Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziar lo Dio della natura
che mi diè l'alma e poi ne ha 'uto cura,
alte diverse 'mprese ho fatte e vivo.
Quel mio crudel Destin, d'offes'ha privo
vita, or, gloria e virtú piú che misura,
grazia, valor,beltà, cotal figura
che molti io passo, e chi mi passa arrivo.
Sol mi duol grandemente or ch'io cognosco
quel caro tempo in vanità perduto:
nostri fragil pensier senporta 'l vento.
Poi che 'lpentir non val, starò contento
salendo qual'io scesi il Benvenuto
nel fior di questo degno terren tosco.
Io avevo cominciato a scrivere di mia mano questa mia Vita, come
si può vedere in certe carte rappiccate, ma considerando
che io perdevo troppo tempo e parendomi una smisurata
vanità, mi capitò inanzi un figliuolo di Michele di
Goro dalla Pieve a Groppine, fanciullino di età di anni
XIII incirca ed era ammalatuccio. Io lo cominciaiafare scrivere e
in mentre che io lavoravo, gli dittavo la Vita mia; e
perché ne pigliavo qualche piacere, lavoravo molto
piú assiduo e facevo assai piú opera. Cosí
lasciai al ditto tal carica, quale spero di continuare tanto
innanzi quanto mi ricorderò.
LIBRO PRIMO
I. Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che
sia virtuosa, o sí veramente che le virtú somigli,
doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia mano
descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal
bella impresa prima che passato l'età de' quarant'anni.
Avvedutomi d'una tal cosa, ora che io cammino sopra la mia
età de' cinquantotto anni finiti, e sendo in Fiorenze
patria mia, sovvenendomi di molte perversità che avvengono
a chi vive; essendo con manco di esse perversità, che io
sia mai stato insino a questa età, anzi mi pare di essere
con maggior mio contento d'animo e di sanità di corpo che
io sia mai stato per lo addietro; e ricordandomi di alcuni
piacevoli beni e di alcuni innistimabili mali, li quali,
volgendomi in drieto, mi spaventano di maraviglia che io sia
arrivato insino a questa età de' 58 anni, con la quali
tanto felicemente io, mediante la grazia di Dio cammino innanzi.
II. Con tutto che quegli uomini che si sono affaticati con qualche
poco di sentore di virtú hanno dato cognizione di loro al
mondo, quella sola doverria bastare, vedutosi essere uomo e
conosciuto; ma perché egli è di necessità
vivere innel modo che uno truova come gli altri vivono,
però in questo modo ci si interviene un poco di
boriosità di mondo, la quali ha piú diversi capi. Il
primo si è far sapere agli altri, che l'uomo ha la linea
sua da persone virtuose e antichissime. Io son chiamato Benvenuto
Cellini, figliuolo di maestro Giovanni d'Andrea di Cristofano
Cellini; mia madre madonna Elisabetta di Stefano Granacci, e l'uno
e l'altra cittadini fiorentini. Troviamo scritto innelle croniche
fatte dai nostri Fiorentini molto antichi e uomini di fede,
secondo che scrive Giovanni Villani, sí come si vede la
città di Fiorenze fatta a imitazione della bella
città di Roma, e si vede alcuni vestigi del Collosseo e
delle Terme. Queste cose sono presso a Santa Croce; il Campitoglio
era dove è oggi il Mercato Vecchio; la Rotonda è
tutta in piè, che fu fatta per il tempio di Marte; oggi
è per il nostro San Giovanni. Che questo fussi cosí,
benissimo si vede e non si può negare; ma sono ditte
fabbriche molto minore di quelle di Roma. Quello che le fece fare
dicono essere stato Iulio Cesare con alcuni gentili uomini romani,
che, vinto e preso Fiesole, in questo luogo edificorno una
città, e ciascuni di loro prese affare uno di questi
notabili edifizii. Aveva Iulio Cesare un suo primo e valoroso
capitano, il quali si domandava Fiorino da Cellino, che è
un castello il quali è presso a Monte Fiasconi a dua
miglia. Avendo questo Fiorino fatti i sua alloggiamenti sotto
Fiesole, dove è ora Fiorenze, per esser vicini al fiume
d'Arno per comodità dello esercito, tutti quelli soldati e
altri, che avevano affare del ditto capitano, dicevano: - Andiamo
a Fiorenze - sí perché il ditto capitano aveva nome
Fiorino, e perché innel luogo che lui aveva li ditti sua
alloggiamenti, per natura del luogo era abbundantissima
quantità di fiori. Cosí innel dar principio alla
città, parendo a Iulio Cesare, questo, bellissimo nome e
posto accaso, e perché i fiori apportano buono aurio,
questo nome di Fiorenze pose nome alla ditta città; e
ancora per fare un tal favore al suo valoroso capitano, e tanto
meglio gli voleva, per averlo tratto di luogo molto umile, e per
essere un tal virtuoso fatto dallui. Quel nome che dicono questi
dotti immaginatori e investigatori di tal dipendenzie di nomi,
dicono per essere fluente a l'Arno; questo non pare che possi
stare, perché Roma è fluente al Tevero, Ferrara
è fluente al Po, Lione è fluente alla Sonna, Parigi
è fluente alla Senna; però hanno nomi diversi e
venuti per altra via. Noi troviamo cosí, e cosí
crediamo dipendere da uomo virtuoso. Di poi troviamo essere de'
nostri Cellini in Ravenna, piú antica città di
Italia, e quivi è gran gentili uomini; ancora n'è in
Pisa, e ne ho trovati in molti luoghi di Cristianità; e in
questo Stato ancora n'è restato qualche casata, pur dediti
all'arme; ché non sono molti anni da oggi che un giovane
chiamato Luca Cellini, giovane senza barba, combatté con
uno soldato pratico e valentissimo uomo, che altre volte aveva
combattuto in isteccato, chiamato Francesco da Vicorati. Questo
Luca per propria virtú con l'arme in mano lo vinse e
amazzò con tanto valore e virtú, che fe'
maravigliare il mondo, che aspettava tutto il contrario: in modo
che io mi glorio d'avere lo ascendente mio da uomini virtuosi. Ora
quanto io m'abbia acquistato qualche onore alla casa mia, li quali
a questo nostro vivere di oggi per le cause che si sanno, e per
l'arte mia, quali non è materia da gran cose al suo luogo
io le dirò; gloriandomi molto piú essendo nato umile
e aver dato qualche onorato prencipio alla casa mia, che se io
fussi nato di gran lignaggio, e colle mendacie qualità io
l'avessi macchiata o stinta. Per tanto darò prencipio come
a Dio piacque che io nascessi.
III. Si stavano innella Val d'Ambra li mia antichi, e quivi
avevano molta quantità di possessioni; e come signorotti,
là ritiratisi per le parte vivevano: erano tutti uomini
dediti all'arme e bravissimi. In quel tempo un lor figliuolo, il
minore, che si chiamò Cristofano, fece una gran quistione
con certi lor vicini e amici: e perché l'una e l'altra
parte dei capi di casa vi avevano misso le mani, e veduto costoro
essere il fuoco acceso di tanta importanza, che e' portava
pericolo che le due famiglie si disfacessino affatto; considerato
questo quelli piú vecchi, d'accordo, li mia levorno via
Cristofano, e cosí l'altra parte levò via l'altro
giovane origine della quistione. Quelli mandorno il loro a Siena;
li nostri mandorno Cristofano a Firenze, e quivi li comperorno una
casetta in via Chiara dal monisterio di Sant'Orsola, e al ponte a
Rifredi li comperorno assai buone possessioni. Prese moglie il
ditto Cristofano in Fiorenze ed ebbe figliuoli e figliuole, e
acconcie tutte le sue figliuole, il restante si compartirno li
figliuoli, di poi la morte di lor padre. La casa di via Chiara con
certe altre poche cose toccò a uno de' detti figliuoli, che
ebbe nome Andrea. Questo ancora lui prese moglie ed ebbe quattro
figliuoli masti. Il primo ebbe nome Girolamo, il sicondo
Bartolomeo, il terzo Giovanni, che poi fu mio padre, il quarto
Francesco. Questo Andrea Cellini intendeva assai del modo della
architettura di quei tempi, e, come sua arte, di essa viveva;
Giovanni, che fu mio padre, piú che nissuno degli altri vi
dette opera. E perché, sí come dice Vitruio, in fra
l'altre cose, volendo fare bene detta arte, bisogna avere alquanto
di musica e buon disegno, essendo Giovanni fattosi buon
disegnatore, cominciò a dare opera alla musica, e insieme
con essa imparò a sonare molto bene di viola e di flauto;
ed essendo persona molto studiosa, poco usciva di casa. Avevano
per vicino a muro uno che si chiamava Stefano Granacci, il quale
aveva parecchi figliuole tutte bellissime. Sí come piacque
a Dio, Giovanni vidde una di queste ditte fanciulle che aveva nome
Elisabetta; e tanto li piacque che lui la chiese per moglie: e
perché l'uno e l'altro padre benissimo per la stretta
vicinità si conoscevano, fu facile a fare questo parentado;
e a ciascuno di loro gli pareva d'avere molto bene acconcie le
cose sue. In prima quei dua buon vecchioni conchiusono il
parentado, di poi cominciorno a ragionare della dota, ed essendo
infra di loro qualche poco di amorevol disputa; perché
Andrea diceva a Stefano: - Giovanni mio figliuolo è 'l
piú valente giovane e di Firenze e di Italia, e se io prima
gli avessi voluto dar moglie, arei aúte delle maggior dote
che si dieno a Firenze a' nostri pari - e Stefano diceva: - Tu hai
mille ragioni, ma io mi truovo cinque fanciulle, con tanti altri
figliuoli, che, fatto il mio conto, questo è quanto io mi
posso stendere -. Giovanni era stato un pezzo a udire nascosto da
loro, e sopraggiunto all'improvviso disse: - O mio padre, quella
fanciulla ho desiderata e amata, e none li loro dinari; tristo a
coloro che si vogliono rifare in su la dota della lor moglie.
Sí bene, come voi vi siate vantato che io sia cosí
saccente, o non saprò io dare le spese alla mia moglie, e
sattisfarla alli sua bisogni con qualche somma di dinari manco che
'l voler vostro? Ora io vi fo intendere che la donna è la
mia e la dota voglio che sia la vostra -. A questo sdegnato
alquanto Andrea Cellini, il quale era un po' bizzarretto, fra
pochi giorni Giovanni menò la sua donna, e non chiese mai
piú altra dota. Si goderno la lor giovinezza e il loro
santo amore diciotto anni, pure con gran disiderio di aver
figliuoli: di poi in diciotto anni la detta sua donna si
sconciò di dua figliuoli masti, causa della poca
intelligenza de' medici; di poi di nuovo ingravidò e
partorí una femmina, che gli posono nome Cosa, per la madre
di mio padre. Di poi dua anni di nuovo ingravidò: e
perché quei vizii che hanno le donne gravide, molto vi si
pon cura, gli erano appunto come quegli del parto dinanzi; in modo
che erano resoluti che la dovessi fare una femmina come la prima,
e gli avevono d'accordo posto nome Reparata, per rifare la madre
di mia madre. Avvenne che la partorí una notte di tutti e'
Santi, finito il dí d'Ognisanti a quattro ore e mezzo innel
mille cinquecento a punto. Quella allevatrice, che sapeva che loro
l'aspettavano femmina, pulito che l'ebbe la creatura, involta in
bellissimi panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre,
e disse; - Io vi porto un bel presente, qual voi non aspettavi -.
Mio padre, che era vero filosafo, stava passeggiando e disse: -
Quello che Idio mi dà, sempre m'è caro - e scoperto
i panni, coll'occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio.
Aggiunto insieme le vecchie palme, con esse alzò gli occhi
a Dio, e disse: - Signore, io ti ringrazio con tutto 'l cuor mio;
questo m'è molto caro, e sia il Benvenuto -. Tutte quelle
persone che erano quivi, lietamente lo domandavano, come e' si gli
aveva a por nome, Giovanni mai rispose loro altro se nome: - E'
sia il Benvenuto -; e risoltisi, tal nome mi diede il santo
Battesimo, e cosí mi vo vivendo con la grazia di Dio.
IV. Ancora viveva Andrea Cellini mio avo, che io avevo già
l'età di tre anni incirca, e lui passava li cento anni.
Avevano un giorno mutato un certo cannone d'uno acquaio, e del
detto n'era uscito un grande scarpione, il quali loro non
l'avevano veduto, ed era dello acquaio sceso in terra, e itosene
sotto una panca: io lo vidi, e, corso allui, gli missi le mani a
dosso. Il detto era sí grande, che avendolo innella
picciola mano, da uno degli lati avanzava fuori la coda, e da
l'altro avanzava tutt'a dua le bocche. Dicono, che con gran festa
io corsi al mio avo, dicendo; - Vedi, nonno mio, il mio bel
granchiolino! - Conosciuto il ditto, che gli era uno scarpione,
per il grande spavento e per la gelosia di me, fu per cader morto;
e me lo chiedeva con gran carezze: io tanto piú lo
strignevo piagnendo, ché non lo volevo dare a persona. Mio
padre, che ancora egli era in casa, corse a cotai grida, e
stupefatto non sapeva trovare rimedio, che quel velenoso animale
non mi uccidessi. In questo gli venne veduto un paro di forbicine:
cosí, lusingandomi, gli tagliò la coda e le bocche.
Di poi che lui fu sicuro del gran male, lo prese per buono aurio.
Innella età di cinque anni in circa, essendo mio padre in
una nostra celletta, innella quale si era fatto bucato ed era
rimasto un buon fuoco di querciuoli, Giovanni con una viola in
braccio sonava e cantava soletto intorno a quel fuoco. Era molto
freddo: guardando innel fuoco, accaso vidde in mezzo a quelle
piú ardente fiamme uno animaletto come una lucertola, il
quale si gioiva in quelle piú vigorose fiamme. Subito
avedutosi di quel che gli era, fece chiamare la mia sorella e me,
e mostratolo a noi bambini, a me diede una gran ceffata, per la
quali io molto dirottamente mi missi a piagnere. Lui piacevolmente
rachetatomi, mi disse cosí: - Figliolin mio caro, io non ti
do per male che tu abbia fatto, ma solo perché tu ti
ricordi che quella lucertola che tu vedi innel fuoco, si è
una salamandra, quali non s'è veduta mai piú per
altri, di chi ci sia notizia vera - e cosí mi baciò
e mi dette certi quattrini.
V. Cominciò mio padre a 'nsegnarmi sonare di flauto e
cantare di musica; e con tutto che l'età mia fussi
tenerissima, dove i piccoli bambini sogliono pigliar piacere d'un
zufolino e di simili trastulli, io ne avevo dispiacere
inistimabile, ma solo per ubbidire sonavo e cantavo. Mio padre
faceva in quei tempi organi con canne di legno maravigliosi, gravi
cemboli, i migliori e piú belli che allora si vedessino,
viole, liuti, arpe bellissime ed eccellentissime. Era ingegneree
per fare strumenti, come modi di gittar ponti,modi di gualchiere,
altre macchine, lavorava miracolosamente; d'avorio e' fu il primo
che lavorassi bene. Ma perché lui s'era innamorato di
quella che seco mi fu di padre ed ella madre, forse per causa di
quel flautetto, frequentandolo assai piú che il dovere, fu
chiesto dalliPifferi della Signoria di sonare insieme con esso
loro. Cosí seguitando un tempo per suo piacere, lo
sobillorno tanto che e' lo feciono de' lor compagni pifferi.
Lorenzo de Medicie Piero suo figliolo, che gli volevano gran bene,
vedevano di poi che lui si dava tutto al piffero e lasciava in
drieto il suo bello ingegno e la sua bella arte: lo feciono levare
di quel luogo. Mio padre l'ebbe molto per male, e gli parve che
loro gli facessino un gran dispiacere. Subito si rimise all'arte,
e fece uno specchio, di diamitro di un braccio in circa, di osso e
avorio, con figure e fogliami, con gran pulizia e gran disegno. Lo
specchio si era figurato una ruota: in mezzo era lo specchio;
intorno era sette tondi, inne' quali era intagliato e commesso di
avorio e osso nero le sette Virtú; e tutto lo specchio, e
cosí le ditte Virtú erano in un bilico; in modo che
voltando la ditta ruota, tutte le virtú si movevano; e
avevano un contrapeso ai piedi, che le teneva diritte. E
perché lui aveva qualche cognizione della lingua latina,
intorno a ditto specchio vi fece un verso latino, che diceva: "Per
tutti il versi che volta la ruota di Fortuna, la Virtú
resta in piede":
Rota sum; semper, quoquo me verto
stat virtus
Ivi a poco tempo gli fu restituito il suo luogo del piffero. Se
bene alcune di queste cose furno innanzi ch'io nascessi,
ricordandomi d'esse, non l'ho volute lasciare indietro. In quel
tempo quelli sonatori si erano tutti onoratissimi artigiani, e
v'era alcuni di loro che facevano l'arte maggiori di seta e lana;
qual fu causa che mio padre non si sdegnò a fare questa tal
professione. El maggior desiderio che lui aveva al mondo, circa i
casi mia, si era che io divenissi un gran sonatore; e 'l maggior
dispiacere che io potessi avere al mondo, si era quando lui me ne
ragionava, dicendomi, che se io volevo, mi vedeva tanto atto a tal
cosa, che io sarei il primo omo del mondo.
VI. Come ho ditto, mio padre era un gran servitore e amicissimo
della casa de' Medici, e quando Piero ne fu cacciato, si
fidò di mio padre in moltissime cose molte importantissime.
Di poi, venuto il magnifico Piero Soderini, essendo mio padre al
suo ufizio del sonare, saputo il Soderini il maraviglioso ingegno
di mio padre, se ne cominciò a servire in cose molte
importantissime come ingegnere: e in mentre che 'l Soderino stette
in Firenze volse tanto bene a mio padre, quanto immaginar si possi
al mondo; e in questo tempo io, che era di tenera età, mio
padre mi faceva portare in collo, e mi faceva sonare di flauto, e
facevo sovrano, insieme con i musici del palazzo innanzi alla
Signoria, e sonavo al libro, e un tavolaccino mi teneva in collo.
Di poi il Gonfalonieri, che era il detto Soderino, pigliava molto
piacere di farmi cicalare, e mi dava de' confetti e diceva a mio
padre: - Maestro Giovanni, insegnali insieme con il sonare quelle
altre tue bellissime arte - al cui mio padre rispondeva: - Io non
voglio che e' faccia altra arte, che 'l sonare e comporre;
perché in questa professione io spero fare il maggiore uomo
del mondo, se Idio gli darà vita -. A queste parole rispose
alcuno di quei vecchi Signori, dicendo a maestro Giovanni: - Fa'
quello che ti dice il Gonfaloniere; perché sarebbe egli mai
altro che un buono sonatore? - Cosí passò un tempo,
insino che i Medici ritornorno. Subito ritornati i Medici, il
cardinale, che fu poi papa Leone, fece molte carezze a mio padre.
Quella arme, che era al palazzo de' Medici, mentre che loro erano
stati fuori, era stato levato da essa le palle, e vi avevano fatto
dipignere una gran croce rossa, quali era l'arme e insegna del
Comune: in modo che, subito tornati, si rastiò la croce
rossa, e in detto scudo vi si comisse le sue palle rosse, e misso
il campo d'oro, con molta bellezza acconcie. Mio padre, il quali
aveva un poco di vena poetica naturale stietta, con alquanto di
profetica, che questo certo era divino in lui, sotto alla ditta
arme, subito che la fu scoperta, fece questi quattro versi:
dicevan cosí:
Quest'arme, che sepulta è stato tanto
sotto la santa croce mansueta,
mostr'or la faccia gloriosa e lieta,
aspettando di Pietro il sacro ammanto.
Questo epigramma fu letto da tutto Firenze. Pochi giorni appresso
morí papa Iulio secondo. Andato il cardinale de' Medici a
Roma, contra a ogni credere del mondo fu fatto papa, che fu papa
Leone X, liberale e magnanimo. Mio padre gli mandò li sua
quattro versi di profezia. Il papa mandò a dirgli che
andasse là, che buon per lui. Non volse andare: anzi, in
cambio di remunerazioni, gli fu tolto il suo luogo del palazzo da
Iacopo Salviati, subito che lui fu fatto Gonfaloniere. Questo fu
causa che io mi missi all'orafo; e parte imparavo tale arte e
parte sonavo, molto contro mia voglia.
VII. Dicendomi queste parole, io lo pregavo che mi lasciassi
disegnare tante ore del giorno, e tutto il resto io mi metterei a
sonare, solo per contentarlo. A questo mi diceva: - Addunque tu
non hai piacere di sonare? - Al quale io dicevo che no,
perché mi pareva arte troppa vile a quello che io avevo in
animo. Il mio buon padre, disperato di tal cosa, mi mise a bottega
col padre del cavalieri Bandinello, il quale si domandava
Michelagnolo, orefice da Pinzi di Monte, ed era molto valente in
tale arte; non aveva lume di nissuna casata, ma era figliuolo d'un
carbonaio: questo non è da biasimare il Bandinello, il
quali ha dato principio alla casa sua, se da buona causa la fussi
venuta. Quali lo sia, non mi occorre dir nulla di lui. Stato che
io fui là alquanti giorni, mio padre mi levò dal
ditto Michelognolo, come quello che non poteva vivere sanza
vedermi di continuo. Cosí malcontento mi stetti a sonare
insino alla età de' quindici anni. Se io volessi descrivere
le gran cose che mi venne fatto insino a questa età, e in
gran pericoli della propria vita, farei maravigliare chi tal cosa
leggessi, ma per non essere tanto lungo e per avere da dire assai,
le lascierò indietro.
Giunto all'età de' quindici anni, contro al volere di mio
padre mi missi abbottega all'orefice con uno che si chiamò
Antonio di Sandro orafo, per soprannome Marcone orafo. Questo era
un bonissimo praticone<B>, </B>e molto uomo dabbene,
altiero e libero in ogni cosa sua. Mio padre non volse che lui mi
dessi salario, come si usa agli altri fattori, acciò che,
da poi che volontaria io pigliavo a fare tale arte, io mi potessi
cavar lo voglia di disegnare quanto mi piaceva. E io cosí
facevo molto volentieri, e quel mio dabben maestro ne pigliava
maraviglioso piacere. Aveva un suo unico figliuolo naturale, al
quali lui molte volte gli comandava, per risparmiar me. Fu tanta
la gran voglia o sí veramente inclinazione, e l'una e
l'altra, che in pochi mesi io raggiunsi di quei buoni, anzi i
migliori giovani dell'arte, e cominciai a trarre frutto delle mie
fatiche. Per questo non mancavo alcune volte di compiacere al mio
buon padre, or di flauto or di cornetto sonando; e sempre gli
facevo cadere le lacrime con gran sospiri ogni volta che lui mi
sentiva; e bene spesso per pietà lo contentavo, mostrando
che ancora io ne cavavo assai piacere.
VIII. In questo tempo, avendo il mio fratello carnale minore di me
dua anni, molto ardito e fierissimo, qual divenne dappoi de' gran
soldati che avessi la scuola del maraviglioso signor Giovannino
de' Medici, padre del duca Cosimo<B>: </B>questo
fanciullo aveva quattordici anni in circa, e io dua piú di
lui. Era una domenica in su le 22 ore in fra la porta a San Gallo
e la porta a Pinti, e quivi si era disfidato con un garzone di
venti anni in circa con le spade in mano: tanto valorosamente lo
serrava, che avendolo malamente ferito, seguiva piú oltre.
Alla presenza era moltissime persone, infra le quali v'era assai
sua parenti uomini; e veduto la cosa andare per la mala via,
messono mano a molte frombole e una di quelle colse nel capo del
povero giovinetto mio fratello: subito cadde in terra svenuto come
morto. Io che a caso mi ero trovato quivi e senza amici e senza
arme, quanto io potevo sgridavo il mio fratello che si ritirassi,
che quello che gli aveva fatto bastava; intanto che il caso
occorse che lui a quel modo cadde come morto. Io subito corsi e
presi la sua spada, e dinanzi a lui mi missi, e contra parecchi
spade e molti sassi, mai mi scostai dal mio fratello, insino a che
da la porta a San Gallo venne alquanti valorosi soldati e mi
scamporno da quella gran furia, molto maravigliandosi che in tanta
giovinezza fussi tanto gran valore. Cosí portai il mio
fratello insino a casa come morto, e giunto a casa si
risentí con gran fatica. Guarito, gli Otto che di
già avevano condennati li nostri avversari, e confinatigli
per anni, ancora noi confinorno per se' mesi fuori delle dieci
miglia. Io dissi al mio fratello: - Vienne meco - e cosi ci
partimmo dal povero padre, e in cambio di darci qualche somma di
dinari, perché non n'aveva, ci dette la sua benedizione. Io
me n'andai a Siena a trovare un certo galante uomo che si
domandava maestro Francesco Castoro; e perché un'altra
volta io, essendomi fuggito da mio padre, me n'andai da questo
uomo dabbene e stetti seco certi giorni, insino che mio padre
rimandò per me, pure lavorando dell'arte dell'orefice; il
ditto Francesco, giunto a lui, subito mi ricognobbe e mi misse in
opera. Cosí missomi a lavorare, il ditto Francesco mi
donò<B> </B>una casa per tanto quanto io stavo
in Siena; e quivi ridussi il mio fratello e me, e attesi a
lavorare per molti mesi. Il mio fratello aveva principio di
lettere latine, ma era tanto giovinetto che non aveva ancora
gustato il sapore della virtú, ma si andava svagando.
IX. In questo tempo il cardinal de' Medici, il qual fu poi papa
Clemente, ci fece tornare a Firenze alli prieghi di mio padre. Un
certo discepolo di mio padre, mosso da propia
cattività<B>, </B>disse al ditto cardinale che
mi mandassi a Bologna a 'mparare a sonare bene da un maestro che
v'era, il quali si domandava Antonio, veramente valente uomo in
quella professione del sonare. Il Cardinale disse a mio padre che,
se lui mi mandava là, che mi faria lettere di favore e
d'aiuto. Mio padre, che di tal cosa se ne moriva di voglia, mi
mandò: onde io, volonteroso di vedere il mondo, volentieri
andai. Giunto a Bologna, io mi missi allavorare con uno che si
chiamava maestro Ercole del Piffero, e cominciai a guadagnare: e
intanto andavo ogni giorno per la lezione del sonare, e in breve
settimane feci molto gran frutto di questo maladetto sonare; ma
molto maggior frutto feci dell'arte dell'orefice, perché,
non avendo aùto dal ditto cardinale nissuno aiuto, mi missi
in casa di uno miniatore bolognese, che si chiamava Scipione
Cavalletti; stava nella strada di nostra Donna del Baraccan; e
quivi attesi a disegnare e a lavorare per un che si chiamava
Graziadiogiudeo, con il quali io guadagnai assai bene. In capo di
sei mesi me ne tornai a Fiorenze, dove quel Pierino piffero,
già stato allievo di mio padre, l'ebbe molto per male; e
io, per compiacere a mio padre, lo andavo a trovare a casa e
sonavo di cornetto e di flauto insieme con un suo fratel carnale
che aveva nome Girolamo, ed era parecchi anni minore del ditto
Piero, ed era molto da bene e buon giovane, tutto il contrario del
suo fratello. Un giorno infra li altri venne mio padre alla casa
di questo Piero, per udirci sonare; e pigliando grandissimo
piacere di quel mio sonare, disse: - Io farò pure un
maraviglioso sonatore, contro la voglia di chi mi ha voluto
impedire -. A questo rispose Piero, e disse il vero: - Molto
piú utile e onore trarrà il vostro Benvenuto, se lui
attende a l'arte dell'orafo, che a questa pifferata -. Di queste
parole mio padre ne prese tanto isdegno, veduto che ancora io
avevo il medesimo oppenione di Piero, che con gran collora gli
disse: - Io sapevo bene che tu eri tu quello che mi impedivi
questo mio tanto desiderato fine, e sei stato quello che m'hai
fatto rimuovere del mio luogo del Palazzo, pagandomi di quella
grande ingratitudine che si usa per ricompenso de' gran benefizii.
Io a te lo feci dare, e tu a me l'hai fatto tôrre; io a te
insegnai sonare con tutte l'arte che tu sai, e tu impedisci il mio
figliuolo che non facci la voglia mia. Ma tieni a mente queste
profetiche parole: e' non ci va, non dico anni o mesi, ma poche
settimane, che per questa tua tanto disonesta ingratitudine tu
profonderai -. A queste parole rispose Pierino e disse: - Maestro
Giovanni, la piú parte degli uomini, quando gl'invecchiano,
insieme con essa vecchiaia impazzano, come avete fatto voi; e di
questo non mi maraviglio, perché voi avete dato
liberalissimamente via tutta la vostra roba, non considerato ch'e'
vostri figliuoli ne avevano aver bisogno; dove io penso far tutto
il contrario: di lasciar tanto a' mia figliuoli, che potranno
sovenire i vostri -. A questo mio padre rispose: - Nessuno albere
cattivo mai fe' buon frutto, cosí per il contrario; e
piú ti dico, che tu sei cattivo e i tua figliuoli saranno
pazzi e poveri, e verrano per la merzé a' mia virtuosi e
ricchi figliuoli -. Cosí si partí di casa sua,
brontolando l'uno e l'altro di pazze parole. Onde io, che presi la
parte del mio buon padre, uscendo di quella casa con esso insieme,
gli dissi che volevo far vendette delle ingiurie che quel ribaldo
li aveva fatto - con questo che voi mi lasciate attendere a l'arte
del disegno -. Mio padre disse: - O caro flgliuol mio, ancora io
sono stato buono disegnatore: e per refrigerio di tal cosí
maravigliose fatiche e per amor mio, che son tuo padre, che t'ho
ingenerato e allevato e dato principio di tante onorate
virtú, a il riposo di quelle, non mi prometti tu qualche
volta pigliar quel flauto e quel lascivissimo cornetto, e, con
qualche tuo dilettevole piacere, dilettandoti d'esso, sonare? - Io
dissi che sí, e molto volentieri per suo amore. Allora il
buon padre disse che quelle cotai virtú sarebbon la maggior
vendetta che delle ingiurie ricevute da' sua nimici io potessi
fare. Da queste parole non arrivato il mese intero, che quel detto
Pierino, faccendo fare una volta a una sua casa, che lui aveva
nella via dello Studio, essendo un giorno ne la sua camera
terrena, sopra una volta che lui faceva fare, con molti compagni;
venuto in proposito, ragionava del suo maestro, ch'era stato mio
padre; e replicando le parole che lui gli aveva detto del suo
profondare, non sí tosto dette, che la camera, dove lui
era, per esser mal gittata la volta, o pur per vera virtú
di Dio che non paga il sabato, profondò; e di quei sassi
della volta e mattoni cascando insieme seco, gli fiaccorno tutte a
dua le gambe; e quelli ch'erano seco, restando in su li orlicci
della volta non si feceno alcun male, ma ben restorno storditi e
maravigliati; massime di quello che poco innanzi lui con ischerno
aveva lor ditto. Saputo questo mio padre, armato, lo andò a
trovare, e alla presenza del suo padre, che si chiamava Niccolaio
da Volterra, trombetto della Signoria, disse: - O Piero, mio caro
discepolo, assai mi incresce del tuo male; ma, se ti ricorda bene,
egli è poco tempo che io te ne avverti'; e altanto
interverrà intra i figliuoli tua e i mia, quanto io ti
dissi -. Poco tempo appresso lo ingrato Piero di quella
infirmità si morí. Lasciò la sua impudica
moglie con un suo figliuolo, il quale alquanti anni a presso venne
a me per elemosina in Roma. Io gnene diedi, sí per esser
mia natura il far delle elemosine; e appresso con lacrime mi
ricordai il felice istato che Pierino aveva, quando mio padre li
disse tal parole, cioè che i figliuoli del ditto Pierino
ancora andrebbono per la mercé ai figliuoli virtuosi sua. E
di questo sia detto assai, e nessuno non si faccia mai beffe dei
pronostichi di uno uomo da bene, avendolo ingiustamente
ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi
è la voce de Idio istessa.
X. Attendendo pure all'arte de l'orefice, e con essa aiutavo il
mio buon padre. L'altro suo figliuolo e mio fratello chiamato
Cecchino, come di sopra dissi, avendogli fatto dare principio di
lettere latine, perché desiderava fare me, maggiore, gran
sonatore e musico, e lui, minore, gran litterato legista; non
potendo isforzare quel che la natura ci inclinava, qual fe' me
applicato all'arte del disegno e il mio fratello, quali era di
bella proporzione e grazia, tutto inclinato a le arme; e per
essere ancor lui molto giovinetto, partitosi da una prima elezione
della scuola del maravigliosissimo signor Giovannino de' Medici;
giunto a casa, dove io non era, per esser lui manco bene guarnito
di panni, e trovando le sue e mie sorelle che, di nascosto da mio
padre, gli detteno cappa e saio mia belle e nuove: ché
oltra a l'aiuto che io davo al mio padre e alle mie buone e oneste
sorelle, de le avanzate mie fatiche quelli onorati panni mi avevo
fatti; trovatomi ingannato e toltomi i detti panni, né
ritrovando il fratello, che torgnene volevo, dissi a mio padre
perché e' mi lasciassi fare un sí gran torto, veduto
che cosí volontieri io mi affaticavo per aiutarlo. A questo
mi rispose, che io ero il suo figliuol buono, e che quello aveva
riguadagnato, qual perduto pensava avere: e che gli era di
necessità, anzi precetto de Idio istesso, che chi aveva del
bene ne dessi a chi non aveva: e che per suo amore io sopportassi
questa ingiuria; Idio m'accrescerebbe d'ogni bene. Io, come
giovane sanza isperienza, risposi al povero afflitto padre; e
preso certo mio povero resto di panni e quattrini, me ne andai
alla volta di una porta della città: e non sapendo qual
porta fosse quella che m'inviasse a Roma, mi trovai a Lucca, e da
Lucca a Pisa. E giunto a Pisa, questa era l'età di sedici
anni in circa, fermatomi presso al ponte di mezzo, dove e' dicono
la pietra del Pesce, a una bottega d'un'oreficeria, guardando con
attenzione quello che quel maestro faceva, il detto maestro mi
domandò chi ero e che proffessione era la mia: al quale io
dissi che lavoravo un poco di quella istessa arte che lui faceva.
Questo uomo da bene mi disse che io entrassi nella bottega sua, e
subito mi dette inanzi da lavorare, e disse queste parole: - Il
tuo buono aspetto mi fa credere che tu sia da bene e buono -.
Cosí mi dette innanzi oro, argento e gioie; e la prima
giornata fornita, la sera mi menò alla casa sua, dove lui
viveva onoratamente con una sua bella moglie e figliuoli. Io,
ricordatomi del dolore che poteva aver di me il mio buon padre,
gli scrissi come io era in casa di uno uomo molto buono e da bene,
il quale si domandava maestro Ulivieri della Chiostra, e con esso
lavoravo di molte opere belle e grande; e che stessi di buona
voglia, che io attendevo a imparare, e che io speravo con esse
virtú presto riportarne a lui utile e onore. Il mio buon
padre subito alla lettera rispose dicendo cosí: - Figliuol
mio, l'amor ch'io ti porto è tanto che, se non fussi il
grande onore, quale io sopra ogni cosa osservo, subito mi sarei
messo a venire per te, perché certo mi pare essere senza il
lume degli occhi il non ti vedere ogni dí, come far solevo.
Io attenderò a finire di condurre a virtuoso onore la casa
mia, e tu attendi a imparar delle virtú; e solo voglio che
tu ricordi di queste quattro semplici parole: e queste osserva, e
mai non te le dimenticare:
In nella casa che tu vuoi stare,
vivi onesto e non vi rubare.
XI. Capitò questa lettera alle mane di quel mio maestro
Ulivieri e di nascosto da me la lesse; di poi mi si scoperse
averla letta, e mi disse queste parole: - Già, Benvenuto
mio, non mi ingannò il tuo buono aspetto, quanto mi afferma
una lettera, che m'è venuta alle mane, di tuo padre, quale
è forza che lui sia molto uomo buono e da bene; cosí
fa conto d'essere nella casa tua e come con tuo padre -. Standomi
in Pisa andai a vedere il Campo Santo, e quivi trovai molte belle
anticaglie: ciò è cassoni di marmo, e in molti altri
luoghi di Pisa viddi molte altre cose antiche, intorno alle quali
tutti e' giorni che mi avanzavano del mio lavoro della bottega
assiduamente mi affaticavo; e perché il mio maestro con
grande amore veniva a vedermi alla mia cameruccia, che lui mi
aveva dato, veduto che io spendevo tutte l'ore mie virtuosamente,
mi aveva posto uno amore come se padre mi fusse. Feci un gran
frutto in uno anno che io vi stetti, e lavorai d'oro e di argento
cose importante e belle, le quali mi detton grandissimo animo a
'ndar piú inanzi. Mio padre in questo mezzo mi scriveva
molto pietosamente che io dovessi tornare a lui, e per ogni
lettera mi ricordava che io non dovessi perdere quel sonare, che
lui con tanta fatica mi aveva insegnato. A questo, subito mi
usciva la voglia di non mai tornare dove lui, tanto aveva in odio
questo maledetto sonare; e mi parve veramente istare in paradiso
un anno intero che io stetti in Pisa, dove io non sonai mai. Alla
fine de l'anno Ulivieri mio maestro gli venne occasione di venire
a Firenze a vendere certe spazzature d'oro e argento che lui
aveva: e perché in quella pessima aria m'era saltato a
dosso un poco di febbre, con essa e col maestro mi ritornai a
Firenze; dove mio padre fece grandissime carezze a quel mio
maestro, amorevolmente pregandolo, di nascosto da me, che fussi
contento non mi rimenare a Pisa. Restatomi ammalato, istetti circa
dua mesi, e mio padre con grande amorevolezza mi fece medicare e
guarire, continuamente dicendomi che gli pareva mill'anni che io
fossi guarito, per sentirmi un poco sonare; e in mentre ch'egli mi
ragionava di questo sonare, tenendomi le dita al polso,
perché aveva qualche cognizione della medicina e delle
lettere latine, sentiva in esso polso, subito ch'egli moveva a
ragionar del sonare, tanta grande alterazione, che molte volte
isbigottito e con lacrime si partiva da me. In modo che, avedutomi
di questo suo gran dispiacere, dissi a una di quelle mia sorelle
che mi portassero un flauto; che se bene io continuo avevo la
febbre, per esser lo strumento di pochissima fatica, non mi dava
alterazione il sonare; con tanta bella disposizione di mano e di
lingua, che giugnendomi mio padre all'improvisto, mi benedisse
mille volte dicendomi, che in quel tempo che io ero stato fuor di
lui, gli pareva che io avessi fatto un grande acquistare<B>;
</B>e mi pregò che io tirassi inanzi e non dovessi
perdere una cosí bella virtú.
XII. Guarito che io fui, ritornai al mio Marcone, uomo da bene,
orafo, il quale mi dava da guadagnare, con il quale guadagno
aiutavo mio padre e la casa mia. In questo tempo venne a Firenze
uno iscultore che si domandava Piero Torrigiani, il qual veniva di
Inghilterra, dove egli era stato di molti anni; e perché
egli era molto amico di quel mio maestro, ogni dí veniva da
lui; e veduto mia disegni e mia lavori, disse: - Io son venuto a
Firenze per levare piú giovani che io posso; ché,
avendo a fare una grande opera al mio Re, voglio, per aiuto, de'
mia Fiorentini; e perché il tuo modo di lavorare e i tua
disegni son piú da scultore che da orefice, avendo da fare
grande opere di bronzo, in un medesimo tempo io ti farò
valente e ricco -. Era questo uomo di bellissima forma,
aldacissimo, aveva piú aria di gran soldato che di
scultore, massimo a' sua mirabili gesti e alla sua sonora voce,
con uno agrottar di ciglia atto a spaventar ogni uomo da qual
cosa; e ogni giorno ragionava delle sue bravurie con quelle bestie
di quegli Inghilesi. In questo proposito cadde in sul ragionar di
Michelagnolo Buonaarroti; che ne fu causa un disegno che io avevo
fatto, ritratto da un cartone del divinissimo Michelagnolo. Questo
cartone fu la prima bella opera che Michelagnolo mostrò
delle maravigliose sue virtú, e lo fece a gara con uno
altro che lo faceva: con Lionardo da Vinci; che avevano a servire
per la sala del Consiglio del palazzo della Signoria.
Rappresentavano quando Pisa fu presa da' Fiorentini; e il mirabil
Lionardo da Vinci aveva preso per elezione di mostrare una
battaglia di cavagli con certa presura di bandiere, tanto
divinamente fatti, quanto imaginar si possa. Michelagnolo
Buonaarroti, innel suo dimostrava una quantità di fanterie
che per essere di state s'erano missi a bagnare in Arno; e in
questo istante dimostra ch' e' si dia a l'arme, a quelle fanterie
ignude corrono a l'arme, e con tanti bei gesti, che mai né
delli antichi né d'altri moderni non si vidde opera che
arrivassi a cosí alto segno; e sí come io ho detto,
quello del gran Lionardo era bellissimo e mirabile. Stetteno
questi dua cartoni, uno innel palazzo de' Medici, e uno alla sala
del Papa. In mentre che gli stetteno in piè, furno la
scuola del mondo. Se bene il divino Michelagnolo fece la gran
cappella di papa Iulio da poi, non arrivò mai a questo
segno alla metà; la sua virtú non aggiunse mai da
poi alla forza<B> </B>di quei primi studii.
XIII. Ora torniamo a Piero Torrigiani, che con quel mio disegno in
mano disse cosí: - Questo Buonaarroti e io andavamo a
'mparare da fanciulletti innella chiesa del Carmine, dalla
cappella di Masaccio: e perché il Buonaarroti aveva per
usanza di ucellare tutti quelli che disegnavano, un giorno in fra
gli altri dandomi noia il detto, mi venne assai piú stizza
che 'l solito, e stretto la mana gli detti sí grande il
pugno in sul naso, che io mi senti' fiaccare sotto il pugno
quell'osso e tenerume del naso, come se fosse stato un cialdone: e
cosí segnato da me ne resterà insin che vive -.
Queste parole generorono in me tanto odio, perché vedevo
continuamente i fatti del divino Michelagnolo, che non tanto ch'a
me venissi voglia di andarmene seco in Inchilterra, ma non potevo
patire di vederlo.
Attesi continuamente in Firenze a imparare sotto la bella maniera
di Michelagnolo, e da quella mai mi sono ispiccato. In questo
tempo presi pratica e amicizia istrettissima con uno gentil
giovanetto di mia età, il quale ancora lui stava allo
orefice. Aveva nome Francesco, figliuolo di Filippo di fra Filippo
eccellentissimo pittore. Nel praticare insieme generò in
noi un tanto amore, che mai né dí né notte
stavamo l'uno senza l'atro: e perché ancora la casa sua era
piena di quelli belli studii che aveva fatto il suo valente padre,
i quali erano parecchi libri disegnati di sua mano, ritratti dalle
belle anticaglie di Roma; la qual cosa, vedendogli, mi innamororno
assai; e dua anni in circa praticammo insieme. In questo tempo io
feci una opera di ariento di basso rilievo, grande quanta è
una mana di un fanciullo piccolo. Questa opera serviva per un
serrame per una cintura da uomo, che cosí grandi alora si
usavono. Era intagliato in esso un gruppo di fogliame fatto
all'antica, con molti puttini e altre bellissime maschere. Questa
tale opera io la feci in bottega di uno chiamato Francesco
Salinbene. Vedendosi questa tale opera per l'arte degli orefici,
mi fu dato vanto del meglio giovane di quella arte. E
perché un certo Giovanbatista, chiamato il Tasso,
intagliatore di legname, giovane di mia età a punto, mi
cominciò a dire che, se io volevo andare a Roma, volentieri
insieme ne verrebbe meco - questo ragionamento che noi avemmo
insieme fu poi il desinare a punto - e per essere per le medesime
cause del sonare adiratomi con mio padre, dissi al Tasso: - Tu sei
persona da far delle parole e non de' fatti -. Il quale Tasso mi
disse: - Ancora io mi sono adirato con mia madre, e se io avessi
tanti quattrini che mi conducessino a Roma, io non tornerei
indrieto a serrare quel poco della botteguccia che io tengo -. A
queste parole io aggiunsi, che se per quello lui restava, io mi
trovavo a canto tanti quattrini, che bastavano a portarci a Roma
tutti a dua. Cosí ragionando insieme, mentre andavamo, ci
trovammo alla porta a San Piero Gattolini<B>
</B>disavedutamente. Al quale io dissi: - Tasso mio, questa
è fattura d'Idio l'esser giunti a questa porta, che
né tu né io aveduti ce ne siàno: ora, da poi
che io son qui, mi pare aver fatto la metà del cammino -.
Cosí d'accordo lui e io dicevamo, mentre che seguivamo il
viaggio: - Oh che dirà i nostri vecchi stasera? -
Cosí dicendo facemmo patti insieme di non gli ricordar
piú insino a tanto che noi fussimo giunti a Roma.
Cosí ci legammo i grembiuli indietro, e quasi alla mutola
ce ne andammo insino a Siena. Giunti che fummo a Siena, il Tasso
disse che s'era fatto male ai piedi, che non voleva venire
piú innanzi, e mi richiese gli prestassi danari per
tornarsene: al quale io dissi: - A me non ne resterebbe per andare
innanzi; però tu ci dovevi pensare a muoverti di Firenze; e
se per causa dei piedi tu resti di non venire, troveremo un
cavallo di ritorno per Roma, e allora non arai scusa di non venire
-. Cosí preso il cavallo, veduto che lui non mi rispondeva,
inverso la porta di Roma presi il cammino. Lui, vedutomi risoluto,
non restando di brontolare, il meglio che poteva, zoppicando
drieto assai ben discosto e tardo veniva. Giunto che io fui alla
porta, piatoso del mio compagnino, lo aspettai e lo missi in
groppa, dicendogli: - Che domin direbbono e' nostri amici di noi,
che partitici per andare a Roma, non ci fussi bastato la vista di
passare Siena? - Allora il buon Tasso disse che io dicevo il vero;
e per esser persona lieta, cominciò a ridere e a cantare: e
cosí sempre cantando e ridendo ci conducemmo a Roma. Questo
era a punto l'età mia di diciannove anni, insieme col
millesimo. Giunti che noi fummo in Roma, subito mi messi a bottega
con uno maestro, che si domandava Firenzola. Questo aveva nome
Giovanni e era da Firenzuola di Lombardia, ed era valentissimo
uomo di lavorare di vasellami e cose grosse. Avendogli mostro un
poco di quel modello di quel serrame che io avevo fatto in Firenze
col Salinbene, gli piacque maravigliosamente, e disse queste
parole, voltosi a uno garzone che lui teneva, il quale era
fiorentino e si domandava Giannotto Giannotti, ed era stato seco
parecchi anni; disse cosí: - Questo è di quelli
Fiorentini che sanno, e tu sei di quelli che non sanno -. Allora
io, riconosciuto quel Giannotto, gli volsi fare motto;
perché inanzi che lui andassi a Roma, spesso andavamo a
disegnare insieme, ed eravamo stati molto domestici compagnuzzi.
Prese tanto dispiacere di quelle parole che gli aveva detto il suo
maestro, che egli disse non mi cognoscere né sapere chi io
mi fussi: onde io sdegnato a cotal parole, gli dissi: - O
Giannotto, già mio amico domestico, che ci siamo trovati in
tali e tali luoghi, e a disegnare e a mangiare e bere e dormire in
villa tua; io non mi curo che tu faccia testimonianza di me a
questo uomo da bene tuo maestro, perché io spero che le
mane mia sieno tali, che sanza il tuo aiuto diranno quale io sia.
XIV. Finito queste parole, il Firenzuola, che era persona
arditissima e bravo, si volse al detto Giannotto e li disse: - O
vile furfante, non ti vergogni tu a usare questi tali termini e
modi a uno che t'è stato sí domestico compagno? -. E
nel medesimo ardire voltosi a me, disse: - Entra in bottega e fa
come tu hai detto, che le tue mane dicano quel che tu sei -: e mi
dette a fare un bellissimo lavoro di argento per un cardinale.
Questo fu un cassonetto ritratto da quello di porfido che è
dinanzi alla porta della Retonda.<B> </B>Oltra quello
che io ritrassi, di mio arricchi'lo con tante belle mascherette,
che il maestro mio s'andava vantando e mostrandolo per l'arte, che
di bottega sua usciva cosí ben fatta opera. Questo era di
grandezza di un mezzo braccio in circa; ed era accomodato che
serviva per una saliera da tenere in tavola. Questo fu il primo
guadagno che io gustai in Roma; e una parte di esso guadagno ne
mandai a soccorrere il mio buon padre: l'altra parte serbai per la
vita mia; e con esso me ne andavo studiando intorno alle cose
antiche, insino a tanto che e' danari mi mancorno, che mi convenne
tornare a bottega a lavorare. Quel Battista del Tasso mio compagno
non istette troppo in Roma, che lui se ne tornò a Firenze.
Ripreso nuove opere, mi venne voglia, finite che io le ebbi, di
cambiate maestro, per esser sobbillato da un certo Milanese, il
quale si domandava maestro Pagolo Arsago. Quel mio Firenzuola
primo ebbe a fare gran quistione con questo Arsago, dicendogli in
mia presenza alcune parole ingiuriose, onde che io ripresi le
parole in defensione del nuovo maestro. Dissi ch'io era nato
libero, e cosí libero mi volevo vivere, e che di lui non si
poteva dolere; manco di me, restando aver dallui certi pochi scudi
d'accordo; e come lavorante libero volevo andare dove mi piaceva,
conosciuto non far torto a persona. Anche quel mio nuovo maestro
usò parecchi parole, dicendo che non mi aveva chiamato, e
che io gli farei piacere a ritornare col Firenzuola. A questo io
aggiunsi che non cognoscendo in modo alcuno di farli torto, e
avendo finite l'opere mia cominciate, volevo essere mio e non di
altri; e chi mi voleva mi chiedessi a me. A questo disse il
Firenzuola: - Io non ti voglio piú chiedere a te, e tu non
capitare innanzi per nulla piú a me -. Io gli ricordai e'
mia danari: lui sbeffandomi; a il quale io dissi, che cosí
bene come io adoperavo e' ferri per quelle tale opere, che lui
aveva visto, non manco bene adoperrei la spada per recuperazione
delle fatiche mie. A queste parole a sorta si fermò un
certo vecchione, il quale si domandava maestro Antonio da San
Marino. Questo era il primo piú eccellente orefice di Roma,
ed era stato maestro di questo Firenzuola. Sentito le mia ragione,
quale io dicevo di sorte che<B> </B>le si potevano
benissimo intendete, subito preso la mia protezione, disse al
Firenzuola che mi pagassi. Le dispute furno grande, perché
era questo Firenzuola maraviglioso maneggiator di arme; assai
piú che ne l'arte de l'orefice; pur è la ragione che
volse il suo luogo, e io con lo istesso valore lo aiutai, in modo
che io fui pagato; e con ispazio di tempo il ditto Firenzuola e io
fummo amici, e gli battezzai un figliuolo, richiesto<B>
</B>da lui.
XV. Seguitando di lavorare con questo maestro Pagolo Arsago,
guadagnai assai, sempre mandando la maggior parte al mio buon
padre. In capo di dua anni, alle preghiere del buon padre me ne
tornai a Firenze, e mi messi di nuovo a lavorare con Francesco
Salinbene, con il quale molto bene guadagnavo, e molto mi
affaticavo a 'mparare. Ripreso la pratica con quel Francesco di
Filippo, con tutto che io fussi molto dedito a qualche piacere,
causa di quel maledetto sonare, mai lasciavo certe ore del giorno
o della notte, quale io davo alli studii. Feci in questo tempo un
chiavacuore di argento, il quale era in quei tempi chiamato
cosí. Questo si era una cintura di tre dita larga, che alle
spose novelle s'usava di fare, ed era fatta di mezzo rilievo con
qualche figuretta ancora tonda in fra esse. Fecesi a uno che si
domandava Raffaello Lapaccini. Con tutto che io ne fussi malissimo
pagato, fu tanto l'onore che io ne ritrassi, che valse molto di
piú che 'l premio che giustamente trar ne potevo. Avendo in
questo tempo lavorato con molte diverse persone in Firenze, dove
io avevo cognusciuto in<B> </B>fra gli orefici alcuni
uomini da bene, come fu quel Marcone mio primo maestro, altri che
avevano nome di molto buoni uomini, essendo sobissato da loro
innelle mie opere quanto e' potettono mi ruborno grossamente.
Veduto questo, mi spiccai da loro e in concetto di tristi e ladri
gli tenevo. Uno orafo in fra gli altri, chiamato Giovanbatista
Sogliani, piacevolmente mi accomodò di una parte della sua
bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo, accanto a il
banco che era de' Landi. Quivi io feci molte belle operette e
guadagnai assai: potevo molto bene aiutare la casa mia. Destossi
la invidia da quelli cattivi maestri, che prima io avevo
aúti, i quali si chiamavano Salvadore e Michele Guasconti:
erano ne l'arte degli orefici tre grosse botteghe di costoro, e
facevano di molte faccende; in modo che, veduto che mi
offendevano, con alcuno uomo da bene io mi dolsi, dicendo che ben
doveva lor bastare le ruberie che loro mi avevano usate sotto il
mantello della lor falsa dimostrata bontà. Tornando loro a
orecchi, si vantorno di farmi pentire assai di tal parole; onde io
non conoscendo di che colore la paura si fusse, nulla o poco gli
stimava.
XVI. Un giorno occorse che, essendo appoggiato alla bottega di uno
di questi, chiamato da lui, e parte mi riprendeva e parte mi
bravava: al cui io risposi, che se loro avessin fatto il dovere a
me, io arei detto di loro quel che si dice degli uomini buoni e da
bene: cosí, avendo fatto il contrario, dolessinsi di loro e
non di me. In mentre che io stavo ragionando, un di loro, che si
domanda Gherardo Guasconti, lor cugine, ordinato forse da costoro
insieme, appostò<B> </B>che passassi una soma.
Questa fu una soma di mattoni. Quando detta soma fu al rincontro
mio, questo Gherardo me la pinse talmente addosso che la mi fece
gran male. Voltomi subito e veduto che lui se ne rise, gli menai
sí grande il pugno in una tempia, che svenuto cadde come
morto; di poi voltomi ai sua cugini, dissi: - Cosí si
trattano i ladri poltroni vostri pari -: e volendo lor fare alcuna
dimostrazione, perché assai erano, io, che mi trovavo
infiammato, messi mano a un piccol coltello che io avevo, dicendo
cosí: - Chi di voi esca della sua bottega, l'altro corra
per il confessoro, perché il medico non ci arà che
fare -. Furno le parole a loro di tanto spavento, che nessuno si
mosse a l'aiuto del cugino. Subito che partito io mi fui, corsono
i padri e i figliuoli agli Otto, e quivi dissono che io con armata
mano gli avevo assaliti in su le botteghe loro, cosa che mai
piú in Firenze s'era usata tale. E' signori Otto mi fecion
chiamare; onde io comparsi; e dandomi una grande riprensione e
sgridato, sí per vedermi in cappa e quelli in mantello e
cappuccio alla civile; ancora perché li avversari mia erano
stati a parlare a casa a quei Signori a tutti in disparte, e io,
come non pratico, a nessun di quelli Signori non avevo parlato,
fidandomi della mia gran ragione che io tenevo; e dissi, che a
quella grande offesa e ingiuria che Gherardo mi aveva fatta, mosso
da còllora grandissima, e non gli dato altro che una
ceffata, non mi pareva dovere di meritare tanta gagliarda
riprensione. Appena che Prinzivalle della Stufa, il quale era
degli Otto, mi lasciassi finir di dire <I>ceffata,
</I>che disse: - Un pugno e non ceffata gli desti -. Sonato
il campanuzzo e mandatici tutti fuora, in mia difesa disse
Prinzivalle agli compagni: - Considerate, signori, la
semplicità di questo povero giovane, il quale si accusa di
aver dato ceffata, pensando che sia manco errore che dare un
pugno; perché d'una ceffata in Mercato Nuovo la pena si
è venticinque scudi, e d'un pugno poco o nonnulla. Questo
è giovane molto virtuoso, e mantiene la povera casa sua con
le fatiche sua, molto abundante; e volessi Idio che la
città nostra di questa sorta ne avessi abundanzia,
sí come la n'ha mancamento.
XVII. Era infra di loro alcuni arronzinati cappuccetti, che mossi
dalle preghiere e male informazioni delli mia avversari, per esser
di quella fazione di fra Girolamo, mi arebbon voluto metter
prigione e condennarmi a misura di carboni: alla qual cosa il buon
Prinzivalle attutto rimediò. Cosí mi fece una
piccola condennagione di quattro staia di farina, le quali si
dovessimo donare per elemosina al monasterio delle Murate. Subito
richiamatoci drento mi comandò che io non parlassi parola
sotto pena della disgrazia loro, e che io ubbidissi di quello che
condennato io ero. Cosí dandomi una gagliarda grida ci
mandorno al cancelliere: io che borbottando sempre dicevo "ceffata
fu e non pugno", in modo che ridendo gli Otto si rimasono. Il
cancelliere ci comandò da parte del magistrato che noi ci
dessimo sicurtà l'un l'altro, e me solo condennorno in
quelle quattro staia della farina. A me che parve essere
assassinato, non tanto ch'io mandai per un mio cugino, il quale si
domandava maestro Anniballe cerusico, padre di messer Librodoro
Librodori, volendo io che lui per me prommettessi. Il ditto non
volse venire: per la qual cosa io sdegnato, soffiando diventai
come uno aspido, e feci disperato iudizio. Qui si cognosce quanto
le stelle non tanto ci inclinano, ma ci sforzano. Conosciuto
quanto grande obrigo questo Anniballe aveva alla casa mia,
m'accrebbe tanto còllora che, tirato tutto al male e anche
per natura alquanto collerico, mi stetti a 'spettare che il detto
ufizio degli Otto fussi ito a desinare: e restato quivi solo,
veduto che nessuno della famiglia degli Otto piú a me non
guardava, infiammato di còllora, uscito del Palazzo, corsi
alla mia bottega, dove trovatovi un pugnalotto saltai in casa
delli mia avversari, che a casa e a bottega istavano. Trova'gli a
tavola, e quel giovane Gherardo, che era stato capo della
quistione, mi si gettò a dosso: al cui io menai una
pugnalata al petto, che il saio, il colletto insino alla camicia a
banda a banda io li passai, non gli avendo tocco la carne o
fattogli un male al mondo. Parendo a me, per l'entrar della mana e
quello rumor de' panni, aver fatto grandissimo male, e lui per
ispavento caduto a terra, dissi: - O traditori, oggi è quel
dí che io tutti vi ammazzo -. Credendo il padre, la madre e
le sorelle che quel fusse il dí del Giudizio, subito
gettatisi inginocchione per terra, misericordia ad alta voce con
le bigoncie chiamavano: e veduto non fare alcuna difesa contro di
me, e quello disteso in terra come morto, troppo vil cosa mi parve
a toccargli; ma furioso corsi giú per la scala: e giunto
alla strada, trovai tutto il resto della casata, li quali erano
piú di dodici; chi di loro aveva una pala di ferro, alcuni
un grosso canale di ferro, altri martella, ancudine, altri
bastoni. Giunto fra loro, sí come un toro invelenito,
quattro o cinque ne gittai in terra, e con loro insieme caddi,
sempre menando il pugnale ora a questo ora a quello. Quelli che in
piedi restati erano, quanto egli potevano sollecitavano, dando a
me a dua mane con martella, con bastoni e con ancudine: e
perché Idio alcune volte piatoso si intermette, fece che
né loro a me e né io a loro non ci facemmo un male
al mondo. Solo vi restò la mia berretta, la quale
assicuratisi e' mia avversari che discosto a quella si eron
fuggiti, ugniuno di loro la percosse con le sua arme: di poi
riguardato infra di loro de e' feriti e morti, nessuno v'era che
avessi male.
XVIII. Io me ne andai alla volta di santa Maria Novella, e subito
percossomi in frate Alesso Strozzi, il quale io non conosceva, a
questo buon frate io per l'amor de Dio mi raccomandai, che mi
salvassi la vita, perché grande errore avevo fatto. Il buon
frate mi disse che io non avessi paura di nulla, ché, tutti
e' mali del mondo che io avessi fatti, in quella cameruccia sua
ero sicurissimo. In ispazio d'una ora a presso, gli Otto,
ragunatisi fuora del loro ordine<B>, </B>fecion
mandare un de' piú spaventosi bandi contra di me, che mai
s'udissi, sotto pene grandissime a chi m'avessi o sapessi, non
riguardando né a luogo né a qualità che mi
tenessi. Il mio afflitto e povero buon padre entrando agli Otto,
ginocchioni si buttò in terra, chiedendo misericordia del
povero giovane figliuolo: dove che un di quelli arrovellati,
scotendo la cresta dello arronzinato capuccio, rizzatosi in piedi,
con alcune ingiuriose parole disse al povero padre mio: -
Lièvati di costí, e va' fuora subito, ché
domattina te lo manderemo in villa con i lanciotti -. Il mio
povero padre pure ardito rispose, dicendo loro: - Quel che Idio
arà ordinato, tanto farete, e non piú là -.
Al cui quel medesimo rispose che per certo cosí aveva
ordinato Idio. E mio padre allui disse: - Io mi conforto, che voi
certo non lo sapete - e partitosi dalloro, venne a trovarmi
insieme con un certo giovane di mia età, il quale si
chiamava Piero di Giovanni Landi: ci volevamo bene piú che
se fratelli fussimo stati. Questo giovane aveva sotto il mantello
una mirabile ispada e un bellissimo giaco di maglia: e giunti a
me, il mio animoso padre mi disse il caso, e quel che gli avevan
detto i signori Otto. Di poi mi baciò in fronte e tutti a
dua gli occhi; mi benedisse di cuore, dicendo cosí: - La
virtú de Dio sia quella che ti aiuti - e pòrtomi la
spada e l'arme, con le sue mane proprie me le aiutò
vestire. Di poi disse: - O figliuol mio buono, con queste in mano,
o tu vivi o tu muori -. Pier Landi, che era quivi alla presenza,
non cessava di lacrimare, e pòrtomi dieci scudi d'oro, io
dissi che mi levassi certi peletti della barba, che prime
caluggine<B> </B>erano. Frate Alesso mi vestí
in modo di frate e un converso mi diede per compagnia. Uscitomi
del convento, uscito per la porta di Prato, lungo le mura me ne
andai insino alla piazza di San Gallo; e salito la costa di
Montui, in una di quelle prime case trovai un che si domandava il
Grassuccio, fratel carnale di misèr Benedetto da Monte
Varchi. Subito mi sfratai, e ritornato uomo, montati in su dua
cavalli, che quivi erano per noi, la notte ce ne andammo a Siena.
Rimandato indrieto il detto Grassuccio a Firenze, salutò
mio padre e gli disse che io ero giunto a salvamento. Mio padre
rallegratosi assai, gli parve mill'anni di ritrovar quello degli
Otto che gli aveva detto ingiuria; e trovatolo disse cosí:
- Vedete voi, Antonio, ch'egli era Idio quello che sapeva quel che
doveva essere del mio figliuolo, e non voi? - Al cui rispose: -
Di' che ci càpiti un'altra volta -. Mio padre allui: - Io
attenderò a ringraziare Idio, che l'ha campato di questo.
XIX. Essendo a Siena, aspettai il procaccia di Roma, e con esso mi
accompagnai. Quando fummo passati la Paglia scontrammo il corriere
che portava le nuove del papa nuovo, che fu papa Clemente. Giunto
a Roma mi missi a lavorare in bottega di maestro Santi orefice: se
bene il detto era morto, teneva la bottega un suo figliuolo.
Questo non lavorava, ma faceva fare le faccende di bottega tutte a
uno giovane che si domandava Luca Agnolo da Iesi. Questo era
contadino, e da piccol fanciulletto era venuto a lavorare con
maestro Santi. Era piccolo di statura, ma ben proporzionato.
Questo giovane lavorava meglio che uomo che io vedessi mai insino
a quel tempo, con grandissima facilità e con molto disegno:
lavorava solamente di grosseria, cioè vasi bellissimi, e
bacini, e cose tali. Mettendomi io a lavorar in tal bottega presi
a fare certi candellieri per il vescovo Salamanca spagnuolo.
Questi tali candellieri furno riccamente lavorati, per quanto si
appartiene a tal opera. Un descepol di Raffaello da Urbino,
chiamato Gianfrancesco, per sopranome il Fattore, era pittore
molto valente; e perché egli era amico del detto vescovo,
me gli misse molto in grazia, a tale che io ebbi moltissime opere
da questo vescovo, e guadagnavo molto bene. In questo tempo io
andavo quando a disegnare in Capella di Michelagnolo, e quando
alla casa di Agostino Chigi sanese, nella qual casa era molte
opere bellissime di pittura di mano dello eccellentissimo
Raffaello da Urbino; e questo si era il giorno della festa,
perché in detta casa abitava misser Gismondo Chigi,
fratello del detto misser Agostino. Avevano molta boria quando
vedevano delli giovani miei pari che andavano a 'mparare drento
alle case loro. La moglie del detto misser Gismondo, vedutomi
sovente in questa sua casa - questa donna era gentile al possibile
e oltramodo bella - accostandosi un giorno a me, guardando li mia
disegni, mi domandò se io ero scultore o pittore: alla cui
donna io dissi, che ero orefice. Disse lei, che troppo ben
disegnavo per orefice; e fattosi portare da una sua cameriera un
giglio di bellissimi diamanti legati in oro, mostrandomegli, volse
che io gli stimassi. Io gli stimai ottocento scudi. Allora lei
disse che benissimo gli avevo stimati. A presso mi domandò
se mi bastava l'animo di legargli bene: io dissi che molto
volentieri, e alla presenza di lei ne feci un pochetto di disegno;
e tanto meglio lo feci, quanto io pigliavo piacere di trattenermi
con questa tale bellissima e piacevolissima gentildonna. Finito il
disegno, sopragiunse un'altra bellissima gentildonna romana, la
quale era di sopra, e scesa a basso dimandò la detta
madonna Porzia quel che lei quivi faceva: la quale sorridendo
disse: - Io mi piglio piacere il vedere disegnare questo giovane
da bene, il quale è buono e bello -. Io, venuto in un poco
di baldanza, pur mescolato un poco di onesta vergogna, divenni
rosso e dissi: - Quale io mi sia, sempre, madonna, io sarò
paratissimo a servirvi -. La gentildonna, anche lei arrossita
alquanto, disse: - Ben sai che io voglio che tu mi serva - e
pòrtomi il giglio, disse che io me ne lo portassi; e di
piú mi diede venti scudi d'oro, che l'aveva nella tasca, e
disse: - Legamelo in questo modo che disegnato me l'hai, e salvami
questo oro vechio in che legato egli è ora -. La
gentildonna romana allora disse: - Se io fussi in quel giovane,
volentieri io m'andrei con Dio -. Madonna Porzia agiunse che le
virtú rare volte stanno con i vizii e che, se tal cosa io
facessi, forte ingannerei quel bello aspetto che io dimostravo di
uomo da bene - e voltasi, preso per mano la gentildonna romana,
con piacevolissimo riso mi disse: - A Dio, Benvenuto -.
Soprastetti alquanto intorno al mio disegno che facevo, ritraendo
certa figura di Iove di man di Raffaello da Urbino detto. Finita
che l'ebbi, partitomi, mi messi a fare un picolo modellino di
cera, mostrando per esso come doveva da poi tornar fatta l'opera;
e portatolo a vedere a madonna Porzia detta, essendo alla presenza
quella gentildonna romana, che prima dissi, l'una e l'altra
grandemente satisfatte delle fatiche mie, mi feceno tanto favore,
che mosso da qualche poco di baldanza, io promissi loro, che
l'opera sarebbe meglio ancora la metà che il modello.
Cosí messi mano, e in dodici giorni fini' il detto gioiello
in forma di giglio, come ho detto di sopra, adorno con mascherini,
puttini, animali e benissimo smaltato; in modo che li diamanti, di
che era il giglio, erono migliorati piú della metà.
XX. In mentre che io lavoravo questa opera, quel valente uomo
Lucagnolo, che io dissi di sopra, mostrava di averlo molto per
male, piú volte dicendomi che io mi farei molto piú
utile e piú onore ad aiutarlo lavorar vasi grandi di
argento, come io avevo cominciato. Al quale io dissi, che io sarei
atto, sempre che io volessi, a lavorar vasi grandi di argento; ma
che di quelle opere che io facevo, non ne veniva ogni giorno da
fare; e che in esse opere tali era non manco onore che ne' vasi
grandi di argento, ma sí bene molto maggiore utile. Questo
Lucagnolo mi derise dicendo: - Tu lo vedrai, Benvenuto;
perché allora che tu arai finita cotesta opera, io mi
affretterò di aver finito questo vaso, il quale cominciai
quando tu il gioiello; e con la esperienza sarai chiaro l'utile
che io trarrò del mio vaso, e quello che tu trarrai de il
tuo gioiello -. Al cui io risposi, che volentieri avevo a piacere
di fare con un sí valente uomo, quale era lui, tal pruova,
perché alla fine di tale opere si vedrebbe chi di noi si
ingannava. Cosí l'uno e l'altro di noi alquanto, con un
poco di sdegnoso riso, abbassati il capo fieramente, ciascuno
desideroso di dar fine alle cominciate opere; in modo che in
termine di dieci giorni incirca ciascun di noi aveva con molta
pulitezza e arte finita l'opera sua. Quella di Lucagnolo detto si
era un vaso assai ben grande, il qual serviva in tavola di papa
Clemente, dove buttava drento, in mentre che era a mensa, ossicina
di carne e buccie di diverse frutte; fatto piú presto a
pompa che a necessità. Era questo vaso ornato con dua bei
manichi, con molte maschere picole e grande, con molti bellissimi
fogliami, di tanta bella grazia e disegno, quanto inmaginar si
possa; al quale io dissi, quello essere il piú bel vaso che
mai io veduto avessi. A questo, Lucagnolo, parendogli avermi
chiarito, disse: - Non manco bella pare a me l'opera tua, ma
presto vedremo la differenza de l'uno e de l'altro -. Cosí
preso il suo vaso, portatolo al papa, restò satisfatto
benissimo, e subito lo fece pagare secondo l'uso de l'arte di tai
grossi lavori. In questo mentre io portai l'opera mia alla ditta
gentildonna madonna Porzia, la quali con molta maraviglia mi
disse, che di gran lunga io avevo trapassata la promessa fattagli;
e poi aggiunse, dicendomi che io domandassi delle fatiche mie
tutto quel che mi piaceva, perché gli pareva che io
meritassi tanto, che donandomi un castello, a pena gli parrebbe
d'avermi sadisfatto; ma perché lei questo non poteva fare,
ridendo mi disse, che io domandassi quel che lei poteva fare. Alla
cui io dissi, che il maggior premio delle mie fatiche desiderato,
si era l'avere sadisfatto Sua Signoria. Cosí anch'io
ridendo, fattogli reverenza, mi parti', dicendo che io non voleva
altro premio che quello. Allora madonna Porzia ditta si volse a
quella gentildonna romana, e disse: - Vedete voi che la compagnia
di quelle virtú che noi giudicammo in lui, son queste, e
non sono i vizii? - Maravigliatosi l'una e l'altra, pure disse
madonna Porzia: - Benvenuto mio, ha' tu mai sentito dire, che
quando il povero dona a il ricco, il diavol se ne ride? - Alla
quale io dissi: - E però di tanti sua dispiaceri, questa
volta lo voglio vedere ridere - e partitomi, lei disse che non
voleva per questa volta fargli cotal grazia. Tornatomi alla mia
bottega, Lucagnolo aveva in un cartoccio li dinari avuti del suo
vaso; e giunto mi disse: - Accosta un poco qui a paragone il
premio del tuo gioiello a canto al premio del mio vaso -. Al quale
io dissi che lo salvassi in quel modo insino al seguente giorno;
perché io speravo che sí bene come l'opera mia innel
suo genere non era stata manco bella della sua, cosí
aspettavo di fargli vedere il premio di essa.
XXI. Venuto l'altro giorno, madonna Porzia mandato alla mia
bottega un suo maestro di casa, mi chiamò fuora, e
pòrtomi in mano un cartoccio pieno di danari da parte di
quella signora, mi disse, che lei non voleva che il diavol se ne
ridessi affatto; mostrando che quello che la mi mandava non era lo
intero pagamento che meritavano le mie fatiche, con molte altre
cortese parole degne di cotal signora. Lucagnolo, che gli pareva
mill'anni di accostare<B> </B>il suo cartoccio al mio,
subito giunto in bottega, presente dodici lavoranti e altri vicini
fattisi innanzi, che desideravano veder la fine di tal contesa,
Lucagnolo prese il suo cartoccio con ischerno ridendo, dicendo: -
Ou! ou - tre o quattro volte, versato li dinari in sul banco con
gran rumore: i quali erano venticinque scudi di giuli, pensando
che li mia fussino quattro o cinque scudi di moneta: dove che io,
soffocato dalle grida sue, dallo sguardo e risa de' circunstanti,
guardando cosí un poco dentro innel mio cartoccio, veduto
che era tutto oro, da una banda del banco tenendo gli occhi bassi,
senza un romore al mondo, con tutt'a dua le mane forte in alto
alzai il mio cartoccio, il quali facevo versare a modo di una
tramoggia di mulino. Erano li mia danari la metà piú
che li sua; in modo che tutti quegli occhi, che mi s'erano
affisati a dosso con qualche ischerno, subito vòlti a lui,
dissono: - Lucagnolo, questi dinari di Benvenuto per essere oro, e
per essere la metà piú, fanno molto piú bel
vedere che li tua -. Io credetti certo, che per la invidia,
insieme con lo scorno che ebbe quel Lucagnolo, subito cascassi
morto: e con tutto che di quelli mia danari allui ne venissi la
terza parte, per esser io lavorante - ché cosí
è il costume: dua terzi ne tocca a il lavorante e l'altra
terza parte alli maestri della bottega - potette piú la
temeraria invidia che la avarizia in lui, qual doveva operare
tutto il contrario, per essere questo Lucagnolo nato d'un
contadino da Iesi. Maladisse l'arte sua e quelli che gnene avevano
insegnata, dicendo che da mò innanzi non voleva piú
fare quell'arte di grosseria; solo voleva attendere a fare di
quelle bordellerie piccole, da poi che le erano cosí ben
pagate. Non manco sdegnato io dissi, che ogni uccello faceva il
verso suo; che lui parlava sicondo le grotte di dove egli era
uscito, ma che io gli protestavo bene, che a me riuscirebbe
benissimo il fare delle sue coglionerie, e che a lui non mai
riuscirebbe il far di quella sorte bordellerie. Cosí
partendomi adirato, gli dissi che presto gnene faria vedere.
Quelli che erano alla presenza gli dettono a viva voce il torto,
tenendo lui in concetto di villano come gli era, e me in concetto
di uomo, sí come io avevo mostro.
XXII. Il dí seguente andai a ringraziare madonna Porzia, e
li dissi che Sua Signoria aveva fatto il contrario di quel che la
disse: che volendo io fare che 'l diavolo se ne ridessi, lei di
nuovo l'aveva fatto rinnegare Idio. Piacevolmente l'uno e l'altro
ridemmo, e mi dette da fare altre opere belle e buone. In questo
mezzo io cercai, per via d'un discepolo di Raffaello da Urbino
pittore, che il vescovo Salamanca mi dessi da fare un vaso grande
da acqua, chiamato un'acquereccia<B>, </B>che per
l'uso delle credenze che in sun esse si tengono per ornamento. E
volendo il detto vescovo farne dua di equal grandezza, uno ne
dette da fare al detto Lucagnolo, e uno ne ebbi da fare io; e la
modanatura delli detti vasi, ci dette il disegno quel ditto
Gioanfrancesco pittore. Cosí messi mano con maravigliosa
voglia innel detto vaso, e fui accomodato d'una particina di
bottega da uno Milanese, che si chiamava maestro Giovanpiero della
Tacca. Messomi in ordine, feci il mio conto delli danari che mi
potevano bisognare per alcuna mia affari, e tutto il resto ne
mandai assoccorrere il mio povero buon padre; il quale, mentre che
gli erano pagati in Firenze, s'abbatté per sorte un di
quelli arrabbiati che erano degli Otto a quel tempo che io feci
quel poco del disordine, e ch'egli svillaneggiandolo gli aveva
detto di mandarmi in villa con lanciotti a ogni modo. E
perché quello arrabbiato aveva certi cattivi figliolacci, a
proposito mio padre disse: - A ogniuno piú può
intervenire delle disgrazie, massimo agli uomini collorosi quando
egli hanno ragione, come intervenne al mio figliuolo; ma veggasi
poi del resto della vita sua, come io l'ho virtuosamente saputo
levare. Volesse Idio in vostro servizio, che i vostri figliuoli
non vi facessino né peggio, né meglio di quel che
fanno e mia a me; perché, sí come Idio m'ha fatto
tale che io gli ho saputi allevare, cosí, dove la
virtú mia non ha potuto arrivare, Lui stesso me gli ha
campati, contra il vostro credere, dalle vostre violente mane -. E
partitosi, tutto questo fatto mi scrisse, pregandomi per l'amor di
Dio che io sonassi qualche volta, acciò che io non perdessi
quella bella virtú, che lui con tante fatiche mi aveva
insegnato. La lettera era piena delle piú amorevol parole
paterne che mai sentir si possa; in modo tale che le mi mossono a
pietose lacrime, desiderando prima che lui morissi di contentarlo
in buona parte, quanto al sonare, sí come Idio ci compiace
tutte le lecite grazie che noi fedelmente gli domandiamo.
XXIII.<B> </B>Mentre che io sollecitavo il bel vaso di
Salamanca, e per aiuto avevo solo un fanciulletto, che con
grandissime preghiere d'amici, mezzo contra la mia voglia, avevo
preso per fattorino. Questo fanciullo era di età di
quattordici anni incirca; aveva nome Paulino ed era figliuolo di
un cittadino romano, il quale viveva delle sue entrate. Era questo
Paulino il meglio creato, il piú onesto e il piú
bello figliuolo, che mai io vedessi alla vita mia; e per i sua
onesti atti e costumi, e per la sua infinita bellezza, e per el
grande amore che lui portava a me, avenne che per queste cause io
gli posi tanto amore, quanto in un petto di uno uomo rinchiuder si
possa. Questo sviscerato amore fu causa, che per vedere io
piú sovente rasserenare quel maraviglioso viso, che per
natura sua onesto<B> </B>e maninconico si dimostrava;
pure, quando io pigliavo il mio cornetto, subito moveva un riso
tanto onesto e tanto bello, che io non mi maraviglio punto di
quelle pappolate che scrivono e' Greci degli dèi del cielo.
Questo talvolta, essendo a quei tempi, gli arebbe fatti forse
piú uscire de' gangheri. Aveva questo Paulino una sua
sorela, che aveva nome Faustina, qual penso io che mai Faustina
fussi sí bella, di chi gli antichi libri cicalan tanto.
Menatomi alcune volte alla vigna sua, e per quel che io potevo
giudicare, mi pareva che questo uomo da bene, padre del detto
Paulino, mi arebbe voluto far suo genero. Questa cosa mi causava
molto piú il sonare, che io non facevo prima. Occorse in
questo tempo che un certo Gianiacomo piffero da Cesena, che stava
col Papa, molto mirabil sonatore, mi fece intendere per Lorenzo
tronbone lucchese, il quale è oggi al servizio del nostro
Duca, se io volevo aiutar loro per il Ferragosto del Papa, sonar
di sobrano col mio cornetto quel giorno parecchi mottetti, che
loro bellissimi scelti avevano. Con tutto che io fussi nel
grandissimo desiderio di finire quel mio bel vaso cominciato, per
essere la musica cosa mirabile in sé e per sattisfare in
parte al mio vecchio padre, fui contento far loro tal compagnia: e
otto giorni innanzi al Ferragosto, ogni dí dua ore facemmo
insieme conserto, in modo che il giorno d'agosto andammo in
Belvedere, e in mentre che papa Clemente desinava, sonammo quelli
disciplinati mottetti in modo, che il Papa ebbe a dire non aver
mai sentito musica piú suavemente e meglio unita sonare.
Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che
luogo e in che modo lui aveva fatto a avere cosí buon
cornetto per sobrano, e lo domandò minutamente chi io ero.
Gianiacomo ditto gli disse a punto il nome mio. A questo il Papa
disse: - Adunque questo è il figliuolo di maestro Giovanni?
- Cosí disse che io ero. Il Papa disse che mi voleva al suo
servizio in fra gli altri musici. Gian Iacomo rispose: -
Beatissimo Padre, di questo io non mi vanto che voi lo abbiate,
perché la sua professione, a che lui attende continuamente,
si è l'arte della oreficeria, e in quella opera
maravigliosamente, e tirane molto miglior guadagno che lui non
farebbe al sonare -. A questo il Papa disse: - Tanto meglio li
voglio, essendo cotesta virtú di piú in lui, che io
non aspettavo. Fagli acconciare la medesima provvisione che a voi
altri; e da mia parte digli che mi serva e che alla giornata
ancora innell'altra professione ampliamente gli darò da
fare - e stesa la mana, gli donò in un fazzoletto cento
scudi d'oro di Camera, e disse: - Pàrtigli in modo, che lui
ne abbia la sua parte -. Il ditto Gian Iacomo spiccato dal Papa,
venuto a noi, disse puntatamente tutto quel che il Papa gli aveva
detto; e partito li dinari infra otto compagni che noi eramo, dato
a me la parte mia, mi disse: - Io ti vo a fare scrivere nel numero
delli nostri compagni -. Al quale io dissi: - Lasciate passare
oggi, e domani vi risponderò -. Partitomi da loro, io
andavo pensando se tal cosa io dovevo accettare, considerato
quanto la mi era per nuocere allo isviarmi dai belli studi della
arte mia. La notte seguente mi apparve mio padre in sogno, e con
amorevolissime lacrime mi pregava, che per l'amor di Dio e suo io
fussi contento di pigliare quella tale impresa; a il quali mi
pareva rispondere, che in modo nessuno io non lo volevo fare.
Subito mi parve che in forma orribile lui mi spaventasse, e disse:
- Non lo faccendo arai la paterna maladizione, e faccendolo sia tu
benedetto per sempre da me -. Destatomi, per paura corsi a farmi
scrivere<B>; </B>di poi lo scrissi al mio vecchio
padre, il quale per la soverchia allegrezza gli prese uno
accidente<B>, </B>il quali lo condusse presso alla
morte; e subito mi scrisse d'avere sognato ancora lui quasi che il
medesimo che avevo fatto io.
XXIV. E' mi pareva, veduto di aver sadisfatto alla onesta voglia
del mio buon padre, che ogni cosa mi dovessi succedere a onorata e
gloriosa fine. Cosí mi messi con grandissima sollecitudine
a finire il vaso che cominciato avevo per il Salamanca. Questo
vescovo era molto mirabile uomo, ricchissimo, ma difficile a
contentare: mandava ogni giorno a vedere quel che io facevo; e
quella volta che il suo mandato non mi trovava, il detto Salamanca
veniva in grandissimo furore, dicendo che mi voleva far
tôrre la ditta opera, e darla ad altri a finire. Questo ne
era causa il servire a quel maladetto sonare. Pure con grandissima
sollecitudine mi ero messo giorno e notte, tanto che conduttola a
termine di poterla mostrare al ditto vescovo, lo feci vedere: a il
quali crebbe tanto desiderio di vederlo finito, che io mi penti'
d'arvegnene mostro. In termine di tre mesi ebbi finita la detta
opera con tanti belli animaletti, fogliami e maschere, quante
immaginar si possa. Subito la mandai per quel mio Paulino fattore
a mostrare a quel valente uomo di Lucagnolo detto di sopra; il
qual Paulino, con quella sua infinita grazia e bellezza, disse
cosí: - Misser Lucagnolo, dice Benvenuto che vi manda a
monstrare le sue promesse e vostre coglionerie, aspettando da voi
vedere le sue bordellerie -. Ditto le parole, Lucagniolo prese in
mano il vaso, e guardollo assai; di poi disse a Paulino: - O bello
zittiello, di' al tuo padrone, che egli è un gran valente
uomo, e che io lo priego che mi voglia per amico, e non s'entri in
altro -. Lietissimamente mi fece la imbasciata quello onesto e
mirabil giovanetto. Portossi il ditto vaso al Salamanca, il quali
volse che si facessi stimare. Innella detta istima si intervenne
questo Lucagnolo, il quali tanto onoratamente me lo stimò e
lodò da gran lunga, di quello che io mi pensava. Preso il
ditto vaso, il Salamanca spagnolescamente disse: - Io giuro a Dio,
che tanto voglio stare a pagarlo, quanto lui ha penato a farlo -.
Inteso questo, io malissimo contento mi restai, maladicendo tutta
la Spagna e chi li voleva bene. Era infra gli altri belli
ornamenti un manico tutto di un pezzo a questo vaso,
sottilissimamente lavorato, che per virtú di una certa
molla stava diritto sopra la bocca del vaso. Monstrando un giorno
per boria monsignor ditto a certi sua gentiluomini spagnuoli
questo mio vaso, avenne che un di questi gentiluomini, partito che
fu il ditto monsignore, troppo indiscretamente maneggiando il bel
manico del vaso, non potendo resistere quella gentil molla alla
sua villana forza, in mano al ditto si roppe; e parendoli di aver
molto mal fatto, pregò quel credenzier che n'aveva cura,
che presto lo portasse al maestro che lo aveva fatto, il quali
subito lo racconciassi e li prommettessi tutto il premio che lui
domandava, pur che presto fusse acconcio. Cosí capitandomi
alle mani il vaso, promessi acconciarlo prestissimo, e cosí
feci. Il ditto vaso mi fu portato innanzi mangiare: a ventidua ore
venne quel che me lo aveva portato, il quale era tutto in sudore,
ché per tutta la strada aveva corso, avvengaché
monsignore ancora di nuovo lo aveva domandato per mostrarlo a
certi altri signori. Però questo credenziere non mi
lasciava parlar parola, dicendo: - Presto, presto, porta il vaso
-. Onde io, volontoroso di fare adagio e non gnene dare, dissi che
io non volevo fare presto. Venne il servitore ditto in tanta
furia, che, accennando di mettere mano alla spada con una mana, e
con la altra fece dimostrazione e forza di entrare in bottega; la
qual cosa io subito glie ne 'nterdissi con l'arme, accompagnate
con molte ardite parole, dicendogli: - Io non te lo voglio dare; e
va, di' a monsignore tuo padrone, che io voglio li dinari delle
mie fatiche, prima che egli esca di questa bottega -. Veduto
questo di non aver potuto ottenere per la via delle braverie, si
messe a pregarmi, come si priega la Croce, dicendomi, che se io
gnene davo, farebbe per me tanto, che io sarei pagato. Queste
parole niente mi mossono del mio proposito, sempre dicendogli il
medesimo. Alla fine disperatosi della impresa, giurò di
venire con tanti spagnuoli, che mi arieno tagliati a pezzi; e
partitosi correndo, in questo mezzo io, che ne credevo qualche
parte di questi assassinamenti loro, mi promessi animosamente
difendermi; e messo in ordine un mio mirabile scoppietto, il quale
mi serviva per andare a caccia, da me dicendo: - Chi mi toglie la
roba mia con le fatiche insieme, ancora se gli può
concedere la vita? - in questo contrasto, che da me medesimo
faceva, comparse molti spagnuoli insieme con il loro maestro di
casa, il quale a il lor temerario modo disse a quei tanti, che
entrassin drento, e che togliessino il vaso, e me bastonassino.
Alle qual parole io monstrai loro la bocca dello scoppietto in
ordine col suo fuoco, e ad alta voce gridavo: - Marrani,
traditori, assassinas'egli a questo modo le case e le botteghe in
una Roma? Tanti quanti di voi, ladri, s'appresseranno a questo
isportello, tanti con questo mio istioppo ne farò cader
morti -. E volto la bocca d'esso istioppo al loro maestro di casa,
accennando di trarre, dissi: - E tu ladrone, che gli
ammetti<B>, </B>voglio che sia il primo a morire -.
Subito dette di piede a un giannetto, in su che lui era, e a tutta
briglia si misse a fuggire. A questo gran romore era uscito fuora
tutti li vicini; e di piú passando alcuni gentiluomini
romani, dissono: -Ammazzali pur questi marrani, perché
sarai aiutato da noi -. Queste parole furno di tanta forza, che
molto ispaventati da me si partirno; in modo che, necessitati dal
caso, furno forzati annarrare tutto il caso a monsignor, il quale
era superbissimo, e tutti quei servitori e ministri
isgridò, sí perché loro eran venuti a fare un
tale eccesso, e perché, da poi cominciato, loro non
l'avevano finito. Abbattessi in questo quel pittore che s'era
intervenuto in tal cosa, a il quale monsignore disse che mi
venissi a dire da sua parte, che se io non gli portavo il vaso
subito, che di me il maggior pezzo sarien gli orecchi;<B>
</B>e se io lo portavo, che subito mi darebbe il pagamento
di esso. Questa cosa non mi messe punto di paura, e gli feci
intendere che io lo andrei a dire al Papa subito. Intanto, a lui
passato la stizza e a me la paura, sotto<B> </B>la
fede di certi gran gentiluomini romani che il detto non mi
offenderebbe, e con buona sicurtà del pagamento delle mie
fatiche, messomi in ordine con un gra' pugnale e il mio buon
giaco<B>, </B>giunsi in casa del detto monsignore, il
quale aveva fatto mettere in ordine tutta la sua famiglia.
Entrato, avevo il mio Paulino appresso con il vaso d'argento. Era
né piú né manco come passare per mezzo il
Zodiaco, ché chi contrafaceva il leone, quale lo scorpio,
altri il cancro<B>: </B>tanto che pur giugnemmo alla
presenza di questo pretaccio, il quale sparpagliò le
piú pretesche spagnolissime parole che inmaginar si possa.
Onde io mai alzai la testa a guardarlo, né mai gli risposi
parola. A il quale mostrava di crescere piú la stizza; e
fattomi porgere da scrivere, mi disse che io scrivessi di mia
mano, dicendo d'essere ben contento e pagato da lui. A questo io
alzai la testa e li dissi che molto volentieri lo farei se prima
io avessi li mia dinari. Crebbe còllora<B>
</B>al vescovo; e le bravate e le dispute furno grande. Al
fine prima ebbi li dinari, da poi scrissi, e lieto e contento me
ne andai.
XXV.<B> </B>Da poi lo intese papa Clemente, il quale
aveva veduto il vaso in prima, ma non gli fu mostro per di mia
mano, ne prese grandissimo piacere, e mi dètte molte lode,
e in pubblico disse che mi voleva grandissimo bene; a tale che
monsignore Salamanca molto si pentí d'avermi fatto quelle
sue bravate: e per rappattumarmi, per il medesimo pittore
mi<B> </B>mandò a dire che mi voleva dar da
fare molte grande opere; al quale io dissi che volentieri le
farei, ma volevo prima il pagamento di esse, che io le
cominciassi. Ancora queste parole vènneno agli orecchi di
papa Clemente, le quale lo mossono grandemente a risa. Era alla
presenza il cardinale Cibo<B>, </B>al quali il Papa
contò tutta la diferenza che io avevo aùto con
questo vescovo; di poi si volse a un suo ministro, e li
comandò che continuamente mi dessi da fare per il palazzo.
Il ditto cardinal Cibo mandò per me, e doppo molti
piacevoli ragionamenti, mi dette da fare un vaso grande, maggior
che quello del Salamanca; cosí il cardinal Cornaro e molti
altri di quei cardinali, massimamente Ridolfi e Salviati:<B>
</B>da tutti avevo da fare, in modo che io guadagnavo molto
bene. Madonna Porzia sopra ditta mi disse che io dovessi aprire
una bottega che fusse tutta mia: e io cosí feci, e mai
restavo di lavorare per quella gentile donna da bene, la quale mi
dava assaissimo guadagno, e quasi per causa sua istessa m'ero
mostro al mondo uomo da qualcosa. Presi grande amicizia col signor
Gabbriello Ceserino, il quale era gonfaloniere di Roma: a questo
signore io li feci molte opere. Una infra le altre notabile:
questa fu una medaglia grande d'oro da portare in un cappello:
dentro isculpito in essa medaglia si era Leda col suo cigno; e
sadisfattosi assai delle mie fatiche, disse che voleva farla
istimare per pagarmela il giusto prezzo. E perché la
medaglia era fatta con gran disciplina, quelli stimatori della
arte la stimarono molto piú che lui non s'immaginava:
cosí tenendosi la medaglia in mano, nulla ne ritraevo delle
mie fatiche. Occorse il medesimo caso di essa medaglia che quello
del vaso del Salamanca. E perché queste cose non mi tolgano
il luogo da dire cose di maggiore importanza, cosí
brevemente le passerò.
XXVI. Con tutto che io esca alquanto della mia professione,
volendo descrivere la vita mia, mi sforza qualcuna di queste cotal
cose non già minutamente descriverle, ma sí bene
soccintamente accennarle. Essendo una mattina del nostro San
Giovanni a desinare insieme con molti della nazion nostra, di
diverse professione, pittori, scultori, orefici; infra li altri
notabili uomini ci era uno domandato il Rosso pittore, e
Gianfrancesco discepolo di Raffaello da Urbino, e molti altri. E
perché in quel luogo io gli avevo condotti liberamente,
tutti ridevano e motteggiavano, secondo che promette lo essere
insieme quantità di uomini, rallegrandosi di una tanto
maravigliosa festa. Passando a caso un giovane isventato,
bravaccio, soldato del signor Rienzo da Ceri, a questi romori,
sbeffando disse molte parole inoneste della nazione fiorentina.
Io, che era guida di quelli tanti virtuosi e uomini da bene,
parendomi essere lo offeso, chetamente, sanza che nessuno mi
vedessi, questo tale sopragiunsi, il quale era insieme con una sua
puttana, che per farla ridere, ancora seguitava di fare quella
scornacchiata. Giunto a lui, lo domandai se egli era quello
ardito, che diceva male de' Fiorentini. Subito disse: - Io son
quello -. Alle quale parole io alzai la mana dandogli in sul viso,
e dissi: - E io son questo -. Subito messo mano all'arme l'uno e
l'altro arditamente, ma non sí tosto cominciato tal briga,
che molti entrorno di mezzo, piú presto pigliando la parte
mia che altrimenti, essentito e veduto che io avevo ragione.
L'altro giorno a presso mi fu portato un cartello di disfida per
combattere seco, il quale io accettai molto lietamente, dicendo
che questa mi pareva impresa da spedirla molto piú presto
che quelle di quella altra arte mia: e subito me ne andai a
parlare a un vechione chiamato il Bevilacqua<B>,
</B>il quale aveva nome d'essere stato la prima spada di
Italia, perché s'era trovato piú di venti volte
ristretto in campo franco e sempre ne era uscito a onore. Questo
uomo da bene era molto mio amico, e conosciutomi per virtú
della arte mia, e anche s'era intervenuto in certe terribil
quistione infra me e altri. Per la qual cosa lui lietamente subito
mi disse: - Benvenuto mio, se tu avessi da fare con Marte, io son
certo che ne usciresti a onore, perché di tanti anni,
quant'io ti conosco, non t'ho mai veduto pigliare nessuna briga a
torto -. Cosí prese la mia impresa, e conduttoci in luogo
con l'arme in mano, sanza insanguinarsi, restando dal mio
avversario, con molto onore usci' di tale inpresa. Non dico altri
particolari; che se bene sarebbono bellissimi da sentire in tal
genere, voglio riserbare queste parole a parlare de l'arte mia,
quale è quella che m'ha mosso a questo tale iscrivere; e in
essa arò da dire pur troppo. Se bene mosso da una onesta
invidia, desideroso di fare qualche altra opera che aggiugnessi e
passassi ancora quelle del ditto valente uomo Lucagnolo, per
questo non mi scostavo mai da quella mia bella arte del
gioiellare; in modo che infra l'una e l'altra mi recava molto
utile e maggiore onore, e innell'una e nella altra continuamente
operavo cose diverse dagli altri. Era in questo tempo a Roma un
valentissimo uomo perugino per nome Lautizio, il quale lavorava
solo di una professione, e di quella era unico al mondo. Avenga
che a Roma ogni cardinale tiene un suggello, innel quale è
impresso il suo titolo, questi suggelli si fanno grandi quanti
è tutta una mana di un piccol putto di dodici anni incirca:
e sí come io ho detto di sopra, in essa si intaglia quel
titolo del cardinale, nel quale s'interviene moltissime figure:
pagasi l'uno di questi suggelli ben fatti cento e piú di
cento scudi. Ancora a questo valente uomo io portavo una onesta
invidia; se bene questa arte è molto appartata<B>
</B>da l'altre arti che si intervengono nella<B>
</B>oreficeria; perché questo Lautizio, faccendo
questa arte de' suggelli, non sapeva fare altro. Messomi a
studiare ancora in essa arte, se bene difficilissima la trovavo,
non mai stanco per fatica che quella mi dessi, di continuo
attendevo a guadagnare e a imparare. Ancora era in Roma un altro
eccellentissimo valente uomo, il quale era milanese e si domandava
per nome misser Caradosso. Questo uomo lavorava solamente di
medagliette cesellate fatte di piastra, e molte altre cose; fece
alcune Pace<B> </B>lavorate di mezzo rilievo, e certi
Cristi di un palmo, fatti di piastre sottilissime d'oro, tanto ben
lavorate, che io giudicavo questo essere il maggior maestro che
mai di tal cose io avessi visto, e di lui piú che di
nessuno altro avevo invidia. Ancora c'era altri maestri, che
lavoravano di medaglie intagliate in acciaio, le quali son le
madre e la vera guida a coloro che vogliono sapere fare benissimo
le monete. Attutte queste diverse professioni con grandissimo
studio mi mettevo a impararle. Écci ancora la bellissima
arte dello smaltare, quale io non viddi mai far bene ad altri, che
a un nostro fiorentino chiamato Amerigo, quale io non cognobbi, ma
ben cognobbi le maravigliosissime opere sue; le quali in parte del
mondo, né da uomo mai, non viddi chi s'appressassi di gran
lunga a tal divinità. Ancor a questo esercizio molto
difficilissimo rispetto al fuoco, che nelle finite gran fatiche
per ultimo si interviene, e molte volte le guasta e manda in
ruina, ancora a questa diversa professione con tutto il mio potere
mi messi; e se bene molto difficile io la trovavo, era tanto il
piacere che io pigliavo, che le ditte gran difficultà mi
pareva che mi fussin riposo: e questo veniva per uno espresso dono
prestatomi dallo Idio della natura d'una complessione tanto buona
e ben proporzionata, che liberamente io mi prommettevo dispor di
quella tutto quello che mi veniva in animo di fare. Queste
professione ditte sono assai e molto diverse l'una dall'altra; in
modo che chi fa bene una di esse, volendo fare le altre, quasi a
nissuno non riesce come quella che fa bene; dove che io
ingegnatomi con tutto il mio potere di tutte queste professione
equalmente operare; e al suo luogo mostrerrò tal cosa aver
fatta, sí come io dico.
XXVII. In questo tempo, essendo io ancora giovane di
ventitré anni in circa, si risentí un morbo
pestilenziale tanto inistimabile, che in Roma ogni dí ne
moriva molte migliaia. Di questo alquanto spaventato, mi cominciai
a pigliare certi piaceri, come mi dittava l'animo, pure causati da
qualcosa che io dirò. Perché io me ne andavo il
giorno della festa volentieri alle anticaglie<B>,
</B>ritraendo di quelle or con cera or con disegno; e
perché queste ditte anticaglie sono tutte rovine, e infra
quelle ditte ruine cova assaissimi colombi, mi venne voglia di
adoperare contra essi lo scoppietto: in modo che per fuggire il
commerzio, spaventato dalla peste, mettevo uno scoppietto in
ispalla al mio Pagolino, e soli lui e io ce ne andavamo alle ditte
anticaglie. Il che ne seguiva che moltissime volte ne tornavo
carico di grassissimi colombi. Non mi piaceva di mettere innel mio
scoppietto altro che una sola palla, e cosí per vera
virtú di quella arte facevo gran caccie. Tenevo uno
scoppietto diritto, di mia mano; e drento e fuora non fu mai
specchio da vedere tale. Ancora facevo di mia mano la finissima
polvere da trarre, innella quale io trovai i piú bei
segreti, che mai per insino a oggi da nessuno altro si sieno
trovati; e di questo, per non mi ci stendere molto, solo
darò un segno da fare maravigliare tutti quei che son
periti in tal professione. Questo si era, che con la quinta parte
della palla il peso della mia polvere, detta palla mi portava
ducento passi andanti in punto bianco. Se bene il gran piacere,
che io traevo da questo mio scoppietto, mostrava di sviarmi dalla
arte e dagli studii mia, ancora che questo fussi la verità,
in uno altro modo mi rendeva molto piú di quel che tolto mi
aveva: il perché si era, che tutte le volte che io andavo a
questa mia caccia, miglioravo la vita mia grandemente,
perché l'aria mi conferiva forte. Essendo io per natura
malinconico, come io mi trovavo a questi piaceri, subito mi si
rallegrava il cuore, e venivami meglio operato e con piú
virtú assai, che quando io continuo stavo a' miei studii ed
esercizii; di modo che lo scoppietto alla fin del giuoco mi stava
piú a guadagno che a perdita. Ancora, mediante questo mio
piacere, m'avevo fatto amicizie di certi cercatori, li quali
stavano alle velette di certi villani lombardi, che venivano al
suo tempo a Roma a zappare le vigne. Questi tali innel zappare la
terra sempre trovavono medaglie antiche, agate, prasme, corniuole,
cammei: ancora trovavano delle gioie, come s'è dire
ismeraldi, zaffini, diamanti e rubini. Questi tali cercatori da
quei tai villani avevano alcuna volta per pochissimi danari di
queste cose ditte; alle quali io alcuna volta, e bene spesso,
sopragiunto i cercatori, davo loro tanti scudi d'oro, molte volte
di quello che loro appena avevano compero tanti giuli. Questa
cosa, non istante il gran guadagno che io ne cavavo, che era per
l'un dieci o piú, ancora mi facevo benivolo quasi attutti
quei cardinali di Roma. Solo dirò di queste qualcuna di
quelle cose notabile e piú rare. Mi capitò alle
mane, infra tante le altre, una testa di un dalfino grande
quant'una fava da partito grossetta. Infra le altre, non istante
che questa testa fusse bellissima, la natura in questo molto sopra
faceva la arte; perché questo smiraldo era di tanto buon
colore, che quel tale che da me lo comperò a decine di
scudi, lo fece acconciare a uso di ordinaria pietra da portare in
anello: cosí legato lo vendé centinaia. Ancora un
altro genere di pietra: questo si fu una testa del piú bel
topazio, che mai fusse veduto al mondo: in questo l'arte adeguava
la natura. Questa era grande quant'una grossa nocciuola, e la
testa si era tanto ben fatta quanto inmaginar si possa: era fatta
per Minerva. Ancora un'altra pietra diversa da queste: questo fu
un cammeo: in esso intagliato uno Ercole che legava il trifauce
Cerbero. Questo era di tanta bellezza e di tanta virtú ben
fatto, che il nostro gran Michelagnolo ebbe a dire non aver mai
veduto cosa tanto maravigliosa. Ancora infra molte medaglie di
bronzo, una me ne capitò, nella quale era la testa di Iove.
Questa medaglia era piú grande che nessuna che veduto mai
io ne avessi: la testa era tanto ben fatta, che medaglia mai si
vidde tale. Aveva un bellissimo rovescio di alcune figurette
simili allei fatte bene. Arei sopra di questo da dire di molte
gran cose, ma non mi voglio stendere per non essere troppo lungo.
XXVIII. Come di sopra dissi, era cominciato la peste in Roma: se
bene io voglio ritornare un poco indietro, per questo non
uscirò del mio proposito. Capitò a Roma un
grandissimo cerusico, il quale si domandava maestro Iacomo da
Carpi. Questo valente uomo, infra gli altri sua medicamenti, prese
certe disperate<B> </B>cure di mali franzesi. E
perché questi mali in Roma sono molto amici de' preti,
massime di quei piú ricchi, fattosi cognoscere questo
valente uomo, per virtú di certi profumi mostrava di sanare
maravigliosamente queste cotai infirmità, ma voleva far
patto prima che cominciassi a curare; e' quali patti, erano a
centinaia e non a decine. Aveva questo valente uomo molta
intelligenzia del disegno. Passando un giorno a caso della mia
bottega, vidde a sorta certi disegni che io avevo innanzi, in fra'
quali era parecchi bizzarri vasetti, che per mio piacere avevo
disegnati. Questi tali vasi erano molto diversi e varii da tutti
quelli che mai s'erano veduti insino a quella età. Volse il
ditto maestro Iacomo che io gnene facessi d'argento; i quali io
feci oltra modo volentieri, per essere sicondo il mio capriccio.
Con tutto che il ditto valente uomo molto bene me gli pagasse, fu
l'un cento maggiore l'onore che mi apportorno; perché in
nella arte di quei valenti uomini orefici dissono non aver mai
veduto cosa piú bella né meglio condotta. Io non gli
ebbi sí tosto forniti, che questo uomo li mostrò al
Papa; e l'altro dí dapoi s'andò con Dio. Era molto
litterato: maravigliosamente parlava della medicina. Il Papa volse
che lui restassi al suo servizio; e questo uomo disse, che non
voleva stare al servizio di persona del mondo; e che chi aveva
bisogno di lui, gli andassi dietro. Egli era persona molto astuta,
e saviamente fece a 'ndarsene di Roma; perché non molti
mesi apresso tutti quelli che egli aveva medicati si condusson
tanto male, che l'un cento eran peggio che prima: sarebbe stato
ammazzato, se fermato si fussi. Mostrò li mia vasetti in
fra molti signori; in fra li altri allo eccellentissimo duca di
Ferrara; e disse, che quelli lui li aveva aúti da un gran
signore in Roma, dicendo a quello, se lui voleva essere curato
della sua infirmità, voleva quei dua vasetti; e che quel
tal signore gli aveva detto, ch'egli erano antichi, e che di
grazia gli chiedesse ogni altra cosa, qual non gli parrebbe grave
a dargnene, purché quelli gnene lasciassi: disse aver fatto
sembiante non voler medicarlo, e però gli ebbe. Questo me
lo disse misser Alberto Bendedio in Ferrara, e con gran sicumera
me ne mostrò certi ritratti di terra; al quali io mi risi;
e non dicendo altro, misser Alberto Bendedio, che era uomo
superbo, isdegnato mi disse: - Tu te ne ridi, eh? e io ti dico che
da mill'anni in qua non c'è nato uomo che gli sapessi
solamente ritrarre -. E io, per non tor loro quella riputazione,
standomi cheto, stupefatto gli ammiravo. Mi fu detto in Roma da
molti signori di questa opera, che a lor pareva miracolosa e
antica; alcuni di questi, amici mia; e io baldanzoso di tal
faccenda, confessai d'averli fatti io. Non volendo crederlo,
ond'io volendo restar veritiero a quei tali, n'ebbi a dare
testimonianza a farne nuovi disegni; ché quella non
bastava, avenga che li disegni vecchi il ditto maestro Iacomo
astutamente portar se gli volse. In questa piccola operetta io ci
acquistai assai.
XXIX. Seguitando apresso la peste molti mesi, io mi ero
scaramucciato, perché mi era morti di molti compagni, ed
ero restato sano e libero. Accadde una sera in fra le altre, un
mio confederato compagno menò in casa a cena una meretrice
bolognese, che si domandava Faustina. Questa donna era bellissima,
ma era di trenta anni in circa, e seco aveva una servicella di
tredici in quattordici. Per essere la detta Faustina cosa del mio
amico, per tutto l'oro del mondo io non l'arei tocca. Con tutto
che la dicesse essere di me forte innamorata, constantemente
osservavo la fede allo amico mio; ma poi che a letto furno, io
rubai quella servicina, la quali era nuova nuova<B>,
</B>ché guai allei se la sua padrona lo avessi
saputo. Cosí godetti piacevolmente quella notte con molta
piú mia sadisfazione, che con la patrona Faustina fatto non
arei. Apressandosi all'ora del desinare, onde io stanco, che molte
miglia avevo camminato, volendo pigliare il cibo, mi prese un gran
dolore di testa, con molte anguinaie nel braccio manco,
scoprendomisi un carbonchio nella nocella della mana manca, dalla
banda di fuora. Spaventato ugnuno in casa, lo amico mio, la vacca
grossa e la minuta tutte fuggite, onde io restato solo con un
povero mio fattorino, il quale mai lasciar mi volse, mi sentivo
soffocare il cuore, e mi conoscevo certo esser morto. In questo,
passando per la strada il padre di questo mio fattorino, il quale
era medico del cardinale Iacoacci e a sua provisione stava, disse
il detto fattore al padre: - Venite, mio padre, a veder Benvenuto,
il quale è con un poco di indisposizione a letto -. Non
considerando quel che la indisposizione potessi essere, subito
venne a me, e toccatomi il polso, vide e sentí quel che lui
volsuto non arebbe. Subito vòlto al figliuolo, gli disse: -
O figliuolo traditore, tu m'hai rovinato: come poss'io piú
andare innanzi al cardinale? - A cui il figliuol disse: - Molto
piú vale, mio padre, questo mio maestro, che quanti
cardinali ha Roma -. Allora il medico a me si volse, e disse: - Da
poi che io son qui, medicare ti voglio. Solo di una cosa ti fo
avvertito, che avendo usato il coito, se' mortale -. Al quali io
dissi: - Hollo usato questa notte -. A questo disse il medico: -
In che creatura, e quanto? - E gli dissi: - La notte passata, e
innella giovinissima fanciulletta -. Allora avvedutosi lui delle
sciocche parole usate, subito mi disse: - Sí per esser
giovini a cotesto modo, le quali ancor non putano, e per essere a
buona ora il rimedio, non aver tanta paura, chi io spero per ogni
modo guarirti -. Medicatomi, e partitosi, subito comparse un mio
carissimo amico, chiamato Giovanni Rigogli, il quali,
increscendoli e del mio gran male e dell'essere lasciato
cosí solo da il compagno mio, disse: - Non ti dubitare,
Benvenuto mio, che io mai non mi spiccherò da te, per infin
che guarito io non ti vegga -. Io dissi a questo amico, che non si
appressassi a me, perché spacciato ero. Solo lo pregavo che
lui fussi contento di pigliare una certa buona quantità di
scudi che erano in una cassetta quivi vicina al mio letto, e
quelli, di poi che Idio mi avessi tolto al mondo, gli mandassi a
donare al mio povero padre, scrivendogli piacevolmente, come
ancora io avevo fatto sicondo l'usanza che prommetteva quella
arrabbiata istagione. Il mio caro amico mi disse non si voler da
me partir in modo alcuno, e quello che da poi occorressi
innell'uno o innell'altro modo, sapeva benissimo quel che si
conveniva fare per lo amico. E cosí passammo innanzi con lo
aiuto di Dio: e con i maravigliosi rimedi cominciato a pigliare
grandissimo miglioramento, presto a bene di quella grandissima
infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta, dentrovi la
tasta e un piastrello sopra, me ne andai in sun un mio<B>
</B>cavallino salvatico, il quale io avevo. Questo aveva i
peli lunghi piú di quattro dita; era a punto grande come un
grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne
andai a trovare il Rosso pittore,<B> </B>il quale era
fuor di Roma in verso Civitavecchia, a un luogo del conte
dell'Anguillara, detto Cervetera, e trovato il mio Rosso, il quale
oltra modo si rallegrò, onde io gli dissi: - I' vengo a
fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi sono -. Cacciatosi
subito a ridere, e abracciatomi e baciatomi, appresso mi disse,
che per amor del conte io stessi cheto. Cosí filicemente e
lieti con buon vini e ottime vivande, accarezzato dal ditto conte,
in circa a un mese ivi mi stetti, e ogni giorno soletto me ne
andavo in sul lito del mare, e quivi smontavo, caricandomi di
piú diversi sassolini, chiocciolette e nicchi rari e
bellissimi. L'ultimo giorno, che poi piú non vi andai, fui
assaltato da molti uomini, li quali, travestitisi, eran discesi
d'una fusta di Mori; e pensandosi d'avermi in modo ristretto a un
certo passo, il quali non pareva possibile a scampar loro delle
mani, montato subito in sul mio cavalletto, resolutomi al
periglioso passo quivi d'essere o arosto o lesso, perché
poca speranza vedevo di scappare di uno delli duoi modi, come
volse Idio, il cavalletto, che era qual di sopra io dissi,
saltò quello che è impossibile a credere; onde io
salvatomi ringraziai Idio. Lo dissi al conte: lui dette a l'arme:
si vidde le fuste in mare. L'altro giorno apresso sano e lieto me
ne ritornai in Roma.
XXX. Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli
che si ritrovavono vivi molto allegramente l'un l'altro si
carezavano. Da questo ne nacque una compagnia di pittori,
scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; e il fondatore
di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo.
Questo Michelagnolo era sanese, ed era molto valente uomo, tale
che poteva comparire in fra ogni altri di questa professione, ma
sopra tutto era questo uomo il piú piacevole e il
piú carnale che mai si cognoscessi al mondo. Di questa
detta compagnia lui era il piú vecchio, ma sí bene
il piú giovane alla valitudine del corpo. Noi ci
ritrovavomo spesso insieme; il manco si era due volte la
settimana. Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si
era Giulio Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi
del gran Raffaello da Urbino. Essendoci trovati piú e
piú volte insieme, parve a quella nostra buona guida che la
domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua, e che
ciascuno di noi fussi<B> </B>ubbrigato a menare la sua
cornacchia, ché tal nome aveva lor posto il ditto
Michelagnolo; e chi non la menassi, fussi ubbrigato a pagare una
cena attutta la compagnia. Chi di noi non aveva pratica di tal
donne di partito, con non poca sua spesa e disagio se n'ebbe
approvvedere, per non restare a quella virtuosa cena svergognato.
Io, che mi pensavo d'essere provisto bene per una giovane molto
bella, chiamata Pantassilea, la quali era grandemente innamorata
di me, fui forzato a concederla a un mio carissimo amico, chiamato
il Bachiacca il quali era stato ed era ancora grandemente
innamorato di lei. In questo caso si agitava un pochetto di
amoroso isdegno, perché veduto che alla prima parola io la
concessi al Bachiacca, parve a questa donna che io tenessi molto
poco conto del grande amore che lei mi portava; di che ne nacque
una grandissima cosa in ispazio di tempo, volendosi lei vendicare
della ingiuria ricevuta da me; la qualcosa dirò poi al suo
luogo. Avvenga che l'ora si cominciava a pressare di appresentarsi
alla virtuosa compagnia ciascuno con la sua cornacchia, e io mi
trovavo senza e pur troppo mi pareva fare errore mancare di una
sí pazza cosa; e quel che piú mi teneva si era che
io non volevo menarvi sotto il mio lume, in fra quelle
virtú tali, qualche spennacchiata cornacchiuccia; pensai a
una piacevolezza per acrescere alla lietitudine maggiore risa.
Cosí risolutomi, chiamai un giovinetto de età di
sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di uno
ottonaio spagnuolo. Questo giovine attendeva alle lettere latine
ed era molto istudioso. Avea nome Diego: era bello di persona,
maraviglioso di color di carne: lo intaglio della testa sua era
assai piú bello che quello antico di Antino e molte volte
lo avevo ritratto; di che ne aveva aùto molto onore nelle
opere mie. Questo non praticava con persona, di modo che non era
cognusciuto: vestiva molto male e accaso: solo era innamorato dei
suoi maravigliosi studi. Chiamato in casa mia, lo pregai che mi si
lasciassi addobbare di quelle veste femminile che ivi erano
apparecchiare. Lui fu facile e presto si vestí, e io con
bellissimi modi di acconciature presto accresce' gran bellezze al
suo bello viso: messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi dua
grosse e belle perle - li detti anelli erano rotti; solo
istrignevano gli orecchi, li quali parevano che bucati fussino -;
da poi li messi al collo collane d'oro bellissime e ricchi
gioielli: cosí acconciai le belle mane di anella. Da poi
piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio
grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza
disse: - Oimè, è quel, Diego? - Allora io dissi: -
Quello è Diego, il quale io non domandai mai di sorte
alcuna piacere: solo ora priego quel Diego, che mi compiaccia di
uno onesto piacere: e questo si è, che in quel proprio
abito - io volevo che venissi a cena con quella virtuosa
compagnia, che piú volte io gli avevo ragionato. Il giovane
onesto, virtuoso e savio, levato da sé quella baldanza,
volto gli occhi a terra, stette cosí alquanto senza dir
nulla: di poi in un tratto alzato il viso, disse: - Con Benvenuto
vengo; ora andiamo -. Messoli in capo un grainde sciugatoio, il
quale si domanda in Roma un panno di state, giunti al luogo, di
già era comparso ugniuno, e tutti fattimisi incontro: il
ditto Michelagnolo era messo in mezzo da Iulio e da
Giovanfrancesco. Levato lo sciugatoio di testa a quella mia bella
figura, quel Michelagnolo - come altre volte ho detto, era il
piú faceto e il piú piacevole che inmaginar si possa
- appiccatosi con tutte a dua le mane, una a Iulio e una a
Gianfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li fece abbassare,
e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava
tutti e' populi dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli
Angeli del Paradiso! che con tutto che si chiamino Angeli, mirate
che v'è ancora delle Angiole - e gridando diceva
O Angiol bella, o Angiol degna,
tu mi salva, e tu mi segna.
