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Carlo Cafiero
COMPENDIO DEL CAPITALE
1878
L'operaio ha fatto tutto;
e l'operaio può distruggere tutto,
perché può tutto rifare.
Un lavoratore italiano
Indice
Il Capitale di Carlo Marx brevemente compendiato da Carlo Cafiero
Prefazione di Carlo Cafiero
CAPITOLO I
Merce, moneta, ricchezza e capitale
CAPITOLO II
Come nasce il capitale
CAPITOLO III
La giornata di lavoro
CAPITOLO IV
Il plusvalore relativo
CAPITOLO V
Cooperazione
CAPITOLO VI
Divisione del lavoro e manifattura
CAPITOLO VII
Macchine e grande industria
CAPITOLO VIII
Il salario
CAPITOLO IX
Accumulazione del capitale
CAPITOLO X
L'accumulazione primitiva
CONCLUSIONE
APPENDICE:
CORRISPONDENZA CAFIERO - MARX
Cafiero a Marx
Marx a Cafiero
Un profondo sentimento di tristezza mi ha colto, studiando Il
Capitale, quando ho pensato che questo libro era, e chi sa quanto
rimarrebbe ancora, affatto sconosciuto in Italia.
Ma se ciò è, ho poi detto fra me, vuol dire che il mio dovere è
appunto di adoperarmi a tutt'uomo, onde ciò più non sia. E che fare?
Una traduzione? Ohibò. Ciò non servirebbe a nulla. Coloro che sono
in grado di comprendere l'opera di Marx, tale quale egli l'ha
scritta, conoscono certamente il francese, e possono avvalersi della
bella traduzione di J. Roy, interamente riveduta dall'autore, il
quale la dice meritevole di essere consultata anche da coloro che
conoscono l'idioma tedesco. È ben altra la gente per la quale io
devo lavorare. Essa si divide in tre categorie: la prima si compone
di lavoratori dotati d'intelligenza e di una certa istruzione; la
seconda, di giovani che sono usciti dalla borghesia, e hanno sposata
la causa del lavoro, ma che non hanno peranco né un corredo di studi
né uno sviluppo intellettuale sufficiente per comprendere Il
Capitale nel suo testo originale; la terza, finalmente, di quella
prima gioventù delle scuole, dal cuore ancora vergine, che può
paragonarsi a un bel vivaio di piante ancora tenere, ma che daranno
i più buoni frutti, se trapiantate in terreno propizio. Il mio
lavoro deve essere dunque un facile e breve compendio del libro di
Marx.
Questo libro rappresenta il nuovo vero, che demolisce, stritola e
disperde ai venti tutto un secolare edificio di errori e di
menzogne. Esso è tutta una guerra. Una guerra gloriosa, e per la
potenza del nemico, e per la potenza, ancora più grande, del
capitano, che l'intraprendeva con sì grande quantità di nuovissime
armi, di istrumenti e macchine di ogni sorta, che il suo genio aveva
saputo ritrarre da tutte le scienze moderne.
Di gran lunga più ristretto e modesto è il compito mio. Io devo
solamente guidare una turba di volenterosi seguaci per la strada più
facile e breve al tempio del capitale; e là demolire quel dio, onde
tutti possano vedere con i propri occhi e toccare con le proprie
mani gli elementi dei quali esso si compone; e strappare le vesti ai
sacerdoti, affinché tutti possano vedere le nascoste macchie di
sangue umano, e le crudelissime armi, con le quali essi vanno, ogni
giorno, immolando un sempre crescente numero di vittime.
E in questi propositi che mi accingo all'opera. Possa frattanto Marx
adempire la sua promessa, dandoci il secondo volume del Capitale,
che tratterà della Circolazione del Capitale (libro II), e delle
forme diverse che riveste nel corso del suo sviluppo (libro III), e
il quarto e ultimo volume che esporrà la Storia della teoria.
Questo primo libro del Capitale, scritto originalmente in tedesco e
poscia tradotto in russo e in francese, è ora brevemente compendiato
in italiano nell'interesse della causa del lavoro. Lo leggano i
lavoratori e lo meditino attentamente perché in esso si contiene non
solamente la storia dello Sviluppo della produzione capitalista, ma
eziandio il Martirologio del lavoratore.
E finalmente, farò anche appello a una classe altamente interessata
nel fatto della accumulazione capitalista, alla classe cioè dei
piccoli proprietari. Come va che questa classe, un giorno tanto
numerosa in Italia, oggi si va sempre più restringendo? La ragione è
molto semplice. Perché dal 1860 l'Italia si è messa a percorrere con
più alacrità il cammino, che devono necessariamente percorrere tutte
le nazioni moderne; il cammino che mena all'accumulazione
capitalistica, la quale ha in Inghilterra raggiunta quella forma
classica, che cerca di raggiungere in Italia come in ogni altro
paese moderno. Meditino i piccoli proprietari sulle pagine della
storia d'Inghilterra riportate in questo libro, meditino
sull'accumulazione capitalista, accresciuta in Italia dalle
usurpazioni dei grandi proprietari e dalla liquidazione dei beni
ecclesiastici e dei beni demaniali, scuotano il torpore che opprime
loro la mente e il cuore, e si persuadano una buona volta che la
loro causa è la causa dei lavoratori, perché essi saranno
inevitabilmente ridotti tutti, dalla moderna accumulazione
capitalista, alla trista condizione: o vendersi al governo per la
pagnotta, o scomparire per sempre fra le dense file del
proletariato.
C. C.
CAPITOLO I
Merce, moneta, ricchezza e capitale
La merce è un oggetto che ha un doppio valore: valore di uso e
valore di scambio, o valore propriamente detto. Se posseggo, per
esempio, 20 chili di caffè, io posso, sia consumarli per mio proprio
uso, sia scambiarli con 20 metri di tela, o con un abito, o con 250
grammi di argento, se, invece di caffè, ho bisogno di una di queste
3 merci.
Il valore di uso della merce è basato sulle qualità proprie della
merce stessa, la quale è, da quelle sue qualità, destinata a
soddisfare il tale, e non il tal altro bisogno nostro. Il valore
d'uso dei 20 chili di caffè è basato sulle qualità che il caffè
possiede; le quali qualità sono tali, che lo rendono atto a darci
quella bevanda nota a tutti, ma non lo rendono capace a vestirci, né
a servirci di materia per una camicia. È perciò che noi possiamo
profittare del valore d'uso dei 20 chili di caffè, solamente se
sentiamo bisogno di bere il caffè; ma se invece sentiamo il bisogno
di una camicia, o di vestire un abito del valore d'uso dei 20 chili
di caffè, non sappiamo che farne; o, per meglio dire, non sapremmo
che farne, se accanto al valore d'uso, non vi fosse, nella merce, il
valore di scambio. Noi infatti troviamo un altro che possiede un
abito, ma che non ne ha bisogno, ed ha bisogno invece di caffè.
Allora si fa subito uno scambio. Noi gli diamo i 20 chili di caffè
ed egli ci dà l'abito.
Ma succede che le merci, mentre differiscono tutte fra loro per le
loro qualità diverse, cioè per il loro valore di uso, si possano poi
tutte scambiare fra di loro in date proporzioni? Noi lo abbiamo già
detto.
Perché, accanto al valore di uso, trovasi nella merce il valore di
scambio. Ora, la base del valore di scambio, o valore propriamente
detto, è il lavoro umano richiesto per la produzione. La merce è
procreata dal lavoratore; il lavoro umano è la sostanza generativa
che le dà l'esistenza. Tutte le merci adunque, benché diverse fra
loro per le qualità, sono perfettamente simili nella sostanza,
perché, figlie di un medesimo padre, hanno tutte il medesimo sangue
nelle loro vene. Se 20 chili di caffè si scambiano con un abito, o
con 20 metri di tela, egli è appunto perché per produrre 20 chili di
caffè ci vuole tanto lavoro umano, quanto ce ne vuole per produrre
un abito, o 20 metri di tela. La sostanza dunque del valore è il
lavoro umano, e la grandezza del valore è determinata dalla
grandezza dello stesso lavoro umano. La sostanza del valore è la
stessa in tutte le merci; dunque non resta che eguagliarne la
grandezza, perché le merci siano, come espressione di valore, tutte
uguali fra loro, tutte scambiabili cioè l'una con l'altra.
La grandezza del valore dipende dalla grandezza del lavoro; in 12
ore di lavoro si produce un valore doppio di quello che si produce
in sei ore solamente. Dunque, direbbe alcuno, più un operaio è lungo
a lavorare, per inabilità o per pigrizia, più valore produce. Niente
di più falso. Il lavoro, che forma la sostanza del valore, non è il
lavoro di Pietro o di Paolo, ma un lavoro medio, che è sempre
uguale, e che è detto propriamente lavoro sociale. Esso è quel
lavoro, che, in un dato centro di produzione, può farsi in media da
un operaio, il quale lavori con una media abilità ed una media
intensità.
Conosciuto il doppio carattere della merce, di essere, cioè, un
valore di uso e un valore di scambio, si comprenderà che la merce
può nascere solamente per opera del lavoro, e di un lavoro utile a
tutti. L'aria per esempio, le praterie naturali, la terra vergine
ecc. sono utili all'uomo, ma non costituiscono per lui alcun valore,
perché non sono il prodotto del suo lavoro e, per conseguenza, non
sono merci. Noi possiamo fabbricarci oggetti per i nostri propri
usi, ma che non possono essere utili per gli altri; in tal caso non
produciamo merci; come ancor meno ne produciamo quando lavoriamo
intorno ad oggetti, che non hanno alcuna utilità né per noi né per
gli altri.
Le merci, dunque, si scambiano tra loro; l'una, cioè, si presenta
come l'equivalente dell'altra. Per la maggiore comodità degli scambi
si comincia a servirsi sempre di una data merce come equivalente; la
quale esce così dal rango di tutte le altre, per mettersi di fronte
ad esse quale equivalente generale, cioè moneta. La moneta perciò è
quella merce che, per la consuetudine e per la sanzione legale, ha
monopolizzato il posto di equivalente generale. Così è avvenuto da
noi per l'argento. Mentre prima 20 chili di caffè, un abito, 20
metri di tela e 250 grammi di argento erano quattro merci, che si
scambiavano indistintamente fra loro, oggi invece si ha che 20 chili
di caffè, 20 metri di tela ed un abito sono tre merci, che valgono
250 grammi di argento, cioè 50 lire.
Però, sia che lo scambio si faccia immediatamente da merce a merce,
sia che lo scambio si faccia mediante la moneta, la legge degli
scambi resta sempre la stessa. Una merce non si può mai scambiare
con un'altra, se il lavoro che ci vuole per produrre l'una non è
uguale al lavoro che ci vuole per produrre l'altra. Questa legge
bisogna tenerla bene in mente, perché sopra di essa è fondato tutto
ciò che verremo a dire in seguito.
Venuta la moneta, gli scambi diretti od immediati, da merce a merce,
finiscono. Gli scambi devono farsi tutti, d'ora in poi, mediante la
moneta; dimodoché una merce che voglia trasformarsi in un'altra,
deve, prima, da merce trasformarsi in moneta, poi da moneta
ritrasformarsi in merce. La formula degli scambi, dunque, non sarà
più una catena di merci, ma una catena di merci e moneta. Eccola:
Merce-Moneta-Merce-Moneta-Merce-Moneta.
Ora, se in questa formula troviamo indicati i giri che fa la merce,
nelle sue successive trasformazioni, troviamo egualmente segnati i
giri della moneta. È da questa stessa formula dunque che ricaveremo
la formula del capitale.
Quando noi ci troviamo in possesso di un certo cumulo di merci, o di
moneta, che è la stessa cosa, noi siamo possessori di una certa
ricchezza. Se noi a questa ricchezza possiamo far prendere un corpo,
cioè un organismo capace di svilupparsi, avremo un capitale.
Prendere un corpo, od un organismo capace di svilupparsi, vuol dire
nascere e crescere; e infatti l'essenza del capitale è riposta
appunto nella natura possibilmente prolifica della moneta.
La risoluzione del problema (trovare il modo di far nascere il
capitale) è contenuta nella risoluzione dell'altro problema: trovare
il modo di far aumentare il danaro progressivamente.
Nella formula, che segna i giri delle merci e della moneta,
aggiungiamo, al termine moneta, un segno di aumento progressivo
indicandolo, per esempio, con un numero e avremo:
Moneta-Merce-Moneta 1-Merce-Moneta 2-Merce-Moneta 3
Ecco la formula del capitale.
CAPITOLO II
Come nasce il capitale
Esaminando attentamente la formula del capitale, si rileva che in
ultima analisi la questione della nascita del capitale si risolve
nell'altra questione seguente: trovare una merce che ci dia più di
quanto ci è costata; trovare una merce la quale, nelle nostre mani,
possa crescere di valore, dimodoché, vendendola, noi venissimo a
prendere più denaro di quanto ne spendemmo per comprarla. Deve
essere insomma una merce elastica che, nelle nostre mani, stirata
alquanto, possa ingrandire il volume del suo valore. Questa merce
tanto singolare esiste davvero e si chiama potenza del lavoro, o
forza del lavoro.
Ecco l'uomo del denaro, l'uomo che possiede un cumulo di ricchezza,
dalla quale vuol far partorire un capitale. Egli viene sul mercato,
in cerca appunto di forza di lavoro. Seguiamolo. Egli gira per il
mercato, ed incontra il proletario, venutovi appunto per vendere la
sua unica merce, la forza del lavoro. Il proletario però non vende
la sua forza di lavoro in blocco, non la vende tutta, ma solamente
in parte, per un dato tempo, cioè per un giorno, per una settimana,
per un mese, ecc. Se egli la vendesse interamente, allora, da
mercante, diventerebbe egli stesso una merce; non sarebbe più il
salariato, ma lo schiavo del suo padrone.
Il prezzo della forza del lavoro si calcola nel modo seguente. Si
prenda il prezzo dei viveri, abiti, abitazione e di quanto altro
occorre in un anno al lavoratore per mantenere la sua forza di
lavoro, sempre nel suo stato normale; si aggiunga, a questa prima
somma, il prezzo di quanto occorre in un anno al lavoratore per
procreare, allevare ed educare, secondo la sua condizione, i suoi
figli; si divida il totale per 365, quanti sono i giorni dell'anno,
e si avrà quanto, ciascun giorno, si richiede per mantenere la forza
del lavoro, il suo prezzo giornaliero, che è il salario giornaliero
del lavoratore. Se fa parte di questo calcolo anche ciò che occorre
al lavoratore per procreare, allevare ed educare i suoi figli, è
perché questi sono la continuazione della sua forza lavoro. Se il
proletario vendesse non in parte ma in tutto la sua forza lavoro,
allora, divenuto egli stesso una merce, cioé schiavo del suo
padrone, i figli che egli procreerebbe sarebbero eziandio una merce,
cioè schiavi, al pari di lui, del suo padrone; ma, alienando il
proletario solamente una parte della sua forza lavoro, egli ha
diritto a conservare tutto il resto, che si trova parte in lui e
parte nei suoi figli.
Con questo calcolo noi otteniamo l'esatto prezzo della forza lavoro.
La legge degli scambi, esposta nel precedente capitolo, dice che una
merce non si può scambiare che con un'altra del suo stesso valore,
cioè che una merce non si può scambiare con un'altra se il lavoro
che ci vuole per produrre l'una non è uguale al lavoro che ci vuole
per produrre l'altra. Ora, il lavoro che ci vuole per produrre la
forza lavoro è uguale al lavoro che ci vuole per produrre le cose
necessarie al lavoratore, e per conseguenza il valore delle cose
necessarie al lavoratore è uguale al valore della sua forza lavoro.
Se dunque il lavoratore ha bisogno di 3 lire al giorno per tutte le
cose che gli sono necessarie, è chiaro che 3 lire sarà il prezzo
della sua forza lavoro per una giornata.
Ora supponiamo (e il supposto in nulla ci nuoce) che il salario
giornaliero di un operaio, ricercato nel modo testé esposto, ammonti
a 3 lire. Supponiamo eziandio che, in 6 ore di lavoro, si possano
produrre 15 grammi d'argento, il cui equivalente è 3 lire.
L'uomo del denaro ha intanto stretto il contratto col proletario,
pagandogli la sua forza lavoro al suo giusto prezzo di 3 lire al
giorno. Egli è un borghese perfettamente onesto ed anche religioso,
per cui si guarderebbe bene di defraudare la mercede all'operaio. Né
si potrà fare l'appunto che il salario viene pagato all'operaio alla
fine della giornata o della settimana, cioè dopo che egli ha già
prodotto il suo lavoro; perché questo è quanto si pratica anche con
altre merci, il cui valore si realizza nell'uso, come è per esempio
il fitto di una casa, o di un podere, il cui prezzo si può pagare
allo spirare del termine.
Tre sono gli elementi del processo del lavoro: I forza del lavoro,
II materia del lavoro e III mezzo del lavoro. Il nostro uomo del
denaro, dopo la forza del lavoro, ha comprato sul mercato anche la
materia del lavoro, cioè bambagia; il mezzo di lavoro, cioè
l'opificio con tutti gli strumenti, è bello e pronto; e, per
conseguenza, altro non gli resta a fare che mettersi la via fra le
gambe per dare tosto principio all'opera.
«Una certa trasformazione ci sembra essersi operata nella fisionomia
dei personaggi del nostro dramma. L'uomo del denaro prende la
precedenza e, in qualità di capitalista, cammina per il primo; il
possessore della forza lavoro gli tien dietro, come lavoratore che
gli appartiene; quegli, dallo sguardo furbo e dall'aspetto altero e
affaccendato; questi, timido, esitante, restìo, come chi, avendo
portata la sua propria pelle al mercato, non può aspettarsi ormai
che una sola cosa: essere conciato.»
I nostri due personaggi giungono all'opificio, dove il padrone si
affretta a mettere il suo operaio al lavoro, consegnandogli 10 chili
di bambagia, essendo questi un filatore di cotone.
Il lavoro si risolve in un consumo degli elementi che lo compongono;
consumo di forza lavoro, consumo della materia del lavoro e consumo
dei mezzi del lavoro.
Il consumo dei mezzi del lavoro si calcola nel seguente modo. Dalla
somma del valore di tutti i mezzi del lavoro, fabbricato, istrumenti
caloriferi, carbone, eccetera, si sottragga la somma del valore di
tutti i materiali che potranno rimanere dei mezzi di lavoro messi
dal consumo fuori d'uso; si divida il risultato di questa
sottrazione per il numero di giorni che i mezzi di lavoro possono
durare, e si avrà il consumo giornaliero dei mezzi del lavoro.
Il nostro operaio lavora per tutta una giornata di 12 ore. Compiuta
la quale, egli ha trasformato i 10 chili di bambagia in 10 chili di
filo, che consegna al suo padrone, e lascia l'opificio per ridursi a
casa. Strada facendo, però, per quel brutto vizio che hanno gli
operai, di voler sempre fare i conti alle spalle dei loro padroni,
egli va ricercando nella sua mente quanto il suo padrone potrà
guadagnare su quei 10 chili di filo. Non so veramente quanto si
paghi il filo, dice fra sé, ma il conto è presto fatto. La bambagia
l'ho visto io quando l'ha comprata al mercato a 3 lire al chilo.
Tutti i suoi mezzi del lavoro possono avere un consumo di 4 lire al
giorno. Dunque:
Per 10 chili di bambagia L. 30,00
Per consumo di mezzi di lavoro L. 4,00
Per salario della giornata L. 3,00
———
Totale L. 37,00
I 10 chili di filo valgono 37 lire. Ora sulla bambagia non ci ha
guadagnato nulla certamente, perché l'ha pagata al suo giusto
prezzo, né un centesimo di più né un centesimo di meno; tale quale
ha agito con me, pagando la mia forza lavoro al suo giusto prezzo di
3 lire al giorno; dunque, il suo guadagno egli lo deve trovare
vendendo il suo filo per più di quello che vale. Deve essere
assolutamente così; se no egli avrebbe speso 37 lire per prendere
giusto 37 lire, senza contare il tempo che ha perduto ed il fastidio
che si è preso. Guarda mo' come son fatti i padroni! Hanno un bel
voler fare gli onesti con l'operaio dal quale comprano la forza
lavoro, col mercante dal quale comprano la materia, ma il loro punto
debole ce lo hanno sempre, e noialtri operai, che conosciamo le cose
del mestiere, lo scopriamo subito. Ma vendere una merce per più di
quello che vale è come vendere coi pesi falsi, il che è proibito
dall'autorità. Dunque, se gli operai svelassero le frodi dei
padroni, questi sarebbero costretti a chiudere i loro opifici; e per
far produrre le merci richieste dai bisogni, forse si aprirebbero
grandi stabilimenti governativi; il che sarebbe molto meglio.
Così fantasticando l'operaio è giunto a casa; e là, cenato, si è
messo a letto e si è addormentato profondamente, sognando la
scomparsa dei padroni e la fondazione delle officine governative.
Dormi, povero amico, dormi in pace, frattanto che ti resta ancora
una speranza. Dormi in pace, ché il giorno del disinganno non
tarderà a venire. Presto imparerai come il tuo padrone possa vendere
la sua merce con profitto, senza defraudare alcuno. Egli stesso ti
farà vedere come si diventi capitalista, e grosso capitalista,
rimanendo perfettamente onesto. Allora i tuoi sonni non saranno più
così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come un
incubo, che ti preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio
spaventato lo vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle cento
proboscidi, che avidamente ricercano i pori del tuo corpo per
succhiarne il sangue. E finalmente lo vedrai assumere proporzioni
smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell'aspetto, con occhi
e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe
aspiranti, entro le quali vedrai scomparire migliaia di esseri
umani: uomini, donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà allora il
sudore della morte, perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi
figli starà per arrivare... Ed il tuo ultimo gemito sarà coperto
dallo sghignazzare allegro del mostro, felice del suo stato, tanto
più prospero, tanto più inumano.
Torniamo al nostro uomo del denaro.
Questo borghese, modello di esattezza e di ordine, ha regolato tutti
i suoi conti della giornata; ed ecco come ha ricercato il prezzo dei
suoi 10 chili di filo:
Per 10 chili di bambagia a 3 lire il chilo L. 30,00
Per consumo di mezzi di lavoro L. 4,00
Ma circa il terzo elemento, entrato nella formazione della sua
merce, egli non ha segnato il salario pagato all'operaio. Egli
conosce molto bene che passa una grande differenza tra il prezzo del
lavoro ed il prodotto della forza lavoro. Il salario di una giornata
rappresenta quanto ci vuole per mantenere l'operaio per 24 ore, ma
non rappresenta affatto ciò che l'operaio produce in una giornata di
lavoro. Il nostro uomo del denaro sa benissimo che le 3 lire di
salario da lui pagate rappresentano il mantenimento per 24 ore del
suo operaio, ma non ciò che questi ha prodotto nelle 12 ore che ha
lavorato nel suo opificio. Egli sa tutto questo, precisamente come
l'agricoltore sa la differenza che passa fra ciò che il mantenimento
di una vacca gli costa per stalla, nutrimento, eccetera, e ciò che
essa gli rende in latte, cacio, burro, eccetera. La forza lavoro ha
la qualità singolare di rendere più di quanto costa ed è per questo,
appunto, che l'uomo del denaro è andato a comprarla sul mercato. Né
in ciò l'operaio ha niente da ridire. Egli ha ritirato il giusto
prezzo della sua merce; la legge degli scambi è stata perfettamente
osservata; ed egli non ha il diritto di ingerirsi dell'uso che il
compratore ne farà, come non ne ha il droghiere d'ingerirsi dell'uso
che il suo avventore farà dello zucchero e del pepe comprato nella
sua bottega.
