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GIUSEPPE MAZZINI
SCRITTI DI POLITICA ed ECONOMIA
CASA EDITRICE SONZOGNO - MILANO
VIA PASQUIROLO, 14.
PREFAZIONE
Per meglio diffondere fra il popolo gli scritti di Giuseppe Mazzini
abbiamo di buon grado stipulato un contratto col benemerito e
solerte editore signor Edoardo Sonzogno, il quale s'è assunto
l'incarico di pubblicare in quattro volumi della sua Biblioteca
Classica quanto di più eletto e di più importante sortì dalla penna
del grande Educatore.
Nè la scelta degli scritti era molto agevole a farsi, come può
sembrare a primo aspetto, perchè non si trattava di compendiare un
lavoro storico o scientifico o di raccogliere brani scelti, come si
fa talora, a comporre delle antologie, pei quali lavori non si
chiede che attitudine a riassumere o gusto del bello letterario. Qua
invece trattavasi di scegliere, prima di tutto, fra un grandissimo
numero di scritti tutti ammirabili, sia che si guardi o alla forma o
al concetto o all'efficacia; e non potevamo d'altra parte ridurli a
brani senza nuocere alla loro chiarezza, senza menomarne
l'importanza, e senza - ci si consenta di dirlo - mancare di
riverenza a quel Sommo, in cui atto, pensiero, affetto, tutto è così
armonico ed uno.
Eravamo nella condizione di chi, posto innanzi ad una collezione
d'opere d'arte tutte ugualmente belle, con facoltà di sceglierne
alcune, prima comincia a prendere questa e quella, poi un'altra ed
un'altra ancora, finchè, accortosi d'aver oltrepassato il numero
consentito, si trova costretto ad un nuovo doloroso lavoro
d'eliminazione, e spesso rimane incerto, indeciso con l'oggetto
nella mano, il quale non può ritenere senza cederne un altro, e che
non vorrebbe abbandonare.
Così a noi accadde, nella prima scelta, di mettere insieme molto più
materiale di quello necessario, e costretti quindi a ridurlo nelle
proporzioni volute dalla presente edizione, sovente restammo
dubbiosi intorno all'esclusione di qualche scritto, finchè non si
convenne di tenerci a questa regola: raccogliere dalle Opere
complete del Mazzini specialmente gli ultimi scritti indirizzati ai
giovani, ad associazioni popolari, a comitati, perchè i consigli,
gli ammonimenti in essi contenuti sono anch'oggi opportuni come
quando furono la prima volta dettati.
Ma scegliendo di preferenza gli ultimi lavori del gran Genovese, non
potevamo escludere quelli che si riferiscono ai primi tempi del suo
apostolato, perchè in quelli si pare nel pieno vigore l'altezza del
suo intelletto, che ebbe spesso lume di vaticinio, l'indomito animo
sol confortato da una fede che parve a molti follìa, e quindi tutta
la grandezza dell'opera sua a beneficio della Patria per l'Umanità.
Non potevamo escludere i più importanti fra i primi suoi scritti
anche perchè - e proviamo dolore e rossore nel confessarlo - non
molti in Italia sanno anch'oggi - dopo ventidue anni da che egli è
morto - la suprema importanza che ebbe il grande Agitatore
nell'opera emancipatrice della Patria; perchè anch'oggi la storia o
timida od aulica non sa o non può o non vuole indagare e svelare
tutta la verità di quel primo glorioso periodo di predicazione, di
lotte e di martirio. Ricordiamo d'aver veduto per molto tempo,
appesi in locali pubblici, dei quadri raffiguranti, più o meno
rozzamente, i fondatori dell'Unità d'Italia: Vittorio Emanuele in
gran dimensione, poi Cavour, Garibaldi, Cialdini, Rattazzi, ecc.
Giuseppe Mazzini non c'era, oppure si scorgeva lontano lontano,
nello sfondo del quadro, quasi messo lì a fare corteggio agli altri.
Ricordiamo che da quattro o cinque anni appena, scrittori scolastici
di storie d'Italia o di libri di lettura educativa ardiscono
inserirvi una monca e timida biografia di quell'uomo del quale la
storia veridica dirà che fu il primo e il massimo tra i fondatori
dell'unità d'Italia e che per altezza d'ingegno, per efficacia
d'azione supera di tanto i sovraccennati, di quanto l'Alighieri
supera gli altri tre poeti che, per lungo tempo, professori idolatri
della forma anche senza pensiero, glorificarono pari a lui.
Era, da prima, nostra intenzione dividere la presente raccolta in
quattro volumi: Politica, Economia, Filosofia, Letteratura; e ci fu
subito agevol cosa fornire la materia per il volume letterario.
Maggiore difficoltà incontrammo invece nel mettere insieme il III
volume, perchè sovente negli scritti del Mazzini l'esame d'un
avvenimento politico dà luogo a considerazioni d'ordine filosofico,
come sovente dall'enunciazione d'un concetto filosofico escono
ammaestramenti d'ordine politico.
Pure, dopo un lavoro paziente, riuscimmo a mettere insieme anche
quel volume, scegliendo quelli scritti nei quali la parte filosofica
predomina; ma per quanto si tentasse, ci fu impossibile fare una
scelta conveniente di scritti che trattino esclusivamente
d'economia; e le ragioni di tale difficoltà si fanno subito
manifeste anche a chi, senza avere piena conoscenza delle opere del
Mazzini, ricorda che per lui la questione economica è così congiunta
alla questione politica, che afferma sempre essere vano ed assurdo
occuparsi dell'una senza occuparsi dell'altra. Tutta l'azione
mazziniana infatti è compresa in questo concetto: L'organismo
politico è il mezzo necessario: il miglioramento economico e morale,
il fine.
Ovvero nelle sue parole:
«Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni
rivoluzione dev'essere sociale, nel senso che sia suo scopo la
realizzazione di un progresso decisivo nelle condizioni morali,
intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo
triplice progresso, essendo più urgente per le classi operaje, ad
esse anzitutto devono essere rivolti i beneficî della rivoluzione.
«E neppure può esservi una rivoluzione puramente sociale. La
questione politica, cioè a dire, l'organizzazione del potere, in un
senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del
popolo, e tale che renda impossibile l'antagonismo alla Causa del
progresso, è una condizione necessaria alla rivoluzione sociale»(1).
La verità di quest'affermazione, scritta nel 1862 e confermata da
tutto lo sviluppo successivo del movimento sociale europeo, non
avrebbe bisogno di commento se non occorresse rammentare come negli
ultimi anni della travagliata vita fu per il Mazzini causa di amaro
dolore ed altresì occasione di prestare alla patria, così ingrata
verso l'esule, un grande e segnalato servigio.
Sorse poco dopo l'Internazionale a bandire che tutti i lavoratori
dovessero unirsi nel solo intento di provvedere al loro avvenire
economico, che dalla politica dovessero fare divorzio come da
sterile lotta fra borghesi che li distoglieva dalla cura dei loro
interessi materiali, i soli veri, i soli legittimi, i soli
necessarî. E da tutte le nazioni, artigiani, scrittori ed uomini
d'azione, attratti dalla lusinga di facili promesse, s'erano fatti
intorno animosi alla novella bandiera - duci Carlo Marx e Bakunin -
militando sotto la quale speravano di rinnovare ab imis la moderna
società civile.
Era invero una critica poderosa delle ineguaglianze e delle
ingiustizie che dilaniano il consorzio civile, era una potente
affermazione delle sofferenze a cui è condannata una parte
dell'Umanità per l'egoismo dell'altra, era un monito dei servi agli
emancipati, come lo sciopero è monito agl'industriali che le leggi
le quali governano la produzione e la distribuzione nelle industrie,
non sono più in relazione con la civiltà odierna, e vanno uniformate
a criterî più equi e più umani. Ma questo verbo di nuovo progresso
peccava alla base: credeva poter raccogliere sotto la bandiera
degl'interessi individuali i lavoratori di tutto il mondo senza por
mente al cozzo dei singoli interessi nella lotta per l'esistenza;
credeva di sopprimere le barriere fra le nazioni, le favelle, le
tradizioni, quanto si racchiude nella parola patria, per sostituirvi
la solidarietà nel guadagno; il contrasto fra proprietà e lavoro,
senza considerare che faceva appello a sentimenti e passioni
radicate nell'egoismo, incapaci di suscitare quello spirito di
fratellanza e di sacrificio, che solo un alto e nobile ideale può
svegliare nell'anima delle moltitudini.
E dall'Inghilterra e dalla Francia ove prima sorse l'Internazionale,
varcò la frontiera, e pose, per un momento, le sue tende in Italia;
nè è a dirsi quale e quanta parte della gioventù si sarebbe lasciata
attrarre dalle lusinghe di un movimento mondiale fra i proletarî, se
Giuseppe Mazzini non avesse con la potenza de' suoi insegnamenti
dimostrata la fallacia delle promesse di cui facevansi banditori i
nuovi apostoli.
Fra questi non pochi spiriti generosi ma superficiali, sedotti dalla
visione di una smagliante uguaglianza universale, si staccarono da
lui per passare nell'altro campo, e col fervore di neofiti non
risparmiarono amare accuse, violente apostrofi, senza per un istante
deviarlo di una linea dalla via che si era tracciata, ma aggiungendo
al tramonto d'un'esistenza, votata al sacrificio, altre spine a
quelle che già lo avevano dilaniato.
Soffrì e vinse.
Dell'Internazionale più non si parla, come non si parla di altre
scuole socialistiche, esotiche e nostrali, e da venticinque anni i
sistemi più diversi e più estremi, sortiti dalle loro ceneri, dal
collettivista all'anarchico, provarono e provano ogni giorno col
fatto la verità dell'affermazione mazziniana - che tanto
condannarono una volta - collegandosi, agitandosi, socialisti e
anarchici, per conquistare i pubblici poteri; gli uni per
rinnovarli, gli altri, in teoria, per distruggerli.
I capi del socialismo germanico, i quali per lungo tempo furono
citati per oppugnare col loro esempio l'opinione del Mazzini, prima
col fatto - accettando il mandato di rappresentanti del popolo - poi
con esplicite dichiarazioni, le quali vennero, e non è molto,
provocate, affermarono essere la politica indispensabile a risolvere
la questione sociale.
E se non bastasse la prova di coloro i quali aspirano alla comunità,
non manca la riprova in quei pochi individualisti, i quali non
rifuggono dai più selvaggi attentati per dimostrare con esempî di
una barbarie medioevale la necessità del rinnovamento politico per
preparare il terreno al rinnovamento sociale.
Così negli scritti del Maestro le due questioni sono - come erano
nel suo pensiero - sì fattamente congiunte, che riesce impossibile,
come abbiamo detto, separarle, se pure non ci si contenta di
prendere qua e là brani, sentenze, formule, senza ordine e senza
nesso.
Abbiamo quindi pensato di raccogliere quel maggior numero di scritti
economico-politici consentito dalle proporzioni di questa edizione,
distribuendoli in due volumi e disponendoli per ordine cronologico.
L'ordine cronologico è sempre necessario che venga adottato nella
pubblicazione delle opere dei grandi scrittori, come quello che
dalla genesi del pensiero ne fa notare via via, d'epoca in epoca,
l'esplicazione, l'evoluzione, e spesso la trasformazione, offrendo
così al lettore il destro di giudicare quanta parte ebbero in quelle
manifestazioni gli anni, gli affetti, le pubbliche vicende.
Quest'ordine invece è richiesto dagli scritti del Mazzini soltanto
per seguire lo svolgimento storico; chè, del resto, nessun uomo
forse, che sia stato meritevole d'immortalità per virtù di pensiero
o d'azione, serba come il Mazzini immutato il cuore, l'intelletto,
la fede nei diversi stadî d'una vita lunga e agitatissima.
Si direbbe che egli nacque colla fede già impressa nell'anima, che
il genio si manifestò in lui d'un tratto in tutta la sua potenza,
fino da quando si affacciò la prima volta alla vita politica. Ed è
tanto vero e mirabile ciò, che i suoi scritti svolgono una medesima
sintesi, spirano tutti una perpetua giovinezza, dai primi della
Giovine Italia agli ultimi su Foscolo e Rossel.
E questo avvenne perchè egli, a differenza degli altri scrittori od
uomini d'azione, non subì ma dominò, con la potenza del genio,
l'epoca in cui visse; agitò, trasformò tutta una generazione per
spingerla a conseguire quell'unità ch'egli solo, fra tanti
consacrati sapienti, previde e volle con tenacia di propositi, con
suprema virtù di sacrificio; egli d'un altro avvenire, tuttora
lontano ma inevitabile, strenuo banditore fino alla morte.
Nè l'inflessibile attaccamento ad un reggimento popolare, fu nel
Mazzini idea fissa, preconcetto dogmatico; fu invece un riflesso di
quel meraviglioso intuito col quale, leggendo nel libro
dell'avvenire, antiveggeva nella sovranità popolare la fatale
decadenza dei troni, in Italia non solo, ma ovunque i nuovi bisogni
e le nuove conquiste del popolo non potevano più confinarsi entro i
limiti consentiti dalle regie prerogative.
Aboliti i maggioraschi che consacravano sotto la veste di proprietà
le ultime vestigia dei diritti feudali, non potevasi più erigere a
feudo un paese a beneficio dei maggiorenti di una famiglia;
rivendicato al popolo il diritto di scegliersi i proprî reggitori,
diveniva una contradizione mostruosa il far eccezione del maggiore e
più geloso degli uffici, per trasmettere le redini della suprema
direzione dello Stato, da padre a figlio, quasi che la cresima
usurpata dai pontefici in nome del diritto divino non fosse passata
nelle mani del popolo.
A brandelli a brandelli i lembi del manto regio, fra rivoluzioni ed
evoluzioni, passano in mano ai cittadini per lasciare a nudo una
parvenza della forte tradizione monarchica: l'assurda finzione
costituzionale del re che regna e non governa. E l'anima
dell'apostolo, intenta all'opera educatrice d'insegnare il vero, il
buono, il giusto, si ribellava a questa menzogna, e la mente dello
statista calcolava tutte le conseguenze politiche e sociali che
dovevano derivare da quell'innesto di un paese giovane su di un
vecchio e cadente tronco; e numerava le schiere di adoratori curve
dinanzi a quel feticcio, le abitudini ed i vizî delle corti
insinuandosi e diffondendosi dalla vetta fino alla base della
piramide sociale; e preconizzava le sorti del paese ammanettate a
quelle di una dinastia, le libere espansioni di fratellanza, le
simpatie popolari, gli affetti, le tradizioni incanalate e dirette a
rinvigorire altre prerogative, a ribadire altri ceppi, a portare
tributo di adorazione ad altri feticci; e vedeva ingaggiarsi una
lotta continua fra la prerogativa sovrana e le libertà popolari, e
in quella lotta e nei puntelli eretti intorno al trono sfibrarsi le
migliori energie, esaurirsi le forze morali ed economiche del paese;
e però nella sua opera educativa egli fu repubblicano: repubblicano
visse e repubblicano morì.
E gli avvenimenti odierni, la decadenza morale ed economica, una
fatale inerzia che stende un velo grigio su tutto il paese e rende
ognuno indifferente, apata, passivo, mentre pericoli e vergogne
frusterebbero il sangue a febbrile calore: tutto il ciclo triste
dell'ultimo quarto di secolo mostra quant'egli era nel vero!
L'importanza storica degli scritti del Mazzini è tale e tanta, che
scrivere non si può la storia d'una gran parte del secolo XIX senza
consultare sovente, con onesto intendimento, quegli scritti e nel
loro concetto e nella loro potenza educativa; osiamo anzi asserire
che nelle opere del Mazzini già pubblicate, e nell'Epistolario che
verrà in seguito alla luce, è condensato una gran parte del
materiale indispensabile a chi voglia scrivere con verità la storia
d'Italia dal '21 fino ai giorni nostri; perchè il pensiero
mazziniano non cessò con la morte del maestro, ma continuò nei suoi
discepoli rimasti custodi e difensori e propagatori delle sue
dottrine, bersaglio alle invettive e, quel ch'è più amaro, alle
derisioni dei soddisfatti o dei sognanti vagheggiatori d'una nuova
Città del sole.
La fede mazziniana, la fede nel dovere e nel sacrificio, è destinata
dalla sua stessa natura a educare ben altre generazioni e a veder
perire - condannate dall'educata coscienza delle moltitudini -
dottrine che oggi hanno plausi ed inni, sebbene la miseria sia
pronta a correre dietro ad ogni bella promessa, e l'ignoranza non
permetta d'indagare quanto in quella promessa vi sia fondamento di
verità.
E non i soli scritti del Mazzini, come abbiamo accennato, hanno
grande importanza storica, ma bensì l'opera sua indefessa,
rischiarata da tanta luce d'intelletto, riscaldata da tanto ardore
di fede, e che a quelli è commento; però pensammo di raccogliere e
collegare in questo primo volume le note autobiografiche scritte fra
il '61 ed il '65 per la edizione completa delle opere, le quali non
giunsero oltre l'ottavo volume per il sopraggiungere della morte che
tolse alla Patria ed all'Umanità la persona, non l'anima, del grande
Italiano.
Sono note che commentano ed illustrano un periodo di agitatissima
vita italiana dal '21 al '53; e così raccolte nel presente volume ed
interpolate da qualche scritto importante che meglio rende la
fisionomia morale dell'apostolo e dell'agitatore, formano come una
storia a larghi tratti di avvenimenti, ora dolorosi, ora lieti, ma
sempre grandi; di uomini d'antica tempra che nella lotta,
nell'esilio, nel carcere e sul patibolo furono sempre magnanimi; e
crediamo che questa storia, benchè compendiosa, molto opportunamente
preceda la raccolta degli scritti politici ed economici, la cui
serie va dal '32 al '72, attraverso cioè un periodo di 40 anni.
Spirato Giuseppe Mazzini in Pisa il 10 marzo 1872 ed instituita
un'apposita Commissione per continuare la stampa e la diffusione
delle opere di lui, rimaste in tronco, fu scelto a capo di essa
Aurelio Saffi, il quale, con affetto d'amico, con reverenza di
discepolo, ed anche con integra coscienza di cittadino e con
autorità di primo e quasi diuturno cooperatore nell'apostolato
mazziniano, commentò, illustrò con magistrali proemî gli altri nove
volumi delle Opere complete pubblicate nel corso di 18 anni, finchè
la morte inesorabile lo colse, mentre stava per metter mano al
diciottesimo ed ultimo volume, coronamento della benefica ed insigne
opera sua e degno monumento al più grande degl'Italiani.
Ma non potendo noi in questa edizione nemmeno riassumere i proemî
del Saffi, i quali completano le note autobiografiche qui pure
raccolte, nè volendo d'altra parte che le notizie intorno alla vita
ed all'azione di Giuseppe Mazzini si arrestino all'anno 1853,
abbiamo aggiunto alcuni brevi cenni, che troveranno la loro sede nel
volume secondo, per completare a larghi tratti la parte biografica e
per far meglio comprendere l'opportunità e il valore degli altri
scritti che Mazzini pubblicò dal '53 al '72.
Fu lamentato da taluno che il prezzo elevato della nostra edizione
completa abbia dato fin qui a pochissimi di poter conoscere nella
sua integrità la dottrina di Giuseppe Mazzini, e che perciò la
classe operaja, la quale fu cura precipua e affetto profondo e forte
speranza del grande Educatore, poco sappia dell'opera e del pensiero
di lui, e quel poco sovente travisato da ignoranza o da mala fede
d'interpreti.
Pur troppo ciò che si afferma intorno alla causa della scarsa
diffusione degli scritti del Mazzini solamente in parte è vero,
perchè noi vediamo ogni giorno editori e scrittori far la loro
fortuna con pubblicazioni di romanzi o d'altri generi di
componimento che sono frivoli quando non sono immorali; le quali
edizioni pur costano assai specialmente per raffinati e spesso
indecenti lenocinî tipografici.
Oggi, invero, una letteratura sbracata, malsana, corre le vie,
s'insinua dappertutto, nelle case, nelle scuole; e colla pornografia
larvata a positivismo scientifico aizza le passioni men nobili,
stimola alla materialità di soddisfazioni fisiche che uccidono ogni
senso d'ideale, ogni sentimento che eleva l'uomo al di sopra del
bruto. È una educazione a rovescio che affinando l'intelletto e
rivolgendo tutte le energie alla sola conquista dei godimenti
materiali, distoglie lo sguardo dal cielo ove l'ascetismo cristiano
l'aveva fissato, ma per ripiombarlo invece nelle manifestazioni
della vita animale sulla terra. Quando, come oggi, dalla teoria
darwiniana si elimina il pensiero di eterno progresso che la governa
e si eleva la sterile lotta per la vita a mezzo e fine a sè stessa;
quando nella evoluzione della specie non si vede la scala infinita
che inalza l'umanità a Dio, e dai contrasti sociali altro non si
deduce se non gli appetiti del gregge disputantesi la scarsa pastura
e il pavoneggiarsi dell'animale maschio per impossessarsi della
femmina; quando scopo della letteratura è il fotografare le fogne
che carreggiano al mare i detriti sociali, o l'idealizzare le
raffinatezze di un sensualismo dedito ad uccidere l'uomo ed il
tempo; se da cotesta lenta soffocazione d'ogni nobile aspirazione lo
Stato non sa difendere la gioventù alle sue cure affidate, non
sostituendo più sana, più virile educazione, non è a meravigliarsi
se le vetrine dei libraî siano guarnite da libri di cui non sai se
sia più sconcia l'illustrazione od il titolo; non è a meravigliarsi
se laddove con riverente affetto passavano di mano in mano le opere
di Dante o del Mazzini ora si mostrino le scollacciate pubblicazioni
degli editori da trivio.
Si è domandato più volte la ragione perchè la Commissione editrice
non abbia popolarizzati gli scritti dei quali cura la divulgazione,
mediante una edizione per dispense a pochissimo prezzo. La risposta
è semplice: sta nella triste esperienza dei fatti. In questo
momentaneo disguido degl'intelletti, che nella morbosità degli
appetiti rifiuta il sano cibo a cui la generazione omai tramontata
deve i forti fatti della rigenerazione patria, e eccita gli snervati
sensi cogli stimoli più pungenti, la iniziativa non sortirebbe utile
risultato; non è il momento in cui il paese possa assimilare
gl'insegnamenti di chi sopratutto l'amò, e per esso sperò e patì.
Sarà così in un prossimo avvenire? - Per il bene della patria, per
l'onore di quella generazione a cui spetta la grande opera di
redenzione morale, speriamo di no.
Intanto possa questa edizione economica in quattro volumi, a una
lira il volume, trovare fra le classi popolari larga diffusione,
perchè in essa è compreso ogni pensiero fondamentale, ogni sviluppo
della dottrina di Mazzini, e sotto quest'aspetto può dirsi completa.
Al popolo italiano questi scritti affidiamo, perchè pel popolo
furono dettati, perchè nel popolo, nel solo popolo, sono i germi di
rigenerazione cui egli volle fecondare.
La Commissione editrice.
SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI
INTRODUZIONE DELL'AUTORE
Londra, 25 marzo, 1861.
Richiesto di prefiggere all'Edizione de' miei Scritti politici e
letterarî i ricordi della mia vita, ricusai l'incarico e persisterò.
I frequenti dolori e le rare gioje della mia vita privata non
importano se non ai pochi ch'io amo e che m'amano d'affetto
individuale profondo: quel tanto di vita pubblica ch'io m'ebbi sta
ne' miei Scritti; e l'influenza ch'essi esercitarono sugli eventi
ch'oggi si compiono spetta al giudizio del paese, non al mio.
Noncurante per tendenza ingenita dell'animo di quel vano romore che
gli uomini chiamano fama, sprezzatore per indole altera e securità
di coscienza delle molte calunnie che s'addensarono su' miei passi
lungo la via, e convinto sino alla fede che debito della vita
terrestre è dimenticare l'io pel fine che le facoltà dell'individuo
e le necessità dei tempi prescrivono, non ho serbato mai note, copie
di lettere o memoria di date. Ma s'anche io avessi custodito
gelosamente ogni cosa, non mi darebbe l'animo di giovarmene. Davanti
al ridestarsi d'un Popolo che solo finora ha da Dio, visibile nella
Storia, il privilegio di rimutare, in ogni grande periodo della
propria vita, l'Europa, ogni biografia d'individuo è meschina:
fiaccola accesa di fronte al sole che sorge.
Andrò bensì frammezzando agli Scritti alcuni ricordi di cose ch'io
vidi e d'uomini ch'io conobbi giovevoli a far meglio intendere il
moto Europeo dell'ultimo terzo di secolo, ed anche qualche
reminiscenza mia personale ove accenni al perchè degli Scritti e
s'immedesimi collo svolgimento dei fatti che assicurano in oggi il
trionfo dei due principali elementi dell'era nuova: Popolo e
Nazionalità. La mia voce fu spesso voce di molti: eco di pensiero
collettivo dei nostri giovani che iniziavano l'avvenire. S'essa ha
valore, è quello di documento storico; e ogni cosa che riesca a
crescergli evidenza e mostrarne l'intima connessione colle vere
tendenze Italiane, può tornar utile quando che sia. Forse
interrogando le sorgenti del moto, i miei fratelli di Patria
intenderanno più agevolmente e men tardi quali sieno gli errori e i
traviamenti dell'oggi.
Giuseppe Mazzini.
NOTE AUTOBIOGRAFICHE.
Una domenica dell'aprile 1821, io passeggiava, giovanetto, con mia
madre e un vecchio amico della famiglia, Andrea Gambini, in Genova,
nella Strada Nuova. L'insurrezione Piemontese era in quei giorni
stata soffocata dal tradimento, dalla fiacchezza dei Capi e
dall'Austria. Gli insorti s'affollavano, cercando salute al mare, in
Genova, poveri di mezzi, erranti in cerca d'ajuto per recarsi nella
Spagna dove la Rivoluzione era tuttavia trionfante. I più erano
confinati in Sampierdarena aspettandovi la possibilità dell'imbarco;
ma molti si erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li
spiava fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle foggie degli
abiti, al piglio guerresco, e più al dolore muto, cupo, che avevano
sul volto. La popolazione era singolarmente commossa. Taluni fra i
più arditi avevano fatto proposta ai Capi, credo Santarosa ed
Ansaldi, di concentrarsi tutti nella città, impossessarsene e
ordinarvi la resistenza; ma la città dicevano, era militarmente
sprovveduta d'ogni difesa, mancavano ai forti le artiglierie, e i
Capi avevano ricusato e risposto: serbatevi a migliori destini. Non
rimaneva che soccorrere di danaro quei poveri e santi precursori
dell'avvenire; e i cittadini vi si prestavano liberalmente. Un uomo
di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardo
scintillante che non ho mai dimenticato, s'accostò a un tratto
fermandoci: aveva tra le mani un fazzoletto bianco spiegato, e
proferì solamente le parole: pei proscritti d'Italia. Mia madre e
l'amico versarono nel fazzoletto alcune monete; ed egli s'allontanò
per ricominciare con altri. Seppi più tardi il suo nome. Era un
Rini, capitano nella Guardia Nazionale che s'era, sul cominciar di
quel moto, istituita. Partì anch'egli cogli uomini pei quali s'era
fatto collettore a quel modo; e credo morisse combattendo, come
tanti altri dei nostri, per la libertà della Spagna.
Quel giorno fu il primo in cui s'affacciasse confusamente all'anima
mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che
si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria.
Io era già inconsciamente educato al culto dell'Eguaglianza dalle
abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che
essi usavano col patrizio e col popolano: nell'individuo essi non
cercavano evidentemente se non l'uomo e l'onesto. E le aspirazioni
alla libertà, ingenite nell'animo mio, s'erano alimentate dei
ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane
francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre e
dell'amico nominato più sopra; delle Storie di Livio e di Tacito che
il mio maestro di Latino mi faceva tradurre; e della lettura di
alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri
di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della
Chronique du Mois pubblicazione girondina dei primi tempi della
Rivoluzione di Francia. Ma l'idea che v'era un guasto nel mio paese
contro il quale bisognava lottare, l'idea che in quella lotta io
avrei potuto far la mia parte, non mi balenò che in quel giorno per
non lasciarmi più mai.
L'immagine di quei proscritti, parecchi dei quali mi furono più
tardi amici, mi seguiva ovunque nelle mie giornate, mi s'affacciava
tra i sogni. Avrei dato non so che per seguirli. Cercai raccoglierne
nomi e fatti. Studiai, come meglio potei, la storia del tentativo
generoso e le cagioni della disfatta. Erano stati traditi,
abbandonati da chi aveva giurato concentrare i loro sforzi
all'intento; il nuovo re aveva invocato gli Austriaci: parte delle
milizie piemontesi li aveva preceduti in Novara; i capi del moto
s'erano lasciati atterrire dal primo scontro e non avevano tentato
resistere. Tutte queste nozioni ch'io andava acquistando sommavano a
farmi pensare: potevano dunque, se ciascuno avesse fatto il debito
suo, vincere; perchè non si ritenterebbe? questa idea s'impossessava
più sempre di me, e l'impossibilità d'intravvedere per quali vie si
potesse tentare di tradurla in fatti m'anneriva l'anima. Sui banchi
dell'Università - v'era allora una Facoltà di Belle Lettere che
precedeva di due anni i corsi legali e medici e ammetteva i più
giovani - di mezzo alla irrequieta tumultuante vita degli studenti,
io era cupo, assorto, come invecchiato anzi tratto. Mi diedi
fanciullescamente a vestir sempre di nero; mi pareva di portar il
lutto della mia patria. L'Ortis che mi capitò allora fra le mani mi
infanatichì: lo imparai a memoria. La cosa andò tanto oltre, che la
mia povera madre temeva di un suicidio.
Più dopo quella prima tempesta si racquetò; e diè luogo a men
travolti pensieri. L'amicizia ch'io strinsi coi giovani Ruffini - ed
era per essi e per la santa madre loro un amore - mi riconciliò alla
vita e concesse sfogo alle ardenti passioni che mi fermentavano
dentro. Parlando con essi di lettere, di risorgimento intellettuale
Italiano, di questioni filosofico-religiose, di piccole associazioni
- ch'erano preludî alla grande - da fondarsi per avere di
contrabbando libri e giornali vietati, l'anima si rasserenava:
intravvedeva possibile, comecchè su piccola scala, l'azione. Un
piccolo nucleo di scelti giovani d'intelletto indipendente, anelante
a nuove cose, si raggruppava d'intorno a me. Di quel nucleo, la cui
memoria dura tuttavia nel mio core come ricordo di una promessa
inadempita, nessuno è rimasto a combattere per l'antico programma,
da Federico Campanella in fuori, oggi Membro di un Comitato di
Provvedimento per Venezia e Roma in Palermo; morti gli uni,
disertori gli altri: taluno fedele tuttavia alle idee, ma inattivo.
Allora quella plejade fu salute all'anima tormentata. Io non era più
solo.
Ho detto ch'io non intendo scrivere la mia vita, e balzo all'anno
1827. Sul finire, credo, dell'anno anteriore, io aveva scritto le
mie prime pagine letterarie, mandandole audacemente all'Antologia di
Firenze, che, molto a ragione, non le inserì e ch'io aveva
interamente dimenticate, finchè le vidi molti anni dopo inserite,
per opera di N. Tommaseo, nel Subalpino: versavano su Dante, ch'io
dal 1821 al 1827 aveva imparato a venerare, non solamente come
poeta, ma come Padre della Nazione.
Nel 1827 fremevano accanite le liti fra classicisti e romantici, tra
i vecchi fautori d'un dispotismo letterario la cui sorgente risaliva
per essi a duemila e più anni addietro e gli uomini che, in nome
della propria ispirazione, volevano emanciparsene. Eravamo, noi
giovani, romantici tutti. Ma a me pareva che pochissimi, se pur
taluno, si fossero addentrati a dovere nelle viscere della
questione. I primi, Arcadi di Roma, Accademici della Crusca,
professori e pedanti, andavano ostinatamente scrivendo imitazioni
fredde, stentate, senza intento, senz'anima, senza vita: i secondi,
non dando base alla nuova Letteratura fuorchè la fantasia
individuale, si sbizzarrivano in leggende dei tempi di mezzo, inni
menzogneri alla Vergine, disperazioni metriche non sentite, e in
ogni concetto d'un'ora che s'affacciasse alla loro mente
intollerante d'ogni tirannide, ma ignara della santità della Legge
che governa, come ogni altra cosa, anche l'Arte. E parte di questa
Legge è che l'Arte o compendii la vita di un'Epoca che sta
conchiudendosi o annunzii la vita di un'Epoca che sta per sorgere.
L'Arte non è il capriccio d'uno o d'altro individuo, ma una solenne
pagina storica o una profezia: e se armonizza in sè la doppia
missione, tocca, come sempre in Dante e talora in Byron, il sommo
della potenza. Or, tra noi, l'arte non poteva essere se non
profetica. Gli Italiani non avevano da tre secoli vita propria,
spontanea, ma esistenza di schiavi immemori che accattavano ogni
cosa dallo straniero. L'Arte non poteva dunque rivivere se non
ponendo una lapide di maledizione a quei tre secoli e intonando il
cantico dell'avvenire. E a riuscirvi bisognava interrogare la vita
latente, addormentata, inconscia del popolo, posar la mano sul core
pressochè agghiacciato della Nazione e spiarne i rari interrotti
palpiti e desumerne riverenti intento e norme agli ingegni.
L'ispirazione individuale doveva sorgere con indole propria dalle
aspirazioni della vita collettiva italiana, come belli di tinte
varie e d'infiorescenza propria sorgono, da un suolo comune a tutti,
i fiori, poesia della terra. Ma la vita collettiva d'Italia era
incerta, indefinita, senza centro, senza unità d'ideale, senza
manifestazione regolare, ordinata. L'arte poteva dunque prorompere a
gesti isolati, vulcanici: non rivelarsi progressiva, continua, come
la vita vegetale del Nuovo Mondo, dove gli alberi intrecciando ramo
a ramo formano l'unità gigantesca della foresta. Senza Patria e
Libertà noi potevamo avere forse profeti d'Arte, non Arte. Meglio
era dunque consecrare la vita intorno al problema: avremo noi
Patria? e tentare direttamente la questione politica. L'Arte
Italiana fiorirebbe, se per noi si riuscisse, sulle nostre tombe.
Questi pensieri - che l'ingegno sommo e l'amor del paese devono
avere di certo suggerito a Manzoni e che tralucono divinamente nei
Cori delle sue tragedie ed altrove, raumiliati poi dalla soverchia
mitezza dell'indole e dalla fatale rassegnazione insegnatagli dal
Cattolicismo - erano allora pensieri di pochi. Predominava a tutto
quel subuglio di letterati non cittadini la falsa dottrina francese
dell'arte per l'arte. Soli, sul campo della Critica fecondatrice, ne
davano indizio nell'Antologia Tommaseo e Montani. In me
rinfiammavano l'idea dell'aprile 1821 e determinavano la mia
vocazione di rinunziare alla via delle lettere per tentare l'altra
più diretta dell'azione politica.
E fu il primo grande mio sacrificio. S'affaccendavano in quel tempo
nella mia mente visioni di Drammi e Romanzi Storici senza fine, e
fantasie d'Arte che mi sorridevano come imagini di fanciulle
carezzevoli a chi vive solo. La tendenza della mia vita era
tutt'altra che non quella alla quale mi costrinsero i tempi e la
vergogna della nostra abjezione.
La via dell'azione a ogni modo era chiusa: e la questione letteraria
mi parve campo ad aprirmela quando che fosse.
Esciva allora in Genova, edito dal tipografo Ponthenier, un
giornaletto d'annunzî mercantili; e doveva, in virtù di non so quale
prescrizione governativa, limitarsi a quell'angustissima sfera. Era
l'Indicatore Genovese. Persuasi il librajo ad ammettere annunzî di
libri da vendersi, coll'aggiunta di due o tre linee quasi a
definirne il soggetto e m'assunsi di scriverle. Fu quello il
cominciamento della mia carriera di Critico. A poco a poco gli
annunzî impinguarono e diventarono articoli. Il Governo, assonnato
allora come il paese, non se ne avvide o non se ne curò.
L'Indicatore si trasformò in giornale letterario. Gli articoli
estratti da quel giornale, ristampati molti anni dopo tra gli
Scritti d'un Italiano vivente, in Lugano, e che ricompariranno in
questa edizione, non hanno valore intrinseco, ma rivelano l'intento
con cui da me e da pochi altri giovani amici si scriveva e
s'intendeva la questione del Romanticismo. La controversia
letteraria si convertiva in politica: bastava mutare alcune parole
per avvedersene. Erano guerricciuole, zuffe di bersaglieri sul
limite di due campi. Per noi l'indipendenza in fatto di Letteratura
non era se non il primo passo a ben altra indipendenza: una chiamata
ai giovani perchè ispirassero la loro alla vita segreta che
fermentava giù giù nelle viscere dell'Italia. Sapevamo che tra
quelle due vite essi avrebbero incontrato la doppia tirannide
straniera e domestica e si sarebbero ribellati dall'una e
dall'altra. Il Governo finì per leggere e irritarsi di quella
tendenza. E quando, sul finir del primo anno, noi annunziavamo
imbaldanziti ai lettori che il Giornale s'ingrandirebbe, un divieto
governativo lo spense.
Ma quei lavorucci dettati con impeto giovanile, e il fine ardito che
trapelava, m'avevano fruttato un grado qualunque di fama in Genova e
conoscenze d'uomini altrove che lavoravano poco dopo con me sulla
via più dichiaratamente emancipatrice. Un mio rimprovero a Carlo
Botta, storico di tendenze aristocratiche, senz'ombra d'intelletto
filosofico, ma il cui stile foggiato talora a gravità tacitiana e lo
sdegno alfieriano contro ogni straniero infanatichivano allora la
gioventù, mi valse contatto cogli uomini, timidi i più, ma d'animo
italiano dell'Antologia di Firenze. E due articoli d'un altro
studente, Elia Benza di Portomaurizio, giovine d'alto sentire e di
forte ingegno isterilito poi, con mio dolore, dalla soverchia
analisi e dai conforti della vita domestica, pel Dramma I Bianchi e
i Neri, ci diedero a corrispondente il Guerrazzi. Guerrazzi aveva
già scritto, non solamente quel Dramma, ma la Battaglia di
Benevento; e nondimeno, tanta era la separazione tra provincia e
provincia d'una stessa terra, il di lui nome era ignoto fra noi: il
Dramma, capitatoci a caso, ci aveva, di mezzo a forme bizzarre e a
una poesia che rinegava ogni bellezza d'armonia, rivelato un ingegno
addolorato, potente e fremente di orgoglio italiano. Io risposi alla
di lui lettera, e s'intavolò fra noi un carteggio fraterno allora e
pieno d'entusiasmo per promuovere l'avvenire. Quando il Governo
Sardo soppresse l'Indicatore Genovese, il vincolo tra noi e i
giovani Livornesi che facevano corona a Guerrazzi era già stretto di
tanto da suggerirci l'idea di continuare la pubblicazione sotto il
titolo d'Indicatore Livornese in Livorno.
Era la prima lotta che imprendevamo coi governucci che smembravano
la povera Patria, e il senso di quella lotta ci crebbe l'ardire. Le
tendenze politiche si rivelarono in quel secondo Giornale nel quale
scrittori più assidui eravamo Guerrazzi, Carlo Bini ed io più
esplicito e quasi senza velo. Parlammo di Foscolo, al quale, tacendo
degli altri meriti, gl'Italiani devono riverenza eterna per avere
egli primo cogli atti e gli scritti rinvigorito a fini di Patria il
ministero del Letterato - dell'Esule, poema di Pietro Giannone,
allora proscritto, di fede incorrotta, ch'io imparai più tardi a
conoscere ed a stimare - di Giovanni Berchet delle cui poesie,
magnifiche d'ira italiana, moltiplicavamo allora noi studenti le
copie e che mi toccò di vedere nel 1848 immiserito tra patrizî
moderati e cortigiani regî in Milano. Osammo tanto, che
l'intormentito Governo Toscano, compito l'anno, c'intimò di cessare.
E cessammo. Ma quei due giornali avevano intanto raggruppato un
certo numero di giovani potenti di una vita che volea sfogo; avevano
toccato efficacemente nell'anime corde che fin allora giacevano
mute; avevano - e questo era il più - provato ai giovani che i
Governi erano deliberatamente avversi a ogni progresso e che libertà
d'intelletto non era possibile se non cadevano.
Tra quell'armeggiare letterario, io non dimenticavo lo scopo mio e
andava guardandomi attorno a vedere s'io potessi trovare uomini
capaci d'avventurarsi all'impresa. Serpeggiavano tra noi voci vaghe
di Carboneria rinata, d'un lavoro segreto comune alla Francia, alla
Spagna, all'Italia. Cercai, spiai, interrogai tanto che finalmente
un Torre, amico e studente di Legge, mi si rivelò membro della Setta
o come dicevano allora dell'Ordine e mi propose l'iniziazione.
Accettai.
Io non ammirava gran fatto il simbolismo complesso, i misteri
gerarchici e la fede - o piuttosto la mancanza di fede politica -
della Carboneria, come i fatti del 1820 e del 1821, da me studiati
quanto meglio io poteva in quelli anni, me l'additavano. Ma io era
allora impotente a tentare cosa alcuna di mio e mi s'affacciava una
congrega d'uomini i quali, inferiori probabilmente al concetto,
facevano ad ogni modo una cosa sola del pensiero e dell'azione e
sfidando scomuniche e pene di morte, persistevano, distrutta una
tela, a rifarne un'altra. E bastava perchè io mi sentissi debito di
dar loro il mio nome e l'opera mia. Anch'oggi, canuto, credo che,
dopo la virtù di guidare, la più alta sia quella di saper seguire:
seguire, intendo, chi guida al bene. I giovani, troppo numerosi in
Italia e altrove, che si tengono, per rispetto all'indipendenza
dell'individuo, segregati da ogni moto collettivo d'associazione o
di partito ordinato, sono generalmente quelli che più rapidamente e
servilmente soggiacciono a ogni forza ordinata governativa. La
riverenza all'Autorità vera e buona, purchè liberamente accettata, è
l'arme migliore contro la falsa e usurpata.
Accettai dunque. Fui condotto una sera in una casa presso San
Giorgio, dove, salendo all'ultimo piano, trovai chi doveva
iniziarmi. Era, come seppi più tardi, un Raimondo Doria, semi-corso;
semi-spagnuolo, d'età già inoltrata, di fisionomia non piacente. Mi
disse con piglio solenne come la persecuzione governativa e la
prudenza necessaria a raggiunger l'intento vietavano le riunioni e
come quindi mi si risparmiassero prove, cerimonie e riti simbolici.
M'interrogò sulle mie disposizioni ad agire, a eseguire le
istruzioni che mi verrebbero via via trasmesse, a sagrificarmi,
occorrendo, per l'Ordine. Poi mi disse di piegare un ginocchio e,
snudato un pugnale, mi recitò e mi fece ripetere la formula di
giuramento del primo grado, comunicandomi uno o due segni di
riconoscimento fraterno, e m'accomiatò. Io era Carbonaro.
Uscendo, tormentai di domande l'amico che m'aspettava, sull'intento,
sugli uomini, sul da farsi, ma inutilmente: bisognava ubbidire,
tacere e conquistarsi lentamente fiducia. Mi felicitò, dell'avermi
le circostanze sottratto a prove tremende e, vedendomi sorridere, mi
chiese con piglio severo che cosa avrei fatto se m'avessero, come ad
altri, intimato di scaricarmi nell'orecchio una pistola caricata
davanti a me. Risposi che avrei ricusato, dichiarando agli
iniziatori che, o la carica cadeva, per mezzo d'una valvola interna,
nel calcio della pistola ed era farsa indegna d'essi e di me, o
rimaneva veramente nella canna ed era assurdo che un uomo chiamato a
combattere pel paese cominciasse dallo sparpagliarsi quel po' di
cervello che Dio gli aveva dato. Fra me stesso io pensava con
sorpresa e sospetto che il giuramento non conteneva se non una
formula di obbedienza e non una parola sul fine. L'iniziatore non
aveva proferito sillaba che accennasse a federalismo o unità, a
repubblica o monarchia. Era guerra al Governo, non altro.
La contribuzione colla quale ogni affigliato doveva alimentare la
Cassa dell'Ordine consisteva di 25 franchi all'atto della
iniziazione e di 5 franchi mensili: contribuzione grave e a me,
studente, più che ad ogni altro. Pure mi parea buona cosa. Grave
colpa è raccogliere danaro altrui e usarne male; più grave l'esitare
davanti a un sacrificio pecuniario quando le probabilità stanno
perchè giovi a una buona causa. Oggi gli uomini - ed è uno dei più
tristi sintomi che io mi sappia dell'egoismo abbarbicatosi all'anime
- argomentano per un franco. E mentre si gettano ogni dì somme
ingenti a procacciare a sè stessi conforti non reali, ma artificiali
i più, gli uomini che per una impresa come quella di fondar la
Patria o di crear libertà dovrebbero far moneta del sangue,
lamentano l'impossibilità di sacrifici frequenti, e pongono, anzichè
schiuder la borsa, la vita, l'onore, la dignità dell'anima loro o di
quella de' loro fratelli a pericolo. I cristiani dei primi secoli
versavano sovente a' piedi del sacerdote, a pro dei loro fratelli
poveri, tutta quanta la loro ricchezza, non serbandosi che il puro
necessario alla vita. Tra noi, è impresa utopistica, gigantesca,
quella di trovare tra ventidue milioni d'uomini, che cicalano di
libertà, un milione che dia un franco per l'emancipazione del
Veneto. I primi avevano fede: noi non abbiamo se non opinioni.
Ebbi, non molto dopo, l'iniziazione al secondo grado e facoltà
d'affigliare. Conobbi due o tre Carbonari, fra gli altri un Passano,
antico Console di Francia in Ancona, che dicevano alto dignitario
dell'Ordine; vecchio, pieno di vita, ma che si pasceva più di
piccolo raggiro e d'astuzie che non d'opere tendenti virilmente e
logicamente allo scopo. Rimasi nondimeno sempre in una assoluta
ignoranza del loro programma o del che facessero; e cominciai a
sospettare che nulla facessero. L'Italia non appariva nei loro
discorsi che come terra diseredata d'ogni potenza per fare:
appendice più che secondaria di altrui. Si professavano cosmopoliti:
bel nome se vale libertà per tutti; nondimeno, a ogni leva è
necessario, per agire, un punto d'appoggio e quel punto d'appoggio
ch'io intravvedeva fin d'allora in Italia, era per essi visibilmente
in Parigi. Fervevano allora in Francia le liti d'opposizione, nella
Camera e fuori, alla Monarchia di Carlo X, ed essi non sognavano e
non parlavano che di Guizot, di Barthe, di Lafayette e dell'Alta
Vendita Parigina. Io pensava che avevamo dato noi Italiani
l'Istituzione dei Carbonari alla Francia.
Fui richiesto di stendere in francese una specie di memorandum,
indirizzato a non so chi, in favore della libertà della Spagna e a
provare l'illegalità e le tristi conseguenze dell'intervento
Borbonico del 1823. Mi strinsi nelle spalle e lo stesi. Poi,
giovandomi delle facoltà che m'erano date, mi diedi ad affigliare
tra gli studenti. Presentiva il momento in cui, crescendo di numero
e formando tra noi un nucleo compatto avremmo potuto infondere un
po' di giovine vita in quel corpo invecchiato. Continuavamo intanto,
aspettando che si potesse far meglio, la zuffa contro quei che
chiamavamo i Monarchici delle Lettere. E scrissi il lungo articolo
d'una Letteratura Europea, che dopo lunghe contestazioni, note e
corrispondenze fu ammesso nell'Antologia di Firenze e troverà luogo
in questa edizione. Finalmente, all'appressarsi visibile della
tempesta in Francia, i nostri Capi parvero ridestarsi a un'ombra
d'attività. E mi fu commesso di partire per la Toscana a impiantarvi
la Carboneria. La missione era più grave ch'essi non pensavano. Le
abitudini della famiglia, dalle quali io non aveva mai desiderato
d'emanciparmi, s'opponevano inappellabilmente alla gita, quindi alla
possibilità d'avere i mezzi che erano necessarî. Dopo lunghe
esitazioni, risolsi compire a ogni modo l'incarico. Dissi ch'io mi
recava per due giorni in Arenzano presso uno studente amico di casa,
raggranellai sotto diversi pretesti un po' di danaro dalla buona mia
madre, e mi preparai a partire.
Il dì prima della partenza - e cito questo fatto perchè mostra per
quali vie si trascinasse allora la Carboneria - mi fu intimato di
trovarmi a mezzanotte sul Ponte della Mercanzia. Vi trovai parecchi
de' miei giovani affigliati convocati essi pure senza sapere il
perchè. Dopo lungo aspettare, comparve il Doria; e lo seguivano due
ignoti, ammantellati sino agli occhi e muti come due spettri. Il
core ci balzava dentro per desiderio e speranza d'azione. Fatto
cerchio, il Doria dopo un breve discorso rivolto a me sui biasimi
colpevoli e sulle intemperanze dei giovani inesperti e imprudenti,
accennò ai due ammantellati e dichiarò ch'essi partivano il dì dopo
per Barcellona onde trafiggervi un Carbonaro reo d'avere osato
sparlare dei Capi, però che l'Ordine, quando trovava ribelli,
schiacciava. Era una risposta a' miei lagni rivelati da qualche
affigliato zelante. Io ricordo ancora il fremito d'ira che mi sorse
dentro alla stolta minaccia. Mandai, su quei primi moti dell'animo,
a dire ch'io non partiva più per Toscana e l'Ordine schiacciasse
pure. Poi, racquetato e ammonito dagli amici ch'io sacrificava senza
avvedermene la causa del paese all'offeso individuo, mutai consiglio
e partii, lasciando lettera a rassicurare la mia famiglia.
In Livorno fondai una Vendita: affigliai parecchi Toscani ed altri
d'altre provincie, tra i quali ricordo un Camillo d'Adda, lombardo,
allievo di Romagnosi e ch'esciva allora, credo, dalle prigioni
dell'Austria, e Marliani, che moriva anni dopo difendendo Bologna
contro gli Austriaci. Commisi il resto a Carlo Bini, anima buona e
candida, serbatasi incontaminata attraverso una gioventù passata fra
i rozzi e rissosi popolani della Venezia(2), ingegno potente, ma che
imprigionato fra le cure mercantili e fatto indolente da un profondo
scetticismo, non di principii, ma degli uomini e delle cose
d'allora, non potè rivelarsi che a lampi. Una immensa rettitudine
d'animo e una immensa capacità di sagrificio per ciò ch'ei credeva
bene, sagrificio tanto più meritevole quanto meno ei credea nel
successo, erano doti immedesimate con lui. Ei rideva con me delle
formalità e del simbolismo dei Carbonari, ma credeva, com'io
credeva, nell'importanza d'ordinarci, sotto qualunque forma si
fosse, all'azione.
Viaggiammo insieme a Montepulciano dov'era allora relegato
Guerrazzi, colpevole d'aver recitato alcune solenni pagine in lode
d'un prode soldato italiano, Cosimo Delfante, tanto quei miseri
Governi d'allora s'adombravano d'ogni ricordo che potesse guidarci a
sentire men bassamente di noi. Avrebbero, se fosse stato in loro
potere, abolito la Storia.
Vidi Guerrazzi. Ei scriveva l'Assedio di Firenze e ci lesse il
capitolo d'introduzione. Il sangue gli saliva alla testa mentr'ei
leggeva ed ei bagnava la fronte per ridursi in calma. Sentiva
altamente di sè, e quella persecuzioncella che avrebbe dovuto farlo
sorridere gli rigonfiava l'anima d'ira. Ma ei sentiva pure altamente
della sua Patria nei ricordi della passata grandezza e nei
presentimenti de' suoi fati futuri; e mi pareva che l'orgoglio
italiano, e l'orgoglio dell'io, non gli avrebbero forse impedito di
sviarsi quando che fosse, ma gli avrebbero resa impossibile ogni
bassezza e ogni transazione con chi egli avrebbe sentito da meno di
quel ch'egli era. Non aveva fede. La fantasia potente oltremodo lo
spronava a grandi cose: la mente incerta, pasciuta di Machiavelli e
di studî sull'uomo del passato più che d'intuizioni sull'uomo
avvenire, lo ricacciava nelle anatomie dell'analisi, buone a
dichiarare la morte e le sue cagioni, impotente a creare e ordinare
la vita. Erano in lui due esseri combattenti, vincenti e soggiacenti
alternativamente: mancava il nesso comune, mancava quell'armonia che
non discende se non da una forte credenza religiosa o dagli impulsi
prepotenti del core. Stimava poco: amava poco. Io cercava in lui una
scintilla di quell'immenso affetto che si versava dagli occhi di
Carlo Bini, mentr'egli commosso dalla lettura delle magnifiche
pagine che i giovani d'Italia sanno a memoria, lo guardava d'un
guardo di madre pensoso unicamente dal suo soffrire. Erano i tempi
(1829), nei quali ci venivano, aspettate con ansia, di Francia, le
lezioni storiche di Guizot e le filosofiche di Cousin, fondate su
quella dottrina del Progresso che contiene in sè la religione
dell'avvenire, che splendeva, rinata da poco, nei discorsi eloquenti
di quei due e che non prevedevamo dovesse miseramente arrestarsi un
anno dopo all'ordinamento della borghesia e alla Carta di Luigi
Filippo. Io l'aveva attinta dal Dante nel Trattato della Monarchia,
pochissimo letto e sempre frainteso. Ed io parlava con calore dei
due Còrsi, della Legge, del futuro che doveva presto o tardi
irrevocabilmente escirne. Guerrazzi sorrideva tra il mesto e
l'epigrammatico. E quel sorriso m'impauriva come s'io avessi
intravveduto tutti i pericoli di quell'anima privilegiata:
m'impauriva di tanto, ch'io partii senza parlargli a viso aperto del
motivo principale della mia gita e commettendo a Bini di farlo. E
nondimeno io l'ammirava potente e benedetto d'un nobile orgoglio,
che, come dissi, m'era mallevadore dell'avvenire. Stringemmo allora
una fratellanza che più tardi si ruppe, non per mia colpa.
Tornato in Genova, trovai mali umori tra gli alti dignitarî
dell'Ordine. A me fu detto di non dare conto del mio lavoro al
Doria; poco dopo, redarguito di non so che, egli ebbe intimazione da
chi stava più in alto di lui d'allontanarsi per un certo tempo dalla
città, e promise farlo. Ma un giorno ch'io esciva di casa sull'alba
per recarmi a una campagna (Bavari) dove stava allora mia madre, lo
incontrai sulla via, e ne feci riferta. Non so di dove egli escisse
a quell'ora; ma tramava, irritato, vendetta contro l'Ordine, i suoi
lavori e i nuovi affigliati.
Scoppiava l'insurrezione francese del luglio 1830. I capi
s'agitavano senza intento determinato, aspettando libertà da Luigi
Filippo. Noi giovani ci diemmo a fondere palle e a prepararci per un
conflitto che salutavamo inevitabile e decisivo.
Non ricordo le date; ma poco dopo le tre Giornate di Francia, mi
venne ingiunto di recarmi ad ora determinata al Lion Rouge, albergo
esistente allora nella salita San Siro, dove avrei trovato un
maggiore Cottin di Nizza o Savoja, il quale avea ricevuto, dicevano,
il primo grado di Carboneria da Santa Rosa e invocava il secondo
ch'io doveva conferirgli. Eravamo noi giovani maneggiati dai Capi a
guisa di macchine e sarebbe tornato inutile chiedere perchè
scegliessero me a quell'ufficio invece d'altri a cui fosse già noto
il maggiore. Accettai quindi l'incarico. Soltanto, côlto da non so
quale presentimento, mi intesi, prima di compierlo, coi giovani
Ruffini, intimi di mia madre, intorno a un modo di corrispondenza
segreta da praticarsi per mezzo delle lettere della famiglia nel
caso possibile d'imprigionamento a cui soggiacessi. E l'antiveggenza
giovò.
Mi recai, nel giorno assegnato, all'albergo, nelle cui stanze
intravidi il Passano, che fece sembianza di non conoscermi. Chiesi
del Cottin e lo vidi. Era uomo piccolo di statura con un guardo
errante che non mi piacque: vestiva abito non militare: parlava
francese. Gli dissi, dopo d'essermi fatto riconoscere fratello, o,
come allora dicevano, cugino, ch'ei doveva sapere perch'io venissi.
Introdotto nella sua stanza da letto, chiuso l'uscio, ei piegò un
ginocchio ed io, cavata, com'era d'uso, una spada dal bastone,
cominciava a fargli prestare il giuramento, quando si schiuse
subitamente un piccolo uscio praticato, accanto al letto, nel muro,
e s'affacciò da quello un ignoto. Mi guardò e richiuse. Il Cottin mi
pregò d'acquetarmi, dichiarò ch'era quegli un domestico suo
fidatissimo e si scusò dell'avere dimenticato di chiudere l'usciolo
a chiave. Compita l'iniziazione, il maggiore mi disse ch'ei si
recava tre giorni a Nizza dove avrebbe lavorato utilmente fra la
milizia, ma che la memoria lo tradiva e ch'io avrei fatto bene a
dargli la formula del giuramento in iscritto. Ricusai, dicendogli
che non era abitudine mia scrivere cose siffatte: scrivesse egli
sotto mia dettatura. Scrisse, e m'accomiatai, scontento di quella
scena.
L'ignoto, come seppi più dopo, era un carabiniere regio travestito.
Trascorsi pochi giorni io era nelle mani della polizia.
Io aveva sulla persona, al momento in cui la sbirraglia s'impossessò
di me, materiale per tre condanne: palle da fucile, una lettera in
cifra del Bini, un ragguaglio delle tre giornate di Francia stampato
su carta tricolorata, la formula di giuramento del secondo grado e
inoltre, dacchè fui preso sull'uscio di casa mia, un bastone con
entro lo stocco, fra le mani. Riuscii a liberarmi di ogni cosa:
quella gente aveva le tendenze, non l'ingegno della tirannide. La
lunga perquisizione fatta in casa e fra le mie carte non fruttò
scoperte pericolose. Fui nondimeno, e quantunque il commissario
(Pratolongo) sostasse e mandasse per ordini, tratto alla caserma dei
carabinieri in Piazza Sarzano.
Là fui interrogato da un vecchio commissario per nome Bollo, il
quale, dopo avermi tentato in ogni modo possibile, nojato della mia
freddezza, pensò atterrirmi provandomi ch'io era tradito, e mi disse
a un tratto ch'io, il tal giorno, la tal ora, nel tal luogo, aveva
iniziato al secondo grado di Carboneria, il maggiore Cottin. Un
lieve brivido mi corse l'ossa; mi contenni nondimeno, e risposi
ch'io mal poteva confutare un romanzo, ma sperava che il maggiore
sarebbe venuto a confronto con me.
Non venne. Egli aveva, accettando la parte di agente provocatore,
stipulato che non se ne sarebbe fatto motto nel processo. Rimasi
parecchi giorni nella caserma, esposto al sogghigno e ai motteggi
dei carabinieri, il più letterato fra i quali m'additava ai compagni
come una nuova edizione di Jacopo Ortis, corrispondendo, mercè un
pezzetto di matita ch'io m'era trovato mangiando, fra i denti - il
pranzo m'era mandato da casa - e col quale io scriveva nella
biancheria, rimandandola. Diedi in quel modo avviso agli amici
perchè distruggessero alcune carte pericolose agli affigliati
toscani. Seppi che erano stati imprigionati altri con me, Passano,
Torre, un Morelli avvocato, un Doria librajo, ed uno o due ignoti:
nessuno dei giovani affigliati da me.
Governava allora in Genova un Venanson, lo stesso che, richiesto da
mio padre delle mie colpe, rispondeva non esser tempo di dirle; ma
ch'io era a ogni modo dotato di certo ingegno e tenero di
passeggiate solitarie notturne, e muto generalmente sui miei
pensieri; e al Governo non andavano a sangue i giovani d'ingegno dei
quali non si sapeva che cosa pensassero.
Una notte, destato subitamente, mi vidi innanzi due carabinieri, i
quali m'ingiunsero d'alzarmi e di seguirli. Pensai si trattasse d'un
interrogatorio; ma l'avvertirmi d'un d'essi ch'io non lasciassi il
mantello, mi fece accorto ch'io doveva escire dalla caserma. Chiesi
dove s'andasse: risposero non poterlo dire. Pensai a mia madre che,
udendomi il dì dopo sparito, avrebbe ideato il peggio, e dichiarai
risolutamente ch'io non sarei partito se non trascinato, quando non
mi venisse concesso di scrivere un biglietto alla famiglia. Dopo
lunghi dubbî e consigli col loro ufficiale, concessero. Scrissi
poche linee a mia madre dicendole ch'io partiva, ma che non temesse
di male alcuno, e seguii i miei nuovi padroni. Trovai all'uscio una
portantina nella quale mi chiusero. Quando si fermò, udii a un tempo
uno scalpito di cavalli, indizio di partenza per luogo lontano e la
voce inaspettata di mio padre che mi confortava ad avere coraggio.
Non so come egli fosse stato informato della partenza, dell'ora e
del luogo. Ma ricordo ancora con fremito i modi brutali dei
carabinieri che volevano allontanarlo, il loro sospingermi dalla
portantina nella vettura, sì ch'io potei appena stringergli la mano,
e il loro avventarsi furente, per riconoscere un giovane che stava
fumando a poca distanza e m'avea salutato del capo. Era Agostino
Ruffini, uno dei tre che mi furono più che amici, fratelli, morto
anni sono, lasciando perenne ricordo di sè, non solamente fra gli
Italiani, ma tra gli Scozzesi che lo conobbero esule e ne ammirarono
il core, l'ingegno severo e la pura coscienza.
Eravamo davanti alle carceri di Sant'Andrea. Scese da quelle un
imbacuccato che fecero salire nella vettura ov'io era e vi salirono
pure due carabinieri armati di fucile; e partimmo. Nel prigioniero
riconobbi poco dopo Passano. Uno dei due carabinieri era l'ignoto
del Lione Rosso.
Fummo condotti a Savona (Riviera Occidentale) in Fortezza e tosto
disgiunti. Giungevamo inaspettati, e la mia celletta non era pronta.
In un andito semibujo dove mi posero, ebbi la visita del
governatore, un De Mari, settuagenario, il quale motteggiandomi
stolidamente sulle notti perdute in convegni colpevoli e sulla
tranquillità salutare ch'io troverei in Fortezza - poi
rispondendomi, sul mio chiedere un sigaro, ch'egli avrebbe scritto a
S. E. il Governatore di Genova per vedere se poteva concedersi - mi
fece piangere, quand'ei fu partito, le prime lagrime
dall'imprigionamento in poi.
Erano lagrime d'ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio
d'uomini ch'io sprezzava.
Fui dopo un'ora debitamente confinato nella mia celletta. Era
sull'alto della Fortezza: rivolta al mare e mi fu conforto. Cielo e
Mare - due simboli dell'infinito e, coll'Alpi, le più sublimi cose
che la natura ci mostri - mi stavano innanzi quand'io cacciava il
guardo attraverso l'inferriate del finestrino. La terra sottoposta
m'era invisibile. Le voci dei pescatori mi giungevano talora
all'orecchio a seconda del vento. Il primo mese non ebbi libri: poi,
la cortesia del nuovo governatore, cav. Fontana, sottentrato per
ventura all'antico, fe' sì ch'io ottenessi una Bibbia, un Tacito, un
Byron. Ebbi pure compagno di prigionia un lucherino, uccelletto
pieno di vezzi e capace d'affetto, ch'io prediligeva oltremodo.
D'uomini io non vedeva se non un vecchio sergente Antonietti che
m'era custode benevolo, l'ufficiale al quale si affidava ogni giorno
la guardia e che compariva un istante sull'uscio, ad affisare il suo
prigioniero, la donna piemontese, Caterina, che recava il pranzo, e
il comandante Fontana. L'Antonietti mi chiedeva imperturbabilmente
ogni sera s'io avessi comandi, al che io rispondeva invariabilmente:
un legno per Genova. Il Fontana, antico militare, capace d'orgoglio
italiano, ma profondamente convinto che i Carbonari volevano
saccheggio, abolizione di qualunque fede, ghigliottina sulle piazze
e cose siffatte, compiangeva in me i traviamenti del giovine e
tentò, a rimettermi sulla buona via, ogni arte di dolcezza, fino a
tradire le sue istruzioni conducendomi la notte a bere il caffè
colla di lui moglie, piccola e gentile donna imparentata, non
ricordo in qual grado, con Alessandro Manzoni.
Intanto, io andava esaurendo gli ultimi tentativi per cavare una
scintilla di vita dalla Carboneria coi giovani amici lasciati in
Genova. Ogni dieci giorni io riceveva, aperta s'intende e letta e
scrutata dal Governatore di Genova a da quello della Fortezza, una
lettera di mia madre e m'era concesso risponderle, pur ch'io
scrivessi in presenza dell'Antonietti e gli consegnassi aperta la
lettera. Ma tutte queste precauzioni non nuocevano al concerto
prestabilito tra gli amici e me, ed era che dovessimo formar parole,
per sovrappiù di cautela, latine, colla prima lettera d'ogni alterna
parola. Gli amici dettavano a mia madre le prime otto o nove linee
della sua lettera; e quanto a me, il tempo per architettare e
serbare a memoria le frasi ch'io dovrei scrivere, non mi mancava.
Così mandai agli amici di cercare abboccamento con parecchi fra i
Carbonari a me noti, i quali tutti, côlti da terrore, respinsero
proposte ed uomini; e così seppi l'insurrezione Polacca, ch'io per
vaghezza d'imprudenza giovanile annunziai al Fontana, il quale
m'aveva accertato poche ore prima tutto essere tranquillo in Europa.
Di certo, ei dovè raffermarsi più sempre nell'idea che noi avevamo
contatto col diavolo.
Bensì, e il terrore fanciullesco dei Carbonari in quel solenne
momento, e le lunghe riflessioni mie sulle conseguenze logiche
dell'assenza d'ogni fede positiva nell'Associazione, e una scena
ridicola ch'io m'ebbi col Passano (il quale incontrato da me per
caso nel corritojo mentre si ripulivano le nostre celle, al mio
susurrargli affrettato: ho modo certo di corrispondenza; datemi
nomi, rispose col rivestirmi di tutti i poteri e battermi sulla
testa per conferirmi non so qual grado indispensabile di
Massoneria), raffermavano me nel concetto formato già da più mesi:
che la Carboneria era fatta cadavere e che invece di spendere tempo
e fatica a galvanizzarla, era meglio cercar la vita dov'era, e
fondare un edificio nuovo di pianta.
Ideai dunque, in quei mesi d'imprigionamento in Savona, il disegno
della Giovine Italia; meditai i principii sui quali doveva fondarsi
l'ordinamento del partito e l'intento che dovevamo dichiaratamente
prefiggerci: pensai al modo d'impianto, ai primi ch'io avrei
chiamato a iniziarlo con me, all'inanellamento possibile del lavoro
cogli elementi rivoluzionarî Europei. Eravamo pochi, giovani, senza
mezzi e d'influenza più che ristretta; ma il problema stava per me
nell'afferrare il vero degli istinti e delle tendenze, allora mute,
ma additate dalla storia e dai presentimenti del core d'Italia. La
nostra forza dovea scendere da quel Vero. Tutte le grandi imprese
Nazionali si iniziano da uomini ignoti e di popolo, senza potenza
fuorchè di fede e di volontà che non guarda a tempo nè ad ostacoli:
gl'influenti, i potenti per nome e mezzi, vengono poi a invigorire
il moto creato da quei primi e spesso pur troppo a sviarlo dal
segno.
Non dirò qui come gli istinti e le tendenze d'Italia, quali
m'apparivano attraverso la Storia e nell'intima costituzione sociale
del paese, mi conducessero a prefiggere intento all'Associazione
ideata l'Unità e la Repubblica. Accennerò soltanto come fin d'allora
il pensiero generatore d'ogni disegno fosse per me, non un semplice
pensiero politico, non l'idea del miglioramento delle sorti d'un
popolo ch'io vedeva smembrato, oppresso, avvilito: ma un
presentimento che l'Italia sarebbe, sorgendo, iniziatrice d'una
nuova vita, d'una nuova potente Unità alle nazioni d'Europa. Mi
s'agitava nella mente, comunque confusamente e malgrado il fascino
ch'esercitavano su me in mezzo al silenzio comune le voci fervide di
coscienza direttrice uscenti allora di Francia, un concetto ch'io
espressi sei anni dopo; ed era che un vuoto esisteva in Europa, che
l'Autorità, la vera, la buona, la Santa Autorità nella cui ricerca
sta pur sempre, confessato a noi stessi o no, il segreto della vita
di tutti noi, negata irrazionalmente da tanti i quali confondono con
essa un fantasma, una menzogna d'Autorità e credono negar Dio quando
non negano che gli idoli, era svanita, spenta in Europa, che quindi
non viveva in alcun popolo potenza d'iniziativa. È concetto che gli
anni, gli studî e i dolori hanno confermato irrevocabilmente
nell'animo mio e mutato in fede. E se mai, ciò ch'io non credo, mi
fosse dato, fondata una volta l'Unità Italiana, di vivere un solo
anno di solitudine in un angolo della mia terra o in questa ove io
scrivo e che gli affetti m'hanno fatta seconda patria, io tenterò di
svolgerlo e desumerne le conseguenze più importanti ch'altri non
pensa. Allora da quel concetto non maturato abbastanza balenava,
come stella dell'anima, un'immensa speranza: l'Italia rinata e d'un
balzo missionaria di una Fede di Progresso e di Fratellanza, più
vasta assai dell'antica, all'umanità. Io aveva in me il culto di
Roma. Fra le sue mura s'era due volte elaborata la vita Una del
mondo. Là, mentre altri popoli, compìta una breve missione, erano
spariti per sempre e nessuno aveva guidato due volte, la vita era
eterna, la morte ignota. Ai vestigi potenti d'un'epoca di Civiltà
che aveva avuto anteriormente alla Greca, sede in Italia, e della
quale la scienza storica dell'avvenire segnerà l'azione esterna più
ampia che gli eruditi d'oggi non sospettano, s'era sovrapposta,
cancellandola nell'oblìo, la Roma della Repubblica conchiusa dai
Cesari, e avea solcato, dietro al volo dell'aquile, il mondo noto
coll'idea del Diritto, sorgente della Libertà. Poi, quando gli
uomini la piangevano sepolcro di vivi, era risorta più grande di
prima e, risorta appena, s'era costituita, coi Papi, santi un tempo
quanto oggi abbietti. Centro accettato d'una nuova Unità che levando
la legge dalla terra al cielo, sovrapponeva all'idea del Diritto
l'idea del Dovere comune a tutti e sorgente quindi dell'Eguaglianza.
Perchè non sorgerebbe da una terza Roma, la Roma del Popolo Italico,
della quale mi pareva intravedere gli indizî, una terza e più vasta
Unità che armonizzando terra e cielo, Diritto e Dovere, parlerebbe,
non agli individui, ma ai popoli, una parola di Associazione
insegnatrice ai liberi ed eguali della loro missione quaggiù?
Queste cose io pensava tra l'inchiesta serale dell'Antonietti e i
tentativi per convertirmi del governatore Fontana, nella mia
colletta in Savona: queste io penso oggi, con più logico e fondato
sviluppo, nella stanzuccia, non più vasta della mia prigione, ov'io
scrivo. E mi valsero nella vita accuse d'utopista e di pazzo, e
oltraggi e delusioni che mi fecero sovente, quando fremeva tuttavia
dentro me una speranza di vita dell'individuo, guardare addietro con
desiderio e rammarico alla mia celletta in Savona, tra il mare e il
cielo, lungi dal contatto degli uomini. L'avvenire dirà s'io
antivedeva o sognava. Oggi il rivivere d'Italia, fidato a
materialisti immorali celebrati grandi da un volgo ignaro e
corrotto, condanna le mie speranze. Ma ciò ch'è morte agli altri
popoli è sonno per noi.
Da quell'idee io desumeva intanto che il nuovo lavoro dovea essere
anzi ogni altra cosa morale, non angustamente politico: religioso,
non negativo; fondato sui principî, non su teoriche d'interesse; sul
Dovere, non sul benessere. La scuola straniera del materialismo
aveva sfiorato l'anima mia per alcuni mesi di vita Universitaria; la
Storia e l'intuizione della coscienza, soli criterî di verità,
m'avevano ricondotto rapidamente all'idealismo de' nostri padri.
Il mio processo era stato rimesso a una Commissione di Senatori in
Torino, fra i quali non ricordo che il nome d'un Gromo. La promessa
data al Cottin limitava tutte le testimonianze a mio danno a quella
del carabiniere che m'avea veduto, collo stocco snudato, nella
stanza dell'iniziato. Contro quella stava la mia; e s'equilibravano.
Era chiaro ch'io doveva essere assolto. Avrei adunque avuto campo al
lavoro.
Fui difatti assolto dalla Commissione Senatoriale. Se non che il
Governatore Venanson, odiato e odiatore in Genova, irritato dallo
sfregio e pauroso della taccia di calunniatore che la popolazione,
vedendomi libero, gli avrebbe avventato, corse a gettarsi ai piedi
del re clementissimo, Carlo Felice, accertandolo che per prove
fidate a lui solo io era colpevole e pericoloso, e il re
clementissimo, commosso al dolore inquieto del Governatore, calpestò
la sentenza dei giudici e i miei diritti ed il dolore muto de' miei
genitori, e fece intimarmi che o mi scegliessi soggiorno,
rinunziando a Genova, a ogni punto delle spiaggie liguri, a Torino e
ad altre città d'importanza, Asti, Acqui, Casale o altra piccola
città dell'interno - o ch'io andassi in esilio a tempo indefinito da
prolungarsi o accorciarsi dalla volontà regia a seconda dei meriti o
demeriti della mia condotta. E il bivio mi fu posto da mio padre che
s'affrettò a Savona per liberarmi dall'ultima noja dell'essere
ricondotto in Genova fra gendarmi, dacchè al decreto del
clementissimo era aggiunta la disposizione ch'io non vedessi alcuno
fuorchè i miei più vicini parenti. Il Passano, in virtù dell'antico
consolato in Ancona e della nascita in Corsica, era stato già prima
di me ridonato a libertà senza patti e passeggiava le vie di Savona:
abitudine antica d'ogni governo regio in Italia d'aborrire la
Francia e adularla a un tempo e compiacerle e servirle.
Era intanto scoppiata, poco prima della mia liberazione,
l'insurrezione del Centro (febbrajo 1831). Intesi in Genova che gli
esuli Italiani si addensavano sulla frontiera confortati di larghe
speranze e d'ajuti dal nuovo Governo di Francia. In una delle minori
città di Piemonte, ignoto fra ignoti, io mi sarei veduto condannato
a un'assoluta impotenza dalla vigilanza della polizia e imprigionato
nuovamente al primo atto sospetto. Per queste ragioni scelsi
l'esilio che mi dava libertà piena e ch'io allora fantasticava
brevissimo. Lasciai la famiglia; dissi a mio padre, ch'io non doveva
rivedere più mai, di star di buon animo e che la mia era assenza di
giorni; e partii. Traversai la Savoja che la libertà moderata non
aveva ancora fatta francese, e il Cenisio; e mi recai in Ginevra. Di
là io doveva avviarmi a Parigi, e la sollecitudine materna m'avea
dato compagno di viaggio uno zio che avea abitato per lunghi anni la
Francia.
Andai a visitare Sismondi, lo storico delle nostre repubbliche, pel
quale io avea commendatizia d'una amica sua, Bianca Milesi Moion.
M'accolse più che cortese, e con lui la moglie Jessie Mackintosh
scozzese. Sismondi lavorava allora intorno alla Storia di Francia.
Era buono, singolarmente modesto, di modi semplici e affabili,
italiano d'anima; e m'interrogò con ansia d'affetto sulle cose
nostre. Mi parlò di Manzoni del quale ammirava oltre ogni sua cosa
il Romanzo, e dei pochi i quali davano segno di vita intellettuale
rinascente. Deplorava in noi le tendenze appartenenti tutte al XVIII
secolo, ma le spiegava colla necessità della lotta. Le sue non
n'erano emancipate quant'ei credeva; e la sua scienza non
oltrepassava i limiti delle teorica dei Diritti e la conseguenza
unica di questa teorica, la Libertà. E d'altra parte l'amicizia che
lo stringeva ai capi della scuola dottrinaria d'allora, Cousin,
Guizot, Villemain, annebbiava visibilmente i suoi giudizî sugli
uomini e sulle cose. Nelle tendenze di quegli uomini dei quali nè
egli nè io sospettavamo l'intento, nel culto esclusivo, frainteso,
della libertà, e nelle condizioni della sua Svizzera egli avea
succhiato il federalismo e lo predicava siccome ideale di reggimento
politico ai molti esuli Italiani, segnatamente lombardi, che gli
stavano intorno e pendevano dalle sue ispirazioni: non era fra essi
chi sospettasse possibile e desiderabile l'Unità. M'introdusse, nel
Cerchio di Lettura, a Pellegrino Rossi, il quale si limitò ad
additarmi un tale seduto in un angolo e creduto spia. Non so quale
indefinito senso di sconforto s'insignoriva di me vedendo dappresso
quelli esuli ch'io aveva fino a quel giorno ammirati rappresentanti
l'anima segreta d'Italia. La Francia era tutto per essi. La politica
m'appariva nei loro discorsi come scienza, maneggio, calcolo
diplomatico di transazioni opportune, non fede e moralità.
Mentre a ogni modo io m'accomiatava un giorno da Sismondi
chiedendogli s'io poteva far cosa alcuna per lui in Parigi, un esule
lombardo che avea sempre ascoltato attentamente i miei discorsi
senza mover parola, mi chiamò in disparte e mi susurrò nell'orecchio
che, s'io aveva desiderio d'azione, mi recassi in Lione e mi
presentassi agli Italiani che troverei raccolti nel Caffè della
Fenice. Lo guardai con vera riconoscenza, chiedendogli il nome. Era
Giacomo Ciani, condannato a morte dall'Austria nel 1821.
In Lione, trovai fra i nostri una scintilla di vera vita.
Predominava negli esuli che v'erano raccolti, e v'accorrevano ogni
giorno, l'elemento militare. Trovai molti di quelli uomini ch'io
aveva veduto dieci anni addietro errare, coll'ira della delusione
sul volto, per le vie di Genova; e avevano d'allora in poi onorato
il nome Italiano nell'armi difendendo la libertà Spagnuola o la
Greca. Vidi Borso de' Carminati, ufficiale che nel 1821 s'era in
Genova, in Piazza de' Banchi, cacciato fra il popolo irruente e i
soldati ai quali era stato ordinato fuoco contr'esso, militare
d'alte speranze, salito più tardi ai più alti gradi nelle guerre
spagnuole, e che avrebbe levato grido di sè nelle nostre, se
l'indole irritabile, incauta, intollerante d'ogni sopruso, non lo
avesse travolto, per odio ad Espartero, in un tentativo indegno di
lui che gli costò vita e fama: Carlo Bianco, che mi diventò amico e
del quale riparlerò: un Voarino, ufficiale di cavalleria, un
Tedeschi ed altri, piemontesi tutti, proscritti del 1821 e in mezzo
ad una maggioranza costituzionale monarchica, non per fede ma perchè
monarchica era la Francia, repubblicani. Erano accorsi per
partecipare in una invasione che stava ordinandosi della Savoja da
un Comitato, membri del quale ricordo il generale Regis, un Pisani,
un Fechini. La spedizione contava da forse duemila italiani e un
certo numero d'operai francesi. I mezzi abbondavano, però che la
bandiera monarchica e la credenza che il Governo Francese spingesse
al moto avevano raccolto esuli ricchi, patrizî, principi, uomini
d'ogni colore, all'impresa. I preparativi si facevano pubblicamente:
la bandiera tricolore Italiana s'intrecciava nel Caffè della Fenice,
stanza del Comitato, alla bandiera Francese; i depositi d'armi erano
noti a tutti: correvano comunicazioni continue tra il Comitato e il
Prefetto di Lione.
Le stesse cose avevano luogo ad un tempo sulla frontiera Spagnuola.
Luigi Filippo non era ancora stato riconosciuto dalle monarchie
assolute: cercava d'esserlo; e agitava per atterrire e costringere.
Come Cavour diceva, trent'anni dopo ai plenipotenziarî raccolti in
Parigi: o riforme o rivoluzioni, la nuova monarchia di Francia
diceva ai re titubanti: o accettazione dei Borboni secondogeniti o
guerra di rivoluzione. I re accettarono e Luigi Filippo tradì. Era
il terzo tradimento regio ch'io vedeva compirsi quasi sotto gli
occhi miei nelle cose d'Italia: il primo era la vergognosa fuga del
principe Carlo Alberto, carbonaro e cospiratore, al campo nemico: il
secondo era quello di Francesco IV duca di Modena, il quale avea
protetto la congiura tessuta in suo nome dal povero Ciro Menotti,
poi, al momento dell'esecuzione, lo avea assalito coll'armi e tratto
prigione fuggendo a Mantova, per poi impiccarlo quando l'Austria gli
spianò le vie del ritorno.
Un giorno, mentr'io mi recava alla Fenice pieno l'animo di speranza
per l'azione imminente, vidi la gente affollarsi a leggere uno
stampato governativo affisso sulle cantonate. Era una dichiarazione
severa contro il tentativo italiano, una intimazione di sciogliersi
agli esuli e una minaccia brutale di visitare col rigore delle leggi
penali chiunque s'attentasse di violare frontiere amiche e
compromettere coi Governi la Francia. Il bando esciva dalla
Prefettura. Trovai il Comitato atterrito: le bandiere sparite,
l'armi sequestrate in parte, il vecchio generale Regis in pianto.
Gli esuli imprecavano al tradimento e ai traditori: vendetta sterile
di quanti in una impresa di patria fidano in altro che nelle proprie
forze. Taluni ostinati, magnanimi nella fede che il re galantuomo
Luigi Filippo non potesse deludere a quel modo le speranze degli
uomini della libertà, insinuavano che il Governo avveduto non
intendesse se non a levarli anzi tratto d'ogni sospetto di
cooperazione, ma non pensasse a impedire. Mi avventurai a proporre
che si sciogliesse il problema mandando un nucleo d'armati, quasi
antiguardo della spedizione e frammischiandovi quanti più si potesse
degli operai francesi, sulla via di Savoja; e fu fatto. Ma un
drappello di cavalleria li raggiunse e li sciolse a forza: primi a
ubbidire i francesi, ai quali l'ufficiale parlò di doveri verso il
paese e della necessità di lasciare al Governo la cura delle imprese
liberatrici. La spedizione era fatta impossibile. Cominciò la
cacciata degli esuli. Parecchi furono condotti ammanettati fino a
Calais, e imbarcati per l'Inghilterra.
Fra quel subuglio di fughe, d'imprigionamenti, minaccie e
disperazioni, Borso mi rivelò ch'egli e pochi altri repubblicani
partivano la stessa notte alla volta di Corsica, per di là
raggiungere in armi l'insurrezione, che ancor durava, del Centro, e
mi chiese s'io volessi seguirli. Accettai senz'altro. Celai la
subita determinazione allo zio, lasciandogli poche linee pregandolo
di tranquillarsi sul conto mio e a tacere per pochi giorni colla mia
famiglia; e partii. Nella diligenza che ci portava a Marsiglia
trovai Bianco, Voarino, Tedeschi, un Zuppi, se non erro, napoletano,
e non so chi altri. Borso con tre o quattro compagni seguiva in
altra vettura. Viaggiammo sempre senza quasi fermarci fino a
Marsiglia: da Marsiglia a Tolone; e da Tolone sopra un legno
mercantile napoletano, attraverso il mare più tempestoso ch'io abbia
veduto mai, a Bastia. Là mi sentii nuovamente, con gioja di chi
rimpatria, in Terra Italiana.
Non so che cosa abbiano fatto dell'isola, d'allora in poi,
l'insistenza corruttrice francese e la colpevole noncuranza dei
Governi d'Italia; ma nel 1831 l'Isola era Italiana davvero: Italiana
non solamente per aere, natura e favella, ma per tendenze e spiriti
generosi di patria. La Francia v'era accampata. Da Bastia e Ajaccio
in fuori dove l'impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si
diceva d'Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava
ricongiungersi alla gran Madre. Il Centro dell'Isola, dov'io feci
una breve corsa con Antonio Benci, toscano, collaboratore
dell'Antologia e ricovratosi, per minaccia di persecuzioni, in
Corsica, guardava unanime ai Francesi come a nemici. Quei ruvidi ma
buonissimi montanari, armati quasi tutti, non parlavano che di
recarsi a combattere nelle Romagne; e c'invocavano Capi. Leali,
ospitali, indipendenti, gelosi oltremodo delle loro donne, avidi
d'eguaglianza e sospettosi del forestiero per temenza di violata
dignità, ma fraterni a chi stende loro la mano come d'uomo a uomo e
non come d'incivilito a selvaggio, vendicativi ma generosamente e di
fronte e avventurando nella vendetta la vita, quei Corsi del centro
mi sono tuttavia un ricordo d'affetto e di speranza ch'essi non
saranno sempre divelti da noi. La Carboneria, recatavi dai profughi
napoletani, era allora dominatrice dell'Isola, e i popolani ne
facevano quel che ogni uomo dovrebbe fare d'una associazione
liberamente accettata, una specie di religione. Come alla vigilia
d'una grande impresa, molti i quali avevano giurato vendetta l'un
contro l'altro, si riconciliavano in essa. N'era capo venerato dagli
isolani un Galotti, lo stesso che riconsegnato al tiranno di Napoli
da Carlo X stava a rischio di morte, quando la rivoluzione di luglio
lo rivendicò a libertà. Conobbi con lui La Cecilia ed altri
proscritti del mezzogiorno d'Italia, convenuti da più punti
nell'isola, pel disegno dei miei nuovi amici politici.
Ed era di recarsi, come dissi, nel Centro, ma capitanando una
colonna di due o più migliaja di Corsi ch'erano ordinati e con armi.
Mancava il danaro pel noleggio dei legni e per un lieve sussidio da
lasciarsi alle famiglie povere degli isolani che doveano seguirci. E
questo danaro ch'era stato, a quanto dicevano, sacramentalmente
promesso da uomini legati a un Bonnardi prete patriota e affigliato
di Buonarroti, non venne mai. Due dei nostri, Zuppi e un Vantini
dell'Elba che fu poi fondatore di parecchi alberghi in Londra ed
altrove, furono inviati al Governo Provvisorio di Bologna a
offrirgli l'ajuto e chiedergli la somma indispensabile, e da quel
Governo inetto che non fidava se non nella diplomazia e s'atterriva
dell'armi ebbero risposta di stranieri barbari: chi vuole la libertà
se la compri. D'indugio in indugio, l'intervento Austriaco
riconquistò nella prima metà di marzo le terre insorte ai padroni.
Sfumata ogni speranza d'azione e consunti i pochi mezzi ch'io aveva,
lasciai la Corsica e mi condussi in Marsiglia dove mi richiamava, in
nome della famiglia, lo zio.
E in Marsiglia ripigliai l'antico disegno di Savona, la fondazione
della Giovine Italia. V'affluivano gli esuli da Parma, da Modena,
dalle Romagne, oltrepassando il migliajo. Frammisto ad essi, conobbi
in quell'anno i migliori, Nicola Fabrizi, Celeste Menotti fratello
del povero Ciro, Angelo Usiglio, Giuseppe Lamberti, Gustavo Modena,
L. A. Melegari, Giuditta Sidoli, donna rara per purezza e costanza
di principii, e altri molti, giovani, ardenti, capaci e tutti
convinti degli errori commessi e ch'io aveva in animo di
distruggere. Erano elementi preziosi al lavoro, e taluni d'essi lo
provarono all'Italia negli anni che seguirono. Ci affratellammo
della saldissima tra le amicizie, che è quella santificata
dall'unità d'un intento buono: amicizia che con alcuni, come con
Nicola Fabrizi, vive anch'oggi carissima, con altri, come Lamberti,
non fu interrotta se non dalla morte, con nessuno fu da me primo
tradita. Abbozzai le norme dell'Associazione e trasmisi cenno delle
mie intenzioni ai giovani amici di Genova e di Toscana.
Intanto nell'aprile di quell'anno, morto Carlo Felice, sottentrava
re nei dominî Sardi il cospiratore del 1821, Carlo Alberto, e con
lui fra i deboli che abbondavano ed abbondano, un'onda di speranze
che la idea del cospiratore si tradurrebbe in azione dal re.
Dimenticavano che la sua non era idea, ma solamente velleità
d'ambizione, e che il pericolo di perdere la piccola corona lo
ritrarrebbe dal tentare coll'ardire necessario la grande. Il sogno a
ogni modo affascinava le menti, e mi fu risposto che la mia proposta
era buona, ma riuscirebbe importuna e non troverebbe seguaci se non
quando cadessero le illusioni sul nuovo re.
Da quelle risposte germogliò in me il pensiero di scrivere a Carlo
Alberto per via di stampa.
Io non credeva allora nè credo in oggi che possa dalla Monarchia
venir salute all'Italia, cioè all'Italia com'io la intendo e la
intendevamo noi tutti pochi anni addietro: Una, libera, forte,
indipendente da ogni supremazia straniera e morale e degna della
propria missione. Nè il presente mi costringe finora a mutare
avviso. La Monarchia Piemontese non avrebbe mai preso l'iniziativa
del nostro moto, se l'uomo del 2 dicembre non le profferiva l'ajuto
de' suoi eserciti e Garibaldi coi cinque sesti degli uomini di parte
repubblicana non le profferivano cooperazione; or chi mai poteva
prevedere cose siffatte? E nondimeno, la Monarchia Piemontese ci
darà - se pur mai - una Italia smembrata di terre ch'erano, sono e
saranno sue concesse, in compenso ai servigi resi, alla dominazione
straniera e serva aggiogata della politica francese e disonorata per
alleanze funeste col dispotismo e debole e corrotta in sul nascere e
diseredata d'ogni missione e coi germi delle risse civili e delle
autonomie provinciali risorti. Oggi e mentr'io scrivo il mal governo
inerente all'istituzione monarchica prepara rapidamente una crisi di
separatismo nel mezzogiorno d'Italia che s'era affacciato alla nuova
vita ebbro d'Unità e del grande ideale di Roma. Ma se l'Unità
Monarchica è oggi pregna di pericoli, era, quand'io deliberai di
scrivere quella Lettera e per un uomo della tempra di Carlo Alberto,
una assoluta impossibilità. Scrivendo a lui ciò ch'egli avrebbe
dovuto trovare in sè per fare l'Italia io intendeva semplicemente
scrivere all'Italia, ciò che gli mancava per farla. Mal dunque
s'apposero gli uomini i quali si fecero più tardi un'arme di quello
scritto sia per giustificare, coll'esempio altrui, sè stessi della
diserzione dalla bandiera, sia per accusarmi d'incertezza o
d'arrendevolezza soverchia nelle dottrine. Se non che a me importa
poco oggimai dell'opinione degli uni o degli altri; e solamente per
la stima ch'io serbo profonda all'ingegno suo e alla sua tenacità di
propositi, mi dolse trovare fra gli ultimi Carlo Cattaneo(3).
A lui vorrei ricordare, senza rimprovero ma perch'ei non
dimenticasse come la necessità sia talora padrona di tutti noi,
ch'egli repubblicano come io sono e convinto che l'intervento
monarchico avrebbe sviato l'insurrezione dal segno, abdicò nondimeno
nel 1848 il potere - quando compito il trionfo con sole forze di
popolo, egli era, per l'energica condotta del Comitato di guerra da
lui presieduto, moralmente padrone dei combattenti lombardi - in
mano d'uomini ch'ei pur disprezzava inetti e traditori anzi tratto
del concetto della Nazione. Quanto a me individualmente - e sia
detto una volta per sempre - la teoria politica che dice a un uomo
bambolo in fascie: tu regnerai dall'alto, impeccabile sempre e
inviolabile e solamente combattuto ne' tuoi Ministri, sullo sviluppo
della vita d'una Nazione fidato in tutte le sue manifestazioni al
principio d'elezione, mi pare più che errore, contradizione e follìa
che condanna il popolo a retrocedere o agitarsi perennemente e
periodicamente a nuove rivoluzioni. E sparirà, quando vinte la
servilità e la paura che signoreggiano l'anime nostre, la
democrazia, ch'oggi abbiam sulle labbra, entrata davvero nei nostri
cuori c'insegnerà che l'onesto operajo non è da meno d'un
discendente di dieci generazioni di re - quando il tocco di mano del
secondo non ci parrà evento più rilevante nella nostra vita che non
quello del primo - quando sapremo che lo Stato deve governarsi come
si governa da ciascun di noi l'amministrazione delle faccende
private, scegliendo, ovunque si trovino unite, probità e capacità
intellettuale.
Scrissi la lettera al Re, e la lessi, prima di stamparla, a un solo
fra gli Italiani coi quali era in contatto, Guglielmo Libri,
scienziato illustre, capo in quell'anno d'una cospirazione contro il
Gran Duca in Toscana, accusato, credo a torto, di tradimento, ma
tratto più dopo, e mi duole il dirlo, dal materialismo che stava in
cima alle sue dottrine e da un esagerato scetticismo su tutti uomini
e su tutte cose, a tradire la dignità dell'anima e i doveri ch'egli,
ingegno potente davvero, dovea compiere verso il paese. Il Libri
lodò, ma cercò svolgermi dal pubblicare la Lettera, schierandomi
innanzi, conseguenze inevitabili, l'esilio perpetuo, l'abbandono
d'ogni cosa più cara, le delusioni che mi sarebbero compagne sulla
via. E m'esortava a lasciare la politica militante e consacrarmi
alla Storia.
Fui ribelle ai consigli e stampai.
Fu quello il mio primo scritto politico. Non serbo, e non meritavano
d'essere serbate, alcune pagine ch'io aveva scritte prima in
francese, col titolo la Notte di Rimini, maledizione alla Francia di
Luigi Filippo, che il National pubblicò mutilate - (1861).
A CARLO ALBERTO DI SAVOJA
UN ITALIANO(4).
Se no, no!
Sire,
S'io vi credessi re volgare, d'anima inetta o tirannica, non
v'indirizzerei la parola dell'uomo libero. I re di tal tempra non
lasciano al cittadino che la scelta fra l'armi e il silenzio. Ma
voi, Sire, non siete tale. La natura, creandovi al trono, v'ha
creato anche ad alti concetti ed a forti pensieri; e l'Italia sa che
voi avete di regio più che la porpora. I re volgari infamano il
trono su cui si assidono, e voi, Sire, per rapirlo all'infamia, per
distruggere la nube di maledizioni di che lo aggravano i secoli, per
circondarlo d'amore, non avete forse bisogno che d'udire la verità;
però, io ardisco dirvela, perchè voi solo degno estimo di udirla, e
perchè nessuno tra quanti vi stanno attorno può dirvela intera. La
verità non è linguaggio di cortigiano: non suona che sul labbro di
chi nè spera, nè teme dell'altrui potenza.
Voi non giungete oscuro sul trono. E vi fu un momento in Italia,
Sire, in cui gli schiavi guardarono in voi siccome in loro
liberatore; un momento che il tempo v'aveva posto dinanzi, e che,
afferrato, dovea fruttarvi la gloria di molti secoli. E vi fu un
altro momento in cui le madri maledissero al vostro nome, e le
migliaja vi salutarono traditore, perchè voi avevate divorata la
speranza e seminato il terrore. Certo, furono momenti solenni, e voi
ne serberete ancora gran tempo la memoria. Noi abbiamo cercato sul
vostro volto i lineamenti del tiranno; e non v'erano; nè l'uomo che
avea potuto formare un voto santo e sublime potea discendere a un
tratto fino alla viltà della calcolata perfidia. Però abbiamo detto:
nessuno fu traditore fuorchè il destino. Il principe lo intravide da
lunge, e non volle affidare all'ostinazione la somma delle speranze
italiane. Forse anche, l'alto animo suo rifuggì dall'idea che la
calunnia potesse sfrondare il serto più immacolato, e mormorare: il
principe congiurò la libertà della patria per anticiparsi d'alcuni
anni quel trono che nessuno potea rapirgli.
Così dicemmo: ora vedremo, se c'ingannammo: vedremo se il re
manterrà le promesse del principe.
Intanto le moltitudini non s'addentrano nelle intenzioni: afferrano
l'apparenza delle cose, e insistono sulle prime credenze. Ora quel
tempo è passato; ma le speranze, i rancori, i sospetti e le simpatie
vivono tuttavia. Non v'è cuore in Italia, che non abbia battuto più
rapido all'udirvi re. Non v'è occhio in Europa che non guardi ai
vostri primi passi nella carriera che vi s'apre davanti.
Sire, è forza dirlo: questa carriera è difficile. Voi salite sul
trono in un'epoca, della quale non saprei scorgere la più perigliosa
pei troni negli annali del mondo.
Al di fuori, l'Europa divisa in due campi. Dappertutto il diritto e
la forza, il moto e l'inerzia, la libertà e il dispotismo a
contrasto. Dappertutto gli elementi del vecchio mondo, e quei d'un
nuovo mondo serrati a battaglia ultima, disperata, tremenda. I
popoli e i re han rinnegato i calcoli della prudenza: han gettata la
spada nelle bilancie dell'umanità: han cacciata via la guaina.
Quarant'anni addietro i re dominavano i popoli col solo terrore
delle bajonette, e i popoli non guerreggiavano i re se non coll'armi
del pensiero e della parola. Ora siamo a tempi nei quali la parola
s'è fatta potenza, il pensiero e l'azione son uno, e le bajonette
non valgono, se non son tinte di sangue. Da entrambe le parti è
forza e immutabilità di proposito; ma i re combattono per conservare
le usurpazioni puntellate dagli anni, i popoli combattono per
rivendicare i diritti voluti dalla natura. Per gli uni stanno le
arti politiche, le abitudini, la ferocia, e, per ora, gli eserciti.
Per gli altri, l'entusiasmo, la coscienza, una costanza a tutta
prova, la potenza delle memorie, dieci secoli di tormenti e la
santità del martirio. I gabinetti diffidano l'uno dell'altro, i
popoli si affidano ciecamente, perchè i primi vincola l'interesse, i
secondi affratella la simpatia. Al fondo del quadro una guerra
inevitabile, perchè tutti gli altri modi di controversia sono
oggimai esauriti: universale, perchè ai popoli e ai re la causa è
una sola: decisiva e d'estinzione, perchè guerra non d'uomini ma di
principî.
Al di dentro un fremito sordo, un'agitazione indistinta, un disagio
in tutte le classi, perchè la miseria dei molti non è che velata
dalla opulenza dei pochi; e i pochi si stanno anch'essi diffidenti
del presente, e incerti dell'avvenire. Le intraprese commerciali
s'arrestano davanti a un orizzonte che muta ad ogni istante: il
commercio marittimo vuol pace al di dentro, e securità al di fuori,
e noi non abbiamo certezza nè dell'una nè dell'altra. Quindi le
sorgenti della circolazione e della vita sociale interrotte, come la
circolazione del sangue si aggela per terrore nei corpi umani;
quindi una forte tendenza a mutamenti, perchè ogni mutamento cova
sempre l'idea del meglio, e ai popoli, come agl'individui,
l'incertezza è morte continua: stato violento da cui conviene uscire
a qualunque patto. Tra noi, come tra gli altri, l'ardore di nuove
cose s'appoggia su bisogni innegabili; l'aspettazione è rinforzata
dalle antiche promesse. E le promesse son dimenticate da' principi,
non mai dai popoli. Poi la potenza degli esempî, le fresche
speranze, i rancori novissimi, e l'ira, stan presso a ridurre il
desiderio all'azione.
Per circostanze sì fatte, voi salite sul trono; sopra un trono che
nè prestigi di gloria, nè memorie solenni fanno venerato o temuto;
sopra un trono composto di due metà ostili l'una all'altra congiunte
a forza, e tendenti pur sempre a separazione.
Che farete voi, Sire?
Volete voi essere uno dei mille? Volete che il vostro nome passi fra
i molti che ogni secolo consacra all'esecrazione o al disprezzo?
Due vie vi si affacciano. Due vie fra le quali i re si dibattono da
quarant'anni. Due sistemi tra i quali oscilla tuttavia il
dispotismo, rappresentati da gran tempo in Europa da due potenze di
primo rango, l'Austria e la Francia, e che nel Piemonte importano
anche oggidì l'alleanza coll'una o coll'altra.
La prima è la via del terrore.
Terrore, Sire! Il vostro cuore l'ha già rinnegato. La è carriera di
delitto e di sangue; nè voi vorrete farvi il tormentatore dei vostri
sudditi. Dio vi ha posto al sommo grado della scala sociale, vi ha
cacciato al vertice della piramide. I milioni stanno d'intorno a
voi, invocandovi padre, liberatore. E voi! voi darete ferri? porrete
il carnefice accanto al trono? inalzerete la mannaja tra il presente
e l'avvenire, e ricaccerete l'umanità nel passato?
Sire! l'umanità non si respinge col palco e la scure. L'umanità si
arresta un istante, tanto che basti a pesare il sangue versato, poi
divora i satelliti, il tiranno e i carnefici.
Pure talvolta, nell'uomo che si mette per sì fatta via, i cortigiani
nutrono una speranza che il solo apparato del terrore basti a
soffocare i germi della resistenza: mostratevi forte, dicono, e gli
altri saranno vili.
Sire! Un tempo, quando l'ignoranza e la superstizione incatenavan le
menti e nessuno guardava al passato o nell'avvenire, e la causa dei
popoli non contava trionfi, il terrore agli occhi del volgo valeva
potenza. Ora, ognuno sa che il terrore, eretto in sistema, è una
prova di debolezza; un riflesso di paura, che rode l'anima a chi lo
spiega; una necessità di uomo disperatamente perduto, che non ha se
non quest'una via di dubbia salute. Oggimai la minaccia non basta. È
d'uopo essere e mostrarsi scellerato; vivere e morire tiranno, porsi
la benda sugli occhi, e inoltrarsi rotando la sciabola a destra e a
sinistra. È d'uopo cacciar la maschera d'uomo e tuffarsi nel sangue.
Sire, farete voi questo? e facendolo, riescirete? e per quanto? E'
vi son uomini, Sire, che han giurato di non riposarsi che nel
sepolcro, o nella vittoria. Li spegnerete voi tutti? Soffocherete
colle bajonette i moti popolari, ch'essi vi susciteranno?
Sire! il voto di Nerone tradiva l'impotenza della tirannide. Il
sangue vuol sangue. Ogni vittima frutta il vendicatore. Mozzerete
dieci, venti, cinquanta teste; insorgeranno a migliaja: l'idra della
vendetta non si spegne nei popoli, come negl'individui; e il ferro
del congiurato non è mai sì tremendo, come quando è aguzzato sulla
pietra sepolcrale del martire.
O tenterete ridurli all'impotenza coll'arte? Dura e difficile
impresa. Or comprate la plebe coll'oro, la milizia coi gradi.
Cacciate i delatori nelle famiglie; addormentate col lusso e la
corruttela le classi agiate dei cittadini; tenete viva la
dissenzione fra l'uomo d'arme e l'uomo del popolo; esplorate i moti,
le parole e i gesti; ma indefessamente, senza rallentare un istante,
senza arrestarvi d'un passo davanti all'ombra dei traditi, perchè
dove un minuto conceda agli schiavi d'intendersi, voi siete perduto.
Ma, e l'anime di ferro che non riconoscono despota abbastanza
potente per atterrirle, nè abbastanza ricco per comprarle; l'anime
che non respirano se non un'idea, che non si vendono se non alla
morte, non sono esse? Pochissime, è vero; pur sono, e consacrate
dalla sciagura ad una santa missione, e tremende d'influenza e di
forza, perchè la vera energia è magnetismo sulle moltitudini. Le
bajonette che oggi si appuntano al loro petto, domani si ritorcono
al vostro; nè dovete obliare che, sotto l'assisa del soldato,
battono cuori di figlio, di fratello, d'amico. Pur conterrete le
masse, struggerete le rivoluzioni nei loro principî! Ma, Sire! è
parola dura a udirsi, e durissima a pronunciarsi da chi abborre, il
delitto. Pure soffrite ch'io la pronunci questa parola: chi vi
salverà dal pugnale? - Deludete anche questo; siate immortale, Sire!
e la esecrazione delle generazioni? e la infamia ne' secoli? Chi vi
salverà dal pugnale dell'anima? Le censure, le proscrizioni, gli
esilî? Ma il mondo è troppo vasto perchè non rimanga un angolo allo
scrittore; ma nè potenza di tirannide, nè viltà di servaggio, può
spegnere la memoria, o sotterrar sotto le ruine del presente la voce
dell'avvenire. Il senato mandava al rogo le storie di Cremuzio
Cordo, e la grand'anima di Tacito raccoglieva da quelle fiamme la
scintilla che fe' viva ne' suoi annali l'infamia dei tiranni di
Roma. O è essa l'infamia un peso divenuto così leggiero per la testa
dei re, che non degnino di metterla a calcolo?
La seconda via che i cortigiani vi proporranno è quella delle
concessioni.
Mutamenti nelle amministrazioni, riduzioni economiche, miglioramenti
nei codici, distruzioni d'alcuni abusi, allentamento di freno; una
riforma, insomma, lenta, temperata, insensibile; ma senza
guarentigia d'istituzioni, senza patto fondamentale, senza
dichiarazioni politiche, senza una parola che riconosca nella
nazione un diritto, una sovranità, una potenza.
Così voi non vi appoggiate sopra alcun dei partiti che dividono la
nazione, nè sopra i tristi che speculano sul re tiranno, nè sui
buoni che invocano il re cittadino. Così voi vi inimicate il Tedesco
senza riconciliarvi l'Italiano. Così voi mostrate che non avete nè
l'energia del delitto, nè la coscienza della virtù.
Sire! non basta: voi differite forse di alcuni momenti la vostra
ruina, ma la fate più certa, isolandovi.
E vi conviene, seguendo cotesta via, conciliare a un tempo colla
illimitata potenza del trono i diritti del popolo e le pretese
dell'aristocrazia, perchè voi avete bisogno del concorso di tutte le
volontà, e un solo de' grandi elementi sociali non può mancarvi
all'impresa, che non vi si attraversi nemico. Vi conviene trovar
mezzo di far rivivere la confidenza nei governati senza dar pegni di
stabilità. Vi conviene procedere per mezzo a minuzie infinite, a
interminabili particolari, a ostacoli speciali e di mille generi
senza poter ricorrere a regole generali, e pur costretto a spendervi
tanta somma di attenzione e di forze, che basterebbe a gettar le
basi d'un edifizio immortale. Vi conviene far guerra minuta, eterna,
individuale, a molti abusi introdotti nelle amministrazioni, e nei
modi governativi, e rinascenti sempre sotto altre forme, senza
troncarli tutti, e d'un colpo, alla sorgente. Vi conviene illudere i
popoli a stimarsi liberi senza fondar libertà, far sentire gli
effetti senza dar vigore di legge alle cause, sciogliere insomma il
problema difficile di appoggiarsi sovra tutte quante le molle
sociali, di giovarsi d'ognuna d'esse, di concentrarle a uno scopo
senza che alcuna preponderi un sol momento sull'altra, senza che
alcuna acquisti attività per sè stessa, e coscienza di attività.
E tutto questo perchè? perchè un incidente non preveduto, una
imprudenza, un grido proferito da un'anima fervida e intraprendente
vi sconvolga l'edifizio, che avrete penosamente inalzato? perchè un
colpo di fucile tirato imprudentemente sul Reno o sull'Alpi, rovini
i vostri progetti, precipitando le cose e gli uomini a circostanze
violenti, a condizioni di rapidità incalcolabile? Sire, il tempo
mancò a Bonaparte. Chi può afferrare il tempo ed imporgli: Tien
dietro a me? Questa vostra, Sire, è opera di pace; e v'è potenza
umana o divina in Europa, che possa oggimai decretar pace d'un anno,
d'un mese, d'un giorno solo?
Sire, non vi lasciate illudere dai cortigiani. Essi vi dipingeranno
lo stato queto al di dentro, sicuro al di fuori. Essi mentono al re;
voi passeggiate sopra un vulcano. Guardatevi intorno; scendete nel
vostro cuore. Voi non potete fidar nel presente; voi siete incerto
dell'avvenire. Voi avete a temer di tutto e da tutti; non avete
speranza che in voi medesimo; non potete aver salute che in una
forza fisica e morale dipendente dall'opinione.
Or, come conquisterete voi l'opinione? Come farete a non conculcare
il popolo inalzando d'un grado l'aristocrazia, e a non irritare
l'orgoglio dell'aristocrazia mescolando il popolo ne' suoi ranghi, e
ne' suoi favori? Come farete a sradicare gli abusi, e a non crearvi
nemici implacabili tutti coloro, e son molti, che ingrassano negli
abusi? Sperate compensar l'odio loro coll'amore delle moltitudini? -
Gli amori delle moltitudini sono brevi e mutabili, quando non
poggian sopra qualche cosa di determinato e di certo, che vegli
perenne alla loro tutela, che parli ai loro sensi ogni giorno. Le
moltitudini vi applaudiranno un momento, e nel secondo grideranno
contro di voi, perchè in fatto di riforme, l'universale ha nome di
sapiente giustizia, il particolare ha nome e carattere di
arbitrario; perchè i mutamenti, le riduzioni, le destituzioni
d'impiegati prevaricatori che sotto libere leggi arridono al popolo,
assumono apparenza di parzialità e di capriccio ogni qual volta
mancano al popolo le sole vie di verificazione, norme certe
invariabili di giudizio a' casi particolari, e pubblicità di
processo.
Sire, i governi camminano sui principî, non sulle eccezioni.
Non v'è esistenza senza un modo certo d'esistenza. Non v'è sistema
durevole, se non poggia sopra una serie d'idee ordinate, e vincolate
l'una all'altra, atte a ridursi a dichiarazione. In altri termini, i
governi un tempo posavano sopra una volontà disordinata, ajutata da
una cieca potenza; ora vivono di logica.
Sapete voi qual suffragio otterrete? E' v'è una gente in Italia,
come in ogni contrada, che non sa, nè cura di libertà consacrata da
istituzioni. Una gente fredda, calcolatrice e paurosa, per avarizia,
di ogni rapido mutamento, che ama sovra ogni altra cosa la pace,
fosse anche pace di cimitero. Ne avrete il voto alla timida e lenta
carriera che forse imprendete. Ma, Sire, è voto che non pesa, nella
bilancia dello Stato; voto sterile, nudo, impotente all'azione. È
classe inerte per calcolo e per abitudine; non ha dottrine e non
s'adopera a sostenerle; non compie rivoluzioni, ma non le strugge,
non contende con esse. Voi ne avrete lodi e adulazioni, finchè le
lodi non fruttan pericoli; ma nè sacrifici nè devozione a fronte di
una potenza contraria. Una bandiera che sventoli all'aure, un grido
che intimi: pronunciate: chi non è meco è contro di me; e questa
gente si ritrarrà dall'arena ad aspettare il nome che la fortuna
saluterà vincitore.
Sire! da gente sì fatta non pende il destino della cosa pubblica. Il
nerbo della società, l'azione, l'opera, la potenza vera sta altrove;
nel genio che pensa e dirige, nella gioventù che interpreta il
pensiero e lo commette all'azione, nella plebe che rovina gli
ostacoli che si attraversano.
Il genio, Sire, è scintilla di Dio, indipendente e fecondo com'esso;
nè si vende, nè si stringe a individui, ma provvede alle razze, e
interpreta la natura. La gioventù è bollente per istinto, irrequieta
per abbondanza di vita, costante ne' propositi per vigore di
sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo. La
plebe è tumultuante per abito, malcontenta per miseria, onnipotente
per numero.
Or, genio, gioventù e plebe stanno contro di voi; non s'acquetano a
poche concessioni, dono d'uomo, a cui niuna legge vieta rivocarlo il
dì dopo; non s'appagano di riforme che fruttano ricchezza o potenza
all'individuo che le promuove; bensì voglion riforme che fruttino
tutto alla nazione e null'altro che amore a chi le propone. Vogliono
riconoscimento dei diritti dell'umanità manomessi ad arbitrio per
tanti secoli; vogliono uno stato ordinato per essi e con essi; uno
stato la cui forma corrisponda ai bisogni ed ai voti sviluppati dal
tempo; vogliono leggi, vogliono libertà. Il genio ne ha letto da
gran tempo il precetto nella natura delle cose e nei principj di
universale progresso sviluppati nella storia coi fatti; la gioventù
nel proprio cuore, nella coscienza di facoltà che la tirannide
condanna a giacersi inoperose, nella maestà degli esempli, sulla
tomba dei padri: la plebe nella parola dei buoni, nelle memorie,
nell'istinto potente che la suscita a moto, nella propria
tristissima condizione, e in certo suo intimo senso, davanti a cui
impallidisce sovente l'intelletto del savio.
Vogliono libertà, indipendenza ed unione. Poichè il grido del 1789
ha rotto il sonno dei popoli, hanno ricercato i titoli co' quali
potevano presentarsi alla grande famiglia europea, e non hanno
trovato che ceppi; divisi, oppressi, smembrati, non han nome nè
patria; hanno inteso lo straniero a chiamarli iloti delle nazioni,
l'uomo libero a esclamare visitando le loro contrade: non è che
polvere! Han bevuto intero il calice amaro della schiavitù; han
giurato di non ricominciarlo.
Vogliono libertà, indipendenza ed unione; e le avranno, perchè han
fermo di averle. Dieci secoli di servaggio pesavano sulle lor teste
e non han disperato. Han guardato indietro ne' tempi che furono,
hanno rimescolata la polvere delle sepolture, e ne hanno
dissotterrato memorie di grandezza da lungo tempo obliate, memorie
d'antiche imprese, di leghe terribili, alle quali non mancò che
costanza. I bandi di Giovanni d'Austria e di Nugent, le bandiere di
Bentink, 1809 e 1814, insegnarono ad essi il sentimento della loro
potenza. Poi il cannone di Parigi, di Brusselle e di Varsavia ha
mostrato che questa è potenza invincibile. Ora ad un popolo che ha
fede e potenza che cosa manca per rigenerarsi fuorchè l'occasione?
E pensate voi che poche concessioni addormentino i popoli, o non
piuttosto ch'esse svelino la debolezza dei dominatori? Pensate che
rimovano per lungo tempo quell'occasione o non piuttosto
l'affrettino? Siete cinto da tutte parti di paesi italiani, che
anelano al momento di ritentare le vie fallite una volta per
inesperienza di cose, per tradimento straniero; e sperate che
manchino occasioni? Ponete che essi afferrino il tempo; e, o le armi
tedesche non verranno a combatterli e il contatto di terre libere
sommoverà i vostri sudditi, o verranno, e chi vi assicura che i
fratelli contempleranno inerti due volte la ruina de' loro fratelli?
Sire! le vostre forze si logoreranno in una lunga e penosa guerra
contro la vostra situazione, ma non farete retrocedere il secolo,
non ispegnerete un partito, che niuna cosa al mondo può spegnere.
Trascinandovi tra l'odio e l'entusiasmo, procederete in mezzo
all'universale freddezza, nojoso agli uni come riformatore
imprudente, sospetto agli altri come perfidamente politico; e gli
uni e gli altri vi accuseranno di debolezza; accusa mortale ai re,
che non posson vivere se non di potenza o d'amore. Ogni concessione
dà campo all'opre, speranza di meglio, coscienza delle proprie forze
e del proprio diritto. Il popolo si avvezza a vedersi esaudito, e le
espressioni dei bisogni e dei desiderî si fa più imperiosa ogni
giorno. Intanto gli uomini della libertà spiano le circostanze,
profittano d'ogni errore, di ogni incertezza a screditarvi nelle
moltitudini e trarvi a partiti estremi. Lasciateli fare, voi siete
perduto. Opponetevi, siete tiranno, e tiranno tanto più increscioso
ed esoso, quanto più le prime concessioni presagivano ai cittadini
moderazione. A qualunque via vi atteniate vi concitate addosso l'ira
o il disprezzo, perchè non potete concedere più che non vorreste
senza debolezza, nè retrocedere senza delitto; perchè o vi
abbandonate al torrente, o smarrite lo scopo senza neppur
raccogliere il merito dell'iniziativa; o tentate arrestarlo, e Dio
ha dato il moto alle cose, ma nè Dio stesso potrebbe forse
sospenderlo. Davanti alle esigenze e ai pericoli, nella
impossibilità di adottare determinazioni energiche e decisive, voi
siete forzato a ordinare una lotta coperta contro l'opere vostre,
contro le speranze suscitate da voi; ritorre coll'arte ciò che avete
dato con vigore di volontà; contendere le conseguenze dei principî
sanciti tacitamente ne' primi giorni del regno vostro. Ed è sistema
in cui ricaddero necessariamente i re ogni qual volta non seppero
esser tiranni, nè liberatori; ma fruttò sciagure irreparabili a
tutti, esilio ad alcuni; - a due il patibolo.
E allora, quando minacciato da ogni parte e spaventato
dall'isolamento, in cui v'ha messo una politica incerta, vorrete
salvarvi e null'altro, cercherete voi un rifugio nell'ajuto
straniero? Invocherete le baionette tedesche a puntellarvi il trono
vacillante? Fatelo: giurate sommessione ad un nemico che avete sul
principio sprezzato; fatevi schiavo dell'estero; ma badate, Sire!
non tutte le provincie italiane son prive di mezzi per difendersi
dalle aggressioni, come le popolazioni della Romagna; non tutte le
occasioni troveranno il popolo inerte, e sviato da' preparativi di
guerra per fede cieca in un principio che i governi han mille volte
violato; badate che i popoli imparano più da una sconfitta, che non
i re dal trionfo; badate che quando la lotta è da nazioni ad
eserciti, due vittorie non bastano al assicurare la terza. O forse
cercherete una condizione di vita ne’ trattati che avrete(5)]
stretti colla Francia? Sire, un'ora crea i patti, un'ora li rompe,
dacchè fra i calcoli diplomatici e le risultanze, fra i trattati e
la loro durata si è frapposto gigante l'arbitrio d'un terzo elemento
sociale, che giacque inerte per molti secoli, contro il quale le
alleanze, le convenzioni hanno perduta ogni realità di vigore.
Stringetevi a lega cogli uomini che governano oggi la Francia; chi
vi assicura che l'intervento popolare non rovescierà quegli uomini,
e la vostra sicurezza con essi? Credete voi che i cadaveri di
diecimila martiri non abbiano a servire che a sorreggere lo sgabello
di sette ministri? Il ministro Perier, Sire, ha stretto un patto
coll'infamia, non coll'eternità. Ma la nazione francese non ha
segnato quel patto; la nazione francese ha suggellato col proprio
sangue l'alleanza de' popoli. Iddio creò in sei giorni l'universo
fisico; la Francia in tre ha creato l'universo morale. Come Dio,
essa si è riposata e riposa, perchè l'immensa azione esaurisce per
un tempo le forze; ma credete voi che il leone sia spento perchè non
n'udite il ruggito? Attendete un mese e l'udrete: attendete un anno,
e le associazioni che or passano inosservate avranno generata la
grande federazione nazionale; le società popolari che or procedono
mute, formeranno la montagna del secolo decimonono; la Francia avrà
avuto il suo 10 agosto. La rivoluzione francese, Sire, non è che
incominciata. Dal terrore, e da Napoleone in fuori, la rivoluzione
del 1830 è destinata a riprodurre, su basi più larghe, tutti i
periodi di quella del 1789.
Sire! a voler vivere una vita potente e sicura, voi dovete
edificare, anzichè sul presente, sull'avvenire; e l'avvenire è prima
d'ogni altra cosa la guerra. Or sapete voi che cos'è per la Francia
la guerra? È guerra di propaganda, guerra altamente rivoluzionaria,
guerra europea, lunga, feroce; guerra dei due principî che da secoli
si contendono l'universo; non v'è guerra possibile per la Francia
ove non sia nazionale, ove non s'appoggi alle passioni delle
moltitudini, ove non si alimenti d'uno slancio comunicato ai
trentadue milioni che la compongono. Non v'è slancio possibile per
la Francia se non si rinnovellano gli uomini, i sistemi e le cose;
se non si commuove la gioventù con la gloria, e il popolo con una
vasta idea d'incremento e d'utile gigantesco. Ma la gloria de'
giovani sta nel grido che i loro padri bandirono al mondo: guerra ai
re! libertà e pace ai popoli! E l'incremento che può sommuovere la
nazione è riposto nella fratellanza colle nazioni confinanti,
nell'unità d'interessi collocata su basi perpetue, nel predominio
politico consecrato dalla vittoria e dalla riconoscenza dei beneficî
prestati. Quindi la necessità di chiamare il popolo e la gioventù ad
una parte più attiva nella somma delle cose; quindi inevitabilmente
un ritorno, se non alle forme, almeno allo spirito repubblicano. E
quando, spinti dall'impulso di diffusione inerente allo spirito
repubblicano, costretti dal prepotente interesse di guerra, gli
eserciti francesi varcheranno l'Alpi ed il Reno; quando lo stendardo
tricolore s'affaccierà alle vostre contrade promettendo rapida e
intera quella libertà che voi avrete lasciato intravvedere soltanto
da lungi, che farete voi, Sire? Darete voi allora come dono regale
ciò che i popoli insorti potranno ritorvi coll'armi? O condurrete
gli schiavi a combatter co' popoli, colla Francia, col secolo? Sire,
guardate al 1798; e la libertà era allora in Italia opinione
d'individui; ora è passione di moltitudini; la libertà sorgeva nuova
a tutti, incognita a molti, sospetta a quanti, nati, educati sotto
condizioni contrarie, aborrivano da un mutamento, a cui non potevano
nè sapevano partecipare: ora è sospiro di mezzo secolo, idea
famigliare, cresciuta, radicata negli animi per studî, per
educazione paterna, e memorie dei primi anni, pensiero rinfiammato
dalla vendetta, santificato dal martirio di mille forti, dal gemito
di mille madri.
Riassumete, Sire! voi siete a tale, che il sistema del terrore vi
uccide, dichiarandovi infame; ed il sistema delle concessioni
v'uccide, svelandovi debole; siete a tale, che non potete durare
esecrato, nè cader grande.
Sire! sono queste le sole vie che vi avanzano? Siete voi tale da non
poter mietere che l'odio o il disprezzo?
E' v'ha una terza via, Sire, che conduce alla vera potenza e alla
immortalità della gloria. V'ha un terzo alleato più sicuro e più
forte per voi che non sono l'Austria e la Francia. E v'ha una corona
più brillante e sublime che non è quella del Piemonte, una corona
che non aspetta se non l'uomo abbastanza ardito per concepire il
pensiero di cingerla, abbastanza fermo per consecrarsi tutto alla
esecuzione di siffatto pensiero, abbastanza virtuoso per non
insozzarne lo splendore con intenzioni di bassa tirannide.
Sire! non avete mai cacciato uno sguardo, uno di quegli sguardi
d'aquila che rivelano un mondo, su questa Italia, bella del sorriso
della natura, incoronata da venti secoli di memorie sublimi, patria
del genio, potente per mezzi infiniti, ai quali non manca che
unione, ricinta di tali difese che un forte volere e pochi petti
animosi basterebbero a proteggerla dall'insulto straniero? E non
avete mai detto: la è creata a grandi destini? non avete contemplato
mai quel popolo che la ricopre, splendido tuttavia malgrado l'ombra
che il servaggio stende sulla sua testa, grande per istinto di vita,
per luce d'intelletto, per energia di passioni, feroci o stolte,
poichè i tempi contendono l'altre, ma che sono pur elementi dai
quali si creano le nazioni; grande davvero, poichè la sciagura non
ha potuto abbatterlo e togliergli la speranza? Non v'è sorto dentro
un pensiero: traggi, come Dio dal caos, un mondo da questi elementi
dispersi; riunisci le membra sparte e pronuncia: È mia tutta e
felice; tu sarai grande siccome è Dio creatore e venti milioni
d'uomini esclameranno: Dio è nel cielo e Carlo Alberto sulla terra?
Sire! voi la nutriste cotesta idea; il sangue vi fermentò nelle vene
quando essa vi si affacciò raggiante di vaste speranze e di gloria;
voi divoraste i sonni di molte notti dietro a quell'unica idea; voi
vi faceste cospiratore per essa. E badate a non arrossirne, Sire!
Non v'è carriera più santa al mondo di quella del cospiratore che si
costituisce vindice dell'umanità, interprete delle leggi eterne
della natura. I tempi allora furono avversi; ma perchè dieci anni e
una corona precaria avrebbero distrutto il pensiero della vostra
gioventù, il sogno delle vostre notti? Dieci anni e una corona
avrebbero ricacciata nel fango l'anima che passeggiava sui re
dell'Europa? Onta a voi! La posterità perdona ogni cosa a un re
fuorchè la viltà; e che cosa è l'uomo che può esser grande e non è?
Quel concetto, Sire, è pur sempre il maggior titolo, l'unico forse
che voi abbiate alla stima degli uomini italiani; e voi
rinneghereste la parte che aveste in esso? Tutta l'Italia non
sarebbe che illusa? E mentre ognuno crede che Carlo Alberto ambisce
d'essere da più degli altri uomini, non avrebbe egli ambito che
pochi anni di trono prima del tempo? Per Dio, Sire, che i dominatori
de' popoli abbiano ad esser diseredati dalla natura di tutte quante
le generose passioni? Che un cuore di re non abbia a battere mai per
quanto fa battere i cuori delle migliaja? Che il sole d'Italia non
abbia a fecondare di affetti magnanimi che petti di cittadini! Che i
tiranni stranieri abbiano soli accarezzata per secoli quest'idea e
l'accarezzino tuttavia, un principe italiano non mai!
Sire! se veramente l'anima vostra è morta a' forti pensieri, se non
avete, regnando, altro scopo che di trascinarvi nel cerchio meschino
de' re che vi han preceduto, se avete anima di vassallo, allora
rimanetevi: curvate il collo sotto il bastone tedesco e siate
tiranno; ma tiranno vero, perchè un sol passo che accenniate di
muovere al di là dell'orma segnata, vi fa nemica quell'Austria che
voi temete. L'Austriaco diffida di voi; ma cacciategli ai piedi
dieci, venti teste di vittime; aggravate le catene sugli altri;
pagategli colla sommissione illimitata il disprezzo di che dieci
anni addietro vi abbeverò! Forse il tiranno d'Italia dimenticherà
che avete congiurato contro di lui: forse concederà che gli serbiate
per alcuni anni la conquista, ch'ei medita dal 1814 in poi.
Che se leggendo queste parole, vi trascorre l'anima a quei momenti,
nei quali osaste guardare oltre la signoria di un feudo tedesco; se
vi sentite sorger dentro una voce che grida: tu eri nato a qualche
cosa di grande; oh! seguitela quella voce; è la voce del genio; è la
voce del tempo che v'offre il suo braccio a salire di secolo in
secolo alla eternità; è la voce di tutta Italia, che non aspetta se
non una parola, una sola parola, per farsi vostra.
Proferitela questa parola!
L'Austria vi minaccia i dominî, minaccia Italia intera colle
pretese, colle congiure e cogli eserciti accumulati; a ingojarvi
essa non attende che un'occasione.
La Francia vi minaccia coll'energia delle moltitudini, colla
diffusione dei principî, coll'azione delle sue società, colla
necessità prepotente che, spingendola un dì o l'altro alla guerra,
la caccierà nel bivio o di perire o di eccitare i popoli alle
insurrezioni, ed appoggiarle coll'armi.
L'Italia vi minaccia col furore di libertà che la investe, col grido
delle infinite vittime, coll'ira delle promesse tradite, colle
associazioni segrete che han due volte tentata la libertà della
patria, che proseguono all'ombra, che nessuna forza può spegnere.
Sire! respingete l'Austria, - lasciate addietro la Francia, -
stringetevi a lega l'Italia.
Ponetevi alla testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera:
Unione, Libertà, Indipendenza! Proclamate la santità del pensiero!
Dichiaratevi vindice, interprete de' diritti popolari, rigeneratore
di tutta l'Italia. Liberate l'Italia dai barbari! Edificate
l'avvenire! Date il vostro nome ad un secolo! Incominciate un'era da
voi: siate il Napoleone della libertà italiana! L'umanità tutta
intera ha pronunciato: i re non mi appartengono; la storia ha
consecrato questa sentenza coi fatti. Date una mentita alla storia e
all'umanità: costringetela a scrivere sotto i nomi di Washington, e
di Kosciusko, nati cittadini: v'è un nome più grande di questi; vi
fu un trono eretto da venti milioni di uomini liberi che scrissero
sulla base: A Carlo Alberto, nato re, l'Italia rinata per lui!
Sire! La impresa può riescir gigantesca per uomini che non conoscono
calcolo se non di forze numeriche, per uomini che, a mutar
gl'imperi, non sanno altra via, che quella di negoziati e
d'ambascerie. È via di trionfo sicuro, se voi sapete comprendere
tutta intera la posizione vostra, convincervi fortemente d'esser
consecrato ad un'alta missione, procedere per determinazioni
franche, decise ed energiche. L'opinione, Sire, è potenza che
equilibra tutte le altre. Le grandi cose non si compiono coi
protocolli, bensì indovinando il proprio secolo. Il segreto della
potenza è nella volontà. Scegliete una via, che concordi col
pensiero della nazione, mantenetevi in quella inalterabilmente;
siate fermo e cogliete il tempo: voi avete la vittoria in pugno.
I Polacchi, Sire, hanno insegnato al mondo la potenza d'un popolo
che combatte per l'esistenza politica e la libertà. Suscitate
l'entusiasmo, e anche i sudditi vostri diverranno Polacchi. Cacciate
il guanto all'Austriaco, e il nome d'Italia nel campo: quel vecchio
nome d'Italia farà prodigi. Fate un appello a quanto di generoso e
di grande è nella contrada. Una gioventù ardente, animosa,
sollecitata da due passioni onnipotenti, l'odio e la gloria, non
vive da gran tempo che in un solo pensiero, non anela che al momento
di tradurlo in azione: chiamatela all'armi. Ponete i cittadini a
custodia delle città, delle campagne, delle vostre fortezze.
Liberato in tal guisa l'esercito, dategli il moto. Riunite intorno a
voi tutti coloro che il suffragio pubblico ha proclamati grandi
d'intelletto, forti di coraggio; incontaminati d'avarizia e di basse
ambizioni. Ispirate la confidenza nelle moltitudini, rimovendo ogni
dubbiezza intorno alle vostre intenzioni, e invocando l'ajuto di
tutti gli uomini liberi.
Gli uomini liberi, Sire, in Italia son molti; hanno pur potenza,
confessatelo, di farvi tremare sul trono; hanno potenza di
rovesciare tutti quei troni che non s'appoggiano sulle bajonette
straniere. Caddero, Sire, ma voi sapete il perchè: caddero traditi,
venduti, perchè lottavano coi governi, e combattevano coll'armi de'
generosi, e colla innocenza della virtù, mentre i governi pugnavano
coll'oro, colle seduzioni, colla perfidia, coll'arti inique del
delitto nascosto. Caddero perchè mancanti di capi che reggessero
coll'influenza d'un nome l'impresa, e la facessero legittima agli
occhi del volgo. Or che sarebbe quando tutti gli ostacoli si
mostrassero calcolati ed aperti, quando essi non avessero a
contrastar col potere, bensì a riunirsi con esso? Che sarebbe quando
tutti vi si annodassero intorno, quando tutti usassero la loro
influenza a pro vostro, quando tutti vi cacciassero ai piedi le loro
vite per pagarvi del beneficio d'aver creata un'idea sublime, d'aver
somministrato all'universo un nuovo tipo di grandezza, la virtù sul
trono? Sire! a quel patto noi ci annoderemo d'intorno a voi: noi vi
profferiremo le nostre vite: noi condurremo sotto le vostre bandiere
i piccoli Stati d'Italia. Dipingeremo ai nostri fratelli i vantaggi
che nascono dall'unione: provocheremo le sottoscrizioni nazionali, i
doni patriotici: predicheremo la parola che crea gli eserciti, e,
dissotterrate le ossa de' padri scannati dallo straniero, condurremo
le masse alla guerra contro i barbari come a una santa crociata.
Uniteci, Sire, e noi vinceremo, perocchè noi siam di quel popolo,
che Bonaparte ricusava di unire perchè lo temeva conquistatore di
Francia e d'Europa.
Questo faremo; ma voi, Sire, non ci mancate all'impresa: nel sapere
scegliere il momento è riposta la somma delle cose; ed ora è il
momento: ora che la Russia spossata da una lotta sanguinosa,
travagliata negli eserciti dalle opinioni e da' morbi, screditata in
faccia all'Europa, ha d'uopo rifarsi col riposo e riordinarsi: - ora
che la Prussia è agitata da terrori di sommosse all'interno, e
costretta a serbar le sue forze per una guerra che un colpo di
fucile belgico può rompere da un momento all'altro: - ora che
l'Inghilterra è condannata all'inerzia, finchè non sia consumata la
gran lite della potenza popolana e della feudale aristocrazia. E la
nazione francese è per voi. Or che temete? Il Tedesco? gridategli
guerra: ardite guardar da vicino questo colosso, composto di parti
eterogenee, minato in Galizia, nella Ungheria, nella Boemia, nel
Tirolo, nella Germania; e che non è forte se non dell'inerzia, e
perchè altri è debole. Gridategli guerra e assalite: l'assalitore ha
immenso vantaggio sul suo nemico. Una voce ai vostri, una voce alla
Lombardia, e avanzatevi rapidamente. Là nella terra lombarda hanno a
decidersi i fati dell'Italia, ed i vostri: nella terra lombarda, che
non aspetta se non un reggimento ed una bandiera per levarsi in
massa: nella terra lombarda che divorerà i suoi nemici come a' tempi
di Federigo e triplicherà il vostro esercito! Ma siate forte e
deciso: rinnegate i calcoli diplomatici, gl'intrighi de' gabinetti,
le frodi dei patti. La salute per voi sta sulla punta della vostra
spada. Snudatela e cacciatene la guaina. Fate un patto colla morte e
l'avrete fatto colla vittoria.
Sire! e' m'è forza il ripeterlo: Se voi non fate, altri faranno e
senza voi, e contro voi. Non vi lasciate illudere dal plauso
popolare che ha salutato il primo giorno del vostro regno: risalite
alle sorgenti di questo plauso, interrogate il pensiero delle
moltitudini: quel plauso è sorto, perchè, salutandovi, salutavano la
speranza, perchè il vostro nome ricordava l'uomo del 1821: deludete
l'aspettazione; il fremito del furore sottentrerà ad una gioja che
non guarda se non al futuro. Oggimai la causa del dispotismo è
perduta in Europa. La civiltà è troppo oltre, perchè l'insania di
pochi individui possa farla retrocedere. I re della lega lo
intendono, ma son troppo in fondo per poter risalire. Essi lottano
disperatamente col secolo e il secolo li affogherà. Han detto: chi
nacque tiranno, morrà tiranno: e sia: vissero paurosi e colpevoli,
morranno esecrati e rejetti. Ma voi, Sire, siete vergine di delitto
regale: siete degno ancora d'interpretare il voto del secolo.
Davanti al voto del secolo che la grand'anima sua intravedeva,
impallidiva Napoleone quando il diciotto brumajo lo costituiva in
contrasto colla libertà nella sala de' Cinquecento. Fu l'unica volta
che Napoleone impallidì: ma pochi anni dopo, egli commentava
dolorosamente nell'isola di Sant'Elena quel pallore, proferendo le
memorande parole: j'ai heurté les idées du siècle, et j'ai tout
perdu.
Sire! per quanto v'è di più sacro, fate senno di quelle parole.
Volete voi morir tutto e vilmente? La fama ha narrato che nel 1821
uno schiavo tedesco insultò al principe Carlo Alberto fuggiasco,
salutandolo re d'Italia. Quell'onta, Sire, vuol sangue. Spargetelo
in nome di Dio, e lo scherno amaro ripiombi sulla testa de' nostri
oppressori. Prendete quella corona: essa è vostra, purchè vogliate.
Attendete le solenni promesse. - Conquistate l'amore de' milioni.
Tra l'inno de' forti e dei liberi, e il gemito degli schiavi,
scegliete il primo. Liberate l'Italia dai barbari e vivete eterno!
Afferrate il momento.
Un altro momento, e non sarete più in tempo. Rammentate la lettera
di Flores-Estrada a re Ferdinando; rammentate quella di Potter a
Guglielmo di Nassau!
Sire! io v'ho detto la verità. Gli uomini liberi aspettano la vostra
risposta nei fatti. Qualunque essa sia, tenete fermo che la
posterità proclamerà in voi - il Primo tra gli uomini, o l'Ultimo
de' Tiranni Italiani. - Scegliete! (1831).
Un Italiano.
La lettera, pubblicata in Marsiglia, entrò in Italia in piccolo
numero d'esemplari indirizzati, dacchè io non aveva allora altri
modi, in via epistolare e per posta a uomini ch'io non conosceva se
non di nome, in diverse città dello Stato Sardo. La violazione delle
lettere non v'era ancora, come fu poi, ridotta a sistema. Ma tre o
quattro ristampe clandestine la diffusero poco dopo per ogni dove.
Il re l'ebbe e la lesse. Non andò molto che una Circolare
governativa spedita a tutte le autorità di frontiera dava i miei
connotati, perchè, s'io mai tentassi introdurmi, fossi imprigionato
senz'altro. S'avveravano le previsioni del Libri.
Lo scritto intanto era accolto dai giovani con favore, indizio ch'io
parlando dichiaratamente d'Unità di Patria trovava un'eco nell'anime
incerte, inconscie fin allora delle loro tendenze ingenite. Raccolsi
quell'indizio con vera gioja. Era il primo conforto ad osare.
L'Unità, comechè presentita di secolo in secolo da taluni fra i
nostri Grandi, era, era sul campo della politica pratica, ciò che
gli uomini battezzano, sorridendo, del nome utopia. Nessuno la
sospettava possibile. La parte più illuminata della vecchia
emigrazione era universalmente federalista. Nè credo che da
Melchiorre Gioja in fuori in un libriccino dimenticato, un solo
degli scrittori politici sorti in Italia nel periodo dell'invasione
francese contemplasse l'unità politica della patria comune. Miravano
a una lega di Stati. E d'altra parte la questione di libertà
preoccupava più assai le menti che non quella della Nazione. Or dove
mai può essere libertà dove la forza non l'assecura? E da qual
principio può scendere un'associazione di liberi se non dai diritti
dell'individuo o dal principio d'una comune missione fidata da Dio a
tutti quanti i figli d'una stessa terra? A me la dottrina dei
diritti, dottrina americana, inglese, francese del XVIII secolo,
pareva fin d'allora metà del problema, e impotente tanto a fondare
Governo vero quanto a promovere l'Educazione progressiva dei Popoli.
Le illusioni fondate su Carlo Alberto sfumavano rapidamente davanti
a' primi suoi atti. E' non aveva neppure decretato il richiamo degli
esuli che avevano giurato con lui, molti de' quali erano stati
trascinati nella congiura del 1821 dal solo suo nome e parecchi gli
erano stati ajutanti, compagni, amici. Ripensai, interrogai prima di
decidere. Carlo Bianco, col quale io viveva allora in Marsiglia, mi
comunicò l'esistenza d'una società segreta capitanata da lui sotto
l'alta direzione di Buonarroti chiamata degli Apofasimèni. Era un
ordinamento militare complesso di simbolismo, giuramenti e gradi
molteplici che uccidevano colla disciplina l'entusiasmo del core,
sorgente d'ogni grande impresa; e mancava inoltre d'un principio
morale predominante. Ora, io non concepiva una Associazione se non
come educatrice a un tempo e insurrezionale. L'armonia fra il
pensiero e l'azione signoreggiava in me ogni concetto. E finalmente
i moti del Centro erano, nel mio modo di vedere, un colpo mortale
alla supposta vitalità dell'Associazione. O gli Apofasimèni, io
diceva a Bianco, si frammisero ad essi, e sono a quest'ora esuli,
dispersi o noti; o si tennero in disparte, ed è prova che non erano
forti. Più dopo, conobbi alcuni dei capi, un Berardi, parmi, di
Bagnacavallo tra gli altri: erano inetti o, come quest'ultimo, spie.
L'esistenza o no d'altra società non era del resto cagione di
dubbiezze per me: m'era chiaro che dopo una disfatta come quella
dell'insurrezione del Centro d'Italia, non esisteva possibilità di
successo se non per un lavoro rifatto di pianta con elementi non
noti e giovani. Ma si trattava di ben altro. Si trattava di tentar
d'avviare l'educazione morale d'un popolo: si trattava di cercare
non solamente che l'Italia fosse, ma che sorgesse grande, forte,
degna delle sue glorie passate e colla coscienza della sua missione
futura. E tutte le mie convinzioni erano diametralmente opposte alle
tendenze predominanti. L'Italia era materialista, machiavellizzante,
credente nella iniziativa francese, tendente a emanciparsi e
migliorare le proprie condizioni nei diversi suoi Stati più che a
ricomporsi in Nazione, poco curante dei principî supremi e presta ad
accettare ogni forma di reggimento, ogni ajuto, ogni uomo che
promettesse sottrarla ai suoi patimenti immediati. Io credeva,
allora più per istinti che per dottrina, che il problema dell'oggi
fosse problema religioso e tutti gli altri gli fossero secondi. Ciò
ch'altri chiamava teorica di Machiavelli non era per me che Storia e
Storia d'un periodo di corruttela e decadimento che bisognava
sotterrar col passato. Mi fremeva dentro il pensiero dell'iniziativa
Italiana e a ogni modo io sentiva che non si risorge senza fede in
sè, e che quindi bisognava prima d'ogni altra cosa distruggere la
servile soggezione all'influenza francese. E per questo era mestieri
mover guerra all'idolatria degli interessi immediati e sostituirle
il culto dei principî, del Giusto, del Vero, e convincer l'Italia
che il sagrificio e la costanza nel sagrificio erano le sole vie per
le quali conseguirebbe, quando che fosse, vittoria.
La Carboneria - traduco qui alcune pagine(6) ch'io scrissi per gli
Inglesi nel 1839, perchè compendiano lo idee che mi s'affaccendavano
nella mente allora e mi determinarono a fondare la Giovine Italia -
la Carboneria m'appariva come una vasta associazione liberale, nel
senso attribuito a quel vocabolo in Francia sotto la monarchia di
Luigi XVIII e di Carlo X, efficace a diffondere lo spirito
d'emancipazione, ma condannata dall'assenza d'una fede positiva,
determinata a mancare di quella potente unità, senza la quale riesce
impossibile il trionfo pratico d'ogni difficile impresa. Sorta, in
sul maturarsi della caduta d'una gigantesca ma tirannica unità,
l'unità napoleonica, tra i frammenti d'un mondo, tra giovani
speranze e vecchie pretese a contrasto, tra presentimenti tuttavia
mal definiti di popolo opposto ai ricordi d'un passato che i Governi
si preparavano a dissotterrare, la Carboneria aveva portato
l'impronta di tutti quei diversi elementi e si era affacciata in
dubbia attitudine nel crepuscolo diffuso in quel periodo di crisi su
tutta Europa. La protezione regia incontrata al suo nascere e finchè
s'era sperato in essa uno stromento di guerra contro la Francia
Imperiale, aveva più sempre contribuito a comunicare all'Istituzione
quella incertezza di moti che sviava gli animi dalla vera idea
nazionale(7). Vero è ch'essa aveva, tradita, respinto poi quel giogo
da sè; ma serbando inconscia taluna fra le antiche abitudini e
segnatamente una fatale tendenza a cercar capi nell'alte sfere
sociali e a considerare la rigenerazione Italiana come parte più
degli ordini superiori che non del popolo, principale operatore
delle grandi rivoluzioni. Ed era errore vitale, inevitabile bensì ad
ogni consorteria politica alla quale manchi una salda religiosa
credenza in un vasto e fecondo principio, bandiera suprema su tutti
eventi. Or siffatto principio mancava alla Carboneria. Essa non
aveva per arme che una semplice negazione: chiamava gli uomini a
rovesciare, non insegnava il come s'inalzerebbe sulle rovine
dell'antico il nuovo edifizio. Esaminando il problema, i Capi
dell'Ordine avevano trovati tutti gli Italiani concordi sulla
questione d'Indipendenza, non su quella dell'Unità Nazionale o sul
modo d'intendere la Libertà. Impauriti dalle difficoltà e incapaci
di scegliere risolutamente tra i diversi partiti, s'appigliarono a
una via di mezzo e scrissero sulla bandiera Indipendenza e Libertà;
di definire il come dovesse intendersi e provocarsi la Libertà non
curarono: il paese, dicevano - e il paese era per essi nell'alte
classi della società - deciderebbe più tardi. La parola unione fu
similmente sostituita alla parola Unità, e il campo lasciato aperto
ad ogni possibile ipotesi. D'eguaglianza non facevano motto o
richiesti ne parlavano con modi sì incerti che ogni uomo poteva a
seconda delle proprie tendenze interpretarla politica, civile, o
semplicemente cristiana. Così senza porgere soddisfacimento ai dubbî
che agitavano le menti, senza dire a quei ch'essa chiamava a
combattere quale programma potrebbero offrire al popolo che doveva
secondarli, la Carboneria s'era data ad affratellare. E aveva
trovato in tutte le classi copia d'adepti, perchè in tutte era copia
di malcontenti ai quali non si chiedeva se non di prepararsi a
distruggere la condizione di cose esistenti e perchè il profondo
mistero ond'erano ravvolti i menomi Atti della Setta affascinava la
fantasia oltremodo mobile degli Italiani. Il presentimento delle
esigenze di quella moltitudine d'affratellati ripartiti fra le spire
della intricata molteplice gerarchia suggeriva l'adozione di
numerosi, strani, incomprensibili simboli che celassero il vuoto
delle dottrine; poi l'ingiunzione d'una cieca obbedienza ai cenni di
capi invisibili. Ma era difesa contro quelle esigenze, più che mezzo
d'azione; e però l'esecuzione delle prescrizioni procedeva fiacca e
a rilento. La severità della disciplina era men di fatti che di
parole.
La forza numerica della Società aveva a ogni modo raggiunto un grado
di potenza ignoto a quante altre associazioni vennero dopo. Ma la
Carboneria non aveva saputo trarne partito. Diffusa nel popolo, non
aveva fede in esso: non lo cercava per condurlo dirittamente
all'azione, ma per attirare con quell'apparato di forze gli uomini
d'alto rango nei quali solamente essa riponeva fiducia. L'ardore dei
giovani affratellati che sognavano patria, repubblica, guerra e
gloria davanti all'Europa era fidato alla direzione d'uomini vecchi
d'anni, imbevuti dell'idea dell'Impero, freddi, minuziosi,
diseredati d'avvenire e di fede, che lo ammorzavano invece di
suscitarlo. Più dopo, quando il numero gigantesco degli affigliati e
la impossibilità di serbare più a lungo il segreto la convinsero che
bisognava operare la Carboneria, aveva sentito il bisogno d'una
unità più potente, e non sapendo trovarla in un principio, s'era
data a cercarla in un uomo, in un principe. Ed era stata la sua
rovina........
Intellettualmente, i Carbonari erano machiavellici e materialisti.
Predicavano libertà politica, e dimenticando che l'uomo è uno, quei
tra loro che si occupavano di letteratura, predicavano sotto il nome
di classicismo la servitù letteraria. Si dicevano nel loro
linguaggio simbolico Cristiani e intanto, confondendo superstizione
e fede, papato e religione, disseccavano il vergine entusiasmo dei
giovani con uno scetticismo rubato a Voltaire e negazioni rubate al
secolo XVIII. Erano settarî, non apostoli di una religione
nazionale. Ed erano tali nella sfera politica. Non avevano fede
sincera nelle Costituzioni, ridevano fra di loro della monarchia; e
l'acclamavano nondimeno, dapprima perchè s'illudevano a trovare in
essa una forza della quale pensavano abbisognare; poi perchè la
monarchia li liberava dall'obbligo di guidare le moltitudini ch'essi
temevano e mal conoscevano; da ultimo perchè speravano che il
battesimo regio dato alla insurrezione avrebbe ammansato l'Austria o
conquistato l'ajuto di qualche grande potenza, Francia o
Inghilterra. Avevano dunque cacciato lo sguardo su Carlo Alberto in
Piemonte, sul principe Francesco in Napoli: d'indole naturalmente
tirannica il primo, ambizioso, ma incapace di grandezza; ipocrita e
traditore fin da' primi suoi passi il secondo; e avevano commesso
all'uno ed all'altro i fati d'Italia, lasciando al futuro di porre
in accordo le mire inconciliabili dei due pretendenti.
I fatti intanto avevano dimostrato quali siano le inevitabili
conseguenze del difetto di principî negli uomini che si pongono a
capo delle rivoluzioni, e come la forza spetti veramente non alla
cifra, ma alla coesione degli elementi che si adoprano a raggiungere
il fine. Le insurrezioni avevano avuto luogo senza ostacoli gravi;
ma rapidamente seguite dalla interna discordia. Compita la loro
promessa di rovesciare, gli affigliati dei Carbonari erano tornati
ciascuno alle proprie tendenze, e s'erano divisi su ciò che
importasse fondare. Gli uni avevano creduto di cospirare per una
unica monarchia, altri pel federalismo; molti parteggiavano per la
Costituzione francese, molti per la Spagnola: taluni per la
repubblica o per non so quante repubbliche; e tutti lagnandosi
d'essere stati ingannati. I Governi provvisorî s'erano trovati
indeboliti in sul nascere dall'opposizione aperta degli uni e dalla
inerzia calcolata degli altri. Quindi le diffidenze, l'incertezza di
quei Governi e i pretesti al non fare, cercati in una opposizione
che non potea vincersi se non facendo, e il popolo e i giovani
volontarî lasciati senza sprone, senza ordinamento, senza intento
determinato. Quindi l'assenza di libertà vera nella scelta dei
mezzi, perchè la monarchia scelta a capitanare le insurrezioni
traeva seco vincoli e tradizioni d'ogni genere ostili all'ardito
sviluppo del principio insurrezionale. La logica vuole in ogni tempo
il suo dritto. I capi del moto avevano dichiarato implicitamente
incapace il popolo d'emanciparsi e governarsi da sè: bisognava
dunque astenersi dall'armarlo, dal suscitarlo di soverchio a
frammettersi nelle cose: bisognava sostituirgli una forza, cercarla
al di fuori ai gabinetti stranieri, e ottenere promesse menzognere a
patto di concessioni reali: bisognava lasciare ai principi la libera
scelta dei loro ministri e dei condottieri degli eserciti, anche a
rischio - avverato più dopo - di vederli scelti traditori o incapaci
e di vedere i principi stessi sfuggire in un subito al campo nemico
o andare a gittar l'anatema sull'insurrezione da Laybach.
La rivoluzione napoletana era caduta in Napoli dopo avere esaurito
ad una ad una le conseguenze fatali di un primo errore; dopo aver
negato sui primi giorni la tendenza nazionale col rifiuto di
Pontecorvo e di Benevento, città appartenenti allora agli Stati
Romani ma circondate dalle terre napoletane e che avevano,
insorgendo esse pure, chiesto di confondersi coi popoli emancipati;
dopo aver decretato che la guerra sarebbe puramente difensiva e che
l'esercito austriaco spinto nel core non dovea considerarsi nemico
se non quando traverserebbe la frontiera napoletana; dopo avere
insomma spenta ogni fiamma d'insurrezione nell'Italia Centrale. E
l'insurrezione piemontese, sorta quando già quelli errori erano
stati commessi nel Sud e insegnavano il come evitarli; mentre la
fremente Lombardia, sguernita di forze Austriache eguali
all'incarico di reprimere, potea, con soli 25,000 uomini sommoversi
da un capo all'altro, e quei 25,000 uomini potevano avviarsi una
settimana dopo l'insurrezione, era caduta non tentando questo nè
altro, inceppata dagli stessi vincoli, condannata dalla stessa
influenza che avevano impedito il moto due mesi prima, quando il Sud
era libero e poteva ordinarsi la difesa comune(8).
Nè mai - anche limitandosi a scorrere la Storia onesta ma imperfetta
del moto scritta da Santarosa - erano state più visibili le
tristissime conseguenze d'un tristo programma. Un proclama di Carlo
Alberto, capo del Governo Rivoluzionario, aveva largito amnistia
alle truppe che lo avevano fondato. La Giunta s'era avvilita in
negoziati coll'ambasciatore russo, conte Mocenigo, che offriva
sfrontatamente perdono ai cospiratori e qualche speranza d'una Carta
Costituzionale. Erano uomini d'innegabile patriotismo e di core, e
giurati tutti alla Carboneria; e nondimeno tremanti fra le esigenze
della rivoluzione e le forme accettate della legalità monarchica,
costretti a derivare ispirazioni da un uomo che in fondo del core
sprezzavano e temevano li tradirebbe un dì o l'altro, consapevoli
del diritto e non osando affermarlo, avevano preteso di mutare le
istituzioni del paese senza mutare gl'impiegati della vecchia
amministrazione o i capi dell'esercito stretti al giuramento di
mantener la tirannide; avevano lasciato il Governo di Novara al
conte di Latour e quello della Savoja al conte d'Andezene, ambi
nemici aperti della causa rivoluzionaria; avevano preveduto e
predetto la guerra e, per timore che il programma monarchico potesse
essere presto o tardi violato, negate l'armi al popolo che le
chiedeva, differito indefinitamente l'adunarsi delle assemblee
elettorali, e negletto ogni atto capace d'affratellare alla
rivoluzione le moltitudini, sino alla revoca del decreto col quale
Genova insorta aveva ridotto il prezzo del sale a metà. Erano
caduti, fuggiti, non davanti alla forza che poteva con onore
combattersi, ma davanti a un sofisma innestato nel programma
rivoluzionario.
Tale m'appariva la carboneria: vasto e potente corpo, ma senza capo:
associazione alla quale non erano mancate generose intenzioni, ma
idee, e priva non del sentimento nazionale, ma di scienza e logica
per ridurlo in atto. Il cosmopolitismo che una osservazione
superficiale d'alcune contrade straniere le avea suggerito, ne aveva
ampliato la sfera, ma sottraendole il punto d'appoggio. L'eroica
educatrice costanza degli affratellati e il martirio intrepidamente
affrontato avevano grandemente promosso quel senso d'eguaglianza
ch'è ingenito in noi, preparato le vie all'unione, iniziato a forti
imprese con un solo battesimo uomini di tutte provincie e di tutte
classi sociali, sacerdoti, scrittori, patrizî, soldati e figli del
popolo(9). Ma la mancanza d'un programma determinato le aveva tolto
sempre la vittoria di pugno.
Queste riflessioni m'erano suggerite dall'esame dei tentativi e
delle disfatte della Carboneria. E i fatti appena allora conchiusi
dell'Italia Centrale mi confermavano in esse, additandomi a un tempo
altri pericoli da combattersi: primi fra i quali erano quello di
collocare le speranze della vittoria nell'appoggio di governi
stranieri e quello di fidare lo sviluppo, il maneggio delle
insurrezioni a uomini che non avevano saputo iniziarle.
Nei fatti del 1831, il progresso delle tendenze s'era rilevato
innegabile. L'insurrezione non aveva invocato come necessità
indeclinabile l'iniziativa dell'alte classi o della milizia: era
sorta dalla gente senza nome, dalle viscere del paese. Dopo le tre
giornate di Parigi, il popolo in Bologna s'affollava all'Ufficio
Postale. I giovani salivano nei caffè sulle sedie e leggevano ad
alta voce i giornali agli astanti. Si preparavano armi, s'ordinavano
compagnie di volontarî, si sceglievano i capitani. I comandanti la
truppa dichiaravano al prolegato che non assalirebbero i cittadini.
Lo stesso aveva luogo nell'altre città. L'eco del cannone sparato,
nella notte del 2 febbrajo in Modena, contro la casa di Ciro Menotti
aveva dato il segnale. Bologna s'era levata il 4. - Il 5, il popolo
di Modena, riavuto dallo stupore, aveva cacciato in fuga duchi e
duchisti; Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna s'erano emancipate.
Il 7, Ferrara aveva seguito l'esempio: gli austriaci s'erano
ritratti. Pesaro, Fossombrone, Fano ed Urbino s'erano, l'8, liberate
dei loro Governatori. Il moto aveva trionfato il 13 in Parma: poi in
Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni ed in altre città.
Ancona, dove il colonnello Sutterman s'era mostrato in sulle prime
disposto a resistere, aveva ceduto davanti ad alcune compagnie di
soldati e di guardie nazionali comandate da Sercognani. E tutto
questo s'era operato per impulso di popolo, per entusiasmo
collettivo che si stendeva alla donna e ai canuti; mentre le prime
lavoravano coccarde e bandiere, parecchi tra i veterani del Grande
Esercito mostravano ai giovani lievemente diffidenti le cicatrici
delle antiche ferite, dicendo loro: noi le riportammo difendendo il
nostro paese. Così il 25 febbrajo due milioni e mezzo quasi
d'Italiani avevano abbracciata la Causa Nazionale, presti a difesa
od offesa per l'emancipazione degli altri loro fratelli.
Ed era infatti la Causa Nazionale che gli istinti avevano in quei
moti universalmente additato alle moltitudini. Italiana era la
coccarda adottata per ogni dove in onta alle preghiere d'Orioli ed
altri appartenenti più tardi al Governo. Dai primi giorni la
gioventù Bolognese aveva tentato d'invadere la Toscana; quella di
Modena e Reggio d'inoltrare su Massa. Più dopo, le Guardie Nazionali
chiedevano d'esser condotte per la via del Furlo sul Regno.
Di quel moto tutto Italiano nell'origine e nell'intento, i Capi
intanto avevano fatto un moto puramente provinciale. Sua legge
naturale era stendersi, allargare la propria base, quanto era
possibile; essi l'avevano limitata nei più angusti confini; avevano
proscritto ogni tentativo di propaganda: avevano accumulato ostacoli
alla rivoluzione invece di lavorare a spianarli. La nazionalità era
l'anima dell'impresa; ed essi avevano cercato sostegni alla
rivoluzione fuori d'Italia. La guerra coll'Austria era inevitabile;
bisognava dunque preparare la vittoria; ed essi avevano dichiarato
che il trionfo della rivoluzione consisteva nel conservarsi
pacifici; che la pace non era solamente possibile, ma probabile e
quasi certa; e che in conseguenza era necessario astenersi da ogni
dimostrazione tendente a turbarla. La rivoluzione s'incamminava
necessariamente, per natura d'elementi e per condizioni speciali
delle terre insorte, a repubblica: i Governi non potevano esserle
favorevoli: urgeva cercarle alleati in elementi omogenei, nei
popoli; ora, solo pegno d'alleanza tra i popoli sono le
dichiarazioni di principî, ed essi non ne avevano fatta alcuna;
avevano calcolato sull'ajuto dei re, e prostrato un moto di popolo
appiedi della Diplomazia. Bisognava suscitare l'azione coll'azione,
l'energia coll'energia, la fede colla fede; ed essi, deboli,
tentennanti, avevano in ogni loro atto rivelato il terrore
dell'anima. Quindi la diffidenza cresciuta in seno ai paesi insorti,
lo sconforto nell'altre provincie d'Italia, le delusioni
diplomatiche e la ineluttabile rovina del moto. Appoggiato
unicamente sul principio del non intervento, era caduto con esso.
Il principio del non-intervento era stato, a dir vero, proclamato
esplicitamente, solennemente, dal Governo di Francia. Già prima del
moto una memoria stesa da parecchi Italiani influenti aveva chiesto
all'ambasciatore francese in Napoli, Latour Maubourg, quale sarebbe
stata la condotta della Francia se una rivoluzione in Italia
provocasse l'intervento armato dell'Austria; e l'ambasciatore aveva
scritto in calce di proprio pugno che «La Francia avrebbe difeso la
rivoluzione purchè il nuovo Governo non assumesse forme anarchiche e
riconoscesse i principî d'ordine generalmente adottati in Europa.»
Latour Maubourg negò nel seguito quella nota; ma, consegnata nei
primi giorni del moto al Governo Provvisorio, fu veduta e attestata
da un de' suoi membri, Francesco Orioli, nel suo libro stampato nel
1834-35 in Parigi sulla Révolution d'Italie. Poi Lafitte, presidente
della Camera dei Deputati, aveva il 1° dicembre 1830, proferito le
seguenti parole: «La Francia non permetterà violazione alcuna del
principio del non-intervento.... La Santa Alleanza aveva per base di
soffocare collettivamente la libertà dei popoli dovunque ne fosse
sollevato lo stendardo; il nuovo principio proclamato dalla Francia
è quello di concedere incontrastato sviluppo alla libertà ovunque
essa sorga spontanea.» Il 15 gennajo, Guizot aveva detto: «Il
principio del non-intervento è identico col principio della libertà
dei popoli.» Il 22 dello stesso mese, il Ministro degli Esteri aveva
dichiarato: «La Santa Alleanza era fondata sul principio
d'intervento sovvertitore dell'indipendenza di tutti gli Stati
secondarj: il principio opposto che noi abbiamo consecrato e che
faremo rispettare, assicura a tutti libertà e indipendenza.» Il 28,
le stesse cose erano state ripetute dal Duca di Dalmazia: il 29 da
Sebastiani.
Ma se i Capi del moto avevano diritto di credere che non sarebbero
stati traditi, avevano pure debito di considerare che nel 1831 una
guerra tra l'Austria e la Francia doveva risolversi in guerra
generale Europea tra i due principî dell'immobilità e del progresso
per mezzo della sovranità nazionale. E in guerra siffatta, se la
Francia non aveva che trionfi da mietere, Luigi Filippo correva
rischio di perdere ogni cosa, affogato nel moto. L'impulso
rivoluzionario dato alla Francia avrebbe travolto la monarchia nel
vortice d'una guerra alla quale la natura degli elementi chiamati in
azione avrebbe impartito rapidamente il carattere d'una crociata
repubblicana; e la monarchia d'allora era debole e senza radici di
simpatia popolare in paese. La pace era dunque pegno d'esistenza
alla dinastia. Non v'era dunque che un mezzo per costringerlo ad
attener le promesse: preparare la resistenza tanto da prolungare una
lotta quanto bastasse a sommovere in Francia l'opinione; e adoprarsi
a estendere il moto per ogni dove e segnatamente in Piemonte dove
l'intervento dell'Austria è inconciliabile, come quello della
Prussia nel Belgio, colla tradizione politica della Francia.
Pretender di vincere la ripugnanza di Luigi Filippo mostrandosi
deboli, era follia; e follia illudersi a credere che il principio
del non-intervento avrebbe impedito l'innoltrarsi all'Austria. Anche
a rischio di guerra, l'Austria non poteva tollerare che di fronte a'
suoi possedimenti Lombardo-Veneti si stabilisse un Governo di
libertà. Il Governo dell'insurrezione non preparando la guerra, dava
tempo all'Austria per distruggere rapidamente la cagione di lite
colla Francia e lo toglieva all'agitazione francese. L'importanza
del tempo era stata intesa così bene da Luigi Filippo che sperando
repressa l'insurrezione prima che gli si chiedesse conto delle
promesse, ei nascose per cinque giorni al Presidente del Consiglio,
Lafitte, inetto ma onesto, il dispaccio col quale l'ambasciatore
francese in Vienna annunziava l'invasione dell'Austria nell'Italia
Centrale.
E nondimeno, i Governi Provvisorî delle provincie insorte avevano
adottato l'ipotesi che l'Austria non invaderebbe, ch'essa
concederebbe alla rivoluzione d'impiantarsi stabilmente nel core
d'Italia; e che tutta la politica della rivoluzione dovea consistere
nel non somministrare motivo legittimo all'invasione. Non un atto
quindi aveva proclamato la sovranità nazionale, non uno aveva
chiamato il popolo all'armi: non uno aveva ordinato il principio
d'elezione: non uno aveva confortato ad agire l'altre provincie
italiane. La paura trapelava in ogni loro decreto. La rivoluzione
v'appariva accettata anzichè proclamata. I Governi Provvisorî di
Parma e di Modena avevano dichiarato che avendo i principi
abbandonato i loro Stati senza lasciare governo ordinato, il popolo
s'era veduto nella necessità di fondarne uno nuovo. Quel di Bologna
affermava d'essersi costituito perchè la dichiarazione di Monsignor
Clarelli, prolegato, annunziando la di lui intenzione di abbandonare
interamente l'amministrazione politica della provincia, era urgente
d'evitar l'anarchia. E anche quando la rivoluzione trionfante,
secura all'interno, avea suggerito stile più ardito, quel Governo
che concentrò in sè a poco a poco la direzione generale del moto,
non aveva osato richiamarsi al diritto che vive eterno in ogni
popolo, ma s'era affaccendato a desumere la libertà di Bologna dalla
tradizione locale, dalla convenzione stretta nel 1447 tra Bologna e
il Papa Nicolò V; e un lungo, pedantesco e poco degno scritto del
Presidente Vicini, in data del 25 febbrajo(10) commentava da
legulejo la tradizione. In Parma, a un Fedeli che, scelto a capo
della Guardia Nazionale, ricusava, a meno d'un permesso della
Duchessa, il Governo aveva concesso lo richiedesse e n'era stato
rimeritato da lui poco dopo con una congiura retrograda: poi, nello
stremo delle finanze, ordinava si continuassero gli stipendî agli
impiegati della Corte scacciata.
Mentre il sorgere dell'Italia Centrale aveva messo in fermento gli
spiriti in Napoli, nel Piemonte e per ogni dove tutti aspettavano
con ansia che dal centro iniziatore dell'impresa giungesse
l'ispirazione del da farsi, il decreto dell'11 febbrajo aveva
freddamente annunziato che «Bologna non avrebbe interrotte le
antiche relazioni d'amicizia coll'altre contrade, nè concederebbe la
menoma violazione dei loro territorî, sperando che in ricambio
nessun intervento avrebbe luogo a suo danno: il solo obbligo della
difesa potrebbe trascinarla all'azione.» Il Centro aveva con
quell'atto rinunziato ad ogni iniziativa, e separato la propria
causa da quella d'Italia. E gli uomini di pura ribellione, troppo
numerosi tra noi, avevano, sdegnati, abbandonato ogni pensiero
d'azione altrove: la gente diplomatizzante anche sull'orlo della
sepoltura e cospiratrice all'antica aveva in quel codardo abbandono
intraveduto un grande mistero di politica calcolatrice e aveva
susurrato per ogni dove: «rimanetevi inerti; perchè, se quei Governi
non fossero certi dell'ajuto francese, non agirebbero come fanno.»
Questa illimitata fiducia, in quanto ha sembianza di calcolo o
tattica, e la diffidenza perenne dell'entusiasmo, dell'azione e
della simultaneità dell'opere, tre cose che racchiudono in sè tutta
quanta la scienza della rivoluzione, furono e sono tuttavia piaga
mortale alla Italia. Noi seguiamo, aspettiamo, studiamo gli eventi,
non ci adopriamo a crearli e padroneggiarli. Onoriamo del nome di
prudenza ciò che in sostanza non è se non mediocrità insopportabile
di concetto. Lo sconforto che i deputati lombardi avevano, nel 1821,
trovato a Torino, li aveva indotti a rinunciare all'azione:
operando, avrebbero distrutto quello sconforto.
Il Governo di Bologna, fidando unicamente nelle promesse
dell'estero, aveva rinunziato, non all'offesa soltanto, ma alla
difesa. La proposta d'ordinare una milizia era stata rigettata. Le
fortificazioni d'Ancona non erano state riattate. Il progetto di
Zucchi che, giunto a Bologna, aveva ordinato la formazione di sei
reggimenti di fanteria e di due di cavalleria era stato
attraversato. L'idea, proposta più volte da Sercognani, d'una
decisiva impresa su Roma, dove il 12 febbrajo s'erano mostrati
sintomi d'insurrezione, era sempre stata respinta. Nè il ministro
Armandi(11) nè altri aveva saputo intendere l'importanza d'una
bandiera di Patria sventolante dal Campidoglio. Il mormorare de'
giovani era stato acquetato da promesse continue, non attese mai: il
linguaggio severo della stampa, represso da un editto del 12
febbrajo «minacciante condanna finanziaria o di prigione ai
venditori di scritti capaci di nuocere alle relazioni di pace e
amicizia esistenti coi Governi stranieri.»
E, conseguenza inevitabile del codardo operare, il meschino Governo
era stato abbandonato, tradito da tutti. Al conte Bianchetti,
mandato a Firenze a interrogare gli ambasciatori di Francia e
d'Austria, il Governo Francese non aveva pur degnato rispondere, e
corrispondeva amichevolmente col Papa. Il conte di Saint'Aulaire,
inviato di Francia a Roma nel marzo, aveva evitato la via di Bologna
sfuggendo ad ogni contatto col Governo Provvisorio. L'Austria aveva,
aggiungendo l'ironia all'oltraggio, dichiarato che avrebbe invaso
Modena e Parma, ma soltanto in virtù di non so qual patto di
riversione, e Bologna, purchè si mantenesse saggia, sarebbe stata
rispettata. La invasione di Parma, Modena e Reggio aveva avuto
luogo: e il 6 marzo il Governo Provvisorio aveva detto: «le cose dei
Modenesi non sono le nostre; il non intervento è legge per noi come
pei nostri vicini; e nessuno di noi dove immischiarsi nella contesa
degli Stati finitimi;» aveva decretato che «quanti stranieri si
fossero presentati alle frontiere, si disarmassero e
s'internassero;» e i 700 stranieri modenesi, guidati dal Zucchi,
avevano dovuto traversare Bologna in sembianza di prigionieri.
L'occupazione di Ferrara aveva tenuto dietro a quella di Modena e
Parma: Ferrara era parte delle Provincie Unite e aveva sette
deputati in Bologna, e nondimeno il governo aveva annunciato, l'8
marzo, il fatto senza commento; il Precursore, organo governativo,
aveva il 12 sostenuto la tesi che il principio del non-intervento
non era violato, dacchè i trattati di Vienna concedevano all'Austria
diritto di guarnigione in Ferrara: due inviati del Governo, Conti e
Brunetti, avevano riportato da Ferrara assicurazione verbale di
Bentheim che gli Austriaci non si sarebbero inoltrati. Una reggenza
pontificia s'era istituita intanto in Ferrara; e il Governo
Bolognese aveva sostenuto che tra le operazioni papali e le
austriache non era vincolo necessario. Gli Austriaci s'erano
presentati alle porte di Bologna il 20; il Governo aveva intimato
stessero tutti quieti, la Guardia Nazionale mantenesse l'ordine,
solo suo intento; e s'era ritirato in Ancona, dove il 25 marzo, due
soli giorni dopo eletto un triumvirato e abdicato quindi ogni
potere, aveva capitolato col cardinale Benvenuti, chiedendo
amnistia: firmati tutti, fuorchè Carlo Pepoli ch'era assente(12). I
patti della Capitolazione erano stati, come di ragione, violati,
annullati il 5 aprile dal Papa. Gli editti del 14 e del 30
condannavano capi, complici, sostenitori. E dacchè i Governi
insultano sempre ai caduti, il 23 giugno Luigi Filippo annunziava
nel suo discorso alle Camere ch'egli aveva ottenuto dal Papa piena
amnistia per gli insorti. E il 9 luglio una circolare fatta pubblica
dalla Francia, dalla Prussia, dal Piemonte e dall'Inghilterra,
chiamava altamente colpevoli gli insorti e il loro Governo. Intanto
i padroni legittimi degli Italiani violavano la libertà dei mari,
catturando la nave che portava in esilio Zucchi e da circa settanta
insorti e conducevali nelle prigioni di Venezia; e pubblicavano
decreti come il seguente: «qualunque volta, in virtù di denunzie o
testimonianze segrete (gli autori delle quali non verranno mai
compromessi da confronti o altrimenti) noi otterremo certezza morale
di un delitto commesso, noi, invece d'esporre l'individuo
rivelatore, ci contenteremo di condannare, per misura di polizia, il
colpevole a un castigo straordinario, più mite dell'ordinario, ma al
quale sarà sempre aggiunta la pena dell'esilio.» Editto del duca di
Modena dell'8 aprile 1832.»
Così gl'infausti moti del 1820, del 1821, del 1831, m'insegnavano
gli errori che bisognava a ogni patto evitare. I più, confondendo
individui e cose, traevano, dal mal esito, cagione di profondo
sconforto. Per me, non ne esciva se non il convincimento che il
successo era un problema di direzione e non altro. Il biasimo
meritato dagli uomini che avevano diretto ricadeva, dicevano, sul
paese: il solo fatto dell'essere essi e non altri saliti al potere,
rappresentava per tutti quasi un vizio inerente alle condizioni
d'Italia: la media, per così dire, della potenza rivoluzionaria
italiana. Io non vedeva in quella scelta se non un errore di logica
capace di rimedio. Ed era quello, prevalente anche oggi pur troppo,
di fidare la scelta dei capi delle insurrezioni a quei che non le
hanno operate. In virtù d'un senso di legalità buono in sè, ma
spinto oltre i termini del dovere; per un timore, onorevole
nell'origine ma esagerato e improvvido, di soggiacere all'accusa di
anarchia o d'ambizione; per un'abitudine tradizionale di fiducia,
giusta solamente in condizioni normali, negli uomini provetti d'anni
e di nome più o meno illustre nelle loro località; finalmente per
una assoluta inesperienza della natura e dello sviluppo dei grandi
fatti rivoluzionarî, il popolo e la gioventù avevano ceduto sempre
il diritto di dirigere ai primi che, con un'apparenza di legalità,
si erano presentati ad esercitarlo. La cospirazione e la rivoluzione
erano state sempre rappresentate da due ordini diversi d'uomini: gli
uni messi da banda dopo d'avere rovesciato gli ostacoli, gli altri
sottentrati il dì dopo a dirigere lo sviluppo d'una idea che non era
la loro, d'un disegno che non avevano maturato, d'un'impresa della
quale non avevano studiato mai le difficoltà o gli elementi e colla
quale non si erano, nè per sacrificio nè per entusiasmo,
immedesimati. Quindi l'andamento del moto trasformato in un subito.
Così, nel 1821, in Piemonte, lo sviluppo del concetto rivoluzionario
era stato affidato ad uomini i quali, come Dal Pozzo(13),
Villamarina, Gubernatis, erano rimasti stranieri alla cospirazione.
Così in Bologna s'erano accettati a membri del governo provvisorio
uomini approvati dal governo stesso che si rovesciava: il loro
titolo era un editto di monsignore Paracciani Clarelli. Così
generalmente, i consigli d'amministrazione comunale, assunto il nome
di consessi civici, s'erano dichiarati rappresentanti legali del
popolo e avevano eletto, senza dritto alcuno, le autorità
provvisorie. Ora predominavano in questi Consigli gli uomini di età
canuta, nudriti di vecchie idee, sospettosi della gioventù e
atterriti ancora degli eccessi della Rivoluzione Francese; il loro
liberalismo era quello ch'oggi chiamano moderato, fiacco, pauroso,
capace d'una timida, legale opposizione su particolari, non
risalente mai a principî. E sceglievano naturalmente uomini di
tendenze affini, discendenti di vecchie famiglie, professori,
avvocati di molti clienti, diseredati dell'intelletto,
dell'entusiasmo, dell'energia che compiono le rivoluzioni. I
giovani, fidenti, inesperti, cedevano: dimenticavano l'immensa
diversità che corre tra i bisogni d'un popolo servo e d'un popolo
libero e che difficilmente gli uomini, i quali rappresentarono gli
interessi individuali o municipali del primo sono atti a
rappresentare gli interessi politici o nazionali dell'ultimo.
Per riflessioni siffatte, deliberai finalmente di seguire l'istinto
mio e fondai la Giovine Italia, dandole per base il seguente Statuto
ISTRUZIONE GENERALE PER GLI AFFRATELLATI
NELLA
GIOVINE ITALIA
LIBERTÀ. EGUAGLIANZA.
UMANITÀ.
INDIPENDENZA.
UNITÀ.
§ 1.°
La Giovine Italia è la fratellanza degli Italiani credenti in una
legge di Progresso e di Dovere; i quali, convinti che l'Italia è
chiamata ad esser Nazione - che può con forze proprie crearsi tale -
che il mal esito dei tentativi passati spetta, non alla debolezza,
ma alla pessima direzione degli elementi rivoluzionarî - che il
segreto della potenza è nella costanza e nell'unità degli sforzi -
consacrano, uniti in associazione, il pensiero e l'azione al grande
intento di restituire l'Italia in Nazione di liberi ed eguali, Una,
Indipendente, Sovrana.
§ 2.°
L'Italia comprende: 1.° L'Italia continentale e peninsulare fra il
mare al sud, il cerchio superiore dell'Alpi al nord, le bocche del
Varo all'ovest, e Trieste all'est; 2.° le isole dichiarate italiane
dalla favella degli abitanti nativi e destinate ad entrare, con
un'organizzazione amministrativa speciale, nell'unità politica
italiana.
La Nazione è l'universalità degli Italiani affratellati in un patto
e viventi sotto una legge comune.
§ 3.°
Basi dell'Associazione.
Quanto più l'intento d'un'associazione è determinato, chiaro,
preciso, tanto più i suoi lavori procederanno spediti, securi,
efficaci. - La forza d'una associazione è riposta, non nella cifra
numerica degli elementi che la compongono, ma nella omogeneità di
questi elementi, nella perfetta concordia dei membri circa la via da
seguirsi, nella certezza che il dì dell'azione li troverà compatti e
serrati in falange, forti di fiducia reciproca, stretti in unità di
volere intorno alla bandiera comune. Le associazioni che accolgono
elementi eterogenei e mancano di programma possono durare
apparentemente concordi per l'opera di distruzione, ma devono
infallibilmente trovarsi il dì dopo impotenti a dirigere il
movimento, e minate dalla discordia tanto più pericolosa, quanto più
i tempi richiedono allora unità di scopo e di azione.
Un principio implica un metodo; in altri termini: quale il fine,
tali i mezzi. Finchè il vero e pratico scopo d'una rivoluzione si
rimarrà segreto ed incerto, incerta pure rimarrà la scelta dei mezzi
atti a promoverla e consolidarla. La rivoluzione procederà
oscillante nel suo cammino, quindi debole e senza fede. La storia
del passato lo insegna.
Qualunque, individuo o associazione, si colloca iniziatore d'un
mutamento nella nazione, deve sapere a che tende il mutamento ch'ei
provoca. Qualunque presume chiamare il popolo all'armi, deve
potergli dire il perchè. Qualunque imprende un'opera rigeneratrice,
deve avere una credenza: s'ei non l'ha, è fautore di torbidi e nulla
più: promotore d'un'anarchia alla quale ei non ha modo d'imporre
rimedî e termine. Nè il popolo si leva mai per combattere quand'egli
ignora il premio della vittoria.
Per queste ragioni, la Giovine Italia dichiara senza reticenza ai
suoi fratelli di patria il programma in nome del quale essa intende
combattere. Associazione tendente anzi tutto a uno scopo
d'insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e
dopo quel giorno, essa espone i principî pe' quali l'educazione
nazionale deve avverarsi, e dai quali soltanto l'Italia può sperare
salute e rigenerazione. Predicando esclusivamente ciò ch'essa crede
verità, l'associazione compie un'opera di dovere e non
d'usurpazione. Preponendo al fatto la via ch'essa crede doversi
tenere dagli Italiani per raggiunger lo scopo; inalzando davanti
all'Italia una bandiera e chiamando ad organizzarsi tutti coloro che
la stimano sola rigeneratrice, essa non sostituisce questa bandiera
a quella della Nazione futura. La Nazione libera e nel pieno
esercizio della sovranità, che spetta a lei sola, darà giudizio
inappellabile e venerato intorno al principio, alla bandiera e alla
legge fondamentale della propria esistenza.
La Giovine Italia è repubblicana e unitaria.
Repubblicana: - perchè, teoricamente, tutti gli uomini d'una Nazione
sono chiamati, per la legge di Dio e dell'umanità, ad esser liberi,
eguali, e fratelli; e l'istituzione repubblicana è la sola che
assicuri questo avvenire, - perchè la sovranità risiede
essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua
della legge morale suprema, - perchè, dovunque il privilegio è
costituito a sommo dell'edificio sociale, vizia l'eguaglianza dei
cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà
del paese, - perchè dovunque la sovranità è riconosciuta esistente
in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni, la lotta
riesce inevitabile tra questi poteri, e all'armonia, ch'è legge di
vita alla società, sottentra necessariamente la diffidenza e
l'ostilità organizzata - perchè l'elemento monarchico, non potendo
mantenersi a fronte dell'elemento popolare, trascina la necessità
d'un elemento intermediario d'aristocrazia, sorgente d'ineguaglianza
e di corruzione all'intera nazione - perchè, dalla natura delle cose
e dalla storia è provato, che la monarchia elettiva tende a generar
l'anarchia, la monarchia ereditaria a generare il dispotismo -
perchè, dove la monarchia non s'appoggia, come nel medio-evo, sulla
credenza, oggi distrutta, del diritto divino, riesce vincolo mal
fermo d'unità e d'autorità nello Stato - perchè la serie progressiva
dei mutamenti europei guida inevitabilmente le società allo
stabilimento del principio repubblicano, e l'inaugurazione del
principio monarchico in Italia trascinerebbe la necessità d'un'altra
rivoluzione tra non molti anni.
Repubblicana - perchè, praticamente, l'Italia non ha elementi di
monarchia: non aristocrazia venerata e potente che possa piantarsi
fra il trono e la nazione: non dinastia di principi italiani che
comandi per lunghe glorie e importanti servizî resi allo sviluppo
della nazione, gli affetti o le simpatie di tutti gli Stati che la
compongono - perchè la tradizione italiana è tutta repubblicana:
repubblicane le grandi memorie: repubblicano il progresso della
nazione e la monarchia s'introdusse quando cominciava la nostra
rovina e la consumò: fu serva continuamente dello straniero, nemica
al popolo, e all'unità nazionale - perchè le popolazioni dei diversi
Stati italiani, che si unirebbero, senza offesa alle ambizioni
locali, in un principio, non si sottometterebbero facilmente ad un
Uomo, escito dall'un degli Stati, e le molte pretese trascinerebbero
il Federalismo - perchè il principio monarchico messo a scopo
dell'insurrezione italiana trascinando con sè per forza di logica
tutte le necessità del sistema monarchico, concessioni alle corti
straniere, rispetto alla diplomazia e fiducia in essa, e repressione
dell'elemento popolare, unico potente a salvarci, e autorità fidata
ad uomini regî interessati a tradirci, rovinerebbe infallibilmente
l'insurrezione - perchè il carattere assunto successivamente dai
moti tentati in Italia insegna l'attuale tendenza repubblicana -
perchè a sommovere un intero popolo è necessario uno scopo che gli
parli direttamente, e intelligibilmente, di diritti e vantaggi suoi
- perchè, destinati ad avere i governi contrarî tutti per sistema e
terrore all'opera della nostra rigenerazione, ci è forza, per non
rimanere soli nell'arena, di chiamarvi con noi i popoli levando in
alto una bandiera di popolo e invocandoli a nome di quel principio
che domina in oggi tutte le manifestazioni rivoluzionarie d'Europa.
La Giovine Italia è Unitaria - perchè senza Unità non v'è veramente
Nazione - perchè senza Unità non v'è forza, e l'Italia, circondata
da nazioni unitarie, potenti e gelose, ha bisogno anzi tutto
d'essere forte - perchè il Federalismo, condannandola all'impotenza
della Svizzera, la porrebbe sotto l'influenza necessaria d'una o
d'altra delle nazioni vicine - perchè il Federalismo ridando vita
alle rivalità locali, oggimai spente, spingerebbe l'Italia a
retrocedere verso il medio-evo - perchè il Federalismo, smembrando
in molte piccole sfere la grande sfera nazionale, cederebbe il campo
alle piccole ambizioni e diverrebbe sorgente d'aristocrazia -
perchè, distruggendo l'unità della grande famiglia italiana, il
Federalismo distruggerebbe dalle radici la missione che l'Italia è
destinata a compiere nell'Umanità - perchè la serie progressiva dei
mutamenti europei guida inevitabilmente le società europee a
costituirsi in vaste masse unitarie - perchè tutto quanto il lavoro
interno dell'incivilimento italiano tende da secoli, per chi sa
studiarlo, alla formazione dell'Unità - perchè tutte le objezioni
fatte al sistema unitario si riducono ad objezioni contro un sistema
di concentrazione e di dispotismo amministrativo che nulla ha di
comune coll'Unità. - La Giovine Italia non intende che l'Unità
nazionale implichi dispotismo, ma concordia e associazione di tutti.
- La vita inerente alle località dev'esser libera e sacra.
L'organizzazione amministrativa dev'esser fatta su larghe basi, e
rispettare religiosamente le libertà di comune; ma l'organizzazione
politica destinata a rappresentar la Nazione in Europa dev'essere
una e centrale. Senza unità di credenza e di patto sociale, senza
unità di legislazione politica, civile e penale, senza unità di
educazione e di rappresentanza, non v'è Nazione.
Su queste basi e sulle loro conseguenze dirette esposte negli
scritti dall'associazione, la Giovine Italia è credente, e non
accoglie ne' suoi ranghi se non chi le accetta. Sulle applicazioni
minori, e nelle molte questioni secondarie di organizzazione
politica da proporsi, essa lavora e lavorerà: ammette ed esamina le
divergenze, e invita i membri dell'associazione a occuparsene.
L'associazione pubblicherà via via scritti appositi su ciascuna
delle basi accennate e sulle principali questioni che ne derivano,
esaminate dall'alto della legge di Progresso che regola la vita
dell'Umanità e della Tradizione Nazionale Italiana.
I principî generali della Giovine Italia comuni agli uomini di tutte
le nazioni, e gli accennati fin qui sulla nazione italiana in
particolare, verranno predicati, svolti, e tradotti popolarmente
dagli iniziatori agli iniziati, e dagli iniziati, quanto più
possono, all'universalità degli Italiani.
Iniziati e iniziatori non dimenticheranno mai che le applicazioni
morali di principî siffatti sono le prime e le più essenziali - che
senza moralità non v'è cittadino - che il principio d'una santa
impresa è la santificazione dell'anima colla virtù - che dove la
condotta pratica degli individui non è in perfetta armonia co'
principî, la predicazione de' principî è una profanazione infame e
una ipocrisia - che solamente colla virtù i fratelli nella Giovine
Italia potranno conquistare le moltitudini alla loro fede - che se
noi non siamo migliori d'assai di quanti negano i nostri principî,
non siamo che meschini settarî - che la Giovine Italia è non setta,
o partito, ma credenza ed apostolato. Precursori della rigenerazione
italiana, noi dobbiamo posare la prima pietra della sua religione.
§ 4.°
I mezzi de' quali la Giovine Italia intende valersi per raggiunger
lo scopo sono l'Educazione e l'Insurrezione. Questi due mezzi devono
usarsi concordemente ed armonizzarsi. L'Educazione, cogli scritti,
coll'esempio, colla parola, deve conchiudere sempre alla necessità e
alla predicazione dell'insurrezione; l'insurrezione, quando potrà
realizzarsi, dovrà farsi in modo che ne risulti un principio
d'educazione nazionale. L'educazione, necessariamente segreta in
Italia, è pubblica fuori d'Italia. - I membri della Giovine Italia
devono contribuire a raccogliere ed alimentare un fondo per le spese
di stampa e di diffusione. - La missione degli esuli Italiani è
quella di costituire l'apostolato. L'intelligenza indispensabile ai
preparativi dell'insurrezione è, dentro e fuori, segreta.
L'insurrezione dovrà presentare ne' suoi caratteri il programma in
germe della Nazionalità italiana futura. Dovunque l'iniziativa
dell'insurrezione avrà luogo, avrà bandiera italiana, scopo
italiano, linguaggio italiano. - Destinata a formare un Popolo, essa
agirà in nome del Popolo e si appoggerà sul Popolo, negletto finora.
- Destinata a conquistare l'Italia intera, essa dirigerà le sue
mosse dietro un principio d'invasione, d'espansione, il più
possibilmente vasto ed attivo. - Destinata a ricollocare l'Italia
nell'influenza tra' popoli e nel loro amore, essa dirigerà i suoi
atti a provare loro l'identità della causa.
Convinti che l'Italia può emanciparsi colle proprie forze - che a
fondare una Nazionalità è necessaria la coscienza di questa
nazionalità, e che questa coscienza non può aversi, ogni qual volta
l'insurrezione si compia o trionfi per mani straniere - convinta
d'altra parte che qualunque insurrezione s'appoggi sull'estero
dipende dai casi dell'estero e non ha mai certezza di vincere - la
Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a
farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione. La Giovine
Italia sa che l'Europa aspetta un segnale e che, come ogni altra
nazione, l'Italia può darlo. Essa sa che il terreno è vergine ancora
per l'esperimento da tentarsi - che le insurrezioni passate non
s'appoggiarono che sulle forze di una classe sola, non mai sulle
forze dell'intera nazione - che ai venti milioni d'Italiani manca
non potenza per emanciparsi, ma la fede sola. Essa ispirerà questa
fede, prima colla predicazione, poi coi caratteri e coll'energia
dell'iniziativa.
La Giovine Italia distingue lo stadio dell'insurrezione dalla
rivoluzione. La rivoluzione incomincerà quando l'insurrezione avrà
vinto. Lo stadio dell'insurrezione, cioè tutto il periodo che si
stenderà dall'iniziativa alla liberazione di tutto il territorio
italiano continentale, dev'esser governato da un'autorità
provvisoria, dittatoriale, concentrata in un piccol numero d'uomini.
Libero il territorio, tutti i poteri devono sparire davanti al
Concilio Nazionale, unica sorgente di autorità nello Stato.
La guerra d'insurrezione per bande è la guerra di tutte le Nazioni
che s'emancipano da un conquistatore straniero. Essa supplisce alla
mancanza, inevitabile sui principî delle insurrezioni, degli
eserciti regolari - chiama il maggior numero d'elementi sull'arena -
si nutre del minor numero possibile d'elementi - educa militarmente
tutto quanto il popolo - consacra colla memoria de' fatti ogni
tratto del terreno patrio - apre un campo d'attività a tutte le
capacità locali - costringe il nemico a una guerra insolita - evita
le conseguenze d'una disfatta - sottrae la guerra nazionale ai casi
d'un tradimento - non la confina a una base determinata d'operazioni
- è invincibile, indestruttibile. La Giovine Italia prepara dunque
gli elementi a una guerra per bande, e la provocherà, appena
scoppiata l'insurrezione. L'esercito regolare, raccolto e ordinato
con sollecitudine, compirà l'opera preparata dalla guerra
d'insurrezione.
Tutti i membri della Giovine Italia lavoreranno a diffondere questi
principî d'insurrezione. L'associazione li svolgerà cogli scritti,
ed esporrà, a tempo, le idee e i provvedimenti che devono governare
lo stadio dell'insurrezione.
§5.°
Tutti i fratelli della Giovine Italia verseranno nella cassa sociale
una contribuzione mensile di 50 centesimi. Quei tra loro che
potranno, s'astringeranno nel momento della loro iniziazione
all'offerta mensile d'una somma maggiore, corrispondente alle loro
facoltà.
§ 6.°
I colori della Giovine Italia sono: il bianco, il rosso, il verde.
La bandiera della Giovine Italia porta su quei colori, scritte da un
lato le parole: Libertà, Uguaglianza, Umanità; dall'altro: Unità,
Indipendenza.
§ 7.°
Ogni iniziato nella Giovine Italia pronunzierà davanti
all'Iniziatore la formula di promessa seguente:
Nel nome di Dio e dell'Italia,
Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto
i colpi della tirannide, straniera o domestica,
Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m'ha posto, e ai
fratelli che Dio m'ha dati - per l'amore, innato in ogni uomo, ai
luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli - per
l'odio, innato in ogni uomo, al male, all'ingiustizia,
all'usurpazione, all'arbitrio - pel rossore ch'io sento in faccia ai
cittadini dell'altre nazioni, del non avere nome nè diritti di
cittadino, nè bandiera di nazione, nè patria - pel fremito
dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata
all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e
nell'isolamento della servitù - per la memoria dell'antica potenza -
per la coscienza della presente abjezione - per le lagrime delle
madri italiane pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio
- per la miseria dei milioni:
Io N. N.
Credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che
ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento;
Convinto che dove Dio ha voluto fosse Nazione, esistono le forze
necessarie a crearla - che il Popolo è depositario di quelle forze -
che nel dirigerle pel Popolo e col Popolo sta il segreto della
vittoria;
Convinto che la Virtù sta nell'azione e nel sagrificio - che la
potenza sta nell'unione e nella costanza della volontà;
Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti
nella stessa fede, e giuro:
Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l'Italia in
Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana;
Di promovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d'azione,
l'educazione de' miei fratelli italiani all'intento della Giovine
Italia, all'associazione che sola può conquistarlo, alla virtù che
sola può rendere la conquista durevole;
Di non appartenere, da questo giorno in poi, ad altre associazioni;
Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello
spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l'unione de'
miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita,
inviolati i segreti;
Di soccorrere coll'opera e col consiglio a' miei fratelli
nell'associazione,
Ora e sempre.
Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abominio degli
uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in tutto o in
parte il mio giuramento.
Io giurai, primo, quello Statuto. Molti lo giurarono con me allora e
poi, i quali sono oggi cortigiani, faccendieri di consorterie
moderate, servi tremanti della politica di Bonaparte e calunniatori
e persecutori dei loro antichi fratelli. Io li disprezzo. Essi
possono aborrirmi, come chi ricorda loro la fede giurata e tradita;
ma non possono citare un sol fatto a provare ch'io abbia mai falsato
quel giuramento. Oggi come allora io credo nella santità e
nell'avvenire di quei principî: vissi, vivo e morrò repubblicano,
testimoniando sino all'ultimo per la mia fede. S'essi mai volessero
dirmi, quasi a discolpa, ch'io pure mi adoprai negli ultimi due anni
e tuttavia m'adopro per l'Unità sotto una bandiera monarchica, io
additerei loro le linee dello Statuto che dicono: l'Associazione non
sostituisce la sua bandiera a quella della Nazione futura: la
Nazione libera...... darà giudizio..... venerato. - Il popolo
d'Italia è oggi travolto da una illusione, che lo trascina a
sostituire l'Unità materiale all'Unità morale e alla propria
rigenerazione: non io. Io piego la testa, dolente, alla Sovranità
nazionale, ma la monarchia non m'avrà impiegato nè servo; e se la
mia fede poggiasse sul Vero, dirà il futuro.
Lo Statuto risponde a ogni modo alle cento accuse che furono
avventate più tardi contro noi da libelli di spie come il De la
Hodde, o di frenetici come D'Arlincourt, e citate spesso con amore
da scrittori di parte moderata che le sapevano false. Sopprimendo la
condanna di morte, minacciata da tutte le Società segrete anteriori,
ai traditori dei loro fratelli; sostituendo fin d'allora alla
erronea straniera dottrina dei diritti la teorica del Dovere come
fondamento dell'opere nostre; prefiggendo ai buoni un programma
definito, norma suprema sulla quale ogni affratellato potea
giudicare delle istruzioni trasmesse; negando risolutamente la
necessità dell'iniziativa straniera; dichiarando che l'Associazione,
serbando segreto il lavoro tendente all'insurrezione, svilupperebbe
colla stampa i proprî principî e le proprie idee, io separava
interamente la nuova fratellanza dalle vecchie Società segrete, dal
dispotismo di capi invisibili, dalla indegna cieca obbedienza, dal
vuoto simbolismo, dalla molteplice gerarchia e da ogni spirito di
vendetta. La Giovine Italia chiudeva il periodo delle sette e
iniziava quello dell'Associazione educatrice.
Più dopo, consunto il primo periodo della nostra attività, sorsero
nelle Calabrie e in qualch'altro punto organizzazioni indipendenti
dal Centro che, assumendo il nome fatto popolare della Giovine
Italia, coniarono, a seconda delle abitudini del paese o delle
inspirazioni personali dei fondatori, Statuti in parte diversi dal
nostro. Ma o le circostanze vietarono ogni contatto fra noi, o
insistemmo perchè accettassero le nostre norme fondamentali. Quei
che ci apponessero deviazioni siffatte farebbero come quei che
apponessero al principio repubblicano il terrore del 1793, o al
monarchico gli assassinii del 1815 nel mezzogiorno di Francia. Ogni
Partito, ogni moto nazionale ha sobbollimenti, pei quali, presso gli
onesti ragionatori, il Partito e il moto non sono mallevadori.
Mi posi a capo della impresa perchè il concetto era mio ed era
naturale ch'io lo svolgessi, e perch'io sentiva in me potenza
d'attività infaticabile e pertinacia di volontà capaci di svolgerlo;
e l'unità della direzione mi pareva essenziale. Ma il programma era
pubblico e destinato ad essere l'anima dell'Associazione. Io non
poteva deviarne menomamente senza che gli affratellati sorgessero a
rinfacciarmelo. Poi, io ero circondato d'uomini i quali m'erano
amici, e usavano liberamente dei diritti dell'amicizia, e
accessibile a tutti e in tutte le ore. Era in sostanza un lavoro
collettivo fraterno nel quale chi dirigeva s'assumeva più ch'altro
il privilegio d'incorrere il biasimo, le opposizioni e la
persecuzione per tutti.
Fermo nell'idea d'iniziare la doppia nostra missione segreta e
pubblica, insurrezionale ed educatrice, mentr'io dava opera assidua,
come dirò poi, all'impianto dei Comitati dell'Associazione in
Italia, m'affrettai a stampare il manifesto della Giovine Italia,
raccolta di scritti intorno alla condizione politica, morale e
letteraria dell'Italia, tendente alla sua rigenerazione. Noi non
avevamo mezzi pecuniarî. Io andava economizzando quanto più poteva
sul trimestre che mi veniva dalla famiglia: i miei amici erano tutti
esuli e dissestati in finanza. Ma ci avventurammo, fidando
nell'avvenire e nelle sottoscrizioni volontarie che dovevano venirci
se i nostri principî tornavano accetti. Il Manifesto escì sul
finire, a quanto ricordo, del 1831. Gli tenne dietro di poco, nel
1832, il primo fascicolo.
MANIFESTO
DELLA
GIOVINE ITALIA
Se un Giornale a noi Italiani esuli raminghi, e sbattuti dalla
fortuna fra gente straniera, senza conforto fuorchè di speranza,
senza pascolo all'anima fuorchè d'ira e dolore, non dovesse riuscire
che sfogo sterile, noi taceremmo. Fra noi, finora, s'è speso anche
troppo tempo in parole: poco in opere; e se non guardassimo che a'
suggerimenti dell'indole propria, il silenzio ci parrebbe degna
risposta alle accuse non meditate, e alla prepotenza de' nostri
destini; il silenzio che freme e sollecita l'ora della
giustificazione solenne; ma guardando alle condizioni presenti, e al
voto, che i nostri fratelli ci manifestano, noi sentiamo la
necessità di rinnegare ogni tendenza individuale a fronte del
vantaggio comune: noi sentiamo urgente il bisogno di alzare una voce
libera, franca e severa che parli la parola della verità ai nostri
concittadini, e ai popoli che contemplano la nostra sventura.
Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principî, che colle
bajonette: dapprima nell'ordine morale, poi nel materiale. Le
bajonette non valgono se non quando rivendicano, o tutelano un
diritto: e diritti e doveri nella società emergono tutti da una
coscienza profonda, radicata nei più: la cieca forza può generare
vittime e martiri e trionfatori; ma il trionfo, collochi la sua
corona sulla testa d'un re o d'un tribuno, quand'osta al volere dei
più, rovina pur sempre in tirannide.
I soli principî, diffusi e propagati per via di sviluppo
intellettuale nell'anime, manifestano nei popoli il diritto alla
libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge
alla forza. Quindi l'urgenza dell'istruzione.
La verità è una sola. I principî che la compongono sono pochi:
enunciati per la più parte. Bensì le applicazioni, le deduzioni, le
conseguenze de' principî sono molteplici; nè intelletto umano può
afferrarle tutte ad un tratto, nè afferrate, comprenderle
intelligibili e coordinate, in un quadro limitato e assoluto. I
potenti d'ingegno e di core cacciano i semi d'un grado di progresso
nel mondo; ma non fruttano che per lavoro di molti uomini ed anni.
La umanità non si educa a slanci; ma per via d'applicazioni lunghe e
minute, scendendo a particolari e paragonando fatti e cagioni,
impara le sue credenze. Un Giornale, opera successiva, progressiva e
vasta di proporzioni, opera di molti che convengono a un fine
determinato, opera, che non rifiuta alcun fatto, bensì li segue
nell'ordine del tempo e li afferra, e ne trae, svolgendoli per ogni
lato, l'azione de' principî immutabili delle cose, sembra il genere
più efficace e più popolare d'insegnamento, che convenga alla
moltiplicità degli eventi, e alla impazienza dei nostri tempi.
In Italia come in ogni paese che aspira a ricrearsi v'è un urto di
elementi diversi, di passioni che assumono forme varie, d'affetti
tendenti in sostanza a uno stesso fine, ma con modificazioni presso
che all'infinito. Molti, anime alteramente sdegnose, abborrono lo
straniero, e gridano libertà soltanto perchè lo straniero la vieta.
Ad altri la idea della riunione d'Italia sorride unica, nè ad essi
increscerebbe il concentrarne le membra sotto l'impero d'una volontà
forte, foss'anche di tiranno cittadino, o straniero. Alcuni paurosi
delle grandi scosse, e diffidando di potere senza lunghi travagli
soffocare ad un tratto tutti quanti gl'interessi privati e le gare
di provincia a provincia, si arretrano davanti al grido d'unione
assoluta, e accetterebbero una divisione che minorasse non
foss'altro il numero delle parti. Pochi intendono, o pajono
intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero
all'Italia, se i tentativi non s'avviino sulle tre basi inseparabili
dell'Indipendenza, della Unità, della Libertà. Pur questi pochi
aumentano ogni dì più, e assorbiranno rapidamente tutte l'altre
opinioni. L'abborrimento al Tedesco, la smania di scuotere il giogo,
e il furore di Patria sono passioni universalmente diffuse, e le
transazioni, che la paura, e i falsi calcoli diplomatici vorrebbero
persuaderci, sfumeranno davanti alla maestà del voto nazionale. Però
la questione sotto questo aspetto vive e s'agita fra l'ardire
generoso che tenta il moto, e la tirannide che fa l'ultime prove e
le più tremende.
Non così sui mezzi, pei quali può conseguirsi l'intento, e
tramutarsi la insurrezione in vittoria stabile ed efficace. Una
classe di uomini influenti per autorità e per ingegno civile
contende doversi procedere nella rivoluzione colle cautele
diplomatiche, anzichè colla energia della fede, e d'una irrevocabile
determinazione. Ammettono i principî, rifiutano le conseguenze;
deplorano i mali estremi, e proscrivono gli estremi rimedî:
vorrebbero condurre i popoli alla libertà coll'arti, non colla
ferocia della tirannide. Nati, cresciuti, educati a' tempi, nei
quali la coscienza degli uomini liberi era in Italia privilegio di
pochi, diffidano della potenza d'un popolo che sorge a rivendicare
gloria, diritti, esistenza; diffidano dell'entusiasmo, diffidano
d'ogni cosa, fuorchè dei calcoli de' gabinetti che ci hanno mille
volte venduti, e dell'armi straniere che ci hanno mille volte
traditi. Non sanno che gli elementi d'una rigenerazione fermentano
in Italia da mezzo secolo, e ch'oggi il desiderio del meglio è
fremito di moltitudini. Non sanno che un popolo schiavo da molti
secoli non si rigenera se non colla virtù, o colla morte. Non sanno
che ventisei milioni d'uomini, forti di giustizia, e di una volontà
ferma, sono invincibili. Diffidano della possibilità di riunirli
tutti ad un solo voto; ma essi, tentarono forse l'impresa? Si
mostrarono decisi a sotterrarsi per essa? Bandirono la crociata
italiana? Insegnarono al popolo che non v'era se non una via di
salute; che il moto operato per esso dovea sostenersi da esso; che
la guerra era inevitabile, disperata, senza tregua fuorchè nel
sepolcro, o nella vittoria? No: ristettero quasi attoniti della
grandezza dell'opera, o camminarono tentennando, come se la via
gloriosa che essi calcavano fosse via d'illegalità, o di delitto.
Illusero il popolo a sperare nell'osservanza di principî ch'essi
traevano dagli archivi de' congressi o da' gabinetti: addormentarono
l'anime bollenti, che anelavano il sacrificio fecondo, nella fede
degli ajuti stranieri: consumarono nella inerzia, o in discussioni
di leggi che non sapevano come difendere, un tempo che doveva
consecrarsi tutto a fatti magnanimi, e all'armi. Poi, quando delusi
nei loro calcoli, traditi dalla diplomazia, col nemico alle porte,
colla paura nel core, non videro che una via d'ammenda generosa
all'errore, la morte su' loro scanni, rinnegarono anche quella, e
fuggirono. Ora negano la fede nella nazione, mentr'essi non
tentarono mai suscitarla coll'esempio: deridono l'entusiasmo,
ch'essi hanno spento coll'incertezza e colla codardia. Sia pace ad
essi però che non traviarono per tristo animo; ma dovevano essi
assumere il freno d'una intrapresa, che non s'attentavano neppure di
concepire nella sua vasta unità?
Ma nelle rivoluzioni ogni errore è gradino alla verità. Gli ultimi
fatti hanno ammaestrato la crescente generazione più che non
farebbero volumi di teoriche, e noi lo affermiamo, coi moti Italiani
del 1831, s'è consumato il divorzio tra la Giovine Italia e gli
uomini del passato.
Forse a convincere gl'Italiani, che Dio e la fortuna stanno coi
forti e che la vittoria sta sulla punta della spada, non nelle
astuzie de' protocolli, si volea quest'ultimo esempio, dove la fede
giurata sui cadaveri di sette mila cittadini fu convertita in patto
d'infamia e di delusione. Forse a insegnare che un popolo non deve
aspettare libertà da gente straniera, non bastava la vicenda di
dieci secoli, nè il grido dei padri caduti maledicendo: e si voleva
lo spergiuro d'uomini liberi insorti sei mesi prima contro ad uno
spergiuro, poi l'esilio, le persecuzioni, e lo scherno. Ora,
l'Italia del XIX secolo sa che la unità dell'impresa è condizione
senza la quale non è via di salute: che una rivoluzione è una
dichiarazione di guerra a morte fra due principî: che i destini
dell'Italia hanno a decidersi sulle pianure Lombarde, e la pace a
fermarsi oltre l'Alpi: che non si combatte, nè si vince senza le
moltitudini, e che il segreto per concitarle sta nelle mani degli
uomini che sanno combattere e vincere alla loro testa: che a cose
nuove si richiedono uomini nuovi, non sottomessi all'impero di
vecchie abitudini o di antichi sistemi, vergini d'anima e
d'interessi, potenti d'ira e d'amore, e immedesimati in una idea:
che il segreto della potenza sta nella fede, la virtù vera nel
sagrificio, la politica nell'essere e mostrarsi forti.
Questo sa la Giovine Italia, e intende l'altezza della sua missione,
e l'adempirà, noi lo giuriamo per le mille vittime, che si succedono
instancabili da dieci anni a provare, che colle persecuzioni non si
spengono, bensì si ritemprano le opinioni: lo giuriamo per lo
spirito che insegna il progresso, pei giovani combattenti di Rimini,
pel sangue de' martiri Modenesi. V'è tutta una religione in quel
sangue: nessuna forza può soffocare la semenza di libertà, però
ch'essa ha germogliato nel sangue dei forti. Oggi ancora la nostra è
la religione del martirio: domani sarà la religione della vittoria.
E a noi giovani, e credenti nell'istessa fede, corre debito di
soccorrere alla santa causa in tutti i modi possibili. Poichè i
tempi ci vietano l'opre del braccio, noi scriveremo. La Giovine
Italia ha bisogno d'ordinare a sistema le idee che fremono sconnesse
e isolate nelle sue file: ha bisogno di purificare d'ogni abitudine
di servaggio, d'ogni affetto men che grande, questo elemento nuovo e
potente di vita che la spinge a rigenerarsi: e noi, fidando
nell'ajuto Italiano, tenteremo di farlo: tenteremo di farci
interpreti di quanti bisogni, di quante sciagure, di quante speranze
costituiscono la Italia del secolo XIX.
Noi intendiamo di pubblicare, con forme e patti determinati, una
serie di scritti tendenti a cotesto scopo, e a norma de' principî
che abbiamo accennati.
Noi non rifiuteremo gli argomenti filosofici, e letterarî: l'unità è
prima legge dell'intelletto. La riforma d'un popolo non ha basi
stabili se non posa sull'accordo nelle credenze, sul complesso
armonico delle facoltà umane; e le lettere, contemplate come un
sacerdozio morale, sono espressione della verità dei principî, mezzo
potente di incivilimento.
Rivolti principalmente all'Italia, noi non ci allargheremo nella
politica forestiera e negli eventi europei, se non quanto giovi a
promuovere la educazione e l'esperienza italiana, se non quanto
giovi ad accrescere infamia agli oppressori del mondo, o a stringer
più fermo il vincolo di simpatia che deve raccogliere in una
fratellanza di voti e d'opere gli uomini liberi di tutte le
contrade.
Una voce ci grida: la religione della umanità è l'Amore. Dove due
cori battono sotto lo stesso impulso, dove due anime s'intendono
nella virtù, ivi è patria. E noi non rinnegheremo il più bel voto
dell'epoca, il voto dell'associazione universale tra' buoni; ma un
sangue gronda dalle piaghe, aperte dalla fede nello straniero, che
noi non possiamo dimenticare ad un tratto. L'ultima voce dei traditi
si frappone tra noi e le nazioni che ci hanno finora venduti,
negletti, o sprezzati. Il perdono è la virtù della vittoria. L'amore
vuole equilibrio di potenza e di stima. Però, noi, rifiutando pur
sempre l'ajuto e la compassione dello straniero, gioveremo allo
sviluppo del sentimento europeo col mostrarci, non foss'altro, quali
noi siamo, nè ciechi nè vili, ma sfortunati; e cacciando sulla mutua
stima le basi della futura amicizia. L'Italia non è conosciuta. La
vanità, la leggerezza, la necessità di crear discolpe ai delitti han
fatto a gara per travisare fatti, passioni, costumanze e abitudini.
Noi snuderemo le nostre ferite: mostreremo allo straniero di qual
sangue grondi quella pace alla quale ci sacrificarono le codardie
diplomatiche: diremo gli obblighi che correvano a' popoli verso di
noi, e gl'inganni che ci han posto in fondo: trarremo dalle carceri
e dalle tenebre del dispotismo i documenti della nostra condizione,
delle nostre passioni, e delle nostre virtù: scenderemo nelle fosse
riempiute dell'ossa de' nostri martiri, e scompiglieremo quell'ossa,
ed evocheremo que' grandi sconosciuti, ponendoli davanti alle
nazioni, come testimonî muti dei nostri infortunî, della nostra
costanza, e della loro colpevole indifferenza. Un gemito tremendo di
dolore, e d'illusioni tradite sorge da quella rovina, che l'Europa
contempla fredda, e dimentica che da quella rovina si diffondeva ad
essa due volte il raggio dell'incivilimento, e della libertà. E noi
lo raccorremo quel gemito, e lo ripeteremo alla Europa, ond'essa
v'impari tutta l'ampiezza del suo misfatto, e diremo a' popoli:
queste son l'anime che voi avete trafficate sinora: questa è la
terra che avete condannata alla solitudine e all'eternità del
servaggio! (1831).
Le obbiezioni a noi più frequenti movevano, singolare a dirsi, dalla
credenza radicata nei più tra gli uomini delle insurrezioni passate
e nei mezzi ingegni della Penisola, che l'Unità fosse utopia
ineseguibile e avversa alle tendenze storiche degli Italiani. Tra
gli oppositori e me il fatto ha deciso. Ma allora, quando il
dissenso era nelle classi dette educate, pressochè universale -
quando i Governi di tutta Europa mantenevano la teoria di Metternich
che facea dell'Italia una espressione puramente geografica, e gli
uomini più noti in Francia ed altrove per tendenze repubblicane
ostili ai Trattati e invocanti rivoluzione parteggiavano pel
federalismo come solo possibile tra noi - le cagioni di dubbio erano
molte davvero. Armand Carrel e gli uomini del National insinuavano i
vantaggi delle confederazioni in Italia, nella Spagna, in Germania.
Buonarroti e gli uomini che cospiravano intorno a lui erano
teoricamente favorevoli alle Unità Nazionali; ma la loro decisione
irrevocabile, intollerante, che nessun popolo dovesse mai movere se
non dopo la Francia, rendeva illusoria l'idea e minacciava spegnerla
in germe. Il vero è che mancava a tutti in quel periodo di
concitamento europeo l'intuizione dell'avvenire. Il moto era, più
che d'altro, di libertà. Pochi intendevano che libertà vera e
durevole non può conquistarsi all'Europa se non da popoli compatti,
forti, equilibrati di potenza e non ridotti dal terrore d'una
invasione a mendicare con turpi concessioni un'alleanza
proteggitrice o sviati da speranze d'ajuti per lo scioglimento d'una
od altra questione territoriale a imparentare la libertà propria
coll'altrui dispotismo: pochissimi intendevano che l'invocata
associazione dei popoli pel progresso ordinato e pacifico
dell'Umanità tutta quanta esigeva prima condizione che i popoli
fossero. E popoli non sono dove pel congiungimento forzato di razze
o famiglie diverse manca l'unità della fede e dell'intento morale
che soli costituiscono le nazioni. Il riparto d'Europa, come i
Trattati del 1815 l'avevano sancito, frapponeva, colla eccessiva
potenza degli uni e la debolezza degli altri, colla necessità
d'appoggiarsi a ogni patto su qualunque grande Potenza s'offrisse
creata ai piccoli Popoli e col germe delle divisioni interne
lasciato vivo in seno a quasi ciascuna Nazione, un ostacolo
insormontabile a ogni sviluppo normale e securo di libertà. Rifare
la Carta d'Europa e riordinare i popoli a seconda della missione
speciale assegnata a ognun d'essi dalle condizioni geografiche,
etnografiche, storiche, era dunque il primo passo essenziale per
tutti. A me la questione delle Nazionalità pareva chiamata a dare il
suo nome al secolo e restituire all'Europa una potenza d'iniziativa
pel bene che non esisteva più da quando Napoleone aveva, cadendo,
conchiuso un'epoca intera. Ma quei presentimenti non erano se non di
pochissimi. Quindi la questione d'Unità che stava in cima de' miei
pensieri non era guardata siccome importante, e gli ostacoli
apparenti inducevano facilmente i nostri a sagrificarla. In Francia
l'istinto, inconsciamente dominatore non delle moltitudini, ma degli
ingegni, accarezzava allora, come sempre, teorie e disegni che
miravano a ordinare intorno alla Francia Una e forte, libere, ma
deboli confederazioni.
Bensì, a me per verificare le probabilità del mio concetto
importava, più assai che non il voto dei mezzi ingegni stranieri e
nostri, l'istinto delle moltitudini e dei giovani ignoti a contatto
con esse in Italia. Mi diedi dunque, tra un articolo e l'altro, a
impiantare l'Associazione segreta. Mandai Statuti, Istruzioni,
avvertenze d'ogni genere ai giovani amici lasciati in Genova e in
Livorno. Là, mercè i Ruffini in Genova, Bini e Guerrazzi in Livorno,
s'impiantarono le prime Congreghe. Così chiamavamo con nome desunto
dai ricordi di Pontida i nostri nuclei di direzione.
L'ordinamento era, quanto più si poteva, semplice e schietto di
simbolismo. Respinta l'interminabile gerarchia del Carbonarismo,
l'associazione non avea che due gradi: Iniziatori e Iniziati: erano
iniziatori quanti, oltre la devozione ai principî, avevano
intelletto abbastanza prudente per scegliere nuovi membri da
affratellarsi; iniziati semplici gli uomini ai quali era sottratta
la facoltà di affigliare. Un Comitato Centrale all'estero, destinato
a tenere sollevata in alto la bandiera dell'Associazione, a
stringere quanti più vincoli fosse possibile tra l'Italia e gli
elementi democratici stranieri, e a dirigere generalmente l'impresa:
- Comitati interni, dirigenti la cospirazione pratica nei
particolari, impiantati nei capoluoghi delle provincie importanti: -
un Ordinatore in ogni città posto a centro degli Iniziatori: - poi
gli affratellati divisi in drappelli ineguali di numero capitanati
dagli Iniziatori; - era questa l'ossatura della Giovine Italia. La
corrispondenza correva quindi dagli Iniziati agli Iniziatori, da
questi, separatamente per ciascuno, all'Ordinatore; dagli Ordinatori
alla Congrega della loro circoscrizione, dalle Congreghe al Comitato
Centrale. Eliminati come soverchiamente pericolosi i segni di
conoscimento tra gli affratellati, una parola convenuta, una carta
tagliuzzata, un tocco speciale di mano accreditavano i viaggiatori
dal Comitato Centrale ai Comitati provinciali e da questi a quello:
mutabili per trimestre. Le contribuzioni mensili, alle quali ogni
affratellato s'astringeva a seconda dei mezzi, rimanevano pei due
terzi nelle Casse dell'interno: un terzo rifluiva, o più esattamente
dovea rifluire nella Cassa Centrale per supplire alle spese d'ordine
generale. La stampa doveva alimentarsi da sè colla vendita degli
scritti. Un ramoscello di cipresso era, in memoria dei Martiri, il
simbolo dell'Associazione. Il motto generale ora e sempre accennava
alla costanza necessaria all'impresa. La bandiera della Giovine
Italia portava da un lato, scritte sui tre colori italiani, le
parole: Libertà, Eguaglianza, Umanità e dall'altro: Unità e
Indipendenza: indicatrici le prime della missione internazionale
Italiana, le seconde della nazionale. Dio e l'Umanità fu fin dai
primi giorni dell'Associazione la formola da essa adottata in tutte
le sue relazioni esterne: Dio e il Popolo la formola per tutti i
lavori risguardanti la Patria. Da questi due principî, applicazioni
a due sfere diverse d'un solo, l'Associazione deduceva tutte le sue
credenze religiose, sociali, politiche, individuali. Prima fra tutte
le Associazioni politiche di quel tempo, la Giovine Italia mirava a
comprendere in un solo concetto tutte le manifestazioni della vita
Nazionale e a dirigerle tutte, dall'alto d'un principio religioso:
la missione fidata alla creatura, verso un unico fine,
l'emancipazione della Patria, e il suo affratellamento coi Popoli
liberi.
Le istruzioni che io in quel primo periodo dell'Associazione andava
inculcando ai Comitati, agli Ordinatori e a quanti giovani venivano
a contatto con me, erano in parte morali, in parte politiche.
Le morali sommavano, mutate le parole, a questo: «Noi siamo non
solamente cospiratori, ma credenti: aspiriamo ad essere, non
solamente rivoluzionarii ma per quanto è in noi rigeneratori. Il
nostro è problema d'educazione nazionale anzi tutto: l'armi e
l'insurrezione non sono se non mezzi senza i quali, mercè le nostre
condizioni, è impossibile scioglierlo: ma noi non invochiamo le
bajonette se non a patto ch'esse portino sulla punta un'idea. Poco
ci importerebbe distruggere, se non avessimo speranza di fondare il
meglio: poco di scrivere doveri e diritti sopra un brano di carta se
non avessimo intento e fiducia di stamparli nell'anime. Questo
neglessero i nostri padri; questo dobbiam noi aver sempre davanti la
mente. Determinare i diversi Stati d'Italia a insorgere, non basta;
si tratta di crear la Nazione. Noi crediamo religiosamente che
l'Italia non ha esaurito la propria vita nel mondo, essa è chiamata
a introdurre ancora nuovi elementi nello sviluppo progressivo
dell'Umanità e a vivere d'una terza vita; noi dobbiamo mirare a
iniziarla. Il materialismo non può generare in politica se non la
dottrina dell'individuo, buona forse ad assicurare - e appoggiandosi
sulla forza - l'esercizio di alcuni diritti personali, ma impotente
a fondare la nazionalità e l'associazione, ch'esigono fede in una
unità d'origine, di legge, di fine: lo respingiamo. Noi dobbiamo
tendere a rannodare la tradizione filosofica italiana dei secoli XVI
e XVII, tradizione di sintesi e spiritualismo; a ravvivare le forti
credenze, e risuscitare nel core degli italiani la coscienza dei
fatti della nazione; a dar loro con quella coscienza coraggio,
potenza di sagrificio, costanza, concordia d'opera.»
E le Istruzioni politiche ripetevano:
«Il partito più forte è il partito più logico. Non vi contentate
d'un semplice senso di ribellione nei vostri; o d'incerte,
indefinite dichiarazioni di liberalismo: chiedete a ciascuno la sua
credenza e non accettate se non gli uomini la credenza dei quali è
concorde colla vostra. Non fate assegnamento sul numero, ma
sull'unità delle forze. Il nostro è un esperimento sul nostro
popolo: ci rassegniamo alla possibilità di trovarci delusi nelle
nostre speranze, ma non al pericolo di vedere sorgere tra noi la
discordia il dì dopo l'azione. La vostra è bandiera nuova: cercatele
sostenitori fra' giovani: è in essi entusiasmo, capacità di
sagrificio, energia. Dire loro tutta quanta la verità, tutto ciò che
vogliamo. Saremo certi d'essi s'accettano. Supremo errore del
passato fu quello di fidare le sorti del paese agli individui più
che ai principî: combattetelo: predicate fede, non nei nomi ma nelle
moltitudini, nel diritto, in Dio. Insegnate a scegliere i capi tra
quei che avranno attinto le inspirazioni nella rivoluzione, non
nella condizione di cose anteriori. Ponete a nudo gli errori del
1831: non tacete alcuna delle colpe dei capi. Ripetete sempre che la
salute d'Italia sta nel suo popolo. E la leva del popolo sta
nell'azione, nell'azione continua, rinnovata sempre senza
sconfortarsi o atterrirsi delle prime disfatte. Fuggite le
transazioni: sono quasi sempre immorali e per giunta inutili. Non
v'illudete a poter evitare guerra, guerra inesorabile, feroce,
dall'Austria: fate invece, quando vi sentirete forti, di provocarla:
l'offensiva è la guerra delle rivoluzioni; assalendo, inspirerete
paura al nemico, fiducia e ardore agli amici. Non abbiate speranza
nei Governi stranieri: se potrete mai averne un ajuto non sarà se
non a patto di convincerli prima che siete forti e capaci di vincer
senza essi. Non fidate nella diplomazia; sviatela lottando, e
pubblicando ogni cosa. Non insorgete mai se non in nome d'Italia e
per l'Italia tutta quanta è. Se vincerete la prima battaglia in nome
d'un principio e con forze vostre, sarete iniziatori tra i popoli e
li avrete compagni nella seconda. E se cadrete avrete almeno
promosso l'educazione del paese: lascerete sulla vostra tomba un
programma per la generazione che terrà dietro alla vostra.»
Vivono ancora molti degli uomini ch'ebbero in quel tempo contatto
con me; e possono dire se il mio linguaggio non era tale.
L'esperimento riuscì. - Il popolo confutò i mezzi ingegni.
I Comitati si costituirono rapidamente nelle principali città di
Toscana. In Genova, i Ruffini, Campanella, Benza ed altri pochi che
accettarono l'ufficio di diffondere l'associazione, erano pressochè
ignoti, giovani assai e senza mezzi di fortuna od altro che potesse
conquistare ad essi influenza. E nondimeno da studente a studente,
da giovine a giovine, l'affratellamento si diffuse più assai
rapidamente che non era da sperarsi. I primi nostri scritti
supplirono all'influenza personale. Quanti potevano leggerli,
s'affratellavano. Era la vittoria delle idee sostituita alla potenza
dei nomi o al fascino del mistero. Le nostre trovavano un'eco,
rispondevano visibilmente a una aspirazione fino allora inconscia e
dormente nel core dei giovani. E bastava per rinfrancarci, e
segnarci doveri che in verità noi tutti, piccola falange di
precursori, per quanto concerne operosità instancabile e sagrificio,
compiemmo. Dall'associazione dei San Simoniani in fuori, alla quale
la semplice pretesa di religione inspirava appunto in quei tempi più
assai potenza di sagrificio e d'amore che non n'ebbero tutte le
società democratiche puramente politiche, io non vidi - e lo dico
per debito ad uomini che morirono o vivono noncuranti di fama e
pressochè ignoti - nucleo di giovani devoti con tanto affetto
reciproco, con tanta verginità d'entusiasmo, con tanta prontezza a
fatiche d'ogni giorno, d'ogni ora, come quello che s'adoprava allora
con me. Eravamo, Lamberti, Usiglio, un Lustrini, G. B. Ruffini ed
altri cinque o sei modenesi quasi tutti soli, senza ufficio, senza
subalterni, immersi l'intero giorno e gran parte della notte nella
bisogna, scrivendo articoli e lettere, interrogando viaggiatori,
affratellando marinai, piegando fogli di stampa, legando involti,
alternando tra occupazioni intellettuali e funzioni d'operai: La
Cecilia, allora dirittamente buono, s'era fatto compositore di
stampa: Lamberti, correttore; tal altro letteralmente facchino per
economizzarci la spesa del trasporto dei fascicoli a casa. Vivevamo
eguali e fratelli davvero, d'un solo pensiero, d'una sola speranza,
d'un solo culto all'ideale dell'anima; amati, ammirati per tenacità
di proposito e facoltà di lavoro continuo dai repubblicani
stranieri: spesso - dacchè spendevamo, per ogni cosa, del nostro -
fra le strette della miseria, ma giulivi a un modo e sorridenti d'un
sorriso di fede nell'avvenire. Furono, dal 1831 al 1833, due anni di
vita giovine, pura e lietamente devota, com'io la desidero alla
generazione che sorge. Avevamo guerra accanita abbastanza e
pericoli, com'ora dirò, ma da nemici dai quali l'aspettavamo. La
misera tristissima guerra d'invidie, d'ingratitudini, di sospetti e
calunnie da uomini di patria e spesso di parte nostra, l'abbandono
immeritato d'antichi amici, la diserzione dalla bandiera, non per
nuovo convincimento, ma per fiacchezza, vanità offesa e peggio, di
quasi una intera generazione che giurava in quelli anni con noi, non
aveva ancora non dirò sfrondato o disseccato l'anime nostre,
amorevoli oggi e credenti siccome allora, ma insegnato a noi pochi
La violenta e disperata pace,
il lavoro senza conforto di speranza individuale, per sola riverenza
al freddo, inesorabile, scarno dovere. - E Dio ne salvi quei che
verranno.
Il contrabbando delle nostre stampe in Italia era faccenda vitale
per l'Associazione e grave per noi. Un giovane Montanari che
viaggiava sui vapori di Napoli rappresentandone la Società, e morì
poi di colèra nel Mezzogiorno di Francia, altri, impiegati sui
vapori francesi, ci giovavano mirabilmente. E finchè l'ira dei
Governi non fu convertita in furore, affidavamo ad essi gli involti,
contentandoci di scrivere sull'involto destinato per Genova, un
indirizzo di casa commerciale non sospetta in Livorno, su quello che
spettava a Livorno un indirizzo di Civitavecchia e via così:
sottratto in questo modo l'involto alla giurisdizione doganale e
poliziesca del primo punto toccato, l'involto serbavasi
dall'affratellato sul battello, finchè i nostri, avvertiti, non si
recavano a bordo dove si ripartivano le stampe celandole intorno
alla persona. Ma quando, svegliata l'attenzione, crebbe la vigilanza
e furono assegnate ricompense a chi sequestrasse, e pronunziato
minacce tremendo agli introduttori - quando la guerra inferocì per
modo che Carlo Alberto, con editti firmati dai ministri Caccia,
Pensa, Barbaroux, Lascaréne, intimò a chi non denunzierebbe , due
anni di prigione e una ammenda, promettendo al delatore metà della
somma e il segreto - cominciò fra noi e i governucci d'Italia un
duello che ci costava sudori e spese, ma che proseguimmo con buona
ventura. Mandammo i fascicoli dentro barili di pietra pomice, poi
nel centro di botti di pece intorno alle quali lavoravamo, in un
magazzinuccio affittato, la notte: le botti, dieci o dodici, si
spedivano numerate per mezzo d'agenti commerciali ignari a
commissionarî egualmente ignari nei luoghi diversi, dove taluno dei
nostri avvertito dell'arrivo, si presentava a mercanteggiare la
botte che indicava col numero il contenuto. Cito un solo dei molti
ripieghi che andavamo ideando.
Avevamo del resto ai contrabbandi l'ajuto di qualche repubblicano
francese e segnatamente della marineria dei legni mercantili
italiani, buona allora com'oggi, e verso la quale avevamo con
attività grande diretto il nostro lavoro. Primi fra i migliori erano
gli uomini di Lerici, e ricordo con affetto e ammirazione come ad
esempio un tipo mirabile di popolano, Ambrogio Giacopello, che perdè
nave e ogni cosa per averci contrabbandato sulle coste liguri
duecento fucili, e mi rimase amico devoto. Credo ch'ei viva tuttavia
in Marsiglia, e vorrei che potessero cadergli sott'occhio queste mie
linee. So ch'egli sarebbe lieto del mio ricordo. Non ho mai trovato
ingratitudine e oblio nei popolani d'Italia.
Incapace d'impedire la circolazione dei nostri scritti all'interno,
i Governi d'Italia tentarono di soffocare la nostra voce in
Marsiglia, e si rivolsero al Governo Francese. E il Governo Francese
che, riconosciuto da tutti, non aveva più cagione d'impaurire il
dispotismo Europeo, annuì alle richieste. Ma quella persecuzione non
impedì menomamente il progresso del nostro lavoro. L'ordinamento si
diffuse rapidamente da Genova alle Riviere, a parecchie località del
Piemonte e a Milano, dalla Toscana alle Romagne. I Comitati si
moltiplicarono. Le comunicazioni segrete si stabilirono regolari e
possibilmente sicure fino alle frontiere napoletane. I viaggiatori
da una provincia all'altra corsero frequenti a infervorare gli animi
e trasmettere le nostre istruzioni. La sete di stampati fu tale che,
non bastando i nostri, stamperie clandestine s'impiantarono su due o
tre punti d'Italia: ristampavano cose nostre o diramavano brevi
pubblicazioni inspirate dalle circostanze locali. La Giovine Italia,
accettata con entusiasmo, diventava in meno d'un anno associazione
dominatrice su tutte l'altre in Italia.
Era il trionfo dei principî. Il nudo fatto che in così breve tempo
pochi giovani, ignoti, sprovveduti di mezzi, esciti dal popolo,
avversi pubblicamente nelle dottrine e nelle opere a quanti avevano,
per voto di popolo e influenza riconosciuta, capitanato fin allora
il moto politico, si trovassero capi d'una associazione potente
tanto da concitarsi contro la trepida persecuzione di sette Governi,
bastava, parmi, a provare che la bandiera inalzata era la bandiera
del vero - (1861).
Il decreto ministeriale che, per compiacere ai governi dispotici
d'Italia, m'esiliava di Francia, mi colse nell'agosto del 1832.
Importava continuare in Marsiglia, dov'erano ordinate le vie di
comunicazione coll'Italia, la pubblicazione dei nostri scritti. Però
determinai di non ubbidire e mi celai, lasciando credere ch'io
partiva.
Gli esuli di tutte le Nazioni erano allora accantonati con un misero
sussidio nei dipartimenti e sottomessi, in virtù di quel sussidio, a
leggi speciali che ricordavano i sospetti dell'antica rivoluzione e
somigliavano a quelle che poi costituirono la classe degli
attendibili nel Mezzogiorno d'Italia. Io non riceveva sussidio
governativo e mandai quindi alla Tribune, giornale repubblicano
d'allora, la protesta seguente:
«Quando vige un sistema fondato sulle eccezioni, quando diritti di
domicilio e di libertà individuale sono manomessi da una legge
ingiusta anche più ingiustamente applicata, quando accusa, giudizio
e condanna emanano da uno stesso potere, o senza possibilità di
difesa, quando lo sguardo cacciato intorno non s'abbatte che in
esempî di tirannide e di sommessione, è debito d'ogni uomo ch'abbia
senso di dignità di protestare altamente.
«E scopo della protesta non è un tentativo di difesa inutile e
impotente, nè un desiderio di movere a simpatia quei che soffrono
essi pure gli stessi mali, ma il bisogno d'infamare davanti agli
uomini il Potere che abusa della propria forza, di rivelare al
paese, nel quale l'ingiustizia è commessa, le turpitudini di chi
governa, d'aggiungere un documento a quelli sui quali un popolo
presto o tardi condanna quei che lo tradiscono e lo disonorano.
«Per queste ragioni io protesto.
«I Giornali parlarono dell'Ordine che m'è dato dal Ministero
Francese e dei motivi sui quali è fondato.
«Io sono accusato di cospirare per l'emancipazione del mio paese,
cercando di suscitarvi gli animi con lettere e stampati segretamente
introdotti: sono accusato di mantenere corrispondenza con un
Comitato repubblicano in Parigi, e d'avere avuto, io Italiano privo
di relazioni e di mezzi e risiedente in Marsiglia, contatto
pericoloso allo stato coi combattenti del chiostro di S. Mery.
«Non respingerò io di certo la responsabilità della prima accusa. Se
cercare di diffondere utili verità, per via di stampa, nella propria
patria ha nome di cospirazione, io cospiro. Se l'esortare i propri
concittadini a non addormentarsi nella servitù, a durare
combattendola, a vegliare e afferrare, appena s'affacci, il momento
propizio per conquistarsi nome di patria e Governo Nazionale, è
cospirazione, io cospiro. Ogni uomo ha debito di cospirare per
l'onore e la salute de' suoi fratelli. E nessun Governo che
s'intitoli libero ha diritto di trattare come colpevole l'uomo che
compie quel sacro dovere. Soli gli uomini dello stato d'assedio
possono rinnegare principî siffatti(14).
«Ma della seconda accusa ove stanno le prove?
«I dispacci ministeriali citano alcuni estratti di lettere che
s'affermano scritti da me agli amici dell'interno, e, a quanto
dicesi, sequestrate.
«Quelle lettere contengono, a detta del ministero, rivelazioni sulle
giornate del 5 e del 6 di giugno. Esse dichiarano che i fatti di
quei due giorni non hanno danneggiato in modo alcuno la parte
repubblicana di Francia; che il tentativo fallì unicamente perchè i
patrioti dei Dipartimenti, che dovevano trovarsi in Parigi,
mancarono alla promessa; che nondimeno si sta maturando un altro non
remoto disegno d'insurrezione; che il trono di Luigi Filippo è
minato per ogni dove; e finalmente che il Comitato repubblicano di
Parigi sta per mandare cinque o sei emissari in Italia per
coordinarvi i lavori degli uomini della libertà.
«Ove sono quelle lettere? in Parigi? le sequestrava il Governo di
Francia? furono esse comunicate all'accusato? Somministrano la mia
condotta, i miei atti, le mie corrispondenze prove che convalidino
l'affermazione dell'essere le lettere scritte da me? No. Le
citazioni delle lettere spettano alla polizia Sarda; gli originali
stanno, dicono, ne' suoi archivî; il ministro di Francia non le cita
che a brani, sull'altrui fede. Soltanto, ei crede che le altrui
relazioni meritino fede da lui. Perchè? Come? esiste un solo
ragguaglio di polizia francese che mi dimostri cospiratore contro il
Governo di Francia? Fui io mai colpevole di ribellione? o sorpreso
nelle file della sommossa?
«In condizione siffatta di cose, che mai posso io fare?
«È possibile dimostrare le falsità d'un fatto speciale, definito;
non è possibile dimostrar quella d'un fatto generale che può
abbracciare gli atti e i pensieri di tutta una vita: non è possibile
difendersi da una accusa che non s'appoggia su prova alcuna.
«Io chiesi che mi fossero comunicate le lettere ministeriali; ed
ebbi rifiuto. Non mi rimaneva che la facoltà di negare il fatto
siccome falso, e lo feci. Negai l'esistenza nelle mie lettere delle
linee in corsivo che sole accennerebbero a un intendimento comune
tra me e il partito repubblicano di Francia. Quelle linee sono una
interpolazione. Altro non esprimono che osservazioni e giudizî
intorno a fatti recenti, e non possono formare argomento d'accusa.
«Io dissi queste cose al Ministro in una mia lettera del 1.° agosto.
Smentii quelle linee, sfidando la polizia francese e la sarda a
provarne l'autenticità. Chiesi inchiesta, processo e giudizio. Il
Ministro non condiscese a rispondermi.
«Il prefetto di Marsiglia, che m'aveva promesso d'aspettare la
risposta del signor di Montalivet, m'intimò a un tratto un secondo
ordine di partenza. E mi fu forza cedere.
«Son questi i fatti.
«Uomini del Potere, che cosa sperate? che la vostra vergognosa
sommessione ai voleri della Santa Alleanza c'induca a tradire i
nostri doveri verso la Patria? o che le vostre insistenti
persecuzioni possano mai sconfortarci e stancarci di quella santa
libertà che voi rinegaste saliti appena al potere? Pensate di
riuscire con una serie di atti arbitrarî nella missione retrograda
che v'assumeste di far germogliare la diffidenza dove il vincolo di
fratellanza va più sempre stringendosi? o d'infondere un senso di
riazione nei patrioti di tutte contrade contro quella Francia alla
quale voi soli contendete fati e missione?
«O credete, uomini abbiettamente codardi, cancellarvi di sulla
fronte il marchio meritato d'infamia, allontanando gli uomini che
voi spingeste sull'orlo dell'abisso per abbandonarli al pericolo,
gli uomini la cui presenza sul suolo francese è un sanguinoso
rimprovero, un perenne rimorso per voi? Non lo sperate. Quella
macchia è incancellabile; ogni giorno della vostra dominazione la fa
più profonda; ogni giorno solleva una voce di proscritto per
maledirvi e gridarvi:
«Seguite, seguite! Voi ci rapiste libertà, patria, esistenza:
rapiteci or, se potete, anche la parola: rapiteci l'alito che ci
reca un profumo della nostra terra: rapite al proscritto la sola
gioja ch'ei serbi sul suolo straniero, quella d'affondare lontano
sul mare lo sguardo dicendo a sè stesso: là è l'Italia! Seguite,
seguite! D'una in altra umiliazione trascinatevi ai piedi dello
Czar, del Papa o di Metternich; supplicate perchè vi si concedano
ancora alcuni giorni d'esistenza, offrendo in ricambio oggi la
libertà d'un patriota, domani la di lui testa. Seguite, seguite!
Spingetevi più sempre innanzi sulla via che attraverso il disonore
conduce a rovina. È necessario, perchè i popoli raggiungano salute,
che voi possiate rivelarvi in tutta la nudità d'un sistema d'inganno
e di bassezza nuovo in Europa. È necessario, perchè la santa causa
trionfi, che si dimostri innegabilmente per voi l'impossibilità
d'una alleanza tra la causa dei re e quella dei popoli.
«Ma quando la misura sarà colma, quando la campana a stormo dei
popoli suonerà l'ora della libertà, e la Francia in armi vi
chiederà: come usaste il potere ch'io v'affidai? guai a voi! popoli
e re vi respingeranno ad un'ora. Voi consegnaste la patria senza
difesa alle insidie dei despoti; cacciaste a piene mani il disonore
sovr'essa; faceste quasi retrocedere d'un passo l'associazione
universale; per voi la libertà delle nazioni fu data in pasto alla
Santa Alleanza; per voi s'invelenirono l'anime, s'annebbiarono di
diffidenza i generosi pensieri, s'interruppe il nobile moto di
fratellanza che le giornate del Luglio avevano iniziato. Poi, quando
le vittime della vostra diplomazia, dei vostri perfidi protocolli,
vennero, siccome spettri, a chiedervi asilo, voi le respingeste, le
abbeveraste d'oltraggi, e cancellaste dai vostri codici i diritti
inviolabili della sciagura e il dovere ospitale.
«Quanto a noi, uomini d'azione, minorità sacra alla sventura,
sentinelle perdute della rivoluzione, diemmo, il dì che giurammo
alla causa degli oppressi, un addio solenne alla vita, alle sue
gioje, a' suoi conforti. Non entri in noi ira ingiusta o diffidenza
fatale. La fazione ch'oggi governa nulla ha di comune coi popoli che
gemono conculcati come noi gemiamo. Serbiamoci uniti, e stringiamo
le file. L'ora della giustizia verrà per noi tutti(15).»
24 agosto 1832.
Giuseppe Mazzini.
Dopo la Protesta, rincrudirono, com'era da aspettarsi, le
persecuzioni. Irritato della nostra ostinazione e sollecitato senza
posa dagli agenti dei nostri Governi, il Ministro Francese tentò
tutte le vie per sopprimere la Giovine Italia: intimò lo sfratto a
parecchi tra i nostri operai compositori e a taluni fra quei ch'egli
supponeva collaboratori: s'adoprò a impaurire il pubblicatore:
minacciò di sequestri: moltiplicò le ricerche per avermi in mano.
Noi sostenemmo virilmente la lotta: agli operai cacciati sostituimmo
operai francesi: un cittadino di Marsiglia, Vittore Vian, si fece
gerente: i nostri si dispersero nei piccoli paesi vicini al centro
del nostro lavoro: provvedemmo a trafugare le copie degli scritti
appena escite dal nostro torchio; e quanto a me, cominciai allora
quel modo di vita che mi tenne ventidue anni su trenta prigioniero
volontario, fra le quattro pareti d'una stanzuccia. Non mi
rinvennero. Gli accorgimenti coi quali mi sottrassi - le doppie spie
che servivano, a un tempo, per poco danaro, al prefetto e a me,
inviandomi lo stesso giorno copia delle informazioni date sul mio
conto alle Autorità - il comico modo col quale, scoperto un giorno
il mio asilo, persuasi al Prefetto di lasciarmi partire, invigilato
da' suoi agenti, senza scandali e chiassi, poi mandai in mia vece a
Ginevra un amico che m'era somigliante della persona, mentr'io
passava tra i birri in uniforme di guardia nazionale - non entrano
in questo racconto che non mira a pascere la curiosità dei lettori
sfaccendati, ma a giovare d'indicazioni storiche e d'esempî il
paese. Basti ch'io rimasi per tutto un anno in Marsiglia, scrivendo,
correggendo prove, corrispondendo, abboccandomi a mezzo la notte con
uomini del Partito che venivano d'Italia e con taluni fra i capi
repubblicani di Francia.
Ed ebbe allora cominciamento, da una atroce calunnia, quella turpe
guerra sleale d'accuse non provate mai nè fondate, d'insinuazioni
impossibili a confutarsi, di sospetti introdotti in una
pubblicazione per giovarsene poi in un'altra, di congetture
gesuitiche sulle intenzioni, di frasi strappate all'insieme d'uno
scritto e mutilate e isolate e tormentate a farne escire un senso
contrario alla mente dello scrittore, che la polizia francese dei
tempi di Luigi Filippo insegnò alle polizie dei tirannucci italiani
e che, continuata con insistenza sistematica da storici, uomini in
ufficio, gazzettieri anonimi, scribacchiatori d'opuscoli e aspiranti
a impieghi o sussidî, e spie e trafficatori di parte moderata per
tutta Italia, ci seguì, come i corvi gli eserciti, per oltre a
trent'anni di vita; m'assalì sui fianchi, alle spalle, raro o senza
nome di fronte, latra anch'oggi e ringhia e urla contro ogni mio
atto vero o inventato di pianta, e riuscì, colla plebe dei creduli e
di quanti, irati nel segreto dell'anima alla propria impotenza,
abborrono, come i gufi la luce, chi fa o tenta di fare, ad
accumulare nella mia patria, e qui dov'io scrivo, le taccie di
comunista, e socialista settario, d'uom di sangue e di terrorista,
d'ambizioso intollerante esclusivo e di cospiratore codardo contro
me che confutai stampando le sette socialistiche a una a una,
chiamai il terrorismo francese delitto d'uomini tremanti per sè,
sagrificai, non curando il biasimo de' miei più cari, la
predicazione delle mie credenze a ogni probabilità che si facesse
l'Italia per altra via, diedi lietamente l'opera mia nel silenzio
anche a uomini di parte avversa purchè giovassero, strinsi, immemore
di me stesso, la mano che avea scritto mortali e false accuse sul
conto mio quando m'apparve liberatrice, e affrontai con indifferenza
serena ogni sorta di pericoli, mentre gli accusatori non sognarono
mai di pericolo nella vita fuorchè di spiacere ai padroni. Guerra di
tristi bassamente e crudeli, perchè non paga di perseguitare colla
forza chi dissente da essi, tenta d'uccidere l'anima e l'onore
dell'avversario: guerra di vili, perchè combatte senza rischio e di
sotto allo scudo del potente, sopprime le difese colla violenza e si
giova financo del silenzio sdegnoso del calunniato a convalidar la
calunnia: guerra fatale ai popoli che non le impongono fine, perchè
mette nella loro vita il tarlo d'una immoralità che ne rode la fama
al di fuori e la maschia energia dell'azione al di dentro. E per
questo ne parlo e mi toccherà riparlarne.
L'accusa alla quale io alludo m'apponeva un assassinio e peggio,
dacchè un decreto d'assassinio è colpa peggiore. Il Governo
Francese, irritato del non potere trovarmi, pensò che infamandomi
reo di delitto volgare, avrebbe allontanato da me la stima e
l'affetto che mi procacciavano asilo. Però, raccolse dalle mani d'un
agente di polizia un documento storico al quale l'impostore aveva
apposto il mio nome, e lo inserì, pur sapendolo opera di falsario,
nel Monitore.
Il 20 ottobre 1832 un Emiliani era stato assalito sulla strada e
ferito non mortalmente in Rodez, dipartimento delle Aveyron, da
parecchi esuli italiani. Il 31 maggio 1833, poco dopo pronunciata
sentenza di cinque anni di prigione contro i feritori, l'Emiliani e
un Lazzareschi di lui compagno, furono, in un caffè, mortalmente
feriti da un giovine Gavioli, esule del 1831. Ambi erano, a quanto
poi seppi, spie del duca di Modena e tenuti per tali dai loro
compagni di proscrizione. Al tempo dei tristi fatti io non sapea che
esistessero; e m'erano egualmente ignoti i loro aggressori.
Già pochi giorni dopo il primo ferimento, il Giornale dell'Aveyron
avea preparato il terreno all'accusa, e m'avea suggerito la protesta
seguente:
Al Direttore della Tribune.
«Signore,
«Il Giornale dell'Aveyron nel suo numero del 27 ottobre, parlando
del triste fatto accaduto recentemente in Rodez e nel quale un
Emiliani, antico stalliere del Duca di Modena, fu ferito, s'esprime
così:
«Le informazioni raccolte dal Prefetto lo conducono a credere che
gli assalitori italiani dello sventurato Emiliani non sono che
strumenti dei quali si giovano i capi del Partito detto della
Giovine Italia per liberarsi di quei fra i loro compatrioti che non
vogliono sottomettersi ai loro Statuti.»
«Se il gazzettiere intende parlare degli uomini stretti a una fede
politica ch'essi credono sola capace di rigenerare la loro patria e
i principî della quale si svolgono nella pubblicazione mensile la
Giovine Italia, io sono, come Direttore di quella pubblicazione, uno
fra i capi di quel Partito. Credo quindi aver facoltà di rispondere
per tutti all'accusa.
«Io do la più solenne mentita al gazzettiere e a quanti si
compiacessero di ripeterne le affermazioni.
«Io sfido chicchessia a portare in campo la menoma prova di ciò che
così avventatamente s'afferma a danno d'uomini onorevoli per lo meno
quanto il gazzettiere dell'Aveyron, a danno d'uomini che la sventura
non foss'altro dovrebbe proteggere contro la calunnia.
«Aggiungo che l'idea d'un partito il quale si proporrebbe di
spegnere quanti non abbracciano i suoi Statuti è siffattamente
assurda che solo forse in Francia il gazzettiere dell'Aveyron può
profferirla.
«La Giovine Italia non ha stromenti: non accoglie se non uomini
liberi che liberamente abbracciano i suoi principî e non giurano se
non di sperdere, appena potranno, gli Austriaci.
«Ed è questa la mia risposta.
«Quanto a ciò che il gazzettiere si compiace d'aggiungere intorno a
scene che i costumi francesi rispingono e che non potranno mai
nazionalizzarsi in Francia, non monta occuparsene. Ogni Francese che
pensa prima di scrivere sa che gli agguati non appartengono
specialmente ad alcuna nazione e che si commettono in ogni luogo
delitti respinti dai costumi dei popoli. Gli assassini di Ramus e
Delpech valgono di certo quei che ferirono l'Emiliani.
«Credetemi, Signore, vostro
30 ottobre 1832(16).
«Mazzini.»
Ma nel giugno 1833 comparve, come dissi, nel Monitore una Sentenza
pronunziata da un Tribunale Segreto che condannava Emiliani e
Lazzareschi a morte, altri a diverse pene, col nome mio e quello di
La Cecilia come Preside e Segretario del Tribunale. L'artificio era
grossolano. Le date non corrispondevano alla possibile realtà.
L'italiano era pieno zeppo di errori grammaticali(17) ch'io non era
uso veramente a commettere. Protestai nuovamente, nei termini
seguenti, nel National.
«Signore.
«Il Monitore del 7 giugno contiene, a proposito d'un assassinio
commesso in Rodez, una pretesa esposizione dei fatti che
precedettero e accompagnarono quel triste evento; s'afferma in
quella che la morte d'Emiliani e di Lazzareschi è dovuta a una
sentenza pronunziata contr'essi da un tribunale segreto siedente in
Marsiglia e appartenente alla Giovine Italia. Il Monitore cita la
sentenza in esteso e v'appone il mio nome colla qualità di Preside
del Tribunale.
«Ch'io sia stato cacciato di Francia senza cagione, senza difesa,
per solo arbitrio ministeriale e bench'io vivessi indipendente,
fuori d'ogni deposito e di mezzi miei, non ha di che sorprendere
alcuno come fatto d'un Governo corrotto e corrompitore, che fu
successivamente spergiuro sui Pirenei, birro in Ancona, denunziatore
in Frankfort, e persecutore, in nome e a pro della Santa Alleanza,
dovunque spuntava un raggio d'indipendenza, dovunque s'incontrarono
anime generosamente altere in preda a sciagure virilmente durate. È
tra noi, patrioti, ed esso guerra mortale.
«Ma che dopo d'aver ferito s'infonda veleno nella piaga, dopo di
aver vibrato contro un nemico ogni saetta di persecuzione si vibri
anche quella della calunnia, dopo d'avergli tolto libertà, conforto,
riposo, si tenti togliergli anche l'onore, è cosa sì bassa che non
vorremmo trovarne colpevoli gli uomini stessi dello stato d'assedio.
«Io non ispenderò tempo a notare tutte le contradizioni che
abbondano in quella esposizione, lavoro perfido e assurdo, nel quale
ogni cosa è falsa dalla data della mia proscrizione ch'ebbe luogo
nell'agosto, e non dopo il novembre 1832, fino a quella della
pretesa sentenza attribuita a Marsiglia, mentre è citata nell'atto
stesso una lettera indirizzata da Marsiglia a non so qual punto:
dall'asserzione che pone a risultato dei procedimenti, iniziati in
ottobre contro i supposti autori delle prime ferite inflitte a
Emiliani cinque anni di reclusione, mentre quei procedimenti furono
conchiusi da una assoluzione senza restrizioni fino alla
comunicazione della sentenza che il Ministero dichiara fattagli nel
gennajo 1833, mentre l'istruzione cominciata in ottobre, e
proseguita oltre il gennaio, non ne fa cenno.
«L'accusa parte da troppo basse sfere perch'io m'avvilisca a
difendermi. Ma davanti ai tribunali io chiederò conto al Monitore
dell'audacia colla quale ei s'attentava di sottoscrivere quel
documento col nome d'un onesto, straniero financo a un pensiero di
colpa. Chiederò come, senz'altro indizio che una semplice copia
della quale non fu provata l'autenticità, s'osi chiamarmi assassino.
«Intanto i molti, che s'assunsero spontanei la mia difesa, hanno
diritto di esigere che io smentisca l'accusa.
«Però, la smentisco.
«Smentisco formalmente esposizione, sentenza, ogni cosa.
«Smentisco Monitore, gazzette semi-officiali e Governo.
«E sfido il Governo, gli agenti suoi, e le polizie straniere che
architettarono la calunnia, a provare una sola delle cose affermate
a mio danno; a mostrare l'originale della sentenza e la firma mia, a
scoprire una sola linea proveniente da me che possa far credere alla
possibilità d'un tale atto da parte mia.
«Vogliate, Signore, inserire ecc.
«Giuseppe Mazzini.»
Il Monitore tacque. L'originale non fu mostrato. Io non poteva
allora, celato in Marsiglia com'io era e non potendo quindi nè
presentarmi nè dar mandato legale a chi facesse le parti mie,
iniziare il processo di diffamazione. Se non che l'Autorità
giuridica sciolse senz'altro il problema. La Corte Suprema
dell'Aveyron(18) decise che il delitto, conseguenza di rissa, s'era
commesso senza premeditazione. Più dopo, credo nel 1840, Gisquet,
Prefetto di Polizia nel 1833, scrivendo le sue Memorie e speculando,
per far denaro, sugli aneddoti melodrammatici, riprodusse l'accusa:
poi, chiamato in giudizio da me, dichiarò stimarmi onesto e incapace
di misfatti e il tribunale pronunziò sentenza in quel senso(19). Più
dopo ancora, nel 1845, un Ministro Inglese, Sir James Graham, che
aveva osato far rivivere la calunnia, fu costretto, da informazioni
attinte presso i Magistrati dell'Aveyron, a chiedermi scusa in
pubblica seduta di Parlamento. E nondimeno, da quella prima calunnia
ripetuta per più anni da gazzette e da libelli anonimi a uomini che
non avevano letto e non potevano, sotto la tirannide, leggere i
documenti officiali che la distruggevano, scese e si radicò
lentamente nell'animo di molti l'opinione ch'io mi fossi uomo di
vendette tenebrose e di sangue e che la Giovine Italia avesse
Statuti tremendi ai violatori del giuramento e a quanti
dissentissero dalle sue dottrine.
Io abborro - e quanti mi conoscono dappresso lo sanno - dal sangue e
da ogni terrore eretto in sistema, come da rimedî feroci, ingiusti
ed inefficaci contro mali che vogliono essere curati dalla
diffusione libera delle idee: credo la vendetta, l'espiazione e
altri simili concetti, posti finora a base del diritto penale,
tristissimi e sterili, sia che l'applicazione mova dalla Società o
dall'individuo; e non accetto guerra, lamentandone la necessità,
contro la forza materiale violatrice del dovere e del diritto umano,
se non aperta e leale, fuorchè in un caso - e avrò campo di dire
qual sia. Ma la Giovine Italia che, separandosi dalle formole e
dalle abitudini vendicatrici dell'antica Carboneria, aveva abolito
fin la minaccia di morte contro il traditore spergiuro, non ebbe
mai, dal Centro che la dirigeva, se non uno Statuto, ed è quello che
i lettori possono vedere in questo volume. Soltanto, gli furono,
appunto nel tempo al quale si riferisce questo volume, aggiunte
alcune dilucidazioni morali che inserisco qui appresso. Nè mai ci
dipartimmo da quelle norme. A chi ci proponeva di spegnere traditori
o spie, rispondevamo: additate i Giuda a tutti e basti per essi
l'infamia. Quanto fu affermato o citato sul conto nostro da
scrittori infermi d'insania come d'Arlincourt e Cretineau Joly, o da
libellatori venduti come Bréval e Lahodde, è falso e apocrifo. Ben
possono a insaputa nostra essersi improvvisate modificazioni locali
al nostro Statuto da frazioni menome dell'Associazione; ma chi tra
gli onesti vorrebbe giudicare il Cattolicesimo sui giuramenti
orribili del Sanfedismo? È possibile che uno o altro nucleo
dell'Associazione abbia, nelle Romagne segnatamente, decretato il
pugnale contro disertori o denunziatori; ma chi tra gli onesti
vorrebbe apporre all'istituzione monarchica l'assassinio di Prina?