A queste parole la piacevol creatura ridendo alzò la mana
destra, e gli dette una benedizion papale con molte piacevol
parole. Allora rizzatosi Michelagnolo, disse che al Papa si
baciava i piedi e che agli Angeli si baciava le gote: e
cosí fatto, grandemente arrossí il giovane, che per
quella causa si accrebbe bellezza grandissima. Cosí andati
innanzi, la stanza era piena di sonetti, che ciascun di noi aveva
fatti, e mandatigli a Michelagnolo. Questo giovine li
cominciò a leggere, e gli lesse tutti: accrebbe alle sue
infinite bellezze tanto, che saria inpossibile il dirlo. Di poi
molti ragionamenti e maraviglie, ai quali io non mi voglio
stendere, che non son qui per questo: solo una parola mi sovvien
dire, perché la disse quel maraviglioso Iulio pittore, il
quale virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno,
ma piú affisato le donne che altri, voltosi a Michelagnolo,
cosí disse: - Michelagnolo mio caro, quel vostro nome di
cornacchie oggi a costoro sta bene, benché le sieno qualche
cosa manco belle che cornacchie apresso a uno de' piú bei
pagoni che immaginar si possa -. Essendo presto e in ordine le
vivande, volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di
volere essere lui quel che a tavola ci mettessi. Essendogli tutto
concesso, preso per mano le donne, tutte le accomodò per di
dentro e la mia in mezzo; dipoi tutti gli uomini messe di fuori, e
me in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore. Era ivi
per ispalliera alle donne un tessuto di gelsumini naturali e
bellissimi, il quale faceva tanto bel campo a quelle donne,
massimo alla mia, che impossibile saria il dirlo con parole.
Cosí seguitammo ciascuno di bonissima voglia quella ricca
cena, la quale era abundantissima a maraviglia. Di poi che avemmo
cenato, venne un poco di mirabil musica di voce insieme con
istrumenti: e perché cantavano e sonavano con i libri
inanzi, la mia bella figura chiese da cantare la sua parte; e
perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che
l'altre, dette tanto maraviglia, che li ragionamenti che faceva
Iulio e Michelagnolo non erano piú in quel modo di prima
piacevoli, ma erano tutti di parole grave, salde e piene di
stupore. Apresso alla musica, un certo Aurelio Ascolano, che
maravigliosamente diceva allo improviso, cominciatosi a lodar le
donne con divine e belle parole, in mentre che costui cantava,
quelle due donne, che avevano in mezzo quella mia figura, non mai
restate di cicalare; che una di loro diceva innel modo che la fece
a capitar male, l'altra domandava la mia figura in che modo lei
aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo egli era che
l'era arrivata in Roma, e molte di queste cose tale. Egli è
il vero che se io facessi solo per descrivere cotai piacevolezze,
direi molti accidenti che vi accaddono, mossi da quella
Pantassilea, la quale forte era innamorata di me: ma per non
essere innel mio proposito, brevemente li passo. Ora, venuto
annoia questi ragionamenti di quelle bestie donne alla mia figura,
alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta Pomona,
volendosi spiccare da quelli sciocchi ragionamenti di coloro, si
scontorceva ora in sun una banda ora in su l'altra. Fu domandata
da quella femmina, che aveva menata Iulio, se lei si sentiva
qualche fastidio. Disse che sí, e che si pensava d'esser
grossa di qualche mese, e che si sentiva dar noia alla donna del
corpo. Subito le due donne, che in mezzo l'avevano, mossosi a
pietà di Pomona, mettendogli le mane al corpo, trovorno che
l'era mastio. Tirando presto le mani a loro con ingiuriose parole,
quali si usano dire ai belli giovanetti, levatosi da tavola subito
le grida spartesi e con gran risa e con gran maraviglia, il fiero
Michelagnolo chiese licenzia da tutti di poter darmi una
penitenzia a suo modo. Avuto il sí, con grandissime gride
mi levò di peso, dicendo: - Viva il Signore: viva il
Signore - e disse, che quella era la condannagione che io
meritavo, aver fatto un cosí bel tratto. Cosí
finí la piacevolissima cena e la giornata; e ugniun di noi
ritornò alle case sue.
XXXI. Se io volessi descrivere precisamente quale e quante erano
le molte opere, che a diverse sorte di uomini io faceva, troppo
sarebbe lungo il mio dire. Non mi occorre per ora dire altro, se
none che io attendevo con ogni sollecitudine e diligenzia a farmi
pratico in quella diversità e differenzia di arte, che di
sopra ho parlato. Cosí continuamente di tutte lavoravo: e
perché non m'è venuto alla mente ancora occasione di
descrivere qualche mia opera notabile, aspetterò di porle
al suo luogo; che presto verranno. Il detto Michelagnolo sanese
scultore in questo tempo faceva la sepoltura de il morto papa
Adriano. Iulio Romano pittore ditto se ne andò a servire il
marchese di Mantova. Gli altri compagni si ritirorno chi in qua e
chi in là a sue faccende: in modo che la ditta virtuosa
compagnia quasi tutta si disfece. In questo tempo mi capitò
certi piccoli pugnaletti turcheschi, ed era di ferro il manico
sí come la lama del pugnale: ancora la guaina era di ferro
similmente. Queste ditte cose erano intagliate, per virtú
di ferri, molti bellissimi fogliami alla turchesca, e
pulitissimamente commessi d'oro: la qual cosa mi incitò
grandemente a desiderio di provarmi ancora a affaticarmi in quella
professione tanto diversa da l'altre: e veduto ch'ella benissimo
mi riusciva, ne feci parecchi opere. Queste tali opere erano molto
piú belle e molto piú istabile che le turchesche,
per piú diverse cause. L'una si era che in e' mia acciai io
intagliavo molto profondamente a sotto squadro; che tal cosa non
si usava per i lavori turcheschi. L'altra si era che li fogliami
turcheschi non sono altro che foglie di gichero con alcuni
fiorellini di clizia; se bene hanno qualche poco di grazia, la non
continua di piacere, come fanno i nostri fogliami. Benché
innell'Italia siamo diversi di modo di fare fogliami;
perché i Lombardi fanno bellissimi fogliami ritraendo
foglie de elera e di vitalba con bellissimi girari, le quali fanno
molto piacevol vedere; li Toscani e i Romani in questo genere
presono molto migliore elezione, perché contra fanno le
foglie d'acanto, detta branca orsina, con i sua festuchi e fiori,
girando in diversi modi; e in fra i detti fogliami viene benissimo
accomodato alcuni uccelletti e diversi animali, qual si vede chi
ha buon gusto. Parte ne truova naturalmente nei fiori salvatici,
come è quelle che si chiamano bocche di lione, che
cosí in alcuni fiori si discerne, accompagnate con altre
belle inmaginazione di quelli valenti artefici: le qual cose son
chiamate, da quelli che non sanno, grottesche. Queste grottesche
hanno acquistato questo nome dai moderni, per essersi trovate in
certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali caverne
anticamente erano camere, stufe, studii, sale e altre cotai cose.
Questi studiosi trovandole in questi luoghi cavernosi, per essere
alzato dagli antichi in qua il terreno e restare quelle in basso,
e perché il vocabolo chiama quei luoghi bassi in Roma,
grotte; da questo si acquistorno il nome di grottesche. Il qual
non è il suo nome; perché sí bene, come gli
antichi si dilettavano di comporre de' mostri usando con capre,
con vacche e con cavalle, nascendo questi miscugli gli domandavono
mostri; cosí quelli artefici facevano con i loro fogliami
questa sorte di mostri: e mostri è 'l vero lor nome e non
grottesche. Faccendo io di questa sorte fogliami commessi nel
sopra ditto modo, erano molto piú belli da vedere che li
turcheschi. Accadde in questo tempo che in certi vasi, i quali
erano urnette antiche piene di cenere, fra essa cenere si
trovò certe anella di ferro commessi d'oro insin dagli
antichi, e in esse anella era legato un nicchiolino in ciascuno.
Ricercando quei dotti, dissono che queste anella le portavono
coloro che avevano caro di star saldi col pensiero in qualche
stravagante accidente avvenuto loro cosí in bene come in
male. A questo io mi mossi, a requisizione di certi signori molto
amici miei e feci alcune di queste anellette; ma le facevo di
acciaro ben purgato: di poi, bene intagliate e commesse d'oro,
facevano bellissimo vedere; e fu talvolta che di uno di questi
anelletti, solo delle mie fatture, ne ebbi piú di quaranta
scudi. Se usava in questo tempo alcune medagliette d'oro, che ogni
signore e gentiluomo li piaceva fare scolpire in esse un suo
capriccio o impresa; e le portavano nella berretta. Di queste
opere io ne feci assai, ed erano molto difficile a fare. E
perché il gran valente uomo ch'io dissi, chiamato
Caradosso, ne fece alcune, le quali come erano di piú di
una figura non voleva manco che cento scudi d'oro de l'una; la
qual cosa, non tanto per il premio quanto per la sua
tardità, io fui posto innanzi a certi signori, ai quali
infra l'altre feci una medaglia a gara di questo gran valent'uomo,
innella qual medaglia era quattro figure, intorno alle quali io mi
ero molto affaticato. Accadde che li detti gentiluomini e signori,
ponendola accanto a quella del maraviglioso Caradosso, dissono che
la mia era assai meglio fatta e piú bella, e che io
domandassi quel che io volevo delle fatiche mie; perché,
avendo io loro tanto ben satisfatti, che loro me voleano satisfare
altanto. Ai quali io dissi, che il maggior premio alle fatiche mie
e quello che io piú desiderava, si era lo aggiugnere
appresso alle opere di un cosí gran valent'uomo, e che, se
allor Signorie cosí paressi, io pagatissimo mi domandavo.
Cosí partitomi subito, quelli mi mandorno appresso un tanto
liberalissimo presente, che io fui contento, e mi crebbe tanto
animo di far bene, che fu causa di quello che per lo avvenire si
sentirà.
XXXII<B>. </B>Se bene io mi discosterò alquanto
dalla mia professione, volendo narrare alcuni fastidiosi accidenti
intervenuti in questa mia travagliata vita; e perché avendo
narrato per l'adrieto di quella virtuosa compagnia e delle
piacevolezze accadute per conto di quella donna che io dissi,
Pantassilea; la quale mi portava quel falso e fastidioso amore; e
isdegnata grandissimamente meco per conto di quella piacevolezza,
dove era intervenuto a quella cena Diego spagnuolo di già
ditto, lei avendo giurato vendicarsi meco, nacque una occasione,
che io descriverò, dove corse la vita mia a ripentaglio
grandissimo. E questo fu che, venendo a Roma un giovanetto
chiamato Luigi Pulci, figliuolo di uno de' Pulci al quale fu
mozzato il capo per avere usato con la figliuola; questo ditto
giovane aveva maravigliosissimo ingegno poetico e cognizione di
buone lettere latine; iscriveva bene; era di grazia e di forma
oltramodo bello. Erasi partito da non so che vescovo, ed era tutto
pieno di mal franzese. E perché, quando questo giovane era
in Firenze, la notte di state in alcuni luoghi della città
si faceva radotti innelle proprie strade, dove questo giovane in
fra i migliori si trovava a cantare allo inproviso; era tanto
bello udire il suo, che il divino Michelagnolo Buonaaroti,
eccellentissimo scultore e pittore, sempre che sapeva dov'egli
era, con grandissimo desiderio e piacere lo andava a udire; e un
certo, chiamato il Piloto, valentissimo uomo, orefice, e io gli
facevomo campagnia. In questo modo accadde la cognizione infra
Luigi Pulci e me; dove, passato di molti anni, in quel modo mal
condotto mi si scoperse a Roma, pregandomi che io lo dovessi per
l'amor de Dio aiutare. Mossomi a compassione per le gran
virtú sua, per amor della patria, e per essere il proprio
della natura mia, lo presi in casa e lo feci medicare in modo, che
per essere a quel modo giovane, presto si ridusse alla
sanità. In mentre che costui procacciava per essa
sanità, continuamente studiava, e io lo avevo aiutato
provveder di molti libri sicondo la mia possibilità; in
modo che, cognosciuto questo Luigi il gran benifizio ricevuto da
me, piú volte con parole e con lacrime mi ringraziava,
dicendomi che se Idio li mettessi mai inanzi qualche ventura, mi
renderebbe il guidardone di tal benifizio fattoli. Al quale io
dissi, che io non avevo fatto allui quello che io arei voluto, ma
sí bene quel che io potevo, e che il dovere delle creature
umane si era sovvenire l'una l'altra; solo gli ricordavo che
questo benifizio, che io gli avevo fatto, lo rendessi a un altro
che avessi bisogno di lui, sí bene come lui ebbe bisogno di
me; e che mi volessi bene da amico, e per tale mi tenessi.
Cominciò questo giovane a praticare la Corte di Roma, nella
quale prestò trovò ricapito, e acconciossi con un
vescovo, uomo di ottanta anni, ed era chiamato il vescovo
Gurgensis. Questo vescovo aveva un nipote, che si domandava misser
Giovanni: era gentiluomo veniziano. Questo ditto misser Giovanni
dimostrava grandemente d'essere innamorato delle virtú di
questo Luigi Pulci, e sotto nome di queste sue virtú se
l'aveva fatto tanto domestico, come se fussi lui stesso. Avendo il
detto Luigi ragionato di me e del grande obrigo che lui mi aveva,
con questo misser Giovanni, causò che 'l detto misser
Giovanni mi volse conoscere. Nella qual cosa accadde, che avendo
io una sera infra l'altre fatto un po' di pasto a quella
già ditta Pantassilea, alla qual cena io avevo convitato
molti virtuosi amici mia, sopragiuntoci a punto ne l'andare a
tavola il ditto misser Giovanni con il ditto Luigi Pulci, apresso
alcuna cirimonia fatta, restorno a cenare con esso noi. Veduto
questa isfacciata meritrice il bel giovine, subito gli fece
disegno addosso; per la qual cosa, finito che fu la piacevole
cena, io chiamai da canto il detto Luigi Pulci, dicendogli, per
quanto obrigo lui s'era vantato di avermi, non cercassi in modo
alcuno la pratica di quella meretrice. Alle qual parole lui mi
disse: - Oimè, Benvenuto mio, voi mi avete dunque per uno
insensato? - Al quale io dissi: - Non per insensato, ma per
giovine; e per Dio gli giurai che di lei io non ho un pensiero al
mondo, ma di voi mi dorrebbe bene, che per lei voi rompessi il
collo -. Alle qual parole lui giurò che pregava Idio che,
se mai e' le parlassi, subito rompesse il collo. Dovette questo
povero giovane fare tal giuro a Dio con tutto il cuore,
perché e' roppe il collo, come qui appresso si dirà.
Il detto misser Giovanni si scoprí seco d'amore sporco e
non virtuoso; perché si vedeva ogni giorno mutare veste di
velluto e di seta al ditto giovane, e si cognosceva ch'e' s'era
dato in tutto alla scelleratezza e aveva dato bando alle sue belle
mirabili virtú, e faceva vista di non mi vedere e di non mi
cognoscere, perché io lo avevo ripreso, dicendogli che
s'era dato in preda a brutti vizii i quali gli arien fatto rompere
il collo come disse.
XXXIII. Gli aveva quel suo misser Giovanni compro un cavallo
morello bellissimo, in el quale aveva speso centocinquanta scudi.
Questo cavallo si maneggiava mirabilissimamente, in modo che
questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar<B>
</B>con questo cavallo intorno a questa meretrice
Pantassilea. Io, avedutomi di tal cosa, non me ne curai punto,
dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi attendevo
a' mia studi. Accadde una domenica sera, che noi fummo invitati da
quello scultore Michelagnolo sanese a cena seco; ed era di state.
A questa cena ci era il Bachiacca già ditto, e con esso
aveva menato quella ditta Pantassilea, sua prima pratica.
Cosí essendo a tavola a cena, lei era a sedere in mezzo fra
me e il Bachiacca ditto: in su il piú bello della cena lei
si levò da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue
commodità, perché si sentiva dolor di corpo, e che
tornerebbe subito. In mentre che noi piacevolissimamente
ragionavàno e cenavamo, costei era soprastata alquanto
piú che il dovere. Accadde che, stando in orecchi, mi parve
sentire isghignazzare cosí sommissamente nella strada. Io
teneva un coltello in mano, il quale io adoperavo in mio servizio
a tavola. Era la finestra tanto appresso alla tavola, che
sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci
insieme con la ditta Pantassilea, e senti' di loro Luigi che
disse: - Oh se quel diavolo di Benvenuto ci vedessi, guai a noi! -
E lei disse: - Non abiate paura; sentite che romore e' fanno:
pensano a ogni altra cosa che a noi -. Alle qual parole io, che
gli avevo conosciuti, mi gittai da terra la finestra, e presi
Luigi per la cappa e col coltello che io avevo in mano certo lo
ammazzavo; ma perché gli era in sun un cavalletto bianco,
al quale lui dette di sprone, lasciandomi la cappa in mano per
campar la vita. La Pantassilea si cacciò a fuggire in una
chiesa quivi vicina. Quelli che erano a tavola, subito levatisi,
tutti vennono alla volta mia, pregandomi che io non volessi
disturbate né me né loro a causa di una puttana; ai
quali io dissi, che per lei io non mi sarei mosso, ma sí
bene per quello scellerato giovine, il quale dimostrava di
stimarmi sí poco: e cosí non mi lasciai piegare da
nessuna di quelle parole di quei virtuosi uomini da bene; anzi
presi la mia spada e da me solo me ne andai in Prati;
perché la casa dove noi cenavamo era vicina alla porta di
Castello, che andava in Prati. Cosí andando alla volta di
Prati, non istetti molto che, tramontato il sole, a lento passo me
ne ritornai in Roma. Era già fatto notte e buio, e le porte
di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore, passai da casa
di quella Pantassilea, con animo, che, essendovi quel Luigi Pulci,
di fare dispiacere a l'uno e l'altro. Veduto e sentito che altri
non era in casa che una servaccia chiamata la Canida, andai a
posare la cappa e il fodero della spada, e cosí me ne venni
alla ditta casa, la quali era drieto a Banchi in sul fiume del
Tevero. Al dirimpetto a questa casa si era un giardino di uno
oste, che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una
folta siepe di marmerucole, innella quale cosí ritto mi
nascosi, aspettando che la ditta donna venissi a casa insieme con
Luigi. Alquanto soprastato, capitò quivi quel mio amico
detto il Bachiacca, il quale o sí veramente se l'era
immaginato, o gli era stato detto. Somissamente mi chiamò
compare (che cosí ci chiamavamo per burla); e mi
pregò per l'amor di Dio, dicendo queste parole quasi che
piangendo: - Compar mio, io vi priego che voi non facciate
dispiacere a quella poverina, perché lei non ha una colpa
al mondo -. A il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi
non mi vi levate dinanzi, io vi darò di questa spada in sul
capo -. Spaventato questo mio povero compare, subito se li mosse
il corpo, e poco discosto possette andare, che bisognò che
gli ubbidissi. Gli era uno stellato, che faceva un chiarore
grandissimo: in un tratto io sento un romore di piú cavagli
e da l'un canto e dall'altro venivano inanzi: questi si erano il
ditto Luigi e la ditta Pantassilea accompagnati da un certo misser
Benvegnato perugino, cameriere di papa Clemente, e con loro
avevano quattro valorosissimi capitani perugini, con altri
bravissimi giovani soldati: erano in fra tutti piú che
dodici spade. Quando io viddi questo, considerato che io non
sapevo per qual via mi fuggire, m'attendevo a ficcare in quella
siepe; e perché quelle pungente marmerucole mi facevano
male, e mi aissavo come si fa il toro, quasi risolutomi di fare un
salto e fuggire; in questo, Luigi aveva il braccio al collo alla
ditta Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto,
al dispregio di quel traditore di Benvenuto -. A questo, essendo
molestato dalle ditte marmerucole e sforzato dalle ditte parole
del giovine, saltato fuora, alzai la spada, e con gran voce dissi:
- Tutti siate morti -. In questo il colpo della spada cadde in su
la spalla al detto Luigi: e perché questo povero giovine
que' satiracci l'avevano tutto inferrucciato di giachi e d'altre
cose tali, il colpo fu grandissimo; e voltasi la spada, dette in
sul naso e in su la bocca alla ditta Pantassilea. Caduti tutti a
dua in terra, il Bachiacca con le calze a mezza gamba gridava e
fuggiva. Vòltomi agli altri arditamente con la spada,
quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso
l'osteria, pensando che quivi fossi l'esercito di cento persone,
se bene valorosamente avevano messo mano alle spade, due
cavalletti infra gli altri ispaventati gli missono in tanto
disordine, che gittando dua di quei migliori sottosopra, gli altri
si missono in fuga: e io veduto uscirne a bene, con velocissimo
corso e onore usci' di tale impresa, non volendo tentare
piú la fortuna che il dovere. In quel disordine tanto
smisurato s'era ferito con le loro spade medesime alcun di quei
soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto, camerier del papa,
era stato urtato e calpesto da un suo muletto; e un servitore suo,
avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme, e lo
ferí in una mana malamente. Questo male causò, che
piú che tutti li altri quel misser Benvegnato
giurava<B> </B>in quel lor modo perugino, dicendo: -
Per lo... di Dio<B>, </B>che io voglio che Benvegnato
insegni vivere a Benvenuto - e commesse a un di quei sua capitani,
forse piú ardito che gli altri, ma per esser giovane aveva
manco discorso. Questo tale mi venne a trovare dove io mi ero
ritirato, in casa un gran gentiluomo napoletano, il quale avendo
inteso e veduto alcune cose della mia professione, apresso a
quelle la disposizione de l'animo e del corpo atta a militare, la
qual cosa era quella a che il gentiluomo era inclinato; in modo
che, vedutomi carezzare, e trovatomi ancora io nella propria beva
mia, feci una tal risposta a quel capitano, per la quale io credo
che molto si pentissi di essermi venuto inanzi. Apresso a pochi
giorni, rasciutto alquanto le ferite<B> </B>e a Luigi
e alla puttana e a quelli altri, questo gran gentiluomo napoletano
fu ricerco da quel misser Benvegnato, al cui era uscito il
furore<B>, </B>di farmi far pace con quel giovane
detto Luigi, e che quelli valorosi soldati, li quali non avevano
che far nulla con esso meco, solo mi volevano cognoscere. La qual
cosa quel gentiluomo disse attutti, che mi merrebbe<B>
</B>dove e' volevano, e che volontieri mi farebbe far pace;
con questo, che non si dovessi né dall'una parte né
dall'altra ricalcitrar parole, perché sarebbon troppo
contra il loro onore; solo bastava far segno di bere e baciarsi, e
che le parole le voleva usar lui, con le quale lui volontieri li
salveria. Cosí fu fatto. Un giovedí sera il detto
gentiluomo mi menò in casa al ditto misser Benvegnato, dove
era tutti quei soldati che s'erano trovati a quella isconfitta, ed
erano ancora a tavola. Con il gentiluomo mio era piú di
trenta valorosi uomini, tutti ben armati; cosa che il ditto misser
Benvegnato non aspettava. Giunti in sul salotto, prima il detto
gentiluomo, e io apresso, disse queste parole: - Dio vi salvi,
signori: noi siamo giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo
amo come carnal fratello; e siamo qui volentieri a far tutto
quello che voi avete volontà di fare -. Misèr
Benvegnato, veduto empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi
vi richiedemo di pace e non d'altro -. Cosí misèr
Benvegnato promisse, che la corte del governator di Roma non mi
darebbe noia. Facemmo la pace: onde io subito mi ritornai alla mia
bottega, non potendo stare una ora sanza quel gentiluomo
napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me. In
questo mentre guarito il ditto Luigi Pulci, ogni giorno era in
quel suo cavallo morello, che tanto bene si maneggiava. Un giorno
in fra gli altri, essendo piovegginato, e lui atteggiava<B>
</B>il cavallo a punto in su la porta di Pantassilea,
isdrucciolando cadde, e il cavallo addòssogli; rottosi la
gamba dritta in tronco, in casa la ditta Pantassilea ivi a pochi
giorni morí, e adempié il giuro che di cuore lui a
Dio aveva fatto. Cosí si vede che Idio tien conto de' buoni
e de' tristi, e a ciascun dà il suo merito.
XXXIV. Era di già tutto il mondo in arme. Avendo papa
Clemente mandato a chiedere al signor Giovanni de' Medici certe
bande di soldati, i quali vennono, questi facevano tante gran cose
in Roma, che gli era male stare alle botteghe pubbliche. Fu causa
che io mi ritirai in una buona casotta drieto a Banchi; e quivi
lavoravo a tutti quelli guadagnati mia amici. I mia lavori in
questo tempo non furno cose di molta importanza; però non
mi occorre ragionar di essi. Mi dilittai in questo tempo molto
della musica e di tal piaceri simili a quella. Avendo papa
Clemente, per consiglio di misser Iacopo Salviati, licenziato
quelle cinque bande che gli aveva mandato il signor Giovanni, il
quale di già era morto in Lombardia, Borbone, saputo che a
Roma non era soldati, sollecitissimamente spinse l'esercito suo
alla volta di Roma. Per questa occasione tutta Roma prese l'arme;
il perché, essendo io molto amico di Alessandro, figliuol
di Piero del Bene, e perché a tempo che i Colonnesi vennono
in Roma mi richiese che io gli guardassi la casa sua: dove che a
questa maggior occasione mi pregò, che io facessi cinquanta
compagni per guardia di detta casa, e che io fussi lor guida,
sí come avevo fatto a tempo de' Colonnesi; onde io feci
cinquanta valorosissimi giovani, e intrammo in casa sua ben pagati
e ben trattati. Comparso di già l'esercito di Borbone alle
mura di Roma, il detto Alessandro del Bene mi pregò che io
andassi seco a farli compagnia: cosí andammo un di quelli
miglior compagni e io; e per la via con esso noi si
accompagnò un giovanetto addomandato Cechino della Casa.
Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel
maraviglioso esercito, che di già faceva ogni suo sforzo
per entrare. A quel luogo delle mura, dove noi ci accostammo,
v'era molti giovani morti da quei di fuora: quivi si combatteva a
piú potere: era una nebbia folta quanto immaginar si possa.
Io mi vuolsi a Lessandro e li dissi: - Ritiriamoci a casa il
piú presto che sia possibile, perché qui non
è un rimedio al mondo; voi vedete, quelli montano e questi
fuggono -. Il ditto Lessandro spaventato, disse: - Cosí
volessi Idio che venuti noi non ci fussimo! - e cosí
vòltosi con grandissima furia per andarsene, il quale io
ripresi, dicendogli: - Da poi che voi mi avete menato qui, gli
è forza fare qualche atto da uomo -. E vòlto il mio
archibuso, dove io vedevo un gruppo di battaglia piú folta
e piú serrata, posi la mira innel mezzo apunto a uno che io
vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia non mi
lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè.
Vòltomi subito a Lessandro e a Cechino, dissi loro che
sparassino i loro archibusi, e insegnai loro il modo,
acciocché e' non toccassino una archibusata da que' di
fuora. Cosí fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle
mura destramente, e veduto in fra di loro un tumulto
istrasordinario, fu che da questi nostri colpi si ammazzò
Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato da gli altri, per
quanto da poi s'intese. Levatici di quivi, ce ne andammo per Campo
Santo, ed entrammo per San Piero; e usciti là drieto alla
chiesa di Santo Agnolo, arrivammo al portone di Castello con
grandissime difficultà, perché il signor Renzo da
Ceri e il signor Orazio Baglioni davano delle ferite e ammazzavono
tutti quelli che si spiccavano dal combattere alle mura. Giunti al
detto portone, di già erano entrati una parte de' nimici in
Roma, e gli avevamo alle spalle. Volendo il Castello far cadere la
saracinesca del portone, si fece un poco di spazio, di modo che
noi quattro entrammo drento. Subito che io fui entrato, mi prese
il capitan Pallone de' Medici, perché, essendo io della
famiglia del Castello<B>, </B>mi forzò che io
lasciassi Lessandro; la qual cosa molto contra mia voglia feci.
Cosí salitomi su al mastio, innel medesimo tempo era
entrato papa Clemente per i corridori innel Castello;
perché non s'era voluto partire prima del palazzo di San
Piero, non possendo credere che coloro entrassino. Da poi che io
mi ritrovai drento a quel modo, accosta' mi a certe artiglierie,
le quali aveva a guardia un bonbardiere chiamato Giuliano
fiorentino. Questo Giuliano affacciatosi lí al merlo del
castello, vedeva la sua povera casa saccheggiare, e straziare la
moglie e' figliuoli; in modo che, per non dare ai suoi, non ardiva
sparare le sue artiglierie; e gittato la miccia da dar fuoco per
terra, con grandissimo pianto si stracciava il viso; e 'l simile
facevano certi altri bonbardieri. Per la qual cosa io presi una di
quelle miccie, faccendomi aiutare da certi ch'erano quivi, li
quali non avevano cotai passione: volsi certi pezzi di sacri e
falconetti<B> </B>dove io vedevo il bisogno, e con
essi ammazzai di molti uomini de' nemici; che se questo non era,
quella parte che era intrata in Roma quella mattina, se ne veniva
diritta al Castello; ed era possibile che facilmente ella
entrassi, perché l'artiglierie non davano lor noia. Io
seguitavo di tirare; per la qual cosa alcun cardinali e signori mi
benedivano e davonmi grandissimo animo. Il che io baldanzoso, mi
sforzavo di fare quello che io non potevo; basta che io fu' causa
di campare la mattina il Castello, e che quelli altri bonbardieri
si rimessono a fare i loro uffizii. Io seguitai tutto quel giorno:
venuto la sera, in mentre che l'esercito entrò in Roma per
la parte di Tresteveri, avendo papa Clemente fatto capo di tutti
e' bonbardieri un gran gentiluomo romano, il quale si domandava
misser Antonio Santa Croce, questo gran gentiluomo la prima cosa
se ne venne a me, faccendomi carezze: mi pose con cinque mirabili
pezzi di artiglieria innel piú eminente luogo del Castello,
che si domanda da l'Agnolo a punto: questo luogo circunda il
Castello atorno atorno e vede inverso Prati e in verso Roma:
cosí mi dette tanti sotto a di me a chi io potessi
comandare, per aiutarmi voltare le mie artiglierie; e fattomi dare
una paga innanzi, mi consegnò del pane e un po' di vino, e
poi mi pregò, che in quel modo che io avevo cominciato
seguitassi. Io, che tal volta piú era inclinato a questa
professione che a quella che io tenevo per mia, la facevo tanto
volentieri, che la mi veniva fatta meglio che la ditta. Venuto la
notte, e i nimici entrati in Roma, noi che eramo nel Castello,
massimamente io, che sempre mi son dilettato veder cose nuove,
istavo considerando questa inestimabile novità e 'ncendio;
la qual cosa quelli che erano in ogni altro luogo che in Castello,
nolla possettono né vedere né inmaginare. Per tanto
io non mi voglio mettere a descrivere tal cosa; solo
seguiterò descrivere questa mia vita che io ho cominciato,
e le cose che in essa a punto si appartengono.
XXXV. Seguitando di esercitar le mie artiglierie continuamente,
per mezzo di esse in un mese intero che noi stemmo nel Castello
assediati, mi occorse molti grandissimi accidenti degni di
raccontargli tutti; ma per non voler essere tanto lungo, né
volermi dimostrare troppo fuor della mia professione, ne
lascierò la maggior parte, dicendone solo quelli che mi
sforzano, li quali saranno i manco e i piú notabili. E
questo è il primo: che avendomi fatto quel ditto misser
Antonio Santa Croce discender giú de l'Agnolo,
perché io tirassi a certe case vicino al Castello, dove si
erano veduti entrare certi dell'inimici di fuora, in mentre che io
tiravo, a me venne un colpo di artiglieria, il qual dette in un
canton di un merlo, e presene tanto, che fu causa di non mi far
male: perché quella maggior quantità tutta insieme
mi percosse il petto; e, fermatomi l'anelito, istavo in terra
prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti
dicevano; in fra i quali si doleva molto quel misser Antonio Santa
Croce, dicendo: - Oimè, che noi abiàn perso il
migliore aiuto che noi ci avessimo -. Sopragiunto a questo rumore
un certo mio compagno, che si domandava Gianfrancesco, piffero,
questo uomo era piú inclinato alla medicina che al piffero,
e subito piangendo corse per una caraffina di bonissimo vin greco:
avendo fatto rovente una tegola, in su la quale e' messe su una
buona menata di assenzio, di poi vi spruzzò su di quel buon
vin greco; essendo inbeuto bene il ditto assenzio, subito me lo
messe in sul petto, dove evidente si vedeva la percossa. Fu tanto
la virtú di quello assenzio, che resemi subito quelle
ismarrite virtú. Volendo cominciare a parlare, non potevo,
perché certi sciocchi soldatelli mi avevano pieno la bocca
di terra, parendo loro con quella di avermi dato la comunione, con
la quale loro piú presto mi avevano scomunicato,
perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra
piú noia assai che la percossa. Pur di questa scampato,
tornai a que' furori delle artiglierie, seguitandoli con tutta
quella virtú e sollecitudine migliore che inmaginar potevo.
E perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al
duca di Urbino, il quale era con lo esercito de' Veniziani,
dicendo all'imbasciadore, che dicessi a Sua Eccellenzia, che tanto
quanto il detto Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in
cima di detto Castello, accompagnati con tre colpi di artiglieria
rinterzati,<B> </B>che insino che durava questo segno,
dimostrava che il Castello non saria areso; io ebbi questa carica
di far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che
sempre di giorno io le dirizzava in quei luoghi dove le potevan
fare qualche gran male; la qual cosa il Papa me ne voleva di
meglio assai, perché vedeva che io facevo l'arte con quella
avvertenza che a tal cose si promette. Il soccorso de il detto
duca mai non venne; per la qual cosa io, che non son qui per
questo, altro non descrivo.
XXXVI. In mentre che io mi stavo su a quel mio diabolico
esercizio, mi veniva a vedere alcuni di quelli cardinali che erano
in Castello, ma piú ispesso il cardinale Ravenna e il
cardinal de' Gaddi, ai quali io piú volte dissi ch'ei non
mi capitassino innanzi, perché quelle lor berrettuccie
rosse si scorgevano discosto; il che da que' palazzi vicini,
com'era la Torre de' Bini, loro e io portavomo pericolo
grandissimo; di modo che per utimo io gli feci serrare, e ne
acquistai con loro assai nimicizia. Ancora mi capitava spesso
intorno il signor Orazio Baglioni, il quale mi voleva molto bene.
Essendo un giorno in fra gli altri ragionando meco, lui vidde
certa dimostrazione in una certa osteria, la quale era fuor della
porta di Castello, luogo chiamato Baccanello. Questa osteria aveva
per insegna un sole dipinto immezzo dua finestre, di color rosso.
Essendo chiuse le finestre, giudicò il detto signor Orazio,
che al dirimpetto drento di quel sole in fra quelle due finestre
fussi una tavolata di soldati a far gozzoviglia; il perché
mi disse: - Benvenuto, s'e' ti dessi il cuore di dar vicino a quel
sole un braccio con questo tuo mezzo cannone, io credo che tu
faresti una buona opera, perché colà si sente un
gran romore, dove debb'essere uomini di molta importanza -. Al
qual signor io dissi: - A me basta la vista di dare in mezzo a
quel sole - ma sí bene una botte piena di sassi, ch'era
quivi vicina alla bocca di detto cannone, el furore del fuoco e di
quel vento che faceva il cannone, l'arebbe mandata atterra. Alla
qual cosa il detto signore mi rispose: - Non mettere tempo in
mezzo, Benvenuto: imprima non è possibile che, innel modo
che la sta, il vento de il cannone la faccia cadere; ma se pure
ella cadessi e vi fussi sotto il Papa, saria manco male che tu non
pensi, sicché tira, tira -. Io, non pensando piú
là, detti in mezzo al sole, come io avevo promesso a punto.
Cascò la botte, come io dissi, la qual dette a punto in
mezzo in fra il cardinal Farnese e misser Iacopo Salviati, che
bene gli arebbe stiacciati tutti a dui: che di questo fu causa che
il ditto cardinal Farnese a punto aveva rimproverato, che il ditto
misser Iacopo era causa del sacco di Roma; dove dicendosi ingiuria
l'un l'altro, per dar campo alle ingiuriose parole, fu la causa
che la mia botte non gli stiacciò tutt'a dua. Sentito il
gran rimore che in quella bassa corte si faceva, il buon signor
Orazio con gran prestezza se ne andò giú; onde io
fattomi fuora, dove era caduta la botte, senti' alcuni che
dicevano: - E' sarebbe bene ammazzare quel bonbardieri -; per la
qual cosa io volsi dua falconetti alla scala che montava su, con
animo risoluto, che il primo che montava, dar fuoco a un de'
falconetti. Dovetton que' servitori del cardinal Farnese aver
commessione dal cardinale di venirmi a fare dispiacere; per la
qual cosa io mi feci innanzi, e avevo il fuoco in mano. Conosciuto
certi di loro, dissi: - O scannapane, se voi non vi levate di
costí, e se gli è nessuno che ardisca entrar drento
a queste scale, io ho qui dua falconetti parati, con e' quali io
farò polvere di voi; e andate a dire al cardinale, che io
ho fatto quello che dai mia maggiori mi è stato commesso,
le qual cose si sono fatte e fannosi per difension di lor preti, e
non per offenderli -. Levatisi e' detti, veniva su correndo il
ditto signor Orazio Baglioni, al quale io dissi che stessi
indrieto, se non che io l'ammazzerei, perché io sapevo
benissimo chi egli era. Questo signore non sanza paura si
fermò alquanto, e mi disse: - Benvenuto, io son tuo amico
-. Al quale io dissi: - Signore, montate pur solo, e venite poi in
tutti i modi che voi volete -. Questo signore, ch'era
superbissimo, si fermò alquanto, e con istizza mi disse: -
Io ho voglia di non venire piú su e di far tutto il
contrario che io avevo pensato di far per te -. A questo io gli
risposi, che sí bene come io ero messo in quello uffizio
per difendere altrui, che cosí ero atto a difendere ancora
me medesimo. Mi disse che veniva solo; e montato ch'e' fu, essendo
lui cambiato piú che 'l dovere nel viso, fu causa che io
tenevo la mana in su la spada, e stavo in cagnesco seco. A questo
lui cominciò a ridere, e ritornatogli il colore nel viso,
piacevolissimamente mi disse: - Benvenuto mio, io ti voglio quanto
bene io ho, e quando sarà tempo che a Dio piaccia, io te lo
mostretrò. Volessi Idio che tu gli avessi ammazzati que'
dua ribaldi, ché uno è causa di sí gran male,
e l'altro talvolta è per esser causa di peggio -.
Cosí mi disse, che se io fussi domandato che io non dicessi
che lui fussi quivi da me quando io detti fuoco a tale
artiglieria; e del restante che io non dubitassi. I romori furno
grandissimi, e la cosa durò un gran pezzo. In questo io non
mi voglio allungare piú inanzi: basta che io fu' per fare
le vendette di mio padre con misser Iacopo Salviati, il quale gli
aveva fatto mille assassinamenti (secondo che detto mio padre se
ne doleva). Pure disavedutamente gli feci una gran paura. Del
Farnese non vo' dir nulla, perché si sentirà al suo
luogo quanto gli era bene che io l'avessi ammazzato.
XXXVII. Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse
facevo ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io
avevo acquistato un credito e una grazia col papa inistimabile.
Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli
inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa
passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello
spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni,
inteso che questo era stato già al suo servizio; e in
mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io che ero di sopra a
l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo che
stava là a fare aconciare trincee con una
zagaglietta<B> </B>in mano, vestito tutto di rosato,
disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio
gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e
piú lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina:
questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di
polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo
a questo uomo rosso, dandogli un arcata maravigliosa,
perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva tirare
cosí lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli
fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s'aveva
messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo
spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso
in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il
Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e
maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una
artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira, e perché
quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare e
come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi
domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza
che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l'uomo in dua
pezzi, né lui né io non sapevamo la causa.
Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi dell'omicidio, e
d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio della
Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un
patente crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e
che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti
quelli che mai io farei in servizio della Chiesa appostolica.
Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di
tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia
begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in
sonar di quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire particularmente
le belle cose che in quella infernalità crudele io feci,
farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le
passo. Solo ne dirò qualcuna di quelle piú notabile,
le quale mi sono di necessità; e questo si è, che
pensando io giorno e notte quel che io potevo fare per la parte
mia in defensione della Chiesa, considerato che i nimici
cambiavano le guardie e passavano per il portone di Santo Spirito,
il quale era tiro ragionevole, ma, perché il tiro mi veniva
in traverso, non mi veniva fatto quel gran male che io desiderava
di fare; pure ogni giorno se ne ammazzava assai bene: in modo che,
vedutosi e' nimici impedito cotesto passo, messono piú di
trenta botti una notte in su una cima di un tetto, le quali mi
impedivano cotesta veduta. Io, che pensai un po' meglio a cotesto
caso che non avevo fatto prima, volsi tutti a cinque i mia pezzi
di artiglieria dirizzandogli alle ditte botti; e aspettato le
ventidua ore in sul bel di rimetter le guardie; e perché
loro, pensandosi esser sicuri, venivano piú adagio e
piú folti che 'l solito assai, il che, dato fuoco ai mia
soffioni, non tanto gittai quelle botti per terra che
m'inpedivano, ma in quella soffiata sola ammazzai piú di
trenta uomini. Il perché, seguitando poi cosí dua
altre volte, si misse i soldati in tanto disordine che, infra che
gli eran pieni del latrocinio del gran sacco, desiderosi alcuni di
quelli godersi le lor fatiche, piú volte si volsono
abottinare<B> </B>per andarsene. Pure, trattenuti da
quel lor valoroso capitano, il quale si domandava Gian di Urbino,
con grandissimo lor disagio furno forzati pigliare un altro passo
per il rimettere<B> </B>delle lor guardie; il qual
disagio importava piú di tre miglia, dove quel primo non
era un mezzo. Fatto questa impresa, tutti quei signori ch'erano in
Castello mi facevano favori maravigliosi. Questo caso tale, per
esser di tanta importanza seguito, lo ho voluto contare per far
fine a questo, perché non sono nella professione che mi
muove a scrivere; che se di queste cose tale io volessi far bello
la vita mia, troppe me ne avanzeria da dirle. Èccene sola
un'altra che al suo luogo io la dirò.
XXXVIII. Saltando innanzi un pezzo, dirò come papa
Clemente, per salvare i regni con tutta la quantità delle
gran gioie della Camera apostolica, mi fece chiamare, e
rinchiusesi con il Cavalierino e io in una stanza soli. Questo
Cavalierino era già stato servitore della stalla di Filippo
Strozzi: era franzese, persona nata vilissima; e per essere gran
servitore, papa Clemente lo aveva fatto ricchissimo, e se ne
fidava come di sé stesso: in modo che il Papa detto, e il
Cavaliere e io rinchiusi nella detta stanza, mi messono innanzi li
detti regni con tutta quella gran quantità di gioie della
Camera apostolica; e mi comisse che io le dovessi sfasciare tutte
dell'oro, in che le erano legate. E io cosí feci; di poi le
rinvolsi in poca carta ciascune e le cucimmo in certe farse adosso
al Papa e al detto Cavalierino. Dipoi mi dettono tutto l'oro, il
quale era in circa dugento libbre, e mi dissono che io lo fondessi
quanto piú segretamente che io poteva. Me ne andai a
l'Agnolo, dove era la stanza mia, la quale io poteva serrare, che
persona non mi dessi noia: e fattomi ivi un fornelletto a vento di
mattoni e acconcio innel fondo di detto fornello un
ceneràcciolo grandotto a guisa di un piattello, gittando
l'oro di sopra in su' carboni, a poco a poco cadeva in quel
piatto. In mentre che questo fornello lavorava, io continuamente
vigilavo come io potevo offendere gli inimici nostri; e
perché noi avevamo sotto le trincee degli inimici nostri a
manco di un trar di mano, io facevo lor danno innelle dette
trincee con certi passatoiacci antichi, che erano parecchi
cataste, già munizione del Castello. Avendo preso un sacro
e un falconetto, i quali erano tutti a dui rotti un poco in bocca,
questi io gli empievo di quei passatoiacci; e dando poi fuoco alle
dette artiglierie, volavano già alla impazzata facendo alle
dette trincee molti inaspettati mali: in modo che, tenendo questi
continuamente in ordine, in mentre che io fondevo il detto oro, un
poco innanzi all'ora del vespro veddi venire in su l'orlo della
trincea uno a cavallo in sun un muletto. Velocissimamente andava
il detto muletto: e costui parlava a quelli delle trincee. Io
stetti avvertito di dar fuoco alla mia artiglieria innanzi che
egli giugnessi al mio diritto: cosí col buon iudizio dato
fuoco, giunto, lo investi' con un di quelli passatoi innel viso a
punto: quel resto dettono al muletto, il quale cadde morto: nella
trincea sentissi un grandissimo tumulto: detti fuoco a l'altro
pezzo, non sanza lor gran danno. Questo si era il principe
d'Orangio, che per di dentro delle trincee fu portato a una certa
osteria quivi vicina, dove corse in breve tutta la nobilità
dello esercito. Inteso papa Clemente quello che io avevo fatto,
subito mandò a chiamarmi, e dimandatomi del caso, io gli
contai il tutto, e di piú gli dissi che quello doveva
essere uomo di grandissima importanza, perché in quella
osteria, dove e' l'avevano portato, subito vi s'era ragunato tutti
e' caporali di quello esercito, per quel che giudicar si poteva.
Il Papa di bonissimo ingegno fece chiamare misser Antonio Santa
Croce, il qual gentiluomo era capo e guida di tutti e'
bombardieri, come ho ditto: disse che comandassi a tutti noi
bombardieri, che noi dovessimo dirizzare tutte le nostre
artiglierie a quella detta casa, le quali erano un numero
infinito, e che a un colpo di archibuso ogniuno dessi fuoco; in
modo che ammazzando quei capi, quello esercito, che era quasi in
puntelli, tutto si metteva in rotta; e che talvolta Idio arebbe
udite le loro orazione, che cosí frequente e' facevano, e
per quella via gli arebbe liberati da quelli impii ribaldi. Messo
noi in ordine le nostre artiglierie, sicondo la commissione del
Santa Croce aspettando il segno, questo lo intese il cardinal
Orsino, e cominciò a gridare con il Papa, dicendo che per
niente non si dovessi far tal cosa, perché erano in sul
concludere l'accordo, e se que' ci si ammazzavano, il campo sanza
guida sarebbe per forza entrato in Castello, e gli arebbe finiti
di rovinare a fatto: pertanto non volevano che tal cosa si
facessi. Il povero Papa disperato, vedutosi essere assassinato
drento e fuora, disse che lasciava il pensiero alloro.
Cosí, levatoci la commessione, io che non potevo stare alle
mosse, quando io seppi che mi venivano a dare ordine che io non
tirassi, detti fuoco a un mezzo cannone che io avevo, il qual
percosse in un pilastro di un cortile di quella casa, dove io
vedevo appoggiato moltissime persone. Questo colpo fece tanto gran
male ai nimici, che gli fu per fare abandonare la casa. Quel
cardinale Orsino ditto mi voleva fare o impiccare o ammazzare in
ogni modo; alla qual cosa il Papa arditamente mi difese. Le gran
parole che occorson fra loro, se bene io le so, non facendo
professione di scrivere istorie, non mi occorre dirle: solo
attenderò al fatto mio.
XXXIX.<B> </B>Fonduto che io ebbi l'oro, io lo portai
al Papa, il quale molto mi ringraziò di quello che io fatto
avevo, e commesse al Cavalierino che mi donasse venticinque scudi,
scusandosi meco che non aveva piú da potermi dare. Ivi a
pochi giorni si fece l'accordo. Io me ne andai col signor Orazio
Baglioni insieme con trecento compagni alla volta di Perugia; e
quivi il signor Orazio mi voleva consegnare la compagnia, la quale
io per allora non volsi, dicendo che volevo andare a vedere mio
padre in prima, e ricomperare il bando che io avevo di Firenze. Il
detto signore mi disse, che era fatto capitano de' Fiorentini; e
quivi era ser Pier Maria di Lotto, mandato dai detti Fiorentini, a
il quale il detto signor Orazio molto mi raccomandò come
suo uomo. Cosí me ne venni a Firenze con parecchi altri
compagni. Era la peste inistimabile, grande. Giunti a Firenze,
trovai il mio buon padre, il quale pensava o che io fussi morto in
quel Sacco, o che allui ignudo io tornassi. La qual cosa avenne
tutto il contrario: ero vivo, e con di molti danari, con un
servitore, e bene a cavallo. Giunto al mio vecchio, fu tanto
l'allegrezza che io gli viddi, che certo pensai, mentre che mi
abbracciava e baciava, che per quella e' morissi subito.
Raccòntogli tutte quelle diavolerie del Sacco, e datogli
una buona quantità di scudi in mano, li quali
soldatescamente io me avevo guadagnati, apresso fattoci le
carezze, il buon padre e io, subito se ne andò agli Otto a
ricomperarmi il bando; e s'abbatté per sorte a esser degli
Otto un di quegli che me l'avevan dato, ed era quello che
indiscretamente aveva detto quella volt'a mio padre, che mi voleva
mandare in villa co<B>' </B>lanciotti; per la qual
cosa mio padre usò alcune accorte parole in atto di
vendetta, causate dai favori che mi aveva fatto il signor Orazio
Baglioni. Stando cosí, io dissi a mio padre come il signor
Orazio mi aveva eletto per capitano, e che e' mi conveniva
cominciare a pensare di fare la compagnia. A queste parole
sturbatosi subito il povero padre, mi pregò per l'amor di
Dio, che io non dovessi attendere a tale impresa, con tutto che
lui cognoscessi che io saria atto a quella e a maggior cosa;
dicendomi apresso, che aveva l'altro figliuolo, e mio fratello,
tanto valorosissimo alla guerra, e che io dovessi attendere a
quella maravigliosa arte, innella quale tanti anni e con sí
grandi studi io mi ero affaticato di poi. Se bene io gli promessi
ubidirlo, pensò come persona savia, che se veniva il signor
Orazio, sí per avergli io promesso e per altre cause, io
non potrei mai mancare di non seguitare le cose della guerra;
cosí con un bel modo pensò levarmi di Firenze,
dicendo cosí: - O caro mio figliuolo, qui è la peste
inistimabile, grande, e mi par tuttavia di vederti tornare a casa
con essa; io mi ricordo, essendo giovane, che io me ne andai a
Mantova, nella qual patria io fui molto carezzato, e ivi stetti
parecchi anni. Io ti priego e comando, che per amor mio,
piú presto oggi che domani, di qui ti lievi e là te
ne vada.
XL. Perché sempre m'è dilettato di vedere il mondo,
e non essendo mai stato a Mantova, volentieri andai, preso que'
danari che io avevo portati; e la maggior parte di essi ne lasciai
al mio buon padre, prommettendogli di aiutarlo sempre dove io
fussi, lasciando la mia sorella maggiore a guida del povero padre.
Questa aveva nome Cosa, e non avendo mai voluto marito, era
accettata monaca in Santa Orsola, e cosí soprastava per
aiuto e governo del vecchio padre e per guida de l'altra mia
sorella minore, la quale era maritata a un certo Bartolomeo
scultore. Cosí partitomi con la benedizione del padre,
presi il mio buon cavallo, e con esso me ne andai a Mantova.
Troppe gran cose arei da dire, se minutamente io volessi scrivere
questo piccol viaggio. Per essere il mondo intenebrato di peste e
di guerra, con grandissima difficultà io pur poi mi
condussi alla ditta Mantova; innella quale giunto che io fui,
cercai di cominciare a lavorare; dove io fui messo in opera da un
certo maestro Nicolò milanese, il quale era orefice del
Duca di detta Mantova. Messo che io fui in opera, di poi dua
giorni appresso io me ne andai a visitare misser Iulio Romano
pittore eccellentissimo, già ditto, molto mio amico, il
quale misser Iulio mi fece carezze inestimabile ed ebbe molto per
male che io non ero andato a scavalcare a casa sua; il quale vivea
da signore, e faceva una opera pel Duca fuor della porta di
Mantova, luogo detto a Te. Questa opera era grande e maravigliosa,
come forse ancora si vede. Subito il ditto misser Iulio con molte
onorate parole parlò di me al Duca; il quale mi commesse
che io gli facessi un modello per tenere la reliquia del sangue di
Cristo, che gli hanno, qual dicono essere stata portata quivi da
Longino; di poi si volse al ditto misser Iulio, dicendogli che mi
facessi un disegno per detto reliquiere. A questo, misser Iulio
disse: - Signore, Benvenuto è un uomo che non ha bisogno
delli disegni d'altrui, e questo Vostra Eccellenzia benissimo lo
giudicherà, quando la vedrà il suo modello -. Messo
mano a far questo ditto modello, feci un disegno per il ditto
reliquiere da potere benissimo collocare la ditta ampolla: di poi
feci per di sopra<B> </B>un modelletto di cera. Questo
si era un Cristo assedere, che innella mana mancina levata in alto
teneva la sua Croce grande, con atto di appoggiarsi a essa; e con
la mana diritta faceva segno con le dita di aprirsi la piaga del
petto. Finito questo modello, piacque tanto al Duca, che li favori
furno inistimabili, e mi fece intendere, che mi terrebbe al suo
servizio con tal patto, che io riccamente vi potrei stare. In
questo mezzo, avendo io fatto reverenzia al Cardinale suo
fratello, il detto Cardinale pregò il Duca, che fussi
contento di lasciarmi fare il suggello pontificale di Sua Signoria
reverendissima; il quale io cominciai. In mentre che questa tal
opera io lavoravo, mi sopraprese la febbre quartana; la qual cosa,
quando questa febbre mi pigliava, mi cavava de' sentimenti; onde
io maledivo Mantova e chi n'era padrone, e chi volentieri vi
stava. Queste parole furono ridette al Duca da quel suo orefice
milanese ditto<B>, </B>il quale benissimo vedeva che
'l Duca si voleva servir di me. Sentendo il detto Duca quelle mie
inferme parole, malamente meco s 'adirò; onde, io essendo
adirato con Mantova, della stizza fummo pari. Finito il mio
suggello, che fu un termine di quattro mesi, con parecchi altre
operette fatte al Duca sotto nome del Cardinale, da il ditto
Cardinale io fui ben pagato; e mi pregò che io me ne
tornassi a Roma in quella mirabil patria, dove noi ci eramo
conosciuti. Partitomi con una buona somma di scudi di Mantova,
giunsi a Governo, luogo dove fu ammazzato quel valorosissimo
signor Giovanni. Quivi mi prese un piccol termine di febbre, la
quale non m'impedí punto il mio viaggio, e restata innel
ditto luogo, mai piú l'ebbi. Di poi giunto a Firenze,
pensando trovare il mio caro padre, bussando la porta, si fece
alla finestra una certa gobba arrabbiata, e mi cacciò via
con assai villania, dicendomi che io l'avevo fradicia. Alla qual
gobba io dissi: - Oh dimmi, gobba perversa, ècc'elli altro
viso in questa casa che 'l tuo? - No, col tuo malanno -. Alla qual
io dissi forte: - E questo non ci basti dua ore -. A questo
contrasto si fece fuori una vicina, la qual mi disse che mio padre
con tutti quelli della casa mia erano morti di peste: onde che io
parte me lo indovinavo, fu la cagione che il duolo fu minore. Di
poi mi disse che solo era restata viva quella mia sorella minore,
la quale si chiamava Liperata, che era istata raccolta da una
santa donna, la quale si domandava monna Andrea de' Bellacci. Io
mi parti' di quivi per andarmene all'osteria. A caso rincontrai un
mio amicissimo: questo si domandava Giovanni Rigogli. Iscavalcato
a casa sua, ce ne andammo in piazza, dove io ebbi nuove che 'l mio
fratello era vivo, il quale io andai a trovare a casa di un suo
amico, che si domandava Bertino Aldobrandi. Trovato il fratello, e
fattoci carezze e accoglienze infinite, il perché si era,
che le furno istrasordinarie, che a lui di me e a me di lui era
stato dato nuove della morte di noi stessi, di poi levato una
grandissima risa, con maraviglia presomi per la mano, mi disse: -
Andiamo, fratello, che io ti meno in luogo il quale tu mai non
immagineresti: questo si è, che io ho rimaritata la
Liperata nostra sorella, la quale certissimo ti tiene per morto -.
In mentre che a tal luogo andavamo, contammo l'uno all'altro di
bellissime cose avvenuteci; e giunti a casa, dov'era la sorella,
gli venne tanta stravaganza<B> </B>per la
novità inaspettata ch'ella mi cadde in braccio tramortita;
e se e' non fossi stato alla presenza il mio fratello, l'atto fu
tale sanza nessuna parola, che il marito cosí al
primo<B> </B>non pensava che io fossi il suo fratello.
Parlando Cechin mio fratello e dando aiuto alla svenuta, presto si
riebbe; e pianto un poco il padre, la sorella, il marito, un suo
figliuolino, si dette ordine alla cena; e in quelle piacevol nozze
in tutta la sera non si parlò piú di morti, ma
sí bene ragionamenti da nozze. Cosí lietamente e con
grande piacere finimmo la cena.
XLI. Forzato dai prieghi del fratello e della sorella, furno causa
che io mi fermai a Firenze, perché la voglia mia era volta
a tornarmene a Roma. Ancora quel mio caro amico - che io dissi
prima in alcune mie angustie tanto aiutato da lui, questo si era
Piero di Giovanni Landi - ancora questo Piero mi disse che io mi
doverrei per alquanto fermare a Firenze; perché essendo i
Medici cacciati di Firenze, cioè il signore Ipolito e
signore Alessandro, quali furno poi un Cardinale e l'altro Duca di
Firenze, questo Piero ditto mi disse, che io dovessi stare un poco
a vedere quel che si faceva. Cosí cominciai a lavorare in
Mercato Nuovo, e legavo assai quantità di gioie e
guadagnavo bene. In questo tempo capitò a Fiorenza un
sanese chiamato Girolamo Marretti: questo sanese era stato assai
tempo in Turchia, ed era persona di vivace ingegno. Capitommi a
bottega, e mi dette a fare una medaglia d'oro da portare in un
cappello; volse in questa medaglia che io facessi uno Ercole che
sbarrava la bocca a il lione. Cosí mi missi a farlo; e in
mentre che io lo lavorava, venne Michelagnolo Buonaarroti
piú volte a vederlo; e perché io mi v'ero
grandemente affaticato, l'atto della figura e la bravuria de
l'animale molto diversa<B> </B>da tutti quelli che per
insino allora avevano fatto tal cosa; ancora per esser quel modo
del lavorare totalmente incognito a quel divino Michelagnolo,
lodò tanto questa mia opera, che a me crebbe tanto l'animo
di far bene, che fu cosa inistimabile. Ma perché io non
avevo altra cosa che fare se non legare gioie, che se bene questo
era il maggior guadagno che io potessi fare, non mi contentavo,
perché desideravo fare opere d'altra virtú che legar
gioie; in questo accadde un certo Federigo Ginori, giovane di
molto elevato spirito. Questo giovane era stato a Napoli molti
anni, e perché gli era molto bello di corpo e di presenza,
se era innamorato in Napoli di una principessa; cosí,
volendo fare una medaglia innella quale fussi un Atalante col
mondo addosso, richiese il gran Michelagnolo, che gne ne facessi
un poco il disegno. Il quale disse al ditto Federigo: - Andate a
trovare un certo giovane orefice, che ha nome Benvenuto; quello vi
servirà molto bene, e certo che non gli accade mio disegno;
ma perché voi non pensiate che di tal piccola cosa io
voglia fuggire le fatiche, molto volentieri vi farò un poco
di disegno: intanto parlate col detto Benvenuto, che ancora esso
ne faccia un poco di modellino; di poi il meglio si metterà
in opera -. Mi venne a trovare questo Federigo Ginori, e mi disse
la sua voluntà, appresso quanto quel maraviglioso
Michelagnolo mi aveva lodato; e che io ne dovessi fare ancora io
un poco di modellino di cera, in mentre che quel mirabile uomo gli
aveva promesso di fargli un poco di disegno. Mi dette tanto animo
quelle parole di quel grande uomo, che io subito mi messi con
grandissima sollecitudine a fare il detto modello; e finito che io
l'ebbi, un certo dipintore molto amico di Michelagnolo, chiamato
Giuliano Bugiardini, questo mi portò il disegno de
l'Atalante. Innel medesimo tempo io mostrai al ditto Giuliano il
mio modellino di cera: il quali era molto diverso da quel disegno
di Michelagnolo; talmente che Federigo ditto e ancora il
Bugiardino conclusono che io dovessi farlo sicondo il mio modello.
Cosí lo cominciai, e lo vidde lo eccellentissimo
Michelagnolo, e me lo lodò tanto, che fu cosa inistimabile.
Questo era una figura, come io ho detto, cesellata di piastra;
aveva il cielo addosso, fatto una palla di cristallo, intagliato
in essa il suo zodiaco, con un campo di lapislazzuli: insieme con
la ditta figura faceva tanto bel vedere, che era cosa
inistimabile. Era sotto un motto di lettere, le quali dicevano
<I>"Summa tulisse juvat"</I>. Sadisfattosi il ditto
Federigo, me liberalissimamente pagò. Per essere in questo
tempo misser Aluigi Alamanni a Firenze, era amico de il detto
Federigo Ginori, il quale molte volte lo condusse a bottega mia, e
per sua grazia mi si fece molto domestico amico.
XLII. Mosso la guerra papa Clemente alla città di Firenze,
e quella preparatasi alla difesa, fatto la città per ogni
quartiere gli ordini delle milizie populare, ancora io fui
comandato per la parte mia. Riccamente mi messi in ordine:
praticavo con<B> </B>la maggior nobiltà di
Firenze, i quali molto d'accordo si vedevano voler militare a tal
difesa, e fecesi quelle orazioni per ogni quartiere, qual si
sanno. Di piú si trovavano i giovani piú che 'l
solito insieme, né mai si ragionava d'altra cosa che di
questa. Essendo un giorno in sul mezzodí in su la mia
bottega una quantità di omaccioni e giovani, e' primi della
città, mi fu portato una lettera di Roma, la qual veniva da
un certo chiamato in Roma maestro Iacopino della Barca. Questo si
domandava Iacopo dello Sciorina, ma della Barca in Roma,
perché teneva una barca che passava il Tevero infra Ponte
Sisto e Ponte Santo Agnolo. Questo maestro Iacopo era persona
molto ingegnosa, e aveva piacevoli e bellissimi ragionamenti: era
stato in Firenze già maestro di levare opere a' tessitori
di drappi. Questo uomo era molto amico di papa Clemente, il quale
pigliava gran piacere di sentirlo ragionare. Essendo un giorno in
questi cotali ragionamenti, si cadde in proposito e del Sacco e
dell'azione del Castello: per la qual cosa il Papa, ricordatosi di
me, ne disse tanto bene quanto immaginar si possa; e aggiunse, che
se lui sapeva dove io fussi, arebbe piacere di riavermi. Il detto
maestro Iacopo disse che io ero a Firenze; per la qual cosa il
Papa gli commesse che mi scrivessi che io tornassi allui. Questa
ditta lettera conteneva che io dovessi tornare al servizio di
Clemente, e che buon per me. Quelli giovani che eran quivi alla
presenza, volevano pur sapere quel che quella lettera conteneva;
per la qual cosa, il meglio che io potetti, la nascosi: dipoi
iscrissi al ditto maestro Iacopo pregandolo, che né per
bene né per male in modo nessuno lui non mi scrivessi. Il
ditto, cresciutogli maggior voglia, mi scrisse un'altra lettera,
la quale usciva tanto de' termini, che se la si fussi veduta, io
sarei capitato male. Questa diceva che, da parte del Papa, io
andassi subito, il quali mi voleva operare a cose di grandissima
importanza; e che, se io volevo far bene, che io lasciassi ogni
cosa subito, e non istessi a far contro a un papa, insieme con
quelli pazzi arrabbiati. Vista la lettera, la mi misse tanta
paura, che io andai a trovare quel mio caro amico, che si
domandava Pier Landi; il quale vedutomi, subito mi domandò
che cosa di nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto
travagliato. Dissi al mio amico che, quel che io avevo che mi dava
quel gran travaglio, in modo nessuno non gliel potevo dire; solo
lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave che io gli davo, e che
rendessi le gioie e l'oro al terzo e al quarto, che lui in sun un
mio libruccio troverebbe scritto; di poi pigliassi la roba della
mia casa, e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita
amorevolezza, e che infra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi.
Questo savio giovane, forse a un dipresso imaginatosi la cosa, mi
disse: - Fratel mio, va' via presto, di poi scrivi, e delle cose
tue non ti dare un pensiero -. Cosí feci. Questo fu il
piú fedele amico, il piú savio, il piú da
bene, il piú discreto, il piú amorevole che mai io
abbia conosciuto. Partitomi di Firenze, me ne andai a Roma, e di
quivi scrissi.
XLIII. Subito che io giunsi in Roma, ritrovato parte delli mia
amici, dalli quali io fui molto ben veduto e carezzato, e subito
mi messi a lavorare opere tutte da guadagnare e non di nome da
descrivere. Era un certo vecchione orefice, il quale si domandava
Raffaello del Moro. Questo era uomo di molta riputazione ne
l'arte, e nel resto era molto uomo da bene. Mi pregò che io
fussi contento andare a lavorare nella bottega sua, perché
aveva da fare alcune opere d'importanza, le quali erano di
bonissimo guadagno: cosí andai volentieri. Era passato
piú di dieci giorni, che io non m'ero fatto vedere a quel
detto maestro Iacopino della Barca; il quale, vedutomi a caso, mi
fece grandissima accoglienza, e domandatomi quant'egli era che io
ero giunto, gli dissi che gli era circa quindici giorni. Questo
uomo l'ebbe molto per male, e mi disse che io tenevo molto poco
conto d'un papa, il quale con grande istanzia di già gli
aveva fatto scrivere tre volte per me: e io, che l'avevo
aùto molto piú per male di lui, nulla gli risposi
mai, anzi mi ingozzavo la stizza.Questo uomo, ch'era
abundantissimo di parole, entrò in sun una pesta e ne disse
tante, che pur poi, quando io lo viddi stracco, non gli dissi
altro, se non che mi menassi dal Papa a sua posta; il qual
rispose, che sempre era tempo; onde io gli dissi: - E io ancora
son sempre parato -. Cominciatosi a 'vviare verso il palazzo, e io
seco (questo fu il Giovedí santo), giunti alle camere del
Papa lui che era conosciuto e io aspettato, subito fummo messi
drento. Era il Papa innel letto un poco indisposto e seco era
misser Iacopo Salviati e l'arcivescovo di Capua. Veduto che m'ebbe
il Papa, molto strasordinariamente si rallegrò; e io,
baciatogli e' piedi, con quanta modestia io potevo me li accostavo
appresso, mostrando volergli dire alcune cose d'importanza. Subito
fatto cenno con la mana, il ditto missere Iacopo e l'arcivescovo
si ritirorno molto discosto da noi. Subito cominciai, dicendo: -
Beatissimo Padre, da poi che fu il Sacco in qua, io non mi son
potuto né confessare né comunicare, perché
non mi vogliono assolvere. Il caso è questo, che quando io
fonde' l'oro e feci quelle fatiche a scior quelle gioie, Vostra
Santità dette commessione al Cavalierino che donasse un
certo poco premio delle mie fatiche, il quale io non ebbi nulla,
anzi mi disse piú presto villania. Andatomene su, dove io
avevo fonduto il detto oro, levato le ceneri trovai in circa una
libra e mezzo d'oro in tante granellette come panico; e
perché io non avevo tanti danari da potermi condurre
onorevolmente a casa mia, pensai servirmi di quelli, e rendergli
da poi quando mi fusse venuto la comodità. Ora io son qui
a' piedi di Vostra Santità, la quali è 'l vero
confessoro: quella mi faccia tanto di grazia di darmi licenzia
acciò che io mi possa confessare e comunicare, e mediante
la grazia di Vostra Santità, io riabbia la grazia del mio
signor Idio -. Allora il Papa con un poco di modesto sospiro,
forse ricordandosi de' sua affanni, disse queste parole: -
Benvenuto, io sono certissimo quel che tu di' il quale, ti posso
assolvere d'ogni inconveniente che tu avessi fatto, e di
piú voglio, sí che liberissimamente e con buono
animo di' su ogni cosa, ché, se tu avessi aùto il
valore di un di quei regni interi, io son dispostissimo a
perdonarti -. Allora io dissi: - Altro non ebbi, beatissimo Padre,
che quanto io ho detto; e questo non arrivò al valore di
cento quaranta ducati, che tanto ne ebbi dalla zecca di Perugia, e
con essi n'andai a confortare il mio povero vecchio padre -. Disse
il Papa: - Tuo padre è stato cosí virtuoso, buono e
dabbene uomo, quanto nascessi mai, e tu punto non traligni: molto
m'incresce che i danari furno pochi; però questi, che tu
di' che sono, io te ne fo un presente, e tutto ti perdono; fa di
questo fede al confessoro, se altro non c'è che attenga a
me; di poi, confessato e comunicato che tu sia, lascerai' ti
rivedere, e buon per te -. Spiccato che io mi fui dal Papa,
accostatosi il ditto misser Iacopo e l'arcivescovo, il Papa disse
tanto ben di me, quanto d'altro uomo che si possa dire al mondo; e
disse che mi aveva confessato e assoluto; di poi aggiunse, dicendo
a l'arcivescovo di Capua, che mandassi per me e che mi domandassi
se sopra a quel caso bisognava altro, che di tutto mi assolvessi,
che gnene dava intera autorità, e di piú mi facessi
quante carezze quanto e' poteva. Mentre che io me ne andavo con
quel maestro Iacopino, curiosissimamente mi domandava che serrati
e lunghi ragionamenti erano stati quelli che io avevo aúti
col Papa: la qualcosa come e' m'ebbe dimandato piú di dua
volte, gli dissi che non gnene volevo dire, perché non eran
cose che s'attenessino allui; però non me ne dimandassi
piú. Andai a fare tutto quello che ero rimasto col Papa; di
poi, passato le due feste, lo andai a visitare: il quale, fattomi
piú carezze che prima, mi disse: - Se tu venivi un poco
prima a Roma, io ti facevo rifare quella mia dua regni, che noi
guastammo in Castello<B>; </B>ma perché e' le
son cose, dalle gioie di fuora, di poca virtú, io ti
adopererò a una opera di grandissima importanza, dove tu
potrai mostrare quel che tu sai fare. E questo si è il
bottone del peviale (il quale si fa tondo a foggia di un tagliere,
e grande quanto un taglieretto, di un terzo di braccio): in questo
io voglio che si faccia un Dio Padre di mezzo rilievo, e in mezzo
al detto voglio accomodare questa bella punta del diamante grande
con molte altre gioie di grandissima importanza. Già ne
cominciò uno Caradosso, e non lo finí mai; questo io
voglio che si finisca presto, perché me lo voglio ancora io
godere qualche poco; sí che va', e fa' un bel modellino -.
E mi fece mostrare tutte le gioie; onde io affusolato subito
andai.
XLIV. In mentre che l'assedio era intorno a Firenze, quel Federigo
Ginori, a chi io avevo fatto la medaglia de l'Atalante, si
morí di tisico, e la ditta medaglia capitò alle mane
di misser Luigi Alamanni, il quale in ispazio di breve tempo la
portò egli medesimo a donare a re Francesco, re di Francia,
con alcuni sua bellissimi scritti. Piacendo oltramodo questa
medaglia al Re, il virtuosissimo misser Luigi Alamanni
parlò di me con Sua Maestà alcune parole di mia
qualità, oltra l'arte<B>, </B>con tanto favore,
che il Re fece segno di aver voglia di conoscermi. Con tutta la
sollecitudine che io potevo sollecitando quel detto modelletto, il
quale facevo della grandezza apunto che doveva essere l'opera,
risentitosi ne l'arte degli orefici molti di quelli, che pareva
loro essere atti a far tal cosa; e perché gli era venuto a
Roma un certo Micheletto, molto valente uomo per intagliare
corniuole, ancora era intelligentissimo gioielliere, ed era uomo
vecchio e di molta riputazione: erasi intermesso alla cura de' dua
regni del Papa: faccendo io questo detto modello, molto si
maravigliò che io non avevo fatto capo allui, essendo pure
uomo intelligente e in credito assai del Papa. A l'ultimo, veduto
che io non andavo dallui, lui venne da me domandandomi quello che
io facevo: - Quel che m'ha comisso il Papa - gli risposi. Allora
e' disse: - Il Papa m'ha comisso che io vegga tutte queste cose
che per Sua Santità si fanno -. Al quale io dissi che ne
dimanderei prima il Papa, di poi saprei quel che io gli avessi a
rispondere. Mi disse che io me ne pentirei; e partitosi da me
adirato, si trovò insieme con tutti quelli dell'arte, e
ragionando di questa cosa, dettono il carico<B> </B>al
detto Michele tutti; il quale, con quel suo buono ingegno fece
fare da certi valenti disegnatori piú di trenta disegni
tutti variati l'uno dall'altro, di questa cotale impresa. E
perché gli aveva a sua posta l'orecchio del Papa,
accordatosi con un altro gioielliere, il quale si chiamava Pompeo,
milanese (questo era molto favorito dal Papa, ed era parente di
misser Traiano primo cameriere del Papa), cominciorno questi dua,
cioè Michele e Pompeo, a dire al Papa che avevano visto il
mio modello, e che pareva loro che io non fossi strumento atto a
cosí mirabile impresa. A questo il Papa disse che l'aveva a
vedere anche lui; di poi, non essendo io atto, si cercherebbe chi
fussi. Dissono tutt'a dua, che avevano parecchi disegni mirabili
sopra tal cosa: a questo il Papa disse che l'aveva caro assai, ma
che non gli voleva vedere prima che io avessi finito il mio
modello; di poi vedrebbe ogni cosa insieme. Infra pochi giorni io
ebbi finito il mio modello, e portatolo una mattina su dal Papa,
quel misser Traiano mi fece aspettare, e in questo mezzo
mandò con diligenzia per Micheletto e per Pompeo, dicendo
loro che portassino i disegni. Giunti che e' furno, noi fummo
messi drento; per la qual cosa subito Michele e Pompeo cominciorno
a squadernare i lor disegni, e il Papa a vedergli. E perché
i disegnatori fuor de l'arte del gioiellare non sanno la
situazione delle gioie, ne manco coloro che erano gioiellieri non
l'avevano insegnata loro: perché è forza a un
gioielliere, quando infra le sue gioie intervien figure, ch'egli
sappia disegnare, altrimenti non gli vien fatto cosa buona; di
modo che tutti que' disegni avevano fitto quel maraviglioso
diamante nel mezzo del petto di quel Dio Padre. Il Papa, che pure
era di bonissimo ingegno, veduto questa cosa tale, non gli finiva
di piacere; e quando e' n'ebbe veduto insino a dieci, gittato el
resto in terra, disse a me, che mi stavo là da canto: -
Mostra un po' qua, Benvenuto, il tuo modello, acciò che io
vegga se tu sei nel medesimo errore di costoro -. Io fattomi
innanzi e aperto una scatoletta tonda, parve che uno splendore
dessi proprio negli occhi del Papa; e disse con gran voce: - Se tu
mi fussi stato in corpo<B>, </B>tu non l'aresti fatto
altrimenti come io veggo: costoro non sapevano altro modo a
vituperarsi<B> </B>-. Accostatisi molti gran signori,
il Papa mostrava la differenza che era dal mio modello a' lor
disegni. Quando l'ebbe assai lodato, e coloro spaventati e goffi
alla presenza, si volse a me e disse; - Io ci cognosco apunto un
male che è d'importanza grandissima. Benvenuto mio, la cera
è facile da lavorare; il tutto è farlo d'oro -. A
queste parole io arditamente risposi dicendo: - Beatissimo Padre,
se io non lo fo meglio dieci volte di questo mio modello, sia di
patto che voi non me lo paghiate -. A queste parole si levò
un gran tomulto fra quei signori, dicendo che io promettevo
troppo. V'era un di questi signori, grandissimo filosofo, il quale
disse in mio favore: - Di quella bella finnusumia e simitria di
corpo, che io veggo in questo giovane, mi prometto tutto quello
che dice, e da vantaggio -. Il Papa disse: - È per che io
lo credo ancora io -. Chiamato quel suo cameriere misser Traiano,
gli disse che portassi quivi cinquecento ducati d'oro di Camera.
In mentre che i danari si aspettavano, il Papa di nuovo piú
adagio considerava in che bel modo io avevo accomodato il diamante
con quel Dio Padre. Questo diamante l'avevo apunto messo in mezzo
di questa opera, e sopra d'esso diamante vi avevo accomodato a
sedere il Dio Padre in un certo bel modo svolto che dava
bellissima accordanza, e non occupava la gioia niente: alzando la
man diritta dava la benedizione. Sotto al detto diamante avevo
accomodato tre puttini, che co le braccia levate in alto
sostenevano il ditto diamante. Un di questi puttini di mezzo era
di tutto rilievo; gli altri dui erano di mezzo. A l'intorno era
assai quantità di puttini diversi, accomodati con l'altre
belle gioie. Il resto de Dio Padre aveva uno amanto che
svolazzava, dil quale usciva di molti puttini, con molti altri
belli ornamenti, li quali facevano bellissimo vedere. Era questa
opera fatta di uno stucco bianco sopra una pietra negra. Giunto i
danari, il Papa di sua mano me gli dette, e con grandissima
piacevolezza mi pregò, che io facessi di sorte che lui
l'avessi a' sua dí, e che buon per me.
XLV. Portatomi via i danari e il modello, mi parve mill'anni di
mettervi le mane. Cominciato subito con gran sollecitudine a
lavorare, in capo di otto giorni il Papa mi mandò a dire
per un suo cameriere, grandissimo gentiluomo bolognese, che io
dovessi andar da lui, e portare quello che io avevo lavorato.
Mentre che io andavo, questo ditto cameriere, che era la
piú gentil persona che fussi in quella Corte, mi diceva che
non tanto il Papa volessi veder quell'opera, ma me ne voleva dare
un'altra di grandissima importanza; e questa si era le stampe
delle monete della zecca di Roma; e che io mi armassi<B>
</B>a poter rispondere a Sua Santità: che per questo
lui me ne aveva avvertito. Giunsi dal Papa, e squadernatogli
quella piastra d'oro, dove era già isculpito Idio Padre
solo, il quale cosí bozzato mostrava piú
virtú che quel modelletto di cera; di modo che il Papa
stupefatto disse: - Da ora innanzi tutto quello che tu dirai, ti
voglio credere - e fattomi molti sterminati favori, disse: - Io ti
voglio dare un'altra impresa, la quale mi sarebbe cara
quant'è questa e piú, se ti dessi il cuor di farla
-; e dittomi che arebbe caro di far le stampe delle sue monete, e
domandandomi se io n'avevo piú fatte, e se me ne dava il
cuore di farle, io dissi che benissimo me ne dava il cuore, e che
io avevo veduto come le si facevano; ma che io no n'avevo mai
fatte. Essendo alla presenza un certo misser Tommaso da Prato, il
quale era datario di sua Santità, per essere molto amico di
quelli mia nimici, disse: - Beatissimo Padre, gli favori che fa
Vostra Santità a questo giovane, e lui per natura
arditissimo, son causa che lui vi prometterebbe un mondo di nuovo;
perché, avendogli dato una grande impresa, e ora
aggiugnendognene una maggiore, saranno causa di dar l'una noia a
l'altra -. Il Papa adirato se gli volse e disse, gli badassi
all'uffizio suo; e a me impose che io facessi un modello d'un
doppione largo d'oro innel quale voleva che fussi un Cristo ignudo
con le mane legate, con lettere che dicessino <I>"Ecce
Homo"; </I>e un rovescio dove fussi un papa e uno
imperatore, che dirizzassino d'accordo una croce, la quale
mostrassi di cadere, con lettere che dicessino <I>"Unus
spiritus et una fides erat in eis". </I>Commessomi il Papa
questa bella moneta, sapragiunse il Bandinello scultore, il quale
non era ancor fatto cavaliere, e con la sua solita prosunzione
vestita d'ignoranzia disse: - A questi orafi, di queste cose belle
bisogna lor fare e' disegni -. Al quale io subito mi volsi e dissi
che io non avevo bisogno di sua disegni per l'arte mia; ma che io
speravo bene con qualche tempo, che con i mia disegni io darei
noia all'arte sua. Il Papa mostrò aver tanto caro queste
parole, quanto immaginar si possa, e voltosi a me, disse: - Va',
pur, Benvenuto mio, e attendi animosamente a servirmi, e non
prestare orecchio alle parole di questi pazzi -. Cosí
partitomi, e con gran prestezza feci dua ferri<B>;
</B>e stampato una moneta in oro, portato una domenica doppo
desinare la moneta e' ferri al Papa, quando la vidde, restato
maravigliato e contento, non tanto della bella opera che gli
piaceva oltramodo, ancora piú lo fe' maravigliare la
prestezza che io avevo usata. E per accrescere piú
satisfazione e maraviglia al Papa, avevo meco portato tutte le
vecchie monete che s'erano fatte per l'adietro da quei valenti
uomini che avevano servito papa Iulio e papa Lione; e veduto che
le mie molto piú satisfacevano, mi cavai di petto un moto
proprio per il quale io domandavo quel detto uffizio del maestro
delle stampe della zecca; il quale uffizio dava sei scudi d'oro di
provisione il mese, sanza che i ferri poi erano pagati dal
zecchiere, che se ne dava tre al ducato. Preso il Papa il mio moto
proprio e voltosi, lo dette in mano al datario, dicendogli che
subito me lo spedissi. Preso il datario il moto proprio e
volendoselo mettere innella tasca, disse: - Beatissimo Padre,
Vostra Santità non corra cosí a furia; queste son
cose che meritano qualche considerazione -. Allora il Papa disse:
- Io v'ho inteso; date qua quel moto proprio - e presolo, di sua
mano subito lo segnò; poi datolo allui disse: - Ora non
c'è piú replica; speditegne voi ora, perché
cosí voglio, e val piú le scarpe di Benvenuto che
gli occhi di tutti questi altri balordi -. E cosí
ringraziato Sua Santità, lieto oltremodo me ne andai a
lavorare.
XLVI. Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro
sopraditto. Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta,
per la quale lui mi aveva fatto disegno adosso; e io, essendomene
in parte avveduto, tal cosa desideravo, ma in mentre che io avevo
questo desiderio, io non lo dimostravo niente al mondo; anzi
istavo tanto costumato, che i' gli facevo maravigliare. Accadde,
che a questa povera fanciulletta gli venne una infermità
innella mana ritta, la quale gli aveva infradiciato quelle dua
ossicina che seguitano il dito mignolo e l'altro accanto al
mignolo. E perché la povera figliuola era medicata per la
inavvertenza del padre da un medicaccio ignorante, il quale disse
che questa povera figliuola resterebbe storpiata di tutto quel
braccio ritto, non gli avvenendo peggio; veduto io il povero padre
tanto sbigottito, gli dissi che non credessi tutto quel che diceva
quel medico ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non avere
amicizia di medici nissuno cerusici, e che mi pregava, che se io
ne conoscevo qualcuno, gnene avviassi. Subito feci venire un certo
maestro Iacomo perugino uomo molto eccellente nella cerusia; e
veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era
sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva
detto quel medico ignorante, dove questo intelligente disse che
ella non arebbe mal nessuno e che benissimo si servirebbe della
sua man ritta, se bene quelle dua dita ultime fussino state un po'
piú debolette de l'altre, per questo non gli darebbe una
noia al mondo. E messo mano a medicarla, in ispazio di pochi
giorni volendo mangiare un poco di quel fradicio di quelli
ossicini, il padre mi chiamò, che io andassi anch'io a
vedere un poco quel male, che a questa figliuola si aveva a fare.
Per la qual cosa preso il ditto maestro Iacopo certi ferri grossi,
e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male
alla ditta figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi
aspettassi uno ottavo d'ora. Corso in bottega feci un ferrolino
d'acciaio finissimo e torto; e radeva. Giunto al maestro,
cominciò con tanta gentilezza a lavorare, che lei non
sentiva punto di dolore, e in breve di spazio ebbe finito. A
questo, oltra l'altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto
amore, piú che non aveva a dua figliuoli mastii, e
cosí attese a guarire la bella figlioletta. Avendo
grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi, il quale
era cherico di camera; questo misser Giovanni si dilettava
grandemente delle virtú, con tutto che in lui nessuna non
ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni, greco, grandissimo
litterato; un misser Lodovico da Fano simile a quello, litterato;
messer Antonio Allegretti;<B> </B>allora misser
Annibal Caro giovane. Di fuora eramo misser Bastiano veniziano,
eccellentissimo pittore, e io; e quasi ogni giorno una volta ci
rivedevamo col ditto misser Giovanni: dove che per questa amicizia
quell'uomo da bene di Raffaello orefice disse al ditto misser
Giovanni: - Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete, e
perché io vorrei dare quella mia figlioletta a Benvenuto,
non trovando miglior mezzo che Vostra Signoria, vi prego che me ne
aiutate, e voi medesimo delle mie facultà gli facciate
quella dota che allei piace -. Questo uomo cervellino non
lasciò a pena finir di dire quel povero uomo da bene, che
sanza un proposito al mondo gli disse: - Non parlate piú,
Raffaello, di questo perché voi ne siete piú
discosto che il gennaio dalle more -. Il povero uomo, molto
isbattuto, presto cercò di maritarla; e meco istavano la
madre d'essa e tutti ingrognati, e io non sapevo la causa: e
parendomi che mi pagassin di cattiva moneta di piú
cortesie, che io avevo usato loro, cercai di aprire una bottega
vicino a loro. Il ditto misser Giovanni non disse nulla in sin che
la ditta figliuola non fu maritata, la qual cosa fu in ispazio di
parecchi mesi. Attendevo con gran sollecitudine a finire l'opera
mia e servire la zecca, ché di nuovo mi commisse il Papa
una moneta di valore di dua carlini, innella quale era il ritratto
della testa di Sua Santità, e da rovescio un Cristo in sul
mare, il quale porgeva la mana a San Pietro, con lettere intorno
che dicevano: <I>"Quare dubitasti?"</I>. Piacque
questa moneta tanto oltramodo, che un certo segretario del Papa,
uomo di grandissima virtú, domandato il Sanga, disse: -
Vostra Santità si può gloriare d'avere una sorta di
monete, la quale non si vede negli antichi, con tutte le lor pompe
-. A questo il Papa rispose: - Ancora Benvenuto si può
gloriare di servire uno imperatore par mio, che lo cognosca -.
Seguitando la grande opera d'oro, mostrandola spesso al Papa, la
qual cosa lui mi sollecitava di vederla, e ogni giorno piú
si maravigliava.
XLVII. Essendo un mio fratello in Roma al servizio del duca
Lessandro, al quale in questo tempo il Papa gli aveva procacciato
il ducato di Penna; stava al servizio di questo Duca moltissimi
soldati, uomini da bene, valorosi, della scuola di quello
grandissimo signor Giovanni de' Medici, e il mio fratello in fra
di loro, tenutone conto dal ditto Duca quanto ciascuno di quelli
altri piú valorosi. Era questo mio fratello un giorno doppo
desinare in Banchi in bottega d'un certo Baccino della Croce, dove
tutti quei bravi si<B> </B>riparavano: erasi messo in
su una sedia e dormiva. In questo tanto passava la corte del
bargello, la quale ne menava prigione un certo capitan Cisti,
lombardo, anche lui della scuola di quel gran signor Giovannino,
ma non istava già al servizio del Duca. Era il capitano
Cattivanza degli Strozzi in su la bottega del detto Baccino della
Croce. Veduto il ditto capitan Cisti il capitan Cattivanza degli
Strozzi. gli disse: - Io vi portavo quelli parecchi scudi che io
v'ero debitore; se voi gli volete, venite per essi prima che meco
ne vadino in prigione -. Era questo capitano volentieri a mettere
al punto, non si curando sperimentarsi, per che, trovatosi quivi
alla presenza certi bravissimi giovani piú volonterosi che
forti a sí grande impresa, disse loro che si accostassino
al capitan Cisti, e che si facessin dare quelli sua danari, e che,
se la corte faceva resistenza, loro a lei facessin forza, se a
loro ne bastava la vista. Questi giovani erano quattro solamente,
tutti a quattro sbarbati; e il primo si chiamava Bertino
Aldobrandi, l'altro Anguillotto dal Lucca: degli altri non mi
sovviene il nome. Questo Bertino era stato allevato e vero
discepolo del mio fratello, e il mio fratello voleva allui tanto
smisurato bene, quanto immaginar si possa. Eccoti i quattro bravi
giovani accostatisi alla corte del bargello, i quali erano
piú di cinquanta birri in fra picche, archibusi e spadoni a
dua mane. In breve parole si misse mano a l'arme, e quei quattro
giovani tanto mirabilmente strignevano la corte, che se il
capitano Cattivanza solo si fussi mostro un poco, sanza metter
mano all'arme, quei giovani mettevano la corte in fuga; ma
soprastati alquanto, quel Bertino toccò certe ferite
d'importanza, le quale lo batterno per terra: ancora Anguillotto
nel medesimo tempo toccò una ferita innel braccio dritto,
che non potendo piú sostener la spada, si ritirò il
meglio che potette; gli altri feciono il simile; Bertino
Aldobrandi fu levato di terra malamente ferito.
XLVIII. In tanto che queste cose seguivano, noi eramo tutti a
tavola. Perché la mattina s'era desinato piú
d'un'ora piú tardi che 'l solito nostro. Sentendo questi
romori, un di quei figliuoli, il maggiore, si rizzò da
tavola per andare a vedere questa mistia. Questo si domandava
Giovanni, al quale io dissi: - Di grazia non andare, perché
a simili cose sempre si vede la perdita sicura sanza nullo di
guadagno -: il simile gli diceva suo padre: - Deh, figliuol mio,
non andare -. Questo giovane, senza udir persona, corse giú
pella scala. Giunto in Banchi, dove era la gran mistia, veduto
Bertino levar di terra, correndo, tornando adrieto, si
riscontrò in Cechino mio fratello, il quali lo
domandò che cosa quella era. Essendo Giovanni da alcuni
accennato che tal cosa non dicessi al ditto Cecchino, disse a la
'npazzata<B> </B>come gli era che Bertino Aldobrandi
era stato ammazzato dalla corte. Il mio povero fratello misse
sí grande il mugghio, che dieci miglia si sarebbe sentito;
di poi disse a Giovanni: - Oimè, saprestimi tu dire chi di
quelli me l'ha morto? - Il ditto Giovanni disse che sí, e
che gli era un di quelli che aveva uno spadone a dua mane, con una
penna azzurra nella berretta. Fattosi innanzi il mio povero
fratello e conosciuto per quel contrassegno lo omicida, gittatosi
con quella sua maravigliosa prestezza e bravuria in mezzo a tutta
quella corte, e sanza potervi rimediare punto, messo una stoccata
nella trippa, e passato dall'altra banda il detto, cogli elsi
della spada lo spinse in terra, voltosi agli altri con tanta
virtú e ardire, che tutti lui solo metteva in fuga: se non
che, giratosi per dare a uno archibusiere, il quale per propia
necessità<B> </B>sparato l'archibuso, colse il
valoroso sventurato giovane sopra il ginocchio della gamba dritta;
e posto in terra, la ditta corte mezza in fuga sollecitava a
'ndarsene, acciò che un altro simile a questo sopraggiunto
non fossi. Sentendo continuare quel tomulto, ancora io levatomi da
tavola, e messomi la mia spada accanto, che per ugniuno in quel
tempo si portava, giunto al ponte Sant'Agnolo viddi un ristretto
di molti uomini: per la qual cosa fattomi innanzi, essendo da
alcuni di quelli conosciuto, mi fu fatto largo e mostromi quel che
manco io arei voluto vedere, se bene mostravo grandissima
curiosità di vedere. In prima giunta nol cognobbi, per
essersi vestito di panni diversi da quelli che poco innanzi io
l'avevo veduto; di modo che, conosciuto lui prima me, disse: -
Fratello carissimo, non ti sturbi il mio gran male, perché
l'arte mia tal cosa mi prometteva; fammi levare di qui presto,
perché poche ore ci è di vita -. Essendomi conto il
caso in mentre che lui mi parlava, con quella brevità che
cotali accidenti promettono, gli risposi: - Fratello, questo
è il maggior dolore e il maggior dispiacere che intervenir
mi possa in tutto il tempo della vita mia: ma istà di buona
voglia, che innanzi che tu perda la vista, di chi t'ha fatto male
vedrai le tua vendette fatte per le mia mane -. Le sue parole e le
mie furno di questa sustanzia, ma brevissime.
XLIX. Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché
Maffio, ch'era lor bargello, n'aveva fatto tornare una parte per
levar via quel caporale che il mio fratello aveva ammazzato; di
modo che, avendo camminato prestissimo quei parecchi passi
rinvolto e serrato nella cappa, ero giunto a punto accanto a
Maffio, e certissimo l'ammazzavo, perché i populi erano
assai, e io m'ero intermesso fra quelli. Di già con quanta
prestezza immaginar si possa avendo fuor mezza la spada, mi si
gettò per di drieto alle braccia Berlinghier Berlinghieri,
giovane valorosissimo e mio grande amico, e seco era quattro altri
giovani simili a lui, e' quali dissono a Maffio: - Lévati,
ché questo solo t'ammazzava -. Dimandato Maffio - chi
è questo? - dissono: - Questo è fratello di quel che
tu vedi là, carnale -. Non volendo intendere altro, con
sollecitudine si ritirò in Torre di Nona, e a me dissono: -
Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato contra tua
voglia, s'è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere
quello che starà poco a morire -. Cosí voltici,
andammo dal mio fratello, il quale io lo feci portare in una casa.
Fatto subito un consiglio di medici, lo medicorno, non si
risolvendo a spiccargli la gamba affatto, che talvolta sarebbe
campato. Subito che fu medicato, comparse quivi il duca Lessandro,
il quale faccendogli carezze (stava ancora il mio fratello in
sé), disse al duca Lessandro: - Signor mio, d'altro non mi
dolgo, se none che Vostra Eccellenzia perde un servitore, del
quale quella ne potria trovare forse de' piú valenti di
questa professione, ma non che con tanto amore e fede vi
servissino, quanto io faceva -. Il Duca disse che s'ingegnasse di
vivere; de' resto benissimo lo cognosceva per uomo da bene e
valoroso. Poi si volse a certi sua, dicendo loro che di nulla si
mancasse a quel valoroso giovane. Partito che fu il Duca,
l'abundanzia del sangue, qual non si poteva stagnare, fu causa di
cavarlo del cervello; in modo che la notte seguente tutta
farneticò, salvo che volendogli dare la comunione, disse: -
Voi facesti bene a confessarmi dianzi: ora questo sacramento
divino non è possibile che io lo possa ricevere in questo
di già guasto istrumento: solo contentatevi che io lo gusti
con la divinità degli occhi per i quali sarà
ricevuto dalla immortale anima mia; e quella sola allui chiede
misericordia e perdono -. Finite queste parole, levato il
Sacramento, subito tornò alle medesime pazzie di prima, le
quali erano composte dei maggiori furori, delle piú orrende
parole che mai potessimo immaginare gli uomini; né mai
cessò in tutta notte insino al giorno. Come il sole fu
fuora del nostro orizzonte si volse a me e mi disse: - Fratel mio,
io non voglio piú star qui, perché costoro mi
farebbon fare qualche gran cosa, di che e' s'arebbono a pentire
d'avermi dato noia -, e scagliandosi con l'una e l'altra gamba, la
quale noi gli avevamo messo in una cassa molto ben grave, la
tramutò in modo di montare a cavallo: voltandosi a me col
viso disse tre volte: - Adio, adio - e l'ultima parola se ne
andò con quella bravosissima anima. Venuto l'ora debita,
che fu in sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con
grandissimo onore innella chiesa de' Fiorentini, e di poi gli feci
fare una bellissima lapida di marmo, innella quale vi si fece
alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio lasciare in
drieto, che domandandolo un di quei sua amici, chi gli aveva dato
quell'archibusata, se egli lo ricognoscessi, disse di sí, e
dettegli e' contrassegni; e' quali, se bene il mio fratello s'era
guardato da me che tal cosa io non sentissi, benissimo lo avevo
inteso, e al suo luogo si dirà il seguito.
L. Tornando alla ditta lapida, certi maravigliosi litterati, che
conoscevano il mio fratello, mi dettono una epigramma dicendomi
che quella meritava quel mirabil giovane, la qual diceva
cosí: <I>"Francisco Cellino Fiorentino, qui quod in
teneris annis ad Ioannem Medicem ducem plures victorias retulit et
signifer fuit, facile documentum dedit quantae fortitudinis et
consilii vir futurus erat, ni crudelis fati archibuso transfossus
quinto aetatis lustro jaceret, Benvenutus frater posuit. Obiit die
XXVII Maii MDXXIX"</I>.Era dell'età di venticinque
anni; e perché domandato in fra i soldati Cecchino del
Piffero, dove il nome suo proprio era Giovanfrancesco Cellini, io
volsi fare quel nome propio, di che gli era conosciuto, sotto la
nostra arme. Questo nome io l'avevo fatto intagliare di bellissime
lettere antiche; le quali avevo fatto fare tutte rotte, salvo che
la prima e l'ultima lettera. Le quali lettere rotte, io fui
domandato per quel che cosí avevo fatto da quelli
litterati, che mi avevano fatto quel bello epigramma. Dissi loro
quelle lettere esser rotte, perché quello strumento
mirabile del suo corpo era guasto e morto; e quelle dua lettere
intere, la prima e l'ultima, si erano, la prima, memoria di quel
gran guadagno di quel presente che ci dava Idio, di questa nostra
anima accesa dalla sua divinità: questa non si rompeva mai;
quella altra ultima intera si era per la gloriosa fama delle sue
valorose virtú. Questo piacque assai e di poi qualcuno
altro se n'è servito di questo modo. Appresso feci
intagliare in detta lapida l'arme nostra de' Cellini, la quale io
l'alterai da quel che l'è propia; perché si vede in
Ravenna, che è città antichissima, i nostri Cellini
onoratissimi gentiluomini, e' quali hanno per arme un leone
rampante, di color d'oro in campo azzurro, con un giglio rosso
posto nella zampa diritta, e sopra il rastrello con tre piccoli
gigli d'oro. Questa è la nostra vera arme<B>
</B>de' Cellini. Mio padre me la mostrò, la quale era
la zampa sola, con tutto il restante delle ditte cose; ma a me
piú piacerebbe che si osservassi quella dei Cellini di
Ravenna sopra detta. Tornando a quella che io feci nel sepulcro
del mio fratello, era la branca del lione, e in cambio del giglio
gli feci una accetta in mano, col campo di detta arme
partito<B> </B>in quattro quarti; e quell'accetta che
io feci, fu solo perché non mi si scordassi di fare le sue
vendette.
LI. Attendevo con grandissima sollecitudine a finire quell'opera
d'oro a papa Clemente, la quale il ditto Papa grandemente
desiderava, e mi faceva chiamare dua e tre volte la settimana,
volendo vedere detta opera, e sempre gli cresceva di piacere: e
piú volte mi riprese quasi sgridandomi della gran mestizia
che io portavo di questo mio fratello; e una volta in fra l'altre,
vedutomi sbattuto e squallido piú che 'l dovere, mi disse:
- Benvenuto, oh! i' non sapevo che tu fussi pazzo; non hai tu
saputo prima che ora, che alla morte non è rimedio? Tu vai
cercando di andargli drieto -. Partitomi dal Papa seguitava
l'opera e i ferri della zecca, e per mia innamorata mi avevo preso
il vagheggiare quello archibusieri, che aveva dato al mio
fratello. Questo tale era già stato soldato cavalleggieri,
di poi s'era messo per archibusieri nel numero de' caporali col
bargello; e quello che piú mi fece crescere la stizza, fu
che lui s'era vantato in questo modo, dicendo: - Se non ero io,
che ammazzai quel bravo giovane, ogni poco che si tardava, che
egli solo con nostro gran danno tutti ci metteva in fuga -.
Cognoscendo io che quella passione di vederlo tanto ispesso mi
toglieva il sonno e il cibo e mi conduceva per il mal cammino, non
mi curando di far cosí bassa impresa e non molto lodevole,
una sera mi disposi a volere uscire di tanto travaglio. Questo
tale istava a casa vicino a un luogo chiamato Torre Sanguigna
accanto a una casa dove stava alloggiato una cortigiana delle
piú favorite di Roma, la quali si domandava la signora
Antea. Essendo sonato di poco le ventiquattro ore, questo
archibusieri si stava in su l'uscio suo con la spada in mano, e
aveva cenato. Io con gran destrezza me gli acostai con un gran
pugnal pistolese e girandogli un marrovescio<B>,
</B>pensando levargli il collo di netto, voltosi anche egli
prestissimo, il colpo giunse innella punta della spalla istanca; e
fiaccato tutto l'osso, levatosi sú, lasciato la spada
smarrito dal gran dolore, si messe a corsa; dove che seguitandolo,
in quattro passi lo giunsi, e alzando il pugnale sopra la sua
testa, lui abassando forte il capo, prese il pugnale apunto l'osso
del collo e mezza la collottola, e innell'una e nell'altra parte
entrò tanto dentro il pugnale, che io, se ben facevo gran
forza di riaverlo, non possetti; perché della ditta casa de
l'Antea saltò fuora quattro soldati con le spade inpugnate
in mano, a tale che io fui forzato a metter mano per la mia spada
per difendermi da loro. Lasciato il pugnale mi levai di quivi, e
per paura di non essere conosciuto me ne andai in casa il duca
Lessandro, che stava in fra piazza Navona e la Ritonda. Giunto che
io fui, feci parlare al Duca, il quale mi fece intendere che, se
io ero solo, io mi stessi cheto e non dubitassi di nulla, e che io
me ne andassi a lavorare l'opera del Papa, che la desiderava
tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento; massimamente
essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano impedito, li
quali avevano quel pugnale in mano, e contavano la cosa come l'era
ita, e la gran fatica che egli avevano durato a cavare quel
pugnale dell'osso del collo e del capo di colui, il quale loro non
sapevano chi quel si fussi. Sopraggiunto in questo Giovan Bandini,
disse loro: - Questo pugnale è il mio, e l'avevo prestato a
Benvenuto, il quale voleva far le vendette del suo fratello -. I
ragionamenti di questi soldati furno assai, dolendosi d'avermi
impedito, se bene la vendetta s'era fatta a misura di carboni.
Passò piú di otto giorni: il Papa non mi
mandò a chiamare come e' soleva. Da poi mandatomi a
chiamare per quel gentiluomo bolognese suo cameriere, che
già dissi, questo con gran modestia mi accennò come
il Papa sapeva ogni cosa, e che Sua Santità mi voleva un
grandissimo bene, e che io attendessi a lavorare e stessi cheto.
Giunto al Papa, guardatomi cosí coll'occhio del porco, con
i soli sguardi mi fece una paventosa bravata; di poi atteso a
l'opera, cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltra
modo, dicendomi che io avevo fatto un gran lavorare in sí
poco tempo; da poi guardatomi in viso, disse: - Or che tu se'
guarito, Benvenuto, attendi a vivere - e io, che lo 'ntesi, dissi
che cosí farei. Apersi una bottega subito bellissima in
Banchi, al dirimpetto a quel Raffaello, e quivi fini' la detta
opera in pochi mesi a presso.
LII. Mandatomi il Papa tutte le gioie, dal diamante in fuora, il
quale per alcuni sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri
genovesi, tenevo tutte l'altre gioie, e di questo diamante avevo
solo la forma. Tenevo cinque bonissimi lavoranti, e fuora di
questa opera facevo di molte faccende; in modo che la bottega era
carica di molto valore d'opere e di gioie, d'oro e di argento.
Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo e bello, il quale me
lo aveva donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono
per la caccia, perché mi portava ogni sorta di uccelli e
d'altri animali che ammazzato io avessi con l'archibuso, ancora
per guardia d'una casa questo era maravigliosissimo.<B>
</B>Mi avenne in questo tempo, promettendolo la stagione
innella quale io mi trovava, innell'età di ventinove anni,
avendo preso per mia serva una giovane di molta bellissima forma e
grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla, a proposito per
l'arte mia: ancora mi compiaceva alla giovinezza mia del diletto
carnale. Per la qual cosa, avendo la mia camera molto apartata da
quelle dei mia lavoranti, e molto discosto alla bottega, legata
con un bugigattolo d'una cameruccia di questa giovane serva; e
perché molto ispesso io me la godevo; (e se bene io ho
aùto il piú legger sonno che mai altro uomo avessi
al mondo, in queste tali occasioni de l'opere della carne egli
alcune volte si fa gravissimo e profondo); sí come avvenne,
che una notte in fra l'altre, essendo istato vigilato da un ladro,
il quale sott'ombra di dire che era orefice, aocchiando quelle
gioie disegnò rubarmele, per la qual cosa sconfittomi la
bottega, trovò assai lavoretti d'oro e d'argento: e
soprastando a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie
che gli aveva vedute, quel cane ditto se gli gettava a dosso, e
lui con una spada malamente da quello si difendeva; di modo che
piú volte il cane corse per la casa, entrato innelle camere
di quei lavoranti, che erano aperte per esser di state. Da poi che
quel suo gran latrare quei non volevan sentire, tirato lor le
coperte da dosso, ancora non sentendo, pigliato per i bracci or
l'uno or l'altro, per forza gli svegliò, e latrando con
quel suo orribil modo, mostrava loro il sentiero avviandosi loro
inanzi. E' quali veduto che lor seguitare non lo volevano, venuto
a questi traditori a noia, tirando al detto cane sassi e bastoni,
(e questo lo potevano fare, perché era di mia commessione
che loro tutta la notte tenessimo il lume), per ultimo serrato
molto ben le camere, il cane, perso la speranza de l'aiuto di
questi ribaldi, da per sé solo si messe all'impresa; e
corso giú, non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e
combattendo seco, gli aveva di già stracciata la cappa e
tolta; e se non era che lui chiamò l'aiuto di certi sarti,
dicendo loro che per l'amor di Dio l'aiutassimo difendere da un
cane arrabiato, questi credendo che cosí fussi il vero,
saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il
giorno, essendo iscesi in bottega, la vidono sconfitta e aperta, e
rotto tutte le cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare -
oimè, oimè! - onde io resentitomi, ispaventato da
quei romori mi feci fuora. Per la qual cosa fattimisi innanzi, mi
dissono: - Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da uno che
ha rotto e tolto ogni cosa! - Queste parole furno di tanta
potenzia, che le non mi lasciorno andare al mio cassone a vedere
se v'era drento le gioie del Papa: ma per quella cotal gelosia
ismarrito quasi affatto il lume degli occhi, dissi che loro
medesimi aprissino il cassone, vedendo quante vi mancava di quelle
gioie del Papa. Questi giovani si erano tutti in camicia; e quando
di poi aperto il cassone videro tutte le gioie e l'opera d'oro
insieme con esse, rallegrandosi mi dissono: - E' non ci è
mal nessuno, da poi che l'opera e le gioie son qui tutte; se bene
questo ladro ci ha lasciati tutti in camicia, causa che iersera
per il gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega e ivi
lasciammo i nostri panni -. Subito ritornatomi le virtú al
suo luogo, ringraziato Idio, dissi: - Andate tutti a rivestirvi di
nuovo, e io ogni cosa pagherò, intendendo piú per
agio il caso come gli è passato -. Quello che piú mi
doleva, e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto fuor
della natura mia, si era che talvolta il mondo non avessi pensato
che io avessi fatto quella finzione di quel ladro sol per rubare
io le gioie; e perché a papa Clemente fu detto da un suo
fidatissimo e da altri, e' quali furno Francesco del Nero, il Zana
de' Biliotti suo computista, il vescovo di Vasona e molti altri
simili: - Come fidate voi, beatissimo Padre, tanto gran valor di
gioie a un giovine, il quale è tutto fuoco, ed è
piú ne l'arme inmerso che ne l'arte, e non ha ancora trenta
anni? - La qual cosa il Papa rispose, se nessun di loro sapeva che
io avessi mai fatto cose da dare loro tal sospetto. Francesco del
Nero, suo tesauriere, presto rispose dicendo. - No, beatissimo
Padre, perché e' non ha aùto mai una tale occasione
-. A questo il Papa rispose: - Io l'ho per intero uomo da bene, e
se io vedessi un mal di lui, io non lo crederrei -. Questo fu
quello che mi dette il maggior travaglio, e che subito mi venne a
memoria. Dato che io ebbi ordine a' giovani che fussino rivestiti,
presi l'opera insieme con le gioie, accomodandole meglio che io
potevo a' luoghi loro, e con esse me ne andai subito dal Papa, il
quale da Francesco del Nero gli era stato detto parte di quei
romori, che nella bottega mia s'era sentito; e subito messo
sospetto al Papa. Il Papa piú presto immaginato male che
altro, fattomi uno sguardo adosso terribile, disse con voce
altiera: - Che se' tu venuto a far qui? che c'è? -
Ècci tutte le vostre gioie e l'oro, e non manca nulla -.
Allora il Papa, rasserenato il viso, disse: - Cosí sia tu
il benvenuto -. Mostratogli l'opera, e in mentre che la vedeva, io
gli contavo tutti gli accidenti del ladro e de' mia affanni, e
quello che m'era di maggior dispiacere. Alle qual parole molte
volte si volse a guardarmi in viso fiso, e alla presenza era quel
Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che avessi mezzo per
male non si essere aposto. All'ultimo il Papa, cacciatosi a ridere
di quelle tante cose che io gli avevo detto, mi disse: - Va', e
attendi a essere uomo da bene, come io mi sapevo.
LIII. Sollecitando la ditta opera e lavorando continuamente per la
zecca, si cominciò a vedere per Roma alcune monete false
istampate con le mie proprie stampe. Subito furno portate dal
Papa; e datogli sospetto di me, il Papa disse a Iacopo Balducci
zecchiere: - Fa' diligenza grandissima di trovare il malfattore,
perché sappiamo che Benvenuto è uomo da bene -.
Questo zecchiere traditore, per esser mio nimico, disse: - Idio
voglia, beatissimo Padre, che vi riesca cosí qual voi dite;
perché noi abbiamo qualche riscontro -. A questo il Papa si
volse al governatore di Roma, e disse che lui facessi un poco di
diligenza di trovare questo malfattore. In questi dí il
Papa mandò per me; di poi con destri ragionamenti
entrò in su le monete, e bene a proposito mi disse: -
Benvenuto, darebbet'egli il cuore di far monete false? - Alla qual
cosa io risposi, che le crederrei far meglio che tutti quanti gli
uomini, che a tal vil cosa attendevano; perché quelli che
attendono a tal poltronerie non sono uomini che sappin guadagnare,
né sono uomini di grande ingegno; e se io col mio poco
ingegno guadagnavo tanto che mi avanzava, perché quando io
mettevo ferri per la zecca, ogni mattina inanzi che io desinassi
mi toccava guadagnare tre scudi il manco; (che cosí era
stato sempre l'usanza del pagare i ferri delle monete, e quello
sciocco del zecchiere mi voleva male, perché e' gli arebbe
voluti avere a miglior mercato); a me mi bastava assai questo che
io guadagnavo con la grazia di Dio e del mondo; che a far monete
false non mi sarebbe tocco a guadagnar tanto. Il Papa attinse
benissimo le parole; e dove gli aveva dato commessione che con
destrezza avessin cura che io non mi partissi di Roma, disse loro
che cercassino con diligenza, e di me non tenessin cura,
perché non arebbe voluto isdegnarmi, qual fussi causa di
perdermi. A chi e' commesse caldamente, furno alcuni de' chierici
di Camera, e' quali, fatto quelle debite diligenze, perché
a lor toccava, subito lo trovorno. Questo si era uno istampatore
della propia zecca, che si domandava per nome Céseri
Macheroni, cittadin romano; e insieme seco fu preso uno ovolatore
di zecca.
LIV. In questo dí medesimo, passando io per piazza Naona,
avendo meco quel mio bello can barbone, quando io sono giunto
dinanzi alla porta del bargello, il mio cane con grandissimo
impito forte latrando si getta dentro alla porta del bargello
addosso a un giovane, il quale aveva fatto cosí un poco
sostenere un certo Donnino, orefice, da Parma già discepol
di Caradossa, per aver aùto indizio che colui l'avessi
rubato. Questo mio cane faceva tanta forza di volere sbranare quel
giovane, che, mosso i birri a compassione, massimamente il giovane
audace difendeva bene le sue ragione, e quel Donnino non diceva
tanto che bastassi, maggiormente essendovi un di quei caporali de'
birri, ch'era genovese e conosceva il padre di questo giovane; in
modo che, fra il cane e quest'altre occasione, facevan di sorte
che volevan lasciar andar via quel giovane a ogni modo. Accostato
che io mi fui, il cane, non cognoscendo paura né di spada
né di bastoni, di nuovo gittatosi adosso a quel giovane,
coloro mi dissono che se io non rimediavo al mio cane, me lo
ammazzerebbono. Preso il cane il meglio che io potevo, innel
ritirarsi il giovane in su la cappa, gli cadde certe cartuzze
della capperuccia; per la qual cosa quel Donnino ricognobbe esser
cose sue. Ancora io vi ricognobbi un piccolo anellino; per la qual
cosa subito io dissi: - Questo è il ladro che mi sconfisse
e rubò la mia bottega; però il mio cane lo
ricognosce - e lasciato il cane, di nuovo si gli gettò
adosso; dove che il ladro mi si raccomandò, dicendomi che
mi renderebbe quello che aveva di mio. Ripreso il cane, costui mi
rese d'oro e di argento e di anelletti quel che gli aveva di mio,
e venticinque scudi da vantaggio; di poi mi si raccomandò.
Alle quali parole io dissi, che si raccomandassi a Dio,
perché io non gli farei né ben né male. E
tornato alle mie faccende, ivi a pochi giorni quel Céseri
Macherone delle monete false fu impiccato in Banchi dinanzi alla
porta della zecca; il compagno fu mandato in galea; il ladro
genovese fu impiccato in Campo di Fiore; e io mi restai in maggior
concetto di uomo da bene che prima non ero.
LV. Avendo presso a fine l'opera mia, sopravenne quella
grandissima inundazione, la quale traboccò d'acqua tutta
Roma. Standomi a vedere quel che tal cosa faceva, essendo di
già il giorno logoro, sonava ventidua ore, e l'acque
oltramodo crescevano. E perché la mia casa e bottega el
dinanzi era in Banchi e il di drieto saliva parecchi braccia,
perché rispondeva in verso Monte Giordano, di modo che,
pensando prima alla salute della vita mia, di poi all'onore, mi
missi tutte quelle gioie adosso e lasciai quell'opera d'oro a
quelli mia lavoranti in guardia, e cosí scalzo discesi per
le mie finestre di drieto, e il meglio che io potessi passai per
quelle acque tanto che io mi condussi a Monte Cavallo, dove io
trovai misser Giovanni Gaddi cherico di Camera, e Bastiano
Veniziano pittore. Accostatomi a misser Giovanni, gli detti tutte
le ditte gioie, che me le salvassi; il quale tenne conto di me,
come se fratello gli fussi stato. Di poi a pochi giorni, passati i
furori dell'acqua, ritornai alla mia bottega, e fini' la ditta
opera con tanta buona fortuna, mediante la grazia de Dio e delle
mie gran fatiche, che ella fu tenuta la piú bella opera che
mai fussi vista a Roma; di modo che, portandola al Papa, egli non
si poteva saziare di lodarmela; e disse: - Se io fussi uno
imperatore ricco, io donerei al mio Benvenuto tanto terreno,
quanto il suo occhio scorressi; ma perché noi dal dí
d'oggi siamo poveri imperatori falliti, ma a ogni modo gli darem
tanto pane, che basterà alle sue piccole voglie -. Lasciato
che io ebbi finire al Papa quella sua smania di parole, gli chiesi
un mazzieri ch'era vacato. Alle qual parole il Papa disse che mi
voleva dar cosa di molta maggiore importanza. Risposi a Sua
Santità, che mi dessi quella piccola, intanto, per arra.