Noi abbiamo supposto di sopra che, in 6 ore di lavoro, si producono
15 grammi d'argento, equivalenti a 3 lire. Dunque, se in 6 ore la
forza lavoro produce un valore di 3 lire, in 12 ore ne produrrà uno
di 6 lire. Ecco dunque il conto, che ci indica il valore dei 10
chili di filo:
Per 10 chili di bambagia a 3 lire il chilo L. 30,00
Per consumo di mezzi di lavoro L. 4,00
Per 12 ore di forza lavoro L. 6,00
———
Totale L.40,00
L'uomo del denaro ha quindi speso 37 lire ed ha ottenuto una merce
che vale 40 lire; ha guadagnato così 3 lire; il suo denaro ha
figliato.
Il problema è sciolto. È nato il capitale.
CAPITOLO III
La giornata di lavoro
Il capitale, nato appena, sente tosto il bisogno di nutrimento per
svilupparsi; ed il capitalista, il quale non vive ora che della vita
del capitale, si preoccupa attentamente dei bisogni di quest'essere,
divenuto il suo cuore e la sua anima, e trova il modo di
soddisfarli.
Il primo mezzo, impiegato dal capitalista a pro' del suo capitale, è
il prolungamento della giornata di lavoro. Certamente che la
giornata di lavoro ha i suoi limiti. Anzitutto un giorno non consta
che di 24 ore; poi bisogna da queste 24 ore toglierne un certo
numero, perché l'operaio possa soddisfare tutti i suoi bisogni
fisici e morali: dormire, nutrirsi, riposare le sue forze, eccetera.
«Ma questi limiti sono per loro stessi molto elastici e lasciano la
più grande latitudine. Così noi troviamo giornate di lavoro di 10,
12, 14, 16 e 18 ore, cioè delle più svariate lunghezze. Il
capitalista ha comprato la forza lavoro per il suo valore
giornaliero. Egli ha dunque acquistato il diritto di fare lavorare,
durante tutto il giorno, il lavoratore al suo servizio. Ma che cosa
è un giorno di lavoro? In ogni caso esso è minore di un giorno
naturale. Di quanto? Il capitalista ha la sua propria maniera di
vedere su questo limite necessario della giornata di lavoro. Il
tempo nel quale l'operaio lavora è il tempo nel quale il capitalista
consuma la forza lavoro che egli ha comprato dall'operaio. Se il
salariato consuma per se medesimo il tempo che ha disponibile, egli
ruba al capitalista. Il capitalista se ne appella dunque alla legge
dello scambio delle merci. Egli cerca, come ogni altro compratore,
di tirare dal valore d'uso della merce la più grossa parte
possibile. Ma ecco che si leva la voce del lavoratore, e dice: "La
merce che io ti ho venduto si distingue dalla turba di tutte le
altre merci, perché il suo uso crea valore, e un valore più grande
del suo costo stesso. È perciò che tu l'hai comprata. Ciò che a te
sembra accrescimento di capitale, è per me eccedenza di lavoro. Tu
ed io non conosciamo sul mercato che una legge, quella degli scambi
delle merci. Il consumo della merce appartiene non al venditore che
l'aliena, ma al compratore che l'acquista. L'uso della mia forza di
lavoro ti appartiene dunque. Ma col prezzo quotidiano della sua
vendita io devo ogni giorno poterla riprodurre e vendere di nuovo.
Astrazione fatta dall'età e dalle altre cause naturali di
deperimento, io devo essere tanto vigoroso e destro domani come
oggi, per riprendere il mio lavoro con la medesima forza. Tu mi
predichi costantemente il vangelo del risparmio, dell'astinenza e
dell'economia. Benissimo! Io voglio, da amministratore savio e
intelligente, economizzare la mia unica fortuna, la mia forza
lavoro, ed astenermi da ogni folle prodigalità. Io voglio ciascun
giorno metterne in movimento, convertirne in lavoro, spenderne, in
una parola, solamente tanto quanto sarà compatibile con la sua
durata normale e col suo sviluppo regolare. Con un prolungamento
oltre misura della giornata di lavoro tu puoi in un sol giorno
mobilizzare una così grande quantità della mia forza lavoro che io
non la posso sostituire nemmeno con tre giornate. Ciò che tu
guadagni in lavoro io lo perdo in sostanza. Ora, l'impiego della mia
forza ed il suo sfruttamento sono due cose interamente differenti.
Se l'ordinario periodo della vita di un operaio, data una media
ragionevole di lavoro, è di trent'anni, e tu consumi in dieci anni
la mia forza lavoro, tu non mi paghi che un terzo del suo valore
giornaliero, tu mi rubi ogni giorno due terzi della mia merce. Tu
paghi una forza lavoro di un giorno, mentre ne consumi una di tre.
Io domando dunque una giornata di lavoro di una durata normale, e la
domando senza fare appello al tuo cuore, perché in affari non v'ha
posto per il sentimento. Tu puoi essere un borghese modello, forse
anche membro della Società protettrice degli animali, e per
soprammercato in odore di santità; poco importa. Ciò che tu
rappresenti di fronte a me è affatto estraneo a ciò che può
interessare il mio cuore. Io esigo la giornata di lavoro normale,
perché voglio il valore della mia merce come ogni altro venditore".
«Come si vede, siamo entro limiti molto elastici e la natura stessa
dello scambio delle merci non impone alcun limite alla giornata di
lavoro. Il capitalista sostiene il suo diritto come compratore,
quando cerca di prolungare questa giornata il più che gli è
possibile e di fare di due giorni uno solo. D'altra parte la natura
speciale della merce venduta esige che il suo consumo per il
compratore non sia illimitato, e il lavoratore sostiene il suo
diritto come venditore, quando vuole restringere la giornata di
lavoro ad una durata normalmente determinata. V'ha dunque diritto
contro diritto, tutti due portanti il sigillo della legge che regola
gli scambi delle merci. Fra due diritti uguali chi decide? la
Forza.»
Come agisca la forza, oggi tutta del capitale e per il capitale, ce
lo diranno i fatti, che ora verremo esponendo. I fatti citati in
questo libro sono presi tutti dall'Inghilterra: primieramente,
perché questo è il paese dove la produzione capitalista ha raggiunto
il massimo suo sviluppo, verso il quale, del resto, tendono tutti i
paesi civili; e, in secondo luogo, perché solamente in Inghilterra
si ha un confacente materiale di documenti, riguardanti le
condizioni del lavoro, e raccolti per opera di regolari Commissioni
governative. I modesti limiti di questo compendio non consentono,
però, che la riproduzione di una sola piccola parte dei ricchi
materiali raccolti nell'opera di Marx.
Ecco alcuni dati presi dalle inchieste fattesi nel 1860 e 1863
nell'industria ceramica. W. Wood, di nove anni, aveva 7 anni e 10
mesi quando cominciò a lavorare. Egli lavorava tutti i giorni della
settimana, dalle 6 del mattino sino alle 9 di sera, cioè 15 ore al
giorno. J. Murray, di 12 anni, lavorava a portare le forme e a
girare la ruota. Egli cominciava a lavorare alle 6, qualche volta
perfino alle 4 del mattino; e il suo lavoro era prolungato,
talvolta, sino al giorno susseguente. E non era solo, ma in
compagnia di altri 8 o 9 ragazzi, che erano trattati come lui. Il
chirurgo Charles Piarson così scrive ad un Commissario governativo:
«Io non posso parlare che basandomi sulle mie osservazioni personali
e non sulla statistica; e certifico che sono stato spesso
immensamente nauseato dalla vista di questi poveri fanciulli, la cui
salute è sacrificata per soddisfare con un lavoro eccessivo la
cupidigia dei loro genitori e di quelli che li impiegano». Egli
enumera le cause di malattia dei vasai e chiude la lista con la
causa principale, cioè, le lunghe ore di lavoro.
Nelle fabbriche di fiammiferi la metà dei lavoratori sono fanciulli
al di sotto di 13 anni e adolescenti al di sotto di 18. È solamente
la parte più povera della popolazione, che presta i suoi figli a
questa industria tanto malsana e ripugnante. Fra i testimoni che il
Commissario White intese nel 1863 ve n'erano 270 al di sotto di 18
anni, 40 al di sotto di 10 anni, 12 di 8 anni e perfino 5 di soli 6
anni. La giornata di lavoro variava fra le 12, 14 e 15 ore. Essi
lavoravano la notte, prendendo il cibo ad ore irregolari, e quasi
sempre nel medesimo locale della fabbrica, tutto impastato dal
fosforo.
Nelle fabbriche di tappezzerie, durante il tempo dei maggiori
affari, che è da ottobre ad aprile, il lavoro dura quasi senza
interruzione dalle 6 di mattino sino alle 10 della sera; è protratto
talvolta anche nella notte. Nel verno 1862, su 19 fanciulle, 6 non
si videro più a causa di malattie causate dall'eccesso di lavoro. Le
altre per tenerle deste bisognava scuoterle. I fanciulli erano tanto
stanchi, che non potevano tenere gli occhi aperti. Un operaio depone
innanzi alla Commissione d'inchiesta, in questi termini: «Il mio
piccolo figlio che vedete, io soleva portarmelo sulle spalle, quando
egli aveva 7 anni, per andare e venire dalla fabbrica, a causa della
neve, ed egli lavorava ordinariamente 16 ore!... Ben sovente io mi
sono accosciato vicino a lui per farlo mangiare mentr'egli era alla
macchina, perché non doveva abbandonarla, né interrompere il suo
lavoro».
Verso la fine di giugno 1863, i giornali di Londra menarono gran
rumore per la morte, causata semplicemente da eccesso di lavoro, di
una modista di 20 anni, impiegata in una casa che serviva la Corte.
Essa, che d'ordinario lavorava 16 ore e mezza al giorno, tempo
normale delle modiste, avea dovuto, per un ballo di Corte, lavorare
straordinariamente per ben 26 ore e mezza senza interruzione, con
altre 60 fanciulle. Ma prima di compiere il suo lavoro era morta. Il
medico, giunto troppo tardi al suo letto, la dichiarò morta per
lunghe ore di lavoro in un laboratorio troppo pieno di gente ed in
una camera da letto troppo stretta e senza ventilazione.
In uno dei quartieri più popolari di Londra, la mortalità dei
fabbri, ogni anno, è di 31 su 1000. Quest'arte, che pur tanto
concorda con la struttura umana, in causa della esagerazione del
lavoro diventa distruttiva dell'uomo.
Ecco come il capitale sferza il lavoro, il quale, dopo molto
soffrire, cerca alla fine di resistergli. I lavoratori si coalizzano
e domandano, al potere sociale, la determinazione di una giornata
normale di lavoro. Quanto da ciò possano ottenere, si comprende
facilmente, considerando che la legge deve essere fatta ed applicata
dagli stessi capitalisti, contro i quali gli operai vorrebbero farla
valere.
CAPITOLO IV
Il plusvalore relativo
La forza lavoro, producendo un valore maggiore di quanto essa vale,
cioè un plusvalore, ha generato il capitale; ingrossando poi questo
plusvalore col prolungamento della giornata di lavoro, ha procurato
al capitale nutrimento sufficiente per la sua prima età. Il capitale
cresce, ed il plusvalore deve aumentare per soddisfare il cresciuto
bisogno. Aumento di plusvalore, però, altro non vuol dire, come
abbiamo già visto, che prolungamento della giornata di lavoro, la
quale ha pure infine il suo limite necessario, per quanto essa sia
una lunghezza molto elastica. Per poco che sia il tempo che il
capitalista lascia all'operaio per la soddisfazione dei suoi più
stretti bisogni, la giornata di lavoro sarà sempre minore delle 24
ore. La giornata di lavoro incontra dunque un limite naturale, e il
plusvalore, per conseguenza, un ostacolo insormontabile. Indichiamo
una giornata di lavoro con la linea A B.
A——D——C——B
La lettera A ne indichi il principio e B la fine, quel termine
naturale, cioè, oltre il quale non è possibile andare. Sia AC la
parte della giornata in cui l'operaio produce il valore del salario
ricevuto e CB la parte della giornata in cui l'operaio produce il
plusvalore. Il nostro filatore di cotone, infatti, vedemmo che,
ricevendo 3 lire di salario, con una metà della sua giornata
riproduceva il valore del suo salario, e con l'altra metà produceva
3 lire di plusvalore. Il lavoro AC, con cui si produce il valore del
salario, dicesi lavoro necessario, mentre il lavoro CB, che produce
il plusvalore, chiamasi sopralavoro. Il capitalista è assetato di
sopralavoro, perché è questo che genera il plusvalore. Il
sopralavoro prolungato prolunga la giornata di lavoro, la quale
finisce per incontrare il suo limite naturale B, che presenta un
ostacolo insormontabile al sopralavoro ed al plusvalore. Che fare
allora? Il capitalista trova presto il rimedio. Egli osserva che il
sopralavoro ha due limiti, l'uno B, fine della giornata di lavoro,
l'altro C, fine del lavoro necessario; se il limite B è
irremovibile, non sarà così del limite C. Riuscendo a trasportare il
punto C sino al punto D, si avrebbe il sopralavoro CB cresciuto
della lunghezza DC, proprio in quanto diminuirebbe il lavoro
necessario AC. Il plusvalore troverebbe così il modo di continuare a
crescere, non nel modo assoluto come prima, cioè prolungando sempre
la giornata di lavoro, ma in relazione del crescere del sopralavoro
sul corrispondente diminuire del lavoro necessario. Il primo era
plusvalore assoluto, questo è plusvalore relativo.
Il plusvalore relativo si fonda sulla diminuzione del lavoro
necessario; la diminuzione del lavoro necessario si fonda sulla
diminuzione del salario; la diminuzione del salario si fonda sulla
diminuzione del prezzo delle cose, che sono necessarie all'operaio;
dunque il plusvalore relativo è fondato sul ribasso delle merci che
servono all'operaio.
E ci sarebbe pure un mezzo più spiccio per produrre il plusvalore
relativo, dirà qualcuno, e sarebbe di pagare al lavoratore un
salario minore di quello che gli spetta, cioè non pagargli il giusto
prezzo della sua merce, la forza lavoro. Questo espediente, molto
usato infatti, non può essere da noi menomamente considerato, perché
non ammettiamo che la più perfetta osservanza della legge degli
scambi, secondo la quale tutte le merci, e per conseguenza anche la
forza del lavoro, devono essere vendute e comprate al loro giusto
valore. Il nostro capitalista, come già vedemmo, è un borghese
assolutamente onesto; egli non userà mai, per ingrossare il suo
capitale, un mezzo che non sia interamente degno di lui.
Supponiamo che, in una giornata di lavoro, un operaio produca 6
articoli di una merce, che il capitalista vende per il prezzo di L.
7,50, perché nel valore di questa merce la materia ed i mezzi di
lavoro ci entrano per L. 1,50 e la forza del lavoro di 12 ore per 6
lire: tutti tre gli elementi, quindi, per L. 7,50. Il capitalista
trova sul valore di L. 7,50, che ha la sua merce, un plusvalore di 3
lire e sopra ogni articolo un plusvalore di L. 0,50, perché spende
L. 0,75 e ricava L. 1,25 da ognuno di essi. Supponiamo che con un
nuovo sistema di lavoro, o solamente con un perfezionamento del
vecchio, si giunga a raddoppiare la produzione, e che, invece di 6
articoli al giorno, il capitalista riesca ad ottenerne 12. Se in 6
articoli entravano per L. 1,50 la materia ed i mezzi di lavoro, in
12 vi entreranno per 3 lire, sempre cioè per L. 0,25 in ogni
articolo. Queste 3 lire unite alle 6 lire prodotte dalla forza
lavoro in 12 ore, formano 9 lire, cioè quanto costano i 12 articoli,
ciascuno dei quali viene perciò al prezzo di L. 0,75.
Il capitalista ha oggi bisogno di farsi un posto più largo sul
mercato per vendere una quantità doppia della sua merce; e vi riesce
restringendone alquanto il prezzo. In altri termini il capitalista
ha bisogno di far sorgere una ragione, per la quale i suoi articoli
si possano vendere sul mercato nel doppio numero di prima; e la
ragione la trova appunto nel ribasso di prezzo. Egli venderà,
dunque, i suoi articoli ad un prezzo alquanto minore di L. 1,25, che
era il loro prezzo di prima, ma maggiore di L. 0,75 quanto vale oggi
ciascuno di essi. Li venderà ad una lira l'uno, e avrà così
assicurato il doppio smercio dei suoi articoli, sui quali guadagna
oggi 6 lire; 3 lire di plusvalore e 3 lire di differenza tra il loro
valore ed il prezzo al quale sono venduti.
Come si vede, il capitalista ricava un grande utile da questo
aumento di produzione. Tutti i capitalisti sono quindi altamente
interessati ad aumentare i prodotti delle loro industrie, ed è ciò
che essi riescono a fare ogni giorno in qualsiasi genere di
produzione. Il loro guadagno straordinario, però, quello che
rappresenta la differenza fra il valore della merce ed il prezzo al
quale si vende, dura poco, perché presto il nuovo od il perfezionato
sistema di produzione viene adottato da tutti per necessità. Allora
si ha per risultato che il valore della merce diminuisce della metà.
Prima ogni articolo valeva L. 1,25; oggi invece vale centesimi 62 e
mezzo. Il capitalista però viene sempre ad ottenere lo stesso
profitto, avendo raddoppiata la produzione. Prima 3 lire di
plusvalore sopra 6 articoli ed oggi 3 lire di plusvalore sopra 12
articoli; ma siccome i 12 articoli sono prodotti nello stesso tempo
che erano prodotti i 6 articoli, cioè in 12 ore di lavoro, si ha,
come ultimo risultato sempre 3 lire di plusvalore su di una giornata
di 12 ore, ma il doppio di produzione.
Quando questo aumento di produzione riguarda le merci necessarie al
lavoratore, porta per conseguenza il ribasso del prezzo della forza
lavoro, e quindi la diminuzione del lavoro necessario e l'aumento
del sopralavoro, che costituisce il plusvalore relativo.
CAPITOLO V
Cooperazione
È da un pezzetto che non ci siamo più occupati dei fatti del nostro
capitalista, il quale ha dovuto certamente prosperare in questo
frattempo. Rechiamoci al suo opificio, dove forse avremo il piacere
di rivedere il nostro amico, il filatore. Eccoci giunti. Entriamo.
Oh, sorpresa! Non più un operaio, ma una grande quantità d'operai si
trovano ora al lavoro: tutti in silenzio ed ordinati come se fossero
tanti soldati. Né vi mancano sorveglianti ed ispettori che a guisa
di ufficiali passeggiano fra i ranghi, tutto osservando, dando
ordini, o sorvegliandone la fedele esecuzione. Del capitalista non
se ne vede neppure l'ombra. Si apre una porta a vetri che mette
nell'interno, forse sarà lui; vediamo. È un grave personaggio, ma
non è il nostro capitalista. I sorveglianti gli si fanno
premurosamente intorno, e ricevono con la massima attenzione i suoi
ordini. Odesi il suono d'un campanello elettrico; uno dei
sorveglianti corre ad applicare il suo orecchio alla bocca di un
tubo di metallo, che dalla volta scende lungo il muro; e viene tosto
ad annunziare al signor direttore che il padrone lo chiama presso di
lui a conferenza. Cerchiamo nella folla degli operai il filatore di
nostra vecchia conoscenza; e finalmente ci viene fatto trovarlo in
un angolo, tutto dedito al lavoro. Egli è divenuto scarno e pallido
in volto: sulla sua faccia si legge un profondo pensiero di
tristezza. Un giorno lo vedemmo sul mercato contrattare la sua forza
lavoro da pari a pari con l'uomo del denaro; ma quanto è oggi
cresciuta la distanza fra loro! Egli è oggi un operaio perduto nella
folla dei molti che popolano l'opificio, e oppresso da una giornata
di lavoro straordinariamente lunga; mentre l'uomo del denaro,
divenuto già grosso capitalista, se ne sta come un dio nell'alto del
suo Olimpo, da dove manda gli ordini al suo popolo attraverso una
schiera d'intermediari.
Che mai dunque è avvenuto? Niente di più semplice. Il capitalista ha
prosperato. Il capitale è di molto cresciuto, e, per soddisfare i
suoi nuovi bisogni, il capitalista ha stabilito il lavoro
cooperativo, che è il lavoro fatto con l'unione delle forze. In
quell'opificio, dove altra volta funzionava una sola forza lavoro,
oggi vi funziona tutta una cooperazione di forze lavoro. Il capitale
è uscito dalla sua infanzia, e si presenta per la prima volta sotto
il suo vero aspetto.
I vantaggi che il capitale trova nella cooperazione si possono
ridurre a quattro.
Primieramente è nella cooperazione che il capitale realizza la vera
forza lavoro sociale. La forza lavoro sociale essendo, come già
dicemmo, la media presa in un dato centro di produzione fra un
numero di operai che lavorano con un grado medio di abilità e
d'intensità, è chiaro che ogni singola forza lavoro si scosterà più
o meno dalla forza media o sociale, la quale si può perciò ottenere
solamente riunendo nello stesso opificio un gran numero di forze
lavoro; cioè nella cooperazione.
Il secondo vantaggio è l'economia dei mezzi di lavoro. Lo stesso
opificio, gli stessi caloriferi, eccetera, che servivano ad uno
solo, oggi servono per molti operai.
Il terzo vantaggio della cooperazione è l'aumento della forza
lavoro. «Come la forza d'attacco di uno squadrone di cavalleria o la
forza di resistenza d'un reggimento di fanteria differiscono
essenzialmente dalla somma delle forze individuali spiegate
isolatamente da ciascun cavaliere o fantaccino, nella stessa guisa
la somma delle forze meccaniche di operai isolati differisce dalla
forza meccanica che si sviluppa tosto che essi funzionino
congiuntamente e simultaneamente in una medesima operazione
indivisa.»
Il quarto vantaggio è la possibilità di combinare in modo le forze
da poter eseguire lavori che con le forze isolate o non si sarebbero
potuti compiere, o si sarebbero compiuti in modo molto imperfetto.
Chi non ha visto come 50 operai possono cambiare di posto enormi
masse in un'ora, mentre una forza lavoro non giungerebbe, in 50 ore
di seguito, nemmeno a smuoverle di un capello? Chi non ha visto come
12 operai, disposti a scala lungo l'impalcatura di una casa in
costruzione, facciano passare in un'ora una quantità di materiali
immensamente più grande di quella che un solo operaio farebbe
passare in 12 ore? Chi non comprende come 20 muratori possano fare
in un giorno assai più lavoro di quanto ne possa fare uno solo in 20
giorni?
«La cooperazione è il modo fondamentale della produzione
capitalista.»