Le dilucidazioni date(20) nel 1833 al nostro Statuto erano le
seguenti:
«La Giovine Italia ha per doppio scopo di riunire la gioventù nella
quale sta il nervo delle forze italiane sotto l'influenza d'uomini
veramente rivoluzionari, onde, allo scoppiare del moto, non ricada
sotto i primi che si presentano a impadronirsene, e di riunire in
accordo per capi o rappresentanti tutte le diverse società che in
Italia s'adoprano, sotto forme diverse, a ottenere Unità,
Indipendenza, Libertà vera alla Patria.
«Il primo intento è affidato, proporzionatamente ai loro gradi e
alla loro situazione, a tutti i membri della Giovine Italia. Il
secondo è serbato alla Centrale, e alle Congreghe Provinciali, sotto
la direzione della Centrale.
«Principii politici e morali dell'Associazione:
«Una Legge morale governa il mondo: è la Legge del Progresso.
«L'uomo è creato a grandi destini. Il fine pel quale è creato è lo
sviluppo pieno, ordinato e libero di tutte le sue facoltà.
«Il mezzo per cui l'uomo può giungere a questo intento è
l'Associazione co' suoi simili.
«I popoli non toccheranno il più alto punto di sviluppo sociale al
quale possono mirare, se non quando saranno legati in un vincolo
unico sotto una direzione uniforme regolata dagli stessi principî.
«La Giovine Italia riconosce in conseguenza l'Associazione
universale dei Popoli come l'ultimo fine dei lavori degli uomini
liberi. Essa riconosce e inculca con ogni mezzo la Fratellanza dei
Popoli.
«Bensì, perchè i popoli possano procedere uniti sulla via del
perfezionamento comune, è necessario ch'essi camminino sulle basi
dell'Eguaglianza. Per essere membri della grande Associazione
conviene esistere, avere nome, e potenza propria.
«Ogni popolo, in conseguenza, deve, prima d'occuparsi dell'Umanità,
costituirsi in Nazione.
«Non esiste veramente Nazione senza Unità.
«Non esiste Unità stabile senza Indipendenza: i despoti, a diminuire
la forza dei popoli, tendono sempre a smembrarli.
«Non esiste Indipendenza possibile senza Libertà. Per provvedere
alla propria indipendenza è d'uopo che i popoli siano liberi, perchè
essi soli possono conoscere i mezzi per serbarsi indipendenti, essi
soli hanno a sagrificarsi per esserlo, e senza libertà non esistono
interessi che spingano i popoli al sagrifizio.
«La Giovine Italia tende in conseguenza a conquistare all'Italia
l'Unità, l'Indipendenza, la Libertà.
«Quando il potere è ereditario e nelle mani d'un solo, non v'è
libertà durevole mai.
«Il potere tende sempre ad aumentare e concentrarsi.
«Quando il potere è ereditario, gli acquisti del primo fruttano al
secondo. L'eredità del potere toglie a chi ne è rivestito la
coscienza della sua origine popolare. Sottentrano per conseguenza
nei Capi ereditarî interessi particolari a quelli della Nazione; e
inducono una lotta che, presto o tardi, trascina la necessità d'una
Rivoluzione. Ora quando una nazione compie una Rivoluzione, essa
deve cercare d'imporle fine il più presto possibile, e non ha altro
mezzo per questo che troncare radicalmente ogni via per la quale si
possa ricadere nella lotta.
«Le Rivoluzioni si fanno col Popolo pel Popolo. Per produrre
vivissimo nel Popolo il desiderio della Rivoluzione conviene
infondergli la certezza che la Rivoluzione si tenta per esso. Per
infondergli questa certezza, è necessario convincerlo de' suoi
diritti, e proporgli la Rivoluzione come il mezzo d'ottenerne il
libero esercizio. È necessario per conseguenza proporre come scopo
alla Rivoluzione un sistema popolare, un sistema che enunzi nel suo
programma il miglioramento delle classi più numerose e più povere,
un sistema che chiami tutti i cittadini all'esercizio delle loro
facoltà e perciò al maneggio delle cose loro, un sistema che
s'appoggi sull'eguaglianza, un sistema che impianti il Governo sul
principio dell'elezione largamente inteso e applicato, ordinato nel
modo meno dispendioso e più semplice.
«Questo sistema è il Repubblicano.
«La Giovine Italia è repubblicana unitaria.
«Essa tende, in religione, a stabilire un buon sistema parrocchiale,
sopprimendo l'alta aristocrazia del clero.
«Essa tende, in generale, all'abolizione di tutti i privilegi che
non derivino dalla legge eterna della capacità applicata al bene; a
diminuire gradatamente la classe degli uomini che si vendono e di
quelli che si comprano; in altri termini a ravvicinare le classi,
costituire il Popolo, ottenere lo sviluppo maggiore possibile delle
facoltà individuali; a ottenere un sistema di legislazione
accomodata ai bisogni; a promovere illimitatamente l'educazione
nazionale.
«Bensì, finchè il primo perno della Rivoluzione, ossia
l'Indipendenza, non sia ottenuto, essa riconosce che tutto deve
essere rivolto a quello scopo. Finchè quindi il territorio Italiano
non sia sgombro dal nemico, essa non riconosce che armi e guerra con
tutti i mezzi. Una dichiarazione di doveri, una di diritti, ma
l'effetto sospeso fino all'emancipazione del territorio: un Potere
dittatoriale, fortemente accentrato, composto d'un individuo
deputato per ciascuna provincia(21), riunito a consesso permanente,
responsabile allo spirar del mandato, vegliato nell'esercizio del
suo potere dall'opinione pubblica e dalla Giovine Italia convertita
in Associazione Nazionale: primi provvedimenti intorno alla stampa,
intorno ai giudizî criminali, intorno alle annone, intorno
all'amministrazione, e null'altro: creato intanto Commissioni che
maturino progetti di legislazione politica e civile da presentarsi
al Congresso Nazionale raccolto, libero il territorio, in Roma:
vietati gli accordi col nemico sul territorio: i cittadini armati
chiamati a guardar la città, a mobilizzarsi all'uopo e recarsi in
bande a infestare il nemico e servire d'ausiliarie all'esercito
Nazionale. Prima armi e vittoria, poi leggi e Costituzione.
«La Giovine Italia predica questi principî. I mezzi coi quali essa
si propone d'ottenere l'intento sono l'armi e l'incivilimento
morale.
«Pel primo, essa congiura, pel secondo, essa diffonde gli scritti
liberi, pubblica giornali, ecc.
«Congiurando e scrivendo, essa sa che la rigenerazione Italiana non
può compirsi che per mezzo d'una Rivoluzione Italiana davvero. Essa
biasima in conseguenza i movimenti parziali: essi non possono che
aggravare la nostra condizione. L'insurrezione d'un Popolo deve
compiersi con forze proprie. Dallo straniero non scendè mai libertà
vera o durevole. La Giovine Italia s'ajuterà degli eventi stranieri,
ma non fonderà su quelli le proprie speranze.
«Tutti i suoi membri sono incaricati di diffondere queste norme
generali.
«Ordinamento dell'Associazione:
«Una Congrega Centrale:
«Una Congrega Provinciale per ogni Provincia Italiana composta di
tre membri:
«Un Ordinatore per ogni città:
«Federati propagatori:
«Federati semplici.
«La Congrega Centrale elegge le Congreghe Provinciali, trasmette le
istruzioni Generali, crea e mantiene l'accordo fra le Congreghe
Provinciali, comunica i segnali di riconoscimento necessarî alle
Congreghe, provvede alla stampa e alla sua diffusione, forma un
disegno generale d'operazioni, riassume i lavori dell'Associazione,
accentra, non tiranneggia.
«Ogni Congrega Provinciale tiene la somma delle cose della Provincia
che le è affidata e dirige il lavoro: crea i segnali per gli
affratellati della Provincia, trasmette le istruzioni della
Centrale, inviando ad essa di mese in mese relazione dei progressi
dell'Associazione nella Provincia, dei mezzi materiali raccolti,
delle condizioni dell'opinione nelle diverse località: osserva i
bisogni e ne trasmette l'espressione alla Centrale.
«L'ordinatore in ogni città, scelto dalla Congrega Provinciale,
riassume i lavori della città e ne trasmette il quadro di mese in
mese alla Congrega Provinciale. Gli elementi della sua
corrispondenza con quella sono a un dipresso gli stessi dei quali si
compone la corrispondenza della Congrega Provinciale colla Centrale.
«I Propagatori vengono eletti dall'Ordinatore e dalla Provinciale
tra gli uomini che hanno core e mente: iniziano i semplici
affratellati e li dirigono secondo le loro istruzioni. Corrispondono
ciascuno coll'Ordinatore della loro città, e gli elementi della loro
corrispondenza sono a un dipresso gli stessi che formano la
corrispondenza dell'Ordinatore colla Provinciale. Trasmettono di
mese in mese all'Ordinatore il quadro del loro lavoro, e comunicano
ai loro subalterni le istruzioni che da lui ricevono.
«I semplici affratellati scelti dai Propagatori tra gli uomini che
hanno core, ma non mente bastevole a scegliere gli individui idonei,
dipendono dal loro Propagatore, a lui comunicano informazioni,
osservazioni, conoscenze, diffondono i principî della Giovine
Italia, e aspettano la chiamata.
«Ogni affratellato ha un nome di guerra.
«L'Associazione deve diffondersi, per ciò segnatamente che riguarda
le classi popolari(22), nella gioventù, negli uomini che hanno
succhiato le aspirazioni del secolo.
«Gli affratellati devono, possibilmente, provvedersi d'un fucile e
di cinquanta cartucce. A quei che non possono, provvederanno le
Congreghe Provinciali.
«Gli affratellati versano all'atto dell'iniziazione una
contribuzione che continuerà mensilmente, quando nol vieti la loro
condizione. L'ammontare delle contribuzioni, trasmesso di mano in
mano sino alla Congrega Provinciale, sarà consacrato ai bisogni
dell'Associazione, nella Provincia, salva una quota serbata alla
Centrale per viaggiatori, stampe, compra d'armi, ecc.
«Determinazione di contribuzione e di riparto, esenzioni, forme di
iniziazione, e tutte le disposizioni d'ordine secondario, si
lasciano alle Congreghe Provinciali. La Centrale abborre da ogni
tendenza soverchiamente dominatrice e non impone se non quel tanto
ch'è strettamente necessario all'unità del moto e all'accordo
comune.
«L'Associazione ha due ordini di segnali: gli uni, che non giovano
se non alle Congreghe Provinciali e ai viaggiatori che vanno
dall'una all'altra e da esse alla Centrale, e reciprocamente - e
sono ideati e trasmessi dalla Centrale: gli altri, che servono per
gli affratellati delle Provincie, sono scelti da ciascuna Congrega
Provinciale, comunicati alla Centrale, e variati ad ogni tre mesi,
più frequentemente se il bisogno lo esiga. S'anche quindi i segni
d'una Provincia fossero scoperti dalle polizie, l'altre provincie,
avendoli diversi, rimarrebbero fuor d'ogni rischio.
Il nostro lavoro era coronato di successo. L'istinto Nazionale s'era
ridesto. La formola Unità Repubblicana s'accettava con entusiasmo
dalla gioventù in tutte le provincie d'Italia. Gli uomini della
tirannide, il principe di Canosa, Samminiatelli, gli editori della
Voce della Verità scrivevano contro noi, ma con sì pazza ferocia
ch'ogni loro assalto ci fruttava amici. Metternich presentiva
l'importanza del nostro lavoro e scriveva al Menz in Milano: J'ai
besoin de deux éxemplaires complets de la Giovine Italia, dont cinq
volumes ont paru jusq'ici. J'attends aussi toujours les deux
exemplaires de la Guerra per Bande(23). La Società degli Apofasiméni
coi suoi affiliati delle Romagne, diretta da Carlo Bianco si versava
nelle nostre file; Carlo Bianco entrava membro del nostro Comitato.
La Società dei Veri Italiani, che non s'era ancora, in quell'epoca,
fatta regia, stringeva alleanza con noi. E le reliquie della
Carboneria che s'agitavano tuttavia, membra disjecta, in alcune
provincie Italiane, accettavano la nostra fede, e la nostra
direzione. In Francia, capo supremo di quanti avevano, anteriormente
a Luigi Filippo, dato il nome alla Carboneria, e corrispondente
venerato delle fratellanze segrete in Germania e altrove, era il
Buonarroti; e si poneva con me in contatto regolare e fraterno. E in
contatto con me stavano gl'influenti delle nuove Associazioni
repubblicane francesi, Goffredo Cavaignac, Armand Marrast e gli
arditi uomini della Tribune, Armand Carrel e i tattici del National.
Parole d'incoraggiamento ci venivano da Lafayette. Con noi erano i
capi dell'emigrazione Polacca. L'elemento Italiano cominciava, mercè
nostra, ad essere riconosciuto da quanti uomini di progresso
lavoravano uniti o indipendenti in Europa elemento importante
dell'avvenire. E in Italia erano uomini avversi, per istinto o
paura, a ogni cosa che fosse moto: non moderati. Gioberti, padre e
pontefice anni dopo della malaugurata consorteria e insultatore
sistematico di me e di tutti noi, accettava in Torino gli ordini del
nostro lavoro e ci scriveva inneggiando: Io vi saluto, precursori
della nuova Legge politica, primi apostoli del rinovato Evangelo:...
io vi prenunzio un buon successo nella vostra impresa, poichè la
vostra causa è giusta e pietosa, essendo quella del popolo, la
vostra causa è santa, essendo quella di Dio... Ella è eterna e però
più duratura della forma antica di quello, il quale diceva: Dio e il
prossimo; ma ora dice per vostra bocca e del secolo: Dio e il
Popolo... Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo Dio e
il Popolo, e studieremo di propagar questo grido... Combatteremo
eziandio certi falsi amatori di libertà, che vogliono questa senza
il popolo o contro il popolo, malaccorti od ingiusti; certi odiatori
delle antiche aristocrazie... che, facendo rivoluzioni, intendono a
traslocare il potere in sè stessi divisi dal popolo, anzi che farsi
popolo e restituirgli i diritti rapiti: certi che vilipendono e
bistrattano il popolo con nomi spregevoli ed abborriti, con
angherie, con soprusi, ed aggravano il suo giogo colla stessa mano,
con cui tentano schermirsi da quello dei nobili e dei tiranni... Io
vi prometto francamente una costante disposizione e un vivo
desiderio di morire con voi, se v'è d'uopo, per la comune
patria(24).
L'ordinamento dell'Associazione era, a mezzo il 1833, potente
davvero e segnatamente in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana,
negli Stati Pontificî. L'anima dell'Associazione Toscana era in
Livorno, dove Guerrazzi, Bini ed Enrico Mayer eran operosissimi e
inspiravano Pisa, Siena, Lucca, Firenze. Pietro Bastogi, oggi
Ministro, era Cassiere del Comitato. Enrico Mayer viaggiava a Roma,
dov'ei fu per sospetti imprigionato, poi, tornato in libertà, a
Marsiglia per intendersi meco: egli era uno dei migliori, più
sinceri e devoti uomini, che mi sia stato dato conoscere. Il
Professore Paolo Corsini, Montanelli, Francesco Franchini, Enrico
Montucci, Carlo Matteucci, oggi Senatore del Regno, un Cempini,
figlio del Ministro, oggi, a quanto odo, calunniatore nostro nella
Nazione, insieme a Carlo Fenzi, cospiratore egli pure con me, un
Maffei ora avversissimo, e altri molti ch'or non importa nominare,
secondavano nelle varie città toscane l'inspirazione livornese.
Nell'Umbria, Guardabassi era capo del Comitato. Nelle Romagne,
pressochè tutti gli uomini che oggi, insigniti d'onori, impieghi e
pensioni, ci gridano la croce addosso, si agitavano irrequieti nelle
nostre file; e vivono ancora i popolani Bolognesi, che ricordano il
Farini, vociferatore di stragi nei loro convegni, e uso ad alzare la
manica dell'abito sino al gomito e dire: ragazzi, bisognerà tuffare
il braccio nel sangue. In Roma, avevamo un Comitato. In Napoli,
Carlo Poerio, Bellelli, Leopardi e gli amici loro facevano, quanto
ai metodi, parte da sè, ma si dichiaravano ai nostri viaggiatori,
che tuttavia vivono, capi d'un ordinamento potente, alleati, presti
a fare collo stesso nostro programma, e corrispondevano
stenograficamente con me. In Genova, non solamente i giovani della
classe commerciale e gli influenti fra i popolani, ma s'accostavano
a noi, convinti della nostra potenza, gli uomini del patriziato; i
fratelli Mari, il Marchese Rovereto, i due Cambiasi e Lorenzo
Pareto, che fu poi Ministro, fra gli altri. In Piemonte il lavoro
procedeva più lento: nondimeno le nostre fila toccavano tutti i
punti importanti e si stendevano fino alle terre, popolate d'arditi
uomini, del Canavese: l'avvocato Azario, Allegra esule ripatriato
del 1821, Sciandra commerciante, Romualdo Cantara, Ranco, Moia,
Barberis, Vochieri, Parola, Maotino Massimo, Depretis, un ex
militare Panietti d'Ivrea, un Re di Voghera, Stara e altri parecchi
s'adopravano alacremente. E uomini collocati più in alto, e ch'or
non giova additare, non s'affratellavano regolarmente
all'Associazione, ma lasciavano sapere che dove l'impresa
s'iniziasse potente, l'ajuterebbero. Con copia d'elementi siffatti e
coi pericoli che la duplice parte, di congiura e d'apostolato, alla
quale si era astretta l'Associazione, trascinava con sè, bisognava
giovarsi dell'entusiasmo crescente prima che le persecuzioni
venissero ad ammazzarlo, e pensare seriamente all'azione.
Così facemmo.
Base dell'azione dovevano essere le provincie Sarde. Forti di mezzi,
d'armi ordinate, d'influenza morale e d'abitudini di disciplina che
avrebbero fruttato a qualunque riuscisse a impadronirsene, gli Stati
Sardi avevano due punti strategici d'alta importanza, Alessandria e
Genova; ed erano appunto quelli pei quali eravamo più potenti
d'affiliazioni. Un moto nel Centro, più agevole forse, non offriva
appoggio di forze reali e non avrebbe suscitato l'entusiasmo di
tutta l'Italia. D'altra parte, io era certo che al primo annunzio
del moto, l'Austria avrebbe occupato, coll'assenso di Carlo Alberto,
il Piemonte e resa quindi impossibile ogni azione diretta o rapida
sulla Lombardia, nella quale io aveva fin d'allora fede grandissima.
D'un moto in Napoli e delle norme colle quali procederebbe non
potevamo, mercè la semi-indipendenza nella quale si stavano gli
elementi coi quali eravamo in contatto, non potevamo starci
mallevadori. E inoltre, il convertire ciò che deve essere riserva in
centro del moto, non mi sembrava, checchè dicessero i militari,
buona strategìa di rivoluzione. Movendo in Napoli, noi non eravamo
certi che per invasione degli insorti o per altra via, il moto si
sarebbe diffuso rapidamente all'altre parti d'Italia; e io temeva la
tendenza pur troppo naturale in tutti i paesi ad aspettare lo
sviluppo d'ogni moto che s'operi dietro ad essi, e sognare disegni
dottamente complessi d'insurrezione quando il nemico assalitore e
respinto può collocarsi tra due forze ostili e vedersi staccato
dalla sua base. Di pretesti siffatti all'inerzia, suggeriti ed
accettati con arte profonda e sempre fatale alle insurrezioni, erano
frequenti nel passato gli esempî. Una insurrezione nel Mezzogiorno
non scemava un solo dei pericoli che le insurrezioni del Centro e
del Settentrione avrebbero dovuto affrontare; un moto in Piemonte
salvava invece dal primo urto dell'armi straniere Mezzogiorno e
Centro ad un tempo. Battuti in Piemonte potevamo appoggiarci su quel
terreno come su potente riserva. Poi - e questa è ragione ch'io
riteneva importante, comechè poco intelligibile a quanti non vedono
in una rivoluzione che un problema di strategia regolare - ogni
rivoluzione operata in un popolo addormentato da secoli sviluppa
vulcanicamente tremende le forze latenti ch'essa possiede se
provocata e sollecitata da pericoli che possono riescirle mortali,
intorpidisce e si consuma nel sonno e nelle illusioni se abbandonata
a sè stessa e secura. Il nostro nemico era l'Austria. Bisognava
cacciarle il guanto dai primi giorni, fidare nella Lombardia e
assalirla invece di aspettarne gli assalti. L'entusiasmo della
guerra allo straniero, abborrito da tutti com'era, avrebbe sopito
ogni interno dissidio e fondato l'Unità nell'azione comune.
Per queste e altre ragioni determinai che l'iniziativa
dell'insurrezione Nazionale si tenterebbe nelle terre Sarde, perni
Genova e Alessandria; noi esuli invaderemmo, appena dato il segnale
dall'interno, la Savoja, non solamente per dividere le forze ostili
e per aprire un varco sino al centro del moto agli uomini che
l'esperienza acquistata al di fuori chiamava a capitanarla
civilmente e militarmente, ma per cacciare un anello tra i nostri e
i repubblicani di Francia, che allora accennavano a diventare
potenti e preparavano, tra gli operai, elementi numerosi di riscossa
in Lione.
Tentammo l'esercito. Trovammo gli alti ufficiali renitenti, i bassi
vogliosi di mutamento e arrendevoli al concetto dell'Italia Una e
Repubblicana. Riuscimmo a impiantare relazioni con quasi tutti i
reggimenti: nuclei d'attivi in alcuni e fila più numerose
nell'artiglieria in Genova e in Alessandria, dove stava a guardia
degli arsenali. Affratellammo caporali, sergenti e capitani; a
contatto continuo coi loro soldati son essi più influenti dei capi;
e ricordavamo i Cavalleggeri che disubbedienti, nel 1821, alla
chiamata del loro colonnello Sammarzano, s'erano poco dopo lasciati
trascinare all'insurrezione da un semplice capitano, l'adesione
della legione procacciata dal sergente Gismondi e altri fatti
consimili. Taluno fra i generali, presti sempre a seguire chi vince
- Giflenga tra gli altri - promise cooperazione a patto che ci
mostreremmo forti. Acquistammo in sostanza convincimento che
l'esercito osteggerebbe o no a seconda del carattere che la prima
mossa assumerebbe; e sarebbe in ogni modo tiepido nel resistere.
Proposi il moto e chiesi ajuti pecuniari alle Congreghe. La proposta
fu accolta. Gli ajuti furono dati, benchè al solito inferiori al
bisogno e al dovere. Strana cosa, ma vera: gli uomini della libertà
danno, occorrendo, il sangue, restii a dare il danaro che potrebbe
risparmiarlo sovente.
Comunicato il disegno generale del moto ai nostri di Genova, di
Alessandria, di Vercelli, di Torino, della Lomellina, io mi preparai
a trasferirmi da Marsiglia a Ginevra, da dove io dovea preparar gli
elementi per l'insurrezione nella Savoja. Ma prima, volli intendermi
coi repubblicani di Francia.
Cavaignac e gli uomini della Tribune non avevano bisogno
d'eccitamenti; fremevano azione. Non così gli uomini del National,
diffidenti dell'elemento operajo sul quale i primi appoggiavano
tutte le loro speranze in Lione. Pregai Carrel di recarsi in
Marsiglia e venne. Cavaignac si recava intanto a Lione.
Armand Carrel, ch'io vidi in casa di Demostene Ollivier, membro nel
1848 dell'Assemblea, era uomo signorile nei modi, freddo in
apparenza, ma capace d'energia quando lo esigessero le circostanze,
chiaramente onesto e tale da provocar fede assoluta nelle sue
promesse, più amico della repubblica che non dei repubblicani, e
poco disposto a fiducia negli operai dai quali lo tenevano discosto
le abitudini della vita e certe tendenze militari rimastegli dal
primo periodo della gioventù e accarezzate da lui. Intelletto acuto,
non vasto, analitico più ch'altro, educato a scuole di materialismo
e veneratore del secolo XVIII, credente nella teorica dei diritti e
presto a dare fatiche e vita al suo trionfo più per senso d'onore e
generosità d'indole che non per dovere religiosamente supremo,
intendeva molte delle aspirazioni del secolo, ma non sentiva
profondamente che quelle di libertà. E il suo ideale era la
repubblica come s'intende in America, dove l'individuo è sovrano, la
missione sociale di chi regge fraintesa e il diritto personale ogni
cosa. Più in là non andava o a disagio, e le questioni sociali lo
impaurivano. Logico per natura, si sentiva tratto a desumere le
ultime conseguenze della dottrina che ha per base l'individuo e tra
queste il federalismo; insinuava infatti a ogni tanto il federalismo
per l'Italia, per la Spagna, per la Germania, unitario per la
Francia, tra perchè l'Unità era fatto compiuto, tra perchè l'istinto
dominatore francese potentissimo in lui gli mostrava perpetua la
supremazia della sua Nazione nella debolezza delle confederazioni
all'intorno. Le sue idee andavano nondimeno migliorando e
allargandosi a più vasto orizzonte, quand'egli morì; e ne fanno fede
i suoi ultimi articoli. Morì sulla breccia, repubblicano com'era
vissuto, puro d'ogni basso affetto, d'ogni immoralità, d'ogni
servile tendenza alla ricchezza o al potere, amato da chi lo conobbe
dappresso, rispettato da' suoi nemici.
Fermammo accordo tra noi che se l'Italia avesse iniziato il moto
repubblicano, ei si sarebbe unito a Cavaignac per affrettare
l'insurrezione Lionese e l'avrebbe secondata in Parigi.
Intanto, un incidente, irrilevante per sè, sperdeva tutto il
disegno.
La diffusione non foss'altro dei nostri scritti, malgrado lo zelo
posto dalla Polizia a impedirla, avvertiva il Governo che un lavoro
segreto, potente esisteva nelle Provincie Sarde; e da più mesi era
posta in opera ogni arte per discoprirne le fila e il centro, ma
senza successo. Cercavano quel centro dove non era, nell'alte sfere
sociali e tra gli antichi cospiratori del 1821; non ideavano neppure
che una Associazione, visibilmente numerosa e capace d'eludere le
instancabili inquisizioni della polizia mettesse capo a pochi
giovani di nome ignoto e ricchi non d'altro che d'energia di volere
e d'attività senza pari.
Però temendo di porre sull'avviso, col vibrar colpi in fallo, i veri
cospiratori, spiavano gli indizî senza procedere. E l'insurrezione
avrebbe potuto coglierli all'impensata.
Ma or non so bene se sul finire del marzo o sul cominciar
dell'aprile 1833, due artiglieri, uno dei quali apparteneva
all'Associazione e aveva fatto proposte all'altro, venuti a subita
lite per una donna, dalle parole proruppero ai fatti. Impediti dai
carabinieri regî, l'un d'essi, quegli appunto che avea avuto invito
dall'altro ad affratellarsi, lasciò sfuggire parole di minaccia come
s'egli potesse, volendo, essergli causa di male. Quelle parole
furono raccolte e additarono al Governo il momento per tentare di
risalire da uomo a uomo al segreto della congiura. Ricordo ch'io
fatto partecipe dell'incidente, presentii le conseguenze fatali e
scrissi: agite, se potete, o siete perduti. Il consiglio non giunse
o non valse.
Il Governo si mise all'opera coll'energia di chi è minacciato da un
supremo pericolo. Una rigorosa perquisizione nelle mucciglie e nella
caserma degli artiglieri condusse alla scoperta d'alcuni stampati
della Giovine Italia. I possessori furono imprigionati, e poco dopo
i loro più intimi amici; gli uni e gli altri isolati da ogni
contatto. Studiati i volti, i moti, l'inquietudine, il pallore, la
mestizia insolita diventarono argomenti di carcere. E ciò che si
fece in Genova fu fatto altrove; le prigioni di Torino,
d'Alessandria, di Chambery s'aprirono a una moltitudine d'uomini che
parevano sospetti, e si frapposero indugi tra l'uno e l'altro
imprigionamento, tanto che gli ultimi imprigionati potessero credere
a denunzie dei primi. E denunzie furono: vere in parte, in parte
menzognere e suggerite da chi diceva: denunziate o perite: i codardi
furono tre militari e un borghese, altri si avvilirono senza tradire
i compagni, ma si confessarono, implorando, colpevoli e bastava: si
catturarono gli amici loro. Dalle primarie si passò alle città
secondarie, Nizza, Cuneo, Vercelli, Mondovì. Ebbero così tra le mani
senza pur saperlo, parecchi degli uomini che dovevano dare il
segnale del moto, e da carte sequestrate, da imprudenti parole o da
altri indizî di nome. Intanto il terrore entrava negli animi; molti
dei nostri si celarono; parecchi fuggirono. Sul cominciare della
persecuzione i capi esitarono, in parte avvedendosi che il Governo
poco sapeva e credendo che la tempesta trapasserebbe rapida com'era
venuta, in parte, - e parlo d'Jacopo e Giovanni Ruffini segnatamente
- perchè d'animo generoso, paventavano che dove il tentativo in quei
frangenti fallisse a buon porto, s'apponesse ad essi l'aver dato
improvvidamente il segnale a salvar sè stessi: dopo pochi giorni,
l'insorgere s'era fatto impossibile. «Le caserme erano chiuse ai
borghesi, custodite e vegliate(25). E a render vano ogni tentativo
d'accordo tra i cittadini e l'esercito, la Gazzetta Ufficiale
stampava che le carte sequestrate provavano come i cospiratori
professassero l'ateismo; come per distruggere il trono e l'altare
intendessero giovarsi d'ogni mezzo il più orrendo dal pugnale
all'incendio; come veleno in copia fosse stato trovato nelle stanze
di due ufficiali; come in Chambery fossero preparate le mine a fare
esplodere la polveriera situata a ridosso delle caserme, e la città
di Torino fosse devota alle fiamme e decretata in Genova guerra di
vespri contro i soldati piemontesi: arte nefanda di Governi immorali
ch'io vidi ripetersi in Genova nel 1857, quando ci preparavamo ad
ajutare l'ardita impresa di Carlo Pisacane sulle terre meridionali.
Poi, se un fatto isolato di vendetta o d'irrefrenabile ira ha luogo
nelle nostre file, gli uomini servi di Governi siffatti si fanno
vermigli in volto e accusano noi tutti di teoriche del pugnale, come
se il pugnale della calunnia che mira a spegnere l'onore e l'anima
fosse da meno di quello che ferisce il corpo. E lo sciagurato che,
falsando il nostro principio, vibra il coltello contro il nemico, è
non foss'altro solo e senza mezzi per proteggersi da lui o punirlo
altrimenti: i Governi che avventano sistematicamente l'arme certa
della calunnia contro i perseguitati e pongono, come gli Irochesi,
l'insultatore accanto al carnefice, hanno a difendersi, potenza di
ricchezza, di prigioni e d'eserciti.
«Allontanato a quel modo e col terrore ogni pericolo d'insurrezione
il Governo poteva allentare la propria ferocia e tornare, per
punire, alle norme d'una leale giustizia. Ma infierì più che mai,
fatto doppiamente crudele dal pericolo corso e dalla coscienza
d'averlo temuto. La pagina di storia che si scrisse dalla Monarchia
Sabauda in quell'anno fu tale che vorrebbe la penna d'un Tacito e
intinta nel sangue; ed è di quelle che gli uomini dovrebbero
rileggere ogni qualvolta sentono a infiacchirsi nell'animo loro
l'abborrimento della tirannide, e le madri ripetere ai figli perchè
v'imparino quali possano essere le sorti d'una terra non libera.
Mentre al difuori delle prigioni era detto ai parenti e agli amici
degli imprigionati che posassero tranquilli, e li rivedrebbero dopo
indugio non lungo, dentro cominciavano scene terribili per indurre i
sospetti a dichiararsi colpevoli.
«Ogni cosa, che l'odio ajutato dalla più profonda scienza del male
può suggerire, era posta in opera per ottenerne confessioni: cogli
uni la corruttela, cogli altri la menzogna sfrontata o il
machiavellismo degli interrogatorî: con tutti, prima o dopo il
terrore. A quei che si indovinavano meno fermi era detto: noi vi
sappiamo colpevoli: morrete di fucilazione tra ventiquattro ore, ma
svelando i complici vostri, potete salvarvi. Con quelli dei quali
era nota la robusta tempra o la virtù, s'usava linguaggio diverso:
erraste; ma per illusione di bene, lo sappiamo e vi compiangiamo;
voi pensavate adoperarvi in un'opera di devozione e fidaste in
traditori indegni del vostro sagrificio; il vostro silenzio non
salva amici fidati e costanti, ma perde voi stessi e le vostre
famiglie per codardi che vi denunciano; eccovi le loro testimonianze
a vostro danno. Or volete, confermandole, versare anche una volta la
gioja sul capo dei vostri cari ricongiungendovi ad essi o,
persistendo a tacere, perire miseramente? E testimonianze con firme
falsificate si ponevano un istante, in quell'ora di turbamento
supremo, sotto gli occhi loro(26). Per altri dai quali non volevano
se non una confessione della loro partecipazione individuale
all'impresa, ricorrevano allo spionaggio delle prigioni.
S'introducevano vicino ad essi falsi cospiratori i quali agguatavano
ogni momento d'abbandono o di disperazione per estorcere le
informazioni volute(27). Per ogni individuo si creavano nuove
torture; tutte egualmente ignobili, codarde, feroci. Sotto la
prigione dell'uno, una voce di pubblico gridatore annunziava
fucilazione e imminenza d'altre. Di fronte alla prigione d'un altro,
nello stesso corridojo, si poneva un amico dell'imprigionato: a
quest'ultimo si parlava dei pericoli che minacciavano l'altro, il
quale mutato subitamente e con ostentazione di straordinario
calpestìo di soldati, di stanza, lasciava il prigioniero in balìa
delle più tristi congetture possibili; e allora una scarica di
moschetteria, indizio certo della sorte dell'amico, veniva a
ferirgli l'orecchio(28).
«Altrove i prigionieri erano assordati da un frastuono continuo: si
impedivano loro i sonni: poi dopo quattro o cinque notti agitate,
erano assaliti dagli interrogatorî architettati a tale una tortura
morale che non può calcolarsi se non da chi l'ha patita. Allora
quando vedevano l'energia morale del prigioniero esaurita, gli
affacciavano un'offerta di perdono o profanavano la santità degli
affetti domestici trascinando nella prigione un vecchio padre, o una
madre a supplicarlo ch'ei rivelasse(29). Parecchi piegarono. Altri
si mantennero fermi e perirono.
Uno solo l'autore dello scritto sul Giuramento Militare citato più
sopra, dotato d'anima pura e potente, che le seduzioni e le minaccie
di tutti i re della terra non avrebbero mai potuto appannare o
atterrire, sottrasse lo spirito ai corruttori e il corpo al
carnefice. La notte, con un chiodo strappato all'uscio della
prigione, ei s'aprì una vena del collo e si rifugiò, protestando
contro la tirannide, nel seno di Dio. Ed ei lo poteva, perch'era
incontaminato. Era il più dolce giovane, il più delicato e costante
negli affetti ch'io m'abbia veduto. Amava la patria, della quale
intendeva l'ampia missione, la madre, modello d'ogni virtù i
fratelli e me(30). Aveva vasto e pronto intelletto, ed era capace
delle più grandi idee, però che le più grandi idee vengono dal core.
Quei che conobbero intimamente Jacopo Ruffini venerano anch'oggi la
sua memoria come quella d'un santo.»
Narra Brofferio nella sua Storia del Piemonte come Carlo Alberto,
fatto per paura feroce, anelasse sangue, e a tal punto che dolendosi
con Villamarina dell'umile condizione delle prime vittime, gli
dicesse: non è bastevole esempio il sangue dei soldati: pensate a
qualche ufficiale. Non ho modo d'appurare il fatto: ma di certo
Villamarina, tenuto fino allora per uomo di spiriti liberali, e
Giudici e Governatori, si condussero in guisa da far credere che
sapessero di potere, incrudelendo, mercarsi favore dal Sire. Morto
ogni senso di giustizia e sprezzate le stesse apparenze, si decretò
fossero commessi i giudizî a tribunali di guerra tanto per incolpati
civili quanto pei militari. Protestarono i primi, ma indarno.
Protestarono pure con nobile ardire, il 17 luglio, cinque avvocati
genovesi estranei ai procedimenti, ed ebbero risposta negativa il
25. Fu chiesto che ai civili si concedesse almeno il diritto di
scegliersi difensori, e s'ebbe rifiuto. I denunziatori, ai quali era
promessa la vita, mal s'accordavano tra di loro: due furono messi,
il dodici maggio, nella stessa prigione; tre il 23, quattro il 30, e
si concertarono. S'intese allora il sergente Turff a dichiarare, in
appoggio alla testimonianza d'un Piacenza, soldato, d'avere
somministrato egli stesso all'Associazione minuti ragguagli intorno
all'Artiglieria; e nondimeno, in sette esami anteriori, ei non avea
fatto cenno di questa gravissima circostanza. Rimanevano, a ogni
modo, incancellabili, le contradizioni dei primi esami,
contradizioni spinte al punto di dirsi taluni affigliati alla
Giovine Italia dal 1830, quando l'Associazione non esisteva. Su
rivelazione d'uomini siffatti si pronunziarono le sentenze: sentenze
di morte anche contro prigionieri provati innocenti d'ogni attiva
complicità, ma rei d'avere saputo e non denunciato(31). Le difese
furono una ironìa. I documenti si davano ai difensori mutilati,
imperfetti, e per tempo sì breve da non lasciar campo a maturo
esame. E i difensori appartenenti tutti all'esercito, furono non
molto dopo, generalmente, puniti: forse avevano tradito nella voce o
nella espressione del volto il commovimento dell'animo. Tra una
sentenza e l'altra escivano decreti che il Governo non si sarebbe
attentato di pubblicare in tempi normali, che minacciavano di galera
e talora di morte qualunque darebbe circolazione in Piemonte a
scritti avversi ai principî della monarchia: decreti infami in ogni
tempo, che attribuivano ricompensa di cento scudi a chi si farebbe
denunziatore.
Quei che perirono furono Giuseppe Tamburelli, caporale nella brigata
Pinerolo, il 22 maggio 1833, in Chambery: Antonio Gavotti di Genova,
maestro di scherma, il 15 giugno, in Genova: Giuseppe Biglia di
Mondovì, sergente nei granatieri guardie, lo stesso giorno in
Genova: Domenico Ferrari di Taggia, sergente(32) nella brigata Cuneo
il 14 giugno, in Alessandria; Giuseppe Menardi, Giuseppe Rigasso
Amando Costa, Giovanni Marini, sergenti nella brigata Cuneo, lo
stesso giorno, in Alessandria; Effisio Tola, di Sassari,
luogotenente nella brigata Pinerolo, l'11 giugno, in Chambery;
Alessandro de Gubernatis, di Gorbio, sergente nella brigata
Pinerolo, il 14 giugno, in Chambery: Andrea Vochieri, d'Alessandria,
legale, il 22 giugno, in Alessandria.
Condannati a morte, ma fuggiti in tempo, furono l'avvocato Scovazzi;
Ardoino, luogotenente nella brigata Pinerolo; Vacarezza,
sottotenente nella stessa brigata; i sergenti Vernetta, Enrici,
Giordano, Crina; il chirurgo Scotti; Gentilini, proprietario; il
marchese Carlo Cattaneo; Giovanni Ruffini; l'avvocato Berghini;
l'ufficiale divisionario Barberis; il marchese Rovereto ed altri. Io
pure allora fui condannato nel capo. Thappaz, luogotenente nel regio
corpo degli ingegneri, fu condannato a venti anni di prigionia; il
generale fuori di servizio Giuseppe Guillet a dieci; il medico
Orsini a venti; Noli, mercante, e Moja, a prigione perpetua; Lupo,
gioielliere, a venti anni; altri molti a cinque, a tre, a due;
parecchi ufficiali imprigionati ad arbitrio; Spinola, Durazzo,
Cambiaso e altri del patriziato furono, come puniti abbastanza dal
carcere sofferto, restituiti alla libertà.
Tutto questo fu fatto affrettatamente, senza riguardo a legalità,
senza alcuna di quelle apparenze solenni che danno indizio, non
foss'altro, d'un atto di giustizia da compiersi. Era un furore, un
terrorismo rivoluzionario senza grandezza di fine, senza scusa di
prepotente necessità. Parea temessero di vedersi strappate le
vittime. Carlo Alberto avea chiesto sangue, e davano sangue. Lo
spargevano allo spuntare del giorno, fra le tenebre e l'alba. Le
tinte del delitto incoloravano quelle opere di vendetta. Le mani
della giustizia somigliavano quelle dell'assassino.
Qua e là accadevano scene da rabbrividirne. I carnefici, certi del
regio sorriso, superavano la crudeltà del loro padrone(33). Il
generale Morra in Chambery, Gaverga Governatore, in Cuneo, il
Generale Governatore d'Alessandria Galateri, furono per ferocia,
cospicui. Al più feroce Carlo Alberto diede l'ordine della Santa
Annunziata che gli conferiva il diritto di salutare il re del nome
di cugino. E lo meritava.
Ringrazio Iddio d'avermi inspirata una fede che non s'è mai
contaminata in Italia di simili orrori. I repubblicani di Napoli, di
Venezia e di Roma escirono dal Governo puri di sangue cittadino e di
bassa vendetta.
Non dirò com'io mi fossi, a quell'accalcarsi di nuove funeste,
nell'animo mio: scrivo appunti di fatti, non la storia delle mie
sensazioni. Parve bensì a me e agli amici miei che durasse in ogni
modo per noi la necessità di tentare un fatto. Era visibile, nelle
incertezze dei cospiratori dell'interno, quello squilibrio tra il
pensiero e l'azione che anch'oggi, in grado minore, inceppa
l'andamento del nostro risorgere. I principî di rivoluzione che
predicavamo erano accolti; la necessità d'operare a seconda non era
abbastanza sentita. Bisognava moralizzare il Partito: provargli col
fatto che quando uomini d'una fede, e che si stanno mallevadori
della salute o della rovina altrui, hanno promesso di fare, devono
fare e non lasciarsi sviare da nuovi ostacoli o da cagioni
individuali, comunque nobili e generose. Noi pure, capi al di fuori,
avevamo promesso, e toccava a noi, insegnatori, di mantener le
promesse. Avevamo d'altra parte, se ci veniva fatto d'operare
sollecitamente, probabilità di successo. I più tra i nostri elementi
non erano stati scoperti: sgominati, incerti e senza unità di capi o
disegno, duravano pure potenti di numero, e una ardita iniziativa da
parte nostra li avrebbe senz'altro raggranellati all'azione. Il
fremito suscitato dalle crudeltà delle quali accennai era
universale, e trapiantando rapidamente l'iniziativa dall'interno in
noi, eravamo quasi certi di dar moto a una riscossa in Italia. Le
nostre speranze erano talmente fondate che - per accennar qui di
volo un tentativo intorno al quale non occorre spendere lunghe
parole - il solo annunzio della nostra decisione bastò a raccogliere
gli elementi dispersi di Genova e risuscitare il disegno. Sul finire
dell'anno, un moto era nuovamente preparato in quella città, e non
fallì se non per l'inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e
ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parte di quel secondo tentativo
e si salvò colla fuga(34).
Deliberammo adunque di fare. Lasciai Marsiglia e mi recai in
Ginevra.
Studiai il terreno dal quale dovevamo operare. Come ogni Governo, il
Ginevrino doveva opporsi a ogni tentativo d'irruzione armata in un
paese finitimo; ma venuto a contatto coi cittadini influenti, tra i
quali era Fazy, allora amicissimo mio, poscia, fatto capo di
Governo, nemico, m'avvidi che l'opposizione sarebbe stata fiacca e
che avremmo avuto il favore del popolo. Strinsi lega con quanti
avrebbero potuto all'uopo giovarci; ajutai l'impianto d'un giornale,
l'Europe Centrale, destinato a diffondere l'idea dell'emancipazione
della Savoja; trovai gli uomini capaci di mantenere sicure le
corrispondenze segrete con quella Provincia: feci insomma quant'era
in me per accertare che avremmo potuto, anche a dispetto del
Governo, operare.
La Savoja era oppressa, malcontenta, disposta a insorgere. Ebbi
abboccamenti con cittadini di Chambery, d'Annecy, di Thonon, di
Bonneville, d'Evian, d'altri punti. Si concertarono le basi del
moto. A chi mi chiedeva quali erano le sorti serbate, in caso di
riuscita, al paese, io rispondeva: che sarebbe lasciato al voto
della popolazione di serbarsi all'Italia o dichiararsi Francese o
congiungersi alla Confederazione Svizzera; e che, quanto a me, avrei
desiderato si scegliesse il terzo partito. Ed era in fatti ed è
tuttavia mia opinione che nel riparto futuro d'Europa, la
Federazione Svizzera, mutata in Federazione Alpina, e fatta barriera
tra Francia, Italia e Germania, dovrebbe stendersi da un lato alla
Savoja, dall'altro al Tirolo Tedesco, e più oltre. La Lega delle
popolazioni Alpine è indicata dalle condizioni geografiche, dalle
tendenze più o meno uniformi degli abitatori dei monti, e dalla
missione speciale a pro della pace Europea che quella zona
intermedia, fatta più forte ch'oggi non è, sarebbe chiamata a
compire. E credo che, quando la Svizzera, smembrata fra la Germania,
la Francia e noi, non sia cancellata dalla Carta d'Europa, sarà
quello il futuro. Soltanto la politica funesta di Cavour ha seminato
difficoltà tremende dove non erano, come ha cacciato, colla cessione
di Nizza, il germe d'una guerra nell'avvenire tra due nazioni,
chiamate ad amarsi e procedere unite.
Gli elementi non mancavano all'azione ideata. E avremmo potuto
raccoglierli tutti fra li esuli italiani; se non che il chiamarli
dai diversi luoghi di deposito in Francia avrebbe, oltre al suscitar
l'attenzione, importato gravissima spesa. Altri elementi erano stati
accumulati dalle circostanze in Isvizzera: esuli tedeschi in
conseguenza del tentativo fatto in Hambach; esuli polacchi cacciati
per insubordinazione ai regolamenti o per altro dalla Francia. Ed
erano, agglomerati, i primi nei cantoni di Berna e Zurigo, i secondi
in quei di Neuchâtel, Friburgo, Vaud e Ginevra. Noi potevamo dunque
ordinarli e giovarne l'impresa senza rivelare, con subite
traslocazioni, il disegno ai Governi. A me sorrideva l'idea
d'inanellare colla causa di Italia quella d'altre nazioni oppresse,
e d'impiantare sulle nostre Alpi una bandiera di fratellanza
Europea. La Giovine Europa era nella mia mente uno sviluppo logico
del pensiero che informava la Giovine Italia. E il ridestarsi
d'Italia doveva essere a un tempo un atto di iniziativa, una
consecrazione dell'alto ufficio che le spettò nel passato, e le
spetterà, confido, nell'avvenire. La Federazione dei Popoli doveva
trovare il suo germe nella nostra Legione.
Il pensiero comunicato da me ai migliori tra gli esuli delle due
nazioni, fu accolto con entusiasmo. Si fondarono comitati: si lavorò
all'ordinamento pratico militare dei diversi nuclei che dovevano
essere chiamati all'azione. M'ajutavano in questo lavoro alcuni
militari, tra i quali era primo Carlo Bianco che s'era con
Gentilini, Scovazzi e altri collocato in Nyon. Intorno a me,
nell'albergo della Navigazione, ai Pâquis, s'erano raccolti Giovanni
e Agostino Ruffini di Genova, Giambattista Ruffini di Modena, oggi
Maggiore, Celeste Menotti, Nicola Fabrizi, Angelo Usilio, Giuseppe
Lamberti, Gustavo Modena, Paolo Pallia e altri parecchi. L'albergo
era tutto nostro e fatto inaccessibile alla vigilanza delle polizie.
Giacomo Ciani lavorava operoso a conquistare al disegno i facoltosi
lombardi, sparsi qua e là per la Svizzera: operoso egli pure, un
Gaspare Belcredi di Bergamo, valente medico, noncurante di fama o
d'ogni altra cosa fuorchè del fine e ch'io cito perchè fra i
pochissimi che non mutarono mai, e mi sono ancora, mentr'io scrivo,
amicissimi. Raccogliemmo nuovi mezzi in danaro, segnatamente da
Gaspare Rosales, gentiluomo lombardo, raro per unità di pensiero e
d'azione, d'indole generosa, leale, cavalleresca. Provvedemmo da
Saint-Etienne e dal Belgio armi in buon numero: preparammo cartucce
e quanto occorreva. Lavoravamo tutti concordi e lietamente
instancabili.
Tutto andava a seconda. Se non che, come dissi, importava agire
rapidamente; e da una esigenza dei comitati dell'interno e degli
uomini che ajutavano con danaro l'impresa, sorse un ostacolo che
dovea condannarla a indugi indefiniti e a rovina. Chiedevano un
nome. Volevano messo a capo dell'invasione un uomo militare, di
grado superiore, e che alla capacità aggiungesse il fascino della
rinomanza. E indicavano il Generale Ramorino.
Mandato, dal Comitato degli amici della Polonia in Parigi, a
Varsavia, durando l'insurrezione nazionale Polacca, Ramorino, legato
colla frazione capitanata dal Principe Czartoriski e
dall'aristocrazia del paese, s'era condotto, negli ultimi tempi
della guerra, in modo giudicato severamente dai migliori patrioti.
Ma, tornato in Francia, era stato salutato d'ovazioni da quanti
nello straniero soldato volontario in Polonia vedevano rappresentato
il principio della fratellanza dei popoli, e da quanti, dando plauso
a ogni uomo che avesse combattuto in Polonia, intendevano onorare
non tanto lui quanto le lotte d'una nazione oppressa dal numero ma
destinata a rivivere. Il nome di Ramorino era inoltre popolare in
Savoja dov'egli, credo, era nato, in Genova dove viveva la di lui
madre, e generalmente in Italia dove l'orgoglio dei caduti in fondo
era accarezzato dagli omaggi profusi a un Italiano. E nessuno badava
più oltre. Ebbi intimazione solenne di dovermi porre in contatto con
lui e offrirgli il comando della fazione.
Protestai quanto seppi. - Affratellato coi migliori tra gli esuli
della Polonia io aveva, dalle loro conversazioni come dall'attento
esame delle operazioni militari di Ramorino, ritratto giudicio
diverso da quello dei Comitati. Ricordai loro che avevamo tutti
predicato il principio: a cose nuove uomini nuovi; che nelle grandi
rivoluzioni le imprese avevano creato i nomi, non i nomi, le
imprese; che in ogni modo, nel duplice stadio dell'iniziativa e
della guerra che terrebbe dietro, sarebbe stato più cauto lasciare
il primo agli ordinatorî del moto, e affidare al Generale il
secondo, quando i primi successi avrebbero già fatto securo il
programma e vincolerebbero il Capo qualunque ei si fosse. Non valse,
il prestigio d'un nome era pur troppo allora - ed è tuttavia - più
assai potente che non il principio. Mi fu dichiarato che senza
Ramorino non s'agirebbe. E m'avvidi che s'interpretava il dissenso
mio come istinto di chi ambiva essere capo civile e militare ad un
tempo. Vive tuttavia chi mi vide prorompere in lungo ed amaro pianto
convulso al primo allacciarsi di quella accusa: io la meritava sì
poco che non aveva mai sospettato potesse sorgere. E m'era tremenda
rivelazione dell'avvenire di sospetti, di diffidenze e calunnie
serbato agli uomini che con un'anima pura e piena di fiducia in
altrui si consacrano a una grande impresa. Quella rivelazione
s'adempì tristissima sulla mia vita.
Piegai, credo a torto, la testa e invitai Ramorino. Udito il disegno
accettò. Statuimmo che l'invasione s'opererebbe da due colonne; che
la prima moverebbe da Ginevra, e io ne assumeva l'ordinamento; la
seconda da Lione dove Ramorino affermava d'aver influenza
grandissima; e imprendeva egli a formarla. Ramorino mi chiese, per
le spese necessarie all'ordinamento della colonna, 40,000 franchi; e
li diedi. L'ottobre (1833) non doveva trascorrere senza vederci in
azione. Ei partì sollecitamente. Io gli raccomandai come segretario
un giovine modenese, fidatissimo nostro, che doveva invigilarlo e
informarmi.
«Non molto prima della spedizione, sul finire del 1833(35), mi si
presentò all'Albergo della Navigazione in Ginevra, una sera, un
giovine ignoto. Era portatore d'un biglietto di L. A. Melegari, che
mi raccomandava con parole più che calde l'amico suo, il quale era
fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi meco. Il giovine
era Antonio Gallenga. Veniva di Corsica. Era un affratellato della
Giovine Italia.
«Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva
deciso di vendicare il sangue de' suoi fratelli e d'insegnare ai
tiranni una volta per sempre che la colpa era seguita
dall'espiazione: ch'ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo
Alberto il traditore del 1821 e il carnefice de' suoi fratelli;
ch'egli aveva nutrito l'idea nella solitudine della Corsica, finchè
s'era fatta gigante e più forte di lui. E più altro.
«Obbiettai, come ho fatto sempre in simili casi: discussi, misi
innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo. Dissi ch'io stimava Carlo
Alberto degno di morte, ma che la di lui morte non salverebbe
l'Italia, che per assumersi un ministero di espiazione, bisognava
sentirsi puro di ogni senso di povera vendetta e d'ogni altro che
non fosse missione; che bisognava sentirsi capace di stringere,
compito il fato, le mani al petto, e darsi vittima; che in ogni modo
ei morrebbe nel tentativo, morrebbe infamato dagli uomini come
assassino, e via così per un pezzo.
«Rispose a tutto; e gli occhi gli scintillavano mentr'ei parlava:
non importargli la vita: non s'arretrerebbe d'un passo, compito
l'atto: griderebbe viva l'Italia e aspetterebbe il suo fato: i
tiranni osar troppo, perchè sicuri dell'altrui codardia, e bisognava
rompere quel fascino: sentirsi destinato a quello. S'era tenuto in
camera un ritratto di Carlo Alberto e il contemplarlo gli aveva
fatto più sempre dominatrice l'idea. Finì per convincermi ch'egli
era uno di quegli esseri le cui determinazioni stanno tra la
coscienza e Dio e che la Provvidenza caccia da Armodio in poi di
tempo in tempo sulla terra per insegnare ai despoti che sta in mano
d'un uomo solo il termine della loro potenza. E gli chiesi che cosa
volesse da me.
«Un passaporto e un po' di danaro.
«Gli diedi mille franchi e gli dissi che avrebbe un passaporto in
Ticino.
«Fin là, ei non sapeva neanche che la madre di Jacopo Ruffini fosse
in Ginevra e appunto nell'albergo ov'io era.
«Gallenga rimase la notte e parte del giorno dopo. Pranzò colla
Ruffini e con me: non si disse verbo tra loro. Lasciai la Ruffini
ignara delle intenzioni. Essa era generalmente ammutolita dal dolore
e non mosse quasi parola.
«Nelle ore ch'ei passò meco, sospettai ch'ei fosse spronato più da
una sfrenata ambizione di fama che non dal senso d'una missione
espiatoria da compiersi. Mi ricordò sovente che da Lorenzino de'
Medici in poi non s'era compiuto un simile fatto, e mi raccomandò
ch'io scrivessi, dopo la sua morte alcune linee sui suoi motivi.
Partì valicando il Gottardo, mi scrisse poche parole, piene
d'entusiasmo: s'era prostrato sull'Alpi e avea nuovamente giurato
all'Italia di compiere il fatto. Ebbe in Ticino un passaporto col
nome di Mariotti.
«Giunto in Torino, s'abboccò con un membro del Comitato
dell'Associazione del quale egli aveva avuto il nome da me. Fu
accolta l'offerta. Furono presi concerti. Il fatto doveva compirsi
in un lungo adito in Corte, pel quale il re passava ogni domenica
recandosi alla cappella regia. S'ammettevano taluni a vedere il re
con un biglietto privilegiato. Il comitato potè provvedersi d'uno.
Gallenga andò con quello, senz'armi, a studiare il luogo. Vide il re
e più fermo che mai: lo diceva almeno. Fu statuito che la domenica
successiva sarebbe il giorno del fatto. Allora, impauriti del
procacciarsi, in quei momenti di terrore organizzato, un'arme in
Torino, mandarono un membro del Comitato, Sciandra, commerciante,
oggi morto, per la via di Chambery a Ginevra, a chiedermi l'arme e
avvertirmi del giorno.
«Un pugnaletto con manico di lapislazzuli che m'era dono carissimo,
stava sul mio tavolino: accennai a quello, Sciandra lo prese e
partì.
«Ma intanto, non considerando quel fatto come parte del lavoro
d'insurrezione ch'io dirigeva, e non facendone calcolo, io mandava
per cose nostre in Torino un Angelini nostro sotto altro nome.
L'Angelini, ignaro del Gallenga e d'ogni cosa, prese alloggio
appunto nella via dove stava in una cameretta quest'ultimo. Poi,
commettendo imprudenze di condotta, fu preso a sospetto; tornando a
casa, la vide invasa dai carabinieri: tirò di lungo e si pose in
salvo.
«Ma il Comitato, udito che a due porte da quella del regicida erano
scesi i carabinieri, e non sapendo cosa alcuna dell'Angelini,
argomentò che il Governo avesse avuto avviso del progetto e fosse in
cerca del Gallenga. Perciò lo fece uscir di città, lo avviò a una
casa di campagna fuor di Torino, dicendogli che non si poteva
tentare quella domenica, ma che se le cose si vedessero in quiete,
lo richiamerebbero per un'altra delle successive.
«Una o due domeniche dopo, mandarono per lui: non lo trovarono più.
Era partito ed io lo rividi in Isvizzera.
«Rimanemmo legati: ma si sviluppò in lui un'indole più che
orgogliosa, vana, una tendenza d'egoismo, uno scetticismo
insanabile, uno sprezzo d'ogni fede politica, fuorchè l'unica
dell'Indipendenza Italiana. Lavorò meco, nondimeno: fu membro del
nostro Comitato Centrale e firmò, come Segretario, un appello
stampato agli Svizzeri contro la tratta de' soldati sgherri che
facevano. Poi s'astenne e si diede a scrivere articoli di Riviste e
libri. Disse e misdisse degli Italiani, degli amici, e di me. Prima
del 1848 si riaccostò e fece parte d'un nucleo che s'ordinò sotto
nome nostro. Venne il 1848. Io partiva; mi chiese di partire con me.
In Milano si separò, dicendomi ch'egli era uomo di fatti, e voleva
recarsi al campo. Invece d'andare al campo andò in Parma, dove
congregato il popolo in piazza, cominciò a predicare quella
malaugurata fusione che fu la rovina del moto. Diventò segretario
d'una Società Federativa presieduta da Gioberti, del quale egli
aveva scritto plagas nei suoi articoli inglesi sulle cose d'Italia;
sottoscrisse circolari destinate a magnificare la monarchia
piemontese; e fu scelto dal Governo a non so quale piccola
ambasciata in Germania.
«Lo incontrai nuovamente dopo la caduta di Roma, in Ginevra. Mi
parlò; e indifferente a biasimo o lode, gli parlai. Egli accusava i
lombardi di non avere secondato il re; io gli narrai quelle storie
di dolore ch'io avea veduto svolgersi, egli no: gli provai la
falsità dell'accusa. Parve convinto e insistè perch'io scrivessi su
quell'argomento. Dopo un certo tempo, tornato in Londra, trovai
ch'egli, giuntovi appena, avea pubblicato un libello contro i
milanesi dov'egli li chiamava persino codardi. Nauseato e dolendomi
di vedere così calunniato da un Italiano, tra stranieri, un popolo
di prodi traditi, deliberai di non più vederlo e non lo vidi mai
più.»
Quando questa mia rivelazione fu letta in Torino, si levò tale una
tempesta contro il Gallenga ch'ei s'avvilì. Scrisse lettere sommesse
e pentimenti del trascorso giovanile: diede la sua dimissione di
Deputato: rimandò non so qual croce che gli avevano appiccata al
petto, sì come indegno di farne mostra, e dichiarò solennemente nel
Risorgimento del novembre 1856 ch'ei rinunziava d'allora in poi ad
ogni atto e scritto politico. Poi, mendicò di bel nuovo ad un
collegio di ignari la Deputazione e si fece corrispondente pagato,
per le cose d'Italia del Times, nelle cui colonne egli versa due
volte la settimana oltraggio e calunnie sui volontari Garibaldini,
sull'esercito meridionale, sugli artigiani associati, sul Partito
d'Azione e su me. È decretato che ogni uomo il quale s'accosta alla
setta dei moderati debba smarrire a un tratto senso morale e dignità
di coscienza?
Sui primi d'ottobre, ogni cosa era pronta da parte mia: non così da
parte del generale Ramorino, al quale io scriveva e riscriveva senza
ottenere risposta: mi giungevano bensì dal giovane segretario
ragguagli tristissimi che m'additavano Ramorino perduto nella
passione del gioco, indebitato e vôlto a tutt'altro che ad ordinar
la colonna. Passò l'ottobre. Gli mandai viaggiatori, tra i quali
ricordo Celeste Menotti che dovè raggiungerlo in Parigi, dov'ei
s'era, senza scopo apparente, ridotto. Spronato, rimproverato, ei
chiese tempo, allegando ostacoli impreveduti al lavoro. Gli
concedemmo, riluttanti, il novembre. E il novembre anch'esso passò.
Sul cominciare di dicembre, ei finalmente mi dichiarò che gli
riusciva impossibile d'ordinare anche cento sui mille uomini
promessi; che la polizia parigina informata, l'aveva interrogato sul
disegno; ch'ei s'era valentemente schermito, ma che invigilato,
adocchiato in ogni suo passo, ei non poteva ormai più adempiere alle
sue promesse - e mi rimandava 10,000 sui 40,000 franchi affidatigli.
Più tardi seppi ch'egli, cedendo a minacce e promesse di pagamento
dei debiti, s'era messo in accordo col Governo francese,
vincolandosi, non a tradire sul campo, ma a impedire che
v'entrassimo mai.
Intanto, l'opportunità della mossa andava sfumando. Il partito
all'interno, decimato, impaurito, sviato, cadeva nell'anarchia e
nella impotenza. Al di fuori, il segreto dell'impresa, fidato a
centinaja di uomini italiani, polacchi, francesi, svizzeri, si
svelava a tutte le polizie. I loro agenti convenuti da ogni lato di
Ginevra, spiavano ogni nostro passo, accumulavano ostacoli,
insistevano colle autorità Ginevrine perchè disperdessero gli esuli
agglomerati nel Cantone. Li disseminammo come meglio si poteva, a
sviar l'attenzione e i sospetti; ma rimossi dalla vigilanza del
Centro, lasciati alle loro inspirazioni individuali, scorati, e
diffidenti pei lunghi indugi e per le promesse ripetute e sempre
fallite perdevano ogni senso di disciplina, partivano, tornavano,
s'allontanavano senza dir dove, in cerca d'occupazione: altri molti,
privi di mezzi, ricorrevano alla Cassa Centrale ed esaurivano i
mezzi serbati all'azione. Deputazioni incessanti venivano dai più
impazienti fra i proscritti stranieri a lagnarsi, a chiedere quando
si farebbe, ed assegnare termini perentorî all'azione, minacciando
taluni di sciogliersi, altri d'operare rovinosamente da sè.
L'ambasciata Francese offriva ai polacchi cacciati poco innanzi da
Besançon oblio, passaporti, danaro, ogni cosa purchè vi tornassero;
e i comitati Svizzeri, informati di quelle offerte, ricusavano più
oltre soccorrerli. Bisognava, a trattenerli, dar loro paga regolare.
L'indugio era una vera rovina.
E nondimeno, io non poteva svelare il vero. La voce fatta correre
all'interno che Ramorino capitanava l'impresa era diventata una
condizione sine qua non. Il nostro dichiarare che s'agirebbe, ma
senza di lui, avrebbe disanimato tutti i cospiratori della Savoja, e
l'interpretazione più ovvia sarebbe stata ch'ei s'asteneva,
giudicando l'impresa impossibile. Nè io, sospetto di volere
allontanato un rivale, avrei ottenuto fede, se non con prove
documentate, ch'io non aveva, della sua mala condotta.
E come se quel viluppo di difficoltà pressochè insormontabili non
bastasse, s'aggiungeva l'opposizione segretamente dissolvitrice di
Buonarroti. Buonarroti in lega con me fino allora s'era fatto
subitamente avverso a ogni nostro tentativo d'azione: angusto di
vedute e intollerante nel suo giudicare degli uomini, ei vedeva nel
mio collegarmi con Giacomo Ciani, con Emilio Belgiojoso, ch'era
venuto a offrirsi ajutante di Ramorino, e con altri patrizî o ricchi
lombardi ch'ei chiamava sdegnosamente i banchieri, una deviazione
dai principî della pura democrazia; ma sopratutto, egli, cospiratore
per tutta la vita a Parigi, ignaro assolutamente d'ogni elemento
Italiano e neppur sognando che l'iniziativa potesse e dovesse un
giorno trapiantarsi di Francia in Italia o in altra Nazione, non
ammetteva che potesse cominciarsi un moto fuorchè - non dirò in
Francia, perch'egli avversava pure i disegni del Lionese - ma in
Parigi. E fulminò scomunica contro di noi: scomunica abbastanza
potente, perchè tutti gli elementi Svizzeri che m'erano
indispensabili erano affratellati nella Carboneria, ed egli
costituiva, con Testa, Voyer di Argenson ed altri l'Alta Vendita
della Setta. Io mi trovava a un tratto minato nelle parti vitali del
mio lavoro, e sentiva tutte le ruote del congegno arrestarsi, senza
poterne indovinare il perchè.
Com'io resistessi a ostacoli siffatti e rinascenti ogni giorno, non
so. Era una lotta d'Antèo, cadente a ogni tanto e risorgente con
nuova forza dalla terra toccata. Mi toccò riconquistare a uno a uno
gli agenti Svizzeri e staccarli da Buonarroti. Raccolsi nuovo
danaro. Trattenni i Polacchi. Mandai uomini nostri a formare
rapidamente, perchè non fallisse una parte del disegno ch'era
promessa e che era diversione importante, un nucleo di colonna in
Lione, fidandone la direzione a Rosales, a Nicolò Arduino e
all'Allemandi: in quel nucleo era il giovine Manfredo Fanti, più
tardi Generale, Ministro, e nemico nostro.
Perchè non rinunciai all'impresa? Oltre le cagioni del persistere
accennato più sopra, il dire a un tratto a tutti gli elementi
dell'interno a tutti gli uomini nostri e stranieri che al difuori
vivevano in quella fede, ai repubblicani francesi, a tutti coloro
che avevano dato denaro pei quattro quinti già speso: non era che un
sogno, era un decretare morte per sempre al Partito nella cui vita
io vedeva gran parte della salute dell'Italia. Era meglio tentare e
cadere in campo, lasciando non foss'altro un insegnamento morale a
chi volesse raccoglierlo. Poi se taluno fra' miei lettori è stato
mai a capo d'una impresa collettiva, egli almeno deve sapere come
l'impresa giunta a un certo grado di sviluppo diventi padrona
dell'uomo e non gli conceda più di ritrarsi.
Passava intanto in quei lavori, non solamente tutto il novembre, ma
il dicembre; con tale rovina della fiducia di tutti, e con tale
esaurimento di mezzi da comandarmi imperiosamente l'azione. La
risolsi pel finir di gennajo (1834) e sollecitai perchè verso quel
tempo s'operasse in Lione. L'eco dell'insurrezione Francese avrebbe
largamente supplito a tutti quei gradi di potenza che s'erano
irreparabilmente perduti in Italia.
Scrissi a Ramorino, dicendogli ch'io avrei iniziato a ogni modo;
venisse ad assumere il comando della fazione, e se non prima,
ricevuta appena la nuova del nostro ingresso. Il moto era fissato
pel 20 gennajo.
E aspettando risposta, ordinai quant'era necessario alla mossa. Si
determinarono i giorni, l'ora della partenza di nuclei collocati sui
diversi punti, l'ordine delle giornate, le vie da tenersi, i viveri,
i corrieri di punto in punto. Si fece deposito delle armi, per quei
che venivano da lontano, in Nyon, sulla sponda del lago.
S'apprestarono barche e zattere, tanto che invece di spingersi tutti
in Ginevra dove eravamo già troppi, e dove il Governo avrebbe
necessariamente tentato d'opporsi, tragittassero il lago e venissero
a ricongiungersi con noi in Carouge, punto di convegno per tutti. In
Carouge si trasportarono l'armi per quei che dovevano muovere da
Ginevra e dintorni. Si compì l'ordinamento militare; si scelsero i
capi; si prepararono i proclami.
Poco importa ora l'esporre minutamente il concetto di guerra che mi
parve da scegliersi. Basti il dire che il punto centrale
dell'operazione era Saint-Julien, sulla via d'Annecy. Non potendo nè
volendo determinare l'ora dell'insurrezione delle provincie
Savojarde, ordinai si raccogliessero in Saint-Julien, delegati di
ciascuna, tanto che fatti certi del nostro arrivo, corressero a dare
alle loro circoscrizioni il segnale del moto. La nostra forza era
tale da rendere ogni valida resistenza in Saint Julien impossibile.
Io sperava che Ramorino s'attenesse al secondo partito insinuatogli
e non venisse che dopo iniziata la mossa; ma fui deluso. Mi scrisse
che sarebbe venuto a tempo. E questa sua promessa fu intanto cagione
di nuovi indugi fatali allora più che mai. S'arrestò sulla via, mi
mandò avvisi che mi trattennero di giorno, in giorno, e ci
trascinarono fino al 31 gennajo, quand'ei giunse la sera, con due
generali, polacco l'uno, spagnuolo l'altro, un ajutante, un medico.
Lo vidi. Stava sul suo volto il sospetto di chi sente d'essere
sospettato e meritamente. Ei non levava, parlandomi gli occhi da
terra. Io ignorava ancora gli accordi stretti col governo francese,
ma presentii un tradimento possibile. Determinai stargli a fianco, e
giunti che fossimo a Saint-Julien, negargli, occorrendo, il potere.
L'insurrezione iniziata avrebbe probabilmente sentito la propria
forza e concesso minor importanza al prestigio di un nome.
Non proferii parola sul passato. Gli diedi il quadro delle nostre
forze. Gli comunicai il disegno di guerra. Gli proposi
l'approvazione degli ufficiali. Accettò ogni cosa. Soltanto,
allegando la responsabilità che pesava su lui, volle assumere sin
d'allora il comando ch'io avrei voluto non cominciasse che a
Saint-Julien: fu appoggiato da quanti fra i nostri vedevano nella
supremazia militare la salute dell'impresa, e se ne giovò per
istituire alcuni capi, quello fra gli altri che dovea guidare i
polacchi destinati ad attraversare il lago da Nyon. Lo condussi, per
vincolarlo più sempre, a un convegno segreto col generale Dufour. Là
furono studiate nuovamente le basi del disegno.
Il 1.° febbrajo ci ponemmo in moto. In Ginevra il governo tentò
d'impedire, anche più energicamente ch'io non avrei pensato, il
concentramento. I battelli furono sequestrati. L'albergo ov'io era
fu circondato dai gendarmi. S'arrestavano i nostri quando il menomo
indizio, un'arme, un berretto, una coccarda li rivelava. Ma la
popolazione preparata di lunga mano si levò tutta a proteggerci.
Ufficiali e soldati guardavano con favore la nostra mossa e cedevano
facilmente alle istanze semi-minacciose dei cittadini. Tutti i
nostri si raccolsero al convegno e s'armarono. Rimasi l'ultimo in
Ginevra per dirigere la mobilizzazione, poi, la sera, in un battello
ch'era stato giudicato inservibile, traversai coi Ruffini e uno o
due altri il lago e mi recai al campo dei nostri. Era tutto
entusiasmo, lietezza, fiducia.
Ma ci aspettava d'altra parte una serie terribile di delusioni.
I giovani tedeschi che avevano avuto le mosse da Zurigo e Berna,
spinti da un entusiasmo che esagerava la facilità dell'impresa e
dimenticava l'inevitabile opposizione del governo Svizzero,
s'avviarono collettivamente, a nuclei, quasi in ordine di battaglia,
con coccarde repubblicane germaniche, foglie di quercia al berretto,
e rivelando agli occhi di tutti il fine per cui movevano. La
distanza dal punto di convegno era grande e concedeva tempo e mezzi
di repressione alle autorità. Gli uni furono lungo la via
circondati; altri dispersi; molti vinsero gli ostacoli e giunsero,
ma per vie diverse dalle segnate e tardi: pochissimi tra quelli
elementi ci raggiunsero in tempo. E fu perdita grave.
La colonna dei polacchi che dovevano attraversare il lago da Nyon,
affidata da Ramorino a un Grabski, commise l'inescusabile errore di
separare gli uomini dall'armi: barche svizzere con soldati del
contingente passarono in mezzo, s'impossessarono della zattera sulla
quale erano l'armi, e condussero gli inermi prigioni.
Questi e altri incidenti simili ci privarono a un tratto dei tre
quarti almeno delle nostre forze, e quel ch'è peggio, diedero a
Ramorino il pretesto che gli mancava.
Per qualunque avesse avuto scintilla di genio insurrezionale e
sopratutto intenzione di riuscire, la posizione era chiara. Noi
potevamo anche colle poche nostre forze, correre difilati su
Saint-Julien e occuparlo. Non v'erano truppe. Certi di non poterlo
difendere, i capi piemontesi, all'annunzio della nostra mossa,
avevano abbandonato quel punto, e s'erano collocati a metà strada
per coprire Annecy. Giunti a Saint-Julien e partiti a diffondere il
segnale d'insurrezione i delegati che s'erano raccolti, poco
importava la cifra delle nostre forze. E inoltre l'entusiasmo delle
popolazioni svizzere, infervorato dal nostro primo successo, avrebbe
costretto il governo a mettere in libertà le nostre colonne che ci
avrebbero poco dopo raggiunti.
La nuova dell'allontanamento delle truppe da Saint-Julien era stata
comunicata a Ramorino. Credendo nell'esecuzione della promessa e non
volendo dar pretesti al sospetto di dualismo e d'ambizione nascente,
presi una carabina e mi confusi nelle file dei militi.
Il documento collettivo ch'or qui si ripubblica lascia intendere
abbastanza come Ramorino si facesse un'arme dell'imprigionamento dei
polacchi del lago e della speranza di riaverli per mutare
subitamente il disegno, sviarsi dal punto obbiettivo, costeggiare
per quasi ventiquattro ore il lago, stancare, sconfortare, rendere
incapaci di disciplina i nostri elementi. Ond'io m'asterrò dal
ripetere, e dirò solamente in poche linee ciò che mi concerne
personalmente.
Io aveva presunto troppo delle mie forze fisiche. L'immenso lavoro
ch'io m'era da mesi addossato le avea prostrate. Per tutta l'ultima
settimana io non aveva toccato il letto; avea dormito appoggiandomi
al dosso della mia sedia a mezz'ore, a quarti d'ora interrotti. Poi,
la ansietà, le diffidenze, i presentimenti di tradimento, le
delusioni imprevedute, la necessità d'animare altrui col sorriso
d'una fiducia che non era in me, il senso d'una più che grave
responsabilità, avevano esaurito facoltà e vigorìa. Quando mi misi
tra le file, una febbre ardente mi divorava. Più volte accennai
cadere e fui sorretto da chi m'era a fianco. La notte era
freddissima e io aveva lasciato spensieratamente non so dove il
mantello. Camminava trasognato, battendo i denti. Quando sentii
qualcuno - era il povero Scipione Pistrucci - a mettermi sulle
spalle un mantello, non ebbi forza per volgermi a ringraziarlo. Di
tempo in tempo, poi che m'avvidi che non s'andava su San Giuliano,
io richiamava con uno sforzo supremo le facoltà minacciate per
correr in cerca di Ramorino e pregarlo, scongiurarlo perchè
ripigliasse il cammino sul quale eravamo intesi. Ed ei m'andava, con
un guardo mefistofelico, rassicurando, promettendo, affermando che i
polacchi del lago s'aspettavano di minuto in minuto.
Ricordo che a mezzo dell'ultimo abboccamento, mentr'ei più
deliberatamente mi resisteva, un fuoco di moschetteria partito dal
piccolo nostro antiguardo mi fece correre al fascio delle carabine,
con un senso di profonda riconoscenza a Dio che ci mandava
finalmente, qualunque si fosse, la decisione. Poi, non vidi più cosa
alcuna. Gli occhi mi s'appannarono; caddi, e in preda al delirio.
Fra un accesso e l'altro, in quel barlume di coscienza che si
racquista a balzi per ricadere subito dopo nelle tenebre, io sentiva
la voce di Giuseppe Lamberti a gridarmi: che cosa hai preso? Egli e
pochi altri amici sapevano ch'io temendo d'esser fatto prigione e
tormentato per rivelazioni, aveva preso con me un veleno potente. E
affaticato pur sempre dal pensiero delle diffidenze che s'erano, o
mi pareva, suscitate in taluni, io interpretava quelle parole come
s'ei mi chiedesse quale somma io avessi preso dai nemici per tradire
i fratelli. E ricadeva, smaniando, nelle convulsioni. Tutti quei che
fecero parte della spedizione e sopravvivono, sanno il vero delle
cose ch'io dico. Quella notte fu la più tremenda della mia vita. Dio
perdoni agli uomini che, spronati da cieca ira di parte, seppero
trovarvi argomento di tristi epigrammi.
Appena Ramorino seppe di me, sentì sparito l'ostacolo: salì a
cavallo, lesse un ordine del giorno che scioglieva la colonna
dichiarando l'impresa impossibile, e l'abbandonò. Supplicarono Carlo
Bianco perchè li guidasse: egli s'arretrò davanti alla nuova
responsabilità e al disfacimento visibile tra gli elementi. La
colonna si sciolse.
Quando mi destai, mi vidi in una caserma, ricinto di soldati
stranieri. Vicino a me stava l'amico mio Angelo Usiglio. Gli chiesi
ove fossimo. Mi disse con volto di profondo dolore: In Isvizzera. E
la colonna? in Isvizzera (1861).
Il primo periodo della Giovine Italia era conchiuso e conchiuso con
una disfatta. Doveva io ritirarmi dall'arena e rinunziando a ogni
vita politica, aspettando paziente che il tempo o altri più capace o
più avventuroso di me maturasse i fati italiani, seguire nel
silenzio una via di sviluppo individuale e riconcentrarmi negli
studî che più sorridevano all'anima mia?
Molti mi diedero quel consiglio: gli uni convinti che l'Italia,
guasta fino al midollo dal lungo servaggio e dall'educazione
gesuitica, non avrebbe mai potuto far suo il nostro ideale e
conquistarne colle proprie forze il trionfo; gli altri già stanchi
sul cominciar della lotta, bramosi di vivere della vita
dell'individuo e impauriti dalla tempesta di persecuzioni che
s'addensava visibilmente sulle nostre teste. E i fatti che seguirono
l'infausta spedizione convalidavano i loro argomenti. Un immenso
clamore di biasimo s'era levato, da quanti in tutti i tempi non
adorano che la vittoria, contro di noi. L'onda, rotta agli scogli,
retrocedeva. Dall'Italia non venivano che voci di sconforto, nuove
di fughe, diserzioni, imprigionamenti e dissolvimento. Intorno a
noi, nella Svizzera, il favore col quale erano stati accolti i
nostri disegni si convertiva rapidamente in irritazione. Ginevra era
tormentata di note diplomatiche, richieste imperiose di liberarsi di
noi e minaccie; e i più cominciavano a imprecare a noi caduti come a
stranieri che mettevano a pericolo la pace del paese e rompevano la
buona armonia della Svizzera coi governi europei. L'autorità
federale mandava commissarî, iniziava inquisizioni e processi. Il
nostro materiale di guerra era sequestrato: i nostri mezzi
finanziarî erano quasi esauriti di fronte alla tristissima
condizione degli esuli, sprovveduti i più d'ogni cosa. E anche tra i
nostri la miseria e l'amarezza della delusione seminavano
recriminazioni e dissidî. Tutto era bujo all'intorno. Ben
promettevano dalla Francia battaglia imminente e vittoria in nome
della repubblica; ma io credeva spenta per allora l'iniziativa
francese, e quelle uniche promesse di meglio mi trovavano incredulo.
E più potente d'ogni consiglio e d'ogni minaccia mi suonava
all'orecchio il grido di dolore e di suprema inquietudine della
povera mia madre. Avrei ceduto a quello se avessi potuto.
Ma era tal cosa in me che le circostanze esterne non valevano a
domare. La mia natura era profondamente subbiettiva e signora de'
proprî moti. L'io era fin d'allora per me una attività chiamata a
modificare il mezzo in cui vive, non a soggiacergli passivo. La vita
raggiava dal centro alla circonferenza, non dalla circonferenza al
centro.
La nostra non era impresa di semplice riazione, moto d'infermo che
muta lato ad alleviare il dolore. Noi non tendevamo alla libertà
come a fine, ma come a mezzo per potere raggiungere un fine più
positivo e più alto. Avevamo scritto Unità repubblicana sulla nostra
bandiera. Volevamo fondare una Nazione, creare un Popolo. Cos'era,
per uomini che s'erano proposto intento sì vasto una disfatta? Non
era appunto parte dell'opera educatrice quella d' insegnare ai
nostri l'imperturbabilità negli avversi eventi? Potevamo insegnarla
senza darne l'esempio noi? E non avrebbe la nostra abdicazione
somministrato un argomento a quanti ritenevano impossibile
l'Unità?(36) Il guasto radicale in Italia, ciò che la condannava
all'impotenza, era visibilmente non una mancanza di desiderio, ma
una diffidenza delle proprie forze, una tendenza ai facili
sconforti, un difetto di quella costanza, senza la quale nessuna
virtù può fruttare, uno squilibrio fatale tra il pensiero e
l'azione. L'insegnamento morale che dovea porre rimedio a quel
guasto non era possibile in Italia, sotto il flagello persecutore
delle polizie, per via di scritti o discorsi, su larga scala, in
proporzioni eguali al bisogno. Era necessario un apostolato vivente:
un nucleo d'uomini italiani forti di costanza, inaccessibili allo
sconforto, i quali si mostrassero, in nome d'una Idea, capaci di
affrontare col sorriso della fede persecuzioni e sconfitte, cadenti
un giorno, risorgenti il dì dopo, e presti sempre a combattere e
credenti sempre, senza calcolo di tempo o di circostanze, nella
vittoria finale. La nostra era, non setta, ma religione di patria. E
le sette possono morire sotto la violenza: le religioni non mai.
Scossi da me ogni dubbiezza, e deliberai proseguir sulla via.
In Italia, il lavoro doveva inevitabilmente rallentarsi. Bisognava
dar tempo agli animi di riaversi, ai padroni di credersi vincitori e
riaddormentarsi. Ma potevamo rifarci all'estero delle perdite
dell'interno e lavorare a risorgere un giorno e gittare una seconda
chiamata all'Italia, forti d'elementi stranieri alleati e
dell'opinione europea. Potevamo, nel disfacimento, ch'io vedeva
lentamente compirsi, d'ogni principio rigeneratore, d'ogni
iniziativa di moto europeo, preparare il terreno alla sola idea che
mi pareva chiamata a rifare la vita dei popoli, quella della
Nazionalità, e una influenza iniziatrice, in quel moto futuro
all'Italia. Nazionalità e possibilità d'iniziativa italiana: fu
questo il programma, questa la doppia idea dominatrice d'ogni mio
lavoro dal 1834 al 1837.
La nostra stampa aveva attirato su noi l'attenzione degli stranieri.
L'ardito tentativo sulla Savoja aveva raccolto intorno al nostro
comitato una moltitudine d'esuli di tutte contrade. Erano, i più,
Tedeschi e Polacchi; ma parecchi venivano di Spagna, di Francia e
d'altrove - e citerò ad esempio Harro Haring, scrittore di merito e
vero pellegrino della Libertà, dacch'egli avea combattuto e lavorato
per essa in Polonia, in Grecia, in Germania. Era nato sulle sponde
del Mar Glaciale e portava con sè l'aspirazione ignota allora a
tutti fuorchè a lui e a me, ma pur destinata a tradursi in fatto un
dì o l'altro, all'Unità della Scandinavia. Fra tutti quegli uomini,
e prima che la persecuzione ci balestrasse a diverse foci, intesi a
cacciare i germi della doppia idea e d'una alleanza universalmente
invocata, non tentata ordinatamente da alcuno.
La Carboneria diretta in Francia da Buonarroti, Teste e, credo,
Voyer d'Argenson, tentava naturalmente di stendere i suoi lavori in
tutte le contrade: e accoglieva nelle sue file uomini d'ogni terra.
Ma era Associazione cosmopolita nel senso filosofico della parola:
non vedeva sulla terra che il genere umano e l'individuo; e
individui, non altro, erano per essa i suoi membri. La Patria non
aveva altare o bandiera nelle Vendite: il Polacco, il Tedesco, il
Russo non erano, dopo iniziati, se non Carbonari. Figli idolatri
della Rivoluzione Francese, quelli uomini non oltrepassavano le sue
dottrine. Cercavano per l'uomo, per ogni uomo la conquista di ciò
ch'essi chiamavano suoi diritti: diritti di libertà e d'eguaglianza,
non altro. Ogni idea collettiva, e quindi l'idea-Nazione, era per
essi inutile o - quando la giudicavano dal passato - pericolosa.
Teoricamente, ignoravano che non esistono diritti per l'individuo se
non in conseguenza di doveri compiti: dimenticavano che la legge di
vita dell'individuo non può desumersi se non dalla specie; e
rinegavano il sentimento della vita collettiva e il concetto
dell'opera trasformatrice che ogni individuo deve tentare di
compiere sulla terra a pro dell'umanità. Praticamente, essi
s'assumevano d'agire con una leva alla quale sottraevano il punto
d'appoggio, e si condannavano all'impotenza.
«Se per cosmopolitismo(37) intendiamo fratellanza di tutti, amore
per tutti, abbassamento delle ostili barriere che creano ai popoli,
separandoli, interessi contrarî, siamo noi tutti cosmopoliti. Ma
l'affermare quelle verità non basta: la vera questione sta per noi
nel come ottenerne praticamente il trionfo contro la lega dei
Governi fondati sul privilegio. Or quel come implica un ordinamento.
E ogni ordinamento richiede un punto determinato d'onde si mova, un
fine determinato al quale si miri. Perchè una leva operi, bisogna
darle un punto d'appoggio e un punto sul quale s'eserciti la sua
potenza. Per noi, quel primo punto è la Patria, il secondo è
l'Umanità collettiva. Per gli uomini che s'intitolano cosmopoliti,
il fine può essere l'Umanità: ma il punto d'appoggio è
l'uomo-individuo.
«La differenza è vitale; è la stessa a un dipresso che separa, in
altri problemi, i fautori dell'Associazione da quei che non
riconoscono come strumento d'azione se non la libertà sola e senza
limitazione.
«Solo, in mezzo dell'immenso cerchio che si stende dinanzi a lui e i
cui confini gli sfuggono, senz'arme fuorchè la coscienza de' suoi
diritti fraintesi e le sue facoltà individuali, potenti forse, pur
nondimeno incapaci di spander la loro vita in tutta quanta la sfera
d'applicazione ch'è il fine, il cosmopolita non ha se non due vie
tra le quali gli è forza scegliere: l'inerzia o il dispotismo.
«Poniamolo dotato d'ingegno logico. Non potendo da per sè solo
emancipare il mondo, ei s'avvezza facilmente a credere che il lavoro
emancipatore non è suo debito: non potendo, col solo esercizio dei
suoi diritti individuali, raggiungere il fine, ei prende rifugio
nella dottrina che fa dei diritti mezzo e fine ad un tempo. Dov'ei
non trova modo di liberamente esercitarli, ei non combatte, non
muore per essi; si rassegna e s'allontana. Ei fa suo l'assioma
dell'egoista: ubi bene, ibi patria; impara ad aspettare il bene dal
corso naturale delle cose, dalle circostanze, e convertito a poco a
poco in paziente ottimista limita la propria azione alla pratica
della carità. Ora, qualunque, nei tempi nostri, non esercita che la
carità, merita taccia d'inerte e tradisce il dovere. La carità è
virtù d'un'epoca oggimai consunta e inferiore moralmente alla
nostra.
«Poniamolo illogico e facile a contradire a sè stesso. Volendo a
ogni patto tradurre in fatti l'idea, e sentendo il bisogno d'un
punto d'appoggio, ei lo cerca ove può, o tenta supplire con una
forza artificiale, usurpata, alla forza reale e legittima che gli
manca. Quindi le teoriche d'ineguaglianza, le gerarchie
arbitrariamente ordinate dall'alto al basso, nelle quali noi vediamo
rovinar fatalmente i più tra i riformatori sistematici de' nostri
giorni. Quindi - e in ambo i casi - il materialismo, inevitabile
presto o tardi in ogni dottrina che noi, s'appoggia se non sul
concetto dell'individuo.
«Io non dico che tutti i cosmopoliti accettino conseguenze siffatte:
dico che dovrebbero, logicamente, accettarle. Seguono, se afferrano
una terza via, gli impulsi del core, non l'intelletto: son nostri,
incapricciati, per lunga abitudine o noncuranza del retto
significato delle parole, a serbarsi quel nome.
«La prima specie di cosmopoliti occorre pur troppo frequente per
ogni dove, e fu spesso rappresentata in teatro: la seconda esiste
fra gli scrittori, segnatamente Francesi. Tutti quei pretesi
cosmopoliti che negano la missione delle razze e guardano disdegnosi
al concetto o all'amore della Nazionalità, collocano - appena si
tratti di fare, e quindi della necessità d'un ordinamento - il
centro del moto nella propria Patria, nella propria città. Non
distruggono le Nazionalità; le confiscano a prò d'una sola. Un
popolo eletto, un popolo-Napoleone è l'ultima parola dei loro
sistemi; e tutte le loro negazioni covano un nazionalismo invadente,
se non coll'armi - ciò che è difficile in oggi - con una iniziativa,
morale e intellettuale, permanente, esclusiva, che racchiuderebbe,
pei popoli abbastanza deboli per accettarla, gli stessi
pericoli(38).
«Gli avversi all'idea nazionale servono, inconscî, a un pregiudizio
ch'io intendo senza dividerlo. Essi derivano la definizione della
parola nazionalità dalla storia del passato. Quindi le obbiezioni e
i sospetti.
«Or noi, credenti nella vita collettiva dell'Umanità, respingiamo il
passato. Parlando di nazionalità, parliamo di quella che soli i
popoli liberi, fratelli, associati, definiranno. La Nazionalità dei
Popoli non ha finora esistenza: spetta al futuro. Nel passato, noi
non troviamo nazionalità fuorchè definita dai re e da trattati tra
famiglie privilegiate. Quei re non guardavano che ai loro interessi
personali; quei trattati furono stesi da individui senza missione,
nel segreto delle Cancellerie, senza il menomo intervento popolare,
senza la menoma inspirazione d'Umanità. Che poteva escirne di santo?
«Patria dei re era la loro famiglia, la loro razza, la dinastia. Il
loro fine era il proprio ingrandimento a spese d'altrui,
l'usurpazione sugli altrui diritti. Tutta la loro dottrina si
compendiava in una proposizione: indebolimento di tutti per securità
o giovamento dei proprî interessi. I loro Trattati non erano se non
transazioni concesse alla necessità: le loro paci erano semplici
tregue: il loro equilibrio era un tentativo diretto unicamente
dall'antiveggenza di combattimenti possibili, da una diffidenza
ostile e perenne. Quella diffidenza trapela attraverso tutte le mene
diplomatiche di quel tempo, determina le alleanze, regna sovrana in
quel Trattato di Vestfalia, ch'è parte anche oggi del diritto
pubblico Europeo e il cui pensiero fondamentale è la legittimità
delle razze regali dichiarata e tutelata. Come mai l'Europa dei re
avrebbe potuto concepire e verificare un pensiero d'associazione e
un ordinamento pacifico delle Nazioni? Essa non riconosceva
principio superiore agli interessi secondarî e parziali nè credenza
comune che potesse essere base e pegno di stabilità a' suoi atti. La
dottrina delle razze regali legittime consacrava solo arbitro del
futuro il diritto degli individui. E ne usciva un misero
nazionalismo, che non è se non parodìa di ciò che il santo nome di
Nazionalità suona oggi per noi.
«E allora, conseguenza dello spirito del Cristianesimo che non
voleva sulla terra nemici, conseguenza pure della legge del
Progresso che preparava le vie all'associazione, cominciò una grande
inevitabile opposizione all'idea travisata della Nazione. La
filosofia e l'economia politica introdussero il cosmopolitismo tra
noi. Il cosmopolitismo predicò l'eguaglianza dei diritti per ogni
uomo, qualunque ne fosse la patria: predicò la libertà del
commercio: ebbe interpreti politici in Anacarsi Clootz e altri
oratori nella Convenzione: creò una Letteratura col romanticismo; e
fece in ogni cosa ciò che fanno generalmente le opposizioni: esagerò
le conseguenze d'un principio giusto in sè, e non vedendosi intorno
che nazionalità regie e patrie senza popoli, negò Patria e Nazione:
non ammise che la terra e l'uomo.
«D'allora in poi, il popolo entrò sull'arena.
«Oggi, di fronte a quel nuovo elemento di vita, tutto è mutato. Il
romanticismo, il mercantilismo, il cosmopolitismo, sono passati,
come ogni cosa che ha compito la propria missione. La nazionalità
dei re non ha più sostegno che nella cieca forza e rovinerà
inevitabilmente un dì o l'altro. Il nazionalismo dei popoli va
rapidamente spegnendosi condannato dall'esperienza e dalle severe
lezioni che i tentativi di rigenerazione, impresi isolatamente e
governati dall'egoismo locale, fruttarono. Il primo popolo che si
leverà, in nome della nuova vita, non ammetterà conquista fuorchè
dell'esempio e dell'apostolato del vero. Il periodo del
cosmopolitismo è ovunque compito: comincia il periodo dell'Umanità.
«Or l'Umanità è l'associazione delle Patrie: l'Umanità è l'alleanza
delle Nazioni per compire, in pace e amore, la loro missione sulla
terra: l'ordinamento dei Popoli, liberi ed uguali, per movere senza
inciampi, porgendosi ajuto reciproco e giovandosi ciascuno del
lavoro degli altri, allo sviluppo progressivo di quella linea del
pensiero di Dio ch'egli scrisse sulla loro culla, nel loro passato,
nei loro idiomi nazionali e sul loro volto. E in questo progresso,
in questo pellegrinaggio che Dio governa, non avrà luogo nimicizia o
conquista, perchè non esisterà uomo-re o popolo-re, ma solamente una
associazione di popoli fratelli con fini e interessi omogenei. La
legge del Dovere accettata e confessata sottentrerà a quella
tendenza usurpatrice dell'altrui diritto che signoreggiò finora le
relazioni fra popolo e popolo e non è se non l'antiveggenza della
paura. Il principio dominatore del diritto pubblico non sarà più
indebolimento d'altrui, ma miglioramento di tutti per opera di
tutti, progresso di ciascuno a pro' d'altri. È questo il futuro
probabile e a questo devono ormai tendere tutti i nostri lavori.
«Ma pretendere di cancellare il sentimento della Patria nel core dei
popoli - di sopprimere in un subito le nazionalità - di confondere
le missioni speciali assegnate da Dio alle diverse tribù dell'umana
famiglia - di curvare sotto il livello di non so quale
cosmopolitismo le varie associazioni schierate a gerarchia nel
disegno provvidenziale, e romper la scala per la quale l'Umanità va
salendo all'Ideale - è un pretendere l'impossibile. I lavori diretti
a quel fine sarebbero lavori perduti; non riuscirebbero a falsare il
carattere dell'Epoca che ha per missione d'armonizzare la Patria
coll'Umanità, ma ritarderebbero la vittoria. Il patto dell'Umanità
non può essere segnato da individui, ma da popoli liberi, eguali,
con nome, coscienza di vita propria e bandiera. Parlate loro di
Patria, se volete ch'essi diventino tali, e stampate a caratteri
splendidi sulla loro fronte il segno della loro esistenza, il
battesimo della Nazione. I popoli non entrano sull'arena
dell'iniziativa se non con una parte definita, assegnata a ciascun
d'essi. Voi non potete compire il lavoro e rompere lo stromento: non
potete usare con efficacia la leva sottraendole il punto d'appoggio.
Le nazioni non muojono prima d'aver compita la loro missione. Voi
non le uccidete negandola, ma ne ritardate l'ordinamento e
l'attività.»
Erano queste le idee che dovevano, a quanto parevami, dirigere il
nostro lavoro. E il mio modo d'intender la Storia le convalidava. Io
vedeva la serie delle Epoche, attraverso le quali si compie
lentamente il progresso dell'Umanità, quasi equazione a più
incognite, e ogni Epoca svincolarne, come dicono gli algebristi,
una, per aggiungerla alle quantità cognite collocate nell'altro
membro dell'equazione. L'incognita dell'Epoca Cristiana conchiusa
dalla Rivoluzione Francese era per me l'individuo; l'incognita
dell'Epoca nuova era l'Umanità collettiva; e quindi l'associazione.
La leva era l'Europa. L'ordinamento politico Europeo doveva
necessariamente precedere ogni altro lavoro. E quell'ordinamento non
poteva farsi che per popoli: per popoli che liberamente affratellati
in una fede, credenti tutti in un fine comune, avessero ciascuno una
parte definita, una missione speciale nell'impresa. Perchè l'Europa
potesse inoltrare davvero, raggiungere una nuova sintesi e
consecrare a svolgerla tutte le forze ch'oggi si consumano in lotte
interne, bisognava rifarne la Carta. La questione delle Nazionalità
era ed è per me, e dovrebb'essere per tutti noi, ben altra cosa che
non un tributo pagato al diritto o all'orgoglio locale: dovrebbe
essere la divisione del lavoro Europeo.
In ogni modo, la questione delle Nazionalità era per me la questione
che avrebbe dato il suo nome al Secolo. L'Italia, com'io
l'intravvedeva e amava, poteva esserne iniziatrice, e lo sarà, se
liberandosi dalla turba codarda e immorale ch'oggi la domina,
intenderà un giorno il proprio dovere e la propria potenza.
Pensai che il lavoro doveva stendersi tra i popoli che non erano
ancora e tendevano ad esser Nazioni. La Francia era Nazione: avea
conquistata prima d'ogni altro popolo la propria Unità: e i problemi
che s'agitavano in essa erano d'altra natura.
Sono in Europa tre famiglie di popoli, l'Elléno-Latina, la
Germanica, la Slava. L'Italia, la Germania, la Polonia le
rappresentavano. La Grecia, santa di ricordi e speranze, e chiamata
a grandi fati nell'Oriente Europeo, è or troppo piccola per essere
iniziatrice. La Russia dormiva allora un sonno di morte: mancava
d'un centro visibile in cui la vita potesse assumere potenza
praticamente direttiva, nè a me pareva ch'essa potesse sorgere così
presto a coscienza di sè(39). Il nostro patto d'alleanza doveva
dunque stringersi dapprima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia,
la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la
Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati ciascuno intorno al
popolo più affine ad essi fra i tre.
Da questi pensieri nacque l'Associazione che chiamammo Giovine
Europa.
Ma intanto, la persecuzione infieriva. Moltissimi fra i nostri erano
condotti, a guisa di malfattori, alla frontiera, e spinti in
Inghilterra o in America: altri si disperdevano collocandosi ad uno
ad uno, sotto nomi mentiti, qua e là ne' paesetti dei Cantoni di
Vaud, Zurigo, Berna, Basilea, Campagna. Cercati più ch'altri,
riescimmo, noi Italiani a sottrarci. Lasciai, insieme ai due Ruffini
e a Melegari, Ginevra. Rimanemmo celati per un po' di tempo in
Losanna; poi prendemmo, tollerati, soggiorno in Berna.
«Non erano» - io diceva in alcune pagine pubblicate in Losanna col
titolo Sono partiti! parlando della persecuzione ai proscritti -
«non erano che duecento; e nondimeno, al solo vederli, la vecchia
Europa aveva, côlta d'odio e terrore, indossato l'antica armatura di
note e protocolli per dar loro battaglia mortale e avea posto in
moto contr'essi tutta quanta la turba de' suoi diplomatici, birri,
sgherri d'aristocrazia, prefetti, uomini d'armi e spie sotto ogni
guisa di travestimento. Da un punto all'altro d'Europa, tutta quella
ciurma bifronte, diseredata di cose, che Dio tollera quaggiù come
prova ai buoni, s'era raccolta alle porte delle ambasciate a
riceverne gli ordini, poi s'era diffusa per ogni angolo della
Svizzera, denunziando, calunniando, frugando. Era cominciata la
caccia ai proscritti.
«Per quattro mesi, le note piovvero, come grandine, come locuste,
come mosche sopra un cadavere, sulla povera Svizzera. Vennero da
Napoli, dalla Russia, dai quattro punti cardinali; e intimavano
tutte, con linguaggio più o meno acerbo d'ira e minaccia: scacciate
i proscritti.
«Pur fingevano talora di disprezzarli. Erano, scrivevano i loro
giornali, giovanetti inesperti, esciti di fresco dalla scuola,
cospiratori in aborto. S'erano inebbriati di sogni e cercavano
l'impossibile. Era giusto s'educassero, espiando le stolte
illusioni; ma in verità non erano da temersi.
«Sì; erano, i più, giovanetti, benchè solcata prematuramente la
candida aperta fronte dall'orme di mesti e solenni pensieri; benchè
deserti d'ogni carezza di madre, d'ogni gioja d'affetti domestici:
fanciulli d'un nuovo mondo, figli d'una nuova fede; e l'Angelo
dell'esilio mormorava ad essi, sui primi passi del loro
pellegrinaggio, non so quale dolce e santa parola d'amore, di
fratellanza universale, di religione dell'anima, che li aveva
inalzati al di sopra degli uomini del loro secolo, perchè li aveva
trovati puri d'egoismo come la gioventù, presti al sacrificio come
l'entusiasmo. Al tocco dell'ala dell'Angelo, il loro occhio aveva
intravveduto cose ignote alla tarda età; un nuovo verbo fremente
sotto le rovine della vecchia feudale Europa; un nuovo mondo ansioso
di vederlo emergere dalle rovine alla luce della vittoria; e nazioni
ringiovanite; e razze, per lungo tempo divise, moventi, come
sorelle, alla danza, nella gioja della fiducia; e le bianche ali
degli angeli della libertà, dell'eguaglianza, dell'Umanità ad
agitarsi sulle loro teste. E innamorati dello spettacolo, avevano
richiesto il loro Angelo che mai dovessero fare; e l'Angelo avea
risposto: seguitemi; io vi guiderò attraverso i popoli addormentati
e voi predicherete coll'esempio la mia parola e conforterete a
levarsi quanti giacciono e gemono. Nessuno conforterà voi; e sarete
respinti dall'indifferenza e perseguitati dalla calunnia: ma io vi
serberò una ricompensa al di là del sepolcro. Ed essi s'erano posti
in viaggio tra i popoli e predicavano per ogni dove la santa parola;
e ovunque un fremito di popolo oppresso e prode giungeva al loro
orecchio, accorrevano, ovunque udivano un lamento di popolo oppresso
e avvilito, s'affrettavano e dicevano a quel popolo: levati, e
impara la forza ch'è in te. E spesso, com'era stato loro predetto,
incontravano sulla via la calunnia e l'ingratitudine: ma un'orma del
loro pellegrinaggio rimaneva pur sempre e i popoli stessi che li
avevano respinti sentivano con maraviglia non so quale mutamento in
sè stessi che li migliorava.
«E queste cose erano state intravvedute anche dai re, perchè anche
lo Spirito del Male intravvede il futuro; soltanto è condannato a
combatterlo. Tutti gli oppressori odiavano i proscritti perchè li
temevano. L'Italia si cingeva di patiboli per respingerli dalla
frontiera; la Germania guardava con terrore a vedere se taluno di
quei giovani erranti non si celasse nel folto della Foresta Nera; la
Francia, la Francia, dei dottrinari e degli elettori privilegiati,
consentiva loro la via attraverso le proprie terre, ma faceva di
quella via un ponte dei sospiri pel quale andavano a morire di
stenti e miseria in altre terre lontane e diffalcava dai soccorsi di
via ch'essa loro accordava il soldo dei gendarmi che li trascinavano
alla coda dei loro cavalli, e il valore della catena ch'essa poneva
talora al collo di quei nobili perseguitati.
«E ora, essi sono partiti. Gli ultimi, giovani Tedeschi, colpevoli
d'aver pubblicato alcune pagine energiche indirizzate ai loro
compatrioti, furono, or son pochi giorni, consegnati dai gendarmi di
Berna ai gendarmi Francesi a Béfort, per essere avviati a Calais.
Sono partiti, salutando d'un lungo sguardo di dolore e rimprovero
questa terra Elvetica che aveva dato ai proscritti d'Europa solenne
promessa d'asilo e per paura la rompe, questi monti che Dio inalzava
perchè fossero la casa della Libertà e che il materialismo dei
diplomatici converte in uno sgabello della tirannide straniera,
questi uomini che li avevano circondati d'affetto e di plausi nei
giorni della speranza e ch'oggi ritirano la loro mano dalla mano dei
vinti. Essi avevano inteso a combattere per la Libertà non solamente
del loro paese, ma di tutti, per la Libertà come Dio la stampava nel
core dei buoni, pei diritti di tutti, per la luce su tutti; e uomini
che s'intitolano repubblicani li rinegano nella sventura e non una
voce ha osato qui, tra l'Alpi, levarsi e rispondere agli
scribacchiatori di Note: no; noi non violeremo la religione della
sventura; non cacceremo questi esuli; e se mai vorrete strapparli da
noi colla forza, Dio, le nostre Alpi e le nostre armi ci
difenderanno da voi.
«E l'ardita parola avrebbe fatto retrocedere i persecutori. L'Europa
diplomatica, turbata, sommossa per quattro mesi dai duecento giovani
proscritti, non avrebbe osato affrontare il grido di resistenza d'un
popolo che ricorda Sempach e Morgarten.
«Perchè - non lo dimenticate, uomini deboli ch'esciste dalla
rivoluzione e la rinegate - non s'arretrarono essi, quei re
stranieri ch'oggi minacciano perchè vi vedono tremanti, davanti alla
guerra nel 1831? Non videro, impotenti ed immobili, l'elemento
democratico, il principio popolare, a invadere ad una ad una le
costituzioni dei vostri Cantoni? Allora, eravate fermi e guardavate
con fiducia al popolo: allora i vostri contingenti federali
s'incamminavano lietamente alla frontiera minacciata dall'Austria; e
voci energiche gridavano ad essi: voi difenderete contro qualunque
l'assalga la terra dei vostri padri. E s'arretrarono quei re
terribili. Siate oggi quali foste allora: come allora
s'arretreranno. Fra il primo colpo di cannone dei re e l'ultimo d'un
popolo che combatte una guerra d'indipendenza, sanno essi quanti
troni possano rovinare, quanti popoli insorgere? Voi tenete in mano
le due estremità della leva rivoluzionaria, la Germania e l'Italia.
«Voi non avete saputo osare. Vi siete fatti stromento ignobile delle
persecuzioni monarchiche. Avete violato i diritti della sventura.
Avete scacciato quei che abbracciavano, invocando, i vostri
focolari. Avete rinegato il vincolo più sacro che unisca l'uomo a
Dio, la pietà.
«Quando i depositari del Dovere d'una Nazione si mostrano incapaci
di serbare intatto quel sacro deposito, spetta, o giovani Svizzeri,
alla Nazione levarsi, dapprima per avvertire i mandatari infedeli di
mutar via, poi per rovesciarli nel fango e fare da sè.(40)
«Sono partiti! Dio li scorga e versi la pace sull'anima loro nel
lungo pellegrinaggio al quale li condanna inospitale l'Europa. Non
disperate, giovani proscritti, dell'avvenire che portate nel core;
inalzate il vostro pellegrinaggio all'altezza d'una missione
religiosa; soffrite tranquilli. La nuova fede della quale voi siete
apostoli ha bisogno, per trionfare, di martiri; e i patimenti
nobilmente sopportati sono la più bella gemma della corona che
l'angelo dei fati Europei posa sulla testa de' suoi combattenti. I
giorni intravveduti da voi sorgeranno. È tal cosa in cielo che nè
decreti di Consigli, nè Diete, nè ukasi di Czar valgono a
cancellare, come le nuvole addensate dalla tempesta non possono
cancellare il sole dalla vôlta azzurra: la Legge morale universale;
il progresso di tutti per opera di tutti. Ed è tal cosa in terra che
nessuna tirannide può soffocare lungamente: il popolo, la potenza e
l'avvenire del popolo. I fati si compiranno. E un giorno, quando
appunto s'illuderanno più fortemente a crederlo acciecato,
incatenato, sepolto per sempre, il popolo alzerà gli occhi al cielo,
e, Sansone dell'Umanità, con un solo sforzo di quella mano che
stritola i troni, romperà ceppi, bende e barriere, e apparirà libero
e padrone di sè.
«....Apparirà, apparirà! E la santa legge dell'Umanità, la santa
parola di Gesù, amatevi gli uni cogli altri, la libertà,
l'eguaglianza, la fratellanza, l'associazione, avranno il compimento
che Dio decretava. I popoli confonderanno in un abbraccio fraterno
dolori passati e speranze dell'avvenire.
«E allora, se alcuni di quei proscritti, di quei pellegrini sublimi,
messi al bando dell'Umanità per averla troppo ardentemente amata,
rimarranno tuttavia in vita, saranno benedetti. E se tutti, a
eccezione d'un solo, saranno caduti nella battaglia, quell'uno
s'incurverà sulla pietra che coprirà le bianche ossa de' suoi
fratelli e mormorerà ad essi attraverso l'alta e folta erba
cresciuta su quella: fratelli, gioite, però che l'Angelo ha detto il
Vero e noi abbiamo vinto il vecchio mondo.
«E quegli sarà l'ultimo proscritto, perchè i soli popoli
regneranno.»
In Berna, tra le incertezze del futuro, le noje del presente e i
frequenti richiami della polizia che a ogni nuova Nota diplomatica
ci tormentava, stesi e stringemmo congregati - se la memoria non mi
tradisce - in diciasette fra Tedeschi, Polacchi e Italiani, il Patto
di Fratellanza che doveva avviare il lavoro dei tre popoli a un
unico fine. E fu questo:
«Noi sottoscritti, uomini di progresso e di libertà:
«Credendo:
«Nell'eguaglianza e nella fratellanza degli uomini,
«Nell'eguaglianza e nella fratellanza dei Popoli;
«Credendo:
«Che l'Umanità è chiamata a inoltrare, per un continuo progresso e
sotto l'impero della Legge morale universale, verso il libero e
armonico sviluppo delle sue facoltà e verso il compimento della sua
missione nell'Universo;
«Ch'essa nol può se non coll'attiva cooperazione di tutti i suoi
membri liberamente associati;
«Che l'associazione non può costituirsi veramente e liberamente se
non tra eguali, dacchè ogni ineguaglianza racchiude una violazione
d'indipendenza e ogni violazione d'indipendenza annienta la libertà
del consenso;
«Che la Libertà, l'Eguaglianza, l'Umanità sono egualmente sacre -
ch'esse costituiscono tre elementi inviolabili in ogni soluzione
positiva del problema sociale - e che qualunque volta uno di questi
elementi è sagrificato agli altri due, l'ordinamento dei lavori
umani per raggiungere quella soluzione è radicalmente difettivo;
«Convinti:
«Che se il fine ultimo al quale tende l'Umanità è essenzialmente
uno, e i principî generali che devono dirigere le famiglie umane nel
loro moto verso quel fine sociale sono gli stessi, molte vie sono
nondimeno schiuse al progresso;
«Convinti:
«Che ogni uomo e ogni popolo ha la sua missione speciale, il cui
compimento determina l'individualità di quell'uomo o di quel popolo
e ajuta a un tempo il compimento della missione generale
dell'Umanità;
«Convinti finalmente:
«Che l'associazione degli uomini e dei popoli deve congiungere la
certezza del libero esercizio della missione individuale alla
certezza della direzione verso lo sviluppo della missione generale;
«Forti dei nostri diritti d'uomini e di cittadini, forti della
nostra coscienza e del mandato che Dio e l'Umanità affidano a tutti
coloro i quali vogliono consecrare braccio, intelletto, esistenza
alla santa causa del progresso dei popoli;
«Dopo d'esserci costituiti in associazioni Nazionali libere e
indipendenti, nuclei primitivi della Giovine Polonia, della Giovine
Germania e della Giovine Italia;
«Uniti in accordo comune pel bene di tutti, il 15 aprile dell'anno
1834 abbiamo, mallevadori, per quanto riguarda l'opera nostra,
dell'avvenire, determinato ciò che segue:
«I. La Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia,
associazioni repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e
dirette da una stessa fede di libertà, d'eguaglianza e di progresso,
si collegano fraternamente, ora e sempre, per tutto ciò che riguarda
il fine generale.
«II. Una dichiarazione dei principî che costituiscono la legge
morale universale applicata alle società umane, sarà stesa e firmata
dai tre Comitati Nazionali. Essa definirà la credenza, il fine e la
direzione generale delle tre Associazioni.
«Nessuna potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione
colpevole dell'Atto di Fratellanza e senza soggiacere a tutte le
conseguenze di quella violazione.
«III. Per tutto ciò che non è compreso nella dichiarazione dei
principî ed esce dalla sfera degli interessi generali, ciascuna
delle tre Associazioni è libera e indipendente.
«IV. L'alleanza difensiva e offensiva, espressione della solidarietà
dei popoli, è stabilita fra le tre Associazioni. Tutte lavorano
concordemente alla loro emancipazione. Ciascuna d'esse avrà diritto
al soccorso dell'altre per ogni solenne e importante manifestazione,
che avrà luogo in seno ad esse.
«V. La riunione dei Comitati Nazionali o dei loro delegati
costituirà il comitato della Giovine Europa.
«VI. È fratellanza tra gli individui che compongono le tre
Associazioni. Ciascun d'essi compirà verso gli altri i doveri che ne
derivano.
«VII. Un simbolo comune a tutti i membri delle tre Associazioni sarà
determinato dal Comitato della Giovine Europa. Un motto comune
indicherà le pubblicazioni delle Associazioni.
«VIII. Ogni popolo che vorrà esser partecipe dei diritti e doveri
stabiliti da questa alleanza, aderirà formalmente all'Atto di
Fratellanza, per mezzo dei proprî rappresentanti.
«Berna, 15 aprile 1834.»
ISTRUZIONE GENERALE
PER GLI INIZIATORI.
1. La Giovine Europa è l'associazione di tutti coloro i quali,
credendo in un avvenire di libertà, d'eguaglianza, di fratellanza
per gli uomini quanti sono vogliono consecrare i loro pensieri e le
opere loro a fondare quell'avvenire.
PRINCIPII COMUNI.
2. Un solo Dio;
Un solo padrone, la di lui Legge;
Un solo interprete di quella Legge: l'Umanità.
3. Costituire l'Umanità in guisa ch'essa possa avvicinarsi il più
rapidamente possibile, per un continuo progresso, alla scoperta e
alla applicazione della Legge che deve governarla; tale è la
missione della Giovine Europa.
4. Il bene consiste nel vivere conformemente alla propria Legge: la
conoscenza e l'applicazione della Legge dell'Umanità può dunque sola
produrre il bene. Il bene di tutti sarà conseguenza del compimento
della missione della Giovine Europa.
5. Ogni missione costituisce un vincolo di Dovere.
Ogni uomo deve consecrare tutte le sue forze al suo compimento. Ei
troverà nel profondo convincimento di quel dovere la norma dei
proprî atti.
6. L'Umanità non può raggiungere la conoscenza della sua Legge di
vita, se non collo sviluppo libero e armonico di tutte le sue
facoltà.
L'Umanità non può tradurla nella sfera dei fatti, se non collo
sviluppo libero e armonico di tutte le sue forze.
Unico mezzo per l'una cosa e per l'altra è l'Associazione.
7. Non è vera Associazione se non quella che ha luogo tra liberi ed
eguali.
8. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti gli uomini sono liberi,
eguali, fratelli.
9. La Libertà è il diritto che ogni uomo ha d'esercitare senza
ostacoli e restrizioni lo proprie facoltà nello sviluppo della
propria missione speciale e nella scelta dei mezzi che possono
meglio agevolare il compimento.
10. Il libero esercizio delle facoltà individuali non può in alcun
caso violare i diritti altrui.
La missione speciale d'ogni uomo devo mantenersi in armonia colla
missione generale dell'Umanità.
La libertà umana non ha altri limiti.
11. L'Eguaglianza esige che diritti e doveri siano riconosciuti
uniformi per tutti - che nessuno possa sottrarsi all'azione della
Legge che li definisce - che ogni uomo partecipi, in ragione del suo
lavoro al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze
sociali poste in attività.
12. La Fratellanza è l'amore reciproco, la tendenza che conduce
l'uomo a fare per altri ciò ch'ei vorrebbe si facesse da altri per
lui.
13. Ogni privilegio è violazione dell'Eguaglianza.
Ogni arbitrio è violazione della Libertà.
Ogni atto d'egoismo è violazione della Fratellanza.
14. Ovunque il privilegio, l'arbitrio, l'egoismo s'introducono nella
costituzione sociale, è dovere d'ogni uomo, che intende la propria
missione, di combattere contr'essi con tutti i mezzi che stanno in
sua mano.
15. Ciò ch'è vero d'ogni individuo in riguardo agli altri individui
che fanno parte della Società alla quale egli appartiene, è vero
egualmente d'ogni popolo per riguardo all'Umanità.
16. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti i popoli sono liberi,
eguali, fratelli.
17. Ogni Popolo ha una missione speciale che coopera al compimento
della missione generale dell'Umanità. Quella missione costituisce la
sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra.
18. Ogni signoria ingiusta, ogni violenza, ogni atto d'egoismo
esercitato a danno d'un Popolo è violazione della libertà,
dell'eguaglianza, della fratellanza dei Popoli. Tutti i Popoli
devono prestarsi ajuto perchè sparisca.
19. L'Umanità non sarà veramente costituita se non quando tutti i
Popoli che la compongono, avendo conquistato il libero esercizio
della loro sovranità, saranno associati in una federazione
repubblicana per dirigersi, sotto l'impero d'una dichiarazione di
principî e d'un patto comune, allo stesso fine: scoperta e
applicazione della Legge morale universale.»
Firmarono quei due atti, per gli Italiani, L. A. Melegari, Giacomo
Ciani, Gaspare Rosalez, Ruffini e Ghiglione con me: altri pei
Polacchi e pei Tedeschi. Poi, parecchi tra noi s'allontanarono per
varie direzioni. Rosales partì pei Grigioni, Ciani per Lugano,
Melegari per Losanna, Campanella per Francia(41), attivi tutti nel
diffondere l'Associazione. Tedeschi e Polacchi rimasero, i più
almeno, in Isvizzera, ma separati e in Cantoni diversi. Gustavo
Modena durò nel Bernese dove qualche tempo dopo contrasse amore con
Giulia Calame, oggi di lui vedova, donna mirabile, come per
bellezza, per sentir profondo, per devozione e costanza d'affetti e
per amore alla sua seconda patria, che corse più tardi ogni pericolo
di guerra accanto al marito nel veneto e ch'io imparai a conoscere
nel 1849 durante l'assedio di Roma. I due Ruffini, Ghiglione e io ci
ricovrammo nel Cantone di Soletta, in Grenchen, nello Stabilimento
di Bagni tenuto dai Girard, ottima famiglia d'amici, nella quale
uomini e donne gareggiavano verso noi di cure protettrici e gentili.
Così dispersi, riuscivamo ad allontanare la tempesta e scemare
terrori e noje al Governo Centrale.
L'ideale della Giovine Europa era l'ordinamento federativo della
Democrazia Europea sotto un'unica direzione, tanto che
l'insurrezione d'una Nazione trovasse l'altre preste a secondarla
con fatti, o non foss'altro con una potente azione morale che
impedisse l'intervento ai Governi. Però statuimmo che in tutte si
cercasse di costituire un Comitato Nazionale al quale si
concentrerebbero a poco a poco tutti gli elementi di progresso
repubblicano, e che tutti questi Comitati s'inanellassero per via di
corrispondenza a noi come a Comitato Centrale Provvisorio
dell'Associazione; diramammo norme segrete per le affiliazioni:
determinammo le formole di giuramento per gli iniziati: scegliemmo -
ed era una fogliuzza d'ellera - un simbolo comune a tutti; prendemmo
insomma tutti quei provvedimenti che sono necessarî all'andamento
d'una associazione segreta. Bensì, io non poteva illudermi sul suo
diffondersi regolarmente o sul suo raggiungere mai un grado di forza
compatta e capace d'azione. La sfera dell'Associazione era troppo
vasta per poter ottenere risultati pratici; e il bisogno d'una vera
Fratellanza Europea richiedeva tempo e lezioni severe per maturarsi
fra i popoli. Io non tendeva che a costituire un apostolato d'idee
diverse da quelle che allora correvano, lasciando che fruttasse dove
e come potrebbe.
Buchez dichiarava allora nell'Européen che quell'Atto racchiudeva
una dottrina affatto nuova; e soltanto aggiungeva, per obbligo di
settario manopolizzatore, parergli evidente che gli uomini dai quali
scendeva ne avessero desunto le inspirazioni da lavori e
comunicazioni orali della sua scuola(42). La scuola di Buchez - più
inoltrata, per quanto riguarda la parte morale e la sostituzione
dell'idea Dovere a quella del nudo diritto di quelle che avevano
voga tra gli uomini di parte repubblicana - tentava, credo più per
tattica che non per convincimento profondo, un'opera allora e sempre
impossibile, la conciliazione del dogma cristiano colla nuova fede
nella Legge del Progresso; e professava riverenza al Papato come a
istituzione che le predicazioni della Democrazia religiosa avrebbero
ravvivata e ricostituita iniziatrice d'ogni futuro sviluppo. La
scuola ch'io cercava promovere e ch'era in germe nella Giovine
Europa respingeva fin dalle primo linee: un solo Dio; un solo
padrone, la Legge di Dio; un solo interprete della Legge, l'Umanità,
ogni dottrina di Rivelazione esterna, immediata, finale, per
sostituirle la lenta, continua, indefinita rivelazione del disegno
Provvidenziale attraverso la Vita collettiva dell'Umanità; e
sopprimeva deliberatamente tra gli uomini e Dio ogni sorgente
intermedia di Vero che non fosse il Genio affratellato colla Virtù,
ogni potere, esistente in virtù d'un preteso diritto divino, Monarca
o Papa. Nuove a ogni modo, non nella sfera del pensiero, ma nelle
Associazioni politiche che s'agitavano allora in Europa, erano di
certo le idee della Nazionalità considerata come segno d'una
missione da compiersi a pro' dell'Umanità - della Legge morale
suprema sovra ogni Potere e quindi dell'unità destinata a cancellare
un giorno il dualismo fra le due potestà, spirituale e temporale -
della Libertà politica definita in modo da escludere da un lato
l'assurda teorica della sovranità dell'individuo, dall'altro i
pericoli dell'anarchia - e altre accennate nei due documenti. E
forse, ripetute e diffuse dai moltissimi affratellati, giovarono in
parte a promovere nelle file della Democrazia quella trasformazione
di tendenze e dottrine visibile in oggi, e senza la quale sono
possibili sommosse più o meno importanti, non rivoluzioni durevoli.
Parlo delle tendenze che mirano a farci escire dalla ribellione d'un
materialismo che nega e non edifica per assumere carattere di
missione religiosa, positiva, organica e capace di sostituire una
Autorità vera e liberamente consentita alle menzogne d'autorità che
signoreggiano anch'oggi in Europa.
Fondammo il Patto della Giovane Europa sei giorni dopo
l'insurrezione Lionese, tre dopo la sconfitta, e mentre ogni
speranza di moto Francese sfumava. Era la nostra risposta alla
vittoria conseguita dalla monarchia repubblicana sul popolo che
s'era illuso a credere in essa. Era, com'io l'intendeva, una
dichiarazione della Democrazia ch'essa viveva di vita propria,
collettiva, europea e non dell'iniziativa d'un solo popolo, Francese
o altro. Anche sotto quell'aspetto, credo che la nuova istituzione
giovasse. L'idea, che le Nazionalità contrastate potrebbero
impossessarsi un giorno dell'iniziativa perduta e ricominciare sotto
la loro bandiera il moto d'Europa, cominciò d'allora a diffondersi.
Si trattava allora, non d'azione immediata, ma d'apostolato d'idee.
Cercai quindi contatto cogli uomini che, nel Partito,
rappresentavano sopratutto il Pensiero. Non serbai copia delle mie
lettere nè le risposte; le mie mi parvero sempre inutili fuorchè
all'intento immediato; e la vita errante, i pericoli ch'io corsi
traversando spesso paesi appartenenti a governi nemici e l'aver
talora smarrito, per singolare circostanze, carte date in custodia
ad amici, mi suggerirono, a torto, di dare, ogniqualvolta io
m'avventurava, alle fiamme le lettere altrui. Non m'avanza quindi
vestigio di quella lunga attivissima corrispondenza con uomini di
terre diverse, da una lettera infuori diretta a Lamennais e della
quale un amico di quest'ultimo serbò copia. E la inserisco come
indizio delle idee che mi dirigevano in quella molteplice
corrispondenza.
«12 ottobre 1834.
«Signore.
«Ebbi la vostra del 14 settembre, io la serberò come ricordo
prezioso, come uno di quei ricordi che confortano e ritemprano nelle
ore senza nome che s'aggravano talora sull'anima con tutto il peso
d'un passato e d'un presente incresciosi e le susurrano il dubbio
sull'avvenire. Vi mando un esemplare della Giovine Italia. Là stanno
in germe tutte le nostre idee, tutte le nostre credenze: senza lo
sviluppo e le applicazioni che esigerebbero; ma pensammo che
intendendo a mutare la base dalla quale move in Italia lo spirito
rivoluzionario, importava d'insistere sui principî generali più che
d'affaccendarci, a pericolo di smarrirci, intorno a una moltitudine
di questioni secondarie. Tra noi, come altrove, arte, scienza,
filosofia, Diritto, storia del Diritto, metodo storico, tutte cose
insomma aspettano un rinnovamento, ma l'analisi ci ha troppo sviati
perchè si possa da noi sperare di farla stromento all'impresa. Sola
la sintesi crea i grandi moti rigeneratori che mutano i popoli e ne
fanno Nazioni. È dunque anzi tutto necessario di suscitare le anime
coll'azione d'un principio unitario; dato l'impulso, la logica, la
forza delle cose e i popoli faranno il resto.
«Che vi dirò io, Signore, del timore espresso nella vostra lettera,
che, movendo guerra al Papato, si nuoccia per noi alla fede e alla
morale pratica? una lettera mal potrebbe trattare coi necessarî
sviluppi una questione di tanta importanza. Occorrerebbero lunghe e
intime conversazioni a spiegare i pensieri attraverso i quali s'è
generato in noi il convincimento le cui conseguenze vi sembrano
pericolose. Nondimeno, credetemi; non è irritazione di ribelle la
mia. Tutte le tendenze individuali dell'animo mi spronano a
contemplare rispettando ogni grande concetto unitario e organico; e
non v'è illusione giovanile, non sogno d'avvenire ch'io non abbia
una volta almeno versato su quella gigantesca rovina che racchiude
la storia d'un mondo. Io, non foss'altro per amore della mia terra,
avrei voluto che un raggio del sole sorgente della giovine Europa si
posasse su quella rovina a redimerla e a ravvivare in essa lo
spirito di vita che animava Gregorio VII, senza il pensiero
dispotico proprio del suo, non del nostro tempo. Avrei desiderato
che almeno le due grandi istituzioni del medio evo, l'impero ed il
Papato, oggi cadenti a frantumi, senza gloria, senza onore, senza
eredità, fossero state capaci di morire rappresentate da uomini
inspirati, come chi sa d'aver compito sulla terra una missione
sublime e trasmette a un tempo alle generazioni la formola
dell'epoca dominata dal proprio concetto e la prima parola della
nuova. Ma ciò non è. Quelle rovine non hanno più se non una sorgente
di poesia, quella dell'espiazione. La condanna del Papato non vien
da noi, ma da Dio: da Dio che chiama il popolo a sorgere e a fondare
la nuova unità nelle due sfere del dominio spirituale e del
temporale. Noi non facciamo che tradurre il pensiero dell'epoca. E
l'epoca respinge ogni potenza intermedia tra sè e la sorgente della
propria vita: essa si sente capace di collocarsi al cospetto di Dio
e chiedergli, come Mosè sul Sinai, la legge dei proprî fati. L'epoca
vi abbandona il papa per ricorrere al Concilio generale della
chiesa, vale a dire di tutti i credenti: Concilio che sarà nello
stesso tempo ciò ch'oggi chiamano costituente, perchè riunirà ciò
che fu sempre finora diviso e fonderà quell'unità senza la quale non
esiste fede nè morale pratica. Il papato deve perire, perchè ha
falsato la propria missione e rinnegato padre e figli ad un tempo: e
padre e figli gli maledicono. Il papato ha ucciso la fede sotto un
materialismo più assai funesto e abbietto di quello del XVIII
secolo, dacchè quest'ultimo aveva almeno il coraggio della
negazione, mentre il materialismo papale procede ravvolto nel
mantello gesuitico. Il papato ha soffocato l'amore in un mare di
sangue. Il papato ha preteso schiacciare la libertà del mondo, e
sarà schiacciato da essa. E quando, al primo grido d'un popolo, alla
prima insurrezione veramente europea per concetto e per fine, tre
secoli solleveranno le loro accuse contro un papato spirante, senza
fede, senza forza, senza missione, e gli intimeranno di ritirarsi e
sparire, dov'è la potenza umana che potrà salvarlo? Le grandi
istituzioni non ricominciano la loro vita, perchè non sono
interpreti all'umanità che d'una sola parola.
«Il papato e l'impero d'Austria sono destinati a perire: l'uno per
avere impedito per tre secoli almeno la missione generale che Dio
affidava all'umanità; l'altro per avere impedito per tre secoli
egualmente l'adempimento della missione speciale che Dio affidava
alle razze. L'umanità s'inalzerà sulle rovine dell'uno; la patria su
quelle dell'altro. Pensateci, Signore. Non vi sorprenda l'ardita
parola: essa deve indicarvi la potenza ch'io vedo in voi e la
fiducia che m'inspirate. Dove andrebbe l'Europa se gli uomini di
potenza e di fede, si ostinassero a gridarle nei momenti che
precedono la crisi suprema: tu dovrai desumere dal papato le norme
della morale pratica? Qual vincolo potrà congiungere in celeste
armonia le due sorelle immortali che han nome patria e umanità, se
alla vigilia della nuova creazione i credenti avranno insegnato ai
popoli che soltanto nel Dio del medio evo vive il segreto
dell'unità?
«E un altro pensiero contenuto nella vostra lettera mi diede dolore.
Voi vi dichiarate convinto che nella sua condizione presente
l'Italia è incapace d'emanciparsi politicamente colle proprie forze.
E questa idea è quella appunto che, predicata e diffusa, ha tolto
ogni forza ai nostri tentativi d'emancipazione. Voi condannate
all'impotenza ventisei milioni d'uomini che hanno per basi di difesa
le Alpi, l'Apennino ed il mare, ed hanno, per rialzarsi, tremila
anni di grandi ricordi. Voi rapite all'Italia ogni missione sulla
terra, dacchè senza spontaneità non esiste missione, senza coscienza
di libertà non esiste libertà, senza conquista d'emancipazione con
forze proprie non esiste coscienza di libertà.
«Non manca forza all'Italia, Signore: essa ne ha tanta da superare
ostacoli due volte più gravi di quelli che abbiamo oggi a fronte.
Manca all'Italia la fede; non la fede nella libertà,
nell'eguaglianza e nell'amore - quella fede è manifestata
nelle sue continue proteste - ma la fede nella possibile
realizzazione di quelle idee, la fede in Dio protettore del diritto
violato, la fede nella propria forza latente, nella propria spada.
L'Italia non ha fede nelle proprie moltitudini che non furono
chiamate mai sull'arena: non ha fede in quella unità di missione, di
voti, di patimenti, che può fare d'una prima vittoria una leva
potente a suscitare l'intera Penisola: non ha fede nel vigore ignoto
finora dei principî, che non rifulsero mai sugli occhi del popolo,
che non furono invocati mai e che dirigeranno, lo spero, la nostra
prima impresa di libertà. Ma questa fede, unica cosa che manchi ad
essa, albeggia, mentre noi ci scriviamo: sorge dalle lezioni del
1830 e del 1831 ch'essa, l'Italia, sta meditando: comincia a
rivelarsi nei fatti, tra le file della gioventù illuminata, da dove
scenderà a poco a poco sulle moltitudini; e progredirà, non dovete
dubitarne, perch'essa veste i caratteri d'una credenza religiosa.
Guardate, Signore, alle tendenze di spiritualismo che si ravvivano,
ai rischi tremendi che s'affrontano per leggere ciò che scriviamo,
all'entusiasmo destato dalle vostre calde, sublimi pagine, ai nostri
tentativi ripetuti in onta al mal esito, ai nostri apostoli, ai
nostri martiri. Ora questa fede sorgente, questa fede nell'azione
che trae le sue forze dall'alto e tenta di scendere sulle
moltitudini, mancò finora alla lotta, non pesò mai sulla bilancia
dei fati rivoluzionarî d'Italia. Però che in Italia si more da
secoli per un istinto d'indipendenza, di ribellione, d'avvenire mal
definito; ma da due anni si more in Savoja, in Genova, in Torino, in
Alessandria, in Napoli, per la Giovine Italia, per giuramenti
prestati al popolo, per un convincimento che l'Italia può
rigenerarsi con forze proprie. E quando questa fede, questo nuovo
principio, splenderà sopra una bandiera nazionale a un tempo ed
umanitaria, chi può dire ch'essa soccomberà?
«Non giudicate, Signore, del nostro avvenire dal nostro passato. È
tra essi un abisso. Tutti i nostri tentativi rivoluzionari perirono;
ma tutti furono opera d'una casta militare o aristocratica e intesi
a pro' d'una casta: tutti s'arretrarono davanti alla parola
generatrice delle grandi rivoluzioni: Dio e il Popolo: tutti
sagrificarono a non so quali meschine speranze il dogma sublime
dell'Eguaglianza: tutti furono, in sul nascere, soffocati dal
tradimento. E quel tradimento, che allontanava il popolo e
ricacciava la gioventù nello scetticismo, era inevitabile: l'avevano
posto al sommo dell'edifizio, in un disegno diplomatico, in una
promessa di principe, in una protezione straniera sostituita alle
battaglie per una santa causa. Gli uomini erano tuttavia sotto il
dominio d'una fredda scuola d'individualismo che agghiacciava in una
analisi materialista tutti i nobili pensieri, tutti i grandi
concetti di sintesi, d'entusiasmo, di sagrificio. E dato un falso
principio, bisognava subirne tutte le conseguenze fatali. E in virtù
di quel falso principio, tutti, amici e nemici, gridavano
all'Italia: i tuoi figli non bastano a darti salute; nessuno osava
dirle: levati potente d'energia e di devozione, però che tu non devi
sperare che ne' tuoi figli e in Dio.
«La rigenerazione d'Italia non può compirsi per fatto altrui. La
rigenerazione esige una fede: la fede vuole opere: e le opere devono
essere sue, non imitazione dell'opere altrui. E d'altra parte, come
può mettersi amore in una libertà non conquistata con sagrifici?
Come può esistere libertà forte e durevole dove non è dignità
d'individui e di popolo? E come può esistere dignità d'uomini o
popoli dove la libertà porta sulla fronte il segno del benefizio
altrui? L'azione crea l'azione. Un solo fatto d'iniziativa è più
fecondo di progresso morale a un popolo decaduto, che non dieci
insurrezioni determinate da una azione esterna o da mene di
diplomazia.
«Cerco diffondere, per tutte le vie possibili, la mia credenza.
Incontro ostacoli gravi, ma non mi sconforto. Da parecchi anni ho
rinunziato a quanto versa un'ombra, non foss'altro, di felicità
sulla vita terrestre. Lontano da mia madre, dalle mie sorelle, da
quanto m'è caro, perduto nelle prigioni il migliore amico de' miei
primi anni giovanili, e per altre cagioni note a me solo, ho
disperato della vita dell'individuo, e detto a me stesso: tu morrai
perseguitato e frainteso a mezzo la via. Ma non avrei di certo
trovato in me forza per vincere la tempesta e rassegnarmi, se questa
grande idea della rigenerazione italiana compita con forze proprie
non m'avesse dato il battesimo d'una fede. Distruggetela; e per che
o per chi lotterei? A che affaticarci, se l'Italia non può sorgere
che dopo una grande insurrezione francese?
«Io ho provato, Signore, un profondo dolore, quando, dopo d'avere
pianto e sorriso sugli ultimi versi del vostro capo XVIII - e detto
a me stesso: ecco l'uomo che c'intenderà - e scritto a voi l'animo
mio coll'entusiasmo e colla franchezza d'una fiducia senza confini -
ho udito dal vostro labbro, invece della confortatrice parola ch'io
sperava mandereste ai miei fratelli di patria, il freddo consiglio
che m'è toccato d'intender più volte dai diplomatici e dai falsi
profeti: rimanetevi inerti e aspettate; forse, la libertà vi verrà
dal nord, forse, dall'ovest della Germania o dalla Penisola Iberica.
Ma io lessi nelle vostre pagine inspirate, che la libertà
splenderebbe su noi, quando ciascuno di noi avrà detto a sè stesso:
voglio esser libero; quando per diventarlo ciascuno di noi sarà
pronto a sacrificare e soffrire ogni cosa. Dirò io che noi non siamo
finora pronti a sacrificare e patire quanto dovremmo? Lo so; ma
perchè oggi ancora l'anima nostra è ravviluppata di dubbio, non
avremo certezza mai? Perchè la fede or ci manca, dobbiamo disperare
dell'avvenire? Io non vi chiedeva di darci il segnale della
battaglia: vi chiedeva per l'Italia ciò che avete dato alla Polonia,
un commento al consiglio che ho citato dal vostro libro.
Rimproverateci, come profeta, i nostri vizî, la nostra fiacchezza,
le nostre divisioni, la nostra mancanza d'ardire; ma diteci a un
tempo: il giorno in cui vi sarete fatti migliori e fratelli tutti,
sarà il giorno della vostra emancipazione. Quando vorrete davvero,
voi non dovrete più temere i vostri nemici nè esigere, per vincere,
cosa alcuna dai vostri amici.
«Addio, Signore. Credete alla mia immensa stima. Senz'essa io non
avrei osato parlarvi, aperto il mio cuore.
«Giuseppe Mazzini.»
Negli ultimi mesi del 1834 impiantai l'Associazione della Giovine
Svizzera: e s'ordinarono Comitati nel Bernese, nei Cantoni di
Ginevra e di Vaud, nel Vallese, nel Cantone di Neufchâtel e altrove.
La Svizzera era ed è paese importante non solamente per sè ma e
segnatamente per l'Italia. Dal 1.° gennajo 1338 quel piccolo popolo
non ha padrone nè re. Per esso, da oltre a cinque secoli, unica in
Europa, ricinta di monarchie gelose e conquistatrici, una bandiera
repubblicana splende, quasi incitamento e presagio a noi tutti,
sull'alto della regione Alpina. Carlo V, Luigi XIV, Napoleone
passarono: quella bandiera rimase immobile e sacra. È in quel fatto
una promessa di vita, un pegno di Nazionalità non destinata,
com'altri pensa, a sparire. I trentatrè pastori del Grütli che,
eguali tutti e rappresentanti popolazioni sorelle, inalzarono, oltre
a cinque secoli addietro, contro la dominazione di casa d'Austria,
quella bandiera, furono di certo interpreti, allora inconsci, d'un
programma che Dio, segnando col dito la gigantesca curva dell'Alpi,
affidava alla forte razza disseminata, quasi a difenderle, alle loro
falde. Lungo quell'Alpi si stende una fratellanza di tradizioni
popolari, di leggende, d'abitudini indipendenti e di costumanze che
accenna a una missione speciale. Nel riparto territoriale futuro
d'Europa, la Confederazione Elvetica dovrebbe trasformarsi in
Federazione dell'Alpi, e affratellandosi da un lato la Savoja,
dall'altro il Tirolo Tedesco e possibilmente altre terre, stendere
una zona di difesa tra Francia, Germania e l'Alpi Elvetiche e
nostre. È l'idea ch'io cercai di diffondere e che, dovrebbe, parmi,
dirigere quanti guardano con ingegno severo all'avvenire delle
Nazioni. Oggi, gli uomini della monarchia l'hanno fatta, cedendo la
Savoja alla Francia, retrocedere d'un passo. Nondimeno chi sa gli
eventi tenuti in serbo dalla crisi trasformatrice che i tempi
inevitabilmente e rapidamente maturano?
Ma quando si fondava la Giovine Svizzera, la Nazione conservatrice
in Europa della forma repubblicana, era infiacchita, anneghittita
dal difetto di coesione interna, e quindi da un senso di debolezza
servile che la condannava, verso l'Europa dei re, a una politica
ignominiosa e suicida di concessioni, della quale dovevamo non molto
dopo sperimentare gli effetti. Lasciando da banda le cause morali
che intiepidendo negli animi ogni fede collettiva e il concetto del
Dovere che ha base in essa, li sospinge oggi su tutta quanta
l'Europa a ravvilupparsi più o meno in un manto d'indifferenza atea
fra il bene e il male, quel senso di debolezza era conseguenza
diretta del vizio fondamentale mantenuto ostinatamente nella
Costituzione Svizzera; la mancanza di Rappresentanza della Nazione.
Il concetto d'una Repubblica Federativa racchiude l'idea d'una
doppia serie di doveri e diritti: la prima spettante a ciascuno
degli Stati che formano la Federazione; la seconda, all'insieme: la
prima destinata a circoscrivere e definire la sfera d'attività degli
individui, come cittadini dei diversi Stati, l'interesse locale; la
seconda destinata a definire quella degli stessi individui come
cittadini dell'intera Nazione, l'interesse generale: la prima
determinata dai delegati di ciascuno degli Stati componenti la
Federazione; la seconda determinata dai delegati di tutto il paese.
Or, nella Svizzera, questo concetto è violato. Gli Stati o Cantoni
sono rappresentati, governati da autorità che più o meno
direttamente, più o meno democraticamente, emanano dal popolo dei
Cantoni: la Dieta, o Governo centrale, è composta dei delegati di
ciascun Cantone scelti dai grandi Consigli dei Cantoni medesimi; la
Svizzera non ha quindi rappresentanti proprî, e il Potere Nazionale
non è che un secondo esercizio della Sovranità Cantonale. In questa
Dieta scelta sotto l'inspirazione degli interessi locali, ogni
Cantone, qualunque ne sia l'importanza, l'estensione, la popolazione
- e sebbene gli oneri ne siano determinati dal numero de' suoi
abitanti - ha un voto. Un voto è dato a Zurigo che, popolato di
circa 225,000 abitanti, versa nell'esercito federale un contingente
di circa 4,000 uomini e nell'erario tra i settanta e gli ottanta
mila franchi: un voto a Zug che ha da 14,000 abitanti e contribuisce
di 250 soldati e di 2,500 franchi al paese. Un voto rappresenta i
355,000 abitanti di Berna e i 13,000 d'Uri. Ove i piccoli Cantoni
s'uniscano in un intento, una minoranza di mezzo milione o poco più
tiene fronte a una maggioranza di due milioni incirca di Svizzeri. E
quasi a evitare la possibilità che una inspirazione nazionale sorga
efficacemente nel core d'uno o d'altro Delegato, un mandato
imperativo cancella in lui ogni spontaneità di coscienza. I
rappresentanti sono vincolati da istruzioni precise date dai grandi
Consigli Cantonali, e le questioni, comunque urgenti, che sorgono
inaspettate, non possono sciogliersi se non interrogando nuovamente
quelle sorgenti d'autorità.
Mercè condizione siffatta di cose, i Gabinetti stranieri riescono
facilmente dominatori sulla mal connessa Confederazione. Essi mal
potrebbero tentare d'atterrire o corrompere un popolo di due milioni
e mezzo di repubblicani; ma possono, indirizzandosi separatamente ai
piccoli Cantoni, giovandosi delle loro tendenze aristocratiche e
della loro ignoranza, o accarezzando di speranze e di piccole
concessioni un Cantone a danno dell'altro, conquistarsi una
minoranza legalmente potente a equilibrare le tendenze della
maggioranza del popolo. E quelle seduzioni alternate colla minaccia
perenne e temuta a torto dalla Svizzera di ridurre a nulla quella
mallevadoria di neutralità che crea non securità ma dipendenza al
paese, riescono a perpetuare nella Confederazione una debolezza che
ordinamenti migliori cancellerebbero. L'assetto pubblico non tende,
come dovrebbe, a porre in armonia verso un fine comune le esistenze
Cantonali, ma soltanto a proteggerne la quasi assoluta indipendenza.
L'autorità Federale manca di relazione diretta coi cittadini, e di
forza per costringere i violatori de' suoi Decreti. Il sistema
aristocratico, assurdo, di rappresentanza mantiene un principio
funesto d'ineguaglianza nel core della Nazione, e semina rancori e
gelosia tra Cantone e Cantone. La Confederazione non ha coscienza
d'unità Nazionale. I Cantoni si toccano, non s'associano. Il diritto
civile, la legislazione penale, la fede politica, si mantengono
troppo diversi. E se non fosse il vigore che spetta naturalmente
all'istituzione repubblicana, la Svizzera, mercè l'arti dei Governi
che la circondano, sarebbe da lungo caduta nell'anarchia o
nell'agonia lenta e disonorevole dell'impotenza.
Ho accennato queste cose per rendere ragione a un tempo dell'intento
e del diritto della Giovine Svizzera. Congiurare per congiurare fu
in passato vezzo di molti, non mio. Frammischiarsi deliberatamente
nelle faccende interne d'una Nazione straniera è materia grave e
pericolosa. Ma quando un vizio politico genera conseguenze Europee
come le capitolazioni militari a servizio del dispotismo,
concessioni ecclesiastiche a Roma papale, potenza all'ordine de'
Gesuiti e violazioni perenni del Diritto d'Asilo, ogni uomo che
crede potersi inframmettere utilmente a combatterlo, deve farlo. La
libertà è diritto Europeo. L'arbitrio, la tirannide, l'ineguaglianza
non possono esistere in una Nazione senza nuocere alle altre. I
Governi lo sanno, ed è tempo che noi lo impariamo.
La Giovine Svizzera ebbe missione di combattere i vizî accennati; e
se l'una o l'altra delle loro conseguenze sparì o è presso a sparire
l'apostolato fondato da noi non v'ebbe parte.
Lo scritto dell'Iniziativa rivoluzionaria, in Europa(43), steso sul
finire del 1834, fu inserito nella Revue Républicaine, del gennajo
1835. Diretta da Godefroy, Cavaignac e Dupont, quella Rivista
parigina rappresentava le opinioni della parte repubblicana ordinata
sul terreno dell'azione nella Società dei Diritti dell'uomo. La
questione Europea v'era di tempo in tempo tentata con aspirazioni
generose, ma governate sempre dall'idea che alla Francia spettasse,
quasi per decreto di Provvidenza, l'iniziativa del Progresso in
Europa. E questa idea, filosoficamente e storicamente falsa e
funestissima alla vera morale emancipazione dei popoli, avversava
ostinatamente su tutti i punti, e segnatamente nella Svizzera dove
l'Alta Vendita di Buonarroti aveva tuttavia molti seguaci, il nostro
lavoro. Io la combatteva con frequenti circolari diramate
segretamente, suprema formola delle quali erano le parole: nè
Uomo-re nè Popolo-re. Ma richiesto di qualche lavoro dagli Editori
della Revue, stimai opportuno di trattare apertamente la questione.
La Storia degli anni che seguirono confermò le mie idee; ma allora
le apparenze mi stavano contro: il Partito repubblicano era potente
per numero, audacia, intelletto e virtù, nella Francia del 1834, e i
popoli guardavano tutti riverenti in Parigi come unico centro di
speranze e di vita (1862).
Fondai nel giugno del 1835 un giornale destinato a estendere
l'Associazione e le sue idee nella Svizzera. Esciva due volte la
settimana, su due colonne, francese l'una, tedesca l'altra.
Avevamo fatto acquisto d'una stamperia in Bienna, nel Cantone di
Berna. Il professore Weingart, svizzero, dirigeva lo Stabilimento,
nel quale allogammo operai profughi, tedeschi e francesi. E una
Commissione d'uomini svizzeri, taluni, come Schneider, membri del
Gran Consiglio, somministrava i mezzi e additava e confermava i
lavori. Pubblicavamo, oltre il giornale, opuscoli politici e una
Biblioteca popolare economica.
Il giornale, che portava il nome dell'Associazione e la formola:
Libertà, Eguaglianza, Umanità, era diretto da me; ma, poi ch'io
doveva starmi pur sempre semi-celato, Direttore visibile era un
Granier, estensore in capo un tempo della Glaneuse in Lione e che
l'insurrezione repressa aveva balestrato fra noi. Traduttore tedesco
era un Mathy, giovine assai capace e fervido allora d'entusiasmo per
la nostra fede, più dopo, poi ch'ei ripatriò, mutato, come dicono,
in conservatore.
Tendevamo a formare una scuola e a richiamare la politica dalle gare
meschine delle fazioni e dal culto esclusivo degli interessi
materiali agli alti principî di moralità religiosa senza i quali i
mutamenti non durano o volgono a liti d'individui o sette anelanti
il potere. E il nostro linguaggio era pacifico, grave, filosofico,
inusitato nella polemica giornaliera d'allora. Nondimeno, e appunto
perchè nuovo, fruttò corrispondenti ed amici in tutti i Cantoni:
pochi ma buoni, come diceva Manzoni dei versi del Torti. Erano
giovani stanchi di scetticismo ribelle e di negazioni, ministri
protestanti che c'interrogavano sul carattere religioso della nostra
dottrina di Progresso, madri che avevano fino a quel giorno
raccomandato ai figli di tenersi lontani dal subuglio, sterile
fuorchè d'ire e pericoli dei Partiti e che intravvedevano,
leggendoci, un Dovere d'amore e di Verità da compirsi e insegnarsi.
Sei mesi dopo il primo numero della Jeune Suisse noi ci trovammo,
comunque assaliti rabbiosamente dai materialisti della vecchia
scuola economica come Fazy e altri simili a lui, a capo d'un numero
di Svizzeri affratellati all'apostolato Italiano e presti ad opere
attive per avviare la loro Patria all'intelletto della missione che
Dio le assegnava.
Scrissi in quel giornale da cinquanta a sessanta articoli
d'argomento Svizzero o intorno alla questione Europea(44). Le più
tra le idee ch'io v'espressi furono più dopo da me trasfuse in altri
scritti.
Gli scritti che s'andavano via via stampando da Tedeschi e Svizzeri
affratellati con noi, e il giornale, e più l'importanza che
l'apostolato italiano conquistava visibilmente in una terra
strategicamente pericolosa, indifferente fino allora al moto
europeo, davano intanto pretesto e cominciamento a una persecuzione
assai più accanita della prima. Finchè l'agitazione repubblicana si
concentrava tutta, per assenso di popoli inserviliti, in un solo
fôco, Parigi, era facile invigilarla e combatterla; non così quando,
emancipati gli animi dal pregiudizio che affidava l'iniziativa
perenne del moto alla Francia, sorgesse in più punti, assalitrice
ovunque vivesse istinto di nazione e coscienza di diritti violati. I
governi collegati vedevano inquieti levarsi o farsi potente una
bandiera che mirava a un nuovo riparto d'Europa e che presentivano
dovere essere un dì o l'altro la bandiera dell'Epoca. E deliberarono
di soffocarla.
Le varie diplomazie, dalla Francia ai governucci italiani, dalla
Russia all'Austria e ai governucci Germanici intimarono al fiacco e
illiberale governo elvetico d'imporre fine al nostro apostolato e
disperdere l'associazione. E a rendere la turpe concessione
possibile, s'adoperarono i soliti modi: false accuse e agenti
provocatori. Sul cadavere d'un Lessing accoltellato da mano ignota e
per cagione ignota presso Zurigo, architettarono tutto un edificio
di società segreta all'antica, di giuramenti terribili, di tribunali
vehmici e di condanne mortali pronunziate dalla Giovine Germania. Su
qualche parola avventata, espressione d'un desiderio inefficace,
composero lunghe e minute rivelazioni di disegni, ordini, armi
raccolte per invadere un punto o l'altro della frontiera
Germanica. E a far nota di parole imprudenti e provocarle ove non
escivano volontarie, seminarono le nostre file d'incitatori e di
spie. Un Giulio Schmidt, sassone, trovò modo, fingendosi agli
estremi di povertà e supplicando lavoro, d'introdursi nella nostra
stamperia. Un Altinger, israelita, che assumeva il nome di barone
Eib, si diede a promuovere, con un segreto che voleva esser tradito,
arrolamenti fra gli operai tedeschi. Una circolare fu coniata in mio
nome nell'ambasciata francese diretta allora dal duca di Montebello
e diramata a parecchi tra gli esuli cacciati di Svizzera dopo la
spedizione di Savoja e soggiornanti in varie città della Francia, a
invitarli a Grenchen ov'io era per irrompere di là nel Badese.
Potrei citar venti fatti di questo genere, ma si riassumono tutti,
nei loro caratteri di profonda immoralità e di perfidia, in quel di
Conseil che or ora ricorderò.
Le accuse segrete appoggiavano le Note pubbliche. E la guerra
diplomatica inspirata e iniziata dall'Austria, dalla Prussia e dalla
Russia, finì per concentrarsi sotto la direzione della Francia. Fu
sempre abitudine della Francia monarchica di fare il male per
impedire ad altri di farlo; e le monarchie dispotiche si valsero di
quella vecchia tendenza per ottenere il fine voluto e rovesciarne i
tristi effetti sulla monarchia costituzionale sospetta ad esse e
temuta: minacciarono intervento perchè la Francia s'affrettasse ad
intervenire; e riuscirono. Era anima del ministero francese Thiers.
E' s'assunse di capitanare l'ignobile impresa.
Intanto, il governo centrale (vorort), credulo alle pazze denunzie,
cominciava la codarda persecuzione contro gli esuli repubblicani. Il
20 maggio ebbi avviso da un ingegnere amico in Soletta che si
distribuivano cartucce alla piccola guarnigione della città prima
d'avviarla a una spedizione pericolosa. Alcune ore dopo duecento
soldati e una mano di gendarmi circondavano e invadevano lo
stabilimento dei Bagni. V'eravamo in tre, io e i due fratelli
Ruffini; ma tra l'avviso e l'arrivo, era giunto, inaspettato, dalla
Francia Harro Haring: gli era stata mandata la circolare apocrifa di
convocazione, ed egli avea creduto, accorrendo, di compiere il
debito suo. Era munito di passaporto inglese e lo ammonii di
mostrarsi ignoto a noi; se non che quand'egli udì il capo di quella
forza a intimarmi di seguirlo a Soletta, ei disse il proprio nome e
fu imprigionato con noi.
Condotti nel carcere di Soletta, fummo, senza esame di sorta,
lasciati liberi dopo ventiquattr'ore: la gioventù della città
minacciava liberarci da sè. La lunga perquisizione nei Bagni di
Grenchen non aveva scoperto un fucile, un proclama, una circolare,
un solo indizio della pretesa spedizione germanica. Ci fu nondimeno
intimato d'escir dal Cantone. Varcammo il limite e ci ricovrammo nel
primo paesetto al di là, Langenau nel Bernese, in casa d'un ministro
protestante, che ci accolse come apostoli d'una fede proscritta, ma
santa e destinata al trionfo.
Non per questo la persecuzione si rallentò. Il governo centrale
avea, nelle sue inquisizioni, trovato, rimpiattati in uno o in un
altro Cantone, parecchi tra i cacciati del 1834, e a rabbonire i
governi stranieri decretò che sarebbero ricondotti alla frontiera.
Un dispaccio sommesso annunziava il 22 giugno all'ambasciatore
francese la decisione, e chiedeva l'ammessione dei cacciati sul
territorio di Francia: aggiungeva, pegno di devozione, la lista dei
condannati e di quei ch'erano fra noi più sospetti. Ogni concessione
codarda imbaldanzisce a insolenza il nemico, e, mercè i suoi
ministri, l'Italia d'oggi lo sa. Il duca di Montebello rispose il 18
luglio colla Nota la più minacciosamente oltraggiosa possibile.
Invocava, esigeva un sistema di mezzi coercitivi a danno degli esuli
e annunziava che se la Svizzera non ponesse fine a ogni tolleranza
contro gli incorreggibili nemici del riposo dei governi, la Francia
provvederebbe da sè.
Era un guanto di sfida cacciato, senz'ombra di pretesto,
all'indipendenza della Svizzera, nella quale Luigi Filippo aveva ne'
suoi anni di sventura, trovato asilo. E a creare quell'ombra,
s'adoprò un mezzo siffattamente immorale che giova ricordarlo a
insegnamento del fin dove scendano le monarchie costituzionali
dell'oggi, e a conforto dei repubblicani, contro i quali nessuno può
sollevare accusa siffatta.
Sui primi del luglio di quell'anno 1836, un Augusto Conseil,
affiliato alla polizia parigina, era stato chiamato al ministero
dell'interno e spedito in Isvizzera con una missione riguardante gli
esuli. Ei doveva, prima di tutto, tentare ogni via di contatto con
noi, rappresentarsi come complice d'Alibaud, che aveva tentato poco
innanzi di uccidere il re, e conquistarsi così la nostra fiducia:
poi, cacciati noi, accompagnarci in Inghilterra e rimanerci vicino,
denunziatore perenne: intanto, la sua presenza tra noi
convaliderebbe davanti al governo svizzero le accuse di disegni
regicidî che si movevano nelle Note. E a far sì ch'ei fosse creduto
ciecamente da noi, l'ambasciata francese in Berna dovea ricevere da
Parigi denunzia formale che lo indicherebbe partecipe dei tentativi
di Fieschi e Alibaud e incarico di chiederne al governo elvetico la
consegna o la cacciata. Per tal modo egli avrebbe potuto seguirci.
Gli fu dato danaro, un passaporto col nome di Napoleone Cheli, e un
indirizzo per corrispondere. Ei partì il 4 luglio alla nostra volta.
La denunzia fu spedita poco dopo e trasmessa il 19 luglio dal
Montebello al Direttorio svizzero. Conseil era in Berna dal 10.
Là, ei trovò modo d'affiatarsi con due esuli italiani, Boschi e
Primavesi, poi con un Aurelio Bertola, preteso conte di Rimini,
avventuriero tristissimo e truffatore, ch'io feci qualche anno dopo
imprigionare a Londra, ma che trovava allora suo pro' nel recitare
la parte di patriota perseguitato; e mentr'ei cercava d'ascriverli
alla società segreta francese delle famiglie onde ne stendessero le
fila in Berna, parlò loro delle sue relazioni coi regicidî, annunziò
nuovi tentativi e chiese un abboccamento per rivelazioni importanti
con me. Avvertito, fiutai la spia: un complice d'Alibaud non si
sarebbe svelato mai a uomini ignoti a lui, e trovati a caso per via
o in un caffè. Ricusai l'abboccamento e consigliai si costringesse
impaurito a cedere le proprie carte. Ma prima che ciò si facesse,
egli, sviato dalla polizia Bernese, ripartiva per Besançon, in cerca
di nuove istruzioni da Parigi, di danaro e d'un altro passaporto.
Gli fu spedita ogni cosa e istruzione di tornare a Berna e
presentarsi per consigli all'ambasciatore francese, fatto complice
della trama egli pure. Tornò, sotto il nome di Pietro Corelli, il 6
agosto. Ebbe un abboccamento la sera col duca di Montebello. Il 7,
Boschi, Primavesi, Migliari e Bertola che l'avevano incontrato
nell'albergo del Selvaggio, seguirono il mio consiglio e
minacciandolo, ebbero le sue carte e confessione esplicita d'ogni
cosa.
Importava dimostrare più sempre la complicità dell'ambasciatore.
Conseil fu quindi indotto a ripresentarglisi, seguito da lungi, la
sera. V'andò; nol vide; ma vide in sua vece il segretario Belleval e
n'ebbe danaro, un altro passaporto col nome d'Hermann e una lista
d'esuli da invigilarsi: la lista conteneva, s'intende, il mio nome,
quello dei fratelli Ruffini, e poi altri d'esuli tedeschi e
francesi.
Le prove bastavano per chiarire ogni cosa e somministrare al governo
svizzero un'arme potente per respingere le audacie francesi. Diemmo
quindi conoscenza di tutto alla polizia. Una istruzione governativa
iniziata il 16 agosto fu conchiusa da un documento contenente la
confessione di Conseil(45).
E nondimeno, in una Nota del 27 settembre, il duca di Montebello
parlava sfrontatamente alla Svizzera il linguaggio della virtù
calunniata, parlava di dignità offesa, sospendeva ogni relazione
officiale colla Svizzera e minacciava di peggio. Tutta questa
galante gentaglia che prende nome di diplomatici, ambasciatori,
segretarî di legazione e che rappresenta in Europa le monarchie,
vive, move e respira, siccome in proprio elemento, nella menzogna.
Gli uomini politici dei nostri giorni si tengono onorati del loro
contatto e s'affaccendano a ottenerne un sorriso, una stretta di
mano. Io crederei insozzata la mia dalla loro. Il primo tra essi non
vale l'onesto operajo che dice ruvidamente il vero e arrossisce se
colto in fallo.
Gli uomini che governavano a quel tempo la Svizzera erano
opportunisti, machiavellici, moderati; immorali quindi e codardi.
L'imitazione di quelle che chiamano abitudini e tradizioni
governative e non sono se non una deviazione dall'unica morale e
logica idea del governo rappresentare tra i popoli per mezzo d'un
popolo il Vero ed il Giusto, aveva infiacchito in essi il severo
costume e il vigore repubblicano. Invece di rispondere
all'ambasciatore: mentite e chiederne il richiamo al governo; invece
di dire ai gabinetti stranieri: voi non avete diritto di giudici in
casa nostra; lasciateci in pace - e certi come pur erano per
esperienza che nessuno avrebbe osato di varcare la frontiera e
assalirli - risposero sommessamente alle Note, querelandosi d'essere
fraintesi, invocando le vecchie alleanze, gli antichi vincoli
d'amicizia. I governi, vedendoli tremanti, insolentivano più che
mai.
Allora, io diceva agli Svizzeri: «La sicurezza e l'indipendenza
della patria sono nelle vostre antiche virtù e nell'onore. I suoi
nemici stanno fra quei che tradiscono quelle virtù e contaminano
l'onore della bandiera repubblicana piantata sul sepolcro dei loro
padri. Che importa il godimento precario d'un diritto d'associazione
o di stampa, se la santità di quel diritto v'è ignota, se invece di
ravvisare in esso l'applicazione d'un principio universale,
frammento della legge di Dio, voi insegnate ai vostri figli a non
vedervi che un semplice fatto? Che importa la libertà s'essa deve,
colla paura nell'anima e la vergogna sulla fronte, trascinarsi, in
sembianza di cortigiana avvilita, d'ambasciata in ambasciata, per
mendicarvi alla diplomazia monarchica una esistenza d'un giorno?
Libertà siffatta non è se non amara derisione; e simile alla ironica
leggenda che una mano d'empio inchiodava sulla croce di Cristo, essa
forma l'eterna condanna degli uomini che la scrivono sulla bandiera
e crocefiggono il Giusto al disotto.
«Sventura agli uomini che, sconoscendo quanto ha di santo l'esilio,
calpestando la sacra ospitalità, speculano sull'isolamento del
proscritto e pongono una corona di spine sulla testa consecrata dal
battesimo dei patimenti e del sagrificio! Sventura al popolo capace
d'assistere indifferente a quello spettacolo e senza sentirsi
spronato a levare la mano e dire: quei proscritti sono fratelli che
Dio ci manda; rispetto per essi e per noi! La libertà de' suoi padri
si dissolverà come ghiaccio al sole, alla prima difficile prova. Le
lagrime provocate dal suo egoismo testimonieranno contr'esso. Esse
ne cancelleranno la gloria e il nome. Perchè Cristo disse: date da
mangiare agli affamati e da bere a chi ha sete. Ma la libertà è il
pane dell'anima e l'ospitalità è la rugiada versata da Dio sui
buoni, perch'essi la riversino sulle fronti solcate dalla
persecuzione.» (Giov. Svizz., 2 luglio 1836.)
E il popolo era, come sempre, diverso da' suoi raggiratori e presto
a incontrare ogni sagrificio per mantenere intatto l'onore del
paese. Il fermento era generale e generale il grido di resistenza.
Radunanze patriotiche di diecimila uomini a Reiden, di ventimila a
Viediken, ne facevano fede. Ma alle titubanze accennate
s'aggiungevano le divisioni inerenti ad ogni federazione e fomentate
dalle monarchie, ch'esercitavano influenza sopra un Cantone o
sull'altro, la Prussia su Neuchâtel, l'Austria sui tre piccoli
Cantoni, la Francia pel contatto dell'ambasciata, su Berna. Di
fronte allo scandalo di Conseil e malgrado l'energica opposizione di
parecchi fra i deputati, la Dieta ritrattò ogni espressione che
nelle Note anteriori avesse sembianza d'accusa o rimprovero al
governo francese, e decretò si procedesse più severamente che mai
contro gli esuli pericolosi.
Era un aprire il varco all'arbitrio, e fu spinto all'estremo. Non
potendo e pur volendo sopprimere il giornale La Giovine Svizzera, il
governo imprigionò, sotto diversi pretesti, prima il traduttore
tedesco, poi il correttore, e dopo lui i compositori tedeschi e
francesi, e finalmente taluni fra i collaboratori, cittadini
svizzeri, come Weingart e Schïeler: a noi la vita errante e
l'impossibilità di comunicazioni regolari coi nostri vietavano di
sottentrare con un lavoro periodico. Il giornale fu quindi costretto
a cessare sul finire di luglio.
«Un vento gelato del nord» - io diceva in uno degli ultimi articoli,
il 18 giugno - «ha soffiato sull'anime. Odo voci ignote a mormorare
parole ignote anch'esse finora su questa terra repubblicana:
rompiamo cogli esuli, rannodiamo coi governi: sagrifichiamo ad essi
questa mano d'agitatori: proscriviamo i proscritti, e rovesciamo
sulle loro teste le colpe delle quali i governi ci accusano. E si
stendono liste di proscrizione, s'imprigionano ad arbitrio gli esuli
contro i quali non milita accusa: novanta individui formano una
categoria di sospetti: hanno ricompensa le denunzie e prezzo le
teste. I giornali ridondano di calunnie. Non siamo interrogati nè
ammessi ad esame. Segnati quasi capi d'armento, siamo destinati gli
uni all'Inghilterra, gli altri all'America. Perchè? In virtù di qual
diritto? Per quali scoperte? Quali delitti furono commessi da noi?
Su qual codice è fondato il giudizio? Quali testimonianze
s'invocano? Quali giustificazioni ci sono chieste? Come nell'antica
Venezia, la persecuzione è fondata su denunzie segrete. Le condanne
non poggiano sul diritto comune, su leggi note. Non v'è legge per
noi. Il nostro presente, il nostro avvenire è dato in balìa al
diritto dello Stato, a un non so che d'incerto, d'indefinito, a una
autorità cieca e sorda come l'Inquisizione di Schiller, senza nome
siccome l'Ateo. E non una voce di patriota influente, di legislatore
repubblicano, si leva per protestare in nome degli uomini ai quali
ogni protesta è vietata, e dire: i proscritti sono uomini: hanno
diritto ad ogni umana giustizia: ogni condanna non fondata sulla
legge di tutti è iniqua: ogni giudizio non preceduto da pubblica
discussione, e da libera illimitata difesa, è delitto davanti agli
uomini e a Dio. No; non una. Diresti che lo monarchie esiliandoci
dalla Patria ci esiliassero dall'Umanità.
«Dall'Umanità? Sì - e Dio sa che il dolore da me provato mentr'io
scrivo questo parole non deriva da considerazioni individuali - non
ho mai sentita così profondamente com'oggi la verità di quel detto
di Lamennais: Dio versi la pace sul povero esule, perch'egli è,
dovunque, solo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Io scrivo senz'odio e senza amarezza. - Il primo mi fu sempre
ignoto. Ma uno sdegno profondo mi solca l'anima, quand'io penso al
come si giochi quaggiù sul tappeto d'una Cancelleria la libertà, la
dignità, l'onore d'un popolo - quand'io vedo i delegati d'una
repubblica ordinare, a benefizio delle polizie monarchiche, una
tratta di bianchi - quando odo uomini che sono padri, fratelli,
sposi, pronunziare spensieratamente, presso alla culla dei loro
bambini, il nome d'America per altri uomini che hanno perduto ogni
cosa e ai quali unico conforto è forse di poter guardare all'Alpi o
al Reno, pensando che la loro patria è al di là. Son essi conscii di
quel che fanno? Ricordano che noi pure, proscritti, abbiamo madri,
vecchi padri e sorelle? Sanno le conseguenze che quella loro
spensierata parola può trascinare per essi e per noi?
«Un giorno, nel 1834, un uomo mi venne innanzi richiedendomi d'ajuto
fraterno. Era un proscritto, proscritto da vent'anni, e aveva bevuto
a lenti sorsi tutto quanto il calice amaro che l'esilio versa sui
poveri e soli. L'avevano sospinto da Berna a Ginevra, da Ginevra in
Francia. La Francia lo aveva respinto, perch'ei mancava di carte
regolari. Avea ricorso il paese a piedi e trovato un rifugio in
Berna dove alcuni Italiani prendevano cura di lui. Fu riconsegnato
ai gendarmi e respinto su Ginevra. Là, fu messo in prigione, per
avere osato tornarvi, poi scacciato com'uomo senza domicilio legale.
- Io lo vidi quand'ei compiva a quel modo il terzo viaggio. Le
lagrime gli scendevano giù per le guancie, mentr'ei mi narrava i
suoi casi. Commoveva profondamente. Gli intimarono, poco dopo, di
partire per l'Inghilterra. E partì, attraversando Svizzera e Francia
pedone.
«Quell'uomo era napoletano e si chiamava Carocci. Morì attraversando
il mare.
«Sua madre e suo padre vivevano ancora. Aveva fratelli e sorelle.
Dio perdoni ai repubblicani che avvelenarono di dolore i loro
giorni.»
Nulla d'individuale, come dissi, inspirava le mie lagnanze. Non ho
mai tentato, attraverso le persecuzioni alle quali soggiacqui,
d'impietosire alcuno per me. Quando un conclusum della Dieta
m'intimò l'esilio in perpetuità dalla Svizzera, mi strinsi nelle
spalle e rimasi. Rimasi, cercato inutilmente per ogni dove, fino al
dicembre di quell'anno, e sarei rimasto indefinitamente se il modo
di vita, che ci era comandato dalle circostanze, non avesse
seriamente minacciato la salute dei due amici che dividevano meco la
persecuzione.
Nel gennajo del 1837, io giunsi in Londra con essi.
Ma in quelli ultimi mesi, io m'era agguerrito al dolore e fatto
davvero tetragono, come dice Dante, ai colpi della fortuna che
m'aspettavano. Non ho mai potuto, per non so quale capriccio della
mia mente, ricordare le date di fatti anche gravi, spettanti alla
mia vita individuale. Ma s'anch'io fossi condannato a vivere secoli,
non dimenticherei mai il finir di quell'anno e la tempesta per entro
i vortici della quale fu presso a sommergersi l'anima mia. E ne
acenno qui riluttante, pensando ai molti che dovranno patire quel
ch'io patii e ai quali la voce d'un fratello escito - battuto a
sangue, ma ritemprato - dalla burrasca, può forse additare la via di
salute.
Fu la tempesta del Dubbio: tempesta inevitabile credo, una volta
almeno nella vita d'ognuno che, votandosi ad una grande impresa,
serbi core e anima amante e palpiti d'uomo, nè s'intristisca a nuda
e arida formola della mente, come Robespierre. Io aveva l'anima
traboccante e assetata d'affetti e giovine e capace di gioja come ai
giorni confortati dal sorriso materno e fervida di speranze se non
per me, per altrui. Ma in quei mesi fatali mi s'addensarono intorno
a turbine sciagure, delusioni, disinganni amarissimi, tanto ch'io
intravidi in un subito nella scarna sua nudità la vecchiaja
dell'anima solitaria e il mondo deserto d'ogni conforto nella
battaglia per me. Non era solamente la rovina, per un tempo
indefinito, d'ogni speranza italiana, la dispersione dei nostri
migliori, la persecuzione che disfacendo il lavoro svizzero ci
toglieva anche quel punto vicino all'Italia, l'esaurimento dei mezzi
materiali, l'accumularsi d'ogni maniera di difficoltà pressochè
insormontabili tra il lavoro iniziato e me; ma il disgregarsi di
quell'edifizio morale d'amore e di fede nel quale soltanto io poteva
attingere forze a combattere, lo scetticismo ch'io vedea sorgermi
innanzi dovunque io guardassi, l'illanguidirsi delle credenze in
quei che più s'erano affratellati con me sulla via che sapevamo
tutti fin dai primi giorni gremita di triboli, e più ch'altro, la
diffidenza ch'io vedeva crescermi intorno ne' miei più cari delle
mie intenzioni, delle cagioni che mi sospingevano a una lotta
apparentemente ineguale. Poco m'importava anche allora che
l'opinione dei più mi corresse avversa. Ma il sentirmi sospettato
d'ambizione o d'altro men che nobile impulso dai due o tre esseri
sui quali io aveva concentrato tutta la mia potenza d'affetto, mi
prostrava l'anima in un senso di profonda disperazione. Or questo mi
fu rivelato in quei mesi appunto nei quali, assalito da tutte parti
io sentiva più prepotente il bisogno di ricoverarmi nella comunione
di poche anime sorelle che m'intendessero anche tacente; che
indovinassero ciò ch'io, rinunziando deliberatamente a ogni gioja di
vita, soffriva; e soffrissero, sorridendo, con me. Senza scendere a
particolari, dico che quelle anime si ritrassero allora da me.
Quand'io mi sentii solo nel mondo - solo, fuorchè colla povera mia
madre, lontana e infelice essa pure per me - m'arretrai atterrito
davanti al vuoto. Allora, in quel deserto, mi s'affacciò il Dubbio.
Forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l'idea ch'io seguiva
era un sogno. E fors'io non seguiva una idea, ma la mia idea,
l'orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria, più che
l'intento della vittoria l'egoismo della mente e i freddi calcoli
d'un intelletto ambizioso, inaridendo il core e rinegando gli
innocenti spontanei suoi moti che accennavano soltanto a una carità
praticata modestamente in un piccolo cerchio, a una felicità versata
su poche teste e divisa, a doveri immediati e di facile compimento.
Il giorno in cui quei dubbi mi solcarono l'anima, io mi sentii non
solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un
condannato conscio di colpa e incapace d'espiazione. I fucilati
d'Alessandria, di Genova, di Chambery, mi sorsero innanzi come
fantasmi di delitto e rimorso pur troppo sterile. Io non potea farli
rivivere. Quante madri aveva già pianto per me! Quante piangerebbero
ancora s'io m'ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti,
al bisogno d'una Patria comune, la gioventù dell'Italia? E se questa
Patria non fosse che una illusione? Se l'Italia esaurita da due
Epoche di civiltà, fosse oggimai condannata dalla Provvidenza a
giacere senza nome e missione propria aggiogata a nazioni più
giovani e rigogliose di vita? D'onde traeva io il diritto di
decidere sull'avvenire e trascinare centinaja, migliaja d'uomini al
sagrifizio di sè e d'ogni cosa più cara?
Non m'allungherò gran fatto ad anatomizzare le conseguenze di questi
dubbi su me: dirò soltanto ch'io patii tanto da toccare i confini
della follìa. Io balzava la notte dai sonni e correva quasi deliro
alla mia finestra chiamato, com'io credeva, dalla voce di Jacopo
Ruffini. Talora, mi sentiva come sospinto da una forza arcana a
visitare, tremante, la stanza vicina, nell'idea ch'io v'avrei
trovato persona allora prigioniera o cento miglia lontana. Il menomo
incidente, un suono, un accento, mi costringeva alle lagrime. La
natura, coperta di neve com'era nei dintorni di Grenchen, mi pareva
ravvolta in un lenzuolo di morte sotto il quale m'invitava a
giacere. I volti della gente che mi toccava vedere mi sembravano
atteggiarsi, mentre mi guardavano, a pietà, più spesso a rimprovero.
Io sentiva disseccarsi entro me ogni sorgente di vita. L'anima
incadaveriva. Per poco che quella condizione di mente si fosse
protratta, io insaniva davvero o moriva travolto nell'egoismo del
suicidio.
Mentr'io m'agitava e presso a soccombere sotto quella croce, un
amico, a poco stanze da me, rispondeva a una fanciulla che,
insospettita del mio stato, lo esortava a rompere la mia solitudine:
lasciatelo, ei sta cospirando e in quel suo elemento è felice. Ah!
come poco indovinano gli uomini le condizioni dell'anima altrui, se
non la illuminano - ed è raro - coi getti d'un amore profondo!
Un giorno, io mi destai coll'animo tranquillo, coll'intelletto
rasserenato, come chi si sente salvo da un pericolo estremo. Il
primo destarmi fu sempre momento di cupa tristezza per me, come di
chi sa di riaffacciarsi a una esistenza più di dolori che d'altro: e
in quei mesi mi compendiava in un subito tutte le ormai
insopportabili lotte che avrei dovuto affrontare nella giornata. Ma
quel mattino, la natura pareva sorridermi consolatrice e la luce
rinfrescarmi, quasi benedizione, la vita nelle stanche vene. E il
primo pensiero che mi balenò innanzi alla mente fu: questa tua è una
tentazione dell'egoismo: tu fraintendi la Vita.
Riesaminai pacatamente, poi ch'io lo poteva, me stesso e le cose.
Rifeci da capo l'intero edifizio della mia filosofia morale. Una
definizione della Vita dominava infatti tutte le questioni che
m'avevano suscitato dentro quell'uragano di dubbî e terrori, come
una definizione della Vita è base prima, riconosciuta o no, d'ogni
filosofia. L'antica religione dell'India aveva definito la Vita:
contemplazione; e quindi l'inerzia, l'immobilità, il sommergersi in
Dio delle famiglie Ariane. Il Cristianesimo l'avea definita
espiazione: e quindi le sciagure terrestri considerate come prova da
accettarsi rassegnatamente, lietamente, senza pur cercar di
combatterle; la terra, guardata come soggiorno di pena;
l'emancipazione dell'anima conquistata col disprezzo indifferente
alle umane vicende. Il materialismo del XVIII secolo avea,
retrocedendo di duemila anni, ripetuto la definizione pagana: la
Vita è la ricerca del benessere; e quindi l'egoismo insinuatosi in
noi tutti sotto le più pompose sembianze, l'esoso spettacolo
d'intere classi che dopo aver dichiarato di voler combattere per il
benessere di tutti, raggiunto il proprio, sostavano abbandonando i
loro alleati, e l'incostanza nelle più generose passioni, i subiti
mutamenti quando i danni della lotta pel bene superavano le
speranze, i subiti sconforti nell'avversità, gli interessi materiali
anteposti ai principî e altre molte tristissime conseguenze che
durano tuttavia. M'avvidi che, comunque tutte le tendenze dell'anima
mia si ribellassero a quella ignobile e funesta definizione, io non
m'era tuttavia liberato radicalmente dalla sua inflenza predominante
sul secolo e nutrita tacitamente in me dai ricordi inconscî delle
prime letture francesi, dall'ammirazione all'audacia emancipatrice
dei predicatori di quella dottrina e da un naturale senso
d'opposizione a caste e governi che negavano nelle moltitudini il
diritto al benessere per mantenerle prostrate e schiave. Io avea
combattuto il nemico in altrui, non abbastanza in me stesso. Quel
falso concetto della Vita s'era spogliato, a sedurmi, d'ogni bassa
impronta di desiderî materiali e s'era riconcentrato, come in
santuario inviolabile, negli affetti. Io avrei dovuto guardare in
essi come in benedizione di Dio accolta con riconoscenza qualunque
volta scende a illuminare e incalorire la vita, non richiesta con
esigenza a guisa di diritto o di premio; e aveva invece fatto d'essi
una condizione al compimento dei miei doveri. Io non avea saputo
raggiungere l'ideale dell'amore, l'amore senza speranza quaggiù. Io
adorava dunque, non l'amore, ma le gioje dell'amore. Allo sparire di
quelle gioje, io avea disperato d'ogni cosa, come se il piacere e il
dolore côlti fra via mutassero il fine ch'io m'era proposto
raggiungere, come se la pioggia o il sereno del cielo potessero mai
mutare l'intento o la necessità del viaggio. Io rinegava la mia fede
nell'immortalità della vita e nella serie delle esistenze che mutano
i patimenti in disagi di chi sale un'erta faticosa in cima alla
quale sta il bene, e sviluppano, inanellandosi, ciò che qui sulla
terra non è se non germe e promessa: negava il Sole, perch'io non
poteva, in questo breve stadio terrestre, accendere alle sue fiamme
la mia povera lampada. Io era codardo senza avvedermene. Serviva
all'egoismo pure illudendomi ad esserne immune, soltanto perch'io lo
trasportava in una sfera meno volgare e levata più in alto che non
quelle nelle quali lo adorano i più.
La Vita è Missione. Ogni altra definizione è falsa e travia chi
l'accetta. Religione, Scienza, Filosofia, disgiunte ancora su molti
punti, concordano oggimai in quest'uno: che ogni esistenza è un
fine: dove no, a che il moto? a che il Progresso, nel quale
cominciamo tutti, a credere come in Legge della Vita? E quel fine è
uno: svolgere, porre in atto tutte quante le facoltà che
costituiscono la natura umana, l'umanità, e dormono in essa, e far
sì che convergano armonizzate verso la scoperta e l'applicazione
pratica della Legge. Ma gli individui hanno, a seconda del tempo e
dello spazio in cui vivono e della somma di facoltà date a ciascuno,
fini secondarî diversi, tutti sulla direzione di quell'uno, tutti
tendenti a svolgere e associare più sempre le facoltà collettive e
le forze. Per l'uno è giovare al miglioramento morale e
intellettuale dei pochi che gli vivono intorno; per un altro, dotato
di facoltà più potenti o collocato in più favorevoli circostanze, è
promovere la formazione d'una Nazionalità, la riforma delle
condizioni sociali in un popolo, lo scioglimento d'una questione
politica o religiosa. Il nostro Dante intendeva questo più di cinque
secoli addietro, quand'ei parlava del gran Mare dell'Essere, sul
quale tutte le esistenze erano portate dalla virtù divina a diversi
porti. Noi siamo giovani ancora di scienza e virtù, e una incertezza
tremenda pende tuttavia sulla determinazione dei fini singolari,
verso i quali dobbiamo dirigerci. Basti nondimeno la certezza logica
della loro esistenza; e basti il sapere che parte di ciascun di noi,
perchè la vita sia tale e non pura esistenza vegetativa o animale, è
il trasformare più o meno, o tentare di trasformare, negli anni che
ci sono dati sulla terra, l'elemento, il mezzo, nel quale viviamo,
verso quell'unico fine.
La Vita è Missione; e quindi il Dovere è la sua legge suprema.
Nell'intendere quella missione e nel compiere quel dovere sta per
noi il mezzo d'ogni progresso futuro, sta il segreto dello stadio di
vita al quale, dopo questa umana, saremo iniziati. La Vita è
immortale: ma il modo e il tempo delle evoluzioni attraverso le
quali essa progredirà è in nostre mani. Ciascuno di noi deve
purificare, come tempio, la propria anima d'ogni egoismo, collocarsi
di fronte, con un senso religioso dell'importanza decisiva della
ricerca, al problema della propria vita, studiare qual sia il più
rilevante, il più urgente bisogno degli uomini che gli stanno
intorno, poi interrogare le proprie facoltà e adoperarle
risolutamente, incessantemente, col pensiero, coll'azione, per tutte
le vie che gli sono possibili, al soddisfacimento di quel bisogno. E
quell'esame non è da imprendersi coll'analisi che non può mai
rivelar la vita ed è impotente a ogni cosa se non quando è ministra
a una sintesi predominante, ma ascoltando le voci del proprio core,
concentrando a getto sul punto dato tutte le facoltà della mente,
coll'intuizione insomma dell'anima amante compresa della solennità
della vita. Quando l'anima vostra, o giovani fratelli miei, ha
intravveduto la propria missione, seguitela e nulla v'arresti:
seguitela fin dove le vostre forze vi danno: seguitela accolti dai
vostri contemporanei o fraintesi, benedetti d'amore o visitati
dall'odio, forti d'associazione con altri o nella tristissima
solitudine che si stende quasi sempre intorno ai Martiri del
Pensiero. La via v'è dimostra: siete codardi e tradite il vostro
futuro, se non sapete, per delusioni o sciagure, correrla intera.
Fortem posce animum, mortis terrore carentem,
Qui spatium vitæ extremum inter munera ponat
Naturæ, qui ferre queat quoscumque labores,
Nesciat irasci, cupiat nihil.............
Son versi di Giovenale, che compendiano ciò che noi dovremmo
invocare sempre da Dio, ciò che fece Roma signora e benefattrice del
mondo. È più filosofia della vita in quei quattro versi d'un nostro
antico che non in cinquanta volumi di quei sofisti che da mezzo
secolo inorpellano, traviandoli, con formole d'analisi e
nomenclature di facoltà la troppo arrendevole gioventù.
Ricordo un brano di Krasinski, potente scrittore polacco ignoto
all'Italia, nel quale Dio dice al poeta: «Va e abbi fede nel nome
mio. Non ti calga della tua gloria, ma del bene di quelli ch'io ti
confido. Sii tranquillo davanti all'orgoglio, all'oppressione, e al
disprezzo degli ingiusti. Essi passeranno, ma il mio pensiero e tu
non passerete.... Va e ti sia vita l'azione! Quand'anche il core ti
si disseccasse nel petto, quand'anche tu dovessi dubitare de' tuoi
fratelli, quand'anche tu disperassi del mio soccorso, vivi
nell'azione, nell'azione continua e senza riposo. E tu sopravviverai
a tutti i nudriti di vanità, a tutti i felici, a tutti gli illustri;
tu risusciterai non nelle sterili illusioni, ma nel lavoro dei
secoli, e diventerai uno tra i liberi figli del cielo.»
È poesia bella e vera quant'altra mai. E nondimeno - forse perchè il
poeta cattolico, non potè sprigionarsi dalle dottrine date dalla
fede cattolica per intento alla vita - spira attraverso a quelle
linee un senso di mal represso individualismo, una promessa di
premio ch'io vorrei sbandita dall'anima sacra al Bene. Il premio
verrà, assegnato da Dio: ma noi non dovremmo preoccuparcene. La
religione del futuro dirà al credente: salva l'anima altrui e lascia
cura a Dio della tua. La fede, che dovrebbe guidarci splende, parmi
più pura, nelle poche parole di un altro polacco, Skarga, anche più
ignoto di Krasinski, ch'io ho ripetuto sovente a me stesso: «Il
ferro ci splende minaccioso sugli occhi: la miseria ci aspetta al di
fuori; e nondimeno, il Signore ha detto: andate, andate senza
riposo. Ma dove andremo noi, o Signore? Andate a morire voi che
dovete morire: andate a soffrire voi che dovete soffrire!»
Com'io giungessi a farmi giaculatoria di quelle parole - per quali
vie di lavoro intellettuale io riuscissi a riconfermarmi nella prima
fede e deliberassi di lavorare sino all'ultimo della mia vita, quali
pur fossero i patimenti e il biasimo che m'assalirebbero, al fine
balenatomi innanzi nelle carceri di Savona, l'Unità Repubblicana
della mia Patria - non posso or dirlo nè giova. Io vergai in quei
giorni il racconto delle prove interne durate e dei pensieri che mi
salvarono, in lunghi frammenti d'un libro foggiato, quanto alla
forma, sull'Ortis, ch'io intendeva pubblicare anonimo sotto il
titolo di Reliquie d'un Ignoto. Portai meco, ricopiato a caratteri
minutissimi e in carta sottile, quello scritto a Roma e lo smarrii,
non so come, attraversando la Francia al ritorno. Oggi, s'io
tentassi riscrivere le mie impressioni d'allora, non riuscirei.
Rinsavii da per me, senza ajuto altrui, mercè una idea religiosa
ch'io verificai nella storia. Scesi dalla nozione di Dio a quella
del Progresso; da quella del Progresso a un concetto della Vita,
alla fede in una missione, alla conseguenza logica del dovere, norma
suprema; e giunto a quel punto, giurai a me stesso che nessuna cosa
al mondo avrebbe ormai potuto farmi dubitare e sviarmene. Fu, come
dice Dante, un viaggio dal martirio alla pace(46): pace violenta e
disperata nol nego, perch'io m'affratellai col dolore e mi ravvolsi
in esso, come pellegrino nel suo mantello; pur pace, dacchè imparai
a soffrire senza ribellarmi e fui d'allora in poi in tranquilla
concordia coll'anima mia. Diedi un lungo tristissimo addio a tutte
le gioje, a tutte le speranze di vita individuale per me sulla
terra. Scavai colle mie mani la fossa, non agli affetti - Dio m'è
testimone ch'io li sento oggi canuto come nei primi giorni della mia
giovinezza - ma ai desiderî, alle esigenze, ai conforti ineffabili
degli affetti, e calcai la terra su quella fossa, sì ch'altri
ignorasse l'io che vi stava sepolto. Per cagioni, parecchie
visibili, altre ignote, la mia vita fu, è e durerebbe, s'anche non
fosse presso a compirsi, infelice; ma non ho pensato mai, da quei
giorni in poi, un istante che l'infelicità dovesse influir sulle
azioni. Benedico riverente Dio padre per qualche consolazione
d'affetti - non conosco consolazioni da quelle infuori - ch'egli ha
voluto, sugli ultimi anni, mandarmi, e v'attingo forza a combattere
il tedio dell'esistenza che talora mi si riaffaccia; ma s'anche
quelle consolazioni non fossero, credo sarei quale io sono. Splenda
il cielo serenamente azzurro come in un bel mattino d'Italia o si
stenda uniformemente plumbeo e color di morte come tra le brume del
settentrione, non vedo che il Dovere muti per noi. Dio è al disopra
del cielo terrestre e le sante stelle della fede e dell'avvenire
splendono nell'anima nostra, quand'anche la loro luce si consumi
senza riflesso come lampada in sepoltura. - (1862).
I primi tempi del mio soggiorno in Londra non corsero propizî al
lavoro politico. Alla crisi morale durata nella Svizzera sottentrò -
conseguenza in parte d'obblighi da me contratti per le cose d'Italia
e ai quali io dovea consecrare il denaro destinato alla vita, in
parte di danaro speso per altri - una crisi d'assoluta miseria che
si prolungò per tutto l'anno 1837 e metà del 1838. Avrei potuto
vincerla svelando le mie condizioni: mia madre e mio padre avrebbero
trovato lieve ogni sagrifizio per me; ma essi avevano sagrificato
già troppo e mi parve debito tacere con essi. Lottai nel silenzio.
Impegnai, senza possibilità di riscatto, quanti rari ricordi io
aveva avuto da mia madre e da altri; poi gli oggetti minori, finchè
un sabato io fui costretto a portare, per vivere la domenica, in una
di quelle botteghe, nelle quali s'accalca la sera la gente povera e
la perduta, un pajo di stivali e una vecchia giubba. Mi trascinai,
mallevadori taluni fra' miei compatrioti, d'una in altra di quelle
società d'imprestiti che rubano al bisognoso l'ultima goccia di
sangue - e talora l'ultimo pudore dell'anima - sottraendogli il
trenta o quaranta per cento su poche lire da restituirsi di
settimana in settimana, a ore determinate, in uffici tenuti, fra
malviventi e briachi, nei public houses o luoghi di vendita di birra
e bevande spiritose. Attraversai a una a una tutte quelle prove che,
dure in sè, lo diventano più sempre quando chi le incontra vive
solitario, inavvertito, perduto in una immensa moltitudine d'uomini
ignoti a lui e in una terra dove la miseria, segnatamente nello
straniero, è argomento di diffidenze sovente ingiuste, talora
atroci. Io non ne patii più che tanto nè mi sentii un solo istante
avvilito o scaduto. Nè ricorderei quelle prove durate. Ma ad altri
condannato a durarle e che si crede per esse da meno, può giovare
l'esempio mio. Io vorrei che le madri pensassero come nessuno sia,
nelle condizioni presenti d'Europa, arbitro della propria fortuna o
di quella dei proprî cari, e si convincessero che, educando
austeramente e in ogni modo di vita i figli, provvedono forse meglio
al loro avvenire, alla loro felicità e all'anima loro che non
colmandoli d'agi e conforti e snervandone l'indole che dovrebbe
agguerrirsi fin dai primi anni contro le privazioni e gli stenti. Io
vidi giovani italiani, chiamati dalla natura alla bella vita,
travolgersi miseramente nel delitto o ricovrarsi sdegnosi nel
suicidio per prove ch'io varcai sorridendo, e accusati mallevadrici
le madri. La mia - benedetta sia la di lei memoria - m'aveva
preparato, con quell'amore che pensa all'avvenire possibile,
tetragono ad ogni sventura.
Uscito da quelle angustie, mi feci via colle lettere. Conobbi e fui
noto. Ammesso a lavorare nelle Riviste - taluna delle quali mi
retribuiva una lira sterlina per ogni pagina - scrissi quanto era
necessario per equilibrare la modesta rendita colle spese maggiori
in Inghilterra che non altrove. I più tra quei lavori di critica
letteraria sono compresi in questa edizione, e i lettori possono
giudicarne i demeriti o i meriti. A me, pei soggetti direttamente
italiani o per le frequenti allusioni alle vere condizioni della
nostra terra, furono scala a richiamare l'attenzione degli Inglesi
sulla nostra questione nazionale interamente negletta, e preparare
il terreno a quell'apostolato deliberatamente politico che avviai in
Inghilterra dopo il 1845 e che vi fruttò, credo, gran parte delle
attuali tendenze a pro della nostra unità.
In Inghilterra, paese dove la lunga libertà educatrice ha generato
un'alta coscienza della dignità e del rispetto dell'individuo, le
amicizie crescono difficili e lente, ma più che altrove sincere e
tenaci. E più che altrove è visibile negli individui quella unità
del pensiero e dell'azione ch'è pegno d'ogni vera grandezza. Non so
quale tendenza esclusivamente analitica, ingenita nelle tribù
anglo-sassoni e fortificata dal protestantismo, insospettisce gli
animi d'ogni nuovo e fecondo principio sintetico e indugia la
nazione sulle vie del progresso filosofico e sociale; ma in virtù di
quella unità della vita alla quale accenno, ogni miglioramento,
conquistato una volta che sia, è conquistato per sempre; ogni idea
accettata dall'intelletto è certa di trapassare rapidamente nella
sfera dei fatti: ogni concetto, anche non accettato è accolto con
tolleranza rispettosa, purchè le azioni di chi lo professa ne
attestino la sincerità. E le amicizie s'annodano profonde e devote a
fatti più che a parole anche tra uomini che dissentono sovr'una o
altra questione. Molte delle mie idee sembravano allora talune,
sembrano tuttavia, inattendibili o pericolose agli Inglesi; ma la
sincerità innegabile di convinzioni immedesimate con me e
logicamente rappresentate dalla mia vita, bastò ad affratellarmi
parecchie tra le migliori anime di quest'isola. Nè io mai le
dimenticherò finch'io viva, nè mai proferirò senza un palpito di
core riconoscente il nome di questa terra ov'io scrivo, che mi fu
quasi seconda patria e nella quale trovai non fugace conforto
d'affetti a una vita affaticata di delusioni e vuota di gioje.
Appagherei l'animo mio citando molti nomi di donne e d'uomini, s'io
scrivessi ricordi di vita individuale più che di cose connesse col
nostro moto politico; ma non posso a meno di segnare in questa mia
pagina il nome della famiglia Ashurst, cara, buona e santa famiglia,
che mi circondò di cure amorevoli tanto da farmi talora dimenticare
- se la memoria de' miei, morti senza avermi allato, lo consentisse
- l'esilio.
Il consorzio d'uomini letterati e lo scrivere intorno al moto
intellettuale d'Italia ridestarono in me, in quei primi tempi di
soggiorno in Inghilterra, il desiderio lungamente nudrito di
crescere più sempre fama ad uno scrittore, al quale più che ad ogni
altro, se eccettui l'Alfieri, l'Italia deve quanto ha di virile la
sua letteratura degli ultimi sessanta anni. Parlo d'Ugo Foscolo,
negletto anch'oggi affettatamente dai professori di lettere, pur
maestro di tutti noi, non nelle idee mutate dai tempi, ma nel
sentire degnamente e altamente dell'arte, nell'indole ritemprata
dello stile e nell'affetto a quel grande nome di patria dimenticato
da quanti a' suoi tempi scrivevano - ed erano i più - in nome di
principi, d'accademie o di mecenati. Io sapeva che dei molti lavori
impresi da lui nell'esilio parecchi erano stati soltanto in parte
compiti, altri erano, per la morte che lo colpì povero e
abbandonato, andati dispersi. Mi diedi a rintracciar gli uni e gli
altri. E dopo lunghe infruttuose ricerche, trovai, oltre diverse
lettere a Edgar Taylor - oggi contenute pressochè tutte
nell'edizione ch'io pure ajutai, di Lemonnier - quanto egli aveva
compito del suo lavoro sul poema di Dante, e in foglietti di prove,
due terzi a un dipresso della Lettera apologetica ignota allora
intieramente all'Italia. Quest'ultima scoperta fu una vera gioia per
me. Quelle pagine, senza titolo o nome dell'autore, stavano cacciate
alla rinfusa con altri scritti laceri, e condannati visibilmente a
perire, in un angolo d'una stanzuccia del librajo Pickering. Come
nessuno fra i tanti Italiani stabiliti in Londra o viaggiatori a
diporto andasse in cerca di quelle carte quando tutte potevano senza
alcun dubbio ricuperarsi, e toccasse a un altro esule, fra le
strette egli pure della miseria, la ventura di restituirne, undici
anni dopo la morte di Foscolo, parte non foss'altro al paese, è
memoria fra le tante di noncuranza e d'ingratitudine, vizî frequenti
nei popoli inserviliti. Ma oggi che gli Italiani millantano d'essere
liberi, perchè, a espiar quell'oblìo non sorge una voce che dica:
«Invece di mandar doni a principesse che nulla fanno o faranno mai
pel paese, e inalzar monumenti a ministri che nocquero ad esso,
ponete, in nome della riconoscenza, una pietra che ricordi chi serbò
inviolata l'anima propria e la dignità delle lettere italiane,
quando tutti o quasi le prostituivano?» Se non che forse, meglio
così. L'Italia d'oggi serva atterrita e ipocrita del Nipote, mal
potrebbe consolare l'ombra dell'uomo che stette solo giudice
inesorabile e incontaminato dell'ambiziosa tirannide dello Zio.
Comunque, rinvenni io quelle carte; e lo dico perchè altri, non so
se a caso o a studio, ne tacque. Ma il librajo, ignaro in sulle
prime di quel che valessero e sprezzante, poi fatto ingordo dalla
mia premura, ricusava cederle s'io non comprava il lavoro sul testo
dantesco - e ne chiedeva quattrocento lire sterline. Io era povero e
non avrei potuto in quei giorni disporre di quattrocento soldi
inglesi. Scrissi a Quirina Magiotti, rara donna e rarissima amica,
perchè m'ajutasse a riscattar le reliquie dell'uomo ch'essa aveva
amato e stimato più ch'altri nel mondo: e lo fece; ma il librajo
insisteva per cedere indivisi i due lavori o nessuno, ed essa non
poteva dar tutto. Com'io, dopo molte inutili prove, riuscissi a
convincere Pietro Rolandi, librajo italiano in Londra e che m'era
amorevole, d'assumersi il versamento di quella somma e per giunta le
spese dell'edizione, davvero nol so. Fu miracolo d'una fermissima
volontà di riuscire da parte mia sopra un uomo calcolatore, trepido
per abitudine e necessità, ma tenero in fondo del core delle glorie
del paese più che i librai generalmente non sono.
Altre pagine del prezioso libretto, connesse appunto colle
racquistate da me, furono poco dopo trovate in un baule di carte
foscoliane sottratto alla dispersione dal canonico Riego, unico che
vegliasse, nell'ultima malattia, al letto dell'esule, acquistato poi
da Enrico Mayer e altri amici in Livorno, ma non esaminato fino a
quei tempi. La scoperta dei frammenti smarriti ridestò in essi tutti
un ardore di ricerca che fruttò all'Italia dapprima il volume di
scritti politici d'Ugo Foscolo ch'io pubblicai in Lugano, poi
l'edizione fiorentina delle opere diretta con intelletto d'amore
dall'Orlandini. Manca una vita ch'io m'era assunto di stendere e che
pur troppo mi fu vietata dalle circostanze e da cure diverse. Unico
avrebbe potuto - e dovuto - scriverla degnamente G. B. Niccolini; ed
è morto, e aspetta tuttavia anch'egli la sua.
Ma, l'edizione del Dante Foscoliano mi costò ben altre fatiche.
M'offersi, com'era debito mio verso il generoso editore, di dirigere
tutto il lavoro e corregger le prove. Ora, strozzato dalla miseria e
dalla(47) malattia, Foscolo non aveva compito l'ufficio suo fuorchè
per tutta la prima cantica. Il Purgatorio e il Paradiso non
consistevano che delle pagine della volgata alle quali stavano
appiccicate liste di carta preste a ricevere l'indicazione delle
varianti, ma le varianti mancavano e mancava ogni indizio di scelta
o di correzione del testo. Rimasi gran tempo in forse s'io non fossi
in debito di dichiarare ogni cosa al Rolandi; ma Pickering era
inesorabile a vendere tutto o nulla, e il librajo italiano non
avrebbe probabilmente consentito a sborsare quella somma per sola
una cantica. A me intanto sembrava obbligo sacro verso Foscolo e la
letteratura dantesca di non lasciare che andasse perduta la parte di
lavoro compita; e parevami di sentirmi capace di compirlo io stesso
seguendo le norme additate da Foscolo nella correzione della prima
cantica e immedesimandomi col suo metodo, l'unico, secondo me, che
riscattando il poema dalla servitù alle influenze di municipio,
toscane o friulane non monta, renda ad esso il suo carattere
profondamente italiano. Tacqui dunque e impresi io stesso la
difficile scelta delle varianti e la correzione ortografica del
testo. Feci quel lavoro quanto più coscienziosamente mi fu possibile
e tremante d'essere per desiderio di sollecitudine irriverente al
genio di Dante e all'ingegno di Foscolo. Consultai religiosamente i
due codici ignoti all'Italia di Mazzucchelli e di Roscoe. Per sei
mesi il mio letto - dacchè io non aveva che una stanza - fu coperto
dalle edizioni del poema attraverso le quali io rintracciava le
varie lezioni che la mancanza d'un testo originale, l'ignoranza dei
tardi copisti e le borie locali accumularono per secoli su quasi
ogni verso. Oggi, credo mio debito dir tutto il vero e separare il
mio lavoro da quello di Foscolo(48). - (1863).
Come le conseguenze logiche della nostra fede mi trascinassero a
lavorare non solamente pel popolo, ma col popolo, non occorre
ripeterlo. E i pochi popolani d'Italia coi quali, nei casi passati,
io aveva avuto contatto mi s'erano mostrati tali e così vergini di
calcolo e di basse passioni da confortarmi davvero al lavoro. Ma le
opportunità per addentrarmi nello studio di quel prezioso elemento
m'erano finora mancate. Londra m'offrì inaspettatamente la prima, e
m'affrettai ad afferrarla.
Affiatandomi, sulle vie della vasta città, con taluni di quei
giovani che vanno attorno coll'organino, imparai, con vero stupore e
dolore profondo, le condizioni di quel traffico, condotto da pochi
speculatori, ch'io non saprei additare con altro nome che con quello
di tratta dei bianchi: vergogna d'Italia, di chi siede a governo e
del clero che potrebbe, volendo, impedirlo. Cinque o sei uomini
italiani stabiliti in Londra, rotti generalmente ad ogni mal fare e
non curanti fuorchè di lucro, si recano di tempo in tempo in Italia.
Là, percorrendo i distretti agricoli della Liguria e delle terre
parmensi, s'introducono nelle famiglie dei montagnuoli, e dove
trovano i giovani figli più numerosi, propongono i più seducenti
patti possibili: vitto abbondante, vestire, alloggio salubre, cure
paterne al giovine che s'affiderebbe ad essi: una certa somma, dopo
trenta mesi, pel ritorno e per compenso dell'opera prestata. E steso
un contratto; se non che i poveri montagnuoli non sanno che i
contratti stesi sul continente non hanno, se non convalidati dai
consoli inglesi, valore alcuno in Inghilterra. Intanto, i giovani
raccolti a quel modo seguono lo speculatore a Londra: ivi giunti, si
trovano schiavi. Alloggiati, quasi soldati, in una stanza comune,
ricevono, i giovani un organino, i fanciulli uno scojattolo o un
topo bianco, gli uni e gli altri ingiunzioni di portare, la sera, al
padrone una somma determinata. La mattina, hanno, prima d'uscire,
una tazza di the con un tozzo di pane; ma il pasto della sera
dipende dall'adempimento della condizione: chi non raccoglie, non
mangia; e i più giovani sono, per giunta, battuti. Io li vedeva, la
sera in inverno, tremanti per freddo e digiuno, chiedenti, quando la
giornata era stata - come in quella stagione è sovente - poco
proficua, l'elemosina d'un soldo o di mezzo soldo agli affrettati
pedoni, onde raggiungere la somma senza la quale non si attentano di
tornare a casa. E non basta: l'avidità dei padroni arbitri
onnipotenti trae partito dalle infermità, che commovono, quando sono
visibili, le buone fantesche inglesi. Taluno di quelli infelici,
sospinto sulla strada benchè consunto dal morbo e col pallore della
morte sul volto, fu raccolto dagli uomini della polizia e portato
allo spedale, dove morì senza proferire parola. A tal altro è
ingiunto di fingersi mutolo, ferito in un piede o côlto da
convulsioni epilettiche. Costretti da minacce tremende a mentire per
conto dei loro tiranni, quei giovani, esciti buoni dalle loro
montagne, imparano a mentire e architettare inganni anche per conto
proprio, e tornano in patria profondamente corrotti. Spesso, sullo
spirare dei trenta mesi, i padroni si giovano d'un pretesto
qualunque, d'una lieve infrazione, facilmente provocata, ai patti,
per cacciare sulla strada quelli infelici senza pagar loro la somma
stipulata colla famiglia, e condannarli al bivio di perire di stenti
o vivere d'elemosina e furti.
Una circolare diramata dal governo ai sindaci di comune e ai
parrochi, perch'essi, influenti come sono nelle piccole località,
illuminassero le famiglie sulle tristi condizioni alle quali,
cedendo agli allettamenti de' speculatori, espongono i figli,
basterebbe probabilmente a imporre fine al traffico o a moderarlo.
La legalizzazione consolare inglese data in Italia ai contratti, e
alcune istruzioni mandate agli agenti governativi italiani in
Inghilterra perchè vegliassero a proteggere quei meschini,
raddolcirebbero a ogni modo la loro sorte. Ma i governi monarchici
s'occupano di ben altro. E quanto al clero italiano in Londra, i
miei articoli sulla scuola gratuita mostrano abbastanza il come,
diseredato omai non solamente di fede ma di carità, intenda la
propria missione.
Tentai dunque d'alleviare in altro modo quei mali e istituii a un
tempo un'associazione per proteggere quei giovani abbandonati, e una
scuola gratuita per illuminarli sui loro doveri e sui loro diritti,
onde ripatriando inspirassero migliori consigli ai loro compaesani.
Più volte trassi i padroni, rei di violenza, davanti alle corti di
giustizia. E il sapersi adocchiati li persuase a meno crudele e meno
arbitraria condotta. Ma la scuola ebbe guerra accanita da essi, dai
preti della Cappella sarda e dagli agenti politici dei governi
d'Italia. Prosperò nondimeno. Fondata il 10 novembre 1841, durò sino
al 1848, quando la mia lunga assenza e l'idea che il moto italiano,
consolidandosi, aprirebbe tutte le vie all'insegnamento popolare in
Italia, determinò quei che meco la dirigevano a chiuderla. In quei
sette anni, la scuola diede insegnamento intellettuale e morale a
parecchie centinaja di fanciulli e di giovani semibarbari che
s'affacciavano sulle prime sospinti da curiosità e quasi paurosi
alle modeste stanze del numero 5, Hatton Garden, poi
s'addomesticavano a poco a poco conquistati dall'amorevolezza de'
maestri, finivano per affratellarsi lietamente e con certo orgoglio
di dignità acquistata all'idea di rimpatriare educati, e
accorrevano, ponendo giù l'organino, ad assidersi per una mezz'ora,
tra le nove e le dieci della sera, sui nostri banchi. Insegnavamo
ogni sera leggere, scrivere, aritmetica, un po' di geografia,
disegno elementare e d'ornato. La domenica, raccoglievamo gli
allievi a un discorso d'un'ora sulla storia patria, sulle vite de'
nostri grandi, sulle più importanti nozioni di fisica, sopra ogni
cosa che paresse giovevole a secondare e inalzare quelle rozze menti
intorpidite dalla miseria e dalla abbietta soggezione ad altri
uomini. Quasi ogni domenica per due anni parlai di storia italiana o
di astronomia elementare, studio altamente religioso e purificatore
dell'anima che, tradotto popolarmente ne' suoi risultati generali,
dovrebbe essere tra i primi nell'insegnamento. E da forse cento
discorsi sui doveri degli uomini e su punti morali furono recitati
da Filippo Pistrucci, improvvisatore noto un tempo all'Italia, e
che, creato da me direttore della scuola, s'immedesimò con zelo
senza pari colla propria missione.
E fu un secondo periodo d'operosità fraterna e d'amore che rinverdì
a forti e costanti propositi l'animo mio e quello di altri esuli
tormentati. Era davvero una santa opera santamente compita. Tutto
era gratuito nella scuola. Direttore, vice-direttore - ed era un
Luigi Bucalossi toscano, infaticabilmente devoto - maestri, quanti
s'adopravano intorno all'istruzione degli allievi, s'adopravano non
retribuiti. Ed erano tutti uomini che avevano famiglia e la
sostentavano col lavoro. Insegnavano il disegno Scipione Pistrucci,
figlio del direttore, e un Celestino Vai, vecchio bresciano, al
quale era affidata la custodia della scuola, impiegato oggi in
Milano nell'ufficio dell'Unità e del quale non vidi mai uomo più
amorevole agli allievi, più convinto del dovere di tutti noi verso i
poveri ineducati. Insegnavano a leggere e a scrivere operai che dopo
aver faticato tutta la giornata al lavoro, rinunziavano alle sole
ore che avessero libere per accorrere a compiere l'ufficio
assuntosi, ed erano a un tempo sottoscrittori. Il 10 novembre d'ogni
anno, anniversario della fondazione, noi raccoglievamo da circa
duecento allievi, prima a una distribuzione di piccoli premî ai
migliori, poi a una modesta cena, nella quale noi tutti facevamo da
scalchi, distributori e domestici, e ch'era rallegrata da canti
patriottici e da improvvisazioni del direttore. Una di quelle sere
era eguale, nelle conseguenze morali, a un anno d'insegnamento. Quei
miseri, che i padroni trattavano siccome schiavi, si sentivano
uomini, eguali e animati. Amiche e amici inglesi intervenivano a
quelle cene di popolani e ne uscivano commossi, migliori anch'essi.
Ricordo la povera Margherita Fuller venuta dagli Stati Uniti con non
so quali diffidenze di noi. Condotta in mezzo a una di quelle
riunioni ci era, dopo un'ora, sorella. L'anima sua candida, e aperta
a tutti i nobili affetti, aveva indovinato il tesoro d'amore che la
religione del fine aveva suscitato fra noi.
L'esempio fruttò, prima in Londra, dove i preti della Cappella
sarda, poi che videro inutili i loro sforzi per far cadere la nostra
scuola, si ridussero a impiantarne un'altra nella stessa strada: poi
in America, dov'io aveva in quel torno impiantato relazioni
fraterne. Scuole simili alla nostra furono istituite nel 1842, per
cura di Felice Foresti e di Giuseppe Avezzana, in Nuova York, per
cura del professore Bachi in Boston, e per cura di G. B. Cuneo in
Montevideo.
Intanto la scuola mi fu, come dissi, occasione di contatto frequente
cogli operai italiani in Londra. M'occupai, scelti i migliori, d'un
lavoro più direttamente nazionale con essi. Fondai una sezione di
popolani nell'associazione e l'Apostolato popolare col motto: Lavoro
e frutto proporzionato.
E ristrinsi pure in quelli anni i vincoli di fratellanza che,
annodati nella Svizzera tra noi e i Polacchi, erano stati rallentati
dai casi. Nè importa oggi ricordare i particolari di quel nuovo
lavoro internazionale.
Solamente a mostrare come fin d'allora l'Associazione oltrepassasse
nel suo concetto la sfera d'un moto nazionale polacco per allargarsi
a quella che comprende tutte le tribù slave, inserisco le linee
seguenti colle quali ci riunimmo a chi celebrava in Londra, il 25
luglio 1845, il diciannovesimo anniversario della morte dei martiri
russi - (1863).
Credendo che superiore a tutte le patrie esiste una patria comune
nella quale gli uomini son fatti cittadini dall'amore del bene,
fratelli dal culto della stessa idea, santi dal martirio e che
Pestel, Mouravief, Bestugef, Ryleief, Kochowski, morti per la
redenzione delle famiglie slave, sono concittadini e fratelli a
quanti combattono sulla terra per la causa del giusto e del vero.
Credendo che le famiglie slave sono chiamate a una grande missione
d'ordinamento interno e d'incivilimento da diffondersi altrove, che
non potranno compire se non con una serie di lavori fraterni, e che
la Russia e la Polonia devono, per ragioni storiche e geografiche,
essere a capo di quei lavori.
Credendo che la lega dei governi assoluti non può essere vinta se
non dalla santa alleanza dei popoli.
Credendo inoltre che le famiglie slave dovranno un giorno
affratellarsi specialmente all'Italia in una guerra al nemico
comune, l'Austria.
Il comitato centrale della Giovine Italia, associazione nazionale,
unita in anima e cuore ai voti, alle speranze, alle aspirazioni dei
patrioti polacchi, dà nome e adesione alla commemorazione dei cinque
martiri russi.
Nel 1844 ebbe luogo la spedizione dei fratelli Bandiera. I Ricordi
ripubblicati in questo volume contengono quanto importa all'Italia,
nè intendo riparlarne. Ma l'incidente della violazione delle mie
lettere merita ch'io vi spenda alcune parole. È un episodio
d'immoralità ministeriale monarchica da porsi allato a quello della
spia Conseil riferito in questo volume; e quella immoralità dura
tuttavia eretta a sistema da pressochè tutti i governi d'Europa.
A mezzo quell'anno, or non rammento più se in giugno o sul
cominciare del luglio, m'avvidi che le lettere dei miei
corrispondenti in Londra - ed erano tra quelli i banchieri per mezzo
dei quali mi giungeva la corrispondenza straniera - mi venivano
tarde di due ore almeno. Concentrandosi dai diversi punti
all'uffizio postale generale, le lettere vi ricevono un timbro che
accerta l'ora del loro arrivo: la distribuzione a domicilio ha luogo
nelle due ore che seguono. Esaminai accuratamente quei timbri e
trovai ch'erano generalmente doppî: al primo era sovrapposto un
secondo timbro, di due ore più tardo e collocato in modo da celare
il primo, e allontanare il sospetto. Bastava per me, non per altri
increduli d'ogni violazione di ciò che chiamano lealtà britannica e
che accoglievano con sorriso ironico i miei sospetti. I timbri così
sovrapposti lasciavano mal discernere le due ore diverse e serbavano
apparenza di lavoro affrettato e data illeggibile. Ideai d'impostare
io stesso all'uffizio centrale lettera diretta a me, calcolando
l'ora tanto che il primo timbro dovesse portare la cifra 10. Or dopo
avere ricevuto quel timbro, le lettere a me dirette erano, per
ordine superiore, raccolte e mandate a un uffizio segreto dov'erano
aperte, lette, risuggellate, poi rinviate al postiere incaricato
della distribuzione nella strada ov'io allora viveva, ch'era
Devonshir Street, Queen square. Quel nefando lavoro consumava due
ore a un dipresso; e il timbro da sovrapporsi alla cifra 10 dovea
quindi portare il 12 che, per quanto facessero lasciava visibile
parte dello zero del 10. Chiarito quel punto, raccolsi altre prove.
Feci impostare, in presenza di due testimonî inglesi e
ripetutamente, alla stessa ora e allo stesso ufficio postale, due
lettere, una delle quali era diretta al mio nome, l'altra a un nome
fittizio, ma alla stessa casa: i testimonî venivano ad aspettare con
me la distribuzione; e accertavano con dichiarazione scritta come la
lettera che portava il mio nome giungesse invariabilmente due ore
più tardi dell'altra. In altre lettere a me dirette racchiusi
granellini di sabbia o semi di papavero; e li trovammo, aprendo con
cura, smarriti. Istituimmo una serie d'esperimenti intorno ai
suggelli, scegliendo i più semplici e segnati di sole linee, poi
collocandoli sì che le linee cadessero sulla lettera ad angolo
retto; e ci tornarono identici di forma, ma colle linee piegate
lievemente ad angolo acuto. Inserii un capello sotto la ceralacca, e
non era più da trovarsi: risuggellando, lo consumavano. E via così,
finchè raccolto un cumulo di prove innegabili, misi ogni cosa in
mano a un membro del parlamento, Tommaso Duncombe, e inoltrai
petizione alla Camera perchè accertasse e provvedesse.
L'accusa produsse vera tempesta. Alle interpellanze che da ogni lato
furono mosse ai ministri, questi diedero per alcuni giorni risposte
evasive; poi, meglio informati sul conto mio e convinti ch'io non mi
sarei avventurato senza certezza di prove, confessarono,
schermendosi in parte con certo vecchio editto che risaliva alla
regina Anna e a circostanze eccezionali, in parte con insinuazioni a
mio danno e come s'io avessi macchinato pericoli all'Inghilterra.
Confutai queste ultime in modo da ridurre il ministro accusatore -
ed era sir James Graham - a farmi ammenda pubblica in parlamento. E
quanto all'altra difesa, afferrai la via che m'apriva per disvelare
all'Inghilterra tutta la piaga. Non era da credersi che gli stessi
ministri e gli altri che li avevano preceduti avessero resistito
sempre, fuorchè in quell'unico caso, alla tentazione di valersi, pei
loro fini, di quell'editto antiquato. Feci quindi chiedere e ottenni
che s'istituissero due commissioni d'investigazione nelle due
Camere. E le relazioni che fecero, comunque tendenti a palliare le
colpe più che non a produrle brutte com'erano, provarono che dal
1806 fino al 1844, da lord Spencer a lord Aberdeen, tutti i
ministri, compresi Palmerston, Russell e Normanby, s'erano
successivamente contaminati di quell'arbitrio - che non solamente le
mie e quelle d'altri esuli, ma le lettere di molti inglesi, di
membri del parlamento, di Duncombe medesimo, erano state violate a
quel modo - che si erano inevitabilmente praticati, a celare la
colpa, artifizî contemplati dalle leggi penali, falsificazione di
suggelli, imitazione di timbri e altri - che le mie erano state
aperte per quattro mesi.
E provarono cosa più grave: che l'arti nefande di Talleyrand e
Fouchè s'erano praticate dai ministri d'Inghilterra, non per indizî
ch'io cospirassi contro lo Stato o m'immischiassi pericolosamente di
faccende inglesi, ma per compiacere servilmente a governi stranieri
e dispotici, e che ad essi - a Napoli e all'Austria - si
trasmettevano regolarmente le cose che parevano più importanti nelle
lettere a me dirette. Molte di quelle cose riguardavano appunto il
disegno, da me combattuto, dei due Bandiera, e rivelate suggerirono
al governo di Napoli l'atroce pensiero di provocarli, di sedurli,
per liberarsene, all'esecuzione. I ministri inglesi s'erano fatti
complici di quell'assassinio; e lo sentivano e ne arrossivano. Lord
Aberdeen, il gentiluomo più onorato in Inghilterra per fama
d'impeccabile schiettezza e la cui parola era considerata da tutti
come sillaba di Vangelo, fu trascinato a mentire sfrontatamente alla
Camera. Fatto interrogare da me se si fosse data comunicazione dei
segreti contenuti nella mia corrispondenza a governi stranieri, il
nobile lord aveva, plaudente la Camera - a quale affermazione di
ministri non plaudono le Camere escite dalla legge del privilegio? -
risposto: nè una sillaba di quella corrispondenza fu mai sottomessa
ad agenti di potenze straniere. Poche settimane dopo, la relazione
delle due commissioni investigatrici gli gettava in viso: le
informazioni raccolte dalla corrispondenza erano comunicate a un
governo straniero. Io scrissi il dì dopo su' giornali, alludendo
alle calunnie insinuate contro me da sir James Graham, che quando
uomini di Stato scendevano alla parte di falsificatori e bugiardi,
non era da stupirsi che fossero anche calunniatori.
Nè giova stupirne. Ogni governo fondato sull'assurdo privilegio
dell'eredità del potere e che si regge su vuote formole come quelle
che il capo dello Stato regna ma non governa; che tre poteri
serbandosi in equilibrio perenne creano il progresso, e siffatte
delle monarchie costituzionali, è trascinato inevitabilmente presto
o tardi all'immoralità. Vive di menzogne, di norme ideate, di
tradizioni diplomatiche vigenti in una piccola frazione di società
privilegiata, in guerra quindi più o meno dichiarata coll'altra, non
delle inspirazioni che salgono dalla coscienza collettiva a quella
dell'individuo. E ogni vita artificiale e profondamente immorale
esce dal vero e dalla comunione colla umanità, ch'è la via per
raggiungerlo. In quelli uomini di governo naturalmente buoni e
leali, ma veneratori di formole artificiali architettate a
sorreggere un concetto artificiale anch'esso e non desunto dalla
natura intima delle cose, s'era fatalmente smarrito quel senso
diritto e morale che insegna l'unità della vita, e si commettevano,
come uomini di Stato, ad atti davanti ai quali si sarebbero ritratti
impauriti com'uomini e nulla più. Intanto la loro politica
immoralità insegnava immoralità agli inferiori guidandoli a dirsi:
se per utile dello Stato è lecito dissuggellare, violare gli ultimi
segreti, sottrarre e trasmettere l'altrui proprietà, perchè nol
potremmo noi per l'utile delle nostre famiglie? Non v'è forse paese
in Europa dove le lettere siano così frequentemente violate come in
Inghilterra; e parlando delle lettere contenenti danaro, il
direttore delle poste in quel tempo, lord Maberly, diceva che tanto
valeva cacciarle sulla pubblica via quanto affidarle alla posta. Ma
se i più tra gli uomini d'oggi non fossero schiavi d'anima ed
educati dalla monarchia a guardare, più che l'uomo, la veste
dell'uomo - se rifiutando l'immorale distinzione tra l'uomo politico
e il privato e intendendo che al primo, come a quello che si assume
una parte educatrice nella nazione corre anzi debito maggiore di
scrupolosa onestà, visitassero severamente la colpa - se il dì dopo
la menzogna, le sale dei convegni amichevoli si fossero tutte
chiuse, come a uomo disonorato, a lord Aberdeen - la lezione sarebbe
stata proficua non foss'altro a' suoi successori. Prevalse alla
nozione morale il prestigio dell'aristocrazia e dell'alto ufficio; e
mentre il paese pur dichiaravasi avverso all'abuso, lasciò che i
colpevoli durassero amministratori. Però il segreto delle
corrispondenze è oggi come allora, comunque più raramente, violato.
A me intanto quella violazione additò il momento proprio per
trattare davanti l'Inghilterra la causa, fin allora negletta, della
mia patria e con uno scritto diretto a sir James Graham cominciai
quell'apostolato a pro dell'Italia che diede più tardi origine ad
associazioni, riunioni pubbliche e interpellanze parlamentari. Lo
intitolai: l'Italia, l'Austria e il Papa, e lo pubblicai in inglese.
Fu poi tradotto nella Revue indépendante di Parigi.
Le prove accumulate in quel libretto a far conoscere lo sgoverno
finanziario e amministrativo che pesava sulle provincie italiane
soggette all'Austria e al papato sono oggi inutili(49).
I documenti contenuti in questo volume riguardano un periodo solenne
per gloria e sventura, per errori, per insegnamenti e per delusioni.
Queste ultime mi riuscirono inaspettate e dolorosissime. Immemori
della lunga nostra predicazione e del culto da essi medesimi giurato
ai principî come a quelli che soli potevano dar salute all'Italia, i
migliori tra i nostri - e parecchi m'erano individualmente
amicissimi - al primo apparire d'una forza, o d'un fantasma di
forza, disertarono la bandiera e si fecero adoratori ciechi del
fatto. Da pochissimi infuori, temprati non solamente a combattere,
ma, avversi i fati, a vivere solitarî nel mondo delle credenze e
delle aspirazioni al futuro, il partito si sviò tutto quanto a
transizioni, fazioni e concetti di leghe ipocrite e inefficaci tra
rappresentanti d'opposti principî che tendevano scambievolmente a
deludersi. L'Italia abbandonò allora le tradizioni generose della
propria vita per rincatenarsi a quelle che nei secoli XVI e XVII ci
vennero dalla incontrastata dominazione straniera e dalla
inenarrabile corruttela d'una Chiesa non italiana nè alloramai più
cristiana. Machiavelli prevalse a Dante. E i danni e la vergogna di
quelle trasformazioni durano tuttavia.
Io potrei - e molti forse lo aspettano da me - scrivere un capitolo
di storia che consegnerebbe al giudizio severo dei posteri molte
debolezze oggi ignote che diedero cominciamento a quella crisi di
dissolvimento morale; molte violazioni di solenni promesse rimaste
arcane; molte ingratitudini d'uomini debitori a noi di fama e
d'altro e che ci si fecero avversi appena videro schiudersi un'altra
via per salire. Ma nol farò. Per cagioni d'affetto patrio, io non
potrei dir tutto e di tutti, e anche il vero tornerebbe in certo
modo ingiusto ai trascelti. Tacerò dunque; e mi limiterò ad
accennare rapidamente la serie dei fatti tanto da porne alcuni,
negletti finora o fraintesi, in luce migliore che giovi alla storia
del principio nazionale, unico fine del mio lavoro.
Poi, a che pro? Perchè m'occuperei d'individui? Le loro colpe, i
loro errori, le loro fiacchezze risalgono a cagioni morali e si
ripetono oggi e si ripeteranno in altri negli anni futuri, finchè
durano quelle cagioni, sole che importi distruggere. Le generazioni
rappresentano, a seconda dalla loro educazione morale, idee o
interessi: noi possiamo, quand'esse vivono governate dalle prime,
antivederne gli atti e calcolarne logicamente, a pro dei nostri
disegni, la capacità e la costanza; quand'esse traviano dietro ai
secondi, mutabili per circostanze fuggevoli d'ora in ora, ogni
logica è muta. La generazione vivente nel 1848 non aveva filosofia,
nella sua generalità, se non quella degli interessi; interessi
personali nei più guasti: interessi di vittoria, di partito, d'odio
al nemico, nei migliori. La fede senza calcolo di frutto immediato
nell'ideale e nell'avvenire, non era in essa. Noi avevamo sperato
sostituirle in un subito l'entusiasmo pel bello e pel grande. E ci
eravamo ingannati. La fede è dovere: il dovere esige una sorgente,
una nozione superiore all'umanità, Dio. E Dio non era e non è pur
troppo nella mente del secolo.
L'Italia era ed è tuttavia - e se s'eccettuino i buoni istinti che
incominciano, segnatamente nelle classi operaje delle città, a
rivelarsi - appestata di materialismo: materialismo che dalla
filosofia meramente analitica e negativa del secolo passato
s'infiltrò nella vita pratica, nelle abitudini, nel modo di
considerare le cose umane. Le ardite negazioni del secolo XVIII
assalivano un dogma inefficace oggimai perchè inferiore
all'intelletto dell'umanità; erravano perchè confondevano uno stadio
consunto di religione colla vita religiosa del mondo, una forma
collo spirito che la riveste a tempo, un periodo di rivelazione
coll'eterna rivelazione progressiva di Dio tra gli uomini; ma
combattevano non foss'altro nella sfera del pensiero e la vita
ritraeva ancora un non so che dell'antica unità. Oggi noi
soggiaciamo non ai principî, ma alle conseguenze di quel periodo:
traduciamo la dottrina negli atti, senza il vigore di battaglia
ch'era nella dottrina medesima. Un alito di fervore religioso
fremeva tuttora per entro a quella irreligiosa ribellione: gli
uomini che abbiuravano il Dio del mondo cristiano inneggiavano con
lunghe apostrofi alla Dea Natura, sollevavano sugli altari la Dea
Ragione. Tra noi pochi - se pur taluno - s'attenterebbero,
richiesti, di rispondere che Dio non è, ma i più non sanno e non
curano di sapere ciò che importi Dio nella vita e come tutta una
serie di solenni e inevitabili conseguenze derivi da quella prima
nozione: facili a oziosamente accettarla a patto d'esiliarla inerte,
infeconda, in non so quale angolo del regno delle astrazioni. La
legge morale, conseguenza di Dio - la sanzione della legge nella
vita futura dell'individuo - il dovere che ne discende a ciascun di
noi - il vincolo fra terra e cielo, tra gli atti e la fede - sono
cose indifferenti agli uomini d'oggi. L'unità della vita è così
smembrata per essi; il nesso tra l'ideale definito dalla religione e
il mondo visibile, che deve esserne interprete e rappresentarlo nei
diversi rami dell'umana attività, è posto siffattamente in obblio
che fu salutata a' dì nostri siccome formola d'alto senno civile la
vuota frase libera Chiesa in libero Stato. Quella formola vale legge
atea e religione falsa o vera, buona o trista non monta; vale
progresso nella pratica e immobilità nella teorica, anarchia perenne
tra il pensiero e l'azione, intelletto liberamente educato e
coscienza serva. Diresti che nessuno intravveda l'unica ragionevole
soluzione al problema, la trasformazione della Chiesa sì che
armonizzi collo Stato e lo diriga, senza tirannide e
progressivamente, sulle vie del bene.
Senza cielo, senza concetto religioso, senza norma che prescriva il
dovere e la virtù, prima fra tutte, dal sagrificio, la vita,
sfrondata d'ogni eterna speranza per l'individuo e d'ogni fede
inconcussa nell'avvenire dell'umanità, rimane in balìa degli
istinti, delle passioni, degli interessi, agitata, ondeggiante fra
gli uni e gli altri a seconda degli anni e dei casi. I generosi
impulsi e la poesia d'un entusiasmo naturalmente fervido quando
l'anima vive più spontanea e meno signoreggiata dal mondo esterno,
suscitano i giovani a contrasto colla tirannide e li avviano
inconsci sulle vie dell'azione. Poi, quando le aspirazioni, le
rapide speranze e le illusioni dorate sugli uomini e sulle cose si
rompono alla fredda prosaica realtà del presente e le inevitabili
delusioni, le persecuzioni, le disfatte aspreggiano a ogni tanto la
via, sorge il dubbio, sorge quel senso di stanchezza che persuade
l'impossibilità della lotta e dietro a quello s'insinua l'egoismo
che tende a godere - dacchè l'immortalità è ignota - quaggiù. E
allora, la prima proposta d'un disegno che non rinnega ma dimezza e
pospone il programma, è ascoltata; il primo affacciarsi d'una forza
appartenente ad altro campo, ma che pur promette adoprarsi contro il
nemico, è salutato come un modo d'accostarsi con rischi e sagrificî
minori all'intento. L'anima senza una fede sulla quale possa
riposare secura e sentirsi potente a procreare fatti quando che sia,
si ribellerebbe forse a una diserzione, ma s'arrende agevolmente a
transazioni che pur vi conducono. Entrata su quella via di
machiavellismo e d'ipocrite concessioni, s'avvela; smarrisce a poco
a poco la luce del vero, s'avvezza ad affratellarsi col calcolo e
muta più o meno lentamente ma inevitabilmente natura, finchè
avvedendosi, tardi e quando è fatta incapace della virtù santa del
pentimento s'irrita intollerante del biasimo altrui e s'ostina, per
orgoglio e per utile ad un tempo, nel traviamento accettato.
Tale è la storia della generazione che, tra il 1847 e l'anno in cui
scrivo, mutò lato e bandiera. E si rifarà fino a che gli uomini si
rimarranno diseredati di Dio e d'una fede che insegni il Dovere. Io
lo ripeto sovente, perchè so che in questo è la radice d'ogni nostro
male. Il popolo d'Italia potrà essere fantasma di nazione, ma non
nazione vera, grande, potente a fare, conscia della propria missione
e ferma di compierla, se non rieducandosi a religione: religione
intendo quale i progressi intellettualmente compiti e le tradizioni,
studiate a dovere, del pensiero italiano l'additano.
Su questa condizione morale, o piuttosto immorale, di cose s'innestò
la parte così detta de' moderati, composta d'uomini che avevano,
come Farini, cospirato con noi e s'erano stancati d'una via sulla
quale incontravano a ogni passo pericoli e persecuzioni; d'altri ai
quali, come ad Azeglio, era ingenita una avversione aristocratica al
popolo e alla democrazia e finalmente d'alcuni timidi angusti
intelletti immiseriti fra le tradizioni del piccolo Piemonte e
incapaci d'afferrare ogni concetto che non avesse perno in un re, in
una corte, in un esercito regolare.
La tradizione della parte alla quale accenno non era splendida.
Moderati si dicevano gli uomini che nel 1814 avevano, in Lombardia,
applaudito al ritorno degli eserciti austriaci: moderati quei che
avevano nel 1821 legato i fati dell'insurrezione piemontese a un
principe disertore: moderati quei che avevano nel 1831 tradito il
moto degli Stati romani prima colla teorica anti-nazionale del
non-intervento da una provincia nostra ad un'altra; poi colla
codarda capitolazione di Ancona. Ma erano individui, come ne trovi
in ogni crisi, vuoti d'intelletto rivoluzionario, non partito
costituito, ordinato. Ben di fronte alla Giovine Italia s'era
formata, sotto nome di Veri Italiani, una società di fautori
monarchici che si raccolsero intorno a un patrizio lombardo,
Arconati, in Brusselle e di là s'adoprarono a diffondere le prime
aspirazioni verso la dinastia savojarda: ma respinta dai buoni
istinti del nostro popolo, abbandonata a poco a poco, mercè il
nostro apostolato, da' suoi migliori, s'era trascinata nell'ombra
seminando di soppiatto accuse ai repubblicani e germi di divisione,
senza copia di seguaci, senz'eco. La parte moderata non pensò a
costituirsi davvero e a sostituire alla nostra la propria influenza
prima del 1843 e poco dopo la sventurata impresa dei fratelli
Bandiera. Quell'impresa, attribuita inonestamente da essi a noi e
segnatamente a me, aveva innegabilmente versato sconforto e
diffidenza nelle nostre fila. Le circostanze a ogni modo non
correvano propizie a disegni di moti e mi pareva che si dovesse
lasciar tempo alle idee perchè trapassassero a poco a poco dalla
gioventù degli ordini medî al popolo non foss'altro delle città. I
vincoli dell'associazione s'erano quindi allentati e io mi limitava
a mantener contatto qua e là, in Lombardia più che altrove, con
nuclei di giovani uniti senza forma definita e liberamente a un
intento d'apostolato e a invigilare se mai sorgesse il momento
opportuno a far meglio. Di quell'intervallo di stanchezza e
d'inazione forzata da parte nostra si giovarono i moderati.
La prima loro manifestazione fu nel 1845 in Rimini. E quasi a
dichiarare l'assoluta assenza d'idee politiche, inalzarono bandiera
bianca. Bensì, dovendo pur dire al popolo agitato, perchè movessero,
diffusero un manifesto steso dal Farini ch'era pallida copia del
memorandum dato inefficacemente dalle potenze al papa nel 1831. Quel
manifesto sostituiva al moto nazionale i moti locali; allo grandi
vitali quistioni dell'indipendenza, dell'unità, della libertà i
miglioramenti amministrativi economici.
Io so che i più tra i capi dei moderati avevano essi pure nell'animo
- non dirò la libertà, della quale non curano o poco - ma
l'indipendenza d'Italia, la questione nazionale, la cacciata dello
straniero. Dico che il metodo loro insegnava a disperarne per un
lungo indefinito periodo di tempo e sviava dal segno, che noi gli
avevamo additato, l'educazione del popolo. Dico che moltissimi fra
quelli uomini non volevano l'unità, nessuno la credeva possibile. E
dico che se i principi più avveduti, meno tristi e meno spronati
dalla fatalità che li sospinge, per somma ventura e legge dei tempi,
a rovina, avessero tanto quanto soddisfatto a quel monco programma,
noi non avremmo oggi ventidue milioni d'Italiani stretti a unità di
nazione, ma il vecchio mosaico di grandi e piccole monarchie e leghe
più o meno ipocrite e traditrici. Quelle leghe furono l'ideale dei
pensatori del partito: da Balbo fino a Cavour. Giacomo Durando
predicava le tre o cinque Italie a beneplacito dei principi
volonterosi. Mamiani era centro in Genova d'apostolato federativo.
Gioberti proponeva in una lettera del 16 marzo 1847 a Pietro
Santarosa che «s'ottenesse dall'Austria con rimostranze un mutamento
di politica in Lombardia tanto che pacificata colla dolcezza e colle
riforme, potesse poi, con agio e tempo, ricevere d'accordo coi
potentati un assetto definitivo.» Cavour proponeva, non molto prima
che Garibaldi scendesse nel regno, patti e alleanza al Borbone.
L'assenza d'ogni fede unitaria nei moderati è fatto documentato che
la storia dei tempi, quando sarà imparzialmente scritta, registrerà;
nè le millanterie machiavelliche dei giorni posteriori all'unità
conquistata dal popolo varranno a cancellarlo.
E un altro fatto, conseguenza di questo primo e troppo trascurato
finora, verrà registrato dalla storia, base e scorta all'intelletto
degli eventi di tutto il periodo; ed è il dualismo perenne tra
l'azione, generatrice d'ogni mutamento importante, dell'elemento
popolare nostro e l'influenza, potente unicamente a menomare, a
sviare dal segno quei mutamenti, esercitata dai moderati. Oggi, a
udirli, diresti avessero fatto l'Italia e promosso col loro metodo
quanto ebbe luogo negli ultimi quindici anni. Ma quando il tempo e
l'Italia rinsavita avranno imposto silenzio al cicalìo di gazzette
vendute e alle calunnie e alle lodi sfacciate, i fatti e le
inesorabili date diranno che dall'amnistia papale infuori, ogni
concessione di principi, ogni passo mosso innanzi dal paese originò
dall'azione, avversata dai moderati, del popolo, dai moti di piazza
com'essi sprezzando dicevano. - Da sommosse in Livorno, nelle
Romagne, in Roma, l'accresciuta libertà di stampa e l'istituzione
delle guardie nazionali - dalle petizioni firmate a tumulto su per
le vie e dagli assalti ai conventi, la cacciata de' Gesuiti -
dall'insurrezione siciliana del 1848 gli Statuti regi - dalle cinque
giornate di Milano la guerra, miseramente tradita, d'indipendenza -
come nella recente seconda fase del periodo, dalle resistenze del
popolo ai disegni federalisti del Bonaparte, dalle nostre minacciate
spedizioni su Roma, dal moto di Sicilia, dalle imprese di Garibaldi,
originarono le annessioni del Centro, l'invasione delle Marche,
l'emancipazione del Mezzogiorno. Il nostro metodo sopravviveva,
negli istinti del popolo, a noi. Soltanto i moderati, fatti per
lungo artificio e pompose ripetute promesse e profezie misteriose e
prontezza ad attribuire a sè stessi ogni successo ottenuto e a
prudenza di tattica il biasimo dato invariabilmente ai tentativi,
soli e visibili padroni del campo, raccoglievano, accettando i fatti
compiuti, i frutti di quelli istinti.
Miravano non a conquistare un governo all'Italia, ma a conquistarsi
i governi italiani: non s'indirizzavano al popolo, ma ai principi:
non provocavano insurrezioni, ma un lento e temperato progresso
dall'alto al basso: rinnegavano le associazioni segrete e la stampa
clandestina e tentavano ottenere alcune dosi omiopatiche di libertà
dalle carezze, dalle lusinghe, dalle adulazioni servili profuse ai
governi. E quanto al Lombardo-Veneto e all'Austria, non avevano
concetto di sorta; e i filosofi politici della setta si limitavano a
vaticinare possibilità di risolvere la questione quando suonasse,
per virtù d'atomi confederati e arcadiche conversioni di monarchi al
progresso e al bene dei popoli, l'ora dello smembramento dell'impero
turco in Europa. Ma quando la febbre popolare irrompeva - quando il
sangue dei nostri martiri ribolliva nelle viscere del suolo d'Italia
e a guisa d'agente vulcanico lo sollevava - si rassegnavano
volonterosi e lasciavano intendere col loro sorriso ch'essi avevano
antiveduto e aspettato quei moti anormali come conseguenza del loro
operare sagace. Al popolo, politicamente ineducato e ignaro del come
importi allo sviluppo dei fatti la coscienza delle vere loro
cagioni, poco caleva di chi li rivendicasse: accettava chi più
s'acclamava suo capo: confondeva causa ed effetti; e quando gli
ripetevano che i suoi trionfi erano dovuti all'avere i moderati
conquistato un papa che lo benediceva e un re che aspettava l'astro
e teneva allato la spada d'Italia, plaudiva, colla gaja noncuranza
del fanciullo, non - di tanto gli giovavano gli istinti e gli
insegnamenti raccolti - al papato o alla monarchia, ma a Pio IX e a
Carlo Alberto. Intanto i moderati s'insignorivano del potere e si
collocavano a capo dell'alte sfere sociali.
Se non che non si viola impunemente la logica; ogni errore porge
origine a una serie d'inevitabili conseguenze. Ogni menzogna
proferita e accettata genera un grado d'immoralità che logora a un
tempo vigore e virtù nel core della nazione. E temo che la
conseguenza più grave della supremazia assunta dai moderati sarà pur
troppo uno strato di nuova immoralità sovrapposto ai molti che la
tirannide e la paura e il gesuitismo e il materialismo congiunti
hanno steso d'antico intorno al core d'Italia.
Una profonda immoralità è infatti radice a tutte le teoriche e al
metodo dei moderati. L'eterno vero è da essi perennemente
sagrificato alla misera realtà d'un breve periodo; l'avvenire al
presente; il culto dei principî all'utile presunto della giornata;
Dio all'idolo subitamente inalzato dalla forza, dall'egoismo o dalla
paura. Le forti credenze, i forti affetti, i forti sdegni non
allignano in quelle anime fiacche, arrendevoli, tentennanti fra
Machiavelli e Lojola, mute a ogni vasto concetto, vuote d'ogni
profonda dottrina, abborrenti dalla via diritta, impastate di
ripieghi, di transazioni, di finzioni, d'ipocrisia. Noi li udimmo, i
capi della fazione, a dirci, colle stesse labbra che paragonavano
nei loro congressi a Giove Olimpico il re di Napoli e dichiaravano
miracolo il re di Piemonte e redentore novello Pio IX: è necessità
dei tempi, ma in sostanza lavoriamo per voi. Li vedemmo insolenti
col debole, striscianti in terrore davanti al potente; stringere or
col popolo ora collo straniero, a propiziarsi l'uno e l'altro, patti
che intendevano di non mantenere; dichiararsi riverenti al papa pur
cercando modo di scavargli la fossa; professarsi alleati devoti del
Bonaparte che abborrono come abborre chi soggiace e per sentita
viltà; cospirare a un tempo, per prepararsi la via a due ipotesi,
con Garibaldi e contro Garibaldi. Nè dico che a tutti fosse o sia
sprone su queste vie tortuose e indegne degli educatori d'un popolo
il basso desiderio di meritarsi una nomina di senatore o di
consigliere di Stato. Parecchi tra loro vissero o vivono
indipendenti. Ma la mancanza d'un concetto religioso e quindi
l'intormentimento del senso morale, il torpore delle(50) facoltà
lasciate alla sola sterile analisi e l'interna anarchia delle idee
senza base determinata, senza fede d'intento, hanno pervertito in
essi intelletto e cuore e li commettono agli impulsi sconnessi che
vengono ad essi di giorno in giorno dai casi, dai menomi fatti o
dalle apparenze di fatti. Quando Salvagnoli diceva a Brofferio:
bisogna tirare innanzi come si può e del resto colla verità non si
governa, ei sommava in sè la teorica di tutto il partito. Quando i
moderati acclamavano a Gioberti come al primo pensatore e al più
potente filosofo che avesse l'Italia, preparavano ai posteri la
giusta misura della loro mente e dell'ideale filosofico che
veneravano.
No; Gioberti, il gran sacerdote della setta, non era filosofo; e
l'essere egli stato generalmente riconosciuto siccome tale
dimostrerà a quali poveri termini fossero ridotti in Italia gli
studî filosofici. La filosofia è una affermazione dell'individualità
fra una sintesi religiosa che cade e un'altra che sorge: è una
coscienza del mondo presente illuminata dai raggi d'un mondo futuro:
è un criterio determinato di vero fondato sulla universale
tradizione del passato e tendente con un metodo egualmente
determinato a indagar l'avvenire. Gioberti non ebbe vero intelletto
di tradizione nè intuizione - oggi nessuno vorrà negarlo -
dell'epoca che va maturandosi. L'uomo che esordì dalle dottrine di
Giordano Bruno per sommergersi in un concetto neo-guelfo di primato
italiano per mezzo del papato - che salutò d'entusiasmo la formola
Dio e Popolo per rinnegarla poi a profitto d'un cattolicesimo
rintonacato - che dopo d'avere fulminato dall'altezza d'una
coscienza filosofica gli artifici del gesuitismo, li adottò cardine
de' suoi disegni, appena entrato sull'arena della politica pratica -
che viaggiò di città in città, pellegrino crociato d'una monarchia
da lui sprezzata, adulando a ciascuna da Pontremoli a Milano come a
prima città d'Italia - che diceva a me nel 1847 in Parigi: io so che
differiamo in fatto di religione; ma Dio buono! il mio cattolicesimo
è tanto elastico che potete inserirvi ciò che volete - non fu nè
filosofo nè credente. Ingegno facile, rapido, trasmutabile, fornito
d'una erudizione copiosa ma di seconda mano e non derivata dalle
sorgenti, capace d'eloquenza, ma di parole più che di cose, fervido
d'imaginazione più che di core, non ambizioso nè cupido di potere o
d'agi ma vano e irritabile e intollerante d'ogni opposizione,
Gioberti soggiacque per impazienza di successo e per indole
naturalmente obbiettiva agli impulsi esterni, agli avvenimenti che
si sottentravano e v'accomodò, scendendo dalle serene-immutate
regioni della filosofia, le sue facoltà. Non diresse, riflesse. E
dacchè il periodo era, come io dissi, guasto d'immoralità, non cercò
di vincerla, vi s'adattò. Ei fu, inconsciamente, con Balbo e
Azeglio, tra i primi corruttori della giovine generazione: mentre
Balbo insegnò la rassegnazione della scuola cattolica e seminò lo
sconforto nelle forze collettive del paese - mentre Azeglio pose in
core alle classi medie della nazione il materialismo veneratore
servile dei fatti e i germi d'un militarismo pericoloso - Gioberti
rivestì di sembianze filosofiche l'immorale dottrina
dell'opportunità e mascherò da idea l'irriverenza alle idee. E fu
primo - biasimo assai più grave - che introducesse nel campo della
libertà l'arme atroce della calunnia politica e l'insana accusa di
settatori dell'Austria contro repubblicani e dissenzienti dal
concetto del regno del nord, dalle fusioni imposte, dalle guerre che
rispettavano il Trentino e Trieste e da ogni idea che non fosse sua.
I fatti del 1848 e del 1849 sono commento alle cose ch'io dico. A me
non tocca or ripetere ciò ch'io accennai di quei fatti nei Cenni e
Documenti della guerra regia e negli altri scritti contenuti in
questo volume e nel seguente. Ma dirò - perchè importa al piccolo
nucleo di repubblicani che si serbarono in quei due anni
incontaminati - come sentissimo, come prevedessimo fin d'allora gli
eventi e quale fosse la norma della nostra condotta.
Fin da quando, gran tempo innanzi al delirio che invase nel 1847 le
menti, si mostrarono, nel mezzogiorno segnatamente, i primi indizî
di tentennamento fra i due principî, io mi diedi a combatterli più
che pubblicamente privatamente, per via di lettere. E ne inserirò
qui a saggio delle molte ch'io scrissi, una ch'io diressi a un
Leopardi, membro del Comitato napoletano, repubblicano nel 1833,
incerto nel 1834 dopo il mal esito del tentativo sulla Savoja,
monarchico dichiarato nel 1848 e autore d'un libro oggi dimenticato
nel quale sono da trovarsi parecchie falsità sul mio conto e su
quello di parte nostra.
«..............Avete fede» - io gli diceva - nei destini d'Italia?
Avete fede nel secolo? V'arde il sacro pensiero di proclamare
l'unità delle famiglie italiane? Avete provato quanto ha di grande,
di solenne, di religioso, il concetto che chiama la generazione del
secolo decimonono a creare una Italia? Volete farla grande e bella
fra tutte le nazioni? Intendete come si tratti per noi d'un'opera
immensa, divina, ove ci riesca di darle la parola dell'epoca nuova,
di cacciarla alla testa d'un periodo di civiltà, di commetterle una
missione che influisca sull'umanità intera? Allora, staccatevi dalle
idee di transazione anche momentanea, anche concepita come gradino
al meglio, e siate repubblicano, repubblicano sin d'oggi apertamente
e credente nella possibilità, nella necessità del trionfo del
simbolo repubblicano. Però che tutte le altre idee sono illusioni,
menzogne della vecchia politica che s'è abbarbicata alle menti.
«Guardate all'Europa. Il suo moto è a repubblica, moto universale
che aumenta ogni giorno, che trascina gli intelletti un tempo più
schivi, fin Chateaubriand, fin Lamennais. La prima rivoluzione
francese, avvenga quando che sia, sarà per necessità repubblicana:
la prima insurrezione germanica, repubblicana per necessità: dacchè
le divisioni politiche e l'assenza d'una famiglia che abbia quanto
basti d'influenza e di virtù per riunirle, escludono il governo
monarchico a quei che vogliono unificare l'Alemagna.
«La Svizzera si regge a repubblica e progredisce verso un nuovo
assetto più popolare e più energicamente concentrato. E voi vorreste
che l'Italia, sorgendo a rivoluzione, gridasse un grido
costituzionale monarchico? Vorreste collocarla in condizioni di
avere rivoluzioni posteriori? Ridurla allo stato della Francia
d'oggi? Porla retrograda fra i popoli che s'affrettano alla meta?
L'Italia si trascinerebbe stentatamente dietro al moto europeo,
quando è destinata a precorrerlo? Il simbolo popolare, dovunque
verrà proferito, darà a quel popolo la palma dell'incivilimento
europeo, e noi, questa palma vogliamo darla all'Italia - e possiamo,
volendo.
«Il simbolo popolare è unico a darle vigore e possibilità di unità.
Create una o più monarchie costituzionali: avrete sancita, educata,
fortificata la divisione in Italia: avrete di necessità creato
un'aristocrazia, elemento indispensabile nel reggimento monarchico
costituzionale: avrete forse gettati i germi d'una guerra civile
tremenda. Perchè non giova illudersi; cacciato un governo
costituzionale nel regno di Napoli, credete voi che il Piemonte e la
Lombardia s'uniscano sotto la bandiera di quel re? No. Le gare, le
invidie sono sopite perchè il simbolo popolare, che s'è affacciato,
non ammette irritabilità d'amor proprio di provincie; ma si
ridesteranno formidabili ogni qual volta si parlerà di monarchia. Il
Piemonte non subirà mai un re napoletano. Napoli non subirà mai un
re piemontese. Avanza dunque una federazione di re italiani. Una
federazione di re non ha esistito, nè esisterà mai.
«Una federazione non è che un passo mosso verso l'unità, e questa è
contraddittoria alla esistenza dinastica dei re. Una lega di re può
esistere - esiste; ma contro ai popoli, contro al moto delle idee,
non a favore della libertà e delle idee progressive. E d'altra
parte, ponete Napoli governata costituzionalmente, come farete
cotesta lega? Pacificamente o colle armi? Pacificamente no certo, nè
alcuno lo crede. Sarebbe portento tale che supererebbe le difficoltà
d'una rivoluzione repubblicana. Colle rivoluzioni non l'avrete mai;
perchè, a cagion d'esempio, l'insurrezione ligure non sarà mai che
repubblicana(51). Abbiatelo - dalle cagioni in fuori che fanno
tendere Genova a separarsi da un re piemontese - come fatto
inevitabile, del quale io starei mallevadore sulla mia testa.
Allora, che farete in Italia? Se ponete anche che le rivoluzioni
strappino ovunque un patto costituzionale ai nostri principi,
poserete voi una confederazione italiana sulla lega dei principi
costituzionali, per violenza esercitata sovr'essi? Faranno lega,
forse; ma per emanciparsi dai popoli - non per altro. Noi vogliamo
non solo mutar le sorti d'Italia, ma rigenerarla; perocchè vogliamo
farne un gran popolo; ed elemento d'un popolo grande è, più che non
si pensa, un popolo schiavo, ma fremente. Gli estremi si toccano.
Nelle grandi scosse i popoli si ritemperano, si consacrano alle
grandi cose. Non così se, invece di chiamarli dal nulla alla
creazione, volete indugiarli in tentativi incerti e graduati. La
monarchia costituzionale è il governo più immorale del mondo;
istituzione corrompitrice essenzialmente, perchè la lotta
organizzata, che forma la vitalità di quel governo, solletica tutte
le passioni individuali alla conquista degli onori e della fortuna
che sola dà adito agli onori. Vedete la Francia! come ridotta in
Parigi! e che indifferenza e che egoismo non la ucciderebbe se non
sorgessero tratto tratto i martiri repubblicani a riconfortarla! Gli
anni della Restaurazione, la commedia dei quindici anni e
l'ipocrisia continua delle lotte d'opposizione parlamentare l'hanno
sfinita, gangrenata, guasta per modo, che se la sua missione
d'incivilimento è finita, se ad un popolo qualunque dà l'animo di
sorgere primo. E dovete paventare più per l'Italia.
«La Francia ha inaugurato il programma dell'èra moderna; la Francia
ha avuto la Costituente e la Convenzione: l'Italia, uscente dal
servaggio per addestrarsi nell'arena costituzionale, avrà da
aggiungere ai vizî del primo i vizî e le corruttele del reggimento
monarchico-misto. Quindi, troncato l'avvenire italiano - troncata,
per un mezzo secolo, la grandezza italiana - troncato, forse per
sempre - io non cesserò mai di ripeterlo a voi caldo e intelligente
italiano - il primato morale italiano sulla civiltà dell'Europa.