Cacciandosi a ridere, disse che era contento, ma che non voleva
che io servissi, e che io mi convenissi con li compagni mazzieri
di non servire, dando loro qualche grazia, che già gli
avevano domandato al Papa, qual era di potere con autorità
riscuotere le loro entrate. Ciò fu fatto. Questo mazziere
mi rendeva poco manco di dugento scudi l'anno di entrata.
LVI. Seguitando appresso di servire il Papa or di un piccolo
lavoro or di un altro, m'impose che io gli facessi un disegno di
un calice ricchissimo; il quale io feci il ditto disegno e
modello. Era questo modello di legno e di cera; in luogo del
bottone del calice avevo fatto tre figurette di buona grandezza
tonde, le quale erano la Fede, la Speranza, e la Carità;
innel piede poi avevo fatto a conrispondenza tre storie in tre
tondi di basso rilievo: che innell'una era la
natività<B> </B>di Cristo, innell'altra la
resurressione di Cristo, innella terza si era San Pietro
crocifisso a capo di sotto; che cosí mi fu commesso che io
facessi. Tirando inanzi questa ditta opera, il Papa molto ispesso
la voleva vedere; in modo che, avvedutomi che Sua Santità
non s'era poi mai piú ricordato di darmi nulla, essendo
vacato un frate del Piombo<B>, </B>una sera io gnene
chiesi. Al buon Papa non sovvenendo piú di quella ismania
che gli aveva usato in quella fine di quella altra opera, mi
disse: - L'ufizio del Piombo rende piú di ottocento scudi,
di modo che se io te lo dessi, tu ti attenderesti a grattare il
corpo, e quella bell'arte che tu hai alle mane si perderebbe, e io
ne arei biasimo -. Subito risposi che le gatte di buona sorte
meglio uccellano per grassezza che per fame: - Cosí quella
sorte degli uomini dabbene che sono inclinati alle virtú,
molto meglio le mettono in opera quando egli hanno
abundantissimamente da vivere; di modo che quei principi che
tengono abundantissimi questi cotali uomini, sappi Vostra
Santità che eglino annaffiano le virtú: cosí
per il contrario le virtú nascono ismunte e rognose; e
sappi Vostra Santità, che io non lo chiesi con intenzione
di averlo. Pur beato che io ebbi qual povero mazziere! Di questo
tanto m'immaginavo. Vostra Santità farà bene, non
l'avendo voluto dar a me, a darla a qualche virtuoso che lo
meriti, e non a qualche ignorantone che si attenda a grattare il
corpo come disse Vostra Santità. Pigliate esemplo dalla
buona memoria di papa Iulio, che un tale ufizio dette a Bramante,
eccellentissimo architettore -. Subito fattogli reverenza
infuriato mi parti'. Fattosi innanzi Bastiano Veniziano, pittore,
disse: - Beatissimo padre, Vostra Santità sia contenta di
darlo a qualcuno che si affatica ne l'opere virtuose; e
perché, come sa Vostra Santità, ancora io volentieri
mi affatico in esse, la priego che me ne faccia degno -. Rispose
il Papa: - Questo diavolo di Benvenuto non ascolta le riprensioni.
Io ero disposto a dargnene, ma e' none sta bene essere cosí
superbo con un Papa; pertanto io non so quel che io mi farò
-. Subito fattosi innanzi il vescovo di Vasona, pregò per
il ditto Bastiano, dicendo: - Beatissimo padre, Benvenuto è
giovane e molto meglio gli sta la spada accanto che la vesta da
frati: Vostra Santità sia contenta di darlo a questo
virtuoso uomo di Bastiano; e a Benvenuto talvolta potrete dare
qualche cosa buona, la quale forse sarà piú a
proposito che questa -. Allora il Papa, voltosi a messer
Bartolomeo Valori, gli disse: - Come voi scontrate Benvenuto,
ditegli da mia parte che lui stesso ha fatto avere il Piombo a
Bastiano dipintore; e che stia avvertito, che la prima cosa
migliore che vaca, sarà la sua; e che intanto attenda a far
bene, e finisca l'opere mie -. L'altra sera seguente a dua ore di
notte, scontrandomi in messer Bartolomeo Valori in sul cantone
della zecca: lui aveva due torcie innanzi e andava in furia,
domandato dal Papa; faccendogli riverenza, si fermò e
chiamommi, e mi disse con grandissima affezione tutto quello che
gli aveva ditto il Papa che mi dicessi. Alle qual parole io
risposi, che con maggiore diligenzia e istudio finirei l'opera
mia, che nessuna mai de l'altre; ma sí bene senza punto di
speranza d'avere nulla mai dal Papa. Il detto misser Bartolomeo
ripresemi, dicendomi che cosí non si doveva rispondere a le
offerte d'un Papa. A cui io dissi, che ponendo isperanza a tal
parole, saputo che io non l'arei a ogni modo, pazzo sarei a
rispondere altrimenti; e partitomi, me ne andai a 'ttendere alle
mie faccende. Il ditto messer Bartolomeo dovette ridire al Papa le
mie ardite parole, e forse piú che io non dissi, di modo
che il Papa stette piú di dua mesi a chiamarmi, e io in
questo tempo non volsi mai andare al palazzo per nulla. Il Papa,
che di tale opera si struggeva, commesse a messer Ruberto Pucci
che attendessi un poco a quel che io facevo. Questo omaccion da
bene ogni dí mi veniva a vedere, e sempre mi diceva qualche
amorevol parola, e io allui. Appressandosi il Papa a voler
partirsi per andare a Bologna, a l'ultimo poi, veduto che da per
me io non vi andavo, mi fece intendere dal ditto misser Roberto,
che io portassi sú l'opera mia, perché voleva vedere
come io l'avevo innanzi. Per la qual cosa io la portai, mostrando
detta opera esser fatto tutta la importanza, e lo pregavo che mi
lasciassi cinquecento scudi, parte a buon conto, e parte mi
mancava assai bene de l'oro da poter finire detta opera. Il Papa
mi disse: - Attendi, attendi a finirla -. Risposi partendomi, che
io la finirei, se mi lasciava danari. Cosí me ne andai.
LVII. Il Papa andato alla volta di Bologna lasciò il
cardinale Salviati legato di Roma, e lasciògli commessione
che mi sollecitassi questa ditta opera, e li disse: - Benvenuto
è persona che stima poco la sua virtú, e manco Noi;
sí che vedete di sollecitarlo, in modo che io la truovi
finita -. Questo Cardinal bestia mandò per me in capo di
otto dí, dicendomi che io portassi sú l'opera; a il
quale io andai allui senza l'opera. Giunto che io fui, questo
Cardinale subito mi disse: - Dov'è questa tua cipollata?
ha' la tu finita? - Al quale io risposi: - O Monsignor
reverendissimo, io la mia cipollata non ho finita, e non la
finirò, se voi non mi date delle cipolle da finirla -. A
queste parole il ditto Cardinale, che aveva piú viso di
asino che di uomo, divenne piú brutto la metà; e
venuto al primo a mezza spada, disse: - Io ti metterò in
una galea, e poi arai di grazia di finir l'opera -. Ancora io con
questa bestia entrai in bestia, e gli dissi: - Monsignore, quando
io farò peccati che meritino la galea, allora voi mi vi
metterete: ma per questi peccati io non ho paura di vostra galea:
e di piú vi dico, a causa di Vostra Signoria, io non la
voglio mai piú finire; e non mandate mai piú per me,
perché io non vi verrò mai piú inanzi, se
già voi non mi facessi venir co' birri -. Il buon Cardinale
provò alcune volte amorevolmente a farmi intendere che io
doverrei lavorare e che i' gnene doverrei portare a mostrare; in
modo che a quei tali io dicevo: - Dite a Monsignore che mi mandi
delle cipolle, se vuol che io finisca la cipollata - né mai
gli risposi altre parole; di sorte che lui si tolse da questa
disperata cura.
LVIII. Tornò il Papa da Bologna, e subito domandò di
me, perché quel Cardinale di già gli aveva scritto
il peggio che poteva de' casi mia. Essendo il Papa innel maggior
furore che immaginar si possa, mi fece intendere che io andassi
con l'opera. Cosí feci. In questo tempo che il Papa stette
a Bologna, mi si scoperse una scesa<B> </B>con tanto
affanno agli occhi, che per il dolore io non potevo quasi vivere,
in modo che questa fu la prima causa che io non tirai innanzi
l'opera: e fu sí grande il male, che io pensai certissimo
rimaner cieco; di modo che io avevo fatto il mio conto, quel che
mi bastassi a vivere cieco. Mentre che io andavo al Papa, pensavo
il modo che io avevo a tenere a far la mia scusa di non aver
potuto tirare innanzi l'opera. Pensavo che in quel mentre che il
Papa la vedeva e considerava, poterli dire i fatti: la qual cosa
non mi venne fatta, perché giunto dallui, subito con parole
villane disse: - Da' qua quell'opera; è ella finita? - Io
la scopersi: subito con maggior furore disse: - In verità
de Dio dico a te, che fai professione di non tener conto di
persona, che se e' non fussi per onor di mondo io ti farei insieme
con quell'opera gittar da terra quelle finestre -. Per la qual
cosa, veduto io il Papa diventato cosí pessima bestia,
sollecitavo di levarmigli dinanzi. In mentre che lui continuava di
bravare, messami l'opera sotto la cappa, borbottando dissi: -
Tutto il mondo non farebbe che un cieco fussi tenuto a lavorare
opere cotali -. Maggiormente alzato la voce, il Papa disse: - Vien
qua; che di' tu? - Io stetti infra dua di cacciarmi a correre
giú per quelle scale; di poi mi risolsi, e gettatomi in
ginocchioni, gridando forte, perché lui non cessava di
gridare, dissi: - E se io sono per una infirmità divenuto
cieco, sono io tenuto a lavorare? - A questo e' disse: - Tu hai
pur veduto lume a venir qui, né credo che sia vero nessuna
di queste cose che tu di'-. Al quale io dissi, sentendogli
alquanto abbassar la voce: - Vostra Santità ne dimandi il
suo medico, e troverrà il vero -. Disse: - Piú
all'agio intenderemo se la sta come tu di'-. Allora, vedutomi
prestare audienza, dissi: - Io non credo che di questo mio gran
male ne sia causa altri che il cardinal Salviati, perché e'
mandò per me subito che Vostra Santità fu partito, e
giunto allui, pose alla mia opera nome una cipollata, e mi disse
che me la farebbe finire in una galea; e fu tanto la potenzia di
quelle inoneste parole, che per la estrema passione subito mi
senti' infiammare il viso, e vennemi innegli occhi un calore tanto
ismisurato, che io non trovavo la via a tornarmene a casa: di poi
a pochi giorni mi cadde dua cataratti in su gli occhi; per la qual
cosa io non vedevo punto di lume, e da poi la partita di Vostra
Santità io non ho mai potuto lavorare nulla -. Rizzatomi di
ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il Papa disse:
- Se e' si dà gli ufizi, non si può dare la
discrezione con essi. Io non dissi al Cardinale che mettessi tanta
mazza: che se gli è il vero che abbia male innegli occhi,
quale intenderò dal mio medico, sarebbe da 'vergli qualche
compassione -. Era quivi alla presenza un gran gentiluomo molto
amico del Papa e molto virtuosissimo. Domandatogli il Papa che
persona io ero, dicendo: - Beatissimo Padre, io ve ne domando,
perché m'è parso che voi siete venuto in un tempo
medesimo nella maggior còllora che io vedessi mai, e
innella maggiore compassione; sí che per questo io domando
Vostra Santità chi egli è; che se è persona
che meriti essere aiutato, io gli insegnerei un segreto da farlo
guarire di quella infermità - a queste parole disse il
Papa: - Quello è il maggiore uomo che nascessi mai della
sua professione; e un giorno che noi siamo insieme vi farò
vedere delle maravigliose opere sue, e lui con esse; e mi
sarà piacere che si vegga se si gli può fare qualche
benifizio -. Di poi tre giorni il Papa mandò per me un
dí doppo desinare, ed eraci questo gentiluomo alla
presenza. Subito che io fui giunto, el Papa si fece portare quel
mio bottone del piviale. In questo mezzo io avevo cavato fuora
quel mio calice; per la qual cosa quel gentiluomo diceva di non
aver mai visto un'opera tanto maravigliosa. Sopraggiunto il
bottone, gli accrebbe molto piú maraviglia; guardatomi in
viso disse: - Gli è pur giovane a saper tanto, ancora molto
atto a 'cquistare -. Di poi me domandò del mio nome. Al
quale io dissi: - Benvenuto è il mio nome -. Rispose: -
Benvenuto sarò io questa volta per te; piglia de' fioralisi
con il gambo, col fiore e con la barba tutto insieme, di poi gli
fa stillare con gentil fuoco, e con quell'acqua ti bagna gli occhi
parecchi<B> </B>volte il dí, e certissimamente
guarrai di cotesta infirmità; ma fatti prima purgare, e poi
continua la detta acqua -. Il Papa mi usò qualche amorevol
parola: cosí me ne andai mezzo contento.
LIX. La infirmità gli era il vero che io l'avevo, ma credo
che io l'avessi guadagnata mediante quella bella giovane serva che
io tenevo nel tempo che io fui rubato. Soprastette quel morbo
gallico a scoprirmisi piú di quattro mesi interi, di poi mi
coperse tutto tutto a un tratto: non era innel modo de l'altro che
si vede, ma pareva che io fussi coperto di certe vescichette,
grandi come quattrini, rosse. I medici non mel volson<B>
</B>mai battezzare mal franzese: e io pure dicevo le cause
che credevo che fussi. Continuavo di medicarmi a lor modo, e nulla
mi giovava; pur poi a l'ultimo, risoltomi a pigliare il legno
contra la voglia di quelli primi medici di Roma, questo legno io
lo pigliavo con tutta la disciplina e astinenzia che immaginar si
possa, e in brevi giorni senti' grandissimo miglioramento; a tale
che in capo a cinquanta giorni io fui guarito e sano come un
pesce. Da poi, per dare qualche ristoro a quella gran fatica che
io avevo durato, entrando innel inverno, presi per mio piacere la
caccia dello scoppietto, la quale mi induceva a andare a l'acqua e
al vento, e star pe' pantani; a tale che in brevi giorni mi
tornò l'un cento maggior male di quel che io avevo prima.
Rimessomi nelle man de' medici, continuamente medicandomi, sempre
peggioravo. Saltatomi la febbre adosso, io mi disposi di
ripigliare il legno: gli medici non volevano, dicendomi che se io
vi entravo con la febbre, in otto dí morrei. Io mi disposi
di far contro la voglia loro; e tenendo i medesimi ordini che
all'altra volta fatto avevo, beuto che io ebbi quattro giornate di
questa santa acqua de il legno, la febbre se ne andò
afatto. Cominciai a pigliare grandissimo miglioramento, e in
questo che io pigliavo il detto legno sempre tiravo inanzi i
modelli di quella opera; e' quali in cotesta astinenzia io feci le
piú belle cose e le piú rare invenzione che mai
facessi alla vita mia. In capo di cinquanta giorni io fui
benissimo guarito, e di poi con grandissima diligenzia io mi
attesi a 'ssicurare la sanità adosso. Di poi che io fui
sortito di quel gran digiuno, mi trovai in modo netto dalle mie
infirmità, come se rinato io fussi. Se bene io mi pigliavo
piacere ne l'assicurare quella mia desiderata sanità, non
mancavo ancora di lavorare; tanto che innell'opera detta e innella
zecca, ad ogniona di loro certissimo davo la parte del suo dovere.
LX. Abbattessi ad essere fatto legato di Parma quel ditto
cardinale Salviati, il quale aveva meco quel grande odio
sopraditto. In Parma fu preso un certo orefice milanese falsatore
di monete, il quali per nome si domandava Tobbia. Essendo
giudicato alla forca e al fuoco, ne fu parlato al ditto Legato,
messogli innanzi per gran valente uomo. Il ditto Cardinale fece
sopratenere la eseguizione della giustizia, e scrisse a papa
Clemente, dicendogli essergli capitato in nelle mane uno uomo il
maggior del mondo della professione de l'oreficeria, e che di
già gli era condennato alle forche e al fuoco, per essere
lui falsario di monete; ma che questo uomo era simplice e buono,
perché diceva averne chiesto parere da un suo confessoro,
il quale, diceva, che gnene<B></B>aveva dato licenzia
che le potessi fare. Di piú diceva: - Se voi fate venire
questo grande uomo a Roma, Vostra Santità sarà causa
di abbassare quella grande alterigia del vostro Benvenuto, e sono
certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto
piú che quelle di Benvenuto -. Di modo che il Papa lo fece
venire subito a Roma. E poi che fu venuto, chiamatici tutti a dua,
ci fece fare un disegno per uno a un corno di liocorno il
piú bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassette
mila ducati di Camera. Volendolo il Papa donare a il re Francesco,
lo volse in prima guarnire riccamente d'oro, e commesse a tutti a
dua noi che facessimo i detti disegni. Fatti che noi gli avemmo,
ciascun di noi il portò al Papa. Era il disegno di Tubbia
affoggia di un candegliere, dove, a guisa della candela, si
imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto candegliere
faceva quattro testoline di liocorno con semplicissima invenzione:
tanto che quando tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un
destro modo io non sogghignassi. Il Papa s'avvide e subito disse:
- Mostra qua il tuo disegno, - il quale era una sola testa di
liocorno, a conrispondenza di quel ditto corno. Avevo fatto la
piú bella sorte di testa che veder si possa; il
perché si era, che io avevo preso parte della
fazione<B> </B>della testa del cavallo e parte di
quella del cervio, arricchita con la piú bella sorte di
velli e altre galanterie, tale che, subito che la mia si vide,
ogniuno gli dette il vanto. Ma perché alla presenza di
questa disputa era certi milanesi di grandissima autorità,
questi dissono: - Beatissimo Padre, Vostra Santità manda a
donare questo gran presente in Francia: sappiate che i
Franciosi<B> </B>sono uomini grossi, e non
cognosceranno l'eccellenzia di questa opera di Benvenuto; ma
sí bene piacerà loro questi ciborii, li quali ancora
saranno fatti piú presto; e Benvenuto vi attenderà a
finire il vostro calice, e verravi fatto dua opere in un medesimo
tempo; e questo povero uomo, che voi avete fatto venire,
verrà ancora lui ad essere adoperato -. Il Papa, desideroso
di avere il suo calice, molto volentieri s'appiccò al
consiglio di quei milanesi: cosí l'altro giorno dispose
quella opera a Tubbia di quel corno di liocorno, e a me fece
intendere per il suo guardaroba che io dovessi finirgli il suo
calice. Alle qual parole io risposi, che non desideravo altro al
mondo che finire quella mia bella opera; ma che se la fossi
d'altra materia che d'oro, io facilissimamente da per me la potrei
finire; ma per essere a quel modo d'oro, bisognava che Sua
Santità me ne dessi<B>, </B>volendo che io la
potessi finire. A questo parole questo cortigiano plebeo disse: -
Oimè, non chiedere oro al Papa, che tu lo farai venire in
tanta còllora, che guai, guai a te -. Al quale io dissi: -
O misser voi, la Signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza
farina si può fare il pane? cosí sanza oro mai si
finirà quell'opera -. Questo guardaroba mi disse,
parendogli alquanto che io lo avessi uccellato<B>,
</B>che tutto quello che io avevo ditto riferirebbe al Papa;
e cosí fece. Il Papa, entrato in un bestial furore, disse
che voleva stare a vedere se io ero un cosí pazzo che io
non la finissi. Cosí si stette dua mesi passati e se bene
io avevo detto di non vi voler dar su colpo, questo non avevo
fatto, anzi continuamente io avevo lavorato con grandissimo amore.
Veduto che io non la portavo, mi cominciò a
disfavorire<B> </B>assai, dicendo che mi gastigherebbe
a ogni modo. Era alla presenza di queste parole uno milanese suo
gioielliere. Questo si domandava Pompeo, il quale era parente
stretto di un certo misser Traiano, il piú favorito
servitore che avessi papa Clemente. Questi dua d'accordo dissono
al Papa: - Se Vostra Santità gli togliessi la zecca, forse
voi gli faresti venir voglia di finire il calice -. Allora il Papa
disse: - Anzi sarebbon dua mali: l'uno, che io sarei mal servito
della zecca che m'importa tanto; e l'altro, che certissimo io non
arei mai il calice -. Questi dua detti milanesi, veduto il Papa
mal voIto inverso di me, a l'ultimo possetton tanto, che pure mi
tolse la zecca, e la dette a un certo giovane perugino, il quale
si domandava Fagiuolo per soprannome. Venne quel Pompeo a dirmi da
parte del Papa, come Sua Santità mi aveva tolto la zecca, e
che se io non finivo il calice mi torrebbe de l'altre cose. A
questo io risposi: - Dite a Sua Santità che la zecca e'
l'ha tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli verrebbe
fatto di quell'altre cose; e che quando Sua Santità me la
vorrà rendere, io in modo nessuno non la rivorrò -.
Questo isgraziato e sventurato gli parve mill'anni<B>
</B>di giungere dal Papa per ridirgli tutte queste cose, e
qualcosa vi messe di suo di bocca. Ivi a otto giorni mandò
il Papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva piú
che io gli finissi quel calice, e che lo rivoleva appunto in quel
modo e a quel termine che io l'avevo condotto. A questo Pompeo io
risposi: - Questa non è come la zecca, che me la possa
tòrre; ma sí ben e' cinquecento scudi, che io ebbi,
sono di Sua Santità, i quali subito gli renderò: e
l'opera è mia, e ne farò quanto m'è di
piacere -. Tanto corse a riferir Pompeo, con qualche altra mordace
parola, che a lui stesso con giusta causa io avevo detto.
LXI.<B></B>Di poi tre giorni appresso, un
giovedí, venne a me dua camerieri di Sua Santità
favoritissimi, che ancora oggi n'è vivo uno di quelli,
ch'è vescovo, il quale si domandava misser Pier Giovanni,
ed era guardaroba di Sua Santità; l'altro si era ancora di
maggior lignaggio di questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a
me mi dissono cosí: - Il Papa ci manda. Benvenuto: da poi
che tu non l'hai voluta intendere per la via piú agevole,
dice, o che tu ci dia l'opera sua, o che noi ti meniamo prigione
-. Allora io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: -
Signori, se io dessi l'opera a Sua Santità, io darei
l'opera mia e non la sua; e poi tanto l'opera mia io non gnene vo'
dare; perché avendola condotta molto innanzi con le mia
gran fatiche, non voglio che la vada in mano di qualche bestia
ignorante, che con poca fatica me la guasti -. Era alla presenza,
quando io dicevo questo, quell'orefice chiamato Tobbia ditto di
sopra, il quale temerariamente mi chiedeva ancora i modelli di
essa opera: le parole, degne di un tale sciagurato che io gli
dissi, qui non accade riplicarle. E perché quelli signori
camerieri mi sollecitavano che io mi spedissi di quel che io
volevo fare, dissi a loro che ero spedito: preso la cappa, e
innanzi che io uscissi della mia bottega, mi volsi a una immagine
di Cristo con gran riverenza e con la berretta in mano, e dissi: -
O benigno e immortale, giusto e santo Signor nostro, tutte le cose
che tu fai sono secondo la tua giustizia, quale è sanza
pari: tu sai che appunto io arrivo all'età de' trenta anni
della vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso carcere
per cosa alcuna: da poi che ora tu ti contenti che io vadia al
carcere, con tutto il cuor mio te ne ringrazio -. Di poi
vòltomi ai dua camerieri, dissi cosí con un certo
mio viso alquanto rabbuffato: - Non meritava un par mio birri di
manco valore che voi Signori; sí che mettetemi in mezzo, e
come prigioniero mi menate dove voi volete -. Quelli dua
gentilissimi uomini, cacciatisi a ridere, mi messono in mezzo, e
sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal Governatore di
Roma, il quale era chiamato il Magalotto. Giunto allui, insieme
con esso si era il Procurator fiscale, li quali mi attendevano,
quelli signor camerieri ridendo pure dissono al Governatore: - Noi
vi consegnamo questo prigione, e tenetene buona cura. Ci siamo
rallegrati assai, che noi abbiamo tolto l'uffizio alli vostri
secutori, perché Benvenuto ci ha detto, che essendo questa
la prima cattura sua, non meritava birri di manco valore che noi
ci siamo -. Subito partitisi giunsono al Papa; e dettogli
precisamente ogni cosa, in prima fece segno di voler entrare in
furia, appresso si sforzò di ridere, per essere alla
presenza alcuni Signori e Cardinali amici mia, li quali
grandemente mi favorivano. Intanto il Governatore e il Fiscale
parte mi bravavano, parte mi esortavano, parte mi consigliavano,
dicendomi che la ragione voleva, che uno che fa fare una opera a
un altro, la può ripigliare a sua posta, e in tutti i modi
che allui piace. Alle quali cose io dissi, che questo non lo
prometteva la giustizia, né un papa non lo poteva fare;
perché e' non era un papa di quella sorte che sono certi
signoretti tirannelli, che fanno a' lor popoli il peggio che
possono, non osservando né legge né giustizia:
però un Vicario di Cristo non può far nessuna di
queste cose. Allora il Governatore con certi sua birreschi atti e
parole disse: - Benvenuto, Benvenuto, tu vai cercando che io ti
faccia quel che tu meriti. - Voi mi farete onore e cortesia,
volendomi fare quel che io merito -. Di nuovo disse: - Manda per
l'opera subito, e fa di non aspettar la siconda parola -. A questo
io dissi: - Signori, fatemi grazia che io dica ancora quattro
parole sopra le mie ragione -. Il Fiscale, che era molto
piú discreto birro che non era il Governatore, si volse a
il Governatore, e disse: - Monsignore, facciàngli grazia di
cento parole; pur che dia l'opera, assai ci basta -. Io dissi: -
Se e' fussi qualsivoglia sorte di uomo che facessi murare un
palazzo o una casa, giustamente potrebbe dire a il maestro che la
murassi: "Io non voglio che tu lavori piú in su la mia casa
o in su 'l mio palazzo": pagandogli le sue fatiche giustamente ne
lo può mandare. Ancora se fossi un signore che facessi
legare una gioia di mille scudi, veduto che il gioielliere non lo
servissi sicondo la voglia sua, può dire: "Dammi la mia
gioia perché io non voglio l'opera tua". Ma a questa cotal
cosa non c'è nessuno di questi capi<B>;
</B>perché la non è né una casa,
né una gioia; altro non mi si può dire, se non che
io renda e' cinquecento scudi che io ho aúti. Sí
che, Monsignori, fate tutto quel che voi potete, ché altro
non arete da me, che e' cinquecento scudi. Cosí direte al
Papa. Le vostre minaccie non mi fanno una paura al mondo;
perché io sono uomo da bene, e non ho paura de' mia peccati
-. Rizzatosi il Governatore e il Fiscale, mi dissono che andavano
dal Papa, e che tornerebbono con commessione, che guai a me.
Cosí restai guardato. Mi passeggiavo per un salotto: e gli
stettono presso a tre ore a tornare dal Papa. In questo mezzo mi
venne a visitare tutta la nobiltà della nazion nostra di
mercanti<B>, </B>pregandomi strettamente che io non
la<B> </B>volessi stare a disputare con un Papa,
perché potrebbe essere la rovina mia. Ai quali io risposi,
che m'ero risoluto benissimo di quel che io volevo fare.
LXII. Subito che il Governatore insieme col Fiscale furono tornati
da Palazzo, fattomi chiamare, disse in questo tenore: - Benvenuto,
certamente e' mi sa male d'esser tornato dal Papa con una
commessione tale, quale io ho; sí che o tu trova l'opera
subito, o tu pensa a' fatti tua -. Allora io risposi che, da poi
che io non avevo mai creduto insino a quell'ora che un santo
Vicario di Cristo potessi fare un'ingiustizia - però io lo
voglio vedere prima che io lo creda; sí che fate quel che
voi potete -. Ancora il Governatore replicò, dicendo: - Io
t'ho da dire dua altre parole da parte del Papa, dipoi
seguirò<B> </B>la commessione datami. Il Papa
dice che tu mi porti qui l'opera, e che io la vegga mettere in una
scatola e suggellare; di poi io l'ho apportare al Papa, il quale
promette per la fede sua di non la muovere dal suo suggello
chiusa, e subito te la renderà; ma questo e' vuol che si
faccia cosí per averci anch'egli la parte dell'onor suo -.
A queste parole io ridendo risposi, che molto volentieri gli darei
l'opera mia in quel modo che diceva, perché io volevo saper
ragionare come era fatta la fede di un Papa. E cosí mandato
per l'opera mia, suggellata in quel modo che e' disse, gliene
detti. Ritornato il Governatore dal Papa con la ditta opera innel
modo ditto, presa la scatola il Papa, sicondo che mi riferí
il Governatore ditto, la volse parecchi volte; dipoi
domandò il Governatore, se l'aveva veduta; il qual disse
che l'aveva veduta e che in sua presenza in quel modo s'era
suggellata; di poi aggiunse, che la gli era paruta cosa molto
mirabile. Per la qual cosa il Papa disse: - Direte a Benvenuto,
che i Papi hanno autorità di sciorre e legare molto maggior
cosa di questa - e in mentre che diceva queste parole, con qualche
poco di sdegno aperse la scatola, levando le corde e il suggello
con che l'era legata: di poi la guardò assai, e per quanto
io ritrassi, e' la mostrò a quel Tubbia orefice, il quale
molto la lodò. Allora il Papa lo domandò se gli
bastava la vista di fare una opera a quel modo; il Papa gli disse
che lui seguitassi quell'ordine apunto; di poi si volse al
Governatore e gli disse: - Vedete se Benvenuto ce la vuol dare;
che dandocela cosí, se gli paghi tutto quel che l'è
stimata da valenti uomini; o sí veramente, volendocela
finir lui, pigli un termine: e se voi vedete che la voglia fare,
díesigli quelle comodità che lui domanda giuste -.
Allora il Governatore disse: - Beatissimo Padre, io che cognosco
la terribil qualità di quel giovane, datemi autorità
che io glie ne possa dare una sbarbazzata a mio modo -. A questo
il Papa disse che facessi quel che volessi con le parole,
benché gli era certo che e' farebbe il peggio; di poi
quando e' vedessi di non poter fare altro, mi dicessi che io
portassi li sua cinquecento scudi a quel Pompeo suo gioielliere
sopraditto. Tornato il Governatore, fattomi chiamare in camera
sua, e con un birresco sguardo, mi disse: - E' papi hanno
autorità di sciorre e legare tutto il mondo, e tanto subito
si afferma in Cielo per ben fatto: eccoti là la tua opera
sciolta e veduta da Sua Santità -. Allora subito io alzai
la voce e dissi: - Io ringrazio Idio, che io ora so ragionare
com'è fatta la fede de' papi -. Allora il Governatore mi
disse e fece molte sbardellate braverie; e da poi veduto che lui
dava in nunnulla<B>, </B>affatto disperatosi dalla
impresa, riprese alquanto la maniera piú dolce, e mi disse:
- Benvenuto, assai m incresce che tu non vuoi intendere il tuo
bene; però va', porta i cinquecento scudi, quando tu vuoi,
a Pompeo sopra ditto -. Preso la mia opera, me ne andai, e subito
portai li cinquecento scudi a quel Pompeo. E perché
talvolta il Papa, pensando che per incomodità o per qualche
altra occasione<B> </B>io non dovessi cosí
presto portare i dinari, desideroso di rattaccare<B>
</B>il filo della servitú mia; quando e' vedde che
Pompeo gli giunse innanzi sorridendo con li dinari in mano, il
Papa gli disse villania, e si condolse<B> </B>assai
che tal cosa fussi seguita in quel modo: di poi gli disse: - Va',
truova Benvenuto a bottega sua, e fagli piú carezze che
può la tua ignorante bestialità; e digli, che se mi
vuol finire quell'opera per farne un reliquiere per portarvi
drento il <I>Corpus Domini</I>, quando io vo con esso
a pricissione, che io gli darò le comodità che
vorrà a finirlo; purché egli lavori -. Venuto Pompeo
a me, mi chiamò fuor di bottega, e mi fece le piú
isvenevole carezze d'asino, dicendomi tutto quel che gli aveva
commesso il Papa. Al quale io risposi subito, che il maggior
tesoro che io potessi desiderare al mondo, si era l'aver riauto la
grazia d'un cosí gran Papa, la quale si era smarrita da me,
e non per mio difetto, ma sí bene per difetto della mia
smisurata infirmità, e per la cattività di quelli
uomini invidiosi che hanno piacere di commetter male; - e
perché il Papa ha 'bundanzia di servitori, non mi mandi
piú intorno, per la salute vostra; ché badate bene
al fatto vostro. Io non mancherò mai né dí
né notte di pensare e fare tutto quello che io potrò
in servizio del Papa; e ricordatevi bene, che detto che voi avete
questo al Papa di me, in modo nessuno non vi intervenire in nulla
de' casi mia, perché io vi farò cognoscere gli
errori vostri con la penitenzia che meritano -. Questo uomo
riferí ogni cosa al Papa in molto piú bestial modo
che io non gli aveva porto. Cosí si stette la cosa un
pezzo, e io m'attendevo alla mia bottega e mie faccende.
LXIII. Quel Tubbia orefice sopra ditto attendeva a finire quella
guarnitura e ornamento a quel corno di liocorno; e di piú
il Papa gli aveva detto che cominciassi il calice in su quel modo
che gli aveva veduto il mio. E cominciatosi a farsi mostrare dal
ditto Tubbia quel che lui faceva, trovatosi mal sodisfatto, assai
si doleva di aver rotto<B> </B>con esso meco, e
biasimava l'opere di colui, e chi gnene aveva messe inanzi; e
parecchi volte mi venne a parlare Baccino della Croce da parte del
Papa, che io dovessi fare quel reliquiere. Al quale io dicevo, che
io pregavo Sua Santità, che mi lasciassi riposare della
grande infirmità che io avevo aùto, della quale io
non ero ancor ben sicuro; ma che io mostrerrei a Sua
Santità, di quelle ore ch'io potevo operare, che tutte le
spenderei in servizio suo. Io m'ero messo a ritrarlo, e gli facevo
una medaglia segretamente; e quelle stampe di acciaio per istampar
detta medaglia, me le facevo in casa; e alla mia bottega tenevo un
compagno, che era stato mio garzone, il qual si domandava Felice.
In questo tempo, sí come fanno i giovani, m'ero innamorato
d'una fanciulletta siciliana, la quale era bellissima; e
perché ancor lei dimostrava volermi gran bene, la madre sua
accortasi di tal cosa, sospettando di quello che gli poteva
intervenire (questo si era che io avevo ordinato per un anno
fuggirmi con detta fanciulla a Firenze, segretissimamente dalla
madre), accortasi lei di tal cosa, una notte segretamente si
partí di Roma e andossene alla volta di Napoli; e dette
nome d'esser ita da Civitavecchia, e andò da Ostia. Io
l'andai drieto a Civitavecchia, e feci pazzie inistimabile per
ritrovarla. Sarebbon troppo lunghe a dir tal cose per l'apunto:
basta che io stetti in procinto o d'impazzare o di morire. In capo
di dua mesi lei mi scrisse che si trovava in Sicilia molto mal
contenta. In questo tempo io avevo atteso a tutti i piaceri che
immaginar si possa, e avevo preso altro amore, solo per istigner
quello.
LXIV. Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi
amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo
ingegno e aveva assai buone lettere latine e grece. Venuto una
volta in un proposito d'un ragionamento, in el quale s'intervenne
a parlare dell'arte della negromanzia; alla qual cosa io dissi: -
Grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di
vedere o sentire qualche cosa di quest'arte -. Alle qual parole il
prete aggiunse: - Forte animo e sicuro bisogna che sia di quel
uomo che si mette a tale impresa -. Io risposi che della fortezza
e della sicurtà dell'animo me ne avanzerebbe, pur che i'
trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: - Se di
cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne
satollerò -. Cosí fummo d'acordo di dar principio a
tale impresa. Il detto prete una sera in fra l'altre si messe in
ordine, e mi disse che io trovassi un compagno, insino in dua. Io
chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un
Pistolese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia.
Andaticene al Culiseo, quivi paratosi il prete a uso di
negromante, si misse a disegnare i circuli in terra con le
piú belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci
aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi
cattivi. Come e' fu in ordine, fece la porta al circulo; e presoci
per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi
conpartí gli uffizii; dette il pintàculo in mano a
quell'altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del
fuoco per e' profummi; poi messe mano agli scongiuri. Durò
questa cosa piú d'una ora e mezzo; comparse parecchi
legione, di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io che attendevo
ai profummi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta
quantità, si volse a me e disse: - Benvenuto, dimanda lor
qualcosa -. Io dissi che facessino che io fussi con la mia
Angelica siciliana. Per quella notte noi non avemmo risposta
nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io
desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che noi
ci andassimo un'altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto
quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi meco un
fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di
dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio
Romoli; e, per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino
Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a
il luogo deputato<B>, </B>fatto il negromante le sue
medesime preparazione con quel medesimo e piú ancora
maraviglioso ordine, ci mise innel circulo, qual di nuovo aveva
fatto con piú mirabile arte e piú mirabil cerimonie;
di poi a quel mio Vincenzio diede la cura de' profummi e del
fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi; di poi a me pose
in mano il pintàculo, qual mi disse che io lo voltassi
sicondo e' luoghi dove lui m'accennava, e sotto il
pintàculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato
il negromante a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato
per nome una gran quantità di quei demonii capi di quelle
legioni, e a quelli comandava per la virtú e potenzia di
Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora
greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié
tutto il Culiseo l'un cento piú di quello che avevan fatto
quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco
insieme con quell'Agnolino detto, e molta quantità di
profummi preziosi. Io per consiglio del negromante di nuovo
domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me,
mi disse: - Senti che gli hanno detto? Che in ispazio di un mese
tu sarai dove lei - e di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli
tenessi il fermo, perché le legioni eran l'un mille
piú di quel che lui aveva domandato, e che l'erano le
piú pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che
io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli
licenziare. Da l'altra banda il fanciullo, che era sotto il
pintàculo, ispaventatissimo diceva che in quel luogo si era
un milione di uomini bravissimi, e' quali tutti ci minacciavano:
di piú disse, che gli era comparso quattro smisurati
giganti, e' quali erano armati e facevan segno di voler entrar da
noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva con
dolce e suave modo el meglio che poteva a licenziarli. Vincenzio
Romoli, che tremava a verga a verga, attendeva ai profummi. Io,
che avevo tanta paura quant'e loro, mi ingegnavo di dimostrarla
manco, e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m'ero
fatto morto<B>, </B>per la paura che io vedevo nel
negromante. Il fanciullo s'era fitto il capo in fra le ginocchia,
dicendo: - Io voglio morire a questo modo, ché morti
siàno -. Di nuovo io dissi al fanciullo: - Queste creature
son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è
fummo e ombra; sí che alza gli occhi -. Alzato che gli ebbe
gli occhi, di nuovo disse: - Tutto il Culiseo arde, e 'l fuoco
viene adosso a noi - e missosi le mane al viso, di nuovo disse che
era morto, e che non voleva piú vedere. Il negromante mi si
raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che
io facessi fare profummi di zaffetica:<B>
</B>cosí, voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che
presto profumassi di zaffetica. In mentre che io cosí
diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale si era tanto
ispaventato che le luce degli occhi aveva fuor del punto<B>,
</B>ed era piú che mezzo morto, al quale io dissi: -
Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi
da fare e aiutarsi; sí che mettete sú presto di
quella zaffetica -. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse
muovere, fece una strombazzata di coreggie con tanta abundanzia di
merda, la qual potette piú che la zaffetica. Il fanciullo,
a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi
ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne
cominciavano a 'ndare a gran furia. Cosí soprastemmo in
fino a tanto che e' cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo
ci disse il fanciullo che ve n'era restati pochi, e discosto.
Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie,
spogliatosi e riposto un gran fardel di libri, che gli aveva
portati, tutti d'accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi
l'un sotto l'altro; massimo il fanciullo, che s'era messo in
mezzo, e aveva preso il negromante per la veste e me per la cappa;
e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le case nostre
in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva visti
nel Culiseo, ci andavano saltabeccando innanzi, or correndo su pe'
tetti e or per terra. Il negromante diceva, che di tante volte
quante lui era entrato innelli circuli, non mai gli era
intervenuto una cosí gran cosa, e mi persuadeva che io
fussi contento di volere esser seco a consacrare un libro; da il
quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché noi
dimanderemmo li demonii che ci insegnassino delli tesori, i
quali<B> </B>n'è pien la terra, e a quel modo
noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d'amore si erano
vanità e pazzie, le quale non rilevavano nulla. Io li
dissi, che se io avessi lettere latine, che molto volentieri farei
una tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le lettere
latine non mi servivano a nulla, e che se lui avessi voluto,
trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai
trovato nessuno d'un saldo animo come ero io, e che io dovessi
attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo
alle case nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sognammo
diavoli.
LXV<I>. </I>Rivedendoci poi alla giornata, il
negromante mi strignevache io dovessi attendere a quella impresa;
per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a far
tal cosa, e dove noi avessimo a 'ndare. A questo mi rispose che in
manco d'un mese noi usciremmo di quella impresa, e che il luogo
piú a proposito si era nelle montagne di Norcia;
benché un suo maestro aveva consacrato quivi vicino al
luogo detto alla Badia di Farfa; ma che vi aveva aùto
qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne
di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede, e
hanno qualche pratica di questa cosa, a tale che possan dare a un
bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante
certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero
disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle
medaglie che io facevo per il Papa, e con il detto m'ero conferito
e non con altri, pregandolo che lui me le tenessi segrete. Pure
continuamente lo domandavo se lui credeva che a quel tempo io mi
dovessi trovare con la mia Angelica siciliana, e veduto che
s'appressava molto al tempo, mi pareva molta gran cosa che di lei
io non sentissi nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io
mi troverrei dove lei, perché loro non mancan mai, quando
e' promettono in quel modo come ferno allora; ma che io stessi con
gli occhi aperti, e mi guardassi da qualche scandolo, che per quel
caso mi potrebbe intervenire; e che io mi sforzassi di sopportare
qualche cosa contra la mia natura, perché vi conosceva
drento un grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo
seco a consacrare il libro, che per quella via quel mio gran
pericolo si passerebbe, e sarei causa di far me e lui felicissimi.
Io, che ne cominciavo avere piú voglia di lui, gli dissi
che per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel
Bolognese, molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che
io facevo, in acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di
fare a gara con questo valentomo, e uscire al mondo adosso con una
tale impresa, per la quale io speravo con tal virtú, e non
con la spada, ammazzare quelli parecchi mia nimici. Questo uomo
pure mi continuava dicendomi: - Di grazia, Benvenuto mio, vien
meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo -. Essendomi io
disposto in tutto e per tutto di voler prima finir la mia
medaglia, di già eramo vicini al fine del mese; al quale,
per essere invaghito tanto innella medaglia, io non mi ricordavo
piú né di Angelica né di null'altra cotal
cosa, ma tutto ero intento a quella mia opera.
LXVI. Un giorno fra gli altri, vicino a l'ora del vespro, mi venne
occasione di trasferirmi fuor delle mie ore da casa alla mia
bottega; perché avevo la bottega in Banchi, e una casetta
mi tenevo drieto a Banchi, e poche volte andavo a bottega;
ché tutte le faccende io le lasciavo fare a quel mio
compagno che avea nome Felice. Stato cosí un poco a
bottega, mi ricordai che io avevo a 'ndare a parlare a Lessandro
del Bene. Subito levatomi e arrivato in Banchi, mi scontrai in un
certo molto mio amico, il quale si domandava per nome ser
Benedetto. Questo era notaio e era nato a Firenze, figliuolo d'un
cieco che diceva l'orazione, che era sanese. Questo ser Benedetto
era stato a Napoli molt' e molt'anni; dipoi s'era ridotto in Roma,
e negoziava per certi mercanti sanesi de' Chigi. E perché
quel mio compagno piú e piú volte gli aveva chiesto
certi dinari, che gli aveva aver dallui di alcune anellette che
lui gli aveva fidate, questo giorno, iscontrandosi in lui in
Banchi li chiese li sua dinari in un poco di ruvido modo, il quale
era l'usanza sua; ché il detto ser Benedetto era con quelli
sua padroni, in modo che, vedendosi far quella cosa cosí
fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si
volevano servir d'un altro, per non avere a sentir piú tal
baiate. Questo ser Benedetto il meglio che e' poteva si andava con
loro difendendo, e diceva che quello orefice lui l'aveva pagato, e
che non era atto a affrenare il furore de' pazzi. Li detti sanesi
presono quella parola in cattiva parte e subito lo cacciorno via.
Spiccatosi dalloro, affusolato se ne andava alla mia bottega,
forse per far dispiacere al detto Felice. Avvenne, che appunto
innel mezzo di Banchi noi ci incontrammo insieme: onde io, che non
sapevo nulla, al mio solito modo piacevolissimamente lo salutai;
il quale con molte villane parole mi rispose. Per la qual cosa mi
sovvenne tutto quello che mi aveva detto il negromante; in modo
che, tenendo la briglia il piú che io potevo a quello che
con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: - Ser
Benedetto fratello, non vi vogliate adirar meco, che non v'ho
fatto dispiacere, e non so nulla di questi vostri casi, e tutto
quello che voi avete che fare con Felice, andate di grazia e
finitela seco; che lui sa benissimo quel che v'ha a rispondere;
onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa
sorte, maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti
ingiurie -. A questo il detto disse, che io sapevo ogni cosa e che
era uomo atto a farmi portar maggior soma di quella, e che Felice
e io eramo dua gran ribaldi. Di già s'era ragunato molte
persone a vedere questa contesa. Sforzato dalle brutte parole,
presto mi chinai in terra e presi un mòzzo di fango,
perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva
per dargli in sul viso. Lui abbassò il capo, di sorte che
con esso gli detti in sul mezzo del capo. In questo fango era
investito un sasso di pietra viva con molti acuti canti, e
cogliendolo con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come
morto svenuto in terra; il che, vedendo tanta abondanzia di
sangue, si giudicò per tutti e' circostanti che lui fossi
morto.
LXVII. In mentre che il detto era ancora in terra, e che alcuni si
davano da fare per portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere
già ditto di sopra. Questo il Papa aveva mandato per lui
per alcune sue faccende di gioie. Vedendo quell'uomo mal condotto,
domandò chi gli aveva dato. Di che gli fu detto: -
Benvenuto gli ha dato, perché questa bestia se l'ha cerche
-. Il detto Pompeo, prestamente giunto che fu al Papa, gli disse:
- Beatissimo padre, Benvenuto adesso adesso ha ammazzato Tubbia;
che io l'ho veduto con li mia occhi -. A questo il Papa infuriato
comesse al Governatore, che era quivi alla presenza, che mi
pigliassi, e che m'impiccassi subito innel luogo dove si era fatto
l'omicidio, e che facessi ogni diligenzia a avermi, e non gli
capitassi innanzi prima che lui mi avessi impiccato. Veduto che io
ebbi quello sventurato in terra, subito pensai a' fatti mia,
considerato alla potenzia de' mia nimici, e quel che di tal cosa
poteva partorire. Partitomi di quivi, me ne ritirai a casa misser
Giovanni Gaddi cherico di Camera; volendomi metter in ordine il
piú presto che io potevo, per andarmi con Dio. Alla qual
cosa, il detto misser Giovanni mi consigliava che io non fussi
cosí furioso a partirmi, ché tal volta potria essere
che 'l male non fussi tanto grande quanto e' mi parve: e fatto
chiamare messer Anibal Caro, il quale stava seco, gli disse che
andassi a 'ntendere il caso. Mentre che di questa cosa si dava i
sopraditti ordini, conparse un gentiluomo romano che stava col
cardinal de' Medici e da quello mandato. Questo gentiluomo,
chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che il Cardinale
gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al Papa, e
che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi
tutto il mio potere di scampar questa prima furia, e che io non mi
fidassi in nessuna casa di Roma. Subito partitosi il gentiluomo,
il ditto misèr Giovanni guardandomi in viso, faceva segno
di lacrimare, e disse: - Oimè, tristo a me! che io non ho
rimedio nessuno a poterti aiutare! - Allora io dissi: - Mediante
Idio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi
serviate di un de' vostri cavalli -. Era di già messo in
ordine un caval morello turco, il piú bello e il miglior di
Roma. Montai in sun esso con uno archibuso a ruota dinanzi a
l'arcione, stando in ordine per difendermi con esso. Giunto che io
fui a ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello a
cavallo e a piè; cosí faccendomi della
necessità virtú, arditamente spinto modestamente il
cavallo, merzé di Dio oscurato gli occhi loro, libero
passai, e con quanta piú fretta io potetti me ne andai a
Palombara, luogo del signor Giovanbatista Savello<B>,
</B>e di quivi rimandai il cavallo a misser Giovanni,
né manco volsi ch'egli sapessi dove io mi fussi. Il detto
signor Gianbatista, carezzato ch'egli m'ebbe dua giornate, mi
consigliò che io mi dovessi levar di quivi e andarmene alla
volta di Napoli, per tanto che passassi questa furia; e datomi
compagnia, mi fece mettere in sulla strada di Napoli, in su la
quale io trovai uno scultore mio amico, che se ne andava a San
Germano a finire la seppoltura di Pier de' Medici a Monte Casini.
Questo si chiamava per nome il Solosmeo: lui mi dette nuove, come
quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere
a intendere come stava Tubbia sopraditto; e trovatolo a lavorare,
e che in lui non era avvenuto cosa nissuna, né manco non
sapeva nulla, referito al Papa, il ditto si volse a Pompeo e gli
disse: - Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto bene, che tu hai
stuzzicato un serpente, che ti morderà e faratti il dovere
-. Di poi si volse al cardinal de' Medici, e gli commisse che
tenessi un poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe
voluto perdere. Cosí il Solosmeo e io ce ne andavamo
cantando alla volta di Monte Casini, per andarcene a Napoli
insieme.
LXVIII. Riveduto che ebbe il Solosmeo le sue faccende a Monte
Casini, insieme ce ne andammo alla volta di Napoli. Arrivati a un
mezzo miglio presso a Napoli, ci si fece incontro uno oste il
quale ci invitò alla sua osteria, e ci diceva che era stato
in Firenze molt'anni con Carlo Ginori; e se noi andavamo alla sua
osteria, che ci arebbe fatto moltissime carezze, per esser noi
Fiorentini. Al qual oste noi piú volte dicemmo, che seco
noi non volevamo andare. Questo uomo pur ci passava inanzi e or
ristava indrieto, sovente dicendoci le medesime cose, che ci
arebbe voluti alla sua osteria. Il perché venutomi a noia,
io lo domandai se lui mi sapeva insegnare una certa donna
siciliana, che aveva nome Beatrice, la quale aveva una sua bella
figliuoletta che si chiamava Angelica, ed erano cortigiane. Questo
ostiere, parutoli<B> </B>che io l'uccellassi, disse: -
Idio dia il malanno alle cortigiane e chi vuol lor bene - e dato
il piè al cavallo, fece segno di andarsene resoluto da noi.
Parendomi essermi levato da dosso in un bel modo quella bestia di
quell'oste, con tutto che di tal cosa io non estessi in capitale,
perché mi era sovvenuto quel grande amore che io portavo a
Angelica, e ragionandone col ditto Solosmeo non senza qualche
amoroso sospiro, vediamo con gran furia ritornare a noi l'ostiere,
il quale, giunto da noi, disse: - E' sono o dua over tre giorni,
che accanto alla mia osteria è tornato una donna e una
fanciulletta, le quali hanno cotesto nome; non so se sono
siciliane o d'altro paese -. Allora io dissi: - Gli ha tanta forza
in me quel nome di Angelica, che io voglio venire alla tua osteria
a ogni modo -. Andammocene d'accordo insieme coll'oste nella
città di Napoli, e scavalcammo alla sua osteria, e mi
pareva mill'anni di dare assetto alle mie cose, qual feci
prestissimo; e entrato nella ditta casa accanto a l'osteria, ivi
trovai la mia Angelica, la quale mi fece le piú smisurate
carezze che inmaginar si possa al mondo. Cosí mi stetti
seco da quell'ora delle ventidua ore in sino alla seguente mattina
con tanto piacere, che pari non ebbi mai. E in mentre che in
questo piacere io gioiva, mi sovvenne che quel giorno apunto
spirava il mese che mi fu promisso in el circolo di negromanzia
dalli demonii. Sí che consideri ogni uomo, che s'inpaccia
con loro, e' pericoli inistimabili che io ho passati.
LXIX. Io mi trovavo innella mia borsa a caso un diamante, il quale
mi venne mostrato in fra gli orefici: e se bene io ero giovane
ancora, in Napoli io ero talmente conosciuto per uomo da qualcosa,
che mi fu fatto moltissime carezze. Infra gli altri un certo
galantissimo uomo gioielliere, il quale aveva nome misser Domenico
Fontana. Questo uomo da bene lasciò la bottega per tre
giorni che io stetti in Napoli, né mai si spiccò da
me, mostrandomi molte bellissime anticaglie che erano in Napoli e
fuor di Napoli; e di piú mi menò a fare reverenzia
al Vicerè di Napoli, il quale gli aveva fatto intendere che
aveva vaghezza di vedermi. Giunto che io fui da Sua Eccellenzia,
mi fece molte onorate accoglienze; e in mentre che cosí
facevamo, dètte innegli occhi di Sua Eccellenzia il sopra
ditto diamante; e fattomiselo mostrare, disse, che se io ne avessi
a privar me, non cambiassi lui, di grazia. Al quale io, ripreso il
diamante, lo porsi di nuovo a Sua Eccellenzia, e a quella dissi,
che il diamante e io eramo al servizio di quella. Allora e' disse
che aveva ben caro il diamante, ma che molto piú caro li
sarebbe che io restassi seco; che mi faria tal patti, che io mi
loderei di lui. Molte cortese parole ci usammo l'un l'altro; ma
venuti poi ai meriti del diamante, comandatomi da Sua Eccellenzia
che io ne domandassi pregio, qual mi paressi, a una sola parola,
al quale io dissi che dugento scudi era il suo pregio a punto. A
questo Sua Eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi
niente iscosto dal dovere; ma per esser legato di mia mano,
conoscendomi per il primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un
altro lo legasse, di quella eccellenzia che dimostrava. Allora io
dissi, che il diamante non era legato di mia mano e che non era
ben legato; e quello che egli faceva, lo faceva per sua propria
bontà; e che se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da
quel che gli era. E messo l'ugna del dito grosso ai filetti del
diamante, lo trassi del suo anello, e nettolo alquanto lo porsi al
Viceré; il quale satisfatto e maravigliato, mi fece una
poliza, che mi fussi pagato li dugento scudi che io l'aveva
domandato. Tornatomene al mio alloggiamento, trovai lettere che
venivano dal cardinale de' Medici, le quali mi dicevano che io
ritornassi a Roma con gran diligenzia<B>, </B>e di
colpo<B> </B>me ne andassi a scavalcare a casa Sua
Signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con
amorosette lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in
Napoli, o che io ne la menassi meco. Alla quale io dissi, che se
lei ne voleva venir meco, che io gli darei in guardia quelli
dugento ducati che io avevo presi dal Viceré. Vedutoci la
madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi, e mi
disse: - Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma,
lassami un quindici ducati, acciocché io possa partorire, e
poi me ne verrò ancora io -. Dissi alla vecchia ribalda,
che trenta volentieri gnene lascierei, se lei si contentava di
darmi la mia Angelica. Cosí restati d'accordo, Angelica mi
pregò che io li comperassi una vesta di velluto nero,
perché in Napoli era buon mercato. Di tutto fui contento; e
mandato per il velluto, fatto il mercato<B> </B>e
tutto, la vecchia, che pensò che io fossi piú cotto
che crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé, e
molt'altre spese per sua figliuoli, e piú danari assai di
quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io piacevolmente mi
volsi e le dissi: - Beatrice mia cara, bastat'egli quello che io
t'ho offerto? - Lei disse che no. Allora io dissi, che quel che
non bastava a lei basterebbe a me: e baciato la mia Angelica, lei
con lacrime e io con riso ci spiccammo, e me ne tornai a Roma
subito.
LXX. Partendomi di Napoli a notte con li dinari addosso, per non
essere appostato né assassinato, come è il costume
di Napoli, trovatomi alla Selciata, con grande astuzia e valore di
corpo mi difesi da piú cavagli<B>, </B>che mi
erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni appresso,
avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini,
giunto una mattina per desinare all'osteria di Adagnani; essendo
presso all'osteria, tirai a certi uccelli col mio archibuso, e
quelli ammazzai; e un ferretto, che era nella serratura del mio
stioppo, mi aveva stracciato la man ritta. Se bene non era il male
d'inportanza, appariva assai, per molta quantità di sangue
che versava la mia mano. Entrato ne l'osteria, messo il mio
cavallo al suo luogo, salito in sun un palcaccio, trovai molti
gentiluomini napoletani, che stavano per entrare a tavola; e con
loro era una gentil donna giovane, la piú bella che io
vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava un
bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone in mano:
in modo che noi, l'arm'e il sangue, messe tanto terrore a quei
poveri gentili uomini, massimamente per esser quel luogo un nidio
di assassini; rizzatisi da tavola, pregorno Idio, con grande
spavento, che gli aiutassi. Ai quali io dissi ridendo, che Idio
gli aveva aiutati, e che io ero uomo per difendergli da chi gli
volesse offendere; e chiedendo a loro qualche poco di aiuto per
fasciar la mia mana, quella bellissima gentil donna prese un suo
fazzoletto riccamente lavorato d'oro, volendomi con esso fasciare:
io non volsi: subito lei lo stracciò pel mezzo, e con
grandissima gentilezza di sua mano mi fasciò. Cosí
assicuratisi alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi il
desinare montammo a cavallo, e di compagnia ce ne andavamo. Non
era ancora assicurata la paura; ché quelli gentili uomini
astutamente mi facevano trattenere a quella gentildonna, restando
alquanto indietro: e io a pari con essa me ne andavo in sun un mio
bel cavalletto, accennato al mio servitore che stessi un poco
discosto da me; in modo che noi ragionavamo di quelle cose che non
vende lo speziale. Cosí mi condussi a Roma col maggior
piacere che io avessi mai.
Arrivato che io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo
del cardinale de' Medici; e trovatovi Sua Signoria reverendissima,
gli feci motto<B>, </B>e lo ringraziai de l'avermi
fatto tornare. Di poi pregai Sua Signoria reverendissima, che mi
facessi sicuro dal carcere, e se gli era possibile ancora della
pena pecuniaria. Il ditto Signore mi vidde molto volentieri; mi
disse che io non dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo
gentiluomo, il quale si domandava misser Pierantonio
Pecci,<B> </B>sanese, dicendogli che per sua parte
dicessi al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo
domandò come stava quello a chi io avevo dato del sasso in
sul capo. Il ditto messer Pierantonio disse che lui stava male, e
che gli starebbe ancor peggio; il perché si era saputo che
io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle
qual parole con gran risa il Cardinale disse: - Costui non poteva
fare altro modo che questo, a volerci fare cognoscere che gli era
nato di sanesi -. Di poi voltosi a me, mi disse: - Per
onestà nostra e tua, abbi pazienzia quattro o cinque
giorni, che tu non pratichi in Banchi; da questi in là va'
poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta -. Io me ne andai
a casa mia, mettendomi a finire la medaglia, che di già
avevo cominciata, della testa di papa Clemente, la quale io facevo
con un rovescio figurato una Pace. Questa si era una femminetta
vestita con panni sottilissimi, soccinta<B>, </B>con
una faccellina in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme
a guisa di un trofeo; e ivi era figurato una parete di un tempio,
innel quale era figurato il Furore con molte catene legato, e
all'intorno si era un motto di lettere, il quale diceva
<I>"Clauduntur belli portae</I>". In mentre ch'io
finivo la ditta medaglia, quello che io avevo percosso era
guarito, e 'l Papa non cessava di domandar di me: e perché
io fuggivo<B> </B>di andare intorno al cardinale de'
Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi, Sua
Signoria mi dava da fare qualche opera d'importanza, per la qual
cosa m'inpediva assai alla fine<B> </B>della mia
medaglia, avvenne che misser Pier
Carnesecchi,<B></B>favoritissimo del Papa, prese la
cura di tener conto di me: cosí in un destro modo mi disse
quanto il Papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi
che in brevi giorni io mostrerrei a Sua Santità, che mai io
non m'ero scostato dal servizio di quella.
LXXI.<B> </B>Pochi giorni appresso, avendo finito la
mia medaglia, la stampai in oro e in argento e in ottone.
Mostratala a messer Piero, subito m'introdusse dal Papa. Era un
giorno doppo desinare del mese di aprile, ed era un bel tempo: il
Papa era in Belvedere. Giunto alla presenza di Sua Santità,
li porsi in mano le medaglie insieme con li conii di acciaio.
Presele, subito cognosciuto la gran forza di arte che era in esse,
guardato misser Piero in viso, disse: - Gli antichi non furno mai
sí ben serviti di medaglie -. In mentre che lui e gli altri
le consideravano, ora i conii ora le medaglie, io
modestissimamente cominciai a parlare e dissi: - Se la potenzia
delle mie perverse istelle non avessino aùto una maggior
potenzia, che alloro avessi impedito quello che violentemente in
atto le mi dimostrorno, Vostra Santità senza sua causa e
mia perdeva un suo fidele e amorevole servitore. Però,
beatissimo Padre, non è error nessuno in questi atti, dove
si fa del resto, usar quel modo che dicono certi poveri semplici
uomini, usando dire, che si dee segnar sette e tagliar uno. Da poi
che una malvagia bugiarda lingua d'un mio pessimo avversario, che
aveva cosí facilmente fatto adirare Vostra Santità,
che ella venne in tanto furore, commettendo al Governatore che
subito preso m'impiccassi; veduto da poi un tale inconveniente,
faccendo un cosí gran torto a sé medesima a privarsi
di un suo servitore, qual Vostra Santità istessa dice che
egli è, penso certissimo che, quanto a Dio e quanto al
mondo, da poi Vostra Santità n'arebbe aùto un non
piccolo rimordimento. Però i buoni e virtuosi padri,
similmente i padroni tali, sopra i loro figliuoli e servitori non
debbono cosí precipitatamente lasciar loro cadere il
braccio addosso; avvenga che lo increscerne lor da poi non serva a
nulla. Da poi che Idio ha impedito questo maligno corso di stelle,
e salvatomi a Vostra Santità, un'altra volta priego quella,
che non sia cosí facile a l'adirarsi meco -. Il Papa,
fermato di guardare le medaglie, con grande attenzione mi stava a
udire; e perché alla presenzia era molti Signori di
grandissima importanza, il Papa, arrossito alquanto, fece segno di
vergognarsi, e non sapendo altro modo a uscir di quel viluppo,
disse che non si ricordava di aver mai dato una tal commessione.
Allora avvedutomi di questo, entrai in altri ragionamenti, tanto
che io divertissi quella vergogna che lui aveva dimostrato. Ancora
Sua Santità entrato in e' ragionamenti delle medaglie, mi
dimandava che modo io avevo tenuto a stamparle cosí
mirabilmente, essendo cosí grande; il che lui non aveva mai
veduto degli antichi, medaglie di tanta grandezza. Sopra quello si
ragionò un pezzo, e lui, che aveva paura che io non gli
facessi un'altra orazioncina peggio di quella, mi disse che le
medaglie erano bellissime e che gli erano molto grate, e che
arebbe voluto fare un altro rovescio a sua fantasia, se tal
medaglie si poteva istampare con dua rovesci. Io dissi che
sí. Allora Sua Santità mi commesse che io facessi la
storia di Moisè quando e' percuote la pietra, ch'e' n'esce
l'acqua, con un motto sopra, il qual dicessi <I>"Ut bibat
populus"</I>. E poi aggiunse: - Va, Benvenuto, che tu non
l'arai finita sí tosto che io arò pensato a casi tua
-. Partito che io fui, il Papa si vantò alla presenza di
tutti di darmi tanto, che io arei potuto riccamente vivere, senza
mai piú affaticarmi con altri. Attesi sollecitamente a
finire il rovescio del Moisè.
LXXII. In questo mezzo il Papa si ammalò; e, giudicando i
medici che 'l male fussi pericoloso, quel mio avversario, avendo
paura di me, commise a certi soldati napoletani che facessino a me
quello che lui aveva paura che io non facessi allui. Però
ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando
fini' il rovescio afatto: portatolo su al Papa, lo trovai nel
letto malissimo condizionato. Con tutto questo egli mi fece gran
carezze, e volse veder le medaglie e e' conii; e faccendosi dare
occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a
brancolarle alquanto con le dita; di poi fatto cosí un
poco, gittò un gran sospiro e disse a certi che
gl'incresceva di me, ma che se Idio gli rendeva la sanità,
acconcerebbe ogni cosa. Da poi tre giorni il Papa morí, e
io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buono animo, e
dissi a me stesso che mediante quelle medaglie io m'ero fatto
tanto cognoscere, che da ogni papa, che venissi, io sarei
adoperato forse con miglior fortuna. Cosí da me medesimo mi
missi animo, cancellando in tutto e per tutto le grande ingiurie
che mi aveva fatte Pompeo; e missomi l'arme indosso e accanto, me
ne andai a San Piero, baciai li piedi al morto Papa non sanza
lacrime; di poi mi ritornai in Banchi a considerare la gran
confusione che avviene in cotai occasione. E in mentre che io mi
sedeva in Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo in
mezzo a dieci uomini benissimo armati; e quando egli fu a punto a
rincontro dove io era, si fermò alquanto in atto di voler
quistione con esso meco. Quelli ch'erano meco, giovani bravi e
volontoriosi, accennatomi che io dovessi metter mano, alla qual
cosa subito considerai, che se io mettevo mano alla spada, ne
sarebbe seguito qualche grandissimo danno in quelli che non vi
avevano una colpa al mondo; però giudicai che e' fussi il
meglio, che io solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato
che Pompeo fu del dir dua Avemarie, con ischerno rise inverso di
me; e partitosi, quelli sua anche risono scotendo il capo; e con
simili atti facevano molte braverie: quelli mia compagni volson
metter mano alla quistione; ai quali io adiratamente dissi, che le
mie brighe io ero uomo da per me a saperle finire, che io non
avevo bisogno di maggior bravi di me; sí che ognun badassi
al fatto suo. Isdegnati quelli mia amici si partirno da me
brontolando. In fra questi era il piú caro mio amico, il
quale aveva nome Albertaccio del Bene, fratel carnale di
Alessandro e di Albizzo, il quale è oggi in Lione
grandissimo ricco. Era questo Albertaccio il piú mirabil
giovane che io cognoscessi mai, e il piú animoso, e a me
voleva bene quanto a sé medesimo; e perché lui
sapeva bene che quello atto di pazienzia non era stato per
pusillità d'animo, ma per aldacissima bravuria, che
benissimo mi conosceva, e replicato alle parole, mi pregò
che io gli facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che
io avessi animo di fare. Al quale io dissi: - Albertaccio mio,
sopra tutti gli altri carissimo; ben verrà tempo che voi mi
potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi mi volete bene, non
guardate a me, e badate al fatto vostro, e levatevi via presto
sí come hanno fatto gli altri, perché questo non
è tempo da perdere -. Queste parole furno dette presto.
LXXIII. Intanto li nimici mia, di Banchi a lento passo s'erano
avviati inverso la Chiavica, luogo detto cosí, e arrivati
in su una crociata di strade<B> </B>le quali vanno in
diversi luoghi; ma quella dove era la casa del mio nimico Pompeo,
era quella strada che diritta porta a Campo di Fiore; e per alcune
occasione de il detto Pompeo, era entrato in quello ispeziale che
stava in sul canto della Chiavica, e soprastato con ditto speziale
alquanto per alcune sue faccende; benché a me fu ditto che
lui si era millantato di quella bravata che allui pareva aver
fattami: ma in tutti i modi la fu pur sua cattiva fortuna;
perché arrivato che io fui a quel canto, apunto lui usciva
dallo speziale, e quei sua bravi si erano aperti, e l'avevano di
già ricevuto in mezzo. Messi mano a un picol pungente
pugnaletto, e sforzato la fila de' sua bravi, li messi le mane al
petto con tanta prestezza e sicurtà d'animo, che nessuno
delli detti rimediar non possettono. Tiratogli per dare al viso,
lo spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo
punsi apunto sotto l'orecchio; e quivi raffermai dua colpi soli,
che al sicondo mi cadde morto di mano, qual non fu mai mia
intenzione; ma, sí come si dice, li colpi non si danno a
patti. Ripreso il pugnale con la mano istanca, e con la ritta
tirato fuora la spada per la difesa della vita mia, dove<B>
</B>tutti quei bravi corsono al morto corpo, e contro a me
non feceno atto nessuno, cosí soletto mi ritirai per strada
Iulia, pensando dove io mi potessi salvare. Quando io fui trecento
passi, mi raggiunse il Piloto, orefice, mio grandissimo amico, il
quale mi disse: - Fratello, da poi che 'l male è fatto,
veggiamo di salvarti -. Al quale io dissi: - Andiamo in casa di
Albertaccio del Bene, che poco inanzi gli avevo detto che presto
verrebbe il tempo che io arei bisogno di lui -. Giunti che noi
fummo a casa Albertaccio, le carezze furno inistimabile, e presto
comparse la nobiltà delli giovani di Banchi d'ogni nazione,
da' Milanesi in fuora; e tutti mi si offersono di mettete la vita
loro per salvazione della vita mia. Ancora misser Luigi Rucellai
mi mandò a offerire maravigliosamente, che io mi servissi
delle cose sua, e molti altri di quelli omaccioni<B>
</B>simili a lui; perché tutti d'accordo mi
benedissono le mani, parendo loro che colui mi avessi troppo
assassinato, e maravigliandosi molto che io avessi tanto
soportato.
LXXIV. In questo istante il cardinal Cornaro, saputo la cosa, da
per sé mandò trenta soldati, con tanti partigianoni,
picche e archibusi, li quali mi menassino in camera sua per ogni
buon rispetto<B>; </B>e io accettai l'offerta, e con
quelli me ne andai, e piú di altretanti di quelli ditti
giovani mi feciono compagnia. In questo mezzo saputolo quel misser
Traiano suo parente, primo cameriere del Papa, mandò al
cardinal de' Medici un gran gentiluomo milanese, il qual dicessi
al Cardinale il gran male che io avevo fatto, e che Sua Signoria
reverendissima era ubbrigata a gastigarmi. Il Cardinale rispose
subito, e disse: - Gran male arebbe fatto a non fare questo minor
male: ringraziate messer Traiano da mia parte, che m'ha fatto
avvertito di quel che io non sapeva - e subito voltosi, in
presenza del ditto gentiluomo, al vescovo di Frullí suo
gentiluomo e familiare, li disse: - Cercate con diligenzia il mio
Benvenuto, e menatemelo qui, perché io lo voglio aiutare e
difendere; e chi farà contra di lui, farà contra di
me -. Il gentiluomo molto arrossito si partí, e il vescovo
di Frullí mi venne a trovare in casa il cardinal Cornaro; e
trovato il Cardinale, disse come il cardinale de' Medici mandava
per Benvenuto, e che voleva esser lui quello che lo
guardassi.<B> </B>Questo cardinal Cornaro, ch'era
bizzarro come un orsacchino, molto adirato rispose al vescovo,
dicendogli che lui era cosí atto a guardarmi come il
cardinal de' Medici. A questo il vescovo disse, che di grazia
facessi che lui mi potessi parlare una parola fuor di quello
affare, per altri negozi del cardinale. Il Cornaro li disse che
per quel giorno facessi conto di avermi parlato. Il cardinal de'
Medici era molto isdegnato; ma pure io andai la notte seguente
senza saputa del Cornaro, benissimo accompagnato, a visitarlo;
dipoi lo pregai che mi facessi tanto di grazia di lasciarmi in
casa del ditto Cornaro, e li dissi la gran cortesia che Cornaro
m'aveva usato; dove che, se Sua Signoria reverendissima mi
lasciava stare col ditto Cornaro, io verrei ad avere un amico
piú nelle mie necessitate; o pure che disponessi di me
tutto quello che piacessi a Sua Signoria. Il quale mi rispose, che
io facessi quanto mi pareva. Tornatomene a casa il Cornaro, ivi a
pochi giorni fu fatto papa il cardinal Farnese: e subito dato
ordine alle cose di piú importanza, apresso il Papa
domandò di me, dicendo che non voleva che altri facessi le
sue monete, che io. A queste parole rispose a Sua Santità
un certo gentiluomo suo domestichissimo, il quale si chiamava
messer Latino Iuvinale<B>; </B>disse che io stavo
fuggiasco per uno omicidio fatto in persona di un Pompeo milanese,
e aggiunse tutte le mie ragione molto favoritamente. Alle qual
parole il Papa disse: - Io non sapevo della morte di Pompeo, ma
sí bene sapevo le ragione di Benvenuto, sí che
facciasigli subito un salvo condotto, con il quale lui stia
sicurissimo -. Era alla presenza un grande amico di quel Pompeo e
molto domestico del Papa, il quale si chiamava misser Ambruogio,
ed era milanese, e disse al Papa: - In e' primi dí del
vostro papato non saria bene far grazie di questa sorte -. Al
quale il Papa voltosigli, gli disse: - Voi non la sapete bene
sí come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici
nella lor professione, non hanno da essere ubrigati alla
legge:<B> </B>or maggiormente lui, che so quanta
ragione e' gli ha -. E fattomi fare il salvo condotto, subito lo
cominciai a servire con grandissimo favore.
LXXV. Mi venne a trovare quel Latino Iuvinale detto, e mi commesse
che io facessi le monete del Papa. Per la qual cosa si
destò tutti quei mia nimici: cominciorno a impedirmi, che
io non le facessi. Alla qual cosa il Papa, avvedutosi di tal cosa,
gli sgridò tutti, e volse che io le facessi. Cominciai a
fare le stampe degli scudi<B>, </B>innelle quali io
feci un mezzo San Pagolo, con un motto di lettere che diceva
<I>"Vas electionis"</I>. Questa moneta piacque molto
piú che quelle di quelli che avevan fatto a mia
concorrenza; di modo che il Papa disse che altri non gli parlassi
piú di monete, perché voleva che io fossi quello che
le facessi e no altri. Cosí francamente attendevo a
lavorare; e quel messer Latino Iuvinale m'introduceva al Papa,
perché il Papa gli aveva dato questa cura. Io desideravo di
riavere il moto proprio dell'uffizio dello stampatore della zecca.
A questo il Papa si lasciò consigliare, dicendo che prima
bisognava che avessi la grazia dell'omicidio, la quale io riarei
per le Sante Marie di Agosto per ordine de' caporioni di
Roma<B>, </B>che cosí si usa ogni anno per
questa solenne festa donare a questi caporioni dodici
sbanditi;<B> </B>intanto mi si farebbe un altro salvo
condotto, per il quale io potessi star sicuro per insino al ditto
tempo. Veduto questi mia nimici che non potevano ottenere per via
nessuna impedirmi la zecca, presono un altro espediente. Avendo il
Pompeo morto lasciato tremila ducati di dota a una sua figliuolina
bastarda, feciono che un certo favorito del signor Pier Luigi,
flgliuol del Papa, la chiedessi per moglie per mezzo del detto
Signore: cosí fu fatto. Questo ditto favorito era un
villanetto allevato dal ditto Signore, e per quel che si disse
allui toccò pochi di cotesti dinari, perché il ditto
Signore vi messe su le mane, e se ne volse servire. Ma
perché piú volte questo marito di questa
fanciulletta, per compiacere alla sua moglie, aveva pregato il
Signore ditto che mi facessi pigliare, il quale Signore aveva
promisso di farlo come ei vedessi abbassato un poco il favore che
io avevo col Papa; stando cosí in circa a dua mesi,
perché quel suo servitore cercava di avere la sua dota, el
Signore non gli rispondendo a proposito, ma faceva intendere alla
moglie che farebbe le vendette del padre a ogni modo. Con tutto
che io ne sapevo qualche cosa, e appresentatomi<B>
</B>piú volte al ditto Signore, il quale mostrava di
farmi grandissimi favori; dalla altra banda aveva ordinato una
delle due vie, o di farmi ammazzare o di farmi pigliare dal
bargello. Commesse a un certo diavoletto di un suo soldato
còrso, che la facessi piú netta che poteva: e quelli
altri mia nimici, massimo messer Traiano, aveva promesso di fare
un presente di cento scudi a questo corsetto; il quale disse che
la farebbe cosí facile come bere uno vuovo fresco. Io, che
tal cosa intesi, andavo con gli occhi aperti e con buona compagnia
e benissimo armato con giaco e con maniche<B>, </B>che
tanto avevo aùto licenzia. Questo ditto corsetto per
avarizia pensando guadagnare quelli dinari tutti a man salva,
credette tale inpresa poterla fare da per se solo;<B>
</B>in modo che un giorno, doppo desinare, mi feciono
chiamare da parte del signor Pier Luigi; onde io subito andai,
perché il Signore mi aveva ragionato di voler fare parecchi
vasi grandi di argento. Partitomi di casa in fretta, pure con le
mie solite armadure, me ne andavo presto per istrada Iulia,
pensando di non trovar persona in su quell'ora. Quando io fui su
alto di strada Iulia per voltare al palazzo del Farnese, essendo
il mio uso di voltar largo ai canti, viddi quel corsetto
già ditto, levarsi da sedere e arrivare al mezzo della
strada: di modo che io non mi sconciai di nulla, ma stavo in
ordine per difendermi; e allentato il passo alquanto, mi accostai
al muro per dare larga istrada al ditto corsetto. Anche lui
accostatosi al muro, e di già appressatici bene,
cognosciuto ispresso per le sue dimostrazione che lui aveva
voluntà di farmi dispiacere, e vedutomi solo a quel modo,
pensò che la gli riuscissi; in modo che io cominciai a
parlare e dissi: - Valoroso soldato, se e' fossi di notte, voi
potresti dire di avermi preso in iscambio; ma perché gli
è di giorno, benissimo cognoscete chi io sono, il quale non
ebbi mai che fare con voi, e mai non vi feci dispiacere; ma io
sarei bene atto a farvi piacere -. A queste parole lui in atto
bravo, non mi si levando dinanzi, mi disse che non sapeva quello
che io mi dicevo. Allora io dissi: - Io so benissimo quello che
voi volete, e quel che voi dite; ma quella impresa che voi avete
presa a fare è piú difficile e pericolosa, che voi
non pensate, e tal volta potrebbe andare a rovescio; e ricordatevi
che voi avete a fare con uno uomo il quale si difenderebbe da
cento. E non è impresa onorata da valorosi uomini, qual voi
siete, questa -. Intanto ancora io stavo in cagnesco, canbiato il
colore l'uno e l'altro. Intanto era comparso populi,<B>
</B>che di già avevano conosciuto che le nostre
parole erano di ferro;<B> </B>che non gli essendo
bastato la vista<B> </B>a manomettermi, disse: - Altra
volta ci rivedremo -. Al quale io dissi: - Io sempre mi riveggo
con gli uomini da bene, e con quelli che fanno ritratto tale -.
Partitomi, andai a casa il Signore, il quale non aveva mandato per
me. Tornatomi alla mia bottega, il detto corsetto per un suo
grandissimo amico e mio mi fece intendere, che io non mi guardassi
piú da lui, che mi voleva essere buono fratello; ma che io
mi guardassi bene da altri, perché io portavo<B>
</B>grandissimo pericolo; ché uomini di molta
importanza mi avevano giurato la morte adosso. Mandatolo a
ringraziare, mi guardavo il meglio che io potevo. Non molti giorni
apresso mi fu detto da un mio grande amico, che 'l signor Pier
Luigi aveva dato espressa commessione che io fussi preso la sera.
Questo mi fu detto a venti ore; per la qual cosa io ne parlai con
alcuni mia amici, e' quali mi confortorno che io subito me ne
andassi. E perché la commessione era data per a una ora di
notte,<B> </B>a ventitré ore io montai in su le
poste, e me ne corsi a Firenze: perché da poi che quel
corsetto non gli era bastato l'animo di far la impresa che lui
promesse, il signor Pier Luigi di sua propria autorità
aveva dato ordine che io fussi preso, solo per racchetare un poco
quella figliuola di Pompeo, la quale voleva sapere in che luogo
era la sua dota. Non la potendo contentare della vendetta in
nissuno de' dua modi che lui aveva ordinato, ne pensò un
altro, il quale lo diremo al suo luogo.
LXXVI. Io giunsi a Firenze, e feci motto al duca Lessandro, il
quale mi fece maravigliose carezze, e mi ricercò che io mi
dovessi restar seco. E perché in Firenze era un certo
scultore chiamato il Tribolino, ed era mio compare, per avergli io
battezzato un suo figliuolo, ragionando seco, mi disse che uno
Iacopo del Sansovino, già primo suo maestro, lo aveva
mandato a chiamare; e perché lui non aveva mai veduto
Vinezia, e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto
volentieri; e domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi
che no; onde egli mi pregò che io dovessi andar seco a
spasso; al quale io promessi: però risposi al duca
Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia, di poi
tornerei volentieri a servirlo; e cosí volse che io gli
promettessi, e mi comandò che inanzi che io mi partissi io
gli facessi motto. L'altro dí appresso, essendomi messo in
ordine, andai per pigliare licenza dal Duca; il quale io trovai
innel palazzo de' Pazzi, innel tempo che ivi era alloggiato la
moglie e le figliuole del signor Lorenzo Cibo. Fatto intendere a
Sua Eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona
grazia, tornò con la risposta Cosimino de' Medici, oggi
Duca di Firenze, il quale mi disse che io andassi a trovare
Nicolò da Monte Aguto, e lui mi darebbe cinquanta scudi
d'oro, i quali danari mi donava la Eccellenzia del Duca, che io me
gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li
danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo<B>,
</B>il quale era in ordine; e mi disse se io avevo legato la
spada. Io li dissi che chi era a cavallo per andare in viaggio non
doveva legar le spade. Disse che in Firenze si usava cosí,
perché v'era un certo ser Maurizio, che per ogni piccola
cosa arebbe dato della corda a San Giovanbatista; però
bisognava portar le spade legate per insino fuor della porta. Io
me ne risi, e cosí ce ne andammo. Accompagnammoci con il
procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per sopra nome
Lamentone: con esso andammo di compagnia, e passato Bologna una
sera in fra l'altre arrivammo a Ferrara; e quivi alloggiati a
l'osteria di Piazza, il detto Lamentone andò a trovare
alcuno de' fuora usciti, a portar loro lettere e imbasciate da
parte della loro moglie: che cosí era di consentimento del
Duca, che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto
pena della medesima contumazia in che loro erano. In questo mezzo,
per essere poco piú di ventidua ore, noi ce ne andammo, il
Tribulo e io, a veder tornare il duca di Ferrara, il quale era ito
a Belfiore a veder giostrare. Innel suo ritorno noi scontrammo
molti fuora usciti, e' quali ci guardavano fiso, quasi
isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il
piú pauroso uomo che io cognoscessi mai, non cessava di
dirmi: - Non gli guardare e non parlare con loro, se tu vuoi
tornare a Firenze -. Cosí stemmo a veder tornare il Duca;
di poi tornaticene a l'osteria, ivi trovammo Lamentone. E fattosi
vicina a un'ora di notte, ivi comparse Nicolò Benintendi e
Piero suo fratello, e un altro vecchione, qual credo che fussi
Iacopo Nardi, insieme con parecchi altri giovani; e' quali subito
giunti dimandavano il procaccia, ciascuno delle sue brigate di
Firenze: il Tribolo e io stavamo là discosto, per non
parlar con loro. Di poi che gl'ebbono ragionato un pezzo con
Lamentone, quel Nicolò Benintendi disse: - Io gli cognosco
quei dua benissimo; perché fann'eglino tante merde di non
ci voler parlare? - Il Tribolo pur mi diceva che io stessi cheto.
Lamentone disse loro, che quella licenzia che era data allui, non
era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l'era una
asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose. Allora io
alzai la testa con piú modestia che io potevo e sapevo, e
dissi: - Cari gentiluomini, voi ci potete nuocere assai, e noi a
voi non possiamo giovar nulla; e con tutto che voi ci abiate detto
qualche parola la quale non ci si conviene, né anche per
questo non vogliamo essere adirati con esso voi -. Quel vecchione
de' Nardi disse che io avevo parlato da un giovane da bene, come
io ero. Nicolò Benintendi allora disse: - Io ho in culo
loro e il Duca -. Io replicai, che con noi egli aveva torto, che
non avevàno che far nulla de' casi sua. Quel vecchio de'
Nardi la prese per noi, dicendo al Benintendi che gli aveva il
torto; onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la
qualcosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli
dispiacerebbono; sí che attendessi al fatto suo, e
lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca e noi di
nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole
mentitolo per la gola<B>, </B>tirai fuora la spada; e
'l vecchio, che volse essere il primo alla scala, pochi
scaglioni<B> </B>in giú cadde, e loro tutti
l'un sopra l'altro addòssogli. Per la qual cosa, io saltato
inanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore,
dicendo: - Io vi ammazzerò tutti - e benissimo avevo
riguardo a non far lor male, che troppo ne arei potuto fare. A
questo romore l'oste gridava; Lamenton diceva - Non fate - alcuni
di loro dicevano - Oimè il capo! - altri - Lasciami uscir
di qui -. Questa era una bussa inistimabile: parevano un branco di
porci: l'oste venne col lume; io mi ritirai sú e rimessi la
spada. Lamentone diceva a Nicolò Benintendi, che gli aveva
mal fatto; l'oste disse a Nicolò Benintendi: - E' ne va la
vita a metter mano per l'arme qui, e se il Duca sapessi queste
vostre insolenzie, vi farebbe appiccare per la gola; sí che
io non vi voglio fare quello che voi meriteresti; ma non mi ci
capitate mai piú in questa osteria, che guai a voi -.
L'oste venne sú da me, e volendomi io scusare, non mi
lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille
ragioni, e che io mi guardassi bene innel viaggio da loro.
LXXVII.<B> </B>Cenato che noi avemmo, comparse
sú un barcheruolo per levarci<B> </B>per
Vinezia; io dimandai se lui mi voleva dare la barca libera:
cosí fu contento, e di tanto facemmo patto. La mattina a
buonotta noi pigliammo i cavagli per andare al porto, quale
è non so che poche miglia lontano da Ferrara; e giunto che
noi fummo al porto, vi trovammo il fratello di Nicolò
Benintendi con tre altri compagni, i quali aspettavano che io
giugnessi: in fra loro era dua pezzi di arme in asta, e io avevo
compro un bel giannettone<B> </B>in Ferrara. Essendo
anche benissimo armato, io non mi sbigotti' punto, come fece il
Tribolo che disse: - Idio ci aiuti: costor son qui per ammazzarci
-. Lamentone si volse a me e disse: - Il meglio che tu possa fare
si è tornartene a Ferrara, perché io veggo la cosa
pericolosa. Di grazia, Benvenuto mio, passa la furia di queste
bestie arrabiate -. Allora io dissi: - Andiàno inanzi,
perché chi ha ragione Idio l'aiuta; e voi vedrete come mi
aiuterò da me. Quella barca non è ella caparrata per
noi? - Sí, - disse Lamentone. - E noi in quella staremo
sanza loro, per quanto potrà la virtú mia -. Spinsi
inanzi il cavallo, e quando fu presso a cinquanta passi, scavalcai
e arditamente col mio giannettone andavo innanzi. Il Tribolo s'era
fermato indietro ed era rannicchiato in sul cavallo, che pareva il
freddo stesso; e Lamentone procaccio gonfiava e soffiava che
pareva un vento; che cosí era il suo modo di fare; ma
piú lo faceva allora che il solito, stando acconsiderare
che fine avessi avere quella diavoleria. Giunto alla barca, il
barcheruolo mi si fece innanzi e mi disse, che quelli parecchi
gentiluomini fiorentini volevano entrare di compagnia nella barca,
se io me ne contentavo. Al quale io dissi: - La barca è
caparrata per noi, e non per altri, e m'incresce insino al cuore
di non poter essere con loro -. A queste parole un bravo giovane
de' Magalotti disse: - Benvenuto, noi faremo che tu potrai -.
Allora io dissi: - Se Idio e la ragione che io ho insieme con le
forze mie, vorranno o potranno, voi non mi farete poter quel che
voi dite -. E con le parole insieme saltai nella barca. Volto lor
la punta dell'arme, dissi: - Con questa vi mostrerrò che io
non posso -. Voluto fare un poco di dimostrazione<B>,
</B>messo mano all'arme e fattosi innanzi quel de'
Magalotti, io saltai in su l'orlo della barca, e tira'gli un
cosí gran colpo, che se non cadeva rovescio in terra, io lo
passavo a banda a banda. Gli altri compagni, scambio di aiutarlo,
si ritirorno indietro: e veduto che io l'arei potuto ammazzare, in
cambio di dargli, io li dissi: - Levati su, fratello, e piglia le
tue arme e vattene; bene hai tu veduto che io non posso quel che
io non voglio, e quel che io potevo fare non ho voluto -. Di poi
chiamai drento il Tribolo e il barcheruolo e Lamentone;
cosí ce ne andammo alla volta di Vinezia. Quando noi fummo
dieci miglia per il Po, quelli giovani erano montati in su una
fusoliera e ci raggiunsono; e quando a noi furno al dirimpetto,
quello isciocco di Pier Benintendi mi disse: - Vien pur via,
Benvenuto, ché ci rivedremo in Vinezia. - Avviatevi che io
vengo - dissi - e per tutto mi lascio rivedere -. Cosí
arrivammo a Vinezia. Io presi parere da un fratello del cardinal
Cornaro, dicendo che mi facessi favore che io potessi aver
l'arme<B>, </B>qual mi disse che liberamente io la
portassi, che il peggio che me ne andava si era perder la spada.
LXXVIII. Cosí portando l'arme, andammo a visitare Iacopo
del Sansovino scultore, il quale aveva mandato per il Tribolo; e a
me fece gran carezze, e vuolseci dar desinare, e seco restammo.
Parlando col Tribolo, gli disse che non se ne voleva servire per
allora, e che tornassi un'altra volta. A queste parole io mi
cacciai a ridere, e piacevolmente dissi al Sansovino: - Gli
è troppo discosto la casa vostra dalla sua, avendo a
tornare un'altra volta -. Il povero Tribolo sbigottito disse: - Io
ho qui la lettera, che voi mi avete scritta, che io venga -. A
questo disse il Sansovino, che i sua pari, uomini da bene e
virtuosi, potevan fare quello e maggior cosa. Il Tribolo si
ristrinse nelle spalle e disse - Pazienzia - parecchi volte. A
questo, non guardando al desinare abundante che mi aveva dato il
Sansovino, presi la parte del mio compagno Tribolo, che aveva
ragione. E perché a quella mensa il Sansovino non aveva mai
restato di cicalare delle sue gran pruove, dicendo mal di
Michelagnolo e di tutti quelli che facevano tal arte, solo lodando
se istesso a maraviglia; questa cosa mi era venuta tanto a noia,
che io non avevo mangiato boccon che mi fussi piaciuto, e solo
dissi queste dua parole: - O messer Iacopo, li uomini da bene
fanno le cose da uomini da bene, e quelli virtuosi, che fanno le
belle opere e buone, si cognoscono molto meglio quando sono lodati
da altri, che a lodarsi cosí sicuramente da per loro
medesimi -. A queste parole e lui e noi ci levammo da tavola
bofonchiando. Quel giorno medesimo, trovandomi per Venezia presso
al Rialto, mi scontrai in Piero Benintendi, il quale era con
parecchi; e avedutomi che loro cercavano di farmi dispiacere, mi
ritirai inn'una bottega d'uno speziale, tanto che io lasciai
passare quella furia. Dipoi io intesi che quel giovane de'
Magalotti, a chi io avevo usato cortesia, molto gli aveva
sgridati; e cosí si passò.
LXXIX. Da poi pochi giorni appresso ce ne ritornammo alla volta di
Firenze; ed essendo alloggiati a un certo luogo, il quale è
di qua da Chioggia in su la man manca venendo inverso Ferrara,
l'oste volse essere pagato a suo modo innanzi che noi andassimo a
dormire; e dicendogli che innegli altri luoghi si usava di pagare
la mattina, ci disse: - Io voglio esser pagato la sera, e a mio
modo -. Dissi, a quelle parole, che gli uomini che volevan fare a
lor modo, bisognava che si facessino un mondo a lor modo,
perché in questo non si usava cosí. L'oste rispose
che io non gli affastidissi il cervello, perché voleva fare
a quel modo. Il Tribolo tremava di paura, e mi punzecchiava che io
stessi cheto, acciò che loro<B> </B>non ci
facessino peggio: cosí lo pagammo a lor modo; poi ce ne
andammo a dormire. Avemmo di buono bellissimi letti, nuovi ogni
cosa e veramente puliti: con tutto questo io non dormi' mai,
pensando tutta quella notte in che modo io avevo da fare a
vendicarmi. Una volta mi veniva in pensiero di ficcargli fuogo in
casa; un'altra di scannargli quattro cavagli buoni, che gli aveva
nella stalla; tutto vedevo che m'era facile il farlo, ma non
vedevo già l'esser facile il salvare me e il mio compagno.
Presi per ultimo spediente di mettere le robe e' compagni innella
barca, e cosí feci: e attaccato i cavalli all'alzana, che
tiravano la barca, dissi che non movessino la barca in sino che io
ritornassi, perché avevo lasciato un paro di mia pianelle
nel luogo dove io avevo dormito. Cosí tornato ne l'osteria
domandai l'oste; il qual mi rispose che non aveva che far di noi,
e che noi andassimo al bordello. Quivi era un suo fanciullaccio
ragazzo di stalla, tutto sonnachioso, il quale mi disse: - L'oste
non si moverebbe per il Papa, perché e' dorme seco una
certa poltroncella che lui ha bramato assai - e chiesemi la bene
andata; onde io li detti parecchi di quelle piccole monete
veniziane, e li dissi che trattenessi un poco quello che tirava
l'alzana, insinché io cercassi delle mie pianelle e ivi
tornassi. Andatomene su, presi un coltelletto che radeva, e
quattro letti che v'era, tutti gli tritai con quel coltello; in
modo che io cognobbi aver fatto un danno di piú di
cinquanta scudi. E tornato alla barca con certi pezzuoli di quelle
sarge nella mia saccoccia, con fretta dissi al guidatore
dell'alzana che prestamente parassi via. Scostatici un poco dalla
osteria, el mio compar Tribolo disse che aveva lasciato certe
coreggine che legavano la sua valigetta, e che voleva tornare per
esse a ogni modo. Alla qual cosa io dissi che non la guardassi in
dua coreggie piccine, perché io gnene farei delle grande
quante egli vorrebbe. Lui mi disse io ero sempre in su la burla,
ma che voleva tornare per le sue coreggie a ogni modo; e faccendo
forza all'alzana che e' fermassi, e io dicevo che parassi innanzi,
in mentre<B> </B>gli dissi il gran danno che io avevo
fatto a l'oste: e mostratogli il saggio di certi pezzuoli di sarge
e altro, gli entrò un triemito addosso sí grande,
che egli non cessava di dire all'alzana: - Para via, para via
presto - e mai si tenne sicuro di questo pericolo, per insino che
noi fummo ritornati alle porte di Firenze. Alle quali giunti, il
Tribolo disse: - Leghiamo le spade per l'amor de Dio, e non me ne
fate piú; ché sempre m'è parso avere le
budella 'n un catino -.<B> </B>Al quale io dissi: -
Compar mio Tribolo, a voi non accade legare la spada,
perché voi non l'avete mai isciolta, - e questo io lo dissi
accaso, per non gli avere mai veduto fare segno di uomo in quel
viaggio. Alla quale cosa lui guardatosi la spada, disse: - Per Dio
che voi dite il vero, che la sta legata in quel modo che io
l'acconciai innanzi che io uscissi di casa mia -. A questo mio
compare gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia, per
essermi risentito e difeso contra quelli che ci avevano voluto
fare dispiacere; e a me pareva che lui l'avessi fatta molto
piú cattiva a me, a non si mettere a 'iutarmi in cotai
bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione.
LXXX.<B> </B>Scavalcato che io fui, subito andai a
trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del presente de'
cinquanta scudi, dicendo a Sua Eccellenzia che io ero paratissimo
a tutto quello che io fussi buono a servire Sua Eccellenzia. Il
quale subito m'impose che io facessi le stampe delle sue monete: e
la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la
testa di Sua Eccellenzia da una banda e dall'altra un San Cosimo e
un San Damiano. Queste furono monete d'argento, e piacquono tanto,
che il Duca ardiva di dire che quelle erano le piú belle
monete di Cristianità. Cosí diceva tutto Firenze, e
ogniuno che le vedeva. Per la qual cosa chiesi a Sua Eccellenzia
che mi fermassi una provvisione, e che mi facessi consegnare le
stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a
servirlo, e che lui mi darebbe molto piú di quello che io
gli domandavo; e intanto mi disse che aveva dato commessione al
maestro della zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli, e
allui andassi per tutti li dinari che io volevo: e cosí
trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente li danari,
che sempre restavo a' vere qualche cosa, sicondo il mio conto. Di
nuovo feci le stampe per il giulio, quale era un San Giovanni in
profilo assedere con un libro in mano, che a me non parve mai aver
fatto opera cosí bella; e dall'altra banda era l'arme del
ditto duca Lessandro. A presso a questa io feci la stampa per i
mezzi giuli, innella quale io vi feci una testa in faccia di un
San Giovannino. Questa fu la prima moneta con la testa in faccia
in tanta sottigliezza di argento, che mai si facessi; e questa
tale dificultà non apparisce, se none agli occhi di quelli
che sono eccellenti in cotal professione. Appresso a questa io
feci le stampe per li scudi d'oro; innella quale era una croce da
una banda con certi piccoli cherubini, e dall'altra banda si era
l'arme di Sua Eccellenzia. Fatto che io ebbi queste quattro sorte
di monete, io pregai Sua Eccellenzia che terminassi la mia
provisione, e mi consegnassi le sopraditte stanze, se a quella
piaceva il mio servizio: alle qual parole Sua Eccellenzia mi disse
benignamente che era molto contenta, e che darebbe cotai ordini.
Mentre che io gli parlavo, Sua Eccellenzia era innella sua
guardaroba e considerava un mirabile scoppietto, che gli era stato
mandato della Alamagna: il quale bello strumento, vedutomi che io
con grande attenzione lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi
che sapeva benissimo quanto io di tal cosa mi dilettavo, e che per
arra di quello che lui mi aveva promesso, io mi pigliassi della
sua guardaroba uno archibuso a mio modo, da quello in fuora, che
ben sapeva che ivi n'era molti de' piú belli e cosí
buoni. Alle qual parole io accettai e ringraziai; e vedutomi dare
alla cerca con gli occhi, commise al suo guardaroba, che era un
certo Pretino da Lucca, che mi lasciassi pigliare tutto quello che
io volevo. E partitosi con piacevolissime parole, io mi restai, e
scelsi il piú bello e il migliore archibuso che io vedessi
mai, e che io avessi mai, e questo me lo portai a casa. Dua giorni
di poi io gli portai certi disegnetti che Sua Eccellenzia mi aveva
domandato per fare alcune opere d'oro, le quali voleva mandare a
donare alla sua moglie, che per ancora era in Napoli. Di nuovo io
gli domandai la medesima mia faccenda, che e' me la spedissi.
Allora Sua Eccellenzia mi disse, che voleva in prima che io gli
facessi le stampe di un suo bel ritratto, come io aveva fatto a
papa Clemente. Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual
cosa Sua Eccellenzia commisse, che attutte l'ore che io andavo per
ritrarlo, sempre fossi messo drento. Io che vedevo che questa mia
faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo da Monte
Ritondo, di quel di Roma, il quale era stato meco da piccol
fanciulletto in Roma; e trovatolo che gli stava con un certo
Bernardonaccio orafo, il quale non lo trattava molto bene, per la
qual cosa io lo levai dallui, e benissimo gl'insegnai mettere quei
ferri per le monete; e intanto io ritraevo il Duca: e molte volte
lo trovavo a dormicchiare doppo desinare con quel suo Lorenzino
che poi l'ammazzò, e non altri; e io molto mi maravigliavo
che un Duca di quella sorte cosí si fidassi.
LXXXI. Accadde che Ottaviano de' Medici, il quale pareva che
governassi ogni cosa, volendo favorire contra la voglia del Duca
il maestro vecchio di zecca, che si chiamava Bastiano
Cennini<B>, </B>uomo all'anticaccia e di poco sapere,
aveva fatto mescolare nelle stampe degli scudi quei sua goffi
ferri con i mia; per la qual cosa io me ne dolsi col Duca; il
quale, veduto il vero, lo ebbe molto per male, e mi disse: - Va,
dillo a Ottaviano de' Medici, e mostragnene -. Onde io subito
andai; e mostratogli la ingiuria che era fatto alle mie belle
monete, lui mi disse asinescamente: - Cosí ci piace di fare
-. Al quale io risposi, che cosí non era il dovere, e non
piaceva a me. Lui disse: - E se cosí piacessi al Duca?- Io
gli risposi: - Non piacerebbe a me; ché non è giusto
né ragionevole una tal cosa -. Disse che io me gli levassi
dinanzi, e che a quel modo la mangerei, se io crepassi.
Ritornatomene dal Duca, gli narrai tutto quello che noi avevamo
dispiacevolmente discorso, Ottaviano de' Medici e io; per la qual
cosa io pregavo Sua Eccellenzia che non lasciassi far torto alle
belle monete che io gli avevo fatto, e a me dessi buona licenzia.
Allora e' disse: - Ottaviano ne vuol troppo; e tu arai ciò
che tu vorrai; perché cotesta è una ingiuria che si
fa a me -. Questo giorno medesimo, che era un giovedí, mi
venne di Roma uno amplio salvo condotto dal Papa, dicendomi che io
andassi presto per la grazia delle Sante Marie di mezzo agosto,
acciò che io potessi liberarmi di quel sospetto de
l'omicidio fatto. Andatomene dal Duca, lo trovai nel letto,
perché dicevano che egli aveva disordinato; e finito in
poco piú di dua ore quello che mi bisognava alla sua
medaglia di cera, mostrandognene finita, li piacque assai. Allora
io mostrai a Sua Eccellenzia il salvo condotto aùto per
ordine del Papa, e come il Papa mi richiedeva che io gli facessi
certe opere; per questo andrei a riguadagnare quella bella
città di Roma, e intanto lo servirei della sua medaglia. A
questo il Duca disse mezzo in còllora: - Benvenuto, fa' a
mio modo, non ti partire; perché io ti risolverò la
provvisione, e ti darò le stanze in zecca con molto
piú di quello che tu non mi sapresti domandare,
perché tu mi domandi quello che è giusto e
ragionevole: e chi vorrestú che mi mettessi le mia belle
stampe che tu m'hai fatte? - Allora io dissi: - Signore, e'
s'è pensato a ogni cosa, perché io ho qui un mio
discepolo, il quale è un giovane romano, a chi io ho
insegnato, che servirà benissimo la Eccellenzia Vostra per
insino che io ritorno con la sua medaglia finita a starmi poi seco
sempre. E perché io ho in Roma la mia bottega aperta con
lavoranti e alcune faccende, aùto che io ho la grazia,
lasserò tutta la divozione di Roma a un mio allevato che
è là, e di poi con la buona grazia di Vostra
Eccellenzia me ne tornerò a lei -. A queste cose era
presente quello Lorenzino sopraddetto de' Medici e non altri: il
Duca parecchi volte l'accennò che ancora lui mi dovessi
confortare a fermarmi; per la qual cosa il ditto Lorenzino non
disse mai altro, se none: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a
restare -. Al quale io dissi che io volevo riguadagnare Roma a
ogni modo. Costui non disse altro, e stava continuamente guardando
il Duca con un malissimo occhio. Io, avendo finito a mio modo la
medaglia e avendola serrata nel suo cassettino, dissi al Duca: -
Signore, state di buona voglia, che io vi farò molto
piú bella medaglia che io non feci a papa Clemente:
ché la ragion vuole che io faccia meglio, essendo quella la
prima che io facessi mai; e messer Lorenzo qui mi darà
qualche bellissimo rovescio, come persona dotta e di grandissimo
ingegno -. A queste parole il ditto Lorenzo subito rispose
dicendo: - Io non pensavo a altro, se none a darti un rovescio che
fussi degno di Sua Eccellenzia -. El Duca
sogghignò,<B> </B>e guardato Lorenzo, disse: -
Lorenzo, voi gli darete il rovescio, e lui lo farà qui, e
non si partirà -. Presto rispose Lorenzo, dicendo: - Io lo
farò il piú presto ch'io posso, e spero far cosa da
far maravigliare il mondo -. Il Duca, che lo teneva quando per
pazzericcio e quando per poltrone, si voltolò nel letto e
si rise delle parole che gli aveva detto. Io mi parti' sanza altre
cirimonie di licenzia, e gli lasciai insieme soli. Il Duca, che
non credette che io me ne andassi, non mi disse altro. Quando e'
seppe poi che io m'ero partito, mi mandò drieto un suo
servitore, il quale mi raggiunse a Siena, e mi dette cinquanta
ducati d'oro da parte del Duca, dicendomi che io me gli godessi
per suo<B> </B>amore, e tornassi piú presto che
io potevo. - E da parte di messer Lorenzo ti dico, che lui ti
mette in ordine un rovescio maraviglioso per quella medaglia che
tu vuoi fare -. Io avevo lasciato tutto l'ordine a Pietropagolo
romano sopraditto in che modo egli avev'a mettere le stampe; ma
perché l'era cosa difficilissima, egli non le misse mai
troppo bene. Restai creditore della zecca, di fatture di mie
ferri, di piú di settanta scudi.
LXXXII. Me ne andai a Roma, e meco ne portai quel bellissimo
archibuso a ruota che mi aveva donato il Duca, e con grandissimo
mio piacere molte volte lo adoperai per via, faccendo con esso
pruove inistimabile. Giunsi a Roma; e perché io tenevo una
casetta in istrada Iulia, la quale non essendo<B>
</B>in ordine, io andai a scavalcare a casa di messer
Giovanni Gaddi cherico di Camera, al quale io avevo lasciato in
guardia al mio partir di Roma molte mie belle arme e molte altre
cose che io avevo molte care. Però io non volsi scavalcare
alla bottega mia; e mandai per quel Filice mio compagno, e
fècesi mettere in ordine subito quella mia casina
benissimo. Dipoi l'altro giorno vi andai a dormir drento, per
essermi molto bene messo in ordine di panni e di tutto quello che
mi faceva mestiero, volendo la mattina seguente andare a visitare
il Papa per ringraziarlo. Avevo dua servitori fanciulletti, e
sotto alla casa mia ci era una lavandara, la quale
pulitissimamente mi cucinava. Avendo la sera dato cena a parecchi
mia amici, con grandissimo piacere passato quella cena, me ne
andai a dormire; e non fu sí tosto apena passato la notte,
che la mattina piú d'un'ora avanti il giorno io senti' con
grandissimo furore battere la porta della casa mia, ché
l'un colpo non aspettava l'altro. Per la qual cosa io chiamai quel
mio servitor maggiore, che aveva nome Cencio: era quello che io
menai nel cerchio di negromanzia: dissi che andassi a vedere chi
era quel pazzo che a quell'ora cosí bestialmente picchiava.
In mentre che Cencio andava, io acceso un altro lume, che
continuamente uno sempre ne tengo la notte, subito mi missi adosso
sopra la camicia una mirabil camicia di maglia, e sopra essa un
poco di vestaccia a caso. Tornato Cencio, disse: - Oimè!
padrone mio, egli è il bargello con tutta la corte, e dice,
che se voi non fate presto, che getterà l'uscio in terra; e
hanno torchi<B> </B>e mille cose con loro -. Al quale
io dissi: - Di' loro che io mi metto un poco di vestaccia addosso,
e cosí in camicia ne vengo -. Immaginatomi che e' fussi uno
assassinamento, sí come già fattomi dal signor
Pierluigi, con la mano destra presi una mirabil daga che io avevo,
con la sinistra il salvo condotto; di poi corsi alla finestra di
drieto, che rispondeva sopra certi orti, e quivi viddi piú
di trenta birri: per la qual cosa io cognobbi da quella banda non
poter fuggire. Messomi que' dua fanciulletti inanzi, dissi loro,
che aprissino la porta quando io lo direi loro apunto. Messomi in
ordine, la daga nella ritta e 'l salvo condotto nella manca, in
atto veramente di difesa, dissi a que' dua fanciulletti: - Non
abbiate paura, aprite -. Saltato subito Vittorio bargello con du'
altri drento, pensando facilmente di poter mettermi le mani
addosso, vedutomi in quel modo in ordine, si ritirorno indrieto e
dissono: - Qui bisogna altro che baie -. Allora io dissi, gittato
loro il salvo condotto: - Leggete quello e, non mi possendo
pigliare, manco voglio che mi tocchiate -. Il bargello allora
disse a parecchi di quelli, che mi pigliassimo, e che il salvo
condotto si vedria da poi. A questo, ardito spinsi inanzi l'arme e
dissi: - Idio sia per la ragione; o vivo fuggo, o morto preso -.
La stanza si era istretta:<B> </B>lor fecion segno di
venire a me con forza, e io grande atto di difesa; per la qual
cosa il bargello cognobbe di non mi poter avere in altro modo che
quel che io avevo detto. Chiamato il cancelliere, in mentre che
faceva leggere il salvo condotto, fece segno dua o tre volte di
farmi mettere le mani adosso; onde io non mi mossi mai da quella
resoluzione fatta. Toltosi dalla impresa, mi gittorno il salvo
condotto in terra, e senza me se ne andarono.
LXXXIII.<B> </B>Tornatomi a riposare, mi senti' forte
travagliato, né mai possetti rappiccar sonno. Avevo fatto
proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue;
però ne presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da
un suo mediconzolo, il quale mi domandò se io avevo
aùto paura. Or cognoscete voi che giudizio di medico fu
questo, avendogli conto un caso sí grande, e lui farmi una
tal dimanda! Questo era un certo civettino, che rideva quasi
continuamente e di nonnulla; e in quel modo ridendo, mi disse che
io pigliassi un buon bicchier di vin greco, e che io attendessi a
stare allegro e non aver paura. Messer Giovanni pur diceva:
<B>- </B>Maestro, chi fussi di bronzo o di marmo a
questi casi tali arebbe paura; or maggiormente uno uomo -. A
questo quel mediconzolino disse: - Monsignore, noi non siamo tutti
fatti a un modo: questo non è uomo né di bronzo
né di marmo, ma è di ferro stietto - e messomi le
mane al polso, con quelle sua sproposite<B> </B>risa,
disse a messer Giovanni: - Or toccate qui; questo non è
polso di uomo, ma è d'un leone o d'un dragone - onde io,
che avevo il polso forte alterato, forse fuor di quella misura che
quel medico babbuasso non aveva imparata né da Ipocrate
né da Galeno, sentivo ben io il mio male, ma per non mi far
piú paura né piú danno di quello che
aùto io avevo, mi dimostravo di buono animo. In questo
tanto il ditto messer Giovanni fece mettere in ordine da desinare,
e tutti di compagnia mangiammo: la quale era, insieme con il ditto
messer Giovanni, un certo misser Lodovico da Fano, messer Antonio
Allegretti, messer Giovanni Greco, tutte persone litteratissime,
messer Annibal Caro, quale era molto giovane; né mai si
ragionò d'altro a quel desinare, che di questa brava
faccenda. E piú la facevan contare a quel Cencio, mio
servitorino, il quale era oltramodo ingegnoso, ardito e bellissimo
di corpo: il che tutte le volte che lui contava questa mia
arrabbiata faccenda, facendo l'attitudine che io faceva, e
benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi
sovveniva qualcosa<B> </B>di nuovo; e spesso loro lo
domandavano se egli aveva aùto paura: alle qual parole lui
rispondeva, che dimandassino me se io avevo aùto paura;
perché lui aveva aùto quel medesimo che avevo
aùto io. Venutomi a noia questa pappolata, e perché
io mi sentivo alterato forte, mi levai da tavola, dicendo che io
volevo andare a vestirmi di nuovo di panni e seta azzurri, lui e
io; che volevo andare in processione ivi a quattro giorni, che
veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi il
torchio bianco acceso. Cosí partitomi andai a
tagliare<B> </B>e' panni azzurri con una bella
vestetta di ermisino<B> </B>pure azzurro e un saietto
del simile; e allui feci un saio e una vesta di taffettà,
pure azzurro. Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai
dal Papa; il quale mi disse che io parlassi col suo messer
Ambruogio; che aveva dato ordine che io facessi una grande opera
d'oro. Cosí andai a trovare misser Ambruogio; il quale era
informato benissimo della cosa del bargello, e era stato lui
d'accordo con i nimici mia per farmi tornare, e aveva isgridato il
bargello che non mi aveva preso; il qual si scusava, che contra a
uno salvo condotto a quel modo lui non lo poteva fare. Il ditto
messer Ambruogio mi cominciò a ragionare della faccenda che
gli aveva commesso il Papa; di poi mi disse che io ne facessi i
disegni e che si darebbe a ogni cosa. Intanto ne venne il giorno
delle Sante Marie; e perché l'usanza si è, quelli
che hanno queste cotai grazie, di costituirsi in prigione; per la
qual cosa io mi ritornai al Papa e dissi a Sua Santità, che
io non mi volevo mettere in prigione e che io pregavo quella, che
mi facessi tanto di grazia, che io non andassi prigione. Il Papa
mi rispose che cosí era l'usanza, e cosí si facessi.
A questo io m'inginocchiai di nuovo, e lo ringraziai del salvo
condotto che Sua Santità mi aveva fatto; e che con quello
me ne ritornerei a servire il mio Duca di Firenze, che con tanto
desiderio mi aspettava. A queste parole il Papa si volse a un suo
fidato e disse: - Faccisi a Benvenuto la grazia senza il
carcere;<B> </B>cosí se gli acconci il suo moto
propio, che stia bene -. Fattosi acconciare il moto propio, il
Papa lo risegnò: fecesi registrare al Campidoglio; di poi,
quel deputato giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto
onoratamente andai in processione, ed ebbi la intera grazia.
LXXXIV. Dappoi quattro giorni appresso, mi prese una grandissima
febbre con freddo inistimabile: e postomi a letto, subito mi
giudicai mortale. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i
quali si era un maestro Francesco da Norcia,<B>
</B>medico vecchissimo e di maggior credito che avessi Roma.
Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la causa
del mio gran male, e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui
consigliato di no; e se io fussi a tempo, li pregavo che me ne
traessino. Maestro Francesco rispose, che il trarre sangue ora non
era bene, ma allora sí, che non arei aùto un male al
mondo; ora bisognava medicarmi per un'altra via. Cosí
messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e' potevano e
sapevano al mondo; e io ogni dí peggioravo a furia, in modo
che in capo di otto giorni il mal crebbe tanto, che li medici
disperati della impresa detton commessione che io fussi contento e
mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro Francesco
disse: - Insinché v'è fiato, chiamatemi a tutte
l'ore, perché non si può immaginare quel che la
natura sa fare in un giovane di questa sorte; però, avvenga
che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi l'un dietro
all'altro, e mandate per me, che io verrò a ogni ora della
notte; che piú grato mi sarebbe di campar costui, che
qualsivoglia cardinal di Roma -. Ogni dí mi veniva a
visitare dua o tre volte messer Giovanni Gaddi, e ogni voIta
pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie e mie
spade, e continuamente diceva: - Questa cosa è bella, e
quest'altra è piú bella - cosí di mia altri
modelletti e coselline: di modo che io me l'avevo recato a noia. E
con esso veniva un certo Mattio Franzesi<B>, </B>il
quale pareva che gli paressi mill'anni ancora allui io mi morissi;
non perché allui avessi a toccar nulla del mio, ma pareva
che lui desiderassi quel che misser Giovanni mostrava aver gran
voglia. Io avevo quel Filice già detto mio compagno, il
quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare uno
uomo a un altro. La natura era debilitata e avvilita a fatto; e
non mi era restato tanta virtú che, uscito il fiato, io lo
potessi ripigliare; ma sí bene la saldezza del cervello
istava forte, come la faceva quando io non avevo male.