CAPITOLO VI
Divisione del lavoro e manifattura
Quando il capitalista riunisce nel suo opificio gli operai che
eseguiscono le diverse parti di lavoro, le quali compongono tutto il
lavoro di una merce, allora egli dà alla cooperazione semplice un
carattere tutto speciale; egli stabilisce la divisione del lavoro e
la manifattura; la quale altro non è che «un organismo di
produzione, le cui membra sono uomini».
Benché la manifattura sia sempre fondata sulla divisione del lavoro,
pure essa ha una doppia origine. Infatti in alcuni casi la
manifattura ha riunito nel medesimo opificio le diverse lavorazioni
richieste per compimento di una merce, le quali prima, come tanti
mestieri speciali, rimanevano distinte e divise tra loro; in altri
casi essa ha divise, pur conservandole nel medesimo opificio, le
diverse operazioni di lavoro, che prima formavano un tutto nel
compimento di una merce. «Una carrozza era il prodotto collettivo
dei lavori di un gran numero di artigiani indipendenti gli uni dagli
altri, come carradori, sellai, sarti, chiavaiuoli, lavoranti di
cinture, tornitori, spinettari, vetrai, dipintori, verniciatori,
doratori, ecc. La manifattura carrozziera li ha riuniti tutti in un
medesimo locale, dove essi lavorano nel medesimo tempo e mano a
mano. Non si può, è vero, dorare una carrozza prima che essa sia
fatta; ma se si fanno molte carrozze nello stesso tempo, le une
forniscono costantemente lavoro ai doratori, mentre le altre passano
per altri processi di fabbricazione.» La lavorazione dello spillo è
stata dalla manifattura divisa in più di venti lavorazioni parziali,
che formano le parti della lavorazione totale dello spillo. La
manifattura, dunque, talora riunisce più mestieri in uno solo, e
talora divide un mestiere in più.
La manifattura moltiplica le forze e gli strumenti di lavoro, ma li
rende eminentemente tecnici e semplici, applicandoli costantemente
ad una sola ed unica operazione elementare.
Grandi sono i vantaggi che il capitale realizza nella manifattura,
destinando le diverse forze lavoro ad operazioni elementari e
costantemente le stesse. La forza lavoro acquista moltissimo in
intensità e precisione. Tutti quei piccoli intervalli, che a guisa
di pori si trovano fra le diverse fasi della lavorazione di una
merce eseguita da un solo individuo, scompariscono, quando questo
individuo esegue sempre la stessa operazione. L'operaio non deve più
d'ora in poi imparare tutto un mestiere ma una semplice, un'unica
operazione del mestiere stesso, che egli impara in molto meno tempo
e con minore spesa di quanto ne abbisognava per imparare un mestiere
intero. Questa diminuzione di spesa e di tempo è una diminuzione di
cose occorrenti all'operaio, cioè una diminuzione di lavoro
necessario, ed un aumento corrispondente di sopralavoro e
plusvalore. Il capitalista, da vero parassita, s'ingrassa sempre più
a spese del lavoro, ed il lavoratore ne soffre grandemente.
«La manifattura rivoluziona da cima a fondo il modo di lavoro
individuale e attacca nella sua radice la forza lavoro. Essa storpia
il lavoratore, essa fa di lui qualche cosa di mostruoso, attivando
lo sviluppo fittizio della sua abilità di dettaglio e sacrificando
una grande quantità di disposizioni e d'istinti produttori, nella
stessa guisa che, negli Stati della Plata, si immola un toro per
avere la sua pelle ed il suo sego.»
«Non è solamente il lavoro che è diviso, suddiviso e ripartito fra
diversi individui, è l'individuo stesso che è sminuzzato e
trasformato in molla automatica in una operazione esclusiva, di
guisa che si trova realizzata la favola assurda di Menenio Agrippa,
rappresentante un uomo come frammento del suo proprio corpo. Stewart
chiama gli operai delle manifatture automi viventi impiegati nei
dettagli di un'opera.»
«Originariamente l'operaio vende al capitalista la sua forza lavoro,
perché i mezzi materiali della produzione gli mancano. Ora la sua
forza lavoro rifiuta ogni servizio se non è venduta. Per poter
funzionare gli abbisogna quel centro sociale il quale non esiste che
nell'opificio del capitalista. Nella stessa guisa che il popolo
eletto portava scritto sul suo fronte che egli era proprietà di
Jeova, così l'operaio di manifattura è marcato a fuoco col sigillo
della divisione del lavoro, che lo rivendica come proprietà del
capitale. Storch dice: "L'operaio che porta nelle sue mani tutto un
mestiere può andare dappertutto ad esercitare la sua industria, e
trovare i mezzi di sussistere; l'altro (quello delle manifatture)
non è che un accessorio il quale, separato dai suoi confratelli, non
ha più né capacità né indipendenza e che si trova forzato
d'accettare la legge, che si trova opportuno di imporgli".
«Le potenze intellettuali della produzione si sviluppano da un lato
solo, perché scompaiono su tutti gli altri. Ciò che gli operai
particellari perdono, si concentra di fronte ad essi nel capitale.
La divisione manifatturiera oppone loro la potenza intellettuale
della produzione come proprietà d'altri e come potere che li domina.
Questa scissione comincia ad apparire nella cooperazione semplice,
dove il capitalista rappresenta, di fronte al lavoratore isolato,
l'unità e la volontà del lavoratore collettivo; essa si sviluppa poi
nella manifattura, che mutila il lavoratore al punto di ridurlo una
particella di se stesso; essa si compie infine nella grande
industria, che fa della scienza una forza produttiva indipendente
dal lavoro e arruola questo al servizio del capitale.»
«Nella manifattura, l'arricchimento del lavoratore collettivo, e per
conseguenza del capitale, in forze produttive sociali, ha per
condizione l'impoverimento del lavoratore in forze produttive
individuali.»
«"L'ignoranza" dice Ferguson "è la madre dell'industria come lo è
della superstizione. La riflessione e l'immaginazione possono
smarrirsi; ma l'abitudine di muovere il piede o la mano non dipende
né dall'una né dall'altra. Così potrebbesi dire che la perfezione,
rispetto alle manifatture, consiste nel poter fare a meno
dell'intelligenza, di maniera che l'officina, non avendo bisogno di
forze intellettuali, possa essere considerata come una macchina le
cui parti sono uomini." Egli è per questo che un certo numero di
manifatture, verso la metà del XVIII secolo, impiegavano di
preferenza per certe operazioni, che formavano un segreto di
fabbrica, operai mezzo idioti.
Smith dice: "L'intelligenza della maggior parte degli uomini si
forma necessariamente per mezzo delle loro occupazioni ordinarie. Un
uomo, che passa tutta la vita ad eseguire un piccolo numero
d'operazioni semplici..., non ha nessuna occasione di sviluppare la
sua intelligenza, né di esercitare la sua immaginazione... Egli
diventa, in generale, tanto ignorante e tanto stupido per quanto è
possibile ad una creatura umana il diventarlo"». Dopo aver dipinto
l'istupidimento dell'operaio particellario, A. Smith continua così:
«"L'uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente la
gagliardia del suo spirito..., essa degrada perfino l'attività del
suo corpo e lo rende incapace di spiegare la sua forza con vigore e
perseveranza in un qualsiasi altro impiego che non sia quello per il
quale egli è stato educato. Così la destrezza del suo mestiere è una
qualità ch'egli pare abbia acquistato a spese delle sue virtù
intellettuali, sociali e guerriere. Ora, in ogni società industriale
e civile, questo è lo stato nel quale deve necessariamente cadere
l'operaio povero, cioè la grande massa del popolo"». Per rimediare a
questo deterioramento completo, che risulta dalla divisione del
lavoro, A. Smith raccomanda l'istruzione popolare obbligatoria, pur
consigliando d'amministrarla con prudenza e a dosi omeopatiche. Il
suo traduttore e commentatore francese, G. Garnier, questo senatore
predestinato del primo Impero, ha dato prova di logica, combattendo
anche questo consiglio. L'istruzione del popolo, secondo lui, è in
contraddizione con le leggi della divisione del lavoro e adottarla
sarebbe proscrivere tutto il nostro sistema sociale... «"Come tutte
le altre divisioni del lavoro, quella che esiste tra il lavoro
meccanico ed il lavoro intellettuale si accentua in una maniera
sempre più forte e più recisa, a misura che la Società avanza verso
uno stato più opulento.
Garnier chiama società lo Stato con la proprietà fondiaria, il
capitale, eccetera.
Questa divisione, come tutte le altre, è un effetto dei progressi
passati ed una causa dei progressi avvenire... Il governo dovrà
dunque occuparsi a contrariare questa divisione di lavoro ed a
ritardarla nel suo cammino naturale? Dovrà impiegare una porzione
delle pubbliche entrate per cercare di fondere e mescolare due
generi di lavoro, che tendono da sé stessi a dividersi?"»
«Ferguson dice: "L'arte di pensare, in un tempo in cui tutto è
separato, può da sé stessa formare un mestiere a parte".»
«Un certo intristimento di corpo e di spirito è inseparabile dalla
divisione del lavoro nella società. E siccome il periodo
manifatturiero esagera questa divisione sociale e nell'istesso tempo
che con la divisione sua particolare attacca l'individuo nella
radice stessa della sua vita, così è desso che per il primo fornisce
l'idea e la materia d'una patologia industriale. Ramazzini,
professore di medicina pratica in Padova, pubblicò nel 1713 la sua
opera: De morbis artificum ('Sulle malattie degli artigiani'). Il
suo catalogo delle malattie degli operai è stato naturalmente molto
aumentato dall'epoca della grande industria, come lo dimostrano gli
scrittori che vennero dopo di lui: dottore A.L. Fonterel, Parigi
1858, Eduardo Reich, Erlangen, 1868, ed altri; nonché l'inchiesta
iniziata, nel 1854, dalla Società dei mestieri, in Inghilterra, e i
Rapporti ufficiali sulla pubblica sanità.»
«D. Urquhart dice: "Suddividere un uomo, vuol dire giustiziarlo, se
egli ha meritato una sentenza di morte; vuol dire assassinarlo, se
non la merita. La suddivisione del lavoro è l'assassinio d'un
popolo"»
«Hegel aveva opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro.
Nella sua Filosofia del Diritto dice: "Per uomo colto devesi dunque
intendere colui che fa tutto ciò che fanno gli altri".»
«"La divisione del lavoro, nella sua forma capitalistica, non è che
un metodo particolare di produrre il plusvalore relativo, o di
accrescere, a spese del lavoratore, la rendita del capitale, ciò che
chiamasi ricchezza nazionale. A spese del lavoratore, essa sviluppa
la forza collettiva del lavoro a pro' del capitalista. Essa crea
circostanze nuove, che assicurano la dominazione del capitale sul
lavoro. Essa è una fase necessaria della formazione economica della
società, un mezzo civile e raffinato di sfruttamento!"»
CAPITOLO VII
Macchine e grande industria
«John Stuart Mill, nei suoi Principi d'economia politica, dice:
"Resta ancora a sapere se le invenzioni meccaniche, fatte insino ad
oggi, abbiamo alleggerito il lavoro quotidiano di un essere umano
qualunque". Non era questo il loro scopo. Come ogni altro sviluppo
della forza produttiva del lavoro, l'impiego capitalista delle
macchine non tende che a diminuire il prezzo delle merci, a
raccorciare la parte della giornata, nella quale il lavoratore
lavora per se stesso, affine di allungare l'altra, nella quale egli
non lavora che per il capitalista. È un metodo particolare per
fabbricare plusvalore relativo.»
Ma chi è che pensa mai al lavoratore? Se il capitalista si occupa di
lui, è solamente per studiare il modo migliore di sfruttarlo.
L'operaio vende la sua forza lavoro, ed il capitalista la compra,
come l'unica merce che, con il suo plusvalore, possa fargli nascere
e crescere il capitale. Il capitalista, dunque, d'altro non si
occupa che di fabbricare sempre più plusvalore. Dopo aver esaurito
le risorse del plusvalore assoluto, ha trovato il plusvalore
relativo. Egli ora vede che con le macchine si può ottenere nello
stesso tempo un prodotto due volte, quattro volte, dieci volte,
eccetera, più grande di prima; e adotta le macchine. La
cooperazione, la manifattura, si trasforma così in grande industria
ed il suo opificio in fabbrica.
Il capitalista, dopo aver mutilato e storpiato l'operaio con la
divisione del lavoro, dopo di averlo limitato ad una sola operazione
parziale, ci fa assistere ad uno spettacolo più triste ancora. Egli
strappa dalle mani del lavoratore quell'unico arnese, il quale gli
ricordava ancora la sua arte, il suo antico stato di uomo completo,
e lo affida alla macchina. D'ora in poi il capitalista non ha più
bisogno del lavoratore, che come servo delle sue macchine.
Con l'introduzione delle macchine, il capitalista realizza a tutta
prima un enorme profitto, come facilmente si comprende, ricordando
quanto dicemmo a proposito del plusvalore relativo. Con la
propagazione però del sistema di produzione meccanica, il guadagno
straordinario cessa, e vi resta solamente l'aumento di produzione
che, reso generale dalla generalizzazione delle macchine, viene a
diminuire il valore delle cose necessarie all'operaio, il tempo di
lavoro necessario, e i salari, e ad aumentare il sopralavoro e il
plusvlore.
Il capitale si distingue in costante e variabile. Dicesi capitale
costante quello che è rappresentato dai mezzi di lavoro e dalle
materie di lavoro. Il fabbricato, i caloriferi, gli strumenti, le
materie ausiliarie, come sego, carbone, olio, eccetera, le materie
di lavoro, come ferro, bambagia, seta, argento, legno, eccetera,
sono tutte cose che formano parte del capitale costante. Il capitale
variabile è quello che viene rappresentato dal salario, dal prezzo
cioè della forza lavoro. Il primo dicesi costante, perché costante
resta il suo valore nel valore della merce, del quale viene a far
parte; mentre il secondo dicesi variabile, appunto perché il suo
valore aumenta entrando a far parte del valore della merce. È il
solo capitale variabile che crea plusvalore; e la macchina non può
far parte che del capitale costante.
Il capitalista si propone, nella grande industria, di profittare di
una enorme massa di lavoro passato, nella stessa guisa che
profitterebbe di una massa di forze naturali, cioè gratuitamente.
Per riuscire nel suo scopo, però, egli ha bisogno di avere tutto un
meccanismo, il quale si comporrà di materie più o meno costose, ed
assorbirà sempre una certa quantità di lavoro. Egli non deve
certamente comprare la forza del vapore, né le proprietà motrici
dell'acqua e dell'aria; non deve certamente comprare le scoperte e
le applicazioni meccaniche; né le invenzioni ed i perfezionamenti
degli strumenti di un mestiere. Egli può avvalersi di tutto ciò,
sempre che voglia, senza la menoma spesa; ma ha bisogno solamente di
procurarsi tutto un meccanismo atto a ciò. La macchina entra
adunque, come mezzo di lavoro, a far parte del capitale costante; e
la proporzione, nella quale essa entra a comporre il valore della
merce, è in ragione diretta del consumo suo e delle sue materie
ausiliarie, carbone, grasso, eccetera, e in ragione inversa del
valore della merce. Cioè a dire che più si logora una macchina con
le sue materie ausiliarie nel produrre una merce, più le comunica
del suo valore; mentre più è grande il valore della merce, per la
quale la macchina lavora, più è piccola la parte di valore che le
perviene dal consumo della macchina.
«Se il logoramento giornaliero di un martello a vapore, il suo
consumo di carbone, eccetera, si distribuiscono sopra enormi masse
di ferro martellato, ogni quintale di ferro non assorbe che una
minima parte di valore; questa porzione sarebbe evidentemente
considerevole se l'istrumento ciclopico non facesse che conficcare
piccoli chiodi.»
Quando, per la generalizzazione del sistema della grande industria,
la macchina cessa di essere fonte diretta di profitto straordinario
per il capitalista, questi riesce a trovare molte altre vie, per le
quali poter continuare a ritrarre grandissima quantità di plusvalore
relativo da questo nuovo modo di produzione.
«Il capitale, impossessatosi della macchina, leva tosto il grido:
'Lavoro di donne, lavoro di fanciulli!' Questo mezzo potente di
diminuire il lavoro dell'uomo, si cambia tosto in mezzo d'aumentare
il numero dei salariati; esso curva tutti i membri d'una famiglia,
senza distinzione d'età e di sesso, sotto il bastone del capitale.
Il lavoro forzato per il capitale usurpa il posto dei giuochi
d'infanzia e del lavoro libero per il mantenimento della famiglia;
ed il sostegno economico del morale della famiglia era appunto
questo lavoro domestico.»
«Il valore della forza lavoro era determinato dalle spese di
mantenimento dell'operaio e della sua famiglia. Gettando la famiglia
sul mercato, distribuendo così sopra diverse forze il valore d'una
sola, la macchina, la deprezza. Può essere che le quattro forze, per
esempio, che una famiglia operaia vende ora, le diano più che altra
volta dava la sola forza del suo capo; ma nello stesso tempo quattro
giornate di lavoro ne hanno sostituita una sola, ed il prezzo è
ribassato in proporzione all'eccesso del sopralavoro di quattro sul
sopralavoro d'uno solo.
Quattro persone devono ora fornire non solamente lavoro, ma ancora
sopralavoro al capitale, onde possa vivere una sola famiglia. Gli è
così che la macchina, aumentando la materia umana sfruttabile, eleva
nel medesimo tempo il grado di sfruttamento.»
L'impiego capitalista del meccanismo altera fondamentalmente il
contratto, la cui prima condizione era che capitalista e operaio
dovessero presentarsi in faccia l'uno dell'altro come persone
libere, mercanti tutti e due, l'uno possessore di denaro o di mezzi
di produzione, l'altro possessore di forza lavoro. Tutto ciò è
rovesciato tosto che il capitale compra dei lavoratori. Altra volta
l'operaio vendeva la sua propria forza lavoro, della quale egli
poteva liberamente disporre, ora egli vende moglie e figli; diventa
mercante di schiavi.»
«Mentre la macchina è il mezzo più potente di accrescere la
produttività del lavoro, cioè di raccorciare il tempo necessario
alla produzione delle merci, essa diviene, come sostegno del
capitale, il mezzo più potente di prolungare la giornata di lavoro
al di là di ogni limite naturale. Il mezzo di lavoro, divenuto
macchina, si leva indipendente innanzi al lavoratore. Una sola
passione anima il capitalista: egli vuole forzare l'elasticità umana
e stritolare tutte le resistenze. La facilità evidente del lavoro a
macchina e l'elemento più maneggevole e più docile, che sono le
donne e i fanciulli, l'aiutano in quest'opera di asservimento.»
«Il logoramento materiale delle macchine si presenta sotto un
duplice aspetto. Esse si consumano da una parte in ragione del loro
impiego, come i pezzi di moneta per la circolazione; d'altra parte
per la loro inazione, come una spada che s'irrugginisce nel fodero.
In quest'ultimo caso diventano preda degli elementi. Il primo genere
di logoramento è più o meno in ragione diretta, l'ultimo è sino ad
un certo punto in ragione inversa del loro uso. La macchina è
altresì soggetta a ciò che potrebbesi chiamare suo logoramento
morale. Essa perde di valore, a misura che le macchine della
medesima costruzione sono riprodotte a miglior mercato, o a misura
che macchine perfezionate vengono a far loro concorrenza.» Per
riparare a questo danno, il capitalista sente il bisogno di far
lavorare la sua macchina il più possibile, e comincia anzitutto dal
prolungare il lavoro giornaliero, introducendo il lavoro di notte ed
il sistema dei rilievi. Come lo indica la parola stessa, usata per
indicare il cambio dei cavalli di posta, il sistema dei rilievi
consiste nel fare eseguire il lavoro da due squadre di lavoratori,
che si danno il cambio ogni dodici ore, o da tre che si scambiano
ogni otto ore; in guisa che il lavoro procede sempre senza la menoma
interruzione per tutte le 24 ore. Questo sistema, tanto proficuo pel
capitale, è adottato altresì nel primo momento della comparsa delle
macchine, quando il capitalista ha molta premura di riuscire ad
ammassare la maggior quantità possibile di profitto straordinario,
che tosto dovrà cessare per la generalizzazione delle macchine
stesse.
Il capitalista, adunque, abbatte colle macchine tutti gli ostacoli
di tempo, tutti i limiti della giornata che nella manifattura erano
imposti al lavoro. E quando egli è giunto al limite della giornata
naturale, ad assorbire cioè tutte le 24 ore del giorno, egli trova
il modo per fare di un giorno solo due, tre, quattro e più giorni,
intensificando due, tre, quattro e più volte il lavoro. Infatti, se
in una giornata di lavoro si trova modo di far eseguire all'operaio
un lavoro due volte, tre volte, quattro volte, eccetera, più grande
di prima, è chiaro che l'antica giornata di lavoro corrisponderà a
due, a tre, a quattro e più giornate di lavoro. E il capitalista
trova il modo di farlo, rendendo, come già abbiamo detto, più
intenso il lavoro, stringendo, in altri termini, in una sola
giornata il lavoro di due, tre, quattro e più giornate. È con le
macchine che egli riesce a questo scopo.»
«Perfezionando la macchina a vapore, si riesce ad aumentare il
numero dei colpi di stantuffo per minuto e, grazie ad una saggia
economia di forze, a spingere con un motore del medesimo volume un
meccanismo più considerevole, senza aumentare pertanto il consumo
del carbone. Diminuendo l'attrito degli organi di trasmissione,
riducendo il diametro ed il peso dei grandi e piccoli alberi motori,
delle ruote dei tamburi, ecc. a un minimum sempre decrescente, si
arriva a far trasmettere con più rapidità l'accresciuta forza
d'impulsione del motore a tutte le branche del meccanismo
d'operazione. Il meccanismo stesso è migliorato. Le dimensioni delle
macchine strumenti sono ridotte, mentre la loro mobilità e la loro
efficacia sono aumentate, come nel moderno telaio da tessere, ovvero
le loro ossature sono ingrandite con la dimensione ed il numero
degli strumenti che esse muovono, come nelle macchine da filare.
Infine, questi strumenti subiscono incessanti modificazioni di
dettaglio, come furono quelle che, circa quindici anni or sono,
accrebbero d'un quinto la velocità dei fusi della macchina da
filare.»
«Un fabbricante inglese nel 1836 dichiarava: "Paragonato a quello
d'altra volta, il lavoro da eseguirsi nelle fabbriche è oggi
considerevolmente accresciuto per l'attenzione e l'attività
superiore che la velocità molto aumentata delle macchine esige dal
lavoratore". E, nel 1844, nella Camera dei Comuni si disse: "Il
lavoro degli operai, impiegati nelle operazioni di fabbrica, è oggi
tre volte più grande di quanto lo era al momento in cui fu stabilito
questo genere d'operazioni. Il sistema meccanico ha, senza alcun
dubbio, compiuto un'opera, che richiederebbe i tendini ed i muscoli
di molti milioni d'uomini; ma egli ha pure prodigiosamente aumentato
il valore di quelli, che sono sottoposti al suo movimento
terribile".»
