windthorst (deputato), 350.
    
    Zanardelli Giuseppe, 51, 60, 69, 138, 139.
    Zsedénzi, 65.
    
    
    
    INDICE DEL VOLUME.39
    
    Avvertenza    Pag. V
    
    
    
    Capitolo Primo.
    
    Una missione segreta.
    
    (Pag. 1 a 69).
    
    La Grande Italia. - Il nuovo Regno. - La politica estera della
    Destra. - Andrássy e Bismarck nel 1873 chiedono invano una
    entente intime ai ministri della Destra. - L'irredentismo e le
    relazioni italo-austriache. - La guerra russo-turca. - Le
    istituzioni repubblicane francesi in pericolo. - Necessità
    per l'Italia di uscire dall'inerzia. - La missione da Vittorio
    Emanuele e da Depretis affidata a Crispi alla fine di agosto 1877. -
    Memorie originali di Crispi e carteggi con Vittorio Emanuele e
    Depretis, resoconti di colloqui con Decazes, Thiers, Gambetta,
    Bismarck, Derby, Gladstone, Andrássy, ecc. - Crispi conviene
    col principe di Bismarck il negoziato per un trattato d'alleanza
    italo-germanica.
    
    
    Capitolo Secondo.
    
    La politica estera dell'Italia dal 1878
    alla Triplice Alleanza.
    
    (Pag. 71 a 99).
    
    Il conte Corti respinge la proposta di accordi segreti con
    l'Inghilterra alla vigilia del Congresso di Berlino. - Come la
    Francia ottiene carte bianche per Tunisi. - La politica
    dell'isolamento. - Causa l'irredentismo, l'Austria minaccia di
    passare la frontiera. - La francofilia di Benedetto Cairoli non
    evita l'occupazione francese della Tunisia. - Storia documentata
    dell'impresa tunisina e del disinteressamento dell'Inghilterra. -
    L'Italia avrebbe allora potuto occupare la Tripolitania. - Disillusi
    della Francia, ci rivolgiamo alla Germania. - Prodromi della
    Triplice Alleanza. - Il conte Maffei. - Il trattato del 20 maggio
    1882.
    
    
    Capitolo Terzo.
    
    La questione Egiziana nel 1882.
    
    (Pag. 101 a 123).
    
    L'Italia, invitata a intervenire in Egitto con l'Inghilterra,
    rifiuta. - Viaggio di Crispi a Berlino e a Londra. - Colloquii col
    conte Hatzfeldt e con lord Granville. - Nove lettere di Crispi sulla
    convenienza per l'Italia di accettare la proposta inglese.
    
    
    Capitolo Quarto.
    
    Dal primo al secondo trattato della Triplice Alleanza.
    
    (Pag. 125 a 133).
    
    L'errore d'origine: l'Imperatore d'Austria non viene a Roma. I Reali
    d'Italia, per ciò, non possono andare a Berlino. - Colloquio
    tra il principe di Bismarck e il duca di Genova: il pericolo di
    guerra è rappresentato dalla Francia e dalla Russia. - Il
    principe Federico Guglielmo a Roma. - Il gabinetto italiano
    scontento degli alleati. - Il generale Robilant ministro degli
    Affari esteri. - Un altro giudizio del principe di Bismarck sulla
    situazione in ottobre 1885. - I negoziati per la rinnovazione della
    Triplice Alleanza. - Con quali argomenti il principe di Bismarck
    indusse l'Inghilterra ad un accordo con l'Italia per il
    Mediterraneo. - Il nuovo trattato del 20 febbraio 1887.
    
    
    Capitolo Quinto.
    
    Crispi e la questione Bulgara.
    
    (Pag. 135 a 157).
    
    La crisi ministeriale del febbraio 1887: il contegno dell'on.
    Crispi, suoi colloqui col Re, sua nomina a Ministro dell'Interno. -
    La questione bulgara e la condotta del Governo italiano prima che
    Crispi assumesse la direzione della politica estera, e dopo. -
    Carteggi e documenti. - L'Italia propone e fa accettare dalle
    Potenze il non-intervento in Bulgaria. - La triplice per l'Oriente.
    
    
    Capitolo Sesto.
    
    Il primo viaggio a Friedrichsruh.
    
    (Pag. 159 a 194).
    
    Crispi e la Francia - Giudizii di Crispi su l'Impero e su la
    Repubblica. - L'Esposizione di Parigi del 1889 e l'Europa
    monarchica. - Primo viaggio di Crispi a Friedrichsruh per visitarvi
    il principe di Bismarck: loro colloquii. - Il discorso di Torino.
    