Pure, se a fronte d'una quasi impossibilità di sorgere come
vogliamo, si mostrasse una certezza, una speranza fondata di sorgere
come possiamo! Ma noi abbiamo spiato bene addentro il pensiero
dell'Europa monarchica. Abbiamo esplorato tutte le vie di
miglioramento. Non ve n'è una fondata sulle mire dei governi. Siamo
soli, o coi popoli.
«L'Europa è in oggi un campo d'audacia pel partito repubblicano; un
campo d'astuzia pel partito monarchico dove la forza delle cose ha
strappato le concessioni; un campo di ferocia dove il dispotismo
regna sicuro.
«L'Austria e la Russia rappresentano quest'ultimo. La Francia e la
Spagna l'altro.
«L'Inghilterra nulla rappresenta nel sistema europeo. Il principio
motore del governo non è mutato. È l'egoismo nazionale, commerciale
- e non altro. Da Canning in giù, uomo mal noto ai buoni, e che in
più cose gode di fama usurpata, non v'è grado di progresso verso
idee d'equilibrio europeo. V'è una lotta segreta ma vivissima
interna tra l'aristocrazia e il popolo, che assorbe ogni cosa.
L'alleanza colla Francia è nulla, è parola cacciata a illudere i due
popoli - null'altro. Quando il governo inglese ebbe voce che si
tenterebbero reazioni Carliste in Francia, cacciò il partito whig e
spinse il tory. Il nome di Wellington rappresentante il dispotismo
nella sua brutalità militare, fu posto innanzi. Svanite le speranze
dell'assolutismo si tornò alle tendenze di Grey. Ma chiunque conosce
l'Inghilterra, sa come in oggi gli whigs(52), sieno ridotti, come
perdano ogni giorno le forze nella gran contesa che pende tra i
tories e i radicali, e come non possedano più se non quella vita che
si trascina senza concetto di avvenire, senza idee d'iniziativa
Europea, senza possibilità di averle e praticarle. L'Inghilterra non
è, nè sarà mai alla testa di una propaganda qualunque. Essa
riconosce i fatti: riconosce la regina in Ispagna: riconosce D.
Pedro, perchè tende da secoli a farsi del Portogallo una specie di
colonia commerciale: riconoscerebbe noi, ove insorgessimo vigorosi.
- Ma, nè un uomo, nè un obolo dal governo per un punto ch'esso non
desideri far suo direttamente o indirettamente - siatene certo.
«La Spagna non è ora a porsi in calcolo per un appoggio, come non è
per un ostacolo ai progetti dei popoli. Il governo, intravedendo una
insurrezione, ha transatto; ma, nè buona fede al di dentro, nè
influenza vera al di fuori. -
«La Francia? - Luigi Filippo è collocato in un bivio. Il partito
repubblicano minaccia cacciarlo; le potenze del Nord minacciano
cacciarlo. La guerra, da qualunque parte venga, gli è mortale, ed
egli lo sa. La guerra trae seco infallibile - alla prima vittoria
come alla prima disfatta - il trionfo repubblicano. L'ira del popolo
nel secondo caso, le sole promozioni nel primo, bastano a rovinarlo,
perchè l'esercito, nella bassa ufficialità, gli è minato. Il re, il
governo non ha partito alcuno: partito di Luigi Filippo in Francia
non esiste: esiste un partito di ciò che è, dello stato-quo; un
partito della pace a ogni prezzo fondato sugli interessi immediati.
Togliete la pace, togliete l'unica speranza di quel partito che
chiamano juste-milieu, la rivoluzione è compiuta. Per questo il
governo ha evitato la guerra quando, due o tre volte, tutta l'Europa
la gridava inevitabile. Noi dicemmo il contrario sempre, perchè
nessun governo si suicida(53). Per questo Luigi Filippo ha
sacrificato, nel 30 la Spagna, nel 31 l'Italia, poi la Polonia - a
malgrado delle promesse solenni. Per questo egli ha obbedito agli
ordini del Nord, che gl'imposero di vietare le associazioni. Per
questo ei s'è fatto capo, ora di fresco, della crociata diretta dai
governi contro i proscritti, temuti perchè repubblicani e tutte le
arti sue tendono a cacciarli in America. Per questo egli ha
avvertito sempre i governi di ciò che si tramava contr'essi, ogni
qualvolta gli venne fatto di risaperne come all'epoca del tentativo
di Francoforte. Per questo metterà sempre tutti gli ostacoli che per
lui si possono a qualunque moto italiano, perchè moto italiano e
guerra sono sinonimi. V'è tal cumulo di fatti oggimai sul conto di
Luigi Filippo, che il travedere intenzioni di progresso in lui è un
ostinarsi ne' sogni. Bensì la Francia lo inceppa, il fremito delle
nazioni lo inceppa; e però, mentre i re del Nord stanno Attila della
tirannide, a lui è stata affidata una parte ipocrita. Luigi Filippo
è il Tartuffo della santa lega. A lui è stato commesso il differire
i moti, che gli altri si riserbano di spegnere dov'ei non riesca.
Quindi le voci di leghe e di speranza cacciate a caso, onde i popoli
seguano e si ritengano nell'aspettativa e nell'inerzia. Sogni che
sviano dal lavoro e dalle vere terribili cospirazioni - inganni tesi
per la millesima volta ai cospiratori di tutti i paesi, senza che
questi rinsaviscano mai. Quei progetti che vi seducono gli furono
affacciati, non da noi direttamente, chè abbiamo cacciato il guanto
e lo manteniamo, ma da gente inspirata da noi e che doveva servirci
di esploratrice - affacciati, nel 31, al segno di proporre un re
d'Italia che gli fosse figlio: affacciati in altra forma
risguardante l'Italia centrale, al tempo dell'occupazione di Ancona
- affacciati poco prima della spedizione di Savoja, e ogni volta che
si venne alle strette, un ritrarsi è un tradire. Abbiamo prove
materiali della politica che qui vi accenno.
«E perch'ei lo sa, perch'ei sa che in lui non avremo fiducia mai,
che da noi egli non ha speranza nè di rivelazione nè d'altro,
intende a cacciarci in America. E prima che ciò avvenga, potrebbe
accadergli ciò che gli troncasse a mezzo la via. Ma per somma
disavventura, vi sono, a Parigi specialmente, uomini illusi che
vorrebbero ostinarsi a fidare, e vi sono altri a' quali è principio
opporsi ad ogni tentativo che non venga da Parigi, e che, non
sapendo il come, tentano illudere i nostri concittadini a sperare in
progetti, de' quali Luigi Filippo e i suoi agenti ridono di
soppiatto. Il nostro Pepe è fra quelli ed alcuni de' nostri e molti
dell'Italia centrale. Ma quali? Membri di governi provvisorî, che
tradirono la causa italiana alla illusione del non intervento, e non
possono in oggi condannarsi da sè, però insistono su quelle miserie.
Uomini d'una fratellanza che s'intitola de' Veri Italiani, diretta
sotterraneamente da quella stessa alta vendita che noi abbiamo
denunciata, perchè è rovina alla causa, e che, prefiggendosi
apparentemente gli stessi principî che noi predichiamo, va pure
stillando negli animi la massima che nessun moto è da tentarsi, che
l'Italia è impotente a reggersi insorta, che dalla sola Francia può
partire il segnale. - E guai se coteste massime filtrano negli
Italiani! Guai se i buoni, come siamo noi e siete voi, non le
contrastano a viso aperto!
«Riflettete. Il partito dell'Austria, e però delle potenze del Nord,
è preso: guerra, guerra inevitabile a qualunque progresso italiano,
perchè qualunque progresso è mortale all'Austria; guerra, ne segua
che può. E quando essa vide il pericolo non si arretrò nè davanti a
patti di non intervento, nè a minaccie nè ad altro. Volete ch'essa
si rassegni a morire? A morire vilmente? Essa avventurerà la vita
per tentare la vittoria, anzichè rimanersi spettatrice inerte de'
nostri progressi. La guerra coll'Austriaco noi non possiamo evitarla
mai, sia che moviamo a gradi, sia che ci lanciamo d'un balzo
all'ultimo della carriera. La speranza di evitare questa guerra è la
causa che ha perduto tutte le nostre rivoluzioni. L'avere posto i re
a direttori dell'impresa italiana ci ha tratto in fondo fino ad
oggi. Perdio! Ricadremo ne' vecchi errori? Attraverso tanto sangue
di martiri sparso per questa Italia che vogliamo liberare, torneremo
ancora una volta al punto d'onde partimmo?
«Torneremo nel 1834, al 1821?
«Io non vi ho parlato di principî perchè in politica l'unica
vertenza che può esistere fra gente come noi siamo non può posare
che sulla questione di fatto, di possibilità o d'impossibilità, ma
pure è necessario ch'io il dica; è necessario che sappiate a che
attenervi circa alle intenzioni della Giovine Italia. Nulla è mutato
alle sue leggi, al suo scopo, ai mezzi ch'essa intende di scegliere
e di porre in opera. Però essa insiste ed insisterà nel suo grido
repubblicano, essa rifiuterà qualunque transazione s'offrisse: essa
crede alla potenza di rigenerarsi in Italia, alla possibilità della
iniziativa italiana in Europa, al dovere di ogni buon Italiano di
promuoverla con ogni mezzo. L'impresa è grande, ma per questo è
italiana. Per questo io v'invito a promuoverla. Non vi sviate per
quanto v'è di più sacro, dietro a speranze chimeriche: queste
speranze le abbiamo nutrite un giorno noi pure: poi una accurata
disamina e un addentrarci più sempre nel segreto delle Corti
alleate, e un'intima conoscenza delle molle che pongono in gioco
queste voci di transazione, ci hanno convinti che nulla v'ha da
sperare se non nell'armi, nel popolo e nei popoli. Come intendiamo
adoperar queste forze vi dirò domani in un'altra mia alla quale io
vi pregherò di risposta.
«Dio voglia, per l'Italia e per noi, ch'essa sia quale io la invoco
e la spero.
«Ho scritto a voi; ma, come bene intendete, per tutti i buoni che
sono con voi e che vi prego d'abbracciare per me.
«Siatemi fratelli, e innanzi.»
Quella lettera fu scritta nel 1834. Tredici anni dopo, quando
l'entusiasmo per Pio IX toccava i limiti della follìa e Montanelli -
anima buona, ma debole e affascinata successivamente dalla Giovine
Italia, dai sansimoniani, dai neo-cattolici, da Gioberti, da tutti e
da tutto - mi scriveva cose mirabili intorno alla trasformazione del
papato e all'accordo del dogma cattolico coi progressi dello spirito
umano, insistendo perch'io parlassi da convertito o tacessi, io
rispondeva il 16 luglio 1847: «.....Nell'impossibilità di ricreare
la fede in un dogma oggi essenzialmente in cozzo coi progressi
irrevocabili dell'intelletto spinto a nuovi mondi da Dio padre ed
educatore, voi vi troverete colla nuda e sola morale; e io so che
nessuna morale può durare feconda di vita nell'umanità senza un
cielo e un dogma che la sopportino......... Lascio al tempo la
verificazione dei miei presagi, e s'io vedrò la vita dell'umanità
rinnovarsi nella vostra credenza, io mi prostrerò riverente agli
altari dei nostri padri.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.
«Andreste errato di molto se credeste me e quelli che stanno con me
intolleranti, esclusivi adoratori dei principî democratici
repubblicani e trattenuti per quelli dall'unirci a voi. L'avvenire
democratico repubblicano, non al modo degli Stati Uniti ma ben altro
e ben altrimenti religioso e derivante dall'autorità bene intesa,
m'apparisce così inevitabile, così connesso col disegno
provvidenziale che si manifesta nella progressione storica
dell'umanità, ch'io non sento bisogno alcuno d'essere
intollerante...... Se oggi dunque la maggioranza buona della nazione
s'accentrasse intorno a un papa o a un re e lo gridasse iniziatore
de' suoi destini e questo papa o questo re li iniziasse davvero, io
primo dimenticherei che questo re m'ha rapito il mio primo e
migliore amico, che questo papa rappresenta essenzialmente una
credenza o per meglio dire un ricordo d'autorità contro la quale
tutta l'anima mia si ribella; e accetterei la bandiera ch'egli
m'offrisse e darei quel che m'avanzasse di vita e di sangue e
persuaderei gli amici miei a far lo stesso....... Bensì, dov'è essa
questa bandiera intorno alla quale vorreste avermi? Io non conosco
che una sola bandiera, quella della nazione, quella dell'unità. Io
vi sacrificherei per un tempo, tutte(54) l'altre parole che vorrei
scritte sul vostro vessillo; ma quell'una no. E mi parrebbe di
tradire Dio, la patria e l'anima mia.......
«Non so se voi conosciate il papa, se ne abbiate quindi potuto
ottenere nel colloquio privato quella fede ch'io non potrei trarre
se non dai fatti. A me i fatti sinora non rivelano che il buon uomo,
il principe che tra per le necessità dei tempi più minacciosi ne'
suoi Stati che non altrove, tra per la bontà del cuore, ha dovuto
vedere se amministrando un po' meglio, con un po' più di tolleranza,
con un po' più d'amore, le condizioni de' suoi sudditi, non si
potrebbe imporre fine ai tumulti, alle congiure, alle insurrezioni
fatte ormai permanenti. Dati i primi passi, gli applausi poco
dignitosi degli uni, le esagerazioni, ipocrite nei più,
d'entusiasmo..... gli hanno fatto legge di durare nella benevolenza,
nelle parole della gratitudine e della fiducia. Più in là non vedo
per quanto io mi faccia...... Ho taciuto sempre per non essere
accusato di nuocere a progetti ignoti e ho studiati attentamente gli
atti, le parole del papa e degli scrittori moderati. Per questi
ultimi ho spesso arrossito; ma nel papa, io lo ripeto, non ho potuto
vedere che l'uomo buono, senza una fede, tentennante fra l'Austria e
le proprie tendenze, senza una sola delle intenzioni italiane
ch'altri ha voluto vedere ne' suoi primi atti. S'io m'inganno, il
primo fatto che mi smentirà mi troverà pronto a ravvedermi. Ma fino
a quel fatto, dov'è la bandiera di Pio IX? Dov'è la bandiera
italiana senza la quale io non intendo unione possibile ed efficace?
Io invecchio e non posso facilmente farmi entusiasta di sogni e di
sogni, dato che tali fossero, pericolosi.......
«Non approvo la strategìa che m'indicate in poche linee, ma prima di
dirvi il perchè, vorrei farvi intendere che il mio non approvarla
non parte da spirito di liberalismo cospiratore. La cospirazione non
è per me un principio, è un tristissimo fatto, un derivato d'una
condizione di cose che la rende indispensabile. Tutte le mie
tendenze individuali stanno per la pubblicità e voi dovreste farmi
giustizia e ricordare che lasciandomi spesso tacciare di imprudenza,
ho aggiunto fino dalle prime mosse la pubblicità al lavoro segreto;
che la Giovine Italia si mise subito in aperto contrasto colla
vecchia Carboneria fissa a voler procedere in tutto e per tutto
nell'ombra; che da noi si fece segretamente quello che non poteva
farsi pubblicamente, ma che inalzammo una bandiera e ci cacciammo a
tenerla levata a viso aperto e come predicatori di principî. Se v'è
chi m'apra una via di predicare unità di nazione in Italia, io lo
benedirò e verrò immediatamente in Italia. Ma qualunque predicazione
non abbia quel nome, quel vocabolo a principio e fine, tornerà,
temo, non solamente inutile ma dannosa. Io non posso accettare la
strategìa che mi proponete perchè non può condurre a quel fine; può
condurre a conquistare qualche miglioramento amministrativo, qualche
concessione, qualche riforma di codici; può condurre, se pur volete,
a conquistare una porzioncella omiopatica di libertà a ciascuno dei
molti Stati in cui siamo divisi, non già a riunirli, a farne
nazione: può condurre, se vi ci concentriamo tutti, a sviare gli
animi dalla meta, a persuadere le popolazioni italiane che possono
migliorare le loro condizioni sotto gli attuali governi, a dare
sfogo all'attività concentrata dei giovani che un giorno avrebbe
prodotto l'esplosione nazionale, a cacciare nuovi germi di divisioni
federalistiche, a creare vanità locali, a generare spirito di
machiavellismo e di tattica dove abbiamo bisogno di fede, sincerità
e virtù vera.....
«Mentr'io m'era deciso di tacere, sento ormai dovere di parlare e
parlerò fra non molto. Non parlerò esclusivo come parmi temiate;
parlerò d'Italia e d'unità nazionale, perchè i più fra i vostri la
pongono in dimenticanza; e mentre voi continuerete a giovarvi delle
occasioni che, non l'amore ma la debolezza dei governi vi porge, per
spingere innanzi le popolazioni assonnate e divise, io procurerò di
tenere alzata la santa bandiera, sì che, sospinte, sappiano a che
fine dirigersi: dirigersi, badate, quanto lentamente casi e tempi
vorranno - la nostra non è questione di tempo - ma dirigersi
continuamente a quell'unico intento che le moltitudini potrebbero
facilmente dimenticare per adagiarsi nel letto di rose dei
miglioramenti materiali e amministrativi: - soli che voi, seguendo
il metodo attuale, possiate ottenere e precariamente...»
E più dopo ancora, il 3 gennajo 1848, io scriveva a Filippo de Boni:
«..........Non so con quale occhio vediate ora l'andamento delle
cose nostre; ma due fatti son certi: il retrocedere del papa e il
pessimo maneggio dei moderati. Abbiamo taciuto: ceduto quanto si
poteva; ma non giova. Il silenzio è interpretato come congiura, e
sapete che vanno ripetendo per ogni dove ch'io sto maneggiando per
un moto repubblicano immediato! Perduto il papa, impazziscono pel
primo capitano d'Italia, l'eroe del Trocadero: perduto quello,
impazziranno pel Granduca; più tardi Dio sa per chi. Che sperare per
la rigenerazione d'Italia da un partito che grida viva il re di
Napoli dopo le atrocità di Messina e di Reggio e stende petizioni a
quel re imbrattato di sangue? da un partito che predicò nel
Risorgimento l'unità d'Italia essere assurda, illegale, funesta? da
un partito che ne' suoi giornali comincia a transigere
coll'Austriaco e insinua che anche lo Stato del Lombardo-Veneto
migliorerà? da un partito ch'è una menzogna in faccia a sè stesso,
che si dichiara, in molti de' suoi membri, unitario e nondimeno
imprende a educare, terrorizzando, il popolo all'eccellenza del
federalismo, salvo, come dicevano in un convegno tenuto in Genova
per la Lega, a educarlo più tardi alla eccellenza dell'unità?
Coscienza di scrittori e d'apostoli.
«Mentr'io vi scriveva, giunge la vostra; e sospendo la mia tirade
contro i moderati, dacchè vedo che consentiamo...... Dal vostro
silenzio argomento che, voi non avete ricevuto la mia Lettera al
papa, ch'egli ebbe in settembre e ch'io ho consentito si stampasse
perchè mi pare che da un lato possa far sentire vieppiù il contrasto
fra' suoi doveri e la sua attuale condotta, e che dall'altro
mantenga saldo il nostro principio dell'unità.
«.........Con tutta l'avversione ch'io ho a Carlo Alberto, carnefice
dei migliori miei amici, con tutto il disprezzo che sento per la sua
fiacca e codarda natura, con tutte le tendenze popolari che mi
fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da tanto da essere
veramente ambizioso e unificar l'Italia a suo pro, direi amen.
«Ma ei sarà sempre un re della Lega; e l'attitudine militare ch'ei
prenderà, se la prenderà non farà che impaurir l'Austria e ritenerla
forse nei suoi confini, che i re della Lega rispetteranno; e questo
è il peggio.
«..........Vidi il nome vostro fra i collaboratori della Concordia.
Vorrei foste scelto a dirigere quel giornale. Valerio è una delle
migliori anime ch'io mi conosca in Torino; ma minaccia da molto di
cadere in quella politica sentimentale creata da taluno fra i
neo-cattolici, che perdona tutto, spera tutto da tutti, abbraccia
re, popoli, federalisti, unitari, e intende che la risurrezione
d'Italia si compia in Arcadia. Il titolo stesso è arcadico.
Concordia? Tra chi?......»
Tra questa lettera e l'altra indirizzata a Montanelli io scrissi la
lettera a Pio IX contenuta in questa edizione. Quello scritto mi fu
apposto da uomini deliberati di trovare a ridire quasi deviazione
politica e prova a ogni modo di credulità nelle intenzioni del papa.
I critici o non lessero o non capirono, per ansia di cogliermi in
fallo, la mia lettera. Le forme adottate furono quelle senza le
quali, nell'Italia, allora tutta farneticante, non un uomo l'avrebbe
letta. Ma la sostanza diceva a Pio IX: «Albeggia un'epoca nuova: una
nuova fede deve sottentrare all'antica: questa nuova fede non
accetterà interpreti privilegiati fra il popolo e Dio. Se volete,
giovandovi dell'entusiasmo ch'or vi circonda collocarvi a iniziatore
di quell'epoca, di quella fede, scendete dal seggio papale e movete
apostolo del Vero tra le turbe come Pietro Eremita predicatore della
crociata. Il popolo vi saluterà capo e fonderà in Italia uno Stato
che cancellando l'atea formola: sia dato l'uomo interno alla Legge e
all'Amore, l'esterno alla Forza; adorerà l'altra: l'uomo interno e
l'esterno, l'anima e il corpo son uno: una è la legge che deve
dirigerli» - e diceva agli italiani: «È necessario che Pio IX sia
tale, s'ei deve rigenerarvi e crear l'Italia: or lo credete da
tanto?»
Se quella lettera non fu intesa allora a quel modo da una gente che
delirava, non è colpa mia. Ma quei che dopo aver delirato e più
volte cogli altri s'atteggiano oggi a critici puritani del mio
passato, sono fanciulli davvero e non meritano ch'io mi dilunghi a
confutare le loro accuse.
Sei mesi dopo ch'egli aveva avuta la mia lettera Pio IX dava,
coll'enciclica del 19 aprile 1848, una solenne smentita alle
adorazioni dei neo-guelfi e ai sogni dei moderati. Se non che ad
anime siffatte tornava facile ogni cosa fuorchè il rinsavire. I
neo-guelfi si tramutarono in ghibellini; i moderati, che avevano
dissertato a provare la sola via di salvar l'Italia esser nel
congiungimento del pastorale colla spada, dissertarono a provare che
la spada d'Italia bastava. Nel marzo intanto quella spada, che potea
salvare davvero l'Italia, era stata snudata dal popolo nel
Lombardo-Veneto e poco prima in Sicilia. E il primo suo lampeggiare
in Sicilia aveva convertito i principi agli ordini costituzionali e
ottenuto in un subito più assai che non avevano ottenuto le tattiche
adulatrici di tutto un anno: il secondo in Milano aveva sgominato un
esercito creduto fin allora invincibile e affrancato quasi dal
nemico straniero il suolo d'Italia. La vera forza era dunque
visibilmente nel popolo. Bastava intenderlo: bastava dire al popolo:
prosegui, l'impresa è tua - ai principi: alleati tutti, padroni
nessuno - ai principi, al popolo, all'Europa: vogliamo essere uniti,
liberi, forti: vinta la guerra dell'indipendenza, l'Assemblea
nazionale deciderà in Roma degli ordini coi quali dovrà reggersi
l'Italia - perchè l'impresa si compisse in guisa degna di noi. Un
governo d'insurrezione e di guerra - e il nucleo di quel governo
esisteva nella commissione delle Cinque giornate - che avesse
affratellato in sè l'elemento lombardo col veneto e chiamato
qualch'altro dalla Sicilia e d'altrove, avrebbe, col programma
accennato, unificato fin d'allora l'Italia.
Se non che i moderati dai quali l'insurrezione lombarda era stata
fino all'ultimo giorno avversata come impossibile - che avevano,
richiesti, spronati dai nostri, contribuito fra tutti d'una misera
somma di settemila lire italiane alla lunga agitazione anteriore - e
che avevano invariabilmente alternato fra i tentativi di
conciliazione coll'Austria e gli inutili maneggi segreti colla
monarchia piemontese - s'impossessarono del moto appena lo videro
trionfante; gli uomini della commissione delle Cinque giornate
abbandonarono, per disdegnosa noncuranza, il potere a un governo
provvisorio che disprezzavano - e i giovani che avevano antiveduto,
preparato, capitanato sulle barricate il moto del popolo, inesperti,
soverchiamente modesti e paghi dei gloriosi fatti compiti, si
ritrassero dall'arena quando importava tenerla.
Quei giovani erano nostri. Nostri, esciti pressochè tutti dalla
Giovine Italia, amici miei e in contatto con me, erano Mora,
Burdini, Romolo Griffini, il povero Pezzotti, Carlo Clerici, De
Luigi, Ercole Porro, Daverio, Bachi, Ceroni, Antonio Negri, Bonetti,
Pietro Maestri e gli altri che avevano, stretti a nucleo e
consigliandosi talora con Carlo Cattaneo, educato il popolo
all'abborrimento dello straniero, diffuso scritti popolari,
predicate le idee, insegnato ai giovani la coscienza della propria
forza, ispirata e diretta l'agitazione progressiva che affratellò le
moltitudini nel concetto e deliberato il moto quando giunse la nuova
delle concessioni imperiali: nostri e giova or dirlo e nominarli,
dacchè nessuno lo disse o li nominò. Al nucleo di quei giovani
repubblicani appartenevano Emilio Visconti Venosta oggi ministro e
un Cesare Correnti, spettabile per ingegno ma appestato di
scetticismo e senza fede ne' principii, della cui rovina m'occorrerà
tra non molto dar cenno.
Taluno fra quei buoni si lasciò, poco prima del moto, sedurre dal
raggiro monarchico e scese, a insaputa del nucleo, a patti coi
faccendieri torinesi che mentivano quando promettevano ajuti ma che
presentivano possibile l'insurrezione e miravano a impadronirsene.
Errarono tutti - e lo noto perchè l'errore si ripete generalmente
nelle insurrezioni e le svia - affaccendandosi a prestabilire un
governo. Il governo d'una insurrezione deve sorgere
dall'insurrezione stessa; tra i più arditi e a un tempo avveduti a
guidare il popolo nella lotta. Scegliendolo prima, la scelta cade
inevitabilmente sovr'uomini stimati influenti per uffici anteriori o
ricchezza o tradizioni di famiglia, buoni forse, ma che non avendo
il segreto dei santi sdegni e delle sante audacie del popolo, non
hanno fiducia in esso nè intelletto d'iniziativa rivoluzionaria nè
coscienza del fine cercato dall'insurrezione e tradiscono, sovente
inconsci, il mandato per ignoranza o paura. Noi vedemmo nell'ultimo
mezzo secolo insurrezioni repubblicane date al governo d'uomini
d'opposizione monarchica - insurrezioni contro il dominio straniero
fidate a individui che avevano patteggiato con esso accettandone
incarichi pubblici - insurrezioni preparate e iniziate, come in
Polonia, dall'elemento democratico, cedute all'influenza di principi
e aristocrazie, consumarsi miseramente in un cerchio di transazioni
che senza fruttare un solo ajuto reale dai governi, incepparono,
limitarono, spensero l'energia popolare e l'entusiasmo delle nazioni
sorelle. In Lombardia - dacchè per inopportuna modestia, fiacchezza
o noncuranza colpevole, i promotori dell'insurrezione si ritrassero
dal dirigerne lo sviluppo - il governo fu dato a uomini inetti come
Casati, aristocratici come Borromeo, raggiratori come Durini: anime
di cortigiani che non potevano vivere senza padrone e cacciarono
popolo, libertà, avvenire d'Italia e ogni cosa, senz'ombra di patti
a' piedi di Carlo Alberto.
Quand'io giunsi in Italia, era tardi per ogni rimedio. I moderati
guidavano dominatori: gli altri seguivano ciechi: il popolo, tra il
quale avevano diffuso le più atroci calunnie a danno dei
repubblicani, fidava illimitatamente nel re.
Due partiti s'affacciavano a un uomo della mia fede.
Ritrarsi; e come Trasea escì, ravvolta la testa nel manto, da un
senato corrotto e tremante, allontanarsi da una terra dimentica dei
principii e condannata a rovina: ricalcare le vie dell'esilio e
dall'esiglio tenere levata in alto la bandiera repubblicana: non
guardare a tempi nè ad uomini e dir tutta la verità, inascoltato,
maledetto dai vivi, perchè i posteri la ricevessero un giorno e
ammirassero chi non l'aveva taciuta mai: - ed era partito al quale
tutte le sdegnose tendenze dell'animo mio mi spronavano.
Rassegnarsi all'onnipotenza dei fatti e tentare lentamente di
modificarli tanto da trarne un grado di progresso verso non
foss'altro un dei termini del problema, l'unità: non separarsi dai
proprî fratelli perchè sviati: non interrompere, collocandosi in una
sfera per allora inaccessibile ad essi, la tradizione emancipatrice
iniziata: confutare colla pazienza dell'onesto e colla mesta
riverenza alla volontà del paese le accuse d'intolleranza, di
spiriti esclusivi e dittatoriali, versate sui repubblicani: tacere,
senza apostasia, parte del vero perchè l'altra possibilmente
prevalesse; percorrere col popolo e senza illusione la via crucis
delle delusioni onde conquistare il diritto di dirgli un giorno: io
era teco: ricordati; insegnare a ogni modo l'amore, e il dovere
perpetuo del sagrificio, anche della fama, e non del vero ma d'ogni
orgoglio del vero, a pro di chi s'ama.
E mi scelsi quest'uno.
Taluni, molt'anni dopo - Giuseppe Sirtori unico allora - mi
rimproverarono quella scelta. A Giuseppe Sirtori fondatore nel marzo
del 1848 in Milano d'una società democratica e che, partendo per
Venezia, mi scrisse ch'io disertava, non m'occorre rispondere: egli
è oggi generale di re e credente nella onnipotenza del regio
statuto; io sono tuttavia esule e repubblicano. Ma agli altri,
fratelli miei di credenza, dirò ch'io ho ripensato sovente a quel
periodo della mia vita con profonda tristezza, ma senz'ombra di
rimorso. Noi eravamo fatti, quand'io giunsi in Italia,
impercettibile minoranza. Il popolo non era - nè sarà mai in Italia
monarchico; ma era ciò che oggi chiamano opportunista: vedeva una
forza ordinata, un esercito d'italiani presto a combattere contro
l'abborrito straniero e, a quanto gli predicavano uomini tenuti fino
a quell'ora da esso in conto di apostoli della libertà, unica sua
salute: quell'esercito era capitanato da un re; le acclamazioni
salutavano quindi liberatori, esercito e re. Sul compirsi della
quinta giornata, quando il popolo, ebbro di vittoria, era solo
sull'arena, la parola repubblica avrebbe potuto proferirsi:
nell'aprile avrebbe suscitato, e senza pro, la pessima fra tutte
guerre, la guerra civile. D'altra parte, perchè parlare a ogni
tratto di sovranità popolare, di riverenza alla volontà del paese, e
tenerle in niun conto non sì tosto si pronunziassero in modo diverso
dal desiderio? Non toccava a noi repubblicani più che ad altri
educare gli animi, salva la missione di modificare le idee
coll'apostolato, al dovere di non violarle colla forza? Il diritto
d'iniziativa era in noi quando, schiavo universalmente il nostro
popolo, noi dovevamo, noi soli potevamo aprire la via: desto e
libero il popolo, non avevamo diritto fuorchè di consiglio, di voto,
o d'azione in virtù d'un mandato affidatoci. E quanto al ritrarci
nell'isolamento per poter dire tutto il vero, pareva a me tentazione
dell'io inconsciamente geloso più di sè stesso, della propria
dignità o del proprio atteggiarsi pei posteri, che non del fine da
raggiungersi e della patria, traviata, inferma, ingannata, pur
sempre patria, cara e sacra pel passato e per l'avvenire. Rousseau
poteva vivere solitario e dire senza reticenze quanto parevagli
vero, perch'ei non tentava nè presentiva la Rivoluzione imminente
nella sfera dei fatti; ma per noi, per me, la Rivoluzione era
iniziata: egli era uomo di pensiero soltanto, noi di pensiero e
d'azione. E se avevamo una missione speciale, era quella appunto di
tradurre sempre - come e quanto concedevano le circostanze - il
pensiero in fatti: se un insegnamento poteva escire dalla nostra
vita era quello di non separarsi mai dalle sorti della nostra terra,
di dividere tutti i palpiti della sua vita, di menomarne i mali o
tentarlo quando non potevamo distruggerli, di conquistarle un grado
d'educazione, una frazione dell'ideale, quando l'ideale stesso era -
per colpe non nostre - impossibile.
Praticamente io antivedeva la rovina della guerra regia: ma una
speranza m'accarezzava l'anima sconfortata; e quella speranza avea
nome Venezia. Su Venezia sventolava la bandiera repubblicana. Quando
l'imbecillità e il tradimento avrebbero consumato l'opera loro nella
Lombardia, gli occhi di tutti, liberi di false visioni, si sarebbero
rivolti a quella bandiera. Da Venezia, fatta centro di resistenza e
guida, avrebbe potuto risorgere la guerra del popolo. Per questa
idea ch'io taceva, io avviava la legione Antonini a Venezia: per
questa io consigliava a Garibaldi, reduce da Montevideo, di
recarvisi a porre se e il suo nucleo di prodi a' cenni del governo
veneto: per questa tentai più dopo di concentrarvi i Polacchi
condotti dal poeta Mickiewicz. Se non che l'imbecillità e il
tradimento dovevano distruggere, consumando l'opera loro in Milano,
ogni possibilità d'una nuova chiamata alla Lombardia.
Ho nominato la legione Antonini. E la seguente lettera ch'io
indirizzai a Lorenzo Valerio, direttore della Concordia, giornale
torinese, ricorderà come i moderati d'allora intendessero in modo
non dissimile da quei d'oggi l'unione dei partiti e come
incoraggiassero i nostri sforzi.
«Signore. - In alcune linee inserite nel vostro numero del 25 aprile
è parlato della banda d'operai male intenzionati provenienti di
Francia e scesi, credo, il dì dopo in Genova, per avviarsi qui dove
si combatte la guerra dell'indipendenza. La banda male intenzionata
è una legione d'Italiani che all'annunzio ricevuto in terra
straniera dell'insurrezione lombarda decisero raggiungere in ogni
modo i combattenti la guerra santa. Il danaro indispensabile per la
mobilizzazione del corpo fu raccolto dall'Associazione nazionale
italiana alla quale io presiedo; e il cui programma ripubblicato da
più giornali d'Italia e approvato dalla vostra censura, non espresse
altro simbolo fuorchè l'indipendenza e l'unificazione d'Italia.
Dall'Associazione escirono i capi della legione e le norme
regolatrici della mossa. Il capo che la dirige è il generale
Antonini, incanutito nelle guerre di Francia e di Polonia.
«La mossa fu preceduta da un indirizzo della legione ai loro
fratelli italiani, che fu reso pubblico in parecchi giornali, forse
nel vostro, e che avrebbe dovuto meritare agli uomini che lo
dettarono risposta fraterna assai diversa dalle misere calunnie
diffuse da non so chi e che mi pesa vedere riprodotte nel vostro
giornale. La legione fu accolta in Genova con apparato di
precauzioni governative, e quel ch'è peggio, con tale una freddezza
dalla ingannata popolazione genovese che dev'essere stata punta
mortale al cuore d'uomini che accorrevano a dare il sangue per la
patria loro e molti de' quali si erano preparati a missione siffatta
con lunghi anni d'esilio e patimenti virilmente incontrati.
«È duro il discendere dopo lunga assenza e col palpito di chi cerca
e merita amore, sulla propria terra, e incontrarvi calunnie e
minaccie ridicole, è vero, di bajonette. È duro l'accorrere
lietamente, in nome d'Italia, ad affrontare le palle austriache per
la libertà del paese, e trovarsi a un tratto fra volti diffidenti e
irosi, tra gente che accusa la parola e il silenzio d'ingratitudine
e d'anarchia. Poco importa del resto. Gli uomini devoti a un'idea
non aspettano conforti se non dalla propria coscienza e da Dio; ma
stimandovi com'io vi stimo, ho sentito necessità prepotente di
richiamare la vostra attenzione sul carteggio dei vostri
corrispondenti di Genova, perchè le colonne della Concordia non si
contaminino di ben altre ingratitudini che non quelle di che
s'accusano in oggi, per nuova moda, uomini che hanno lungamente
amato, patito, operato, quand'altri taceva, per la patria loro,
unicamente perchè non rinnegano a un tratto le credenze maturate per
vent'anni di studî e «d'esiglio.»
Milano, 27 aprile 1848.
Accettai dunque - e i miei amici accettarono con me - i fatti
compiuti come terreno donde movere innanzi. Piegammo la testa alla
manifestazione della volontà popolare che diceva monarchia e
pensammo a provvedere, per quanto era in noi al trionfo d'una guerra
che si combatteva sotto bandiera non nostra, ma che ricacciando
l'Austria oltre l'Alpi potea farci liberi di conquistare l'unità
della patria. Ma rassegnandoci al silenzio, non rinnegammo la fede
nel nostro ideale. Ci offrimmo alleati leali e a tempo del campo
regio; non dichiarammo che quel campo era il nostro. Sospendemmo,
come inopportuna e pericolosa all'impresa emancipatrice dallo
straniero, la predicazione dei nostri principî; non ci facemmo
predicatori di principî contrarî. E lo dico pensando ai molti, i
quali repubblicani giurati ieri, sono, mentr'io scrivo, giurati
monarchici, non per convincimento mutato, ma per ciò ch'essi
chiamano tattica e non è se non mancanza d'una fede qualunque. Essi
non potranno mai, checchè tentino, richiamarsi all'esempio nostro.
Noi ci mantenemmo puri di menzogna e d'ossequio servile; essi no.
Dimenticando che primo, supremo dovere verso un popolo che sorge a
nazione è l'educazione morale alla dignità dell'anima e alla
costanza, essi, sperando in quel modo ottenere qualche miglioramento
finanziario, qualche riformuccia amministrativa dalla parte avversa,
gittano a' piedi della monarchia il presente e l'avvenire; accettano
incondizionatamente l'istituzione contro la quale predicavano pochi
anni addietro; giurano che da uno Statuto, il cui primo articolo è
violazione della libertà di coscienza, escirà logicamente ogni
sviluppo possibile di libertà; teorizzano sull'assurdo equilibrio
dei tre poteri; s'irritano, pur sogghignando nel loro segreto, se il
sacro inviolabile nome del re è tratto sull'arena da un incauto
ministro e dichiarano che tutta la questione italiana si risolve in
un mutamento, non di principî, ma d'uomini. E gli avversi ridono
delle proteste additando, col rancore di chi non perdona, il
passato, e il popolo attinge in quel machiavellismo d'evoluzioni un
insegnamento d'immoralità o un senso di sfiducia egualmente dannosi.
Quei che verranno dopo noi li diranno apostati; io li compiango
deboli e malati della malattia d'un secolo scettico e senza ideale.
I pochi rimasti, nel 1848, fedeli all'ideale repubblicano seppero
rispettare la volontà, suprema s'anche errata, del popolo e serbarsi
nondimeno incontaminati. E v'insisto perchè, mentre taluni ci
accusano d'avere deviato in quel periodo dalla fede, i più
persistono, ingannati dalle calunnie d'allora, a credere che da noi
escissero per avventatezza repubblicana, semi d'anarchia e di ruina
nel conflitto contro lo straniero. Donde escissero quei semi è
accertato negli scritti del volume anteriore, nella memoria di Carlo
Cattaneo Sull'insurrezione di Milano e nell'Archivio triennale delle
cose d'Italia. A me, in questo lavoro che compendia la tradizione
repubblicana italiana negli ultimi trentaquattro anni, importa
provare come il nostro linguaggio rimanesse invariabilmente conforme
al programma di condotta adottato; tanto che gli Italiani sappiano
potere la parte nostra ingannarsi ma non ingannare.
Quel programma di condotta - unità nazionale anzi tutto; guerra
concorde contro lo straniero: sovranità del paese da interrogarsi al
finir della guerra - era già indicato sin dal febbrajo e prima
dell'insurrezione lombarda in una lettera ch'io indirizzai ai
Siciliani e che riproduco:
«Siciliani! - Voi siete grandi. Voi avete in pochi giorni fatto più
assai per l'Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due
anni d'agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e
diplomatizzante nei modi. Avete, esaurite le vie di pace, inteso la
santità della guerra che si combatte per le facoltà incancellabili
dell'uomo e del cittadino. Avete, in un momento solenne
d'ispirazione, tolto consiglio dalla vostra coscienza e da Dio:
decretato che sareste liberi: combattuto, vinto e serbato la
moderazione dei forti nella vittoria. E la vostra vittoria ha mutato
- tanto i vostri fati sono connessi con quelli della penisola - le
sorti italiane. Per la vostra vittoria s'è iniziato un nuovo periodo
di sviluppo italiano: il periodo del diritto, delle istituzioni, dei
patti sostituito al periodo delle concessioni e delle riforme. Per
la vostra vittoria, il popolo italiano ha riconquistato la coscienza
delle proprie forze, la fede in sè. Per voi, noi, esuli dall'Italia,
passeggiamo con più sicura e serena fronte tra gli stranieri che
ieri ci commiseravano ed oggi ci ammirano. Dio benedica l'armi
vostre, le vostre donne, i vostri sacerdoti e voi tutti, come vostri
fratelli v'amano e v'ameranno d'amore perenne e riconoscente.
«Ma perchè noi v'amiamo riconoscenti, perchè ripetiamo con orgoglio
il vostro nome e le vostre gesta ai nostri ed agli stranieri perchè
salutiamo in voi un elemento iniziatore di progresso italiano, noi
abbiamo diritto di parlarvi liberi come fratelli a fratelli: abbiamo
diritto di ricordarvi i nostri comuni doveri: abbiamo diritto di
dirvi: voi siete nostri; voi non potete staccarvi da noi, non potete
esservi rivelati ottimi fra quanti abitatori ha l'Italia, per
ritrarvi, per isolarvi. Foste grandi di prodezza e d'onore davanti
agli obblighi del presente; noi vi chiediamo d'essere grandi
nell'amore, grandi nel presentimento dell'avvenire.
«Voi siete in oggi parte importante, vitale, dello Stato più
popoloso, più forte per posizione, navigli e armi, d'Italia. Primi a
levare in esso il grido di libertà, primi al trionfo, salutati
d'ammirazione concorde dai vostri concittadini di terra-ferma, voi
avete conquistato una influenza che non morrà, una potenza morale
che nessuno vuole o può contrastarvi, diritti che nessuno
s'attenterà più di rapirvi. Perchè scemereste, separandovi, forza ai
vostri concittadini e a voi? Perchè dal rango che, uniti, potete
occupare in Europa, scendereste, per volontario suicidio, al quarto,
all'ultimo rango, condannandovi a debolezza perenne e alla
inevitabile influenza straniera? Perchè il governo di Napoli v'ha
lungamente oppressi e trattati come popoli di colonia? Ma non pesava
la stessa tirannide su' vostri concittadini di terra-ferma? Non
l'abborrivano, non l'abborrono essi, come voi l'abborrite? Non
protestarono colle congiure, colle associazioni segrete, col sangue
dei migliori fra i loro? Non furono i vostri carnefici carnefici ai
Napoletani? Non corsero più volte patti solenni d'insurrezione tra
voi e gli uomini delle Calabrie? Non ebbero quei patti solenne
manifestazione in faccia all'Italia, in faccia all'Europa, nella
bandiera levata fra l'agosto e il settembre del 1847, per entro il
breve cerchio di quarantotto ore, in Reggio e in Messina? Ah, non
dimenticate, o Siciliani, l'alleanza che i martiri di Reggio e
Messina e Gerace segnarono del loro sangue. Non tradite nella
vittoria le sante promesse della battaglia. Siate ora e sempre
fratelli, come giuraste. Non fate che lo straniero dica esultando:
saranno liberi forse, uniti e potente non mai. Avete insegnato
all'Italia la potenza del volere; insegnatele la santità dell'amore,
insegnatele la religione dell'unità che sola può ridarle gloria,
missione e iniziativa, per la terza volta in Europa.
«Io non sono napoletano. Nacqui in Genova, città grande anch'essa
una volta per vita propria, libera, indipendente: grande per aver
dato, nel 1746, all'Italia sopita l'ultimo esempio di virtù
cittadina, come voi avete or dato il primo all'Italia ridesta. Come
voi, fummo nel 1815 dati, senza consenso nostro, a un altro Stato
d'Italia col quale pur troppo i ricordi del passato aspreggiavano le
contese e dal quale pur troppo, come avviene sempre in ogni unione
non liberamente scelta, ma decretata dall'arbitrio straniero, avemmo
per molti anni più danni assai che vantaggi. E non per tanto, quanti
fra noi amavamo la patria comune, quanti avevano desiderio e
certezza dell'avvenire, salutarono quella unione come fatto
provvidenziale. In questo lento ma costante moto di popolazioni
oggimai vicino al suo termine che, logorate con lavoro di secoli
influenze di razze dominatrici, aristocrazie feudali, ambizioni di
municipî discordi, prepara all'Europa, dopo l'Italia dei Cesari e
l'Italia dei Papi, l'Italia del Popolo, ogni frazione di terra
italiana unificata ad un'altra segna un trionfo per noi, una
difficoltà pacificamente rimossa. Ogni smembramento sarebbe un passo
retrogrado. Tolga il cielo che l'esempio funesto debba, o Siciliani,
venirci da voi!
«La vostra questione, o Siciliani, sta, non fra Napoli e voi, ma tra
voi e l'Italia futura, tra un alto insegnamento d'unione e un
pessimo d'individualismo locale; tra l'Europa che deciderà
dall'opere vostre se noi risorgiamo a nazione o a mero egoismo
d'utile materiale e di libertà, e l'Austria che studia i modi di
conculcarci e vi riescirà se invece di stringerci a falange serrata,
ci confineremo nella formola immorale del ciascuno per sè,
nell'esosa indifferenza alle sorti comuni; e sta fra la vita
potente, attiva europea, che si prepara a venticinque milioni
d'Italiani ricchi di mente, di cuore e di mezzi, e l'esistenza
nulla, impotente, dominata dalla prima influenza straniera che vorrà
soggiogarvi, destinata all'isola vostra se sola e non immedesimata
coi fati della penisola. Pensatevi. Molti fra voi vi parlano di
costituzioni vostre, di tradizioni, di diritto pubblico fondato su
precedenti del 1812. In nome di Dio, non tollerate che la posizione
conquistata da voi cogli ultimi fatti scenda a termini così
meschini. Se poteste mai rassegnarvi a ritrocedere nel passato e
cercarvi le origini del vostro diritto, rinneghereste a un tempo
l'Italia futura e la coscienza che vi spronava a insorgere e vi
meritava vittoria.
«Le origini del vostro diritto stanno, o Siciliani, non in una
costituzione ineguale alle ispirazioni dei tempi che vi fu data
quando il gabinetto inglese non aveva altro modo di far dell'Isola
vostra una stazione militare per le sue armate e che vi fu tolta
quando, caduto Napoleone, quel bisogno cessò; ma nella vostra
gloriosa insurrezione del 12 gennajo e nell'entusiasmo con che essa
fu accolta da un capo all'altro della penisola. E quel diritto non
vi fallirà perchè fa parte del nuovo diritto italiano, diritto che
non conosce i trattati del 1815 e darà la formola d'una nuova vita
che scenderà dalla nozione di Dio all'interpretazione del popolo:
vita d'una nazione che non fu mai sino ad ora e sarà. Ma l'altro il
vecchio diritto desunto da fatti non nostri, scritto un terzo di
secolo addietro a formole ambigue come la parola dell'inganno,
violato a ogni tratto dai principi e cancellate oggimai da pianto e
sangue di molti popoli, riannetterebbe il vostro sviluppo a una
tradizione di menzogne, vi travolgerebbe nelle reti d'una diplomazia
corrotta e corrompitrice, e vi preparerebbe, presto o tardi,
infallibilmente tradimenti eguali a quelli che già provaste.
«Siciliani, fratelli! Vi sentite voi forti per riassumere in voi
soli la vita, quale un giorno sarà, dell'Italia, maturi per balzare
d'un salto all'ideale che affatica l'anime nostre e costituirvi a un
tratto con ordini di governo superiori a quanti esistono in oggi,
nucleo e insegnamento vivo della nazione? In quell'unico caso,
cesserebbe in me, cesserebbe in noi tutti, il diritto di
scongiurarvi all'unione cogli Stati di terra-ferma. Ma se voi
sentite prematuro il disegno, se tra voi e Napoli non corrono in
oggi se non questioni di forme, d'istituzioni divergenti soltanto
nei particolari, di maggiore o minore emancipazione locale,
ascoltate la parola d'un fratello vostro che ama, dopo Dio, la
patria comune e ha logorato in quell'amore la vita: è parola, oso
dirlo, di tutta Italia. Ponete quel santo nome di nazione sulla
bilancia, non date l'esempio d'uno smembramento ai fratelli che
guardano in voi. Rimanete uniti ai vostri concittadini della
penisola: uniti per combattere insieme ad essi le battaglie della
libertà, per combattere fra non molto insieme a noi tutti le
battaglie dell'indipendenza: uniti per confortarci del vostro
aspetto e della vostra parola autorevole nei nostri parlamenti,
nelle nostre adunanze: uniti perchè i fratelli, schiavi tuttora, si
inanimiscano alla guerra sacra; uniti perchè lo straniero senta la
virtù del sacrificio nell'anime nostre e ammiri; uniti perchè i fati
dell'Italia si compiano, mercè vostra, più rapidi e l'umanità si
rallegri e Dio protegga bella di potenza e d'amore la terra sua
prediletta.»
Londra, 20 febbrajo 1848.
Poco dopo, nel programma dell'Associazione nazionale italiana ch'io
fondai, nel mio breve soggiorno in Parigi, il 5 marzo, io diceva:
«............Qualunque sia, nelle nostre menti il concetto del
progresso futuro, qualunque la forma che lo rivelerà alle nazioni
europee, noi tutti sappiamo che fummo grandi - che vogliamo e
dobbiamo esser grandi, più grandi che mai non fummo pel bene della
patria e dell'umanità - e che nol possiamo se non vivendo d'una vita
comune, ordinandoci forti e compatti sotto una sola bandiera,
affratellandoci in un solo patto d'amore, sommando in una tutte
quante le facoltà, le forze, le aspirazioni del core e del senno
italiano. Sappiamo che tra noi e quel patto d'amore fraterno ed uno
sta l'Austria - che all'Austria soggiacciono molti milioni
d'Italiani fratelli nostri - che prima della loro emancipazione noi
non possiamo aver patria - che vita, libertà, forza, unità, securità
di progresso, saranno menzogna per noi, finchè non avremo con guerra
aperta, ostinata, irreconciliabile, cacciato oltre le ultime Alpi lo
straniero che contamina le nostre contrade. Sappiamo che fintantochè
un solo Italiano avrà chiuso il labbro e compresso il pensiero dalla
forza brutale straniera, tutto sarà per noi provvisorio e incerto; e
a fronte dei nostri patti, dei nostri imperfetti progressi
quell'Italiano potrà sorgere e dire: io pure nacqui sul vostro
terreno: a me pure Dio rivelava parte dell'idea che l'Italia è
chiamata a rappresentare nel mondo: e il mio labbro fu muto e il mio
senno e il mio cuore non ebbero parte nei vostri consigli, nei
decreti ai quali voi volete ch'io, non consultato, soggiaccia.
«Rappresentare questo pensiero, questa comune credenza è l'intento
dell'Associazione in nome della quale parliamo. L'Associazione non è
toscana, piemontese o napoletana; è italiana: non tende a discutere
questioni d'interessi locali; tende ad armonizzarli, a unificarli
nel grande concetto nazionale: non prefigge a' suoi sforzi il
trionfo predeterminato d'una o d'altra forma governativa; ma li
consacra a promuovere, con tutti i mezzi possibili e in accordo
colle ispirazioni progressivamente manifestate dal popolo italiano
lo sviluppo del sentimento nazionale; li consacra ad affrettare col
consiglio e coll'opera, collo studio accurato dei voti dei più e
coll'esercizio del diritto di suggerimento fraterno, il momento in
cui il popolo italiano fatto nazione, libero indipendente, forte
della coscienza de' proprî diritti e della propria missione, santo
dell'amore che annoda in bella eguaglianza i credenti in comuni
doveri, potrà dar voto solenne intorno alle forme di viver civile
che meglio gli converranno, intorno alle condizioni politiche,
sociali, economiche che ne costituiranno l'essenza.
«È questo un momento solenne: momento di crisi suprema, di nuova
vita europea. Qui d'onde scriviamo, un popolo glorioso tra quanti
mai furono, ha provato l'onnipotenza della volontà nazionale e
rovesciando in poche ore un edifizio a cui gli eserciti, le
corruttele, le false dottrine e le diplomazie promettevano lunga
durata, ha iniziato un nuovo diritto europeo. Ma a noi rimane
intatta una grande missione: cancellare dal mondo europeo un'antica
ingiustizia e sostituire sulla Carta d'Europa, coll'esempio della
nostra emancipazione, una libera federazione di nuove nazioni a un
impero fattizio, colpevole d'avere negato per secoli la santa legge
di progresso che Dio prefiggeva all'umanità......»
E il 22 marzo, in un indirizzo al governo repubblicano di Francia,
io definiva nuovamente in questi termini il fine dell'Associazione.
«........Il suo scopo, signori, è quello che fu annunziato o
preveduto da tutti i grandi italiani, da Arnaldo da Brescia fino a
Machiavelli, da Dante fino a Napoleone, che appartiene a voi come a
noi: l'unificazione politica della penisola; l'emancipazione dal
mare all'Alpi di questo suolo dal quale esciva due volte la parola
d'ordine dell'unità europea; la fondazione d'una nazionalità forte e
compatta che possa pel bene del mondo collocarsi nella
confederazione dei popoli e apportare al lavoro comune le
ispirazioni e il sagrificio, il pensiero e l'azione di venticinque
milioni d'uomini liberi, fratelli e uniti in una sola fede
nazionale: Dio e il Popolo in una sola fede internazionale: Dio e
l'Umanità.
«Questa fede, signori, è, malgrado gli sforzi fatti per oscurarla,
la fede dei nostri padri. Dalla scuola pitagorica dell'Italia
meridionale sino ai filosofi pensatori del secolo XVII - fra le
torture che invano tentavano d'annientare l'idea sociale di
Campanella e le palle che troncavano sulle labbra dei fratelli
Bandiera il loro ultimo grido di viva l'Italia! il genio italiano ha
sempre dichiarato, con una serie non interrotta di proteste
individuali che sua tradizione nazionale era Unità e Libertà: unità
come pegno della missione, libertà come pegno di progresso.
«Fra i ceppi, fra le corruttele figlie del dispotismo, sotto la
bajonetta straniera che minacciava ogni battito del suo core, dal
fondo delle segrete, dall'alto dei patiboli, il genio italiano gridò
sempre alle attente nazioni: l'Italia non è morta; essa sta
trasformandosi, e la sua grande idea escirà pura, com'oro dal
crogiolo, dai suoi trecento anni di schiavitù, quando l'opera di
fusione sarà compita quando le popolazioni italiane si stringeranno
in un amplesso unanime intorno alla santa bandiera della patria
comune per dare all'Europa, dopo l'Italia degli imperatori e
l'Italia dei papi, l'immenso spettacolo dell'Italia del popolo.
«Questo momento, signori, noi lo crediamo vicino.»
Con queste idee, con questo programma, io mi recai in Milano. E le
prime parole indirizzate ai Bresciani, i quali si querelavano, per
non so quale faccenda interna, di Milano, furono di concordia e di
pace. «Oggi l'uomo - io diceva - non è che l'incarnazione d'un
dovere. Troppo grandi cose avete da fare, perchè vi sia lecito
pensare alle locali vertenze. Avete in mira, voi come Milano, come
tutte le altre città dello Stato, i destini di venticinque milioni
d'uomini che vi sono fratelli, il rinnovamento della terra che v'ha
dato vita la creazione d'un popolo, gran parte dei fati europei,
però che i fati europei dipendono essenzialmente da noi. E a
compiere i vostri doveri, avete d'uopo di miracoli d'amore; avete
d'uopo di sorridere come a gioja suprema, ad ogni sagrificio
d'individualità, che le circostanze vi chieggano. Ho sentito ieri,
vedendo sfilare i soldati del reggimento Ceccopieri tornati alla
bandiera della patria, un bisogno prepotente d'abbracciar con amore
il mio primo nemico, un bisogno di qualche grande sagrificio pel
bene comune, per farmi degno della mia contrada. Voi tutti sentite
com'io sento...» Nè queste idee furono tradite mai da me e da' miei
amici. Le mantenemmo fedelmente, tra diffidenze, calunnie e minacce,
per tutto il periodo della guerra regia. Forse, se tutti gli uomini
di parte nostra si fossero schierati risolutamente con noi intorno
al programma: Guerra e Costituente Nazionale dopo la guerra, che
poggiava su promesse solenni date da Carlo Alberto e dal governo
provvisorio, la lotta contro l'Austria avrebbe avuto esito diverso.
Ma i più tra i nostri si diedero, come dissi, senza patti. La
monarchia rimase incondizionatamente padrona.
Il giorno istesso in cui doveva, in seno al governo, discutersi il
malaugurato decreto della fusione, comparve inaspettato nella mia
stanza Cesare Correnti, seguito da Anselmo Guerrieri, e mi parlò,
com'uomo che v'intravvede rovina, della proposta. Dissi a lui e al
Guerrieri ciò ch'io avea detto poche ore prima a un altro membro del
governo, Durini, che m'aveva inutilmente tentato perch'io aderissi.
La fusione subitamente richiesta e con aperta violazione dei patti,
dal re era indizio certo ch'ei sentiva le sorti della guerra
corrergli avverse e premeditava ritrarsi, ma con un documento di
signoria da dissotterrarsi quando che fosse in futuro. L'adesione
intanto persuaderebbe la Lombardia del contrario e infondendole più
sempre fede nella determinazione del re, l'addormenterebbe a
stimarsi secura e difesa quando appunto importava risuscitarne
l'energia e prepararla a salvarsi da sè. Le promesse tradite
irriterebbero i partiti che si erano persuasi per amor di patria a
tacere. L'ingrandimento della monarchia di Savoja, non più sospetto
ma fatto, darebbe a tutti gli altri principi d'Italia il pretesto,
da lungo cercato, per separarsi da una guerra senza speranza per
essi. Il re, soddisfatto d'avere conquistato un diritto alle terre
lombarde, si rassegnerebbe più facilmente a differirne l'attuazione
e cedere per allora il campo all'Austriaco. La Lombardia, non più
alleata ma suddita, perderebbe ogni opportunità di preparare la
propria difesa, e perderebbe, soggiacendo, anche l'unico vanto,
prezioso per l'educazione e per l'avvenire d'Italia, d'aver mirato a
fondare, anzichè un misero regno del Nord, l'unità nazionale. Queste
e altre cagioni trovavano assenso nei due, i quali si dichiaravano
deliberati in ogni modo d'opporsi e chiedevano d'intendersi con me
sul come. Proposi che s'intendessero con Pompeo Litta e coll'Anelli
di Lodi - unico per fede, onestà incontaminata e senno antiveggente
in quel gregge di servi - poi, esaurito ogni argomento,
protestassero uniti contro il voto della maggioranza, si ritirassero
dal governo e pubblicassero, esponendone le cagioni, dimissioni e
protesta: lasciassero il resto a noi. Noi avremmo con una
manifestazione popolare costretto il governo a dimettersi; ma invece
di sostituire all'elemento monarchico il nostro e ad evitare ogni
pericolo d'aperto contrasto col re, avremmo acclamato i quattro
oppositori e senza rompere interamente la tradizione legale raccolto
intorno a quel nucleo d'antichi governanti altri nuovi non
repubblicani, ma consapevoli dei pericoli che s'addensavano e capaci
di scongiurarlo o tentarlo. La proposta fu accettata e promisero:
Correnti più assai concitatamente dell'altro; e poco mancò, tanto
pareva fremente e melodrammatico, ch'ei non giurasse sul pugnaletto
che aveva a fianco.
Il giorno dopo, i primi nomi che mi ferirono l'occhio in calce al
decreto furono quei di Correnti e Guerrieri. Seppi che quest'ultimo,
natura buona ma debole, s'era lasciato travolgere dal compagno e ne
ebbe per molti giorni rimorso vivissimo.
Rividi, caduta Milano, Correnti. Io era nel giardino Ciani in Lugano
con Carlo Cattaneo e altri, quando Pezzotti - uno de' migliori
nostri e che morì suicida nelle prigioni dell'Austria - venne a
dirmi che Correnti chiedeva vedermi. Ricordo ancora il volto di
pentito e l'accento di supplichevole con cui, fisso l'occhio al
suolo, ei mi disse: non parlarmi del passato, ma usciere,
sentinella, ufficiale, fatemi ciò che volete, pur ch'io giovi al
paese. Riferii quelle parole agli amici: diffidavano tutti. Pensai
nondimeno che s'egli avea male operato, i casi di Milano erano tali
da guarire radicalmente chi non fosse profondamente corrotto. E
divisai d'avviarlo a Venezia, dove il popolo teneva levata in alto
la bandiera tradita dalla monarchia. In Lombardia, Garibaldi errava
tuttavia in armi tra Como e Varese. Migliaja d'esuli s'accalcavano
nel Cantone Ticino e potevano, se una opportunità s'affacciasse,
rivarcare la frontiera. Gli spiriti duravano in fermento nelle valli
bergamasche e bresciane, importava dare un centro visibile, una
bandiera, una direzione semi-legale all'agitazione e mi pareva che
dovesse trovarsi in Venezia. Manin v'era l'anima della difesa.
Deliberai dunque d'inviargli Correnti a dirgli le nostre forze, le
nostre speranze e persuaderlo che concentrasse in sè la direzione
del moto, additasse il dovere alla Lombardia e dicesse: Venezia,
emancipata dal tradimento, combatte non per sè, ma per tutti:
stringetevi tutti intorno alla sua bandiera repubblicana. Il pentito
accettò la proposta festante: ebbe lettere e danaro da noi; e partì,
accompagnato da un fidatissimo nostro, Ercole Porro.
Non so che cosa ei dicesse a Manin: so che Manin nulla fece di
quanto era debito suo; ch'ei, Correnti, non si fece mai vivo con
noi; e che lo udimmo poco dopo in Torino, faccendiere di quella
inetta, assurda, aristocratica congrega che s'intitolava Consulta e
accoglieva Casati e quanti altri avevano con lui rovinato il paese.
Ho citato fra i tanti quest'incidente perch'altri indovini quale
storia io potrei tessere dei moderati di quel periodo - perchè
gl'Italiani v'imparino a non fidarsi, fino a vittoria compiuta, di
subiti pentimenti - e perchè i giovani vedano come le tendenze
scettiche possano travolgere a bassa e sleale condotta le menti più
svegliate e chiamate ad altro.
Tentammo il possibile per ricominciare popolarmente la lotta e la
iniziammo in Val d'Intelvi. Ma da un lato gare inaspettate fra
d'Apice e Arcioni, capi militari dell'impresa, dall'altro la potenza
del pregiudizio monarchico che immobilizza la leva dell'azione nella
capitale e, quella caduta, sconforta dall'osare le città di
provincia, fecero inutile ogni tentativo. Di tutto quello splendido
moto di popolazioni, non rimase se non un potente insegnamento,
ch'io sperai fosse allora raccolto e non fu. Tutte quelle migliaja
d'esuli d'ogni condizione e d'ogni colore che giuravano non
commetterebbero più mai le sorti della patria a un principe e
applaudivano freneticamente agli ultimi versi della Clarina di
Berchet recitati da Gustavo Modena, sagrificavano come prima
servili, pochi anni dopo, alla monarchia.
Lasciai, disperata ogni cosa in Lombardia, la Svizzera e m'avviai,
per Francia, verso Toscana.
Il papa era intanto fuggito. Roma era fatta libera di governarsi a
suo modo. Venezia prometteva lunghe difese. La rivoluzione viveva
tuttavia in Toscana, governata da uomini, un tempo, di fede nostra.
La cessione di Milano lasciava screditata la monarchia, irritati gli
animi e disposti ad accettare il principio contrario. L'impresa
nazionale, caduta nel nord, potea risorgere dal centro. Da Roma
dovea escire la parola iniziatrice; e forse, uscendo senza indugio,
mentre durava il fremito universale e Napoli non s'era peranco
rassegnata alla schiavitù, sarebbe stata più feconda di conseguenze
che non fu dopo quattro mesi. Convinto di questo e libero oggimai di
seguire apertamente la fede mia, indirizzai il 5 novembre la
seguente lettera a' miei amici romani(55).
«........................Tendo l'orecchio a udire se mai venisse
dalla città vostra un'eco di parola maschia, libera, degna di Roma,
un suono di popolo ridesto all'antica grandezza; e non odo che le
solite evirate vocine d'Arcadi parlamentari che ricantano alla culla
d'una nazione le nenie mortuarie delle spiranti monarchie
costituzionali. Scorro avidamente coll'occhio le colonne del vostro
Contemporaneo, sperando ogni giorno trovarvi un di quei decreti che
ingigantiscono chi li legge; e dopo il famoso autografo nel quale il
papa raccomanda, in cattivo italiano, non il ministero, ma i proprî
palazzi, non vi trovo, a consolazione del mondo cattolico, se non
che Roma è tranquilla. Tranquilla sta bene; anche il Signore
riposava tranquillo il settimo giorno, ma dopo d'avere creato un
mondo.
«E voi potete, volendo, creare un mondo civile. Voi avete in pugno
le sorti d'Italia e le sorti d'Italia son quelle del mondo. Voi non
conoscete, o immemori, la potenza ch'esercita l'accozzamento di
quattro lettere che forma il nome della vostra città; voi non sapete
che ciò che altrove è parola, da Roma è un fatto, un decreto
imperatorio: urbi et orbi. Perdio! Che i vostri monumenti, i vostri
ricordi storici non mandino una sola ispirazione all'anima degli
uomini che reggono le cose vostre! Io, nella mia religione romana,
m'andava confortando dello spettacolo di meschinità e d'impotenza
che pur troppo ci danno finora le nostre città col pensiero che
toccava a Roma, che il Verbo non poteva uscire se non dalla Città
Eterna: ma comincio a temere d'essermi illuso. Roma così com'è,
colle sedute ch'io leggo è una ironia, una cosa, perdonatemi, tra il
ridicolo e il lacrimevole.
«Io non credo che la provvidenza abbia mai detto così chiaramente ad
una nazione: tu non avrai altro Dio che Dio, nè altro interprete
della sua legge che il popolo. E non credo che sia al mondo una
gente più ostinata della nostra a non vedere nè intendere. La
provvidenza ha fatto dei nostri principi una razza d'inetti e di
traditori, e noi vogliamo andare innanzi a rigenerarci con essi. La
provvidenza, quasi a insegnarci guerra di popolo, ha fatto
sconfiggere un re in una impresa già quasi vinta, e noi non vogliamo
far guerra se non con quel re. La provvidenza ha fatto del Borbone
di Napoli un commento vivo dei ricordi di Samuele agli Israeliti che
chiedevano un re, e la Sicilia, liberata di quello, bussa alle porte
delle sale regie in cerca d'un altro. La provvidenza vi fa d'un papa
un fuggiasco spontaneo: vi toglie, come una madre al bambino, ogni
inciampo di sulla via; e voi, ingrati, rimanete in forse e come se
non aveste mente, nè cuore, nè storia, nè esperienza che basti, nè
avvenire, nè l'Italia in fermento d'intorno a voi, nè l'Europa in
fermento d'intorno all'Italia, nè la Francia repubblicana allato, nè
la Svizzera repubblicana di fronte, nè venti altre cagioni di
decisione, andate ingegnandovi a governarvi coll'autografo dei
palazzi. Carlo XII, prigioniero dei Russi, mandava un suo stivale a
governare lo Stato; ma son parecchi anni e Carlo XII non era fuggito
e la metropoli svedese non era Roma.
«Io vivo, voi lo sapete, irrequieto per l'unità d'Italia messa a
pericolo dai guastamestieri, non per la repubblica immancabile,
inevitabile, non solamente in Italia, ma in pressochè tutta Europa.
E aspetto come ho detto, scritto e stampato, devoto e sommesso che
la volontà dell'Italia si manifesti solennemente. Ma parmi di
potervi dire senz'essere agitatore: quando la forma repubblicana,
senz'opera vostra, senza violenza, senza usurpazione di minorità,
v'è messa davanti, pigliatela; non fate vedere all'Italia e
all'Europa che voi, repubblicani nati, la rifiutate senza perchè.
Voi non avete più governo; non potere, malgrado l'autografo, che sia
legittimo. Pio IX è fuggito: la fuga è un'abdicazione: principe
elettivo, egli non lascia dietro sè dinastia. Voi siete dunque, di
fatto, repubblica, perchè non esiste per voi, dal popolo in fuori,
sorgente d'autorità. Uomini logici ed energici ringrazierebbero il
cielo del consiglio ispirato a Pio IX e direbbero laconicamente: il
papa ha abbandonato il suo posto: noi facciamo appello dal papa a
Dio convocando un Concilio. Il principe ha disertato, tradito: noi
facciamo appello dal principe al popolo. Roma è, per volontà di
provvidenza, repubblica. La Costituente italiana, quando queste mura
l'accoglieranno, confermerà, muterà o amplierà questo fatto. E
scelto dal popolo un governo, s'accoglierebbe in Roma, poichè i
popoli d'Italia non son liberi tutti sinora, il nucleo iniziatore e
precursore della Costituente italiana futura; e questo nucleo
d'uomini noti, mandati dalla Toscana, dalla Sicilia, da Venezia,
dall'emigrazione lombarda, dai circoli, dalle associazioni,
presterebbe appoggio efficace al governo; e quel governo, con pochi
atti nazionali davvero, diventerebbe governo morale di tutta Italia
in brev'ora. Dio che ajuta i volenti e ama Roma farebbe il resto.
«Perchè non abbiate fatto questo nelle prime ventiquattr'ore, perchè
non lo facciate ora, m'è arcano. So che così non potete stare; e che
tra il seguir questa via e il mandar deputati supplichevoli a Pio IX
e dirgli: tornate onnipotente, cancelliamo ogni traccia della
giornata del 16, non è via di mezzo. Taluni mi scrivono che li
trattiene il timore d'essere invasi. Invasi? E nol sarete voi a ogni
modo? Non vedete che la questione sta fra il concedere la iniziativa
e la scelta del tempo e del come al nemico o l'assumerla voi, averne
tutti i vantaggi e sconvolgere i disegni dell'invasore? Non vedete
che in una ipotesi cadrete derisi perchè nessuno moverà in ajuto
d'un ministero tiepido e senza nome; nell'altra inizierete quello a
che tutti in Italia tendono, quello a che sarete trascinati
inevitabilmente un dì o l'altro, ma coi traditori nel campo?
«Nè sarete soli a combattere...»
Giunsi in Livorno l'8 febbrajo 1849, quando appunto giungeva al
governatore Pigli l'annunzio della fuga del duca. E fui pregato
d'annunziarla io stesso al popolo, che s'era raccolto per
festeggiarmi, dacchè temevano non si trascorresse a violenze contro
i fautori noti del fuggiasco principe. Era timore mal fondato. Il
popolo livornese è popolo d'alti spiriti, tenerissimo di libertà e
presto sempre a virilmente conquistarla o difenderla: facile appunto
per questo a guidarsi sulle vie del bene, purchè additate da chi
abbia fiducia in esso e ispiri ad esso fiducia. Annunziai il fatto
come buona nuova e dicendo quanto importasse ai cittadini di provare
a tutti che potevano vivere più che mai concordi e amorevoli senza
principe. Nè vidi mai città più lieta e ordinata. A taluni che
parlarono d'atterrare una statua del duca, bastò suggerire che la
velassero. Livorno è città repubblicana e onorerà tra le prime
l'Italia futura.
Il 9 febbrajo, la repubblica era proclamata in Roma.
Era l'iniziativa ch'io cercava; e m'adoprai quanto seppi in Firenze
perchè la Toscana affratellasse le proprie sorti a quelle di Roma.
L'esempio avrebbe fruttato in Sicilia e altrove. Minacciata
dall'Austria, insidiata dal Piemonte, il cui ministro Gioberti
tendeva a restaurare i principi per ogni dove(56), la Toscana non
poteva, isolata, salvarsi. Ricovrandosi sotto l'ali di Roma, essa
poneva i proprî fati sotto la tutela del diritto italiano e
accrescendone le forze, apriva la via alla possibilità d'un nuovo
moto della nazione: cadendo, essa lasciava almeno una splendida
testimonianza a pro dell'unità repubblicana, giovevole
all'educazione politica del paese. E gli istinti del popolo,
afferravano, come sempre, il concetto. In una pubblica adunanza
tenuta il 18 febbrajo sotto le logge degli Uffizî e alla quale si
affollavano da diecimila persone, feci votare l'adozione della forma
repubblicana, l'unione a Roma e la formazione d'un Comitato di
difesa, composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti. Gli uomini che
reggevano ricusarono. Io partii alla volta di Roma, dove m'avevano
eletto deputato.
Roma era il sogno de' miei giovani anni, l'idea madre nel concetto
della mente, la religione dell'anima; e v'entrai, la sera, a piedi,
sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era - ed
è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità;
da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà,
per la terza volta, unità morale all'Europa. Io avea viaggiato alla
volta della sacra città coll'anima triste sino alla morte per la
disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incontrate in Toscana,
pel dissolvimento di tutta la parte repubblicana in Italia. E
nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo, d'una scossa quasi
elettrica, d'un getto di nuova vita. Io non vedrò più Roma, ma la
ricorderò, morendo, tra un pensiero a Dio e uno alla persona più
cara, e parmi che le mie ossa, ovunque il caso farà che giacciano,
trasaliranno, com'io allora, il giorno in cui una bandiera di
repubblica s'inalzerà, pegno dell'unità della patria italiana, sul
Campidoglio e sul Vaticano.
Le cagioni che mi determinarono a trasvolare sul 1848 militano
identiche perch'io mi taccia sulla storia dei quattro mesi che
corsero dal mio giungere in Roma fino alla caduta della repubblica.
Non potrei dir tutto. E mi limiterò ad accennare per sommi tocchi la
parte mia e il concetto che governò gli atti miei. Nella pagina
gloriosa che Roma scrisse in quel breve periodo, l'individuo
dovrebbe sfumare. Pur sono anch'io repubblicano e la mia vita,
comunque poca cosa, è parte della tradizione repubblicana. Nè vedo
perchè, presso all'escirne, io debba lasciarla, per molti errori che
gli avversi a noi v'accumularono intorno, fraintesa.
Fu scritto che noi, vincitori un istante, proclamammo la repubblica
romana, non l'italiana. L'accusa è stolta. Una insurrezione,
dichiarando illegale quanto esiste d'intorno a sè, può scrivere
sulla propria bandiera ogni più audace formola, purchè suggerita
dalla coscienza del Vero: un'Assemblea escita legalmente e
pacificamente dal voto d'una frazione menoma del paese, nol può. Il
mandato avuto è supremo per essa. Proclamare da Roma - di fronte al
Piemonte costituzionale e armato - di fronte alle condizioni
generali - la repubblica per tutta l'Italia, sarebbe, del resto,
stato più ch'altro, ridicolo. La repubblica non poteva conquistare
l'Italia a sè se non emancipandola dallo straniero, facendola. E per
farla, bisognava creare una forza.
Pochi giorni bastarono a convincermi che non solamente quella forza
non esisteva, ma che nessuno pensava a ordinarla. Gli istinti buoni
abbondavano: mancava un concetto. Da circa 16,000 uomini formavano
l'esercito dello Stato; ma erano senza coesione, senza uniformità di
disciplina, d'assisa e di soldo; lo stato maggiore era nullo; il
materiale di guerra pochissimo. Le forze disponibili erano
disseminate in gran parte lungo la frontiera napoletana, unico punto
da dove quei che reggevano temevano offese e che quel metodo
radicalmente errato di cordone militare, debole per ogni dove, non
avrebbe potuto difendere.
Io non temeva offese da Napoli: un tentativo da quel lato, creando
in noi un diritto di reazione, era, più che da temersi, da
desiderarsi. Nè allora io presentiva pericoli dalla Francia; ma li
presentiva inevitabili, presto o tardi, dall'Austria. E dov'anche
l'Austria non avesse assalito, dovevamo prepararci ad assalirla noi.
Ridestare l'Italia contro l'eterno nemico; iniziare una nuova
crociata e dire col fatto al paese: la repubblica farà ciò che la
monarchia non seppe o non volle; era quello il mio disegno.
Preparare la resistenza a un pericolo, che poteva essere imminente e
preparare a un tempo l'azione futura se quel pericolo non si
verificasse, era ciò ch'io adombrava, dicendo in quei giorni
all'Assemblea: bisogna lavorare come se avessimo il nemico alle
porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità.
Il 16 marzo, proposi all'Assemblea l'elezione d'una Commissione di
guerra composta di cinque individui, che dovesse studiare i modi
migliori d'ordinamento per l'esercito e provvedere all'altra
necessità di difesa e d'offesa. Il 18 la Commissione era eletta.
Carlo Pisacane ne era anima e vita. E con lui io m'intendeva
compiutamente.
Al sistema inefficace dei distaccamenti sparsi su tutti i punti
della lunga frontiera meridionale, sostituimmo, pensando alla
difesa, il concentramento delle forze su due punti, Bologna e Terni;
e a questo concentramento anteriore fu dovuta in parte la
possibilità della prolungata difesa di Roma.
Alla cifra di 16,000 uomini sostituimmo, pensando all'offesa, quella
di 45,000, cifra facile a raggiungersi colla coscrizione nello Stato
e cogli elementi che potevamo agevolmente raccogliere dall'altre
parti d'Italia.
Il Piemonte intanto, in parte per timore di vedere l'iniziativa
nazionale trapassare dalla monarchia alla bandiera repubblicana, in
parte per altre cagioni, intimava nuovamente la guerra all'Austria.
La repubblica romana non era stata riconosciuta dal Piemonte. E
nondimeno, bastò la lettura del bando che annunziava imminente le
ostilità perchè, affogata nell'entusiasmo ogni considerazione, la
Repubblica decretasse spontanea, senza alcun patto, l'invio di
10,000 uomini, capo il tenente colonnello Mezzacapo: spontanea,
dico, perchè Lorenzo Valerio non giunse, con missione semi-officiale
d'intendersi in Roma se non dopo il decreto. Il 21 marzo, i soldati
di Roma partivano. Se non che quattro giorni bastarono a quella
misera guerra regia, iniziata il 20, e conchiusa, colla colpa e
colla vergogna di Novara, il 24. La monarchia vedeva poco dopo Roma
assalita dallo straniero, senza neanche una parola di protesta a suo
pro.
Il 29 marzo fui scelto Triumviro. Aurelio Saffi e Armellini mi
furono colleghi.
Il 17 aprile confermammo con decreto le proposte anteriori sulla
cifra e sull'ordinamento dell'esercito. Avevamo già sui primi di
quel mese tentato ogni modo per avere in Roma la Divisione lombarda,
forte di 6 a 7000 uomini: ma il governo sardo, ajutato dal general
Fanti, deluse, ingannando, il disegno(57).
Il 25 aprile i Francesi erano in Civitavecchia. Non avevamo avuto un
mese di tempo per ordinare le forze, assestar la finanza, rimediare
al difetto d'artiglierie, provvederci d'armi.
Con quei che scrissero essere stato errore il resistere non è da
discutersi. Ma alle molte evidenti cagioni che ci comandavano di
combattere, un'altra se ne aggiungeva per me intimamente connessa
col fine di tutta la mia vita, la fondazione dell'unità nazionale.
In Roma era il centro naturale di quell'unità; e verso quel centro
bisognava attirare gli sguardi e la riverenza degli Italiani. Or gli
Italiani avevano quasi perduto la religione di Roma: cominciavano a
dirla tomba, e parea. Sede d'una forma di credenza omai spenta e
sorretta dall'ipocrisia e dalla persecuzione, abitata da una
borghesia vivente in parte sulle pompe del culto e sulle corruttele
dell'alto clero e da un popolo virile e nobilmente altero, ma
forzatamente ignorante e apparentemente devoto al papa, Roma era
guardata con avversione dagli uni, con indifferenza sprezzante dagli
altri. Da pochi fatti individuali infuori, nulla rivelava in essa
quel fermento di libertà che agitava ogni tanto le Romagne e le
Marche. Bisognava redimerla e ricollocarla in alto perchè gli
Italiani si riavvezzassero a guardare in essa siccome in tempio
della patria comune: bisognava che tutti intendessero la potenza
d'immortalità fremente sotto le rovine di due epoche mondiali. E io
sentiva quella potenza, quel palpito della immensa eterna vita di
Roma al di là della superficie artificiale che, a guisa di lenzuolo
di morte, preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente.
Io avea fede in essa. Ricordo che quando si trattava di decidere se
dovessimo difenderci o no, i capi della guardia nazionale, convocati
e interrogati da me, dichiararono, deplorando, pressochè tutti che
la guardia non avrebbe in alcun caso ajutato la difesa. A me pareva
d'intendere il popolo più assai di loro: e ordinai che i battaglioni
sfilassero il mattino seguente davanti al palazzo dell'Assemblea e
si ponesse da un oratore la proposta ai militi. Il grido universale
di guerra che s'inalzò dalle loro file sommerse irrevocabilmente
ogni trepida dubbiezza di capi.
La difesa fu dunque decisa dall'Assemblea e dal popolo di Roma per
generoso sentire e riverenza all'onore d'Italia, da me per
conseguenza logica d'un disegno immedesimato da lungo con me.
Strategicamente, la guerra avrebbe dovuto condursi fuori di Roma,
sul fianco della linea d'operazione nemica. Ma la vittoria era, se
non ci venivano ajuti d'altrove, dentro e fuori impossibile.
Condannati a perire, dovevamo, pensando al futuro, proferire il
nostro morituri te salutant all'Italia da Roma.
Pur nondimeno e anche antivedendo inevitabile la sconfitta, noi non
potevamo, senza tradire il mandato, trascurare l'unica via di salute
possibile; ed era un mutamento nelle cose di Francia. L'invasione
era concetto di Luigi Napoleone che, meditando tirannide, volea da
un lato avvezzare la soldatesca a combattere la repubblica altrove,
dall'altro prepararsi il suffragio del clero cattolico e di quella
parte di popolo francese che in provincia segnatamente ne segue le
ispirazioni. L'Assemblea di Francia, incerta e divisa com'era,
dissentiva da ogni proposito deliberatamente avverso a noi: aveva
approvato l'intervento, ingannata sulle nostre condizioni e sul fine
segreto della spedizione. I complici di Luigi Napoleone affermavano
imminente la invasione austro-napoletana a pro della dominazione
assoluta papale e dichiaravano la popolazione dello Stato nemica al
sistema repubblicano e soltanto compressa dal terrore esercitato da
pochi audaci: Roma quindi impotente a resistere e preda in brevi
giorni dell'Austria se non s'inframmettevano l'armi di Francia.
Provare alla Francia l'assenza in Roma di ogni terrore, l'unanime
volere delle nostre popolazioni, la possibilità per noi di resistere
a un intervento austriaco o napoletano; costringere Luigi Napoleone
a smascherare il suo vero disegno; combattere, separando nella serie
dei nostri atti, la nazione dal Presidente di Francia: vincere tanto
da testimoniare della nostra determinazione, ma senza abusare della
vittoria, senza irritare l'orgoglio e le subite passioni francesi;
somministrare per tal modo una opportunità ai membri della Montagna,
ai nostri amici nell'Assemblea, d'iniziare la resistenza a Luigi
Napoleone: era questo il debito nostro e non lo tradimmo. Quindi gli
ordini mandati a Civitavecchia e traditi dall'altrui arrendevolezza
alle menzognere promesse del generale Oudinot, di resistere a ogni
patto, non fosse che per ore, pur tanto da provare il desiderio
unanime di resistere, l'energia delle nostre dichiarazioni agli
inviati del campo francese, i preparativi solleciti e la battaglia -
e a un tempo la richiesta ai municipî, accolta da tutti, perchè
esprimessero nuovamente adesione al governo repubblicano - il rinvio
dei prigionieri francesi fatti nella giornata del 30 aprile -
l'ordine spedito in quel giorno a Garibaldi di desistere
dall'inseguire i Francesi in rotta - e generalmente l'attitudine
assunta e mantenuta da noi durante l'assedio e ch'io compendiava
dicendo che Roma era non in condizione di guerra con la Francia, ma
di pura difesa. Quell'ordine a Garibaldi mi fu apposto come errore,
da chi non guardò che al fatto isolato. Ma che importava, di fronte
al concetto accennato, qualche centinajo più di Francesi morti o
prigioni?
E quel concetto - gli uomini dagli appunti non dovrebbero
dimenticarlo - se Luigi Napoleone non violava ogni tradizione di
lealtà affidando all'inviato Lesseps poteri illimitati pacifici e
annullandoli a un tempo con istruzioni segrete trasmesse al generale
Oudinot, riesciva. Il 7 maggio, commossa dall'opera nostra e dal
nostro linguaggio, l'Assemblea di Francia invitava solennemente il
potere esecutivo ad adottare senza indugio i provvedimenti necessarî
a far sì che la spedizione di Roma non fosse più oltre sviata dal
vero suo fine; e mandava incaricato di statuire gli accordi con noi
il Lesseps. Sul finire di maggio, si firmava tra noi e il
plenipotenziario di Francia un patto che dichiarava: - L'appoggio
della Francia è assicurato alle popolazioni dello Stato romano: esse
riguardano l'esercito francese come un esercito amico che viene a
correre alla difesa del loro territorio. - D'accordo col governo
romano e senza menomamente intromettersi nell'amministrazione del
paese, l'esercito francese prenderà gli alloggiamenti esteriori
convenienti, tanto per la difesa del paese come per la salubrità,
alle sue truppe. Così la guerra era convertita in alleanza:
l'esercito francese diventava nostra riserva contro ogni altro
invasore straniero: Roma, com'io aveva detto, rimaneva sacra e
inviolabile ad amici e nemici: la diplomazia repubblicana otteneva
una vittoria splendida come quella dell'armi repubblicane in aprile:
noi eravamo liberi di correre ad affrontare gli Austriaci e li
avremmo disfatti.
Ognun sa come Oudinot rifiutasse d'assentire al trattato e
disdicesse a un tratto la tregua. Egli aveva da Luigi Napoleone
istruzioni segrete direttamente contrarie a quelle da lui date a
Lesseps.
Il 13 giugno, i nostri amici nell'Assemblea francese tentarono,
capitanati da Ledru Rollin, sommovere Parigi contro l'infamia
commessa: ma non riuscirono. Il loro tentativo era un appello
all'insurrezione senza i preparativi necessarî a iniziarla.
Taluno m'appose d'aver continuato la difesa anche dopo le infauste
nuove del 13 giugno. Avrei creduto tradire il mandato, l'onore del
paese, la bandiera repubblicana e me stesso, s'io avessi fatto
altrimenti. Dovevamo noi lacerare la pagina gloriosa che Roma
scriveva, dichiarando all'Europa che se avevamo accettato la guerra,
non l'avevamo fatto per compire, a ogni prezzo, un dovere, ma perchè
speravamo in una insurrezione francese?
Noi dovevamo resistere fino all'estremo. Quando si trattava
nell'Assemblea di decidere tra l'accogliere i Francesi che movevano
su Roma o combatterli, io m'astenni, per non esercitare influenza
sopra una decisione che doveva essere espressione collettiva e
spontanea, dall'assistere alla seduta: il Triumvirato non v'era
rappresentato che da Saffi e Armellini, titubanti ambidue. Ma
raccolto da un popolo e da un popolo repubblicano, in nome del
Dritto, il guanto nemico, il duello non dovrebbe cessare che
coll'esaurimento assoluto o colla vittoria. Le monarchie possono
capitolare; le repubbliche muojono: le prime rappresentano interessi
dinastici; possono quindi ajutarsi di concessioni e occorrendo di
codardie per salvarli: le seconde rappresentano una fede e devono
testimoniarne fino al martirio. Per questo noi avevamo fatto anzi
tratto gremir Roma di barricate: alla guerra delle mura doveva
sottentrare la guerra delle strade; e in Roma sarebbe stata
tremenda. Quella guerra fu resa impossibile dai Francesi i quali
s'appagavano visibilmente di padroneggiare la città dalle alture
occupate e ridurla, strema com'era di vettovaglie, ad arrendersi. Ma
l'idea di prolungare la lotta finchè ci rimanesse un uomo e un
fucile era siffattamente elementare nell'animo mio che, disperata
ogni difesa in Roma, proposi un altro partito: escire dalla città:
escirne col piccolo esercito e coi popolani armati che volessero
seguirci: escirne noi Triumviri accompagnati dai ministeri e se non
da tutta, da una numerosa delegazione dell'Assemblea, tanto da dare
alla mosse dell'esercito autorità legale e prestigio sulle
popolazioni. Allontanarci rapidamente da Roma, approvvigionarci
sull'Aretino, gettarci poi tra Bologna e Ancona, sulla linea di
operazione austriaca, e cercare con una vittoria di risollevar le
Romagne; era quello il disegno mio. I Francesi avrebbero così
occupato Roma senza vincere la repubblica e sotto una perenne
minaccia; nè avrebbero potuto seguirci sul nuovo terreno se non
combattendo a pro dell'Austria e smascherando l'infamia
dell'invasione davanti alla loro patria e all'Europa. E fu il
disegno tentato da Garibaldi, ma con poche migliaja raccozzate da
corpi diversi, senza artiglieria, senza appoggio d'autorità
governativa e in condizioni che vietavano ogni possibilità di
successo.
Il 30 giugno, padroni i Francesi dei bastioni e di tutte le alture,
convocai i capi militari a consiglio. Garibaldi rispose non potere
allontanarsi un solo istante dalle difese e ci recammo quindi
ov'egli era. Là dichiarai che l'ora suprema per Roma essendo giunta
e urgendo decidere qual partito dovesse scegliersi, il governo
desiderava, prima di comunicare coll'Assemblea, raccogliere i
consigli dei capi dell'armi. Dissi com'erano innanzi a noi tre
partiti: capitolare - resistere finchè la città fosse rovina -
escire da Roma, trasportando altrove la guerra: il primo essere
indegno della repubblica: il secondo inutile dacchè l'attitudine dei
Francesi annunziava che non scenderebbero a battaglia di barricate e
di popolo, ma aspetterebbero, tormentandoci dall'alto colle bombe e
le artiglierie, che ci vincesse la carestia: il terzo essere quello
ch'io, come individuo, proponeva. Furono diversi i pareri. Avezzana,
i capi romani e altri votarono, a maggioranza di due, perchè
rimanessimo, ostinati a difenderci, in Roma: Roselli, Pisacane,
Garibaldi con altri parecchi accettarono la mia proposta: non uno -
e lo ricordo a onore del piccolo esercito repubblicano - pose il
nome nella colonna in capo alla quale io aveva scritto:
capitolazione. Disciolsi il Consiglio e m'affrettai all'Assemblea.
Ad essa, raccolta a comitato segreto senza intervento di popolo,
dissi ciò ch'io aveva detto al Consiglio di guerra: e proposi il
partito che solo mi pareva degno di Roma e di noi. L'Assemblea non
volle accettarlo. Non narrerò i particolari, a me tristissimi, della
seduta. Ma trovai avversi al partito i migliori amici ch'io m'avessi
tra i membri. Taluni mi rimproverarono poco dopo, e a ragione, di
non avere anzi tratto preparato gli animi alla decisione; se non che
la singolare, tranquilla e veramente romana energia mostrata fino a
quel momento dall'Assemblea m'aveva illuso a credere che la proposta
sarebbe stata accolta con plauso.
Prevalse il partito proposto da Enrico Cernuschi, e fu decretato che
Roma cessasse dalle difese.
Io aveva lasciato l'Assemblea prima che il voto sancisse quella
proposta. Il decreto fu trasmesso al Triumvirato coll'invito a noi
di comunicarlo al generale francese e trattar con lui pei
provvedimenti necessarî a tutelar l'ordine e le persone nella città
conquistata. Ricusai di farlo: scrissi all'Assemblea ch'io era stato
eletto Triumviro per difendere, non per sotterrar la repubblica, e
accompagnai quelle parole colla mia dimissione. I miei due colleghi
s'unirono a me.
Il 3 luglio, io deposi nelle mani dei segretari dell'Assemblea la
seguente protesta:
«Cittadini.
«Voi avete, coi vostri decreti del 30 giugno e del 2 luglio,
confermato involontariamente, voi incaricati dal popolo di tutelarla
e di difenderla sino agli estremi, il sagrificio della repubblica;
ed io sento, con un immenso dolore sull'anima, la necessità di
dichiararvelo, perchè non rimanga taccia a me stesso davanti alla
mia coscienza e per documento ai contemporanei che non tutti
disperavano, quando voi decretaste della salute della patria e della
potenza della nostra bandiera.
«Voi avevate da Dio e dal Popolo il doppio mandato di resistere,
finchè avreste forze, alla prepotenza straniera e di santificare il
principio incarnato visibilmente nell'Assemblea, provando al mondo
che non è patto possibile tra il giusto e l'ingiusto, fra il diritto
eterno e la forza brutale, e che le monarchie, fondate sull'egoismo
delle cupidigie, possono e devono cedere o capitolare, ma le
repubbliche, fondate sul dovere e sulle credenze, non cedono, non
capitolano: muojono protestando.
«Voi avevate ancora forza nei generosi della milizia che pugnavano
mentre voi stendevate il decreto fatale; nel popolo che fremeva
battaglia; nelle barricate cittadine; nell'influenza esercitata dal
vostro consesso sulle provincie. Nè popolo nè milizia vi domandavano
di cedere: la città era tuttavia irta di barricate ordinate da voi
come solenne promessa che Roma si sarebbe, esauriti i modi della
milizia, popolarmente difesa. E nondimeno voi decretaste impossibile
la difesa e la rendeste tale pronunciando l'esosa parola. Voi
dichiaraste che l'Assemblea stava al suo posto. Ma il posto
dell'Assemblea era l'ultimo angolo di terreno italiano dove potesse
tenersi eretta, anche un giorno di più, la bandiera della
repubblica; e voi, confinando l'esecuzione del mandato per entro le
mura del Campidoglio, uccidevate sotto la morta lettera lo spirito
del decreto.
«Voi sapevate, per insegnamento di storia e di logica, che nessuna
Assemblea può durar libera un momento solo colle bajonette nemiche
alle porte; e che la repubblica cadrebbe il giorno in cui un soldato
francese porrebbe piede dentro le mura di Roma. Voi dunque,
decretando che l'Assemblea repubblicana starebbe in Roma,
decretavate a un tempo e inevitabilmente la morte della repubblica e
dell'Assemblea. E decretando che l'esercito repubblicano escirebbe
di Roma senza voi, senza il governo, senza la rappresentanza legale
della repubblica, decretavate, senza avvedervene, la prima
manifestazione di dissenso tra quei ch'erano stati fortissimi
nell'unione e, Dio nol voglia, lo scioglimento d'un nucleo sul quale
riposavano tutte le più care speranze d'Italia.
«Voi dovevate decretare l'impossibilità del contatto, fuorchè di
guerra, fra gli uomini chiamati a rappresentar la repubblica e gli
uomini venuti a distruggerla - ricordarvi che Roma era, non una
città, ma l'Italia, il simbolo del pensiero italiano, e grande
appunto perchè, mentre tutti cadevano disperando, aveva detto: io
non dispero, ma sorgo - ricordarvi che Roma non era in Roma, ma
dappertutto dove anime romane, santificate dal pensiero italiano,
erano raccolte a combattere e soffrire per l'onore d'Italia -
ricordarvi che terra italiana si stendeva d'intorno a voi e
trasportare governo, Assemblea, ogni elemento rappresentante il
pensiero e i buoni armati del popolo in seno all'esercito, portando
di terreno in terreno, finchè tutti vi fossero chiusi, il palladio
della fede e della missione di Roma. A confortarvi della speranza
che il fatto frutterebbe, sorgevano ricordi antichi e il ricordo
moderno dell'Ungheria. Ma dov'anche nessun esempio vi confortasse,
voi, fatti apostoli della terza vita d'Italia, dovevate essere primi
a dare spettacolo di nuova indomita costanza all'Europa. Queste cose
vi furono dette: non le accettaste; e io, rappresentante del popolo,
protesto solennemente in faccia a voi, al popolo, a Dio contro il
rifiuto e le sue conseguenze immediate.
«Roma è destinata dalla provvidenza a compiere grandi cose per la
salute dell'Italia e del mondo. La difesa di Roma ha iniziato queste
grandi cose e scritto la prima linea d'un immenso poema che si
compirà checchè avvenga. La storia terrà registro della iniziativa e
della parte che voi tutti, generosi d'intenzioni, v'aveste. Ma dirà
pure - e gemo, per affetto violato a un tratto, scrivendo - che nei
supremi momenti nei quali voi dovevate ingigantirvi maggiori dei
fati, falliste alla vostra missione e tradiste, non volendo, il
concetto italiano di Roma.
«Possa l'avvenire trovarci uniti a riscattar questa colpa!»
3 luglio 1849.
Entrati i Francesi e rientrata con essi la coorte di preti nemici
che s'era accentrata cospiratrice in Gaeta, io rimasi una settimana
pubblicamente in Roma. Le ciarle delle gazzette francesi e
cattoliche sul terrore esercitato da me in Roma durante l'assedio
m'invogliavano di provare a tutti la falsità dell'accusa, offrendomi
vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi e ottenerne
guiderdone dalla setta dominatrice. Poi, non mi dava il cuore di
staccarmi da Roma. Vidi, col senso di chi assiste alle esequie della
persona più cara, i membri dell'Assemblea, del governo, dei
ministeri, avviarsi tutti all'esilio; invasi gli ospedali dove
giacevano, più dolenti del fato della città che non del proprio, i
nostri feriti; le fresche sepolture dei nostri prodi calpestate,
profanate dal piede del conquistatore straniero. Io errava al cader
del sole, con Scipione Pistrucci e Gustavo Modena, ambi ora morti,
per le vie di Roma quando appunto i Francesi movendo lentamente,
colle bajonette in testa; fra un popolo cupo, irritato, intimavano
lo sgombro delle contrade, fremente di sdegno e ribollente di
pensieri di lotta. Parvemi che gli occupatori si fossero collocati
in modo sì incauto da prestare opportunità a una serie di sorprese e
m'affrettai a chiedere al generale Roselli e a' suoi dello stato
maggiore se, dove un leva leva di popolo capitanato da me, che non
aveva vincolo di patti con anima viva, avesse luogo, ajuterebbero,
ed assentirono: ma era tardi: i capi-popolo erano in fuga e ogni
tentativo fallì. Suggerii al Roselli di chiedere al generale
Oudinot, sotto colore d'evitare collisioni probabili, la
distribuzione del piccolo esercito romano in accantonamenti fuori
della città: là, i nostri militi si sarebbero riavuti
dall'esaurimento della lunga lotta: avremmo potuto riequipaggiarli:
io mi sarei tenuto celato e prossimo ad essi; poi, forse, avremmo
potuto cogliere un momento propizio per gittarci a sorpresa sul
nemico di Roma. Ma quel disegno, sulle prime accettato, tornò pure
inutile: la partenza in armi di Garibaldi insospettì l'Oudinot: fu
intimato che l'artiglieria romana rimanesse in città: i nostri
militi, convinti che il nemico era capace d'ogni iniquo procedere,
s'insospettirono alla volta loro che si volesse collocarli senza
mezzi di difesa tra i Francesi e gli Austriaci e farne macello; il
piccolo esercito si smembrò e poco dopo fu sciolto. Pazzi e rovinosi
consigli; ma in quei giorni tutte le potenze dell'anima mia non
vivevano che d'una idea: ribellione a ogni patto contro la forza
brutale che, in nome d'una repubblica, annientava, non provocata,
un'altra repubblica.
Perchè preti e Francesi non si giovassero allora dell'occasione
ch'io offriva per avermi morto o prigione, m'è tuttavia arcano.
Ricordo come la povera Margherita Fuller e la cara venerata amica
mia Giulia Modena mi supplicassero di ritrarmi e serbarmi, com'esse
dicevano, a tempi migliori. Ma s'io avessi potuto antivedere i nuovi
disinganni e le ingratitudini e il fallirmi d'antichi amici che
m'aspettavano e non avessi pensato che al mio individuo, avrei detto
loro: lasciatemi, se mi amate, morire con Roma.
Comunque, partii. Partii senza passaporto e mi recai in
Civitavecchia. Di là mandai a chiederne uno all'ambasciata
americana, e l'ebbi, ma non contrassegnato, come si richiedea per
l'escita, dalle autorità francesi, inutile quindi. Stava in
Civitavecchia un vaporuccio, il Corriere Côrso, presto a salpare. Il
capitano, parmi un De-Cristofori; côrso egli pure, m'era ignoto:
m'avventurai nondimeno a chiedergli se volesse, a suo rischio,
accogliermi senza carte, ed ebbi inaspettato assenso da lui.
M'imbarcai. Il vapore moveva verso Marsiglia, toccando Livorno,
allora tenuta dagli Austriaci. Trovai sul bordo, ingrato spettacolo,
una deputazione di Romani tra gli avversi a noi che s'avviava a
quest'ultimo porto per risalparne e recarsi a implorare Pio IX in
Gaeta. Non li guardai. Ma essi mi conoscevano e il capitano temeva
ch'essi, scendendo in Livorno, denunziassero la mia presenza agli
Austriaci. Nol fecero e giunsi in Marsiglia. Non importa ai lettori
sapere com'io, sprovveduto di passaporto, v'entrassi e come mi
venisse fatto di recarmi, attraverso le terre del nemico, in
Ginevra. Ma ho notato queste cose di me, perchè gli storici e i
gazzettieri di parte moderata, menzogneri per calcolo, ciarlarono
allora e riciarlerebbero, occorrendo, oggi, dei miei tre passaporti,
degli appoggi inglesi ch'io m'era procacciati anzi tratto e della
prudenza colla quale io provvedeva alla mia salvezza.
Pur, nè calunnia sistematica di moderati nè altro può cancellare
l'unico fatto che importi; ed è la difesa. La pagina gloriosa,
iniziatrice, profetica, che Roma scrisse in quei due mesi di guerra
rimarrà documento ai rinsaviti dagli errori dell'oggi di ciò che
possono un principio e un nucleo d'uomini fermi in incarnarlo
logicamente, intrepidamente nei fatti. Roma era città di vastissima
cinta, non munita, pressochè aperta sulla sinistra del Tevere, ad
ogni assalto nemico. Difettavamo d'artiglierie; eravamo sprovveduti
di mortai: non preparati a guerra: mancanti, per fatto del vecchio
governo, del nervo d'ogni resistenza, danaro; mancanti a segno che
la notte della nostra elezione, raccolti noi Triumviri ad esaminare
qual fosse la condizione finanziaria e guerresca della repubblica,
ponemmo a voti se non dovessimo rassegnare la mattina dopo
l'ufficio. La popolazione era, per lunghi secoli di schiavitù
corruttrice, ignara, intorpidita, incerta, sospettosa d'ogni cosa e
d'ogni uomo; e noi eravamo nuovi, ignoti i più, senza prestigio di
nascita, di ricchezza, di tradizioni. Individui ch'erano stati a
governo e rappresentavano l'elemento moderato costituzionale
diffondevano, duce Mamiani, presagi sinistri sugli effetti della
forma adottata e non s'arretravano dal cospirare col nemico
straniero. Gaeta era fucina di raggiri, di turbamenti e congiure: di
ribellione aperta sull'Ascolano. Fummo assaliti subitamente, prima
d'ogni sospetto! assaliti da chi era potente in Italia per antichi
affetti, tenuto per invincibile in guerra e ajutato dal prestigio
d'una bandiera repubblicana come la nostra: poi dal re di Napoli,
dagli Austriaci e dalla Spagna. E nondimeno fugammo, colle nostre
nuove milizie, le truppe del re di Napoli, combattemmo l'Austria,
resistemmo per due mesi all'armi francesi. Nella giornata del 30
aprile i nostri giovani volontari videro in rotta i vecchi soldati
d'Oudinot; in quelle del 3 e del 30 giugno pugnarono in modo da
meritare l'ammirazione del nemico. Il popolo, rifatto grande da un
principio, partecipava alla difesa, affrontava con calma romana le
privazioni, scherzava sotto le bombe. Popolo, Assemblea, Triumvirato
ed esercito furono una cosa sola, s'afforzarono a vicenda
d'illimitata fiducia. Governammo senza prigioni, senza processi: io
potei mandare a dire a Mamiani, quando fui avvertito de' suoi
colloqui notturni con Lesseps, che seguisse pure, non temesse del
governo, badasse soltanto a sottrarre la conoscenza del fatto al
popolo: sprezzammo le piccole cospirazioni e vedemmo il cavaliere
Campana, convinto dopo lungo studio dell'impotenza d'ogni tentativo
di fronte all'accordo dell'immensa maggioranza con noi, venire egli
stesso spontaneo a denunziare i suoi complici. Queste cose furono
dovute all'istituzione repubblicana, ai forti istinti del popolo
ridesti dall'esistenza d'un governo suo, alla formola Dio e il
popolo che diede subitamente a ciascuno coscienza del proprio dovere
e del proprio diritto, alla nostra fiducia nelle moltitudini, alla
fiducia delle moltitudini in noi. La monarchia non aveva saputo, con
45,000 soldati e col Piemonte a riserva, trovare in Milano altra via
di salute che il tradimento. E mentr'io scrivo, la monarchia, con
mezzo milione d'armati tra soldati regolari, volontari e guardie
nazionali mobilizzabili - con un vasto materiale di guerra - con
mezzi finanziari considerevoli - con ventidue milioni d'Italiani
invocanti Venezia - esita ad assalire, sul terreno italiano, le
forze austriache.
Viva la repubblica! Il sentimento repubblicano poteva solo ispirare
tanto valore agli Italiani. Sono parole contenute nella relazione
scritta a nove ore di sera del combattimento del 3 giugno da Luciano
Manara.
Non so quanto i Romani ricordino oggi il 1849. Ma se le madri romane
hanno, come dovevano, insegnato ai figli la riverenza ai martiri
repubblicani, in quell'anno, della loro città - se additarono loro
sovente il luogo ove cadde ferito a morte il giovine poeta del
popolo, Goffredo Mameli - il luogo ove Masina, già indebolito da un
colpo e con diciannove seguaci, avventò il cavallo contro una
posizione difesa da 300 francesi e moriva - il luogo ove perivano
senza ritrarsi, combattendo venti contro cento, Daverio e Ramorino -
Villa Corsini - Villa Valentini - il Vascello - Villa Panfili - le
pietre dei dintorni di Roma santificate quasi ciascuna dal sangue
d'un caduto col sorriso sul volto, col grido repubblicano sul labbro
- Roma non sarà, sorgendo, profanata - o nol sarà lungamente - dalla
monarchia (1864).
La condotta di parte nostra, determinata dall'iniziativa altrui e da
fatti che si svolsero indipendenti dalla nostra fede, risulterà
chiara a chi vorrà esaminarla spassionatamente: noi ci limitammo a
trarre il migliore partito possibile dagli eventi, perchè il paese
se ne giovasse a tener sospesa sul capo agli uomini, che a noi
sottentravano, la spada di Damocle della Rivoluzione; perch'essi
inoltrassero a forza sulla via, non foss'altro dell'Unità Nazionale.
Ma, in quel periodo di tempo tentammo una iniziativa, della quale
giova parlare perchè generò, a mio credere, conseguenze importanti.
La Lombardia era, per colpe monarchiche, nuovamente dominio
dell'Austria; ma aveva, con fatti, provato d'essere capace
d'emanciparsi per virtù di popolo. Venezia era caduta, ma dopo
lunghe eroiche prove e come chi vince. Roma era dei Francesi e del
Papa, ma l'esito morale della battaglia era nostro: redenta davanti
all'Italia, la sacra Città era per la terza volta centro e perno
delle aspirazioni della Nazione. S'anche le anime nostre fossero
state capaci di sconforto, non ne avevamo cagione.
Ci raccogliemmo, dopo la caduta di Roma, in Losanna, Aurelio Saffi,
Carlo Pisacane, Mattia Montecchi ed io. Altri profughi ci
raggiunsero, collocandosi nei paesetti fra Losanna e Ginevra.
Imprendemmo senza indugio - settembre 1849 - la pubblicazione
dell'Italia del Popolo, collezione di scritti mensile, il cui
programma era, com'io diceva, nella parola escita il 9 febbrajo da
Roma, madre comune e centro d'Unità a tutte le popolazioni d'Italia
e nella missione che all'Italia assegnano la tradizione e la
coscienza popolare. Gli scritti ch'io v'inserii sono, da pochi in
fuori, contenuti nel Vol. VII delle Opere. Ma i lavori che
v'inserirono Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Filippo De Boni e altri,
meriterebbero d'essere raccolti in un volume e gioverebbero perchè
combattono vecchi errori, rinnovati in oggi e fatali. Ne pubblicammo
sedici fascicoli sino al febbrajo 1851. Ma nel maggio 1850
l'Assemblea di Francia era chiamata a discutere una legge
restrittiva del suffragio, che violava apertamente l'articolo 3.°
della Costituzione e spianava la via alle mire usurpatrici di Luigi
Napoleone. Pensai giunta l'occasione d'un moto decisivo in Parigi e,
avventurandomi, mi vi recai. E questa mia assenza nocque
naturalmente all'Italia del Popolo, ch'io dirigeva; e comunque
dall'Inghilterra ov'io, dopo il soggiorno d'un mese incirca in
Parigi, mi condussi, cercassi continuarle vita, non vi fu modo. Il
Buonamici, editore, datosi al tristo, fuggì abbandonando moglie e
negozio, in Australia. Il piccolo nucleo si sciolse. Saffi,
Montecchi, Agostini mi raggiunsero in Londra.
In Parigi ebbi a confermarmi nelle idee, nudrite ed espresse fino
dal 1835, che la Francia era per molti anni perduta e che
l'iniziativa del moto Europeo era da trovarsi altrove. Vidi
Lamennais, Flotte, Giulio Favre e quanti mi parevano all'uopo, fino
al principe Napoleone Bonaparte, antico cospiratore con me finchè
gli Orléans reggevano. Non v'era speranza. Gli animi erano travolti
da gare di parte, da stolte paure, da rancori personali, e
smarrivano il segno. M'affannai inutilmente a dimostrare a quanti
vennero a segreto convegno con me, che il vero unico pericoloso
nemico della Repubblica era il Presidente, e che importava anzi
tutto togliergli forza di compier disegni, evidenti fin d'allora per
me. La borghesia, impaurita dei pazzi sistemi che assalivano la
proprietà, tremava d'un socialismo inverificabile e minaccioso
soltanto a parole. I repubblicani avventati, o come li dicevano
rossi, non vedevano pericoli alla repubblica fuorchè dai bianchi,
dai monarchici dell'Assemblea, capaci di sviare e profanare
l'Istituzione, incapaci, per difetto d'unità di consigli e
d'audacia, d'abolirla. Tutti sprezzavano, errore dei più fatali, il
nemico e mi dicevano, quand'io vaticinava il colpo di Stato, che se
mai tentasse, il Presidente sarebbe quetamente condotto a Charenton,
ospizio degli impazziti. Lasciai Parigi col presentimento della
catastrofe.
Ma l'Italia? Era essa condannata a seguire, quasi satellite, i fati
di Francia? Non poteva un popolo di ventisei milioni, ridesto a
coscienza di libera vita dalle giornate di Milano e dalle eroiche
difese di Venezia e Roma, raccogliere l'iniziativa tradita altrove?
Padrone del proprio suolo e del proprio avvenire nel 1848, quel
popolo non era caduto se non perchè aveva ceduto la direzione delle
proprie forze e del moto a mani d'inetti e di tristi, a principi e
cortigiani. Bisognava insegnargli che non esistono capi per diritto
di nascita o di ricchezza: che soli capi legittimi d'una rivoluzione
sono gli uomini che hanno più combattuto per essa: che un popolo non
deve mai rinunziare al proprio diritto d'iniziativa, nè confidar
ciecamente, nè allontanarsi dall'arena, nè dire a sè stesso: altri
farà in vece mia. E per questo, il miglior partito era quello di
condurre il popolo primo sul campo, tanto ch'esso imparasse in un
tratto il proprio debito e la propria forza, e gli altri imparassero
a rispettarlo e temerlo.
Questi pensieri mi diressero nel nuovo stadio d'agitazione che da
Londra iniziai.
In Roma, io aveva lasciato, prima d'allontanarmene, le norme
necessarie all'impianto d'una Associazione Nazionale segreta, che si
ordinava rapidamente. In Londra fondai un Comitato Europeo e un
Comitato Nazionale Italiano.
L'impianto e gli Atti del Comitato Nazionale trovarono favorevole
accoglimento in Italia. Gli animi si riconfortarono a speranza e
lavoro. Adesioni e promesse vennero pressochè unanimi dagli uomini
che, nei fatti di Venezia e di Roma, avevano conquistato nome e
influenza. Comunque, per diverse cagioni, il risultato pratico
dell'Imprestito dovesse, in ultima analisi, come dirò, riuscire
meschino, le nostre cedole erano su quei primi tempi ricercatissime.
L'ordinamento segreto si estendeva rapidamente. Nella Lombardia, in
Toscana, in Roma, la stampa clandestina s'iniziava operosa, ardita,
irreperibile. Un Comitato Siciliano si costituiva fin dalla prima
metà del 1851 nell'Isola, e un altro Comitato d'esuli Siciliani in
Parigi stava anello intermedio fra quello e noi. Tra il 1850 e il
1851 si fondavano in Piemonte e nella Liguria le prime Associazioni
Operaie, paghe del modesto fine del mutuo soccorso, ma pronte a
cogliere ogni opportunità di dichiarare la loro devozione alla
Patria. In Genova, dove, giovandosi della semi-libertà concessa
dallo Statuto, il popolo s'accalcava a pubbliche manifestazioni,
anche l'elemento militare s'affratellava: un sergente di bersaglieri
prorompeva, in un banchetto d'oltre a duecento individui, in quel
grido che dovrebbe suonare per tutto l'esercito nazionale: anche la
truppa è popolo, e Francesco Quetand, della Brigata Savoja, parlando
per tutti i suoi commilitoni, osava proferire il mio nome e quello
di Garibaldi, e conchiudeva: le nostre armi non si tingeranno mai
del vostro sangue ch'è nostro sangue, perchè noi non abbiamo che una
madre(58). E in Roma, l'Associazione alla quale accennai s'era, in
un anno, fatta potente di tanto, che dichiarava a mezzo il 1851
compito il lavoro preparatorio e scioglieva, entrando in un secondo
periodo, il suo Comitato, per istituire una Direzione Centrale,
incaricata di studiare i modi e le opportunità dell'azione. A quella
Direzione, affidata a un uomo singolare per intelletto, per fede,
per cuore e per illimitato spirito di sagrificio, era mia mente
d'accentrare a poco a poco tutti gli elementi nostri in Italia.
E da tutto quel lavoro sorgeva spontanea una parola: Repubblica. La
stampa clandestina milanese saettava continuamente i tentativi dei
monarchici lombardi ricoverati in Piemonte. Il Comitato Siciliano
scriveva in fronte ai suoi Atti la formula: Dio e il Popolo.
Repubblicano si chiariva il Comitato dei Siciliani in Parigi.
Repubblicana era la stampa segreta toscana. Di Roma non occorre
ch'io dica. Ma in Genova, quando l'11 giugno 1850, in un pubblico
convito, l'avv. Brofferio avventurava parole, che a torto o ragione
furono interpretate come favorevoli alla federazione e alla
monarchia, un grido unanime gli rispose: Viva Roma, capitale della
Repubblica Italiana! Noi non avevamo provocato l'espressione di
quella tendenza; ma dovevamo raccoglierla e movere un passo innanzi.
Non potevamo pretendere di guidare con bandiera neutra un lavoro
generale, che inalberava la bandiera repubblicana.
Come membro del Comitato Europeo, apposi, nell'agosto del 1851, il
mio nome a un suo Atto, che s'indirizzava agli Italiani e additava
loro come sola via di salute l'istituzione repubblicana. Per quel
fatto, Giuseppe Sirtori c'intimò, con parole dissennatamente
irritate, di protestare, come Comitato Nazionale, contro quell'Atto
o d'accettare la di lui dimissione. Accettammo la dimissione,
dichiarando «che il Manifesto del Comitato Europeo non racchiudeva
contradizione alcuna col nostro e che il consiglio dato agli
Italiani d'attenersi, pel moto futuro, al simbolo repubblicano, era
conseguenza logica del principio di Sovranità Nazionale da noi
sancito.»
Di mezzo a quel fervore d'apostolato, io guardavo sempre all'Italia
e alla possibilità di ridestarla all'azione. E l'opportunità non
tardò a rivelarsi.
S'era formata, spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852, in Milano,
una Fratellanza segreta di popolani, repubblicana di fede e con
animo deliberato di preparare l'insurrezione e compirla. Non s'era
rivolta per ajuti e consigli ad abbienti o letterati; non aveva
cercato contatto con noi: aveva prima voluto esser forte. Uomini di
popolo erano suoi capi: influente fra tutti, un tintore, Assi di
nome, assiduo di cure nell'ordinamento e largo in quell'opera d'un
po' di fortuna che gli era venuta dal lavoro: lo chiamavano il
Ciceruacchio di Milano. La Fratellanza v'era divisa in nuclei
contrassegnati dalle lettere dell'alfabeto: abbracciava ogni ramo di
lavoro, e con quel senso pratico ch'è facoltà prominente degli
operai, s'era giovato del facile accesso ai luoghi più vigilati, per
raccogliere quante nozioni di fatto potevano, in un momento dato,
agevolare una impresa. E nel silenzio, senza che l'esistenza ne
fosse sospettata, non dirò dal nemico, ma dagli uomini appartenenti
nell'altre classi al simbolo nazionale, aveva raggiunta la cifra di
parecchie migliaja d'affratellati.
Allora soltanto l'Associazione, sentendosi forte e vogliosa di fare,
cercò contatto con me. Offriva azione immediata, e chiedeva
istruzioni, direzione, ajuti in armi e danaro.
Come sintomo, il fatto che mi si rivelava era di una importanza
vitale, e additava innegabile l'incarnazione del lungo nostro
apostolato nel popolo.
Come avviamento all'azione, era incerto: pendeva dalla somma di
mezzi, richiesta a porre in moto quell'elemento e, più ch'altro,
dalla risposta a una questione difficile: sarebbe l'energia del
popolo nell'azione eguale alla costanza spiegata nel preparare?
Scelsi un uomo militare non noto, prudente, avveduto, d'abitudini
atte a cattivarsi la fiducia dei popolani e a studiarli; e lo mandai
verificatore in Milano.
Una serie di relazioni che mi venne da lui, confermò tutte le
affermazioni degli artigiani milanesi sulle forze e sulla disciplina
della Fratellanza. Accolto siccome capo e in contatto continuo
coll'Assi e con quanti stavano alla direzione dei nuclei, ei mi
giurava che potevano e volevano. Quanto mi adoprai a raccogliere per
altre vie raffermava le relazioni dell'inviato.
Non mi dilungherò a spiegare com'io accettassi l'ipotesi
dell'azione: ne parlo in uno scritto da trovarsi poco oltre; e del
resto, chi ha letto i miei volumi, sa ch'io credeva - e dacchè la
nostra Rivoluzione Nazionale non è compita, credo - unica via
all'educazione politica del paese l'Azione. L'Italia era per ogni
dove solcata di lavori nostri; e dopo i fatti del 1848 io mi sentiva
convinto che una sconfitta all'Austria in Milano avrebbe dato moto
all'insurrezione lombarda dapprima, poco dopo a quella di tutta
Italia. E nondimeno, la decisione del movere non fu mia. Inferociti
pei supplizî di Mantova(59), gli influenti fra i congiurati,
raccolti una notte in numero di sessanta a convegno, decretarono sul
finire dell'anno che si moverebbero e m'inviarono dichiarazione
solenne che, s'anche il Comitato Nazionale ricusasse assenso ed
ajuto, farebbero, anzichè soggiacere a uno a uno alle persecuzioni
dell'Austria, in ogni modo e da sè. Vivono tuttavia gli uomini che
potrebbero, ov'io non dicessi il vero, smentirmi.
Accennerò soltanto rapidamente - chi mai potrebbe in questi
giorni(60) diffondersi in particolari su cose passate? - come si
preparasse e perchè fallisse l'impresa.
Mancavano all'Associazione le armi; mancava il denaro. Di denaro
diedi quanto occorreva sul non molto raccolto dall'Imprestito
Nazionale. Ma il contrabbando delle armi era difficilissimo e,
scoperto, com'era probabile, avrebbe rivelato il disegno. Riescii ad
introdurre in Milano un certo numero di projettili di nuova
invenzione che non giovarono, dacchè le barricate, alla difesa delle
quali erano destinati, non furono fatte; ma, quanto ai fucili,
risposi che le insurrezioni erano avviamento alla guerra, non
guerra; che l'armi dovevano e nelle città potevano sempre
conquistarsi sul nemico; che a conquistarle bastavano animo
deliberato davvero e coltella. Quei buoni popolani intesero, e
dissotterrate, non so di dove, da circa cento pistole, arrugginite
le più e inservibili, si diedero pel resto lietamente a raccogliere
pugnali e temprare e immanicare grossi chiodi da barca, dove i
pugnali mancavano.
Non v'è cosa alcuna che, nell'insorgere d'una città, non possa
compiersi per sorpresa; soltanto è necessario, perchè le sorprese
riescano, che siano tenute gelosamente segrete ai più, tra quelli
stessi che devono compirle e siano eseguite a puntino e a scocco
d'oriuolo. Fu architettato un numero di sorprese che dovevano dar
Milano, senza grave lotta, in mano agli insorti. Le caserme, i corpi
di guardia, il fortino, il Castello dovevano alla stessa ora, anzi
allo stesso minuto, assalirsi a un tratto, invadersi, quando
sprovveduti quasi di difensori, da squadre, apprestate a pochi
passi, d'uomini armati d'arme corta e ignari essi medesimi, dai capi
infuori, dell'operazione da compiersi, fino al momento in cui
sarebbero stati raccolti al convegno. Da quella generale sorpresa
dovevano escire a un tempo la disfatta della soldatesca e l'armarsi
dei popolani. I luoghi occupati dal nemico erano stati minutamente
studiati, nell'interno e negli approcci, dal capo militare preposto
all'ordinamento e, sotto la di lui direzione, dai capi chiamati a
guidare all'azione le squadre. S'era scelto per l'insurrezione il 6
febbrajo 1853, giorno detto del giovedì grasso, in cui i sollazzi
carnevaleschi chiamano in piazza, senza ch'altri sospetti, tutto
quanto il popolo di Milano. Alle due pomeridiane incirca, i soldati
ricevevano la loro paga e si disperdevano per la città e nelle
taverne a bere, giuocare e ballare. Contro i piccoli nuclei rimasti
a guardia dei luoghi diversi, il subito assalto avrebbe avuto luogo
alle cinque. Le truppe consegnate a quartiere o altri simili indizî
avrebber rivelato il nemico essere avvertito e sulle difese; e il
moto sarebbe stato quetamente, senza grave sconcerto, senza
agitazione visibile, protratto a tempo più opportuno.
I tre punti che più importavano erano il Palazzo ove risiedeva il
Comando Generale, il locale della così detta Grande Guardia, e il
Castello.
Nel primo, custodito da soli venticinque uomini, si raccoglievano a
pranzo, appunto alle cinque pomeridiane, Governatore, Generali,
uffiziali componenti lo Stato Maggiore e altri; la sorpresa,
comparativamente facile, di quel palazzo, bastava quindi a
interromper ogni unità d'ordini e cacciar l'anarchia nella difesa.
Cento e più risoluti popolani dovevano impadronirsene; ed erano
stati affidati a un tale, ch'era noto sotto il nome di Fanfulla, era
stato nel 1848 ufficiale nei lancieri di Garibaldi, ed era tenuto
prode da tutta Milano. Il secondo, dov'erano centoventi uomini con
tre ufficiali e due obici carichi a mitraglia, collocati davanti al
portone, presentava più gravi difficoltà; ma il punto aveva per
l'insurrezione importanza strategica, e s'era scelto a punto di
concentramento per gl'insorti d'una larga sezione della città: il
popolano - non ricordo il nome e men duole, ma trafficava carbone e
teneva bottega - eletto a impadronirsene co' suoi, doveva,
riuscendo, afforzarvisi, chiudendo ogni ingresso e lasciando aperta
a metà quello soltanto dove erano gli obici destinati a proteggerlo.
Il Castello era punto naturale di concentramento al nemico, minaccia
temuta più del dovere dalla città e racchiudeva, oltre quei del
presidio, 12,000 fucili: la sorpresa era dunque cosa vitale per noi
e s'era accertata in modo da non ammettere, se ignaro il Governo,
un'ombra di dubbio: diciotto uomini, scelti fra i più arrischiati e
comandati dal Capo di tutto quanto l'ordinamento, dovevano
avventarsi improvvisi col pugnale alla mano sui diciotto soldati
messi a custodia della prima corte; e, a un segnale dato, due
squadre di popolani, sommanti a trecento incirca, comandate una
dall'Assi, l'altra da un falegname capo di bottega, il cui nome m'è
ignoto, dovevano irrompere a corsa da tutti i luoghi dove, in
vicinanza del Castello, i capi li avrebbero, poco prima della
fazione, appostati. I pochi soldati rimasti, dispersi nei cameroni,
inermi e côlti alla sprovveduta, non avrebbero di certo potuto
resistere a quella piena. I fucili di deposito nei magazzeni erano
nostri, in un batter d'occhio; i due armajuoli, che di tempo in
tempo li ripulivano e riattavano, erano nostri, avevano le chiavi
dei magazzini e dovevano in quel giorno, sotto un pretesto
qualunque, tenerli aperti perchè l'operazione non incontrasse il
menomo indugio; e attennero la promessa. Il Capo stesso, sprezzatore
d'ogni rischio, s'introdusse, un'ora prima della prestabilita
all'insorgere, nella piazza interna del Castello e li vide al
lavoro. Riescito il colpo, un colpo di cannone e la bandiera
tricolore inalzata dovevano essere segnale agli insorti d'accorrere
ad armarsi.
Mentre si sarebbero compite quelle sorprese, duecento giovani
dovevano correre a due a tre le strade della città e cogliere
soldati e ufficiali che, avvertiti dal romore levato, avrebbero,
uscendo dalle taverne, dai caffè, dalle abitazioni, tentato
raggiungere isolati i varii punti di concentramento. Era un Vespro;
e gli scribacchiatori moderati ci accusarono d'avere preparato armi
non generose. Ma chi, da Dante a noi, non aveva registrato fra le
glorie italiane il Vespro di Sicilia? Chi, fra gli ipocriti ai quali
alludo, non avrebbe acclamato al tentativo dei popolani lombardi, se
coronato dalla vittoria? A emancipare la patria dalla tirannide
dello straniero ogni arme - se lunga o breve non monta - è santa; e
se l'arbitrio sospettoso d'uomini, che a proteggere l'usurpazione di
terre non loro si giovano dell'arme infame del patibolo non lascia
ai cittadini altro ferro che quello delle loro croci, benedetto sia
chi, a salvare la libertà dei corpi e dell'anime, svelle e aguzza ad
offesa quel ferro!
A tutto s'era pensato, a tutto s'era, come meglio potevasi,
provveduto. Ottanta terrazzani erano presti, forniti di picconi,
pali di ferro e pale a inalzar barricate, ove si prolungasse, per
incidenti non preveduti, la lotta. L'impresario dell'illuminazione a
gas era nostro e s'era con lui d'intesa perchè l'illuminazione,
occorrendo, non avesse luogo. S'erano tentati, e in parte con esito
buono, gli Ungaresi che facevano parte del presidio: un ex-ufficiale
inviato da Kossuth, allora in pieno accordo con me, avea secondato
il lavoro e conquistato a noi un ufficiale di cavalleria; e molti
bassi ufficiali, degli acquartierati in San Francesco, avevano dato
solenne promessa d'unirsi ai nostri nell'azione, non sì tosto
avessero ottenuto un primo successo. Klapka s'era recato, sui primi
del febbrajo, da Ginevra a Lugano per entrare e assumere il comando
de' suoi compatrioti il secondo giorno.
Costretti dall'assoluta necessità del segreto sulla natura del
disegno che doveva tentarsi e certi di non poter evitare, in un
vasto lavoro, inchieste e inquisizioni pericolose, ci eravamo,
coll'altre città lombarde, limitati a far presentire, in un tempo
non remoto, eventi supremi e a raccomandare si preparassero a
profittarne. Soltanto(61) coi giovani universitarî della vicina
Pavia eravamo andati più oltre e si era stretto accordo perchè, a
segnali di fiamma che si sarebbero inalzati dalla punta del Duomo,
movessero rapidi alla volta di Milano; e, a intento siffatto, io
aveva apprestato fucili sul Po, affidando la direzione d'ogni cosa
riguardante quel punto all'Acerbi, prode e devoto esule mantovano.
Per l'altre città tenevamo pronti corrieri a cavallo, che avrebbero
recato l'annunzio del fatto e chiamato i più prossimi ad affrettarsi
in ajuto a noi, tanto da avere, per la fine del 7, un forte nerbo
d'armati, capace di resistere a ogni tentativo d'Austriaci, che
volessero dalle vicinanze operare contro Milano. Noncurante del
mortale pericolo, Aurelio Saffi, uomo d'indole nobilissima per
intelletto e per cuore e rimasto, dal 1849 in poi, amico mio e non
della ventura, s'era recato, fra gli Austriaci, in Bologna, per
animare a preparativi quella valente città e le Romagne.
Perchè fallì il tentativo? Perchè da tanti apprestamenti non escì se
non una breve sommossa?
Non mancò il popolo dei congiurati; mancarono al popolo i capi. Il
segreto, cosa mirabile davvero se si pensi ai tanti che ne erano più
o meno partecipi, era stato gelosamente serbato. Il Governo ignorava
ogni cosa: avvertito da taluni di pericoli che sovrastavano, ma
avvezzi a cercarli nelle classi agiate e a sprezzare il popolo come
incapace d'iniziativa, aveva spiato attentamente le prime e, non
vedendovi indizio d'ostili disegni, s'era rassicurato. Il 6
febbrajo, distribuite le paghe, i soldati s'erano, come al solito,
dispersi per la città, lasciando presso che vuoti ed indifesi i
luoghi contro i quali dovevano operarsi le sorprese. Ma il Fanfulla
partì subitamente, nè s'arrestò se non a Stradella: l'Assi sparì;
più altri capi lo imitarono: le squadre, non convocate e lasciate
senza nuovi capi da chi non sapeva la diserzione dei primi, non si
recarono ai luoghi di convegno: altre che si tenevano preste, non
udendo d'assalto alcuno al Castello, assalto al quale - e fu nostro
errore - s'erano subordinate parecchie sorprese, idearono tradimento
o cangiamento di disegno e si sciolsero. Un solo fatto importante,
l'occupazione della Grande Guardia, trovò capo e popolani esecutori
fedeli, e riescì; se non che, immemori delle istruzioni che
statuivano quel punto a punto di concentramento, gli occupatori,
lieti di trovarsi armati e ansiosi d'azione, abbandonarono, dopo
breve tempo, il luogo per correre le vie. Ed essi e i giovani armati
di solo pugnale, scelti a operare indipendenti contro il nemico,
bastarono a versare sugli austriaci un terrore, che non cessò se non
sulla sera. Contro tutte le forze, spiegate allora dal Comando
generale, quel pugno di popolani, abbandonati da tutti, tentò
difendersi asseragliandosi, presso Porta Romana, nelle case e
facendo fuoco dalle finestre; ma, e sopratutto, per difetto di
munizioni, fu costretto, dopo un'ora di combattimento, a
disperdersi. Perirono nel conflitto da cento cinquanta soldati
nemici e due ufficiali superiori assaliti nel caffè della Scala(62).
Perchè, audaci e costanti nei lunghi pericoli dei preparativi, quei
capi-popolo s'arretrassero, giunta l'ora, davanti all'azione, mi
pesa il dirlo, ma può tornare utile insegnamento in imprese future.
Essi, i più almeno, retrocessero davanti all'isolamento in cui
furono lasciati dalla classe media. Avevano lavorato soli, senza
sconfortarsi dell'inerte indifferenza d'uomini, che i ricordi del
1848 e l'intelletto educato additavano ad essi capi naturali del
moto, sperando che, compito il lavoro, dimostrata innegabilmente la
propria tenacità di proposito e conquistata potenza di numero e
d'ordinamento, li avrebbero compagni alla prova. Ma quando,
sull'avvicinarsi dell'ora suprema, mentre pensavano che il
sacrificio di sangue, al quale, per la salute e per l'onore del
paese, s'apprestavano lietamente, li avrebbe fatti cari e fratelli a
quelli uomini, si videro freddamente accolti, guardati con sospetto
e rimproverati di commettere a un tentativo imprudente le sorti
della città - quando s'udirono a dire: combattete dacchè lo volete:
dopo la prima giornata saremo con voi - vacillarono e non osarono
assumersi, essi poveri popolani, l'immensa responsabilità d'una
iniziativa, non divisa da alcuno di quei, ch'essi s'erano avvezzi a
chiamare i loro migliori. Non un abito - non una marsina -
ripetevano dolorosamente gli insorti che cercavano ispirazione sul
come si potesse più utilmente morir per l'Italia.
Non una marsina, infatti, si vide tra i combattenti del 6 febbrajo a
incuorarli, a dirigerli. I portoni, le finestre delle case si
chiusero. Milano prese aspetto di città deserta. Unico, o quasi,
delle classi medie che si mostrasse in quelle ore fu un Bianchi
Piolti, eccellente giovane, allora in contatto con me, oggi, se non
erro, deputato, pur sempre onesto e liberale nelle tendenze.
Fin da quando il lavoro dei popolani accennò a tradursi in azione,
io presentii quel pericolo; e parevami inoltre che, dov'anche le
forze dell'Associazione fossero state sufficienti a vincere la prova
in Milano, avremmo pur dovuto desiderare che in una lotta da
iniziarsi a pro di tutti, tutti fossero rappresentati. M'era dunque
rivolto a quelli fra i giovani intellettualmente educati, che nel
1848 erano stati uniti con me intorno alla bandiera sollevata
dall'Italia del Popolo: prominenti fra questi, l'Allievi e Emilio
Visconti Venosta. Ma li trovai mutati, scettici, riluttanti a ogni
pensiero d'azione. Cominciarono per dichiarare impossibile
l'esistenza d'una vasta associazione di popolani; poi, quand'ebbero
prove irrecusabili, si ricacciarono sulla impossibilità del segreto,
e confutato il timore della rivelazione di quella parte del disegno
che riguardava la scelta dell'ora, la paga ai soldati e gli indizî
che escirebbero dalle loro mosse, cominciarono ad argomentare sulla
poca disposizione delle provincie lombarde a seguire: temevano i
pericoli del moto, la possibilità della disfatta e, credo,
egualmente le conseguenze d'una vittoria preparata esclusivamente
dal popolo. L'anima loro, impicciolita tra la vanità pedantesca
della mezza-scienza, il materialismo delle scuole francesi, che
allora seguivano, e il meschino freddo sussiego di letterati
borghesi, s'arretrava sospettosa davanti a quel ridestarsi di
popolo, che avrebbe dovuto inorgoglirli di gioja italiana.
Così titubavano paurosi, svogliati, inerti sino alla fine: non
diedero un uomo, nè una moneta, nè un'arme: avevano non so quanti
fucili e li rifiutarono, dicendo che se ne gioverebbero per la
seconda giornata. Il Venosta accettò d'entrare, come loro delegato,
in una direzione formata di Bianchi Piolti, d'un Fronti, del capo
militare e di lui; ma non intervenne se non due volte ai convegni,
ascoltando, nè mai proponendo cosa che potesse tornar utile al moto;
poi si dileguò. Finalmente, richiesti, spronati, rimproverati,
dichiararono che consulterebbero, prima di decidersi a cooperare,
una competente autorità militare.
L'autorità militare competente fu per essi Giacomo Medici, allora
volontario garibaldino, oggi generale nell'esercito regio, il quale
da Genova, ov'ei soggiornava, era fuori d'ogni lavoro e ignaro delle
forze nostre, del disegno e d'ogni cosa. Gli spedirono l'ingegnere
Cadolini, oggi deputato. Medici rispose: impedite il moto con ogni
mezzo: se non riuscite a impedirlo, cercate afforzarlo. E i
richiedenti fecero, sconfortando, sviando taluni fra i capi,
annunziando a tutti il loro dissenso, quanto era in essi per
impedire. Fu questa principale cagione di disfatta al disegno. Era,
in seno alla borghesia, il cominciamento d'una scuola analoga,
comunque inferiore d'ingegno, a quella dei dottrinarî francesi ai
tempi di Luigi Filippo, e della quale l'Italia vede oggi in quei che
la reggono lo scandalo e i frutti.
E nondimeno ho certezza, che nel prepararsi generale degli animi,
nello sviluppo storico del risorgimento italiano, quel tentativo
giovò. Lasciando dello stolto e feroce spirito di repressione, che
la paura spirò allora più che mai nei consigli dell'Austria, delle
contribuzioni arbitrarie sui beni degli inoffensivi patrizî lombardi
e degli esuli, e dell'irritazione che ne nacque in essi, il popolo,
il vero popolo, salutò come sua l'impresa tentata, inorgoglì
dell'ardito concetto, e cominciò a credere nella propria forza e
nella parte che sarebbe un giorno chiamata a compiere. I segni d'una
trasformazione morale nelle classi operaje apparvero poco dopo più
frequenti e visibili nelle associazioni, fondate pubblicamente in
Piemonte e nella Liguria, tra gli uomini del lavoro, nella parte
presa altrove dai popolani nei tentativi che seguirono, e, a me
segnatamente, negli indirizzi, nelle proposte, nelle dichiarazioni
d'affetto, che da essi mi vennero quando appunto il volgo letterato
e gli ingannati da esso mi rovesciavano quasi universalmente sul
capo una tempesta d'accuse, di rimproveri e di villane calunnie(63).
Da Genova, da Parma, dalle città romagnuole i popolani mi dicevano:
voi avete creduto in noi, stimati da tutti incapaci di fare: vi
rendiamo grazie, e vi proveremo quando che sia che non v'illudete
sul conto nostro. Il 6 febbrajo strinse fra gli operai d'Italia e me
quel patto d'amore e di comunione educatrice, che fruttò e frutterà,
e che conforta di serenità e di speranze italiane i miei ultimi
anni, abbeverati d'amara e profonda mestizia, per le delusioni e per
l'abbandono di molti fra quei che m'eran più cari.
A quel tempestoso periodo appartiene lo scritto che segue. Io
l'aveva, fin dal 22 febbrajo, promesso con queste poche linee
indirizzate all'Eco delle Provincie:
Al Direttore dell'Eco delle Provincie.
Il fatto recente di Milano che, comunque strozzato ne' suoi principî
da incidenti sottratti a ogni calcolo umano, e rimasto isolato per
virtù di prudenza, che non guarda a biasimo o lode, ma all'intento
da conquistarsi, avrebbe pur dovuto sollevare d'orgoglio italiano
ogni anima buona e rivelare ai più incerti le vere tendenze del
nostro popolo, frainteso, traviato da pregiudizî funesti e da
codarde paure, ha suscitato un biasimo pressochè universale.
Sento tutta quanta la responsabilità che trascina con sè l'ultimo
proclama del Comitato Nazionale, scritto da me e firmato da uno solo
de' miei colleghi - e non la rifiuto.
Scriverò con tutta quella sollecitudine che consentono le condizioni
in ch'io verso, le cagioni per le quali io l'assumo, volenteroso ed
altero. Scenderò, poichè amici tiepidi e irreconciliabili nemici lo
esigono, a parlare di me.
Chiedo - non agli uomini che hanno per tutta dottrina il vae victis!
- non ai gazzettieri che vendono per trecento franchi mensili la
coscienza e la penna a un'aristocrazia prima morta che nata - non ai
consci o inconsci colpevoli che diseredano l'Italia d'una potenza
d'iniziativa, fatto oggimai evidente dai martirî eroici e dalle
eroiche audacie degli ultimi quattro anni - ma agli Italiani che
amano davvero la loro patria e sentono altamente de' suoi fati e
fremono e combattono per compirli, pochi giorni d'indugio nei loro
giudizî.
Ho l'anima amara, ma di dolore, non di rimorso. La fede che
scaldava, ventiquattr'anni addietro, di un sorriso d'entusiasmo la
mia giovinezza, splende or più che mai, stella eterna dell'anima,
davanti a' miei occhi. Non la rinneghino i giovani. Non la
rinnegherà un popolo che, fatto superiore ai mezzi intelletti d'una
classe che dovrebbe guidare e dissolve, assale nell'inerzia comune,
colla sola arme che l'Austria non può rapire al cittadino, cannoni e
Castello in Milano.
22 febbrajo.
Vostro
Giuseppe Mazzini.
AGLI ITALIANI
Marzo, 1853.
.....Come da me si suole,
Liberi sensi in semplici parole.
TASSO.
Io mando queste pagine ai giovani ignoti d'Italia, ai quali è fede
l'unità della patria comune, speranza il popolo in armi, virtù
l'azione, norma di giudicio sugli uomini e sulle cose l'esame
spassionato dei fatti non travisati e delle intenzioni non
calunniate.
Pei gazzettieri che mercanteggiano accuse e opinioni a beneplacito
di monarchie cadaveriche o aristocrazie brulicanti su quei cadaveri:
- pei miseri, quali essi siano, che in faccia a un paese schiavo e
fremente, non trovano ispirazioni fuorchè per dissolvere e accusano
d'ambizione chi fa o tenta fare, rosi essi medesimi d'ambizioncelle
impotenti, che non fanno nè faranno mai cosa alcuna: - per gli
stolti, che, in una guerra nella quale, da un lato stanno
palesemente, regolarmente ordinati, eserciti, tesori, uffici di
polizia; dall'altro, tutto dall'invio d'una lettera fino alla compra
di un'arme, è forzatamente segreto, non applicano ai fatti altra
dottrina che quella del barbaro: guai ai vinti!: - pei tiepidi, ai
quali il terrore di qualche sacrificio da compiersi suggerisce leghe
ideali di principi, disegni coperti di monarchie due volte
sconfitte, o guerra tra vecchi e nascenti imperi, da sostituirsi
all'unico metodo che conquisti libertà alle nazioni, l'insurrezione:
- per gli uomini, prodi di braccio, ma fiacchi di mente e d'anima,
che nei fatti di Milano, Venezia e Roma, nel 1848 e nel 1849, non
hanno saputo imparare che l'Italia non solamente deve, ma può
emanciparsi, e la condannano a giacersi serva derisa finchè ad altri
non piaccia esser libero - io non ho che disprezzo o compianto. Gli
uni non vogliono intendere: gli altri non sanno. Nè io scenderei per
essi a parole dilucidatrici o a difese.
Ma ai giovani - maggioranza nel Partito Nazionale e speranza
dell'avvenire - che non rinegano per disavventure la santa
tradizione di martirio e di lotta incessante segnata dai migliori
fra i nostri: ai giovani, che non hanno imbastardita la mente
italiana tra sofismi di sette straniere, nè immiserita la potenza
dell'intuizione rivoluzionaria tra le strategiche delle guerre
regolari governative, nè sfrondato il core d'ogni riverenza
all'entusiasmo, alla costanza, alle grandi audacie e alle grandi
idee, che sole rifanno i popoli, io debbo conto delle cagioni che
promossero il recente tentativo popolare in Milano, delle principali
che lo sconfissero.
Il Comitato Nazionale è disciolto; disciolto dopo un proclama
d'insurrezione, ch'io scrissi, e che due soli de' miei colleghi
firmarono. Di questo fatto io debbo pur conto al paese.
E parmi ch'io debba oggimai parlare al paese anche di me, delle idee
che dettarono la mia condotta, delle norme che mi diressero. È la
prima e sarà l'ultima volta. Ma le accuse e le calunnie vibrate al
mio nome mirano a ferire tutto intero il partito d'azione; e non mi
è concesso negligerle. Fors'anche il perpetuo silenzio da parte mia
potrebbe generare dubbî e incertezze nell'animo di quei che mi
richiesero, in questi ultimi anni, di consiglio e di direzione. E
importa ch'essi mi sappiano deluso e tradito ne' miei calcoli e
nella mia fiducia, non reo d'avventatezza sistematica, o di spregio
delle altrui vite o d'orgoglio insensato, che vuol moto a ogni patto
e senza speranza.
Giuseppe Mazzini.
I.
Roma era caduta; ma come chi deve infallibilmente risorgere. I
Francesi occupavano le mura e le vie della città e cancellavano le
insegne e la sacra formola della Repubblica; ma non potevano
cancellare due grandi fatti, conseguenza dell'eroica difesa: il
Papato moralmente spento e l'unità italiana moralmente fondata. Il
Papa, rimesso in seggio da una gente materialista, affogava nel
sangue dei martiri d'una nuova fede; e l'Italia aveva trovato il suo
centro. Parvemi che la conquista fosse tale da non doversi
commettere alle incertezze, all'anarchia del partito, e che fosse
pensiero degno del luogo il cacciare nel terreno della sconfitta il
germe della vittoria futura. E prima di ritrarmi, ultimo fra i noti,
da Roma, lasciai fondata l'Associazione Nazionale. Il Comitato
Nazionale doveva esserne il centro visibile.
Quale era il mio intento, quale era il nostro, dacchè allora eravamo
tutti concordi? L'azione: l'azione fisica, diretta, insurrezionale.
Riordinando l'Associazione, noi intendevamo ordinare il partito
all'azione. Il Comitato Nazionale doveva condurlo fino al punto in
cui l'azione fosse possibile; poi sparire tra le file del popolo
combattente.
Due anni prima, la missione degli influenti nel Partito poteva
essere diversa. Viveva abbastanza diffuso, conseguenza naturale
d'una oppressione stolta e feroce ad un tempo, l'abborrimento
all'austriaco, ma localmente, senza vincolo, senza simbolo, senza
speranza comune. La nazione era aspirazione di menti e d'anime
elette, non fede di moltitudini. Mancava al popolo d'Italia, non
l'istinto, il desiderio del meglio, ma la conoscenza della propria
forza. Quando noi, repubblicani, dicevamo ai giovani lombardi del
ceto medio o patrizio: «Voi avete bisogno del popolo; ma questo
popolo non l'avrete se non osando, creando in esso, col fascino
della fede incarnata in voi stessi, l'opinione della propria
potenza,» crollavano, increduli, il capo; e disperavano, pochi mesi,
pochi giorni prima della insurrezione lombarda, di trascinare sul
campo d'azione le moltitudini. I fatti soli potevano convincerli; e
quei fatti dovevano escire, non dalla volontà d'uno o di pochi
individui, bensì da circostanze propizie, presentite, non create da
noi. Allora l'azione poteva e doveva predicarsi, come intento finale
e mezzo unico di riscossa, quando che fosse, senza tempo
determinato: a guisa d'apostolato educatore, più che come disegno
pratico di congiura. Ma, nel 1849, le condizioni erano radicalmente
mutate. Il popolo aveva detto in Sicilia ai suoi oppressori: aderite
alle domande nostre il tal giorno, o insorgiamo: ed era insorto e
aveva vinto. Braccia di popolo pressochè inermi avevano emancipato
in cinque giorni il Lombardo-Veneto dall'Alpi al Mare. I popolani di
Bologna avevano, soli, e abbandonati da chi più doveva combatter con
essi, combattuto due eroiche battaglie contro gli Austriaci. Brescia
aveva segnato in ognuna delle sue strade una pagina storica. In
Roma, nel cuore della Nazione, s'era manifestata tanta vita da
rifare un popolo intero. In Venezia, guerra, bombe, colèra e fame
non avevano potuto suscitare un tumulto, strappare un gemito. I
nostri giovani militi s'erano fatti, in pochi mesi di combattimenti,
vecchi soldati. E tutti questi miracoli di virtù guerriera e di
sacrificio s'erano compiti in un fremito di patria comune, sotto la
grande ombra d'una bandiera che portava il nome d'Italia. E l'ultima
codarda illusione che aveva affascinato il popolo a credere
possibili fondatori di libertà nazionale un papa ed un re, s'era
logorata e per sempre in un esperimento, al quale io, non volendo
che la bandiera repubblicana si contaminasse, al primo apparire, di
guerra civile, aveva assistito, cupamente rassegnato e con dolorosa
pazienza, che mi fu poi, da uomini pazienti allora, oggi più che
pazienti, rimproverata. Davanti a cosiffatte innegabili rivelazioni,
con un popolo ridesto alla fede, che aveva in due anni imparato, non
solamente a morire, ma a vincere, le parti d'un Comitato Nazionale
non eran più dubbie.
Fondare all'interno l'unità del Partito: concentrarne la forza a
principî comuni, a intento comune: preparare le cose in modo che
l'impresa, ove fosse vigorosamente iniziata in un punto, diventasse
infallibilmente impresa nazionale italiana: predicare il dovere e la
possibilità dell'azione: poi, quando il popolo decretasse di movere,
ajutarne, con un po' di materiale raccolto, le prime mosse.
Fondare, all'estero, l'unità della Democrazia: cacciar le basi
dell'alleanza futura dei popoli nell'alleanza, sopra un terreno
comune, degli influenti sul partito attivo in ogni Nazione: far sì
che, data una iniziativa italiana, fosse rapidamente seguita dai
popoli aggiogati ora sotto l'Austria e ajutata di favore operoso
dagli altri.
Fu questo il programma del Comitato, dichiarato apertamente, come da
noi si usa; svolto nelle molteplici comunicazioni private, praticato
con insistenza dal primo fino all'ultimo giorno. Ogni altro
programma avrebbe fondato un ozioso dominio di setta, e dato al
carnefice vittime senza scopo. Or noi non eravamo settarî, ma
apostoli, credenti in una fede di non lontano risorgimento; non
eravamo sì illusi da volere che un popolo risorgesse senza
sacrificio di vite, ma nè sì stolidi e appestati di egoismo da
guardare freddamente al patibolo dei nostri migliori e non
desumerne, com'oggi altri fanno, che un insegnamento di pazienza
servile.
II.
Il Comitato esciva, in parte dal fatto dell'associazione ordinata,
in parte dalla tradizione, buona a conservarsi, del Triumvirato di
Roma. Era in breve tempo confermato, con adesione scritta, ch'io
serbo, da un numero considerevole d'uomini che avevano rappresentato
il popolo in Roma e d'altri che avevano virilmente difeso, nella
milizia o negli ufficî civili, l'onore della nazione per tutte parti
d'Italia. E presso le moltitudini, vogliose sempre di trovar chi le
guidi a fare, presso quella gioventù santa che non ha vanità
individuali da accarezzare, ma non domanda se non di combattere,
vincere, o morire ignota per la Patria comune, non era per mancarci
autorità direttrice, quanto almeno bastava all'intento nostro. Pur
nondimeno pareva onesto e giovevole, segnatamente per l'estero, che
i più noti fra gli esuli si raggruppassero in questo lavoro di
riordinamento interno e di rappresentanza internazionale; e
determinammo richiederli. Scrissi allora io stesso a parecchi, tra i
quali ricordo Enrico Cernuschi, Amari, Montanelli, Manin, Cattaneo.
Chi per una, chi per altra ragione, ricusarono tutti. Manin non
rispose. Cattaneo, ora avversissimo, senza ch'io possa indovinare il
perchè, rispose magnificando, dichiarando che bastavamo, che la
tradizione dell'unico potere popolarmente legale era in noi, che
ogni accessione avrebbe guastata l'integrità del concetto e che egli
ajuterebbe a ogni modo; e poco dopo inviava una forma di cedola,
quasi interamente adottata per l'imprestito Nazionale. A noi dolse
che uomini, il cui nome avrebbe potentemente giovato a operare una
più rapida unificazione degli elementi, mancassero alla chiamata, ma
il loro non fare lasciava intatto l'obbligo nostro, e deliberammo
compirlo. Saliceti e Sirtori, nomi cari, l'uno agli italiani di
Napoli, l'altro a quei del Lombardo-Veneto, s'erano uniti a noi.
Da taluno fra gli esuli fu susurrata allora l'idea - e fu l'unica,
dacchè gli altri non allegavano se non motivi di circostanze, o,
peggio, d'antipatie individuali - che un Comitato dovesse escire dal
voto universale dell'emigrazione, e comporsi di tanti individui
quante sono oggi, per nostra sventura, le parti d'Italia. E se noi
non avessimo avuto in core che la meschinissima ambizione di
recitare una parte, avremmo accettato: eravamo certi d'essere
eletti. Ma troppi e troppo fatali traviamenti erano già entrati a
corrompere la schietta logica dell'esercito della democrazia, perchè
da noi si consentisse, con tattica indegna della nostra coscienza, a
sancirne un nuovo. Sulla non infallibilità del suffragio universale,
adoperato anche su larga scala, e in condizioni normali, gli
esperimenti non foss'altro di Francia dovrebbero, a quest'ora, aver
illuminato molti fra i nostri e insegnato la suprema necessità
d'accoppiarlo a un disegno d'educazione nazionale, non solamente
gratuita, ma obbligatoria per tutti. La ragionevolezza del
suffragio, a ogni modo, quand'è applicato ad un Popolo, sta nel
patto comune che gli elettori hanno davanti agli occhi scegliendo, e
del quale gli eletti s'assumono di farsi interpreti. Ma il proporre
che si scegliesse per via di suffragi un Comitato destinato a
unificare, sotto certe norme, il partito; e l'affidare l'esercizio
del voto a una emigrazione di tempi e di principî diversi, dispersa
fra Tunisi e Montevideo, fra Costantinopoli e Nuova York, vegliata,
perseguitata, impaurita spesso dai governi sulle cui terre
s'accoglie, era consiglio inattendibile e pericoloso: inattendibile,
perchè proclamava un diritto d'elezione dove non erano condizioni di
libero voto, nè di metodo uniforme, nè di pubblica discussione
fraterna, nè di verificazione severa: pericoloso, perchè fidava
all'anarchia delle opinioni ed al caso la scelta della bandiera,
sotto la quale doveva ordinarsi il partito. La bandiera era stata
inalzata, tra un fremito d'assenso di quanti intendono l'avvenire
immancabile dell'Italia, nella metropoli della Nazione, in Roma: nè
potea, senza colpa, sottoporsi a vicende di voti dati fuor di paese.
Il problema s'agitava, del resto, in Italia; e in Italia stavano gli
elementi che solo potevano scioglierlo; l'emigrazione non li
rappresentava, nè l'interno avrebbe accettato il suo voto, quando
non fosse escito mirabilmente concorde colle proprie tendenze.
Questa mania di suffragi, di sovranità popolare, omeopaticamente
applicata dove non è nè indipendenza, nè popolo, fu, tra noi, rovina
di molte imprese e indugio perenne al concentramento delle forze e
alla rapidità delle operazioni. Noi non siamo, giova pur sempre
ripeterlo, la Democrazia, ma un esercito di cospiratori - e chiamo
cospirazione, tanto il lavoro che si adopera a diffondere stampe
vietate, quanto quello che tende a preparar barricate - militante a
conquistare un terreno alla Democrazia. Le norme dell'assoluta
libertà, applicate oggi al compimento della nostra missione,
ricordano il Libertas che i genovesi scrivevano un tempo sulle porte
delle prigioni. Nelle congiure, come tra le barricate, l'iniziativa
scende, non sale. Spetta ai pochi che si sentono fatalmente spronati
a fare, e capaci d'indurre altri a seguire, e puri d'anima e
irrevocabilmente determinati a non adorar idoli d'opinione,
transazioni o menzogne, ma solamente l'idea che li guida e
l'intento. E se la loro è, come spesso avviene, illusione, il popolo
non li segue.
Il popolo - il popolo dei volenti azione - accennava seguirci.
L'Associazione s'ordinava rapida e spontanea su tutti i punti; e il
primo atto d'ogni nucleo era un'adesione al Comitato Nazionale. Il
bisogno d'unità era universalmente sentito, e cancellava, nei
migliori, ogni lieve dissenso. I giovani che amavano, più che sè
stessi, la patria, non temevano sagrificata una parte d'indipendenza
nell'accentrarsi volontariamente a una direzione; non sospettavano
che, pel loro consenso, potesse mai inalzarsi un seggio d'autorità
pericolosa al paese: chi è degno di libertà non teme di perderla, nè
la perde. Però procedemmo, lasciando ch'altri dicesse, e presti a
seguire chi facesse meglio e più attivamente di noi.
III.
Fondato il Comitato Europeo, e costituita, vincolo di fratellanza
tra esso e il Comitato Nazionale Italiano, l'identità di credenze,
noi predicammo, dentro e fuori, le poche semplici norme, che ci
parevano meglio opportune a guidare il partito sulle vie
dell'azione, e a dargli vittoria. Come individui, ciascun di noi
serbava libero il pensiero, libera la diffusione delle proprie idee
sui problemi di soluzione pacifica e più remota, che tormentano il
secolo e ne vaticinano la grandezza: come nucleo collettivo,
dovevamo tenerci per entro i limiti di sfera men vasta, sopra un
terreno già conquistato e accettato dai più. E noto questo, perchè a
taluni, i quali non hanno cura se non di scrivere libri, libercoli,
o articoli, parve bello l'atteggiarsi a pensatori più arditi, e
rimproverarci l'incerto, il limitato, come essi dicevano, del nostro
programma. Scambiavano i caratteri della nostra missione; e
confondevano, col lento e solenne svolgersi della rivoluzione, i
preparativi d'una insurrezione. Noi non potevamo ridurci a
proporzione di setta; dovevamo studiare di rappresentare tutto
quanto il Partito. Dovevamo essere repubblicani, perchè la monarchia
spegnerebbe in sul nascere la nostra rivoluzione; unitarî, perchè,
senza unità, l'Italia non può essere nazione; ma lasciare ogni altra
questione alla nazione e alle ispirazioni dell'avvenire.
Le norme fondamentali da noi proposte eran queste:
Per forza di cose e d'idee, di leghe regie e istinti di popoli, di
intuizione logica e di storia severamente documentata negli ultimi
anni, l'Europa dovea considerarsi come divisa in due campi: il campo
della tirannide e del privilegio dei pochi, e il campo della libertà
e delle nazioni associate. La Democrazia, chiesa militante
dell'avvenire, doveva ordinarsi ad esercito, presta a promuovere
pacificamente lo sviluppo progressivo dei popoli, dove son liberi i
mezzi pacifici; a rovesciare colla forza la forza dove quei mezzi
sono contesi. Le nazioni dovevano riguardarsi come divisioni di
quell'esercito, chiamato ad operare sotto un disegno comune e sotto
la mallevadoria d'uomini, vincolati da un patto a non ricadere
nell'esoso egoismo locale, che rese impotenti i moti del 1848. La
questione d'iniziativa, fidata teoricamente ai fati
provvidenzialmente preordinati e alla coscienza d'ogni nazione,
perdeva così l'importanza pratica, che l'orgoglio degli uni e la
servilità degli altri avevano fatto degenerare funestamente in
monopolio esclusivo. Poco importava su qual punto strategico
d'Europa s'aprisse la lotta, purchè tutte le forze dell'esercito
democratico sottentrassero alla battaglia. Sorelle sul campo, le
nazioni rimarrebbero tali, vinta la guerra, quando, riordinata la
Carta d'Europa, un Congresso di rappresentanti, scelti da esse,
darebbe al nuovo riparto consecrazione di comune consenso. I popoli,
indipendenti nell'assetto interno, alleati per tutto ciò che
riguarda gl'interessi europei e le relazioni internazionali,
s'avvierebbero così alla risoluzione pacifica dell'eterno problema,
svisato quasi sempre dalle sêtte moderne, armonia tra l'associazione
e la libertà.
E le stesse norme dovevano più o meno applicarsi al problema
italiano. Il campo italiano si divideva, come sempre, in due parti:
gli uomini che s'ostinavano ad aspettare la libertà della patria
dalla diplomazia, da disegni arcani di principi ambiziosi o da
guerre straniere, e gli uomini ch'erano fermi a cercarla nell'azione
delle forze italiane, ajutate dall'elemento popolare europeo. A
questi soli il Comitato Nazionale si rivolgeva: da questi soli
chiedeva concentramento ordinato sotto un disegno comune e un'unica
direzione; gli altri sarebbero stati trascinati dal fatto. E questo
fatto non doveva, nè poteva avere un giorno predeterminato a
manifestarsi; - la nostra era questione d'idea, non di tempo - ma,
accettato come possibile, e maturato tanto da raggiungere condizioni
ragionevoli di vittoria probabile, prorompere, quando il partito
credesse, conseguenza di moti europei o principio ad essi.
Intento del fatto doveva essere conquistarci una Patria, costituirci
in Nazione; una dunque doveva esserne la bandiera: inalzarsi,
ovunque le circostanze darebbero, in nome di tutti; proteggersi da
tutti; trionfare per tutti: guerra di popolo, governo di popolo. E
perchè il popolo potesse rivelare solennemente l'animo proprio, i
proprî bisogni e la propria fede: - perchè non traesse, come nel
1848, da pericoli ipocritamente esagerati, o da speranze
ipocritamente affacciate, occasione a cedere improvvidamente le
proprie sorti ad ambizioni di principi e raggiri di cortigiani
sofisti: - perchè, col decidere immaturamente, prima d'essere libero
tutto ed affratellato, non richiamasse a vita, spenti, ma da poco,
germi fatali di federalismo: - perchè, infine, le incertezze, le
oscillazioni, i pericoli d'una libertà mal ferma, sospettosa quindi
e facile a sùbiti sconforti e a mortale anarchia, non si
trapiantassero nel campo, non disviassero dalla suprema necessità di
combattere, non involassero, spegnendo la vittoria in fasce, i
frutti della vittoria: - il Comitato Nazionale segnava due periodi
alla risoluzione del problema; il primo, periodo d'insurrezione, da
governarsi con assoluta unità da un nucleo di pochi buoni e volenti,
acclamato e vegliato dal popolo, operante a rendere nazionale,
popolare, rapida e tremenda la guerra; il secondo, non ottenuta, ma
assicurata la vittoria, e libero, se non tutto, quasi tutto il
popolo d'Italia, da reggersi normalmente e svolgersi, sotto la
tutela d'una libertà meritata, dall'Assemblea Nazionale, raccolta,
per voti di tutti, in Roma.
Il Comitato Nazionale prometteva di sciogliersi davanti al Governo
d'insurrezione: la nostra missione era quella d'agevolare
l'insurrezione, non di dirigerla. E davanti al Concilio della
Nazione, il Governo d'insurrezione dovea render conto, sciogliersi,
o portar la testa sul palco. Norme siffatte, accettate, predicate,
radicate per tutto quanto il partito, bastavano per sè sole a
spegnere ogni pericolo d'usurpazione; ma s'altre, più positivamente
proteggitrici, fossero state credute necessarie per quel primo
periodo, il popolo le avrebbe architettate e sancite. Quanto ai
cento problemi dell'avvenire, noi collettivamente, non dovevamo
occuparcene; ed era debito del Comitato educare, coll'esempio, gli
animi a fidare nel senno, raccolto in Assemblea, del paese.
Solamente, poi che senza tradir la nazione non potevamo non dirci
unitarî, aggiungevamo che l'unità vagheggiata non era l'unità
napoleonica - che non dovrebbe confondersi col concentramento
amministrativo - che l'associazione e la libertà, la Nazione ed il
Comune, erano, due eterni elementi, sacri egualmente, dello Stato,
come per noi si ideava; - e che all'elemento reale, storico, del
Comune, ampliato e sostituito all'elemento fattizio, arbitrario,
degli Stati d'oggi, doveva senz'altro attribuirsi quanta forza
bastasse a non renderne illusoria la libertà, quanta indipendenza
potesse localmente ordinarsi senza travolgere la Nazione
nell'anarchia di vita politica e d'educazione.
IV.
Non so s'io m'illuda: ma non parmi che queste norme possano formar
soggetto, da una in fuori, di controversia da chi accetti pel paese
la necessità d'una crisi rivoluzionaria: sgorgano da una logica
elementare documentata da quante rivoluzioni vollero riescire a buon
porto e riescirono. Comunque - e importa notarlo - nol formarono
allora. Espresse senza riguardi ed ambagi fin dal primo Manifesto
del Comitato, furono accolte con favore dalla generalità del
partito; combattute tiepidamente, e senza il corredo delle solite
villanie, dai giornali pagati per essere avversi. Nessuno levò
allora la voce - ed era il momento naturalmente additato alla buona
fede - per dichiarare che la nostra teorica rivoluzionaria era
falsa; nessuno escì in campo a proporne un'altra; nessuno s'attentò
di fare atto pubblico di codardia e di dirci: l'Italia, checchè
facciate, è e sarà pur sempre impotente a movere ed emanciparsi, se
prima non move la Francia o un'altra contrada. Gli umori che
serpeggiavano fra taluni, segnatamente in Parigi, si strisciavano,
come dissi, rodendoli, intorno a nomi, non a idee, d'individui. E
noi, poco curanti di questo, procedemmo, con animo alacre,
nell'opera incominciata e nella pratica delle dottrine enunciate.
Primo passo su questa via, e nuovo indizio che per noi si tendeva
all'azione, fu l'emissione dell'Imprestito Nazionale: concetto
arditamente buono, che fu accolto con tanto favore da rivelare
l'animo del paese, ancorchè il risultato materiale non fosse gran
cosa; diedero, non i ricchi, colpevoli d'un'avarizia che espiano
cogli imprestiti forzosi e coi sequestri dell'Austria, ma i poveri.
Io non dirò, per ragioni facili a indovinarsi, quello che sotto
l'ispirazione del Comitato e la forte instancabile attività
iniziatrice di Roma si facesse all'interno; e soltanto affermo il
lavoro condotto al punto di dare certezza, che ove una vigorosa
iniziativa sorgesse in una parte d'Italia, sarebbe, più o men
rapidamente, ma infallibilmente, seguita da tutte l'altre; e della
vigorosa unità del partito hanno, del resto, dato indizî che bastano
l'audacia inconquistabile della stampa clandestina, le dimostrazioni
periodiche a ricordo della repubblica in Roma e provincie, i fatti
compiti a danno di delatori in Milano ed altrove, i terrori dei
governi e le vittime, pescate il più delle volte a caso, pure in
tutte le classi, dal prete fino al più umile popolano. Ma
all'estero, accettate dal Comitato Europeo le basi intorno
all'iniziativa e alle relazioni internazionali accennate più sopra,
il lavoro assunse proporzioni importanti davvero e preparò
risultati, che agevoleranno all'Italia, quando vorrà coglierli, la
via per collocarsi, tra le nazioni, su quell'altezza, alla quale i
fati la chiamano. Per questo almeno io sento di meritare - e mi
preme più assai di meritarla che non d'averla - la gratitudine del
paese. Per circolari, indirizzi e inviati, il nome e la parola
d'Italia suonarono potenti in tutte le file, disgiunte prima del
1848, rannodate ora a un disegno comune della democrazia Europea.
L'alleanza, temuta e inutilmente assalita con tutt'arti possibili,
tra gli ungheresi e noi, più visibile dacchè l'elemento
rivoluzionario ungarese s'incarna in un uomo, non fu se non una
delle molte che traemmo - educandole con amore attraverso difficoltà
più gravi che altri non pensa - dai germi che le delusioni del 1848
avevano seminati. Dalla penisola Iberica, destinata ad unificarsi,
fino alla Grecia alla quale apparterrà un giorno, checchè facciano
le diplomazie per galvanizzare un cadavere, il primato su
Costantinopoli; in Polonia, centro pur sempre d'una delle quattro
divisioni future del mondo Slavo; nelle valli, troppo dimenticate
dall'Italia, dove s'agita, in cerca dell'avvenire, una gente romana
di nome, di ricordi e d'affetti, da Traiano in poi; in Germania; in
Oriente, tra popolazioni varie, taluno semi-barbare, ma il cui
sommoversi cova inevitabile la guerra europea, noi cercammo e
trovammo nemici all'Austria. I pensatori, ai quali è centro di
politica europea Moncalieri, sorridano increduli a posta loro, ma
chi cerca appurare il vero, viaggi per quei paesi, interroghi, e
veda se l'importanza data all'Italia non è cresciuta di tanto, da
far parere ogni suo moto, ogni sua sommossa, fatto grave di
conseguenze ai moti e al progresso d'Europa. Questo cangiamento
nella teorica dell'iniziativa europea, accettato senza analisi di
cagioni dai popoli, è dovuto alle manifestazioni che nel 1848 e nel
1849 rivelarono un'Italia, ignota fino a quei giorni. Il Comitato
Nazionale non fece che indovinar quel fatto, giovarsi dei diritti
che dava a chi parlasse in nome d'Italia, e fondarvi sopra una
fratellanza più positiva, un accordo predeterminato pel caso
d'azione. Pur tanti anche oggi fra i nostri - e dovrò or ora, con
dolore e rossore, accertarlo - dimenticano quel fatto supremo e
guardano all'Italia, siccome a schiava giacente, finchè piaccia a
Parigi o a Berlino di dirle: sorgi! dimenticano che non è senza
merito di fede in noi l'avere inteso quanta parte di vita europea
s'agita nella patria nostra, e l'aver preparato, come meglio si
poteva, il terreno ad alleanze, che l'Italia dovrà e potrà stringere
fin dai primi giorni del suo risorgere.
E in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America - in questi ultimi
per opera in parte di Kossuth, che affratellò sempre i fati
dell'Ungheria e dell'Italia - l'opinione, sistematicamente traviata
dalla stampa ligia alla monarchia piemontese, si trasformava, si
incaloriva rapidamente. Il mutamento in America, dove le tradizioni
isolatrici dei fondatori dell'Unione, cedono alla coscienza e al
fremito della vita virile, assumeva aspetto più pratico che gli
eventi - se l'Italia vorrà dar moto agli eventi - riveleranno. In
Inghilterra a ogni modo la Nazione sottentrava nelle menti al
Piemonte; il popolo d'Italia sottentrava negli affetti a una
aristocrazia, i cui ricordi avevano data all'emigrazione patrizia
del 1821: cresceva e cresce l'irritazione contro l'Austria quasi
eguale a quella che suscita negli animi contro il papato. A capo
della propaganda trasformatrice si poneva un'Associazione, fondata,
dopo l'istituzione del Comitato, dai migliori amici ch'io m'abbia. E
se i miracoli delle Cinque giornate, o fatti come quei di Roma,
verranno mai a verificare le predizioni e rafforzarne il linguaggio,
vedremo, dove prima non fu se non tiepida e sterile ammirazione,
fremere una vita larga d'affetti operosi e d'ajuti.
Ma tutto questo a che pro? a che sollecitare gli animi con un cumulo
di lavori e speranze se l'Italia, diseredata di vita e potenza
propria, doveva aspettare, a tempo incerto, indefinito, libertà
dalla Francia? A che edificare con ostinato studio nella fratellanza
europea una iniziativa alla cospirazione italiana, se non per
trarne, quando occorresse, una possibilità d'iniziativa all'Italia?
E chi mai poteva credere che noi tentassimo imprestiti, predicassimo
la necessità di procacciarsi materiale di guerra e spingessimo con
quanto ardore potevasi adoperare, a concentramento di forze, se non
per agire?
Nessuno lo credeva. Quanti s'accostavano a noi sapevano e udivano
ripetersi dalle nostre labbra che noi, pronti a seguire s'altri
facesse, tenevamo l'Italia capace, come ogni altra nazione, di fare
ed esser seguita. Se v'è taluno tra i nostri ch'oggi affermi il
contrario, o dimentica o inganna. Io non ingannai nè dimentico. E
questo mio serbarmi indeclinabilmente fedele al primo proposito,
rimprovero, credo, acerbissimo, checchè millantino, a quei che
mutano ad ogni tanto o dicono ciò che non pensano, è sorgente
precipua d'ire e d'accuse. Se non che a me torna più conto di starmi
in pace colla mia coscienza, che non cogli uomini de' miei giorni;
porto, come i cavalieri crociati, il mio simbolo sul petto e morrò
con esso.
La coscienza mi dettava allora, com'oggi: che ad ogni uomo della mia
terra, il quale mi richiedesse del fine a cui s'ha da tendere, io
dovessi rispondere: all'azione: - ch'io predicassi, come obbligo
oggi supremo d'Italia, il prepararsi a insorgere e insorgere: -
ch'io nondimeno non dovessi illudere, affascinare gli animi a moti
non desiderati, sostituendo al loro il giudizio mio: - ma che
qualunque volta, da uomini capaci di rappresentare il voto delle
moltitudini, mi fosse detto: vogliamo agire, io dovessi dir loro:
«Dio benedica il generoso concetto,» e, come meglio potessi,
ajutarli. Non ho tradito alcuno di quei consigli. Quei che
maravigliano in oggi del mio dire al paese di lavorare ad insorgere,
dimenticano ch'io, da ventiquattro anni, predico la stessa cosa:
quei che mi accusano d'aver detto o di dire: insorgete comunque;
insorgete anche pochi; insorgete a ogni patto, affermano, consci o
inconsci, quel che non sanno.
Gl'italiani devono insorgere pronti a morire, ma quando le
probabilità stanno per la vittoria. Soltanto, taluni non credono io
credo che probabilità siffatte possano raggiungersi dall'Italia
guardando a sè stessa, non a Londra o a Parigi.
V.
Intanto, mentre i lavori accennati si facevano dal Comitato e
l'interno assentiva e noi ci rallegravamo nell'animo del potere poco
o molto giovare da lungi al paese, prendeva forma e corpo e sorgeva
più sistematica, più attiva e dannosa, quell'opposizione, della
quale notai più sopra i germi esistenti segnatamente in Parigi, ma
che allora si diffuse qua e là tra gli esuli in altri punti;
opposizione che, versando tra elementi eterogenei, atei, cattolici,
militari, federalisti, repubblicani e non repubblicani, era
inefficace a fare o sostituire cosa alcuna a ciò che per noi si
tentava: ma efficace pur troppo - e chi non lo è? - a distogliere, a
intiepidire, a dissolvere, a dar pretesto d'inerzia ai molti che
abborrono in core dal sacrifizio qualunque siasi. E trovarono
faccendiere ed antesignano un Ferrari, ingegno francese al
peggiorativo, scrittore facile, ardito, superficiale: copista delle
negazioni di sessanta anni addietro, scettico di fede, di principî e
di dottrine; inavvertito - e questo è il segreto dell'ire - in
Italia. Costui stampò un libro a provare - dopo avermi biasimato per
tenacità d'idee in altri scritti - ch'io non era a vero dire
repubblicano, ma monarchico alternativamente e papista e non so che
cosa altro; poi che all'Italia, per rigenerarsi, bisognavan due
cose: farsi scettica e farsi francese. Or se in Italia sono uomini
che accettino questi due rimedî alla servitù, accettino anche quello
ch'ei dice di me: non cercherò convertirli. E non occorre che io
parli altro di lui. Ma tra gli uomini, che allora si fecero
oppositori, sono parecchi ch'io stimo per doti di core o di mente, e
che diedero in altri tempi prova d'amore intenso all'Italia. Ed è
necessario citarne le accuse.
Erano varie e contradditorie, come le tendenze degli uomini dai
quali escivano.
Gli uni ci rimproveravano il silenzio, del primo Manifesto, intorno
al principio repubblicano, e ci accusavano di tener celata la nostra
bandiera. Non la celavamo; era incarnata in noi tutti che l'avevamo
difesa in Roma; era incarnata in me che aveva, venti anni prima, e
poi sempre, predicato repubblica, quando nessuno, in Italia, osava
fiatarne. E alla repubblica guidavano inevitabilmente le norme
prefisse nel Manifesto, allo stadio d'insurrezione e al modo
d'assetto finale. Ma la riverenza alla Sovranità Nazionale e il
concetto puramente insurrezionale che il Comitato s'era fatto della
propria missione, ci aveva persuasi a tacerne il nome. Pur
nondimeno, dacchè repubblicani eravamo e repubblicana era
l'Associazione e repubblicane si manifestavano le tendenze di tutto
il partito d'azione in Italia, deliberammo di troncare in un secondo
Manifesto ogni dubbio, dissenziente, per semplice opinione
d'inopportunità, il solo Giuseppe Sirtori, che ci lasciò,
addolorati, e addolorato egli pure: tra lui e noi, mallevadore
d'affetto fraterno, rimaneva e rimane(64) il core, più potente
d'ogni passeggero dissidio.
Altri ci accusavano d'antagonismo alla Francia; ma a quale? alla
Francia governativa eravamo, per debito verso noi e verso la vera
Francia, irrevocabilmente nemici; e avversi alla Francia delle sêtte
intolleranti, traviate, esclusive, ch'io da più anni, vedeva - e lo
scriveva in Inghilterra e in Italia - spianar la via, colle stolte
minaccie a quanti possiedono, colle promesse inattendibili al
popolo, colle utopie senza mente a danno della libertà e col culto
degli interessi materiali, anzi degli appetiti, alla tirannide del
primo che, potente a giovarsi della corruttela, vorrebbe, ottenerla:
colla buona, colla pura Francia repubblicana, colla Francia dalle
larghe e filosoficamente religiose tendenze sociali, colla Francia
sorella, non monopolizzatrice d'una civiltà ch'è l'alito della vita
europea, non traduttrice del principio monarchico in una monarchia
di nazione, noi eravamo legati in concordia d'opere, nota a molti
francesi, e indovinata per istinto dal loro governo, che m'odia
quanto io lo disprezzo. La democrazia italiana sovveniva, mentre gli
accusatori parlavano, la democrazia francese d'azione, di consigli
fraterni e d'ajuti materiali. Eravamo antagonisti, non alla Francia
dell'avvenire, ma al pregiudizio servile di molti fra i nostri, i
quali, senza pure operare a mutarla, dichiaravano la Francia arbitra
unica delle cose d'Europa e sola datrice possibile di libertà a
venticinque milioni d'uomini nati in Italia. Parecchi tra gli
adulatori della Francia repubblicana piaggiano oggi all'imperatore.
Taluni riparlavano di suffragio; e a questi, dopo tutte le ragioni
ch'io dissi, concedemmo una doppia prova in un Comitato scelto per
voti dell'emigrazione in Marsiglia, e in un altro, eletto per la
Sicilia da tutti gli esuli di quell'inclita parte d'Italia. Le
proteste di quei che si dicevano lesi o delusi dall'elezione,
l'inesecuzione degli ordini, i dissidî insorti tra gli esciti
dall'urne, costrinsero, dopo breve tempo, i due Comitati a
disciogliersi.
Lascio delle accuse volgari: delle pretese, mormorate appunto dagli
uomini che non hanno mai contribuito d'un obolo, che si desse conto
ad altri, che non al paese insorto e rappresentato, delle offerte,
date e impiegate segretamente, all'imprestito Nazionale: - dei motti
codardi e codardamente gittati contro le abitudini dei membri del
Comitato, mentre, rispettando all'inviolabilità del deposito e
all'indipendenza dell'anima loro, i membri del Comitato si facevano
lietamente, per vivere, maestri di lingue: - e d'altre consimili: il
Comitato non dovea che riderne, sprezzando, e rideva. Ma le più
forti accuse, quelle che trovavano più facilmente un'eco nei deboli
d'intelletto o di fede, si concentrarono su due punti, che meritano
d'essere rapidamente toccati: la guerra bandita al federalismo, e la
teorica del governo dittatoriale raccomandata all'insurrezione.
Io considero - e noi tutti consideravamo il federalismo come la
peste maggiore che possa, dopo il dominio straniero, piombar
sull'Italia; il dominio straniero ci contende per poco ancora la
vita; il federalismo la colpirebbe d'impotenza e di condanna a
lenta, ingloriosa morte, in sul nascere. Rampollo d'un vecchio
materialismo che, incapace d'affermare la collettiva unità della
vita, non può coll'analisi scoprirne se non le manifestazioni locali
e ignora la Nazione e i suoi fati, il federalismo sostituisce, al
concetto della missione d'Italia nell'Umanità, un problema di
semplice libertà e d'un più soddisfatto egoismo. Senza base di
filosofia: - senza teorica d'antecedenti storici in Europa, dacchè
tutte le federazioni non furono, nel passato, che concessioni
imperfette alla tendenza unitaria, cadute, appunto perchè
imperfette, ogni qualvolta si scontrarono coll'unità già ordinata: -
senza argomenti d'analogia nel presente, dacchè delle due sole
confederazioni esistenti, la Svizzera e l'America, questa
rappresenta la sola unità possibile tra i paesi d'un continente
intiero, quella, formata per aggregazione successiva, rappresenta la
sola unità possibile tra popoli di lingua, di razza, e di credenze
diverse: - senza tradizione nazionale, dacchè non furono mai in
Italia se non leghe a tempo, limitate sempre a una parte sola della
Penisola, e tutte, dalla Lombarda infuori, funeste al paese: - senza
appoggio possibile di diplomazia, dacchè nè i federalisti medesimi
s'attentano di dichiarare giusta e da rispettarsi la divisione
attuale, ineguale, arbitraria, tirannica, come è, degli Stati: -
senza conforto d'aspirazione di popolo, dacchè il popolo non conosce
se non la nazione e la propria città: - il Federalismo italiano non
è nè può essere che capriccio intellettuale di letterati imprudenti
o sogno inconscio d'aristocrazie locali, accarezzato da mediocrità
ambiziose alle quali l'ampia sfera nazionale minaccia l'oblìo. E
aristocrazie locali di mediocrità; usurpazioni tanto più facili,
quanto più la sfera, nella quale tentano compiersi è angusta;
influenze straniere e contrarie di nazioni gelose esercitate, a
seconda della posizione geografica, degli interessi commerciali o
dei ricordi storici, sul Sud, sul Centro, o sul Nord dell'Italia;
invidie e gare civili di supremazia mercantile o politica rieccitate
nelle diverse parti: debolezza perenne e perenne mancanza
d'iniziativa, scenderebbero inevitabili dal sistema federativo
applicato alla nazione risorta. Per tutte queste, e per più altre
ragioni, noi credemmo debito nostro il dichiararci, senza riguardo
alcuno ai pochi avversi, esclusivamente unitarî. Ma pensando come
per noi si temperava l'idea di unità e al come gli altri parevano
capire il federalismo, non mi venne mai fatto d'intender di che si
lagnassero, o che si vogliano. Com'essi, noi adoriamo, riverenti, la
libertà: com'essi, abborriamo dal concentramento amministrativo:
com'essi teniamo sacra la spontaneità della vita locale. Soli due
elementi storici esistono in Italia per noi: il Comune, dal quale
incominciò lo sviluppo della nostra vita; la Nazione verso la quale
andò, d'epoca in epoca, operandosi più sempre la fusione del nostro
popolo. Sono i due elementi che corrispondono ai due, violati
alternativamente dai sistemi del socialismo francese, individuo e
società, in ogni Stato; e, com'essi, sono inviolabili e devono
armonizzarsi, non negarsi l'un l'altro. Il Comune, unità primordiale
politica, deve ampliarsi e dotarsi di forze proprie che gli
consentano indipendenza, per quanto concerne doveri e diritti
locali, dal governo della Nazione: esercizio d'attribuzioni, che
costituiscano un primo grado d'educazione civile, pratica al
cittadino; e ricchezze che lo abilitino a irraggiare un
incivilimento progressivo nelle campagne, oggi isolate
soverchiamente e ignoranti. La Nazione, unità complessiva e suprema,
rappresenta, tutela e promove l'insieme dei doveri e diritti, che
spettano a quanti nascono tra l'Alpi e l'ultimo nostro mare, e
costituiscono al di dentro e al di fuori la missione Italiana. E
mentre cura e vocazione della famiglia dev'essere l'educare uomini
al Comune, il Comune deve educare cittadini alla Nazione, la Nazione
educare le generazioni italiane a compiere la parte e gli obblighi
loro nell'Umanità. V'è chi possa levarsi protestando contro questo
ideale, o vagheggiarne, sotto nome di federalismo, uno migliore? Io
intendo - Dio mi guardi dall'approvarlo - il federalismo monarchico
di Gioberti e Mamiani; essi sacrificano Italia, principî, avvenire a
una pretesa opportunità o alla codarda ambizione d'una famiglia di
principi. Ma il federalismo repubblicano, il federalismo che non ha
innanzi se non tre vie: - sagrificare giustizia e principî
rispettando gli Stati attuali - affrontare tutti gli ostacoli
incontrati dagli unitarî e più altri nuovi per fondare ad arbitrio
una diversa serie di Stati - o scendere, per equa deduzione di
logica, alla sovranità d'ogni campanile, alle cento o duecento
repubblichette, al medio evo rifatto in faccia al moto verso
gigantesche unità nazionali che affatica l'Europa - mi riesce, io
confesso, inintelligibile. E duolmi che un ingegno potente d'analisi
e di nozioni pratiche come quel di Cattaneo, si lasci sospettare di
siffatta follìa.
Ma l'altra accusa, vecchio grido d'allarme di quanti demagoghi
mirarono a conquistarsi, adulandone le incaute passioni, il popolo,
sollecitava pur troppo tutte le invidiuzze, le ambizioncelle, i
sospetti e la foga irrequieta di libertà, che s'agitano tra gli
oppressi, e più nell'emigrazione. I tristi - e dovrò dirne tra poco
- non arrossivano far discendere la questione del centro unico
dittatoriale sul terreno degli assalti personali; i migliori
esageravano, dimenticando che una insurrezione non è libertà, ma
guerra per conquistarla, i pericoli d'una dittatura che non potrebbe
mai diventare tirannide, se non quando gl'Italiani meritassero tutti
d'essere servi - e nol meritano. Taluni - perchè i più saviamente
s'astennero - fra i membri dell'Assemblea Romana, sognandosi pur
sempre reduci in patria per virtù d'armi francesi, poi che si
sarebbe compita la pacifica rivoluzione dell'urne, s'affrettarono a
dichiarare, in un documento, che in qualunque luogo avessero veduto
compirsi l'insurrezione, essi si sarebbero immediatamente raccolti,
in virtù del loro mandato, come monade e nucleo generatore di una
Assemblea Nazionale, dirigendo intanto i primi moti del popolo
insorto: e ci mandarono, perchè il rifiuto ci chiarisse pericolosi
alla futura libertà del paese, quel documento, richiedendoci di
firmarlo. La nostra coscienza ci comandava di amare il popolo, e
d'ajutarlo a conquistarsi una Patria, non d'adularlo, ingannandolo;
e però ricusammo. Quei valentuomini non s'avvedevano che la loro
proposta era, più d'ogni altra, usurpazione dittatoriale di
sovranità: i rappresentanti del popolo in Roma, eletti dagli uomini,
non d'Italia, ma dello Stato, con mandato di provvedere alle sorti,
non d'Italia, ma dello Stato, avevano esaurito degnamente quel
mandato, proclamando il 2 luglio dal Campidoglio una Costituzione
buona in più parti, ma che certo non sarà mai Costituzione d'Italia.
Se non che, a una usurpazione che avesse avuto in sè virtù di
salvare la patria, noi avremmo piegato il capo e, ripetendo la
formola dei nostri padri, aderito. Ma io vedeva dall'Assemblea
Romana ricostituita escire, in forza d'un diritto analogo, al quale
di certo non mancherebbero gli invocatori, l'Assemblea Veneta,
l'Assemblea Toscana, l'Assemblea di Sicilia: e riviver con esse
tradizioni di partiti e illusioni o peggio, che sviarono a certa
rovina la rivoluzione del 1848; e l'impossibilità di condurre
rapidamente, energicamente, nazionalmente, fra le gelosie, le
esigenze, le improntitudini di quattro assemblee, l'insurrezione a
buon porto; e, s'anche miracoli di popolo le avessero procacciato
vittoria, gravi e quasi insuperabili pericoli all'Unità della
Patria. E questi miei timori si confermavano dal linguaggio d'uomini
di Sicilia, Toscana, Venezia, ch'io andava via via richiedendo del
loro parere, e che, fautori d'una Assemblea, erano pur tutti avversi
al rivivere della Romana. Ond'io, forte d'un voto esplicito,
decisivo, dato da tutta quanta l'Associazione di Roma e Provincie,
minacciosamente ostili alla proposta di quei pochi Rappresentanti,
proponeva ad altri che si riunissero nel primo punto libero bensì,
per far atto degno veramente di loro e di Roma, e fecondo di
conseguenze giovevoli all'insurrezione, dicendo: noi non
capitolammo, e non abdicammo il mandato davanti alle bajonette; noi,
nei quali vive per decreto di voto il pensiero di Roma, anima,
centro, altare d'Italia - ci raduniamo a scioglierci e abdicare il
mandato imperfetto davanti alla maestà del popolo insorto: con noi
perisce ogni diritto, ogni sovranità di passato: a cose nuove poteri
nuovi: una sola Assemblea è legittima, quella che la Nazione
Italiana convocherà. Ma quando? E la questione, sciolta cogli uomini
dell'Assemblea Romana dal voto dell'interno e più dopo dai mutamenti
di Francia, risorgeva, e risorgerà, probabilmente, con altri, i
quali vorrebbero i fati dell'insurrezione affidati a una Assemblea
nuova da raccogliersi immediatamente.
Immediatamente? S'io avessi mai potuto sostituire, per accattare
suffragi, gli accorgimenti tattici dei più tra i cospiratori al
libero diritto favellare del pensatore patriota, avrei riecheggiato
allora e riecheggerei oggi quella parola. La forza delle cose
avrebbe deciso e deciderà sempre in favore dell'opinione ch'io
mantengo. La convocazione d'una Assemblea qualunque, esige un vasto
tratto di terreno assicurato dall'insulto nemico, tregua a quel
primo stadio di guerra che assorbe il popolo tutto nell'azione
incessante, redazione di legge elettorale, comizî, voto,
comunicazione agli eletti, riunione da punti diversi, verificazione:
in tutto quel tempo l'insurrezione deve pur governarsi; avrà capi
quindi e autorità direttrice, e se i primi passi di quell'autorità
avranno creato vittorie, se avranno rivelato al paese gli uomini
potenti di concetto e audaci nell'eseguire che hanno, più ch'altri,
fede e sanno infonderla nelle moltitudini, non un'Assemblea
prematura oserà balzarla di seggio finchè dureranno i supremi
pericoli. Ma le reticenze, le transazioni colla propria e
coll'altrui credenza, e le tattiche dei machiavellucci parlamentari,
arnesi buoni per monarchici e monarchie, minacciarono di troppo in
questi ultimi anni l'educazione repubblicana del nostro popolo,
perchè s'accettino da noi. E però dissi allora e ridico: che il
fidare le sorti d'una insurrezione italiana ad un'Assemblea
convocata dai primi tempi, riescirà, se mai si facesse, a
moltiplicare gli ostacoli e i pericoli sulla via dell'insurrezione,
senza educare il popolo a libertà vera o proteggerlo dalle brighe
degli ambiziosi. La nostra insurrezione potrà vincere - tante sono
le forze che possono adoprarsi in Italia - rapidamente: un anno, sei
mesi forse - e gli uomini delle guerre governative sorridano a posta
loro - basteranno, tante sono le conseguenze, possibili altrove,
d'un moto nazionale italiano, a far sì che si segni la pace
oltr'Alpi; ma a patto che la battaglia sia di giganti; a patto che
le forze interne si concentrino tutte a un intento da una volontà
ferrea, non indugiata da gelosie, paure o riguardi; a patto che le
conseguenze dell'insurrezione italiana si rendano inevitabili
all'estero coll'audacia che lacera in viso ai regnanti trattati e
protocolli di diplomazia e costringe le nazioni schiave a trasalire
fra i ceppi, a sentire il tocco d'un'ora di vita suprema voluta da
Dio, a salutare con entusiasmo di fiducia il popolo iniziatore; a
patto che le operazioni, maturate, ordinate nel segreto assoluto,
prorompano, inaspettate, come colpi vibrati in duello; a patto che
gli animi, i pensieri, le azioni del popolo insorto, sollecitato,
affascinato dalla fredda audacia dei capi, non si sviino un solo
istante dal grande, dall'unico intento, insurrezione, guerra,
vittoria. Ma chi può mai sperar questo, se non da pochi individui
puri, volenti, energici, affratellati, quasi dita d'una stessa mano,
in unità di concetto e di moti liberi e mallevadori al paese
solamente degli ultimi risultati? Dove è la potestà esecutiva che
possa mai attentarsi, siedente un'Assemblea, di sprezzare le pretese
della confederazione Germanica nel Tirolo, di sprezzar le proteste
di tutti i Consoli del commercio europeo in Trieste, di abbandonare,
occorrendo, il paese alle devastazioni dei nemici racchiusi nelle
fortezze del quadrilatero, per trasportare altrove, tagliando il
nemico dalla propria base, la forza dell'insurrezione, senza
chiederne assenso da quell'Assemblea? Pur quelle e ben altre audacie
racchiude il segreto della vittoria; e il segreto, dato a
discussioni, pubbliche o no poco monta, di parecchie centinaja
d'uomini, è segreto perduto. Citar Roma, citar Venezia, parmi, più
che argomento, artificio rettorico d'allievi inesperti. In Roma e in
Venezia sì trattava di tutelare città, non di fondare una Nazione:
era guerra non d'offesa ma di difesa; non passibile di concetti e
disegni radicalmente diversi; e ogni perdita di tempo era tolta dal
continuo contatto fra la potestà esecutiva e l'Assemblea; e il
cannone nemico tuonava alle porte, mirabil rimedio a lievi dissensi.
E l'unico potente esempio, che par soccorrere ai fautori
dell'Assemblea, quello dei prodigi operati in Francia sotto la
Convenzione, è per me sofisma pericoloso. Un unico esempio - ed
unico è nella storia - mal fonda teorica, alla quale s'affidi la
salute d'un popolo; ma neppur quell'unico regge. La Convenzione
venne, terza assemblea in un paese già concentrato a unità nazionale
dopo tre anni di rivoluzione crescente, di libera stampa,
d'agitazione popolare e di società giacobine, e quando fremeva
nell'animo a tutti la coscienza d'una rivoluzione invincibile; la
nostra si raccoglierebbe in sui primi moti di una insurrezione,
incerta tuttavia de' suoi fati, in una terra che deve conquistarsi
unità e indipendenza ad un tempo, da un popolo d'elettori buoni per
istinto, ma ineducati, tra un popolo di eleggibili, ignoti per
mancanza di contatto colle moltitudini e di vita pubblica anteriore;
predominante necessariamente in essa una classe di cittadini
timidamente devoti, di pretese superiori all'intelletto e dotati
della semi-scienza fatale alle insurrezioni, che vede e calcola
tutti i pericoli senza indovinare le audacie sublimi che possono
vincerli. Chi può dire: noi avremo la Convenzione? E nondimeno a
quali patti fu grande d'energia la Convenzione di Francia? Le
denunzie che escivano pe' suoi membri dai banchi de' giacobini si
trasformavano in condanne sulle labbra degli uomini del Comitato di
salute pubblica o di Robespierre e si compievano sul patibolo. La
guerra civile inferociva in seno alla Convenzione; una metà scannò
l'altra: passeggiò su tutte, dominatrice tremenda, la ghigliottina.
La dittatura a tempo e limitata di pochi chiamati dal popolo,
invigilati dal popolo, mallevadori al popolo, è dunque siffattamente
pericolosa, che debba preferirsi la dittatura della ghigliottina e
lo spettacolo di terrore e di sangue, ch'oggi ancora impaurisce gli
animi della Repubblica? Non so s'io traveda, ma la via ch'io
propongo parmi la sola che possa dar salute all'insurrezione e
liberare a un tempo l'Italia dalla tristissima necessità del terrore
ordinato in sistema e del sangue. Un'assemblea esige nel paese un
esercizio di libertà illimitata, che nel concitamento febbrile di
quel primo periodo, deve tradursi infallibilmente in licenza: si
divide essenzialmente in partiti, che rappresentati da uomini cinti
della fascia di mandatarî del popolo, si riproducono potenti non
foss'altro nel collegio degli elettori; e trapassando di crisi in
crisi, di discordia in discordia, finirà, checchè si faccia, per
insegnare al popolo l'anarchia - l'inerzia della stanchezza - o la
dittatura: e alla istituzione di un potere dittatoriale conchiusero,
ne' momenti supremi, le Assemblee quanto furono, antiche e moderne.
Ma non cova maggiori pericoli una dittatura, sancita per confessione
implicita d'impotenza, da un'Assemblea, che non quella alla quale il
popolo fiderebbe nei primi momenti il governo dell'insurrezione e a
un tempo l'ufficio di preparare, libero d'ostacoli e di pericoli, il
terreno alla convocazione dell'Assemblea? Non fu la maggior parte
della via alla tirannide agevolata a Luigi Napoleone dallo scredito
in cui l'Assemblea era caduta?
Non cito i danni minori: - l'imprudenza di dettar leggi regolatrici
della vita d'un popolo, prima che quel popolo abbia potuto
manifestare la somma di facoltà, di bisogni, di credenze, di
aspirazioni che gli compongon la vita: - il pericolo di soggiacere,
senza pur avvedersene, alle tradizioni d'un passato abbarbicato
ancora alle menti: - la certezza di subire, in disposizioni
destinate a regolare un avvenire pacifico, l'influenza d'un
presente, affannato dall'ansie, dai sospetti, dalle riazioni d'una
guerra non per anco decisa: - e finalmente l'allontanamento forzato
dal campo, e dagli uffici praticamente utili all'insurrezione, d'un
numero d'uomini militari ed altri: benchè io ricordi tuttavia che se
la proposta ch'io, semplice rappresentante del popolo in Roma, e
antiveggendo i pericoli prossimi, feci all'Assemblea, di disperdere
i suoi membri a portar la croce di fuoco tra i loro elettori nelle
provincie, non fosse stata da improvvidi sospetti respinta, forse le
Romagne non davano il triste spettacolo - e so che laveranno
quell'onta - di lasciare il tedesco passeggiar senza ostacolo da
Bologna sino ad Ancona. Ma come può esistere Assemblea Nazionale
legislatrice su tutti e obbedita da tutti, se tutti, o i più almeno,
fra gl'Italiani non l'hanno eletta? Ben so ch'altri, a scansare
l'ostacolo, propose un'Assemblea, che andasse via via rafforzandosi
dai rappresentanti delle frazioni di territorio che s'andrebbero via
via emancipando. Ma le leggi via via votate non rimarranno pur
sempre mal ferme, per vizio d'illegalità, nell'animo dei non
elettori? o dovranno riesaminarsi ad ogni nuova infornata di
rappresentanti? Pensando all'immensa unità richiesta da un'impresa,
come quella di far d'un popolo insorto Nazione, e ad un tempo al
continuo variar di tendenze, all'incertezza di sistema governativo,
alla instabilità d'ogni disegno di guerra e pace, che prevarrebbero
in quell'Assemblea, formata per alluvione, non pare, a dir vero,
proposta da senno.
Io intendo l'atto d'una prima Assemblea Nazionale Italiana, raccolta
in Roma, a definire e consecrare col Patto la terza vita d'un Popolo
predestinato, come il nostro, a infondere la propria nella vita
dell'Umanità, siccome l'atto il più solennemente religioso che
possa, in questa Europa sconvolta, compirsi; e lo vorrei tale nelle
circostanze, nella pace d'anima dei rappresentanti, liberi da ogni
influenza d'eventi passeggieri e violenti, nella maestà d'un Popolo
circostante, purificato dal martirio e in riposo sull'armi della
vittoria. Vorrei che gl'Italiani avessero prima imparato l'unità
della Patria nel campo, la missione della Patria nel sacrificio, la
libertà della Patria nella coscienza d'aver combattuto e vinto per
essa. Vorrei che il Messia dell'Italia, l'Assemblea Nazionale,
avesse profeti che gli preparassero la via. E cura del Governo
d'Insurrezione sarebbe quella di prepararla in quel breve periodo
colla educazione iniziatrice, colla stampa ordinata ad un fine,
coll'associazione pubblica concentrata a una sola bandiera,
coll'esercizio della facoltà elettorale, dato, fin dov'è possibile,
ai militi e ai comuni pei loro uffici: di leggi, quel Governo a
tempo non dovrebbe farne se non concernenti la guerra, e le poche
richieste dai più urgenti bisogni del popolo e dalla necessità di
fargli intendere che combatte per sè, pel suo meglio. Commissioni o
assemblee di provincia, raccolte intanto senz'altro mandato che
quello di snudare le piaghe del passato, di studiare i nuovi
bisogni, di preparar materiali alla futura Assemblea,
costituirebbero di fatto una potenza invigilatrice, pel caso in cui
il Governo d'Insurrezione accennasse tradire o prolungasse il
periodo transitorio oltre il termine indicato dall'esito della
guerra: guerra, ripeto, tanto più breve quanto più concentrata,
quanto più dittatoriamente diretta. Nè temo gran fatto d'usurpazione
da quei pochi: tremenda è la tirannide d'una Assemblea, perchè il
punirla minaccia le fondamenta dello Stato ed esige l'insurrezione
di tutto un popolo; ma i pochi, rivestiti di mandato a tempo e per
un intento definito, non avrebbero appoggio possibile se non nella
forza; e quella forza - non atteggiata ad esercito permanente e
separato dalla nazione - in un popolo ringiovanito nelle battaglie
della libertà, starebbe contr'essi. A me, nell'udire tanti puritani
di libertà affaccendarsi dall'esilio a custodire dalle ambizioni
possibili la patria futura, veniva spesso sul labbro: che! sognate
un Cesare in ogni patriota, a cui lo studio delle rivoluzioni
suggerisca idee dissimili dalle vostre, e non sapete giurare a voi
stessi di essergli Bruti?
VI.
Queste cose dicevamo, in termini assai più miti e meno assoluti,
agli avversi; e aggiungevamo: «tra le opinioni nostre e la vostra,
avremo giudice supremo il paese: noi non abbiamo desiderio di
costringere il paese ad accettarle, nè potenza per farlo; il primo
giorno dell'insurrezione vedrà disciolto il Comitato Nazionale: a
che dunque aspreggiarsi e dividersi per questioni siffatte? D'una
sola cosa siamo tutti debitori all'Italia: d'operare ad affrettarne
l'emancipazione: uniamoci per questo intento. Il Comitato Nazionale
è oggimai un fatto: e voi non potete fare che i fatti non siano. Noi
concentriamo elementi d'azione importanti d'intorno a noi: abbiamo
fiducia dalle democrazie nazionali straniere, e simpatia lentamente
conquistata dai buoni d'Inghilterra e d'America, e qualche mezzo
materiale raccolto. Voi non potreste - nè dovreste volerlo -
rompere, disperdere questo cominciamento d'unificazione, prezioso
per la terra nostra; ma potete dargli, cooperando, più vigoroso
sviluppo e migliorarlo e trasformarlo gradatamente. Venite: ci
avrete fratelli, non capi.» Io ricordo d'aver scritto, insistendo, a
uno de' principali tra loro, che se temevano di soggiacere a idee
preconcette, o ad influenze che non amavano, d'individui, venissero
in tre, in quattro, in cinque: sarebbero tutti accettati e
formerebbero maggioranza; però che noi non fidavamo in altra potenza
che in quella del vero; e lo avremmo discusso tra noi. E non valse.
Non avendo che dire, tacevano; ma avversavano con quanti potevano
all'Imprestito Nazionale, sindacavano, notomizzavano ogni frase
dubbia dei nostri scritti, evocavano fantasmi d'ambizioni o di
stolti concetti insurrezionali, ci davano carico d'ogni sillaba che
escisse di bocca a un gregario di parte nostra; e architettavano,
eretto di contro al Comitato Europeo, non so quale Comitato Latino
in Parigi, angusto di concetto e di forma, che s'esauriva in un
Manifesto. Firmato da soli francesi e anonimo per l'altre nazioni,
quel Manifesto dichiarava non ammettere che alcuno individuo o
Comitato potesse - da francesi in fuori, suppongo - rappresentare il
Partito Nazionale in Italia. Era atto scortese quanto impolitico; e
non di meno, anche dopo quell'atto, noi mandammo parole di pace e
offerte d'azione fraterna, alle quali non s'ebbe cenno mai di
risposta. Le portò Saliceti, che allora appunto, per cagioni
personali estranee ad ogni politica, si staccava, recandosi altrove,
da noi e ci lasciava dichiarazione scritta, e promessa d'adoprarsi a
convincere i dissidenti e proteste d'amicizia, ricambiata
sinceramente da noi, smentita più tardi, e senza cagione, da lui.
Pochi, in Italia, badavano a questo dissidio. La Direzione Romana
redarguì gli autori con parole severe. Inattivi e fuor di contatto
col popolo, gli anonimi del Comitato Latino non potevano nuocere
sensibilmente al nostro lavoro. Pur diedero agli stranieri pretesto
per ripeterci la vecchia accusa delle divisioni intestine, e
ajutarono a fecondare il germe dell'idea monopolizzatrice francese,
che assunse forme più definitive poco prima del tentativo milanese e
lo rovinò.
VII.
Venne la crisi di Francia e l'usurpazione del dicembre, provocata
dalla falsa tattica che avvertiva il nemico d'una condanna a giorno
determinato, senza togliergli i mezzi di prevenirla, e accettata
codardamente dai più, per cagioni ch'io vedeva da lungo tempo
operare a traviare e dissolvere la parte repubblicana, e che un
Manifesto del Comitato Nazionale additò agli Italiani. La
rivoluzione del 1848 aveva tradito il concetto europeo, che solo
poteva procurarle consecrazione e trionfo. Guidate da uomini di poco
cuore, di non largo intelletto e di meschina insistente ambizione,
le sétte socialistiche avevano falsato, per entro a sistemi pomposi
di forme, vuoti o assurdi nella sostanza, il vasto Pensiero Sociale
che appartiene ai migliori di tutta Europa. Diseredati di sintesi e
di aspirazione, servi a mezzo il secolo nostro di Bentham e dei
materialisti dell'ultimo secolo, i più tra i Francesi avevano, con
una falsa definizione della vita, la ricerca del benessere,
insegnato al paese il culto della materia e soffocato il nobile
istinto di sagrificio che ispirò le più belle pagine della storia di
Francia. Un'analisi dissolvente e rissosa aveva ministrato a invidie
meschine di più meschino dominio e logorando ad una ad una le
migliori riputazioni, aveva rotta ogni unità del partito; la paura,
esagerata ad arte, della dittatura di una idea, aveva preparato la
dittatura della forza cieca; la foga demagogica di libertà che
rifiuta ogni ordinamento, ogni associazione, ogni capo, non avea
lasciato che individui e anarchia a fronte d'una fazione ordinata.
Pareva che la Provvidenza avesse voluto insegnare praticamente
all'Italia la necessità d'unificazione, d'ordinamento e di fiducia
reciproca che noi andavamo predicando a tutti com'unica via di
salute. E pareva, salendo in più alta sfera, che gl'italiani
dovessero vedere patente, in quel fatto, la conferma di quello ch'io
fin dal 1835 dichiarava a' Francesi ed a' nostri: che l'iniziativa
della Francia in Europa era spenta, e che la via era aperta a ogni
popolo per colmare il vuoto, davanti al quale l'Umanità s'arrestava
pensosa ed incerta(65).
Per noi dunque, pel Partito Nazionale Italiano, quando non volesse
smentire vilmente il linguaggio tenuto dal 1849 in poi, nulla era
cangiato. La Francia non periva: espiava Roma; ma s'anche essa non
avesse dovuto mai più risorgere, era debito del Partito il dire:
Perisca la Francia: viva l'Europa! Due grandi quistioni s'agitavano
infatti e s'agitano tuttavia in Europa: la questione sociale e la
questione della Nazionalità. La Francia, che prima di noi seppe
conquistarsi la più forte unità nazionale che sia; la Francia,
libera di stranieri, poteva maturar dentro sè lentamente, attraverso
una purificazione di dolori e di studî severi, l'esplicazione del
problema sociale. Le Nazioni, oppresse, smembrate, negate dal
Diritto Monarchico, contendevano per esistere. Spettava ad esse,
alla loro Alleanza, l'iniziativa in Europa, perchè se la questione
sociale può idealmente sciogliersi dai pensatori individui, nol può,
nè lo potrà mai, praticamente, nella sfera dei fatti, se non quando,
rifatta la carta d'Europa, un migliore e libero assetto conceda
un'ampia scala alle applicazioni. E spettava, nell'Alleanza,
l'iniziativa a quella tra le Nazioni che più delle altre avesse
potenza di ferire il nemico al core; alla quale la tradizione
storica insegnasse più che all'altre missione d'universalizzare la
propria vita, e che raccogliesse fra tutte più larga messe di
affetti, di simpatie e di fiducia in Europa. Era l'Italia. Sola
l'Italia avea dentro sè la duplice rappresentanza dell'Autorità
condannata, Papato ed Impero, Roma e Milano: sola potea levarsi e
annunziare a un tratto all'Europa l'emancipazione dei corpi e delle
anime, del Pensiero e dell'Azione. La vita d'Italia, nelle sue
grandi epoche, fu sempre vita d'Europa: da Roma, dal Campidoglio e
dal Vaticano, si svolge nel passato la storia dell'umana
unificazione. Nè mai su terra d'Europa s'abbracciarono tanti affetti
di riverenza, compianto e speranza, come su questa sacra terra
Italiana, alla quale poeti, artisti, martiri del pensiero e del
core, dimandano ricordi, ispirazioni e conforti. Pronti dunque a
seguire lietamente la Francia, se mai, ridestata a un tratto,
cacciasse la vergogna del bonapartismo da sè, attivi più che mai a
secondare di ajuti la parte repubblicana, che in Parigi e altrove
andava riordinandosi, fermammo tra noi di procedere innanzi nel
lavoro italiano e di ripetere ai nostri: l'iniziativa europea può
escir d'Italia come di Francia: s'altri non fa, fate voi. E fu la
sostanza di quanto dicemmo in un Manifesto, escito due mesi o più
dopo il 2 dicembre. Quel Manifesto rimane condanna inappellabile per
chi, fra noi, si arretrò poi davanti a ogni concetto d'iniziativa
italiana e disdice in oggi i compagni, i quali non hanno colpa, se
non quella d'aver pensato quello che firmavano.
VIII.
Questa idea d'iniziativa italiana possibile, affacciata a ogni tanto
da me agli uomini dell'interno, non era - e neppur dopo i mutamenti
francesi - respinta teoricamente se non da pochi. Gli animi non
s'erano affatto prostrati: parevano anzi, al cader della Francia,
essersi ritemprati d'orgoglio italiano e di fede. Dalla sovversione
della repubblica in Francia sino al finire dell'anno 1852, il lavoro
preparatorio corse più ardito e più rapido, come di chi sente
cresciuti gli obblighi. Da due punti d'Italia, ambi importanti, ebbi
proposta di movimento immediato: da uno tra i due, con rimprovero al
continuo indugiare e minaccia d'andar oltre, anche senza l'assenso
del Comitato. Accusato io sempre, da chi afferma, inonestamente, ciò
che non sa, di volere e promuovere azione a ogni patto, sconsigliai,
pregando, insistendo perchè non si prorompesse in moti parziali
prima d'essersi ottenuta certezza che sarebbero seguiti ove più
importava, nel Lombardo-Veneto. Vivono, e liberi, gli uomini che
proponevano e coi quali io discuteva le cagioni del mio rifiuto.
Senza l'azione iniziatrice o simultanea del Lombardo-Veneto, una
insurrezione in Italia aveva ed avrà pur sempre pericoli
centuplicati. E so che parecchi, pur d'accusare, accuseranno
d'imprudenza queste mie parole, come s'io rivelassi al nemico i
segreti del nostro campo: ma non ne curo: l'Austria non ha bisogno
d'essere erudita da noi sull'importanza del Lombardo-Veneto, nè può
crescer cautele o provvedimenti efficaci pel giorno in cui gli
uomini di quella parte d'Italia vorranno intendere i loro obblighi e
la loro potenza. Nel Lombardo-Veneto sta la chiave, il punto
strategico dell'insurrezione italiana. Pel peso d'una tirannide
efferata quanto l'Austriaca, per somma minore d'ostacoli, dacchè
quella tirannide s'appoggia su forze nazionali per importanza
militare di posizione, per materiale da guerra, ozioso in oggi e
prezioso ad una impresa emancipatrice, Napoli dovrebbe, non v'ha
dubbio, assumersi gli onori dell'iniziativa. Pur nondimeno - e
dacchè, lo scrivo con dolore, Napoli sembra dimenticare la lunga
splendida tradizione di martiri e di nobili tentativi ch'essa diede
alla Patria comune - le migliori speranze del Paese accennano,
siccome a Roma per l'idea, alle terre Lombarde per l'azione decisiva
insurrezionale. Il nostro principale nemico è l'Austriaco: e il
nemico s'assale dov'è, dove può ferirsi al core, per modo che non
risorga. Napoleone marciava direttamente sulle Capitali: la tattica
dell'insurrezione dev'esser la stessa; tentar la vittoria dove una
vittoria prostra e dissolve le forze nemiche e trascina con sè i
risultati più generali. Una, non dirò vittoria, ma battaglia vera
sulla terra Lombarda, e l'insurrezione di tutta Italia, son cose
identiche; e però s'anche la battaglia volgesse a sconfitta, la
riserva della insurrezione avrebbe campo a ordinarsi nel centro e
nel mezzogiorno: il nemico, indebolito, spossato dalla battaglia,
collocato sopra un terreno vulcanico fumante e presto a riardere,
mal potrebbe operare contr'essa. Ma una vittoria, tronca a un tratto
dalla sua base la lunga linea, che il nemico spinge sino a Foligno e
impedisce il concentramento: forse, se decisiva e compita in alcuni
punti importanti, separa dalla loro vera primitiva base d'operazioni
tutte quante le forze nemiche. Ma vittoria siffatta non s'ottiene
se, come dissi, il moto non procede e non prorompe almeno simultaneo
al sorgere dell'altre parti d'Italia. Ogni altro moto è annunzio
all'Austriaco; e se gli è dato tempo per farsi forte sui punti
strategici, per incatenare le città col terrore o, se occorre,
prepararsi a sgombrarle e cingerle dal di fuori, la guerra Italiana
potrà conquistare la Lombardia; l'insurrezione sarà impossibile o
inefficace.
Per queste ragioni; spronato da quelle proposte; spronato anche da
frequenti disegni ed annunzi dei repubblicani francesi, annunzi
ch'io doveva - e questo pure mi venne apposto da molti - quasi per
ufficio di scolta e senza che s'avesse diritto di farmene
mallevadore, trasmettere ai nostri; io mi diedi a esplorare più
attento la Lombardia.
L'odio all'Austriaco e il desiderio d'emancipazione v'erano
universali; ma quanto ai modi, alle speranze, al tempo, le opinioni
variavano. V'erano i millenari della fazione regia, beati di calcoli
innocenti sulla venuta del messia di Piemonte: pochi e nulli; invisi
al popolo, che serba vive le memorie del 1848. V'erano i letterati
dal progresso omiopatico, contenti di produrre di tempo in tempo,
mozzato dalla censura, un articolo di gazzetta, sviati da qualche
scritto di settarî francesi, socialisti pazienti, proudhonisti
sommessi, tronfi di vedersi a stampa, e rassegnati alla parte più
misera ch'io mi sappia, quella di pedanti sotto il bastone:
pochissimi e ignoti al popolo. Ma al di sopra di queste e d'altre
minute frazioni, vivevano, fremevano, italiani e repubblicani, i
giovani d'ogni classe, maggioranza assoluta in paese, stretta nelle
tendenze generali alla nostra fede, e senza speranza fuorchè nella
rivoluzione d'Italia e d'Europa. Molti bensì tra loro, i più forse,
si mostravano titubanti, tentennanti sul come: consentivano nel
fine, si dichiaravano incerti, sfiduciati sui mezzi: non mancava ad
essi il core, mancava l'intelletto della rivoluzione.
Dichiaro io qui, prima d'andar oltre - e desidero che questa mia
dichiarazione non sia dimenticata fuorchè dagli uomini di malafede,
gazzettieri dell'Opinione e siffatti, dai quali è bello l'essere
calunniati - ch'io non alludo a una classe intera, come non alludo a
una sola città. Del vizio ch'io noto son tocche Ancona, Bologna,
Firenze come Milano, e non esclusivamente le classi che chiamano
medie, ma frazioni importanti di tutte classi, dal patriziato fino
agli uomini che vivono col lavoro delle loro braccia. Ventura somma
è per noi che non s'agitino in Italia, come in Francia o in
Inghilterra, odii o distinzioni di classi, e che un governo
Nazionale possa, quando che sia, provvedere ai diritti del povero, e
sciogliere quetamente i più ardui problemi sociali, senza trapassare
tutto quel trambusto, pregno di sangue e risse civili, che sotto
nome usurpato di socialismo minaccia oltr'Alpi di convertire la
santa dottrina d'associazione in rapina, e la nostra fede di libero
progresso e d'amore in tirannide d'egoismo ordinario. La comune
oppressione ha generato fratellanza comune: il prete cattolico e il
pensatore, il proprietario e il popolano hanno segnato col loro
sangue sul palco un patto, che l'anime hanno raccolto e che
manterranno nei giorni di redenzione. Ma da tutte le classi, e
segnatamente dov'è mezza scienza, s'è formata, dopo il 1849, una
setta di giovani, vecchi a venticinque anni, e scettici pur colle
sacre parole della fede italiana sul labbro, che hanno smarrito tra
i sofismi di un raziocinio di terza sfera ogni potenza d'intuizione
e intisichito l'entusiasmo tra le anatomie d'una analisi, senza lume
di sintesi che la diriga: li diresti i primi cristiani intesi a
fondare il mondo novello colla triste dialettica dei Greci del Basso
Impero. Io mi trovava innanzi, dopo i dottrinarî monarchici del
1848, i dottrinari repubblicani. Dovea, dopo i tanti, toccarmi il
dolore senza nome di veder morta in quattro anni nella vita
dell'anima mezza una generazione di giovani amici, che avevano dalle
barricate Lombarde, dalle lagune Venete, dai bastioni di Roma,
bandito all'Europa, tra il plauso e le speranze dei popoli, che
l'Italia aveva finalmente riconquistato la coscienza delle proprie
forze.
Erano popolo allora; avean fede in esso, potenza sovr'esso e
vincevano. Da quei momenti di ispirazione, di comunione
coll'avvenire d'Italia, di suprema unità tra le facoltà della mente
e del core, è scesa l'aureola che incorona a parecchi tra loro la
fronte, che additava ai nostri affetti i migliori tra gli apostoli
della Patria, e che rende oggi più intenso il nostro dolore. Oggi,
il guardo semispento, il sorriso arido dell'incredulo, le braccia
pendenti a sconforto, accusano la mente adombrata di formole, la
vita smembrata, illanguidita fra piccoli sistemi e piccoli calcoli,
e la fiamma dei forti pensieri, la fiamma che illumina e crea,
spenta o vicina a spegnersi sotto influenze estranee, spregevoli;
forse, per molti, sotto il freddo alito inavvertito dell'egoismo.
Prima loro piaga è l'orgoglio; non l'orgoglio che a me, incanutito,
rigonfia l'anima giovane tuttavia, l'orgoglio del nome e
dell'avvenire italiano, l'orgoglio del guanto gittato solennemente
da noi a quanti s'adoprano a tenerlo prostrato nel fango, ma
l'orgogliuzzo dell'io, l'orgogliuzzo saccente, cresciuto su qualche
pagina di Jomini o di Machiavelli; l'orgogliuzzo che, senza
attentarsi di guidare, s'irrita all'idea di seguire, che arrossisce,
quasi côlto in fallo, quando il core s'è sollevato, memore a una
parola d'entusiasmo e di fede; che rinnega le grandi speranze e le
ispirazioni d'azione mormorate al loro orecchio dal Dio dell'Italia,
quando l'anima loro era vergine, più potente d'intuizione e migliore
che oggi non è. Seconda piaga è l'inaridirsi in una atmosfera
artificiale di libri e d'uomini, morti senza scendere a ritemprarsi
tra il popolo sul quale lo istinto non allacciato da erudizioni, e
l'amore e l'odio versano più gran parte di verità che non sul
gabinetto del letterato. Non lo studiano, non lo conoscono, e ne
diffidano. E mi dicevano ch'io m'esagerava le tendenze e le capacità
delle moltitudini, alle quali, senza eccitamento di eventi stranieri
e insurrezioni di mezza Europa, sarebbe stato impossibile persuadere
d'entrar nella lotta.
Interrogai, non per convincermi, ma per convincerli, le moltitudini.
Non dirò il come; e ognuno intende il perchè. Ma affermo
solennemente e come s'io parlassi a Dio stesso, che dal popolo,
esplorato interrogato in tutte le frazioni che lo compongono, non
escì che una sola risposta: azione, azione immediata: date chi
guidi, agiremo tutti. Non chiedevano di Francia o d'altro; non
numeravano l'armi; un ferro, dicevano, ci darà un fucile. La
tradizione delle Cinque giornate vive venerata ed intatta nel petto
dei popolani e la coscienza delle forze italiane con essa. Un patto
di patria vendetta annoda senza forme, in un solo concetto, in una
sola speranza, tutta una popolazione. L'Austria può spegnere
infamemente a sua posta: se i consiglieri dell'imperatore non
trovano modo di verificargli il voto che faceva Nerone, il vulcano
eromperà un dì o l'altro a sotterrargli carnefici, battaglioni ed
Impero. E potrei citare, per onore al popolo e documento di
progresso operato in esso, prove di segreti fidati a centinaja, e
tuttavia inviolati, più eloquenti che non tutte le prove d'ardire e
coraggio indomato date dai pochi che agirono.
Questi ragguagli furono dati da me e da altri alla classe d'uomini,
dei quali io parlava poc'anzi, e che dovrebbero esser guida
nell'impresa patria alla inesperienza dei popolani. E allora, dacchè
quella prima obbiezione spariva, sorsero, delusione amarissima a me
che stimava ed amava quegli uomini come legione sacra nel nostro
campo, dubbiezze d'ogni maniera, opposizioni che tradivano una
codardia morale strana in chi aveva affrontato e affronterebbe anche
oggi, non v'ha dubbio, la morte in una posizione o sopra una
barricata, purch'altri avesse iniziato la guerra. Dicevano le
condizioni politiche d'Europa avverse; numeravano i gabinetti ostili
all'emancipazione d'Italia: registravano i reggimenti austriaci,
prussiani, russi; e chiedevano dov'erano i nostri. Dei popoli
dimenticavano perfin l'esistenza, delle questioni che pendono
tremende fra i gabinetti non sapevano o non curavano; degli elementi
di dissolvimento, esistenti innegabilmente in seno dell'esercito
austriaco, non tenevan conto; della rapidità colla quale si erano
pochi anni addietro ordinate forze in Italia, ovunque i capi avevano
voluto ordinarle, non ricordavano cosa alcuna. Il problema posto per
essi era una piccola minoranza d'uomini iniziatori di lotta sul
terreno lombardo, l'Europa dei popoli immobile, e tutte le forze
alleate del dispotismo, anzi della monarchia, dall'altro lato. Posto
a quel modo, il problema era senz'altro deciso: se non che, il porlo
a quel modo e dichiarare ch'essi non conoscevano addentro nè
l'Italia, nè l'Europa dei popoli, nè quella dei re, tornava
tutt'uno. Ammettevano, i più tra loro, la possibilità
dell'insurrezione; s'arretravano, atterriti, davanti alla guerra che
seguirebbe. Potevano, e non volevano. Il popolo sentiva di potere e
voleva.
Il popolo si era commosso alle inchieste: commosso tanto più, quanto
più era stato fino allora negletto. Il popolo, illuso anch'esso, non
potea credere che gli uomini, i quali avevano da molti anni rifatto
l'alfierianismo, ripetuto classicamente all'Italia gli acerbi
rimproveri tradizionali nei nostri poeti da Dante fino a Leopardi, e
predicato con me la necessità d'aver fede in sè, di liberarsi con
armi proprie e di non guardare per ajuti oltre i nostri confini,
potessero ritrarsi quando appunto gl'Italiani accennavano d'aver
raccolto e di voler ridurre ad atto l'insegnamento. E si apprestava
a combattere da sè, certo d'essere, dopo poche ore, seguito. Ed io
pure era certo di questo. Ma posta una volta in chiaro la
determinazione dei popolani, non dovevano quegli uomini fortificarla
ora, priva d'ajuto, di consiglio o di direzione?
Sperammo che lo avrebbero fatto. Sperammo che ad essi non sarebbe
bastato l'animo di starsi freddi spettatori dei preparativi del loro
popolo, d'assistere come in un gioco, al trarre dei primi dadi, per
vedere quanto corressero avverse o propizie le probabilità. L'altrui
esitanza non mutava, a ogni modo, gli obblighi nostri; e,
determinato dagli ultimi avvisi, lasciai Londra e toccai la
frontiera d'Italia. Aurelio Saffi era partito già prima, ed altri
dei nostri. Mattia Montecchi dissentiva allora da ogni tentativo, e
rimase. Ad altri esuli, che partecipavano al nostro lavoro, non feci
motto partendo, sì perch'io m'era fatto legge inviolabile di segreto
con tutti, e sì, perch'io durava tuttavia incerto sulle ultime e
irrevocabili decisioni.
E l'ultime irrevocabili decisioni furono prese in tempo così poco
lontano dai fatti, ch'io, s'anche avessi voluto, non avrei avuto
agio di avvertire, di consultare o convincere chi rimaneva. E questo
io noto per l'Agostini. Usai del suo nome, il quale, come di
segretario, non scemava nè cresceva gran fatto valore al proclama,
perchè io l'aveva lasciato farneticante, al cospetto di tutti i
nostri, per l'azione pochi giorni prima ch'io mi partissi, e stimai
dargli prova d'amicizia e pegno d'onore firmando per lui. Duolmi il
dover pensare che, se il tentativo avesse sortito buon esito, egli
avrebbe raccolto grato quel pegno e ringraziato me della fede
riposta in lui.
Scrivo quando gli uomini dell'interno potrebbero, s'io non parlassi
il vero, smentirmi; scrivo agli Italiani che mi sanno, qualunque sia
la loro opinione sul conto mio, ardito e sprezzatore quanto basta
per dire, se fosse, mossero arrendendosi a un cenno mio: e aggiungo
che s'io mai potessi falsare i fatti e cedere all'impulso di
disdegno e di sfida generato nell'animo mio dal sozzo inveire che fu
fatto contro di me, mi sentirei affascinato a dire quelle parole. Ma
mi parrebbe di menomare l'importanza del tentativo e di sottrarre
parte di lode ad un popolo ch'io ammiro, compiangendo chi non lo fa.
Le decisioni furono prese all'interno: spontanee, e da uomini i
quali credevano che la determinazione fatta irrevocabile bastasse,
come dissi, a trascinar sull'arena i buoni dubbiosi. Più dopo, era
tardi: il popolo era in fermento e disse: faremo da noi. M'era noto
il disegno, e braccia di popolani bastavano a compirlo. Nondimeno,
scrivendo e parlando, il mio linguaggio fu sempre, sino agli ultimi,
questo: vi sentite tali da eseguire il disegno? siete convinti,
colla mano sul core, di poter convertire la prima battaglia in
vittoria? potete darci in una il frutto delle Cinque giornate? fate
e non temete la guerra. Se vi sentite mal fermi, se vi stanno contro
forti probabilità, arretratevi: sappiate soffrire ancora. Quando
ebbi risposta: facciamo, non vidi che un solo dovere; ajutare - e
ajutai. Diedi quella parte d'opera che mi fu chiesta: scrissi un
proclama che domandavano: provvidi perchè il moto, appena si
mostrasse forte, fosse seguito altrove. E rifarò, dove occorra, le
stesse cose. Altri, tra miei colleghi, fece lo stesso: e rifarebbe,
è conforto il dirlo, occorrendo.
Perchè non fu eseguito il disegno, confessato certo nell'esito anche
da chi dissentiva? Perchè una sola frazione di popolo oprò, mentre
l'altre non si mostrarono? Nessuno, spero, tra gli onesti si aspetta
ch'io, per compiacere a gazzettieri di corte, o di ciambellani in
aspettativa, tradisca segreti che involgono vite e speranze future.
Basta a me, al mio collega e a quanti fra gli esuli si adoperarono
con noi, l'aver dichiarato, senza timore d'essere smentiti da quei
che all'interno guidavano, che noi seguimmo e non provocammo, che
diemmo ajuti, e non cenni a chi volea fare; che per noi si fece ciò
che ci parve fosse debito nostro, e non s'impose ad altri di fare il
loro. Bastino, a provare la vastità del disegno, la moltitudine
d'elementi che s'agitavano in seno al popolo milanese e i pericoli
che l'Austria corse, i terrori e le incertezze dell'Austria, le
querele congiurate di tutte le monarchie, gli audaci fatti compiti
dai pochi in Milano, l'attitudine tuttavia minacciosa dei popolani.
E bastino a provare, per gli animi spassionati, il vero di quello
ch'io prediceva sugli effetti inevitabili d'una prima vittoria
italiana, le nuove, registrate di giorno in giorno dalle gazzette e
dai decreti dei Generali Austriaci, sull'attitudine dei paesi
stranieri, il fremito dell'Ungheria, della Transilvania, de' paesi
Germanici, gli stati d'assedio e le proscrizioni. Or penda sul capo
al nemico la spada di Damocle. Ei sa che sta in mani italiane
troncare il crine che la sostiene. Noi non abbiamo più ostacolo
d'impotenza; ma soltanto una falsa funesta idea preconcetta, che un
generoso impulso di core o la mente illuminata da più severe
meditazioni può distrugger domani.
IX.
Il tentativo di Milano ha intanto, comunque strozzato in sul
nascere, provato due cose: ha provato all'Europa che il silenzio
della Lombardia era silenzio, non di chi giace rassegnatamente
assonnato, ma di chi odia cupamente e tanto, da non poter esprimere
l'odio se non coll'azione: ha provato all'Italia che il fremito
d'emancipazione è sceso alle moltitudini e che i popolani
assaliranno, sprezzando il nemico coi ferri aguzzati delle loro
officine, qualunque volta agli uomini intellettualmente educati,
parrà di dire: eccoci con voi, sorgete! Da oggi in poi non sarà più
concesso ad alcuno di mascherare il rifiuto sotto pretesti
d'impotenza o di freddezza nel popolo: bisognerà dire: non vogliamo
perchè siamo, fisicamente o moralmente, codardi.
E un altro vantaggio ha reso quel tentativo alla causa nazionale
italiana: ha smascherato, per qualunque non è stipendiato, o
imbecille, mi contenterò di dire, la nullità, l'assoluta impotenza
della parte regia in Piemonte. L'insegnamento non è nuovo per noi.
L'impotenza del Piemonte regio a vincere m'era nota fin da quando io
antivedeva e predicava in Milano, nell'Italia del Popolo, le
vergogne della guerra del 1848; e più dopo, poco prima della rotta
di Novara, io gridava a' miei concittadini, nei Ricordi ai Giovani:
«se ritenterete la guerra sotto quella povera insegna, sarà guerra
perduta.» E la tattica del Piemonte regio m'era pur nota d'antico.
Io aveva provato ne' miei Cenni e Documenti sulla guerra regia, come
quella malaugurata campagna fosse stata impresa, non per vincere, ma
per impedire ogni via alla repubblica, e conquistare un precedente
alla monarchia per ogni caso futuro di vittoria altrui. Io sapeva
come la seconda guerra fosse stata intimata per tema che Roma
repubblicana covasse - e lo covava difatti - il disegno di
ricominciare entro l'anno l'impresa per conto d'una migliore
bandiera. E d'allora in poi tattica tradizionale e invariabile della
parte monarchica era stata di far credere in disegni occulti di
guerra e d'indipendenza per sottrarre elementi all'iniziativa
repubblicana e impedirla; e a un tempo di tenersi pronta a
confiscare a profitto proprio un moto, che prorompesse
vittoriosamente per opera d'altri; librarsi tra i due partiti tanto
da raccogliere, senza rischio proprio anteriore, l'eredità di
qualunque tra i due soccombesse, il favore o i dominî attuali
dell'Austria. Ond'io, ad uomini della Camera piemontese ed altri
arcadi della politica, che m'interrogavano, e sembravano in buona
fede sperare nella loro monarchia per la cacciata dell'Austria,
andava dicendo a ogni tratto: «io non nutro le vostre speranze; ma
voi che v'ostinate a credere l'armi della monarchia vostra
essenziali alla liberazione del paese, perchè non entrate al lavoro
con noi? La vostra monarchia non si moverà, se pur mai, che dopo
consumata una vittoria di popolo sulle barricate.» Pur duravano
illusi. Ma oggi, dopo gli atti nefandi usati con italiani, accusati
non d'altro che d'aver voluto, tentato, desiderato - anzi per taluni
neppur quest'ultima colpa è reale - giovare all'emancipazione della
Lombardia: poi che vedemmo perquisiti, imprigionati, ammanettati
come malfattori e deportati in America giovani, sospettati d'aver
cospirato contro l'Austria: noi abbiamo diritto di dire ai regi:
«rimanetevi ormai sulla via nella quale siete entrati: non è men
trista dell'antica, ma è più leale. Non cercate illudere con
promesse e speranze, prima falsate che date, i deboli che vi credono
forti: non alimentate colla stampa o nel segreto un odio, che
trattate come delitto quando intende a svelarsi. A voi, volendo pur
essere piemontesi e non italiani bastava disarmare, impedire quei
che, varcando la vostra frontiera, correvano in ajuto ai loro
fratelli. Il furore di persecuzione spiegato contro uomini emigrati
sulla vostra terra, perchè a voi piacque abbandonar Milano nel 1848,
v'accusa ligi dell'Austria o tremanti dell'Austria: tristi o
codardi. Nel primo caso, noi non possiamo aspettarci che tradimenti
da voi; nel secondo, chi mai può sperare iniziativa di guerra da un
governo che, per terrore d'essere assalito, accetta disonorarsi,
dando alla prigione e all'esilio quei che l'Austria non può dare al
patibolo?»
Da questo dilemma, presentato e senza confutazione possibile,
sgorgarono tutte le contumelie e calunnie versate, come bava di
serpente irritato, sul mio nome, su' miei fatti, sulle mie
intenzioni dall'Opinione, dalla Gazzetta del Popolo e da tutta la
stampa regia o aristocratica del Piemonte. A una stampa, che di
fronte a una protesta ardita di popolo schiavo contro l'oppressore
straniero, può farsi per un mese austriaca di vitupero contro uomini
creduti eccitatori di quella protesta, non ho che dire. I
ragionamenti non giovano; non giova ripetere ad essa il consiglio di
Foscolo: imparate a rispettarvi da voi, affinchè, s'altri v'opprime,
non vi disprezzi. Serve chi paga: oggi la monarchia di Savoja,
domani il Bonaparte, e il dì dopo noi, se pagassimo: calunnia
sapendo di calunniare; e basti il suo ripetere a ogni tanto, pur
sapendo che la corrispondenza pubblica dei Bandiera, prova il
contrario, ch'io spinsi quei due prodi a morire, appunto come le
gazzette stipendiate di Francia ripetono a ogni tanto, pur sapendo
che due giudizî solenni di tribunali e la dichiarazione d'un
Ministro inglese m'esonerano, ch'io firmai la condanna a morte di
due profughi, spie. Seguano adunque i gazzettieri intrepidi nel
mestiere che scelsero; e solamente accettino il mio consiglio di
riconsigliarsi a ogni tanto coi loro padroni per vedere se
l'assalire continuamente d'ingiurie villane un uomo dichiarato, ogni
anno almeno una volta nelle loro colonne, morto e sepolto
nell'opinione e abbandonato da tutti e deriso, non guasti per
avventura il nobile intento che si propongono.
X.
D'alcune accuse gittatemi talora contro da altri, forse più
ingannati che tristi, e accettate troppo facilmente anche da uomini
di parte nostra: accuse d'imprudenza, quando dei molti viaggiatori
da me spediti in diverse parti non uno capitò male, nè le polizie
vantano una lettera mia in loro mani, nè un amico mi fu vicino che
non mi rimproverasse una soverchia tendenza al segreto - accuse di
inavvedutezza nella scelta d'agenti come Partesotti, quando il
Partesotti, scelto all'interno, non ebbe mai una linea mia, e il suo
carteggio, che ho tutto presso di me, lo mostra ridotto a celarsi in
un sotto-tetto di Parigi e imposturare viaggi favolosi e favolose
conversazioni in Londra con me, per buscarsi qualche centinajo di
franchi dalla polizia Austriaca - ed altre consimili - non so se non
gioverebbe scolparmi; ma non è mio stile. Feci, da quando fondai la
Giovine Italia, due promesse a me stesso: ch'io non manderei a
stampa una sola linea di politica senza il mio nome, e ch'io,
avverso più o meno a tutti i governi che esistono, concederei, senza
farne caso, ai governi e agli agenti loro d'essermi ostili e di
calunniarmi; agli altri di male interpretare, senza irritarmi,
un'attività che vive, forzatamente e senza colpa mia, nel segreto.
Mantenni la doppia promessa; e i più, spero, ricorderanno, che delle
accuse avventate alla mia vita in questi venti anni da governi e
governucci, da scrittori malati di vanità offesa, da birri
libellisti e romanzieri infelici, da commissariucci di polizie
fallite senza speranza, e da gazzettieri pagati o in candidatura di
paga, tutti irritati del vedermi sempre lo stesso e disperati
d'atterrirmi o comprarmi, io potrei fare una serie interminabile di
volumi, mentr'essi delle mie difese non potrebbero far tre pagine.
Ma protesterò, per debito non tanto a me, quanto a tutti gli onesti
che furono o saranno tormentati santamente d'una santa idea e
incontrarono o incontreranno la stessa calunnia, contro una sola: ed
è quella d'ambizione personale e d'aspirazione a esercitare una
dittatura qualunque. E a questa accusa, tristissima fra le tristi,
diede occasione il sistema logico d'insurrezione ch'io ho accennato
alcune pagine addietro.
Tristissima fra le tristi: perchè se a un uomo non è concesso tra
voi di sostenere un'opinione politica agitata da secoli, senza
ch'altri gli dica: tu intendi a farti di quell'opinione sgabello al
potere - o di predicarvi che l'epoca matura nuove credenze
trasformatrici e purificatrici delle vecchie, senza che gli si
susurri all'orecchio: tu aspiri ad essere rivelatore e pontefice -
meglio è dichiararvi addirittura fautori del voto d'ostracismo, che
il contadino dava ad Aristide, perchè gli era noja l'udirlo salutato
del nome di giusto, e decretare la cicuta ad ogni Socrate che
s'attenti annunziarvi un Dio ignoto; e gemo pensando al pianto e al
sangue versato, nelle età che furono, per questa invida, ingiusta,
funestissima diffidenza. A me l'accusa villana fu gittata prima dai
meno liberi d'animo tra gli esuli, da uomini prontissimi a piegare
il collo a tutte le esigenze di paesi servi a soggiacere, sommessi
alla dittatura dell'ultimo commissariuccio di polizia straniera o
domestica; poi da taluni - ed erano gli ambiziosissimi - tra i
socialisti settarî francesi, ai quali io aveva osato dire, a rischio
di essere battezzato retrogrado, che le loro sètte, le loro utopie
ineseguibili, e il materialismo d'interessi, al quale essi pure
avevano educato le moltitudini, avevano perduto la Francia. Quei
miseri s'atteggiavano a puritani gelosi d'ogni influenza
unificatrice e sospettosi d'ogni mia parola, che suonasse accordo,
ordinamento, unità di disegno e di direzione, mentre i loro fratelli
soggiacevano alla dittatura della forca e del bastone tedesco in
Italia, alla dittatura d'un avventuriere e d'una soldatesca briaca
nella patria francese. Io mi stringea nelle spalle senza rispondere.
Dittatura a che prò? per dominare sovr'uomini quali essi sono?
Non lo credevano. Speravano e sanno ch'io, nato di popolo senza
tradizione di nome illustre, senza ricchezze per comprare satelliti
e scribacchiatori, senza prestigio di milizia, senza capacità
d'adulare, non riescirei, s'anco io fossi dissennato e tristo ad un
tempo, a far correre rischi alla libertà in un popolo, la Dio mercè,
non corrotto e dove l'individuo serba più che altrove tendenze
vigorose all'indipendenza. E sapevano, che s'anche io lo potessi,
non lo vorrei. Dai sogni colpevoli e stolidi di ambizione di potere,
se per ventura io avessi avuto successo ne' miei tentativi,
m'assicuravano, non foss'altro, le abitudini parche della mia vita,
l'animo altero, sdegnoso di lode e non curante di biasimo, se non
quando biasimo o lode mi vengono dalle creature - e son poche - che
io amo d'amore; e una certa prepotente disposizione all'antagonismo
non colle moltitudini che, tratte in azione, sono migliori di noi
letterati, ma al plauso e agli omaggi delle moltitudini. Ho sempre
potuto guardare addentro nell'anima mia senza arrossire: la serbai
da giovine pura di vanità meschine e di basso egoismo, ed oggi,
solcata come è di lunghi dolori e benedetta di qualche nobile
affetto, s'io volessi farla scendere a sfera più bassa che non è
quella dell'idea emancipatrice dove visse finora, non m'obbedirebbe.
Ben mi freme nell'anima, fin da quando, imprigionato in Savona, io
meditai di sostituire una nuova associazione al vecchio
carbonarismo, una ambizione, un orgoglio: l'orgoglio ch'io desunsi
dai ricordi del nostro passato e dai presentimenti del nostro
avvenire; l'orgoglio di Roma; l'ambizione di veder la mia patria
sorgere, gigante in fasce, dal sepolcro, ove giace da secoli, e
posarsi, grande a un tratto di pensiero e d'azione, e a guisa
d'angelo iniziatore, tra quel sepolcro scoperchiato e l'avvenire
delle nazioni. Era l'ambizione di quei che morirono in Roma; e parmi
strano che non tormenti l'anima di quanti, pronti allora a imitarli,
ne raccoglievano il pensiero e l'esempio; ed oggi sono, ho vergogna
e dolore in dirlo, servi ostinati della iniziativa francese.
XI.
Dell'iniziativa francese. Perchè, non vale il negarlo: gli uomini ai
quali io alludo, e che leggeranno queste mie pagine, gli uomini che
assentono plaudenti alle nostre parole di patria, d'indipendenza, di
fede in noi stessi, e si staccano, biasimando, da noi ogni qual
volta noi cerchiamo tradurle in atto, non credono nell'iniziativa
della parte monarchica piemontese; non s'aggiogherebbero a tentativi
bonapartisti; non credo pongano sì basso l'onore italiano da
pretendere che la sola città di Vienna, o l'Ungheria, ricinta di
nemici da ogni lato e incalzata dal Russo, s'assumano d'iniziare ciò
ch'essi non osano: in che dunque sperano, se non nella iniziativa
francese? Nessuno di loro ama la Francia; taluni, esagerando, la
sprezzano; io li ho uditi inveire, prima e dopo il 1849, contro
l'antico prestigio esercitato dalla Francia sugli animi: e nondimeno
ne invocano l'iniziativa: incatenano a' suoi fati i fati della
nazione: cancellano di fronte all'Italia ogni segno di spontaneità:
negano a venticinque milioni d'uomini potenza di emanciparsi da
centomila soldati stranieri. Con dottrina siffatta, non rimane che a
tacere d'Italia per sempre, e ad arrossire ogni qual volta
s'incontri uno Spagnuolo o un Greco per via.
L'iniziativa francese, io lo dico, giustificato ad ogni tanto dai
fatti, da ormai vent'anni, è un errore storico e un fantasma
politico evocato dall'altrui codardia. A nessun popolo, da quello
infuori di questa nostra sciaguratissima Italia - sciaguratissima
dacchè i migliori tra' suoi figli non sanno intenderne la storia, la
potenza e la vocazione - è dato di riassumere un'Epoca e iniziarne
un'altra. La Francia, grande per questo, e veneranda a noi tutti,
compendiò colla sua Rivoluzione il lavoro intellettuale di diciotto
secoli: consecrò per sempre in faccia a tutte tirannidi
l'emancipazione dell'individuo: tradusse nella sfera politica le
conquiste di libertà e d'eguaglianza, elaborate nella sfera
religiosa del dogma cristiano. Non basta? Perchè pretendete che essa
sciolga per voi anche il problema dell'associazione, dell'alleanza
fra le nazioni della nuova Carta d'Europa? Essa potrebbe forse, se
non ostasse la legge provvidenziale guidatrice dell'Umanità,
fondare, trasfondendo la sua coscienza, la sua individualità in
tutti noi, una Monarchia Europea; ma l'associazione, l'alleanza
fraterna, non possono fondarsi che sull'armonia, sull'eguaglianza
inviolabile delle coscienze nazionali; e la coscienza che siete
Nazione, il segno che può darvi rango nell'alleanza, il battesimo
della vostra individualità collettiva, non possono escire, non
possono rivelarsi all'Europa, fuorchè dalla vostra insurrezione
spontanea, da un atto solenne della vostra sovranità davanti agli
uomini e a Dio. L'iniziativa francese s'è spenta con Napoleone, come
l'iniziativa dell'antica Grecia si spense con Alessandro, come
l'iniziativa dell'antica Roma si spense con Cesare. Dal 1815 in poi,
la Francia si trascina ne' suoi moti lungo la periferìa d'un
cerchio, che non varcherà se non per opera nostra e dell'altre
nazioni europee. La Francia studia, raccolta, raggomitolata in sè
stessa, i termini del problema sociale applicati alle relazioni
degli individui che la compongono; il terreno per una più larga
applicazione deve conquistarsi da noi(66).
Voi potete contemplare il passato fino al punto in cui
l'occhio abbagliato vi fantastichi l'avvenire; ma voi non potrete
far sì che sorga. Avrete in Francia moti, insurrezioni, rivoluzioni;
ma questi moti, inevitabili dov'è com'oggi, un governo sprezzato,
questi moti che una vostra insurrezione determinerebbe e che,
fecondati dall'iniziativa delle nazioni, s'affratellerebbero
nell'idea comune e romperebbero per la Francia quel cerchio fatale,
non vi daranno, prorompendo primi, quel che cercate. Aveste patria e
libertà dalla rivoluzione francese del 1830? Le aveste dalla
repubblica del 1848? L'iniziativa francese vi darebbe, o miseri, non
la libera patria, ma l'impulso alla monarchia che, impotente a fare
da per sè, è vigile a preoccuparvi la via; e la diplomazia europea
consigliera ai vostri principi di concessioni e di leghe: e la
guerra regia sostituita alla nazionale; e le sue vergognose,
inevitabili, fatali disfatte. Oggi, se volete rimanere padroni del
vostro moto, della vostra guerra, del vostro intento, v'occorre, e
v'incombe di mover da voi. Voi non potete - e Dio v'ispiri
d'intendere l'incoraggiamento di questa parola - esser liberi che
essendo grandi.
Grandi, intendo, di coscienza spontanea: grandi d'intuizione: grandi
di quel coraggio morale, che dilegua i fantasmi addensativi intorno
dalla falsa scienza dei tattici, dai sofismi de' paurosi, dai
calcoli volgari d'un inetto materialismo, dalle diffidenze nudrite
di vanità, di machiavellismo scimiottante e d'una anarchia insinuata
dall'estero. Perchè, dato il moto, non v'occorrerà d'esser grandi,
ma di esser uomini.
Io intendo i pericoli dell'insurrezione; e nondimeno i più tra i
nostri sanno che possono superarsi - non intendo i pericoli, quanto
all'esito ultimo della guerra, e m'è inconcepibile come uomini di
mente e di core ricusino in Italia l'oggi per paura del poi. Hanno
studiato, essi che s'affaccendano in cerca di scienza
rivoluzionaria, nei libri delle guerre regolari le pagine del loro
Jomini sulle guerre nazionali?(67) Hanno meditato sulla guerra della
penisola Iberica scritta, non dirò da Torreno, ma dai generali
francesi? Hanno pensato che l'esercito nemico s'assottiglia lungo
una linea di quasi quattrocento miglia al di qua dell'Alpi? che
delle tre zone tenute dall'occupazione, due sono inevitabilmente
perdute fin da principio pel nemico, la terza, invasa tutta, tranne
pochi punti - e lo fu nel 1848 - dall'insurrezione, può essere
conquista di due provvedimenti e di poche rapide marcie? Hanno
calcolato, sulla cifra dell'aggio che segue la carta dello Stato, la
condizione delle finanze Austriache, sostenute unicamente nei
quattro ultimi anni da sequestri, contribuzioni straordinarie,
imprestiti volontari o forzati, e alle quali l'insurrezione
troncherebbe a un tratto queste sorgenti di vita? Hanno sottomesso,
come noi, all'analisi quell'esercito nemico, composto di elementi
eterogenei e diffidenti l'uno dell'altro, potente nell'inerzia,
incapace di resistere ordinato e compatto a una battaglia perduta?
Prevedono tutta quanta l'azione di dissolvimento che eserciterà su
milizie, nelle quali l'ufficiale d'una nazionalità comanda il
soldato d'un'altra, l'elemento ungarese, nostro, e l'Austria lo sa,
al primo urto potente che lo affidi di non essere abbandonato senza
scampo alla vendetta de' suoi padroni? È un solo tra loro che non
abbia scritto o non dica a sè stesso, pensando al 1848, ah! se chi
dirigeva la guerra avesse voluto vincere o lasciarci vincere! Molti
hanno combattuto, vincendo, contro truppe regolari austriache e
francesi, con giovani volontari, educati soldati tra una zuffa e
l'altra. Conoscono tutti, come noi, le forze considerevoli,
gl'infiniti mezzi di guerra, che possono trarsi dal paese contro un
nemico che non ha terreno per sè se non quello su cui accampa. Non
hanno più dubbio sulle tendenze del nostro popolo. E nondimeno,
dubitano, indugiano, aspettano l'impulso iniziatore di Francia. Oh
come deve il governo austriaco, conscio com'è della propria
debolezza, il governo austriaco che ha tremato davanti ai pugnali di
poche centinaja di popolani, sorridere dei nostri uomini di guerra e
della nostra inerzia!
L'insurrezione italiana, nelle condizioni attuali dell'Impero,
trascina con sè inevitabilmente l'insurrezione dell'Ungheria:
l'insurrezione d'Italia e d'Ungheria trascinano inevitabile
l'insurrezione del popolo in Vienna: l'insurrezione d'Italia,
d'Ungheria e di Vienna, trascinano inevitabile l'insurrezione di
mezza Germania, il fermento dell'altra metà. Non seguirebbero gli
altri popoli? non seguirebbe la Francia? L'iniziativa d'Italia è
l'iniziativa delle nazioni: il 1848 rifatto su più larga scala e con
popoli affratellati. La nostra insurrezione è oggimai il solo fatto
difficile da compiersi: la guerra è un mero problema di direzione.
Chi non sente il vero di queste linee ch'io scrivo, non intende le
condizioni d'Europa, dell'Italia e dell'Austria. Chi sente quel vero
e non opera, non proferisca il santo nome di Patria: ei non l'ha e
non la merita. Giaccia tacendo; e non lamenti sì che lo odano gli
stranieri; nulla è più esoso del guaito dell'uomo che può rompere,
volendo, le sue catene.
XII.
Il Comitato Nazionale è disciolto. L'ultima sua parola fu un grido
d'azione, quei che posero il loro nome appiedi di quello scritto,
non potrebbero oggimai che ripetere ai loro concittadini la stessa
parola.
E perchè rimarremmo? per registrare al compianto degli stranieri i
nomi dei nostri migliori imprigionati, torturati, strozzati? per dir
loro che in Italia i nostri amici si impiccano nelle prigioni come
Pezzotti, o tentano di segarsi la gola come Rossetti, per non
soggiacere ai pericoli d'un lento martirio? per ricordare ad ogni
tanto alla Europa che sulla terra ove, quattro anni addietro, bastò
sorgere per vincere; sulla terra dove Roma, Venezia, Brescia,
Bologna, Ancona, Messina suscitarono combattendo il plauso dei
popoli, oggi l'austriaco governa, come tra un branco di giumenti,
adoperando il bastone, adoperandolo sopra uomini e donne? e udirci
dire: che! non avete braccia? non avete core? non sentite prepotente
sopra ogni altra cosa il bisogno di unirvi tutti in uno sforzo
supremo di lotta feroce invincibile? O rimarremmo per congiurare
oziosamente, instancabili e senza scopo? Ah! la congiura, apostolato
nelle catacombe, è cosa santa, checchè dicano gli appestati
d'egoismo e gli stolti, dove la libera parola è vietata e alle idee
rispondono le bajonette; ond'io accettai altero questo nome
frainteso e proscritto di cospiratore. Ma oggi, solcato il terreno
per ogni dove di elementi nostri e sceso il fremito dell'Italia
futura al core delle moltitudini, ogni cospirazione che non tenda
all'azione diretta, immediata, è delitto. L'Italia è matura: bisogna
fare. S'è decretato che vittime siano; muojano almeno all'aperto,
nella gioja della lotta e coll'armi in pugno.
Il Comitato è disciolto. Io mi separo per sempre - e Dio sa con qual
dolore io lo dica, dacchè tra quelli dai quali io mi svelgo conto
amici di quindici o di dieci anni - dalla cospirazione officiale,
dal lavoro ozioso, indefinito, e nondimeno origine di persecuzioni,
prigioni e patiboli ai buoni, dagli uomini che non sono abbastanza
freddi e calcolatori per rassegnarsi ai codardi conforti della
schiavitù, nè abbastanza devoti e sapientemente audaci per intendere
ch'essi hanno la salute della patria in pugno. Due partiti soli io
riconosco oggi in Italia: il partito passivo, partito di tiepidi con
qualunque nome si chiamino, partito d'uomini che aspettano la
libertà dalla Francia, dalle ambizioni monarchiche, da guerre
ipotetiche, da smembramenti in Oriente, da cagioni insomma
estrinseche alla terra nostra; e il Partito D'azione, partito
d'uomini che intendono a conquistarsi la libertà in nome e colle
forze della Nazione; partito d'italiani che credono in Dio, sorgente
prima di doveri e di diritti, e hanno fede nel Popolo, potenza viva
e continua per interpretarli e compirli; partito d'iniziatori che
sentono venuta l'ora e sanno che l'Italia è matura a levarsi e
vincere per sè e per altrui. Gli uomini di questo partito intendano
che il 6 febbrajo ha cominciato la serie delle proteste armate e,
ispirandosi a Roma, la continuino ovunque possono: essi m'avranno
sempre - e lo sanno. Dei tiepidi giova ch'io possa, emancipato da
tutti i riguardi e indipendenti da vincoli, essere di tempo in tempo
censore libero e smascheratore: giova che io possa dire all'Italia
che mentre fra i popolani ho trovato uomini pronti ad assalire con
pugnali un esercito, io non ho potuto trovare fra i loro ricchi un
sol uomo a cui affetto di patria o ambizione di fama, abbia persuaso
di farsi banchiere al Partito e di porre mezza la sua fortuna pel
trionfo della bandiera: - che, tra i loro intelletti, ho trovato
dissenso perenne tra il pensiero e l'azione, servilità meschina a
sofismi, sistemi e fondatori di sêtte straniere, e vanità
meschinissime davanti ai loro connazionali: - che ad essi al loro
appartarsi da ogni generoso disegno, al loro dissolvere collo
sconforto, coll'inerzia, col biasimo sistematico, qualunque impresa
tenda a troncar la questione, spetta - e non a noi - il rimorso
delle vittime che, di mese in mese, di settimana in settimana, vanno
e andranno, pur troppo, facendosi: - che due mesi d'accordo, di vita
e comunione fraterna, di nobile sagrificio e d'abdicazione delle
vanità, dei rancori, delle gelosie individuali davanti all'unità
indispensabile di direzione e d'intento, potrebbero, se volessero,
imporre fine a vittime, tormenti e vergogne e far dell'Italia un
tempio di libertà a' suoi figli e alle nazioni d'Europa.