«Nella fabbrica la virtù di adoperare lo strumento passa
dall'operaio alla macchina. La classificazione fondamentale diventa
quella di lavoratori di macchine strumenti (compresovi qualche
operaio incaricato di riscaldare la caldaia a vapore) e di manovali,
quasi tutti fanciulli subordinati ai primi. In mezzo a questi
manovali si trovano più o meno tutti gli alimentatori, che
forniscono alle macchine le loro materie prime. Accanto a queste
classi principali prende posto un personale numericamente
insignificante d'ingegneri, di meccanici, di falegnami, eccetera,
che sorvegliano il meccanismo generale e provvedono alle riparazioni
necessarie. È una classe superiore di lavoratori, gli uni formati
scientificamente, gli altri possedendo un mestiere, messo al di
fuori del circolo degli operai di fabbrica, ai quali essi sono
aggiunti come ingrasso.»
«Ogni fanciullo impara molto facilmente ad adattare i suoi movimenti
al movimento continuo ed uniforme dell'automa. La rapidità con la
quale i fanciulli imparano il lavoro a macchina sopprime
radicalmente la necessità di convertirlo in vocazione esclusiva
d'una classe particolare di lavoratori. La specialità che consiste a
maneggiare durante tutta la propria vita un istrumento parziale
diventa la specialità di servire per tutta la propria vita una
macchina parziale. Si abusa del meccanismo per trasformare
l'operaio, dalla sua più tenera infanzia, in particella di una
macchina, che fa essa stessa parte di un'altra. Non solamente le
spese, che esige la sua riproduzione, si trovano in tal guisa
considerevolmente diminuite, ma la sua dipendenza dalla fabbrica e
perciò stesso dal capitale è diventata assoluta.»
«Nella manifattura e nel mestiere, l'operaio si serve del suo
istrumento; nella fabbrica, egli serve la macchina. Là, il movimento
dell'istrumento di lavoro parte da lui; qui, egli non fa che
seguirlo. Nella manifattura gli operai formano tante membra d'un
meccanismo vivente. Nella fabbrica, essi sono incorporati ad un
meccanismo morto, che esiste indipendentemente da loro. La facilità
stessa del lavoro diventa una tortura, nel senso che la macchina non
libera l'operaio dal lavoro, ma spoglia il lavoro del suo interesse.
Il mezzo di lavoro, convertito in automa, si drizza innanzi
all'operaio, durante il processo del lavoro, sotto forma di
capitale, di lavoro morto, che domina e inghiotte la sua forza
vivente.»
«La grande industria meccanica compie finalmente la separazione tra
il lavoro manuale e le potenze intellettuali della produzione, le
quali essa trasforma in poteri del capitale sul lavoro. L'abilità
dell'operaio appare meschina innanzi alla scienza prodigiosa, alle
enormi forze naturali, alla grandezza del lavoro sociale incorporato
nel sistema meccanico, che costituisce la potenza del Padrone. Nel
cervello di questo padrone, il suo monopolio sulle macchine si
confonde con l'esistenza delle macchine stesse. E, come dice
Federico Engels, in caso di conflitto coi suoi operai egli getta
loro in faccia queste parole sdegnose: "Gli operai di fabbrica
farebbero molto bene a ricordarsi che il loro lavoro è dei più
inferiori; che non ve n'ha un altro più facile ad imparare e che sia
meglio pagato, vista la sua qualità, poiché basta il menomo tempo ed
il menomo insegnamento per acquistare in esso tutta l'abilità
voluta. Le macchine del padrone rappresentano infatti una parte ben
più importante nella produzione, che il lavoro e l'abilità
dell'operaio, che reclamano solamente una educazione di sei mesi, e
che un semplice contadino può imparare".»
«La subordinazione tecnica dell'operaio all'andamento uniforme del
mezzo di lavoro e la composizione particolare del lavoratore
collettivo con individui dei due sessi e di ogni età, creano una
disciplina di caserma perfettamente elaborata nel regime della
fabbrica. Là, il così detto lavoro di sorveglianza e la divisione
degli operai in semplici soldati e sott'ufficiali industriali sono
spinti al loro ultimo grado di sviluppo.»
Ure, il decantatore della fabbrica, dice: "La principale difficoltà
non consisteva tanto nella invenzione di un meccanismo
automatico..., la difficoltà consisteva specialmente nella
disciplina, necessaria per far rinunziare agli uomini le loro
abitudini irregolari nel lavoro, e identificarli colla regolarità
invariabile del grande automa. Inventare e mettere in vigore con
successo un codice di disciplina manifatturiera conveniente ai
bisogni ed alla celerità del sistema automatico, ecco un'intrapresa
degna di Ercole".»
«Gettando da banda la divisione dei poteri e il sistema
rappresentativo, tanto prediletti dalla borghesia, il capitalista
formula, da legislatore privato e come meglio gli piace, il suo
potere autocratico sui suoi operai, nel suo codice di fabbrica. La
frusta del conduttore di schiavi è qui sostituita dal libro delle
punizioni, che tutte si risolvono naturalmente in ammende e ritenute
sul salario.»
«F. Engels dice: "La schiavitù alla quale la borghesia ha sottoposto
il proletariato, si presenta sotto il suo vero aspetto nel sistema
della fabbrica. Qui ogni libertà cessa di fatto e di diritto.
L'operaio deve essere la mattina nella fabbrica alle cinque e mezzo;
se viene due minuti più tardi incorre nell'ammenda; se è in ritardo
di dieci minuti, non lo si fa entrare che dopo colazione, e perde il
quarto del suo salario giornaliero. Il fabbricante è legislatore
assoluto. Fa regolamenti come gli salta in testa, modifica ed amplia
il suo codice a suo piacere, e se v'introduce l'arbitrio più
stravagante, i tribunali rispondono ai lavoratori: 'Poiché voi avete
accettato volontariamente questo contratto, dovete sottomettervici'.
Questi lavoratori sono condannati ad essere così tormentati
fisicamente e moralmente dal loro nono anno sino alla loro morte".»
Prendiamo due casi, per esempio, di ciò che dicono i tribunali. A
Sheffield nel 1866 un operaio si era impegnato per due anni in una
fabbrica metallurgica. Per querela avuta col fabbricante egli lasciò
la fabbrica e dichiarò di non volervi ritornare a nessun costo.
Accusato di rottura di contratto, è condannato a due mesi di
prigione. (Se il fabbricante viola lui il contratto, non può essere
che tradotto innanzi ai tribunali civili, e non rischia che
un'ammenda). Compiuti i due mesi, il medesimo fabbricante gl'intima
di ritornare in fabbrica, secondo l'antico contratto. L'operaio si
rifiuta, allegando che egli ha purgato la sa pena. Tradotto
nuovamente in giudizio, è di nuovo condannato dal tribunale, benché
uno dei giudici dichiarasse pubblicamente essere una enormità
giuridica, che un uomo possa venir condannato periodicamente durante
tutta la sua vita, pel medesimo delitto. Questo giudizio fu
pronunziato da una delle più alte Corti di giustizia di Londra.»
«Il secondo caso avvenne nel Wiltshire, nel novembre 1863. Circa
trenta tessitori a vapore, occupati da un certo Harrupp, fabbricante
di panni, si misero in sciopero, perché il detto Harrupp, aveva la
graziosa abitudine di fare una ritenuta di salario per ogni ritardo
del mattino. Egli riteneva dodici soldi per due minuti, uno scellino
(ventiquattro soldi) per tre minuti e uno scellino e mezzo per dieci
minuti. Ciò fa dodici lire e un quinto di centesimo per ora, 112,50
per giorno, mentre che il salario, in media, non sorpassava mai
dodici o quattordici lire per settimana. Harrupp aveva appostato un
ragazzo per suonare l'ora della fabbrica; il che questi faceva
talvolta prima delle sei del mattino; e tosto aveva finito, le porte
erano chiuse, e tutti gli operai che si trovavano fuori subivano una
ammenda. Siccome non vi era orologio in questo stabilimento, i
disgraziati erano a discrezione del bricconcello, ispirato dal
padrone. Le madri di famiglia e le giovanette, comprese nello
sciopero, dichiararono che esse si sarebbero rimesse al lavoro tosto
che il suonatore fosse sostituito da un orologio, e che la tariffa
si rendesse più ragionevole. Harrupp citò 19 donne e fanciulle
innanzi al magistrato per rottura di contratto. Esse furono
condannate ciascuna a mezzo scellino di ammenda e due scellini per
le spese, in mezzo allo stupore dell'uditorio. Harrupp, all'uscire
dal tribunale, fu salutato dai fischi della folla.»
I tristi effetti della fabbrica e della grande industria sono sempre
preveduti dai lavoratori, come lo dimostra l'accoglienza che essi
fanno ognora alle prime macchine.
Nel diciassettesimo secolo, in quasi tutta l'Europa, scoppiarono
sollevazioni operaie contro una macchina tessitrice di nastri e
galloni, chiamata Bandmühle o Mühlenstuhl. Essa fu inventata in
Germania. L'abate Lancelotti racconta, nel 1636, che: «Anton Müller
di Danzica ha veduto in questa città, circa 50 anni or sono, una
macchina molto ingegnosa, che eseguiva contemporaneamente da quattro
a sei tessuti. Ma il magistrato, temendo che questa invenzione
convertisse gran numero di operai in mendicanti, la soppresse, e
fece soffocare o annegare l'inventore».
«Nel 1629, questa medesima macchina fu per la prima volta impiegata
a Leida, dove le sommosse degli spinettari forzarono i magistrati a
proscriverla. Boxhorn dice a questo proposito: "In questa città
alcuni individui inventarono, venti anni or sono, un telaio da
tessere, per mezzo del quale un solo operaio poteva eseguire più
tessuti e più facilmente che molti altri nel medesimo tempo. Da ciò
tumulti e querele da parte dei tessitori, che fecero proscrivere dai
magistrati l'uso di questo strumento".» Dopo aver lanciato contro
questo telaio da tessere editti più o meno proibitivi, nel 1632,
1639, eccetera, gli Stati generali di Olanda ne permisero finalmente
l'impiego sotto certe condizioni, con l'editto del 15 dicembre 1661.
Il Bandstuhl fu proscritto a Colonia, nel 1676, mentre la sua
introduzione in Inghilterra, verso la medesima epoca, vi provocò
turbolenze fra i tessitori. Un editto imperiale, del 19 febbraio del
1685, interdisse il suo uso in tutta la Germania. Ad Amburgo fu
bruciato pubblicamente per ordine del magistrato. L'imperatore Carlo
VI rinnovò, in febbraio 1719, l'editto del 1685; ed è solamente nel
1765 che l'uso pubblico ne fu permesso nella Sassonia elettorale.
«Questa macchina, che scosse l'Europa, fu il precursore delle
macchine da filare e da tessere, e preludiò la rivoluzione
industriale del XVIII secolo. Essa permetteva, al ragazzo più
inesperto, di far lavorare tutto un telaio con le sue spole,
avanzando e ritirando una pertica, e fornendo, nella sua forma
perfezionata, da 40 a 50 capi alla volta.»
«Verso la fine del primo terzo del XVII secolo, una sega a vento,
stabilita da un olandese nelle vicinanze di Londra, fu distrutta dal
popolo. Al principio del XVIII secolo, le seghe ad acqua non
trionfarono che difficilmente della resistenza popolare sostenuta
dal Parlamento. Quando Everet, nel 1758, costruì la prima macchina
ad acqua per tosare la lana, centomila uomini, messi da essa fuori
di lavoro, la ridussero in cenere. Cinquantamila operai, che
guadagnavano la vita cardando la lana, riempirono il Parlamento di
petizioni contro le macchine da cardare. La distruzione di numerose
macchine dei distretti manifatturieri inglesi durante i primi
quindici anni del XIX secolo, dette al governo il pretesto di
violenze ultra-reazionarie.»
«Ci vuole tempo ed esperienza, prima che gli operai imparino a
distinguere fra la macchina ed il suo impiego capitalista, e
dirigano i loro attacchi non contro il mezzo materiale di produzione
ma contro il suo modo sociale di sfruttamento.»
Ecco, adunque, quali sono i risultati delle macchine e della grande
industria per i lavoratori. Questi sono, anzitutto, scacciati in
gran numero dalle fabbriche, nelle quali la macchina ha preso il
loro posto. I pochi che vi restano devono subire l'umiliazione di
vedersi strappare di mano l'ultimo strumento di lavoro e di essere
ridotti alla condizione di servi delle macchine; devono sopportare
il peso di una giornata di lavoro straordinariamente cresciuta;
rinunziare a moglie e figli, divenuti gli schiavi del capitale; e
soffrire, finalmente, gl'indescrivibili spasimi, prodotti dalle
torture di un lavoro progressivamente intensificato dalla folle
libidine di plusvalore, dalla quale è preso il capitalista nel
periodo della grande industria. Ma al dio capitale non mancano i
teologi, che tutto spiegano, e tutto giustificano con le loro eterne
leggi. Al disperato grido dei lavoratori affamati dalle macchine,
essi rispondono con l'annunzio di una peregrina legge di
compensazione.
«Una falange di economisti borghesi, James Mill, Mac Culloch,
Torrens, Senior, J. St. Mill, eccetera, sostengono che, spostando
operai occupati, la macchina disimpegna, per questo fatto stesso, un
capitale destinato a impiegarli di nuovo in un'altra occupazione
qualunque.
«Mettiamo che in una fabbrica di tappeti s'impieghi un capitale di
6000 lire sterline, delle quali una metà è avanzata in materie prime
(si fa astrazione dai fabbricati, ecc.) e l'altra metà consacrata al
pagamento di 100 operai, ciascuno dei quali riceve un salario
annuale di 30 L. st. A un momento dato il capitalista congeda 50
operai, e li sostituisce con una macchina di 1500 L.st.»
«Si disimpegna un capitale per questa operazione? Originariamente la
somma totale di 6000 L. st. si divideva in un capitale costante di
3000 L.st. ed un capitale variabile di 3000 L.st. Ora essa consiste
in un capitale costante di 4500 L.st., (3000 L.st. per materie prime
e 1500 L.st. per la macchina) e un capitale variabile di 1500 L.st.
per la paga di 50 operai. L'elemento variabile è caduto dalla metà a
un quarto del capitale totale. Invece di essere disimpegnato, un
capitale di 1500 L.st. si trova impiegato sotto una forma nella
quale cessa di essere scambiabile contro la forza di lavoro, cioè da
variabile è divenuto costante. In avvenire il capitale totale di
6000 L. st. non occuperà mai più di 50 operai e ne occuperà meno ad
ogni perfezionamento della macchina.»
Per compiacere i teorici della compensazione, noi ammetteremo che il
prezzo della macchina sia minore della somma dei salari soppressi,
che essa non costi che 1000 L.st., invece di 1500 L.st.
«Nei nostri nuovi dati il capitale di 1500 L.st. altra volta
avanzato in salari, si divide ora come segue: 1000 L.st. impegnate
sotto forma di macchine e 500 L.st. disimpegnate dal loro impiego
nella fabbrica di tappeti, e che possono funzionare come nuovo
capitale. Se il salario resta lo stesso, ecco un fondo che
servirebbe per occupare circa 16 operai, mentre ve n'ha 50 di
congedati; ma esso ne occuperà molto meno di 16, poiché, per
trasformarsi in capitale, le 500 L.st. devono in parte essere spese
in istrumenti, materie, eccetera, in una parola, comprendere un
elemento costante, inconvertibile in salari.»
Se la costruzione della macchina dà lavoro ad un numero addizionale
di operai meccanici, sarebbe forse quella la compensazione dei
tappezzieri gettati sul lastrico? In ogni caso, la sua costruzione
occupa meno operai di quanto il suo impiego ne sposta. La somma di
1500 L.st. che, in rapporto ai tappezzieri licenziati, non
rappresenta che il loro salario,rappresenta, in rapporto alla
macchina, non solo il valore dei mezzi di produzione necessari per
la sua costruzione, ma eziandio il salario di meccanici ed il
plusvalore devoluto al loro padrone. Di più, una volta fatta, la
macchina non si rifà che dopo la sua morte, e per occupare in modo
permanente il numero addizionale dei meccanici, è necessario che le
manifatture di tappeti, l'una dopo l'altra, spostino operai con le
macchine.»
Ma non è a ciò che mirano i dottrinari della compensazione. Per
essi, l'affare importante è la sussistenza degli operai congedati.
Privando i nostri 50 operai del loro salario di 1500 L.st. la
macchina impedisce loro il consumo di 1500 L.st. di sostanze. Ecco
il fatto nella sua triste realtà! Affamare l'operaio i signori dal
ventre pieno lo chiamano rendere dei viveri disponibili per
l'operaio, come nuovo fondo d'impiego in un'altra industria. Come si
vede, tutto dipende dalla maniera d'esprimersi. Nominibus mollire
licet mala. È lecito palliare con delle parole i mali.»
CAPITOLO VIII
Il salario
I sostenitori del modo di produzione capitalista pretendono che il
salario sia il pagamento del lavoro, ed il plusvalore il prodotto
del capitale.
Ma che cosa è il valore del lavoro? Il lavoro, o si trova ancora nel
lavoratore, o ne è di già uscito; cioè a dire, il lavoro, o è la
forza, la potenza di fare una cosa, o è la cosa stessa già fatta:
insomma il lavoro, o è la forza lavoro o è la merce. Il lavoratore
non può vendere il lavoro già uscito da lui, cioè la cosa che egli
produce, la merce, perché questa appartiene al capitalista e non a
lui. Perché il lavoratore potesse vendere il lavoro già uscito da
lui, cioè la merce da lui prodotta, dovrebbe possedere i mezzi di
lavoro e le materie di lavoro ed allora egli sarebbe mercante delle
merci da lui prodotte. Ma egli non possiede nulla, è un proletario
che, per vivere, ha bisogno di vendere ad altri il solo bene che gli
resta, che è la sua potenza o forza di lavorare, la forza lavoro. Il
capitalista dunque altro non può comprare che la forza lavoro; la
quale, come tutte le altre merci, ha un valore di uso ed un valore
di scambio. Il capitalista paga il valore propriamente detto, che è
il valore di scambio, al lavoratore per la merce che questi gli
vende. Ma la forza lavoro ha pure un valore d'uso, il quale
appartiene al capitalista che l'ha comprata. Ora, il valore d'uso di
questa merce singolare ha una doppia qualità. La prima è quella che
essa ha in comune col valore di tutte le altre merci, cioè di
soddisfare un bisogno; la seconda è quella, tutta sua speciale, di
creare valore, che distingue questa merce da tutte le altre.
Dunque il salario altro non può rappresentare che il prezzo della
forza lavoro. Ed il plusvalore non può essere prodotto dal capitale,
perché il capitale è materia inerte, che trovasi nella merce sempre
nella stessa quantità di valore nella quale ci è entrato; è materia
che non ha vita alcuna e che, rimanendo da sé sola, senza la forza
lavoro, non potrebbe mai averne. È la forza lavoro che solamente può
produrre plusvalore. È dessa che porta il primo germe di vita al
capitale. È dessa che mantiene tutta la vita del capitale. Questo,
altro non fa che, dapprima, succhiare poscia assorbire da tutti i
pori e finalmente pompare gagliardamente plusvalore dal lavoro.
Le due forme principali di salario sono: salario a tempo e salario a
cottimo, a fattura, od a capo, che dir si voglia.
Il salario a tempo è quello che viene pagato per un dato tempo; come
per una giornata, per una settimana, per un mese, eccetera, di
lavoro. Esso non è che una trasformazione del prezzo della forza
lavoro. Invece di dire che l'operaio ha venduto la sua forza lavoro
di una giornata per 3 lire, si dice che l'operaio va a lavorare per
un salario di 3 lire al giorno.
Il salario di 3 lire al giorno è dunque il prezzo della forza lavoro
per una giornata. Ma questa giornata può essere più o meno lunga. Se
è di 10 ore per esempio, la forza lavoro viene pagata a 30 centesimi
l'ora, mentre se è di 12 ore, la forza lavoro viene pagata a 25
centesimi l'ora. Dunque, il capitalista, prolungando la giornata di
lavoro, viene a pagare all'operaio un prezzo minore per la sua forza
lavoro. Il capitalista può anche aumentare il salario, pur
continuando a pagare all'operaio, per la sua forza lavoro, l'istesso
prezzo di prima e anche meno. Se un capitalista aumenta il salario
del suo operaio da 3 lire a 3,60 al giorno, e nello stesso tempo la
giornata si prolunga da 10 ore che era prima sino a 12 ore, egli pur
aumentando di L.. 0,60 il salario giornaliero, verrà sempre a pagare
all'operaio L. 0,30 all'ora per la sua forza lavoro. Se poi il
capitalista aumenta il salario da L. 3 a L. 3,60 ma, nello stesso
tempo, prolunga la giornata da 10 a 15 ore egli, pur aumentando il
salario giornaliero, riuscirà a pagare all'operaio per la sua forza
lavoro meno di prima, cioè 24 centesimi invece di 30 centesimi
l'ora. Lo stesso effetto ottiene il capitalista se, invece di
aumentare il lavoro in lunghezza, l'aumenta in ispessezza; come già
abbiamo visto poter egli fare con le macchine. Insomma il
capitalista aumentando il lavoro, riesce a frodare onestamente
l'operaio e può farlo anche procurandosi fama di generoso, con
l'aumentare il suo salario giornaliero.
Quando il capitalista paga l'operaio a ore, trova ancor modo di
danneggiarlo, aumentando o diminuendo il lavoro, ma pagando sempre
onestamente il medesimo prezzo per ogni ora di lavoro. Sia infatti
25 centesimi il salario di un'ora di lavoro; se il capitalista fa
lavorare l'operaio per 8 ore, invece di 12, gli pagherà L.2, invece
di L.3; gli farà perdere, cioè, una lira, con la quale l'operaio
deve soddisfare la terza parte dei suoi bisogni giornalieri.
Inversamente, se il capitalista fa lavorare l'operaio per 14 o 16
ore, invece di 12, pur pagandogli L. 3,50 o L. 4 invece di L. 3 egli
viene a prendere dall'operaio 2 o 4 ore di lavoro ad un prezzo
minore di quello che vale. Dopo 23 ore di lavoro le forze
dell'operaio hanno già subìto un consumo; e le altre 2 o 4 ore di
lavoro, fatte in più, costano più delle prime 12. Questa ragione,
presentata dai lavoratori, la si vede infatti accettata in diverse
industrie, dove si pagano ad un prezzo maggiore le ore fatte in più
di quelle stabilite.
Quanto minore è il prezzo della forza lavoro, rappresentata dal
salario a tempo, tanto più il tempo del lavoro è lungo. E ciò è
chiaro; se il salario è di L. 0,25 l'ora, invece di L. 0,30, il
lavoratore ha bisogno di fare una giornata di 12 ore, invece di
farne una di 10, per procacciarsi le L. 3 richieste dai suoi bisogni
giornalieri. Se il salario è di L. 2 al giorno, il lavoratore ha
bisogno di fare tre giornate, invece di due, per procurarsi quanto
gli bisogna in 2 giorni soli. Qui la diminuzione del salario fa
aumentare il lavoro; ma avviene altresì che l'aumento del lavoro fa
diminuire il salario. Per l'introduzione delle macchine, per
esempio, un operaio viene a produrre il doppio di prima; allora il
capitalista diminuisce il numero delle braccia, per conseguenza si
aumentano le domande di lavoro, ed i salari calano.