Imperò stando cosí in cervello,<B>
</B>mi veniva a trovare alletto un vecchio terribile, il
quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua barca
grandissima; per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si
accostassi a me, e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel
Felice, che mi era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: -
Tira via, vecchio traditore, che mi vuoi rubare ogni mio bene -.
Messer Giovanni Gaddi allora, ch'era quivi alla presenza, diceva;
- Il poverino farnetica, e ce n'è per poche ore -.
Quell'altro Mattio Franzesi diceva: - Gli ha letto Dante, e in
questa grande infermità gli è venuto quella
vagillazione - e diceva cosí ridendo: - Tira via, vecchio
ribaldo, e non dare noia al nostro Benvenuto -. Vedutomi
schernire, io mi volsi a messer Giovanni Gaddi e allui dissi: -
Caro mio padrone, sappiate che io non farnetico, e che gli
è il vero di questo vecchio, che mi dà questa gran
noia. Ma voi faresti bene il meglio a levarmi dinanzi cotesto
isciagurato di Mattio, che si ride del mio male: e da poi che
Vostra Signoria mi fa degno che io la vegga, doverresti venirci
con messer Antonio Allegretti o con messer Annibal Caro, o con di
quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d'altra
discrezione e d'altro ingegno, che non è cotesta bestia -.
Allora messer Giovanni disse per motteggio<B> </B>a
quello Mattio, che si gli levassi dinanzi per sempre; ma
perché Mattio rise, il motteggio divenne da
dovero<B>, </B>perché mai piú messer
Giovanni non lo volse vedere, e fece chiamare messer Antonio
Allegretti, e messer Lodovico, e messer Annibal Caro. Giunti che
furono questi uomini da bene, io ne presi grandissimo
conforto,<B> </B>e con loro ragionai in cervello un
pezzo, pur sollecitando Felice che cacciassi via il vecchio.
Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere, e come gli
era fatto. In mentre che io gnene disegnavo con le parole bene,
questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a
sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino,
perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua
spaventata barca. Ditto quest'ultima parola, mi venne uno
sfinimento grandissimo, e a me parve che mi gettassi in quella
barca. Dicono che allora in questo svenire, che io mi scagliavo e
che io dissi di male parole a messer Giovanni Gaddi, sí che
veniva per rubarmi e non per carità nessuna; e molte altre
bruttissime parole, le quale fecion vergognare il ditto messer
Giovanni. Di poi dissono che io mi fermai come morto; e soprastati
piú d'un'ora, parendo loro che io mi freddassi, per morto
mi lasciorono. E ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio
Franzesi, il quale scrisse a Firenze a messer Benedetto
Varchi<B> </B>mio carissimo amico, che alle tante ore
di notte lor mi avevano veduto morire. Per la qual cosa quel gran
virtuoso di messer Benedetto e mio amicissimo, sopra la non vera
ma sí ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale
si metterà al suo luogo. Passò piú di tre
grande ore prima che io mi rinvenissi; e fatto tutti e' rimedi del
sopraditto maestro Francesco, veduto che io non mi risentivo,
Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa maestro
Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo
svegliò e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi
a casa, che pensava che io fossi morto. Al quale, maestro
Francesco, che era collorosissimo, disse: - Figlio, che pensi tu
che io faccia a venirvi? se gli è morto, a me duol egli
piú che a tte; pensi tu che con la mia medicina, venendovi,
io li possa soffiare in culo e rendertelo vivo? - Veduto che 'l
povero giovane se ne andava piangendo, lo chiamò indietro e
gli dette certo olio da ugnermi e' polsi e il cuore, e che mi
serrassino istrettissime le dita mignole dei piedi e delle mane; e
che se io rinvenivo, che subito lo mandassimo a chiamare.
Partitosi Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto; e
essendo fatto quasi di chiaro e parendo loro d'esser privi di
speranza, dettono ordine a fare la vesta e a lavarmi. In un tratto
io mi risenti', e chiamai Felice, che presto presto cacciassi via
quel vecchio che mi dava noia. Il quale Felice volse mandare per
maestro Francesco, e io dissi che non mandassi e che venissi quivi
da me, perché quel vecchio subito si partiva e aveva paura
di lui. Accostatosi Felice a me, io lo toccavo e mi pareva che
quel vecchio infuriato si scostassi; però lo pregavo che
stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco, disse che mi
voleva campare a ogni modo, e che non aveva mai veduto maggior
virtú in un giovane, a' sua dí, di quella; e dato
mano allo scrivere, mi fece profumi, lavande, unzioni, impiastri e
molte cose inistimabile. Intanto io mi risenti' con piú di
venti mignatte<B> </B>al culo, forato, legato e tutto
macinato. Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de
il resuscitato morto, era comparso uomini di grande importanza e
assai; presente i quali io dissi che quel poco de l'oro e de'
danari, quali potevano essere in circa ottocento scudi fra oro,
argento, gioie e danari, questi volevo che fussino della mia
povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna
Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni
altra cosa, volevo fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta
ducati d'oro piú, acciò che lui si potessi vestire.
A queste parole Filice mi si gittò al collo, dicendo che
non voleva nulla, altro che mi voleva vivo. Allora io dissi: - Se
tu mi vuoi vivo, toccami accotesto modo, e sgrida a cotesto
vecchio, che ha di te paura -. A queste parole v'era di quelli che
spaventavano,<B></B>conosciuto che io non farneticavo,
ma parlavo a proposito e in cervello. Cosí andò
faccendo<B> </B>il mio gran male, e poco miglioravo.
Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte o cinque il
giorno: misser Giovanni Gaddi, che s'era vergognato, non mi
capitava piú innanzi. Comparse il mio cognato, marito della
ditta mia sorella: veniva di Fiorenze per la eredità: e
perché gli era molto uomo da bene, si rallegrò assai
l'avermi trovato vivo; il quale a me dette un conforto
inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d'esser
venuto solo per governarmi di sua mano propria; e cosí fece
parecchi giorni. Di poi io ne lo mandai, avendo quasi sicura
isperanza di salute. Allora lui lasciò il sonetto di messer
Benedetto Varchi, quale è questo:
IN LA CREDUTA E NON VERA MORTE
DI BENVENUTO CELLINI
Chi ne consolerà, Mattio?<B>
</B>chi fia
che ne vieti il morir piangendo, poi
che pur è vero, oimè, che sanza noi
cosí per tempo al Ciel salita sia
quella chiara alma amica, in cui fioria
virtú cotal, che fino a' tempi suoi
non vidde equal,<B> </B>né vedrà, credo,
poi
il mondo, onde i miglior si fuggon pria?
Spirto gentil, se fuor del mortal velo
S'ama, mira dal Ciel chi in terra amasti,
pianger non già 'l tuo ben, ma 'l proprio male.
Tu ten sei gito a contemplar su 'n Cielo
l'alto Fattore, e vivo il vedi or quale
con le tue dotte man quaggiú il formasti.
LXXXV. Era la infirmità stata tanta inistimabile, che non
pareva possibile di venirne a fine; e quello uomo da bene di
maestro Francesco da Norcia ci durava piú fatica che mai, e
ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare il
povero istemperato istrumento, e con tutte quelle inistimabil
fatiche non pareva che fussi possibile venire a capo di questa
indegnazione, in modo che tutti e' medici se ne erano quasi
disperati e non sapevano piú che fare. Io, che avevo una
sete inistimabile, e mi ero riguardato, sí come loro mi
avevano ordinato, di molti giorni: e quel Felice, che gli pareva
aver fatto una bella impresa a camparmi, non si partiva mai da me;
e quel vecchio non mi dava piú tanta noia, ma in sogno
qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato fuora, e a
guardia mia era restato un mio fattorino e una serva, che si
chiamava Beatrice. Io dimandavo quel fattorino quel che era stato
di quel Cencio mio ragazzo e che voleva dire che io non lo avevo
mai veduto a' mia bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio
aveva aùto assai maggior male di me, e che gli stava in
fine di morte. Felice aveva lor comandato che non me lo dicessino.
Detto che m'ebbe tal cosa io ne presi grandissimo dispiacere: di
poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai
che mi portassi pieno d'acqua chiara e fresca uno infrescatoio
grande di cristallo, che ivi era vicino. Questa donna corse
subito, e me lo portò pieno. Io li dissi che me lo
appoggiassi alla bocca e che se la me ne lasciava bere una sorsata
a mio modo, io li donerei una gammurra. Questa serva, che m'aveva
rubato certe cosette di qualche inportanza, per paura che non si
ritrovassi il furto, arebbe aùto molto a caro che io fussi
morto; di modo che la mi lasciò bere di quell'acqua per dua
riprese quant'io potetti, tanto che buonamente io ne bevvi
piú d'un fiasco: di poi mi copersi e cominciai a sudare e
addormenta'mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in
circa a un'ora, dimandò il fanciullo quel che io facevo. Il
fanciullo gli disse: - Io non lo so: la Beatrice gli ha portato
pieno quello infrescatoio d'acqua, e l'ha quasi beuto tutto; io
non so ora se s'è morto o vivo -. Dicono che questo povero
giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere che gli
ebbe; di poi prese un mal bastone, e con esso disperatamente
bastonava quella serva, dicendo: - Ohimè, traditora, che tu
me l'hai morto! - In mentre che Felice bastonava e lei gridava, e
io sognavo; e mi pareva che quel vecchio aveva delle corde in
mano, e volendo dare ordine di legarmi, Felice l'aveva
sopraggiunto e gli dava con una scura,in modo che questo vecchio
fuggiva, dicendo: - Lasciami andare, che io non ci verrò di
gran pezzo -. Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in
camera mia; per la qual cosa svegliatomi, dissi: - Lasciala stare,
che forse per farmi male ella m'ha fatto tanto bene, che tu non
hai mai potuto, con tutte le tue fatiche, far nulla di quel che
l'ha fatto ogni cosa: attendetemi a 'iutare<B>,
</B>che io son sudato; e fate presto -. Riprese Filice
animo, mi rasciugò e confortò: e io, che senti'
grandissimo miglioramento, mi promessi la salute. Comparso maestro
Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere, e 'l
fattorino correre innanzi e 'ndrieto, e Filice ridere, questo
scompiglio dette da credere al medico che vi fussi stato qualche
stravagante caso, per la qual cosa fussi stato causa di quel mio
gran miglioramento. Intanto comparse quell'altro maestro
Bernardino, che da principio non mi aveva voluto cavar sangue.
Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: - Oh potenzia della
natura! lei sa e' bisogni sua, e i medici non sanno nulla -.
Subito rispose quel cervellino di maestro Bernardino e disse: - Se
e' ne beeva piú un fiasco, e gli era subito guarito -.
Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande
autorità, disse: - Egli era il malan che Dio vi dia -. E
poi si volse a me, e mi domandò se io ne arei potuto ber
piú; al quale io dissi che no, perché io m'ero
cavato la sete a fatto. Allora lui si volse al ditto maestro
Bernardino e disse: - Vedete voi che la natura aveva preso a punto
il suo bisogno, e non piú e non manco? Cosí
chiedev'ella il suo bisogno, quando il povero giovane vi richiese
di cavarsi sangue: se voi cognoscevi che la salute sua fussi stata
ora innel bere dua fiaschi d'acqua, perché non l'aver detto
prima? e voi ne aresti aùto il vanto -. A queste parole il
mediconsolo ingrognato si partí, e non vi capitò mai
piú. Allora maestro Francesco disse che io fussi cavato di
quella camera, e che mi facessin portare inverso un di quei colli
di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi fece
portare a un suo luogo che gli aveva in Monte Cavallo: la sera
medesima io fui portato con gran diligenza in sur una sedia ben
coperto e saldo. Giunto che io fui, cominciai a vomitare; innel
qual vomito mi uscí dello stomaco un verme piloso, grande
un quarto di braccio: e' peli erano grandi e il verme era
bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi:
serbossi al medico; il quale disse non aver mai veduto una tal
cosa, e poi disse, a Felice: - Abbi or cura al tuo Benvenuto, che
è guarito, e non gli lasciar far disordini; perché
se ben quello l'ha campato, un altro disordine ora te lo
amazzerebbe. Tu vedi, la infermità è stata sí
grande, che portandogli l'olio santo noi non eramo stati a tempo;
ora io cognosco, che con un poco di pazienzia e di tempo e'
farà ancora dell'altre belle opere -. Poi si volse a me, e
disse: - Benvenuto mio, sia<B> </B>savio e non fare
disordini nessuno: e come tu se' guarito voglio che tu mi faccia
una Nostra Donna di tua mano, perché la voglio adorar
sempre per tuo amore -. Allora io gnene promessi; dipoi lo
domandai se fussi bene che io mi trasferissi in sino a Firenze.
Allora e' mi disse che io mi assicurassi un po' meglio e che e' si
vedessi quel che la natura faceva.
LXXXVI. Passato che noi otto giorni, il miglioramento era tanto
poco, che quasi io m'ero venuto a noia a me medesimo;
perché io ero stato piú di cinquanta giorni in quel
gran travaglio; e resolutomi mi messi in ordine; e in un paio di
ceste 'il mio caro Felice e io ce ne andammo alla volta di
Firenze; e perché io non avevo scritto nulla, giunsi a
Firenze in casa la mia sorella, dove io fui pianto e riso a un
colpo da essa sorella. Per quel dí mi venne a vedere molti
mia amici; fra gli altri Pier Landi, ch'era il maggior e il
piú caro che io avessi mai al mondo; l'altro giorno venne
un certo Nicolò da Monte Aguto, il quale era mio
grandissimo amico; e perché gli aveva sentito dire al Duca:
- Benvenuto faceva molto meglio a morirsi, perché gli
è venuto qui a dare in una cavezza, e non gnene
perdonerò mai - venendo Nicolò a me, disperatamente
mi disse: - Oimè, Benvenuto mio caro: che se' tu venuto a
far qui? non sapevi tu quel che tu hai fatto contro al Duca? che
gli ho udito giurare, dicendo che tu sei venuto a dare in una
cavezza a ogni modo -. Allora io dissi: - Nicolò, ricordate
a Sua Eccellenzia che altretanto già mi volse fare papa
Clemente, e a sí torto; che faccia tener conto di me e mi
lasci guarire; per che io mostrerrò a Sua Eccellenzia, che
io gli sono stato il piú fidel servitore che gli arà
mai in tempo di sua vita; e perché qualche mio nimico
arà fatto per invidia questo cattivo uffizio, aspetti la
mia sanità, che come io posso gli renderò tal conto
di me, che io lo farò maravigliare -. Questo cattivo
uffizio l'aveva fatto Giorgetto Vassellario aretino, dipintore,
forse per remunerazione di tanti benifizii fatti a lui; che
avendolo trattenuto in Roma e datogli le spese, e lui messomi
assoqquadro la casa; perché gli aveva una sua lebbrolina
secca, la quale gli aveva usato le mane a grattar sempre, e
dormendo con un buon garzone che io avevo, che si domandava Manno,
pensando di grattar sé, gli aveva scorticato una gamba al
detto Manno con certe sue sporche manine, le quale<B>
</B>non si tagliava mai l'ugna. Il ditto Manno prese da me
licenza, e lui lo voleva ammazzare a ogni modo: io gli messi
d'accordo; di poi acconciai il detto Giorgio col cardinal dei
Medici, e sempre lo aiutai. Questo è il merito che lui
aveva detto al duca Lessandro ch'io avevo detto male di Sua
Eccellenzia, e che io m'ero vantato di volere essere il primo a
saltare in su le mura di Firenze, d'accordo con li nimici di Sua
Eccellenzia fuorasciti. Queste parole, sicondo che io intesi poi,
gliene<B> </B>faceva dire quel galantuomo di Ottaviano
de' Medici, volendosi vendicare della stizza che aveva aùto
il Duca seco per conto delle monete e della mia partita di
Firenze; ma io, ch'ero innocente di quel falso appostomi, non ebbi
una paura al mondo: e il valente maestro Francesco da Montevarchi
grandissima virtú mi medicava, e ve lo aveva condotto il
mio carissimo amico Luca Martini, il quale la maggior parte del
giorno si stava meco.
LXXXVII. Intanto io avevo rimandato a Roma il fidelissimo Filice
alla cura delle faccende di là. Sollevato alquanto la testa
dal primaccio, che fu in termine di quindici giorni, se bene io
non potevo andare con i mia piedi, mi feci portare innel palazzo
de' Medici, su dove è il terrazzino: cosí mi feci
mettere a sedere per aspettare il Duca che passassi. E facendomi
motto molti mia amici di Corte, molto si maravigliavano che io
avessi preso quel disagio a farmi portare in quel modo, essendo
dalla infirmità sí mal condotto; dicendomi che io
dovevo pure aspettar d'esser guarito, e dipoi visitare il Duca.
Essendo assai insieme ragunati, e tutti mi guardavano per
miracolo; non tanto l'avere inteso che io ero morto, ma piú
pareva loro miracolo, che come morto parevo loro. Allora io dissi,
presente tutti, come gli era stato detto da qualche scellerato
ribaldo al mio signor Duca, che io mi ero vantato di voler essere
il primo a salire in su le mura di Sua Eccellenzia, e che appresso
io avevo detto male di quella; per la qual cosa a me non bastava
la vistadi vivere né di morire, se prima io non mi purgavo
da questa infamia, e conoscere chi fussi quel temerario ribaldo
che avessi fatto quel falso rapporto. A queste parole s'era
ragunato una gran quantità di que' gentiluomini; e
mostrando avere di me grandissima compassione, e chi diceva una
cosa e chi un'altra; io dissi che mai piú mi volevo partir
di quivi, insin che io non sapevo chi era quello che mi aveva
accusato. A queste parole s'accostò fra tutti que'
gentiluomini maestro Agostino, sarto del Duca, e disse: - Se tu
non vuoi sapere altro che cotesto, ora ora lo saprai -. A punto
passava Giorgio sopraditto, dipintore: allora maestro Agustino
disse: - Ecco chi t'ha accusato: ora tu sai tu se gli è
vero o no -. Io arditamente, cosí come io non mi potevo
muovere, dimandai Giorgio se tal cosa era vera. Il ditto Giorgio
disse che no, che non era vero, e che non aveva mai detto tal
cosa. Maestro Austino disse: - O impiccato, non sai tu che io lo
so certissimo? - Subito Giorgio si partí, e disse che no,
che lui non era stato. Stette poco e passò 'l Duca; al
quali io subito mi feci sostenere innanzi a Sua Eccellenzia, e lui
si fermò. Allora io dissi che io ero venuto quivi a quel
modo,solo per iustificarmi. Il Duca mi guardava e si maravigliava
che io fussi vivo; di poi mi disse che io attendessi a essere uomo
dabbene e guarire. Tornatomi a casa, Niccolò da Monte Aguto
mi venne a trovare, e mi disse che io avevo passato una di quelle
furie la maggiore del mondo, quale lui non aveva mai creduto;
perché vidde il male mio scritto d'uno immutabile
inchiostro; e che io attendessi a guarire presto, e poi mi andassi
con Dio, perché la veniva d'un luogo e da uomo, il quale mi
arebbe fatto male. E poi ditto - guarti - e' mi disse: - Che
dispiaceri ha' tu fatti a quel ribaldaccio di Ottaviano de'
Medici? - Io gli dissi che mai io avevo fatto dispiacere allui, ma
che lui ne aveva ben fatti a me: e contatogli tutto il caso della
zecca, e' mi disse: - Vatti con Dio il piú presto che tu
puoi, e sta' di buona voglia, che piú presto che tu non
credi vedrai le tua vendette -. Io attesi a guarire: detti
consiglio a Pietropagolo, ne' casi delle stampe delle monete;
dipoi m'andai con Dio, ritornandomi a Roma, sanza far motto al
Duca o altro.
LXXXVIII. Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia
amici, cominciai la medaglia del Duca; e avevo di già fatto
in pochi giorni la testa in acciaio, la piú bella opera che
mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva a vedere ogni
giorno una volta almanco un certo iscioccone chiamato messer
Francesco Soderini;<B> </B>e veduto quel che io
facevo, piú volte mi disse: - Oimè, crudelaccio, tu
ci vuoi pure immortalare questo arrabbiato tiranno. E
perché tu non facesti mai opera sí bella, a questo
si cognosce che tu sei sviscerato nimico nostro e tanto amico
loro, che il Papa e lui t'hanno pur voluto fare impiccar dua volte
a torto: quel fu il padre e il figliuolo; guardati ora dallo
Spirito Santo -. Per certo si teneva che il duca Lessandro fussi
figliuolo di papa Clemente. Ancora diceva il ditto messer
Francesco e giurava ispressamente, che, se lui poteva, che
m'arebbe rubato que ferri di quella medaglia. Al quale io dissi
che gli aveva fatto bene a dirmelo, e che io gli guarderei di
sorte, che lui non gli vedrebbe mai piú. Feci intendere a
Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il rovescio
della medaglia. Niccolò da Monte Agusto, a chi io l'avevo
scritto, mi scrisse cosí, dicendomi che n'aveva domandato
quel pazzo malinconico filosafo di Lorenzino; il quale gli aveva
detto che giorno e notte non pensava ad altro, e che egli lo
farebbe piú presto ch'egli avessi possuto: però mi
disse, che io non ponessi speranza al suo rovescio, e che io ne
facessi uno da per me, di mia pura invenzione; e che finito che io
l'avessi, liberamente lo portassi al Duca, ché buon per me.
Avendo fatto io un disegno d'un rovescio, qual mi pareva a
proposito, e con piú sollecitudine che io potevo lo tiravo
inanzi; ma perché io non ero ancora assicurato di quella
ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri
innell'andare a caccia col mio scoppietto insieme con quel mio
caro Filice, il quale non sapeva far nulla dell'arte mia, ma
perché di continuo, dí e notte, noi eramo insieme,
ogniuno s'immaginava che lui fossi eccellentissimo ne l'arte. Per
la qual cosa, lui ch'era piacevolissimo, mille volte ci ridemmo
insieme di questo gran credito che lui si aveva acquistato; e
perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva
motteggiando meco: - Io mi chiamerei Filice Guadagni - poco, se
non che voi mi avete fatto acquistare un tanto gran credito, che
io mi posso domandare de' Guadagni - assai -. E io gli dicevo, che
e' sono dua modi di guadagnare: il primo è quello che si
guadagna a sé, il sicondo si è quello che si
guadagna ad altri; di modo che io lodavo in lui molto piú
quel sicondo modo che 'l primo, avendomi egli guadagnato la vita.
Questi ragionamenti noi gli avemmo, piú e piú volte,
ma in fra l'altre un dí de l'Epifania, che noi eramo
insieme presso alla Magliana, e di già era quasi finito il
giorno: il qual giorno io avevo ammazzato col mio scoppietto de
l'anitre e de l'oche assai bene;<B> </B>e quasi
resolutomi di non tirar piú il giorno, ce ne venivamo
sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale
chiamavo per nome Barucco, non me lo vedendo innanzi, mi volsi e
vidi che il ditto cane ammaestrato guardava certe oche che s'erano
appollaiate in un fossato. Per la qual cosa io subito iscesi;
messo in ordine il mio buono scoppietto, molto lontano tirai loro,
e ne investi' dua con la sola palla; ché mai non volsi
tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo
dugento braccia, e il piú delle volte investivo; che con
quell'altri modi non si può far cosí; di modo che,
avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l'altra
ferita, che cosí ferita volava malamente, questa la
seguitò il mio cane e portommela; l'altra, veduto che la si
tuffava adrento innel fossato, li sopraggiunsi adosso. Fidandomi
de' mia stivali ch'erano assai alti, spignendo il piede innanzi mi
si sfondò sotto il terreno: se bene io presi l'oca, avevo
pieno lo stivale della gamba ritta tutto d'acqua. Alzato il piede
all'aria votai l'acqua, e montato a cavallo, ci
sollecitavàno di tornarcene a Roma; ma perché egli
era gran freddo, io mi sentivo di sorte<B>
</B>diacciare la gamba, che io dissi a Filice: - Qui bisogna
soccorrer questa gamba, perché io non cognosco piú
modo a poterla sopportare -. Il buon Filice sanza dire altro scese
del suo cavallo, e preso cardi e legnuzzi e dato ordine di voler
far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mani
in fra le piume del petto di quell'oche, senti' assai caldo; per
la qual cosa io non lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie' quel
mio stivale di quelle piume di quell'oca, e subito io sentii tanto
conforto, che mi dette la vita.
LXXXIX. Montai a cavallo, venivamo sollecitamente alla volta di
Roma. Arrivati che noi fummo in un certo poco di rialto, era di
già fatto notte, guardando in verso Firenze tutti a dua
d'accordo movemmo gran voce di maraviglia, dicendo: - Oh Dio del
cielo, che gran cosa è quella che si vede sopra Firenze? -
Questo si era com'un gran trave di fuoco, il quale scintillava e
rendeva grandissimo splendore. Io dissi a Filice: - Certo noi
sentiremo domane qualche gran cosa sarà stata a Firenze -.
Cosí venuticene a Roma, era un buio grandissimo: e quando
noi fummo arrivati vicino a Banchi e vicino alla casa nostra, io
avevo un cavalletto sotto, il quale andava di portante
furiosissimo, di modo che, essendosi el dí fatto un monte
di calcinacci e tegoli rotti nel mezzo della strada, quel mio
cavallo non vedendo il monte, né io, con quella furia lo
salse, di poi allo scendere traboccò, in modo che fare un
tombolo: si messe la testa in fra le gambe; onde io per propria
virtú de Dio non mi feci un male al mondo. Cavato fuora e'
lumi da' vicini a quel gran romore, io, ch'ero saltato in
piè, cosí, sanza montare altrimenti, me ne corsi a
casa ridendo, che avevo scampato una fortuna<B> </B>da
rompere il collo. Giunto a casa mia, vi trovai certi mia amici, ai
quali, in mentre che noi cenavamo insieme, contavo loro le
istrettezze della caccia e quella diavoleria del trave di fuoco
che noi avevamo veduto: e' quali dicevano: - Che domin
vorrà significar cotesto? - Io dissi: - Qualche
novità è forza che sia avvenuto a Firenze -.
Cosí passatoci la cena piacevolmente, l'altro giorno al
tardi venne la nuova a Roma della morte del duca Lessandro. Per la
qual cosa molti mia conoscenti mi venivan dicendo: - Tu dicesti
bene, che sopra Firenze saria accaduto qualche gran cosa -. In
questo veniva a saltacchione in sun una certa mulettaccia quel
messer Francesco Soderini: ridendo per la via forte alla
'npazzata, diceva: - Quest'è il rovescio della medaglia di
quello iscellerato tiranno, che t'aveva promesso il tuo Lorenzino
de' Medici - e di piú aggiugneva: - Tu ci volevi
immortalare e' duchi: noi non vogliàn piú duchi - e
quivi mi faceva le baie come se io fussi stato un capo di quelle
sette che fanno e' duchi. In questo e' sopraggiunse un certo
Baccio Bettini, il quale aveva un capaccio come un corbello, e
ancora lui mi dava la baia di questi duchi, dicendomi: - Noi gli
abbiamo isducati, e non arem piú duchi; e tu ce gli volevi
fare inmortali - con di molte di queste parole fastidiose. Le
quali venutemi troppo a noia, io dissi loro: - O isciocconi, io
sono un povero orefice, il quale servo chi mi paga, e voi mi fate
le baie come se io fussi un capo di parte: ma io non voglio per
questo rimproverare a voi le insaziabilità, pazzie e
dappocaggine de' vostri passati; ma io dico bene a coteste tante
risa isciocche che voi fate, che innanzi che e' passi dua o tre
giorni il piú lungo, voi arete un altro duca, forse molto
peggiore di questo passato -. L'altro giorno appresso venne a
bottega mia quello de' Bettini, e mi disse: - E' non accadrebbe lo
ispendere dinari in corrieri, perché tu sai le cose inanzi
che le si faccino:<B> </B>che spirito è quello
che te le dice? - E mi disse come Cosimo de' Medici, figliuolo del
signor Giovanni, era fatto Duca: ma che egli era fatto con certe
condizioni, le quali l'arebbono tenuto, che lui non arebbe potuto
isvolazzare a suo modo. Allora toccò a me a ridermi di
loro, e dissi: - Cotesti uomini di Firenze hanno messo un giovane
sopra un maraviglioso cavallo, poi gli hanno messo gli sproni e
datogli la briglia in mano in sua libertà, e messolo in sun
un bellissimo campo, dove è fiori e frutti e moltissime
delizie; poi gli hanno detto che lui non passi certi
contrassegnati termini: or ditemi a me voi, chi è quello
che tener lo possa, quando lui passar li voglia? Le legge non si
posson dare a chi è padron di esse -. Cosí mi
lasciorno stare e non mi davon noia.
XC. Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie
faccende, non già di molto momento, perché mi
attendevo alla restaurazione della sanità, e ancora non mi
pareva essere assicurato dalla grande infirmità che io
avevo passata. In questo mentre lo Imperadore tornava vittorioso
dalla impresa di Tunizi, e il Papa aveva mandato per me e meco si
consigliava che sorte di onorato presente io lo consigliavo per
donare allo Imperatore. Al quale io dissi, che il piú a
proposito mi pareva donare a Sua Maestà una croce d'oro con
un Cristo, al quale io avevo quasi fatto uno ornamento, il quale
sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo onore a Sua
Santità e a me. Avendo già fatto tre figurette
d'oro, tonde, di grandezza di un palmo in circa: queste ditte
figure furno quelle che io avevo cominciate per il calice di papa
Clemente; erano figurate per la Fede, la Speranza e la
Carità; onde io aggiunsi di cera tutto il restante del
piè di detta croce; e portatolo al Papa con il Cristo di
cera e con molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al
Papa; e innanzi che io mi partissi da Sua Santità rimanemmo
conformi di tutto quello che si aveva a fare, e appresso valutammo
la fattura di detta opera. Questo fu una sera a quattro ore di
notte: el Papa aveva dato commessione a messer Latino Iuvinale che
mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto messer
Latino, che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova
invenzione al Papa, la qual venissi dallui stietto; che egli
disturbò tutto quello che si era ordinato; e la mattina,
quando io pensai andare per li dinari, disse con quella sua
bestiale prosunzione: - A noi tocca a essere gl'inventori, e a voi
gli operatori. Innanzi che io partissi la sera dal Papa, noi
pensammo una cosa molto migliore -. Alle qual prime parole, non lo
lasciando andar piú innanzi, gli dissi: - Né voi
né il Papa non può mai pensare cosa migliore, che
quelle dove e' s'interviene Cristo; sí che dite ora quante
pappolate cortigianesche voi sapete -. Sanza dir altro si
partí da me in còllora, e cercò di dare la
ditta opera a un altro orefice; ma il Papa non volse, e subito
mandò per me e mi disse, che io avevo detto bene, ma che si
volevan servire di uno Uffiziuolo di Madonna, il quale era miniato
maravigliosamente, e ch'era costo al cardinal de' Medici a farlo
miniare piú di dumila scudi: e questo sarebbe a proposito
per fare un presente alla Imperatrice, e che allo Imperadore
farebbon poi quello che avevo ordinato io, che veramente era
presente degno di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo,
perché lo Imperadore s'aspettava in Roma in fra un mese e
mezzo. Al ditto libro voleva fare una coperta d'oro massiccio,
riccamente lavorata, e con molte gioie addorna. Le gioie valevano
in circa sei mila scudi: di modo che, datomi le gioie e l'oro,
messi mano alla ditta opera, e sollecitandola in brevi giorni io
la feci comparire di tanta bellezza, che il Papa si maravigliava e
mi faceva grandissimi favori, con patti che quella bestia de
l'Iuvinale non mi venissi intorno. Avendo la ditta opera vicina
alla fine, comparse lo Imperatore, a il quale s'era fatti molti
mirabili archi trionfali, e giunto in Roma con maravigliosa pompa,
qual toccherà a scrivere ad altri, perché non vo'
trattare se non di quel che tocca a me, alla sua giunta subito
egli donò al Papa un diamante, il quale lui aveva compero
dodicimila scudi. Questo diamante il Papa lo mandò per me e
me lo dette, che io gli facessi un anello alla misura del dito di
Sua Santità; ma che voleva che io portassi prima el libro
al termine che gli era.<B> </B>Portato che io ebbi el
libro al Papa, grandemente gli sodisfece: di poi si consigliava
meco che scusa e' si poteva trovare con lo Imperadore, che fussi
valida, per essere quella ditta opera imprefetta. Allora io dissi
che la valida iscusa si era, che io arei detto della mia
indisposizione, la quale Sua Maestà arebbe facilissimamente
creduta, vedendomi cosí macilente e scuro come io ero. A
questo il Papa disse che molto gli piaceva; ma che io arrogessi da
parte di Sua Santità, faccendogli presente del libro, di
fargli presente di me istesso: e mi disse tutto il modo che io
avevo attenere, delle parole che io avevo a dire, le qual parole
io le dissi al Papa, domandandolo se gli piaceva che io dicessi
cosí. Il quale mi disse: - Troppo bene dicesti, se a te
bastassi la vista di parlare in questo modo allo Imperadore, che
tu parli a me -. Allora io dissi, che con molta maggior
sicurtà mi bastava la vista di parlate con lo Imperadore;
avvenga che lo Imperadore andava vestito come mi andavo io, e che
a me saria parso parlare a uno uomo che fussi fatto come me; qual
cosa non m'interveniva cosí parlando con Sua
Santità, innella quale io vi vedevo molto maggior
deità, sí per gli ornamenti eclesiastici, quali mi
mostravano una certa diadema, insieme con la bella vecchiaia di
Sua Santità: tutte queste cose mi facevano piú
temere, che non quelle dello Imperadore. A queste parole il Papa
disse: - Va, Benvenuto mio, che tu sei un valente uomo: facci
onore, ché buon per te.
XCI. Ordinò il Papa dua cavalli turchi, i quali erano
istati di papa Clemente, ed erono i piú belli che mai
venissi in Cristianità. Questi dua cavalli il Papa commesse
a messer Durante suo cameriere che gli menassi giú ai
corridoi del palazzo, e ivi li donassi<B> </B>allo
Imperadore, dicendo certe parole che lui gl'impose. Andammo
giú d'accordo; e giunti alla presenza dello Imperadore,
entrò que' dua cavalli con tanta maestà e con tanta
virtú per quelle camere, che lo Imperadore e ogniuno si
maravigliava. In questo si fece innanzi il ditto messer Durante
con tanto isgraziato modo e con certe sue parole bresciane,
annodandosigli la lingua in bocca, che mai si vidde e sentí
peggio: mosse lo Imperadore alquanto a risa. In questo io di
già avevo iscoperto la ditta opera mia; e avvedutomi che
con gratissimo modo lo Imperadore aveva volto gli occhi inverso di
me, subito fattomi innanzi, dissi: - Sacra Maestà, il
santissimo nostro papa Paulo manda questo libro di Madonna a
presentare a Vostra Maestà, il quale si è scritto a
mano e miniato per mano de il maggior uomo che mai facessi tal
professione; e questa ricca coperta d'oro e di gioie è cosi
imprefetta per causa della mia indisposizione: per la qualcosa Sua
Santità insieme con il ditto libro presenta me ancora, e
che io venga apresso a Vostra Maestà a finirgli il suo
libro; e di piú tutto quello che lei avessi in animo di
fare, per tanto quanto io vivessi, lo servirei -. A questo lo
Imperadore disse: - Il libro m'è grato e voi ancora; ma
voglio che voi me lo finiate in Roma; e come gli è finito e
voi guarito, portatemelo e venitemi a trovare -. Di poi innel
ragionare meco, mi chiamò per nome, per la qual cosa io mi
maravigliai perché non c'era intervenuto parole dove
accadessi il mio nome; e mi disse aver veduto quel bottone del
piviale di papa Clemente, dove io avevo fatto tante mirabil
figure. Cosí distendemmo ragionamenti di una mezz'ora
intera, parlando di molte diverse cose tutte virtuose<B>
</B>e piacevole: e perché a me pareva esserne uscito
con molto maggiore onore di quello che io m'ero promesso, fatto un
poco di cadenza a il ragionamento, feci reverenzia e partimmi. Lo
Imperadore fu sentito che disse: - Dònisi a Benvenuto
cinquecento scudi d'oro subito - di modo che quello che li
portò su, dimandò qual era l'uomo del Papa che aveva
parlato allo Imperatore. Si fece innanzi messer Durante, il quale
mi rubò li mia cinquecento scudi. Io me ne dolsi col Papa;
il quale disse che io non dubitassi; che sapeva ogni cosa,
quant'io m'ero portato bene a parlare allo Imperadore, e che di
quei danari io ne arei la parte mia a ogni modo.
XCII.<B> </B>Tornato alla bottega mia, messi mano con
gran sollecitudine a finire l'anello del diamante; el quale mi fu
mandato quattro, i primi<B> </B>gioiellieri di Roma;
perché era stato detto al Papa, che quel diamante era
legato per mano del primo gioiellier del mondo in Vinezia, il
quale si chiamava maestro Miliano Targhetta, e per esser quel
diamante alquanto sottile, era impresa troppo difficile a farla
sanza gran consiglio. Io ebbi caro e' quattro uomini gioiellieri,
infra i quali si era un milanese domandato Gaio. Questo era la
piú prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco
e gli pareva saper piú: gli altri erano modestissimi e
valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti cominciò a
parlare e disse: - Salvisi la tinta<B> </B>di Miliano
e a quella, Benvenuto, tu farai di berretta; perché
sí come 'l tignere un diamante è la piú bella
e la piú difficil cosa che sia ne l'arte del gioiellare,
Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e
questo si è il piú difficil diamante -. Allora io
dissi, che tanto maggior gloria mi era il combattere con un
cosí valoroso uomo d'una tanta professione; dipoi mi volsi
agli altri gioiellieri e dissi: - Ecco che io salvo la tinta di
Miliano; e mi proverrò se faccèndone io migliorassi
quella; quando che no, con quella medesima lo ritigneremo -. Il
bestial Gaio disse che, se io la facessi a quel modo, volentieri
le farebbe di berretta. Al quale io dissi: - Adunque faccendola
meglio, lei merita due volte di berretta: - Sí - disse; e
io cosí cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con
grandissima diligenzia a fare le tinte, le quali al suo luogo
insegnerò come le si fanno: certissimo che il detto
diamante era il piú difficile che mai né prima
né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era
virtuosamente fatta; però la non mi sbigottí ancora.
Io, auzzato i mia ferruzzi dello ingegno, feci tanto che io non
tanto raggiugnerla, ma la passai<B> </B>assai bene.
Dipoi, conosciuto che io avevo vinto lui, andai cercando di vincer
me, e con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che
io avevo fatto, di gran lunga. Dipoi mandai a chiamare i
gioiellieri, e tinto con la tinta di Miliano il diamante, da poi
ben netto, lo ritinsi con la mia. Mòstrolo<B>
</B>a' gioiellieri, un primo valent'uomo di loro, il quale
si domandava Raffael del Moro, preso il diamante in mano, disse a
Gaio: - Benvenuto ha passato la tinta di Miliano -. Gaio, che non
lo voleva credere, preso il diamante in mano, e' disse: -
Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati, che con
la tinta di Miliano -. Allora io dissi: - Da poi che io ho vinto
Miliano, vediamo se io potessi vincer me medesimo - e pregatogli
che mi aspettassino un poco, andai in sun un mio palchetto, e fuor
della presenza loro ritinsi il diamante, e portatolo a'
gioiellieri, Gaio subito disse: - Questa è la piú
mirabil cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita,
perché questo diamante val meglio di diciotto mila scudi,
dove che appena noi lo stimavamo dodici -. Gli altri gioiellieri
voltisi a Gaio, dissono: - Benvenuto è la gloria dell'arte
nostra, e meritamente e alle sue tinte e allui doviamo fare di
berretta -. Gaio allora disse: - Io lo voglio andare a dire al
Papa, e voglio che gli abbia mille scudi d'oro di legatura di
questo diamante -. E corsosene al Papa, gli disse il tutto; per la
qual cosa il Papa mandò tre volte quel dí a veder se
l'anello era finito. Alle ventitré ore poi io portai su
l'anello: e perché e' non mi era tenuto porta, alzato
cosí discretamente la portiera, viddi il Papa insieme col
marchese del Guasto, il quale lo doveva istrignere di quelle cose
che lui non voleva fare, e senti' che disse al Marchese: - Io vi
dico di no, perché a me si appartiene esser neutro e non
altro -. Ritiratomi presto indietro, il Papa medesimo mi
chiamò: onde io presto entrai, e pòrtogli quel bel
diamante in mano, il Papa mi tirò cosí da canto,
onde il Marchese si scostò. Il Papa in mentre che guardava
il diamante, mi disse: - Benvenuto, appicca meco ragionamento che
paia d'importanza, e non restar mai in sin che il Marchese
istà qui in questa camera -. E mosso a passeggiare, la cosa
che faceva per me, mi piacque, e cominciai a ragionar col Papa del
modo che io avevo fatto a tignere il diamante. Il Marchese istava
ritto da canto, appoggiato a un panno d'arazzo, e or si
scontorceva in sun un piè e ora in sun un altro. La tema di
questo ragionamento era tanto d'importanza, volendo dirla bene,
che si sarebbe ragionato tre ore intere. Il Papa ne pigliava tanto
gran piacere, che trapassava<B> </B>il dispiacere che
gli aveva del Marchese, che stessi quivi. Io che avevo mescolato
inne' ragionamenti quella parte di filosofia che s'apparteneva in
quella professione, di modo che avendo ragionato cosí
vicino a un'ora, venuto a noia al Marchese, mezzo in
còllora si partí: allora il Papa mi fece le
piú domestiche carezze, che immaginar si possa al mondo, e
disse: - Attendi, Benvenuto mio, che io ti darò altro
premio alle tue virtú, che mille scudi che m'ha ditto Gaio
che merita la tua fatica -. Cosí partitomi, il Papa mi
lodava alla presenza di quei suoi domestici, infra i quali era
quel Latin Iuvenale, che dianzi io avevo parlato. Il quale, per
essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi
dispiacere; e vedendo che il Papa parlava di me con tanta
affezione e virtú, disse: - E' non è dubbio nessuno
che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegno; ma se bene
ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene piú a
quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene
considerare in che modo e' si dee parlare di un Papa. Egli ha
avuto a dire, che papa Clemente era il piú bel principe che
fussi mai, e altrettanto virtuoso, ma sí bene con mala
fortuna; e dice che Vostra Santità è tutta al
contrario, e che quel regno vi piagne in testa, e che voi parete
un covon di paglia vestito, e che in voi non è altro che
buona fortuna -. Queste parole furno di tanta forza, dette da
colui che benissimo le sapeva dire, che il Papa le credette: io
non tanto non l'aver dette, ma in considerazion mia non venne mai
tal cosa. Se il Papa avessi possuto con suo onore, mi arebbe fatto
dispiacere grandissimo; ma come persona di grandissimo ingegno,
fece sembiante di ridersene: niente di manco e' riservò in
sé un tanto grand'odio in verso di me, che era
inistimabile; e io me ne cominciai a 'vvedere, perché non
entravo innelle camere con quella facilità di prima, anzi
con grandissima difficultà. E perché io ero pur
molt'anni pratico in queste corte, e' m'immaginai che qualche uno
avessi fatto cattivo uffizio contro a di me; e destramente
ricercandone, mi fu detto il tutto, ma non mi fu detto chi fussi
stato; e io non mi potevo inmaginare chi tal cosa avessi detto,
che sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni.
XCIII. Attesi a finire il mio libretto; e finito che io l'ebbi, lo
portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli
non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a
portarlo come lui mi aveva promesso. Il Papa mi rispose, che
farebbe quanto gli venissi bene di fare<B> </B>e che
io avevo fatto quel che s'apparteneva a me. Cosí dette
commessione che io fossi ben pagato. Delle quale opere in poco
piú di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il
diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta scudi e non
piú; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel
libretto, la qual fattura ne meritava piú di mille, per
essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io
mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con
Dio di Roma. In questo il Papa mandò il detto libretto allo
Imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, il quale
presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l'ebbe
gratissimo, e subito domandò di me. Il giovanetto signore
Sforza, ammaestrato, disse che per essere io infermo non ero
andato. Tutto mi fu ridetto.
Intanto messomi<B> </B>io in ordine per andare alla
volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti,
perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava
Ascanio; questo giovane era di età molto tenera ed era il
piú mirabil servitore che fossi mai al mondo; e quando io
lo presi, e' s'era partito da un suo maestro, che si domandava
Francesco, che era spagnolo e orefice. Io, che non arei voluto
pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto
spaguolo, dissi a Ascanio: - Non ti voglio, per non fare
dispiacere al tuo maestro -. E' fece tanto che il maestro suo mi
scrisse una polizza<B>, </B>che liberamente io lo
pigliassi. Cosí era stato meco di molti mesi; e per essersi
partito magro e spunto, noi lo domandavamo il Vecchino; e io
pensavo che fossi un vecchino, sí perché lui serviva
tanto bene; e perché gli era tanto saputo, non pareva
ragione<B> </B>che innell'età di tredici anni,
che lui diceva di avere, vi fussi tanto ingegno. Or per tornare,
costui in quei pochi mesi messe persona,<B> </B>e
ristoratosi dallo istento divenne il piú bel giovane di
Roma, e sí per essere quel buon servitor che io ho detto, e
perché gl'imparava l'arte maravigliosamente, io gli posi
uno amore grandissimo come figliuolo, e lo tenevo vestito come se
figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane restaurato, e' gli
pareva avere aùto una gran ventura a capitarmi alle mane.
Andava ispesso a ringraziare il suo maestro, che era stato causa
del suo gran bene; e perché questo suo maestro aveva una
bella giovane per moglie, lei diceva: - Surgetto, che hai tu fatto
che tu sei diventato cosí bello? - e cosí<B>
</B>lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio
rispose a lei: - Madonna Francesca, è stato lo mio maestro
che mi ha fatto cosí bello e molto piú buono -.
Costei velenosetta l'ebbe molto per male che Ascanio dicessi
cosí: e perché lei aveva nome di non pudica donna,
seppe fare a questo giovanetto qualche carezza forse piú
là che l'uso de l'onestà;<B> </B>per la
qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava
piú che 'l solito suo a vedere la sua maestra. Accadde, che
avendo un giorno dato malamente delle busse a un fattorino di
bottega, il quale<B>, </B>giunto che io fui, che
venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi
che Ascanio gli aveva dato sanza ragion nessuna. Alle qual parole
io dissi a Ascanio: - O con ragione o senza ragione, non ti venga
mai piú dato a nessun di casa mia, perché tu
sentirai in che modo io so dare io -. Egli mi rispose: onde io
subito mi gli gittai addosso, e gli detti di<B>
</B>pugna e calci le piú aspre busse che lui sentissi
mai. Piú tosto che lui mi possette uscir delle mane, sanza
cappa e sanza berretta fuggí fuora, e per dua giorni io non
seppi mai dove lui si fussi, né manco ne cercavo, se none
in capo di dua giorni mi venne a parlare un gentiluomo spagnuolo,
il quale si domandava don Diego. Questo era il piú liberale
uomo che io conoscessi mai al mondo; io gli avevo fatte e facevo
alcune opere, di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che
Ascanio era tornato col suo vecchio maestro, e che, se e' mi
pareva, che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo
donata. A queste parole io dissi che Francesco si era portato
male, e che gli aveva fatto da persona malcreata; perché se
lui m'avessi detto subito che Ascanio fu andato dallui, sí
come<B> </B>lui era in casa sua, io molto volentieri
gli arei dato licenzia; ma per averlo tenuto dua giorni, poi
né me lo fare intendere,<B></B>io non volevo
che gli stessi seco; e che facessi che io non io vedessi in modo
alcuno in casa sua. Tanto riferí don Diego: per la qual
cosa il detto Francesco se ne fece beffe. L'altra mattina seguente
io vidi Ascanio, che lavorava certe pappolate<B>
</B>di filo accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto
Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise.
Mandommi a dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva,
che io rimandassi a Ascanio e' panni che io gli avevo donati;
quando che no, non se ne curava, e che a Ascanio non mancheria
panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e dissi: - Signor
don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il
piú liberale né il piú dabbene di voi; ma
cotesto Francesco è tutto il contrario di quel che voi
siete, perché gli è un disonorato marrano. Ditegli
cosí da mia parte, che se innanzi che suoni vespro lui
medesimo non m'ha rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io
l'ammazzerò a ogni modo; e dite a Ascanio, che se lui non
si leva di quivi<B> </B>in quell'ora
consacrata<B> </B>al suo maestro, che io farò a
lui poco manco -. A queste parole quel signor don Diego non mi
rispose niente, anzi andò e messe in opera cotanto spavento
al ditto Francesco, che lui non sapeva che farsi. Intanto Ascanio
era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a Roma da
Tagliacozzi, di donde gli era; e sentendo questo scompiglio,
ancora lui consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a
me. Francesco diceva a Ascanio: - Vavvi da te, e tuo padre
verrà teco -. Don Diego diceva: - Francesco, io veggo
qualche grande scandolo: tu sai meglio di me chi è
Benvenuto; rimènagnene sicuramente, e io verrò teco
-. Io che m'ero messo in ordine, passeggiavo per bottega
aspettando il tocco di vespro, dispostomi di fare una delle
piú rovinose cose che in tempo di mia vita mai fatta
avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco e Ascanio, e
il padre, che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli
guardavo tutti con l'occhio della stizza, Francesco di colore
ismorto disse: - Eccovi rimenato Ascanio, il quale io tenevo, non
pensando farvi dispiacere -. Ascanio reverentemente disse: -
Maestro mio, perdonatemi; io son qui per far tutto quello che voi
mi comanderete -. Allora io dissi: - Se' tu venuto per finire il
tempo che tu m'hai promesso? - Disse di sí, e per non si
partir mai piú da me. Io mi volsi allora e dissi a quel
fattorino, a chi lui aveva dato, che gli porgessi quel fardello
de' panni: e allui dissi: - Eccoti tutti e' panni che io t'avevo
donati, e con essi abbi la tua libertà e va dove tu vuoi -.
Don Diego restato maravigliato di questo, ché ogni altra
cosa aspettava. In questo, Ascanio insieme col padre mi pregava
che io gli dovessi perdonare e ripigliarlo. Domandato chi era
quello che parlava per lui, mi disse esser suo padre; al quale di
poi molte preghiere dissi: - E per esser voi suo padre, per amor
vostro lo ripiglio.
XCIV. Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla
volta di Francia, sí per aver veduto che il Papa non mi
aveva in quel concetto di prima, ché per via delle male
lingue m'era stato intorbidato la mia gran servitú, e per
paura che quelli che potevano non mi facessin peggio; però
mi ero disposto di cercare altro paese, per veder se io trovavo
miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo. Essendomi
risoluto una sera per partirmi la mattina, dissi a quel fidel
Felice, che si godessi tutte le cose mia insino al mio ritorno; e
se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fossi suo.
E perché io avevo un garzone perugino, il quale mi aveva
aiutato finir quelle opere del Papa, a questo detti licenzia,
avendolo pagato delle sue fatiche. Il quale mi disse, che mi
pregava che io lo lasciassi venir meco, e che lui verrebbe a sue
spese; che s'egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il
Re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco de li mia
Italiani, e maggiormente di quelle persone che io cognoscevo che
mi arebbon saputo aiutare. Costui seppe tanto pregarmi, che io fui
contento di menarlo meco innel modo che lui aveva detto. Ascanio,
trovandosi ancora lui alla presenza di questo ragionamento, disse
mezzo piangendo: - Dipoi che voi mi ripigliasti, i' dissi di voler
star con voi a vita, e cosí ho in animo di fare -. Io dissi
al ditto che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero
giovanetto si metteva in ordine per venirmi drieto a piede. Veduto
fatto una tal resoluzione, presi un cavallo ancora per lui, e
messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di molti
piú ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma ne
venni a Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e
da Vinezia me ne andai a Padova: dove io fui levato d'in su
l'osteria da quel mio caro amico, che si domandava Albertaccio del
Bene. L'altro giorno a presso andai a baciar le mane a messer
Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale. Il detto messer
Pietro mi fece le piú sterminate carezze che mai si possa
fare a uomo del mondo; di poi si volse ad Albertaccio e disse: -
Io voglio che Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se lui
ne avessi ben cento; sí che risolvetevi, volendo anche voi
Benvenuto, a restar qui meco, altrimenti io non ve lo voglio
rendere - e cosí mi restai a godere con questo
virtuosissimo Signore. Mi aveva messo in ordine una camera, che
sarebbe troppo onorevole a un cardinale, e continuamente volse che
io mangiassi accanto a Sua Signoria. Dipoi entrò con
modestissimi ragionamenti, mostrandomi che arebbe aùto
desiderio che io lo ritraessi; e io, che non desideravo altro al
mondo, fattomi certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino,
lo cominciai; e la prima giornata io lavorai dua ore continue, e
bozzai quella virtuosa testa di tanta buona grazia, che Sua
Signoria ne restò istupefatta; e come quello che era
grandissimo innelle sue lettere e innella poesia in superlativo
grado, ma di questa mia professione Sua Signoria non entendeva
nulla al mondo: il perché si è che allui parve che
io l'avessi finita a quel tempo, che io non l'avevo a pena
cominciata: di modo che io non potevo dargli ad intendere che la
voleva molto tempo a farsi bene. All'utimo io mi risolsi a farla
il meglio che io sapevo col tempo che la meritava: e perché
egli portava la barba corta alla veniziana, mi dette di gran
fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure la fini' e mi
parve fare la piú bella opera che io facessi mai, per
quanto si aparteneva a l'arte mia. Per la qual cosa io lo viddi
sbigottito, perché e' pensava che avendola io fatta di cera
in dua ore io la dovessi fare in dieci d'acciaro. Veduto poi che
io non l'avevo potuta fare in dugento ore di cera, e dimandavo
licenzia per andarmene alla volta di Francia, il
perché<B> </B>lui si sturbava molto, e mi
richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua medaglia,
almanco; e questo fu un caval Pegaseo in mezzo a una ghirlanda di
mirto. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli
bonissima grazia; e essendo assai sadisfatto, disse: - Questo
cavallo mi par pure maggior cosa l'un dieci,<B>
</B>che non è il fare una testolina, dove voi avete
penato tanto: io non son capace di questa difficultà -.
Pure mi diceva e mi pregava, che io gnene dovessi fare in acciaro,
dicendomi: - Di grazia fatemela, perché voi me la farete
ben presto, se voi vorrete -. Io gli promessi che quivi io non la
volevo fare; ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei senza
manco nessuno. In mentre che noi tenevamo questo proposito, io ero
andato a mercatare tre cavalli per andarmene alla volta di
Francia; e lui faceva tener conto di me segretamente,
perché aveva grandissima autorità in Padova; di modo
che volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta
ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: - Virtuoso uomo, io
vi fo un presente delli tre cavalli -. Al quale io risposi: - Tu
non sei tu che me gli presenti; e da quello che me gli presenta io
non gli voglio, perché io non gli ho potuto dar nulla delle
fatiche mie -. Il buono uomo mi disse che, non pigliando quei
cavagli, io non caverei altri cavagli di Padova e sarei
necessitato a 'ndarmene a piede. A questo io me ne andai al
magnifico messer Pietro, il quale faceva vista di non saper nulla,
e pur mi carezzava, dicendomi che io soprastessi in Padova. Io che
non ne volevo far nulla ed ero disposto a 'ndarmene a ogni modo,
mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne andai.
XCV. Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro
cammino non era sicuro, rispetto alle guerre. Passammo le montagne
dell'Alba e della Berlina: era agli otto dí di maggio ed
era la neve grandissima. Con grandissimo pericolo della vita
nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le avemmo, ci
fermammo a una terra la quale, se ben mi ricordo, si domanda
Valdistà: quivi alloggiammo. La notte vi capitò un
corriere fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo
corriere io l'avevo sentito ricordare per uomo di credito e
valente nella sua professione, e non sapevo che gli era scaduto,
per le sue ribalderie. Quando e' mi vedde all'osteria, lui mi
chiamò per nome, e mi disse che andava per cose
d'inportanza a Lione, e che di grazia io gli prestassi dinari per
il viaggio. A questo io dissi, che non avevo danari da potergli
prestare, ma che volendo venir meco di compagnia io gli farei le
spese insino a Lione. Questo ribaldo piagneva e facevami le belle
lustre dicendomi, come - per e' casi d'importanza della nazione
essendo mancato danari a un povero corrieri, un par vostro
è ubbrigato a 'iutarlo - e di piú mi disse che
portava cose di grandissima importanza di messer Filippo Strozzi:
e perché gli aveva una guaina d'un bicchiere coperta di
cuoio, mi disse innell'orecchio, che in quella guaina era un
bicchier d'argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di
molte migliaia di ducati, e che e' v'era lettere di grandissima
importanza, le quali mandava messer Filippo Strozzi. A questo io
dissi a lui, che mi lasciassi rinchiuder le gioie a dosso a lui
medesimo, le quali porterebbon manco pericolo che a portarle in
quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale
poteva valere dieci scudi incirca, e io lo servirei di
venticinque. A queste parole il corrier disse, che se ne verrebbe
meco, non potento far altro, perché lasciando quel
bicchiere non gli sarebbe onore. Cosí la mozzammo; e la
mattina partendoci arrivammo a un lago, che è in fra
Valdistate e Vessa; questo lago è lungo quindici miglia,
dove e s'arriva a Vessa. Veduto le barche di questo lago, io ebbi
paura; perché le dette barche son d'abete, non molto grande
e non molto grosse, e non son confitte, né manco impeciate;
e se io non vedevo entrare in un'altra simile quattro gentiluomini
tedeschi con i loro cavagli, io non entravo mai in questa; anzi mi
sarei piú presto tornato addietro; ma io mi pensai, alle
bestialità che io vedevo fare a coloro, che quelle acque
tedesche non affogassino, come fanno le nostre della Italia.
Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: - Benvenuto, questa
è una pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli
-. A e' quali io dicevo: - Non considerate voi, poltroni, che quei
quattro gentiluomini sono entrati innanzi a noi, e vanno via
ridendo? Se questo fussi vino, come l'è acqua, io direi che
lor vanno lieti per affogarvi drento; ma perché l'è
acqua, io so ben che e' non hanno piacere d'affogarvi, sí
ben come noi -. Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre
in circa; da una banda era un monte altissimo e cavernoso,
dall'altra era piano e erboso. Quando noi fummo drento in circa
quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna, di
sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli
aiutassimo vogare; cosí facemmo un pezzo. Io accennavo, e
dicevo che ci gettassino a quella proda di là; lor dicevano
non esser possibile, perché non v'è acqua che
sostenessi la barca, e che e' v'è certe secche, per le
quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure
ci sollecitavano che noi aiutassimo loro. E' barcheriuoli si
chiamavano l'un l'altro, chiedendosi aiuto. Vedutogli io
sbigottiti, avendo un caval savio gli acconciai la briglia al
collo e presi una parte della cavezza con la man mancina. Il
cavallo che era, sí come sono, con qualche intelligenza,
pareva che si fussi avveduto quel che io volevo fare, che
avendogli volto il viso in verso quell'erba fresca, volevo che,
notando, ancora me istrascicassi seco. In questo venne una onda
sí grande da quel lago, che la soprafece la barca. Ascanio
gridando: - Misericordia, padre mio, aiutatemi - mi si volse
gittare addosso; il perché<B> </B>io messi mano
al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino quel che io avevo
insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita
sí bene, com'io speravo camparla ancora io per quella via;
e se piú e' mi si gittassi addosso, io l'ammazzerei.
Cosí andammo innanzi parecchi miglia con questo mortal
pericolo.
XCVI. Quando noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po' di
piano da poterci riposare, e in su questo piano viddi ismontato
quei quattro gentiluomini tedeschi. Quando noi volemmo ismontare,
il barcherolo non voleva per niente. Allora io dissi a' mia
giovani: - Ora è tempo a far qualche pruova di noi:
sí che mettete mano alle spade, e facciàno che per
forza e' ci mettino in terra -. Cosí facemmo con gran
difficultà, perché lor fecion grandissima
resistenza. Pure messi che noi fummo in terra, bisognava salire
due miglia su per quel monte, il quale era piú difficile
che salire su per una scala a piuoli. Io ero tutto armato di
maglia con istivali grossi e con uno scoppietto in mano, e pioveva
quanto Idio ne sapeva mandare. Quei diavoli di quei gentiluomini
tedeschi con quei lor cavalletti a mano facevano miracoli, il
perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto, e
crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna.
Quando noi fummo in su un pezzo, il cavallo d'Ascanio, che era un
cavall'unghero mirabilissimo, questo era innanzi un pochetto al
Busbacca corriere, e 'l ditto Ascanio gli aveva dato la sua
zagaglia, che gliene aiutassi portare; avvenne che per e' cattivi
passi quel cavallo isdrucciolò e andò tanto
barcollone, non si potendo aiutare, che percosse in su la punta
della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere, che non l'aveva
saputa iscansare; e passata al cavallo la gola a banda a banda,
quell'altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo,
che era un caval morello, isdrucciolò inverso il lago e
s'attenne a un respo, il qual era sottilissimo. In su questo
cavallo era un paio di bisacce, nelle quali era drento tutti e'
mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al giovane
che salvassi la sua vita, e lasciassi andare il cavallo in malora:
la caduta si era piú d'un miglio e andava a sottosquadro e
cadeva nel lago. Sotto questo luogo a punto era fermato quelli
nostri barcheruoli; a tale che se il cavallo cadeva, dava loro a
punto addosso. Io era innanzi a tutti e stavamo a vedere tombolare
il cavallo, il quale pareva che andassi al sicuro in perdizione.
In questo io dicevo a' mia giovani: - Non vi curate di nulla,
salvianci noi e ringraziamo Idio d'ogni cosa; a me mi sa solamente
male di questo povero uomo del Busbacca, che ha legato il suo
bicchiere e le sue gioie, che son di valore di parecchi migliaia
di ducati, all'arcione di quel cavallo, pensando quell'essere
piú sicuro: e mia son pochi cento di scudi, e non ho paura
di nulla al mondo, purché io abbia la grazia de Dio -. Il
Busbacca allora disse: - E' non m'incresce de' mia, ma e
m'incresce ben de' vostri -. Dissi a lui: - Perché
t'incresc'egli de' mia pochi, e non t'incresce de' tua assai? - Il
Busbacca disse allora: - Dirovelo in nel nome di Dio: in questi
casi e ne' termini che noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che
i vostri sono iscudi, e son da dovero; ma quella mia vesta di
bicchiere, dove io ho detto esser tante gioie e tante bugie,
è tutta piena di caviale -. Sentendo questo io non possetti
fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui piagneva.
Quel cavallo si aiutò, quando noi l'avevamo fatto
ispacciato. Cosí ridendo ripigliammo le forze e mettemmoci
a seguitare il monte. Quelli quattro gentiluomini tedeschi,
ch'erono giunti prima di noi in cima di quella ripida montagna, ci
mandorno alcune persone, le quali ci aiutorno; tanto che noi
giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento: dove, essendo noi
molli, istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente ricevuti; e
ivi ci rasciugammo, ci riposammo, sodisfacemmo alla fame e con
certe erbacce fu medicato il cavallo ferito; e ci fu insegnato
quella sorte d'erbe, le quali n'era pieno la siepe, e ci fu detto,
che tenendogli continuamente la piaga piena di quell'erbe, il
cavallo non tanto guarirebbe, ma ci servirebbe come se non avessi
un male al mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini, e noi
molto ben ristorati, di quivi ci partimmo e passammo innanzi,
ringraziando Idio, che ci aveva salvati da quel gran pericolo.
XCVII. Arrivammo a una terra di là da Vessa: qui ci
riposammo la notte, dove noi sentimmo a tutte l'ore della notte
una guardia, che cantava in molto piacevol modo; e per essere
tutte quelle case di quella città di legno di abeto, la
guardia non diceva altra cosa, se non che s'avessi cura al fuoco.
Il Busbacca, che era spaventato della giornata, a ogni ora che
colui cantava, el Busbacca gridava in sogno, dicendo: -
Ohimè Idio, che io affogo! - e questo era lo spavento del
passato giorno; e arroto a quello, che s'era la sera inbriacato,
perché volse fare a bere<B> </B>quella sera con
tutti e' tedeschi che vi erano; e talvolta diceva: - Io ardo - e
talvolta: - Io affogo -: gli pareva essere alcune volte innello
'nferno marterizzato con quel caviale al collo. Questa notte fu
tanto piacevole, che tutti e' nostri affanni si erano conversi in
risa. La mattina levatici con bellissimo tempo, andammo a desinare
a una lieta terra domandata Lacca. Quivi fummo mirabilmente
trattati; di poi pigliammo guide, le quali erano di ritorno a una
terra chiamata Surich. La guida che menava, andava su per un
argine d'un lago, e non v'era altra strada, e questo argine ancora
lui era coperto d'acqua, in modo che la bestial guida
sdrucciolò, e il cavallo e lui andorno sotto l'acqua. Io,
che ero drieto alla guida a punto, fermato il mio cavallo, istetti
a veder la bestia sortir dell'acqua; e come se nulla non fossi
stato, ricominciò a cantare, e accennavami che io andassi
innanzi. Io mi gittai in su la man ritta, e roppi certe siepe;
cosí guidavo i mia giovani e 'l Busbacca. La guida gridava,
dicendomi in tedesco pure che se quei populi mi vedevano, mi
arebbero ammazzato. Passammo innanzi e scampammo quell'altra
furia. Arrivammo a Surich, città maravigliosa, pulita
quanto un gioiello. Quivi riposammo un giorno intero, di poi una
mattina per tempo ci partimmo; capitammo a un'altra bella
città chiamata Solutorno: di quivi capitammo a Usanna, da
Usanna a Ginevra, da Ginevra a Lione, sempre cantando e ridendo. A
Lione mi riposai per quattro giornate; molto mi rallegrai con
alcuni mia amici; fui pagato della spesa che io avevo fatta per il
Busbacca; di poi in capo dei quattro giorni, presi il cammino per
la volta di Parigi. Questo fu viaggio piacevole, salvo che quando
noi giugnemmo alla Palissa, una banda di venturieri ci volsono
assassinare, e non con poca virtú ci salvammo. Di poi ce ne
andammo insino a Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre
cantando e ridendo giugnemmo a salvamento.
XCVIII. Riposatomi in Parigi alquanto, me ne andai a trovare il
Rosso dipintore, il quale stava al servizio del Re. Questo Rosso
io pensava che lui fossi il maggiore amico che io avessi al mondo,
perché io gli avevo fatto in Roma i maggior piaceri che
possa fare un uomo a un altro uomo; e perché questi cotai
piaceri si posson dire con brieve parole, io non voglio mancare di
non gli dire, mostrando quant'è sfacciata la ingratitudine.
Per la sua mala lingua, essendo lui in Roma, gli aveva detto tanto
male de l'opere di Raffaello da Urbino, che i discepoli suoi lo
volevano ammazzare a ogni modo: da questo lo campai, guardandolo
dí e notte con grandissime fatiche. Ancora per aver detto
male di maestro Antonio da San Gallo, molto eccellente
architettore, gli fece torre un'opera che lui gli aveva fatto
avere da messer Agnol de Cesi; dipoi cominciò tanto a far
contro a di lui, che egli l'aveva condotto a morirsi di fame; per
la qual cosa io gli prestai di molte decine di scudi per vivere. E
non gli avendo ancora riauti, sapendo che gli era al servizio del
Re, lo andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui
mi rendessi li mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore
per mettermi al servizio di quel gran Re. Quando costui mi vedde,
subito si turbò e mi disse: - Benvenuto, tu se venuto con
troppa spesa innun cosí gran viaggio, massimo di questo
tempo, che s'attende alla guerra e non a baiuccole di nostre opere
-. Allora io dissi, che io avevo portato tanti dinari da potermene
tornare a Roma in quel modo che io ero venuto a Parigi; e che
questo non era il cambio delle fatiche che io avevo durate per
lui; e che io cominciavo a credere quel che mi aveva detto di lui
maestro Antonio da San Gallo. Volendosi metter tal cosa in burla,
essendosi avveduto della sua sciagurataggine, io gli mostrai una
lettera di cambio di cinquecento scudi a Ricciardo del Bene.
Questo sciagurato pur si vergognava, e volendomi tenere quasi per
forza, io mi risi di lui, e me ne andai insieme con un pittore,
che era quivi alla presenza. Questo si domandava lo Sguazzella:
ancora lui era fiorentino; anda'mene a stare in casa sua con tre
cavalli e tre servitori a tanto la settimana. Lui benissimo mi
trattava, e io meglio lo pagavo. Di poi cercai di parlare al Re,
al quale m'introdusse un certo messer Giuliano Buonaccorsi suo
tesauriere. A questo io soprastetti assai, perché io non
sapevo che il Rosso operava ogni diligenza, che io non parlassi al
Re. Poiché il ditto messer Giuliano se ne fu avveduto,
subito mi menò a Fontana Biliò e messemi drento
inanzi al Re, da il quale io ebbi un'ora intera di gratissima
audienza. E perché il Re era in assetto per andare alla
volta di Lione, disse al ditto messer Giuliano che seco mi
menassi, e che per la strada si ragionerebbe di alcune belle
opere, che Sua Maestà aveva in animo di fare. Cosí
me ne andavo insieme a presso al traino della Corte;<B>
</B>e per la strada feci grandissima servitú col
cardinale di Ferrara, il quale non aveva ancora il cappello. E
perché ogni sera io avevo grandissimi ragionamenti con il
ditto Cardinale, e Sua Signoria diceva che io mi dovessi restare
in Lione a una sua badia, e quivi potrei godere in fine a tanto
che il Re tornassi dalla guerra, che se ne andava alla volta di
Granopoli,<B> </B>e alla sua badia in Lione io arei
tutte le comodità. Giunti che noi fummo a Lione, io mi ero
ammalato, e quel mio giovane Ascanio aveva preso la quartana; di
sorte che m'era venuto a noia i franciosi e la lor Corte, e mi
parea mill'anni di ritornarmene a Roma. Vedutomi disposto il
Cardinale a ritornare a Roma, mi dette tanti dinari, che io gli
facessi in Roma un bacino e un boccale d'ariento. Cosí ce
ne ritornammo alla volta di Roma in su bonissimi cavalli, e
venendo per le montagne del Sanpione; e essendomi accompagnato con
certi franzesi, con li quali venimmo un pezzo, Ascanio con la sua
quartana, e io con una febbretta sorda, la quale pareva che non mi
lasciassi punto; e avevo sdegnato lo stomaco di modo, che io non
credo che mi toccassi a mangiare un pane intero la settimana, e
molto desideravo di arrivare in Italia, desideroso di morire in
Italia e non in Francia.
XCIX. Passato che noi avemmo li monti del Sanpione detto, trovammo
un fiume presso a un luogo domandato Indevedro. Questo fiume era
molto largo, assai profondo, e sopra esso aveva un ponticello
lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una brinata
molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e
conosciutolo molto pericoloso, comandai alli mia giovani e
servitori che scavalcassino, menando li lor cavalli a mano.
Cosí passai il detto ponte molto felicemente, e me ne
venivo ragionando con un di quei dua franzesi, il quale era un
gentiluomo: quell'altro era un notaro, il quale era restato a
dietro alquanto, e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me,
che per paura di nonnulla avevàno voluto quel disagio de
l'andar a piede. Al quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del
ponte, e lo pregai che venissi pianamente, per che egli era in
luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non potette mancare alla
sua franciosa natura, mi disse in francioso che io era uomo di
poco animo, e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che
diceva queste parole, volse pugnere un poco il cavallo, per la
qual cosa subito il cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e
con le gambe inverso il cielo cadde a canto a un sasso
grossissimo. E perché Idio molte volte è
misericordioso de' pazzi, questa bestia insieme con l'altra bestia
e suo cavallo dettono innun tonfano grandissimo, dove gli andorno
sotto, e lui e il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima
prestezza io mi cacciai a correre, e con gran difficoltà
saltai in su quel sasso, e spenzolandomi da esso, aggiunsi un
lembo d'una guarnacca che aveva adosso quest'uomo, e per quel
lembo lo tirai su, che ancora stava coperto dall'acqua; e
perché gli aveva beuto assai acqua, e poco stava che saria
affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco
d'avergli campato la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in
franzese e mi disse che io non avevo fatto nulla; che la
importanza si era le sue scritture, che valevan di molte dicine di
scudi: e pareva che queste parole costui me le dicesse in
còllora, tutto molle e barbugliando. A questo, io mi volsi
a certe guide che noi avevamo, e commissi che aiutassino quella
bestia, e che io gli pagherei. Una di quelle guide virtuosamente e
con gran fatica si mise a 'iutarlo, e ripescògli le sue
scritture, tanto che lui non perse nulla; quell'altra guida mai
non volse durar fatica nissuna a 'iutarlo. Arrivati che noi fummo
poi a quel luogo sopra ditto - noi avevamo fatto una borsa, la
quale era tocca a spendere a me - desinato che noi avemmo, io
detti parecchi danari della borsa della compagnia a quella guida,
che aveva aiutato trar colui dell'acqua; per la qual cosa costui
mi diceva, che quei danari io gliene darei del mio, che non
intendeva di dargli altro che quel che noi eramo d'accordo, d'aver
fatto l'uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte
ingiuriose parole. Allora mi si fece incontro l'altra guida, qual
non aveva durato fatica, e voleva pure che io pagassi anche lui; e
perché io dissi: - Ancora costui merita il premio per aver
portato la croce, - mi rispose, che presto mi mostrerebbe una
croce, alla quale io piagnerei. Allui dissi che io accenderei un
moccolo a quella croce, per il quale io speravo che allui
toccherebbe il primo a piagnere. E perché questo è
luogo di confini infra i Veniziani e Tedeschi, costui corse per
populi, e veniva con essi con un grande ispiede inanzi. Io, che
ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile in sul mio
archibuso: voltomi a' compagni, dissi: - Al primo ammazzo colui; e
voi altri fate il debito vostro, perché quelli sono
assassini di strada, e hanno preso questo poco dell'occasione solo
per assassinarci -. Quell'oste, dove noi avevamo mangiato,
chiamò un di quei caporali, ch'era vecchione, e lo
pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: -
Questo è un giovine bravissimo, e se bene voi lo taglierete
a pezzi, e ne ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria
scaparvi delle mani, da poi fatto il male che gli arà -. La
cosa si quietò, e quel vecchio capo di loro mi disse: - Va
in pace, che tu non faresti una insalata, se tu avessi ben cento
uomini teco -. Io che conoscevo che lui diceva la verità e
mi ero risoluto di già e fattomi morto, non mi sentendo
dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo, dissi: - Io arei
fatto tutto il mio potere, mostrando essere animal vivo e uomo - e
preso il viaggio, la sera al primo alloggiamento, facemmo conto
della borsa, e mi divisi da quel francioso bestiale, restando
molto amico di quell'altro che era gentiluomo; e con i mia tre
cavalli, soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me
ne andai in Corte del Duca per far reverenzia a Sua Eccellenzia,
per potermi partir la mattina alla volta di Santa Maria dal
Loreto. Avevo aspettato insino a dua ore di notte, e allora
comparse il Duca: io gli baciai le mane; mi fece grande
accoglienze, e commisse che mi fussi dato l'acqua alle mane. Per
la qual cosa io piacevolmente dissi: - Eccellentissimo signore,
egli è piú di quattro mesi che io non ho mangiato
tanto, che sia da credere<B> </B>che con tanto poco si
viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei confortare
de' reali cibi della sua tavola, mi starò cosí
ragionando con quella, in mentre che Vostra Eccellenzia cena, e
lei e io a un tratto medesimo aremo piú piacere, che se io
cenassi seco -. Cosí appiccammo ragionamento, e passammo
insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e
andatomene alla mia osteria, trovai apparecchiato
maravigliosamente, perché il Duca mi aveva mandato a
presentare le regaglie del suo piatto con molto buon vino; e per
esser a quel modo soprastato piú di dua ore fuor della mia
ora del mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la
prima volta che di poi e' quattro mesi io avevo potuto mangiare.
C. Partitomi la mattina, me ne andai a Santa Maria dal Loreto, e
di quivi, fatto le mie orazione, ne andai a Roma; dove io trovai
il mio fidelissimo Felice, al quale io lasciai la bottega con
tutte le masserizie e ornamenti sua, e ne apersi un'altra a canto
al Sugherello profumiere, molto piú grande e piú
spaziosa; e mi pensavo che quel gran Re Francesco non si avessi a
ricordar di me. Per la qual cosa io presi<B> </B>molte
opere da diversi signori, e intanto lavoravo quel boccale e bacino
che io avevo preso da fare dal cardinal di Ferrara. Avevo di molti
lavoranti e molte gran faccende d'oro e di argento. Avevo pattuito
con quel mio lavorante perugino, che da per sé s'era
iscritto tutti i danari che per la parte sua si erano ispesi, li
quai danari s'erano ispesi in suo vestire e in molte altre cose;
con le spese del viaggio erano in circa a settanta scudi: delli
quali noi c'eramo accordati che lui ne scontassi tre scudi il
mese; ché piú di otto iscudi io gli facevo
guadagnare. In capo di dua mesi questo ribaldo si andò con
Dio di bottega mia, e lasciommi impedito da molte faccende, e
disse che non mi voleva dar altro. Per questa cagione io fui
consigliato di prevalermene per la via della iustizia,
perché m'ero messo in animo di tagliargli un braccio; e
sicurissimamente lo facevo, ma li amici mia mi dicevano che non
era bene che io facessi una tal cosa, avvenga che io perdevo li
mia danari e forse un'altra volta Roma, perché i colpi non
si danno a patti; e che io potevo con quella scritta, che io avevo
di sua mano, subito farlo pigliare. Io mi attenni al consiglio, ma
volsi piú liberamente agitare tal cosa. Mossi la lite
all'auditore della Camera realmente, e quella convinsi; e per
virtú di essa, che v'andò parecchi mesi, io da poi
lo feci mettere in carcere. Mi trovavo carica la bottega di
grandissime faccende, e in fra l'altre tutti gli ornamenti d'oro e
di gioie della moglie del signor Gerolimo Orsino, padre del signor
Paulo oggi genero del nostro duca Cosimo. Queste opere erano molto
vicine alla fine, e tuttavia me ne cresceva delle importantissime.
Avevo otto lavoranti, e con essi insieme, e per onore e per utile,
lavoravo il giorno e la notte.
CI. In mentre che cosí vigorosamente io seguitavo le mie
imprese, mi venne una lettera mandatami con diligenza dal
Cardinale di Ferrara, la quale diceva in questo tenore: "Benvenuto
caro amico nostro. Alli giorni passati questo gran Re
Cristianissimo si ricordò di te, dicendo che desiderava
averti al suo servizio. Al quale io risposi, che tu m'avevi
promesso, che ogni volta che io mandavo per te per servizio di Sua
Maestà, subito tu verresti. A queste parole Sua
Maestà disse: - Io voglio che si gli mandi la
comodità da poter venire, sicondo che merita un suo pari -
e subito comandò al suo Amiraglio, che mi facessi pagare
mille scudi d'oro da il tesauriere de' risparmi. Alla presenza di
questo ragionamento si era il cardinale de' Gaddi, il quale subito
si fece innanzi e disse a Sua Maestà, che non accadeva che
Sua Maestà dessi quella commessione, perché lui
disse averti mandato danari a bastanza, e che tu eri per il
cammino. Ora se per caso egli è il contrario, sí
come io credo, di quel che ha detto il cardinal de' Gaddi,
aùto questa mia lettera, rispondi subito, perché io
rappiccherò il filo, e farotti dare li promessi danari da
questo magnanimo Re".
Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso, quanto possono le
maligne istelle coll'avversa fortuna in noi umani! Io non avevo
parlato due volte a' mie' dí a questo pazzerellino di
questo cardinaluccio de' Gaddi; e questa sua saccenteria lui non
la fece per farmi un male al mondo, ma solo la fece per
cervellinaggine e per dappocaggine sua, mostrandosi di avere
ancora lui cura alle faccende degli uomini virtuosi che desiderava
avere il Re, sí come faceva il cardinal di Ferrara. Ma fu
tanto iscimunito da poi, che lui non mi avvisò nulla; che
certo io per non vituperare uno sciocco fantoccino, per amor della
patria, arei trovato qualche scusa per rattoppare quella sua
sciocca saccenteria. Subito aùto la lettera del
reverendissimo cardinale di Ferrara, risposi, come del cardinal
de' Gaddi io non sapevo nulla al mondo, e che se pure lui mi
avessi tentato di tal cosa, io non mi sarei mosso di Italia senza
saputa di Sua Signoria reverendissima, e maggiormente che io avevo
in Roma una maggior quantità di faccende che mai per
l'adietro io avessi aute; ma che a un motto di Sua Maestà
cristianissima, dettomi da un tanto Signore, come era Sua Signoria
reverendissima, io mi leverei subito, gittando ogni altra cosa a
traverso. Mandato le mie lettere, quel traditore del mio lavorante
perugino pensò a una malizia, la quale subito gli venne ben
fatta rispetto alla avarizia di papa Pagolo da Farnese, ma
piú del suo bastardo figliuolo, allora chiamato duca di
Castro. Questo ditto lavorante fece intendere a un di que'
segretari del signor Pierluigi ditto, che, essendo stato meco per
lavorante parecchi anni, sapeva tutte le mie faccende; per le
quale lui faceva fede al ditto signor Pierluigi, che io ero uomo
di piú di ottanta mila ducati di valsente, e che questi
dinari io gli avevo la maggior parte in gioie; le qual gioie erano
della Chiesa, e che io l'avevo rubate nel tempo del sacco di Roma
in castel Sant'Agnolo, e che vedessino di farmi pigliare subito e
segretamente. Io avevo, una mattina infra l'altre, lavorato
piú di tre ore innanzi giorno in sull'opere della sopra
ditta isposa, e in mentre che la mia bottega si apriva e spazzava,
io m'ero messo la cappa addosso per dare un poco di volta; e preso
il cammino per istrada Iulia, isboccai in sul canto della
Chiavica; dove Crespino bargello con tutto la sua sbirreria mi si
fece in contro, e mi disse: - Tu se' prigion del Papa -. Al quale
io dissi: - Crespino, tu m'hai preso in iscambio. - No - disse
Crespino - tu se' il virtuoso Benvenuto, e benissimo ti cognosco,
e ti ho a menare in castel Sant'Agnolo, dove vanno li signori e li
uomini virtuosi pari tua -. E perché quattro di quelli
caporali sua mi si gittorno addosso e con violenza mi volevan
levare una daga che io avevo a canto e certe anella che io avevo
in dito, il ditto Crespino a loro disse: - Non sia nessun di voi
che lo tocchi: basta bene che voi facciate l'uffizio vostro, che
egli non mi fugga -. Dipoi accostatomisi, con cortese parole mi
chiese l'arme. In mentre che io gli davo l'arme, mi venne
considerato che in quel luogo appunto io avevo ammazzato Pompeo.
Di quivi mi menorno in Castello, e in una camera su di sopra,
innel mastio, mi serrorno prigione. Questa fu la prima volta che
mai io gustai prigione, insino a quella mia età de'
trentasette anni.
CII. Considerato il signor Pierluigi, figliuol del Papa, la gran
quantità de' danari, che era quella di che io era accusato,
subito ne chiese grazia a quel suo padre Papa, che di questa somma
de' danari gliene facessi una donagione. Per la qual cosa il Papa
volentieri gliene concesse, e di piú gli disse che ancora
gliene aiuterebbe riscuotere: di modo che, tenutomi prigione otto
giorni interi, in capo degli otto giorni, per dar qualche termine
a questa cosa, mi mandorno a esaminare. Di che io fu' chiamato in
una di quelle sale, che sono in Castello, del Papa, luogo molto
onorato; e gli esaminatori erano il Governator di Roma, qual si
domandava messer Benedetto Conversini pistolese, che fu da poi
vescovo de Iesi; l'altro si era il Proccurator fiscale, che del
nome suo non mi ricordo; l'altro, ch'era il terzo, si era il
giudice de' malificii, qual si domandava messer Benedetto da
Cagli. Questi tre uomini mi cominciorno a esaminare, prima con
amorevole parole, da poi con asprissime e paventose parole,
causate perché io dissi loro: - Signori mia, egli è
piú d'una mezz'ora, che voi non restate di domandarmi di
favole e di cose, che veramente si può dire che voi
cicalate, o che voi favellate.<B> </B>Modo di dire,
<I>cicalare, </I>che non ha tuono, o
<I>favellare, </I>che non vol dir nulla; sí che
io vi priego che voi mi diciate quel che voi volete da me, e che
io senta uscir delle bocche vostre ragionamenti, e non favole e
cicalerie -. A queste mie parole il Governatore, ch'era pistoiese,
e non potendo piú palliare la sua arrovellata natura mi
disse: - Tu parli molto sicuramente, anzi troppo altiero; di modo
che cotesta tua alterigia io te la farò diventare
piú umile che un canino a li ragionamenti che tu mi udirai
dirti; e' quali non saranno né cicalerie né favole,
come tu di', ma saranno una proposta di ragionamenti, ai quali e'
bisognerà bene che tu ci metti del buono a dirci la ragione
di essi -. E cosí cominciò: - Noi sappiamo
certissimo che tu eri in Roma al tempo del Sacco, che fu fatto in
questa isfortunata città di Roma; e in questo tempo tu ti
trovasti in questo Castel Sant'Agnolo, e ci fusti adoperato per
bombardiere; e perché l'arte tua si è
aurifice<B> </B>e gioielliere, papa Clemente per
averti conosciuto in prima, e per non essere qui altri di cotai
professione, ti chiamò innel suo secreto e ti fece isciorre
tutte le gioie dei sua regni e mitrie e anella; e di poi fidandosi
di te, volse che tu gnene cucissi adosso: per la qual cosa tu ne
serbasti per te di nascosto da Sua Santità per il valore di
ottanta mila scudi. Questo ce l'ha detto un tuo lavorante, con il
quale tu ti se' confidato e vantatone. Ora noi ti diciamo
liberamente che tu truovi le gioie o il valore di esse gioie: di
poi ti lasceremo andare in tua libertà.
CIII. Quando io senti' queste parole io non mi possetti tenere di
non mi muovere a grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi:
- Molto ringrazio Idio, che per questa prima volta che gli
è piaciuto a Sua Maestà che io sia carcerato, pur
beato che io non son carcerato per qualche debol cosa, come il
piú delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che
voi dite fussi il vero, qui non c'è pericolo nissuno per me
che io dovessi essere gastigato da pena corporale, avendo le legge
in quel tempo perso tutte le sue autorità; dove che io mi
potria scusare, dicendo, che come ministro<B>,
</B>cotesto tesoro io lo avessi guardato per la sacra e
santa Chiesa appostolica, aspettando di rimetterlo a buon Papa, o
sí veramente da quello che e' mi fussi richiesto, quale ora
saresti voi, se la stessi cosí -. A queste parole quello
arrabbiato Governatore pistoiese non mi lasciò finir di
dire le mie ragione, che lui furiosamente disse: - Acconciala in
quel modo che tu vuoi, Benvenuto, che annoi ci basta avere
ritrovato il nostro; e fa' pur presto, se tu non vuoi che noi
facciamo altro che con parole -. E volendosi rizzare e andarsene,
io dissi loro: - Signori, io non son finito di esaminare,
sicché finite di esaminarmi, e poi andate dove a voi piace
-. Subito si rimissono assedere, assai bene in còllora,
quasi mostrando di non voler piú udire parola nissuna che
io allor dicessi, e mezzo sollevati, parendo loro di aver trovato
tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io
cominciai in questo tenore: - Sappiate, Signori, che e' sono in
circa a venti anni che io abito Roma, e mai né qui
né altrove fui carcerato -. A queste parole quel birro di
quel Governatore disse: - Tu ci hai pure ammazzati degli uomini -.
Allora io dissi: - Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per
ammazzar voi, cosí prete, voi vi difenderesti, e ammazzando
lui le sante legge ve lo comportano: sí che lasciatemi dire
le mie ragione, volendo potere riferire al Papa e volendo
giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico, ch'e' son
vicino a venti anni che io abito questa maravigliosa Roma, e in
essa ho fatto grandissime faccende della mia professione: e
perché io so che questa è la sieda di Cristo, e' mi
sarei promesso sicuramente, che se un principe temporale mi avessi
voluto fare qualche assassinamento, io sarei ricorso a questa
santa Cattedra e a questo Vicario di Cristo, che difendessi le mie
ragione. Oimè! dove ho io a 'ndare adunque? e a chi
principe che mi difenda da un tanto iscellerato assassinamento?
Non dovevi voi, prima che voi mi pigliassi, intendere dove io
giravo questi ottanta mila ducati? Ancora non dovevi voi vedere la
nota delle gioie che ha questa Camera appostolica iscritte
diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi
trovato mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri,
insieme con esso meco. Io vi fo intendere che e' libri, dove sono
iscritte tutte le gioie del Papa e de' regni, sono tutti in
piè, e non troverrete manco nulla di quello che aveva papa
Clemente, che non sia iscritto diligentemente. Solo potria essere,
che quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare
con quei ladroni di quelli imperiali, che gli avevano rubato Roma
e vituperata la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che
si domandava Cesare Iscatinaro, se ben mi ricordo; il quale,
avendo quasi che concluso l'accordo con quello assassinato Papa,
per fargli un poco di carezze, si lasciò cadere di dito un
diamante, che valeva in circa quattromila scudi: e perché
il ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo, il Papa gli disse
che lo tenessi per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi
trovai in fatto: e se questo ditto diamante vi fussi manco, io vi
dico dove gli è ito; ma io penso sicurissimamente che
ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta vi
potrete vergognare di avere assassinato un par mio, che ho fatto
tante onorate imprese per questa Sieda appostolica. Sappiate che
se io non ero io, la mattina che gli imperiali entrorno in Borgo,
sanza impedimento nessuno entravano in Castello; e io, sanza esser
premiato per quel conto, mi gittai vigorosamente alle artiglierie,
che i bombardieri e' soldati di munizione avevano abbandonato, e
messi animo a un mio compagnuzzo, che si domandava Raffaello da
Montelupo, iscultore, che ancora lui abbandonato s'era messo innun
canto tutto ispaventato, e non facendo nulla: io lo risvegliai; e
lui e io soli amazzammo tanti de' nemici, che i soldati presono
altra via. Io fui quello che detti una archibusata allo Scatinaro,
per vederlo parlare con papa Clemente sanza una reverenza, ma con
ischerno bruttissimo, come luteriano e impio che gli era. Papa
Clemente a questo fece cercare in Castello chi quel tale fussi
stato per impiccarlo. Io fui quello che ferí il principe
d'Orangio d'una archibusata nella testa, qui sotto le trincee del
castello. Appresso ho fatto alla santa Chiesa tanti ornamenti
d'argento, d'oro e di gioie, tante medaglie e monete sí
belle e sí onorate. È questa adunche la temeraria
pretesca remunerazione, che si usa a uno uomo che vi ha con tanta
fede e con tanta virtú servito e amato? O andate a ridire
tutto quanto io v'ho detto al Papa, dicendogli, che le sue gioie
e' l'ha tutte, e che io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che
certe ferite e sassate in cotesto tempo del Sacco; e che io non
facevo capitale d'altro che di un poco di remunerazione da papa
Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro e di Sua
Santità e di voi ministri -. Mentre che io dicevo queste
parole egli stavano attoniti a udirmi; e guardandosi in viso l'un
l'altro, in atto di maraviglia si partirno da me. Andorno tutti a
tre d'accordo a riferire al Papa tutto quello che io avevo detto.
Il Papa, vergognandosi, commesse con grandissima diligenza che si
dovessi rivedere tutti e' conti delle gioie. Di poi che ebbon
veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello senza
dir altro: il signor Pierluigi, ancora allui parendogli aver mal
fatto, cercavon con diligenza di farmi morire.
CIV. In questo poco de l'agitazion del tempo il re Francesco aveva
di già inteso minutamente come il Papa mi teneva prigione e
a cosí gran torto: avendo mandato per imbasciadore al Papa
un certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignor di
Morluc, iscrisse a questo che mi domandasse al Papa, come uomo di
Sua Maestà. Il Papa, che era valentissimo e maraviglioso
uomo, ma in questa cosa mia si portò come da poco e
sciocco, e' rispose al ditto nunzio del Re, che Sua Maestà
non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso
con l'arme, e per questo faceva avvertito Sua Maestà che mi
lasciassi stare, perché lui mi teneva prigione per omicidii
e per altre mie diavolerie cosí fatte. Il Re di nuovo
rispose, che innel suo regno si teneva bonissima iustizia; e
sí come Sua Maestà premiava e favoriva
maravigliosamente gli uomini virtuosi, cosí per il
contrario gastigava i fastidiosi; e perché Sua
Santità mi avea lasciato andare, non si curando del
servizio di detto Benvenuto, e vedendolo innel suo regno
volentieri l'aveva preso al suo servizio; e come uomo suo lo
domandava. Queste cose mi furno di grandissima noia e danno, con
tutto che e' fussino e' piú onorati favori che si possa
desiderare per un mio pari. Il Papa era venuto in tanto furore per
la gelosia che gli aveva che io non andassi a dire quella
iscellerata ribalderia usatami, che e' pensava tutti e' modi che
poteva con suo onore di farmi morire. Il Castellano di Castel
Sant'Agnolo si era un nostro fiorentino, il quale si domandava
messer Giorgio cavaliere, degli Ugolini. Questo uomo da bene mi
usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo,
lasciandomi andare libero per il Castello a fede mia sola; e
perché gl'intendeva il gran torto che m'era fatto,
volendogli io dare sicurtà per andarmi a spasso per il
Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il
Papa istimava troppo questa cosa mia; ma che si fiderebbe
liberamente della fede mia, perché da ugniuno intendeva
quanto io ero uomo da bene: e io gli detti la fede mia, e
cosí lui mi dette comodità che io potessi
lavoracchiare qualche cosa. A questo, pensando che questa
indegnazione del Papa, sí per la mia innocenzia, ancora per
i favori del Re, si dovessi terminare, tenendo pure la mia bottega
aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami alcune
cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare,
vedendomi a quel modo carcerato a cosí gran torto; pure
facevo della necessità virtú: lietamente il meglio
che io potevo mi comportavo questa mia perversa fortuna. Avevomi
fatto amicissimi tutte quelle guardie e molti soldati del
Castello. E perché il Papa veniva qualche volta a cena in
Castello, e in questo tempo che c'era il Papa il Castello non
teneva guardie, ma stava liberamente aperto come un palazzo
ordinario; e perché in questo tempo che il Papa stava
cosí, tutti e' prigioni si usavono con maggior diligenza
riserrare; onde a me non era fatto nessuna di queste cotal cose,
ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il
Castello; e piú volte alcuni di quei soldati mi
consigliavano che io mi dovessi fuggire, e che loro mi arieno
fatte spalle,<B> </B>conosciuto il gran torto che
m'era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede mia
al Castellano, il quale era uomo tanto dabbene, e che mi aveva
fatto cosí gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e
molto ingegnoso; e' mi diceva: - Benvenuto mio, sappi che chi
è prigione non è ubrigato<B>
</B>né si può ubrigare a osservar fede,
sí come nessuna altra cosa; fa' quel che io ti dico;
fúggiti da questo ribaldo di questo Papa e da questo
bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo -.
Io che m'ero proposto piú volentieri perder la vita, che
mancare a quello uomo da bene del Castellano della mia promessa
fede, mi comportavo questo inistimabil dispiacere, insieme con un
frate di casa Palavisina grandissimo predicatore.
CV. Questo era preso per luteriano: era bonissimo domestico
compagno, ma quanto a frate egli era il maggior ribaldo che fussi
al mondo, e s'accomodava a tutte le sorte de' vizii. Le belle
virtú sua io le ammiravo, e' brutti vizii sua grandemente
aborrivo, e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva
mai altro che ricordarmi come io non ero ubrigato a osservar fede
al Castellano, per esser io in prigione. Alla qual cosa io
rispondevo, che sí bene come frate lui diceva il vero, ma
come uomo e' non diceva il vero, perché un che fussi uomo e
non frate, aveva da osservare la fede sua in ogni sorte
d'accidente, in che lui si fussi trovato: però io che ero
uomo e non frate, non ero mai per mancare di quella mia simplice e
virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette ottenere il
conrompermi per via delle sue argutissime e virtuose ragioni tanto
maravigliosamente dette dallui, pensò tentarmi per un'altra
via; e lasciato cosí passare di molti giorni, in mentre mi
leggeva le prediche di fra Ierolimo Savonarolo, e' dava loro un
comento tanto mirabile, che era piú bello che esse
prediche; per il quale io restavo invaghito, e non saria stata
cosa al mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della
fede mia in fuora, sí come io ho detto. Vedutomi il frate
istupito delle virtú sue, pensò un'altra via; che
con un bel modo mi cominciò a domandare che via io arei
tenuto se e' mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino
riserrato, a aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io,
volendo mostrare qualche sottigliezza di mio ingegno a questo
virtuoso frate, gli dissi, che ogni serratura difficilissima io
sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di quelle prigione, le
quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio fresco. Il
ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva, dicendo
che le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti
in qualche credito di persone ingegnose; che se gli avessino poi a
mettere in opera le cose di che loro si vantavano, perderebbon
tanto di credito, che guai a loro: però sentiva dire a me
cose tanto discoste al vero, che se io ne fossi ricerco,
penserebbe ch'io n'uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io
pugnere da questo diavolo di questo frate, gli dissi che io osavo
sempre prometter di me con parole molto manco di quello che io
sapevo fare, e che cotesta cosa, che io avevo promessa, delle
chiave, era la piú debole; e con breve parole io lo farei
capacissimo che l'era sí come io dicevo; e
inconsideratamente, sí come io dissi, gli mostrai con
facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate, facendo
vista di non se ne curare, subito benissimo apprese
ingegnosissimamente il tutto. E sí come di sopra io ho
detto, quello uomo da bene del Castellano mi lasciava andare
liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi
serrava, sí come attutti gli altri e' faceva; ancora mi
lasciava lavorare di tutto quello che io volevo, sí d'oro e
d'argento e di cera; e se bene io avevo lavorato parecchi
settimane in un certo bacino che io facevo al cardinal di Ferrara,
trovandomi affastidito dalla prigione, m'era venuto annoia il
lavorare quelle tale opere; e solo mi lavoravo, per manco
dispiacere, di cera alcune mie figurette: la qual cera<B>
</B>il detto frate me ne buscò un pezzo, e con detto
pezzo messe in opera quel modo delle chiave, che io
inconsideratamente gli avevo insegnato. Avevasi preso per compagno
e per aiuto un cancelliere che stava col ditto Castellano. Questo
cancelliere si domandava Luigi, ed era padovano. Volendo far fare
le ditte chiave, il magnano li scoperse; e perché il
Castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia stanza, e
vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la
ditta cera e disse: - Se bene a questo povero uomo di Benvenuto
è fatto un de' maggior torti che si facessi mai, meco non
dovev'egli far queste tale operazione, che gli facevo quel piacere
che io non potevo fargli. Ora io lo terrò istrettissimo
serrato e non gli farò mai piú un piacere al mondo
-. Cosí mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza,
massimo di parole dittemi da certi sua affezionati servitori, e'
quali mi volevano bene oltramodo, e ora per ora mi dicevano tutte
le buone opere che faceva per me questo signor Castellano;
talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo ingrato, vano
e sanza fede. E perché un di quelli servitori piú
aldacemente che non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie,
onde io sentendomi innocente, arditamente risposi, dicendo che mai
io non mancai di fede, e che tal parole io terrei a sostenere con
virtú della vita mia, e che se piú e' mi diceva o
lui o altri tale ingiuste parole, io direi che ogniuno che tal
cosa dicessi, se ne mentirebbe per la gola. Non possendo
sopportare la ingiuria, corse in camera del Castellano e portommi
la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io viddi la
cera, io gli dissi che lui e io avevamo ragione; ma che mi facessi
parlare al signor Castellano perché io gli direi
liberamente il caso come gli stava, il quale era di molto
piú importanza che loro non pensavano. Subito il Castellano
mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguito; per la qual
cosa lui ristrinse il frate, il quale iscoperse quel cancelliere,
che fu per essere impiccato. Il detto Castellano quietò la
cosa, la quale era di già venuta agli orecchi del Papa;
campò il suo cancelliere dalle forche, e me allargò
innel medesimo modo che io mi stavo in prima.
CVI. Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore,
cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo: - Se un'altra volta
venissi un di questi furori, e che questo uomo non si fidassi di
me, io non gli verrei a essere piú ubbrigato, e vorrei
adoperare un poco li mia ingegni, li quali io sono certo che mi
riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio - e cominciai a
farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le
rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si
stessin cheti, perché io l'avevo donate a certi di quei
poveri soldati; che se tal cosa si sapessi, quelli poveretti
portavano pericolo della galera: di modo che li mia giovani e
servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa
benissimo segreto, le ditte lenzuola. Io attendevo a votare un
pagliericcio, e ardevo la paglia, perché nella mia prigione
v'era un cammino da poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola
e farne fascie larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto
quella quantità che mi pareva che fussi a bastanza a
discendere da quella grande altura di quel mastio di castel
Sant'Agnolo, io dissi ai miei servitori, che avevo donato quelle
che io volevo, e che m'attendessino a portare delle sottile, e che
sempre io renderei loro le sudice. Questa tal cosa si
dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori il cardinale
Santiquattro e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi
liberamente, che il Papa non voleva intender nulla di lasciarmi
andare, e che quei gran favori del Re mi avevano molto piú
nociuto che giovato; perché l'ultime parole che aveva dette
monsignor di Morluc da parte del Re, si erano istate che monsigno'
di Morluc disse al Papa che mi dovessi dare in mano a' giudici
ordinari della corte; e che, se io avevo errato, mi poteva
gastigare, ma non avendo errato, la ragion voleva che lui mi
lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto fastidio al
Papa, che aveva voglia di non mi lasciare mai piú. Questo
Castellano certissimamente mi aiutava quanto e' poteva. Veduto in
questo tempo quelli nimici mia che la mia bottega s'era serrata,
con ischerno dicevano ogni dí qualche parola ingiuriosa a
quelli mia servitori e amici, che mi venivano a visitare alla
prigione. Accadde un giorno in fra gli altri che Ascanio, il quale
ogni dí veniva dua volte da me, mi richiese che io gli
facessi una certa vestetta per sé d'una mia vesta azzurra
di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito quella
volta, che con essa andai in processione: però io gli dissi
che quelli non eran tempi, né io in luogo da portare cotai
veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa
meschina vesta, che lui mi disse che se ne voleva andare a
Tagliacozze a casa sua. Io tutto appassionato gli dissi, che mi
faceva piacere e levarmisi dinanzi; e lui giurò con
grandissima passione di non mai piú capitarmi innanzi.
Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio
del Castello. Avvenne che il Castellano ancora lui passeggiava:
incontrandoci appunto in Sua Signoria, e Ascanio disse: - Io me ne
vo, e addio per sempre -. A questo io dissi: - E per sempre voglio
che sia, e cosí sia il vero: io commetterò alle
guardie che mai piú ti lascin passare - e voltomi al
Castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle
guardie che non lasciassino mai piú passare Ascanio,
dicendo a Sua Signoria: - Questo villanello mi viene a crescere
male al mio gran male; sí che io vi priego, Signor mio, che
mai piú voi lasciate entrar costui -. Il Castellano li
incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso
ingegno: a presso a questo egli era di tanta bella forma di corpo,
che pareva che ogniuno, vedutolo una sol volta, gli fossi
espressamente affezionato. Il ditto giovane se ne andava
lacrimando, e portavane una sua stortetta, che alcune volte lui
segretamente si portava sotto. Uscendo del Castello e avendo il
viso cosí lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia
maggior nimici, che l'uno era quel Ieronimo perugino sopra ditto,
e l'altro era un certo Michele, orefici tutt'a dua. Questo
Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e
nimico d'Ascanio, disse: - Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse
gli è morto il padre? dico quel padre di Castello -.
Ascanio disse a questo: - Lui è vivo, ma tu sarai or morto
- e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua
colpi, in sul capo tutt'a dua, che col primo lo misse in terra, e
col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta,
dandogli pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito
fu riferito al Papa; e il Papa in gran còllora disse queste
parole: - Da poi che il Re vuole che sia giudicato, andategli a
dare tre dí di tempo per difendere la sua ragione -. Subito
vennono, e feciono il detto uflizio che aveva lor commesso il
Papa. Quello uomo da bene del Castellano subito andò dal
Papa, e fecelo chiaro come io non ero consapevole di tal cosa, e
che io l'avevo cacciato via. Tanto mirabilmente mi difese, che mi
campò la vita da quel gran furore. Ascanio se ne
fuggí a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse
chiedendomi mille volte perdonanza, che cognosceva avere auto
torto a aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali; ma se Dio mi dava
grazia che io uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai
piú abbandonare. Io gli feci intendere che attendessi a
'mparare, e che se Dio mi dava libertà, io lo chiamerei a
ogni modo.
CVII. Questo Castellano aveva ogni anno certe infermità che
lo traevano del cervello a fatto; e quando questa cosa gli
cominciava a venire, e' parlava assai: modo che cicalare; e questi
umori sua erano ogni anno diversi, perché una volta gli
parve essere uno orcio da olio; un'altra volta gli parve essere un
ranocchio, e saltava come il ranocchio; un'altra volta gli parve
esser morto, e bisognò sotterrarlo: cosí ogni anno
veniva in qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si
cominciò a immaginare d'essere un pipistrello e, in mentre
che gli andava a spasso, istrideva qualche volta cosí
sordamente come fanno i pipistrelli; ancora dava un po' d'atto
alle mane e al corpo, come se volare avessi voluto. Li medici sua,
che se ne erano avveduti, cosí li sua servitori vecchi, li
davano tutti i piaceri che immaginar potevano: e perché e'
pareva loro che pigliassi gran piacere di sentirmi ragionare, a
ogni poco e' venivano per me e menavanmi da lui. Per la qual cosa
questo povero uomo talvolta mi tenne quattro e cinque ore intere,
che mai avevo restato di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua
a mangiare al dirimpetto a sé, e mai restava di ragionare o
di farmi ragionare; ma io in quei ragionamenti mangiavo pure assai
bene. Lui, povero uomo, non mangiava e non dormiva, di modo che me
aveva istracco, che io non potevo piú; e guardandolo alcune
volte in viso, vedevo che le luce degli occhi erano ispaventate,
perché una guardava innun verso, e l'altra in un altro. Mi
cominciò a domandare se io avevo mai aùto fantasia
di volare: al quale io dissi, che tutte quelle cose che piú
difficile agli uomini erano state, io piú volentieri avevo
cerco di fare e fatte; e questa del volare, per avermi presentato
lo Idio della natura un corpo molto atto e disposto a correre e a
saltare molto piú che ordinario, con quel poco dello
ingegno poi, che manualmente io adopererei, a me dava il cuore di
volare al sicuro. Questo uomo mi cominciò a dimandare che
modi io terrei: al quale io dissi che, considerato gli animali che
volano, volendogl'imitare con l'arte quello che loro avevano dalla
natura, non c'era nissuno che si potessi imitare, se none il
pipistrello. Come questo povero uomo sentí quel nome di
pipistrello, che era l'umore in quel che peccava quel anno, messe
una voce grandissima, dicendo: - E' dice il vero, e' dice il vero;
questa è essa, questa è essa - e poi si volse a me e
dissemi: - Benvenuto, chi ti dessi le comodità, e' ti
darebbe pure il cuore di volare? - Al quale io dissi, che se lui
mi voleva dar libertà da poi, che mi bastava la vista di
volare insino in Prati, faccendomi un paio d'alie di tela di rensa
incerate. Allora e' disse: - E anche a me ne basterebbe la vista;
ma perché il Papa m'ha comandato che io tenga cura di te
come degli occhi suoi; io cognosco che tu sei un diavolo ingegnoso
che ti fuggiresti; però io ti vo' fare rinchiudere con
cento chiave, acciò che tu non mi fugga -. Io mi messi a
pregarlo, ricordandogli che io m'ero potuto fuggire e, per amor
della fede che io gli avevo data, io non gli arei mai mancato;
però lo pregavo per l'amor de Dio, e per tanti piaceri
quanti mi aveva fatto, che lui non volessi arrogere un maggior
male al gran male che io avevo. In mentre che io gli dicevo queste
parole, lui comandava espressamente che mi legassimo, e che mi
menassimo in prigione serrato bene. Quando io viddi che non v'era
altro rimedio, io gli dissi, presenti tutti e' sua: - Serratemi
bene e guardatemi bene, perché io mi fuggirò a ogni
modo -. Cosí mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa
diligenza.
CVIII. Allora io cominciai a pensate il modo che io avevo a tenere
a fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come
stava la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato
sicuramente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io
dovevo iscendere da quella grande altezza di quel mastio,
ché cosí si domandava quel alto torrione: e preso
quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo
fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando quanto vilume
mi bastava a potere iscendere. Giudicato quello che mi potria
servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di tanaglie,
che io avevo tolto a un Savoino il quale era delle guardie del
Castello. Questo aveva cura alle botte e alle citerne; ancora si
dilettava di lavorare di legname; e perché aveva parecchi
paia di tanaglie, infra queste ve n'era un paio molto grosse e
grande: pensando che le fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le
nascosi drento in quel pagliericcio. Venuto poi il tempo che io me
ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare di quei chiodi
che sostenevano le bandelle; e perché l'uscio era doppio,
la ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere; di modo che
provatomi a cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi
alla fine mi riuscí. Cavato che io ebbi questo primo
chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro non
se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di
rastiatura di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del
medesimo colore appunto di quelli cappelli d'aguti che io avevo
cavati; e con essa cera diligentemente cominciai a contrafare quei
capei d'aguti in sulle lor bandelle: e di mano in mano tanti
quanti io ne cavavo, tanti ne contrafacevo di cera. Lasciai le
bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi
delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo
rimessi; ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che
e' mi tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima
difficultà, perché il Castellano sognava ogni notte
che io m'ero fuggito, e però lui mandava a vedere di ora in
ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti
di birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un
altro, che si domandava Giovanni, per sopranome Pedignone; questo
era soldato, e 'l Bozza era servitore. Questo Giovanni non veniva
mai volta a quella mia prigione, che lui non mi dicessi qualche
ingiuria. Costui era di quel di Prato ed era stato in Prato allo
speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e
tutta la prigione, e io gli dicevo: - Guardatemi bene,
perché io mi voglio fuggire a ogni modo -. Queste parole
feciono generare una nimicizia grandissima infra lui e me; in modo
che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se
dire<B> </B>tanaglie, e un pugnale assai ben grande e
altre cose appartenente,<B> </B>diligentemente tutti
riponevo innel mio pagliericcio; cosí quelle fascie che io
avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio; e come
gli era giorno, subito da me ispazzavo: e se bene per natura io mi
diletto della pulitezza, allora io stavo pulitissimo. Ispazzato
che io avevo, io rifacevo il mio letto tanto gentilmente e con
alcuni fiori, che quasi ogni mattina io mi facevo portare da un
certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle
botte; e anche si dilettava di lavorar di legname; e a lui io
rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste
bandelle.
CIX. Per tornare al mio letto, quando il Bozza e il Pedignione
venivano, mai dicevo loro altro, se non che stessin discosto dal
mio letto, acciò che e' non me lo inbrattassino e non me lo
guastassino; dicendo loro, per qualche occasione che pure per
ischerno qualche volta che cosí leggermente mi toccavano un
poco il letto, per che io dicevo: - Ah i sudici poltroni! io
metterò mano a una di coteste vostre spade, e farovvi tal
dispiacere, che io vi farò maravigliare. Parv'egli esser
degni di toccare il letto d'un mio pari? A questo io non
arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che
io vi torrò la vostra; sí che lasciatemi stare colli
mia dispiaceri e colle mia tribulazione, e non mi date piú
affanno di quello che io mi abbia; se non che io vi farò
vedere che cosa sa fare un disperato -. Queste parole costoro le
ridissono al Castellano, il quale comandò loro
ispressamente che mai non s'accostassino a quel mio letto, e che,
quando e' venivano da me, venissino sanza spade, e che m'avessino
benissimo cura del resto. Essendomi io assicurato del letto, mi
parve aver fatto ogni cosa: perché quivi era la importanza
di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra l'altre,
sentendosi il Castellano molto mal disposto e quelli sua omori
cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che
se lor sentissino che Benvenuto fossi volato via, lasciassino
andar lui, che mi raggiugnerebbe, poiché e' volerebbe di
notte ancora lui certamente piú forte di me, dicendo: -
Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io sono un
pipistrello dadovero; e perché e' m'è stato dato in
guardia, lasciate pur fare a me, che io lo giugnerò ben io
-. Essendo stato piú notti in questo umore, gli aveva
stracco tutti i sua servitori; e io per diverse vie intendevo ogni
cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi
questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima
divotissimamente a Dio feci orazione, pregando Sua divina
Maestà, che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanta
pericolosa inpresa; di poi messi mano a tutte le cose che io
volevo operare, e lavorai tutta quella notte. Come io fu' a dua
ore innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima
fatica, perché il battente del legno della porta, e anche
il chiavistello facevano un contrasto, il perché io non
potevo aprire: ebbi a smozzicare il legno; pure alla fine io
apersi, e messomi adosso quelle fascie, quale io avevo avvolte a
modo di fusi di accia in su dua legnetti, uscito fuora, me ne
andai dalli destri del mastio; e scoperto per di drento dua tegoli
del tetto, subito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in
giubbone bianco e un paio di calze bianche e simile un paio di
borzachini, inne' quali avevo misso quel mio pugnalotto già
ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fascie e l'accomandai a
un pezzo di tegola antica ch'era murata innel ditto mastio: a caso
questa usciva fuori a pena quattro dita. Era la fascia acconcia a
modo d'una staffa. Appiccata che io l'ebbi a quel pezzo della
tegola, voltomi a Dio, dissi: - Signore Idio, aiuta la mia
ragione, perché io l'ho,<B> </B>come tu sai, e
perché io mi aiuto -. Lasciatomi andare pian piano,
sostenendomi per forza di braccia, arrivai in sino in terra. Non
era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui in terra,
guardai la grande altezza che io avevo isceso cosí
animosamente, e lieto me ne andai via, pensando d'essere isciolto.
Per la qual cosa non fu vero, perché il Castellano da
quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti, e se ne
serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con
grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io non potevo uscir
di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. In mentre che io andavo
innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti dei piedi in una
gran pertica, la quale era coperta dalla paglia. Questa con gran
difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di braccia
la salsi<B> </B>insino in cima del muro. E
perché quel muro era tagliente, io non potevo aver forza da
tirar sú la ditta pertica; però mi risolsi a
'piccare un pezzo di quelle fascie, che era l'altro fuso,
perché uno de' dua fusi io l'avevo lasciato attaccato al
mastio del Castello: cosí presi un pezzo di quest'altra
fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente, iscesi questo
muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto
istracco, e di piú avevo iscorticato le mane per di drento,
che sanguinavano; per la qual cosa io m'ero messo a riposare, e mi
avevo bagnato le mane con la mia orina medesima. Stando
cosí, quando e' mi parve che le mie forze fussino
ritornate, salsi all'ultimo procinto<B> </B>delle
mura, che guarda in verso Prati; e avendo posato quel mio fuso di
fascie, col quale io volevo abbracciare un merlo, e in quel modo
che io avevo fatto innella maggior altezza, fare in questa minore;
avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse adosso
una di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto impedito
il mio disegno, e vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di
affrontare quella guardia; la quale, veduto l'animo mio diliberato
e che andavo alla volta sua con armata mano, sollecitava il passo,
mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle mie fascie,
prestissimo mi rivolsi indietro; e se bene io viddi un'altra
guardia, tal volta quella non volse veder me. Giunto alle mie
fascie, legatole al merlo, mi lasciai andare; per la qual cosa, o
sí veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto
le mane per saltare, o pure erano le mane istracche, non possendo
resistere a quella fatica, io caddi, e in questo cader mio
percossi la memoria e stetti isvenuto piú d'un'ora e mezzo,
per quanto io posso giudicare. Di poi, volendosi far chiaro il
giorno, quel poco del fresco che viene un'ora innanzi al sole,
quello mi fece risentire; ma sí bene stavo ancora fuor
della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato
il capo, e mi pareva d'essere innel purgatorio. Stando
cosí, a poco a poco mi ritornorno le virtú
innell'esser loro, e m'avviddi che io ero fuora del Castello, e
subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E
perché la percossa della memoria io la senti' prima che io
m'avvedessi della rottura della gamba, mettendomi le mane al capo
ne le levai tutte sanguinose: di poi cercatomi bene, cognobbi e
giudicai di non aver male che d'importanza fussi; però,
volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta
sopra il tallone tre dita. Né anche questo mi
sbigottí: cavai il mio pugnalotto insieme con la guaina;
che per avere questo un puntale con una pallottola assai grossa in
cima del puntale, questo era stato la causa dell'avermi rotto la
gamba; perché contrastando l'ossa con quella grossezza di
quella pallottola, non possendo l'ossa piegarsi, fu causa che in
quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero del
pugnale, e con il pugnale tagliai un pezzo di quella fascia che
m'era avanzata, e il meglio che io possetti rimissi la gamba
insieme, di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo
inverso la porta. Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai
chiusa; e veduto una certa pietra sotto la porta a punto, la
quale, giudicando che la non fussi molto forte, mi provai a
scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare, quella
facilmente mi ubbidí, e trassila fuora; e per
quivi<B> </B>entrai.