Dai traviati giovani di Milano io m'accomiatai colla seguente
lettera ch'io inserisco come saggio di molte simili ch'io scrissi in
quel tempo. Era indirizzata al Visconti Venosta, che non rispose:
5 aprile 1853.
Non v'atterrite d'una mia lettera; è l'ultima che avrete da me. In
alcune pagine stampate or ora, e che probabilmente vi giungeranno,
ho detto che mi separava dalla cospirazione ufficiale - e con questo
nome io intendo voi, gli amici vostri, i vostri in Genova e altrove.
Ma questa separazione cova per me tanto dolore, che sento il bisogno
di dirvelo. Voi siete uno di quelli, ai quali io guardava, anni
sono, con vero affetto, come a quelli che - io sperava - avevano più
inteso il culto della patria italiana e avrebbero più logicamente
dedotte conseguenze pratiche di questo culto. Non so se a voi e agli
amici vostri, pochi anni cresciuti, dolcezza di vita, sofismi di
mezzi ingegni, o altro abbiano intorpidito gli affetti, come vi
hanno fatto infedeli ai sogni dei vostri primi anni. A me,
venticinque anni di stenti e di delusioni, non hanno potuto togliere
l'interna vitalità dell'affetto: però, vi scrivo un'ultima volta; e
Dio voglia, non per me, ma per essi, che non abbiate fra gli amici
vostri chi sorrida, come a debolezza, a questo senso che mi
costringe a scrivervi.
Quando noi c'intendevamo, molti anni sono, in una predicazione di
idee, che volevano dire azione - quando ci emancipavamo alteramente
da ogni cieca influenza di idee straniere, per rifarci italiani -
quando, facendo la critica delle insurrezioni passate,
rimproveravamo ai capi di non aver avuto fede nel popolo, e al
popolo di non aver sentito la propria potenza - quando
m'applaudivate per questo linguaggio - quando mi davate eccitamenti
a stringere, in nome della nuova vivente Italia, fratellanza con
altri popoli qual era la mente vostra? Quella di avervi così
usurpata fama di progressista? di piantare scuola innocente di
contemplatori, di confortarvi i sonni della coscienza, paga di
sentirsi inoltrata teoricamente? Era una menzogna? una millanteria?
un'aristocrazia intellettuale? Per me era la vita, una religione,
un'unità di pensiero e d'azione, un'impresa d'emancipazione patria
che noi giuravamo. Eravamo uomini che, nudriti di tradizioni, di
presentimenti, commossi d'ira santa, di vergogna, d'orgoglio
italiano, di dignità d'anime offese, dicevamo l'uno all'altro: «Noi
ci affratelliamo per far quello che la Spagna ha fatto, che la
Grecia ha fatto, che l'America ha fatto, che tutte le nazioni
schiave hanno fatto: conquistarci con idee nostre, con armi nostre,
con sacrificî nostri la patria.» - Io prendeva la cosa sul serio e
vi dedicava la vita. Ma voi, voi giovani lombardi allora, ora
uomini, avete serbato, serbate oggi, fede al concetto? Noi, partito,
noi più inoltrati, più santamente devoti - lo dicevamo almeno - non
abbiamo mai osato prendere l'iniziativa. Cospiratori eterni, oggi
per introdurre libri, il dì dopo per organizzare, il terzo per
opposizioni passive, abbiamo cacciato nei giovani idee e furore di
patria, per poi assistere muti alle loro persecuzioni, al loro
supplizio. Abbiamo fatta propaganda nel popolo e propaganda d'odio e
di aspirazioni nazionali, per poi dirgli: «ora rassegnati e aspetta
la Francia.» - Abbiamo magnificato il nostro paese, le nostre
piaghe, il nostro fremer di schiavi all'estero, perchè poi l'estero
meravigliasse dell'udire i servi frementi, predicatori, sotto il
bastone, d'inerzia sistematica e di rassegnazione codarda, a
ricevere, quando che sia, libertà da altri. Abbiamo rese inevitabili
le agitazioni, le congiure, le sommosse, le associazioni, per poi
dichiararle impotenti a renderle tali, separandoci dagli altri.
Abbiamo insomma offerto la decima di sangue di tormenti, d'esilî, di
sconforti morali supremi all'austriaco, che pur avevamo giurato di
cacciare dal paese.
E questo era inevitabile per un periodo dell'impresa. Eravamo pochi
a principio. Bisognava educare; e se sulla via dell'educazione
dovevamo seminar martiri, esuli e patiboli, era dolore tremendo, ma
che accettavamo per giungere al fine. Ma ora? - Ora abbiamo il
popolo con noi. Chi dice il contrario, chi affetta dubitarne, mente
scientemente. Il popolo di Milano ha cacciato l'austriaco in cinque
giorni, mentre Cattaneo pronunziava la sera prima ch'era
impossibile. Il popolo s'è battuto con furore in Brescia. Il popolo
s'è battuto, solo, due volte in Bologna. Il popolo ha rivelato
miracoli di pazienza eroica in Venezia. Il popolo ha redento Roma.
Il popolo, dovunque s'è voluto averlo, è venuto. Dovunque si vorrà
averlo, verrà. Voi, nel fondo del vostro cuore, non ne dubitate,
Emilio; non ne dubitano i vostri amici. Non è tra voi chi possa di
buona fede dirmi che, se voi tutti, nostri un tempo, assentivate
all'azione popolare alcuni giorni prima del 6 febbrajo, tutto il
popolo non scendeva. I capi popolo che non fecero il loro dovere,
che non eseguirono le concertate sorprese, che titubarono il 6, si
sentivano soli, col dissenso dei migliori della loro città con un
forestiero per capo.
E non è tra voi chi non sappia, che se Milano, non dirò vinceva, ma
combatteva due giorni, la Lombardia tutta era in fiamme. E non è tra
voi chi non senta che la Lombardia in fiamme, era il centro d'Italia
in fiamme; era la Sicilia: era il regno posto fra due insurrezioni:
era Genova, era il Piemonte in agitazione. Era il 1848. Direte che
nel 1848 si cadde? Non mi direte questo: voi stessi avete dimostrato
venti volte perchè si cadde; voi stessi siete convinti che, se il
Governo provvisorio fosse stato composto di uomini capaci, devoti e
nostri, non cadeva. Se in Roma, io, salito al potere, senza uno
scudo, nè un fucile, tanto da dover discutere la prima notte se si
dovesse o no ricusare l'ufficio, ho potuto trovar modo di resistere
due mesi alla invasione, voi non potete dubitare che miglior
bandiera e migliori uomini non compissero l'impresa in Lombardia,
dove il popolo generalmente parlando, è migliore che non era il
romano allora.
E voi avete a fronte una forza seminata di ungaresi; e sapete che
son nostri; nostri il primo giorno che l'insurrezione si mostrerà
forte. Voi non potete negarlo. Voi potete convincervene quando
volete. Gli ungaresi sono, come i nostri, guardati, confinati,
traslocati, fucilati. Gli ungaresi vi davano la caserma loro, se i
nostri si presentavano ed agivano. Gli ungaresi, non potendo altro,
disertano - e me ne piange il cuore - sul cordone che guarda la
Svizzera. E quest'elemento prezioso, decisivo, disorganizzatore
delle forze nemiche, non vi basta.
Avete una condizione d'Europa, che v'assicura non poter aver luogo
una vittoria italiana senza eco d'insurrezione al di fuori. Avete
letto, studiato le relazioni e le misure governative dopo il 6? Le
scoperte di Komorn? Gli arresti di Berlino? Le misure prese in più
punti in Germania?
Voi non vedete impossibile l'insurrezione. Voi non potete credere
che l'Austria possa sostenere la guerra senz'essere assalita
nell'interno e smembrata. Quali obiezioni avete dunque all'azione?
Voi dovete intendere ciò che io non poteva pubblicar prima. Dato il
moto lombardo, la zona d'occupazione, che si stende da Bologna in
su, è perduta per gli austriaci coll'insurrezione della città, che è
primo punto di concentramento alla linea. I distaccamenti
avventurati nelle Romagne sono perduti. E il concentramento delle
forze, che sono in Toscana e più in su, è impossibile pure. Noi non
abbiamo che ad essere padroni della Lunigiana; e lo eravamo e lo
saremo qualunque volta l'insurrezione lombarda sarà un fatto
accertato. Rimangono le forze attualmente in Lombardia, rotte
dall'insurrezione minate dagli ungheresi, ai quali terrebbero dietro
altri elementi. Date moto all'insurrezione al nord: in Como, Lecco,
Bergamo, Brescia, Valtellina: abbiate una sorpresa che tronchi le
comunicazioni del quadrilatero col lago, col Tirolo; accentrate
queste forze dell'insurrezione delle parti che ho nominate nel
Tirolo italiano: date la mano con quest'operazione al Friuli e al
Cadore, fremente d'agire, e ditemi dov'è la guerra dell'Austria.
L'Austria in Italia dev'essere girata, tagliata dalla sua base nei
primi dieci giorni dell'insurrezione.
E mentre il governo dell'insurrezione farebbe questo - e
verificherebbe facilmente pensieri che io maturo da anni: mentre
l'insurrezione della parte superiore dello stato romano si
rovescerebbe, non curando altro, su Napoli, gli ungaresi rivoltati,
disertati, ordinati sotto Kossuth e Klapka - il povero Klapka era
meco febbricitante di speranza tutta la giornata del 6 - darebbero
il segnale al loro paese e con un'operazione ardita, ma
verificabile, svierebbero la guerra da noi.
Emilio, io concedo a voi tutti di discutere l'insurrezione. E perchè
quella è impresa seria e base d'ogni altra, io ho voluto provarvi
che il popolo, se chiamato da voi, è pronto a fare. Ho voluto
suggerirvi il come si possa, per sorpresa, scemare i sacrificî e
impossessarsi di materiale. Voi sapete che queste sorprese sono
possibili e possono, occorrendo, prepararsene altre diverse. Ma non
concedo a voi, non concedo ai vostri amici, parecchi dei quali sono
militari, di dirmi: «Noi non potremo vincere la guerra.» - Non v'è -
lasciate che ve lo dica - che un'assoluta inferiorità di intelletto
che possa ispirare negazione siffatta - o la paura dell'egoismo. -
Perchè la Lombardia e non un'altra parte d'Italia? E debbo sentire
questa parola da voi; da lombardi? Ho accennato le ragioni
nell'opuscolo che avete. Ma se io fossi lombardo non vorrei averle
richieste. Per dio! avete il nemico d'Italia in casa, e vorreste che
Napoli agisse? Potete annientare il nemico d'Italia in un subito e
chiedete perchè lo fareste? Roma andrà altera di dovere per
benefizio del mondo rovesciare la rappresentanza dell'autorità
spirituale usurpata; non dovrebbe la Lombardia andare altera di
poter vibrare un colpo mortale all'autorità temporale? Siete
diventati proudhoniani di tanto che una pagina storica - non parlo
del dovere - non possa più scuotervi a meritarla?
L'insurrezione di qualunque altra parte d'Italia che precedesse
quella di Lombardia, la renderebbe, o impossibile, o assai meno
decisiva: ma se anche ciò non fosse, io vi direi sempre: -
«l'Austria è tra voi, a voi tocca l'onore dell'iniziativa.» -
Oh sventura a voi, che intendete, ma non sentite più le cose ch'io
vi dico! Sventura a noi tutti che dobbiamo trovare negli uomini del
marzo la freddezza, il piccolo machiavellismo dei corrotti di
Francia! Oh, i miei sogni perduti, Emilio! E mi sentiva così
santamente orgoglioso in quei giorni, quand'io poteva ripetere a me
e agli stranieri: - «Hanno imparato la loro forza; l'Italia è
rinata!» -
D'allora in poi io non v'intendo più: cadrei scettico e disperato
pensando alla pazienza sovrumana da voi sostituita alla fiamma di
patria che avevate comune con me. E credo oramai che non amiate più,
che fosse in voi tutti bollore di sangue giovanile, di riazione, di
ambizione, di gloria, non adorazione dell'idea, non culto d'Italia.
Avete veduto scannare gli amici vostri più cari: avete veduto
impiccare, fucilare a dozzine: avete veduto bastonare uomini e donne
in Milano; avete esuli vostri a migliaja, avete veduto cose che
solleverebbero iloti e negri. E tuttavia non avete smarrito il
sangue freddo un istante; non vi siete, se credevate alla vostra
impotenza, travolti nella demenza o nel suicidio! No, voi leggete,
discutete - mentre i croati bastonano - punti di sistemi stranieri;
passeggiate tranquillamente. Amate! sì ma badate a istillare
prudenza e tiepidezza d'affetto patrio nel cuore della donna che
amate: il croato punisce col bastone le imprudenze femminili!
Io ho la morte nel cuore, Emilio, scrivendovi. Le codardie, le
bassezze, il gelo che m'è toccato vedere e palpare in questi ultimi
mesi hanno superato quello ch'io, nei momenti più neri, poteva
idearmi. Uomini, come... disdirmi l'amicizia, perchè io diceva -
«verifichiamo se il popolo vuole agire,» - uomini come... farsi
denunziatore dei miei amici: uomini, come Maestri, scrivermi che
bisognava far libri: uomini come Manin e Montanelli, rallegrarsi
della disfatta perchè ucciderebbe la mia influenza: uomini, come
voi, rimanervi freddi, assiderati, immobili di mezzo al fremito del
popolo vostro, e vagheggiare l'iniziativa francese! E, devo pur
dirlo, gelosiucce meschine, vanità meschinissime, diffidenze
colpevoli, a rodere, di mezzo a voi, il mio nome, che non è se non
una bandiera caduta, domani, la mia influenza che, prima della
lotta, avreste dovuto usare come un mezzo di forza, le mie idee che
non sono se non quelle predicate un tempo da tutti voi. E che
temevate da me? Io non ho che la febbre d'Italia, l'amore d'Italia,
l'ingegno d'Italia. Io vi portava un vincolo di simpatie straniere,
un vincolo con importanti elementi, un po' di fascino esercitato sui
giovani d'azione. Non potevate giovarvene, e spegnermi, annientarmi
il dì dopo? Non avreste avuto un rimprovero da me, com'è vero ch'io
esisto! Ho il tarlo nel cuore; non posso più gioire, e la vita mi
pesa dacchè io non stimo più i meglio educati fra gli uomini del mio
paese. E in Italia io non ho più che sepolture. E all'estero non ho
più core di parlare dei nostri patimenti: le ciglia s'inarcano e mi
sento dire: «Come fate a sopportar tanto? il popolo è visibilmente
con voi: ajutatevi dunque, o soffrite muti.»
Voi avete la salute del paese in pugno: se un giorno mai
v'accorgeste della triste parte che fate in Europa, e volete far
opera degna, pensate a me; a quel tanto d'ajuto ch'io posso
portarvi; ditemi: - «Siate con noi il tal giorno» - io vi sarò. Se
persistete nella vergognosa apatia, Dio vi perdoni, io non lo posso.
Ma non v'irriterò più con lettere, dirò il vero agli ignoti. Addio.
G. Mazzini.
Un'ultima inchiesta; leggete questa lettera a quanti più potete fra
i vostri amici prima di abbruciarla.
I tre scritti: Il Partito d'azione, Del dovere d'agire, e Centro
d'azione(68) rivelano abbastanza chiaro a quale trasformazione del
Partito io mirassi. Da un lato, io vedeva sorgere in seno alla
borghesia letterata, quei vizî di pedanteria dottrinante, di
dissenso tra il pensiero e l'azione d'inerzia che sostituisce la
fiducia paziente nella forza degli eventi al compimento del Dovere,
fatale a tutte le nazioni e cagione visibile di decadimento alla
Francia; e bisognava cercare il rimedio nell'azione di un nuovo
elemento, vergine di sistemi e ricco di buoni e ineducati istinti,
l'elemento popolare. Dall'altro, l'idea Nazionale era oggimai
sufficientemente diffusa: mancava l'attitudine, la tendenza a fare.
Or non s'educa all'azione se non coll'azione, coll'esempio,
coll'ira, colla coscienza della debolezza del nemico che si tradisce
nelle continue paure, negli esagerati sospetti, nelle ingiuste
immoderate repressioni suggerite dalla perenne minaccia. Entrai su
quella via premeditatamente, risolutamente. E lo dico, perchè i miei
fratelli di patria mi giudichino, lo sapeva che mi porrei sull'anima
nuovi e gravi dolori ma non rimorsi. I popoli non si ritemprano se
non con forti fatti, pericoli intrepidamente affrontati e patimenti
virilmente durati.
E un'altra ragione, verificata in seguito da una serie di fatti e
nondimeno inavvertita da quanti mi giudicarono, mi spronava su
quella via. La Monarchia ricominciava a desiderare, ad agitarsi, a
tentare timidamente, pur con insistenza fuori e dentro il terreno,
per vedere se vi fosse modo d'ampliarsi. Cominciavano i turpi
amoreggiamenti alla Francia Imperiale, ed era facile antivedere
l'alleanza che li avrebbe, presto o tardi conchiusi. Ora il concetto
accarezzato da Luigi Napoleone era di federalismo per noi, di unità
fortemente accentrata e facilmente dominatrice, per la Francia. Nè
gli uomini della Monarchia piemontese oltrepassavano quel concetto:
i suoi più potenti ingegni parlavano apertamente di leghe regie; e
alla turba volgare e al monarca, volgo egli pure, sarebbe bastato il
cenno del Dittatore Francese. Io vedeva crescente il pericolo e non
vedeva certi i rimedî: la mia fede, non nel futuro dell'Italia, ma
nella generazione, alla quale io parlava, s'era illanguidita: il
materialismo la signoreggiava, più assai ch'io non aveva creduto; e
il materialismo doveva guidarla - e la guidò pur troppo - al culto
della forza, dei primi successi, dell'opportunità sostituita
all'adorazione dell'Ideale. Il concetto della Monarchia sarebbe
stato, per poco ch'essa facesse, seguito. Bisognava dunque
impaurirla, sospenderle sul capo la spada di Damocle, farla credere
nella necessità di andare innanzi a seconda degli istinti del paese,
o perire: e per questo bisognava ordinare la minoranza che mi
seguiva, a protesta e minaccia continua in nome dell'Unità
repubblicana: o riescivamo in uno dei tentativi ad afferrare il
ciuffo della fortuna, a cogliere un momento propizio e fecondo
d'entusiasmo popolare e potevamo conquistare Unità e a un tempo
Repubblica: - o gli Italiani non erano maturi per emanciparsi(69) in
nome d'un principio senza cooperazione di re e avremmo, accennando
continuamente a fare, costretto la monarchia ad andare oltre i
termini prestabiliti, a darci almeno l'Unità Nazionale.
Taluni fra i nostri m'accusarono, più dopo, d'aver deviato,
ammettendo ne' miei calcoli che si potesse trarre partito dalle
opere della Monarchia. Gli scritti coi quali io chiamava il Partito
a trasformarsi sistematicamente in Partito d'Azione non parlano di
Monarchia ed escludono quindi il rimprovero. Ma quanto alle ipotesi
della mente, esse furono purtroppo giustificate dai fatti.
L'iniziativa fu presa, coll'ajuto dello straniero, dalla Monarchia:
i repubblicani non ne furono capaci. Se quanti allora ciarlavano di
repubblica avessero dato opera a ordinarsi, a disciplinarsi, a
raccogliere mezzi, ad armarsi per fare, noi non avremmo forse oggi
sulla fronte della povera Italia le vergogne di Nizza, di Lissa e
Custoza e della perenne soggezione all'influenza straniera. E s'oggi
non si sfogassero in proteste indecorose e derise, ma seguissero,
severamente deliberati, le norme pratiche che fruttano potenza a un
Partito, noi potremmo cancellare speditamente quelle vergogne, nè a
me toccherebbe di struggere i miei ultimi giorni nel dolore, supremo
per chi ama davvero, di vedere ciò che più s'ama inferiore alla
propria missione. Se non che è più facile rimproverare che fare.
Io credo d'avere, con quel metodo d'agitazione, contribuito a
costringere, non foss'altro, e dacchè i repubblicani non seppero
ordinarsi e fare, la Monarchia sulla via, non voluta dell'Unità
Nazionale; nè vedo, pur disprezzandola più sempre trascinata non da
fede, ma da paura, perchè m'increscerebbe. Saremmo noi, riordinati
federalmente, più vicini alla conquista del nostro ideale?
I monarchici intanto iniziavano dal canto loro un nuovo stadio di
attività con una perfidia.
Ho accennato al nembo di rimproveri e d'accuse che si rovesciò da
ogni lato su me dopo il 6 febbrajo: rimproveri e accuse tanto più
feroci, quanto più io sembrava sprezzarli e persistere. Al
disciogliersi del Comitato Nazionale e alla condanna che taluni fra
i suoi membri s'affrettarono a proferire contro di me, tenne dietro
un generale dissolvimento. Per più mesi io non ebbi, fuorchè da
popolani, una sola lettera che trattasse di cose italiane. Ogni
lavoro s'era sospeso o sottratto alla mia direzione. In Roma,
soltanto, l'Associazione serbava meco l'antico contatto: l'uomo,
singolare per ingegno, per intrepida fede repubblicana, per potenza
di logica e antiveggenza del futuro, che la dirigeva, non era tale
da mutar giudizio e condotta per un tentativo fallito. E Roma, era
punto siffattamente importante, ch'era necessario rapirmelo, o
condannarsi a vedere ravvivarsi a poco a poco la mia influenza sui
lavori del Partito in Italia.
Un agente di parte monarchica fu spedito da Torino a Roma a tentar
l'impresa. Giovandosi dell'opinione largamente diffusa, ch'io fossi
politicamente un uomo perduto, si disse a parecchi dei nostri che la
Monarchia si preparava alacremente a operar per l'Italia - ch'io era
stato fin allora, colle mie improntitudini repubblicane, ostacolo a'
suoi disegni - che importava quindi staccarsi da me, provato
incapace dagli ultimi fatti, e unirsi fraternamente al Piemonte -
che la unione delle forze determinerebbe, quasi immediata, l'azione
- che ogni uomo potrebbe serbare intatte le proprie idee, ma che si
trattava d'unirsi oggi per vincere, poi il paese deciderebbe del
proprio avvenire. E le proposte furono accolte: primo a cedere un
giovane che, ordinatore supremo nei primi due anni
dell'Associazione, poi segretario del Direttore nella sua
corrispondenza con me, possedeva nomi, cifre segreti e meritata
influenza.
Raccolti a deputazione, i dissidenti dall'antico programma fecero
proposta solenne al Direttore perchè, adottando il nuovo, decretasse
fusione dell'Associazione colla parte monarchica e sostituisse alla
formula unitaria repubblicana le parole: Indipendenza e Unione. Il
Direttore diede formale rifiuto.
Cominciò allora contro di lui una guerra sulla quale io trasvolo. I
mezzi di corrispondenza colle provincie gli furono interrotti: il
contatto coi nuclei esistenti in Roma gli fu seminato di difficoltà
e di pericoli: condannato, com'egli era, a vivere in un
nascondiglio, ei si trovò a un tratto quasi isolato. Accuse d'ogni
genere lo assalirono: fu detto che ei ricusava l'azione, ch'ei
negava per ambizione di dittatura la sovranità del paese; ch'ei
tradiva, per intolleranza e cieca riverenza a questioni di parole e
di mere forme, il fine del lavoro; ch'egli ingannava l'Associazione
parlandole in nome di un Partito che s'era chiarito impotente e di
un uomo, che s'era chiarito incapace; furono di lui dette cose
peggiori e bassamente sleali. Il direttore durò imperturbabile,
irremovibile.
Una notte ei fu preso, e furono presi nelle loro case quanti membri
o impiegati della gerarchia dell'Associazione persistevano fedeli al
programma repubblicano: dal primo fino all'ultimo, il postiere
Trabalza. Non accuso uno o altro individuo, ma è fatto, ammesso a
quei giorni da tutta Roma e chiarito dal carattere, dai modi e dalla
simultaneità delle scoperte, che la lista dei nomi fu trasmessa al
Governo Pontificio dagli agenti monarchici legati coi dissidenti.
Parecchi fra gli imprigionati in quella notte gemono tuttavia -
benchè nati in paesi che fanno parte del Regno Italiano - nelle
carceri del Papa; vergogna eterna del Governo Italiano che non
esige, forse perchè sono amici miei e repubblicani, la liberazione:
vergogna degli Italiani, che li dimenticano.
Contro quella diserzione dalla bandiera, io pubblicai, con altri, la
seguente protesta:
«I sottoscritti, Italiani di Roma e provincia, informati del
mutamento reazionario che, per opera di pochi e in contradizione
alle tendenze del Popolo, ha preteso rovesciare recentemente la
Direzione Centrale dell'Associazione Nazionale, per sostituirvi un
Comitato, il cui primo atto è un atto d'ateismo politico, un passo
retrogrado verso i nemici della bandiera inalzata nel 1849 in Roma,
e un tradimento del patto solenne stretto fra gli uomini
dell'Associazione Romana e il Partito Nazionale.
«Dichiarano:
«che la deviazione dal principio Repubblicano, come bandiera di
redenzione futura Italiana, colpa grave in ogni parte del territorio
Italiano, è infamia e vergogna in Roma:
«che questa deviazione tradisce Roma, alla quale rapisce
l'iniziativa morale, ch'è suo dovere e diritto nella Nazione;
tradisce l'Italia che guardava a Roma come depositaria della
tradizione repubblicana; tradisce l'Azione che non può escire se non
da una bandiera di popolo:
«che il fare retrocedere il Partito Nazionale sino alla politica
senza nome del 1848, dopo che i fatti hanno dato a quella politica
una nota incancellabile d'infamia colla cessione di Milano e col
tradimento di Novara, è opera di manifesta ignoranza, o di mala
fede:
«che la bandiera repubblicana non rappresenta un interesse
particolare in Italia, ma l'interesse, la missione, l'avvenire e
l'unità della Nazione, mentre la bandiera che porta scritta l'unica
parola d'Indipendenza, bandiera regia senza coraggio di dirsi tale,
non rappresenta se non federalismo, interessi dinastici, discordia
tra il fine e i mezzi, e quindi impotenza assoluta a combattere e
vincere:
«Protestano in conseguenza contro il mutamento tentato, contro
l'inganno fatto a un Popolo, che meritò l'ammirazione dell'Europa
combattendo per la Repubblica; contro ogni atto emanato o che
emanerà dal Comitato fusionista novellamente istallato; e lasciando
che la responsabilità dello scandalo d'un'apparente discordi e
ricada su chi lo promosse, si assumono di far noto al popolo di Roma
e Provincie l'inganno e la delusione di cui è vittima in oggi.
«Aprile 1853.
«G. Mazzini.»
Qui finiscono le note autobiografiche di Giuseppe Mazzini, comprese
nei primi otto volumi delle Opere, e che riunite insieme in questo
libro ci danno a grandi tratti una storia delle eroiche lotte, dei
dolori ineffabili che ebbe a sostenere il grande Apostolo d'Unità e
di Libertà.
Seguono quindi gli scritti politici più importanti, disposti per
ordine cronologico.
D'ALCUNE CAUSE
CHE IMPEDIRONO FINORA
LO SVILUPPO DELLA LIBERTÀ IN ITALIA
ARTICOLO PRIMO.
Un principe - et des consèquences - voilà tout. -
Convention Nationale.
Ma gli uomini pigliano certe vie del mezzo che sono dannosissime,
perchè non sanno essere nè tutti buoni, nè tutti cattivi. -
Machiavelli. - Discorsi. -
I.
Trattando delle cagioni, che tornavano in nulla i tentativi di
libertà nell'Italia - dei vizî che contrastarono al concetto
rigeneratore di farsi via tra gli ostacoli, noi siamo ad un bivio
tremendo.
O noi parliamo parole alte, libere, franche - parliamo coll'occhio
all'Italia, la mano sul core, e la mente al futuro - parliamo, come
detta la carità della patria, senza por mente ad uomini o
pregiudizî, snudando l'anima agli oppressori, ai vili, agli inetti,
flagellando le colpe e gli errori ovunque si manifestino - e un
grido si leva dagli uomini del passato contro ai giovani, che
s'inoltrano nella carriera, ignoti alle genti, senza prestigio di
fama, senza potenza di clientela, soli con Dio, e la coscienza d'una
missione: voi violate l'eredità dei padri, perdete la sapienza degli
avi; voi usurpate un mandato, che il popolo non v'affida
esclusivamente; voi cacciate l'ambizione di novatore frammezzo ai
vostri fratelli!
O noi rinneghiamo ispirazioni, studii ed affetti per una illusione
di universale concordia - ci soffermiamo nella predicazione di
principii nudi, teorici, astratti, senza discendere
all'applicazione, senza mostrare nella storia dei tempi trascorsi le
violazioni di questi principii - erriamo intorno all'albero della
scienza, senz'attentarci di appressarvi una mano, lamentiamo una
malattia esistente nel corpo sociale senza ardire di rimovere il
velo che la nasconde e dire: là è la piaga! - e gl'Italiani indurano
nell'abitudine degli errori; e gli elementi non mutano, i tentativi
insistono sulla stessa tendenza, le generazioni agitano, non
frangono le loro catene; e lo straniero ci rampogna inerti nel
progresso comune, c'insulta colla pietà del potente al fiacco, si
curva sulle sepolture dei nostri grandi, e esclama: ecco la polvere
dell'Italia! -
O sospetti, o colpevoli - condannati al silenzio o alla guerra -
esosi agli uomini che parteggiano per le vecchie dottrine, o
traditori alla patria che le provava fino ad oggi inefficaci e
funeste. -
la Patria anzi tutto. - Noi parliamo tra i sepolcri dei padri e le
fôsse dei nostri martiri - e le nostre parole hanno ad essere forti,
pure, incontaminate da lusinga e da odio, solenni come i ricordi dei
padri, come la protesta che i nostri fratelli fecero dal palco ai
loro concittadini. -
la Patria anzi tutto. - E chi siam noi perchè abbiamo a calcolare i
nostri discorsi dalle conseguenze personali? L'epoca degli individui
è sfumata. Siamo all'era dei principii: siamo all'era che pose quel
grido in bocca ai lancieri Polacchi: Periscano i lancieri, e la
Polonia si salvi! - e che monta alla patria se le nostre parole
avessero anche a fruttarci una guerra che il nostro core vorrebbe
fuggire? Gli uomini passano. La posterità sperde il garrito delle
fazioni; ma i principii rimangono: - e guai all'uomo, che tenta una
impresa generosa e s'arresta davanti alle conseguenze quali esse
siano!
Una idea - e l'esecuzione: ecco la vita, la vera vita per noi: una
idea generosa, spirata dalla potenza che creava l'uomo ad essere
grande, lampo della primitiva ragione, quando l'anima giovine,
vergine di pregiudizî, di vanità e di meschine paure, s'affaccia ai
campi dell'avvenire che l'angiolo dell'entusiasmo illumina d'un
raggio immortale - ed una esecuzione costante, assidua, ostinata,
sviluppata in tutte le fasi dell'esistenza, nelle menome azioni,
come nei rari momenti che vagliono un'epoca, in un'epistola
famigliare come in un volume di meditazioni, nei segreti della
cospirazione come nella pubblica testimonianza del palco. A questi
patti s'è grande - a questi patti si promuove la causa santa - e del
resto avvenga che può, perchè l'uomo il quale si slancia nella
crociata dell'umanità senz'aver dato un addio ai calcoli, ai
conforti, a tutte quante le gioje della vita, non ha missione. Chi
scrive codeste linee ha disperato - tranne un affetto - della vita
contemplata individualmente - e per questo ei si sente più forte
nella predicazione del pensiero rigeneratore. In politica non v'è
che un sistema d'azione stabilmente efficace: il sistema che matura
i principî, sceglie l'intento, medita i mezzi, poi si pone in moto
senza deviare a dritta o a sinistra, facendo gradino degli ostacoli,
non rifiutando le conseguenze logiche dei principî, e guardando
innanzi. - La verità è una sola. L'eclettismo(70) applicato alla
scienza d'ordinamento sociale ha prodotta una dottrina che l'Europa
dei popoli infama, e rinega; e la stolta pretesa di voler conciliare
elementi che cozzano per natura, ha rovinate a quest'ora più sorti
di popoli, che non l'armi aperte, o le insidie della tirannide.
Oggimai, s'è giunti a tanta incertezza di sistemi e di vie, che le
moltitudini, affaticate pur sempre dal desiderio del meglio, si
stanno inerti, aspettando che i loro istitutori s'intendano fra di
loro.
Applichiamo queste idee all'Italia.
Le opinioni, le dottrine, i partiti sono in Italia ed altrove. Noi
non li creammo: guardammo e la esistenza loro ci balzò davanti, come
un fatto incontrastabile, e prepotente sui fati della nostra
rigenerazione.
Ora, che vie ci s'affacciano a superarne gli ostacoli?
Noi abbiamo lungamente pensato al modo; abbiamo cercato una via di
fusione, un mezzo d'accordo tra chi insiste sulle antiche idee e chi
sente fremersi dentro le nuove. - Questa via non v'era: i popoli
s'erano illusi di averla trovata, ed hanno scontato quella illusione
con tanto pianto e con tanto sangue, che oggimai il volere ricrearla
può dimostrare forse bontà di cuore, non senno politico; nè le
illusioni, sfumate una volta, si ricreano mai. Il moto è in noi,
sovra noi, intorno a noi; e dove gli uni s'abbandonano al moto, e
gli altri s'industriano a costringerlo in un cerchio determinato,
non v'ha transazione possibile. O innanzi, o addietro! L'anello
intermedio fra la inerzia e il moto, fra la vita e la morte, è il
segreto di Dio.
Oggi, i popoli hanno sete di logica; e tra molte opinioni
inconciliabilmente discordi, io non veggo che una via sola:
consecrarsi alla migliore - inalzarne la bandiera - e spingersi
innanzi. Là è il progresso! Là è la vittoria!
Così abbiamo detto - e faremo.
Pace e fratellanza a chiunque saluta la bandiera del secolo; a
chiunque adotta i principî del secolo. - Gli altri ripeteranno per
qualche tempo ancora la insulsa accusa che ci chiama seminatori di
discordia: accusa simile a quella che i tiranni infliggono ai buoni,
rampognandoli violatori dell'ordine - come se l'ordine potesse esser
mai il riposo nell'errore: come se a fondare una concordia potente
fosse altra via dal trionfo del vero in fuori. I vizî e le colpe
della gente che beve con noi un raggio dello stesso sole, hanno a
circondarsi, dicono, di silenzio: paventano l'insulto dello
straniero. Lo straniero? - Rammenti che noi fummo grandi e temuti,
quando il mondo era barbaro, rammenti che la sua civiltà è opera
nostra, la nostra abbiezione opera sua - e arrossisca - però che lo
scherno gli ripiomberebbe sul core amaro come un rimorso! - Ma a noi
la carità della patria non acciechi il lume della mente. Le vanità
puerili, le adulazioni accademiche, le cantilene de' letterati di
corte, e il pazzo entusiasmo di quei tanti amatori della patria, che
s'inginocchiano davanti ai simulacri dei nostri grandi, senza oprare
a farsi grandi com'essi, hanno partorito lunghi sonni e codardi
all'Italia - e non altro. L'adorazione al genio dei trapassati, e a
quello che spande il suo raggio sulla faccia della terra patria, è
bella veramente, quando chi si prostra è tale da potere posarsi
eretto davanti alla generazione che gli brulica intorno. Ma i nomi,
le memorie, le grande imagini, se non sono applicate alla vita, e
migliorate, ed emulate, sono come quell'armi che stanno attaccate
alle pareti delle sale: arrugginiscono se non le adopri. Noi non
parliamo certo a chi siede tra le rovine e inalza l'inno di
disperazione; però che si tratta di confortar gli uomini a osare,
anzichè travolgerli nella inerzia. La patria, come la donna amata,
può non essere talora stimata: vilipesa non mai! E noi, questa
patria caduta, questa bella giacente, noi la circondiamo di tanto
affetto, che la vita intera e la morte non varranno a svelarne la
menoma parte. Forse, s'essa fosse fiorente di bellezza e di gloria,
noi l'ameremmo d'un affetto men caldo e santo: ma non si torna a
vita lo scheletro, incoronandolo di rose - nè quelle dive anime
incontaminate di Catone e di Tacito adonestavano le colpe de' loro
concittadini, ma le flagellavano a sangue. Che se l'orgoglio
insuperbisse a taluno nel petto, è grande, ben più che illudersi
sulla patria il dire: la patria è caduta e noi la faremo risorgere.
Noi insistiamo sovente sul nostro simbolo di progresso e
d'indipendenza, anche a rischio di vederci accusati d'audacia,
perchè l'uomo senza credenza non è veramente uomo, e colui che l'ha
e non s'attenta bandirla, è men ch'uomo - perchè pur troppo v'è una
gente che alla menoma reticenza sospetta prave intenzioni, una gente
il cui studio è quello di introdurre un lembo della loro veste
macchiata, sotto la toga candida, incontaminata dell'apostolo della
verità - perchè infine noi esponiamo le nostre credenze come il
programma delle azioni future. Siamo ai tempi nei quali le opinioni
hanno ad essere decise ed aperte, nei quali ad ogni uno che si
presenti per ottenere la cittadinanza dell'uomo libero corre debito
di portare in fronte una dichiarazione de' suoi principii, perchè
giovino alla condanna se mai i fatti della vita contrastassero un
giorno ai principî enunciati. Noi facciamo questa dichiarazione. Noi
la facciamo fidenti, perchè siam giovani e vergini di passato,
abbiamo il core puro, le mani pure, la mente pura, e non abbiamo
speranza di meglio, di gloria, di trionfo, di lode che
nell'avvenire. - Gl'Italiani giudicheranno i nostri atti.
II.
I tentativi di rivoluzione italiana tornarono fino a quest'oggi in
nulla. Perchè? - Siam noi codardi tutti? Mancano elementi
rivoluzionari? O veramente il mal esito de' moti italiani era
dipendente dalla direzione che le fazioni diedero a questi moti?
Lo straniero scelga, se vuole, la prima causa. Noi, Italiani,
adopriamoci a rintracciar la seconda.
Noi non siamo codardi. I popoli non sono codardi mai, quando
l'impulso che li move è potente - noi men ch'altri - e l'Europa lo
sa.
Gli elementi di rivoluzione non mancano all'Italia. Quando un popolo
diviso in mille frazioni, guasto dalle abitudini del servaggio,
ricinto di spie, oppresso dalle bajonette straniere, divorato per
secoli dall'ire municipali, stretto fra la cieca forza del
principato e le insidie sacerdotali, senza insegnamento, senza
stampa, senz'armi, senza vincoli di fratellanza fuorchè nell'odio e
in un pensiero di vendetta, trova pur modo di sorgere tre volte in
dieci anni - e il nemico interno sfuma davanti alla potenza di un
voto espresso, senza un colpo di fucile, senza un grido
d'opposizione, senza una voce che sorga a difendere la causa della
tirannide: quando in dieci giorni la bandiera italiana sventola
sopra venti città, e gli uomini della libertà invocano confidenti i
comizî popolari per concertare le opportune riforme: quando nè
persecuzioni, nè sventure, nè delusioni, nè morti possono spegnere
il pensiero rivoluzionario - e le prigioni sono piene - e i cannoni
s'appuntano contro al popolo - e i dominatori tremano d'una congiura
ad ogni romore notturno - compiangete quel popolo che le circostanze
condannano ancora all'inerzia, ma non lo calunniate: v'è una
scintilla di vita in quel popolo, che un dì o l'altro porrà moto a
un incendio: v'è una potenza in quel pensiero intimo di libertà,
educato con tanto amore e tanta energia di costanza, in quel voto
che cinquecento anni di silenzio non hanno potuto sperdere - che il
Genio potrebbe trarne miracoli - ma il Genio solo; - e dov'è il
Genio che abbia governati fin qui i tentativi italiani? Dov'è tra
quei che stettero al maneggio delle cose nostre, l'ingegno che abbia
indovinato il segreto di quei tentativi?
Le moltitudini non mancano alla libertà in Italia, nè altrove. Nei
due terzi dell'Europa, le moltitudini han fin d'ora un istinto del
bene che può bastare a rigenerarle; soltanto esse non possono
esserne interpreti ancora, e abbisognano d'uomini che s'assumano di
ridurre i loro sentimenti a sistema politico, che concentrino in una
giusta direzione quanti elementi s'agitano incerti e indefiniti
negli animi non educati. - Quand'altro non fosse, le moltitudini
soffrono, le moltitudini sono oppresse, conculcate
dall'aristocrazia, immiserite dai dazî, dalle imposte e dalle
dogane, dissanguate dai frati ai quali l'altre classi son già
sottratte. Le moltitudini hanno dunque bisogno di mutamento:
v'anelano, e lo accetteranno qualunque volta sia loro proposto.
Tutto sta nel guidarle; nel convincerle che i mutamenti torneranno
loro efficaci; nel persuaderle, che in esse è potenza sufficiente
per ottenerli.
Intanto le rivoluzioni italiane hanno presentato finora un aspetto
singolare all'osservatore. Nei loro principî furono brillanti,
unanimi, confidenti, audacemente intraprese, prosperamente operate:
poi, dati i primi passi, languirono, si mostrarono incerte, paurose;
e le moltitudini si stettero inerti, indifferenti, sfiduciate
dell'avvenire - sorsero come stelle: svanirono come fuochi di
cimitero. Simili a quelle creature che nascono bellissime di forme e
d'espressioni, ma col germe della distruzione già sviluppato, colla
condanna del destino sulla fronte, e delle quali tu diresti
ammirandole: morranno prima d'avere raggiunto il fiore della
giovinezza - le rivoluzioni italiane ti s'affacciano belle e pure
nel concetto primo, ma inceppate, sviate, o soffermate a mezzo il
cammino da un ostacolo prepotente che tutti indovinano, pochi hanno
espresso liberamente.
D'onde procede l'ostacolo?
Noi lo diremo francamente: mancarono i capi; mancarono i pochi a
dirigere i molti; mancarono gli uomini forti di fede e di
sagrificio, che afferrassero intero il concetto fremente nelle
moltitudini, che intendessero a un tratto le conseguenze; che,
bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero tutte in
una sola, quella della vittoria; che calcolassero tutti gli elementi
diffusi, trovassero la parola di vita e d'ordine per tutti; che
guardassero innanzi, non addietro; che si cacciassero tra il popolo
e gli ostacoli, colla rassegnazione di uomini condannati ad essere
vittime dell'uno o degli altri; che scrivessero sulla loro bandiera:
riuscire o morire, - e attenessero la promessa. Siffatti uomini
mancarono ai tentativi: nè giova indagarne la causa - ma quando
sorgeranno e Dio li caccierà fra le turbe, l'Italia rinata darà
solenne mentita a quanti l'accusano di codardia, o la vilipendono
ineguale al disegno.
E badate, o Italiani, che la questione è decisiva per voi. Però che
se non mancarono i capi, mancarono le moltitudini: mancarono e
mancano gli elementi di rigenerazione. A questo bivio siam tratti:
abbiamo a scegliere tra l'errore dei pochi e l'impotenza de' molti:
abbiamo a rinegare le speranze in un vicino avvenire o la
venerazione nei capi che ci guidarono. Per noi, la scelta non è
dubbia: gli altri che ripongono l'onore del nome italiano
nell'adonestare le colpe italiane, vedano se giovi meglio alla
patria il sagrificio dei pochi colpevoli, o l'anatema gittato a
un'intera nazione.
Mancarono i capi. Mancarono prima d'animo, poi di scienza politica:
prima di fede in sè, nelle moltitudini che reggevano, nella santa
bandiera che inalberavano; poi di consiglio rivoluzionario, di
spirito logico e del segreto che suscita i milioni di difensori a
una causa. - E noi accenneremo successivamente dove e perchè
mancassero; e come non s'intendessero nè i mezzi, nè l'intento d'una
rivoluzione. Ai popoli si parla efficacemente in due modi: colla
virtù dell'esempio, e colla utilità del fine proposto; trascinandoli
coll'entusiasmo, o seducendoli coll'avvenire. - E parleremo in
principio della mancanza di animo negli uomini che tennero il freno
delle cose nostre, perchè l'animo è prima condizione del fare -
perchè dove quello manchi o non sia deliberato abbastanza, è follia
mettersi a grandi imprese - perchè il vero beneficio d'una
rivoluzione deve affacciarsi al popolo con certezza fin dai primi
giorni del moto, ma non può, generalmente parlando, svilupparsi che
al secondo stadio della rivoluzione, quando essa è già santificata
dalla vittoria. - A fare, conviene prima d'ogni altra cosa esser
forti.
III.
Del difetto d'energia nei guidatori delle nostre rivoluzioni, degli
errori che s'accumularono, della incertezza, delle contraddizioni
ch'emergono ad ogni passo dalla storia dei fatti trascorsi, fu detto
da molti. Un fremito d'ira generosa si levò nell'anime veramente
Italiane al vedere, come per colpa dei pochi l'Italia cadde nel
gemito della paura anzichè nel ruggito del lione ferito. Come
accadesse, come avvenisse ch'uomini puri nelle intenzioni, amatori
del nome italiano e consecrati fin dai primi anni alla carriera
politica, si lasciassero travolgere a tanta debolezza da commettere
i destini della loro patria a una illusione di tutela straniera
anzichè all'armi e al consiglio de' forti, non fu detto mai, ch'io
mi sappia. Forse, quando i buoni fremevano la parola del dispetto e
della rampogna, le piaghe erano troppo recenti, perchè il raziocinio
potesse frammettersi alla passione, e perchè riuscisse di risalire
per mezzo agli errori alla sorgente d'onde partivano. Fu guerra di
particolarità, di minuzie, di fatti isolati; fu grido d'uomini ai
quali la prepotenza degli eventi struggeva l'ultima delle speranze
che fan bella la vita, e non lasciava che l'ultimo appello della
creatura al cielo, la maledizione agli uomini ed alle cose. - Esce a
ogni modo da quelle accuse un senso di sconforto, una disperazione
dell'avvenire, che può ridurre l'anime nuove e incerte alla inerzia
e le forti e deliberate a vivere d'una vita propria, intima,
individuale, a ricoverarsi nella solitudine e nel concentramento
dalla fallacia dei progetti e dal sorriso dei tristi. Oggi, è
urgente di ritrarre quell'anime dall'isolamento in cui giacciono, di
rinfiammarle alla costanza dell'opere, di riconfortarle ad osare,
mostrando come nessuna fatalità pesi sopra di noi, ma il solo errore
degli uomini, e non invincibile, non inevitabile da chi riassuma in
poche massime le vicende passate a trarne insegnamento al futuro.
Ora - e per somma ventura - quegli uomini, ch'ebbero un istante le
sorti italiane nelle mani, son fatti uomini del passato; quei nomi
son retaggio dei posteri, e noi possiamo favellarne senz'ira ed
amore; possiamo esaminare più sedatamente qual violazione di
principio trascinasse la rovina dei tentativi italiani. Un tentativo
fallito si riduce quasi sempre ad un principio violato.
Nelle rivoluzioni più che in ogni altra cosa l'armonia è condizione
essenziale del moto. Quando esiste disparità, sconnessione,
disarmonia tra gli elementi e la tendenza che ad essi s'imprime, tra
chi dirige e chi segue, non v'è speranza.
Gli uomini nati a governare e compiere le rivoluzioni son quei che
stanno interpreti delle generazioni contemporanee, miniatura del
loro secolo; che riassumono in sè i voti segreti, le passioni, le
tendenze, i bisogni delle moltitudini; che si collocano innanzi d'un
passo alle genti che seguono, ma come centro in cui vanno a metter
capo tutti gli elementi esistenti, tutte le fila ordinate
all'intento. Indovinare il pensiero generatore della rivoluzione, e
assumerlo proprio, fecondarlo, svilupparlo, e guidarlo al trionfo -
tale è il primo ufficio di chi dirige le rivoluzioni. Senza quello
si cade tra via scherniti o infami, per impotenza o per tradimento.
Ora, furono essi tali i capi delle nostre rivoluzioni?
No; non furono.
Vediamo l'ultima rivoluzione dell'Italia centrale.
Noi lo dichiariamo: noi la togliamo ad esempio, non perchè gli
errori notati v'appajano più manifesti che altrove; nè perchè a noi
piaccia diffondere un biasimo non meritato sui nostri fratelli delle
Romagne. Noi li amiamo come Italiani: noi li veneriamo come quei che
sorsero mentre noi giacevamo; come quei che diedero all'Italia e
alla Europa un esempio d'opinione popolare e concorde; come quei che
pajono incaricati di affacciare ai popoli una continua protesta in
nome nostro contro la tirannide che ci conculca. - I moti del 1820,
e 21, furono predominati dagli stessi errori, errori, come dicemmo,
più dell'epoca che degli uomini. Vero è che l'epoca ora è mutata, e
gli stessi moti dell'Italia centrale lo provano; però l'anacronismo
politico, commesso da chi resse que' moti, sgorga più evidente
dall'ultime vicende che dalle prime. Poi le piaghe sanguinano
tuttavia - e noi scriviamo coll'ultimo gemito di Ciro Menotti, e
coll'eco dei fucili di Rimini nell'orecchio.
La rivoluzione dell'Italia centrale presenta distinte due classi
d'uomini: i molti insorti, e i pochi moderatori dell'insurrezione.
Che volevano gl'insorti?
Chiedetelo al pensiero che ordinava quei moti - chiedetelo al grido
levato dai primi a insorgere in tutte le terre che afferravano
spontanee il concetto di vita - chiedetelo al palpito di tutti i
cori, al fremito generoso che invase la intera Penisola, quando
narrarono i colpi di fucile tratti dalla casa Menotti, all'ardore
che fece correre all'armi la gioventù di Bologna quando il vento
recò ad essa l'eco del cannone di Modena - all'entusiasmo della
gioventù parmigiana non avvertita, non coordinata, non commossa
dalle congiure - alle stampe, ai bandi, ai colori adottati, ai
viaggiatori che corsero da un punto all'altro per affratellare le
varie contrade, alla bandiera che sventolò tra quei moti. Quella
bandiera fu la bandiera italiana - quei colori erano i nazionali
italiani - quelle prime voci erano voci di patria, di fratellanza,
di lega italiana - quel fremito, quel tumulto, quel moto era il voto
dei forti, serbato intatto per quaranta anni di sciagure e di
persecuzioni; concentrato allora intorno ad un nome - al vecchio
nome d'Italia, a quel nome immenso di memorie, di gloria, di solenne
sventura, che i secoli di muto servaggio non avevano potuto
spegnere, e che mormorato all'orecchio era trapassato di padre in
figlio, come il nome del temuto nella lunga cattività degli Ebrei.
Volevano l'unità, l'indipendenza, la libertà della Italia; volevano
una patria; volevano un nome, col quale potessero presentarsi al
congresso futuro de' popoli liberi, e che cacciato sulla bilancia
Europea promovesse d'un passo la civiltà. Però la gioventù insorta
non s'arretrava davanti a ostacoli di lunga guerra, o di disagi
d'ogni genere; chiedeva la gioventù Bolognese fin dal secondo giorno
del movimento d'invader la Toscana; chiedevano i nazionali di Reggio
e Modena di conquistare Massa e Carrara alla libertà; chiedevano più
tardi le guardie civiche condotte dal Zucchi di movere per la strada
del Furlo al regno di Napoli; però che ogni uomo a' quei giorni -
tranne chi reggeva - sentiva profondamente che si trattava d'una
causa italiana, non Bolognese, o Modenese: ogni uomo - tranne quei
del governo - sentiva ch'era venuto tempo per gl'Italiani di
manifestare alla nazione e all'Europa con qualche atto solenne il
loro concetto, il principio che li guidava, la intenzione in che
s'erano mossi - del reato non curavano. Quel primo momento di
rivoluzione, di manifestazione generosa è sì bello, bello di
sacrificio individuale, di speranza infinita e d'audacia Titanica,
che può scontarsi colla morte in campo, o sul palco: nè gl'insorti
pensavano allora doverlo, per la inerzia di pochi, scontar col
ludibrio.
Con siffatti elementi, con questa tendenza del popolo insorto, quali
erano i doveri degli uomini che il voto dei più, il caso e le
circostanze elessero a capi?
I doveri de' capi - noi lo dicemmo - emergono dal voto, dalla(71)
tendenza predominante le moltitudini; stanno scritti nella bandiera
adottata dalle moltitudini. Ogni rivoluzione è la manifestazione, la
espressione pubblica d'un bisogno, d'un sentimento, d'una idea; e
quando un popolo insorge, la scelta dei capi costituisce un
contratto tacito fra quel popolo ed essi. Il primo, eleggendo, dice
ai secondi: noi ci levammo per rivendicare un diritto usurpato o
violato; ci levammo per ottenere un miglioramento di condizione che
i governi ci vietano; ci levammo perchè noi, maturi per salire d'un
passo nella carriera del progresso, eravamo pure inceppati e
costretti alla inerzia da una prepotenza d'ostacoli materiali. Ora,
insegnateci la via; noi la ignoriamo; ma eccovi braccia e mezzi;
traetene il maggior partito a guidarci dove noi vogliamo: vi
seguiremo attraverso i pericoli. - I secondi, accettando,
rispondono: noi sacrificheremo ogni cosa allo sviluppo di cotesta
idea; noi poniamo vita, senno, consiglio dove voi ponete le sostanze
e la vita. Seguiteci con fiducia, però che dovunque, tra i pericoli
inevitabili, vedrete ondeggiare la nostra insegna, voi sarete certi,
ch'ivi è la via che avete trascelta. - Queste condizioni a noi
pajono intervenire più solennemente tra la nazione e i suoi capi,
che non se fossero proferite a parole; perchè dove il mandato sgorga
dalle circostanze e dal voto pubblico è più santo che non sarebbe
uscendo da formole; nè i popoli manifestano mai così solenni i loro
voti, come quando li manifestano colle azioni. Non giova illudersi;
chi fraintende quel voto può meritare compianto - ma qual nome serba
la patria a chi, intendendolo, lo delude, e inganna deliberatamente
le migliaja che glie ne fidano lo sviluppo?
IV.
A quei che stettero primi nella rivoluzione dell'Italia centrale - a
quei che convalidarono col silenzio e colla inerzia le loro dottrine
- a quei che in oggi si assumono le difese dei loro atti, e
maledicono alla gioventù perchè non li venera muta, noi abbiamo il
diritto di chiedere:
Volevate voi dirigere la rivoluzione all'intento voluto dalle
moltitudini, che la operavano?
Allora - dovevate costituirvi rivoluzionarî davvero: cacciare un
grido all'Italia, e lanciarvi innanzi. Dovevate prefiggere ad ogni
atto della vostra esistenza politica il pensiero d'indipendenza,
d'unità, e di libertà che fremeva nel petto ai vostri concittadini;
dovevate procedere con franchezza, e con energia alle conseguenze
dei principî rigeneratori. Allora - v'era mestieri calcolare le
difficoltà della vostra situazione, e affrontarle anche a rischio di
soccombere davanti ad esse; v'era mestieri meditare le leggi
fondamentali d'ogni rivoluzione, e subirne le conseguenze e
l'azione; v'era mestieri, se fatti non potevate, cacciar principî
sull'arena italiana; lasciare un alto insegnamento ai posteri, se le
sorti ci contendevano un miglioramento materiale, positivo:
educarli, se liberarli non v'era dato. Allora - vi correva debito
sacro di definire davanti all'Europa la tendenza, il carattere dei
moti Italiani; debito di tentare tutte le vie per le quali una
rivoluzione può conquistar la vittoria; debito di ritemprare con
forti esempli l'anime incodardite negli anni lunghi di servitù, di
cacciare un guanto ai nostri nemici, ch'essi dovessero tremare di
raccogliere, di lasciare almeno alla crescente generazione - s'altro
non era concesso - il programma della rivoluzione avvenire. Gli
elementi stavano dinanzi a voi; Dio, padre della libertà, li aveva
creati per voi, se sapevate o volevate usarne. L'entusiasmo, il
coraggio, ed il genio - tre angioli di vita a un popolo decaduto:
tre scintille di potenza immortale: tre raggi che brillarono di
bellissima luce mentre il bujo della paura vi si stendeva intorno
all'anima sconfortata - erano con voi e per voi, purchè aveste
cercato suscitarli col sacrificio e coll'audacia dei generosi;
purchè aveste saputo evocarli colla fede e col martirio, purchè non
aveste isterilita ogni vostra potenza colla funesta parola: l'Italia
è morta. L'Italia morta? Oh! v'è una vita in questa Italia caduta,
che non conosce la morte! - L'Italia morta? Oh! se di mezzo a voi un
uomo si fosse levato; se quest'uomo, trascorrendo con occhio
d'aquila tutti gli elementi di lotta esistenti in Italia, avesse
inteso il partito che potea trarsene; s'egli avesse sentito la
vastità del ministero che le circostanze gli davano; s'egli avesse
detto a sè stesso: a questo punto, non vi hanno riguardi, non v'è
autorità, non v'è legalità, non v'è che un dovere: tentare la salute
della patria; il mandato a fare non emana in siffatti momenti da un
congresso, o da una commissione provvisoriamente governativa, ma
dalla legge suprema della necessità, dal suffragio dei proprî
fratelli, dalla coscienza delle proprie forze e della propria virtù;
se quest'uomo avesse fatto un appello alla nazione, avesse diffuso
una gioventù bollente sulle terre vicine, sui monti, nelle campagne,
avesse detto ai giovani: siate grandi! alle moltitudini: siate con
noi, però che noi veniamo a togliervi allo stento ed alla miseria;
ai giacenti: sorgete! levatevi in arme! noi veniamo a vincere o
morire con voi! - che non avrebbe egli fatto della gioventù? di
quella gioventù, che sfiduciata da mille delusioni, abbandonata e
tradita, resa inerte dalla diffidenza, dai sospetti, dal difetto di
ordini, trovò pur modo di salvare l'onore italiano, e di protestare
a Firenzuola, a Novi, a Rimini, che dove fosse stata unione,
confidenza, ed energia di condottieri sapienti, la potenza del nome
italiano sarebbe stata? - Forse, se un linguaggio e un contegno
decisivo s'assumevano dagli uomini ai quali erano fidate le sorti
della patria; se una parola solenne bandiva che l'Italia Centrale
era sorta per tutti, ch'essa avrebbe combattuto per tutti, o sarebbe
caduta vittima per tutti; se un fatto - un fatto solo, ma grande, ma
potente, ma tremendo d'una volontà disperata, e compiuto al
cominciar della lotta dai rappresentanti il pensiero italiano,
avesse scosso le menti, forse strappavamo alla mano del tempo l'ora
della risurrezione, forse il grido di guerra a morte sorto di mezzo
alle barricate cittadine, o la maledizione al barbaro cacciata dai
canuti morenti tra le rovine d'una città, rompeva il letargo dei
secoli, suscitava alla vendetta i milioni incerti fra la speranza e
la tema; però che la virtù d'un esempio è infinita, e dai rottami di
Missolungi sorse la Grecia. - O fors'anche, quei primi forti
perivano, e soli; ma si salvava l'onore, si struggevano le insulse
accuse che ci vengono dallo straniero, le infamie che suonarono
dall'alto della tribuna francese sulla bocca di Thiers e Guizot non
erano proferite; e si gittava tra le rovine italiane un principio
che avrebbe fruttato miracoli nell'avvenire, un principio
essenziale, inevitabile, - perchè, davvero, o Italiani, senza simili
fatti, senza quei sagrifici, non sarete liberi mai.
V.
E voi, condottieri delle rivoluzioni passate, che avete voi fatto?
Che avete voi fatto del popolo, della gioventù, dell'idea
rivoluzionaria, de' principii che ne dominano lo sviluppo,
dell'Italia e della missione, ch'essa v'aveva fidata?
Nulla! Avete sprecate o neglette lo forze che vi s'accumulavano
intorno; avete scavato un sepolcro a tutte le più belle speranze;
avete creato la morte. Ora l'adorate divinità prepotente!
Avevate una parola, che proferita al popolo, potea suscitarlo
all'opre del braccio. Era la parola onnipotente; la parola della
quale si valsero per legge di cose tutti i grandi che vollero
dominare o trascinare all'azione le moltitudini; la parola che
creava i quattordici eserciti della Convenzione, e più tardi, benchè
convertita in delusione, la potenza di Napoleone; la parola che Dio
scrisse nella prima pagina del libro della creazione, il core. -
L'avete voi detta? Avete voi gittato in mezzo alle turbe quel nome
magico, che annunciando all'uomo la propria dignità, crea dallo
schiavo l'eroe, quella parola d'eguaglianza, che Cristo aveva
pronunciata diciannove secoli addietro, e che in un mondo corrotto,
anarchico, egoista, incredulo, lacerato dai barbari aveva pur
bastato a fondare una religione? Avete voi detto al popolo: noi
veniamo ad emanciparvi; veniamo a stringere il patto d'amore;
veniamo a porre un termine alle vostre miserie? - No, avete tremato
del popolo; del popolo senza del quale non farete mai nulla; del
popolo, primo elemento delle rivoluzioni. Perchè, noi lo abbiam
detto e lo diremo finchè prevalga, le rivoluzioni hanno ad esser
fatte pel popolo e dal popolo; nè finattantochè le rivoluzioni
saranno, come ai nostri giorni, retaggio e monopolio d'una sola
classe sociale e si ridurranno alla sostituzione d'un'aristocrazia
ad un'altra, avremo salute mai. Ma voi, dimenticando che una riforma
sociale è viziata ne' suoi principî, se non comprenda e non
rappresenti gl'interessi e i bisogni di tutte le classi;
dimenticando che a trionfare avevate bisogno di braccia, e che ad
averle è necessario animarle d'una idea di potenza, di fratellanza,
e d'ammiglioramento, poneste mente a comprimere il popolo, e
frenarlo nell'istinto del bene che lo agitava, e vietargli la lotta.
Però il popolo vi lasciò soli; stette inerte a contemplare lo
spettacolo d'una contesa, alla quale non era chiamato. - Un grado di
progresso nella grande fusione sociale, nell'equilibrio possibile,
ecco l'intento delle moltitudini. L'idea è nulla per esse, dove non
sia scesa all'applicazione; e d'onde trapelò nei vostri atti, nella
vostra carriera questo desiderio d'applicazione? - Io scorro i
vostri mille decreti; dov'è un decreto, che proclami solennemente il
principio della sovranità del popolo, sorgente di tutti i poteri?
Dov'è un decreto che ordini l'esercizio del principio d'elezione,
vastamente inteso e applicato? Dove un decreto, che dica al popolo:
armatevi, e che provveda ad armarlo? Dov'è un atto solo in cui il
popolo abbia schiusa, col suo intervento, davanti a sè la carriera
della insurrezione?
Avevate una gioventù calda, ardita, impaziente d'azione, dalla quale
potevate, sapendo, trarre una potenza invincibile; però che la
gioventù è santa; la gioventù anela al sagrificio puro, e per
premio, una speranza che le conforti il sospiro ultimo, una parola
di lode. - Che avete voi fatto per essa? Quali sorgenti d'entusiasmo
avete schiuso a quell'anime giovenili, che volano al grande collo
slancio? Quali generose passioni avete tentato dirigere all'intento
sociale? - Nessuna. L'anime giovanili s'erano infiammate al sole
della novella Civiltà, s'erano levate sublimi alle idee di patria
comune, di fratellanza italiana, di gloria europea, d'emulazione coi
loro fratelli di Francia, di Brusselle, di Varsavia - e voi
sfrondaste quelle idee fin dalle prime mosse, impiccoliste
quell'anime nelle angustie d'una sommessione cieca ed inerte; le
intorpidiste colla diplomazia; le fiaccaste colla diffidenza e colla
paura. La gioventù fremea guerra, - e voi non che attentarvi pur di
bandirla, non osaste intravvederne la necessità; non osaste mirarla
in faccia un solo momento senza tremare; cacciaste nei vostri primi
discorsi, ad agghiacciarle il sangue bollente, una parola di pace,
di pace obbrobriosa, e impossibile. E mentre le grida dei giovani;
commossi al pericolo dei loro fratelli di Modena e Reggio, vi
richiedevano d'armi, di capi, e d'un cenno per volare a soccorrerli,
voi mandavate la infame parola: le circostanze dei modenesi non sono
le nostre(72); rinnegavate l'Italia e i vostri fratelli decretando
si togliessero l'armi, e si rinviasse nell'interno qualunque estero
s'introducesse nello stato, però che nessuno de' vostri dovea
prender parte alle querele dei vicini; e queste parole uscivano da
labbra italiane, si parlavano ad Italiani, e gli esteri erano
Italiani, favellavano un linguaggio italiano, e la bandiera che
l'Austriaco calpestava coi piedi era italiana!!! - Sperda il tempo
quella parola, e verrà giorno in cui le nostre generazioni
ricuseranno di crederla. Ma in oggi, a chi non prepone all'utile
della patria una illusione di meschino amor proprio, giova farla
suonare alto, sì che l'Italia arrossisca d'averla intesa e sofferta!
Giova ripeterla a snudare la piaga che dannava a morte una
rivoluzione nata sotto bellissimi auspicî; giova dirla, perchè lo
straniero impari a conoscere come furono tradite da pochi capi le
più care speranze d'un popolo condannato finora a starsi errante tra
la infamia dei gabinetti e la codardia de' suoi condottieri! Furono
visti i settecento Modenesi di Zucchi attraversare Bologna disarmati
e dimessi, in sembianza di prigionieri. I cittadini piangevano a
tanta viltà; il ministro della guerra era Armandi, e dava
quest'ordine mentre gli Austriaci avevano già oltrepassato il
confine Bolognese; rotto il non-intervento a Modena, a Reggio, a
Parma, a Ferrara; e tutto quel giorno (20 marzo), non fu dato un
ordine ai cittadini armati raccolti ai quartieri; e fu pubblicato
solamente un manifesto, in cui s'esortavano i cittadini non a
preparare le barricate, ma a starsene tranquilli nelle proprie case;
e s'affermava la guardia nazionale essere istituita a mantenere non
la indipendenza della nazione, ma il buon ordine, e non altro; e fu
sussurrato ai padri, ai capi di famiglia o di negozio, ai giovani
stessi di non abbandonar la città per raccogliersi in Ancona; e chi
facea queste cose, prometteva sarebbe stato l'ultimo a partirsi, poi
si partiva primo, la sera, e secretamente! - Nè gli estremi pericoli
sono scusa a siffatto procedere, però che nessun pericolo scusa
dalla viltà, nè d'altra parte quelle codardie furono generate dalle
incertezze degli ultimi momenti d'una rivoluzione caduta, ma furono
effetto d'un sistema; del sistema che noi combattiamo; del sistema
che parve adottato a infiacchire e sperdere la potenza d'ogni
elemento rivoluzionario. - Nove dì prima di quel giorno, invasa
Ferrara dagli Austriaci, e sostituita al Comitato Governativo una
reggenza a nome del Papa per opera di Flaminio Baratelli,
infamissimo tra gli uomini, usciva un bando del Governo Provvisorio
bolognese, che parrebbe dettato dall'Austria, se le firme non
fossero, a difendere e giustificare quella infrazione al patto del
non-intervento; a coonestare per via di sofismi e d'arguzie forensi
quell'atto di guerra aperta; a frenare l'impeto dei cittadini, che
correvano all'armi, colle allegazioni del trattato di Vienna, colle
esortazioni alla inerzia, colle promesse di pace(73). E Ferrara
aveva sette deputati a Bologna, e la unione e la libertà s'erano
decretate solennemente! - Or credevano essi gli uomini del governo
alle proprie parole o fingevano? Certo i posteri male potranno
discernere se in quelli atti predominasse la viltà, o la ignoranza.
- E nei primi giorni della insurrezione, quando urgeva dilatare
l'incendio per ogni dove, e fomentare lo slancio, le prime voci che
gli uomini influenti predicavano ai giovani armati erano voci di
moderazione; e il primo giuramento che fu fatto prestare in pubblica
piazza fu quello di: SIATE MODERATI; come se vi fosse moderazione
possibile prima della vittoria; come se vi fosse altro giuramento in
rivoluzione da quello in fuori d'essere, e farsi forti!
Con siffatti modi si voleva animare la gioventù! Con siffatti modi
si pretendeva giovare alla rivoluzione italiana nascente!
Ed oggi v'è chi assume la difesa di quei ciechi decreti! V'è chi
dimanda quasi schernendo PERCHÈ, se la gioventù fremeva avversa a
siffatte cose, non si levò nello sdegno a ricacciar nella polvere i
pochi che ne tradivano il voto!
Perchè?
Oh! io la so, io la so quella storia di sensazioni amarissime per le
quali il giovine del secolo XIX trapassò sì veloce dall'entusiasmo
alla indifferenza, dai conforti della speranza alle angoscie della
delusione, dal grido di guerra al destino, alla fredda bestemmia del
disperato! - Da prima uno slancio indefinibile, senza limiti, un
delirio di gioja, un anelito alla lotta, una fiducia nella vittoria
- e quando la prima voce di libertà si diffonde per le città, quando
il primo stendardo patrio sventola sulle torri, un'adorazione a
quella voce, a quello stendardo, un rinegamento, un oblìo totale di
tutto ciò ch'è individuale, per impalmare le destre, e correre alle
armi! Allora i primi che si mostrano rivestiti d'una missione sono
venerati e seguiti colla stessa fede che meriterebbero dopo averla
compiuta. La gioventù s'annoda, si stringe intorno ad essi, ad
attendere il cenno, le norme per moversi. Poi, quando la lentezza, o
la incapacità incominciano a mostrarsi nell'opere di quei duci,
quando la espressione del voto pubblico esce travisata, indebolita,
o velata, una incertezza di giudicio, una esitazione funesta, una
speranza che gli arcani della profonda politica imperino quelle
mosse timide, e inadequate all'intento. Poi, il sospetto, il freddo
mortale sospetto insorge; la gioventù intende confusamente, che non
v'è il potente alla testa; la gioventù freme ma tacitamente, però
che il ribellarsi, il tumultuare, il cacciarsi innanzi da sè le
frutterebbe taccia d'ambiziosa, d'irrequieta, d'incontentabile. La
libertà s'affaccia ad essa così pura, così santa, che il grido della
rivolta pare contaminarla. Intanto lo spirito pubblico si deprime;
la diffidenza si stende; le voci di tradimento serpeggiano nelle
moltitudini; i partiti si formano; e il nemico innoltra, profittando
d'ogni cosa. - Poi, quando il momento della crisi è giunto,
l'anatema ai capi s'innalza potente, ma è tardi; il precipizio è
aperto, la rovina è inevitabile. Spento il coraggio, che dà la
vittoria, rimarrebbe ai giovani il sagrifizio. Ma il sagrifizio per
chi? Per nulla? Per quei che hanno minato, distrutto l'opera
generosa? E senza speranza d'esito favorevole? - Allora un freddo
s'apprende al core; allora un senso di stanchezza, di sconforto, di
misantropia, s'insignorisce della facoltà; allora vien la bestemmia,
la sterile, disperata bestemmia. Ecco anime perdute! Maledizione a
chi le ha perdute! Maledizione a chi non seppe trarne cosa alcuna a
pro della umanità!
Io lo chiedo ai giovani italiani. Quanti fra loro non hanno subìto
la progressione di questi pensieri? Quanti fra loro non sentirono un
palpito nell'anima, non balzarono di gioja generosa all'idea del
pericolo? Chi è tra loro che non salutasse colla fede dell'avvenire
il mattino, il fresco mattino, vegliato al sorgere sovra una rupe,
colla bandiera al vento, la vedetta in distanza, un pensiero alla
donna del suo core, e una palla pel primo soldato austriaco? Chi non
ha inebbriato l'anima di questa poesia - poesia d'azione, di vita,
di moto in tutte le facoltà, libera, piena, potente - poesia del
secolo - poesia i cui primi raggi incoronano la zolla che ricopre
l'ossa di Koerner, i secondi strisciarono sul fucile del Klefta e
posano sul sepolcro di Botzaris, i terzi scherzeranno, io lo spero,
intorno al berretto del giovine italiano sui gioghi dell'Apennino? -
Ma come oprare, come tradurre in azione questa poesia dell'anima,
dove tutto è paura, dove si combatte colla diplomazia non coll'armi,
dove ogni pensiero virile è maledetto col nome d'audacia, dove
mancano ordini, norme, esempli, materiali di guerra,
incoraggiamenti; dove finalmente gl'individui che rappresentano quel
voto d'una nazione che aspira a ringiovanirsi lo rinegano al primo
apparire d'una bajonetta nemica?
VI.
Uomini delle rivoluzioni passate! Che volevate voi dunque quando
assumeste l'ufficio di guidare le moltitudini, di dirigere
l'insurrezione a un intento? - Noi torniamo a questa dimanda perchè
è la sola che ponga la questione nel vero aspetto; la sola, che
stabilisca un criterio per giudicare del passato utilmente per
l'avvenire. - Se il voto nazionale, popolare, imponeva una condotta
interamente diversa da quella che voi teneste; se non avete fatto
cosa alcuna per verificare, per condurre ad effetto quel voto - che
volevate voi dunque? Qual era l'intento che v'animava? il simbolo
che dirigeva i vostri atti? la credenza politica che recavate sul
seggio rivoluzionario?
Odo dire da taluni: le cose Italiane vanno trattate con maturità:
nessuno è da più dei proprî destini, e i destini italiani non sono
finora quei della Francia o degli altri popoli Europei che si
costituiscono a nazione. Leggo scritto da un uomo che tenne
nell'ultime vicende un ministero, anima della rivoluzione: la
riunione d'Italia non sarà mai che una brillante utopia (e queste
parole noi le registriamo quaddentro, perchè in esse sta il segreto
delle passate sciagure, e perchè i giovani, che sentono come noi
sentiamo, si rinfiammino a smentirle): dobbiamo adunque limitare i
nostri sforzi al miglioramento delle nostre istituzioni... nei
diversi stati che la compongono. Il solo voto, il cui compimento
possa sperarsi in questo momento, è quello di vedere sparire la
divisione assurda e meschina della parte centrale, e d'ottenere la
riunione di queste frazioni in un solo stato valente a sostenersi da
sè(74). - Così scrive in Parigi, coll'idioma francese, e davanti
all'Europa il ministro della guerra delle provincie insorte nel
1831, perchè l'Europa esclami: con siffatti uomini poteva aver esito
prospero la rivoluzione italiana? - E nè egli, nè quanti giudicano
com'egli giudica, intendono l'Italia, e come tra noi il bisogno di
unità sia oggimai più fortemente sentito che non quello di libertà,
dacchè per esser libera una gente ha necessità d'esistere come
nazione. Ma a lui, e a quanti in criterio politico gli somigliano,
la gioventù italiana insorta nel 1831 ha diritto di dire: «Perchè
avete accettato l'ufficio a che noi vi ponemmo? Perchè con un
pensiero diametralmente opposto a quello di cui noi chiedevamo lo
sviluppo, avete pure assunto la nostra assisa, inframmettendovi alle
cose nostre? Se non avevate energia o concetto rivoluzionario,
dovevate almeno serbare intatta la buona fede. E quando noi vi
fidammo l'incarico di condurre la impresa italiana, perchè non
rivelaste il vostro sospetto? Perchè le parole che oggi scrivete a
giustificarvi anche a spese dell'utile nazionale, non le avete
proferite allora, che potevano fruttare utilmente alla patria? O
avevate allora sagrificata la vostra opinione alla universale,
avevate determinato di tentare le sorti italiane e vedere se mai
quella ch'oggi dite utopia fosse una verità - e perchè opraste
vilmente? Perchè rifiutaste i mezzi che vi s'offrivano? Perchè
chiudeste la via di Roma a quei che il buon senso politico aveva
spinto a quella volta? Perchè vietaste l'organizzazione delle
milizie che il figlio del conte di San-Leu progettava, e ve ne
vantate? Perchè diceste al barone di Stoelting, che non chiedevate
se non pace ed amicizia all'Austria, e ve ne vantate? Perchè
impediste alla gioventù di promovere una rivoluzione nella Toscana,
e ve ne vantate? - O avete falsato il giuramento tacito che
prendeste, assumendovi la direzione del moto; avete sostituito il
concetto proprio al concetto della nazione; avete tradito il mandato
che vi s'era imposto - e allora tacete; non aumentate i vostri
torti, scrivendo; non vi paragonate a Kosciusko, e ricordatevi che
Kosciusko fu trovato sul campo delle patrie battaglie trafitto dalle
palle nemiche!»
Altri furono di buona fede. Amavano la patria, amavano l'unità
italiana, senza la quale non v'è libertà, ma tremarono - e il
tremare in rivoluzione è delitto. Come gli antichi, deificarono la
paura; ma gli antichi rivolgevano la faccia del simulacro al nemico,
essi gli ergevano un altare nel proprio core. Travolta la mente
dalle vecchie norme, non intravvidero salute che nelle diplomazie -
lo dissero almeno. - Senz'attentarsi di fare la più piccola prova
delle forze italiane, disperarono d'esse, e disperano. Furono
incerti, esitanti dai primi passi; non ebbero virtù d'animo forte e
sprezzatore d'ogni pericolo per lanciarsi a corpo morto nella
carriera del sacrificio, nè logica di spirito rivoluzionario per
intendere come l'efficacia d'ogni diplomazia posi sulla forza e
sull'armi. Pregarono e piansero: fu questa diplomazia? Gli Austriaci
invadeano il Modenese - ed essi rinegavano i Modenesi. Gli Austriaci
s'impossessavano di Ferrara - ed essi mandavano bandi a giustificare
gli Austriaci. Gli Austriaci violavano il confine bolognese - ed
essi fuggivano. Era questa diplomazia? Credevano essi che l'Austria
si fermasse alle porte della loro città? Ideavano che una scintilla
di libertà potesse sorgere e mantenersi in qualunque parte d'Italia,
senza che l'Austria accorresse a spegnerla? Insurrezione e guerra
coll'Austriaco sono una cosa per noi, perchè la libertà trapassa
muri e ripari, e l'Austria, consapevole della potenza dell'esempio,
non può nè deve appagarsi della promessa di non estendere la
rivoluzione oltre certi confini. O fidavano nella Francia? Fidavano
sul principio del non-intervento? Nelle parole di Lafayette? - Ma la
Francia non poteva scender nel campo che a guerra incominciata, ed
essi non volevano romperla, non raunavan forze e materiali per
sostenerla un sol giorno - ma il non-intervento (parola infame in
bocca degl'insorti, però che la idea del non-intervento valendo
soltanto tra paesi stranieri, riconosceva, applicata a noi, la
legittimità dei governi, che ci dividono) violato già dalla Francia
nelle cose del Belgio, non poteva allegarsi efficacemente davvero se
non in quanto l'intervento austriaco s'opponesse alla volontà
nazionale; ed essi comprimendo qualunque manifestazione di questa
volontà si tentasse dai nostri, non movendo un passo per dichiararla
coi fatti, ajutavano i sofisti dottrinari a rivocarla in dubbio - ma
Lafayette aveva detto: italiani, meritate la libertà, e la francia
vi assisterà; ed essi a meritarla, decretavano toghe, facevano
editti sul bollo delle carte da gioco, mutavano professori
d'università, col barbaro a venti passi. Era questa diplomazia?
Ma se un uomo fra quei che reggevano fosse sorto e avesse parlato
agl'Italiani queste parole:
«Non fidate nello straniero; la libertà non è veramente ottenuta, se
non la conquistano i cittadini col proprio sangue; nè lo straniero
scenderà a versare il suo sangue sulle vostre campagne, se non
quando paventerà in voi un nemico potente o vedrà in voi un potente
ausiliario. La libertà isterilisce rapidamente quando è commessa a
mani d'esteri. Se volete essere ajutati, mostratevi forti;
cominciate per cancellare la macchia di viltà che v'appongono;
invocate il rispetto de' dritti o la simpatia de' popoli coll'arme
al braccio. La diplomazia s'appoggia sulla minaccia: non v'è
diplomazia per chi fugge: ma uomini e Dei soccorrono al forte. - In
rivoluzione, l'arrestarsi prima d'aver toccato lo scopo, è colpa
gravissima. Proclamate l'intento sociale della rivoluzione;
enunciatelo al popolo; chiamate le moltitudini all'opra.
L'onnipotenza sta nelle moltitudini: convincetele che voi non oprate
se non a migliorare il loro destino; scrivete sulla vostra bandiera:
eguaglianza e libertà da un lato, dall'altro: Dio è con voi; fate
della rivoluzione una religione; una idea generale che affratelli
gli uomini nella coscienza d'un destino comune e il martirio: ecco i
due elementi eterni d'ogni religione. Predicate la prima,
slanciatevi sublimi verso il secondo; cacciate la gioventù alla
testa delle moltitudini insorte: voi non sapete gli arcani di
potenza nascosti in quei cori giovanili; non sapete la influenza
magica che la voce dei giovani esercita sulle turbe: voi troverete
nella gioventù una folla d'apostoli alla nuova religione. Ma la
gioventù vive di moto, ingigantisce nell'entusiasmo e nella fede.
Consecratela coll'altezza d'una missione; rinfiammatela colla
emulazione e colla lode; diffondete ne' suoi ranghi la parola di
foco; la parola dell'ispirazione; parlate ad essi di patria, di
gloria, di potenza, di grandi memorie - poi rovesciate moltitudini e
gioventù sull'Austriaco; bandite la crociata addosso al barbaro che
divora l'oro italiano, che beve il sangue italiano, che profana le
memorie italiane, che sfronda colla sua sciabola i cedri dei nostri
terreni, che contamina l'aure del nostro cielo, che ci toglie vita,
patria, nome, gloria, intelletto e sostanze - e assalite primi. le
rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo.
Insurrezione e guerra sono sinonimi e poichè non potete sfuggirla,
rompetela primi: rompetela in modo che non lasci via di pace o di
tregua; snudate la spada e cacciate via la guaina; ma badate se non
è guerra d'eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra
disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi che
la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e
vilmente! Badate che dove il tamburo non s'accompagni del suono
delle campane a stormo, dove il fatto campale non alterni colla
barricata, cadrete! Badate che dove non calcoliate esattamente le
vostre forze, dove non adottiate un metodo di guerra speciale, dove
presumiate troppo o troppo poco di voi, cadrete! volgetevi ai monti:
là sono le speranze della libertà; là stanno le vostre difese
insuperabili eterne, sol che vogliate; di là scendete, dilagatevi
nelle varie contrade italiane; gittate in mezzo ai vostri fratelli
un brano di bandiera Italiana, un grido di risurrezione: avrete un
eco per ogni dove, perchè dapertutto è dolore, oppressione, anelito
alla libertà santa. - Fate questo; poi, se il secolo vi contrasta il
passo, se la prepotenza degli umani destini v'affoga, allora...
allora libate a giove liberatore e morite. Avrete almeno morendo il
conforto di non aver tradito voi stessi, d'aver lasciato una scuola
che i posteri imiteranno, d'aver versato un sangue che frutterà un
giorno o l'altro - ma inevitabilmente - il vendicatore.»
L'uomo che avesse parlato queste parole, sarebbe stato l'eletto del
popolo; quell'uomo avrebbe mutato forse le sorti italiane.
Perchè chi può calcolare l'influenza d'un fatto generoso, d'una
mossa rapida, d'un esempio virile davvero? Chi può calcolare le
conseguenze d'una incursione nella Toscana? Chi può prevedere i
risultati d'un assalto dato a Massa di Carrara, invocato - e il
Governo Provvisorio modenese lo sa - da inviati della Liguria? -
Forse il Piemonte sorgeva; forse gli Abruzzi tornavano alle prove
antiche; forse, sedotto dalle nuove d'una resistenza ostinata ed
eroica, il popolo francese trascinava i suoi governanti a partito
più leale e più nobile. Ma dove nessuno ordinava la resistenza; dove
il terrore sedeva nel consiglio, accanto ai ministri, sul seggio del
Presidente; dove i governi rivoluzionarî capitolavano prima d'aver
tratto un colpo solo di cannone; quali speranze potevano concepire
le moltitudini e che slancio esigere nell'Italia? Quella
capitolazione fu l'ultimo atto d'una carriera di codardie; pose il
suggello alle colpe. Fu fatta quando la nuova del fatto di Rimini
non era giunta ancora all'orecchio di chi segnava e tutte le forze -
quali pur fossero - erano, nell'opinione del governo, intatte. Fu
fatta, quando i poteri di chi segnava erano nulli, e la somma delle
cose era rimessa nelle mani di tre uomini, atti a reggere l'impresa
senza viltà. Fu fatta dietro un'esposizione incompleta e inesatta
dei generali Armandi e Busi: e i componenti il governo tremavano
della non accettazione e mandavano agli inviati «d'adoperarsi
possibilmente affinchè fossero stipulate le convenzioni di salvezza
che ognuno conosce: lasciando però al loro prudente arbitrio di
adottare quelle deliberazioni che nella somma urgenza delle cose
credessero all'uopo opportune(75)» cioè, a chi ben vede d'arrendersi
a discrezione, ove le condizioni proposte fossero rifiutate.
Importava agli uomini del governo d'arrendersi, non il come. E se a
chi magnifica in oggi la sapienza e il patriottismo di quella
Capitolazione si mostrassero le lettere scritte pochi dì dopo da
taluno ai Cardinali, a implorare dalla sacra Porpora il perdono e
l'oblìo delle colpe asterse (dal Benvenuti) non gli rimarrebbe che
un fremito d'ira per la immensa paura de' pochi preposti. Colpe! Oh
sì! ve ne hanno; ma non v'è amnistia, o bacio di Porpora che possa
astergerle; nè l'Italia dimenticherà facilmente.
VII.
Leviamoci da cotesto fango. Parliamo all'Italia, parliamo alla
gioventù che fremeva e freme e nella quale stanno riposte le più
care speranze italiane. Confortiamo nei pensieri dell'avvenire, e
nella coscienza d'aver parlato utilmente alla patria, l'anima stanca
d'errare tra le rovine d'un passato doloroso, con un ufficio che non
concede di scrivere una sillaba senza gemito. Ora il nostro ufficio
è compiuto. Stendiamo una pagina di dimenticanza tra il passato e
noi. Noi l'avremmo stesa assai prima, se non corresse debito
incancellabile a ogni uomo che ama la patria anzi ogni altra cosa,
di segnare i precipizî ove caddero i primi, perchè non vi rovinino i
secondi; e di esercitare tutta la severità del giudicio sovra gli
uomini che assumono la direzione della cosa pubblica, onde
astringerli a dritto sentiero.
Giovani miei concittadini! Se in voi è proposito deliberato e tenace
di risurrezione, la voce del giovine come voi, che si sente acceso
delle stesse vostre passioni, che v'ama come la speranza del secolo,
che intravvede un avvenire di gloria per voi, che veglia questo
vostro avvenire, quest'aurora della vostra emancipazione,
coll'affetto d'una madre all'infante, che sente balzarsi il core
d'una gioja insolita ogni qual volta intende un bel fatto vostro,
che non vive se non in un concetto vostro tutto, che darebbe la vita
per accrescervi lode, che la darà quando sorgerà il gran momento -
la sua parola nulla per sè, fiacca, debole e impotente ad esprimere
le passioni generose che gli fremono dentro, dovrebbe pure
infiammarvi ad oprare! Non vi avvilite, perchè i primi tentativi
fallirono: nulla è perduto, se il coraggio non è perduto. Ponete una
mano sul cuore: lo sentirete battere di potenza. Siate dunque
potenti. - Vogliate, e farete. Rannodatevi a noi; riconcentratevi
alla bandiera che noi inalziamo: essa è vostra questa bandiera; e se
noi l'inalziamo primi, non è che un beneficio - il solo beneficio -
che ci concede l'esilio. Rannodatevi a noi, finchè il caso ci dà di
bandire l'espressione del concetto, che vi si agita nel petto: poi
quando voi saluterete il momento che vi schiuderà la via delle
azioni, allora sorgete e calpestatela: inalzatene una più bella e
più vasta e calpestate la nostra - calpestatela, perchè avete un
grado di progresso a salire; perchè noi non siamo tristi, ma voi
avete ad essere migliori; perchè infine ne abbiam bisogno a smentire
le accuse che forse ci movono, a provare che noi non aspiravamo a
cosa alcuna individuale. - Ora i nostri ammaestramenti possono
esservi utili: l'unità di principî e di direzione può esservi
necessaria. Allora, l'unità sarà ben altrimenti potente: allora
dovrete farla sorgere voi. Guarderete d'intorno a voi e nei nostri
ranghi: gli eletti di Dio alla rigenerazione vi si riveleranno
nell'attrito delle circostanze e dei casi. Dove scorgerete religione
di pochi ma fecondi principî - esattezza di conseguenze logicamente
dedotte e intrepidamente applicate - potenza di sagrificio
illimitato - intelletto ed entusiasmo - e tanta solennità di
manifestazione di opinioni da non poter retrocedere senza infamia e
rovina totale, là sceglierete. Là stanno i vostri capi: là nella
scelta accurata, sta la salute dell'Italia e la vostra.
ARTICOLO SECONDO.
Qu'il n'ait qu'un seul amour, l'amour du peuple; qu'un source de
poésie, la souffrance du peuple; qu'une ambition, la délivrance du
peuple!
Que tout privilège excite sa haine comme un vice. Que la vue de
toute misère et de toute dégradation le trouble comme un remords.
Que pendant son sommeil, ces seuls mots soient murmurés par ses
lèvres: l'avenir du peuple! Et que pendant le jour ces mêmes mots ne
puissent être prononcés devant lui sans que sa poitrine frissonne,
et que des larmes brulantes étincellent à ses regards.
Edouard Charton.
Il popolo! il popolo
Antico grido italiano.
I.
Dalla meditazione severa sulle vicende dei quaranta anni trascorsi e
sulle cagioni per le quali molti dei tentativi operati con animo
generoso a pro della emancipazione de' popoli tornarono in nulla,
emerge parmi, un fatto singolarissimo che giova anzi ogni altra cosa
distruggere, perchè frappone un ostacolo grave ai disegni degli
uomini liberi, ed è questo: che i più fra quanti combattono la
tirannide politica, intellettuale e civile o non hanno o non
manifestano un simbolo intero, una credenza coordinata. Distruggere,
rovesciare il vecchio edifizio sociale; sperdere le reliquie del
feudalismo; rompere i ceppi agli uomini d'una nazione - in questo
concordano. Più oltre s'arrestano incerti, come se a quel termine
avesse fine la loro missione. Procedono animosi com'Attila,
nell'opera devastatrice: com'egli, davanti a Roma, s'arretrano
paurosi davanti a ciò che dev'essere intento all'impresa, davanti
alla parola che deve ridurre a formola le loro dottrine, a
definizione i loro progetti. Non parlano di fondare, o se lo fanno,
è linguaggio timido, misterioso, indeterminato per siffatto modo che
varrebbe meglio tacersi. Scrivono libertà sulla loro bandiera.
Libertà di che sorta? Come ordinata? Da quali principî dedotta? - I
senatori Veneti facevano suonare alto quel nome; ma la loro libertà
si stava confinata tra: a palace and a prison(76), tra i piombi e la
bocca del leone. - I Genovesi l'aveano scritta sulle loro prigioni;
e v'è tal contrada in Europa che ricorda in oggi la prigione dei
Genovesi. - Bentinek l'affacciava agli Italiani del 1814 sullo
stendardo Britannico, e gli Italiani sanno come il congresso di
Vienna interpretasse quella parola. Non v'è usurpatore, tiranno o
invasore straniero che non abbia cacciato innanzi a sè quel vocabolo
a spianarsi la via del trono o della rapina. - È dunque necessario
determinarne il senso e le applicazioni; e nol fanno. Paventano le
divisioni, come se un dì o l'altro, compita l'opera di distruzione,
queste non dovessero insorgere, e più tremende perchè non calcolate.
Paventano l'accusa di dittatura, come se tra l'esprimere un'opinione
e imporla colla forza non corresse un divario infinito. Paventano
d'errare come se l'errare fosse delitto, come se non rimanesse
sempre aperta una via d'ammenda all'errore, morendo in un angolo
della patria per la volontà nazionale manifestata.
Noi non paventiamo l'accusa di fautori di divisioni, però che il
nostro franco discorso può, come sovente dicemmo, chiarirle, ma non
crearle, e d'altra parte, se noi a proporre un simbolo del futuro,
vogliamo attendere che tutti consentano, meglio è ristarsi; dacchè i
buoni ad affratellarsi con noi hanno bisogno di conoscerci quali
siamo, i tristi non consentiranno mai; nè d'essi curiamo. - Non
paventiamo d'errare, perchè, o il popolo sarà con noi, e la verità
sta col popolo, o i nostri principj verranno respinti dal voto dei
più, e noi curveremo riverenti la testa davanti alla maestà del voto
nazionale. - All'accusa d'ambizione noi sdegneremmo rispondere. E
però noi diremo il nostro simbolo liberamente, come liberamente lo
concepimmo. Cercare la verità con animo spassionato e tranquillo;
bandirla con entusiasmo e fiducia; e morire per essa, quando il
sagrificio frutti utilmente: questo è il debito del cittadino alla
patria, e non altro. Questo faremo. Apriamo un campo e vi
convochiamo i nostri fratelli. Spieghiamo primi la nostra bandiera,
però ch'essa è pura, incontaminata. Ognuno sollevi lealmente e
generosamente la sua. - L'Italia darà giudicio, e al giudicio
italiano nessuno vorrà o potrà ribellarsi.
Nelle circostanze presenti, la missione dell'uomo è doppia:
abbattere uno stendardo e inalzarne un altro; spegnere un errore e
rivelare una verità; struggere ed edificare. Chi dimezza l'opera,
non intende la chiamata del secolo. Noi siamo in sul finire
d'un'epoca critica, e sul cominciare d'una organica; al tramonto
d'un ordinamento sociale, all'alba d'un altro, e dobbiamo
rifletterne i primi raggi. Stiamo fra il passato e l'avvenire e a
voler promuovere lo sviluppo della civiltà, ci conviene dalle rovine
del primo cacciare le prime linee del secondo. Ci corre debito
inviolabile, sciogliendo i ceppi all'umanità e restituendola al
moto, illuminarle la via, e farle almeno intravvedere un intento
politico al viaggio. Ci corre debito inviolabile, emancipando una
razza, condurla almeno, come Mosè, in faccia alle terre promesse -
quand'anche come Mosè, noi dovessimo salutarla da lungi e morire. -
Quella smania di struggere senza fondare, quel grido di morte
lanciato al presente senza una voce che annunzi la vita
dell'avvenire, quella incostanza di dottrine e di norme, che bene
spesso ha meritato ai tentativi dei liberi la taccia di preparatori
dell'anarchia, è contrassegno profondo ancora del secolo - secolo di
transizione, di lotta, di guerra fra gli elementi che costituiscono
la società. Nelle lettere, nella filosofia, nell'altre discipline,
lontane dalla politica, ma che pure sono raggi dello stesso foco,
espressioni varie d'un solo pensiero, noi vediamo riprodursi la
stessa tendenza, o meglio la stessa assenza di tendenza distinta,
quindi di concentramento agli sforzi individualmente tentati. - Il
romanticismo in letteratura, lo scetticismo in filosofia hanno
eretta una bandiera nera, senza nome, senza motto, senza carattere
determinato che possa farne bandiera di moltitudine. Il primo ha
rotto le porte della religione che i trattatisti, i professori, le
accademie, e i pedanti avevano imposta agli ingegni, e schiudendo
uno spazio infinito all'intelletto inceppato da secoli, ha gridato:
sei libero, va come vuoi e fin dove puoi; - ed oggi, che
l'intelletto lanciato a corsa sfrenata, s'è perduto nel misticismo o
s'è cacciato nelle rovine de' bassi tempi, esclamano: l'intelletto
ha bisogno di trattatisti, e accademie. - L'altro, sfrondando a un
tempo superstizioni e credenze, confondendo le forme mutabili delle
cose colla sostanza, struggendo - o tentandolo almeno - simbolo e
idea, ha snudato i vizî delle credenze, e creduto abolirle; ha
rovinato l'altare senza por mente al pensiero che fece di
quell'altare un sacrario all'umanità: ha creato il vuoto intorno
all'uomo, stimando costituirlo libero; poi, quando s'è avveduto che
l'uomo brancolava in quel vuoto, e cercando un appoggio, e non
trovandolo, ricadeva alle antiche credenze o a peggiori, lo
scetticismo ha sorriso, crollando la testa ed esclamando: l'uomo è
un ente debole; non v'è progresso, ma una vicenda eterna di
generazioni progressive e di retrograde.
Il progresso esiste, esisteva esisterà, perchè è legge di Dio - nè
tirannide civile o sacerdotale può romperla. La vicenda eterna è
interpretazione meschina alla gran pagina della storia del mondo
data da chi sostituisce nei suoi giudizî, la propria vita, la
propria epoca, la propria nazione alla umanità: tronca il nodo, non
lo discioglie. L'uomo individuo è debole: l'uomo collettivo è
onnipotente sulla terra ch'ei calca, e l'Associazione moltiplica le
sue forze a termine indefinito. Bensì la libertà è altra cosa che
una protesta o una negazione contro ciò ch'esiste. La libertà è un
ordinamento della facoltà umana all'intento voluto dalla natura; la
libertà è una rivelazione di verità alle moltitudini; la libertà è
il trionfo d'un principio passato dalle dottrine dei saggi
all'approvazione, alla sanzione di tutti; nè senza un principio che
vivifichi le forze motrici della società, senza una unità potente
che le colleghi, le coordini e le concentri tutte a un sol fine, le
rivoluzioni, ossia le conquiste d'un grado di sviluppo e di
perfezionamento, riusciranno durevoli mai. - Ora, non è certamente
nello scetticismo o nel materialismo del secolo XVIII, teorica
fredda, negativa ed essenzialmente individuale, che noi rinverremo
questa unità. Non si fonda, negando; e noi dal core, dagli studî
storici, dalla osservazione dell'umana natura, dall'andamento delle
società, abbiamo desunto, che siamo al limitare d'un'epoca, cioè al
tempo in cui la crisi morale spinta agli ultimi termini annuncia una
operazione radicale da compiersi nella società, la scoperta d'una
nuova relazione fra gli esseri che la compongono, la rivelazione
d'una legge organica: - che il carattere di differenza tra l'epoca
della quale noi siamo le prime scolte, e l'epoca ora consunta, è che
questa nuova dev'essere altamente sociale, laddove l'antica era
individuale; l'opera dei grandi popoli laddove quella era dei grandi
uomini, l'epoca d'ordinamento ai materiali e non altro: - che
l'epoca dovendo somministrare un grado di sviluppo maggiore
all'associazione civile, è necessaria l'esistenza e l'ammessione
d'un principio, nella cui fede gli uomini possano riconoscersi,
affratellarsi, associarsi: - che questo principio dovendo porsi a
base della riforma sociale, dev'essere necessariamente ridotto ad
assioma: e dimostrato una volta, sottrarsi all'incertezza e
all'esame individuale che potrebbe, rivocandolo in dubbio ad ogni
ora distruggere ogni stabilità di riforme: - che a rimanere
inconcusso, è d'uopo rivesta aspetto di verità d'un ordine
superiore, indistruttibile indipendente dai fatti, e immedesimato
col sistema morale dell'universo: - che, da esso in fuori, tutto è
mutabile e progressivo, perchè tutto è applicazione di questo
principio; e il tempo svolgendo via via nuove relazioni tra gli
esseri, amplia la sfera delle applicazioni: - e finalmente che
questo principio, avendo a stabilire un vincolo d'associazione tra
gli uomini, deve costituire per tutti un'eguaglianza di natura, di
missione, d'intento. Altri vedrà qual sia questo principio ridotto
ad espressione astratta nelle regioni filosofiche. Noi per ora,
rintracciamone l'applicazione politica.
II.
Il popolo - ecco il nostro principio; il principio sul quale deve
poggiare tutto l'edificio politico; il popolo; grande unità che
abbraccia ogni cosa, complesso di tutti i diritti di tutte le
potenze, di tutte le volontà; arbitro, centro, legge viva del mondo.
Il popolo! il popolo! - E quando noi ci stringemmo alla sua
bandiera, e dicemmo, fin dalle prime linee del nostro giornale: le
rivoluzioni hanno da farsi dal popolo e pel popolo, non era
affettazione di calcolo politico, o detto gittato a caso: era la
nostra parola, tutta la nostra dottrina ridotta a formola, tutta la
nostra scienza, tutta la nostra religione stretta in un solo
principio: era l'affetto delle nostre anime, il segreto dei nostri
pensieri e della nostra costanza, l'intento delle nostre veglie, il
sogno delle nostre notti; perché noi siamo popolo, e la natura ci
temprava a sentire tutte le gioje e i dolori del popolo. E quando
noi guardiamo il popolo, com'è in oggi, passarci davanti nella
divisa della miseria e dell'ilotismo politico, lacero, affamato,
stentando a raccogliere dal sudore della sua fronte un pane che la
opulenza gli getta innanzi insultandolo; o ravvolgersi immemore nei
tumulti e nell'ebbrezza d'una gioja stupida, rissosa, feroce, e
pensiamo: là su quei volti abbrutiti, sta pure la impronta di Dio,
il segno d'una stessa missione - quando, alzandoci dalla realtà al
concetto che vede il futuro, intravvediamo il popolo levarsi
sublime, affratellato in una sola fede, in un solo patto
d'eguaglianza e di amore, in un solo concetto di sviluppo
progressivo, grande, forte, potente, bello di virtù patrie, non
guasto dal lusso, non eccitato dalla miseria, solenne per la
coscienza dei propri diritti e dei proprî doveri - il popolo della
lega Lombarda, della Svizzera ai tempi di Tell, della federazione
del 14 luglio, delle tre giornate - noi sentiamo battere il core
d'un palpito che geme sul presente e superbisce sull'avvenire, e
compiangiamo quegli uomini che avendo un popolo a ricreare, traviano
dietro a un principe a una famiglia, a una classe sola. Quelli
uomini ignorano il loro secolo, le rivoluzioni e il segreto che le
perpetua. L'epoca degli individui s'è consumata con Napoleone. Dopo
Napoleone e Lafayette non v'è regno di nomi possibile; forse
Lafayette s'è inoltrato troppo nel secolo, per avere sul suo
sepolcro la corona popolare com'ei l'ebbe vivendo. Oggi il culto s'è
trasportato dagli uomini ai principî e i principî soli hanno potenza
per sommovere le nazioni. Ai nomi il popolo è muto, nè una
rivoluzione può sottrarsi al popolo senza fallire all'intento. Dove
tutti gli elementi politici che stanno in una nazione non son
calcolati e rappresentati in un mutamento, il tentativo morrà tra le
mani(77) di chi cerca compierlo; ed oggi l'elemento popolare è
comparso; il popolo ha inalzato la sua bandiera.
La sua bandiera è inalzata.
Un tempo, il popolo non vivea d'una vita propria, ma dell'altrui.
Era elemento di civiltà, quindi di rivoluzione, ma come stromento
che aspettava chi l'adoperasse; materia nella quale il genio spirava
l'anima sua. Spento il genio ricadea nell'inerzia. Le moltitudini
conculcate fremevano talora d'un fremito, che annunziava il bisogno
di un miglioramento; ma quel fremito si consumava nell'impotenza dei
moti isolati e non governati dalla mente che crea la vittoria.
Bensì, perchè la legge del progresso insisteva, sorgeva a tempo
l'iniziatore: sorgeva un nome, Gracco, Mario, Spartaco, o altri - e
il popolo si stringeva a quel nome, si cacciava sull'orme di quel
rivelatore d'un dolore, d'un bisogno sociale; ma non durava attivo
oltre l'interprete del suo pensiero e il pugnale patrizio uccideva
Gracco e le pretese del popolo a un tempo: nè da quei rivolgimenti
usciva forse vantaggio da uno in fuori, che il popolo s'esercitava
all'azione. Mancava al popolo la coscienza de' suoi diritti. Il
paganesimo, religione che affogava l'idea nel simbolo, riducendo
ogni cosa al fisico, materializzava in certo modo anche l'io umano,
confinandolo nel sentimento unico della patria: il suolo creava
diritti e doveri: diritti e doveri di cittadino, non d'uomo, spirito
d'indipendenza e d'onore, non di libertà, e di perfezionamento
morale. Perchè la religione di patria è santissima, ma dove il
sentimento della dignità individuale e la coscienza di diritti
inerenti alla natura d'uomo non la governino, dove il cittadino non
si convinca ch'egli deve dar lustro alla patria, non ritrarlo da
essa - è religione che può far la patria potente non felice; bella
di gloria davanti allo straniero, non libera. E però il popolo
romano non progrediva con Roma: era venerato da lungi, e servo del
patriziato, o dei tiranni al di dentro, e più negli ultimi tempi che
non nei primi - più dopo, poi che una parola di rivelatore ebbe
mormorato agli uomini: siete fratelli! e una religione spirituale
manifestò all'uomo una parte di sè diversa, indipendente, indomabile
dalla materia e dalla forza. Distrutta in principio la ineguaglianza
delle caste, abolita la servitù, il primo passo verso l'associazione
fu dato, la prima coscienza de' suoi diritti svelata al popolo - e
allora dopo un lungo soggiorno nel cielo, quasi a far riconoscere i
suoi diritti da Dio, il pensiero del popolo scese in cerca d'uno
sviluppo nella società e la lotta incominciò. Allora l'altare fu
santo, perchè il popolo conculcato vi ricercava un rifugio e una
forza; il papato fu santo perché s'appoggiava al popolo,
proteggendolo dall'aristocrazia signorile; perchè somministrava al
popolo una potenza morale contro la potenza materiale della
conquista e del feudalismo; perchè costituiva il centro visibile
d'una associazione universale e il popolo contemplava con gioja il
servo cinto della tiara, calcare col piede la testa d'un imperatore.
Poi, quando il papato, compita la sua missione e rinnegata la
propria origine, fornicò coi tiranni, il popolo fu ghibellino, cercò
gli antipapi, plaudì ai tentativi delle riforme. In tutta
quell'epoca che si stende dalla parola di Cristo alla grande riforma
nella quale ruppe l'antica unità, e alla rivoluzione francese nella
quale creò la propria, il popolo visse d'una vita composta della sua
e dell'altrui - ma visse. Troppo debole ancora per inoltrarsi da sè
s'appoggiò ora ad una, ora ad un'altra forza speciale. Si strinse in
Francia alla monarchia per distruggere l'elemento aristocratico
ch'esso aveva già combattuto all'ombra delle abbazie e della stola
sacerdotale. Si raccolse intorno ai baroni nell'Inghilterra, dove
l'elemento signorile feudale preponderava, per restringere il
principio monarchico. S'ordinò a comune in Italia; guerreggiò nelle
Spagne sotto la bandiera degli Stati; si valse del commercio a
costituirsi in associazione di città libere nella Germania. Sorse,
giacque, risorse; ma sempre conquistandosi qualche frazione
d'esistenza politica, sempre invadendo ad una ad una le molle
sociali, sempre ampliando la propria sfera d'azione e minando la
potenza di casta, sia lanciando una minaccia di distruzione colla
jacquerie, e l'altre insurrezioni delle campagne, sia transigendo
col potere a fortificarsi d'una carta, d'un diploma di borghese,
d'un privilegio d'elezione nelle città. La storia dello sviluppo
progressivo dell'elemento popolare attraverso diciotto secoli di
vicende e di guerre, manca tuttavia e chi la imprendesse farebbe
salire d'un altro grado la umanità, riducendo alla espressione più
semplice l'enigma europeo e rivelando il segreto della lotta che
tenne fino ad oggi divise le generazioni, e le terrà finchè gli
uomini della libertà s'ostineranno a traviare, per sistemi di
transazione e per conciliazioni impossibili dalla vera linea
politica. La guerra tra gl'individui e l'universale tra il sistema
frazionario e l'unitario, tra il privilegio ed il popolo, ecco
l'anima di tutte le rivoluzioni, la formola della storia di diciotto
secoli. Dominio e servaggio, patriziato e plebeismo, aristocrazia e
popolo, feudalismo e cattolicismo nei primi tempi della Chiesa,
cattolicismo e protestantismo negli ultimi, dispotismo e
liberalismo, torna tutt'uno. Sono aspetti diversi della grande
contesa, espressioni variate dei due principî che si contendono
ancora il dominio dell'universo: popolo e privilegio. Ma il
privilegio è agli ultimi aneliti nell'Europa; il popolo ha seguito
sempre il suo movimento ascendente, finchè trovato un simbolo nella
Convenzione, si posò eretto davanti al suo Creatore, e
riconoscendone solennemente l'esistenza, ne(78) derivò come Mosè, la
tavola de' suoi diritti e della sua legge e ridusse l'universo a due
termini: Dio e il popolo.
Dio - e il popolo; ecco il programma dell'avvenire.
Dio - e il popolo; questo è pure il nostro, e lo sosterremo con
quanto ardore un convincimento radicato può dare.
È tempo di scendere nelle viscere della questione sociale. È tempo
di predicare agli uomini che tentano la libertà della patria, che i
loro sforzi hanno non solamente ad essere rivolti all'utile del
popolo - in questo tutti concordano, - ma che devono proclamarlo
altamente e dirigersi francamente all'intento; che il tempo delle
paure è passato; che il popolo è sorto, e che senz'esso non avranno
vittoria. È tempo di dire e ripetere a tutti: in Lione, in Parigi,
in Bristol, in Londra, il popolo ha parlato; di mezzo alle
barricate, e tra gl'incendî il suo grido v'ha rivelato la sua
potenza a fare e distruggere: non dimenticate quel grido. Se non
avete anima per affratellarvi alle moltitudini, nè intelletto per
indovinarne il segreto, nè scienza per adoprarle utilmente; se non
vi sentite potenti ad eccitarle e a dirigerle, ritraetevi; quando le
sorti saranno mature per una rivoluzione, sorgerà il popolo e la
compierà. Ma se vi sentite ispirati alla santa missione; se volete
iniziarlo a un grado di progresso; se sperate diminuire la somma de'
guai che accompagnano una rivoluzione, e trarlo all'intento senza
gravi perturbazioni, senza spogliazioni, senza inutili carnificine,
non dimenticate quel grido; non condannate all'inerzia le
moltitudini frementi; non v'illudete ad oprare per esse; non fidate
a una classe sola la grand'opera d'una rigenerazione nazionale. Se
convertite una rivoluzione in guerra di classi, rovinerete; o non
durerete senza violenze inaudite, senza fama d'usurpatori, senza
accuse di novella tirannide. Le moltitudini sole possono sottrarvi
alle necessità del terrore, delle proscrizioni, dell'arbitrario. Le
moltitudini sole possono santificare col loro intervento i vostri
atti; perchè sospetti ed accuse sfumano davanti al loro solenne
consenso. Ma badate a non chiamarle nell'arena, quando, esaurite le
forze, non vi rimane speranza che in esse, perchè allora non avrete
più via di dirigerle; badate che il vostro appello ad esse sia la
chiamata del forte, non il gemito della paura: badate che il vostro
grido percota il loro intelletto, come un richiamo, la loro memoria,
come una promessa d'avvenire infallibile, come una parola d'alta
fiducia in voi, in esse, e nella vittoria. Così vincerete. - In
altro modo non avrete che la tristissima soddisfazione d'aver durato
per alcun tempo una lotta, senza efficacia d'intento - la
maledizione di tutti coloro che sperando nei vostri sforzi vedranno
ricadere le cose a eguali sorti, o peggiori - poi, gli onori del
patibolo, la vergogna della disfatta, e una parola di diffidenza
mormorata dai vostri, sul vostro sepolcro.
Noi italiani, più ch'altri, abbiamo bisogno d'avere le moltitudini
con noi, perchè nessun popolo forse ha più ostacoli da superare - nè
giova il dissimularli. - Abbiamo nemici al di dentro, pochi a dir
vero, ma potenti di ordinamento, d'oro, e d'insidie. Abbiamo un
esercito straniero, padrone di posizioni munite, di città primarie,
di molte delle nostre fortezze, e superbo delle passate vittorie.
Abbiamo le divisioni provinciali, che i molti secoli di sciagura
comune hanno potuto logorare, ma non distruggere. Abbiamo, e questa
è piaga mortale, la mancanza di fede in noi e nelle forze nostre,
sicchè molti tra gl'italiani si stimano impotenti a fare e guardano
oggi ancora allo straniero, come se dallo straniero potessero aver
altro mai che nuove delusioni, nuovi ceppi, e nuovi tormenti.
Abbiamo la inesperienza nell'arti di guerra, la innata diffidenza
dei capi, e il perenne sospetto dei tradimenti, cresciuto in noi
dagli eventi. E non pertanto a tutto questo porremo rimedio, se noi
vorremo davvero. Non v'è ostacolo vero per ventisei milioni d'uomini
che vogliano insorgere e combattere per la patria. I pochi nemici
dell'interno, potenti all'astuzie, ma vili - e abbiamo fatti - al
pericolo, o sfumeranno davanti al nostro primo grido di guerra, o li
conterremo col terrore. Vinceremo lo straniero colla unità del moto,
e con un genere di guerra insolita, forte di tutti i mezzi, diffusa
su tutti i punti, varia, inesauribile, e tale che nè venti disfatte
possono spegnerla, nè stagione od altro può imporle tregua, nè
truppa disciplinata e avvezza alla battaglia campale può sostenerla
gran tempo senza disordinarsi, senza sfiduciarsi, e perire. La
scelta avveduta scemerà la diffidenza nei capi; e quanto ai
tradimenti, è tradito chi vuole. Quando i capi sapranno d'avere la
morte a fianco, e l'infamia alle spalle; quando la viltà sarà punita
come la perfidia; e il libero linguaggio ch'or taluni riprovano,
avrà tolto a' codardi e agl'infami la speranza di divorare il prezzo
del tradimento nel silenzio comune, non tradiranno - o pochissimi.
Ma per questo ci è forza avere le moltitudini; è forza, che il
nostro vessillo sia vessillo di popolo; è forza presentarsi in campo
colla maggiore potenza possibile; perchè abbiamo a compiere grandi
cose, e soli tra i popoli, dalla Germania in fuori, abbiamo a
conquistarci l'unità, l'indipendenza, la libertà. Ora, noi dobbiamo
vincere, e rapidamente. - Prima legge d'ogni rivoluzione è quella di
non creare la necessità d'una seconda rivoluzione.
III.
Ma per avere compagno all'opera le moltitudini, per suscitarle dalla
inerzia che le occupa, quali vie s'affacciano al forte che tenti
l'emancipazione della sua contrada? - Il popolo ha fatto il callo al
suo giogo; il servaggio ha stampato profondo il suo solco sulla
fronte del popolo, e la polvere di cinque secoli posa sulla sua
bandiera. Dov'è la voce così potente che valga a rompere il sonno ai
giacenti da secoli, e dire efficacemente: levatevi? - Dov'è il
soffio che possa sperdere quella polvere, e restituire la vivezza
degli antichi colori al vecchio stendardo del popolo?
Il popolo? - Ah! Se voi non lo aveste chiamato mille volte a
risorgere, e mille deluso; se egli fosse vergine di passato; se una
santa parola non gli fosse troppo sovente suonata parola di
derisione; se la libertà ch'egli vedeva scritta sulle vostre
insegne, ch'egli udiva con ansia d'aspettazione suonare alto da'
vostri seggi, nei vostri consessi, non fosse stata per lui come il
frutto del lago Asfaltide, bei colori al di fuori, cenere dentro; se
quando egli fidava salire d'un grado nella scala sociale, non avesse
trovato una nuova aristocrazia al luogo della rovesciata, il
privilegio dell'oro sottentrato a quello del sangue; se, quando egli
sperava migliorare di condizione e togliersi di dosso i cenci della
miseria, egli non avesse trovato i nomi soli mutati, non già le
cose; s'egli non vi avesse udito teorici di pretesa, legislatori
meschini, contendere d'una interpretazione di legge, d'una formalità
politica, mentr'egli, il popolo, chiedeva pane e un diritto di
rappresentanza; se finalmente egli avesse trovato in voi una
scintilla dei grandi riformatori, la virtù del martirio per la fede
che annunciavate, io vi direi: chiamatelo! Mormorate alle
generazioni la parola di libertà, la parola dell'avvenire; e le
generazioni verranno alla vostra chiamata; e voi vedrete il popolo
levarsi, rompere il sonno e le abitudini della inerzia, scuotere i
cinque secoli di servaggio come il lione la sua criniera, e
innoltrarsi gigante: però che il popolo, come il Nettuno Omerico, ha
potenza per correre in tre passi la carriera rivoluzionaria; e i
popoli si rinnovano alla parola di libertà, come gl'individui
all'amore. Io vi direi: nessun popolo, chiamato a sorgere pei suoi
diritti, ha rifiutato: nessun popolo - tranne forse il Portoghese
oggidì, e la chiamata è di re, nè ispira fiducia. - Ma in oggi,
conviene pur dirlo, la esperienza di tante rivoluzioni che non hanno
fruttato miglioramenti alle moltitudini, ha insegnato al popolo la
diffidenza. E però, dove dieci anni addietro bastava chiamarlo, in
oggi è necessario convincerlo; dove un nome, una idea bastavano a
creargli speranze, in oggi è d'uopo esporgli apertamente l'utile
materiale che deve indurlo all'azione. Questi frutti escivano dai
sistemi praticati dalla fazione dottrinaria francese. Vegliamo
almeno a sottrarre i tentativi futuri italiani alla influenza della
fazione dottrinaria italiana.
Una opinione generata dal desiderio non calcolato di raccogliere
tutti i voti, tutte le sentenze intorno a un sol punto, vorrebbe
levare il grido di Giulio II, gridar guerra al barbaro!..... e tacer
dell'altro. - Nessuno rifiuterà, dicono, di sorgere alla chiamata
contro l'Austriaco. Gli uomini s'affratellano volentieri nell'odio.
Non inalzate bandiera speciale. Lasciate al futuro le questioni
intorno alla forma del reggimento che avremo a scegliere. Non
usurpate i diritti del popolo. Il popolo, liberata la terra patria,
deciderà.
Il consiglio move da gente ch'ama veramente l'Italia, e si
slancerebbe forse tra' primi alla santa crociata. Però, noi lo
esponemmo, e lo combatteremo, rispettandolo.
Dapprima, - e i nostri lettori oggimai lo sanno, ma giova ripeterlo,
- la unione di tutti i pareri, di tutte le opinioni, di tutte le
credenze in un solo intento, sta per noi, come utopia seducente, ma
pericolosa. Se la impresa che noi tentiamo fosse impresa di
distruzione e non altro, la concordia non riescirebbe difficile: ma
l'epoca, la missione di fondazione si concentra così strettamente
alla prima, che noi non possiamo disgiungerle. Le antiche
rivoluzioni fallirono in questo, che ordite a raunare i voti,
comunque discordi, in un solo concetto generale e non abbastanza
determinato, riescono potenti alla prima operazione, inette a
compiere la seconda. I cospiratori raccolsero in un voto di rovina
ogni sorta d'uomini; non interrogarono che volessero, ma soltanto
che non volessero; commisero il resto al tempo. - Insorsero, e
facilmente, però che vincevano in numero; ma il dì dopo, quand'era
più urgente lo stringersi, gl'insorti apparivano divisi in più
campi. - Le forze imponenti a principio, si smembravano in mille
simboli, in mille sistemi d'ordinamento civile; perchè
l'insurrezione avea, struggendo il nemico comune, restituito ad
ognuno la indipendenza; e ogni uomo si sentiva forte a inalzare la
bandiera, che gli studî, le passioni e il calcolo gli suggerivano.
Però riescivano inefficaci a resistere, e cadevano: con quanta
vergogna d'Italia noi possiamo sentirlo nel core, o leggerlo sulla
fronte dello straniero! Ma noi v'abbiamo imparato a non calcolare di
troppo la importanza delle unioni che aggregano elementi eterogenei
per via di programmi insignificanti o d'un breve entusiasmo.
V'abbiamo imparato che non v'è bacio Lamourette pei partiti che
dividono una nazione; e che potenti, possono spegnersi, non
confondersi; deboli, si confondono, ma facendosi, e mostrandosi
forti, - e in politica, quel partito è più forte che rappresenta non
la più alta cifra, ma la più alta e intera concordia di volontà.
Però noi vogliamo non unire, ma unirci; non consumare gli sforzi e
il tempo a conciliare cose di diversa natura, ma stringere a falange
serrata gli uomini che professano le nostre credenze. A questi,
diffusi e isolati fin qui, abbiamo detto e diciamo: giovani o
canuti, forti di braccio o di senno, siate con noi; rannodatevi alla
nostra bandiera. Agli altri: rimanetevi: voi non potete essere con
noi; ma concentratevi, e non ci accusate d'usurpazione: perchè o i
più risponderanno alla nostra chiamata, e il diritto sarà con noi: o
rimarremo minorità, e noi non attireremo sulle teste dei nostri
concittadini la maledizione delle risse civili.
Ma quando avremo cacciato in Italia il grido di: guerra al barbaro;
quando l'altra faccia del nostro stendardo non presenterà una parola
di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale
alle moltitudini, le moltitudini saranno con noi? - Non posiamo le
basi dell'avvenire sopra illusioni. Le nazioni in oggi non si levano
per una bandiera di guerra. Le nazioni non sorgono che per un
principio. Gemono oppresse, immiserite, conculcate dalla tirannide,
e contro alla tirannide si leveranno: ma la tirannide è tremenda,
cittadina o straniera. A noi, potenti d'odio e d'amore, educati
dagli studî, dai monumenti e dalle pagine storiche all'orgoglio
della sventura, può stringere l'anima di più vergogna, e commoverla
del fremito italiano, il sapere che chi ci opprime parla una parola
non nostra, e che la sciabola, suonante oggi sulle tombe dei nostri
padri è sciabola di straniero - ma le moltitudini intendono il grido
di libertà più che quello d'indipendenza. Poi, l'assisa Austriaca
splende abborrita agli occhi dell'Italiano di Lombardia, perchè le
messi, gli uomini, l'oro lombardo trapassano nei granai, negli
eserciti, nelle casse dell'Austria: ma gl'Italiani del Piemonte, del
Genovesato, di Napoli, della Toscana, non sentono direttamente
questo giogo sul collo. Il bastone di Metternich governa i
tirannetti italiani; ma è segreto di gabinetto, e le moltitudini non
s'addentrano nei gabinetti. Il pensiero del popolo erra fremente
sulle piazze delle città, per le vie, nei tugurî, lungo i solchi
delle campagne; non varca, - o di rado - oltre alle frontiere. Il
barbaro per l'uomo del popolo è l'esattore, che gl'impone un tributo
sulla luce ch'egli saluta, sull'aura ch'egli respira; il barbaro è
il doganiere che gl'inceppa il traffico; il barbaro è l'uomo che
viola, insultando, la sua libertà individuale; il barbaro è la spia,
che lo veglia nei luoghi dov'ei tende obliare l'alta miseria che lo
circonda! Là, nelle mille angherie, nelle vessazioni infinite,
nell'insulto perenne d'un insolente potere, d'una esosa
aristocrazia, stanno i guai delle moltitudini: di là avete a trarre
quel grido che può farle sorgere. Gridate all'orecchio del popolo:
la tassa prediale v'assorbe la sesta parte o la quinta dell'entrata
- le gabelle imposte alle polveri, ai tabacchi, allo zucchero, ed
altri generi coloniali, agguagliano la metà del valore - il prezzo
del sale, genere di prima necessità, v'è rincarito di tanto che nè
potete distribuirne al bestiame, nè talora potete usarne pur voi
medesimi - la necessità d'adoprare pei menomi atti, per le menome
contrattazioni, la carta soggetta al bollo v'è sorgente continua di
spesa - i vostri figli sono strappati alle madri, e cacciati nei
ranghi di soldati, che v'appunteranno al petto le bajonette, sol che
il vostro gemito si faccia potente per salire al trono del tiranno
che vi sta sopra; nè v'è speranza per essi di promoversi nelle
patrie battaglie a condizione onorevole. Dite al popolo, per te non
v'è dritto, - non rappresentanza, - non ufficio - non magistrato
speciale - non amore, - non simpatia: v'è pianto, e miseria: v'è
oppressione civile, politica, sacerdotale: v'è tirannide del
principe, scherno dei subalterni, insulto di soldatesca, prepotenza
di privilegio, d'opulenza - perpetuità di servaggio, palco e scure
se t'attenti di romperlo senza vincere! - Poi mormorategli le grandi
memorie de' Vespri, di Masaniello, di Legnano, del 1746: narrategli
le battaglie di Parigi, di Bruxelles, di Varsavia: narrategli le
barricate, le picche, le falci. - Ditegli: sta in te l'imitare
quelli atti; sorgi gigante nella tua potenza: Dio è con te: Dio sta
cogli oppressi! Quando vedrete passare sopra quei volti un pensiero
di vita, quando udrete levarsi, come un vento sul mare, il fremito
popolare - allora - ma allora soltanto, slanciatevi alla sua testa,
stendete la mano alla terra Lombarda: là stanno gli uomini, che
perpetuano il vostro servaggio: stendetela all'Alpi: là stanno i
vostri confini: - e mandate il grido di fuori il Barbaro: guerra
all'Austriaco! - Il popolo vi seguirà.
IV.
E v'è una parola che il popolo intende dovunque, e più in Italia che
altrove, una parola che suona alle moltitudini una definizione dei
loro diritti, una scienza politica intera in compendio, un programma
di libere istituzioni. Il popolo ha fede in essa, perchè egli in
quella parola intravvede un pegno di miglioramento e d'influenza -
perchè il suono stesso della parola parla di lui, perchè egli
rammenta confusamente che s'ebbe mai potenza e prosperità, le
dovette a quella parola scritta sulla bandiera che lo guidava. I
secoli hanno potuto rapirgli la coscienza delle sue forze, il
sentimento de' suoi dritti, tutto; non l'affetto a quella parola,
unica forse che possa trarlo dal fango d'inerzia ov'ei giace per
sollevarlo a prodigi d'azione.
Quella parola è - repubblica. -
Repubblica - ossia cosa pubblica: governo della nazione tenuto dalla
nazione stessa: governo sociale: governo retto dalle leggi, che
siano veramente la espressione della volontà generale.
Repubblica - ossia quel governo, in cui la sovranità della nazione è
principio riconosciuto, predominante ogni atto, centro e sorgente di
tutti i poteri, unità dello stato - in cui tutti gli interessi son
rappresentati secondo la loro potenza numerica - in cui il
privilegio è rinnegato dalla legge e l'unica norma delle pene e de'
premî sta nelle azioni - in cui non esiste una classe, un individuo
che manchi del necessario - in cui le tasse, i tributi, i gravami,
gl'inceppamenti alle arti, all'industria, al commercio son ridotti
al minimo termine possibile; perchè le spese, le esigenze e il
numero dei governanti e dell'amministrazione sono ridotti al maggior
grado possibile d'economia - in cui la tendenza delle istituzioni è
volta principalmente al meglio della classe più numerosa e più
povera - in cui il principio d'associazione è più sviluppato - in
cui una nuova via indefinita è schiusa al progresso colla diffusione
generale dell'insegnamento e colla distruzione d'ogni elemento
stazionario, d'ogni genere di immobilità - in cui finalmente, la
società intera, forte, tranquilla, felice, pacifica e solennemente
concorde, sta sulla terra come in un tempio eretto alla virtù, alla
libertà, alla civiltà progressiva, alle leggi che governano il mondo
morale, sulla cui faccia possa scolpirsi a Dio, il popolo!
V.
Questo nome di repubblica, che noi pronunciamo con tanta franchezza,
è terrore a molti, i quali non s'attenterebbero di proferirlo, se
prima non avessero esaurito tutte l'arti di perifrasi e
circonlocuzioni, che il linguaggio somministra a chi scrive. Perchè?
Nol sappiamo. Si stanno tremanti del nome, non della cosa. Se a
ognuno d'essi s'affacciassero, senza tradurle in un solo vocabolo,
le condizioni di reggimento, che noi abbiamo pur ora accennate,
pochissimi rifiuterebbero consentire: ma s'arretrano paurosi davanti
alle imagini d'un terrore, che accompagnò negli anni addietro non la
repubblica, ma un tentativo di repubblica, una guerra repubblicana -
davanti ai simboli d'un tempo che non è più, che per noi non fu mai,
nè sarà - davanti a rimedî di leggi agrarie, di proscrizioni, di
rapine di proprietà famigliari, d'usurpazioni subìte e di violenze,
che se nell'anarchia delle prime crisi, alcuni affacciarono al
popolo, son oggi provate inefficaci, crudeli ed ingiuste. E a noi,
se il pregiudizio che s'adopera ad annettere a quella parola un
significato non suo, sembrasse non che impossibile a togliersi,
radicato almeno negli animi e diffuso ai più, non s'affaccerebbe un
solo momento l'idea d'insistere su quella parola, di far battaglia
per nomi: e sagrificheremmo alla concordia dei nostri quel grido,
benchè l'anima ci sorrida dentro all'udirlo soltanto, benchè quello
fosse il grido dei nostri padri, benchè quella bandiera ci splenda
innanzi come la bandiera dei secoli avvenire, incoronata d'una
grandezza antica che non morrà, e bella d'un pensiero
d'emancipazione per tutti, d'amore e di fratellanza, che ci è vita,
anima, conforto, religione. Ma quelle false interpretazioni non
pajono potenti e diffuse, se non perchè la paura le esagera e la
insidia de' nostri oppressori le ingigantisce. Guardando alla
Francia, un gran fatto ci balza innanzi, un popolo levato in armi
che, rovinata la tirannide d'un solo, non s'induce ad accettare un
nuovo signore se non veggendo l'uomo stimato simbolo di repubblica,
affratellarsi col nuovo dominatore, se non ascoltando una promessa
solenne, che il trono sarebbe stato circondato d'istituzioni
repubblicane. Or crederemo quella fosse concessione fatta dal popolo
ai pochi trafficatori della sua vittoria, o non piuttosto dagli
uomini della dottrina a un popolo fremente repubblica nel suo
segreto e non bisognoso d'altro che d'una opposizione imprudente e
d'un Mirabeau repubblicano per correre a quella forma di reggimento?
E in Francia son pur vive le immagini del terrore, vivi i figli dei
proscritti del 93, vive le memorie atroci di Lione, d'Arras, di
Nantes - e tutte quelle ferocie tornate in nulla, suggeriscono la
diffidenza nell'efficacia del simbolo, nel cui nome si commettevano
- e da oltre a trent'anni, i nemici delle pubbliche libertà e la
genìa de' giornalisti venduti e i rinnegati - che pur son tanti -
per cupidigia d'imperio, s'adoprano a ingigantire quei fatti al
popolo, a convincerlo che carneficine, usurpazioni e repubblica sono
una cosa; a falsare la verità della storia, che insegna a discernere
gli eccessi dei subalterni dai rimedî dolorosi, ma necessarî,
adottati dalla Convenzione a salvaguardare(79) la indipendenza del
territorio, e liberarsi dalle interne congiure(80), dalle insidie
coperte, che preti e nobili ordivano coll'oro inglese, dagli assalti
dell'emigrazione insistente sulle frontiere, e dagli eserciti
stranieri impossessati di piazze forti, e inoltrati sul suolo di
Francia. - Ma in Italia, dov'è il terrore che abbia accompagnato i
pochi anni di moto repubblicano? Dove sono le stragi o le
devastazioni che abbiano contaminato le idee di reggimento popolare?
Le poche grida che potevano racchiudere la minaccia, isolate e non
seguite da effetto, stanno raccolte e poste in tutta luce, ampliate
a fantasmi nelle pagine di taluni, che hanno prostituito la loro
potenza a calunniare le moltitudini, a fraudare i più santi
concetti, a piangere sulle rovine d'un'aristocrazia, che fondava il
suo potere sulle delazioni, sulla corruttela e sui piombi, e che
giunta l'ora della prova non seppe nè cedere da saggia, nè morire da
forte. Il popolo non sa quelle pagine: il popolo sa che la sua
condizione migliorava progressivamente colle istituzioni
repubblicane: che il suo nome non era allora nome di scherno; che la
sua bandiera era potente e temuta. Il popolo sa che, l'Italia non
conosce proscrizioni se non regali, le antiche di Napoli, le moderne
di Piemonte e di Lombardia, le novissime dell'Italia centrale,
ordinate dal Canosa e dal Duca, e le atrocissime di Cesena e Forlì,
commesse nel nome del Papa, dagli sgherri del Papa, colla
benedizione del Papa. - Noi intanto abbiamo bisogno del popolo - e
il tempo stringe, più forse ch'altri non crede - e al popolo non
basta un grido di distruzione, o una parola indeterminata, però che
i popoli non si fanno nomadi in politica, non mutano governo, come
gli Arabi del deserto mutan di tende. Or, chiamandolo all'armi,
perchè, se abbiamo un grido che gli è famigliare, un grido che
gl'ispira fiducia che lo commove a un'idea di potenza, che gli
dimostra direttamente l'intento del moto, perchè rinnegheremo quel
grido santo che Genova, Firenze, le città Toscane, le città Lombarde
conoscono, che consacra Roma, malgrado le infamie de' Papi, che
Bologna, e le città della Romagna hanno nell'ultima insurrezione
inalzato?
Il popolo, il popolo! - E quando noi cacceremo quel grido - quando
agitandogli sugli occhi il suo vecchio stendardo repubblicano, noi
ci slanceremo alla sua testa, e incontreremo le prime palle
austriache, credete voi che il popolo non affronterà le seconde?
Quando spiegheremo dinanzi a lui, come un programma dell'avvenire,
la dichiarazione dei suoi diritti, la tavola dei vantaggi che le
libere istituzioni gli frutteranno: quando gli diremo i primi, i più
urgenti miglioramenti, e per sicurezza degli altri porremo le nostre
teste, dicendogli: «tu devi esser libero, non tiranno: là è
l'austriaco, l'unico ostacolo allo sviluppo ordinato e progressivo
delle tue facoltà: per te e pe' tuoi figli libera il suolo de' padri
tuoi; nel nome di Dio e della patria, sorgi e sii grande, terribile
nella battaglia, moderato dopo la vittoria:» credete voi che il
popolo contaminerà col delitto la sua solenne risurrezione, che il
sangue fraterno consacrerà all'infamia i primi suoi passi, ch'egli
vorrà far retrocedere, divorandola in germe, la rivoluzione? - Date
al popolo il moto, e abbandonatelo a sè; le suggestioni de' suoi
nemici, le abitudini del servaggio, gli eccitamenti della lunga
miseria lo trarranno in braccio alla prima fazione che vorrà
impadronirsene. Ma siate voi quella: non vi ritraete, non lo
sfiduciate colla freddezza, non rifiutate guidarla per codarde
paure, o vanità di virtù inoperose: mescolatevi con esso, assumetevi
una influenza, una potenza di direzione, che, senza questo, cadrà in
mani perverse: morite con esso, e il popolo vi seguirà come voi
vorrete. Ricordate Parigi, ricordate Lione, ricordate le moltitudini
di Londra poi che il ministero Gray cesse il governo dello stato a
Wellington. Quale eccesso contaminò la sua causa? - Ah! la gemma
della sua corona splende d'una luce più pura che non la vostra,
uomini che chiamaste a insorgere il popolo, per chiamarlo barbaro
tre giorni dopo!
Ma a tutti gli uomini, i quali sospettassero, nel simbolo che noi
predichiamo, prave intenzioni: a tutti gli uomini che ci
attribuissero passioni di sangue o anelito di guerre civili, noi qui
diciamo solennemente, ed ogni sillaba che noi scriviamo giovi a
condannarci nell'avvenire, se i fatti non converranno colle parole:
«noi non siamo feroci: uscimmo da una madre, ed amiamo. Ma non siamo
deboli: vogliamo la libertà della patria; morremo, se farà d'uopo,
per essa e guai ai traditori, e ai fautori aperti della tirannide!
Chi porrà la sua vita nella bilancia, chi commetterà l'anima a Dio
per la patria, avrà diritto di proferire queste parole; avrà diritto
che il suo sagrificio non rimanga sterile, inefficace; avrà diritto
che dal suo sangue germogli un fiore di libertà, che il sorriso
schernitore de' tristi non passi sulle sue ossa, che la speranza
d'una bandiera italiana piantata sulla sua zolla scenda sotterra con
lui. I vili e gl'inerti vadano colla maledizione della loro viltà,
non si commettano ai pericoli, che non sanno reggere: vivono di
paura, e nella paura. - Noi non siamo feroci; ma dovremo sempre
temere d'essere feriti da tergo? Dovremo sempre, per difetto
d'energia e d'antiveggenza, dar lo spettacolo al mondo della nostra
caduta? Ah! v'è un peso di delitti e d'infamie su questo suolo
d'Italia, accumulato dalla tirannide e dalla(81) viltà; v'è un tal
suono di pianto dietro noi, un tal grido di vittime sotterrate per
noi, che s'anche un pensiero di vendetta di sangue ci strisciasse
sull'anima, amara per la perdita d'ogni cosa diletta, e per vedere
il fiore de' giorni giovenili consunto nel tormento d'un'unica idea,
o solcasse la fronte d'uomini, sulla cui testa canuta pesano undici
anni d'esilio di patimenti non meritati, nessuno avrebbe diritto di
rimproverarlo come delitto! Ma noi non siamo nè crudeli, nè tristi.
Non cacceremo le nostre sciagure sulla bilancia: non sommoveremo
alle proscrizioni le moltitudini: non abuseremo del diritto di
reazione: sommetteremo i tradimenti ed i traditori alla giustizia
della nazione, e ci getteremo tra il popolo e le vittime de' suoi
sospetti. Non avremo forse per noi, per tutto il passato, per
compenso alle persecuzioni e all'esilio, l'abbraccio delle nostre
madri, la gioja sublime di contemplare sulle nostre torri la
bandiera italiana, il momento, il momento divino di stringerci alla
donna del nostro core, e dirle: ora tu sei libera, e d'un libero? -
Abborriamo dal sangue fraterno; non vogliamo il terrore eretto a
sistema: non vogliamo sovversioni di diritti legittimamente
acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà
individuali, non usurpazioni di proprietà. Vogliamo un nome, una
esistenza riconosciuta, una via schiusa al progresso, una
rappresentanza, e un miglioramento di condizione per un povero
popolo, che geme da secoli nella miseria. Non cacceremo il guanto
della guerra civile, noi primi: la sosterremo e la spegneremo
virilmente, se una minorità, una frazione di venduti al potere o di
fabbri di superstizioni, s'attenteranno di suscitarla colle insidie
o colle congiure, perchè noi non vogliamo farci persecutori; ma nè
essere delusi, trafficati, scherniti. Questo è il nostro simbolo -
ed è strano dover dichiararlo, quando gridiamo: repubblica. Gli
uomini, che meditano sulla politica, sanno che il terrore non è
elemento inerente a governo alcuno; bensì rare volte necessità per
ogni governo che vuol durare: per l'iniquo Miguele, per Francesco
IV, come per la Convenzione di Francia. Sanno, che le cagioni del 93
nella Francia(82) erano, più che nella volontà di pochi individui,
negli infiniti elementi di discordia interna, nelle insurrezioni
della Vandea e dei dipartimenti, nelle trame segrete degli alleati,
nelle ostilità aperte del patriziato o del sacerdozio: e che queste
ragioni non saranno, dalle trame straniere in fuori, nè potenti, nè
attive in Italia. Sanno che il reggimento repubblicano è il solo
inteso dal popolo, che le moltitudini furono e saranno incerte
davanti ai termini di bilancia politica, equilibrio dei tre poteri,
lotta ordinata d'elementi legali, reggimento misto parlamentare,
ecc., che la forma monarchico-costituzionale è forma transitoria,
consunta - e che la repubblica sola può esistere in Italia, e
conciliarsi colla unità.»
VI.
Perchè - parliamo a quei che non intendono diritti, ma fatti
soltanto - a chi fidare, nella ipotesi monarchico-costituzionale, la
somma dei destini italiani, lo scettro unico, il volume unico delle
costituzioni italiane, però che italiane vogliono essere? Chi
riunirà i voti di ventisei milioni d'uomini, divisi per secoli, per
gare, per ambizioni, per corruttela di favella, per usi, per leggi,
per re? Chi spegnerà il vecchio lievito di spirito provinciale, che
un mezzo secolo di predicazione ha sopito e logorato, ma non tanto
che non appaja talora, e che, risuscitato, non potesse farsi
tremendo? - Un re tra gli attuali? Vergogna e scherno! Qual è fra i
tirannetti italiani, che non abbia col sangue dei sudditi segnato il
patto coll'Austria? Qual è quei, che il passato non separi
violentemente e inesorabilmente dal suo popolo e dall'avvenire? - Un
solo forse poteva assumer l'impresa. Era macchiato d'uno spergiuro;
ma l'Italia s'offriva a dimenticarlo. Fu un punto solo. Nol volle; e
fu meglio per noi! Ma chi è oggi fra i nostri principi che presuma
stender la mano a quella corona, ch'egli non seppe raccogliere? Oh!
la mano gli arderebbe, però che su quella mano, qualunque essa
siasi, sta rappreso sangue d'Italia e di liberi! Chi è che dimostri,
non dirò amore di patria o di libertà, ma ambizione deliberata nelle
vie da scegliersi, ambizione d'uomo che sa - se tra lui e la cosa
voluta sta la morte - affrontarla senza esitare? Ambizioni inette,
meschine; uomini deboli per paura, e stolidamente feroci. Poi, la
questione si riduce a due soli dei nostri principi, perchè, dove non
sono eserciti, chi vorrebbe formare un pensiero di conquista
italiana? Tra quei due, la questione è rapidamente decisa, o meglio,
non v'è questione possibile. Nessuno dei due, al punto in cui siamo,
riescirebbe a mettersi in capo la corona dell'altro, senza guerra
lunga e decisa: nessuno dei due ha diritto d'affetti, di simpatia,
di virtù, d'ingegno o di fama per contendere all'uno i sudditi
dell'altro. Tra lo spergiuro del 1821, e l'assassino di De Marchi,
chi vincerà la questione? - I due eserciti saranno fratelli, non
cederanno all'armi reciproche mai. Accendete la guerra: ecco risse
civili, e stragi, e per anni: odj, offese d'onore, invidie potenti
rinate per secoli: e il pensiero di libertà e di patria sfumato
nell'infame contesa. O sceglierete un re nuovo, e non di dinastia
regnante in Italia? - Cittadino o straniero? - Di razza regale, o
plebeo? - Sceglietelo cittadino. Dopo la difficoltà della scelta
sottentra più forte l'altra della conquista, della occupazione di
tutta Italia: avete guerra civile; e chi dovrebbe sostenerla,
incomincerebbe privo anche dell'ajuto che il primo aspetto della
questione somministrava: uno stato, e un esercito suo. Ma - giova
ripeterlo mille volte - il napoletano non accorrà mai un re
piemontese; e reciprocamente. L'ire di provincia e di municipio non
piegheranno mai che davanti a un principio: riarderanno tremende
ogni qual volta si moverà parola d'un uomo. Il principio è comune a
tutti: il suo trionfo è trionfo di tutti, il consesso che lo
rappresenta è consesso di tutti, nè può suscitar gelosie: ma l'uomo
nasce d'una terra, rivendicato dalla vanità d'una terra, abborrito
dall'orgoglio dell'altra. O saluterete l'eletto della vittoria?
Inalzerete sullo scudo il soldato fortunato? - Fatelo: avrete così
una rivoluzione sociale sfumata in un uomo: avrete un Bonaparte che
vi prometterà libertà, poi avrà bisogno d'una Sant'Elena per
riconoscerla valida e prepotente: avrete un'aristocrazia militare,
una gloria forse a prezzo della prosperità e dei vostri diritti: una
tirannide di pretoriani. Poi, i grandi geni militari non si
manifestano onnipotenti a conciliare i partiti più discordi, in
un'ora, s'allevano fra le battaglie: vincono nelle campagne gli
sproni di cavaliere. Dall'assedio di Tolone all'impero trascorsero
parecchi anni, due campagne in Italia, ed una in Egitto. E intanto?
Vi rimarrete, attendendo il genio, e le circostanze che lo
fecondino? A non cacciare nella nazione un principio che distrugga
le vostre future speranze, soggiornerete sempre(83) nel provvisorio?
- Sceglietevi un principe straniero. Dalla Svezia alla Francia, dal
Brasile all'Africa, i coronati che invocano uno stato sono tanti! -
Oh! è essa sì bassa cosa questa corona d'Italia, che abbiate ad
offrirla all'incanto ai raminghi stranieri, colla certezza di trarvi
in patria gli eserciti e le battaglie, e, peggio, i protocolli dello
straniero - dacchè la Italia non è stato tale, che un germe di casa
regale possa esserne scelto a dominatore, senza concitare l'invidia
e le paure e le gelosie delle corti d'Europa? - Ora, qual è il modo
di conciliare codesti elementi? Di spegnere la tirannide, di non
vendersi a un tiranno soldato, di non ricommovere gli animi alle
stragi civili, di non crearvi nemici potenti in tutti i gabinetti
stranieri? Io vi chiedo: datemi un re ma un re italiano, potente
d'intelletto e di core, grande nell'arti della vittoria e della
giustizia civile, che non mi ponga a fronte del mio fratello -
avanza una federazione di re, e dei re viventi in Italia! avanza il
Papa!! - avanza l'Austriaco!!! - (84).
VII.
Oggimai, a chi guarda all'Europa, i governi
monarchico-costituzionali appajono forma spenta, senza vita, senza
elementi di vita, senz'armonia coll'andamento della civiltà.
Costituivano una forma di transizione tra il servaggio assoluto e la
libertà, un genere di reggimento che somministrava, a tutti quanti
gli elementi che s'agitano nelle società, un campo per esperimentare
le loro forze, esercitarsi a fare, svilupparsi in una guerra
ordinata, sotto tutti gli aspetti possibili, finchè s'intravedesse a
qual d'essi spetta il dominio sugli altri. I governi misti valgono
nella scala del progresso come una educazione politica, una prova
all'intelletto d'un popolo, perch'ei salga maturamente e non di
balzo all'ordinamento sociale, una transazione dell'elemento
popolare debole ancora cogli elementi che lo circondano, ma
provvisoria, a tempo, e non omogenea. L'Inghilterra pose in favore
la teorica costituzionale; e ad essa ragioni di fatto e positive
prescrissero quella forma di reggimento. L'aristocrazia signorile,
risultato della conquista normanna, proprietaria delle terre, ed
accetta alla nazione per la magna Carta strappata a Giovanni, era
elemento predominante. Gran parte della lotta rivoluzionaria si
consumava tra essa, e il potere del re; e poich'ebbe ottenuta
vittoria, il patriziato rimase dominatore. Ma poichè due elementi
non possono in un governo trovarsi a fronte soli senza che l'urto
duri perenne, il re si rimase potere fra i due elementi
aristocratico e popolare, termine intermedio, vincolo d'accordo se
l'uno cozzasse coll'altro. - Seguì la Francia; ma gli uomini nel
secolo XVIII quando posero mano alla grand'opera della rigenerazione
sociale, si diedero, noi lo dicemmo, a distruggere quanto pareva
avverso all'intento. Era la loro missione, ed era così gigantesca,
il terreno era così ingombro di pregiudizî, di superstizioni, di
codici barbari, e d'altro, che una generazione bastava appena a
purgarlo. Ridussero il loro simbolo alla negazione, e trasandarono
la parte organica positiva. E non pertanto urgeva affacciare qualche
forma che potesse sostituirsi alle vecchie: urgeva, più ch'altro,
vincere il presente; e poichè i popoli procedono più facilmente per
termini di comparazione ed opposizione, fu forza trascegliere. I
filosofi, non avendo il tempo di creare un sistema governativo, ne
andarono in traccia nella vecchia Europa, e stimarono averlo trovato
nell'Inghilterra. L'Inghilterra, nella quale l'elemento popolare non
s'era peranco sviluppato, presentava un'apparenza di riposo, di
tranquillità, d'equilibrio che innamorò la scuola filosofica. Il suo
governo fu scelto a modello, in opposizione alla Francia di Luigi
XIV e XV. Montesquieu, così mal giudicato finora, Montesquieu che i
molti s'ostinano a intendere legislatore, mentr'egli non fu che
narratore filosofo di ciò ch'ei vedeva, e degli elementi che gli era
dato scoprire nell'antichità e nei tempi moderni, incominciò ad
accreditar quella forma. Pure, egli tradiva tutto il segreto
dell'esistenza di quel governo, quando deduceva che monarchia non
poteva concepirsi senza le classi privilegiate. Voltaire, genio
d'azione, di distruzione, creato per la guerra, non per
l'ordinamento che segue la vittoria, estremamente superficiale nel
contemplare le cose, ma facile ad appassionarsi, e ingegnoso
abbastanza per puntellare ogni suo paradosso, si diede non a
studiare quella forma, ma a predicarla per ispirito di contrasto,
parendogli singolare di combattere il sistema francese con armi d'un
vecchio nemico; e ingigantì la perfezione di quell'edificio sociale,
come a combattere la religione di Cristo, afferrò Confucio, e intese
a far dei Cinesi un popolo di filosofi. Pure le massime di Voltaire
trascinavano all'eguaglianza. - L'autorità di quei nomi prevalse
intanto e prevale tuttavia in molti a farsi ammiratori fanatici d'un
governo, che il tarlo popolare ha minato per ogni dove.
In oggi, la prova è fatta. La lotta s'è guerreggiata in tutte le
guise possibili. L'Europa ha tentato le forme, quante erano, della
monarchia, senza potersi riposare in alcuna: monarchia assoluta, per
diritto divino, monarchia per diritto di forza, monarchia per
diritto, come dicono, di popolo. Luigi XVI ha conchiusa la prima, e
Carlo X, che volle risuscitare il cadavere, non ebbe la testa mozza
sul palco, perchè i costumi erano fatti più miti e la nazione più
sicura della propria potenza. Napoleone chiuse la seconda, e certo
dopo lui, nessun mortale oserà ritentarla. La terza sta ora
chiudendosi e rapidamente. E se l'ultima prova, e il risultato
morale riescì fatale alla forma monarchico-costituzionale, impotente
a inoltrare o retrocedere in Francia, essa è assalita al core
nell'Inghilterra, dacchè l'elemento popolare s'è mostrato nel dramma
politico.
Napoleone ha riassunto l'epoca, allorquando pronunciò: che l'Europa
nello spazio di quaranta anni sarebbe stata cosacca o repubblicana.
L'Europa sarà repubblicana - Napoleone era la forza, nè poteva
rinunciare a porre un certo equilibrio tra quella e il diritto. Il
mondo per lui era un oggetto di guerra e di conquista per due genî
di natura opposti, come i due principî persiani. Ma ciò ch'egli vide
fu l'impossibilità d'un sistema permanente di transizione, fu che la
guerra tra due principî incominciava disperata, decisiva, finale! O
innanzi - o addietro: la umanità era impaziente d'affacciarsi a
un'epoca positiva ed organica. Questo egli vide, e gli anni avverano
la predizione.
VIII.
Il Popolo! Il Popolo! - Torniamo al nostro grido. È il grido del
secolo: il grido dei milioni, che fremono moto: il grido d'un'epoca
che s'inoltra veloce. Salutate la bandiera del popolo, però ch'egli
è l'eletto di Dio a compiere la sua legge: legge d'amore,
d'associazione, d'eguaglianza, d'emancipazione universale. Spianate
il sentiero al popolo, però che, dove voi nol facciate, egli lo
farà, e volontariamente. Annunciate a tutti la sua manifestazione, i
suoi bisogni, e i suoi diritti, perchè, dove un tale elemento s'è
rivelato, fu tolta all'individuo, qualunque pur siasi, la potenza di
fare contr'esso o senz'esso.
O Italiani, giovani miei fratelli! Se volete imprendere imprese
generose, se avete in anima tentare il risorgimento davvero:
associatevi le moltitudini. Non v'illudete. Siete pochi, e morrete.
È bello il morire per la propria contrada, ma la vostra contrada vi
grida: morite lasciandomi libera, perch'io possa onorare almeno i
vostri cadaveri. Non v'illudete: santificatevi nell'entusiasmo e
nella fede d'una missione, ma badate a non isolarvi nell'entusiasmo:
badate a non pensare che tutto è fatto, quando i giovani, che si
sono ispirati alle sciagure della patria, si sono stretti la mano,
dicendo l'uno all'altro: a domani il banchetto di Leonida. - Siete
pochi all'impresa: tanti da ergere un mucchio di spenti su cui si
levi visibile all'Europa la vostra bandiera dell'Italia
ringiovanita; ma chi la sosterrà quella bandiera, perchè sventoli
per sempre sui vostri sepolcri? - Associatevi le moltitudini. Non
temete il loro silenzio: quel riposo apparente cova un vulcano, che
divorerà colla sua lava il barbaro e i fautori del barbaro. Ma
stringetele colla famigliarità: destate in esse la fiducia: amatele,
e mostratelo. Il tempo stringe - ed io guardo, e non veggo, che voi
operiate abbastanza a meritarvi l'aiuto delle moltitudini nell'ora
della lotta. - Perchè giacete? Io v'ho detta tanta parola di lode e
di conforto, che posso mormorarvi un rimprovero, senza che voi
m'incolpiate di poco amore. Perchè scrivete inezie e canzoni d'amore
invece di rivolgere la letteratura al popolo, all'utile suo? Perchè
non promovete con sacrificî d'ogni genere l'istruzione elementare,
la diffusione dell'insegnamento popolare? Perchè non vi fate voi
nelle vostre campagne maestri di lettura ad alcuni degli uomini di
montagna? Perchè non rappresentate al popolo i suoi fatti antichi
nei quadri, nei libercoletti, negli almanacchi, in tutti i modi che
possono illudere la tirannide? Perchè non viaggiate a portare di
paese in paese e di villaggio in villaggio la croce di foco? -
V'arde il furore di patria che vi ha consecrati a una idea? I vostri
passi siano tra le moltitudini. Salite i monti: assidetevi alla
mensa del coltivatore: visitate l'officine, e quegli artigiani che
voi non curate. Parlate ad essi delle loro franchigie, delle loro
antiche memorie, della gloria, del commercio passato: narrate le
mille oppressioni ch'essi ignorano, perchè nessuno s'assume di
rivelarle. Quei volti che la fame e l'avvilimento hanno sformati,
lampeggeranno d'un lampo italiano: quelle mani negre, abbronzite,
incallite all'aratro e alla vanga, tremeranno forse brancolando
quasi in cerca d'un fucile, d'un'arme - allora dite, o Italiani,
avete voi armi? - Per voi, e per essi? -
Moltitudini, ed armi - Eccovi il segreto delle rivoluzioni future. -
1832.
FRATELLANZA DEI POPOLI
Peuples, formons une sainte-alliance,
Et donnons nous la main.
Béranger.
Quando Iddio cacciò la terra nello spazio infinito, mandò una voce
all'Uomo che l'animava: va! tu sei chiamato ad alti destini: io t'ho
creato a mia imagine; ma tu non mi contemplerai faccia a faccia, se
non quando potrai posarti davanti a me nella pienezza delle tue
facoltà, nell'esercizio libero delle tue potenze ordinate a un
intento sublime. Va! io t'ho steso dinanzi una vasta carriera di
progresso; ma tu non puoi correrla solo: affratellati in un gran
pensiero di sviluppo morale con tutti gli esseri, nei quali troverai
riprodotta la imagine mia. La via t'è seminata d'ostacoli; ma va! la
vittoria è con te, perch'io t'ho dato la potenza d'associazione. -
Nessuno sa i secoli che passarono sulla terra; le pagine del mondo
fisico ne rivelano una lunga serie senza determinarli: ma l'eco di
quella voce non è perduto, e sospinge tuttavia le generazioni sopra
una via, alla quale l'occhio non vede orizzonte determinato, ma che
ogni passo rivela più ampia e più bella.
L'umanità stette come inerte, concentrata, raggruppata in sè, quasi
intenta a studiarsi, a raccogliere le sue forze, a calcolare il
punto d'onde movere con più vantaggio, nel mondo orientale. Fu
gigantesca come le Piramidi: ma come le statue egiziache, aveva i
piedi giunti, e la immobilità per carattere. Poi, si slanciò a
rintracciare una terra che somministrasse materiali più vasti al
pensiero, attitudini maggiori al moto.
Questa terra è l'Europa. L'Europa è la leva del mondo. L'Europa è la
terra della libertà. Ad essa spettano i fati dell'universo, e la
missione di sviluppo progressivo ch'è legge all'umanità.
Quattromila anni scorsero, dacchè il primo raggio di civiltà spuntò
nella Grecia dalle rupi del Caucaso. Era un raggio fioco, incerto, e
tremolava nel bujo. La scintilla involata da Prometeo era così
debole che parea destinata a morire con esso. Ma la razza de'
titani, che pugnarono contro il destino asiatico, si perpetuò. Il
germe europeo educato dagli Elléni si sviluppò ingigantendo. Oggi
ricopre l'Europa: quel raggio è fatto sole d'incivilimento; nè v'è
Giosuè che possa arrestarlo. - Dacchè la umanità fece atto
d'attività in un angolo della Grecia, ogni periodo storico, ogni
secolo rivelò l'azione dei due principî sui quali s'appoggia la
nostra religione.
L'umanità camminò sulla via del Progresso.
Ogni grado di progresso fu conquistato coll'associazione; e,
reciprocamente, nessun grado di progresso fu conquistato che non
aprisse una via, o un vantaggio all'associazione dei popoli.
Oggi le teoriche del progresso indefinito e dell'associazione
Europea, un tempo retaggio dei pochi che il volgo dei dotti
battezzava utopisti, son fatte credenze pressochè popolari in
Francia, dove le delusioni e le colpe non sono tante ancora da
toglierle l'iniziativa dell'incivilimento Europeo. Dacchè Cristo
cacciò una base d'associazione, bandendo agli uomini il principio
dell'eguaglianza, senza la quale non v'è associazione possibile;
dacchè la stampa creò un vincolo universale e concesse a quanti
sentivano dentro la consecrazione a una missione di sviluppo
sociale, di coordinare i loro sforzi individuali, di stampare una
grande unità morale in tutti gli elementi materiali che avevano alle
mani, la tendenza all'associazione, l'anelito alla fratellanza
Europea crebbe evidentemente, e senz'arrestarsi. La rivoluzione
francese l'eresse in legge, in principio politico. Napoleone
l'ajutò, forse senza volerlo, colla conquista, e sacrando col
battesimo di sangue tutte le genti, sulle quali passeggiò colla
spada nella destra, e un codice - qualunque pur fosse - nella
sinistra. I popoli s'affratellarono prima nell'odio, poi nell'amore;
e mentre i principi, piegando davanti alla previsione d'una lega
degli uomini liberi, strinsero un patto d'infamia a contrastarne i
tentativi, i popoli anch'essi strinsero la loro. La parola d'ordine
fu Libertà; e quando Parigi scrisse quelle parole sulla sua
bandiera, levandola in alto sicchè tutta Europa la vedesse, tutta
Europa sentì la necessità di concentrarvisi; tutta Europa fermentò
d'una nuova potenza, e gli uomini liberi intesero a strignersi la
mano, per essere più forti. Le nazioni Europee entrano ad una ad una
nel convegno, come viaggiatori che si raccolgano ad iscrivere il
loro nome. L'Inghilterra, ultima terra del feudalismo, della
ineguaglianza, quindi della tendenza all'individualismo, si commove
tutta a nome di riforma cacciato alle moltitudini; e il primo modo
d'espressione che gl'Inglesi scelsero, fu quello d'inviare con
Bowring il saluto di fratellanza agli insorti di luglio, quasi un
atto d'adesione ai principî, che hanno a reggere dominatori pacifici
dell'universo. Il trono Francia fu sull'orlo della rovina per la
caduta di Varsavia. Dall'Ungheria venne una voce di conforto ai
prodi, che Lelewel aveva inspirati, e che si battevano sotto
Ramorino. Il pellegrinaggio dei bravi Polacchi infiammò gli animi
nella Germania; ed oggi gli uomini di Fichte, gli uomini d'Arndt, di
Jahn, di Körner, ritolgono la pensione al dottor Wirth, per aver
confuso la Francia cogli uomini che governano. Fin le gare e gli odî
tra Portoghesi e Spagnuoli si logorano in faccia a un avvenimento
che può diventare Europeo; e se suonasse la campana a stormo dei
popoli, se una guerra di principî, sola possibile in Europa,
inalzasse le due bandiere al vento, quanti segreti di simpatia noi
non vedremmo manifestarsi, quante moltitudini, ch'ora giacciono mute
ed inerti, covanti il fermento Europeo, non si slancerebbero risorte
a intrecciare le destre, a stendere le picche del cittadino,
sull'altare dell'umanità!
Un giorno, quando noi avremo nome, e patria, e libertà, noi
spiegheremo dinanzi ai nostri fratelli il quadro gigantesco e
sublime del progresso dello spirito d'associazione, e le vicende per
le quali attraverso rovine d'imperi e nazioni, attraverso i mille
ostacoli che le tirannidi e l'individualismo suscitavano ad ogni
tentativo, giovandosi ora delle conquiste, ora delle emigrazioni,
ora del commercio, fuggendo un popolo per trionfare in un altro,
svanendo in un secolo per ricomparire poi più potente, aspirando in
un'epoca all'unità colla spada di Roma, tentandola in un'altra col
pastorale, tramutando insensibilmente lo schiavo in servo, in
vassallo, in borghese, in uomo libero; trasformando la proprietà;
combattendo il feudalismo colla monarchia, il dispotismo
coll'aristocrazia del sangue, colla potenza dell'oro, e l'insolenza
dell'oro colla influenza della capacità; sviluppando più sempre la
natura morale dell'uomo, e diminuendo il dominio della natura
fisica: vincendo le abitudini del clima colle frequenti
comunicazioni, colle vie moltiplicate, coi telegrafi, la Civiltà
progressiva n'è inoltrata a un punto, dal quale nessuna forza
oggimai può farla retrocedere - e la umanità emerge raggiante,
sempre potente di nuovi ajuti, sempre raccogliendo qualche popolo
nel suo cammino, sempre acquistando terreno in Europa, e
incominciando ad invadere l'Asia. Sarà bello, finita la gran
giornata, gittare uno sguardo, come il pellegrino, sulla via
trascorsa. Oggi, noi stiamo sulla breccia, siamo stretti dalle
urgenze dei tempi e degli avvenimenti; abbiamo la lancia in pugno.
Si tratta di combattere, si tratta di vincere, si tratta di decidere
se la civiltà debba arrestarsi in faccia a pochi uomini - se la
fratellanza dei popoli sia una illusione o l'unico mezzo di trionfo
per noi. - 1832.
ITALIA E POLONIA
COMITATO NAZIONALE POLACCO
N.° 498, Parigi, via Taranne, 12.
Il dì 6 ottobre 1832(85).
Figli d'Italia!
Un Genio forte non si stanca mai, e nelle varie vicende sta sempre
intento a risuscitare gli alti pensieri ed a fortificare i nobili
sentimenti. Tale fu il Genio della vostra classica terra da tre
secoli soggiogata. Un lungo infortunio ha creata l'esperienza della
vostra nazione, la quale, principiando una nuova vita, non ha
cessato mai di dare alla patria uomini dotti che preparando per voi
un felice futuro, hanno mostrato al mondo i veri principî della
libertà. Il popolo, dal cui seno uscirono cittadini predicanti
siffatti principî, non è per certo destinato alla schiavitù. Ed
oggi, figli d'Italia, Giovine Italia! la vostra gioventù fervida di
speranza è una viva e brillante imagine del rinascimento vicino
della vostra indipendenza e della vostra libertà.
Un popolo, che sa sentire, ascolta ed intende qualunque altro popolo
è posto in simili circostanze. Per questo, i figli d'Italia
accetteranno con gioja la parola dei figli della Polonia, i quali
giunti in esilio insieme ad essi, si sono incontrati sull'amica
terra di Francia. Qui uniti si ricordano insieme delle speranze
svanite, quando i popoli d'Italia e di Polonia, riposando sull'eroe
di Francia, incontrarono ogni sorte di sacrificî per rilevare la
loro esistenza; e questa fraterna amicizia principiata allora fra i
combattenti sotto gli stessi segni guerrieri, fa in oggi ricordare
la rovina di tutti gli sforzi insieme ultimamente fatti per questo
grande oggetto; fa intendere i suoi pensieri e indovinare
l'avvicinato futuro.
Quei prossimi e preziosi istanti non lasciano assai tempo per
risvegliare que' ricordi, per parlare di quelle strette relazioni
che dai principî del cristianesimo avevano uniti i Polacchi e gli
Ungheresi coi vicini Italiani. Il loro pensiero è tutto occupato di
questo combattimento europeo coll'atroce dispotismo, tanto per la
libertà ed il supremo potere dei popoli, quanto per la libertà e
l'eguaglianza del diritto di ciascuno contro i privilegi e le
usurpazioni di qualche eccezione: combattimento per l'indipendenza e
per l'unione delle oltraggiate nazioni.
Figli della Penisola oltremontana! Non siete stranieri lontani,
quando sul Continente si tratta una causa così importante. Simile è
sempre ed in tutto la situazione dell'Ungheria, della Polonia e
dell'Italia: la loro causa è la stessa; simili dunque e
contemporanei devono per tutti essere i momenti d'operazione. Questa
persuasione bolle nel sangue degli eroici guerrieri d'Italia e di
Polonia, e il cuore dei cittadini delle due nazioni s'infiamma
egualmente per la causa dell'Umanità. Nell'esilio, e
nell'infortunio, le loro mani unite siano un segno dei loro
desiderî, dei loro sacrificî e delle loro sempre concordi
operazioni.
Lelewel.
Valentino Zwierkowski.
Antonio Hluszniewicz.
Rykaczewski.
Antonio Przeciszewski.
Leonardo Chodzko.
V. Pietkiewicz.
GIOVINE ITALIA
Poloni!
La Giovine Italia accoglie con gioja la vostra parola. Voi siete
prodi, o Poloni. Dal giorno in cui l'infamia dei re congregati
smembrò la vostra contrada, voi non avete cessato mai dal combattere
apertamente o celatamente contro i vostri oppressori. Voi avete più
volte, col martirio, protestato solennemente in faccia all'Europa,
che nessuna forza potrebbe spegnere il pensiero d'indipendenza che
vi fremeva nel petto, come nessuna usurpazione poteva cancellare i
vostri diritti di popolo e di nazione. La vostra bandiera,
proscritta sul vostro terreno, pellegrinò, sublime di memorie, per
tutta Europa, ma combattendo e vincendo per l'altrui salute,
mescendovi con altri prodi, il vostro pensiero era sempre alla
Vistola, e il voto che ispirava Dombrowski scaldava i vostri cuori
sulla terra straniera. Avete dato al mondo un esempio unico di
costanza e di fermo volere. E quando nel 1830, sorgeste a salvar la
Francia e l'Europa superaste gli esempî dei padri. Sorgeste quando
tutte le forze dell'Impero erano in marcia verso le vostre
frontiere. Sorgeste soli: combatteste soli. Onta all'Europa che
rimase inerte! Oppressi dal numero, fors'anche dal tradimento,
cadeste; ma l'aquila bianca, non brillò mai d'una luce sì bella come
a quell'eroico cadere, e v'è tal nazione, alla quale sarebbe più
gloria l'esser caduta, come voi cadeste, che non il trascinare una
vita incerta e grave del gemito e della maledizione dei popoli.
Però la vostra parola ci suona nell'esilio come una promessa
d'avvenire, e stringendo la mano che voi ci porgete, noi pure ci
sentiamo più forti.
Ma il diritto d'onore, che il vostro coraggio v'ha dato da molti
secoli, s'è convertito, dal 1830, in diritto di fratellanza.
Ampliando la sfera dei vostri sentimenti, e fecondando il pensiero
patrio col pensiero europeo, mente dell'epoca in cui viviamo, voi
avete imposto un debito di riconoscenza e di lega a chi non avea che
un debito d'ammirazione.
«Se anche, voi diceste all'Europa, in questa lotta della quale noi
non ci dissimuliamo i pericoli, dovessimo combattere soli pel
vantaggio di tutti, pieni di fiducia nella santità della nostra
causa, nel nostro valore e nell'assistenza dell'Eterno, noi
combatteremo fino all'ultimo sospiro per la libertà! E se la
Provvidenza ha condannata questa terra a un servaggio perpetuo, se
in quest'ultima lotta la libertà della Polonia è destinata a
soccombere sotto le rovine delle sue città e i cadaveri de' suoi
difensori, il nostro nemico non regnerà che sovra deserti, e ogni
buon Polono trarrà seco morendo questo conforto, che se il cielo non
gli concedeva di salvare la patria egli almeno con questa guerra
mortale ha salvato per un momento, le libertà minacciate d'Europa.»
Furono parole solenni, grandi come la vostra sciagura: e l'Europa
dei popoli le ha raccolte. Dal giorno in cui lo proferiste, fu
segnato il patto d'alleanza perpetuo tra voi, e gli uomini della
libertà in tutte contrade. Dal 20 dicembre 1830 ha data il titolo
della Polonia alla grande Federazione Europea.
E però noi ora non facciamo che ratificare nell'esilio quel tacito
patto: patto santificato dalla sventura: patto che durerà, perchè
sgorga dalla natura della guerra che sosteniamo, e dalla missione
che i destini dell'Europa e dell'incivilimento progressivo ci
affidano. Sacerdoti d'una religione ch'oggi ancora è proscritta, ma
il cui trionfo è sicuro, devoti dalla coscienza e dallo spirito del
secolo a una bandiera che ha scritto da un lato libertà ed
eguaglianza, dall'altro Umanità, dovevamo forse incontrarci tutti in
un esilio comune, perchè da questo convegno di proscritti escissero
i germi del gran convegno dei popoli; perchè serrati a cerchio come
i cospiratori del Grütli giurassimo la alleanza degli oppressi
contro l'alleanza degli oppressori. Da qui noi ci riporremo in
viaggio, nella direzione che la natura commette a ciascuno, voi,
coll'Alemagna unitaria, e coll'Ungheria ricostituita,
all'emancipazione del Nord, all'incivilimento delle razze Slave;
noi, colla Francia e colla Spagna all'emancipazione del Mezzogiorno.
Ma in qualunque luogo noi ci troviamo, ricorderemo le amicizie
strette nei giorni della sciagura: a qualunque zona del cielo
europeo si rivolgano i nostri sguardi, noi diremo: là abbiamo
fratelli: là il sole della libertà scalda anime di generosi!
Fratelli di Polonia! - i nostri padri hanno, voi lo accennate,
combattuto sotto gli stessi segni. Illusi dalle stesse speranze,
diedero insieme il loro sangue per cimento ad un trono che potea
diventare il trono della civiltà, e non fu che quello d'un uomo.
Fratelli di Polonia! - qualche cosa ci dice che nelle lotte parziali
inevitabili a toccare l'intento comune, noi combatteremo anche una
volta insieme. Ma quelle battaglie non c'inganneranno nei risultati,
perchè saranno combattute per noi e da noi, perchè saranno le
battaglie non d'un uomo ma d'un principio.
Per la Giovine Italia,
Mazzini.
DELL'UNITÀ ITALIANA
1833.
L'Italie est une seule nation. L'unitè de m[oe]urs, de langage, de
litterature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, réunir enfin
ses habitans dans un seul gouvernement.
Napoléon.
Italiam! Italiam!.....
virgilio.
I.
La questione se l'Italia, emancipata dal barbaro, debba ordinarsi in
lega di repubbliche confederate, o costituirsi repubblica una e
indivisibile, vorrebbe forse più lungo discorso che non concedono i
limiti d'un articolo di giornale. Non che per noi si credano
egualmente convalidate di forti argomenti le due sentenze.
L'opinione che predica il sistema federativo ci sembra generata da
una strana confusione d'idee e di vocaboli(86), che forse non dura
se non perchè pochi la discussero freddamente, e vergini di
pregiudizî(87); poi da quel senso di sfiduciamento che s'è coi
secoli di servaggio inviscerato negli Italiani, e li indugia sui
confini del nuovo stato in continue transazioni col vecchio che pur
vorrebbero struggere. Ma è questione che vezzeggia e sollecita
l'individualismo, potentissimo anch'oggi in Italia: questione che si
nutre di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città, di provincie,
di municipî, passioncelle abbiette e meschine che brulicano nella
Penisola, come vermi nel cadavere d'un generoso che cinquecento anni
di debolezza e cinquanta di predicazione non hanno potuto spegnere,
e che la grande esplosione rivoluzionaria potrà sola sperdere nella
manifestazione solenne dell'unità nazionale. E a deciderla
converrebbe scendere coi libri delle nostre storie alla mano in un
campo d'ingratissima realtà a tesser gli annali delle mille
ambizioni e influenze provinciali, aristocrazia di località più
tremenda assai della aristocrazia dell'oro o del sangue, perchè dove
queste si rivelano esose e assurde, quella assume aspetto di spirito
generosamente patrio - risalire alla sorgente comune, la divisione
dell'Italia in più Stati - poi seguirne lo sviluppo inseparabile
dalle nostre sciagure - e mostrare come da più secoli la tendenza
frazionaria e il decadimento italiano camminino su due parallele - e
svolgere le conseguenze favorevoli al commercio, all'industria,
all'arti e alle lettere che verrebbero dal concetto unitario - ed
esporre intero il piano d'ordinamento sociale per cui la vita e
l'impulso allo sviluppo progressivo e la direzione armonica dei
lavori hanno a propagarsi dal contro alle menome parti, senza
incepparne la libertà, senza violarne l'indipendenza, senza
isterilirne le potenze speciali: tesi vasta ed organica che le
angustie del tempo ci vietano e che noi non tratteremo che a cenni.
Ma a qualunque intenda a fondare, la parte critica, comechè
incresciosa e nelle apparenze sterile, riesce pure inevitabile a
trascorrersi. Però a questa è volto il presente articolo. Purgato
dagli inciampi il terreno e svincolata la questione dai pregiudizî e
dalle paure ond'oggi è impedita, sarà facile cacciarvi le basi degli
ordini futuri. Lo spirito umano anela libero l'orizzonte davanti a
sè. Dove ostacoli frapposti tra il suo volo e la meta lo costringano
a combattere e soffermarsi a ogni tanto, infiacchisce e si logora.
Quando nei primi anni della gioventù, irritati delle basse tirannidi
che s'esercitavano nelle scuole di tutta Italia a mortificare
gl'ingegni o a nudrirli di misantropia, frementi una patria che
nessuna contrada Italiana ci offriva, ma senza pur sospettare che il
fremito individuale potesse convenirsi in azione, ponemmo il
pensiero all'Italia, fummo unitari. Vergini di studiata scienza,
liberi d'ogni servitù di sistema, insofferenti delle lunghe disamine
e delle applicazioni pazienti, il vero stava per noi nella prima
idea che ci balzasse improvvisa davanti, grande, vasta, solenne,
raggiante di poesia, di potenza e d'amore - e questa idea ci
s'affacciava nell'Italia una, ricinta dall'alpi e dal mare; in una
parola di volontà onnipotente uscente da Roma dalla Roma dei Cesari,
e valicante l'alpi ed il mare; in una missione di civiltà universale
assunta da noi sin dai giorni della potenza romana coll'armi,
continuata cogli esempî di libertà dalla prima metà dell'evo medio,
colle lettere diffuse all'Europa dalla seconda, e fremente dopo i
miracoli dell'impero nell'Italia del XIX secolo. Ma questa idea ci
sorrideva come una musica d'anime, come un raggio di sublime poesia
che ci mandava il cielo d'Italia, perchè nel nostro cuore s'ergesse
un altare al concetto puro, santo, incontaminato, senza meditarlo,
senza verificarne la possibilità, senza rintracciarne la verità
politica per entro ai costumi, alle abitudini, alle credenze dei
nostri concittadini. Era il sogno di Dante, di Petrarca, di
Machiavelli - e si venerava da noi, come l'idea della libertà greca
e romana dai cospiratori Italiani del XV secolo, per istinto, per
entusiasmo, per foga di slancio, non per convinzione ragionata e
come frutto di studî severi.
Poi venne la fredda, la calcolatrice, la dotta politica: vennero
voci d'uomini gravi, nei quali il dubbio perpetuo riveste aspetto di
profonda e arcana dottrina; d'uomini che professando non
sottomettersi che all'alta immutabile ragione dei fatti sorridono a
quante ipotesi s'appoggiano direttamente su' principî generali, e ci
dissero: «L'unità Italiana è brillante utopia, contrastata dai fatti
che vi s'affacciano a ogni passo che voi moviate sulla Penisola.
Eccovi storie e cronache e documenti dei vostri maggiori. Ognuna di
quelle pagine gronda sangue fraterno. Ogni palmo del vostro terreno
è infame per risse civili. Le nimicizie di molti secoli hanno
lasciato a ognuna delle nostre città un legato d'odio e di vendetta
che il servaggio comune cancella nelle apparenze, ma che il grido di
libertà farà rivivere più tremendo. Vario il clima, varia la
topografia dei luoghi varie le abitudini e le tendenze. Potrete
spegnerle con una idea? Potrete confonderle con una formola di
legge? Le leggi esprimono, non creano fatti. Le razze non si
riconciliano colla violenza. E quando crederete averle fuse per via
di decreti, quando v'illuderete ad avere statuita unità, troverete
anarchia. Abbiamo elementi eterogenei: affrettiamoci a riconoscere i
diritti e i bisogni diversi, perchè non irrompano a rivendicarli
coll'armi e colla rivolta. I popoli non si governano a illusioni.
Quando un fatto è, non giova il dissimularlo: giova ammetterlo anzi
tratto, poi moderarne le conseguenze dannose, e trarre da quel fatto
il miglior partito possibile. In Italia, il governo federativo è
l'unico compatibile col fatto delle divisioni e delle differenze
esistenti. Se vorrete il più, avrete il meno. Il concetto delle
federazioni è concetto primitivo in Italia. Afferratelo. Con quella
forma avrete libertà dentro, e forza al di fuori. Vedete la
Svizzera, e le repubbliche americane. E le autorità d'uomini sommi,
Montesquieu, Sismondi e altri, convalidano gli argomenti dei fatti.
Poi col sistema unitario avrete presto tirannide, se d'una capitale,
d'un consesso, d'un unico centro, o d'un re, poco monta. La
centralizzazione uccide la libertà delle membra. Da ultimo,
repubblica in una piccola estensione di terreno può stare; ma le
vaste proporzioni la fanno impossibile.»
E quelle voci che ci parevano concordi ai fatti, ci stillavano
lentamente il dubbio nell'animo. Il pensiero di Dante(88) e di
Machiavelli ci sfumava di mezzo a un caos di forme, di visioni, di
sembianze individuali, diverse di costumanze, d'abitudini, di
tendenze, e tutte ostili, rivali, nemiche, che le formole di quei
politici evocavano davanti a noi. Il medio evo colle sue mille
guerre, dall'urto scambievole delle razze nordiche sino alle fazioni
lombarde, dalla battaglia di Monte-aperti fino a quella nella quale
suonavano, come l'ultimo gemito dell'Italia, l'estreme parole di
Francesco Ferrucci al calabrese: tu vieni ad uccidere un morto,
sorgeva gigante a frammettersi tra noi e il concetto unitario, a
protestare tremendamente contro quel sogno affacciatosi nello spazio
di tre secoli a due grandi anime, che forse morendo, lo rinnegavano.
E forse ciò che costituiva il genio, e lo differiva dalle razze
umane, era il tormento d'una idea solitaria, inapplicabile,
condannata a starsi in perpetuo nei dominî dell'astrazione. La mano
scarna della dottrina ci sfrondava l'albero delle illusioni
giovanili, e v'innestava sistemi architettati studiosamente e
complicatamente sugli antichissimi esempli greci, e su' nuovissimi
americani. E quelle difficoltà superate apparentemente, quella
intricata discussione intorno al modo di stringere un vincolo
d'unione fra più Stati liberi e indipendenti, ci sembrava argomento
d'altissima scienza in chi l'assumeva. L'unità, semplicissima fra
tutte le idee, s'affaccia istintivamente all'umano intelletto ne'
suoi primi sviluppi, e filosoficamente negli ultimi; e v'è fra
queste due un'epoca intermedia, comune agli individui e alle
nazioni, nella quale l'intelletto, traviando nella folla di sistemi
che gli si parano innanzi, si compiace nelle astruse combinazioni, e
inorgoglisce nelle oscurità metafisiche. E l'epoca dei governi
misti, delle teoriche costituzionali, delle due camere, della
bilancia dei poteri, dell'ecclettismo, delle federazioni. Ma il vero
è semplice per essenza. Il genio è unitario. Quando i tempi non
erano maturi, cercava l'unità nel dispotismo, oggi la cerca nella
libertà, e nella creazione di vaste e grandi repubbliche.
Quell'epoca d'incertezza pseudo-scientifica, d'errore rivestito del
manto della sapienza, noi la subimmo - e la trapassammo. Fummo
federalisti, e lo diciamo francamente, perchè crediamo che molti dei
nostri concittadini abbiano corso quello stadio di gradazioni -
perchè rivelando i dubbî che ci tennero incerti, intendiamo mostrare
come il simbolo unitario, ch'or predichiamo e sosterremo
energicamente, sia nostro non per ardore d'utopia giovanile, ma per
lento e maturo convincimento - perchè vinto quel periodo di
scetticismo, e superate le difficoltà che pareano attraversarsi, noi
siam lieti della nostra credenza, e non corriamo oggimai pericolo di
mutarla.
Siamo unitarî - e staremo. Troppe cose si contengono in questo
simbolo d'unità, troppi vincoli lo connettono alla libertà italiana,
che noi cerchiamo, perchè da noi si possa scender più mai al
pensiero gretto pauroso e funesto d'una federazione. Certo: noi non
infameremo la contraria opinione, com'oggi - e forse a torto(89) -
gli unitarî di Francia infamano gli uomini della Gironda. La libertà
può fondarsi in una federazione come in uno Stato unitario:
concepita anzi in siffatto modo, la questione è ridotta al
nulla(90). Nessun ostacolo vieta alla libertà stabilirsi in un
aggregato d'un milione d'uomini, quando è possibile stabilirla in
uno di venti. Ma stabilirsi e durare son due termini essenzialmente
diversi, e per noi v'è impossibilità nelle presenti condizioni
europee, perchè una libertà fondata sull'unione federativa di molti
piccoli Stati duri intatta e secura: impossibilità generata da due
vizî radicalmente inerenti ad ogni federazione, interno l'uno ed
esterno l'altro. Però la questione è vitale per noi, e immedesimata,
come la questione repubblicana, con quella della libertà. Tolleranti
su tutte le mille questioni che non feriscono al cuore la libertà
popolare, noi siamo quindi per questa. Siamo esclusivamente unitarî,
perchè senza unità non intendiamo l'Italia, e dove si contende
dell'esistenza, l'intolleranza è santa, la tolleranza è menzogna
vuota di senso. Siamo esclusivamente unitarî, come siamo
esclusivamente repubblicani, perchè dalle basi repubblicane infuori
non veggiamo libertà vera possibile, dall'unità in fuori non
veggiamo libertà forte e durevole.
Cos'è il governo federativo? - D'onde traggono origine le
federazioni? - Qual è l'elemento principale che le costituisce?
Ogni federazione trae evidentemente origine dalla debolezza degli
Stati che la compongono. La necessità d'una difesa che più Stati
isolati non trovano nelle proprie forze, li determina a collegarsi
per reggersi l'un l'altro contro ogni nemico che s'affacciasse.
L'essenza del governo federativo è riposta nel patto che stringe gli
Stati confederati a proteggere e tutelare la indipendenza di
ciascuno colle forze di tutti, - l'altre son condizioni accessorie,
d'importanza secondaria, e sottomesse a modificazioni infinite.
Che cercano gli Stati confederandosi?
La forza?
Dove la cercano?
Nella unione.
E questa unione non la ristringono a ciò ch'è di pura necessità, ma
l'ampliano d'ordinario a confini più larghi: non la fondano
unicamente sul patto giurato della difesa, ma tentano cacciarne le
basi sulla uniformità delle leggi interne, dei bisogni mutui,
dell'utile commerciale: non s'acquetano a desumerla dall'istinto che
guida gli Stati a crearsi per ogni dove sicurezze d'indipendenza, ma
s'adoprano a darle sostegno la fratellanza. A quelle unioni che
posano solamente sulla promessa di proteggersi scambievolmente, è
serbato il nome di Leghe; ma le federazioni procedono innanzi. I più
tra gli Stati cercano confederarsi con chi li somiglia. Son rare le
confederazioni di repubbliche e monarchie. Un istinto politico
insegna ai popoli che la conformità dei reggimenti interni fa le
unioni durevoli. E le antiche e le nuove federazioni statuirono
principî dichiarati e immutabili, dai quali non fosse concesso
partirsi. Le repubbliche greche spinsero tant'oltre gli obblighi di
leggi uniformi che correvano ai confederati, da mutare interamente
la natura indipendente delle federazioni; e lo vedremo tra poco.
Delle nuovissime, basti l'America. Tutte - tranne la Svizzera
ch'oggi intende il suo vizio - hanno cercata l'unione federale
durevole nel riavvicinamento graduato all'unità, delle leggi, degli
istituti, de' principî fondamentali.
Da questi pensieri che s'affacciano spontanei al primo esame della
questione, e sgorgano dalla definizione del sistema federativo,
emerge un dubbio: perchè se a più Stati vicini con molti punti di
contatto e collocati in simili circostanze, giova l'unirsi, cotesta
unione non toccherebbe gli ultimi termini? - Perchè se il bisogno
d'essere forti li stringe a confederarsi, la certezza
dell'incremento di questa forza ch'essi tentano procacciarsi non li
indurrebbe all'unità? - Perchè, se la uniformità di governo e di
leggi fondamentali è bisogno sentito da quanti si stringono a
federazione, non lo adeguerebbero essi creandosi un solo governo,
una sola legislazione?
La questione specialmente in relazione all'Italia, si ridurrebbe
dunque a questione di possibilità o d'impossibilità: teoricamente
decisa a favore dell'unità scenderebbe ai dominî della pratica, che
spesso dicono, cozza colla teorica, rifiutando inappellabilmente ciò
che i principî vorrebbero.
Noi crediamo poco a questo dissenso fra la teorica e la pratica che
pur s'allega così sovente nelle questioni politiche. Generalmente
parlando, i principî stanno per noi sommi sovra tutte cose e le
dominano. Teorica e pratica sono indissolubilmente congiunte. La
prima è il pensiero, la legge, l'idea: la seconda è il segno che
rappresenta il pensiero, la formola scritta attraverso la quale è
rivelata la legge, la forma che l'idea assume trapassando nel mondo
sensibile. Se un principio è vero, le applicazioni hanno a riescirne
più che possibili, inevitabili, perchè nessun principio può
rimanersi sterile a lungo e senza conseguenze. E dei dieci casi, nei
quali sembra manifestarsi questo dissenso, tre forse spettano a una
intelligenza parziale e frazionaria di quel principio che s'è
tentato applicare senz'averlo scoperto tutto - sei a un'applicazione
falsa, incompiuta, o paurosa - un solo a fatti reali che
s'attraversavano, dissonanze cacciate dalla natura, opposizioni
inerenti alle umane cose che l'intelletto è certo di vincere, non di
vincere a un tratto. Ma la scienza politica che riassume i gradi di
progresso e presenta, dopo le religioni e la filosofia, la formola
più estesa delle nozioni acquistate dall'intelletto, esce da poco
d'infanzia. Le dottrine gesuitiche dei settatori della tirannide
assumono quei casi, li moltiplicano e ingigantiscono, e sviano gli
animi dall'addentrarvisi: la presuntuosa ignoranza dei pedanti in
politica che s'arrogano la dittatura perchè ha raccolto, senza
discuterli, una collezione di fatti, avvalora l'arti della
tirannide; e la inerzia dei più vi s'acqueta(91).
Pur, poi che quell'unico caso potrebbe verificarsi in Italia, giova
accettar la questione tratta a quei termini. Bensì l'obbligo di
provarlo esistente spetta a chi nega possibile l'Italiana unità.
Or lo provano? e come?
I più nol provano: non allegano argomenti diretti; ma si richiamano
alla storia. Mostrano nelle sue pagine alcuni esempî di repubbliche
confederate, salite a potenza, e prospere interiormente: di
repubblica unitaria su vaste proporzioni, non uno - e ne inducono
senz'altro esame la conseguenza che per noi si combatte. Mutano così
la questione. Dimostrano non l'impossibilità di costituire quando
che sia la repubblica unitaria in Italia, ma la possibilità di
costituirla federativa. Pure stabiliscono a ogni modo una
presunzione favorevole alla loro credenza, e giova distruggerla. -
Ma prima è necessario per noi l'accennare il come vorremmo si
procedesse in politica - e inalzarci apertamente contro l'abuso che
si fa degli esempî, vera tirannide d'autorità, che ove prevalesse,
distruggerebbe ogni indipendenza di raziocinio; vecchio sistema, che
non accettiamo momentaneamente se non per combatterlo, ma che noi
rifiutiamo, e al quale in tesi generale, non vogliamo sottometterci
mai.
Un pregiudizio domina tuttavia la politica: il pregiudizio
dell'esempio, l'imitazione servile.
A qualunque dallo spettacolo della patria guasta, corrotta,
inceppata da pessime istituzioni, è suggerito il pensiero di porvi e
proporvi rimedio, si affaccia innanzi a tutte una via: quella di
torlo altrove. I più dagli ordini che reggono la contrada nativa
ritraggono lo sguardo all'Europa, finchè trovino una terra dove un
principio contrario o diverso domini le istituzioni; trovato, lo
afferrano come àncora di salute: non guardano se quel principio
spetti esclusivamente, per vigore di cagioni preesistenti, al paese
ove ha vita, e se trapiantato possa fruttare conseguenze uniformi;
non s'addentrano a vedere se quel principio sia destinato a lunga
vita nel futuro o covi la morte; se veramente da quello o da altre
ragioni derivino i vantaggi che l'una nazione ha sull'altra; lo
adottano e lo scrivono sulla bandiera che inalzano - e la turba vi
corre, perchè quando le moltitudini ineducate hanno sete di
mutamento, s'affollano al primo stendardo che sventola, non curando
se mutino in meglio o peggiorino. Poi, quando i danni d'un sistema
accolto precipitosamente, incominciano a sperimentarsi, gl'ingegni
più desti s'avvedono della illusione, ma tardi, quando la credenza
in quel simbolo s'è radicata, quando il popolo anela riposo, quando
quindici anni di delusioni e molte vittime bastano appena a
risuscitarlo. La rivoluzione è compita, nè le rivoluzioni si
maturano di giorno in giorno.
Quando affermiamo che questa gretta, esclusiva, superficiale,
funestissima maniera di trattar le cose politiche ha esercitato
dominio su tutti quasi i rivoluzionarî dell'epoche in oggi consunte,
e lo esercita tuttavia, malgrado le molte esperienze, sugli
scrittori politici, noi diciam cosa che a molti parrà frutto
d'audacia giovanile, o d'un'ira mal concetta contro il passato;
stolta accusa, che oggimai non è da respingersi se non col sorriso.
Noi veneriamo il passato, quando è grande; ma nè il consenso de'
secoli può ingigantirlo ai nostri occhi, quando l'intelletto ce lo
affaccia meschino. Le nostre teoriche di progresso riabilitano il
passato, anzichè gittargli l'anatema; ma noi sappiamo che la terra
troppo calpestata diventa fango, e vogliamo prender le mosse del
passato, non insister sovr'esso.
La scuola politica del secolo XVIII fu tutta inglese. Montesquieu e
Voltaire, il primo, intelletto potente a evocare con venti parole
l'imagine fedele d'un secolo di passato, ma cieco dell'avvenire; il
secondo, ingegno vasto più che profondo, critico per eccellenza, e
nella foga di distruggere, che l'invadea, avido più di trovare che
non di creare un tipo a cui attenersi; l'uno e l'altro, tendenti
all'aristocrazia, predicarono primi le istituzioni britanniche - e
dietro a quei due la turba degli enciclopedisti, i filosofi, i
mezzo-politici e gli imitatori servili. Il sistema che reggeva
gl'Inglesi sgorgava dalla loro storia diversa affatto dalla
francese. La loro aristocrazia era elemento della nazione traente
origine dalla conquista. In Francia non v'era aristocrazia se non
per abuso; ma un nuovo stato dovea sotterrarla inevitabilmente. Il
popolo più che libertà anelava eguaglianza. Ma chi tra' francesi
scrittori guardava alla Francia? - Il solo che si ribellasse al
torrente fu Rousseau - e Rousseau fu greco: spartano: ideò
repubbliche che avevano ad esser nuovissime, e fu trovato che i loro
titoli stavano in un angolo dell'Europa, sotto la polvere d'uomini
morti da venti secoli. La rivoluzione, convocando il popolo,
elemento eterno, sulle rovine della Bastiglia, scrisse il decreto di
morte ad ogni privilegio monarchico aristocratico. Ma non valse. Il
sistema inglese che s'era fatto pigmeo in Mounier, Tollendal,
Malouet, per insinuarsi non visto nell'assemblea nazionale,
dileguatosi sotto la mano ferrea dell'uomo del blocco continentale,
ricomparve audacissimo a tentare la seconda prova nella Staël, in
Beniamin Constant, Royer-Collard, e gli altri, che assisero il
fantasma monarchico sul trono di Bonaparte. Ed oggi poichè la
seconda tornò in nulla per le tre giornate, ritenta la terza - e
speriamo - l'ultima prova. La ritenta, mentre pur quell'unico
esempio dell'Inghilterra è sfumato - mentre il sistema rovina nel
luogo ov'ebbe la culla - a fronte del ruggito irlandese - a fronte
del manifesto popolare lanciato in Lione, in Parigi, per ogni dove -
quando i colori della repubblica si mostrano in Francoforte, secondo
centro dell'aristocrazia europea - quando le dispute vertono oggimai
sulla forma, non sul principio repubblicano. Ma che sperare da gente
come quella ch'or regge in Francia, se non l'ultimo disinganno alle
moltitudini?
Il sistema inglese agonizza. Il sistema americano sorge collo
stendardo repubblicano. L'America fu l'arena che vide prima la lotta
fra il principio monarchico-misto e il repubblicano. La repubblica
v'ebbe la prima vittoria. Ciò basta alla politica imitatrice per
dichiararsi americana esclusivamente. La scuola americana, duce
Lafayette, uomo di rara virtù, d'intelletto mediocre, domina in oggi
gran parte dei repubblicani: invoca in Francia, nelle colonne del
National, le due camere, contradizione patente al principio della
sovranità popolare; il senato, asilo aperto all'elemento
aristocratico; il governo a buon mercato, senza avvertire che la
economia nazionale non dipende dalla quantità del tributo, bensì
dall'uso e dal riparto di questo: in Italia, invoca la federazione.
- Perchè non invoca anche gli schiavi che nelle repubbliche
americane costituiscono il settimo della popolazione?
È tempo che la politica s'emancipi da cotesta tirannide degli
esempî. È tempo che il secolo XIX tragga dalle proprie viscere, dai
proprî elementi, dai proprî bisogni la politica che deve guidarlo.
L'Italia del XIX secolo racchiude nel proprio seno le condizioni
della sua futura esistenza, e le forze per raggiungerle. Guardiamo
dunque all'Italia, non all'America o a Sparta. Non abbiamo noi
intelletto nostro e basi di giudizio e fatti presenti, perchè si
debba da noi statuire a criterio, a principio politico un esempio
straniero, o spettante al passato? - Un fatto è il prodotto delle
mille cagioni, dei mille fenomeni che s'incontrarono in un dato
periodo, in un dato paese; e quei fenomeni e quelle cagioni
s'incontreranno identici sempre, perchè s'abbia a volerne la
conseguenza che ne fu tratta altrove? - I principî prevalgono ai
fatti, perchè non dipendono da circostanze fortuite o singolari, ma
dalla eterna ragion delle cose. Ogni nazione cova un principio che
domina la sua storia, e ch'essa è chiamata a sviluppare o perire. Il
principio nazionale tra noi vive occulto, come vogliono i tempi, ma
non tanto che l'indole del secolo, degli abitanti, delle passioni,
dei fatti concatenati che costituiscono la nostra storia, delle
rivelazioni ch'emergono dalle lettere, dai bisogni e dai tentativi
operati non lo esprimano a chi vuol rintracciarlo. Dissotterrate
quel principio. Poi se gli esempî stranieri verranno a convalidarlo,
meglio. - Contemplateli; ma del guardo dell'aquila al sole, libero,
indipendente, potente. Contemplateli; ma come termini d'una
proporzione, il cui primo termine deve rappresentarvi. Non rifiutate
un trovato straniero, se, applicato a voi, frutta incremento alla
patria. Ma non lo accettate alla cieca, unicamente perchè già
altrove accettato. Così facendo, sarete Italiani, e vi troverete per
legge di cose, europei. In altro modo vi rimarrete servi, o
meschinamente ribelli al vero.
Ed ora scendiamo agli esempî.
I primi ci s'affacciano nella Grecia.
Chi disse la varietà nell'unità essere il tipo del mondo greco,
disse cosa più vera ch'altri non pensa. La Grecia splende nella
storia europea d'una potente unità; ma d'una unità vivente nel genio
greco più che negli ordini greci; d'una unità che vegliava nelle
religioni, nelle abitudini, nella missione che i destini fidavano
alla Grecia, nucleo primitivo del mondo europeo, nella opinione
radicata, che tutti stranieri eran barbari, non nelle leggi e negli
istituti politici interni. La missione greca di romper guerra in
nome dell'Europa futura al genio orientale s'adempieva fatalmente,
per legge di razze, senza che fosse necessaria una forte e
preordinata unità. E d'onde sarebbe sorta cotesta necessità, quando
la Grecia era sola in Europa? - Però nei tempi delle greche
repubbliche le confederazioni valsero contro ai Persiani, come leghe
formate a tempo, e volute dalla urgenza di combattere una guerra
comune a tutela dell'elemento nazionale. Ma quando sorsero le
ambizioni e le invidie domestiche, e le leggi varie partorirono le
varie tendenze, le federazioni non valsero a quetare la discordia e
le guerre intestine, nè a salvar la Grecia dalla dittatura d'un
principe o d'una delle repubbliche, nè a proteggerla dall'invasione
straniera: quando questa invasione venne d'Europa, la lotta fu
varia, ostinata, perpetua. Durò continua fra Sparta e Atene, fra
l'elemento dorico e l'elemento ionio. Nè la Lega anfizionica valse a
indurre la pace. Fu simulacro, non esempio di lega. Fu, nei tempi
più queti, guerra tacita e quasi legale, sostituita all'aperta. E la
storia greca ai tempi anfizionici, è storia di contrasti e
d'usurpazioni alterne, nella quale ora Sparta, or Tebe, or Atene
furono dominatrici nel consiglio supremo. Poi venne la potenza
macedone - e quando Filippo e Alessandro sorsero primi, fu lega di
servaggio comune, non libera fratellanza di repubbliche confederate
a serbare intatto il sacro deposito dell'uguaglianza(92). E quando
il popolo romano, il popolo Napoleone cacciò sull'arena il guanto
della universale dominazione, la lega achea riuscì impotente a
sottrarvisi. Le federazioni greche, come tutte federazïoni contro
una potenza unitaria, si fransero contro la unità di Roma.
Varchiamo d'un balzo tutto quel periodo nel quale la grande unità
romana delineò coll'armi il programma dell'era moderna che la pace
dei secoli liberi svolgerà nel futuro. Varchiamo tutto quel lungo
periodo di guerre virilmente difese contro il colosso romano, ma
inefficacemente ordinate e mal collegate che strappò di bocca a
Tacito quella sentenza: che rara è la concordia di due o tre città
nel combattere un comune pericolo(93). Dalle leghe italiche in
fuori, alle quali per domare la potenza romana non mancò che
d'essere forti d'un vincolo unitario, nessuna lega apparisce,
nessuna confederazione che meriti esser tolta a modello; leghe di
schiavi, leghe di colonie e di municipii, che Roma struggeva d'un
cenno. L'unico tentativo di lega che meriti l'attenzione dei
posteri, è quello ch'escì dal concetto d'un gladiatore tracio: è il
grido di Spartaco a' suoi fratelli di servitù. E il grido di
Spartaco potente a far tremare la stessa Roma, fu grido d'unione
concentrata e universale a quanti gemevano conculcati dalla romana
aristocrazia; fu il programma dell'unità popolare, come Roma fu
della unità nazionale italiana.
Il primo esempio di federazione che ci s'affaccia nel mondo europeo
moderno, è la Svizzera: la Svizzera, federazione di fatto, di
necessità, d'aggregazioni successive, che nessuno sceglierà mai a
modello d'organizzazione politica; la Svizzera, terreno neutro, che
la mutua gelosia delle grandi potenze salva dalle usurpazioni
straniere ogniqualvolta l'equilibrio europeo turbato non trascini
con sè la invasione: la Svizzera, associazione d'elementi
eterogenei, composta di Cantoni d'indole, di religione, di politica,
di credenze diverse, complesso di tutte le forme d'istituzioni
aristocratiche, popolari, monarchiche(94) - che non ebbe se non un
secolo bello di pace, il XIV - ch'oggi nel moto d'eventi che incalza
l'Europa, sente evidentemente il bisogno di avvicinarsi all'unità, o
la condanna a rodersi di anarchia. E so che taluni fra i politici -
quelli appunto che gridano alto contro le utopie dei repubblicani
unitarî - tennero e forse tengono tuttavia la Svizzera come un
soggiorno di beati e pacifici abitatori, e predicano la innocenza e
la purità del costume e le abitudini pastorali e patriarcali che
regnano sulle balze elvetiche e le proteggono dalle ambizioni, dalle
risse e dalle corruttele europee. Dov'essi travedano cotesta
Svizzera non è facile risaperlo; forse negli idillî di Gessner. Pur
se anche innocenza e semplicità prevalessero tra gli Svizzeri, non
sarebbe frutto del reggersi a federazione, bensì di cagioni inerenti
ai luoghi, all'educazione, alla povertà naturale. Ma io scorrendo la
storia(95) veggo la Svizzera campo di guerre e stragi fraterne per
intolleranza religiosa in un secolo, per pretese di aristocrazia in
un altro, e sempre per raggiri dei gabinetti stranieri influenti nei
consigli e nei varî governi. E guardando al suo patto, lo veggo
ineguale ai bisogni, impotente a crear la concordia, e violato
sempre all'estero ed all'interno - e mentre il patto conteneva
solenne divieto ai cantoni di stringere alleanze straniere senza il
consenso di tutti, veggo i cantoni ligi sempre delle potenze
straniere collegarsi or coll'Austria, or colla Francia, or colla
Spagna e or con Venezia senza pur chiedere il consenso voluto - e
mentre ogni cantone cercava provvedere unicamente alla propria
gloria e al proprio incremento a dispendio della intera
confederazione, il timore solo dell'ambizione e della potenza dei
principi tenerli uniti, e superato il pericolo, rotta immediatamente
la unione - e la Svizzera forte a principio dell'altrui debolezza,
la Svizzera repubblicana decadere rapidamente, quando tutte le
monarchie ingigantirono nelle armi e nei mezzi - e odo la veneranda
voce di Giovanni Muller dichiarare che la intenzione d'occuparsi in
un trattato sul mantenimento della libertà nella Svizzera gli
sarebbe tornata inutile, dacchè quanto aveva veduto gliene
dimostrava l'impossibilità(96). - Però l'esercito repubblicano
francese, malgrado alcuni fatti di resistenza ostinata, soggiogò in
brev'ora la Svizzera. L'onnipotente unità ruppe la mal legata
federazione. Poi se Napoleone riconobbe nell'atto di mediazione del
1803 l'indipendenza dei Cantoni, non fu perchè ei riconoscesse una
suprema necessità o la eccellenza delle forme federative, ma perchè
Napoleone voleva fondare il dominio universale francese sull'altrui
debolezza; perchè le confederazioni ch'ei piantava all'intorno
porgevano alla Francia occasione di protettorato, e, occorrendo, pur
di dominio: perchè pronunciando a Sant'Elena che la Italia sarebbe,
rifiutò pur di crearla, paventandola fatale alla Francia. Ma il
trarre partito a favore del sistema federativo dal progresso che
s'ebbe la Svizzera nei dieci anni durati sotto l'impero dell'atto di
mediazione, varrebbe lo stesso che voler desumere un argomento a
danno dell'unità dalla condizione infelicissima della Svizzera
durante l'unità statuita dalla francese repubblica. L'unità elvetica
statuita violentemente coll'armi, e armi straniere, durò brevissimo
tempo: e quel tempo fu segnato di oltraggi, di angherie, di
dilapidazioni, conseguenze inevitabili d'ogni intervento straniero;
poi fu tempo di guerra continua, di guerra atroce che trasse
sull'arena svizzera le forme russe e le teutone e le francesi. Ma i
beneficî che vennero nei dieci anni alla Svizzera non furono
conseguenza dell'atto di mediazione, non dell'indipendenza data ai
Cantoni; bensì della libertà data al popolo, dell'emancipazione dei
villici costituiti in eguaglianza di diritti coi cittadini, delle
leggi proibitive soppresse. Escirono dalla libertà, non perchè
libertà dei popoli confederati, ma malgrado gl'inciampi che la
federazione frappone allo sviluppo della libertà. Il solo effetto
che dalla federazione venne allora alla Svizzera fu la ineguaglianza
di quello sviluppo d'incivilimento nei diversi Cantoni,
ineguaglianza che perpetuò i semi della discordia, viva or più che
mai in quella contrada. Venne infine il patto del 1815; e intorno a
questo i fatti parlano in oggi abbastanza chiari, perché s'abbia a
parlarne da noi.
Poi, - e questa è secondo noi differenza essenziale - le circostanze
che formarono la confederazione Svizzera furono totalmente diverse
da quelle che presiederanno alla nostra rigenerazione. Nella
Svizzera l'associazione crebbe col tempo e colle cagioni che
emersero a distanze considerevoli. Solamente dopo la giornata di
Morgarten, trascorsi quindici anni dalla prima lega di Schwitz, Uri
ed Unterwald, Lucerna si accostò ai tre cantoni: poi Zurigo, poi
Glaris, poi Zug e Berna nel secolo XIV: poi Soletta e Friburgo; e
nel XV Sciaffusa e Basilea; e nel XVI, duecento anni dopo quel primo
nucleo, Appenzell. Noi sorgeremo, a un tempo, nella fratellanza dei
pericoli e dell'intento, nell'entusiasmo comune, nella fusione d'una
guerra molteplice, universale. - I fatti creavano la federazione
svizzera: tra noi non sarebbe che arbitrio di volontà.
Nel 1579 la lega d'Utrecht cacciò il germe d'un'altra federazione in
Europa. Un vincolo strinse l'Olanda, la Zelandia, la Frisia,
Utrecht, la Gheldria e Over-Yssel. Groninga e le provincie unite
crebbero e fiorirono prospere e potenti nel secolo XVII: nel secolo
XVII, quando la politica europea era nell'infanzia, quando unità
vera, libera, popolare non era da trovarsi in Europa e lo stringersi
a federazione conteneva tanto omaggio al bisogno d'unione quanto
oggi ne conterrebbe il concetto unitario: sofferta la dominazione di
Carlo V e la tirannide di Filippo II, uomini di potere unico e
concentrato all'estremo: dopo una lunga e sanguinosa rivoluzione che
dovea per legge di tutte rivoluzioni fomentare l'istinto del popolo
a crearsi uno stato contrario in tutto all'antico: in un paese che
la configurazione geografica, l'isole, le lagune e le paludi
disseminate nella Frisia, in Groninga, nell'Over-Yssel e nell'altre
contrade invitavano all'ordinamento federativo: tra popoli che le
abitudini frugali, economiche, operose e dedite esclusivamente al
commercio, salvavano da molti dei pericoli che ci minacciano, e
facevano idonei a qualunque forma di reggimento, tranne alla
tirannide. E son ragioni da porsi a calcolo tutte. Pur, quando venne
il momento di levarsi contro la Spagna e riconquistare
l'Indipendenza, quelle provincie sentirono un bisogno d'unità e si
annodarono attorno a un capo. Gli Orange costituivano nella realtà
un vero centro. Ma da quello in fuori, l'ordine federativo era
l'unico conveniente in allora alle provincie unite, l'unico che non
contrastasse all'elemento in quelle predominante, e chi ricerca le
cagioni che dan moto alle istituzioni, e ne trova di particolari,
non dovrebbe affrettarsi a desumere assiomi o teorie generali
politiche. L'aristocrazia era elemento prevalente in Olanda:
l'aristocrazia che l'unità logora e annienta, la federazione
rispetta e blandisce. Popolo, nel vero senso, non era. Le
moltitudini avevano cercata libertà di credenza religiosa, economia
nelle amministrazioni, protezione e sviluppo al commercio - e
l'ebbero; ma da questo in fuori null'altro. Gli interessi comuni ai
governati e ai governanti, procacciarono ai primi buoni magistrati,
tribunali equi e incorrotti: vantaggi di fatto, non guarentigie di
diritto: beneficî civili, non prerogative politiche. La
costituzione, buona in quanto s'adattava a quelli elementi, pessima
in sè, non contemplava la massa della nazione: riconosceva
un'aristocrazia ereditaria, era essenzialmente oligarchica. Però
l'istituzione federativa esciva spontanea dalla necessità di dare
sfogo alle diverse aristocrazie, dal pericolo di ridarle alla
ribellione volendo pur soffocarle tutte in un solo centro potente.
Ma tra noi, l'elemento aristocratico è tale da determinare una forma
di reggimento? Le condizioni sociali ammettono oligarchia? I
ventisei milioni di cittadini sfumeranno davanti all'influenza
ereditaria d'un picciol numero di famiglie? o faticheremo noi a
fondare un'aristocrazia - dacchè in Italia aristocrazia, come
elemento sociale, non esiste - unicamente per essere tratti da
quella alla necessità d'un governo federativo? - Ipotesi assurde
tutte, pure a chi volesse dall'esempio delle provincie unite trarre
un argomento a favore d'una federazione italiana, sarebbe forza
l'ammetterle. Noi vogliamo libertà, libertà di popolo, libertà
durevole, libertà eguale per tutti, libertà di fatto e di diritto -
e questa sola pretesa caccia l'immenso tra noi, tra l'Italia futura
e l'Olanda del secolo XVII. La prosperità dell'Olanda, la potenza a
cui salì, non vennero dalla federazione, ma dal commercio: dal
commercio, nervo, forza, vita di tutte le Provincie collegate: dal
commercio che anche i capi facevano, ed erano quindi costretti a
promovere; dal commercio che fioriva e dava predominio europeo a
quelle città anche anteriormente alla federazione(97): dal commercio
che cadde, viva la federazione, quando l'Inghilterra e la Francia
accrebbero il loro, quando le guerre durate dalle sette provincie
indussero aumento nelle tasse e nel debito pubblico, quando il
monopolio prevalse nel commercio dell'Indie. Prosperità e rovina
delle Provincie unite derivano da cagioni evidentemente indipendenti
dal vincolo speciale che le stringeva. Dalla federazione scesero ben
altri effetti che quelli dei quali or parlammo: scesero i germi
della disunione, poc'anzi operata: scesero le debolezze dell'Olanda
davanti alle potenze straniere: scese insomma, che l'indipendenza
delle Provincie Unite, riconosciuta nel 1609, fosse pressochè nulla,
e servile all'influenza francese poco più di mezzo secolo dopo,
all'epoca della pace di Nimegue.
Scendiamo all'epoca nostra. Scendiamo - poichè i passati non giovano
- agli esempî nuovi, o meglio all'unico esempio su cui s'appoggiano
i federalisti. Certo: la Confederazione Germanica non ha di che
indugiarci per via. Per quel cumulo inordinato di trentasei o più
Stati, il vincolo federativo non è solamente un vincolo debole o
difettoso; è un'illusione comprata a prezzo di sangue, e che sfumerà
nel sangue; è un'opera di stolta perfidia eretta dalla Santa
Alleanza a serbarvi, ov'arte umana potesse, il fantasma gotico
dell'evo medio; è un regolamento militare, una istituzione di
polizia ordinata a profitto di due sole potenze, che forse dovranno
un dì o l'altro sbranarsi sul campo medesimo, ov'oggi dividono i
frutti della tirannide. Dei governi e dei popoli che si dibattono
sotto quel vincolo convertito in catena, i primi cozzano, poichè
coll'armi non possono, colle dogane, colle leggi proibitive, cogli
ostacoli alla navigazione su fiumi, colla diversità di moneta, di
pesi e misure - i secondi s'affratellano tacitamente e cacciano i
germi della futura unità in Hambach, e le prime linee del programma
repubblicano in Francfort.
Chi desume dalle repubbliche confederate degli Stati Uniti un
argomento generale a favore del sistema federativo, non pensa che
dei due vizî inerenti, secondo noi, ad ogni federazione, debolezza
al di fuori e aristocrazia inevitabile presto o tardi al di dentro,
il primo è nullo in America, ricinta com'è dall'Oceano e secura a un
dipresso dagli assalti stranieri - l'altro, se pur non comincia a
esercitarsi, come noi crediamo, negli Stati Uniti, ha bisogno di
tempo lungo per manifestarsi evidente e ostile alla libertà.
L'aristocrazia di conquista si forma a un tratto nel riparto delle
terre. Ma dove non esce da quella cagione, si forma lenta e a gradi
sia coll'oro accumulato di padre in figlio, sia colla trasmissione
del suolo entro dati confini e delle influenze locali che si
concentrano a poco a poco nelle famiglie potenti. Due generazioni
corsero dall'indipendenza dichiarata, e due generazioni non son
troppe a fondare un'aristocrazia in un popolo giovine, non guasto da
corruttele, lontano dai raggiri d'aristocrazie e tirannidi
confinanti, e sorto di mezzo ad una lunga e popolare rivoluzione. Ma
noi siamo guasti, invecchiati nelle abitudini del servaggio,
circondati da nemici potenti d'odio e d'astuzie, e s'oggi aspiriamo
- e riesciremo - a ringiovanirci, le abitudini della vecchiaia
veglieranno gran tempo ancora a rinconquistarci, ove per noi si
lasciasse un varco schiuso a quelle abitudini. - Così siam noi: così
è tutta Europa; nè l'aristocrazia di finanza ha richiesto in Francia
due generazioni per sottentrare a quella del sangue.
Ma chi tenta applicare l'esempio desunto dagli Stati Uniti più
specialmente all'Italia, viola ogni legge d'analogia, travede
condizioni uniformi dove non sono, dimentica storia e topografia. A
non guardar che alla carta dei due paesi, a paragonare una
superficie di 1,570,000 miglia quadrate ad una di 95,000 al più,
sorge naturale l'inchiesta, qual relazione esista tra l'immensa
estensione che comprende quasi un intero continente re dell'oceano,
e la penisola mediterranea Italiana. Chi direbbe che i due terzi, o
quasi, d'Europa potessero formare una sola repubblica? - o chi
vorrebbe dalla impossibilità dell'ipotesi dedurre che la
ventinovesima parte d'Europa nol può? - proposizione stranissima, e
che lo diventa più sempre se il guardo, scorrendo le due superficie,
trovi la prima seminata di laghi vastissimi e d'immensi deserti,
l'altra di laghi incomparabilmente minori, e popolata non
interrottamente di città. Certo; qualunque sia per essere nel futuro
il destino delle attuali repubbliche, gli Stati Uniti han terreno
per molte repubbliche unitarie equivalenti l'Italia. Ma le
ventiquattro che oggi compongono la confederazione dell'America
settentrionale sorsero a un tempo? - ebbero condizioni identiche,
perchè dove la vastità delle terre non avesse posto un ostacolo,
potessero confondersi in una? - In altri termini la scelta del
reggimento federativo fu scelta libera, o voluta da prepotenze di
cose? Noi vedemmo l'ordinamento federativo trascinato dall'impero
dei fatti nella Svizzera e nell'Olanda. Noi vediamo lo stesso impero
esercitarsi sulla confederazione degli Stati Uniti. Le colonie che
li compongono, sorsero successivamente a tempi diversi, per
emigrazioni determinate da varie cagioni. Differirono di credenze
religiose. Differirono di governo. Rimasero per molto tempo
inegualmente sottoposte all'influenza dell'Inghilterra. Alcune
avevano governatore e consiglio da Londra: altre governatore
soltanto: d'alcune, all'epoca della rivoluzione, non fu bisogno di
mutare che un nome, tanta era la libertà che in virtù di Carte
concesse dal governo godevano. Rhode-Island si regge tuttavia colla
costituzione accordatale da Carlo II: Connecticut non la mutò che
pochi anni addietro, nel 1818. Ma per l'altre fu questione di
libertà interna ed esterna ad un tempo. Alle opposizioni derivate
dai climi, dalle condizioni del suolo, dalle abitudini, si
aggiunsero le importantissime delle origini e delle interne risorse.
La popolazione degli Stati del Nord è somministrata nella più gran
parte dall'Inghilterra; quella degli Stati meridionali dai nativi
della contrada, discendenti dei primi coloni. Le piantagioni del Sud
vivono dell'opera degli schiavi: le opinioni religiose tendono
invece all'emancipazione nel Nord, e vietano gli schiavi alla
Nuova-Inghilterra. E tutte queste differenze durarono nella loro
azione anche dopo consumata in comune la grande opera
dell'indipendenza - e fu forza piegare davanti alle rivalità degli
Stati edificando per le sedute del congresso una città neutra - e
durano tuttavia, non aspettando a insorgere pericolose che
un'occasione. E udimmo non è molto nella Carolina suonare alto il
principio: che la sovranità popolare genera in ogni Stato
confederato il diritto di rinunciare ai beneficî ed ai carichi
dell'associazione, e ritrarsene, quando il proprio vantaggio lo
imponga: principio che basta l'aver gittato perchè fermenti, e si
riproduca più tardi: principio che a noi sembra d'una verità
incontrastabile, e racchiude perciò il più forte argomento possibile
contro il vincolo federativo applicato a paesi che debbono e
vorrebbero starsi uniti in perpetuo.
Ma tra noi - ripetiamolo anche una volta - dove sono le differenze
che accennammo pur ora? - Travagliati dalla stessa vicenda, educati
nei bei secoli a glorie comuni, a libertà uniformi, poi a comune
servaggio, oppressi - nessuna provincia eccettuata - da una stessa
tirannide, soggiacenti a bisogni eguali, quali tra le cagioni che
vietarono all'America l'unità la vietano a noi? - È pur forza dirlo,
o ritrarsi. È pur forza scendere, rinunciando alle fallacie degli
esempî sul terreno italiano.
Quali sono in Italia gli ostacoli che si allegano insuperabili
all'unità?
Tralasciamo l'affermazione gratuita di chi contende non essere
possibile una repubblica in esteso terreno. È pregiudizio trapassato
per autorità d'uno in altro, senza esame di prove. Come una
repubblica non possa ordinarsi dove una monarchia costituzionale lo
può - come, serbato il potere legislativo al concilio nazionale,
l'autorità esecutiva trasportata da un capo ereditario a uno
elettivo e a tempo, induca impossibilità d'esistenza, non è facile
intenderlo. Se in oggi per noi si trattasse d'una repubblica
foggiata all'antica dove il popolo tutto quanto fosse chiamato a
discutere le proprie cose, forse i limiti prescritti da Rousseau ci
parrebbero vasti troppo(98); ma la repubblica moderna, la repubblica
rappresentativa, la repubblica nella quale il popolo opera per
mandatarî, non presenta difficoltà che non siano comuni alla
monarchia temperata, e meritino di essere combattute.
Tralasciamo egualmente gli argomenti dedotti dal clima vario in
alcuni punti. Oggi il termometro non è norma che valga alla scelta
delle istituzioni. E so che a taluno - nel XIX secolo - è piaciuto
scrivere: le assemblee deliberanti non convenire ai climi
meridionali; ma chi badò a quell'uno? La libertà è cittadina di
tutte le zone, nè lo sviluppo morale intellettuale dei popoli
concede ormai più predominio alle cause fisiche. Le differenze di
clima in Italia son poche: non maggiori di quelle che s'incontrano
altrove in paesi retti da un potere centrale monarchico; e siffatte
diversità, ove valessero, varrebbero contro ad ogni concentramento,
se monarchico o repubblicano, non monta(99).
La divisione, lo spirito di discordia che si rivela per entro alla
Storia come elemento contrario alla Italiana unità, forse affatica
tuttavia, più che non vorrebbero i tempi, le menti italiane, è
l'unico argomento potente che gli uomini del Federalismo invochino.
Forse abbiam detto: perch'è pur necessario, a chi non vuol vivere di
passato, intravvedere nel primo fatto italiano la fine di queste
discordie. Fremevano fieramente un giorno in Italia attizzate dagli
Imperatori e dai Papi, alimentate dalla potenza che fa gelosi e
audaci. Garriscono in oggi triviali e impotenti nelle pretese di
aristocrazie semispente e nelle invidiuzze d'accademie e pedanti, ai
quali la propria città - se non la sala ove si radunano - è troppo
vasto universo. Ma la prima voce di generoso che susciterà i
fratelli all'opre del braccio - il primo battere di tamburo che
chiamerà gl'Italiani all'insurrezione nazionale, sperderà quel
garrito; nè la potenza rinata varrà a risuscitare gli sdegni; perchè
sarà potenza conquistata col sangue di tutti nelle guerre di tutti,
per l'emancipazione di tutti; - potenza non di una o più città; ma
d'uomini di tutte terre italiane, armati contro un nemico comune,
raccolti sotto una comune bandiera. Manca un vessillo alla
divisione. Papi e Imperatori sono spenti. La tirannide lunga e i
delitti hanno logorato quella potenza che li costituiva capi di
parte, e traeva volontaria dietro alle loro insegne una metà
d'Italia. Manca un vessillo alla divisione, e consunta l'efficacia
di quei due simboli, chi sorgerà in loro vece?
Chiedetelo al voto che emerse spontaneo, e tu represso dalla sola
codardia dei governi, nella insurrezione del 1821 dal moto delle
moltitudini.
Chiedetelo al fremito della gioventù che indarno i tirannetti
d'Italia tentano spegnere - della gioventù serrata, dall'Alpi al
mare, a una lega, diciamolo pure altamente, invincibile - della
gioventù che s'oggi ancora si svia talvolta dietro a nomi e simboli
varî, non cede che al bisogno prepotente di moto che l'affatica, ma
sorgerà forte di concordia e d'unità indissolubile, ove una bandiera
Italiana s'inalzi di mezzo a' suoi ranghi.
Chiedetelo alla storia d'Italia, guardata filosoficamente, e
dall'alto de' suoi destini. -
Da quel voto, da quel fremito giovanile, dalla storia d'Italia, esce
una risposta assoluta:
Il popolo!
Il popolo: terzo principio che s'è lentamente inalzato sulle rovine
di quei due, ghibellino e guelfo, nordico e meridionale,
rappresentati dall'Imperatore e dal Papa, e condannati a rodersi
l'un l'altro, finchè s'estinguessero in una comune maledizione - il
popolo che non fu mai guelfo nè ghibellino, ma concedendo il braccio
e il sangue ora all'una or all'altra bandiera, dovunque lo chiamava
l'istinto che lo sprona allo sviluppo progressivo e all'Eguaglianza,
imparava ad abborrir l'una e l'altra - il popolo che come il
carroccio, simbolo santo della Patria Italiana, movea lento
attraverso le rivoluzioni e le guerre, ma era sicuro di giungere
alla vittoria - il popolo è d'ora innanzi solo dominatore in Italia
e nella sua grande unità si spegneranno tutte le divisioni che
mantennero le frazioni ostili per tanto corso di secoli. -
Certo: noi siamo divisi. Certo: il lievito antico della discordia
non s'è consumato tutto coi padri. Ma è divisione che s'agita dentro
il recinto d'ogni città; che s'esercita tra le classi, tra gli
individui che la compongono, anzichè tra popolo e popolo. Le lunghe
risse, le gelosie naturali a tutta l'aristocrazia, le disuguaglianze
che vivono enormi tra gli ordini della società, e più di tutto
l'arti molteplici e le insidie della tirannide, hanno perpetuata una
diffidenza che si mostra ancora nei fatti, e inceppa i nostri
progressi. Ma è diffidenza non regolata dalle istituzioni diverse,
non determinata dalle delimitazioni dei territorî: diffidenza che
cova in petto a ogni uomo, e genera l'isolamento: diffidenza che
ajuta l'individualismo, primo come più volte dicemmo, dei nostri
vizî. Or chi mai tentò spegnerla? Chi cercò struggerla alle radici?
L'aristocrazia mascherata in diverse guise prevalse sempre nei
tentativi rivoluzionarî passati: l'aristocrazia, elemento perpetuo
di gare e fazioni. Il popolo in cui solo cova l'elemento Italiano,
il popolo che anela per propria natura l'Eguaglianza, e ha quindi
solo virtù per fondar l'unità, non fu curato mai nè cercato. Però
vedemmo in Bologna sorgere germi d'esclusiva supremazia, e
suscitarsi quindi una diffidenza nelle altre città dell'Italia
centrale; ma furono quelle pretese di popolo? - no: furono pretese
di forensi, e di poca gente che sotto l'assisa della Libertà serbava
vive le misere ambizioncelle del vecchio dominio. Il Popolo invocava
armi e capi che lo guidassero a soccorrere i fratelli di sventura
impotenti a levarsi da sè. - Vedemmo Piemonte e Genova ostili per
memoria di antica nimicizia fremere l'un contro l'altra sicchè
furono detti nemici irreconciliabili; ma quando? - quando da un lato
stava una monarchia rapace e ingiusta, dall'altro una aristocrazia
gelosa e tirannica, e il popolo era nullo nei due paesi. Ma quando
un grido di libertà, comunque fiacco ed inerte, fu pronunciato in
Torino e Genova, Genova e Torino s'affratellarono in un voto, in una
speranza di Popolo, e a me che scrivo suona ancor dentro l'anima il
plauso che giovanetto raccolsi dal popolo Genovese agli uomini del
Piemonte che movevano verso Novara - e quel plauso del 1821 lo
raccolsero i Piemontesi come pegno di fratellanza che un sol grido
di popolo ridesterà - e a quel pegno l'ultimo gemito di Laneri e
Garelli ne aggiunse un più santo e tremendo - e oggi checchè si
tenti da un re spergiuro, Genova e Piemonte son uno. Così, fremente
la guerra tra il Clero e l'Aristocrazia, tra questa e i popolani, le
Città Lombarde si divorarono per due secoli le une coll'altre; ma
quando il nome di Repubblica Italiana suonò per quelle contrade,
l'incremento dato a Milano non accrebbe, scemò le gelosie locali
delle altre città; e quando, sotto il regno d'Italia, confortò gli
animi una illusione d'avvenire Italiano, il Veneto, il Romagnolo, il
Lombardo, l'Anconitano, vissero nella stessa unità di politica, di
leggi, di tributi, di capitale - un terzo d'Italia si confuse in una
comune emancipazione, e le relazioni che apparivano prima diverse,
emersero a un tratto, e senz'alcun danno, uniformi. Così la politica
grida separati per sempre dalla tempra degli uomini, o dalla natura,
Piemonte e Napoli - e si mostrarono infatti tiepidi all'unità,
quando dodici anni addietro due Principi furono depositarî dei
destini italiani; ma date in Napoli una voce di Libertà nazionale -
sia voce di popolo, non menzogna di Principe - e udrete quale eco di
unità, quai voti di fratellanza rimanderà il Sud agli Stati Sardi.
Il popolo ha il segreto dell'unità. Il popolo non guarda a sistemi:
non s'illude spontaneo dietro a norme di scuole americane o inglesi:
segue il core; va per la via sulla quale lo sprona il soffio di Dio
- e il soffio di Dio ha cacciato tale un raggio nella pupilla
italiana, il suo dito ha scritto tale una sillaba di fratellanza in
ogni fronte italiana, che nè tempi nè risse aizzate nè insidie di
Principi stranieri o nostri potranno mai cancellare. - Guardatevi in
volto, o Italiani!... Ivi troverete, voi soli, il decreto della
futura unità.
Non la realtà degli ostacoli, la sola paura, deità onnipotente ai
più tra i politici, crea le difficoltà di ridursi a reggimento
unitario.
Pochi anni addietro la repubblica era sogno di pochi che la
veneravano nel segreto, e s'ottenevano il nome di utopisti dai molti
che la confessavano l'ottima fra le istituzioni a patto di sbandirla
dal positivo. Oggi, gli utopisti son gli uomini che s'ostinano a
trovare un monarca dove non è materia di monarchia, e rinegano li
infiniti elementi repubblicani che vivono potenti in Italia - e se
quei pochi non s'arrestassero tremanti davanti a un nome, se il loro
voto si aggiungesse al predominante della moltitudine, la repubblica
parrebbe transizione naturale agli eredi degli uomini del XII e del
XIII secolo, anzichè crisi violenta e pericolosa. L'Italiana Unità
apparirebbe opera non solo santa, ma facile, se pel corso di pochi
mesi ai vocaboli diversi nelle pagine degli scrittori e nei discorsi
dei dotti sottentrasse quell'uno.
Perchè, quali forti cagioni avvalorano in oggi le divisioni tra noi?
D'onde deriva la condanna di eterna lite alla quale, secondo i
Federalisti, soggiace l'Italia?
Alcuni invocano le razze.
Or le razze tra noi dove sono? - Dove si mostrano predominanti? - In
qual punto hanno serbato le loro conquiste? - Su quale palmo di
terreno italiano può additarsi oggi ancora il trionfo di una razza
straniera? - E per qual via dalle razze potrà dedursi una divisione
federativa? La mano di Dio le ha disseminate e confuse in ogni
provincia italiana; e dov'è l'uomo che presuma risuscitarle,
separarle, e dire ad esse: quella frazione di terreno spetta alla
razza Germanica, quell'altra alla Illirica?
Noi concediamo molto alle razze: aggregati di milioni che dispersi
serbano quasi un segno, una parola segreta per riconoscersi, che
hanno l'impronta d'una missione misteriosa e solenne, e lottano
ostinatamente colle influenze straniere di luoghi e d'uomini sino al
compimento di quella. Ma quando la missione appare evidentemente
consumata, perchè ostinarsi a perpetuarla? Quando l'ire sono spente
da secoli, perchè volerle rieccitare dalla polvere del sepolcro
comune? Quando la traccia distinta delle razze è perduta, perchè
logorare le forze a rintracciarla sotto lo strato uniforme che la
ricopre? - In Italia fu il convegno di tutte le razze. Qui sulle
nostre terre si raccolsero tutte quasi a congresso, come se nella
Penisola dovesse cacciarsi il compendio del mondo; come se l'Italia
futura avesse a riunire la vivezza e la spontaneità meridionale
colla gravità e la profonda costanza delle razze settentrionali.
Vennero mute, ignote, senza nome, senza bandiera, fuorchè quella
della distruzione; senza missione, fuorchè quella di ritemprare la
razza antica ammollita e di portar seco i semi d'incivilimento
caduti quasi a caso dall'albero, ch'esse tutte scesero a scuotere
senza poterne svellere le radici. Si confusero tutte dopo un urto
potente, si cancellarono insensibilmente senza che alcuna valesse a
rimanersi dominatrice; senza che alcuna valesse a resistere
all'azione dell'elemento italiano primitivo. Noi le vincemmo tutte.
Quando anche gl'Italiani parevano materialmente soggiogati, il
principio sopravviveva e conquistava tutti gli elementi che
l'opprimevano. Eterno come il diritto romano che si mantenne
frammezzo al rovesciarsi dei barbari, il principio italiano logorò
poco a poco le razze Greche, Germaniche, Illiriche, Saracene. Uno
spazio minore di un secolo ci valse ad assorbire la razza Gota:
duecento anni a sottomettere i Longobardi. Vinti e vincitori si
fusero in un solo popolo. Le risse si quetarono nella tomba. Nella
grande unità romana si operò la fusione delle razze greco-latine:
nella grande unità del Cattolicesimo, durante il dramma dell'Impero,
quella delle razze settentrionali. - Oggi la missione individuale
delle razze in Italia è compiuta. Da tre secoli in quella polvere
ov'esse giacciono s'elabora la fusione ultima, decisiva,
irrevocabile. Una grande pace si stende su quelle reliquie. Non la
turbiamo. Possiamo noi dissotterrare l'ossa dei milioni, e dire a
qual razza appartengano?
E di questa lenta, ma sicura fusione, di questo segreto lavoro
unitario, le tracce appajono più o meno evidenti nella nostra
storia, dal secolo IX in cui incominciarono a sorgere i primi germi
delle libertà cittadine sino al XII e XIII, nei quali quasi tutte le
terre italiane si ressero spontaneamente e senza accordo fra loro a
Comune, e da quei secoli in poi nel fermento intellettuale, che si
manifestò quasi a un tempo per tutta la penisola, nel
riavvicinamento progressivo dei costumi e delle abitudini, ch'oggi
non sono più dissimili tra un Marchigiano e un Toscano di quello
siano tra le famiglie Basche, Bretone, Normanne di Francia, e in
quella continua lotta che fu combattuta ora aperta or celata fra il
Papa e l'Impero, lotta il cui segreto è tutto nella ricerca
dell'unità, intorno alla quale gli Italiani sentivano il bisogno di
concentrarsi, e la travedevano or nell'uno or nell'altro vessillo.
Noi qui non possiamo diffonderci nell'esame delle epoche storiche
che additano questo vero. A siffatta indagine manca il tempo e
mancano i libri. Scrivo errante di casa in casa, fuggendo la
persecuzione della polizia francese federata colle italiane. Ma da
qualunque s'addentri con occhio di filosofo nella nostra storia,
verrà scoperta una idea generatrice, anima, vita delle nostre
vicende, una tendenza continua all'unità, troppo poco osservata
finora.
E s'anche alcune reliquie delle antiche divisioni rimasero
nell'Italia del XIX secolo, perchè, pur confessando che il tempo le
va struggendo, ostinarsi a farne elemento degli ordini futuri
italiani? Perchè, quando tutti deplorano funestissime quelle
divisioni, sancirle, riconsecrarle con una legge, anzichè spegnerle
a un tratto col decreto energico d'Unità? Il vizio d'accettare ogni
fatto, qualunque ne sia l'efficacia, e dargli diritto di
cittadinanza contemplandolo come legittimo nella costituzione dello
stato, è vizio comune pur troppo a molte legislazioni politiche; non
però meno fatale, perchè imprimendo un carattere pressochè
incancellabile a quei fatti, tende a perpetuarli, e chiude le vie
del progresso. Le leggi di Manou hanno trattenuto e trattengono
l'India nella disuguaglianza delle caste, nella schiavitù delle
femmine, e nella inerzia; perchè, trovati quei fatti, ne
introdussero gli elementi, come immutabili, nell'organizzazione
dello stato. Or, vorremo noi, figli del mondo progressivo europeo,
introdurre nella politica l'immobilità dell'Oriente? - Le buone
leggi guardano all'avvenire. I legislatori non registrano i fatti;
ma, dove riescono dannosi, tentano modificarli o distruggerli. Il
Potere che regge la somma delle cose in una nazione, non deve
trascinarsi stentatamente dietro allo spirito d'incivilimento che la
governa; bensì deve promoverlo primo, e antiveggendo il pensiero
sociale, inalzarne in alto la bandiera, perchè tutti v'accorrano e
lo sviluppino rapidamente. Il pensiero sociale in Italia è l'Unità.
Le opposizioni son deboli; e non pertanto anche senza oprare
tirannicamente, violentandole, v'è mezzo di soddisfare, quanto
esigono, ad esse colla libertà di comune e di municipio. Ma se i
futuri Legislatori d'Italia confessassero mai invincibile, ordinando
le Federazioni, il fatto - se pur è fatto - delle divisioni, avranno
preparato nuove risse e sangue e pianto e un secondo medio evo
all'Italia, se non prima un nuovo servaggio comune.
II(100).
Lo scritto che precede non fu compito, nè oggi, s'io guardassi
unicamente al presente, importerebbe compirlo. Il fatto m'ha dato
ragione e ha confutato in modo da non ammettere discussione i dubbî
dei federalisti. La potente unanime voce del popolo d'Italia ha
dichiarato ai letterati teorizzatori che la nostra utopia di trenta
anni addietro era intuizione profetica de' suoi bisogni, delle sue
aspirazioni, della sua vita segreta, del suo avvenire. Libero una
volta del proprio voto, il popolo ha sciolto il problema e s'è
chiarito unitario a ogni patto: s'è chiarito tale nelle circostanze
più sfavorevoli, sagrificando all'intento l'esercizio d'ogni altro
suo dritto, vincendo con insistenza mirabile davvero le paure e i
tentennamenti della monarchia, resistendo alle seduzioni colle quali
l'alleato straniero e gli atterriti o compri sostenitori d'ogni suo
consiglio tentarono travolgerlo in disegni di confederazione che lo
condannerebbero a debolezza perpetua. Il giudizio del paese dovrebbe
dunque esimermi dall'aggiungere oggi pagine a pagine.
Ma davanti allo sgovernar sistematico d'una setta d'uomini che,
increduli sino a ieri d'ogni possibile attuazione dell'Unità
Nazionale, son oggi chiamati dalla monarchia a governarla; davanti
alla inetta pertinacia colla quale quelli uomini tentano sostituire
all'espressione invocata della vita Nazionale collettiva
l'espressione data più che imperfettamente tredici anni addietro
alla vita d'una piccola frazione d'Italia, il giudizio del paese
può, non dirò retrocedere alla vecchia condizione di cose, ma
vacillare pericolosamente sulla via che l'istinto della missione
Italiana gli addita. La Nazione è un fatto nuovo che non può trovare
la propria espressione se non in un Patto Nazionale dettato da una
Costituente Italiana in Roma, in un ordinamento di armi cittadine da
un punto all'altro del paese, in una politica italiana emancipata da
tutte protezioni e ingerenze straniere, in una guerra arditamente
impresa con un intento Europeo pel Veneto, e in un Governo, non di
consorteria, ma di popolo, senza esclusione fuorchè degli avversi
all'Unità della Patria. Se chi regge s'ostina a contenderci siffatte
cose, avremo crisi e riazioni inevitabili di popolazioni deluse.
Importa che in quelle crisi non corra rischio d'andar sommersa
l'immensa conquista dell'Unità. Importa che l'idea s'addentri di
tanto nel popolo da immedesimarsi colla sua vita ed escire più
splendida di potenza e di fede da ogni rivolgimento d'eventi.
L'Unità era ed è nei fati d'Italia. Ad essa, come a intento supremo,
accenna - fin da quando il germe della nazionalità Italiana fu
cacciato dalle tribù Sabelliche nella regione Abruzzese tra le nevi
del Majella, il Gran Sasso d'Italia, umbilicus Italiæ, e l'Aterno -
il lento ma continuo e invincibile moto della nostra Civiltà: lento
come quello che doveva tra via, prima di giungere a fondar la
Nazione, conquistare due volte il Mondo; ma continuo d'epoca in
epoca attraverso la lotta dell'elemento popolare contro tutte
aristocrazie straniere e domestiche, e invincibile davvero dacchè nè
le religioni mutate nè le invasioni di tutte le genti d'Europa nè
lunghi periodi di barbarie e rovina valsero ad arrestarlo. La storia
del nostro popolo contiene il segreto della storia d'Italia e del
nostro avvenire e avrebbe rivelato ai nostri scrittori e agli uomini
politici che in Europa s'affaccendarono intorno alle cose nostre il
fine ineluttabile, verso il quale tutte le vicende spingevano la
gente italica. Ma chi fra gli storici d'Italia tentò rintracciare e
descrivere la vita del nostro popolo? Machiavelli stesso fallì, fra
i nostri, all'impresa, nè ci verrebbe fatto desumere dalle sue
pagine le condizioni relative del popolo ch'ei descrisse paragonate
a quelle del periodo anteriore. A Sismondi, unico che meriti nome
tra gli storici stranieri di cose nostre, non valsero le tendenze
democratiche nè i lunghi pazienti studî: ei tessè più ch'altro la
storia delle fazioni, delle ambizioni, delle virtù e dei vizî delle
famiglie illustri d'Italia, senza indovinare il lavoro di fusione -
intravveduto ma accennato appena a rapidi tocchi da Romagnosi - che
si compiva tacito senza interruzione nelle viscere del paese. Però,
l'animo profondamente italiano di Machiavelli proruppe in un grido
d'Unità, ma senza speranza fuorchè dalla dittatura d'un principe;
Sismondi, non italiano, si rassegnò disanimato a una impossibilità
che non era se non apparente, e scritta l'ultima pagina della sua
storia, dichiarò utopia l'Unità. «Come mai in una contrada dove ogni
pubblica discussione è oggi vietata, dov'è chiusa la via a ogni
pubblica celebrità, l'elezione popolare sceglierebbe gli uomini ai
quali dovrebbe essere affidata la sovranità? Come sperare che i
cittadini del più grande numero dei piccoli Stati italiani si
rassegnino a sceglierli, se pur deve ottenersi una maggioranza
reale, fra i cittadini d'altri piccoli Stati, dov'essi non vedono
che stranieri e rivali? Come possono i fautori dell'Unità ideare che
le gare e le diffidenze esistenti fra tanti Stati indipendenti siano
dimenticate, non solamente da pochi pensatori dominati
dall'entusiasmo, ma dalla moltitudine alla quale i proprî ricordi,
gli affetti, i pregiudizî parlano più eloquenti che non i loro
freddi ragionamenti? E come non prevedono che tutte le antipatie
locali riarderebbero irresistibili appena una legislazione generale
tenterebbe decidere intorno a questioni giudicate diversamente dalle
varie popolazioni italiane?(101).» I plebisciti del 1860 e le
elezioni che dall'estrema Sicilia rintracciarono, nell'anno in cui
scrivo, parecchi tra i rappresentanti nell'estremo nord, hanno
sciolto il nodo. Ma nè storici letterati, nè cospiratori da noi in
fuori, nè i chiamati a dirigere le insurrezioni, nè i viaggiatori
dilettanti scendenti in Italia a contemplarvi dipinti antichi e
imbeversi di melodie, nè i poeti ai quali una scintilla di vita in
Italia avrebbe rapito la bella imagine d'una Nazione scesa nel
sepolcro per sempre, sospettavano trenta o quaranta anni addietro il
fatto generatore d'ogni nostro progresso che il popolo d'Italia
s'era a poco a poco sostituito a tutti elementi parziali,
soggiogando, assorbendo ogni influenza di razza e di casta. Or dove
il popolo d'una nazione siede elemento dominatore, l'Unità - purchè
la Libertà abbia tempio inviolabile nel Comune - è certa,
infallibile. Le aristocrazie sole mantengono lo smembramento, come
quelle che più facilmente primeggiano in zone anguste, sulle quali
la tradizione avita splende di luce potente e l'autorità dei
possedimenti s'esercita diretta e sentita nei buoni siccome nei
tristi effetti.
«Sismondi(102) - e ne parlo insistendo, perchè ei rappresenta tutto
un ordine di scrittori che desunsero l'avvenire da un passato
superficialmente inteso - uomo d'ingegno, di dottrina, e d'onesta
fede, storico sincero sempre, talora profondo, più spesso scettico e
incerto, tentennante fra dottrine diverse e governato dai fatti
quali nelle apparenze si mostrano anzichè potente a interpretarli e
ordinarli dall'alto della legge che li produce, non indovinò il
fatto generatore al quale ho poc'anzi accennato. Le repubbliche
italiane, delle quale ei ci narrò con amore la storia, lo
incatenarono a sè. Cacciato dal suo soggetto a vivere lungamente tra
le sempre rinascenti contese delle città italiane, tra le guerre che
per seicento anni si mossero Guelfismo e Ghibellinismo, ei non seppe
staccarsene, s'immedesimò con quei vecchi combattenti del medio evo
e smarrì con essi la facoltà d'intendere il presente e presentire il
futuro. Era mente analitica, incapace di sintesi: diseredato quindi
d'una metà degli elementi intellettuali che fanno lo Storico, ei
descrisse mirabilmente la parte esterna di quelle contese, ma senza
intenderne il significato, senza intendere ciò che esse veramente
rappresentavano o le loro inevitabili conseguenze. Non vide che il
Papato e l'Impero erano solamente pretesto e simbolo visibile ad
esse, ma che la loro vera cagione stava nella crisi segreta di
fusione interna dalla quale l'Italia andava procacciandosi una
eguaglianza d'elementi avversa al privilegio, alle caste, al
federalismo. Una falsa dottrina filosofica spingeva fatalmente
Sismondi verso il materialismo storico del secolo XVIII; e quando ei
vide spegnersi tutto quel tumulto di fazioni e i due giganti della
lotta, il Papa e l'Imperatore, inchinarsi siccome stanchi l'un verso
l'altro e segnare sul cadavere di Firenze una pace della quale
Cambrai avea stabilito i preliminari, ei mormorò mestamente a sè
stesso: questa è la morte d'Italia.
«Era soltanto la morte dell'Italia dell'evo medio, delle sue
ineguaglianze di razze e di civiltà, delle sue interne discordie,
del suo dualismo; la morte d'un'Epoca che lasciava schiuso il varco
ad un'altra; la cui grandezza dovea calcolarsi dalla(103) sua lunga
e faticosa iniziazione. Il fatto stesso di quell'alleanza tra due
poteri fino a quel giorno irreconciliabili avrebbe dovuto insegnare
allo storico lo sviluppo d'un terzo principio che li minacciava
ambedue e ch'essi non si sentivano, separati, capaci di combattere e
vincere.
«E seguendone la vita latente, egli avrebbe veduto quel terzo
principio conquistarsi più sempre potenza in quel periodo che gli
osservatori superficiali chiamano di degenerazione e d'inerzia.
Perita la libertà delle città, il lavoro egualizzatore proseguì più
che mai attivo e fecondo, latente perchè dalla superficie era
trapassato al core della Nazione, ma rivelato, quasi per getti
vulcanici, dai moti di Genova nel 1746, di Napoli nel 1647 e più
dopo nel 1799, moti tutti di popolo. E nondimeno, tre secoli della
nostra storia rimasero muti e privi di senso a Sismondi. L'assenza
d'ogni manifestazione visibile di progresso gli parve a torto
negazione di progresso. Colla caduta di Firenze ei vide conchiusa la
storia d'Italia; e quando gli vagavano per la mente imagini d'una
Italia vivente, ei le giudicava colle norme desunte dallo studio dei
Guelfi e dei Ghibellini. Quindi i suoi terrori, simili a quelli coi
quali dimenticando Sarpi, Venezia, Leopoldo, tutto il decimo ottavo
secolo e il materialismo francese anche di soverchio invadente, ei
travedeva ne' suoi ultimi anni, in virtù di ricordi e fatti isolati,
onnipotente il Cattolicesimo.
«Agli uomini i quali, come Sismondi, s'atterriscono del riapparire
probabile delle razze diverse in Italia, io vorrei chiedere
d'indicarmi su questa terra dove le razze non cessarono mai dal
primo loro apparire di frammischiarsi, di confondersi e assimilarsi,
una sola zona nella quale una sola d'esse in oggi predomini; vorrei
m'additassero una sola diversità fra gli Italiani lombardi, romani,
napoletani, che non possa additarsi in Francia, omogenea fra tutte
le nazioni, fra gli uomini dei Pirinei, della Bretagna, della
Normandia e della Provenza. Tra noi le rivalità cessarono colla
guerra. Trecento anni di oppressione comune hanno dato a tutti noi
condizioni identiche di vita e di morte. Esistono in Italia elementi
pel Comune, associazione naturale, non per le aggregazioni
artificiali di Stati e Provincie.
«Per una apparente contradizione perfettamente spiegata dalla vanità
compagna inseparabile della mediocrità, la diffidenza e le gare
rivali, alle quali accenna paurosamente Sismondi, s'agitano talora
tuttavia irrequiete fra i semi-pensatori politici e letterarî ai
quali l'Italia va debitrice d'influenze e di scuole straniere e che
stendono sulla nazione uno strato superficiale oltre il quale pochi
s'addentrano: in essi almeno vive una tendenza ad ammettere siccome
reali e ingigantir quelle gare. Il popolo le ignora. I sistemi di
governi corrotti fondati sul terrore e sullo spionaggio,
l'irritazione generata dai lunghi patimenti, l'assenza d'educazione
e d'interessi politici collettivi e gli stimoli d'una individualità
più che altrove potente, hanno creato e mantengono nelle nostre
moltitudini abitudini facilmente sospettose, pronte alle subite
riazioni e a diffidenze pericolose. Ma s'altri travedesse nelle
piaghe dell'individuo germi di federalismo, convertirebbe in
provincie gli uomini. Quei vizî si sfogano tra gli abitanti, tra le
classi, tra i quartieri di ciascuna città; di rado s'alimentano di
città in città; riescono invisibili tra provincia e provincia. Il
bisogno d'una attività indipendente e la sovrabbondanza di vita che
caratterizzano in Italia l'individuo e la civica corporazione alla
quale egli naturalmente appartiene, daranno al Genio legislatore lo
stromento opportuno a proteggere la libertà contro le usurpazioni
d'un soverchio concentramento amministrativo, ma non possono creare
la necessità di larghe divisioni politiche, nè la crearono mai.
Diresti i fautori del federalismo provinciale incapaci d'avvertire a
due fatti elementari della nostra storia, che gli Stati nei quali
visse per trecento e più anni divisa l'Italia non emersero spontanei
da voto o tendenze speciali dei popoli, ma furono creati dalla
diplomazia, dall'usurpazione straniera o dalla violenza dell'armi: -
che non esce dalla nostra storia quasi mai prova di formale definito
antagonismo tra provincie e provincie. Le spade cittadine non
segnarono mai i loro confini. Le nostre guerre, quando non furono,
come dice Dante,
Fra quei che un muro e una fossa serra
furono tra città e città; tra città d'una stessa provincia: tra
Pavia, Como, Milano, tra Pisa, Siena, Arezzo, Firenze, tra Genova e
Torino, e così nell'altre zone d'Italia, non tra Lombardia e
Piemonte, tra Toscana e Romagna, fra le terre napoletane e quelle
del Centro. - Or non composero quelle città tutte gare e discordie
sotto reggimenti comuni? Non vissero in lunga pace tra loro sotto un
solo padrone? Se le vecchie contese dovessero riardere al soffio
della libertà, noi dovremmo tornare alle cento repubblichette
dell'evo medio, non agli Stati e alle grandi Provincie. È(104) tra
noi un solo federalista che spinga la logica fino a quei termini?
«Non esiste fra noi dissenso tra zona e zona, tra provincia e
provincia. Gli osservatori superficiali, gli stranieri segnatamente,
udirono talora, negli ultimi cento anni, in Italia, lagni di servi
che s'agitavano contro altri servi lenti a rispondere
all'agitazione; o ricordi orgogliosamente invocati, quasi a
inanimarsi, di glorie locali; o rimproveri avventati da una ad altra
provincia, tristissimo sollievo di schiavi che tentano addormentare
col malignarsi reciproco il dolore e la vergogna delle catene; e ne
desunsero pericoli pel futuro, senza intendere che la libertà di
tutte cancellerebbe in un subito le cagioni dell'aspreggiarsi e che
la campana a stormo della Nazione imporrebbe silenzio, coll'annunzio
d'un lieto collettivo avvenire per tutti, ad ogni garrito.
Dimenticarono la singolare unità colla quale parecchi anni prima del
1789, furono predicate e tentate riforme simili ovunque, per tutte
le parti della Penisola. Dimenticarono l'unità di governo, di
legislazione, di commercio che strinse in uno, sul cominciare del
secolo e senza che un solo germe d'interna discordia apparisse,
quasi otto milioni d'italiani del Veneto, della Lombardia, delle
provincie Romane. Dimenticarono l'entusiasmo col quale i popolani di
Genova, nemici apparentemente irreconciliabili al Piemonte pochi dì
prima, versavano fiori nel 1821 sui militi piemontesi che
accennavano movere contro gli Austriaci - il grido potente d'Italia
frainteso dieci anni dopo dai miseri Governi provvisori del Centro,
ma unanime tra i popoli insorti - l'ardente apostolato Unitario
delle nostre associazioni segrete negli anni che seguirono - il
sangue versato da martiri di tutte provincie d'Italia in nome della
Patria comune - e segnatamente il principio: che un Popolo non more
nè s'arresta mai sulla via prima d'avere raggiunto l'intento storico
supremo della propria vita, prima d'aver compita la propria
missione. Or la Missione Nazionale d'Italia era additata dalla
geografia, dalla lingua, dalle aspirazioni profetiche dei nostri
Grandi d'intelletto e di core, e da tutta una splendida tradizione
storica che potea facilmente disotterrarsi sol che dai fatti delle
aristocrazie o dalle azioni degli individui si scendesse a studiare
la vita del nostro popolo. La Nazione, dicevano, non ha esistito
mai: non può dunque esistere. La Nazione, noi dicevamo dall'alto
della sintesi dominatrice, non ha esistito finora, esisterà dunque
nell'avvenire. Un popolo chiamato a compiere grandi cose a benefizio
dell'umanità deve un dì o l'altro costituirsi in Unità di Nazione.»
E il nostro popolo s'avviò lentamente d'epoca in epoca verso quel
fine. Soltanto, la storia del nostro popolo o della nostra
Nazionalità ch'è una cosa con esso, non fu, come dissi, scritta
finora. A me pesa più assai che non posso esprimere di dover portare
inadempito alla sepoltura il desiderio lungamente accarezzato di
tentarla a mio modo. Ma chi vorrà e saprà scriverla senza affogare i
punti salienti del progresso italiano sotto la moltitudine dei
minuti particolari, e sorvolando di periodo in periodo lo sviluppo
collettivo dell'elemento italiano, darà base fermissima di
tradizione all'Unità della Patria; e sarà la sua ricompensa.
Dimostrata cogli antichi ricordi, coi vestigi delle religioni, e
colle recenti ricerche etnografiche, l'indipendenza assoluta del
nostro incivilimento primitivo dall'Ellènico posteriore d'assai, lo
scrittore torrà le mosse, per additare i primordi della nostra
Nazionalità, dalle tribù Sabelliche le quali collocate, come più
sopra accennai, intorno all'antica Amiterno, assunsero prime,
congiunte agli Osci, ai Siculi, agli Umbri, il sacro nome d'Italia,
e iniziando la fusione degli elementi diversi sparsi sulla Penisola,
mossero a configgere la loro lancia, simbolo d'autorità, nella valle
del Tebro, nella Campania e più oltre. Fu la prima guerra
d'indipendenza dell'elemento italiano contro l'elemento, d'origine
probabilmente semitica, chiamato dagli antichi pelasgico. La seconda
fu quella condotta dai Romani Italiani contro l'elemento celtico e
Gallo: guerra divisa in due periodi che comunque sovente
s'intreccino l'uno coll'altro potranno pur sempre e facilmente
scernersi siccome distinti dallo scrittore. Il primo, nel quale
diresti che l'Italia segnasse a Roma i termini della sua missione
unificatrice dicendole: sarò tua a patto che la tua vita
s'immedesimi colla mia, ha il proprio punto culminante nella guerra
colla quale le città socie, risuscitato il vecchio nome d'Italia e
battezzando di quel nome il centro della Lega, Corfinio, chiesero e
ottennero la cittadinanza di Roma che poi s'estese a quanti vivevano
tra l'Alpi e il Mare: il secondo, mira colle forze romane convertito
in italiche, a promuovere il trionfo dell'elemento indigeno sugli
elementi stranieri. Poi venne il grido-programma, che l'epoca
successiva dovea raccogliere, di Spartaco. Poi la dittatura di
Cesare che conchiuse la prima epoca della fusione italiana. Era
fusione, più che sociale, politica; ma italiano a ogni modo era,
nelle forme materiali, verso il conchiudersi di quell'epoca,
l'incivilimento rappresentato da Roma; italiani di tutte provincie
erano gli ingegni che in Roma si concentravano; italiana era la rete
di vie che vi mettea capo: italiano il diritto civile: italiano il
sistema municipale: italiana l'aspirazione dei popoli. E la seconda
epoca che s'iniziò tra le incursioni barbariche incominciò e
proseguì con pertinacia mallevadrice di vittoria il lavoro di
fusione sociale, ch'oggi ci rende capaci di farci Nazione.