Il salario a cottimo, a fattura od a capo, che dir si voglia, altro
non è che una trasformazione del salario a tempo; come ce lo mostra
anche il fatto che queste due forme di salario si trovano usate
indifferentemente, non solo nelle diverse industrie, ma talvolta
anche in una medesima industria.
Un operaio lavora 12 ore al giorno per un salario di L. 3 e produce
un valore di L. 6. Qui è indifferente dire che l'operaio produce,
nelle prime 6 ore del suo lavoro, le L. 3 del suo salario e, nelle
altre 6 ore, le L. 3 di plusvalore; il che equivale a dire che
l'operaio produce, in ogni prima mezz'ora, L. 0,25, una dodicesima
parte del suo salario e, in ogni seconda mezz'ora, L. 0,25, una
dodicesima parte del plusvalore. Nella stessa guisa, se l'operaio
produce in 12 ore di lavoro 24 capi e percepisce centesimi 12 e 1/2
per capo, in tutto L. 3, è perfettamente come dire che l'operaio
produce 12 capi per riprodurre le L. 3 a lui toccate in pagamento e
12 capi per produrre L. 3 di plusvalore; ovvero che l'operaio
produce, in ogni ora di lavoro, un capo per il suo pagamento ed un
capo per il guadagno del suo padrone.
«Nel lavoro a capo la qualità del lavoro è controllata dall'opera
medesima, che deve essere di una bontà media, affinché il capo sia
pagato al prezzo convenuto. Sotto questo rapporto il salario a capo
diventa una sorgente infinita di pretesti per fare delle ritenute
sul pagamento dell'operaio. Esso fornisce nel tempo stesso al
capitalista una misura esatta della intensità del lavoro. Il solo
tempo di lavoro che conti come socialmente necessario, e che sia per
conseguenza pagato, è quello che si è incorporato in una massa di
prodotti determinata e stabilita sperimentalmente. Nei grandi
laboratori di sarti, a Londra, un certo capo, un panciotto per
esempio, si chiama un'ora, una mezz'ora, eccetera, e l'ora è pagata
12 soldi. Si sa per pratica qual'è il prodotto di un'ora in media.
Quando vengono le nuove mode, si eleva sempre una discussione fra
padrone e operaio per sapere se il tale capo equivale ad un'ora,
sino a che l'esperienza non decida. Lo stesso succede nei laboratori
di falegnami, ebanisti, ecc. Se poi l'operaio non possiede la
capacità media di esecuzione, se egli non può consegnare un certo
minimum di lavoro nella giornata, lo si congeda.»
«La qualità e l'intensità del lavoro essendo così assicurate dalla
forma stessa del salario, una gran parte del lavoro di sorveglianza
diventa superflua. È su di ciò fondato non solamente il lavoro
moderno a domicilio, ma eziandio tutto un sistema di oppressione e
sfruttamento gerarchicamente costituito. Da una parte il salario a
capo facilita l'intervento dei parassiti fra il capitalista e
l'operaio, il mercanteggiamento. Il guadagno degli intermediari, dei
mercanteggiatori proviene esclusivamente dalla differenza fra il
prezzo del lavoro, tal quale il capitalista lo paga e la porzione di
questo prezzo che essi accordano all'operaio. D'altra parte il
salario a capo permette al capitalista di fare un contratto di tanto
al capo con l'operaio principale (nella manifattura col capo-gruppo,
nelle miniere col minatore propriamente detto, eccetera) e
quest'operaio principale s'incarica, per il prezzo stabilito, di
trovare egli stesso i suoi aiutanti e di pagarli. Lo sfruttamento,
che il capitale fa sui lavoratori, diventa qui un mezzo di
sfruttamento del lavoratore sul lavoratore.»
«Stabilitosi il salario a capo, l'interesse personale spinge
l'operaio ad attivare il più possibile la sua forza; la qual cosa
permette al capitalista di elevare più facilmente il grado della
intensità del lavoro. Benché questo risultato si produca da se
stesso (dice Dunning, segretario d'una Società di resistenza)
s'impiegano spesso mezzi per produrlo artificialmente. A Londra, per
esempio, tra i meccanici l'artificio in uso è "che il capitalista
sceglie per capo d'un certo numero d'operai un uomo di forza fisica
superiore e svelto nel lavoro. Tutti i trimestri, o come si vuole,
gli paga un salario supplementare a condizione che egli faccia tutto
il possibile per spingere i suoi collaboratori, che non ricevono che
il salario ordinario, a gareggiare di zelo con lui". L'operaio è
ugualmente interessato a prolungare la giornata di lavoro, come
mezzo per accrescere il suo salario quotidiano o settimanale. Quindi
ne segue una reazione simile a quella che noi abbiamo descritta a
proposito del salario a tempo, senza contare che la prolungazione
della giornata, anche quando il salario a capo resta costante,
implica per se stessa un ribasso nel prezzo del lavoro.»
«Il salario a capo è uno dei due principali appoggi del sistema già
menzionato, di pagare cioè il lavoro a ore, senza che il padrone
s'impegni di occupare l'operaio regolarmente durante la giornata o
la settimana.»
«Negli stabilimenti sottoposti alle leggi di fabbrica, il salario a
capo diventa regola generale, perché là il capitalista non può
ingrandire il lavoro quotidiano che sotto il rapporto della
intensità.»
L'aumento di produzione è seguito dalla diminuzione proporzionale
del salario. Quando l'operaio produceva 12 capi in 12 ore, il
capitalista gli pagava, per esempio, un salario di L. 0,25 a capo.
Raddoppiatasi la produzione, l'operaio produce 24 capi invece di 12
e il capitalista ribassa il salario della metà, cioè a centesimi 12
e 1/2 al capo.
«Questa variazione di salario, benché puramente nominale, provoca
lotte continue tra il capitalista e l'operaio; sia perché il
capitalista se ne fa un pretesto per ribassare realmente il prezzo
del lavoro, sia perché l'aumento di produttività del lavoro cagiona
un aumento della sua intensità; sia perché l'operaio, prendendo sul
serio quest'apparenza creata dal salario a capo (cioè che sia il suo
prodotto e non la sua forza lavoro ciò che gli si paga) si rivolta
contro una riduzione di salario alla quale non corrisponde una
riduzione proporzionale dei prezzi di vendita delle merci. Il
capitale respinge giustamente simili pretensioni piene di errori
grossolani sulla natura del salario. Egli le qualifica come
un'usurpazione tendente a prelevare imposte sul progresso
dell'industria e dichiara spiattellatamente che la produttività del
lavoro non riguarda per nulla l'operaio.»
CAPITOLO IX
Accumulazione del capitale
Se osserviamo la formula del capitale, comprendiamo facilmente che
la sua conservazione è tutta riposta nella sua successiva e continua
riproduzione.
Infatti, il capitale si divide, come noi già sappiamo, in due: in
costante, cioè, e variabile. Il capitale costante, rappresentato dai
mezzi di lavoro e dalle materie di lavoro, soffre un continuo
logoramento durante il processo del lavoro. Si consumano gli
strumenti, si consumano le macchine, il carbone, il sego, eccetera,
che abbisogna alle macchine, e si consuma infine il fabbricato.
Nello stesso tempo però che il lavoro viene in siffatta guisa
logorando il capitale costante, esso lo viene eziandio riproducendo
nelle stesse proporzioni nelle quali lo consuma. Il capitale
costante trovasi riprodotto nella merce nelle proporzioni in cui è
stato consumato durante la sua fabbricazione. Il valore consumato
dei mezzi di lavoro e delle materie di lavoro è sempre esattamente
riprodotto nel valore della merce, come noi abbiamo già veduto
altrove. Se, dunque, il capitale costante si viene riproducendo
parzialmente in ogni merce, è chiaro che, nel valore di un certo
numero di merci prodotte, si troverà tutto il capitale costante,
consumato nella loro fabbricazione.
Com'è del capitale costante, così è del capitale variabile. Il
capitale variabile, quello rappresentato dal valore della forza di
lavoro, cioè dal salario, si riproduce anch'esso esattamente nel
valore della merce. Noi lo abbiamo già visto. L'operaio, nella prima
parte del suo lavoro, produce il suo salario, e nella seconda il
plusvalore. Siccome il salario all'operaio non è pagato che a lavoro
finito, così avviene che egli riscuote il suo salario dopo averne
già riprodotto l'equivalente nella merce del capitalista.
L'assieme dei salari pagati ai lavoratori è dunque da questi
riprodotto incessantemente. Questa incessante riproduzione del fondo
dei salari perpetua la soggezione del lavoratore al capitalista.
Quando il proletario viene sul mercato a vendere la sua forza di
lavoro, egli viene a prendere il posto assegnatogli dal modo di
produzione capitalista, e a contribuire alla produzione sociale per
la parte di lavoro che gli spetta, ritirando, pel suo mantenimento,
quella parte dei fondi dei salari, che egli dovrà, prima, con il suo
lavoro riprodurre.
È sempre l'eterno vincolo di soggezione umana, sia esso sotto la
forma della schiavitù, della servitù, o del salariato.
L'osservatore superficiale crede che lo schiavo lavori per nulla. Ei
non pensa che lo schiavo deve anzitutto rifare il suo padrone di
quanto questi spende pel suo mantenimento: e si osservi che il
mantenimento dello schiavo è talvolta di gran lunga migliore di
quello del salariato, essendo il suo padrone altamente interessato
alla sua conservazione, come alla conservazione di una parte del
proprio capitale. Il servo, che, insieme con la terra, alla quale è
attaccato, appartiene al suo signore, è, per l'osservatore
superficiale, un essere che ha fatto dei progressi in confronto
dello schiavo, perché il servo si vede chiaramente che dà una parte
sola del suo lavoro al suo signore, mentre impiega l'altra parte
sulla poca terra assegnatagli, per campare la vita. E il salariato,
alla sua volta, apparisce al superficiale osservatore, uno stato
molto più progredito a paragone della servitù, perché il lavoratore
sembra in esso perfettamente libero, percependo il valore del
proprio lavoro.
Strana illusione! Se il lavoratore potesse realizzare per sé il
valore del proprio lavoro, il modo di produzione capitalista non
potrebbe allora più esistere. Noi l'abbiamo già visto. Il lavoratore
altro non può ottenere che il valore della sua forza di lavoro, che
è la sola cosa che può vendere, perché è il solo bene che possieda
al mondo. Il prodotto del lavoro appartiene al capitalista, il quale
paga al proletario il salario, cioè il suo mantenimento. Nella
stessa guisa, il pezzo di terra, non che il tempo e gli strumenti
necessari a lavorarlo, lasciati dal signore al suo servo, sono la
somma dei mezzi che questi ha per vivere, mentre deve lavorare tutto
il resto del tempo per il suo signore.
Lo schiavo, il servo e l'operaio lavorano tutti tre in parte per
produrre il loro mantenimento, e in parte assolutamente per il
guadagno dei loro padroni. Essi rappresentano tre forme diverse
dell'istessissimo vincolo di soggezione e sfruttamento umano. E
sempre la soggezione dell'uomo privo di qualsiasi accumulazione
primitiva (cioè dei mezzi di produzione, che sono i mezzi di vita)
all'uomo che possiede un'accumulazione primitiva, i mezzi di
produzione, le sorgenti della vita. La conservazione, cioè la
riproduzione del capitale, è appunto, nel modo di produzione
capitalista, la conservazione di questo vincolo di soggezione e
sfruttamento umano.
Ma il lavoro non solamente riproduce il capitale, ma produce
eziandio plusvalore, il quale forma ciò che chiamasi 'rendita del
capitale'. Se il capitalista fonde ogni anno tutta o parte della sua
rendita con il capitale, noi avremo un'accumulazione del capitale,
che verrà progressivamente crescendo. Con la riproduzione semplice
il lavoro conserva il capitale; con l'accumulazione del plusvalore
il lavoro ingrossa il capitale.
Quando la rendita si rifonde con il capitale, si viene a impiegare
questa rendita, parte in mezzi di lavoro, parte in materie di lavoro
e parte in forza di lavoro. Allora si ha che il passato sopralavoro,
il passato lavoro non pagato, viene a ingrossare l'intero capitale.
Una parte del lavoro non pagato dello scorso anno viene a pagare il
lavoro necessario di questo anno. Ecco ciò che riesce a fare il
capitalista, grazie all'ingegnoso meccanismo della produzione
moderna.
Una volta ammesso il sistema di produzione moderna, tutto basato
sulla proprietà individuale e sul salariato, nulla si può trovare a
ridire sulle conseguenze che ne derivano, una delle quali è
l'accumulazione capitalista. Che importa all'operaio Antonio, se le
3 lire, che gli si pagano di salario, rappresentano il lavoro non
pagato all'operaio Pietro? Ciò che egli ha diritto di sapere è se le
3 lire sono il giusto prezzo della sua forza di lavoro, se sono cioè
l'esatto equivalente delle cose a lui necessarie in un giorno, se la
legge degli scambi, in una parola, è stata rigorosamente osservata.
Quando il capitalista incomincia ad accumulare capitale a capitale,
una nuova virtù, tutta sua propria, si sviluppa in lui; la così
detta 'virtù dell'astinenza', che consiste a limitare tutte le
proprie spese, per impiegare la parte maggiore della sua rendita
nell'accumulazione. «La volontà del capitalista e la sua coscienza
altro non riflettendo che i bisogni del capitale che egli
rappresenta, il capitalista non saprebbe vedere nel suo consumo
personale che una specie di furto, o almeno di prestito, fatto
all'accumulazione; e, infatti, la tenuta dei libri in partita doppia
mette le spese private al passivo come dovute dal capitalista al
capitale. Infine, accumulare è conquistare il mondo della ricchezza
sociale, stendere la sua dominazione personale, aumentare il numero
dei suoi sudditi, cioè sacrificarsi a una ambizione insaziabile.»
«Lutero mostra molto bene (con l'esempio dell'usuraio, questo
capitalista di forma fuori di moda, ma sempre rinascente) che il
desiderio di dominare è un movente della sete di ricchezze. "La
semplice ragione" egli dice "ha permesso ai pagani di tenere
l'usuraio come un assassino e ladro quattro volte. Ma noi,
cristiani, lo teniamo in tanto onore, che l'adoriamo quasi a causa
del suo denaro. Colui che nasconde, ruba e divora il nutrimento di
un altro è (per quanto può esserlo) ugualmente assassino di colui il
quale lo fa morire di fame o lo rovina a fondo. E questo è quanto fa
l'usuraio, eppure egli resta assiso in tutta sicurtà sul suo seggio,
mentre sarebbe molto più giusto che, sospeso alla forca, egli fosse
divorato da tanti corvi quanti furono gli scudi che ha rubato;
sempreché in lui vi fosse tanta carne, di cui tutti quei corvi
potessero ciascuno prenderne un pezzo. S'impiccano i piccoli
ladri..., i piccoli ladri sono messi ai ferri; i grandi ladri si
vanno pavoneggiando nell'oro e nella seta. Non v'ha sulla terra
(toltone il diavolo) un più grande nemico del genere umano che
l'avaro e l'usuraio, perché egli vuole essere Dio sopra tutti gli
uomini. Turchi, gente di guerra, tiranni sono certamente una cattiva
genia; pure essi sono obbligati a lasciar vivere la povera gente e a
confessare che essi sono scellerati e nemici; succede loro perfino
d'intenerirsi loro malgrado. Ma un usuraio, questo sacco d'avarizia,
vorrebbe che il mondo intero fosse in preda alla fame, alla sete,
alla tristezza e alla miseria; egli vorrebbe avere tutto per sé
solo, affinché ognuno dovesse ricevere da lui come da un Dio e
restare il suo servo in perpetuo. Egli porta catene e anelli d'oro,
e si fa passare per un uomo pio e mite. L'usuraio è un mostro
enorme, peggiore di un orco divoratore... E se si arruotano e si
decapitano gli assassini e i ladri da strada, quanto più non si
dovrebbero cacciare, maledire, e arruotare tutti gli usurai e
tagliare loro la testa!"»
L'accumulazione capitalista richiede un aumento di braccia. Il
numero dei lavoratori deve essere aumentato, se si vuole convertire
una parte della rendita in capitale variabile. L'organismo stesso
della riproduzione capitalista fa in modo che il lavoratore possa
conservare la sua forza di lavoro nella nuova generazione, dalla
quale il capitale la prende per continuare il suo processo di
riproduzione incessante. Ma il lavoro che si richiede oggi dal
capitale è superiore a quello che si richiedeva ieri; e per
conseguenza il suo prezzo dovrebbe naturalmente aumentare. E
aumenterebbero infatti i salari, se nella stessa accumulazione del
capitale non ci fosse una ragione per farli invece diminuire.
È vero che la rendita dovrebbe essere convertita, parte in capitale
costante, e parte in capitale variabile; parte, cioè, in mezzi e
materie di lavoro, e parte in forza di lavoro, ma bisogna
considerare che con l'accumulazione del capitale vengono i
perfezionamenti dei vecchi sistemi di produzione, i nuovi sistemi di
produzione e le macchine; tutte cose che fanno aumentare la
produzione, e diminuire il prezzo della forza di lavoro, come già
sappiamo. A misura che cresce l'accumulazione del capitale, la sua
parte variabile diminuisce, mentre la sua parte costante aumenta. Si
aumentano, cioè, i fabbricati, le macchine con le loro materie
ausiliarie, si aumentano le materie di lavoro, ma, nello stesso
tempo e in proporzione di questo aumento, con l'accumulazione del
capitale si diminuisce il bisogno della forza di lavoro, il bisogno
delle braccia. Diminuendo il bisogno della forza di lavoro, ne
diminuisce la richiesta, e finalmente ne diminuisce anche il prezzo.
Si ha, quindi, che più progredisce l'accumulazione del capitale, più
ribassano i salari.
L'accumulazione del capitale prende vaste proporzioni per mezzo
della concorrenza e del credito. Il credito porta spontaneamente più
capitali a fondersi assieme, oppure a fondersi con uno più forte di
ciascuno di essi. La concorrenza, invece, è la guerra che tutti i
capitali si fanno fra loro; è la loro lotta per l'esistenza, dalla
quale escono, resi ancor più forti, coloro che per vincere dovevano
essere stati già prima i più forti.
L'accumulazione del capitale inutilizza, dunque, gran numero di
braccia; crea, cioè, un eccesso di popolazione lavoratrice. «Ma se
l'accumulazione, il progresso della ricchezza sulla base
capitalista, produce necessariamente una sovrapopolazione operaia,
questa diventa alla sua volta la leva più potente
dell'accumulazione, una condizione di esistenza della produzione
capitalista nel suo stato di sviluppo integrale. Essa forma
un'armata di riserva industriale, che appartiene al capitale in modo
così assoluto come se l'avesse allevata e disciplinata a sue proprie
spese. Essa fornisce la materia umana sempre sfruttabile e
disponibile per la fabbricazione del plusvalore. È solamente sotto
il regime della grande industria che la produzione di un superfluo
di popolazione diventa una molla regolare della produzione delle
ricchezze.»
Quest'armata di riserva industriale, questa sovrapopolazione
lavoratrice si divide in diverse categorie. La prima di queste è
meglio pagata, e manca meno delle altre di lavoro, mentre fa un
lavoro meno penoso. L'ultima categoria invece è composta di
lavoratori, che si trovano occupati più raramente di tutti gli
altri, e sempre per un lavoro più faticoso e vile, che viene loro
pagato al più basso prezzo che si possa mai pagare lavoro umano.
Quest'ultima categoria è la più numerosa, non solamente per il
grande contingente che le manda anno per anno il progresso
industriale, ma soprattutto perché essa è composta della gente più
prolifica, come il fatto stesso dimostra. «Adamo Smith dice: "La
povertà sembra favorevole alla generazione". Ed è perfino una
disposizione divina di profonda sapienza, se devesi credere allo
spiritoso e galante abate Galiani, secondo il quale: "Iddio fa che
gli uomini che esercitano mestieri di prima utilità nascano
abbondantemente". Laing dimostra con la statistica che "la miseria,
spinta anche al punto da generare la carestia e le epidemie, tende
ad aumentare la popolazione invece di fermarla".»
Dopo queste categorie altro non resta che «l'ultimo residuo della
sovrapopolazione relativa, il quale abita l'inferno del pauperismo».
«Astrazione fatta dai vagabondi, dai delinquenti, dalle prostitute,
dai mendicanti e da tutta quella gente, che costituisce le così
dette classi pericolose, questo strato sociale si compone di tre
categorie. La prima comprende operai capaci di lavorare. Basta
gettare un colpo d'occhio sulle liste statistiche del pauperismo
inglese, per accorgersi che la sua massa, ingrossandosi a ciascuna
crisi e nel periodo di ristagno di lavoro, diminuisce a ogni ripresa
di affari. La seconda categoria comprende i figli dei poveri, che
vivono di assistenza, e gli orfanelli. Questi sono tanti candidati
della riserva industriale, i quali, alle epoche di grande
prosperità, entrano in massa nel servizio attivo. La terza categoria
comprende i miserabili; anzitutto gli operai e le operaie che sono
stati gettati sul lastrico dallo sviluppo sociale, che ha oppresso
l'opera di dettaglio, la divisione del lavoro della quale aveva
formata la loro sola risorsa; poi quelli che per disgrazia hanno
sorpassata l'età normale del salariato; finalmente le vittime
dirette dell'industria (malati, storpi, vedove, eccetera), il cui
numero si accresce con quello delle macchine pericolose, delle
miniere, delle manifatture chimiche, eccetera.»
«Il pauperismo è la casa degli invalidi della armata attiva del
lavoro e il peso morto della sua riserva. La sua produzione è
compresa in quella della sovrapopolazione relativa, la sua necessità
nella necessità di questa. Il pauperismo forma con la
sovrapopolazione una condizione di esistenza della ricchezza
capitalista.»
«Si comprende dunque tutta la stupidità della saggezza economica, la
quale non cessa di predicare ai lavoratori, di accordare il loro
numero ai bisogni del capitale. Come se il meccanismo del capitale
non realizzasse continuamente questo accordo desiderato, la cui
prima parola è 'creazione di una riserva industriale', e l'ultima
'invasione crescente della miseria, sino nelle profondità
dell'armata attiva del lavoro peso morto del pauperismo'.»
«La legge secondo la quale una massa sempre più grande di elementi
costituenti la ricchezza può, mercé lo sviluppo continuo delle forze
collettive del lavoro, essere messa in opera con una spesa di forze
umane sempre minore, questa legge, che mette l'uomo sociale in stato
di produrre di più con minore lavoro, si cambia nel centro
capitalista (dove non sono i mezzi di produzione che si trovano al
servizio del lavoratore, ma il lavoratore che trovasi al servizio
dei mezzi di produzione) in legge contraria, cioè a dire che più il
lavoro guadagna in risorse e in potenza, più v'ha pressione dei
lavoratori sui loro mezzi d'impiego, e più la condizione di
esistenza del salariato, la vendita della sua forza, diviene
precaria.»