CX. Era stato piú di cinquecento passi andanti da il luogo
dove io caddi alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento
in Roma, certi cani maschini mi si gittorno addosso e malamente mi
morsono; ai quali, rimettendosi piú volte a fragellarmi, io
tirai con quel mio pugnale e ne punsi uno tanto gagliardamente,
che quello guaiva forte, di modo che gli altri cani, come è
lor natura, corsono a quel cane: e io sollecitai andandomene
inverso la chiesa della Trespontina cosí carpone. Quando io
fui arrivato alla bocca della strada che volta in verso
Sant'Agnolo, di quivi presi il cammino per andarmene alla volta di
San Piero, per modo che faccendomisi dí chiaro addosso,
considerai che io portavo pericolo; e scontrato uno acqueruolo che
aveva carico il suo asino e pieno le sue coppelle d'acqua,
chiamatolo a me, lo pregai che lui mi levassi di peso e mi
portassi in su il rialto delle scalee di San Piero, dicendogli: -
Io sono un povero giovane, che per casi d'amore sono voluto
iscendere da una finestra; cosí son caduto, e rottomi una
gamba. E perché il luogo dove io sono uscito è di
grande importanza, e porterei pericolo di non essere tagliato a
pezzi, però ti priego che tu mi lievi presto, e io ti
donerò uno scudo d'oro - e messi mano alla mia borsa, dove
io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese,
e volentieri me si misse a dosso, e portommi in sul ditto rialto
delle scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e dissi che
correndo ritornassi al suo asino. Subito presi il cammino
cosí carpone, e me andavo in casa la Duchessa<B>,
</B>moglie del duca Ottavio e figliuola dello Imperadore,
naturale, non legittima, istata moglie del duca Lessandro, duca di
Firenze; e perché io sapevo certissimo che appresso a
questa gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa
eran venuti di Firenze; ancora perché lei ne aveva fatto
favore mediante il Castellano; che volendomi aiutare<B>
</B>disse al Papa, quando la Duchessa fece l'entrata in
Roma, che io fu' causa di salvare per piú di mille scudi di
danno, che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa
lui<B> </B>disse ch'era disperato, e che io gli messi
cuore, e disse come io avevo acconcio parecchi pezzi grossi di
artiglieria inverso quella parte dove i nugoli erano piú
istretti, e di già cominciati a piovere un'acqua
grossissima; per la qual cosa cominciato a sparare queste
artiglierie si fermò la pioggia,<B> </B>e alle
quattro volte si mostrò il sole; e che io ero stato intera
causa che quella festa era passata benissimo; per la qual cosa,
quando la Duchessa lo intese, aveva ditto: - Quel Benvenuto
è un di quei virtuosi che stavano con la buona memoria del
duca Lessandro mio marito, e sempre io ne terrò conto di
quei tali, venendo la occasione di far loro piacere - e ancora
aveva parlato di me al duca Ottavio suo marito. Per queste cause
io me ne andavo diritto a casa di Sua Eccellenzia, la quale istava
in Borgo Vecchio in un bellissimo palazzo che v'è; quivi io
sarei stato sicurissimo che il Papa non m'arebbe tocco; ma
perché la cosa che io avevo fatta insin quivi era istata
troppo maravigliosa a un corpo umano, non volendo Idio che io
entrassi in tanta vanagloria, per il mio meglio mi volse dare
ancora una maggior disciplina,<B> </B>che non era
istata la passata; e la causa si fu, che in mentre che io me ne
andavo cosí carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe
subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual
cardinale era alloggiato in Palazzo. Questo servitore corse alla
camera del Cardinale, e isvegliatolo, disse: - Monsignor
reverendissimo, gli è giú il vostro Benvenuto, il
quale s'è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto
sanguinoso: per quanto e' mostra, gli ha rotto una gamba, e non
sappiamo dove lui si vada -. Il Cardinale disse subito: - Correte,
e portatemelo di peso qui in camera mia -. Giunto a lui, mi disse
che io non dubitassi di nulla; e subito mandò per i primi
medici di Roma; e da quelli io fui medicato: e questo fu un
maestro Iacomo da Perugia, molto eccellentissimo cerusico. Questo
mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi fasciommi, e di sua mano
mi cavò sangue; che essendomi gonfiato le vene molto
piú che l'ordinario, ancora perché lui volse fare la
ferita alquanto aperta, uscí sí grande il furor di
sangue, che gli dette nel viso, e di tanta abbundanzia lo coperse,
che lui non si poteva prevalere a medicarmi:<B> </B>e
avendo preso questa cosa per molto male aúrio, con gran
difficoltà mi medicava; e piú volte mi volse
lasciare, ricordandosi che ancora a lui ne andava non poca pena a
avermi medicato o pure finito di medicarmi. Il Cardinale mi fece
mettere in una camera segreta, e subito andatosene a Palazzo con
intenzione di chiedermi al Papa.
CXI. In questo mezzo s'era levato un romore grandissimo in Roma:
che di già s'era vedute le fascie attaccate al gran
torrione del mastio di Castello, e tutta Roma correva a vedere
questa inistimabil cosa. Intanto il Castellano era venuto inne'
sua maggiori umori della pazzia, e voleva a forza<B>
</B>di tutti e' sua servitori volare ancora lui da quel
mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui, con
il volarmi drieto. In questo messer Roberto Pucci, padre di messer
Pandolfo, avendo inteso questa gran cosa, andò in persona
per vederla; di poi se ne venne a Palazzo, dove si incontrò
nel cardinal Cornaro, il quale disse tutto il seguíto, e
sí come io ero in una delle sue camere di già
medicato. Questi dua uomini da bene d'accordo si andorno a gittare
inginocchioni dinanzi al Papa, il quale, innanzi che e' lasciassi
lor dir nulla, lui disse: - Io so tutto quel che voi volete da me
-. Messer Roberto Pucci disse: - Beatissimo Padre, noi vi
domandiamo per grazia quel povero uomo, che per le virtú
sue merita avergli qualche discrezione, e appresso a quelle, gli
ha mostro una tanta bravuria insieme con tanto ingegno, che non
è parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual peccati
Vostra Santità l'ha tenuto tanto in prigione; però,
se quei peccati fussino troppo disorbitanti, Vostra Santità
è santa e savia, e facciane alto e basso la voluntà
sua; ma se le son cose da potersi concedere, la preghiamo che a
noi ne faccia grazia -. Il Papa a questo vergognandosi disse che
m'aveva tenuto in prigione a riquisizione di certi sua - per
essere lui un poco troppo ardito; ma che cognosciuto le
virtú sue e volendocelo tenere appresso a di noi, avevamo
ordinato di dargli tanto bene, che lui non avessi aùto
causa di ritornare in Francia. Assai m'incresce del suo gran male;
ditegli che attenda a guarire; e de' sua affanni, guarito che e'
sarà, noi lo ristoreremo -. Venne questi dua omaccioni, e
dettonmi questa buona nuova da parte del Papa. In questo mezzo mi
venne a visitare la nobiltà di Roma, e giovani e vecchi e
d'ogni sorte. Il Castellano, cosí fuor di sé, si
fece portare al Papa; e quando fu dinanzi a Sua Santità
cominciò a gridare dicendo, che se lui non me gli rendeva
in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: - E'
m'è fuggito sotto la fede che m'aveva data; oimè,
che e' m'è volato via, e mi promesse di non volar via! - Il
Papa ridendo disse: - Andate, andate, che io ve lo renderò
a ogni modo -. Aggiunse il Castellano, dicendo al Papa: - Mandate
a lui il Governatore, il quale intenda chi l'ha aiutato fuggire,
perché se gli è de' mia uomini, io lo voglio
impiccare per la gola a quel merlo dove Benvenuto è fuggito
-. Partito il Castellano, il Papa chiamò il Governatore
sorridendo, e disse: - Questo è un bravo uomo, e questa
è una maravigliosa cosa; con tutto che, quando io ero
giovane, ancora io iscesi di quel luogo proprio -. A questo il
Papa diceva il vero, perché gli era stato prigione in
Castello per avere falsificato un breve, essendo lui abbreviatore
di Parco Maioris: papa Lessandro l'aveva tenuto prigione assai; di
poi, per esser la cosa troppo brutta, si era risoluto tagliargli
il capo; ma volendo passare le feste del <I>Corpus
Domini</I>, sapendo il tutto il Farnese, fece venire Pietro
Chiavelluzzi con parecchi cavalli, e in Castello corroppe con
danari certe di quelle guardie; di modo che il giorno del
<I>Corpus Domini</I>, in mentre che il Papa era in
processione, Farnese fu messo in un corbello e con una corda fu
collato<B></B>insino a terra. Non era ancor fatto il
procinto delle mura al Castello, ma era solamente il torrione, di
modo che lui non ebbe quelle gran difficultà a fuggirne,
sí come ebbi io: ancora, lui era preso a ragione e io a
torto. Basta, ch'e' si volse vantare col Governatore d'essere
istato ancora lui nella sua giovanezza animoso e bravo, e non
s'avvedde che gli scopriva le sue gran ribalderie. Disse: - Andate
e ditegli liberamente vi dica chi gli ha aiutato: cosí sie
stato chi e' vuole, basta che allui è perdonato, e
prometteteglielo liberamente voi.
CXII.<B> </B>Venne a me questo Governatore, il quale
era stato fatto di dua giorni innanzi vescovo de Iesi: giunto a
me, mi disse: - Benvenuto mio, se bene il mio uffizio è
quello che spaventa gli uomini, io vengo a te per assicurarti; e
cosí ho autorità di prometterti per commessione
espressa di Sua Santità, il quale m'ha ditto che anche lui
ne fuggí, ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia,
ché altrimenti non l'aria potuto fare. Io ti giuro per i
Sacramenti che io ho addosso - che son fatto Vescovo da dua
dí in qua - che il Papa t'ha libero e perdonato, e gli
rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire, e piglia
ogni cosa per il meglio, ché questa prigione, che
certamente innocentissima tu hai aùto, la sarà
istata la salute tua per sempre, perché tu calpesterai la
povertà, e non ti accadrà ritornare in Francia,
andando a tribulare la vita tua in questa parte e in quella.
Sí che dimmi liberamente il caso come gli è stato, e
chi t'ha dato aiuto; di poi confòrtati e ripòsati e
guarisci -. Io mi feci da un capo e gli contai tutta la cosa come
l'era istata appunto, e gli detti grandissimi contrasegni, insino
a dell'acquerolo che m'aveva portato a dosso. Sentito ch'ebbe il
Governatore il tutto, disse: - Veramente queste son troppe gran
cose da uno uomo solo: le non son degne d'altro uomo che di te -.
Cosí fattomi cavar fuora la mana, disse: - Istà di
buona voglia e confòrtati, che per questa mana che io ti
tocco tu se' libero e, vivendo, sarai felice -. Partitosi da me,
che aveva tenuto a disagio un monte di gran gentiluomini e
signori, che mi venivano a visitare, dicendo in fra loro: -
Andiamo a vedere quello uomo che fa miracoli - questi restorno
meco; e chi di loro mi offeriva e chi mi presentava. Intanto il
Governatore giunto al Papa, cominciò a contar la cosa che
io gli avevo ditta; e appunto s'abbatté a esservi alla
presenza il signor Pierluigi suo figliuolo; e tutti facevano
grandissima maraviglia. Il Papa disse: - Certamente questa
è troppo gran cosa -. Il signor Pierluigi allora aggiunse
dicendo: - Beatissimo Padre, se voi lo liberate, egli ve ne
farà delle maggiori, perché questo è uno
animo d'uomo troppo aldacissimo. Io ve ne voglio contare un'altra,
che voi non sapete. Avendo parole questo vostro Benvenuto, innanzi
che lui fussi prigione, con un gentiluomo del cardinal Santa
Fiore;<B></B>le qual parole vennono da una piccola
cosa che questo gentiluomo aveva detto a Benvenuto, di modo che
lui bravissimamente e con tanto ardire rispose, insino a voler far
segno di far quistione; il detto gentiluomo referito al cardinale
Santa Fiore, il qual disse, che se vi metteva le mani lui, che gli
caverebbe il pazzo del capo; Benvenuto, inteso questo, teneva un
suo scoppietto in ordine, con il quale lui dà continuamente
in un quattrino: e un giorno, affacciandosi il Cardinale alla
finestra, per essere la bottega del ditto Benvenuto sotto il
palazzo del Cardinale, preso il suo scoppietto si era messo in
ordine per tirare al Cardinale. E perché il Cardinale ne fu
avvertito, si levò subito. Benvenuto, perché e' non
si paressi<B> </B>tal cosa, tirò a un colombo
terraiuolo che covava in una buca su alto del palazzo, e dette al
ditto colombo innel capo: cosa impossibile da poterlo credere. Ora
Vostra Santità faccia tutto quel che la vuole di lui; io
non voglio mancare di non ve lo aver detto. E' gli potrebbe anche
venir voglia, parendogli essere stato prigione a torto, di tirare
una volta a Vostra Santità. Questo è uno animo
troppo afferato e troppo sicuro. Quando gli ammazzò Pompeo,
gli dette dua pugnalate innella gola in mezzo a dieci uomini che
lo guardavano, e poi si salvò, con biasimo non piccolo di
coloro, li quali eran pure uomini da bene e di conto.
CXIII.<B> </B>Alla presenza di queste parole si era
quel gentiluomo di Santa Fiore con il quale io avevo aùto
parole, e affermò al Papa tutto quel che il suo figliuolo
aveva detto. Il Papa stava gonfiato<B> </B>e non
parlava nulla. Io non voglio mancare che io non dica le mie
ragione giustamente e santamente. Questo gentiluomo di Santa Fiore
venne un giorno a me e mi porse un piccolo anellino d'oro, il
quale era tutto imbrattato d'ariento vivo, dicendo: - Isvivami
questo anelluzzo e fa presto -. Io che avevo innanzi molte opere
d'oro con gioie importantissime, e anche sentendomi cosí
sicuramente comandare da uno a il quale io non avevo mai né
parlato né veduto, gli dissi che io non avevo per allora
isvivatoio, e che andassi a un altro. Costui, sanza un proposito
al mondo, mi disse che io ero uno asino. Alle qual parole io
risposi, ch'e' non diceva la verità, e che io era uno uomo
in ogni conto da piú di lui; ma che se lui mi stuzzicava,
io gli darei ben calci piú forte che uno asino. Costui
riferí al Cardinale e li dipinse uno inferno. Ivi a dua
giorni io tirai drieto al palazzo in una buca altissima a un
colombo salvatico, che covava in quella buca; e a quel medesimo
colombo io avevo visto tirare piú volte da uno orefice che
si domandava Giovan Francesco della Tacca, milanese, e mai l'aveva
colto. Questo giorno che io tirai, il colombo mostrava appunto il
capo, stando in sospetto per l'altre volte che gli era stato
tirato; e perché questo Giovan Francesco e io eravamo
rivali alle caccie dello stioppo, essendo certi gentiluomini e mia
amici in su la mia bottega, mi mostrorno dicendo: - Ecco
lassú il colombo di Giovan Francesco della Tacca, a il
quale gli ha tante volte tirato: or vedi, quel povero animale sta
in sospetto; a pena che e' mostri il capo -. Alzando gli occhi, io
dissi: - Quel poco del capo solo basterebbe a me a ammazzarlo, se
m'aspettassi solo che io mi ponessi a viso il mio stioppo -.
Quelli gentiluomini dissono, che e' non gli darebbe quello che fu
inventore dello stioppo. Al quale io dissi: - Vadine un boccale di
grego di quel buono di Palombo oste, e che se m'aspetta che io mi
metta a viso il mio mirabile Broccardo (che cosí chiamavo
il mio stioppo) io lo investirò in quel poco del capolino
che mi mostra -. Subito postomi a viso, a braccia, senza
appoggiare o altro, feci quanto promesso avevo, non pensando
né al Cardinale né a persona altri; anzi mi tenevo
il Cardinale per molto mio patrone. Sí che vegga il mondo,
quando la fortuna vuol torre a 'ssassinare uno uomo, quante
diverse vie la piglia. Il Papa gonfiato e ingrognato, stava
considerando quel che gli aveva detto il suo figliuolo.
CXIV. Dua giorni apresso andò il cardinal Cornaro a
dimandare un vescovado al Papa per un suo gentiluomo, che si
domandava messer Andrea Centano. Il Papa è vero che gli
aveva promesso un vescovado: essendo cosí vacato,
ricordando il Cardinale al Papa sí come tal cosa lui gli
aveva promesso, il Papa affermò esser la verità e
che cosí gliene voleva dare; ma che voleva un piacere da
Sua Signoria reverendissima, e questo si era che voleva che gli
rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il Cardinale disse: - Oh se
Vostra Santità gli ha perdonato e datomelo libero, che
dirà il mondo e di Vostra Santità e di me? - Il Papa
replicò: - Io voglio Benvenuto, e ogniun dica quel che
vuole, volendo voi il vescovado -. Il buon Cardinale disse che Sua
Santità gli dessi il vescovado, e che del resto pensassi da
sé e facessi da poi tutto quel che Sua Santità e
voleva e poteva. Disse il Papa, pure alquanto vergognandosi della
iscellerata già data fede sua: - Io manderò per
Benvenuto, e per un poco di mia sadisfazione lo metterò
giú in quelle camere del giardino segreto, dove lui
potrà attendere a guarire, e non si gli vieterà che
tutti gli amici sua lo vadino a vedere, e anche li farò dar
le spese, insin che ci passi questo poco della fantasia -. Il
Cardinale tornò a casa e mandommi subito a dire per quello
che aspettava il vescovado, come il Papa mi rivoleva nelle mane;
ma che mi terrebbe in una camera bassa innel giardin segreto; dove
io starei visitato da ugniuno siccome io era in casa sua. Allora
io pregai questo messer Andrea, che fussi contento di dire al
Cardinale che non mi dessi al Papa e che lasciassi fare a me; per
che io mi farei rinvoltare in un materasso e mi farei porre fuor
di Roma in luogo sicuro; perché se lui mi dava al Papa,
certissimo mi dava alla morte. Il Cardinale, quando e' le intese,
si crede che lui l'arebbe volute fare, ma quel messer Andrea, a
chi toccava il vescovado, scoperse la cosa. Intanto il Papa
mandò per me subito e fecemi mettere, sí come e'
disse, in una camera bassa innel suo giardin segreto. Il Cardinale
mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle
vivande che mi mandava il Papa, e che lui mi manderebbe da
mangiare; e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di
manco, e che io stessi di buona voglia, che m'aiuterebbe tanto,
che io sarei libero. Standomi cosí, ero ogni dí
visitato e offertomi da molti gran gentiluomini molte gran cose.
Dal Papa veniva la vivanda, la quale io non toccavo, anzi mi
mangiavo quella che veniva dal cardinal Cornaro, e cosí mi
stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di
età di venticinque anni: questo era gagliardissimo
oltramodo e giucava di spada meglio che ogni altro uomo che fussi
in Roma: era pusillo d'animo, ma era fidelissimo uomo da bene e
molto facile al credere. Aveva sentito dire che il Papa aveva
detto che mi voleva remunerare de' miei disagi. Questo era il
vero, che il Papa aveva detto tal cose da principio, ma
innell'ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual cosa io mi
confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: - Fratello
carissimo, costoro mi vogliono assassinare, sí che ora
è tempo aiutarmi: che pensano che io non me ne avvegga,
facendomi questi favori istrasordinari, gli quali son tutti fatti
per tradirmi -. Questo giovane da bene diceva: - Benvenuto mio,
per Roma si dice che il Papa t'ha dato uno uffizio di cinquecento
scudi di entrata; sí che io ti priego di grazia, che tu non
faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene -. E io pure
lo pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi,
perché io sapevo bene che un Papa simile a quello mi poteva
fare di molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava
in farmi segretamente, per suo onore, di molto male; però
facessi presto e cercassi di camparmi la vita di costui: che se
lui mi cavava di quivi, innel modo che io gli arei detto, io
sempre arei riconosciuta la vita mia dallui; venendo il bisogno,
la ispenderei. Questo povero giovane piangendo mi diceva: - O caro
mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare, e io non ti posso mancare
a quanto tu mi comandi; sí che dimmi il modo e io
farò tutto quello che tu dirai, se bene e' fia contra mia
voglia -. Cosí eramo risoluti e io gli avevo dato tutto
l'ordine, che facilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi
per mettere in opera quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire
che per la salute mia mi voleva disubbidire, e che sapeva bene
quello che gli aveva inteso da uomini che stavano appresso a il
Papa e che sapevano tutta la verità de' casi mia. Io che
non mi potevo aiutare in altro modo, ne restai malcontento e
disperato. Questo fu il dí del <I>Corpus
Domini</I> nel mille cinquecento trenta nove.
CXV. Passatomi tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino
alla notte, dalla cucina del Papa venne una abbundante vivanda:
ancora dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima
provvisione: abbattendosi a questo parecchi mia amici, gli feci
restare a cena meco; onde io, tenendo la mia gamba isteccata innel
letto, feci lieta cera con esso loro; cosí soprastettono
meco. Passato un'ora di notte di poi si partirno; e dua mia
servitori m'assettorno da dormire, di poi si messono
nell'anticamera. Io avevo un cane nero quant'una mora, di questi
pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai
non istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il
letto, ben tre volte chiamai il mio servitore, che me lo levassi
di sotto il letto, perché e' mugliava paventosamente.
Quando i servitori venivano, questo cane si gittava loro adosso
per mordergli. Gli erano ispaventati e avevan paura che il cane
non fossi arrabbiato, perché continuamente urlava.
Cosí passammo insino alle quattro ore di notte. Al tocco
delle quattro ore di notte entrò il bargello con molta
famiglia drento nella mia camera: allora il cane uscí fuora
e gittossi adosso a questi con tanto furore, stracciando loro le
cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta paura, che lor
pensavano che fossi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come
persona pratica, disse: - La natura de' buoni cani è
questa, che sempre s'indovinano e predicono il male che de' venire
a' lor padroni: pigliate dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e
gli altri leghino Benvenuto in su questa sieda, e menatelo dove
voi sapete -. Sí come io ho detto era il giorno passato del
<I>Corpus Domini</I>, ed era in circa a quattro ore di
notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro
andavano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che
ancora si ritrovavano per la strada. Cosí mi portorno a
Torre di Nona, luogo detto cosí, e messomi innella prigione
della vita, posatomi in sun un poco di materasso e datomi uno di
quelle guardie, il quale tutta la notte si condoleva della mia
cattiva fortuna, dicendomi: - Oimè! povero Benvenuto, che
hai tu fatto a costoro? - Onde io benissimo mi avvisai quel che mi
aveva a 'ntervenire, sí per essere il luogo cotal' e anche
perché colui me lo aveva avvisato. Istetti un pezzo di
quella notte col pensiero a tribularmi qual fussi la causa che a
Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e perché io non la
ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella guardia s'era messa poi il
meglio che sapeva a confortarmi; per la qual cosa io lo scongiurai
per l'amor de Dio che non mi dicessi nulla e non mi parlassi,
avvenga che da me medesimo io farei piú presto e meglio una
cotale resoluzione. Cosí mi promesse. Allora io volsi tutto
il cuore a Dio; e divotissimamente lo pregavo, che gli piacessi di
accettarmi innel suo regno; e che se bene io m'ero dolto,
parendomi questa tal partita in questo modo molto innocente, per
quanto prommettevano gli ordini delle legge, e se bene io avevo
fatto degli omicidi, quel suo Vicario mi aveva dalla patria mia
chiamato e perdonato coll'autorità delle legge e sua; e
quello che io avevo fatto, tutto s'era fatto per difensione di
questo corpo che Sua Maestà mi aveva prestato: di modo che
io non conoscevo, sicondo gli ordini con che si vive innel mondo,
di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che m'intervenissi
quello che avviene a certe isfortunate persone, le quale, andando
per la strada, casca loro un sasso da qualche grande altezza in su
la testa e gli ammazza: qual si vede ispresso esser potenzia delle
stelle: non già che quelle sieno congiurate contro a di noi
per farci bene o male, ma vien fatto innelle loro congionzione,
alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cognosco d'avere il
libero albitrio: e se la mia fede fussi santamente esercitata, io
sono certissimo che gli angeli del Cielo mi porterieno fuor di
quel carcere e mi salverieno sicuramente d'ogni mio affanno; ma
perché e' non mi pare d'esser fatto degno da Dio d'una tal
cosa, però è forza che questi influssi celesti
adempieno sopra di me la loro malignità. E con questo
dibattutomi un pezzo, da poi mi risolsi e subito appiccai sonno.
CXVI. Fattosi l'alba, la guardia mi destò e disse: - O
sventurato uomo da bene, ora non è piú tempo a
dormire, perché gli è venuto quello che t'ha a dare
una cattiva nuova -. Allora io dissi: - Quanto piú presto
io esca di questo carcer mondano, piú mi sarà grato,
maggiormente essendo sicuro che l'anima mia è salva, e che
io muoio attorto. Cristo glorioso e divino mi fa compagno alli sua
discepoli e amici, i quali, e Lui e loro, furno fatti morire
attorto: cosí attorto son io fatto morire, e santamente ne
ringrazio Idio. Perché non viene innanzi colui che m'ha da
sentenziare? - Disse la guardia allora: - Troppo gl'incresce di te
e piange -. Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome
messer Benedetto da Cagli. Dissi: - Venite innanzi, messer
Benedetto mio, ora che io son benissimo disposto e resoluto; molto
piú gloria mia è che io muoia attorto, che se io
morissi a ragione: venite innanzi, vi priego, e datemi un
sacerdote, che io possa ragionar con seco quattro parole; con
tutto che non bisogni, perché la mia santa confessione io
l'ho fatta col mio Signore Idio; ma solo per osservare quello che
ci ha ordinato la santa madre Chiesa; che se bene e' la mi fa
questo iscellerato torto, io liberamente le perdono. Sí che
venite, messer Benedetto mio, e speditemi prima che 'l senso mi
cominciassi a offendere -. Ditte queste parole, questo uomo da
bene disse alla guardia che serrassi la porta, perché sanza
lui non si poteva far quello uffizio. Andossene a casa della
moglie del signor Pierluigi, la quale era insieme con la Duchessa
sopraditta; e fattosi innanzi a loro, questo uomo disse: -
Illustrissima mia patrona, siate contenta, vi priego per l'amor de
Dio, di mandare a dire al Papa, che mandi un altro a dar quella
sentenzia a Benvenuto e fare questo mio uffizio, perché io
lo rinunzio e mai piú lo voglio fare - e con grandissimo
cordoglio sospirando si partí. La Duchessa, che era
lí alla presenza, torcendo il viso disse: - Questa è
la bella iustizia che si tiene in Roma da il Vicario de Dio! il
Duca già mio marito voleva un gran bene a questo uomo per
le sue bontà e per le sue virtú, e non voleva che
lui ritornassi a Roma, tenendolo molto caro appresso a di
sé - e andatasene in là borbottando con molte parole
dispiacevole. La moglie del signor Pierluigi, si chiamava la
signora Ieronima, se ne andò dal Papa, e gittandosi
ginocchioni - era alla presenza parecchi Cardinali - questa donna
disse tante gran cose, che la fece arrossire il Papa, il quale
disse: - Per vostro amore noi lo lascieremo istare, se bene noi
non avemmo mai cattivo animo inverso di lui -. Queste parole le
disse il Papa per essere alla presenza di quei Cardinali, i quali
avevano sentito le parole che aveva detto quella maravigliosa e
ardita donna. Io mi stetti con grandissimo disagio, battendomi il
cuore continuamente. Ancora stette a disagio tutti quelli uomini
che erano destinati a tale cattivo uffizio, insino che era tardi
all'ora del desinare; alla quale ora ogni uomo andò ad
altre sue faccende, per modo che a me fu portato da desinare: onde
che maravigliato, io dissi: - Qui ha potuto piú la
verità che la malignità degli influssi celesti;
cosí priego Idio, che se gli è in suo piacere, mi
scampi da questo furore -. Cominciai a mangiare, e sí bene
come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male, ancora
la feci alla speranza del mio gran bene. Desinai di buona voglia.
Cosí mi stetti sanza vedere o sentire altri insino a una
ora di notte. A quell'ora venne il bargello con buona parte della
sua famiglia, il quale mi rimesse in su quella sieda, che la sera
dinanzi lui m'aveva in quel luogo portato, e di quivi con molte
amorevol parole a me, che io non dubitassi, e a' sua birri
comandò che avessin cura di non mi percuotere quella gamba
che io avevo rotta, quanto agli occhi sua. Cosí facevano, e
mi portorno in Castello, di donde io ero uscito; e quando noi
fummo su da alto innel mastio, dov'è un cortiletto, quivi
mi fermorno<B> </B>per alquanto.
CXVII. In questo mezzo il Castellano sopraditto si fece portare in
quel luogo dove io ero, e cosí ammalato e afflitto disse: -
Ve' che ti ripresi? - Sí - dissi io - ma ve' che io mi
fuggi', come io ti dissi? e se io non fussi stato venduto, sotto
la fede papale, un vescovado da un veniziano cardinale e un romano
da Farnese, e' quali<B> </B>l'uno e l'altro ha
graffiato il viso alle sacre sante legge, tu mai non mi
ripigliavi. Ma da poi che ora da loro s'è messa questa male
usanza, fa' ancora tu il peggio che tu puoi, ché di nulla
mi curo al mondo -. Questo povero uomo cominciò molto forte
a gridare, dicendo: - Oimè! oimè! costui non si cura
né di vivere né di morire, ed è piú
ardito che quando egli era sano: mettetelo là sotto il
giardino, e non mi parlate mai piú di lui, che costui
è causa della morte mia -. Io fui portato sotto un giardino
in una stanza oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di
tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un
materassuccio di capecchio in terra, e per la sera non mi fu dato
da cena, e fui serrato a quattro porte: cosí istetti insino
alle dicianove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da
mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di quei miei
libri da leggere. Da nessuno di questi non mi fu parlato, ma
riferirno<B> </B>a quel povero uomo del Castellano, il
quale aveva domandato quello che io dicevo. L'altra mattina poi mi
fu portato un mio libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro
dove eran le <I>Cronache </I>di Giovan Villani.
Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io non arei
altro e che io avevo troppo di quelli. Cosí infelicemente
mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio, ché in tre
giorni era acqua ogni cosa; onde io stavo continuamente senza
potermi muovere, perché io avevo la gamba rotta; e volendo
andare pur fuor del letto per la necessità de' miei
escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare
lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e mezzo del
dí di un poco di riflesso di lume il quale m'entrava in
quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel
poco del tempo leggevo, e 'l resto del giorno e della notte sempre
stavo al buio pazientemente, non mai fuor de' pensieri de Dio e di
questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in
brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia
sventurata vita. Pure, il meglio che io potevo da me istesso mi
confortavo, considerando quanto maggior dispiacere e' mi saria
istato innel passare della vita mia, sentire quella inistimabil
passione del coltello, dove istando a quel modo io la passavo con
un sonnifero, il quale mi s'era fatto molto piú piacevole
che quello di prima: e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a
tanto che la mia buona complessione si fu accomodata a quel
purgatorio. Di poi che io senti' essersi lei<B>
</B>accomodata e assuefatta, presi animo di comportarmi
quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto lei stessa me
lo comportava.
CXVIII. Cominciai da principio la Bibbia, e divotamente la leggevo
e consideravo, ed ero tanto invaghito in essa, che se io avessi
potuto non arei mai fatto altro che leggere: ma, come e' mi
mancava el lume, subito mi saltava addosso tutti i miei dispiaceri
e davanmi tanto travaglio, che piú volte io m'ero resoluto
in qualche modo di spegnermi da me medesimo; ma perché e'
non mi tenevono coltello, io avevo male il modo a poter far tal
cosa. Però una volta infra l'altre avevo acconcio un grosso
legno che vi era e puntellato in modo d'una stiaccia; e volevo
farlo iscoccare sopra il mio capo; il quale me lo arebbe
istiacciato al primo: di modo che, acconcio che io ebbi tutto
questo edifizio, movendomi risoluto per iscoccarlo, quando io
volsi dar drento colla mana, io fui preso da cosa invisibile e
gittato quattro braccia lontano da quel luogo, e tanto
ispaventato, che io restai tramortito: e cosí mi stetti da
l'alba del giorno insino alle dicianove ore che e' mi portorno il
mio desinare. I quali vi dovettono venire piú volte, che io
non gli avevo sentiti; perché quando io gli senti'
entrò drento il capitan Sandrino Monaldi, e senti' che
disse: - Oh! infelice uomo, ve' che fine ha aùto una
cosí rara virtú! - Sentite queste parole apersi gli
occhi: per la qual cosa viddi preti colle toghe indosso, i quali
dissono: - O voi, dicesti che gli era morto! - Il Bozza disse: -
Morto lo trovai, e però lo dissi -. Subito mi levorno di
quivi donde io ero, e levato il materasso, il quale era tutto
fradicio diventato come maccheroni, lo gittorno fuori di quella
stanza: e riditte queste tal cose al Castellano, mi fece dare un
altro materasso. E cosí ricordatomi che cosa poteva essere
stata quella che m'avessi stòlto da quella cotale inpresa,
pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice.
CXIX. Di poi la notte mi apparve in sogno una maravigliosa
criatura in forma d'un bellissimo giovane, e a modo di sgridarmi
diceva: - Sa' tu chi è quello che t'ha prestato quel corpo,
che tu volevi guastare innanzi al tempo suo? - Mi pareva
rispondergli che il tutto riconoscevo dallo Idio della natura. -
Addunche - mi disse - tu dispregi l'opere sue, volendole guastare?
Làsciati guidare a lui e non perdere la speranza della
virtú sua - con molte altre parole tanto mirabile, che io
non mi ricordo della millesima parte. Cominciai a considerare che
questa forma d'angelo mi aveva ditto li vero; e gittato gli occhi
per la prigione, viddi un poco di mattone fracido; cosí lo
strofinai l'uno coll'altro e feci a modo che un poco di savore: di
poi cosí carpone mi accostai a un taglio di quella porta
della prigione e co' denti tanto feci, che io ne spiccai un poco
di scheggiuzza; e fatto che io ebbi questo, aspettai quella ora
del lume che mi veniva alla prigione, la quale era dalle venti ore
e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a scrivere
il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano innel
libro della Bibbia; e riprendevo gli spiriti mia dello intelletto,
isdegnati di non voler piú istare in vita; i quali
rispondevano a il corpo mio, iscusandosi della loro disgrazia: e
il corpo dava loro isperanza di bene: cosí in dialogo
iscrissi:
- Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita!
- Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci andare a miglior vita.
- Deh non partite ancora,
che piú felici e lieti
promette il Ciel, che voi fussi già mai.
- Noi resterèn qualche ora,
purché del magno Idio concesso sieti
grazia, che non si torni a maggior guai.
Ripreso di nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io mi
fui confortato, seguitando di legger la mia Bibbia, e' mi ero di
sorte assuefatto gli occhi in quella oscurità, che dove
prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne leggevo tre intere.
E tanto maravigliosamente consideravo la forza della virtú
de Dio in quei semplicissimi uomini, che con tanto fervore si
credevano, che Idio compiaceva loro tutto quello che quei
s'inmaginavano: promettendomi ancora io de l'aiuto de Dio,
sí per la sua divinità e misericordia, e ancora per
la mia innocenzia; e continuamente, quando con orazione e quando
con ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti
pensieri in Dio; di modo che e' mi cominciò a venire una
dilettazione tanto grande di questi pensieri in Dio, che io non mi
ricordavo piú di nessuno dispiacere che mai io per
l'addietro avessi aùto, anzi cantavo tutto il giorno salmi
e molte altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava
grande affanno le ugna che mi crescevano; perché io non
potevo toccarmi che con esse io non mi ferissi: non mi potevo
vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in
fuora, dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva e' denti in
bocca; e di questo io m'avvedevo, perché sospinti i denti
morti da quei ch'erano vivi, a poco a poco sofforavano le gengie,
e le punte delle barbe venivano a trapassare il fondo delle lor
casse. Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d'una
guaina, sanza altro dolore o sangue: cosí me n'era usciti
assai bene. Pure accordatomi anche con quest'altri nuovi
dispiaceri, quando cantavo, quando oravo, e quando scrivevo con
quel matton pesto sopraditto; e cominciai un capitolo in lode
della prigione, e in esso dicevo tutti quelli accidenti che da
quella io avevo aúti; qual capitolo si scriverà poi
al suo luogo.
CXX. Il buon Castellano mandava ispesso segretamente a sentire
quello che io facevo: e perché l'ultimo dí di luglio
io mi rallegrai da me medesimo assai, ricordandomi della gran
festache si usa di fare in Roma in quel primo dí d'agosto,
da me dicevo: - Tutti questi anni passati questa piacevol festa io
l'ho fatta con le fragilità del mondo; questo anno io la
farò oramai con la divinità de Dio - e da me dicevo:
- Oh quanto piú lieto sono io di questa che di quelle! -
Quelli che mi udirno dire queste parole, il tutto riferirno al
Castellano; il quale con maraviglioso dispiacere disse: - Oh Dio!
colui trionfa e vive, in tanto male; e io istento in tante
comodità, e muoio solo per causa sua! Andate presto e
mettetelo in quella piú sotterrania caverna, dove fu fatto
morire il predicatore Foiano di fame: forse che vedendosi in tanta
cattività,<B> </B>gli potria uscire il ruzzo
del capo -. Subito venne dalla mia prigione il capitano Sandrino
Monaldi con circa venti di quei servitori del Castellano; e mi
trovorno che io ero ginocchioni, e non mi volgevo alloro, anzi
adoravo un Dio Padre addorno di Angeli e un Cristo risuscitante
vittorioso, che io mi avevo disegnati innel muro con un poco di
carbone, che io avevo trovato ricoperto dalla terra, di poi
quattro mesi che io ero stato rovescio innel letto con la mia
gamba rotta; e tante volte sognai che gli Angeli mi venivano a
medicarmela, che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come
se mai rotta la non fussi stata. Però vennono a me tanto
armati, quasi che paurosi che io non fussi un velenoso dragone. Il
ditto capitano disse: - Tu senti pure che noi siamo assai, e che
con gran romore noi vegniamo a te; e tu a noi non ti volgi -. A
queste parole, immaginatomi benissimo quel peggio che mi poteva
intervenire, e fattomi pratico e costante al male, dissi loro: - A
questo Idio che mi porta a quello de' cieli ho volto l'anima mia e
le mie contemplazione e tutti i mia spiriti vitali; e a voi ha
volto appunto quello che vi si appartiene, perché quello
che è di buono in me voi non sete degni di guardarlo,
né potete toccarlo: sí che fate, a quello che
è vostro, tutto quello che voi potete -. Questo duro
capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi volessi fare,
disse a quattro di quelli piú gagliardi: - Levatevi l'arme
tutte da canto -. Levate che se l'ebbono, disse: - Presto presto
saltategli a dosso e pigliatelo. Non fussi costui il diavolo, che
tanti noi doviamo aver paura di lui? Tenetelo or forte che non vi
scappi -. Io, sforzato e bistrattato da loro, inmaginandomi molto
peggio di quello che poi m'intervenne, alzando gli occhi a Cristo
dissi: - O giusto Idio, tu pagasti pure in su quello alto legno
tutti e' debiti nostri: perché addunche ha a pagare la mia
innocenzia i debiti di chi io non conosco? oh! pure sia fatta la
tua voluntà -. Intanto costoro mi portavano via con un
torchiaccio acceso; pensavo io che mi volessino gittare innel
trabocchetto del Sammalò: cosí chiamato un luogo
paventoso, il quale n'ha inghiottiti assai cosí vivi,
perché vengono a cascare inne' fondamenti del Castello
giú innun pozzo. Questo non m'intervenne: per la qual cosa
me ne parve avere un bonissimo mercato;<B>
</B>perché loro mi posono in quella bruttissima
caverna sopra detta, dove era morto il Foiano di fame, e ivi mi
lasciorno istare, non mi faccendo altro male. Lasciato che e'
m'ebbono, cominciai a cantare un <I>De profundis
clamavit</I>, un <I>Miserere, </I>e <I>In
te Domine</I> <I>speravi. </I>Tutto quel giorno
primo d'agosto festeggiai con Dio, e sempre mi iubbilava il cuore
di speranza e di fede. Il sicondo giorno mi trassono di quella
buca e mi riportorno dove era quei miei primi disegni di quelle
inmagini de Idio. Alle quali giunto che io fui, alla presenza di
esse di dolcezza e di letizia io assai piansi. Da poi il
Castellano ogni dí voleva sapere quello che io facevo e
quello che io dicevo. Il Papa, che aveva inteso tutto il
seguíto, e di già li medici avevano isfidato a morte
il ditto Castellano, disse: - Innanzi che il mio Castellano muoia,
io voglio che e' faccia morire a suo modo quel Benvenuto,
ch'è causa della morte sua, acciò che lui non muoia
invendicato -. Sentendo queste parole il Castellano per bocca del
duca Pierluigi, disse al ditto: - Addunche il Papa mi dona
Benvenuto, e vuole che io ne faccia le mie vendette? Non pensi
addunque ad altro e lasci fare a me -. Sí come il cuor del
Papa fu cattivo inverso di me, pessimo e doloroso fu innel primo
aspetto quello del Castellano; e in questo punto quello
Invisibile, che mi aveva divertito dal volermi ammazzare, venne a
me pure invisibilmente ma con voce chiare; e mi scosse e levommi
da iacere e disse: - Oimè! Benvenuto mio, presto presto
ricorri a Dio con le tue solite orazione, e grida forte forte -.
Subito spaventato mi posi inginocchioni, e dissi molte mie
orazioni ad alta voce: di poi tutte, un <I>Qui habitat in
ajutorium</I>;di poi questo, ragionai con Idio un pezzo: e
in uno istante la voce medesima aperta e chiara mi disse: - Vatti
a riposa, e non aver piú paura -. E questo fu che il
Castellano, avendo dato commessione bruttissima per la mia morte,
subito la tolse e disse: - Non è egli Benvenuto quello che
io ho tanto difeso, e quello che io so certissimo che è
innocente, e che tutto questo male se gli è fatto attorto?
O come Idio arà mai misericordia di me e dei mia peccati,
se io non perdono a quelli che m'hanno fatto grandissime offese? O
perché ho io a offendere un uomo da bene, innocente, che
m'ha fatto servizio e onore? Vadia, che in cambio di farlo morire,
io gli do vita e libertà; e lascio per testamento che
nissuno gli domandi nulla del debito della grossa ispesa che qui
gli arebbe a pagare -. Questo intese il Papa e l'ebbe molto per
male.
CXXI. Io istavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo il
mio Capitolo, e cominciai a fare ogni notte i piú lieti e i
piú piacevoli sogni che mai immaginar si possa; e sempre mi
pareva essere insieme visibilmente con quello che invisibile avevo
sentito e sentivo bene ispesso, a il quale io non domandavo altra
grazia se none lo pregavo, e strettamente, che mi menassi dove io
potessi vedere il sole, dicendogli che era quanto desiderio io
avevo; e che se io una sola volta lo potessi vedere, da poi io
morrei contento. Di tutte le cose io avevo in questa prigione
dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e compagne, e nulla
mi disturbava. Se bene quei divoti<B> </B>del
Castellano, che aspettavano che il Castellano m'impiccassi a quel
merlo dove io ero sceso, sí come lui aveva detto, veduto
poi che il detto Castellano aveva fatta un'altra resoluzione tutta
contraria da quella; costoro, che non la potevano patire, sempre
mi facevano qualche diversa paura, per la quale io dovessi
pigliare spavento per la perdita della vita. Sí come io
dico, a tutte queste cose io m'ero tanto addimesticato, che di
nulla io non avevo piú paura e nulla piú mi moveva;
solo questo desiderio, che il sognare di vedere la spera del sole.
Di modo che seguitando innanzi colle mie grandi orazioni, tutte
volte collo affetto a Cristo, sempre dicendo: - O vero figliuol de
Dio, io ti priego per la tua nascita, per la tua morte in croce e
per la tua gloriosa resurressione, che tu mi facci degno che io
vegga il sole, se none altrimenti, almanco in sogno; ma se tu mi
facessi degno che io lo vedessi con questi mia occhi mortali, io
ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro -. Questa
resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a' dí
dua d'ottobre nel mille cinquecento trentanove. Venuto poi la
mattina seguente, che fu a' dí tre di ottobre detto, io
m'ero risentito alla punta del giorno, innanzi il levar del sole,
quasi un'ora; e sollevatomi da quel mio infelice covile, mi messi
a dosso un poco di vestaccia che io avevo, perché e' s'era
cominciato a far fresco: e stando cosí sollevato, facevo
orazione piú divote che mai io avessi fatte per il passato;
ché in dette orazione dicevo con gran prieghi a Cristo, che
mi concedessi almanco tanto di grazia, che io sapessi per
ispirazion divina per qual mio peccato io facevo cosí gran
penitenzia; e da poi che Sua Maestà divina non mi aveva
voluto far degno della vista del sole almanco in sogno, lo pregavo
per tutta la sua potenzia e virtú, che mi facessi degno che
io sapessi quale era la causa di quella penitenzia.
CXXII. Dette queste parole, da quello Invisibile, a modo che un
vento io fui preso e portato via, e fui menato in una stanza dove
quel mio Invisibile allora visibilmente mi si mostrava in forma
umana, in modo d'un giovane di prima barba; con faccia
maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva; e mi mostrava
innella ditta stanza, dicendomi: - Quelli tanti uomini che tu
vedi, sono tutti quei che insino a qui son nati e poi son morti -.
Il perché io lo domandavo per che causa lui mi menava
quivi: il qual mi disse: - Vieni innanzi meco e presto lo vedrai
-. Mi trovavo in mano un pugnaletto e indosso un giaco di maglia;
e cosí mi menava per quella grande stanza, mostrandomi
coloro che a infinite migliaia<B> </B>or per un verso
or per un altro camminavano. Menatomi innanzi, uscí innanzi
a me per una piccola porticella in un luogo come in una strada
istretta; e quando egli mi tirò drieto a sé innella
detta istrada, all'uscire di quella stanza mi trovai disarmato, ed
ero in camicia bianca sanza nulla in testa, ed ero a man ritta del
ditto mio compagno. Vedutomi a modo, io mi maravigliavo,
perché non ricognoscevo quella istrada; e alzato gli occhi,
viddi che il chiarore del sole batteva in una pariete di muro,
modo che una facciata di casa, sopra il mio capo. Allora io dissi:
- O amico mio, come ho io da fare, che io mi potessi alzare tanto
che io vedessi la propia spera del sole? - Lui mi mostrò
parecchi scaglioni<B> </B>che erano quivi alla mia man
ritta, e mi disse: - Va quivi da te -. Io spiccatomi un poco da
lui, salivo con le calcagna allo indietro su per quei parecchi
scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire la
vicinità del sole. M'affrettavo di salire; e tanto andai in
su in quel modo ditto che io scopersi tutta la spera del sole. E
perché la forza de' suoi razzi, al solito loro, mi fece
chiudere gli occhi, avvedutomi dell'error mio, apersi gli occhi e
guardando fiso il sole, dissi: - O sole mio, che t'ho tanto
desiderato, io voglio non mai piú vedere altra cosa, se
bene i tuoi razzi mi acciecano -. Cosí mi stavo con gli
occhi fermi in lui; e stato che io fui un pochetto in quel modo,
viddi in un tratto tutta quella forza di quei gran razzi gittarsi
in sulla banda manca del ditto sole; e restato il sole netto,
sanza i suoi razzi, con grandissimo piacere io lo vedevo; e mi
pareva cosa maravigliosa che quei razzi si fussino levati in quel
modo. Stavo a considerare che divina grazia era stata questa, che
io avevo quella mattina da Dio, e dicevo forte: - Oh mirabil tua
potenzia! oh gloriosa tua virtú! Quanto maggior grazia mi
fai tu, di quello che io non m'aspettavo! - Mi pareva questo sole
sanza i razzi sua, né piú né manco un bagno
di purissimo oro istrutto. In mentre che io consideravo questa
gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a gonfiare; e
crescere questa forma di questo gonfio, e in un tratto si fece un
Cristo in croce della medesima cosa che era il sole; ed era di
tanta bella grazia in benignissimo aspetto, quale ingegno umano
non potria inmaginare una millesima parte; e in mentre che io
consideravo tal cosa, dicevo forte: - Miracoli, miracoli! O Idio,
o clemenzia tua, o virtú tua infinita, di che cosa mi fai
tu degno questa mattina! - E in mentre che io consideravo e che io
dicevo queste parole, questo Cristo si moveva inverso quella parte
dove erano andati i suoi razzi, e innel mezzo del sole di nuovo
gonfiava, sí come aveva fatto prima; e cresciuto il gonfio,
subito si convertí innuna forma d'una bellissima Madonna,
qual mostrava di essere a sedere in modo molto alto con il ditto
figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente; di qua
e di là era messa in mezzo da duoi Angeli bellissimi tanto
quanto lo immaginare non arriva. Ancora vedevo in esso sole, alla
mana ritta, una figura vestita a modo di sacerdote: questa mi
volgeva le stiene e 'l viso teneva vòlto inverso quella
Madonna e quel Cristo. Tutte queste cose io vedevo vere, chiare e
vive, e continuamente ringraziavo la gloria di Dio con grandissima
voce. Quando questa mirabil cosa mi fu stata innanzi agli occhi
poco piú d'uno ottavo d'ora, da me si partí, e io
fui riportato in quel mio covile. Subito cominciai a gridare
forte, ad alta voce dicendo: - La virtú de Dio m'ha fatto
degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai
visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cognosco di
essere libero e felice e in grazia a Dio; e voi ribaldi, ribaldi
resterete, infelici e nella disgrazia de Dio. Sappiate che io sono
certissimo, che il dí di tutti e Santi, quale fu quello che
io venni al mondo nel mille cinquecento a punto, il primo
dí di novembre, la notte seguente a quattro ore, quel
dí che verrà, voi sarete forzati a cavarmi di questo
carcere tenebroso; e non potrete far di manco, perché io
l'ho visto con gli occhi mia e in quel trono di Dio. Quel
sacerdote, qual era vòlto inverso Idio e che a me mostrava
le stiene, quello era il santo Pietro, il quale avocava per me,
vergognandosi che innella casa sua si faccia ai cristiani
cosí brutti torti. Sí che ditelo a chi volete, che
nissuno non ha potenzia di farmi piú male; e dite al quel
Signor che mi tien qui, che se lui mi dà o cera o carta, e
modo che io gli possa sprimere questa gloria de Dio, che mi
s'è mostra, certissimo io lo farò chiaro di quel che
forse lui sta in dubbio.
CXXIII. Il Castellano, con tutto che i medici non avessino punto
di speranza della sua salute, ancora era restato in lui spirito
saldo e si era partito quelli umori della pazzia, che gli solevano
dar noia ogni anno: e datosi in tutto e per tutto all'anima, la
coscienza lo rimordeva, e gli pareva pure che io avessi ricevuto e
ricevessi un grandissimo torto; e faccendo intendere al Papa
quelle gran cose che io diceva, il Papa gli mandava a dire, come
quello che non credeva nulla, né in Dio né in altri,
dicendo che io ero impazzato, e che attendessi il piú che
lui poteva alla sua salute. Sentendo il Castellano queste
risposte, mi mandò a confortare e mi mandò da
scrivere e della cera e certi fuscelletti fatti per lavorar di
cera, con molte cortese parole, che me le disse un certo di quei
sua servitori che mi voleva bene. Questo tale era tutto contrario
di quella setta di quegli altri ribaldi, che mi arebbon voluto
veder morto. Io presi quelle carte e quelle cere, e cominciai a
lavorare: e 'n mentre che io lavoravo scrissi questo sonetto
indiritto al Castellano:
S'i' potessi, Signor, mostrarvi il vero
del lume eterno, in questa bassa vita,
qual'ho da Dio, in voi vie piú gradita
saria mia fede, che d'ogni alto impero.
Ahi! se 'l credessi il gran Pastor del chiero,
che Dio s'e mostro in sua gloria infinita,
qual mai vide alma, prima che partita
da questo basso regno, aspro e sincero;
e porte di Iustizia sacre e sante
sbarrar vedresti, e 'l tristo impio furore
cader legato, e al ciel mandar le voce.
S'i' avessi luce, ahi lasso, almen le piante
sculpir del Ciel potessi il gran valore!
Non saria il mio gran mal sí greve croce.
CXXIV. Venuto l'altro giorno a portarmi il mio mangiare quel
servitore del Castellano, il quale mi voleva bene, io gli detti
questo sonetto iscritto; il quale, segretamente da quelli altri
maligni servitori, che mi volevano male, lo dette al Castellano:
il quale volentieri m'arebbe lasciato andar via, perché gli
pareva che quel torto che m'era istato fatto, fossi gran causa
della morte sua. Prese il sonetto, e lettolo piú d'una
volta, disse: - Queste non sono né parole né
concetti da pazzo; ma sí bene d'uomo buono e da bene - e
subito comandò a un suo secretario che lo portassi al Papa,
e che lo dessi in propia mano, pregandolo che mi lasciassi andare.
Mentre che il detto segretario portò il sonetto al Papa, il
Castellano mi mandò lume per il dí e per la notte,
con tutte le comodità che in quel luoco si poteva
desiderare; per la qual cosa io cominciai a migliorare della
indisposizione della mia vita, quale era divenuta grandissima. Il
Papa lesse il sonetto piú volte; di poi mandò a dire
al Castellano, che farebbe ben presto cosa che gli sarebbe grata.
E certamente che il Papa m'arebbe poi volentieri lasciato andare;
ma il signor Pierluigi ditto, suo figliuolo, quasi contra la
voglia del Papa, per forza mi vi teneva. Avvicinandosi la morte
del Castellano, in mentre che io avevo disegnato e scolpito quel
maraviglioso miracolo, la mattina d'Ogni Santi mi mandò per
Piero Ugolini, suo nipote, a mostrare certe gioie; le quali quando
io le viddi, subito dissi: - Questo è il contrasegno della
mia liberazione -. Allora questo giovane, che era persona di
pochissimo discorso, disse: - A cotesto non pensar tu mai,
Benvenuto -. Allora io dissi: - Porta via le tue gioie,
perché io son condotto di sorte, che io non veggo lume se
none in questa caverna buia, innella quale non si può
discernere la qualità delle gioie; ma quanto all'uscire di
questo carcere, e' non finirà questo giorno intero, che voi
me ne verrete a cavare: e questo è forza che cosí
sia, e non potete far di manco. - Costui si partí e mi fece
riserrare; e andatosene, soprastette piú di dua ore di
oriuolo; di poi venne per me senza armati, con dua ragazzi che mi
aiutassino sostenere, e cosí mi menò in quelle
stanze larghe che io avevo prima (questo fu 'l 1538), dandomi
tutte le comodità che io domandavo.
CXXV. Ivi a pochi giorni il Castellano, che pensava che io fussi
fuora e libero, stretto dal suo gran male passò di questa
presente vita, e in cambio suo restò messer Antonio Ugolini
suo fratello il quale aveva dato ad intendere al Castellano
passato, suo fratello, che mi aveva lasciato andare. Questo messer
Antonio, per quanto io intesi, ebbe commessione dal Papa di
lasciarmi stare in quella prigione larga, per insino a tanto che
lui gli direbbe quel che s'avessi a fare di me. Quel messer
Durante bresciano già sopra ditto si convenne con quel
soldato, speziale pratese, di darmi a mangiare qualche licore in
fra i miei cibi, che fussi mortifero, ma non subito; facessi in
termine di quattro o di cinque mesi. Andorno inmaginando di
mettere in fra il cibo del diamante pesto; il quale non ha veleno
in sé di sorte alcuna, ma per la sua inistimabil durezza
resta con i canti acutissimi, e non fa come l'altre pietre;
ché quella sottilissima acutezza a tutte le pietre,
pestandole, non resta, anzi restano come tonde; e il diamante solo
resta con quella acutezza; di modo che entrando innello stomaco
insieme con gli altri cibi, in quel girare che e' fanno e' cibi
per fare la digestione, questo diamante s'appicca ai cartilaggini
dello stomaco e delle budella, e di mano in mano che 'l nuovo cibo
viene pignendo sempre innanzi, quel diamante appiccato a esse con
non molto ispazio di tempo le fora; e per tal causa si muore; dove
che ogni altra sorte di pietre o vetri mescolata col cibo non ha
forza d'appiccarsi, e cosí ne va col cibo. Però
questo messer Durante sopraditto dette un diamante di qualche poco
di valore a una di queste guardie. Si disse che questa cura
l'aveva aúta un certo Lione aretino orefice, mio gran
nimico. Questo Lione ebbe il diamante per pestarlo; e
perché Lione era poverissimo e 'l diamante poteva valere
parecchi decine di scudi, costui dette ad intendere a quella
guardia, che quella polvere che lui gli dette fossi quel diamante
pesto che s'era ordinato per darmi; e quella mattina che io
l'ebbi, me lo messono in tutte le vivande; che fu un
venerdí: io l'ebbi in insalata e in intingoli e in
minestra. Attesi di buona voglia a mangiare, perché la sera
io avevo digiunato. Questo giorno era di festa. È ben vero
che io mi sentivo scrosciare la vivanda sotto i denti, ma non
pensavo mai a tal ribalderie. Finito che io ebbi di desinare,
essendo restato un poco d'insalata innel piattello, mi venne
diritto gli occhi a certe stiezze sottilissime, le quali m'erano
avanzate. Subito io le presi, e accostatomi al lume della
finestra, che era molto luminosa, parte che io le guardavo, mi
venne ricordato di quello iscrosciare che m'aveva fatto la mattina
il cibo piú che il solito: e riconsideratole bene, per
quanto gli occhi potevan giudicare, mi credetti resolutamente che
quello fussi diamante pesto. Subito mi feci morto
resolutissimamente, e cosí cordoglioso corsi divotamente
alle sante orazioni; e come resoluto, mi pareva esser certo di
essere ispacciato e morto: e per una ora intera feci grandissime
orazione a Dio, ringraziandolo di quella cosí piacevol
morte. Da poi che le mie stelle mi avevano cosí destinato,
mi pareva averne aùto un buon mercato a uscirne per quella
agevol via; e mi ero contento, e avevo benedetto il mondo e quel
tempo che sopra di lui ero stato. Ora me ne tornavo a miglior
regno con la grazia de Dio, che me la pareva avere
sicurissimamente acquistata: e in quello che io stavo con questi
pensieri, tenevo in mano certi sottilissimi granelluzzi di quello
creduto diamante, quale per certissimo giudicavo esser tale. Ora,
perché la speranza mai non muore, mi parve essere
sobbillato da un poco di vana speranza; qual fu causa che io presi
un poco di coltellino, e presi di quelle ditte granelline, e le
missi in su 'n un ferro della prigione; dipoi appoggiatovi la
punta del coltello per piano, agravando forte, senti' disfare la
ditta pietra; e guardato bene con gli occhi, viddi che cosí
era il vero. Subito mi vesti' di nuova isperanza e dissi: - Questo
non è il mio nimico messer Durante, ma è una
pietraccia tenera la quale non è per farmi un male al mondo
-. E sí come io m'ero risoluto di starmi cheto e di morirmi
in pace a quel modo, feci nuovo proposito, ma in prima
ringraziando Idio e benedicendo la povertà, che sí
come molte volte è la causa della morte degli uomini,
quella volta ell'era stata causa istessa della vita mia;
perché avendo dato quel messer Durante mio nimico, o chi
fussi stato, un diamante a Lione, che me lo pestassi, di valore di
piú di cento scudi, costui per povertà lo prese per
sé, e a me pestò un berillo cetrino di valore di dua
carlini, pensando forse, per essere ancora esso pietra, che egli
facesse el medesimo effetto del diamante.
CXXVI. In questo tempo<B> </B>il vescovo di Pavia,
fratel del conte di San Sicondo, domandato monsignor de' Rossi di
Parma, questo vescovo era prigione in Castello per certe brighe
già fatte a Pavia; e per esser molto mio amico, io mi feci
fuora,<B> </B>alla buca della mia prigione, e lo
chiamai ad alta voce,<B> </B>dicendogli che per
uccidermi quei ladroni m'avevan dato un diamante pesto: e gli feci
mostrare da un suo servitore alcune di quelle polveruzze
avanzatemi; ma io non gli dissi che io avevo conosciuto che quello
non era diamante; ma gli dicevo che loro certissimo mi avevano
avelenato da poi la morte di quell'uomo da bene del Castellano; e
quel poco che io vivessi, lo pregavo che mi dessi de' sua pani uno
il dí, perché io non volevo mai piú mangiare
cosa nissuna che venissi da loro. Cosí mi promise mandarmi
della sua vivanda. Quel messer Antonio, che certo di tal cosa non
era consapevole, fece molto gran romore e volse vedere quella
pietra pesta, ancora lui pensando che diamante egli fussi; e
pensando che tale impresa venissi dal Papa, se la passò
cosí di leggieri, considerato che gli ebbe il caso. Io
m'attendevo a mangiare della vivanda che mi mandava il Vescovo, e
scrivevo continuamente quel mio Capitolo della prigione,
mettendovi giornalmente tutti quelli accidenti che di nuovo mi
venivano, di punto in punto. Ancora il ditto messer Antonio mi
mandava da mangiare per un certo sopra ditto Giovanni speziale, di
quel di Prato, e quivi soldato. Questo, che m'era nimicissimo e
che era istato lui quello che m'aveva portato quel diamante pesto,
io gli dissi che nulla io volevo mangiare di quello che egli mi
portava, se prima egli non me ne faceva la credenza: per la qual
cosa lui mi disse che a' Papi si fanno le credenze. Al quale io
risposi, che sí come i gentili uomini sono ubrigati a far
la credenza al Papa; cosí lui, soldato, spezial, villan da
Prato, era ubrigato a far la credenza a un Fiorentino par mio.
Questo disse di gran parole, e io allui. Quel messer Antonio,
vergognandosi alquanto, e ancora disegnato<B> </B>di
farmi pagare quelle spese che il povero Castellano morto mi aveva
donate, trovò un altro di quei sua servitori, il quale era
mio amico; e mi mandava la mia vivanda, alla quale piacevolmente
il sopra ditto mi faceva la credenza sanza altra disputa. Questo
servitore mi diceva come il Papa era ogni dí molestato da
quel monsignor di Morluc, il quale da parte del Re continuamente
mi chiedeva; e che il Papa ci aveva poca fantasia a rendermi; e
che il cardinale Farnese, già tanto mio patrone e amico,
aveva aùto a dire che io non disegnassi uscire di quella
prigione di quel pezzo: al quale io dicevo, che io n'uscirei a
dispetto di tutti. Questo giovane dabbene mi pregava che io stessi
cheto, e che tal cosa io non fussi sentito dire, perché
molto mi nocerebbe; e che quella fidanza, che io avevo in Dio,
dovessi aspettare la grazia sua, standomi cheto. A lui dicevo che
le virtú de Dio non hanno aver paura delle malignità
della ingiustizia.
CXXVII. Cosí passando pochi giorni innanzi, comparse a Roma
il cardinale di Ferrara; il quale, andando a fare reverenzia al
Papa, il Papa lo trattenne tanto, che venne l'ora della cena. E
perché il Papa era valentissimo uomo, volse avere assai
agio a ragionare col Cardinale di quelle francioserie. E
perché innel pasteggiare vien detto di quelle cose, che
fuora di tale atto tal volta non si dirieno; per modo che, essendo
quel gran re Francesco in ogni cosa sua liberalissimo, e il
Cardinale, che sapeva bene il gusto del Re, ancora lui a pieno
compiacque al Papa molto piú di quello che il Papa non si
immaginava; di modo che il Papa era venuto in tanta letizia,
sí per questo e ancora perché gli usava una volta la
settimana di fare una crapula assai gagliarda, perché
dappoi la gomitava. Quando il Cardinale vidde la disposizione del
Papa, atta a compiacer grazie, mi chiese da parte del Re con
grande istanzia, mostrando che il Re aveva gran desiderio di tal
cosa. Allora il Papa, sentendosi appressare all'ora del suo
vomito, e perché la troppa abbundanzia del vino ancora
faceva l'uffizio suo, disse al Cardinale con gran risa: - Ora ora
voglio che ve lo meniate a casa - e date le ispresse commessione,
si levò da tavola; e il Cardinale subito mandò per
me, prima che il signior Pierluigi lo sapessi, perché non
m'arebbe lasciato in modo alcuno uscire di prigione. Venne il
mandato del Papa insieme con dua gran gentiluomini del ditto
cardinale di Ferrara, e alle quattro ore di notte passate mi
cavorno del ditto carcere e mi menorno dinanzi al Cardinale; il
quale mi fece innistimabile accoglienze; e quivi bene alloggiato
mi restai a godere. Messer Antonio, fratello del Castellano e in
luogo suo, volse che io gli pagassi tutte le spese, con tutti que'
vantaggi che usano volere e' bargelli e gente simile, né
volse osservare nulla di quello che il Castellano passato aveva
lasciato che per me si facessi. Questa cosa mi costò di
molte decine di scudi, e perché il Cardinale mi disse di
poi, che io stessi a buona guardia s'i' volevo bene alla vita mia,
e che se la sera lui non mi cavava di quel carcere, io non ero mai
per uscire; che di già avevo inteso dire che il Papa si
condoleva<B> </B>molto di avermi lasciato.
CXXVIII.<B> </B>M'è di necessità tornare
un passo indietro, perché innel mio capitolo s'interviene
tutte queste cose che io dico. Quando io stetti quei parecchi
giorni in camera del Cardinale e di poi innel giardin segreto del
Papa, infra gli altri mia cari amici mi venne a trovare un
cassiere di messer Bindo Altoviti, il quale per nome era chiamato
Bernardo Galluzzi; a il quale io aveva fidato il valore di
parecchi centinaia di scudi; e questo giovane innel giardin
segreto del Papa mi venne a trovare e mi volse rendere ogni cosa;
onde io gli dissi che non sapevo dare la roba mia né a
'mico piú caro né in luogo dove io avessi pensato
che ella fussi piú sicura; il quale amico mio pareva che si
scontorcessi di non la volere, e io quasi che per forza gnele feci
serbare. Essendo l'ultima volta uscito del Castello, trovai che
quel povero giovane di questo Bernardo Galluzzi detto si era
rovinato; per la qualcosa io persi la roba mia. Ancora: nel tempo
che io ero in carcere, un terribil sogno mi fu fatto, modo che con
un calamo iscrittomi innella fronte parole di grandissima
importanza; e quello che me le fece mi replicò ben tre
volte, che io tacessi e non le riferissi ad altri. Quando io mi
svegliai, mi senti' la fronte contaminata. Però innel mio
Capitolo della prigione s'interviene moltissime di queste cotal
cose. Ancora: mi venne detto, non sapendo quello che io mi dicevo,
tutto quello che di poi intervenne al signor Pier Luigi, tanto
chiare e tanto appunto, che da me medesimo ho considerato che
propio uno Angel del Cielo me le dittassi. Ancora: non voglio
lasciare indrieto una cosa, la maggiore che sia intervenuto a un
altro uomo; qual è per iustificazione della divinità
de Dio e dei segreti sua, quale si degnò farmene degno: che
d'allora in qua, che io tal cosa vidi, mi restò uno
isplendore, cosa maravigliosa!, sopra il capo mio; il quale si
è evidente a ogni sorta di uomo a chi io l'ho voluto
mostrare, qual sono stati pochissimi. Questo si vede sopra l'ombra
mia la mattina innel levar del sole insino a dua ore di sole, e
molto meglio si vede quando l'erbetta ha addosso quella molle
rugiada; ancora si vede la sera al tramontar del sole. Io me ne
avveddi in Francia in Parigi, perché l'aria in quella parte
di là è tanto piú netta dalle nebbie, che
là si vedeva espressa molto meglio che in Italia,
perché le nebbie ci sono molto piú frequente; ma non
resta che a ogni modo io non la vegga; e la posso mostrare ad
altri, ma non sí bene come in quella parte ditta. Voglio
descrivere<B> </B>il mio Capitolo fatto in prigione e
in lode di detta prigione; di poi seguiterò i beni e' mali
accadutimi di tempo in tempo, e quelli ancora che mi accadranno
innella vita mia.
<I>Questo capitolo scrivo a Luca Martini chiamandolo in esso
come qui si sente.
</I>
Chi vuol saper quant'è il valor de Dio,
e quant'un uomo a quel Ben si assomiglia,
convien che stie 'n prigione, al parer mio;
sie carco di pensieri e di famiglia,
e qualche doglia<B> </B>per la sua persona,
e lunge esser venuto mille miglia.
Or se tu vuoi poter far cosa buona,
sie preso a torto, e poi istarvi assai,
e non avere aiuto da persona;
ancor ti rubin quel po' che tu hai:
pericol della vita; ebbistrattato,
senza speranza di salute mai.
E sforzinti gittare al disperato,
rompere il carcer, saltare il Castello:
poi sie rimesso in piú cattivo lato.
Ascolta, Luca, or che ne viene il bello:
aver rotto una gamba, esser giuntato,
la prigion molle e non aver mantello.
Né mai da nissuno ti sie parlato,
e ti porti il mangiar con trista nuova
un soldato, spezial, villan da Prato.
Or senti ben dove la gloria pruova:
non v'esser da seder, se non sul cesso;
pur sempre desto a far qualcosa nuova.
Al servitor comandamento spresso
che non ti oda parlar, né dièti nulla;
e la porta apra un picciol picciol fesso.
Or quest'è dove un bel cervel trastulla:
né carta, penna, inchiostro, ferro o fuoco,
e pien di bei pensier fin dalla culla.
La gran pietà, che se n'è detto
poco,
ma per ogniuna immàginane cento,
ché a tutte ho riservato parte e loco.
Or, per tornar al nostro primo entento,
e dir lode che merta la prigione:
non basteria del Ciel chiunche v'è drento.
Qua non si mette mai buone persone,
se non vien da ministri, o mal governo<B>, </B>
invidie, isdegno o per qualche quistione.
Per dir il ver di quel ch'io ne discerno,
qua si cognosce e sempre Idio si chiama,
sentendo ognor le pene dello Inferno.
Sie tristo un, quant'e' può al mondo, in
fama,
e stie 'n prigione in circa a dua mal'anni<B>, </B>
e' n'esce santo e savio, ed ogniun l'ama.
Qua s'affinisce l'alma, e 'l corpo, e' panni;
ed ogni omaccio grosso si assottiglia,
e vedesi del Ciel fino agli scanni.
Ti vo' contar una gran maraviglia:
venendomi di scrivere un capriccio,
che cose in un bisogno un uomo piglia.
Vo per la stanza, e' cigli e 'l capo arriccio,
poi mi drizzo a un taglio della porta,
e co' denti un pezzuol di legno spiccio;
e presi un pezzo di matton per sorta,
e rotto in polver ne ridussi un poco;
poi ne feci un savor coll'acqua morta.
Allora allor della poesia il fuoco
m'entrò nel corpo, e credo per la via
ond'esce il pan; ché non v'era altro loco.
Per tornare a mia prima fantasia,
convien, chi vuol saper che cosa è 'l bene,
prima che sappia il mal, che Dio gli dia.
D'ogn'arte la prigion sa fare e tiene:
se tu volessi ben dello speziale,
ti fa sudare il sangue per le vene.
Poi l'ha in sé un certo naturale,
ti fa loquente, animoso e audace,
carco di bei pensieri in bene e in male.
Buon per colui che lungo tempo iace
'n una scura prigion, e po' alfin n'esca:
sa ragionar di guerra, triegua e pace.
Gli è forza che ogni cosa gli riesca;
ché quella fal'uom sí di virtú pieno,
che 'l cervel non gli fapoi la moresca.
Tu mi potresti dir: - Quelli anni hai meno -:
E' non è 'l ver, ché la t'insegna un modo
ch'empier te ne puo' poi 'l petto e 'l seno.
In quanto a me, per quanto io so, la lodo;
ma vorrei ben ch'e' s'usassi una legge:
chi piú la merta non andassi in frodo.
Ogni uom, ch'è dato in cura al pover
gregge,
addottorar vorries' in la prigione,
perché sapria ben poi come si regge.
Faria le cose come le persone,
e non s'uscirai mai del seminato,
né si vedria sí gran confusione.
In questo tempo ch'io ci sono stato,
io ci ho veduti frati, preti e gente,
e starci men chi piú l'ha meritato.
Se tu sapessi il gran duol che si sente,
se 'nanzi a te<B> </B>se ne va un di loro!
Quasi che d'esser nato l'uom si pente.
Non vo' dir piú: son diventato d'oro,
qual non si spende cosí facilmente,
né se ne faria troppo buon lavoro.
E' m'è venuto un'altra cosa a mente,
ch'io non t'ho detto, Luca: ov'io lo scrissi,
fu in su'n un libro d'un nostro parente,
che in sulle margin per lo lungo missi
questo gran duol che m'ha le membra istorte,
e che il savor non correva, ti dissi;
che a far un O bisognava tre volte
'ntigner lo stecco; che altro duol non stimo
sia nello Inferno fra l'anime avolte.
Or poi che attorto qui no sono 'l primo,
di questo taccio; e torno alla prigione,
dove il cervel e 'l cuor pel duol mi limo.
Io piú la lodo che l'altre persone;
e volendo far dotto un che non sa,
sanza essa non si può far cose buone.
Oh fusse, come io lessi poco fa,
un che dicessi come alla Piscina:
- Piglia i tua panni, Benvenuto, e va'! -
canteria 'l Credo e la Salveregina,
il Paternostro, e poi daria la mancia
a ciechi, pover, zoppi ogni mattina.
Oh quante volte m'han fatto la guancia
pallida e smorta questi gigli, a tale
ch'io non vo' piú né Firenze né Francia!
E se m'avien ch'io vada allo spedale,
e dipinto vi sia la Nunziata,
fuggirò, ch'io parrò uno animale.
Non dico già per Lei, degna e sagrata,
né de' suoi gigli glorïosi e santi,
che hanno il cielo e la terra inluminata;
ma, perché ognior ne veggo su pe' canti
di quei che hanno le lor foglie a uncini,
arò paur che non sien di quei tanti.
Oh quanti come me vanno tapini,
qual nati, qual serviti a questa impresa,
spirti chiari, leggiadri, alti e divini!
Vidi cader la mortifer'impresa
dal ciel veloce, fra la gente vana,
poi nella pietra nuova lampa accesa;
del Castel prima romper la campana,
che io n'uscissi; e me l'aveva detto
Colui che in Cielo e in terra il vero spiana;
di bruno, appresso a questo, un cataletto
di gigli rotti ornato; pianti e croce,
e molti afflitti per dolor nel letto.
Viddi colei che l'alme affligge e cuoce,
che spaventava or questo, or quel; poi disse:
- Portar ne vo' nel sen chiunche a te nuoce -.
Quel Degno poi nella mia fronte scrisse
col calamo di Pietro a me parole,
e ch'io tacessi ben tre volte disse.
Vidi Colui che caccia e affrena il sole,
vestito d'esso in mezzo alla sua Corte,
qual occhio mortal mai veder non suole.
Cantava un passer solitario forte
sopra la ròcca; ond'io - Per certo - dissi,
- Quel mi predice vita, e a voi morte -.
E le mie gran ragion cantai e scrissi,
chiedendo solo a Dio perdon, soccorso,
ché sentia spegner gli occhi a morte fissi.
Non fu mai lupo, leon, tigre, e orso
piú setoso di quel, del sangue umano,
né vipra mai piú venenoso morso;
quest'era un crudel ladro capitano,
'l maggior ribaldo, con certi altri tristi;
ma perché ogniun nol sappia il dirò piano.
Se avete birri affamati mai visti,
ch'entrino appegnorar un poveretto,
gittar per terra Nostredonne e Cristi,
il dí d'agosto vennon per dispetto
a tramutarmi una piú trista tomba:
- Novembre: ciascun sperso e maladetto -.
Ave' agli orecchi una tal vera tromba,
che 'l tutto mi diceva, ed io a loro,
sanza pensar, perché 'l dolor si sgombra.
E quando privi di speranza foro,
mi detton, per uccidermi, un diamante
pesto a mangiare, e non legato in oro.
Chiesi credenza a quel villan furfante,
che 'l cibo mi portava; e da me dissi:
- Non fu quel già 'l nimico mio durante -.
Ma prima i mie' pensieri a Dio remissi,
pregandol perdonassi 'l mio peccato;
e <I>Miserere</I> lacrimando dissi.
Del gran dolore alquanto un po' quietato,
rendendo volentieri a Dio quest'alma,
contento a miglior regno e d'altro stato,
scender dal Ciel con gloriosa palma
un Angel vidi; e poi con lieto volto
promisse al viver mio piú lunga salma,
dicendo a me: - Per Dio, prima fie tolto
ogni avversario tuo con aspra guerra,
restando tu filice, lieto e sciolto,
in grazia a Quel ch'è Padre in cielo e
'n terra.
LIBRO SECONDO
I. Standomi innel palazzo del sopraditto cardinal di Ferrara,
molto ben veduto universalmente da ogniuno, e molto maggiormente
visitato che prima non ero fatto, maravigliandosi ogni uomo
piú dello essere uscito e vivuto infra tanti ismisurati
affanni; in mentre che io ripigliavo il fiato, ingegnandomi di
ricordarmi dell'arte mia, presi grandissimo piacere di riscrivere
questo soprascritto capitolo. Di poi, per meglio ripigliar le
forze, presi per partito di andarmi a spasso all'aria<B>
</B>qualche giorno, e con licenzia e cavagli del mio buon
Cardinale, insieme con dua giovani romani, che uno era lavorante
dell'arte mia; l'altro suo compagno non era de l'arte, ma venne
per tenermi compagnia. Uscito di Roma, me ne andai alla volta di
Tagliacozze, pensando trovarvi Ascanio, allevato mio sopraditto; e
giunto in Tagliacozze, trovai Ascanio ditto insieme con suo padre
e frategli e sorelle e matrigna. Dalloro per dua giorni fu'
carezzato, che impossibile saria il dirlo: partimmi per alla volta
di Roma, e meco ne menai Ascanio. Per la strada cominciammo a
ragionare dell'arte, di modo che io mi struggevo di ritornare a
Roma, per ricominciare le opere mie. Giunti che noi fummo a Roma,
subito mi accomodai da lavorare; e ritrovato un bacino d'argento,
il quale avevo cominciato per il Cardinale innanzi che io fussi
carcerato: insieme col ditto bacino si era cominciato un
bellissimo boccaletto: questo mi fu rubato con molta
quantità di altre cose di molto valore. Innel detto bacino
facevo lavorare Pagolo sopraditto. Ancora ricominciai il boccale,
il quale era composto di figurine tonde e di basso rilievo; e
similmente era composto di figure tonde e di pesci di basso
rilievo il detto bacino, tanto ricco e tanto bene accomodato, che
ogniuno che lo vedeva restava maravigliato, sí per la forza
del disegno e per la invenzione e per la pulizia che usavono quei
giovani in su dette opere. Veniva il Cardinale ogni giorno almanco
dua volte a starsi meco, insieme con messer Luigi Alamanni e con
messer Gabbriel Cesano, e quivi per qualche ora si passava
lietamente tempo. Non istante che io avessi assai da fare, ancora
mi abbundava di nuove opere; e mi dette a fare il suo suggello
pontificale, il quale fu di grandezza quanto una mana d'un
fanciullo di dodici anni; e in esso suggello intagliai dua
istoriette in cavo; che l'una fu quando san Giovanni predicava nel
diserto, l'altra quando sant'Ambruogio scacciava quelli Ariani,
figurato in su'n un cavallo con una sferza in mano, con tanto
ardire e buon disegno, e tanto pulitamente lavorato, che ogniuno
diceva che io avevo passato quel gran Lautizio il quale faceva
solo questa professione; e il Cardinale lo paragonava per propria
boria con gli altri suggelli dei cardinali di Roma, quali erano
quasi tutti di mano del sopraditto Lautizio.
II. Ancora m'aggiunse il Cardinale, insieme con quei dua sopra
ditti, che io gli dovessi fare un modello d'una saliera; ma che
arebbe voluto uscir dell'ordinario di quei che avean fatte
saliere. Messer Luigi,<B> </B>sopra questo,
approposito di questo sale, disse molte mirabil cose; messer
Gabbriello Cesano ancora lui in questo proposito disse cose
bellissime. Il Cardinale, molto benigno ascoltatore e saddisfatto
oltramodo delli disegni, che con parole aveano fatto questi dua
gran virtuosi, voltosi a me disse: - Benvenuto mio, il disegno di
messer Luigi e quello di messer Gabbriello mi piacciono tanto, che
io non saprei qual mi tòrre l'un de' dua; però a te
rimetto, che l'hai a mettere in opera -. Allora io dissi: -
Vedete, Signori, di quanta importanza sono i figliuoli de' re e
degli imperatori, e quel maraviglioso splendore e divinità
che in loro apparisce. Niente di manco se voi dimandate un povero
umile pastorello, a chi gli ha piú amore e piú
affezione, o a quei detti figliuoli o ai sua, per cosa certa
dirà d'avere piú amore ai sua figliuoli. Però
ancora io ho grande amore ai miei figliuoli, che di questa mia
professione partorisco: sí che 'l primo che io vi
mostrerrò, Monsignor reverendissimo mio patrone,
sarà mia opera e mia invenzione; perché molte cose
son belle da dire, che faccendole poi non s'accompagnano bene in
opera -. E voltomi a que' dua gran virtuosi, dissi: - Voi avete
detto e io farò -. Messer Luigi Alamanni allora ridendo,
con grandissima piacevolezza, in mio favore aggiunse molte
virtuose parole: e allui s'avvenivano, perché gli era bello
d'aspetto e di proporzion di corpo, e con suave voce. Messer
Gabbriello Cesano era tutto il rovescio, tanto brutto e tanto
dispiacevole; e cosí sicondo la sua forma parlò.
Aveva messer Luigi con le parole disegnato che io facessi una
Venere con un Cupido, insieme con molte galanterie, tutte a
proposito; messer Gabbriello aveva disegnato che io facessi una
Amfitrite moglie di Nettunno, insieme con di quei Tritoni di
Nettunno e molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare.
Io feci una forma ovata<B> </B>di grandezza di
piú d'un mezzo braccio assai bene, quasi dua terzi, e sopra
detta forma, sicondo che mostra il Mare abbracciarsi con la Terra,
feci dua figure grande piú d'un palmo assai bene, le quale
stavano a sedere entrando colle gambe l'una nell'altra, sí
come si vede certi rami di mare lunghi che entran nella terra; e
in mano al mastio Mare<B> </B>messi una nave
ricchissimamente lavorata: innessa nave accomodatamente e bene
stava di molto sale; sotto al detto avevo accomodato quei quattro
cavalli marittimi: innella destra del ditto Mare avevo messo il
suo tridente. La Terra avevo fatta una femmina tanto di bella
forma quanto io avevo potuto e saputo, bella e graziata; e in mano
alla ditta avevo posto un tempio ricco e adorno, posato in terra;
e lei in sun esso appoggiava con la ditta mano; questo avevo fatto
per tenere il pepe. Nell'altra mano posto un corno di dovizia,
addorno con tutte le bellezze che io sapevo al mondo. Sotto questa
Iddea<B>, </B>e in quella parte che si mostrava esser
terra, avevo accomodato tutti quei piú bei animali che
produce la terra. Sotto la parte del Mare avevo figurato tutta la
bella sorte di pesci e chiocciolette, che comportar poteva quel
poco ispazio: quel resto de l'ovato, nella grossezza sua, feci
molti ricchissimi ornamenti. Poi aspettato il Cardinale, qual
venne con quelli dua virtuosi, trassi fuora questa mia opera di
cera: alla quale con molto romore fu il primo messer Gabbriel
Cesano, e disse: - Questa è un'opera da non si finire
innella vita di dieci uomini; e voi, Monsignore reverendissimo,
che la vorresti, a vita vostra non l'aresti mai; però
Benvenuto v'ha voluto mostrare de' sua figliuoli, ma non dare,
come facevàno noi, i quali dicevamo di quelle cose che si
potevano fare; e lui v'ha mostro di quelle che non si posson fare
-. A questo, messer Luigi Alamanni prese la parte mia. [Il
Cardinale disse] che non voleva entrare in sí grande
inpresa. Allora io mi volsi a loro, e dissi: - Monsignore
reverendissimo, e a voi pien di virtú, dico, che questa
opera io spero di farla a chi l'arà avere, e ciascun di voi
la vedrete finita piú ricca l'un cento<B>
</B>che 'l modello; e spero che ci avanzi ancora assai tempo
da farne di quelle molto maggiori di questa -. Il Cardinale disse
isdegnato: - Non la faccendo al Re, dove io ti meno, non credo che
ad altri la possa fare - e mostratomi le lettere, dove il Re in un
capitolo iscriveva che presto tornassi menando seco Benvenuto, io
alzai le mane al cielo dicendo: - Oh quando verrà questo
presto? - Il Cardinale disse che io dessi ordine e spedissi le
faccende mie, che io avevo in Roma, in fra dieci giorni.
III. Venuto il tempo della partita, mi donò un cavallo
bello e buono; e lo domandava Tornon, perché il cardinal
Tornon l'aveva donato a lui. Ancora Pagolo e Ascanio, mia
allevati, furno provisti di cavalcature. Il Cardinale divise la
sua Corte, la quale era grandissima: una parte piú nobile
ne menò seco: con essa fece la via della Romagna, per
andare a visitare la Madonna del Loreto, e di quivi poi a Ferrara,
casa sua; l'altra parte dirizzò per la volta di Firenze.
Questa era la maggior parte; ed era una gran quantità, con
la bellezza della sua cavalleria. A me disse che se io volevo
andar sicuro, che io andassi seco: quando che no, che io portavo
pericolo della vita. Io detti intenzione a Sua Signoria
reverendissima di andarmene seco; e cosí come quel
ch'è ordinato dai Cieli convien che sia, piacque a Dio che
mi tornò in memoria la mia povera sorella carnale, la quale
aveva auto tanti gran dispiaceri de' miei gran mali. Ancora mi
tornò in memoria le mie sorelle cugine, le quali erano a
Viterbo monache, una badessa e l'altra camarlinga, tanto che
l'eran governatrice di quel ricco monisterio; e avendo aùto
per me tanti grevi affanni e per me fatto tante orazione, che io
mi tenevo certissimo per le orazioni di quelle povere verginelle
d'avere impetrato la grazia da Dio della mia salute. Però
venutemi tutte queste cose in memoria, mi volsi per la volta di
Firenze; e dove io sarei andato franco di spese o col Cardinale o
coll'altro suo traino, io me ne volsi andare da per me; e
m'accompagnai con un maestro di oriuoli eccellentissimo, che si
domandava maestro Cherubino, molto mio amico. Trovandoci a caso,
facevamo quel viaggio molto piacevole insieme. Essendomi partito
el lunedí santo<B> </B>di Roma, ce ne venimmo
soli noi tre, e a Monteruosi trovai la ditta compagnia; e
perché io avevo dato intenzione di andarmene col Cardinale,
non pensavo che nissuno di quei miei nimici m'avessino aùto
a vigilare altrimenti. Certo che io capitavo male a Monteruosi,
perché innanzi a noi era istato mandato una frotta di
uomini bene armati, per farmi dispiacere; e volse Idio che in
mentre che noi desinavamo, loro, che avevano aùto indizio
che io me ne venivo sanza il traino del Cardinale, erano messisi
innordine<B> </B>per farmi male. In questo appunto
sopraggiunse il detto traino del Cardinale, e con esso lietamente
salvo me ne andai insino a Viterbo; ché da quivi in
là io non vi conoscevo poi pericolo, e maggiormente andavo
innanzi sempre parecchi miglia; e quegli uomini migliori che erano
in quel traino, tenevano molto conto di me. Arrivai lo Iddio
grazia sano e salvo a Viterbo, e quivi mi fu fatto grandissime
carezze da quelle mie sorelle e da tutto il monisterio.
IV. Partitomi di Viterbo con i sopraddetti, venimmo via
cavalcando, quando innanzi e quando indietro al ditto traino del
Cardinale, di modo che il giovedí santo a ventidua ore ci
trovammo presso Siena a una posta; e veduto io che v'era alcune
cavalle di ritorno, e che quei delle poste aspettavano di darle a
qualche passeggiere, per qualche poco guadagno, che alla posta di
Siena le rimenassi; veduto questo, io dismontai del mio cavallo
Tornon, e messi in su quella cavalla<B> </B>il mio
cucino e le staffe, e detti un giulio a un di quei garzoni delle
poste. Lasciato il mio cavallo a' mie' giovani che me lo
conducessino, subito innanzi m'avviai per giugnere in Siena una
mezz'ora prima, sí per vicitare alcuno mio amico, e per
fare qualche altra mia faccenda: però, se bene io venni
presto, io non corsi la detta cavalla. Giunto che io fui in Siena,
presi le camere all'osteria, buone che ci faceva di bisogno per
cinque persone, e per il garzon de l'oste rimandai la detta
cavalla alla posta, che stava fuori della porta a Camollía;
e in su detta cavalla m'avevo isdementicato<B> </B>le
mie staffe e il mio cucino. Passammo la sera del giovedí
santo molto lietamente: la mattina poi, che fu il venerdí
santo, io mi ricordai delle mie staffe e del mio cucino. Mandato
per esso, quel maestro delle poste disse che non me lo voleva
rendere, perché io avevo corso la sua cavalla. Piú
volte si mandò innanzi e indietro e il detto sempre diceva
di non me le voler rendere, con molte ingiuriose e insopportabil
parole; e l'oste, dove io ero alloggiato, mi disse: - Voi n'andate
bene se egli non vi fa altro che non vi rendere il cucino e le
staffe - e aggiunse dicendo: - Sappiate che quello è il
piú bestial uomo che avessi mai questa città; e ha
quivi duoi figliuoli uomini, soldati bravissimi, piú
bestiali di lui; sí che ricomperate quel che vi bisogna, e
passate via sanza dirgli niente -. Ricomperai un paio di staffe,
pur pensando con amorevol parole di riavere il mio buon cucino: e
perché io ero molto bene a cavallo, e bene armato di giaco
e maniche, e con un mirabile archibuso all'arcione, non mi faceva
spavento quelle gran bestialità che colui diceva che aveva
quella pazza bestia. Ancora avevo avezzo quei mia giovani a
portare giaco e maniche, e molto mi fidavo di quel giovane romano
che mi pareva che non se lo cavassi mai, mentre che noi stavamo in
Roma. Ancora Ascanio, ch'era pur giovanetto, ancora lui lo
portava: e per essere il venerdí santo, mi pensavo che la
pazzia de' pazzi dovesse pure avere qualche poco di feria.
Giugnemmo alla ditta porta a Camollía; per la qual cosa io
viddi e cognobbi, per i contrasegni che m'eran dati, per esser
cieco de l'occhio manco, questo maestro delle poste. Fattomigli
incontro, e lasciato da banda quei mia giovani e quei compagni,
piacevolmente dissi: - Maestro delle poste, se io vi fo sicuro che
io non ho corso la vostra cavalla, perché non sarete voi
contento di rendermi il mio cucino e le mie staffe? - A questo lui
rispose veramente in quel modo pazzo, bestiale che m'era stato
detto. Per la qual cosa io gli dissi: - Come non siate voi
cristiano? O volete voi 'n un venerdí santo scandalizzare e
voi e me? - Disse che non gli dava noia o venerdí santo o
venerdí diavolo, e che, se io non mi gli levavo d'inanzi,
con uno spuntone che gli aveva preso, mi traboccherebbe<B>
</B>in terra insieme con quell'archibuso che io avevo in
mano. A queste rigorose parole s'accostò un gentiluomo
vecchio, sanese, vestito alla civile, il qual tornava da far di
quelle divozione che si usano in un cotal giorno; e avendo sentito
di lontano benissimo tutte le mie ragione, arditamente
s'accostò a riprendere il detto maestro delle poste,
pigliando la parte mia, e garriva li sua dua figliuoli
perché e' non facevano il dovere ai forestieri che
passavano, e che a quel modo e' facevano contro a Dio, e davano
biasimo alla città di Siena. Quei dua giovani suoi
figliuoli, scrollato il capo sanza dir nulla, se ne andorno in
là, nel drento della lor casa. Lo arrabbiato padre
invelenito dalle parole di quello onorato gentiluomo, subito con
vituperose bestemmie abbassò lo spuntone, giurando che con
esso mi voleva ammazzare a ogni modo. Veduto questa bestial
resoluzione, per tenerlo alquanto indietro, feci segno di
mostrargli la bocca del mio archibuso. Costui piú furioso
gittandomisi addosso, l'archibuso che io avevo in mano, se bene in
ordine per la mia difesa, non l'avevo abbassato ancora tanto, che
fussi arrincontro di lui, anzi era colla bocca alta; e da per
sé dette fuoco. La palla percosse nell'arco della porta, e
sbattuta indietro, colse nella canna della gola del detto, il
quale cadde in terra morto. Corsono i dua figliuoli velocemente, e
preso l'arme da un rastrello uno, l'altro prese lo spuntone del
padre; e gittatisi addosso a quei mia giovani, quel figliuolo che
aveva lo spuntone investí il primo Pagolo romano sopra la
poppa manca; l'altro corse addosso a un milanese, che era in
nostra compagnia, il quale aveva viso di pazzo: e non valse
raccomandarsi dicendo che non aveva che far meco, e difendendosi
dalla punta d'una partigiana<B> </B>con un bastoncello
che gli aveva in mano: con il quale non possette tanto ischermire
che fu investito un poco nella bocca. Quel messer Cherubino era
vestito da prete, e se bene egli era maestro di oriuoli
eccellentissimo, come io dissi, aveva aùto benefizii dal
Papa con buone entrate. Ascanio, se bene egli era armato
benissimo, non fece segno di fuggire, come aveva fatto quel
milanese; di modo che questi dua non furno tocchi. Io, che avevo
dato di piè al cavallo e in mentre che lui galoppava,
prestamente avevo rimesso in ordine e carico il mio archibuso e
tornavo arrovellato<B></B>indietro, parendomi aver
fatto da motteggio,<B> </B>per voler fare daddovero, e
pensavo che quei mia giovani fussino stati ammazzati, resoluto
andavo per morire anch'io. Non molti passi corse il cavallo
indietro, che io riscontrai che inverso me venivano, ai quali io
domandai se gli avevano male. Rispose Ascanio, che Pagolo era
ferito d'uno spuntone a morte. Allora io dissi: - O Pagolo
figliuol mio! Addunche lo spuntone ha sfondato il giaco? - No -
disse - ché il giaco avevo messo nella bisaccia questa
mattina -. Addunche e' giachi si portano per Roma per mostrarsi
bello alle dame? e inne' luoghi pericolosi, dove fa mestiero
avergli, si tengono alla bisaccia? Tutti e' mali che tu hai, ti
stanno molto bene e se' causa che io voglio andare a morire quivi
anch'io or ora - e in mentre che io dicevo queste parole, sempre
tornavo indietro gagliardamente. Ascanio e lui mi pregavono che io
fussi contento per l'amor de Dio salvarmi e salvargli,
perché sicuro s'andava alla morte. In questo scontrai quel
messer Cherubino, insieme con quel milanese ferito: subito mi
sgridò, dicendo che nissuno non aveva male, e che il colpo
di Pagolo era ito tanto ritto, che non era isfondato; e che quel
vecchio delle poste era restato in terra morto, e che i figliuoli,
con altre persone assai, s'erano messi in ordine, e che al sicuro
ci arebbon tagliati tutti a pezzi: - Sicché, Benvenuto,
poiché la fortuna ci ha salvati da quella prima furia, non
la tentar piú, ché la non ci salverebbe -. Allora io
dissi: - Da poi che voi sete contenti cosí, ancora io son
contento - e voltomi a Pagolo e Ascanio, dissi loro: - Date di
piè a' vostri cavalli, e galoppiamo insino a
Staggia<B> </B>sanza mai fermarci, e quivi saremo
sicuri -. Quel milanese ferito disse: - Che venga il canchero ai
peccati! ché questo male che io ho, fu solo per il peccato
d'un po' di minestra di carne che io mangiai ieri, non avendo
altro che desinare -. Con tutte queste gran tribulazioni che noi
avevamo, fummo forzati a fare un poco di segno di ridere di quella
bestia e di quelle sciocche parole che lui aveva detto. Demmo di
piedi a' cavagli, e lasciammo messer Cherubino e 'l milanese, che
a loro agio se ne venissino.
V. Intanto e' figliuoli del morto corsono al Duca di Melfi, che
dessi loro parecchi cavagli leggieri, per raggiugnerci e
pigliarci. Il detto Duca, saputo che noi eramo degli uomini del
cardinale di Ferrara, non volse dare né cavagli né
licenzia. Intanto noi giugnemmo a Staggia, dove ivi<B>
</B>noi fummo sicuri. Giunti in Istaggia, cercammo d'un
medico, il meglio che in quel luogo si poteva avere: e fatto
vedere il detto Pagolo, la ferita andava pelle pelle, e cognobbi
che non arebbe male. Facemmo mettere in ordine da desinare.
Intanto comparse messer Cherubino e quel pazzo di quel milanese,
che continuamente mandava il canchero alle quistione, e diceva
d'essere iscomunicato, perché non aveva potuto dire in
quella santa mattina un sol Paternostro. Per essere costui brutto
di viso, e la bocca aveva grande per natura; da poi per la ferita
che in essa aveva auta gli era cresciuta la bocca piú di
tre dita; e con quel suo giulío parlar milanese, e con essa
lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci davano tanta
occasione di ridere, che in cambio di condolerci della fortuna,
non possevamo<B> </B>fare di non ridere a ogni parola
che costui diceva. Volendogli il medico cucire quella ferita della
bocca, avendo fitto di già tre punti, disse al medico che
sostenessi alquanto, ché non arebbe voluto che per qualche
nimicizia e' gliene avessi cucita tutta: e messe mano a un
cucchiaio, e diceva che voleva che lui gnene lasciassi tanto
aperta, che quel cucchiaio v'entrassi, acciò che potessi
tornar vivo alle sue brigate. Queste parole che costui diceva con
certi scrollamenti di testa, davano sí grande occasione di
ridere, che in cambio di condolerci della nostra mala fortuna, noi
non restammo mai di ridere; e cosí sempre ridendo ci
conducemmo a Firenze. Andammo a scavalcare a casa della mia povera
sorella, dove noi fummo dal mio cognato e dallei molto
maravigliosamente carezzati. Quel messer Cherubino e 'l milanese
andorno ai fatti loro. Noi restammo in Firenze per quattro giorni,
inne' quali si guarí Pagolo; ma era ben gran cosa, che
continuamente che e' si parlava di quella bestia del milanese, ci
moveva a tante risa, quanto ci moveva a pianto l'altre disgrazie
avvenute; di modo che continuamente in un tempo medesimo si rideva
e piagneva. Facilmente guarí Pagolo: di poi ce ne andammo
alla volta di Ferrara, e il nostro Cardinale trovammo che ancora
non era arrivato a Ferrara, e aveva inteso tutti e' nostri
accidenti; e condolendosi disse: - Io priego Idio che mi dia tanta
grazia che io ti conduca vivo a quel Re che io t'ho promesso -. Il
ditto Cardinale mi consegnò<B> </B>in Ferrara
un suo palazzo, luogo bellissimo, dimandato Belfiore: confina con
le mura della città: quivi mi fece acconciare da lavorare.
Di poi dette ordine di partirsi sanza me alla volta di Francia; e
veduto che io restavo molto mal contento, mi disse: - Benvenuto,
tutto quello che io fo si è per la salute tua;
perché innanzi che io ti levi della Italia, io voglio che
tu sappia benissimo in prima quel che tu vieni a fare in Francia:
in questo mezzo sollecita il piú che tu puoi questo mio
bacino e boccaletto; e tutto quel che tu hai di bisogno
lascerò ordine a un mio fattore che te lo dia -. E
partitosi, io rimasi molto mal contento, e piú volte ebbi
voglia di andarmi con Dio: ma sol mi teneva quell'avermi libero da
papa Pagolo, perché del resto io stavo mal contento e con
mio gran danno. Pure, vestitomi di quella gratitudine che meritava
il benifizio ricevuto, mi disposi aver pazienzia e vedere che fine
aveva da 'vere questa faccenda; e messomi a lavorare con quei dua
mia giovani, tirai molto maravigliosamente innanzi quel boccale e
quel bacino. Dove noi eramo alloggiati era l'aria cattiva, e per
venire verso la state, tutti ci ammalammo un poco. In queste
nostre indisposizione andavamo guardando il luogo dove noi eramo,
il quale era grandissimo, e lasciato salvatico quasi un miglio di
terreno scoperto, innel quale era tanti pagoni nostrali, che come
uccei salvatici ivi covavano. Avvedutomi di questo, acconciai il
mio scoppietto con certa polvere senza far romore; di poi
appostavo di quei pagoni giovani, e ogni dua giorni io ne
ammazzavo uno, il quale larghissimamente ci nutriva, ma di tanta
virtú che tutte le malattie da noi si partirno: e
attendemmo quei parecchi mesi lietissimamente a lavorare, e
tirammo innanzi quel boccale e quel bacino, quale era opera che
portava<B> </B>molto gran tempo.
VI. In questo tempo il Duca di Ferrara s'accordò con papa
Pagolo romano certe lor differenze antiche, che gli avevano di
Modana<B> </B>e di certe altre città; le quali,
per averci ragione la Chiesa, il Duca fece questa pace col ditto
Papa con forza di danari: la qual quantità fu grande: credo
che la passassi piú di trecento mila ducati di Camera.
Aveva il Duca in questo tempo un suo tesauriere vecchio, allievo
del duca Alfonso suo padre, il quale si domandava messer Girolamo
Giliolo. Non poteva questo vecchio sopportare questa ingiuria di
questi tanti danari che andavano al Papa, e andava gridando per le
strade, dicendo: - Il Duca Alfonso suo padre con questi danari gli
arebbe piú presto con essi tolto Roma, che mostratigliele -
e non v'era ordine che gli volessi pagare. All'ultimo poi sforzato
il Duca a fargnene pagare, venne a questo vecchio un flusso
sí grande di corpo, che lo condusse vicino alla morte. In
questo mezzo che lui stava ammalato, mi chiamò il ditto
Duca e volse che io lo ritraessi, la qual cosa io feci innun tondo
di pietra nera, grande quanto un taglieretto da tavola. Piaceva al
Duca quelle mie fatiche insieme con molti piacevoli ragionamenti;
le qual dua cose ispesso causavano che quattro e cinque ore il
manco istava attento a lasciarsi ritrarre, e alcune volte mi
faceva cenare alla sua tavola. In ispazio d'otto giorni io gli
fini' questo ritratto della sua testa: di poi mi comandò
che io facessi il rovescio; il quale si era figurata per la
Pace<B> </B>una femmina con una faccellina in mano,
che ardeva un trufeo d'arme: la quale io feci, questa ditta
femmina, in istatura lieta,<B> </B>con panni
sottilissimi, di bellissima grazia; e sotto i piedi di lei figurai
afflitto e mesto, e legato con molte catene, il disperato Furore.
Questa opera io la feci con molto istudio, e la detta mi fece
grandissimo onore. Il Duca non si poteva saziare di chiamarsi
sattisfatto, e mi dette le lettere per la testa di Sua Eccellenzia
e per il rovescio. Quelle del rovescio dicevano <I>"Pretiosa
in conspectu Domini"</I>. Mostrava che quella pace s'era
venduta per prezzo di danari.
VII. In questo tempo, che io messi a fare questo ditto
rovescio, il Cardinale m'aveva scritto dicendomi che io mi
mettessi in ordine, perché il Re m'aveva domandato: e che
alle prime lettere sue s'arebbe l'ordine di tutto quello che lui
m'aveva promesso. Io feci incassare il mio bacino e 'l mio boccale
bene acconcio; e l'avevo di già mostro al Duca. Faceva le
faccende del Cardinale un gentiluomo ferrarese, il qual si
chiamava per nome messer Alberto Bendedio. Questo uomo era stato
in casa dodici anni sanza uscirne mai, causa d'una sua
infirmità. Un giorno con grandissima prestezza mandò
per me, dicendomi che io dovessi montare in poste subito per
andare a trovare il Re, il quale con grand'istanzia m'aveva
domandato, pensando che io fussi in Francia. Il Cardinale per
iscusa sua aveva detto che io ero restato a una sua badia in
Lione, un poco ammalato, ma che farebbe che io sarei presto da Sua
Maestà; però faceva questa diligenza<B>
</B>che io corressi in poste. Questo messer Alberto era
grande uomo da bene, ma era superbo, e per la malattia superbo
insopportabile; e sí come io dico, mi disse che io mi
mettessi in ordine presto, per correre in poste. Al quale io dissi
che l'arte mia non si faceva in poste, e che se io vi avevo da
'ndare, volevo andarvi a piacevol giornate e menar meco Ascanio e
Pagolo, mia lavoranti, i quali avevo levati di Roma; e di
piú volevo un servitore con esso noi a cavallo, per mio
servizio, e tanti danari che bastassino a condurmivi. Questo
vecchio infermo con superbissime parole mi rispose, che in quel
modo che io dicevo, e non altrimenti, andavano i figliuoli del
Duca. Allui subito risposi che i figliuoli de l'arte mia andavano
in quel modo che io avevo detto; e per non essere stato mai
figliuol di duca, quelli non sapevo come s'andassino; e che se gli
usava meco quelle istratte parole ai mia orecchi, che io non
v'andrei in modo nessuno, sí per avermi mancato il
Cardinale della fede sua e, arrotomi poi queste villane parole, io
mi risolverei sicuramente di non mi voler impacciare con
ferraresi; e voltogli le stiene, io brontolando e lui bravando, mi
parti'. Andai a trovare il sopraditto Duca con la sua medaglia
finita; il quale mi fece le piú onorate carezze che mai si
facessino a uomo del mondo: e aveva commesso a quel suo messer
Girolamo Giliolo, che per quelle mie fatiche trovassi uno anello
d'un diamante di valore di ducento scudi, e che lo dessi al
Fiaschino suo cameriere, il quale me lo dessi. Cosí fu
fatto. Il ditto Fiaschino, la sera che il giorno gli avevo dato la
medaglia, a un'ora di notte mi porse uno anello drentovi un
diamante, il quale aveva gran mostra; e disse queste parole da
parte del suo Duca: che quella unica virtuosa mano, che tanto bene
aveva operato, per memoria di Sua Eccellenzia con quel diamante si
adornassi la ditta mano. Venuto il giorno, io guardai il ditto
anello, il quale era un diamantaccio sottile, il valore d'un dieci
scudi in circa. E perché quelle tante meravigliose parole,
che quel Duca m'aveva fatto usare, io, che non volsi che le
fussino vestite di un cosí poco premio, pensando il Duca
d'avermi ben sattisfatto; e io che m'immaginai che la venissi da
quel suo furfante tesauriere, detti l'anello a un mio amico, che
lo rendessi al cameriere Fiaschino, in ogni modo che egli poteva.
Questo fu Bernardo Saliti, che fece questo uffizio mirabilmente.
Il detto Fiaschino subito mi venne a trovare con grandissime
sclamazioni, dicendomi che se il Duca sapeva che io gli rimandassi
un presente in quel modo, che lui cosí benignamente m'aveva
donato, che egli l'arebbe molto per male, e forse me ne potrei
pentire. Al ditto risposi, che l'anello che Sua Eccellenzia m'avea
donato, era di valore d'un dieci scudi in circa, e che l'opera che
io avevo fatta a Sua Eccellenzia valeva piú di ducento; ma
per mostrare a Sua Eccellenzia che io stimavo l'atto della sua
gentilezza, che solo mi mandassi uno anello del granchio, di
quelli che vengon d'Inghilterra che vagliono un carlino in circa;
quello io lo terrei per memoria di Sua Eccellenzia in sin che io
vivessi, insieme con quelle onorate parole che Sua Eccellenzia
m'aveva fatto porgere; perché io facevo conto che lo
splendore di Sua Eccellenzia avessi largamente pagato le mie
fatiche, dove quella bassa gioia me le vituperava. Queste parole
furno di tanto dispiacere al Duca, che egli chiamò quel suo
detto tesauriere, e gli disse villania, la maggiore che mai pel
passato lui gli avessi detto; e a me fe' comandare, sotto pena
della disgrazia sua, che io non partissi di Ferrara se lui non me
lo faceva intendere; e al suo tesauriere comandò che mi
dessi un diamante che arrivassi a trecento scudi. L'avaro
tesauriere ne trovò uno che passava di poco sessanta scudi,
e dette ad intendere che il ditto diamante valeva molto piú
di dugento.
VIII. Intanto il sopra ditto messer Alberto aveva ripreso la buona
via, e m'aveva provisto di tutto quello che io avevo domandato.
Eromi quel dí disposto di partirmi di Ferrara a ogni modo;
ma quel diligente cameriere del Duca aveva ordinato col ditto
messer Alberto, che per quel dí io non avessi cavalli.
Avevo carico un mulo di molte mia bagaglie, e con esse avevo
incassato quel bacino e quel boccale che fatto avevo per il
Cardinale. In questo sopraggiunse un gentiluomo ferrarese, il
quale si domandava per nome messer Alfonso de' Trotti. Questo
gentiluomo era molto vecchio e era persona affettatissima, e si
dilettava delle virtú grandemente; ma era una di quelle
persone che sono difficilissime a contentare; e se per aventura
elle s'abbattono mai a vedere qualche cosa che piaccia loro, se la
dipingono tanto eccellente nel cervello, che mai piú
pensono di rivedere altra cosa che piaccia loro. Giunse questo
messer Alfonso; per la qual cosa messer Alberto gli disse: - A me
sa male che voi sete venuto tardi: perché di già
s'è incassato e fermo<B> </B>quel boccale e
quel bacino che noi mandiamo al Cardinale di Francia -. Questo
messer Alfonso disse che non se ne curava; e accennato a un suo
servitore, lo mandò a casa sua: il quale portò un
boccale di terra bianca, di quelle terre di Faenza, molto
dilicatamente lavorato. In mentre che il servitore andò e
tornò, questo messer Alfonso diceva al ditto messer
Alberto: - Io vi voglio dire per quel che io non mi curo di vedere
mai piú vasi: questo si è che una volta io ne vidi
uno d'argento, antico, tanto bello e tanto maraviglioso, che la
immaginazione umana non arriverebbe a pensare a tanta eccellenzia;
e però io non mi curo di vedere altra cosa tale,
acciò che la non mi guasti quella maravigliosa
inmaginazione di quello. Questo si fu un gran gentiluomo virtuoso,
che andò a Roma per alcune sue faccende e segretamente gli
fu mostro questo vaso antico; il quale per vigore d'una gran
quantità di scudi corroppe quello che l'aveva, e seco ne lo
portò in queste nostre parti; ma lo tien ben segreto, che
'l Duca non lo sappia; perché arebbe paura di perderlo a
ogni modo -. Questo messer Alfonso, in mentre che diceva queste
sue lunghe novellate, egli non si guardava da me, che ero alla
presenza, perché non mi conosceva. Intanto, comparso questo
benedetto modello di terra, iscoperto<B> </B>con una
tanta boriosità, ciurma e sicumera, che veduto che io
l'ebbi, voltomi a messer Alberto, dissi: - Pur beato che io l'ho
veduto! - Messer Alfonso adirato, con qualche parola ingiuriosa,
disse: - O chi se' tu, che non sai quel che tu di'? - A questo io
dissi: - Ora ascoltatemi, e poi vedrete chi di noi saprà
meglio quello che e' si dice -. Voltomi a messer Alberto, persona
molto grave e ingegnosa, dissi: - Questo è un boccaletto
d'argento di tanto peso, il quale io lo feci innel tal tempo a
quel ciurmadore di maestro Iacopo cerusico da Carpi, il quale
venne a Roma e vi stette sei mesi; e con una sua unzione
imbrattò di molte decine di signori e poveri gentiluomini,
da i quali lui trasse di molte migliara di ducati. In quel tempo
io gli feci questo vaso e un altro diverso da questo; e lui me lo
pagò, l'uno e l'altro, molto male, e ora sono in Roma tutti
quelli sventurati che gli unse, storpiati e malcondotti. A me
è gloria grandissima che l'opere mie sieno di tanto nome
appresso a voi altri Signori ricchi; ma io vi dico bene, che da
quei tanti anni in qua io ho atteso quanto io ho potuto a
'mparare; di modo che io mi penso, che quel vaso ch'io porto in
Francia, sia altrimenti degno del Cardinale e del Re, che non fu
quello di quel vostro mediconzolo -. Ditte che io ebbi queste mie
parole, quel messer Alfonso pareva proprio che si struggessi di
desiderio di vedere quel bacino e boccale, il quale io
continuamente gli negavo. Quando un pezzo fummo stati in questo,
disse che se andrebbe al Duca e per mezzo di Sua Eccellenzia lo
vedrebbe. Allora messer Alberto Bendidio ch'era, come ho detto,
superbissimo, disse: - Innanzi che voi partiate di qui, messer
Alfonso, voi lo vedrete, sanza adoperare i favori del Duca -. A
queste parole io mi parti' e lasciai Ascanio e Pagolo che lo
mostrassi loro; qual<B> </B>disse poi che egli avean
ditto cose grandissime in mia lode. Volse poi messer Alfonso che
io mi addomesticassi seco, onde a me parve mill'anni di uscir di
Ferrara e levarmi lor dinanzi. Quanto io v'avevo aùto di
buono si era stata la pratica del cardinal Salviati e quella del
cardinal di Ravenna, e di qualcuno altro di quelli virtuosi
musici, e non d'altri; perché i Ferraresi son gente
avarissime e piace loro la roba d'altrui in tutti e' modi che la
possino avere; cosí son tutti. Comparse alle ventidua ore
il sopra ditto Fiaschino, e mi porse il ditto diamante di valore
di sessanta scudi in circa; dicendomi con faccia malinconica e con
breve parole che io portassi quello per amore di Sua Eccellenzia.
Al quale io risposi: - E io cosí farò -. Mettendo i
piedi innella staffa in sua presenza, presi il viaggio per andarmi
con Dio. Notò l'atto e le parole; e riferito al Duca, in
còllora ebbe voglia grandissima di farmi tornare indietro.
IX. Andai la sera innanzi piú di dieci miglia, sempre
trottando; e quando l'altro giorno io fu' fuora dal ferrarese,
n'ebbi grandissimo piacere, perché da quei pagoncelli, che
io vi mangiai, causa della mia sanità, in fuora,<B>
</B>altro non vi cognobbi di buono. Facemmo il viaggio per
il Monsanese, non toccando la città di Milano per il
sospetto sopraditto; in modo che sani e salvi arrivammo a Lione.