E lo scrittore della Storia invocata mostrerà come, smembrata
l'unità politica e spento apparentemente il moto nazionale condotto
con rapidità prematura e per via di conquista da Roma, il lavoro di
fusione si rifacesse per intima spontaneità e localmente dal popolo,
e come le popolazioni, disgiunte com'erano, sembrassero obbedire a
una forma identica per ogni dove, tanto le vie seguite da quel
lavoro apparvero simili e generatrici di conseguenze uniformi. Due
elementi prepararono, in quell'epoca d'apparente dissociazione che
ha nome di medio evo, l'unità della Patria Italiana: l'elemento
cristiano rappresentato sino al decimoterzo secolo dalla Roma
papale, e custode dell'unità morale: e l'elemento municipale che
sopravvivendo profondamente italiano alle invasioni, logorò
appoggiandosi sul popolo, il predominio successivo delle razze
straniere, e le ineguaglianze sociali che la conquista aveva
impiantato o radicato in Italia. La storia del primo elemento fu
dettata sempre da una cieca superstiziosa adorazione o dagli uomini
puramente negativi del materialismo, ed è necessario rifarla. La
storia del secondo fu trasandata e sommersa nella storia della
individualità prominenti o dei fatti esterni: pochi, se pur taluno,
scesero e a balzi, fino alle radici della vita italiana. Il moto fu
tutto di popolo e contro le aristocrazie politiche, feudali,
territoriali, che avrebbero, perpetuandosi, perpetuato lo
smembramento. Al di sotto dei nobili, degli eredi dei conquistatori,
sprezzatori, alteri, ignoranti e infangati di passioni sensuali, i
lavoratori delle terre, gli uomini di commercio e d'industria, gente
di razza nativa, si giovavano della noncuranza dei padroni per
l'arti utili e produttive ad arricchirsi con esse: si giovavano
financo della triste necessità che, rotte le comunicazioni tra
l'Italia e l'altre parti d'Europa, imponeva agli abitatori delle
nostre contrade di nutrirsi coi prodotti del suolo, a richiamare in
vita l'agricoltura decaduta negli ultimi tempi dell'impero. La
piccola coltura sottentrò all'inerzia degli spenti o scacciati
proprietarî di latifondi. La vita localizzata, migliorando
tacitamente e afforzandosi delle immortali tradizioni
romano-italiche e riconquistando inavvertitamente terreno, preparò
il moto splendido dei nostri Comuni, e una classe operosa,
industriale, avversa a tutte distinzioni arbitrarie, a tutte
ineguaglianze non fondate sul lavoro, a tutte supremazie traenti
origine dalla conquista o da permanenti influenze straniere. Nella
storia di quella classe è il vero criterio col quale devono
giudicarsi le nostre vicende. In essa è la norma del progresso
italiano e della nostra unificazione: in essa il segreto delle
tendenze democratiche onnipotenti checchè si faccia sulla nostra
vita e che condurranno quando che sia inevitabilmente l'Italia
all'ideale repubblicano. La doppia protesta dell'elemento popolare
Italiano contro l'elemento tedesco da un lato, contro l'elemento
feudale dall'altro, emerse sempre, attraverso errori, illusioni e
contradizioni momentanee inseparabili da ogni storia di popolo, dai
tempi d'Ottone I sino a quelli di Carlo V. La guerra dell'elemento
italiano contro il predominio straniero comincia visibile tra il X
secolo e l'XI nel tentativo di Crescenzio, nell'elezione d'Arduino
d'Ivrea, nelle risse continue di Pavia, di Ravenna, di Roma, fra
Tedeschi e Italiani, nei moti di Milano contro vescovi e grandi
fautori dell'elemento anti-italiano; cova nel gigantesco tentativo
frainteso sinora dai nostri di Gregorio VII; scoppia tremendamente
eloquente nella Lega Lombarda; s'ordina nei nostri Comuni; vive nei
pensieri rimasti a mezzo d'Innocenzo III, e va oltre. La guerra
dello stesso elemento contro le aristocrazie feudali e altre si
manifesta verso lo stesso periodo di tempo nei tentativi del Mottese
Lanzone, nelle ispirazioni della contessa Matilde, negli asili
aperti dai Benedettini della valle del Po agli schiavi fuggiaschi,
nel moto emancipatore dei servi convertiti in liberi contadini, e
procede aperto, innegabile nelle nostre repubbliche. L'una e l'altra
preparano la nostra Unità.
E il moto unitario procede anche dopo caduta l'ultima libertà
italiana in Firenze e quando, muta ogni vita pubblica, tra
dominazioni straniere e principati abbietti vassalli dello
straniero, appare spenta per sempre ogni speranza di Patria. La vita
locale, compressa dalla violenza, s'estende nella sua base. Poche
tra le sue manifestazioni riescono in quel terzo periodo, visibili;
ma quelle poche assumono carattere universale, italiano. Lo storico
dovrà rintracciarne lo sviluppo negli studî dei nostri
giurisprudenti, nell'iniziarsi d'una scuola economica accettata
teoricamente, poi che la pratica era allora impossibile dagli
ingegni d'ogni parte d'Italia, nel decadimento degli statuti locali,
nella tendenza a basi di legislazione uniformi, nel nostro moto
filosofico del secolo XVII, nella lenta rovina dell'ultime
aristocrazie combattute per sete di potere dalle tirannidi o
avvilite per la loro evidente impotenza dal disprezzo dei popoli, e
nel tacito accrescersi di quella classe data all'industria,
all'agricoltura, al commercio, al lavoro, sorta, come fin da
principio accennai, dalle viscere della nazione e imbevuta di
tendenze, abitudini, aspirazioni uniformi da un punto all'altro
d'Italia. Tu senti, addentrandoti sotto lo strato di servaggio steso
su tutto il paese in cerca della vita latente, che l'energia di
quella vita potrà essere più o meno indugiata nelle sue rivelazioni,
ma che le prime saranno di Nazione, non di Provincie o di Stati. E
tali apparirono sul finire del secolo XVIII. D'allora in poi
l'Italia, martire o combattente, non ebbe più che una sola bandiera.
Sì, l'Unità fu ed è nei fati d'Italia. Il primato civile Italico che
s'esercitò coll'armi e colla parola dai Cesari e dai Pontefici è
serbato una terza volta al Popolo d'Italia, alla Nazione. Quei che
fin da quaranta anni addietro non vedevano la progressione segnata
verso quel fine dai periodi successivi della vita italiana, non
erano se non ciechi d'ogni lume di storia; ma quei che davanti alla
potente manifestazione del nostro popolo s'attentassero oggi di
ricondurci a disegni di confederazioni o d'indipendenti libertà
provinciali, meriterebbero di essere infamati traditori della Patria
loro. Il federalismo tra noi non solamente impicciolirebbe ad
arbitrio la vasta associazione di forze, di lavori, di lumi che
l'Unità deve ordinare a servizio di ciascun individuo - non
solamente susciterebbe dalla inevitabile disuguaglianza degli Stati
quel perenne squilibrio tra le forze e le pretese, che cova i semi
dell'anarchia e del dispotismo ed è piaga mortale a tutte
federazioni - non solamente ordinerebbe la debolezza del paese,
abbandonandolo facile preda all'invidie, alle perfide suggestioni,
alle invaditrici influenze di gelosi e potenti vicini - ma
cancellerebbe a prò d'una non realtà, ma menzogna di libertà locale,
la Missione dell'Italia nel mondo. E so che la Confederazione è
disegno e consiglio insistente di tale che molti fra i nostri
reputano tuttavia amico e protettore della Causa Italiana; ma so
pure ch'egli è straniero, perfido e despota; e se gli Italiani gli
prestassero orecchio sarebbero a un tempo colpevoli e stolti. Ch'ei
cerchi costituirci deboli per dominarci, è facile intenderlo; ma il
fatto stesso del suggerimento sceso da tale sorgente dovrebb'essere
per noi uno de' più potenti argomenti a respingerlo. Dopo lungo e
severo esame delle interne condizioni d'Italia, il Genio che fu capo
alla stirpe proferiva dalla terra d'espiazione la seguente sentenza:
L'Italia è circondata dall'Alpi e dal Mare. I suoi limiti naturali
sono determinati con tanta esattezza che la diresti un'isola...
L'Italia non ha che centocinquanta leghe di frontiera col continente
Europeo e quelle centocinquanta leghe sono fortificate dalla più
alta barriera che possa opporsi agli uomini... L'Italia isolata fra
i suoi limiti naturali... è chiamata a formare una grande e potente
nazione... L'Italia è una sola nazione; l'unità di costumi, di
lingua, di letteratura deve in un avvenire più o meno lontano
riunire i suoi abitanti sotto un solo governo... E Roma è,
senz'alcun dubbio, la Capitale che gli Italiani sceglieranno alla
patria loro(105). Pongano i vostri Ministri, o Italiani, a capo dei
loro dispacci al nipote le linee or citate, e gli dicano recisamente
di non frapporsi fra l'Italia e la sua missione.
Missione ho detto; e in quella parola sta infatti la decisione
suprema della quistione agitata.
È tempo che la scienza politica rompa in Italia il cerchio
d'opportunità menzognere, di concessioni codarde agli interessi d'un
giorno, e di sommessioni abbiette a calcoli di gente non nostra, che
l'iniziativa monarchica imperiale ha segnato d'intorno a noi, e si
sollevi all'altezza dei sommi principî morali, senza i quali non è
virtù rigeneratrice nè vita gloriosa e durevole di nazione. Io
venero quant'altri l'alto intelletto di Machiavelli e più ch'altri
forse l'immenso amore all'Italia che solo scaldava di vita quella
grande anima stanca, addolorata di sè stessa e d'altrui; ma voler
cercare nelle pagine ch'egli dettò sulla bara dove padroni stranieri
e papi fornicanti con essi e principi vassalli bastardi di papi o di
re avevano inchiodato l'Italia, la legge di vita d'un popolo che
sorge è mal vezzo di scimmie e di meschini copisti per impotenza
propria, del quale i nostri giovani dovrebbero oggimai vergognare.
Noi da Machiavelli possiamo imparare a conoscere i tristi, e quali
siano le loro arti e come si sventino e per quali vie, corrotti e
inserviliti, muojano i popoli; non come si ribattezzino a nuova
vita. E si ribattezzano, calcando risolutamente una via contraria a
quella sulla quale s'innestarono ad essi i germi di morte, con un
culto severo della Morale, coll'adorazione a una grande Idea,
coll'affermazione potente del Diritto e del Vero, col disprezzo
degli espedienti, coll'intelletto del vincolo che annoda in un moto
religioso, sociale, politico, con un senso profondo del Dovere e
d'una alta missione da compiersi: missione che esiste veramente
dovunque un popolo è chiamato ad essere Nazione, e l'oblìo della
quale trascina inevitabilmente, quasi espiazione dell'egoismo e
della sterile vita, decadimento, invasioni e dominazione straniera.
Oggi i poveri ingegni che s'intitolano Governo, e non governano nè
amministrano, intendono a far l'Italia Nazione chiamandola a
risalire la via per la quale lungo tre secoli discese verso l'abisso
e vi periva, se non erano i fati e gli istinti generosi
dell'inconscio suo popolo.
Ha l'Italia o non ha una missione in Europa? Rappresenta il paese
che ha nome Italia un certo numero d'uomini, poco importa se
migliaja o milioni, indipendenti naturalmente gli uni dagli altri e
soltanto aggruppati a nuclei in virtù di certi interessi materiali
comuni il cui soddisfacimento è reso più facile e più securo da un
certo grado d'associazione? O rappresenta un elemento di progresso
nel consorzio Europeo, una somma di facoltà e tendenze speciali, un
pensiero, una aspirazione, un germe di fede comune, una tradizione
distinta da quella dell'altre Nazioni e costituente una unità
storica tra le generazioni passate, presenti e future della nostra
terra?
A ciascuno di questi due termini del problema corrisponde una scuola
politica.
Corrisponde al primo, la scuola che si fonda sul diritto
individuale: corrisponde al secondo quella che ha per base il dovere
sociale.
La scuola del diritto individuale è, illogicamente, federalista. Io
dico illogicamente, perchè, per essere logica, essa dovrebbe andare
sino all'autonomia d'ogni Comune. Lo Stato non dovrebb'essere per
essa che un aggregato, una federazione di molte migliaja di Comuni;
la Nazione una forza destinata a proteggere nell'esercizio de' suoi
diritti ciascuno di quei Comuni - e non altro. E fu tale infatti la
definizione dello Stato data dal federalista Brizzot, ricopiata più
dopo da Beniamin Constant e da tutti i politici della Monarchia
ristorata Francese e sviluppata recentemente sino nell'ultime
deduzioni dal francese Proudhon.
La scuola del dovere sociale è essenzialmente e logicamente
Unitaria. La vita non è per essa che un ufficio, una missione. La
norma, la definizione di quella missione non può trovarsi che nel
termine collettivo superiore a tutte le individualità del paese: nel
popolo, nella Nazione. Se esiste una missione collettiva, una
comunione di dovere, una solidarietà fra tutti i cittadini d'uno
Stato, essa non può essere rappresentata fuorchè dall'Unità
Nazionale.
La prima, scuola d'analisi e di materialismo, ci venne dallo
straniero. La seconda, scuola di sintesi e d'idealismo, è
profondamente italiana. Fummo grandi e potenti, ogni qualvolta
credemmo nella nostra missione; soggiacemmo, decaduti, a forze
straniere ogniqualvolta ci sviammo da quella fede.
Tra queste due scuole gli Italiani hanno oggimai inappellabilmente
deciso. Poco importa che, sul terreno filosofico, l'ingegno
intorpidito dal lungo servaggio e l'imitazione tuttavia
prevalente(106) delle dottrine negative straniere indugino ancora le
menti nell'ipotesi materialista: i nostri martiri affermavano, per
mezzo secolo, il Dovere Nazionale, quando morivano nel nome
d'Italia, non di Toscana o Romagna; e lo affermava il popolo quando,
dimenticando ricordi locali, lunghe e meritate diffidenze e orgoglio
di metropoli e ogni cosa fuorchè la Madre comune, gridò unanime alla
Monarchia promettitrice: Teco nell'Unità. Poco importa, se oggi
forse riesca tuttora difficile accertare quale sia la missione -
ch'io credo altamente religiosa - d'Italia nel mondo: la tradizione
di due Vite iniziatrici e la coscienza del popolo Italiano stanno
testimonî d'una missione; e dov'anche la doppia Unità data al mondo
non c'insegnasse la nostra, l'istinto d'una missione nazionale da
compiersi, d'un concetto collettivo da dissotterrarsi e da
svolgersi, additerebbe la necessità d'una sola Patria per tutti ed
una forma che la rappresenti. Quella forma è l'Unità. Il federalismo
implica molteplicità di fini da raggiungersi e si traduce presto o
tardi inevitabilmente in un sistema di caste o aristocrazie. L'Unità
è sola mallevadrice d'eguaglianza e, più o meno rapidamente, di vita
di Popolo.
L'Italia sarà dunque Una. Condizioni geografiche, tradizione,
favella, letteratura, necessità di forza e di difesa politica, voto
di popolazioni, istinti democratici innati negli italiani,
presentimento d'un Progresso al quale occorrono tutte le facoltà del
paese, coscienza d'iniziativa in Europa e di grandi cose da
compiersi dall'Italia a prò del mondo si concentrano a questo fine.
Nessun ostacolo s'affaccia che non sia superabile; nessuna
obbiezione che non possa storicamente o filosoficamente
distruggersi. Rimane una sola difficoltà: il come debba ordinarsi.
Non credo occorra spendere tempo a sperdere il pregiudizio volgare
che in un ampio Stato l'Unità non possa fondarsi senza inceppare la
libertà dovuta alle singole parti. Quel pregiudizio sceso dalle
affermazioni di scrittori che non guardavano se non al governo
esercitato direttamente dal popolo nelle antiche repubbliche e
furono ricopiati alla cieca dalla turba degli impazienti o incapaci
di esame, è confutato egualmente dal ragionamento e dai fatti. La
maggiore o minore estensione del terreno non entra come elemento
nella soluzione del problema: se v'entrasse, la deciderebbe a pro
nostro. La tendenza usurpatrice del Governo si manifesta più
agevolmente e più duramente in una sfera ristretta che non nella
vasta. La vita del potere centrale illanguidisce naturalmente in
proporzione inversa delle distanze: la vita locale ha mille vie per
sottrarre i proprî moti a una autorità lontana, la cui vigilanza
s'esercita da individui poco informati d'uomini e cose. Nessuna
tirannide fu più tormentosa di minuzie e insistenza di quella che
nel medio evo tenne parecchie delle nostre città: nessuna più di
quella che funestò in tempi più vicini a noi il piccolo Ducato di
Modena. La libertà può ordinarsi in uno Stato piccolo o vasto: le
violazioni della libertà sono innegabilmente più facili nel piccolo.
Parlo d'usurpazione cittadina: quella che s'esercita sopra una razza
da una razza straniera conquistatrice degenera quasi sempre in
tirannide, eguale ovunque, di soldatesca.
Ma la questione, semplice se come ogni altra si richiami ai principî
dominatori, fu resa complessa, intricata e ingombra d'apparenti
difficoltà da quei che s'adoprarono a scioglierla senza definire
prima a sè stessi la missione dello stato e il campo nel quale vive
e deve esercitarsi la Libertà. Gli uni, guardando al primo come al
Podestà senza ufficio da quello infuori di proteggere i diritti di
ciascuno e impedire che il loro esercizio prorompa in guerra
reciproca, ridussero la funzione dello Stato a quella di gendarme e
fecero della Libertà mezzo e fine ad un tempo: gli altri, guardando
sdegnosi alla Libertà come a facoltà sterile e tendente per sè
all'anarchia, la sagrificarono all'elemento collettivo e ordinarono
lo Stato a una tirannide di concentramento diretta a bene, pur
sempre tirannide. Taluno, confondendo appunto concentramento
amministrativo e Unità, accusò la Costituente di Francia d'avere
colla divisione dipartimentale inaugurato il dispotismo del Centro
sulle membra, errore che la semplice lettura della Costituzione
sancita da quell'Assemblea avrebbe bastato a correggere. Altri,
togliendo norme all'ordinamento d'un periodo anormale, fu sedotto
dalle vittorie nazionali della Convenzione a predicarne l'assoluta
onnipotenza, come se la Dittatura potesse essere mai modello di
regolare legislazione. Poi vennero gli uomini che cercarono
sicurezza(107) alla Libertà smembrando in minute frazioni il Potere,
senza avvedersi che quanto più moltiplicavano i nuclei d'autorità,
tanto più li indebolivano e li facevano impotenti a vivere di vita
propria. E tutti intolleranti, senza ideale, piaggiatori servili
d'una o d'altra Costituzione del passato e ostinati a cercare la
soluzione del problema nel trionfo d'un solo dei termini che lo
costituiscono.
I due termini che lo costituiscono sono Associazione e Libertà: ambi
sacri, inseparabili dall'umana natura; e possono e devono
armonizzarsi, non cancellarsi l'un l'altro.
In un buon ordinamento di Stato, la Nazione rappresenta
l'associazione; il Comune la libertà.
Nazione e Comune: sono i soli due elementi naturali in un popolo: le
sole due manifestazioni della vita generale e locale che abbiano
radice nell'essenza delle cose. Gli altri elementi sono, con
qualunque norma si chiamino, artificiali, e aventi ad unico ufficio
di rendere più agevoli e più giovevoli le relazioni tra la Nazione e
il Comune e di proteggere il secondo dall'usurpazione della prima
quando è tentata.
E questo ch'è vero generalmente in principio e vero più che altrove
nel fatto in Italia. L'esistenza prolungata d'una potente e compatta
aristocrazia feudale generò in alcune nazioni un elemento di
tradizione storica provinciale destinato a perire, ma lentamente.
Tra noi quell'elemento mancò. L'Italia ebbe patrizî, non Patriziato:
individui e famiglie signorili potenti, non un Ordine d'uomini
rappresentanti per secoli, come in Inghilterra, una comunione
d'idee, di politica, di direzione. La nostra storia è storia di
comuni e d'una tendenza a formare la Nazione.
E la Nazione è chiamata a rappresentare la Tradizione Italiana che
essa sola può conservare e continuare, e il Progresso Italiano
ch'essa sola è potente a tradurre in atto. Lo Stato, il Popolo
collettivo dall'Alpi al Mare non è, come la scuola materialista
vorrebbe, la forza di tutti in appoggio del diritto di ciascuno: è
il pensiero d'Italia, il Dovere sociale, come in una epoca
determinata gli Italiani lo intendono, dato a norma, a punto di
mossa a ciascun individuo. La sua missione è missione educatrice
anzi tutto; missione d'incivilimento interno ed esterno, supremo su
tutte frazioni.
Ma il compimento della missione, del Dovere Nazionale spetta, non a
schiavi, bensì a uomini liberi. È necessario che ciascuno abbia
coscienza del Dovere indicatogli; ed è necessario, perchè il grado
di Progresso compito in un'epoca e definito dalla Nazione non
chiuda, tiranneggiando, il varco ai progressi futuri, che a ciascuno
non solamente sia concesso, ma s'agevoli il diritto d'iniziativa
nelle idee che possono migliorare l'incivilimento della Nazione e
ampliare il concetto del dovere da essa raggiunto. Dalla prima
necessità esce la condanna del concentramento amministrativo che
torrebbe, costringendo, coscienza, merito e demerito dei loro atti
ai cittadini; dalla seconda esce, insieme alle libertà, dovute a
tutti, di religione, di stampa, d'associazione, d'insegnamento,
l'ordinamento del Comune, mallevadore dell'individuo che vive in
esso, ad autonomia di vita spontanea e indipendente sin dove
comincia la violazione del Dovere Sociale prescritto dalla Nazione.
Oltre quel punto, la libertà degenera in anarchia. La libertà,
fraintesa dai materialisti in diritto di fare o non fare tutto ciò
che non nuoce direttamente ad altrui, è per noi la facoltà di
scegliere, tra i mezzi coi quali si compie il Dovere, quei che più
convengono colle nostre tendenze, e di promovere lo sviluppo
progressivo del concetto di quel Dovere.
In altri termini, la Nazione raccoglie gli elementi
dell'incivilimento già conquistato, ne trae la formola di Dovere
ch'è il fine comune, dirige verso quello la vita del paese nelle sue
grandi manifestazioni collettive e lo rappresenta fra i Popoli. Il
Comune provvede all'applicazione pratica di quella formola, coordina
a quel fine gli interessi locali ed educa colla coscienza della
libertà il cittadino a cacciare i germi del progresso futuro.
L'autorità morale risiede nella Nazione: l'applicazione dei principî
alla vita, specialmente economica, spetta al Comune. L'Iniziativa è
dovere e diritto dell'una e dell'altro. Il Comune forma cittadini
alla Patria: la Patria un Popolo all'Umanità. Come il sangue
sospinto al core, è respinto, purificato, alle vene, la Metropoli
raccoglie in sè gli indizî e i germi di progresso che le affluiscono
dal paese, e v'attempra, dando ad essi sviluppo e definizione, il
concetto collettivo che rimanda autorevolmente al paese. Essa non
vive per sè, ma per l'intera contrada.
Chi dovrà occuparsi praticamente della questione troverà, s'ei torrà
le mosse da questi principî, semplice più che a prima vista non
sembri il problema. La missione dell'uno e dell'altro elemento
additerà facilmente i limiti della doppia circoscrizione che assegna
doveri e diritti alla Nazione e al Comune. Quanto rappresenta
l'unità della coscienza Italiana, l'autorità morale della Patria su
tutti i suoi figli, la Tradizione Nazionale da conservarsi come
deposito sacro, il Progresso da attuarsi per tutti e la vita
internazionale, spetta alla Podestà Centrale, allo Stato: quando
rappresenta l'applicazione pratica delle norme generali, gli
interessi economici locali, la libertà nella scelta dei modi per
compire il Dovere Sociale, il diritto d'iniziativa da serbarsi
intatto per tutti, spetta, sotto l'invigilamento della Nazione, alle
unità secondarie e segnatamente al Comune, nucleo primitivo di
quelle unità.
Allo Stato, per mezzo d'una Costituente Italiana raccolta a
suffragio universale, il Patto Nazionale, la Dichiarazione dei
Principî(108) nei quali il Popolo d'Italia oggi crede, la
definizione del fine comune, del Dovere sociale, che ne derivano e
formano un vincolo di pensieri e d'opere comune a quanti vivono fra
l'Alpi e il Mare - e l'ordinamento delle autorità opportune a
serbarlo intatto e dominatore, finchè un nuovo grado di Progresso
non sia salito dalla Nazione: ai Comuni il diritto d'accettare con
una potente maggioranza di voti il quando sia raggiunto quel grado e
importi introdurre mutamenti nel Patto.
Allo Stato le norme per rendere universale, obbligatoria, e uniforme
nella direzione generale l'Educazione Nazionale(109), senza l'unità
della quale non esiste Nazione: ai Comuni l'applicazione pratica
delle norme, la scelta degli uomini da prefiggersi all'istruzione
elementare, il maneggio economico delle scuole, la tutela del
diritto che ogni individuo ha d'aprire altri istituti
d'insegnamento:
Allo Stato, dacchè tutti i cittadini hanno debito di difendere
l'indipendenza del paese e proteggerne la missione, l'unità del
sistema militare, l'ordinamento della Nazione armata: ai militi
d'ogni Comune, trasformati in legione, il diritto di proporre, dal
grado inferiore al superiore progressivamente e sotto certe norme
nazionalmente prestabilite, le liste per la scelta degli uffiziali:
Allo Stato, dacchè la Giustizia non può essere se non una per tutti
i cittadini, l'unità dell'ordinamento giudiziario, i codici, la
scelta dei Giudici Supremi e dei magistrati preposti a dirigere
l'amministrazione della Giustizia: ai Comuni l'elezione dei giurati
locali e dei membri di tribunali di conciliazione e commercio:
Allo Stato la determinazione dell'ammontare del tributo nazionale e
il suo riparto sulle varie zone del territorio: ai Comuni,
invigilati dallo Stato, i tributi meramente locali, e il modo di
soddisfare alla parte di tributo nazionale assegnato(110):
Allo Stato la formazione d'un Capitale Nazionale composto delle
proprietà pubbliche, dei beni del clero, delle miniere, delle vie
ferrate, d'alcune grandi imprese industriali, destinato in parte ai
bisogni straordinarî della Nazione e all'allievamento del tributo,
in parte a un Credito aperto alle associazioni volontarie,
manifatturiere e agricole, d'operai; ai Comuni, sotto norme generali
uniformi e invigilante il Governo Centrale, l'amministrazione di
quel Capitale:
Allo Stato, la Sicurezza Pubblica per ciò che concerne i pericoli
interni di tutto il paese, le norme generali per le carceri, la
direzione d'alcuni stabilimenti Penitenziarî Centrali: ai Comuni la
tutela dell'ordine nella loro sfera, l'ordinamento della forza
necessaria a ufficio siffatto, l'amministrazione pratica delle
prigioni collocate nella loro circoscrizione:
Allo Stato, la direzione dei lavori pubblici rivolti all'utile e
all'onore di tutta la Nazione, al mantenimento e al progresso della
tradizione nazionale dell'Arte: ai Comuni le cure intorno
all'illuminazione, al selciato, all'acque, ai ponti, alle strade
delle loro località:
Allo Stato, quanto riguarda le relazioni esterne, guerre, paci,
alleanze, trattati: ai Comuni il diritto d'invigilare a che la
politica internazionale non si disvii, nel segreto, dalla missione e
dal fine della Nazione.
E via così: Dov'è, con riparto siffatto di doveri e diritti, il
pericolo d'anarchia o di tirannide? Dove il vizio d'una Nazione
impotente a calcare, per gelosia di località quasi sovrane e
slegate, una via di progresso e d'onore, o quello d'un Comune servo,
come il francese, astretto a ricevere capi e ufficiali d'ogni sorta
dal Governo Centrale e a soggiacere al suo intervento in ogni menoma
operazione?
Bensì - e qui sta una seconda questione importante alla quale io
posso appena accennare - se il Comune deve essere capace di
proteggere nei giusti suoi limiti la libertà delle membra dalle
usurpazioni dell'Autorità che rappresenta l'Associazione - se in
esso deve colla elezione e coll'esercizio frequente, e accessibile
ai più, degli uffici, compiersi l'educazione politica del paese - se
l'attribuirsi al Comune dei diritti indicati fin qui, deve riuscire
verità pratica, non illusione - è necessario che l'Assemblea
Nazionale sancisca un nuovo riparto territoriale. Base alla servitù
dei Comuni è la loro piccola estensione. Il Comune è una
associazione destinata a rappresentare, quasi in miniatura, lo
Stato; ed è necessario dargli le forze necessarie a raggiungere il
fine. L'impotenza dei piccoli Comuni a raggiungerlo e provvedere coi
proprî mezzi al soddisfacimento dei proprî bisogni materiali e
morali, li piega a invocare l'intervento governativo e sagrificargli
la coscienza e l'abitudine della libera vita locale. Ed è il vizio
dal quale origina la tendenza al concentramento amministrativo in
Francia, dove su 37,000(111) Comuni 30,000 almeno sono, per
l'esiguità delle proporzioni, incapaci d'ordinare rimedî alla locale
mendicità. La prova del come un Governo di tendenze dispotiche
intenda che il segreto della propria potenza sta nella debolezza dei
Comuni è da cercarsi nella Costituzione dell'anno VIII. Quella
Costituzione, le cui principali disposizioni hanno tuttavia vigore
in Francia e incatenano servilmente i Comuni al Potere Centrale,
ebbe il favore di Thiers e di tutta la schiera dottrinaria che
predominò sul lungo periodo della così detta Ristorazione
monarchica.
E se l'ordinamento amministrativo dello Stato deve corrispondere al
bisogno principale di progresso sentito oggi in Italia, è necessario
che il Comune ampliato affratelli nella stessa circoscrizione la
città e parte delle popolazioni rurali. Duolmi di dover dissentire
da taluni fra gli uomini di nostra fede ch'esplorarono quel
problema; ma, lasciando anche da banda il vantaggio d'associare
nella stessa circoscrizione interessi strettamente connessi come
sono gli industriali e gli agricoli e riunire in una tutte le
manifestazioni di vita che fanno convivenza sociale, se v'è piaga
che in Italia minacci l'armonia dello sviluppo collettivo, è
senz'altro lo squilibrio di civiltà esistente fra le città e le
campagne: foco di vita progressiva e d'associazioni nazionali le
prime, campo le seconde, mercè l'assoluta ignoranza, di tutte le
influenze che resistono al moto. E solo rimedio ch'io vegga potente
a combattere e struggere a poco a poco quella funesta disuguaglianza
è il congiungerle possibilmente sì che la luce delle città si
diffonda a raggi sulle terre che le ricingono. Serbarle separate
com'oggi sono è un mantenerne perenne l'antagonismo: antagonismo di
tendenze che il mutuo contatto logorerebbe, e d'interessi che
soltanto il reciproco ajutarsi può vincere. Nè v'è pericolo che
l'elemento progressivo delle città soggiaccia all'elemento
conservatore o retrogrado delle campagne: i fati dell'Epoca, e la
potenza di vita e di bene ch'esiste nel primo elemento, assegnano
influenza dominatrice, dovunque s'ordini il contatto fra quello e
l'altro, al progresso.
Oggi, tra per le origini derivate dai tempi feudali, tra per la
soverchia influenza d'uno spirito d'analisi che guarda con favore
allo smembramento, è nella vita dello Stato troppo sminuzzamento. E
comechè taluni vi travedano un pegno di libertà, solo a giovarsene è
appunto quel Potere Centrale ch'essi paventano usurpatore e che,
incontrando debolezza per ogni dove e aristocrazie patrizie o
borghesi dominatrici su piccole sfere, spezza agevolmente le
resistenze o, accarezzandole, le addormenta. Non è vero che ovunque
un certo numero d'uomini s'aggruppa intorno a certi interessi
materiali pigmei, ivi viva una individualità politica.
L'individualità politica non vive dove non ha battesimo di missione
speciale da compiere, e dovizia di facoltà e di stromenti per
compierla. Io vorrei che, trasformate in sezioni e semplici
circoscrizioni territoriali le tante artificiali divisioni esistenti
in oggi, non rimanessero che sole tre unità politico-amministrative:
il Comune, unità primordiale, la Nazione, fine e missione di quante
generazioni vissero, vivono e vivranno tra i confini assegnati
visibilmente da Dio a un Popolo, e la Regione, zona intermedia
indispensabile tra la Nazione e il Comune, additata dai caratteri
territoriali secondarî, dai dialetti, e dal predominio delle
attitudini agricole, industriali o marittime. L'Italia sarebbe
capace di dodici Regioni incirca, suddivise in Distretti. Ogni
Regione conterrebbe cento Comuni a un dipresso, ciascuno dei quali
non avrebbe meno di ventimila abitanti. Le suddivisioni parrocchiali
o altre da costituirsi in ogni Comune non sarebbero, come dissi, che
semplici circoscrizioni territoriali il cui lavoro s'accentrerebbe
al capoluogo del Comune; e questa divisione potrebbe forse, come
nelle townships del nord degli Stati Uniti Americani, armonizzarsi
col riparto delle scuole presso le quali potrebbero accentrarsi i
registri civici. Le Autorità Regionali e quelle del Comune
escirebbero dall'elezione. Un Commissario del Governo risiederebbe
nel Capoluogo della Regione. I Comuni accentrati alla Regione, non
ne avrebbero bisogno: i loro magistrati supremi rappresenterebbe a
un tempo la missione locale e quella della Nazione. Soltanto il
Governo manderebbe di tempo in tempo, a guisa di missi dominici,
Ispettori straordinarî a verificare se l'armonia fra i due elementi
della vita Nazionale si mantenga o si rompa. Ordinamento siffatto
spegnerebbe, parmi, il localismo gretto, darebbe all'unità
secondarie forze sufficienti per tradurre in atto ogni progresso
possibile nella loro sfera e farebbe più semplice e spedito d'assai
l'andamento, oggi intricatissimo e lento della cosa pubblica. La
piccola provincia, nella quale soltanto la libertà può essere
praticamente esercitata e sentita, sottentrerebbe alla grande e
artificiale Provincia nella quale possono più facilmente educarsi
germi di federalismo e d'aristocrazie smembratrici. Nè per questo
scadrebbero le città che hanno ereditato dal passato una vita di
metropoli secondaria. Lasciando che la divisione in Regioni darebbe
ad esse importanza di Capoluoghi, io non vedo perchè le varie
manifestazioni della vita Nazionale, oggi accentrate tutte in una
sola Metropoli, non si ripartirebbero, con ufficio simile a quello
dei ganglî nel corpo umano, tra quelle diverse città. Non vedo
perchè non si collocherebbe in una la sede della Magistratura
Suprema, in un'altra l'Università Nazionale in una terza
l'Ammiragliato e il centro del naviglio Italiano, in una quarta
l'Istituto Centrale di Scienze e d'Arti, e via così. Il telegrafo
elettrico sarebbe, in tempi normali, vincolo d'unità sufficiente; e
in tempi di guerra o pericoli gravi sarebbe facile l'accentramento.
A Roma basterebbero la Rappresentanza Nazionale, il sacro nome, e lo
svolgersi provvidenziale dall'alto de' suoi colli della sintesi
dell'Unità morale Europea.
Qualunque sia, del resto, per essere il successo del mio o d'altro
sistema, questo è certo, che se il paese vorrà avere libertà e vita
di Nazione ad un tempo, dovrà da un lato ordinare lo Stato a Potestà
Educatrice, e ampliare dall'altro il Comune - se vorrà avere
progresso d'incivilimento uniforme, dovrà possibilmente affratellare
l'elemento rurale e quello della città - se vorrà educare i suoi
figli a dignità e coscienza di cittadini, dovrà nell'ordinamento
interno de' suoi comuni, moltiplicare gli uffici, far
successivamente partecipi dell'autorità i più fra i suoi membri,
chiamar sovente il popolo al pubblico sindacato degli uomini e delle
cose, diffondere quanto più può l'Associazione industriale e
agricola, e far d'ogni uomo un milite della patria. Sperda Iddio la
meschina setta ch'oggi pesa com'incubo sul core d'Italia, e possano
gli Italiani, ridesti al senso della loro missione nel mondo,
scrivere in tempi non tardi sul Panteon dei nostri Martiri in Roma
le due parole simbolo dell'avvenire: Dio e il Popolo: Unità e
Libertà.
INTERESSI E PRINCIPÎ(112)
I.
6 gennajo, 1836.
V'ha un rimprovero troppo spesso diretto a coloro che, come noi si
arrestano volontieri sulle generalità politiche e insistono
lungamente sui principî; ed è la poca cura per gli interessi
materiali: la tendenza a sacrificare o trascurare il reale per ciò
che si è convenuto di chiamare teorie astratte.
Ci vien detto: Voi siete sognatori: a che montano per noi tutte le
vostre discussioni di principî, che non possono se non
maturare lentamente e che non potete rivolgere se non ad una piccola
minoranza d'intelletti? A noi bisognano fatti, e fatti soltanto, in
questo momento. Scendete dall'alta sfera nella quale non siamo
disposti a seguirvi, e venite sul terreno delle applicazioni;
lasciate le generalità; venite ai particolari. Parlate di ciò che si
vede, che colpisce i sensi; affrontate la questione degli interessi
materiali: pretendereste forse di far progredire le moltitudini con
mere astrazioni? Vi è là una gente che muore per mancanza di
alimenti; uomini che hanno fame e sete; uomini che non hanno di che
coprirsi nell'inverno. Tutte le vostre teorie di politica sociale,
di Umanità, di credenza unitaria e religiosa, non li rifocilleranno,
non daranno loro di che coprirsi. Palesate apertamente quei bisogni;
insegnate al proletario quali sieno i suoi diritti; svelate una ad
una le colpe, le ingiustizie, le turpitudini di coloro che li
governano; condannate ogni atto del Potere che nuoca ad un qualche
interesse, che leda un solo diritto. Lottate, lottate: gridate
libertà nell'orecchio del Popolo. La reazione è l'elemento del
secolo. Dirigetela. Nel mezzo l'atmosfera tempestosa che ne avvolge,
nel mezzo alla procella politica che c'incalza e preme da ogni lato,
non v'illudete(113) a credere che la vostra parola di pace, la
vostra debole voce d'uomini religiosi e compresi d'amore, possa
essere intesa. Lasciate stare l'avvenire e la sua fede: il presente
richiede ogni nostro pensiero. Consecratevi ad esso, e non venite a
tediarci col vostro misticismo e colle vostre credenze
spiritualiste.
Quelli che così parlano sono convinti di annientare colle loro
apostrofi i sognatori.
E, nondimeno, quegli stessi uomini sono in preda allo sconforto;
tacciono o maledicono. Cento volte hanno creduto adempiere il
compito loro; e cento volte hanno dovuto rifarsi da capo. Tutto ciò
ch'essi dicono, è stato detto: tutto ciò che fanno, è stato fatto;
ma sempre inutilmente. Tutta la guerra d'analisi, tutta
l'opposizione di dettaglio e d'applicazioni, che oggi ci viene
consigliata, ha raggiunto in Francia il suo più alto grado di
possibile svolgimento. E a qual punto si trova ora la Francia? È
stata travolta di rovina in rovina; dalla Rivoluzione all'Impero;
dall'Impero alla monarchia dei Borboni; da Carlo X a Luigi Filippo.
Quale profitto seppe trarre da quei cambiamenti? Quale differenza
vedete voi fra la censura della prima Restaurazione e le Leggi del
settembre che riguardano la stampa? - Le sanguinose piaghe del
proletariato sono state snudate. Mille volte si sono contate le
vittime della profonda ineguaglianza sociale che è un insulto alla
Croce di Cristo. Si sa oggimai quanto sudore e quante lagrime costi
al povero il pane del ricco. Il povero stesso, l'operajo è venuto a
perorare la propria causa davanti al tribunale dell'Europa
atterrita, col suo Atto d'accusa in mano, compendiato in due parole,
terribili nella loro energia: Morte o Lavoro. Un popolo di operai ha
protestato contro l'attuale ripartizione del lavoro; contro
l'avidità delle classi privilegiate. Che n'è venuto? Che cosa è
stato fatto? Quali rimedî furono tentati? Quali grandi miglioramenti
ottenuti? - Al grido di Morte o Lavoro del produttore, la classe
speculatrice e improduttiva ha risposto: Morte. Il cannone ha
tuonato. Tutta quanta l'opposizione, così intrepida, così
instancabile nelle meschine guerricciuole d'interessi e di diritti,
ha assistito immobile, coll'arme al braccio, alla carnificina. La
Francia intera non ha proferito un solo grido che rispondesse al
grido d'angoscia degli operai Lionesi. - D'onde ciò?
Grazie agli scrittori di tutto un secolo - grazie ai martiri di più
secoli - la Libertà e l'Eguaglianza, come principî, sono ammesse
oggi nella serie degli assiomi sociali. L'Indipendenza è
universalmente riconosciuta come la più bella gemma della corona
d'un Popolo. Il diritto di non essere oppresso, stremato, torturato
dalla tirannide dei pochi o dall'invasione straniera è, nel cuore di
tutti, un diritto sacro, imprescrittibile. Progrediamo noi per
questo? - In Italia, in Polonia, in Germania, per tutto,
gl'interessi materiali sono evidentemente lesi e non pertanto la
coscienza del proprio diritto è in tutte le anime. Interrogate uno
ad uno gli abitanti di quelle infelici contrade: incontrerete per
ogni dove l'odio verso il Russo e verso l'Austriaco, e il desiderio
manifesto d'emancipazione; la coscienza del diritto che sancirebbe
l'insurrezione; il convincimento dei vantaggi reali che ne
risulterebbero per le generazioni future. E nondimeno soffrono in
silenzio; si curvano al giogo; non si adoperano a spezzarlo. -
D'onde ciò?
Perchè, fra la tirannide e l'insurrezione, è forza passare a
traverso gendarmi, prigioni e patiboli. Perchè, per affrontare tutto
ciò, non basta la conoscenza del fatto; è d'uopo sentire che è
dovere il distruggerlo. Perchè il mero convincimento non basta a
iniziare la lotta: conviene che questa sorga come manifestazione
d'una fede.
Vi furono uomini che predicarono la reazione a quei Popoli; che
hanno detto loro: Voi avete interessi materiali; questi interessi
sono calpestati; spetta a voi il provvedere al rimedio. Voi avete
diritti: que' diritti sono violati: spetta a voi il rivendicarne il
libero esercizio. - A tale intento si è cospirato. Ma la tirannide
vegliava; ha fatto scorrere sangue in mezzo alla cospirazione;
rotolar qualche testa ai piedi dei cospiratori. Si è quindi
indietreggiato; una sola probabilità di morte ha avuto maggior peso
che non mille probabilità di successo. S'è detto: I nostri diritti
sono una buona cosa, e ci sarebbe caro il conseguirli: ma il primo
di tutti è il diritto di vivere. L'interesse della vita è superiore
a tutti gli altri interessi materiali possibili; li racchiude tutti;
li vince tutti. Senza vita, non possono esservi nè diritti, nè
benessere, nè ricchezza, nè miglioramento materiale. Perchè dovremmo
arrischiare la vita per cosa incerta? Dove ne sarebbe il compenso? -
Questo fu detto; e non volendo uscire dalla cerchia del calcolo
materiale, noi diciamo che ciò è logico. Due terzi almeno delle
rivoluzioni dei Popoli riescono a vantaggio della generazione che
deve succedere a quella che le compie. Quest'ultima è quasi sempre
condannata a segnare alla seguente coi suoi cadaveri la via del
progresso. Essa stessa non può goderne. - Ora, per quale teoria
d'interessi materiali, per quale dimostrazione di diritti
individuali, potremmo noi dedurre una legge di(114) sacrificio, una
legge di martirio, se il martirio è la meta che ci attende? -
Analizzate confrontate frase per frase tutte le dottrine degli
utilitarî; non riuscirete mai a fare armonizzare con esse il
sacrificio che uccide. Per qualunque Popolo, che non abbia altro
stimolo che quello degl'interessi materiali, il martirio è atto di
follia; Cristo non ha più alcun significato nella vita
dell'intelletto.
In quanto a noi, affermiamo non esservi stata una sola grande
Rivoluzione che non abbia avuto ben altra sorgente da quella
degl'interessi materiali; sappiamo di sommosse, di insurrezioni
popolari, ma non d'alcuna fra queste che sia stata coronata dal
successo, non d'una che si sia mutata in Rivoluzione.
II.
Ogni Rivoluzione è l'opera d'un principio accettato come argomento
di fede. Invochi essa la Nazionalità, la Libertà, l'Eguaglianza, la
Religione, essa si compie pur sempre in nome d'un Principio, cioè
d'una grande verità che, riconosciuta, approvata dalla maggioranza
degli abitanti d'un paese, costituisce credenza comune e affaccia un
nuovo fine alle moltitudini quando il Potere non lo rappresenta o lo
nega. Una Rivoluzione, violenta o pacifica, racchiude una negazione
e una affermazione: negazione d'un ordine di cose esistente,
affermazione d'un nuovo ordine da sostituirsi. Una Rivoluzione
dichiara che lo Stato è guasto, che il suo meccanismo non è più in
relazione coi bisogni del massimo numero dei cittadini, che le sue
istituzioni sono impotenti a dirigere il moto generale, che il
pensiero sociale, popolare, ha oltrepassato il principio vitale di
quelle istituzioni, che il nuovo grado di sviluppo delle facoltà
nazionali non trova espressione e rappresentanza nella costituzione
officiale del paese, e che gli è forza crearsela. La Rivoluzione la
crea. Dacchè essa imprende ad accrescere non a diminuire il
patrimonio della nazione, essa non viola le verità conquistate nè i
diritti dichiarati sacri dalla maggioranza; ma riordina ogni cosa
sulla nuova base: ricolloca in armonia intorno al nuovo principio
tutti gli elementi, tutte le forze del paese; e comunica una
direzione unitaria verso il nuovo fine a tutte le tendenze che si
sfogavano prima in cerca di fini diversi. Allora, la Rivoluzione è
compita.
Noi non intendiamo le Rivoluzioni altrimenti. Se non si trattasse in
una Rivoluzione d'un riordinamento generale in virtù d'un principio
sociale, d'una dissonanza da cancellarsi, negli elementi dello
Stato, d'una armonia da ristabilirsi, d'una unità morale da
conquistarsi, noi, lungi dal dichiararci rivoluzionarî, crederemmo
debito nostro d'opporci con ogni sforzo al moto rivoluzionario.
Senza l'intento accennato possono aversi sommosse, e talvolta
insurrezioni vittoriose; non Rivoluzioni. Avrete mutamenti d'uomini,
rinnovamenti d'amministrazione, una casta sottentrata a un'altra, un
ramo di dinastia salito al potere invece d'un altro. È quindi
necessità fatale di retrocedere, di rifare lentamente il passato
distrutto in un subito dall'insurrezione, di stabilire a poco a poco
sotto altri nomi le vecchie cose che il popolo s'era levato a
distruggere: le società hanno siffattamente bisogno d'unità che
tornano addietro, se non la trovano nell'insurrezione, fino alle
Restaurazioni. E quindi pure, un nuovo disagio, una nuova lotta, una
nuova esplosione. La Francia lo ha provato a dovizia. Essa fece nel
1830 miracoli d'audacia e valore per una negazione: si levò per
distruggere senza credenze positive, senza disegno organico
determinato; e stimò aver compito l'opera sua cancellando il vecchio
principio della legittimità. Essa scese in quel vuoto che
l'insurrezione sola non basta a colmare. E perchè non riconobbe la
necessità d'un principio riordinatore, essa si trova in oggi, sei
anni dopo il luglio, cinque dopo le giornate del novembre, due dopo
quelle dell'aprile, avviata verso una assoluta Restaurazione.
Noi citiamo l'esempio della Francia, perchè ad essa si chiedono
generalmente insegnamenti, speranze e simpatie politiche; poi perchè
la Francia essendo quello tra i paesi moderni nel quale più
campeggiano le teoriche di pura riazione fondate sulla diffidenza,
sul diritto individuale, sulla libertà sola, le conseguenze pratiche
de' suoi errori riescono più convincenti. Ma venti altri esempi
sarebbero presti. Da ormai cinquanta anni, tutti i moti che, l'un
dopo l'altro, vinsero come insurrezioni e come rivoluzioni
soggiacquero, provarono come ogni cosa dipenda dall'intervento o dal
difetto d'un principio riordinatore.
Dove infatti i diritti individuali non s'esercitano sotto
l'influenza d'un grande pensiero comune a tutti, dove gli interessi
individuali non si affratellano nell'armonia d'un ordinamento
diretto da un principio positivo dominatore e dalla coscienza d'un
unico fine, esiste inevitabile una tendenza usurpatrice dell'uno
sull'altro. In una società come la nostra, nella quale la divisione
per classi, con qualunque nome si chiamino, vive tuttora potente,
ogni diritto è certo d'incontrarsi in un altro ostile, invido,
diffidente, ogni interesse è naturalmente combattuto da un interesse
contrario, quello del proprietario da quello del proletario, quello
del manifatturiere o del capitalista da quello dell'operajo. Per
ogni dove in Europa, dacchè l'eguaglianza accettata in diritto è
smentita dal fatto e l'insieme delle ricchezze sociali s'accumula
nelle mani d'un piccolo numero d'uomini, mentre la moltitudine non
ha da un assiduo lavoro se non la pura esistenza, impiantar libertà,
libertà sola, dicendo agli uomini: eccovi emancipati; voi avete
diritti; usatene, torna davvero in sanguinosa ironia e perpetua
l'ineguaglianza.
È indispensabile un centro alla sfera sociale, un centro a tutte le
individualità che s'agitano in essa, un centro a tutti i raggi
diffusi in direzioni contrarie e dai quali non escono quindi luce e
calore che bastino. Or la teoria, che colloca l'edifizio sociale
sulla base degli interessi individuali, non può darlo. Assenza di
centro o scelta, fra i diversi interessi, di quello che vive di vita
più vigorosa - anarchia o privilegio - lotta senza risultati o germe
d'aristocrazia di qualunque nome s'ammanti: è questo un bivio dal
quale non s'esce.
Vogliam noi questo?
Vogliamo noi condannarci da per noi a travolgerci continuamente nel
vortice che aggira da mezzo secolo in poi la Francia e l'Europa?
Vogliamo ostinarci a fare, disfare, rifare, e sempre in una
condizione provvisoria di cose, sempre incerti del dì che segue?
Vogliamo lotta o pace e armonia? Tutta la questione è qua dentro.
Per noi non v'è dubbio. Per trovare un centro agli interessi
molteplici, è necessario innalzarsi a una regione suprema su tutti,
indipendente da tutti. Per metter fine alla condizione provvisoria e
ordinare un avvenire pacifico, è necessario riannettere quel centro
a tal cosa che sia eterna come il Vero e progressiva come il suo
svolgersi nella sfera dei fatti. Per impedire l'urtarsi della
individualità è necessario scoprire un fine comune a tutte e
dirigerle verso quello. Per accrescere a pro' di ciascuna le
probabilità di raggiungerlo, è necessario accomunare gli sforzi di
tutte, associarle. Che altro è l'associazione se non un concetto
unitario? E come intendere un concetto unitario senza un principio
intorno al quale si svolga?
Noi siamo dunque trascinati forzatamente sul terreno dei principî.
Dobbiamo ravvivare la credenza in essi: compire un'opera di
credenza, di fede. Lo esige la logica delle cose.
I principî soli fondano. Le idee non si traducono in fatti senza
forti credenze universalmente riconosciute. Non si compiono grandi
cose se non rinegando l'individualismo e con un sacrificio costante
al progresso generale. Ora, il sacrificio è il sentimento del Dovere
in azione. E il sentimento del Dovere non può scendere dagli
interessi individuali, ma esige la conoscenza d'una legge superiore
inviolabile. Ogni legge posa sopra un principio; dove no, è
arbitraria ed è permesso violarla. È necessario che quel principio
sia liberamente accettato da tutti; dove no, la legge è dispotica ed
è dovere violarla. L'applicazione del principio sta in una vita
conforme alla legge. Scoprire, studiare, predicare il principio che
deve esser base alla legge sociale del paese e del tempo in cui si
vive: è questo lo scopo d'ogni uomo che volga il pensiero a un
ordinamento politico. La fede in quel principio genera le opere
efficaci e durevoli. La sola e sterile conoscenza degli interessi
individuali non può generare che la sola e sterile conoscenza del
diritto individuale. E la conoscenza del diritto individuale può
generare alla volta sua, quando quel diritto è negato, disagio,
opposizione, lotta, insurrezione talora, ma insurrezione che, come
quella di Lione, non frutta se non rinacerbimento d'ostilità tra le
classi che compongono la società. È necessario dunque tornare pur
sempre, quando si vuol compire un di quei grandi fatti che si
chiamano Rivoluzioni, alla conoscenza, alla predicazione dei
principî. Il vero stromento del progresso dei popoli sta nel fatto
morale.
Trascuriamo noi, perchè diciamo queste cose, il fatto economico, gli
interessi materiali, l'importanza delle conquiste operate nella
sfera industriale e dei lavori che le operarono? Predichiamo i
principî pei principî, la fede per la fede, come la scuola
letteraria romantica predica in oggi l'arte per l'arte?
A Dio non piaccia. Noi non sopprimiamo il fatto economico: lo
crediamo al contrario destinato a ricevere, nella società futura, un
allargamento più e più sempre considerevole del principio
d'eguaglianza, e ad ammettere in sè il principio fecondatore
dell'Associazione. Ma lo sommettiamo al fatto morale, perchè
sottratto alla sua influenza direttrice, disgiunto dai principî e
abbandonato alle teoriche d'individualismo che lo governano in oggi,
sommerebbe a un egoismo brutale, a una guerra permanente fra uomini
chiamati ad esser fratelli, all'espressione degli appetiti della
specie umana, quando invece esso dovrebbe rappresentare, sulla curva
ascendente del progresso, la traduzione materiale della sua
attività, l'espressione della sua missione industriale.
Non trascuriamo gli interessi materiali: respingiamo al contrario
come imperfetta e inconciliabile coi bisogni dell'epoca ogni
dottrina che non li comprendesse in sè o li riguardasse come meno
importanti di quel che veramente sono: crediamo che ad ogni grado di
progresso debba corrispondere un miglioramento positivo nelle
condizioni materiali del popolo; e questo successivo miglioramento è
in certo modo per noi una verificazione del progresso operato. Ma
non ammettiamo che gli interessi materiali possano svilupparsi soli
e indipendenti dai principî, quasi fine della società; perchè
sappiamo che teorica siffatta cancella la dignità umana: perchè
ricordiamo che quando in Roma il fatto materiale cominciò ad essere
predominante e il dovere verso il popolo si ridusse a dargli pane e
spettacoli, Roma e il popolo correvano a rovina, perchè vediamo oggi
in Francia, nella Spagna, per ogni dove, la libertà conculcata o
ingannata in nome appunto degli interessi di bottega, in nome della
dottrina servile che separa il benessere materiale dai principî.
Non dimentichiamo i servigi resi alla causa del progresso dalla
scuola politica dei diritti, nè l'importanza dei lavori economici
che assalirono, sul finire del XVIII secolo, l'assurdo e immorale
sistema restrittivo col quale i Governi commettevano a' doganieri lo
sviluppo industriale della Nazione come ne commettevano lo sviluppo
morale a censori e birri: in un'epoca nella quale i diritti degli
individui erano sistematicamente violati, quei lavori erano
indispensabili, e senz'essi noi non saremmo ove siamo. Ma quei
lavori sono oggi oltrepassati: non possiamo durare inerti per entro
i limiti ch'essi segnarono, senza rinegare le nuove tendenze che
mirano a riedificare. I popoli fecero plauso all'opera
distruggitrice dello scorso secolo, perchè speravano sottentrasse un
nuovo ordinamento all'antico; ripetutamente delusi, non moveranno se
non suscitati da un nuovo programma organico. L'individuo è sacro: i
suoi interessi, i suoi diritti sono inviolabili; ma porli come unico
fondamento all'edifizio politico, e dire agli individui: conquisti
ciascuno, e colle sole forze che ha, il proprio avvenire, è un dare
la società e il progresso agli arbitrî del caso e alle alternative
d'una lotta perenne; è un trascurare il fatto principale dell'umana
natura, la socialità; è un impiantar l'egoismo nell'anima e ordinare
per ultimo il dominio dei forti sui deboli, di quei che possedono
mezzi su quei che ne sono privi. I molti inefficaci tentativi degli
ultimi quarant'anni lo provano.
Quando dunque noi predichiamo quasi esclusivamente i principî che ci
sembrano derivare dalla condizione attuale della conoscenza umana,
intendiamo seguir la via che guida al futuro, tanto materiale quanto
morale, delle nazioni. Quando insistiamo sulla necessità d'inalzare
su quei principî un edifizio di credenze che sottentri alle credenze
spente o vicine a spegnersi, intendiamo soddisfare a un voto dei
popoli sovente male espresso, più sovente frainteso, ma che rivelato
a ogni modo dalle manifestazioni più disgiunte e dissimili, è il
segreto storico del XIX secolo. E quando diciamo: «inalzatevi alla
sfera dei principî: guidate i popoli, oggi erranti nel vuoto, alla
legge del Progresso, all'Umanità, a Dio: ridestate il senso morale,
il sentimento del Dovere negli uomini ch'altri tenta convertire in
macchine da calcolo: mostrate un grande intento ai giovani oggi sì
facilmente assaliti dallo sconforto e dal dubbio: rifate
coll'entusiasmo colla religione, coll'amore, una esistenza morale
all'uomo, dacchè l'antica del privilegio e dell'ineguaglianza è
cenere e polve:» lo diciamo convinti che ogni altro modo di trattare
le cose politiche è illusione o menzogna; convinti che le forme
politiche considerate isolatamente e per sè, sono, come l'antichità
diceva delle leggi, ragnateli che imprigionano i piccoli insetti e
son lacerati dai grandi; convinti che lo spirito solo dà importanza
alle forme: che le istituzioni sono lettera morta, inefficace,
impotente, ogni qual volta l'alito del progresso popolare della
fratellanza, dell'associazione non le vivifichi: che tutte le
dichiarazioni scritte sono un nulla dove tutti, abbandonati
all'individualismo e ordinati sopra una base d'ineguaglianza,
tendono naturalmente a eluderla cercandovi a un tempo uno stromento
di difesa contr'altri: convinti che ogni altra via non può giovare
alla causa dell'Umanità, ai grandi interessi del popolo, del lavoro,
della nazionalità, del miglioramento morale, sole cose che meritino
il nostro sagrificio e le nostre fatiche.
Riuscite a istillare nell'anima d'un popolo o nella mente, de' suoi
educatori, de' suoi scrittori, un solo principio, e varrà più assai
per quel popolo, per quel paese, che non tutto un corso d'interessi
e diritti indirizzato a ciascun individuo, che non tutta una guerra
mortale agli atti d'un Potere corrotto.
Quando avrete, a cagion d'esempio, radicato nel core della nazione
quel principio dichiarato, non applicato, dalla Rivoluzione
Francese: lo Stato deve l'esistenza o il lavoro per essa a ciascuno
de' suoi membri, avrete, aggiungendovi una giusta definizione
dell'esistenza, preparato il trionfo del diritto sul privilegio, il
termine del monopolio d'una classe sull'altra e la fine della
mendicità, per la quale non avete oggi che palliativi, carità
cristiana o consigli freddamente atroci come quelli dati dagli
economisti della Scuola Inglese.
Quando avrete educato gli animi alla fede nell'altro principio: la
società è una associazione di lavori e potrete, mercè quella fede,
desumerne logicamente e praticamente tutte le conseguenze, non
avrete più caste nè aristocrazie nè guerre interne nè crisi: avrete
un popolo.
E quando la parola: tutti gli uomini d'una nazione sono fratelli
avrà fatto dell'anima un santuario di virtù e d'amore - quando il
grande pensiero della Nazionalità non sarà più ringrettito a
proporzioni meschine e non si limiterà più ad appoggiare il proprio
diritto sopra un interesse materiale contrastato sempre da un altro,
ma si verserà, puro e santo, dalla madre al fanciullo nella
preghiera del mattino, in quella della sera, in quell'ore nelle
quali la donna trasformata in angelo insegna le verità del cielo
alla propria creatura, siccome assiomi e principî immutabili -
avrete allora soltanto una Nazione quale non può esservi data dai
sofisti che pretendono fondare nazionalità senza Dio; perocchè una
Nazionalità è una credenza in una origine e in un fine comuni, e
costituita oggi da un interesse può essere rovesciata domani da un
interesse più audace e più potente.
E così via via. Per natura loro, i principî, che taluni relegano tra
le cose astratte, sono sì poco separati dagli interessi materiali e
da ciò che chiamano fatto economico, che ne trascinano il trionfo
pratico siccome conseguenza inevitabile. La loro sfera li comprende,
li abbraccia tutti. Ma ogni progresso materiale è risultato
infallibile d'ogni progresso morale. Invece di logorare le forze in
una guerra minuta, cercando conquistare gli interessi ad uno ad uno
e sempre senza certezza di stabilità, noi tentiamo di risalire alla
sorgente comune e stabilirci trionfatori nel centro della contesa.
Gli effetti di questo lavoro possono parere più lenti; ma sono più
certi e soli durevoli. L'opera di fede, l'opera morale, si compie,
come il moto dell'ago sull'orologio, insensibilmente; ma spetta ad
essa soltanto d'indicare le ore solenni delle Nazioni.
Un Giornale non è un lavoro di legislazione: non opera se non a
gradi. Un Giornale non ricopre i poveri seminudi, non dà pane agli
affamati: predica, insiste perchè si faccia. Or come operare
sull'anima di chi legge? Come convincere non solamente
dell'esistenza del male ma della necessità di porvi rimedio? Come
comunicare al lettore lo spirito d'attività, la forza di sagrificio
necessaria per superare gli ostacoli? Un Giornale è, generalmente
parlando, scritto per le classi agiate; e queste classi, confortate
di prosperità, non hanno l'esperienza dei patimenti, delle
privazioni: esse vedono talora i mali del povero, ma s'avvezzano
facilmente a considerarli(115) come una triste necessità sociale, o
lasciano la cura di rimediarvi alle generazioni future.
L'indifferenza e l'obblìo sono sì dolci per chi siede nel sacrario
della famiglia, circondato da volti sorridenti, mentre il vento
d'inverno soffia al di fuori e la neve batte, minuta e rapida,
l'invetriata d'una doppia finestra! Sperate voi di strappare quei
felici del mondo all'inerzia colla semplice espressione del fatto
economico e di ciò che dovrebbe sostituirglisi in una società ben
ordinata? Sperate di scotere il loro riposo d'egoismo colla sola
fredda analisi di ciò che accade in una sfera nella quale essi non
penetrarono mai? Approveranno forse, come mera teorica, le vostre
dottrine d'utilità; ma non chiedete loro d'operare a seconda. Perchè
lo farebbero? voi parlate in nome degli interessi. Non è primo fra
tutti il godere? or essi godono.
Tra l'approvazione e il sacrificio perciò che s'approva, giace un
abisso che voi, col metodo vostro, non potete varcare. E nondimeno è
quello il problema. L'uomo è pensiero e azione. Le vostre teoriche
possono modificare il primo, non creare l'azione.
È dunque necessario modificare, riformare, trasformare l'uomo tutto
quant'è nell'unità della vita. Bisogna insegnargli non il diritto,
ma il dovere: ridestare al meglio l'indole imbastardita, l'anima
semispenta, l'entusiasmo appassito: risollevare una potenza d'agire
oggi schiacciata sotto l'indifferenza, colla coscienza della dignità
umana e d'una missione da compirsi quaggiù. Ed è opera questa che
spetta ai principî, alle credenze, al pensiero religioso, alla fede.
E fu l'opera di Gesù. Ei non cercò salvare coll'analisi il mondo
morente. Non parlò d'interessi a uomini sui quali il culto degli
interessi avea versato il veleno dell'egoismo. Affermò, nel nome
santo di Dio, alcuni assiomi fino allora ignoti; e quei pochi
assiomi che noi, dopo diciotto secoli, cerchiamo tradurre in fatti,
mutarono aspetto al mondo. Una sola scintilla di fede compì quello
che tutti i sofismi delle scuole filosofiche non avevano saputo
intravvedere: un passo nell'Educazione del genere umano.
Il problema attuale - non ci stancheremo di ripeterlo mai - è, come
ai tempi di Cristo, un problema d'educazione. Or cos'è mai una
educazione che non posa su principî, che non è desunta da una fede
comune, che non mira a conquistarle vittoria?
AGLI OPERAI ITALIANI.
DEL DOVERE D'ASSOCIARSI NAZIONALMENTE
1841.
Fra i molti operai italiani che viaggiano fuori d'Italia, parecchi
si sono legati ad associazioni straniere, specialmente francesi.
All'invito dei loro fratelli di patria, essi rispondono: «non sono
tutti gli uomini nostri fratelli? noi abbiamo già dato il nostro
nome ad associazioni d'uomini liberi, che vogliono quello che voi
volete, che combattono per la stessa causa, l'emancipazione del
popolo dai mali morali e fisici che lo opprimono. Non potete esigere
più da noi.» E si rimangono appartati dal nostro lavoro.
Che cosa siano queste Associazioni, noi lo diremo tra non molto. Le
più hanno scritto sulla loro bandiera comunione di beni, abolizione
della proprietà; dottrine tiranniche, assurde, nemiche al progresso
dell'Umanità, che noi dovremo confutare in alcuno de' numeri
successivi dell'Apostolato: dottrine fortunatamente irrealizzabili,
ma che producono in oggi il doppio male di raffreddare l'attività di
molti tra i veri amici del popolo, e di consumare intorno a progetti
impossibili l'energia di molti operai eccellenti per intenzioni, ma
illusi.
Bensì, non è di questo che intendiamo ora occuparci. Se a parecchi
tra gli operai italiani sembra che le opinioni accennate possano
contenere il rimedio che tutti cerchiamo ai mali presenti, è cosa da
discutersi fraternamente tra noi, nè può formare soggetto di giusto
rimprovero. Nessuno tradisce il proprio dovere quando cerca
diffondere le idee che egli, sbagliando o no, crede vere. Ma
tradisce, non esitiamo a dirlo, il proprio dovere e merita il
rimprovero de' suoi fratelli qualunque, tra un'Associazione
Nazionale operante per la buona causa e un'Associazione straniera,
preferisce quest'ultima. Egli diserta il posto che gli è stato
affidato da Dio per passare ad un altro.
Gli operai italiani, che a fronte d'un lavoro nazionale persistono a
spendere la loro attività nelle associazioni straniere, hanno
pensato mai, che al di là dell'Alpi o del mare stanno ventisei
milioni di loro fratelli, parlanti colle solite varietà di dialetti
una stessa lingua, distinti dagli altri popoli per un tipo speciale
di fisonomia, dotati di costumi, d'attitudini, di tendenze uniformi?
Hanno pensato che quei milioni sono schiavi, oppressi moralmente e
materialmente, smembrati in sette stati, spolpati da sette corti,
manomessi, dissanguati dallo straniero, mantenuti coll'astuzia e
colla violenza nell'ignoranza, privi d'ogni diritto, e privi di
tutti quei mezzi di progresso che appartengono più o meno a tutti i
paesi ne' quali esistono le associazioni delle quali parliamo? Hanno
pensato che la terra sulla quale gemono quei milioni è la terra
dov'essi nacquero, dove vivono i loro padri e le loro madri, dove
vivranno i loro figli? Hanno sentito, viaggiando e trovandosi a
fronte d'uomini che ripetono con orgoglio: siamo Francesi, siamo
Inglesi, la vergogna del non poter dire: siamo Italiani, senza
correre il rischio d'udirsi replicare: mentite; non esiste
un'Italia? E se pure hanno sentito talora questa vergogna, non hanno
sentito nello stesso tempo un istinto, una voce interna, che dicea
loro: bisognerebbe operare a cancellarla, a levarsi questa macchia
di sulla fronte, a farsi cittadini d'una nazione, a conquistarsi una
patria? E se udirono quella voce, perchè non hanno operato, perchè
non operano oggi con noi a seconda? Perchè invece di tentare di
crearsi una patria e un nome, lavorano a conquistare miglioramenti a
popoli che hanno patria e nome e bandiera e unità nazionale? a
popoli che non hanno bisogno di pochi individui stranieri per
progredire quando che sia, mentre l'Italia, senza unità, senza
stampa, senza rappresentanza, ha bisogno di tutti i suoi figli?
Operai italiani! sta bene d'ajutare, occorrendo, il vicino; ma prima
di dar opera a perfezionare la casa altrui, non dovreste voi
lavorare a inalzarne una pei vostri figli e per voi?
La causa del Popolo è una. La santa parola Umanità sta scritta in
cima al nostro foglio come nel nostro cuore. Ma v'è un'altra santa
parola, la Patria, che noi non possiamo dimenticar senza colpa. La
Patria è la nostra casa: la casa che Dio ci ha data, ponendovi
dentro una numerosa famiglia, che ci ama e che noi amiamo
naturalmente, colla quale noi possiamo intenderci meglio e più
rapidamente che non con altri, e che per la concentrazione sopra un
dato terreno e per la natura omogenea degli elementi ch'essa
possiede è chiamata a un genere speciale d'azione. La Patria è la
nostra lavoreria: i prodotti della nostra attività devono spandersi
da quella a benefizio di tutta la terra; ma gli stromenti di lavoro,
che noi possiamo meglio e più efficacemente trattare, stanno in
quella; e noi non possiamo rinunziarvi senza tradire l'intenzione di
Dio, e senza diminuire le nostre forze. Lavorando, secondo i veri
principî, per la Patria, noi lavoriamo per l'Umanità: la Patria è il
punto d'appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio
comune. Perdendo quel punto d'appoggio, noi corriamo rischio di
riescire inutili alla Patria e all'Umanità.
Operai italiani! Prima d'associarci colle nazioni, bisogna esistere:
non v'è associazione che tra gli eguali; e voi non avete esistenza
riconosciuta, perchè non avete Patria, e non appartenete a una
Nazione. Noi vi ripeteremo continuamente queste parole, perchè noi
pure abbiamo viaggiato, e le abbiamo con amarezza udite dalla bocca
degli stranieri. Quando nojati dell'udirci ripetere da gente che non
ha fatto mai cosa alcuna per noi: noi vi daremo la libertà, parlammo
qualche volta della possibilità che gl'Italiani la conquistassero
colle proprie mani: ci udimmo rispondere che possibilità senza
intenzione non v'era, e che l'intenzione esisteva sì poco che i
nostri si cacciavano nelle Associazioni straniere, convinti che la
libertà del loro paese non poteva escire se non dall'altrui potenza.
Operai italiani, questa è parola amara: parola che, se avete anima
d'uomini, dovete dar opera a non meritare. Lasciate il sentimento
della loro debolezza a coloro che pretendono fondare le rivoluzioni
sull'azione e sugli interessi d'una classe sola. Ma noi siamo
popolo; siam milioni; abbiamo forza. Tutto sta nell'unirci e volere.
Uniamoci dunque. Cerchiamo insieme i mezzi di crearci una Patria.
Fondiamo l'Italia del Popolo. Acquistiamoci diritti d'uomini e di
cittadini. Torneremo poi, con più dignità, con maggior utile e con
sicurezza di non essere dominati o traditi, all'abbraccio delle
nazioni. L'Umanità è un grande esercito che move alla conquista di
terre incognite, contro a nemici potenti e avveduti. I Popoli sono i
diversi corpi di quell'esercito. Ciascuno ha un posto che gli è
fidato: ciascuno ha una operazione particolare da eseguire; e la
vittoria comune dipende dalla esattezza colla quale le diverse
operazioni saranno compite. Non turbate l'ordine della battaglia.
Non passate da un corpo in un altro. Non abbandonate la bandiera che
Dio vi dava per quella che v'è offerta dal caso. Dovunque vi
troviate, in seno a qualunque popolo le circostanze vi caccino,
combattete per la libertà di quel popolo, se il momento lo esige. Ma
combattete come Italiani, così che il sangue che verserete frutti
onore ed amore, non a voi solamente, ma alla vostra Patria. E
Italiano sia il pensiero continuo dell'anime vostre: Italiani siano
gli atti della vostra vita: Italiani i segni sotto i quali
v'ordinate a lavorare per l'Umanità. Avrete più caldo l'affetto de'
vostri fratelli, e più sincera, credetelo a noi, la stima degli
stranieri. La loro parola a voi, individui, può suonare in oggi
fraterna e amorevole come a qualunque ingrossa i loro ranghi e rende
omaggio alla loro Patria e alle opinioni ch'essi professano: ma
siate certi che i più tra loro imparano da voi a disistimare il
vostro paese, a riguardarne la causa come dipendente da quella del
loro, a contemplarlo forse nell'avvenire siccome un dipartimento, o
una colonia della loro Repubblica.
NECESSITÀ DELL'ORDINAMENTO SPECIALE
DEGLI OPERAI ITALIANI.
RISPOSTA AD UNA OBBIEZIONE(116).
1842.
Alcuni operai italiani dichiarando la loro approvazione al nostro
concetto e alle basi fondamentali della nostra associazione, hanno
mosso a chi dirige l'Apostolato il dubbio seguente:
«Perchè cercate riunire in un solo corpo gli operai italiani? Perchè
li concentrate in una sezione dell'Associazione Nazionale? Voi così
perpetuate la distinzione delle classi che annunziate voler
distruggere. Voi date un fondamento alla ineguaglianza che
pretendete combattere. Si tratta non di divisione, ma di fusione.
Non esistono sotto la nostra bandiera che cittadini italiani.
Qualunque altra denominazione racchiude un germe di quella
aristocrazia che dobbiamo e vogliamo spegnere.»
Il rimprovero per sè, ci sia concesso il dirlo, è fondato sopra un
errore tanto palpabile che non meriterebbe confutazione. Ma tradisce
un senso di diffidenza giustificato in parte dal passato, e noi
dobbiamo afferrare tutte occasioni di chiarirlo ingiusto e di
logorarlo.
La Giovane Italia, come associazione, non ha bisogno di difendere le
proprie intenzioni. La sua bandiera fu bandiera di popolo sin dal
primo giorno in che fu levata. La sua credenza fu credenza
esplicita, dichiarata animosamente, d'unità della razza umana,
d'abborrimento dalle caste, d'eguaglianza tra le nazioni,
d'eguaglianza fra i cittadini d'una nazione. Prima in Italia,
predicò che la causa essenziale dell'impotenza dei tentativi
rivoluzionarî passati stava nello scopo imperfetto, aristocratico,
anti-nazionale che s'era dai capi prefisso a quei tentativi: disse
che non si fondava nazione se non si fondava per tutti, se non si
chiamavano tutti a fondarla, cioè a concorrere nei doveri e a
partecipar nei diritti che sgorgano dal concetto nazionale: disse
che le forze della nazione non erano scese mai sull'arena, perchè
non s'erano chiamate mai, perchè le insurrezioni s'erano appoggiate
or sulla milizia e sul patriziato, or sulle classi medie, non mai
sulla universalità degli uomini, che costituiscono la nazione,
perchè i capi avevano sempre parlato d'indipendenza dallo straniero,
di libertà politica, di diritti politici, dimenticando che tutte
rivoluzioni sono nella loro essenza sociali, che l'ordinamento
politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non s'ha
diritto di chiamare i milioni al sacrificio della quiete e della
vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento
collettivo, di miglioramento morale e materiale comune a tutti, di
educazione fraterna senza eccezione.
Nessun atto, nessun scritto dell'associazione smentì fino ad oggi
siffatta credenza. Il dubbio adunque non mira a ferir le intenzioni,
ma guarda alle tristi conseguenze che potrebbero escire da un errore
in buona fede commesso.
A questo è da rispondere.
La parola operajo non ha per noi alcuna indicazione di classe nel
significato comunemente annesso al vocabolo: non rappresenta
inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo
d'occupazione speciale, un genere di lavoro, un'applicazione
determinata dell'attività umana, una certa funzione nella società:
non altro. Diciamo operajo come diciamo avvocato, mercante,
chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario
alcuno quanto ai diritti e ai doveri di cittadini. Ognuna d'esse dà
soddisfacimento a un bisogno, tutte sono, più o meno, essenziali
allo sviluppo comune. Le sole differenze che noi ammettiamo tra i
membri d'uno Stato sono le differenze d'educazione morale. Un
giorno, l'educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un
giorno, saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione
dell'opera nostra in qualunque direzione s'eserciti. L'esistenza
rappresenterà un lavoro compito.
Ma codesto è l'avvenire: l'avvenire per cui lavoriamo. Il presente è
diverso. E non movendo da esso, noi ci esporremmo a perpetuarlo,
mentre intendiamo a mutarlo.
Il presente è diverso. Esistono in Italia, come dappertutto, due
classi d'uomini: gli uni possessori esclusivamente degli elementi
d'ogni lavoro, terre, credito, o capitali; gli altri, privi di tutto
fuorchè delle loro braccia. Esiste in Italia come per ogni dove una
educazione diversa per queste due classi, o meglio, esiste una
educazione quale i mezzi individuali possono procacciarla, per la
prima classe; non esiste educazione alcuna per la seconda. Sopra
duecento allievi incirca segnati sui registri della Scuola italiana
gratuita di Londra, centotrenta imparano a leggere.
Gli uomini della prima classe per conoscenza, gli uomini della
seconda istintivamente desiderano egualmente l'Indipendenza e
l'Unità Nazionale: in tutto il resto si separano.
Gli uomini della prima classe combattono per assicurare ed
accrescere gli agi e le superfluità della vita; gli uomini della
seconda combattono per assicurarsi la vita.
I primi vorrebbero conquistare maggior sviluppo e libertà
d'applicazione al pensiero: i secondi, costretti a spendere dodici o
quattordici ore della giornata in un lavoro quasi esclusivamente di
braccia, vorrebbero conquistarsi possibilità di pensiero.
I primi, inceppati nell'esercizio delle loro facoltà, vilipesi dallo
straniero, sottoposti all'arbitrio di principi stolti e malvagi,
hanno principalmente bisogno d'una rivoluzione politica: i secondi
affranti dalla miseria, tormentati dalla precarietà del lavoro e
dall'insufficienza dei salarî, hanno principalmente bisogno d'un
ordinamento sociale.
Le insurrezioni fino ad oggi tentate ebbero carattere esclusivamente
politico: il lavoro attuale tende a far sì che la prima insurrezione
porti carattere politico e sociale ad un tempo.
Ma per riescirvi sono necessarie due cose: l'una che i milioni i
quali invocano un migliore ordinamento sociale esprimano i loro
bisogni; l'altra che i migliori o i più tra gli uomini componenti la
prima classe simpatizzino coll'espressione di quei bisogni e
intendano la necessità di riunirsi a soddisfarli concordemente.
La prima è necessaria perchè le rivoluzioni non prevengono, non
indovinano i bisogni dei popoli, ma li concretano, li traducono in
fatti, li riducono a legge. La seconda è necessaria, perchè
altrimenti le rivoluzioni si ridurrebbero a guerre civili nelle
quali la decisione qualunque siasi, a qualunque parte spetti il
trionfo, è pur sempre questione di forza e sostituisce una tirannide
all'altra.
E l'unica via da seguirsi per ottenere queste due cose è
l'ordinamento in associazione degli uomini che invocano il mutamento
sociale.
La nazione intera ha bisogno di sapere ciò che gli operai, cioè i
milioni d'uomini che vivono del proprio lavoro senza possedere gli
elementi del lavoro, patiscono, accusano, invocano.
La nazione ha bisogno di sapere ciò che gli operai non vogliono:
tanti strani sistemi, pericolosi, sovversivi, hanno occupato le
menti a' dì nostri, che giova conoscere non solamente ciò che l'uomo
crede, ma ciò in che non crede.
Gli operai hanno bisogno di consultarsi per conoscere e calcolare le
proprie forze, per concordare intorno ai rimedî che possono porre un
termine ai loro mali, per raccogliere i mezzi necessarî ad
esprimerli colla stampa e a dare un principio almeno d'educazione a
quei tra' loro fratelli che ne sono assolutamente mancanti.
Considerazioni siffatte hanno dato origine alla formazione d'una
sezione composta esclusivamente d'operai nell'Associazione
nazionale.
Quando l'Italia vedrà riuniti in un corpo, schierato sotto la
bandiera nazionale e pronto a commettersi alle battaglie della
patria, i suoi operai, e udrà da essi medesimi l'espressione
riposata, pacifica de' loro bisogni, l'Italia non accuserà più di
freddezza e d'inerzia le sue moltitudini e intenderà il perchè si
rimasero, nei tentativi passati, anzi spettatrici che attive. Quando
gli operai ordinati, forti di convinzioni uniformi, stretti in unità
di volere, militeranno nell'Associazione nazionale, non solamente
come cittadini, ma come operai, non dovranno più temere d'esser
delusi nelle loro giuste speranze e di vedere le rivoluzioni
consumarsi in questioni di forme meramente politiche a benefizio
d'una sola classe.
Senza ciò non v'è da sperare. Le insurrezioni, ignare de' bisogni
speciali e delle esigenze dei diversi elementi che compongono lo
Stato, formeranno il loro programma dai voti comuni a tutti,
promulgheranno diritti politici inefficaci e nulla più. La storia
degli ultimi cinquant'anni parla evidente in proposito.
Braccia d'operai conquistarono la Bastiglia: che cosa ottennero
dalla rivoluzione francese? Braccia d'operai rovesciarono il trono
di Carlo X: cosa ottennero le moltitudini dall'insurrezione del
1830? Le associazioni, che prepararono in Italia il terreno ai
movimenti del 1831, erano popolate d'operai: quali provvedimenti
furono, non dirò presi, ma indicati da lungi alla speranza delle
classi operose, perchè i padri si confortassero nell'idea che
sorriderebbe ai figli un migliore avvenire? Gli operai delle città
di provincia decisero in Inghilterra nel 1831 la questione della
riforma: perchè i pochissimi miglioramenti che originarono dal bill
conquistato non fruttarono che alle classi medie? Mancava agli
operai un ordinamento speciale; mancava quindi l'espressione
regolare, insistente, imponente de' loro bisogni. L'operajo si
frammise a movimenti originati e diretti dalle classi medie, si
confuse nelle vaste fila della Carboneria, scese in piazza a
combattere, com'uomo, come cittadino, non come operajo. Venne in
ajuto, come cifra numerica aggiunta alla lotta, non come elemento
dello Stato, a classi che erano col fatto ordinate da secoli, e
considerate da secoli come elementi della società. Accettò quindi
necessariamente il loro programma, non diede il suo. S'anche,
avvedendosi che i diritti politici senz'altro non gli fruttavano,
egli avesse, il dì dopo aver combattuto, esposto i proprî bisogni,
era tardi: voce non collettiva ma d'individui, il rumore che
menavano le classi ordinate istigatrici del movimento doveva
disperderla, e la disperse. Perchè accusarne unicamente gli uomini
di quelle classi? Perchè pretendere dalla natura umana come
anch'oggi è, che insoddisfatta del presente, ricerchi i bisogni non
espressi dell'avvenire?
La questione dell'ordinamento speciale degli operai italiani si
riduce a questa: hanno o non hanno gli operai bisogni speciali
ch'esigono provvedimento?
Gli operai - giova ripetere codeste cose - lavorano troppe ore della
giornata, perchè non ne patisca la loro salute e perchè non vi sia
per essi impossibilità assoluta d'educare, come conviensi ad ogni
umana creatura, l'intelletto e l'anima loro. Gli operai sono
generalmente troppo mal retribuiti perch'essi possano schermirsi,
coi risparmî, dalla miseria per sè e per le loro famiglie ne' tempi
di crisi, e dall'ospedale o dal workhouse nella vecchiaja. Gli
operai sono lasciati senza riparo, dacchè le coalizioni, anche negli
Stati mezzo-liberi, sono punite, all'arbitrio di chi li impiega e
alle diminuzioni dei salari, provocate dagli effetti della
concorrenza crescente. Gli operai sono continuamente esposti alla
mancanza assoluta di lavoro, cioè alla fame, per le frequenti crisi
commerciali che l'assenza di direzione generale all'attività
industriale fa inevitabili. Gli operai sono, dalla natura della loro
mercede incapace d'aumento progressivo comunque il guadagno de'
padroni proceda, ridotti alla condizione di macchine, condannati ad
una ineguaglianza perpetua, avviliti in faccia a sè stessi e ai loro
fratelli di patria. Gli operai sono, per tutte queste cagioni,
sottoposti a tutti gli obblighi della società dove vivono, dal
tributo che le imposte indirette prelevano sui sudori delle loro
fronti fino al sagrificio della vita che le guerre della patria
esigono, senza giovarsi d'un solo de' suoi benefizî.
A condizioni siffatte i rimedî meramente politici non bastano: e
nondimeno, le rivoluzioni saranno sempre meramente politiche finchè
saranno fidate all'impulso unico delle altre classi. Le loro
condizioni sono radicalmente diverse: perchè faticherebbero a
provvedere a bisogni ch'essi non provano e che non hanno espressione
collettiva da chi li prova? E chi mai se non chi li prova può
esprimerli efficacemente? Quando in Francia una legge sugli zuccheri
ferisce gli interessi commerciali, a chi se non alle Camere di
commercio spetta ammonire e protestare contr'essa? Chi sogna
separazione di classi e aristocrazia mercantile, perchè le Camere di
commercio ammoniscono e protestano?
Operai italiani, arrossite del vostro nome? arrossite dell'ufficio
al quale adempite nella società? I padri vostri non ne arrossivano.
Quando Firenze era libera, repubblica nota e rispettata in Europa, i
vostri padri si ordinavano per arti e mestieri, si chiamavano
alteramente lanajuoli, setajuoli, conciatori di pelli, si
raccoglievano sotto i loro gonfaloni ad esprimere i loro bisogni e
la loro volontà. Diffidereste in oggi degli uomini che vi chiamano
ad ordinarvi per raggiungere quella eguaglianza che non esiste
finora per voi, e che nessuno finora ha tentato darvi, solo perchè
l'ordinarvi a un lavoro speciale implica che voi non l'avete
raggiunta? Se voi preferite il nome alla cosa - se vi pare che il
confondervi in un lavoro esclusivamente politico coi vostri
concittadini, sulla terra straniera, senza indizio delle vostre
condizioni presenti, sia da preferirsi al tentare un riordinamento
sociale che vi darà, quando che sia, nella vostra patria, non
diritti nominali, ma esercizio reale di diritti e doveri
cittadineschi, - rimanetevi separati da noi. Dove no, fate senno.
Fate senno degli esempî patrî; fate senno, poichè pur troppo voi
guardate anch'oggi con più attenzione alle cose altrui che non alle
vostre, degli esempî stranieri. A che son dovuti i progressi che la
questione sociale ha fatto da dieci anni in Francia ed in
Inghilterra, se non alle associazioni degli operai? Da che deriva la
tendenza abituale in oggi negli organi della classe media a
discutere i punti, negletti dieci anni sono, del miglioramento delle
classi povere e dell'ordinamento del lavoro, se non dai giornali che
in Francia ed in Inghilterra gli operai stessi dirigono(117)? Sarete
illusi sempre e sempre traditi, operai italiani, finchè non
seguirete siffatti esempî, finchè non intenderete che prima di
partecipare nei cangiamenti politici cogli altri elementi,
l'elemento del lavoro ha da ottenersi cittadinanza nello Stato,
ch'oggi non l'ha, e che a conquistarla è indispensabile
l'associazione.
Operai italiani, che avete mosso il dubbio intorno al quale abbiamo
tenuto discorso, le vostre intenzioni sono pure; il vostro sospetto
è sospetto d'uomini che sentono l'importanza del principio
d'eguaglianza sul quale deve indispensabilmente fondarsi l'edifizio
futuro e tremano di vederlo guasto o falsato. Ma badate ch'altri,
più diffidente della natura umana che noi non siamo, non lo
interpreti diversamente, e non v'accusi d'una vanità meschinissima,
ostile al principio che predicate: badate a non screditare per voi
stessi l'ufficio ch'esercitate nella società, lasciando pensare che
voi ne arrossite: badate a non fare che i vostri nemici possano
dire: vedete? essi si dichiarano apostoli d'una società fondata sul
lavoro, e vergognano di vivere sul lavoro delle loro braccia. Voi
siete il nucleo della nazione futura. Non la tradite, rinegandone il
principio fondamentale. Andate nobilmente alteri del vostro nome:
verrà tempo che tutta quanta la nazione lo adotterà. Scrivete sulla
vostra bandiera lavoro, e rannodatevi intorno ad essa per
riscattarla dal dispregio in che secoli l'hanno tenuta. In faccia
alla Democrazia, quella parola, base d'ogni società popolarmente
ordinata, racchiude la più alta malleveria dell'eguaglianza che voi
cercate: in faccia a quella parte della nazione che non è
conquistata ancora alle credenze democratiche, voi nuocereste
deliberatamente alla nostra causa se lasciaste mai sospettare che il
nome Operajo, segno del vostro ufficio nella società, cova, anche
nell'animo vostro, un germe d'ineguaglianza che v'induce a
sopprimerlo. Quando, a mezzo il secolo XVI, un satellite di Filippo
II re di Spagna chiamò, deridendo, gl'insorti dei Paesi Bassi una
mano di spiantati (les gueux), gl'insorti accettarono quel nome, lo
scrissero sulle loro ciarpe, sulle loro bandiere, lo fecero suonar
alto per ogni dove, e tredici anni dopo, la fondazione delle Sette
Provincie Unite cangiava lo scherno in rispetto e timore. Il vostro
nome, operai, racchiude ben altro che non il nome applicato per
disprezzo dal satellite di Filippo II agli insorti de' Paesi Bassi;
tanto più vi mostrerete inferiori al concetto dell'epoca e,
concedeteci il franco linguaggio, spregevoli, se invece
d'inorgoglirvene, pensaste a dissimularlo.
E ascoltate un'altra parola. Siete deboli finora e pochi e dispersi.
La vostra voce fu muta nei tentativi passati. I vostri bisogni non
furono neppure avvertiti. In faccia alla nazione, in faccia
all'estero, siete ignoti finora. Non inceppate con sospetti, con
dubbî, con divisioni inopportune, l'Associazione che riconosce prima
i vostri diritti, che prima s'assume di far intendere la vostra
voce, di predicare i vostri bisogni; non ne rallentate l'azione con
discussioni intorno a nomi e minuzie che mal si concederebbero a chi
avesse già corso mezzo il cammino. Siate forti prima; discuterete
più dopo. Concentratevi nell'Associazione; quanto più numerosi
sarete, tanto più avrete modo di perfezionarla e di cancellarne gli
errori che accompagnano ogni opera umana. Dall'esame dei fatti e
degli scritti dell'Associazione, dall'esame della vita degli uomini
che la dirigono, accertatevi dei principî della prima, delle
intenzioni dei secondi: questo è non solamente diritto, ma debito
vostro; dove bensì troviate giusti i principî, pure le intenzioni,
non siate, in oggi, troppo esigenti. Ricordatevi che le obbiezioni
sono facili, ma il fondare è difficile. Ricordatevi che spesso la
vanità impotente a fare, s'appaga, senza riflettere alle
conseguenze, in disfare. Non vi lasciate svolgere, per vani e
ingiusti sospetti, da ciò che più importa, costituirvi, ordinarvi,
conquistar forza. Dite a quei che tentassero sviarvi
dall'Associazione: «cos'è che ponete in sua vece?» Tutti i consigli
ch'essi possono darvi furono già praticati e non vi condussero a
miglioramento alcuno. Ma noi non possiamo, anche volendo, tradirvi.
Riuniti in un corpo; chi può tradirvi? Avete combattuto finora pel
programma dell'altre classi: date oggi il vostro e annunziate
collettivamente che non combatterete se non per quello. Siete
cittadini italiani, e come tali volete l'unità, l'indipendenza, la
libertà della patria e i diritti politici che spettano a tutti i
vostri fratelli, qualunque sia il modo della loro attività nel
lavoro comune: appartenete dunque all'Associazione nazionale. Siete
operai italiani, e come tali avete bisogni speciali ed esigete
rimedî speciali senza i quali i diritti politici tornerebbero per
voi un'amara ironia: ordinatevi dunque tra voi perchè l'espressione
di quei bisogni e l'indicazione di quei rimedî sian note
all'Associazione e per mezzo dell'Associazione alla nazione
italiana. Credete a noi. Chi vi tiene linguaggio diverso, o
s'inganna o v'inganna.
RICORDI
DEI
FRATELLI BANDIERA
E DEI LORO COMPAGNI DI MARTIRIO IN COSENZA
il 25 luglio 1844
DOCUMENTATI COLLA LORO CORRISPONDENZA.
Et si religio jusserit, signemus fidem sanguine,
(Santa Caterina.)
A
JACOPO RUFFINI
MORTO MARTIRE DELLA FEDE ITALIANA, NEL 1833.
A te, fratello mio d'amore, io dedico, venerando, queste poche
pagine scritte col nome tuo sulle labbra, colla santa tua imagine
davanti agli occhi dell'anima. Io non trovo qui sulla terra, fra
quei che hanno concetto di fede e costanza di sacrificio, creatura
che ti somigli.
M'ami tu sempre come, vivendo della vita terrestre m'amavi? Io non
mi sento ora, poi che tu se' fatto angiolo, degno di te; ma due o
tre volte nella mia vita dacchè il martirio ti trasformava, quando
tra le sciagure della mia patria e le delusioni dell'individuo, io
sentiva il dubbio infernale sfiorare, senza vincerla, l'anima mia,
ho pensato che la tua preghiera intercedeva per me, e che la potenza
di fede indomita, eterna, d'onde io traeva subitamente forze a
combattere, era un bacio delle tue sante labbra sulla fronte del tuo
povero amico.
Dammi, oh dammi ch'io non disperi! Dalla sfera ove oggi tu vivi
d'una vita più potente d'intelletto e d'amore che non è la terrena,
e dove i nuovi martiri della fede italiana salivano poc'anzi a
incontrarti, tu preghi con essi a Dio padre ed educatore, perchè
s'affrettino a compiersi i fati ch'Ei prefiggeva all'Italia. Ma se
mai la luce dubbia, ch'io saluto talora indizio dell'alba, non fosse
che luce di stella cadente; - se lunghi anni di tenebre e di
sconforto devono ancor passar sull'Italia prima che si rivelino ad
essa le vie del Signore: - per l'amore ch'io t'ho portato e ti
porterò, fa che il tuo povero amico pensi ed operi, viva e muoja
incontaminato; fa ch'egli non tradisca mai, per intolleranza di
patimenti o per amarezza di delusioni, il culto all'eterna idea, Dio
e l'Umanità interprete progressiva della sua legge; e fa ch'egli
possa, nella serie delle vite assegnate alla creatura, incontrarti
senza che tu debba velarti, arrossendo, dell'ali, e pentirti
dell'affetto che in lui, sulla terra, ponesti.
Londra, ottobre 1844.
«Ma se nella tempesta, ch'io sto combattendo, soccombo, onde non
lasciare a' miei cari vergogna dall'avermi amato, non negate di dare
alla mia memoria un fiore che la depuri dall'infamia che i nostri
tiranni non mancheranno certamente d'applicarle.»
(Attilio Bandiera, Lett. del 14 nov. 1843.)
«Addio; addio. Poveri di tutto, eleggiamo voi nostro esecutore
testamentario per non perire nella memoria dei nostri concittadini.»
(Emilio Bandiera. Lett. del 10 marzo 1844.)
Io scrivo queste pagine per obbedire all'ultimo voto dei fratelli
Bandiera, e perchè gli Italiani sappiano quali uomini fossero quei
che morirono per la libertà della patria, il 20 luglio 1844, in
Cosenza. E le scrivo ora, mentre io avrei per più ragioni desiderato
adempiere all'obbligo mio alcuni anni più tardi, perchè le gazzette
austriache e le polizie italiane hanno diffuso e diffonderanno
intorno a quei nomi asserzioni riecheggiate dai molti vili e dai
moltissimi stolti, che tendono a calunniare, non dirò i vivi - che
importa a noi di siffatte accuse? - ma la fama di martiri che
gl'Italiani non dovrebbero nominare, se non prostrati, adorando. Fu
detto che mal si tenta con venti uomini la libertà dell'Italia, e
che l'entusiasmo, quando non è regolato da' freddi calcoli della
ragione, tocca i confini della follìa e nuoce alla causa che
vorrebbe promuoversi. Fu detto che i Bandiera entrati nella
cospirazione Italiana per impulso altrui, furono sedotti, spronati
all'impresa di Calabria come a iniziativa d'insurrezione
architettata da esuli agitatori, anzi segnatamente da me che scrivo
e da un amico mio intimo risiedente a Malta, Nicola Fabrizi. E
dietro a quelle asserzioni deliberatamente bugiarde, vengono le
conseguenze affrettate che dichiarano l'Italia impotente a fare da
per sè, disastroso ogni tentativo, reo d'imprudenza o peggio
qualunque predichi o promuova azione: vergogna de' tempi e d'uomini
che non sapendo esser forti e pur non volendo apparire codardi,
seminano sistematicamente sconforto per timore d'essere chiamati
all'opre dai loro fratelli. Intanto l'anime giovani si sfrondano più
sempre d'affetti generosi e di riverenza ai pochi devoti; le menti,
invece d'affratellarsi operose in un concetto di tremenda unità,
s'arretrano, sviandosi in un'anarchia che conduce all'inerzia,
davanti al sospetto di tutto e di tutti; e i nostri padroni
sogghignano, e sprezzano.
I pochissimi de' quali avrei caro il suffragio, sanno che io non
ordinerei mai spedizioni armate senza dividerne in un modo o in un
altro i pericoli: degli altri i dieci anni or decorsi m'hanno
insegnato a non curar più che tanto. Ho troppi dolori sull'anima,
perchè le scalfitture della calunnia vi possano; e per morire senza
rimorsi, parmi che basti trovarsi in pace colla propria coscienza e
con Dio. A me dunque poco importa di quelle accuse; nè, se
importasse, vorrei scendere, profanando, a lunghe difese e
recriminazioni in queste pagine sacre alla memoria d'uomini
superiori a tutti noi quanti siamo. Ma importa a noi tutti che la
fama dei Bandiera e dei loro compagni scenda pura, incontaminata
d'errori, a quei che verranno: importa che i nostri giovani possano
venerare in essi i martiri non i settari: importa che tutti, amici o
nemici, sappiano, a conforto o terrore, come l'idea nazionale
italiana frema oggimai spontanea ingenita, senza bisogno d'impulso
estranio, anche nel petto degli uomini che, vincolati all'insegna
straniera, hanno contro, oltre i più gravi pericoli, le abitudini
della disciplina militare, l'influenza d'esempî domestici,
l'isolamento, e il sospetto de' loro concittadini. E a questo,
spero, provvederanno i pochi frammenti(118) di lettere ch'io
pubblico in questo scritto. Gli autografi stanno presso di me, e li
serbo religiosamente come reliquia dell'anime più candide, più
nobilmente temprate, e sante di umore e di sagrificio, che a me
fosse dato d'incontrare, da dieci anni e più sulla terra.
Attilio ed Emilio Bandiera, nati Veneti, figli del barone Bandiera,
contr'ammiraglio delle forze navali austriache, e noto all'Italia
per la cattura sul mare, nel 1831, degli uomini che, imbarcatisi
sotto l'egida della capitolazione d'Ancona, veleggiavano verso la
Francia, avevano, fin da' primi tempi spesi nelle cure della
milizia, afferrato e venerato il concetto nazionale italiano, e
s'adoperavano, più anni innanzi al primo loro contatto con esuli o
congiurati dell'interno d'Italia, a prepararsi le vie di tradurre il
concetto in azione. Nella seconda metà del 1842, mi giunse da Smirne
una lettera con data del 15 agosto, firmata di nome evidentemente
non vero, che diceva:
«Signore, - È da diversi anni che ho preso a stimarvi e ad amarvi,
perchè intesi esser voi da riguardarsi qual capo dei generosi che
nella presente generazione rappresentano la nazionale opposizione
alla tirannide e agli altri conseguenti vituperî che spietatamente
contaminano l'Italia. So che siete il creatore d'una patriotica
società che chiamaste della Giovane Italia; so che scriveste sotto
lo stesso titolo un giornale diretto a propagarne le massime, ma nè
d'esso nè d'alcun'altra vostra opera mi venne mai fatto di
procurarmi, ad onta dell'ardente mio desiderio, una copia; soltanto,
son pochi giorni, pervenni ad avere i numeri primo e secondo del
vostro Apostolato Popolare, e mi riescivano tanto preziosi in quanto
che alla dolce soddisfazione di vedere da un uomo come voi
pubblicati gli stessi miei principî politici, si aggiunge l'altro
non meno cospicuo vantaggio di un modo, comunque indiretto, per
farvi giungere questa mia. Il vostro indirizzo io cercava trovarlo
da più d'un anno, non pretermettendo per ciò alcun tentativo; e tra
questi non sarà forse inutile di citarvi l'aver io incaricato un mio
amico, che pel corrente agosto o prossimo settembre doveva per
qualche giorno approdare in Inghilterra, di fare il possibile onde
recarsi a Londra per colà scoprire il vostro alloggio, abboccarsi
con voi, darvi contezza di me, e annunciarvi che con vostro
permesso, dietro le sue informazioni, io presto intraprenderei un
carteggio nello scopo di utilmente servire la nostra patria. Prima
però d'entrare in sì delicato argomento, so che mi corre l'obbligo
di darvi qualche nozione personale di me, perchè voi poi in seguito
non abbiate a lagnarvi d'esservi troppo avventatamente confidato con
un ignoto. Se l'amico di cui scrissi qui sopra avrà eseguito la mia
commissione, voi avrete da lui a quest'ora rilevato il vero mio
nome. Ma il di lui soggiorno in Inghilterra deve essere così breve e
assediato di tanti incarichi, che pur troppo temo fortemente ch'egli
non avrà potuto soddisfare all'impegno assuntosi. E in quel caso, io
mi riserbo di palesarvelo colla prima sicura opportunità che potrà
presentarsi.
«Sono Italiano, uomo di guerra, e non proscritto. Ho quasi
trentatrè(119) anni. Sono di fisico piuttosto debole; fervido nel
cuore, spessissimo freddo nelle apparenze. Studiomi quanto più posso
di seguitar le massime stoiche. Credo in un Dio, in una vita futura,
e nell'umano progresso: accostumo ne' miei pensieri di
progressivamente riguardare all'umanità, alla patria, alla famiglia
ed all'individuo; fermamente ritengo che la giustizia è la base
d'ogni diritto; e quindi conchiusi, è già da gran tempo, che la
causa italiana non è che una dipendenza della umanitaria, e
prestando omaggio a questa inconcussa verità, mi conforto intanto
delle tristizie e difficoltà dei tempi colla riflessione che giovare
all'Italia è giovare all'Umanità intera. Sortito avendo un
temperamento ardito egualmente nel pensare come pronto all'eseguire,
dal convincermi della rettitudine degli accennati principï, al
risolvere di dedicar tutto me stesso al loro sviluppo pratico, non
fu quindi che un breve passo. Ripensando alle patrie nostre
condizioni, facilmente mi persuasi che la via più probabile per
riescire ad emancipar l'Italia del presente suo obbrobrio,
consisteva forzatamente nel tenebroso maneggio delle cospirazioni.
Con quale altro mezzo infatti che con quello del segreto può
l'oppresso accingersi a tentar la sua lotta di
liberazione?..............
Intanto, fu sempre, da quando mi dedicai a tentare il bene della
patria, mia idea fondamentale che tutti quelli che vanno in cerca
dello stesso fine, dovessero per assoluta necessità, prima di nulla
intraprendere allo scoperto, studiarsi d'entrare in relazione onde
conoscersi a vicenda, unire le proprie forze, e formolare i singoli
pensieri a quella formola d'unità senza la quale presto o tardi la
dissensione succede e rovina ogni meglio fondata speranza. Ed è
perciò che tanto anelo di farvi giungere un mio scritto, e la
recente lettura del vostro Apostolato mi confermò vieppiù in questa
determinazione. Io vengo a ripetervi le vostre stesse parole:
Consigliamoci, discutiamo, operiamo fraternamente. Non isdegnate la
mia proposta. Forse, troverete in me quel braccio che primo nella
pugna che s'appresta osi rialzare il rovesciato stendardo della
nostra indipendenza e della nostra rigenerazione....................
...........................»
Questa lettera era del maggiore de' due fratelli, Attilio. L'amico
ch'egli aveva incaricato d'una comunicazione verbale, fece quanto
gli era commesso, ed era Domenico Moro, nato egli pure Veneto,
luogotenente sull'Adria, e caduto martire in Cosenza co' suoi
fratelli di armi e di fede.
Il 28 marzo 1844, in una lettera scritta dopo la fuga, Emilio
Bandiera compiva l'esposizione delle credenze politiche nazionali
che dirigevano Attilio e lui. «Mio fratello ed io - diceva -
convinti del dovere che ogni Italiano ha di prestar tutto sè stesso
a un miglioramento di destini dello sventurato nostro paese,
cercammo ogni via per unirci a quella Giovine Italia che sapevamo
formata ad organizzare l'insurrezione patria. Per tre anni i nostri
sforzi riuscirono inutili; i vostri scritti non circolavano più in
Italia; i governi vi dicevano separati e fiaccati dal mal esito
della spedizione di Savoja... Senza conoscere i vostri principî,
concordavamo con essi. Noi volevamo una patria libera, unita,
repubblicana: ci proponevamo fidare nei soli mezzi nazionali:
sprezzare qualunque sussidio straniero e gittare il guanto quando ci
fossimo creduti abbastanza forti, senza aspettare ingannevoli rumori
in Europa...........»
E a queste idee intorno ai modi di redimere la Nazione, i due
fratelli accoppiavano una serie di previsioni concernenti il futuro
ordinamento europeo, ch'essi stringevano per me nei pochi rapidi
cenni ch'io qui trascrivo:
«Noi consideriamo l'Europa come riordinata in grandi masse popolari
che avranno inghiottito molte delle odierne così spesso
irragionevoli suddivisioni politiche. Così noi antiveggiamo il
popolo Spagnuolo ed il Portoghese fusi in una sola nazione: la
Francia appoggiante del tutto i suoi confini orientali al Reno e
quindi assorbendo il Belgio: la Germania costituita in una sola
nazione e ingrandita coll'Olanda e colla Danimarca continentale: la
Svezia aumentata essa pure delle vicine isole Danesi e della
Finlandia; la Polonia risorta e forte come ai tempi del generoso
Sobieski: la Russia possibilmente divisa in due: la Valacchia, la
Servia, la Bulgaria, la Croazia, l'Erzegovina, il Montenero e la
Dalmazia riunite in una nazionalità Illirica o Serba: l'Ungheria
colle presenti sue dipendenze, più la Moldavia e la Bessarabia: la
Grecia aumentata della Tessaglia, della Macedonia, dell'Epiro,
dell'Albania, della Romelia, di Candia e più tardi dell'Ionio.
«Da questo quadro, tralasciando l'Occidente, ove pure si avrebbero
tanti aderenti, e mirando soltanto alla parte di Levante, presto si
deduce che Polonia, Ungheria, Grecia, Serbia ed Italia hanno
interessi comuni contro la Russia, l'Austria e la Turchia: non si
collegheranno mai dunque abbastanza quei popoli contro i loro
governi, e se una volta avvertiti di questa verità, cominciassero ad
agire conseguentemente, la lotta cesserebbe tosto d'essere così
ineguale come sembra a prima vista. Ogni Polacco, Ungherese, Serbo,
Greco, Italiano, che ama il bene della propria patria e per essa
quello dell'Umanità intera, lavori dunque indefessamente a sempre
più propagare questa plausibile politica. Le suddette nazionalità
confederate son tutte ancora nella mente degli ideologi, e tra esse
la Grecia può dirsi la più inoltrata: conviene dunque insinuarle di
non arrestarsi sulla via gloriosa e profittevole che le s'apre
dinanzi, ma fidare nelle proprie forze, nelle simpatie che la
circondano, nella giustizia della sua causa, e non soddisfatta delle
ristrette concessioni d'un governo imperfettamente rappresentativo,
spingersi avanti animosa, spiegare di nuovo la bandiera dell'unione
e dell'indipendenza, e liberare dal mal fermo giogo del tiranno del
Bosforo le popolazioni che devono appartenerle. Allora comincierà
l'omai resa inevitabile guerra dei popoli contro i re; e per essa la
vecchia Europa sarà interamente rifusa. Allora gli assassinî di
Rigas e d'Ypsilanti verranno dagli Italiani vendicati; e forse gli
Ungheresi, oggi nostri oppressori, nostri fratelli allora, laveranno
l'onta del presente ajutando a vendicare quei di Menotti e Ruffini.
Allora la Polonia e l'Italia, sorelle da tanto tempo per la
somiglianza delle patrie sventure, non combatteranno più inutilmente
sotto le insegne d'un apostata, ma riunite ne' loro sforzi
pugneranno per Dio, per la giustizia, per l'umanità, e per la
patria.»
Non tutte forse le idee sul rimaneggiamento europeo contenute in
questo frammento son vere; ma tutte rivelano un giusto concetto
delle tendenze che domineranno il futuro, e spirano un alito di
quella fede che sola può santificare le rivoluzioni e liberarle dai
pericoli dell'anarchia e delle delusioni amarissime che comprano a
prezzo di sangue mutazioni di nomi alle cose e non altro. Dio, la
Patria, l'Umanità: su questi tre termini i Bandiera edificavano
tutta la loro credenza politica. Dalla nozione di Dio desumevan
l'unità e la vita collettiva della razza umana, la legge di sviluppo
progressivo ed armonico imposta al Creato e la santa teorica del
Dovere fidata come regolatrice de' suoi atti alla creatura. Dalla
nozione dell'Umanità interprete e applicatrice progressiva di quella
legge, traevano i caratteri della missione assegnata alla Nazione,
alla Patria; dal concetto della Patria i caratteri della missione
assegnata all'individuo. E a queste idee che il secolo ha
conquistato penosamente per mezzo a lunghi errori e sacrificî di
sangue, e che in essi, isolati per forza di circostanze dal moto
intellettuale europeo, erano visioni dell'anima vergine, potente
d'entusiasmo d'amore, i Bandiera accoppiavano un culto religioso
d'azione incessante rinfiammato dal pensiero che lo stendardo
sventolante ad essi sul capo, e del quale le apparenze li accusavano
difensori, era l'Austriaco: pareva ad essi che spettasse ad uomini
del Lombardo-Veneto iniziare l'impresa italiana e ferire il nemico
nel core. Questa speranza era l'anima della loro vita. Amavano ambi
con tenerezza la madre; ma di quell'amore che leva all'angiolo, non
respinge fra i bruti, di quell'amore che confessa suo primo debito
far del core un tempio a' più alti e nobili affetti, purificandolo
d'ogni egoismo e consacrandolo al Giusto, al Bello, e all'eterno
Vero. Attilio era marito e padre; ma la missione da Dio commessagli
d'educare un'anima al bene gli era di sprone, anzichè di ritegno,
all'impresa; e la donna del suo core, oggi morta, come dirò, di
dolore, era degna di lui e partecipe, quanto conveniva, de' suoi
segreti.
Dalla corrispondenza dei due fratelli con me da quel primo giorno
sino alla loro fuga d'Italia, e dei disegni ch'essi maturavano a prò
del paese io non posso, per ragioni che tutti intendono, dar conto
alcuno. Ma dall'unico frammento, spettante alla fine del 1843, che
mi sia dato, senza pericoli d'altri, inserire, apparirà come più
potente di tutti meditati disegni fremesse fin d'allora nell'anima
loro la febbre d'azione, d'azione personale, immediata, che
decretava non molto dopo la loro morte in Calabria. «Il fermento
insurrezionale in Italia - mi scriveva Attilio - dura, se debbo
credere alle voci che corrono, tuttavia; e pensando che potrebbe ben
essere l'aurora del gran giorno di nostra liberazione, mi pare che
ad ogni buon patriota corra l'obbligo di cooperarvi per quanto gli è
possibile. Sto dunque studiando il modo di potermi recare io stesso
sulla scena d'azione..... ...................... e, se non vi
riescirò, non sarà certamente mia colpa. Sarebbe mio pensiero di
costituirmi, giunto su' luoghi, condottiero d'una banda politica,
cacciarmi ne' monti, e là combattere per la nostra causa sino alla
morte. L'importanza materiale sarebbe, ben lo veggio, per questo
fatto assai debole, ma molto più importante sarebbe l'influenza
morale, perch'io porterei il sospetto nel cuore del più potente
nostro oppressore, darei un eloquente esempio ad ogni altro che come
me fosse legato da giuramenti assurdi ed inammissibili, e
fortificherei quindi la fiducia dei nostri, deboli più che per
altro, per mancanza di fede ne' proprî mezzi e per l'esagerata idea
delle forze nemiche........
Quando Attilio mi scriveva (il 14 novembre) quelle parole e
vagheggiava il partito estremo d'abbandonare elementi che potevano
riuscire un giorno decisamente importanti all'insurrezione italiana,
per cacciarsi disperatamente con pochi individui sull'Apennino, egli
aveva già, quanto agli uomini d'oggi, il tarlo dello sconforto
nell'anima. I lettori ricordano come dall'agosto al novembre del
1843 un fermento insolito, prodotto in parte da promesse inadempite
da cospiratori, ma più assai dal mal governo e dalla naturale
impazienza di un popolo tormentato, agitasse l'Italia centrale. E da
quel fermento che poteva, tanto era energico e unanime, esser
cominciamento dell'impresa italiana, e che, per errori e colpe da
non discutersi qui, non fruttò se non morti, prigioni ed esiglio ai
migliori, i Bandiera avevano tratto speranze e ardire come di chi
sente vicini i tempi. Tra gl'indizî, emergenti dalla banda dei
Muratori, d'un miglioramento nell'opinione circa i modi da tenersi
nella guerra d'insurrezione, la risse continue fra popolani e
pontificî nelle città di Romagna, e i rumori insistenti di moto
imminente nell'Italia meridionale, essi, scesi a contatto con taluni
fra gl'influenti, alle proposte d'azione, alcune importanti davvero
e facilmente verificabili con pochi mezzi, ebbero risposta funesta
di promesse per un tempo vicino, poi di dilazioni e illusioni senza
fine fondate su piani vasti e ineseguibili: i pochi, meschinissimi
ajuti in danaro negati. Cercavano l'entusiasmo che, raccolti una
volta gli elementi a fare, è il più alto calcolo delle insurrezioni,
e trovavano diplomazia: cercavano la lava ardente d'anime
vulcanizzate e trovavano rigagnoletti d'acque tiepide volgenti a
palude: il Fiat onnipotente di fede e di volontà, e udivano vocine
di eunuchi susurranti computi d'aritmetica e di paura. Cominciava
per essi quella trista esperienza che travolge tante nobili anime
allo scetticismo, e che essi troncarono in un subito col martirio.
Di queste delusioni, sia per altezza d'animo, sia perch'ei temesse
di ferire uomini che potevano essermi amici, Attilio tacque sempre
con me. Ma in una lettera scritta dopo la fuga, il 28 marzo 1844,
Emilio più giovane d'anni, e di natura, non dirò più candida, ma più
aperta agli impulsi, si sfogava dicendomi: «Nell'autunno del 1843,
la sollevazione dell'Italia centrale minacciava di farsi nazionale
dove fosse stata soccorsa, e noi domandavamo un ajuto di 10,000
franchi, e in ricambio avremmo....................
............................ - Non so di chi sia stata la colpa, ma
noi non fummo soccorsi. Si sprezzò quasi una dimostrazione che
avrebbe forse assicurato la vittoria, se non altro per l'esempio
contagioso che la nostra diserzione avrebbe messo dinanzi a 40,000
Italiani che amanti del loro paese stanno contro lui vincolati da un
vano giuramento. Intanto, noi ci eravamo esposti; non temevamo
violenze, perchè un ordine imprudente di arresto (fosse stato
pronunciato!) ne avrebbe suscitato difensori più del bisogno. Tutto
finì: i Bolognesi fugati, gli arresti moltiplicati; e quasi per
derisione, a noi frementi, a noi già troppo scoperti, si manda a
dire, come se fossimo vegetabili, aspettate la primavera. Noi però
non ci scoraggiamo..... Io domandava per questo poche migliaia di
franchi; mio fratello mi rispose che ognuno li negava! Intanto, il
governo impaurito sospettava noi rivoltosi, e non osando farci
arrestare con la forza, impiegava l'artifizio e richiamava in Italia
mio fratello, facendolo in pari tempo osservare da spie e da' suoi
tedeschi. Egli chiese anche una volta danaro, promettendo a fronte
di tutti gli ostacoli tentare la sorte: non fu ascoltato; e alla
vigilia della sua partenza per Venezia, fuggì, mentre io
contemporaneamente lo facea da Trieste...... Ricadano i danni sui
neghittosi che ci sprezzarono, sugli uomini che avvertiti da *** che
in un mese noi saremmo perduti se prima del mese non ci si davano i
mezzi d'operare, in capo al mese rispondevano freddamente: Non
parliamo più de' tuoi amici..... che a quanto mi scrivi devono a
quest'ora esser perduti. Perdonate se io mi lascio andare a parlare
altamente il linguaggio dell'abbandonato; lo fo perchè so che voi
siete innocente degli indugi che ci hanno sacrificati: ma dite a
coloro che ne furono consiglieri che quando la patria sarà liberata,
io li accuserò al suo tribunale come cospiratori che cospirarono a
prolungarne la schiavitù e il disonore.»
Ho trascritto deliberatamente, e checchè altri possa dirne o
pensarne, queste parole, perchè toccano una piaga ch'io reputo
mortale all'Italia, se la crescente generazione non fa di
liberarsene ad ogni patto. È sorta negli ultimi otto o nove anni,
fra coloro che si professano amatori della patria loro, una setta
d'uomini che diresti avessero tolto ad impegno d'infamare
gl'Italiani davanti a sè stessi ed ai popoli, non solamente come
codardi, ma come codardi e millantatori. Influenti, taluni per
condizione sociale o ricchezza, tutti per opinione di liberalismo
forse sentito, ma di certo tiepidamente sentito - non privi
d'ingegno, ma senza scintilla di genio e guasti dalle abitudini
d'un'analisi gretta, sterile, cadaverica, tolta in prestito al
secolo decimottavo - fermi irrevocabilmente nell'animo, tra per
difetto di vera scienza rivoluzionaria, tra per paura, di non mai
fare, ma pur vogliosi, per certo - essendo l'obbligo che corre a
ogni uomo in Italia, d'essere e più di parere agitatori animosi -
stanno fatalmente capi ed oracoli della gioventù buona della
Penisola, e s'inframmettono inevitabilmente moderatori in ogni moto
di malcontento popolare che minacci di tradursi in azione, in ogni
ardito disegno degli uomini che amano davvero la patria e con animo
deliberato di sacrificare ogni cosa più cara a farla libera e
grande. Costoro, con tre o quattro adagi rubati all'aggrinzita,
decrepita, diplomatica politica conservatrice e con certi ragionari
ad arzigogolo ch'essi intitolano machiavellici e sono un insulto
all'ingegno di Machiavelli, fanno l'uffizio della torpedine
sull'anime più avide di vita e di moto. Quando il fremito non
prorompe in segni manifesti e le proposte d'azione non partono se
non dai pochi valenti a indovinare, anche latente, quel fremito,
essi - ed è il meglio - armeggiano a viso aperto contro ogni
possibilità d'insurrezione italiana se prima tutti i re non siano in
guerra accanita fra loro e tutta Europa in fiamme da un capo
all'altro: gemono la gioventù corrotta, il popolo ignorante, il
clero onnipotente ed avverso: evocano, computando e ricomputando, sì
che appajono tre volte tanti, gli 80,000 Austriaci che stanziano in
Lombardia, più gli 80,000 che verranno dalla Boemia e dall'Ungheria,
più gli 80,000 che verranno non si sa di dove. Ma quando il grido di
sommossa è, come nell'anno or decorso quanto a una parte d'Italia,
grido di popolo anzichè di pochi cospiratori ed essi temono ch'altri
prenda il campo senza di loro, accettano - ed è il peggio -
volonterosi in sembianza, in idea di fare, non serbandosi che il
diritto di discutere il quando e il come. E allora sorgono - se
l'agitazione è in autunno - le teoriche della primavera, quando i
fiori sbucciano e i salassi giovano agli uomini, o - se l'agitazione
è in primavera - le teoriche dell'autunno quando le piogge
rigonfiano i torrentelli e le vigne fronzute proteggono le
imboscate: allora s'affacciano da sostituirsi ai disegni semplici e
logicamente rivoluzionarî degli uomini d'azione, disegni vasti,
imponenti, magnifici, a' quali non manca - e lo sanno - se non di
esser fattibili; disegni di metropoli sostituite a provincie, di
fusioni d'elementi eterogenei, sostituite all'azione sicura e
spedita di elementi omogenei(120), d'insurrezioni architettate a
scocco d'oriuolo oggi in un punto, domani in un altro, il dì dopo in
un terzo, ma in nessuno se non irrompe, per ostacoli impensati, in
quel primo. Quindi, le dilazioni di quindicina in quindicina, di
mese in mese. Intanto, il fermento che non può regolarsi a oriuolo
si sfoga in ciarle, risse e sommosse microscopiche inutili, anzi
dannose, all'intento, poi gradatamente s'acqueta; i molti giovani
disposti all'opre, ma facili allo sconforto, cominciano a diffidare,
a calcolare i pericoli ed a sviarsi; i pochi nati al martirio si
cacciano disperatamente nella voragine delle imprese avventate,
sperando di rompere coll'esempio gli indugi; e intanto i governi che
vegliano col sospetto di chi ha il mane, thecel, phares di Dio
davanti agli occhi dell'anima, imprigionano cautamente, tacitamente,
or in una or in altra città, oggi uno, domani un altro degli uomini
ch'essi temono, raccolgono le loro forze, raddoppian le spie,
seminano terrori di scoperte, di tradimenti, d'interventi immediati
d'eserciti forastieri: - finchè il tentativo, reso davvero
impossibile, sfuma tra i lontani orizzonti d'un incerto futuro, i
buoni si coprono, per rossore, la faccia, i tristi sogghignano, i
deboli e quei che non sanno dichiarano utopia la risurrezione
d'Italia, le madri piangono i morti sul palco, le iene delle polizie
s'affrettano a sbranarne i cadaveri profanandone - se potessero - ai
posteri la memoria, gli stranieri dicono: vorrebbero ma non
s'attentano, i governi ciarlano per due mesi di concessioni
probabili; e gli uomini della primavera, dopo avere, a scolparsi,
scelto dentro o fuori - meglio se fuori e tra gli esuli - un irco
emissario de' loro peccati e apposto impudentemente ordini,
contrordini, imprudenze ed errori a chi probabilmente gridava tutto
quel tempo alla gioventù: voi non farete mai nulla se prima non vi
sgombrate ne' vostri consigli di siffatta genìa, ricominciano
pacificamente i loro computi e ricomputi sugli 80,000 uomini
austriaci moltiplicati per tre. Io a queste mie parole potrei fare
un commento storico, e lo farò, ma non qui.
Le insurrezioni non si faranno ora nè mai in Italia per fusione,
come dicono, d'elementi eterogenei tendenti ognuno a diverso fine ma
uniti per rovesciare, quando per forza immutabile di logica a ognuno
di questi fini corrisponde un metodo diverso d'azione; - nè per
viluppo di vasti disegni lungamente premeditati a far sollevazioni
simultanee in più parti e in un'ora prestabilita, perchè i governi
ne avranno infallibilmente sentore e potranno sempre impedire; - nè,
se non difficilissimamente, per iniziativa di metropoli dove il
governo tiene naturalmente accentrati più mezzi di resistenza, di
spionaggio e di corruttela, e dove un tentativo fallito riesce
decisivo e dà legge d'inerzia a tutto il paese; nè finalmente per
altezza di virtù cittadine o d'istruzione popolare impossibili dove
non è patria, nè popolo, nè mezzo alcuno d'educazione se non
gesuitica, o austriaca, o neo-cattolica - torna tutt'uno - e dove
appunto si cerca l'insurrezione per far che nascano le virtù. Un
popolo che fosse virtuoso davvero non avrebbe mai bisogno
d'insurrezioni, perchè non sarebbe mai schiavo; ma i Francesi del
1789, gli Spagnuoli del 1808, i Greci del 1821 non erano meno
corrotti di quel ch'oggi non siamo, e nondimeno fecero prodigi di
valore e di sacrificio. L'insurrezione in Italia, s'avrà quando gli
uomini vogliosi d'agire, credenti in un patto, intesi sui modi e sul
fine, serrati a unità di falange, si prevarranno d'un fermento, nato
spontaneo o creato, ma diffuso più o meno generalmente nella
Penisola, per operare improvvisi, in nome di tutta Italia, a
bandiere spiegate e cacciando via la guaina del ferro, sul punto
dove la vittoria sarà meno contrastata e men dubbia. Dato un primo
successo, dalla scelta dei cinque, dei tre, dell'uno chiamati a
diriger la mossa, dipenderà lo spandersi e il vincere
dell'insurrezione. Tutta la questione sta nel decidere se, per
malcontento, per istinto di patria, per universalità d'opinione, il
popolo d'Italia è maturo pel tentativo o non è. I Bandiera - ed io
consentiva con essi - ritenevano che fosse maturo; però anelavano
azione, e se gli uomini della primavera non erano, avrebbero agito.
Intanto erano sospetti e vegliati. E agli indizî che il governo
austriaco andava colle sue spie raccogliendo s'aggiunsero, se credo
ai Bandiera, l'arti d'un traditore. «Gravi avvenimenti per me - mi
scriveva Attilio da Sira il 19 marzo - non meno che per la causa
comune accaddero qui in Levante dalla seconda metà del gennajo in
poi. Un certo T. V. Micciarelli, che voi già forse di fama
conoscerete, denunziò ogni mia trama....... Mi convenne obbedire, e
infatti il 3 corrente partir doveva il bastimento che mi trasportava
dove non è che luca; ma io per queste ed altre prove antecedenti
istruito dell'animo perfido del Micciarelli, temendo che al primo
suo colpo avesse a succederne un secondo men difendibile, aveva
clandestinamente preparato la fuga, e al 29 del trascorso la
cominciai, e dopo accidentata peregrinazione qui in questi ultimi
giorni la compiei. A mio fratello ch'era anch'egli dal traditore
conosciuto e che in Venezia trovavasi, ho per tempo dato cenno della
mia determinazione, perchè la sua parte agisse conformemente, ma non
ebbi per anco di lui nuova alcuna. Come sosterranno questa rovina
mia madre e mia moglie, creature delicate, incapaci forse di
resistere a grandi dolori? Ah! servire umanità e patria fu e sarà
sempre, io spero, il primo mio desiderio, ma confessar devo che
molto mi costa...» Quand'egli mi scriveva queste parole, la moglie
era morta. Avvertita da Emilio del progetto di fuga, aveva, finchè
l'esito rimanevasi dubbio, mantenuto il segreto e la forza d'animo
necessaria a non tradire le inquietudini mortali che l'opprimevano;
poi, saputo in salvo il marito, aveva ceduto al dolore: donna rara,
al dir di chi la conobbe, per core, per intelletto e per bellezza di
forme, vittima anch'essa, come Teresa Confalonieri, Enrichetta
Castiglioni, e tante altre ignote a tutti fuorchè ai pochissimi che
rimangono a piangerle, della fatale condizione de' tempi che non
concede in Italia esercizio di virtù cittadine senza il doppio
martirio di sè stessi e di chi più s'ama.
Emilio s'era, fuggendo, ridotto a Corfù, dove l'aspettava la più
terribile fra le prove. Il governo austriaco, impaurito del fermento
che la partenza dei due Bandiera avea desto nella sua flotta,
temendo la virtù dell'esempio e più d'ogni altra cosa la fiducia che
la rivelazione d'un elemento nazionale, fin allora non sospettato in
mezzo alle forze nemiche, darebbe ai rivoluzionarî Italiani, cercava
modo perchè il fatto apparisse piuttosto avventatezza di giovani
traviati che proposito d'anime deliberate, e tentava le vie
pacifiche. «L'arciduca Rainieri - mi scriveva Emilio il 22 aprile da
Corfù - vicerè del Lombardo-Veneto, mandò uno de' suoi a mia madre,
a dirle che ov'essa potesse da Corfù ricondurmi a Venezia
coll'autorità che una genitrice deve saper conservare sopra un
figlio, egli impegnerebbe la sacra sua parola che io sarei non solo
assolto, ma tornato al mio grado, alla mia nobiltà, a' miei onori.
Aggiungeva poter subito farsi mallevadore della mia impunità, come
di giovane che gli empî perturbatori avevano traviato approfittando
dell'inesperienza di venticinque anni, e che la medesima circostanza
non potendo militare per mio fratello, la cosa sarebbe più
difficile, però non dubbia, in riguardo alla clemenza di Ferdinando
magnanimo suo nipote. Mia madre crede, spera, parte all'istante, e
giunge qui dove vi lascio considerare quali assalti, quali scene
debba io sostenere. Invano, io le dico che il dovere mi comanda di
restar qui, che la patria mi è desideratissima, ma che allorquando
mi moverò per rivederla non sarà per andarmene a vivere
d'ignominiosa vita, ma a morire di gloriosa morte; che il
salvacondotto mio in Italia sta ormai sulla punta della mia spada,
che nessuna affezione mi potrà strappare dall'insegna che ho
abbracciato, e che l'insegna d'un re si deve abbandonare, quella
della patria non mai. Mia madre agitata, acciecata dalla passione,
non m'intende, mi chiama un empio, uno snaturato, un assassino, e le
sue lagrime mi straziano il cuore, i suoi rimproveri, quantunque non
meritati, mi sono come punte di pugnale; ma la desolazione non mi
toglie il senno; io so che quelle lacrime e quello sdegno spettano
ai tiranni, e però, se prima non era animato che dal solo amore di
patria, ora potente quant'esso è l'odio che provo contro i despoti
usurpatori che per infame ambizione di regnare sull'altrui,
condannano le famiglie a siffatti orrori...... Rispondetemi una
parola di conforto: il vostro applauso mi varrà per mille ingiurie
che a gara mi mandano i vili, gli stolti, gli egoisti, gli illusi.»
Tra i fatti - e non ne eccettuo il morire - che onoreranno il nome
dei fratelli Bandiera tra i posteri, parmi che questo del rifiuto di
sottomettersi, a fronte anche delle supplicazioni materne, sarà
tenuto il più degno. E so di molti pur troppo che dissentiranno da
me e avrebbero non solamente ceduto, ma adonestato il loro cedere di
belle parole sugli obblighi del sangue, sulla onnipotenza dei moti
del cuore e sugli affetti di famiglia anteriori e superiori ad ogni
altro: frasi tutte che suonano commoventissime a chi non s'addentra,
ma che a me pajono veramente significare: noi siamo egoisti che
tentiamo inalzare l'egoismo a virtù. Oggi, generalmente parlando,
non s'ama. L'amore, la più santa cosa che Dio abbia dato all'uomo
come promessa di sviluppo di vita, s'è fatto, sotto l'ugne d'arpia
del secolo profanatore, una lordura di sensi, un bisogno febbrile,
un istinto di bruti: la famiglia, simbolo del modo con che si compie
nell'universo l'incessante operazione di Dio e germe della società
s'è convertita in una negazione d'ogni vocazione, d'ogni dovere
sociale: il maschio e la femmina hanno cancellato l'Uomo e la Donna.
Le povere madri in Italia, schiave anch'esse d'una tristissima
educazione e nulle nell'ordinamento sociale, predicano trepidanti ai
figli la sommessione al potente qualunque ei sia; i padri che sanno
come al limitare d'ogni famiglia veglia una spia, li ammaestrano
alla diffidenza e all'isolamento, e le fanciulle innamorate balzano
di gioja quando alle loro istanze s'odono rispondere dall'amato: io
vivrò per te sola; poi d'amanti beate di frenesie senza nome
riescono per lo più infelicissime mogli, perch'io ho sempre veduto
mariti pessimi e tiepidi amici i pessimi tra' cittadini.
Ma se ogni amica rispondesse al frenetico o forse ipocrita amante:
«Tu non devi vivere, ma gioire in me e per me sola, e in me sola
confortarti ne' tuoi patimenti: noi dobbiamo fare delle nostre due
vite una sola vita più potente d'intelletto e d'amore, un solo
continuo sacrificio al grande, al bello, al divino, una sola
continua aspirazione, un solo moto verso l'eterno Vero;» - se i
padri definissero la vita ai figli, non come la ricerca del piacere
quaggiù, bensì come preparazione, per mezzo di doveri adempiti, a
uno stadio di sviluppo superiore; - se le madri, che pur si dicon
cristiane, meditassero più sovente e ripetessero ai nati da loro
alcune delle parole di Cristo e tutto quel libro de' Maccabei che
par dettato per gl'Italiani - adempirebbero tutti, meglio ch'oggi
non fanno, ai debiti dell'amore, e l'Italia non avrebbe da piangere
ad ogni tanto i migliori tra' suoi cittadini spenti ad uno ad uno
isolatamente di morte violenta sul palco o di lenta consunzione
d'anima nell'esiglio. Parmi che tutti i grandi profeti d'affetto da
Platone a Schiller, e sovra tutti i nostri sommi Italiani e fra
gl'Italiani Dante, che avea tanto amore nell'anima da infiammarne
due o tre delle nostre generazioni pigmee, intendessero quei due
santi vocaboli di famiglia e d'amore in un modo diverso assai da
quel d'oggi, e parmi che i credenti in un'anima immortale - dacchè
dei materialisti, nei quali l'amore è necessariamente cosa schifosa
o contradizione, non parlo - non possono amare se non immedesimando
l'amore coll'adorazione del Vero e presentando all'ente ch'essi
amano, simboleggiato nell'anima loro, il più alto spettacolo di
virtù ch'essi possano. Tolga Iddio ch'io mova il più lieve
rimprovero alla madre d'Attilio e d'Emilio: dico solo - e vorrei
ch'essa potesse leggere queste linee - che qui o altrove essa
intenderà un giorno come i figli l'amavano più che mai quando
ricusavano, benchè trasmesso da lei, il perdono dell'arciduca
Rainieri.
E del ricusato perdono, nuovo indizio di bene, i tristi
s'inviperivano. Il 4 maggio, appariva, in Venezia, firmato d'un nome
barbaro, Poosch, con qualificazione anche più barbara e
inintelligibile d'auditore stabale, un editto di citazione che
diceva: «L'I. R. Auditorato Stabale di marina rendere pubblicamente
noto che i signori barone Attilio Bandiera, alfiere di vascello, e
barone Emilio Bandiera, alfiere di fregata... essendosi resi
fuggiaschi, cioè il primo ai 28 di febbrajo anno corrente dal bordo
dell'I. R. fregata Bellona in rada di Smirne, insieme col di lui
servo privato Paolo Mariani appartenente all'artiglieria di marina;
ed il secondo al 24 dello stesso mese da Trieste per dove avea
ottenuto un permesso di quarantott'ore, e non essendo ritornati, ed
apparendo eziandio ambedue legalmente prevenuti di essersi resi
colpevoli del delitto di alto tradimento coll'unirsi alla setta
della Giovine Italia, erano perciò ambedue tenuti di presentarsi
nello spazio di giorni novanta, a partire dalla pubblicazione del
presente editto, innanzi al tribunale suddetto od all'I. R. comando
di piazza in Venezia, ecc., ecc.» Rispondevano da Corfù, dove anche
Attilio s'era ridotto, i due fratelli: «All'eccelso I. R. comando
superiore della marina austriaca. - Al 14 del corrente noi qui
sottoscritti abbiamo ricevuto l'editto di citazione speditoci
dall'I. R. Auditorato Stabale di cotesto eccelso comando superiore.
Noi ci vantiamo di ciò che l'accennato tribunale minaccia di
chiamare alto tradimento. La nostra scelta è determinata fra il
tradire la patria e l'umanità o l'abbandonare lo straniero e
l'oppressore. Le leggi, alle quali ci si vorrebbe ancora soggetti,
sono leggi di sangue che noi, con ognuno che sia giusto ed umano,
sconosciamo e abborriamo. La morte a cui esse immancabilmente ci
dannerebbero, val meglio incontrarla in qualunque altro modo che
sotto la bugiarda e infame lor egida. La forza è il loro solo
diritto, e noi in qualche parte almeno mostrandoci ad esse
consentanei, cercheremo di metter la forza dalla nostra parte, ma
per poi far trionfare il vero diritto - Corfù, 19 maggio 1844 -
Attilio Bandiera, Emilio Bandiera.» - E questa risposta fu da essi
inviata al Mediterraneo, gazzetta maltese, preceduta dalle linee che
qui trascrivo: «Signor editore, - Noi qui sottoscritti venimmo
officiosamente a conoscere come il governo austriaco abbia
pubblicato il suo atto d'accusa contro di noi. La pubblicità nelle
procedure è un principio così incontrastabile ed universalmente
desiderato che anche quei degni successori della Veneta Inquisizione
attraverso ai tenebrosi lor conciliaboli pur lasciano di tratto in
tratto balenare qualche omaggio a tale verità; se non che tali
concessioni sono in essi piuttosto ironìa che sincere dimostrazioni
di rispetto. Comunque però siasi la cosa, ad ognuno, per debole che
sia, corre l'obbligo d'incoraggire le disposizioni al bene, dovunque
e comunque desse appariscano. Noi ci crediamo quindi tenuti a
secondare da nostra parte la via presa dai tribunali austriaci, e
conseguentemente osiamo rivolgerci a voi per pregarvi d'inserire nel
vostro giornale tanto l'editto quanto la risposta da noi data. I
giudici austriaci dicono d'aver pubblicato in Venezia la nostra
accusa, e noi non intendiamo che di compire la loro opera se per via
di Malta trasferiamo la istruzione del processo da un pubblico
ristretto e circondato di bajonette ad un pubblico più esteso e
libero dai terrori d'una forza inesorabilmente ostile. Aggradite,
ecc. - Corfù, 21 maggio. - Attilio Bandiera. Emilio Bandiera. - »
Nel frattempo dell'editto di citazione e della risposta dei due
fratelli, un altro ufficiale della flotta austriaca s'era aggiunto,
esule volontario, ai Bandiera: Domenico Moro, giovine d'anni
ventidue, il cui sembiante ricordava il verso di Dante
Biondo era e bello e di gentile aspetto;
natura angelica dotata d'un'intrepidezza di lione e d'una docilità
di fanciullo amoroso. Era luogotenente sull'Adria, e toccando,
reduce da Tunisi, Malta, abbandonò la corvetta, e raggiunse gli
amici. E inserirò la lettera ch'egli indirizzò al suo comandante.
«Allorquando - diceva - i vostri modi poco usitati mi hanno
avvertito in questi ultimi giorni di qualche sospetto a mio carico
nell'animo vostro, io mi sono persuaso che più d'ogni altra cosa vi
avesse dato luogo la mia antica amicizia agli onorevoli patrioti e
commilitoni Bandiera. Sapendo pur troppo per dolorose sciagure
italiane che i sospetti son tatto presso un governo come l'austriaco
e presso i suoi servitori, potei facilmente supporre le conseguenze
che mi avrebbero atteso. Nondimeno un pensiero mi balenò puranco di
pietosa amicizia da vostra parte, che Italiano qual siete, di
nascimento almeno, abbiate voi stesso colle vostre asprezze voluto
darmi un avviso a salvamento, e se ciò fosse, ve ne sono
riconoscente. Ma qualunque sia l'intenzione che vi ha diretto, la
prevenzione mi ha valso. Quando vi giungerà questa lettera, io sarò
già lontano; e però facendo voti per la mia patria, perchè presto
possa presentarsi l'occasione, a voi di smentire le fallaci
apparenze che, come Italiano, vi disonorano, a me di provare col
fatto la verità di quei generosi sentimenti che finora in faccia a
voi sono un delitto, ho creduto del mio decoro lasciare queste
spiegazioni nell'atto di risolvermi al presente solenne passo della
mia vita. - Domenico Moro. - »
Intanto i malumori in Italia erano più vivi che mai. Il fermento
sopito verso la fine del 1843, s'era nel 1844 risvegliato più
minaccioso, e dal centro s'era steso al mezzogiorno della penisola.
In Calabria, una sommossa armata, tentata e repressa a Cosenza, avea
lasciato gli spiriti eccitati e vogliosi di ritentare. La Sicilia,
paese sistematicamente angariato da ogni sorta di vessazioni e
d'espilazioni, fremeva rivolta, e, popolata di gente più avvezza
all'opre che alle parole, l'avrebbe osata, se in una città, che
dava, sei secoli addietro, ben altri esempî alle città sorelle, i
temporeggiatori non avessero trovato centro e influenza predominante
su tutta l'isola. I governi titubavano paurosi. Gli Austriaci
ingrossavano a Ferrara e facevano correre per ogni dove minacce d'un
intervento, inevitabile dopo un'insurrezione italiana, ma
impossibile prima. Gli uomini della primavera s'affaccendavano a
fare e disfare. Annunziavano per quel tal giorno, anzi per quella
tal ora, la mossa: decretavano il dì dopo reo senza scusa di lesa
patria chi s'attentasse di movere, finchè i giornali parlavano: non
volendo avvedersi che le ciarle de' giornalisti profetizzanti
preparavano non foss'altro, in Italia e in Europa, al primo fatto
propizio opinione e importanza d'insurrezione potente e degna
d'ajuti. Sola una provincia d'Italia esibiva, tristo spettacolo -
parlo degli influenti e non della povera gioventù buona e ingannata
- il coraggio della paura, e predicava, con un entusiasmo di
crociata per lo stato quo, l'immobilità dell'abbietta rassegnazione.
Ma i giovani popolani degli Stati Pontifici e delle provincie del
Regno minacciavano a ogni tanto di romper gl'indugi. E un riflesso
di tutta questa vampa d'insurrezione che scaldava il core alla
gioventù, un'eco di tutto questo tumulto di speranze, di terrori, di
promesse e scoraggiamenti, si ripercoteva sull'anima dei Bandiera, i
quali da Corfù guardandosi intorno, cercavano come lioni la preda,
il dove e il quando potessero scendere sull'arena.
Lo scendere era fin d'allora spontaneamente, irrevocabilmente,
determinato dai due fratelli: il dove e il quando fu scelto, temo -
e apparirà tra non molto, - dal governo di Napoli.
E le cagioni dello scendere sull'arena, cercate da uomini che non
sanno intendere sacrificio se non comandato in disegni e incitamenti
d'associazioni segrete o capi influenti, stavano pei Bandiera, nella
condizione morale degl'Italiani, unanimi nell'opinione, lenti a
tradurre l'opinione in atti e a far della vita un commento pratico
alle credenze. Manca agl'Italiani pur troppo il concetto religioso
della nazione e dei doveri del cittadino, quindi l'unità della vita
che dev'essere un'armonia progressiva d'idee rappresentate
coll'opere, di pensiero espresso in azione. Tra i materialisti, che
diseredano l'uomo di ogni alto intento abbandonandolo agli arbitrî
del caso o al dominio della forza cieca, e i neo-cattolici (peste
nuovissima del paese) che lo chiamano ad adorare un cadavere
galvanizzato, gl'Italiani hanno smarrito il pensiero di Dante, il
pensiero della grande missione commessa da Dio alla patria loro e
con quello la coscienza delle forze che Dio dà sempre eguali alla
vocazione. Il loro patriotismo non è il proposito solenne, severo,
tenace che rivesta i caratteri d'una fede e proceda in continuo
sviluppo, senza foga, ma senza posa, come le stelle nel cielo(121)
verso il fine, remoto o prossimo non importa, segnato dalla
Provvidenza al paese: non è l'idea dominatrice d'un'intera vita,
scintillante di tutta la poesia del sole che sorge negli anni
fervidi giovenili, incoronata di tutta la poesia del sole al
tramonto negli anni canuti, forte come il diritto, perenne come il
dovere, grande come l'avvenire: è patriotismo d'impulsi, febbre di
sangue meridionale che tocca subitamente il delirio, poi per poche
ore di sonno svanisce, fiamma d'orgoglio generoso nudrito di ricordi
e di mal definiti presentimenti; ma quale orgoglio può reggere
lungamente davanti alle mille delusioni che s'affacciano inevitabili
sulla via d'ogni ardito e vasto disegno? Collocati fra il palco e lo
Spielberg da un lato, fra il tradimento e l'indifferenza dall'altro,
i giovani, dopo avere lottato con impeto per un tempo più o meno
breve, si ritraggono stanchi e rinegano, non le opinioni, ma
l'attività pel trionfo delle opinioni. Nè le opinioni avranno
trionfo mai, se prima gl'Italiani non imparino ad affratellarsi
colla morte del corpo e colla morte, assai più dura, dell'anima come
in questo stadio di vita si manifesta: colla morte del corpo,
imparando che la vita terrestre non è se non preparazione ad
un'altra che ha culla in ciò che noi chiamiamo sepolcro: colla morte
dell'anima imparando che glorie, speranze terrene, orgoglio di
trionfo immediato e felicità come dicono, son tutte illusioni,
fantasmi più o meno dorati, ma pur sempre fantasmi, e che il dovere
è l'unica verità dell'umana esistenza e l'incarnazione in atti di
ciò che la coscienza e la tradizione dell'umanità tutta quanta
c'insegnano, la sola cosa che possa togliere alla vita d'apparire
bestemmia e ironia. I Bandiera sentivano che la coscienza e la voce
profetica del passato insegnano agli Italiani che la loro patria è
chiamata ad essere nazione libera e grande pel progresso
dell'umanità; ch'essi pur sapendolo, non s'attentano d'oprare e di
morire, occorrendo, per far che sia: e che un de' modi più efficaci
a ridurveli è, nelle condizioni attuali d'Italia, l'esempio. Però
avean fermo nell'anima, non potendo vincere, di morire.
Pochi giorni dopo esser giunto a Corfù, Attilio mi scriveva (10
maggio) le linee seguenti: «Il 28 del trascorso, dopo un viaggio
variato d'avventure e pericoli, giunsi finalmente in Corfù. Da Malta
mi s'indirizzò la vostra del 1.° aprile. Vi rendo grazie
dell'interesse che prendete per la mia sorte, e il vostro affetto è
certamente il più valido sprone per operare il bene. Non temete
ch'io dubitar mai possa de' nostri comuni principî. Nessuno più di
me è persuaso che a mali estremi convengono estremi rimedî; e tanto
più quando per questi militano l'utile, la verità e la giustizia.
Ciò che può parere eccessivo ad altri popoli non deve sembrarlo agli
Italiani. È da lungo tempo che ho ammesso per insegna nazionale
l'aquila legionaria, e per motto di guerra l'antico grido guelfo:
Popolo, popolo! Potete dunque credere che con simili credenze non si
potrà mai rimaner soddisfatti di tutti quei mezzi termini che, più
per tradirci che per placarci, i nostri nemici possono mai
concedere. Italia indipendente, libera ed unita, democraticamente
costituita in repubblica con Roma per capitale: ecco l'esposizione
della mia fede politica nazionale. - Il grido di guerra dei nostri
fratelli mi romba continuamente all'orecchio; ed ho già preso tutte
le disposizioni per slanciarmi quanto prima a combattere con essi e
perire. Occupatissimo di tali preparativi, non ho tempo per entrare
con voi su' particolari; ma incarico *** di comunicarveli. Dacchè
sono a Corfù, ho maturato due progetti, uno su...... l'altro sulla
Calabria; il primo esige più tempo e danaro, mentre il secondo
sarebbe più sollecito e meno dispendioso. La forza delle circostanze
mi determinò pel secondo. Onde eseguirlo, mio fratello ed io stiamo
vendendo a rovina tutto quel poco che abbiamo potuto portare con
noi, ma non ne ricaveremo nemmeno mille cinquecento franchi, e ce ne
occorrono almeno quattro mila. In tali ristrettezze, io mi credo
obbligato a giovarmi dell'offerta che in altro tempo mi faceste di
tre mila franchi, e scrivo a Nicola perchè mi spedisca colla prima
occasione danaro. Perdonatemi questa libertà, ma non il mio,
l'interesse bensì della causa comune lo esige, e mi conforta la
fiducia che voi non vorrete ritrarvi dal cooperare a qualunque
patrio ed utile tentativo. Addio dunque, e se fosse per sempre, per
sempre addio.»
E in calce a questa lettera Emilio scriveva con anima piena degli
affetti supremi: «Mio fratello - Una riga anche da me, poichè saran
queste forse le ultime che da noi due ricevete. Il cielo vi benedica
per tutto quel gran bene che alla patria avete fatto. Alla vigilia
dei rischi io proclamo altamente che ogni Italiano vi deve
gratitudine e venerazione. I nostri principî sono i vostri e ne vado
fiero, ed in patria con l'arme in mano griderò quello che voi da
tanto tempo gridate. Addio, addio; poveri di tutto eleggiamo voi
nostro esecutore testamentario per non perire nella memoria dei
nostri concittadini. - Emilio.»
Allora tra i due fratelli da un lato, me e l'amico mio di Malta
dall'altro, cominciò una lotta pur troppo ineguale; noi a tentar di
smoverli dal disegno d'agir soli e immediatamente, essi ad aprirsi
comunque una via. I tremila franchi da me profferti per altro quando
i Bandiera erano ancora in Italia, furono dall'amico, che n'era
depositario, negati; e il tentativo ch'essi intendevano di compiere
prima che il maggio spirasse, si rimase per allora sventato. Il 21
maggio, Attilio riscriveva sconfortatissimo: «Al 10 del corrente io
vi scriveva credendo di presto dover partire per l'Italia; ma la mia
supposizione riescì fallace; mi conforta però almeno la riflessione
che di questo risultato la mia volontà è affatto innocente. Con
modica spesa noi avevamo noleggiato una barca: un nativo della
provincia dove intendevamo sbarcare ci avrebbe servito di guida
tanto più sicura che egli guerreggiò lungo tempo colà contro la
gendarmeria: saremmo scesi in vicinanza d'un bosco che continua sino
alle montagne dove stanno gl'insorti. Avremmo potuto sommare a più
di trenta; ma non avevamo scelto che una ventina incirca di risoluti
e bene armati; il numero era sufficiente per respingere qualche
picchetto che forse avremmo incontrato per via, e conveniente per
poterci con facilità muovere, nasconderci, e sussistere. A
quest'ora, vivo o morto, sarei in Italia. Tutte queste disposizioni
vennero rese nulle dalle lettere di Nicola. Io gli aveva domandato i
tremila franchi pei quali m'avevate un tempo accordato
autorizzazione; ma egli ricusò spedirli e insinuò anzi agli amici di
non secondarci in questa impresa ch'egli chiama pazza e dannosa.
Questo suo giudizio non m'avrebbe smosso dal mio progetto, perchè
dieci valevano come venti e di dieci io avrei sempre potuto
disporre: gl'insorti non domandano già uomini, ma rappresentanza
attiva della connivenza degli altri Italiani al loro movimento. La
mancanza bensì di danaro ci ha messi nell'assoluta impossibilità
d'operare, perchè noi non potevamo ragionevolmente sbarcare se non
muniti di qualche somma tanto per poter sussistere senza violenze,
quanto per ricompensare gli emissarî e le guide e provvedere a tutti
siffatti bisogni di guerra. Mio fratello ed io abbiamo intanto
venduto tutto per far danaro e lo scarso risultato di questa nostra
estrema risoluzione fu tutto impiegato nel compenso di noleggio alla
barca che dovemmo licenziare e nel provvederci d'armi e di
munizioni. Come vivremo d'ora innanzi, nol so, perchè la nostra
famiglia corrucciata non vuole spedirci un soldo, e qui poi più
forse che altrove è difficile trovare impiego. Non dovete credere
per altro che la miseria ci abbia menomamente cangiati; ci accora
solamente il pensiero che noi perdiamo nel merito del sacrifizio,
non potendo omai dar più alla causa dell'umanità e della patria se
non un'esistenza travagliata e infelice, mentre potevamo un giorno
sagrificarle una vita avventurosa ed agiata....... Intanto
cominciano i supplizî in Bologna! Non sarebbero dunque davanti
all'Eterna Giustizia i delitti dei nostri padri ancora scontati?
Checchè ne sia, aspiriamo almeno a legare alla generazione ventura
l'esempio di un'inconcussa perseveranza. - Fidando sempre sulla nota
lealtà delle poste inglesi, potete indirizzar qui al mio nome le
vostre lettere. Addio. - Attilio.»
Alla nobile fiducia d'Attilio nella nota lealtà delle poste inglesi,
il governo inglese rispondeva dissuggellando sistematicamente per
sette mesi, con arti infami e contraffazioni degne della più
abbietta poliziuccia italiana, la mia corrispondenza, e
comunicandone quanto importava al gabinetto napoletano e
all'austriaco: atto nefando che commosse di sdegno unanime la
nazione e ch'io resi pubblico perchè s'aggiungesse una prova alle
tante della immoralità di tutti i governi attuali d'Europa fondati
sopra una menzogna, se di diritto divino o di patto
monarchico-costituzionale poco rileva. Ma quanto ai progetti dei due
fratelli, l'impotenza li ritardava senza distruggerli; e riardevano
al menomo romore che venisse d'Italia. La corrispondenza, che ho
tutta sott'occhio, corsa a quel tempo e intorno a quel primo
disegno, tra l'amico mio di Malta e i due martiri, prova che tutte
l'arti della persuasione furono tentate a salvarli, e che tutte
andavano a rompersi, contro la determinazione irrevocabile che li
consacrava alla morte. E di questa corrispondenza, per più ampia
confutazione delle calunnie avventate all'amico, io inserirò due
frammenti, il primo spettante a Nicola Fabrizi, il secondo a Emilio
Bandiera.
«Considero - diceva, in data del 15 maggio, il primo ai due fratelli
- considero il mio sangue e quello de' miei amici una moneta da
spendere per l'onore e per lo scopo. Ed è perciò che non esito a
dirvi, che il vostro, nel modo in cui volete esibirlo, frutto di
generosa impazienza, non ha per risultato possibile nè l'uno nè
l'altro; bensì apparirà in un senso di frenetica esigenza di
soddisfazione vostra tutta personale la noncuranza dello scopo che
unicamente comprometterete, e degli uomini che s'abbandonano alla
vostra fede e che voi inesorabilmente sacrificherete. Quindici o
venti uomini sono peggio che un solo, e assai peggio dove tutto essi
debbon crearsi cominciando dalle prime relazioni. Un uomo trova
simpatia e ascolto per potere essere individualmente assistito da
chi l'intenda. Venti, sono prima schiacciati che ascoltati. Un
equivoco, un mal volere, un tocco di campana li annienta. Le cose in
Calabria sono o disperse o paralizzate. A noi però.................
E questo è il caso unico per cui può essere importantissimo un atto,
ancorchè limitato di mezzi, a ridare andamento sotto una nuova
impressione alle cose sopite sul punto che dite o su d'altro, ma il
numero a tale effetto non può in tal caso neppure restringersi oltre
il completo delle nostre precedenti intelligenze. - La delusione
inaspettata che mi portò la tua lettera, rovesciando a un tratto
ogni nostro accordo, mi ha ben fortemente sorpreso; nè io credeva
più possibile tra voi il ritorno alla stessa natura d'illusioni che
hanno già fatalmente influito sulla divergenza di mezzi che non
dimandavano se non un po' di calma per essere calcolati e attivati a
tempo e con efficacia. Non credeva possibile che l'incontro d'un
individuo, l'accidente d'una barca, e il discorso d'un capitano
senza garanzia alcuna, senza mandato, potessero bastare a porvi
totalmente sul nuovo, cangiando ogni fiducia di persone e di
relazioni........ Se voi mi aveste avvertito che persona d'onore a
voi nota nell'interno, sicura per tranquillità di spirito e per
aderenze, offriva anche solamente di farci arrivare in quattro, in
tre e meno ancora fra gente in arme e decisa a seguirci, io sarei
venuto con mezzi e ogni cosa immediatamente, poichè sono codeste le
offerte sulle quali posano le trattative del giorno, e quelle uniche
per cui e dalla coscienza e dal mandato dell'altrui fiducia io sia
autorizzato. Io verrei oggi, se la brevità del tempo non mi
trattenesse, nella fiducia che uomini d'onore e di coscienza quali
voi siete e di senno non esitereste a ricredervi d'una risoluzione
promossa da calcoli su fatti erronei - e verrei per oppormi
personalmente, dirigendomi a tutti e singoli che parteggiano con voi
su tale argomento. Non solo non approvo, nè intendo cooperare, ma
intendo aver solennemente dichiarato il mio più aperto disparere dal
fatto della natura che esprimete, come da fatto incapace d'alcun
risultato, se non la rivelazione intempestiva delle nostre
intenzioni, il sacrificio dei migliori, la dispersione irreparabile
del tanto che poteva eseguirsi con elementi conservati intatti fin
oggi, e l'assoluta esclusione d'ogni fiducia interna ad ogni nostra
proposta smentita sì compiutamente da uomini di concetto quali voi
siete in un simulacro di fatto che solo può dar prova d'una
irragionevole disperazione....................... - »
«Terrò la tua lettera - rispondeva Emilio quattro giorni dopo - a
documento della buona volontà che mi avrebbe condotto nel luogo
dell'azione, dove poco ragionevoli pretesti non mi avessero chiusa
la strada che il dovere mi additava unica a percorrere.......
Convinti che il punto più strategico ad incominciare la guerra è
appunto l'estremità della penisola; che là per energia di
popolazione, per le montagne alte, per le foreste fitte, e per
esempî in altra epoca offerti, si devono rivolgere tutti i nostri
sforzi, credemmo che ogni pericolo fosse giustamente affrontato a
suscitare una insurrezione che avrebbe potuto estendersi in Sicilia
e negli Abruzzi prima che l'Austriaco avesse tempo di precipitarvisi
addosso. L'anno scorso si esposero uomini che valevano meglio di noi
per favorire nel centro una sommossa che per quanto bene fosse
riescita sarebbe stata in tre giorni schiacciata dagli Austriaci, e
quest'anno non si vuole far niente pei Calabresi che insorsero se
non altro più apertamente dei Romagnoli, cioè colla nostra bandiera
e il nostro programma. In verità la cosa è assai strana. Se la tua
lettera giungeva favorevole, questa sera noi saremmo partiti; così,
restiamo invece colla convinzione che non riesciremo in cosa
alcuna................ Le tue speranze sono nel Centro: Dio mio! e
il più debole, il più spregevole de' nostri tiranni fa giustiziare
in Bologna sei patrioti, e il popolo, se non applaude, tace almeno,
soffre, e piuttosto che recidere la mano omicida, la bacia e la
rispetta. Questo fatto m'ha interamente palesato a qual punto siamo.
Io non voglio disperare della salvezza della mia patria, perchè il
disperarne sarebbe delitto, ma temo assai che guerrieri della sua
redenzione saranno i nostri figli se non i nostri nepoti.
«............. Quando tu dici che eseguendo il mio progetto avremmo
perduto la vita, te lo posso credere, ma quando aggiungi che
avremmo(122) perduto l'onore, mi ribello. Se fossimo stati presi, si
sarebbe detto che gli esuli fedeli alla loro missione, attraverso
pericoli e stenti, si trasportano sempre colà dove i loro
compatrioti alzano un grido di libertà e sollevano una bandiera
italiana. Fino adesso i governi dicono a coloro che si mostrano
insofferenti: - «State tranquilli; non fidate nelle istigazioni
della propaganda che vi eccita alla rivoluzione e vi lascia quindi
soli alle prese con essa. - » E in Italia si comincia a credere che
quei di fuori, impazienti di trionfare, fanno vedere ogni cosa in
color di rosa e sperano che un caso trarrà d'una debole scintilla un
generale divamparsi e però stanno pronti a profittar del buon esito
senza durare la prima incertezza. E noi recentemente proscritti
fummo testimonî di quanto siate voi (ingiustamente lo accordo)
calunniati per non esservi fatti ammazzare cercando mettervi alla
testa dei primi moti, procurando di dare ad essi forze colla vostra
presenza e colla vostra esperienza. E però, volendo rispondere per
tutti, oggi che la sciagura ci ha confusi con voi, volevamo far
vedere ai milioni che se ne stanno incerti, che ovunque sorga un
commovimento, gli esuli corrono a parteciparne la gloria e i
pericoli senza aspettare che riusciti vittoriosi quei moti siano
tali da non aver più bisogno della loro influenza.
«........... Spero che questa mia lettera non ti offenderà. Per
quanto contrario tu sia a quello che io faccia o mediti, io
nondimeno ti stimo uno dei patrioti più benemeriti, e t'amo come un
compagno, come un fratello.....»
Nel frattempo di questa corrispondenza partiva da Londra per Malta e
Corfù un altro dei martiri di Cosenza, Nicola Ricciotti, amico mio
fin dal 1831.
Ricciotti era nato col secolo in Frosinone, terra degli Stati
Papali. A diciotto anni l'idea nazionale s'impossessò di lui, ed
egli giurò che avrebbe speso la vita in promoverne lo sviluppo e il
trionfo. Di giuramenti siffatti, io ne ho uditi tanti, negli ultimi
quindici anni, pronunziati da uomini ben altramente potenti
d'intelletto, e poi, dopo due o tre anni di tiepidi sforzi, traditi,
che le parole stesse mi suonano oggi tristissime come contenessero
una profezia inesorabile di delusione. Ma egli attenne il suo
giuramento: disse e fece. Nelle facoltà limitate d'una natura
semplice, onesta, diritta, fermissima, come è descritta in parecchi
degli uomini di Plutarco, trovò la forza che le vaste facoltà
intellettuali dovrebbero dare, e pur troppo, quando sono scompagnate
da una credenza, non danno: avea l'ingegno del cuore. Da quando ei
giurò fino al giorno della sua morte, la sua vita non fu che una
serie di patimenti. E nondimeno, ei portava sul volto, quand'io lo
rividi in Londra nel 1844, lo stesso sorriso di pace con se stesso e
cogli altri che i più vecchi amici avean notato nella prima sua
giovinezza: la virtù, che in altri ha sembianza di lotta, in lui
s'era fatta natura; nè alcuno avrebbe mai potuto indovinar da' suoi
modi ch'egli avea per ventiquattro anni patito e s'apprestava,
lasciando Londra, a correre i rischi supremi. Nel 1821, affrettatosi
a Napoli, fece parte, in qualità di tenente, d'un battaglione attivo
delle milizie del regno, e v'ottenne testimonianze onorevoli di
coraggio e di zelo. Tornato in paese, fu imprigionato e consumò i
nove più belli anni della sua gioventù nel forte di Civita
Castellana. Liberato dai terrori del Papa nel 1831, avresti detto
ch'egli avesse sofferto, non nove anni, ma nove giorni di carcere,
tanto era lo stesso di prima: sereno nell'anima e nell'aspetto,
caldo d'affetti patrî e voglioso di ritentare; e noi c'incontrammo
quell'anno in Corsica in cerca ambedue d'una via per la quale si
potesse raggiungere gl'insorti dell'Italia Centrale. Caduto, per
colpa di chi fu messo a dirigerlo, quel tentativo, quando, perchè
gl'Italiani arrossissero d'aver sperato negli ajuti di Francia,
Casimiro Perier mandò i soldati francesi a far da birri del Papa,
Ricciotti si cacciò in Ancona, dove creato comandante della così
detta Colonna mobile di volontari protesse la città da crisi di
sangue e ordinò i giovani a una serie di manifestazioni pacifiche
nazionali, tanto che il mondo sapesse che cosa volevano: poi,
ottenuto compenso d'accuse infami dalla immoralità sistematica de'
nostri nemici, e di più infame silenzio dal generale francese, che
pur s'era valso sovente dell'opera sua ad acquetare gli spiriti
bollenti de' giovani anconitani, tornò in Francia quando
l'occupazione cessò, e si ricongiunse a' suoi fratelli d'esiglio,
finchè nel 1833, mentre la gioventù italiana pareva apprestarsi
all'azione, ei mi ricomparve davanti, chiedendo d'andare in Italia
per trovarsi ai primi pericoli; e v'andò. Tornatone anche quella
volta salvo per mezzo a pericoli assai più gravi che non quei
dell'azione, errò, povero e angariato dalle autorità francesi che
facevano a quel tempo quanto umanamente potevasi per istancare la
pazienza e la virtù de' proscritti, di deposito in deposito, senza
lasciarsi avvilire dalle persecuzioncelle dei prefettucci di
polizia, senza lasciarsi contaminare dall'arti sozze e dalle sozze
querele della compagnia malvagia e scempia che purtroppo grava in
ogni tempo le spalle agli esuli buoni. Finalmente, nel 1835, non
vedendo probabilità di salute vicina, ei decise giovarsi del tempo
per impratichirsi più sempre nelle discipline della milizia, e
scrisse annunciando la sua determinazione ai figli - perch'ei s'era
ammogliato giovanissimo ed era padre - le linee seguenti, fra le
pochissime che a me rimangon di lui: «Eccomi giunto ad uno dei
momenti più tristi della mia vita e forse al più decisivo per me. Un
cumulo di ragioni mi costringono ad abbandonare la Francia, ad
allontanarmi più ancora da voi. Mille privazioni m'attendono,
infiniti pericoli circondano il sentiero che devo scorrere, la morte
stessa è forse là per colpirmi. L'amore ch'io m'ebbi per voi, e che
per lontananza non s'è giammai diminuito, il dovere di padre e di
buon cittadino non mi permettono di dare esecuzione al mio
divisamento senza ricordarmi di voi e senza darvi alcuni precetti
ch'io spero vorrete adempiere. Se mi è riserbata una sorte crudele,
se dovessi mai esser rapito al vostro affetto, conservate memoria di
me, la mia sventura non vi sgomenti, e sia questo mio scritto un
documento della mia tenerezza per voi. Onorate, voi lo sapete,
furono le cagioni che togliendomi alla patria, mi condannarono a
languire sulla terra straniera. La condizione d'Italia è così
crudele, così basso è ora caduta questa terra un dì sì gloriosa, che
qualunque tra i suoi figli ha sensi d'onore, qualunque sente nel suo
cuore l'offesa che i despoti fanno alla dignità nazionale italiana,
qualunque ama la libertà e la virtù, è condannato a trascinare
nell'esiglio i suoi giorni se ha ventura di sottrarsi alla prigione
o alla morte. Noi siamo martiri della causa d'Italia, ma il nostro
patire prepara alla patria giorni di libertà e di trionfo. Chi
ingiustamente ora ci opprime sarà alla sua volta oppresso, e gli
Italiani vincitori sapranno usare con magnanimità della riportata
vittoria. Intanto, io parto per la Spagna; combatterò anche una
volta per la causa della libertà, e se il destino mi è propizio,
metterò a profitto d'Italia le cognizioni che avrò acquistate. Voi,
miei figli, dirizzate sulle mie tracce i vostri passi; fate ch'io
abbia almeno il conforto di sapere che lascio in voi degli
imitatori, e che l'Italia potrà calcolare su voi come su di me.» -
Questa lettera non fu mai, ch'io mi sappia, ricapitata; ma in
novembre egli partì per la Spagna, dove, raccomandato dal
maresciallo Maison, ministro della guerra in Francia, e dal generale
d'Harispe, ottenne d'entrare col grado di tenente in un battaglione
dei tiratori di Navarra. Dai documenti officiali ch'egli, partendo,
lasciò in mie mani, io potrei desumere la lista dei molti fatti
d'armi contro i guerilleros carlisti nei quali ei meritò da' suoi
capi menzione onorevole; ma nol farò, e basterà il dire ch'egli nel
giugno 1837 fu inalzato al grado di capitano, ottenne, nell'aprile
1841, per le vittorie riportate l'anno innanzi contro il ribelle
Balmaseda, la croce di San Fernando, e fu promosso, il 30 giugno
1843, al grado di comandante di fanteria. E non molto dopo, quando
udì ravvivarsi le speranze italiane, lasciò la Spagna, e venne al
solito ad offrirsi volontario per la causa della nazione. Il primo
tentativo per penetrare in Italia gli andò fallito: imprigionato,
per opera d'un denunziatore, dal governo francese in Marsiglia,
tornò, appena fu lasciato libero, in Inghilterra, di dove, ajutato,
poich'ei lo voleva, di mezzi, ripartì lietamente per Malta e Corfù,
con animo di ripatriare. Il luogo d'Italia dov'egli, per propria
scelta, per invito d'altri, e per ingiunzione strettissima degli
amici che gli spianavan la via, dovea cercar d'introdursi, non
apparteneva ai dominî del governo napoletano. Era Ancona.
Giunto sui primi di giugno in Corfù, Ricciotti si affratellò coi
Bandiera. La loro mente ondeggiava allora tra il fare e il non fare,
tra il mantenersi a Corfù finchè tutte speranze d'azione non fossero
dileguate e il ridursi immediatamente, poverissimi com'erano, in
Algeri dove speravano trovare impiego. L'idea d'uno sbarco in
Calabria era a ogni modo abbandonata, e le ragioni addotte
dall'amico li avevano persuasi a promettere ch'essi non agirebbero
mai senza il nostro consenso, e s'uniformerebbero alle condizioni
d'un disegno più vasto dipendente dalle mosse dell'interno d'Italia.
Le rivelazioni di Ricciotti intorno all'intento prefisso al suo
viaggio e al punto dov'egli intendeva recarsi, ridestarono in essi
il desiderio d'un'azione immediata ma il vecchio progetto s'era di
tanto rimosso dall'animo loro, ch'essi non pensavano se non ad
accompagnarsi all'amico. «Ho abbracciato Ricciotti - mi scriveva, il
6 giugno, Attilio - e si farà il possibile per ispingerlo al suo
destino. Il *** mostrasi renitente perchè il viaggio per *** è
lungo; nondimeno non dispero di persuaderlo. Ma Ricciotti andrà
solo? Perchè i venti risoluti di qui non si moverebbero? ed io con
essi? Ho stabilito di farlo, perchè qualunque sia l'evento, meglio è
ch'egli vada accompagnato che non solo. Lascieremmo a *** le nostre
comunicazioni per quello che concerne il regno.» Un giorno dopo
scriveva Emilio: «Vi ringrazio delle parole amorevoli recatemi da
Ricciotti. L'amicizia che mi accordate v'è da me professata da assai
lunghi anni, da quell'epoca in che sorta la Giovine Italia io me ne
procurava gli scritti per ripeterli nel collegio a' miei compagni, e
non potendo meglio, per aizzarli all'odio e alle zuffe contro i
figli degli oppressori. Qualunque sia la mia sorte, mi mostrerò
costante; all'Italia dedicherò sempre mente, onore e braccio; a voi
e ai pochi altri che la rendono rispettabile anche prostrata,
affezione di fratello. Con Ricciotti stiamo risolvendo la questione
dell'intricato problema. Ad ogni modo spero d'esser presto in azione
con lui. Lascieremo a ***, che accorrerà al ritorno del messo, le
pratiche colla Calabria. Addio, e serbatemi sempre il patto fraterno
che avete stretto con Emilio.» - E un altro giorno dopo, li 8, poche
righe di Ricciotti dicevano: «In questo momento non v'è occasione
alcuna di partenza per dove sapete, ma spero si presenterà presto, e
meco verrà, uno dei fratelli Bandiera, e forse ambidue con altri
venti uomini.»
Ho insistito su questo punto, perchè mi pare elemento essenziale di
giudizio, a qualunque voglia esplorare le cagioni probabili della
subita mossa, la certezza che non era, tre giorni prima,
premeditata.
Nella notte dal 12 al 13, tre giorni dopo scritte quell'ultime
righe, i fratelli Bandiera partivano, con Ricciotti e gli altri, per
la Calabria; ed ecco l'ultima loro lettera a me:
«Corfù, 11 giugno 1844.
«Carissimo amico,
«Si fece il possibile per poter inviare al suo destino Ricciotti;
non si potè riuscire poichè da qui, per là dov'era destinato, barche
non partono, e in ogni modo non si sarebbero incaricate del
trasporto. Le notizie di Calabria e di Puglia giungevano favorevoli;
dimostravano però sempre mancanza d'energia e di confidenza nei
capi. Convenimmo correr la sorte. - Fra poche ore partiamo per la
Calabria.
«Se giungeremo a salvamento, faremo il meglio che per noi si potrà,
militarmente e politicamente.
«Ci seguono diciasette altri Italiani, la maggior parte emigrati:
abbiamo una guida calabrese. - Ricordatevi di noi, e credete che se
potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima convinzione
saremo fermi nel sostenere quei principî che, riconosciuti soli atti
a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della
patria, abbiamo assieme inculcato.
«Se soccombiamo, dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio,
poichè la vita ci venne data per utilmente e nobilmente impiegarla,
e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più
pura, la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa
e quella della Libertà, dell'Eguaglianza, dell'Umanità,
dell'Indipendenza e dell'Unità italiana.
«Quelli che ci seguono sono i seguenti:
«Domenico Moro, di Venezia, ex-ufficiale della marina austriaca.
«Nardi, della Lunigiana, esule del 1831.
«Boccheciampi, di Corsica(123).
«Mazzoli, di Bologna.
«Miller, di Forlì, esule del 1832.
«Rocca, di Lugo.
«Venerucci, di Forlì.
«Lupatelli, di Perugia, carcerato per gli affari del 1831 fino al
1837, poi esiliato.
«Osmani, di Ancona.
«Manessi, di Venezia.
«Piazzoli, di Lugo, esule nel 1832.
«Natali, di Forlì.
«Berti, di Ravenna.
«Pacchioni, di Bologna.
«Napoleoni, di Corsica.
«Mariani, di Milano, ex-cannoniere a servizio dell'Austria.
«Il Calabrese, di cui vi sarà riferito il nome da ***.
«Le notizie avute d'Italia furono le seguenti:
«I Calabresi si mantenevano armati e numerosi. Molta truppa occupava
i declivi delle montagne e le città. Agli inviti d'impunità
rispondevano: Non aver più che fare col re di Napoli. Difettavano di
munizioni. Da Bitonto in Puglia una grossa banda sortì, e sotto gli
ordini di ***, occupò la foresta di Gioja. Un Calabrese fu arrestato
a Bitonto; egli confessò essere per le montagne disceso dal suo
paese, dove aveva preso l'armi, su Bitonto, apportatore d'un invito
a ***.
«Le provincie di Lecce, Bari, Foggia, e Avellino sono agitatissime;
l'ultima massimamente.
«Abbiamo con noi quanta più munizione ci abbiamo potuto procurare.
«Abbiamo incaricato *** di tenervi informato delle nostre
operazioni. Fate voi altrettanto con lui, poichè lo lasciamo in caso
di potere probabilmente comunicare con noi.
«Furono prese tutte le misure: fu calcolato il numero degli
individui; a tutto fu disposto. Se non riesciremo, sarà colpa del
destino, non nostra.
«Addio. «Nicola Ricciotti.
«Emilio Bandiera.»
«Addio: il tempo mi manca. Porto meco gli articoli principali d'una
nuova costituzione politica all'Italia, cioè quello
dell'organizzazione comunale, della guardia nazionale, e delle
elezioni. La prima di queste è necessario che sia dovunque uniforme
per far dimenticare tante funeste e sanguinose antecedenze. Per
individualità nazionale ho scelto il circondario e non il comune,
perchè questo è di sua natura ineguale, l'altro formato, senza
riguardo al territorio, di diecimila cittadini attivi. Da
ventun'anni in poi s'è cittadini, ecc., ecc. Il giurì è applicato al
criminale soltanto, perchè per adesso la nostra nazione non è ancora
abbastanza matura per questa ottima istituzione. Insomma, conviene
far tavola rasa, ma coll'obbligo di subitamente o bene o male
riedificare, onde non cadere nell'anarchia che porta sempre seco la
morte. Se mai la sorte vuole arridere finalmente alla nostra causa,
accorrete; venite fra chi da tanti anni vi stima ed ama, tra chi voi
più d'ogni altro poteste risvegliare dal sonno che, per esser
profondo i malvagi dicevano essere di tomba. Venite, e ricordatevi
degli Ebrei reduci dalla schiavitù che ricostruivano il sacro lor
tempio sempre colla spada brandita. Abbiatemi presente, e credetemi
sempre vostro amico.
«Attilio Bandiera.»
Come mai, a fronte dei nuovi progetti, delle promesse fatte
all'amico e del mandato positivo, esplicito, dato a Ricciotti, poche
e incerte voci di circostanze propizie in Calabria indussero i due
fratelli e gli amici loro alla subita determinazione?
Io non presento accuse formali, perchè non ho prove dirette, e
l'impudenza delle asserzioni deliberate quando non s'hanno che
indizî mi par arte da lasciarsi ai nemici, immorali per vocazione ed
oggi per necessità di difesa, dacchè, se combattessero ad armi
eguali e da generosi, cadrebbero, e lo sanno. Ma accennerò alcuni
fatti su' quali ogni uomo potrà fondare spassionatamente il proprio
giudizio.
Per gli indizî desunti da lettere mie e d'altri violate per uffizio
di spionaggio dal gabinetto inglese, e per le imprudenze commesse da
quei che più ciarlano e meno fanno, il governo napoletano e
l'austriaco sapevano che gli esuli italiani si preparavano ad
accorrere, con mezzi abbastanza forti ed animo assai più forte,
dovunque sorgesse una bandiera italiana; ignoravano, come appare
dalle mille e una sciocchezze pubblicate ne' loro giornali, i modi e
i disegni. Pareva, in siffatta incertezza, savio partito lo
smembrarne le forze anzi tratto, e seducendo alcuni de' migliori a
una impresa disperata, perchè calcolata dal nemico, spegner quei
pochi, sfiduciar tutti gli altri, far credere agli esuli che non
v'era da sperare in moti di popolazioni italiane, e a quei
dell'interno che a un drappello di venti si riducevano tutti gli
ajuti che dar potevano gli esuli alla causa italiana: poi prepararsi
via di logorare colla calunnia l'influenza esercitata da alcuni
individui, imposturandoli ordinatori del tentativo. I Bandiera,
ardentissimi e improvvidi, erano tali da dar nel laccio. Importava
spegnerli, perchè già abbastanza pericolosi per le facoltà
dell'animo e dell'ingegno, lo erano poi oltremodo per le aderenze
nella marina dell'Austria e pel nome: importava che non
pellegrinassero tra le nazioni, simbolo vivo dell'estensione
conquistata oggimai dall'opinione nazionale italiana: importava che
a quanti nelle file dell'esercito austriaco avessero in animo di
seguir l'esempio, un fatto solenne intimasse: morrete. Il nome dei
Bandiera influente nel Lombardo-Veneto, e quello di Ricciotti
potente assai nelle Marche, erano pressochè ignoti tra le
popolazioni delle Calabrie. E quanto a tender l'insidia, il fermento
lasciato negli spiriti dal tentativo di Cosenza, i decreti regi che
sottomettevano ai rigori di leggi repressive straordinarie le due
provincie, e la fuga nelle foreste di molti pericolanti, dovevano
dar sembianza di vero a quante voci d'insurrezioni iniziate o
imminenti avrebbero suonato all'orecchio degli esuli di Corfù.
Per tutto il mese di maggio e sul cominciare del giugno siffatte
voci abbondarono stranamente moltiplicate a Corfù: recatevi da
capitani ignoti di barche mercantili provenienti da Cotrone, da
Rossano, da Taranto, da più altri punti. Dicevano le montagne di
Cosenza, Scigliano e San Giovanni in Fiore, popolate, gremite
d'insorti armati, nudriti con viveri mandati dalle città,
determinati ad agire e solamente incerti del come. Dicevano
gl'insorti mancanti unicamente di capi eguali all'impresa,
desiderosi d'alcuni uomini militari scelti fra gli esuli influenti a
rappresentare in Calabria l'unità del Pensiero Italiano anzi queruli
dell'indugio e di ciò che pareva ad essi diffidenza o tiepidezza
negli esuli. Aggiungevano le spiagge non essere custodite più
severamente del solito e facilissimo il passaggio da quelle ai
luoghi dove si tenevan gl'insorti. Un capitano austriaco proveniente
da Rossano affermava che in un bosco distante mezz'ora dalla città
stava una buona mano d'insorti che assalivano quasi ogni notte la
gendarmeria. Un altro, credo certo Cavalieri, satellite austriaco,
dava avviso che due e più centinaja di sbandati s'erano affacciati a
Cotrone e n'erano stati respinti, ma non distrutti, e mentre
depredavano nei dintorni qualche podere di ricchi, spargevano oro
fra' contadini. Altre consimili nuove stanno registrate nell'ultima
lettera dei Bandiera. Le più erano assolutamente false: l'altre
esageratissime.
Gli esuli e segnatamente i fratelli Bandiera erano in Corfù noti,
vegliati, ricinti di spie. Del loro antico disegno era corso romore
fino all'orecchio dei consoli che ivi rappresentano i tirannucci
d'Italia. La loro partenza ebbe luogo senza che vi fosse frapposto
il menomo ostacolo; nè ostacolo alcuno da legni in crociera o da
altro ebbe il loro sbarco in Calabria. Il console napoletano in
Corfù, stando a' meriti noti, avrebbe dovuto ricevere accuse e
rimproveri di noncuranza dal suo governo. E nondimeno, con
disposizione del 18 luglio, Ferdinando II volendo ricompensarne la
condotta e lo zelo spiegato in quella circostanza, conferì la croce
di cavaliere dell'ordine regio di Francesco I a Gregorio Balsamo,
console del re in Corfù.
Finalmente - e questo a molti parrà indizio equivalente a una prova
diretta - un dei ventuno, tristissimo a dirsi, tradiva(124): il
Boccheciampi. Fomentatore arditissimo dell'impresa, partiva da Corfù
recando seco alcuni documenti che rivendicavano dal governo di
Napoli certi diritti concessi ad un suo zio per servigi prestati
appunto nelle Calabrie a' tempi dell'invasione francese. Toccato
appena, e senza pericoli sovrastanti, il suolo italiano, spariva
nell'ombre della notte, andava a Cotrone a dar nuova degl'ultimi
concerti presi e della via tenuta dagli esuli. I nostri non lo
rividero se non davanti alla commissione militare in Cosenza,
accusato di scienza e di non rivelazione di complotto, libero quindi
d'ogni rischio di vita.
Or giudichi ognuno se il quando e il dove dell'impresa fossero
scelti dal governo di Napoli o dai nostri fratelli.
Partirono, poichè alcuni incidenti ritardarono di ventiquattr'ore
l'esecuzione del loro progetto, nella notte dal 12 al 13: sbarcarono
dopo quattro giorni di viaggio, la sera del 16, agli sbocchi del
fiume Neto, e s'inselvarono. Era loro intento apparire improvvisi,
fuggendo ogni scontro, davanti a Cosenza e tentare, per
cominciamento all'impresa, la liberazione dei prigionieri politici
che v'erano numerosi. Ma dopo tre giorni di viaggio attraverso
foreste, affacciatisi a un burrone presso San Giovanni in Fiore,
dove gli esperti de' luoghi affermavano non essere via di salute
possibile se non la vittoria, si trovarono aspettati, circondati,
assaliti da forze regie, composte di cacciatori del secondo
battaglione, di gendarmi e di urbani, numericamente tali da rendere
inutile ogni combattere. Combattevano nondimeno, e con qual vigore
lo dica il decreto del 18 luglio, col quale Ferdinando II assegna
ricompense di croci, medaglie, promozioni e danaro a più di
centosettanta individui presenti al conflitto: decreto che sarebbe
ridicolo se non fosse machiavellicamente architettato a vincolare,
infamandoli, uomini incerti e a ingannare le popolazioni lontane, ma
che lascia a ogni modo intravvedere quante centinaja di soldati
fossero stimate necessarie dal governo napoletano a vincere i ventun
uomini della libertà. Spento Miller(125), caduto per gravi ferite
Domenico Moro, la guida calabrese e due altri riuscirono a
rinselvarsi; i rimanenti, afferrati, furono trascinati al martirio
in Cosenza.
Del loro contegno nel tempo decorso tra il conflitto di San Giovanni
in Fiore e la morte, io non so cosa alcuna; nè del processo o della
condotta dei giudici. Alcuni tra gli amici dei Bandiera s'illudevano
in quei giorni a sperare che l'arciduca Federico, fratello della
regina di Napoli, s'indurrebbe, allievo com'era stato, del
contr'ammiraglio, e condiscepolo e commilitone d'Emilio, a
intercedere spontaneo per essi: poco esperti conoscitori dei
principi e della fredda, infernale, immutabile politica austriaca.
Il 25 luglio, alle cinque del mattino, Attilio ed Emilio
Bandiera(126), Nicola Ricciotti, Domenico Moro, Anacarsi Nardi(127),
Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca(128), Francesco Berti(129),
Domenico Lupatelli, morirono di fucilazione. I loro compagni
all'impresa gemono, e gemeranno Dio sa per quanto, a vergogna degli
Italiani, in catene.
Gli ultimi momenti dei nove martiri furono degni della loro vita e
della Fede Italiana ch'essi col sangue santificarono. Estraggo
quanto segue da una lettera di Calabria, contenente il ragguaglio
d'un testimonio oculare:
«La mattina del giorno fatale furono trovati dormendo.
S'abbigliarono con somma cura, e per quanto potevano con eleganza,
come se s'apparecchiassero a un atto solenne religioso. Un prete
venne per confessarli; ma essi lo respinsero dolcemente(130)
dicendogli: ch'essi, avendo praticata la legge del Vangelo e cercato
di propagarla anche a prezzo del loro sangue fra i redenti da
Cristo, speravano d'esser raccomandati a Dio meglio dalle proprie
opere che dalle sue parole, e lo esortavano a serbarle per predicare
ai loro oppressi fratelli in Gesù la religione della Libertà e
dell'Eguaglianza. S'avviarono col volto sereno e ragionando tra loro
al luogo dell'esecuzione. Giunti, e apprestate l'armi dei soldati,
pregarono che si risparmiasse la testa, fatta a imagine di Dio.
Guardarono ai pochi muti, ma commossi circostanti gridarono: Viva
l'Italia! e caddero morti.»
Viva l'Italia! - Sarà quel grido, o giovani, un'amara ironia, o lo
raccoglierete voi, santo com'è dell'ultimo sacrificio dei migliori
tra noi, per incarnarlo nelle vostre vite? In nome dei martiri che
morirono per redimervi non foss'altro dalla taccia di codardia che
tutta Europa vi dà: in nome della vostra Patria, io vi chiedo:
proferirete quel grido a fronte delle persecuzioni, tra le delusioni
dell'anima, in faccia al patibolo, o perduti nelle stolide o viziose
abitudini del servaggio, direte, iloti avvinazzati d'Europa: muoja
l'Italia! muoja l'onore! perisca la memoria dei martiri! viva il
cappello gesuitico! viva il bastone tedesco!
Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei
Bandiera o dei loro compagni alla bella morte, che il martirio è
sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di
vittoria immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le
moltitudini, e che giova, oggi, anzichè operare prematuramente,
rimanersi inerti, addormentare il nemico, poi giovarsi d'una
circostanza propizia europea per trucidarlo nel sonno. Non date
orecchio, o giovani, a quelle parole. Meschini politici e peggiori
credenti, gli uomini che così insidiano alla santità dell'anima
vostra, immiseriscono la nostra fede nei falsi calcoli d'una gretta
questione politica: avrebbero rinegato, nel dì del supplizio, la
virtù della croce di Cristo per poi benedirla con pompose parole, se
la vita fosse loro bastata sino a quel tempo, quando al segno del
martirio Costantino sovrappose il segno della vittoria. Il martirio
non è sterile mai. Il martirio per una Idea è la più alta formola
che l'Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e
quando un Giusto sorge di mezzo a' suoi fratelli giacenti ed
esclama: ecco: questo è il Vero, ed io, morendo, l'adoro, uno
spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l'Umanità,
perchè ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de' proprî
doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua
creatura. I sagrificati in Cosenza hanno insegnato a noi tutti che
l'Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato
al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta
Europa l'opinione che una Italia sarà. La Fede per la quale uomini
così fatti cercano la morte come il giovane l'abbraccio della
fidanzata, non è frenesia d'agitatori colpevoli o sogno di pochi
illusi; è religione in germe, è decreto di Provvidenza. Alla fiamma
di patria ch'esce da quei sepolcri, l'Angiolo dell'Italia accenderà,
presto o tardi, la fiaccola che illuminerà una terza volta da Roma -
dalla Roma non già, come v'insinuano i falsi profeti, del papa,
grande un tempo, oggi, checchè cinguettino, spenta e per sempre - ma
dalla Roma del Popolo, le vie del Progresso all'Umanità.
L'Italia è chiamata, o giovani, a grandi destini. Solcata l'anima di
mille dolori e piena d'alto sconforto ogni qualvolta io guardo agli
uomini d'oggi e a quelli segnatamente che s'assumono or di
dirigervi, io pur sento tanta fede nel core quando guardo negli anni
futuri e in voi che sarete uomini fra non molto, da trovare forza
che basti a intuonarvi l'inno della speranza e la profezia dei
vostri destini fin sulla pietra dei martiri. Una grande missione
aspetta l'Italia. L'Europa è oggi in cerca d'unità religiosa. La
Francia colla sua rivoluzione - non parlo della sommossa del 1830 -
rivoluzione non intesa finora se non dai pochi, compendiava in una
gigantesca manifestazione il lavoro di molti secoli e traducendo nel
linguaggio politico la somma di progresso conquistata in quelli
dell'anima umana, conchiudeva un ciclo d'attività religiosa, che
aveva ricevuto da Dio la missione di costituire ordinato all'interno
l'Uomo: l'uomo-individuo libero, eguale, ricco di diritti e
d'aspirazioni a uno sviluppo maggiore. E d'allora in poi, presaga
dell'epoca nuova, dell'epoca che avrà per termine dominatore d'ogni
sua attività l'uomo-collettivo, l'Umanità, l'Europa erra nel vuoto
in cerca del nuovo vincolo, che annoderà in concordia di religione
le credenze, i presentimenti, l'energia degli individui, oggi
isolati dal dubbio, senza cielo e quindi senza potenza per
trasformare la Terra. Tentennante fra il dispotismo del Cattolicismo
e l'anarchia del Protestantismo, fra l'Autorità illimitata che
cancella l'uomo e la libera coscienza dell'individuo impotente a
fondare una fede sociale, il mondo invoca e presente una nuova e più
vasta Unità che congiunga in bella e santa armonia i due termini
Tradizione e Coscienza oggi in cozzo fra loro e che pur sono e
saranno sempre le due ali date all'anima umana per raggiungere il
Vero: - una Unità che mova da' pie' della Croce per avviar l'uomo
sul cammino della vittoria, abbracciando in sè e santificando tutto
quanto il progresso ulteriore; - una Unità che rannodi le sette
diverse in un solo Popolo di Credenti e di tutte le chiese,
chiesuole e cappelle, inalzi l'immenso tempio, il Panteon
dell'Umanità a Dio: - una Unità che di tutte le rivelazioni date a
tempo da Dio al genere umano componga l'eterna progressiva
Rivelazione del Creatore sulla sua creatura. Questo a chi ben
guarda, è il problema vitale che agita, o giovani, il mondo d'oggi:
tutte le questioni politiche, che pajono esclusivamente sommovere le
nazioni non potranno acquetarsi che nella soluzione di quel
problema. E questa soluzione, o Italiani, questa invocata Unità, non
può escire, checchè facciano, se non della Patria vostra e da voi:
non può scriversi che sull'insegna alla quale sarà dato di
fiammeggiare superiore alle due colonne migliari che segnano il
corso di trenta e più secoli nella vita dell'Umanità, il Campidoglio
ed il Vaticano.
Dalla Roma dei cesari escì l'unità d'incivilimento comandata dalla
Forza all'Europa. Dalla Roma dei papi escì l'unità d'incivilimento,
comandata dall'Autorità, a gran parte del genere umano. Dalla Roma
del popolo escirà, quando voi sarete, o Italiani, migliori ch'oggi
non siete, Unità d'incivilimento, accettata dal libero consenso dei
popoli, all'Umanità.
Per questa Fede, o giovani, morirono i Bandiera e i loro fratelli
nel martirio: per questa Fede io pure, nullo per intelletto e per
core, ma a nessun altro inferiore in credenza, se il desiderio non
m'inganna, morrò.
E nondimeno, io non vi chiamo al Martirio: - il Martirio si venera,
ma non si predica - io vi chiamo a combattere e vincere: vi chiamo a
imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll'esempio ha
voluto insegnarvelo, perchè so che senza quello voi non potrete
conquistar mai la vittoria: vi chiamo all'opere continue ed al
fremito, quand'altri vi chiama a fingere d'addormentarvi, perchè so
che i fatti continui ed il fremito possono soli dar sospetto,
terrore, e frenesia di persecuzione feconda di sdegni, ai vostri
padroni, coscienza della tristissima condizione in che vegeta e
della vocazione italiana al popolo vostro, fede nei vostri diritti e
nelle vostre intenzioni ai popoli dell'Europa commossa.
Confortatevi, o giovani! la nostra causa è destinata al trionfo. I
malvagi che anch'oggi dominano, lo sanno e ci maledicono; ma
l'anatema ch'essi gittano contro noi si perde nel vuoto, come rio
seme portato dal vento. I germi che noi cacciamo rimangono: sul
terreno santificato dal sangue dei martiri, Iddio li feconderà; e
s'anche gli alberi che devono escirne non distenderanno l'ombra loro
che sul nostro sepolcro, sia benedetto Iddio: noi godremo altrove.
Perseguitate, noi possiam dire ai malvagi, ma tremate. Un giorno,
innanzi alla fiamma che consumava, per ordine del Senato le storie
di Cremuzio Cordo, un Romano, balzando in piedi, gridava: cacciate
me pure nel rogo, perch'io so quelle storie a memoria. Pochi dì
passeranno, e l'Europa risponderà con un grido consimile alle vostre
stolidamente feroci persecuzioni. Voi potete uccidere pochi uomini
ma non l'Idea. L'Idea è immortale. L'Idea ingigantisce fra la
tempesta e splende a ogni colpo, come il diamante di nuova luce.
L'Idea s'incarna più sempre nell'Umanità. E quando voi avrete
esaurito l'ira vostra e la vostra brutale potenza sugli individui
che non sono se non precursori, l'Idea v'apparirà irresistibile,
nella maestà popolare, e sommergerà sotto l'onda oceanica del futuro
i vostri nomi e fin la memoria della vostra resistenza al moto delle
generazioni che Iddio commove.
LIBERTÀ, EGUAGLIANZA, UMANITÀ.
INDIPENDENZA, UNITÀ.
Italiani!
Divisi in otto stati noi destinati da Dio ad abitare un paese unito
conculcati in Napoli da un re villano e dispregevole, sottomessi in
Piemonte ai voleri di un reprobo che ne tradì, in Modena a quelli di
un mostro che nel secolo XIX arrivò la trista fama di Caligola e di
Nerone; in Roma scherniti da un pontefice indegno di rappresentare
un Dio di pace e di carità; in Toscana dalle arti narcotiche di un
governo traditore; in Parma governati da una femmina che, potendo
elevarsi sopra tutte le europee, alle più vili si mostrò inferiore;
oppressi in Venezia ed in Lombardia dagli stranieri che ne sfidano
colle bajonette e ne perseguitano colle spie, smungono i tesori del
nostro suolo e fanno servire la nostra gioventù a puntello del
nostro servaggio; disgraziati in tutta Europa; vilipesi, mantenuti
divisi; pasciuti di glorie di teatro, di dispute di letterati, di
controversie da fanciulli; ecco, Italiani, in quali condizioni ci
troviamo. - Fummo grandi e temuti! che monta, se non fosse più
acerba rampogna dell'esser caduti sì in basso? Se i nostri padri
abbandonassero i loro riposi per venir a contemplare come difendiamo
ed abitiamo la terra che essi resero la prima del mondo, con quai
fronti ne sosterremmo noi gli aspetti? A lavare tanta infamia, a
scuotere tanto giogo, a conquistare la libertà, i Calabresi generosi
insorsero; insorsero per tutti, con levata in alto la bandiera di
tutti: Redimere l'Italia o Morire! E noi balestrati da' comuni
oppressori in straniere contrade, abbiamo compreso quel grido,
abbiamo benedetta quella bandiera, ripetuto quel giuramento, e,
pochi, ma vanguardia di molti lontani, dalla terra d'esiglio ci
siamo quivi ridotti. Siciliani, Abruzzesi, Romagnoli, Toscani,
Piemontesi, Lombardi, Genovesi, Italiani di tutte contrade,
preferireste la vita fra le spie, le bajonette, gl'insulti de'
vostri oppressori ai pericoli ed ai cimenti che seguendo il nobile
esempio v'aspettano? Gli Austriaci, che oltraggiosi vi conculcano da
sì lungo tempo, non vorreste alfine combattere e alla vostra volta
perseguitare? Sono numerosi, agguerriti? E voi non siete
ventiquattro milioni di fratelli, non i più animosi guerrieri
dell'antichità, non i figli dei prodi che in Spagna, in Polonia, in
Germania, in Russia, illustrarono di tanto splendore l'aquila di
Napoleone? Bonaparte ha detto che un popolo di dieci milioni
fermamente risoluto di esser libero, non può essere sottomesso, e la
Spagna inferiore a voi della metà di popolazione lo provò resistendo
e mandando al basso ben altro invasore che l'inetto Ferdinando non
sarà. - Tutte le nazioni europee hanno raggiunto o marciano verso la
conquista dei più sacrosanti diritti dell'Uomo; voi soli, Italiani,
siete ancora sottoposti a pravissime leggi, vivete ineguali, senza
diritto, oppressi da doveri d'ogni sorta; lavorate, e il frutto de'
vostri sudori oltrepassa le Alpi o serve ai bagordi delle tante
reggie stabilite nella vostra bella Penisola. - All'armi! o
fratelli; correte come noi al conquisto della Libertà, dell'Unità,
dell'Indipendenza, della prosperità della patria; correte a fare che
l'eguaglianza dei diritti e dei doveri, delle pene e delle
ricompense avvivi l'Italia. Non più re, o Italiani! Iddio ci ha
creati tutti eguali; siamo tutti fatti ad imagine sua; nessun altro
che lui abbia dunque il diritto di dirci suoi. - Che hanno fatto i
re di noi? Ci hanno venduti, perseguitati, oppressi, hanno pieno il
nostro paese di vergogna, e di obbrobrio. Costituiamoci in
repubblica come i nostri padri, poichè ebbero scacciati i Tarquinî;
gridiamoci liberi, e padroni di noi stessi e delle contrade in cui
Dio ne ha collocati. Gli Austriaci ci combatteranno; il pontefice ci
scomunicherà; i re d'Europa ci avverseranno. Non importa, o
Italiani, gettiamo il fodero e contro l'Austriaco facciamo d'ogni
uomo un soldato, d'ogni donna una suora di carità, d'ogni casale una
rocca; al papa protestiamo di conoscere Iddio meglio di lui
attraverso i suoi sordidi interessi di dominazione, di grandezza
temporale; i re d'Europa rispettiamo ma non temiamo, invochiamo
contr'essi le simpatie de' loro popoli.
La nostra causa è santa, o Italiani, e vinceremo perchè Iddio non
vorrà abbandonarla se in essa persistiamo con costanza, fermezza,
cuore e risoluzione. - Che se la vittoria intravvedete difficile,
gioitene; gli sforzi ed i sacrificî che opererete per guadagnarla
varranno a scontare nell'opinione dei popoli, tanto passato
obbrobrio e così lungo servaggio. Essi solo potranno farci
riguardare come non degeneri nepoti dei più grandi che portarono lo
splendore del nome italiano in ogni angolo del mondo conosciuto;
essi solo ci permetteranno lasciare ai nostri figli una patria
libera, unita, indipendente, e gloriosa.
In nome degli esuli italiani sbarcati:
Attilio Bandiera,
Nicola Ricciotti,
Emilio Bandiera.
LIBERTÀ, EGUAGLIANZA, UMANITÀ.
INDIPENDENZA, UNITÀ.
Calabresi!
Al grido de' vostri fatti, all'annunzio del giuramento che avete
giurato, noi attraverso ostacoli e pericoli, dalla prossima terra
d'esilio siam venuti a schierarci fra le vostre file, a combattere
le vostre battaglie ed ammirare la bandiera dell'Italia
repubblicana, che avete coraggiosamente sollevata. - Vinceremo o
moriremo con voi, Calabresi, grideremo come voi avete gridato, che
scopo comune è di costituire l'Italia e le sue isole in nazionalità
libera, una, indipendente; con voi combatteremo quanti despoti ci
combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi.
Calabresi, non è epoca remota quella in cui avete distrutto
sessantamila invasori condotti da un Italiano, il più grande dei
capitani di Napoleone; armatevi della energia di allora, e
preparatevi all'assalto degli Austriaci, che vi riguardano loro
vassalli, vi sfidano, e vi chiamano briganti.
Continuate, o Calabresi, nella generosa via, che avete dimostrato
voler unicamente percorrere, e l'Italia resa grande ed indipendente,
chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua
libertà, il primo campo delle sue vittorie.
In nome degli esuli italiani sbarcati:
Attilio Bandiera,
Nicola Ricciotti,
Emilio Bandiera.
A PIO IX, PONTEFICE MASSIMO
Beatissimo padre.
Londra, 8 settembre 1847.
Concedete a un Italiano, che studia da alcuni mesi ogni vostro passo
con un'immensa speranza, di indirizzarvi, in mezzo agli applausi
spesso pur troppo servili e indegni di voi, che vi suonano intorno,
una parola libera e profondamente sincera. Togliete, per leggerla,
alcuni momenti alle cure infinite. Da un semplice individuo animato
di sante intenzioni può escire talvolta un grande consiglio; ed io
vi scrivo con tanto amore, con tanto commovimento di tutta l'anima
mia, con tanta fede nei destini del paese che può per opera vostra
risorgere, che i miei pensieri dovrebbero esser la verità.
E prima è necessario, beatissimo padre, ch'io vi dica qualche cosa
sul conto mio. Il mio nome v'è probabilmente giunto all'orecchio; ma
accompagnato di tutte le calunnie, di tutti gli errori, di tutte le
stolide congetture che le polizie per sistema e molti uomini del mio
partito per poca conoscenza e povertà d'intelletto v'hanno
accumulato d'intorno. Io non son sovvertitore, nè comunista, nè uomo
di sangue, nè odiatore, nè intollerante, nè adoratore esclusivo di
un sistema o d'una forma imaginata dalla mente mia. Adoro Dio e una
idea che mi par di Dio: l'Italia una, angelo d'unità morale e di
civiltà progressiva alle nazioni d'Europa. Qui e dappertutto ho
scritto come meglio ho saputo contro i vizî di materialismo,
d'egoismo, di riazione, e contro le tendenze distruggitrici che
contaminano molti del nostro partito. Se i popoli sorgessero in urto
violento contro l'egoismo e il malgoverno dei loro dominatori, io
pur, rendendo omaggio al diritto dei popoli, morrò probabilmente fra
i primi per impedire gli eccessi e le vendette che la lunga servitù
ha maturato. Credo profondamente in un principio religioso, supremo
a tutti gli ordinamenti sociali in un ordine divino che noi dobbiamo
cercare di realizzare qui sulla terra; in una legge, in un disegno
provvidenziale che dobbiamo tutti, a seconda delle nostre forze,
studiare e promovere. Credo nelle ispirazioni dell'anima mia
immortale e nella tradizione dell'umanità. Ho studiato la tradizione
italiana e v'ho trovato Roma due volte direttrice del mondo, prima
per gli imperatori, più tardi pei papi. V'ho trovato che ogni
manifestazione di vita italiana è stata manifestazione di vita
europea; e che sempre, quando cadde, l'Italia, l'unità, morale
europea cominciò a smembrarsi nell'analisi, nel dubbio,
nell'anarchia. Credo in un'altra manifestazione del pensiero
italiano; e credo che un altro mondo europeo debba svolgersi
dall'alto della città eterna ch'ebbe il Campidoglio ed ha il
Vaticano. E questa credenza non m'ha abbandonato mai, per anni,
povertà, delusioni e dolori che Dio solo conosce. In queste poche
parole sta tutto l'esser mio, tutto il segreto della mia vita. Posso
errare per intelletto, ma il core è sempre rimasto puro. Non ho
mentito mai per paura o speranze, e vi parlo come se parlassi a Dio
al di là del sepolcro.
Io vi credo buono. Non v'è uomo, non dirò in Italia ma in Europa,
che sia più potente di voi. Voi dunque avete, beatissimo padre,
immensi doveri: Dio li misura a seconda dei mezzi ch'ei concede alle
sue creature. L'Europa è in una crisi tremenda di dubbî e di
desiderî. Per opera del tempo, affrettata dai vostri predecessori e
dall'alta gerarchia della Chiesa, le credenze son morte; il
cattolicismo s'è perduto nel dispotismo: il protestantismo si perde
nell'anarchia. Guardatevi intorno: troverete superstiziosi o
ipocriti; non credenti. L'intelletto cammina nel vuoto. I tristi
adorano il calcolo, i beni materiali: i buoni invocano e sperano:
nessuno crede. I re, i governi, le classi dominatrici combatton per
un potere usurpato, illegittimo, dacchè non rappresenta culto di
verità, nè disposizione a sagrificarsi pel bene di tutti: i popoli
combattono perchè soffrono, perchè vorrebbero alla volta loro
godere: nessuno combatte pel dovere; nessuno, perchè la guerra
contro il male e la menzogna è una guerra santa, la crociata di Dio.
Noi non abbiamo più cielo: quindi non abbiamo più società.
Non v'illudete, beatissimo padre: questo è lo stato d'Europa. Ma
l'umanità non può vivere senza cielo. L'idea società non è che una
conseguenza dell'idea religione. Avremo dunque, più o meno
rapidamente, religione e cielo.
L'avremo, non dai re e dalle classi privilegiate: la loro condizione
stessa esclude l'amore, anima di tutte le religioni: ma dal popolo.
Lo spirito di Dio discende sui molti, radunati in suo nome. Il
popolo ha patito per secoli sulla croce; e Dio lo benedirà d'una
fede.
Voi potete, beatissimo padre, affrettar quel momento. Io non vi dirò
le mie opinioni individuali sullo sviluppo religioso futuro: poco
importano. Vi dirò che qualunque sia il destino delle attuali
credenze, voi potete porvene a capo. Se Dio vuole che rivivano, voi
potete far che rivivano. Se Dio vuole che si trasformino; che,
movendo dappiè della croce, dogma e culto si purifichino inalzandosi
d'un passo verso Dio padre ed educatore del mondo, voi potete
mettervi fra le due epoche e guidare il mondo alla conquista e alla
pratica della verità religiosa, spegnendo l'esoso materialismo e la
sterile negazione.
Dio mi guardi dal tentarvi coll'ambizione: mi parrebbe di profanar
voi e me. Io vi chiamo, in nome della potenza che Iddio v'ha
concesso, e non vi ha concesso senza perchè a compire un'opera
buona, rinnovatrice, europea.
Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e di corruttela, ad essere
apostolo dell'eterno Vero. Vi chiamo a farvi servo di tutti; a
sacrificarvi, occorrendo, perchè la volontà di Dio sia fatta così
sulla terra com'è nel cielo; a tenervi pronto a glorificar Dio nella
vittoria o a ripetere rassegnatamente, se mai soccombeste, le parole
di Gregorio VII: Muojo nell'esilio, perchè ho amato la giustizia e
odiato la iniquità.
Ma per questo, per compiere la missione che Dio v'affida, vi sono
necessarie due cose: esser credente e unificare l'Italia. Senza la
prima cadrete a mezzo la via, abbandonato da Dio e dagli uomini;
senza la seconda, non avrete la leva colla quale soltanto potete
operare grandi, sante e durevoli cose.
Siate credente. Abborrite dall'essere re, politico, uomo di Stato.
Non transigete coll'errore: non vi contaminate di diplomazia: non
venite a patti colla paura, cogli espedienti, colle false dottrine
d'una legalità che non è se non menzogna inventata quando la fede
mancò. Non abbiate consiglio se non da Dio, dalle ispirazioni del
vostro core e dall'imperiosa necessità di riedificare un tempio alla
verità, alla giustizia, alla fede. Chiedete a Dio, raccolto in
entusiasmo d'amore per l'umanità e fuor d'ogni altro riguardo, ch'ei
v'insegni la via: poi ponetevi per quella colla fiducia del
trionfatore sulla fronte, coll'irrevocabile decisione del martire.
Non guardate a diritta o a sinistra, ma davanti a voi ed al cielo.
Ad ogni cosa che incontrate fra via, domandate a voi stesso: è
questo giusto o ingiusto? vero o menzogna? legge d'uomini o legge di
Dio? Bandite altamente il risultato del vostro esame e operate a
seconda. Non dite a voi s'io parlo ed opero nel tal modo, i principi
della terra dissentiranno: gli ambasciatori daranno note e proteste.
Che sono le querele d'egoismo dei principi e le loro note davanti a
una sillaba dell'Evangelo eterno di Dio? Hanno avuto finora
importanza perchè, fantasmi, non avevano contro se non fantasmi.
Opponete ad essi la realtà d'un uomo che vede l'aspetto divino,
ignoto ad essi, delle cose umane: d'un'anima immortale che sente la
coscienza d'un'alta missione; e spariranno davanti a voi come i
vapori accumulati nelle tenebre davanti al sole che si inalza
sull'orizzonte. Non vi lasciate atterrire da insidie: la creatura
che compie un dovere non è cosa degli uomini, ma di Dio. Dio vi
proteggerà: Dio vi stenderà intorno una tale corona d'amore che nè
perfidia d'uomini irreparabilmente perduti, nè suggestioni d'inferno
potranno mai rompere. Date uno spettacolo nuovo, unico al mondo:
avrete risultati nuovi, imprevedibili da qualunque calcolo umano.
Annunciate un'êra; dichiarate che l'umanità è sacra e figlia di Dio:
che quanti violano i suoi diritti al progresso, all'associazione,
sono sulla via dell'errore: che in Dio sta la sorgente d'ogni
governo: che i migliori per intelletto e per core, per genio e virtù
hanno ad essere i guidatori del popolo. Benedite a chi soffre e
combatte: biasimate, rimproverate chi fa soffrire, senza badare al
nome ch'ei porta, alla qualità ch'ei riveste. I popoli adoreranno in
voi il miglior interprete dei disegni divini; e la vostra coscienza
vi darà prodigi di forza e di conforto ineffabile.
Unificate l'Italia, la patria vostra. E per questo non avete bisogno
d'oprare, ma di benedire chi oprerà per voi e nel vostro nome.
Raccogliete intorno a voi quelli che rappresentano meglio il partito
nazionale. Non mendicate alleanze di principi. Seguite a conquistare
l'alleanza del nostro popolo. Diteci: L'unità d'Italia deve essere
un fatto del XIX secolo; e basterà: opereremo per voi. Lasciateci
libera la penna, libera la circolazione delle idee per quanto
riguarda questo punto, vitale per noi, dell'unità nazionale.
Trattate il governo austriaco, anche dove non minacci più il vostro
territorio, col contegno di chi lo sa governo d'usurpazione in
Italia e altrove. Combattetelo colla parola del giusto, dovunque ei
macchina oppressioni e violazioni del diritto altrui fuori d'Italia.
Invitate, in nome del Dio di pace, i gesuiti, alleati dell'Austria
in Isvizzera, a ritirarsi da un paese dove la loro presenza prepara
inevitabile e prossimo spargimento di sangue cittadino. Dite una
parola di simpatia che riesca pubblica al primo polacco di Galizia
che vi verrà innanzi. Mostrateci insomma con un fatto qualunque che
voi non tendete solamente a migliorare la condizione fisica dei
pochi sudditi vostri, ma che abbracciate nel vostro amore i milioni
d'Italiani fratelli vostri; che li credete chiamati da Dio a
congiungersi in unità di famiglia sotto un unico patto; che
benedireste la bandiera nazionale dove si levasse sorretta da mani
pure, incontaminate; e lasciate il resto a noi. Noi vi faremo sorger
intorno una nazione, al cui sviluppo libero voi, vivendo,
presiederete. Noi fonderemo un governo unico in Europa, che
distruggerà l'assurdo divorzio fra il potere spirituale ed il
temporale; e nel quale voi sarete scelto a rappresentare il
principio del quale gli uomini scelti a rappresentar la nazione
faranno le applicazioni. Noi sapremo tradurre in un fatto potente
l'istinto che freme da un capo all'altro della terra italiana: noi
vi susciteremo attivi sostenitori nei popoli d'Europa: noi vi
troveremo amici nelle file stesse dell'Austria: noi soli, perchè noi
soli abbiamo unità di disegno e crediamo nella verità del nostro
principio, e non l'abbiamo tradito mai. Non temete d'eccessi da
parte del popolo gittato una volta su quella via: il popolo non
commette eccessi se non quando è lasciato agli impulsi proprî senza
una guida ch'ei veneri. Non v'arretrate davanti all'idea d'essere
cagione di guerra. La guerra esiste dappertutto: aperta o latente,
ma vicina a prorompere e inevitabile.
Nè, beatissimo padre, io v'indirizzo queste parole, perch'io dubiti
menomamente dei nostri destini, perchè io vi creda mezzo unico,
indispensabile all'impresa. L'unità italiana è cosa di Dio: parte di
disegno provvidenziale e voto di tutti, anche di quei che vi si
mostrano più soddisfatti dei miglioramenti locali e che, meno
sinceri di me, disegnano farne mezzo di raggiunger l'intento. Si
compierà con voi o senza di voi. Ma ve lo indirizzo perchè vi credo
degno d'essere iniziatore del vostro concetto; perchè il vostro
porvi a capo dell'impresa abbrevierebbe di molto le vie, e
diminuirebbe i pericoli, i danni, il sangue che si verserà nella
lotta; perchè con voi questa lotta assumerebbe aspetto religioso e
ci libererebbe da molti rischi di reazioni e colpe civili; perchè
s'otterrebbe a un tempo, sotto la vostra bandiera, un risultato
politico e un risultato immenso morale; perchè il rinascimento
d'Italia, sotto l'egida d'una idea religiosa, d'uno stendardo non di
diritti ma di doveri, lascierebbe addietro tutte le rivoluzioni de'
paesi stranieri e porrebbe immediatamente l'Italia a capo del
progresso europeo; perchè sta nelle mani vostre il poter fare che
questi due termini Dio e il Popolo, troppo spesso e fatalmente
disgiunti, sorgano a un tratto in bella e santa armonia, a dirigere
le sorti delle nazioni.
S'io potessi esservi vicino, invocherei da Dio potenza, per
convincervi col gesto, coll'accento, col pianto: così, non posso che
affidar freddamente alla carta il cadavere, per così dire, del mio
pensiero; nè mi riuscirà pure d'aver la certezza che avete letto e
meditato un momento quello ch'io scrivo. Ma io sento un bisogno
imperioso di adempiere a questo dovere verso l'Italia e voi; e
qualunque sia per essere il pensier vostro, mi parrà di trovarmi più
in pace colla mia coscienza.
Credete, beatissimo padre, ai sensi di venerazione e d'alta speranza
che vi professa il vostro devotissimo
Giuseppe Mazzini.
MISSIONE DELLA STAMPA PERIODICA
1848.
La stampa periodica politica ha oggi un'alta missione; è necessario
per essa sollevarsi a quell'altezza o perir moralmente, consumando
le forze, senza potenza d'iniziativa, per entro un misero cerchio di
fatti transitori e di polemiche inutili o pericolose.
Tutto è transitorio oggi in Italia. Abbiamo innanzi agli occhi,
nella penisola, il sublime ma disordinato fermento d'un'opera di
creazione, e intorno, per tutta Europa, i sintomi innegabili
d'un'opera di trasformazione. Troni edificati con cure ed arti
ridotte per diciassette anni a sistema e forti d'armi, d'ingegno
pervertito e di corruttela, rovesciati in un subito: principi nati e
cresciuti tiranni frementi un tempo alla sola idea di progresso,
conceditori a un tratto di libertà e vogliosi d'affratellamento
cogli uomini devoti pochi anni prima al palco o all'esilio: un papa,
successore a Gregorio XVI, acclamato dai popoli banditore
d'emancipazione, apostolo della democrazia del Vangelo: il diritto
che dal trattato di Vestfalia in poi regolava la vita internazionale
dei popoli lacerato a brani, in una terra e provvidenzialmente,
dagli oppressori, in un'altra dagli oppressi; e nazioni nuove
accennanti sorgere, razze mute finora nella storia ch'oggi si
raccolgono e si apprestano a proferire la loro parola, classi
intere, e le più numerose, trattate finora con disprezzo o terrore,
chiamate, dall'arcana potenza educatrice dell'umanità, ad atti
meravigliosi di potenza e virtù, a coscienza imprevista di missione
comune, di fratellanza d'eguali coll'altre classi; questo per
l'Europa; - e qui in Italia, un popolo che si leva gigante da un
sonno di secoli; un forte esercito straniero accampato da lunghi
anni nelle nostre città, nelle nostre fortezze, nelle posizioni più
difficili a vincersi, côlto di terrore dal suono a stormo delle
nostre campane, fuggente davanti al berretto di giovani volontari,
ricacciato in sulle prime fin quasi all'Alpi da insurrezione di
cittadini; un grido unanime d'Italia e di libertà, là dove la statua
d'Italia era velata e non poteva insegnarsi libertà che dai pochi e
a prezzo di sangue; un anelito al confondersi in uno, al riviver
fratelli, là dove l'ultima parola libera era stata parola di guerra,
e il mondo diceva: non rivivranno più mai perchè non sanno amarsi
l'un l'altro. È spettacolo grande e degno di Dio; spettacolo
profetico della sua vita, che sommove in oggi le moltitudini, come
l'alito dell'alba sommove l'addormentata campagna e le inonderà tra
non molto d'una nuova immensa potenza e d'un nuovo amore, come il
sole inonda, abbraccia la natura, ridesta di luce e calore. A
nessuno, qualunque sia l'ostacolo ch'egli incontra, è lecito
sconfortarsi senza ateismo. A nessuno, qualunque sia l'apparenza
delle cose che gli suggerisce un'opinione o giudizio, è lecito far
altro che presentir l'avvenire e dirlo fraternamente. Soccorrimi, o
Dio, mormora l'abitatore delle spiaggie della Brettagna: Il mare è
sì vasto e la mia nave è sì piccola! E noi siam tutti simili
all'abitatore della Brettagna. Vasto è il mare d'un popolo che si
ricrea a nuova vita: infiniti, incerti sono gli orizzonti che si
rivelano successivi a chi rivive con esso, e l'intelletto,
alimentato, spronato, determinato ne' suoi giudizî dai fatti
dell'oggi, è sì piccola cosa!
L'intelletto suscitato dalle speranze e dai timori dell'oggi, è in
una fase transitoria come il mondo che gli s'agita intorno e su cui
si esercita: e vorremmo ricordarlo a quanti nostri fratelli parlano
o scrivono intorno a' destini politici del paese. Noi non siamo in
tempi normali. Ogni giorno rivela un nuovo elemento d'azione, una
facoltà, una tendenza che ci era ignota. Ogni giorno sospinge
innanzi d'un passo il nostro popolo; e i passi d'un popolo sono i
passi del Nettuno omerico. In tempi siffatti, sopra un terreno
vulcanico,davanti a un popolo inteso in sobbollimento d'affetti, di
voti, d'aspirazioni, d'istinti, l'assoluto nelle opinioni è
gravissimo errore, l'intolleranza una colpa, colpa, diciamo, non
verso gl'individui, che poco importa, ma verso l'avvenire, verso i
fati non decisi della nazione. Il pensiero è sacro. Forse nell'idea,
ch'oggi vi sembra falsa e nocevole, cova il futuro sviluppo della
patria comune. Noi tutti tendiamo verso lo stesso fine, adoriamo lo
stesso ideale: differiamo sui mezzi. Noi crediamo che l'Italia una
non potrà sorgere che all'ombra della bandiera repubblicana
ondeggiante dall'alto della città ch'ebbe il Campidoglio ed ha il
Vaticano; altri crede che a raggiungersi l'unità debbano costituirsi
prima cinque Italie, poi quattro, poi tre, sino a fusione assoluta;
altri che il sistema federativo sia preferibile all'unità.
Discutiamo: illuminiamoci: fermi ed aperti intorno a pochi principî
conquistati dal lavoro dei secoli e impiantati nella coscienza
dell'umanità; tolleranti e modesti quanto ai disegni architettati su
quello che noi chiamiamo fatti e non è forse che apparenza di fatti:
tolleranti e modesti ogni qual volta noi non abbiamo fondamento ai
disegni convinzioni perenni, ma solamente calcoli di opportunità e
concessioni a necessità transitorie che il domani forse cancellerà.
Le nazioni si fondano sull'eterno, pe' principî, pel vero. Ai
credenti nell'eterno, nei principî, nel vero, spetta, nei grandi
periodi di trasformazione, più assai parte d'iniziativa che non agli
uomini del reale, del possibile, dei fatti, come oggi sono.
Ricordatevi che Cesare Balbo aspettava l'emancipazione italiana
dallo smembramento dell'impero turco: - che Massimo d'Azeglio
dichiarava impossibile a un papa l'esser buono efficacemente; -
ch'altri predicava il progresso italiano non potere che scendere
dall'alto, e l'insurrezione, l'iniziativa sgorganti dalle viscere
del popolo, esser cosa funestissima, rovinosa. E Dio e il popolo
creavano Pio IX; e l'insurrezione di Sicilia conquistava libertà di
Statuti a tutta l'Italia: e le barricate di Milano scioglievano,
senza il beneplacito dell'Oriente, la questione d'indipendenza. Ah!
ben altri segreti di forza e d'azione fremono nel core di questo
popolo che non i calcolati dagli uomini del possibile e delle cinque
Italie!
Ma intanto, e mentre noi tutti discuteremo fraternamente sui mezzi,
sulle vie da scegliersi, esiste una sfera superiore alla quale è
necessario che la stampa periodica s'inalzi, o, ripetiamo, rinneghi
ogni potenza d'iniziativa. Il problema che s'agita è problema
d'educazione; gli scrittori politici hanno ad essere educatori, e un
giornale deve essere un atto di sacerdozio, un'opera d'apostolato.
Noi non combattiamo solamente per l'impianto d'un sistema o d'un
altro: combattiamo perchè gli uomini, e gl'Italiani, segnatamente,
migliorino, perchè imparino più sempre ad amarsi, perchè vie meglio
corrispondano, facendo sempre più potente e diffondendo al maggior
numero possibile l'associazione, il patto fra gli eguali, al disegno
della provvidenza; perchè crescano in intelletto, in attività
progressiva verso il fine che Dio prefisse all'umanità. Le
istituzioni che noi cerchiamo son mezzi d'educazione, non altro. E
questa educazione morale che le istituzioni, quando che sia,
compieranno, noi possiamo e dobbiamo iniziarla fin d'ora. Noi
dobbiamo rannodare cielo e terra; religione e politica. Dalla sfera
secondaria nella quale le ricerche e le discussioni sfumano pur
troppo sovente in querele di partiti avidi del trionfo d'un giorno,
dobbiamo salire, quante più volte possiamo e perch'altri vi salga
con noi, alla più sublime, dove vivono e s'inculcano la fede in Dio,
nell'umanità e nella patria; la soggezione alla legge morale che
guida i fati del mondo; la riverenza al popolo, non perchè forte di
cifra potente inevitabile, ma perchè riassumendo in sè tutte quante
le facoltà di religione, di politica, d'industria e di arte largite
all'umana natura ma disperse sugli individui, e solo interprete
progressivo di questa legge: alla sfera insomma dei principî,
comunque immediata o remota possa esserne l'applicazione. Dobbiamo
fondar la politica sulla definizione della vita sulla missione della
creatura quaggiù, sulla credenza di dovere e di sacrificio che solo
fa santa la politica, sola può avviare a un'armonia permanente
d'affetti e d'azioni le moltitudini. Dobbiamo ritemprare,
riconsecrare a grandi pensieri, a forti fatti, l'uomo ineducato per
ineguaglianza di sorti, corrotto dall'arti della tirannide, avvezzo
alla diffidenza, alle cieche subite reazioni. Dobbiamo insegnargli
l'umanità ch'egli ignora, per la quale egli sta, ne' suoi atti,
mallevadore, lavoratore nell'opificio speciale che Dio gli
assegnava, la patria. E per questo dobbiamo mostrargli in noi gli
uomini: gli uomini ch'egli cerca e, trovati, venera, lontani dalle
esagerazioni, dai tristi sospetti e dalle stolide adorazioni,
cercatori unicamente del vero e devoti a rappresentarne il culto
negli atti pratici della vita. Gli uomini sono i libri del popolo;
la parola vivente ch'ei cerca e segue. Un uomo uno nell'idea e
nell'azione, del quale nessuno possa dire: l'opere vostre non
consuonano co' vostri detti, è più potente di mille volumi sopra una
nazione che si rigenera.
E base, principio sommo di questa opera educatrice a cui noi
invitiamo i nostri fratelli della stampa politica, è la santità,
l'inviolabilità del pensiero. È il nostro palladio; e noi ne siamo
custodi. Ognuno di noi qualunque sia l'opinione particolare alla
quale appartiene, dovrebbe farsi mallevadore per tutti della libertà
del pensiero. Ognuno di noi, repubblicano, monarchico, unitario o
federalista, dovrebbe stringersi agli altri come a fratelli su
questo terreno comune.
Noi facciamo a' nostri colleghi proposta formale in nome della
inviolabilità del pensiero, d'un'associazione diretta a tutelarne,
qualunque sia l'avvenire, la libertà: d'un'associazione che
s'opponga, in ogni caso d'arbitrio e di tirannia, colla voce di
tutti, coi mezzi di tutti, a qualunque violazione, a qualunque
ingiusta limitazione ne fosse in avvenire tentata. Se la proposta
verrà accettata, noi ne sminuzzeremo le condizioni, e un'assemblea,
composta d'un delegato per ogni giornale, le giudicherà.
Il primo atto collettivo del giornalismo ne fonderà a un tempo la
moralità e la potenza. In noi sta oggi l'espressione molteplice
della coscienza italiana. È deposito sacro; e dovremmo vegliarvi
sopra, come i Leviti vegliavano sull'Arca del Patto.
AI GIOVANI.
RICORDI
La linea retta è la più breve
fra due punti dati. -
Euclide.
I.
Sono nella vita dei popoli, come in quella degli individui, momenti
solenni, supremi, nei quali si decidono le sorti di un lungo
avvenire, quando tra due vie schiuse al moto, fra due insegnamenti,
tra due principî diversi, la nazione oscilla incerta nella scelta e
cerca una norma alla propria azione. Allora ogni uomo ha diritto di
chiedere all'altro: in che credi? E a ogni uomo corre debito di
rispondere: questa è la mia fede; su questa giudicherete l'opera
mia. Allora, i pessimi sono i tiepidi: gli uomini che per povertà di
core e grettezza di mente tentennano fra le due vie, rifuggono
codardamente dall'armonizzare gli atti alla fede e s'illudono o
cercano illudere le moltitudini a un concetto d'accordo impossibile
fra i due principî. I tristi si giovano di costoro per pascere di
speranze protratte i desiderosi di cose nuove: i buoni si ritraggono
irritati e disperano: e l'occasione, come il ciuffo della fortuna,
sparisce per non tornare se non dopo un lungo volger di ruota, dopo
lunghi anni di nuovi dolori, di nuove delusioni e sciagure.
L'Italia è oggi in uno di questi momenti.
Il fermento è universale in Italia; ma senza intento determinato,
senza unità di credenza intorno alla via da tenersi, prorompe in
sommosse senza nome e senza frutto, non promove di un passo la causa
della nazione. L'accordo tra governi e governati è cessato; ma il
principio intorno a cui i governati devono raccogliersi non è
francamente, apertamente bandito. Il popolo, ove durasse anche per
poco in sì fatto stato, cadrebbe rapidamente dall'anarchia morale in
una diffidenza profonda di cose e d'uomini, e da quella nel sonno
d'inerzia onde esciva poc'anzi. E quel sonno, per un popolo che
viaggia in cerca di nuovi destini, è la morte: il sonno del
viandante tra le nevi dell'Alpi, al quale è mal fido amico chi non
lo scuote e non gli grida all'orecchio: Cammina innanzi o perisci.
II.
Cammina innanzi o perisci! È tempo di dire al popolo, a una gioventù
buona ma traviata pur troppo dai faccendieri politici, tutta e nuda
la verità. Da due anni s'è speso in Italia oro, entusiasmo, sangue,
tanto quanto basterebbe a crear due nazioni, non una; e ci troviamo
a un dipresso là d'onde partimmo. Il grido di patria, libertà,
indipendenza, suonò da un capo all'altro della terra italiana:
grido, ruggito di moltitudini potenti, volenti, non di pochi devoti
al martirio. In Sicilia, in Bologna, nelle città lombarde, in
Venezia, il popolo imparò subitamente, sotto l'impulso d'una grande
idea, a combattere, a vincere, a disfare eserciti. Bandita dal
popolo la guerra all'Austria, cinque giorni videro ridotti in tre
fortezze i dominî dello straniero; videro nostro il Lombardo-Veneto;
videro la bandiera tricolore italiana sventolare, acclamata, fin nel
Tirolo. Settanta mila soldati agguerriti, se non per battaglie, per
lunga disciplina, tennero il campo contro l'austriaco; e intorno ad
essi era il fiore della gioventù italiana, era il fremito delle
popolazioni ebbre di vittoria e di belle speranze. E tutto questo è
sparito; l'Austriaco insolentisce per le vie di Milano: migliaja
d'esuli lombardo-veneti ramingano su terre straniere: l'Europa che
plaudiva, pochi mesi or sono, attonita al nostro risorgere,
ricomincia a schernirci queruli, codardi, impotenti. Come avvenne?
Come tornarono a un tratto in nulla le quasi adempite speranze? Gli
uni accusano le colpe o gli errori militari dei capi; gli altri i
dissidî, le diffidenze, l'ignavia di chi seguiva - i repubblicani,
che dopo aver dato il segno delle barricate cittadine, tacquero e si
confusero nei ranghi de' combattenti - la forza prepotente d'un
esercito che la campana a stormo avea dato alla fuga - i gesuiti,
cadavere galvanizzato d'una sêtta che, perduto genio, appoggio di
credenza e tesori, affogherebbe sotto il disprezzo se gli uomini
d'oggi sapessero disprezzare. E molte di queste cagioni e più altre
sono vere; ma tutte secondarie, occasionali, insufficienti a
generare la rovina d'un popolo insorto. Superiore a tutte, e
sorgente prima di tutte, sta quest'una che molti hanno in core e
nessuno s'attenta dir chiaramente: che le Nazioni non si rigenerano
colla menzogna; che un popolo schiavo da secoli di poteri guasti,
corruttori per indole e necessità, ligi dello straniero, avversi a
tutte sublimi credenze, sospettosi d'ogni sviluppo d'intelletto
libero, incerti del presente e tremanti dell'avvenire, non sorge a
nazione, se non rovesciando quei poteri-fantasmi, traendo dall'ime
viscere il segreto della propria vita, levandosi nell'orgoglio delle
sue tradizioni e nella potenza d'una grande idea, e dichiarando non
volere riconoscere che un solo padrone nel cielo, Dio padre ed
educatore, una sola norma d'attività sulla terra, la verità ch'è
l'ombra di Dio.
III.
Voi avete, o Italiani, tradito quest'unica norma e sagrificato -
poco monta se a tempo o per sempre - la vostra coscienza a una
illusione di forza. Ogni linea della vostra storia v'additava, da
quando cessaste di reggervi a popolo, una colpa o una imbecillità di
regnanti; ogni sillaba de' vostri grandi v'insegnava, santificata
dal martirio, una fede che fa interprete il popolo del pensiero di
Dio; ogni esperimento vostro ed altrui negli ultimi sessant'anni
v'era documento splendido, irrecusabile, che ogni libertà
d'individuo o nazione si conquista per virtù propria, non per
artificio di diplomazia e concessioni di principi; e nondimeno, non
sì tosto il terrore della rivelata vostra potenza ebbe condotto i
vostri padroni a balbettare pochi accenti di libertà menzognere e
d'ipocrite leghe, voi cancellaste, miseramente affascinati dalla
speranza di menomarvi i pericoli della via, ricordi storici,
ispirazioni di grandi, giuramenti, e riverenza a chi pativa e moriva
per voi: piegaste il ginocchio davanti a tutti poteri, e diceste:
non da Dio, ma da voi. E non eravate credenti. Il vostro labbro
accattava a lodarli pompa di frasi ne' retori delle età corrotte; la
vostra mano scriveva oltraggi e condanna a quei tra vostri
concittadini che serbavano intatta la santità del loro proposito e
la dignità severa del nome italiano; e nell'anima vostra vigilavano
il disprezzo e la diffidenza degli uomini salutati rigeneratori; e
mormoravate sommessamente - ma non tanto che essi, quegli uomini,
non v'udissero - poi che ci saremo giovati d'essi e dei loro
battaglioni e della loro influenza, noi li infrangeremo, come gli
Israeliti facevano dei loro idoli: essi hanno infranto voi, e
meritamente. Così, rimpicciolita, ringrettita la divina verità per
entro le vie tortuose di quella che oggi chiamano politica e non è
che parodia di politica, ideaste di cogliere il più alto premio che
Dio conceda ad un popolo, l'unità nazionale, senza meritarlo colla
dignità dell'animo, colla rettitudine del pensiero, colla serena
franchezza degli atti e della parola. Dovevate procedere colla spada
in una mano e col vangelo nell'altra, in nome dei vostri diritti e
della vostra missione, in nome del lungo vostro martirio e della
potenza di vita che freme più che altrove in questa sacra terra
d'Italia; e procedeste invece col Machiavelli nella destra, cogli
statuti bastardi di re perpetuamente spergiuri nella sinistra.
Quelli statuti che voi disegnavate di romper più tardi vi
condannavano intanto a subire i raggiri di corti e diplomazie, a
servire capi sprezzati e perfidi o inetti, a frenare l'impeto,
sospetto ai principi, delle moltitudini, a violare l'indivisibilità
della bandiera italiana e inalzare un lembo all'adorazione, a velare
in nome dell'indipendenza la statua della libertà ch'è il Labaro
della vittoria. E voi subiste ad una ad una, fremendo impotenti,
combattendo senza pro, tremanti sempre d'insidie che potevate, e non
v'attentavate, vincere con una parola, tutte quelle fatalità,
travolgendovi d'errore in errore, di menzogna in menzogna, dietro a
faccendieri politici che vi sviavano con una larva di forza ordinata
dall'unica vera invincibile forza: l'insurrezione. Però cadeste; e
s'anche ora ricomincierete la guerra regia - ricordatevi ciò ch'io,
palpitando per ira e dolore, vi dico - cadrete.
IV.
Le Nazioni non si rigenerano colla menzogna. Machiavelli, che i
falsi profeti di libertà imitano da lungi e profanandone la
sapienza, veniva a tempi nei quali Chiesa, principato e stranieri
avevano spento un'epoca di vita italiana, e dopo aver tentato gli
estremi pericoli per la patria e subìto prigione e tormenti per
vedere se pur fosse modo di trarne scintilla d'azione, procedeva,
Dio solo sa con quali fraintesi inconfortati dolori,
all'autopsia(131) del cadavere, e segnarne le piaghe, a numerare i
vermi principeschi, cortigianeschi, preteschi che vi si agitavano
dentro, e offeriva quello spettacolo ai posteri migliori ch'ei
presentiva, come i padri spartani conducevano i giovanetti davanti
all'iloto briaco perchè imparassero a fuggire la vergogna
dell'intemperanza. E noi siamo all'alba d'un'epoca, commossi
dall'alito della vita novella; e che mai potremo attingere dalle
pagine di Machiavelli se non la conoscenza delle tattiche de'
malvagi a sfuggirle e deluderle? Io dico che i popoli si ritemprano
colla virtù, si rigenerano coll'amore, si fanno grandi e potenti
colla religione del vero, quando essi possono guardar securi dentro
l'occhio delle nazioni e della propria coscienza e dire: la nostra
vita è una santa battaglia, la nostra morte è quella dei martiri;
dico che la mortalità è l'anima delle grandi imprese, che l'inganno
efficace a corrompere, a smembrare, a inceppare, e buono ai padroni,
è impotente a muovere, a produrre, a creare, e riesce fatale ai
servi che intendono emanciparsi e rifarsi uomini; dico che per
quanto s'esamini studiosamente la tradizione storica della umanità,
nè un popolo ha conquistato indipendenza e unità di nazione, nè una
grande idea s'è incarnata, trionfando, nei fatti, nè un incremento
reale di potenza e di libera vita s'è aggiunto allo sviluppo di una
razza mortale per artificî machiavellici o reticenze gesuitiche. E
dico che per averlo tentato noi abbiamo sparso inutilmente lagrime e
sangue; e che fra tutte le pesti della misera Italia la più funesta
e la più vergognosa è questa degli intelletti dalle vie oblique, dei
machiavellucci d'anticamera e di consulte, degli uomini di Stato in
trentaduesimo ai quali, negli ultimi due anni, è toccato in sorte di
reggere la più bella, la più santa, la più grande impresa che fosse
dato tentare ad uomini, la liberazione d'un popolo schiavo da
secoli, la creazione d'una Italia, cioè d'una nazione che non può
sorgere senza che la carta d'Europa si muti, senza che l'umanità
s'indirizzi per nuove vie. Taluni fra coloro ai quali la linea retta
non par la più breve e che preferiscono il sistema monarchico misto
al repubblicano, per questo appunto che l'ultimo s'impianta sul
principio semplice e chiaro della sovranità popolare e il primo
sulla conciliazione dei tre inconciliabili elementi spettanti a tre
epoche diverse, monarchico, aristocratico e democratico,
sorrideranno. E sorridano, purch'io li disprezzi. Io so che la
potenza di tutta quanta la loro dottrina politica si libra fra un
armistizio Salasco e il dissolvimento d'un ministero Pinelli. La
questione italiana soggiorna in ben altra sfera: nella sfera de'
principî eterni, incancellabili, che assegnano a venticinque milioni
d'uomini affratellati da Dio nella gloria, nel dolore, nella
speranza, nelle tendenze, nella lingua, nella carezza dei canti
materni, nell'alito che vien dal cielo, nell'aspirazione che
s'inalza da una terra conterminata dall'Alpi e dal mare, una parte,
una missione speciale nel moto progressivo della umanità: nella
coscienza d'individui seguaci, a prezzo di vivo sangue del core,
della verità e impavidi a sostenerla avvenga che può: negli istinti
del popolo che non legge Machiavelli nè sa di ponderazione di poteri
e di siffatte dottissime cose, ma procede, come il genio, per
intuizione, sotto gli impulsi rapidi, concitati, impreveduti d'una
vita collettiva concentrata ad azione, virtuoso sempre quando opera
spontaneo e soddisfatto a scegliere tra il giusto e l'ingiusto, fra
la religione del vero e l'ateismo di una falsa scienza
inorpellatrice. Se la patria non è per noi una religione, io non
intendo che sia.
V.
E il popolo italiano, più grande e più logico dei suoi dottori, ha
sempre, lode a Dio, seguito la religione della patria e de'
principî, non l'idolatria dell'opportunità o delle finzioni legali.
Il nostro popolo cacciava il guanto di sfida all'Austria celebrando
co' fuochi delle montagne l'insurrezione genovese del 1746, quando
gli omiopatici della politica contendevano doversi vincere l'Austria
colle vie ferrate e coi congressi scientifici: cacciava il guanto di
sfida ai proprî governi colle sommosse, le manifestazioni di piazza,
e le irruzioni nei conventi gesuitici, quando il conte Balbo e
compagni insegnavano, nei dovuti limiti, il diritto delle supplici
petizioni. Il nostro popolo trapiantava la questione, insorgendo in
Sicilia, dall'arena delle riforme amministrative per concessione
principesca a quella degli statuti politici, ossia dei patti fra
cittadini e monarchi, quando i letterati che s'erano posti a capo
dell'impresa italiana rabbrividivano alla sola idea d'una collisione
violenta fra governanti e governati. Il nostro popolo inalzava
feroce il grido di guerra all'Austriaco di sulle barricate lombarde
e dalle lagune del Veneto, mentre gli uomini delle riforme, fatti
per forza di cose cospiratori, diplomatizzavano per una iniziativa
impossibile con re Carlo Alberto. E il nostro popolo griderà di bel
nuovo la santa guerra, quando i cospiratori, rifatti diplomatici per
cautela, andranno oltre sofisticando, come i Greci del basso-impero,
sui termini della mediazione, su leghe ideali di principi che
tremano l'uno dell'altro e tutti dei loro popoli, e sulle intenzioni
probabili o possibili d'un governo che maneggia per agenti a Vienna,
a Parigi, a Milano, la pace coll'Austria all'Adige e peggio: stolti
che ignorano non esservi pace possibile tra l'Italia e l'Austria,
dopo una insurrezione come quella del marzo, fuorchè segnata al di
là dell'Alpi, nè speranza di conquistarla fuorchè colla guerra,
abborrita dall'antiveggenza dei principi, che farà del paese un
vulcano, del popolo intero un esercito, della nazione affratellata
una coscienza di diritti inviolabili e di potenza.
VI.
L'Italia sembra in oggi ingombra di sêtte e di opinioni diverse,
repubblicane, monarchiche, unitarie, federalistiche, ed altre;
spettacolo doloroso, non insolito o fatale com'altri vorrebbe. A un
popolo che versa in uno di quei momenti supremi che accennai
cominciando, le forme del vero appajono sempre molte e distorte. Fra
una tomba e una culla sta l'infinito. E noi balziamo a un tratto,
come ogni popolo chiamato da Dio a grandi cose, dalla sepoltura
d'un'epoca spenta al limitare d'un'altra nascente appena, che
aspetta forse la prima parola da noi. Ma a chi ben guarda entro a
questo caos foriero di una creazione, due soli partiti esistono: il
partito che crede nel moto dall'alto al basso, e quello che intende
la vita italiana non poter salire oggi mai che dalle viscere del
paese alle sue sommità, dalla base della piramide al vertice: il
principesco e il popolare: il partito moderato e il nazionale.
VII.
La fazione protea che s'andò intitolando, a seconda dei casi, dei
moderati, dei riformisti, dei pratici, degli uomini
dell'opportunità, e che io chiamerei fazione delle torpedini, dopo
avere iniziato la propria carriera ajutando, fra il 1814 e il 1815,
l'Austria a impadronirsi della Lombardia, e strisciato di tempo in
tempo, ad ogni sciagura che feriva il principio d'azione, tra le
nostre cospirazioni, sorse, quando appunto morivano i Bandiera per
la fede repubblicana dell'unità nazionale, e dichiarò che bisognava
conquistare non il governo, ma i governi d'Italia. Era il vecchio
programma di federalismo monarchico del 1820 e 21, accresciuto da un
ingegno, potente ma traviato, di una formola di filosofia
religioso-politica, e peggiorato di tanto quanto il vecchio
consecrava implicito nel fatto dell'insurrezione il diritto di
sovranità popolare, e la nuova edizione, richiamandosi unicamente
alle concessioni dei principi, lo cancellava. Pur nondimeno, dacchè
trovò fautori quanti, per fiacchezza d'animo o di principî,
disperavano di salvare il paese per altre vie - quanti per
mediocrità d'intelletto, si cacciano corrivi dietro ad ogni sistema
che trovi un ingegno facile a svilupparlo in molti e grossi volumi -
quanti affascinati dalle guerre parlamentarie di quel periodo
francese che fu chiamato meritamente la commedia dei quindici anni,
erano presti a creder parte d'ingegno raffinato e sottile
l'immoralità politica - quanti vagheggiavano opportunità di parere
agitatori patrioti senza gravi pericoli - e quanti, per concetto
falsato o calcoli d'egoismo o terrore delle stranezze che allignano,
come in ogni parte, anche nella democratica, abborrono dal simbolo
popolare - crebbe rapidamente in vigore, e, come avviene d'ogni
sêtta potente per numero, giovò a suscitare le menti che
intorpidivano nel silenzio, e schiuse, con un mezzo gergo di
libertà, l'arena alle discussioni politiche confinate fino allora
nel cerchio delle associazioni segrete o della stampa clandestina e
vietata. Sorse, per disegno di provvidenza non avvertito finora e
sul quale or non importa fermarsi, un papa di buone tendenze, di non
forte intelletto, tentennante per natura, ma tenero di plauso
popolare e voglioso di essere amato anzichè temuto dai sudditi: e i
moderati, taluni, ch'io stimo ed amo, stanchi del vuoto e lieti del
subito apparente affratellamento della religione colla politica, i
più non credenti e ipocriti di cattolicismo com'erano di
monarchismo, s'affrettarono a farne lor pro; inalzarono al valore di
programma politico e nazionale un atto di clemenza locale reso
inevitabile dalla condizione degli Stati romani, praticato quasi ad
ogni mutamento di principe e dettato in termini poco onorevoli a chi
largiva e a chi riceveva; idearono intenzioni recondite, crearono
aneddoti, magnificarono, illusero, e trascinarono, tra il voglioso e
l'attonito, il pontefice accarezzato, adulato, assordato d'evviva,
sino allo schiudersi d'una via ch'ei non voleva, nè sapeva, nè
poteva correre intera. Risorgeva dall'altro lato, forse per sospetto
o gelosia di quell'uno, ad apparenze di liberalismo, un principe
roso dall'ambizione, da terrori di gesuiti e di uomini liberi, da
ricordi di sangue e da concetti perpetuamente intravveduti e
smarriti, ed essi, a prepararsi un appoggio sul principio ghibellino
dove il guelfo mancasse, lo ricinsero alla sua volta di lodi non
sentite, di promesse, di seduzioni; lo bandirono iniziatore d'un'êra
d'incivilimento italiano, e convertirono sfrontatamente ogni
riformuccia strappata non dalle loro adulazioni, ma dal fremito
popolare, in un passo gigantesco verso l'adempimento d'una idea
ch'egli per debito e pietà di sè stesso avrebbe dovuto incarnare tre
lustri innanzi, che gli era stata affacciata e ch'egli aveva
ricacciato lungi da sè con dispetto e paura. Altri piaggiava al gran
duca; altri - Dio perdoni i codardi - al Borbone di Napoli: taluni
insinuavano che un po' di opposizione legale e pacifica avrebbe
ridotto il padrone a sensi di padre nel Lombardo-Veneto, e che
l'Austria avrebbe reso comportabile il dominio usurpato, fino al
giorno, vaticinato dal conte Balbo, in cui la cessione di qualche
terra ottomana avrebbe quetamente emancipato l'Italia dal teutono.
Vergogna eterna d'uomini profanatori del concetto italiano, ed anche
di voi, o giovani, che vi lasciaste allettare da quelle vocine
d'eunuchi: se non che voi lavaste la colpa nelle battaglie del marzo
e laverete, ho fede, i più recenti errori con altre battaglie: essi
durarono e durarono incorreggibili. Io non credo s'udisse mai
linguaggio stampato di tanta bassezza, di tanta stolida adulazione
in bocca di gente che dicevasi libera e pretendeva far libero
altrui(132). Bastava esser principe per essere battezzato
rigeneratore: cinger corona perchè fosse in serbo nel capo che la
portava una parte d'iniziativa nei fati dell'Italia redenta; e tutte
quelle corone, abbominate pochi dì prima e grondanti ancora di
pianto di madri e sangue di martiri, dovevano congiungersi,
ordinarsi a piramide sotto il triregno, splendide di novello
incivilimento all'Europa; e leghe, diete anfizioniche, primati
intellettuali e civili scaturivano, ogni giorno, come sogni
d'infermo, dalle penne dei novellatori della fazione. I buoni si
coprivano per rossore la faccia e ringraziavano Iddio perchè la
lingua italiana, scaduta colla monarchia, sia in oggi men nota che
non nel passato alle nazioni straniere. I tristi, che facean coda al
partito e invadevano il giornalismo, incensavano i capi,
sistematizzavano in menzogna periodica ciò che in parecchi de' primi
non era se non tranquilla utopia, insolentivano con quei che
sprezzavan tacendo, e rinegando ogni pudore di cittadini, chiedevano
arrogantemente agli uomini che avevano, nelle associazioni segrete,
serbata intatta la tradizione del pensiero italiano: che avete voi
fatto?
VIII.
Che avete voi fatto? - Ah! se da una di quelle sepolture che gli
Italiani cospargevano pochi anni innanzi, benedicendo e sperando, di
fiori, avesse potuto sorgere Menotti, Attilio Bandiera, Anacarsi
Nardi, un di quei tanti che posero rassegnatamente la vita sotto la
mannaja del carnefice per la salute d'Italia, egli avrebbe risposto
per tutti: «Ingrati! noi abbiamo, colle fatiche e col sangue,
educato la bella pianta intorno alla quale voi strisciate in oggi,
come il verme intorno alla rosa. Abbiamo, dopo il 1814 quando voi,
moderati, tradivate le speranze dell'esercito italiano fremente di
dover cacciar nel fango a' piedi dell'Austria le memorie di venti
battaglie, preparato, noi, uomini del partito nazionale nelle nostre
vendite e sotto leggi di morte, la protesta solenne del 1820 e 21,
che prima rivelò all'Europa il voto italiano e avrebbe più fatto se
inframmettendovi nelle nostre file voi non aveste sottoposto l'esito
dell'impresa alla diserzione d'un principe. Abbiamo, nel 1831,
provato all'Italia e all'Europa che una bandiera nazionale spiegata
al vento in Bologna si trascinava dietro colla rapidità
dell'annunzio trasmesso a tutte quante le popolazioni del centro
della penisola, senza che in una terra, solcata con lungo studio di
corruttele sacerdotali e di masnadieri assoldati, una sola voce
s'alzasse(133) in favore dell'autorità minacciata del vecchio papa.
E quando voi, saliti per bontà inesperta de' giovani, al governo
dell'insurrezione, la perdeste codardamente, dichiarando che non si
doveva nè si poteva combattere se non coll'armi straniere, noi
raccogliemmo devoti nelle nostre congreghe il pensiero abbandonato
in Ancona, vincemmo, insistenti, lo sconforto che s'era insignorito
degli animi, e lo riconvertimmo operosi in fremito di minaccia.
Così, noi col morire e i nostri fratelli per lunga vita affannata di
persecuzioni, delusioni e calunnie, pur devota a un'unica o santa
idea, conservammo ai giovani, suprema fra tutte virtù, la costanza,
facemmo caro e onorato il nome d'Italia, tra gli stranieri, traemmo
dai moti locali, legando in uno uomini di tutte le parti del bel
paese, l'aspirazione all'unità, il culto della patria comune;
confortammo di principî inconcussi gli istinti generosi che
affaticavano le moltitudini, sollevando, noi primi, quella bandiera
di pubblicità che rivendicate, predicando a tutti che dovessero
essere a un tempo cospiratori ed apostoli. Senza noi, senza le
nostre agitazioni del 1843, senza il nostro martirio, voi non
avreste avuto un papa che intese, comunque per brevi giorni, unica
speranza di vita riposata, per lui essere oggimai il dare o
promettere soddisfazione a' bisogni dei sudditi. Senza noi, senza la
continua nostra minaccia di peggio ai governi, voi non avreste oggi
la libertà omiopatica che vi concede insultarci e che non è, voi lo
sapete, se non concessione. Voi tacevate quando i nostri morivano.
Sorgeste, come pianta parassitica all'albero della libertà,
sull'opera nostra. La nostra lotta ha data dal 1814, dal giorno in
che l'Austria rimise piede su terra lombarda; e voi v'ordinaste a
partito tre anni sono quando appunto il nostro lavoro e i tentativi
provocati da noi vi dimostrarono che l'opinione nazionale era, in
Italia, giunta sino ad esser potenza e v'illusero a credere che
quella opinione potesse - voi direste salire, - io dirò scendere
sino al core d'un re.»
IX.
Queste cose e ben altre noi avremmo potuto rispondere agli
accusatori imprudenti: noi potevamo provare ch'essi, non tutti ma
pressochè tutti, mentivano egualmente ai principi e ai popoli. Ma
che importava a noi della nostra e della loro meschina persona?
Profondamente convinti che senza moralità politica non si rigenera
un popolo, potevamo forse ingannarci nell'altra nostra credenza che
nè papa nè re potesse oggimai dar salute all'Italia; e tanto bastava
perchè tacessimo. Tacemmo dunque. Il tempo maturava ben altra
risposta che quella che avremmo potuto dar noi.
X.
Ogni giorno dava una mentita all'utopia monarchico-costituzionale
dei moderati. La repubblica, non desiderata, impossibile, dicevano,
nelle presenti condizioni d'Europa, sorgeva in Francia e vinceva. I
principi che dovevano, in Italia, rifarci l'età dell'oro,
indietreggiavano. Le leghe annunziate come imminenti dai politici
d'anticamera non si stringevano. Il papa rigeneratore del mondo non
s'attentava di rigenerare la curia di Roma, s'irritava delle
esigenze modestissime de' suoi lodatori, dichiarava di non voler
detrarre un menomo che dall'autorità irresponsabile degli
antecessori, lasciava che corresse nella Svizzera sangue di
cittadini per mano di cittadini anzichè proferire il richiamo de'
gesuiti. La questione di libertà si scioglieva in Sicilia coll'armi;
e poi che rappresentanza italiana non esisteva nè poteva esistere
dove i monarchi erano dichiarati tutti intangibili, l'isola si
separava dal regno. La Toscana e il Piemonte inoltravano sulla via;
ma a balzi, per virtù di sommosse, per moto popolare dal basso
all'alto. E la questione lombarda sorgeva ogni giorno più
minacciosa, più urgente a chiedere soluzione non di parole, ma
d'armi. Armi regie o di popolo? I moderati, da pochi in fuori che
antivedevano e predicavano - anche coll'Austria! - l'opposizione
legale, sentirono che a salvare la causa del progresso regio in
Italia, era indispensabile che la monarchia si facesse iniziatrice
d'emancipazione nazionale, e decretarono Carlo Alberto spada
d'Italia e liberatore magnanimo del Lombardo-Veneto. I capi
dell'aristocrazia lombarda vecchia e nuova s'unirono co' faccendieri
di Piemonte, perchè s'avverasse il decreto, da un lato a impedire
che il fremito della gente lombarda non prorompesse in azione,
dall'altro a spingere con messi, segretari intimi, offerte e
promesse, il re all'invasione. A vederli, a udirli in que' tempi e
pensare che agenti e raggiri siffatti provvedevano, nella mente dei
più, a fare che una Italia libera fosse, correva il pensiero a uno
sciame d'insetti brulicanti fra' velli della criniera del leone.
XI.
Il leone, il popolo, si scosse e ruggì. Ruggì spontaneo, fidando
nella propria potenza. E il ruggito fu tale che gli Austriaci
impauriti, tremanti, s'appiattarono nelle fortezze. La vittoria era
consumata, quando Carlo Alberto, per non balzare dal trono, varcò il
Ticino. E dietro a lui, per non perdere l'utopia, lo sciame dei
moderati.
Ricordo il dolore ch'io m'ebbi quando, palpitante ancora per
entusiasmo e per gioja sui fatti lombardi, lessi in un giornale il
proclama all'esercito del re Carlo Alberto. E quel dolore non era,
io lo giuro sull'anima mia, dolore di repubblicano tenace o d'uomo
che non dimentica: io non pensava in quei giorni che alla questione
vitale dell'indipendenza e avrei abbracciato il mio più mortale
nemico purchè avesse ajutato l'Italia a ricacciar l'Austriaco oltre
l'Alpi: era dolore d'uomo educato dalla sventura che presentiva la
delusione, la guerra regia sostituita alla guerra del popolo,
l'ambizione irrequieta, impotente d'un individuo all'impeto di
sagrificio dei millioni, l'inettezza d'una decrepita aristocrazia ai
nobili fecondi impulsi dei giovani popolani, la diffidenza, la briga
- tutto, fuorchè il tradimento - alla fratellanza santissima
nell'intento, alla semplice diritta logica dell'insurrezione. E quel
fiero presentimento non mi lasciò mai; onde io m'ebbi a provare
l'estremo e il più forte fra tutti i dolori, quello di sentirmi,
dopo diciassette anni d'esilio, esule sulla terra materna. E
nondimeno io giurai allora tacermi e mantenermi, finchè vivesse
speranza di buona fede, neutro fra la parte regia e quella dei miei
fratelli repubblicani, per non meritarmi rimprovero, - non dagli
uomini che non curo - ma dalla coscienza, d'aver nociuto per
credenze e antiveggenze mie individuali alla concordia e alla
patria. Io attenni il mio giuramento, e mi seguirono - forse fu
danno - su quella via i più fra i repubblicani.