«L'analisi del plusvalore relativo ci ha condotti a questo
risultato: nel sistema capitalista tutti i metodi per moltiplicare
le potenze del lavoro collettivo si eseguiscono a spese del
lavoratore individuale, tutti i mezzi per sviluppare la produzione
si trasformano in mezzi di dominare e di sfruttare il produttore:
essi fanno di lui un uomo monco, frammentario, o l'appendice di una
macchina; essi gli oppongono, come tanti poteri nemici, le potenze
scientifiche della produzione; essi sostituiscono al lavoro
attraente il lavoro forzato; essi rendono le condizioni nelle quali
il lavoro si fa, sempre più anormali, e sottomettono l'operaio,
durante il suo servizio, a un dispotismo tanto illimitato quanto
gretto; essi trasformano la sua vita intera durante il lavoro; e
gettano la sua moglie e i suoi figli sotto le ruote del carro del
dio capitale.»
«Ma tutti i metodi che aiutano la produzione del plusvalore
favoriscono egualmente l'accumulazione, e ogni estensione di questa
chiama alla sua volta l'altra. Ne risulta che, qualunque sia il
livello dei salari, alto o basso, la condizione del lavoratore deve
peggiorare, a misura che il capitale si accumula.»
«Infine, la legge, che equilibra sempre il progresso
dell'accumulazione e quello della sovrapopolazione relativa, lega il
lavoratore al capitale più solidamente che i chiodi di Vulcano non
legarono Prometeo alla rupe. È questa legge che stabilisce una
correlazione fatale tra l'accumulazione del capitale e
l'accumulazione della miseria, di guisa che accumulazione di
ricchezza a un polo, significa accumulazione di povertà, di
sofferenza, d'ignoranza, d'abbrutimento, di degradazione morale, di
schiavitù, al polo opposto, dove si trova la classe che produce il
capitale stesso.»
«G. Ortes, monaco veneziano e uno degli economisti notevoli del
XVIII secolo, crede aver trovato nell'antagonismo inerente alla
ricchezza capitalista la legge immutabile e naturale della ricchezza
sociale. "Invece di progettare" egli dice "per la felicità dei
popoli, sistemi inutili, io mi limiterò a ricercare la ragione della
loro miseria... Il bene e il male economico in una nazione è sempre
alla stessa misura: la copia dei beni in alcuni è sempre eguale alla
mancanza di essi in altri; la grande ricchezza di un piccolo numero
è sempre accompagnata dalla privazione delle prime necessità nella
moltitudine; l'attività eccessiva degli uni rende forzata la
poltroneria degli altri; la ricchezza di un paese corrisponde alla
sua popolazione, e la sua miseria corrisponde alla sua ricchezza".»
«Ma, se Ortes era profondamente attristato di questa fatalità
economica della miseria, 10 anni dopo di lui, un ministro del culto
anglicano, il reverendo J. Townsend, viene, con cuore leggero e
perfino gioioso, a glorificarla come la condizione necessaria della
ricchezza. "L'obbligo legale del lavoro" egli dice "cagiona troppa
pena, esige troppo sforzo, e fa troppo chiasso; la fame al contrario
è non solamente una pressione pacifica, silenziosa e incessante, ma,
come lo stimolo più naturale al lavoro e all'industria, essa provoca
eziandio gli sforzi più potenti." Perpetuare la fame del lavoratore
è dunque il solo articolo importante del suo codice del lavoro, ma
per eseguirlo, egli aggiunge, basta lasciar fare il principio di
popolazione, attivissimo fra i poveri. "È una legge della natura,
pare, che i poveri siano imprevidenti sino al punto da esserci
sempre fra essi degli uomini pronti a compiere le funzioni le più
servili, le più sporche e le più abbiette della comunità. Il fondo
della felicità umana ne è così grandemente aumentato; la gente per
bene, più delicata, sbarazzata da tali tribolazioni, può dolcemente
seguire la sua vocazione superiore... Le leggi per soccorrere i
poveri tendono a distruggere l'armonia e la bellezza, l'ordine e la
simmetria di questo sistema che Dio e la natura hanno stabilito nel
mondo".»
«Se il monaco veneziano trovava nella fatalità economica della
miseria la ragion d'essere della carità cristiana, del celibato, dei
monasteri, dei conventi, eccetera, il reverendo prebendato vi
trovava però anche un motivo per condannare le leggi inglesi, che
danno ai poveri il diritto ai soccorsi della parrocchia.»
«Storch dice: "Il progresso della ricchezza sociale genera questa
classe utile della società..., che esercita le occupazioni più
fastidiose, le più vili, le più disgustose; che prende, in una
parola, sulle sue spalle tutto ciò che la vita ha di disaggradevole
e di servile, e procura così alle altre classi l'agio, la serenità
di spirito e la dignità convenzionale (!) di carattere, eccetera".
Poi, dopo essersi domandato in che dunque, in fin dei conti, possa
dirsi progredita sulla barbarie questa civilizzazione capitalista
con la sua miseria e la sua degradazione delle masse, egli non trova
che una parola a rispondere: la sicurezza!»
«Infine, Destutt de Tracy dice spiattellatamente: "Le nazioni povere
sono quelle dove il popolo è agiato; e le nazioni ricche sono quelle
dove egli è ordinariamente povero".»
Veniamo ora a vedere, nei fatti, quali sieno gli effetti
dell'accumulazione del capitale. Qui, come altrove, i nostri esempi
sono tutti presi dall'Inghilterra, il paese per eccellenza della
accumulazione capitalista, verso la quale tendono (lo ripetiamo, e
non lo si dimentichi mai) tutte le nazioni moderne. Ci rincresce non
poter riprodurre che una sola piccola parte dei ricchi materiali
raccolti da Marx.
«Nel 1863, il Consiglio privato ordinò una inchiesta sulla
situazione della parte più mal nutrita della classe operaia inglese.
Il dottore Simon fu il suo medico ufficiale. Fu convenuto che si
prenderebbe per regola, in questa inchiesta, di scegliere, in ogni
categoria, le famiglie la cui salute e posizione lasciassero meno a
desiderare; e si arrivò a questo risultato generale: "In una sola
fra le classi operaie della città, il consumo d'azoto sorpassa
appena il minimum assoluto, al disotto del quale si dichiarano le
malattie d'inanizione; in due dassi la quantità di nutrimento
azotato, come carbonato, faceva difetto, e grandemente in una di
esse; fra le famiglie agricole, più di un quinto aveva meno della
dose indispensabile di alimentazione azotata; infine in tre contee
(Berkshire, Oxfordshire e Somersetshire) il minimum di nutrimento
azotato non era raggiunto. Fra i lavoratori agricoli l'alimentazione
più cattiva era quella dei lavoratori dell'Inghilterra, la parte più
ricca del Regno Unito. Fra gli operai delle campagne l'insufficienza
di nutrimento, in generale, colpiva principalmente le donne e i
fanciulli, dovendo l'uomo adulto mangiar esso per potere lavorare".
Una penuria ben più grande ancora desolava certe categorie di
lavoratori di città sottoposte all'inchiesta. "Essi sono tanto
miseramente nutriti, che i casi di privazioni crudeli e rovinose per
la salute devono essere necessariamente numerosi." Tutto ciò è
avarizia del capitalista! Egli si astiene, infatti, di fornire ai
suoi schiavi perfino quanto occorre per vegetare.»
«Il dottore Simon nel suo rapporto generale dice: "Chiunque è
abituato a curare i malati poveri o quelli degli ospedali non può
che affermare che i casi, nei quali l'insufficienza del nutrimento
produce malattie o le aggrava, sono, per così dire, innumerevoli.
Sotto il punto di vista sanitario, altre circostanze decisive
vengono qui ad aggiungersi... Bisogna ricordarsi che ogni riduzione
di nutrimento è sopportata mal volentieri, e che in generale la
dieta forzata non viene che in seguito ad altre privazioni
anteriori. Molto prima che la mancanza di alimenti venga a pesare
nella bilancia igienica, molto prima che il filosofo venga a contare
le dosi di azoto e di carbonio fra le quali oscilla la vita e la
morte per inanizione, ogni altra agiatezza dev'essere già scomparsa
dal focolare domestico. Le vesti e il calore devono essere stati
ridotti molto più ancora che l'alimentazione. Nessuna protezione
sufficiente contro i rigori della temperatura; ristringimento del
locale abitato a un grado tale da generare malattie o da aggravarle;
appena una traccia di mobili o di utensili di casa. La nettezza
stessa deve essere diventata costosa e difficile. Se per rispetto di
se medesimo si fanno ancora sforzi per mantenerla, ciascuno di
questi sforzi rappresenta un supplemento di fame. Si abiterà là dove
il fitto è meno caro, nei quartieri dove l'azione della polizia
sanitaria è nulla, dove c'è il maggior numero di cloache infette,
minore circolazione, immondizie in piena strada, meno acqua o la più
cattiva, e, nelle città, meno aria e meno luce. Tali sono i pericoli
ai quali la povertà è esposta inevitabilmente, quando questa povertà
implica mancanza di nutrimento. Se tutti questi mali riuniti pesano
terribilmente sulla vita, la semplice privazione di nutrimento non è
per se stessa meno spaventevole... Tormentosi pensieri, specialmente
se si vuole ricordare che la miseria della quale si tratta non è
quella della pigrizia, la quale non ha da lagnarsi che con se
stessa! Questa è la miseria della gente laboriosa. Egli è certo,
quanto agli operai delle città, che il lavoro, con il quale essi
comprano la loro magra pietanza, è quasi sempre prolungato al di là
di ogni misura. E intanto non si può dire, nemmeno in un senso molto
ristretto, che questo lavoro basti a sostenerli... Sopra una vasta
estensione, questo non è che il cammino più o meno lungo verso il
pauperismo".»
«Ogni osservatore disinteressato vede perfettamente che più i mezzi
di produzione si concentrano grandemente, più i lavoratori si
agglomerano in uno spazio ristretto; che più l'accumulazione del
capitale è rapida, più le abitazioni operaie diventano miserabili. È
evidente, infatti, che i miglioramenti e gli abbellimenti delle
città (conseguenza dell'accrescimento della ricchezza), come
demolizioni di quartieri mal costruiti, costruzioni di palazzi per
banche, depositi, eccetera, allargamenti di strade per la
circolazione commerciale e delle carrozze di lusso, costruzione di
strade ferrate interne, eccetera, cacciano i poveri in angoli sempre
più sporchi e insalubri. Citiamo un'osservazione generale del
dottore Simon: "Benché il mio punto di vista ufficiale sia
esclusivamente fisico, il più comune senso di umanità non mi
permette di tacere l'altro lato del male. Giunto a un certo grado,
implica quasi necessariamente una negazione di ogni pudore, una
promiscuità ributtante, un'esposizione di nudità più bestiali che
umane. Essere sottoposto a simili influenze, è una degradazione la
quale, se dura, diventa ogni giorno più profonda. Per i fanciulli
educati in quest'atmosfera maledetta, è un battesimo di infamia. E
significa cullarsi nella più vana speranza l'aspettare da persone
situate in tali condizioni degli sforzi per raggiungere, sotto un
certo aspetto, quella civilizzazione elevata, la cui essenza è nella
purezza fisica e morale".»
«I nomadi del proletariato si reclutano nelle campagne, ma le loro
occupazioni sono in gran parte industriali. E la fanteria leggera
del capitale, gettata, secondo i bisogni del momento, talora sopra
una località, talora sopra un'altra. È impiegata nelle costruzioni,
nel prosciugamento dei terreni, nella fabbricazione dei mattoni, a
cuocere la calce, alla costruzione delle strade ferrate, eccetera.
Colonna mobile della pestilenza, essa semina sulla sua strada il
vaiuolo, il tifo, il colera, la febbre scarlattina, eccetera. Quando
imprese, come quelle delle strade ferrate, esigono una forte
anticipazione di capitale, è generalmente l'intraprenditore che
fornisce la sua armata di baracche di legno o d'altri alloggi
analoghi, villaggi improvvisati senza nessuna regola di salubrità,
sorgente di grossi profitti per l'intraprenditore, che sfrutta i
suoi operai e come soldati dell'industria e come inquilini. Per una
baracca, secondo che contenga uno, due o tre buchi, si paga uno
scellino (24 soldi), 2 o 3 per settimana.»
«Nel settembre 1864, riferisce il dottore Simon, dalla parrocchia di
Sevenoaks furono denunziati al ministro dell'interno i fatti
seguenti. In questa parrocchia il vaiuolo era ancora, un anno fa,
quasi sconosciuto. Poco prima di quest'epoca si cominciò a forare
una strada ferrata da Lewisham a Tunbridge. Nella vicinanza
immediata di quest'ultima città, non solo vi si eseguì la maggior
parte dei lavori, ma vi fu installato eziandio il deposito centrale
di tutta la costruzione. Siccome il gran numero d'individui, così
occupati, non poteva essere tutto alloggiato nelle case di campagna,
l'intraprenditore fece costruire lungo la via baracche sprovviste di
ventilazione e di scoli, e per di più necessariamente ingombrate,
essendo ogni locatario obbligato a riceverne altri con lui, per
quanto numerosa fosse la sua propria famiglia, e benché ciascuna
capanna non contenesse che due camere. Dal rapporto medico risulta
che questa povera gente, per scampare alle esalazioni pestilenziali
delle acque stagnanti e delle latrine, situate sotto le loro
finestre, dovevano subire, durante la notte, tutti i tormenti della
soffocazione. Un medico, appositamente incaricato, si è espresso in
termini acerbi sullo stato di queste sedicenti abitazioni, e ha
fatto intendere che v'erano a temersi le conseguenze le più funeste
se qualche misura di salubrità non fosse presa immediatamente.
L'intraprenditore si era impegnato a preparare una casa per coloro
che fossero colpiti da malattie contagiose, ma non ha mantenuta la
sua promessa, benché si fossero verificati diversi casi di vaiuolo
nelle capanne che si dicevano le migliori. L'ospedale della
parrocchia è, da mesi, ingombro di malati. In una stessa famiglia, 5
fanciulli sono morti di vaiuolo e di febbre. Dal primo aprile sino
al primo settembre di quest'anno, vi sono stati 10 casi di morte di
vaiuolo, 4 dei quali nelle capanne, focolare del contagio. Non si
potrebbe indicare la cifra delle malattie, perché le famiglie, che
ne sono afflitte, fanno tutto il possibile per nasconderle".»
Vediamo ora gli effetti delle crisi sulla parte meglio pagata della
classe operaia. Ecco quanto è narrato dal corrispondente di un
giornale, il 'Morning Star', che, nel gennaio 1867, nell'occasione
di una crisi industriale, visitò le principali località in
sofferenza.
«All'est di Londra 15 000 lavoratori almeno, fra i quali più di 3000
operai di mestieri, si trovano con le loro famiglie letteralmente
agli estremi. A stento ho potuto avanzarmi sino alla porta della
Casa di lavoro (Workhouse), assediata da una folla di affamati.
Aspettavano i boni del pane, ma l'ora della distribuzione non era
ancora giunta. Nella corte, tutta ingombra di neve, alcuni uomini,
riparati dalle sporgenze del tetto, accomodavano il lastricato.
Lavoravano per 6 soldi al giorno e un bono di pane. In una piccola
capanna sporca e rovinata, che stava in una parte della corte, si
trovava una quantità di uomini, con le spalle gli uni addossate agli
altri, tanto per riscaldarsi. Essi sfilacciavano canapi di nave e
gareggiavano a chi lavorerebbe più a lungo con il minor nutrimento.
Questa sola Casa di lavoro soccorreva 7000 persone, molte delle
quali guadagnavano, 6 o 7 mesi or sono, i più grossi salari. Il loro
numero sarebbe stato doppio, se abitualmente non ci fossero
lavoratori, che rifiutano qualsiasi soccorso della parrocchia,
finché resta loro qualche cosa da impegnare. Uscito dalla Casa di
lavoro, entrai nella casa d'un operaio in ferro, privo di lavoro da
27 settimane. Lo trovai seduto con tutta la sua famiglia in una
camera remota. La camera non era ancora del tutto sguarnita di
mobili, e vi era un po' di fuoco, indispensabile in una giornata di
freddo terribile, per impedire che i piedi nudi dei fanciulli si
gelassero. Innanzi al fuoco vi era una certa quantità di stoppa, che
le donne e i fanciulli dovevano filare, in ricambio del pane loro
fornito dalla Casa di lavoro. L'uomo lavorava nella corte sopra
accennata per un bono di 6 soldi al giorno. Egli era in quel punto
arrivato per il pasto del mezzodì, molto affamato, come disse egli
stesso con un amaro sorriso, e questo pasto consisteva in qualche
fetta di pane con strutto e una tazza di tè senza latte. La seconda
porta, alla quale picchiammo, fu aperta da una donna, che senza dir
parola ci condusse in una piccola camera nel fondo, dove si trovava
tutta la sua famiglia silenziosa e con gli occhi fissi su di un
fuoco prossimo a estinguersi. Vi era intorno a questa gente un'aria
di solitudine e di disperazione, da farmi augurare di non rivedere
più mai simili scene... "Essi non hanno guadagnato nulla, signore"
disse la donna mostrando i suoi piccoli figliuoli "niente, da 26
settimane, e tutto il nostro denaro se n'è andato, tutto il denaro
che il padre e io avevamo messo da parte in tempi migliori, con la
vana speranza di assicurarci una riserva per i giorni cattivi.
Vedete!" gridò con accento quasi selvaggio, e nell'istesso tempo ci
mostrava un libretto di banca, dove erano indicate regolarmente
tutte le somme successivamente versate, poi ritirate, di guisa che
potemmo constatare, come il piccolo peculio, dopo aver incominciato
da un deposito di 5 scellini, dopo essersi ingrossato sino a 20 L.
st. (L. 504,16), si era tramutato poscia da lire sterline in
scellini, e da scellini in soldi, sino a che il libretto fu ridotto
ad avere il valore di un pezzo di carta bianca. Questa famiglia
riceveva ogni giorno un magro pasto dalla Casa di lavoro... In
un'altra casa trovai una donna malata d'inanizione, stesa, tutta
vestita, su di un materasso e appena coperta da un lembo di tappeto:
tutto il resto era al Monte di Pietà. I suoi infelici figli, che la
curavano, mostravano di avere essi stessi gran bisogno delle cure
materne... Essa raccontò la storia del suo passato disastroso,
singhiozzando in guisa come se avesse perduta ogni speranza di un
avvenire migliore. Chiamato in un'altra casa, vi trovai una donna e
due graziosi fanciulli. Un pacco di ricevute del Monte di Pietà e
una camera completamente nuda fu tutto ciò che mi mostrarono.»
«È di moda, fra i capitalisti inglesi, dipingere il Belgio come 'il
paradiso dei lavoratori', perché colà, la 'libertà del lavoro',
ovvero, ciò ch'è la stessa cosa, la libertà del capitale, si trova
al sicuro da ogni attacco. Là non v'ha né dispotismo ignominioso di
società di resistenza, né corruttela oppressiva d'ispettori di
fabbrica. Se v'è stato alcuno ben iniziato in tutti i misteri della
felicità del 'libero' lavoratore belga, questi è stato certamente il
fu Ducpetiaux, ispettore generale delle prigioni e degli
stabilimenti di beneficenza belgi, e, nello stesso tempo, membro
della Commissione centrale di statistica belga. Apriamo la sua
opera: Bilancio economico delle classi operaie nel Belgio, Budget
économique des classes ouvrières en Belgique, Bruxelles, 1855. Noi
vi troviamo il paragone fra lo stato normale di una famiglia operaia
belga, e il regime alimentario del soldato, del marinaio dello Stato
e del prigioniero. Tutte le risorse della famiglia, esattamente
calcolate, si elevano annualmente a L. 1068. Ecco il bilancio
annuale della famiglia:
Il padre 300 giorni a L. 1,56 L. 468
La madre 300 giorni a L. 0,89 L. 267
Il figlio 300 giorni a L. 0,56 L. 168
La figlia 300 giorni a L. 0,55 L. 165
————
Totale annuale
L. 1068
La spesa annuale della famiglia e il suo deficit si eleverebbero,
nella ipotesi che l'operaio avesse l'alimentazione
del marinaio, a L. 1828 Deficit L.760
del soldato, a L. 1473 Deficit L.70
del prigioniero, a L. 1112 Deficit L.44
«Un'inchiesta ufficiale fu fatta in Inghilterra, nel 1863,
sull'alimentazione e il lavoro dei condannati, sia alla
deportazione, sia ai lavori forzati. Paragonato l'ordinario dei
prigionieri inglesi e quello dei poveri delle Case di lavoro e dei
lavoratori agricoli liberi dell'Inghilterra, è provato all'evidenza
che i primi sono molto meglio nutriti di quelli delle due altre
categorie, perché "la massa di lavoro, che si esige da un condannato
ai lavori forzati, non si eleva al di là della metà di quella che
eseguiscono i lavoratori agricoli ordinari".»
«Un rapporto sulla sanità pubblica, del 1865, parlando di una visita
fatta in tempo di epidemia a case di contadini, cita fra gli altri
fatti il seguente: "Una giovane malata di febbre dormiva la notte
nella stessa camera con suo padre, sua madre, un suo figlio
illegittimo, due giovani suoi fratelli, due sue sorelle, ciascuna
con un bastardo, in tutto 10 persone. Qualche settimana prima, 13
fanciulli dormivano nel medesimo locale".»
Le modeste proporzioni di questo compendio non ci permettono di
riportare qui, dal testo, la minuta esposizione dello stato orribile
in cui giacciono i contadini in Inghilterra. Chiuderemo, quindi,
questo capitolo, parlando di una piaga tutta speciale, prodotta in
Inghilterra, fra i lavoratori agricoli, dall'accumulazione del
capitale.
L'eccesso di popolazione agricola produce l'effetto di far ribassare
i salari, mentre non soddisfa nemmeno tutti i bisogni del capitale
nei momenti di lavori eccezionali e urgenti, che sono richiesti in
date epoche dell'anno dall'agricoltura. Ne segue, quindi, che un
gran numero di donne e di fanciulli vien impegnato per bisogni
momentanei del capitale, passati i quali, questa gente va ad
aumentare la sovrapopolazione lavoratrice delle campagne. Questo
fatto ha prodotto nelle campagne dell'Inghilterra il sistema delle
bande ambulanti.
«Una banda si compone da 10 a 40 o 50 persone, donne, adolescenti
dei due sessi, benché la più gran parte dei ragazzi venga eliminata
verso il loro tredicesimo anno, infine fanciulli dai 6 ai 13 anni.
Il suo capo è un operaio di campagna ordinario, quasi sempre una
cattiva lana, vagabondo, buontempone, ubriacone, ma intraprendente e
dotato di molta abilità. È lui che recluta la banda, destinata a
lavorare sotto i suoi ordini, e non sotto quelli del fattore.
Siccome egli prende il lavoro a cottimo, il suo guadagno, che, in
media, non sorpassa quasi quello dell'operaio ordinario, dipende,
quasi esclusivamente, dall'abilità con la quale egli sa far avere
alla sua banda, nel tempo più corto, il maggior lavoro possibile. I
fattori sanno, per esperienza, che le donne non fanno tutto ciò che
possono fare, se non sotto il comando degli uomini, e che le
giovanette e i fanciulli, una volta avviati, spendono le loro forze
con prodigalità, mentre l'operaio maschio adulto cerca
d'economizzare le sue. Il capo di banda, facendo il giro delle
fattorie, può occupare la sua gente durante 6 o 8 mesi dell'anno.