Insieme con Pagolo e Ascanio e un servitore, eramo in quattro con
quattro cavalcature assai buone. Giunti a Lione ci fermammo
parecchi giorni per aspettare il mulattiere, il quale aveva quel
bacino e boccale d'argento insieme con le altre nostre bagaglie:
fummo alloggiati in una badia, che era del Cardinale. Giunto che
fu il mulattiere, mettemmo tutte le nostre cose in una carretta e
l'avviammo alla volta di Parigi: cosí noi andammo in verso
Parigi, e avemmo per la strada qualche disturbo, ma non fu molto
notabile. Trovammo la corte del Re a Fontana
Beleò:<B> </B>facemmoci vedere al Cardinale, il
quale subito ci fece consegnare alloggiamenti, e per quella sera
stemmo bene. L'altra giornata comparse la carretta; e preso le
nostre cose, intesolo il Cardinale, lo disse al Re, il quale
subito mi volse vedere. Andai da Sua Maestà con il ditto
bacino e boccale, e giunto alla presenza sua, gli baciai il
ginocchio e lui gratissimamente mi raccolse. Intanto che io
ringraziavo Sua Maestà dell'avermi libero del carcere,
dicendo che gli era ubrigato, ogni principe buono e unico al
mondo, come era Sua Maestà, a liberare uomini buoni a
qualcosa, e maggiormente innocenti come ero io; che quei benifizii
eran prima iscritti in su' libri de Dio, che ogni altro che far si
potessi al mondo; questo buon Re mi stette a 'scoltare
finché io dissi, con tanta gratitudine e con qualche
parola, sola degna di lui. Finito che io ebbi, prese il vaso e il
bacino, e poi disse: - Veramente che tanto bel modo d'opera non
credo mai che degli antichi se ne vedessi: perché ben mi
sovviene di aver veduto tutte le miglior opere e dai miglior
maestri fatte, di tutta la Italia; ma io non viddi mai cosa che mi
movessi piú grandemente che questa -. Queste parole il
ditto Re le parlava in franzese al cardinale di Ferrara, con molte
altre maggior che queste. Di poi voltosi a me mi parlò in
taliano, e disse: - Benvenuto, passatevi tempo lietamente qualche
giorno, e confortatevi il cuore e attendete a far buona
cera;<B> </B>e intanto noi penseremo di darvi buone
comodità al poterci far qualche bell'opera.
X. Il cardinal di Ferrara sopra ditto veduto che il Re aveva preso
grandissimo piacere del mio arrivo; ancora lui veduto che con quel
poco dell'opere il Re s'era promesso di potersi cavar la voglia di
fare certe grandissime opere, che lui aveva in animo; però
in questo tempo, che noi andavamo drieto alla Corte, puossi dire
tribulando<B> </B>(il perché si è che il
traino del Re si strascica continuamente drieto dodici mila
cavalli; e questo è il manco: perché quando la Corte
in e' tempi di pace è intera, e' sono diciotto mila, di
modo che sempre vengono da essere piú di dodici mila; per
la qual cosa noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi,
alcuna volta, dove non era dua case a pena; e sí come fanno
i zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si
pativa assai): io pure sollecitavo il Cardinale che incitassi il
Re a mandarmi a lavorare; il Cardinale mi diceva che il meglio di
questo caso si era d'aspettare che il Re da sé se ne
ricordassi; e che io mi lasciassi alcuna volta vedere a Sua
Maestà, in mentre ch'egli mangiava. Cosí faccendo,
una mattina al suo desinare mi chiamò il Re:
cominciò a parlar meco in taliano, e disse che aveva animo
di fare molte opere grande, e che presto mi darebbe ordine dove io
avessi a lavorare, con provvedermi di tutto quello che mi faceva
bisogno; con molti altri ragionamenti di piacevoli e diverse cose.
Il cardinal di Ferrara era alla presenza, perché quasi di
continuo mangiava la mattina al tavolino del Re; e sentito tutti
questi ragionamenti, levatosi il Re dalla mensa, il cardinal di
Ferrara in mio favore disse, per quanto mi fu riferito: - Sacra
Maestà, questo Benvenuto ha molto gran voglia di lavorare;
quasi che si potria dire l'esser peccato a far perder tempo a un
simile virtuoso -. Il Re aggiunse che gli aveva ben detto, e che
meco istabilissi tutto quello che io volevo per la mia
provvisione. Il qual Cardinale la sera seguente che la mattina
aveva aùto la commessione, dipoi la cena fattomi domandare,
mi disse da parte di Sua Maestà come Sua Maestà
s'era risoluta che io mettessi mano a lavorare; ma prima voleva
che io sapessi qual dovessi essere la mia provvisione. A
questo<B> </B>disse il Cardinale: - A me pare, che se
Sua Maestà vi dà di provvisione trecento scudi
l'anno, che voi benissimo vi possiate salvare; appresso vi dico
che voi lasciate la cura a me, perché ogni giorno, viene
occasione di poter far bene in questo gran regno e io sempre vi
aiuterò mirabilmente -. Allora io dissi: - Sanza che io
ricercassi Vostra Signoria reverendissima, quando quella mi
lasciò in Ferrara, mi promise di non mi cavar mai di
Italia, se prima io non sapevo tutto il modo che con Sua
Maestà io dovevo stare; Vostra Signoria reverendissima, in
cambio di mandarmi a dire il modo che io dovevo stare,
mandò espressa commessione che io dovessi venire in poste,
come se tale arte in poste si facessi: che se voi mi avessi
mandato a dire di trecento scudi, come voi mi dite ora, io non mi
sarei mosso per sei. Ma di tutto ringrazio Idio e Vostra Signoria
reverendissima ancora, perché Idio l'ha adoperata per
istrumento a un sí gran bene, quale è stato la mia
liberazione del carcere. Per tanto dico a Vostra Signoria, che
tutti e' gran mali che ora io avessi da quella, non possono
aggiungere alla millesima parte del gran bene che da lei ho
ricevuto, e con tutto il cuore ne la ringrazio, e mi piglio buona
licenzia, e dove io sarò, sempre infin che io viva,
pregherò Idio per lei -. Il Cardinale adirato disse in
còllora: - Va' dove tu vuoi, perché a forza non si
può far bene a persona -. Certi di quei sua cortigiani
scannapagnotte dicevano: - A costui gli par essere qualche gran
cosa, perché e' rifiuta trecento ducati di entrata -.
Altri, di quei virtuosi, dicevano: - Il Re non troverrà mai
un par di costui; e questo nostro Cardinale lo vuole mercatare,
come se ei fusse una soma di legne -. Questo fu messer Luigi
Alamanni, che cosí mi fu ridetto che lui disse. Questo fu
innel Delfinato, a un castello che non mi sovviene il nome: e fu
l'ultimo dí d'ottobre.
XI. Partitomi dal Cardinale, me ne andai al mio alloggiamento tre
miglia lontano di quivi, insieme con un segretario del Cardinale
che al medesimo alloggiamento ancora lui veniva. Tutto quel
viaggio quel segretario mai restò di domandarmi quel che io
volevo far di me, e quel che saria stato la mia fantasia di volere
di provvisione. Io non gli risposi mai se none una parola,
dicendo: - Tutto mi sapevo -. Di poi giunto allo alloggiamento,
trovai Pagolo e Ascanio che quivi vi stavano; e vedendomi
turbatissimo, mi sforzorno a dir loro quello che io aveva; e
veduto isbigottiti i poveri giovani, dissi loro: - Domattina io vi
darò tanti danari che largamente voi potrete tornare alle
case vostre; e io andrò a una mia faccenda inportantissima,
sanza di voi; che gran pezzo è che io ho aùto in
animo di fare -. Era la camera nostra a muro a muro accanto a
quella del ditto segretario, e talvolta è possibile che lui
lo scrivessi al Cardinale tutto quello che io avevo in animo di
fare; se bene io non ne seppi mai nulla. Passossi la notte sanza
mai dormire: a me pareva mill'anni che si facessi giorno, per
seguitare la resoluzione che di me fatto avevo. Venuto l'alba del
giorno, dato ordine ai cavagli e io prestamente messomi in ordine,
donai a quei dua giovani tutto quello che io avevo portato meco, e
di piú cinquanta ducati d'oro: e altre tanta ne salvai per
me, di piú quel diamante che mi aveva donato il Duca; solo
due camicie ne portavo e certi non troppi boni panni da cavalcare,
che io avevo addosso. Non potevo ispiccarmi dalli dua giovani, che
se ne volevano venire con esso meco a ogni modo; per la qual cosa
io molto gli svili' dicendo loro: - Uno è di prima barba e
l'altro a mano a mano comincia a 'verla, e avete da me imparato
tanto di questa povera virtú che io v'ho potuto insegnare,
che voi siete oggi i primi giovani di Italia; e non vi vergognate
che non vi basti l'animo a uscire del carruccio del babbo, qual
sempre vi porti? Questa è pure una vil cosa! O se vi
lasciassi andare sanza danari, che diresti voi? Ora levatevimi
d'inanzi, che Dio vi benedica mille volte: a Dio -. Volsi il
cavallo, e lascia' li piangendo. Presi la strada bellissima per un
bosco, per discostarmi quella giornata quaranta miglia il manco,
in luogo piú incognito che pensar potevo. E di già
m'ero discostato incirca a dua miglia; e in quel poco viaggio io
m'ero risoluto di non mai piú praticare in parte dove io
fussi conosciuto, né mai piú volevo lavorare altra
opera, che un Cristo grande di tre braccia, appressandomi
piú che potevo a quella infinita bellezza che dallui stesso
m'era stata mostra. Essendomi già resoluto affatto, me
n'andavo alla volta del Sepulcro. Pensando essermi tanto iscostato
che nessuno piú trovar non mi potessi, in questo io mi
senti' correr dietro cavagli; e mi feciono alquanto sospetto,
perché in quelle parte v'è una certa razza di
brigate, li quali si domandan venturieri, che volentieri
assassinano alla strada; e se bene ogni 'n dí assai se ne
impicca, quasi pare che non se ne curino. Appressatimisi
piú costoro, cognobbi che gli erano un mandato del Re,
insieme con quel mio giovane Ascanio; e giunto a me disse: - Da
parte del Re vi dico che prestamente voi vegniate a lui -. Al
quale uomo io dissi: - Tu vieni da parte del Cardinale; per la
qual cosa io non voglio venire -. L'uomo disse che da poi che io
non volevo andare amorevolmente, aveva autorità di
comandare a' populi,<B> </B>i quali mi merrebbono
legato come prigione. Ancora Ascanio, quant'egli poteva, mi
pregava, ricordandomi che quando il Re metteva un prigione, stava
dappoi cinque anni per lo manco a risolversi di cavarlo. Questa
parola della prigione, sovvenendomi di quella di Roma, mi porse
tanto ispavento, che prestamente volsi il cavallo dove il mandato
del Re mi disse. Il quale, sempre borbottando in franzese, non
restò mai in tutto quel viaggio, insinché m'ebbe
condutto alla Corte: or mi bravava, or mi diceva una cosa, ora
un'altra, da farmi rinnegare il mondo.
XII. Quando noi fummo giunti agli alloggiamenti del Re, noi
passammo dinanzi a quelli del cardinale di Ferrara. Essendo il
Cardinale in su la porta, mi chiamò a sé e disse: -
Il nostro Re Cristianissimo da per sé stesso v'ha fatto la
medesima provvisione, che sua Maestà dava a Lionardo da
Vinci pittore: qual sono settecento scudi l'anno; e di piú
vi paga tutte l'opere che voi gli farete; ancora per la vostra
venuta vi dona cinquecento scudi d'oro, i quali vuol che vi sien
pagati prima che voi vi partiate di qui -. Finito che ebbe di dire
il Cardinale, io risposi che quelle erono offerte da quel Re che
gli era. Quel mandato del Re, non sapendo chi io mi fussi,
vedutomi fare quelle grande offerte da parte del Re, mi chiese
molte volte perdono. Pagolo e Ascanio dissono: - Idio ci ha
aiutati ritornare in cosí onorato carruccio -. Di poi
l'altro giorno io andai a ringraziare il Re, il quale m'impose che
io gli facessi i modelli di dodici statue d'argento, le quali
voleva che servissino per dodici candelieri intorno alla sua
tavola: e voleva che fussi figurato sei Iddei e sei Iddee, della
grandezza appunto di Sua Maestà, quale era poco cosa manco
di quattro braccia alto. Dato che egli m'ebbe questa commessione,
si volse al tesauriere de' risparmi e lo domandò se lui mi
aveva pagato li cinquecento scudi. Disse che non gli era stato
detto nulla. El Re l'ebbe molto per male, ché aveva
commesso al Cardinale che gnene dicessi. Ancora mi disse che io
andassi a Parigi, e cercassi che stanza fussi a proposito per far
tale opere, perché me la farebbe dare. Io presi li
cinquecento scudi d'oro e me ne andai a Parigi in una stanza del
cardinale di Ferrara; e quivi cominciai innel nome di Dio a
lavorare, e feci quattro modelli piccoli di dua terzi di braccio
l'uno, di cera: Giove, Iunone, Appollo, Vulgano. In questo mezzo
il Re venne a Parigi; per la qual cosa io subito lo andai a
trovare, e portai i detti modelli con esso meco, insieme con quei
mia dua giovani, cioè Ascanio e Pagolo. Veduto che io ebbi
che il Re era sadisfatto delli detti modelli, e' m'impose per il
primo che io gli facessi il Giove d'argento della ditta altezza.
Mostrai a Sua Maestà che quelli dua giovani ditti io gli
avevo menati di Italia per servizio di Sua Maestà; e
perché io me gli avevo allevati, molto meglio per questi
principii avrei tratto aiuto da loro, che da quelli della
città di Parigi. A questo il Re disse, che io facessi alli
ditti dua giovani un salario qual mi paressi a me, che fussi
recipiente a potersi trattenere. Dissi che cento scudi d'oro per
ciascuno stava bene, e che io farei benissimo guadagnar loro tal
salario. Cosí restammo d'accordo. Ancora dissi, che io
aveva trovato un luogo il quale mi pareva molto a proposito da
fare in esso tali opere; el ditto luogo si era di Sua
Maestà particulare, domandato il Piccol Nello, e che allora
lo teneva il provosto di Parigi, a chi Sua Maestà l'aveva
dato; ma perché questo provosto non se ne serviva, Sua
Maestà poteva darlo a me, che l'adoperrei per suo servizio.
Il Re subito disse: - Cotesto luogo è casa mia; e io so
bene che quello a chi io lo detti non lo abita, e non se ne serve;
però ve ne servirete voi per le faccende nostre - e subito
comandò al suo luogotenente, che mi mettessi in detto
Nello. Il quale fece alquanto di resistenza, dicendo al Re che non
lo poteva fare. A questo il Re rispose in còllora che
voleva dar le cose sue a chi piaceva allui e a uomo che lo
servissi, perché di cotestui non si serviva niente:
però non gli parlassi piú di tal cosa. Ancora
aggiunse il luogotenente, che saria di necessità di usare
un poco di forza. Al quale il Re disse: - Andate adesso, e se la
piccola forza non è assai, mettetevi della grande -. Subito
mi menò al luogo ed ebbe a usar forza a mettermi in
possessione: di poi mi disse che io m'avessi benissimo cura di non
v'essere ammazzato. Entrai drento, e subito presi de' servitori, e
comperai parecchi gran pezzi d'arme in aste, e parecchi giorni mi
stetti con grandissimo dispiacere; perché questo era gran
gentiluomo pariciano, e gli altri gentiluomini m'erano tutti
nimici, di modo che mi facevano tanti insulti, che io non potevo
resistere. Non voglio lasciare indietro, che in questo tempo che
io m'acconciai con Sua Maestà correva appunto il millesimo
del 1540, che appunto era l'età mia de' quaranta anni.
XIII. Per questi grandi insulti io ritornai al Re, pregando Sua
Maestà che mi accomodassi altrove: alle qual parole mi
disse il Re: - Chi siate voi, e come avete voi nome? - Io restai
molto ismarrito e non sapevo quello che il Re si volessi dire; e
standomi cosí cheto, il Re replicò un'altra volta le
medesime parole quasi adirato. Allora io risposi che aveva nome
Benvenuto. Disse il Re: - Addunche se voi siete quel Benvenuto che
io ho inteso, fate sicondo il costume vostro, che io ve ne
dò piena licenza -. Dissi a Sua Maestà che mi
bastava solo mantenermi nella grazia sua, del resto io non
conoscevo cosa nessuna che mi potessi nuocere. Il Re, ghignato un
pochetto, disse: - Andate addunche, e la grazia mia non vi
mancherà mai -. Subito mi ordinò un suo primo
segretario, il quale si domandava monsignor di Villurois, che
dessi ordine a farmi provvedere e acconciare per tutti i miei
bisogni. Questo Villurois era molto grande amico di quel
gentiluomo chiamato il provosto, di chi era il ditto luogo di
Nello. Questo luogo era in forma triangulare, ed era appiccato con
le mura della città ed era castello antico, ma non si
teneva guardie: era di buona grandezza. Questo detto Monsignor di
Villurois mi consigliava che io cercassi di qualche altra cosa, e
che io lo lasciassi a ogni modo; perché quello di che gli
era, era uomo di grandissima possanza, e che certissimo lui mi
arebbe fatto ammazzare. Al quale io risposi, che ero andato di
Italia in Francia solo per servire quel maraviglioso Re, e quanto
al morire, io sapevo certo che a morire avevo; che un poco prima o
un poco dappoi non mi dava una noia al mondo. Questo Villurois era
uomo di grandissimo ispirito, e mirabile in ogni cosa sua,
grandissimamente ricco: non è al mondo cosa che lui non
avessi fatto per farmi dispiacere, ma non lo dimostrava niente;
era persona grave, di bello aspetto, parlava adagio. Commesse a un
altro gentiluomo, che si domandava Monsignor di Marmagnia, quale
era tesauriere di Lingua d'oca. Questo uomo, la prima cosa che e'
fece, cercato le migliore stanze di quel luogo, le faceva
acconciare per sé: al quale io dissi che quel luogo me lo
aveva dato il Re perché io lo servissi, e che quivi non
volevo che abitassi altri che me e li mia servitori. Questo uomo
era superbo, aldace, animoso; e mi disse che voleva fare quanto
gli piaceva, e che io davo della testa nel muro a voler
contrastare contro a di lui; e che tutto quel che lui faceva, ne
aveva aùto commessione da Villurois di poter farlo. Allora
io dissi che io avevo aùto commessione dal Re, che
né lui né Villurois tal cosa non potrebbe fare.
Quando io dissi questa parola, questo superbo uomo mi disse in sua
lingua franzese molte brutte parole, alle quali io risposi in
lingua mia, che lui mentiva. Mosso dall'ira, fece segni di metter
mano a una sua daghetta; per la qual cosa io messi la mano in sun
una mia daga grande, che continuamente io portavo accanto per mia
difesa, e li dissi: - Se tu sei tanto ardito di sfoderar
quell'arme, io subito ti ammazzerò -. Gli aveva seco dua
servitori, e io avevo li mia dua giovani: e in mentre che il ditto
Marmagnia stava cosí sopra di sé, non sapendo che
farsi, piú presto vòlto al male, e' diceva
borbottando: - Già mai non comporterò tal cosa -. Io
vedevo la cosa andar per la mala via; subito mi risolsi e dissi a
Pagolo e Ascanio: - Come voi vedete che io sfodero la mia daga,
gittatevi addosso ai dua servitori e ammazzategli, se voi potete:
perché costui io lo ammazzerò al primo;<B>
</B>poi ci andren con Dio d'accordo subito -. Sentito
Marmagnia questa resoluzione, gli parve fare assai a uscir di quel
luogo vivo. Tutte queste cose, alquanto un poco piú
modeste, io le scrissi al cardinale di Ferrara, il quale subito le
disse al Re. Il Re crucciato mi dette in custode a un altro di
quei suoi ribaldi<B>, </B>il quale si domandava
monsignor lo iscontro d'Orbech. Questo uomo con tanta
piacevolezza, quanto inmaginar si possa, mi provvedde di tutti li
mia bisogni.
XIV. Fatto ch'io ebbi tutti gli acconci della casa e della
bottega, accomodatissimi a poter servire, e onoratissimamente, per
li mia servizii della casa, subito messi mano a far tre modelli,
della grandezza appunto che gli avevano da essere d'argento:
questi furno Giove e Vulgano e Marte. Gli feci di terra, benissimo
armati di ferro, di poi me ne andai dal Re, il quale mi fece dare,
se ben mi ricordo, trecento libbre d'argento, acciò che io
cominciassi a lavorare. In mentre che io davo ordine a queste
cose, si finiva il vasetto e il bacino ovato, i quali ne
portorno<B> </B>parecchi mesi. Finiti che io gli ebbi,
gli feci benissimo dorare. Questa parve la piú bell'opera
che mai si fosse veduta in Francia. Subito lo portai al cardinal
di Ferrara, il quale mi ringraziò assai; di poi sanza me lo
portò al Re e gnene fece un presente. Il Re l'ebbe molto
caro, e mi lodò piú smisuratamente che mai si
lodassi uomo par mio; e per questo presente donò al
cardinal di Ferrara una badia di sette mila scudi d'entrata; e a
me volse far presente. Per la qual cosa il Cardinale lo
inpedí, dicendo a Sua Maestà che quella faceva
troppo presto, non gli avendo ancora dato opera nessuna. E il Re,
che era liberalissimo, disse: - Però gli vo' io dar
coraggio che me ne possa dare -. Il Cardinale, a questo
vergognatosi, disse: - Sire, io vi priego che voi lasciate fare a
me; perché io gli farò<B> </B>una
pensione di trecento scudi il manco, subito che io abbia preso il
possesso della badia -. Io non gli ebbi mai, e troppo lungo
sarebbe a voler dire la diavoleria di questo Cardinale; ma mi
voglio riserbare a' cose di maggiore importanza.
XV. Mi tornai a Parigi. Con tanto favore fattomi dal Re io era
ammirato da ugniuno. Ebbi l'argento, e cominciai la ditta statua
di Giove. Presi di molti lavoranti, e con grandissima
sollecitudine giorno e notte non restavo mai di lavorare; di modo
che, avendo finito di terra Giove, Vulcano e Marte, di già
cominciato d'argento a tirare innanzi assai bene il Giove, si
mostrava la bottega di già molto ricca. In questo conparse
el Re a Parigi: io l'andai a visitare; e subito che Sua
Maestà mi vedde, lietamente mi chiamò e mi domandava
se alla mia magione era qualcosa da mostrargli di bello,
perché verrebbe insin quivi. Al quale io contai tutto quel
che io avevo fatto. Subito gli venne voluntà grandissima di
venire; e di poi il suo desinare, dette ordine con madama de
Tampes, col cardinal di Loreno, e certi altri di quei signori,
qual fu il re di Navarra, cognato del re Francesco, e la Regina,
sorella del ditto re Francesco; venne il Dalfino e la Dalfina;
tanto si è, che quel dí venne tutta la
nobiltà della Corte. Io m'ero avviato a casa, e m'ero misso
a lavorare. Quando il Re comparse alla porta del mio castello,
sentendo picchiare a parecchi martella, comandò a ugniuno
che stessi cheto: in casa mia ogniuno era innopera; di modo che io
mi trovai sopraggiunto dal Re, che io non lo aspettavo.
Entrò nel mio salone: e 'l primo che vedde, vedde me con
una gran piastra d'argento in mano, qual serviva per il corpo del
Giove: un altro faceva la testa, un altro le gambe, in modo che il
romore era grandissimo. In mentre che io lavoravo, avendo un mio
ragazzetto franzese intorno, il quale m'aveva fatto non so che
poco di dispiacere, per la qual cosa io gli avevo menato un
calcio, e per mia buona sorte, entrato col piè nella
inforcatura delle gambe, l'avevo spinto innanzi piú di
quattro braccia, di modo che all'entrare del Re questo putto
s'attenne addosso al Re: il perché il Re grandemente se ne
rise, e io restai molto smarrito. Cominciò il Re a
dimandarmi quello che io facevo, e volse che io lavorassi; di poi
mi disse che io gli farei molto piú piacere a non mi
affaticare mai, sí bene tòrre quanti uomini io
volessi, e quelli far lavorare: perché voleva che io mi
conservassi sano per poterlo servir piú lungamente. Risposi
a Sua Maestà, che subito io mi ammalerei se io non
lavorassi, né manco l'opere non sarebbono di quella sorte -
che io desidero fare per Sua Maestà -. Pensando il Re che
quello che io dicevo fussi detto per millantarsi, e non
perché cosí fussi la verità, me lo fece
ridire dal cardinal de Loreno, al quali io mostrai tanto larghe le
mie ragione e aperte, che lui ne restò capacissimo:
però confortò il Re che mi lasciassi lavorare poco e
assai, secondo la mia voluntà.
XVI. Restato sadisfatto il Re delle opere mie, se ne tornò
al suo palazzo, e mi lasciò pieno di tanti favori, che
saria lungo a dirgli. L'altro giorno appresso, al suo desinare, mi
mandò a chiamare. V'era alla presenza il cardinal di
Ferrara, che desinava seco. Quando io giunsi, ancora il Re era
alla siconda vivanda: accostatomi a Sua Maestà, subito
cominciò a ragionar meco, dicendo che da poi che gli aveva
cosí bel bacino e cosí bel boccale di mia mano, che
per compagnia di quelle tal cose richiedeva una bella saliera, e
che voleva che io gnene facessi un disegno; ma ben l'arebbe voluto
veder presto. Allora io aggiunsi dicendo: - Vostra Maestà
vedrà molto piú presto un tal disegno, che la mi
domanda; perché in mentre che io facevo il bacino pensavo
che per sua compagnia si gli dovessi far la saliera - e che tal
cosa era di già fatta; e che se gli piaceva, io gliene
mostrerrei subito. El Re si risentí con molta baldanza, e
voltosi a quei Signori, qual era il re di Navarra, el cardinal di
Loreno e 'l cardinal di Ferrara, e' disse: - Questo veramente
è un uomo da farsi amare e desiderare da ogni uomo che non
lo cognosca -; di poi disse a me, che volentieri vedrebbe quel
disegno che io avevo fatto sopra tal cosa. Messimi in via, e
prestamente andai e tornai, perché avevo solo a passare la
fiumara, cioè la Sena: portai meco un modello di cera, il
quale io avevo fatto già a richiesta del cardinal di
Ferrara in Roma. Giunto che io fui dal Re, scopertogli il modello,
il Re maravigliatosi disse: - Questa è cosa molto
piú divina l'un cento, che io non arei mai pensato. Questa
è gran cosa di quest'uomo! Egli non debbe mai posarsi -. Di
poi si volse a me con faccia molto lieta, e mi disse che quella
era un'opera che gli piaceva molto, e che desiderava che io gliene
facessi d'oro. Il cardinal di Ferrara, che era alla presenza mi
guardò in viso e mi accennò, come quello che la
ricognobbe che quello era il modello che io avevo fatto per lui in
Roma. A questo io dissi che quell'opera già avevo detto che
io la farei a chi l'aveva avere. Il Cardinale, ricordatosi di
quelle medesime parole, quasi che isdegnato, parutogli che io mi
fussi voluto vendicare, disse al Re: - Sire, questa è una
grandissima opera, e però io non sospetterei d'altro, se
none che io non crederrei mai vederla finita; perché questi
valenti uomini, che hanno quei gran concetti di quest'arte,
volentieri danno lor principio, non considerando bene quando
ell'hanno aver la fine. Per tanto, faccendo fare di queste cotale
grande opere, io vorrei sapere quando io l'avessi avere -. A
questo rispose il Re dicendo che chi cercassi cosí
sottilmente la fine dell'opere, non ne comincerebbe mai nessuna; e
lo disse in un certo modo, mostrando che quelle cotali opere non
fussino materia da uomini di poco animo. Allora io dissi: - Tutti
e' principi che danno animo ai servitori loro, in quel modo che fa
e che dice Sua Maestà, tutte le grande imprese si vengono a
facificare; e poi che Dio m'ha dato un cosí maraviglioso
padrone, io spero di dargli finite di molte grande e meravigliose
opere. - E io lo credo - disse il Re; e levossi da tavola.
Chiamommi nella sua camera e mi domandò quanto oro
bisognava per quella saliera: - Mille scudi, - dissi io. Subito il
Re chiamò un suo tesauriere, che si domandava Monsignor lo
risconte di Orbeche, e gli domandò che allora allora mi
provvedessi mille scudi vecchi di buon peso, d'oro. Partitici da
Sua Maestà, mandai a chiamare quelli dua notati che
m'avevan fatto dare l'argento per il Giove e molte altre cose, e
passato la Sena, presi una piccolissima sportellina che m'aveva
donato una mia sorella cugina, monaca, innel passare per Firenze,
e per mia buona aúria<B> </B>tolsi quella
sportellina, e none un sacchetto: e pensando di spedire<B>
</B>tal faccenda di giorno, perché ancora era
buon'otta, e non volendo isviare<B> </B>i lavoranti; e
manco non mi curai di menare servitore meco. Giunsi a casa il
tesauriere, il quale di già aveva innanzi li danari, e gli
sceglieva sí come gli aveva detto il Re. Per quanto a me
parve vedere, quel ladrone tesauriere fece con arte il tardare
insino a tre ore di notte a contarmi li detti dinari. Io, che non
mancai di diligenza, mandai a chiamare parecchi di quei mia
lavoranti, che venissino a farmi compagnia, perché era cosa
di molta importanza. Veduto che li detti non venivano, io domandai
a quel mandato, se gli aveva fatto l'anbasciata mia. Un certo
ladroncello servitore disse che l'aveva fatta, e che loro avevan
detto non poter venire; ma che lui di buona voglia mi porterebbe
quelli dinari: al quale io dissi, che li dinari volevo portar da
me. Intanto era spedito il contratto, contato li dinari e tutto.
Messomili nella sportellina ditta, di poi messi il braccio nelle
dua manichi; e perché entrava molto per forza, erano ben
chiusi, e con piú mia comodità gli portavo che se
fussi stato un sacchetto. Ero bene armato di giaco e maniche, e
con la mia spadetta e 'l pugnale accanto prestamente mi messi la
via fra gambe.
XVII. In quello stante viddi certi servitori, che, bisbigliando,
presto ancora loro si partirno di casa, mostrando andare per altra
via che quella dove io andavo. Io che sollecitamente camminavo,
passato il ponte al Cambio, venivo su per un muricciuolo della
fiumara, il quale mi conduceva a casa mia a Nello. Quando io fui
appunto dagli Austini, luogo pericolosissimo se ben vicino a casa
mia cinquecento passi; per essere l'abitazione del castello a
drento quasi che altretanto, non si sarebbe sentito la voce, se io
mi fussi messo a chiamare, ma resolutomi in un tratto che io mi
veddi scoperto a dosso quattro con quattro spade, prestamente
copersi quella sportellina con la cappa, e messo mano in su la mia
spada, veduto che costoro con sollecitudine mi serravano, dissi: -
Dai soldati non si può guadagnare altro che la cappa e la
spada; e questa, prima che io ve la dia, spero l'arete con poco
vostro guadagno -. E pugnando contro a di loro animosamente,
piú volte m'apersi, acciò che, se e' fussino stati
di quelli indettati<B> </B>da quei servitori, che
m'avevan visto pigliare i danari, con qualche ragione iudicassino
che io non avevo tal somma di danari addosso. La pugna durò
poco, perché a poco a poco si ritiravono; e da lor dicevano
in lingua loro: - Questo è un bravo italiano, e certo non
è quello che noi cercavamo; o sí veramente, se gli
è lui, e' non ha nulla addosso -. Io parlavo italiano, e
continuamente a colpi di stoccate e imbroccate talvolta molto a
presso gl'investi' alla vita; e perché io ho benissimo
maneggiato l'arme, piú giudicavono che io fussi soldato che
altro; e ristrettisi insieme, a poco a poco si scostavano da me,
sempre borbottando sotto voce in lor lingua; e ancora io sempre
dicevo, modestamente pure, che chi voleva la mia arme e la mia
cappa, non l'arebbe senza fatica. Cominciai a sollecitare il
passo, e lor sempre venivano a lento passo drietomi; per la qual
cosa a me crebbe la paura, pensando di non dare in qualche
imboscata di parecchi altri simili, che m'avessino messo in mezzo;
di modo che, quando io fui presso a cento passi, mi messi a tutta
corsa e ad alta voce gridavo: - Arme arme, fuora fuora, ché
io sono assassinato -. Subito corse quattro giovani con quattro
pezzi d'arme in aste: e volendo seguitar drieto a coloro, che
ancor gli vedevano, gli fermai, dicendo pur forte: - Quei quattro
poltroni non hanno saputo fare, contro a uno uomo solo, un bottino
di mille scudi d'oro in oro, i quali m'hanno rotto un braccio;
sí che andiangli prima a riporre, e di poi io vi
farò compagnia col mio spadone a dua mane dove voi vorrete
-. Andammo a riporre li dinari; e quelli mia giovani, condolendosi
molto del gran pericolo che io avevo portato, modo che isgridarmi,
dicevano: - Voi vi fidate troppo di voi stesso, e una volta ci
avete a far piagner tutti -. Io dissi di molte cose; e lor mi
risposono anche; fuggirno gli aversari mia; e noi tutti allegri e
lieti cenammo, ridendoci di quei gran pressi<B>
</B>che fa la fortuna, tanto in bene quanto in male; e non
cogliendo, è come se nulla non fussi stato. Gli è
ben vero che si dice: "Tu imparerai per un'altra volta". Questo
non vale, perché la vien sempre con modi diversi e non mai
immaginati.
XVIII. La mattina seguente subito detti principio alla gran
saliera, e con sollecitudine quella con l'altre opere facevo
tirare innanzi. Di già avevo preso di molti lavoranti,
sí per l'arte della scultura, come per l'arte della
oreficeria. Erano, questi lavoranti, italiani, franzesi, todeschi,
e talvolta n'avevo buona quantità, sicondo che io trovavo
de' buoni; perché di giorno in giorno mutavo, pigliando di
quelli che sapevano piú, e quelli io gli sollecitavo di
sorte<B> </B>che per il continuo affaticarsi (vedendo
fare a me, che mi serviva un poco meglio la complessione che a
loro, non possendo resistere alle gran fatiche, pensando
ristorarsi col bere e col mangiare assai), alcuni di quei
todeschi, che meglio sapevano che gli altri, volendo seguitarmi,
non sopportò da loro la natura tale ingiurie, che quegli
ammazzò. In mentre che io tiravo innanzi il Giove
d'argento, vedutomi avanzare assai bene dell'argento, messi mano
sanza saputa del Re a fare un vaso grande con dua manichi,
dell'altezza d'un braccio e mezzo in circa. Ancora mi venne voglia
di gittare di bronzo quel modello grande che io avevo fatto per il
Giove d'argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io non
avevo mai piú fatta, e conferitomi con certi vecchioni di
quei maestri di Parigi, dissi loro tutti e' modi che noi nella
Italia usavono fare tal impresa. Questi a me dissono che per
quella via non erano mai camminati, ma se io lasciavo fare sicondo
i lor modi, me lo darebbon fatto e gittato tanto netto e bello,
quant'era quello di terra. Io volsi fare mercato, dando
quest'opera sopra di loro: e sopra la domanda che quei m'avevan
fatta, promessi loro parecchi scudi di piú. Messon mano a
tale impresa; e veduto io che loro non pigliavono la buona via,
prestamente cominciai una testa di Iulio Cesare, col suo petto,
armata, grande molto piú del naturale, qual ritraevo da un
modello piccolo che io m'avevo portato di Roma, ritratto da una
testa maravigliosissima antica. Ancora messi mano in un'altra
testa della medesima grandezza, quale io ritraevo da una
bellissima fanciulla, che per mio diletto carnale a presso a me
tenevo. A questa posi nome Fontana Beliò, che era quel sito
che aveva eletto il Re per sua propria dilettazione. Fatto la
fornacetta bellissima per fondere il bronzo, e messo in ordine e
cotto le nostre forme, quegli el Giove e io le mia dua teste,
dissi a loro: - Io non credo che il vostro Giove venga,
perché voi non gli avete dati tanti spiriti da basso, che
el vento possa girare; però voi perdete il tempo -. Questi
dissono a me, che quando la loro opera non fossi venuta, mi
renderebbono tutti li dinari che io avevo dati loro a buon conto,
e mi rifarebbono tutta la perduta ispesa; ma che io guardassi
bene, che quelle mie belle teste, che io volevo gittare al mio
modo della Italia, mai non mi verrebbono. A questa disputa fu
presente quei tesaurieri e altri gentiluomini, che per commession
del Re mi venivano a vedere; e tutto quello che si diceva e
faceva, ogni cosa riferivano al Re. Feciono questi dua vecchioni,
che volevan gittare il Giove, soprastare alquanto il dare ordine
del getto; perché dicevano che arebbon voluto acconciare
quelle dua forme delle mie teste; perché quel modo che io
facevo, non era possibile che le venissimo, ed era gran peccato a
perder cosí bell'opere. Fattolo intendere al Re, rispose
Sua Maestà che gli attendessino a 'mparare e non cercassino
di volere insegnare al maestro. Questi con gran risa messono in
fossa l'opera loro; e io saldo, sanza nissuna dimostrazione
né di risa né di stizza - che l'avevo - messi con le
mie dua forme in mezzo il Giove: e quando il nostro metallo fu
benissimo fonduto, con grandissimo piacere demmo la via al ditto
metallo, e benissimo s'empié la forma del Giove; innel
medesimo tempo s'empié la forma delle mie due teste: di
modo che loro erano lieti e io contento; perché avevo caro
d'aver detto le bugie della loro opera, e loro mostravano d'aver
molto caro d'aver detto le bugie della mia. Domandorno pure alla
franciosa con gran letizia da bere: io molto volentieri feci far
loro una ricca colezione. Da poi mi chiesono li dinari che gli
avevano da avere, e quegli di piú che io avevo promessi
loro. A questo io dissi: - Voi vi siate risi di quello, che io ho
ben paura che voi non abbiate a piangere; perché io ho
considerato che in quella vostra forma è entrato molto
piú roba<B> </B>che 'l suo dovere; però
io non vi voglio dare piú dinari, di quelli che voi avete
auti, insino a domattina -. Cominciorno a considerare questi
poveri uomini quello che io avevo detto loro, e sanza dir niente
se ne andorno a casa. Venuti la mattina, cheti cheti cominciorno a
cavare di fossa; e perché loro non potevano iscoprire la
loro gran forma, se prima egli non cavavano quelle mie due teste,
le quali cavorno e stavono benissimo, e le avevano messe in
piede,<B> </B>che benissimo si vedevano. Cominciato da
poi a scoprire il Giove, non furno dua braccia in giú, che
loro con quattro lor lavoranti messono sí grande il
grido,<B> </B>che io li sentii. Pensando che fussi
grido di letizia, mi cacciai a correre, che ero nella mia camera
lontano piú di cinquecento passi. Giunsi a loro e li trovai
in quel modo che si figura quelli che guardavano il sepulcro di
Cristo, afflitti e spaventati. Percossi gli occhi nelle mie due
teste, e veduto che stavan bene, accomoda' mi<B>
</B>il piacere col dispiacere: e loro si scusavano, dicendo:
- La nostra mala fortuna! - Alle qual parole io dissi: - La vostra
fortuna è stata bonissima, ma gli è bene stato
cattivo<B> </B>il vostro poco sapere. Se io avessi
veduto mettervi innella forma l'anima, con una sola parola io
v'arei insegnato che la figura sarebbe venuta benissimo; per la
qual cosa a me ne risultava molto grande onore e a voi molto
utile: ma io del mio onore mi scuserò, ma voi né de
l'onore né de l'utile non avete iscampo: però
un'altra volta imparate a lavorare e non imparate a uccellare -.
Pur mi si raccomandavono, dicendomi che io avevo ragione, e che se
io non gli aiutavo, che avendo a pagare quella grossa spesa e quel
danno, loro andrebbono accattando insieme con le lor famiglie. A
questo io dissi, che quando gli tesaurieri del Re volessin lor far
pagare quello a che loro s'erano ubrigati, io prommettevo loro di
pagargli del mio, perché io avevo veduto veramente che loro
avevan fatto di buon cuore tutto quello che loro sapevano. Queste
cose m'accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con
quei ministri del Re, che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re,
il quale unico liberalissimo, comandò che si facessi tutto
quello che io dicevo.
XIX. Era in questo giunto il maravigliosissimo bravo Piero
Strozzi;<B> </B>e ricordato al Re le sue lettere di
naturalità, il Re subito comandò che fussino fatte.
- E insieme con esse - disse - fate ancora quelle di Benvenuto,
<I>mon</I> <I>ami, </I>e le portate subito
da parte mia a sua magione, e dategnene senza nessuna spesa -.
Quelle del gran Piero Strozzi gli costorno molte centinaia di
ducati; le mie me le portò un di quei primi sua segretari,
il quale si domandava messer Antonio Massone. Questo gentiluomo mi
porse le lettere con maravigliosa dimostrazione, da parte di Sua
Maestà, dicendo: Di queste vi fa presente il Re,
acciò che con maggior coraggio voi lo possiate servire.
Queste son lettere di naturalità - e contonmi come molto
tempo e con molti favori l'aveva date a richiesta di Piero
Istrozzi a esso, e che queste da per sé istesso me le
mandava a presentare: che un tal favore non s'era mai piú
fatto in quel regno. A queste parole io con gran dimostrazione
ringraziai il Re; di poi pregai il ditto segretario, che di grazia
mi dicessi quel che voleva dire quelle "lettere di
naturalità". Questo segretario era molto virtuoso e
gentile, e parlava benissimo italiano: mossosi prima a gran risa,
di poi ripreso la gravità, mi disse innella lingua mia,
cioè in italiano, quello che voleva dire "lettere di
naturalità" quale era una delle maggior degnità che
si dessi a un forestiero; e disse: - Questa è altra
maggiore cosa che esser fatto gentiluomo veniziano -. Partitosi da
me, tornato al Re, tutto riferí a Sua Maestà, il
quale rise un pezzo, di poi disse: - Or voglio che sappia per quel
che<B> </B>io gli ho mandato lettere di
naturalità. Andate, e fatelo signore del castello del
Piccolo Nello che lui abita, il quale è mio di patrimonio.
Questo saprà egli che cosa egli è, molto piú
facilmente che lui non ha saputo che cosa fussino le lettere di
naturalità -. Venne a me un mandato con il detto presente,
per la qual cosa io volsi usargli cortesia: non volse accettar
nulla, dicendo che cosí era commessione di Sua
Maestà. Le ditte lettere di naturalità, insieme con
quelle del dono del castello, quando io venni in Italia le portai
meco; e dovunque io vada, e dove io finisca la vita mia, quivi
m'ingegnerò d'averle.
XX. Or sèguito innanzi il cominciato discorso della vita
mia. Avendo infra le mane le sopra ditte opere, cioè il
Giove d'argento, già cominciato, la ditta saliera d'oro, il
gran vaso ditto d'argento, le due teste di bronzo, sollecitamente
innesse opere si lavorava. Ancora detti ordine a gittare la basa
del ditto Giove, qual feci di bronzo ricchissimamente, piena di
ornamenti, infra i quali ornamenti iscolpi' in basso rilievo il
ratto di Ganimede; da l'altra banda poi Leda e 'l cigno: questa
gittai di bronzo, e venne benissimo. Ancora ne feci un'altra
simile per porvi sopra la statua di Iunone, aspettando di
cominciare questa ancora, se il Re mi dava l'argento da poter fare
tal cosa. Lavorando sollecitamente, avevo messo di già
insieme il Giove d'argento; ancora avevo misso insieme la saliera
d'oro; il vaso era molto innanzi; le due teste di bronzo erano di
già finite. Ancora avevo fatto parecchi operette al
cardinale di Ferrara; di piú un vasetto d'argento,
riccamente lavorato, avevo fatto per donarlo a madama de Tampes; a
molti Signori italiani, cioè il signor Piero Strozzi, il
conte dell'Anguillara, il conte di Pitigliano, il conte della
Mirandola e a molti altri avevo fatto di molte opere. Tornando al
mio gran Re, sí come io ho detto, avendo tirato innanzi
benissimo queste sue opere, in questo tempo lui ritornò a
Parigi, e il terzo giorno venne a casa mia con molta
quantità della maggior nobiltà della sua Corte, e
molto si maravigliò delle tante opere che io avevo innanzi
e a cosí buon porto tirate; e perché e' v'era seco
la sua madama di Tampes, cominciorno a ragionare di Fontana
Beliò. Madama di Tampes disse a Sua Maestà che egli
doverrebbe farmi fare qualcosa di bello per ornamento della sua
Fontana Beliò. Subito il Re disse: - Gli è ben fatto
quel che voi dite, e adesso adesso mi voglio risolvere che
là si faccia qualcosa di bello - e voltosi a me, mi
cominciò a domandare quello che mi pareva da fare per
quella bella fonte. A questo io proposi alcune mie fantasie:
ancora Sua Maestà disse il parer suo; dipoi mi disse che
voleva andare a spasso per quindici o venti giornate a San Germano
dell'Aia, quale era dodici leghe discosto di Parigi; e che in
questo tanto io facessi un modello per questa sua bella fonte con
piú ricche invenzione che io sapevo, perché quel
luogo era la maggior recreazione che lui avessi nel suo regno;
però mi comandava e pregava, che mi sforzassi di fare
qualcosa di bello: e io tanto gli promessi. Veduto il Re tante
opere innanzi, disse a madama de Tampes: - Io non ho mai
aùto uomo di questa professione che piú mi piaccia,
né che meriti piú d'esser premiato di questo;
però bisogna pensare di fermarlo. Perché gli spende
assai, ed è buon compagnone e lavora assai, è di
necessità che da per noi ci ricordiamo di lui: il
perché si è, considerate, Madama, tante volte quante
gli è venuto da me, e quanto io son venuto qui, non ha mai
domandato niente: il cuor suo si vede essere tutto intento
all'opere; e bisogna fargli qualche bene presto, acciò che
noi non lo perdiamo -. Madama de Tampes disse: - Io ve lo
ricorderò -. Partirnosi: io messi con gran sollecitudine
intorno all'opere mie cominciate, e di piú messi mano al
modello della fonte e con sollecitudine lo tiravo innanzi.
XXI. In termine d'un mese e mezzo il Re ritornò a Parigi; e
io, che avevo lavorato giorno e notte, l'andai a trovare, e portai
meco il mio modello, di tanta bella bozza che chiaramente
s'intendeva. Di già era cominciato a rinnovare le
diavolerie della guerra<B> </B>in fra lo Imperadore e
lui, di modo che io lo trovai molto confuso; pure parlai col
cardinale di Ferrara, dicendogli che io avevo meco certi modelli,
i quali m'aveva commesso Sua Maestà: cosí lo pregai
che se e' vedeva tempo da commettere qualche parola per causa che
questi modegli si potessin mostrare, - io credo che il Re ne
piglierebbe molto piacere -. Tanto fece il Cardinale; propose al
Re detti modelli; subito il Re venne dove io avevo i modelli.
Imprima avevo fatto la porta del palazzo di Fontana Beliò:
per non alterare il manco che io potevo, l'ordine della porta che
era fatta a ditto palazzo, qual era grande e nana, di quella lor
mala maniera franciosa; la quale era l'apritura poco piú
d'un quadro, e sopra esso quadro un mezzo tondo istiacciato a uso
d'un manico di canestro: in questo mezzo tondo il Re desiderava
d'averci una figura, che figurassi Fontana Beliò. Io detti
bellissima proporzione al vano ditto; di poi posi sopra il ditto
vano un mezzo tondo giusto; e dalle bande feci certi piacevoli
risalti, sotto i quali nella parte da basso, che veniva a
conrispondenza di quella di sopra, posi un zocco;<B>
</B>e altanto di sopra; e in cambio di due colonne, che
mostrava che si richiedessi sicondo le modanature fatte di sotto e
di sopra, avevo fatto un satiro in ciascuno de' siti delle
colonne. Questo era piú che di mezzo rilievo, e con un de'
bracci mostrava di reggere quella parte che tocca alle colonne:
innell'altro braccio aveva un grosso bastone, con la sua testa
ardito e fiero, qual mostrava spavento a' riguardanti. L'altra
figura era simile di positura, ma era diversa e varia di testa e
d'alcune altre tali cose: aveva in mano una sferza con tre palle
accomodate con certe catene. Se bene io dico satiri, questi non
avevano altro di satiro che certe piccole cornetta e la testa
caprina; tutto il resto era umana forma. Innel mezzo tondo avevo
fatto una femmina in bella attitudine a diacere: questa teneva il
braccio manco sopra al collo d'un cervio, quale era una de
l'imprese<B> </B>del Re: da una banda avevo fatto di
mezzo rilievo caprioletti, e certi porci cignali e altre
salvaticine di piú basso rilievo; da l'altra banda cani
bracchi e livrieri di piú sorte, perché cosí
produce quel bellissimo bosco, dove nasce la fontana. Avevo di poi
tutta quest'opera ristretta innun quadro oblungo, e innegli anguli
del quadro di sopra, in ciascuno<B>, </B>avevo fatto
una Vittoria in basso rilievo, con quelle faccelline in mano, come
hanno usato gli antichi. Di sopra al ditto quadro avevo fatto la
salamandra, propia impresa del Re, con molti gratissimi altri
ornamenti a proposito della ditta opera, qual dimostrava di essere
di ordine ionico.
XXII.<B> </B>Veduto il Re questo modello, subito lo
fece rallegrare, e lo divertí da quei ragionamenti
fastidiosi in che gli era stato piú di dua ore. Vedutolo io
lieto a mio modo, gli scopersi l'altro modello, quale lui punto
non aspettava, parendogli d'aver veduto assai opera in quello.
Questo modello era grande piú di due braccia, nel quale
avevo fatto una fontana in forma d'un quadro perfetto, con
bellissime iscalee intorno, quale s'intrasegavano l'una
nell'altra: cosa che mai piú s'era vista in quelle parti, e
rarissima in queste. In mezzo a detta fontana avevo fatto un sodo,
il quale si dimostrava un poco piú alto che 'l ditto vaso
della fontana: sopra questo sodo avevo fatto, a conrispondenza,
una figura ignuda di molta bella grazia. Questa teneva una lancia
rotta nella man destra elevata innalto, e la sinistra teneva in
sul manico d'una sua storta fatta di bellissima forma: posava in
sul piè manco e il ritto teneva in su un cimiere tanto
riccamente lavorato, quanto immaginar si possa; e in su e' quattro
canti della fontana avevo fatto, in su ciascuno, una figura
assedere elevata, con molte sue vaghe imprese per ciascuna.
Comincionmi a dimandare il Re che io gli dicessi che bella
fantasia era quella che io avevo fatta, dicendomi che tutto quello
che io avevo fatto alla porta, sanza dimandarmi di nulla lui
l'aveva inteso, ma che questo della fonte, sebbene gli pareva
bellissimo, nulla non n'intendeva; e ben sapeva che io non avevo
fatto come gli altri sciocchi, che se bene e' facevano cose con
qualche poco di grazia, le facevano senza significato nissuno. A
questo io mi messi in ordine; ché essendo piaciuto col
fare, volevo bene che altretanto piacessi il mio dire. - Sappiate,
sacra Maestà, che tutta quest'opera piccola è
benissimo misurata a piedi piccoli, qual mettendola poi in opera,
verrà di questa medesima grazia che voi vedete. Quella
figura di mezzo si è cinquantaquattro piedi - (questa
parola il Re fe' grandissimo segno di maravigliarsi); - appresso,
è fatta figurando lo Idio Marte. Quest'altre quattro figure
son fatte per le Virtú, di che si diletta e favorisce tanto
Vostra Maestà: questa a man destra è figurata per la
scienza di tutte le Lettere: vedete che l'ha i sua contra segni,
qual dimostra la Filosofia con tutte le sue virtú compagne.
Quest'altra dimostra essere tutta l'Arte del disegno, cioè
Scultura, Pittura e Architettura. Quest'altra è figurata
per la Musica, qual si conviene per compagnia a tutte queste
iscienzie. Quest'altra, che si dimostra tanto grata e benigna,
è figurata per la Liberalità; che sanza lei non si
può dimostrare nessuna di queste mirabil Virtú che
Idio ci mostra. Questa istatua di mezzo, grande, è figurata
per Vostra Maestà istessa, quale è un dio Marte, che
voi siete sol bravo al mondo; e questa bravuria voi l'adoperate
iustamente e santamente in difensione della gloria vostra -.
Appena che gli ebbe tanta pazienza che mi lasciassi finir di dire,
che levato gran voce, disse: - Veramente io ho trovato uno uomo
sicondo il cuor mio - e chiamò li tesaurieri ordinatimi, e
disse che mi provvedessino tutto quel che mi faceva di bisogno, e
fussi grande ispesa quanto si volessi: poi a me dette in su la
spalla con la mana, dicendomi: - <I>Mon</I>
<I>ami </I>(che vuol dire "amico mio"), io non so qual
s'è maggior piacere, o quello d'un principe l'aver trovato
un uomo sicondo il suo cuore, o quello di quel virtuoso l'aver
trovato un principe che gli dia tanta comodità, che lui
possa esprimere i sua gran virtuosi concetti -. Io risposi, che se
io ero quello che diceva Sua Maestà, gli era stato molto
maggior ventura la mia. Rispose ridendo: - Diciamo che la sia
eguale -. Partimmi con grande allegrezza, e tornai alle mie opere.
XXIII. Volse la mia mala fortuna che io non fui avvertito di fare
altretanta commedia con madama de Tampes, che saputo la sera tutte
queste cose, che erano corse, dalla propia bocca del Re, gli
generò tanta rabbia velenosa innel petto che con isdegno la
disse: - Se Benvenuto m'avessi mostro le belle opere sue, m'arebbe
dato causa di ricordarmi di lui al tempo -. Il Re mi volse
iscusare, e nulla s'appiccò. Io che tal cosa intesi, ivi a
quindici giorni - ché, girato per la Normandia a Roano e a
Diepa, dipoi eran ritornati a San Germano de l'Aia sopra ditto -
presi quel bel vasetto che io avevo fatto a riquisizione della
ditta madama di Tampes, pensando che, donandoglielo, dovere
riguadagnare la sua grazia. Cosí lo portai meco; e fattogli
intendere per una sua nutrice, e mòstrogli alla ditta il
bel vaso che io avevo fatto per la sua Signora, e come io gliene
volevo donare, la ditta nutrice mi fece carezze ismisurate, e mi
disse che direbbe una parola a Madama, qual non era ancor vestita,
e che subito dittogliene, mi metterebbe drento. La nutrice disse
il tutto a Madama, la qual rispose isdegnosamente: - Ditegli che
aspetti -. Io inteso questo, mi vesti' di pazienzia, la qual cosa
mi è difficilissima; pure ebbi pazienzia insin doppo il suo
desinare: e veduto poi l'ora tarda, la fame mi causò tanta
ira, che non potendo piú resistere, mandatole divotamente
il canchero nel cuore, di quivi mi parti' e me n'andai a trovare
il cardinale di Loreno, e li feci presente del ditto vaso,
raccomandatomi solo che mi tenessi in buona grazia del Re. Disse
che non bisognava, e quando fussi bisogno, che lo farebbe
volentieri: di poi chiamato un suo tesauriere, gli parlò
nello orecchio. Il ditto tesauriere aspettò che io mi
partissi dalla presenza del Cardinale; di poi mi disse: -
Benvenuto, venite meco, che io vi darò da bere un bicchier
di buon vino - al quale io dissi, non sapendo quel che lui si
volessi dire: - Di grazia, Monsignore tesauriere, fatemi donare un
sol bicchier di vino e un boccon di pane, perché veramente
io mi vengo manco, perché sono stato da questa mattina a
buon'otta insino a quest'ora, che voi vedete, digiuno, alla porta
di madama di Tampes, per donargli quel bel vasetto d'argento
dorato, e tutto gli ho fatto intendere, e lei, per istraziarmi
sempre, m'ha fatto dire che io aspettassi. Ora m'era sopraggiunto
la fame, e mi sentivo mancare; e, sí come Idio ha voluto,
ho donato la roba e le fatiche mie a chi molto meglio le meritava,
e non vi chieggo altro che un poco da bere, che per essere
alquanto troppo colleroso, mi offende il digiuno di sorte che mi
faria cader in terra isvenuto -. Tanto quanto io penai a dire
queste parole, era comparso di mirabil vino e altre piacevolezze
di far colezione, tanto che io mi recreai molto bene: e
riaúto gli spiriti vitali, m'era uscita la stizza. Il buon
tesauriere mi porse cento scudi d'oro; ai quali io feci
resistenza, di non gli volere in modo nissuno. Andollo a riferire
al Cardinale; il quale, dettogli una gran villania, gli
comandò che me gli facessi pigliar per forza, e che non gli
andassi piú inanzi altrimenti. Il tesauriere venne a me
crucciato, dicendo che mai piú era stato gridato per
l'addietro dal Cardinale; e volendomegli dare, io che feci un poco
di resistenza, molto crucciato mi disse che me gli farebbe pigliar
per forza. Io presi li dinari. Volendo andare a ringraziare il
Cardinale, mi fece intendere per un suo segretario, che sempre che
lui mi poteva far piacere, che me ne farebbe di buon cuore: io me
ne tornai a Parigi la medesima sera. Il Re seppe ogni cosa.
Dettono la baia a madama de Tampes, qual fu causa di farla
maggiormente invelenire a far contro a di me, dove io portai gran
pericolo della vita mia, qual si dirà al suo luogo.
XXIV. Se bene molto prima io mi dovevo ricordare della guadagnata
amicizia del piú virtuoso, del piú amorevole e del
piú domestico uomo dabbene che mai io conoscessi al mondo:
questo si fu messer Guido Guidi, eccellente medico e dottore e
nobil cittadin fiorentino; per gli infiniti travagli postimi
innanzi dalla perversa fortuna, l'avevo alquanto lasciato un poco
indietro. Benché questo non importi molto, io mi pensavo,
per averlo di continuo innel cuore, che bastassi; ma avvedutomi
poi che la mia Vita<B> </B>non istà bene senza
lui, l'ho commesso infra questi mia maggior travagli, acciò
che sí come la e' m'era conforto e aiuto, qui mi faccia
memoria di quel bene. Capitò il ditto messer Guido in
Parigi; e avendolo cominciato a cognoscere, lo menai al mio
castello, e quivi gli detti una stanza libera da per sé;
cosí ci godemmo insieme parecchi anni. Ancora capitò
il vescovo di Pavia, cioè monsignor de' Rossi, fratello del
conte di San Sicondo. Questo Signore io levai d'in su l'osteria e
lo missi innel mio castello, dando ancora a lui una istanza
libera, dove benissimo istette accomodato con sua servitori e
cavalcature per di molti mesi. Ancora altra volta accomodai messer
Luigi Alamanni con i figliuoli per qualche mese; pure mi dette
grazia Idio che io potetti far qualche piacere, ancora io, agli
uomini e grandi e virtuosi. Con il sopraditto messer Guido godemmo
l'amicizia tanti anni, quanto io là soprastetti,
gloriandoci spesso insieme che noi imparavamo qualche virtú
alle spese di quello cosí grande e maraviglioso principe,
ogniun di noi innella sua professione. Io posso dire veramente che
quello che io sia, e quanto di buono e bello io m'abbia operato,
tutto è stato per causa di quel maraviglioso Re:
però rappicco il filo a ragionare di lui e delle mie grande
opere fattegli.
XXV. Avevo in questo mio castello un giuoco di palla da giucare
alla corda, del quale io traevo assai utile mentre che io lo
facevo esercitare. Era in detto luogo alcune piccole stanzette
dove abitava diversa sorte di uomini, in fra i quali era uno
stampatore molto valente di libri: questo teneva quasi tutta la
sua bottega drento innel mio castello, e fu quello che
stampò quel primo bel libro di medicina a messer Guido.
Volendomi io servire di quelle stanze, lo mandai via, pur con
qualche difficultà non piccola. Vi stava ancora un maestro
di salnitri; e perché io volevo servirmi di queste piccole
istanzette per certi mia buoni lavoranti todeschi, questo ditto
maestro di salnitri non voleva diloggiare; e io piacevolmente
piú volte gli avevo detto che lui m'accomodassi delle mie
stanze, perché me ne volevo servire per abituro de' mia
lavoranti per il servizio del Re. Quanto piú umile parlavo,
questa bestia tanto piú superbo mi rispondeva: all'utimo
poi io gli detti per termine tre giorni. Il quale se ne rise, e mi
disse che in capo di tre anni comincierebbe a pensarvi. Io non
sapevo che costui era domestico servitore di madama di Tampes: e
se e' non fussi stato che quella causa di madama di Tampes mi
faceva un po' piú pensare alle cose, che prima io non
facevo, lo arei subito mandato via; ma volsi aver pazienzia quei
tre giorni; i quali passati che e' furno, sanza dire altro, presi
todeschi, italiani e franciosi, con l'arme in mano, e molti
manovali che io avevo; e in breve tempo sfasciai tutta la casa, e
le sue robe gittai fuor del mio castello. E questo atto alquanto
rigoroso feci, perché lui aveva dettomi, che non conosceva
possanza di italiano tanto ardita che gli avessi mosso una maglia
del suo luogo. Però, di poi il fatto, questo arrivò;
al quale io dissi: - Io sono il minimo italiano della Italia, e
non t'ho fatto nulla appetto a quello che mi basterebbe l'animo di
farti, e che io ti farò, se tu parli un motto solo - con
altre parole ingiuriose che io gli dissi. Quest'uomo, attonito e
spaventato, dette ordine alle sue robe il meglio che potette; di
poi corse a madama de Tampes, e dipinse uno inferno; e quella mia
gran nimica, tanto maggiore, quanto lei era piú eloquente e
piú d'assai, lo dipinse al Re; il quale due volte, mi fu
detto, si volse crucciar meco e dare male commessione contro a di
me; ma perché Arrigo Dalfino suo figliuolo, oggi re di
Francia, aveva ricevuto alcuni dispiaceri da quella troppo ardita
donna, insieme con la regina di Navarra, sorella del re Francesco,
con tanta virtú mi favorirno, che il Re convertí in
riso ogni cosa: per la qual cosa, con il vero aiuto de Dio io
passai una gran fortuna.
XXVI. Ancora ebbi a fare il medesimo a un altro simile a questo,
ma non rovinai la casa; ben gli gittai tutte le sue robe fuori.
Per la quale cosa madama de Tampes ebbe ardire tanto, che la disse
al Re: - Io credo che questo diavolo una volta vi
saccheggerà Parigi -. A queste parole il Re adirato rispose
a madama de Tampes dicendole che io facevo troppo bene a
difendermi da quella canaglia, che mi volevano inpedire il suo
servizio. Cresceva ogniora maggior rabbia a questa crudel donna:
chiamò a sé un pittore, il quale istava per istanza
a Fontana Beliò, dove il re stava quasi di continuo. Questo
pittore era italiano e bolognese, e per il Bologna era conosciuto:
per il nome suo proprio si chiamava Francesco Primaticcio. Madama
di Tampes gli disse, che lui doverrebbe domandare a il Re
quell'opera della Fonte, che Sua Maestà aveva resoluta a
me, e che lei con tutta la sua possanza ne lo aiuterebbe:
cosí rimasono d'accordo. Ebbe questo Bologna la maggiore
allegrezza che gli avessi mai, e tal cosa si promesse sicura, con
tutto che la non fussi sua professione; ma perché gli aveva
assai buon disegno, e era messo in ordine con certi lavoranti, i
quali erano fattisi sotto la disciplina de il Rosso, pittore
nostro fiorentino, veramente maravigliosissimo valentuomo: e
ciò che costui faceva di buono, l'aveva preso dalla mirabil
maniera del ditto Rosso, il quale era di già morto.
Potettono tanto quelle argute ragione, con il grande aiuto di
madama di Tampes e con il continuo martellare giorno e notte, or
Madama, ora il Bologna, agli orecchi di quel gran Re. E quello che
fu potente causa a farlo cedere, che lei e il Bologna d'accordo
dissono: - Come è 'gli possibile, sacra Maestà, che,
volendo quella che Benvenuto gli faccia dodici statue d'argento,
per la qual cosa non n'ha ancora finito una? O se voi lo impiegate
in una tanta grande impresa, è di necessità che di
queste altre, che tanto voi desiderate, per certo voi ve ne
priviate; perché cento valentissimi uomini non potrebbono
finire tante grande opere, quante questo valente uomo ha ordite.
Si vede espresso che lui ha gran voluntà di fare; la qual
cosa sarà causa che a un tratto Vostra Maestà perda
e lui e l'opere -. Queste con molt'altre simile parole, trovato il
Re in tempera, compiacque tutto quello che dimandato e' gli
avevano: e per ancora non s'era mai mostro né disegni
né modegli di nulla di mano del detto Bologna.
XXVII. In questo medesimo tempo in Parigi s'era mosso contro a di
me quel sicondo abitante che io avevo cacciato del mio castello, e
avevami mosso una lite, dicendo che io gli avevo rubato gran
quantità della sua roba, quando l'avevo iscasato. Questa
lite mi dava grandissimo affanno e toglievami tanto tempo, che
piú volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con
Dio.<B> </B>Hanno per usanza in Francia di fare
grandissimo capitale d'una lite che lor cominciano con un
forestiero o con altra persona che 'e veggano che sia alquanto
istraccurato allitigare; e subito che lor cominciano a vedersi
qualche vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; e
alcuni l'hanno data per dote a certi, che fanno totalmente
quest'arte di comperar lite. Hanno un'altra brutta cosa, che gli
uomini di Normandia, quasi la maggior parte, hanno per arte loro
il fare il testimonio falso; di modo che questi che comprano la
lite, subito instruiscono quattro di questi testimoni o sei,
sicondo il bisogno, e per via di questi, chi non è
avvertito, a produrne tanti in contrario, un che non sappia
l'usanza, subito ha la sentenzia contro. E a me intravenne questi
ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla
gran sala di Parigi per difender le mie ragione; dove io viddi un
giudice, luogotenente del Re, del civile, elevato in sun un gran
tribunale. Questo uomo era grande, grosso e grasso, e d'aspetto
austerissimo: aveva all'intorno di sé da una banda e da
l'altra molti proccuratori e avvocati, tutti messi per ordine da
destra e da sinistra: altri venivano, un per volta; e proponevano
al ditto giudice una causa. Quelli avvocati, che erano da canto,
io gli viddi talvolta parlar tutti a un tratto; dove io stetti
maravigliato che quel mirabile uomo, vero aspetto di Plutone, con
attitudine evidente porgeva l'orecchio ora a questo ora a quello,
e virtuosamente a tutti rispondeva. E perché a me sempre
è dilettato il vedere e gustare ogni sorte di virtú,
mi parve questa tanto mirabile, che io non arei voluto per gran
cosa non l'aver veduta. Accadde, per essere quella sala
grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora
usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v'aveva che fare,
e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual
guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva
ch'entrassi, impediva con quel gran romore quel maraviglioso
giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. E io
piú volte mi abbatte', e considerai l'accidente; e le
formate parole, quale io senti', furno queste, che disse il propio
giudice, il quale iscòrse dua gentiluomini che venivano per
vedere; e faccendo questo portiere grandissima resistenza, il
ditto giudice disse gridando ad alta voce: - Sta' cheto, sta'
cheto, Satanasso, levati di costí, e sta' cheto -. Queste
parole innella lingua franzese suonano in questo modo:
<I>"Phe phe Satan phe phe Satan alè phe"</I>.
Io che benissimo avevo imparata la lingua franzese, sentendo
questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando
lui entrò con Vergilio suo maestro drento alle porte dello
Inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furno
insieme in Francia e maggiormente in Parigi, dove per le ditte
cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno
Inferno: però ancora Dante, intendendo bene la lingua
franzese, si serví di quel motto; e m'è parso gran
cosa che mai non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e
credo che questi comentatori gli fanno dir cose le quale lui non
pensò mai.
XXVIII. Ritornando ai fatti mia, quando io mi viddi dar certe
sentenzie per mano di questi avvocati, non vedendo modo alcuno di
potermi aiutare, ricorsi per mio aiuto a una gran daga che io
avevo, perché sempre mi son dilettato di tener belle armi;
e il primo che io cominciai a intaccare si fu quel principale che
m'aveva mosso la ingiusta lite; e una sera gli detti tanti colpi,
pur guardando di non lo ammazzare, innelle gambe e innelle
braccia, che di tutt'a due le gambe io lo privai. Di poi ritrovai
quell'altro che aveva compro la lite, e anche lui toccai di sorte
che tal lite si fermò. Ringraziando di questo e d'ogni
altra cosa sempre Idio, pensando per allora di stare un pezzo
sanza esser molestato, dissi ai mia giovani di casa, massimo a
l'italiani, per amor de Dio ogniuno attendesse alle faccende sua,
e m'aiutassino qualche tempo, tanto che io potessi finire
quell'opere cominciate, perché presto le finirei; di poi me
volevo ritornare innItalia, non mi potendo comportare con le
ribalderie di quei Franciosi; e che se quel buon Re s'adirava una
volta meco, m'arebbe fatto capitar male, per avere io fatto per
mia difesa di molte di quelle cotal cose. Questi italiani ditti si
erano, il primo e 'l piú caro, Ascanio, del regno di
Napoli, luogo ditto Tagliacozze; l'altro si era Pagolo, romano,
persona nata molto umile e non si cognosceva suo padre: questi dua
erano quelli che io avevo menato di Roma, li quali in detta Roma
stavano meco. Un altro romano, che era venuto ancora lui a
trovarmi di Roma apposta, ancora questo si domandava per nome
Pagolo ed era figliuolo d'un povero gentiluomo romano della casata
de' Macaroni: questo giovane non sapeva molto de l'arte, ma era
bravissimo con l'arme. Un altro n'avevo, il quale era ferrarese, e
per nome Bartolomeo Chioccia. Ancora un altro n'avevo: questo era
fiorentino e aveva nome Pagolo Miccieri. E perché il suo
fratello, ch'era chiamato per sopra nome il Gatta, questo era
valente in su le scritture, ma aveva speso troppo innel maneggiare
la roba di Tommaso Guadagni ricchissimo mercatante, questo Gatta
mi dette ordine a certi libri, dove io tenevo i conti del gran Re
Cristianissimo e d'altri; questo Pagolo Miccieri, avendo preso il
modo dal suo fratello di questi mia libri, lui me gli seguitava, e
io gli davo bonissima provvisione. E perché e' mi pareva
molto buon giovane, perché lo vedevo divoto, sentendolo
continuamente quando borbottar salmi, quando con la corona in
mano, assai mi promettevo, della sua finta bontà. Chiamato
lui solo da parte, gli dissi: - Pagolo, fratello carissimo; tu
vedi come tu stai meco bene, e sai che tu non avevi nissuno
avviamento, e di piú ancora tu se' fiorentino; per la qual
cosa io mi fido piú di te, per vederti molto divoto con gli
atti della religione, quale è cosa che molto mi piace. Io
ti priego che tu mi aiuti, perché io non mi fido
tanto<B> </B>di nessuno di quest'altri: pertanto ti
priego che tu m'abbia cura a queste due prime cose, che molto mi
darieno fastidio: l'una si è che tu guardi benissimo la
roba mia, che la non mi sia tolta, e cosí tu non me la
toccare; ancora, tu vedi quella povera fanciulletta della
Caterina, la quale io tengo principalmente per servizio de l'arte
mia, che senza non potrei fare: ancora, perché io sono
uomo, me ne son servito ai mia piaceri carnali, e potria essere
che la mi farebbe un figliuolo; e perché io non vo' dar le
spese ai figliuoli d'altri, né manco sopporterei che mi
fossi fatto una tale ingiuria. Se nissuno<B> </B>di
questa casa fussi tanto ardito di far tal cosa, e io me ne
avvedessi, per certo credo che io ammazzerei l'una e l'altro.
Però ti priego, caro fratello, che tu m'aiuti; e se tu vedi
nulla<B>, </B>subito dimmelo, perché io
manderò alle forche lei e la madre e chi a tal cosa
attendessi: però sia il primo a guardartene -. Questo
ribaldo si fece un segno di croce, che arrivò dal capo ai
piedi, e disse: - O Iesu benedetto! Dio me ne guardi, che mai io
pensassi a tal cosa! prima, per non esser dedito a coteste
cosaccie; di poi, non credete voi che io cognosca il gran bene che
io ho da voi? - A queste parole, vedutemele dire in atto simplice
e amorevole in verso di me, credetti che la stessi appunto come
lui diceva.
XXIX. Di poi dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia
del Nazaro, ancora lui italiano e servitor del Re, della medesima
professione valentissimo uomo, m'aveva invitato con quelli mia
giovani a godere a un giardino. Per la qual cosa io mi messi in
ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a spasso a
rallegrarsi, parendomi d'avere alquanto quietato un poco quella
ditta fastidiosa lite. Questo giovane mi rispose dicendomi: -
Veramente che sarebbe grande errore a lasciare la casa cosí
sola: vedete quant'oro, argenti e gioie voi ci avete. Essendo a
questo modo in città di ladri, bisogna guardarsi di
dí come di notte: io mi attenderò a dire certe mie
orazioni, in mentre che io guarderò la casa; andate con
l'animo posato a darvi piacere e buon tempo: un'altra volta
farà un altro questo uflizio -. Parendomi di andare con
l'animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il Chioccia al
ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo
d'essa passammo lietamente. Cominciatosi a 'pressare piú
inverso la sera, sopra il mezzo giorno mi toccò l'umore, e
cominciai a pensare a quelle parole che con finta
semplicità m'aveva detto quello isciagurato; montai in sul
mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello; dove
io trovai Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato;
perché giunto che io fui, la franciosa ruffiana madre con
gran voce disse: - Pagolo, Caterina, gli è qui il padrone
-. Veduto venire l'uno e l'altro ispaventati e sopragiunti a me
tutti scompigliati, non sapendo né quello che lor si
dicevano, né, come istupidi, dove loro andavano,
evidentemente si cognobbe il commesso lor peccato. Per la qual
cosa sopra fatta la ragione dall'ira, messi mano alla spada,
resolutomi per ammazzargli tutt'a dua. Uno si fuggí,
l'altra si gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le
misericordie del cielo. Io, che arei prima voluto dare al mastio,
non lo potendo cosí giugnere al primo, quando da poi l'ebbi
raggiunto intanto m'ero consigliato: il mio meglio si era di
cacciargli via tutt'a dua; perché con tante altre cose
fattesi vicine a questa, io con difficultà arei campato la
vita. Però dissi a Pagolo: - Se gli occhi mia avessino
veduto quello che tu, ribaldo, mi fai credere, io ti passerei
dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti dinanzi, che
se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di
san Giuliano -. Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi
di pinte,<B> </B>calci e pugna. Pensorno vendicarsi di
questa ingiuria, e conferito con uno avvocato normando,
insegnò loro che lei dicessi che io avessi usato seco al
modo italiano; qual modo s'intendeva contro natura, cioè in
soddomia; dicendo: - Per lo manco, come questo italiano sente
questa tal cosa, e saputo quanto e' l'è di gran pericolo,
subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò
che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa
in Francia di questo tal peccato -. Cosí rimasino
d'accordo: mi posono l'accusa, e io fui richiesto.
XXX. Quanto piú cercavo di riposo, tanto piú mi si
mostrava le tribulazione. Offeso dalla fortuna ogni dí in
diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io dovevo
fare; o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o
sí veramente combattere anche questa pugna e vedere a che
fine m'aveva creato Idio. Un gran pezzo m'ero tribolato sopra
questa cosa; all'utimo poi, preso per resoluzione d'andarmi con
Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa fortuna, che lei
m'avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto e
per tutto, e mosso i passi per dar presto luogo a quelle robe che
io non potevo portar meco, e quell'altre sottile, il meglio che io
potevo, accomodarle a dosso a me e miei servitori, pur con molto
mio grave dispiacere faceva tal partita. Era rimasto solo innun
mio studiolo; perché quei mia giovani, che m'avevano
confortato che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro, che gli
era bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con
tutto ciò che io conoscevo bene che loro dicevano in gran
parte il vero; perché da poi che io fussi fuor di prigione
e avessi dato un poco di luogo a questa furia, molto meglio mi
potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale
assassinamento fattomi sol per invidia. E sí come ho detto,
m'ero risoluto a far cosí; e mossomi, fui preso per una
spalla e volto, e una voce che disse animosamente: - Benvenuto,
come tu suoi, e non aver paura -. Subito presomi contrario
consiglio da quel che avevo fatto, i' dissi a quei mia giovani
taliani: - Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a
quanto io vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio
comparire. Se io mi partissi, voi andresti l'altro dí tutti
in fumo; sí che ubbidite e venite meco -. Tutti d'accordo
quelli giovani dissono: - Da poi che noi siamo qui e viviamo del
suo, noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c'è
vita a ciò che lui proporrà; perché gli ha
detto piú il vero che noi non pensavamo. Subito che e'
fossi fuora di questo luogo, e' nemici sua ci farebbon tutti
mandar via. Consideriamo bene le grande opere, che son qui
cominciate, e di quanta grande inportanza le sono: a noi non ci
basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li nimici sua
direbbono che e' se ne fussi ito per non gli bastar la vista di
fluire queste cotale imprese -. Dissono di molte parole, oltre a
queste, d'importanza. Quel giovane romano de' Macaroni fu il primo
a metter animo agli altri: ancora chiamò parecchi di quei
tedeschi e franciosi che mi volevan bene. Eramo dieci infra tutti:
io presi il cammino dispostomi resoluto di non mi lasciare
carcerare vivo. Giunto alla presenza dei giudici cherminali,
trovai la ditta Caterina e sua madre. Sopragiunsi loro addosso che
le ridevano con un loro avvocato: entrai drento e animosamente
domandai il giudice, che gonfiato, grosso e grasso, stava elevato
sopra gli altri in su 'n un tribunale. Vedutomi quest'uomo,
minaccioso con la testa, disse con sommissa voce: - Se bene tu hai
nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto -. Io intesi,
e replicai un'altra volta dicendo: - Presto ispacciatemi: ditemi
quel che io son venuto a far qui -. Allora il ditto giudice si
volse a Caterina e le disse: - Caterina, di' tutto quel che
t'è occorso d'avere a fare con Benvenuto -. La Caterina
disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice
voltosi a me, disse: - Tu senti quel che la Caterina dice,
Benvenuto -. Allora io dissi: - Se io avessi usato seco al modo
italiano, l'arei fatto solo per desiderio d'avere un figliuolo,
sí come fate voi altri -. Allora il giudice replicò,
dicendo: - Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso
dove si fa figliuoli -. A questo io dissi che quello non era il
modo italiano; anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che
lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto
innel modo che io avevo aùto a far seco. Questa ribaldella
puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo
che la voleva dire. Io gnene feci raffermare tre volte l'uno
appresso a l'altro; e ditto che l'ebbe, io dissi ad alta voce: -
Signor giudice, luogotenente del Re Cristianissimo, io vi domando
giustizia; perché io so che le legge del Cristianissimo Re
a tal peccato promettono il fuoco a l'agente e al paziente;
però costei confessa il peccato: io non la cognosco in modo
nessuno: la ruffiana madre è qui che per l'un delitto e
l'altro merita il fuoco; io vi domando iustizia -. E queste parole
replicavo tanto frequente e ad alta voce, sempre chiedendo il
fuoco per lei e per la madre: dicendo al giudice, che se non la
metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al Re, e direi
la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale.
Costoro a questo mio gran romore cominciorno a 'bassar le voci;
allora io l'alzavo piú: la puttanella a piagnere insieme
con la madre, e io al giudice gridavo: - Fuoco, fuoco -. Quel
poltroncione, veduto che la cosa non era passata in quel modo che
lui aveva disegnato, cominciò con piú dolce parole a
iscusare il debole sesso femminile. A questo, io considerai che mi
pareva pure d'aver vinto una gran pugna, e borbottando e
minacciando, volentieri m'andai con Dio; che certo arei pagato
cinquecento scudi a non v'esser mai comparso. Uscito di quel
pelago, con tutto il cuore ringraziai Idio, e lieto me ne tornai
con i mia giovani al mio castello.
XXXI. Quando la perversa fortuna, o sí veramente vogliam
dire quella nostra contraria istella, toglie a perseguitare uno
uomo, non gli manca mai modi nuovi da mettere in campo contro a di
lui. Parendomi d'esser uscito di uno inistimabil pelago, pensando
pure che per qualche poco di tempo questa mia perversa istella mi
dovessi lasciare istare, non avendo ancora ripreso il fiato da
quello inistimabil pericolo, che lei me ne dette dua a un tratto
innanzi. In termine di tre giorni mi occorre dua casi; a ciascuno
dei dua la vita mia è in sul bilico della bilancia. Questo
si fu che, andando io a Fontana Beliò a ragionare con il
Re, che m'aveva iscritto una lettera, per la quale lui voleva che
io facessi le stampe delle monete di tutto il suo regno, e con
essa lettera m'aveva mandato alcuni disegnetti per mostrarmi parte
della voglia sua; ma ben mi dava licenzia che io facessi tutto
quel che a me piaceva: io avevo fatto nuovi disegni, sicondo il
mio parere e sicondo la bellezza de l'arte. Cosí giunto a
Fontana Beliò, uno di quei tesaurieri, che avevano
commessione dal Re di provvedermi, - questo si chiamava monsignor
della Fa - il quale subito mi disse: - Benvenuto, il Bologna
pittore ha aùto dal Re commessione di fare il vostro gran
colosso e tutte le commessione che 'l nostro Re ci aveva dato per
voi, tutte ce l'ha levate, e datecele per lui. A noi c'è
saputo grandemente male, e c'è parso che questo vostro
italiano molto temerariamente si sia portato inverso di voi;
perché voi avevi di già aùto l'opera per
virtú de' vostri modelli e delle vostre fatiche; costui ve
la toglie solo per il favore di madama di Tampes: e sono oramai di
molti mesi, che gli ha aùto tal commessione, e ancora non
s'è visto che dia ordine a nulla -. Io, maravigliato,
dissi: - Come è egli possibile che io non abbia mai saputo
nulla di questo? - Allora mi disse che costui l'aveva tenuta
segretissima, e che l'aveva aúta con grandissima
difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma
le sollecitudine<B> </B>di madama di Tampes solo gnene
avevan fatto avere. Io sentitomi a questo modo offeso e a
cosí gran torto, e veduto tormi un'opera la quale io
m'avevo guadagnata con le mia gran fatiche, dispostomi di fare
qualche gran cosa di momento con l'arme, difilato me n'andai a
trovare il Bologna. Trava'lo in camera sua, e inne' sua studii:
fecemi chiamare drento, e con certe sue lombardesche raccoglienze
mi disse qual buona faccenda mi aveva condotto quivi. Allora io
dissi: - Una faccenda bonissima e grande -. Quest'uomo commesse ai
sua servitori che portassino da bere, e disse: - Prima che noi
ragioniamo di nulla, voglio che noi beviamo insieme; che
cosí è il costume di Francia -. Allora io dissi: -
Misser Francesco, sappiate che quei ragionamenti che noi abbiamo
da fare insieme non richieggono il bere imprima: forse dappoi si
potria bere -. Cominciai a ragionar seco dicendo: - Tutti gli
uomini che fanno professione di uomo dabbene, fanno le opere loro
che per quelle si cognosce quelli essere uomini dabbene; e
faccendo il contrario, non hanno piú il nome di uomo da
bene. Io so che voi sapevi che il Re m'aveva dato da fare quel
gran colosso, del quale s'era ragionato diciotto mesi, e né
voi né altri mai s'era fatto innanzi a dir nulla
sopracciò; per la qual cosa con le mie gran fatiche io
m'ero mostro al gran Re, il quale, piaciutogli i mia modelli,
questa grande opera aveva dato a fare a me; e son tanti mesi che
non ho sentito altro: solo questa mattina ho inteso che voi
l'avete aúta e toltola a me; la quale opera io me la
guadagnai con i mia maravigliosi fatti, e voi me la togliete solo
con le vostre vane parole.
XXXII. A questo il Bologna rispose e disse: - O Benvenuto, ogniun
cerca di fare il fatto suo in tutt'i modi che si può: se il
Re vuol cosí, che volete voi replicare altro? ché
getteresti via il tempo, perché io l'ho aúta
ispedita, ed è mia. Or dite voi ciò che voi volete,
e io v'ascolterò -. Dissi cosí: - Sappiate, messer
Francesco, che io v'arei da dire molte parole, per le quale con
ragion mirabile e vera io vi farei confessare che tal modi non si
usano, qual son cotesti che voi avete fatto e ditto, in fra gli
animali razionali; però verrò con breve parole
presto al punto della conclusione ma aprite gli orecchi e
intendetemi bene, perché la importa -. Costui si volse
muovere da sedere, perché mi vidde tinto in viso e
grandemente cambiato: io dissi che non era ancor tempo a muoversi:
che stessi a sedere e che m'ascoltassi. Allora io cominciai,
dicendo cosí: - Messer Francesco, voi sapete che l'opera
era prima mia, e che, a ragion di mondo, gli era passato il tempo
che nessuno non ne doveva piú parlare: ora io vi dico, che
io mi contento che voi facciate un modello, e io, oltra a quello
che io ho<B> </B>fatto, ne farò un altro; di
poi cheti cheti lo porteremo al nostro gran Re; e chi
guadagnerà per quella via il vanto d'avere operato meglio,
quello meritamente sarà degno del colosso; e se a voi
toccherà a farlo, io diporrò tutta questa grande
ingiuria che voi m'avete fatto, e benedirovvi le mane, come
piú degne delle mia d'una tanta gloria. Sí che
rimagnamo cosí, e saremo amici; altrimenti noi saremo
nimici; e Dio che aiuta sempre la ragione, e io che le fo la
strada, vi mostrerrei in quanto grande error voi fussi -. Disse
messer Francesco: - L'opera è mia, e da poi che la
m'è stata data, io non voglio mettere il mio in compromesso
-. A cotesto io rispondo: - Messer Francesco, che da poi che voi
non volete pigliare il buon verso, quale è giusto e
ragionevole, io vi mostrerrò quest'altro, il quale
sarà come il vostro, che è brutto e dispiacevole. Vi
dico cosí, che se io sento mai in modo nessuno che poi
parliate di questa mia opera, io subito vi ammazzerò come
un cane: e perché noi non siamo né in Roma,
né in Bologna, né in Firenze - qua si vive in un
altro modo - se io so mai che voi ne parliate al Re o ad altri, io
vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via voi volete
pigliare: o quella prima buona, che io dissi, o questa ultima
cattiva, che io dico -. Quest'uomo non sapeva né che si
dire, né che si fare, e io ero in ordine per fare
piú volentieri quello effetto allora che mettere altro
tempo in mezzo. Non disse altre parole che queste, il ditto
Bologna: - Quando io farò le cose che debbe fare uno uomo
da bene, io non arò una paura al mondo -. A questo dissi: -
Bene avete detto; ma faccendo il contrario abbiate paura,
perché la v'importa - e subito mi parti' dallui, e
anda'mene dal Re, e con Sua Maestà disputai un gran pezzo
la faccenda delle monete; la quale noi non fummo molto d'accordo;
perché essendo quivi il suo Consiglio, lo persuadevano che
le monete si dovessin fare in quella maniera di Francia, sí
come le s'eran fatte insino a quel tempo. Ai quali risposi che Sua
Maestà m'aveva fatto venire della Italia perché io
gli facessi dell'opere che stessin bene; e se Sua Maestà mi
comandassi al contrario, a me non comporteria l'animo mai di
farle. A questo si dette spazio per ragionarne un'altra volta:
subito io me ne tornai a Parigi.
XXXIII. Non fui sí tosto iscavalcato, che una buona
persona, di quelli che hanno piacere di vedere del male, mi venne
a dire che Pagolo Miccieri aveva preso una casa per quella
puttanella della Caterina e per sua madre, e che continuamente lui
si tornava quivi, e che parlando di me, sempre con ischerno
diceva: - Benvenuto aveva dato a guardia la lattuga ai paperi, e
pensava che io non me la mangiassi; basta che ora e' va
bravando<B> </B>e crede che io abbia paura di lui: io
mi son messo questa spada e questo pugnale a canto per dargli a
divedere che anche la mia spada taglia e son fiorentino come lui,
de' Miccieri, molto meglio casata che non sono i sua Cellini -.
Questo ribaldo, che mi portò tale imbasciata, me la disse
con tanta efficacia, io mi senti' subito balzare la febbre
addosso, dico la febbre sanza dire per comparazione. E
perché forse di tale bestiale passione io mi sarei morto,
presi per rimedio di dar quell'esito, che m'aveva dato tale
occasione, sicondo il modo che in me sentivo. Dissi a quel mio
lavorante ferrarese, che si chiamava il Chioccia, che venissi
meco, e mi feci menar dietro dal servitore el mio cavallo; e
giunto a casa, dove era questo isciagurato, trovato la porta
socchiusa, entrai dentro: viddilo che gli aveva accanto la spada e
'l pugnale, ed era assedere in su 'n un cassone, e teneva il
braccio al collo a la Caterina: appunto arrivato, senti' che lui
con la madre di lei motteggiava de' casi mia. Spinta la porta
innun medesimo tempo messo la mana alla spada, gli posi la punta
d'essa alla gola, non gli avendo dato tempo a poter pensare che
ancora lui aveva la spada, dissi a un tratto: - Vil poltrone,
raccomandati a Dio, che tu se' morto -. Costui, fermo, disse tre
volte: - O mamma mia, aiutatemi -. Io che avevo voglia
d'ammazzarlo a ogni modo, sentito che ebbi quelle parole tanto
sciocche, mi passò la metà della stizza. Intanto
aveva detto a quel mio lavorante Chioccia, che non lasciassi
uscire né lei né la madre, perché se io davo
allui, altretanto male volevo fare a quelle dua puttane. Tenendo
continuamente la punta della spada alla gola, e alquanto un
pochetto lo pugnevo, sempre con paventose parole; veduto poi che
lui non faceva una difesa al mondo, e io non sapevo piú che
mi fare, e quella bravata fatta non mi pareva che l'avessi fine
nessuna, mi venne in fantasia, per il manco male, di fargnene
isposare, con disegno di far da poi le mie vendette. Cosí
resolutomi, dissi: - Càvati quello anello che tu hai in
dito, poltrone, e sposala, acciò che poi io possa fare le
vendette che tu meriti -. Costui subito disse: - Purché voi
non mi ammazziate, io farò ogni cosa. - Adunche - diss'io -
mettigli l'anello -. Scostatogli un poco la spada dalla gola,
costui le misse l'anello. Allora io dissi: - Questo non basta,
perché io voglio che si vadia per dua notari, che tal cosa
passi per contratto -. Ditto al Chioccia che andassi per e'
notari, subito mi volsi allei e alla madre. Parlando in franzese
dissi: - Qui verrà i notari e altri testimoni: la prima che
io sento di voi che parli nulla di tal cosa, subito
l'ammazzerò, e v'ammazzerò tutt'a tre; sí che
state in cervello -. A lui dissi in italiano: - Se tu replichi
nulla a tutto quel che io proporrò, ogni minima parola che
tu dica, io ti darò tante pugnalate, che io ti faro votare
ciò che tu hai nelle budella -. A questo lui rispose: - A
me basta che voi non mi ammazziate; e io farò ciò
che voi volete -. Giunse i notari e li testimoni, fecesi il
contratto altentico e, mirabile!, passommi la stizza e la febbre.
Pagai li notari, e anda' mene. L'altro giorno venne a Parigi il
Bologna a posta, e mi fece chiamare da Mattio del Nasaro: andai e
trovai il detto Bologna, il quale con lieta faccia mi si fece
incontro, pregandomi che io lo volessi per buon fratello, e che
mai piú parlerebbe di tale opera, perché conosceva
benissimo che io avevo ragione.
XXIV. Se io non dicessi, in qualcuno di questi mia accidenti,
cognoscere d'aver fatto male, quell'altri, dove io cognosco aver
fatto bene, non sarebbono passati per veri; però io
cognosco d'aver fatto errore a volermi vendicare tanto
istranamente con Pagolo Miccieri. Benché, se io avessi
pensato che lui fussi stato uomo di tanta debolezza, non mai mi
sarie venuta in animo una tanto vituperosa vendetta, qual io feci;
ché non tanto mi bastò l'avergli fatto pigliar per
moglie una cosí iscellerata puttanella; che ancora di poi,
per voler finire il restante della mia vendetta, la facevo
chiamare, e la ritraevo: ognindí le davo trenta soldi; e
faccendola stare ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li
sua dinari innanzi; la siconda voleva molto bene da far colezione;
la terza io per vendetta usavo seco, rimproverando allei e al
marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io
la facevo stare con gran disagio parecchi e parecchi ore; e stando
in questo disagio a lei veniva molto affastidio, tanto quanto a me
dilettava, perché lei era di bellissima forma e mi faceva
grandissimo onore. E perché e' non le pareva che io
l'avessi quella discrezione che prima io avevo innanzi che lei
fossi maritata, venendole grandemente a noia, cominciava a
brontolare; e in quel modo suo francioso con parole bravava,
allegando il suo marito, il quale era ito a stare col priore di
Capua, fratello di Piero Strozzi. E sí come i' ho detto, la
allegava questo suo marito; e come io sentivo parlar di lui,
subito mi veniva una stizza inistimabile; pure me la sopportavo,
mal volentieri, il meglio che io potevo, considerando che per
l'arte mia io non potevo trovare cosa piú a proposito di
costei; e da me dicevo: - Io fo qui dua diverse vendette: l'una
per esser moglie: queste non son corna vane, come eran le sua
quando lei era a me puttana; però se io fo questa vendetta
sí rilevata inverso di lui e inverso di lei ancora tanta
istranezza, faccendola stare qui con tanto disagio, il quale,
oltra al piacere, mi resulta tanto onore e tanto utile, che
poss'io piú desiderare? - In mentre che io facevo questo
mio conto, questa ribalda moltipricava con quelle parole
ingiuriose, parlando pure del suo marito; e tanto faceva e diceva,
che lei mi cavava de' termini della ragione;<B> </B>e
datomi in preda all'ira, la pigliavo pe' capegli e la strascicavo
per la stanza, dandogli tanti calci e tante pugna insino che io
ero stracco. E quivi non poteva entrare persona al suo soccorso.
Avendola molto ben pesta, lei giurava di non mai piú voler
tornar da me; per la qual cosa la prima volta mi parve molto aver
mal fatto, perché mi pareva perdere una mirabile occasione
al farmi onore. Ancora vedevo lei esser tutta lacerata, livida e
enfiata, pensando che, se pure lei tornassi, essere di
necessità di farla medicare per quindici giorni, innanzi
che io me ne potessi servire.
XXXV. Tornando allei, mandavo una mia serva che l'aiutassi
vestire, la qual serva era una donna vecchia che si domandava
Ruberta, amorevolissima; e giunta a questa ribaldella, le portava
di nuovo da bere e da mangiare; di poi l'ugneva con un poco di
grasso di carnesecca arrostito quelle male percosse che io le
avevo date, e 'l resto del grasso che avanzava se lo mangiavano
insieme. Vestita, poi si partiva bestemmiando e maladicendo tutti
li taliani e il Re che ve gli teneva: cosí se ne andava
piagnendo e borbottando insino a casa. Certo che a me questa prima
volta parve molto aver mal fatto; e la mia Ruberta mi riprendeva,
e pur mi diceva: - Voi sete ben crudele a dare tanto aspramente a
una cosí bella figlietta -. Volendomi scusare con questa
mia Ruberta, dicendole le ribalderie che l'aveva fatte, e lei e la
madre, quando la stava meco, a questo la Ruberta mi sgridava,
dicendo che quel non era nulla, perché gli era il costume
di Francia, e che sapeva certo che in Francia non era marito che
non avessi le sue cornetta. A queste parole io mi movevo a risa, e
poi dicevo alla Ruberta che andassi a vedere come la Caterina
istava, perché io arei aùto a piacere di poter
finire quella mia opera, servendomi di lei. La mia Ruberta mi
riprendeva, dicendomi che io non sapevo vivere; perché - a
pena sarà egli giorno, che lei verrà qui da per
sé, dove che, se voi la mandassi a domandare o a visitare,
la farebbe il grande e non ci vorrebbe venire -. Venuto il giorno
seguente, questa ditta Caterina venne alla porta mia, e con gran
furore picchiava la ditta porta, di modo che, per essere io
abbasso, corsi a vedere se questo era pazzo o di casa. Aprendo la
porta, questa bestia ridendo mi si gittò al collo,
abbracciommi e baciommi, e mi dimandò se io era piú
crucciato con essa. Io dissi che no. Lei disse: - Datemi ben
d'asciolvere addunche -. Io le detti ben d'asciolvere, e con essa
mangiai per segno di pace. Di poi mi messi a ritrarla, e in quel
mezzo vi occorse le piacevolezze carnali, e di poi a quell'ora
medesima del passato giorno, tanto lei mi stuzzicò, che io
l'ebbi a dare le medesime busse; e cosí durammo parecchi
giorni, faccendo ogni dí tutte queste medesime cose, come
che a stampa: poco variava dal piú al manco. Intanto io,
che m'avevo fatto grandissimo onore e finito la mia figura, detti
ordine di gittarla di bronzo; innella quale<B> </B>io
ebbi qualche difficultà, che sarebbe bellissimo per gli
accidenti dell'arte a narrare tal cosa; ma perché io me ne
andrei troppo in lunga, me la passerò. Basta che la mia
figura venne benissimo, e fu cosí bel getto come mai si
facessi.
XXXVI. In mentre che questa opera si tirava innanzi, io compartivo
certe ore del giorno e lavoravo in su la saliera, e quando in sul
Giove. Per essere la saliera lavorata da molte piú persone
che io non avevo tanto di comodità per lavorare in sul
Giove, di già a questo tempo io l'avevo finita di tutto
punto. Era ritornato il Re a Parigi, e io l'andai a trovare,
portandogli la ditta saliera finita; la quale, sí come io
ho detto di sopra, era in forma ovata ed era di grandezza di dua
terzi di braccio in circa, tutta d'oro, lavorata per virtú
di cesello. E sí come io dissi quando io ragionai del
modello, avevo figurato il Mare e la Terra assedere l'uno e
l'altro, e s'intramettevano le gambe, sí come entra certi
rami del mare infra la tetra, e la terra infra del detto mare:
cosí propiamente avevo dato loro quella grazia. A il Mare
avevo posto in mano un tridente innella destra; e innella sinistra
avevo posto una barca sottilmente lavorata, innella quale si
metteva la salina. Era sotto a questa detta figura i sua quattro
cavalli marittimi, che insino al petto e le zampe dinanzi erano di
cavallo; tutta la parte dal mezzo indietro era di pesce: queste
code di pesce con piacevol modo s'intrecciavano insieme; in sul
qual gruppo sedeva con fierissima attitudine il detto Mare: aveva
all'intorno molta sorte di pesci e altri animali marittimi.
L'acqua era figurata con le sue onde; di poi era benissimo
smaltata del suo propio colore. Per la Terra avevo figurato una
bellissima donna, con il corno della sua dovizia in mano, tutta
ignuda come il mastio appunto; nell'altra sua sinistra mana avevo
fatto un tempietto di ordine ionico, sottilissimamente lavorato; e
in questo avevo accomodato il pepe. Sotto a questa femina avevo
fatto i piú belli animali che produca la terra; e i sua
scogli terrestri avevo parte ismaltati e parte lasciati d'oro.
Avevo da poi posata questa ditta opera e investita in una basa
d'ebano nero: era di una certa accomodata<B>
</B>grossezza, e aveva un poco di goletta, nella quale io
aveva cumpartito quattro figure d'oro, fatte di piú che
mezzo rilievo: questi si erano figurato la Notte, il Giorno, il
Graprusco e l'Aurora. Ancora v'era quattro altre figure della
medesima grandezza, fatte per i quattro venti principali, con
tanta puletezza lavorate e parte ismaltate, quanto immaginar si
possa. Quando questa opera io posi agli occhi del Re, messe una
voce di stupore, e non si poteva saziare di guardarla: di poi mi
disse che io la riportassi a casa mia, e che mi direbbe a tempo
quello che io ne dovessi fare. Porta'nela a casa, e subito invitai
parecchi mia cari amici, e con essi con grandissima lietitudine
desinai, mettendo la saliera in mezzo alla tavola; e fummo i primi
a 'doperarla. Di poi seguitavo di finire il Giove d'argento, e un
gran vaso, già ditto, lavorato tutto con molti ornamenti
piacevolissimi e con assai figure.
XXXVII. In questo tempo il Bologna pittore sopra ditto dette ad
intendere al Re, che gli era bene che Sua Maestà lo
lasciassi andare insino a Roma, e gli facessi lettere di favori,
per le quali lui potessi formare<B> </B>di quelle
prime belle anticaglie, cioè il Leoconte, la Cleopatra, la
Venere, il Comodo, la Zingana e Appollo. Queste veramente sono le
piú belle cose che sieno in Roma. E diceva al Re, che
quando Sua Maestà avessi dappoi veduto quelle meravigliose
opere, allora saprebbe ragionare dell'arte del disegno;
perché tutto quello che gli aveva veduto di noi moderni era
molto discosto dal ben fare di quelli antichi. Il Re fu contento,
e fecegli tutti i favori che lui domandò. Cosí
andò nella sua malora questa bestia. Non gli essendo
bastato la vista di fare con le sue mane a gara meco, prese
quell'altro lombardesco ispediente, cercando di svilire l'opere
mie facendosi formatore di antichi. E con tutto che lui benissimo
l'avessi fatte formare, gliene riuscí tutto contrario
effetto da quello che lui era immaginato; qual cosa si dirà
da poi al suo luogo. Avendo a fatto cacciato via la ditta
Caterinaccia, e quel povero giovane isgraziato del marito andatosi
con Dio di Parigi, volendo finire di nettare la mia Fontana
Beliò, qual'era di già fatta di bronzo, ancora per
fare bene quelle due Vittorie, che andavano negli anguli da canto
nel mezzo tondo della porta, presi una povera fanciulletta de
l'età di quindici anni in circa. Questa era molto bella di
forma di corpo ed era alquanto brunetta; e per essere
salvatichella e di pochissime parole, veloce nel suo andare,
accigliata negli occhi, queste tali cose causorno ch'io le posi
nome Scorzone: il nome suo proprio si era Gianna. Con questa ditta
figliuola io fini' benissimo di bronzo la ditta Fontana
Beliò, e quelle due Vittorie ditte per la ditta porta.
Questa giovanetta era pura e vergine, e io la 'ngravidai; la quale
mi partorí una figliuola a' dí sette di giugno, a
ore tredici di giorno, 1544,<B> </B>quale era il corso
dell'età mia appunto de' 44 anni. La detta figliuola io le
posi nome Constanza; e mi fu battezzata da messer Guido Guidi,
medico del Re, amicissimo mio, siccome di sopra ho scritto. Fu lui
solo compare, perché in Francia cosí è il
costume d'un solo compare e dua comare, che una fu la signora
Maddalena, moglie di messer Luigi Alamanni, gentiluomo fiorentino
e poeta maraviglioso; l'altra comare si fu la moglie di messer
Ricciardo del Bene nostro cittadin fiorentino e là gran
mercante; lei gran gentildonna franzese. Questo fu il primo
figliuolo che io avessi mai, per quanto io mi ricordo. Consegnai
alla detta fanciulla tanti dinari per dota, quanti si
contentò una sua zia, a chi io la resi; e mai piú da
poi la cognobbi.
XXXVIII. Sollecitavo l'opere mie, e l'avevo molto tirate innanzi:
il Giove era quasi che alla sua fine, il vaso similmente; la porta
cominciava a mostrare le sue bellezze. In questo tempo
capitò il Re a Parigi; e se bene io ho detto per la nascita
della mia figliuola 1544, noi non eramo ancora passati il 1543; ma
perché m'è venuto in proposito il parlar di questa
mia figliuola ora, per non mi avere a impedire in quest'altre cose
di piú importanza<B>, </B>non ne dirò
altro per insino al suo luogo. Venne il Re a Parigi, come ho
detto, e subito se ne venne a casa mia, e trovato quelle tante
opere innanzi, tale che gli occhi si potevan benissimo sattisfare;
sí come fecero quegli di quel maraviglioso Re, al quale
sattisfece tanto le ditte opere quanto desiderar possa uno che
duri fatica come avevo fatto io; subito da per sé si
ricordò, che il sopra ditto cardinale di Ferrara non
m'aveva dato nulla, né pensione né altro, di quello
che lui m'aveva promesso; e borbottando con il suo Amiraglia,
disse che il cardinale di Ferrara s'era portato molto male a non
mi dar niente; ma che voleva rimediare a questo tale
inconveniente, perché vedeva che io ero uomo da far poche
parole; e, da vedere a non vedere<B>, </B>una volta io
mi sarei ito con Dio sanza dirgli altro. Andatisene a casa, di poi
il desinare di Sua Maestà, disse al Cardinale, che con la
sua parola dicessi al tesauriere de' risparmi che mi pagassi il
piú presto che poteva settemila scudi d'oro, in tre o in
quattro paghe, secondo la comodità che a lui veniva,
purché di questo non mancassi; e piú gli
replicò, dicendo: - Io vi detti Benvenuto in custode, e voi
ve l'avete dimenticato -. Il Cardinale disse che farebbe
volentieri tutto quello che diceva Sua Maestà. Il ditto
Cardinale per sua mala natura lasciò passare a il Re questa
voluntà. Intanto le guerre crescevano; e fu nel tempo che
lo Imperadore con il suo grandissimo esercito veniva alla volta di
Parigi. Veduto il Cardinale che la Francia era in gran penuria di
danari, entrato un giorno in proposito a parlar di me, disse: -
Sacra Maestà, per far meglio, io non ho fatto dare danari a
Benvenuto; l'una si è perché ora ce n'è
troppo bisogno; l'altra causa si è perché una
cosí grossa partita di danari piú presto v'arebbe
fatto perdere Benvenuto; perché parendogli esser ricco, lui
se ne arebbe compro de' beni nella Italia, e una volta che gli
fussi tocco la bizzaria, piú volentieri si sarebbe partito
da Voi; sí che io ho considerato che il meglio sia che
Vostra Maestà gli dia qualcosa innel suo regno, avendo
voluntà che lui resti per piú lungo tempo al suo
servizio -. Il Re fece buone<B> </B>queste ragioni,
per essere in penuria di danari; niente di manco, come animo
nobilissimo, veramente degno di quel Re che gli era,
considerò che il detto Cardinale aveva fatto cotesta cosa
piú per gratificarsi che per necessità, che lui
immaginare avessi possuto tanto innanzi<B> </B>le
necessità di un sí gran regno.
XXXIX. E con tutto che, sí come io ho detto, il Re
dimostrassi di avergli fatte buone queste ditte ragione, innel
segreto suo lui non la intendeva cosí; perché,
sí come io ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e
l'altro giorno, senza che io l'andassi a incitate, da per
sé venne accasa mia: dove, fattomigli incontro, lo menai
per diverse stanze, dove erano diverse sorte d'opere, e
cominciando alle cose piú basse, gli mostrai molta
quantità d'opere di bronzo, le quali lui non aveva vedute
tante di gran pezzo. Di poi lo menai a vedere il Giove d'argento,
e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti:
qual gli parve cosa molto piú mirabile che non saria parsa
ad altro uomo, rispetto a una certa<B> </B>terribile
occasione che allui era avvenuta certi pochi anni innanzi: che
passando, di poi la presa di Tunizi, lo Imperadore per Parigi
d'accordo con il suo cognato re Francesco, il detto Re, volendo
fare un presente degno d'un cosí grande Imperadore, gli
fece fare uno Ercole d'argento, della grandezza appunto che io
avevo fatto il Giove; il quale Ercole il Re confessava essere la
piú brutta opera che lui mai avessi vista; e cosí
avendola accusata per tale a quelli valenti uomini di Parigi i
quali si pretendevano essere li piú valenti uomini del
mondo di tal professione, avendo dato ad intendere a il Re che
quello era tutto quello che si poteva fare in argento e nondimanco
volsono dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa cagione
avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta
pulitezza, quale lui non arebbe mai creduto. Cosí fece buon
giudizio, e volse che la mia opera del Giove fossi valutata ancora
essa dumila ducati, dicendo: - A quelli io non davo salario
nessuno: a questo, che io do mille scudi incirca di salario, certo
egli me la può fare per il prezzo di dumila scudi d'oro,
avendo il ditto vantaggio del suo salario -. Appresso io lo menai
a vedere altre opere d'argento e d'oro, e molti altri modegli per
inventare opere nuove. Di poi all'utimo della sua partita, innel
mio prato del castello scopersi quel gran gigante, a il quale il
Re fece una maggior maraviglia che mai gli avessi fatto a nessuna
altra cosa; e voltosi all'Amiraglio, qual si chiamava Monsignor
Aniballe, disse: - Da poi che dal Cardinale costui di nulla
è stato provisto, gli è forza che per essere ancor
lui pigro a domandare, sanza dire altro voglio che lui sia
provisto: sí che questi uomini, che non usano dimandar
nulla, par lor dovere che le fatiche loro dimandino assai:
però provedetelo della prima badia che vaca, qual sia
insino al valore di dumila scudi d'entrata; e quando ella non
venga in una pezza sola, fate che la sia in dua e tre pezzi,
perché a lui gli sarà il medesimo -. Io, essendo
alla presenza, senti' ogni cosa e subito lo ringraziai, come se
aúta io l'avessi, dicendo a Sua Maestà che io
volevo, quando questa cosa fossi venuta, lavorare per Sua
Maestà sanza altro premio né di salario né
d'altra valuta d'opere, infino a tanto che costretto dalla
vecchiaia, non possendo piú lavorare, io potessi in pace
riposare la istanca vita mia, vivendo con essa entrata
onoratamente, ricordandomi d'aver servito un cosí gran Re,
quant'era Sua Maestà. A queste mie parole il Re con molta
baldanza lietissimo inverso di me disse: - E cosí si facci
- e contento Sua Maestà da me si partí, e io restai.
XL.<B> </B>Madama di Tampes, saputo queste mie
faccende, piú grandemente inverso di me inveleniva, dicendo
da per sé: - Io governo oggi il mondo, e un piccolo uomo,
simile a questo, nulla mi stima! - Si messe in tutto e per tutto a
bottega per fare<B> </B>contra di me. E capitandogli
uno certo uomo alle mani, il quale era grande istillatore - questo
gli dette alcune acque odorifere e mirabile, le quali gli facevan
tirare la pelle, cosa per l'addietro non mai usata in Francia -
lei lo misse innanzi al Re: il quale uomo propose alcune di queste
istillazione, le quali molto dilettorno al Re; e in questi piaceri
fece, che lui domandò a Sua Maestà un giuoco di
palla che io avevo nel mio castello, con certe piccole istanzette,
le quale lui diceva che io non me ne servivo. Quel buon Re, che
cognosceva la cosa onde la veniva, non dava risposta alcuna.
Madama di Tampes si messe a sollecitare per quelle vie che possono
le donne innegli uomini, tanto che facilmente gli riuscí
questo suo disegno, che trovando il Re in una amorosa tempera,
alla quale lui era molto sottoposto, conpiacque a Madama tanto
quanto lei desiderava. Venne questo ditto uomo insieme con il
tesauriere Grolier, grandissimo gentiluomo di Francia; e
perché questo tesauriere parlava benissimo italiano, venne
al mio castello, e entrò in esso alla presenza mia parlando
meco in italiano, in modo di motteggiare. Quando e' vidde il
bello, disse: - Io metto in tenuta da parte del Re questo uomo qui
di quel giuoco di palla insieme con quelle casette che a il detto
giuoco appartengono -. A questo io dissi: - Del sacro Re è
ogni cosa; però piú liberamente voi potevi entrare
qua drento; perché in questo modo, fatto per via di notai e
della corte, mostra piú essere una via d'inganno, che una
istietta<B> </B>commessione di un sí gran Re; e
vi protesto che prima che io mi vadia a dolere al Re, io mi
difenderò in quel modo che Sua Maestà l'altr'ieri mi
commisse che io facessi; e vi sbalzerò quest'uomo, che voi
m'avete messo qui, per le finestre, se altra spressa commessione
io non veggo per la propia mana del Re -. A queste mie parole il
detto tesauriere se n'andò minacciando e borbottando, e io
faccendo il simile mi restai, né volsi per allora fare
altra dimostrazione: di poi me n'andai a trovare quelli notari,
che avevano messo colui in possessione. Questi erano molto mia
conoscenti, e mi dissono che quella era una cerimonia fatta bene
con commessione del Re, ma che la non importava molto; e che se io
gli avessi fatto qualche poco di resistenza, lui non arebbe preso
la possessione, come egli fece; e che quelli erano atti e costumi
della corte, i quali non toccavano punto l'ubbidienza del Re; di
modo che, quando a me venissi bene il cavarlo di possessione in
quel modo che v'era entrato, saria ben fatto, e non ne saria
altro. A me bastò essere accennato, che l'altro giorno
cominciai a mettere mano all'arme; e se bene io ebbi qualche
diflicultà, me l'avevo presa per piacere. Ogni dí un
tratto facevo uno assalto con sassi, con picche, con archibusi,
pure sparando sanza palla; ma mettevo loro tanto ispavento, che
nissuno non voleva piú venire a 'iutarlo. Per la qual cosa,
trovando un giorno la sua battaglia debole, entrai per forza in
casa, e lui ne cacciai, gittandogli fuori tutto tutto quello che
lui v'aveva portato. Di poi ricorsi al Re, e li dissi che io avevo
fatto tutto tutto che Sua Maestà m'aveva commisso,
difendendomi da tutti quelli che mi volevano inpedire il servizio
di Sua Maestà. A questo il Re se ne rise, e mi spedí
nuove lettere, per le quale io non avessi piú da esser
molestato.
XLI.<B> </B>Intanto con gran sollecitudine io fini' il
bel Giove d'argento, insieme con la sua basa dorata, la quale io
avevo posta sopra uno zocco di legno, che appariva poco; e in
detto zocco di legno avevo commesso quattro pallottole di legno
forte, le quali istavano piú che mezze nascoste nelle lor
casse,<B> </B>in foggia di noce di balestre. Eran
queste cose tanto gentilmente ordinate, che un piccol fanciullo
facilmente per tutti i versi sanza una fatica al mondo, mandava
innanzi e indietro e volgeva la ditta statua di Giove. Avendola
assettata a mio modo, me ne andai con essa a Fontana Beliò,
dove era il Re. In questo tempo il sopra ditto Bologna aveva
portato di Roma le sopra ditte statue, e l'aveva con gran
sollecitudine fatte gittare di bronzo. Io che non sapevo nulla di
questo, sí perché lui aveva fatto questa sua
faccenda molto segretamente, e perché Fontana Beliò
è discosto da Parigi piú di quaranta miglia;
però non avevo potuto sapere niente. Faccendo intendere al
Re dove voleva che io ponessi il Giove, essendo alla presenza
Madama di Tampes, disse al Re che non v'era luogo piú a
proposito dove metterlo che nella sua bella galleria. Questo si
era, come noi diremmo in Toscana, una loggia, o sí
veramente uno androne: piú presto androne si potria
chiamare, perché loggia noi chiamiamo quelle stanze che
sono aperte da una parte. Era questa stanza lunga molto piú
di cento passi andanti,<B> </B>ed era ornata e
ricchissima di pitture di mano di quel mirabile Rosso, nostro
fiorentino; e infra le pitture era accomodato moltissime parte di
scultura, alcune tonde, altre di basso rilievo: era di larghezza
di passi andanti dodici in circa. Il sopra ditto Bologna aveva
condotto in questa ditta galleria tutte le sopra ditte opere
antiche, fatte di bronzo e benissimo condotte, e l'aveva poste con
bellissimo ordine, elevate in su le sue base; e sí come di
sopra ho ditto, queste erano le piú belle cose tratte da
quelle antiche di Roma. In questa ditta istanza io condussi il mio
Giove; e quando viddi quel grande apparecchio, tutto fatto a arte,
io da per me dissi: - Questo si è come passare in fra le
picche. Ora Idio mi aiuti -. Messolo al suo luogo e, quanto io
potetti, benissimo acconcio, aspettai quel gran Re che venissi.