Oh se Carlo Alberto avesse avuto, se non virtù, l'ingegno almeno
dell'ambizione! Se gli inetti che lo seguirono o lo precedevano
avessero potuto intendere(134) che la miglior via per ottenere una
corona era quella - non di carpirla - ma di vincere e meritarla! Se
i moderati chiamati a reggere in Milano le sorti dell'insurrezione
avessero amato, se non la libertà, merce arcana per l'anime loro,
l'indipendenza almeno e la gloria delle terre lombarde, e inteso che
la riconoscenza dei generosi si conquista mostrando e ispirando
fiducia, e cercato il trionfo del loro signore per le sole vie
dell'onore! Mantenendo inviolato sino al finir della guerra quel
programma di neutralità politica ch'essi avevano più volte
solennemente giurato - stringendosi intorno con vera sentita fede
gli uomini di parte diversa - suscitando più sempre, in appoggio e
d'ogni intorno all'esercito sardo, la guerra del popolo - trattando
il re come alleato e non come arbitro supremo della rivoluzione
lombarda - sollecitando l'ajuto, non dei principi, ma dei popoli di
tutta Italia - promovendo con tutti i mezzi la formazione di legioni
di volontarî scelti - accogliendo, invitando, ad emulazione e pegno
di fratellanza, volontarî pur dalla Svizzera, dalla Francia, da
tutte parti - chiamando con rapidi messi, e collocando giusta il
merito quei molti fra gli esuli nostri che avevano militato con
onore del nome italiano nella Spagna, in Grecia, in America -
spingendo, sollecitamente armata e guidata da essi, la gioventù fin
oltre il Tirolo italiano, a rompere in urto le stolte pretese della
Confederazione Germanica, e creare la necessità della presto o tardi
inevitabile guerra europea, procacciandosi gli ajuti fraterni di
Francia, non al di qua dell'Alpi, ma al di là del Reno - essi
avrebbero salvato il paese dagli orrori e dalla vergogna d'una
seconda invasione, meritato, quand'anche per le intenzioni non la
meritassero, fama tra i posteri d'uomini liberi, e fondato sulla
cieca immemore riconoscenza del popolo - non dirò la dinastia,
perchè a nessuna forza è dato oggimai fondar dinastie, - ma il trono
del vagheggiato loro padrone. A noi, se fosse spiaciuto il vivere
sotto un governo ineguale ai fati italiani, non sarebbe incresciuto
il ripigliar la via dell'esilio, ma non com'ora, col dolore di non
aver potuto, nè parlando, nè tacendo, giovare alla causa della
nazione.
Non eran da tanto; e forse meglio così: il popolo d'Italia dovrà
quando che sia la propria salute a sè stesso. Erette ancora le
barricate del marzo, davanti al fremito di tutta Italia, davanti al
plauso e all'incitamento di tutta Europa, i moderati inventarono...
il regno italico settentrionale e la fusione per via di muti
registri!
Il dire come, conseguenza di quel meschino raggiro sostituito al
grande, splendido concetto italiano che viveva nell'anima dei
giovani in Lombardia, per inettezza dapprima, per tradimento dettato
dalla paura dappoi, rovinassero le cose lombardo-venete, non è qui
mio istituto. Dirò bensì che per oscena sfrontatezza di piccole mene
adoperate a carpire i voti per la fusione, per accanimento di
calunnie e vilissime personalità seminate, parlate, stampate pei
muri contro chi anche tacendo non assentiva, per incapacità
portentosa, per imprevidenza da un lato e raggiro astuto dall'altro,
io non so di partito che siasi sceso mai così in fondo. A ritrarne
le fattezze in quel breve periodo del maggio, converrebbe allo
storico intinger la penna nel fango; se non che la storia tacerà di
quelli uomiciattoli. I buoni erano; ma i più sprovveduti di forti
credenze e d'energia per combattere: taluni dispettosi per altezza
d'animo e spronati dalla natura a ravvolgersi, come Peto Trasea,
quando uscì dal corrotto senato colla testa nel manto, anzichè
contendere di palmo in palmo il terreno. I repubblicani, anche quei
tra loro che s'erano subito dopo l'insurrezione costituiti in
associazione, fino al 12 maggio tacevano. Il 13 protestarono
dignitosi dichiarando a ogni modo non volersi fare promotori di
risse civili; poi disperando per allora d'ogni rimedio e convinti
che bisognava lasciare si consumasse l'esperimento, si contentavano
di registrare nell'Italia del Popolo le promesse tradite e i
vaticinî dell'imminente futuro di linea in linea avverati. La è
storia questa che nè calunnia di giornalisti, nè altro, potrà
cancellare.
E la Lombardia era nuovamente serva. Gli Austriaci passeggiavano le
vie di Milano. Il re di Napoli s'era rifatto tiranno; Pio IX, papa
non dell'avvenire, ma del passato. Carlo Alberto mendicava alla
Francia ajuti che non potevano ottenere, all'Austria armistizî
disonorevoli e peggio. Il sogno dei moderati sfumava: il regno
dell'alta Italia moriva nella nullità dei portafogli della consulta.
Scusate le ciarle.
XII.
Il concettuccio dell'Italia del nord, anti-italiano perchè violando
l'indivisibilità della sacra bandiera italiana, e sopprimendo
l'ipotesi dell'unità, pregiudicava coi voti d'una frazione questioni
che spettano all'intera nazione: - meschino perchè a fronte d'un
fermento provvidenzialmente universale dall'Alpi al mar di Sicilia,
non mirava che a ordinare una parte e all'impianto d'una specie di
Prussia italiana: - impolitico perchè creava sospetti e ripugnanze
insormontabili nella Francia senza creare tanta forza che bastasse a
non darsene cura: - illiberale perchè fidava lo sviluppo della
giovine vita lombarda e d'una civiltà stampata di democrazia
all'aristocrazia torinese: - stolto, perchè, mentre si voleva contro
l'Austria una guerra di principî, esigeva che tutti ajutassero
l'ingrandimento d'un solo e spargessero sangue e tesori per inalzare
un trono destinato, come gli uomini del partito dicevano, a
dominarli e rovinarli tutti un dì o l'altro! - riescì funestissimo
in questo, che suscitando da un lato l'orgogliuzzo della conquista,
costringendo dall'altro i raggiratori politici a giovarsi, per
carpire l'intento, d'arti inoneste e di promesse deluse, ha generato
ciò che prima non esisteva, un lievito di discordia e di gelosia tra
piemontesi e lombardi. Quella tristissima conseguenza della
precipitata fusione noi l'avevamo predetta; poi a sovrapporre gare
alle gare, venne il tradimento compito in Milano; e fremono
tuttavia, nè altro oggimai potrà spegnerle che il fatto d'una
insurrezione nazionale davvero, e la grande voce del popolo di tutta
Italia. Le unioni non si fanno a quel modo. Escono spontanee da una
fratellanza di popoli che hanno insieme patito e vinto, inviolabili
per solenne e liberamente discussa espressione di rappresentanze
legali; mal si fondano su calcoli di paure, mal si chiedono come
prezzo d'ajuto, mal si votano sotto la spada di Damocle della
minaccia d'un abbandono sì che somigli il fatto nefando di quel
chirurgo che sospendeva, a mezzo l'operazione, il coltello per
pattuire coll'infermo doppia mercede. Bensì a chi allora affacciava
siffatte considerazioni e scongiurava in nome d'Italia che si
vincesse prima, poi si lasciasse libero il corso alle intenzioni dei
popoli, i maneggiatori rispondevano chiamandolo assoldato
dell'Austria.
E questo malumore creato tra due popolazioni italiane nate ad amarsi
e ajutarsi è l'unico risultato pratico ch'io mi sappia delle trienni
agitazioni di quel partito: partito senza radice, senza tradizione,
senza genio, senza possibilità di vita nell'avvenire. I partiti
moderati s'intendono ne' paesi già fatti nazione e retti da lunghi
anni o secoli a sistema costituzionale, dove, illusi spesso ma
razionali a ogni modo, s'oppongono a chi tenta rifar di pianta la
società, ordinandola al trionfo d'un nuovo elemento non contemplato
fino a quel giorno nelle istituzioni, e contendono dovere il meglio
escire dallo sviluppo progressivo delle libertà già esistenti; ma in
Italia? Dove nazione non è e si tratta di conquistarla? Dove
istituzioni libere non sono o furono ottenute per via di sommosse o
popolari minacce e sono tuttavia combattute dalle fazioni retrograde
sedenti a governo? Dove non si tratta di miglioramenti
amministrativi o di riforme parlamentarie, ma di essere o non
essere? Copiatori meschini d'un passato che non è nostro,
cinguettano d'autonomia e di libero genio italiano per poi dirci -
che? La teorica d'equilibrio dei tre poteri, l'istituzione, provata
menzognera e fatta cadavere dall'esperienza d'ormai trent'anni,
monarchico-costituzionale! Dimentichi che ci accusavano un anno
addietro di esortare a repubblica mentre la Francia reggevasi a
monarchia, accusano noi, noi che predicammo repubblica or sono
diciassette anni, e cominciammo dopo il febbrajo a invocare
unicamente la sovranità del paese, d'imitare servilmente la Francia:
imitare la Francia qui dove la monarchia straniera, o entrata collo
straniero, non ha per sè vestigio di tradizione nazionale, nè gloria
d'utili imprese, nè puntello d'elementi inviscerati nella società,
nè amore da' sudditi, nè credenza sincera da que' medesimi che ne
sostengon la causa! qui dove ogni grande memoria, ogni gloria, ogni
ricordo di potenza è di popolo! qui d'onde insegnammo la vita
democratica di comune e la repubblica senza schiavi all'Europa! e
l'accusa move da uomini che ricopiano fin nei vocaboli (democrazia
regia, monarchie citoyenne) la Francia di Luigi Filippo; da uomini
che nel generale maraviglioso commovimento dei popoli volgenti a
democrazia non sanno trovare altra missione all'Italia ridesta che
quella di cibarsi degli ultimi rifiuti e ricominciare la prova che
l'Europa sta concludendo. E riescissero! Ma come? Non proclamano
essi da ormai tre anni federazione di principi che non vogliono
collegarsi? Non annunziano ai popoli una dieta, mentre dei tre
governi che dovrebbero attuarla un si tace, l'altro avversa, il
terzo promove invece la costituente? Non evangelizzano ogni
settimana la guerra con un ministero che intima pace? Non hanno essi
scritto libri di 500 pagine fondati sull'ipotesi d'una lega
liberalissima tra Napoli e Piemonte, e non ha egli il re di Napoli
risposto abbandonando il campo italiano e trasmutando i soldati in
carnefici de' loro fratelli? I mezzi per verificare anche quel
meschino concetto di federalismo monarchico non sono nelle loro
mani. Noi possiamo con lunghe fatiche educare il popolo, essi non
possono educare, non che cinque, un sol re. Le loro teoriche, le
loro speranze posano tutte sopra un forse, sopra un se: dietro un se
in forma di papa o di principe essi hanno trascinato per tre anni la
povera Italia d'illusione in illusione, d'utopia in utopia, alla
condizione di prima: e quando si rassegneranno un giorno a rinsavire
e morire, il fatto da loro potrà rappresentarsi mirabilmente da quei
due versi che un principe di Toscana rispondeva ai sudditi
petizionanti:
Talor, qualor, quinci, sovente e guari:
Rifate il ponte co' vostri danari
XIII.
Al popolo toccherà di rifare il ponte co' proprî danari e col
proprio sangue. Agli uomini del partito nazionale tocca fin d'ora
insistere col popolo perchè impari questa verità troppo spesso
dimenticata: che una nazione non si rigenera se non con forze
proprie, col sudore della propria fronte, con lunghi sacrificî e
coscienza profonda del proprio diritto e del proprio dovere.
Io chiamo uomini del partito nazionale tutti coloro i quali non
avendo, per fini privati, venduto l'ingegno e l'anima a un
ministero, a una sêtta, a un principe o a una casa regnante - non
presumendo che sotto il loro piccolo cranio covi più senno o
alberghino più diritti che non nei venticinque milioni d'uomini nati
a progredire, ad amare, a sperare, a combattere in questa terra
italiana - credono religiosamente anzi tutto nella nazione e nella
sua sovranità, e ordinano i loro pensieri, i loro atti, il loro
apostolato a far sì che il paese, libero tutto e sottratto ad ogni
influenza frazionaria, viziosa, immorale, decida in modo legale e
con esame maturo delle proprie sorti. E a questo partito
appartengono - m'incresce non aver trovato prima occasione di dirlo
- molte anime pure e caldissime d'amor di patria che appartennero ai
moderati, sia perchè stimavano necessario al nostro popolo un certo
periodo d'educazione politica che lo destasse dal sonno in che si
giaceva, sia perchè, soverchiamente tementi del nemico straniero e
dei vecchi nostri dissidî, intravedevano in Carlo Alberto
l'unificatore di tutta Italia. I primi sentono ora che il popolo è
desto ma corre rischio d'esser travolto dall'educazione gesuitica di
quel partito in un sonno peggiore del primo; i secondi hanno con
amarezza scoperto che la voce unione in bocca a' loro colleghi
suonava tutt'altro che avviamento a unità e che ad ogni modo il loro
idolo non era da tanto.
Dico che il paese è oggi desto e fuor di tutela; e che, se ciascuno
di noi ha non solamente diritto, ma debito di proporgli scrivendo e
parlando l'adozione del principio ch'ei crede vero, nessuno ha
diritto d'imporgli o di sedurlo con mezzi artificiosi di promesse o
terrori ad adottare senza esame deliberato una forma di governo, un
sistema, un'idea preconcetta. Quando tutta Italia era schiava, e la
libera parola era vietata e il pensiero, che Dio ha messo nelle
viscere di questa terra e che un giorno la farà grande, si giaceva
per mancanza assoluta di comunione, ignoto al suo popolo, gli uomini
che soli nel silenzio comune osavano dire all'Italia: Sorgi e sii
grande! avevano diritto di farsene interpreti, di trarre dallo
studio della tradizione nazionale e dalla propria coscienza la
definizione di quel pensiero e scriverlo risolutamente sulla loro
bandiera e dire al popolo: In questo segno tu vincerai - salvo al
popolo di consecrarlo o mutarlo, vinto il nemico: oggi no. Il
pericolo più grave d'una insurrezione che non poteva iniziarsi se
non da pochi era allora quello di non aver bandiera alcuna e di
travolgere un popolo, suscitato a un tratto da un sonno di morte
alla più alta intensità di vita possibile, in una anarchia senza
nome impotente a vincere lo straniero. Oggi il popolo è da qualche
anno svegliato: ha potuto guardarsi attorno e scendere a interrogare
la propria coscienza: vive in più parti d'Italia di una vita ben più
potente di quella che s'elabora nell'aule o nell'anticamere dei
potenti: ha conquistato nella Lombardia, in Venezia, in Sicilia, in
Bologna, in Livorno, in Genova e altrove, tra le barricate o in
quelle manifestazioni che i liberali patrizî chiamano sdegnosamente
di piazza e alle quali devono quel tanto di libertà ch'esiste fra
noi, il battesimo di sovranità; e saprebbe, cogli istinti suoi
logici, col senso diritto che distingue le moltitudini e colla
scorta delle sue tradizioni, trovarsi facilmente la buona via,
purchè i suoi dottori e gl'inventori delle alte e delle basse Italie
volessero lasciarlo in pace. Ei sarebbe forse a quest'ora libero
d'ogni peste croata, se i facitori di piani e le strategiche regie
non gli avessero fatto tacere la campana a stormo e guasto la sua
guerra d'insurrezione.
Gli esuli repubblicani - ed è un altro fatto che la calunnia non
potrà cancellare - intesero primi e soli questo diritto inviolabile
di sovranità nazionale. Dissero che al paese, ridesto una volta ed
in moto, spettava l'iniziativa, a noi tutti studiarne, ajutarne e
migliorarne le ispirazioni. La Giovine Italia fu sciolta.
L'Associazione nazionale fondata. E dal programma dell'Associazione
sino al proclama di Val d'Intelvio il solo grido ch'essi abbiano
messo fu: guerra e sovranità del paese.
XIV.
Guerra e sovranità del paese. Ogni altro grido - quando non sia
d'individuo che tenti pacificamente persuadere ciò che gli sembra
vero ai suoi fratelli di patria - è usurpazione e semenza di danni.
Scrivete(135) libri di cinquecento pagine e più se v'aggrada, per
provare ai vostri concittadini che la missione italiana sta
nell'ordinarsi al federalismo della Svizzera e al monarchismo
costituzionale della Spagna o dell'Austria; noi scriveremo pagine a
ricordar loro che senza unità non v'è missione, nè forza, nè
concordia durevole; a ricordar loro la tradizione della democrazia
repubblicana in Italia, la storia della discorde impotenza svizzera
e le cento delusioni della corrotta decrepita monarchia. Ma non
fondate circoli o associazioni federative sotto l'egida del
monarcato, se non volete che noi fondiamo circoli e associazioni con
programmi dichiaratamente repubblicani. Non convocate congressi con
programma determinato, quando non avete mandato dal vostro popolo.
Non annunziate diete che decidano innanzi tratto, col solo fatto
della loro esistenza e per la natura degli elementi che voi
chiamereste a comporle, le questioni le più vitali al nostro
risorgimento, quelle che s'agitano tra il federalismo e l'unità, tra
la monarchia e la repubblica. Noi non conosciamo che un solo padrone
nel cielo, Dio; un solo sulla terra, ch'è il popolo: il popolo, che
ha sparso e dovrà spargere il proprio sangue a riconquistarsi libera
e grande questa terra che Iddio gli diede, ha pur diritto di
governarsi a sua posta.
E questo programma, solo legale, solo che possa dirsi non
intollerante, non esclusivo, noi lo spiegammo primi e lo manterremo.
Noi non tradimmo programmi di neutralità solennemente giurati: la
nostra parola è la stessa d'ieri. Noi non capitolammo col nemico:
Garibaldi e d'Apice non attraversarono pacificamente la Lombardia
con fogli di via segnati di un nome di generale straniero; portarono
seco, cedendo alla forza, la bandiera italiana, liberi di
ripiantarla sul primo giogo, nella prima valle, dove suonasse il
grido di viva Italia!
XV.
Noi scrivevamo in Milano, nel programma dell'Italia del Popolo:
«Dov'è l'assemblea costituente, sola legittima interprete del
pensiero di un popolo?»
E il 27 dello stesso mese: «Se chi proferì primo in questa Italia
sconvolta la parola di dieta italiana avesse detto Assemblea
nazionale costituente italiana, la questione che affatica in oggi
per vie diverse le menti, sarebbe stata posta sulla vera e unica via
che può condurre a scioglimento pacifico, legale, solenne, il nodo
de' nostri futuri destini. Volete tutti che un'Italia sia? Dica
l'Italia come vuol essere e sotto quali forme la vita nazionale che
Dio le comanda deve emergere rappresentata a tutti i suoi figli e ai
popoli dell'Europa.... Sorga e s'accolga in Roma non una dieta, ma
l'Assemblea nazionale costituente italiana, eletta, non per
divisioni di Stati esistenti, ma con eguaglianza di circoscrizioni,
e con una sola legge elettorale, dall'università dei cittadini
d'Italia. Preparino gl'ingegni a questa le vie. S'interroghi il
paese sui proprî fati. Fino a quel giorno, voi rimarrete, checchè
concertiate, nel provvisorio.»
E il 12 giugno: «Non v'è nè può esservi che una sola metropoli,
Roma. Non v'è nè può esservi che una sola costituente: L'Assemblea
nazionale costituente italiana.»
Ed io cito queste linee a provare come i repubblicani, rimproverati
continuamente d'intolleranza da chi non ricusa combattere coll'arme
sleale della calunnia, curvassero primi la fronte, anche quand'altri
violava sfrontatamente le sue promesse, davanti la maestà popolare.
Ma chi fu giusto mai coi repubblicani? Non affermava il conte Balbo
nel suo libro delle Speranze d'Italia che gli unitarî della Giovine
Italia volevano le repubblichette del medio evo?
XVI.
Il moto che segretamente dal 1815 in poi, e palesemente da tre anni,
agita la nostra contrada, è moto nazionale anzi tutto. E dicendo
nazionale io non intendo moto puramente d'indipendenza, riazione
cieca e senza nobile intento di razza oppressa contro una razza
straniera che opprime. Nel XIX secolo, la voce nazione suona ben
altro che una emancipazione di razza. Il grido di Viva Italia! che i
Bandiera e i loro fratelli di martirio in Cosenza cacciarono
lietamente morendo, era grido di libertà: grido religioso d'unione,
di nuova vita, di affratellamento fra quanti popolano questa terra
divisa e fatta impotente da tirannidi straniere e domestiche. Quel
grido fu raccolto dai milioni, e le agitazioni degli ultimi tre anni
ne sono il commento. Il popolo vuol essere una famiglia: famiglia
potente di vita collettiva, di bandiera propria, di leggi comuni, di
nome, di gloria, di missione riconosciuta in Europa. Idoli suoi,
meritamente o no, sono tutti coloro che dovrebbero o potrebbero più
facilmente dargli una patria: nemici suoi quanti ei considera, a
torto o a ragione, avversi a questo pensiero, a questo suo supremo
bisogno. Tutte le parole, tutti i programmi che i falsi profeti gli
han messo da tre anni innanzi ebbero il suo plauso perchè gli
dissero che dovevano fruttargli(136) la patria; poi passarono rapidi
come speranze deluse; e la sola parola, il solo eterno programma
ch'ei va ripetendo, è quello di Italia; chi non intende questo ch'io
dico non intende popolo, nè storia, nè provvidenza. L'Italia vuol
essere. - Noi siamo in aperta rivoluzione; e questa rivoluzione, che
si compirà checchè avvenga, e muterà la carta e le sorti d'Europa, è
innanzi tutto una rivoluzione nazionale.
Ogni rivoluzione ha un elemento nuovo, una forza propria, una leva
speciale corrispondente allo scopo che deve raggiungersi. Una
rivoluzione nazionale può iniziarsi da chicchessia(137); ma non può
compirsi che da un'Assemblea nazionale.
E quest'Assemblea non può escire legittima ed efficace che
dall'elezione popolare: eletta da governi o da Stati, non potrebbe
rappresentare che il vecchio principio, più o meno modificato, di
smembramento contro il quale il paese s'agita e s'agiterà: - non può
aver limite il mandato, perchè ogni mandato chiamerebbe, più o meno,
i vecchi poteri, contro i quali il paese è commosso, a decidere le
condizioni della nuova vita cercata.
L'Assemblea nazionale non può dunque essere che costituente. Dove
nol fosse, l'agitazione non soddisfatta ricomincerebbe il dì dopo.
Non v'è che una Italia. L'Italia del nord, le tre Italie, le cinque
Italie, sono bestemmie di sofisti o trovati di politica
cortigianesca condannati dal nascere all'impotenza.
Il popolo d'Italia intende costituirsi in nazione: cerca una forma
di nazionalità che più convenga ai suoi futuri destini in Europa; e
questa forma non può escire che dal voto di tutti, non può sancirsi
accettata da tutti e durevole fuorchè da una Assemblea costituente
italiana. La parola proferita, con autorità di potere, da Montanelli
e Guerrazzi avrà presto o tardi adesione, non dai principi, ma dai
popoli di tutta Italia. La scienza politica d'un popolo che si
rigenera è semplice; i sofismi e i trovati cortigianeschi non
prevarranno(138) lung'ora.
E s'anche la costituente italiana decreterà monarcato e federalismo,
noi, repubblicani unitarî, non rinegheremo ciò ch'oggi diciamo.
Deploreremo immaturi i tempi e ineguali gl'intelletti al concetto
che solo può svolgere la terza Italia, l'Italia del Popolo;
rivendicheremo, come s'addice a uomini liberi, diritto di pacifica
espressione alle nostre dottrine; ma rispetteremo la monarchia
ringiovanita per battesimo popolare e la federazione escita dal
libero voto della nazione. Avremo almeno una patria. Oggi non
abbiamo che cadaveri di monarchie, governucci inetti o tirannici, e
gran parte della nostra terra in mano dell'Austria.
XVII.
In mano dell'Austria! È parola questa, o giovani, che suona insulto
a noi tutti, e non dovrebbe lasciar nell'anima vostra campo a
pensieri fuorchè di guerra nè a me conceder parole fuorchè di
guerra. La terra lombarda è schiava. Il croato ride stolidamente
feroce in Milano dei nostri libri, dei nostri circoli, del nostro
cinguettìo di sofisti. Libertà! Noi non possiamo, non che applicare,
intendere, proferir degnamente la santa parola col marchio
dell'impotenza e della schiavitù sulla fronte. Noi non possiamo
avere, non meritiamo costituente, nè patria, nè diritti, nè nome
d'uomini, finchè la nostra bandiera non sventoli, terrore ai nemici
e pegno di salute pei figli alle nostre madri, sull'Alpi.
Io non so se il lungo esilio testè ricominciato, la vita non
confortata fuorchè d'affetti lontani o contesi, e la speranza
lungamente protratta e il desiderio che incomincia a farmisi supremo
di dormire finalmente in pace, dacchè non ho potuto vivere, in terra
mia, m'irritino, e nol credo, l'anima nata ad amare e per lunga
prova incapacissima d'odio; ma so che, perchè noi potessimo dirci
degni di libertà, questo grido di guerra all'Austria! dovrebbe
essere oggimai la giaculatoria del credente nella patria, la voce
per la quale, dentro e fuori del paese, l'italiano si riconoscesse
d'una terra coll'italiano, il motto di comunione che corresse da un
capo all'altro della penisola ed oltre, potente e rapido come il
fluido che alimenta sotterraneo i nostri vulcani, sì che ne escisse
tremoto, e le passioni sobbollissero come lava, e l'Etna in eruzione
rimanesse simbolo convenevole agli sdegni e al levarsi d'Italia.
Vorrei che come i leggendarî dei secoli cristiani cominciavano e
finivano tutti colla formola: «Nel nome del Padre, del Figlio e del
santo Spirito,» così nessun scrittore toccasse la penna in Italia se
non cominciando e finendo colla formola: In nome della patria e dei
nostri martiri, sia guerra all'Austria. Vorrei che le fanciulle
italiane, comprese dell'onta sofferta per mano dei barbari dalla
donna italiana, rammentassero col bacio di fidanzata ai loro
promessi: ricordate e vendicate le fanciulle di Monza. Vorrei che,
come i romiti della Trappa non s'incontrano senza dirsi l'un
l'altro: fratello, bisogna morire, i giovani d'Italia non
s'incontrassero per le vie, nei teatri, nei circoli, senza dirsi:
fratello, bisogna combattere; tu ed io viviamo disonorati.
Perchè, è forza il dirlo, noi viviamo disonorati: disonorati, o
giovani, in faccia a noi stessi, in faccia all'Austria, in faccia
all'Europa. Nessun popolo in Europa, dalla Polonia in fuori, soffre
gli oltraggi che noi soffriamo; nessun popolo sopporta che una gente
straniera, inferiore di numero, d'intelletto, di civiltà, rubi,
saccheggi, arda, manometta ferocemente a capriccio un terreno non
suo; trascini altrove, colla coscrizione, a farsi complici di
delitti e stromenti di tirannide, giovani non suoi; contamini di
violenze, di battiture donne non sue: uccida per sospetto o disonori
col bastone cittadini di patria non sua. E nessun popolo - io lo
dirò comechè suoni ingratissimo a me che scrivo e a quanti mi
leggono - nessun popolo ha più di noi millantato odio al barbaro,
valore italiano, potenza di desiderio, e furore d'indipendenza. Da
noi uscirono bandi grandiloqui, discorsi pomposi di memorie del
Campidoglio, d'aquile romane e di conquiste mondiali, tanti da
incendiarne gli accampamenti nemici, e centinaja di gazzette, libri
e libercoli a tritare lo stesso tema di minaccia impotente, e
migliaja d'inni di guerra e milioni d'urli e grida di Viva Italia e
di morte agli Austriaci, nei banchetti, su pe' teatri, in convegni
di piazza. Tra noi escì, acclamata, commentata, messa in cima ai
giornali, come guanto cacciato solennemente all'Austria in faccia
all'Europa, la parola: l'Italia farà da sè: parola santa fin dove si
tratti d'indipendenza, perchè ogni popolo deve conquistare con forze
proprie il proprio nome, il proprio titolo a rappresentare una parte
pel bene comune nella grande associazione delle nazioni; ma volgente
al ridicolo quando quei che l'hanno proferita non fanno, per conto
d'Italia, che armistizî, capitolazioni e raggiri di mediazione. E la
Polonia, ch'io citai dianzi, affranta da lunghe battaglie e da
sagrificî senza esempio, priva d'ogni libertà di parola, di
convegni, di stampa, vuota d'armi e senza un palmo di terreno sul
quale essa possa riprepararsi a combattere, non può finora che
ordinar congiure e lo fa; ma noi fummo in armi: siamo in armi; e la
nostra parola, accetta o invisa ai governi, guizza da un capo
all'altro d'Italia, il nostro pensiero s'esprime con nessuno o con
poco pericolo in piazze gremite di popolo, tumultua alle porte di
parlamenti dove si parla - tranne da qualche ministro - la nostra
favella, splende a programma sulle coccarde dei nostri cappelli. E
nondimeno quel programma, programma d'indipendenza e di guerra
all'Austria, si consuma in suoni vuoti di senso, e giace, lettera
morta, alle porte di quei parlamenti, al limitare delle anticamere
ministeriali; nondimeno, quella parola l'Italia farà da sé suona
parola meritamente schernitrice sulla bocca dei ministri di Francia
nei loro colloquî cogli inviati italiani: meritamente, dico, perchè
tra quegli inviati che chieser ajuto fraterno e si rassegnano
umiliati alla mediazione sono gli inviati di quel governo, or
rimpicciolito a consulta, che ricusò, sprezzando, le profferte dei
volontari francesi dicendo non averne bisogno; sono gli inviati del
re che primo proferiva l'orgogliosa parola. Intanto, a ogni lagno, a
ogni annunzio di protocolli futuri, ci giunge dal suolo lombardo,
risposta dell'Austria, l'eco di qualche fucilazione!
«I Francesi fucilano in Madrid i nostri fratelli.» Io ricordo che
queste parole, firmate e diffuse dall'alcade di Mosteles furono, nel
1808, il segnale di quella guerra di popolo che consunse il fiore
degli eserciti di Napoleone, emancipò la Spagna e segnò la curva
discendente all'impero.
XVIII.
Noi vorremmo; ma i nostri governi non vogliono. In nome di Dio
sorgete e rovesciate i governi. Non avete oggimai esaurito ogni via
per indurli? Non vi siete voi trascinati per essi, con sommessione e
inudita credulità, d'illusione in illusione, di sogno in sogno? Non
avete bevuto il calice d'umiliazione sino alla feccia? Il governo
che rifiuta oggi far guerra all'invasore straniero è governo
straniero. Trattatelo come tale. Intendo che tolleriate, se non vi
sentite maturi per darvi leggi, un governo tirannico; non uno che
sia tirannico e vile. Voi potete sagrificare per alcuni anni la
libertà, la vittoria d'un'idea; ma non per un giorno l'onore. Un
popolo non deve, non può rassegnarsi ad esser creduto dagli
stranieri millantatore e codardo.
Ma se la forza delle abitudini è tanta in voi che, anche
sprezzandoli, voi non sapete rovesciare i governi che vi disonorano:
- se la funesta addormentatrice parola escita dall'aristocrazia
liberale dei vostri maestri, la causa della libertà doversi
disgiungere(139) da quella dell'indipendenza, ha solcato l'anima
vostra di solco così profondo che tre anni di tradimenti e sciagure
non bastino a cancellarlo: lasciate da banda i governi e fate da
voi. Redimete, perdio, la vostra bandiera. Riunitevi, associatevi,
operate. Traducete in fatti il pensiero. Fate della penisola un
arsenale, una cassa, un campo di militi per la crociata. Fondate in
ognuna delle vostre città una Giunta d'insurrezione. In ognuna delle
vostre città, in ognuna delle località importanti che ne dipendono,
aprite un registro che accolga i nomi di quanti opinano per la
liberazione della terra ove nacquero dallo straniero che la
contrista; e ad ognuno di quei nomi corrisponda una offerta mensile,
una promessa di danaro e di sangue; se il nome è di donna, un numero
di coccarde e cartucce; le donne sono gli angioli di questa terra e
il tocco delle loro mani le benedirà. Dovunque molti fra voi si
raccolgono a mensa d'amici, sia promossa una colletta per la cassa
della nazione. Ogni viaggio, impreso per diporto o per altro,
diventi una missione d'apostolato per la santa causa. Movete da
tutti i punti a ricordare alle vostre milizie come siano schernite,
inerti e ingloriose ne' paesi stranieri, a ricordare alle milizie
lombarde di qual gemito geme la loro contrada, e qual debito
d'iniziativa spetti ai loro drappelli. Chiedete a voi stessi -
lasciate ch'io vi ripeta la parola che or mesi sono vi dissi -
chiedete a voi stessi ogni giorno al sorgere: Che farò oggi io per
la mia patria? ogni notte apprestandovi al sonno: Che ho io fatto
oggi per la mia patria? E sia per voi giornata perduta, notte
inquieta di rimorsi e nuove promesse d'attività quella in che voi
non troverete da segnare un servizio anche menomo reso al paese.
L'insistenza è il genio d'un popolo: abbiatela e siate grandi. Il
vostro servaggio dura da più di tre secoli: insistete in vita
operosa per tre mesi e sarete grandi.
XIX.
E quando sarete pronti - quando il fremito suscitato per magnetismo
di comunione tra molti nell'anima vostra v'insegnerà, o giovani, che
il lieto momento è venuto, che siete degni di prostrarvi un istante
al padre dei liberi e iniziare la bella impresa - ricordate allora,
io vi prego in nome dei molti dolori che quella scienza ha costato a
me e a molti assai migliori di me, le poche parole ch'io sottosegnai
nelle prime pagine di questo scritto: Le nazioni non si rigenerano
colla menzogna: senza moralità politica non trionfa una causa di
popolo. Ricordate, o miei fratelli, i trecento anni di muto corrotto
servaggio che pesarono sulla vostra razza per aver fornicato coi
principi o coi falsi leviti. Adorate, il vero: Dio e il Popolo sia
l'unica formola che splenda sulle vostre bandiere. Dio e il popolo,
taluni bestemmiano, non valgono a far la guerra; valgono battaglioni
e cannoni. Meschini e irreligiosi beffardi! Voi li aveste i
battaglioni invocati; e perchè servivano non a Dio, ma ad un uomo,
perchè trattavano la causa non del popolo, ma d'un re, voi sapete a
quali termini condussero la povera Lombardia e la nazione con essa.
Novembre, 1848.
Fine pel primo volume.
INDICE
degli scritti contenuti nel presente volume
PREFAZIONE
Introduzione dell'Autore
Note autobiografiche
INDICE
degli scritti contenuti nelle note autobiografiche.
A Carlo Alberto di Savoja
Pensieri intorno alla Carboneria - 1839. - (Estratto da quattro
lettere: Sulle Condizioni e sull'Avvenire d'Italia, pubblicate nel
Monthly Chronicle. Vedi la nota a
Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia
Manifesto della Giovine Italia
Istruzioni morali ai Comitati della Giovine Italia
Istruzioni politiche, idem
Protesta contro il decreto ministeriale d'espulsione dalla Francia.
- Al direttore della Tribune, 1832
Protesta contro il giornale dell'Aveyron. - Al direttore della
Tribune, 1833
Altra protesta contro il Monitore. - Al direttore del National, 1833
Dilucidazioni intorno allo Statuto della Giovine Italia, 1833
Lettera a Federico Campanella intorno al Gallenga
Cosmopolitismo e Nazionalità (Dalla Jeune Suisse)
Sono partiti! Intorno alla persecuzione dei proscritti
Patto di Fratellanza (Giovine Europa)
Istruzione generale per gl'iniziatori
Lettera a Lamennais
Per il giornale la Giovine Svizzera costretto a
cessare le pubblicazioni
Concetto della vita
Dei moderati
Lettera ad un certo Leopardi, 1834
» a Montanelli, 1847
» a Filippo De Boni, 1848
» a Lorenzo Valerio, 1848
» ai Siciliani, 20 febbrajo 1848
Programma (brano) dell'Associazione Nazionale
Indirizzo (brano) al Governo repubblicano di Francia
Agli amici Romani, 1848 (dalla Pallade)
Protesta contro il voto dell'Assemblea Romana
Il moto del 6 febbrajo
Al direttore dell'Eco delle Provincie
Agl'Italiani
Lettera a Visconti Venosta, 1853
Protesta contro la diserzione della bandiera repubblicana di alcuni
membri del Comitato Centrale
INDICE degli scritti contenuti nel Testo.
D'alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in
Italia
Fratellanza dei popoli
Italia e Polonia
Dell'Unità italiana
Interessi e principî
Agli operai italiani. - Del dovere di associarsi nazionalmente
Necessità dell'ordinamento speciale degli operai italiani: risposta
ad un'obbiezione
Ricordi dei fratelli Bandiera e dei loro compagni di martirio in
Cosenza
Dedica a Jacopo Ruffini
A Pio IX, Pontefice Massimo
Missione della stampa periodica
Ai Giovani, ricordi
SCRITTI
DI
GIUSEPPE MAZZINI
POLITICA ed ECONOMIA
______________
VOLUME SECONDO
PENSIERO ED AZIONE.
CASA EDITRICE SONZOGNO - MILANO
VIA PASQUIROLO, 14.
PREFAZIONE
Come abbiamo accennato nella prefazione al vol. I, riassumiamo qui
la vita politica e i fatti salienti dell'apostolato di G. Mazzini
dal 1853 al dì della sua morte, a complemento delle note
autobiografiche nello stesso primo volume raccolte ed a commento
degli scritti politici ed economici in questo contenuti.
De' concetti filosofici del Mazzini, de' suoi pensamenti intorno
all'arte, non che della sua vita privata, parleremo nelle prefazioni
ai volumi Filosofia, Letteratura, Epistolario, man mano che verranno
pubblicati.
E se i brevi e rapidi cenni, che le proporzioni della presente
edizione ci consentono, son troppo inferiori al soggetto e non danno
che una pallida idea dell'azione indefessa, magnanima del grande
Italiano, nella cui formula Dio e il Popolo è la fede dell'avvenire,
nondimeno crediamo che possano bastare per mostrare ai lettori come
quella fede si esplicò nel suo pensiero; come il Dio ch'egli portava
in petto, talismano contro ogni debolezza, ogni vigliaccheria, nulla
avesse di comune cogli Dei invocati a giustificazione d'ogni
nequizia, d'ogni reazione. Come quel Dio inspirò e sollevò in alto
colui che con lo sguardo fisso nel progresso dell'umanità ne
interrogò la legge.
Chi desidera più particolareggiate e copiose notizie su questo
importante periodo dell'apostolato mazziniano, consulti i proemi
premessi dal Saffi agli ultimi nove volumi delle opere complete, e
gli scritti contemporanei, fra i quali citiamo a titolo d'onore
quelli della signora J. W. Mario e dell'Anelli, a cui abbiamo
largamente attinto.
Quando la Russia nel 1853 manifestò l'intenzione di risolvere la
questione d'Oriente a modo suo, pigliandosi Costantinopoli,
l'Inghilterra, risoluta di attraversarne i disegni, iniziò le
trattative per un'alleanza con la Francia in difesa dell'Impero
Turco, facendo conto eziandio sul concorso dell'Austria. E il
degenere nipote di Napoleone Bonaparte di buon grado accoglieva
quelle proposte, nella speranza di acquistare popolarità in Francia
col prestigio della gloria militare, e predominio morale in Europa.
Il Mazzini vide quel disegno funesto alla causa della libertà, e
specialmente all'Italia coll'accrescer potenza alla nemica
Austria((140)), e pubblicò vari scritti indirizzati alla nazione
inglese, nei quali indicava l'onta d'un'alleanza con l'uomo del 2
dicembre, l'errore massimo di porre fede nell'Austria, e la
necessità di non trasfondere sangue nuovo nelle vene di uno Stato
che rappresentava il dispotismo, la ferocia, l'immobilità. Affermava
essere invece degno della libera Inghilterra il fare appello, in
nome del santo principio della nazionalità, alla Polonia. alla
Germania, all'Ungheria, all'Italia e a tutti gli elementi rumeni,
serbi, bulgari, albanesi, per sottrarli all'influenza russa ed
inalzare intorno all'Impero moscovita una barriera vivente di
giovani nazioni associate((141)).
Ma sebbene queste idee del Mazzini fossero divise dai più eminenti
uomini di stato inglesi, come Gladstone, Stansfeld, Forster, Roebuck
ed altri, pure quell'alleanza assolutamente torta e immorale((142))
fu conchiusa in nome del sempre invocato equilibrio europeo. E di
quell'alleanza, per opera del Cavour, entrava a far parte il
Piemonte, che spediva in Crimea 15 000 valorosi soldati, mentre
questi associati al resto dell'esercito ed a tutto il popolo((143))
avrebbero potuto costringere l'Austria ad abbandonare il Po.
Il risultato di quella guerra, che costò tante nobili vite, è noto;
e l'Europa ne risente ancora i tristi effetti((144)). Il Piemonte
ottenne la soddisfazione di presentare al Congresso di Parigi il
famoso memorandum cavouriano al quale gli scrittori di parte
attribuirono tanta importanza. Ma l'effetto del prendere in tal
guisa un posto umile e tollerato intorno al tappeto verde della
diplomazia imperante, fu di legare da quel tempo in poi il Cavour
alla vacillante e personale politica di Napoleone: nulla più faceva
senza il beneplacito suo, pronto a soffocare qualunque tentativo
d'iniziativa nazionale((145)) quando piacesse all'imperatore da cui
pendevano le sorti d'Italia((146)). E per il Cavour quelle sorti - è
bene notarlo subito - si confinavano in un'ingrandimento dello Stato
piemontese; chè all'Unità d'Italia egli non credette fino a quando
gli eventi, da lui non preveduti, lo costrinsero a riconoscerla
inevitabile((147)).
E mentre il primo ministro piemontese limitava il suo lavoro a
preparare con ajuti stranieri l'annessione della Lombardia e,
tutt'al più, del Veneto, Mazzini invece trattava in Lugano col
Garibaldi intorno ad una spedizione in Sicilia, dov'era già fondato,
fino dal 1850, un Comitato nazionale col duplice intento di
sradicare dall'Isola ogni idea d'autonomia e di costringere i
governanti o ad abbandonare il meschino concetto cavouriano d'un
Piemonte ingrandito, o a rovinare con esso.
Quella spedizione non ebbe luogo allora, bensì sei anni dopo, e
gloriosamente, mercè appunto la lunga, costante, efficace
preparazione degli animi alla santa causa dell'unità e indipendenza
nazionale.
Intanto per le brighe di Napoleone e de' suoi devoti si divulgava
nella penisola l'idea di dare a Luciano Murat il regno di Napoli;
idea non favoreggiata solamente dal governo piemontese((148)), ma
per un momento anche da uomini come Saliceti, Lizabe Ruffoni,
Montanelli, i quali, dopo la caduta della Repubblica romana esuli in
Francia, troppo presto disperavano della causa dell'unità.
Contro quell'intendimento antiunitario ed antinazionale protestavano
bensì i più insigni patrioti d'Italia; e Poerio, Spaventa, Mauro,
Bianchi e Settembrini rispondevano dalle prigioni «preferir di
morire in carcere piuttosto che stender le loro mani a
quell'avventuriere straniero»((149)). Il Mazzini, appena ne ebbe
sentore, scriveva fiere parole dirette specialmente all'esercito, e
opportunamente ricordava il voto dato da Murat a favore della
spedizione francese del 1849.
Di quel vano tentativo del Bonaparte, per spegnere ogni speranza di
unità, non si parlò più: sparve come tanti altri disegni
architettati dal nipote nella solitudine per emulare le gesta dello
zio.
E sebbene in quel tempo - per opera specialmente di Giorgio
Pallavicino, monarchico unitario, cittadino integro e forte, che per
la dura scuola dell'esperienza dovette ricredersi e morire
convertito al culto della fede repubblicana((150)) - molti si
fossero distaccati dal Mazzini per avvicinarsi al governo
costituito, quegli si dette con tutta l'anima a tenere alta la
bandiera dell'unità nazionale, osteggiata allora, come sempre, dalla
monarchia che sognava in accordi federativi fra principi regnanti
quattro o cinque Italie, come egli dice nelle stupende lettere a
Daniele Manin e a Giorgio Pallavicino((151)). Nè contento di sole
esortazioni, preparava, organizzava moti, fra i quali, degni di
glorioso ricordo, la spedizione di Sapri e la sollevazione di
Genova.
Come tutti i tentativi generosi, per l'una o l'altra circostanza non
riusciti, sollevarono contro gl'iniziatori ed in ispecie contro
l'anima dirigente, il Mazzini, un'ondata di recriminazioni, accuse e
calunnie; ma non valsero a scuotere chi ben sapeva essere il bene
premio di sacrificio e l'audace iniziativa indispensabile per
scuotere e mantenere vive le inerti aspirazioni((152)).
Fallita la sollevazione di Genova, non per colpa del popolo, che si
mostrò, come sempre, pronto ed animoso, ma per colpa dei capi che
dovevano dirigerla, il gran Proscritto cercato ovunque a morte dalla
polizia sarda, ajutata da cagnotti còrsi e francesi((153)), potè a
stento mettersi in salvo. Fu bensì con altri patrioti condannato in
contumacia alla pena di morte; ricompensa decretata dai giudici
della monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, non diversa da
quella venti anni prima assegnatagli dai giudici del padre Carlo
Alberto.
Tornò a Londra e riprese con lo stesso ardore il suo lavoro di
cospirazione ed organizzazione per muovere le popolazioni centrali e
meridionali all'azione unitaria, protestando in pari tempo, in nome
della dignità nazionale, contro la politica governativa che spingeva
il Piemonte ad allearsi con Napoleone III, fra tutti i regnanti il
più pericoloso ed abjetto. E l'uomo del 2 dicembre, spinto agli
estremi, impose al ministero di chiedere al governo inglese
l'estradizione del Mazzini, del Ledru Rollin, del Kossuth e di Simon
Bernard, sotto lo specioso pretesto che fossero complici
nell'attentato di Felice Orsini.
L'Inghilterra, gelosa delle sue tradizioni di libertà, protestò
sdegnosa, e lord Palmerston, che aveva presentato un progetto di
legge per ottenere la facoltà di limitare quelle libertà ed
applicare lo sfratto quando si trattava di sudditi esteri, dovette
lasciare il potere. Anche il Belgio e la Svizzera resistettero alle
pretese imperiali: soltanto il conte di Cavour si piegò, per
compiacere il futuro alleato, a proporre e a fare approvare alcune
disposizioni limitanti la libertà della stampa e ad imaginare,
coll'ajuto delle compiacenti autorità di pubblica sicurezza, un
complotto contro la vita sua e quella di Vittorio Emanuele((154)).
All'ingiustissima accusa il Mazzini rispose da par suo con la
lettera al Cavour, riportata in questo volume, nella quale rampogna
altresì i meschini concetti, le arti subdole di un governo, che non
aveva fiducia nel popolo, e tutto aspettava dall'ajuto straniero.
Premio a tanta condiscendenza fu il triste patto di Plombières.
Appena il Mazzini ne ebbe notizia, fieramente e italianamente
scrisse contro; perchè mentre confidava, e non a torto, che l'Italia
avrebbe potuto far da sè, temeva le mire interessate dell'infido
alleato; e il 15 novembre 1858, quasi vaticinando Villafranca,
scriveva:
«Il re, circondato, assediato, tormentato dalle mille influenze, che
le tradizioni monarchiche, la diplomazia, la paura d'inimicarsi
altri governi, gli stenderanno intorno, porgerà orecchio alle prime
proposte di pace - pace all'Adige o a Campoformio non monta - che
gli assicurino un ingrandimento territoriale e un addentellato a più
larga conquista nell'avvenire»((155)).
Molti esuli del partito d'azione avevano pubblicamente dichiarato
che se la guerra fosse stata iniziata e condotta da Napoleone, non
vi avrebbero preso parte; ma quando videro muover prima l'Austria e
gli Stati d'Italia insorgere in nome della libertà, abbandonarono
tosto il primo proposito, chè in cima ai loro pensieri tenevano
quello dell'unità della patria. «E Giuseppe Mazzini diè mano - come
uomo di stato nel più alto senso della parola, ed esperto misuratore
dei rapporti possibili fra il suo Ideale e la realtà - a promuovere,
con ogni poter suo, nell'elemento italiano del moto, caratteri
recisamente nazionali ed unitarî»((156)).
Giunto in Toscana, rincorò i patrioti, che erano indignati e stupiti
per l'inattesa tregua di Villafranca, con la singolare efficacia
della sua parola, e formulò un nuovo piano d'insurrezione in questo
semplice motto: al centro mirando al sud; invasione cioè dell'Umbria
e dello Stato Romano per muovere quindi verso il regno delle Due
Sicilie. E sebbene egli e gli altri suoi compagni d'azione avessero
lealmente dichiarato di tacer di repubblica se la monarchia
piemontese si fosse dichiarata alla sua volta unitaria e si fosse
attivamente accinta all'opera, furono, ciò non ostante, cercati,
perseguitati dalla polizia come traditori e peggio. Al Saffi, giunto
a Torino, fu intimato di ripassare entro ventiquattr'ore la
frontiera. Sicchè alcuni si affrettarono a riprendere la via
dell'esilio, altri si nascosero, mentre altri ancora, o meno cauti o
più fidenti, venivano chiusi in carcere((157)).
Indignato il Mazzini dello sleale ed iniquo trattamento, da Firenze,
ove rimase nascosto per circa tre mesi, in casa Dolfi, scrisse al
re, cui egli giudicava migliore de' suoi ministri, la nota lettera
qui riportata.
Al pari di quella indirizzata a Pio IX, lo scritto produsse una
profonda impressione e fu argomento di chiose ed interpretazioni le
più erronee. Come il Mazzini si rivolse al papa, quando questi aveva
in mano l'iniziativa, per mostrare al popolo come dal successor di
san Pietro non v'era da aspettarsi opera di vera libertà e
rigenerazione, così, a sua volta, quando la sorte si volse propizia
al re, volle che la lezione si ripetesse, sapendo quanto eran
discosti gl'interessi dinastici da quelli del popolo. Trattò con
Vittorio Emanuele per mostrare, colla evidenza del fatto, che ogni
speranza di generosa ardita iniziativa si infrangeva dinanzi alle
preoccupazioni, ai timori, alle tradizioni della politica dinastica.
Qui giova riprodurre, dalla lettera accennata, il brano seguente:
«L'unità è voto e palpito di tutta Italia. Una patria, una bandiera
nazionale, un solo patto, un seggio fra le Nazioni d'Europa, Roma a
metropoli: è questo il simbolo d'ogni italiano. Voi parlaste
d'indipendenza. L'Italia si scosse e vi diede 50.000 volontarî... Ma
era la metà del problema. Parlatele di libertà e d'unità: essa ve ne
darà 500.000... Ma voi non siete più vostro. Fatto, a Villafranca,
vassallo della Francia imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre
risposte all'Italia, inspirazioni a Parigi. Sire! sire! in nome
dell'onore, in nome dell'orgoglio italiano, rompete l'esoso patto!
Non temete che la storia dica di voi: ei fece traffico del credulo
entusiasmo degl'Italiani per impinguare i proprî domini?... I padri
nostri assumevano la dittatura per salvare la Patria dalla minaccia
dello straniero. Abbiatela, purchè siate liberatore. Dimenticate per
poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo
armato della Nazione. Siate grande come l'intento che vi ho posto
davanti, sublime come il dovere, audace come la fede. Vogliate e
ditelo. Avrete tutti, e noi primi con voi.»
Ma fra tutti gli scritti pubblicati dal Mazzini con l'animo
amareggiato dalla triste pace di Villafranca, bellissimo per
elevatezza di concetto, per nobiltà di forma, per una ineffabile
malinconia che vi spira o quello Ai giovani, la cui lettura ai
giovani d'Italia vivamente raccomandiamo, chè fra l'immensa congerie
dei libri pubblicati in quest'ultima metà del secolo, raramente
troveranno altre pagine capaci come quelle di elevar l'animo a
nobili sensi.
Sulla fine di quell'anno il Mazzini tornò in Inghilterra, «ma non
cessò dal lavoro per le delusioni sofferte, inculcando con lettere
ai patrioti dell'interno e con pubblici scritti al Paese ed al re il
dovere comune, protestando contro la piega servile, che subordinava
il diritto, l'indipendenza e la dignità dell'Italia alla politica
del secondo Impero, e ponendo in rilievo le condizioni dell'opinione
europea, favorevole ad una condotta indipendente e civile da parte
degli Italiani. Voci al deserto! Pur nondimeno perseverava: e, ne'
primi mesi del 1860, mentre, ripresa la pubblicazione del periodico
Pensiero e Azione, insisteva, scrivendo, sul da farsi, s'adoprava
nello stesso tempo ad apprestare elementi e mezzi di nuovi moti a
primavera, dirigendo le sue mire alla Sicilia... Al quale intento
cooperarono, arditamente attivi, Rosalino Pilo, Francesco
Crispi((158)), La Masa, Corao ed altri patrioti siciliani, devoti
alla Patria, visitando segretamente, a rischio del capo, la serva
terra nativa, ordinandovi le prime bande, e dirigendo il moto che
determinò la spedizione di Marsala»((159)).
Il 5 maggio il Garibaldi, fin allora raggirato dalle arti della
diplomazia sarda((160)), ruppe gl'indugî, salpando da Quarto con la
prode schiera dei Mille, e il 27 entrava trionfante in Palermo,
nella nativa città di Rosalino Pilo, sei giorni dopo che quell'eroe
era caduto, colpito in fronte da una palla borbonica.
Appena fu liberata la Sicilia, il Mazzini, insieme col Bertani ed
altri, diè mano a preparare, secondo il suo antico concetto, mezzi e
uomini per una spedizione che, attraverso l'Umbria e lo Stato
Romano, si ricongiungesse al Garibaldi in Napoli; e fu tosto messa
insieme una brigata di duemila volontarî della quale ebbe il comando
G. Nicotera. Ma inaspettatamente dal Governo di Piemonte - che
temeva dei volontarì e che era geloso e sospettoso del prestigio
acquistato dal Garibaldi((161)) - venne ordine d'impedire alla
brigata di Castelpucci l'invasione dell'Umbria e dello Stato
Pontificio. Il Nicotera, ad evitare una guerra civile, ubbidì, pur
fieramente protestando contro lo sleale ed inatteso divieto e
dichiarando - gli eventi non giustificarono la promessa - che non
avrebbe più combattuto sott'altra bandiera, all'infuori di quella
repubblicana.
L'ingresso dell'eroico duce in Napoli persuadeva finalmente il
Cavour che l'unità d'Italia era ormai inevitabile, e che perciò la
Monarchia doveva fare qualche cosa per controbilanciare l'influenza
di Garibaldi, e per riacquistare la forza morale necessaria a
signoreggiare la rivoluzione((162)). Ed allora fu deliberata
l'occupazione delle Marche e dell'Umbria con l'esercito regio
guidato dal Cialdini, e nello stesso tempo vennero mandati a Napoli
abili faccendieri i quali, impazienti di ottenere la dedizione
immediata di Napoli e temendo che ad ottenere ciò fosse d'ostacolo
la presenza del Mazzini, non rifuggirono dall'eccitare contro di lui
i bassi fondi della città, che gli gridarono morte sotto le finestre
del suo alloggio. Alla lettera del prodittatore Pallavicino - cuore
generoso raggirato nel comune inganno - che lo esortava a partire da
Napoli, facendo appello al suo patriotismo, egli, rifiutando,
rispose con l'anima piena d'amarezza:
«Il più grande dei sacrificî ch'io potessi mai compiere, l'ho
compiuto quando, interrompendo per amore all'unità ed alla concordia
civile l'apostolato della mia fede, dichiarai ch'io accettava, non
per riverenza a ministri o monarchici, ma alla maggioranza - illusa
o no poco monta - del popolo italiano, la monarchia, presto a
cooperare con essa, purchè fosse fondatrice dell'unità.»
E nello scritto intitolato Nè apostati nè ribelli, non solo ribatte
la calunnia che i repubblicani abbiano cercato di attraversare i
disegni del Garibaldi, ma rivendica al partito d'insurrezione tutte
le iniziative d'unità nazionale.
Consegnato a Vittorio Emanuele il regno delle Due Sicilie e
ottenutone in compenso la più nera ingratitudine((163)), il
Garibaldi salpò povero e solo da Napoli per Caprera, dopo aver
fissato col Mazzini di fondare il giornale quotidiano l'Italia del
Popolo e di promuovere una sottoscrizione a favore di Venezia e di
Roma.
Ed anche il gran Genovese partì da Napoli con l'anima in pianto, e
riprese la via dell'esilio; ma, sempre tenace ne' suoi generosi
propositi, tutto si dette a ordinare il lavoro che doveva redimer
Roma e Venezia; ed a vantaggio delle due oppresse provincie usò
d'ogni onesto accorgimento, non escluso quello dell'azione
parlamentare; tanto che il Saffi ed altri di parte repubblicana, da
lui non dissuasi, si risolsero d'accettare il mandato di
rappresentanti della Nazione in Parlamento Egli però non ci volle
entrare mai, sebbene per tre volte consecutive eletto, sui primi del
'66, dai cittadini di Messina con plauso e commozione del non
immemore popolo d'Italia. Il quale avvenimento giova ricordare ad
onore dell'eroica città, che protestava con quel nome contro la
subdola e servile politica d'allora, ed a severa rampogna verso la
maggioranza parlamentare, che per ben due volte annullò quella
elezione, invocando, senza rossore, la sentenza della Corte
d'appello di Genova del 20 ottobre 1858.
Il programma del Mazzini per la redenzione del Veneto e dello Stato
Romano era riassunto in queste parole: A Roma per la via di Venezia;
chè egli per l'azione nelle provincie venete contro l'Austria faceva
molto assegnamento sull'Ungheria, sulla Polonia e sulle altre
popolazioni slave gementi tutte e frementi sotto il bastone
austriaco((164)). E mentre con siffatto intendimento attendeva a
preparare armi e danaro, cercava anche di mantener viva la protesta
morale contro la occupazione francese in Roma; nè solo in Italia, ma
in Inghilterra e nella Francia stessa. D'onde le Petizioni -
proposte e scritte da lui medesimo - al Parlamento Italiano, alla
Camera dei Comuni inglesi, e la Rimostranza a Luigi
Napoleone((165)).
Il 28 giugno dell'anno 1862 giunse improvvisa la notizia da Palermo
che il Garibaldi, accompagnato dal figlio Menotti, dal Guastalla,
Missori ed altri, era colà sbarcato, accolto con grande onore e con
grande esultanza del popolo e che, avendo fatto suo il grido uscito
dalla folla plaudente «O Roma o morte» preparava una spedizione
contro lo Stato Pontificio, fidando ancora nel tacito assenso del
governo del re non ostante il recentissimo tradimento di
Sarnico((166)).
Appena ebbe di ciò avviso il Mazzini, benchè dissentisse dal
Garibaldi circa il programma militare, dichiarò che non era più
tempo di discussioni, ma d'ajutare quel moto con tutte le forze! E
lasciata Londra, s'avviò in Italia. Ma era appena giunto a Lugano,
che ebbe notizia del luttuoso e codardo fratricidio d'Aspromonte, e,
pochi giorni dopo, dell'efferato assassinio di Fantina((167)).
Era colmo e traboccava il vaso delle nequizie governative: con gente
capace di simili azioni nè accordo nè tolleranza potevano più a
lungo perdurare, e G. Mazzini nella sua lealtà denunciò a'
governanti ed al popolo la tregua fin allora subita con la seguente
dichiarazione:
«La palla di moschetto regio che feriva Garibaldi ha lacerato
l'ultima linea del patto che s'era stretto, or sono due anni, tra i
repubblicani e la monarchia... Noi ci separiamo oggi per sempre da
una monarchia che combatte in Sarnico per l'Austria, in Aspromonte
pel papa».
A questo breve ma triste periodo della nostra storia, pieno di forti
propositi, di generosi ardimenti da parte del popolo; di titubanze,
di raggiri, di colpe da parte del Governo, si riferiscono gli
scritti compresi nel presente volume: Una dichiarazione, I
Monarchici e noi, la Lettera a Campanella e l'altra agli Editori del
Dovere.
Quando poi il Governo firmò la indegna Convenzione di settembre, con
la quale rinunciava a Roma, il Mazzini protestò contro quell'atto
con diversi scritti: La Convenzione, La Convenzione e Torino, Ai
giovani delle Romagne e delle Marche, Roma è dell'Italia, Ai miei
fratelli delle Romagne, dal primo dei quali togliamo il brano
seguente, profezia di ciò che avvenne tre anni dopo alla gloriosa e
sventurata spedizione nell'Agro Romano:
«La Convenzione, se il Governo mantiene i patti, decreta Roma
abbandonata fra due anni a una lotta feroce senza pro: l'Italia
legata ad assistervi immobile: Aspromonte in permanenza: decreta -
se il Governo non li mantiene - il disonore della Nazione; la guerra
della Francia per violazioni di trattati liberamente sanciti;
l'incredulità dell'Europa in ogni promessa dell'Italia.»
Il Mazzini aveva sperato che i deputati dell'estrema sinistra,
indignati d'un atto che era violazione della legge fondamentale e
dell'onore della Nazione, si sarebbero ritirati come Trasea da un
Senato irreparabilmente servile e corrotto; ma fu disingannato; chè
anzi il loro capo, Francesco Crispi, improvvisamente convertito,
inalberava, in una lettera al Mazzini, una nuova bandiera col motto:
la monarchia ci unisce, la repubblica ci divide. Il Mazzini a sua
volta rispose con la stupenda lettera, inserita anche in questo
volume, la quale segna la completa rottura fra il partito mazziniano
e la maggior parte della sinistra parlamentare.
«Nel 1866 la rottura dell'alleanza austro-prussiana e la guerra
germanica offersero alla nazione ed alla monarchia la grande,
l'invocata opportunità per l'acquisto del Veneto.» Sotto diverso
reggimento, fidandosi nella iniziativa e nelle forze popolari, non
trattenuta da tutela imperiale, «l'Italia avrebbe potuto coronarsi
di gloria, vincendo, con armi sue, per terra e per mare, e
integrando i suoi nazionali confini»((168)).
Pur troppo così non fu. L'esito di quella guerra, che ci diede per
le mani di Napoleone il Veneto, s'associa ai ricordi più tristi ed
umilianti per il paese: Lissa e Custoza segnano la condanna
inesorabile di chi non seppe meglio usare dell'italica forza e
valore. La storia dovrà ripetere la desolante esclamazione di Nino
Bixio: Quello che io so è che noi siamo disonorati!
Il Mazzini, che era venuto in Italia a spingere i suoi fra i
volontarî di Garibaldi e a prestare tutta l'opera sua per
rinfocolare i santi entusiasmi; dopo gli inesplicabili disastri,
l'armistizio, l'ordine al Garibaldi di ritirarsi dalle forti
posizioni conquistate nel Trentino, nulla più potendo, ritornava in
Lugano. E quando ebbe notizia d'un'amnistia a lui accordata, la
rifiutò sdegnosamente dicendo che non gli dava il core di rivedere
l'Italia il giorno stesso in cui essa accettava tranquilla il
disonore e la colpa.
Ottenuto il Veneto nel modo inglorioso dianzi accennato, l'objetto
del pensiero nazionale si fissava nella liberazione di Roma; ma
mentre da un lato il partito d'azione, capitanato dal Mazzini e dal
Garibaldi, si rivolgeva al patriotismo delle popolazioni tuttora
soggette al dominio teocratico, dall'altro lato il partito del
Governo, sempre soggetto alle istruzioni dell'Eliseo, inculcava
doversi rinunziare ad ogni tentativo armato ed aspettare Roma dalla
maturità dei tempi e dalla benevolenza del Bonaparte((169)).
Non a questo fatalismo inerte si rassegnavano i conscienti palpiti
popolari, ed appena il Garibaldi ebbe pronunziato di nuovo il grido:
Andiamo a Roma! la gioventù italiana rispose balda e fidente: Siamo
con voi! E il Governo, coerente alla propria politica, ai patti che
aveva escogitato nella sua alta sapienza diplomatica,
volontariamente si accinse ad inseguire ed arrestare i giovani
generosi, che accorrevano a far sacrifizio della propria vita per la
redenzione di Roma e ad assistere coll'arme al piede, fida
sentinella del Bonaparte, all'ecatombe di Mentana.
Come risulta limpidamente dal proemio del Saffi((170)), in quella
sventurata campagna del '67, i seguaci del Mazzini furono, per suo
consiglio, fra i primi a seguire il Garibaldi; e questo giova
notarlo, perchè lo stesso Garibaldi, ingannato da maligni
insinuatori, credette allora e per molto tempo appresso che
dell'infelice esito di quella spedizione fossero responsabili i
mazziniani.
Vero è che il Mazzini avrebbe voluto vedere il popolo d'Italia
entrare in Roma a riprendere e continuare le gloriose tradizioni del
'49, come dice anche in un suo scritto Ai Romani((171)), pubblicato
fino dal 1866; ma appunto per questo egli aveva bisogno di spingere
ad arrolarsi nell'esercito garibaldino gli uomini del suo partito, i
quali, dopo la vittoria, avrebbero potuto risollevare l'antica
bandiera repubblicana((172)).
E a buona ragione premeva sventolare quella bandiera gloriosa,
perchè la monarchia s'era macchiata della maggior colpa, rinunziando
a Roma; ond'egli scriveva: «Ho esaurito con la monarchia tutte le
prove, tutte le concessioni, tutta l'obbedienza possibile. Dispero
d'essa, non dispero dell'Italia.» Pur ritenendo il momento non
propizio, la bandiera errata, secondò nondimeno con ogni forza a sua
disposizione la iniziativa del Garibaldi; la secondò pur
prevedendone l'esito, perchè in quella occasione, come in ogni
altra, tutto subordinò e sacrificò alla costituzione della patria
unità.
Ben pochi sono i nomi dei grandi pensatori ed apostoli la cui fede
seppe trionfare di una lunga vita nella quale costanti delusioni,
persecuzioni e calunnie non vennero temperate da periodi di
soddisfazioni e di successo. Fra quei pochissimi si scriverà il nome
di G. Mazzini; di lui che ebbe sempre la terra promessa, a cui avea
condotto il popolo italiano, dinanzi agli occhi, ed esule e ramingo
ne fu sempre proscritto. Irradiato da presciente fede, tetragono al
dolore, il forte animo non vacillò, nè per un istante cedette alle
patrie vergogne o alla ingratitudine ed alle false accuse che ebbe
sempre in compenso della magnanima sua opera; non vacillò nemmeno
quando ai dolori morali, per la fiacchezza del corpo logoro da tanti
patimenti, s'aggiunsero quelli fisici, che lo trassero dopo lunghe
sofferenze, stoicamente sopportate, al sepolcro.
D'ogni breve periodo di sollievo profittava per continuare il suo
già quarantenne apostolato, e così, per esempio, scriveva agli amici
di Bologna: «Miglioro. E in verità il nuovo guanto di sfida che il
papato e lo straniero, protettore del papato, ci mandano coi
cadaveri di Monti e Tognetti, l'ira italiana ed il terrore di
scendere nel sepolcro coll'imagine della mia patria disonorata,
inchiodata nell'anima, operano, credo, a guisa di tonici sul corpo
infiacchito.»
«Ma in quel tempo, narra il Saffi((173)), i nuclei dell'alleanza
repubblicana stendevano, intrecciavano le loro fila di regione in
regione, avevano aderenti nella bassa ufficialità dell'esercito,
patrocinatori segreti nell'opposizione parlamentare; e i loro atti
di propaganda correvano per ogni terra d'Italia, erano diffusi nelle
officine, penetravano nelle caserme.»
E il Governo impaurito di quella propaganda, ferocemente insaniva,
ordinando sequestri, sciogliendo associazioni e cacciando in
prigione i migliori patrioti; nè di ciò pago, faceva spargere
calunnie di accoltellatori assoldati dal partito mazziniano a dare
di piglio negli averi e nel sangue dei cittadini; e costringeva,
d'accordo col Bonaparte, il Governo federale a cacciare gli esuli
raccolti nel Canton Ticino((174)).
Alla volgare calunnia rispose il Mazzini nobilmente, serenamente,
come chi si sente l'animo integro, con lo scritto Ai nemici, al
quale mandiamo il lettore((175)).
Furono quelli dal '67 al '70 tristissimi anni, chiamati con ragione
dal Garibaldi tempi borgiani, i quali forse soltanto nei presenti
trovano riscontro; per la qual cosa mai come allora suonò santa e
potente al cuore della patria la voce del Mazzini, quasi voce della
Nemesi italiana, che in mezzo alle corruzioni, alle viltà, agli
arbitrî, allo sperpero del pubblico denaro si levasse vendicatrice
dell'onor nazionale((176)).
Nello scritto L'iniziativa, pubblicato nel maggio 1870((177)), il
Mazzini riassume con un'abile sintesi le misere condizioni
politiche, morali ed economiche nelle quali dibattevasi la Patria
per opera di un Governo senza fede e senza ideali, e prova alla
stregua dei fatti che dal popolo solo può sorgere una vera
iniziativa nazionale.
«Fra quelle congiunture, fermo nell'idea che l'Italia dovesse
procedere e predisporre, anzichè seguire, le combinazioni del tempo,
e impaziente d'inalzare la bandiera, che sola poteva, per suo
avviso, rigenerarne la vita, cedette ad ingannevoli proposte
d'azione in Sicilia; e perchè il moto porgesse malleveria non dubbia
di tendere, non a separazione, ma ad unità, deliberò di recarsi a
capitanarlo. Nè valsero a rimuoverlo dal suo proposito gli
avvertimenti degli amici, convinti della vanità del tentativo. Mosse
pertanto, nel luglio del 1870, alla volta dell'Isola, com'uomo che
si consacra all'ultimo sacrificio per la sua fede. Ne seguì, come
tutti sanno, la sua cattura sulla nave che l'avea condotto nelle
acque di Palermo e la reclusione a Gaeta»((178)).
Seppe in carcere della fucilazione del Barsanti e ne provò un
profondo dolore, una nuova scossa quel corpo affranto, il quale
ormai reggeva a tante lotte per la sola vigoria dello spirito, che
ebbe in lui una perenne giovinezza((179)); e ne sono mirabile
testimonianza gli ultimi scritti dettati poco prima di
morire((180)).
Seppe pure in carcere della presa di Roma; ma tale avvenimento non
poteva dargli allegrezza, chè nella Città Eterna, non il popolo
entrava altero e cosciente de' propri destini, ad iniziarvi la terza
civiltà; ma la monarchia, quasi riluttante e supplichevole in atto,
a continuarvi la pedestre politica d'ipocrisie e di volgari
espedienti((181)); e nello scritto Ai miei fratelli repubblicani
dopo la prigionia di Gaeta((182)) raccomandò in Roma e per Roma
l'apostolato dell'Alleanza repubblicana.
Uscito di carcere per atto d'amnistia, correva a Staglieno a sfogare
la suprema angoscia dell'animo invitto sul sepolcro materno; quindi,
mesto e sdegnoso di dover la propria libertà ad un reale decreto,
riprendeva ancora una volta la triste via dell'esilio.
«Cessato l'arringo dell'azione armata - continua il Saffi - dinanzi
all'unità materialmente compiuta, sentì più che mai profondo il
bisogno di volgere quell'avanzo di vita, che la natura fosse per
concedergli, all'arringo dell'azione pacifica, cercando preparare
nella mente e nella virtù della nuova generazione, l'unità morale
della patria risorta. Al quale effetto egli volse l'animo a due
principali intenti: l'ordinamento cioè delle società operaje
d'Italia a nazionale fratellanza, e la fondazione, nella capitale,
d'un periodico: La Roma del Popolo, inteso a riassumere, sotto forma
d'apostolato civile, la tradizione della scuola repubblicana
unitaria, discesa dalla Giovine Italia, interpretandone al Paese le
dottrine religiose, politiche o sociali»((183)).
Sono frequenti in quel tempo gli scritti di G. Mazzini che apparvero
nella Roma del Popolo - come può vedersi in fine del presente volume
- indirizzati ad associazioni operaje, alle quali specialmente e
continuamente raccomanda di non separare la questione economica da
quella politica, e di stare in guardia contro esotiche dottrine
tendenti o ad abolire ogni legittimo principio d'autorità o a
distruggere nella patria, nella famiglia, nella proprietà
individuale i cardini su cui si svolge oggi ogni progresso di civile
consorzio.
«Nè mai forse come in quell'estremo periodo del viver suo - continua
il Saffi - la parola del Grande Italiano penetrò così addentro nella
mente, non che dei suoi discepoli, ma di coloro stessi tra i suoi
compagni di Patria, che avevano per lo innanzi ignorato o frainteso
i veri intendimenti delle sue dottrine.»
Ed a queste dottrine facendo, com'era suo costume, seguire
l'applicazione pratica, fece sì che in Roma convenissero i
rappresentanti dei varî sodalizî operai della Penisola a stringere
un patto di fratellanza, che doveva organizzare tutto il ceto
artigiano in un gran corpo od ordine nazionale((184)). In quel
Congresso fu proclamato mezzo efficace all'emancipazione economica
delle classi operaje, la costituzione delle cooperative di consumo e
di produzione, le quali, da quel tempo in poi, crebbero
continuamente di numero e d'importanza, tanto nei piccoli come nei
vasti centri, avviamento lento ma sicuro verso quell'ultimo assetto
sociale da lui vagheggiato: la riunione, cioè, del capitale e del
lavoro nelle stesse mani((185)).
Ma questa propaganda morale e sociale, a cui consacrò le rimanenti
forze dell'anima sua, gli fruttò, come di consueto, accuse,
calunnie, amarezze infinite, e, come di consueto, ei continuò
impavido nella lotta: e con lo scritto intitolato Il Comune e
l'Assemblea((186)) pubblicato il 3 maggio 1871 nella Roma del
Popolo, egli respinse il consiglio di coloro che lo esortavano a
tacere di questione religiosa e sociale per non suscitare discordie
nel partito. Lo respinse perchè, oltre ad essere il Mazzini
sinceramente e profondamente convinto, giudicava che tacendo o
mentendo, non si ottengono mai unioni efficaci e durevoli((187)).
«Al cadere dell'anno 1870 - scrive il Saffi((188)) - quasi presago
della sua fine, volle rivedere i suoi amici inglesi a Londra,
serbando l'antica consuetudine di celebrare con essi a domestico
ritrovo l'ora del passaggio dell'anno che muore all'anno che nasce.
Mosse nel cuore dell'inverno da Lugano, in compagnia del suo giovane
amico Giuseppe Nathan, passando il Gottardo, mal riparato dal freddo
e dalla neve; onde gli si aggravò la tosse, che da tempo lo
affaticava. Fatta breve dimora in Londra, si ricondusse nei primi
giorni del '71 a Pisa, per dar mano più da vicino alla
collaborazione della Roma del Popolo; poi di nuovo a Lugano
nell'autunno di quell'anno, e vi si trattenne fino al febbrajo. Ma
in principio di quel mese, non curando la rigida stagione, volle
tornare a Pisa; e quel viaggio, molestato com'era dalla bronchite,
l'uccise.»
CENNI E DOCUMENTI
INTORNO ALL'INSURREZIONE LOMBARDA
E ALLA
GUERRA REGIA DEL 1848
dicembre 1849.
SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI
I.
TENDENZE NAZIONALI - MOTIVI DELLA GUERRA REGIA DOCUMENTI GOVERNATIVI
II moto italiano assumeva più sempre di giorno in giorno il
carattere nazionale che ne costituisce l'intima vita. Il grido Viva
l'Italia suonava nell'estrema Sicilia; fremeva in ogni
manifestazione di scontento locale: conchiudeva, come il delenda
Carthago di Catone, ogni discorso politico. Altrove, le moltitudini
s'agitavano, insofferenti di miseria o d'ineguaglianza, in cerca
d'un nuovo assetto di cose, sociale o politico: in Italia, vanto
unico e speranza potente di grandi cose future, sorgevano o
anelavano sorgere per una idea: cercavan la patria, guardavano
all'Alpi. La libertà, fine agli altri popoli, era mezzo per noi. Non
che gl'Italiani, com'altri s'illuse a crederlo o finse, fossero
noncuranti dei loro diritti o imbevuti di credenze monarchiche -
tranne in qualche angolo di Napoli o di Torino, non credo sia popolo
che per tradizioni, coscienza d'eguaglianza civile, colpe di
principi e istinti di missione futura, sia democratico, quindi
repubblicano più del popolo nostro - ma sentivano troppo altamente
di sè per non sapere che l'Italia fatta nazione sarebbe libera, e
avrebbero sagrificato per un tempo la libertà a qualunque, papa,
principe o peggio, avesse voluto guidarli e farli nazione. Ostacolo,
non il più potente, ma il più dichiarato e visibile,
all'affratellamento di quanti popolano questa sacra terra d'Italia,
era l'Austria. E guerra all'Austria invocavano innanzi tutto, e quel
tanto di libertà ch'essi andavano strappando ai loro padroni giovava
quasi esclusivamente a far più forte e unanime e solenne quel grido.
Fin dall'aprile 1846, l'indirizzo ai legati pontificî raccolti in
Forlì, dopo aver compendiato le giuste lagnanze delle provincie,
conchiudeva che le questioni col malgoverno locale erano, per gli
uomini delle Romagne, secondarie, che principale era la questione
italiana, e che il più grave peccato della corte papale era quello
d'essere ligia dell'Austria. In Ancona, nell'agosto 1846, l'annunzio
dell'amnistia pontificia raccoglieva le moltitudini sotto le
finestre dell'agente austriaco e la gioja si traduceva naturalmente
nel grido: Via gli stranieri! In Genova, quando nel novembre 1847 il
re si recava a visitare quella città e quaranta mila persone gli
passavano, plaudenti ad una speranza, davanti, la bandiera strappata
nel 1746 da Genova insorta agli Austriaci s'inalzava, tra quelle
migliaja, programma eloquente dei loro voti. Così per ogni dove e da
tutti. Metternich intendeva le tendenze nazionali del moto: Sotto la
bandiera delle riforme amministrative - ei diceva al conte
Dietrichstein in un dispaccio del 2 agosto 1847 - i faziosi...
cercano consumare un'opera, che non potrebbe rimanersi circoscritta
nei limiti dello Stato della Chiesa, nè in quelli d'alcuno degli
Stati che nel loro insieme compongono la penisola italiana. Le sètte
tendono a confondere questi Stati in un solo corpo politico o per lo
meno in una confederazione di Stati posta sotto la condotta d'un
potere centrale supremo. Ed era vero: se non che tutta Italia era
sètta.
Era un momento sublime: il fremito che annunziava il levarsi di una
nazione, il tocco dell'ora che dovea porre nel mondo di Dio una
nuova vita collettiva, un apostolato di ventisei milioni d'uomini,
oggi muti, che avrebbero parlato alle nazioni sorelle la parola di
pace, di fratellanza e di verità. Se nell'anima di quei che
reggevano fosse stata una sola favilla di vita italiana, avrebbero,
commossi, dimenticato dinastia, corona, potere, per farsi primi
soldati della santa crociata, e detto a sè stessi: Più vale un'ora
di comunione in un grande pensiero con un popolo che risorge, che
non la solitudine d'un trono minacciato dagli uni e sprezzato dagli
altri per tutta una esistenza. Ma per decreto di provvidenza che
vuol sostituire l'èra dei popoli a quella dei re, i principi non
sono oggimai nè possono esser da tanto; e si giovarono di quella
generosa ma incauta tendenza all'oblio e al sagrificio della
libertà, al desiderio d'indipendenza che poc'anzi accennammo, per
tradir l'una e l'altra e ricacciarci, deludendo il più bel voto di
popolo che mai si fosse, dov'oggi siamo.
Era sorta tra la fucilazione dei fratelli Bandiera e la morte di
Gregorio XVI, una gente, educata, comunque ciarlasse di
cristianesimo e di religione, metà dal materialismo scettico del
secolo XVIII, e metà dall'eclettismo francese, che sotto nome di
moderati - come se tra l'essere e il non essere, tra la nazione
futura e i governi che ne contendono lo sviluppo, potesse mai
esistere via di mezzo - s'era proposta a problema da sciogliere la
conciliazione degli inconciliabili, libertà e principato,
nazionalità e smembramento, forza e direzione mal certa. Nessuna
sètta d'uomini potrebb'esser da tanto: essi men ch'altri. Erano
scrittori dotati d'ingegno, ma senza scintilla di genio, forniti
quanto basta d'erudizione italiana raccolta, senza scorta
vivificatrice di sintesi, nel gabinetto e fra i morti, ma senza
intelletto del lavoro unificatore sotterraneamente compito nei tre
ultimi secoli, senza coscienza di missione italiana, senza facoltà
di comunione col popolo ch'essi credevano corrotto ed era migliore
di loro, e dal quale li tenevano disgiunti abitudini di vita,
diffidenze tradizionali e istinti non cancellati d'aristocrazia
letterata o patrizia. E per questa loro segregazione morale e
intellettuale dal popolo, unico elemento progressivo ed arbitro
oggimai della vita della nazione, erano diseredati d'ogni scienza e
d'ogni fede dell'avvenire. Il loro concetto storico errava, con
lievi rimutamenti, tra il guelfismo e il ghibellinismo; il concetto
politico, checchè facessero per ammantarlo di veste italiana, non
oltrepassava i termini della scuola che, discesa in Francia da
Montesquieu ai Mounier, ai Malouet, ai Lally Tollendal e siffatti
dell'Assemblea nazionale, s'ordinò a sistema tra gli uomini che
diressero l'opinione in Francia nei quindici anni che seguirono il
ritorno di Luigi XVIII: erano monarchici con una infusione di
libertà, tanta e non più che facesse tollerabile la monarchia e,
senza stendersi sino alla moltitudine a suscitar l'idea di diritti
che aborrivano e di doveri che non sospettavano, attribuisse loro
facoltà di stampare le loro opinioni e un seggio in qualche
consulta. In sostanza non avevano credenza alcuna: la loro non era
fede nel principio regio come quando il dogma del diritto divino
immedesimato in certe famiglie o l'affetto cavalleresco posto in
certe persone collocava il monarca tra Dio e la donna del core - mon
Dieu, mon roi et ma dame: - era accettazione passiva, inerte, senza
riverenza e senza amore, d'un fatto ch'essi si trovavano innanzi e
che non s'attentavano d'esaminare: era codardia morale, paura del
popolo al cui moto ascendente disegnavano argine la monarchia, paura
del contrasto inevitabile fra i due elementi ch'essi non si
sentivano capaci di reggere, paura che l'Italia fosse impotente a
rivendicarsi con forze popolari anche quella meschina parte
d'indipendenza dallo straniero ch'essi pure, teneri, per unica dote,
dell'onore italiano, volevano. Scrivevano con affettazione di
gravità, con piglio d'acuti e profondi discernitori, consigli
ricopiati da tempi di sviluppo normale, da uomini ravvolti in guerre
parlamentarie e cittadini di nazioni fatte, a un popolo che da un
lato aveva nulla, dall'altro avea vita, unità, indipendenza,
libertà, tutto da conquistare: il popolo rispondeva alle loro voci
eunuche col ruggito e col balzo del leone, cacciando i gesuiti,
esigendo guardie civiche e pubblicità di consulte, strappando
costituzioni ai principi, quand'essi raccomandavano silenzio, vie
legali e assenza di dimostrazioni perchè il core paterno dei padroni
non s'addolorasse. S'intitolavano pratici, positivi, e meritavano il
nome d'arcadi della politica. Questi erano i duci della((189))
fazione, nè ho bisogno di nominarli; ed oggi taluni fra loro, per
desiderio di potere o vanità ferita dalla solitudine che s'è creata
d'intorno ad essi, stanno a capo della reazione monarchica contro ai
popoli. Ma intorno ad essi, salito appena al papato Pio IX,
s'aggrupparono, tra per influenza della loro parola e del prestigio
esercitato dai primi atti di quel pontefice, tra per precipitoso
sconforto dei molti tentativi falliti e speranza d'agevolare
all'Italia le vie del meglio, molti giovani migliori d'assai di que'
capi e che s'erano pressochè tutti educati al culto dell'idea
nazionale nelle nostre fratellanze, anime candidissime e santamente
devote alla patria, ma troppo arrendevoli e non abbastanza temprate
dalla natura o dai patimenti alla severa energica fede nel vero
immutabile, stanche anzi tempo d'una lotta inevitabile, ma
dolorosissima, o frantendenti il bisogno che domina tutti noi d'una
autorità in riverenza all'autorità ch'esisteva e sembrava allora
rifarsi. E più giù s'accalcava, lieta di presentire menomati i
sagrificî e gli ostacoli, la moltitudine degli adoratori del
calcolo, dei mediocri d'intelletto e di cuore, dei tiepidi respinti
dal vangelo ai quali il nostro grido di guerra turbava i sonni e il
programma dei moderati prometteva gli onori del patriotismo a patto
che scrivessero qualche articolo pacifico di gazzetta o
armeggiassero innocentemente col Lloyd sulle vie ferrate o
supplicassero al principe che si degnasse mostrarsi meno tiranno. E
più giù ancora, peste di ogni parte, brulicava, s'affaccendava la
genìa dei raggiratori politici, uomini di tutti mestieri, arpìe che
insozzano ciò che toccano, ed esperti in ogni paese a giurare,
sgiurare, inalzare a cielo, calunniare, ardire o strisciare a
seconda del vento che spira e per qualunque dia loro speranza
d'agitazione senza gravi pericoli d'una microscopica importanza o
d'un impieguccio patente o segreto: razza più rara, per favore di
Dio, in Italia che non altrove; pur troppo più numerosa, per forza
d'educazione gesuitica, tirannesca, materialista, che non si
vorrebbe in un popolo grande nel passato e chiamato a esser grande
nell'avvenire.
Dai primi esciva una voce che ci diceva: «La nostra prima questione
è l'indipendenza, la prima nostra contesa è coll'Austria, potenza
gigantesca per elementi proprî e leghe coi governi d'Europa; or voi
non avete eserciti o li avete, se minacciate i vostri principi,
nemici a voi. Il popolo nostro è corrotto, ignorante, disavvezzo
dall'armi, indifferente, svogliato; e con un popolo siffatto non si
fa guerra di nazione nè repubblica fondata sulla virtù. Bisogna
prima educarlo a forti fatti e a morale di cittadini. Il progresso è
lento e va a gradi. Prima l'indipendenza, poi la libertà educatrice,
costituzionale monarchica, poi la repubblica. Le faccende dei popoli
si governano a opportunità; e chi vuol tutto ha nulla. Non
v'ostinate a ricopiare il passato e un passato di Francia. L'Italia
deve aver moto proprio e proprie norme a quel moto. I principi
vostri non vi sono avversi se non perchè li avete assaliti.
Affratellatevi con essi; spronateli a collegarsi in leghe
commerciali, doganali, industriali; poi verranno le militari, e
avrete eserciti pronti e fedeli. E i governi esteri comincieranno a
conoscervi e l'Austria imparerà a temervi. Forse conquisteremo
pacificamente, e con sagrificî pecuniarî, l'indipendenza; dove no, i
nostri principi, riconciliati con noi, ce la daranno coll'armi.
Allora penseremo alla libertà.»
I secondi - gl'illusi buoni - inneggiavano a Pio IX, anima d'onesto
curato e di pessimo principe, chiamandolo rigeneratore d'Italia,
d'Europa e del mondo: predicavano concordia, oblio del passato,
fratellanza universale tra principi e popoli, tra il lupo e
l'agnello: inalzavano commossi un cantico d'amore sopra una terra
venduta, tradita da principi e papi per cinque secoli e che beveva
ancora sangue di martiri trucidati pochi dì prima.
Gli ultimi - i faccendieri - correvano, s'agitavano, si
frammettevano, commentavano il testo, ronzavano strane nuove
d'intenzioni regie, di promesse, d'accordi coll'estero, ripetevano
parole non dette, spacciavan medaglie: al popolo spargevano cose
pazze dei principi: a noi tendevano con mistero la mano, susurrando:
Lasciate fare; ogni cosa a suo tempo; or bisogna giovarci degli
uomini che tengono cannoni ed eserciti, poi, li rovescieremo. Io non
ne ricordo un solo che non m'abbia detto o scritto: Io sono, in
teoria, repubblicano come voi siete; e che intanto non calunniasse
come meglio poteva la parte nostra e le nostre intenzioni.
Noi eravamo repubblicani per antica fede fondata su ciò che abbiam
detto più volte e che ridiremo; ma innanzi tutto, per ciò che tocca
l'Italia, perchè eravamo unitarî, perchè volevamo che la patria
nostra fosse nazione. La fede ci faceva pazienti: il trionfo del
principio nel quale eravamo e siamo credenti è sì certo, che
l'affrettarsi non monta. Per decreto di provvidenza, splendidissimo
nella progressione storica dell'umanità, l'Europa corre a
democrazia: la forma logica della democrazia è la repubblica: la
repubblica è dunque nei fati dell'avvenire. Ma la questione
dell'indipendenza e della unificazione nazionale voleva decisione
immediata e pratica. Or come raggiungerla? I principi non volevano:
il papa nè voleva, nè poteva. Rimaneva il popolo. E noi gridavamo
come i nostri padri: popolo! popolo! e accettavamo tutte le
conseguenze e le forme logiche del principio contenuto in quel
grido.
Non è vero che il progresso si manifesti per gradi; s'opera a gradi;
e in Italia il pensiero nazionale s'è elaborato nel silenzio di tre
secoli di servaggio comune e per quasi trent'anni d'apostolato
assiduo coronato sovente dal martirio dei migliori fra noi.
Preparato per lavoro latente il terreno, un principio si rivela
generalmente coll'insurrezione, in un moto collettivo, spontaneo,
anormale di moltitudini, in una subitanea trasformazione
dell'autorità: conquistato il principio, la serie delle sue
deduzioni ed applicazioni si svolve con moto normale, lento,
progressivo, continuo. Non è vero che libertà e indipendenza possano
disgiungersi o rivendicarsi ad una ad una: l'indipendenza, che non è
se non la libertà conquistata sullo straniero, esige, a non riescire
menzogna, l'opera collettiva d'uomini che abbiano coscienza della
propria dignità, potenza di sagrificio e virtù d'entusiasmo che non
appartengono se non a liberi cittadini; e nelle rare contese
d'indipendenza sostenute senza intervento apparente di questione
politica, i popoli desumevano la loro forza dalla unità nazionale
già conquistata. Non è vero che le virtù più severe repubblicane si
richiedano a fondare repubblica; idea siffatta non è se non vecchio
errore che ha falsato in quasi tutte le menti la teorica
governativa; le istituzioni politiche devono rappresentare
l'elemento educatore dello Stato, e perciò appunto si fondano le
repubbliche onde germoglino e s'educhino nel petto dei cittadini le
virtù repubblicane che l'educazione monarchica non può dare. Non è
vero che a ricuperare l'indipendenza basti una forza cieca di
cannoni e d'eserciti: alle battaglie della libertà nazionale si
richiedono forze materiali e una idea che presieda all'ordinamento
loro e ne diriga le mosse; la bandiera che s'inalza di mezzo ad esse
dev'essere il simbolo di quell'idea; e quella bandiera - i fatti lo
hanno innegabilmente provato - vale metà del successo. E del resto,
il collegamento franco, ardito, durevole, nella guerra
d'indipendenza tra sei principi, alcuni di razza austriaca, quasi
tutti di razza straniera, tutti gelosi e diffidenti l'uno dell'altro
e tremanti, per misfatti commessi e coscienza del crescente moto
europeo, del popolo e senz'altro rifugio contr'esso che l'Austria, è
ben altra utopia che la nostra. Voi dunque non potete sperare di
fondar nazione se non con un uomo o con un principio: avete l'uomo?
avete fra i vostri principi il Napoleone della libertà, l'eroe che
sappia pensare e operare, amare sovra ogni altro e combattere,
l'erede del pensiero di Dante, il precursore del pensiero del
popolo? Fate ch'ei sorga e si sveli; e dove no, lasciateci evocare
il principio e non trascinate l'Italia dietro a illusioni pregne di
lagrime e sangue.
Noi dicevamo queste cose - non pubblicamente, ma nei colloqui
privati e nelle corrispondenze - a uomini fidatissimi di quei primi.
Ai secondi, agli amici che ci abbandonavano, guardavamo mestamente
pensando: Voi ci tornerete, consumata la prova; ma Dio non voglia
che riesca tale da sfrondarvi l'anima e la fede nei destini
italiani! Dagli ultimi, dai faccendieri - ci ritraevamo per non
insozzarci. Amici o nemici, eravamo e volevamo serbarci nobilmente
leali. Le nazioni - noi lo dicemmo più volte - non si rigenerano
colla menzogna.
A quell'ultima nostra interrogazione, i moderati rispondevano
additandoci Carlo Alberto.
Io non parlo del re: checchè tentino gli adulatori e i politici
ipocriti i quali fanno oggi dell'entusiasmo postumo per Carlo
Alberto un'arme d'opposizione al successo re regnante - checchè or
senta il popolo santamente illuso che simboleggia in quel nome il
pensiero della guerra per l'indipendenza - il giudizio dei posteri
peserà severo sulla memoria dell'uomo del 1821, del 1833 e della
capitolazione di Milano. Ma la natura, la tempra dell'individuo era
tale da escludere ogni speranza d'impresa unificatrice italiana.
Mancavano a Carlo Alberto il genio, l'amore, la fede. Del primo,
ch'è una intera vita logicamente, risolutamente, fecondamente devota
a una grande idea, la carriera di Carlo Alberto non offre vestigio:
il secondo gli era conteso dalla continua diffidenza, educata anche
dai ricordi d'un tristo passato, degli uomini e delle cose; gli
vietava l'ultima l'indole sua incerta, tentennante, oscillante
perennemente tra il bene e il male, tra il fare e il non fare, tra
l'osare e il ritrarsi. Un pensiero, non di virtù, ma d'ambizione
italiana, pur di quell'ambizione che può fruttare ai popoli, gli
aveva, balenando, solcato l'anima nella sua giovinezza; ed ei s'era
ritratto atterrito, e la memoria di quel lampo degli anni primi gli
si riaffacciava a ora a ora, lo tormentava insistente, più come
richiamo d'antica ferita che come elemento e incitamento di vita.
Tra il rischio di perdere, non riuscendo, la corona della piccola
monarchia e la paura della libertà che il popolo, dopo aver
combattuto per lui, avrebbe voluto rivendicarsi, ei procedeva con
quel fantasma sugli occhi quasi barcollando, senza energia per
affrontare quei pericoli, senza potere o voler intendere che ad
essere re d'Italia era mestieri dimenticare prima d'essere il re di
Piemonte. Despota per istinti radicatissimi, liberale per amor
proprio e per presentimento dell'avvenire, egli alternava fra le
influenze gesuitiche e quelle degli uomini del progresso. Uno
squilibrio fatale tra il pensiero e l'azione, tra il concetto e le
facoltà di eseguirlo, trapelava in tutti i suoi atti. I più, tra
quei che lavoravano a prefiggerlo duce all'impresa, lo confessavano
tale. Taluni fra i suoi famigliari susurravano che egli era
minacciato d'insania. Era l'Amleto della monarchia.
Con uomo siffatto, non poteva di certo compirsi l'impresa italiana.
Metternich, ingegno non potente ma logico, aveva giudicato da lungo
lui e gli altri: però, nel dispaccio citato, ei diceva: La monarchia
italiana non entra nei disegni dei faziosi.... una ragione pratica
deve stornarli dall'idea d'una Italia monarchica; il re possibile di
questa monarchia non esiste al di là nè al di qua delle Alpi. Essi
camminano verso la repubblica... -
I moderati, ingegni nè potenti nè logici, intendevano essi pure che,
s'anche avesse voluto, Carlo Alberto non avrebbe potuto e non era da
tanto, ma transigevano coll'intento, e all'Italia invocata
sostituivano il concettino d'una Italia del nord. Era fra tutti
concetti il pessimo che mente umana potesse ideare.
Il regno dell'Italia settentrionale sotto il re di Piemonte avrebbe
potuto essere un semplice fatto creato dalla vittoria, accettato
dalla riconoscenza, subìto dagli altri principi per impossibilità di
distruggerlo; ma gittato in via di programma anteriore ai primordî
del fatto, era il pomo della discordia, là dove la più alta
concordia era necessaria. Era un guanto di sfida cacciato, colla
negazione dell'unità, agli unitarî - un sopruso, sostituendo alla
volontà nazionale la volontà della parte monarchica, ai repubblicani
- una ferita alla Lombardia che volea confondersi nell'Italia, non
sagrificare la propria individualità a un'altra provincia italiana -
una minaccia all'aristocrazia torinese che paventava il contatto
assorbente della democrazia milanese - un ingrandimento sospetto
alla Francia perchè dato a una potenza monarchica avversa da lunghi
anni alle tendenze e ai moti francesi - un pretesto somministrato ai
principi d'Italia per distaccarsi dalla crociata verso la quale i
popoli li spingevano - una semenza di gelosia messa nel core del
papa - un aggelamento d'entusiasmo in tutti coloro che volevano
bensì porre l'opera, e occorrendo, la vita in una impresa nazionale,
ma non in una speculazione d'egoismo dinastico. Creava una serie di
nuovi ostacoli, non ne rimoveva alcuno. Creava inoltre una serie di
necessità logiche che avrebbero signoreggiato la guerra. E la
signoreggiarono e la spensero nel danno e nella vergogna.
Pur nondimeno, era tanta la sete di guerra all'Austria, che il
malaugurato programma, predicato in tutte guise lecito e illecite,
fu accolto senza esame dai più. Tutti speravano nella iniziativa
regia. Tutti spronavano Carlo Alberto e gli gridavano: fate a ogni
patto.
Carlo Alberto non avrebbe mai fatto, se l'insurrezione del popolo
milanese non veniva a porlo nel bivio di perdere la corona, di
vedersi una repubblica allato, o combattere.
Il libro di Carlo Cattaneo((190)), uomo che onora la parte nostra,
mi libera dall'obbligo d'additare le immediate ragioni della
gloriosissima insurrezione lombarda, estranea in tutto alle mene e
alle fallite promesse dei moderati che s'agitavano fra Torino e
Milano. È libro che per estrema importanza di fatti e considerazioni
vuole esser letto da tutti, che nessuno ha confutato e che nessuno
confuterà. Ma in quel libro, l'opinione or ora espressa è accennata,
per mancanza di documenti, soltanto di volo. «Pare certo che in un
manifesto a tutte le corti d'Europa il re attestasse che, invadendo
il Lombardo-Veneto, egli intendeva solo d'impedire che vi sorgesse
una repubblica» (p. 96). Ed ora i documenti governativi((191))
esibiti dal ministero al parlamento inglese intorno agli affari
d'Italia pongono il fatto oltre ogni dubbio e rivelano come, ad onta
di tutta la garrulità moderata, il governo piemontese mirasse, prima
dell'impresa e poi, alla questione politica ben più che alla
italiana. La guerra contro l'Austria era in sostanza e sempre sarà,
se diretta da capi monarchici, guerra contro l'italiana democrazia.
L'insurrezione di Milano e Venezia sorse, invocata da tutti i
buoni d'Italia, dal fremito d'un popolo irritato d'una servitù
imposta per trentaquattro anni al Lombardo-Veneto da un governo
straniero aborrito e sprezzato. Fu, quanto al tempo, determinata
dalle provocazioni feroci degli Austriaci che desideravano spegnere
una sommossa nel sangue e non credevano in una rivoluzione. Fu
agevolata dall'apostolato e dall'influenza, meritamente conquistata
fra il popolo, d'un nucleo di giovani appartenenti quasi tutti alla
classe media e tutti repubblicani, da uno infuori, che allora
nondimeno si dicea tale. Fu decisa - e questo è vanto solenne, non
abbastanza avvertito, della gioventù lombarda - quando era già
pubblicata in Milano la abolizione della censura con altre
concessioni: il Lombardo-Veneto voleva, non miglioramenti, ma
indipendenza. Cominciò non preveduta, non voluta dagli uomini del
municipio o altri che maneggiavano con Carlo Alberto: la gioventù si
battea da tre giorni; quando essi disperavano della vittoria,
deploravano si fossero abbandonate le vie legali, parlavano a stampa
dell'improvvisa assenza dell'autorità politica, proponevano
armistizî di quindici giorni. Seguì, sostenuta dal valore d'uomini,
popolani i più, che combattevano al grido di Viva la
repubblica!((192)) e diretta da quattro uomini raccolti a consiglio
di guerra e di parte repubblicana. Trionfò sola, costando al nemico
quattro mila morti fra i quali 395 cannonieri. Son fatti questi
incontrovertibili e conquistati oggimai alla storia.
La battaglia del popolo cominciò il 18 marzo.
Il governo piemontese era inquietissimo per le nuove venute di
Francia e per l'inusitato fermento che si manifestava crescente ogni
giorno nel popolo dello Stato. Del terrore nato per le cose francesi
parlano due dispacci, il primo spedito il 2 marzo a lord Palmerston
da Abercromby in Torino (p. 122), il secondo firmato de
Saint-Marsan, parimenti il 2 marzo, e comunicato a lord Palmerston
dal conte Revel l'11 (p. 142). Il fermento interno imponeva al re,
il 4 marzo, la pubblicazione delle basi dello Statuto e si sfogava
in Genova, il 7, con una sommossa, nella quale il popolo minacciava
voler seguire l'esempio di Francia.
La nuova dell'insurrezione lombarda si diffuse il 19 in Torino.
L'entusiasmo fu indescrivibile. Il consiglio dei ministri raccolto
ordinò si formasse un corpo d'osservazione sulla frontiera, centri
Novara, Mortara, Voghera. Le voci corse erano di moto apertamente
repubblicano, e un dispaccio del 20 spedito da Abercromby a lord
Palmerston da Torino (p. 174-75), accenna a siffatte voci siccome ad
una delle cagioni che determinavano le decisioni ministeriali.
Intanto, si spediva ordine che si vietasse il passo ai volontarî che
da Genova e dal Piemonte s'affrettavano a Milano; e fu vietato.
Ottanta armati lombardi furono disarmati sul lago Maggiore((193)).
Il 20, le nuove in Torino correvano incerte e lievemente sfavorevoli
all'insurrezione. Le porte, dicevasi, erano tenute tuttavia dagli
Austriaci, e il popolo andava perdendo terreno per difetto d'armi e
di munizioni. Durava il fermento in Torino. Un assembramento di
popolo chiedeva armi al ministero dell'interno ed era respinto. Il
conte Arese, giunto da Milano a chieder soccorsi all'insurrezione,
non riesciva a vedere il re; era freddamente accolto dai ministri, e
ripartiva lo stesso giorno, scorato, deluso. Vedi un dispaccio di
Torino spedito il 21 dall'Abercromby a Palmerston (p.182-83).
Il 21, le nuove correvano migliori. E dal conte Enrico Martini,
viaggiator faccendiere dei moderati, fu affacciata agli uomini del
municipio milanese e del consiglio di guerra la prima proposta
d'ajuto regio a patti di dedizione assoluta e della formazione d'un
governo provvisorio che ne stendesse profferta: vergogna eterna di
cortigiani che nati d'Italia trafficavano per una corona sul sangue
dei generosi ai quali era bello il morir per la patria, mentre il
Martini diceva al Cattaneo: Sa ella che non accade tutti i giorni di
poter prestare servigi di questa fatta ad un re?((194)) Ad un re?
L'ultimo degli operaî, che lietamente combattevano tra le barricate
per la bandiera d'Italia e senza chiedersi a quali uomini gioverebbe
poi la vittoria, valea più assai innanzi a Dio e varrà innanzi
all'Italia avvenire che non dieci re.
Il 22, la vittoria coronava l'eroica lotta. Espugnata porta Tosa da
Luciano Manara, caduto più tardi martire della causa repubblicana in
Roma, occupata dagli insorti porta Ticinese, liberata dagli
accorrenti della campagna porta Comasina, separate e minacciate di
distruzione immediata le soldatesche nemiche, Radetzky, la sera, non
si ritraeva, fuggiva.
E allora - la sera del 23 - certa la vittoria e quando l'isolamento
avrebbe inevitabilmente rapito Milano alla monarchia sarda per darla
all'Italia - mentre i volontarî di Genova o di Piemonte irrompevano
sulle terre lombarde e le popolazioni sdegnate dell'inerzia regia
minacciavano peggio all'interno - il re, che aveva, il 22,
accertato, per mezzo del suo ministro, il conte di Buol,
ambasciatore d'Austria in Torino, ch'ei desiderava secondarlo in
tutto ciò che potesse confermare le relazioni di amicizia e di buon
vicinato esistenti fra i due Stati((195)), firmò il manifesto di
guerra.
Le prime truppe piemontesi entrarono in Milano il 26 marzo.
Il 23 marzo, alle undici della sera, il signor Abercromby in Torino
riceveva un dispaccio segnato L. N. Pareto; e vi si leggeva:
«........ Il signor Abercromby è informato come il sottosegnato dei
gravi eventi or ora occorsi in Lombardia: Milano in piena
rivoluzione e bentosto in potere degli abitanti che, col loro
coraggio e la loro fermezza, hanno saputo resistere alle truppe
disciplinate di S. M. Imperiale, l'insurrezione nelle campagne e
città vicine, finalmente tutto il paese che costeggia le frontiere
di S. M. Sarda in incendio. - Questa situazione, come il signor
Abercromby può bene intendere, riagisce sulla condizione degli
spiriti nelle provincie appartenenti a S. M. il re di Sardegna. La
simpatia eccitata dalla difesa di Milano, lo spirito di nazionalità,
che, malgrado le artificiali limitazioni di diversi Stati, si
manifesta potentissima, ogni cosa concorre a mantenere nelle
provincie e nella capitale una tale agitazione da far temere che da
un istante all'altro possa escirne una rivoluzione che porrebbe il
trono in grave pericolo, però che non può dissimularsi che dopo gli
eventi di Francia, il pericolo della proclamazione d'una repubblica
in Lombardia non possa essere vicino: diffatti, sembra da ragguagli
positivi, che un certo numero di Svizzeri ha molto contribuito col
suo intervento alla riescita del sollevamento di Milano. - Se
s'aggiungano a questo i moti di Parma e di Modena, come pure quei
del ducato di Piacenza sul quale non può ricusarsi a S. M. il re di
Sardegna il diritto di vegliare come sopra un territorio che deve un
giorno, per diritto di reversibilità, spettargli; se s'aggiunga una
grave e seria irritazione eccitata in Piemonte e nella Liguria dalla
conclusione d'un trattato fra S. M. Imperiale ed i duchi di Parma e
Piacenza, e di Modena, trattato che sotto apparenza d'ajuti da
prestarsi a quei piccoli Stati li ha veramente assorbiti nella
monarchia austriaca spingendo le sue frontiere militari dal Po, dove
dovrebbero finire, sino al Mediterraneo e rompendo così l'equilibrio
che esisteva tra le diverse potenze d'Italia, è naturale il pensare
che la situazione del Piemonte è tale che da un momento all'altro,
all'annunzio che la repubblica è stata proclamata in Lombardia, un
simile moto scoppierebbe pure negli Stati di S. M. Sarda o che
almeno un qualche grave commovimento porrebbe a pericolo il trono di
S. M. - In questo stato di cose, il re... si crede costretto a
prendere misure che impediscano al moto attuale di Lombardia di
diventare moto repubblicano, ed evitino al Piemonte e al rimanente
d'Italia le catastrofi che potrebbero aver luogo se una tale forma
di governo venisse ad essere proclamata((196))».
L'Abercromby si recava, a mezzanotte, a visitare il conte Balbo e ne
otteneva più minuti particolari: «Egli ed i suoi colleghi,
giudicando dalle varie relazioni officiali ad essi trasmesse dal
direttore di polizia sul pericolo imminente d'una rivoluzione
repubblicana in paese, dove il governo differisse ancora di porgere
ajuto ai Lombardi, e vedendo l'impossibilità di raffrenare più oltre
il grande e generale concitamento esistente negli Stati di S. M.
Sarda, avevano deciso ecc.((197))».
Il marchese di Normanby scriveva, il 28, da Parigi a lord Palmerston
ragguaglio d'un colloquio da lui tenuto col marchese di Brignole
ambasciatore sardo in Francia. Il Brignole gli ripeteva, fondandosi
sopra un dispaccio di Torino, le ragioni pur ora esposte; e
insisteva sul fatto «che Carlo Alberto aveva respinto con un rifiuto
la prima deputazione venutagli da Milano, quando la città era
tuttavia in mano agli Austriaci; aggiungendo che la seconda
deputazione aveva dichiarato al re che s'ei non s'affrettava a
porgere ajuto, il grido Repubblica sarebbe sorto» e che il re non
aveva incominciato le ostilità se non per mantenere l'ordine in un
territorio lasciato per forza d'eventi senza padrone((198)).
In altro dispaccio del 25 marzo l'Abercromby esponeva più
diffusamente a lord Palmerston la condizione delle cose in Piemonte
al tempo della decisione - le intenzioni pacifiche del gabinetto
Balbo-Pareto - l'insurrezione lombarda - l'immensa azione esercitata
dal popolo che minacciava rivolta in Piemonte e assalto agli
Austriaci a dispetto dell'autorità governativa - e l'imminente
pericolo alla monarchia di Savoja che avea forzato i ministri alle
ostilità((199)).
E non basta. Nelle istruzioni che il ministro degli esteri mandava
da Torino al marchese Ricci, inviato sardo in Vienna, era detto:
«.... Era da temersi che le numerose associazioni politiche
esistenti in Lombardia e la prossimità della Svizzera facessero
proclamare un governo repubblicano. Questa forma sarebbe stata
fatale alla nazione italiana, al nostro governo, all'augusta
dinastia di Savoja; era d'uopo adottare un pronto a decisivo
partito: il governo e il re non hanno esitato, e sono profondamente
convinti d'avere operato a prezzo dei pericoli ai quali s'espongono,
per la salvezza degli altri Stati monarchici((200))».
E l'idea era così radicata in quegli animi, che il 30 aprile, quando
la guerra era inoltrata, nè v'era più bisogno di dissimulare, ma
solamente di vincere, il Pareto tornava a dichiarare all'Abercromby
che se l'esercito piemontese avesse indugiato a valicare il Ticino,
sarebbe stato impossibile d'impedire che Genova si ribellasse e si
separasse dai dominî di S. M. Sarda((201)).
Con siffatti auspicî, con intenzioni siffatte, la monarchia di
Piemonte e i moderati movevano alla conquista dell'indipendenza. La
nazione ingannata plaudiva ad essi, a Carlo Alberto, al duca di
Toscana, al re di Napoli, al papa. Tanta piena d'amore inondava in
que' rapidi beati momenti l'anime degli Italiani, che avrebbero
abbracciato, purchè avessero una coccarda tricolore sul petto, i
pessimi tra i loro nemici.
II.
ESIGENZE E CONSEGUENZE FUNESTE DELLA GUERRA REGIA. I REPUBBLICANI
Nella genesi dei fatti, la logica è inesorabile; nè possono falsarla
utopie di moderati o calcoli di politici obliqui. Nella politica
come in ogni altra cosa, un principio trascina seco inevitabile un
metodo, una serie di conseguenze, una progressione d'applicazioni
prevedibili da qualunque ha senno. Ad ogni teorica corrisponde una
pratica. E reciprocamente, se il principio generatore d'un fatto è
falsato, tradito nelle applicazioni, quel fatto è irrevocabilmente
condannato a sparire, a perire senza sviluppo, programma inadempito,
pagina isolata nella tradizione d'un popolo, profetica d'avvenire ma
sterile di conseguenze immediate. Per aver posto in oblìo questo
vero, il moto italiano del 1848 dovea perire e perì.
Il moto italiano era moto nazionale anzi tutto, moto di popolo che
tende a definire, a rappresentare, a costituire la propria vita
collettiva, dovea sostenersi e vincere con guerra di popolo, con
guerra potente di tutte le forze nazionali da un punto all'altro
d'Italia. Quanto tendeva a far convergere all'intento la più alta
cifra possibile di quelle forze, favoriva il moto: quanto tendeva a
scemarla, doveva riescirgli fatale.
Il gretto pensiero dinastico contraddiceva al pensiero generatore
del moto. La guerra regia aveva diverso fine, quindi norme diverse
non corrispondenti al fine, che l'insurrezione s'era proposto. Dovea
spegnere la guerra nazionale, la guerra di popolo, e con essa il
trionfo dell'insurrezione.
I poveri ingegni che, avversi alla parte nostra, pur sentendosi
impotenti a confutarci sul nostro terreno, hanno sistematicamente
adottato un travisamento perenne delle nostre idee e confondono
repubblica ed anarchia, pensiero sociale e comunismo, bisogno d'una
fede concorde attiva e negazione d'ogni credenza, hanno sovente
mostrato di intendere la guerra di popolo come guerra disordinata,
scomposta, d'elementi e di fazioni irregolari, senza concetto
regolatore, senza uniformità d'ordini e di materiali, finchè son
giunti ad affermare che noi vogliamo guerra senza cannoni e fucili:
cose ridicole ma non nostre; e i pochi fatti esciti, a guisa di
prologo del dramma futuro, dal principio repubblicano, l'hanno
mostrato. I pochi uomini raccolti in due città d'Italia intorno alla
bandiera repubblicana hanno fatto guerra più ostinata e più savia
che non i molti legati a una bandiera di monarchia.
Per guerra di popolo noi intendiamo una guerra santificata da un
intento nazionale, nella quale si ponga in moto la massima cifra
possibile delle forze spettanti al paese, adoprandole a seconda
della loro natura e delle loro attitudini - nella quale gli elementi
regolari e gl'irregolari, distribuiti in terreno adatto alle fazioni
degli uni e degli altri, avvicendino la loro azione - nella quale si
dica al popolo: la causa che qui si combatte è la tua; tuo sarà il
premio della vittoria: tuoi devono essere gli sforzi per ottenerla;
e un principio, una grande idea altamente bandita, e lealmente
applicata da uomini puri, potenti di genio ed amati, desti,
solleciti, susciti a insolita vita, a furore, tutte le facoltà di
lotta e di sagrificio che sì facilmente si rivelano e s'addormentano
nel core delle moltitudini: - nella quale nè privilegio di nascita o
di favore, nè anzianità senza merito presieda alla formazione
dell'esercito, ma il diritto d'elezione possibilmente applicato,
l'insegnamento morale alternato col militare o i premî proposti dai
compagni, approvati dai capi e dati dalla nazione, facciano sentire
al soldato ch'ei non è macchina, ma parte di popolo e apostolo
armato d'una causa santa - nella quale non s'avvezzino gli animi a
riporre esclusivamente salute in un esercito, in un uomo, in una
capitale, ma s'educhino a creare centro di resistenza per ogni dove,
a vedere tutta intera la causa della patria dovunque un nucleo di
prodi inalza una bandiera di vittoria o di morte - nella quale,
maturato e tenuto in serbo un prudente disegno pel caso di gravi
rovesci, le fazioni procedono audaci, rapide, imprevedute, calcolate
più che non s'usa sugli elementi e sugli effetti morali, non
inceppate da riguardi a diplomazie o da vecchie tradizioni
regolatrici di circostanze normali - nella quale si guardi più ai
popoli che ai governi, più ad allargare il cerchio dell'insurrezione
che a paventare i moti del nemico, e più a ferire il nemico nel core
che non a risparmiare un sagrificio al paese.
E a questa guerra - sola capace di salvare l'indipendenza e fondar
nazione - la guerra regia doveva, per necessità ineluttabile di
tradizioni e d'intento, contrapporre le abitudini freddamente
gerarchiche dei soldati del privilegio - il mero calcolo degli
elementi materiali e la noncuranza d'ogni elemento morale, d'ogni
entusiasmo, d'ogni fede che trasmuta il milite in eroe di vittoria e
martirio - il disprezzo o il sospetto dei volontarî - l'importanza
esclusiva data alla capitale - l'esercito quale era ordinato dal
despotismo, co' suoi molti uffiziali tristissimi, co' suoi capi
inetti pressochè tutti e taluni avversi alla guerra e peggio - la
diffidenza d'ogni azione, d'ogni concitamento di popolo, che avrebbe
sviluppato più sempre tendenze democratiche e coscienza di diritti
fatali al regnante - l'avversione a ogni consigliere che potesse,
per influenza popolare, impor patti o doveri - la riverenza alla
diplomazia straniera, ai patti, ai trattati, alle pretese
governative risalenti all'epoca infausta del 1815, e quando anche
inceppassero operazioni che avrebbero potuto riescir decisive - la
ripugnanza a soccorrere Venezia repubblicana - il rifiuto d'ogni
sussidio dal di fuori che potesse accrescere simpatie alla parte
avversa alla monarchia - la vecchia tattica e la paura d'ogni
fazione insolita, ardita - l'idea insistente, dominatrice, di
salvarsi, in caso di rovescio, il Piemonte ed il trono - e
segnatamente un germe, mortale all'entusiasmo, di divisione tra i
combattenti per la stessa causa, un meschino progetto d'egoismo
politico sostituito alla grande idea nazionale((202)). Nè io parlo,
come ognun vede, di tradimento; e s'anche io vi credessi, non
consuonerebbe all'indole mia gittarne l'accusa sopra una tomba.
Accenno cagioni più che sufficienti di rovina a una insurrezione di
popolo; e ricordo agli Italiani che operarono due volte in
brevissimo giro di tempo e oprerebbero fatalmente una terza e sempre
ogni qual volta sorgesse una gente sì cieca e ostinata da volere
ritentare la prova.
Operarono potenti fin dai primi giorni della guerra, sì che
bisognava esser ciechi a non discoprirle e insensati a non
piangerne. E ciechi e insensati eran fatti dall'egoismo, dallo
spirito di parte, dalla servilità cortigianesca, dalle tradizioni
aristocratiche e dalla paura della repubblica, gli uomini del
governo provvisorio di Milano e i moderati di Piemonte e di
Lombardia. Ben lo videro i repubblicani; e l'averlo detto,
quantunque, come or ora vedremo, sommessamente, era colpa da non
perdonarsi. Quindi le accuse villane e le stolte minaccie e le
calunnie ch'essi allora sprezzarono e ch'oggi, compita la prova e
giacente, mercè gli accusatori, l'Italia, corre debito di confutare.
Io scrivo cenni e non storia; però non m'assumo in queste pagine di
seguire attraverso gli errori governativi e le fazioni della guerra
regia l'influenza dissolvente, rovinosa di quelle cagioni. Ma il
libro di Cattaneo; i documenti contenuti in un opuscolo pubblicato
nel 1848 in Venezia da Mattia Montecchi, segretario del generale
Ferrari, e in uno scritto recente del generale Allemandi; la
relazione degli ultimi casi di Milano stesa da due membri del
comitato di difesa; gli atti officiali contenuti nel giornale Il 22
marzo, e le relazioni stesse dettate a difesa dagli avversarî
raffrontati colla ineluttabile ragione dei fatti; racchiudono tutta
intera la dolorosissima storia - e a rischiararla più sempre gioverà
il rapido esame della campagna, scritta da uno dei nostri uomini di
guerra, Carlo Pisacane((203)). A me importava di chiarire le
intenzioni e le necessità((204)) che spinsero Carlo Alberto sulla
terra lombarda; e importa or di chiarire qual via tenessero i
repubblicani fra quelle vicende: punti finora non trattati o
sfiorati appena.
L'insurrezione lombarda era vittoriosa su tutti i punti quando le
truppe regie inoltrarono sul territorio; e si stendeva sino al
Tirolo. i volontarî vi s'avviarono, dando la caccia al nemico. I
passi che di là conducono alle valli dell'Adda e dell'Oglio erano
occupati dai nostri. L'insurrezione del Veneto s'era compita con
miracolosa rapidità e poneva in mano dei montanari della Carnia e
del Cadore i passi che guidano dall'Austria in Italia. Nostre erano
Palma ed Osopo. Il mare e le Alpi, come scrive Cattaneo, erano
chiusi al nemico. E lo erano per sempre, se all'Alpi ed al mare, al
Tirolo e a Venezia, non alle fortezze e al Piemonte, avesse saputo o
voluto, come a punti strategici d'operazione, guardare la guerra
regia.
L'entusiasmo nelle popolazioni era grande, quanto lo sconforto nel
nemico. Una sottoscrizione aperta in Milano il 1.° d'aprile per
sovvenire alle spese correnti governative aveva prodotto, il 3, la
somma di lire austriache 749 686; un imprestito di 24 milioni di
lire proposto dal governo provvisorio trovava, allora, presti ad
offrirsi, e senz'utili, i capitalisti((205)). Gli uomini correvano a
dare il nome ai corpi franchi o alle guardie nazionali; le donne
gareggiavano, superavano quasi in entusiasmo i giovani dell'altro
sesso: preparavano cartuccie, sollecitavan di casa in casa
sovvenzioni al governo, soccorrevano negli ospedali ai
feriti((206)). Gli Austriaci si ritraevano per ogni dove impauriti,
disordinati, tormentati dai volontarî, mancanti di viveri. I soldati
italiani disertavano le loro file: in Cremona, il reggimento
Alberto, il terzo battaglione Ceccopieri, e tre squadroni di
lancieri, in Brescia parte del Haugwitz((207)), altri altrove. Una
fregata austriaca stanziata in Napoli((208)), due brick da guerra
che incrociavano nell'Adriatico((209)) inalzavano bandiera italiana
e si davano alla repubblica veneta. All'Austria non rimanevano in
Italia - ed è cifra desunta da relazioni officiali - che 50 000
uomini((210)), rotti, sconfortati, spossati.
E fuori di Lombardia, per tutto dove suona lingua del sì, era
fermento, fremito di crociata. L'insurrezione di Milano avea suonato
la campana a stormo dell'insurrezione italiana. Alle prime nuove del
moto in Modena, s'affrettavano 2000 guardie civiche da Bologna, 1200
e 300 uomini della linea da Livorno, e guardie civiche e studenti
armati da Pisa, e civici e volontarî da Firenze((211)); e pochi dì
dopo, a evitare l'estrema rovina((212)), il gran duca era costrette
egli pure a intimar guerra all'Austriaco. In Roma, date alle fiamme
dal popolo, dai civici e dai carabinieri commisti le insegne
dell'Austria, e sostituita sulla residenza dell'ambasciata la
leggenda: palazzo della dieta italiana((213)), s'adunavano,
benedetti da sacerdoti, volontarî, s'aprivano sottoscrizioni ad
armarli e avviarli: il 24 marzo, molti avevano già lasciato la
città((214)), e al finir del mese, 10 000 Romani e 7000 Toscani
erano al Po, presti a varcarlo dalla parte di Lagoscuro((215)). A
Napoli, arse parimente le insegne aborrite, erano già aperte il 26
marzo le liste dei volontarî; era dall'universale concitamento
forzato a cedere il re((216)). Di Genova e del Piemonte non parlo: i
volontarî di Genova - e lo ricordo con orgoglio, non di municipio,
ma d'affetto per la terra ove dorme mio padre e nacque mia madre -
segnarono primi in faccia al nemico comune il patto di fratellanza
italiana cogli uomini di Lombardia.
E fuori d'Italia, la buona novella, diffusa colla rapidità del
pensiero, ringiovaniva gl'incanutiti nell'esilio, benediceva di
nuova vita le anime morenti nel dubbio, cancellava i lunghi dolori e
i ricordi delle ripetute delusioni e le antiveggenze che dovevano
pur troppo verificarsi. Un solo pensiero balenava dal guardo,
dall'accento commosso, a noi tutti: abbiamo una patria! abbiamo una
patria! potremo operare per essa! - e traversavamo, accorrendo,
colla fronte alta, insuperbendo nell'anima d'orgoglio italiano, le
terre che avevam corse raminghi e sprezzati e sulle quali suonava
allora un grido di sorpresa e di plauso alla nostra Italia. Ah! Dio
perdoni i calunniatori dell'anime nostre in quei momenti di
religione nazionale e d'amore. Essi, i moderati, ricevevano in
Genova colle bajonette appuntate e facevano scortare disarmati al
campo, a guisa di malfattori, gli operaî italiani che da Parigi e da
Londra, capitanati dal generale Antonini, accorrevan a combattere la
battaglia dell'indipendenza. Ci accusavano di congiure. Noi non
congiuravamo che per dimenticare. Io rammento la parola: Infelici!
non possono amare! che santa Teresa proferiva pensando ai dannati.
Ma tutto quel fremito, tutto quell'entusiasmo che sommoveva a grandi
cose l'Italia, parlava di popolo e non di principe, di nazione e non
di misere speculazioni dinastiche. Urtarlo di fronte era cosa
impossibile. E comunque il Martini prima, il Passalacqua poi,
avessero profferto gli ajuti regî soltanto a patti di dedizione -
comunque i più tra gli uomini componenti il governo provvisorio di
Milano fossero proclivi e alcuni vincolati a quei patti - nessuno
osò per allora stipulare patentemente il prezzo dell'incerta
vittoria. Il leone ruggiva ancora: bisognava prima ammansarlo.
In un indirizzo a Carlo Alberto, il governo provvisorio di Milano
aveva, fin dal 23 marzo, invocando gli ajuti, lasciato intravvedere
al re e alla diplomazia quali fossero le sue intenzioni((217)). Ma
le sue dichiarazioni pubbliche posero un programma che differiva
sino al giorno della vittoria la decisione della questione politica
e la fidava per quel giorno al senno del popolo. Liberi tutti,
parleranno tutti. - A CAUSA VINTA, LA NAZIONE DECIDERÀ - così nei
proclami del 29 marzo, dell'8 aprile ecc., e queste dichiarazioni
fatte ai Lombardi, ai Veneti, a Genova, al papa, erano pur fatte il
27 marzo alla Francia: In siffatta condizione di cose, noi ci
astenemmo da ogni questione politica, noi abbiamo SOLENNEMENTE e
RIPETUTAMENTE dichiarato che, dopo la lotta, alla nazione
spetterebbe decidere intorno ai proprii destini (Vedi Documenti,
pag. 354).
E Carlo Alberto annunziava, nel proclama del 23 marzo, che le armi
piemontesi venivano a porgere nelle ulteriori prove ai popoli della
Lombardia e della Venezia quell'ajuto che il fratello aspetta dal
fratello, dall'amico l'amico: annunziava poco dopo in Lodi, che le
sue armi, abbreviando la lotta, «ricondurrebbero fra i Lombardi
quella sicurezza che permetterebbe ad essi d'attendere con animo
sereno e tranquillo a riordinare il loro interno reggimento».
Era partito onesto; e i repubblicani lo accettarono, e vi
s'attennero lealmente: traditi; poi, al solito, calunniati.
Se di mezzo alle barricate del marzo fosse sorta, piantata dalla
mano del popolo, la bandiera repubblicana - se gli uomini che
diressero l'insurrezione, assumendosi una grande iniziativa
rivoluzionaria, si fossero collocati a interpreti del pensiero che
fremeva nel core delle moltitudini - l'indipendenza d'Italia era
salva. Tutti sanno - e noi meglio ch'altri sappiamo - come gli ajuti
svizzeri negati dal governo federale al RE fossero profferti dai
cantoni all'insurrezione repubblicana. Nè il governo francese,
diffidentissimo allora delle intenzioni di Carlo Alberto e incerto
della sua via, avrebbe potuto sottrarsi all'entusiasmo popolare e
alla necessità della politica repubblicana. E in Italia, non
guardando pure a soccorsi stranieri, le forze e l'ira unanime contro
l'Austria eran tali da assicurare ai nostri, sotto la guida d'uomini
che sapessero e volessero, vittoria non difficile e decisiva. Forse,
il terrore di quel nome fatale e l'impossibilità d'avversare
all'impeto della crociata italiana avrebbero cacciato alcuni fra i
nostri prìncipi sulla via del dissenso e provocato allora le fughe
che vennero dopo. Nuova arra di salute per noi, dacchè non avremmo
avuto traditori nel campo. Ma fors'anche i tempi erano tuttavia
immaturi per l'unità repubblicana, tanto importante quanto
l'indipendenza, dacchè indipendenza senza unità non può stare, e
l'arti o le influenze straniere farebbero in pochi anni l'Italia
divisa campo di mortali guerre civili. Perchè l'Italia del Popolo
avesse probabilità consentita d'esistenza, Roma dovea mostrarsi
degna d'esserne la metropoli.
Comunque, la bandiera non era sorta: popolo e monarchia stavano
uniti a fronte dello straniero sulle terre lombarde; il popolo avea
accettato il programma di neutralità del governo provvisorio fra
tutte parti politiche, e i repubblicani decisero di rinunciare ad
ogni iniziativa politica, di aspettare pazienti che la volontà del
popolo, vinta la guerra, si palesasse, e di consacrare ogni loro
sforzo alla conquista dell'indipendenza.
Ed anche questo ci fu turpemente conteso dagli uomini del
provvisorio e dai MODERATI, faccendieri del pensiero dinastico.
La vita errante, anzi che no tempestosa, che i credenti nella fede
repubblicana durano da parecchî anni, ci contende di poter
documentare con lettere, date, giornali, i fatti ai quali
accenniamo. Ma io affermo la verità d'ogni sillaba mia sull'onore.
Gli accusatori vivono: neghino se possono ed osano. Duolmi ch'io
debba frammettere in questi cenni il mio nome; ma dacchè fui scelto
- meritamente o no poco monta - da amici e nemici a rappresentare in
parte il pensiero repubblicano, debbo all'onore della bandiera ciò
che per me non farei. Trattai con silenzio sdegnoso, che volea dire
disprezzo, le false accuse di aver nociuto per ostinazione di fini
politici all'esito della guerra, che ci s'avventarono addosso da
tutte parti, quand'io aveva stanza in Milano. Avrebbero detto allora
ch'io scendeva a discolpe per paura o desiderio di rimovere il
turbine che s'addensava. Ma importa oggi che gl'Italiani sappiano il
vero intorno agli uomini che li chiamano all'opra.
I fatti son questi.
Noi non avevamo fiducia che il governo provvisorio, giudicato
collettivamente, potesse mai riescire eguale all'impresa. Ma dacchè
avevamo, per amor di concordia, accettato il programma di neutralità
fra i due principî politici, non potevamo spingere uomini
dichiaratamente repubblicani al potere e cacciare il guanto ai
sospetti e alle irritazioni della parte avversa alla nostra. Però,
gl'influenti fra noi si strinsero intorno ai membri di quel governo,
sperando da un lato che i consigli giovassero, dall'altro che il
paese vedendoci uniti non rimetterebbe del suo entusiasmo - e
finalmente, che il nostro frequente contatto suggerirebbe, per
pudore non foss'altro, a quegli uomini di mantenersi sulla via
solennemente adottata. Le prime mie parole in Milano furono di
conforto al governo; le seconde, chiestemi da persona fautrice di
monarchia, furono una preghiera a Brescia perchè in certe sue
vertenze con Milano sagrificasse ogni diritto locale all'unione e al
concentramento fatto allora indispensabile dalla guerra.
Noi non avevamo fiducia in Carlo Alberto o nei suoi consiglieri. Ma
Carlo Alberto era in Lombardia e capitanava l'impresa che più di
tutte ci stava a core! Noi non potevamo fare che il fatto non fosse;
bisognava dunque giovar quel fatto tanto che n'escisse l'intento.
Dietro al re stava un esercito italiano e prode; e dietro
all'esercito un popolo, il piemontese, di natura lenta forse ma
virile e tenace, popolo cancellato nella capitale da una guasta
aristocrazia, ma vivo e vergine nelle provincie e depositario di
molta parte dei fati italiani. Esercito e popolo ci eran fratelli; e
il vociferare, come molti fecero, di propaganda anti-piemontese da
parte nostra era calunnia pazza e ridicola. Bensì, perchè le varie
famiglie italiane imparassero a stimarsi, amarsi e confondersi
fraternamente davvero sul campo - perchè al popolo rimanesse colla
coscienza di sagrificî compiuti, coscienza de' proprî diritti - e da
ultimo perchè diffidavamo dei capi e antivedevamo, quand'altri
urlava vittoria prima della battaglia, possibile, probabile forse,
una rotta - volevamo che il paese s'armasse per potersi in ogni caso
difendere: volevamo che a fianco delle forze regolari alleate si
mantenesse, si rinvigorisse, rappresentante armato di questo popolo,
l'elemento dei volontarî: volevamo che l'esercito lombardo si
formasse rapidamente, su buone norme e con buoni uffiziali.
Il governo provvisorio voleva appunto il contrario.
Ignari di guerra e d'altro; fermissimi in credere che l'esercito
regio bastasse a ogni cosa; vincolati, i più almeno, al patto della
fusione monarchica e pensando stoltamente ch'unica via per condurre
il disegno a buon porto fosse, che il re vincesse solo e il popolo
fosse ridotto a scegliere tra gli Austriaci e lui; poco leali e
quindi poco credenti nell'altrui lealtà, proclivi al raggiro
politico perchè poveri di concetto, d'amore e d'ingegno - gli
influenti tra i membri posero ogni studio nel preparare l'opinione
alla monarchia piemontese e nel suscitare nemici alla parte nostra:
nessuno nelle cose della guerra, nessuno nell'armare, nell'ordinare,
nel mantenere infiammato e militante il paese; i pochi buoni tra
loro non partecipavano al disegno, partecipavano al fare e al non
fare per debolezza di tempra o per vincoli d'amistà individuale.
La condotta dei repubblicani fu semplice e chiara.
Un'associazione democratica, pubblica e con basi di statuti
comunicati al governo, fu impiantata dai giovani delle barricate nei
giorni che seguirono la vittoria del popolo, e prima ch'io giungessi
in Milano: avendo il governo annunziato((218)) ch'ei convocherebbe
nel più breve termine possibile una rappresentanza nazionale,
affinchè un voto libero, che fosse la vera espressione del poter
popolare, potesse decidere i futuri destini della patria, era
naturale e giovevole che l'elemento repubblicano manifestasse con un
atto legale la propria esistenza. Ma compito una volta questo dovere
e adottata la linea di condotta accennata più sopra, l'associazione,
messa da banda ogni questione politica, non s'occupò, nelle rare e
pubbliche adunanze tenute, che di proposte di guerra. Io non
v'intervenni, prima del 12 maggio, che una volta sola per atto
d'adesione a' miei fratelli di fede e vi proposi che si spronasse e
s'appoggiasse il governo.
La Voce del Popolo, giornale diretto dai più influenti tra i
repubblicani, s'uniformava. Scriveva consigli eccellenti di guerra e
finanze. Cercava infonder vita di popolo nel governo. La questione
politica v'era toccata rare volte e di volo: la parola repubblica
studiosamente evitata((219)).
Se non che il governo era pur troppo, nato appena, incadaverito; nè
galvanismo di consigli repubblicani poteva infondergli vita.
Il governo, stretto fin prima del nascere ad un patto di servitù,
diffidava di noi, diffidava del popolo, dei volontarî, di sè stesso
e d'ogni cosa, fuorchè del magnanimo principe. E il magnanimo
principe campeggiava nei proclami, nei discorsi, nei bollettini
grandiloqui, sì che ogni uomo s'avvezzasse a non vedere che in lui e
nell'esercito che lo seguiva l'àncora di salute. Magnificava, in
quel primo periodo, ogni scaramuccia che si combattesse intorno al
Mincio fatale in battaglia quasi napoleonica; e stando a' suoi
computi, gli Austriaci avrebbero dovuto essere, sul mezzo della
campagna e quando appunto cominciavano a farsi minacciosi davvero,
spenti pressochè tutti.
Il moto di tutta Italia verso i piani lombardi e le lagune della
Venezia riusciva pei politici della fusione tardo ed inutile. La
vittoria era certa, infallibile. I nostri consigli s'ascoltavano
cortesemente, si provocavan talora: non s'eseguivano mai. Il popolo
s'addormentava nella fiducia.
E v'era peggio. Mentre da noi si diceva: soccorrete ai volontarî;
animateli: cacciateli all'Alpi, la perdita dei volontarî,
repubblicani i più, era giurata: giurata fin dagli ultimi giorni di
marzo quando Teodoro Lecchi fu assunto al comando del futuro
esercito. Erano lasciati senz'armi, senza vestiario, senza danaro;
fortemente accusati ogni qual volta la necessità li traeva a
provvedersi da sè; sospinti al Tirolo, ai passi dell'Alpi, poi
impediti dal combattere, forzati ad abbandonare quei luoghi e le
insurrezioni nascenti: finalmente richiamati, feriti, essi i
vincitori delle cinque giornate, nel più vivo del core, e
disciolti((220)). Mentre da noi s'insisteva sulla rapida formazione
d'un esercito lombardo e s'indicavan le norme; s'indugiava,
s'inceppava l'armamento, si sbandavano le migliaja di soldati
italiani che abbandonavano il vessillo d'Austria, si commetteva
l'istruzione degli accorrenti a ufficiali piemontesi fuor di
servigio, taluni cacciati per colpe dai ranghi. Ricordo che alle mie
richieste insistenti perchè a render più sempre nazionale la guerra
e a prefiggere al giovane esercito uomini già esperti delle guerre
d'insurrezione, si chiamassero i nostri esuli ufficiali in Grecia,
in Ispagna, ed altrove, m'ebbi risposta che non si sapeva ove
fossero. Non mi stancai, e ottenni, dacch'io lo sapeva, facoltà di
chiamarli e firma, a convalidare il mio invito, del segretario
Correnti. Ma quando giunsero, il ministro Collegno, allegando mutate
le circostanze, da pochi in fuori, li ricusò((221)). E mentre da noi
s'offrivano, ad affratellare colla nostra guerra il libero pensiero
europeo e creare un senso d'emulazione nei nostri giovani, legioni
di volontarî francesi e svizzeri, giungevano divieti dal campo, e il
governo, obbedendo, rompeva le pratiche imprese in Berna e nel
cantone di Vaud. Ma - e non era Garibaldi, reduce da Montevideo,
accolto freddamente e con piglio quasi di scherno al campo
monarchico, e rimandato a Torino a vedere se e come il ministero di
guerra potesse giovarsi dell'opera sua?
Intanto, mentre queste cose accadevano in Milano, la guerra regia,
rifiutate l'Alpi, si confinava oziosamente tra le fortezze. Intanto
l'esercito austriaco, raggranellato, riconfortato, vettovagliato,
aspettava, riceveva rinforzi. Il Tirolo era vietato a Carlo Alberto
dalla diplomazia del 1815: la difesa del Veneto vietata in parte da
segrete mene di governi stranieri e da speranze di lontani accordi
coll'Austria, in parte e più assai dall'aborrimento, rivelato senza
pudore, al vessillo repubblicano((222)). I principi italiani
coglievano, a ritrarsi o raffreddare gli spiriti, pretesto dalle
mire ambiziose che i fautori dell'Italia del nord manifestavano
imprudentemente, sconciamente, per ogni dove. Pio IX vietava ai
Romani passassero il Po. Il Cardinal Soglia corrispondeva in cifra
con Innspruck. Corboli-Bussi si recava al campo del re esortatore di
defezione((223)) e cospiratore. I fati d'Italia erano segnati.
Sorgevano momenti ne' quali sembrava che il governo si destasse al
senso della condizione delle cose de' proprî doveri, e allora - come
chi per istinto sente dov'è l'energia - ricorreva ai repubblicani;
ma tradiva le sue promesse e ricadeva nel sonno il dì dopo. Un messo
segreto dal campo, una parola di faccendiere cortigiano, bastavano a
mutare le intenzioni. Il povero popolo, già avviluppato in mille
modi dai raggiratori, traeva forse da quel contatto inefficace tra
noi e il governo nuova illusione di securità. E citerò un solo
esempio.
La nuova della caduta d'Udine avea colpito gli animi di terrore. Fui
chiamato a mezzanotte al governo, e trovai convocati parecchi altri
influenti repubblicani. Bisognava, dicevano i governanti, suscitare
il paese, avviarlo a sforzi tremendi, chiamarlo a salvarsi con forze
proprie - e chiedevano additassimo il come. Scrissi sopra un brano
di carta parecchie tra le cose ch'io credeva opportune a raggiunger
l'intento, ma dichiarando che riescirebbero inefficaci tutte se il
governo ne assumesse l'esecuzione. «Dio solo, dissi, può spegnere e
risuscitare. Il vostro governo è screditato, e meritatamente. Il
vostro governo ha oprato sinora a sopir l'entusiasmo, a creare colla
menzogna una fiducia fatale. E voi non potete sorgere a un tratto
predicatori di crociata e guerra di popolo senza diffondere nelle
moltitudini il grido funesto di tradimento. A cose nuove uomini
nuovi. Io non vi chiedo dimissioni che oggi parrebbero fuga.
Scegliete tre uomini, monarchici o repubblicani non monta, che
sappiano e vogliano e siano, se non amati, non disprezzati dal
popolo. Commettete ad essi, sotto pretesto delle soverchie vostre
faccende o d'altro, ogni cura, ogni autorità per le cose di guerra.
Da essi emanino domani gli atti ch'io vi propongo. Intorno ad essi
noi tutti ci stringeremo e staremo mallevadori del popolo». Tra le
cose che si proponevano era la leva della totalità delle cinque
classi quando al governo pareva soverchia la leva delle prime tre, e
ne indugiava la convocazione al finire d'agosto, perchè i contadini
potessero attendere pacificamente al ricolto. E rispondevano la
bestemmia che i contadini erano austriaci d'animo e di tendenze: i
poveri contadini delle prime due classi tumultuavano intanto contro
i chirurghi che ne respingevano alcuni siccome inetti al servizio.
Io insisteva perchè almeno si rifacesse una chiamata ai volontarî e
mi poneva mallevadore, certo che l'esempio sarebbe seguito in ogni
città per la formazione d'una legione di mille volontarî in Milano,
purchè mi fosse concesso d'affiggere un invito e sottoscrivere prima
il mio nome. E partiva applaudito e con promessa d'assenso.
Due giorni dopo, l'assenso all'arruolamento dei volontarî era
rivocato. E quanto al comitato di guerra, fu trasformato in comitato
di difesa pel Veneto e subito dopo in commissione di soccorsi al
Veneto composta di membri del governo, e finalmente in nulla. Il
segretario faccendiere di Carlo Alberto, Castagneto, aveva detto:
«Che al re non piaceva di trovarsi un esercito di nemici alle
spalle».
D'esempî siffatti, io potrei citarne, se lo spazio concedesse,
parecchî.
Così si consumò il primo periodo della guerra. Nel secondo, il
governo mutò di tattica. I moderati cominciavano, credo, ad
antiveder la rovina; e a stabilire non foss'altro pel futuro
incertissimo un precedente, diventavano frenetici di fusione
monarchica. Farneticavano per le piazze promettendo a Milano che
sarebbe capitale del nuovo regno; infanatichivano, con ogni sorta di
menzogne, le moltitudini ignare contro ai repubblicani collegati
coll'Austria e provocatori di leve((224)): tormentavano il governo
provvisorio, perchè non s'affrettava abbastanza. E i membri del
governo, creduli o increduli alle stolte loro promesse, ridicevano,
per mezzo dei loro agenti, al popolo - a quel popolo ch'essi avevano
fino a quel giorno intorpidito, addormentato nella fiducia - che i
pericoli diventavano gravi, che a difendere il paese mancavano gli
uomini, mancava il danaro, mancava ogni cosa; ma che, al solo patto
d'una prova di fiducia nel re, al solo patto della fusione,
verrebbero milioni da Genova, migliaja d'armati dal Piemonte,
benedizioni dal cielo, e senza leve, senza gravi sagrifici, la
Lombardia vedrebbe compiuta l'impresa: coi repubblicani ch'essi
avevan fermo in animo di tradire mutavano l'amicizia menzognera in
freddezza, e affettavano sospetti di congiure che non avevano.
Congiure a che? Se rovesciando quel meschino fantasma che
s'intitolava governo, le sorti della guerra avessero potuto mutarsi,
i repubblicani l'avrebbero rovesciato in due ore.
Sul cominciare di quel secondo periodo, quando la violazione del
programma governativo era già decisa, e mentre io era già assalito,
pel mio tacermi, di calunnie e minaccie da tutte parti, mi giunse
inviato dal campo, e messaggiero di strane proposte, un antico
amico, patriota caldo e leale. Parlava a nome del Castagneto già
nominato, segretario del re, e proponeva: Ch'io mi facessi
patrocinatore della fusione monarchica, m'adoprassi a trarre alla
parte regia i republicani, e m'avessi in ricambio influenza
democratica quanta più volessi negli articoli della costituzione che
si darebbe; colloquio col re e non so che altro.
Primo nostro intento e sospiro antico dell'anime nostre era - ed è -
l'indipendenza dallo straniero: secondo, l'unità della patria, senza
la quale l'indipendenza è menzogna: terzo, la repubblica - e intorno
a questa, indifferenti a ciò che riguarda noi individui, e certi,
quanto al paese, dell'avvenire, noi non avevamo bisogno d'essere
intolleranti. A chi dunque m'avesse assicurato l'indipendenza, e
agevolato l'unità dell'Italia, io avrei sagrificato, non la fede,
ch'era impossibile, ma il lavoro attivo pel trionfo rapido della
fede: a me la solitudine e la facoltà, che nessuno avrebbe potuto
mai tormi, di versare in un libro, da stamparsi quando che fosse,
quel tanto d'idee ch'io credessi utili al mio paese, bastava, e per
amor dell'indipendenza, i repubblicani non avevano aspettato, a
tacer di repubblica, gli inviti d'un re. Ma la questione era allora
tutta di guerra. E fatale all'esito della guerra noi ritenevamo il
concetto federalistico, troppo ambizioso pei nostri principi e per
la diplomazia, troppo poco per le popolazioni d'Italia, dell'Italia
del nord. L'entusiasmo popolare era, mercè quel concetto, già
spento; e i governi erano ostili e i mezzi che il paese
somministrava condannati all'inerzia e le probabilità della guerra
cresciute pur troppo a' danni nostri. A volgerlo in favor nostro, a
ricreare lo spirito che vince ogni ostacolo, era solo una via: far
guerra, non di principi, ma di nazione. E per questo, bisognava un
uomo che osasse e si vincolasse a non retrocedere per egoismo e
codardia nell'impresa. Voleva Carlo Alberto esser l'uomo? Ei doveva
dimenticare la povera sua corona sabauda e farsi davvero spada
d'Italia: doveva, poichè i governi tutti gli eran nemici, rompere
dichiaratamente, irrevocabilmente, con essi e raccogliersi intorno,
congiunti, ravvivati in un grande pensiero, i buoni, quanti erano
tra l'Alpi e gli estremi confini della Sicilia, in Italia. Così
avremmo saputo ch'ei parlava o voleva operare da senno, e noi
avremmo potuto tentare ogni nostro modo per sommovere a pro del suo
intento tutti gli elementi rivoluzionarî italiani. Dove no, meglio
era lasciarci in pace. Noi potevamo e dovevamo sagrificare per un
tempo alla salute d'Italia anche la nostra bandiera; ma nè potevamo
nè dovevamo sagrificarla - e con essa quel tanto d'influenza sulle
sorti del paese che la nostra costanza in una fede ci dava - ad un
re che non volendo avventurar cosa alcuna del suo, nè affratellarsi
col pensiero italiano, nè cangiare in meglio le condizioni della
guerra, avrebbe potuto ritrarsi dall'arena a suo piacimento e dirci:
Voi, credenti, accettavate transigere.
Queste cose a un dipresso io risposi a quell'inviato. Richiesto del
come il re potesse farsi mallevadore delle sue intenzioni a pro
della unità del paese, risposi: Firmando alcune linee, che le
rivelino; e richiesto s'io scriverei quelle linee, presi la penna e
le scrissi. Erano, con mutazioni di forma ch'or non ricordo, le
stesse ch'io, con intento, inserii più dopo nel programma
dell'Italia del Popolo pubblicato in Milano; e le trascrivo:
Io sento maturi i tempi per l'unità della patria: intendo, o
italiani il fremito che affatica l'anime vostre. Su, sorgete! io
precedo. Ecco: io vi do, pegno della mia fede, spettacolo ignoto al
mondo d'un re sacerdote dell'epoca nuova, apostolo armato
dell'idea-popolo, edificatore del tempio della nazione. Io lacero
nel nome di Dio e dell'Italia i vecchi patti che vi tengono
smembrati e grondano del vostro sangue: io vi chiamo a rovesciare le
barriere che anch'oggi vi tengon divisi e ad accentrarvi in legione
di fratelli liberi emancipati intorno a me, vostro duce, pronto a
cadere o vincer con voi.
L'amico partì. Pochi dì dopo mi fu fatto leggere un biglietto del
Castagneto, che diceva: Vedo pur troppo che da questo lato non v'è
da far nulla. Quando mai può un'idea generosa, potente d'amore e
d'avvenire per una nazione, allignare nel cuore d'un re?
Noi seguimmo a tacer di politica((225)) e a giovare come meglio
potevamo, d'opera e di consiglio, la guerra. Ma la guerra non era
più italiana, non era lombarda; era piemontese e d'una fazione.
Ministero, organizzazione, amministrazione, tutto era in mano
d'uomini devoti ad essa. Il governo non aveva missione da quella
infuori di ricevere i bollettini dal campo e magnificarli e
preparare il funesto decreto del 12 maggio.
Ed escì. Il programma di neutralità fu violato, quando pei sinistri
eventi, che facevano presagire la catastrofe non lontana, importava
più che mai attenervisi, per non gittar nuovi semi di discordia nel
campo, per non togliere apertamente il suo carattere nazionale alla
guerra, e per lasciar non foss'altro eredità d'un principio alla
insurrezione futura. Noi perorammo, scongiurammo il governo, ma
inutilmente. Volevan servire.
E allora - allora soltanto - noi sentimmo necessità di protestare in
faccia all'Italia. Quei che erano a quei giorni in Milano sanno che
il farlo non era senza pericolo. E dovrebb'essere nuovo indizio a
tutti, avversi o propizî, che noi non avevamo lungamente taciuto se
non per amor di patria e per non rompere quella concordia, che,
anche apparente, poteva giovare alla guerra.
Il dì seguente al decreto, pubblicammo il documento seguente:
AL GOVERNO PROVVISORIO CENTRALE
DELLA LOMBARDIA.
«Signori,
«Quando, compiti i prodigi delle cinque giornate, sublimi di
vittoria e di fiducia nei risultati della vittoria, il popolo, solo
sovrano su questa terra redenta col suo sangue, v'accettò capi, esso
vi commetteva un doppio mandato: provvedere all'intera emancipazione
del paese; e preparargli un terreno libero sul quale l'espressione
del suo voto intorno ai futuri destini potesse sorgere spontanea,
illuminata dalla discussione fraterna, accettata da tutti i partiti,
solennemente legale, in faccia all'Europa, pura di basse speranze e
di bassi timori, degna dell'Italia e di noi.
«E i popoli d'Italia, che tutti si sapevano fratelli a noi, tutti
mandavano, come concedevano le distanze e le circostanze
particolari, uomini loro a combattere la santa guerra, vi
confermavano tacitamente lo stesso mandato. Sentivano che qui, su
questa terra lombarda dove moto e trionfo erano cose di popolo, si
agitavano le sorti di tutta Italia: che qui in una importantissima
parte d'Italia, da parecchî milioni d'uomini generosi, doveva
compiersi, con voto libero e meditato, un esperimento forse decisivo
sulle vere tendenze, sugli istinti, sui desiderî che fermentano in
core alle moltitudini, e ne decideranno la nuova vita.
«Voi intendeste allora, signori, quel mandato, o mostraste
d'intenderlo. E poichè non trovavate in voi potenza o diritto
d'iniziativa, dichiaraste solennemente più volte che l'iniziativa
spettava tutta intera al popolo, e che il popolo solo, emancipato il
territorio e finita la guerra, avrebbe discusso e deciso, raccolto
in assemblea costituente, intorno alle forme che dovrebbero reggerne
la vita politica.
«E dichiarandolo, voi di certo non intendevate, cosa impossibile,
ingiusta, che un popolo intero si rimanesse muto, per un tempo
indefinito, sulle questioni più gravi e più vitali per lui: voi non
potevate ragionevolmente pretendere ch'ei combattesse senza sapere
il perchè; ch'ei conquistasse vittoria senza interrogarsi quali
sarebbero i frutti della vittoria, ch'ei si facesse soldato della
libertà cominciando dal rinnegarla e dal contendersi ogni diritto di
pacifica e fraterna parola.
«Le opinioni a poco a poco si rivelarono. Era cosa buona, era la
educazione preparatoria, che voi non davate al popolo, offertagli
dai migliori fra' suoi fratelli perchè il giorno dell'assemblea
avesse il suo voto illuminato e pensato; era prova data all'attenta
Europa che le popolazioni lombarde non s'erano mosse per solo e
cieco spirito di riazione, ma perchè sentono i tempi maturi per
entrare con coscienza di diritti e doveri nel grande consorzio delle
nazioni. Voi non dovevate atterrirvi, ma rallegrarvene; e solamente
avevate debito di usare di tutta la vostra influenza perchè il campo
fosse aperto a tutti egualmente, perchè la discussione si mantenesse
scevra di raggiri e d'intolleranze, nei termini d'una pacifica e
fraterna polemica.
«Voi sapete, o signori, quale fra le diverse opinioni fosse prima ad
uscire da quei limiti consentiti di discussione. Voi sapete che
mentre la opinione alla quale si onorano di appartenere i segnati
qui sotto si manteneva tranquilla e pacata sull'arena della
persuasione - mentre insisteva essa sola sul terreno legale
assicurato da voi e v'appoggiava in ogni occasione e con ogni sforzo
- mentre esagerava, a proprio danno, la virtù di moderazione, altri
più impaziente, perchè men sicuro di giusti argomenti, infervorava
nella questione tanto da mutare quasi in lotta la discussione, in
minaccia la parola amica. A voi toccava, amati siccome eravate,
inframmettere una parola conciliatrice; e non lo faceste. Più dopo,
uomini d'alcune provincie, traviati a partiti illegali, pericolosi,
tentarono apertamente lo smembramento dell'unità collettiva dello
Stato, parlarono di dedizioni immediate senza il consenso dei loro
fratelli, aprirono il varco, violando la debita soggezione al vostro
governo centrale, all'anarchia del paese; iniziarono liste, le
presentarono rivestite del prestigio d'autorità secondarie a
popolani illusi, agli ignari abitatori delle campagne; raccolsero in
un subito firme, le raccolsero in più luoghi con arti subdole, con
abuso di nomi. Questi abusi, questi artificî vi furono noti, o
signori! voi riceveste lagnanze e prove; alcuni tra noi ricordano
parole vostre in proposito, e le ridiranno, s'altro non giova, alla
storia. Era obbligo vostro santissimo punire quei tentativi,
illuminare colla vostra parola pubblica le illuse popolazioni;
ridire ad esse, ridire a tutti il vostro programma e le ragioni che
militavano a mantenerlo, diffonderlo con tutti i mezzi che stavano
in mano vostra per ogni dove; invocare l'amore al paese e il senso
diritto de' vostri concittadini. Voi nol faceste, e mentre
l'agitazione prodotta da mene siffatte nel popolo inconscio
domandava a sedarsi una vostra parola, e molti fra gli onesti d'ogni
partito vi traducevano questa dimanda, voi ricusaste; voi vi
ravvolgeste in un silenzio funestissimo, inesplicabile; voi
lasciaste procedere, immobili, quella condizione di cose; ed oggi
voi l'invocate, esagerandola, a scolparvi della violazione al
programma accettato dalla nazione; oggi, mentre l'amore al paese e
il senso diritto de' Lombardi cominciano a diminuire, per opera
propria, i pericoli - oggi che da talune delle città traviate
cominciano a giungervi, non provocate da voi, prove di ritorno a più
giusto sentire e proteste di adesione all'antico programma - il
vostro decreto del 12 lo sacrifica, sanziona quei procedimenti
funesti e chiama i cittadini non preparati a decidere in un subito
le sorti del paese con un metodo illegale, illiberale, indecoroso,
architettato al trionfo esclusivo d'un'opinione sull'altra.
«Il metodo dei registri è illegale, perchè viola per autorità vostra
il programma ch'era condizione della vostra esistenza politica in
faccia al paese; perchè invola la più vitale, la più decisiva fra le
questioni all'Assemblea costituente.
«Illiberale perchè sopprime la discussione, base indispensabile al
voto; cancella un diritto inalienabile del cittadino, e sostituisce
all'espressione pubblica e motivata della coscienza del paese il
mutismo e la servilità dell'impero.
«Indecoroso perchè affrettato; perchè tende a trasmutare ciò che
potrebbe esser prova d'affetto sentito e di maturato convincimento
in dedizione di codardi impauriti; perchè la guerra pendente e la
presenza d'un esercito che rappresenta una opinione rapisce alla
decisione ogni dignità; perchè in faccia all'Italia e all'Europa noi
appariremo a torto in sembianza d'uomini condotti da interessi
immediati e paure, e i generosi che ci sono fratelli e che ci
salutarono, combattendo, fratelli, appariranno a torto
conquistatori.
«Architettato al trionfo esclusivo d'un'opinione sull'altra, perchè
coglie a imporsi il momento in cui quell'opinione ha preparato in
tutti i modi e con tutti gli artificî il terreno; e perchè voi non
vi limitate neppure a chiedere al popolo se intende o no procedere
immediatamente a una decisione, ma escludete dai vostri registri una
delle soluzioni al problema, e ne sopprimete qualunque espressione.
«Signori, voi avete violato il vostro mandato.
«Noi crediamo debito nostro dolorosissimo il dirvelo: dolorosissimo
non per ciò che spetta alle future sorti d'Italia; le sorti d'Italia
stanno in più alta sfera che non è quella in che i governi
provvisorî s'aggirano; ma perchè noi v'abbiamo lungamente difesi ed
amati: e perchè, noi lo crediamo, il decreto del 12 maggio turberà
lungamente la pace della vostra coscienza.
«Signori; le conseguenze immediate di quel decreto potrebbero
riescire sommamente pericolose alla pace domestica e alla libertà
del paese. Voi somministrate con esso un pretesto all'intervento
straniero che tutti lamenteremo. Voi, rompendo la vostra neutralità
per farvi a un tratto settatori d'un'opinione esclusiva, cacciate un
guanto di sfida imprudente alle opinioni sagrificate.
«Dio ajuti l'Italia e rimova il pericolo, che voi le suscitate,
degli stranieri! Quanto a noi, amiamo la patria comune più che noi
stessi. Noi non raccoglieremo quel guanto. Noi non resisteremo pei
nostri diritti perchè la resistenza sarebbe cominciamento di guerra
civile, e la guerra civile, colpevole sempre, lo sarebbe doppiamente
oggi che lo straniero invade tuttora le nostre contrade. Ma i nostri
concittadini ci terranno, noi lo sappiamo, conto del sacrificio.
«A noi basta per ora, o signori, protestare solennemente in faccia
all'Italia e all'Europa e a quiete della nostra coscienza. Il buon
senso della nazione e l'avvenire faranno il resto».
Così, la parte repubblicana, ingannata con false promesse, aggirata
per lunga pezza dal contegno gesuiticamente amichevole del governo
provvisorio, poi perseguitata d'accuse villane, di stolte minaccie e
di perfide insinuazioni diffuse tra il popolo, e tradita a un tratto
nelle sue più care speranze da un decreto che alla libera, solenne,
pacifica discussione d'una Costituente dopo la vittoria sostituiva
una muta votazione su registri e, pendente la spada di Damocle sulla
testa ai votanti, rispondeva parole di dignitosa e severa mestizia
ai violatori della pubblica fede, pur dichiarando di non volere, per
amore di quella concordia che essi soli avevano, tacendo, serbata
sino al 12 maggio, raccogliere il guanto - la plebe dei moderati,
irritata, arse in Genova quella protesta. Noi potevamo rispondere,
in modo non dissimile da Cremuzio Cordo: ardete anche i buoni tutti
d'Italia in quel rogo, perch'essi sanno la verità che noi diciamo a
memoria.
Pochi dì dopo, pubblicavamo il programma dell'Italia del Popolo. Ed
anche allora, il nostro era linguaggio di conciliazione. «La nostra
è missione di pace. Fratelli tra fratelli, noi concediamo e
rivendichiamo il diritto di libera parola, senza la quale non è
fratellanza possibile. Chi vorrebbe, chi potrebbe contenderlo? Non è
santo, in Italia, il pensiero? Non prorompe dal conflitto delle
opinioni la verità? Ov'è chi già la possieda infallibile, intera?
Ah, se i fratelli potessero mai impor silenzio ai fratelli, se un
diverso convincimento intorno ai modi di far questa nostra patria
una, libera, grande, potesse mai farci nemici gli uni degli altri, i
presentimenti d'un'Italia futura sarebbero menzogna e ironia. Il
problema dei nostri fati è problema di educazione. Educhiamo. Noi
rinunziammo, da quando albeggiò sulla nostra terra la libertà di
parola, al lavoro segreto, alle vie, sante nel passato,
d'insurrezione. Pieghiamo noi tutti riverenti il capo davanti al
giudizio sovrano, legalmente manifestato, del popolo. Accettiamo i
fatti che, consentiti dal popolo, si producono successivi fra il
presente e l'ideale che splende, come una stella dell'anima, davanti
a noi. Ma chi fra' nostri oserebbe dirci: rinnegate quell'ideale?
Lasciate, in nome di Dio, in nome dell'inviolabilità del pensiero,
che questa nostra bandiera, bandiera, voi tutti lo dite, dei dì che
verranno, sventoli sorretta da mani pure, nella sfera dell'idea,
quasi presagio aleggiante intorno alla culla d'un popolo che sorge a
nazione! Noi sappiamo che dov'anche moveste in oggi per altre vie,
voi verrete un giorno a raccoglierla sui nostri sepolcri. Ma la
raccoglierete illuminati, mercè nostra, sul suo potente significato,
sul valore delle sacre parole Dio e il popolo che vi splendono
sopra: la raccoglierete, non per subito impulso di concitate
passioni o di riazioni contro le tirannidi spente, ma come legato
de' nostri padri, purificato, discusso dagli studî, e dalla meditata
esperienza dei vostri fratelli. E intanto noi ci abbracceremo sul
terreno comune che le circostanze c'insegnano: l'emancipazione della
patria, l'indipendenza dello straniero che la minaccia. Studieremo
insieme i modi più attivi, più efficaci di guerra contro
l'Austriaco; susciteremo insieme il nostro popolo all'opera;
indicheremo ai governi la via da tenersi per vincere; moveremo su
quella con essi. Primo nostro pensiero sarà la guerra;
secondo, l'unità della patria; terzo, la forma, l'istituzione che
deve assicurarne la libertà e la missione. Ora i nostri lettori
sanno chi siamo e l'inspirazione che ci dirigerà nel nostro
lavoro. Spetta ad essi il giudizio: ai giovani, consacrati
dall'amore e dall'intelletto, sacerdoti del progresso italiano,
l'ajutarci fraternamente all'impresa. Noi seguiremo, avvenga
che può, come le leggi future e gli eventi concederanno. E s'anche,
fraintesi dagli uni, tiepidamente soccorsi dagli altri, cadessimo a
mezzo la via, noi diremo, sereni e assicurati dalla pura coscienza:
perisca il nostro nome; si sperda la memoria del molto affetto, dei
molti dolori patiti, e del poco che noi facemmo; ma rimanga, santo,
immortale, il pensiero, e Dio gli susciti migliori e più avventurosi
apostoli negli anni futuri».
Siffatte erano le nostre parole. E nondimeno, noi fummo per ogni
dove accusati d'avere, sostituendo un'idea politica, alla questione
di indipendenza, nociuto alla guerra e seminato dissidî tra le forze
che dovevano combatterla unite! E tanto fu diffusa e ripetuta la
falsa accusa, ch'oggi ancora serpeggia all'estero e in patria per
opera di uomini illusi o tristi. I repubblicani dovevano combattere
e discussero. La storia intanto dei fatti documentati dice e dirà:
che i repubblicani furono i primi a combattere, gli ultimi a
discutere. Dirà che i repubblicani combattevano sulle barricate
mentre i moderati congiuravano con Torino - che repubblicani erano
pressochè tutti coloro i quali, inseguendo gli Austriaci fuor di
Milano, o uscendo da Como, si spingevano fino al Tirolo, mentre il
governo provvisorio moveva i primi passi a render possibile più
tardi la dedizione - repubblicani i volontarî che l'undici aprile
s'impossessavano della polveriera di Peschiera - repubblicani i più
tra gli uomini che pugnarono per Treviso, e sostennero per diciotto
ore, il 23 maggio, in Vicenza l'urto di diciottomila uomini e di
quaranta cannoni - repubblicani gli studenti che riuniti in corpo
chiedevano, scongiuravano d'essere condotti al nemico - repubblicani
gli uomini che sul finire del maggio formarono il così detto
battaglione lombardo, e mossero a difesa del Veneto abbandonato,
tradito dalla guerra regia. Dirà che repubblicano e fondatore della
Società democratica era Giuseppe Sirtori, salito più tardi a
meritata fama di guerra in Venezia - repubblicano il Maestri, membro
del comitato di difesa negli ultimi giorni della guerra -
repubblicano, egli e chi lo seguiva, il Garibaldi che lasciò ultimo
senza codardie di patti o armistizî il suolo lombardo. E dirà che di
guerra furono tutte le proposte escite dalla fratellanza
repubblicana; per la guerra unicamente e contro l'inerzia del
governo tutte le agitazioni che dopo il 12 maggio si rivelarono in
piazza San Fedele. Il protagonista, dell'unica manifestazione che
assumesse per un istante colore politico - quella del 29 maggio -
l'Urbino, era giunto da poco di Francia, ignoto ai repubblicani, non
veduto fuorchè una sola volta da me.
III.
Il 29 maggio furono chiusi, esaurita la votazione, i registri. Come
se ad ogni trionfo dei moderati dovesse corrispondere una sciagura
nazionale, il fiore della gioventù toscana cadeva in quel giorno,
sagrificato, per inscienza di guerra o peggio((226)), sui ridutti di
Montanara e di Curtatone.
L'8 giugno fu pubblicata la cifra dei voti. Il 13, due giorni dopo
caduta Vicenza, una deputazione recava, duce il Casati, al campo del
re l'atto solenne della fusione. La vittoria era della fazione;
l'intento della guerra regia era finalmente raggiunto: svanita per
allora ogni possibilità di repubblica e un precedente, come lo
chiamano i diplomatici, conquistato alla dinastia di Savoja. I regi
a quel tempo diffidavano già di vincere, e un precedente, un titolo
da tenersi in serbo a giovarsene nei futuri rivolgimenti e nei
futuri congressi, era per molti fra loro la somma speranza. Quindi
la fusione affrettata, in onta alle promesse e all'utile della
causa, nella Lombardia; e peggio nella santa eroica Venezia, dove il
6 agosto, segnate già da due giorni le basi della turpe cessione
all'Austria, giungevano a prender possesso, in nome di re Carlo
Alberto, della città i due commissarî Colli e Cibrario. Ah! duri
l'esilio per noi, duri per voi, fratelli miei, l'oppressione, anzi
che debba un'altra volta vedersi profanato per siffatte oscene
miserie il grande concetto italiano e dato ai traffichi di
un'ambizione dinastica l'entusiasmo e il sangue dei prodi! Perchè,
come nelle lagrime si santifica la virtù, così nei patimenti
inflitti dalla tirannide si purificano le nazioni; ma per arti di
menzogna e calcoli d'egoismo non si sollevano popoli alla libertà:
si sfibrano nell'inerzia della diffidenza e si condannano a tale una
lenta agonia d'ogni facoltà potente e d'ogni palpito generoso da far
lungamente piangere le madri in terra e gli angioli in cielo.
Ed era agonia! - noi più miseri di tutti gli altri che senza
illusioni interrogavamo i segni crescenti del male e numeravamo i
battiti del polso alla grande morente, nè potevamo sclamare: la
libertà d'Italia perisce, senza ch'altri ci gridasse terrificatori e
alleati dell'Austria!
Fin dall'aprile, per odio ai volontarî e obbedienza alla diplomazia,
l'impresa del Tirolo s'era abbandonata. Il Friuli era perduto e
aperto al nemico. E perduta era la provincia veneta, dove Padova,
Vicenza, Treviso, Rovigo, l'una dopo l'altra cadevano senza che un
soldato del re movesse a soccorrerle: ai regi importava, non di
salvare il Veneto, ma di strappare, col terrore della rovina e con
false speranze di redenzione, a Venezia il voto del 5 luglio.
Promesse date a governi stranieri contendevano ogni operazione - e
poteva riescir decisiva - contro Trieste. La flotta sarda, in virtù
d'obblighi reiteratamente e inesplicabilmente contratti, si rimaneva
inattiva: l'11 giugno, ad ajutare in Venezia i raggiratori della
fusione, s'era annunciato che in un coi Veneti i legni sardi
avrebbero tentato una impresa; ma, raggiunto l'intento, l'ordine di
mossa si rivocava. Gli Austriaci, rinforzati a lor senno, maturavano
gli estremi disegni. Poco dopo il decreto del 12 maggio, il re di
Napoli aveva richiamato le sue truppe. Le dichiarazioni del papa a
Durando avevano reso pressochè inutili gli ajuti romani. L'atto di
fusione aveva, rivelando nuovi pericoli ai governi italiani
dall'ambizione della casa di Savoja, tolta ogni speranza di
cooperazione da parte loro; aveva, col fantasma d'una((227))
costituente sardo-lombarda, irritati più sempre i timori, gli odî e
maneggi segreti dell'aristocrazia torinese. Le tristi necessità, che
accennammo più sopra, della guerra regia avevano creato il vuoto e
l'isolamento intorno al campo di Carlo Alberto.
E a isolarsi in Europa, a privarsi d'ogni speranza di soccorso
dall'estero, sommavano le necessità della regia diplomazia: tortuosa
del resto come fu sempre la politica di casa Savoja, e incerta e
tentennante come il pensiero del re.
La storia diplomatica di quel periodo è tuttavia arcana e rimarrà
tale per qualche tempo. Vivono, e pressochè tutti in potere, gli
uomini che la maneggiarono; e importa ad essi sottrarne i documenti
alle povere aggirate popolazioni. Però, anche la collezione inglese,
citata più volte, è visibilmente manchevole nella parte che più
rileva. Ma le linee principali trapelano di sotto al velo e giova, a
compimento di questo lavoro, accennarle.
La guerra fra i due principî era generale in Europa: l'entusiasmo
suscitato dai moti italiani, e segnatamente dall'insurrezione
lombarda e dai prodigi delle cinque giornate, era immenso; e
l'Italia poteva, sapendo e volendo, trarne quanta forza era
necessaria a controbilanciare ogni forza di riazione nemica. Ma per
questo bisognava, checchè temessero i meschini politici moderati,
dar carattere apertamente, audacemente nazionale, a quei moti, tanto
da spaventare i nemici e offrire un elemento potente d'ajuto agli
amici. Gli uni e gli altri presentivano maturi i tempi, e
cominciavano a credere che l'Italia sarebbe; ma l'Italia, non il
regno del nord. Ricordo le confortatrici parole a me rivolte nelle
sue stanze, due giorni prima ch'io rimpatriassi, da Lamartine in
presenza, fra gli altri, d'Alfred de Vigny e di quel Forbin Janson
ch'io doveva più tardi ritrovarmi davanti predicatore di
restaurazione papale e cospiratoruccio raggiratore in Roma. «L'ora
ha battuto per voi - diceva il ministro - ed io ne sono
siffattamente convinto, che le prime parole da me commesse al signor
d'Harcourt pel papa a cui l'ho spedito sono queste: Santo padre, voi
sapete che dovete essere presidente della repubblica italiana». Il
d'Harcourt aveva ben altro che dire al papa per conto della fazione
che avvolgeva Lamartine nelle sue spire mentr'ei s'illudeva di
padroneggiarla. Nè io dava importanza più che di sintomo alle parole
di Lamartine, uomo d'impulsi e di nobili istinti, ma fiacco di fede,
senza energia di disegno determinato, e senza conoscenza vera degli
uomini e delle cose. Bensì, egli era l'eco d'una tendenza
prepotente, in quei momenti di concitamento, sulle menti francesi; e
una bandiera di nazione risorta, un programma, se non risolutamente
repubblicano, come quello almeno della costituente italiana,
avrebbe, in Francia, fatto forza ad ogni più esitante governo. Da
cose grandi nascono cose grandi. Il concetto pigmeo dei moderati
agghiacciò gli animi per ogni dove e comandò politica diversa alla
Francia. Il popolo italiano era alleato più che forte a salvare la
repubblica da ogni pericolo di guerra straniera; un regno del nord,
in mano di principi mal fidi e avversi per lunga tradizione ai
repubblicani di Francia, aggiungeva un elemento pericoloso alla lega
dei re. La nazione da quel giorno ammutiva e lasciava libero il suo
governo di commettere i fati della repubblica all'ignoto avvenire e
non aver politica alcuna per l'estero. L'Inghilterra, comechè l'idea
d'una Italia possa ingelosirne il governo, non era tale da
contrastare a una solenne manifestazione nazionale: politica
perpetua inglese è quella di creare ostacoli al sorgere d'ogni fatto
che introduca un nuovo elemento nell'assetto europeo, e di
riconoscere prima quel fatto, sorto che sia e potentemente iniziato.
E le due cagioni che rendevano meno avversa l'Inghilterra alla
formazione del nuovo regno - l'impianto d'una barriera alla Francia
conquistatrice e la necessità creata all'Austria di cercare un
compenso nelle provincie turche e costituirsi ostacolo alle mire
russe - militavano con più vigore per l'ipotesi nazionale. L'Austria
sentiva il nembo, e non intravvedeva possibilità di difesa. Se
domani - scriveva a Londra a lord Palmerston il barone
Hummelauer((228)) - se domani i Francesi varcassero l'Alpi e
scendessero in Lombardia, noi non moveremmo a incontrarli. Noi
rimarremmo a principio nella posizione di Verona e sull'Adige; e se
i Francesi venissero in cerca di noi, noi retrocederemmo verso le
nostre Alpi e l'Isonzo; ma non accetteremmo battaglia. Noi non ci
opporremo all'ingresso e alla marcia dei Francesi in Italia. Quei
che ve li avranno chiamati potranno a lor posta sperimentare anche
una volta la loro dominazione. Nessuno verrà a cercarci dietro le
nostre Alpi; e rimarremo spettatori delle lotte che avranno sviluppo
in Italia.
Io non dico che si dovesse o non si dovesse chiamare gli eserciti
francesi in Italia. Io credeva allora e scrissi più volte
sull'Italia del Popolo - comechè a noi repubblicani venisse dalla
stessa gentaglia, che ci chiamava alleati dell'Austria, gettata
continuamente in viso l'accusa di volere far decidere le nostre liti
dallo straniero - che noi Italiani avevamo, purchè uniti e volenti,
forze nostre a dovizia per emanciparci: e lo credo anch'oggi. Ma
dico che a sciogliere il nodo bisognava o giovarsi degli ajuti
stranieri o chiamar sul campo tutte le forze vive della nazione; e
dico che gli ajuti di Francia in quei giorni erano, per chi li
avesse voluti, certi, immancabili. I moderati respinsero gli uni e
non vollero, anzi addormentarono e soffocarono l'altre. Era
stoltezza e tradimento ad un tempo. A noi, che di certo sentivamo
italianamente quant'essi e volevamo liberarci con armi nostre
suscitando a crociata il paese, pareva utile e giusto che la
fratellanza dei popoli ricevesse pure consecrazione sui campi delle
prime nostre battaglie e s'accettasse con riconoscenza l'offerta
d'una numerosa legione di volontarî francesi, che avrebbe coi primi
fatti bastato a cimentar l'alleanza morale tra le due nazioni e a
mostrar da lungi come probabile l'ajuto governativo. Ma che sperare
da uomini, ai quali non era rossore il condannare - per terrore d'un
rimprovero da Pietroburgo - all'ozio increscioso d'una caserma in
Milano Mickiewicz e i suoi Polacchi sino al giorno in cui la
determinazione di sottrarli a Venezia, che per mio suggerimento li
aveva accettati, fe' sì che fossero chiamati al campo?
Carlo Alberto e i suoi non volevano gli ajuti di Francia, non per
orgoglio nazionale nè per coscienza di secura vittoria, ma come non
volevano gli Svizzeri e i volontarî, per paura dell'idea, della
bandiera repubblicana. Un timido indirizzo fatto sul cominciar della
guerra, e senza chiedere ajuti, al governo di Francia, meritò
rimproveri severi dai regî al governo provvisorio. E le istruzioni
date agli agenti sardi imponevano di chiudere possibilmente ogni via
all'intervento francese. L'esercito francese - diceva
orgogliosamente, il 12 maggio, Pareto alla Camera torinese - non
entrerà se non chiamato da noi; e siccome noi non lo chiameremo, non
entrerà. E si minacciava sul finir di luglio resistenza aperta a
ogni tentativo d'intervento che venisse di Francia. A tenersi
intanto diplomaticamente amico il governo francese e a carpire
promessa d'approvazione al regno del nord quando sarebbe giunto il
tempo di farlo accettare dalle potenze europee, i moderati
assumevano segretamente l'obbligo di cedere la Savoja. Di questo ho
certezza. E la Savoja era eliminata da una carta del futuro regno
fatta disegnare a quel tempo in Torino a norma segreta d'alcuni fra
gli agenti sardi, e un esemplare della quale sta in nostre mani.
Mercè quel pattuito mercato, Lamartine dimenticava le sue prime
aspirazioni repubblicane; e mentre il segretario degli esteri,
Bastide, dichiarava a me e a qualunque altro volesse udirlo che la
Francia era inesorabilmente ostile alle mire ambiziose di Carlo
Alberto, l'inviato francese in Torino, signor Bixio, perorava
indefesso per la fusione e mi spediva a Milano, per tentar di
convincermi, il suo segretario. Di siffatte vergogne diplomatiche e
del continuo oblio del principio scritto sulla sua bandiera, la
Francia paga oggi il fio col decadimento del suo nome all'estero e
coll'anarchia che la rode.
Dei maneggi politici che i faccendieri del re millantavano
coll'Inghilterra, i documenti non hanno indizio. Ma l'Austria, forse
da principio, sinceramente atterrita com'era dalle proprie
condizioni interne ed esterne, più dopo con intenzione visibile di
guadagnar tempo, tentò più volte il gabinetto inglese perchè si
facesse mediatore e paciere fra l'insurrezione e l'impero.
Fin dal 5 aprile, Ficquelmont annunziava da Vienna al conte
Dietrichstein, ambasciatore austriaco in Londra, l'invio d'un
commissario imperiale in Italia incaricato di negoziare per una
riconciliazione sulle più larghe basi possibili((229)), e pregava
perchè lord Palmerston appoggiasse le sue proposte. Non so se il
commissario giungesse in Italia o con chi favellasse; ma le larghe
basi non eccedevano allora i limiti dell'indipendenza
amministrativa. Se non che da un altro dispaccio spedito lo stesso
giorno al Ficquelmont dal barone di Brenner, incaricato d'Austria in
Monaco((230)), appare un primo indizio o tentativo o desiderio di
non foss'altro scambievoli cortesie fra i due nemici per iniziativa
di Torino: e merita attenzione. Era una comunicazione scritta delle
intenzioni di S. M. Sarda risguardanti le relazioni pacifiche da
mantenersi sul mare; ma i modi della comunicazione e parecchî
accessorî, e l'interpretazione data al buon ufficio dall'Austria,
moverebbero sospetto d'altro. Il marchese Pallavicini, incaricato
della comunicazione, s'indirizzava al Severine, ministro di Russia
in Monaco, perchè manifestasse come intermediario all'Austria il
desiderio della corte di Torino, e gli ottenesse un colloquio col
Brenner. L'abboccamento aveva luogo il 5 - non già, come parea
naturale, nella residenza del Severine dacchè non bisognava
risvegliar l'attenzione degli sfaccendati curiosi in Monaco - ma in
casa d'un Voillier, consigliere della legazione di Russia; e fu
scelta come il luogo più adatto perchè situato in una parte più
remota, poco osservata della città: il Pallavicini insisteva perchè
non si ritardasse di un'ora. La nota fu trasmessa da quest'ultimo al
Brenner, coll'aggiunta da leggersi nel dispaccio, «che con quella
comunicazione il governo sardo desiderava allontanare per quanto era
in esso le conseguenze funeste che il conflitto nel quale il
Piemonte si trovava sventuratamente impegnato coll'Austria, potrebbe
avere per gli interessi del commercio marittimo ne' due paesi» -
forse con altre aggiunte da non leggersi nel dispaccio: e la nota
stessa consegnata dal Pallavicini, mandata al Ficquelmont, e da lui,
per copia, al Dietrichstein in Londra, non è da trovarsi fra i
documenti. Comunque, i due conversavano sulle faccende correnti, e
il Brenner nota che il marchese «non sembrava affatto rassicurato
sull'ultime conseguenze dell'impresa nella quale re Carlo Alberto
s'era indotto ad entrare», ma credendo che «in caso di collisione
fra i due eserciti il vantaggio rimarrebbe al maresciallo Radetzky,
ei pareva fondare le sue speranze sulle interne difficoltà
dell'impero». Non ho creduto - scrive il Brenner al suo padrone -
dovere respingere una iniziativa che potrebbe forse, nelle
intenzioni del governo sardo, aver valore d'un primo tentativo per
condurre un accordo col gabinetto imperiale. Il Pallavicini, pare,
fu poi redarguito dal suo governo per avere oltrepassato i termini
del mandato. Tutto quel maneggio a ogni modo ha sembianza di
congiura più assai che non di franca e leale comunicazione
governativa. E se si raffronti colla dichiarazione, non provocata,
del Ficquelmont a lord Palmerston «che se l'Austria riescisse a
respingere i Piemontesi sul loro territorio.... noi possiamo porgere
anticipatamente all'Inghilterra che noi non seguiremmo al di là
delle nostre provincie il successo ottenuto((231))» - cresce il
sospetto nell'animo. Certezza siffatta data innanzi tratto a un
fiacco nemico poteva riescire - e riescì forse - fatale.
D'allora in poi,le richieste di buoni uffici e i progetti di pace e
le comunicazioni austriache al gabinetto inglese spesseggiavano nei
Documenti.
Un primo progetto, steso da chi non si nomina nella collezione - e
credo sia Colloredo - fu discusso l'11 maggio nel consiglio dei
ministri in Vienna e mandato il 12 da Ponsonby a Palmerston. È
l'unico savio che potesse escire da Vienna; e cominciando dal
confessare la onnipotenza dell'idea nazionale in Italia((232)),
propone che, accettata la mediazione dell'Inghilterra e del papa, e
sancito un armistizio in virtù del quale gli Austriaci terrebbero la
linea dell'Adige, si convochino i consigli comunali del
Lombardo-Veneto e si chieda se vogliano entrare nella confederazione
italiana, della quale l'Austria si farebbe promovitrice, sotto la
sovranità di quest'ultima con un arciduca a vicerè, rappresentanza
nazionale, costituzione e codice proprio - o se preferiscano
indipendenza assoluta con compensi finanziarî e commerciali da
stabilirsi. Dichiarando prima il grande principio della nazionalità
italiana e ponendosi a un tratto quasi fondatrice d'una
confederazione italica a patto che questa dichiarasse stretta e
permanente neutralità europea, e l'Europa se ne facesse, come per la
Svizzera, mallevadrice, l'Austria serbava, secondo l'estensore del
progetto, una possibilità di successo nella votazione, costituiva a
ogni modo la propria influenza sulla confederazione, staccava
l'Italia dalla temuta influenza francese e la condannava alla
debolezza inerente ad ogni paese, per volontà di potenze, neutrale.
Ed era infatti sola via di salute e di nuova attitudine in Europa
per l'Austria, alla quale lo scrittore dimostrava sin d'allora
l'impotenza della vittoria con parole che meritano d'essere qui
registrate, come confessione preziosa strappata dall'ingegno e
dall'esame dei fatti ad uomo non nostro. «Vinceste anche - egli dice
- che ne risulterebbe per l'Austria? Il possedimento di provincie
impoverite, che per lunghi anni non darebbero le spese
dell'occupazione militare indispensabile per contenerle;
l'indebolimento della monarchia in tutte le questioni concernenti la
Francia e la Russia, per la necessità di mantenere un esercito di
100 000 uomini nel regno Lombardo-Veneto, e guardare contro gli
assalti dei nemici esterni ed interni le provincie del Tirolo, del
Litorale e della Carniola. E quindi, politicamente,
finanziariamente, militarmente, e sovra tutto moralmente,
diminuzione delle forze reali, intralcio d'interessi e lotta, talora
celata, talora aperta, ma incessante, contro una nazione di più di
20 000 000 d'uomini riuniti dalla stessa lingua, dalla stessa
religione dalle stesse speranze».
Il progetto, per ciò appunto ch'era l'unico ragionevole da proporsi,
non andò oltre la discussione. Altri, meno plausibili, furono
successivamente comunicati al gabinetto inglese dall'Austria, il 12
maggio, il 23 maggio, il 9 giugno((233)): tutti fondati sulla
separazione del Lombardo e del Veneto: il primo da emanciparsi, or
con un vicerè ereditario - e proponevano il secondo fratello del
duca di Modena - indipendente dal governo viennese, pur sotto l'alta
signoria dell'imperatore, or con un luogotenente dell'imperatore e
con un ministero italiano, ma risiedente in Vienna - il secondo,
dotato di più o meno libere leggi, ma sempre provincia dell'Austria:
la difesa del Tirolo e la tutela delle comunicazioni tra Vienna e
Trieste esigevano la servitù di Venezia. L'emancipazione della
Lombardia doveva intanto comprarsi col tributo annuo di quattro
milioni di fiorini all'impero, col pagamento annuo d'una rendita di
circa dieci milioni di fiorini, trasportata sul monte
Lombardo-Veneto, come parte nostra del debito pubblico dell'impero,
e coll'obbligo di combattere colle nostre truppe le battaglie
dell'Austria. Senza il Veneto e col nemico in Verona e sulla linea
dell'Adige, la Lombardia avrebbe, nel primo momento favorevole ai
re, trovato illusorî codesti patti. Pur non vedo che fossero mai
seriamente proposti; e diresti che tanta espansione d'intenzioni
pacifiche dall'Austria al ministero inglese non avesse intento,
passati i primi terrori, da quello in fuori di allettare, senza
compromettersi con comunicazioni dirette, il Piemonte. Soltanto il
13 giugno un armistizio fu proposto da Wessemberg al conte Casati,
con basi di pace risguardanti il solo Lombardo; ma non tendeva che a
dare un po' di tempo ai rinforzi; e il 18 un dispaccio di Ponsomby
avvertiva Palmerston che Radetzky, al quale era stato commesso dal
Wessemberg non di conchiudere ma di proporre armistizio, dissentiva,
ripromettendosi meglio dall'armi((234)).
E a questo somma la storia, nota fin qui, della diplomazia di quel
tempo: volpina al solito per parte dell'Austria, nulla per parte del
Piemonte, se non in quanto appajono qua e là indizi d'un mistero che
forse il tempo sciorrà. Il solo incidente che conforti l'animo e
splenda, come gemma nel fango, di mezzo a questa abbietta prosa di
cancellerie, è il subito generoso commoversi della popolazione
lombarda ogni qual volta serpeggiavano rumori d'abbandono di Venezia
e di pace all'Adige. Balzava e ruggiva, come lione addormentato al
quale un ferro rovente marchi a un tratto la fronte. Guerra per
tutti, libertà per tutti o per nessuno, era in que' momenti il grido
universale, e proferito con tale energia da far retrocedere ogni
governo provvisorio o regio che avesse in animo di patteggiare.
L'idea nazionale si ridestava potente come ai primi giorni
dell'insurrezione. Quei giornalisti francesi che menarono, non ha
molto, romore di parecchi fra i dispacci citati, e rimproverarono i
Lombardi perchè non afferrassero allora l'áncora di salute d'una
pace all'Adige, provarono a un tempo la loro profonda ignoranza
della politica austriaca e il silenzio d'ogni senso generoso
nell'anima loro. Quel rifiuto vale più assai per l'avvenire del
nostro popolo che non dieci regni costituzionali da fondarsi a
beneplacito dell'Austria tra l'Adige e il Po.
Non so se la pace all'Adige entrasse mai positivamente nei disegni
del re o - dacchè, com'oggi in Torino son due governi, così erano
allora nel campo - d'altri per lui. Ma credo certo che quel
fantasma, evocato sin da principio astutamente dall'Austria,
operasse quasi fascino sull'animo suo, e contribuisse alle lentezze
e al mal esito della guerra. A qualunque guardi, con occhio quanto
più vuolsi indulgente, all'insieme e alle fazioni di quella
malaugurata campagna - all'abbandono deliberato d'ogni impresa in
Tirolo e agli sbocchi dell'Alpi - al sagrificio del Veneto - alla,
decisione di non muover guerra a Trieste e sul mare - alla
negligenza d'ogni tentativo per sommover l'Illirico e per collegare
la causa d'Italia coll'altre cause nazionali che s'agitavano
nell'impero - all'inazione sistematica dell'esercito prima della
resa di Paschiera, unico trionfo dei regi, e dopo, fino a quasi la
metà del luglio - e ai modi più che cavallereschi e cortesi usati in
tutte occasioni coll'Austria - parrà non foss'altro probabile che
Carlo Alberto tendesse, anche inconscio, a serbarsi per ogni
rovescio aperto il rifugio d'un trattato che, senza infliggergli la
vergogna d'abbandonare un terreno già conquistato, gli avrebbe pur
procacciato un ingrandimento di territorio nella Lombardia.
Tristissima e inevitabile conseguenza anche questa d'una guerra
d'indipendenza affidata ad un re. Guerre siffatte, quando non
trovino uomini apostolicamente credenti a guidarle, vogliono almeno
duci che abbiano tutto da conquistare nella vittoria, tutto da
perdere nella disfatta. Carlo Alberto non poteva riuscire a vittoria
assoluta senza giovarsi d'un elemento - l'elemento popolare - che
gli minacciava da lungi il trono; e cadendo, era certo, come ho
detto poc'anzi, di serbarsi la sua corona.
Se non che per ridurre il popolo ad accettare una pace all'Adige non
era forse che un'unica via: porgli il pugnale del nemico alla gola,
conchiuderla coll'Austriaco alle porte di Milano. E giunto una volta
alle porte di Milano, l'Austriaco avrebbe, schernendo, lacerato ogni
patto segreto in viso al patteggiatore.
Intanto, la guerra era irremissibilmente perduta; e il decreto della
fusione non fece che affrettar la catastrofe. Il popolo incominciò
poco dopo a destarsi dal sonno delle illusioni e a sentire
l'inganno.
Gli avevano detto che, segnato il contratto, Genova avrebbe dato
danaro, e il Piemonte soldati - e il governo invece andava or più
che mai stimolandolo a sagrificî, e assumendo per la prima volta
linguaggio inquieto. Gli avevano parlato di capitale, e di altro che
il Piemonte, commosso dall'atto fraterno, gli avrebbe consentito con
entusiasmo - e ascoltava invece discussioni esose d'ostilità e di
mal celata diffidenza nella Camera torinese. Gli avevano promesso
che, sicuri una volta del premio, Carlo Alberto e l'esercito
avrebbero operato prodigî - e Carlo Alberto e l'esercito si stavano,
dopo resa Peschiera, inerti, immobili sino al 13 luglio. E le
moltitudini cominciarono ad agitarsi, siccome persona inferma che si
desta in accesso di febbre, a tender l'orecchio sospettoso ai romori
che venivan dal campo, alle accuse che i chiaroveggenti movevano da
molto tempo al governo, al gemito dei traditi del Veneto, e
all'hurrah del croato che si spingeva a corsa non molestata fino ad
Asola e a Castel Goffredo. Quasi ogni sera, la piazza san Fedele,
dov'era il palazzo del governo, s'empieva di popolo chiedente nuove
del campo, e quasi ogni sera il Casati ripeteva dalle finestre le
solite frasi «non dubitassero: si vincerebbe: la prossima resa di
Verona ridarebbe le città cadute del Veneto: la bandiera tricolore
sventolerebbe presto sulle mura di Mantova per opera del magnanimo
re e del prode esercito piemontese». Poi, si schermivano
dall'agitazione crescente con decreti di leve, armamenti, ed
imprestiti e con turpi vessazioni di polizia: dannose queste e
semenza d'irritazione; buoni i primi, ma tardi, e mercè la pessima
costituzione del ministero di guerra, inefficaci: mancavano armi,
ufficiali, uniformi, e i primi battaglioni che s'affrettarono al
campo sembravano, per difetto di tutto quel materiale che
costituisce ai proprî occhî e agli altrui il soldato, un'accozzaglia
di gente cacciata in guerra perchè il popolo non tumultuasse. Il
popolo che in quella nudità d'ogni forma guerresca, in quelle vesti
e giberne di tela - coperti di tela si mandavano perfino i destinati
alle nevi del Tonale e dello Stelvio - ravvisava una dimostrazione
innegabile della inerzia colpevole di tre mesi, tumultuava più
forte. E allora, alle cento cagioni che avevano oprato a spegnere
l'entusiasmo e le forze popolari dell'insurrezione, s'aggiunge la
diffidenza di tutto e di tutti, e la parola tradimento, fatale a
ogni impresa, serpeggiò tra le moltitudini. A me fu più volte
proposto, e da forze ordinate, di rovesciare il governo e tentar con
altri uomini qualche via di salute. Ed era facile impresa; ma a qual
pro? Un subito mutamento di governo in Milano avrebbe acceso la
guerra civile e messo una macchia, agli occhi dei moltissimi illusi
tuttavia nel resto d'Italia, sulla bandiera repubblicana senza
salvare il paese. La fusione pronunciata dava diritto al re di
spedir truppe a protegger l'ordine e il suo governo. Noi ci saremmo
trovati a fronte bajonette di fratelli. L'Austriaco, che s'addensava
vigilante, avrebbe profittato dello smembramento delle forze e delle
nostre discordie. E coll'oscillazione inevitabile delle provincie,
sparivano, nei momenti di maggior bisogno, danaro, credito, armi e
materiale di azione al governo che si sarebbe inalzato. Ricusai
dunque sempre e impedii.
Per noi i fati della guerra erano da lungo segnati. Sapevamo che
l'esercito regio sarebbe rotto e il paese lasciato indifeso; e
stanno nell'Italia del Popolo articoli che pronunziavano, senza
grande sforzo di genio, le cose che accaddero, nè potevano per forza
umana impedirsi. Bensì vagheggiavamo un'ultima speranza; ed era: che
da Milano, assalita dall'armi austriache, risorgesse per impeto di
popolo concitato la guerra lombarda. Milano era ed è città di
prodigi. Gli estremi pericoli, la disperazione d'ogni altro ajuto
per la probabile ritirata delle forze regie al di là delle proprio
frontiere e il tuonare del cannone austriaco alle porte, avrebbero
forse rifatto gigante il popolo delle barricate di marzo. Liberi
d'ogni impaccio di governo inetto che sarebbe stato, da taluno fra'
suoi membri infuori, primo alla fuga, liberi d'ogni terrore di
tradimento, liberi sovra tutto della taccia aborrita di suscitare
colla nostra azione risse civili, i repubblicani, che erano negli
ultimi tempi risaliti in influenza tra le moltitudini, avrebbero
ordinato e condotto una tremenda battaglia di popolo nella città.
Per battaglia siffatta abbondavano l'armi, le munizioni ed i viveri.
E l'esercito austriaco avea nemiche alle spalle le popolazioni, e
forze nostre tenevano tutta l'alta Lombardia, l'eroica Brescia,
Bergamo,la Valtellina; e Venezia durava, e le Romagne fremevano,
emancipate d'ogni illusione principesca, sull'altra riva del Po. Una
resistenza ostinata in Milano poteva far riarder l'incendio. E a
prepararla si dirigevano tutti i nostri pensieri, e i legami che
stendevamo per le provincie, tra i corpi lombardi e noi, argomento
di continue paure e calunnie a chi s'ostinava a sconoscerci. Ma
tutto questo disegno si fondava sopra una condizione: Che Milano
fosse lasciata a sè stessa. E questa condizione ci fu anch'essa
rapita. Il re che aveva perduto il Lombardo-Veneto, dichiarò,
fatalmente, che avrebbe difeso Milano.
Lo stesso giorno in cui l'esercito piemontese, vittima
dell'inscienza dei capi e di peggio, dopo miracoli di valore
inutilmente operati, duce il Sonnaz, intorno al posto di Volta,
entrava in una rotta che dal Mincio non s'arrestava se non al
Ticino, quel Fava, mezzo-letterato, mezzo-poliziotto, che citammo
più sopra in nota, urlava imperterrito per le vie di Milano vittoria
del re magnanimo e migliaja di prigionieri e trofeo di non so quante
bandiere; ond'io, ch'era informato del vero, ebbi a inviare un amico
agli uomini del governo, non più veduti da me dopo il 12 maggio, per
supplicarli che non provocassero, ingannandolo sino agli estremi, il
popolo a ferocia di riazione; se non che erano ingannati, i più
almeno, dall'ambasciata sarda. Le nuove funeste si diffusero nella
giornata; e il governo atterrito e fatto, allora per la prima volta,
consapevole della propria impotenza, ricordò a un tratto ch'erano in
Milano uomini i quali amavano davvero il paese, comechè repubblicani
e in sospetto, due mesi addietro, d'alleati dell'Austria.
Il concentramento del potere per la difesa era necessità
universalmente sentita. Richiesti di nomi, indicammo Maestri,
Restelli e Fanti: repubblicano il primo d'antica data; non
repubblicano fino allora il secondo, e noto a noi per aver lavorato,
ma per errore di buona fede, alla fusione in Venezia: più soldato il
terzo che uomo di concetto politico: tanto a noi premeva
esclusivamente la difesa della città e nulla il trionfo della parte
nostra. Erano onesti, vogliosi del bene e capaci. Superata
coll'insistenza l'opposizione del governo al Fanti, al quale il
generale Zucchi ricusava come a più fresco di grado, ubbidienza, i
tre si costituirono, il 28 luglio, comitato di difesa. Il governo
rimase inoperoso, nullo, nelle proprie sale.
Di mezzo ad errori, conseguenze in parte quasi inevitabili della
condizione anomala creata dalla fusione - e il primo era quello di
non esser solo all'impresa ma d'aver frammisti nelle discussioni
ministri e generali del re - il comitato operò con attività
singolare e fece in tre giorni più assai che non avea fatto il
governo in tre mesi. I suoi provvedimenti stanno registrati nel
libro di Cattaneo e in uno scritto abbastanza noto steso da Maestri
e Restelli((235)); nè a me spetta, in questi rapidi cenni, ridirli.
Ma il popolo s'era ridesto a vita sublime; correva minaccioso le vie
esigendo che ricomparissero per ogni dove le bandiere tricolori
quasi disfida al vegnente nemico; apprestava armi e difese: sentiva
l'alito della sua battaglia e lo salutava con una gioja santamente
feroce. Milano in quei giorni era la più eloquente risposta che dar
si potesse a tutte stolide accuse, la più irresistibile condanna
della guerra regia e dei metodi tenuti dai moderati. A noi balzava
il core per lietezza insolita e risorgenti speranze. Rinasceva col
popolo la potenza d'amore e d'oblio che avea santificato i primi
giorni dell'insurrezione.
Illusi e giovenilmente incauti dopo quasi vent'anni di delusioni e
d'esilio! Gl'Italiani avevano peccato contro l'eterno vero e contro
la unità nazionale; e noi dimenticavamo che a ogni colpa tien dietro
inevitabile l'espiazione.
La notte dal 2 al 3 agosto, Fanti e Restelli si recavano a Lodi par
chiedere a Carlo Alberto quali fossero le sue intenzioni: nol
videro, ma ebbero dichiarazione dal generale Bava «che il re
moverebbe a difender Milano». Vidi Fanti al ritorno e presentii la
rovina. Ei dovrebbe or ricordarsi ch'io lo scongiurava di preparare
i disegni della difesa come se l'esercito piemontese venisse per
girsene. Egli, militare - i fatti posteriori lo hanno pur troppo
chiarito - più ch'altro, e affascinato dai quaranta mila difensori
soldati, sorrideva del mio scetticismo.
Il 3, comparve, munito di regio decreto che lo instituiva
commissario militare, un generale Olivieri, il quale con altri due,
il marchese Montezemolo e il marchese Strigelli, s'assumeva, in nome
della fusione, ogni potestà esecutiva. Io vidi i tre, intesi le loro
parole alla moltitudine raccolta sotto il palazzo, rividi Fanti,
corsi le vie di Milano, studiai gli aspetti e i discorsi; e
disperai. Il popolo si credeva salvo; era dunque irrevocabilmente
perduto. Lasciai la città, Dio solo sa con che core, e raggiunsi in
Bergamo la colonna di Garibaldi.
Il dì dopo, Carlo Alberto entrava in Milano.
Com'egli recasse la capitolazione con sè e nondimeno promettesse
difesa, e ordinasse incendî d'edificî che potevano giovare al nemico
- come il 4 ei giurasse per sè, pe' suoi figli, e pe' suoi soldati,
a una deputazione della guardia nazionale, e il 5, mentre tutta
Milano era un fremito di battaglia, egli e i suoi dichiarassero a un
tratto la capitolazione un fatto compito - come, all'udirlo, la
popolazione ardesse d'immenso furore; e le minaccie al re, le scene
del palazzo Greppi; le nuove promesse parlate e scritte di Carlo
Alberto ch'egli, commosso dall'unanime volere del popolo,
combatterebbe fino alla morte; e quasi a un tempo, la fuga segreta e
codarda, con tali particolari da infamare in perpetuo la monarchia -
sono cose da vedersi documentate nella relazione del comitato di
difesa e nel tremendo capitolo, intitolato La consegna, del libro di
Cattaneo. Poco importa appurare se il re tradisse o non tradisse, o
da quando avesse data il tradimento, suo o d'altri: poco importa la
lapide d'infamia che la storia potrebbe scrivere ad uno o ad altro
individuo. Esce ben altro da quei ricordi. E chi non legge in quelle
pagine della passione d'un popolo che fu grande, era grande e vuole
esser grande, l'impotenza assoluta della monarchia, la morte di
tutte illusioni dinastiche, aristocratiche e moderate, non ha
intelletto nè core, nè amor vero d'Italia, nè speranza mai
d'avvenire.
Una piccola bandiera di compagnia, colle parole dio e il popolo,
s'inalzava per alcune ore in Monza, di fronte a quell'immenso
spettacolo di monarchia fuggente e di popolo abbandonato, tra i
prodi che nella legione Garibaldi seguivano Giacomo Medici - ed io,
trascelto dall'affetto di quei giovani, la portava. Era la bandiera
della nuova vita sorgente tra le rovine d'un periodo storico; e sei
mesi dopo splendeva di bella luce, quasi programma dell'avvenire
italiano dall'alto del Campidoglio.
Caduta Milano, era caduta la Lombardia. Frutto anch'esso delle
abitudini tradizionali monarchiche e dei canoni della guerra regia,
durava inviscerato negli animi - e, per prova più recente, tuttavia
dura - il pregiudizio che nei fatti della capitale concentra i fatti
dell'intero paese. La capitale è dovunque splende sorretta da
cittadini devoti alla libera vita o alla bella morte e più
energicamente difesa, la bandiera della nazione. Ma allora, questa
verità non era sentita, e d'altra parte, la provincia era tuttavia
indebolita dalle fresche scissioni della fusione, e gli uomini che
avrebbero potuto perpetuare la guerra nella parte montagnosa della
Lombardia e guardare a Venezia siccome a capitale dei paesi
lombardo-veneti, Durando, Griffini ed altri, erano generali del re,
stretti ad un patto ignominioso di resa, e, dati i luoghi forti in
mano al nemico, maneggiarono in modo da spegnere ogni possibilità di
resistenza e condurre, taluni con fogli di via segnati da penna
austriaca, i volontarî del marzo in Piemonte. Garibaldi solo resse
quanto umanamente potevasi: poi cesse, ultimo e senza transazione,
alla piena.
La meschina storia dei moderati sardo-lombardi non finì colla resa.
Come lombrico troncato in due, seguirono ad agitarsi impotenti e
senza speranza di vita: la coda - il governo provvisorio trasformato
in consulta - verso il Lombardo-Veneto; la testa, il gabinetto
torinese e gli uomini della confederazione principesca, verso il
centro d'Italia, dove il pensiero nazionale, cacciato dal nord,
s'era ridotto e rinvigoriva. Non potendo tentar di giovare, si
diedero deliberatamente a nuocere; non potendo fare, lavorarono a
disfare l'altrui. Operarono ed operano dissolvendo. Ma non entra nel
mio disegno seguirne i raggiri e le mosse. L'azione funesta che
taluni fra loro, riconciliati apparentemente e pentiti, tentarono
esercitare in Venezia - le mene che, affascinando parecchî uomini
nostri, contribuirono potentemente al mal esito del tentativo che da
Val d'Intelvi doveva riaccendere l'insurrezione in tutta l'alta
Lombardia - le menzognere speranze che introdussero il dissolvimento
nell'emigrazione lombarda - i progetti d'invasione in Toscana -
l'opposizione, coronata di successo pur troppo, alla unificazione
del centro - e da ultimo la rotta infamissima di Novara - potrebbero
formare, e formeranno forse un dì o l'altro, una pagina addizionale
a questi miei cenni, come i documenti, che si preparano per la
stampa nella Svizzera italiana, faranno commento a più cose
accennate qui appena di volo. Per ora basta così; e l'animo
affaticato di ravvolgersi per entro a codesto fango ha bisogno di
riconfortarsi levandosi a contemplar l'avvenire. Oggi ancora i
superstiti fra i moderati, smembrati in più frazioni a seconda dei
concettucci e delle ambizioncelle locali, lavorano fra le tenebre,
gli uni a sedurre, se valessero, la povera Lombardia a nuove
illusioni, a nuove trame monarchico-piemontesi, gli altri a suscitar
congiure innocue in Toscana a favore d'uomini che combattono in
Piemonte le libere tendenze delle popolazioni, altri ancora a
giovarsi dell'aborrimento comune al governo sacerdotale per proporre
- vera profanazione del concetto escito da Roma - uno smembramento
alle provincie romane e - servendo, forse inavvedutamente, alle mire
dell'Austria - una fusione collo Stato del duca di Modena! Ma
siffatte mene, basta svelarle perchè non riescano - e se
gl'Italiani, dopo la guerra regia del 1848, dopo la rotta di Novara,
dopo la provata impotenza e peggio dei capi della fazione da un lato
- dopo i miracoli di valore e costanza popolare operati in Roma e
Venezia dall'altro - tentennassero ancora nella scelta fra le due
bandiere - sarebbero veramente indegni di libertà.
No; gl'insegnamenti scritti negli ultimi due anni con lagrime di
madri e sangue di prodi non possono andar perduti. La prova è
compita. Gli uomini d'intelletto traviato o perverso, che hanno
voluto applicare alla nascente Italia una dottrina sperimentata
venti o trenta anni addietro e trovata inefficace anche in Francia,
possono per breve tempo ancora creare modificazioni ministeriali,
ordire raggiri, sedurre, ingannandoli, pochi uomini inesperti d'ogni
politica o paurosi; ma non terranno più mai, con qualunque nome
s'ammantino, le redini del moto italiano. Mancavano ad essi, fin da
quando usurpavano la direzione del moto, i diritti che danno
all'altrui fiducia le forti radicate credenze: si dichiaravano
uomini d'opportunità, di transazioni a tempo, di menzogne che
diceano utili. Mancano oggi anche i pretesti che potevano, anni
sono, desumersi ai loro metodi dalle condizioni europee.
Le condizioni europee sono da due anni visibilmente, innegabilmente
mutate. La questione ferveva un tempo fra il dispotismo e la
monarchia temperata; freme in oggi fra la monarchia e il principato.
Grido repubblicano sarà, da dove che sorga, il primo grido
rivoluzionario. Alla rivoluzione italiana, se intende a farsi forte
d'alleanza col moto europeo, è dunque forza d'essere repubblicana.
Tutte le utopie moderate non daranno un solo amico nè scemeranno un
nemico alla causa italiana.
In Italia, caduto Pio IX, caduto Carlo Alberto, e dopo la parola
escita da Roma, non esiste più nè può esistere, giova ripeterlo, che
un solo partito: il partito nazionale.
E la fede politica di questo partito nazionale si compendia nei
pochi seguenti principî:
L'Italia vuole esser nazione: per sè e per altrui: per diritto e
dovere; diritto di vita collettiva, d'educazione collettiva - dovere
verso l'umanità, nella quale essa ha una missione da compiere,
verità da promulgare, idee da diffondere.
L'Italia vuole essere nazione una: una, non d'unità napoleonica, non
d'esagerato concentramento amministrativo che cancelli a beneficio
d'una metropoli e d'un governo la libertà delle membra; ma di unità
di patto, d'assemblea interprete del patto, di relazioni
internazionali, di eserciti, di codici, d'educazione, armonizzata
coll'esistenza di regioni circoscritte da caratteristiche locali e
tradizionali e colla vita di grandi e forti comuni, partecipanti
quanto più è possibile coll'elezione al potere e dotati di tutte le
forze necessarie a raggiunger l'intento dell'associazione e il cui
difetto li rende oggidì impotenti o necessariamente servi al governo
centrale. L'autonomia degli Stati attuali è un errore storico. Gli
Stati non sorsero per vitalità propria e spontanei, ma per arbitrio
di signoria straniera e domestica. La confederazione fra Stati
siffatti spegnerebbe ogni potenza di missione italiana in Europa,
educherebbe gli animi a funeste rivalità, conforterebbe ambizioni; e
tra queste e le influenze inevitabili di governi stranieri diversi
si cancellerebbe presto o tardi la concordia e la libertà.
L'Italia vuole essere nazione di liberi ed eguali: nazione di
fratelli associati a malleveria di progresso comune. Santo è per
essa il pensiero: santo il lavoro: santa la proprietà che il lavoro
crea: santo e misurato dai doveri compiuti il diritto al libero
sviluppo dalle facoltà e delle forze, del senno e del core.
Il problema italiano, come quello dell'umanità, è problema
d'educazione morale. L'Italia vuole che tutti i suoi figli diventino
progressivamente migliori. Essa venera la virtù e il genio, non la
ricchezza, o la forza: vuole educatori e non padroni: il culto del
vero, non della menzogna o del caso. Essa crede in Dio e nel popolo:
non nel papa e nei re.
E perchè popolo sia, è necessario che conquisti, coll'azione e col
sagrificio, coscienza de' suoi doveri e de' suoi diritti. La
indipendenza, cioè la distruzione degli ostacoli interni ed esterni
che s'attraversano all'ordinamento della vita nazionale, deve dunque
raggiungersi, non solamente pel popolo, ma dal popolo.
Battaglia di tutti, vittoria per tutti.
L'insurrezione è la battaglia per conquistare la rivoluzione, cioè
la nazione. L'insurrezione deve dunque essere nazionale: sorgere
dappertutto colla stessa bandiera, colla stessa fede, collo stesso
intento. Dovunque sorga, essa deve sorgere in nome di tutta Italia,
nè arrestarsi finchè non sia compita l'emancipazione di tutta
Italia.
L'insurrezione finisce quando la rivoluzione comincia. La prima è
guerra, la seconda manifestazione pacifica. L'insurrezione e la
rivoluzione devono dunque governarsi con leggi e norme diverse. A un
potere concentrato in pochi uomini scelti dal popolo insorto per
opinione di virtù, d'ingegno, di provata energia, spetta sciogliere
il mandato dell'insurrezione e vincer la lotta: al solo popolo, ai
soli eletti da lui, spetta il governo della rivoluzione. Tutto è
provvisorio nel primo periodo: affrancato il paese dal mare
all'Alpi, la costituente nazionale raccolta in Roma, metropoli e
città sacra della nazione, dirà all'Italia e all'Europa il pensiero
del popolo. E Dio benedirà il suo lavoro.
Al partito nazionale appartengono quanti accettano queste basi. Al
di fuori non sono nè possono essere che fazioni: brulicano senza
vera vita; possono guastare e corrompere, non creare.
Creare. Creare un popolo! È tempo, o giovani, d'intendere quanto
grande e santa e religiosa sia l'opera che Dio v'affida. Nè può
compiersi per vie torte di raggiri cortigianeschi o menzogne di
dottrine foggiate a tempo o patti disegnati a rompersi dai
contraenti appena s'affacci occasione propizia; ma soltanto per
lungo esercizio e insegnamento vivo alle moltitudini di virtù
severe, per sudori d'anima e sagrifizî di sangue, colla predicazione
insistente della verità, coll'audacia della fede, coll'entusiasmo
solenne, perenne, irremovibile e più forte d'ogni sventura, che
alberga nel petto ad uomini ai quali unico padrone è Dio, unico
mezzo è il popolo, unica via è la linea diritta, unico intento
l'avvenire d'Italia. Siate tali e non temete d'ostacoli. Ma cacciate
i trafficatori di consulte o di portafogli dal tempio. Respingete
inesorabili i Machiavellucci d'anticamera, i diplomatici in
aspettativa che s'insinuano nelle vostre file a susurrarvi progetti
di corti amiche, di principi emancipatori; che possono essi darvi
oggimai se non illusioni ridicole e fomite a smembrare l'unità del
partito nazionale e germi di corruttela? Essi tennero or son due
anni tutte le forze e l'anima della nazione fra le loro mani, un re
che i milioni salutavano conquistatore d'indipendenza, un papa che i
milioni veneravano iniziatore di libertà - e v'hanno dato
l'armistizio di Salasco e la disfatta di Novara: rovina e vergogna:
oggi, fantocci nelle mani d'altri cortigiani, d'altri diplomatici
più avveduti, per lunga pratica d'inganni e tristizie, che non son
essi, non possono nemmeno rievocar quei fantasmi, e son ridotti a
librarsi fra un duca di Modena e il principe che firmò la pace
coll'Austria. E s'avvicina tale un conflitto fra i due principî in
Europa, che farà di principini, cospiratori segreti monarchici e
concettucci di fusioni pigmee, quello che l'uragano fa delle
margheritine del prato.
La guerra regia ha dato un grave insegnamento ai Lombardi, e imposto
un obbligo severo al Piemonte.
I Lombardi sanno ora che il segreto dell'emancipazione è per essi un
problema di direzione. Se essi non avessero, per cieca devozione a
un'apparenza di forza, messo i traditori nel proprio campo - s'essi
avessero fidato più nell'Italia che non nel re di Piemonte - se
avessero conferito il mandato di guerra, anzichè a una congrega di
cortigiani, ad uomini come quelli che avean diretto l'insurrezione -
vincevano. Le giornate di marzo possono e devono rifarsi quando che
sia. Ricordino essi allora l'insegnamento.
I Piemontesi hanno l'obbligo di provare all'Italia e all'Europa che
essi sono Italiani e non servi d'una famiglia di re, ch'essi mossero
alle battaglie nei piani lombardi, non come cieco stromento di
voglie ambiziose d'un uomo o di pochi raggiratori, ma come apostoli
armati del più bel concetto che Dio possa spirare nei petti umani:
la creazione d'un popolo, la libertà della patria. Hanno l'obbligo
di provare ch'essi non furono nè codardi nè ingannatori, ma
ingannati essi pure e vinti per colpe altrui. Hanno l'obbligo di
lacerar quel trattato che li accusa impotenti, di restituire
all'esercito l'antica fama immeritamente perduta, di cancellare nel
sangue nemico la vergogna della disfatta, e dire ai loro fratelli
dubbiosi: noi siam la spada d'Italia. Sia la loro bandiera quella di
ventisei milioni di liberi: sia la loro parola di riscossa: Roma e
Milano, unità e indipendenza; sia il loro esercito la prima legione
dell'esercito nazionale. Ben altra gloria è codesta che non quella
d'essere frammento regio senza base e senza avvenire, continuamente
oscillante mercè regnatori deboli o tristi, fra la minaccia
dell'Austria e il giogo de' gesuiti.
Compiano la Lombardia e il Piemonte il debito loro. Roma e l'Italia
non falliranno all'impresa.
ATTI
DELLA REPUBBLICA ROMANA
I.
(La repubblica romana fu proclamata dall'Assemblea eletta dal
suffragio universale il 9 febbrajo 1849. Il 24, i membri detti della
Montagna nella Costituente Francese scrissero un indirizzo di
congratulazione fraterna e promessa d'ajuto alla Costituente romana.
A quell'indirizzo io, per mandato dell'Assemblea, risposi col
seguente.)
Cittadini!
Il vostro indirizzo ci è giunto in un momento solenne, alla vigilia
della battaglia((236)). E noi v'attingeremo nuove forze, nuovi
incoraggiamenti per la santa lotta che sta per aprirsi. La Francia
ha fatto grandi cose nel mondo: voi avete patito, sperato,
combattuto per la umanità, e ogni voce che venga da voi ci impone
doveri che, coll'ajuto di Dio, noi sapremo compiere.
Voi intendeste, cittadini, quanto ha di nobile, di grande, di
provvidenziale questa bandiera di rinnovamento ondeggiante sulla
città che racchiude il Campidoglio e il Vaticano: il Diritto eterno
fatto forte d'una nuova consecrazione: un terzo mondo sorgente, nel
nome di Dio e del Popolo, sulle rovine di due mondi spenti:
un'Italia, che sarà sorella alla Francia, rompente il coperchio
della sua sepoltura per chiedere, in nome d'una missione da
compirsi, il diritto di cittadinanza nella federazione dei popoli.
Voi intendeste che i nostri cuori sono puri d'odio e d'intolleranza,
che noi stiamo compiendo un'opera d'amore e di miglioramento umano;
e che, rivendicando i nostri diritti senza violar la credenza,
separando, come noi lo abbiam fatto, il papa dal principe, abbiamo
assunto l'obbligo di non contaminare quest'opera col contatto delle
basse passioni e delle codarde vendette che una stampa corrotta o
ingannata s'ostina a rimproverarci. Quest'obbligo, noi lo atterremo:
parole come le vostre ci compensano di molte calunnie, ci
rassicurano contro molte insidie coperte. Noi sappiamo che voi
illuminerete i vostri concittadini sul carattere della nostra
rivoluzione, e che manterrete per noi quel diritto alla vita
nazionale che voi primi avete proclamato e conquistato.
Non v'è che un sole in cielo per tutta la terra: non v'è che uno
scopo, una legge, una sola credenza, associazione, progresso, per
tutti quei che la popolano. Come voi, noi combattiamo pel mondo
intero, noi siamo tutti fratelli, noi rimarremo tali checchè si
faccia.
Fidate in noi: noi fidiamo in voi. Se mai nella crisi che stiamo per
attraversare, le forze ci mancassero, noi ricorderemo le vostre
promesse; vi grideremo: Fratelli, l'ora è giunta, sorgete, e vedremo
i vostri volontarî ad accorrere. Insieme combattemmo sotto l'Impero:
insieme combatteremo un'altra volta a pro di quanto v'ha di più
sacro per gli uomini: Dio, Patria, Libertà, Repubblica, Santa
Alleanza dei Popoli.
II.
(Il 29 marzo ebbe luogo l'elezione del Triumvirato, del quale io
feci parte e che pubblicò il seguente programma.)
Cittadini!
Da cinque giorni noi siamo rivestiti d'un sacro mandato
dall'Assemblea. Abbiamo maturamente interrogato le condizioni del
paese, quelle della patria comune, l'Italia, i desiderî dei buoni, e
la nostra coscienza; ed è tempo che il popolo oda una voce da noi; è
tempo che per noi si dica con quali norme generali noi intendiamo
soddisfare al mandato.
Provvedere alla salute della repubblica; tutelarla dai pericoli
interni ed esterni; rappresentarla degnamente nella guerra
dell'indipendenza: questo è il mandato affidatoci.
E questo mandato significa per noi non solamente venerazione a una
forma, a un nome, ma al principio rappresentato da quel nome, da
quella forma governativa; e quel principio è per noi un principio
d'amore, di maggiore incivilimento, di progresso fraterno con tutti
e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per
la universalità dei cittadini. La bandiera repubblicana inalzata in
Roma dai rappresentanti del popolo non esprime il trionfo d'una
frazione di cittadini sopra un'altra; esprime un trionfo comune, una
vittoria riportata da molti, consentita dalla immensa maggiorità,
del principio del bene su quello del male, del diritto comune
sull'arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che Dio decretava a
tutte le anime, sul privilegio e sul dispotismo. Noi non possiamo
essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori dei poteri
rovesciati per sempre.
Libertà e Virtù, Repubblica e Fratellanza devono essere
inseparabilmente congiunte. E noi dobbiamo darne l'esempio
all'Europa. La repubblica in Roma è un programma italiano: una
speranza, un avvenire pei ventisei milioni d'uomini fratelli nostri.
Si tratta di provare all'Italia e all'Europa che il nostro grido Dio
e il Popolo non è una menzogna - che l'opera nostra è in sommo grado
religiosa, educatrice, morale - che false sono le accuse
d'intolleranza, d'anarchia, di sommovimento avventate alla santa
bandiera, e che noi procediamo, mercè il principio repubblicano,
concordi come una famiglia di buoni, sotto il guardo di Dio e dietro
alle inspirazioni dei migliori per Genio e Virtù, alla conquista
dell'ordine vero, Legge e Forza associate.
Così intendiamo il nostro mandato. Così speriamo che tutti i
cittadini lo intenderanno a poco a poco con noi. Noi non siamo
governo di un partito; ma governo della nazione. La nazione è
repubblicana. La nazione abbraccia quanti in oggi professano sinceri
la fede repubblicana, compiange ed educa quanti non ne intendono la
santità; schiaccia nella sua onnipotenza di sovranità quanti
tentassero violarla con ribellione aperta o mene segrete
provocatrici di risse civili.
Nè intolleranza, nè debolezza. La repubblica è conciliatrice ed
energica. Il governo della repubblica è forte; quindi non teme; ha
missione di conservare intatti i diritti e libero il compimento dei
doveri d'ognuno: quindi non s'inebria di una vana e colpevole
securità. La nazione ha vinto; vinto per sempre. Il suo governo deve
avere la calma generosa e serena e non deve conoscere gli abusi
della vittoria. Inesorabile quanto al principio, tollerante e
imparziale cogli individui: nè codardo nè provocatore: tale
dev'essere un governo per esser degno dell'instituzione
repubblicana.
Economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati;
capacità, accertata dovunque si può per concorso, messa a capo di
ogni ufficio, nella sfera amministrativa.
Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera
finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità,
attribuzione d'ogni denaro del paese all'utile del paese, esigenza
inviolabile d'ogni sacrificio ovunque le necessità del paese la
impongano.
Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non
violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua
al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e
volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a
qualunque egoismo colpevole di monopolio, d'artificio, o di
resistenza passiva, dissolvente o procacciante alterarlo.
Poche e caute leggi; ma vigilanza decisa sull'esecuzione.
Forza e disciplina d'esercito regolare sacro alla difesa del paese,
sacro alla guerra della nazione per l'indipendenza e per la libertà
dell'Italia.
Sono queste le basi generali del nostro programma: programma che
riceverà da noi sviluppo più o meno rapido a seconda dei casi, ma
che, intenzionalmente, noi non violeremo giammai.
Recenti nel potere, circondati d'abusi spettanti al governo caduto,
arrestati a ogni passo dagli effetti dell'inerzia e delle incertezze
altrui, noi abbiamo bisogno di tolleranza da tutti; bisogno sovra
ogni cosa che nessuno ci giudichi fuorchè sulle opere nostre. Amici
a quanti vogliono il bene della patria comune, puri di core se non
potenti di mente, collocati nelle circostanze più gravi che sieno
mai toccate ad un popolo e al suo governo, noi abbiamo bisogno del
concorso attivo di tutti, del lavoro concorde, pacifico, fraterno di
tutti. E speriamo d'averlo. Il paese non deve nè può retrocedere:
non deve nè vuole cadere nell'anarchia. Ci secondino i buoni; Dio,
che ha decretato Roma risorta e l'Italia nazione, ci seconderà.
5 aprile 1849.
III.
Considerando che dovere e tutela di una bene ordinata repubblica è
il provvedere al progressivo miglioramento delle classi più
disagiate;
Considerando che tra i primi miglioramenti è quello di emancipare
molte famiglie dai danni di abitazioni troppo ristrette e insalubri;
Considerando che mentre la repubblica studierà modo di destinare
locali, tanto in Roma, che nelle provincie, ad uso delle famiglie
indigenti, è opera intanto di moralità repubblicana cancellare le
vestigia dell'iniquità, consacrando a beneficenza quanto la passata
tirannide destinava a tormento, l'Assemblea Costituente, proponenti
i Triumviri, decreta:
1.° L'edificio, che già serviva al Santo Ufficio, resta fin d'ora
destinato ad abitazione di famiglie o individui che vi saranno
alloggiati contro tenui pigioni mensili e posticipate.
2.° È instituita una commissione, composta di tre rappresentanti del
popolo e due ingegneri civili, per provvedere sollecitamente alla
esecuzione del presente decreto:
a) Ricevendo le instanze delle famiglie e degli individui di Roma,
che chiedessero alloggio nel suddetto locale, e secondando di
preferenza le domande di chi saprà comprovare maggiori bisogni.
b) Facendo eseguire nel locale quei lavori d'innovazione, che
troverà necessarî per renderlo adatto alla nuova destinazione.
c) Fissando mano mano a coloro, di cui saranno secondate le
instanze, i locali di abitazione, determinando la pigione che
dovranno pagare gli alloggiati, e mettendoli in fatti nel possesso
del rispettivo alloggio.
d) Formulando un regolamento per l'interna disciplina del locale,
per la regolare gestione amministrativa, e per la conservazione del
medesimo.
3.° Non potranno aver luogo in nessun tempo e in nessun modo i
subaffitti delle accennate abitazioni.
4.° La commissione, incominciando dal giorno 9 corrente, siederà nel
locale suddetto per dare immediato adempimento al proprio mandato.
14 aprile 1849.
IV.
Considerando che a rendere più prezioso il lavoro agricolo,
sollevare una classe numerosa benemerita e mal retribuita,
affezionarla alla patria ed al buono ordinamento della grande
riforma, promoverne la moralità e il benessere materiale, migliorare
in una parola ugualmente il suolo e gli uomini colla emancipazione
dell'uno e degli altri, non v'è spediente più congruo e urgente di
quello di ripartire una grande porzione della vasta possidenza
rustica, posta o da porsi sotto amministrazione demaniale,
dividendola in piccole porzioni enfiteutiche da assegnarsi ciascuna,
sotto un discreto censo annuo a favore dello Stato, in ogni tempo
redimibile, a una o a poche famiglie dei più poveri coltivatori, con
quelle regole e condizioni che si stabiliranno per la più pronta, ed
insieme più giusta e stabile esecuzione d'un disegno così salutare,
è decretato:
Art. 1.° Una grande quantità de' beni rustici provenienti dalle
corporazioni religiose, o altre mani-morte di qualsivoglia specie,
che in tutto il territorio della repubblica sono o saranno posti
sotto amministrazione del Demanio, verranno nel più breve termine
ripartiti in tante porzioni sufficienti alla coltivazione di una o
più famiglie del popolo sfornite d'altri mezzi, che le riceveranno
in enfiteusi libera e perpetua col solo peso di un discreto canone
verso l'amministrazione suddetta, il quale sarà essenzialmente e in
ogni tempo redimibile dall'enfiteuta.
Art. 2.° Un regolamento particolare specificherà distintamente il
modo di procedere all'attuazione di questa salutare provvidenza.
Art. 3.° Sui fondi urbani altresì, della stessa provenienza e
qualità, verranno prese analoghe misure ad oggetto di rendere più
comodo e meno dispendioso l'alloggio del povero.
Art. 4.° Rimangono ferme le disposizioni annunciate sulla congrua
dotazione del culto, del ministero pastorale dei parrochi e degli
stabilimenti di pubblico interesse, sia coi beni in natura, sia col
prodotto delle corrisponsioni enfiteutiche, sia con altri mezzi del
pubblico, del provinciale e del municipale patrimonio.
I ministri delle finanze e dell'interno sono incaricati, ciascuno
rispettivamente, della esecuzione della presente legge.
15 aprile 1849.
V.
Considerando:
Che intento continuo delle instituzioni repubblicane dev'essere un
miglioramento progressivo nelle condizioni economiche dei più;
Che il prezzo alto del sale reca offesa all'agricoltura, alla
pastorizia, alla pesca, alla mezzana e piccola industria, ai
commerci e alla salute del povero;
Che il modo attuale di percezione dell'imposta sul sale concentra
ingiustamente nelle mani di un solo affittuario tutti i beneficî che
il libero commercio di quella derrata procaccierebbe alla mezzana e
piccola industria;
Che ogni affitto delle rendite pubbliche, costituendo uno Stato
nello Stato, equivale ad uno smembramento della sovranità, e accenna
a una incapacità del governo d'amministrare da per sè stesso gli
interessi sociali;
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.° È abolito l'appalto dei sali noto col nome di
Amministrazione cointeressata.
Art. 2.° La tassa sul sale di ogni genere è fissata ad un bajocco
per ogni libbra romana.
Art. 3.° Il Triumvirato provvederà, all'uopo mediante requisizione
del materiale e delle scorte, ad assicurare che non venga interrotto
il servizio pubblico.
Art. 4.° Il Triumvirato provvederà pure a che l'esazione del dazio
non sia d'impedimento alla libera produzione ed al libero commercio
del sale.
Le ragioni dell'attuale amministrazione saranno prese in
considerazione pei compensi che fossero riconosciuti di diritto
dietro regolare e generale liquidazione, da operarsi da una
commissione nominata dai rappresentanti del popolo.
Il presente decreto avrà esecuzione dopo 24 ore dalla sua
pubblicazione in ogni punto della repubblica.
I ministri dell'interno e delle finanze sono incaricati, per ciò che
li riguarda, dell'esecuzione del presente decreto.
15 aprile 1849.
VI.
Romani!
Un intervento straniero minaccia il territorio della repubblica. Un
nucleo di soldati francesi s'è presentato davanti a Civitavecchia.
Qualunque ne sia l'intenzione, la salvezza del principio liberamente
consentito dal popolo, il diritto delle nazioni, l'onore del nome
romano, comandano alla repubblica di resistere.
La repubblica resisterà. È necessario che il popolo provi alla
Francia e al mondo che non è popolo di fanciulli, ma popolo d'uomini
e d'uomini che un tempo diedero leggi e incivilimento all'Europa. È
necessario che nessuno possa dire: i Romani vollero, ma non seppero
essere liberi. È necessario che la nazione francese impari, dalla
nostra resistenza, dalle nostre dichiarazioni, dal nostro contegno,
la ferma nostra decisione di non soggiacere più mai al governo
aborrito che rovesciammo.
Il popolo lo proverà. Chi pensa altrimenti disonora il popolo e
tradisce la patria.
L'Assemblea è in permanenza. Il Triumvirato adempirà, checchè
avvenga, al proprio mandato.
Ordine, calma solenne, energia concentrata. Il governo vigila
inesorabile su qualunque tentasse di travolgere il paese
nell'anarchia o d'operare a danno della repubblica.
Cittadini, ordinatevi, stringetevi intorno a noi; Dio e il Popolo,
la legge e la forza trionferanno.
25 aprile 1849.
(Stesi a un tempo la protesta che l'Assemblea costituente mandò lo
stesso giorno al generale Oudinot.)
L'Assemblea romana, commossa dalla minaccia d'invasione del
territorio della repubblica, conscia che questa invasione, non
provocata dalla condotta della repubblica verso l'estero, non
preceduta da comunicazione alcuna da parte del governo francese,
eccitatrice di anarchia in un paese che tranquillo e ordinato riposa
nella coscienza dei proprî diritti e nella concordia dei cittadini,
viola a un tempo il diritto delle genti, gli obblighi assunti dalla
nazione francese nella sua costituzione e i vincoli di fratellanza
che dovrebbero naturalmente annodare le due repubbliche, protesta in
nome di Dio e del Popolo contro l'inattesa invasione, dichiara il
suo fermo proposito di resistere e rende mallevadrice la Francia di
tutte le conseguenze.
VII.
Considerando che i voti religiosi non costituiscono se non una
relazione morale tra la coscienza e Dio;
Considerando che la società civile non può, quanto a sè stessa,
intervenire coi suoi mezzi d'azione estrinseci e materiali nella
sfera dei doveri spirituali;
Considerando che la vita e le facoltà dell'uomo appartengono di
diritto alla società e al paese in cui la provvidenza lo ha posto;
Considerando che la società non può riconoscere promesse
irrevocabili che le involano e restringono in certi limiti la
volontà e l'azione dell'uomo;
Il Triumvirato decreta:
La società non riconosce perpetuità di voti particolari ai
differenti ordini religiosi così detti regolari.
È in facoltà d'ogni individuo, facente parte di un ordine religioso
regolare qualunque, di sciogliersi da quelle regole all'osservanza
delle quali s'era obbligato con voto entrando in religione.
Lo Stato protegge contro ogni opposizione o violenza le persone che
intendessero profittare del presente decreto.
Lo Stato accoglierà con gratitudine tra le file delle sue milizie
quei religiosi che vorranno colle armi difendere la patria, per la
quale finora hanno inalzato preghiere a Dio.
Il presente decreto verrà letto da un commissario governativo a
tutti i religiosi riuniti in piena comunità nei rispettivi conventi.
27 aprile 1849.
VIII.
(Il decreto del 15 aprile aveva promesso di ripartire gran parte
delle terre incolte appartenenti a corporazioni religiose od a
manimorte e divenute, per decisione dell'Assemblea del 21 febbrajo,
proprietà della Repubblica. Il decreto seguente provvedeva alla
esecuzione.)
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.° Ogni famiglia povera, composta almeno di tre individui,
avrà a coltivazione una quantità di terra capace del lavoro di un
pajo di buoi, corrispondente ad un buon rubbio romano, cioè due
quadrati censuarî, pari a metri quadrati ventimila.
Art. 2.° I vigneti saranno dati a coltura all'individuo senza che
sia richiesta la famiglia, e verranno divisi in ragione della metà
della indicata misura.
27 aprile 1849.
IX.
Credendo nelle generose virtù dei Romani come nel loro valore;
Conscî che, sebbene deciso a difendere fino agli estremi contro ogni
invasione l'indipendenza della sua terra, il popolo di Roma non
rende mallevadore il popolo di Francia degli errori e delle colpe
del suo governo;
Fidando illimitatamente nel popolo e nella santità del principio
repubblicano;
Il Triumvirato decreta:
Gli stranieri, e segnatamente i Francesi dimoranti pacificamente in
Roma, sono posti sotto la salvaguardia della nazione.
Sarà considerato come reo di leso onore romano qualunque proponesse
far loro oltraggio o molestia.
Il governo invigilerà a che nessun d'essi trasgredisca i doveri
dell'ospitalità.
28 aprile 1849
X.
Romani!
Un corpo d'esercito napoletano, trapassate le frontiere, accenna
muovere alla volta di Roma.
Suo intento è ristabilire il papa padrone assoluto nel temporale.
Sue armi sono la persecuzione, la ferocia, il saccheggio. S'asconde
tra le sue file il re, al quale l'Europa ha decretato il nome di
Bombardatore dei proprî sudditi. E gli stanno intorno i più
inesorabili fra i cospiratori di Gaeta.
Romani! Noi abbiamo vinto i primi assalitori; noi vinceremo i
secondi.
Il sangue dei migliori tra i patrioti napoletani, il sangue dei
nostri fratelli della Sicilia, pesano sulla testa del re traditore.
Dio, che accieca i perversi, e dà forza ai difensori del diritto, vi
sceglie, o Romani, a vendicatori.
Sia fatta la volontà della patria e di Dio!
In nome dei diritti che spettano ad ogni paese, in nome dei doveri
che spettano a Roma verso l'Italia e l'Europa - in nome delle madri
italiane che hanno maledetto a quel re, e delle madri romane che
benediranno ai difensori dei loro figli - in nome della nostra
libertà, del nostro onore, della nostra coscienza - in nome di Dio e
del Popolo - resisteremo. Resisteremo, milizia e popolo, capitale e
provincia. Sia Roma inviolabile come l'eterna giustizia. Noi abbiamo
imparato che basta per vincere il non temer di morire. Viva la
Repubblica!
2 maggio 1849.
XI.
Popoli della Repubblica!
Le truppe napoletane hanno invaso il vostro terreno, e marciano su
Roma.
Cominci la guerra del popolo.
Roma farà il suo dovere. Le provincie facciano il loro.
Il momento è giunto per uno sforzo supremo. Per quanti credono nella
dignità dell'anima loro immortale, nell'inviolabilità dei loro
diritti, nella santità dei giuramenti, nella giustizia della
repubblica, nell'indipendenza dei popoli, nell'onore italiano, è
debito in oggi l'agire. Per quanti hanno a cuore la propria libertà,
le proprie case, la famiglia, la donna dell'amor suo, la terra
nativa, la vita, l'agire è necessità. Vita, libertà, averi, diritti,
ogni cosa, cittadini, v'è minacciata, ogni cosa vi sarà tolta.
Il re di Napoli inalza per noi la bandiera del dispotismo, della
tirannide illimitata. I primi suoi passi sono segnati di sangue.
A caratteri di sangue sono scritte le liste di proscrizione.
Voi avete per troppo lungo tempo parlato, mentre gli altri spiavano
e registravano. Non v'illudete. Oggi la scelta sia per voi tra il
patibolo, la miseria, l'esilio o il combattere e vincere. Popoli
della repubblica, ogni incertezza, ogni esitazione sarebbe viltà, e
viltà senza frutto.
Sorgete dunque e operate; l'ora che decide è suonata. Schiavitù,
quale non l'aveste giammai, o libertà degna delle antiche glorie,
lunga securità, ammirazione di tutta l'Europa. Sorgete ed armatevi.
Sia guerra universale, inesorabile, rabbiosa, poich'essi la
vogliono. E sarà breve.
Mentre Roma assalirà il nemico di fronte, recingetelo, molestatelo
ai fianchi, alle spalle.
Roma sia il nucleo dell'esercito nazionale del quale voi formerete
le squadre.
Resistete dovunque potete. Dovunque la difesa locale non è concessa,
i buoni escano in armi: ogni cinquanta uomini formino una banda;
ogni dieci una squadra nazionale; ogni uomo di non dubbia fede, che
raccoglie i dieci, i cinquanta, sia capo. La repubblica darà premio
e riconoscenza. Ogni preside diriga i centri d'insurrezione, inciti,
ordini, rilasci brevetti di capibanda o di capisquadra. La
repubblica terrà conto dei nomi, e retribuirà in danari, terreni ed
onori. Il brevetto serva come foglio di via, che i comuni,
soccorrendo, vidimeranno.
E tutte le bande, tutte le squadre, tormentino, fuggendone l'urto,
il nemico; gli rapiscano i sonni, i viveri, gli sbandati, la
fiducia; gli stendano intorno una rete di ferro che si restringa, lo
comprima ne' suoi moti e lo spenga.
L'insurrezione diventi per poco la vita normale, il palpito, il
respiro d'ogni patriota. I tiepidi siano puniti d'infamia, i
traditori di morte.
Come fu grande in pace, sorga la repubblica terribile in guerra.
Impari l'Europa che vogliamo e possiamo vivere. Dio e il Popolo
benedicano l'armi nostre.
3 maggio 1849.
XII.
Romani!
Disordini rari ma gravi, cominciamenti di devastazione, atti
offensivi alla proprietà, minacciano la calma maestosa, colla quale
Roma ha santificato la sua vittoria. Per l'onore di Roma, pel
trionfo del santo principio che noi difendiamo, bisogna che questi
disordini cessino.
Ogni cosa dev'essere grande in Roma: l'energia del combattimento, e
il contegno del popolo dopo la vittoria.
Le armi degli uomini che vivono, ricordevoli dei padri, fra queste
eterne memorie, non possono appuntarsi a petti inermi o proteggere
atti arbitrarî. Il riposo di Roma dev'essere come quello del leone:
riposo solenne com'è terribile il suo ruggito.
Romani! I vostri Triumviri hanno preso solenne impegno di mostrare
all'Europa che voi siete migliori di quei che vi assalgono: - che
ogni accusa scagliatavi contro è calunnia: - che il principio
repubblicano ha qui spento quei semi d'anarchia fomentati dal
governo passato, e che il ripristinamento del passato potrebbe solo
rieducare: - che voi siete non solamente prodi, ma buoni: - che
forza e legge sono tra voi l'anima della repubblica.
A questi patti i vostri Triumviri rimarranno orgogliosi alla vostra
testa; a questi patti combatteranno, occorrendo, tra le barricate
cittadine con voi. Rimangano inviolabili come l'amore che lega
governo e popolo, irrevocabili come il proposito comune a governo e
popolo di mantenere illesa e pura d'ogni benchè menoma macchia la
bandiera della repubblica.
Le persone sono inviolabili. Il governo solo ha diritto e dovere di
punizione.
Le proprietà sono inviolabili. Ogni pietra di Roma è sacra. Il
governo solo ha diritto e dovere di modificare l'inviolabilità delle
proprietà quando il bene del paese lo esiga.
A nessuno è concesso procedere ad arresti o perquisizioni
domiciliari senza la direzione o assistenza d'un capo-posto
militare.
Gli stranieri sono specialmente protetti dalla repubblica. Tutti i
cittadini sono moralmente mallevadori della verità della protezione.
La commissione militare instituita giudica rapidamente, come i casi
eccezionali e la salute del popolo esigono, tutti i fatti di
sedizione di riazione, d'anarchia, di violazione di leggi.
La guardia nazionale, come ha provato esser pronta a combattere
valorosamente per la salvezza della repubblica, proverà esser pronta
a mantenerne intatto, in faccia all'Europa, l'onore. Ad essa
segnatamente è fidata la custodia dell'ordine, e l'esecuzione delle
norme qui sopra esposte.
4 maggio 1849.
XIII.
Considerando che tra il popolo francese e Roma, non è, nè può essere
stato di guerra;
Che Roma difende per diritto e dovere la propria inviolabilità; ma
deprecando, siccome colpa contro la comune credenza, ogni offesa fra
le due repubbliche;
Che il popolo romano non rende mallevadore dei fatti d'un governo
ingannato i soldati che, combattendo, ubbidirono;
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.° I Francesi, fatti prigionieri nella giornata del 30 aprile,
sono liberi, e verranno inviati al campo francese.
Art. 2.° Il popolo romano saluterà di plauso e dimostrazione
fraterna, a mezzo giorno, i prodi soldati della repubblica sorella.
7 maggio 1849.
XIV.
Soldati della repubblica francese!
Per la seconda volta voi siete spinti, come nemici, sotto le mura di
Roma, della città repubblicana che fu culla un tempo di libertà e di
valore nell'armi.
È fratricidio quello che vi comandano i vostri capi.
E quel fratricidio, se potesse mai consumarsi, sarebbe colpa mortale
alla libertà della Francia. I popoli sono mallevadori l'uno per
l'altro. La repubblica, spenta fra noi, porrebbe una macchia
incancellabile sulla vostra bandiera, rapirebbe alla Francia un
alleato in Europa, sarebbe un nuovo passo inoltrato sulla via della
ristorazione monarchica, verso la quale un governo ingannatore o
ingannato spinge la bella e grande vostra patria.
Roma dunque combatterà come ha combattuto. Essa sa di combattere per
la sua libertà e per la vostra.
Soldati della repubblica francese, mentre voi movete ad assalto
contro la nostra bandiera tricolore, i Russi, gli uomini del 1815,
movono contro l'Ungheria e sognano di Francia.
Poche miglia da voi, un corpo napoletano, vinto pochi giorni
addietro da noi, tiene sollevata una bandiera di dispotismo e
d'intolleranza. Poche leghe da voi, sulla vostra sinistra, una città
repubblicana, Livorno, resiste, mentre noi vi parliamo,
all'invasione austriaca. Là è il vostro posto.
Dite ai vostri capi d'attenervi ciò che vi dissero. Ricordate loro
che vi promisero, in Marsiglia e in Tolone, di farvi combattere
contro i Croati. Ricordate loro che il soldato francese porta sulla
punta della bajonetta l'onore e la libertà della Francia. Soldati
francesi! Soldati della libertà! Non movete contro uomini che vi
sono fratelli. Le nostre battaglie sono le vostre. Possano le due
bandiere tricolori intrecciarsi e movere unite all'emancipazione dei
popoli e alla distruzione della tirannide! Dio, la Francia e
l'Italia benediranno all'armi vostre.
Viva la repubblica francese! Viva la repubblica romana!
10 maggio 1849.
XV.
Lettera al signor Lesseps
inviato plenipotenziario della repubblica francese.
Signore,
Voi ci chiedete alcune note sulle condizioni presenti della
repubblica romana. Le avrete da me, dettato con quella sincerità che
fu, in venti anni di vita politica, mia norma inviolabile. Noi non
abbiamo bisogno di nascondere o mascherar cosa alcuna. Fummo, in
questi ultimi tempi, segno di strane calunnie in Europa: ma noi
dicemmo sempre agli uomini che udivano le calunnie: Venite e
osservate. Voi siete ora, signore, fra noi; siete mandato a
verificare la realtà delle accuse: fatelo. La vostra missione può
compirsi con libertà illimitata. La salutammo noi tutti con gioja,
perchè essa non può che giustificarci.
La Francia non intende, senza dubbio, contenderci il diritto di
governarci come a noi piace, il diritto di trarre, per così dire,
dalle viscere del paese il pensiero regolatore della sua vita e
porlo a base delle nostre instituzioni. La Francia non può che
dirci: «Riconoscendo la vostra indipendenza, io debbo accertare
ch'essa esce dal voto libero e spontaneo della maggioranza.
Collegata coi governi d'Europa e desiderosa di pace, se fosse vero
che una minoranza soggioga tra voi le tendenze nazionali - se fosse
vero che la forma attuale del vostro governo non è se non il
pensiero capriccioso d'una fazione sostituito al pensiero comune, io
non potrei vedere con indifferenza la pace d'Europa messa
continuamente a rischio dalle passioni e dall'anarchia inseparabili
ad ogni governo di fazione».
Noi concediamo questo diritto alla Francia, perchè crediamo alla
solidarietà delle nazioni pel bene. Ma affermiamo a un tempo che se
fu mai governo escito dal voto della maggioranza, quel governo è il
nostro.
La repubblica s'impiantò fra noi per volontà d'un'Assemblea escita
dal suffragio universale; fu accettata con entusiasmo per ogni dove;
in nessun luogo fu combattuta. E notate, signore, che rare volte
l'opposizione fu così facile e poco pericolosa; direi anzi così
provocata, non dagli atti, ma dalle circostanze singolarmente
sfavorevoli nelle quali la repubblica si trovò collocata nei primi
suoi giorni.
Il paese esciva da una lunga anarchia di poteri inseparabile
dall'interno ordinamento del governo caduto. Le agitazioni
inevitabili in ogni grande trasformazione e a un tempo fomentate
dalla crisi della questione italiana e dagli sforzi di parte
retrograda, lo avevano cacciato in un eccitamento febbrile che
apriva il campo ad ogni ardito tentativo, ad ogni cosa che
suscitasse interessi e passioni. Non avevamo esercito, non forza
capace di reprimere; e in conseguenza degli abusi anteriori, le
nostre finanze erano impoverite, esaurite. La questione religiosa,
maneggiata da uomini capaci e interessati a trarne tutto il partito
possibile, era facile pretesto a torbidi con un popolo dotato di
splendidi istinti e di aspirazioni generose, ma intellettualmente
poco educato. E nondimeno, proclamato appena il principio
repubblicano, un primo fatto innegabile sottentrò a quelle
condizioni pericolose: l'ordine. La storia del governo papale offre
sommosse frequenti, periodiche: la storia della repubblica non ne ha
una sola. L'uccisione di Rossi, fatto deplorabile ma isolato,
eccesso individuale rifiutato, condannato universalmente, provocato
forse da una condotta imprudente, d'origine a ogni modo ignota, fu
seguito dall'ordine più mirabile((237)).
La crisi finanziaria intanto saliva. Raggiri colpevoli riuscirono a
far cadere di tanto il credito della carta della repubblica, da non
potersi scontare se non al 41 o al 42 per %. Il contegno dei governi
d'Italia e d'Europa si fece sempre più ostile. Difficoltà materiali
e isolamento politico non valsero a turbare la calma di questo
popolo. Era in esso una fede incrollabile nel futuro che doveva
escire dal nuovo principio.
Ed oggi, di mezzo alla crisi, di fronte all'invasione francese,
austriaca, napoletana, il nostro credito si rafforza; la nostra
carta non soggiace che allo sconto del 12 per %; il nostro esercito
ingrossa di giorno in giorno; e le popolazioni s'apprestano a farci
riserva. Voi vedete Roma, signore, e sapete l'eroica lotta or
sostenuta da Bologna. Io scrivo solo, di notte, in seno a una città
profondamente tranquilla. Le milizie che custodivano Roma
l'abbandonarono jersera per compire una impresa; e innanzi
all'arrivo d'altre milizie, che non ebbe luogo se non a mezzanotte,
le nostre porte, le nostre mura, le nostre barricate erano, in
conseguenza d'un semplice avviso trasmesso, guardate, senza romore o
millanteria, dal popolo in armi. Vive in core a questo popolo una
profonda determinazione: il decadimento della potestà temporale
attribuita al papa; l'odio del governo pretesco sotto qualunque
forma, anche temperatissima, esso tenti di riproporsi; l'odio, io
dico, non agli uomini, ma al governo. Verso gli individui il nostro
popolo, dall'impianto della repubblica fino ad oggi, s'è mostrato,
la Dio mercè, generoso; ma la sola idea del governo clericale del re
pontefice lo fa fremere. Combatterà energicamente ogni disegno di
ristorazione: si travolgerà nello scisma anzichè subirlo.
In conseguenza d'oscure minaccie, ma segnatamente del difetto
d'abitudini politiche, un certo numero di elettori non avea
contribuito alla formazione dell'Assemblea. E quel fatto sembrava
indebolire l'espressione del voto generale. Un secondo fatto
decisivo, vitale, rispose poc'anzi ai dubbi possibili. Poco tempo
innanzi alla costituzione del Triumvirato, si rieleggevano i
municipî. L'universalità degli elettori si accostò all'urne.
Dovunque e sempre l'elemento municipale rappresentò l'elemento
conservatore dello Stato. Taluni paventavano che tra noi
s'insinuasse in esso uno spirito di retrogressione. Or bene, sotto
il rugghio della tempesta, iniziato già l'intervento, mentre le
apparenze accennavano a una vita di giorni per la repubblica, esciva
dai municipî l'adesione più spontanea, più unanime alla forma
scelta. Agli indirizzi dei Circoli e dei Comandi della guardia
nazionale s'unirono nella prima metà di questo mese i municipî
tutti, da due o tre infuori. Io ebbi l'onore di trasmettervene la
lista, o signore.
Essi dichiararono devozione esplicita alla repubblica e
convincimento che i due poteri sono incompatibili in un solo
individuo. È questo, concedetemi di ripeterlo, un fatto decisivo;
una seconda prova legale confermante la prima e fondamento
irrecusabile al nostro diritto.
Quando le due questioni - repubblica e abolizione della potestà
temporale - furono poste all'Assemblea, alcuni fra i membri, più
timidi dei loro colleghi, stimarono che l'inaugurazione della forma
repubblicana fosse prematura e di fronte agli ordini attuali
d'Europa pericolosa: non un solo votò contro il decadimento del papa
re, destra e sinistra si confusero in un solo pensiero.
A popolo siffatto oserebbe un governo libero comandare, senza
delitto e contradizione, il ritorno al passato? Quel ritorno,
pensateci bene, signore, equivarrebbe a un ripristinamento
dell'antico disordine, delle società segrete consacrate alla lotta,
dell'anarchia nel core d'Italia, della vendetta innestata in un
popolo che oggi non chiede se non d'obliare. Quel ritorno sarebbe
una fiamma di guerra permanente in Europa, un programma di partiti
estremi sostituito al governo repubblicano ordinato ch'oggi
rappresentiamo. Può voler questo la Francia? Lo può il suo governo?
Lo può un nipote di Napoleone? La persistenza in un disegno ostile
di fronte alla doppia invasione napoletana ed austriaca ricorderebbe
lo smembramento della Polonia. E pensate inoltre, signore, che
disegno siffatto non potrebbe compirsi fuorchè risollevando la
bandiera((238)) che il popolo rovesciò sopra un cumulo di cadaveri e
sulle rovine delle nostre città.
Riceverete fra poco, signore, una seconda mia lettera sulla
questione...
16 maggio 1849.
XVI.
(Lettera che accompagnava il rifiuto delle tre proposte di Lesseps:
I. Gli Stati romani chiedono protezione fraterna dalla repubblica
francese:
II. Le popolazioni romane hanno diritto di pronunziarsi liberamente
sulla forma del loro governo:
III. Roma accoglierà l'esercito francese come esercito di fratelli,
ecc.)
Signore,
Abbiamo l'onore di trasmettervi la decisione dell'Assemblea
concernente il progetto da voi comunicato alla sua commissione.
L'Assemblea non ha creduto di poter accettarlo. Essa c'incarica
d'esprimervi a un tempo le ragioni dell'unanime suo voto e il
rincrescimento ch'essa ne prova.
Ed è pure con profonda mestizia, naturale a uomini che amano la
Francia e pongono tuttavia fede in essa, che noi compiamo con voi,
signore, la missione affidataci.
Quando dopo la decisione della vostra Assemblea che invitava il
governo a far sì, senza indugio, che la spedizione d'Italia non si
sviasse più oltre dal fine assegnatole, noi sapemmo del vostro
arrivo, ci balzò il core per gioja. Credemmo nella immediata
riconciliazione, in un solo principio proclamato da voi e da noi,
tra due popoli, ai quali tendenze naturalmente amichevoli, ricordi,
interessi comuni e condizione politica comandano stima e amore.
Pensammo che, scelto a verificare la condizione delle cose e colpito
dall'accordo assoluto che annoda in un solo pensiero quasi tutti gli
elementi del nostro Stato, voi avreste coi vostri ragguagli
distrutto il solo ostacolo possibile ai nostri voti, il solo dubbio
che potesse ancora indugiare la Francia nel compimento del nobile
pensiero espresso dalla decisione della vostra Assemblea.
Concordia, pace interna, determinazione ponderata, entusiasmo,
generosità di condotta, voto spontaneo e formale dei municipî, della
guardia nazionale, delle truppe, del popolo, del governo e
dell'Assemblea sovrana in favore del sistema d'instituzioni
esistente, tutto questo v'è riuscito evidente; voi lo diceste, non
ne dubitiamo, alla Francia; e speravamo quindi a buon dritto che,
parlando in nome della Francia, voi avreste con noi proferite parole
diverse da quelle che formano il vostro progetto.
L'Assemblea ha notato il modo col quale la parola repubblica romana
è studiosamente evitata nel primo vostro articolo; e ha indovinato
in quel silenzio una intenzione sfavorevole ad essa.