    
    Capitolo Settimo.
    
    La rottura delle relazioni commerciali con la Francia.
    
    (Pag. 195 a 221).
    
    Negoziati per la rinnovazione del trattato di commercio
    italo-francese. Una missione officiosa dell'on. Boselli a Parigi:
    sue lettere a Crispi. Ragioni politiche ed economiche che condussero
    alla guerra di tariffe. - Dal Diario di Crispi, ottobre-dicembre
    1887: questioni internazionali - colloquio tra lo Czar e il principe
    di Bismarck - documenti falsi - l'incidente consolare di Firenze.
    
    
    Capitolo Ottavo.
    
    Dal "Diario" di Crispi: Ricevimenti diplomatici
    dal gennaio a tutto giugno 1888.
    
    (Pag. 223 a 245).
    
    Germania e Russia in un colloquio del principe di Bismarck. - La
    pubblicazione dei trattato austro-germanico del 1879. - Italia e
    Russia in un colloquio tra Crispi e l'ambasciatore Uxkull. -
    Flourens vuole evitare l'alleanza franco-russa. - Informazioni sulla
    situazione interna della Francia. - Preparativi militari in Francia.
    - Il principe imperiale di Germania in Liguria. - Morte di Guglielmo
    I. - Le squadre italiana e austriaca a Barcellona. -
    Cordialità tra Crispi e Bismarck. - Un aspro colloquio tra il
    conte Bismarck e l'ambasciatore Herbette. - Morte di Federico III. -
    Re Umberto esprime il desiderio di recarsi a Berlino.
    
    
    Capitolo Nono.
    
    Un altro incidente franco-italiano.
    
    (Pag. 247 a 272).
    
    La questione con la Francia per le tasse di Massaua: tre Note
    diplomatiche di Crispi sui diritti dell'Italia e sulle vessazioni
    francesi. - Le Potenze danno causa vinta all'Italia. - Dal Diario di
    Crispi: Spagna e Vaticano. - Un allarme del re Luigi di Portogallo
    pel viaggio dei Sovrani italiani in Romagna. - Seconda visita di
    Crispi al principe di Bismarck. - Il Gran Cancelliere austriaco
    incontra Crispi a Eger.
    
    
    Capitolo Decimo.
    
    Il terzo incidente con la Francia.
    
    (Pag. 273 a 305).
    
    Una lettera apocrifa di Felice Pyat. - Guglielmo II a Roma. -
    Colloqui di Crispi col conte Erberto di Bismarck. - Storia
    documentata dell'incidente per le scuole italiane in Tunisia. - Dal
    Diario di Crispi. - La situazione in Francia alla fine del 1888.
    
    
    Capitolo Undecimo.
    
    1889.
    
    (Pag. 307 a 348).
    
    Il suicidio dell'arciduca Rodolfo di Asburgo. - La Federazione
    balcanica e una iniziativa di Crispi. - L'inaugurazione
    dell'Esposizione di Parigi. - Il pericolo di guerra con la Francia:
    missione del cardinale Hohenlohe presso Leone XIII; missione del
    deputato Cucchi presso il principe di Bismarck. - Italiani a Parigi.
    - L'abolizione delle tariffe differenziali e l'ostilità della
    Francia. - Giudizii di Spuller sulla stampa francese.
    
    
    Capitolo Duodecimo.
    
    1890. - Tunisi e Tripoli.
    
    (Pag. 349 a 387).
    
    Il licenziamento del principe di Bismarck; i rescritti imperiali per
    la protezione degli operai; spiegazioni dell'imperatore Guglielmo;
    Crispi e Bismarck. - La progettata annessione alla Francia della
    Tunisia; l'opposizione di Crispi; l'appoggio delle grandi Potenze;
    corrispondenza Crispi-Salisbury. - Tripoli per Tunisi. - Le
    fortificazioni di Biserta. - In previsione dell'occupazione italiana
    della Tripolitania.
    
    INDICE ALFABETICO delle persone citate nel volume  
     Pag. 389
    
    
    
    AUTOGRAFI:
    
    Lettera 2 ottobre 1877 di W. Gladstone  
               
     Pag.  13
    Lettera 21 ottobre 1877 di Leone Gambetta  
               
    »    64
    Lettera 24 luglio 1889 del cardinale Hohenlohe  
           
     »     237
    Autografo dell'imperatore Federico III  
               
     »     331
    Lettera 21 aprile 1890 del principe di Bismarck   
           
     »     356
    Lettera 4 agosto 1890 di lord Salisbury  
               
     »     370
    
    RITRATTO di Francesco Crispi nel 1888      
       col frontispizio