Egli è dunque per le famiglie operaie un avventore migliore del
fattore isolato, il quale non impiega i fanciulli che di quando in
quando. Questa circostanza stabilisce tanto bene la sua influenza,
che in molte località non si può procurarsi fanciulli senza
l'intervento del capo-banda.»
«I vizi di questo sistema sono l'eccesso di lavoro imposto ai
fanciulli e ai giovanetti, l'enorme cammino, che essi sono costretti
a fare ogni giorno per andare e venire dalla fattoria, distante 5, 6
e qualche volta 7 miglia, infine la demoralizzazione della banda
ambulante. Benché il capo di banda sia armato di un lungo bastone,
egli non se ne serve tuttavia che raramente, e i trattamenti brutali
sono eccezionalmente lamentati. Egli ha bisogno di essere popolare
fra i suoi sottoposti, e se li affeziona con le attrattive di una
esistenza da zingari-vita vagante, assenza di qualsiasi riguardo,
allegria strepitosa, libertinaggio grossolano. Ordinariamente la
paga si fa all'osteria fra le libazioni copiose. Poscia si prende la
strada per ritornare a casa. Vacillante, appoggiato la destra e la
sinistra sul braccio robusto di qualche donnone, il degno capo
cammina in testa della colonna, mentre alla coda i più giovani
folleggiano e intonano canzoni burlesche od oscene. Non è raro che
fanciulle di 13 o 14 anni siano ingravidate da ragazzi della stessa
età. I villaggi, che sono la sorgente e il serbatoio di queste
bande, diventano tante Sodome e Gomorre, dove la cifra delle nascite
illegittime raggiunge il suo massimo.»
«La banda, nella forma classica da noi descritta, si dice banda
pubblica, comune o ambulante. Vi hanno pure bande particolari,
composte dei medesimi elementi delle prime, ma meno numerose, e
funzionanti sotto gli ordini, non di un capo di banda, ma di qualche
vecchio garzone di fattoria, che il suo padrone non saprebbe
altrimenti impiegare. Queste non hanno più l'allegria né lo spirito
da zingari, ma, come tutti i testimoni dicono, i fanciulli vi sono
meno pagati e più maltrattati.»
«Questo sistema il quale, in questi ultimi anni, continua a
estendersi, non esiste evidentemente per il piacere del capo di
banda. Esso esiste perché arricchisce i grossi fattori e i
proprietari. I piccoli fattori non impiegano bande, e nemmeno se ne
impiegano sulle terre povere. Un proprietario, spaventato da una
possibile riduzione delle sue rendite, si adirò innanzi alla
commissione d'Inchiesta. "Perché si fa tanto chiasso?" egli gridò.
"Perché il nome del sistema suona male. Invece di 'banda' dite, per
esempio, 'associazione industriale agricola cooperativa della
gioventù rurale', e nessuno vi troverà a ridire." "Il lavoro per
bande è al più buon mercato in confronto di qualunque altro, ed ecco
perché lo s'impiega" dice un antico capo-banda. "Il sistema delle
bande" dice un fattore "è il meno caro per i fattori, e senza
contraddizione il più pernicioso per i fanciulli." Per i fattori non
v'ha metodo più ingegnoso per mantenere il personale dei lavoratori
molto al disotto del livello normale, lasciando sempre a sua
disposizione un supplemento di braccia per i bisogni straordinari
per ottenere molto lavoro con la minor spesa possibile, e per
rendere superflui i maschi adulti. Sotto pretesto che mancano i
lavoratori e il lavoro, si reclama come necessario il sistema delle
bande.»
CAPITOLO X
L'accumulazione primitiva
Eccoci giunti alla fine del nostro dramma.
Noi incontrammo un giorno il lavoratore sul mercato, venuto per
vendere la sua forza di lavoro, e lo vedemmo contrattare da pari a
pari con l'uomo del denaro. Egli non conosceva ancora quanto dura
fosse la strada del Calvario che doveva ascendere, né aveva ancora
appressato alle sue labbra l'amarissimo calice, che tutto doveva
tracannare sino alla feccia. L'uomo del denaro, non ancora divenuto
capitalista, non era allora che un modesto possessore di piccola
ricchezza, timido e incerto per la riuscita della sua nuova
intrapresa, nella quale impiegava la sua fortuna.
Vedemmo poi come la scena si venne mutando.
L'operaio, dopo aver generato, con il suo primo sopralavoro, il
capitale, fu oppresso dall'eccessivo lavoro di una giornata
straordinariamente prolungata. Con il plusvalore relativo gli fu
ristretto il tempo del lavoro necessario pel suo mantenimento e
prolungato quello del sopralavoro, destinato a nutrire sempre più
riccamente il capitale. Nella cooperazione semplice vedemmo
l'operaio a una disciplina di caserma, e, trascinato dalla corrente
di tutta una concatenazione di forze di lavoro, estenuarsi sempre
più, per dare maggiore alimento al sempre crescente capitale.
Vedemmo l'operaio mutilato, avvilito, e depresso al massimo grado
dalla divisione del lavoro, nella manifattura. Lo vedemmo soffrire
gl'inenarrabili dolori materiali e morali, causatigli
dall'introduzione delle macchine, nella grande industria.
Espropriato dell'ultima particella di virtù artigiana, lo vedemmo
ridotto a mero servo della macchina, trasformato, da membro di un
organismo vivente, in appendice volgarissima di un meccanismo,
torturato dal lavoro vertiginosamente intensificato della macchina,
che a ogni tratto minaccia strappargli un brandello delle sue carni,
o stritolarlo completamente fra i suoi terribili ingranaggi; e per
di più vedemmo la moglie e i teneri figli suoi divenuti schiavi del
capitale. E intanto il capitalista, arricchito immensamente, gli
paga un salario, che egli può a suo piacere diminuire, anche facendo
mostra di conservarlo allo stesso livello di prima, e perfino di
aumentarlo. Finalmente vedemmo l'operaio, temporaneamente
inutilizzato dall'accumulazione del capitale, passare dall'armata
attiva industriale nella riserva, per poi, da questa, cadere per
sempre nell'inferno del pauperismo. Tutto il sacrificio è consumato!
Ma come mai ha potuto avvenire tutto ciò?
In un modo molto semplice. L'operaio era, è vero, possessore della
sua forza di lavoro, con la quale avrebbe potuto produrre ogni
giorno molto più di quanto abbisognava per sé e per la sua famiglia,
ma gli mancavano però gli altri elementi indispensabili del lavoro,
i mezzi, cioè, e le materie di lavoro. Sprovvisto dunque di
qualsiasi ricchezza, l'operaio è stato costretto, per campare la
vita, a vendere il suo unico bene, la sua forza di lavoro all'uomo
del denaro, che ne ha fatto il suo pro. La proprietà individuale e
il salariato, fondamenti del sistema di produzione capitalista, sono
stati la causa prima di tanti dolori.
Ma ciò è iniquo! E scellerato! E chi ha mai conferito all'uomo il
diritto di proprietà individuale? E come mai l'uomo del denaro si
trovava in possesso di un'accumulazione primitiva, origine di tante
infamie?
Una voce terribile esce dal tempio del Dio Capitale, e grida: 'Tutto
è giusto, perché tutto è scritto nel libro delle eterne leggi. Fuvvi
già un tempo molto lontano, nel quale tutti gli uomini vagavano
ancora liberi e uguali per la Terra. Pochi di essi furono laboriosi,
sobri ed economici; tutti gli altri poltroni, gozzovigliatori e
dissipatori. La virtù fece ricchi i primi, e il vizio immiserì i
secondi. I pochi ebbero il diritto di godere (essi e i loro
discendenti) delle ricchezze virtuosamente accumulate; mentre i
molti spinti dalla loro miseria a vendersi ai ricchi, furono
condannati eternamente a servire essi e i loro discendenti'.
Ecco come spiegano la cosa certi amici dell'ordine borghese. «E
queste insipide fanciullaggini non si stancano mai di sciorinarle.
Thiers, per esempio, osa presentarle ai francesi in un volume, nel
quale, con la gravità di un uomo di Stato, pretende di avere
annientati gli attacchi sacrileghi del socialismo contro la
proprietà.»
Se tale fosse l'origine dell'accumulazione primitiva, la teoria, che
da essa deriva, sarebbe tanto giusta, quanto quella del peccato
originale e quella della predestinazione. Il padre fu poltrone e
gozzovigliatore, il figlio soffrirà la miseria. Il tale è figlio di
un ricco, è predestinato a essere felice, potente, istruito, civile,
forte, eccetera; il tal'altro è figlio di un povero, è predestinato
a essere infelice, debole, ignorante, abbrutito, immorale, eccetera.
Una società, fondata sopra una tale legge, dovrebbe certamente
finire, come già finirono tante altre società, meno barbare e meno
ipocrite, tante religioni e dèi, incominciando dal cristianesimo,
nelle cui leggi si trovano esempi consimili di giustizia.
E qui potremmo metter fine al nostro dire, se ci fosse permesso di
terminarlo con questa scempiaggine borghese. Ma il nostro dramma ha
una catastrofe degna di esso, come tosto vedremo, assistendo al suo
ultimo atto.
Apriamo la storia, quella storia scritta da borghesi, e per uso e
consumo della borghesia; cerchiamo in essa l'origine
dell'accumulazione primitiva, ed ecco ciò che vi troviamo.
Nell'epoca più antica, torme di gente vaganti vengono a stabilirsi
in quelle località meglio disposte e più favorite dalla natura. Vi
fondano città, si danno a coltivare la terra, e a fare quant'altro
occorre per il proprio benessere. Ma ecco che esse s'incontrano e si
urtano nel loro sviluppo, e ne segue guerra, morti, incendi, rapine
e stragi. Tutto ciò che è dei vinti diventa la proprietà dei
vincitori, comprese le persone dei superstiti, che sono fatti tutti
schiavi.
Ecco l'origine dell'accumulazione primitiva nell'antichità. Veniamo
ora al medio evo.
In questa seconda epoca della storia, altro non troviamo che
invasioni di popoli nei paesi di altri popoli più ricchi e più
favoriti dalla natura, e sempre lo stesso ritornello di stragi,
rapine, incendi, eccetera. Tutto ciò che è dei vinti diventa la
proprietà dei vincitori, con la sola differenza che i superstiti non
sono fatti più schiavi, come nella epoca antica, ma servi, e passano
con la terra, alla quale sono attaccati, in potere dei loro signori.
Nemmeno nel medio evo dunque troviamo la menoma traccia
dell'idillica laboriosità, sobrietà ed economia decantata da una
certa dottrina borghese quale origine dell'accumulazione primitiva.
E notisi che il medio evo è l'epoca alla quale i più illustri nostri
possessori di ricchezza possano vantarsi di far ascendere la loro
origine. Ma veniamo finalmente all'epoca moderna.
La rivoluzione borghese ha distrutto il feudalismo, ed ha trasmutata
la servitù in salariato. Nello stesso tempo, però, essa ha tolto al
lavoratore i pochi mezzi di esistenza, che lo stato di servitù gli
assicurava. Il servo, benché dovesse lavorare la maggior parte del
suo tempo per il suo signore, pure si aveva un pezzo di terra con i
mezzi e il tempo di coltivarla, per campare la sua vita. La
borghesia ha distrutto tutto ciò, e del servo ha fatto un libero (?)
lavoratore, il quale non ha altra scelta che, o farsi sfruttare nel
modo che abbiamo già visto, dal primo capitalista che gli capita, o
morire di fame.
Scendiamo ora ai particolari. Apriamo la storia di un popolo, e
vediamo com'è avvenuta l'espropriazione delle popolazioni agricole,
e la formazione di quelle masse operaie, destinate a fornire la loro
forza di lavoro alle industrie moderne. Prenderemo, secondo il
solito, la storia d'Inghilterra, perché se l'Inghilterra è il paese,
dove più che altrove è sviluppata la malattia che noi studiamo, è
dessa che potrà offrirci sempre il campo più adatto per le nostre
osservazioni pratiche.
«In Inghilterra, il servaggio era scomparso di fatto verso la fine
del XIV secolo. L'immensa maggioranza della popolazione si componeva
allora, e più interamente ancora al XV secolo, di contadini liberi,
che coltivavano le loro proprie terre, qualunque fosse il titolo
feudale sul quale poggiavano il loro diritto di possesso. Nei grandi
domini signorili l'antico balì, servo lui stesso, aveva ceduto il
posto al fattore indipendente. I salariati rurali erano in parte
contadini (che, durante il tempo lasciato loro libero dalla cultura
dei loro campi, prendevano servizio presso i grandi proprietari), in
parte una classe particolare e poco numerosa di giornalieri. Questi
stessi erano pure, in una certa misura, coltivatori per proprio
conto, perché, oltre del salario, si faceva loro concessione di
campi almeno di 4 acri, con case di campagna; dippiù, essi
partecipavano, insieme con i contadini propriamente detti,
all'usufrutto dei beni comunali, dove facevano pascere il loro
bestiame, e si provvedevano di legna, di torba, eccetera, per
riscaldarsi.»
La rivoluzione, che doveva gettare i primi fondamenti del regime
capitalista, ebbe il suo preludio nell'ultimo terzo del XV secolo e
nel principio del XVI. Allora il licenziamento dei numerosi seguiti
signorili lanciò improvvisamente sul mercato del lavoro una massa di
proletari senza fuoco e senza tetto; la quale fu considerevolmente
ingrandita dalle usurpazioni, che i gran signori fecero dei beni
comunali dei contadini, cacciandone questi, che vi avevano tanto
diritto quanto i loro padroni. Ciò che, in Inghilterra, dette
specialmente luogo a questi atti di violenza, fu l'estensione delle
manifatture di lana in Fiandra e il rialzo dei prezzi della lana che
ne risultò. Trasformazione delle terre arabili in pascoli: tale fu
il grido di guerra. Harrison racconta come l'espropriazione dei
contadini avesse desolato il paese. "Ma che importa ai nostri grandi
usurpatori? Le case dei contadini e le case rustiche dei lavoratori
sono state violentemente rasate al suolo, o condannate a cadere in
rovina. Se si vogliono consultare gli antichi inventari di ciascuna
residenza signorile, si troverà che innumerevoli case sono scomparse
con i coltivatori che le abitavano, che il paese nutre ora molto
minor numero di gente, che molte città sono decadute, benché
qualcuna di nuova fondazione prosperi... A proposito delle città e
dei villaggi distrutti per fare parchi di pecore e nei quali non si
vede più niente in piedi, salvo il castello signorile, avrei molto a
dire."»
«La Riforma, e lo spogliamento dei beni della Chiesa che la seguì,
venne a dare un nuovo e terribile impulso all'espropriazione
violenta del popolo, nel XVI secolo. La chiesa cattolica era, a
quest'epoca, proprietaria feudale della più gran parte del suolo
inglese. La soppressione dei chiostri, eccetera, ne gettò gli
ambienti nel proletariato. I beni stessi del clero caddero nelle
mani dei favoriti reali, o furono venduti a vil prezzo a cittadini,
a fattori speculatori, che incominciarono dal cacciare in massa gli
antichi censuari ereditari. Il diritto di proprietà della povera
gente, sopra una parte delle decime ecclesiastiche, fu tacitamente
confiscato. Nel quarantesimo anno del regno di Elisabetta, si
dovette riconoscere il pauperismo come istituzione nazionale, e
stabilire la tassa per i poveri. Gli autori di questa legge si
vergognarono di dichiararne i motivi, e la pubblicarono senza alcun
preambolo, contrariamente all'uso tradizionale. Sotto Carlo I, il
Parlamento la dichiarò perpetua, e non fu poi modificata che nel
1834. Allora divenne pei poveri un castigo ciò che loro era stato
originariamente accordato come indennità delle espropriazioni
subite.»
«Al tempo ancora di Elisabetta, alcuni proprietari fondiari e alcuni
ricchi fattori dell'Inghilterra meridionale si riunirono in
conciliabolo, per approfondire la legge sui poveri recentemente
promulgata. Ecco un estratto del sunto dei loro studi, sottoposto
all'avviso di un celebre giureconsulto di quel tempo:
"Alcuni ricchi fattori della parrocchia hanno progettato un piano
molto saggio, con il quale si può evitare ogni sorta di turbolenza
nella esecuzione della legge. Essi propongono di far costruire nella
parrocchia una prigione di lavoro. Ogni povero che non vorrà farvisi
rinchiudere si vedrà rifiutata l'assistenza. Si farà poi sapere nei
dintorni che se qualcuno desiderasse prendere in affitto i poveri di
questa parrocchia, dovrebbe rimettere, in un termine prestabilito,
le proposte sigillate, indicando il prezzo più basso al quale egli
se ne vorrebbe sbarazzare. Gli autori di questo piano suppongono che
vi siano nelle vicine contee genti, le quali non abbiano alcuna
voglia di lavorare, e che siano senza fortuna o senza credito per
procurarsi una fattoria, o una nave, onde poter vivere senza lavoro.
Queste genti sarebbero dispostissime a fare alla parrocchia proposte
vantaggiosissime. Se qualche povero morisse durante il contratto, la
colpa ricadrebbe su di lui, avendo la parrocchia adempito a tutti i
suoi doveri verso questi poveri. Noi temiamo tuttavia che la legge
della quale si tratta non permetta simili misure di prudenza. Ma
dovete sapere che il resto dei liberi sublocatari di questa contea e
delle contee vicine si unirà a voi, per impegnare il loro
rappresentante alla Camera dei Comuni a proporre una legge, che
permetta di imprigionare i poveri e di obbligarli al lavoro,
affinché ogni individuo, che si rifiuti all'imprigionamento, perda
il suo diritto all'assistenza. Ciò, noi speriamo, impedirà i
miserabili di aver bisogno di assistenza".»
«Nel XVIII secolo, la legge stessa divenne strumento di spoliazione.
La forma parlamentare del furto commesso sulle terre comunali è
quella di 'legge sulla chiusura delle terre comunali'. Sono, in
realtà, decreti con i quali i proprietari di terre si fanno essi
stessi regalo dei beni comunali, decreti di espropriazione del
popolo. Sir E M. Eden cerca di presentare la proprietà comunale come
una proprietà privata, benché ancora indivisa, ma si confuta da se
stesso, dimandando al Parlamento uno statuto generale, che sanzioni
una volta per tutte la chiusura dei beni comunali. E non contento di
avere così confessato la necessità di un colpo di Stato parlamentare
per legalizzare il trasferimento dei beni comunali ai proprietari di
terre, egli insiste sull'indennità dovuta ai poveri coltivatori. Se
non v'erano espropriati, non vi erano evidentemente persone da
indennizzare.»
"Nel Northamptonshire e nel Lincolnshire" dice Addington "si è
proceduto in grande alla chiusura dei terreni comunali, e la più
parte delle nuove signorie, uscite da questa operazione, sono state
convertite in pascoli, di guisa che dove si lavoravano 1500 acri di
terra, non se ne lavoravano più che 50... Riivine di case, di
fienili, di stalle, eccetera: ecco le sole tracce lasciate dagli
antichi abitanti. In tanti luoghi, centinaia di case e di famiglie
sono state ridotte a 8 o 10. Nella più parte delle parrocchie, dove
le chiusure non datano che da 15 o 20 anni, non v'ha che un piccolo
numero di proprietari, paragonato a quello che coltivava il suolo,
quando i campi erano aperti. Non è raro il vedere 4 o 5 ricchi
allevatori di bestiame usurpare domini testé chiusi, che si
trovavano prima nelle mani di 20 o 30 fattori e di un gran numero di
piccoli proprietari e di contadini. Tutti questi ultimi e le loro
famiglie soli espulsi dalle loro possessioni con gran numero d'altre
famiglie, che essi occupavano o mantenevano." Non furono solamente
le terre incolte, ma spesso anche quelle già coltivate, sia in
comune, sia pagando un certo tributo al Comune, che i proprietari
limitrofi si annessero, sotto pretesto di chiusura. Il dottore Price
dice: "Io parlo qui della chiusura dei terreni dei campi già
coltivati. Gli scrittori stessi che sostengono le chiusure
convengono che, in questo caso, essi riducono la cultura, fanno
alzare il prezzo delle sostanze e recano lo spopolamento... E, anche
quando non si tratta che di terre incolte, l'operazione tale quale
oggi si pratica toglie al povero una parte dei suoi mezzi di
sussistenza e attiva lo sviluppo delle fattorie, che sono già troppo
grandi. Quando il suolo cade nelle mani di un piccolo numero di
grandi fattori, i piccoli fattori (che egli ha in un altro luogo
designati come tanti 'piccoli proprietari e sublocatari, viventi
essi e le loro famiglie con il prodotto della terra che essi
coltivano, delle pecore, del pollame, dei maiali, eccetera, che essi
fanno pascolare sulle terre comunali') saranno trasformati in gente
forzata a guadagnare la propria sussistenza lavorando per altri, e
ad andare a comprare al mercato ciò che loro è necessario. Si farà
più lavoro forse, perché vi sarà più costringimento... Le città e le
manifatture si ingrandiranno, perché c'è un maggior numero di
persone in cerca d'occupazione. E in questo senso che la
concentrazione delle fattorie si effettua spontaneamente, e che essa
è in vigore da molti anni in questo Regno. Insomma, la situazione
delle classi inferiori del popolo è peggiorata sotto tutti i
rapporti: i piccoli proprietari e fattori sono stati ridotti allo
stato di giornalieri e di mercenari, e nello stesso tempo è
diventato più difficile il campare la vita". Infatti, l'usurpazione
dei beni comunali e la rivoluzione agricola che la seguì, si fecero
tanto duramente sentire ai lavoratori delle campagne, che, secondo
lo stesso Eden, dal 1765 al 1780, il loro salario cominciò a cadere
al disotto del minimum, e dovette esser completato per mezzo dei
soccorsi ufficiali. "Il loro salario non basta più ai primi bisogni
della vita" egli dice.
Al XIX secolo, si è perduto perfino il ricordo del legarne intimo,
che univa il coltivatore al suolo comunale. Il popolo delle
campagne, per esempio, ha mai ottenuto un quattrino d'indennità per
i 3 511 770 acri, che gli sono stati strappati, dal 1801 al 1831, e
che i proprietari si sono regalati a vicenda con le leggi di
chiusura?»
Gli ultimi espedienti di grande importanza storica, per espropriare
i lavoratori delle campagne, bisogna propriamente guardarli
nell'alta Scozia, dove essi ebbero la più feroce applicazione.
«Giorgio Ensor, in un libro pubblicato nel 1818, dice: "I Grandi di
Scozia hanno espropriate famiglie, come se si fosse trattato di
sarchiare cattive erbe; essi hanno trattati i villaggi e i loro
abitanti, come gli indiani, ebbri di vendetta, trattano le bestie
feroci e le loro tane. Un uomo è venduto per un vello di pecora, per
un cosciotto di montone e per meno ancora... Al tempo dell'invasione
della Cina settentrionale, il Gran Consiglio dei Mongoli discusse se
bisognava estirpare dal paese tutti gli abitanti e convertirlo in un
vasto pascolo. Molti proprietari scozzesi hanno messo questo disegno
in esecuzione nel loro proprio paese, contro i loro propri
compatrioti".»