Parve all'Assemblea che, dalla maggiore importanza in fuori data dal
vostro nome e dalla vostra autorità al progetto, non fosse quasi in
esso più che non in alcuni atti del generale prima della giornata
del 30 aprile. Accertata una volta in modo innegabile l'opinione del
popolo, perchè insistere ad affrontarla coll'occupazione di Roma?
Roma non ha bisogno di protezione: nessuno combatte nella sua
cerchia; e se un nemico si presentasse appiè delle mura, Roma
saprebbe resistergli con forze proprie. Roma può in oggi proteggersi
sulla frontiera toscana e in Bologna! L'Assemblea ha dunque
intravveduto egualmente nel vostro terzo articolo un pensiero
politico, inaccettabile da essa oggi, tanto più che il decreto
dell'Assemblea francese sembra risolutamente avverso a una
occupazione non provocata, non richiesta dalle circostanze.
Noi non vi nasconderemo, signore, come la funesta coincidenza di una
relazione risguardante la cinta di difesa contribuisse alla
decisione dell'Assemblea. Un nucleo di soldati francesi varcava, in
questo stesso giorno e violando lo spirito della tregua, il Tevere
presso a San Paolo, stringendo sempre più in tal modo il cerchio
delle operazioni militari intorno alla capitale. E non è questo,
signore, un atto isolato. La diffidenza del popolo, già suscitata
dal pensiero di veder la propria città occupata da truppe straniere,
s'è intanto accresciuta, e sarebbe difficile, forse impossibile, una
transazione su cose che l'Assemblea considera da canto suo come
pegno vitale d'indipendenza e di dignità.
Per queste e altre ragioni, il progetto fu, comunque a malincuore,
giudicato inammissibile dall'Assemblea. Noi avremo l'onore di
trasmettervi domani, signore, conformemente alle sue intenzioni, una
proposta inferiore di certo alle nostre giuste speranze, ma che
avrebbe non foss'altro il vantaggio d'allontanare ogni pericolo di
collisione tra due repubbliche fondate su diritti identici e
congiunte da simili aspirazioni.
Accettate, signore, ecc.
19 maggio 1849.
XVII.
Romani!
Parecchî fra voi, in un moto di zelo irriflessivo, promosso da
sentori di nuovi pericoli, hanno jeri posto mano, disegnando farne
arnesi di barricate, sopra alcuni confessionali appartenenti alle
chiese.
L'atto sarebbe grave e punibile, se noi non conoscessimo le vostre
intenzioni.
Voi avete creduto, con quella dimostrazione, dar nuova testimonianza
che ogni cosa è oggimai possibile in Roma, fuorchè il
ripristinamento del governo sacerdotale caduto. Avete voluto
esprimere il pensiero che non è, nè può essere vera religione, dove
non è patria libera; e che oggi la causa della religione vera, la
causa dell'anime nostre libere, immortali, si concentra tutta sulle
barricate cittadine.
Ma i nemici della nostra santa repubblica vegliano in ogni parte
dell'Europa a interpretar male i vostri atti, e ad accusare il
popolo d'irreverenza e d'irreligione. Tradirebbe la patria chi
fornisse motivo a siffatte accuse.
Romani! La città vostra è grande e inviolabile fra tutte le città
d'Europa, perchè fu culla e conservatrice di religione. Dio protegge
e proteggerà la repubblica, perchè il santo suo nome non è mai
scompagnato dalla parola popolo, e perchè da noi si combatte per la
sua legge d'amore e di libertà, mentre altrove si combatte per
interessi e ambizioni, che profanano e ruinano ogni credenza. In
quelle chiese, santuario della religione dei nostri padri,
s'inalzeranno, mentre combatteremo, preghiere al Dio dei redenti.
Da quei confessionali, d'onde pur troppo uscirono talvolta,
violazioni del mandato di Cristo, insinuazioni di corruttela e di
servitù, esce pure, non lo dimenticate, la parola consolatrice alle
vecchie madri dei combattenti per la repubblica.
Fratelli nostri nella causa benedetta da Dio e dal Popolo! I vostri
triumviri esigono da voi una prova di fiducia che risponda alle
accuse, conseguenza d'un atto imprudente. Riconsegnate voi stessi
alle chiese i confessionali che jeri toglieste. Le barricate
cittadine avranno difesa dai nostri petti((239)).
20 maggio 1849.
XVIII.
Popoli della repubblica!
L'austriaco inoltra - Bologna è caduta: caduta dopo otto giorni
sublimi di battaglia e di sagrificî: caduta com'altri trionfa. Sia
l'ultimo suo grido di guerra e vendetta per tutti noi: chi ha core
italiano lo raccolga come un santo legato. Roma vi chiede,
cittadini, uno sforzo supremo; e lo chiede certa d'ottenerlo, perchè
il sangue versato dai suoi nella giornata del 30 gliene concede il
diritto.
Colle adesioni al nostro programma, mandate quando cominciavano i dì
del pericolo, voi avete dato bella e solenne testimonianza di fede
concorde all'Italia e all'Europa. Noi vi chiamiamo a un'altra
testimonianza, quella dei fatti. Sia pronto ogni uomo a segnare col
proprio sangue la fede. Sorga ogni città, ogni borgo, ogni luogo,
vindice di Bologna! Suoni ogni campana, il tocco dell'agonia che il
popolo intima all'invasore straniero! Accendete sui vostri monti, di
giogo in giogo, simbolo della fratellanza nell'ira, i fuochi che
diedero, nel dicembre 1847, il programma della nostra rivoluzione!
Sventoli per ogni dove, sulle torri, sui campanili, la rossa
bandiera! Di terra in terra, di casolare in casolare, corra un
fremito di battaglia! Sappiano il nemico, l'Italia, l'Europa, che
qui, nel core della penisola, stanno tre milioni d'uomini legati in
sacramento di tremenda difesa, decisi irrevocabilmente a combattere
sin all'estremo, a sotterrarsi, anzichè cedere, sotto le rovine
della patria! E, viva Dio, nessuna potenza umana potrà vietarci di
vincere. Tre milioni di popolo sono onnipotenti quando dicono: Noi
vogliamo.
Italiani figli di Roma! Militi della repubblica! Questa è un'ora
solenne preparata da secoli; uno di quei momenti storici che
decretano la vita o la morte d'un popolo.
Grandi e potenti per sempre o segnati per sempre del marchio di
servitù; riconosciuti liberi e fratelli dalle nazioni o condannati
alla nullità degli obbedienti al capriccio altrui: padroni di voi
medesimi, delle vostre case, dei vostri altari, delle vostre tombe,
o cosa e ludibrio d'ogni tiranno: raccomandati alla immortalità
della gloria o della vergogna: sarete ciò che vorrete. Il giudizio
di Dio e dell'Umanità pende dalla vostra scelta.
Siate grandi. Decretate la vittoria. Il popolo la conquistava agli
Spagnuoli, ai Greci, agli Svizzeri: la conquisti all'Italia. I
presidi, i commissarî straordinari organizzino l'insurrezione: si
colleghino di provincia in provincia: traducano l'inspirazione di
Roma: assumano dagli estremi pericoli poteri eccezionali, rimedî
estremi. Il capo che cede, che s'allontana prima d'aver combattuto,
che capitola, che tentenna, sia reo dichiarato. La terra, che
accoglie il nemico senza resistenza, sia politicamente cancellata
dal novero delle terre della repubblica. Chi non combatte in un modo
o nell'altro l'invasore straniero, s'abbia l'infamia; chi, non fosse
che per un istante, parteggia per esso, perda la patria per sempre o
la vita. Sia punito chi abbandona al nemico materiali da guerra:
punito chi non s'adopera a togliergli viveri, alloggio, quiete:
punito chi, potendo, non s'allontana dal terreno ch'esso calpesta.
Si stenda intorno all'esercito, che inalza bandiera non nostra, un
cerchio di fuoco o il deserto. La repubblica, mite e generosa
finora, sorga terribile nella minaccia.
Roma starà.
21 maggio 1849.
XIX.
Al signor Lesseps.
Signore,
Ebbi l'onore di trasmettervi, nella nota del 16, alcuni dati
sull'accordo unanime che accompagnò l'instaurazione della nostra
repubblica. Oggi, è necessario parlarvi della questione attuale
com'è posta nel fatto, se non nel diritto, tra il governo francese e
il nostro. Vorrete, speriamo, concederci il franco discorso
richiesto egualmente dall'urgenza della situazione e dalle simpatie
internazionali che devono animare tutte le relazioni tra la Francia
e l'Italia. Tutta la nostra diplomazia sta nel vero; e nel carattere
dato, o signore, alla vostra missione abbiamo pegno che quanto
diremo sarà interpretato nel miglior modo possibile. Permettetemi di
risalire per pochi istanti alla sorgente della situazione attuale.
Dopo conferenze e accordi ch'ebbero luogo, senza che il governo
della repubblica romana fosse chiamato a prendervi parte, fu,
qualche tempo addietro, deciso dalle potenze cattoliche europee: 1.°
Che una modificazione politica era necessaria nel governo e nelle
instituzioni dello Stato romano; 2.° che questa modificazione
avrebbe a base il ritorno di Pio IX, non solo come papa - a questo
non porremmo ostacolo alcuno - ma come principe e sovrano temporale;
3.° che se per raggiungere intento siffatto, un intervento
concertato fosse giudicato indispensabile, l'intervento avrebbe
luogo.
Ci è caro ammettere che, mentre solo e unico fine d'alcuni tra i
contraenti era un sogno di ripristinamento generale, un ritorno
assoluto ai trattati del 1815, il governo francese non fosse
trascinato a quei patti se non in conseguenza d'informazioni erronee
che gli dipingevano lo Stato romano in preda all'anarchia e
signoreggiato col terrore da una minoranza audace.
Sappiamo inoltre che, nella modificazione proposta, il governo
francese intendeva farsi rappresentante di una più o meno liberale
influenza opposta al programma dispotico dell'Austria e di Napoli.
Pur nondimeno, sotto forma tirannica o costituzionale, senza o con
pegni d'una libertà qualunque alle popolazioni romane, il pensiero
predominante su tutti i negoziati ai quali alludiamo, fu sempre un
ritorno verso il passato, una transazione tra il popolo romano e Pio
IX, considerato come sovrano temporale. Sotto l'inspirazione di quel
pensiero fu, sarebbe inutile dissimularlo, ideata, eseguita
l'invasione francese. Fu suo doppio intento cacciare, da un lato, la
spada della Francia sulla bilancia dei negoziati che dovevano
iniziarsi in Roma e assicurare, dall'altro, la popolazione romana
contro ogni eccesso retrogrado, ma ponendo pur sempre a condizione
fondamentale la ricostituzione d'una monarchia costituzionale in
favore del papa. Intento siffatto è provato per noi, non solamente
da ragguagli esatti che abbiamo sui negoziati anteriori, ma dai
bandi del generale Oudinot, dalle formali dichiarazioni d'inviati
che vennero l'un dopo l'altro al Triumvirato, dal silenzio
ostinatamente serbato quando tentammo più volte trattare la
questione politica e cercammo ottenere una dichiarazione formale del
fatto accertato nella nostra nota del 16, che cioè le instituzioni
colle quali oggi si regge il popolo romano sono libera e spontanea
espressione del voto inviolabile delle popolazioni legalmente
interrogate. E il voto stesso dell'Assemblea francese convalida
implicitamente il fatto che noi affermiamo. Di fronte a condizione
siffatta, di fronte alla minaccia d'una transazione inaccettabile e
di negoziati che non hanno ragione alcuna nello stato delle nostre
popolazioni, la parte che ci spettava non era dubbia. Resistere; era
per noi un dovere verso il nostro paese, verso la Francia, verso
l'Europa.
Noi dovevamo, per adempiere a un mandato lealmente dato e lealmente
accettato, mantenere, per quanto era in noi, l'inviolabilità del
nostro paese, del suo territorio e delle sue instituzioni
unanimemente acclamate da tutti i poteri, da tutti gli elementi
dello Stato.
Dovevamo conquistare il tempo necessario per richiamarci dalla
Francia ingannata alla Francia meglio informata, ed evitare alla
repubblica sorella il rimorso d'essersi fatta, cedendo senza esami a
suggerimenti stranieri, complice d'una violenza che non ha paragone
se non nel primo smembramento della Polonia.
E dovevamo all'Europa una testimonianza, quale almeno poteva escire
da noi, a pro del principio fondamentale d'ogni vita internazionale,
l'indipendenza di ciascun popolo in ciò che riguarda la sua interna
amministrazione. Resistendo con entusiasmo ai tentativi della
monarchia napoletana e dell'eterna nostra nemica l'Austria,
resistendo con profondo dolore alle armi francesi, noi andiamo
alteri di poter dire a noi stessi che abbiamo benemeritato non
solamente di voi, ma dei popoli europei.
Voi sapete, signore, gli eventi che tennero dietro all'intervento
francese. Il nostro territorio fu invaso dalle truppe del re di
Napoli; e quattromila soldati spagnuoli salparono, probabilmente il
17, per assalire le nostre coste. Gli Austriaci, superata la
resistenza eroica di Bologna, inoltrarono nella Romagna e minacciano
Ancona. Noi abbiamo respinto dal nostro territorio le forze del re
di Napoli. Faremmo lo stesso - è fede nostra - delle forze
austriache, se il contegno delle forze francesi non c'impedisse
d'agire.
Noi parliamo dolenti. Ma è necessario che la Francia sappia
finalmente le vere conseguenze della spedizione di Civitavecchia,
ideata, se stiamo a ciò che s'afferma, a proteggerci.
Noi diciamo, signore, che fra tutti gli interventi promossi a danno
nostro, l'intervento francese è quello che ci riescì più fatale.
Possiamo batterci contro i soldati del re di Napoli e contro gli
Austriaci: vorremmo non batterci contro i Francesi. Noi siamo a
riguardo loro in condizioni non di guerra, ma di semplice difesa.
Sarà tale il nostro contegno ovunque ci troveremo innanzi la
Francia. Ma quel contegno, non giova dissimularlo, ha per noi tutti
i danni d'una guerra senza alcuno de' suoi vantaggi possibili.
La spedizione francese ha reso indispensabile per noi un
concentramento di forze che lasciò la nostra frontiera aperta
all'invasione austriaca, e disarmate Bologna e le città della
Romagna. Gli Austriaci ne profittarono. Dopo otto giorni di lotta
sostenuta eroicamente dalla popolazione, fu forza a Bologna di
cedere.
Avevamo comprato in Francia armi per nostra difesa; queste armi, 10
000 fucili almeno, furono sequestrate fra Civitavecchia e Marsiglia:
esse sono in mano vostra. Togliendoci quell'armi, ci avete tolti 10
000 soldati, perchè ogni uomo armato sarebbe un soldato contro gli
Austriaci.
Le vostre forze stanno sotto le nostre mura, a un tiro di fucile,
disposte come per un assedio. Esse rimangono ostinate, minacciose a
quel modo, senza fine dichiarato, senza programma, costringendoci a
mantenere la città in uno stato di difesa che aggrava le nostre
finanze, e togliendo alle nostre truppe ogni possibilità di movere a
salvare le nostre terre dall'occupazione e dalla devastazione
austriaca. Circolazione, approvvigionamenti, corrieri, ogni cosa è
inceppata. Gli animi concitati potrebbero, se il nostro popolo fosse
men buono e meno devoto, trascendere ad atti funesti.
Quell'attitudine dei vostri soldati non genera anarchia o riazione,
perchè nè l'una cosa nè l'altra è possibile in Roma; ma produce
irritazione contro la Francia; ed è grave sciagura per noi che
ponevamo finora amore e speranza in essa.
Noi siamo assediati, signore, assediati dalla Francia in nome d'una
missione di protezione, mentre, a distanza di poche leghe, il re di
Napoli trascina con sè i nostri ostaggi, mentre gli Austriaci
scannano i nostri fratelli.
Voi avete, signore, presentato proposte. Quelle proposte furono
dichiarate inaccettabili dall'Assemblea, e sarebbe inutile per noi
il discuterle. Voi ne aggiungete oggi una. La Francia, voi dite,
proteggerà contro ogni invasione straniera tutte le parti del
territorio romano occupate dalle sue truppe. Or quella quarta
proposta non muta menomamente le nostre condizioni. La parte di
territorio occupato da voi è già protetta, nel fatto, contro ogni
altra invasione; ma se guardiamo al presente, quella parte è di men
che lieve importanza, e se guardiamo al futuro, non abbiamo noi
dunque modo di proteggere il nostro suolo fuorchè abbandonandolo
tutto a voi?
Non è quello il nodo della questione: la questione sta tutta
nell'occupazione di Roma. Ed è condizione da voi posta a capo di
tutte le vostre proposte.
Or noi abbiamo l'onore di dirvi, signore, che quella condizione è
impossibile: il popolo non vi consentirebbe giammai. Se
l'occupazione di Roma non ha per fine che di proteggerla, il popolo
vi si mostrerà riconoscente, ma vi dirà che, capace di proteggere
Roma con forze proprie, si terrebbe disonorato davanti a voi se
dichiarasse sè stesso impotente e indispensabile alla difesa l'ajuto
d'alcuni reggimenti francesi. Se l'occupazione di Roma ha invece,
Dio nol voglia, un pensiero politico, il popolo che ha liberamente
scelto le proprie instituzioni, non può rassegnarsi a subirla. Roma
è la sua capitale, il suo Palladio, la sua città sacra. Esso intende
che, oltre il principio violato e l'onore tradito, ogni occupazione
trascinerebbe una guerra civile. E ogni insistenza gli aumenta i
sospetti e l'antiveggenza, ammesse una volta che fossero le truppe
straniere, di mutamenti inevitabili funesti alla sua libertà, negli
uomini e nelle instituzioni.
Il popolo ha innanzi l'esempio di Civitavecchia; e sa che di mezzo
alle bajonette straniere, l'indipendenza dell'Assemblea e del
governo non sarebbe più che una vana parola.
Su quel punto, signore, credetelo a noi, la sua volontà è
irrevocabile. Non soggiacerà se non dopo aver seminato de' suoi
cadaveri le barricate. Vogliono, possono i soldati di Francia
trucidare un popolo di fratelli che affermano voler proteggere,
perch'esso rifiuta di cedere all'armi loro la sua capitale?
La Francia non ha, negli Stati romani, che tre parti da scegliere:
Dichiararsi per noi, contro noi o neutrale.
Dichiararsi per noi significa riconoscere formalmente la nostra
repubblica e combattere a fianco nostro, colle nostre truppe, gli
Austriaci.
Dichiararsi contro noi, cioè schiacciare senza cagione la libertà,
la vita nazionale d'un popolo d'amici e combattere a fianco degli
Austriaci.
La Francia non può far questo. Essa non vuole avventurarsi a una
guerra europea per difenderci come alleata. Rimanga dunque neutrale
nella lotta che noi sosterremo. Noi avevamo, poco tempo addietro,
ben altre speranze; oggi non le domandiamo che questo.
L'occupazione di Civitavecchia è fatto compiuto; sia. La Francia
crede che, nella condizione di cose presenti, non le conviene di
tenersi lontana dal campo della battaglia, e pensa che, vincitori o
vinti, noi possiamo aver bisogno della sua protezione o della sua
azione moderatrice. Noi nol crediamo, ma non intendiamo di
ribellarci per questo contr'essa. Serbi dunque Civitavecchia.
Estenda, se il numero delle sue truppe lo esiga, i proprî
accantonamenti ai luoghi salubri che stanno sul raggio da
Civitavecchia a Viterbo. E aspetti immobile l'esito finale della
nostra guerra. Noi offriremo ad essa tutte le agevolezze possibili,
tutte testimonianze di leale amicizia. I suoi ufficiali entreranno
in Roma visitatori; i suoi soldati avranno, occorrendo, ajuto e
conforti da noi, ma sia la sua neutralità sincera e senza mistero;
dichiarata in termini espliciti. Lasci a noi libertà di giovarci
senza tema di tutte quante le nostre forze. Ci renda l'armi da noi
comprate. Non chiuda co' suoi legni i nostri porti agli uomini che
dall'altre parti d'Italia volessero accorrere a dividere i nostri
pericoli. S'allontani anzi tutto dalle nostre mura. Cessi anche
l'apparenza d'ostilità fra due popoli chiamati, noi non possiamo
dubitarne, negli anni avvenire a congiungersi in una stessa fede
internazionale come sono oggi congiunti nell'adozione d'una stessa
forma governativa.
Accettate, signore, ecc.
25 maggio 1849.
XX.
Considerando che debito di Roma, per la sua tradizione nel passato e
per la sua missione nell'avvenire, è ampliare possibilmente la
propria vita e la propria libertà a quanti soffrono, combattono e
sperano per la causa delle nazioni e dell'umanità;
Considerando che per patimenti, energia di sacrificî e immortalità
di speranze, la Polonia è sorella all'Italia e sacra fra tutte le
nazioni;
Considerando che gli esuli polacchi rappresentano in oggi la Polonia
futura;
Il Triumvirato decreta:
1.° È formata sul territorio della repubblica una legione polacca,
che combatterà sotto i segni di Roma per l'indipendenza italiana.
2.° La legione inalzerà il vessillo nazionale polacco colla sciarpa
tricolore italiana. Il comando si farà in lingua polacca. L'uniforme
dei legionari sarà di colore blu scuro, collare e mostre di rosso
amaranto e colle parti metalliche bianche.
3.° La legione ascenderà a duemila uomini o più.
Il governo della repubblica somministrerà, occorrendo, i mezzi pel
trasporto degli arrolati. Gli Slavi, che militassero sotto la
repubblica, saranno incorporati nella legione.
4.° La legione elegge i proprî ufficiali. Il capo militare della
legione presenterà le nomine fatte. Il governo sceglie tra quelli.
Il capo militare non può essere che Polacco, scelto con suffragio
universale dai suoi.
5.° Il soldo della legione sarà eguale a quello dell'esercito
romano. I feriti o mutilati difendendo la repubblica hanno tutti i
diritti che spettano ai feriti e mutilati cittadini dello Stato.
6.° La legione si obbliga per un anno, prolungando a sua posta di
anno in anno sino a sei il suo esercizio militare.
Dove la guerra dell'indipendenza polacca ricominciasse, e la legione
potesse consacrarsi utilmente alla salute della propria patria, sarà
libera, e potrà lasciare, annunziandolo prima al governo, il
territorio della repubblica.
29 maggio 1849.
XXI.
(Risposta alla dichiarazione di Lesseps che il 29 maggio riproduceva
con lievi varianti le proposte accennate nel documento, n. XVI.)
Signore,
Ricevemmo la dichiarazione che indirizzaste a noi il 29 maggio.
Avendo l'Assemblea, alla quale copia della dichiarazione fu pure
trasmessa, riconfermata l'autorità già accordataci per ogni
negoziato, è debito nostro rispondervi; e lo facciamo solleciti. Se
indugiammo a rispondere alla vostra nota del 26, vogliate
considerare ch'essa non conteneva proposte in nome della Francia, nè
discuteva le nostre.
Abbiamo esaminato accuratamente il vostro progetto; ed ecco quali
modificazioni vi proponiamo. Esse riguardano più assai la forma che
non la sostanza.
Noi potremmo svolgere lungamente le cagioni dei mutamenti che
proponiamo; mutamenti, vogliate crederlo, signore, richiesti, non
solamente dal mandato trasmessoci dall'Assemblea, ma dal voto
esplicito del nostro popolo contro il quale nessuna convenzione
sarebbe possibile; ma il tempo stringe e ci è forza rinunziare ai
particolari. E preferiamo inoltre affidarci, per supplire a questa
omissione, alla vostra lealtà e al favore con cui sovente guardaste
alla nostra causa e a' suoi fati. La nostra, signore, non è nè può
essere diplomazia; è una chiamata di popolo a popolo, libera e
cordiale, senza minaccia come senza pensiero segreto. Più d'ogni
altra nazione, la Francia è capace d'ascoltarla e d'intenderla.
La condizione anormale di cose esistente fra la repubblica francese
e noi riescirebbe, prolungandosi, segnatamente dopo la dichiarazione
della vostra Assemblea e le recenti manifestazioni del popolo
francese a nostro riguardo, inconcepibile. E la proposta che tende a
far sì che cessi v'è inviata da noi, signore, con tutta la potenza
di convincimento e di desiderio che vive in noi. Abbiatela sacra,
però che essa compendia la fede incrollabile ai fervidi desiderî
d'un popolo, piccolo per numero ma prode e leale, che ricorda i suoi
padri e ciò che compirono sulla terra e che, combattendo oggi per
una causa sacra, quella dell'indipendenza e della libertà, è
irrevocabilmente deciso a imitarli. Questo popolo, signore, ha
diritto d'essere compreso dalla Francia e di trovare in essa un
appoggio, non una potenza ostile; ha diritto di aver dalla Francia
non protezione, ma fratellanza. Ogni domanda di protezione proferita
da esso sarebbe interpretata dall'Europa come un grido di
disperazione, come una dichiarazione d'impotenza e lo farebbe
indegno di quell'amistà della Francia sulla quale ei facea calcolo
prima dei fatti recenti. Quel grido di disperazione non può
suonargli sul labbro. Non esiste impotenza per un popolo che sa
morire; e mal s'addirebbe a generoso sentire da parte d'una grande e
altera nazione di sconoscere il nobile impulso che muove il popolo
di Roma.
Bisogna, signore, che questa condizione di cose cessi. La
fratellanza non è oggi fra noi se non parola vuota di senso pratico:
diventi una realtà. Sia lecito ai nostri corrieri, alle nostre armi,
alle nostre truppe di circolare liberamente a nostra difesa su tutte
quante le nostre terre. Non sian i Romani condannati come oggi sono
a guardare con sospetto uomini ch'erano avvezzi a considerare
siccome amici. Ci sia schiusa la via di difenderci con tutti i
nostri mezzi dagli Austriaci che bombardano le nostre città. Non
rimangano più dubbie le buone e leali intenzioni della Francia. Non
sia più possibile all'Europa di dire ch'essa, la Francia, ci sottrae
le difese per imporci poi una protezione, mercè la quale si
serberebbe inviolato da altri il nostro territorio, ma colla perdita
di quanto abbiamo più caro, del nostro onore e della nostra libertà.
Fate questo, signore. Svaniranno le difficoltà che or ci separano:
gli affetti, oggi illanguiditi, potranno rivivere; e la Francia
riconquisterà il diritto di consigliarci che l'attitudine ostile
assunta le toglie.
Gli accantonamenti che ci sembrano più opportuni per ora si
stenderebbero sulla linea da Frascati a Velletri.
Accettate, signore, ecc.
30 maggio 1849.
Ecco ora le proposte:
I. I Romani, fidenti oggi come sempre nell'appoggio fraterno della
repubblica francese, reclamano la cessazione d'ogni ostilità reale o
apparente e lo stabilimento delle relazioni che devono esprimere
quell'appoggio fraterno.
II. I Romani hanno pegno di libero esercizio dei loro diritti
politici nell'art. 5 della costituzione francese.
III. L'esercito francese sarà considerato dai Romani come un
esercito amico e accolto siccome tale. In accordo col governo della
repubblica romana, esso stanzierà in accantonamenti convenevoli così
per la difesa del paese come per la salubrità. L'esercito francese
rimarrà estraneo all'amministrazione del paese.
Roma è sacra pe' suoi amici come pe' suoi nemici. Essa non fa parte
degli accantonamenti scelti dalle truppe francesi. Il prode suo
popolo è la sua migliore difesa.
IV. La repubblica francese difenderà da ogni invasione straniera il
territorio occupato dalle sue truppe.
XXII.
(Accettata, con mutamenti di forma, la proposta contenuta nel
documento che precede dal plenipotenziario Lesseps, il generale
Oudinot, allegando istruzioni segrete, ricusò di ratificare gli
accordi, ruppe la tregua, intimò gli assalti, dichiarando che non
assalirebbe prima del lunedì; poi assalì nella notte dal sabato alla
domenica.)
Romani!
Al delitto d'assalire con truppe repubblicane una repubblica amica,
il generale Oudinot aggiunge l'infamia del tradimento. Egli viola la
promessa scritta, ch'è in mano nostra, di non assalire prima di
lunedì.
Levatevi, Romani! Alle mura, alle porte, alle barricate! Proviamo al
nemico che neppure col tradimento si vince Roma.
Sorga l'intera città nell'energia di un solo pensiero. Combatta ogni
uomo; abbia ogni uomo fede nella vittoria. Ricordatevi tutti dei
vostri padri e siate grandi.
Trionfi il diritto e una eterna vergogna s'aggravi sull'alleato
dell'Austria.
Viva la repubblica!
3 giugno 1849.
XXIII.
Romani!
Voi avete oggi sostenuto l'onore di Roma, l'onore d'Italia((240)).
Per oltre a quattordici ore avete combattuto come vecchî soldati.
Sorpresi a un tratto dal tradimento, dalla violazione d'una formale
e segnata promessa, voi avete conteso palmo a palmo il terreno,
riconquistato posizioni un istante perdute, respinto le più valorose
truppe d'Europa e salutato d'un sorriso la morte. Dio vi benedica,
custodi della gloria dei vostri padri, come noi, alteri d'aver
indovinato l'elemento di grandezza ch'è in voi, vi benediciamo in
nome d'Italia.
Romani, questa giornata è giornata d'eroi, una pagina storica.
Vi dicevamo jeri: siate grandi; oggi diciamo: voi siete grandi.
Durate; siate costanti. Al popolo di Roma possono dimandarsi
miracoli. E noi diciamo con piena fiducia ad esso, alle guardie
nazionali, alla gioventù di tutte le classi: Roma è inviolabile;
custodite questa notte le sue mura: esse racchiudono l'avvenire
della nazione. Vigilate, mentre quei che hanno combattuto
quattordici ore riposano, alle porte, alle barricate. L'angelo della
patria vigila con voi, e l'angelo della patria è l'angelo della
nazione.
Viva la repubblica!
3 giugno 1849.
XXIV.
Romane! Figlie del popolo!
I vostri mariti, i vostri figli, i vostri fratelli combattono il
nemico della patria alle mura: voi avete diritto all'amore e alla
protezione del paese. Il nemico, che si ritrasse l'altro jeri
atterrito davanti agli uomini vostri, ha minacciato oggi colle bombe
le vostre case. Voi siete donne romane, non potete impaurirvi ad una
minaccia impotente, perchè le nostre truppe terranno il nemico
lontano; combatteranno, occorrendo, coi vostri cari alle barricate;
ma Roma deve protezione alle vecchie madri, ai fanciulli dei suoi
difensori. Il Triumvirato decreta in conseguenza:
Che le famiglie popolane, le cui case fossero minacciate dalle bombe
o dal cannone, durante l'assedio a cominciar da domani, e occorrendo
anche prima, avranno alloggio per cura del governo in case, palazzi
o conventi fuori d'ogni pericolo:
Che i rappresentanti del popolo in ogni rione riceveranno le
domande, ne verificheranno la giustizia, e rilasceranno una carta
d'ammissione ai locali, la lista dei quali verrà consegnata ad essi,
colle dovute istruzioni, dal ministero dell'interno.
I Triumviri affidano alla virtù e al patriotismo delle popolane
romane la custodia vigilante e l'ordine necessario a preservare da
ogni guasto le abitazioni assegnate ad esse da Roma.
5 giugno 1849.
XXV.
(Le linee seguenti rispondevano a un'ultima intimazione del generala
Oudinot, quando i Francesi erano già sul primo bastione a sinistra
della porta San Pancrazio.)
Abbiamo l'onore di rimettervi la risposta dell'Assemblea alla vostra
comunicazione del 12.
Noi non tradiamo mai le nostre promesse. Abbiamo promesso difendere,
in esecuzione degli ordini dell'Assemblea e del popolo romano, la
bandiera della repubblica, l'onore del paese e la santità della
capitale del mondo cristiano, e manterremo la nostra promessa.
Gradite, generale, l'assicurazione della nostra distinta
considerazione.
13 giugno 1849.
XXVI.
(Risposta a una lettera indirizzata dal signor de Corcelles, inviato
straordinario della repubblica francese, al signor de Gerando,
cancelliere dell'ambasciata francese in Roma. La lettera tentava
scusare la contraddizione patente fra gli accordi di Lesseps e
l'assalto dato a Roma dal generale Oudinot.)
Signore,
La lettera che il signor de Corcelles vi scrive con data del 13, e
che m'è da voi cortesemente comunicata, non invalida affatto, dovete
ammetterlo, la risposta data dall'Assemblea costituente romana alla
intimazione del generale Oudinot. Poco monta la data di uno o di
altro dispaccio francese; poco monta che il signor Lesseps fosse o
no richiamato al momento della firma apposta da lui alla convenzione
del 31 maggio.
Una sola parola risponde a ogni cosa: l'Assemblea ignorava; essa non
ebbe mai comunicazione officiale di quei dispacci.
La questione diplomatica è dunque, per noi, posta in questi termini:
Il signor Lesseps era ministro plenipotenziario della Francia in
Roma. Egli era tale per noi il 31 maggio come prima d'allora. Nulla
ci aveva avvertiti d'una modificazione o d'un annullamento de' suoi
poteri. Trattavamo noi dunque con lui in piena buona fede come se
trattassimo colla Francia: e questa nostra buona fede ci valse,
nella notte dal 28 al 29 maggio, l'occupazione di Monte Mario.
Addentrati in una discussione assolutamente pacifica col signor
Lesseps, ansiosi d'evitare quanto avrebbe potuto trascinare gli
spiriti su direzione avversa ai nostri voti e non sapendo indurci a
credere che la missione protettrice della Francia comincerebbe
coll'assedio di Roma, guardavamo ogni incidenza senza commoverci. A
ogni movimento delle vostre truppe, a ogni operazione tendente a
restringere la cinta militare e a ravvicinarsi gradatamente a
posizioni che noi avremmo potuto difendere, il signor Lesseps
s'affrettava a dirci che i Francesi non operavano a quel modo se non
per quetare la concitazione febbrile delle truppe affaticate dalla
lunga inerzia; in nome dei due paesi, in nome dell'umanità, ei ci
supplicava d'evitare ogni conflitto, d'aver fede in lui, di non
paventare conseguenza alcuna da quei fatti anormali. E noi cedevamo
volonterosi. Oggi, io sono costretto, per quanto a me spetta, a
pentirmi di quella arrendevolezza; non già ch'io tema per Roma, ma
perchè petti di prodi difendono ciò che buone posizioni avrebbero
potuto difendere. Il 31 maggio, alle otto di sera, furono firmati
gli accordi tra il signor Lesseps e noi. Ei li portò seco al campo
affermandoci ch'ei considerava la firma del generale Oudinot come
semplice formalità intorno alla quale non poteva esistere dubbio.
Eravamo tutti coll'animo lieto. Le cose stavano per ripigliare, tra
la Francia e noi, la loro naturale tendenza.
La notte, parmi, ci giunse il dispaccio del generale Oudinot
contenente rifiuto d'adesione agli accordi e l'affermazione che il
signor Lesseps, firmandoli, aveva oltrepassati i poteri affidatigli.
Un secondo dispaccio, con data del 1.° giugno, a tre ore e mezzo
dopo mezzodì, e firmato dal generale, ci dichiarava «che i fatti
avevano giustificato la sua determinazione e che in due dispacci del
ministro di guerra e degli affari esteri, in data 28 e 29 maggio, il
governo francese gli annunziava il termine della missione del signor
Lesseps.»
Ventiquattro ore ci erano concesse per accettare l'ultimatum del 29
maggio.
V'è noto come lo stesso giorno il signor Lesseps c'indirizzasse una
comunicazione nella quale è detto: «Mantengo l'accordo firmato jeri.
Parto per Parigi onde ottenergli ratifica. Quell'accordo fu
conchiuso in virtù d'istruzioni che mi davano facoltà di consacrarmi
esclusivamente ai negoziati e alle relazioni da stabilirsi colle
autorità e le popolazioni romane.»
Lo stesso giorno, in ora più inoltrata, il generale Oudinot ci
dichiarava che ricomincerebbe le ostilità, ma che «su richiesta del
cancelliere dell'ambasciata francese... l'assalto sarebbe differito
fino a lunedì mattina, almeno».
Fummo assaliti la domenica, e la conseguenza di questa violazione di
fede era per noi l'occupazione di Villa Panfili e la sorpresa
operata su due compagnie, la cui cifra entra senza dubbio nel
bollettino della giornata del 3. Quei duecento uomini, còlti nel
sonno, sono ora, insieme ai 24 prigionieri fatti nella giornata, in
Bastia nella Corsica.
Dopo ciò, che importa a noi, vogliate dirmelo, signore, il dispaccio
del 26 maggio citato la prima volta nella lettera del signor de
Corcelles? Che importano al governo romano i dispacci citati dal
generale Oudinot? Noi non vedemmo mai quei dispacci; ci è ignoto ciò
che contengono; nessuna comunicazione officiale c'informò della loro
esistenza. Da un lato abbiamo le informazioni del generale Oudinot;
dall'altro quelle del ministro plenipotenziario; le une contradicono
le altre. Esca la Francia da viluppo siffatto e salvi l'onore se
può. Posta fra un ministro plenipotenziario e il generale d'una
divisione d'esercito, la nostra Assemblea ha stimato di conformarsi
alla tradizione dei fatti stabiliti dal plenipotenziario. Io
consento in ciò ch'essa fece e vi ricordo, signore, che oggi
soltanto, decimo giorno dell'assedio, la presenza del signor de
Corcelles nel campo, con attribuzioni di ministro straordinario, ci
è fatta indirettamente nota.
Meditate, signore, le date delle note ufficiali, paragonatele colla
data dell'occupazione di Monte Mario o d'altre operazioni
dell'esercito francese; poi diteci se, esaminando freddamente la
questione diplomatica, l'Europa non dovrà dire: «Il governo francese
non ha voluto se non deludere il governo romano. Il generale Oudinot
s'è giovato della buona fede degli uomini che lo compongono per
restringere il cerchio dell'assedio, per occupare posizioni
favorevoli, per agevolarsi la possibilità d'impossessarsi della
città. O il dispaccio del 26 non esiste o non fu comunicato in tempo
al signor Lesseps.»
Il dispaccio del 29 maggio era difatti noto nel campo francese nella
mattina del 1.° giugno; quello del 26 poteva dunque essere in mano
al generalo Oudinot fin dal 29 maggio. Se il generale non lo esibì
fin d'allora per sospendere negoziati e poteri del negoziatore,
sorge il pensiero ch'ei volesse trarre partito da quei negoziati,
che inceppavano la vigilanza e le forze del popolo romano, per
impadronirsi a poco a poco, senza incontrare resistenza, dalle
posizioni migliori; certo com'egli era di porre fine quando
giovasse, rivelando il dispaccio del 26, agli accordi e di rompere,
pronta ogni cosa per assalire, la tregua.
Concedete, signore, ch'io vi dica colla libertà che si addice a un
uomo leale e d'indole non servile: la condotta del governo romano
non s'allontanò mai d'una linea, nelle trattative ch'ebbero luogo,
dalle vie dell'onore. Il governo francese potrebbe difficilmente
affermarlo di sè. Ciò non tocca, la Dio mercè, menomamente la
Francia; prode e generosa nazione, essa è, come noi, vittima d'un
basso indegno raggiro.
Oggi, i vostri cannoni tuonano contro le nostre mura, le vostre
bombe scendono sulla città sacra; la Francia ebbe questa notte la
gloria d'uccidere una povera fanciulla del Trastevere che dormiva a
fianco della sorella.
I nostri giovani ufficiali, i nostri militari improvvisati, i nostri
popolani, cadono sotto i vostri projettili gridando: Viva la
repubblica! I prodi soldati di Francia cadono, senza grido, senza
mormorare accento, come uomini disonorati. Io son certo che non
havvi un solo cuore tra voi che non dica internamente a sè stesso
ciò che uno dei vostri disertori ci diceva oggi: Non so qual voce
segreta ci dice che combattiamo de' fratelli.
E perchè questo conflitto fraterno? Io nol so; voi nol sapete. La
Francia non ha qui bandiera; essa combatte uomini che l'amano e che,
pochi giorni addietro, fidavano in essa. Essa cerca l'incendio di
una città che non l'ha menomamente offesa, senza programma politico,
senza fine determinato, senza diritto da esercitare, senza dovere da
compiere. Essa gioca, per mezzo de' suoi generali, la partita
dell'Austria e senza il tristo coraggio di confessarlo. Essa
trascina il suo stendardo nel fango dei conciliaboli di Gaeta e
retrocedendo davanti a una schietta dichiarazione di ripristinamento
sacerdotale. Il signor de Corcelles non s'avventura più a parlare
d'anarchia, di fazioni; ma scrive, come chi è turbato nell'anima,
queste parole, senza senso: «La Francia ha per fine la libertà del
capo riverito della Chiesa, la libertà degli Stati romani e la pace
del mondo!»
Noi sappiamo almeno perchè combattiamo, e perchè lo sappiamo, siam
forti. Se la Francia rappresentasse qui tra noi un principio, una di
quelle idee che fanno grandi le nazioni e la fecero grande in
passato, il valore de' suoi figli non si romperebbe contro il petto
dei nostri giovani militi.
È trista pagina davvero, signore, quella che sta ora scrivendosi dai
vostri generali nella storia di Francia; è un colpo mortale vibrato
al Papato che voi pretendete proteggere e che affogate nel sangue; è
un abisso incolmabile scavato fra due nazioni chiamate a movere
insieme pel bene di tutti e che si stendevano, vogliose
d'intendersi, la mano da secoli; è una violazione profonda della
morale che dovrebbe governare le relazioni tra popolo e popolo,
della comune credenza che dovrebbe guidarli, della santa causa della
libertà che vive in quella credenza, dell'avvenire non dell'Italia -
i patimenti sono per essa un battesimo di progresso - ma della
Francia, che non può serbarsi in prima fila tra le nazioni se non
colle maschie virtù della fede e dell'intelletto della libertà.
15 giugno 1849.
XXVII.
(Dopo il decreto dell'Assemblea che ingiungeva cessasse la
resistenza.)
Romani!
Il Triumvirato s'è volontariamente disciolto. L'Assemblea
costituente vi comunicherà i nomi dei nostri successori.
L'Assemblea, commossa, dopo il successo ottenuto jeri dal nemico,
dal desiderio di sottrarre Roma agli estremi pericoli, e d'impedire
che si mietessero senza frutto per la difesa altre vite preziose,
decretava la cessazione della resistenza. Gli uomini, che avevano
retto mentre durava la lotta, mal potevano seguire a reggere nei
nuovi tempi che si preparano. Il mandato ad essi affidato cessava di
fatto, ed essi si affrettarono a rassegnarlo nelle mani
dell'Assemblea.
Romani! Fratelli! Voi avete segnata una pagina che rimarrà nella
storia documento della potenza d'energia che dormiva in voi e dei
vostri fati futuri, che nessuna forza potrà rapirvi. Voi avete dato
battesimo di gloria e consacrazione di sangue generoso alla nuova
vita che albeggia all'Italia, vita collettiva, vita di popolo che
vuole essere e che sarà. Voi avete, raccolti sotto il vessillo
repubblicano, redento l'onore della patria comune contaminata
altrove dagli atti dei tristi, e scaduta per impotenza monarchica. I
vostri Triumviri, tornando semplici cittadini fra voi, traggono con
sè conforto supremo nella coscienza di pure intenzioni, e l'onore
d'avere il loro nome associato ai vostri fortissimi fatti.
Una nube sorge oggi tra il vostro avvenire e voi. È nube d'un'ora.
Durate costanti nella coscienza del vostro diritto e nella fede per
la quale morirono apostoli armati, molti dei migliori fra voi. Dio,
che ha raccolto il loro sangue, sta mallevadore per voi. Dio vuole
che Roma sia libera e grande; e sarà. La vostra non è disfatta: è
vittoria dei martiri ai quali il sepolcro è scala di cielo. Quando
il cielo splenderà raggiante di resurrezione per voi; quando, tra
brev'ora, il prezzo del sacrificio, che incontraste lietamente per
l'onore, vi sarà pagato; possiate allora ricordarvi degli uomini che
vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori,
e combatteranno, occorrendo, domani, misti nei vostri ranghi, le
nuove vostre battaglie. Viva la repubblica romana!
30 giugno 1849.
XXVIII.
Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o
scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna,
inviolabile, nel suffragio dei liberi che la proclamarono,
nell'adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella
fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel
sangue dei martiri che caddero sotto le nostra mura per essa.
Tradiscano a posta loro gl'invasori le loro solenni promesse. Dio
non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell'anima
vostra nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiaciate;
e non diffidate dell'avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e
infallibile il trionfo d'un popolo che spera, combatte e soffre per
la Giustizia o per la santissima Libertà.
Voi daste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate
darla di coraggio civile.
Per quanto avete di sacro, cittadini, serbatevi incontaminati di
stolte paure e di basso egoismo. Duri visibile agli occhî del mondo
la separazione tra voi e gl'invasori. Sia Roma il loro campo, non la
loro città. E segnate del nome di traditore di Roma chi trapassa,
transigendo colla propria coscienza, nel campo nemico. Le necessità
europee non consentono che Roma sia conquista di Francesi o d'altri.
Mantenete all'occupazione il suo carattere di conquista; isolate il
nemico; l'Europa leverà una voce potente per voi. E intanto nessuno
può contendervi la pacifica espressione del vostro voto. Organizzate
pubblicamente espressione siffatta. Dai municipî esca ripetuta con
fermezza tranquilla d'accento la dichiarazione ch'essi aderiscono
volontarî alla forma repubblicana e all'abolizione del governo
temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo
s'impianti senza l'approvazione liberamente data dal popolo; poi,
occorrendo, si sciolgano. Da ogni rione, da ogni città di provincia
escano liste segnate da migliaja di nomi che attestino la stessa
fede e invochino lo stesso diritto. Per le vie, nei teatri, in ogni
luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti!
Libero voto! e dopo quell'unico grido, ritraetevi. All'inalzare
dello stemma pontificio governativo, quanti giurarono alla
repubblica s'allontanino dai loro ufficî. Non si imprigionano le
migliaja; non si costringono gli uomini ad avvilirsi. E voi
v'avvilireste, o Romani, v'avvilireste per sempre, se dopo aver
gridato una volta all'Europa che volevate esser liberi e combattuto
e perduto i migliori fra i vostri per esser tali, assumeste
condizione di schiavi e pattuiste fin dal primo giorno colla
disfatta.
I vostri padri, o Romani, furon grandi, non tanto perchè sapevano
vincere, quanto perchè non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del Popolo, siate grandi come i vostri padri. Oggi,
come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano, in
custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri,
sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a
scegliere, a norma della vostra condotta, il momento opportuno per
riconvocarla.
5 luglio 1849.
Giuseppe Mazzini.
SCRITTI
SUL MEDESIMO PERIODO
(Gli scritti che seguono sono, in certo modo, epilogo al dramma di
Roma, e conchiudono il periodo che abbraccia il 1848 e il 1849. Li
pubblicai dalla Svizzera.)
LETTERA AL MINISTERO FRANCESE.
Ai signori Toqueville e Falloux, ministri di Francia.
Signori!
Se voi, ne' vostri discorsi del 6 e del 7 agosto, non aveste
calunniato che me, tacerei: non ho provato mai nella vita se non
indifferenza per la calunnia e supremo disprezzo pei calunniatori.
Ma voi faceste segno delle vostre calunnie una intera rivoluzione,
santa nel suo diritto, pura d'eccessi nel suo sviluppo: un intero
popolo, buono, valoroso e notabile per affetto all'ordine e
abitudini di disciplina, tramandate ad esso dagli antichi suoi
padri. Uomini consacrati da lunghi studî alla serena imparzialità
filosofica, avete non per tanto, pe' vostri fini, ripetuto
impassibili all'Assemblea le volgari accuse d'anarchia, di terrore e
di setta, gittate per più mesi, pascolo a un pubblico ignaro, da
gazzettieri pagati perchè si spianasse la via all'iniqua impresa
contro la romana repubblica. Avete freddamente, col labbro
atteggiato al sorriso dell'ironia, avventato il fango della nazione
su quei che morirono per la patria nascente. Importa che, per onore
della razza umana, qualcuno protesti. Importa che non per voi nè per
una maggioranza parlamentaria diseredata, per opera d'egoismo e
paura, d'ogni senso morale, ma per quei che gemono tra voi, come noi
gemiamo, la libertà perduta, e per la Francia dei dì che verranno,
sorga una voce d'onesto a dirvi, o signori, che la vostra eloquenza
è mero artificio, la vostra fede una ipocrisia; che per tutta quanta
la serie delle vostre asserzioni voi non avete dato se non menzogne
alla Francia e all'Europa; che s'havvi nel mondo cosa più vile del
carnefice e dell'opera sua, è l'insulto al cadavere, la percossa
alla pallida faccia di Carlotta Corday. Io dunque scrivo e protesto
in nome di Roma. Io so d'uomini i quali dovrebbero, per onor della
Francia, assumersi la parte ch'oggi io m'assumo: sono gli impiegati
della vostra cancelleria in Roma((241)), che arrossivano davanti a
me degli atti del loro governo e plaudivano riconoscenti alle nostre
cure protettrici e alla condotta ammirabile del nostro popolo, ma
paventavano la perdita dell'ufficio. E so d'altri - ma questi son
nostri, - ai quali basterebbe l'animo per protestare, da Roma, e
sfidando le vendette sacerdotali, contro le vostre menzogne: ma la
vostra antiveggente amministrazione ha chiuso ad essi, sopprimendo
ogni giornale, dal vostro infuori, ogni via di pubblicità.
I.
Non era più in Roma sovrano. Il papa s'era fatto disertore a Gaeta.
Una commissione governativa instituita da lui avea ricusato
d'assumer l'ufficio. Due deputazioni, inviate successivamente da
Roma a supplicar Pio IX, perchè tornasse, s'erano vedute respinte. E
condizione siffatta di cose trascinava inevitabili l'anarchia e la
guerra civile. Urgeva un rimedio.
Il 9 febbrajo, a un'ora del mattino, si proclamavano il decadimento
del potere temporale del papa, e conseguenza logica, la repubblica.
Da chi? Dall'Assemblea costituente degli Stati romani. D'onde esciva
la Costituente? Dal voto universale. Ebbe luogo, non dirò terrore,
ma agitazione, influenza illegalmente esercitata nelle elezioni? No;
tutto si fece pacificamente, tranquillamente, senza corruttele e
senza minaccia. La minorità fu considerevole? Su cento
cinquantaquattro membri presenti, undici, per motivi d'opportunità,
si dichiararono avversi alla repubblica, soli cinque al decadimento.
Quanti fra quei ch'oggi voi chiamate sprezzando stranieri, quanti
Italiani nati al di là del confine romano, avevano seggio in
quell'Assemblea? Due forse; Garibaldi e il generale Ferrari; e
Garibaldi era partito per Rieti. Noi, Saliceti, Cernuschi,
Cannonieri, Dall'Ongaro e io, fummo eletti più tardi.
E come accolsero le popolazioni il doppio decreto dell'Assemblea?
Insorse, per tutta quanta l'estensione del territorio romano, un
solo tentativo di resistenza, un solo indizio di parere discorde,
una sola voce che protestasse in favore della potestà decaduta? Non
una. Alcuni carabinieri, collocati sulla frontiera napoletana, si
fecero disertori; forse temevano, a torto, tristi conseguenze degli
imprigionamenti eseguiti sotto Gregorio. Ma fu fatto isolato. Città,
campagne, salutarono con gioja sentita l'èra repubblicana. I vecchî
municipî, eletti sotto il governo papale, mandarono la loro adesione
come la mandarono più dopo i nuovi eletti per voto universale
l'undici marzo. Rimaneva a Pio IX qualche individuo amico, non uno
al governo del papa.
E dopo la giornata del 30, quando il governo repubblicano, imminente
la quadruplice invasione, e concentrate le truppe in Roma, non
serbava influenza se non morale sulla provincia - fra i terrori
della crisi finanziaria e gli sforzi dei pochi retrogradi -
l'elemento conservatore dello Stato rinnovò spontaneo l'adesione
alla forma repubblicana. Bologna, Ancona, Perugia, Civitavecchia,
Ferrara, Ascoli, Cesena, Fano, Faenza, Forlì, Foligno, Macerata,
Narni, Pesaro, Orvieto, Ravenna, Rieti, Viterbo, Spoleto, Urbino,
Terni, duecento sessantatrè municipî mandarono a Roma indirizzi,
dichiarando in nome dei popoli che l'abolizione del potere temporale
e la repubblica erano condizioni di vita allo Stato.
L'Assemblea costituente, numerosa di 150 membri e se non per
intelletto, per core almeno, parte eletta della nazione, sedeva
permanente, fino al giorno in cui la forza brutale, violando doveri
e promesse di Francia, veniva a discioglierla. Essa dettava o
approvava quanto fu fatto dal 9 febbrajo sino al 2 luglio.
E chi governava in suo nome? furono elementi indigeni o forestieri?
Prima un Comitato esecutivo: due romani, Armellini e Montecchi; un
napoletano, Saliceti; poi, il Triumvirato: proporzione identica di
elementi. Ma inferiormente al potere, quanti applicano e vivificano
il concetto primo, quanti amministrando, sciogliendo le questioni
individuali, operando ad ogni ora, esprimono e modificano il paese,
furono romani. Il presidente del Consiglio sotto il comitato
esecutivo, Muzzarelli; - il ministro di grazia e giustizia,
Lazzarini; - quello degli esteri, Rusconi; - i ministri
dell'interno, Saffi e Mayr; - delle finanze, Guiccioli e Manzoni; -
dei lavori pubblici, Sterbini e Montecchi; - della guerra, Campello
e Calandrelli, appartenevano tutti agli Stati romani. La sicurezza
pubblica fu successivamente affidata a Mariani, Meucci, Meloni,
Galvagni, romani. Un romano, Sturbinetti, tenne la pubblica
istruzione; un romano, la direzione del debito pubblico; - quella
dei lavori statistici, - la presidenza della Corte suprema, - il
segretariato del governo, - la direzione degli ospedali, - la zecca.
A una commissione composta di sette membri, Sturbinetti, Piacentini,
Salvati, Meucci, Allocatelli, Spada, Castellani, romani tutti, fu
commessa la sovraintendenza sulle domande d'impieghi. Non un
preside, non un solo impiegato in provincia, che non fosse suddito
nato dello Stato. In tutta la serie degli impiegati superiori, io
non trovo dal primo all'ultimo giorno della repubblica che due soli
stranieri, Avezzana, ministro di guerra, e Brambilla, membro della
commissione di finanze; e romani erano i due colleghi di
quest'ultimo, Costabili e Valentini.
E l'esercito?
Il piccolo esercito repubblicano, concentrato ai tempi dell'assedio
in Roma contava: il primo reggimento di linea, colonnello de
Pasqualis: - il secondo, colonnello Caucci-Molara; - il terzo,
colonnello Marchetti, romani tutti ufficiali e soldati; - due
reggimenti leggieri, il primo comandato da Masi, lo stesso che il
signor de Corcelles, nel suo dispaccio del 12 giugno, tenta far
credere forestiero; il secondo condotto da Pasi; ed ambi romani. -
la legione romana - i bersaglieri comandati da Mellara, morto per
molte ferite, romani - i pochi reduci romani - il battaglione
Bignami, romano - il reggimento dell'Unione, romano - i carabinieri,
romani - i dragoni, romani - il Genio, romano - l'artiglieria,
romana.
E romani erano non solamente i capi nominati finora, ma i due
Galletti, Bartolucci, i colonnelli Pinna, Amedei, Berti Pichat, il
generale in capo Roselli, i capi dell'intendenza Gaggiotti e
Salvati, i principali impiegati nel ministero dell'armi.
Quali dunque erano gli stranieri?
Garibaldi e la sua legione: 800 uomini.
Arcioni e la sua legione degli emigrati: 300 uomini.
Manara - morto per la libertà - e i suoi bersaglieri lombardi, 500
uomini.
I Polacchi: 200.
La legione straniera: 100 uomini.
Il pugno di prodi che, duce Medici, difese il Vascello.
Otto, forse, uffiziali di stato maggiore.
Duemila uomini al più; no, la cifra fu minore d'assai: il corpo
d'Arcioni racchiudeva un terzo almeno di elementi esciti dalla
provincia romana: - il nucleo di cavalleria appartenente alla
legione Garibaldi et comandato dal bolognese Masina, morto sul
campo, si componeva pressochè tutto d'indigeni: l'infanteria
Garibaldi spettava per metà quasi al paese.
Da 1400 a 1500 uomini; a questo si limita la cifra degli stranieri
accorsi alla difesa di Roma: da 1400 a 1500 uomini sopra un insieme
di 14 000; perchè - giova che l'Italia lo sappia - soli 14 000
uomini, giovine esercito senza esperienza, senza tradizione, sorto
per così dire di mezzo alla pugna, tennero fronte per due mesi a 30
000 soldati di Francia.
Tutto ciò v'era noto; poteva almeno, dunque doveva esservi noto, o
signori; e nondimeno voi gittaste sfrontatamente all'Assemblea la
cifra di 20 000 stranieri siccome prova che quello da voi soffocato
per poco nel sangue non era il pensiero di Roma; e su quella parola,
su quella cifra inventata, s'aggomitola metà della vostra
argomentazione! Stranieri! Io chiedo perdono alla mia patria
d'avere, insistendo sull'orme vostre, innestato in queste pagine
l'esosa parola. Come? Stranieri in Roma i Lombardi, i Toscani, i
nati d'Italia! E l'accusa move da voi, da voi Francesi, da voi che a
risollevare il vecchio trono papale, v'appoggiate sulle bajonette
austriache e spagnuole!
La gioventù di tutte le nostre provincie mandava, un anno addietro,
i suoi migliori, come a convegno d'onore, sui campi lombardi; ma io
non ricordo che Radetzky li chiamasse mai, nei suoi proclami,
stranieri. La negazione assoluta della nazionalità italiana era
serbata al governo del nipote dell'uomo che proferiva a Sant'Elena
quelle parole: per unità di letteratura, di costumi, di lingua,
l'Italia è destinata a formare una sola nazione.
II.
L'accusa di violenza, di terrore eretto in sistema, gittata contro
il governo repubblicano, è accusa oggimai smentita solennemente dai
fatti della difesa. Non si comanda col terrore l'entusiasmo a tutto
un popolo armato((242)); e voi siete, signori, nel bivio di
calunniare il valore dell'armi francesi o di confutarvi da per voi
stessi - di dichiarare che pochi faziosi, costretti a comprimere una
popolazione di 160 000 anime, valsero per due mesi a combattere, a
vincer sovente l'esercito vostro, o di confessare, a salvarvi dalla
taccia d'imbecillità e codardia, che governo, popolo, guardia
nazionale ed esercito, erano in Roma affratellati in un solo
pensiero di libertà e di guerra ai nemici della repubblica. Pur
giova parlarne, tanto almeno che voi non possiate ripetere la stolta
accusa senza ch'altri possa dirvi: la vostra menzogna è premeditata.
Lasciate da banda l'assassinio tante volte ipocritamente citato di
Rossi. La repubblica decretata il 9 febbrajo 1849 non deve scolparsi
d'un fatto accaduto il 16 novembre 1848, quando la parte
principesca, la parte dei moderati settatori di Carlo Alberto,
teneva il campo e cacciava o condannava ad assoluto silenzio gli
uomini di fede repubblicana; nè alcuno in Italia accusa le vostre
rivoluzioni di procedere dall'assassinio perchè il duca di Berry
cadea di pugnale e cinque o sei tentativi di regicidio si
succedevano nel volger di due anni in Parigi. Attenetevi ai fatti
generali che contrassegnano in ogni tempo e in ogni luogo i sistemi
che s'appoggiano sulla violenza. Potete, signori, citare, pei cinque
mesi a un dipresso di governo repubblicano, una sola condanna a
morte per cagione politica? un solo esilio intimato per sospetto
politico? un solo tribunale eccezionale instituito in Roma per
giudicare colpe politiche? un solo giornale sospeso per ordine
governativo? un solo decreto diretto a vincolare la libertà della
stampa anteriore all'assedio? Citate. Citate le leggi ordinatrici
del terrore: citate i bandi feroci; citate le vittime - o
rassegnatevi al marchio dei mentitori.
«La bandiera repubblicana inalzata in Roma dai deputati del popolo»
- noi dicevamo in una delle nostre dichiarazioni - «non rappresenta
il trionfo d'una frazione di cittadini sopra un'altra: rappresenta
un trionfo comune, una vittoria riportata da molti, consentita dalla
immensa maggiorità del principio del bene su quello del male, del
diritto comune sull'arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che
Dio decretava a tutte l'anime sul privilegio e sul dispotismo. Noi
non possiamo essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori
dei poteri rovesciati... Noi non siamo governo d'un partito, ma
governo della nazione... Nè intolleranza, nè debolezza. La
repubblica è conciliatrice ed energica. Il governo della repubblica
è forte; quindi non teme.» In queste linee stava il programma
repubblicano; nè fu mai violato, siccome i vostri, o ministri di
Francia, dagli uomini che amministrarono tra noi la repubblica.
Ed eravamo forti: forti dell'amore dei buoni - e i tristi fra noi
son pochissimi - forti del consenso dei cittadini ben altrimenti che
voi non siete, signori. Noi non avevamo per mantenerci bisogno di
porre lo stato d'assedio alla capitale: di sciogliere guardie
nazionali; di riempir le prigioni; di cacciarvi, misti agli altri, i
rappresentanti del popolo; di condannare a deportazione centinaja
d'uomini di lavoro; di ricingerci, a comprimer gli altri, di cannoni
e soldati. La nostra capitale era lieta, festosa sotto il peso dei
sacrifici che ogni mutamento di stato impone, tranquilla, serena,
quando la presenza del vostro esercito sotto le mura provocava alle
audacie i malcontenti, se malcontenti fossero mai stati in Roma. La
nostra guardia nazionale dava oltre a 7000 uomini al servizio attivo
per entro la città e sulle mura. Le nostre prigioni erano pressochè
vuote d'accusati politici: due o tre individui fondatamente sospetti
di contatto col vostro campo: due o tre cardinali côlti in delitto
flagrante di cospirazione, e un ufficiale, Zamboni, reo di
diserzione, stavano soli sotto processo quando il signor de
Corcelles si recò a visitar le prigioni; i cinque o sei detenuti,
Freddi, Alai, e siffatti, da lui trovati in Castel Sant'Angiolo,
v'erano per ordine di Pio IX e per trame contro il suo governo. Gli
uomini più avversi alla repubblica, un Mamiani, un Pantaleoni,
passeggiavano liberi le vie di Roma: al popolo, che ne sospettava,
noi ricordavamo che la repubblica, migliore del principato, teneva
inviolabili le opinioni quando non si traducevano in fatti
pericolosi; e il popolo, generoso per indole e per coscienza di
forza, intendeva e rispettava; nè cominciarono per taluno fra quegli
uomini i pericoli se non quando noi non potevamo più interporre la
nostra parola e lo spettacolo della vostra forza brutale irritava a
riazione la moltitudine. Parecchî fra i nostri cannoni rimasero
sovente, per impossibilità di custodia a tutto quanto il cerchio
della città, accessibili a ogni uomo senza un solo soldato che li
guardasse. E fu tal giorno - il 16 maggio quando le nostre truppe
mossero alla volta di Velletri contro l'esercito del re di Napoli -
in cui dalle cinque fino alla mezzanotte la città rimase sprovveduta
d'ogni milizia e affidata al popolo unicamente. La truppe francesi
erano a poca distanza dalle nostre mura. Noi facemmo ritrarre dalle
porte del palazzo le poche guardie, richieste altrove. L'amore del
popolo ci custodiva. E nè allora nè mai - tra i disagi d'una crisi
finanziaria inevitabile, in mezzo a privazioni materiali
inseparabili dal semi-blocco che le vostre forze ci stendevano
intorno, sotto le vostre bombe come sotto l'influenza di corruttela
che i vostri agenti e quei di Gaeta s'affaccendavano a esercitare -
non un tentativo d'insurrezione fu operato da quei che il signor
Drouyn de Lhuys chiama sfrontatamente gli onesti, non una voce di
popolano sorse a dirci: scendete. Fazione! Terrore! Ah! se l'anima
vostra, ministri di Francia, serbasse un'ombra pur di pudore, voi,
guardandovi attorno o pensando alle paure e alle violenze tra le
quali vi reggete in Parigi, avreste fuggito studiosamente quelle
parole per temenza ch'altri vi leggesse la vostra condanna.
E se l'Assemblea davanti alla quale parlaste non fosse
irreparabilmente guasta e inaccessibile ad ogni amore di verità - se
invece di trascinarsi servilmente sull'orme del potere qual ch'ei si
sia, i membri che sostengono col voto la vostra politica esterna,
avessero, e sia pure avverso al nostro, un sistema nella mente, un
concetto di credenza nel core - cento voci si sarebbero levate a
tumulto in udirvi e v'avrebbero gridato: «Tacete. Non disonorate le
nostre tendenze coll'aperta menzogna. Che! il vostro primo decreto
in Roma instituisce pei fatti politici tribunali militari, scioglie
circoli, governo, assemblea - il 5 luglio vietate ogni anche
pacifico assembramento, intimate castighi esemplari, a proteggere le
persone aventi relazioni amichevoli colle vostre truppe - il 6,
sciogliete la guardia civica - il 7, ordinate il disarmamento totale
dei cittadini - il 14, sopprimete tutti i giornali - il 18,
fulminate minaccie contro ogni radunanza d'oltre a cinque persone; -
tutti i vostri atti in mezzo a una popolazione che ci affermate
favorevole a voi, e che ci vengono officialmente nel vostro
giornale, son quelli appunto che noi, sulla vostra parola, credevamo
ordinatori di terrore in Roma sotto il governo repubblicano e dei
quali or non troviamo vestigio nella collezione de' suoi decreti; e
voi persistete imprudentemente a gittargli contro un'accusa che
ricade su voi, e a vantarvi restauratori della libertà nella pace e
nell'ordine!»
E quei fatti durano tuttavia; durano dopo due mesi dal vostro
trionfo. E le prigioni sono piene zeppe di uomini, i più, rei non
d'altro che d'avere obbedito a chi reggeva, segnati dal dito
d'alcune spie alle vendette sacerdotali. Oltre a cinquanta preti
stanno in Castel Sant'Angiolo, colpevoli d'avere prestato i loro
servigi alle ambulanze repubblicane. In Roma, condanne feroci,
condanne di lavori forzosi a vita, feriscono vilmente ufficiali
subalterni di pubblica sicurezza((243)). In Terni, in Bologna, in
Ancona, in Rimini, si fucilano giovani, perchè detentori di un'arme.
Non è forse oggi, nello stato romano, una famiglia su cinque che non
conti uno dei suoi membri fuggiasco o prigione. Gli uomini della
parte che intitolavasi moderata, gli uomini ai quali voi affermate
d'esservi diretti ponendo piede in Roma, sono, per opera vostra, in
esilio. Esuli sono Mamiani, Galeotti, il padre Ventura. Il vostro è
lavoro di distruzione: lavoro eguale a quello che la monarchia
compiva in Ispagna nel 1823. Aveste almeno il coraggio brutale della
monarchia! Ma, mandatarî infedeli d'una idea che non è la vostra,
avversi nel segreto alla bandiera nel nome della quale pubblicamente
giurate, cospiratori anzichè ministri, voi siete condannati a
ravvolgervi ipocritamente, premeditatamente, nella menzogna.
III.
Menzogna nelle asserzioni fondamentali; menzogna nei particolari;
menzogna in voi, menzogna nei vostri agenti; menzogna, arrossisco in
dirlo per la Francia che avete cacciata sì in fondo, negli ultimi a
smarrire la tradizione dell'onore, nei capi del vostro esercito.
Avete vinto colla menzogna, e tentate giustificarvi colla menzogna.
Mentiva il generale Oudinot, quando egli, per illudere le
popolazioni e spianarsi, trafficando sul nostro amore per la
Francia, la via di Roma, serbava fino al 15 luglio intrecciate in
Civitavecchia la bandiera francese e la nostra bandiera tricolore
ch'ei sapeva di dover rovesciare. Mentiva impudentemente affermando
in un suo proclama che la maggior parte dell'esercito romano s'era
affratellato col francese, quando tutto lo stato maggiore diede,
protestando, la sua dimissione, quando soli 800 uomini - oggi
anch'essi disciolti - accettarono le condizioni di servizio
proposte. Mentiva vilmente quando, dopo avere solennemente promesso
in iscritto di non assalire la città prima del lunedì((244)) 4
giugno, assalì nella notte dal sabato alla domenica. Mentiva a noi,
trascinato da una debolezza colpevole, pur temperata dalla speranza
di porre rimedio al male, l'inviato Lesseps, quand'egli ci
rassicurava con promesse continue d'accordo e ci scongiurava a non
attribuire importanza alle mosse francesi dettate, com'ei diceva,
unicamente dal bisogno di porgere sfogo alla insofferenza di riposo
nella soldatesca - e intanto, i vostri si prevalevano bassamente
della nostra buona fede a studiare non molestati il terreno, a
collocarsi, a fortificarsi, a occupare improvvisamente, pendente un
armistizio, il punto strategico di Monte Mario. Mentiva il signor de
Corcelles quando, contro la dichiarazione del municipio romano,
quella dei consoli esteri e la testimonianza di tutta una città,
affermava che Roma non era stata bombardata mai: le bombe piovvero,
per molte notti e segnatamente dal 23 al 24 e dal 29 al 30,
frequentissime e dannosissime, sul Corso, a piazza di Spagna, al
Babbuino, sul palazzo Colonna, sullo spedale di Santo Spirito, su
quello dei Pellegrini, per ogni dove. Mentite voi, signor
Tocqueville, quando, fidando nell'ignoranza della vostra maggiorità,
millantaste fatto unico nella storia la scelta del punto verso porta
San Pancrazio per assalire la città quasi a maggior salvezza della
popolazione e delle abitazioni. Roma, che presenta a porta San Paolo
e a porta San Giovanni un'aperta campagna, vede appunto a porta San
Pancrazio accumularsi popolo e case; porta San Pancrazio fu scelta
perchè si mantenessero con rischio minore le comunicazioni con
Civitavecchia, e perchè, mentre dagli altri punti era forza scendere
a una temuta battaglia di popolo e di barricate, da quella di San
Pancrazio il Gianicolo, signoreggiando Roma, offriva il destro di
vincerla con guerra, non d'uomini, ma di bombe e cannoni. Mentiste
tutti, o signori, da colui ch'è primo tra voi sino all'ultimo de'
vostri agenti, a noi, all'Assemblea, alla Francia e all'Europa,
quando deste ripetutamente, dal primo giorno della nefanda impresa
sino a jeri, promesse di protezione, di fratellanza, di libertà che
avevate fermo in animo di tradire.
IV.
Stretti in concerto con Gaeta, colla Spagna e coll'Austriaco,
deliberati di rovesciare ogni segno di libertà repubblicana in Roma,
e dopo avere lungamente cospirato tanto da illudervi a credere che
la riazione retrograda avrebbe tra noi secondato le vostre mire, voi
mendicaste i sussidî all'Assemblea, ingannandola - e risulta
irrepugnabilmente dalle discussioni posteriori - sull'intento della
spedizione. E ingannaste la commissione incaricata d'interrogarvi, i
soldati ai quali persuadeste in Tolone che li guidavate a battersi
contro gli Austriaci; gli abitanti di Civitavecchia fra i quali
scendeste, come ladro mascherato, con due proclami, uno dei quali
distruggeva l'altro; poi, quando la giornata del 30 commosse gli
animi a sdegno, di bel nuovo l'Assemblea, mandando Lesseps a
eseguire il decreto del 7 e scrivendo lo stesso giorno al generale
Oudinot che tenesse fermo e avrebbe rinforzi; poi il vostro inviato
medesimo, dandogli istruzioni che lo autorizzavano a fare secondo il
concetto dell'Assemblea e ingiungendogli nondimeno di mantenersi in
accordo con Rayneval che aveva istruzioni direttamente contrarie;
poi noi; poi tutti - oggi forse ingannate il Papa, al quale
prometteste ridare, senza condizioni, l'autorità e che ora, non
sapendo come farvi perdonare dalla Francia d'averla disonorata,
vorreste ridurre a proconsole costituzionale dipendente dalla vostra
politica. Pur nondimeno non avete saputo architettare così bene le
vostre menzogne che non esca dalle vostre stesse parole diritto
perenne in noi di rivolta e condanna assoluta di nullità per quanto
avete operato, per quanto opererete, senza consultar legalmente la
volontà del popolo da voi manomesso.
Il preambolo della vostra Costituzione, nell'art. 5, vi grida: La
Francia rispetta le nazionalità straniere.... Essa non impiega mai
le sue forze contro la libertà d'alcun popolo. E strozzati da
quell'articolo che vorreste, ma non osate ancor lacerare, mancanti a
un tempo di coscienza della virtù e dell'energia della colpa, avete
balbettato parole che l'Europa ha raccolto e ch'oggi sono tortura
all'anima vostra.
Odillon Barrot, l'uomo che aveva, il 31 gennajo 1848, affermato il
diritto assoluto d'ogni Stato italiano alla libertà e
all'indipendenza((245)) - dichiarava alla commissione dell'assemblea
che il pensiero del governo non era di far concorrere la Francia
alla distruzione della repubblica in Roma... e ch'esso opererebbe
libero d'ogni solidarietà con altre potenze. E quando il relatore
della commissione riferiva il 16 aprile all'Assemblea queste
dichiarazioni, il presidente del Consiglio diceva: Io non rinnego
una sola delle parole da me pronunziate davanti alla commissione e
riferite a quest'Assemblea. E insisteva: Noi non andremo in Italia
per imporre un governo, nè quello della repubblica, nè altro... Noi
non vogliamo usare delle forze della Francia per difendere in Roma
una o altra forma di governo: no! L'intento nostro è quello d'essere
presenti agli eventi che possono compiersi nel doppio interesse
della nostra influenza e della libertà che può correre rischio.
La dichiarazione del corpo d'occupazione francese al preside di
Civitavecchia, in data del 24 aprile, affermava che il governo
francese rispetterebbe il voto della maggiorità delle popolazioni
romane... e non imporrebbe mai ad esse forma alcuna di governo.
Il 26, il generale Oudinot ripeteva che lo scopo dei Francesi non
era quello d'esercitare una influenza opprimente nè d'imporre ai
Romani un governo contrario al loro voto.
Il 7 maggio, il presidente del Consiglio dichiarava all'Assemblea
che quei proclami, lavoro del ministro degli esteri, racchiudevano
tutto quanto il concetto della spedizione.
Noi non dovevamo marciar su Roma - diceva il relatore della
commissione - che per proteggerla contro un intervento straniero e
contro gli eccessi d'una controrivoluzione.... come protettori - e
citava l'espressione usata dal presidente del Consiglio in seno alla
commissione - o com'arbitri richiesti.
L'Assemblea non voleva - ripeteva lo stesso giorno Odillon Barrot -
che sotto la pressione diretta dell'Austria l'influenza
contro-rivoluzionaria conquistasse Roma.
E il ministro degli esteri confermava: lo scopo della spedizione -
ei diceva - era quello d'assicurare alle popolazioni romane le
condizioni d'un buon governo, d'una buona libertà, condizioni che
sarebbero state compromesse dalla riazione o dall'intervento
straniero. E negava che si fosse dato ordine al generale Oudinot
d'assalire la repubblica romana; negava che il generale avesse
intimato al governo romano d'abbandonare il potere.
Allora interveniva il voto solenne dell'Assemblea: l'Assemblea
nazionale invita il governo a far senza indugio gli atti necessari
perchè la spedizione d'italia non sia più oltre sviata dallo scopo
assegnatole.
E d'allora in poi, ministri di Francia, ad ogni istante, attraverso
i passi che movevate verso il vostro intento segreto - nelle parole
da voi prescritte al vostro inviato, la cui scelta doveva essere
all'Assemblea prova delle vostre liberali intenzioni - in tutte le
conferenze con noi tenute dai vostri agenti - nei progetti
d'accordo((246)) architettati fra il signor Lesseps o il generale
Oudinot, il 16 e il 18 maggio - nel linguaggio del signor de
Corcelles: La Francia non ha che uno scopo; la libertà del
pontefice, la libertà degli Stati romani e la pace del mondo
(lettera del 13 giugno) - sempre il vostro governo, esplicitamente o
implicitamente, accennò, come a sorgente d'ogni diritto, alla
volontà delle nostre popolazioni e promise il libero voto.
A voi solo, signor Falloux, spetta il tristissimo onore d'aver
primo, nel vostro discorso del 7 agosto, dichiarato all'Europa che
la Francia avea fino a quel giorno mentito. La vittima era allora
stesa a terra e col pugnale alla gola.
Pur le vostre tarde dichiarazioni del vero intento della spedizione,
non cancellano, signori, le ripetute promesse del vostro governo. Il
popolo di Roma ha diritto di gridarvi: Attenetelo! E noi che
vi conosciamo d'antico, noi consapevoli dei vostri disegni e della
necessità che si chiariscano interi perchè i buoni tuttora illusi
v'abbandonino e cerchino salute altrove, abbiamo debito di gridarvi
e vi grideremo, checchè facciate, ogni giorno: «Attenetele! quale
pretesto può rimanervi a non attenerle? Roma è libera in oggi d'ogni
straniero, d'ogni fazioso. Gli uni son morti sotto le palle delle
vostre carabine di Vincennes, sul campo: gli altri errano
nell'esilio. Gli onesti sono riconfortati, riordinati: essi sanno
che tutti i gabinetti, anche il gabinetto repubblicano di Francia,
sono pronti a operare in loro difesa, e il popolo sa quanti pericoli
importi nell'avvenire l'espressione del suo intimo voto. Osate or
dunque, rifate la prova. Date al popolo il suo libero voto.
Ritraetevi: fate che l'armi dei vostri alleati, compita in provincia
la missione assegnatavi nella capitale, si ritraggano anch'esse; e
chiamate per mezzo d'un governo provvisorio, i cittadini a
dichiarare l'animo intorno al potere temporale del papa e alle
instituzioni che devono reggere la nazione. Noi lontani, profughi
per opera vostra, accettiamo l'esperimento. Accettatelo voi pure -
o, anche una volta, rassegnatevi al marchio dei mentitori.»
V.
Voi nol farete; non potete farlo: voi sapete che dall'esperimento
escirebbe oggi ancora la vostra condanna, e la rovina de' vostri
disegni. Tendenti a rovesciare la repubblica in Francia e vogliosi
d'educare i vostri soldati a far fuoco sulla sua bandiera, voi non
potete sottomettervi al rischio di vederla, per voto di popolo,
rialzata fra noi. Deboli sino alla viltà nella vostra diplomazia e
nondimeno trafitti di vergogna per la parte che recitate in Europa e
inquieti sull'opinione dei vostri concittadini, voi credeste
conciliare paura, intento e apparenza di forza, cacciandovi, a far
prova di azione, sopra una piccola nascente repubblica, ed oggi
v'illudete a credere che alcuni ordini del giorno datati da Roma
accarezzino l'orgoglio e le tendenze guerresche del vostro popolo.
Il vostro presidente abbisogna dei voti della parte cattolica; e voi
tutti avete, pei vostri concetti, bisogno che il principio
dall'autorità per arbitrio di privilegio possa, quando che sia,
richiamarsi all'esempio d'una instituzione religiosa. Però
rimarrete. Rimarrete quanto potrete, sapendo che la forza straniera
può sola impedire una seconda rivoluzione. Rimarrete esosi agli uni
ed agli altri, trascinandovi di raggiro in raggiro, di protocollo in
protocollo, impotenti a reprimere la riazione pretesca da un lato o
il malcontento popolare dall'altro, peggiorando, non modificando la
situazione, intricando più sempre la questione diplomatica,
lasciando nei termini ove si sta la politica e suscitando la
religiosa. L'Europa saprà che voi siete non solamente tristi ma
inetti, e che avete trascinato il bel nome di Francia e l'onore
dell'armi vostre nel fango per fallire a un tempo al vostro
programma pubblico ed al segreto, per procacciarvi le maledizioni
dei popoli senza ottenere riconciliazione e fiducia dai loro
oppressori.
Perchè il nome e l'onore di Francia sono nel fango; non solamente
per l'iniquo fatto, ma pel modo del fatto; non solamente per la
violazione sfacciata del programma di non intervento e
d'indipendenza internazionale scritto sulla bandiera della nazione e
ripetuto da tutti i ministri del suo governo - non solamente per la
codarda oppressione esercitata dall'armi francesi unite colle
napoletane, colle austriache, colle spagnuole, a danno d'uno Stato,
pressochè inerme, di popolazione grandemente inferiore al più
piccolo dei quattro Stati invadenti - non solamente per tutte le
promesse di libertà, di pace, d'ordine, ad una ad una tradite - ma
pei menomi particolari dell'impresa. Io non so d'alcun periodo nella
storia moderna, tranne forse quello dello smembramento della
Polonia, nel quale in così breve tempo si siano accumulate tante
turpezze sul nome d'una nazione che mormora la parola di libertà.
Come se la coscienza della colpa facesse smarrire a chi la commette
ogni senso di dignità e la corruttela dei promotori si trasfondesse
fatalmente negli inferiori, l'immoralità ha contrassegnato quasi
ogni atto dal primo giorno dell'occupazione fino al giorno in cui
scrivo. E mentre un ministro scendeva sì basso da inserire nella
copia((247)) delle istruzioni date al signor Lesseps, comunicata
recentemente al consiglio di Stato, un'espressione che ne muta il
senso, io vedeva e ordinava s'imprigionassero due uffiziali venuti
in qualità di parlamentari e i quali, abusando della nostra generosa
fiducia, staccavano i piani dei nostri lavori nella città; mentre il
generale Oudinot disarmava e costituiva prigionieri in
Civitavecchia, senza che alcuna ostilità avesse avuto luogo e quando
le due bandiere stavano congiunte per opera dei Francesi sull'albero
della libertà, i cacciatori Mellara, un uffiziale superiore francese
s'avviliva più tardi a strappare colle proprie mani, nella chiesa e
in mezzo alle esequie, la coccarda italiana di sul petto al cadavere
del loro colonnello. Ah! noi potremmo perdonarvi, ministri di
Francia, il male incalcolabile che non provocati ci avete fatto, i
nostri dolori, i nostri fratelli caduti o dispersi, l'indugio stesso
recato alla nostra futura emancipazione: ma una cosa non potremo mai
perdonarvi: l'avere per lunghi anni disonorato il nome della
nazione, alla quale tutti noi guardavamo come alla nazione
emancipatrice: l'avere colla menzogna, col materialismo delle
promozioni e coll'esempio dei capi corrotto i soldati di Francia a
farsi carnefici dei loro fratelli in nome del papa ch'essi
disprezzano e a fianco dell'Austria che aborrono; l'avere ridotto
per essi a simbolo senza significato, a idolo materiale da seguirsi
ciecamente dovunque conduca, una bandiera che porta i segni
d'un'idea, d'una fede; l'aver seminato l'odio lento e difficile a
spegnersi tra due popoli che ogni cosa spingeva ad amarsi, tra i
figli di padri ch'ebbero insieme su tutti i campi d'Europa il
sacramento della gloria e dei patimenti; l'aver dato una mentita
brutale al santo presentimento della fratellanza dei popoli e dato
ai nemici del progresso e dell'umanità la gioja feroce di veder la
Francia, scesa alla parte di sgherro esecutore dei loro concetti,
ferire la nazionalità italiana di fronte e l'Ungheria a tergo per
beneplacito dell'Austria e dello Tsar.
VI.
Uomini senza core e senza credenza, ultimi allievi d'una scuola che
incominciando dal predicare l'atea dottrina dell'arte per l'arte ha
conchiuso nella formula del potere pel potere, voi avete da molto
smarrito ogni intelletto di storia, ogni presentimento
dell'avvenire. La vostra mente è immiserita dall'egoismo e dal
terrore d'un moto europeo che nessuna potenza umana può arrestare,
che consentito e diretto potea svolgersi pacificamente e che la
vostra colpevole resistenza muterà forse pur troppo in elemento di
guerra tremenda. Voi eravate oggimai incapaci d'intender coll'anima
la grandezza del risorgimento italiano albeggiante da Roma, dalla
Roma del Popolo. Ma quali erano le vostre speranze quando decretaste
la guerra fraterna? Spegnere, ferendola al core, la rivoluzione
nazionale? E non dovevate avvedervi che ogni resistenza opposta
all'armi vostre da Roma, e il solo fatto del vostro movervi a lega
con tre governi per comprimerne i moti, avrebbero dato consecrazione
incancellabile al dogma della nostra unità e fatto religione di
quella parola Roma a tutta quanta l'Italia? Rifare un trono al papa?
Al papa colle bajonette? Al papa un trono costituzionale? Ogni trono
può rifarsi per un tempo colle bajonette, non quello del capo dei
credenti. E la più semplice logica v'insegnava che il papa non può
essere se non monarca assoluto. Due mesi dal giorno in cui scrivo
v'insegneranno che avete, in tutti i sensi, fallito all'intento.
Voi volevate, lo dite almeno, impedire che rinascessero negli Stati
romani gli antichi abusi; e gli antichi abusi rinasceranno
inevitabili l'un dopo l'altro, tanto più fieri quanto più cancellati
per cinque mesi dal governo repubblicano e minacciati nell'avvenire.
Voi non potete mutare le abitudini, le tendenze, i bisogni
all'aristocrazia del clero; non potete cancellare l'aborrimento che
il popolo nutre per essa; e non potete appoggiarvi sopra una parte
moderata, intermedia, che in Roma non esiste. Potrete dettare
provvedimenti; ma l'inesecuzione delle leggi fu sempre, è, e sarà la
piaga mortale negli Stati romani. E questa inesecuzione, dipendente
dalla natura degli elementi che costituiscono il potere escludente
la severa responsabilità, crescerà di tanto quanto più per opera
vostra all'agitazione legale e pubblica si sostituirà di bel nuovo
la guerra extra-legale delle associazioni segrete, e Dio nol voglia
- alla condanna delle leggi il pugnale del popolano irritato e
disperato di giusta difesa. La miseria, la fatale rovina delle
finanze e l'anarchia, inseparabile dal disprezzo in che si tengono i
reggitori, aspreggieranno la contesa fra i diversi elementi che
compongon lo Stato. Intanto avete il vecchio governo ripristinato
senza condizioni; le commissioni per ispiare, retroagendo, i fatti
politici; e gli uomini, non di Pio IX, ma di papa Gregorio, padroni
in Roma e nella provincia.
Voi volevate mantenere, accrescere l'influenza francese in Italia; e
l'avete perduta: perduta coi popoli, ai quali avete iniquamente e
ingratamente rapito libertà e indipendenza: perduta cogli oppressori
dei popoli per ciò appunto che li avete liberati, scendendo ad
allearvi con essi, dai timori che inspiravate: perduta coi satelliti
del papato, perchè la condizione vostra in faccia alla Francia vi
costringe a nojarli con suggerimenti di concessioni, ch'essi non
ammettono nè possono ammettere senza scavarsi, rinnegando il
principio che li sostiene, la sepoltura. L'influenza vostra in
Italia consisteva nelle speranze che i popoli s'ostinavano a nudrire
sul conto vostro e nella spada di Damocle che tenevate sospesa sul
capo dei principi. Or siete sprezzati dagli uni, e aborriti come
ingannatori perpetui dagli altri. Il nome francese è segno di
scherno da un punto all'altro d'Italia e lo sarà finchè fatti
decisivi, innegabili, non dicano al mondo che la Francia è ridesta
alla coscienza della propria missione.
Voi volevate da ultimo riedificare trono e ridar lustro al papato: e
io vi dirò a che riescite. Voi avete suscitato la questione
religiosa e dato l'ultimo colpo a una instituzione cadente. Voi
avete voluto salvare il re e avete ucciso il papa, struggendone il
prestigio morale coll'ajuto dell'armi, avvilendolo davanti
all'Italia, sola arbitra vera della questione religiosa,
coll'appoggio straniero, e cacciando fra lui e le moltitudini un
torrente di sangue. Il papato affoga in quel sangue. Unico modo a
salvarlo per un tempo ancora, unico modo per sottrarlo alla
pressione straniera che gli è rovina, era quello di strapparlo dalla
sfera delle influenze politiche alla più pura e indipendente
dell'anime. Voi avete or chiusa per sempre quell'ultima via di
salute. Il papato è spento; Roma e l'Italia non perdoneranno mai al
papa l'avere, come nel medio evo, invocato le bajonette straniere a
trafiggere petti italiani.
Voi cominciate, signori, a intendere queste cose in oggi. Il vostro
gabinetto cela segreti di sconforto, d'illusioni sfumate, di
politica oscillante fra Parigi e Gaeta, che un prossimo avvenire
rivelerà. Voi sentite le vendette di Roma.
La repubblica romana è caduta; ma il suo diritto vive immortale,
fantasma che sorgerà sovente a turbarvi i sogni. E sarà nostra cura
evocarlo. La questione politica è intatta. L'Assemblea costituente
romana, dichiarando ch'essa intendeva cedere unicamente alla forza,
senza accordi e transazioni colpevoli, vi rapiva ogni base d'azione
legale. Noi non abbiamo capitolato. Il diritto di Roma esiste
potente come al giorno in cui fu decretata la forma repubblicana. La
disfatta non ha potuto mutarlo. Il voto delle popolazioni legalmente
e liberamente espresso rimane condizione di vita normale, alla quale
nessuno può omai più sottrarsi.
Voi non osaste negare quel diritto, mendicaste solamente pretesti ad
attenuarne o renderne dubbia l'espressione nel passato. E la
disfatta di quella che voi chiamate, imposturando, fazione,
rimovendo, anche nell'opinione di quei che vi prestano fede, ogni
ostacolo alla libertà delle popolazioni, ha reso il diritto del voto
più sacro e più urgente.
Per noi, per quelli che con noi sentono, il diritto di Roma ha ben
altre radici e ben altre speranze che non le locali. Le radici del
diritto di Roma abbracciano nelle loro diramazioni tutta quanta
l'Italia: le speranze di Roma sono le speranze della nazione
italiana, che nè il vostro nè l'altrui divieto può far sì che non
sorga.
Dio decretava quel sorgere dal giorno in cui, superate ad una ad una
tutte le delusioni monarchiche, espiati col martirio gli errori di
leghe e federazioni che una bastarda dottrina cercava impiantare fra
noi, l'istinto italiano inalzò sull'antico Campidoglio la bandiera
unificatrice, e dichiarò che Dio e il Popolo sarebbero soli padroni
in Italia!
Roma è il centro, il core d'Italia, il palladio della missione
italiana.
E la città che cova forse tra le sue mura il segreto della vita
religiosa avvenire, può sostenere pazientemente il breve indugio che
l'armi vostre hanno inaspettatamente frapposto allo svolgersi de'
suoi fati.
VII.
Voi siete ministri di Francia, signori: io non sono che un esule.
Voi avete potenza, oro, eserciti e moltitudini d'uomini pendenti dal
vostro cenno; io non ho conforti se non in pochi affetti, e in
quest'alito d'aura che mi parla di patria dall'Alpi e che voi forse,
inesorabili nella persecuzione come chi teme, v'adoprerete a
rapirmi. Pur non vorrei mutar la mia sorte con voi. Io porto con me
nell'esilio la calma serena d'una pura coscienza. Posso levare
tranquillo il mio occhio sull'altrui volto senza temenza d'incontrar
chi mi dica Tu hai deliberatamente mentito. Ho combattuto e
combatterò senza posa e senza paura dovunque io mi sia, i tristi
oppressori della mia patria: la menzogna, qualunque sembianza essa
vesta; e i poteri che, come il vostro, s'appoggiano a mantenere o
ricreare il regno del privilegio, sulla corruttela, sulla forza
cieca e sulla negazione del progresso nei popoli: ma ho combattuto
con armi leali; nè mai mi sono trascinato nel fango della calunnia,
o avvilito ad avventare la parola assassino contro chi m'era ignoto
ed era forse migliore di me.
Dio salvi a voi, signori, il morir nell'esilio; perchè voi non
avreste a confortarvi coscienza siffatta.
Settembre 1849.
ROMA
E IL GOVERNO DI FRANCIA
La questione di Roma è stata nuovamente oggetto di lunga discussione
nell'Assemblea francese. Per tre sedute, la parte ch'oggi tiene il
potere ha esaurito quanto ha d'ingegno, di sofismi e d'ipocrisia per
giustificare la nefanda impresa e scolparsi davanti alla Francia e
all'Europa. Per tre sedute, gli uomini che stanno al governo o
tendono ad occuparlo - i dottrinarî e i legittimisti - hanno
tentato, come la moglie di Macbeth, ogni artificio per cancellare
dalle loro mani la macchia di sangue, dalla loro fronte la macchia
di disonore, che la guerra fratricida v'ha posto; e senza riescirvi.
La serva maggiorità lo sentiva, l'irritazione di chi intende il suo
torto e trema d'udire la verità fremeva nelle interruzioni e in ogni
sillaba che veniva dalla diritta. Ogni tattica di pudore fu
dimenticata. S'udirono sdegni contro chi gittava - ed era un
illustre poeta - l'anatema alle ferocie di Radetzky e d'Haynau; un
lungo remore di biasimo accolse chi, parlando di confisca e
d'inquisizione, diceva: è necessario che lo spirito di vita
dell'Evangelio penetri e rompa la lettera morta di tutte queste
instituzioni diventate barbare; e l'oratore del cattolicismo
balbettò parole di scusa agli assassinî, che si consumano
dall'Austria nell'Ungheria, chiamandoli rappresaglie. Le menti erano
travolte come da un insistente rimorso. Lo spettro di Roma, come
quello di Banquo, le funestava. Come Garnier de l'Aube a
Robespierre, gli uomini della sinistra avrebbero potuto gridare ai
falsi repubblicani: Il sangue di Roma v'affoga.
Noi pubblichiamo tradotta letteralmente dal Monitore l'intera
discussione((248)) e lo facciamo per due ragioni: perchè gl'Italiani
v'imparino come, smarrita la fede in un principio e sostituito alla
religione del vero il culto dell'egoismo, si cada in fondo d'ogni
sozzura, e perchè i nostri nemici vedano che, diversi da essi, noi
non temiamo pubblicità d'avverse dottrine. In Roma, quando reggevano
i repubblicani, la stampa era libera: oggi il silenzio assoluto v'è
imposto alla parte nostra. Una circolare del ministro Dufaure vieta
con minaccie severe l'introduzione in Francia dell'Italia del
Popolo, e i suoi doganieri, aggiungendo il furto al divieto
illegale, confiscano copie avviate agli Stati Uniti d'America; noi
diciamo ai nostri: Eccovi le argomentazioni degli uomini che v'hanno
tolto la libertà; leggete e sia maturo il vostro giudizio.
Non so s'io m'illuda; ma credo che per ciò che riguarda coraggio di
verità o schiettezza d'affermazioni, la questione fra noi e gli
uomini del governo francese sia, per gli onesti d'Europa, decisa.
Noi possiamo peccare d'utopia, d'audacia, d'ogni cosa fuorchè di
menzogna o di gesuitismo; e gli uomini che hanno rovesciato la
nostra repubblica hanno tanto cumulo di menzogne, chiarite da tali
prove documentate, sulla loro coscienza, che nessuno oggimai può
esiger da noi nuove confutazioni di vecchie imposture ripetute
sfacciatamente dai ministri o dai loro seguaci nell'ultima
discussione. Le nostre mani, le mani di quei che ressero la
repubblica in Roma, sono pure di colpe e di sangue. La repubblica,
proclamata per libero e universale suffragio dai cittadini,
riconfermata di mezzo ai pericoli dell'invasione da pressochè tutti
i municipî, si mantenne senza terrore di giudizî o di proscrizioni,
tollerante e leale al di dentro come prode e leale coi nemici che
l'assalirono dal di fuori: le proscrizioni non cominciarono se non
col trionfo dell'armi francesi. All'Assemblea francese, al popolo di
Roma furono fatte dal governo di Francia, dai suoi inviati, dai capi
dell'esercito, solenni promesse; e furono tutte tradite. La
condizione di Roma in oggi è pretta tirannide. Son fatti questi
innegabilmente provati dalle dichiarazioni del signor Lesseps, dagli
atti officiali della repubblica, da mille testimonianze onorevoli
italiane e straniere, dalle confessioni strappate di bocca a' nostri
stessi nemici - e conquistati d'ora innanzi alla storia.
Io lascio dunque senza commento al giudizio di chi vorrà leggerlo il
discorso del signor Thuriot de la Rosière, e la lunga serie
d'affermazioni sfrontate colle quali intende a provare che in Roma,
clero, capitalisti, proprietarî di mobili ed immobili, artisti,
stranieri, diplomatici, guardia civica, truppe di linea, tutti
insomma erano schiavi ed avversi al Triumvirato: chi dunque, dal 30
aprile al 2 luglio, difese Roma? Ei sa di storia contemporanea come
d'antica e non merita ch'altri spenda parole a combatterlo. E lascio
le menzogne gittate qua e là nel lungo intralciatissimo discorso del
signor Odillon Barrot sulla parte adempiuta dai Francesi in Roma -
la protettrice clemenza estesa dal governo di Francia ai nemici,
anzi, come afferma il signor Thuriot, a me stesso che scrivo - il
vanto, a fronte di Cernuschi, d'Achilli, dei preti che diedero le
loro cure ai feriti, dell'esule napoletano Caputo, del dottor Ripari
e d'altri infiniti, d'avere posto divieto a qualunque
imprigionamento - le ampliazioni già ottenute dal ministero
all'amnistia pontificia, quando forse due giorni prima ch'ei
pronunziasse il discorso erano cacciati dal territorio romano anche
i cinque che nell'Assemblea votarono contro il decadimento, anche
gli uomini i quali, come il Calderari dei carabinieri, erano nella
milizia più invisi al popolo perchè sospetti di congiure retrograde
- e siffatte. La lista dei decreti pubblicati via via dal giornale
officiale di Roma è risposta che basta a tutte parole possibili
sulla parte sostenuta dalla Francia in Roma; alle falsità che
riguardano la condizione degli spiriti nello Stato risponde il fatto
che, sperperata, imprigionata, esiliata la parte più energica della
popolazione, sciolto l'esercito, disarmato il paese, non s'osa
interrogare il voto dei cittadini, e son necessarî a impedire
l'insurrezione 6000 Spagnuoli, 20 000 Austriaci e 40 000 Francesi.
Dalla discussione tenuta nell'Assemblea emergono irrevocabili
parecchî fatti che giova registrare a insegnamento e a conforto:
Che la spedizione francese contro Roma fu ideata ed eseguita
coll'intento di restaurare senza limitazione alcuna di diritto la
sovranità temporale del papa: è confessione oggi di tutti, da Thiers
a Odillon Barrot;
Che l'intento dei negoziati, o meglio - per dichiarazione esplicita
del signor O. Barrot a nome de' suoi colleghi e del presidente -
delle rispettose timide istanze del governo francese, è quello
d'ottenere dal papa concessione d'una consulta che voti l'imposta,
consulta nominata dai consigli municipali e risultante dal principio
elettivo al terzo grado;
Che la lettera del presidente è nulla, capriccio d'inetto o, come
direbbe il signor Barrot, codarda millanteria;
Che, quantunque - sono parole del signor Barrot - la separazione dei
due poteri, temporale e spirituale, sia per tutta Europa necessaria
alla libertà di coscienza, alla vera e durevole libertà, non può nè
deve ammettersi per Roma, e che tre milioni d'uomini italiani sono
condannati a starsi eccezione di servitù e negazione di progresso
fra le nazioni;
Che il cattolicismo, per bocca del suo oratore, capo della setta in
Francia, ritiene irreconciliabile il papato e la libertà, e non può
accettare restrizione alcuna di consulta e voto d'imposta
all'autorità del governo pretesco;
Che la politica del governo francese non posa oggimai più su
principio alcuno desunto dalla morale e non merita quindi più fede
da popoli o da governi.
E per questo io dissi a insegnamento e a conforto: a insegnamento
perchè nessuno dimentichi, che, qualunque sia il nome scritto in
fronte ai decreti di Francia, gli uomini ch'oggi vi reggono, Barrot,
Tocqueville, Thiers, Dufaure e i simili ad essi, son gli uomini
della monarchia, i predicatori del sistema misto costituzionale: - a
conforto, perchè un governo senza principio, senza fede in una
morale comune, è condannato a travolgersi rapidamente di crisi in
crisi, e cadere.
Senza principio nè fede; ed è tempo, a fronte d'un popolo
brutalmente oppresso e d'un altro disonorato, di dirlo senza
riguardi. Spettacolo più schifoso di quello offerto in oggi dai
falsi repubblicani che maneggiano le cose francesi, non credo possa
trovarsi nella storia dell'ultimo mezzo secolo. Uomini che per
quindici anni guerreggiarono con tutt'armi contro l'elemento del
clero; e che sostennero nei loro libri e nelle loro assemblee come
cardine dell'edifizio civile l'emancipazione dalla potestà
spirituale; che lavorarono instancabili, quantunque ammantandosi
d'ipocrisia, da Luigi XVIII fino al 1830, e più dopo qualunque volta
intravvedevano al termine della guerra un portafoglio di ministero,
a dissolvere, a cancellare ogni fede nell'altare e nel trono; son
oggi collegati coi dispersi superstiti del partito che vinsero per
vietare ai popoli di desumere le conseguenze della vittoria. Eredi
bastardi di Voltaire e di Volney, ultimo rampollo del materialismo
del XVIII secolo, e diseredati d'ogni concetto di dovere e
d'avvenire religioso dell'Umanità, sommavano pochi anni addietro la
loro dottrina internazionale nella esosa parola: ciascuno per sè; il
sangue francese non deve scorrere che per la Francia - la loro
dottrina di politica interna nella formula negativa: la legge è
atea; oggi federati, pur disprezzandoli in core, cogli ultimi
fautori del diritto divino che alla volta loro li sprezzano,
inneggiano congiunti al papa e imposturano parole di venerazione al
cattolicismo, gli uni col piglio ignaziano di Mefistofele, gli altri
con amarezza d'intolleranza domenicana, taluno per nullità d'ingegno
servile a tutto ciò ch'è fatto o lo sembra. Cospiratori, per
impazienza di potere, com'oggi sappiamo sotto Carlo X, taluni d'essi
membri di società segrete repubblicane, pur protestando con calore,
in pubblico, riverenza alla carta monarchico-costituzionale,
tremanti e adulatori davanti al popolo quando sorge nell'onnipotenza
rivoluzionaria, poi feudalmente insolenti quando il leone s'acqueta,
cospirano oggi contro l'instituzione repubblicana alla quale tutti -
anche il signor Montalembert - giurarono fede. Persecutori, per
irritazione di rimorso, dei loro antichi compagni; persecutori, per
terrore del vero, di quei che non mutarono mai credenza o
linguaggio; essi mutarono tante volte che non è sillaba nei loro
discorsi dell'oggi alla quale non potesse trovarsi confutazione in
quei d'un anno o di mesi addietro - e cito a pie' di pagina un
esempio per saggio((249)).
Son questi i nemici di Roma repubblicana. Ah! ben è vero: la
libertà, come disse un dei loro, non suscita più nel core degli
uomini in Francia quel culto di sagrificio serenamente incontrato,
quel santo giovanile entusiasmo puro di sdegni e vendette, nudrito
di fiducia e speranza, che fremeva anni sono sotto l'alito
dell'amore. Ma chi n'è in colpa? Non i rari fatti consumati dalle
insurrezioni su taluno fra gli oppressori, che noi deploriamo, ma
che voi, veneratori di Carlotta Corday, non avete diritto
d'anatemizzare: a quei fatti noi possiamo contrapporre carnificine
regie recenti, e centinaja di vittime scannate ad arbitrio. Non
qualche assurdo esclusivo sistema di sovversione violenta, mormorato
da qualche individuo e rifiutato universalmente da noi, che si
sperderebbe nel soddisfacimento dei veri bisogni del popolo. Se quel
culto si contamina talora di meschine passioni - se quell'entusiasmo
sembra infiacchirsi nello sconforto - spetta a voi tutti la colpa.
Mallevadori delle tristi conseguenze che possono escire da
condizioni siffatte son gli uomini, che, da ormai vent'anni, hanno
fatto scuola della delusione; son gli uomini che, amati un giorno
per apostolato di libere dottrine dai giovani, li hanno freddamente
traditi; son gli uomini che avean detto al popolo: la libertà è il
diritto d'ogni creatura umana al proprio sviluppo, il mezzo di
miglioramento progressivo alle moltitudini, e dicono oggi cogli atti
loro: la libertà è l'aristocrazia dell'egoismo potente sostituita a
quella del sangue: la libertà è il monopolio e il privilegio dei
forti capitali: la libertà è la via schiusa agli uffici e al dominio
per un piccolo numero d'ingegni scettici e raggiratori. Non cercate
altrove cagioni al dubbio e alle diffidenze.
Saggio della immoralità alla quale io accenno sono i discorsi
ministeriali sulla questione romana. Alla parte del diritto nessuno
allude. L'inviolabilità della vita d'un popolo, la missione
repubblicana scritta nello parole: libertà, eguaglianza, fratellanza
della bandiera di Francia, non entrano elementi del problema da
sciogliersi. Bisognava davanti al fatto di Roma, argomenta il
presidente del Consiglio, rimanersi inerti, ed era disonore -
riconoscer sorella la repubblica romana, e correr pericolo di guerra
europea - o intervenire a suo danno, e questo scegliemmo. Se noi non
facevamo, l'Austria faceva. Così, perchè il ferro dell'assassino
minaccia un onesto e voi non avete il coraggio d'interporvi a
difenderlo, v'affrettate a vibrar primi il colpo. Rallegratevi, o
signori: il pugnale infitto nel core di Roma è vostro: ciò che
palpita sotto le pieghe della bandiera tricolore di Francia è una
vittima, e voi potete ricevere le felicitazioni di Welden e del re
di Napoli: giungeste primi.
E argomentazione siffatta riscote gli applausi della diritta. E
quando taluno rammenta i patti e le promesse dell'intervento, il
ministro risponde con piglio di Brenno: Guai a chi è vinto! A che
parlate di patti e promesse? La guerra li infranse. La guerra!
ma non fondaste tutti i vostri discorsi anteriori sull'oppressione
esercitata da una mano di faziosi sulle popolazioni romane? non vi
diceste liberatori? non si facevano più sacre le vostre promesse
quando appunto, cacciati quei pochi, cominciava per voi possibilità
di compirle?
La Francia ha fatto in Roma quello che l'Austria avrebbe potuto
fare: ha ristabilito il papa nella pienezza del suo potere temporale
assoluto; stolta e nulla è dunque la difesa che poggia sui pericoli
che noi correvamo dall'Austria. Ma erano pericoli insuperabili?
Ho certezza morale - e non sarebbe difficile accumulare gli indizî -
che l'intervento fu concertato a Gaeta fra i quattro governi
invasori. Ma or non importa appurarlo. Che avremmo noi fatto se
all'Austria, e non alla Francia, fosse stato conferito l'incarico di
rovesciare la repubblica romana? Giova, per gl'Italiani, accennarlo.
L'esercito romano sommava dai 14 ai 15 mila combattenti. La
divisione lombarda, forte d'8 000 uomini, era pronta all'imbarco
alla nostra volta: gli ostacoli veri, come ognun sa, non vennero che
dai legni da guerra francesi e dall'impossibilità, dove si fossero
superati, di scendere a Civitavecchia. Stava in Marsiglia un nucleo
di legione straniera assoldata da noi, forte d'800 volontarî,
francesi i più. In Marsiglia erano pure, comperati in Francia da
noi, cinque o seimila fucili che il governo francese trattenne.
Altri 4000 erano giunti in Civitavecchia, ed erano per Roma 4000
soldati. Altri ajuti s'aspettavano dalla Corsica e dalla Svizzera.
In sul finire d'aprile, le forze repubblicane dovevano ascendere a
29 o 30 000 uomini.
Gli Austriaci giunsero sotto le mura d'Ancona con soli 12 000
uomini, e la lunga loro linea d'operazione rimase, per difetto di
forze, sprovveduta, indifesa. Disegno premeditato nostro era quello
di fare una dimostrazione a Tolentino, quindi movere con rapida
marcia e rovesciando ogni ostacolo per la via di Fano, e presentarsi
riconcentrati alle spalle del nemico nelle Romagne. Operazione
siffatta, consumata da un ventotto mila uomini, doveva
infallantemente o cacciare gli Austriaci a fuga precipitosa o
distruggere intero quel corpo d'esercito.
O gli Austriaci dunque - e questo è il vero - sentendosi ancora
deboli, ritardavano l'invasione, e ci davano campo di trovarci alla
metà del maggio largamente provveduti di materiale da guerra, e
forti d'un 45 000 uomini: - o invadevano, e la repubblica iniziava
la difesa del suo territorio con una prima e certa vittoria. Chi può
calcolare le conseguenze morali d'una vittoria sull'armi austriache,
cacciata come guanto di sfida tra popolazioni frementi di lungo odio
contro l'Austria, e facili all'entusiasmo, chiarite or prodi e
vogliose di battersi? A noi sorrideva nell'animo la speranza di
stendere una mano all'eroica Venezia e ricominciare, poi che la
guerra regia s'era spenta in Novara, in nome di Dio e del Popolo, la
guerra sacra dell'indipendenza italiana. Comunque, l'impresa fidata
all'Austria, ricinta di nemici com'era, e costretta a serbare la più
gran parte delle sue forze fra il Piemonte, la Toscana e la
Lombardia, era più che dubbia nell'esito; e il parlarne come
d'impresa infallibile ad uomini che privi di tutte le forze
accennate, e alle quali chiuse il varco Civitavecchia francese,
combatterono la giornata del 30 aprile, e costrinsero in città non
forte, trentamila Francesi a un mese d'assedio, aggiunge il ridicolo
alla coscienza della menzogna.
Ma vi sono fronti, come dice Giorgio Sand, alle quali non è più dato
arrossire.
La questione, per ciò che spetta all'invasione, ai motivi e ai
particolari del fatto, è, ripetiamolo, questione oggimai decisa; e
noi possiamo da questo fango di menzogne, di contraddizioni e
d'ipocrisie, levarci a contemplarla in più alta sfera.
Gl'inetti eredi della dottrina si trascineranno come potranno di
difficoltà in difficoltà, di vergogna in vergogna, tentando sempre e
inutilmente di transigere tra i due principî rappresentati in Roma
dal Papa e dal Popolo, finchè piaccia alla Francia o all'Italia di
tollerarli. Ma lo scioglimento della questione non è nelle loro
mani.
Lo scioglimento della questione spetta all'umanità. Umanità e
Papato: son questi i due termini estremi d'una controversia,
inerente all'educazione progressiva e provvidenziale dello spirito
umano, e che s'agita apertamente in Europa da ormai quattro secoli.
Chi muta quei nomi in Libertà e Autorità fraintende ad arte, o per
grettezza di mente, i termini del problema, falsa gli elementi della
decisione, e assegna all'umanità un carattere d'opposizione che
tende a negarne la stessa essenza.
Unico il signor Montalembert intravvide, nell'Assemblea di Francia,
l'altezza della contesa: sdegnò i particolari, e assalì di fronte,
con coraggio degno di miglior causa, la parte repubblicana:
inferiore anch'egli al soggetto, in virtù appunto dell'errore, ch'io
noto. Pur tanto giova trattar le questioni nella sfera dei principî,
che dal suo discorso scese più luce a rischiarare la vera condizione
delle cose e degli animi, che non da tutti i discorsi ministeriali
dall'assedio di Roma in poi. E noi rendiamo grazie, come Italiani e
come repubblicani, al Montalembert. Egli ci ha dato il programma
della parte cattolica; e questo programma è una solenne conferma
delle nostre credenze. Le transazioni ideate dagli uomini della
dottrina son nulle, impossibili. Il sint ut sunt o anch'oggi il
simbolo del cattolicismo. La libertà è inconciliabile col papato.
L'autorità assoluta della chiesa cattolica incarnata nel papa deve
rimanersi qual era ai tempi di Gregorio XVI, libera d'inspirarsi
alla propria coscienza senza vincoli, senza patti, senza istituzioni
che possono menomarla. Così parla l'oratore della parte cattolica; e
perchè quant'ei parla sia il vero dell'avvenire come è del presente,
non gli manca che di cancellare una cosa sola: la coscienza del
genere umano.
E la coscienza del genere umano, superiore al papa e a ben altro; la
coscienza del genere umano, che ha costituito per molti secoli, col
proprio consenso, la potenza e il diritto del papa; protesta in
oggi, in nome, non della Libertà ma dell'Autorità, contro
l'instituzione in nome della quale il signor Montalembert vorrebbe
sopprimere il libero sviluppo della vita romana.
Noi non siamo continuatori di Voltaire e del secolo XVIII. Essi
distrussero, negarono; e perchè distrussero, noi cerchiamo fondare;
perchè negarono, noi affermiamo. L'umanità, oggi come sempre, è
profondamente, inevitabilmente religiosa; e perchè religiosa, move
guerra al papato, forma, fantasma di religione, non religione.
L'accusa d'irreligione, di pura e semplice negazione d'ogni autorità
gittata alla democrazia, è indegna oggimai di chiunque guardi con
occhio imparziale alle sue più pure e potenti manifestazioni. Noi
tutti combattiamo per conquistare al mondo un'autorità; noi tutti
invochiamo il termine d'un periodo di crisi nel quale dei due
criterî di verità, coscienza dell'umanità e coscienza
dell'individuo, che la provvidenza ci ha dati, ci rimane solo il
secondo. Chiediamo un patto, una fede comune, un interprete alla
legge di Dio. Ma perchè questo patto sia religioso ed abbia
mallevadrici dell'osservanza l'anime nostre, è necessario che la
nostra coscienza lo accetti liberamente: perchè quest'autorità possa
dirigere la nostra vita, è necesario che essa abbia fede in sè, che
il mondo abbia fede in essa, che essa sia verbo d'unità, di
progresso continuo, di scoprimento incessante del vero((250)). E
diciamo che non uno di questi essenziali caratteri fa sacro in oggi
e fecondo il papato. Il grido di libertà che s'inalza in mezzo ai
popoli è grido d'emancipazione da un'autorità incadaverita, inciampo
alla nuova. Ogni grande rivoluzione è segno di morte a un potere
esaurito, e iniziativa d'un altro che intenda la vita e ne consacri
tutte le manifestazioni a progresso coordinato e pacifico.
Perchè nessuno, nell'assemblea di Francia, pose in questi termini la
questione al signor Montalembert? Perchè non una voce si levò a
gridargli: «Voi poggiate sul vuoto; voi discutete intorno a ciò
ch'era e non è. Il papato, signore, è morto; morto nel sangue: morto
nel fango: morto per aver tradito la propria missione di protezione
del debole contro il potente che opprime: morto per avere da oltre a
tre secoli e mezzo fornicato coi principi: morto per avere
crocefisso una seconda volta Gesù, in nome dell'egoismo, davanti
all'aule di tutti governi tristi, scettici o ipocriti: morto per
aver proferito una parola di fede senza credere in essa: morto per
aver negato la libertà umana e la dignità dell'anime nostre
immortali: morto per aver condannato la scienza in Galileo, la
filosofia in Giordano Bruno,l'aspirazione religiosa in Giovanni Huss
e Girolamo di Praga, la vita politica coll'anatema al diritto dei
popoli; la vita civile col gesuitismo, coi terrori
dell'inquisizione, coll'esempio della corruttela; la vita della
famiglia colla confessione fatta spionaggio e colla divisione
seminata spesso tra padre e figlio, fratello e fratello, consorte e
marito: morto pei principî del trattato di Vestfalia: morto pei
popoli, dal 1378, con Gregorio XI, e col cominciar dello scisma:
morto per l'Italia dal 1530, quando Clemente VII e Carlo V, il
Papato e l'Impero, segnarono un patto nefando e trafissero la
morente libertà italiana in Firenze, come oggi i vostri tentarono
trafiggere la libertà nascente d'Italia in Roma: morto perchè il
popolo è sorto; perchè Pio IX fugge; perchè le moltitudini gli
maledicono; perchè gli uomini che in nome di Voltaire fecero guerra
al prete per quindici anni, lo difendono in oggi coll'ipocrisia;
perchè voi, signore, ed i vostri, lo difendete coll'intolleranza e
colle armi, e dichiarate che il papato non può vivere allato della
libertà! Voi chiedete a Vittore Hugo, d'additarvi una idea che abbia
ottenuto un culto di diciotto secoli? È quella, signore, che voi
giudicate irreconciliabile col papato e che dura da quando il soffio
di Dio trasse dal nulla l'umanità; l'idea che ha sottratto al vostro
cattolicismo metà del mondo cristiano, l'idea che vi ha strappato
Lamennais e il fiore degli intelletti europei, l'idea di Gesù, la
pura, la bella, la santa libertà, che voi invocavate pochi anni
addietro per la Polonia, che l'Italia invoca oggi, sotto forma e
mallevadoria di nazione per sè e che non può, quando voi non
crediate parte di religione il costituire un popolo-paria nel seno
dell'umanità, esser buona cosa per una contrada e triste per
l'altra. Ah! è grave condanna al papato, o signore, grave conferma
alle nostre credenze questa contraddizione che le vostre parole
confessano tra l'eterno elemento d'ogni vita umana e l'instituzione
che dovrebbe, anzichè cancellarlo, benedirgli e promoverlo.
È questa contraddizione somma per noi alla negazione, non solamente,
del diritto ingenito nelle popolazioni romane, ma della Nazione.
Un anno addietro, i ministri di Francia salutavano come immancabile
e prospero evento lo sviluppo dell'italiana nazionalità. Lamartine
dichiarava con certezza di non essere smentito mai dai fatti
possibili, che, con intervento di Francia o senza, l'Italia sarebbe
libera; l'Assemblea costituente invitava la potestà esecutiva a
serbare norma alla sua condotta il voto unanime dei rappresentanti;
emancipazione d'Italia. Oggi adoratori dei fatto e della cieca forza
che soggioga per un giorno l'idea, rappresentanti e ministri
dimenticano, cancellano la nazione e trattano la questione siccome
puramente locale. Or, la Nazione e Roma sono una sola cosa per noi.
Credono essi spento per sempre il palpito di ventisei milioni
d'uomini che hanno imparato a insorgere, a vincere, a morire in nome
dell'Italia futura? E se credono nell'Italia futura, credono che la
nazione possa vivere un giorno libera e progressiva col dogma
dell'autorità assolata impiantato nella sua metropoli?
L'Italia futura, la nazione una, è fatto inevitabile in un tempo che
non è lontano. Questa fede italiana annunziata, da Dante in poi,
nella vita e negli scritti dei nostri grandi del pensiero, trasmessa
da generazione a generazione dalle aspirazioni della nostra
letteratura, trasmessa di padre in figlio, negli ultimi trenta anni,
in seno alle nostre fratellanze segrete, e nudrita di sangue e di
lagrime, noi non la sagrificheremo, signori, ai vostri meschini
concetti di transazione o perchè a voi piaccia far poesia sulle
rovine d'una instituzione che fu sublime, e anteporre al futuro il
passato. Papi, imperatori, oppressori domestici e gelose potenze
straniere hanno fatto a gara per sotterrar dal nascere questa fede;
e non valse. Il lento lavoro d'unificazione non s'arrestò mai in
Italia per gli ultimi tre secoli: se un papa volle, quando il papato
era già esoso alla miglior parte della nazione, che il suo nome
rimanesse ricordo d'affetto fidato al genio di Michelangelo e alla
tradizione italiana, gli fu forza cacciare il grido di fuori i
barbari! - e quando l'entusiasmo di tutta quella gioventù, che voi
calunniate come anarchica e demagogica, salutò d'un lungo grido
d'illusi applausi il papa in nome del quale gli stranieri stanno
oggi in Roma, quel papa avea proferito con amore la sacra parola
Italia; e l'applauso gli fu sottratto, e il popolo si ritrasse
fremendo da lui quand'ei si rivelò avverso alla guerra
d'emancipazione. Oggi quel lavoro procede colle leggi del moto
uniformemente accelerato; dalle menti educate al pensiero è sceso al
core d'Italia, alle moltitudini; e voi presumereste arrestarlo?
presumereste convincerci che noi sacrificammo la nostra vita ad un
sogno, ad una illusione colpevole, perchè un vecchio senza genio,
senz'amore, senza forti credenze, senza il coraggio del martirio, e
pochi uomini, corrotti, immorali, irreligiosi, segnati a dito dal
popolo, come Richelieu, col nome di triumviri rossi, balbettano un
anatema?
Ed io - è l'unica volta ch'io parlo quasi con rimorso di me - io,
signor Montalembert, che non ho mai firmato dichiarazioni o
accettato amnistie, perch'io non voleva porre una menzogna nella mia
vita e perch'essi hanno bisogno della nostra amnistia, non noi della
loro, - io che esule ormai da vent'anni ho dato tutte le gioje della
vita, e ciò che più monta, le gioje de' miei più cari al culto
d'un'unica idea, d'Italia iniziatrice, di patria libera ed una - io
che v'ho amato leggendo le vostre pagine premesse al Pellegrino
polacco, e vi compiango oggi persecutore dei miei fratelli e nemico
al bene della mia nazione - io dovrei cancellare la mia coscienza e
calpestare questa mia fede di venticinque anni, sostegno mio contro
al dubbio e allo sconforto attraverso delusioni e sciagure ch'io non
vi desidero, perchè i corruttori della Chiesa non possono conciliare
i loro appetiti di dominio principesco colla libertà dell'Italia e
coi progressi del mondo? Ah! ricordo una madre italiana che dolevasi
di non avere due figli da dare alla patria, e un'altra che a me,
vacillante un momento per dolori taciuti a tutti fuorchè ad essa,
scriveva additando il versetto 12 e seguenti al capo VI
dell'epistola di Paolo agli Efesi. La prima di quelle madri avea
perduto il figlio, per opera dei vostri, sotto le mura di Roma: alla
seconda, due erano sottratti dall'esilio, e un terzo da morte
volontaria in una prigione. La voce di quelle due madri, signore,
confuta per me molti studiati discorsi. La religione del sacrificio
è ben altramente vera che non la religione sostenuta da voi colle
bajonette. Perisca dunque il papato, e viva l'Italia! Se la Chiesa,
disse il padre Ventura, non cammina coi popoli, i popoli
cammineranno senza la Chiesa, fuor della Chiesa, contro la Chiesa.
Contro la Chiesa! no: noi cammineremo dalla Chiesa del passato alla
Chiesa dell'avvenire, dalla Chiesa cadavere alla Chiesa di vita,
alla Chiesa dei liberi e degli eguali, dove regge chi più serve i
fratelli, dove il seggio della fede non si puntella colla violenza.
V'è spazio che basta per Chiesa siffatta fra il Vaticano e il
Campidoglio.
E questo grido dell'anima mia, questo convincimento che nulla può
svellere, è grido, o signore, è convincimento di tutta la gioventù
italiana che ha palpitato di sdegno leggendo il vostro discorso, che
palpiterà d'affetto leggendo il mio. Voi potreste spegnere il mio,
non il suo grido. Voi potete cancellar molte vite, ma non la vita.
La Vita d'una nazione è cosa di Dio. Tutti i vostri sforzi
romperanno contro il decreto della provvidenza. L'Italia sarà.
E il giorno in cui l'Italia sarà, che avverrà del papato?
Anche cadendo, Roma ha reso servigio alla Francia. Essa ha creato al
governo ch'oggi l'opprime il più grave ostacolo che potesse mai
suscitarglisi: ha logorato la parte della dottrina; ha strappato il
segreto alla parte ch'oggi invade il potere: 1815 e diritto divino.
La Francia provveda, e s'affretti. Due morti sono pei popoli:
l'assassinio per conquista e il suicidio del disonore. La Francia è
minacciata in oggi di questa seconda.
E non di meno la Francia non deve, non può perire. Un popolo che
affida all'umanità l'ultima parola di un'epoca deve concorrere alla
rivelazione della prima d'un'altra. L'Europa ha bisogno della
Francia, del suo braccio e del suo consiglio. E l'avrà.
Una voce di poeta che amammo giovani e che lamentavamo muta da lungo
tra le nostre file, la voce di Vittore Hugo, s'è riscossa al grido
di Roma, della città madre al genio e alla poesia. E in nome di
Roma, noi lo ringraziamo pel marchio stampato in fronte ai nostri
oppressori. Una voce d'amico, esule come noi siamo, ha scritto belle
e forti parole a scolpare la Francia, la vera Francia, del delitto
commesso contro la nostra nascente nazionalità((251)); e a lui con
affetto riconoscente diciamo: non temete, fratello; lasciate al
vostro esilio e al nostro cuore le discolpe della vera Francia. Le
anime nostre sono tranquille e serene come dopo una vittoria. Noi
amiamo come combattiamo, ora e sempre. E il nostro amore è il vostro
amore, le nostre battaglie sono le vostre battaglie. La falsa parola
d'ordine, gettata fra noi da uomini disertori dalla bella vostra
bandiera, non dividerà i soldati dello stesso campo. Noi gemiamo e
speriamo per voi come per noi. E quando voi ci vedete segregati in
Roma, in Italia, da uomini che parlano la lingua di Francia, ma non
ne rappresentano l'idea, la missione, dite: essi vogliono serbarsi
puri all'abbraccio della Francia redenta; - quando udite la nostra
parola escire concitata ed amara contro fatti ed uomini che
disonorano la Francia, dite: essi s'irritano, come per la loro, per
la nostra patria; ma non dimenticano in cuore un solo dei fatti e
degli uomini che la redimono.
28 ottobre 1849.
A LUIGI NAPOLEONE
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESE
«Jusqu'à présent je ne suis qu'un simple volontaire; mais... je me
mettrai avec satisfaction sous vos ordres si vous me jugez utile à
la cause sacrée que j'embrasse avec ardeur, et à laquelle je rève
depuis dix ans - (Napoléon, lettre au gén. Sercognani, Terni. 28
février, 1831.)
«Moi aussi, banni de ma patrie, je gémis souvent sur la loi d'exil
qui frappe ma famille; mais cependant lorsq'on voit qu'aujourd'hui,
tout ce qui a l'âme noble est chassé de la terre natale ou persécuté
par le pouvoir, alors on est fier d'être dans les rangs des opprimés
et des proscrits.» - (Napoléon Louis C. Bonaparte, adresse aux
réfugiés polonais, Arnenberg, 17 août 1833.)
«Nos armes ont renversé à Rome cette démagogie turbulente qui, dans
toute la peninsule italienne, avait compromis la cause de la vraie
liberté, et nos braves soldats ont eu l'insigne honneur de remettre
Pie IX sur le trône de St-Pierre.» - (Message du président de la
République, 12 novembre 1850.)
Signore.
Quando vostro fratello scriveva da Terni le parole che stanno in
capo al mio scritto, voi eravate al suo fianco. La causa sacra per
la quale egli e voi eravate presti a combattere, era la stessa
ch'oggi chiamate demagogia. Il governo agli ordini del quale voi
ambivate sottomettervi era, come il nostro, governo d'insurrezione;
decretava, come il nostro, l'abolizione del potere temporale del
papa. Non sorse in voi un ricordo di quei giorni, mentre scrivevate
le linee calunniatrici di Roma nel vostro Messaggio? Non vedeste
levarsi, come un rimorso, la pallida faccia del fratello vostro tra
voi e quella bandiera di popolo sotto la quale voi militavate
vent'anni addietro, semplice volontario con lui, e alla quale oggi
voi, presidente di Francia, insultate? Io era allora prigione in una
fortezza, in Savona, dove un papa fu confinato da vostro zio: e
giurava a me stesso che nè terrore di persecuzione nè seduzione
d'egoismo m'avrebbero sviato mai d'un sol passo dalla bandiera che
voi pure abbracciavate con ardore. Ho speso intorno a quella
promessa le forze, le gioje e le speranze individuali della mia
vita; ma posso guardare con occhio sicuro attraverso quei vent'anni
passati senza che un solo ricordo venga a cozzare coll'oggi, senza
che una sola imagine di congiunto o d'amico si levi a dirmi: tu hai
falsato il giuramento dell'anima tua; tu hai travolto nel fango e
calpestato con orma violenta il Dio de' tuoi anni più puri!
E quando nel 1833, sopra una terra repubblicana, confortavate
l'esilio col nobile orgoglio d'aver compagni i migliori di tutte
contrade perseguitati dai loro governi, voi stringevate una seconda
volta il patto di fratellanza cogli uomini ai quali oggi il vostro
Messaggio vorrebbe porre in fronte il marchio di demagoghi.
Repubblicani erano e chiamati demagoghi dai loro oppressori i
cinquecento Polacchi ai quali voi mandavate le amiche parole:
repubblicani e ribelli al papa gli esuli d'Italia ch'erravano tra le
valli svizzere, adocchiati, com'oggi dalle vostre, dalle spie di
Luigi Filippo. Non ripensaste al vostro linguaggio di diciassette
anni addietro, mentre osavate chiamare libertà vera quella di
ch'oggi godono, mercè vostra, gli abitanti delle terre romane? Non
vi sentiste il rossore salire alla fronte mentre dicevate onore
cospicuo l'atto che condannò all'esilio migliaja d'uomini salutati
dal loro popolo liberatori? Io era, quando voi parlavate in
Arnenberg, tra quei proscritti nelle cui file eravate allora altero
di connumerarvi; ed anch'oggi son tale e perseguitato, come i miei
fratelli di Polonia e Germania, di note confidenziali dai vostri
satelliti interpreti del Messaggio. Ma posso levar serena la fronte
davanti agli uomini senza temere che un solo de' miei antichi
compagni d'esilio mi dica: tu hai tradito il patto stretto nella
sventura; tu hai aggiunto il tuo al nome dei proscrittori.
In nome degli esuli di Roma e di tutta Italia, io vi ringrazio,
signore, delle parole scritte su noi nel vostro Messaggio. Per esse
noi sentiamo insuperbirci, conforto supremo, nell'anima la coscienza
di combattere per una causa che non ci costringe a contraddirci e a
mentire. La nostra parola d'oggi è quella dei primi giorni della
nostra carriera politica: voi date forzatamente una mentita a
vent'anni della vostra vita. Noi, militi della fede repubblicana,
non invochiamo a vincere se non il libero suffragio del popolo: voi,
amministratore d'una repubblica, mutilate il suffragio in patria, lo
cancellate coll'armi al di fuori. Noi a mantenere il nostro governo
in Roma non avevamo bisogno d'esilî, di proscrizioni, ma d'una
bandiera e d'un grido al popolo, perchè in nome di Dio la
proteggesse siccome sua: voi a mantenere in Roma il governo che
affermate voluto dalla maggioranza, dichiarate aver bisogno che si
prolunghi il soggiorno dell'armi francesi; a mantenerlo in Francia,
avete bisogno di continue destituzioni, di numerosi imprigionamenti,
di sciogliere in cento località le milizie cittadine, di perpetuare
in più dipartimenti lo stato d'assedio, d'introdurre limitazioni
alla stampa, alle associazioni, alla universale rappresentanza. Noi
ristampiamo le sedute della vostra Assemblea, le parole del vostro
Messaggio: voi ponete per quanto è in voi divieto sulle nostre
difese; la vostra polizia contende la frontiera all'Italia del
popolo; la vostra Assemblea non osa leggere le nostre proteste. Noi
accusiamo: voi calunniate. Giudichino gli uomini onesti d'Europa da
qual parte stia il Vero e la coscienza del Dritto. Giudichino dove
stia la fazione.
Alle parole del vostro Messaggio, il Comitato nazionale italiano ha
contrapposto la protesta che precede queste mie pagine((252)). La
vostra maggioranza, signore, ha cercato soffocarla tacendone. Dai
popoli ai quali voi tenete la spada di Brenno alla gola, essa non
accetta che petizioni. I selvaggi delle foreste d'America
sospendevano le torture per rispettare nel prigioniere il diritto di
conchiudere il suo inno di morte, e d'oltraggio ai tormentatori: i
vostri non hanno il coraggio di dire: lasciamo passare il grido
delle nostre vittime. Essi votano la rovina d'un popolo nel
silenzio: la mort sans phrases.
E nondimeno, voi non soffocherete quel grido, signore. Finchè
rimarrà un angolo dell'Europa capace di contenere una stamperia
pubblica o segreta - finchè vivrà un uomo, forte d'amore e di
sdegno, incapace di dimenticare, perchè caduta, la patria e incapace
di tacere la verità all'oppressore, perchè potente - quel grido
sorgerà a turbare i vostri sonni presidenziali. Quell'angolo di
terreno esiste ancora, signore; e quell'uomo anch'egli: io oggi, un
altro qualunque de' miei compagni domani. Io v'ho promesso che
evocherei di tempo in tempo lo spettro di Roma a ricordarvi, a
ricordare alla Francia il delitto che fu commesso e tuttavia dura -
e manterrò la parola. I nostri padri credevano che, ridesto al passo
dell'assassino, l'assassinato sporgesse fuor del terreno rigida e
sanguinosa la mano per accusarlo agli uomini e a Dio. Io sarò per
voi, pei vostri, quella mano, signore. Scriverò Roma sulla punta
delle mie cinque dita, e le solleverò a dirvi: voi avete sull'anima
l'assassinio d'un popolo amico, d'un popolo che amava la Francia,
d'un popolo pel quale voi, convinto che la sua causa era sacra,
volevate combattere vent'anni addietro.
Ed è sacra, signore: sacra pei luoghi, che furono culla
d'incivilimento all'Europa; sacra per le memorie dell'antica libertà
repubblicana che costituiscono per noi tradizione di quello ch'è per
altri popoli recente e combattuta conquista: sacra pei caratteri del
nostro progresso che non escì mai dall'elemento monarchico o
aristocratico, ma sempre, per virtù provvidenziale, dall'iniziativa
del popolo: sacra per oltre a tre secoli di patimenti durati sotto
occupatori stranieri e papi corrotti e corrompitori e principi
inetti o tiranni e caste sacerdotali intolleranti, cupide, avverse a
ogni libertà di pensiero, senza che siasi spenta la potente
scintilla di vita animatrice della nostra razza; sacra per la lunga
serie di martiri che in ogni angolo d'Italia hanno segnato la fede
col sangue: sacra per l'indomita, instancabile costanza dei
tentativi: sacra per la clemenza usata nella vittoria, per l'assenza
di dottrine ingiustamente sovvertitrici, per la concordia di tutti i
cittadini in un solo volere: sacra per Roma e per gli eroici fatti
di Milano, di Venezia, di Brescia, di Bologna e della Sicilia: sacra
per la Francia segnatamente, alla quale noi demmo largo tributo del
nostro sangue, e dalla quale avemmo sempre promesse, tradite sempre
e fatali; poi per opera vostra, signore, compenso quasi alle
migliaja di vite italiane spese per accrescere onore alla bandiera
di vostro zio, il sacrificio d'alcune migliaja di soldati francesi
caduti nell'impresa di spegnere il primo alito della nostra libertà
nascente!
Voi avete, signore, sacrificato quei soldati di Francia, falsato le
vostre promesse, tradito l'obbligo che v'imponeva la Costituzione,
assalito chi non v'offendeva, rovesciato un governo pacifico, messo
la bandiera francese allato di quella dell'Austria e dell'oppressore
di Napoli, ucciso il fiore dei nostri giovani ufficiali colle vostre
palle coniche, dato per bersaglio ai vostri cacciatori d'Africa le
camiciuole rosse ch'essi, i nostri, avevano valorosamente indossato
quasi a dirvi: eccoci, e condannato migliaja di famiglie alla
miseria, alla persecuzione, al lamento su' spenti e sugli esuli, per
rovesciare - son parole del vostro Messaggio - quella irrequieta
demagogia che in tutta la penisola italiana aveva posta a pericolo
la causa della vera libertà. Aveva! La causa della vera libertà è
dunque salva oggi in Italia. Le vostre armi rovesciarono il solo
ostacolo che l'attraversava. E lasciando da banda il dominio
austriaco, dimenticando Napoli e la Sicilia, le leggi organiche
pubblicate o da pubblicarsi dal papa costituiscono la libertà vera.
La repubblica è per voi dunque sinonimo di demagogia. E la storia
dei tempi registrerà che un'Assemblea repubblicana udiva con
approvazione quelle vostre parole. Ma io non debbo discuter con voi
di repubblica o monarchia. Il buon senso ha insegnato e insegnerà
più sempre alla mia nazione che libertà non può esistere per essa se
non fondata sulla repubblica e che il grido di Roma ha in sè
l'avvenire italiano. Pur noi non imponemmo repubblica; l'avemmo,
lieti e plaudenti, dal popolo, da una Assemblea Costituente. Libertà
vera per noi fu allora ed è tuttavia quella ch'esce ordinata dal
libero suffragio della nazione. Perchè non la interrogate? Una
irrequieta audace fazione toglieva allora senno e libertà di
giudizio al popolo? Ma quella fazione oggi è spenta o lontana. Io vi
scrivo dall'esilio. L'esilio, la prigione o la sepoltura hanno tutti
i miei compagni. Perchè non restituite al popolo il libero voto?
Perchè, dopo diciotto mesi, siete costretto a conchiudere le vostre
parole dichiarando che il soggiorno del vostro esercito è tuttavia
necessario al mantenimento dell'ordine in Roma?
Voi potete, signore, ravvolgervi a vostro senno di menzogna e
sofismi: potete trovare un'Assemblea repubblicana che applauda per
breve tempo alle vostre parole; ma il giudizio dell'Europa sta
irrevocabilmente per noi. Tra noi e voi la contesa è ridotta a
termini troppo semplici per ammetter dubbio. Il principio
repubblicano è sancito per noi dal decreto non revocato dalla nostra
Assemblea: vive nel dritto, legittimo per lo meno quanto il vostro
governo; e noi possiamo chiedere alla Francia e all'Europa di
restituirci Roma qual era prima del luglio 1849. E nondimeno stiam
paghi a chiedervi - tanto siam certi dell'animo delle moltitudini -
di rifare onestamente la prova. Noi siamo più assai potenti di voi,
signore. A voi, perchè trionfi la libertà vera, bisogna un esercito;
a noi basta una urna. Noi vi cacciamo a guanto di sfida ciò che gli
agenti vostri promettevano prima della vittoria: sgombrate e
rendeteci il voto; e voi non osate raccoglier quel guanto!
Io ho già confutato vittoriosamente altrove l'obliqua accusa data ai
repubblicani d'Italia d'aver posto a pericolo, per soverchia
esigenza, non la libertà che i principi non pensavano a dare: ma la
causa dell'indipendenza che molti sognavano - e si pentono
amaramente del sogno - potersi dividere dalla causa della libertà.
Cessato il clamore d'una stampa comprata dai nostri padroni, i
documenti hanno provato che i repubblicani, convinti che nè da un
papa, nè da un principe, nè da un accordo fra i principi potea venir
salute all'Italia, cessero nondimeno al voto della maggioranza del
paese che inchinava all'esperimento; tacquero, non rinnegarono, le
loro dottrine, e s'astennero da ogni maneggio politico negli anni
1846 e 47: - che nel 1848, insorta l'Italia a scacciar lo straniero,
accettarono il programma proposto dal principato «che, solamente
finita la guerra, il paese fosse chiamato a decretare i proprî fatti
politici» e non s'occuparono che di guerra: - che, violato dalla
parte regia il programma, essi protestarono virilmente, ma
aborrirono dall'armi civili e non tentarono resistenza: - che
perduta per ignoranza, per rifiuto degli ajuti popolari e per
tradimento la guerra, rinnegata da principi e papa la causa della
nazione, essi raccolsero il vessillo abbandonato e lo inalzarono in
nome di Dio e del Popolo sulle mura di Venezia e di Roma a
riconquistare, se non la vittoria, l'onore d'Italia contro gli
Austriaci e contro l'armi vostre, signore: - che riescirono a
riconquistarlo. Ma dacchè tra voi e me non può essere intelletto
comune di libertà, io non debbo dir qui quale concetto ne avessero i
repubblicani, ma solamente seguirvi sul vostro terreno, e ricordare
alla Francia qual sia la libertà vera per voi.
Il 26 aprile 1849, la libertà che voi venivate a tutelare fra noi
era, signore, la libertà fondata sulla sovranità del paese. - Il
nostro scopo - dichiarava in un proclama dettato da voi il generale
Oudinot - non è quello d'esercitare una influenza che opprima, nè di
imporvi un governo che sarebbe opposto al vostro voto... Noi
giustificheremo il titolo di fratelli. Noi rispetteremo le vostre
persone e i vostri beni... noi ci porremo di concerto colle autorità
esistenti, perchè la nostra occupazione non mova inciampo di sorta
alcuna.
Il giorno in cui, caduta Roma, voi scrivevate la lettera a tutti
nota all'ufficiale Edgard Ney, la libertà che voi promettevate alle
popolazioni dello Stato romano non era più quella del voto; era la
libertà che scende come beneficio dall'autorità regia non
contrastata, non limitata; e consisteva in un governo fondato e
avviato su norme liberali, in una amministrazione laicale, in una
legislazione desunta dal codice Napoleone, in un'amnistia generale o
quasi. Era programma meschino, illegale, di conquistatore. E Roma,
s'anche la parola vostra avesse potuto ridursi in atto, avrebbe
sprezzato dono e donatore ad un tempo. Pure, la vera libertà di che
oggi parlate è la libertà forse del vostro secondo programma?
Quando - e sia sollecito per l'onore della specie umana quel giorno
- avremo una politica religiosa e la parola del vero suonerà franca
e spontanea tra popoli e capi di popoli, gli uomini non vorranno
credere che da un preside di repubblica potesse escir mai linguaggio
così sfacciatamente menzognero come quello del Messaggio, e che
un'Assemblea d'eletti dal popolo di Francia l'ascoltasse paziente.
Libertà, in Roma, signore! Ma quale? libertà di stampa?
d'associazione? di parola? di voto? d'insegnamento? di persona?
protetta da milizia cittadina? da rappresentanze inamovibili fuorchè
dal popolo? perchè nol diceste? perchè non vel chiesero? Fu
ignoranza, codardia, indifferenza? Fu da parte vostra un insulto
cacciato alla vittima?
La libertà di Roma, signore - io ricapitolerò cose note per la
Francia che dimentica facilmente - la libertà di Roma è lo
scioglimento della guardia civica, mantenuto in onta al decreto del
6 luglio che diceva nell'articolo secondo: essa sarà immediatamente
riordinata secondo le sue basi primitive: - il divieto d'ogni
circolo e d'ogni associazione politica: - il sequestro delle armi
che lascia l'onesto indifeso dal ladro e dal masnadiere: - la
soppressione di tutti i giornali dai governativi in fuori: - la
commissione instituita, in onta alle vostre promesse, il 23 agosto
1849 per rintracciare e punire gli attentati commessi contro la
religione e i suoi ministri sotto il governo della repubblica: - le
vessazioni contro i forestieri, le denunzie di locandieri, le
condizioni al soggiorno in Roma riordinate dalla notificazione del
31 agosto: - la disposizione del 3 settembre colla quale ogni
stamperia deve, sotto pena di gravi multe e di prigione, consegnare
al governo l'elenco preciso e progressivo de' suoi tipi e de' suoi
operaî: - la commissione di censura instituita per tutti gli
impiegati della repubblica, la destituzione pressochè generale e da
settecento famiglie cacciate nella miseria: - la dispersione
dell'esercito e l'esilio di quasi tutti gli uffiziali: - la
sospensione di tutti i maestri d'ogni categoria pronunziata il 17
ottobre: - il richiamo degli uffici di polizia e della sbirraglia di
tutti gli uomini della reazione e del fecciume dei sicarî di
Gregorio XVI: - il ristabilimento dell'inquisizione e del vicariato.
La libertà di Roma è, signore, la carta monetata ridotta del 35 per
100 - la tassa di barriera ripristinata - le multe di bollo portate
al decuplo - la restituzione dei beni alle mani morte -
l'incarimento del sale - il rinnovamento della tassa sul macinato -
l'aumento del 15 per 100 sulle imposte - la miseria visibilmente
crescente in ogni angolo e in ogni ordine dello Stato. La libertà di
Roma è un'amnistia che esclude i membri del governo provvisorio, il
triumvirato, i componenti i ministeri, i rappresentanti del popolo,
i presidi delle provincie, i capi dei corpi militari, gli amnistiati
del 1848 colpevoli d'una parte qualunque alla rivoluzione e ch'ebbe
per conseguenza immediata una nuova emigrazione - un motu-proprio
che, cancellando quello del 1848, riordina il despotismo temperato
da una Consulta di Stato eletta dal papa su terne presentate dai
consigli provinciali senza intervento dei comuni, accresciuta di
membri nominati a capriccio da lui, e condannata al silenzio se non
quando al governo piace richiederla di consiglio - una instituzione
di consigli provinciali i cui membri sono scelti su terne dei
municipî dal papa purchè abbiano età di trent'anni, domicilio di
dieci anni nella provincia, beni del valore almeno di seimila scudi
e condotta religiosa e politica riconosciuta buona, e le riunioni
dei quali possono essere sospese o sciolte ad arbitrio governativo -
poi, una persecuzione d'ogni giorno, d'ogni ora: piene zeppe le
carceri nuove, quelle del Castello, del Santo Officio, della Galera
di Termini, d'uomini strappati per sospetto alle loro famiglie e
lasciati a giacersi fra i ladri e gli accoltellatori senza processo
finchè piaccia al governo o alla morte di liberarli; i non
imprigionati, ma invisi per opinione repubblicana, additati ai
soprusi, agl'insulti alle ferite dei birri arbitri oggimai dello
Stato; e, conseguenza inevitabile di condizioni siffatte, l'aumento
dei delitti, le vie mal sicure, i paesetti di campagna invasi e
derubati da malfattori.
Questa, signore, è la libertà vera di Roma, frutto delle vostre armi
e documentata dal Giornale Officiale del governo per voi restaurato.
Cancellate, in nome della Francia, la linea del Messaggio che chiama
l'invasione fatto glorioso e arrossite pel nome che il caso v'ha
dato. Il nipote di Napoleone può esser tiranno, ma don
dovrebb'esserlo bassamente. Uccidete, finchè l'altrui fiacchezza ve
lo consente; ma non sollevate il lenzuolo dei morti colle vostre
mani a farvene manto di gloria.
Gloria! I pochi vostri adulatori possono, a mercare i guadagni del
favore d'un giorno, susurrarvi quella parola all'orecchio: ma essa
v'è contesa per sempre. Da quando i popoli si sono ridesti, gloria e
virtù sono sinonimi.
Principe Luigi Napoleone! un nome in oggi è piccola cosa. L'onda
collettiva delle moltitudini spinte a nuovi fati da Dio sommerge,
salendo, nomi e individui. E nondimeno, voi, giunto per meriti non
vostri al potere quando ancora l'onda non ha raggiunto il vertice
della piramide e i popoli cacciano, prima d'abbandonarlo per sempre,
un guardo di riverenza tradizionale al passato, la storia poneva
innanzi una bianca pagina, e voi potevate riempirla. Capo d'una
forte e grande nazione, erede d'un nome, ultimo potente in Europa, e
ammaestrato dalla sciagura, voi dovevate leggere nelle parole che
vostro zio proferiva morente in Sant'Elena, nel grido recente di
Parigi e negli insegnamenti dell'esilio, la vostra missione. Voi
potevate, compiendola, confondere tra i posteri più remoti su quel
nome che v'era trasmesso l'aureola delle cento battaglie e la luce
pura confortatrice della libertà: Napoleone e Washington. Bastava
per questo un affetto di virtù, un pensiero di amore; e se l'amore e
la virtù non allignavano nell'anima vostra, bastava un savio calcolo
dell'intelletto, un guardo che s'addentrasse nel passato e spiasse
il futuro. Voi non potevate, quand'anche aveste sentito a fremervi
dentro il suo genio, ricominciare Napoleone: se l'èra dei popoli non
fosse stata che sogno, egli era tale da non morir che sul trono. Voi
non potevate che trasformare il concetto: ricordarvi che s'egli
sorgeva per propria potenza, e sugli ultimi stanchi giorni d'una
repubblica, voi sorgevate per elezione di popolo in una repubblica
nascente e pregna di fati: ricordarvi che se Napoleone aveva,
conscio o inconscio, preparato colla eguaglianza civile, coll'armi e
colle leggi europee il terreno alla novella unità, era - e i popoli
ve ne avvertivano col sorgere spontaneo per ogni dove - impresa
compita: ricordarvi che avevate incontrato e salutato fratelli
nell'esilio Polacchi, Italiani, Alemanni rappresentanti la stessa
fede; e dire: io inizio, in nome del Popolo, l'epoca nuova: porto,
io proscritto di jeri, sul seggio di preside della repubblica, il
pensiero de' miei fratelli, e dichiaro: la Francia non vuole
ch'esistano da oggi innanzi proscritti. La vita è sacra: sacra nel
pensiero, sacra nei popoli. Si riveli, s'espanda, si dia forme
proprie come nella creazione di Dio. La spada della Francia
conquistatrice giace per sempre nella tomba di Napoleone; ma il
popolo ha dato un'altra spada alla Francia e questa spada
proteggitrice si stenderà dovunque sorga vita vera in un popolo, tra
quella vita nascente e chi s'attentasse di soffocarla.
Non eravate da tanto. Impotente a ripetere la parte di Napoleone,
voi avete travestito i suoi concetti gigantescamente ambiziosi in
sogni d'un'ambizioncella tremante, pigmea: in disegni di rivoluzioni
consolari o imperiali ideate la sera, svanite al mattino davanti
all'agitarsi d'una commissione di permanenza o a un'aspra minacciosa
parola di un soldato geloso. Incapace di trasformarne il pensiero e
senza idee vostre, senza amore nell'anima, e buja d'intelletto
dell'avvenire la mente, voi, d'incertezza in incertezza, di codardia
in codardia, siete sceso a ricopiare la parte immorale, dissolvente,
atea di Luigi Filippo. Vi circondano, inspiratori, dominatori or
l'uno or l'altro, gli uomini di Luigi Filippo. Vi pende sul capo,
inevitabile, fatale, la sentenza di Luigi Filippo.
Colla spedizione di Roma voi intendeste a propiziarvi a un tempo la
parte cattolica, l'esercito e l'Austria; la parte cattolica piegando
il ginocchio davanti al papa nel quale voi non credete: l'esercito
accarezzandone l'orgoglio e gli spiriti irrequieti: l'Austria alla
quale la paura v'ha fatto complice, ajutandola a soffocare nel
centro d'Italia l'elemento temuto e insegnando a tutte le
popolazioni italiane ch'esse non devono illudersi a sperare cosa
alcuna da voi. Colle leggi repressive, imitate da quelle dell'ultimo
regno, intendeste a conciliarvi gli abbienti tremanti del socialismo
perchè lo giudicano nelle esagerazioni che falsano quella santa
tendenza. Col programma di neutralità ch'oggi, prima di avere
ritirate le vostre truppe da Roma, sostituite al programma d'azione
della Francia, voi sperate rendervi favorevoli gli uomini della
pace. Diseredato d'iniziativa, voi, ponendo in luogo della politica
dei principî che poggia sul Vero, sul giusto, sull'onore e
sull'elemento dotato di maggiore vitalità nel futuro, la trista,
meschina, impossibile politica degli interessi e di concessioni che
cozzano l'una coll'altra, v'illudeste ad essere quel ch'oggi
chiamano uomo di Stato. Ma quel misto di scetticismo e d'orgoglio,
d'analisi cadaverica e d'ignoranza della vita che sorse con quel
nome quando in Europa mancarono le forti credenze e si ruppe ogni
vincolo d'unità, andò digradando da Machiavelli, storico e giudice,
fino a Talleyrand, copista meschino e briccone. Luigi Filippo è
morto in esilio. Metternich vive in esilio. Ora, uomo di Stato è
colui che pensa e pratica il bene. Proscritto anch'oggi, ei riescirà
senza fallo domani.
La parte cattolica vi sa ipocrita incredulo: ipocrita anch'essa e
senza fede, essa ha accettato, promettendo, l'ajuto vostro: ma i
suoi odî vanno oltre la tomba, le sue speranze stanno nei governi
dispotici, ed essa vi gitterà l'anatema il primo giorno in cui essa
crederà non aver bisogno di voi.
L'esercito sa in oggi che voi lo spingeste all'assassinio di Roma
perchè non osavate combattere l'Austria invadente nè lasciarla sola;
e arrossirà della macchia di disonore che voi avete messa sulle sue
bandiere e della parte di gendarmeria pretesca alla quale voi lo
condannate. I soldati di Francia intenderanno che lo stendardo dato
ad essi dalla nazione è simbolo d'un principio o cencio senza senso
e valore - ch'essi tengono in deposito l'onor della Francia - che
dovunque il principio repubblicano, vita e speranza della Francia, è
violato per opera loro, essi tradiscono la nazione - che il
giuramento del milite nel XIX secolo non è giuramento di medio evo,
giuramento d'uomo servo a un signore, ma giuramento di libero a chi
rappresenta - e fino a quando la rappresenta - la missione della sua
patria.
L'Austria sa il perchè scendeste in campo con essa, e non si giova,
sprezzando, di voi che per logorare ogni influenza morale francese
in Italia e togliere un alleato alla vostra illusa nazione.
I proprietarî, i detentori della ricchezza di Francia, imparano
rapidamente le vere idee degli uomini che studiano i segni della
inevitabile trasformazione sociale e cercano le vie per le quali
possa pacificamente compirsi. Essi s'avvedranno che in questi
uomini, oggi ancora fraintesi, è riposta mallevadorìa più potente
che non quella delle vostre leggi repressive e seminatrici di guerra
implacabile contro gli agitatori violenti e i sofisti sovvertitori
d'ogni ordine.
Gli uomini della pace v'abbandoneranno come abbandonarono Luigi
Filippo, appena un nucleo d'arditi scenderà nelle vie delle città
francesi a provare che non v'è pace senza giustizia.
Per tutti questi elementi voi non siete che una transizione ad
altro. Essi vi hanno conosciuto debole, e nessuno lega a quelli del
debole i proprî fati.
E la Francia, la Francia-popolo, la vera Francia, che noi amiamo e
non confondiamo, signore, con voi e coi vostri, la Francia che geme
e freme sotto un obbrobrio non meritato, sentirà un dì o l'altro, ma
di certo entro un breve cerchio di tempo, il rimprovero che pesa
sulla sua fronte, e d'un de' suoi moti di lione lo scoterà via da
sè. La Francia intenderà che la noncuranza colla quale essa concede
ai governi che la dirigono di cancellare o falsare il principio
europeo pel quale essa ha sparso sudori e sangue, non è una
stanchezza momentanea dell'oggi, ma dura da lunghi anni e accumula
sulla sua bandiera diffidenze e reazioni ormai gravi; che vigilano
nell'Europa dei popoli, contro l'amore ch'essa inspirava, la rovina
della libertà spagnuola nel 1823, le promesse fallite all'Italia nel
1831, l'isolamento colpevole del 1848, l'abbandono della Polonia,
l'indifferenza davanti all'invasione russa nell'Ungheria, lo
scredito che sparge per ogni dove sull'idea repubblicana la
repubblica-menzogna immedesimata con essa, e il delitto di Roma; che
la sua potenza d'iniziativa perisce; che a farla rivivere è urgente
ridestarsi; e si desterà.
In quel giorno, signore, abbandonato, schernito, maledetto da quei
ch'oggi s'avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi,
andrete, vittima espiatrice di Roma, a morire in esilio.
Il culto dei nomi, esaurito nell'ultima formula, svanirà per la
Francia e per l'Europa. Il Popolo sarà papa in Roma, presidente in
Parigi.
Principe Luigi Napoleone! Il 14 gennajo 1848 io scrivevo al ministro
Guizot: «Voi siete travolto oggimai dagli eventi che non potete più
prevenire nè dirigere. Voi siete ancora molto potente, signor
ministro; ma noi saremo in ultimo più potenti di voi.» Il ministro
crollava, sorridendo, il capo. Ma dov'era egli in febbrajo?
Dicembre 1850.
1856.
A DANIELE MANIN
I.
Quando voi, capo di repubblica nel 1848, e caro a noi tutti pei
ricordi della gran difesa e per dignità di condotta negli anni
d'esilio, gittaste, rompendo a un tratto il lungo silenzio, la
bandiera - non dirò della repubblica - ma della nazione, ai piedi
d'un re, io vi compiansi e mi dolsi per l'Italia, tacendo.
Mi dolsi per l'Italia, che perdeva in voi un'altra gemma della sua
corona d'illustri, quando appunto la condizione delle cose additava
più urgente il bisogno d'averli tutti congiunti in un solo pensiero
di azione: compiansi voi, che, abbandonando la logica, piana,
diritta via dei principî per frammettervi agli uomini d'opportunità,
e accettando concessioni e transazioni colla coscienza, che illudono
e indugiano da otto anni l'Italia, smarrireste, per legge fatale,
l'intelletto delle circostanze europee, dimezzereste fra le ambagi
d'una dubbia politica le((253)) libere facoltà della mente, e
scendereste, dal seggio d'apostolo della causa patria, alla parte di
strumento inconscio dei diplomatici, ingannatori sempre, e dei
faccendieri di corte: ma tacqui, sperando che l'esame attento dei
fatti vi ricondurrebbe sollecito a miglior partito, e che dall'aver
detto alla monarchia: Fate, e saremo con voi, trarreste vigore
novello per gridare al paese: La nazione salvi la nazione: noi
abbiamo offerto alla monarchia di guidarci, e la monarchia, paurosa
e impotente, ricusa.
Più dopo, io vi vidi, in onta a fatti che dovevano togliervi ogni
speranza, persistere sulla torta via: parlare in nome dei
repubblicani, dai quali non avevate avuto mandato, e sopprimere la
fede repubblicana: parlare in nome d'un partito nazionale non
fondato da voi e i cui martiri muojono, da un quarto di secolo, col
grido di viva l'Italia! e sopprimere la coscienza e il diritto della
nazione. Vi vidi affaccendato a fondare, in onta della moralità,
base necessaria d'ogni progresso, la fusione, l'abdicazione di tutti
i partiti in un solo, il peggiore, sopra un equivoco, sulla parola
unificazione sostituita alla parola unità, senza avvedervi, senza
leggere nella storia delle imprese passate, che uomini i quali si
collegano, pur movendo a diversi fini, possono forse insorgere, ma a
patto di uccidere, colle liti civili, l'insurrezione il dì dopo. Vi
vidi, a fronte di trattati che promettono all'Austria l'interezza
dei suoi possedimenti, ostinarvi a seguire inspirazioni straniere; a
fronte d'un memorandum((254)) che insegna ai governi il come si
possa con miglioramenti locali indugiare, se non vincere, il
proposito degli uomini che cercano la patria comune, dichiarare che
la monarchia piemontese moveva guidatrice all'impresa; poi, quasi
pentito, gridare al partito: Agitate, agitatevi, come se la parola
di O'Connel potesse adattarsi a terra non libera, sulla quale ogni
agitazione è delitto severamente punito; e, impaurito dei
consiglieri, nuovamente ritrarvi: spettacolo tristissimo a quanti
più v'ammiravano e a me primo. E nondimeno avrei, tanto mi pesa
l'accarezzar con l'esempio il mal abito delle polemiche, continuato
a tacermi. Ma una delle ultime vostre lettere avventa, sotto colore
d'insegnamento morale, tale un'accusa al partito, che il non
respingerla parrebbe indifferenza o consenso. Però vi scrivo.
In quella lettera voi dichiarate che il partito non riescirà
nell'impresa patria, se prima non si separa solennemente dalla
teoria del pugnale.
Quella lettera fu stampata all'estero: stampata nel Times, giornale
ch'oggi, iniziato al maneggio diplomatico, accenna alla necessità di
alcune riforme locali nel centro e nel mezzogiorno d'Italia, ma che
fu sempre ed è tuttavia avverso alla nostra causa nazionale, che
predicò in ogni tempo l'alleanza dell'Inghilterra coll'Austria,
s'avventò sistematicamente rabbioso contro ogni insurrezione
italiana, calunniò sfacciatamente gli uomini del partito, inveì
feroce contro i nobili tentativi dei popolani lombardi, e ci
dichiarò a più riprese corrotti, inetti, incapaci di libertà,
accennando soltanto ultimamente, per suggerimento dei suoi padroni,
a un indizio di miglioramento innegabile nel Piemonte; come se Roma,
Milano, la vostra Venezia e dieci altri punti in Italia, non ci
avessero, nel 1848 e nel 1849, dichiarato agli onesti di tutta
Europa, razza non inferiore ad alcuna in attitudine a governi liberi
non guasti da licenza e anarchia.
In giornale siffatto, voi, per senso di dignità personale e di
rispetto alla vostra nazione, non dovreste mai scrivere. Ma come non
v'avvedeste a ogni modo che, inserendovi quella lettera, voi,
sottraendovi ad ogni accusa e decretando a voi solo una patente di
moralità, prestavate al nemico un'arme potente contro il partito,
contro il paese?
Quando il turpe maneggio governativo, al quale voi porgete oggi
inconscio l'autorità del vostro nome, avrà raggiunto il suo fine, o
dispererà di raggiungerlo - quando i padroni del Times, ch'oggi
tentano di sviarci, colle illusioni delle riforme locali, dall'unica
meta, la libera Unità Nazionale, crederanno giunto il momento di por
fine al mal gioco e di mutare linguaggio - essi commenteranno la
vostra lettera, e ne dedurranno che noi abbiamo statuito, mezzo alla
nostra emancipazione, la teoria del pugnale; che il partito o
frazione importante del partito l'accettava, che voi, capo di
repubblica un giorno e nome autorevole, v'eravate sentito in obbligo
di protestare contro la teoria; ma che il partito - e questo lo
dedurranno dal primo fatto isolato d'ira o vendetta individuale che
si commetterà in un angolo della penisola - non avendo accettato il
vostro consiglio, noi siamo un popolo feroce, irreparabilmente
guasto, e indegno delle simpatie dell'Europa.
E quasi a convalidare anzi tratto accusa siffatta e lasciar che
altri creda in una potenza segretamente ordinata a uccidere chi
dissenta, voi parlate a più riprese di coraggio che v'è necessario
per dettar quella lettera. Coraggio! Voi sapevate, scrivendo, che
tuonando contro il pugnale raccogliereste, senz'ombra di rischio da
anima viva, lode di moralissimo tra gli educatori d'Italia, da
quanti, seduti all'ombra della loro bandiera patria e assicurati
nell'esercizio dei loro diritti da una ben ordinata giustizia
nazionale, giudicano, freddamente severi, i palpiti irregolari,
convulsi, d'un popolo oppresso, ineducato, senza speranza fuorchè in
una lotta di sangue, senza tribunale che ristabilisca equilibrio tra
esso e chi lo perseguita.
Da taluni mi fu detto che, denunziando la teoria del pugnale, voi
accennavate obliquamente, senza nominarmi, a me e agli uomini
affratellati con me in un pensiero d'azione. Non vi credo d'animo
basso; e respingo il sospetto. Pur, come mai gli affetti dovuti a
chi combatte da oltre 25 anni per la causa italiana non vi
suggerirono che altri potrebbe interpretare le vostre parole a quel
modo? Come non ricordaste che i governi e i giornali dei moderati
piemontesi e lombardi, e il Times, depositario dei vostri pensieri,
tentarono a gara di diffondere contro me la codarda accusa, dopo il
6 febbraio 1853? Come non vi venne in mente che, inalzandovi contro
la teoria del pugnale, soccorrevate, scortesemente immemore, alle
calunnie delle spie, dei creduli e dei nemici senza coscienza, che
m'apposero sentenze di morte, tribunali segreti e tendenze a
vendette illegali?
E non di meno, non è in nome mio - a me oggimai poco importa di ciò
che l'opinione altrui, quando non mova da coloro che io amo e che
m'amano, sentenziò a mio danno o a mio pro - ma in nome di tutto un
partito, ch'io vi chiedo solennemente: quand'è che fu sancita in
Italia la teorica del pugnale? chi la stese? chi l'appoggia coi
fatti, o colla parola?
Se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi grida a
una gente schiava, senza patria, senza bandiera che ne ombreggi la
culla e la sepoltura: «Sorgete: morite o spegnete: voi non siete
uomini, ma arnesi adoprati a beneplacito dello straniero; non siete
popolo, ma razza diseredata di servi sprezzati quanto più guaîte;
non siete Italiani, ma Israeliti, Paria, Iloti d'Europa; non avete
nome, non battesimo di nazione, ma siete numero, vi rappresenta una
cifra, e Francesco I descriveva con essa sfrontatamente le migliori
anime nostre gementi, tormentate, schiacciate nelle segrete di
Spielberg; primo, unico vostro debito è farvi uomini, cittadini;
ogni educazione comincia da quello; nessun progresso può iniziarsi
se non da chi è: sorgete dunque e siate; sorgete tremendi a quanti
v'attraversano, in nome della forza brutale, le vie che la
Provvidenza v'insegna: sorgete sublimemente feroci. Se i vostri
oppressori vi hanno disarmato, create l'armi a combatterli: vi siano
istrumenti di guerra i ferri delle vostre croci, i chiodi delle
vostre officine, i ciottoli delle vostre vie, i pugnali che la lima
può darvi. Conquistate colle insidie, colle sorprese, l'armi colle
quali lo straniero vi toglie onore, sostanze, libertà, diritto e
vita. Dalla daga dei Vespri, al sasso di Balilla, al coltello di
Palafox, benedetta sia nelle vostre mani ogni cosa che può
distruggere il nemico ed emanciparvi.» - Quel linguaggio è il mio, e
dovrebbe essere il vostro. L'arme che uccise Marinovich, nel vostro
arsenale, iniziò l'insurrezione della quale accettaste la direzione
in Venezia; e fu arme di guerra non regolare, come quella che
trafisse in Roma, tre mesi prima della Repubblica, il ministro
Rossi.
Ma se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi dicesse
ai nostri concittadini: «Perite, non iniziando l'insurrezione, ma
pel solo intento di ferire, e perchè non volete, non potete
insorgere: ferite nell'ombra: ferite isolatamente individui, la vita
o la morte dei quali non è nè salute nè ostacolo alla Patria;
sostituite la vendetta, che disonora, alla congiura che emancipa:
fatevi tribunale, prima di essere cittadini, prima di poter
concedere alla vittima pentimento o discolpe:» - Chi tenne questo
linguaggio((255))? chi stese in Italia l'atroce teorica? È debito
vostro il dirlo o ritrattare l'accusa.
Quel linguaggio fu susurrato segretamente una sola volta, nel 1849,
da qualche tristo, a pochi traviati in Ancona: e noi, repubblicani,
rispondemmo ponendo Ancona in istato d'assedio, e reprimendo con
vigore, mentre appunto le fazioni fremevano più che mai concitate
intorno a noi per l'invasione francese, quei fatti insensatamente
feroci. La repubblica uscì da Roma pura di terrore e vendette, senza
aver segnato, tra i pericoli dell'assedio, una sola condanna di
morte.
D'allora in poi, ravvolta nuovamente l'Italia nella tenebra della
servitù, pochi fatti isolati di ferimenti uscirono, risposta
disperata a lunghe inaudite persecuzioni, dall'inspirazione
individuale, da furore d'uomini ai quali le commissioni militari
torturavano forse o fucilavano un padre o un fratello. E a voi era
lecito biasimarli, deplorarli inutili, pericolosi, o indegni d'un
partito che tende a creare un Popolo: non addossarli all'intero
partito, e additarli all'Europa come applicazioni pratiche d'una
teorica che non esiste. Errano tuttavia, tra' vivi, uomini usciti
imbecilli dalle prigioni di Modena per infusione di belladonna
ministrata nelle bevande a sconvolgere loro la mente e farsi
accusatori d'amici: un Cervieri, popolano lombardo. - e cito un solo
nome ad esempio - ebbe in Mantova venti colpi di bastone al giorno,
per una settimana: sul danaro che i congiunti mandavano al
colonnello Calvi, perch'ei prima di morire strangolato pagasse un
suo debito a un prigioniero, gli Austriaci, rifiutando pagare il
debito, ritennero le spese della fune e del boja: e se un figlio, un
fratello di Cervieri, di Calvi o di quegli infelici, avesse, fatto
furente, dato di piglio ad un'arme, e trafitto in piazza il primo
tra i persecutori in cui si fosse abbattuto, direste voi frutto di
teorica quella uccisione?
In questo - nell'insana, incessante, efferata persecuzione contro il
pensiero, contro i menomi atti sospetti, contro le sostanze, contro
la vita di quanti sono rei o creduti rei d'affetti al paese - nel
bastone fatto legge di mezza Italia - nell'insolenza perenne di
padroni stranieri - nell'irritazione febbrile generata dai precetti
e da uno spionaggio sfrontato - negli odî educati dalle denunzie
pagate - nelle prepotenze consumate sotto l'egida d'un governo
aborrito come il papale, da tirannucci subalterni, noti a ogni
individuo delle nostre non vaste città - nell'assenza d'ogni
educazione popolare - nel disprezzo forzato d'ogni instituzione
esistente - nell'impossibilità di trovar giustizia contro i sorprusi
degli oppressori - nello spregio della vita, conseguenza inevitabile
d'ogni incertezza del domani - in una condizione di cose, che non
poggia se non sull'arbitrio del potente - nella colpevole
indifferenza dell'Europa governativa a un pensiero di Patria comune,
ad una immensa aspirazione nudrita e inesorabilmente repressa da
mezzo secolo - vive la teorica del pugnale.
Il partito, collettivamente, ha respinto sempre e respinge la
tentazione tremenda che i nostri padroni ci porgono: se pochi
individui, organi di non altro che della propria inspirazione,
soccombono, è fatto e conseguenza delle cagioni che accenno, e che
non cesserà se non col cessare di quelle. Bisognava dirlo. Bisognava
ricordare all'Europa come, sopra ogni punto d'Italia, il nostro
popolo fu sublime - ogni qual volta ebbe un lampo di viver libero -
di perdono e di oblio. Bisognava ricordarle, ciò che pur jeri un
ministro inglese dichiarava, contradicendosi, a proposito di Roma,
davanti ai Comuni((256)) che le nostre città non furono mai sì bene
governate e così pure di delitti e violenze, come quando una
bandiera di Patria sventolò sulle loro torri. Bisognava ritessere il
quadro delle nostre misere condizioni, e gridare: il governo
austriaco, che s'ostina, contro il voto unanime della popolazione, a
conservare ciò che non è suo; il governo di Francia, che tolse a
Roma ogni via di miglioramento; il protestante governo inglese che
dichiarò nei suoi dispacci di volere il ritorno del papa; i governi
tutti d'Europa, che vietano all'Italia di essere nazione stanno
mallevadori davanti agli uomini e a Dio pei pugnali che lampeggiano,
tra l'ombra, sulle nostre terre. Essi cospirano tutti a contrastare
il nostro libero sviluppo, a mantenere sul nostro suolo una grande
Ingiustizia: incolpino sè stessi s'esce talora, di mezzo a una gente
schiava, ineducata, abbandonata da tutti, una protesta anormale,
violenta.
Era questa, parmi, la parte vostra. Gridare ad uomini che agonizzano
ingiustamente sotto il coltello del boja: «non usate il coltello che
vi vien tra le mani» è tutt'uno col gridare a chi muore in una
atmosfera appestata: corra regolare il sangue nelle vostre vene;
guarite: è lo stesso errore che quello dei valentuomini i quali
aspettano per iniziare l'instituzione repubblicana, che i nati e
educati sotto il dispotismo monarchico, abbiano virtù di
repubblicani.
La teorica del pugnale non ha mai esistito in Italia; il fatto del
pugnale sparirà quando l'Italia avrà vita propria, diritti
riconosciuti e giustizia.
Oggi io non approvo, deploro, ma non mi dà il core di maledire.
Quando un uomo, Vandoni, accerchia d'artificî in Milano il suo
vecchio amico, per far ch'egli accetti da lui un biglietto
dell'Imprestito Nazionale, poi corre a denunciarlo alla polizia
dello straniero - se un popolano si leva il dì dopo e trafigge il
Giuda a mezzo il giorno sulla pubblica via - io non mi sento
coraggio di gettar la pietra a quel popolano, che s'assume di
rappresentare la giustizia sociale aborrita alla tirannide.
Io aborro anche da una sola goccia di sangue, quando non richiesta
imperiosamente pel trionfo e per la consecrazione d'un santo
principio. Credo colpa la pena di morte applicata dalla Società che
può difendersi, e vagheggio, primo decreto della repubblica
trionfante l'abolizione del patibolo. Gemo sulle vendette
individuali, anche se contro gl'iniqui, anche se manchi, ove si
compiono, ogni rappresentanza di giustizia legale. Ricusai,
affrontando la taccia di debole, di apporre in Roma la mia firma a
una condanna nel capo pronunziata da un tribunale di guerra contro
un soldato colpevole. Non temo dunque dagli onesti, interpretazione
sinistra alle mie parole, se aggiungo che sono, nella vita e nella
storia delle nazioni, momenti eccezionali ai quali il giudicio
normale umano non può adattarsi, e che non ammettono inspirazioni
fuorchè dalla coscienza e da Dio.
Santa è nelle mani di Giuditta la spada che troncò la vita ad
Oloferne; santo il pugnale che Armodio incoronava di rose; santo il
pugnale di Bruto; santo lo stile del siciliano che iniziò i vespri;
santo il dardo di Tell. Quando, dove ogni giustizia è morta e un
tiranno nega e cancella col terrore la coscienza d'una nazione e Dio
che la volle libera, un uomo, puro d'odio e d'ogni bassa passione e
per sola religione di Patria e dell'eterno diritto incarnato in lui,
si leva di faccia al tiranno e gli grida: tu tormenti i milioni dei
miei fratelli: tu contendi loro ciò che Dio decretava per essi: tu
spegni i corpi e corrompi le anime: per te la mia patria agonizza
ogni giorno, in te fa capo tutto un edifizio di servitù, di disonore
e di colpe: io rovescio quell'edifizio, spegnendoti - io riconosco,
in quella manifestazione di tremenda eguaglianza tra il padrone dei
milioni e un solo individuo, il dito di Dio. I più sentono in core
come io sento: io lo dico.
Io dunque non gitterei, come voi, Manin, l'anatema su quei feritori:
non direi loro, con ingiustizia patente: siete codardi; non direi al
Partito, che non incuora quei fatti: fallirete allo scopo se non
fate che cessino - ma direi: «perchè ferite, o miseri? che sperate?
se mai l'uomo ha diritto sulla vita dell'uomo, io so che la spia, il
traditore, l'italiano, che accetta, per danaro, dall'oppressore
straniero la infame missione di torturare o consegnare al patibolo i
suoi fratelli intolleranti della servitù della Patria, son tristi e
degni di morte; ma importa spegnerli? e potete spegnerli tutti? E
potete esser giudici voi soli di ciò che s'agiti nella coscienza
delle vostre vittime? Sapete voi se non saranno pentiti e migliori
domani? e a ogni modo, volete esser tristi come essi sono? A
vincere, noi dobbiamo esser migliori; a meritar la vittoria, noi
dobbiamo cancellare dal nostro core ira, ferocia, vendetta. Noi
siamo gli apostoli della Patria futura: vogliamo fondar la Nazione.
In quella sacra idea, e nel dovere di far che trionfi, sta la
sorgente dei nostri diritti. Or potete fondar la Nazione, conquistar
la Patria a quel modo?
«A voi è mestieri di spegnere, non pochi satelliti dei vostri
tiranni, ma la tirannide. E finchè vivrà - finchè avrete corruttori
in seggio, bajonette straniere e patiboli, avrete corrotti, schiavi
traditori per codardia, e tormentatori e carnefici; e ripulluleranno
pur sempre, perchè il vostro pugnale lampeggia raro ed incerto e la
bajonetta degli oppressori splende sugli occhî loro continua,
inesorabile, onnipotente. Concentrate adunque la vostra energia in
un pensiero d'insurrezione collettiva, che liberi a un tratto il
vostro suolo dalle cagioni che creano i vili ed i tristi. Volgete,
intesi fra voi, contro gl'invasori stranieri quei ferri, che oggi
adoprate, assumendovi una tremenda missione di giudici, senza esame
e senza difesa, contro uomini, che non sono se non arnesi della
tirannide che vi sta sopra. Liberi, non avrete da temere o da punire
traditori o giudici iniqui. Il diritto di conquistarvi una Patria è
diritto che Dio vi dà: quello che vi date da per voi contro((257))
gl'individui, agenti ciechi del dispotismo, si libra tra la
giustizia e il delitto.»
Se non che, a me, quegli uomini concederebbero il diritto di tener
loro questo linguaggio, però che io grido insorgete e addito la via
unica, semplice, razionale, e m'adopro, per quanto io so, perchè
possano insorgere, e accetto e invoco la cooperazione fraterna di
tutti, e chiamo gl'Italiani ad unirsi tutti in opre concordi ed
attive intorno a un programma che nessuno, senza intolleranza o
tradimento alla Patria comune, può rifiutare: La nazione salvi la
nazione: la nazione decida, libera ed una, dei suoi destini. Ma voi?
Ponetevi la mano sul core, e rispondetemi: se un di quegli uomini
sui quali voi chiamate l'anatema, sorgesse a dirvi: «Voi ci avete,
Daniele Manin, predicato, con altri, l'odio alla dominazione
straniera, l'idea nazionale, l'aborrimento agl'Italiani che
rinnegano la nostra fede. Voi, con altri, avete messo nell'anima
nostra la febbre di Patria. Perchè, cogli altri, non ci guidate alla
conquista di quell'ideale? Perchè ci lasciate soli? Perchè, invece
di volgervi a noi, fratelli vostri, vi volgete alla diplomazia, alle
corti straniere, a una monarchia che non vuole e non può salvarci?
Noi siamo milioni; v'abbiamo, nel 1848 e nel 1849, provato che siamo
capaci di emancipare il nostro terreno: siamo oggi più forti
d'allora, e ve lo provano i fatti stessi che biasimate: perchè non
ci ajutate nell'opera del riscatto comune che di certo preferiremmo?
perchè voi cogli altri, che salutammo, e siam pronti a salutare oggi
ancora nostri capi, non v'unite a chi lavora per noi? Voi non amate
i nostri pugnali, perchè non ci date fucili? Voi lo potete: voi e
dieci altri nomi cari a tutti, unendovi a dire, palesemente,
arditamente: è giunta l'ora! unendovi a chiedere ai facoltosi una
parte del loro oro per noi che poniamo il nostro sangue sulla
bilancia, riescireste, convincereste, indurreste a sacrificî quei
che oggi, nell'anarchia del partito, tentennano irresoluti. Perchè
nol fate? Perchè ci trascinate d'illusione in illusione, finchè
scenda sull'anime nostre la disperazione? volete che i potenti
d'Europa scendano a scannarsi per noi? volete che l'emancipazione
d'Italia si compia con forze straniere? No; venite apertamente,
francamente con noi. Aggiungete la vostra mente alle nostre braccia.
Allora soltanto avrete diritto di consigliarci.» - Che potreste voi
rispondere a linguaggio siffatto?
Londra 8 giugno.
II.
Io non vi rimprovero i subiti amori per casa Savoja. Se a voi,
fautore di repubblica jeri, piace il giogo d'un re, sia: meglio è
dirlo che tacerlo. Se alle nobili tradizioni, repubblicane tutte,
del nostro popolo, voi anteponete le tradizioni d'una famiglia, la
cui storia si libra perennemente fra le invasioni di due potenze
straniere - se alla libera, logica ed una espressione della
coscienza nazionale parvi preferibile il complesso, artificiale
viluppo, che chiamano monarchia costituzionale, un popolo
imperfettamente rappresentato, una aristocrazia creata - dacchè
aristocrazia propriamente detta non esiste in Italia - a incepparne
sistematicamente la volontà, un sovrano che non governa, ma oscilla
fatalmente fra i due - giudichi il paese il vigore del vostro
intelletto: voi avete il diritto di predicare il concetto politico
inglese, che volete trapiantare in Italia. Io non parteggio per casa
alcuna: la mia casa è il Paese: il mio amore è riposto nella Patria
comune; la mia fede vive negli sforzi, nel sangue, nella suprema
energia del suo Popolo; la mia nozione del dritto posa sulla vita
progressiva della nazione guidata dai migliori per senno e virtù; ma
non m'irrito se altri dissente, e non credo che la discussione
nuoccia alla mia fede repubblicana. Veglia, arbitro su tutti noi, il
Paese. Io fido in esso.
Ciò che io vi rimprovero è il modo e il tempo di quel programma; è
il mutare in formula di agitazione politica, prima del moto, un
concetto che non può essere se non la conclusione del moto stesso; è
l'oblìo assoluto, fatale dell'altra, della prima metà del programma,
l'insurrezione; è l'irritare, l'allontanare più sempre dal terreno
comune, indicato ripetutamente da noi, la parte repubblicana,
comandandole dittatoriamente di gittare, ai piedi della frazione
monarchica, la propria bandiera; è il sedurre a speranze
addormentatrici in disegni segreti del governo piemontese, la
gioventù fremente delle nostre terre, quando non esiste disegno
alcuno, se non quello d'accattarsi popolarità e prepararsi le vie
per padroneggiare e sviare un moto nazionale possibile; è il dire:
la rivoluzione è vicina, come se l'Italia dovesse riceverla compiuta
da un motu-proprio di gabinetto, invece di dire: fate la rivoluzione
e siate; è il gridare: Roma non mova, invece di gridare: mova ogni
angolo del paese; è il dichiarare che l'unificazione nazionale ha
progredito d'un passo, perchè un ministro di casa Savoja ha tentato
insegnare ai nostri padroni come s'eviti l'insurrezione
unificatrice; è il travolgere - concedetemi l'acerba, ma giusta
parola - nel ridicolo voi stesso, e, se poteste, il Partito,
proclamando dall'esilio, e prima che un sol uomo sia desto a
combatter tra noi, unificatore d'Italia un re, che non tenta, nè
vuole, nè può unificare, i cui cortigiani rifiutano le vostre
parole, e i cui ministri perseguitano, imprigionano e trasportano in
America quei che si adoprano a mover guerra allo straniero,
dismembratore della nostra Patria.
A chi giova la prematura, incauta proclamazione?
Al monarca che oggi servite?
No. La corona d'un popolo che sorge non s'ha in dono; si vince.
Volerla, prima di meritarla, è perderla. Se Carlo Alberto, invece
d'attendarsi nel quadrilatero, correva, per impedire i rinforzi, ai
monti; se, invece d'arrestarsi davanti ai pali della confederazione
Germanica accampava in Tirolo; se invece di volere che Venezia, la
vostra Venezia, Manin, scontasse la colpa della sua bandiera
repubblicana, ei s'affrettava a difenderla e a cingere i passi delle
Alpi Friulane e Cadoriche; s'ei non patteggiava col governo inglese
la inviolabilità di Trieste; se, invece di rifiutare gli ajuti d'un
popolo prode e voglioso, invece di sciogliere i volontarî, ei
chiamava la libera guerra dei cittadini a fiancheggiare la battaglia
dell'armi regolari; s'ei voleva, insomma o sapeva vincere, nessun
partito valeva a contendergli la corona d'Italia.
La malaugurata fusione, affrettata appunto quando l'impresa volgeva
in peggio, perdè lui e il paese ad un tempo. Dite al vostro re
d'assalire e di vincere; quella è l'unica via per la quale ei possa
sperare di cingersi la corona che voi gli decretate, mentr'egli, in
virtù dei trattati, siede allato degli stranieri, occupatori di due
terzi d'Italia.
O giova al paese?
Il paese, Manin, vive anch'oggi inerte, immemore dei suoi doveri,
tra il capestro e il bastone. Bisogna insegnargli la fede in sè,
colla fede in esso, l'unità dei voleri, colla concordia degli
uomini, ch'egli a torto o a ragione saluta suoi capi, l'energia
delle decisioni, colla insistenza d'una parola vera, ardita,
immutabile. Bisogna additargli uno scopo determinato, i mezzi logici
che ad esso conducono, i doveri che deve compire a raggiungerlo.
Bisogna rapirgli inesorabilmente tutte le illusioni che lo disviano,
poi rialzarlo colla conoscenza delle forze onnipotenti ch'esso
possiede e dimentica. Bisogna, sopra ogni cosa, dargli coscienza di
sè, della propria dignità, del diritto eterno che vive in esso,
della tradizione de' suoi padri, dell'alta missione alla quale è
chiamato nell'avvenire. Voi gli dite: Agita le tue catene, e
scegliti un re.
A fronte di quei che gli dicono: Rompi le tue catene e sii re di te
stesso, voi gli fate intravedere, nel nome di Vittorio Emanuele,
un'arcana potenza che deve emanciparlo ed unificarlo; gl'insegnate,
con un consiglio codardo, a disperare di vincere la gente straniera
che occupa la sua Roma; lo dichiarate, da un lato, colla negazione
del dogma repubblicano, incapace di guidarsi da sè; dall'altro,
avviato già pienamente, mercè le cure del re piemontese e dei
gabinetti stranieri, alla meta. Così, o Manin, non si destano:
s'addormentano i popoli. L'Italia aspettava ben altro linguaggio da
voi.
È tempo di dire all'Italia, e senza riguardi, la verità. Gli uomini
i quali sagrificano, e ripetutamente, le loro convinzioni a un
calcolo d'opportunità momentanea - gli uomini che, a sciogliere il
problema italiano, guardano all'estero e non nelle viscere del paese
- gli uomini che, dopo aver maledetto alle delusioni del 1848,
chiamano l'Italia a rifar quella via di vergogna e sciagura - gli
uomini che, dopo aver veduto il popolo vincere su dieci punti
d'Italia, e l'esercito regolare, mal guidato e tradito, soccombere,
insegnano al popolo che non può vincere, se non mercè quell'esercito
- gli uomini che credono l'opera di alcune dichiarazioni sospette e
d'alcune adulazioni mentite, bastevole a conquistare ad un tempo
esercito e governo che lo dirige - gli uomini che susurrano
possibile, prezzo d'apostasia, l'iniziativa della monarchia
piemontese - gli uomini che, dopo tanto millantar di vulcani e ruine
presso ad esplodere, non gridano unanimi al paese: vergognati e
sorgi - tradiscono, consci o inconsci, per difetto di core o di
senno, la causa della Nazione. Qualunque sia il nome che portano, la
nazione deve rifiutarne i consigli.
Quell'esercito, pel quale voi siete presti a dimenticar la Nazione
intera, lo avremo: è esercito italiano, prode, memore, e sente con
noi l'aborrimento dello straniero; ma non lo avremo, fuorchè
levandoci e invocandone, armati, l'armi. Quel re, al quale in oggi
piaggiate, come piaggiaste, per poi maledirlo, al padre di lui, lo
avrete - e piaccia a Dio che non abbiate a pentirvene - purchè
vogliate: è giovine, coraggioso; l'onta di Novara e l'insulto
austriaco devono da quando a quando balenargli sugli occhî, ed è
possibile ch'egli un giorno, commosso a forti pensieri, cacci da sè
i codardi uomini di gabinetto, che lo circondano, e si faccia, di
piemontese, italiano; ma non prima che voi sorgiate, non prima che
voi gli abbiate offerto, in azione, un più potente alleato che non è
la diplomazia, non prima che il grido di un popolo sommosso gli
abbia tuonato all'orecchio: scendi o inalzati con noi. I re seguono
talora, non iniziano mai. Chi tenta indugiar la Nazione dietro al
fantasma d'un'iniziativa monarchica, o inganna, o ha smarrito il
senno.
Le tradizioni del governo piemontese son regie. La monarchia è
vincolata, da vecchî e nuovi trattati, alle altre monarchie, e alle
norme generali d'ordine e assetto territoriale europeo, prestabilite
da lungo. Può il governo piemontese rompere a un tratto, non
provocato, non costretto dalla prepotenza di fatti, spettanti ad un
ordine nuovo, quei vincoli e quei trattati? Tutta la politica degli
uomini del gabinetto sardo poggia sulla speranza di conquistarsi la
simpatia e, occorrendo, l'appoggio dei gabinetti inglese e francese;
può il gabinetto sardo provocarsi contro l'ira dei due alleati, i
quali, col linguaggio officiale e segreto, gl'intimano una politica
di resistenza, e non altro? Ogni idea di mutamenti territoriali fu
solennemente, unanimemente respinta, nelle Conferenze di Parigi: il
diritto italiano vivente, fremente nei Lombardo-Veneti, non ottenne
dai plenipotenziarî sardi neanche una sommessa, indiretta allusione:
riconoscendo la legalità dello statu-quo, essi s'accontentano
d'accennare a una teorica possibile di non intervento, che vietasse
all'Austria d'allargarsi oltre agli attuali confini((258)); e
pretendereste che re Vittorio Emanuele scendesse un giorno
subitamente in campo, varcasse spontaneo il Ticino e la Magra,
intimasse ai re delle varie parti d'Italia di scendere; intimasse,
affrontando scomuniche e l'armi dell'Impero alleato, al Papa di
rassegnare la potestà temporale, e, fatto incitatore d'insurrezione,
sovvertitore dell'equilibrio territoriale e del diritto comune
governativo europeo, cacciasse il guanto a tutta quanta la lega dei
re? Voi, re, nol fareste. Io, re, scenderei dal trono, mi rifarei
cittadino, e il dì dopo, libero d'ogni vincolo coll'Europa
monarchica, griderei a soldati e a cittadini: seguitemi all'impresa.
Sperate l'una o l'altra decisione da re Vittorio Emanuele?
Voi dunque, ai quali par fede che una nazione non possa farsi e
vivere senza re, non potete avere il re che chiedete, se non
aprendogli la via con una insurrezione di popolo. L'Insurrezione è,
per voi come per noi, l'unica soluzione possibile del problema
italiano. Per voi, come per noi, l'iniziativa dell'impresa spetta al
nostro popolo: il monarca unificatore non può che seguire;
l'esercito piemontese non può che rispondere alla chiamata de' suoi
fratelli. Perchè dunque non vi unite con noi a procacciare, a
promovere, a persuadere l'insurrezione? Perchè, invece di decretare,
voi esule, a una terra schiava un re alleato in oggi degli alleati
dell'Austria, non vi adoprate con noi a scuotere i giacenti, a
rinfrancare gl'incerti, a raccogliere gli ajuti per chi vuol movere,
a diffondere concordi la parola che suscita, a cominciar contro
l'Austria quella guerra, che può sola presentare al re vostro
opportunità di snudare la spada e rivelare all'aperto le generose
intenzioni, susurrate oggi misteriosamente all'orecchio dei creduli,
dai faccendieri di corte?
Invertendo l'ordine logico dei fatti, che devono e possono
costituire lo sviluppo della nostra rigenerazione, voi, che pur vi
dite pratici e positivi, nuocete al popolo, smembrando il Partito
Nazionale che deve guidarlo, disertando l'unico terreno comune, sul
quale tutte le forze potevano e possono tuttora raccogliersi;
nuocete al re, facendolo apparire davanti all'Europa provocatore
segreto d'agitazioni ostili ai governi; aizzandogli contro le
ammonizioni e le minaccie di quegli stessi gabinetti che, disposti a
salutare un fatto potente compiuto, desiderano pur non di meno
impedire che sorga, costringendolo, quand'ei non abbia energia o
ipocrisia sovrumana, a legarsi verso i governi europei con nuove
promesse di pace, d'ordine, d'immobilità, se non forse di
repressione. Siete a un tempo amici imprudenti, tiepidi e malsicuri
patrioti.
Perchè dunque ostinarvi su quella via? Perchè, uomini che amano
anch'essi sinceramente il paese, non si stringono in un accordo
comune di pensieri e d'azioni onde persuadere all'Italia che il
momento per levarsi è venuto, e ajutarla ad afferrarlo con celerità
di mosse e imponenza di forze?
S'arretrano essi forse impauriti davanti all'esclusivismo
repubblicano?
No: voi non proferirete quella parola, Manin; voi men ch'altri
potreste proferirla senza arrossire. La storia dei tentativi fatti
da me, perchè tutti ci unissimo sopra un terreno, che non è il mio,
ad ajutare le tendenze generose d'un popolo, che è migliore di noi
letterati, v'è nota. Ma, lasciando la banda gli sforzi inutili d'un
individuo, il grido unanime dei repubblicani d'Italia, convalidato
da fatti innegabili, sorgerebbe a smentire l'accusa.
La Nazione salvi la Nazione: la Nazione, libera ed una, decida dei
suoi propri fati - è programma esclusivo? Può intendersi, senza
quella formola, l'esistenza d'un Partito Nazionale? Non possono, non
devono, all'ombra di quella bandiera, abbracciarsi quanti cercano la
Patria comune, a qualunque frazione appartengano? Non rimane
l'avvenire aperto a ciascuno?
Noi, repubblicani oggi siccome jeri, non vogliamo imporre
repubblica, e confessiamo arbitro supremo il paese: voi,
repubblicani jeri, volete in oggi imporre la monarchia: chi è
l'esclusivo tra noi?
Giugno 30.
III.
In una vostra lettera, s'io non erro, del 28 maggio, voi decretavate
Vittorio Emanuele re unificatore d'Italia.
Nella vostra del 26 giugno, voi professate d'insegnare, per mezzo
della stampa inglese, agl'Italiani di Napoli, il modo d'ottenere che
Ferdinando ridiventi monarca costituzionale delle Due Sicilie. Se
migliaja, anzi milioni d'uomini, schiavi d'una tirannide illimitata,
possano quetamente intendersi a praticare universalmente un rimedio
più che difficile e rare volte tentato là dove vivono libertà e
diritti custoditi da corpi deliberanti - se, dove potesse
raggiungersi armonia di voleri siffattamente miracolosa, non valga
meglio scendere in piazza ed emanciparsi a un tratto dall'esoso
governo - è questione che gli uomini del regno sciorranno, se giunge
ad essi il vostro consiglio. Io scrivo a chiedervi, a chiedere agli
amici vostri, come si concilii la unità d'Italia sotto Vittorio
Emanuele col ristabilimento d'una monarchia costituzionale in
Napoli. L'Italia ha lungamente deplorato, Manin, il vostro silenzio;
temo che voi dovrete deplorare tra non molto l'ora, in cui i
suggerimenti di falsi o d'incauti amici v'indussero a romperlo.
Che cosa è che volete? In chi credete? qual via pratica di
risurrezione additate voi all'Italia? Qual è il principio, il metodo
che vi guida? Ogni uomo che s'arroga il diritto di consigliare un
Popolo, ha debito di dirlo chiaro. Voi accarezzate il linguaggio
reciso, laconico, dittatoriale, dell'uomo che si sente capo, e
domanda d'esser seguito; non potreste avere aperto, logico, definito
il pensiero? Volete l'unità d'Italia sotto un solo monarca, o volete
sette principi che, di fronte a minaccie interne o straniere,
giurino oggi e sgiurino domani costituzioni? Volete un'insurrezione
nazionale che ci conquisti colla forza delle armi la Patria comune,
o volete riforme locali, che ci diano una dose omeopatica di
libertà, concessioni che ci addormentino, amnistie che ci
disonorino? Quando chiedete al Popolo agitazione, intendete
agitazione di petizioni, dimostrazioni pacifiche, come quelle che
precedettero nel 1848 le cinque giornate, e che oggi sarebbero
accolte dalla mitraglia, o le sommosse parziali, che annunziano e
talora affrettano l'insurrezione? Quando dite che la rivoluzione è
forse vicina, accennate a un levarsi di moltitudini o ad una mossa
spontanea del monarca unificatore? Quando scongiurate che Roma non
mova, insegnate codardia all'insurrezione o fidate in arcani disegni
dell'uomo del 2 dicembre?
A voi, ai vostri, incombe rispondere; e nol farete. Nol farete,
atteggiandovi a sprezzatori di richieste che chiamerete imprudenti,
a diplomatici che non possono, senza grave danno, rivelare il loro
segreto. Ma il vero è che non potete rispondere. Voi non avete
segreto; non avete programma; non avete principio che vi guidi. Voi
non vivete di vita italiana, ma d'inspirazioni straniere. Voi
cercate l'Italia, non nelle aspirazioni e nella potenza, provata
pochi anni addietro, delle sue moltitudini, ma nei suggerimenti,
nelle instigazioni di gabinetti, che ci hanno sempre traditi. Io ne
conosco gli agenti, e potrei nominarli.
I governi europei tremano dell'Italia. Questa povera Italia, Cristo
delle nazioni pei patimenti, ha pure fidata a sè dalla Provvidenza
la parola della grande universale risurrezione; e lo sanno. Sanno
che il giorno in cui, inspirata da un momento di fede suprema, essa
oserà proferirla, la sepoltura, nella quale son posti a giacere i
popoli, si aprirà in un subito a dar varco alla nuova vita. Sanno
che noi teniamo in pugno la questione delle nazionalità, il nuovo
assetto d'Europa. Sanno che un grido potente di redenzione non può
sorgere da questa terra, che ha dato due volte la parola d'Unità
alle razze europee, senza suscitare Ungheria, Polonia,
Germania, Francia, Grecia, e Slavi meridionali. E quando, frutto dei
casi europei, delle nuove delusioni, della rinfierita tirannide, ed
opera del partito al quale io mi onoro d'appartenere, sorse il
fermento confessato dai memorandum, dai discorsi ministeriali e
dalla stampa europea, essi, i governi, s'affrettarono impauriti a
cercare, poichè non potevano spegnerlo, il come sviarlo, e
s'appigliarono al vecchio artificio del 1831 e del 1848, dividere in
due correnti la piena che minaccia sommergerli, smembrare in due
campi il campo della nazione, incitar gli uni, i più lenti, sì che,
non movendo mai, accennino pur sempre di movere, frenar gli altri, i
più fervidi, colle speranze di eventi prossimi e d'una unione
generale di forze, che non verrà mai, se non da un audace fatto
compiuto. A questo concetto, sorgente in oggi di quanto s'opra o si
mormora nelle sfere governative, era necessaria una bandiera,
un'autorità di nome italiano, noto e caro all'Italia, che
impiantasse il dualismo nelle nostre file: e scelsero voi. Voi
siete, inconscio, il Gioberti del 1856.
Tornate a noi, Manin; tornate al campo della nazione; tornate agli
uomini che difendevano l'onore d'Italia in Roma, mentre voi lo
difendevate in Venezia; tornate al Popolo, al Popolo che combatte e
muore, al popolo che non tradisce, al Popolo delle cinque giornate,
al Popolo dei grandi fatti di Sicilia, di Bologna, di Brescia, della
città che v'ha dato vita. Siete in tempo. Lacerate tutte le vostre
lettere, e serbate unicamente il se no, no della prima: un anno
d'ambagi, di codarde dubbiezze, e d'inadempite speranze, ha ormai
cancellato quel se. Vi rassegnaste a un'ultima prova; dichiaratela
or consumata, e venite a noi. Dite agli Italiani: accoglietemi: io
non ho più fede che in voi. V'accoglieranno plaudenti; e
risponderanno, credete a me, all'accordo unanime degli uomini di
tutte le frazioni, con fatti, che saranno ai bei fatti del 1848, ciò
che l'incendio è alle annunziatrici scintille.
L'Italia versa oggi in uno di quei momenti supremi nei quali il
Partito deve decidere tra il fare ed essere domani, o soggiacere a
un decennio di schiavitù. Nella guerra delle nazioni oppresse, le
circostanze geografico-politiche, in consenso noto degli animi
dall'Alpi al mare, e l'opinione europea, hanno decretato che
l'iniziativa spetta all'Italia: bisogna accettarla, o abdicare e
aspettar salute dalla lentissima, incerta modificazione delle cose
europee.
Da un lato, le insurrezioni antivedute, prenunziate inevitabili
dall'opinione, sono appoggiate dall'opinione; la nostra
proromperebbe come incarnazione, rappresentanza materiale d'una
idea, d'un principio, che ha già ricevuto la cittadinanza europea.
Le confessioni della diplomazia, l'attenzione rivolta da tutti i
governi alle cose nostre l'agitazione seminata dagli uomini della
monarchia piemontese, le previsioni della stampa di tutti i paesi,
l'ordinamento spontaneo, o provocato dagli uomini di parte nostra
tra il popolo delle città tutte quante, dentro e fuori d'Italia,
hanno a gara preparato il terreno a chi vorrà impossessarsene. Ogni
fatto, splendido d'ardire e di volontà, compito in nome della
Nazione e delle Nazioni, apparirà come segnale inaspettato, invocato
dagli oppressi di tutti i paesi. Dieci bandiere di popoli
risponderanno, sorgendo a guerra, a quel fatto.
Dall'altro, non giova dissimularlo, l'opinione delusa rovescierebbe
su noi giudicio severo; il terreno conquistato dalle prove del 1848
e del 1849 sarebbe perduto. Il core dell'Europa batteva, concitato
di speranza e di fede, per la Polonia molti anni dopo l'insurrezione
del 1830; l'inerzia sistematicamente adottata, per calcoli
d'opportunità menzognere, dagli uomini di quella nazione nel 1848 e
negli anni che vennero dietro, ha spento quel palpito d'affetto; e
l'opinione, ch'io so mal fondata, pure universalmente diffusa, che
la Polonia sia morta, russa, impotente, fu una delle principali
cagioni che trattennero il popolo inglese dal comandare al proprio
governo di mutare le tendenze dell'ultima guerra. Lo stesso
avverrebbe di noi, s'or tradissimo le speranze vive per ogni dove.
Abbiamo tanto snudato le nostre piaghe all'Europa, abbiamo svelato
con tanta insistenza la storia dei nostri dolori e a un tempo stesso
del nostro fremito e delle nostre minaccie, che non dovremmo
lagnarci fuorchè di noi, se l'Europa, stanca e vedendoci pur sempre
fallire al momento opportuno, gittasse su noi la condanna: sono
millantatori codardi; meritano pietà, non favore ed ajuto.
Bisogna fare, o scadere.
E fare e riescire si può, se - lasciate da banda le vie oblique,
rinunziando, non a giovarsi della diplomazia, ma ad accettarne le
inspirazioni, rassegnando alla nazione emancipata i programmi
dell'avvenire, accettando, fin dove importa, la cooperazione d'ogni
elemento, ma non sottomettendo la propria azione ad alcuno - gli
uomini che amano il paese più che sè stessi, vogliano unirsi tutti
ad azione incessante, ardita, virile, nelle norme seguenti:
Vogliamo una Patria, vogliamo la Nazione; vogliamo che una Italia
sia. Possiamo accettare, a giovarcene, non chiedere, riforme o
miglioramenti amministrativi e civili. Sappia l'Europa che
venticinque milioni d'uomini, figli d'una terra che ha dato
all'Europa incivilimento e unità morale, non chiedono elemosina di
condizioni più miti, ma chiedono d'essere ammessi, Nazione, tra le
Nazioni.
La libertà e l'unità d'Italia non possono conquistarsi che colle
nostre forze, col nostro sangue, colla battaglia di tutti per tutti.
I nostri più potenti alleati devono essere i popoli oppressi come
noi siamo. Li avremo a seconda dell'energia che riveleremo sorgendo.
I forti son certi di essere seguiti.
Qualunque sia l'intenzione, qualunque il disegno della monarchia
piemontese, l'iniziativa del moto spetta necessariamente al popolo.
L'insurrezione popolare può sola preparare freno e rimedio ai
disegni, se tristi; sola porgere opportunità al loro sviluppo, se
buoni.
Qualunque sia quindi l'opinione in proposito di ogni italiano che
ami davvero l'Italia, egli deve rivolgere tutti i suoi sforzi a
promovere l'iniziativa insurrezionale.
L'Italia è matura per sorgere e vincere, più assai che non era nel
1848, quando eravamo incerti del popolo, oggi deliberatamente nostro
in tutte provincie, in tutte città. Non bisogna consecrarsi a lavori
già fatti. Non bisogna smarrir tempo e cure in vasti preordinati
disegni, scoperti, traditi sempre, prima di tradursi in fatti:
bisogna chiamare gli audaci all'azione aperta, coll'azione aperta:
Spirar fiducia negli irresoluti, provando ad essi col fatto, che
sorgere, trascinarsi dietro le moltitudini e vincere, è cosa
possibile; provare, come il filosofo antico, la possibilità del
moto, movendo:
Diffondere per ogni dove il fermento, l'aspettazione, l'ansia del
segnale; e concentrare il lavoro pratico, definito, sopra un punto
dato d'onde abbia a sorgere quel segnale, è questo il segreto della
vittoria per noi.
Ogni provincia, ogni città importante d'Italia può essere quel
punto; ogni provincia, ogni città d'Italia deve lavorare ed essere
quel punto. Ogni terra d'Italia ha in deposito il Diritto e il
Dovere della Nazione; ogni terra d'Italia può assumersi l'iniziativa
del moto, e formare l'antiguardo del grande esercito nazionale.
La prima che sorge deve sorgere in nome di tutte: tutte devono senza
indugio seguirne il segnale:
Fuori gli stranieri; giù le tirannidi quali esse siano: la Nazione è
una e sovrana; in essa sola vive eterno, incancellabile, il diritto
di prescriver forma ai proprî destini: chi non accetta programma
siffatto non appartiene al Partito Nazionale; è uomo di setta o di
fazione; chi lo accetta, lo dica, lo diffonda a un nucleo d'uomini
intorno a sè, raccolga sollecito danaro e materiale da guerra quanto
più può, e comunichi direttamente, o attraverso il nucleo che gli è
vicino, col centro della sua provincia o città.
Un Governo d'Insurrezione, uscito e approvato dall'insurrezione
stessa, ne regga le parti. Quei che scendono in campo ad appoggiare
il moto iniziato, siano accolti, quali essi siano, come alleati e
fratelli, non come padroni.
Fatti e non parole; sagrifici e non frasi pompose di retori o
discussioni interminabili su programmi; cartuccie e non libri; ogni
cosa è concessa a un Popolo schiavo fuorchè il cader nel ridicolo; e
noi, schiavi di stranieri, di papi, di preti, di re, di gendarmi, di
tutti e di tutto, ciarlando sempre di sorgere, e non sorgendo mai,
vi camminiamo a passi veloci.
Venite a noi, Manin; date il nome vostro a norme siffatte; la
Nazione dimenticherà le vostre lettere, per non ricordar che
Venezia. E se no, no. La Nazione, temo, dimenticherà che foste capo,
grande talora, d'un Popolo di prodi, per ricordarsi soltanto
dell'uomo, che, acclamato capo d'una Repubblica, sagrificava
ripetutamente alla monarchia il principio giurato, vietava alla
futura Capitale d'Italia di cacciar lo straniero, e decretava ad un
tempo, il Borbone re costituzionale di Napoli, e Vittorio Emanuele
monarca unificatore d'Italia.
2 luglio.
Giuseppe Mazzini.
A GIORGIO PALLAVICINO
Signore,
Io onoro il vostro passato; non intendo il vostro presente. Ammiro e
ammirerò sempre in voi uno di quei nostri martiri che primi, mentre
la patria dormiva e l'idea Nazionale era sogno di pochi,
rappresentaste nobilmente allo Spielberg l'antica protesta del
Diritto Italiano contro la forza brutale; ma mi geme l'animo in
vedervi, or che la Patria si è desta, or che l'Idea Nazionale è
fremito di tutto un popolo, trascinarvi miseramente dietro a un
fantasma di forza, rinegare, pur balbettandone il nome, la coscienza
della Nazione, e protestare, con una ostinazione che non ha scusa,
il Dritto Italiano a' piedi d'un re tentennante che guarda altrove e
di pochi ministri inetti, diseredati di ogni grande concetto, che si
giovano di voi a logorare d'illusione in illusione la fede operosa
di quei che vorrebbero far salva davvero l'Italia.
Ricordo gli anni nei quali noi, giovanotti allora, tendevamo,
palpipanti di riverenza e d'amore, l'orecchio a ogni voce che movea
dal luogo ove sorgevano le vostre prigioni, come s'essa dovesse
recarci un messaggio di fede. Lo Spielberg era per noi il Golgota
dell'Italia e voi eravate gli apostoli perseguitati, confessori
d'una religione nazionale nascente, destinata a ritemprare una gente
caduta in fondo per idolatria d'interessi, e risollevarla
all'adorazione dei principî, del Vero eterno, del Dritto immortale.
Ah! dovea tanta espansione d'affetti, tanto entusiasmo d'anime pure
e fidenti, condurci a vedere il nostro Pellico morire della morte
dell'anima prima che di quella del corpo, e a udir voi, Giorgio
Pallavicino, gridare all'Italia l'atea parola: prostrati a un re,
adora l'idolo dell'interesse dinastico, o rimanti schiava!
Io non so chi suoni quel noi frequente nelle vostre pagine del 15
ottobre((259)). Parlate, accettate, in nome degli uomini che si
dicono di parte regia? È il vostro ultimatum una risposta collettiva
alle nostre conciliatrici proposte? Sale dell'anonimo ex-prigioniero
di Stato, al quale io accennava pochi dì innanzi, fino all'aule
nelle quali, in nome d'Italia, si patteggia coll'impianto d'una
dinastia straniera nel Sud? Veggo, in cima allo scritto vostro, le
parole: Partito Nazionale Italiano. Quelle parole, usurpate a noi,
come s'usurpa una parola d'ordine a cacciare scompiglio in un campo,
e poste oggi in capo a scritti, che sembra abbiano assunto di
travolgere nel ridicolo la causa italiana, furono usate nel senso
regio, prima che da altri, da Daniele Manin. Assente egli al vostro
dilemma? l'altero se no no, che suonava naturalmente: liberi con voi
o senza voi, si tramuterebbe oggi dunque nella formola servile:
liberi per opera vostra o schiavi? Gioverebbe saperlo. Gioverebbe
sapere se, mentre gli stranieri s'agitano per noi col grido l'Italia
per gl'Italiani, gli uomini della Monarchia piemontese hanno core di
presentare ai loro fratelli il programma: o nostri o dell'Austria.
Se mai ciò fosse - se mai le imprudenti parole: noi respingiamo la
bandiera neutra, giudicando la conciliazione impossibile, fossero le
parole, non d'uno o di pochi individui, ma d'un intero Partito -
quel Partito diventerebbe immediatamente setta, fazione. Chiunque ha
core in Italia e senso di dignità si leverebbe per dirgli: «O non
sorgeremo o sorgeremo per essere liberi e padroni di noi; possiamo
donarci, non soggiacere a condizioni prescritte.» E a noi, uomini
non di re ma della Nazione, non rimarrebbe che spiegare
esclusivamente la vecchia nostra bandiera, e dirvi: Noi accettiamo
l'arbitrio del paese, non quello d'una frazione: se respingete ogni
conciliazione, se rovesciate l'altare della sovranità nazionale, noi
ci riconcentreremo alla nostra fede individuale e grideremo
Repubblica.
No; non è. Voi non siete interprete d'un partito. Le aspirazioni
degli uomini di parte monarchica non vanno tant'oltre. Essi non si
arretrerebbero di certo davanti a una violazione della libertà
nazionale; taluno fra i vostri lo diceva, ingenuamente immorale,
poc'anzi: «vinciamo; poi imporremo»((260)). Ma non osano. Il
pensiero della unità nazionale è troppo grande per essi: sanno che
la corona d'Italia schiaccerebbe le auguste fronti dei nostri
principi. Gli illusi patrioti li tentarono tutti, ad uno ad uno,
nell'ultimo mezzo secolo, respinti da tutti; il più tristo rispose
alla proposta col patibolo di Ciro Menotti: il più debole, Carlo
Alberto, colla diserzione al campo nemico. Non si crea una nazione
se non da chi l'ama: bisogna venerarne il concetto, incarnarlo in
sè, consecrargli la vita, fremere, vegliar le notti, affrontar
l'insulto, patire, fare per esso: i re non amano; hanno talora
un'ambizione volgare, un interesse - voi stesso lo dite - a guida; e
non possono levarsi all'ideale della creazione d'un Popolo. Poveri
d'intelletto, corrotti dai godimenti del presente, immiseriti
dall'adulazione servile che li circonda, non hanno nè possono avere
intuizione dell'avvenire. Legati da vincoli di trattati, di
parentela, di tradizioni dinastiche, tra la minaccia della
diplomazia collettiva e quella dei popoli, ai quali ogni passo
salito rivela un nuovo orizzonte di verità fatale alla monarchia,
tremanti dell'una e degli altri, essi non porranno mai a rischio la
loro piccola corona dell'oggi per la speranza di conquistarne una
maggiore domani. E gli uomini di parte monarchica conoscono i loro
padroni, nè s'attentano, nei loro disegni, di là dai confini voluti.
Quei disegni non hanno varcato mai, non varcano in oggi, una timida,
lontana, incerta speranza di un limitato ingrandimento territoriale,
e non da conquistarsi coll'audace iniziativa dell'armi, ma da
procacciarsi, quando noi popolo sorgessimo, dalle potenze
occidentali, in ricompensa di pericoli più gravi rimossi, e
patteggiando con Murat, coll'uomo del 2 dicembre, con qualunque
possa ajutarli all'intento.
La parola Unità è bandita, nei conciliaboli, come sovvertitrice
dell'ordine europeo, derisa come utopia ineseguibile d'uomini insani
e pericolosi. Lo avversarla è patto giurato di gabinetto, e prezzo
d'una promessa di protezione straniera all'inviolabilità dei dominî
attuali. Il grido che voi proponete apparirebbe suggerimento,
provocazione piemontese ai gabinetti proteggitori: essi
minaccerebbero ritrarsi; però, i vostri, che non osano, nè sanno, nè
possono combattere senza quell'ajuto, rifiutano l'intento, l'una
Italia che voi proponete. Essi - da alcuni individui in fuori -
parlano dell'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato non
abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto: i loro progetti, se mai
potessero verificarsi, sommano a sprecare onore, sostanze, vite
italiane, per fondar quattro Italie, una francese, una austriaca,
una papale, una sarda; e le quattro ne trascinano inevitabilmente
una quinta, la siciliana, dacchè l'Inghilterra non consentirà mai la
Sicilia a un prefetto di Francia. O voi ignorate queste intenzioni e
siete cieco, passeggiate coi bambini nel limbo: o voi lo sapete - e
allora, perchè illudete i vostri concittadini? perchè li persuadete
a sperare in intenzioni che il governo liberatore non ha? perchè
v'intitolate Partito Nazionale? perchè dite noi?
Voi non lo ignorate. Voi sapete che l'Idea dell'Unità Italiana,
senza la quale la Patria è nome vuoto di senso, non entra nei
disegni della monarchia piemontese. Voi volete - sono vostre parole
- allettare, sforzare all'uopo il monarca. Possibile! È la causa
d'Italia caduta così in fondo, che noi dobbiamo, non accogliere, ma
mendicare un padrone? Che? far dipendere da un egoismo allettato la
creazione di un Popolo? sforzare un re ad esser grande? voi lo
sforzerete a tradirci. Il monarca allettato si ritrarrà davanti al
primo ostacolo grave che lo minaccerà sulla via; e quando noi
vorremo costringerlo a inoltrare, ci tradirà. Così fece Pio IX; così
il re di Napoli; così, per colpa propria o di chicchessia, la
monarchia piemontese nel 1848. Non ci costringete perdio, a
rimescolar quella storia di vergogna e di sangue.
Se Dio potesse mai oggi mandare nel core d'un re il grande pensiero
di farsi liberatore e unificatore della propria Nazione - se il
POPOLO non fosse, per decreto di Provvidenza e logico sviluppo di
sintesi storica, l'unico re possibile dell'avvenire - quel re
porrebbe da un lato, disposto a perderla, la povera sua corona, e
snudando la spada e cacciandola attraverso la rete di vecchi iniqui
trattati, che gli contendono libertà d'opere, griderebbe ai milioni
che lo circondano: ecco: io non sono monarca, ma primo soldato e
primo cittadino d'Italia,. Noi dobbiamo cancellare insieme un'onta
di secoli, insieme conquistare il Diritto di reggerci liberi a unità
di Nazione. Serratevi intorno a me, però ch'io mi sento deciso a
vincere o cadere con voi. Quel re, vincendo, non avrebbe forse il
misero vanto di fondar dinastia; pur di certo ei sarebbe, monarca,
preside o dittatore, l'Eletto del Popolo. Ma un re sforzato? un re
allettato dall'offerta d'una più ricca corona?
Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio.
Da un re allettato avreste promesse splendide in sulle prime; poi,
per forza di cose, titubanza, come di chi procede, non per impulso
proprio, ma per altrui - scelta di capi avversi o ineguali
all'impresa, comandati dalle tradizioni aristocratiche di ogni
monarchia - limitazione dei disegni di guerra fin dove imporrebbero
le monarchie sperate amiche o non nemiche - sospetto d'ogni elemento
non interamente dipendente dall'inspirazione monarchica - rifiuto di
tutti gli ajuti che tendono a dar, coll'azione, coscienza al popolo
della propria forza e dei propri diritti - prostrazione d'ogni
entusiasmo nelle moltitudini, che sole assicurano vittoria ad ogni
guerra nazionale - isolamento dell'elemento regolare, inferiore per
cifra al nemico - indietreggiamento e tendenza ad accogliere patti
disonorevoli e contrarî al primo programma - malcontento del popolo
rieccitato - inganni a sopirlo - capitolazioni vergognose - e
Novara.
È legge di cose, e voi non potete sfuggirla. Sforzando o allettando,
voi preparate al paese la terza rovina, la seconda Novara.
Io vi predissi la prima; ed or vi predirei la seconda: ma non
oserete. Voi siete, o monarchici, diseredati d'iniziativa. Nessuno
agirà primo in Italia se noi non agiamo. E se, a Dio piacendo e
all'Italia, operiamo, respingeremo la vostra esclusiva, tirannica,
intollerante bandiera.
La respingeremo, perchè prefiggere anzi tratto un capo a una
Insurrezione Nazionale, e darne le sorti al caso, è tutt'uno. I capi
delle insurrezioni escono dalle insurrezioni medesime; e allora
soltanto possono incarnarne in sè il concetto e l'audacia.
La respingeremo, perchè prefiggere a una Insurrezione Nazionale un
re, è lo stesso che condannarla a tutte le tradizioni, necessità,
esitazioni, transazioni, inerenti a una guerra regia, fatali
inevitabilmente al successo. Dando la condotta d'una insurrezione al
principio monarchico, voi affidate lo sviluppo d'una rivoluzione al
principio dell'ordine stabilito: e quanto al re guidatore, voi lo
ponete nel bivio o di segnare egli stesso gli ultimi fati della
dinastia, o di tradire. Non è un solo tra voi che non abbia scritto
o detto, l'avvenire dell'Italia libera essere la Repubblica.
La respingeremo, perchè da Vittorio Emanuele non abbiamo pegno
alcuno di genio, di devozione all'Italia, di audacia pari
all'impresa, di ferrea costanza e di preconcetto disegno. Sappiamo
ch'egli trovò lo Statuto legge del regno, che lo accettò, e che non
potrebbe, se anche ei volesse, ritorlo. Sappiamo che i ministri, nei
quali ei fida, rifiutano, come utopia non verificabile, l'Unità
dell'Italia, ne perseguitano i promotori, e accettano, taluni
almeno, la vergognosa, funesta influenza imperiale di Francia, al
mezzodì dell'Italia.
La respingeremo perchè tutti i municipalismi, che voi Pallavicino
enumerate nel vostro scritto presti a confondersi nella grande
libera espressione della Volontà Nazionale, riarderebbero,
minacciosi, il giorno in cui volessimo cancellarli sotto il dominio
imposto d'un re, domandato ad una o ad altra provincia.
La respingeremo, perchè siamo Repubblicani, e se accettiamo, più
riverenti che voi non siete al paese, il voto della Nazione, quando
anche avverso alle nostre credenze, non vogliamo soggiacere
all'arbitrio d'una frazione impercettibile del Partito.
E la respingeremo, perchè è parola - non di codardi: avete provato
che voi nol siete - ma codarda, il dire ad un popolo, che deve e
vuole farsi libero: da un individuo pende la tua salute; devi
acclamarlo o non insorgere. Un popolo, che accettasse questa formola
stivatrice, non merita d'essere libero, e nol sarà.
A questo popolo, grande anche nella sventura - a questo popolo, che
gl'istinti europei additano come depositario dei fati delle nazioni
oppresse - è tempo, parmi, di tenere linguaggio diverso e più degno.
Questo popolo balzò gigante dal fango d'un doppio servaggio, sei
anni addietro, commosso da una parola di Nazione e di Libertà, che
noi gli avevamo proferita, santificata dal sangue dei nostri
martiri. Non chiese un re, ma una Patria; non mendicò, a patto di
concessioni servili, promessa di battaglioni ordinati, ma disse a sè
stesso: sono italiani e li avrò. Grande a un tratto per un senso di
dovere comune, per un lampo di fede che avea solcato subitamente la
tenebra in cui giacea, s'inebriò della vista d'una bandiera, sulla
quale non era scudo di Savoja, nè altro, fuorchè l'iride dei bei tre
colori, si levò a battaglia e vinse, e trascinò dietro a sè i
battaglioni ordinati. Poi, prevalsero funesti consigli. Voci
d'uomini, taluni tristi, altri illusi, e inetti tutti, e incapaci
d'intendere qual tesoro di forze si chiuda in un popolo e in un
principio, gli susurrarono di re, di centomila soldati, di
liberatori allettati o sforzati. E il moto diventò, di nazionale,
dinastico; e all'impeto d'amore sovrumano, che avea convertito una
gente schiava e divisa in un popolo di fratelli, sottentrò la
diffidenza; poi la discordia e lo sconforto e l'isolamento e
l'inganno e la rotta dei battaglioni ordinati; e la tenebra si
raddensò sull'Italia: e il popolo ridiscese nella sua prigione ad
espiarvi la colpa d'essersi lasciato sedurre ad abbandonare il
principio, che gli aveva dato forza e virtù. Allora, i delusi
profughi giuravano, giuravano a noi, ch'erano rinsaviti per sempre,
che nessuna illusione, nessun sofisma li avrebbe mai più sviati d'un
passo dalla bandiera della Nazione. Ora, immemori, incorreggibili,
copisti meschini d'un passato che dovrebbe farli arrossire, ridicono
al popolo, ridesto al fremito e conscio che l'espiazione è compita,
gli errori, i sofismi e le codardie d'otto anni addietro. Io ricordo
ogni linea di quella tristissima storia, e grido agli Italiani:
«Badate! Guai se porgete orecchio a quei detti! Ricordate il 15
maggio; ricordate Milano; ricordate Novara. I consigli ch'oggi vi
danno, sono gli stessi che v'hanno perduti pochi anni addietro; gli
uomini che osano darveli sono gli stessi che vi travolsero allora.
Non siate, per Dio, popolo di fanciulli! Quegli uomini vi parlano di
battaglioni che non hanno, di cannoni che non s'allontaneranno d'un
palmo dalle fortezze o dagli arsenali ove giaciono, di re collegati
con chi rifiuta l'Unità della vostra terra. Di fantasma in fantasma,
di sogno in sogno, servi ciechi e inconsapevoli di un inganno
tessuto a frenarvi, essi vi trascinano fin dove comincia il
disonore, ch'è la morte dei popoli. E se anche la monarchia, ch'essi
presumono imporvi, potesse mai - e nol può - scendere sull'arena
prima, essa si varrebbe del vostro moto per ottenere, colla minaccia
di peggio, una zona del vostro terreno, e abbandonerebbe, voi tutti
quanti non siete compresi in quella zona, alle vendette d'un nemico
irritato. Essi vi dicono, come a gente spregevole che non può vivere
senza padrone: gridatevi un re o non sorgete; io vi dico: sorgete
liberi padroni di voi: darvi senza patti è parte di schiavi. Sorgete
in nome dell'eterno Diritto: abbiate, incarnate in voi, la coscienza
di quel Diritto: senza quella, non isperate d'essere liberi mai. Voi
siete giganti di forza, purchè vogliate esserlo di volontà. Ma se
volete essere Nazione - se volete dai popoli d'Europa che studiano i
vostri moti, non pietà, ma onore e ajuto fraterno, v'è d'uopo
rompere oggimai quel cerchio di menzogne, di piccoli calcoli,
d'espedienti immorali o fallaci, che le piccole menti, i politici
della giornata, e le scimmie di Machiavelli, v'hanno steso attorno;
v'è d'uopo riconsacrarvi a dignità, a riverenza pei santi nomi
d'Italia e di Roma, colla memoria della grandezza passata, colla
fede nella grandezza avvenire; v'è d'uopo di purificare la Bandiera
Nazionale di tutto questo fango d'anticamere e cancellerie, che gli
adoratori degli idoli v'hanno cacciato sopra. Voi non dovete adorare
altro Dio che Dio, e il Popolo sulla terra. Posate, finchè non v'è
dato di sorgere come leoni. Sorgete, venuta l'ora, potenti e subiti
come le nostre tempeste. Colpite siccome fulmine. Decisi, volenti,
avrete dalla Nazione i battaglioni e i cannoni, che oggi
mendichereste invano da un re.»
A voi, Giorgio Pallavicino, ed ai vostri, io dirò: se invece
d'ostinarvi a fondare un Partito Nazionale senza la Nazione, e ad
evangelizzare una guerra regia senza re e senza esercito, dacchè
l'insurrezione sola può darveli, vi adopraste colla tacita opera
concorde, colla parola, e col sacrificio di parte dei vostri mezzi,
a spianare le vie difficili alla Insurrezione - se, invece di
gettare nel nostro campo una nuova semenza di discordia e di
riazione coll'intolleranza, abbracciaste con noi la bandiera, non
d'un governo locale, ma della Patria comune, e ve ne faceste
apostolo instancabile tra i vostri amici - se voi, Manin, Cattaneo,
Montanelli, Ulloa, Sirtori, Tommaseo, Garibaldi, e altri uomini cari
pel passato all'Italia, firmaste con noi, pegno d'unità di voleri e
di riverenza collettiva alla Sovranità del Popolo Italiano, una
chiamata simile a questa che io ho scritto qui sopra - voi sareste
di certo più giovevoli alla vostra Patria che non siete oggi,
stampando foglietti in nome d'un Partito invisibile, che manda il
Papa a Gerusalemme e commette la Dittatura a una ipotesi di
liberatore. E noi potremmo salutare i vostri anni cadenti colla
stessa amorevole riverenza, che avviava i nostri pensieri allo
Spielberg, quando voi eravate protesta vivente, fra i ceppi, per
l'Italia contro le tirannidi che l'opprimono, senz'altra fede che
nel Dio di Giustizia e nella Nazione predestinata a risorgere. Io,
se mi è dato di vedere il giorno di resurrezione, ricorderò al
popolo quella protesta, perchè sperda fin la memoria degli errori
nei quali, per una funesta illusione, vi lasciaste più dopo
travolgere.
Ottobre, 25.
Giuseppe Mazzini
RICORDI SU CARLO PISACANE
Un giorno in Roma, nel 1849, mentr'io era ancora semplice
rappresentante del popolo e senza parte nella suprema direzione
delle cose, saliva a vedermi un giovane ufficiale napoletano. Era
Carlo Pisacane. Mi si presentava senza commendatizie; m'era ignoto
di nome e, bench'io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un
anno prima fra quel turbinìo d'esuli che la dedizione regia
rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton
Ticino, io non sapeva nè gli studî teorici e pratici, nè la ferita
di palla austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato
in un letto, nè i principî politici serbati inconcussi attraverso
l'esilio e la povertà, nè altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio
perchè l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in
lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo
nel quale la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva
addormentato, creando il pedante, la potenza di intuizione e il
genio, sì raro a trovarsi, dell'insurrezione. Da quel giorno in poi
fummo amici e concordi nell'opere a pro del Paese.
La fronte e gli occhî di Carlo Pisacane parlavano a prima giunta per
lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli occhî scintillavano di
energia, temperata di dolcezza e d'affetto. Traspariva dalla
espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto nè
avventato nè incerto, dall'insieme della persona, l'indole franca,
leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva
una onesta coscienza di sè e l'animo consapevole di una fede da non
violarsi nè in vita nè in morte.
Era la Fede Italiana: la fede nella Patria avvenire, nell'Unità
repubblicana d'Italia e nel Popolo per fondarla.
Fede, io dico, e non opinione: l'opinione nazionale è oggi
universale in Italia: la fede rara tuttavia, fuorchè tra i popolani
delle nostre città, nei quali riposano le migliori speranze
d'Italia. L'opinione commossa dalle ingiustizie e dalle pazze
ferocie che tuttodì si commettono dai nostri padroni in Italia, dal
desiderio di sicurezza personale e di più largo sviluppo
all'industria e ai guadagni, dalle condizioni migliori in che
versano le nazioni più libere, crede che una Italia dovrebbe essere;
la fede - convinta che noi tutti siam posti quaggiù per compiere
quando che sia un intento comune; che l'associazione di tutte le
nostre facoltà e forze per raggiungerlo è nostro dovere; che il dito
di Dio ha segnato nei caratteri geografici, nelle lingue, nelle
tradizioni delle diverse terre, la distinzione dei gruppi nei quali
deve partirsi l'associazione universale - sa che una Italia sarà.
L'opinione, vagante nella sfera del pensiero e presta a salutare e
seguir l'azione da dove che venga, non sente il bisogno d'iniziarla
e, rifuggendo dai pericoli che l'accompagnano, fa velo
all'intelletto e trasforma volentieri le difficoltà in
impossibilità: la fede anela alla azione, martirio o vittoria: sa
che bisogna educare il Popolo a fare, e fare con esso. L'opinione
diplomatizza, si prostra, sprezzando nel suo segreto, a qualunque
potere le faccia sperare un milionesimo di libertà; insozzerebbe
dello stemma turco la santa bandiera, se il sultano s'arrendesse a
dire: innesterò sul mio dispotismo una frazioncella di
miglioramento; la fede intende che non si rigenerano i Popoli con la
menzogna; intende che le Nazioni non siano se non hanno coscienza
del loro diritto, e chiama coll'esempio il Popolo a conquistarsi
patria ed emancipazione col proprio sacrificio e col proprio sangue.
L'opinione, piegando a seconda di tutti eventi, accoglie, come grado
a salire, le costituzioni strappate ai principi nel 1821; rinnega la
fratellanza Italiana coi Governi provvisorî del 1831; sostituisce
alla bandiera nazionale la bandiera bianca dei moti di Rimini nel
1843; fantastica le tre, le quattro, le cinque Italie, coi Balbo,
Azeglio, Durando; l'Italia del Nord con Gioberti, l'Italia
Muratista, Papale, Piemontese con Cavour e gli eunuchi politici che
gli fan codazzo: - la fede, logica, diritta, leale, non riconosce se
non una Italia, una Sovranità, quella della Nazione, una guerra di
tutti, in nome del diritto e dei principî che chiamano i Popoli ad
esser padroni di sè, per procacciare vittoria e vita normale a
tutti. L'opinione cede cogli anni, sfibrata dalle delusioni e dai
patimenti inseparabili da ogni grande impresa; la fede si ritempra
nei santi dolori, e splende, come il sole sulle nevi dell'Alpi,
sulle fronti incanutite nell'apostolato e nei tentativi d'azione.
L'opinione sta alla fede politica, come la filosofia alla religione.
E religione, quali pur fossero le altre di lui credenze, era l'amor
patrio di Pisacane: occupava in esso tutte le facoltà della vita,
non illanguidiva per anni o per sventura, non s'addormentava nello
sconforto, egoismo ammantato d'orgoglio, che oggi pur troppo sottrae
tante anime, un dì generose, alla lotta. L'ultimo giorno in cui ci
abbracciammo, gli lampeggiava sul volto quel sorriso di fede ignara
del tempo, che mi strinse a lui nel primo nostro colloquio a Roma.
Gli uomini dei quali io parlo tradiscono ne' stanchi lineamenti e
ne' moti snervati il guasto che si è fatto, consumando il bollore
del sangue giovanile nell'anima loro; li diresti reliquie
galvanizzate di una vita spenta, fantasmi di un tempo che fu.
Erano giorni quelli nei quali gli affetti sgorgavano singolarmente
rapidi e schietti fra i seguaci della bandiera. Non v'era menzogna
tra noi; il vero sfavillava, sereno e limpido, dal simbolo che aveva
sostituito Dio al papa, il Popolo all'aristocrazia di un clero
incredulo, inetto, corrotto; e nella luce di quel vero l'anime buone
si ravvisavano, imparavano a conoscersi ed amarsi più facilmente.
Fra noi non era diplomazia. Quando il nome d'Italia suonava sulle
nostre labbra, volea dire Italia davvero; non una Italia del Centro
o del Nord. Quando dicevamo libertà, intendevamo libertà vera e per
tutti, non una libertà di pochi, e salvi i diritti d'una dinastia e
de' suoi faccendieri. Roma era convegno d'uomini viventi la vita
piena, attiva, volente, che Dio ci assegnava creandoci, e che noi
stessi dovevamo serbarci, non di liberti, di servi emancipati, che
ne affidano la tutela ad un re e a un pugno di milizie assoldate da
lui; tra i giorni sospettosi, dubbiosi, trepidi, di Milano dopo
l'ingresso di Carlo Alberto e i giorni di Roma repubblicana, correva
lo stesso divario che fra un'alba dei cieli sereni d'Italia e le
fredde nebbie di Londra. Luciano Manara di monarchico si tramutava
in repubblicano, e mi chiamava fratello; uomini imbevuti fino allora
delle calunnie che ci chiamavano alleati dell'Austria, dopo un
giorno trascorso in Roma, si ricredevano e venivano, accolti con
amore, a dichiararcelo lietamente. Da poche vanità incorreggibili in
fuori, vivevamo tutti nella patria e nell'avvenire, non nei proprî
meschini rancori, nelle povere ambizioncelle di un'ora, o nei gretti
sistemi architettati nel gabinetto. Era vita collettiva d'un Popolo
trasformato dal subito apparirgli del vero tradotto in fatti, e
d'uomini scelti liberamente a capi, che avevano fiducia in quel
Popolo.
C'intendemmo rapidamente con Pisacane, e mi occupai di metterlo in
luogo dov'ei potesse rivelare le potenti facoltà che gli fremevano
dentro, e giovare alla causa d'Italia.
Gli uomini che circostanze straordinarie e necessità imprevedute
avevano chiamato al sommo delle cose, avevano potuto far poco per un
avvenire imminente: forse la coscienza d'un diritto moralmente
innegabile e la purezza delle intenzioni li allettavano a sperare
che non verrebbero assaliti mai. Il dicastero di guerra era
singolarmente negletto: non ordini, non armi, non allestimento di un
esercito nazionale. Io, Pisacane ed alcuni altri sentivamo il
turbine che si addensava tacitamente da lungi. Sapevamo che la
bandiera repubblicana non poteva sventolare dal Campidoglio senza
diventare più o meno rapidamente bandiera d'Italia: come potevano
gli eterni nemici della libertà delle Nazioni lasciarla in pace? E
d'altra parte, a che la libertà in Roma, se non significava libertà
dell'Italia intera? Il turpe spettacolo d'una forte provincia
italiana, libera e in armi per dieci anni, tra il gemito di venti
milioni di fratelli e l'insulto dello straniero, e nondimeno inerte
e inutile, anzi dannosa per lunghe inadempite speranze, all'Italia,
era privilegio serbato ai monarchici di Piemonte; i repubblicani da
Roma guardavano alle Alpi. D'offesa o difesa, a seconda dei casi, la
guerra era dunque inevitabile a ogni modo per noi. Il 19 marzo 1849
io proponeva all'Assemblea Romana di costituire una Commissione di
guerra, composta di cinque individui, che si occupasse, dando conto
ogni dieci giorni dei suoi lavori, d'apprestare armi, armati,
ordinamenti e studî guerreschi. Richiesto di consiglio quanto a quei
che dovessero comporla, indicai fra gli altri Pisacane. Ed egli fu
l'anima della Commissione e l'inspiratore de' suoi lavori. Se le di
lui cure attive non avessero apprestato i materiali alla difesa, i
generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul
nascere.
Il piccolo esercito romano era male ordinato: gli ufficî degli
elementi diversi che lo componevano erano mal definiti; le paghe non
erano eguali per tutti i corpi; non esisteva, se non di nome,
stato-maggiore. E questo piccolo esercito era disseminato in piccoli
distaccamenti attraverso lo Stato. Un lungo cordone, steso
parallelamente alla frontiera napoletana, ne assorbiva la maggior
parte. L'idea di proteggere uno Stato con una forza smembrata in
piccoli nuclei posti a difesa d'ogni punto esposto ad assalto era
militarmente falsa. Gli Stati si difendono non sul confine, bensì
col concentramento delle forze ordinate sui punti strategici
interni. Ma il sistema contrario era suggerito e appoggiato da tutte
le paure locali: ogni paesetto della frontiera fantasticava difesa,
purchè avesse un gomitolo di milizia regolare collocato sul proprio
terreno: ed io solo ricordo la tempesta di opposizioni, lagnanze e
deputazioni provinciali, che mi fu forza affrontare quand'io e i
miei colleghi decretammo il riconcentramento di tutte le truppe sui
due campi di Bologna e di Terni. Quel riconcentramento, avversato da
presidi, deputati e cittadini delle terre poste lungo il confine,
sostenuto con ostinazione pari al convincimento da Pisacane e da me,
fu cagione che noi potessimo, al primo apparire dei Francesi,
raccogliere in Roma le forze.
L'unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e
disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il
concentramento su punti che gli assicurassero in un momento dato
l'iniziativa, furono opera in gran parte di Pisacane. E quei che
sentono quanto l'onore raccolto nel 1849 dalle armi italiane in Roma
debba fruttare nell'avvenire all'unità della patria comune, gli
serberanno lunga ed amorosa riconoscenza.
Ricordo le ore notturne che passavamo sulla carta d'Italia, parlando
dell'ultimo fine che la Repubblica Romana doveva proporsi; della
guerra della nazione; dei modi coi quali avremmo potuto iniziarla;
dei disegni che avrebbero dovuto presiedere al vibrarsi dei primi
colpi. Parevami che in lui il concetto della guerra insurrezionale
vivesse limpido, logico, rapido più che in qualunque altro da me
interrogato; e gli studî da lui pubblicati intorno alla malaugurata
campagna del 1848 lo riveleranno a chi vorrà leggerli attentamente.
Ma quando, ad esplorare l'animo suo, io gli chiedeva chi guiderebbe
militarmente, ei m'additava, senza pensiero di sè, un suo
commilitone, allora colonnello, nel quale infatti ebbi campo a
riconoscere doti singolari, e concetto altamente strategico della
guerra nazionale, oscurato in oggi miseramente da progetti colpevoli
di monarchismo straniero. Pisacane aveva, come dissi più sopra,
giusta coscienza di sè, non ombra di ambizione o di vanità.
Il 29 marzo 1849, dopo la rotta di Novara, fummo eletti triumviri,
io, Saffi e Armellini. Ci affrettammo a porre in atto le principali
tra le idee maturate coll'amico. Un decreto del 16 aprile dichiarava
che l'esercito romano raggiungerebbe la cifra di 45 000 uomini ed 80
cannoni, più due batterie di montagna. Se ci fosse stato dato tempo
sino al finire di maggio, Carlo Pisacane sarebbe forse caduto, ma
col sorriso della vittoria sul volto, appiè dell'Alpi Lombarde, non
a Padula per mano di fratelli, e senza conforto di vicina speranza
per la patria giacente.
Gli eterni nemici della Nazionalità Italiana sentivano intanto il
pericolo, e determinarono di prevenirlo. La morte della Repubblica
Romana fu decretata nei conciliaboli di Gaeta. Importava che il
principio repubblicano apparisse disonorato in Europa; e la Francia,
allora repubblicana di nome, fu scelta a vibrare il primo colpo. La
Francia accettò. Il 24 aprile fummo assaliti dalle armi francesi
codardamente e sotto colore di proteggerci contro l'invasione
austriaca, in Civitavecchia. La subita occupazione di Civitavecchia
ci tolse 4000 fucili, che avevamo comprato a denaro dal Governo di
Francia, un battaglione di bersaglieri, ingannato prima, poi
disarmato, e tra sei mila soldati lombardi che s'apprestavano a
ricongiungersi sotto le nostre aquile, e ai quali il naviglio
francese vietava il mare. Nondimeno l'onore della Nazione, la
necessità di provare con fatti che il Paese, fatto segno di sozze
calunnie da tutta la diplomazia straniera, voleva davvero ed unanime
le libere instituzioni proclamate in febbrajo, l'immensa forza che
una splendida difesa in Roma doveva procacciare alla futura Unità
Nazionale, comandavano resistenza ad ogni costo; e decidevamo
resistere. Pisacane fu scelto a capo dello stato maggiore; nessuno
de' suoi colleghi certo mi smentirà, s'io qui dico che, condannati
pur troppo a pentirci di parecchie scelte suggerite da circostanze
insuperabili o dalla poca conoscenza degli elementi individuali coi
quali ci trovavamo per la prima volta a contatto, sceglieremmo oggi
di nuovo l'aulico, s'ei vivesse, a quello o a più alto incarico,
senza timore d'illuderci.
Per me egli non era solamente il capo dello stato maggiore,
esecutore rapido e diligente delle intenzioni del generale in capo e
delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione,
dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il
nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto,
ed al quale io potevo affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei
non li avrebbe respinti unicamente perchè in apparenza contrarî alle
così dette regole dell'arte bellica. E da lui solo ebbi approvazione
ed appoggio - mentr'altri, in nome di quelle regole, protestava - in
due di quelle determinazioni che sembrano gravi di pericoli agli
ingegni timidi e pedanteschi, e trascinano, se non riescono, biasimo
universale sulla testa di chi le prende. La prima fu quella di
vuotar Roma d'ogni milizia per inviarle tutte contro l'esercito
Napoletano accampato in Velletri e dintorni; la seconda, quella di
convertire, verso la fine dell'assedio, la difesa regolare in una
giornata campale.
I Francesi stavano, quando il nostro piccolo esercito mosse alla
volta di Velletri, appiè delle mura. V'era armistizio, ma a tempo
indeterminato; ed io sapeva che Oudinot era tale da romperlo e
ordinare l'assalto, qualunque volta ei vedesse l'occasione propizia
a impadronirsi di Roma. Togliendo a Roma ogni difesa di milizia
regolare, io avventurava dunque i fati della città; e ricordo ancora
i giusti terrori e i rimproveri di parecchî tra i membri
dell'Assemblea, i quali, vedendo reggimento dopo reggimento avviarsi
fuori della cinta, correvano sospettosi a chiedermi ragione degli
ordini dati. Ma d'altro lato, i Napoletani erano giunti senza
ostacolo ad Albano e Velletri, e minacciavano Roma; ed io sapeva che
le istruzioni date al generale francese gli commettevano di vietare
l'ingresso in Roma ad ogni altro straniero. L'assalire dei
Napoletani trascinava quindi inevitabile la subita rottura
dell'incerta tregua; e, stretta fra due nemici operanti ad un
tratto, Roma era inevitabilmente perduta. Bisognava dunque scegliere
tra un pericolo, al quale potevamo in ogni modo opporre una difesa
di popolo, ed una certezza di rovina. Bisognava liberarsi per sempre
dai Napoletani per poter poi concentrare tutte le forze a sostenere
l'urto dell'altro nemico. E bisognava, ad accertare la rotta dei
Napoletani, cacciar loro addosso quante forze avevamo: il dimezzarle
non avrebbe raggiunto lo scopo, nè salvato Roma. Forte
dell'approvazione di Pisacane, m'avventurai. E il disegno riescì;
riusciva ben altrimenti se l'incauto ardire del corpo di battaglia,
guidato dal generale Garibaldi, non mutava in un assalto a Velletri
le istruzioni date, che erano quelle di raggiungere con una
contromarcia Cisterna, e troncare le comunicazioni e la via della
fuga al nemico.
Più dopo, quando i Francesi stavano per aprir la breccia, e le cose
alloramai disperate di Francia e l'inerte silenzio di tutta Italia
non lasciavano alcuna via di salute visibile, pensai si dovesse
convertire l'assedio in una battaglia. La disfatta avrebbe
senz'altro accelerato il cadere di Roma; ma una decisiva vittoria ci
avrebbe ridato due mesi forse di vita; e ad ogni modo il fatto
splendido per sè e audacissimo, in chi era ridotto agli estremi,
avrebbe coronato Roma di nuovo lustro, prezioso, come dissi e
sentivo profondamente, per l'avvenire davanti all'Italia. Apersi il
mio pensiero a Pisacane ed ei lo accolse lodandolo, e lo tradusse in
un disegno pratico che gli dava, s'altri non lo rimutava poco prima
dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo. Il
disegno fu descritto da Pisacane medesimo in una Relazione storica,
ch'egli inserì, nel 1849, in un fascicolo dell'Italia del Popolo,
pubblicato in Losanna; e lo ricopio, perchè rivela singolarmente,
parmi, la tempra dell'ingegno militare di Pisacane.
«I monti delle Cave della Creta sono risentite ondulazioni di
terreno, comprese fra la strada di Tiradiavoli, che parte da Porta
San Pancrazio, costeggia Villa Pamfili e, svolgendo verso destra,
conduce al canale di Pio V, e l'altra che, movendo da Porta
Cavalleggieri, rasenta le mura Vaticane, passa per la Madonna del
Riposo, e curvandosi a sinistra, si unisce alla precedente.
«Queste due strade formano quasi un triangolo mistilineo, la cui
base si estende lungo la cinta di Roma, compresa fra le due parti
nominate; e su questa base è un terreno intricato da casette e
giardini, facilissimo a difendersi palmo a palmo. Il rimanente del
terreno, compreso nell'area del triangolo, è sgombro affatto, e
vantaggioso a ogni truppa che marciasse all'assalto di Villa
Pamfili.
«L'esercito Romano fu diviso in 5 brigate.
«La prima doveva uscire da Porta Cavalleggieri, prendere per punto
di direzione il Canale di Pio V, e portarsi a ridosso di Villa
Pamfili, cercando penetrarvi.
«Tre brigate l'avrebbero seguita a giusta distanza; ma, giunte alla
svolta, propriamente all'altura dell'angolo di Villa Pamfili,
dovevano far alto e porsi per massa in battaglia, parallelamente e
di fronte alla strada dei Tiradiavoli, dalla quale erano separati
dai monti della Creta; quindi, cominciando il movimento dalla
diritta, marciare in iscaglioni per assalire la detta Villa, non
dovendo percorrere che uno spazio di circa 1200 metri. L'artiglieria
doveva prendere posizione sopra una delle più vantaggiose
elevazioni; e la quinta brigata, marciando lungo la base del
triangolo, avrebbe occupato tutte le casette e giardini sgombri
affatto dal nemico, assicurando la sinistra della linea. Guadagnata
Villa Pamfili, era girata la prima parallela, e per conseguenza
tutti i lavori sarebbero stati presi da rovescio, e con tale manovra
si poteva anche accollare al fiume il campo nemico.
«La marcia doveva principiare due ore prima del giorno... Tutto era
pronto e non restava che spedire gli ordini.»
Del come l'operazione fosse strozzata in sul nascere, non importa
qui favellare: chi vuole può rintracciarlo nel lavoro sopra citato,
Fascicolo VI dell'Italia del Popolo.
Roma cadde; infamia eterna all'assalitore; ai Governi che,
intitolandosi pure Italiani, non protestarono allora, nè protestano
oggi, contro l'oltraggio straniero; e agli ipocriti per codardia,
che inalzano un guaito di servi contro chi tenta frapporsi tra
l'oppressore e gli oppressi, mentre taciono davanti all'assassinio,
che ancor dura, d'un popolo. Roselli, generale in capo dell'armi
repubblicane e uomo degno di tempi migliori, diede, protestando, la
sua dimissione e quella di pressochè tutti gli ufficiali del piccolo
esercito; Pisacane la diede con essi, e ripigliò le vie dell'esilio.
Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno,
sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai
pericoli. Fondai allora l'Italia del Popolo, raccolta periodica di
scritti politici; ed egli v'inserì uno scritto sulla Guerra
Italiana; alcuni Pensieri, notevolissimi, sulla Scienza della
guerra; una eccellente Relazione storica delle operazioni militari
eseguite dalla Repubblica Romana; una serie di Osservazioni sulla
Relazione scritta dal generale Bava della Campagna di Lombardia: -
lavori che dovrebbero raccogliersi in un volume((261)). Poi,
spronato dalla necessità d'una occupazione utile, impossibile nella
Svizzera, partì per Londra, dove visse otto mesi, ajutandosi di
qualche lezione di lingua; quindi ripartì per l'Italia, dove io lo
rividi nel 1857.
In questa sua vita errante, egli aveva un conforto. La maledizione
del vae soli non si adempiva per lui. Unico raggio ai giorni di chi
cerca patria e non l'ha, gli era compagno un amore nato fino dal
1830; infelice, pur costante per diciassette anni; ricambiato
apertamente e con rara e lieta fedeltà dopo quel tempo e sino agli
ultimi giorni. Dal 1847 in poi, la donna del suo core lo seguiva e
gli accarezzava della suprema carezza l'incerta vita. È storia
d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come
all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in
Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro
a trovarsi, e che onorerebbe ad un tempo l'anima sua. Ma non mi
sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre
lasciarsi sospeso tra i più e il santuario delle vita individuale.
Dirò soltanto che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della
donna, non infiacchì mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a
contrasto coll'adempimento de' suoi doveri, e gli accrebbe forza a
lietamente compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore
che ritempra l'animo a grandi cose, e tradizionale, più che altrove,
in Italia, prima che noi ci facessimo, come nell'ultimo mezzo
secolo, imitatori servili - salve le eccezioni - delle idee e delle
foggie straniere.
Da Genova, dov'ei rimase per due anni celatamente, poi tollerato, ei
mantenne corrispondenza con me; corrispondenza liberamente fraterna,
come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità, e
onorano anzi tutto il Vero, ma intendono la suprema necessità
d'unità del Partito, e non si allontanano, per dissidî o vanità
individuali, dal terreno comune, conquistato coll'opera di tutti. E
noi dissentivamo su parecchî punti; sulle idee religiose, ch'ei non
guardava - errore comune ai più - se non attraverso le credenze
consunte e perciò tiranniche e corrotte dell'oggi; sul così detto
socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole, dacchè i
sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sètte francesi erano ad
uno ad uno da lui respinti; e sulla vasta idea sociale, fatta
oggimai inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico,
io andava forse più in là di lui; sopra una o due cose delle minori,
spettanti all'ordinamento della futura milizia; e talora sul modo
d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di serbar fede al
Vero((262)).
Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antiveder l'avvenire,
non ci toglieva d'esser intesi sulle condizioni presenti e sulla
scelta dei rimedî. Pisacane sapeva che tra le sue opinioni e le mie
sarebbe sempre giudice supremo l'arbitrio della Nazione, alla cui
Sovranità io avrei sempre piegato riverente il capo: io sapeva che
ogni qualvolta avessi potuto additargli una via di libertà o d'onore
al Paese, l'avrei trovato pronto a cacciarvisi. Però duravamo amici,
benchè talora discordi. Se tutti sentissero a un modo come, sopra
una terra oppressa e disonorata, davanti all'insulto perenne di chi
ci nega Patria, libertà, dignità d'uomini e vita e bandiera ed ogni
cosa ch'è santa e cara, il richiamarsi a piccole gare e lagnanze
individuali, per giustificare l'isolamento e la inerzia, sia colpa a
un tempo e meschinità, noi saremmo compatti come Legione, e
concordemente operosi e potenti e liberi forse a quest'ora.
Pisacane credeva, com'io credo, nel dovere e nella potenza
educatrice dell'Azione; credeva che dalle vittorie popolari del
1848-49 in poi non fosse più concesso, senza sofisma o innata viltà,
ciarlare dei tempi immaturi, di popolo da educarsi. Quel popolo,
ch'altri giudica senza curar di conoscerlo, ei lo aveva studiato e
lo studiava dappresso, convivendo famigliarmente con esso e
ajutandone l'ordinamento; e lo sapeva capace d'emancipare la propria
terra, se guidato da capi che vogliano e sappiano. Credeva con me
che una splendida vittoria basterebbe a risuscitarlo da un capo
all'altro d'Italia; e non sentiva così bassamente della nostra terra
da dichiararla diseredata d'iniziativa, e commetterne i fati a una
vittoria straniera: vergogna senza nome, che alligna tuttavia in
molto anime, e le accusa di servilità e di mentito o tiepido amore
alla Patria. Pisacane non dimenticava che le insurrezioni d'Europa
aveano, nel 1848, seguìto, non preceduto l'insurrezione della
Sicilia; avea veduto i vecchî soldati Austriaci fuggire davanti ai
giovani volontarî Lombardi, e le temute insegne francesi dar volta
davanti ai militi improvvisati della Repubblica appiè delle mura di
Roma. Ei raccoglieva insieme a me dall'attenzione di tutta Europa,
or volta su noi, dai vincoli che inanellano tutte le cause
nazionali, dai terrori, dalle cure gelose dei Governi risolutamente
avversi, e dalle speranze ipocritamente date dai Governi
codardamente ambiziosi, che qui, sul nostro terreno, premio del
martirio generosamente affrontato per lunghi anni dai nostri
migliori, sta oggimai la potenza iniziatrice delle battaglie
nazionali. E ripeteva spesso a ogni modo con me che, o le nostre
moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava
educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo
dilemma non abbiamo mai, nè egli nè io, trovato risposta chiara da
quei che dissentono; ben egli ed io abbiamo incontrato sovente
diserzioni mute e doloroso abbandono dove meno l'aspettavamo. Se non
che vi sono uomini ai quali è impossibile tradire il proprio dovere
perchè altri tradisce il suo: ed egli era tale. Però studiando,
scrivendo, e vivendo con povertà lieta su qualche lezione di
matematica, fissava l'occhio voglioso su qualunque angolo della
Penisola rivelasse indizio di vita; tendeva intento l'orecchio,
presto a seguirla, ad ogni chiamata.
E la chiamata venne da quella parte d'Italia dov'egli avea imparato
a patire, a fare, ad amare: venne dalle insanie feroci di un Governo
che un conservatore inglese definì una negazione di Dio; dalle
torture dei migliori del Regno; dal cupo malcontento di tutti; da
una serie di dimostrazioni, piccole in sè, pure indicanti una
crescente tendenza al fare: dal tremendo appello d'Agesilao Milano;
dal linguaggio dei moderati stessi, ai quali è da parecchî anni
fatto famigliare il mal vezzo di bandire all'Europa il fremito del
Paese per ottenere un brano di tiepida frase in un memorandum o in
un discorso ministeriale, a patto di frammettersi con ogni sorta
d'ostacoli agli audaci che s'affidano in quel fremito ed operano;
venne dai nostri pure; or dirò in quali termini.
I nostri dissero: venite e faremo. Posero condizioni, alcune delle
quali ci parvero inattendibili; altre esigevano mezzi ch'io sperava
raccogliere e non raccolsi. Ma, al di sopra di ogni particolare,
stava avverato per noi che i nostri - forti d'ardire, d'attività,
d'elementi mal collocati tra un Governo insospettito e potente e la
genìa moderata, avversa a ogni moto e ad ogni generoso concetto -
avevano bisogno d'una scintilla che suscitasse a fermento le vaste
moltitudini; e ci richiedevano d'applicarla, indicando il come.
Esaminata la proposta, Pisacane l'approvò, e me ne scrisse,
sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era.
Esaminai, approvai: parvemi che le numerose difficoltà potessero
vincersi; e, traversando Parigi e Lione, mi affrettai a recarmi in
Genova.
Nessuno s'aspetta ch'io dica i concerti presi, i provvedimenti, gli
ostacoli superati. Il fatto ha provato, credo, che anche sotto gli
occhî di un Governo ostile, volendo si può; e noi volevamo, e
volevano davvero gli uomini che ci secondavano. E quanto ai modi
tenuti, ai preparativi fatti, perchè una prima vittoria fosse
veramente la scintilla che dà moto all'incendio, è debito assoluto
il silenzio. Ben devo alcune parole all'energia singolare di
Pisacane e alla condotta dei nostri in Napoli. Delle accuse gittate
contro a chi tenta da chi non fa, dopo fallito un disegno, nè io
devo occuparmi, nè Pisacane, s'ei vivesse, si occuperebbe. Ma le
accuse gittate alla spensierata, da chi non sa, contro quei che non
fecero, son poscia invocate dai nemici come prova che il Paese,
rimasto inerte, non vuole o non può, e giova ribatterle e togliere
ai raggiratori il pretesto di cui si valgono a infondere lo
scetticismo negli animi.