Aveva il ditto Giove innella sua mano destra accomodato il suo
fúlgore<B> </B>in attitudine di volerlo trarre,
e nella sinistra gli avevo accomodato il Mondo. Infra le fiamme
avevo con molta destrezza commisso un pezzo d'una torcia bianca. E
perché Madama di Tampes aveva trattenuto il Re insino a
notte per fare uno de' duo mali, o che lui non venissi o sí
veramente che l'opera mia, causa della notte, si mostrassi manco
bella; e come Idio promette a quelle creature che hanno fede in
lui, ne avvenne tutto il contrario; perché veduto fattosi
notte, io accesi la ditta torcia che era in mano al Giove; e per
essere alquanto elevata sopra la testa del ditto Giove, cadevano i
lumi di sopra e facevano molto piú bel vedere, che di
dí non arien fatto. Comparse il ditto Re insieme con la sua
Madama di Tampes, col Dalfino suo figliuolo e con la Dalfina, oggi
re, con il re di Navarra suo cognato, con madama
Margherita<B> </B>sua figliuola, e parecchi altri gran
signori, i quali erano instruiti a posta da Madama di Tampes per
dire contro a di me. Veduto entrare il Re, feci ispignere innanzi
da quel mio garzone già ditto, Ascanio, che pianamente
moveva il bel Giove incontro al Re: e perché ancora io
fatto con un poco d'arte, quel poco del moto che si dava alla
ditta figura, per essere assai ben fatta, la faceva parer viva; e
lasciatomi alquanto le ditte figure antiche indietro, detti prima
gran piacere, agli occhi, della opera mia. Subito disse il Re: -
Questa è molto piú bella cosa che mai per nessuno
uomo si sia veduta, e io, che pur me ne diletto e 'ntendo, non
n'arei immaginato la centesima parte -. Quei Signori, che avevano
a dire contr'a di me, pareva che non si potessino saziare di
lodare la ditta opera. Madama di Tampes arditamente disse: - Ben
pare che voi non abbiate occhi. Non vedete voi quante belle figure
di bronzo antiche son poste piú là, innelle quali
consiste la vera virtú di quest'arte, e non in queste
baiate<B> </B>moderne? - Allora il Re si mosse, e gli
altri seco; e dato una occhiata alle ditte figure, e quelle, per
esser lor porto i lumi inferiori, non si mostravano punto bene; a
questo il Re disse: - Chi ha voluto disfavorire questo uomo, gli
ha fatto un gran favore; perché mediante queste mirabile
figure si vede e cognosce questa sua da gran lunga esser
piú bella e piú maravigliosa di quelle. Però
è da fare un gran conto di Benvenuto, che non tanto che
l'opere sue restino al paragone dell'antiche, ancora quelle
superano -. A questo Madama di Tampes disse che vedendo di
dí tale opera, la non parrebbe l'un mille bella di quel che
lei par di notte; ancora v'era da considerare, che io avevo messo
un velo addosso alla ditta figura, per coprire gli errori. Questo
si era un velo sottilissimo, che io avevo messo con bella grazia
addosso al ditto Giove, perché gli accrescessi
maestà: il quale<B> </B>a quelle parole io lo
presi, alzandolo per di sotto, scoprendo quei bei membri genitali,
e con un poco di dimostrata istizza tutto lo stracciai. Lei
pensò che io gli avessi scoperto quella parte per proprio
ischerno. Avvedutosi il Re di quello isdegno e io vinto dalla
passione, volsi cominciare a parlare: subito il savio Re disse
queste formate parole in sua lingua: - Benvenuto, io ti taglio la
parola; sí che sta cheto, e arai piú tesoro che tu
non desideri, l'un mille -. Non possendo io parlare, con gran
passione mi scontorcevo: causa che lei piú sdegnosa
brontolava; e il Re, piú presto assai di quel che gli
arebbe fatto, si partí, dicendo forte, per darmi animo,
aver cavato di Italia il maggior uomo che nascessi mai, pieno di
tante professione.
XLII. Lasciato il Giove quivi, volendomi partire la mattina, mi
fece dare mille scudi d'oro: parte erano di mia salari, e parte di
conti, che io mostravo avere speso di mio. Preso li dinari, lieto
e contento me ne tornai a Parigi; e subito giunto, rallegratomi in
casa, di poi il desinare feci portare tutti li miei vestimenti,
quali erano molta quantità di seta, di finissime pelle e
similmente di panni sottilissimi. Questi io feci a tutti quei mia
lavoranti un presente, donandogli<B> </B>sicondo i
meriti d'essi servitori, insino alle serve e i ragazzi di stalla,
dando a tutti animo che m'aiutassino di buon cuore. Ripreso il
vigore, con grandissimo istudio e sollecitudine mi missi intorno a
finire quella grande statua del Marte, quale avevo fatto di legni
benissimo tessuti per armadura; e di sopra, la sua carne si era
una crosta, grossa uno ottavo di braccio, fatta di gesso e
diligentemente lavorata; dipoi avevo ordinato di formare di molti
pezzi la ditta figura, e commetterla da poi a coda di rondine, si
come l'arte promette; che molto facilmente mi veniva fatto. Non
voglio mancare di dare un contra segno di questa grande opera,
cosa veramente degna di riso: perché io avevo comandato a
tutti quelli a chi io davo le spese, che nella casa mia e innel
mio castello non vi conducessino meretrice; e a questo io ne
facevo molta diligenza che tal cosa non vi venissi. Era quel mio
giovane Ascanio innamorato d'una bellissima giovine, e lei di lui:
per la qual cosa fuggitasi questa ditta giovine da sua madre,
essendo venuta una notte a trovare Ascanio, non se ne volendo poi
andare, e lui non sapendo dove se la nascondere, per utimo
rimedio, come persona ingegnosa, la mise drento nella figura del
ditto Marte, e innella propia testa ve l'accomodò da
dormire; e quivi soprastette, assai, e la notte lui chetamente
alcune volte la cavava. Per avere lasciato quella testa molto
vicino alla sua fine, e per un poco di mia boria, lasciavo
iscoperto la ditta testa, la quale si vedeva per la maggior parte
della città di Parigi: avevano cominciato quei piú
vicini a salire su per i tetti, e andavavi assai popoli a posta
per vederla. E perché era un nome per Parigi, che in quel
mio castello <I>ab antico </I>abitassi uno spirito,
della qual cosa io ne vidi alcuno contra segno da credere che
cosí fussi il vero - il detto spirito universalmente per la
plebe di Parigi lo chiamavano per nome Lemmonio Boreò - e
perché questa fanciulletta, che abitava innella ditta
testa, alcune volte non poteva fare che non si vedessi per gli
occhi un certo poco di muovere; dove alcuni di quei sciocchi
popoli dicevano che quel ditto spirito era entrato in quel corpo
di quella gran figura, e che e' faceva muovere gli occhi a quella
testa, e la bocca, come se ella volessi parlare; e molti
ispaventati si partivano, e alcuni astuti, venuti a vedere e non
si potendo discredere di quel balenamento degli occhi che faceva
la ditta figura, ancora loro affermavano che ivi fussi spirito,
non sapendo che v'era spirito e buona carne di piú.
XLIII. In quel mentre io m'attendevo a mettere insieme la mia
bella porta, con tutte le infrascritte cose. E perché io
non mi voglio curare di scrivere in questa mia Vita cose che
s'appartengono a quelli che scrivono le cronache, però ho
lasciato indietro la venuta dello Imperadore con il suo grande
esercito, e il Re con tutto il suo sforzo armato. E in questi
tempi cercò del mio consiglio, per affortificare<B>
</B>prestamente Parigi: venne a posta per me a casa, e
menommi intorno a tutta la città di Parigi; e sentito con
che buona ragione io prestamente gli affortificavo Parigi, mi
dette ispressa commessione, che quanto io avevo detto subitamente
facessi; e comandò al suo Amiraglio che comandassi a quei
populi che mi ubbidissino, sotto 'l poter della disgrazia sua.
L'Amiraglio, che era fatto tale per il favore di Madama di Tampes
e non per le sue buone opere, per essere uomo di poco ingegno e
per essere il nome suo monsignore d'Anguebò, se bene in
nostra lingua e' vol dire monsignor d'Aniballe, in quella loro
lingua e' suona in modo, che quei populi i piú lo
chiamavano monsignore Asino Bue; questa bestia, conferito il tutto
a Madama di Tampes, lei gli comandò che prestamente egli
facessi venire Girolimo Bellarmato. Questo era uno ingegnere
sanese ed era a Diepa, poco piú d'una giornata discosto da
Parigi. Venne subito, e messo in opera la piú lunga via da
forzificare, io mi ritirai da tale impresa; e se lo Imperadore
spigneva innanzi, con gran facilità si pigliava Parigi. Ben
si disse che in quello accordo fatto da poi, Madama di Tampes, che
piú che altra persona vi s'era intermessa, aveva tradito il
Re. Altro non mi occorre dire di questo, perché non fa al
mio proposito. Mi missi con gran sollecitudine a mettere insieme
la mia porta di bronzo, e a finire quel gran vaso, e du' altri
mezzani fatti di mio argento. Dipoi queste tribulazioni venne il
buon Re a riposarsi alquanto a Parigi. Essendo nata questa
maledetta donna quasi per la rovina del mondo, mi par pure esser
da qualcosa, da poi che l'ebbe me per suo nimico capitale. Caduta
in proposito con quel buon Re de' casi mia, gli disse tanto mal di
me, che quel buono uomo per compiacerle, si misse a giurare che
mai piú terrebbe un conto di me al mondo, come se
cognosciuto mai non mi avessi. Queste parole me le venne a dir
subito un paggio del cardinal di Ferrara, che si chiamava il
Villa, e mi disse lui medesimo averle udite della bocca del Re.
Questa cosa mi messe in tanta còllora, che gittato a
traverso tutti i miei ferri, e tutte l'opera ancora, mi missi in
ordine per andarmi con Dio, e subito andai a trovare il Re. Dipoi
il suo desinare, entrai in una camera dove era Sua Maestà
con pochissime persone; e quando e' mi vidde entrare, fattogli io
quella debita reverenza che s'appartiene a un Re, subito con lieta
faccia m'inchinò il capo. Per la qual cosa presi isperanza,
e a poco a poco accostatomi a Sua Maestà, perché si
mostrava alcune cose della mia professione, quando si fu ragionato
un pezzetto sopra le ditte cose, Sua Maestà mi
domandò se io avevo da mostrargli a casa mia qualche cosa
di bello, di poi disse quando io volevo che venissi a vederle.
Allora io dissi che io stavo in ordine da mostrargli qualcosa, se
gli avessi ben voluto, allora. Subito disse che io mi avviassi a
casa, e che allora voleva venire.
XLIV. Io mi avviai, aspettando questo buon Re, il quale era ito
per tor licenza di Madama di Tampes. Volendo ella saper dove gli
andava, perché disse che gli terrebbe compagnia, quando il
Re gli ebbe ditto dove gli andava, lei disse a Sua Maestà
che non voleva andar seco, e che lo pregava che gli facessi tanto
di grazia per quel dí di non andare manco lui. Ebbe a
rimettersi piú di due volte, volendo svolgere il Re da
quella impresa: per quel dí non venne a casa mia. L'altro
giorno da poi tornai dal Re in su quella medesima ora: subito
vedutomi, giurò di voler venir subito a casa mia. Andato al
suo solito per licenzia dalla sua Madama di Tampes, veduto con
tutto il suo potere di non aver potuto distorre il Re, si misse
con la sua mordace lingua a dir tanto male di me, quanto dir si
possa d'uno uomo, che fussi nimico mortale di quella degna Corona.
A questo quel buon Re disse, che voleva venire a casa mia, solo
per gridarmi di sorte, che m'arebbe ispaventato; e cosí
dette la fede a Madama di Tampes di fare. E subito venne a casa,
dove io lo guidai in certe grande stanze basse, nelle quale io
avevo messo insieme tutta quella mia gran porta; e giunto a essa
il Re rimase tanto stupefatto, che egli non ritrovava la via per
dirmi quella gran villania che lui aveva promesso a Madama di
Tampes. Né anche per questo non volse mancare di non
trovare l'occasione per dirmi quella promessa villania, e
cominciò dicendo: - Gli è pure grandissima
cosa,<B></B>Benvenuto, che voi altri, se bene voi sete
virtuosi, doverresti cognoscere che quelle tal virtú da per
voi<B> </B>non le potete mostrare; e solo vi
dimostrate grandi mediante le occasione che voi ricevete da noi.
Ora voi doverresti essere un poco piú ubbidienti, e non
tanto superbi e di vostro capo. Io mi ricordo avervi comandato
espressamente che voi mi facessi dodici statue d'argento; e quello
era tutto il mio desiderio. Voi mi avete voluta fare una saliera,
e vasi e teste e porte, e tante altre cose, che io sono molto
smarrito, veduto lasciato indrieto tutti i desideri delle mie
voglie, e atteso a compiacere a tutte le voglie vostre: sí
che pensando di fare di questa sorte, io vi darò poi a
divedere<B> </B>come io uso di fare, quando io voglio
che si faccia a mio modo. Pertanto vi dico: attendete a ubbidire a
quanto v'è detto, perché stando ostinato a queste
vostre fantasie, voi darete del capo nel muro -. E in mentre che
egli diceva queste parole, tutti quei Signori stavano attenti,
veduto che lui scoteva il capo, aggrottava gli occhi, or con una
mana or con l'altra faceva cenni; talmente che tutti quelli uomini
che erano quivi alla presenza, tremavono di paura per me,
perché io m'ero risoluto di non avere una paura al mondo.
XLV. E subito finito che gli ebbe di farmi quella bravata, che gli
aveva promesso alla sua Madama di Tampes, io missi un ginocchio in
terra, e baciatogli la vesta in sul suo ginocchio, dissi: - Sacra
Maestà, io affermo tutto quello che voi dite che sia vero;
solo dico a Quella, che il mio cuore è stato continuamente
giorno e notte con tutti li mia vitali spiriti intenti solo per
ubbidirla e per servirla; e tutto quello che a Vostra
Maestà paressi che fussi in contrario da quel che io dico,
sappi Vostra Maestà che quello non è stato
Benvenuto, ma può essere stato un mio cattivo fato o ria
fortuna, la quale m'ha voluto fare indegno di servire il
piú maraviglioso principe che avessi mai la terra: pertanto
la priego che mi perdoni. Solo mi parve che Vostra Maestà
mi dessi argento per una istatua sola: e non avendo da me, io none
possetti fare piú che quella; e di quel poco dello argento
che della detta figura m'avanzò, io ne feci quel vaso, per
mostrare a Vostra Maestà quella bella maniera degli
antichi; qual forse prima lei di tal sorte non aveva vedute.
Quanto alla saliera, mi parve, se ben mi ricordo, che Vostra
Maestà da per sé me ne richiedessi un giorno,
entrato in proposito d'una che ve ne fu portata innanzi; per la
qual cosa mostratogli un modello, quale io avevo fatto già
in Italia, solo a vostra requisizione voi mi facesti dare subito
mille ducati d'oro, perché io la facessi, dicendo che mi
sapevi il buon grado di tal cosa: e maggiormente mi parve che
molto mi ringraziassi quando io ve la detti finita. Quanto alla
porta, mi parve che, ragionandone a caso, Vostra Maestà
dessi le commessione a monsignor di Villurois suo primo
segretario, il quale commesse a monsignor di Marmagnia e monsignor
della Fa che tale opera mi sollecitassino, e mi provvedessino; e
sanza queste commessione, da per me io non arei mai potuto tirare
innanzi cosí grande imprese. Quanto alle teste di bronzo e
la base del Giove e d'altro, le teste io le feci veramente da per
me, per isperimentare queste terre di Francia, le quali io, come
forestiero, punto non conoscevo; e sanza far esperienza delle
ditte terre io non mi sarei messo a gettare queste grande opere.
Quanto alle base, io le feci, parendomi che tal cosa benissimo si
convenissi per compagnia di quelle tal figure; però tutto
quello che io ho fatto, ho pensato di fare il meglio, e non mai
discostarmi dal volere di Vostra Maestà. Gli è bene
il vero, che quel gran colosso io l'ho fatto tutto, insino al
termine che gli è, con le spese della mia borsa; solo
parendomi che voi sí gran Re e io quel poco artista che io
sono, dovessi fare per vostra gloria e mia una statua, quale gli
antichi non ebbon mai. Conosciuto ora che a Dio non è
piaciuto di farmi degno d'un tanto onorato servizio, la priego
che, cambio di quello onorato premio che vostra Maestà alle
opere mie aveva destinato, solo mi dia un poco della sua buona
grazia e con essa buona licenzia; perché in questo punto,
faccendomi degno di tal cose, mi partirò tornandomi in
Italia, sempre ringraziando Idio e Vostra Maestà di
quell'ore felice che io sono stato al suo servizio.
XLVI. Mi prese con le sue mane, e levommi con gran piacevolezza di
ginocchioni; di poi mi disse che io dovessi contentarmi di
servirlo, e che tutto quello che io avevo fatto era buono, e gli
era gratissimo. E voltosi a quei Signori disse queste formate
parole: - Io credo certamente che, se il Paradiso avessi d'aver
porte, che piú bella di questa già mai non l'arebbe
-. Quando io viddi fermato un poco la baldanza di quelle parole,
quale erano tutte in mio favore, di nuovo con grandissima
reverenza io lo ringraziai, replicando pure di volere licenza;
perché a me non era passata ancora la stizza. Quando quel
gran Re s'avvidde che io non aveva fatto quel capitale che
meritavono quelle sue inusitate e gran carezze, mi comandò
con una grande e paventosa voce che io non parlassi piú
parola, ché guai a me; e poi aggiunse che mi affogherebbe
nell'oro, e che mi dava licenzia, che, dipoi l'opere commessemi da
Sua Maestà, tutto quel che io facevo in mezzo da per me era
contentissimo, e che non mai piú io arei diferenza seco,
perché m'aveva conosciuto; e che ancora io m'ingegnassi di
cognoscere Sua Maestà, sí come voleva il dovere. Io
dissi che ringraziavo Idio e Sua Maestà di tutto, di poi lo
pregai che venissi a vedere la gran figura, come io l'avevo tirata
innanzi: cosí venne appresso di me. Io la feci scoprire: la
qual cosa gli dette tanta maraviglia, che immaginar mai si potria;
e subito commesse a un suo segretario, che incontinente mi
rendessi tutti li danari che di mio io avevo spesi, e fussi che
somma la volessi, bastando che io la dessi scritta di mia mano. Da
poi si partí, e mi disse: - Addio, <I>mon ami
</I>-: qual gran parola a un re non si usa.
XLVII. Ritornato al suo palazzo, venne a replicare le gran parole
tanto maravigliosamente umile e tanto altamente superbe, che io
avevo usato con Sua Maestà, le qual parole l'avevano molto
fatto crucciare; e contando alcuni de' particulari di tal parole
alla presenza di Madama di Tampes, dove era Monsignor di San Polo,
gran barone di Francia. Questo tale aveva fatto per il passato
molta gran professione d'essere amico mio; e certamente che a
questa volta molto virtuosamente, alla franciosa, lui lo
dimostrò. Perché, dipoi molti ragionamenti, il Re si
dolse del cardinal di Ferrara, che avendomigli dato in custode,
non aveva mai piú pensato a' fatti mia, e che non era
mancato per causa sua che io non mi fussi andato con Dio del suo
regno, e che veramente penserebbe di darmi in custode a qualche
persona che mi conoscessi meglio, che non aveva fatto il cardinale
di Ferrara, perché non mi voleva dar piú occasione
di perdermi. A queste parole subito si offerse Monsignor di San
Polo, dicendo al Re che mi dessi in guardia allui, e che farebbe
ben cosa che io non arei mai piú causa di partirmi del suo
regno. A questo il Re disse che molto era contento, se San Polo
gli voleva dire il modo che voleva tenere perché io non mi
partissi. Madama, che era alla presenza, stava molto ingrognata, e
San Polo stava in su l'onorevole, non volendo dire al Re il modo
che lui voleva tenere. Dimandatolo di nuovo il Re, e lui, per
piacere a Madama di Tampes, disse: - Io lo impiccherei per la
gola, questo vostro Benvenuto; e a questo modo voi non lo
perderesti del vostro regno -. Subito Madama di Tampes levò
una gran risa, dicendo che io lo meritavo bene. A questo il Re per
conpagnia si messe a ridere, e disse che era molto contento che
San Polo m'impiccassi, se prima lui trovava un altro par mio;
ché, con tutto che io non l'avessi mai meritata, gliene
dava piena licenzia. Innel modo ditto fu finita questa giornata, e
io restai sano e salvo; che Dio ne sia laudato e ringraziato.
XLVIII. Aveva in questo tempo il Re quietata la guerra con lo
Imperadore, ma non con gli Inghilesi,<B> </B>di modo
che questi diavoli ci tenevano in molta tribulazione. Avendo il
capo ad altro il Re che ai piaceri, aveva commesso a Piero Strozzi
che conducessi certe galee in quei mari d'Inghilterra; qual fu
cosa grandissima e difficile a condurvele, pure a quel mirabil
soldato, unico ne' tempi sua in tal professione, e altanto unico
disavventurato. Era passato parecchi mesi che io non avevo
aùto danari né ordine nessuno di lavorare; di modo
che io avevo mandato via tutti i mia lavoranti, da quei dua in
fuora italiani, ai quali io feci lor fare dua vasotti di mio
argento, perché loro non sapevan lavorare in sul bronzo.
Finito che gli ebbono i dua vasi, io con essi me n'andai a una
città, che era della regina di Navarra: questa si domanda
Argentana, ed è discosto da Parigi di molte giornate.
Giunsi al ditto luogo e trovai il Re che era indisposto; el
cardinal di Ferrara disse a Sua Maestà come io ero arrivato
in quel luogo. A questo il Re non rispose nulla, qual fu causa che
io ebbi a stare di molti giorni a disagio. E veramente che io non
ebbi mai il maggior dispiacere: pure in capo di parecchi giorni io
me gli feci una sera innanzi, e appresenta'gli agli occhi quei dua
bei vasi: e' quali oltramodo gli piacquono. Quando io veddi
benissimo disposto il Re, io pregai Sua Maestà che fussi
contento di farmi tanto di grazia, che io potessi andare a spasso
infino in Italia, e che io lascierei sette mesi di salario che io
ero creditore, i quali danari Sua Maestà si degnerebbe
farmegli da poi pagare, se mi facessino di mestiero per il mio
ritorno. Pregavo Sua Maestà che mi compiacessi questa cotal
grazia, avvenga che allora era veramente tempo da militare, e non
da statuare ancora, perché Sua Maestà aveva
compiaciuto tal cosa al suo Bologna pittore, però
divotissimamente lo pregavo che fussi contento farne degno ancora
me. Il Re, mentre che io gli dicevo queste parole, guardava con
grandissima attenzione quei dua vasi, e alcune volte mi feriva con
un suo sguardo terribile; io pure, il meglio che io potevo e
sapevo, lo pregavo che mi concedessi questa tal grazia. A un
tratto lo viddi isdegnato, e rizzossi da sedere e a me disse in
lingua italiana: - Benvenuto, voi sete un gran matto; portatene
questi vasi a Parigi, perché io gli voglio dorati - e non
mi data altra risposta, si partí. Io mi accostai al
Cardinal di Ferrara, che era alla presenza, e lo pregai, che da
poi che m'aveva fatto tanto bene innel cavarmi del carcere di
Roma, insieme con tanti altri benifizi ancora mi compiacessi
questo, che io potessi andare insino in Italia. Il ditto Cardinle
mi disse che molto volentieri arebbe fatto tutto quel che potessi
per farmi quel piacere, e che liberamente io ne lasciassi la cura
a lui; e anche, se io volevo, potevo andare liberamente,
perché lui mi tratterrebbe benissimo con il Re. Io dissi al
ditto Cardinale, sí come io sapevo che Sua Maestà
m'aveva dato in custode a Sua Signoria reverendissima, e che se
quella mi dava licenzia, io volentieri mi partirei, per tornare a
un sol minimo cenno di Sua Signoria reverendissima. Allora il
Cardinale mi disse, che io me n'andassi a Parigi, e quivi sopra
stessi otto giorni, e in questo tempo lui otterrebbe grazia dal Re
che io potrei andare: e in caso che il Re non si contentassi che
io partissi, sanza manco nessuno<B> </B>me ne darebbe
avviso; il perché,<B> </B>non mi scrivendo
altro, saria segno che io potrei liberamente andare.
XLIX.<B> </B>Andatomene a Parigi, sí come
m'aveva detto il Cardinale, feci di mirabil casse per quei tre
vasi d'argento. Passato che fu venti giorni, mi messi in ordine, e
li tre vasi messi in su 'n una soma di mulo, il quale mi aveva
prestato per insino in Lione il vescovo di Pavia, il quale io
avevo alloggiato di nuovo innel mio castello. Partimmi innella mia
malora, insieme col signore Ipolito Gonzaga, il qual signore stava
al soldo del Re e trattenuto dal conte Galeotto della Mirandola, e
con certi altri gentiluomini del detto conte. Ancora
s'accompagnò con esso noi Lionardo Tedaldi nostro
fiorentino. Lasciai Ascanio e Pagolo in custode del mio castello e
di tutta la mia roba, infra la quale era certi vasetti cominciati,
i quali io lasciavo, perché quei dua giovani non si
stessino. Ancora c'era molto mobile di casa di gran valore,
perché io stavo molto onoratamente: era il valore di queste
mie dette robe di piú di mille cinquecento scudi. Dissi a
Ascanio, che si ricordassi quanti gran benifizi lui aveva
aúti da me, e che per insino allora lui era stato fanciullo
di poco cervello: che gli era tempo omai d'aver cervello da uomo;
però io gli volevo lasciare in guardia tutta la mia roba,
insieme con tutto l'onor mio; che se lui sentiva piú una
cosa che un'altra da quelle bestie di quei Franciosi, subito me
l'avvisassi, perché io monterei in poste e volerei d'onde
io mi fussi, sí per il grande obrigo che io avevo a quel
buon Re, e sí per lo onor mio. Il ditto Ascanio con finte e
ladronesche lacrime mi disse: - Io non cognobbi mai altro miglior
padre di voi, e tutto quello che debbe fare un buon figliuolo
inverso del suo buon padre, io sempre lo farò inverso di
voi -. Cosí d'accordo mi parti' con un servitore e con un
piccolo ragazzetto franzese. Quando fu passato mezzo giorno, venne
al mio castello certi di quei tesaurieri, i quali non erano punto
mia amici. Questa canaglia ribalda subito dissono che io m'ero
partito con l'argento del Re, e dissono a messer Guido e al
Vescovo di Pavia che rimandassimo prestamente per i vasi del Re;
se non che loro manderebbon per essi drietomi con molto mio gran
dispiacere. Il Vescovo e messer Guido ebbon molto piú paura
che non faceva mestiero, e prestamente mi mandorno drieto in poste
quel traditore d'Ascanio, il quale comparse in su la mezza notte.
E io che non dormivo, da per me stesso mi condolevo, dicendo: - A
chi lascio la roba mia, il mio castello? Oh che destino mio
è questo, che mi sforza a far questo viaggio? Pur che il
Cardinale non sia d'accordo con Madama di Tampes, la quale non
desidera altra cosa al mondo, se non che io perda la grazia di
quel buon Re!
L. In mentre che meco medesimo io facevo questo contrasto, mi
senti' chiamare da Ascanio; e al primo mi sollevai dal letto, e li
domandai se lui mi portava buone o triste nuove. Disse il ladrone:
- Buone nuove porto; ma sol bisogna che voi rimandiate indietro li
tre vasi, perché quei ribaldi di quei tesaurieri gridano
accorruomo, di modo che il Vescovo e messer Guido dicono che voi
gli rimandiate a ogni modo: e del resto non vi dia noia nulla, e
andate a godervi questo viaggio felicemente -. Subitamente io gli
resi i vasi, che ve n'era dua mia, con l'argento<B>
</B>e ogni cosa. Io gli portavo alla badia del Cardinale di
Ferrara in Lione; perché se bene e' mi detton nome che io
me ne gli volevo portare in Italia, questo si sa bene per ugniuno
che non si può cavare né danari, né oro,
né argento, sanza gran licenzia. Or ben si debbe
considerare se io potevo cavare quei tre gran vasi, i quali
occupavono con le loro casse un mulo. Bene è vero che, per
essere quelli cosa molto bella e di gran valore, io sospettavo
della morte del Re, perché certamente io l'avevo lasciato
molto indisposto; e da me dicevo: - Se tal cosa avenissi,
avendogli io in mano al Cardinale, io non gli posso perdere -.
Ora, in conclusione, io rimandai il detto mulo con i vasi e altre
cose d'importanza; e con la ditta compagnia la mattina seguente
attesi a camminare innanzi, né mai per tutto il viaggio mi
potetti difendere di sospirare e piagnere. Pure alcune volte con
Idio mi confortavo, dicendo: - Signore Idio, tu che sai la
verità, cognosci che questa mia gita è solo per
portare una elimosina a sei povere meschine verginelle e alla
madre loro, mia sorella carnale; che se bene quelle hanno il lor
padre, gli è tanto vecchio e l'arte sua non guadagna nulla;
che quelle facilmente potrieno andare per la mala via; dove
faccendo io questo opera pia, spero da Tua Maestà aiuto e
consiglio -. Questo si era quanta recreazione io mi pigliavo
camminando innanzi. Trovandoci un giorno presso a Lione a una
giornata, era vicino alle ventidua ore, cominciò il cielo a
fare certi tuoni secchi, e l'aria era bianchissima: io ero innanzi
una balestrata dalli mia compagni; doppo i tuoni faceva il cielo
un romore tanto grande e tanto paventoso, che io da per me
giudicavo che fussi il dí del Giudizio; e fermatomi
alquanto, cominciò a cadere una gragnuola senza gocciola
d'acqua. Questa era grossa piú che pallottole di
cerbottana, e, dandomi addosso, mi faceva gran male: a poco a poco
questa cominciò a ringrossare di modo che l'era come
pallottole d'una balestra. Veduto che 'l mio cavallo forte
ispaventava, lo volsi addietro con grandissima furia a corso,
tanto che io ritrovai li mia compagni, li quali per la medesima
paura s'erano fermi drento in una pineta. La gragnuola ringrossava
come grossi limoni: io cantavo un <I>Miserere; </I>e
in mentre che cosí dicevo divotamente a Dio, venne un di
quei grani tanto grosso che gli scavezzò<B>
</B>un ramo grossissimo di quel pino, dove mi pareva esser
salvo. Un'altra parte di quei grani dette in sul capo al mio
cavallo, qual fe' segno di cadere in terra; a me ne colse uno, ma
non in piena, perché m'aria morto. Similmente ne colse uno
a quel povero vecchio di Lionardo Tedaldi, di sorte che lui, che
stava come me ginocchioni, gli fe' dare delle mane in terra.
Allora io prestamente, veduto che quel gran ramo non mi poteva
piú difendere e che col <I>Miserere
</I>bisognava far qualche opera, cominciai a raddoppiarmi e'
panni in capo: e cosí dissi a Lionardo, che accorruomo
gridava: - Giesú, Giesú - che quello lo aiuterebbe
se lui si aiutava. Ebbi una gran fatica piú a campar lui
che me medesimo. Questa cosa durò un pezzo, pur poi
cessò e noi, ch'eràmo tutti pesti, il meglio che noi
potemmo ci rimettemmo a cavallo; e in mentre che noi andavamo
inverso l'alloggiamento, mostrandoci l'un l'altro gli scalfitti e
le percosse, trovammo un miglio innanzi tanta maggior mina della
nostra, che pare impossibile a dirlo. Erano tutti gli arbori mondi
e scavezzati, con tanto bestiame morto, quanto la n'aveva trovati;
e molti pastori ancora morti: vedemmo quantità assai di
quelle granella le quali non si sarebbon cinte con dua mani. Ce ne
parve avere un buon mercato, e cognoscemmo allora che il chiamare
Idio e quei nostri <I>Misereri </I>ci avevano
piú servito che da per noi non aremmo potuto fare.
Cosí ringraziando Idio, ce ne andammo in Lione l'altra
giornata appresso, e quivi ci posammo per otto giorni. Passati gli
otto giorni, essendoci molto bene ricreati, ripigliammo il
viaggio, e molto felicemente passammo i monti. Ivi io comperai un
piccol cavallino, perché certe poche bagaglie avevano
alquanto istracco<B> </B>i mia cavalli.
LI.<B> </B>Di poi che noi fummo una giornata in
Italia, ci raggiunse il conte Galeotto della Mirandola, il quale
passava in poste, e fermatosi con esso noi, mi disse che io avevo
fatto errore a partirmi, e che io dovessi non andare piú
innanzi, perché le cose mie, tornando subito,
passerebbono<B> </B>meglio che mai; ma se io andavo
innanzi, che io davo campo ai mia nimici e comodità di
potermi far male; dove che, se io tornavo subito, arei loro
impedita la via a quello che avevano ordinato contro a di me; e
quelli tali, in chi io avevo piú fede, erano quelli che
m'ingannavano. Non mi volse dire altro, che lui benissimo lo
sapeva: e 'l cardinal di Ferrara era accordato con quei dua mia
ribaldi che io avevo lasciato in guardia d'ogni cosa mia. Il ditto
contino mi repricò piú volte che io dovessi tornare
a ogni modo. Montato in su le poste passò innanzi, e io,
per la compagnia sopra ditta, ancora mi risolsi a passare innanzi.
Avevo uno istruggimento al cuore, ora di arrivare prestissimo a
Firenze, e ora di ritornarmene in Francia. Istavo in tanta
passione, a quel modo inresoluto, che io per utimo mi risolsi
voler montare in poste per arrivare presto a Firenze. Non fu'
d'accordo con la prima posta;<B> </B>per questo fermai
il mio proposito assoluto di venire a tribulare in Firenze. Avendo
lasciato la compagnia del signore Ipolito Gonzaga, il quale aveva
preso la via per andare alla Mirandola e io quella di Parma e
Piacenza, arrivato che io fui a Piacenza iscontrai per una strada
il duca Pierluigi, il quale mi squadrò e mi cognobbe. E io
che sapevo che tutto il male che io avevo aùto nel Castel
Sant'Agnolo di Roma, n'era stato lui la intera causa, mi dette
passione assai il vederlo; e non conoscendo nessun rimedio a
uscirgli delle mane, mi risolsi di andarlo a visitare; e giunsi
appunto che s'era levata la vivanda, ed era seco quelli uomini
della casata de' Landi, qual da poi furno quelli che lo
ammazzorno.<B> </B>Giunto a Sua Eccellenzia, questo
uomo mi fece le piú smisurate carezze che mai immaginar si
possa: e infra esse carezze da sé cadde in proposito,
dicendo a quelli ch'erano alla presenza, che io era il primo uomo
del mondo della mia professione e che io ero stato gran tempo in
carcere in Roma. E voltosi a me disse: - Benvenuto mio, quel che
voi avesti, a me ne 'ncrebbe assai; e sapevo che voi eri
innocente, e non vi potetti aiutare altrimenti, perché mio
padre per soddisfare<B> </B>a certi vostri nimici, i
quali gli avevano ancora dato addintendere che voi avevi sparlato
di lui: la qual cosa io so certissima che non fu mai vera; e a me
ne increbbe assai del vostro - e con queste parole egli
multipricò in tante altre simile, che pareva quasi che mi
chiedessi perdonanza. Appresso mi domandò di tutte l'opere
che io aveva fatte al Re Cristianissimo; e dicendogliele io,
istava attento, dandomi la piú grata audienza che sia
possibile al mondo. Di poi mi ricercò<B> </B>se
io lo volevo servire: a questo io risposi che con mio onore io non
lo potevo fare; che se io avessi lasciato finite quelle tante
grand'opere che io avevo cominciate per quel gran Re, io lascerei
ogni gran signore, solo per servire Sua Eccellenzia. Or qui si
cognosce quanto la gran virtú de Dio non lascia mai
impunito di qualsivoglia sorta di uomini, che fanno torti e
ingiustizie agli innocenti. Questo uomo come perdonanza mi chiese
alla presenza di quelli, che poco da poi feciono le mie vendette,
insieme con quelle di molti altri ch'erano istati assassinati da
lui; però nessun Signore, per grande che e' sia, non si
faccia beffe della giustizia de Dio, sí come fanno alcuni
di quei che io cognosco, che sí bruttamente m'hanno
assassinato, dove al suo luogo io lo dirò. E queste mie
cose io non le scrivo per boria mondana, ma solo per ringraziare
Idio, che m'ha campato da tanti gran travagli. Ancora di quelli
che mi s'appresentano innanzi alla giornata, di tutti allui mi
querelo, e per mio propio difensore chiamo e mi raccomando. E
sempre, oltra che io m'aiuti quanto io posso, da poi avvilitomi
dove le debile forze mie non arrivano, subito mi si mostra quella
gran bravuria<B> </B>de Dio, la quale viene
inaspettata a quelli che altrui offendono a torto, e a quelli che
hanno poco cura della grande e onorata carica,<B>
</B>che Idio ha dato loro.
LII. Torna'mene all'osteria e trovai che il sopra detto Duca
m'aveva mandato abbundantissimamente presenti da mangiare e da
bere, molto onorati: presi di buona voglia il mio cibo; da poi,
montato a cavallo, me ne venni alla volta di Fiorenze; dove giunto
che io fui, trovai la mia sorella carnale con sei figliolette, che
una ve n'era da marito e una ancora a balia: trovai il marito suo,
il quale per vari accidenti della città non lavorava
piú dell'arte sua. Avevo mandato piú d'uno anno
innanzi gioie e dorure franzese per il valore di piú di
dumila ducati, e meco ne avevo portate per li valore di circa
mille scudi. Trovai che, se bene io davo loro continuamente
quattro scudi d'oro il mese, ancora continuamente pigliavano di
gran danari di quelle mie dorure che alla giornata loro vendevano.
Quel mio cognato era tanto uomo da bene che, per paura che io non
mi avessi a sdegnar seco, non gli bastando i dinari che io gli
mandavo per le sue provvisione, dandogliene per limosina, aveva
inpegnato quasi ciò che gli aveva al mondo, lasciandosi
mangiare dagli interessi, solo per non toccare di quelli dinari
che non erano ordinati per lui. A questo io cognobbi che gli era
molto uomo da bene e mi crebbe voglia di fargli piú
limosina: e prima che io partissi di Firenze volevo dare ordine a
tutte le sue figlioline.
LIII.<B> </B>Il nostro Duca di Firenze in questo
tempo, che eramo del mese d'agosto nel 1545, essendo al Poggio a
Caiano, luogo dieci miglia discosto di Firenze, io l'andai a
trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch'io cittadino
fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici
della casa de' Medici, e io piú che nessuno di loro amavo
questo duca Cosimo. Sí come io dico, andai al detto Poggio
solo per fargli reverenza e non mai con nessuna intenzione di
fermarmi seco, sí come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui
piacque: ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte
infinite carezze, e lui e la Duchessa mi dimandorno dell'opere che
io avevo fatte al Re; alla qual cosa volentieri, e tutte per
ordine, io raccontai. Udito che egli m'ebbe, disse che tanto aveva
inteso che cosí era il vero; e da poi aggiunse in atto di
compassione, e disse: - O poco premio a tante belle e gran
fatiche! Benvenuto mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me,
io ti pagherei bene altrimenti che non ha fatto quel tuo Re, di
chi per tua buona natura tanto ti lodi -. A queste parole io
aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con Sua Maestà,
avendomi tratto d'un cosí ingiusto carcere, di poi datomi
l'occasione di fare le piú mirabile opere che ad altro
artefice mio pari che nascessi mai. In mentre che io dicevo
cosí il mio Duca si scontorceva e pareva che non mi potessi
stare a udire. Da poi finito che io ebbi, mi disse: - Se tu vuoi
far qualcosa per me, io ti farò carezze tali, che forse tu
resterai maravigliato, purché l'opere tue mi piacciano;
della qual cosa io punto non dubito -. Io poverello isventurato,
desideroso di mostrare in questa mirabile Iscuola, che di poi che
io ero fuor d'essa, m'ero affaticato in altra professione di
quello che la ditta iscuola non istimava, risposi al mio Duca che
volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande
in su quella sua bella piazza. A questo mi rispose, che arebbe
voluto da me, per una prima opera, solo un Perseo. Questo era
quanto lui aveva di già desiderato un pezzo; e mi
pregò che io gnene facessi un modelletto. Volentieri mi
messi a fate il detto modello, e in breve settimane finito l'ebbi,
della altezza d'unbraccio in circa: questo era di cera gialla,
assai accomodatamente finito: bene era fatto con grandissimo
istudio e arte. Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli
potessi mostrare questo ditto modello, passò parecchi
dí; che propio pareva che lui non mi avessi mai veduto
né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de'
fatti mia con Sua Eccellenzia. Pur da poi, un dí doppo
desinare, avendolo io condotto nella sua guardaroba, lo venne a
vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri Signori. Subito
vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi
dette un poco di speranza che lui alquanto se ne 'ntendessi. Da
poi che l'ebbe considerato assai, crescendogli grandemente di
piacere, disse queste parole: - Se tu conducessi, Benvenuto mio,
cosí in opera grande questo piccol modellino, questa
sarebbe la piú bella opera di piazza -. Allora io dissi: -
Eccellentissimo mio Signore, in piazza sono l'opere del gran
Donatello e del maraviglioso Michelagnolo, qual sono istati dua li
maggior uomini<B> </B>dagli antichi in qua. Per tanto
Vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand'animo al mio
modello, perché a me basta la vista di far meglio l'opera,
che il modello, piú di tre volte -. A questo fu non piccola
contesa, perché il Duca sempre diceva che se ne intendeva
benissimo e che sapeva appunto quello che si poteva fare. A questo
io gli dissi che l'opere mie deciderebbono quella quistione e quel
suo dubbio, e che certissimo io atterrei a Sua Eccellenzia molto
piú di quel che io gli promettevo, e che mi dessi pur le
comodità che io potessi fare tal cosa, perché sanza
quelle comodità io non gli potrei attenere la gran cosa che
io gli promettevo. A questo Sua Eccellenzia mi disse che io
facessi una supplica di quanto io gli dimandavo, e in essa
contenessi tutti i mia bisogni, ché a quella
amplissimamente darebbe ordine. Certamente che se io fussi stato
astuto a legare per contratto tutto quello che io avevo di bisogno
in queste mia opere, io non arei aùto e' gran travagli, che
per mia causa mi son venuti: perché la voluntà sua
si vedeva grandissima sí in voler fare delle opere e
sí nel dar buon ordine a esse. Però non conoscendo
io che questo Signore aveva piú modo di mercatante che di
duca, liberalissimamente procedevo con Sua Eccellenzia come duca e
non come mercatante. Fecigli le suppliche, alle quale Sua
Eccellenzia liberalissimamente rispose. Dove io dissi: -
Singularissimo mio patrone, le vere suppliche e i veri nostri
patti non consistono in queste parole né in questi scritti,
ma sí bene il tutto consiste che io riesca con l'opere mie
a quanto io l'ho promesse; e riuscendo, allora io mi prometto che
Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo si ricorderà di
quanto la promette a me -. A queste parole invaghito Sua
Eccellenzia e del mio fare e del mio dire, lui e la Duchessa mi
facevano i piú isterminati favori che si possa immaginare
al mondo.
LIV. Avendo io grandissimo desiderio di cominciare a lavorare,
dissi a Sua Eccellenzia che io avevo bisogno d'una casa, la quale
fussi tale che io mi vi potessi accomodare con le mie fornaciette,
e da lavorarvi l'opere di terra e di bronzo, e poi,
appartatamente, d'oro e d'argento; perché io so che lui
sapeva quanto io ero bene atto a servirlo di queste tale
professione; e mi bisognava stanze comode da poter far tal cosa. E
perché Sua Eccellenzia vedessi quanto io avevo voglia di
servirla, di già io avevo trovato la casa, la quale era a
mio proposito, ed era in luogo che molto mi piaceva. E
perché io non volevo prima intaccare Sua Eccellenzia a
danari o nulla, che egli vedessi l'opere mie, avevo portato di
Francia dua gioielli, coi quali io pregavo Sua Eccellenzia che mi
comperassi la ditta casa, e quelli salvassi insino attanto che con
l'opere e con le mie fatiche io me la guadagnassi. Gli detti
gioielli erano benissimo lavorati di mano di mia lavoranti, sotto
i mia disegni. Guardati che gli ebbe assai, disse queste animose
parole, le quali mi vestirno di falsa isperanza: - Togliti,
Benvenuto, i tua gioielli, perché io voglio te e non loro;
e tu abbi la casa tua libera -. Appresso a questo me ne fece uno
rescritto sotto una mia supplica, la quale ho sempre tenuta. Il
detto rescritto diceva cosí: "Veggasi la detta casa, e a
chi sta a venderla, e il pregio che se ne domanda; perché
ne vogliamo compiacere Benvenuto". Parendomi per questo rescritto
esser sicuro della casa; perché sicuramente io mi
promettevo che le opere mie sarebbono molto piú piaciute di
quello che io avevo promesso; appresso a questo Sua Eccellenzia
aveva dato espressa commessione a un certo suo maiordomo il quale
si domandava ser Pier Francesco Riccio. Era da Prato, ed era stato
pedantuzzo del ditto Duca. Io parlai a questa bestia, e dissigli
tutte le cose di quello che io avevo di bisogno, perché
dove era orto in detta casa io volevo fare una bottega. Subito
questo uomo dette la commessione a un certo pagatore secco e
sottile, il quale si chiamava Lattanzio Gorini. Questo omiciattolo
con certe sue manine di ragnatelo e con una vociolina di zanzara,
presto come una lumacuzza, pure in malora mi fe' condurre a casa
sassi, rena e calcina tanto, che arebbe servito per fare un
chiusino da colombi malvolentieri. Veduto andar le cose tanto
malamente fredde, io mi cominciai a sbigottire; o pure da me
dicevo: - I piccoli principii alcune volte hanno gran fine - e
anche mi dava qualche poco di speranza di vedere quante migliaia
di ducati il Duca aveva gittato via in certe brutte operaccie di
scultura, fatte di mano di quel bestial Buaccio Bandinello.
Fattomi da per me medesimo animo, soffiavo in culo a quel
Lattanzio Gurini<B> </B>per farlo muovere; gridavo a
certi asini zoppi e a uno cecolino che gli guidava; e con queste
difficultà, poi con mia danari, avevo segnato il sito della
bottega, e sbarbato alberi e vite: pure, al mio solito,
arditamente, con qualche poco di furore, andavo faccendo. D'altra
banda, ero alle man del Tasso legnaiuolo, amicissimo mio, e allui
facevo fare certe armadure di legno per cominciare il Perseo
grande. Questo Tasso era eccellentissimo valente uomo, credo il
maggiore che fussi mai di sua professione: dall'altra banda era
piacevole e lieto, e ogni volta che io andavo dallui, mi si faceva
incontro ridendo, con un canzoncino in quílio. E io, che
ero di già piú che mezzo disperato, sí
perché cominciavo a sentire le cose di Francia che andavano
male, e di queste<B> </B>mi promettevo poco per la
loro freddezza, mi sforzava a farmi udire sempre la metà
per lo manco di quel suo canzoncino: pure all'utimo alquanto mi
rallegravo seco, sforzandomi di smarrire quel piú che io
potevo, quattro di quei mia disperati pensieri.
LV. Avendo dato ordine a tutte le sopra ditte cose, e cominciando
a tirare innanzi per apparecchiarmi piú presto a questa
sopra ditta impresa - di già era spento parte della calcina
- innun tratto io fui chiamato dal sopra ditto maiodomo; e io,
andando a lui, lo trovai dopo il desinare di Sua Eccellenzia in
sulla sala detta dell'Oriuolo; e fattomigli innanzi, io allui con
grandissima riverenza, e lui a me con grandissima rigidità,
mi domandò chi era quello che m'aveva messo in quella casa,
e con che autorità io v'avevo cominciato drento a murare; e
che molto si maravigliava di me, che io fussi cosí ardito
prosuntuoso. A questo io risposi che innella casa m'aveva misso
Sua Eccellenzia, e in nome di Sua Eccellenzia Sua Signoria, la
quale aveva dato le commessione a Lattanzio Gurini; e il detto
Lattanzio aveva condotto pietra, rena, calcina, e dato ordine alle
cose che io avevo domandato - e di tanto diceva avere aùto
commessione da Vostra Signoria -. Ditto queste parole, quella
ditta bestia mi si volse con maggiore agrezza<B>
</B>che prima, e mi disse che né io né nessuno
di quelli che io avevo allegato, non dicevano la verità.
Allora io mi risenti' e gli dissi: - O maiordomo, insino a tanto
che Vostra Signoria parlerà sicondo quel nobilissimo grado
in che quella è involta, io la riverirò e
parlerò allei con quella sommissione che io fo al Duca; ma
faccendo altrimenti, io le parlerò come a un ser Pier
Francesco Riccio. -. Questo uomo venne in tanta còllora,
che io credetti che volesse impazzare allora, per avanzar tempo da
quello che i cieli determinato gli aveano; e mi disse, insieme con
alcune ingiuriose parole, che si maravigliava molto di avermi
fatto degno che io parlassi a un suo pari. A queste parole io mi
mossi e dissi: - Ora ascoltatemi, ser Pier Francesco Riccio, che
io vi dirò chi sono i mia pari, e chi sono i pari vostri,
maestri d'insegnar leggere a' fanciulli -. Ditto queste parole,
quest'uomo con arroncigliato viso alzò la voce, replicando
piú temerariamente quelle medesime parole. Alle quali
ancora io acconciomi con 'l viso de l'arme, mi vesti' per causa
sua d'un poco di presunzione, e dissi che li pari mia eran degni
di parlare a papi e a imperatori e a gran re; e che delli pari mia
n'andava forse un per mondo, ma delli sua pari n'andava dieci per
uscio. Quando e' sentí queste parole, salí in su 'n
muricciuolo di finestra, che è in su quella sala; da poi mi
disse che io replicassi un'altra volta le parole che io gli avevo
dette; le quale piú arditamente che fatto non avevo
replicai, e di piú dissi che io non mi curavo piú di
servire il Duca, e che io me ne tornerei nella Francia, dove io
liberamente potevo ritornare. Questa bestia restò istupido
e di color di terra, e io arrovellato mi parti' con intenzione di
andarmi con Dio; che volessi Idio che io l'avessi eseguita.
Dovette l'Eccellenzia del Duca non saper cosí al primo
questa diavoleria occorsa, perché io mi stetti certi pochi
giorni avendo dimesso tutti i pensieri di Firenze, salvo che
quelli della mia sorella e delle mie nipotine, i quali io andavo
accomodando; ché con quel poco che io avevo portato le
volevo lasciare acconcie il meglio che io potevo, e quanto
piú presto da poi mi volevo ritornare in Francia, per non
mai piú curarmi di rivedere la Italia. Essendomi resoluto
di spedirmi il piú presto che io potevo, e andarmene sanza
licenzia del Duca o d'altro, una mattina quel sopra ditto
maiordomo da per se medesimo molto umilmente mi chiamò, e
messe mano a una certa sua pedantesca orazione, innella quale io
non vi senti' mai né modo né grazia, né
virtú, né principio, né fine: solo v'intesi
che disse che faceva professione di buon cristiano, e che non
voleva tenere odio con persona, e mi domandava da parte del Duca
che salario io volevo per mio trattenimento. A questo io stetti un
poco sopra di me e non rispondevo, con pura intenzione di non mi
voler fermare. Vedendomi soprastare sanza risposta, ebbe pur tanta
virtú che egli disse: - O Benvenuto, ai duchi si risponde;
e quello che io ti dico te lo dico da parte di Sua Eccellenzia -.
Allora io dissi che dicendomelo da parte di Sua Eccellenzia, molto
volentieri io volevo rispondere; e gli dissi che dicessi a Sua
Eccellenzia come io non volevo esser fatto secondo a nessuno di
quelli che lui teneva della mia professione. Disse il maiordomo: -
Al Bandinello si dà dugento scudi per suo trattenimento,
sicché, se tu ti contenti di questo, il tuo salario
è fatto -. Risposi che ero contento, e che quel che io
meritassi di piú, mi fussi dato da poi vedute l'opere mie,
e rimesso tutto nel buon giudizio di Sua Eccellenzia
illustrissima: cosí contra mia voglia rappiccai il filo e
mi messi a lavorare, faccendomi di continuo il Duca i piú
smisurati favori che si potessi al mondo immaginare.
LVI. Avevo aùto molto ispesso lettere di Francia da quel
mio fidelissimo amico messer Guido Guidi: queste lettere per
ancora non mi dicevano se non bene; quel mio Ascanio ancora lui
m'avvisava dicendomi che io attendessi a darmi buon tempo, e che,
se nulla occorressi, me l'arebbe avvisato. Fu riferito al Re come
io m'ero messo a lavorare per il duca di Firenze; e perché
questo uomo era il miglior del mondo, molte volte disse: -
Perché non torna Benvenuto? - E dimandatone particularmente
quelli mia giovani, tutti a dua gli dissono che io scrivevo loro
che stavo cosí bene, e che pensavano che io non avessi
piú voglia di tornare a servire Sua Maestà. Trovato
il Re in còllora, e sentendo queste temerarie parole, le
quale non vennono mai da me, disse: - Da poi che s'è
partito da noi sanza causa nessuna, io non lo dimanderò mai
piú; sí che stiesi dove gli è -. Questi
ladroni assassini avendo condutta la cosa a quel termine che loro
desideravono, perché ogni volta che io fossi ritornato in
Francia loro si ritornavano lavoranti sotto a di me come gli erano
in prima, per il che, non ritornando, loro restavano liberi e in
mio scambio, per questo e' facevano tutto il loro sforzo
perché io non ritornassi.
LVII. In mentre che io facevo murare la bottega per cominciarvi
drento il Perseo, io lavoravo in una camera terrena, innella quale
io facevo il Perseo di gesso, della grandezza che gli aveva da
essere, con pensiero di formarlo da quel di gesso. Quando io viddi
che il farlo per questa via mi riusciva un po' lungo, presi un
altro espediente, perché di già era posto sú,
di mattone sopra mattone, un poco di bottegaccia, fatta con tanta
miseria, che troppo mi offende il ricordarmene. Cominciai la
figura della Medusa, e feci una ossatura<B> </B>di
ferro; di poi la cominciai a far di terra, e fatta che io l'ebbi
di terra, io la cossi. Ero solo con certi fattoruzzi, infra i
quali ce ne era uno molto bello: questo si era figliuolo d'una
meretrice, chiamata la Gambetta. Servivomi di questo fanciullo per
ritrarlo, perché noi non abbiamo altri libri [che ci
insegnin l'arte, altro che il naturale]. Cercavo di pigliar de'
lavoranti per ispedir presto questa mia opera, e non ne potevo
trovare, e da per me solo io non potevo fare ogni cosa. Eracene
qualcuno in Firenze che volentieri sarebbe venuto, ma il
Bandinello subito m'impediva che non venissino; e faccendomi
stentare cosí un pezzo, diceva al Duca che io andavo
cercando dei sua lavoranti, perché da per me non era mai
possibile che io sapessi mettere insieme una figura grande. Io mi
dolsi col Duca della gran noia che mi dava questa bestia, e lo
pregai che mi facessi avere qualcun di quei lavoranti dell'Opera.
Queste mie parole furno causa di far credere al Duca quello che
gli diceva il Bandinello. Avvedutomi di questo, io mi disposi di
far da me quanto io potevo. E messomi giú con le piú
estreme fatiche che immaginar si possa, in questo che io giorno e
notte m'affaticavo, si ammalò il marito della mia sorella,
e in brevi giorni si morí. Lasciòmi la mia sorella,
giovane, con sei figliuole fra piccole e grande: questo fu il
primo gran travaglio che io ebbi in Firenze: restar padre e guida
d'una tale isconfitta.
LVIII.<B> </B>Desideroso pure che nulla non andassi
male, essendo carico il mio orto di molte brutture, chiamai due
manovali, e' quali mi furno menati dal Ponte Vecchio: di questi ce
n'era uno vecchio di sessant'anni, l'altro si era giovane di
diciotto. Avendogli tenuti circa tre giornate, quel giovane mi
disse che quel vecchio non voleva lavorare e che io facevo meglio
a mandarlo via, perché non tanto che lui non voleva
lavorare, impediva il giovane che non lavorassi: e mi disse che
quel poco che v'era da fare, lui se lo poteva fare da sé,
sanza gittar via e' denari in altre persone: questo aveva nome
Bernardino Manellini di Mugello. Vedendolo io tanto volentieri
affaticarsi, lo domandai se lui si voleva acconciar meco per
servidore: al primo noi fummo d'accordo. Questo giovane mi
governava un cavallo, lavorava l'orto, di poi s'ingegnava
d'aiutarmi in bottega, tanto che a poco a poco e' cominciò
a 'nparare l'arte con tanta gentilezza che io non ebbi mai
migliore aiuto di quello. E risolvendomi di far con costui ogni
cosa, cominciai a mostrare al Duca che 'l Bandinello direbbe le
bugie, e che io farei benissimo sanza i lavoranti del Bandinello.
Vennemi in questo tempo un poco di male alle rene; e perché
io non potevo lavorare, volentieri mi stavo in guardaroba del Duca
con certi giovani orefici, che si domandavano Gianpagolo e
Domenico Poggini, ai quali io facevo fare uno vasetto d'oro, tutto
lavorato di basso rilievo, con figure e altri belli ornamenti:
questo era per la Duchessa, il quale Sua Eccellenzia faceva fare
per bere dell'acqua. Ancora mi richiese che io le facesse una
cintura d'oro; e anche quest'opera ricchissimamente, con gioie e
con molte piacevole invenzione di mascherette e d'altro: questa se
le fece. Veniva a ogni poco il Duca in questa guardaroba, e
pigliavasi piacere grandissimo di veder lavorare, e di ragionare
con esso meco. Cominciato un poco a migliorare delle mie rene, mi
feci portar della terra, e in mentre che 'l Duca si stava quivi a
passar tempo, io lo ritrassi, faccendo una testa assai maggiore
del vivo. Di questa opera Sua Eccellenzia ne prese grandissimo
piacere e mi pose tanto amore, che lui mi disse che gli sarebbe
stato grandissimo appiacere che io mi fussi accomodato a lavorare
in Palazzo, cercandomi in esso palazzo di stanze capace, le quale
io mi dovessi fare acconciare con le fornacie e con ciò che
io avessi di bisogno; perché pigliava piacere di tal cose
grandissimo. A questo io dissi a Sua Eccellenzia, che non era
possibile, perché io non arei finito l'opere mia in cento
anni.
LIX. La Duchessa mi faceva favori inistimabili, e arebbe voluto
che io avessi atteso a lavorare per lei, e non mi fussi curato
né di Perseo né di altro. Io, che mi vedevo in
questi vani favori, sapevo certo che la mia perversa e mordace
fortuna non poteva soprastare a farmi qualche nuovo
assassinamento; perché ogniora mi s'appresentava innanzi el
gran male che io avevo fatto, cercando di fare un sí gran
bene: dico quanto alle cose di Francia. Il Re non poteva
inghiottire quel gran dispiacere che gli aveva della mia partita,
e pure arebbe voluto che io fussi ritornato, ma con ispresso suo
onore: a me pareva avere molte gran ragione, e non mi volevo
dichinare; perché pensavo, se io mi fussi dichinato a
scrivere umilmente, quelli uomini alla franciosa arebbono detto
che io fussi stato peccatore e che e' fussi stato il vero certe
magagne, che a torto m'erano aposte. Per questo io stavo in su
l'onorevole, e, come uomo che ha ragione, iscrivevo rigorosamente,
quale era il maggior piacere che potevano avere quei dua traditori
mia allevati: perché io mi vantavo, scrivendo loro, delle
gran carezze che m'era fatte nella patria mia da un Signore e da
una Signora, assoluti patroni della città di Firenze, mia
patria. Come eglino avevano una di queste cotal lettere, andavano
dal Re e strignevano<B> </B>Sua Maestà a dar
loro il mio castello, in quel modo che l'aveva dato a me. Il Re,
qual era persona buona e mirabile, mai volse acconsentire alle
temerarie dimande di questi gran ladroncelli, perché si era
cominciato a 'vedere a quel che loro malignamente espiravano: e
per dar loro un poco di speranza e a me occasione di tornar
subito, mi fece iscrivere alquanto in còllora da un suo
tesauriere, che si dimandava messer Giuliano Buonaccorsi,
cittadino fiorentino. La lettera conteneva questo: che, se io
volevo mantenere quel nome de l'uomo da bene che io v'avevo
portato, da poi che io me n'ero partito sanza nessuna causa, ero
veramente ubrigato a render conto di tutto quello che io avevo
maneggiato e fatto per Sua Maestà. Quando io ebbi questa
lettera, mi dette tanto piacere, che a chiedere a lingua, io non
arei domandato né piú né manco. Messomi a
scrivere, empie' nove fogli di carta ordinaria; e in quegli narrai
tritamente tutte l'opere che io avevo fatte e tutti gli accidenti
che io avevo aúti in esse, e tutta la quantità de'
denari che s'erano ispesi in dette opere, i quali tutti s'erano
dati per mano di dua notari e d'un suo tesauriere, e sottoscritti
da tutti quelli proprii uomini che gli avevano aúti, i
quali alcuno aveva dato delle robe sue e gli altri le sue fatiche;
e che di essi danari io non m'ero messo un sol quattrino in borsa,
e che delle opere mie finite io non avevo aùto nulla al
mondo; solo me ne avevo portato in Italia alcuni favori e promesse
realissime, degne veramente di Sua Maestà. E se bene io non
mi potevo vantare d'aver tratto nulla altro delle mie opere, che
certi salari ordinatimi da Sua Maestà per mio
trattenimento, e di quelli anche restavo d'avere piú di
settecento scudi d'oro, i quali apposta io lasciai, perché
mi fussino mandati per il mio buon ritorno; - però,
conosciuto che alcuni maligni per propia invidia hanno fatto
qualche malo uffizio, la verità ha a star sempre di
sopra:<B> </B>io mi glorio di Sua Maestà
cristianissima, e non mi muove l'avarizia. Se bene io cognosco
d'avere attenuto molto piú a Sua Maestà di quello
che io mi offersi di fare: e se bene a me non è conseguito
il cambio promissomi,<B> </B>d'altro non mi curo al
mondo, se non di restare, nel concetto di Sua Maestà, uomo
da bene e netto, tal quale io fui sempre. E se nessun dubbio di
questo fussi in Vostra Maestà, a un minimo cenno
verrò volando a render conto di me, con la propia vita: ma
vedendo tener cosí poco conto di me, non son voluto tornare
a offerirmi, saputo che a me sempre avanzerà del pane
dovunche io vada: e quando io sia chiamato, sempre
risponderò -. Era in detta lettera molti altri particulari
degni di quel maraviglioso Re e della salvazione dell'onor mio.
Questa lettera, innanzi che io la mandassi, la portai al mio Duca,
il quale ebbe molto piacere di vederla; di poi subito la mandai in
Francia, diritta al cardinal di Ferrara.
LX. In questo tempo Bernardone Baldini, sensale di gioie di Sua
Eccellenzia, aveva portato di Vinezia un diamante grande, di
piú di trentacinque carati di peso: eraci Antonio di
Vittorio Landi ancora lui interessato per farlo comperare al Duca.
Questo diamante era stato già una punta, ma perché
e' non riusciva con quella limpidità fulgente, che a tal
gioia si doveva desiderare, li padroni di esso diamante avevano
ischericato<B> </B>questa ditta punta, la quale
veramente non faceva bene né per tavola né per
punta. Il nostro Duca, che si dilettava grandemente di gioie, ma
però non se ne intendeva, dette sicura isperanza a questo
ribaldone di Bernardaccio di volere comperare questo ditto
diamante. E perché questo Bernardo cercava di averne
l'onore lui solo, di questo inganno che voleva fare al Duca di
Firenze,mai non conferiva nulla con il suo compagno, il ditto
Antonio Landi. Questo ditto Antonio era molto mio amico per insino
da puerizia, e perché lui vedeva che io ero tanto domestico
con il mio Duca, un giorno infra gli altri mi chiamò da
canto - era presso a mezzodí, e fu in sul canto di Mercato
Nuovo - e mi disse cosí: - Benvenuto, io son certo che 'l
Duca vi mostrerrà un diamante, il quale e' dimostra aver
voglia di comperarlo: voi vedrete un gran diamante. Aiutate la
vendita; e io vi dico che io lo posso dare per diciasette mila
scudi: io son certo che il Duca vorrà il vostro consiglio;
se voi lo vedete inclinato bene al volerlo, e' si farà cosa
che lo potrà pigliare -. Questo Antonio mostrava di avere
una gran sicurtà nel poter far partito<B>
</B>di questa gioia. Io li promessi che, essendomi mostra e
di poi domandato del mio parere, io arei detto tutto quello che io
intendessi, senza danneggiare la gioia. Sí come io ho detto
di sopra, il Duca veniva ogni giorno in quella oreficeria per
parecchi ore; e dal dí che m'aveva parlato Antonio Landi
piú di otto giorni dappoi, il Duca mi mostrò un
giorno doppo desinare questo ditto diamante, il quale io
ricognobbi per quei contra segni che m'aveva detto Antonio Landi e
della forma e del peso. E perché questo ditto diamante era
d'un'acqua, sí come io dissi di sopra, torbidiccia e per
quella causa avevano ischericato quella punta, vedendolo io di
quella sorte, certo l'arei isconsigliato a far tale ispesa;
però, quando e' me lo mostrò, io domandai Sua
Eccellenzia quello che quella voleva che io dicessi, perché
gli era divario a' gioiellieri a il pregiare una gioia, di poi che
un Signore l'aveva compera, o al porgli pregio perché
quello la comperassi. Allora Sua Eccellenzia mi disse che l'aveva
compro e che io dicessi solo il mio parere. Io non volsi mancare
di non gli accennare modestamente quel poco che di quella gioia io
intendevo. Mi disse che io considerassi la bellezza di quei gran
filetti che l'aveva. Allora io dissi che quella non era quella
gran bellezza che Sua Eccellenzia s'immaginava e che quella era
una punta ischericata. A queste parole il mio Signore, che
s'avvedde che io dicevo il vero, fece un mal grugno e mi disse che
io attendessi a stimar la gioia e giudicare quello che mi pareva
che la valessi. Io che pensavo che, avendomelo Antonio Landi
offerto per diciasette mila scudi, mi credevo che il Duca l'avessi
aùto per quindici mila il piú,<B> </B>e
per questo io, che vedevo che lui aveva per male che io gli
dicessi il vero, pensai di mantenerlo nella sua falsa oppinione, e
pòrtogli il diamante, dissi: - Diciotto mila scudi avete
ispeso -. A queste parole il Duca levò un rumore, faccendo
uno O piú<B> </B>grande che una bocca di pozzo,
e disse: - Or cred'io che tu non te ne intendi -. Dissi allui: -
Certo, Signor mio, che voi credete male: attendete a tenere la
vostra gioia in riputazione e io attenderò a intendermene.
Ditemi almanco quello che voi vi avete speso drento, acciò
che io impari a intendermene sicondo i modi di Vostra Eccellenzia
-. Rizzatosi il Duca con un poco di sdegnoso ghigno, disse: -
Venticinque mila iscudi e da
vantaggio,<B></B>Benvenuto, mi costa - e andato via. A
queste parole era alla presenza Gianpagolo e Domenico Poggini,
orefici; e il Bachiacca<B> </B>ricamatore, ancora lui,
che lavorava in una stanza vicina alla nostra, corse a quel
rimore;<B> </B>dove io dissi: - Io non l'arei mai
consigliato che egli lo comperassi; ma se pure egli n'avessi
aùto voglia, Antonio Landi otto giorni fa me lo offerse per
diciasette mila scudi; io credo che io l'arei aùto per
quindici o manco. Ma il Duca vuol tenere la sua gioia in
riputazione; perché avendomela offerta Antonio Landi per un
cotal prezzo, diavol che Bernardone avessi fatto al Duca una
cosí vituperosa giunteria! - E non credendo mai che tal
cosa fussi vera, come l'era, ridendo ci passammo<B>
</B>quella simplicità del Duca.
LXI. Avendo di già condotto la figura della gran Medusa,
sí come io dissi, avevo fatto la sua ossatura di ferro: di
poi fattala di terra, come di notomia<B>, </B>e
magretta un mezzo dito, io la cossi benissimo; di poi vi messi
sopra la cera e fini'la innel modo che io volevo che la stessi. Il
Duca, che piú volte l'era venuta a vedere, aveva tanta
gelosia che la non mi venissi di bronzo, che egli arebbe voluto
che io avessi chiamato qualche maestro che me la gittassi. E
perché Sua Eccellenzia parlava continuamente e con
grandissimo favore delle mie saccenterie, il suo maiordomo, che
continuamente cercava di qualche lacciuolo per farmi rompere il
collo, e perché gli aveva l'autorità di comandare a'
bargelli e a tutti gli uffizi della povera isventurata
città di Firenze, che un pratese, nimico nostro, figliuol
d'un bottaio, ignorantissimo, per essere stato pedante fradicio di
Cosimo de' Medici innanzi che fussi duca, fussi venuto in tanta
grande autorità, sí come ho detto, stando vigilante
quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno
lui non mi poteva appiccare ferro addosso, pensò un modo di
far qualcosa. E andato a trovare la madre di quel mio fattorino,
che aveva nome Cencio, e lei la Gambetta, dettono uno ordine, quel
briccon pedante e quella furfante puttana, di farmi uno spavento,
acciò che per quello, io mi fussi andato con Dio. La
Gambetta, tirando all'arte sua, uscí, di commessione di
quel pazzo ribaldo pedante maiordomo: e perché gli avevano
ancora indettato il bargello, il quale era un certo bolognese, che
per far di queste cose il Duca lo cacciò poi via; venendo
un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne a trovare la ditta
Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l'aveva tenuto
parecchi dí rinchiuso per la salute mia. Alla quale io
risposi che per mio conto lei non lo tenessi rinchiuso: e
ridendomi della sua puttanesca arte, mi volsi al figliuolo in sua
presenza e gli dissi: - Tu lo sai, Cencio, se io ho peccato teco -
il qual piagnendo disse che no. Allora la madre, scotendo il capo,
disse al figliuolo: - Ahi ribaldello, forse che io non so come si
fa? - poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi nascosto in
casa, perché il bargello ne cercava, e che l'arebbe preso
ad ogni modo fuor di casa mia; ma che in casa mia non l'arebbon
tocco.<B> </B>A questo io le dissi che in casa mia io
aveva la sorella vedova con sei sante figlioline, e che io non
volevo, in casa mia, persona. Allora lei disse che 'l maiordomo
aveva dato le commessione al bargello e che io sarei preso a ogni
modo; ma poiché io non volevo pigliare il figliuolo in
casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar piú di
nulla, perché essendo il maiordomo tanto grandissimo suo
amico, io potevo star sicuro che lei gli arebbe fatto fare tutto
quel che allei piaceva, purché io le dessi li cento scudi.
Io ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: - Levamiti
d'innanzi, vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo
e per la innocenzia di quello infelice figliuolo che tu hai quivi,
io ti arei di già iscannata con questo pugnaletto, che dua
o tre volte ci ho messo su le mane -. E con queste parole, con
molte villane urtate,<B> </B>lei e 'l figliuolo pinsi
fuor di casa.
LXII.<B> </B>Considerato poi da me la ribalderia e
possanza di quel mal pedante, giudicai che il mio meglio fussi di
dare un poco di luogo a quella diavoleria, e la mattina di
buon'ora, consegnato alla mia sorella gioie e cose per vicino a
dumila scudi, montai a cavallo e me ne andai alla volta di
Vinezia, e menai meco quel mio Bernardino di Mugello. E giunto che
io fui a Ferrara, io scrissi alla Eccellenzia del Duca che se bene
io me n'ero ito sanza esserne mandato,<B> </B>io
ritornerei sanza esser chiamato. Di poi, giunto a Vinezia,
considerato con quanti diversi modi la mia crudel fortuna mi
straziava, niente di manco trovandomi sano e gagliardo mi risolsi
di schermigliar con essa al mio solito. E in mentre andavo
cosí pensando a' fatti miei, passandomi tempo per quella
bella e ricchissima città, avendo salutato quel
maraviglioso Tiziano pittore e Iacopo del Sansovino, valente
scultore e architetto nostro fiorentino molto ben trattenuto dalla
Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti nella giovanezza in
Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi virtuosi mi
feciono molte carezze. L'altro giorno a presso io mi scontrai in
messer Lorenzo de' Medici, il quale subito mi prese per mano con
la maggior raccoglienzia che si possa veder al mondo,
perché ci eràmo cognosciuti in Firenze quando io
facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io
ero al servizio del Re. Egli si tratteneva in casa di messer
Giuliano Buonacorsi, e per non aver dove andarsi a passar tempo
altrove sanza grandissimo suo pericolo, egli si stava piú
del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand'opere. E
sí come io dico, per questa passtata conoscenzia, egli mi
prese per mano e menòmi a casa sua, dov'era il signor
Priore delli Strozzi, fratello del signor Pietro, e rallegrandosi,
mi domandorno quanto io volevo soprastare in Venezia, credendosi
che io me ne volessi ritornare in Francia. A' quali Signori io
dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione
sopra detta, e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a
Fiorenze a servire il mio gran Duca. Quando io dissi queste
parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi si volsono con tanta
rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono: - Tu
faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e
conosciuto; che se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello
che avevi guadagnato in Francia, e di Firenze non trarrai altro
che dispiaceri -. Io non risposi alle parole loro, e partitomi
l'altro giorno piú secretamente che io possetti, me ne
tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato le
diavolerie, perché io avevo scritto al mio gran Duca tutta
l'occasione che mi aveva traportato a Venezia. E con la sua solita
prudenzia e severità, io lo visitai senza alcuna cerimonia;
stato alquanto con la detta severità, di poi piacevolmente
mi si volse e mi domandò dove io ero stato. Al quale io
risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da Sua
Eccellenzia illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e'
mi era stato di necessità di menare un poco il mio corpo a
zonzo. Allora faccendosi piú piacevole, mi cominciò
a domandar di Vinezia e cosí ragionammo un pezzo; poi
ultimamente mi disse che io attendessi a lavorare e che io gli
finissi il suo Perseo. Cosí mi tornai a casa lieto e
allegro, e rallegrai la mia famiglia, cioè la mia sorella
con le sue sei figliuole, e ripreso l'opere mie, con quanta
sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.
LXIII. E la prima opera che io gittai di bronzo fu quella testa
grande, ritratto di Sua Eccellenzia, che io avevo fatta di terra
nell'oreficerie, mentre che io avevo male alle stiene. Questa fu
un'opera che piacque e io non la feci per altra causa se non per
fare sperienzia delle terre da gittare il bronzo. E se bene io
vedevo che quel mirabil Donatello aveva fatto le sue opere di
bronzo, quale aveva gittate con la terra di Firenze, e' mi pareva
che l'avessi condutte con grandissima difficultà; e
pensando che venissi dal difetto della terra, innanzi che io mi
mettessi a gittare il mio Perseo, io volsi fare queste prime
diligenzie; per le quali trovai esser buona la terra, se bene non
era stata bene intesa da quel mirabil Donatello, perché con
grandissima difficultà vedevo condotte le sue opere.
Cosí, come io dico di sopra, per virtú d'arte io
composi la terra, la quale mi serví benissimo; e, sí
come io dico, con essa gittai la detta testa; ma perché io
non avevo ancora fatto la fornace, mi servi' della fornace di
maestro Zanobi di Pagno, campanaio. E veduto che la testa era ben
venuta netta, subito mi messi a fare una fornacetta nella bottega
che mi aveva fatta il Duca, con mio ordine e disegno, nella
propria casa che mi aveva donata; e subito fatto la fornace, con
quanta piú sollecitudine io potevo, mi messi in ordine per
gittare la statua della Medusa, la quale si è quella
femmina scontorta che è sotto i piedi del Perseo. E per
essere questo getto cosa difficilissima, io non volsi mancare di
tutte quelle diligenzie che avevo imparato, acciò che non
mi venissi fatto qualche errore; e cosí il primo getto
ch'io feci in detta mia fornacina venne bene superlativo grado, ed
era tanto netto ch'e' non pareva alli amici mia il dovere che io
altrimenti la dovessi rinettare; la qualcosa hanno trovato certi
Todeschi e Franciosi, quali dicono e si vantano di bellissimi
secreti di gittare i bronzi senza rinettare; cosa veramente da
pazzi; perché il bronzo, di poi che gli è gittato,
bisogna riserarlo con i martelli e con i ceselli, sí come i
maravigliosissimi antichi, e come hanno ancor fatto i moderni,
dico quei moderni ch'hanno saputo lavorare il bronzo. Questo getto
piacque assai a Sua Eccellenzia illustrissima, che piú
volte lo venne a vedere sino a casa mia, dandomi grandissimo animo
al ben fare. Ma possette tanto quella rabbiosa invidia del
Bandinello, che, con tanta sollecitudine intorno alli orecchi di
Sua Eccellenzia illustrissima, che gli fece pensare, che se bene
io gittavo qualcuna di queste statue, che mai io non le metterei
insieme, perché l'era in me arte nuova; e che Sua
Eccellenzia doveva ben guardare a non gittare via i sua denari.
Possetton tanto queste parole in quei gloriosi orecchi, che mi fu
allentato alcuna spesa di lavoranti; di modo che io fui
necessitato a risentirmi arditamente con Sua Eccellenzia: dove una
mattina, aspettando quella nella via de' Servi, le dissi: - Signor
mio, io non son soccorso d'i miei bisogni, di modo che io sospetto
che Vostra Eccellenzia non diffidi di me; il perché di
nuovo le dico che a me basta la vista di condur tre volte meglio
quest'opera, che non fu il modello, sí come io vi ho
promesso.
LXIV.<B> </B>Avendo detto queste parole a Sua
Eccellenzia, e conosciuto<B> </B>che le non facevan
frutto nissuno, perché non ne ritraevo risposta, subito mi
crebbe una stizza, insieme con una passione intollerabile, e di
nuovo cominciai a riparlare al Duca e gli dissi: - Signor mio,
questa città veramente è stata sempre la scuola
delle maggior virtute; ma cognosciuto che uno s'è, avendo
imparato qualche cosa, volendo accrescer gloria alla sua
città e al suo glorioso Principe, gli è bene andare
a operare altrove. E che questo, Signor mio, sia il vero, io so
che l'Eccellenzia Vostra ha saputo chi fu Donatello, e chi fu il
gran Leonardo da Vinci, e chi è ora il mirabil Michelagnol
Buonarroti. Questi accrescono la gloria per le lor virtú
all'Eccellenzia Vostra; per la qualcosa io ancora spero di far la
parte mia; sí che, Signor mio, lasciatemi andare. Ma Vostra
Eccellenzia avvertisca bene a non lasciare andare il Bandinello,
anzi dateli sempre piú che lui non vi domanda;
perché se costui va fuora, gli è tanto la ignoranzia
sua prosuntuosa, che gli è atto a vituperare questa
nobilissima Scuola. Or dàtimi licenzia, Signore, né
domando altro delle mie fatiche sino a qui che la grazia di Vostra
Eccellenzia illustrissima -. Vedutomi Sua Eccellenzia a quel modo
resoluto, con un poco di sdegno mi si volse, dicendo: - Benvenuto,
se tu hai voglia di finir l'opera, e' non si mancherà di
nulla -. Allora io lo ringraziai, e dissi che altro desiderio non
era il mio, se non di mostrare a quelli invidiosi che a me bastava
la vista di condurre l'opera promessa. Cosí spiccatomi da
Sua Eccellenzia, mi fu dato qualche poco di aiuto; per la qual
cosa fui necessitato a metter mano alla borsa mia, volendo che la
mia opera andassi un poco piú che di passo. E perché
la sera io sempre me ne andavo a veglia nella guardaroba di Sua
Eccellenzia, dove era Domenico e Gianpavolo Poggini, suo fratello,
quali lavoravano un vaso di oro, che addietro s'è detto,
per la Duchessa e una cintura d'oro; ancora Sua Eccellenzia
m'aveva fatto fare un modellino d'un pendente, dove andava legato
dentro quel diamante grande che li aveva fatto comperare
Bernardone e Antonio Landi. E con tutto che io fuggissi di non
voler far tal cosa, il Duca con tante belle piacevolezze mi vi
faceva lavorare ogni sera in sino alle quattro ore. Ancora mi
strigneva con piacevolissimi modi a far che io vi lavorassi ancora
di giorno; alla qual cosa non volsi mai acconsentire; e per questo
io credetti per cosa certa che Sua Eccellenzia si adirassi meco. E
una sera in fra le altre, essendo giunto alquanto piú tardi
che al mio solito, il Duca mi disse: - Tu sia il malvenuto -. Alle
quali parole io dissi: - Signor mio, cotesto non è il mio
nome, perché io ho nome Benvenuto; e perché io penso
che l'Eccellenzia Vostra motteggi meco, io non entrerò in
altro -. A questo il Duca disse che diceva da maledetto senno e
non motteggiava e che io avvertissi bene quel che io facevo,
perché gli era venuto alli orecchi che, prevalendomi del
suo favore, io facevo fare or questo or quello. A queste parole io
pregai Sua Eccellenzia illustrissima di farmi degno di dirmi solo
un omo che io avevo mai fatto fare al mondo. Subito mi si volse in
collera e mi disse: - Va' e rendi quello che tu hai di Bernardone:
eccotene uno -. A questo io dissi: - Signor mio, io vi ringrazio,
e vi priego mi facciate degno d'ascoltarmi quattro parole: egli
è il vero che e' mi prestò un paio di bilance
vecchie e dua ancudine e tre martelletti piccoli, le qual
masserizie oggi son passati quindici giorni che io dissi al suo
Giorgio da Cortona che mandassi per esse; il perché il
detto Giorgio venne per esse lui stesso; e se mai Vostra
Eccellenzia illustrissima truova, che dal di' che io nacqui in
qua, io abbia mai nulla di quello di persona in cotesto modo, se
bene in Roma o in Francia, faccia intender da quelli che li hanno
riferite quelle cose o da altri; e trovando il vero, mi castighi a
misura di carboni -. Vedutomi il Duca in grandissima passione,
come Signor discretissimo e amorevole mi si volse e disse: - E'
non si dice a quelli che non fanno li errori; sí che, se
l'è come tu di', io ti vedrò sempre volentieri, come
ho fatto per il passato -. A questo io dissi: - Sappi<B>
</B>l'Eccellenzia Vostra che le ribalderie di Bernardone mi
sforzano a domandarla e pregarla, che quella<B> </B>mi
dica quel che la spese nel diamante grande, punta schericata:
perché io spero mostrarle perché questo male omaccio
cerca mettermivi in disgrazia -. Allora Sua Eccellenzia mi disse:
- Il diamante mi costò 25 mila ducati: perché me ne
domandi tu? - Perché, Signor mio, il tal dí, alle
tal'ore, in sul canto di Mercato nuovo, Antonio di Vettorio Landi
mi disse che io cercassi di far mercato con Vostra Eccellenzia
illustrissima, e di prima domanda ne chiese sedici mila ducati:
ora Vostra Eccellenzia sa quel che la<B> </B>l'ha
comperato. E che questo sia il vero, domandate ser Domenico
Poggini e Giampavolo suo fratello, che son qui; che io lo dissi
loro subito, e da poi non ho mai piú parlato, perché
l'Eccellenzia Vostra disse che io non me ne intendevo; onde io
pensavo che quella lo volessi tenere in riputazione. Sappiate,
Signor mio, che io me ne intendo; e quanto all'altra parte fo
professione d'esser uomo da bene quanto altro che sia nato al
mondo, e sia chi vuole. Io non cercherò di rubarvi otto o
dieci mila ducati per volta, anzi mi ingegnerò guadagnarli
con le mie fatiche: e mi fermai a servir Vostra Eccellenzia per
iscultore, orefice e maestro di monete; e di riferirle delle cose
d'altrui, mai. E questa che io le dico adesso, la dico per difesa
mia, e non ne voglio il quarto: e gnene dico presente tanti uomini
dabbene che son qui, acciò Vostra Eccellenzia illustrissima
non creda a Bernardone ciò che dice -. Subito il Duca si
levò in collera e mandò per Bernardone, il qual fu
necessitato a correre sino a Vinezia, lui e Antonio Landi; quale
Antonio mi diceva che non aveva volsuto dir quel diamante. Gli
andorno e tornorno da Vinezia, e io trovai il Duca, e dissi: -
Signore, quel che io vi dissi è vero, e quel vi
disse<B> </B>delle masserizie Bernardone non fu vero;
e faresti bene a farne la pruova, e io mi avviarò al
bargello -. A queste parole il Duca mi si volse, dicendomi: -
Benvenuto, attendi a esser omo da bene, come hai fatto per il
passato, e non dubitar mai di nulla -. La cosa andò in fumo
e io non ne senti' mai piú parlare. Attesi a finire il suo
gioiello; e portatolo un giorno finito alla Duchessa, lei stessa
mi disse che stimava tanto la mia fattura quanto il diamante, che
li aveva fatto comperar Bernardaccio, e volse che io gnene
appiccassi al petto di mia mano, e mi dette uno spilletto
grossetto in mano, e con quello gnene appiccai, e mi parti' con
molta sua buona grazia. Da poi io intesi che e' l'avevano fatto
rilegare a un tedesco o altro forestiero, salvo 'l vero,
perché il detto Bernardone disse che 'l detto diamante
mostrerrebbe<B> </B>meglio legato con manco opera.
LXV. Domenico e Giovanpagolo Poggini, orefici e frategli,
lavoravano, sí come io credo d'aver detto, in guardaroba di
Sua Eccellenzia illustrissima cone i miei disegni, certi vasetti
d'oro cesellati, con istorie di figurine di basso rilievo e altre
cose di molta inportanza. E perché io dissi piú
volte al Duca: - Signor mio, se Vostra Eccellenzia illustrissima
mi pagassi parecchi lavoranti, io vi farei le monete della vostra
zecca e le medaglie colla testa di Vostra Eccellenzia
illustrissima, le qual farei a gara con gli antichi e arei
speranza di superargli: perché dappoi in qua che io feci le
medaglie di papa Clemente io ho imparato tanto, che io farei molto
meglio di quelle: e cosí farei meglio delle monete che io
feci al duca Alessandro, le quale sono ancora tenute belle; e
cosí vi farei de' vasi grandi d'oro e d'argento, sí
come io ne ho fatti tanti a quel mirabil re Francesco di Francia,
solo per le gran comodità che ei m'ha date, né mai
s'è perso tempo ai gran colossi né all'altre statue
-. A queste mie parole il Duca mi diceva: - Fa', e io vedrò
- né mai mi dette comodità né aiuto nessuno.
Un giorno Sua Eccellenzia illustrissima mi fece dare parecchi
libbre d'argento e mi disse: - Questo è dello argento delle
mie cave, fammi un bel vaso -. E perché io non volevo
lasciare in dietro il mio Perseo e ancora avevo gran
volontà di servirlo, io lo detti da fare, con i miei
disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che si chiama
Piero di Martino, orafo: il quale lo cominciò male e anche
non vi lavorava, di modo che io vi persi piú tempo che se
io lo avessi fatto tutto di mia mano. Cosí avendomi
straziato parecchi mesi, e veduto che il detto Piero non vi
lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci
rendere, e durai una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso
mal cominciato, come io dissi, il resto dell'argento che io gli
avevo dato. Il Duca che intese qualcosa di questi romori,
mandò per il vaso e per i modelli e mai piú mi disse
né perché né per come; basta<B>
</B>che con certi mia disegni e' ne fece fare a diverse
persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La
Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie:
alla quale io piú volte dissi, che 'l mondo benissimo
sapeva, e tutta la Italia, che io ero buono orefice; ma che la
Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di scultura: - e per
l'arte certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi chiamano lo
scultor nuovo; ai quali io spero di mostrare d'esser scultor
vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar
finito 'l mio Perseo in quella onorata piazza di Sua Eccellenzia
illustrissima -. E ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il
giorno e la notte, e non mi lasciavo vedere in Palazzo. E pensando
pure di mantenermi nella buona grazia della Duchessa, io gli feci
fare certi piccoli vasetti, grandi come un pentolino di dua
quattrini, d'argento, con belle mascherine in foggia rarissima,
all'antica; e portatole li detti vasetti, lei mi fece la
piú grata accoglienza che immaginar si possa al mondo e mi
pagò 'l mio argento e oro che io vi avevo messo. E io pure
mi raccomandavo a Sua Eccellenzia illustrissima pregandola che la
dicessi al Duca, che io avevo poco aiuto a cosí grande
opera, e che Sua Eccellenzia illustrissima doverrebbe<B>
</B>dire al Duca, che ei non volessi tanto credere a quella
mala lingua del Bandinello, con la quale e' m'impediva al finire
il mio Perseo. A queste mie lacrimose parole la Duchessa si
ristrinse nelle spalle e pur mi disse: - Per certo che 'l Duca lo
doverria pur conoscere, che questo suo Bandinello non val niente.
LXVI. Io mi stavo in casa, e di rado mi appresentavo al Palazzo, e
con gran sollecitudine lavoravo, per finire la mia opera; e mi
conveniva pagare i lavoranti de il mio; perché, avendomi
fatto pagare certi lavoranti il Duca da Lattanzio Gorini in circa
a diciotto mesi ed essendogli venuto annoia, mi fece levare le
commessione, per la qual cosa io domandai il detto Lattanzio,
perché e' non mi pagava. E' mi rispose, menando<B>
</B>certe sue manuzze di ragnatelo, con una vocerellina di
zanzara: - Perché non finisci questa tua opera? E' si crede
che tu nolla finirai mai -. Io subito gli risposi adirato e dissi:
- Cosí vi venga il canchero e a voi e attutti quegli che
non credono che io nolla finisca -. E cosí disperato mi
ritornai accasa al mio mal fortunato Perseo, e non senza lacrime,
perché mi tornava in memoria il mio bello stato che io
avevo lasciato in Parigi sotto 'l servizio di quel maraviglioso re
Francesco, con el quale mi avanzava ogni cosa, e qui mi mancava
ogni cosa. E parecchi volte mi disposi di gittarmi al disperato: e
una volta infra l'altre io montai in su un mio bel cavalletto, e
mi missi cento scudi accanto, e me n'andai a Fiesole a vedere un
mio figliuolino naturale, il quale tenevo abbalia con una mia
comare, moglie di un mio lavorante. E giunto al mio figliolino lo
trovai di buono essere, e io cosí malcontento lo baciai; e
volendomi partire, e' non mi lasciava, perché mi teneva
forte colle manine e con un furore di pianto e strida, che in
quell'età di due anni in circa era cosa piú che
maravigliosa. E perché io m'ero resoluto che, se io trovavo
'l Bandinello, il quale soleva andare ogni sera a quel suo podere
sopra San Domenico, come disperato lo volevo gittare in terra,
cosí mi spiccai dal mio bambino, lasciandolo con quel suo
dirotto pianto. E venendomene inverso Firenze, quando io arrivai
alla piazza di San Domenico, appunto il Bandinello entrava
dall'altro lato in su la piazza. Subito resolutomi di fare quella
sanguinosa opera, giunsi allui, e alzato gli occhi, lo vidi senza
arme, in su un muluccio come uno asino e aveva seco un fanciullino
dell'età di dieci anni; e subito che lui mi vidde, divenne
di color di morto, e tremava dal capo ai piedi. Io, conosciuto la
vilissima opera, dissi: - Non aver paura, vil poltrone, che io non
ti vo' far degno delle mie busse -. Egli mi guardò rimesso
e non disse nulla. Allora io ripresi la virtú, e ringrazia'
Iddio che per sua vera virtute non aveva voluto che io facessi un
tal disordine. Cosí liberatomi da quel diabolico furore, mi
accrebbe animo e meco medesimo dicevo: - Se Iddio mi dà
tanto di grazia che io finisca la mia opera, spero con quella di
ammazzare tutti i mia ribaldi nimici; dove io farò molte
maggiori e piú gloriose le mie vendette, che se io mi fussi
sfogato con un solo - e con questa buona resoluzione mi tornai a
casa. In capo di tre giorni io intesi come quella mia comare mi
aveva affogato il mio unico figliolino; il quale mi dette tanto
dolore che mai non senti' il maggiore. Imperò mi
inginocchiai in terra, e non senza lacrime al mio solito
ringraziai il mio Iddio, dicendo: - Signor mio, tu me lo desti, e
or tu me t'hai tolto, e di tutto io con tutto 'l cuor mio ti
ringrazio -. E con tutto che 'l gran dolore mi aveva quasi
smarrito, pure, al mio solito, fatto della necessità
virtú, il meglio che io potevo mi andavo accomodando.
LXVII. E' s'era partito un giovane in questo tempo dal Bandinello,
il quale aveva nome Francesco, figliuolo di Matteo fabbro. Questo
detto giovane mi fece domandare se io gli volevo dare da lavorare;
e io fui contento, e lo missi a rinettare la figura della Medusa,
che era di già gittata. Questo giovane, dipoi quindici
giorni, mi disse che aveva parlato con el suo maestro, cioè
il Bandinello, e che lui mi diceva da sua parte che, se io volevo
fare una figura di marmo, che ei mi mandava a offerire di donarmi
un bel pezzo di marmo. Subito io dissi: - Digli che io l'accetto;
e potria essere il mal marmo per lui, perché ei mi va
stuzzicando, e non si ricorda il gran pericolo che lui aveva
passato meco in su la piazza di San Domenico: or digli che io lo
voglio a ogni modo. Io non parlo mai di lui e sempre questa bestia
mi dà noia: e mi credo che tu sia venuto a lavorare meco
mandato dallui, solo per spiare i fatti mia. O va, e digli che io
vorrò il marmo a suo malgrado; e ritòrnatene seco.
LXVIII. Essendo stato di molti giorni che io non m'ero lasciato
rivedere in Palazzo, v'andai una mattina, che mi venne quel
capriccio, e il Duca aveva quasi finito di desinare, e, per quel
che io intesi, Sua Eccellenzia aveva la mattina ragionato e ditto
molto bene di me, e infra l'altre cose ei mi aveva molto lodato in
legar gioie; e per questo, come la Duchessa mi vide, la mi fece
chiamare da messer Sforza; e appressatomi a Sua Eccellenzia
illustrissima, lei mi pregò che io le legassi un diamantino
in punta innuno anello, e mi disse che lo voleva portare sempre
nel suo dito; e mi dette la misura e 'l diamante, il quale valeva
in circa a cento scudi, e mi pregò che io lo facessi
presto. Subito 'l Duca cominciò a ragionare con la Duchessa
e le disse: - Certo che Benvenuto fu in cotesta arte senza pari;
ma ora che lui l'ha dimessa, io credo che 'l fare uno anellino
come voi vorresti, e' gli sarebbe troppa gran fatica: sí
che io vi priego che voi nollo affatichiate in questa piccola
cosa, la quale allui saria grande, per essersi disuso -. A queste
parole io ringraziai el Duca, e poi lo pregai che mi lasciassi
fare questo poco del servizio alla signora Duchessa: e subito
messovi le mani, in pochi giorni lo ebbi finito. L'anello si era
per il dito piccolo della mano: cosí feci quattro puttini
tondi con quattro mascherine, le qual cose facevano il detto
anellino: e anche vi accomodai alcune frutte e legaturine
smaltate; di modo che la gioia e l'anello si mostravano molto bene
insieme. E subito lo portai alla Duchessa: la quale con benigne
parole mi disse che io gli avevo fatto un lavoro bellissimo, e che
si ricorderebbe di me. Il detto anellino la lo mandò a
donare al re Filippo, e dappoi sempre la mi comandava qualche
cosa, ma tanto amorevolmente, che io sempre mi sforzavo di
servirla, con tutto che io vedessi pochi dinari; e Iddio sa se io
ne avevo gran bisogno, perché disideravo di finire 'l mio
Perseo, e avevo trovati certi giovani che mi aiutavano, i quali io
pagavo del mio; e di nuovo cominciai a lasciarmi vedere piú
spesso che io non avevo fatto per il passato.
LXIX. Un giorno di festa in fra gli altri me n'andai in Palazzo
dopo 'l desinare, e giunto in su la sala dell'Oriolo, viddi aperto
l'uscio della guardaroba, e appressatomi un poco, il Duca mi
chiamò, e con piacevole accoglienza mi disse: - Tu sia 'l
benvenuto: guarda quella cassetta, che m'ha mandato a donare 'l
signore Stefano di Pilestina; aprila e guardiamo che cosa
l'è -. Subito apertola, dissi al Duca: - Signor mio, questa
è una figura di marmo greco ed è cosa maravigliosa:
dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai veduto
fra le anticaglie una cosí bella opera, né di
cosí bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra
Eccellenzia illustrissima di restaurarvela e la testa e le
braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che
e' sia battezzato per un Ganimede. E se bene e' non si conviene a
mme il rattoppare<B> </B>le statue, perché
ell'è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai
malamente; imperò l'eccellenzia di questo gran maestro mi
chiama asservirlo -. Piacque al Duca assai che la statua fussi
cosí bella, e mi domandò di assai cose, dicendomi: -
Dimmi, Benvenuto mio, distintamente in che consiste tanta
virtú di questo maestro, la quale ti dà tanta
maraviglia -. Allora io mostrai a Sua Eccellenzia illustrissima
con el meglio modo che io seppi, di farlo capace di cotal bellezza
e di virtú di intelligenzia, e di rara maniera; sopra le
qual cose io aveva discorso assai, e molto piú volentieri
lo facevo, conosciuto che Sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo
piacere.
LXX. In mentre che io cosí piacevolmente trattenevo 'l
Duca, avvenne che un paggio uscí fuori della guardaroba e
che, nell'uscire il detto, entrò il Bandinello. Vedutolo 'l
Duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: -
Che andate voi faccendo? - Il detto Bandinello, sanza rispondere
altro, subito gittò gli occhi a quella cassetta, dove era
la detta statua scoperta, e con un suo mal ghignaccio, scotendo 'l
capo, disse volgendosi inverso 'l Duca: - Signore, queste sono di
quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra Eccellenzia
illustrissima. Sappiate che questi antichi non intendevano niente
la notomia,<B> </B>e per questo le opere loro sono
tutte piene di errori -. Io mi stavo cheto e non attendevo a nulla
di quello che egli diceva, anzi gli avevo volte le rene. Subito
che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol cicalata, il Duca
disse: - O Benvenuto, questo si è tutto 'l contrario di
quello che con tante belle ragioni tu m'hai pure ora sí ben
dimostro: sí che difendila un poco -. A queste ducal
parole, portemi con tanta piacevolezza, subito io risposi e dissi:
- Signor mio, vostra Eccellenzia Illustrissima ha da sapere che
Baccio Bandinelli si è composto tutto di male, e
cosí ei è stato sempre; di modo che ciocché
lui guarda, subito a' sua dispiacevoli occhi, se bene le cose sono
in sopralativo grado tutto bene, subito le si convertono innun
pessimo male. Ma io, che solo son tirato al bene, veggo piú
santamente 'l vero; di modo che quello che io ho detto di questa
bellissima statua a Vostra Eccellenzia illustrissima si è
tutto il puro vero, e quello che n'ha ditto 'l Bandinello si
è tutto quel male solo, di quel che lui è composto
-. Il Duca mi stette a udire con molto piacere, e in mentre che io
dicevo queste cose, il Bandinello si scontorceva e faceva i
piú brutti visi del suo viso, che era bruttissimo, che
immaginar si possa al mondo. Subito 'l Duca si mosse, avviandosi
per certe stanze basse, e il detto Bandinello lo seguitava. I
camerieri mi presono per la cappa e me gli avviorno dietro e
cosí seguitammo il Duca, tanto che Sua Eccellenzia
illustrissima, giunto innuna stanza, e' si misse assedere, e il
Bandinello e io stavamo un da destra e un da sinistra di Sua
Eccellenzia illustrissima. Io stavo cheto, e quei che erano
all'intorno, parecchi servitori di Sua Eccellenzia, tutti
guardavano fiso 'l Bandinello, alquanto soghignando l'un
coll'altro di quelle parole che io gli avevo detto in quella
stanza di sopra. Cosí il detto Bandinello cominciò a
favellare e disse: - Signore, quando io scopersi il mio Ercole e
Cacco, certo che io credo che piú di cento sonettacci ei mi
fu fatti, i quali dicevano il peggio che immaginar si possa al
mondo da questo popolaccio -. Io allora risposi e dissi: -
Signore, quando il nostro Michelagnolo Buonaroti scoperse la sua
Sacrestia, dove ei si vidde tante belle figure, questa mirabile e
virtuosa Scuola, amica della verità e del bene, gli fece
piú di cento sonetti, a gara l'un l'altro a chi ne poteva
dir meglio: e cosí come quella del Bandinello meritava quel
tanto male che lui dice che della sua si disse, cosí
meritava quel tanto bene quella del Buonaroti, che di lei si disse
-. A queste mie parole il Bandinello venne in tanta rabbia, che ei
crepava, e mi si volse e disse: - E tu che le sapresti apporre?
<B>- </B>Io te lo dirò se tu arai tanta
pazienza di sapermi ascoltare -. Diss'ei: - Or di' su -. Il Duca e
gli altri, che erano quivi, tutti stavano attenti. Io cominciai e
in prima dissi: - Sappi ch'ei m 'incresce di averti a dire e'
difetti di quella tua opera, ma none io ti dirò tal cose,
anzi ti dirò tutto quello che dice questa virtuosissima
Scuola -. E perché questo uomaccio or diceva qualcosa
dispiacevole e or faceva con le mani e con i piedi<B>,
</B>ei mi fece venire in tanta còllora, che io
cominciai in molto piú dispiacevol modo che, faccendo ei
altrimenti,<B> </B>io nonnarei fatto: - Questa
virtuosa Scuola dice che se e' si tosassi i capegli a Ercole, che
e' non vi resterebbe zucca che fussi tanta per riporvi il
cervello; e che quella sua faccia e' non si conosce se l'è
di omo o se l'è di lionbue; e che la non bada a quel che la
fa, e che l'è male appiccata in sul collo, con tanta poca
arte e con tanta mala grazia, che e' non si vedde mai peggio; e
che quelle sue spallacce somigliano due arcioni d'un basto d'un
asino; e che le sue poppe e il resto di quei muscoli non son
ritratti da un omo, ma sono ritratti da un saccaccio pieno di
poponi, che diritto sia messo, appoggiato al muro. Cosí le
stiene<B> </B>paiono ritratte da un sacco pieno di
zucche lunghe; le due gambe e non si conosce in che modo le si
sieno appiccate a quel torsaccio; perché e' non si conosce
in su qual gamba e' posa o in su quale e' fa qualche dimostrazione
di forza; né manco si vede che ei posi in su tutt'a dua,
sí come e' s'è usato alcune volte di fare da quei
maestri che sanno qualche cosa; ben si vede che la cade innanzi
piú d'un terzo di braccio: che questo solo si è 'l
maggiore e il piú incomportabile errore che faccino quei
maestracci di dozzina plebe'. Delle braccia dicono che le son
tutt'a dua giú distese senza nessuna grazia, né vi
si vede arte, come se mai voi non avessi visto degl'ignudi vivi, e
che la gamba dritta d'Ercole e quella di Cacco fanno ammezzo delle
polpe delle gambe loro; che se un de' dua si scostassi dall'altro,
non tanto l'uno di loro, anzi tutt'a dua resterebbono senza polpe
da quella parte che ei si toccano; e dicono che uno dei piedi di
Ercole si è sotterrato, e che l'altro pare che gli abbia il
fuoco sotto.
LXXI.<B> </B>Questo uomo non potette stare alle mosse
d'aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Cacco;
l'una si era che io dicevo 'l vero, l'altra si era che io lo
facevo conoscere chiaramente al Duca e agli altri che erano alla
presenzia nostra, che facevano i piú gran segni e atti di
dimostrazione di maravigliarsi e allora conoscere che io dicevo il
verissimo. A un tratto quest'uomaccio disse: - Ahi cattiva
linguaccia, o dove lasci tu 'l mio disegno? - Io dissi che chi
disegnava bene e' non poteva operar mai male - imperò io
crederrò che 'l tuo disegno sia come sono le opere -. Or,
veduto quei visi ducali e gli altri, che con gli sguardi e con gli
atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua
insolenzia, e voltomisi con quel suo bruttissimo visaccio, a un
tratto mi disse: - Oh sta' cheto, soddomitaccio -. Il Duca a
quella parola serrò le ciglia malamente inverso di lui, e
gli altri serrato le bocche e aggrottato gli occhi inverso di lui.
Io, che mi senti' cosí scelleratamente offendere, sforzato
dal furore, e a un tratto, corsi al rimedio e dissi: - O pazzo, tu
esci dei termini: ma Iddio 'l volessi che io sapessi fare una
cosí nobile arte, perché e' si legge ch'e'
l'usò Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e' la
usano i maggiori imperatori e i piú gran re del mondo. Io
sono un basso e umile omicciattolo, il quale né potrei
né saprei impacciarmi d'una cosí mirabil cosa -. A
questo nessuno non potette esser tanto continente che 'l Duca e
gli altri levorno un rumore delle maggior risa che immaginar si
possa al mondo. E con tutto che io mi dimostrassi tanto piacevole,
sappiate, benigni lettori, che dentro mi scoppiava 'l cuore,
considerato che uno, 'l piú sporco scellerato che mai
nascessi al mondo, fussi tanto ardito, in presenza di un
cosí gran principe, a dirmi una tanta e tale ingiuria; ma
sappiate che egli ingiuriò 'l Duca e non me; perché,
se io fussi stato fuor di cosí gran presenza, io l'arei
fatto cader morto. Veduto questo sporco ribaldo goffo che le risa
di quei Signori non cessavano, ei cominciò, per divertirgli
da tanta sua beffe, a entrare innun nuovo proposito, dicendo: -
Questo Benvenuto si va vantando che io gli ho promesso un marmo -.
A queste parole io subito dissi: - Come! non m'hai tu mandato a
dire per Francesco di Matteo fabbro, tuo garzone, che se io voglio
lavorar di marmo, che tu mi vuoi donare un marmo? E io l'ho
accettato, e vo' lo -. Allora ei disse: - Oh fa' conto di
noll'aver mai -. Subito io, che ero ripieno di rabbia per le
ingiuste ingiurie dettemi in prima, smarrito dalla ragione e
accecato della presenza del Duca, con gran furore dissi: - Io ti
dico espresso che se tu non mi mandi il marmo insino accasa,
cèrcati di un altro mondo, perché in questo io ti
sgonfierò a ogni modo -. Subito avvedutomi che io ero alla
presenza d'un sí gran Duca, umilmente mi volsi a Sua
Eccellenzia, e dissi: - Signor mio, un pazzo ne fa cento; le
pazzie di questo omo mi avevano fatto smarrire la gloria di Vostra
Eccellenzia illustrissima e me stesso; sí che perdonatemi
-. Allora il Duca disse al Bandinello: - È egli 'l vero che
tu gli abbia promesso 'l marmo? - Il detto Bandinello disse che
gli era il vero. Il Duca mi disse: - Va all'Opera, e
to'tene<B> </B>uno<B> </B>a tuo modo -. Io
dissi che ei me l'aveva promesso di mandarmelo a casa. Le parole
furno terribile; e io innaltro modo nollo volevo. La mattina
seguente e' mi fu portato un marmo accasa; il quale io dimandai
chi me lo mandava: e' dissono che e' me lo mandava 'l Bandinello,
e che quello si era 'l marmo che lui mi aveva promesso.
LXXII.<B> </B>Subito io me lo feci portare in bottega
e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io lavoravo, io facevo
il modello: e gli era tanta la voglia che io avevo di lavorare di
marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello
con quel giudizio che si aspetta, a tale arte. E perché io
lo sentivo tutto crocchiare,<B> </B>io mi penti'
piú volte di averlo mai cominciato allavorare: pure ne
cavai quel che io potetti, che è l'Appollo e Iacinto, che
ancora si vede imprefetto in bottega mia. E in mentre che io lo
lavoravo, il Duca veniva a casa mia, e molte volte mi disse: -
Lascia stare un poco 'l bronzo e lavora un poco di marmo, che io
ti vegga -. Subito io pigliavo i ferri da marmo, e lavoravo via
sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io avevo fatto
per il detto marmo; al quale io dissi: - Signore, questo marmo si
è tutto rotto, ma assuo dispetto io ne caverò
qualcosa; imperò io non mi sono potuto risolvere al
modello, ma io andrò cosí faccendo 'l meglio che io
potrò -. Con molta prestezza mi fece venire 'l Duca un
pezzo di marmo greco, di Roma, acciò che io restaurassi il
suo Ganimede antico, qual fu causa della ditta quistione connil
Bandinello. Venuto che fu 'l marmo greco, io considerai che gli
era peccato a farne pezzi per farne la testa e le braccia
ell'altre cose per il Ganimede; e mi providdi d'altro marmo, e a
quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al
quale posi nome Narciso. E perché questo marmo aveva dua
buchi che andavano affondo piú di un quarto di braccio e
larghi dua buone dita, per questo feci l'attitudine che si vede,
per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati
della mia figura. Ma quelle tante decine d'anni che v'era piovuto
sú, perché e' restava sempre quei buchi pieni
d'acqua, la detta aveva penetrato tanto che il detto marmo si era
debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si
dimostrò dappoi che e' venne quella gran piena d'acqua
d'Arno, la quale alzò in bottega mia piú d'un
braccio e mezzo. E perché il detto Narciso era posato in su
un quadro di legno, la detta acqua gli fece dar la volta, per la
quale e' si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e
perché e non si vedessi quel fesso della appiccatura, io
gli feci quella grillanda de' fiori che si vede che gli ha in sul
petto; e me l'andavo finendo accerte ore innanzi dí, o
sí veramente il giorno delle feste, solo per non perdere
tempo dalla mia opera del Perseo. E perché una mattina in
fra l'altre io mi acconciavo certi scarpelletti per lavorarlo, ed
e' mi schizzò una verza<B> </B>d'acciaio
sottilissima nell'occhio dritto; ed era tanto entrata dentro nella
pupilla, che in modo nessuno la non si poteva cavare. Io pensavo
per certo di perdere la luce di quell'occhio. Io chiamai in capo
di parecchi giorni maestro Raffaello de' Pilli, cerusico, il quale
prese dua pipioni vivi, e faccendomi stare rovescio in su una
tavola, prese i detti pipioni e con un coltellino forò loro
una venuzza che gli hanno nell'alie, di modo che quel sangue mi
colava dentro innel mio occhio; per il qual sangue subito mi
senti' confortare e in ispazio di dua giorni uscí la verza
d'acciaio e io restai libero e migliorato della vista. E venendo
la festa di Santa Luscia, alla quale eravamo presso a tre giorni,
io feci uno occhio d'oro di uno scudo<B> </B>franzese,
e gnele feci presentare a una delle sei mie nipotine, figliuole
della Liperata mia sorella, la quale era dell'età di dieci
anni in circa, e con essa io ringraziai Iddio e Santa Luscia; e
per un pezzo non volsi lavorare in sul detto Narciso, ma tiravo
innanzi il Perseo colle sopra ditte difficultà, e m'ero
disposto di finirlo e andarmi con Dio.
LXXIII.<B> </B>Avendo gittata la Medusa, ed era venuta
bene, con grande speranza tiravo il mio Perseo a fine, che lo
avevo di cera, e mi promettevo che cosí bene e' mi verrebbe
di bronzo, sí come aveva fatto la detta Medusa. E
perché vedendolo di cera ben finito ei si mostrava tanto
bello, che (vedendolo il Duca aqquel modo e parendogli bello; o
che e' fussi stato qualche uno che avessi dato a credere al Duca
che ei non poteva venire cosí di bronzo, o che il Duca da
per sé se lo immaginassi; e venendo piú spesso a
casa che ei non soleva) una volta infra l'altre e' mi disse: -
Benvenuto, questa figura non ti può venire di bronzo,
perché l'arte non te lo promette -. A queste parole di Sua
Eccellenzia io mi risenti' grandemente, dicendo: - Signore, io
conosco che Vostra Eccellenzia illustrissima m'ha questa molta
poca<B> </B>fede: e questo io credo che venga
perché Vostra Eccellenzia illustrissima crede troppo a quei
che le dicono tanto mal di me, o sí veramente lei non se ne
intende -. Ei non mi lasciò finire appena le parole che
disse: - Io fo professione di intendermene, e me ne intendo
benissimo -. Io subito risposi e dissi: - Sí, come Signore,
e non come artista; perché se Vostra Eccellenzia
illustrissima se ne intendessi innel modo che lei crede di
intendersene, lei mi crederrebbe mediante la bella testa di bronzo
che io l'ho fatto, cosí grande, ritratto di Vostra
Eccellenzia illustrissima che s'è mandato all'Elba, e
mediante l'avere restauratole<B> </B>il bel Ganimede
di marmo con tanta strema difficultà, dove io ho durato
molta maggior fatica che se io lo avessi fatto tutto di nuovo; e
ancora per avere gittata la Medusa, che pur si vede qui alla
presenza di Vostra Eccellenzia: un getto tanto difficile, dove io
ho fatto quello che mai nessuno altro uomo ha fatto innanzi a me,
di questa indiavolata arte. Vedete, Signor mio: io ho fatto la
fornace di nuovo, a un modo diverso dagli altri; perché io,
oltre a molte altre diversità e virtuose iscienze che
innessa si vede, io l'ho fatto dua uscite per il bronzo,
perché questa difficile e storta figura innaltro modo
nonnera possibile che mai la venissi: e sol per queste mie
intelligenzie l'è cosí ben venuta, la qual cosa non
credette mai nessuno di questi pratici di questa arte. E sappiate,
Signor mio, per certissimo, che tutte le grandi e difficilissime
opere che io ho fatte in Francia sotto quel maravigliosissimo re
Francesco, tutte mi sono benissimo riuscite, solo per il grande
animo che sempre quel buon Re mi dava con quelle gran provvisione,
e nel compiacermi di tanti lavoranti quanto io domandavo; che gli
era talvolta che io mi servivo di piú di quaranta
lavoranti, tutti a mia scelta; e per queste cagioni io vi feci
tanta quantità di opere in cosí breve tempo. Or,
Signor mio, credetemi e soccorretemi degli aiuti che mi fanno di
bisogno, perché io spero di condurre a fine una opera che
vi piacerà; dove che, se Vostra Eccellenzia illustrissima
mi avvilisce d'animo e non mi dà gli aiuti che mi fanno di
bisogno, gli è impossibile che né io né
qualsivoglia uomo mai al mondo possa fare cosa che bene stia.
LXXIV. Con gran difficultà stette il Duca a udire queste
mie ragione, che or si volgeva innun verso e or innun altro; e io
disperato, poverello, che mi ero ricordato del mio bello stato che
io avevo in Francia, cosí mi affliggevo. Subito il Duca
disse: - Or dimmi, Benvenuto, come è egli possibile che
quella bella testa di Medusa, che è lassú innalto in
quella mano del Perseo, mai possa venire? - Subito io dissi: - Or
vedete, Signor mio, che se Vostra Eccellenzia illustrissima avessi
quella cognizione dell'arte, che lei dice di avere, la non arebbe
paura di quella bella testa che lei dice, che la non venissi; ma
sí bene arebbe ad aver paura di questo piè diritto,
il quale si è quaggiú tanto discosto -. A queste mie
parole il Duca mezzo adirato subito si volse a certi Signori che
erano con Sua Eccellenzia illustrissima e disse: - Io credo che
questo Benvenuto lo faccia per saccenteria il contraporsi<B>
</B>a ogni cosa - e subito voltomisi con mezzo scherno, dove
tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e'
cominciò a dire: - Io voglio aver teco tanta pazienza di
ascoltare che ragione tu ti saprai immaginare di darmi, che io la
creda -. Allora io dissi: - Io vi darò una tanto vera
ragione che Vostra Eccellenzia ne sarà capacissima - e
cominciai: - Sappiate, Signore, che la natura del fuoco si
è di ire all'insú, e per questo le prometto che
quella testa di Medusa verrà benissimo; ma perché la
natura del fuoco nonn'è l'andare all'ingiú, e per
avervelo a spignere sei braccia ingiú per forza d'arte, per
questa viva ragione io dico a Vostra Eccellenzia illustrissima che
gli è impossibile che quel piede venga; ma ei mi
sarà facile a rifarlo -. Disse 'l Duca: - O perché
non pensavi tu che quel piede venissi innel modo che tu di' che
verrà la testa? - Io dissi: - E' bisognava fare molto
maggiore la fornace, dove io arei potuto fare un ramo di gitto,
grosso quanto io ho la gamba, e con quella gravezza di metallo
caldo per forza ve l'arei fatto andare, dove il mio ramo, che va
insino a' piedi quelle sei braccia che io dico, nonn'è
grosso piú che dua dita. Imperò e' non portava 'l
pregio; ché facilmente si racconcerà. Ma quando la
mia forma sarà piú che mezza piena, sí come
io spero, da quel mezzo in su, il fuoco che monta sicondo la
natura sua, questa testa di Perseo e quella della Medusa verranno
benissimo: sí che statene certissimo -. Detto che io gli
ebbi queste mie belle ragioni con molte altre infinite, che per
nonnessere troppo lungo io non ne scrivo, il Duca, scotendo il
capo, si andò con Dio.