«Ma a ciascun signore bisogna rendere il dovuto onore. L'iniziativa
più mongolica fu presa dalla duchessa di Sutherland. Questa donna,
formata da una buona scuola, non appena ebbe prese le redini
dell'amministrazione, ricorse ai grandi mezzi, e convertì in pascolo
tutta una contea, la cui popolazione, in grazia a esperimenti
analoghi, ma fatti in proporzioni più piccole, si trovava già
ridotta alla cifra di 15 000. Dal 1814 al 1820 questi 15 000
individui, che formavano circa 3000 famiglie, furono
sistematicamente espulsi. I loro villaggi furono distrutti e
bruciati, i loro campi convertiti in pascoli. I soldati inglesi,
mandati per prestare man forte, vennero alle prese con gli indigeni.
Una vecchia, che rifiutava d'abbandonare la sua capanna, perì nelle
fiamme.» (Aprite le orecchie, borghesi, che declamate contro l'uso
rivoluzionario del petrolio! Il fuoco è stato, per molto tempo
impiegato a danno del proletariato! È la vostra storia che parla.)
«Egli è così che la nobile dama si accaparrò 794 000 acri di terra,
che appartenevano alla comunità da tempo immemorabile.»
«Una parte degli spodestati fu assolutamente cacciata; all'altra
furono assegnati circa 6000 acri sulla riva del mare, terra incolta,
che non aveva mai reso un quattrino. La signora duchessa spinse la
sua grandezza d'animo sino a cederla in affitto per 2,5 scellini
l'acro ai membri della comunità, che da secoli avevano versato il
loro sangue al servizio dei Sutherland. Il terreno, così
conquistato, essa lo divise in 29 grosse fattorie di pecore,
stabilendo sopra ciascuna una sola famiglia, composta quasi sempre
di garzoni di fattorie inglesi. Nel 1825, i 15 000 proscritti
avevano già ceduto il posto a 131 000 pecore. Quelli gettati sulla
riva del mare si dettero alla pesca e divennero, secondo
l'espressione di uno scrittore inglese, dei 'veri anfibi', che
vivevano metà sulla terra e metà sull'acqua, ma con tutto ciò non
vivevano che a metà. L'odore del loro pesce fu però sentito, e la
riva non tardò a essere affittata ai grossi pescivendoli di Londra,
e i poveri lavoratori scozzesi furono per una seconda volta
scacciati.»
«Finalmente, un ultimo cambiamento si compie. Una porzione delle
terre convertite in pascoli è riconvertita in riserva di caccia. Il
professore Leone Levi, in un discorso pronunciato nell'aprile 1866,
innanzi alla Società delle Arti, disse: "Spopolare il paese e
convertire i terreni arabili in pascoli, era, in primo luogo, il
mezzo più comodo di aver rendite senza alcuna spesa... Ben tosto la
sostituzione delle foreste di daini ai pascoli divenne un
avvenimento ordinario negli Highlands. Il daino scaccia la pecora
come la pecora aveva scacciato l'uomo... Grandi distretti, che
figuravano nella statistica della Scozia come praterie di una
fertilità ed estensione eccezionali, sono ora rigorosamente privi
d'ogni sorta di cultura e di miglioramento, e consacrati ai piaceri
di un pugno di cacciatori, che non ci vanno che qualche mese
dell'anno". Verso la fine del maggio 1866, un giornale scozzese
diceva: "Una delle migliori fattorie di pecore del Sutherlandshire,
per la quale allo spirare del fitto corrente si offriva una rendita
di 100 000 L. st., sarà convertita in foresta di daini". Altri
giornali, della stessa epoca, parlano ancora di questi istinti
feudali, che vanno sempre più sviluppandosi in Inghilterra; ma poi
alcuno di essi conclude, provando con le cifre, come un tale fatto
non abbia per nulla diminuito la ricchezza nazionale.»
«La creazione di un proletariato senza fuoco e senza tetto andava
necessariamente più sollecita che il suo assorbimento nelle
manifatture nascenti. D'altra parte, questi uomini, bruscamente
strappati alle loro condizioni di vita ordinaria, non potevano così
presto abituarsi alla disciplina del nuovo ordine sociale. Ne uscì
quindi una massa di mendicanti, di ladri, di vagabondi. Ond'è che,
verso la fine del XV secolo e durante tutto il XVI, nell'ovest di
Europa, una legislazione sanguinaria fu fatta contro il
vagabondaggio. I padri dell'attuale classe operaia furono castigati
per essere stati ridotti allo stato di vagabondi e di poveri. La
legislazione li trattò come delinquenti volontari; essa suppose che
dipendesse dal loro libero arbitrio il continuare a lavorare come
per il passato, quasi che non fosse avvenuto alcun cambiamento nella
loro condizione.»
In Inghilterra, questa legislazione cominciò sotto il regno di
Enrico VII.
«Enrico VIII, 1530. I mendicanti, attempati e incapaci di lavoro,
ottengono licenze per dimandare la carità. I vagabondi robusti sono
condannati a essere frustati e imprigionati. Legati dietro a una
carretta, essi debbono subire la fustigazione, finché il sangue non
grondi dal loro corpo; poi essi devono impegnarsi con giuramento di
ritornare, sia al luogo della loro nascita, sia al luogo che essi
hanno abitato negli ultimi tre anni, e a rimettersi al lavoro.
Crudele ironia! Questo stesso statuto fu anche trovato troppo dolce,
nel ventisettesimo anno del regno di Enrico VIII. Il Parlamento
aggravò le pene con clausole addizionali. In caso di prima recidiva,
il vagabondo dev'essere frustato di nuovo e avere la metà
dell'orecchio mozzata; alla seconda recidiva egli dev'essere
trattato da ribelle e ammazzato come nemico dello Stato.»
«Nella sua Utopia, il cancelliere Tommaso Moro dipinge vivamente la
situazione dei disgraziati colpiti da queste leggi. "Succede" egli
dice "che un ghiottone avido e insaziabile, un vero flagello del suo
paese natale, si può impossessare di migliaia di iugeri di terra,
circondandoli di piuoli o di siepi, ovvero tormentando i loro
proprietari con tali ingiustizie da obbligarli a vender tutto. In un
modo o nell'altro, per amore o per forza, essi devono sloggiare
tutti, povera gente, cuori semplici, uomini, donne, sposi,
orfanelli, vedove, madri con i loro poppanti e con tutto il loro
avere, poveri di risorse, ma ricchi di numero, perché l'agricoltura
ha bisogno di molte braccia. Essi devono rivolgere i loro passi
lontani dal loro antico focolare, senza trovare un luogo di riposo.
In altre circostanze la vendita dei loro mobili e dei loro utensili
domestici avrebbe potuto aiutarli, per quanto poco questi valessero;
ma, gettati subitamente nel vuoto, essi sono forzati a cederli per
una bagatella. E quando essi hanno errato qua e là e mangiato sin
l'ultimo quattrino, che possono fare altro che rubare? E allora, mio
Dio, o essere impiccati con tutte le forme legali, o andare
mendicando! E in questo ultimo caso li gettano in prigione come
vagabondi, perché essi menano una vita errante e non lavorano,
perché nessuno al mondo vuol dar loro lavoro, per quanto essi siano
premurosi di offrirsi per ogni sorta di servizio." Di questi
disgraziati fuggitivi, dei quali Tommaso Moro, loro contemporaneo,
dice che li forzavano a vagabondare e a rubare "72 000 ne furono
fatti morire sotto il regno di Enrico VIII", secondo che narra
Holingshed nella sua Descrizione dell'Inghilterra.»
«Eduardo VI. Uno statuto del primo anno del suo regno, 1547, ordina
che ogni individuo refrattario del lavoro sia dato per ischiavo alla
persona che l'avrà denunziato come vagabondo. (Così per avere a suo
profitto il lavoro di un povero diavolo, non si aveva che a
denunziarlo come refrattario del lavoro.) Il padrone deve nutrire
questo schiavo con pane e acqua, e dargli di tanto in tanto qualche
leggera bevanda e gli avanzi di carne, che egli giudicherà
conveniente. Egli ha il diritto di costringerlo ai servizi i più
disgustosi con il mezzo della frusta e della catena. Se lo schiavo
si ostina per una quindicina di giorni, è condannato alla schiavitù
perpetua e sarà marcato, a ferro rovente, con la lettera 'S' sulla
guancia e sulla fronte; se egli è fuggito per la terza volta, sarà
ucciso come ribelle. Il padrone lo può vendere, legarlo per
testamento, fittarlo ad altri a guisa di ogni altro mobile o
bestiame. Se gli schiavi macchinano qualche cosa contro i padroni,
devono essere puniti con la morte. I giudici di pace, ricevutone
avviso, sono obbligati a seguire le tracce di questi cattivi arnesi.
Quando è preso qualcuno di questi straccioni, lo si deve marcare,
con ferro rovente, con la lettera 'V' sul petto, e ricondurlo al
luogo della sua nascita, dove, carico di ferri, egli dovrà lavorare
sulle pubbliche piazze. Se il vagabondo ha indicato un falso luogo
di nascita, egli deve diventare, per punizione, lo schiavo a vita di
questo luogo, dei suoi abitanti e della sua corporazione; lo si
marcherà di una 'S'. Il primo venuto ha il diritto d'impossessarsi
dei figli dei vagabondi, e di ritenerli come fattorini, i ragazzi
fino a 24 anni, le fanciulle fino a 20. Se prendono la fuga, essi
diventano, sino a questa età, gli schiavi dei padroni, che hanno
diritto di metterli ai ferri, di far loro subire la frusta,
eccetera, a volontà. Ogni padrone può mettere un anello di ferro al
collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo, onde meglio
riconoscerlo ed essere più sicuro di lui. L'ultima parte di questo
statuto prevede il caso, nel quale certi poveri sarebbero occupati
dalle persone o dalle località, che volessero dar loro a mangiare e
bere, e metterli al lavoro. Questo genere di schiavi della
parrocchia si è conservato, in Inghilterra, sino alla metà del XIX
secolo. Un campione dei capitalisti osserva: "Sotto il regno di
Eduardo VI, gl'inglesi sembra avessero a cuore l'incoraggiamento
delle manifatture e l'occupazione dei poveri, come lo prova uno
statuto rimarchevole, nel quale è detto che tutti i vagabondi devono
essere marcati con il ferro rovente".»
«Elisabetta, 1572. I mendicanti, senza permesso, e d'età oltre i 40
anni, devono essere severamente frustati e marcati con il ferro
rovente all'orecchia sinistra, se nessuno li vuole prendere al
servizio durante due anni. In caso di recidiva, quelli che hanno più
di 18 anni devono essere uccisi, se nessuno li vuole impiegare
durante due anni. Ma, presi una terza volta, essi devono essere
messi a morte senza misericordia come ribelli. Più tardi i vagabondi
s'impiccavano in massa, disposti in lunghe file. Ogni anno vi erano
300 o 400 impiccati in un posto o nell'altro, dice Strype nei suoi
Annali; secondo lui, il solo Somersetshire contò, in un anno, 40
morti, 35 marcati con il ferro rovente, e 37 frustati. Intanto,
aggiunge questo filantropo, "questo gran numero d'accusati non
comprende che il quinto dei delitti commessi, grazie alla negligenza
dei giudici di pace e alla stupida compassione del popolo..." Nelle
altre contee dell'Inghilterra, la situazione non era migliore, e, in
alcune, anche peggiore.»
«Giacomo I. Tutti gli individui che corrono il paese e vanno
mendicando sono dichiarati vagabondi. I giudici di pace (tutti,
beninteso, proprietari di terre, manifatturieri, ministri del culto,
eccetera, investiti della giurisdizione criminale) nelle loro
sessioni ordinarie sono autorizzati a farli frustare pubblicamente e
a infliggere loro 6 mesi di prigione, alla prima recidiva, e 2 anni
alla seconda. Durante tutta la prigionia, possono essere frustati
tanto spesso e tanto forte quanto i giudici di pace stimeranno a
proposito... Gli scorrazzatori restii e pericolosi devono essere
marcati con una 'R' sulla spalla sinistra, e, se sorpresi a
mendicare, uccisi senza misericordia, e privati dell'assistenza del
prete. Questi statuti non furono aboliti che nel 1714.»
Ed ecco in mezzo a quali orrori, in mezzo a quanto sangue si è
compiuta l'espropriazione delle popolazioni agricole, e la
formazione di quella classe operaia, destinata a servire di pasto
alla grande industria moderna. Altro che idillio! E stato il ferro e
il fuoco la sola origine dell'accumulazione primitiva; è stato il
ferro e il fuoco che ha preparato al capitale l'ambiente necessario
per svilupparsi, la massa di forze umane destinate a nutrirlo; e se
oggi non è più il ferro e il fuoco il mezzo ordinario della sempre
crescente accumulazione, è perché v'ha un altro mezzo, in sua vece,
molto più inesorabile e terribile, una delle moderne gloriose
conquiste della borghesia, un mezzo che forma parte necessaria del
congegno stesso della produzione capitalista, un mezzo che agisce da
sè solo, senza fare tanto strepito, senza produrre scandalo, un
mezzo infine perfettamente civile: la fame. E per chi si ribella
alla fame, sempre e poi sempre ferro e fuoco.
Le moderne proporzioni di questo compendio non ci permettono di
narrare eziandio i fasti del capitale nelle colonie. Rimandiamo i
nostri lettori alle storie delle scoperte, incominciando da quella
di Cristoforo Colombo, e di tutte le colonizzazioni, limitandoci
solamente a citare a tale riguardo le parole di «un uomo rinomato
solo per il suo fervore cristiano, W Howitt, che così si esprime:
"Le barbarie e le atrocità esecrabili perpetrate dalle razze
sedicenti cristiane, in tutte le regioni del mondo e contro tutti i
popoli che essi hanno potuto soggiogare, non trovano niente di
simile in nessuna altra epoca della storia universale, presso
nessuna razza per quanto selvaggia, per quanto rozza, per quanto
spietata, per quanto svergognata ella si fosse".»
«Se, come dice Augier, "il denaro è venuto al mondo con macchie
naturali di sangue sovra una delle sue faccie", il capitale vi è
venuto sudando il sangue e il fango da tutti i suoi pori.»
E questa è pura storia, o borghesi, una trista storia di sangue, che
meriterebbe di essere ben letta e meditata da voi, che sapete nella
vostra virtù concepire un santo orrore per la libidine di sangue dei
rivoluzionari moderni; da voi, che dichiarate non poter permettere
ai lavoratori che il solo uso dei mezzi morali.
CONCLUSIONE
Il male è radicale. E già da un pezzo che lo sanno i lavoratori del
mondo civile; non tutti certamente, ma un gran numero, e questi
preparano già i mezzi atti a distruggerlo.
Essi hanno considerato: I che la sorgente prima di ogni oppressione
e sfruttamento umano è la proprietà individuale; II che
l'emancipazione dei lavoratori (emancipazione umana) non può essere
fondata sopra una nuova dominazione di classe, ma sulla fine di
tutti i privilegi e monopoli di classe e sull'eguaglianza dei
diritti e doveri; III che la causa del lavoro, causa dell'umanità,
non ha frontiere; IV che l'emancipazione dei lavoratori deve essere
l'opera dei lavoratori stessi. E allora una voce possente ha
gridato: Lavoratori del mondo, uniamoci. Non più diritti senza
doveri, non più doveri senza diritti. Rivoluzione.
Ma la rivoluzione invocata dai lavoratori non è la rivoluzione di
pretesto, non è il mezzo pratico di un momento per raggiungere un
dato scopo. Anche la borghesia, come tanti altri, invocò un giorno
la rivoluzione; ma solamente per soppiantare la nobiltà, e
sostituire al sistema feudale del servaggio quello più raffinato e
crudele del salariato. E questo lo chiamano progresso e civiltà!
Tutti i giorni assistiamo infatti al ridicolo spettacolo di
borghesi, che vanno balbettando la parola rivoluzione, al solo scopo
di poter salire sull'albero della cuccagna, e agguantare il potere.
La rivoluzione dei lavoratori è la rivoluzione per la rivoluzione.
La parola 'Rivoluzione', presa nel suo più largo e vero senso,
significa giro, trasformazione, cambiamento. Come tale, la
rivoluzione è l'anima di tutta la materia infinita. Infatti, tutto
si trasforma in natura, ma niente si crea e niente si distrugge,
come la chimica ci dimostra. La materia, rimanendo sempre la stessa
in quantità, può cambiare di forma in modo infinito. Quando la
materia perde la sua antica forma e ne acquista una nuova, essa fa
un passaggio dall'antica vita, nella quale muore, alla nuova vita,
nella quale nasce. Quando il nostro filatore, per prendere un
esempio a noi famigliare, ha trasformato i 10 chili di bambagia in
10 chili di filo, che altro è avvenuto se non la morte di 10 chili
di materia sotto la forma di bambagia, e la loro nascita sotto la
forma di fili? E quando il tessitore trasformerà i fili in tela, che
altro avverrà se non un passaggio della materia dalla vita di filo
alla vita di tela, come già prima era passata dalla vita di bambagia
alla vita di filo? La materia, dunque, passando da un giro di vita a
un altro, vive sempre cambiandosi, trasformandosi, rivoluzionandosi.
Ora, se la rivoluzione è la legge della natura, che è il tutto, deve
anche essere necessariamente la legge dell'umanità, che è la parte.
Ma v'ha sulla Terra un pugno d'uomini che non la pensa così, o,
piuttosto, che chiude gli occhi per non vedere e le orecchie per non
sentire.
Sì, è vero, sento gridarmi da un borghese, la legge naturale, la
rivoluzione che voi reclamate, è l'assoluta regolatrice delle
relazioni umane. La colpa di tutte le oppressioni, di tutti gli
sfruttamenti, di tutte le lagrime e degli eccidi che ne derivano,
devesi appunto attribuire a questa inesorabile legge che c'impone la
rivoluzione, cioè, la trasformazione continua, la lotta per
l'esistenza, l'assorbimento dei più deboli fatti più forti, il
sacrificio dei tipi meno perfetti allo sviluppo dei tipi più
perfetti. Se centinaia di lavoratori sono immolati al benessere di
un solo borghese, ciò avviene senza la menoma colpa di questo, che
ne è anzi afflitto e desolato, ma per solo decreto della legge
naturale, della rivoluzione.
Se si parla in tal guisa, niente di meglio domandano i lavoratori, i
quali, in forza della stessa legge naturale, che vuole la
trasformazione, la lotta per l'esistenza, la rivoluzione, si
preparano appunto a essere i più forti, per sacrificare tutte le
piante mostruose e parassite al completo e rigoglioso sviluppo della
bellissima pianta uomo, completo e perfetto, quale dev'essere, in
tutta la pienezza del suo carattere umano.
Ma i borghesi sono troppo timorati e pii per poter fare appello alla
legge naturale della rivoluzione. Essi l'hanno potuta invocare in un
momento d'ebbrezza; ma, ritornati poscia in loro stessi, fatti i
conti, e trovato che i fatti loro erano belli e accomodati, si sono
dati a gridare a più non posso: 'Ordine, religione, famiglia,
proprietà, conservazione!' E così che, dopo essere giunti, con la
strage, l'incendio e la rapina, a conquistare il posto di dominatori
e sfruttatori del genere umano, credono poter fermare il corso della
rivoluzione; senza accorgersi, nella loro stoltezza, che altro non
fanno, con i loro sforzi, che preparare orribili guai all'umanità, e
a loro stessi per conseguenza, con gli scoppi improvvisi della forza
rivoluzionaria pazzamente da essi repressa.
La rivoluzione, abbattuti gli ostacoli materiali che le si
oppongono, e lasciata libera al suo corso, basterà da sé sola a
creare fra gli uomini il più perfetto equilibrio, l'ordine, la pace
e la felicità più completa, perché gli uomini, nel loro libero
sviluppo, non procederanno a guisa degli animali bruti ma a guisa di
esseri umani, eminentemente ragionevoli e civili, i quali
comprendono che nessun uomo può essere veramente libero e felice se
non nella libertà e felicità comune di tutta l'umanità. Non più
diritti senza doveri, non più doveri senza diritti. Non più dunque
lotta per l'esistenza fra uomo e uomo, ma lotta per l'esistenza di
tutti gli uomini con la natura, per appropriarsi della più gran
somma di forze naturali per il vantaggio di tutta l'umanità.
Conosciuto il male, è facile conoscerne il rimedio: la rivoluzione
per la rivoluzione.
Ma come faranno i lavoratori per ristabilire il corso della
rivoluzione?
Non è questo il luogo di un programma rivoluzionario, già da lunga
mano elaborato e pubblicato altrove in altri libri; noi ci
limiteremo a concludere, rispondendo con le parole raccolte sul
labbro di un lavoratore e poste in epigrafe a questo volume:
L'operaio ha fatto tutto; e l'operaio può distruggere tutto, perché
può tutto rifare.
FINE
APPENDICE:
CORRISPONDENZA CAFIERO - MARX
Cafiero a Marx
Les Molières, 27 luglio 1879
Stimatissimo Signore,
Le spedisco con il medesimo corriere due copie della sua opera Il
Capitale, da me brevemente compendiata. Avrei voluto rimettergliele
prima, ma ora solamente mi è riuscito di ottenere alcune copie dalla
benevolenza di un amico, che con il suo intervento è riuscito a
determinare la pubblicazione del libro.
Anzi, se la pubblicazione l'avessi potuta fare a mie spese, avrei
desiderato sottomettere prima il manoscritto al suo esame. Ma nel
timore di vedermi sfuggire una occasione favorevole, mi affrettai a
consentire alla pubblicazione propostami. Ed è solamente ora che mi
è dato rivolgermi a lei per pregarla di volermi dire se nel mio
studio mi è riuscito di comprendere ed esprimere l'esatto concetto
dell'autore.
La prego, signore, di voler gradire le espressioni del mio più vivo
rispetto e di credermi
suo dev.mo
Carlo Cafiero
Marx a Cafiero
Caro Cittadino
Ringraziamenti sincerissimi per i due esemplari del vostro lavoro!
Tempo fa ricevetti due lavori simili, l'uno scritto in serbo,
l'altro in inglese (pubblicato negli Stati Uniti), ma peccano l'uno
e l'altro, volendo dare un riassunto succinto e popolare del
Capitale e attaccandosi, nel contempo, troppo pedantemente alla
forma scientifica della trattazione. In tal modo, essi mi sembrano
mancare più o meno al loro scopo principale: quello di impressionare
il pubblico al quale i riassunti sono destinati.
Ed è qui la grande superiorità del vostro lavoro.
Quanto poi al concetto delle cose, io credo di non ingannarmi
attribuendo alle considerazioni esposte nella vostra prefazione una
lacuna apparente, e cioè la prova che le condizioni materiali
necessarie alla emancipazione del proletariato sono spontaneamente
generate dallo sviluppo dello sfruttamento capitalista. Del resto,
io sono del vostro avviso (se ho bene interpretato la vostra
prefazione) che non bisogna sovraccaricare lo spirito di coloro che
si vuole educare. Niente vi impedirà di ritornare, a tempo
opportuno, alla carica per fare risaltare ancor meglio codesta base
materialista del Capitale.
Rinnovando i miei ringraziamenti, sono
vostro dev.mo
Carlo Marx