LXXV.<B> </B>Fattomi da per me stesso sicurtà
di buono animo, e scacciato tutti quei pensieri che di ora innora
mi si rappresentavano innanzi (i quali mi facevano spesso
amaramente piangere con el pentirmi della partita mia di Francia,
per essere venuto afFirenze, patria mia dolce, solo per fare una
lemosina alle ditte sei mia nipotine, e per cosí fatto bene
vedevo che mi mostrava prencipio di tanto male), con tutto questo
io certamente mi promettevo che, finendo la mia cominciata opera
del Perseo, che tutti i mia travagli si doverriano convertire in
sommo piacere e glorioso bene. E cosí ripreso 'l vigore,
con tutte le mie forze, e del corpo e della borsa, con tutto che
pochi dinari e' mi fussi restati, cominciai a procacciarmi di
parecchi cataste di legni di pino, le quali ebbi dalla pineta de'
Seristori, vicino a Monte Lupo; e in mentre che io l'aspettavo, io
vestivo il mio Perseo di quelle terre che io avevo acconce
parecchi mesi in prima, acciò che l'avessino la loro
stagione. E fatto che io ebbi la sua tonaca di terra, che tonaca
si dimanda innell'arte, e benissimo armatola e ricinta con gran
diligenzia di ferramenti, cominciai con lente fuoco a trarne la
cera, la quali usciva per molti sfiatatoi che io avevo fatti, che
quanti piú se ne fa, tanto meglio si empie le forme. E
finito che io ebbi di cavar la cera, io feci una manica intorno al
mio Perseo, cioè alla detta forma, di mattoni, tessendo
l'uno sopra l'altro, e lasciavo di molti spazi, dove 'l fuoco
potessi meglio esalare: dipoi vi cominciai a mettere delle legne
cosí pianamente, e gli feci fuoco dua giorni e dua notte
continuamente; tanto che, cavatone tutta la cera, e dappoi s'era
benissimo cotta la detta forma, subito cominciai a votar la fossa
per sotterrarvi la mia forma, con tutti quei bei modi che la bella
arte ci comanda. Quand'io ebbi finito di votar la detta fossa,
allora io presi la mia forma, e con virtú d'argani e di
buoni canapi diligentemente la dirizzai; e sospesala un braccio
sopra 'l piano della mia fornace, avendola benissimo dirizzata di
sorte che la si spenzolava appunto nel mezzo della sua fossa, pian
piano la feci discendere in sino nel fondo della fornace, e si
posò con tutte quelle diligenzie che immaginar si possano
al mondo. E fatto che io ebbi questa bella fatica, cominciai a
incalzarla<B> </B>con la medesima terra che io ne
avevo cavata; e di mano in mano che io vi alzavo la terra, vi
mettevo i sua sfiatatoi, i quali erano cannoncini di terra cotta
che si adoperano per gli acquai e altre simil cose. Come che io
vidi d'averla benissimo ferma e che quel modo di incalzarla con el
metter quei doccioni bene ai sua luoghi, e che quei mia lavoranti
avevano bene inteso il modo mio, il quale si era molto diverso da
tutti gli altri maestri di tal professione; assicuratomi che io mi
potevo fidare di loro, io mi volsi alla mia fornace, la quale
avevo fatta empiere di molti masselli di rame e altri pezzi di
bronzi; e accomodatigli l'uno sopra l'altro in quel modo che
l'arte ci mostra, cioè sollevati, faccendo la via alle
fiamme del fuoco, perché piú presto il detto metallo
piglia il suo calore e con quello si fonde e riducesi in bagno,
cosí animosamente dissi che dessino fuoco alla detta
fornace. E mettendo di quelle legne di pino, le quali per quella
untuosità della ragia che fa 'l pino, e per essere tanto
ben fatta la mia fornacetta, ella lavorava tanto bene, che io fui
necessitato assoccorrere ora da una parte e ora da un'altra con
tanta fatica, che la m'era insopportabile; e pure io mi sforzavo.
E di piú mi sopragiunse ch' e' s'appiccò fuoco nella
bottega, e avevamo paura che 'l tetto non ci cadessi addosso;
dall'altra parte di verso l'orto il cielo mi spigneva tant'acqua e
vento, che e' mi freddava la fornace. Cosí combattendo con
questi perversi accidenti parecchi ore, sforzandomi la fatica
tanto di piú che la mia forte valitudine di complessione
non potette resistere, di sorte che e' mi saltò una febbre
efimera addosso, la maggiore che immaginar si possa al mondo, per
la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. E
cosí molto mal contento, bisognandomi per forza andare, mi
volsi a tutti quegli che mi aiutavano, i quali erano in circa a
dieci o piú, infra maestri di fonder bronzo e manovali e
contadini e mia lavoranti particulari di bottega; infra e' quali
si era un Bernardino Mannellini di Mugello, che io m'avevo
allevato parecchi anni; e al detto dissi, dappoi che mi ero
raccomandato a tutti: - Vedi, Bernardino mio caro, osserva
l'ordine che io ti ho mostro, e fa presto quanto tu puoi,
perché il metallo sarà presto in ordino: tu non puoi
errare, e questi altri uomini dabbene faranno presto i canali, e
sicuramente potrete con questi dua mandriani dare nelle due spine,
e io son certo che la mia forma si empierà benissimo. Io mi
sento 'l maggior male che io mi sentissi mai da poi che io venni
al mondo, e credo certo che in poche ore questo gran male
m'arà morto -. Cosí molto mal contento mi parti' da
loro, e me n'andai alletto.
LXXVI. Messo che io mi fui nel letto, comandai alle mie serve che
portassino in bottega da mangiare e dabbere attutti; e dicevo
loro: - Io non sarò mai vivo domattina -. Loro mi davano
pure animo, dicendomi che 'l mio gran male si passerebbe, e che e'
mi era venuto per la troppa fatica. Cosí soprastato dua ore
con questo gran combattimento di febbre; e di continuo io me la
sentivo crescete, e sempre dicendo - Io mi sento morire - la mia
serva, che governava tutta la casa, che aveva nome monna<B>
</B>Fiore di Castel del Rio: questa donna era la piú
valente che nascessi mai e altanto la piú amorevole, e di
continuo mi sgridava, che io mi ero sbigottito, e dall'altra banda
mi faceva le maggiore amorevolezze di servitú che mai far
si possa al mondo. Imperò, vedendomi con cosí
smisurato male e tanto sbigottito, con tutto il suo bravo cuore
lei non si poteva tenere che qualche quantità di lacrime
non gli cadessi dagli occhi; e pure lei quanto poteva si
riguardava che io non le vedessi. Stando in queste smisurate
tribulazione, io mi veggo entrare in camera un certo omo, il quale
nella sua persona ei mostrava d'essere storto come una esse
maiuscola; e cominciò a dire con un certo suon di voce
mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell'anima
a quei che hanno a 'ndare a giostizia, e disse: - O Benvenuto! la
vostra opera si è guasta, e non ci è piú un
rimedio al mondo -. Subito che io senti' le parole di quello
sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito
dal cielo del fuoco; e sollevatomi del letto presi li mia panni e
mi cominciai a vestire; e le serve e 'l mio ragazzo e ognuno che
mi si accostava per aiutarmi, attutti io davo o calci o pugna, e
mi lamentavo dicendo: - Ahi traditori, invidiosi! Questo si
è un tradimento fatto a arte; ma io giuro per Dio che
benissimo i' lo conoscerò e innanzi che io muoia
lascerò di me un tal saggio al mondo, che piú d'uno
ne resterà maravigliato -. Essendomi finito di vestire, mi
avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte
quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano
attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: - Orsú
intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire
al modo che io v'insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla
presenza dell'opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga,
perché questi cotai casi hanno bisogno di aiuto e non
consiglio -. A queste mie parole e' mi rispose un certo maestro
Alessandro Lastricati e disse: - Vedete, Benvenuto, voi vi volete
mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l'arte,
né si può fare in modo nissuno -. A queste parole io
mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli
altri, tutti a una voce dissono: - Sú, comandate, che tutti
vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si
potrà resistere con la vita -. E queste amorevol parole io
mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco
soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e
viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l'essersi
fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino al
dirimpetto, in casa 'l Capretta beccaio, per una catasta<B>
</B>di legne di quercioli giovani, che erano secchi di
piú di uno anno, le quali legne madonna Ginevra, moglie del
detto Capretta, me l'aveva offerte; e venute che furno le prime
bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. E perché la
quercia di quella sorte fa 'l piú vigoroso fuoco che tutte
l'altre sorte di legne, avvenga che<B> </B>e' si
adopera legne di ontano o di pino per fondere per l'artiglierie,
perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio
cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si
cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall'altra banda
sollecitavo i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare
al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco si era
maggiormente appiccato; e di verso l'orto avevo fatto rizzare
certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano
all'acqua.
LXXVII. Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran
furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: -
Porta qua, leva là - di modo che, veduto che 'l detto
migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con
tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io
feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a
6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il
quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co'
ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e' divenne
liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al
credere di tutti quegli ignoranti, e' mi tornò tanto vigore
che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú
paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di
fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata
quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura
ogniuno s'era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che
fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere
in viso l'un l'altro; e veduto che 'l coperchio della fornace si
era scoppiato e si era sollevato di modo che 'l bronzo si
versava,<B> </B>subito feci aprire le bocche della mia
forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che
'l metallo non correva con quella prestezza ch'ei soleva fare,
conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega
per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i
mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a
dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e
parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto
ogniuno che 'l mio bronzo s'era benissimo fatto liquido, e che la
mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e
ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e
dicevo: - O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti
da e' morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che
innun tratto e' s'empié la mia forma; per la qual cosa io
m'inginochiai e con tutto 'l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi
volsi a un piatto d'insalata che era quivi in sur un
banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con
tutta quella brigata; dipoi me n'andai nel letto sano ellieto,
perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io
non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi
riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla,
mi aveva provvisto d'un grasso capponcello; di modo che, quando io
mi levai del letto, che era vicino all'ora del desinare, la mi si
fece incontro lietamente, dicendo: - Oh, è questo uomo
quello che si sentiva morire? Io credo che quelle pugna e calci
che voi davi annoi stanotte passata, quando voi eri cosí
infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d'avere,
quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non
dessi ancora allei, si cacciò a fuggire -. E cosí
tutta la mia povera famigliuola, rimossa da tanto spavento e da
tante smisurate fatiche, innun tratto si mandò a
ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante
stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi
ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior
letizia né con migliore appetito. Dopo 'l desinare mi
vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali
lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che
era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose,
le quali era dagli altri maestri tenute impossibili. Ancora io,
alquanto baldanzoso, parendomi d'essere un poco saccente, me ne
gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai.
Quel mal uomo, nimico mio mortale, di messer Pierfrancesco Ricci,
maiordomo del Duca, con gran diligenzia cercava di intendere come
la cosa si era passata; di modo che quei dua, di chi io avevo
aùto sospetto che mi avessino fatto fare quel migliaccio,
gli dissono che io nonnero uno uomo, anzi ero uno spresso gran
diavolo, perché io avevo fatto quello che l'arte nollo
poteva fare; con tante altre gran cose, le quali sarieno state
troppe a un diavolo. Sí come lor dicevano molto piú
di quello che era seguito, forse per loro scusa, il detto
maiordomo lo scrisse subito al Duca, il quale era a Pisa, ancora
piú terribilmente e piene di maggior maraviglie che coloro
non gli avevano detto.
LXXVIII. Lasciato che io ebbi dua giorni freddare la mia gittata
opera, cominciai a scoprirla pian piano; e trovai, la prima cosa,
la testa della Medusa, che era venuta benissimo per virtú
degli sfiatatoi, sí come io dissi al Duca che la natura del
fuoco si era l'andare all'insú; di poi seguitai di scoprire
il resto, e trovai l'altra testa, cioè quella del Perseo,
che era venuta similmente benissimo; e questa mi dette molto
piú di meraviglia, perché sí come e' si vede,
l'è piú bassa assai bene di quella della Medusa. E
perché le bocche di detta opera si erano poste nel disopra
della testa del Perseo e per le spalle, io trovai che alla fine
della detta testa del Perseo si era appunto finito tutto 'l bronzo
che era nella mia fornace. E fu cosa maravigliosa, che e' non
avanzò punto di bocca di getto, né manco non
mancò nulla; che questo mi dette tanta maraviglia, che e'
parve propio che la fussi cosa miracolosa, veramente guidata e
maneggiata da Iddio. Tiravo felicemente innanzi di finire di
scoprirla, e sempre trovavo ogni cosa venuto benissimo, in sino a
tanto che e s'arivò al piede della gamba diritta che posa,
dove io trovai venuto il calcagno; e andando innanzi, vedevol
essere tutto pieno, di modo che io da una banda molto mi ralegravo
e da un'altra parte mezzo e' m'era discaro, solo perché io
avevo detto al Duca, che e' non poteva venire. Di modo che
finendolo di scoprire, trovai che le dita non erano venute, di
detto piede, e non tanto le dita, ma e' mancava sopra le dita un
pochetto, attale che gli era quasi manco mezzo; e se bene e' mi
crebbe quel poco di fatica, io l'ebbi molto caro, solo per
mostrare al Duca che io intendevo quello che io facevo. E se bene
gli era venuto molto piú di quel piede che io non credevo,
e' n'era stato causa che per i detti tanti diversi accidenti il
metallo si era piú caldo, che non promette l'ordine
dell'arte; e ancora per averlo aùto assoccorrerlo con la
lega in quel modo che s'è detto, con quei piatti di stagno,
cosa che mai per altri non s'è usata. Or veduta l'opera mia
tanto bene venuta, subito me n'andai a Pisa a trovare il mio Duca;
il quale mi fece una tanto gratissima accoglienza, quanto
immaginar si possa al mondo; e il simile mi fece la Duchessa; e se
bene quel lor maiordomo gli aveva avvisati del tutto, ei parve
alloro Eccellenzie altra cosa piú stupenda e piú
meravigliosa il sentirla contare a mme in voce; e quando io venni
a quel piede del Perseo, che non era venuto, sí come io ne
avevo avvisato in prima Sua Eccellenzia illustrissima, io lo viddi
empiere di meraviglia, e lo contava alla Duchessa, si come io
gnel' avevo detto innanzi. Ora veduto quei mia Signori tanto
piacevoli inverso di me, allora io pregai il Duca, che mi
lasciassi andare insino a Roma. Cosí benignamente mi dette
licenzia, e mi disse che io tornassi presto affinire 'l suo
Perseo, e mi fece lettere di favore al suo imbasciadore, il quale
era Averardo Serristori:<B> </B>ed erano li primi anni
di papa Iulio de' Monti.
LXXIX. Innanzi che io mi partissi, detti ordine ai mia lavoranti
che seguitassino sicondo 'l modo che io avevo lor mostro. E la
cagione perché io andai si fu che avendo fatto a Bindo
d'Antonio Altoviti un ritratto della sua testa, grande quanto 'l
propio vivo, di bronzo, e gnel'avevo mandato insino a Roma, questo
suo ritratto egli l'aveva messo innun suo scrittoio, il quale era
molto riccamente ornato di anticaglie e altre belle cose; ma il
detto scrittoio nonnera fatto per sculture, né manco per
pitture, perché le finestre venivano sotto le dette belle
opere, di sorte che, per avere quelle sculture e pitture i lumi al
contrario, le non mostravano bene, in quel modo che le arebbono
fatto se le avessino aùto i loro ragionevoli lumi. Un
giorno si abbatté 'l detto Bindo a essere in su la sua
porta, e passando Michelagnolo Buonaroti, scultore, ei lo
pregò che si degnassi di entrare in casa sua a vedere un
suo scrittoio; e cosí lo menò. Subito entrato, e
veduto, disse: - Chi è stato questo maestro che v'ha
ritratto cosí bene e con sí bella maniera? E
sappiate che quella testa mi piace come, e meglio qualcosa che si
faccino quelle antiche; e pur le sono delle buone che di loro si
veggono; e se queste finestre fussino lor di sopra, come le son
lor di sotto, le mostrerrieno tanto meglio, che quel vostro
ritratto infra queste tante belle opere si farebbe un grande onore
-. Subito partito che 'l detto Michelagnolo si fu di casa 'l detto
Bindo, ei mi scrisse una piacevolissima lettera la quale diceva
cosí:"Benvenuto mio, io v'ho conosciuto tanti anni per il
maggiore orefice che mai ci sia stato notizia; e ora vi
conoscerò per scultore simile. Sappiate che messer Bindo
Altoviti mi menò a vedere una testa del suo ritratto, di
bronzo, e mi disse che l'era di vostra mano; io n'ebbi molto
piacere; ma e' mi seppe molto male che l'era messa a cattivo lume,
che se l'avessi il suo ragionevol lume, la si mostrerrebbe quella
bella opera che l'è". Questa lettera si era piena delle
piú amorevol parole e delle piú favorevole inverso
di me: che innanzi che io mi partissi per andare a Roma, l'avevo
mostrata al Duca, il quale la lesse con molta affezione, e mi
disse: - Benvenuto, se tu gli scrivi e faccendogli venir voglia di
tornarsene a Firenze, io lo farei de' Quarantotto -. Cosí
io gli scrissi una lettera tanta amorevole, e innessa gli dicevo
da parte del Duca piú l'un cento di quello che io avevo
aùto la commessione; e per non voler fare errore, la
mostrai al Duca in prima che io la suggellassi, e dissi a Sua
Eccellenzia illustrissima: - Signore, io ho forse promessogli
troppo -. Ei rispose e disse: - E' merita piú di quello che
tu gli hai promesso, e io gliele atterrò da vantaggio -. A
quella mia lettera Michelagnolo non fece mai risposta, per la qual
cosa il Duca mi si mostrò molto sdegnato seco.
LXXX. Ora, giunto che io fui a Roma, andai alloggiare in casa del
detto Bindo Altoviti: ei subito mi disse come gli aveva mostro 'l
suo ritratto di bronzo a Michelagnolo, e che ei lo aveva tanto
lodato; cosí di questo noi ragionammo molto allungo. Ma
perché gli aveva in mano di mio mille dugento scudi d'oro
innoro, i quali il detto Bindo me gli aveva tenuti insieme di
cinque mila simili, che lui ne aveva prestati al Duca, che quattro
mila ve n'era de' sua e in nome suo v'era li mia, e' me ne dava
quel utile della parte mia che e' mi si preveniva; qual fu la
causa che io mi messi a fargli il detto ritratto. E perché
quando 'l detto Bindo lo vide di cera, ei mi mandò a donare
50<B></B>scudi d'oro per un suo ser Giuliano Paccalli
notai', che stava seco, i quali dinari io non gli volsi pigliare e
per il medesimo gliele rimandai, e di poi dissi al detto Bindo: -
A me basta che quei mia dinari voi me gli tegniate vivi; e che e'
mi guadagnino qualche cosa - io mi avvidi che gli aveva cattivo
animo, perché in cambio di farmi carezze, come gli era
solito di farmi, egli mi si mostrò rigido; e con tutto che
ei mi tenessi in casa, mai non mi si mostrò chiaro, anzi
stava ingrognato. Pure con poche parole la risolvemmo: io mi persi
la mia fattura di quel suo ritratto e il bronzo ancora, e ci
convenimmo che quei mia dinari e' gli tenessi a 15 per cento a
vita mia durante naturale.
LXXXI. In prima ero ito a baciare i piedi al Papa; e in mentre che
io ragionavo col Papa, sopra giunse messer Averardo Serristori, il
quale era imbasciadore del nostro Duca; e perché io avevo
mossi certi ragionamenti con el Papa, con e' quali io credo che
facilmente mi sarei convenuto seco e volentieri mi sarei tornato a
Roma per le gran difficultà che io avevo a Firenze; ma 'l
detto imbasciatore io mi avvidi che egli aveva operato in
contrario. Andai a trovare Michelagnolo Buonaroti e gli replicai
quella lettera che di Firenze io gli avevo scritto da parte del
Duca. Egli mi rispose che era impiegato nella fabbrica di San
Piero, e che per cotal causa ei non si poteva partire. Allora io
gli dissi, che da poi che e' s'era resoluto al modello di detta
fabbrica, che ei poteva lasciare il suo Urbino, il quale
ubbidirebbe benissimo quando lui gli ordinassi; e aggiunsi molte
altre parole di promesse; dicendogliele dapparte del Duca. Egli
subito mi guardò fiso, e sogghignando disse: - E voi come
state contento seco? - Se bene io dissi che stavo contentissimo, e
che io ero molto ben tratto, ei mostrò di sapere la maggior
parte dei mia dispiaceri; e cosí mi rispose ch'egli sarebbe
difficile il potersi partire. Allora io aggiunsi che ci farebbe 'l
meglio a tornare alla sua patria, la quale era governata da un
Signore giustissimo e il piú amatore delle virtute<B>
</B>che mai altro Signore che mai nascessi al mondo.
Sí come di sopra ho detto, gli aveva seco un suo garzone,
che era da Urbino, il quale era stato seco di molti anni e lo
aveva servito piú di ragazzo e di serva che d'altro: e il
perché si vedeva, che 'l detto non aveva imparato nulla
dell'arte; e perché io avevo stretto Michelagnolo con tante
buone ragione, che e' non sapeva che dirsi subito, ei si volse al
suo Urbino con un modo di domandarlo quel che gnele pareva. Questo
suo Urbino subito, con un suo villanesco modo, co' molta gran voce
cosí disse: - Io non mi voglio mai spiccare dal mio messer
Michelagnolo, insino o che io scorticherò lui o che lui
scorticherà me -. A queste sciocche parole io fui sforzato
a ridere, e senza dirgli addio, colle spalle basse mi volsi, e
parti' mi.
LXXXII. Da poi che cosí male io avevo fatto la mia faccenda
con Bindo Altoviti, col perdere la mia testa di bronzo e 'l dargli
li mia danari a vita mia, io fui chiaro di che sorte si è
la fede dei mercatanti, e cosí malcontento me ne ritornai a
Firenze. Subito andai a Palazzo per visitare il Duca; e Sua
Eccellenzia illustrissima si era a Castello, sopra 'l Ponte a
Rifredi. Trovai in Palazzo messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo,
e volendomi accostare al detto per fare le usate cerimonie, subito
con una smisurata maraviglia disse: - Oh tu sei tornato! - e colla
medesima maraviglia, battendo le mani, disse: - Il Duca è a
Castello - e voltomi le spalle si partí. Io non potevo
né sapere né immaginare il perché quella
bestia si aveva fatto quei cotai atti. Subito me n'andai a
Castello, ed entrato nel giardino, dove era 'l Duca, io lo vidi di
discosto, che quando ei mi vide, fece segno di meravigliarsi, e mi
fece intendere che io me n'andassi. Io che mi ero promesso che Sua
Eccellenzia mi facessi le medesime carezze e maggiore ancora che
ei mi fece quando io andai, or vedendo una tanta stravaganza,
molto malcontento mi ritornai a Firenze; e riprese le mie
faccende, sollicitando di tirare a fine la mia opera, non mi
potevo immaginare un tale accidente da quello che e' si potessi
procedere: se non che osservando in che modo mi guardava messer
Sforza e certi altri di quei piú stretti al Duca, e' mi
venne voglia di domandare messer Sforza che cosa voleva dire
questo; il quale cosí sorridendo, disse: - Benvenuto,
attendete a essere uomo dabbene, e non vi curate d'altro -. Pochi
giorni appresso mi fu dato comodità che io parlai al Duca,
ed ei mi fece certe carezze torbide e mi domandò quello che
si faceva a Roma: cosí 'l meglio che io seppi appiccai
ragionamento, e gli dissi della testa che io avevo fatta di bronzo
a Bindo Altoviti, con tutto quel che era seguito. Io mi avvidi che
gli stava a 'scoltarmi con grande attenzione: e gli dissi
similmente di Michelagnolo Buonaroti il tutto. Il quale
mostrò alquanto sdegno; e delle parole del suo Urbino, di
quello 'scorticamento che gli aveva detto, forte se ne rise; poi
disse: - Suo danno - e io mi parti'. Certo che quel ser
Pierfrancesco, maiordomo, doveva aver fatto qualche male uffizio
contra di me cone il Duca, il quale non gli riuscí: che
Iddio amatore della verità mi difese, sí come sempre
insino a questa mia età di tanti smisurati pericoli e' m'ha
scampato, e spero che mi scamperà insino al fine di questa
mia, se bene travagliata, vita; pure vo innanzi, sol per sua
virtú, animosamente, né mi spaventa nissun furore di
fortuna o di perverse stelle: sol mi mantenga Iddio nella sua
grazia.
LXXXIII. Or senti un terribile accidente, piacevolissimo lettore.
Con quanta sollicitudine io sapevo e potevo, attendevo a dar fine
alla mia opera, e la sera me n'andavo a veglia nella guardaroba
del Duca, aiutando a quegli orefici che vi lavoravano per Sua
Eccellenzia illustrissima; ché la maggior parte di quelle
opere che lor facevano si erano sotto i mia disegni: e
perché io vedevo che 'l Duca ne pigliava molto piacere,
sí del vedere lavorare come del confabulare meco, ancora e'
mi veniva a proposito lo andarvi alcune volte di giorno. Essendo
un giorno in fra gli altri nella detta guardaroba, il Duca venne
al suo solito e piú volentieri assai, saputo Sua
Eccellenzia illustrissima che io v'ero; e subito giunto
cominciò arragionar meco di molte diverse e piacevolissime
cose, e io gli rispondevo approposito, e lo avevo di modo
invaghito,<B> </B>che ei mi si mostrò
piú piacevole che mai ei mi si fussi mostro per il passato.
Innun tratto e' comparve un dei sua segretarii, il quale parlando
all'orecchio di Sua Eccellenzia per esser forse cosa di molta
importanza, subito il Duca si rizzò e andossene innun'altra
stanza con el detto segretario. E perché la Duchessa aveva
mandato a vedere quel che faceva Sua Eccellenzia illustrissima,
disse il paggio alla Duchessa: - Il Duca ragiona e ride con
Benvenuto, ed è tutto in buona -. Inteso questo, la
Duchessa subito venne in guardaroba e non vi trovando 'l Duca, si
messe a sedere appresso a noi; e veduto che la ci ebbe un pezzo
lavorare, con gran piacevolezza si volse a me e mi mostrò
un vezzo di perle grosse, e veramente rarissime, e domandandomi
quello che e' me ne pareva, io le dissi che gli era cosa molto
bella. Allora Sua Eccellenzia illustrissima mi disse: - Io voglio
che il Duca me lo comperi; sí che, Benvenuto mio, lodalo al
Duca quanto tu sai e puoi al mondo -. A queste parole io, con
quanta reverenzia seppi, mi scopersi alla Duchessa, e dissi: -
Signora mia, io mi pensavo che questo vezzo di perle fussi di
Vostra Eccellenzia illustrissima; e perché la ragione non
vuole che e' si dica mai nessuna di quelle cose che saputo el
nonnessere di Vostra Eccellenzia illustrissima ei mi occorre dire,
anzi e' m'è di necessità il dirle; sappi Vostra
Eccellenzia illustrissima che, per essere molto mia professione,
io conosco in queste perle di moltissimi difetti, per i quali
già mai vi consiglierei che Vostra Eccellenzia lo
comperassi -. A queste mie parole lei disse: - Il mercatante me lo
dà per sei mila scudi: che se e' non avessi qualcuno di
quei difettuzzi, e' ne varrebbe piú di dodici mila -.
Allora io dissi, che quando quel vezzo fussi di tutta infinita
bontà, che io non consiglierei mai persona che aggiugnessi
a cinque mila scudi; perché le perle non sono gioie; le
perle sono un osso di pesce e in ispazio di tempo le vengono
manco; ma i diamanti, e i rubini e gli smeraldi nonninvecchiano, e
i zaffiri: queste quattro son gioie, e di queste si vuol
comperare. A queste mie parole, alquanto sdegnosetta la Duchessa
mi disse: - Io ho voglia or di queste perle, e però ti
priego che tu le porti al Duca, e lodale quanto tu puoi e sai al
mondo; e se bene e' ti par dire qualche poco di bugie, dille per
far servizio a me; ché buon per te -. Io che son sempre
stato amicissimo della verità e nimico delle bugie, ed
essendomi di necessità, volendo non perdere la grazia di
una tanto gran principessa, cosí malcontento presi quelle
maledette perle, e andai con esse in quell'altra stanza, dove
s'era ritirato 'l Duca. Il quale subito che e' mi vide, disse: - O
Benvenuto, che vai tu faccendo? - Scoperto quelle perle, dissi: -
Signor mio, io vi vengo a mostrare un bellissimo vezzo di perle,
rarissimo e veramente degno di Vostra Eccellenzia illustrissima; e
per ottanta perle, io non credo che mai e' se ne mettessi tante
insieme, che meglio si mostrassino innun vezzo; sí che
comperatele, Signore, che le sono miracolose -. Subito 'l Duca
disse: - Io nolle voglio comperare, perché le non sono
quelle perle né di quella bontà che tu di', e le ho
viste, e non mi piacciono -. Allora io dissi: - Perdonatemi,
Signore, che queste perle avanzano di infinita bellezza tutte le
perle che per vezzo mai fussino ordinate -. La Duchessa si era
ritta, e stava dietro a una porta e sentiva tutto quello che io
dicevo; di modo che, quando io ebbi detto piú di mille cose
piú di quel che io scrivo, il Duca mi si volse con benigno
aspetto, e mi disse: - O Benvenuto mio, io so che tu te ne 'ntendi
benissimo: e se coteste perle fussino con quelle virtú
tante rare che tu apponi loro, a mme non parrebbe fatica il
comperarle, sí per piacere alla Duchessa, e sí per
averle; perché queste tal cose mi sono di necessità,
non tanto per la Duchessa, quanto per l'altre mia faccende di mia
figliuoli e figliuole -. E io a queste sue parole, dappoi che io
avevo cominciato a dir le bugie, ancora con maggior aldacia
seguitavo di dirne, dando loro il maggior colore di verità,
acciò che 'l Duca me le credessi, fidandomi della Duchessa,
che attempo ella mi dovessi aiutare. E perché ei mi si
preveniva piú di dugento scudi, faccendo un cotal mercato,
e la Duchessa me n'aveva accennato, io m'ero resoluto e disposto
di non voler pigliare un soldo, solo per mio scampo, acciò
che 'l Duca mai nonnavessi pensato che io lo facessi per avarizia.
Di nuovo 'l Duca con piacevolissime parole mosse addirmi: - Io so
che tu te ne intendi benissimo: imperò se tu se' quell'uomo
dabbene, che io mi son sempre pensato che tu sia, or dimmi 'l vero
-. Allora, arrossiti li mia occhi e alquanto divenuti umidi di
lacrime, dissi: - Signor mio, se io dico 'l vero a Vostra
Eccellenzia illustrissima, la Duchessa mi diventa mortalissima
inimica, per la qual cosa io sarò necessitato andarmi con
Dio, e l'onor del mio Perseo, il quale io ho promesso a questa
nobilissima Scuola di Vostra Eccellenzia illustrissima, subito li
inimici miei mi vitupereranno;<B> </B>sí che io
mi raccomando a Vostra Eccellenzia illustrissima.
LXXXIV.<B> </B>Il Duca, avendo conosciuto che tutto
quello che io avevo detto e' m'era stato fatto dire come per
forza, disse: - Se tu hai fede in me, non ti dubitare di nulla al
mondo -. Di nuovo io dissi: - Oimè, Signor mio, come
potrà egli essere che la Duchessa nullo sappia? - A queste
mie parole 'l Duca alzò la fede e disse: - Fa conto di
averle sepolte innuna cassettina di diamanti -.<B>
</B>A queste onorate parole, subito io dissi il vero di
quanto io intendeva di quelle perle, e che le non valevano troppo
piú di dumila scudi. Avendoci sentiti la Duchessa
racchetare, perché parlavàno quando dir si
può piano, ella venne innanzi, e disse: - Signor mio,
Vostra Eccellenzia di grazia mi compri questo vezzo di perle,
perché io ne ho grandissima voglia, e il vostro Benvenuto
ha ditto che mai e' non n'ha veduto il piú bello -. Allora
il Duca disse: - Io nollo voglio comprare. - Perché, Signor
mio, non mi vuole Vostra Eccellenzia contentare di comperare
questo vezzo di perle? - Perché e' non mi piace di gittar
via i danari -. La Duchessa di nuovo disse: - Oh come gittar via
li dinari, che 'l vostro Benvenuto, in chi voi avete tanta fede
meritamente, m'ha ditto che gli è buon mercato piú
di tremila scudi? - Allora il Duca disse: - Signora, il mio
Benvenuto m'ha detto, che se io lo compro, che io gitterò
via li mia dinari, perché queste perle non sono né
tonde né equali, e ce n'è assai delle vecchie; e che
e' sia il vero, or vedete questa e quest'altra, e vedete qui e
qua: si che le non sono 'l caso mio -. A queste parole la Duchessa
mi guardò con malissimo animo, e minacciandomi col capo si
partí di quivi, di modo che io fui tutto tentato di andarmi
con Dio e dileguarmi di Italia; ma perché il mio Perseo si
era quasi finito, io non volsi mancare di nollo trar fuora: ma
consideri ogni uomo in che greve travaglio io mi ritrovavo. Il
Duca aveva comandato a' suoi portieri in mia presenza, che mi
lasciassino sempre entrare per le camere e dove Sua Eccellenzia
fussi; e la Duchessa aveva comandato a quei medesimi che tutte le
volte che io arrivavo in quel palazzo, eglino mi cacciassino via;
di sorte che come ei mi vedevano, subito e' si partivano da quelle
porte e mi cacciavano via; ma e' si guardavano che 'l Duca no gli
vedessi, di sorte che se 'l Duca mi vedeva in prima che questi
sciagurati, o egli mi chiamava o e' mi faceva cenno che io
andassi. La Duchessa chiamò quel Bernardone sensale, il
quale lei s'era meco tanto doluta della sua poltroneria e vil
dappocaggine, e allui si raccomandò, sí come l'aveva
fatto a mme; il quale disse: - Signora mia, lasciate fare a me -.
Questo ribaldone andò innanzi al Duca con questo vezzo in
mano. Il Duca, subito che e' lo vide, gli disse che e' se gli
levassi d'inanzi. Allora il detto ribaldone con quella sua
vociaccia, che ei la sonava per il suo nasaccio d'asino, disse: -
Deh! Signor mio, comperate questo vezzo a quella povera Signora,
la quale se ne muor di voglia, e non può vivere sanz'esso
-. E aggiugnendo molte altre sue sciocche parolaccie, ed essendo
venuto affastidio al Duca, gli disse: - O tu mi ti lievi d'inanzi,
o tu gonfia un tratto -. Questo ribaldaccio, che sapeva benissimo
quello che lui faceva, perché se o per via del gonfiare o
per cantare <I>La bella Franceschina</I>, ei poteva
ottenere che 'l Duca facessi quella compera, egli si guadagnava la
grazia della Duchessa e di piú la sua senseria, la quale
montava parecchi centinaia di scudi: e cosí egli
gonfiò. Il Duca gli dette parecchi ceffatoni in quelle sue
gotaccie, e per levarselo d'inanzi ei gli dette un poco piú
forte che e' non soleva fare. A queste percosse forti in quelle
sue gotaccie, non tanto l'esser diventate troppo rosse, che e' ne
venne giú le lacrime. Con quelle ei cominciò a dire:
- Eh! Signore, un vostro fidel servitore, il quale cerca di far
bene e si contenta di comportare ogni sorte di dispiacere, pur che
quella povera Signora sia contenta -. Essendo troppo venuto
affastidio al Duca questo uomaccio, e per le gotate e per amor
della Duchessa, la quale Sua Eccellenzia illustrissima sempre
volse contentare, subito disse: - Levamiti d'inanzi col malanno
che Dio ti dia, e va, fanne mercato, che io son contento di far
tutto quello che vuole la signora Duchessa -. Or qui si conosce la
rabbia della mala fortuna inverso d'un povero uomo e la vituperosa
fortuna a favorire uno sciagurato: io mi persi tutta la grazia
della Duchessa, che fu buona causa di tormi ancor quella del Duca;
e lui si guadagnò quella grossa senseria e la grazia loro:
sí che e' non basta l'esser uomo dabbene e virtuoso.
LXXXV.<B> </B>In questo tempo si destò la
guerra di Siena; e volendo 'l Duca afforzificare<B>
</B>Firenze, distribuí le porte infra i sua scultori
e architettori; dove a me fu consegnato la Porta al Prato e la
Porticciuola d'Arno, che è in sul prato dove si va alle
mulina; al cavalieri Bandinello la porta a San Friano;
apPasqualino d'Ancona,<B> </B>la porta a San Pier
Gattolini; a Giulian di Baccio d'Agnolo, legnaiuolo, la porta a
San Giorgio; al Particino, legnaiuolo, la porta a Santo
Niccolò; a Francesco da Sangallo, scultore, detto il
Margolla, fu dato la porta alla Croce; e a Giovanbatista, chiamato
il Tasso, fu data la porta a Pinti: e cosí certi altri
bastioni e porte a diversi ingegneri, i quali non mi soviene
né manco fanno al mio proposito. Il Duca, che veramente
è sempre stato di buono ingegno, dappersé medesimo,
se n'andò intorno alla sua città; e quando Sua
Eccellenzia illustrissima ebbe bene esaminato e resolutosi,
chiamò Lattanzio Gorini, il quale si era un suo pagatore: e
perché anche questo Lattanzio si dilettava alquanto di
questa professione, Sua Eccellenzia illustrissima lo fece
disegnare tutti i modi che e' voleva che si afforzificassi le
dette porte, e a ciascuno di noi mandò disegnata la sua
porta; di modo che vedendo quella che toccava a me, e parendomi
che 'l modo non fussi sicondo la sua ragione, anzi egli si era
scorrettissimo, subito con questo disegno in mano me n'andai a
trovare 'l mio Duca; e volendo mostrare a Sua Eccellenzia i
difetti di quel disegno datomi, non sí tosto che io ebbi
cominciato a dire, il Duca infuriato mi si volse, e disse: -
Benvenuto, del far benissimo le figure io cederò a te, ma
di questa professione io voglio che tu ceda a me; sí che
osserva<B> </B>il disegno che io t'ho dato -. A queste
brave parole io risposi quanto benignamente io sapevo al mondo e
dissi: - Ancora, Signor mio, del bel modo di fare le figure io ho
imparato da Vostra Eccellenzia illustrissima; imperò noi
l'abbiamo sempre disputata qualche poco insieme; cosí di
questo afforzificare la vostra città, la qual cosa importa
molto piú che 'l far delle figure, priego Vostra
Eccellenzia illustrissima che si degni di ascoltarmi, e
cosí ragionando con Vostra Eccellenzia, quella mi
verrà meglio a mostrare il modo che io l'ho asservire -. Di
modo che, con queste mie piacevolissime parole, benignamente ci si
messe a disputarla meco; e mostrando a Sua Eccellenzia
illustrissima con vive e chiare ragione, che in quel modo che ei
m'aveva disegnato e' non sarebbe stato bene, Sua Eccellenzia mi
disse: - O va, e fa un disegno tu, e io vedrò se e' mi
piacerà -. Cosí io feci dua disegni sicondo la
ragione del vero modo di afforzificare quelle due porte, e glieli
portai, e conosciuto la verità dal falzo, Sua Eccellenzia
piacevolmente mi disse: - O va, e fa attuo modo, che io sono
contento -. Allora con gran sollecitudine io cominciai.
LXXXVI. Egli era alla guardia della porta al Prato un capitano
lombardo: questo si era uno uomo di terribil forma robusta, e con
parole molto villane; ed era prosuntuoso e ignorantissimo. Questo
uomo subito mi cominciò a domandare quel che io volevo
fare; al quale io piacevolmente gli mostrai i mia disegni, e con
strema fatica gli davo addintendere il modo che io volevo tenere.
Or questa villana bestia ora scoteva 'l capo, e ora e' si voggeva
in qua e ora in là, mutando spesso 'l posar delle gambe,
artorcigliandosi i mostacci della barba, che gli aveva
grandissimi, e spesso ci si tirava la piega della berretta in su
gli occhi dicendo spesso: -<I> Maidè, cancher! Io
nolla intendo questa tua fazenda </I>-.Di modo che,
essendomi questa bestia venuto annoi', dissi: - Or lasciatela
addunche fare a me, che la 'ntendo - e voltandogli le spalle per
andare al fatto mio, questo uomo cominciò minacciando col
capo; e colla man mancina, mettendola in su 'l pomo della sua
spada, gli fece alquanto rizzar la punta, e disse: - Olà,
mastro, tu vorrai che io facci quistion teco al sangue -. Io me
gli volsi con grande còllora, perché e' mi aveva
fatto adirare, e dissi: - E' mi parrà manco fatica il far
quistione con esso teco,che il fare questo bastione a questa porta
-. A un tratto tutt'a dua mettemmo le mani in su le nostre spade,
e nolle sfoderammo affatto, che subito si mosse una
quantità di uomini dabbene, sí de' nostri Fiorentini
e altri cortigiani; e la maggior parte sgridorno lui dicendogli
che gli aveva 'l torto, e che io ero uomo da rendergli buon conto,
e che se 'l Duca lo sapessi, che guai a lui. Cosí egli
andò al fatto sua: e io cominciai il mio bastione. E come
io ebbi dato l'ordine al detto bastione, andai all'altra
porticciuola d'Arno, dove io trovai un capitano da Cesena, il
piú gentil galante uomo che mai io conoscessi di tal
professione: ci dimostrava di essere una gentil donzelletta, e al
bisogno egli si era de' piú bravi uomini e 'l piú
miciduale che immaginar si possa. Questo gentile uomo mi osservava
tanto che molte volte ei mi faceva peritare: e' desiderava di
intendere e io piacevolmente gli mostravo: basta che noi
facevàno a chi si faceva maggior carezze l'un l'altro, di
sorte che io feci meglio questo bastione, che quello, assai.
Avendo presso e finiti li mia bastioni, per aver dato una
correria<B> </B>certe gente di quelle di Piero
Strozzi, e' si era tanto spaventato 'l contado di Prato, che tutto
ci si sgombrava, e per questa cagione tutte le carra<B>
</B>di quel contado venivano cariche, portando ogniuno le
sue robe alla città. E perché le carra si toccavano
l'uno l'altra, le quali erano una infinità grandissima,
vedendo un tal disordine, io dissi alle guardie delle porte che
avvertissono che a quella porta e' nonnaccadessi un disordine come
avvenne alle porte di Turino;<B> </B>ché
bisognando l'aversi asservirsi della saracinesca, la non potria
fare l'uffizio suo, perché la resterebbe sospesa in su uno
di que' carri. Sentendo quel bestion di quel capitano queste mia
parole, mi si volse con ingiuriose parole, e io gli risposi
altanto;<B> </B>di modo che noi avemmo affar molto
peggio<B> </B>che quella prima volta: imperò
noi fummo divisi; e io, avendo finiti i mia bastioni,
toccai<B> </B>parecchi scudi innaspettatamente, che e'
me ne giovò, e volentieri me ne tornai affinire 'l mio
Perseo.
LXXXVII. Essendosi in questi giorni trovato certe anticaglie nel
contado d'Arezzo, in fra le quali si era la Chimera, ch'è
quel lione di bronzo, il quale si vede nelle camere convicino alla
gran sala del Palazzo; e insieme con la detta Chimera si era
trovato una quantità di piccole statuette, pur di bronzo,
le quali erano coperte di terra e di ruggine, e a ciascuna di esse
mancava o la testa o le mani o i piedi; il Duca pigliava piacere
di rinettarsele da per sé medesimo con certi cesellini di
orefici. Gli avvenne che e' mi occorse di parlare a Sua
Eccellenzia illustrissima; e in mentre che io ragionavo seco, ei
mi porse un piccol martellino con el quale io percotevo quei
cesellini che 'l Duca teneva in mano, e in quel modo le ditte
figurine si scoprivano dalla terra e dalla ruggine. Cosí
passando innanzi parecchi sere, il Duca mi disse innopera, dove io
cominciai a rifare quei membri che mancavano alle dette figurine.
E pigliandosi tanto piacere Sua Eccellenzia di quel poco di quelle
coselline, egli mi faceva lavorare ancora di giorno, e se io
tardavo all'andarvi, Sua Eccellenzia illustrissima mandava per me.
Piú volte feci intendere a Sua Eccellenzia che se io mi
sviavo il giorno dal Perseo, che e' ne seguirebbe parecchi
inconvenienti; e il primo, che piú mi spaventava, si era
che 'l gran tempo che io vedevo che ne portava la mia opera, non
fussi causa di venire annoia a Sua Eccellenzia illustrissima,
sí come poi e' mi avvenne; l'altro si era, che io avevo
parecchi lavoranti, e quando io nonnero alla presenza, eglino
facevano dua notabili inconvenienti. E il primo si era che e' mi
guastavano la mia opera, e l'altro che eglino lavoravano poco al
possibile; di modo che il Duca si era contento che io v'andassi
solamente dalle 24 ore in là. E perché io mi avevo
indolcito tanto meravigliosamente Sua Eccellenzia illustrissima,
che la sera che io arrivavo dallui, sempre ei mi cresceva le
carezze. In questi giorni e' si murava quelle stanze nuove di
verso i Leoni; di modo che, volendo Sua Eccellenzia ritirarsi in
parte piú secreta, ei s'era fatto acconciare un certo
stanzino in queste stanze fatte nuovamente, e a mme aveva ordinato
che io me n'andassi per la sua guardaroba, dove io passavo
segretamente sopra 'l palco della gran sala, e per certi
pugigattoli me n'andavo al detto stanzino segretissimamente: dove
che innispazio di pochi giorni la Duchessa me ne privò,
faccendo serrare tutte quelle mie comodità; di modo che
ogni sera che io arrivavo in Palazzo, io avevo a 'spettare un gran
pezzo per amor che la Duchessa si stava in quelle anticamere dove
io avevo da passare, alle sue comodità; e per essere
infetta io non vi arrivavo mai volta che io nolla scomodassi. Or
per questa e per altra causa la mi s'era recata tanto annoia, che
per verso nissuno la non poteva patir di vedermi; e con tutto
questo mio gran disagio e infinito dispiacere, pazientemente io
seguitavo d'andarvi; e il Duca aveva di sorte fatto ispressi
comandamenti, che subito che io picchiavo quelle porte, e' m'era
aperto, e senza dirmi nulla e' mi lasciavano entrare per tutto; di
modo che e' gli avvenne talvolta, che entrando chetamente
cosí inaspettatamente per quelle secrete camere, che io
trovava la Duchessa alle sue comodità; la quale subito si
scrucciava con tanto arrabbiato furore meco, che io mi spaventavo,
e sempre mi diceva: - Quando arai tu mai finito di racconciare
queste piccole figurine? perché oramai questo tuo venire
m'è venuto troppo affastidio -. Alla quale io benignamente
rispondevo: - Signora, mia unica patrona, io non desidero altro,
se none con fede e cone estrema ubbidienza servirla; e
perché queste opere, che mi ha ordinato il Duca dureranno
di molti mesi, dicami Vostra Eccellenzia illustrissima se la non
vuole che io ci venga piú; io non ci verrò in modo
alcuno e chiami chi vuole; e se bene e' mi chiamerà 'l
Duca, io dirò che mi sento male e in modo nessuno mai non
ci capiterò -. A queste mie parole ella diceva: - Io non
dico che tu non ci venga e non dico che tu non ubbidisca al Duca;
ma e' mi pare bene che queste tue opere nonnabbino mai fine -. O
che 'l Duca ne avessi aùto qualche sentore, o innaltro modo
che la si fussi, Sua Eccellenzia ricominciò: come e' si
appressava alle 24 ore, ei mi mandava a chiamare; e quello che
veniva a chiamarmi, sempre mi diceva: - Avvertisci<B>
</B>a non mancare di venire, che 'l Duca ti aspetta - e
cosí continuai, con queste medesime difficultà,
parecchi serate. E una sera infra l'altre, entrando al mio solito,
il Duca, che doveva ragionare colla Duchessa di cose forse
segrete, mi si volse con el maggior furore del mondo; e io,
alquanto spaventato, volendomi presto ritirare, innun subito
disse: - Entra, Benvenuto mio, e va là alle tue faccende, e
io starò poco a venirmi a star teco -. In mentre che io
passavo, e' mi prese per la cappa il signor don Grazía,
fanciullino di poco tempo, e mi faceva le piú piacevol
baiuzze<B> </B>che possa fare un tal bambino; dove il
Duca maravigliandosi, disse: - Oh, che piacevole amicizia è
questa che i mia figliuoli hanno teco!
LXXXVIII. In mentre che io lavoravo in queste baie di poco
momento, il principe e don Giovanni e don Harnando e don
Grazía tutta sera mi stavano addosso, e ascosamente dal
Duca ei mi punzecchiavano: dove io gli pregavo di grazia che gli
stessino fermi. Eglino mi rispondevano, dicendo: - Noi non
possiamo -. E io dissi loro: - Quello che non si può non si
vuole; or fate, via -. A un tratto el Duca e la Duchessa si
cacciorno a ridere. Un'altra sera, avendo finite quelle quattro
figurette di bronzo che sono nella basa commesse, qual sono Giove,
Mercurio, Minerva, e Danae madre di Perseo con el suo Perseino a
sedere ai sua piedi, avendole io fatte portare innella detta
stanza dove io lavoravo la sera, io le messi in fila, alquanto
levate un poco dalla vista, di sorte che le facevano un bellissimo
vedere. Avendolo inteso il Duca, e' se ne venne alquanto prima che
'l suo solito; e perché quella tal persona, che
riferí a Sua Eccellenzia illustrissima, gnele dovette
mettere molto piú di quello che ell'erano, perché ei
gli disse: - Meglio che gli antichi - e cotai simil cose, il mio
Duca se ne veniva insieme con la Duchessa lietamente ragionando
pur della mia opera; e io subito rizzatomi me gli feci incontro.
Il quale con quelle sue ducale e belle accoglienze alzò la
man dritta, innella quale egli teneva una pera bronca, piú
grande che si possa vedere e bellissima, e disse: - Toi, Benvenuto
mio, poni questa pera nell'orto della tua casa -. A quelle parole
io piacevolmente risposi, dicendo: - O Signor mio, dice da dovero
Vostra Eccellenzia illustrissima che io la ponga nell'orto della
mia casa? - Di nuovo disse il Duca: - Nell'orto della casa, che
è tua; ha' mi tu inteso? - Allora io ringraziai Sua
Eccellenzia, e il simile la Duchessa, con quelle meglio cerimonie
che io sapevo fare al mondo. Dappoi ei si posono assedere amendua,
al rincontro di dette figurine, e per piú di dua ore non
ragionorno mai d'altro che delle belle figurine; di sorte che e'
n'era venuta una tanta smisurata voglia alla Duchessa che la mi
disse allora: - Io non voglio che queste belle figurine si vadino
apperdere in quella basa giú in piazza, dove elle
porteriano pericolo di esser guaste; anzi voglio che tu me le
acconci innuna mia stanza, dove le saranno tenute con quella
reverenza che merita le lor rarissime virtute -. A queste parole
mi contrapposi con molte infinite ragioni; e veduto che ella s'era
resoluta che io nolle mettessi innella basa dove le sono, aspettai
il giorno seguente, me n'andai in Palazzo alle ventidua ore; e
trovando che 'l Duca e la Duchessa erano cavalcati, avendo di
già messo innordine la mia basa, feci portare giú le
dette figurine, e subito le inpiombai, come l'avevano a stare. Oh!
quando la Duchessa lo intese, e' gli crebbe tanta stizza, che se
e' non fussi stato il Duca che virtuosamente m'aiutò, io
l'arei fatta molto male: e per quella stizza del vezzo di perle e
per questa lei operò tanto, che 'l Duca si levò da
quel poco del piacere; la qual cosa fu causa che io non v'ebbi
piú a 'ndare, e subito mi ritornai in quelle medesime
difficultà di prima, quanto all'entrare per il Palazzo.
LXXXIX Torna' mi alla Loggia, dove io di già avevo condotto
il Perseo e me l'andavo finendo con le difficultà
già ditte, cioè senza dinari, e con altri accidenti,
che la metà di quegli arieno fatto sbigottire uno uomo
armato di diamanti. Pure seguitando via al mio solito, una mattina
infra l'altre, avendo udito messa in San Piero Scheraggio, e' mi
entrò innanzi Bernardone, sensale, orafaccio, e per
bontà del Duca era provveditore della zecca; e subito che
appena ei fu fuori della porta della chiesa, el porcaccio
lasciò andare quattro coreggie, le quali si dovettono
sentir da San Miniato. Al quale io dissi: - Ahi porco, poltrone,
asino, cotesto si è il suono delle tue sporche virtute? - e
corsi per un bastone. Il quale presto si ritirò nella
zecca, e io stetti al fesso della mia porta, e fuori tenevo un mio
fanciullino, il quale mi facessi segno quando questo porco usciva
di zecca. Or veduto d'avere aspettato un gran pezzo, e venendomi
annoia, e avendo preso luogo quel poco della stizza, considerato
che i colpi non si danno a patti, dove e' ne poteva uscire qualche
inconveniente, io mi risolsi a fare le mie vendette innun altro
modo. E perché questo caso fu intorno alle feste del nostro
San Giovanni, vigino un dí o dua, io gli feci quattro
versi, e gli appiccai nel cantone della chiesa, dove si pisciava e
cacava, e dicevano cosí:
Qui giace Bernardone, asin, porcaccio,
spia, ladro, sensale, in cui pose
Pandora i maggior mali, e poi traspose
di lui quel pecoron mastro Buaccio.
Il caso e i versi andorno per il palazzo, e il Duca e la Duchessa
se ne rise; e innanzi che lui se ne avvedessi, e' vi si era fermo
molta quantità di populi, e facevano le maggior risa del
mondo: e perché e' guardavano inverso la zecca e
affissavano gli occhi a Bernardone, avvedendosene il suo figliuolo
mastro Baccio, subito con gran còllora lo stracciò e
si morse un dito minacciando con quella sua vociaccia, la quale
gli esce per il naso: ei fece una gran bravata.
XC. Quando il Duca intese che tutta la mia opera del Perseo si
poteva mostrare come finita, un giorno la venne a vedere e
mostrò per molti segni evidenti che la gli sattisfaceva
grandemente; e voltosi a certi Signori, che erano con Sua
Eccellenzia illustrissima disse: - Con tutto che questa opera ci
paia molto bella, ell'ha anche a piacere ai popoli; sí che,
Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei
che per amor mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un
mezzo giorno, alla mia Piazza, per vedere quel che ne dice 'l
popolo; perché e' non è dubbio che da vederla a
questo modo ristretta al vederla a campo aperto, la
mosterrà un diverso modo da quello che la si mostra
cosí ristretta -. A queste parole io dissi umilmente a Sua
Eccellenzia illustrissimo: - Sappiate, Signor mio, che la
mosterrà meglio la metà. O come non si ricorda
Vostra Eccellenzia illustrissima d'averla veduta nell'orto della
casa mia, innel quale la si mostrava in tanta gran largura tanto
bene, che per l'orto delli Innocenti l'è venuta a vedere 'l
Bandinello, e con tutta la sua mala e pessima natura, la l'ha
sforzato ed ei n'ha detto bene, che mai non disse ben di persona
a' sua dí? Io mi avveggo che Vostra Eccellenzia
illustrissima gli crede troppo -. A queste mie parole,
sogghignando un poco isdegnosetto, pur con molte piacevol parole
disse: - Fallo, Benvenuto mio, solo per un poco di mia
sattisfazione -. E partitosi, io cominciai a dare ordine di
scoprire; e perché e' mancava certo poco di oro, e certe
vernice e altre cotai coselline, che si appartengono alla fine
dell'opera, sdegnosamente borbottavo e mi dolevo, bestemmiando
quel maladetto giorno che fu causa accondurmi a Firenze;
perché di già io vedevo la grandissima e certa
perdita che io avevo fatta alla mia partita di Francia, e non
vedevo né conoscevo ancora che modo io dovevo sperare di
bene con questo mio Signore in Firenze; perché dal
prencipio al mezzo, alla fine, sempre tutto quello che io avevo
fatto, si era fatto con molto mio dannoso disavvantaggio; e
cosí malcontento il giorno seguente io la scopersi. Or
siccome piacque a Dio, subito che la fu veduta, ei si levò
un grido tanto smisurato in lode della detta opera, la qual cosa
fu causa di consolarmi alquanto. E non restavano i popoli
continuamente di appiccare alle spalle della porta, che teneva un
poco di parato, in mentre che io le davo la sua fine. Io dico che
'l giorno medesimo, che la si tenne parecchi ore scoperta, e' vi
fu appiccati piú di venti sonetti, tutti in lode
smisuratissime della mia opera; dappoi che io la ricopersi, ogni
dí mi v'era appiccati quantità di sonetti e di versi
latini e versi greci; perché gli era vacanza allo Studio di
Pisa, tutti quei eccellentissimi dotti e gli scolari facevano a
gara. Ma quello che mi dava maggior contento, con isperanza di
maggior mia salute inverso 'l mio Duca, si era che quegli
dell'arte, cioè scultori e pittori, ancora loro facevano
aggara a chi meglio diceva. E infra gli altri, quale io stimavo
piú, si era il valente pittore Iacopo da Puntorno, e
piú di lui il suo eccellente Bronzino, pittore, che non gli
bastò il farvene appiccare parecchi, che egli me ne
mandò per il suo Sandrino insino a casa mia, i quali
dicevano tanto bene, con quel suo bel modo, il quale è
rarissimo, che questo fu causa di consolarmi alquanto. E
cosí io la ricopersi, e mi sollicitavo di finirla.
XCI.<B> </B>Il mio Duca, con tutto che Sua Eccellenzia
avessi sentito questo favore che m'era stato fatto di quel poco
della vista<B> </B>da questa eccellentissima Scuola,
disse: - Io n'ho gran piacere che Benvenuto abbia aùto
questo poco del contento, il quale sarà cagione che
piú presto e con piú diligenzia ei le darà la
sua desiderata fine; ma non pensi che poi, quando la si
vedrà tutta scoperta e che la si potrà vedere tutta
all'intorno, che i popoli abbino a dire a questo modo; anzi gli
sarà scoperto tutti i difetti che vi sono, e appostovene di
molti di quei che non vi sono; sí che armisi di pazienza -.
Ora queste furno parole del Bandinello dette al Duca, con le quale
egli allegò delle opere d'Andrea del Verocchio, che fece
quel bel Cristo e San Tommaso di bronzo, che si vede nella
facciata di Orsamichele; e allegò molte altre opere, insino
al mirabil Davitte del divino Michelagnolo Buonaroti, dicendo che
ei non si mostrava bene se non per la veduta dinanzi; e dipoi
disse del suo Ercole e Cacco gli infiniti e vituperosi sonetti che
ve gli fu appiccati, e diceva male di questo popolo. Il mio Duca,
che gli credeva assai bene, l'aveva mosso addire quelle parole, e
pensava per certo che la dovessi passare in gran parte in quel
modo, perché quello invidioso del Bandinello non restava di
dir male; e una volta infra molte dell'altre, trovandovisi alla
presenza quel manigoldo di Bernardone sensale, per far buone le
parole del Bandinello, disse al Duca: - Sappiate, Signore, che 'l
fare le figure grande l'è un'altra minestra che 'l farle
piccoline: io non vo' dire ché le figurine piccole egli
l'ha fatte assai bene; ma voi vedrete che là non vi
riuscirà -. E con queste parolaccie mescolò molte
dell'altre, faccendo la sua arte della spia, innella quale ei
mescolava un monte di bugie.
XCII. Or come piacque al mio glorioso Signore e immortale Iddio,
io la fini' del tutto, e un giovedí mattina io la scopersi
tutta. Subito, che e' nonnera ancora chiaro il giorno, vi si
ragunò tanta infinita quantità di popoli, che e'
saria impossibile il dirlo, ettutti a una voce facevano a gara a
chi meglio ne diceva. Il Duca stava a una finestra bassa del
Palazzo, la quale si è sopra la porta, e cosí,
dentro alla finestra mezzo ascoso, sentiva tutto quello che di
detta opera si diceva: e dappoi che gli ebbe sentito parecchi ore,
ei si levò con tanta baldanza e tanto contento che voltosi
al suo messer Sforza gli disse cosí: - Sforza, va, e truova
Benvenuto e digli da mia parte che e' m'ha contento molto
piú di quello che io mi aspettavo, e digli che io
contenterò lui di modo, che io lo farò maravigliare;
sí che digli che stia di buona voglia -. Cosí il
detto messer Sforza mi fece la gloriosa imbasciata, la quale mi
confortò, e quel giorno per questa buona nuova, e
perché i popoli mi mostravano con il dito a questo e a
quello, come cosa maravigliosa e nuova. Infra gli altri e' furno
dua gentili uomini, i quali erano mandati dal Vecierè di
Sicilia al nostro Duca per lor faccende. Ora questi dua piacevoli
uomini mi affrontorno in piazza, ché io fui mostro loro
cosí passando; di modo che con furia e' mi raggiunsono, e
subito, colle lor berrette in mano, e' mi feciono una la
piú cirimoniosa orazione, la quale saria stata troppa a un
papa: io pure, quanto potevo, mi umiliavo; ma e' mi soprafacevano
tanto, che io mi cominciai arraccomandare loro, che di grazia
d'accordo ei s'uscissi di piazza, perché i popoli si
fermavano a guardar me piú fiso, che e' non facevano al mio
Perseo. E infra queste cirimonie eglino furno tanto arditi, che e'
mi richiesono all'andare in Sicilia, e che mi farebbono un tal
patto, che io mi contenterei; e mi dissono come frate Giovanagnolo
de' Servi aveva fatto loro una fontana piena e addorna di molte
figure, ma che le non erano di quella eccellenzia ch'ei vedevano
in Perseo, e che e' l'avevano fatto ricco. Io non gli lasciai
finir dire tutto quel che eglino arebbono voluto dite, che io
dissi loro:- Molto mi maraviglio di voi, che voi mi ricerchiate
che io lasci un tanto Signore, amatore delle virtute piú
che altro principe che mai nascessi, e di piú trovandomi
nella patria mia, scuola di tutte le maggior virtute. Oh! se io
avessi appetito al gran guadagno, io mi potevo restare in Francia
al servizio di quel gran re Francesco, il quale mi dava mille
scudi d'oro per il mio piatto, e di piú mi pagava le
fatture di tutte le mie opere, di sorte che ogni anno io mi avevo
avanzato piú di quattro mila scudi d'oro l'anno; e avevo
lasciato in Parigi le mie fatiche di quattro anni passati -. Con
queste e altre parole io tagliai le cerimonie, e gli ringraziai
delle gran lode che eglino mi avevano date, le quale si erano i
maggiori premii che si potessi dare a chi si affaticava
virtuosamente; e che eglino m'avevano tanto fatto crescere la
volontà del far bene, che io speravo in brevi anni avvenire
di mostrare un'altra opera, la quale io speravo di piacere
all'ammirabile Scuola fiorentina molto piú di quella. Li
dua gentili uomini arebbono voluto rappiccare il filo alle
cerimonie; dove io con una sberrettata con gran reverenza dissi
loro addio.
XCIII. Da poi che io ebbi lasciato passare dua giorni, e veduto
che le gran lodi andavano sempre crescendo, allora io mi disposi
d'andare a mostrarmi al mio signor Duca; il quale con gran
piacevolezza mi disse: - Benvenuto mio, tu m'hai sattisfatto e
contento; ma io ti prometto che io contenterò te di sorte
che io ti farò maravigliare: e piú ti dico, che io
non voglio che e' passi il giorno di domane -. A queste mirabil
promesse, subito voltai tutte le mie maggior virtú e
dell'anima e del corpo innun momento a Dio, ringraziandolo in
verità: e nel medesimo stante m'accostai al mio Duca, e,
cosí mezzo lacrimando d'allegrezza, gli baciai la vesta;
dipoi aggiunsi dicendo: - O glorioso mio Signore, vero
liberalissimo amatore delle virtute e di quegli uomini che innesse
si affaticano; io priego Vostra Eccellenzia illustrissima che mi
faccia grazia di lasciarmi prima andare per otto giorni a
ringraziare Iddio; perché io so bene la smisurata mia gran
fatica, e cognosco che la mia buona fede ha mosso Iddio al mio
aiuto: per questo e per ogni altro miracoloso soccorso, voglio
andare per otto giornate pellegrinando, sempre ringraziando il mio
immortale Iddio, il quale sempre aiuta chi in verità lo
chiama -. Allora mi domandò 'l Duca dove io volevo andare.
Al quale io dissi: - Domattina mi partirò e me
n'andrò a Valle Ombrosa, di poi a Camaldoli e all'Ermo, e
me n'andrò insino ai bagni di Santa Maria e forse insino a
Sestile, perché io intendo che e' v'è di belle
anticaglie: dipoi mi tornerò da San Francesco della Vernia,
e ringraziando Iddio sempre, contento mi ritornerò
asservirla -. Subito il Duca lietamente mi disse: - Va, e torna,
che tu veramente mi piaci, ma lasciami due versi di memoria, e
lascia fare a mme -. Subito io feci quattro versi, innei quali io
ringraziavo Sua Eccellenzia illustrissima, e gli detti a messer
Sforza, il quale gli dette in mano al Duca da mia parte: il quale
gli prese; di poi gli dette in mano al detto messer Sforza, e gli
disse: - Fa che ogni dí tu me gli metta innanzi,
perché se Benvenuto tornassi e trovassi che io noll'avessi
spedito, io credo che e' mi ammazzerebbe - e cosí ridendo,
Sua Eccellenzia disse che gnele ricordassi. Queste formate parole
mi disse la sera messer Sforza, ridendo e anche maravigliandosi
del gran favore che mi faceva 'l Duca: e piacevolmente mi disse: -
Va, Benvenuto, e torna, ché io te n'ho invidia.
XCIV. Nel nome di Dio mi parti' di Firenze sempre cantando salmi e
orazione innonore e gloria di Dio per tutto quel viaggio; innel
quale io ebbi grandissimo piacere, perché la stagione si
era bellissima, di state, e il viaggio e il paese dove io nonnero
mai piú stato mi parve tanto bello che ne restai
maravigliato e contento. E perché gli era venuto per mia
guida un giovane mio lavorante, il quale era dal Bagno, che si
chiamava Cesere, io fui molto carezzato da suo padre e da tutta la
casa sua; infra e' quali si era un vecchione di piú di
settant'anni, piacevolissimo uomo: questo era zio del detto
Cesere, e faceva professione di medico cerusico, e pizzicava
alquanto di archimista. Questo buono uomo mi mostrò come
quei Bagni avevano miniera d'oro e d'argento, e mi fece vedere
molte bellissime cose di quel paese; di sorte che io ebbi de' gran
piaceri che io avessi mai. Essendosi domesticato a suo modo meco,
un giorno in fra gli altri mi disse: - Io non voglio mancare di
non vi dire un mio pensiero, al quale se Sua Eccellenzia ci
prestassi l'orecchio, io credo che e' sarebbe cosa molto utile: e
questo si è, che intorno a Camaldoli ci si vede un passo
tanto scoperto, che Piero Strozzi potria non tanto passare
sicuramente, ma egli potrebbe rubar Poppi sanza contrasto alcuno -
e con questo, non tanto l'avermelo mostro a parole, ch'egli si
cavò un foglio della scarsella, nel quale questo buon
vecchio aveva disegnato tutto quel paese in tal modo che benissimo
si vedeva ed evidentemente si conosceva il gran pericolo esser
vero. Io presi il disegno e subito mi parti' dal Bagno, e quanto
piú presto io potetti, tornandomene per la via di Prato
Magno e da San Francesco della Vernia, mi ritornai a Firenze: e
senza fermarmi, sol trattomi gli stivali, andai a Palazzo. E
quando io fui dalla Badia, io mi scontrai nel mio Duca, che se ne
veniva per la via del Palagio del Podestà: il quale, subito
ch'e' mi vide, ei mi fece una gratissima accoglienza insieme con
un poco di maraviglia, dicendomi: - O perché sei tu tornato
cosí presto? che io non t'aspettavo ancora di questi otto
giorni -. Al quale io dissi: - Per servizio di Vostra Eccellenzia
illustrissima son tornato, ché volentieri io mi sarei stato
parecchi giorni a spasso per quel bellissimo paese. - E che buone
faccende? - disse 'l Duca. Al quale io dissi: - Signore, gli
è di necessità che io vi dica e mostri cose di
grande importanza -. Cosí me n'andai seco a Palazzo. Giunti
a Palazzo e' mi menò in camera segretamente dove noi
eravamo soli. Allora io gli dissi il tutto, e gli mostrai quel
poco del disegno; il quale mostrò di averlo gratissimo. E
dicendo a Sua Eccellenzia che gli era di necessità il
rimediare a una cotal cosa presto, il Duca stette cosí un
poco sopra di sé, e poi mi disse: - Sappi, che no' siamo
d'accordo con el Duca d'Urbino, il quale n'ha da 'aver cura lui;
ma stia in te -. E con molta gran dimostrazione di sua buona
grazia, io mi ritornai a casa mia.
XCV. L'altro giorno io mi feci vedere e il Duca, dipoi un poco di
ragionamento, lietamente mi disse: - Domani senza fallo voglio
spedire la tua faccenda; sí che sta di buona voglia -. Io,
che me lo tenevo per certissimo, con gran disiderio aspettavo
l'altro giorno. Venuto il desiderato giorno, me n'andai a Palazzo;
e siccome per usanza par che sempre gli avvenga, che le male nuove
si dieno con piú diligenzia che non fanno le buone, messer
Iacopo Guidi segretario di Sua Eccellenzia illustrissima mi
chiamò con una sua bocca ritorta e con voce altiera, e
ritiratosi tutto in sé, con la persona tutta incamatita,
come interizzata, cominciò in questo modo a dire: - Dice il
Duca che vuole saper da te quel che tu dimandi del tuo Perseo -.
Io restai ismarrito e maravigliato: e subito risposi come io non
ero mai per domandar prezzo delle mie fatiche, e che questo
nonnera quello che mi aveva promesso Sua Eccellenzia dua giorni
sono. Subito questo uomo con maggior voce mi disse che mi
comandava spressamente da parte del Duca, che io dicessi quello
che io ne volevo, sotto la pena della intera disgrazia di Sua
Eccellenzia illustrissima. Io che m'ero promesso non tanto di aver
guadagnato qualche cosa per le gran carezze fattemi da Sua
Eccellenzia illustrissima, anzi maggiormente mi ero promesso di
avere guadagnato tutta la grazia del Duca, perché io nollo
richiedevo mai d'altra maggior cosa che solo della sua buona
grazia: ora questo modo, innaspettato da me, mi fece venire in
tanto furore: e maggiormente per porgermela in quel modo che
faceva quel velenoso rospo. Io dissi, che quando 'l Duca mi dessi
dieci mila scudi, e' non me la pagherebbe, e che, se io avessi mai
pensato di venire a questi meriti, io non mi ci sarei mai fermo.
Subito questo dispettoso mi disse una quantità di parole
ingiuriose; e io il simile feci allui. L'altro giorno appresso,
faccendo io reverenza al Duca, Sua Eccellenzia m'accennò;
dove io mi accostai; ed egli in còllora mi disse: - Le
città e i gran palazzi si fanno cone i dieci mila ducati -.
Al quale subito risposi come Sua Eccellenzia troverebbe infiniti
uomini che gli saprieno fare delle città e dei palazzi; ma
che dei Persei ei non troverrebbe forse uomo al mondo, che gnele
sapessi fare un tale. E subito mi parti' senza dire o fare altro.
Certi pochi giorni appresso, la Duchessa mandò per me e mi
disse che la differenza che io avevo con el Duca io la rimettessi
in lei, perché la si vantava di far cosa che io saria
contento. A queste benigne parole io risposi come io non avevo mai
chiesto altro maggior premio delle mie fatiche che la buona grazia
del Duca, e che Sua Eccellenzia illustrissima me l'aveva promessa;
e che e' non faceva bisogno che io rimettessi in loro Eccellenzie
illustrissime quello che, dai primi giorni che io li cominciai a
servire tutto liberamente io avevo rimesso; e di piú
aggiunsi che se Sua Eccellenzia illustrissima mi dessi solo una
crazia, che vale cinque quattrini, delle mie fatiche, io mi
chiamerei contento e sattisfatto, pur che Sua Eccellenzia non mi
privassi della sua buona grazia. A queste mie parole, la Duchessa
alquanto sorridendo, disse: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio
a fare quello che io ti dico - e voltami le spalle, si levò
da mme. Io che pensa' di fare il mio meglio per usare quelle cotal
umil parole, avvenne che e' ne risultò il mio peggio,
perché, con tutto che lei avessi aùto meco quel poco
di stizza, ell'aveva poi in sé un certo modo di fare, il
quale si era buono.
XCVI. In questo tempo io ero molto domestico di Girolimo degli
Albizi, il quale era commessario delle bande di Sua Eccellenzia; e
un giorno infra gli altri egli mi disse: - O Benvenuto, e' sarebbe
pur bene il porre qualche sesto a questo poco del dispiacere che
tu hai con el Duca; e ti dico, che se tu avessi fede in me, che e'
mi darebbe 'l cuore da conciarla; perché io so quello che
io mi dico. Come il Duca s'adira poi da dovero, tu ne farai molto
male: bastiti questo; io non ti posso dire ogni cosa -. E
perché e' m'era stato detto da uno, forse tristerello,
dipoi che la Duchessa m'aveva parlato, il quale disse che aveva
sentito dire che 'l Duca, per non so che occasione datagli, disse:
- Per manco di dua quattrini io gitterò via il Perseo e
cosí si finiranno tutte le differenze - ora per questa
gelosia<B> </B>io dissi a Girolimo degli Albizi, che
io rimettevo in lui il tutto, e che quello che egli faceva, io di
tutto sarei contentissimo, pure che io restassi in grazia del
Duca. Questo galante uomo, che s'intendeva benissimo dell'arte del
soldato, massimamente di quei delle bande, i quali sono tutti
villani, ma dell'arte del fare la scultura egli non se ne
dilettava e però e' non se ne intendeva punto, di sorte che
parlando con el Duca disse: - Signore, Benvenuto s'è
rimesso in me, e m'ha pregato che io lo raccomandi a Vostra
Eccellenzia illustrissima -. Allora il Duca disse: - E ancora io
mi rimetto in voi, e starò contento attutto quello che voi
giudicherete -. Di modo che il detto Girolamo fece una lettera
molto ingegnosa e in mio gran favore, e giudicò che 'l Duca
mi dessi tremila cinquecento scudi d'oro innoro, i quali
bastassino non per premio di una cotal bella opera, ma solo per un
poco di mio trattenimento; basta che io mi contentavo; con molte
altre parole, le quali in tutto concludevano il detto prezzo. Il
Duca la sottoscrisse molto volentieri, tanto quanto io ne fu'
malcontento. Come la Duchessa lo intese, la disse: - Gli era molto
meglio per quel povero uomo che e' l'avessi rimessa in me, che gne
l'arei fatto dare cinque mila scudi d'oro - e un giorno che io ero
ito in Palazzo, la Duchessa mi disse le medesime parole alla
presenzia di messer Alamanno Salviati, e mi derise, dicendomi che
e' mi stava bene tutto 'l male che io avevo. Il Duca ordinò
che e' mi fussi pagato cento scudi d'oro innoro il mese, insino
alla detta somma, e cosí si andò seguitando qualche
mese. Dipoi messer Antonio de' Nobili, che aveva aúta la
detta commessione, cominciò a darmene cinquanta, e di poi
quando me ne dava venticinque e quando non me gli dava; di sorte
che, vedutomi cosí prolungare, amorevolmente dissi al detto
messer Antonio, pregandolo che e' mi dicessi la causa
perché e' non mi finiva di pagare. Ancora egli benignamente
mi rispose: innella qual risposta e' mi parve ch'e' s'allargassi
un poco troppo, perché - giudichilo chi intende - in prima
mi disse che la causa perché lui non continuava il mio
pagamento si era la troppa strettezza<B> </B>che aveva
'l Palazzo di danari, ma che egli mi prometteva che come gli
venissi danari, che mi pagherebbe; e aggiunse dicendo: -
Oimè! se io non ti pagassi, io saria un gran ribaldo -. Io
mi maravigliai il sentirgli dire una cotal parola, e per quella mi
promissi che quando e' potessi, che e' mi pagherebbe. Per la qual
cosa e' ne seguí tutto 'l contrario, di modo che, vedendomi
straziare, io m'adirai seco e gli dissi molte ardite e collorose
parole, e gli ricordai tutto quello che lui m'aveva detto che
sarebbe. Imperò egli si morí, e io resto ancora a
'vere cinquecento scudi d'oro insino a ora, che siamo vicini alla
fine dell'anno 1566. Ancora io restavo d'avere un resto di mia
salari, il quale mi pareva che e' non si facessi piú conto
di pagarmegli,<B> </B>perché gli eran passati
incirca a tre anni; ma gli avvenne una pericolosa infermità
al Duca, che gli stette quarantotto ore senza potere orinare; e
conosciuto che i remedi de' medici non gli giovavano, forse ei
ricorse a Iddio, e per questo e' volse che ogniuno fussi pagato
delle sue provvisione decorse e ancora io fui pagato; ma non fu'
pagato già del mio resto del Perseo.
XCVII. Quasi che io m'ero mezzo disposto di non dir piú
nulla dello isfortunato mio Perseo; ma per essere una occasione
che mi sforza tanta notabile, imperò<B> </B>io
rappiccherò il filo per un poco, tornando alquanto
addietro. Io pensai di fare il mio meglio, quando io dissi alla
Duchessa, che io non potevo piú far compromesso di quello
che non era piú in mio potere, perché io avevo ditto
al Duca che io mi contentavo di tutto quello che Sua Eccellenzia
illustrissima mi volessi dare: e questo io lo dissi pensando di
gratuirmi alquanto; e con quel poco de l'umiltà cercavo con
ogni opportuno remedio di placare alquanto il Duca, perché
certi pochi giorni in prima che e' si venissi all'accordo
dell'Albizi, il Duca s'era molto dimostro di essersi crucciato
meco: e la causa fu, che dolendomi con Sua Eccellenzia di certi
assassinamenti bruttissimi che mi faceva messer Alfonso Quistello
e messer Iacopo Polverino, fiscale, e piú che tutti ser
Giovanbattista Brandini, volterrano; cosí dicendo con
qualche dimostrazione di passione queste mie ragioni, io vidi
venire il Duca in tanta stizza, quanto mai e' si possa immaginare.
E poi che Sua Eccellenzia illustrissima era venuta in questo gran
furore, ei mi disse: - Questo caso si è come quello del tuo
Perseo, che tu n'hai chiesto e' dieci mila scudi: tu ti lasci
troppo vincere da il tuo interesso; imperò io lo voglio
fare stimare, e tene darò tutto quello che e' mi fia
giudicato -. A queste parole io subito risposi alquanto un poco
troppo ardito e mezzo adirato - cosa la qual non è
conveniente usarla cone i gran Signori - e dissi: - O come
è egli possibile che la mia opera mi sia stimata il suo
prezzo, non essendo oggi uomo in Firenze che la sapessi fare? -
Allora il Duca crebbe in maggiore furore, e disse di molte parole
adirate, infra le quale disse: - In Firenze si è uomo oggi,
che ne saprebbe fare un come quello, e però benissimo e' lo
saprà giudicare -. Ei volse dire del Bandinello, cavalieri
di santo Iacopo. Allora io dissi: - Signor mio, Vostra Eccellenzia
illustrissima m'ha dato facultà, che io ho fatto innella
maggiore Scuola del mondo una grande e difficilissima opera, la
quale m'è stata lodata piú che opera che mai si sia
scoperta in questa divinissima Scuola; e quello che piú mi
fa baldanzoso si è stato, che quegli eccellenti uomini, che
conoscono e che sono dell'arte, com'è 'l Bronzino pittore,
questo uomo s'è affaticato e m'ha fatto quattro sonetti,
dicendo le piú iscelte e gloriose parole, che sia possibil
di dire; e per questa causa, di questo mirabile uomo, forse
s'è mossa tutta la città a cosí gran romore;
e io dico ben che se lui attendessi alla scultura, sí come
ei fa alla pittura, lui sí bene la potria forse saper fare.
E piú dico a Vostra Eccellenzia illustrissima che il mio
maestro Michelagnolo Buonaroti, sí bene e' n'arebbe fatta
una cosí, quando egli era piú giovane, e non arebbe
durato manco fatiche che io mi abbia fatto; ma ora che gli
è vecchissimo, egli nolla farebbe per cosa certa;<B>
</B>di modo che io non credo che oggi ci sia notizia di uomo
che la sapessi condurre. Sí che la mia opera ha 'uto il
maggior premio che io potessi desiderare al mondo: e maggiormente,
che Vostra Eccellenzia illustrissima, non tanto che la si sia
chiamata contenta de l'opera mia, anzi piú di ogni altro
uomo quella me l'ha lodata. O che maggiore e che piú
onorato premio si può egli desiderare? Io dico per
certissimo che Vostra Eccellenzia non mi poteva pagare di
piú gloriosa moneta: né con qualsivoglia tesoro
certissimo e' non si può agguagliare a questo: sí
che io sono troppo pagato, e ne ringrazio Vostra Eccellenzia
illustrissima con tutto il cuore -. A queste parole rispose il
Duca e disse: - Anzi tu non pensi che io abbia tanto che io te la
possa pagare; e io ti dico che io te la pagherò molto
piú che la non vale -. Allora io dissi: - Io non mi
immaginavo di avere altro premio da Vostra Eccellenzia, ma io mi
chiamo pagatissimo di quel primo che m'ha dato la Scuola, e con
questo adesso adesso mi voglio ir con Dio, senza mai piú
tornare a quella casa che Vostra Eccellenzia illustrissima mi
donò, né mai piú mi voglio curare di rivedere
Firenze -. Noi eravamo appunto da Santa Felicita e Sua Eccellenzia
si ritornava a Palazzo. A queste mie collorose parole il Duca
subito con gran ira si volse e mi disse: - Non ti partire, e
guarda bene che tu non ti parta - di modo che io mezzo spaventato
lo accompagnai a Palazzo. Giunto che Sua Eccellenzia fu a Palazzo,
ei chiamò il vescovo de' Bartolini, che era arcivescovo di
Pisa, e chiamò messer Pandolfo della Stufa, e disse loro
che dicessino a Baccio Bandinelli da sua parte che considerassi
bene quella mia opera del Perseo, e che la stimassi, perché
el Duca me la voleva pagare il giusto suo prezzo. Questi dua
uomini dabbene subito trovorno il detto Bandinello, e fattegli la
imbasciata, egli disse loro che quella opera ei l'aveva benissimo
considerata, e che sapeva troppo bene quel che la valeva; ma per
essere in discordia meco per altre faccende passate, egli non
voleva impacciarsi de' casi mia in modo nessuno. Allora questi dua
gentili uomini aggiunsono e dissono: - Il Duca ci ha detto che,
sotto pena della disgrazia sua, che vi comanda che voi le diate
prezzo; e se voi volete due o tre dí di tempo a
considerarla bene, ve gli pigliate: dipoi dite annoi quel che e'
vi pare che quella fatica meriti -. Il detto rispose che l'aveva
benissimo considerata, e che non poteva mancare a' comandamenti
del Duca, e che quella opera era riuscita molto ricca e bella, di
modo che gli pareva che la meritassi sedici mila scudi d'oro e da
vantaggio. Subito i buoni gentili uomini lo riferirno al Duca, il
quale si adirò malamente; e similmente ei lo ridissino a
me. Ai quali io risposi, che in modo nessuno io non volevo
accettare le lode del Bandinello, avvenga che questo male uomo
dice mal di ogniuno. Queste mie parole furno riditte al Duca, e
per questo voleva la Duchessa che io mi rimettessi in lei. Tutto
questo si è la pura verità: basta che io facevo il
mio meglio a lasciarmi giudicare alla Duchessa, perché io
sarei stato in breve pagato, e arei aùto quel piú
premio.
XCVIII. Il Duca mi fece intendere per messer Lelio Torello, suo
aulditore, che voleva che io facessi certe storie di basso rilievo
di bronzo intorno al coro di santa Maria del Fiore; e per essere
il detto coro impresa del Bandinello, io non volevo arricchire le
sue operaccie con le fatiche mie; e con tutto che 'l detto coro
non fussi suo disegno, perché lui non intendeva nulla al
mondo d'architettura (il disegno si era di Giuliano di Baccio
d'Agnolo, legnaiuolo, che guastò la cupola): basta che e'
non v'è virtú nessuna; e per l'una e per l'altra
causa io non volevo in modo nessuno far tal opera, ma umanamente
sempre dicevo al Duca, che io farei tutto quello che mi comandassi
Sua Eccellenzia illustrissima, di modo che Sua Eccellenzia
commesse agli Operai di Santa Maria del Fiore che fussino
d'accordo meco, e che Sua Eccellenzia mi darebbe solo la mia
provvisione delli dugento scudi l'anno e che a ogni altra cosa
voleva che i detti Operai sopperissino di quello della ditta
Opera. Di modo che io comparsi dinanzi alli detti Operai, i quali
mi dissono tutto l'ordine che loro avevano dal Duca; e
perché con loro e' mi pareva molto piú sicuramente
poter dire le mie ragioni, cominciai a mostrar loro che tante
storie di bronzo sariano di una grandissima spesa, la quale si era
tutta gittata via: e dissi tutte le cagioni, per le quali eglino
ne furno capacissimi. La prima si era, che quel ordine di coro era
tutto scorretto, ed era fatto senza nissuna ragione, né vi
si vedeva né arte, né comodità, né
grazia, né disegno; l'altra si era che le ditte storie
andavano tanto poste basse, che le venivano troppo inferiore alla
vista, e che le sarebbono un pisciatoi' da cani, e continue
starebbono piene d'ogni bruttura; e che per le ditte cagioni io in
modo nessuno nolle volevo fare. Solo per non gittar via il resto
dei mia migliori anni e non servire<B> </B>Sua
Eccellenzia illustrissima, al quale io desideravo tanto di piacere
e servire; imperò, se Sua Eccellenzia si voleva servir
delle fatiche mie, quella mi lasciassi fare la porta di mezzo di
Santa Maria del Fiore, la quale sarebbe opera che sarebbe veduta,
e sarebbe molto piú gloria di Sua Eccellenzia
illustrissima; e io mi ubbrigherei per contratto che, se io nolla
facessi meglio di quella, che è piú bella, delle
porte di San Giovanni, non volevo nulla delle mie fatiche; ma se
io la conducevo sicondo la mia promessa, io mi contentavo che la
si facessi stimare, e dappoi mi dessino mille scudi di manco di
quello che dagli uomini dell'arte la fussi stimata. A questi
Operai molto piacque questo che io avevo lor proposto, e andorno a
parlarne al Duca, che fu, in fra gli altri, Piero Salviati,
pensando di dire al Duca cosa che gli fussi gratissima; e la gli
fu tutto 'l contrario; e disse che io volevo sempre fare tutto 'l
contrario di quello che gli piaceva che io facessi: e sanza altra
conclusione il detto Piero si partí dal Duca. Quando io
intesi questo, subito me n'andai a trovare 'l Duca, il quale mi si
mostrò alquanto sdegnato meco; il quali io pregai che si
degnassi di ascoltarmi, ed ei cosí mi promesse: di modo che
io mi cominciai da un capo; e con tante belle ragioni gli detti ad
intendere la verità di tal cosa, mostrando a Sua
Eccellenzia che l'era una grande spesa gittata via: di sorte che
io l'avevo molto addolcito con dirgli, che se a Sua Eccellenzia
illustrissima non piaceva che e' si facessi quella porta, che egli
era di necessità il fare a quel coro dua pergami, e che
quegli sarebbono due grande opere e sarebbono gloria di Sua
Eccellenzia illustrissima, e che io vi farei una gran
quantità di storie di bronzo, di basso rilievo, con molti
ornamenti: cosí io lo ammorbidai e mi commesse che io
facessi i modegli. Io feci piú modelli e durai grandissime
fatiche: e infra gli altri ne feci uno a otto faccie, con molto
maggiore studio che io nonnavevo fatto gli altri, e mi pareva che
e' fussi molto piú comodo al servizio che gli aveva affare.
E perché io gli avevo portati piú volte a Palazzo,
Sua Eccellenzia mi fece intendere per messer Cesere, guardaroba,
che io gli lasciassi. Dappoi che 'l Duca gli aveva veduti, vidi
che di quei Sua Eccellenzia aveva scelto il manco bello. Un giorno
Sua Eccellenzia mi fe' chiamare, e innel ragionare di questi detti
modelli io gli dissi e gli mostrai con molte ragioni, che quello a
otto faccie saria stato molto piú comodo a cotal servizio,
e molto piú bello da vedere. Il Duca mi rispose, che voleva
che io lo facessi quadro,<B> </B>perché gli
piaceva molto piú in quel modo; e cosí molto
piacevolmente ragionò un gran pezzo meco. Io non mancai di
non dire tutto quello che mi occorreva, in difensione dell'arte. O
che il Duca conoscessi che io dicevo 'l vero, e pur volessi fare a
suo modo, e' si stette di molto tempo che e' non mi fu detto
nulla.
XCIX. In questo tempo il gran marmo del Nettunno si era stato
portato per il fiume d'Arno e poi condotto per la Grieve in sulla
strada del Poggio a Caiano, per poterlo poi meglio condurre
afFirenze per quella strada piana, dove io lo andai a vedere. E se
bene io sapevo certissimo che la Duchessa l'aveva per suo propio
favore fatto avere al cavalieri Bandinello; non per invidia che io
portassi al Bandinello, ma sí bene mosso a pietà del
povero mal fortunato marmo (guardisi, che qual cosa e' si sia, la
quale sia sottoposta a mal destino, che un la cerchi scampare da
qualche evidente male, gli avviene che la cade in molto peggio,
come fece il detto marmo alle man di Bartolomeo Ammannato, del
quale si dirà 'l vero al suo luogo), veduto che io ebbi il
bellissimo marmo, subito presi la sua altezza e la sua grossezza
per tutti i versi, e tornatomene a Firenze, feci parecchi
modellini approposito. Dappoi io andai al Poggio a Caiano, dove
era il Duca e la Duchessa e 'l Principe lor figliuolo; e
trovandogli tutti a tavola, il Duca con la Duchessa mangiava
ritirato, di modo che io mi missi attrattenere il Principe. E
avendolo trattenuto un gran pezzo, il Duca, che era innuna stanza
ivi vicino, mi sentiva, e con molto favore e' mi fece chiamare; e
giunto che io fui alle presenze di loro Eccellenzie, con molte
piacevole parole la Duchessa cominciò a ragionar meco: con
el qual ragionamento a poco a poco io cominciai a ragionar di quel
bellissimo marmo, che io avevo veduto; e cominciai a dire come la
lor nobilissima Scuola i loro antichi l'avevano fatta cosí
virtuosissima, solo per far fare aggara tutti i virtuosi nelle lor
professione; e in quel virtuoso modo ei s'era fatto la mirabil
cupola, e le bellissime porte di Santo Giovanni, e tant'altri bei
tempii e statue, le quali facevano una corona di tante
virtú a la lor città, la quale dagli antichi in qua
la non aveva mai aùto pari. Subito la Duchessa con istizza
mi disse, che benissimo lei sapeva quello che io volevo dire; e
disse che alla presenza sua io mai piú parlassi di quel
marmo, perché io gnele facevo dispiacere. Dissi: - Addunche
vi fo io dispiacere per volere essere proccuratore di Vostre
Eccellenzie, facendo ogni opera perché le sieno servite
meglio? Considerate, Signora mia: se Vostre Eccellenzie
illustrissime si contentano, che ogniuno facci un modello di un
Nettunno, se bene voi siate resoluti che l'abbia il Bandinello,
questo sarà causa che 'l Bandinello per onor suo si
metterà con maggiore studio a fare un bel modello, che e'
non farà sapendo di non avere concorrenti: e in questo modo
voi, Signori, sarete molto meglio serviti e non torrete l'animo
alla virtuosa Scuola, e vedrete chi si desta al bene: io dico al
bel modo di questa mirabile arte; e mosterrete voi Signori di
dilettarvene e d'intendervene -. La Duchessa con gran
còllora mi disse che io l'avevo fradicia, e che voleva che
quel marmo fussi del Bandinello, e disse: - Dimandane il Duca, che
anche Sua Eccellenzia vole che e' sia del Bandinello -. Detto che
ebbe la Duchessa, il Duca, che era sempre stato cheto, disse: -
Gli è venti anni che io feci cavare quel bel marmo apposta
per il Bandinello, e cosí io voglio che il Bandinello
l'abbia, e sia suo -. Subito io mi volsi al Duca, e dissi: -
Signor mio, io priego Vostra Eccellenzia illustrissima che mi
faccia grazia che io dica a Vostra Eccellenzia quattro parole per
suo servizio -. Il Duca mi disse che io dicessi tutto quello che
io volevo, e che e' mi ascolterebbe. Allora io dissi: - Sappiate,
Signor mio, che quel marmo, di che 'l Bandinello fece Ercole e
Cacco, e' fu cavato per quel mirabil Michelagnolo Buonaroti, il
quale aveva fatto un modello di un Sensone con quattro figure, il
quale saria stato la piú bella del mondo; e il vostro
Bandinello ne cavò dua figure sole, mal fatte e tutte
rattoppate: il perché la virtuosa Scuola ancor grida del
gran torto che si fece a quel bel marmo. Io credo che e' vi fu
appiccato piú di mille sonetti, in vitupero di cotesta
operaccia; e io so che Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo
se ne ricorda. E però, valoroso mio Signore, se quegli
uomini che avevano cotal cura, furno tanto insapienti, che loro
tolsono quel bel marmo a Michelagnolo, che fu cavato per lui, e lo
dettono al Bandinello, il quale lo guastò, come si vede;
oh! comporterete voi mai che questo ancor molto piú
bellissimo marmo, se bene gli è del Bandinello, il quale lo
guasterebbe, di nollo dare ad uno altro valent'uomo che ve lo
acconci? Fate, Signor mio, che ogniuno che vuole faccia un modello
e dipoi tutti si scuoprano alla Scuola, e Vostra Eccellenzia
illustrissima sentirà quel che la Scuola dice; e Vostra
Eccellenzia con quel suo buon iudizio saprà scerre il
meglio, e in questo modo voi non gitterete via i vostri dinari,
né manco torrete l'animo virtuoso a una tanto mirabile
Scuola, la quale si è oggi unica al mondo: che è
tutta gloria di Vostra Eccellenzia illustrissima -. Ascoltato che
il Duca mi ebbe benignissimamente, subito si levò da tavola
e voltomisi, disse: - Va, Benvenuto mio, e fa un modello, e
guadàgnati quel bel marmo, perché tu mi di' il vero,
e io lo conosco -. La Duchessa, minacciandomi col capo, isdegnata
disse borbottando non so che; e io feci lor reverenza, e me ne
tornai a Firenze, che mi pareva mill'anni di metter mano nel detto
modello.
C. Come il Duca venne a Firenze, senza farmi intendere nulla, e'
se ne venne a casa mia, dove io gli mostrai dua modelletti diversi
l'uno da l'altro; e sebbene egli me gli lodò tutt'a dua, e'
mi disse che uno gnele piaceva piú dell'altro, e che io
finissi bene quello che gli piaceva, che buon per me: e
perché Sua Eccellenzia aveva veduto quello che aveva fatto
il Bandinello e anche degli altri, Sua Eccellenzia lodò
molto piú il mio da gran lunga, ché cosí mi
fu detto da molti dei sua cortigiani, che l'avevano sentito. Infra
l'altre notabile memorie, da farne conto grandissimo, si fu, che
essendo venuto a Firenze il cardinale di Santa Fiore, e menandolo
il Duca al Poggio a Caiano, innel passare, per il viaggio, e
vedendo il detto marmo, il Cardinale lo lodò grandemente, e
poi domandò a chi Sua Eccellenzia lo aveva dedicato che lo
lavorassi. Il Duca subito disse: - Al mio Benvenuto, il quale ne
ha fatto un bellissimo modello -. E questo mi fu ridetto da uomini
di fede: e per questo io me n'andai a trovare la Duchessa e gli
portai alcune piacevole cosette dell'arte mia, le quale Sua
Eccellenzia illustrissima l'ebbe molto care; dipoi la mi
dimandò quello che io lavoravo: alla quale io dissi: -
Signora mia, io mi sono preso per piacere di fare una delle
piú faticose opere che mai si sia fatte al mondo: e questo
si è un Crocifisso di marmo bianchissimo, in su una croce
di marmo nerissimo, ed è grande quanto un grande uomo vivo
-. Subito la mi dimandò quello che io ne volevo fare. Io le
dissi: - Sappiate, Signora mia, che io nollo darei a chi me ne
dessi dumila ducati d'oro in oro; perché una cotale opera
nissuno uomo mai non s'è messo a una cotale estrema fatica;
né manco io non mi sarei ubbrigato affarlo per qualsivoglia
Signore, per paura di non restarne in vergogna. Io mi sono
comperato i marmi di mia danari, e ho tenuto un giovane in circa a
dua anni, che m'ha aiutato, e infra marmi e ferramenti in su che
gli è fermo, e salari, e' mi costa piú di trecento
scudi; attale, che io nollo darei per dumila scudi d'oro; ma se
Vostra Eccellenzia illustrissima mi vuol fare una lecitissima
grazia, io gnele farò volentieri un libero presente: solo
priego Vostra Eccellenzia illustrissima che quella non mi
sfavorisca, né manco non mi favorisca nelli
modelli<B> </B>che Sua Eccellenzia illustrissima si ha
commesso che si faccino del Nettunno per il gran marmo -. Lei
disse con molto sdegno: - Addunche tu non istimi punto i mia aiuti
o mia disaiuti? - Anzi, gli stimo, Signora mia; o perché vi
offero io di donarvi quello che io stimo dumila ducati? Ma io mi
fido tanto delli mia faticosi e disciplinati studii, che io mi
prometto di guadagnarmi la palma, se bene e' ci fussi quel gran
Michelagnolo Buonaroti, dal quale, e non mai da altri, io ho
imparato tutto quel che io so: e mi sarebbe molto piú caro
che e' facessi un modello lui, che sa tanto, che questi altri che
sanno poco; perché con quel mio cosí gran maestro io
potrei guadagnare assai, dove con questi altri non si può
guadagnare -. Dette le mie parole, lei mezzo sdegnata si
levò, e io ritornai al mio lavoro sollicitando il mio
modello quanto piú potevo. E finito che io lo ebbi, il Duca
lo venne a vedere, ed era seco dua imbasciatori, quello del Duca
di Ferrara e quello della Signoria di Lucca, e cosí ei
piacque grandemente, e il Duca disse i quei Signori: - Benvenuto
veramente lo merita -. Allora li detti mi favorirno grandemente
tutt'a dua, e piú lo imbasciatore di Lucca, che era persona
litterata, e dottore. Io, che mi ero scostato alquanto,
perché e' potessino dire tutto quello che pareva loro,
sentendomi favorire, subito mi accostai, e voltomi al Duca, dissi:
- Signor mio, Vostra Eccellenzia illustrissima doverebbe fare
ancora un'altra mirabil diligenzia: comandare che chi vole faccia
un altro modello di terra, della grandezza appunto che gli esce di
quel marmo; e aqquel modo Vostra Eccellenzia illustrissima
vedrà molto meglio chi lo merita; e vi dico: che se Vostra
Eccellenzia lo darà a chi nollo merita, quella<B>
</B>non farà torto a quel che lo merita, anzi la
farà un gran torto a sé medesima, perché la
n'acquisterà danno e vergogna; dove faccendo il contrario,
con il darlo a chi lo merita, in prima ella ne acquisterà
gloria grandissima e spenderà bene il suo tesoro, e le
persone virtuose allora crederranno che quella se ne diletti e se
ne intenda -. Subito che io ebbi ditte queste parole, il Duca si
ristrinse nelle spalle, e avviatosi per andarsene, lo imbasciatore
di Lucca disse al Duca: - Signore, questo vostro Benvenuto si
è un terribile uomo -. Il Duca disse: - Gli è molto
piú terribile che voi non dite; e buon per lui se e' non
fussi stato cosí terribile, perché gli arebbe
aùto a quest'ora delle cose che e' non ha aúte -.
Queste formate parole me le ridisse il medesimo imbasciatore,
quasi riprendendomi<B> </B>che io non dovessi fare
cosí. Al quale io dissi che io volevo bene al mio Signore,
come suo amorevol fidel servo, e non sapevo fare lo adulatore. Di
poi parecchi settimane passate, il Bandinello si morí; e si
credette che, oltre ai sua disordini, che questo dispiacere,
vedutosi perdere il marmo, ne fossi buona causa.
CI. Il detto Bandinello aveva inteso come io avevo fatto quel
Crocifisso che io ho detto di sopra: egli subito messe mano innun
pezzo di marmo, e fece quella Pietà che si vede nella
chiesa della Nunziata. E perché io avevo dedicato il mio
Crocifisso a Santa Maria Novella, e di già vi avevo
appiccati gli arpioni per mettervelo, solo domandai di fare sotto
i piedi del mio Crocifisso, in terra, un poco di cassoncino, per
entrarvi dipoi che io sia morto. I detti frati mi dissono che non
mi podevano concedere tal cosa, sanza il dimandarne i loro Operai;
ai quali io dissi: - O frati, perché non domandasti voi in
prima gli Operai nel dar luogo al mio bel Crocifisso, che senza
lor licenzia voi mi avete lasciato mettere gli arpioni e l'altre
cose? - E per questa cagione io non volsi dar piú alla
chiesa di Santa Maria Novella le mie tante estreme fatiche, se
bene dappoi e' mi venne a trovare quegli Operai e me ne pregorno.
Subito mi volsi alla chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo
in quel modo che io volevo a Santa Maria Novella, quegli virtuosi
frati di detta Nunziata tutti d'accordo mi dissono che io lo
mettessi nella lor chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in
tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito
questo il Bandinello, e' si misse con gran sollecitudine a finire
la sua Pietà, e chiese alla Duchessa che gli facessi avere
quella cappella che era de' Pazzi; la quale s'ebbe con
difficultà: e subito che egli l'ebbe, con molta prestezza
ei messe sú la su opera, la quale non era finita del tutto,
che egli si morí. La Duchessa disse che ella lo aveva
aiutato in vita e che lo aiuterebbe ancora in morte; e che se bene
gli era morto, che io non facessi mai disegno d'avere quel marmo.
Dove Bernardone sensale mi disse un giorno, incontrandoci in
villa, chi la Duchessa aveva dato il marmo; al quale io dissi: -
Oh sventurato marmo! certo che alle mali del Bandinello egli era
capitato male, ma alle mani dell'Ammanato gli è capitato
cento volte peggio! - Io avevo aùto ordine dal Duca di fare
il modello di terra, della grandezza che gli usciva del marmo, e
mi aveva fatto provvedere di legni e terra, e mi fece fare un poco
di parata nella loggia, dove è il mio Perseo, e mi
pagò un manovale. Io messi mano con tutta la sollicitudine
che io potevo, e feci l'ossatura di legno con la mia buona regola,
e felicemente lo tiravo al suo fine, non mi curando di farlo di
marmo, perché io conoscevo che la Duchessa si era disposta
che io noll'avessi, e per questo io non me ne curavo: solo mi
piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi promettevo che,
finito che io lo avessi, la Duchessa, che era pure persona
d'ingegno, avvenga che la l'avessi dipoi veduto, io mi promettevo
che e' le sarebbe incresciuto d'aver fatto al marmo e a sé
stessa un tanto smisurato torto. E' ne faceva uno Giovanni
Fiammingo ne' chiostri di Santa Croce, e uno ne faceva Vincenzio
Danti, perugino, in casa messer Ottaviano de' Medici; un altro ne
cominciò il figliuolo del Moschino a Pisa, e un altro lo
faceva Bartolomeo Ammannato nella Loggia, ché ce l'avevano
divisa. Quando io l'ebbi tutto ben bozzato, e volevo cominciare a
finire la testa, che di già io gli avevo dato un poco di
prima mana,<B></B>il Duca era sceso del Palazzo, e
Giorgetto pittore lo aveva menato nella stanza dell'Ammannato, per
fargli vedere il Nettunno, in sul quale il detto Giorgino aveva
lavorato di sua mano di molte giornate insieme co 'l detto
Ammannato e con tutti i sua lavoranti. In mentre che 'l Duca lo
vedeva, e' mi fu detto che e' se ne sattisfaceva molto poco; e se
bene il detto Giorgino lo voleva empiere di quelle sue cicalate,
il Duca scoteva 'l capo, e voltosi al suo messer Gianstefano,
disse: - Va e dimanda Benvenuto se il suo gigante è di
sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista
-. Il detto messer Gianstefano molto accortamente e
benignissimamente mi fece la imbasciata da parte del Duca; e di
piú mi disse che se l'opera mia non mi pareva che la fussi
ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi: perché
il Duca conosceva benissimo, che io avevo aùto pochi aiuti
a una cosí grande impresa. Io dissi che e' venissi di
grazia, e se bene la mia opera era poco innanzi, lo ingegno di Sua
Eccellenzia illustrissima si era tale che benissimo lo
giudicherebbe quel che ei potessi riuscire finito. Cosí il
detto gentile uomo fece la imbasciata al Duca, il quale venne
volentieri: e subito che Sua Eccellenzia entrò nella
stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei mostrò
d'averne molta sattisfazione: di poi gli girò tutto
all'intorno, fermandosi alle quattro vedute, che non altrimenti si
arebbe fatto uno che fussi stato peritissimo dell'arte; di poi
fece molti gran segni e atti di dimostrazione di piacergli, e
disse solamente: - Benvenuto, tu gli hai a dare solamente una
ultima pelle -; poi si volse a quei che erano con Sua Eccellenzia,
e disse molto bene della mia opera, dicendo: - Il modello piccolo,
che io vidi in casa sua, mi piacque assai; ma questa sua opera si
ha trapassato la bontà del modello.
CII. Sí come piacque a Iddio, che ogni cosa fa per il
nostro meglio - io dico di quegli che lo ricognoscono e che gli
credono, sempre Iddio gli difende - in questi giorni mi
capitò innanzi un certo ribaldo da Vicchio, chiamato
Piermaria d'Anterigoli, e per sopra nome lo Sbietta: l'arte di
costui si è il pecoraio, e perché gli è
parente stretto di messer Guido Guidi, medico e oggi proposto di
Pescia, io gli prestai orecchi. Costui mi offerse di vendermi un
suo podere a vita mia naturale, il qual podere io nollo volsi
vedere, perché io avevo desiderio di finire il mio modello
del gigante Nettunno; e ancora perché e' non faceva di
bisogno che io lo vedessi, perché egli me lo vendeva per
entrata: la quale il detto mi aveva dato in nota di tante moggia
di grano e di vino, olio e biade e marroni e vantaggi, i quali io
facevo il mio conto che al tempo che noi eravamo, le dette robe
valevano molto piú di cento scudi d'oro innoro, e io gli
davo secento cinquanta scudi contando le gabelle. Di modo che,
avendomi lasciato scritto di sua mano che mi voleva sempre, per
tanto quanto io vivevo, mantenere le dette entrate, io non mi
curai d'andare a vedere il detto podere; ma sí bene io, il
meglio che io potetti, mi informai se il detto Sbietta e ser
Filippo, suo fratello carnale erano di modo benestanti che io
fussi sicuro. Cosí da molte persone diverse che gli
conoscevano, mi fu detto che io ero sicurissimo. Noi chiamammo
d'accordo ser Pierfrancesco Bertoldi, notaio alla Mercatanzia; e
la prima cosa io gli detti in mano tutto quello che 'l detto
Sbietta mi voleva mantenere, pensando che la detta scritta si
avessi a nominare innel contratto: di modo che 'l detto notaio,
che lo rogò, attese a' ventidua confini, che gli diceva il
detto Sbietta, e sicondo me ei non si ricordò di includere
nel detto contratto quello che 'l detto venditore mi aveva
offerto; e io, in mentre che 'l notaio scriveva, io lavoravo; e
perché ei penò parecchi ore a scrivere, io feci un
gran brano della testa del detto Nettunno. Cosí avendo
finito il detto contratto, loSbietta mi cominciò affare le
maggior carezze del mondo, e io facevo 'l simile a lui. Egli mi
presentava cavretti, caci, capponi, ricotte e molte frutte, di
modo che io mi cominciai mezzo mezzo a vergognare: e per queste
amorevolezze io lo levavo, ogni volta che lui veniva a Firenze,
d'in su la osteria; e molte volte gli era con qualcuno dei sua
parenti, i quali venivano ancora loro; e con piacevoli modi egli
mi cominciò a dire che gli era una vergogna che io avessi
compro un podere, e che oramai gli era passato tante settimane,
che io non mi risolvessi di lasciare per tre dí un poco le
mie faccende ai mia lavoranti e andassilo a vedere. Costui potette
tanto cone 'l suo lusingarmi, che io pure in mia mal'ora l'andai a
vedere; e il detto Sbietta mi ricevvé in casa sua con tante
carezze e con tanto onore, che ei non ne poteva far piú a
un duca; e la sua moglie mi faceva piú carezze di lui; e in
questo modo noi durammo un pezzo, tanto che e' gli venne fatto
tutto quello che gli avevano disegnato di fare, lui e 'l suo
fratello ser Filippo.
CIII. Io non mancavo di sollicitare il mio lavoro del Nettunno, e
di già l'avevo tutto bozzato, sí come io dissi di
sopra, con bonissima regola, la quale non l'ha mai usata né
saputa nessuno innanzi a me; di modo che, se bene io ero certo di
non avere il marmo per le cause dette di sopra, io mi credevo
presto di aver finito, e subito lasciarlo vedere alla Piazza, solo
per mia sattisfazione. La stagione si era calda e piacevole, di
modo che, essendo tanto carezzato da questi dua ribaldi, io mi
mossi un mercoledí, che era dua feste, di villa mia a
Trespiano, e avevo fatto buona colezione, di sorte che gli era
piú di venti ore quando io arrivai a Vicchio; e subito
trovai ser Filippo alla porta di Vicchio, il qual pareva che
sapessi come io vi andavo; tante carezze ei mi fece e menatomi a
casa dello Sbietta, dove era la sua impudica moglie, ancora lei mi
fece carezze smisurate; alla quale io donai un cappello di paglia
finissimo; perché ella disse di non aver mai veduto il
piú bello. Allora e' non v'era lo Sbietta. Appressandosi
alla sera, noi cenammo tutti insieme molto piacevolmente: di poi
mi fu dato una onorevol camera, dove io mi riposai innun
pulitissimo letto; e a dua mia servitori fu dato loro il simile,
secondo il grado loro. La mattina, quando mi levai, e' mi fu fatto
le medesime carezze. Andai a vedere il mio podere, il quale mi
piacque: e mi fu consegnato tanto grano e altre biade; e di poi,
tornatomene a Vicchio, il prete ser Filippo mi disse: - Benvenuto,
non vi dubitate; che se bene voi non vi avessi trovato tutto lo
intero di quello che e' v'è stato promesso, state di buona
voglia, che e' vi sarà attenuto da vantaggio, perché
voi vi siete impacciato con persone dabbene: e sappiate che
cotesto lavoratore noi gli abbiamo dato licenzia, perché
gli è un tristo -. Questo lavoratore si chiamava Mariano
Rosegli, il quale piú volte mi disse: - Guardate bene a'
fatti vostri, che alla fine voi conoscerete chi sarà di noi
il maggior tristo -. Questo villano, quando ei mi diceva queste
parole, egli sogghignava innun certo mal modo, dimenando 'l capo,
come dire: - Va pur là, che tu te n'avvedrai -. Io ne feci
un poco di mal giudizio, ma io non mi immaginavo nulla di quello
che mi avvenne. Ritornato dal podere, il quale si è due
miglia discoste da Vicchio, inverso l'alpe, trovai il detto prete,
che colle sue solite carezze mi aspettava; cosí andammo a
fare colezione tutti insieme: questo non fu desinare, ma fu una
buona colezione. Dipoi andandomi a spasso per Vicchio, di
già egli era cominciato il mercato; io mi vedevo guardare
da tutti quei di Vicchio come cosa disusa da vedersi, e piú
che ogni altri da un uomo dabbene, che si sta, di molti anni sono,
in Vicchio, e la sua moglie fa del pane a vendere. Egli ha quivi
presso a un miglio certe sue buone possessione; però si
contenta di stare a quel modo. Questo uomo dabbene abita una mia
casa, la quale si è in Vicchio, che mi fu consegnata con il
detto podere, qual si domanda il podere della Fonte; e mi disse: -
Io sono in casa vostra, e al suo tempo io vi darò la vostra
pigione; o vorretela innanzi, in tutti i modi che vorrete
farò: basta che meco voi sarete sempre d'accordo -. E in
mentre che noi ragionavamo, io vedevo che questo uomo mi affisava
gli occhi addosso: di modo che io, sforzato da tal cosa, gli
dissi: - Deh ditemi, Giovanni mio caro, perché voi
piú volte mi avete cosí guardato tanto fiso? -
Questo uomo dabbene mi disse: - Io ve lo dirò volentieri,
se voi, da quello uomo che voi siate, mi promettere di non dire
che io ve l'abbia detto -. Io cosí gli promessi. Allora ei
mi disse: - Sappiate che quel pretaccio di ser Filippo, e' non
sono troppi<B> </B>giorni, che lui si andava vantando
delle valenterie del suo fratello Sbietta, dicendo come gli aveva
venduto il suo podere a un vecchio a vita sua, il quale e non
arriverebbe all'anno intero. Voi vi siate impacciato con parecchi
ribaldi, sí che ingegnatevi di vivere il piú che voi
potete, e aprite gli occhi, perché ci vi bisogna; io non vi
voglio dire altro.
CIV. Andando a spasso per il mercato, vi trovai Giovanbatista
Santini, e lui e io fummo menati accena dal detto prete; e,
sí come io ho detto per l'addietro, egli era in circa alle
venti ore, e per causa mia e' si cenò cosí
abbuon'otta, perché avevo detto che la sera io mi volevo
ritornare a Trespiano: di modo che prestamente e' si messe in
ordine, e la moglie dello Sbietta si affaticava, e infra gli altri
un certo Cecchino Buti, lor lancia. Fatto che furno le insalate, e
cominciando a volere entrare attavola, quel detto mal prete,
faccendo un certo suo cattivo risino, disse: - E' bisogna che voi
mi perdoniate, perché io non posso cenar con esso voi,
perché e' m'è sopragiunto una faccenda di grande
inportanza per conto dello Sbietta, mio fratello: per non ci
essere lui, bisogna che io sopperisca per lui -. Noi tutti lo
pregammo e non potemmo mai svoggerlo: egli se n'andò, e
noi<B> </B>cominciammo accenare. Mangiato che noi
avemmo le insalate in certi piattelloni comuni, cominciandoci a
dare carne lessa, venne una scodella per uno. Il Santino, che mi
era attavola al dirimpetto, disse: - A voi e' danno tutte le
stoviglie diferente da quest'altre: or vedesti voi mai le
piú belle? - Io gli dissi che di tal cosa io non me n'ero
avveduto. Ancora ei mi disse che io chiamassi a tavola la moglie
dello Sbietta, la quale, lei e quel Cecchino Buti, correvono
innanzi e indietro, tutti infaccendati istrasordinatamente. In
fine io pregai tanto quella donna che la venne; la quale si
doleva, dicendomi: - Le mie vivande non vi sono piaciute.
Però voi mangiate cosí poco -. Quando io l'ebbi
parecchi volte lodato la cena, dicendole che io non mangiai mai
né piú di voglia né meglio, all'ultimo io
dissi che io mangiavo il mio bisogno appunto. Io non mi sarei mai
immaginato perché quella donna mi faceva tanta ressa che io
mangiassi. Finito che noi avemmo di cenare gli era passato le
ventun'ora, e io avevo desiderio di tornarmene la sera a
Trespiano, per potere andare l'altro giorno al mio lavoro della
Loggia: cosí dissi addio attutti, e ringraziato la donna mi
parti'. Io non fui discosto tre miglia, che e' mi pareva che lo
stomaco mi ardessi, e mi sentivo travagliato di sorte che e' mi
pareva mill'anni di arrivare al mio podere di Trespiano. Come a
Dio piacque arrivai di notte, con gran fatica, e subito detti
ordine d'andarmene a riposare. La notte io non mi potetti mai
riposare, e di piú mi si mosse 'l corpo, il quale mi
sforzò parecchi volte a 'ndare al destro, tanto che,
essendosi fatto dí chiaro, io sentendomi ardere il sesso,
volsi vedere che cosa la fussi: trovai la pezza molto sanguinosa.
Subito io mi immaginai di aver mangiato qualche cosa velenosa, e
piú e piú volte mi andavo esaminando da me stesso,
che cosa la potessi essere stata: e mi torn&ogr