La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno. Un incidente,
di quelli che niuno può prevedere o combattere, s'attraversò e
distrusse tutto il nostro lavoro lo stesso giorno in cui doveva
tradursi in atto. Avevamo intanto, poche ore prima, certi
com'eravamo di mantener la promessa, avvertito i nostri del Regno
che il battello partiva. Mancavano i mezzi per sollecite
spiegazioni, e, più assai della perdita del materiale ed altro,
temevamo gli effetti morali della delusione e i pericoli che il
subito attivo prepararsi a seguire poteva moltiplicare sugli amici
di Napoli. Partiva a quella volta un legno a vapore la stessa sera,
e Pisacane determinò di portare egli stesso ai nostri la spiegazione
dell'indugio e d'accertarsi a un tempo della realtà degli elementi
sui quali si fondavano le nostre speranze. In due ore ei decise;
fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo
cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partì. Era
determinazione per lui più grave dell'altra; era l'esporsi a tortura
e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e
lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei
s'avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del Dovere, che
la coscienza di compirlo bastava a infiorargli la via.
Partì, giunse, rimase tre giorni in Napoli e tornò dov'io era. Tornò
lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la
propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto
una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non
gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla
riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma,
al di là delle objezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi
risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani;
ei sentiva che uno splendido fatto, un trionfo, sarebbero stati più
assai potenti, che non protratti e pericolosi preparativi; e mi
scongiurò di rifar la tela pel 25, giorno di partenza del Cagliari.
Fui convinto, e diedi opera ai preparativi. Il tempo era breve,
breve di tanto ch'io disperava quasi di condurli a termine. Ma il
fervore dei nostri compagni di lavoro era tale che si riescì. Il 25
ei partiva. Genova doveva seguire, farsi padrona di sè e de' suoi
materiali da guerra, consecrarsi ad afforzar l'impresa in Napoli,
operare come riserva e chiamare coll'esempio alla crociata italiana
il Nord e parte del Centro. Io rimasi a dirigere il moto. Genova,
che nessuno oggimai può rapire alla causa della Nazione, avrebbe
fatto e, al sorgere d'una generosa chiamata, checchè provveda il
governo, farà.
Il tentativo riescì quale l'avevamo ideato. La nostra parte era
fatta; perchè Napoli non fece la sua?
Io accennai altrove, e lo ridico oggi più esplicitamente, provocato
dalle menzogne degli avversi a noi, e dalle ingiuste accuse gittate
contro ai nostri da uomini buoni, ma precipitosi nei giudizî e
incauti nel proferirli; se Napoli non rispose, è dovuto alla
frazione così detta dei moderati.
Gli uomini che oggi s'adoprano a smembrare il nostro campo e
impedire il moto, furono - prima del 1848, taluni anche dopo -
cospiratori, su tutti i punti d'Italia, con noi. E questo aver
cospirato con noi li addita tuttavia al Popolo come amatori caldi,
attivi, volenti d'Italia, e rende impossibile una mossa imminente,
senza che essi vengano a risaperlo. Il Popolo ricorda i loro lavori,
gli imprigionamenti patiti, le persecuzioni governative; ignora il
loro mutamento, e non sospetta la tattica perenne che essi adoperano
in oggi.
E questa tattica, identica negli uomini del Governo Piemontese e nei
moderati costituzionali delle altre parti d'Italia, ha
invariabilmente tre stadî: promettere, agitare, illudere a sperare
in cose giuste - dissuadere, ingigantire i pericoli e le triste
conseguenze d'un moto inopportuno, e diffondere sfiduciamenti e
paure, quando altri s'appresta a fare - affratellarsi, frammettersi
apparentemente a chi fa, quando il fare sembra inevitabile, a
strozzare in sul nascere o sviare lentamente il moto dalla via
diritta. Tattica siffatta fu adoperata con successo dai moderati,
dal 1848 in poi, dieci volte su dieci punti diversi; tanto che pare
oggimai più idiota che credulo chi tuttavia s'abbandona a quelle
arti. E tattica siffatta fu adoperata in Napoli, a tradire il
concetto dei generosi.
All'annunzio della discesa su Sapri, fu deciso dai nostri d'agire in
Napoli. Furono presi i concerti opportuni. Fu determinato il giorno.
I capi-popolo aderivano tutti. Il momento era solenne; e,
dimenticate tutte le gare, i nostri chiesero agli influenti fra i
moderati cooperazione ad un fatto già iniziato da Pisacane e da'
suoi compagni. Gli influenti fra i moderati non solamente risposero
con un rifiuto alla generosa proposta, ma s'adoprarono a tutt'uomo a
infiacchire, sviare, dividere i capi-popolo; e vi riuscirono; venne
allora proposta una vasta manifestazione tra il pacifico e l'ostile,
che suscitasse fermento nelle moltitudini. I moderati aderirono e
s'assunsero l'ordinamento della dimostrazione; tradirono la promessa
e non ne tentarono il compimento; poi, quando giunse l'infausta
nuova della rotta di Padula, e indovinarono diffuso lo sconforto nei
ranghi, si ritrassero subitamente. Più dopo s'avvilirono,
protestando anonimi contro il fatto di chi moriva per tutti.
A queste mie affermazioni potrei dare appoggio di dichiarazioni
scritte; ma or non giova; e potrei dir nomi; ma finchè vive la
tirannide, non per essi, ma per la dignità dell'anime nostre, nol
devo.
Io non ho dunque accusa pei nostri, per gli uomini veduti da
Pisacane, se non quest'una, che in parte li onora: l'avere essi,
uomini di pure, generose intenzioni, sperato soverchiamente nelle
altrui. E lo dico, perchè alcune parole scritte da me nell'Italia
del Popolo potrebbero essere interpretate a loro danno, e me ne
dorrebbe. Sia sprone ad essi, nella santa impresa iniziata col
proprio sangue dall'amico, il dolore profondo che la delusione deve
aver confitto nell'anima loro.
Non mi tratterrò sugli ultimi fatti; mancano tuttavia i particolari:
nè io scrivo la vita di Carlo, ma soltanto alcuni ricordi del mio
contatto con lui. Altri potrà forse dire un giorno le sue sensazioni
scendendo sul suolo napoletano, i divisamenti che ne diressero i
moti, l'arti inique del Governo che, annunziando la discesa di una
banda di prigionieri rei di delitti comuni fuggiti da Ponza, gli
sospinsero contro le popolazioni ignare dei villaggi che ei
traversava; i due scontri, vittorioso l'uno, fatale l'altro, e le
ultime sue parole. Io imagino gli ultimi suoi pensieri; cadde
mentr'ei credeva incamminarsi a vittoria, cadde per mano di uomini
che avrebbero dovuto secondarne l'impresa e abbracciarlo fratello e
iniziatore di vita italiana ai giacenti; e nondimeno io sono certo
che se egli avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo
grido ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al
giorno in cui vincerete. Pisacane non era simile ai tanti che, dopo
aver cacciato il guanto al nemico, si ritraggono per alcune
disfatte, e dopo aver giurato che ora e sempre consacrerebbero anima
e vita a fondare una Patria, tramutano il sempre in alcuni anni di
sforzi, e tradiscono nell'inerte stanchezza giuramento e Patria ad
un tempo, perchè non riescono a creare in quei pochi anni una
Italia.
Perdendo Pisacane noi abbiamo fatto una perdita grave: perdemmo
l'ufficiale che avrebbe un dì o l'altro guidati i nostri alle
battaglie del Popolo: perdemmo il cittadino al quale noi avremmo
potuto fidare quell'alto incarico, senz'ombra di timore che ei ne
abusasse mai per ambizione o voluttà di basso egoismo: perdemmo
l'uomo che, fra quanti io conobbi, identificava più in sè il
pensiero e l'azione e le doti generalmente disgiunte, scienza e
spontaneità d'intuizione guerresca, energia e riflessione pacata,
calcolo ed entusiasmo. Guardava dall'alto le cose, e nondimeno ne
afferrava i menomi particolari. Amava di amore intensamente devoto
l'amica e la fanciulla che gli era figlia, ma non sacrificava a quei
santi affetti un solo de' suoi doveri verso la Patria. Moveva ad una
impresa che doveva costargli la vita, e dava lo stesso giorno
l'ultima lezione di matematica ad un allievo.
E morì. Noi possiamo seguire ad amarlo; ma che cosa è l'amore a chi
è morto alla terra, se scompagnato dalla religione del pensiero che
costituiva la miglior parte della sua vita quaggiù? Basta a compiere
il legato, ch'ei ci lasciava morendo, un tributo di lode, una
sottoscrizione per la fanciulla che non lo rivedrà mai più sulla
terra? Son essi, o Italiani, i vostri martiri, gladiatori al cui
morire applaudono gli spettatori del Circo, se muojono composti in
atto virile ed impavido? Non ha diritto la figlia di Pisacane di
dirvi un giorno, quand'essa invocherà la carezza paterna, e saprà il
come e perchè le fu tolta: se mio padre scendeva, mercè i vostri
ajuti, con forze doppie sulla mia terra, forse ei sormontava gli
ostacoli; e giungendo ad uno dei centri ove vivono luce d'intelletto
educato e fiamma di libertà, trovava fratelli e vinceva? Rimprovero
amaro è cotesto, o Italiani, perchè meritato; e viene a noi nel
gemito non solamente della povera Silvia, ma dei mille orfani
dell'amore dei tanti, che da oramai dieci anni morirono vittime
della tirannide straniera e domestica, protestando per noi tutti
contr'essa. Perchè sono orfani su questa terra che seppe sorgere e
vincere nove anni addietro? Perchè si muore d'intorno a noi, quando
si potrebbe vivere col serto del trionfo sul capo? Perchè move il
vento e bagna la pioggia le ossa di Pisacane, come fossero ossa di
masnadiere, quando sta a noi di comporgli su terra libera una tomba
sulla quale sventoli la sua bandiera? E come provvediamo noi a
ch'egli sia almeno l'ultimo martire che cada nello sconforto e nel
silenzio comune?
Perchè noi siamo a tale, che non possiamo oggimai evitare il
martirio dei buoni se non coll'azione e colla vittoria. Un Paese sul
quale pesa l'oltraggio e il patir d'ogni genere, non può dare per
cinquanta anni al patibolo, o alla lenta morte delle carceri e
dell'esilio, il fiore dei suoi patrioti, e a un tratto adagiarsi
nella propria tomba ad aspettare muto ed inerte che gli squilli la
tromba di risurrezione dall'Oriente o dall'Occidente. Un Popolo non
può ricordarsi che pochi anni prima liberava con cinque giorni di
lotta il proprio terreno, e non cadeva se non per errori evitabili,
e rassegnarsi immoto al marchio della schiavitù, sol perchè a una
genìa diplomatico-letterata, sfibrata e codarda, piace di dirgli: tu
aspetterai salute da una serie di memorandi o dall'ambizione d'un
despota. Un partito, al quale la parola di tanti, che non hanno se
non parole, tesse ogni giorno la storia de' suoi dolori e delle sue
vergogne, non può impedire che i più bollenti fra i suoi non
prorompano nel grido di Foscolo: chè non si tenta? Morremo, ma
frutterà almeno il nostro sangue un vendicatore; non può impedire
che gli uomini, non nati a gemere o a servilmente tacere, tentino
por fine al disonore o alla vita. Il sangue di quegli uomini sta su
voi tutti, o Italiani, che potete e non fate; su voi che, caldi di
amor patrio a parole, non v'affratellate in concordia di lavori e di
sacrificî con quei che s'adoprano a creare alle moltitudini
l'opportunità; su voi che, fatti pubblico ozioso di chi move,
condannate freddamente i tentativi su piccola scala, senza far cosa
alcuna che renda possibili i tentativi maggiori; su voi che
profondete in capricci e sollazzi di schiavi inviliti ed immemori,
l'oro che potrebbe procacciar salute al Paese: su voi che, teneri
dei vostri impieghi o dei vostri riposi, date apparenza di dottrina
al vostro egoismo e sviate, colle illusioni, colle torte teoriche di
progresso pacifico, e colle accuse ai migliori, la gioventù nostra
dal diritto sentiero.
E il sangue di Pisacane e d'Agesilao Milano, il sangue di quanti
morirono col nome di Patria sul labbro per suscitarvi ad opre
virili, da Milano e Pisacane risalendo fino ai Bandiera, grida a voi
degnamente, Italiani di Napoli: sorgete e ribattete da uomini
un'accusa che serpeggia crescente per tutta Europa. Siete voi,
iniziatori un tempo della lotta italiana, caduti per sempre? Non
freme più vita sulle vostre terre, fuorchè quella dei vostri
vulcani? Da parecchi anni voi diffondete attraverso l'Europa un
lamento che riesce ignobile, se non profetizza, dimostrandola
legittima, l'insurrezione: voi snudate, popolo Giobbe d'Italia, le
vostre piaghe dinanzi a tutte le Nazioni, e non temete ch'esso
dicano: un popolo che soffre ciò ch'essi soffrono è un popolo
degenerato; chi sopporta il bastone lo merita?
Io ho, per amore del vero, scolpato i nostri, gli uomini che presero
concerti con noi, dell'accusa di codardia: i nostri, comunque
numerosi, son pur sempre minorità. Ma chi può scolpare un popolo
intiero? Il popolo Napoletano sopporta in oggi una di quelle
tirannidi che non solamente tormentano, ma disonorano. L'esercito
Napoletano serve ad un sistema che tramuta il soldato in birro e
carnefice dei proprî fratelli. Napoli ha, più che ogni altra parte
d'Italia, propizia al moto l'opinione europea: e nessun Governo,
dall'Austriaco in fuori, oserebbe combattere con armi aperte
l'insurrezione. E dall'Austria l'assecura il resto d'Italia, presto
a rispondere alla chiamata. Perchè non sorse, quando intese
l'annunzio della discesa di Pisacane? Manca pur troppo finora ai
nostri, non il coraggio, ma l'intelletto rapido, audace,
dell'insurrezione. Se ciò che noi predichiamo da ormai dieci anni,
che al levarsi di una bandiera di libertà, supremo dovere, suprema
salute, è insorgere dove che sia, si facesse, Pisacane sarebbe in
oggi capo della rivoluzione napoletana. Se una delle provincie
collocate fra il punto di sbarco e la Capitale avesse, al primo
giungere della nuova, romoreggiato armi e guerra, il concentramento
di quei che oppressero Pisacane non s'operava. Mancò il tempo perchè
si ricevessero istruzioni dal punto centrale? Che! non erano
istruzioni viventi i generosi che venivano a sacrificarsi per voi?
Aspettate, per farvi liberi, un cenno di Comitato?
Giovani del Regno! voi potete compiere una grande missione: e voi
dovete compirla, dapprima, perchè in mano vostra sta la salute
d'Italia; poi - non v'incresca la franca fraterna parola - perchè
v'è mestieri redimervi dall'accusa che vi dice scaduti e indegni dei
vostri padri. Sorgete dunque e smentite l'accusa. Siano vostra
parola d'ordine al combattere i nomi di Milano e di Pisacane. La
terra che produce tali uomini non è fatta per rimanersi schiava,
segno al disprezzo dei padroni e al compianto dei Popoli.
Febbrajo 1858.
Giuseppe Mazzini.
A LUIGI BONAPARTE((263))
I.
Signore,
I tempi sovrastano minacciosi: la marea imperiale retrocede
visibilmente. Voi lo sentite. Tutti i provvedimenti da voi adottati
in Francia, dopo il 14 gennajo; le note e le intimazioni
diplomatiche che voi, dal dì fatale, spargeste al di fuori, rivelano
le ansie del terrore. Un senso d'intensa agonia - l'angoscia di
Macbeth - vi rode l'animo, trapela da ogni vostro atto o parola. Il
presentimento che summa dies et ineluctabile fatum pendon su voi,
v'incalza insistente. Il Signore di Glamis, il Signore di Cawdor e
il re((264)), - il Pretendente, il Presidente e l'Usurpatore - son
condannati. L'incanto è sciolto. La coscienza dell'Umanità s'è
riscossa, e guatandovi con piglio severo, vi esamina, scruta i
vostri atti, e vi chiede conto delle vostre promesse. Da questo
momento la vostra sorte è decisa. La coscienza dell'umanità scorgerà
in breve che voi non siete che una menzogna vivente; una deforme
ripetizione di un Passato spento da lungo tempo e per sempre; una
pallida ombra furtivamente emersa dalla tomba di Sant'Elena, e non
coronata dalla gloria immortale e dalla solenne missione del potente
ch'ivi riposa; una parodia di potere, atta a negare, a dissolvere, a
schiacciare per breve tempo, inetta ad affermare, ad organizzare, a
edificar cosa, in cui l'avvenire possa adagiarsi. L'umanità chiede
realità, non fantasmi; evoluzioni del principio d'educazione, che
Dio le assegna a legge di vita, non fatti bastardi, arbitrarî,
anormali, che han la vita d'un'ora. A tai fatti essa guarda, sospesa
per meraviglia, un istante; poi passa, intimando alla importuna
apparizione il ritorno nel nulla. E voi, signore, vi affrettate a
tal termine. Voi potete viver mesi, non anni.
Allorchè, illegalmente, occupaste il potere, voi prometteste, quasi
ad ammenda, di voler ridurre in pace la Francia - la Francia
irrequieta, perturbata e perturbatrice. È governo l'imprigionare, il
deportare, il soffocar la parola? È strumento di educazione il
gendarme? apostolo di moralità e di mutua fidanza la spia? Voi
annunciaste al rozzo paesano di Francia, che nuovi tempi
albeggiavano, col vostro impero, per lui; che le gravezze sotto cui
geme, andrebbero l'una dopo l'altra cessando. Ne sparve sol una?
Potete voi additare un miglioramento qualsiasi della sua condizione,
un solo elemento d'imposte rimosso? Potete spiegar come avvenga che
il paesano oggidì si affratelli nella Marianna? Potete negare che lo
storno dei fondi - già consacrati all'industria agricola - nei
canali della speculazione aleatoria, aperti da voi, non abbia tolto
al lavoratore di che procacciare strumenti al lavoro e migliorare la
terra? Voi seduceste il traviato operajo, dichiarandovi l'Empereur
du peuple, un Enrico IV sotto forma diversa, inteso ad assicurargli
lavoro perenne, alte mercedi, e la poule au pot. Non è la poule au
pot vivanda alquanto cara oggi in Francia? Non costan più caro
ancora gli affitti delle case, e parecchî fra gli oggetti più
necessarî alla vita? Apriste nuove strade; tracciaste, per fini
strategici e repressivi, nuove linee di comunicazione; distruggeste
e riedificaste. Ma la moltitudine delle classi operaje appartiene
forse tutta alla beneficata categoria dei muratori? Potete voi, a
schiuder sorgenti di lavoro e di guadagni al proletario, metter
sossopra indefinitamente Parigi, e le principali città di provincia?
Potranno questi transitorî espedienti far mai le veci della
produzione regolare, progressiva, normalmente richiesta? È forse la
domanda della produzione in condizioni soddisfacenti al presente?
Non sono tre quinti degli ebanisti, dei falegnami e degli operaî
meccanici, senza impiego in Parigi? Voi adombraste alla borghesia,
facilmente soggetta a paure e a lusinghe, sogni e speranze di
raddoppiata attività industriale, sorgenti feconde di nuovi
profitti, eldoradi di stimolata esportazione e di operosità
internazionale. Che avvenne di tutto ciò? La vitalità produttrice
della Francia langue incagliata: le commissioni pel commercio
diminuiscono: i capitali si celano. Voi avete, come il selvaggio,
tagliato l'albero per coglierne le frutta; avete, intemperantemente
e con mezzi artificiali, eccitato speculazioni sfrenate, immorali,
che mentono larghe promesse solo a tradirle; avete, millantando
progetti giganteschi, attratto da ogni parte della Francia a Parigi
i risparmî de' piccoli capitalisti, deviandoli dalle fonti vere e
permanenti della prosperità nazionale: - l'agricoltura, l'industria
e il commercio. Questi risparmî furono ingojati e fatti sparire da
qualche dozzina di speculatori privilegiati, sommersi in un lusso
sfrenato e improduttivo, o copertamente trasferiti - potrei citar
nomi della vostra famiglia - a salvamento in paesi stranieri. La
metà de' progetti caddero, dimenticati, nel vuoto. Alcuni degli
inventori viaggiano ora, per prudente riguardo, à l'étranger. Voi
avete dinanzi una borghesia malcontenta; vi stringono le angustie
dell'erario, stremato dei mezzi ordinarî, per 500 000 000 di franchi
sprecati, nelle città principali di Francia, in pubblici lavori che
non rendon profitto, pel deficit di 300 000 000 nel vostro ultimo
bilancio, con la Ville de Paris carica di debiti, senz'altro rimedio
da quello infuori di un nuovo prestito di 160 000 000 da aprirsi,
non in nome vostro, chè non riuscirebbe, ma in nome del Consiglio di
città; e, a pagarne l'usura, l'allargamento delle barriere, quindi
dell'odiato octroi, sino alla cinta delle fortificazioni esterne. Il
rimedio peserà gravissimo sulle classi operaje, provocandovi contro
la banlieue, prima devota. I vostri artificî toccano il termine.
D'ora innanzi, qualunque cosa facciate per ovviare alle difficoltà
finanziarie del vostro regime, sarà un passo di più verso la fatale
caduta. Viveste sin qui col prestigio del credito, ricorrendo ad una
serie indefinita di prestiti. Or dove sono le sicurtà del credito
avvenire? Roma e Napoleone saccheggiavano il mondo: voi non potete
saccheggiar che la Francia; ai loro eserciti era dato vivere di
conquista, ai vostri è vietato. Voi potete sognar conquiste;
ardirle, arrischiarle, non mai. I dittatori romani, e vostro zio
guidavano di persona gli eserciti conquistatori: se in voi,
quantunque vago di mostre soldatesche e di uniformi dorate, sia
capacità di condurre pochi battaglioni in accordo di azione, m'è
dubbio. Dichiaraste alla Francia di combattere, solo per amore di
lei, l'anarchia: dichiaraste che la libertà - la vera, la sobria,
l'ordinata libertà - troverebbe sotto il regime dell'impero le più
desiderabili e certe guarentigie; che il bonapartismo era un'idea,
una scorta al progresso, auspice un potere forte ed accentrato; che
una aristocrazia di capacità intellettuali, devote al progresso - la
sola aristocrazia veramente divina - promoverebbe, voi patrocinante,
la vita civile della Nazione.
Potete voi mostrare un solo vestigio di libertà in un paese ora
caduto, vostra mercè, non dirò al di sotto dell'Inghilterra, ma al
di sotto del Belgio, della Svizzera, del Piemonte? in un paese nel
quale centinaja d'uomini stanno oggi rinchiusi nel castello d'If,
per essere deportati in Algeria o a Lambessa, senz'ombra di
processo, senza aver pur veduto faccia di magistrato? Potete voi
additarci, nella vostra Francia imperiale, un solo periodico, una
sola rivista indipendente? un solo corpo morale che abbia facoltà di
manifestare il pensiero, i voti, le aspirazioni del paese? un solo
potere autorizzato ad iniziar leggi? un sol uomo, che i suoi
concittadini possano eleggere alle vostre pseudo-assemblee, senza
ch'ei s'obblighi prima, con giuramento, a sostenere il vostro
dispotico governo? Potete citare un sol uomo d'intelletto, che
avvalori, presente ai vostri consigli, il vostro odioso sistema? -
No: a voi non è dato trovare alcun ministro, alcun fautore, fuori
del circolo dei vostri complici immediati: da Thiers a Guizot, da
Cousin a Villemain, da Michelet a Giovanni Reynaud, la Francia
intellettuale rifugge dal vostro contatto corruttore. Sono vostri
uomini un Veuillot, l'avvocato della Saint-Barthélemy e della
Inquisizione; un Garnier di Cassagnac, il partigiano della schiavitù
dei negri, ed altri sì fatti. A rinvenire un uomo che fosse degno di
dare il nome allo scritto da voi indirizzato all'Inghilterra, vi fu
forza ricorrere a tale, che apostatò dal legittimismo e dalla
repubblica((265)). Vantaste, or non è molto, in faccia all'Europa,
che il cuore della Francia era vostro; che lieta, felice,
tranquilla, essa vi celebrava salvatore. Passarono pochi mesi: uno
scoppio fu udito nella Rue Lepelletier: e con selvaggie, paurose
ordinanze di repressione, con appelli, parte minacciosi, parte
supplichevoli, all'Europa, collo spartimento militare del paese, con
una spada al sommo del Ministero dell'interno, voi dichiarate ora,
dopo sette anni d'illimitata signoria - concentrato un numeroso
esercito, prive le schiere nazionali dei capi temuti - che non
potete vivere nè governare, se la Francia non sia convertita in una
vasta Bastiglia, l'Europa in una dipendenza della polizia imperiale.
Per quanto schiacciata, la Francia non può trasformarsi in una
Bastiglia; l'Europa non vuole ridursi per amor vostro a divenire
ministra della polizia de' vostri Côrsi. Rassegnatevi quindi al
vostro fato, e cadete.
Il vostro impero tornò in menzogna; e le menzogne non durano. Voi
pervertiste la vita economica della Francia in una trista
speculazione; la vita religiosa in ipocrisia cattolica; la vita
politica in negazione dispotica del diritto e della libertà; la vita
sociale in bisogna di gendarmi e di spie; la vita intellettuale in
una lacuna. Il vostro, o signore, non è governo: - governo è cosa
sacra; significa rappresentanza, perfezionamento dell'anima di un
popolo libero, per mezzo dei migliori e dei più capaci; - il vostro
non è che il fatto insano, momentaneo, sconsacrato, di un individuo,
d'un pugno di avventurieri, di pochi preti e d'un esercito di
pretoriani, congiurati a soffocare pro tempore, nel loro proprio
paese, anima, virtù, intelletto. E gli avventurieri assicurano già
gli avanzi del loro bottino nei fondi americani od inglesi; i preti
vi sopraffanno, presti ad abbandonarvi ove esitiate nel retrogrado
corso; i pretoriani si affrettano alla prefettura, cercando che dica
di Parigi il telegrafo, prima di abbattere il tumulto di
Châlons((266)). Tristi sintomi questi. Non sentite - sinistro
indizio d'imminente rovina - tremarvi sotto i piedi la terra?
II.
Sì; l'impero si è chiarito menzogna. Voi lo formaste, o signore, ad
imagine vostra. Nessun uomo in Europa, nell'ultimo mezzo secolo, da
Talleyrand in fuori, ha mentito al pari di voi: e in ciò sta il
segreto del vostro temporaneo potere. In questa nostra malferma e
scettica età, le menzogne sono agevolmente credute; senonchè non
approdano.
Voi, insieme con vostro fratello, chiamaste causa sacra, nel
1831((267)), la insurrezione delle popolazioni romane contro il
papa; dal 49 in poi voi infliggeste a quella causa l'insulto di
demagogica.
In Arenemberg, nel 1833((268)), diceste che, essendo ogni nobile
anima cacciata in esilio dai Governi, o perseguitata, andavate
superbo di appartenere alla tribù dei proscritti. Voi avete
organizzato dappoi una universale, incessante persecuzione
contr'essi.
Nel 1836, allorchè, dopo l'attentato di Strasburgo, Luigi Filippo vi
bandì nell'America, vi dichiaraste conscio di esser reo verso lui,
profondamente commosso dalla sua generosa clemenza, e vincolato a
non più cospirargli contro((269)). Due anni dopo cospiravate dalla
Svizzera. Quattro anni dopo approdaste a Boulogne.
Nel 1848, vi affrettaste a Parigi, «per seguire la bandiera della
Repubblica, e darle prova di devozione»((270)).
In quello stesso anno scriveste((271)):
«In presenza della sovranità nazionale non posso nè voglio reclamare
cosa alcuna oltre i diritti di cittadino francese».
Scriveste, come candidato alla presidenza in novembre((272)): «Non
deve esistere ambiguità fra me e voi. Io non sono uomo ambizioso che
sogni impero... Educato in libere terre e ammaestrato dalla
sventura, rimarrò sempre fedele ai doveri che la volontà
dell'Assemblea e i vostri voti m'impongono. Ove io fossi eletto
presidente, m'impegnerei sull'onore a cedere, dopo quattro anni, a
chi mi succedesse, un potere fatto più forte e la libertà intatta».
Scriveste come presidente in dicembre((273)): «Il giuramento da me
prestato prescrive la mia futura condotta..... Riguarderò nemici del
paese tutti coloro che tentassero di mutare con mezzi illegali ciò
che l'intera Francia ha decretato». Prima che queste parole fossero
proferite, Cavaignac aveva divisato una spedizione a Roma, solo a
tutelare la sicurezza personale del Papa. Voi biasimaste la
proposta. «Non potrei - diceste - dare mai il mio voto ad una
dimostrazione militare, nociva agli stessi interessi che è intesa a
proteggere»((274)). Quattro mesi dopo le vostre truppe sbarcavano a
Civitavecchia.
Dichiaraste nel 1849((275)), in un proclama dettato al generale
Oudinot, che «non era vostro intento di esercitare su Roma una
influenza opprimente, nè d'imporle un governo contrario al volere
del popolo». Tre mesi appresso, Roma, il suo governo, la volontà del
popolo, erano inesorabilmente schiacciati. Indi a non molto, in
agosto((276)), prometteste ottenerle «generale amnistia,
amministrazione secolare, leggi civili e liberale governo». Le
vostre truppe sono ancora in Roma, e nulla fu ottenuto, nè chiesto.
Nel 1849 concludeste il vostro primo messaggio((277)), dicendo:
«Saprò meritare la fiducia della Nazione, conservando la
costituzione che ho giurata».
Nel 1850((278)), proferiste solennemente questo parole: «Se nella
costituzione sono difetti e pericoli, è in potere di voi tutti il
torli via. Io solo, vincolato dal mio giuramento, mi sento in dovere
di tenermi strettamente nei limiti della medesima».
Nel 1851, pochi giorni prima del colpo di stato((279)), voi diceste
all'esercito: «Non dimanderò altro da voi che i miei diritti
riconosciuti dalla costituzione».
E il 2 dicembre stesso, pendente ancora il risultato finale del
disegno di usurpazione, proclamaste che: «Era vostro dovere il
proteggere la repubblica»((280)).
Indi sopravvennero la improvvisa violazione di ogni promessa
giurata, l'ambiziosa volontà di un solo sostituita alla volontà
legalmente espressa della nazione, il feroce appello alla forza
brutale, gli ordini inesorabili a Saint-Arnaud; l'Assemblea parte
dispersa, parte imprigionata, i generali arrestati; la Francia
cosacca avventata contro la Francia repubblicana; Parigi data in
preda ad una soldatesca compra, briaca, incitata, feroce; il fuoco
di linea nei Boulevards contro una popolazione inerme, inoffensiva,
il macello regolarmente praticato a mettere terrore negli animi dei
futuri elettori; donne e fanciulli massacrati nelle loro case,
fucilati i prigionieri, 2652 vittime((281)): 88 rappresentanti del
popolo proscritti, 100 000 uomini posti in prigione, deportati,
confinati, senza pur mostra di giudizio: infine il trionfo, e il
simulacro della elezione.
E sopra un tale sistema di menzogne, sopra edificio sì fatto di
fango e di sangue, speraste inalzare una dinastia! Credeste che la
idolatria transitoria, prestata al successo da tutti i poteri che or
sono, potesse prevalere contro il marchio di Caino, che Dio e la
eterna giustizia vi stampavano in fronte!
V'ha tal cosa, o signore, che sta sopra al successo: Dio; - tale che
è più forte del fatto: il Diritto; - tale che è più alto e più
durevole d'ogni idolatria: il Tempo. Potreste voi balzar di trono
Iddio? Cancellare il diritto? Abolire il tempo? Perchè, sin che
splenda lume di verità dall'alto alle menti, e la idea del diritto
alberghi nel cuore dell'uomo e tempo sia dato agli eventi, nè vero o
falso imperatore, nè zio privilegiato di genio, nè satanicamente
astuto nipote, possono nel secolo XIX sostituire il proprio egoismo
allo inoltrarsi provvidenziale dell'umanità; nè può un individuo,
per quanto sostenuto da bajonette e da preti, farsi innanzi e dire:
«io sono la mente irresponsabile, maggiore d'ogni esame, di 35 000
000 di uomini», senza condannarsi a cadere, esempio agli oppressori,
insegnamento profondo agli oppressi. Dopo il passo del Rubicone è il
vindice pugnale di Bruto: dopo le Tuileries, Sant'Elena: e,
nell'intervallo, una breve, irrequieta, esosa vicenda di paure e di
rimorsi: indi la storia, la coscienza universale del genere umano,
che infama in eterno il tiranno. È legge; legge certa, ineluttabile.
Voi avete trafficato sul vizio e sulla debolezza; fatto assegnamento
sul terrore e sulla codardia: misurato, con l'occhio penetrante del
gran Dissolvitore, la scorza delle corruttele, in che il
materialismo del primo impero, quindici anni di gesuitica
opposizione monarchica, l'egoismo posto sul trono durante il regno
di Luigi Filippo, e i sogni anarchici di un socialismo settario,
avvilupparono il core de' vostri concittadini, e diceste a voi
stesso: son miei. Dimenticaste che, sotto la melmosa superficie,
rimaneva non doma, non tocca, la nobile e solida madre-terra di
Francia, la terra che diè vita a Giovanna d'Arco, e agli uomini
giganti della Rivoluzione. Dimenticaste che l'Europa, anche l'Europa
ufficiale, atea, adoratrice del fatto, s'inchinerebbe a voi sol
quanto fosse richiesto dal progressivo pacifico incremento del fatto
medesimo, mentre ora la forza di questo, per minaccie e pericoli,
visibilmente declina. E dimenticaste che tra voi e l'Europa
materialista stanno uomini che voi non potete nè piegare nè
frangere, la cui vita è incarnazione di un principio, che agisce, da
Maratona in poi, sulla razza europea, e i quali riusciranno da
ultimo più forti di voi perchè non ruppero mai i loro giuramenti, e
non combattono, come voi fate, per mire egoiste e malvagie
ambizioni. Noi, uomini del diritto e della libertà, conquistammo
l'Inquisizione e il grande Impero. Siatene certo, o signore, noi
vinceremo voi pure.
Vi avremmo già vinto se stato non fosse per l'Inghilterra.
III.
Voi siete ingrato all'Inghilterra, o signore. Senza l'Inghilterra,
senza l'ajuto che, in un malaugurato momento, il Governo inglese vi
porse, non sareste più da gran tempo. Voi dovete all'Inghilterra
quella specie di adozione fra i poteri costituiti di Europa, che,
solo, non avreste mai conquistata. L'alleanza inglese ha tenuto in
freno sin qui l'Italia e la Francia. A voi piace oggi por ciò in
oblìo. Alludete sovente ai vantaggi procacciati dall'alleanza agli
Inglesi, e ne parlate come di evento concepito e creato da voi. Ambo
le asserzioni sono false. E dacchè molti Inglesi sono proni a
lasciarsi ancora ingannare dall'audacia delle vostre parole, non
sarà senza frutto ch'io qui, in nome della verità, suggelli la mia
doppia protesta contr'esse.
L'alleanza anglo-francese non fu vostro concetto. Esso è concetto
della Francia e dell'Inghilterra: a voi fu forza obbedirvi. Le
relazioni amichevoli sorsero a grado a grado da naturale riazione
contro le lunghe, mortali, storiche lotte, che toccarono il colmo
sotto il primo impero; dal sentimento de' tristi effetti della
contesa per ambedue le nazioni; e dallo spirito che agita
provvidenzialmente il core della Umanità, sospingendola a universal
fratellanza. Voi vi giovaste di relazioni sì fatte pe' vostri
ambiziosi disegni, pervertendole per un tempo. Nel vostro segreto,
l'Inghilterra v'è in odio. L'antagonismo alla sua grandezza è
tradizione di famiglia per voi. E il sentimento còrso della vendetta
cova profondo nella gretta anima vostra. E l'aver vissuto esule,
povero, negletto in Inghilterra, lo rese più acerbo. Noi apprendiamo
facilmente ad amare il rifugio della nostra vita raminga; ma le
nature sensuali ed egoiste non sentono nel beneficio che un peso
importuno. Nel 1836, dichiaraste innanzi ai Pari che «un principio,
una causa, una sconfitta si personificavano in voi: Waterloo, la
sconfitta; voi inteso a vendicarla». Odio alla perfida Albione, fu
la parola consegnata da voi alle caserme dopo il colpo di stato:
l'insolenza recente de' vostri colonnelli non è che l'eco di quella.
Guerra all'Inghilterra era allora, com'oggi, il vostro sogno
impotente, e ne farebbero, all'uopo, testimonianza le carte
geografiche, strategicamente punteggiate, nel vostro cabinet de
travail. Ma vi sentiste debole, isolato, biecamente guardato, però
cedeste alla necessità, seguendo le crescenti popolari tendenze, voi
non creaste l'alleanza: la firmaste con restrizione mentale.
L'alleanza anglo-francese, ripeto, è pensiero delle due nazioni: nè
gl'Inglesi, ora troppo sovente ingiusti alla repubblica del 1848,
dovrebbero dimenticarlo. Il moto di febbrajo fu salutato con favore,
non certamente dall'Inghilterra officiale, ma dalla maggioranza del
popolo inglese. Nè mai fu saluto con tanta gioja e gratitudine
accolto come il saluto dell'Inghilterra dai repubblicani del 1848.
La tradizione diplomatica fra le due nazioni non fu un solo istante
interrotta. Lord Normanby - mantenuto officiosamente nella sua
rappresentanza durante il primo periodo - fu accreditato
officialmente dall'Inghilterra, appena l'Assemblea ebbe sanzionato
la mutazione di Stato. L'ambasciatore di Russia, Kisseleff, offerse,
sino dai primi giorni, patto di alleanza collo Tsar contro
l'Inghilterra, chiamata da questi la comune nemica, e la giovine
Repubblica rifiutò l'offerta. Un noto generale, Changarnier, ora in
esilio, fece indi a poco proposta di scendere a guisa di pirata in
Inghilterra, minacciando distruzione a Londra e ai depositi della
ricchezza inglese. Dichiarava bastargli, ad eseguire il disegno, un
dato numero di soldati, di navi e di battelli a vapore. La proposta
fu sdegnosamente respinta, e il generale rimandato al suo comando
militare, da cui s'era, per quell'insano proposito, improvvisamente
allontanato. Mercè tali disposizioni, una qualsiasi opportunità, un
primo segno di buon volere del Governo inglese avrebbe senz'altro
dato nascimento ad un'alleanza assai più sincera, più morale e
feconda di quella alla quale l'Inghilterra fu indotta da voi.
Voi vi cacciaste di mezzo fra i due popoli, e su ciò ch'era buono e
sacro innestaste disegni egoisti e ambiziosi. Di una solenne
riconciliazione, che, sotto il vessillo della libertà, sarebbe stata
come benedizione dall'alto sul genere umano, faceste un tristo e
sterile connubio tra la libertà e la tirannide, tra la vita e la
morte. L'Inghilterra non fu per voi che strumento a brame
dinastiche: l'alleanza ponte fra voi e le Potenze diffidenti
d'Europa.
Le vostre prime pratiche furono volte alla Russia. Naturali
tendenze, logica di despota, e non so che ricordi delle conferenze
del Kremlino, vi spronavano a quella parte. La Russia non accolse le
offerte. Lo Tsar sentiva di non poter fare a fidanza colla vostra
parola. I vostri agenti, quasi a legittimarvi con nozze regali,
avevano tentato indarno tutte le corti germaniche, in cerca di una
sposa per voi. L'Europa dinastica v'era chiusa; la leva della
rivoluzione vietata; suicidio l'agitarla contro le Potenze.
Però pensaste all'Inghilterra. Vi occorreva tal cosa, che vi
additasse ad un tratto partecipe del sodalizio de' poteri legittimi;
vi occorreva una conferenza diplomatica, un trattato di pace, al
quale apporre, insieme con essi, la vostra firma. Strada alla pace
era la guerra; e voi la provocaste. L'Inghilterra v'entrò,
renitente, al vostro fianco, ma con animo perfettamente sincero, e
mosse il primo passo con fermo proposito di trarne qualche pratico e
permanente effetto. Ma volendo voi evitare il risvegliarsi delle
nazionali insurrezioni, e fare, ad un tempo, le prime parti nella
guerra, sacrificaste per ciò la questione strategica al vostro
intento politico. A Riga e a Odessa preferiste la Crimea. Non era
ivi pericolo di un moto polacco: e le vostre forze di terra, in un
assedio lungamente protratto, doveano, per loro naturale
superiorità, risplendere su quelle dei vostri alleati. Oltrechè,
concentrata la guerra ad oppugnare un avamposto lungi dalle parti
vitali dell'impero nemico, v'era lasciata possibilità di
negoziazioni amichevoli collo Tsar pel futuro, ed argomento a dirgli
quando che fosse: l'Inghilterra, posta davvero alla prova, v'avrebbe
colpito nel core: io vi salvai. Così, mercè vostra, e per la
condiscendenza colpevole del Governo britannico, la guerra, traviata
dal suo naturale indirizzo, si ridusse ad un brillante duello au
prémier sang, senz'altro risultamento, da quello in fuori che voi
avevate prefisso alla giostra. Quando, al chiudersi del primo
periodo, l'Inghilterra cominciò a intendere la necessità di una
lotta seria, e l'importanza europea della contesa, e lo Tsar
consentì a differire la esecuzione lungamente vagheggiata de' suoi
disegni in Oriente, voi vi affrettaste a soddisfarlo a qualunque
patto, e senza salde guarentigie per l'avvenire; e, come avevate
trascinata la Gran Bretagna, contro suo grado, all'esperimento
dell'armi, così la forzaste ad accettare, riluttante invano,
l'inganno di una pace precaria. Fu convocato a Parigi un congresso,
il vostro fine raggiunto, la questione d'Oriente prorogata, non
sciolta: e la Polonia giace avvolta tuttavia nel suo sudario; la
Turchia si dissolve fra civili discordie, conscia della propria
impotenza; nè alcuna barriera fu inalzata a rattenere la Russia da
novelle invasioni. Lo Tsar ristaura rapidamente, in silenzio, le
forze militari dell'impero: la guerra balena da lontano: ma il
vostro nome apparve, fra nomi di sovrani da lungo tempo regnanti,
appiè di un Protocollo di Pace; e voi potreste, favorendovi i casi,
susurrare allo Tsar «Io vi salvai!» e combattere l'antica alleata al
suo fianco.
I vantaggi dell'alleanza((282)) furono tutti côlti da voi, non uno
dall'Inghilterra. Avete, ricoverando il vostro usurpato dispotico
potere sotto le pieghe della sua libera nazionale bandiera, seminato
diffidenza e rancore contro di lei nel cuore delle oppresse nazioni.
Le avete alienato le simpatie delle razze Slave, Elleniche e Rumene
della Turchia, abbandonate al loro fato. Riusciste a distorre i suoi
uomini di stato da quella ch'esser dovrebbe loro politica nazionale
- la libertà civile, religiosa e politica per tutta Europa. Or non
dovreste esser pago? Non dovreste prudentemente astenervi dal
millantar pretese alla sua gratitudine e alle sue simpatie?
Sdegno discutere con voi intorno a ciò che esigete dall'Inghilterra
rispetto ai proscritti. Io sono esule e vostro nemico; nè mi abbasso
a ragionare su quanto io riguardo mio diritto e dovere, con un
potere tirannico. Potendo, lo abbatto. Le mie parole potrebbero
essere fraintese come volte a difendermi, ed io rifuggo dal
possibile orrore. Qualunque legge sia fatta a nostro riguardo, m'è
eguale; giusta, l'accetto; ingiusta, mi assumo di violarla, che che
ne avvenga. Il nostro è stato di guerra. Noi nol scegliemmo: ci fu e
ci è tuttora imposto. La tirannide ci ha tolto la patria; non vi è
potere che ci protegga; non sono per noi passaporti, non leggi alle
quali appellarci, nè giustizia sulla terra, se non quando possiamo
imporla noi stessi. In tutto il Continente, solo perchè
repubblicani, o sostenitori della nostra bandiera nazionale, noi
siamo dichiarati sospetti, e come tali imprigionati, confinati,
privi di ogni possibilità di sicuro stato, perseguitati, trattati
come paria, cacciati come iloti. Accetto per la mia parte le
conseguenze della mia condizione, e non ho, io esule, da render
conto delle mie opinioni ad un uomo, ora imperatore e oppressore,
una volta esule anch'egli. Ma certo, ogni individuo nato in
quest'isola avrebbe diritto di rispondere alle vostre querele e alle
vostre pretese a un dipresso con queste parole:
«Voi foste, o signore, esule in Inghilterra. Da questa terra
cospiraste senza tregua contro un re costituzionale, a cui avevate
sull'onore promesso di non cospirare mai più; ed operaste da ultimo
una discesa armata sulle coste di Francia. Noi non vi facemmo
attenzione. Perchè muteremmo noi le nostre leggi a sorvegliare e
perseguitare uomini che tentano alla lor volta di rovesciare il
vostro usurpato potere? Perchè dovremmo noi per amor vostro
abbandonare le tradizioni antiche di una libertà individuale che fu
benedizione al nostro paese, adottando misure che implicherebbero,
se realmente attuate, un intero sistema di spionaggio, atti di
polizia segreta e interpretazioni arbitrarie? Perchè abbandoneremmo
il nostro chiaro, preciso, onesto metodo di definizioni legali, per
aver ricorso a quelle formole indefinite di eccitazione e di
instigazione, che nel vostro paese promossero i procès de tendance,
così sovente vituperati da voi mentre eravate cospiratore non
coronato? Perchè, insomma, dovremmo noi in alcun modo proteggervi? E
da che nasce che abbisognate di protezione? Forse che la nostra
Regina vi chiede soccorso contro insidiatori ed assassinî? Voi
eleggeste di porvi al di sopra e al di fuori della legge: dovrà per
ciò l'Inghilterra far leggi speciali a pro vostro? Voi saliste al
potere attraverso cadaveri: sta forse in noi lo impedire che la
memoria vivente delle vittime evochi vendicatori? Voi spediste e
spedite tuttora migliaja di uomini, non sottoposti a giudizio, a
languire e morire nei paduli di Cajenna; possiam noi cacciar l'odio
e gli effetti dell'odio dai petti dei loro amici e parenti?
Eleggeste sopprimere la libertà in ogni sua forma: - stampa,
adunanze, associazioni, parola: avete ermeticamente chiusa ogni
uscita al potente spiro di una nazione che ama eccezionalmente la
vita esterna: possiamo noi fare che la forza compressa non iscoppii
per qualche adito imprevisto, irregolare? Voi, repubblicano ancora,
mandaste un esercito a bombardare, far serva, uccidere, schiacciare
Roma repubblicana: quell'esercito d'ingiusti invasori è là tuttavia:
possiamo noi spegnere la vendetta di Roma? Dobbiamo noi convertire
la nostra libera isola in un uffizio di polizia, per sicurtà di
quanti amano diventare tiranni? pel re di Napoli, pel Papa, per lo
Tsar, per voi o per Soulouque? Non balenan pugnali dove il voto può
esprimere il pensiero dell'uomo; non si avventano bombe a carrozze
di presidenti o di re, in America, nella Svizzera, in Inghilterra,
nel Belgio, in Piemonte. Non ci vengono richieste di leggi contro le
cospirazioni da quei paesi, ma solo da voi. Non è da ciò manifesto
che «v'ha del marcio nello Stato((283))» di Francia? E dobbiamo noi
gratificarvi di privilegi a mantenere la «putredine?» I cospiratori,
voi dite, vivono in Inghilterra: d'Inghilterra giungono quelli che
attentano alla vostra vita. Chi li spinge qua, se non voi? In
quale altra terra sarebbe loro dato di vivere? Da quale altra movere
a voi? Ogni anno, ogni sei mesi, i vostri gendarmi ci apportano,
sotto scorta, quanti sono malcontenti, o tenuti per tali; possiamo
noi addossarci l'incarico di strettamente sorvegliarli in segreto,
di circondare ciascun di loro di gendarmi e di spie? Possiamo noi
impedire che taluni, quali che siano le loro intenzioni, non
ritornino in Francia?
«È forse da imputarsi a noi se Kelch e Deron - pure ammettendo che
quanto asserite nel vostro manifesto sia vero - ritrovan la via di
Parigi? Dovrem noi rispondere di Mazzini se di tanto in tanto gli è
a grado di traversare la vostra Francia, sebben guardata, spiata e
organizzata a guisa di un campo? Voi disponete ora di 3 milioni di
franchi - 2 di più che non a' tempi di Luigi Filippo - apertamente
destinati allo spionaggio: noi non spendiamo un obolo per tale
ufficio. Or non potete difendervi da voi stesso, senza vessare,
calunniare e minacciare vicini pacifici, che non ci han nulla che
fare? - Voi citate apologie del tirannicidio, stampate in
Inghilterra; e che per ciò? Dovrem noi escludere dalle nostre scuole
l'antica storia di Roma e di Grecia? Abolire la traduzione del
Guglielmo Tell di Schiller, proibire, per decreto, la ristampa di
Milton? La stampa è libera tra noi: in Francia è schiava; voi
imbrigliate ogni manifestazione del pensiero ne' sudditi. Noi non vi
chiediamo però di vietare l'apologia del macello degli Ugonotti, nè
la ristampa del legato di vostro zio a Cantillon. Siatene certo, o
signore, il tirannicidio non è conseguenza di poche pagine di
ragioni teoriche, ma dell'odioso fatto della tirannide. Togliete
questo di mezzo, e sarà rimosso il pericolo contro il quale invano
cercate soccorso da fuori. Voi non potete esigere da noi che, mentre
il fatto esiste, ci assumiamo di prevenire le conseguenze fatali che
possono derivarne.»
Tale, o signore, è la risposta che l'Inghilterra ha virtualmente
data, e darà sempre, io spero, colla voce del suo popolo, alle
vostre illiberali, ingiuste richieste. Per queste richieste
frattanto, e per le indirette minaccie congiunte con esse, voi
scendeste un grado più basso nella vostra rovinosa carriera. Avete
disperso il solo prestigio che vi circondava tuttora, l'approvazione
e l'amicizia di una libera gente. Voi vi trovate ora, o signore, che
che ne dica la diplomazia adulatrice e bugiarda, solo in Europa.
IV.
E l'Europa vi guarda, come Banquo guardava le fatidiche sorelle,
apparecchiata a chiedervi: - «È vita in voi? o siete cosa ch'uom
possa interrogare?»((284))
Ed ogni interrogazione tornerà sinistra alla vostra artificiale,
accattata grandezza; voi sbigottiste le menti degli uomini colla
improvvisa audacia, coll'apparenza del compiuto successo. Cessato lo
sbigottimento, la vostra causa è perduta. Voi non potete sostenere
esame.
L'Europa cercherà le origini del vostro potere, e troverà la
risposta nella pagina di storia che segue:
REPUBBLICA FRANCESE.
Decreto.
L'Assemblea Nazionale, straordinariamente convocata alla mairie del
decimo circondario,
Visto il sessantesimo ottavo articolo della Costituzione,
Considerando che l'Assemblea è impedita dalla violenza di adempire i
suoi ufficî,
Decreta:
Luigi Napoleone Bonaparte è destituito dalle funzioni di Presidente
della Repubblica.
I cittadini sono tenuti a ricusargli obbedienza.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I giudici dell'Alta Corte di Giustizia sono chiamati immediatamente
a radunarsi e pronunciare giudizio sul Presidente e sui suoi
complici.
Firmato
duecentoventi membri dell'assemblea.
Parigi, 2 dicembre 1851.
ALTA CORTE DI GIUSTIZIA.
In virtù dell'articolo sessantesimo ottavo della Costituzione,
l'Alta Corte di Giustizia dichiara:
Luigi Napoleone Bonaparte è chiamato in giudizio come reo d'alto
tradimento,
L'Alto Giurì Nazionale è chiamato a pronunziare speditamente
giudizio.
Firmato
Hardouin - Presidente
Delapalme, Pataille, Moreau
Cauchy - Giudici.
Parigi, 2 dicembre 1851.
L'Europa chiederà per quali mezzi manteneste il potere usurpato. La
risposta sarà: col terrore e colla corruzione, cancellando ad un
tratto ogni libertà di parola e d'azione, costituendo unica potenza
nello Stato l'esercito, cacciando dal paese, senza giudizio, tutti
gli uomini d'influenza pericolosa per voi, seminando
sistematicamente il dissenso fra la borghesia e la blouse,
spaventando la prima col fantasma del socialismo, e corrompendo la
seconda con egoismo e promesse di felicità materiale.
L'Europa vi chiederà conto delle vostre disposizioni e tendenze a
suo riguardo, e la risposta sarà: «Quell'uomo è l'assassino di Roma:
ei vi mantiene, senz'ombra di diritto, un esercito, quasi avamposto
ad incarnare un giorno disegni di ambiziose invasioni; ei cospira
celatamente a pro d'una insurrezione Muratiana in Napoli;
s'intromette senza tregua ad impedire il pacifico progresso della
libertà nel Piemonte, nel Belgio, nella Svizzera; e, impiantando lo
Tsarismo nel centro di Europa, prepara i germi di una immensa e
pericolosa reazione nel cuore dei popoli.»
L'Europa investigherà la vostra condizione attuale e la risposta
sarà: «finanziariamente ei precipita a rovina; moralmente, agli
ultimi saturnali d'una condannata tirannide; politicamente,
all'isolamento assoluto, e alle pazze disperate imprese di chi è
costretto a distruggere ogni libertà intorno alla Francia, o a
cadere.»
Cadete, or dunque, e la giustizia si adempia! La Francia, che or va
ridestandosi, pronuncierà da qui a non molto il suo decreto, e
l'Europa lo approverà. Questo io vi dico, io, voce di Roma che
assassinaste.
I tempi sovrastano minacciosi: la marea imperiale retrocede
visibilmente. Voi lo sentite.
Cesare - il quale, credendo che non vi fossero più Romani, avea
cancellato il nome della repubblica, - quando si avvide, al lampo di
una daga, che v'era ancora un Romano, si avvolse nel manto, piegò la
testa davanti ai fati, e morì in silenzio. Per l'onore del nome che
portate, fatevi imitatore di Cesare.
Piegate il capo davanti «all'invisibile daga» della pubblica
opinione, colla quale la Francia ridesta e l'Europa condannano a
rovina il vostro usurpato potere, e morite, come Orsini moriva, con
calma e rassegnazione.
Londra, aprile 1858.
Giuseppe Mazzini.
AL CONTE DI CAVOUR
I.
Signore,
Io vi sapeva, da lungo, tenero della monarchia piemontese, più assai
che della Patria comune; adoratore materialista del fatto, più assai
che d'ogni santo eterno principio; uomo d'ingegno astuto più che
potente, fautore di partiti obliqui, e avverso, per indole di
patriziato e tendenze ingenite, alla libertà; non vi credeva
calunniatore. Or voi vi siete chiarito tale. Avete, nel vostro
discorso del 16 aprile, calunniato deliberatamente e per tristo
fine, un intero Partito, devoto, per confessione vostra,
all'indipendenza e all'unità nazionale. A questo partito, che conta
fra' suoi da Jacopo Ruffini a Carlo Pisacane, centinaja di martiri,
davanti alla memoria dei quali voi dovreste prostrarvi: - a questo
Partito che salvò, senza un solo atto d'oppressione o terrore,
l'onore d'Italia in Roma e Venezia, quando la vostra monarchia
sotterrava nel fango in Novara la bandiera tradita poco prima a
Milano; a questo Partito - alla cui straordinaria vitalità,
confessata oggi da voi in onta ai vostri che lo dichiarano ad ogni
ora morto e sepolto, il Piemonte deve le libertà di che gode, e voi
dovete le occasioni di farvi patrocinatore ozioso, ingannevole
d'Italia nelle conferenze governative - voi avete avventato, in
occasione solenne, e da luogo ove ogni sillaba di ministro rivendica
pubblicità europea, una di quelle accuse che la credulità umana
raccoglie e magnifica, ad argomento di sospetto perenne e di
persecuzione. Avete, su gente contro la quale vi fanno potente
prigioni, proscrizioni, birri, e soldati, e alla quale i sequestri
dei vostri agenti rapiscono ogni libertà di difesa, cercato di
stampare un marchio d'infamia. Avete, da osceni libelli di
poliziotti stranieri, dissotterrata a nostro danno l'accusa della
teoria del pugnale, ignota all'Italia. Avete, sapendo che la
menzogna poteva fruttarvi un aumento di voti, dichiarato alla Camera
che la legge liberticida proposta aveva per intento di proteggere i
giorni di Vittorio Emanuele, minacciati da noi. E questa accusa voi,
due volte mentendo, l'avete gittata contro noi per mero artificio
politico, ad allontanare possibilmente da voi la taccia di sommesso
conceditore all'impero di Francia. Perciò, s'io prima non vi amava,
ora vi sprezzo. Eravate fin ora solamente nemico: or siete
bassamente, indecorosamente nemico.
Non per voi dunque, che accusate per tattica, ma pei molti creduli
che raccolgono senza esame le accuse, io mi giovo del vostro nome
per indirizzare ed altri, e sarà l'ultima volta, una franca
dichiarazione che ponga fine fra gli onesti - i tristi che vi fanno
coda calunnieranno per sempre - ai sospetti oltraggiosi e agli
stolti terrori. Se a voi, nemico accusatore, fosse sembrato, come a
me sembra, obbligo elementare di moralità e parte d'avversario
generoso appurare, attraverso i miei scritti e le azioni mie, la mia
fede l'avreste prima d'ora raccolta dalla mia condotta in Roma e
dalle lettere ch'io indirizzai due anni addietro a Manin((285)). Ma
quanti serbano, avversi o no, desiderio o pudore d'imparzialità a
mio riguardo, devono, non foss'altro, essersi a quest'ora avveduti
che nè la natura, nè la fede, nè l'alterezza dell'animo mi
consentono di mascherar le opinioni. Ho taciuto talora: non mai
mentito: perchè mentirei e per chi? Per quel tanto di vita
individuale che m'avanza dalle sciagure e dagli anni, non temo nè
spero, se non da chi mi ama. E il trionfo della bandiera che io
seguo m'appare, in un tempo incerto, non lungo, infallibile; nè
sento quindi la tentazione d'agevolarlo coll'arti gesuitiche della
menzogna.
II.
Credo, nella sfera dei principî, ogni giudizio di morte - se
applicato dalla società o dall'individuo non monta - delitto; se
n'avessi potere, stimerei debito mio abolirne la facoltà. Non ch'io
creda, come altri, la vita sacra e inviolabile: la santità della
vita non comincia coi moti organici o coll'agitarsi d'una esistenza
fisiologica che abbiamo comune cogli animali; bensì coi doveri
compiti, coll'intelletto della missione della vita stessa; e finchè
sarà santa la guerra per la libertà della Patria, o la protezione
armata del debole contro il tiranno potente che lo calpesta, o la
difesa a ogni patto del fratello su cui pende il ferro
dell'assassino, l'inviolabilità assoluta della vita è menzogna. Ma
noi tutti, società e individui, abbiamo, dalla missione della madre
fino a quella del legislatore, un primo e sommo dovere: educare,
sviluppare per quanto è in noi, tentarlo almeno, i germi di
progresso che Dio ha messo nel core di ogni uomo. E non s'educa
spegnendo. Inoltre, l'infallibilità non è retaggio di giudizî umani;
e per uomini, non ciarlatori di moralità, ma morali, il solo
pensiero che un innocente può essere quando che sia gettato al
carnefice col marchio del colpevole in fronte, dovrebbe bastare a
rovesciare per sempre la feroce instituzione del patibolo.
Credo dunque l'abolizione della pena di morte dovere assoluto di
ogni popolo libero. E perchè io credo in questo dovere, quando in
Roma la Commissione militare m'affacciò, per ottenerne conferma, una
sentenza di morte contro un milite dichiarato reo di ladroneccio
domestico, respinsi il foglio e salvai la vita a quel misero. A voi,
ministri di monarchia, che attingete ai legislatori dei tempi
dispotico-feudali, o a De Maistre, teoriche crudeli di espiazione o
di vendetta sociale, firmare, fra un trionfo parlamentare e la cena,
una condanna nel capo, pare atto normale governativo; a me,
repubblicano, pareva ch'io non avrei mai più riposato sonni
tranquilli, se avessi, mentre i mezzi di difesa sociale abbondavano,
rapito per sempre ad una famiglia ogni speranza di gioja, a un mio
simile la possibilità di ravvedersi quaggiù.
E quello ch'io credo della società, lo credo dell'individuo; tanto
più quanto più mancano all'intelletto solitario d'un uomo gli
elementi che la società possiede abbondanti per accertare i gradi di
colpa di chi è segno al giudizio, e l'efficacia del colpo che vuol
vibrarsi. I due primi, che nel 1848 annunziarono al popolo di Milano
che il patto di dedizione era firmato, che Carlo Alberto, mentre
giurava di voler sotterrar sè e i suoi figli sotto le rovine della
città, apprestava celatamente la fuga, furono spenti da chi li
giudicava agenti prezzolati dell'Austria, ed erano patrioti ed
avevano parlato il vero. I traviati che nel 1849, instigati
dall'ambizione delusa di un tristo, uccidevano in Ancona gli uomini
noti per appartenere alla parte dispotica, credevano salvar la
repubblica, e la minavano coll'anarchia, la deturpavano davanti
all'Europa, e schiudevano la via alle infinite calunnie che oggi
trovano, o signore, un'ultima eco sulle vostre labbra. I
miseri che, oppressi, angariati, irritati in mille modi dai
satelliti del papato e dallo straniero, e abbandonati, illusi,
delusi perennemente dai vostri fautori, sfogano l'ira trucidando
birri e spie, non alleviano d'un atomo i proprî mali, non giovano
menomamente la causa della Nazione, alla quale solo un ardito sforzo
collettivo può dar salute. E gli sconsigliati che dissanguavano, nel
1793, sistematicamente la Francia, ordinando, suprema riazione delle
loro stesse paure, il terrore contro i sospetti, non impedivano,
affrettavano la caduta della Repubblica; non salvavano il paese
dalla tirannide gloriosa di Napoleone, nè dalle due monarchie
Borboniche, nè dal volgare dispotismo dell'oggi; somministravano
bensì pretesto, vivo tuttavia contro l'avvenire repubblicano, alle
diffidenze borghesi e alle ripugnanze dei poveri ingannati
coltivatori del suolo francese. Però, io abomino egualmente - e non
lo tacqui mai scrivendo o parlando - il terrore eretto a sistema,
ogni teoria di pugnale, e i giudizî di morte, e l'idea, fondamento
anche oggi a tutte le vostre legislazioni, che a noi, società o
individui non monta, spetti mai un ministero di vendetta,
d'espiazione o castigo. Noi non abbiamo che un diritto di difesa, e
il dovere di tentare la riforma, il miglioramento, l'educazione del
colpevole. Ogni sistema penale che non mova da questo principio è
reliquia di barbarie più o meno mascherata e fatale.
E queste credenze ch'io ho predicate sempre ad amici e nemici, e
mantenute in Roma tra i fautori nostri dei partiti estremi e gli
uomini che cospiravano, pur mandandomi dichiarazioni solenni che non
cospiravano, coll'invasore straniero, ed oggi siedono nella vostra
Camera; - queste credenze che movono in me da una fede religiosa
ignota a voi ed ai vostri, sono non solamente mie, ma di quei che
promossero con me la diffusione della Giovine Italia, e promovono
oggi il Partito d'Azione. Veggo tra i vostri sostenitori e tra quei
ch'or gridano, commossi in visita, contro l'inventata teoria del
pugnale, uomini che s'avvolgevano faccendieri, prima del 1848, fra
le mene della Carboneria. E l'uso del pugnale vendicatore era
sancito dai giuramenti e da giudizi solenni nella Carboneria. Ma la
Giovine Italia, che voi tentate infamare col nome di setta, e che
prima osò piantare apertamente, con libri e giornali, la bandiera
dell'unità repubblicana d'Italia in faccia a' suoi oppressori,
bandiva il pugnale, e non condannava lo spergiuro fuorchè
all'abominio dei suoi fratelli. L'Associazione non ebbe condanne
mai, se non d'esclusione. Mutammo nome, non instituti nè fede. A voi
non riuscirebbe trovare una sola delle nostre pubblicazioni, dal
1831 sino al mese in cui scrivo, contenenti dottrine dissimili da
questa mia. Ond'è che, quando non vi giovi, con credulità d'idiota,
accogliere siccome storia accuse come quella di Rodez((286))
smentite da' tribunali, e le novelle delle quali s'ingemmano tratto
tratto le gazzette cattoliche, voi, deplorando che per noi si
torcesse nel 1849 la nostra dottrina alla santificazione del
pugnale, avete detto, sciente, il falso: siete peggio che stolido, o
calunniatore.
Stolto e calunniatore foste di certo ad un tempo, quando, a carpire
un voto di concessione obbrobriosa, dichiaraste alla facile Camera
che si minacciava per noi la vita di Vittorio Emanuele. Se la vita
di Vittorio Emanuele fosse minacciata davvero, non la
proteggerebbero le vostre leggi. Ad uomini della tempra di Pianori,
di Milano, di Orsini, poco importa di giudizî o giudici: uccidono, o
muojono. Ma la vita di Vittorio Emanuele è protetta, prima dallo
Statuto, poi dalla nessuna utilità del reato. Anche mutilata e
spesso tradita da voi, la libertà del Piemonte è tutela che basta ai
giorni del re. Dove la verità può farsi via nella parola; dove,
anche a patto di sacrificî, l'esercizio de' proprî doveri è
possibile, il regicidio è delitto ed insania. Ci credete scellerati
ed insani? A che mai gioverebbe, ed a chi, la morte di Vittorio
Emanuele? Egli regna, ma non governa. L'indole indifferente,
non tirannica, può procacciargli biasimo forse da chi ricorda quali
solenni doveri ei potrebbe e non cura compiere; non odio mai. Io lo
credo - malgrado i difetti della sua natura - migliore dei suoi
Ministri. Per chi lo uccidesse, avremmo noi tutti il ribrezzo che
s'ha per l'assassino.
Le nostre teoriche, bensì, le credenze che propugniamo, mal
s'adattano alle condizioni anormali nelle quali si producono fatti
simili a quei di Bruto, di Tell, di Pianori e d'Orsini. A che parlar
di doveri, quando la Libertà, senza la quale l'idea del Dovere non
ha più base, è cancellata dalla violenza, e tutte le vie a compierli
sono chiuse? A che ripetere oziosamente: la vita è sacra, dove la
definizione della Vita, ch'è moto, sviluppo, progresso, è falsata,
soppressa? A che contendere all'individuo il diritto di rivendicare
le condizioni prime di ogni vita, per sè e pe' suoi fratelli, quando
tribunali non sono: quando ogni potenza collettiva è negata; quando
è vietata ogni interpretazione sociale della legge? Ciò che rende
illegale, immorale, colpevole nell'individuo il richiamarsi alle
forze proprie per combattere ciò ch'ei crede ingiustizia, è
l'esistenza d'un terzo elemento, d'un terzo potere, d'un arbitro tra
l'ingiusto e lui: dove questo elemento intermedio non esiste; dove
la coscienza di tutti non ha più voce, direte all'oppresso: dacchè
non esiste tribunale a cui tu possa richiamarti, soggiaci;
l'ingiusto ha vinto? - La coscienza dell'individuo che sente il
proprio diritto, e trova in sè il coraggio per tentare di
riconquistarlo ad ogni patto, vi risponderà sempre, d'epoca in
epoca: dacchè la società è impotente a tutelarsi e tutelarmi contro
l'oppressore, i suoi diritti, i diritti dell'umanità conculcata,
vivono in me, e me li assumo. - O legge, o guerra; e vinca chi può.
Dove ogni vincolo è spezzato tra la legge e gli uomini d'uno Stato,
ogni forza è santa che s'adopera, per qualunque via, a riconnettere
gli uni coll'altra. Dove è rotto l'equilibrio fra la potenza d'un
solo e la potenza di tutti, ogni individuo ha diritto e missione di
cancellare, potendo, la cagione del vizio mortale, e ristabilir
l'equilibrio. Davanti alla sovranità collettiva il cittadino tratta
riverente la propria causa; davanti al tiranno sorge il tirannicida.
È fatto, non teoria: legge di logica inesorabile, non sistema
d'ingegni irrequieti e sovvertitori. E se questa logica delle cose
non balenasse tratto tratto subita, onnipotente attraverso la
tenebra che la tirannide stende fra l'uomo e Dio, la tirannide, come
gli ultimi imperatori di Roma, farebbe sè stessa Dio. Il lampo del
ferro tirannicida rompe quella tenebra e rivela alle attonite,
incodardite migliaja, che il tiranno davanti a cui piegano non è
Dio, ma un idolo di delitto e menzogna. L'uomo che vibra quel ferro
è una incarnata, tremenda negazione della tirannide; ei dice,
spegnendo e morendo all'umanità: «Quel violatore della vita
universale pensava d'essere superiore alla legge; ei non era che
fuor della legge. Ei s'illudeva a credere d'aver sotterrato
giustizia e coscienza, perchè alcune migliaja di pretoriani e molte
di vili gli si assiepavano intorno, difensori e schiavi: egli
stimavasi forte perchè s'era ricinto di patiboli e spie; io ho
provato a lui e all'umanità che la punta di un ferro di libero vale
tutto quel corredo di forza, e basta a sperdere i satelliti e
ridestare a vita gli schiavi».
E perchè questo è il senso segreto del tirannicidio, gli uomini,
come salutano il nembo purificatore d'un'atmosfera corrotta,
salutano e saluteranno il tirannicida - comunque accumuliate, voi,
signore, ed i vostri, sofismi a infamarlo e leggi a punirlo -
siccome il rivendicatore dell'eterno diritto; e ripeteranno pur
sempre commossi la vecchia canzone d'Armodio; e cercheranno tra gli
antichi marmi, a spiarle riverenti, le sembianze di Bruto; e
scriveranno, quasi mallevadori della giustizia del fatto, i loro
nomi sui muri della cappella di Guglielmo Tell; e tramanderanno,
rispettando, ai posteri i nomi di Milano e d'Orsini: tra le lettere
che formano quei nomi s'affaccia per essi la tentata vendetta di
Napoli e Roma.
La vita è sacra, voi dite. Ma la vita degli uomini che muojono di
languore nelle isole, convertite in ergastoli pei migliori, delle
spiaggie napoletane; la vita degli uomini che muojono di miasmi
pestilenziali a Cayenne, senza colpa, senza giudizio, senz'altra
cagione che il terrore sospettoso di un despota; la vita delle
madri, delle sorelle che muojono di dolore per quei miseri in
Francia e in Italia, non è sacra essa pure? E la vita d'un popolo -
la coscienza dei suoi diritti, delle sue speranze, del suo avvenire,
della missione che gli è data da compiere - non è sacra per voi? Voi
avete per l'assassino del viandante il carnefice; perchè serbate
l'inviolabilità alla vita dell'assassino d'una nazione? voi
spegnereste, con qualunque arme vi trovaste dinanzi, l'uomo che
minacciasse rovina, tentando l'incendio d'una polveriera, a mezza
città; perchè non volete che altri spenga l'uomo artefice di rovina
continua a cento città; persecutore di milioni, tiranno del corpo e
dell'anima d'una gente intera? Sofisti ed eterni contraddittori di
voi medesimi! Voi vi assumete il sacerdozio della santità della vita
ogni qual volta vi sta davanti un reo coronato e dimenticate che i
vostri gendarmi, i vostri doganieri, hanno da voi l'autorità di far
fuoco sul masnadiere, sul contrabbandiere che fugge.
La vita è sacra! E la guerra? Non la intimate voi, quando l'onore e
l'utile del paese o della monarchia, alla quale servite, vi sembra
richiederlo? Non cacciaste due mila vite di soldati nostri a
spegnersi sui campi della Crimea in battaglie non nostre, sol perchè
intravedeste in quel sacrificio una probabilità d'accrescere in
Europa lustro alla monarchia piemontese? Non insegnano i vostri
libri di guerra l'arte delle sorprese? Non si addestrano i vostri
bersaglieri a strisciarsi rapidi, inosservati, tra le lunghe erbe
dei prati, a meglio colpire di palla il nemico? Non mirano sovente i
vostri disegni a trascinare, ingannandolo, il soldato che
combattete, nelle imboscate? Non v'impadronite delle batterie,
piombando notturnamente e con ogni artificio di silenzio sovr'esse,
e trafiggendo con arme corta - la baionetta - gli artiglieri sui
loro cannoni? Non decreterebbe il vostro Lamarmora una lode al
soldato che, spegnendo all'impensata una sentinella, gli avesse dato
adito a impadronirsi di una fortezza nemica? Noi bandiamo guerra
prima, risponderete, assaliamo poi. Che! fra il tiranno e l'oppresso
non è guerra naturale, continua? Guerra bandita fin da quando il
primo Martire di una Patria calpestata, del Diritto violato, gettò
il guanto dell'eterna sfida dal patibolo all'oppressore? Noi
bandimmo guerra all'invasore francese e all'austriaco dalle
barricate del 1848, dalla prima resistenza di Roma nel 1849. Traditi
o sopraffatti dal numero, i soldati della Nazione furono costretti a
ritirarsi. Ma l'occupazione del Lombardo-Veneto e della sacra terra
Romana dura tuttavia; e se v'è tra noi chi trovi in sè tanta energia
da sprezzare numero e certezza di morte, e continuar solo la guerra
nel modo più efficace a conquistare indipendenza e libera vita al
paese, Dio, che vede se il di lui animo è puro d'ogni bassa
passione, lo giudichi: io non mi sento da tanto; io so ch'ei salva,
spegnendo il tiranno, migliaja di vittime dalla prigione,
dall'esilio, dal palco; e so ch'ei rivendica a un popolo intero la
vita, ben altramente solenne, dell'anima, la Libertà, ch'è la vita
di Dio. Voi coniate nuove leggi e decreti e tribunali a proteggere i
giorni del potente che opprime; è parte vostra: ma non atteggiatevi
a moralisti severi, ad apostoli d'un principio. Finch'io vedrò le
vostre leggi architettarsi a proteggere la vita di un usurpatore,
che rompeva, senza bandirla, guerra al suo popolo e alle libertà
dell'Europa, e invadeva su migliaia di cadaveri il trono, non mai in
benefizio del popolo trucidato: - finch'io vi vedrò inerti e muti
davanti ad ogni delitto coronato di successo, e senza ardire che
basti a dire una sola volta in nova anni all'invasore di Roma: in
nome del diritto Italiano, ritratti da quella terra che non è tua -
io vi crederò ipocriti, e nulla più.
Ho accennato or ora all'efficacia del fatto, e all'assenza di ogni
basso affetto nell'animo di chi lo compie; e son gli estremi senza i
quali, anche per me, il tirannicidio è delitto o follia. È delitto,
se tentato per senso, non dirò di vendetta, ma d'espiazione:
delitto, se tentato dove altre vie sono aperte all'emancipazione:
colpa e follia se tentato contro chi non trascina la tirannide nel
sepolcro con sè. Bonaparte, esule una seconda volta, dovrebbe
passeggiare impunemente fra noi. La libertà, non di voto, ma anche
sol di parola, dovrebbe proteggere da tentativi siffatti, non dirò
ogni monarchia costituzionale, ma ogni temperata tirannide. E dove,
per inettezza o impotenza di popolo, è certo che al tiranno caduto
sottentrebbe un altro tiranno, a che pro l'ucciderlo? Ma quando, per
circostanze evidenti, l'esistenza della tirannide è concentrata in
quella d'un solo, - quando quel solo è deliberatamente, pazzamente,
ferocemente tiranno, - quando il popolo che, dominato da un fascino
di terrore, gli giace davanti, ha provato aver nondimeno coscienza
di libertà; chi, per puro amore della Patria comune, rompe d'un
colpo quel fascino, risparmiando al paese una lunga vicenda di
tentativi e di vittime, e alla crescente generazione l'educazione
corrompitrice del dispotismo, combatte e non assassina. Voi potete,
s'ei non riesce, oltraggiarlo; ma i posteri gli porranno sul capo la
corona del Martire. S'ei riesce, lo saluterete, voi pure, Liberatore
ed Eroe.
III.
Liberatore ed eroe. Non siete voi gli uomini che chiamarono in ogni
tempo gloriose le insurrezioni trionfanti, e magnanimi i popoli che
le compievano, e che perseguitan oggi coi nomi di demagoghi e
settari gli animosi che tentano rifarle e soccombono? Non diceva il
Gioberti, vostro, belle, sublimi e portentose le parole Dio e il
Popolo che splendono sulla nostra bandiera? Non ci salutava egli,
quando eravamo potenti del favore di tutta la gioventù, precursori
della nuova legge e primi apostoli del rinnovato Evangelo((287)),
per poi versare l'insulto sui nostri nomi, quando la gioventù,
traviata da false lusinghe, ci abbandonava? Non udii io, nel 1848,
parecchî tra gli oratori a voi propizî, ch'oggi dichiarano - perchè
credono il principato rifatto potente - essere la guerra regia unica
speranza d'Italia, dichiarare a me ed agli amici miei - perchè
credevano, caduta Milano, condannato ad impotenza il principato -
che, pentiti dell'errore commesso, fidavano esclusivamente alla
guerra del popolo l'emancipazione italiana? Non cospiravano meco
dieci anni addietro, in nome di una fede rigeneratrice, gli uomini
che, nella vostra Camera, citano Machiavelli a provare che la
politica non conosce principî, ma solamente calcoli d'utile a tempo,
e che son buone le alleanze coi tristi purchè potenti? Non recitano
ogni giorno i gazzettieri di parte vostra lodi al Bonaparte
imperante in seggio, che abominavano quando non era che pretendente?
Non siete voi, signore, presto a cedere, con vero tradimento al
paese, il mezzogiorno d'Italia a Murat, purchè l'impero v'assicuri
compenso d'una zona di terreno al di là della vostra frontiera?
Partito d'opportunisti, voi non avete diritto d'invocar principî.
Adoratori del fatto, voi non potete assumere veste di sacerdoti di
moralità. La missione educatrice d'ogni Governo v'è ignota. La
vostra scienza vive sul fenomeno, sull'incidente dell'oggi; non
avete ideale. Le vostre alleanze non sono coi liberi, sono coi
forti; non posano che su nozioni d'un utile materiale immediato.
Taluni fra' vostri scrittori proponevano, prima del 1848, altri più
recenti ripetono, che si dovrebbe sottrarre il Lombardo-Veneto
all'Austria, dandole a compenso le terre Moldo-Valacche, come se
quelle terre non avessero gli stessi diritti che noi abbiamo.
Materialisti col nome di Dio sulle labbra, nemici in core e
veneratori a parole del Papa, tendenti per cupidigia d'ingrandimento
a rompere i trattati del 1815, sui quali v'appoggiate per contendere
ai popoli il diritto d'insorgere, voi siete gli eredi di quella
politica europea, che iniziava in Navarino lo smembramento
dell'impero turco, e invadeva ultimamente, in nome dell'integrità
dell'impero stesso, la Grecia, perchè tentava riconquistarsi
provincie sue. Obbedito dunque alle intimazioni del Bonaparte; ma
non vi vantate di obbedire, proponendo leggi restrittive della
libertà, a un senso morale che tutta la vostra dottrina rifiuta: non
accusate noi di disegni tristi ed assurdi ad un tempo, dei quali in
cuor vostro non ci credete capaci.
La moralità politica non vive oggi se non negli uomini di parte
nostra: in noi che diciamo ciò che pensiamo e pensiamo ciò che
diciamo; in noi che, fondando tutta la nostra scienza politica sopra
una fede di dovere e sulla nozione, come la mente e il core la
inspirano, del Diritto e del Giusto, possiamo rallentare a seconda
dei casi l'opera nostra, non disviarla mai, o mutarle natura; in noi
che, credenti nell'unità del Pensiero e dell'Azione, non accettiamo
l'immorale dissenso fra la teorica e la pratica, che campeggia ogni
tanto nei discorsi dei vostri; in noi che non diciamo: la tirannide
è delitto verso gli uomini e Dio, per poi stringere alleanze col
tiranno, purchè forte d'eserciti pretoriani; in noi che non mutammo
coi tempi, ma cerchiamo, colla parola e coi fatti, mutare
progressivamente i tempi, a seconda dell'ideale che abbiamo
nell'anima; in noi che non siamo nè piemontesi nè lombardi, nè
siculi, nè vincolati ad una dinastia, nè patrocinatori d'interessi o
d'ambizioni locali, ma italiani, e legati ad una fede di unità
nazionale da conquistarsi colle forze vive dell'intero popolo e a
pro del popolo intero; in noi che, vivendo poveramente, non
aspirando nè a conforti nè ad onori, non temendo nè sperando da
chicchessia, sprezzando noje, accuse e persecuzioni, non seguendo
che un intento attraverso la vita, abbiamo diritto di esser creduti,
e - che che facciate - siamo creduti. La straordinaria vitalità del
partito - che a voi, signore, piace di chiamare mazziniano, ed è il
partito repubblicano, il partito della Sovranità Nazionale - è
dovuta a questo concetto di moralità che noi, da ormai trent'anni,
rappresentiamo. Voi potete, imposturando terrori che non sentite,
affratellandovi la destra della vostra Camera colla guerra alla
nostra stampa, affratellandovi la tiepida incerta sinistra con lo
spauracchio d'un Ministero deliberatamente retrogrado, carpir voti
di fiducia e concessioni codarde; ma non potete togliere a noi gli
affetti della crescente generazione, a me la coscienza di ottener
fede quando io dico: spegnere una vita - di contadino o di re poco
monta - in virtù di teoriche d'espiazione, di vendetta o gastigo, è
delitto: spegnere il tiranno, se dalla sua morte dipenda
l'emancipazione di un popolo, la salute dei milioni, è fatto di
guerra, e - se l'uccisore è puro d'altro pensiero e pone la vita in
ricambio - virtù. Qualunque diversa opinione mi si apponga, è
calunnia.
IV.
Ho detto che salutereste liberatore ed eroe l'uomo dal cui pugnale
escisse, come dal dardo di Tell, l'insurrezione trionfante d'un
popolo. E dico che salutereste glorioso fra tutti i popoli quel
popolo che, sprovveduto d'altre armi, trovasse modo d'emanciparsi
dall'oppressore straniero con soli pugnali. I vostri poeti
inneggiarono in ogni tempo ai pugnali che liberarono col Vespro la
Sicilia dagli invasori Francesi. I vostri scrittori politici, Balbo
fra gli altri, proposero venti volte all'Italia l'esempio della
Guerra d'Indipendenza spagnuola; e fu, come la intimava il grido
energico di Palafox, guerra a coltello. Tra voi e me non corre
differenza se non quest'una: ch'io dico: santa è ogni guerra contro
lo straniero, e onoro chi la tenta s'anche soccombe; voi dite: santa
è ogni guerra che vince, e insultate ai caduti. Voi gittate
l'oltraggio sugli arditi popolani Milanesi del 6 febbrajo: li
avreste detti magnanimi e salvatori del paese, se avessero vinto.
Voi di certo non credeste che un popolo servo dello straniero e
capace di liberarsi non debba farlo, sol perchè l'armi rimaste in
sue mani non raggiungono una data lunghezza; voi credete morale
l'uso d'un'arme da fuoco sparata di dietro da una barricata, o di
una granata avventata in una insurrezione nazionale da un tetto di
casa, e gridate immorale l'uso d'un pugnale brandito sul petto al
soldato straniero da chi avventura nel tentativo la vita. Voi non
credete, in guerra, colpa le sorprese o infamia le mire: voi non
offrireste duello al masnadiere che v'occupasse la casa, ma fareste
arme d'ogni cosa a liberarvene speditamente e col menomo vostro
pericolo. A voi riesce mal gradita l'insurrezione iniziata da
popolani. Come piegare davanti al prestigio monarchico moltitudini
che hanno raggiunto coscienza di emanciparsi da sè? Dietro a
tentativi come quello del 6 febbrajo, voi intravedete il fantasma,
che vi turba i sonni, della sovranità popolare; dietro a un Vespro,
la dittatura indipendente degli uomini che lo diressero: quindi
l'ire. Non millantate moralità. Se i popolani d'Italia vibrassero i
loro coltelli al grido di Viva il re Sardo! e vincessero, voi li
abbraccereste fratelli. E se vincessero anche senza quel grido, voi
li abbraccereste il dì dopo, per cercare d'impossessarvene e sviarne
e tradirne i nobili istinti a benefizio d'un concettuccio ambizioso
della monarchia.
Ma intorno al pugnale adoprato com'arme di guerra dal popolo, a
cacciar dalla terra, ch'è sua, il ladrone straniero, non occorre
ch'io spenda parole. Se gl'Italiani, determinati una volta a
conquistarsi libertà e patria coll'insurrezione, si ritraessero, per
dubbiezze intorno ai palmi e pollici delle loro armi, sarebbero, più
che stolti, ridicoli. Se la bestemmia d'un popolo tormentato
potesse, concentrata miracolosamente a veleno, spegnere in un subito
e senza tempo a difesa quanti violano le nostre Alpi per avidità di
potenza e d'oro, quanti contaminano di sozza tirannide e di pianti
materni e di sangue di onesti le contrade che Dio ci diede, la
bestemmia sarebbe santificata agli uomini e a Dio.
V.
Ben giova ch'io noti come voi, dopo avere raccolto dai cadaveri di
Orsini e di Pieri argomento a un artificio oratorio contro me e
contro gli uomini del Partito d'Azione Italiano, abbiate dalle
sciagure, alle quali i vostri volontariamente soggiacquero in
Lombardia, tratto argomento, confondendo uomini e date, a calunniare
le intenzioni dei repubblicani di Francia. Parlo del rifiuto dato
alle domande d'ajuto contro l'Austria, indirizzate dal vostro
Governo al Governo francese; rifiuto dal quale voi e il vostro
collega Lamarmora avete desunto che: le repubbliche ebbero sempre
una politica egoista, e che voi dovete allearvi all'impero.
Ogni membro della vostra Camera, che - pur corrivo ad accettare come
verità di fatto le vostre dichiarazioni - avesse semplicemente
serbato lume di logica, avrebbe potuto sorgere e dirvi: «La
repubblica francese ricusò combattere le vostre battaglie; non volle
scendere in campo per l'indipendenza italiana. Luigi Napoleone scese
in campo contro l'indipendenza italiana; distrusse le libere
instituzioni che s'erano impiantate sulla base del suffragio
universale in Roma; i suoi soldati mantengono tuttora negli Stati
Romani il dispotismo papale. Come potete biasimar la repubblica e
lodar l'impero? Tra chi non compie il proprio dovere e chi viola
patentemente il vostro diritto, perchè insultate al primo e adulate
al secondo?»
Altri avrebbe potuto ridere della vostra scienza storica, e in
risposta al vostro: mi si citi un sol fatto delle repubbliche di
Grecia e di Roma - son le sole che ricordate - per cui si possa dire
che esse portarono civiltà, chiedervi dove sarebbe la civiltà
d'Europa se i repubblicani greci non avessero vinta la battaglia di
Maratona e respinto l'elemento orientale, negativo d'ogni progresso;
- come si sarebbe costituito un equilibrio qualunque di civiltà fra
il mondo latino e il germanico, senza l'opera livellatrice delle
conquiste di Roma repubblicana: - poi, se il programma delle nostre
lotte contro il dominatore teutonico non sia stato dato in Pontida
dai repubblicani lombardi: - se alle tendenze improntate dalle
nostre repubbliche del medio evo non si debba il senso d'eguaglianza
civile che, tra le oppressioni politiche d'ogni genere, ci colloca
anch'oggi, in fatto di convivenza sociale, innanzi a parecchie
nazioni d'Europa; - se non escissero dalle conquiste dei
repubblicani veneti la civiltà delle spiaggie illiriche e i vincoli
che ad esse ci stringono; chi arrestasse la fatale invasione del
Maomettismo se non un figlio della repubblicana Polonia, Sobieski; a
chi, se non ai repubblicani francesi della fine dell'ultimo secolo
sian dovuti i due terzi delle instituzioni di libertà e
d'eguaglianza civile esistenti oggi in Europa.
Altri finalmente avrebbe potuto levarsi e dirvi: «La vostra
affermazione, signore, è la vostra condanna. Voi potete dimenticare,
ma noi non dimentichiamo, che voi, sostituendo al sacro pensiero
nazionale la gretta ambizione d'una dinastia; alla Italia Una
dall'Alpi al mare, il meschino concettuccio d'una Italia del Nord;
all'emancipazione d'una razza intera, la tentata preponderanza di
una frazione di quella, perdeste la nostra causa ed isteriliste i
frutti d'un moto che aveva l'Europa con sè. In nome d'Italia, noi
avevamo costretto i nostri principi a lasciar scendere le loro
milizie sul campo delle sorti future della Nazione: parlando in nome
del Piemonte, voi porgeste al Papa, al re di Napoli, al duca di
Toscana l'ottimo fra i pretesti per retrocedere e ridiventare
tiranni. La Francia repubblicana era presta ad appoggiare colle armi
il popolo italiano; ma perchè una repubblica avrebbe dato il sangue
de' suoi per fortificare i dominî territoriali di un re poco amante
di libertà, odiatore di ogni instituzione repubblicana, non tenero
della Francia, e pericoloso ad essa il giorno in cui egli avesse
voluto, ristabiliti gli accordi coll'Austria, movere a' danni
dell'imprudente soccorritrice? Voi non chiedeste mai per l'Italia. E
a chi chiedeva per la monarchia di Piemonte non aveva la repubblica
francese diritto di rispondere queste parole: - ove si tratti di
soccorrere l'Italia, siam presti: possiamo anche combattere a fianco
delle legioni piemontesi: ma rompere guerra per sostener
gl'interessi del re di Sardegna, intrecciare la bandiera della
Francia a quella di casa Savoja, la repubblica non può farlo - ?»
Io vi dico invece: Signore, voi mentite alla storia; e parmi
impossibile che contro le asserzioni vostre e dei vostri nessun
deputato si sia richiamato ai documenti officiali.
Io non sono tenero, da molti anni in qua, delle cose francesi. So
che la politica estera del Governo repubblicano di Francia nel 1848
non fu, per difetto d'omogeneità tra i membri che lo componevano,
quale i tempi e la missione del principio repubblicano in Europa
chiedevano. Le tendenze rappresentate da Ledru-Rollin nel primo
Governo, poi nella Commissione esecutiva - tendenze che, per
rispetto non foss'altro all'esilio determinato per Ledru-Rollin da
un nobile tentativo a favore di Roma, voi, signore, non avreste
dovuto mai calunniare - non erano secondate abbastanza da' suoi
colleghi. Ma io affermo che la repubblica francese voleva ajutare
coll'armi la emancipazione d'Italia, e affermo che il Governo Sardo
non volle. È questione di fatto e non altro per me. Io credeva
allora - e pubblicai la mia opinione sull'Italia del Popolo in
Milano - che l'Italia, a patto di suscitare e porre in azione tutte
le forze vive della nazione; a patto di non fidare la direzione
della guerra a chi per inettezza o mal animo doveva fatalmente
tradirla; a patto di combattere le battaglie d'Italia in Tirolo,
sull'Alpi venete, a Trieste, non intorno alle quattro fortezze: a
patto di combattere per l'unità, non per l'ingrandimento della
monarchia sarda, poteva emanciparsi da sè. Lo credo tutt'ora. Ma
voi, signore - e dicendo voi accenno al sistema che rappresentate,
al Governo in nome del quale gittate l'accusa ai repubblicani di
Francia - voi che, per terrore dell'elemento popolare, rifiutaste
gli ajuti che la nazione poteva darvi all'impresa, voi che tradiste
doppiamente il paese rifiutando quei che la Francia v'offriva, non
dovreste oggi tornare sopra un argomento intorno al quale la
menzogna sola può esservi puntello e difesa.
L'8 maggio, la Francia, per bocca di Lamartine, diceva: Se
nazionalità conculcate, diritti calpestati, indipendenze legittime
ed oppresse sorgessero, si costituissero con forze proprie,
entrassero nella famiglia democratica dei popoli, e ci chiamassero a
difesa dei loro diritti, ad ajutare la fondazione d'instituzioni
conformi alle nostre, la Francia è pronta. La Francia repubblicana
non è solamente la patria, ma il soldato democratico dell'avvenire.
Il 22 maggio, la Commissione esecutiva, parlando della questione
italiana, ripeteva più esplicita:
Se i popoli d'Italia fossero troppo deboli - se questa indipendenza,
questo diritto di rinascimento della nazionalità Italiana, che tutte
le pagine della storia attestano, fossero assaliti, la Francia è
presta; appiedi dell'Alpi, armata. Essa dichiara altamente ad amici
e nemici, che al primo segnale varcherà le Alpi e stenderà agli
Italiani una mano liberatrice. Fin dai primi giorni, noi abbiamo
fatto comunicare alle potenze italiane la ferma volontà
d'intervenire alla prima chiamata che ci si facesse; e conformemente
a quella dichiarazione, abbiamo riunito appiè dell'Alpi, dapprima un
esercito di 30 mila uomini, poi un altro che può, nello spazio di
pochi giorni, sommare a 60 mila. E v'è tuttavia. Noi abbiamo
aspettato una chiamata dall'Italia, e sappiatelo, malgrado il nostro
rispetto per l'Assemblea Nazionale, se quel grido avesse traversato
l'Alpi, noi non avremmo aspettato, ma avremmo creduto compiere anzi
tratto la vostra volontà, movendo a soccorrere l'Italia.
La Commissione esecutiva parlava all'Assemblea Nazionale, e
l'Assemblea Nazionale rispondeva il 24 con un decreto, nel quale
ingiungeva alla Commissione di mantenere, a norma della sua
condotta, il voto unanime dell'Assemblea, l'emancipazione
dell'Italia.
Qual era intanto il vostro linguaggio?
Io non noterò come il 13 marzo il vostro ambasciatore in Parigi non
avesse ancora col Governo della repubblica relazioni officiali. Non
dirò i rimproveri fatti al Governo provvisorio lombardo per un
timido indirizzo alla Francia. Non parlerò delle istruzioni date
agli agenti vostri perchè esagerassero in Parigi le diffidenze
italiane, e spegnessero, calunniando colla stampa, ogni simpatia coi
Lombardi. Ma il 6 aprile protestavate formalmente contro
l'assembrarsi dall'esercito alle Alpi. - «Non posso intendere» -
scriveva il vostro ambasciatore Brignole - «quali siano i motivi che
hanno potuto spingere a credere la sicurezza e la gloria della
repubblica esigere l'avvicinarsi dei suoi soldati alla frontiera
delle Alpi. Non è quella una frontiera amica?... Perchè parlare di
guerra, d'entrare in campagna?... L'agglomerazione di un corpo
considerevole presso ai dominî del re potrebbe suscitare
inconvenienti gravissimi». Ed il 7 aprile insisteva in nome vostro
l'ambasciatore: «È necessario che la Francia intenda ben questo: se
mai l'esercito della repubblica varcasse l'Alpi senz'essere
chiamato... l'influenza della Francia e delle idee francesi in
Italia sarebbe per lungo tempo perduta. Non si vuole l'appoggio
militare della Francia, se non il giorno in cui una strepitosa
disfatta avrà provato che l'Italia sola è impotente a cacciar
l'Austria al di là dell'Alpi... Ove la Francia intervenga prima
dell'ora segnata dallo spavento pubblico, si griderà da un punto
all'altro d'Italia: la Francia, della quale non avevamo bisogno,
viene unicamente per dare sfogo alle tendenze che l'animano e che
minacciano di trasarginare: essa non viene per conto nostro, ma per
proprio conto. Essa aveva detto, nel suo programma, che rinunziava
ad ogni conquista; e mentiva. Essa intende sostituirsi
all'Austria... E si desterà in tutti i cuori un odio implacabile, un
odio italiano...».
E poco dopo l'ambasciatore diceva: «Io sono espressamente incaricato
dal mio Governo d'esprimervi il suo desiderio che le truppe francesi
siano tenute lontane dalla frontiera».
Il 22 maggio, il ministro Parete gridava alla Camera Torinese:
«L'esercito Francese non entrerà se non chiamato da noi: e siccome
noi non lo chiameremo, non entrerà».
E il 30 maggio, l'agente del Governo Provvisorio Lombardo, udendo
che un buon numero di volontarî francesi s'ordinava per movere alla
volta d'Italia e rassegnarsi al comando supremo - che era il vostro
- della vostra guerra, s'affrettava ad interporre proteste: «La
formazione di legioni di volontarî per la guerra lombarda potrebbe
cagionare disturbi.... Il Governo di Lombardia non vede con piacere
l'organizzazione di corpi ausiliarî siffatti»((288)).
Tale fu, fin verso il finire di luglio, il linguaggio tenuto al
Governo Francese dai vostri. Nè credo che, da quando il trattato di
Vestfalia inaugurò quel congegno di menzogne e d'inezie che nominano
diplomazia, si tenesse mai da un Governo linguaggio più imprudente e
più stolto. Alla Francia, della quale si pronunciava potersi un dì o
l'altro richiedere l'ajuto, il Governo Sardo diceva: «Non vi
stimiamo leali: diffidiamo altamente di voi. Non vogliamo gli ajuti
che ci profferite, oggi che le vostre armi congiunte alle nostre
vincerebbero senz'altro la guerra; ma, se un giorno cadremo, allora,
cadendo, vi chiameremo. Non potremo più allora secondarvi. I danni,
i pericoli della guerra saranno tutti vostri. Nondimeno, dopo avere
ricambiato le vostre offerte con orgoglio e disprezzo,
v'invocheremo, giacendo, a fare per noi, senza vostro pro, ciò che
noi non potemmo; e se non vorrete, vi accuseremo di tradimento al
principio, aborrito da noi, che rappresentate.» E all'Italia, pur
predicando: fate, da voi, temete gli ajuti di Francia, il Governo
liberatore diceva: «tenete le baionette di Francia in serbo pel
giorno nel quale dovrete invocarle nel terrore e nella vergogna
della disfatta: rifiutatele oggi che potete averle onorevolmente
alleate; le accetterete quando avrete perduto ogni diritto a
moderarle e giovarvene senza pericolo. Sdegnate, irritate col
sospetto lo straniero che vi si offre fratello, e che voi, forti e
rispettati, potete contener nei limiti della fratellanza; ma
preparatevi fin d'ora a chiamarlo supplici, quando nulla gl'impedirà
d'esservi padrone; quando, trovandovi inermi ed impotenti, ei potrà
rivendicare, senza ostacolo da parte vostra, i diritti del
benefattore insolente, e sarà tanto più allettato ad esercitarli
quanto più ei ricorderà d'essere stato offeso da ingiusti sospetti
da voi.» Son queste le avvedutezze politiche della monarchia
piemontese.
Dopo gl'infausti moti del giugno, la Repubblica perdeva intanto, per
terrore d'una anarchia che avrebbe potuto e non seppe padroneggiare,
coscienza di sè; si sviava affidandosi a una dittatura militare, a
tendenze illiberali di resistenza. Il 24, Cavaignac, uomo d'anguste
vedute, per difetto d'ingegno e per abitudini soldatesche,
repubblicano solamente di nome, assumeva il potere. Allora la
Francia, che aveva sinceramente desiderato combattere con noi per
lacerare gli aborriti trattati di Vienna, cominciava a
riconcentrarsi nell'egoismo di paese, e desiderava astenersi da
imprese più di principio che non d'interesse. Pur, se voi volevate,
cedeva: cedeva, vincolata dalle solenni profferte anteriori e
dall'ingenito orgoglio. Non volevate. Al vostro Governo pareva
meglio fin d'allora perder la guerra con un titolo monarchico in
portafoglio per le contingenze future, che non vincerla con l'aiuto
di soldati repubblicani e a rischio di risuscitare nel nostro popolo
le idee che gli avevano procacciato l'ardire della vittoria sulle
barricate. Quel titolo, quel documento, l'atto della fusione, era
fin dal 13 giugno nelle mani di Carlo Alberto. Che importava
dell'Italia al re e agli uomini della Monarchia? Non l'amavano come
l'amiamo noi; e non avevano genio nè audacia per tentare di
conquistarne il dominio.
Il giugno e il luglio passarono fra positive sconfitte e bandi di
vittorie ideali, senza che si fiatasse sillaba d'intervento. Il
ministro Pareto parlava, se ben ricordo, sul finire del luglio, di
resistere apertamente ai Francesi, ove si attentassero di varcare le
Alpi. Il 31 bensì, sotto il fremito delle popolazioni, che
incominciavano a indovinare la disfatta e a sentirsi tradite, si
mutava linguaggio, e si annunziava officialmente ai Lombardi che il
Ministero piemontese chiedeva formalmente l'intervento di Francia.
Non era vero. S'era, tra per deludere il popolo e sviarlo
dall'ordinarsi a difesa, tra per contrabilanciare presso il Governo
francese l'influenza dei lombardi Guerrieri, Trivulzi e Mora,
accorsi in Parigi a sollecitare ajuti, spedito da Torino Alberto
Ricci; ma non richiedeva, impediva; e ne abbiamo la prova in un
documento indirizzato in quel torno al Cavaignac da Felice Foresti,
Tommaso Gar, Aleardi, colonnello Frapolli, Giulio Carcano,
segretario del Governo provvisorio, ed altri. Anche su quegli
estremi, e benchè a malincuore, Cavaignac si dichiarava pronto a
operare purchè le domande lombarde venissero appoggiate dal Governo
piemontese, sulle cui terre bisognava por piede. Ma il 2 agosto,
quando gli Austriaci erano a qualche lega da Milano, il vostro
ambasciatore era muto: muto il 3, il 4, il 5 e il 6. Non fu che sul
mattino del 7 agosto, due giorni dopo la dedizione di Milano, quando
non un solo milite piemontese rimaneva sul territorio lombardo, che
il Brignole richiese intervento. Era derisione o stoltezza? E fu
stoltezza o impudenza di chi sa che la maggioranza della Camera
accetta ciecamente ogni affermazione ministeriale, quella che
v'indusse a muovere accuse ai repubblicani francesi? Le date
v'uccidono, e lo sapevate. Che importa il dispaccio spedito il 23
luglio dal marchese Brignole, sul quale la vostra stampa ha menato
tanto romore? Opporrete, voi ministro, ai documenti ufficiali il
ragguaglio essenzialmente incerto d'una discussione segreta del
Comitato degli affari esteri? E se anche il ragguaglio fosse
esattamente conforme al vero, come poteva darvi diritto di assalire,
per compiacere all'Impero, quei che, nel vostro discorso del 16, voi
chiamate gli amici i più spinti della rivoluzione, i Ledru-Rollin e
i Bastide? Il nome di Ledru-Rollin non è nel dispaccio, e Bastide
dichiara, a detta dell'ambasciatore, non curarsi della Savoja o di
Nizza; la Francia dovere, lietamente o no, concedere ajuto, se
chiesto. Ben risplende in quel dispaccio l'arte solita di voi e dei
vostri di attribuire senza cagione alcuna agli uomini che vi sono
avversi i disegni men buoni. Ricordo Balbo, che, mentre io fondava
la più unitaria di tutte le nostre associazioni politiche, stampava
che io voleva ricostituire le repubblichette del medio evo. Così il
vostro Brignole accusa il Bastide, perchè avverso a un ingrandimento
territoriale di casa Savoja, di voler favorire la divisione
dell'Alta Italia in piccoli Stati. Al patrizio Brignole non si
affacciava la semplice idea che un repubblicano potesse vagheggiare
nell'animo la Italia Una fatta repubblica.
Voi rifiutaste gli ajuti della Repubblica Francese, quand'essa li
offriva. Li invocaste, quando, disfatti, impotenti - e lo provò più
tardi Novara - a rifar la guerra, e mutato già, in Francia,
l'andamento delle cose, sapevate che avreste rifiuto: e lo
accertaste più sempre, aggiungendo alla domanda, per tutelare le
istituzioni contro i pericoli di una propaganda politica((289)),
condizioni indecorose, inaccettabili dalla Francia. Questo è ciò che
la storia dirà. E dirà, come, respinti anche i semplici volontarî
francesi, disarmati siccome masnadieri i militi della Legione
Antonini appena scesero sul vostro suolo, ricusaste pure il soccorso
offertovi da un colonnello del Canton di Vaud, di 2000 carabinieri
svizzeri. Più assai che non gli Austriaci, il vostro Governo temeva
l'apparire in Italia di soldati repubblicani.
Le linee dunque del vostro discorso del 16 aprile, nelle quali,
senza citar date, anzi travolgendole, - dacchè il nome di
Ledru-Rollin come membro del Governo indurrebbe a credere che la
domanda di cooperazione fosse anteriore all'agosto, - gittate
l'oltraggio ai repubblicani, sono a un tempo, o signore, una
menzogna, una calunnia e un indegno artificio, che i vostri
Deputati, se curassero d'appurare la storia dei tempi, avrebbero
dovuto respingere. Il sangue d'un popolo italiano, tradito nel 1848
dalla monarchia, vi comandava di non tornare su quell'argomento.
Bastavano per arra di servilità al nuovo vostro alleato la Legge
Deforesta, l'oscena caccia data agli esuli italiani sul vostro
terreno, e le persecuzioni alla libera stampa.
VI.
Questa vostra nuova alleanza col Bonaparte, alla quale la vostra
stampa spianava da qualche tempo la via e che voi avete arditamente
confessata negli ultimi vostri discorsi alla Camera e più nei vostri
atti, dovrebbe, parmi, aprir gli occhî agli uomini che in buona fede
sognano tuttavia iniziatrice della emancipazione italiana la
monarchia del Piemonte. E dovrebbe aprirli sul valore del vostro
senno politico. Fra i Governi costituzionali e i dispotici, tra
l'Inghilterra e l'Impero, voi scegliete di stringervi alla tirannide
dell'Impero, e vi stringete ad essa quando appunto essa accenna a
rovina.
Non so se gli uomini ai quali alludo si avvedano che l'alleanza col
Bonaparte vale inevitabilmente da parte vostra: accettazione
dell'assassinio di Roma: - negazione d'ogni unità o unificazione
italiana: - negazione di libertà per qualunque parte d'Italia
rovesciasse, sotto i vostri auspicî, il suo governo: - patto nefando
di promovere la dedizione del sud a un prefetto dell'Impero, Murat,
purchè il Bonaparte cooperi a che i dominî del re vostro
s'impinguino dei Ducati; dico dei Ducati e non d'altro, perchè le
segrete millanterie sul Lombardo-Veneto non sono per voi che
artificio di chi chiede il più per ottenere il meno più agevolmente.
Nessuno può ragionevolmente supporre che il Bonaparte, senza altro
sostegno oggimai che i pretoriani e il clero cattolico, getti
disfida mortale a quest'ultimo, assalendo il papato: nessuno, ch'ei
possa mai offendere irreconciliabilmente l'orgoglio francese,
lasciando che un suo prefetto conceda a Napoli libertà contese alla
Francia: nessuno ch'ei, più corrivo di Lamartine, v'ajuti a fondare
nel nord dell'Italia un vasto e potente Regno, minaccioso il dì dopo
pei dominî ch'egli avrebbe impiantato nel sud. Gli uomini che hanno
votato con voi contro la offesa dignità del paese, contro
l'indipendenza dei giurati e della stampa, non per sola paura, ma
per conquistare alla causa italiana gli ajuti del Bonaparte, hanno
tradito, ad un'ora, Italia, logica e senno elementare politico.
Bonaparte tende a impiantare, scimmiottando Napoleone su scala
pigmea, la dinastia di Murat in Napoli. Odiatore cupo
dell'Inghilterra d'antico, riconcitato ad odio novello dalla civile
condotta del popolo che ci porge asilo, e certo di averlo
dichiaratamente avverso ai suoi disegni sul mezzogiorno d'Italia, ei
cerca prepararsi una diversione contro l'Inghilterra, stringendo un
patto segreto con la Russia e suscitando guerra in Oriente; un'altra
contro l'Austria, spingendovi, quand'ei faccia, a dimostrazioni che
ne tengano a freno gli eserciti. Voi, noncurante d'onore o di patria
comune, avete accettato, in qualità di cooperatore, il disegno,
perchè ei vi ha promesso di ajutarvi ad ampliare di zona più o meno
angusta i dominî di casa Savoja. È questo il segreto della vostra
politica d'oggi. Voi lo negherete, come, giovandovi della dimissione
di un vostro collega, negaste la verità di un'altra mia accusa,
proferita, non contro voi individualmente, ma contro il vostro
governo: io lo affermo. Gli uomini che giudicheranno
spassionatamente fra voi e me, sanno che i segreti di Stato possono
scoprirsi, non documentarsi, e studieranno le prove del vero che io
affermo nei menomi atti dello Tsar di Russia, di quello di Francia e
di voi.
Ministro di re costituzionale e promotore, per debito al principio
che rappresentate, d'interessi dinastici, voi cercate le vostre
alleanze esclusivamente fra i despoti. Italiano, e millantatore di
concetti emancipatori, voi tradite deliberatamente l'Italia,
ripetendo la parte di Lodovico il Moro; chiamando la tirannide
straniera al di qua dell'Alpi, e dando assenso a un nuovo dominio e
ad una potente influenza, difficile a sradicarsi, dove un Governo
aborrito da tutti e logorato da lungo tempo nell'opinione sta per
cadere. Uomo di Stato e pensatore politico, voi create al Governo
inglese la necessità di accostarsi all'Austria e condannate
all'isolamento il Piemonte, il giorno, inevitabile e non lontano, in
cui sotto il colpo ardito di un vendicatore, o sotto l'ira oggi
visibilmente ridesta della Francia, l'Impero mal sorto cadrà.
Inaugurereste, se mai poteste riuscire, la più tremenda guerra
civile che mai si sia veduta in Italia. Intanto voi mutilate, per
compiacere al despota straniero, le libertà dello Stato: inacerbite,
con la persecuzione sistematica ai suoi giornali, i giusti rancori
di Genova, e stampate sulla fronte all'unico popolo italiano, che
rappresenti in faccia all'Europa il germe del nostro avvenire, la
vergogna di un'alleanza con l'uomo che uccise la libertà della
propria patria, e fece mietere in Roma il fiore dei nostri giovani.
Questi sono, mercè la vostra politica, i risultati di dieci
anni((290)) di libera vita pel Piemonte, considerato come provincia
e, un tempo, come speranza d'Italia!
VII.
Dieci anni di libera vita! Dieci anni di libera parola e di opere
libere, coi mezzi, colle forze di un popolo di quasi cinque milioni,
razza lenta forse, ma virile e tenace; con un esercito prode, e
consacrato dalle prime battaglie per l'indipendenza della Nazione;
con un naviglio come il ligure; con la Lombardia e con la Svizzera
sulle frontiere; con l'amore, coi voti, col palpito di tutta Italia
per voi; con una posizione strategica che non concede intervento sul
vostro terreno senza guerra tra l'invasore e le potenze gelose
d'equilibrio europeo - e nulla, nulla fuorchè una politica di
repressione al di dentro e la vergogna d'una alleanza col parricida
di Roma al di fuori! Ah, se voi, ministri di casa Savoja, aveste
avuto, non dico scintilla di genio, ma scintilla d'affetto per
questa nostra povera Italia, che non avreste potuto fare! Basta per
questo intendere che voi, rimasti soli salvi tra le rovine del 1848,
eravate chiamati a rappresentare la fede, non di Carlo Alberto - la
fede di Carlo Alberto suona ironia - ma dell'Italia; che la fede
dell'Italia, repubblicana o monarchica poco monta, è fede, non di
miglioramenti progressivi sotto i padroni attuali, ma d'Unità
Nazionale, di libertà, di vita propria per migliorare da sè, non a
beneplacito altrui: che Unità e Libertà Nazionale non si fondano se
non per insurrezione di popolo, per modo collettivo, operoso degli
elementi interni, col sangue e col sacrificio degli abitatori del
suolo; che legge suprema d'ogni Governo stabilito e di ogni
diplomazia, quantunque propizia, è piegare, più o meno rapidamente,
davanti al grande fatto d'un popolo che si leva potente e volente,
impedirgli di levarsi, finchè può e quanto può; che quindi la vostra
politica dovea fondare le sue speranza unicamente sul popolo
d'Italia, e sul levarsi simultaneo o speditamente successivo dei
popoli che hanno comuni con esso diritti, bisogni, speranze. Bastava
intendere che era vostra missione di rappresentare sopra tutto, nei
menomi vostri atti, in ogni vostra parola, la moralità della Nazione
nascente, vergine d'ogni fallo passato e d'ogni corruttela presente,
fidanzata unicamente ai principî che la devono reggere, tanto che
Governi e popoli sentissero che una nuova vita chiedeva ammissione
fra le vite nazionali d'Europa, che un nuovo elemento di progresso
morale chiedeva aggiungersi a quelli che già fermentano in seno
all'Umanità. Allora avreste assunto all'interno contegno tale, che,
senza metterci a pericolo fuorchè di qualche nota segreta, avrebbe
fatto dire a tutta Italia: il Piemonte non è uno Stato definito,
limitato, vivente di vita propria; è l'Italia in germe; è la vita
Italiana, concentrata a tempo a' piedi delle nostre Alpi: avreste
mantenuto una politica d'isolamento guardingo, altero, come di chi
presente il futuro e si tiene in serbo per esso, nè accetta
contaminarlo di concessioni ad un presente che sa condannato.
Avreste detto a quanti esuli ha l'Italia: qui è terra vostra; qui
godrete, purchè v'informiate alle leggi, d'ogni diritto di
cittadino. Avreste, come si protestava ogni anno nella Francia
costituzionale in favore della Polonia, interposto ogni anno
protesta pacifica ma solenne contro l'occupazione straniera di Roma.
Avreste studiosamente evitato ogni contatto con l'Austria, evitato
ogni guerra, ogni lega, ogni protocollo, che dovesse trascinar seco
la necessità di porre il nome vostro accanto a quello
dell'oppressore del Lombardo-Veneto. Le vostre alleanze sarebbero
state coi popoli liberi, con la Svizzera, col Belgio, coll'America,
coll'Inghilterra. L'opera segreta dei vostri agenti avrebbe tentato
ogni modo per gettare semi di fratellanza futura, e cooperazione pel
momento decisivo, cogli Ungheresi, cogli Slavi del Sud, coi Rumeni,
coi Greci, con quanti popoli lavorano a svincolare la propria
indipendenza nazionale dallo strato sovrapposto d'oppressione
straniera. Non avreste accettato di proteggere coll'armi l'integrità
impossibile e ingiusta d'un Impero che è l'Austria d'Oriente. Non
avreste temperato il vostro linguaggio nelle conferenze, quasi a
insegnare ai Governi come possa evitarsi la rivoluzione d'Italia, ma
vi sareste limitato ad alzare la voce, in suo nome, narrandone i
guaî e accennando alla futura Nazione come al solo inevitabile
rimedio. Avreste in somma afferrato ogni opportunità, non per
mendicare miglioramenti che sapete di non ottenere, ma per farvi
rappresentante del Diritto Italiano; per fare intendere a tutti,
amici e nemici, che voi potete obbedire alle circostanze, posar
sulle armi e durar pacifici per entro alle vostre frontiere, ma che
quelle armi sono italiane, e da consecrarsi, appena sorga un momento
propizio, all'Italia. E pel resto, avreste dovuto lasciare far noi;
noi che, certi una volta delle vostre intenzioni, avremmo studiato
le vie per non porvi a rischio prima del tempo; noi che vi abbiamo
più volte offerto, non di rinnegare la nostra fede repubblicana -
questo non potevate nè dovevate pretendere - ma d'affratellarci con
voi sotto bandiera comune, quella della sovranità nazionale. E a
voi, s'anche amavate più la casa di Savoja che non l'Italia, quella
profferta dovea sorridere. Voi non potete, senza stoltezza, credere
in una serie di principi: noi ci accostiamo rapidamente a tempi, nei
quali ogni monarchia sparirà. I vostri affetti devono concentrarsi
sul regnante d'oggi. Or la potenza che vi danno le forze che portate
sul campo, e l'abitudine inveterata nei popoli di essere e mostrarsi
grati anche a scapito della propria salute, v'assicuravano che,
serbando a quel re il vanto di aver contribuito con le armi a
liberare il paese, voi gli serbavate, se non la corona, la
presidenza almeno d'Italia.
Diseredato egualmente di genio e d'amore, voi sceglieste altra via;
via funesta egualmente alla nazione e alla dinastia, e indecorosa
per voi. Maneggiarvi astuto fra la rivoluzione e i Governi, tanto da
reprimere o indugiare la prima, pur parendo promoverla, e
accarezzare i secondi finchè durano, pur preparandovi a giovarvi
della loro caduta: recitare agli uni la parte di futuro liberatore
dalla tirannide, agli altri quella di salvatore dall'anarchia e
dalla temuta insurrezione popolare: tenervi amica la Diplomazia,
tanto da potere un giorno, ove mai sorgesse il momento di mutare
governativamente l'assetto europeo, affacciarle((291)) la pergamena
della fusione, e tenervi amici creduli i popoli, tanto da poter dir
loro quando il gemito dei patimenti si tramuterà in fremito di
battaglia - io era dei vostri: cospirare con animo di non far mai, e
affliggere di persecuzioni e calunnie qualunque cospiri per fare:
impedire le aspirazioni del partito nazionale in Piemonte e
confortarle al di fuori: tentare di mantenervi accetto ad un tempo
ai tristissimi Governi attuali e ai popoli: è parte, non d'uomo di
Stato che intravede l'avvenire e dirige verso quello la vita del
paese che regge, ma di politico della giornata, che accetta il
presente qual ch'ei si sia, e cerca soltanto apprestarsi a far
monopolio dell'avvenire ove, per fatto altrui, sorga propizio: e
parte, non d'un Richelieu - profanerei, citandoli, i nomi di
Washington e Bolivar - ma d'un ultimo allievo di Mazarino. Ed è la
vostra. La politica d'altalena, tradizionale nella casa Savoja, ha
trovato in voi l'ottimo degl'interpreti. Ma la dubbia, tentennante,
immorale politica dei vostri principi si librava nel passato tra
Francia ed Austria, tra Governi e Governi; poteva quindi, giovandosi
or dell'uno or dell'altro, carpire ad alleanze o disfatte una
frazione di territorio ad arrotondarne i regî dominî; voi siete
collocato in oggi tra Governi destinati a cadere e un popolo
chiamato a sorgere e farsi Nazione. Il giorno fatale vi troverà
senza alleati, e travolgerà nell'onda popolare la vostra politica e
la dinastia.
VIII.
Non so se i vostri s'illudano, ma voi di certo non v'illudete.
L'Italia, checchè avvenga, non può farsi Piemonte. Il centro
dell'organismo nazionale non può trasferirsi all'estremità. Il core
d'Italia è in Roma, non in Torino. Un monarca piemontese non
conquisterà Napoli mai: Napoli si darà alla Nazione, non mai a un
principe d'altra provincia italiana. Il principio regio non può
rovesciare il papato, e aggiungere ai proprî i dominî del papa. Un
ministro di re non potrà mai lacerare i trattati, rompere i vincoli
che lo legano all'equilibrio attuale d'Europa, e invadere il terreno
tenuto a conquista dall'Austria. Voi, uomini della monarchia, non
potete iniziare la lotta, non potete fare l'Italia. Il popolo solo
lo può. E chi non vede, o non confessa il vero che io scrivo, è
stolto, o cerca, ingannando i creduli, pretesti alla propria
inerzia. Io dunque non vi accuso perchè non vi cacciate a imprese
impossibili; non v'accuso perchè non liberate coll'armi il paese.
V'accuso perchè, pur sapendo di non potere e di non volere fare
l'Italia, andate millantando che la farete. V'accuso perchè spargete
per ogni dove voci di disegni che non avete in animo di ridurre in
atto, sviando così molti dal seguire partiti più logici e generosi.
V'accuso perchè, congiurando col tiranno di Francia, e cedendo
Napoli, per quanto è in voi, a un dominio straniero, persistete ad
ammantarvi della veste di emancipatore. Vi accuso perchè, fomentando
segretamente odî inutili all'Austria ed al papa, vi giovate dei
mezzi che il Piemonte vi dà a impedire di far noi, che soli vogliamo
davvero rovesciare l'una e l'altro. V'accuso d'aver fatto quanto era
in voi per travisare all'estero il nostro problema e persuadere col
vostro linguaggio segreto e pubblico che si tratta per noi di
miglioramenti amministrativi e d'ordini civili men rei, da
introdursi nei diversi Stati d'Italia, quando la prima, la vitale
questione, l'unum necessarium per noi, è l'essere Nazione Una
dall'Alpi al Mare. V'accuso di combattere noi colle armi sleali
della calunnia, mentre in core siete convinto che noi possiamo
essere ogni cosa fuorchè colpevoli; che adoriamo una santa idea; che
possiamo essere ostinati, non ambiziosi; utopisti, non ingannatori;
rivoluzionarî, non demagoghi o sovvertitori pazzi e feroci.
E v'accuso sopratutto di due gravissime colpe: d'avere impiantato un
dualismo fatale di Piemonte e d'Italia dov'era, prima del 1848,
concordia assoluta di voti e d'opere; e d'avere corrotto, per quanto
è in voi, l'educazione del nostro giovane popolo, sostituendo una
politica di artificî e menzogne alla severa, franca, leale politica
di chi vuole risorgere.
Era vostra missione d'italianizzare il Piemonte e prepararlo a
confondersi nella patria comune, della quale esso avrebbe potuto
essere la prima provincia, come il re vostro avrebbe potuto esserne
il primo cittadino. Voi, guardando al Piemonte come a Stato
destinato a vivere di vita propria, lo avete educato a rinegare la
madre comune; a considerare una libertà, figlia del moto nazionale
del 1848, siccome conquista propria, a mutare i diritti di libera
azione, che dovevano essergli arma ad emancipare i venti milioni di
fratelli schiavi, in egoismo che calcola se il tentativo a pro dei
fratelli non possa per avventura fruttargli la perdita d'un
godimento. Avete inaugurato la politica dell'esempio, come se, a chi
vive in ricchezza splendida, non incombesse debito alcuno verso il
congiunto che geme nella miseria, fuorchè l'insegnargli il perchè
della sua condizione diversa. Prima di voi, si cospirava per l'unità
d'Italia, in Piemonte, nell'esercito e nelle classi cittadinesche;
una tradizione di martiri per la Nazione, da Garelli e Laneri a Tola
e Gavotti, da Santa Rosa a Ruffini, s'inanellava colla lunga
tradizione sulla quale poggia la Fede Italiana: oggi, si condannano
tra voi alla galera uomini che, come Savi, promovono colla penna la
causa dell'unità, e si caccia raminga da Genova la vedova di
Pisacane, senza che un deputato alla vostra Camera levi una voce di
generosa protesta.
Era vostra missione promovere l'educazione morale d'un popolo che
s'affaccia, ingenuo, incauto, corrivo, benedetto oltre ogni altro
d'istinti buoni, ma facile a traviarsi, alla vita nuova. E voi gli
avete dato la scienza dei popoli incadaveriti, il machiavellismo dei
secoli nei quali la coscienza è muta, il culto degli interessi,
l'adorazione della forza e del delitto che riesce, l'artificio de'
vecchi Stati, retti a monarchia costituzionale, l'ipocrisia che
travolse la Francia ove or giace. Gli avete insegnato a mentire al
proprio fine, ed allearsi con chi ha il suo disprezzo, a diffidare
di quei che lavorano per esso. Lo avete sedotto a spendere sangue ed
oro per mantenere l'integrità d'un impero nel quale, come
nell'impero d'Austria, le popolazioni indigene s'agitano sotto
l'arbitrio d'una minoranza conquistatrice, diversa per razza,
lingua, religione, abitudini. L'avete educato alla tattica dei
partiti scettici, che hanno per bandiera nome di uomini e non
principî: a decidere delle questioni politiche, non dalla nozione
del giusto e dell'ingiusto, ma dall'utile fugace di un giorno; a
votare in favore di leggi che credete triste, per evitare il
possibile ritorno di certi uomini al Ministero. Avete innestato
sulla giovinezza di un popolo, che non può meritare la cittadinanza
dell'Europa futura se non con una fede rappresentata in tutti i suoi
atti, la dottrina materialistica dell'espediente, l'egoismo della
paura, l'ateismo del calcolo, che uccide l'entusiasmo, solo
operatore di grandi cose.
E tutto questo a qual pro?
Che otteneste voi, adulandone le tradizioni, dalla diplomazia? Avete
in dieci anni di concessioni, di guerra fatta, per accarezzare i
Governi, a noi, e di silenzio obbrobrioso sulla perenne occupazione
di Roma, conquistato un solo palmo di terra italiana a libere
instituzioni? strappato un solo miglioramento alle condizioni, non
dirò politiche, ma amministrative, degli altri Stati? rotto i ceppi
a un solo dei miseri che gemono nelle cento prigioni d'Italia?
fortificato, ordinato, armato, educato il partito? No. La vostra
politica non ha fruttato - lo confessate voi stesso nel vostro
discorso del 16 aprile - un solo risultato materiale: - non ha
fruttato - questo possiamo arditamente aggiungerlo noi - un solo
grado di progresso morale alla causa della nostra Nazione.
S'è proclamato, voi dite, in faccia all'Europa che le condizioni
d'Italia abbisognano d'energici rimedî. Signore! Il proclama che voi
attribuite alla politica del marchese d'Azeglio e alla vostra, s'è
scritto e si scrive, da oltre mezzo secolo, col sangue dei mille
martiri, che dai Napoletani del 1799, a Pisacane ed Orsini, spesero
la vita combattendo, o sul palco; e non uno è vostro: la spesero, i
più, in nome della Fede Repubblicana, tutti in nome della grande
Idea Nazionale. Voi, spronato, costretto dal loro sagrificio a
balbettare qualche timido, incerto lagno sulle condizioni d'Italia,
avete rimpicciolito il grido potente, che viene dai loro sepolcri, a
sommessa e codarda preghiera; avete, all'immensa aspirazione
nazionale, al sacro e veramente divino Diritto d'Italia, ch'essi
rappresentarono in vita ed in morte, sostituito l'immorale,
disonorevole massima che anche dai nostri tiranni noi possiamo,
quasi mendicata elemosina, ottener libertà. Se l'Europa guarda su
noi con affetto e speranza, è dovuto, non alla vostra incerta
politica, ma alle cinque giornate lombarde, al giuramento
d'insorgere, dato e attenuto dai Siciliani, alla difesa di Venezia,
ai caduti di Curtatone, alle prodezze di Bologna e d'Ancona, ai
fatti di Roma. Se l'Europa ci crede capaci di libertà vera e non
violatrice degli ordini eterni sociali, è dovuto a ciò che essa vide
di noi, per alcuni mesi, in Roma e Venezia. Se l'Europa conosce i
nostri dolori, le nostre guerre, e i nomi dei santi che consacrarono
a vittoria la nostra causa, è dovuto a noi, al nostro apostolato di
venticinque anni, alle continue nostre pubblicazioni. E s'essa porge
attento l'orecchio ad ogni suono che muova dal vostro Piemonte, è
perchè, malgrado vostro, il Piemonte è Italia: perch'essa crede,
illusa, che compirete il debito vostro, e moverete, un dì o l'altro,
alla conquista, non d'una povera zona dei Ducati o della Toscana, ma
dell'Italia. Non v'illudete. Il giorno in cui l'Europa avrà
scoperto, come noi l'abbiamo da un pezzo, il segreto della vostra
politica, essa torcerà il guardo da voi, e non ricorderà i vostri
nomi se non per accusarvi con me d'aver ritardato l'emancipazione
d'Italia, troncando il Partito in due, e sviandolo in direzioni
diverse.
L'unico vitale decisivo progresso compito negli ultimi dieci anni in
Italia, è quello delle classi operaje; è la diffusione della fede
nazionale fra i popolani delle nostre città; è il loro tacito
ordinarsi all'azione. E quel progresso non è vostro: vi cresce
ostile. La tradizione nazionale e gl'istinti repubblicani fremono in
seno a quell'elemento, ch'è arbitro, checchè facciate,
dell'avvenire.
IX.
Tra noi e voi, signore, corre un abisso. I nostri sono due programmi
radicalmente diversi. Perchè, come noi facciamo, nol dite? Perchè
persistere a ingannare l'Italia e l'Europa sul vostro intento?
Noi rappresentiamo l'Italia: voi rappresentate la vecchia, cupida e
paurosa ambizione di Casa Savoja.
Noi vogliamo anzitutto l'unità Nazionale: voi non cercate se non un
ingrandimento territoriale nel nord dell'Italia ai regî dominî; voi
avversate l'Unità, perchè disperate di conquistarla e di dominarla.
Noi crediamo nell'iniziativa del popolo d'Italia: voi la temete, e
vi studiate di allontanarla. Voi sperate l'accrescimento sognato,
dalla diplomazia, dal favore dei Governi Europei. Ogni iniziativa
v'è dunque contesa, e voi non potete porgere alla Nazione
opportunità per sorgere e costituirsi.
Noi vogliamo che il paese, sorto una volta che sia, scelga libero la
forma d'instituzioni che dovrà reggerlo: voi negate la sovranità
nazionale, e fate della monarchia una prepotente condizione d'ogni
ajuto all'impresa.
Noi cerchiamo i nostri ajuti fra i popoli che hanno con noi
comunione d'intento, di dolori e di lotte: voi li cercate fra i
nostri oppressori, fra i poteri deliberatamente, necessariamente
avversi alla nostra Unità.
Noi consacriamo tempo, mezzi, anima, vita, a persistere in una
guerra che, attraverso una serie inevitabile di sconfitte, educa il
nostro popolo a combattere, radica in Europa l'Idea che l'Italia
vuole davvero, e deve infallibilmente conchiudersi colla vittoria:
voi consacrate tempo, mezzi e politica, ad attraversarci la via, a
perseguitarci dovunque potete scoprirci, a denunciarci alle polizie
dei Governi assoluti, a dissuggellare le nostre lettere, a cercar di
sopprimere, legalmente ed illegalmente, i nostri giornali.
Noi adoriamo una fede: la Fede Nazionale; - un principio: il
Principio popolare repubblicano; - una politica: l'espressione
ardita, continua, colla parola e coi fatti, del Diritto italiano:
voi piegate il ginocchio davanti alla forza, ai trattati del 1815,
al dispotismo, a ogni cosa che sia, purchè sorretta da squadre
grosse. Non avete scorta di moralità nè di fede.
Noi vi accusiamo: voi ci calunniate.
Tra voi e noi, signore, l'Italia giudicherà. Io penso talora che voi
avreste potuto, volendo, fare l'Italia, e che la politica del
marchese d'Azeglio e la vostra non sommeranno che a disfare il
Piemonte.
Giugno, 1858.
Giuseppe Mazzini.
A VITTORIO EMANUELE
Sire,
Potete, di mezzo al frastuono di lodi codarde e di adulazioni
servili, che i cupidi faccendieri, gli ambiziosi d'un giorno e i
nati ad essere cortigiani d'ogni potere v'inalzano intorno,
discernere e intendere la parola d'un uomo libero che nè teme nè
spera da Voi, nè ambisce fuorchè di vivere e di morire in pace colla
propria coscienza? Siete tale da porger l'orecchio, fra le premature
adesioni d'intere provincie e le note insidiosamente carezzevoli di
tutta una Diplomazia, alla voce solitaria d'un individuo, che non ha
merito se non quello d'amare d'immenso e disinteressato amore
l'Italia, e dirvi: - da quella voce può forse venirmi il Vero? -
Allora, uditemi: però che io, parlandovi, non posso dirvi che il
vero, o ciò che l'intelletto ed il core mi fanno credere vero.
Repubblicano di fede, ogni errore di re dovrebbe, s'io non guardassi
che al mio Partito, sorridermi, come elemento di condanna alla
monarchia. Ma perchè io amo, più del Partito, la Patria, e Voi
potreste, volendo, efficacemente ajutarla a sorgere e vincere, io vi
scrivo. Vi scrivo da terra italiana, dove la persecuzione d'un
Governuccio, che ciarla di libertà e manomette ducalmente gli esuli
che gl'insegnarono quella parola, e il traviamento d'un Popolo
illuso e il freddo abbandono d'uomini, or potenti e che mi furono
amici, dovrebbero farmi credere morto ogni senso di libera coscienza
e di libero avvenire in Italia. Ma per entro le viscere di questa
terra popolata un tempo di Grandi d'anima, e dove il guardo erra dal
Sasso di Dante ai ricordi delle patrie difese erette da
Michelangiolo, scorre un fremito di vita potente, che tre secoli di
tirannide sacerdotale e straniera non hanno potuto spegnere, e che
aspetta l'ora di rivelarsi: vita concentrata, energica, collettiva
di Popolo che fu libero e repubblicano quando l'Europa giaceva nelle
tenebre del feudalismo; che irruppe tratto tratto in getti vulcanici
da Procida a Masaniello, dal moto genovese del 1746 alle Cinque
Giornate lombarde; e che sommergerà un giorno, nella pienezza della
sua onda, le povere, intisichite vite pigmee ch'oggi s'attentano di
scimmiarla. In nome di questa Vita - vita d'un Popolo che non è, ma
sarà, vita, non d'una o d'altra zona italiana, ma d'Italia, che ha
centro in Roma e informa tutte le membra del Paese, da Trento a Capo
Passaro - io oggi vi parlo. Voi non la conoscete, Sire, questa vita:
se la conosceste, non avreste mendicato all'impresa ajuti stranieri.
I cortigiani, che vi ricingono il trono, ve la celano ad arte: sanno
che non potrebbero governarla. Gli ingegni mediocri, che vi furono o
sono ministri, e che studiano il segreto della terza Vita della
Nazione nelle pagine scritte da Machiavelli sul cadavere di lei, non
possono rivelarvela. La Diplomazia, che ha posto assedio intorno
all'anima vostra, la nega, perchè ne trema. Io la conosco, perchè,
nato di popolo, la esplorai nell'amore, nel dolore, nel sacrificio
di ogni cosa più cara, e coll'anima pura d'ogni desiderio che
riguardi me stesso.
Sire, Voi siete forte; forte, sol che Voi vogliate, di quella Vita;
forte di tutta la potenza invincibile ch'è in un Popolo di ventisei
milioni, concorde in un solo volere; forte più di qualunque altro
principe che or vive in Europa, dacchè nessuno ha in oggi tanto
affetto dalla propria Nazione, quanto Voi potreste suscitarne con
una sola parola: Unità: - Voi non avete osato proferirla quella
parola: però non sapete ciò che può essere, ciò che può darvi
l'Italia. La forza latente che quella parola, risolutamente
pronunziata, chiamerebbe in azione, v'è ignota.
L'Italia cerca Unità. Essa vuole costituirsi Nazione Una e Libera.
Dio decretava questa Unità quando ci chiudeva tra l'Alpi eterne e
l'eterno Mare. La storia scriveva Unità sulle mura di Roma; e il
concetto unitario ne usciva così potente, che, varcando i limiti
della Patria, unificava due volte l'Europa. Il lento lavoro dei
secoli ha logorato di tanto le differenze che invasioni, colonie e
conquiste aveano posto tra le famiglie seminate sulla nostra terra,
che più d'ogni altro forse il nostro Popolo rappresenta quasi
universalmente, comechè servo e smembrato, nelle usanze e nella
convivenza sociale, il sentimento della eguaglianza. L'Unità
d'Italia fu l'ideale dei nostri Grandi, da Dante a Machiavelli, da
Machiavelli ad Alfieri. Nel nome della Unità muoiono da mezzo
secolo, col sorriso sul volto, sui patiboli o coll'armi in pugno, da
Messina a Venezia, da Mantova a Sapri, i nostri migliori. Nel nome
dell'Unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi e influenza, e
perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione
in Italia, da far della Questione Italiana una Questione Europea, e
somministrare a Voi, Sire, ed ai vostri il terreno ch'oggi vi frutta
lodi e potenza. L'Unità è voto e palpito di tutta Italia. Una
Patria, una Bandiera Nazionale, un solo Patto, un Seggio fra le
Nazioni d'Europa, Roma a Metropoli: è questo il simbolo d'ogni
Italiano.
Voi parlaste d'Indipendenza. L'Italia si scosse e vi diede 50 000
volontarî. Ma era la metà del problema. Parlatele di Libertà e di
Unità: essa ve ne darà 500 000.
Che cos'è l'indipendenza per Napoli, per la Sicilia, per la metà
delle provincie Romane? Oltre a dodici milioni d'Italiani gemono
sotto una tirannide domestica, eguale a quella esercitata sul Veneto
dallo straniero. Il birro e il prete contendono ad essi ogni
sviluppo di vita. Le galere, il bastone, il carnefice, sono sostegno
ai Governi. Che importa ai miseri Perugini, che importa ai
tormentati di Napoli e di Sicilia che la potenza dell'Austria non
s'estenda oltre il Mincio? E Venezia? E Roma? Dov'è, senza Roma,
l'Italia? Là stanno, come belva accasciata su cadavere di generoso,
diecimila Francesi, stranieri anch'essi; e la tirannide papale non
vive che di quell'ajuto. Voi v'alleaste con essi. La vostra
Indipendenza non protegge il Santuario d'Italia. Ah, Sire! Non
rimproverate l'Italia per non avervi dato di più: ammiratela per
aver gettato a' vostri piedi, senz'ombra di patto, 50 000 vite di
giovani, dietro un programma sì monco, sì meschino e ingannevole,
come quello che Voi le affacciaste.
E badate. Malgrado le angustie e le contradizioni di quel programma,
tanta era la fiducia in Voi, Sire, tanto l'impeto del lungo dolore e
della lunga speranza, tanto il convincimento che il Piemonte non
avrebbe voluto, una volta sguainata la spada, rimanersi a mezzo la
via, che l'Italia era presta a ben altro. Se non che i vostri non
vollero; tremavan del Popolo; paventavano in esso la coscienza,
crescente coll'azione, de'suoi diritti; in voi temevano che
imparaste a conoscerlo. Sapete Voi, Sire, con quanto artificio, con
quanta insistenza di predicazione codarda, s'ammorzò, per cinque
mesi, ogni passione generosa, ogni fiamma d'entusiasmo, ogni nobile
impulso di sacrificio in questo Popolo che si volea chiamare a
rivivere? Come s'insegnò, da quei che parlavano in nome vostro,
unica virtù la disciplina, l'inerzia, quasi le Nazioni s'educhino a
forti fatti cogl'instituti gesuitici? Come fummo sistematicamente
calunniati presso le moltitudini, noi che insegnavamo ad esse - in
nome dell'Unità (Unità inevitabilmente regia, se il re la facesse) -
la virtù della lotta, del sacrificio e del saper morire, pegno certo
di vita? Come si profanò di scherno, quando non di sospetti feroci,
dalle gazzette patrocinanti la vostra causa, l'ardita impresa degli
uomini del febbrajo 1853, la protesta di Bentivegna, la sepoltura
deserta di Pisacane? Sapete come fu dai vostri ricusata l'iniziativa
che il popolo di Milano offriva di assumersi poco prima della
guerra, quando gli Austriaci erano tuttavia pochi e potevano
cogliersi alla sprovveduta? Sapete come alla Sicilia, ordinata a
insorgere e irrequieta per gl'indugî durante la guerra, fu detto:
no; attendete il cenno; e il cenno, per arcane ragioni, non andò
mai? L'insurrezione del Sud, fervente la battaglia al Nord, fondava
d'un getto l'unità del moto; fondava, in vostro nome, l'Unità
dell'Italia: e nessuno, tra i maneggiatori che vi s'agitavano
intorno, voleva o s'attentava di voler l'Unità. Intanto questo
povero Popolo s'addottrinava a non credere in sè, a perdere ogni
virtù iniziatrice, ad aspettar salute, non dal proprio furore, ma
solamente dai battaglioni ordinati, dalle artiglierie e dai Generali
in capo. E ne vedemmo gli effetti. Ma se, dall'inerzia di molti e
dalle titubanze di tutti, Voi desumeste, Sire, che questo Popolo non
ha in serbo altra vita da quella infuori che rivelava negli ultimi
mesi, mostrereste di non conoscerne la natura nè la storia, e d'aver
dimenticato i fatti d'undici e di dieci anni addietro. Le
manifestazioni della vita d'un popolo stanno in ragione dell'intento
che gli si propone, e dell'audacia dei capi che lo dirigono.
Sire, non bisogna dimenticarlo: Voi non v'affratellaste col Popolo
d'Italia, nè lo chiamaste ad affratellarsi con Voi. Sedotto dalla
trista politica d'un ministro, che antepose l'arti di Lodovico il
Moro alla parte di rigeneratore, Voi rifiutaste il braccio del
nostro Popolo, e chiamaste, senza bisogno, in un'ora infausta,
alleate ad una impresa liberatrice l'armi d'un tiranno straniero;
senza bisogno, dico, perchè se voi dicevate ai Lombardo-Veneti
d'insorgere subitamente, quando l'Austria era, in Italia, debole e
improvvida, e vi tenevate apparecchiato a seguire, i Lombardo-Veneti
riconquistavano senz'altro la terra loro fra l'Alpi e il mare, e a
Voi non rimaneva, per vincer la guerra, che correre, sprezzando gli
avanzi nemici appiattati nelle fortezze, sui gioghi del Tirolo e
dell'Alto Veneto. In quell'ora, della quale Voi dovete ancora
ammenda all'Italia, Voi perdeste i nove decimi delle forze che il
Paese era presto a darvi: perdeste gli uomini - e son più molti che
i faccendieri non curan di dirvi - i quali, come noi, non adorano
ciecamente l'idolo della forza, e non sagrificano a una menzogna la
loro coscienza; perdeste tutti coloro che, davanti all'immenso
apparato di guerra regolare, dissero a sè stessi: non hanno bisogno
di noi; perdeste il Popolo, che sentì la diffidenza e pensò: il re
non ci vuole; perdeste la consacrazione del santo entusiasmo,
dell'ire sante, delle sante audacie che creano la vittoria; perdeste
l'ajuto onnipotente della Rivoluzione, senza la quale non si fonda,
in Italia, Unità. Però che, Sire, stringendo la malaugurata
alleanza, Voi rapivate alla Causa d'Italia, l'aureola di virtù che
la faceva cara agli uomini e a Dio, per affratellarla col vizio e
coll'egoismo; la facevate scendere dall'altezza di un principio al
fango d'un interesse e delle oblique ambizioni altrui; mettevate
un'opera di libertà sotto la tutela del dispotismo; toglievate ogni
sanzione di moralità all'impresa; stendevate la mano liberatrice
alla contaminazione del tocco d'un uomo la cui mano gronda del
miglior sangue di Roma e Parigi; e quanto a Voi, Sire, invece d'un
alleato, vi davate un padrone.
No, Sire; non rimproverate di freddezza l'Italia; non diffidate di
questa terra che, schiava e smembrata, ha saputo, colla costanza dei
tentativi e colla pertinacia de' suoi Martiri, farsi centro di tutte
le questioni d'Europa - che, ridesta per brev'ora, fu capace di
sperperare in Lombardia, in cinque giorni, un esercito di 75 000
uomini; capace di resistere per due mesi, in Roma, con 14 000 uomini
raccolti sotto una bandiera di Popolo, a 30 000 e più Francesi;
capace di resistere, con armi di militi improvvisati, per diciotto
mesi in Venezia, ad Austriaci, fame e colèra; capace di combattere
come combattè, colle braccia dei popolani, a Brescia, a Bologna, a
Palermo, a Messina. Voi non l'avete voluta mai.
Sire, volete averla? Averla splendida davvero di entusiasmo, di fede
e d'azione? Averla con forze tali da far sì che ogni Diplomazia
s'arresti impaurita, ogni disegno d'avversi si sperda davanti a
essa?
Osate.
La prudenza è la virtù dei tempi e delle condizioni normali.
L'audacia è il Genio dei forti, in circostanze difficili. I popoli
la seguono perchè vi scorgono indizio di chi non li tradirà nel
pericolo. La fede genera la fede. Maturi i tempi per una impresa,
nella potenza della iniziativa sta il segreto della vittoria.
S'anche oggi seguiamo noi tutti, ammaliati o tementi, le fortune di
Francia e le sue volontà, è perchè, mezzo secolo addietro, un
potente - Danton - ne compendiò l'iniziativa nella parola audacia; e
una Assemblea si fece, davanti all'Europa in armi, incarnazione di
quella parola. Da quel giorno ha data l'inviolabile Unità della
Francia.
Sire! L'Italia vi sa prode in campo, e presto, per l'onore, a far
getto della vostra vita. Sire, il giorno in cui sarete presto, per
l'Unità Nazionale, a far getto della vostra corona, Voi cingerete la
Corona d'Italia.
L'Italia vi sa prode in campo. Ma, comunque virtù sì fatta sia rara
in un re, l'ultimo tra i vostri volontarî può farne mostra; e la
vita è per lui sacra d'affetti di madre, di sorella, d'amica, che
son la corona dell'anima sua. L'Italia ha bisogno or di sapervi
prode nel consiglio; potente di quella volontà che fa via di ogni
ostacolo: forte di quel coraggio morale che, intraveduto un dovere,
un'alta impresa da compiere, ne fa sua stella, e la segue intrepido,
irremovibile sulla via, senza arretrarsi davanti a lusinga o
minaccia. Voi potete, io lo credo, mostrarvi tale, e per questo vi
scrivo: pur, finora, Sire, non vi siete mostrato tale.
Sire, Voi accettaste la pace di Villafranca e rifiutaste - però che
l'accettazione sottomessa all'arbitrio di Governi stranieri è
rifiuto - il voto d'alcuni milioni d'Italiani, che, credendo darsi
all'Unità, si davano a Voi.
Il primo atto cacciava l'Italia a' piedi d'un uomo straniero: il
secondo cancella il Diritto Italiano a pro d'un principio straniero.
E l'uomo e il principio sono ambi incarnazioni del Dispotismo.
Sire, troppi adulatori fanno a gara per isterilire i germi del bene
che possono essere in Voi, perch'io non vi dica la verità.
L'accettazione della pace di Villafranca sarebbe atto di codardo, se
non fosse vostro.
La lode al padre, Sire, non può giungervi grave, quand'anche
racchiuda un rimprovero per Voi: avete tempo per darle solenne e
gloriosa risposta. Sire, vostro padre non avrebbe apposto il suo
nome a quel Patto. Il padre vostro mancò egli pure, nella sua
combattuta ed incerta vita, d'energia di proposito e di fede nel
Popolo d'Italia. Ma quando, dopo la battaglia di Novara, ei vide
ch'altro non gli rimaneva se non regnare vinto e sommosso, e segnar
del suo nome patti umilianti, gettò sdegnoso la corona da sè e
s'incamminò volonteroso sulle vie dell'esilio. Voi segnaste il patto
umiliante, uscendo da tre, da quattro vittorie. Segnaste un patto
che tradiva Venezia, l'Italia, le vostre promesse e gli uomini che,
sulla fede di quelle, s'erano da ogni parte d'Italia affrettati a
combattere intorno a Voi: un patto che v'era imposto dallo
straniero; imposto da chi era sceso come vostro alleato e si faceva
a un tratto insolente padrone; imposto, senza pur chiamarvi a
discuterlo; imposto col tratto villano di chi vi tiene per nullo e
incapace di ribellarvi. E perchè l'Europa potesse fraintendervi
avido, più che d'onore, di preda, accettaste - offesa mortale
all'Italia ed a Voi - che la Lombardia vi fosse trasmessa come feudo
di seconda mano dal Signore straniero. Sire, un privato a' tempi
nostri non soffrirebbe l'oltraggio. Io non so di qual tempra
s'informino l'anime dei re; ma so che s'io fossi Voi non potrei
dormire una notte, senza che l'imagine della povera, santa, eroica,
tradita Venezia, mi apparisse, rimprovero tremendo, fra i sonni; nè
potrei scorrere, il giorno, coll'occhio le file de' miei e vedervi i
volontarî di Perugia e di Roma, senza che il rossore mi salisse su
per le guancie.
Dell'accettazione condizionale, data al voto delle provincie del
Centro, non parlo: è tristissima conseguenza del primo fatto. Voi
non siete più vostro. Fatto, a Villafranca, vassallo della Francia
imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre risposte all'Italia,
inspirazioni a Parigi.
Sire, Sire! In nome dell'onore, in nome dell'orgoglio Italiano,
rompete l'esoso patto! Non temete che la Storia dica di Voi: - ei
fece traffico del credulo entusiasmo degli Italiani per impinguare i
proprî dominî? -
Sire! io nol credo. Io vi credo - e lo scrissi anni addietro, quando
i vostri mi condannavano a morte, per aver tentato di promovere con
armi liguri il tentativo d'un prode amico nel Sud - migliore dei
vostri ministri e dei faccendieri politici che vi circondano. Credo
che viva in Voi una scintilla d'amore e d'orgoglio Italiano. Ma s'è
vero - se ciò ch'io sentii, leggendo alcune vostre recenti,
semplici, spontanee parole di risposta a non so quale adulatrice
deputazione, non è illusione di chi desidera - non avete energia che
basti per vivere di vita vostra? Sperdete, perdio, lungi da Voi quel
brulichio di pigmei consiglieri di codardia, come il leone sperde,
scotendo i velli, gl'insetti che gli si affollano intorno. Perchè
assumeste, sul cominciar della guerra, la Dittatura? Per accarezzare
le voglie dispotiche dell'Alleato? Per imporre silenzio, con
abbiette persecuzioncelle, ad uomini che, come me, osano dirvi la
verità? I padri nostri assumevano la Dittatura per salvar la Patria
dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purchè siate Liberatore.
Ma cominciate dal liberar Voi medesimo dagli uomini che tradirono il
concetto Italiano nelle mani del carnefice di Roma, e dalla turba
impotente che incatena negli artificî diplomatici il pensiero
dell'anima vostra.
Sire! La guerra Italiana non è finita; non è se non cominciata. Per
Voi, le vittorie di Lombardia non debbono costituirne che la prima
campagna.
A Voi spetta, per le date promesse, il far che riarda; all'Italia,
il sostenerla e compirla.
Ma non è col guadagnar tempo che potete ottenere l'intento. I dieci,
i venti, i trenta mila uomini che potrete aggiungere al vostro
esercito, son nulla a petto di ciò che perdete, indugiando. L'Italia
si sfibra nello scetticismo e nello sconforto: l'entusiasmo si
spegne: la Diplomazia diffonde i germi del dissolvimento; le
questioni si localizzano: il moto perde il suo carattere nazionale.
Voi avreste dovuto respingere sdegnosamente il patto di Villafranca:
avreste dovuto dire a Luigi Napoleone: io non tradisco le mie
promesse; e dire all'Italia: l'alleato straniero ci abbandona; io
continuo solo la guerra, e chiedo al Paese la cifra d'uomini,
sottratta da quell'abbandono, all'esercito.
Voi nol faceste, ma siete in tempo. Affratellatevi al Popolo:
affratellatevi, senza tremarne, alla Rivoluzione. In essa troverete
forza più che sufficiente all'impresa. I centoventimila uomini di
milizie regolari, che il Piemonte e il Centro vi danno, sono nucleo
che basta a determinare l'insurrezione generale d'Italia; Voi
trarrete altri centoventimila uomini di milizie regolari, e tutto un
Popolo in armi, ad afforzare ed agevolare le operazioni
dell'esercito, a fiancheggiarne le mosse, a creare una perdita al
nemico in ogni passo ch'ei mova; a rapirgli in un subito forza e
coraggio.
Un esercito, e l'Insurrezione di tutto un Popolo: Voi potreste,
Sire, aver questo in brev'ora; ma per averlo, è necessaria una cosa:
Osare.
Dite a Luigi Napoleone: «Io diffidai dell'Italia; accettai una pace
non mia. Ma l'Italia non ha diffidato di me; ed io sento gli
obblighi che quella fiducia m'impone. Io ritratto l'accettazione.
Farò, libero d'ogni vincolo, ciò che Dio e la mia Patria
m'inspireranno. A Voi non chiedo se non una cosa: l'astenervi da
ogni intervento nelle cose nostre, e lasciar, come prometteste,
l'Italia libera di compiere coll'opera propria l'impresa che
iniziaste con me. E a quel patto, avrete me grato, l'Italia amica
sempre alla Francia.»
Dite ai Governi d'Europa: «Voi avete cancellato il vecchio Diritto
Europeo, i Trattati del 1815, in Polonia, nel Belgio, in Oriente,
per ogni dove. L'esperienza degli ultimi quarant'anni vi ha
dimostrato - e lo avete confessato più volte - che non v'è pace
possibile in Europa, se non accettando il principio che ogni Popolo
assetti da per sè le proprie faccende interne. Ci apprestiamo a
farlo. In nome del Diritto Italiano, io vi chiedo di lasciarci
liberi e soli. Contro l'Austria noi non chiediamo ajuto fuorchè alle
nostre spade: fate soltanto che nessuno l'ajuti: statevi custodi del
campo: e rendete tarda giustizia al Popolo dal quale vi venne gran
parte dell'incivilimento che allieta le vostre contrade.»
Dite agli Italiani: «Voi mi salutaste primo soldato della vostra
Indipendenza, ed io non tradirò la missione che m'affidaste. Non
v'ha indipendenza per gli schiavi, nè forza possibile pei divisi:
siate dunque Popolo libero ed uno; chiuda la vittoria la lunga serie
dei vostri Martiri: dal 1848 voi provaste con fatti che i tempi sono
maturi per questo. Sorgete or dunque: sorgete tutti. Rovesciate le
barriere artificiali che vi disgiungono, com'io lacero ogni vecchio
patto avverso alla vostra Unità. Liberatevi da quanti v'opprimono, e
accentratevi dove vedrete, sotto la bandiera tricolore, splendere la
spada ch'io snudo. Se Dio m'ajuta e voi compite il debito vostro, io
non la riporrò nella guaina che in Roma, dove i vostri
rappresentanti detteranno il Patto di amore pei ventisei milioni che
popolano la nostra Italia. Ma badate! Io vi chiedo, oltre quello che
io qui raccolgo d'intorno a me, duecentomila uomini in armi: vi
chiedo i mezzi necessarî a mantenerli in azione: vi chiedo
illimitata fiducia; vi chiedo, per vincere, di esser presti, com'io
sono, a morire. Schiavi o Grandi; non v'è via di mezzo per noi.»
Sire, gl'Italiani saranno grandi il giorno in cui Voi proferirete
parole sì fatte: i Partiti saranno spenti fra noi. Due sole cose
avranno vita e nome in Italia: il Popolo e Voi.
Sire! di che temete? Dell'Austria? Coll'Italia intera - però che il
linguaggio ch'io vi propongo vi dà Napoli e la Sicilia - schierata
sotto((292)) la vostra bandiera? Coll'Ungheria presta a insorgere ed
affratellarsi? - Dell'Inghilterra? L'Inghilterra è con Voi, purchè
Voi non siate con Luigi Napoleone. - Dell'alleato? L'alleato scese,
collegandosi con Voi, in Italia, per tentare di riacquistarsi,
patrocinando una nobil causa, un'aura popolare perduta: ei non può
scendere oggi a combatterla: non può dire alla Francia: chiesi jeri
l'oro e il sangue de' tuoi figli contro l'Austria a pro dell'Italia:
oggi li chiedo a pro dell'Austria contro l'Italia. - L'alleato
affrettò la pace perch'ei si sapeva minacciato ne' suoi dominî
dall'invasione Germanica; e quella invasione pende, minaccia
perenne, sul di lui capo. Ei poteva jeri fare, pe' suoi fini, la
parte d'emancipatore; quella del((293)) tiranno gli è oggimai, al di
fuori dei confini Francesi, vietata dalla Prussia, dalla Germania,
dall'Inghilterra e dalle tendenze ch'or ricominciano in Francia a
manifestarsi.
No; la prima guerra di Luigi Napoleone non sarà contro Voi, Sire;
sarà tra lui, l'Inghilterra e Germania.
Ma, Sire; a che parlarvi di cose che vi sono, o dovrebbero esservi
note più assai che a me? - Io vi chiamo, in nome d'Italia, ad una
grande impresa: ad una di quelle imprese nelle quali il forte numera
gli amici, non i nemici. Vi chiamo all'alleanza con 26 milioni
d'Italiani, padroni, purchè uniti e guidati, dei proprî destini. Vi
chiamo a porvi a capo d'una Rivoluzione Nazionale, che troverà,
s'altri mai s'attentasse reprimerla, alleati nei Popoli quanti sono
ai quali manca una libera Patria. Vi chiamo a una Iniziativa che può
diventare Iniziativa Europea. Metà dell'Europa, Sire, trasalirà
plaudente al sorger d'Italia, come trasalì, plaudente ed ajutatrice,
al sorgere degli Stati Uniti, della Grecia, d'ogni guerra di Popolo
che vuol farsi Nazione, d'ogni grande fatto provvidenziale: l'altra
metà si ritrarrà sospettosa, ma trepida. La Diplomazia è come i
fantasmi di mezzanotte: minacciosa, gigante, agli occhî di chi
paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi le mova
risolutamente incontro. Osate, Sire: allontanate da Voi qualunque
tema, o vi suggerisca temenza. Circondatevi di pochi uomini la cui
vita intera parli fermezza di principî, schietto amore d'Italia e
potenza di volontà. Date pegno al Popolo di libertà; lasciate vita
alla stampa, alle Associazioni pubbliche, alla pubblica parola:
stampa, associazioni, convegni pubblici, vi creeranno intorno quel
fermento, quell'entusiasmo, dal quale trarrete quante forze vorrete;
la libertà non ha pericoli se non per chi ha in animo di tradirla.
Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino,
il primo apostolo armato della Nazione. Siate grande come l'intento
che Dio vi ha posto davanti, sublime come il Dovere, audace come la
Fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con Voi. Movete
innanzi, senza guardare a dritta o a manca, in nome dell'eterna
Giustizia, in nome dell'eterno Diritto, alla santa Crociata
d'Italia. E vincerete con essa.
E allora, Sire, quando di mezzo al plauso d'Europa, all'ebbrezza
riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato
della coscienza d'aver compito un'opera degna di Dio, chiederete
alla Nazione quale posto ella assegni a chi pose vita e trono
perch'essa fosse Libera ed Una - sia che vogliate trapassare ad
eterna fama tra i posteri col nome di Preside a vita della
Repubblica Italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur
luogo nell'anima vostra - Dio e la Nazione vi benedicano! - Io,
repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare
intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, esclamerò
nondimeno coi miei fratelli di Patria: - Preside o Re, Dio benedica
a Voi, come alla Nazione per la quale osaste e vinceste.
Firenze, 20 settembre 1859.
Giuseppe Mazzini.
PREFAZIONE DI GIUSEPPE MAZZINI
ALL'EDIZIONE DI NAPOLI
DELLE
PAROLE AI GIOVANI
Io scrissi queste pagine, coll'anima in pianto, poco dopo la pace di
Villafranca. D'allora in poi, la Provvidenza che vuole l'Italia
Nazione, la costanza degli uomini del Partito d'Azione e la santa
audacia di Giuseppe Garibaldi, hanno affrancato le nostre terre
meridionali: l'armi capitanate dalla Monarchia Piemontese hanno
vendicato Perugia. Ma l'Italia non è. Venezia è schiava. Un Governo
che trae le sue inspirazioni dallo straniero ci contende Roma. Una
terra Italiana è oggi, per opera di quel Governo, terra Francese. I
materialisti pagani del XIX secolo, che sostituiscono il culto della
forza e del calcolo all'adorazione dell'eterno Vero e dell'eterna
Giustizia, tengono tuttora il campo, e imbastardiscono su torte vie,
dietro tattiche immorali indegne d'un Popolo che sorge, l'intelletto
de' giovani. Vorrebbero che questa Italia, iniziatrice perenne
dell'Unità della Vita - questa Italia che ebbe Roma antica e il
Papato, e la cui tradizione intellettuale si svolve da Gregorio VII
a Dante, da Michelangiolo a Napoleone - si componesse in sembianza
di cortigiana, servilmente adulatrice e ipocritamente idolatra. E
non credo di dovere mutar sillaba di questo libretto.
Mi suonano, mentr'io scrivo, all'orecchio le grida di morte! che un
pugno d'uomini, comprati dalla gente che s'intitola moderata, o
pazzamente briachi, m'avventa contro. E penso alle calunnie che
perseguitarono l'amico mio Rosalino Pilo, sei mesi prima che ei
morisse per la libertà dalla Patria. Io lo rividi quand'egli esciva
di carcere dove l'avevano tratto gli uomini della monarchia,
accusandolo fautore dell'Austria. Sorrideva allora, come prima
d'entrarvi, del sorriso mesto e amorevole che erra sul labbro ai
Martiri del Pensiero.
Ciò ch'io scrissi è un riflesso di quel sorriso di fede, di dolore e
d'amore. Gli uomini d'oggi non possono intenderlo; ma i giovani di
domani lo intenderanno.
Napoli, 12 ottobre 1860.
Giuseppe Mazzini.
AI GIOVANI D'ITALIA
Predica verbum; insta opportune;
importune; argue, observa, impera.
Paul, ad Tim.
I.
Voi cercate la Patria. Un istinto che Dio ha infuso nel vostro core,
una voce che vi viene dalle sepolture dei vostri Grandi, un segno
che la potente natura d'Italia ha messo sulla vostra fronte e nel
vostro sguardo, vi dicono che siete fratelli, chiamati ad avere una
sola Bandiera, un solo Patto, un solo Tempio, dall'alto del quale
splenda, in caratteri visibili a tutte le genti, la Missione
Italiana, la parte che Dio commise, pel bene dell'Umanità, alla
nostra Nazione.
E per questo ogni uomo tra voi pronunzia ardito o mormora sommesso
quel santo nome di Patria. Per questo i migliori fra voi muojono da
mezzo secolo, martiri d'una Idea, sul patibolo, nelle segrete o
nella lenta agonia dell'esilio, col sorriso di chi intravede
l'avvenire sul volto, colla parola Italia sul labbro. Per questo le
vostre moltitudini fremono di tempo in tempo d'un fremito che
solleva il coperchio della tomba dove i papi e i re le han poste a
giacere, poi ricadono spossate per ritentare dopo il silenzio d'un
tempo.
La Patria è il sogno, il palpito, il desiderio segreto d'ogni anima
che s'informa a vita sulle nostre terre. Come il bambino che s'agita
cercando fra i sonni il seno materno, come quei fiori che si volgono
nella notte nera verso la zona del Cielo dove apparirà sul mattino
il sole fiammante, voi, nei sonni irrequieti della servitù, nella
tenebra fredda e greve dell'isolamento, andate brancolando in cerca
della Madre comune che ha nome Patria, e interrogate ansiosi
l'orizzonte a scoprire da qual punto accenni sorgere il Sole della
vostra Nazione.
II.
Ma perchè cercate e non trovate la Patria? Perchè a voi soli il
lungo martirio non frutta vittoria? E perchè la pietra del sepolcro,
dove papi e re v'han messi a giacere, si leva soltanto di tempo in
tempo a metà per ricadere più pesante sulle vostre teste? Quale
strana fatalità s'aggrava su voi, poveri Israeliti delle Nazioni,
perchè Dio vi neghi la Patria concessa da secoli a popoli che
oprarono e patirono meno di voi?
La vita di Dio freme in seno alla vostra terra più che altrove
potente. Imagini di bellezza e di forza s'avvicendano singolari su
questo suolo, dove il sole accende vulcani e che gli uomini salutano
del nome di Giardino d'Europa. La natura sorride per voi d'un
sorriso di donna. I languenti per morbo vengono dalle brume
settentrionali a ribever la vita nell'aure balsamiche de' vostri
prati, sotto l'azzurro profondo de' vostri cieli.
L'Alpi eterne vi guardano solenni dall'estremo della vostra contrada
come per dirvi: siate grandi! E appiè di quell'Alpi, i fiori più
belli che all'uomo sia dato vedere vi guardano, dovunque moviate,
coi loro occhi innocenti, come per dirvi: siate buoni! E tra
quell'Alpi e quei fiori errano, quasi murmure d'angeli, melodie che
gli uomini chiamano Musica, e sono un'eco della lingua che si parla
in cielo.
Splendide come le stelle dei vostri sereni furono l'opere del Genio
tra voi: splendide di pensiero e d'azione, che voi soli sapeste
congiungere in bella armonia.
L'Europa era - dalla vostra sorella, la Grecia, in fuori -
semibarbara, quando le vostre aquile passeggiarono di trionfo in
trionfo sovr'essa; e insegnaste ai popoli conquistati una sapienza
di leggi che dura tuttavia riverita, i conforti della vita civile, e
quella tendenza all'Unità che preparò un mondo a Gesù.
L'Europa giaceva ravvolta fra le tenebre del servaggio feudale,
quando voi, sorti a seconda vita, affermaste nei vostri Comuni la
libertà repubblicana dell'uomo e del cittadino, e diffondeste alle
più lontane contrade i benefici della civiltà, delle lettere e del
commercio.
I vostri sacerdoti dell'Arte pellegrinarono di terra in terra,
disseminando per ogni dove forme di bellezza immortale e insegnando
come si svolva dal simbolo l'ideale.
E quando l'Europa ingrata vi pose in fondo, dividendosi le vostre
spoglie, il genio Italiano, prima di velarsi per un tempo, gettò
dalla sua croce, quasi pegno di ciò che un giorno potrebbe, un Nuovo
mondo all'Europa.
Genio, forza, natura bella oltre ogni altra e feconda, concento
d'aura e ineffabile sorriso di cieli, Dio tutto vi diede. Perchè non
vi diede la Patria? Perchè, mentre ogni abitatore delle terre che
inciviliste, interrogato del chi ei si sia, risponde alteramente:
sono Francese, sono Inglese, sono Spagnuolo, voi non potete
rispondere se non come espressione di desiderio: sono Italiano?
III.
Perchè voi mancaste e mancate tuttora di fede: di fede in voi
stessi, nel vostro Diritto, e nella vita collettiva e nella missione
della Nazione: Dio visita in voi un'antica colpa dei Padri che
finora non cancellaste.
I Padri vostri non ebbero coscienza di Patria. La vita fremente in
ciascuno d'essi era tanta, che essi si diedero ad adorarne la
potenza incarnata nell'individuo: dissero io, non noi. E disertarono
l'altare del Dio di tutti per farsi idolatri, gli uni della loro
Città, gli altri della loro Compagnia, altri dell'Arte che li
inspirava, altri d'altro: dimentichi tutti della Madre comune.
E perchè ogni vita, comunque potente, incontra, se non si rinnovi al
latte della Madre comune che ha nome Patria, la debolezza tra via,
alla grandezza d'una città sorse contro nimica la grandezza
d'un'altra, alla forza d'una mano di prodi quella d'altra mano di
prodi, e all'ardito concetto dell'artefice l'impotenza dei mezzi a
tradurlo in atto, i vostri padri, invece di stringersi a concordia e
cercar l'incremento della forza di ciascuno nella forza di tutti,
pensarono di vincersi gli uni cogli altri procacciandosi l'ajuto
dello straniero.
E gli uni chiamarono in ajuto d'oltr'alpe i figli della Germania ed
altri i Franchi ed altri gl'Ispani. E taluni, che si dissero Vicarî
di Dio sulla terra e furono veramente, negli ultimi seicento anni,
Vicarî del Genio del Male, fecero scienza di quel peccato, e
divisarono modo per cui due almeno di quei popoli stranieri si
trovassero sempre a fronte l'uno dell'altro sulla nostra terra,
tanto che nessuno potesse mai riunire in uno le membra sparte
d'Italia, ed essi potessero tiranneggiare securi sovra una parte o
sull'altra.
E per oltre a trecento anni, divisi in parti nomate di nomi non
nostri, i fratelli scannarono i fratelli con lancie e spade
straniere. Dio torse allora il suo sguardo da noi e decretò,
espiazione al fratricidio, una servitù d'oltre a trecento anni per
tutti.
Però che quelle genti straniere, stanche di combattersi, si
partirono le terre nostre come i crocefissori le vestimenta di
Cristo, e s'assisero dominatrici le une al mezzogiorno, l'altre al
settentrione, ed altre sul core d'Italia. E i primi che segnarono il
patto nefando furono un Imperatore di quella Casa maledetta in
Europa che gli uomini chiamano d'Austria, e uno di quei Vicarî del
Genio del Male dei quali fu detto poc'anzi. E lo segnarono sul
cadavere d'una delle più generose nostre città, che ultima aveva
serbato in Italia la sacra scintilla della libera vita.
Ma quella città aveva, duecento ventotto anni innanzi, condannato
all'esilio e alle pene dei malfattori l'uomo il più potente che mai
si fosse in Italia per intelletto ed amore, il quale fu il primo
Apostolo dell'Unità della Patria e padre di quanti esularono più
dopo per essa.
Ora voi durate anch'oggi nella colpa dei padri; e immemori dei
trecento anni di guerra fraterna che inaffiarono il vostro terreno
di sangue, immemori dei trecento anni di muto e codardo servaggio
che li seguirono, immemori degli insegnamenti che vi diedero, da
quel primo Potente in poi, i vostri Grandi di mente e i martiri che
patirono per infondervi la coscienza della vostra forza, aspettate
la Patria, in sembianza di mendicanti, dal beneplacito dello
straniero. Però Dio vi contende la Patria, e vi condanna a
trascinarvi di sogno in sogno, di delusione in delusione, poveri
Israeliti delle Nazioni, finchè, rinsaviti, non sentiate la forza
ch'è in voi, e non diciate, colla fronte levata al cielo e colle
destre impalmate sulle sepolture di quei che morirono per insegnarvi
a combattere e vincere: col nostro sangue, coll'armi nostre, o
Signore: ecco, noi incrocicchiamo, fratelli e pentiti, in nome del
Dovere e del Diritto Italiano, le spade, perchè tu benedica
dall'alto le sante nostre battaglie.
IV.
Come sasso che, precipitato dall'alto, rotoli a valle, raccoglie
scendendo ogni mota e sozzura che incontra sulla sua via e giunge al
fondo doppio di lurida mole, così la colpa inespiata dei padri,
trasmessa in voi di generazione in generazione, si è ingigantita di
corruttela e s'è fatta delitto mortale.
Però che i vostri padri non avevano, quando chiamavano gli
stranieri, coscienza di Patria comune: ma li chiamavano a sostenere
cupidigie di dominazioni e disegni torbidi di tirannide sui vicini.
Voi millantate intelletto ed amore di Patria, e chiamate, per
codarda sfiducia e temenza di sacrifici, gli uomini dell'altre terre
a edificarvela.
Essi erano increduli e ignari; voi siete consapevoli profanatori.
E i vostri padri, quando gli stranieri invocati calpestavano di
soverchio gl'improvvidi invocatori o insolentivano sui loro averi o
sui loro affetti, sentivano a rinsuperbirsi dentro l'orgoglio e le
fiere passioni degl'Italiani, e davano loro ricordi di sangue, pei
quali suonano tuttavia tremendi i nomi di Legnano, di Palermo, di
Forlì. Ma voi sceglieste in questi ultimi tempi, fra i potenti
stranieri, a simbolo delle vostre speranze di Patria, quello appunto
dalle cui mani gronda il sangue dei migliori tra i vostri giovani di
dieci anni addietro, spenti in Roma per l'armi sue, onde si
riponesse in seggio quel Vicario del Genio del Male, il cui nome
suona negazione di Patria e di Libertà.
E lo circondaste dell'entusiasmo con cui i buoni salutano in terra
il Genio consecrato dalla Virtù; baciaste il lembo della sua veste
usurpata e intrisa di sangue di prodi e pianto di madri, e lo
adoraste siccome idolatri diseredati di Dio e d'ogni lume di Verità
e di Giustizia.
Quel giorno, l'anime dei vostri martiri si velarono, per dolore e
vergogna, coll'ali; e le catene che ricingono i languenti nelle
prigioni per voi, solcarono di solco più grave le loro membra; e gli
angioli piansero in cielo; e i popoli in terra vi sospettarono
indegni per sempre d'assidervi, eguali, alla libera mensa delle
Nazioni.
Però che quell'uomo, mandato in terra sì come castigo alla Francia e
perchè i popoli si ravvedano d'ogni culto idolatra d'un nome
nell'avvenire, è il peggiore fra quanti tormentano in oggi l'Europa.
Il suo Genio è la conoscenza del male: la sua parola, menzogna: la
sua forza, tradimento e disprezzo d'ogni cosa nella quale gli uomini
ripongono fede ed amore. L'anima sua si libra, come pendolo nelle
mani di Satana, fra il Calcolo e la Voluttà. L'opere sue sono di
volpe e di jena.
E la sua tomba non avrà nome, ma solo due date: 1849-1851.
E le madri l'additeranno, passando, per lunghi anni ai loro bambini
come la tomba dello Spergiuro.
E a voi che, dopo averlo maledetto in nome di Roma e di Parigi, lo
acclamaste, in nome dei suoi cannoni e dei suoi fucilieri d'Africa,
magnanimo e redentore, bisogneranno molte e molte opere sublimi di
grandezza e di sacrificio, perchè l'Angelo dell'Espiazione cancelli
dal libro della vostra vita quel ricordo di colpa e di disonore.
V.
Non sia fraintesa, o fratelli, la mia parola da voi. Io so che da
quando l'Uomo che più amò sulla Terra protese di sulla croce le
braccia quasi a stringere in amplesso tutti i viventi e proferì la
parola ignota ai secoli che lo precedettero: perchè tutti, o Padre,
siam uno in te, Dio decretò che la voce straniero, come abitatore di
terra diversa, passerebbe dalla favella degli uomini, e solo
straniero sarebbe il malvagio.
Ma se voi guarderete attenti per entro le pagine della storia,
vedrete che appunto in quel tempo cominciò a prepararsi visibile
quel moto delle razze umane che dovea conchiudersi col loro riparto
ordinato sulle varie terre d'Europa a seconda del disegno che il
dito di Dio scolpiva, fin da quando la sottrasse alle acque, sulla
sua superficie.
Allora, quasi sommossa dall'eco di quella grande parola, la terra
sobbollì d'un immenso fermento. E come due Mari che si contendessero
il dominio dell'abisso, una metà del genere umano si rovesciò
sull'altra metà.
E dall'estremo settentrione, dall'oriente, da tutti i punti, come
sospinte da non so quale tempesta divina, tribù d'uomini strane e
fino allora ignote apparvero ad una ad una, sospingendosi,
accavallandosi a guisa d'onde gigantesche l'una sull'altra, avviate
da un'arcana potenza alla volta della Città dai sette Colli, nella
quale l'idea di Patria s'era incarnata da secoli.
E là s'urtavano, si mescevano, si confondevano, struggendo e
struggendosi. Era come un rotearsi d'elementi diversi per entro un
caos infinito; e gli uomini, impauriti, credevano imminente la fine
del Mondo, ma era invece la nascita d'un nuovo Mondo, che
s'elaborava in grembo a quel caos.
E dopo cento anni e più di quel rimescolamento di genti senza nome e
senza missione visibile, come un tempo la piena dell'acqua che
ricopriva il globo si concentrava, retrocedendo, in laghi, fiumi ed
oceani, si videro emergere dal turbinio delle moltitudini i Popoli,
collocati a seconda delle loro tendenze e del disegno di Dio dentro
a certi confini. E gli uni si chiamavano Ispani e gli altri Britanni
ed altri Franchi, altri, Germani, altri Polacchi, Moscoviti o con
altri nomi.
E sulla fronte a ciascuno splendeva un segno di missione speciale:
un segno che sulla fronte al Britanno diceva: Industria e Colonie;
sulla fronte al Polacco: Iniziazione Slava; sulla fronte al
Moscovita: Incivilimento dell'Asia; sulla fronte al Germano:
Pensiero; sulla fronte al Franco: Azione; e così di Popolo in
Popolo.
E quel segno era la Patria: la Patria di ciascun Popolo; il
battesimo, il simbolo della sua vita inviolabile fra le Nazioni.
E come, nella lingua che si parla in cielo e della quale noi
adoriamo un'eco sotto il nome di Musica, molte note formano
l'accordo - come di molte parole, ciascuna esprimente una idea, si
compone progressivamente la formula Religiosa che rappresenta
d'epoca in epoca il Verbo di Dio sulla Terra - così l'insieme di
tutte quelle missioni compite in bella e santa armonia pel bene
comune rappresenterà un giorno la Patria di tutti, la Patria delle
Patrie, l'Umanità.
E solamente allora la parola straniero passerà dalla favella degli
uomini; e l'uomo saluterà l'uomo, da qualunque parte gli si moverà
incontro, col dolce nome di fratello.
Così Dio v'insegna attraverso la Storia, ch'è l'incarnazione
successiva del suo disegno, che voi non conquisterete l'Umanità se
non quando ciascun Popolo avrà conquistata la Patria.
Però che l'individuo non può sperare di tradurre in atto, da sè solo
e colle sue fiacche forze, il vasto concetto della fratellanza di
tutti; ma gli è necessario ajutarsi delle forze, del consiglio e
dell'opera di quanti hanno con lui comuni lingua, tendenze,
tradizione, affetti e agevolezza di consorzio civile.
E chi volesse tentare senza quell'ajuto l'impresa, somiglierebbe
colui che volesse smovere l'inerzia d'un immenso ostacolo con una
leva senza punto d'appoggio. La Patria è il punto d'appoggio della
leva che si libra tra l'individuo e l'Umanità.
VI.
La Patria è una Missione, un Dovere comune. Or come mai potete
sperare di conquistarvi la Patria, se chiamate altri a compiere
quella Missione, ad eseguir quel Dovere?
La Patria è quella linea del disegno di Dio che Egli commise a voi
perchè la svolgiate e la traduciate in fatti visibili. Come dunque
potete meritare la Patria, invocando altri a svolgere quella parte
di disegno per voi?
La Patria è la vostra vita collettiva, la vita che annoda in una
tradizione di tendenze e d'affetti conformi tutte le generazioni che
sorsero, oprarono e passarono sul vostro suolo: - la vita che si
solleva in orgoglio nell'anima vostra davanti a un sasso staccato
dal Campidoglio o alla pietra di Portoria in Genova, con maggiore
impeto che non davanti alle piramidi Egizie o alla Colonna Vendôme
in Parigi: - la vita che, quando errate su terre poste al di là
dell'Oceano, v'annuvola l'occhio di lagrime se v'abbattete
subitamente in una lapide sulla quale sia scritto un nome italiano.
Come mai potete illudervi a credere che la rivelazione di questa
vita possa compirsi per opera d'uomini, nei quali è muta la voce di
quella tradizione e di quei ricordi, e ai quali s'agita in seno il
segreto d'un'altra Patria?
E la Patria è, prima d'ogni altra cosa, la coscienza della Patria.
Però che il terreno sul quale movono i vostri passi, e i confini che
la Natura pose fra la vostra e le terre altrui, e la dolce favella
che vi suona per entro, non sono che la forma visibile della Patria;
ma se l'anima della Patria non palpita in quel santuario della
vostra vita che ha nome Coscienza, quella forma rimane simile a
cadavere, senza moto ed alito di creazione, e voi siete turba senza
nome, non Nazione; gente, non Popolo. La parola Patria, scritta
dalla mano dello straniero sulla vostra bandiera, è vuota di senso,
com'era la parola Libertà, che taluni fra i vostri padri scrivevano
sulle porte delle prigioni.
La Patria è la fede nella Patria. Quando ciascuno di voi avrà quella
fede, e sarà presto a suggellarla col proprio sangue, allora
solamente voi avrete la Patria, non prima.
VII.
La Fede è Pensiero ed Azione. E lo sarà un giorno per tutti; ma lo è
fin d'oggi e segnatamente per voi.
Io vi dissi che quando, come membra del grande essere collettivo che
chiamasi Umanità, i diversi Popoli emersero, ciascuno colla sua
missione speciale, dal caos di mille anni addietro, Dio pose un
segno sulla fronte al Germano che significa Pensiero, e sulla fronte
al Franco un altro che significa Azione. Or sulla vostra Ei pose un
doppio segno che significa Pensiero ed Azione congiunti.
E quel doppio segno, ch'è la vostra missione ed il vostro battesimo
fra le Nazioni, era visibile sulla vostra fronte, mille anni innanzi
che gli altri Popoli fossero.
Però che voi, soli fino ad oggi fra tutti, aveste da Dio privilegio
di morire e rivivere, come gli uomini favoleggiarono della Fenice. E
alla Grecia soltanto, sorella nata ad un tempo colla nostra Italia,
fu dato riaffacciarsi, nell'ultimo mezzo secolo, alla seconda vita,
quando appunto cominciava per l'Italia ad albeggiare la terza.
Così, mentre il Germano move sulla terra col guardo perduto
nell'abisso dei cieli, e l'occhio del Franco si leva di rado in
alto, ma trascorre irrequieto e penetrante di cosa in cosa sulla
superficie terrestre, il Genio che ha in custodia i fati d'Italia
trapassò sempre rapido dall'Ideale al Reale, cercando d'antico come
potessero ricongiungersi terra e cielo.
Per virtù di quella Unità che annoda il cielo infinito, patria del
Pensiero, alla terra, patria dell'Azione, i padri dei vostri padri
conquistarono il mondo cognito allora; ogni loro Legione era una
missione armata; ogni vittoria era per essi decreto di Giove.
E, innanzi ad essi, i padri degli avi, che stanziavano fra Tevere e
Po e si chiamavano Etruschi, edificavano le loro città giusta il
concetto che si erano formati del cielo: ed ogni loro atto era
incarnazione d'un pensiero di religione.
E dopo d'essi venne una generazione d'uomini-capi - capi per
consenso e riverenza di popoli - i quali tentarono, per oltre a sei
secoli, la santa impresa di dar sulla terra trionfo alla Legge di
Dio sull'arbitrio degli uomini, al Pensiero ed alla Parola sulla
forza cieca e brutale; e stettero per tutta Europa, in nome
dell'Amore e della Giustizia, fra i Popoli e i padroni dei Popoli. E
l'ultimo e il più grande fra loro fu il figlio d'un falegname per
nome Ildebrando, frainteso anche oggi dai più. Poi, perchè il regno
di Dio non può scendere sulla terra se non per l'opera libera e pur
concorde di tutti, quegli uomini tradirono Popoli e Dio, e
fornicando cogli oppressori delle Nazioni, diventarono e sono
veramente i Vicarî del Genio del Male, da sterminarsi per sempre.
I vostri filosofi, i vostri sacerdoti del pensiero e dell'arte, non
sì tosto avevano afferrato colla mente un concetto di Vero, che
sentivano prepotente il bisogno di ridurlo a fatto, e furono, dagli
antichi Pitagorici a Tomaso Campanella, da Dante Alighieri a
Michelangiolo e Machiavelli, ordinatori di consorzî segreti,
legislatori di città o predicatori d'instituti sociali. E si
frammischiarono alle battaglie delle loro città, congiurarono contro
le tirannidi, affrontarono prigioni, esilî, torture. Contemplarono e
fecero.
E mentre altrove gli uomini ch'ebbero nome di riformatori di
Religione assalivano gli oppressori dell'anima, rispettando gli
oppressori dei corpi, ed erano Titani d'audacia contro la menzogna
violatrice del Cielo, maledicendo aspramente ai figli del popolo che
volevano cancellarla di sulla Terra, tra voi intesero che Spirito e
Corpo si confondono nella Vita, ch'è una, e morirono sui roghi per
aver tentato che la Verità di Dio trionfasse in atti visibili nella
fratellanza civile. E cento anni addietro, le vostre donne in
Firenze versavano ancora fiori, il ventitrè maggio d'ogni anno, sul
terreno dove era morto tra le fiamme un santo frate che sollevava,
or son tre secoli e mezzo, la bandiera dell'emancipazione religiosa
e della Repubblica.
Or voi, abbandonando in questo la tradizione del vostro popolo, e
perduta dietro a insegnamenti stranieri la memoria della missione
d'Unità il cui compimento deve farvi Nazione, avete smembrato la
vostra vita; e i più tra voi amano la Patria col solo pensiero,
commettendo l'opere che devono fondarla all'usurpatore straniero e a
quel misto d'impotenza e d'inganno che chiamano Diplomazia.
E la patria vi sfugge, e le speranze vi tornano di anno in anno in
delusioni amarissime e vergognose, però che le parole dei principi,
e sopratutto le promesse dello straniero, sono da tempo immemorabile
simili ai pomi dell'Asfaltide, belli all'occhio e cenere al dente; e
quando Dio disse all'uomo: tu ti ciberai del sudore della tua
fronte, Egli intese non solamente del pane del corpo, ma del pane
dell'anima, della Libertà e della Patria.
VIII.
Voi state sul limitare della terza vita d'Italia.
La prima vita d'Italia si diffuse pel mondo come alito fecondatore,
colla sola potenza dell'Azione: la seconda, colla sola potenza del
Pensiero e della Parola. Ed oggi la terza vita deve conquistare il
mondo a nuova universale concordia colla potenza del Pensiero e
dell'Azione, armonizzanti per opera dello Spirito di Giustizia e di
Amore.
Però, se nella prima vita vi bastò la spada, e nella seconda la
parola e l'esser presti a obbedire ad essa e morire per essa, voi
non potete ora varcare il limitare della terza vita, se non usando
la spada e testimoniando colla parola.
Dovete essere savî e forti: apostoli e militi.
Or la sapienza è il culto del Vero; e la forza è la fede nella
potenza del Vero.
E perchè la sapienza scenda sul vostro intelletto e la fede benedica
l'anima vostra, è necessario che invochiate l'una e l'altra con
intenzioni sante e con un core puro d'ogni bassa passione.
La Virtù è la sorella del Genio. E quando il culto idolatra dell'io
scaccia dall'anima la Virtù, che è lo spirito di sacrificio, l'anima
rovina in basso com'aquila a cui manchi l'ala, e il Genio s'arresta
a mezzo la via come stella cadente che illumina d'un solco di luce
lo spazio e subitamente sparisce.
E però l'uomo il più potente per Genio nei nostri tempi mostrò al
mondo attonito due vite in una: la prima, quand'ei rappresentava una
Idea; vita di concetti giganteschi e miracoli di vittorie; la
seconda, quand'egli, inebriato d'egoismo e di spregio, non
rappresentava che sè stesso; vita di errori e disfatte. E dalle
solitudini di Sant'Elena lo spirito di quel Potente manda a chi sa
intenderla una voce che dice: la corona delle vittorie immortali non
posa se non sulla tomba del forte, che, dimentico di sè stesso,
combatte sino all'ultimo giorno pel santo Vero e pel Diritto dei
Popoli.
Santificate dunque col sacrificio e coll'intrepida adorazione del
Vero l'anime vostre, se volete vincere i molti nemici che
s'attraversano tra voi e la terza vita d'Italia: l'Angelo della
Vittoria aborre dal fango dell'egoismo e della menzogna. Portate la
vostra credenza alteramente sulla bandiera, come i guerrieri dei
secoli addietro portavano sullo scudo la loro insegna. Come il tuono
tien dietro al lampo, così segua rapido ogni vostro pensiero
l'azione. Dio è grande perchè pensa operando. Ingigantite nella
fede: come il sonnambulo passeggia sicuro sull'orlo del tetto
perch'ei crede movere sulla carreggiata, e s'ei si desta e misura
l'abisso, impaurisce e precipita, così voi, se potenti di fede,
supererete ostacoli davanti ai quali, se trepidi e tentennanti,
cadrete. Non pensate a voi: vivete nel fine, nella coscienza del
Dovere, nel santo orgoglio del Diritto. E la costanza coroni l'unità
della vostra vita, come cupola il tempio. Siate uomini, e Dio sarà
Dio, cioè Padre e Proteggitore per voi.
La vostra è la più grande fra tutte le missioni terrestri; siate
grandi com'essa. Voi siete chiamati a un'opera emulatrice delle
opere di Dio: la creazione d'un Popolo. E vi conviene accostarvi a
Lui, quanto può la creatura finita, purificandovi, consacrandovi. I
giovani guerrieri dei tempi di mezzo vegliavano la notte in armi,
prostrati sul nudo marmo, nel digiuno e nella preghiera, prima
d'iniziarsi nella cavalleria. Ed essi non giuravano che ad un
signore, creatura mortale com'essi: voi giurate a Dio, alla Patria,
all'Umanità. E la loro ricompensa per le belle imprese era la
speranza che il loro nome passasse, suono fugace, a pochi posteri
nella canzone d'un trovatore; ma voi aspetta la lunga benedizione
delle generazioni che avranno Patria da voi, e la vostra memoria,
fatta tradizione d'onore, s'incarnerà nella vita progressiva di
tutta la vostra Nazione.
IX.
Ed io raccolsi, o giovani d'Italia, questi ricordi dalle sepolture
degli uomini che morirono per voi, interrogate con fremito di
riverenza e con un amore per voi tutti che nulla può spegnere. Però
che, come pietre miliari che segnano la via al grande intento, o più
veramente come le stelle che c'insegnano, splendendo nei cieli
mentre la tenebra fascia la terra, la virtù della serena costanza
nella sventura, apparvero sempre di tempo in tempo, fra gli errori
dei padri, uomini puri d'ogni falsa scienza e d'ogni egoismo, i
quali da Arnaldo e Crescenzio fino a Bentivegna e Carlo Pisacane,
raccolsero nelle grandi anime loro la voce che la Patria manda
invano da secoli a voi, e mantennero incontaminata la tradizione del
Genio Italiano: e, con essi, i martiri del pensiero che
soggiacquero, per calunnie, ingratitudine e oblio, alle torture
dell'anima, gravi quanto quelle del corpo. E ogni qual volta il
Popolo d'Italia, trasalendo sotto il suo lenzuolo di morte,
protestò, dalla Lega Lombarda e dai Vespri fino alle Cinque
Giornate, in nome della grandezza passata e della futura, fu
visitato dallo spirito che visse negli uomini dei quali io parlo.
E i giovani d'Italia, che furono innanzi a voi, avevano, or corre
quasi un terzo di secolo, raccolto quei ricordi con me. E con me
avevano fatto giuramento solenne di non obliarli((294)).
Ma poi, simile a nembo di locuste su campo fecondo, s'addensò sulla
regione Subalpina una gente senza fede, senza tombe di martiri,
senza tradizione fuorchè di tempi nei quali il servaggio si era
abbarbicato alle menti, che fece suo studio e vanto deridere quei
santi ricordi e l'entusiasmo dei giovani e la solennità dei
giuramenti prestati. E si diffuse rapida su tutte le città d'Italia
come lebbra su forma umana o crittogama sulle piante.
E fu veramente ed è tuttavia la crittogama o lebbra dell'anime.
Gente di mezzo intelletto, di mezza scienza e di nessun core. E gli
uni si chiamarono Dottrinarî, ciò che significa uomini che
millantano dottrina e non l'hanno: gli altri, moderati o fautori del
giusto mezzo, cioè tentennanti sempre tra la virtù e il vizio, tra
la verità e la menzogna; ed altri, pratici e aborrenti dalle teorie,
cioè corpi senza anima e cadaveri galvanizzati; ed altri con altro
nome. Ma tutti si riconoscevano, siccome appartenenti alla stessa
gente, dal nome barbaro d'opportunisti, cioè diseredati
d'iniziativa, eternamente passivi e presti a fare solamente
quand'altri ha fatto.
E rinnegarono il culto puro di Dio per adorare idoli di loro
fattura, come gli Ebrei nel deserto.
E gli uni si prostrarono davanti a un idolo che chiamarono Forza,
gli altri davanti a un altro che chiamarono Tattica, ed altri
davanti al pessimo fra tutti gl'idoli che ha nome Lucro.
E i primi escirono, strisciando siccome vermi che pullulano dal
cadavere d'un Potente, dalla sepoltura di Napoleone; i secondi
escirono dalla sepoltura profanata d'un nostro Grande frainteso,
che, dopo aver patito tortura per la libertà della Patria, l'aveva
veduta morire, e assiso sul suo cadavere s'era fatto storico delle
cagioni della sua morte; gli altri escirono ed escono dal fango dove
brulicano gli insetti senza nome, la cui vita non guarda al di là
dell'ora che fugge.
E insegnarono che solo diritto è il fatto, e solo creatore del fatto
l'arsenale dove s'accumulano strumenti di guerra; e le idee essere
nulla, e i grossi battaglioni d'assoldati ogni cosa: dimenticando
come il Potente dalla doppia vita, ch'ebbe ad arsenale l'Europa e ad
esercito gli eserciti di tutte le genti d'Europa, giacesse cadavere
di prigioniero in Sant'Elena, per avere, com'ei ripeteva morente,
camminato a ritroso delle idee del secolo.
Insegnarono, bestemmiando, che la virtù è nome vano, che la moralità
e la politica non sono sorelle, che il vero e l'errore sono
egualmente buoni, a seconda dei casi; e architettarono le teorie dei
delitti utili e della menzogna opportuna, ed altre siffatte,
predicando gli uomini doversi adattare ai tempi, come se i tempi
creassero gli uomini, e non questi i tempi.
Insegnarono che i popoli possono redimersi gridando or viva Cristo
or viva Barabba, e che il bandir oggi l'infamia e il capestro a
Giuda, e inneggiarlo magnanimo e augusto domani, e pianger pianto di
tenerezza per papa o re, susurrando all'orecchio degli avversi:
lasciate fare; forti, li rovescieremo; e accarezzare un dì i Popoli,
e l'altro, gli oppressori dei Popoli, e prima la Polonia, poi il
carnefice della Polonia, e invocare la libera Inghilterra un giorno
per maledirla perfida Albione appena giovi ad accattare il favore
della Francia, è scienza di Stato: non avvedendosi che a quel modo
si perde in ultimo l'ajuto di principi e Popoli, come gente che; non
avendo fede, non ne merita alcuna.
Insegnarono che alcuni popoli avendo, quando l'Europa intera era
barbara o semibarbara, conquistato lentamente e faticosamente, prima
un grado di civiltà, poi un altro ed un altro, tutti i popoli,
comunque sorgenti a Nazione in seno ad una Europa incivilita, devono
salire quella scala da capo, come se l'esperienza degli uni non
dovesse fruttare agli altri, e le verità scoperte da un Popolo non
fossero scoperte per tutti, e il faro acceso da una mano provvida
tra le roccie marine non diffondesse lume e consiglio ad ogni
navigatore che navighi per quella via.
Insegnarono che indipendenza può conquistarsi senza Unità e senza
vita di liberi, come se lo schiavo in casa potesse mai esser libero
dall'usurpazione altrui, come se l'animale aggiogato potesse
accettare un padrone e respinger l'altro, come se importasse
combattere per scegliere tra padrone e padrone.
E insegnarono le tre Italie, le quattro Italie, le cinque Italie, e
il forte Regno del Nord, e la Confederazione con semi-libertà a
Settentrione, e tirannide a Mezzogiorno, e autocrazia al Centro -
che è il sacco del parricida - come se Dio avesse creato l'Italia a
spicchî; e dimentichi che anche quel Grande frainteso, invocato da
essi come maestro, additava, supremo rimedio a tutte le piaghe di
Italia, l'Unità Nazionale.
E questa essi chiamarono scienza, ma io la chiamo impostura di falsi
profeti e rintonaco di sepolcri.
E dacchè Cristo v'insegnava di scernere i veri e i falsi profeti dai
frutti dell'opere loro, voi dovete guardare ai fatti che quelle loro
dottrine hanno generato finora; e sono: la consegna di Milano,
l'abbandono di Roma e la pace di Villafranca.
Ma poi che la costanza non è ancora virtù di popoli, e voi seduceva
il fascino della novità, e quelle dottrine blandivano nei più
l'inconscia tendenza ad accettare le vie che pajono più facili e
richiedono minore potenza di sacrificio, io vidi gemendo tutta una
generazione distaccarsi dalle tombe de' suoi martiri e plaudire
insana ai falsi profeti e seguirne le torte vie.
Allora ogni idea di rettitudine e di dignità d'anima fu smarrita, e
le menti s'abbujarono d'ogni sorta d'errori, tanto che s'udirono,
senza nota di pubblica infamia, fra gli adepti degli idolatri,
scribi di diarî e libercoli, taluni proporre che si comprasse
indipendenza dall'Austria a prezzo della libertà d'altri Popoli,
forti di sacri diritti come noi siamo; altri che si riscattasse
Venezia a danaro; altri esultare ogni giorno all'annunzio che si
commetterebbero le sorti d'Italia a un Convegno di despoti, ed altri
prostituire l'umana parola fino a paragonare alle creazioni di
Michelangelo l'uomo per il cui cenno caddero migliaja di libere vite
in Roma e Parigi; - poi, quando un popolo spense, in modo non
giusto, una vita di tristo, diventarono a un tratto ipocriti di
virtù e di clemenza, dichiararono disonorata l'Italia e lamentarono,
come se il mondo andasse sossopra.
E parve una danza di streghe dell'intelletto.
E al soffio gelato di quelle codarde dottrine, io vidi inaridirsi
l'entusiasmo, incadaverire l'anime più generose, ed uomini, che
avevano insieme a me consacrato metà della vita a suscitare i
giovani alla vera fede, patteggiare, nell'altra metà, coi capi degli
idolatri, ed erger cattedra a distruggere l'opera propria; ond'io
sentii nell'anima solitaria quel dolore che labbro non può ridire.
E pochi tra voi protestarono, sterilmente dignitosi, col silenzio,
ma i più cedettero, però che poche siano sulla nostra terra quelle
anime che ritraggono della natura degli angeli, e poche quelle che
rivelano natura pervertita di demoni, ma innumerevoli le anime dei
fiacchi, che seguono la corrente ovunque essa mova e alternano di
continuo fra il bene ed il male.
Or io vi dico:
In verità, in verità, così non si fonda Nazione; così si disfanno e
si disonorano i Popoli.
Tornate ai consigli dei vostri Martiri. Prostratevi tre volte sulle
loro tombe e tre volte supplicate, commossi di pentimento,
perch'essi spirino in voi la forza della quale mancaste. Poi sorgete
e, afferrato, come Cristo, il flagello, cacciate inesorabili fino
all'ultimo i trafficatori di sofismi, di protocolli e d'accoglienze
mutate in accettazioni, dal Tempio contaminato della coscienza
italiana. E dei libri, diarî e libercoli di che essi appestarono la
nostra contrada, fate cartuccie.
Voi non avrete d'ora innanzi, se vorrete davvero redimervi, altra
via che la linea retta, altra scienza che la verità senza veli,
altra tattica che il coraggio e l'ardire, altro Dio che il Dio della
Giustizia e delle Battaglie.
X.
Non vi sono cinque Italie, quattro Italie, tre Italie. Non vi è che
una Italia. I tiranni stranieri e domestici l'hanno tenuta e la
tengono tuttavia serva e smembrata, perchè i tiranni non hanno
patria; ma qualunque tra voi intendesse a smembrarla redenta, o
accettasse, senza lotta di sangue, ch'altri la smembrasse, sarebbe
reo di matricidio e non meriterebbe perdono in terra nè in cielo.
La Patria è una come la Vita. La Patria è la Vita del Popolo.
Dio ve la diede; gli uomini non possono a modo loro rifarla. Gli
uomini possono, tiranneggiando, impedirle per breve tempo ancora di
sorgere; ma non possono far ch'essa sorga libera, oppur diversa da
quel ch'essa è.
Dio che, creandola, sorrise sovr'essa, le assegnò per confine le due
più sublimi cose ch'ei ponesse in Europa, simboli dell'eterna Forza
e dell'eterno Moto, l'Alpi ed il Mare. Sia tre volte maledetto da
voi e da quanti verranno dopo voi qualunque presumesse di segnarle
confini diversi.
Dalla cerchia immensa dell'Alpi, simile alla colonna di vertebre che
costituisce l'unità della forma umana, scende una catena mirabile di
continue giogaje, che si stende sin dove il mare la bagna e più
oltre nella divelta Sicilia.
E il mare la recinge quasi d'abbraccio amoroso ovunque l'Alpi non la
ricingono; quel mare che i padri dei padri chiamavano Mare nostro.
E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad
essa, in quel mare, Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori
isole, dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito
d'anime parlan d'Italia.
Per entro a quei confini tutte le genti passeggiarono l'una dopo
l'altra conquistatrici e persecutrici feroci; e non valsero a
spegnere quel nome santo d'Italia, nè l'intima energia della razza
che prima la popolò; l'elemento Italico, più potente di tutte,
logorò religioni, favelle, tendenze dei conquistatori, e sovrappose
ad esse l'impronta della Vita Italiana.
Per entro a quei confini tremende guerre fraterne insanguinarono per
secoli ogni palmo di terra. E mentre i pedanti scribi di diarî e
libercoli edificavano poc'anzi, su quelle guerre, sistemi a
dichiarare utopia l'unità della nostra vita, ecco i popoli sorgono e
gridano: siamo fratelli, e anelano confondersi in uno, e si danno,
colla foga imprudente del desiderio, ad un principe, solo perchè
sperano ch'ei si faccia simbolo vivente di quella Unità.
In verità, colui che nega l'Unità della Patria non intende la Parola
di Dio, nè quella degli uomini.
Voi dovete vivere e morire in quella Unità, però che in essa stanno
per voi la Forza e la Pace, il segreto della vostra missione e la
potenza per adempirla. Qualunque tra voi sorge a libertà, sappia
ch'ei sorge per tutti. Incarni ciascuno in sè i dolori, le speranze,
le memorie, il palpito d'avvenire di quanti respirano l'alito che si
ricambia dall'Alpi al Mare e dal Mare alle Alpi. Fra l'Alpi e il
Mare non sono che fratelli. E la maledizione di Caino aspetta
qualunque dimentichi che, mentre un solo dei suoi fratelli geme
nell'abjezione della servitù e non posa tranquillo e lieto d'amore
sotto la sacra bandiera dei tre colori, ei non può aver Patria, nè
merita averla.
XI.
Venite meco. Seguitemi dove comincia la vasta campagna che fu, or
son tredici secoli, il convegno delle razze umane, perch'io vi
ricordi dove batte il core d'Italia.
Là scesero Goti, Ostrogoti, Eruli, Longobardi, ed altri infiniti,
barbari o quasi, a ricevere inconscî la consecrazione dell'Italica
civiltà, prima di riporsi in viaggio per le diverse contrade
d'Europa; e la polve che il viandante scote dai suoi calzari è polve
di Popoli. Muta è la vasta campagna, e sull'ampia solitudine erra un
silenzio che ingombra l'animo di tristezza, come a chi mova per
camposanto. Ma chi, nudrito di forti pensieri, purificato dalla
sventura, s'arresta nella solitudine a sera, poi che il sole ha
mandato dalla lunga ondeggiante curva dell'orizzonte l'ultimo raggio
sovr'essa, sente sotto i suoi piedi come un murmure indistinto di
vita in fermento, come un brulichìo di generazioni che aspettano il
fiat d'una parola potente, per nascere e ripopolare quei luoghi che
pajono fatti per un Concilio di Popoli. Ed io intesi quel fremito e
mi prostrai, però che mi pareva un suono profetico dell'Avvenire.
Là, per la via che ricorda il nome d'uno dei forti uccisori di
Cesare, e si stende fra tufi di vulcani spenti e reliquie
d'Etruschi, tra Monterosi e la Storta, presso al lago, è Bracciano.
Sostate e spingete fin dove vale lo sguardo verso mezzogiorno,
piegando al Mediterraneo. Di mezzo all'immenso, vi sorgerà davanti
allo sguardo, come faro in oceano, un punto isolato, un segno di
lontana grandezza. Piegate il ginocchio e adorate: là batte il core
d'Italia: là posa, eternamente solenne, Roma.
E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a
pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano. E quei due Mondi
giacenti aspettano un terzo Mondo, più vasto e sublime dei due, che
s'elabora tra le potenti rovine.
Ed è la Trinità della Storia, il cui Verbo è in Roma.
E i tiranni o i falsi profeti possono indugiare l'incarnazione del
Verbo, ma nessuno può far che non sia.
Però che molte città perirono sulla terra e tutte possono alla lor
volta perire; Roma, per disegno di Provvidenza indovinato dai
popoli, è Città Eterna, come quella alla quale fu affidata la
missione di diffondere al mondo la parola d'Unità. E la sua vita si
riproduce ampliandosi.
E come alla Roma dei Cesari, che unificò coll'Azione gran parte
d'Europa, sottentrò la Roma dei Papi che unificò col Pensiero
l'Europa e l'America, così la Roma del Popolo, che sottentrerà
all'altre due, unificherà nella fede del Pensiero e dell'Azione
congiunti l'Europa, l'America e l'altre parti del mondo terrestre.
E col patto della Nuova Fede raggiante un dì sulle genti dal Panteon
dell'Umanità, che s'inalzerà, dominatore sull'uno e sull'altro, tra
il Campidoglio ed il Vaticano, sparirà nell'armonia della vita il
lungo dissidio fra terra e cielo, corpo ed anima, materia e spirito,
ragione e fede.
E queste cose avverranno quando voi intenderete che la Vita d'un
popolo è religione - quando, interrogando unicamente la vostra
coscienza e la tradizione, non dei sofisti, ma della vostra Nazione
e delle altre, vi costituirete sacerdoti, non del solo Diritto, ma
del Dovere, e senza transazioni codarde moverete guerra, non
solamente alla potenza civile della Menzogna, ma alla Menzogna
stessa che usurpa oggi in Roma il nome d'Autorità - quando
raccoglierete il grido profetico che Roma ridesta mandava, or son
dieci anni, all'Italia, e scriverete nel vostro core e sulla vostra
bandiera: noi non abbiamo che un solo padrone nel cielo, ch'è Dio, e
un solo interprete della sua legge in terra, ch'è il Popolo.
Intanto Roma è la vostra Metropoli. Voi non potete aver Patria se
non in essa e con essa. Senza Roma non v'è Italia possibile. Là sta
il Santuario della Nazione. Come i Crociati movevano al grido di
Gerusalemme! voi dovete movere innanzi al grido di Roma, Roma! nè
aver pace o tregua, se non quando la bandiera d'Italia sventoli
nell'orgoglio della vittoria da ciascuno dei Sette Colli.
E qualunque s'attentasse parlarvi d'una Italia senza Roma a centro,
o dettarvi leggi d'altrove, sarebbe simile a chi volesse ideare vita
senza core; e leggi e potenza sparirebbero, al primo soffio di
tempesta, dalle sue mani, come spariscono, cacciati non si sa dove
dall'alito più leggiero, quei filamenti ch'errano talvolta, senza
base e centro, per alcuni istanti nell'aria.
XII.
La Patria è la Vita del Popolo: io dico vita del popolo e non
d'altrui. È necessario che quella vita si svolga liberamente e in
tutte le sue facoltà, senza vincoli che la incatenino, senza
ostacoli di condizioni che la isteriliscano e la condannino
all'impotenza.
Adorate dunque la Libertà. A che gioverebbe aver Patria se
l'individuo non dovesse trovare in essa e nella sua forza collettiva
la tutela della propria libera vita? Come potreste servire la Patria
e giovarle, se doveste vivere a beneplacito d'altri? È forse la
prigione Patria del prigioniero?
Adorate la Libertà. Rivendicatela fin dal primo sorgere, e serbatela
gelosamente intatta, siccome pegno della vittoria, nelle battaglie
che dovete combattere per la Patria. Non vi fate mai d'altri.
Abbiate capi i migliori tra voi, padroni non mai. Però che voi non
potete darvi padroni, senza sagrificio del fine a cui tendete
sorgendo. E quando voi direte: la patria dell'Italiano è tra l'Alpi
e il Mare, i padroni vi diranno: no; la Patria è tra il Mincio e il
Conca; quando griderete: a Roma! a Roma! i padroni vi grideranno: a
Milano! o a Torino! E quando l'anima vostra fremerà guerra per
tutti, i padroni e i servi dei padroni, che sempre abbondano e sono
gli adoratori dell'Idolo Lucro, raccoglieranno Congressi di re
stranieri per decidere, a seconda dei loro fini, sulle cose vostre;
e v'impediranno la guerra.
Quei che vi dicono: voi dovete avere prima Indipendenza, poi Patria,
poi Libertà, o sono stolti o pensano a tradirvi e a non darvi nè
Libertà, nè Patria, nè Indipendenza. Però che l'Indipendenza è
l'emancipazione dalla tirannide straniera, e la libertà è
l'emancipazione dalla tirannide domestica; or, finchè, domestica o
straniera, voi avete tirannide, come potete aver Patria? La Patria è
la casa dell'Uomo, non dello schiavo.
E quei che vi persuadono, come mezzo d'ottener vittoria sollecita,
Dittatura di re e capi d'esercito, o sono stolti, o pensano, fin dal
cominciar dell'impresa, a tradirvi. Perchè, come può agevolarsi
l'impresa di tutti affidandola a un solo non sottoposto a sindacato
d'alcuno? I vostri padri creavano talora, nei sommi pericoli,
Dittatori, ma li sceglievano tra cittadini addetti al foro, all'armi
o all'aratro; e ponevano dietro ad essi il littore del Popolo colla
scure in alto, e presto a colpire s'ei tradiva o abbandonava, prima
d'aver vinto, impresa.
La libertà vi viene da Dio; e voi non potete alienarla senza
violarne la Legge. Voi siete liberi perchè siete Uomini, e perchè
dovete conto alla Patria e a Dio dell'opere vostre. Voi dunque
affermerete la vostra Libertà, non, come i falsi profeti vi
suggeriscono, in virtù di qualche vecchia pergamena che ne faccia
menzione - ciò che una pergamena vi dà un'altra pergamena può
torvelo - nè di concessioni di principi, che una lunga storia di
tradimenti v'insegna revocarsi sempre il dì dopo, o l'altro, - ma in
nome dell'irrevocabile Diritto umano. E vi leverete col grido: colla
nostra Libertà per la Patria.
E se, dimenticando la buona vecchia tradizione Italiana e la storia
degli ultimi cinquanta anni e le parole che Dio disse a Samuele
profeta, volete pur darvi un re, sia almeno quel re il figlio,
l'eletto della vostra Libertà e riceva, insieme al Patto che i
vostri Delegati liberamente raccolti scriveranno in Roma per la
Nazione, la sua corona da voi, e il vostro linguaggio gl'insegni ad
ogni ora ch'ei l'ebbe da voi e che potete e vorrete ritoglierla
ogniqualvolta ei falserà quel Patto, o a voi piacerà governarvi in
modo più affine al Vero e più favorevole ai fati della Patria
vostra.
Gli antichi uomini dell'Arragona, quando l'Arragona era libera,
dicevano al Re ch'essi eleggevano: noi che, singoli, vi siamo
eguali, e uniti possiamo più di voi, vi facciamo re nostro, a patto
che voi manteniate i nostri diritti e le nostre libertà. E se no,
no.
E voi all'uomo che s'assume d'esservi re dovreste dire: a patto che
voi poniate, senza indugio, esercito, tesori, opera e vita a
servizio di tutta quanta l'Italia, e rompiate ogni vincolo che non
sia col Popolo d'Italia, e domandiate tre volte perdono a Dio e
all'Italia d'aver lasciato che si contaminasse la Patria
dall'alleanza coll'uomo che versò, in nome della tirannide, il
sangue di Roma. E se no, no.
Ma trascinandovi sommessi davanti a lui col turibolo dell'adulazione
servile e chiamandolo Grande, Salvatore e Generosissimo, mentre non
è secco ancora l'inchiostro che firmò la pace di Villafranca, e
benedicendogli mentr'ei vi riceve in dedizione feudale dal tiranno
straniero, e illudendovi a tradurre le accoglienze in accettazioni,
voi non fate se non disonorare voi stessi e lui, e insegnargli che
siete pur sempre schiavi, e incitarlo a tradire il debito suo.
Però che da tempo immemorabile i violatori del Dovere e delle
promesse e dei diritti dei Popoli, escirono generati, più che da
natura perversa, dalla codarda idolatria e servile adorazione dei
popoli che tradivano la propria coscienza e la dignità dell'anima
loro immortale.
XIII.
V'hanno detto che l'unico vostro grido deve essere in oggi: fuori lo
straniero! viva l'Indipendenza! Ma io vi dico che non otterrete
Patria se non quando il vostro grido sarà: fuori la tirannide viva
l'Unità Nazionale!! Quel grido di fuori lo straniero non è che
un'eco misera del grido fuori il barbaro! che nei secoli addietro
ogni papa o principe, a cui stava in animo d'occupare un qualche
lembo della vostra terra, mandava, sorridendo celatamente di
scherno, ai poveri popoli illusi. E fu trovato di sofisti idolatri,
che intesero a sviarvi dal vero sogno e serbarvi, allettandovi
dietro a un fantasma d'emancipazione, facile preda a ogni
dominazione di principi e cortigiani.
V'hanno detto che voi siete servi dell'Austria e che prima di
provvedere alle vostre sorti d'uomini e di cittadini, v'è d'uopo
attendere a liberarvene. Ma io vi dico, ed altri vi ha detto, che
voi siete servi dei vostri servi; servi del re che tiene le belle e
forti regioni del Mezzogiorno: servi del Vicario del Genio del Male:
servi di meschine trepide ambizioni dinastiche: servi di prelati, di
cortigiani, faccendieri e sofisti, che immiseriscono le vostro
guerre, incatenano colle vecchie tradizioni e colle gerarchie
d'anticamera il genio dei vostri militi, intorpidiscono le vostre
facoltà e ammorzano il vostro entusiasmo con polvere e fango di
protocolli: servi di governucci diseredati egualmente di pensiero e
di azione, i quali regolano il vostro moto nazionale colle forme
d'una vecchia danza di corte, e, con un popolo fremente innanzi,
dissertano sull'accogliere o sull'accettare, e sopra ogni sillaba
venuta da Biarritz o da altro ricettacolo di Despota traditore, come
i Greci del Basso-Impero dissertavano, morente la Patria, sulla luce
che veniva o non veniva dall'ombelico.
Emancipatevi, in nome della Libertà, da tutti costoro - da quei che
mandano deputazioni a regnanti stranieri per chieder loro permesso
di vivere liberi - da quei che smembrano la Causa d'Italia,
restringendo ad una o ad altra zona della vostra terra i diritti
trepidamente enunziati - da quei che spendono la vostra polvere da
cannone, non contro il nemico, ma per celebrare i benefizî e le
glorie d'una annessione ch'è favola - da quei che vi dicono: sperate
nell'uomo di Villafranca, nello Tsar, nel Convegno futuro dei
Principi, invece di dirvi: sperate in voi stessi, nelle vostre
bajonette, nel diritto Italiano e nel Dio di Giustizia - da quei che
dicono a chi parla d'insorgere: sostate sino al finir delle
Conferenze in Zurigo o sino al cominciare delle Conferenze in
Bruxelles - da quei che v'hanno detto: durate immobili, mentre si
vendeva a Venezia o si scannava in Perugia - da quei che vi vietano,
mentre ogni giorno che corre frutta proscrizione ai nostri e
ordinamento di forza al nemico, di varcar la Cattolica - da quei che
si dicono chiamati a governare una impresa di libertà, e, perchè non
s'impaurisca il dispotismo straniero, vi vietano libertà di parola,
di pubblici convegni, di stampa. Ruggite e sperdeteli. Non avrete
allora da temer l'Austria.
Voi sperdeste l'Austria dieci anni addietro colla campana a stormo e
colle barricate d'una provincia, e non si rifece potente - lo
diceste tutti in quel tempo - se non per le colpe degli stessi
sofisti e faccendieri di corte che oggi rigovernano le cose vostre.
Perchè non la sperderebbero la campana a stormo e le barricate di
tutta Italia?
Non è la forza, prima nel Diritto e nei fermi propositi, poscia nel
numero? Or come dunque osano i sofisti dirvi che siete troppo deboli
per pensare ad altro che a cacciar l'Austria, e limitano intanto il
vostro numero e le vostre forze, confinandovi per entro al recinto
di poche provincie e contendendovi la vasta, la forte, l'onnipotente
Italia?
Libertà! Libertà! Siate liberi come l'aria delle vostre Alpi: liberi
come le brezze dei vostri mari: liberi per seguir capi i quali osino
e sappian guidarvi: liberi per combattere: liberi per suscitare,
coll'armi e con tutti i mezzi che Dio vi ha profusi, l'Italia tutta
ad insorgere: liberi d'infervorarvi a vicenda coi convegni fraterni
e di chiamare lo spirito di Dio sulle turbe raccolte: liberi di
vivere e morir per la patria, non per un frammento di Regno o per
una Italia a mosaico, col marchio di servitù su Napoli, Palermo,
Venezia e Roma.
XIV.
D'onde vengono, ove vanno quegli uomini che hanno sembianza di
prodi, e nondimeno portano come un segno di sconfitta sulla pallida
fronte e movono verso il mar di Liguria, tristi come vittime
consecrate? Perchè trasaliscono muti alle parole Eljen a' Magyar,
mormorate sommessamente al loro orecchio, come da chi si sente
involontariamente colpevole?
Sono figli della Drava e dei Carpati: Ungheresi ch'erano pochi mesi
addietro nelle file nemiche.
Soldati e prodi, essi s'apprestavano al debito loro nella battaglia;
ma quando si videro a fronte la bella bandiera dai tre colori, e
udirono il grido all'armi! d'Italia, sentirono un brivido nell'ossa,
come s'essi movessero a guerra fraterna, e calarono l'armi e
s'arresero.
Ricordarono le libere pugne di dieci anni prima contro l'oppressore
della loro terra, e che in quel tempo anche in Italia si combatteva
quell'oppressore, ch'è oppressore di tutte le terre ove pone piede.
Ricordarono le glorie dei padri combattenti la minaccia
dell'invasore Ottomano, e Venezia che combatteva anch'essa le
battaglie Cristiane quando le combattevano i padri. Ricordarono i
vestigi dell'antica civiltà Italica diffusi per le loro terre, e i
patti di fratellanza stretti nell'esilio fra uomini immedesimati
nelle comuni sventure e nelle comuni speranze.
E ciascuno di loro disse all'altro: là, dove si combatte per
l'emancipazione d'un Popolo, è sacra l'emancipazione di tutti: ogni
uomo della libera Italia sarà un fratello per noi, e moveremo uniti
in nome della loro e della nostra Nazione. E cessero l'armi per
ripigliarle sotto più giusta bandiera il dì dopo.
Ed ora movono lentamente, tristamente, smarriti dell'anima, incerti
nella fede, verso quelle terre d'Austria dove sognavano di non
tornare che vincitori, a incontrarvi gli scherni e la persecuzione
dell'oppressore.
Però che dov'essi credevano trovare un popolo di fratelli, e
combattere uniti le battaglie della Patria, trovarono una gente
aggirata da idolatri e sofisti, combattente senza saperlo, per un
frammento di Regno, e reggitori di rivoluzioni tremanti davanti al
cipiglio dello straniero e ministri commessi di corte che dissero
loro: tornate; noi v'abbiamo ottenuto perdono dall'Austria.
Ed io mi sento il rossore su per le guancie, scrivendo; e voi tutti
dovreste arrossire, leggendo.
Addio, poveri illusi figli della Drava e dei Carpati. Voi faceste
atto solenne di fede; e veniste fra noi per insegnarci come
l'Austria sia debole, e come quel fantasma di potenza, in nome del
quale i traviatori del nostro moto ci chiedono di rinunziare alla
libertà, all'unità, a tutto ch'è caro ad un popolo, sfumerà come
neve tocca dal sole, quando tra noi una bandiera di popolo porterà
scritto: per la nostra libertà e per la vostra. Ma gli uomini, ch'or
reggono e traviano il nostro moto, non possono intendere la santità
della vostra fede e non vogliono raccogliere l'insegnamento. Non ci
maledite: gemete per voi e per noi. Il Popolo d'Italia è ora cieco,
non vile.
Ma il Popolo d'Italia sorgerà, come Lazzaro, dal sepolcro d'inerzia
ove giace, dopo brevi giorni di sonno. E fin dalla prima ora del
risorgere, esso ricorderà il patto d'alleanza che voi gli offriste e
i suoi forti si trasmetteranno di fila in fila la parola della
battaglia: Roma - Pesth.
E a quel grido, da Pesth a Praga, da Praga a Zagreb, da Zagreb a
Lemberg, da Lemberg a Cattaro, sorgeranno nemici all'Austria e
diranno: noi pure, noi pure! E il nome dal vecchio Impero sparirà
nella tempesta d'un giorno.
XV.
Voi siete ventisei milioni d'uomini, circondati da una Europa di
Popoli oppressi, che, come voi, cercano la Patria e come voi
provarono d'esser potenti, desti una volta che siano, a rovesciare i
loro padroni. Non entrerà mai dunque in voi coscienza dalla vostra
forza? Non intenderete voi mai che il giorno in cui, invece di
gemere e supplicare, in nome dei vostri patimenti e di non so quali
diritti locali, una dramma di libertà, delibererete di sorgere e
dire: in nome della natura umana e del Diritto Italiano, vogliamo
Libertà e Patria per noi e per quanti s'affratelleranno in armi con
noi, voi sarete iniziatori della Guerra delle Nazioni, e tanto forti
da far tremare sulle loro sedi tutti i Potenti d'Europa?
Voi potete, il giorno in cui due uomini sopra ogni cento fra voi
vorranno star tre mesi sull'armi, due terzi all'aperto e l'altro
terzo a guardia delle barricate cittadine, appoggiare le vostre
richieste o la vostra chiamata all'Europa con un mezzo milione di
combattenti. Non intenderete voi mai che un mezzo milione d'uomini,
levati in armi per una idea santa di verità e di giustizia, può ciò
che vuole? che la vittoria è sua senza i danni inseparabili da ogni
vittoria cercata da forze minori? che le sorti d'Europa stanno
raccolte per entro le pieghe della sua bandiera?
XVI.
Non dite: l'Europa è più vasta della nostra contrada e può mettere
in armi un maggior numero di combattenti, e li verserà contro noi.
Due milioni d'armati in nome della tirannide non prevalgono contro
un mezzo milione d'armati per la Libertà e per la Patria, accampati
su terra loro, tra le sepolture dei loro martiri e i grandi ricordi
dei loro padri. Ma in verità io vi dico che davanti allo spettacolo
d'un Popolo fatto Principio e procedente col ferro nella destra e il
Vangelo Eterno, libertà, vita, progresso, associazione, fratellanza
delle Nazioni, nella sinistra, i due milioni d'Europa non moveranno
contro voi, ma contro i despoti che s'attentassero d'assalirvi.
Quando, undici anni addietro, la Francia si riscosse dal lungo sonno
in cui l'avean posta i padri dei sofisti idolatri ch'oggi pesano sui
vostri moti, una lunga tremenda corrente elettrica corse
Francoforte, Berlino, Pesth, Vienna, Milano, e pose a pericolo tutti
i troni d'Europa, perchè i Popoli, ricordando la Francia del 1789 e
commossi dalla potente parola che suonava attraverso la nuova
riscossa, credettero che un principio sorgesse e salutarono con
impeto la vita che doveva discenderne a tutti.
E quel che la Francia, sorgendo, produsse allora, voi, come ogni
altro Popolo, potete, sorgendo, produrlo in oggi. Però che, non quel
che i Popoli sono per numero o concentramento di forze, ma quel che
i Popoli fanno è, per decreto di provvidenza, norma generatrice agli
eventi; e mentre la Monarchia di Spagna co' suoi vasti dominî sui
quali non era tramonto di sole, non lasciò segno nel mondo fuorchè
di roghi e d'ossa di vittime, i piccoli Comuni d'Italia diffusero
sull'Europa un solco immortale d'incivilimento e di libertà.
Porgete attento l'orecchio, e ditemi se non udite un cupo rumore che
viene come di sotterra, un fremito come di marea che salga, un'eco
indistinta come di lavoro che scavi le fondamenta delle Potenze
terrestri.
Guardate in volto ai padroni del mondo e ai servi dei padroni del
mondo, e ditemi se le pallide fronti e il guardo irrequieto dei
primi e l'affaccendarsi convulso di qua, di là, di su, di giù per le
vie dell'inferno che chiamano Diplomazia, non accennino a
presentimento di rovina, a terrore d'ineluttabili fati.
Essi tremano nell'anima loro, come per freddo di morte imminente,
perchè sentono il fremito di quella terza vita d'Italia, ch'io
v'annunziava poc'anzi e che, quando si manifesti nel mondo, sperderà
la turba di Fantasmi e Menzogne colla quale essi sviano i Popoli
dalla vera via.
E contemplate, studiando, l'Europa al lume, non delle lanterne
cieche degli angusti sistemi e delle false dottrine, ma della
fiaccola ardente della verità; poi ditemi, se nel culto invadente
della materia, nello scherno versato sulle vecchie credenze,
nell'anelito a nuove tuttora ignote, nel pazzo e breve affollarsi
dei molti intorno ad ogni più strano concetto, nel silenzio paziente
dei pochi, nel contrasto fra il martirio degli uni e l'indifferenza
degli altri, nelle filosofie congegnate a mosaico, nell'inaspettato
riapparire di vecchie Potenze che il mondo credeva spente per
sempre, nel disfacimento visibile d'antichi Imperi che il mondo
credeva immortali, nell'agitarsi sovra ogni terra dei milioni che
lavoravano finora muti, inconscî, pei pochi, e nel dolore senza nome
che invade l'anime giovani, e nelle gioje profetiche che illuminano
subitamente l'anime stanche, non ravvisiate i segni della morte d'un
Mondo e del faticoso accostarsi alla vita, d'un altro.
Io vi dico che, come quando morivano gli Dei Pagani e nasceva
Cristo, l'Europa è oggi assetata d'una nuova vita e d'un nuovo Cielo
e d'una nuova Terra; e ch'essa si verserà, come a santa Crociata,
sull'orme del primo Popolo dal quale escirà, sopportata da forti
fatti, una voce banditrice d'adorazione all'eterno Vero, all'eterna
Giustizia, e d'anatema alla Potenza che opprime e alla Menzogna che
mentisce o prostituisce la vita.
Siate voi quella voce e quell'esempio vivente. Voi lo potete. E
l'Europa coronerà la vostra Patria d'una corona d'amore sulla quale
Dio scriverà: guai a chi la tocca!
Ma finchè l'Europa vi vedrà agitati pur trepidi sempre, frementi pur
prostrati davanti agli idoli, e apostoli o accettatori ipocriti di
menzogna e chiedenti a principi o a convegni di stranieri la terra
ch'è vostra, essa dirà: non è un popolo che si desta, ma un infermo
che muta lato; e i dubbî piccoli fatti, che si compiranno nella
vostra contrada, non saranno argomento se non di ciarle diplomatiche
a raggiratori, o di speculazioni devote all'idolo Lucro in
quell'antro di rapina che, con vocabolo gallico, chiamano Borsa.
XVII.
Non dite: il nostro Popolo non è maturo pei sacrifici e per
l'entusiasmo che si richiedono alla grande impresa. Il Popolo è di
chi merita d'averlo con sè. E dopo i miracoli operati dal Popolo
d'Italia per solo istinto di Patria, nel 1848 per ogni dove, e nel
1849 in Roma e Venezia, chi parla in siffatta guisa del Popolo
d'Italia, in verità, è reo di bestemmia.
E allora, non era in esso, come or dissi, che istinto e non altro di
Patria. Però che, da poche anime buone in fuori che s'erano
accostate ad esso con amore, ma gli avevano, insieme a qualche parte
di Vero, insegnato la triste e inerte rassegnazione, nessuno avea
cercato educarlo e affratellarlo in comunione d'idee con chi gli sta
sopra.
Ma d'allora in poi, mentre voi guardate freddi dall'alto di un falso
sapere su ciò che chiamate tuttora, come se foste Pagani, il vulgo
profano, molte anime buone, alle quali la tradizione dell'Umanità
collettiva ha dato l'intuizione dell'avvenire, hanno stretto con
amore le mani incallite degli uomini del lavoro e hanno parlato ad
essi come fratelli, e gli uomini del lavoro le conoscono e le
ricambiano d'amore e possono sviarsi per breve tempo da esse, ma
ogni qual volta le troveranno sulla loro via, le seguiranno con
profonda fiducia.
E poi che nel popolo delle vostre città la coscienza s'è aggiunta
all'istinto di Patria, e Dio, che segnò le diverse epoche della Vita
coll'emancipazione degli schiavi dapprima, poi con quella dei servi,
vuole che sia battesimo dell'epoca nuova l'emancipazione dei poveri
figli del lavoro, io vi dico, non per vezzo d'adulazione alle
moltitudini, ma in puro spirito di verità, che oggi il popolo delle
vostre città è migliore di voi, che il mondo chiama letterati e
filosofi, e di me che scrivo.
Però che voi ed io possiamo avere virtù, ch'è lotta e fatica,
laddove nel Popolo, fanciullo dell'Umanità, vive e respira la
spontaneità dell'innocenza, ch'è la virtù inconscia; e mentre in voi
ed in me alloggiano forse orgoglio d'intelletto violato dalla
tirannide e vaghezza di fama, il Popolo more ignoto sulle barricate
cittadine, senza onore di tomba, senza orgoglio fuorchè della sua
terra, senza speranza fuorchè pei figli ch'ei confida commettere a
fati men duri.
E mentre voi ed io, guasti dai conforti dell'esistenza o da lunghi
studî su morte pagine, andiamo calcolando sulle maggiori o minori
probabilità di vittoria nelle battaglie pel Giusto e pel Vero, e
tentennando e indugiando finchè il nemico s'avveda del colpo che
vorremmo vibrargli, il Popolo, che non conosce libro fuorchè quello
della Vita e accoglie in sè più gran parte della tradizione italiana
che congiunge in uno il pensiero e l'azione, vibra il colpo
subitamente e coglie sprovveduto il nemico.
E se il popolo delle vostre campagne è da meno, dipende da questo
che, abbandonato interamente da voi e lontano anche da quel riflesso
di pensiero che si diffonde più o meno a tutti dai grandi centri
d'incivilimento, esso soggiace nei suoi villaggi alle inspirazioni
del birro dei corpi e del birro dell'anime. E la vita misera oltre
ogni dire lo fa più cauto nel sacrificio, però che, se per
tradimento o fiacchezza di chi guida, il nemico ritorna potente là
d'onde ei partì, non può far sì che gli uomini delle città non
abbiano bisogno di pane, tetto, vestimenta e utensili, sorgenti
perenni di lavoro, mentre struggendo, nei primi furori della
vendetta, le messi e involando i buoi che trascinan l'aratro, il
nemico isterilisce le sorgenti della vita all'uomo del contado e
condanna lui e la sua famigliuola a morire. Ma con pochi decreti che
gli promettano un miglioramento nelle sue tristissime condizioni, e
con una energia d'azione che gli provi la vostra irrevocabile
determinazione e la vostra forza, voi lo avrete pronto agli ajuti
anch'esso e devoto alla causa comune.
Voi avete tutti un gran debito verso il Popolo, perchè il Popolo ha
bisogno che gli si assicuri, con più equa retribuzione al lavoro, il
pane del corpo, e, con una educazione nazionale, il pane dell'anima,
e voi gli avete finora mostrato, scritta in capo a un brano di
carta, una serie di diritti ch'ei non può esercitare, e di libertà
delle quali ei non può valersi: e gli avete chiesto di morire per
quel brano di carta.
E il Popolo ha bisogno di amore, e voi gli date diffidenza ed
orgoglio; il Popolo ha bisogno d'azione, e voi gli date diplomazie e
andirivieni di legulei; il Popolo ha bisogno di verità e di
programmi semplici e chiari, e voi lo trascinate per ginepraî di
transazioni e artificî politici ch'ei non intende, e lo chiamate a
cacciar lo straniero dandogli lo straniero per alleato, a
emanciparsi dal Vicario del Genio del Male prostrandovi a un tempo
davanti a lui come a sorgente di verità spirituale, a liberarsi
dalla tirannide vietandogli intanto convegni pubblici, insegnamento
di giornali, oratori cari ad esso e libertà di parola. E
gl'insegnate per anni ad agitarsi e fremere e prepararsi all'azione
per poi dirgli: sta; noi non abbiamo bisogno di te, ma d'eserciti
ordinati di principi e despoti. Poi vi lagnate d'esso e lo chiamate
stolto e codardo, se gli accade d'esitare nel dubbio e nello
sconforto il giorno in cui il tardo senso della sua onnipotenza vi
costringe a invocarlo.
In verità voi raccogliete quello che seminaste colle vostre mani.
Ma parlate al Popolo di libertà e fate, non ch'ei la veda scritta su
brani di pergamena, ma la senta nella vita d'ogni giorno e d'ogni
ora; ditegli amore, e mescolatevi eguali ed amorevoli fra le sue
turbe: ditegli fede, e mostrategli che l'avete in esso: ditegli
progresso, e decretate, in nome e a spese della Nazione,
l'educazione dei suoi figli: ditegli proprietà, e fate che scenda ad
esso la proprietà del lavoro: ditegli verità, e non gli date mai
ipocrisie, menzogne o reticenze gesuitiche: ditegli Patria, e
mostrategliela, non a spicchî e frammenti, ma Una e vasta e potente:
ditegli azione, e ponetevi a guida delle sue moltitudini col sorriso
della vittoria sul volto e presti a combattere, per ottenerla, con
esse: siategli apostoli, capi, fratelli; e voi trarrete dal Popolo
miracoli di virtù e di potenza a petto dei quali i miracoli di dieci
anni addietro saranno come deboli riflessi di luce a fronte della
luce viva e raggiante, come incerte promesse a fronte delle opere
che adempiono.
XVIII.
Chi vinse, il 29 maggio 1176, contro Federico Barbarossa in Legnano,
la prima grande battaglia dell'indipendenza Italiana? - Il Popolo.
Chi sostenne per trent'anni l'urto di Federico II e del patriziato
ghibellino, e ne logorò le forze davanti a Milano, Brescia, Parma,
Piacenza, Bologna? - Il Popolo.
Chi franse in Sicilia la tirannide di Carlo d'Angiò, e compì nel
marzo del 1282 i Vespri a danno dell'invasore Francese? - Il Popolo.
Chi fece libere, grandi e fiorenti le Repubbliche Toscane del XIV
secolo? - Il Popolo.
Chi protestò in Napoli a mezzo del secolo XVII contro la tirannide
di Filippo IV di Spagna e del Duca d'Arcos? - Il Popolo.
Chi vietò con resistenza instancabile che l'Inquisizione dominatrice
su tutta l'Europa s'impiantasse nelle Due Sicilie? - Il Popolo.
Chi scacciò da Genova nel dicembre del 1746, di mezzo al sopore di
tutta l'Italia, un esercito Austriaco? - Il Popolo.
Chi vinse le cinque memorande Giornate Lombarde nel 1848? - Il
Popolo.
Chi difese due volte, nell'agosto del 1848 e nel maggio del 1849,
Bologna contro gli assalti dell'Austria? - Il Popolo.
Chi salvò nel 1849, in Roma e Venezia, l'onore d'Italia prostrato
dalla monarchia colla consegna di Milano e colla rotta di Novara? -
Il Popolo.
Il Popolo senza nome, combattente senza premio di fama; l'Eroe
collettivo, l'uomo-milione che non fallì mai alla chiamata ogni qual
volta gli vennero innanzi, in nome della santa Libertà, uomini che
incarnarono in sè l'azione e la fede.
XIX.
Giovani Volontarî Italiani, benedette siano l'armi vostre! Benedette
le Madri che s'incinsero in voi! Benedette le fanciulle del vostro
amore, che compressero sotto un pensiero di patria i palpiti del
core per salutare d'un sorriso di conforto la vostra partenza!
Però che in voi vivono le due virtù del Popolo, l'azione e la fede;
e, come il Popolo, abbracciaste il sacrificio siccome un fratello,
senza calcolo di premio o di rinomanza, fuorchè di tutti. Sante sono
le vostre bajonette, perchè portano sulla punta una idea: l'Unità
della Patria; sante l'anime vostre, perchè portano in sè, come Dio
in santuario, il più puro fra tutti gli affetti, l'affetto alla
libertà della Patria.
Fra voi splendono, come ricordi d'una gloria mietuta, come bandiera
d'onore di mezzo a un esercito, uomini che diedero combattendo, da
Roma e Venezia, il programma dell'Italia futura. E su voi tutti
splende la serena maestà dell'intrepido Capo, il cui nome è fascino
d'entusiasmo alla gioventù d'Italia e di terrore al nemico. Ma sulla
fronte a ciascuno di voi sta un segno che vi dice capaci d'emular
quei ricordi e d'esser degni del Capo. In voi respira, volente,
potente, la Patria. Il vostro campo è un Pontida Italiano. Voi siete
un Poema vivente, che ricongiunge la coscienza dell'oggi colla
tradizione di quasi sette secoli addietro.
Ma perchè sostate, o giovani Volontarî, sulla bella via? Perchè,
come Poema troncato a mezzo dalla morte del Genio che lo dettava,
l'impresa che iniziaste giace, colpita di subita inerzia, a mezzo il
suo corso? È libera ed una l'Italia, o giovani? O segnaste voi pure,
collo straniero, i patti di Villafranca?
Voi accorreste dove suonava il nome di Patria, col nome d'Italia sul
labbro, coi colori Italiani sul petto.
Sono i limiti della Patria Sant'Arcangelo e il Mincio?
Non è terra d'Italia quella che si stende a mezzogiorno e a
settentrione di quei confini?
Ciascuno di voi portò seco un giuramento solenne: dall'Alpi al Mare.
Non è Venezia al di qua delle Alpi? Non bagna il nostro mare le
spiaggie frementi della Sicilia?
E Roma? Roma dove vive l'unità della Patria? Roma che è core,
tempio, palladio della Nazione? La cancellate voi dalla Carta
d'Italia? O lo straniero che vi signoreggia è meno straniero perchè
veste una assisa francese tinta in rosso dal sangue dei vostri?
A due passi dalle vostre vedette il bastone dei mercenarî Svizzeri e
dei birri papali scende sul dorso d'uomini che vi sono fratelli. Più
in là, in mezzo ai desolati dominî del Vicario del Genio del Male,
sorge un Castello che chiude da dieci anni centinaja d'uomini, che
vi prepararono, congiurando, combattendo, la via. Più in là stanno
le prigioni di Roma. E più in là, nelle atroci segrete napoletane,
negli scavi delle isole disseminate sui vostri confini meridionali,
vivono, d'una vita di chi domani morrà, apostoli della vostra Causa,
volontarî della stessa Bandiera, che vi precorsero nell'impresa.
Volgete addietro lo sguardo; là tra le lagune agonizza di lenta,
tremenda agonia la Roma dell'Adriatico, Venezia, che v'insegnò
indipendenza fin da quando gli uomini del Nord cominciarono a
correre le vostre contrade; Venezia che tenne ultima in alto, dieci
anni addietro, il vessillo della libertà e dell'onore d'Italia;
Venezia alla quale venti volte giuraste che i vostri fati non si
scompagnerebbero mai da' suoi.
Giuraste ad essa, alla Patria, a Dio; e nelle parole di quel
giuramento cingeste l'armi. Perchè sostate? Perchè tradite il debito
cresciuto in voi colla forza, e obbedite come se foste assoldati
dalla tirannide e non apostoli armati d'una Fede suprema, alla paura
degli inetti che travolgono la Patria appiè d'un Convegno di re
stranieri?
Il tempo rode le rivoluzioni dei Popoli: il tempo è lima che consuma
l'entusiamo dell'anime. Non v'avvedete voi che sul tempo calcolano i
vostri padroni, perchè lo sconforto aggeli e isterilisca gli
elementi di forza che vi stanno innanzi? Non v'avvedete che ogni
mese, ogni giorno d'indugio scema d'un raggio la stella di vittoria
che splendeva sulle vostre colonne armate e affascinava a seguirvi
le moltitudini?
Giovani Volontarî, perchè sostate? Voi siete un Esercito Liberatore
o una Menzogna vivente: siete gli Araldi della Nazione o strumenti
miseri e inconscî d'una angusta ambizione di principe, d'un disegno
preordinato di dominazione straniera. Voi siete oggi custodi della
vita e della morte del vostro Popolo. Chi oserà sorgere fra gli
inermi, se voi, forti, armati, ordinati, non osate varcare una linea
segnata dall'inchiostro d'un commesso di diplomazia e d'un
faccendiere di corte?
Affrettatevi intorno ai Capi e dite loro: è Capo chi guida:
guidateci. Noi ci sacrammo Cavalieri d'Italia, non di Toscana, Parma
o Romagna. I fati della Patria pendono dai suoi figli in armi, non
dai protocolli di Parigi o Zurigo. Ovunque gemono e fremono fratelli
nostri, là sta il campo delle nostre battaglie. Movete, o moviamo.
E siano benedette l'armi vostre, giovani Volontarî Italiani!
Benedette le madri che s'incinsero in voi! Benedette le fanciulle
del vostro amore, che compressero sotto un pensiero di Patria i
palpiti del core, per salutare d'un sorriso di conforto la vostra
partenza!
XX.
Il cielo era senza stelle, cupo, d'un colore di piombo. La notte,
scendendo, aveva disteso sull'azzurro profondo un velo denso e
continuo, come lenzuolo di morte presto a calare sopra un cadavere.
Un soffio gelato passava di tempo in tempo senza rumore sulla vasta
campagna. Le lunghe e folte erbe piegavano, mute anch'esse, sotto
quel soffio. Io guardava; e mi venivano alla mente le pure splendide
imagini dell'anima vergine e le dolci speranze de' miei anni
giovanili, cadute ad una ad una sotto il soffio gelato delle
delusioni e dello sconforto.
Era una tristezza nell'ora, nella terra e nel cielo e nell'immenso
silenzio, profonda, inconsolabile, muta. La vita pareva sospesa e
senza vigore per ridestarsi.
E scese lento, invadente, su tutto quanto il mio essere, come veste
che s'adatti alle forme, un senso di stanchezza suprema, un queto
tedio della vita e d'ogni cosa terrena, un illanguidimento senza
nome e senza dolore, ma peggiore di tutti dolori: come una morte
dell'anima.
E pensai ai lunghi anni vissuti, senza gioja e senza carezza, nella
solitudine d'una idea, agli amici morti per la terra o morti per me,
alle illusioni sparite per sempre, all'ingratitudine degli uomini,
alla tomba di mia madre, alla quale io non avevo potuto accostarmi
se non celatamente, la notte, come uomo che tenti delitto; finch'io
sentii un bisogno di piangere, piangere, piangere, ma non poteva.
E m'assisi sopra una pietra del cammino, colla testa fra le mani,
affranto nell'anima, e come chi tenta celare a sè stesso la via
percorsa e la via da percorrere.
E mentr'io mi stava a quel modo, mi pareva di sentirmi la fronte
lambita tratto tratto come da un alito, e l'orecchio lambito((295))
da suoni fiochi fiochi, come di voci lontane e che vengono di
sotterra; e mi pareva di conoscere quelle voci.
E rizzandomi inquieto e guardando, mi sembrava che la campagna fosse
seminata tutta di piccole croci; e accanto a ciascuna di quelle
croci sorgeva biancastra una forma d'uomo e taluna di donna. Ed
erano volti, alcuni noti, altri no; ma tutti come di fratelli e
sorelle dell'anima mia.
E gli uni avevano sulla fronte o sul petto segni sanguigni, rotondi,
come di ferita, altri come un nastro di sangue intorno al collo,
altri altro segno di morte violenta e súbita, e taluna di quelle
forme non aveva segno fuorchè d'un lento angoscioso dolore in ogni
lineamento del volto; ed erano le più tristi a vedersi.
E tutte si guardavano mestamente quasi interrogandosi l'una
coll'altra. Poi da una di quelle forme mosse un suono di voce che
disse: sempre immemori?
Ed altre voci risposero con accento di profondo dolore: sempre!
E un suono di lungo gemito si diffuse per la vasta campagna. Quelle
anime, che avevano sorriso sul patibolo e fra le torture, gemevano
sull'oblio dei loro fratelli viventi.
Allora si levò una voce e disse: Morimmo per la Verità o per
l'Errore? La volontà del nostro Padre ch'è nei cieli ci raccolse
qui, perchè da noi esca il segnale della terza Vita della Nazione,
quando i fratelli nostri avranno raccolto gl'insegnamenti che noi
scrivemmo ad essi col nostro sangue. E i mesi passano, e gli anni
passano, e nuove anime di martiri s'aggiungono ogni giorno alle
nostre senza che l'ora d'emancipazione sorga per noi.
E un'altra voce disse, mentre il guardo accennava a molte di quelle
forme: che manca ad essi? noi cademmo vittime volontarie dello
straniero, per insegnar loro che chi vuole redimersi non deve
sperare salute fuorchè dalle proprie braccia e dalle armi proprie.
Perchè fidano anch'oggi a conciliaboli e decisioni di stranieri le
proprie sorti?
E surse una terza voce: noi lasciammo le dolci sponde dell'Adriatico
e ci recammo, come il Padre c'inspirava, a morire sulle terre
dell'estrema Calabria, per insegnar loro che ogni uomo d'Italia è
mallevadore per tutti, e che ogni zona del nostro terreno è zona
della Patria comune. Perchè s'accampano oggi ciascuno sul lembo di
terra che ha conquistato, e tutti non curanti dei fratelli che
soffrono a pochi passi da loro?
E una quarta voce s'alzò: E noi morimmo per insegnar loro che la
fede senza l'opere è un'inganno agli uomini e a Dio, e che l'azione
è il migliore ammaestramento che possa darsi ad un Popolo. Perchè
dunque lo spirito di vita si manifesta sulle migliaja, e i milioni
rimangono inerti contemplatori?
E una quinta voce proferì sdegnosa: E noi affrontammo,
deliberatamente solenni, la morte e l'infamia dai più, per insegnar
loro che, fra la prepotenza della tirannide e la servitù incatenata
dei molti, un sol ferro può ristabilir l'eguaglianza, se scintilli
fra le mani di chi sprezzi davvero la vita e non conosca giudici
fuorchè Dio e la propria coscienza. Perchè dunque si querelano
sempre fanciullescamente della prepotenza d'un solo despota?
E una sesta forma, femminile, che non aveva segno di morte violenta,
ma l'impronta d'un dolore di Niobe sullo scarno volto, fece come chi
vuol movere parola, ma non potè, e soltanto accennò, con un guardo
di rimprovero che pareva abbracciar terra e cielo, a quattro o
cinque forme di giovani che le stavano intorno.
E dopo un silenzio, tutte quelle forme proruppero in un lamento:
Dov'è la Patria promessa ai nostri figli da coloro che ci videro
morire e giurarono vendicarci? Dov'è la tomba che dovea raccogliere
l'ossa nostre su terra libera e sotto la bella bandiera per la quale
ponemmo la vita? Perchè sfumarono le promesse dei vostri cari? A che
dirci grandi se il nostro esempio non è raccolto? A che la parola
d'amore gittata pomposamente alla nostra memoria, se il pensiero, il
voto, il palpito dell'anima nostra è obliato, profanato, travolto?
Morimmo per la Verità o per l'Errore?
E un tremito prese tutte quelle ombre. Ed io mi coprii per vergogna
e dolore la faccia.
Quando riguardai, non vidi più cosa alcuna fuorchè il cielo senza
stelle e la vasta deserta campagna e le lunghe e folte erbe che
piegavano al soffio gelato. Ma spesso, tra i sogni, vedo tuttavia
riaffacciarmisi la dolente visione.
XXI.
Dio dei Popoli oppressi! Dio dell'anime afflitte! Posa sui poveri
sviati figli d'Italia uno sguardo di clemenza e d'amore. Il solco
segnato da trecento anni di schiavitù e la lunga idolatra
predicazione dei falsi profeti che usurpano in terra il tuo santo
nome non si cancella in un giorno; e la loro mente è spesso ingombra
d'errore. Ma in fondo del loro core vive, come lampa velata, il
culto del tuo Vero, e della Patria alla quale tu li chiamasti: ed
hanno molto patito per essa.
Tu, davanti al cui occhio l'Umanità intera appare come un
Essere((296)) solo, volesti che il sacrificio d'un Giusto lavasse
ogni fatalità di colpa e d'errore da tutte l'anime de' suoi
fratelli. Pesa nella tua mano il sacrificio di tutti i Giusti che
morirono per richiamarci a vita, e accoglilo siccome espiazione dei
nostri traviamenti. Scenda sui poveri ingannati figli d'Italia il
tuo Spirito di Verità! Manda, dove s'accolgono, l'Angiolo dei forti
pensieri, e fa ch'essi diventino degni dei loro Martiri e non
contristino l'anime sante coll'oblio o colla fiacchezza delle opere!
Per la parte che adempiemmo de' tuoi disegni nel passato - per la
parola d'Unità che due volte diemmo alla terra - per l'intelletto
della divina bellezza che i nostri profeti diffusero, inspirati da
te, sulle genti - pei Santi che vissero e morirono sul nostro suolo
nella tua fede - per la promessa che ci venne data da te, quando
stendesti più splendido che non altrove su noi l'arco dei cieli e il
sorriso infinito della tua Creazione - noi ti preghiamo, o Signore:
levaci alla terza Vita! Infondi nelle nostre madri l'adorazione
della Patria e l'amore all'anima, non alle sole membra, dei figli!
Spira nei padri i virili concetti e l'ardita virtù che sola può far
nostra la nostra terra! Benedici le spade dei nostri giovani,
finch'essi possano scioglierti dalla tua Roma un cantico degno di
te, il cantico dell'Italia redenta.
E salvaci, oh salvaci dalla morte dell'anima! Sperdi da noi, checchè
avvenga nel tempo di prova che ancor ci avanza, l'ateismo della
disperazione, il soffio gelato del dubbio. Come il ferro s'affina
sotto i colpi che par minaccino di spezzarlo, così s'affinino i
nostri cori sotto il martello della sventura. Come il forte licore
diffonde il suo profumo all'intorno quand'è infranto il vaso che
l'accoglieva, così si diffonda, tra le ferite dell'ingratitudine, da
noi sui nostri fratelli l'amore, ch'è il profumo dell'anime.
E quando nel freddo della solitudine, ch'è il peggiore dei mali,
saranno presso a spegnersi le sorgenti della tua vita, suscita, o
Padre, a ravvivarle, il pensiero dei morti che amammo e che ci
amano. E scenda a lambirci la fronte riarsa il bacio delle madri e
delle sorelle perdute, e c'insegni i segreti dell'immortalità, tanto
che vivi e morti siamo tutti uno in te nella fede e nella speranza.
XXII.
E stetti sull'Alpi: sull'alto dei Monti che ti ricingono come
diadema, o mia Patria, là dov'è eterno il candor delle nevi, eterna
la purezza dell'aria, eterno il silenzio se non quando lo rompono lo
scroscio della valanga e l'invisibile scorrere, eterno anch'esso,
dell'acque che di là scendono a fecondare l'intera Europa; e l'uomo
sente se stesso come più presso a Dio.
E le stelle si dileguavano ad una ad una come i fochi d'un campo che
si prepara sull'alba alla mossa. E l'alba incoronava l'estremo
orizzonte di una luce di vita nascente.
Correva sul vasto ripiano un alito come di creazione, pregno di
freschezza e potenza di vita, che affondava sotto a' miei piedi la
nebbia delle falde, come un puro e forte pensiero affonda le misere
vanità, e le basse passioni tentatrici del core. Ed io sentiva
l'anima stanca ringiovanirsi a quel soffio.
E pensai agli istinti profetici della vita immortale, che nè
delusioni nè lunghi inconfortati dolori avevano mai potuto spegnere
in me, al rinascere solenne di Roma dopo secoli di tenebra profonda
e servaggio, alla giovine libertà Ellenica risuscitata dai Klephti
delle montagne, quando il mondo la credeva spenta per sempre, al
sorriso dei morenti sul palco per l'Unità della Patria, al tiremm
innanz del povero Sciesa, quando, a due passi dal supplizio, gli
offrivano vita, purchè invocasse perdono, e ai pochi ma rari affetti
seminati, come fiori tra le nevi dell'Alpi, sul cammino della mesta
mia vita, o all'anima femminile che Dio mi mandava, com'Angelo de'
miei giorni cadenti, perch'io la amassi sovra ogni cosa terrena. E
dissi a me stesso: No, la vita e il martirio non sono menzogna:
l'amore consacra l'uno e l'altro all'eternità. Il dolore è santo; la
disperazione è codarda.
E il Sole sorgeva; simbolo, eternamente rinascente, di vita, grande,
maestoso, solenne: il Sole d'Italia sulle Alpi! Ed io affondava lo
sguardo fin dove poteva, giù dove si stende il sorriso interminabile
della bella mia Patria. E la luce si diffondeva come aureola
promettitrice sovr'essa colla rapidità del mio sguardo. E la mia
anima, sorvolando quel torrente di calore e di luce, nuotava con
fede irresistibile e nella speranza e nell'antico orgoglio del nome
d'Italia.
Tu sorgerai, o mia Patria! grande nel mondo come il sole sulle tue
Alpi: santa del tuo lungo Martirio: bella del duplice tuo Passato e
dell'infinito Avvenire. E il tuo sorgere sarà segnale al sorgere
delle Nazioni; e rinnovellerà, onnipotente contro ogni nemico, la
faccia dell'Europa. E questo avverrà, quando, cacciati gl'idolatri
dal Tempio e disperse le nebbie delle false dottrine che t'indugiano
sulla via, i tuoi figli non avranno altra via che la linea retta,
altra scienza che la verità senza veli, altra tattica che il
coraggio e l'ardire, altro Dio che il Dio della Giustizia e delle
Battaglie.
XXIII.
Ed io so che parecchî fra voi, incadaveriti in ogni libera facoltà
per troppo lungo soggiorno appiè dell'Idolo Forza, dell'Idolo
Tattica, dell'Idolo Lucro, s'irriteranno delle mie parole e diranno
raca! al fratello; e appiattati, siccome ladri in viottoli, in
qualche angolo oscuro dei loro diarî e libercoli, schizzeranno
contro me fango, bava e veleno. Ma essi non hanno potere sull'anima
mia, nè contro le verità ch'io parlo ai giovani e ai figli del
Popolo, e che i giovani e i figli del Popolo ascolteranno quando che
sia.
Però che Dio mi diede, chiamandomi a vita quaggiù, una inesauribile
potenza d'amore ed una di spregio. E come Giovanni Huss di sul rogo,
vedendo un uom del contado affaccendarsi per aggiungere legna a
quella che già lo ardeva, esclamava: o semplicità santa! io diffondo
la prima sulla testa di quei che m'oltraggiano per errore di mente
debole: e la seconda, io la verso sulla testa degli idolatri che
calunniano per basso livore d'invidia o per secondi fini. Nè guardo
o curo più oltre.
Ma il Vero ch'io parlo, come m'è inspirato dalla tradizione d'Italia
e dalla pura coscienza, è immortale; nè calunnia di codardi o malia
di false dottrine o bastardure di corti può soffocarlo se non per
poco.
E in nome di quel Vero oggi io grido:
XXIV.
Giovani d'Italia, sorgete!
Sorgete sui monti! Sorgete sul piano! Sorgete in ciascuna delle
vostre città! Sorgete tutti e per ogni dove! Non vedete che il
sorgere subito o universale è vittoria certa, senza i sacrificî
della vittoria?
Sorgete tutti e per tutti! Non siete voi tutti figli d'una stessa
Italia, in cerca d'una stessa Patria?
Non dite, voi che avete terreno libero ed armi: perchè non sorgono
come noi gli uomini delle altre provincie? In verità, quella è
parola di Caino, e se voi poteste proferirla, meritereste di perdere
la libertà conquistata, e la perdereste.
Non v'è che una Italia, e, su quella, non provincie, ma zone di
operazione e un esercito Italiano composto di quanti si concentrano
in armi intorno alla bandiera della Nazione. Voi siete
quell'esercito e dovete muovere senza riposo, ingrossando per via,
alla conquista di quelle zone.
Non dite, voi che gemete tuttora nella servitù: perchè non vengono a
scacciare i nostri tiranni gli uomini delle terre già libere? Se voi
sorgeste, verrebbero, e scacciereste, uniti, più rapidamente i
vostri padroni.
Figli delle terre affrancate, non troverà la Patria fra voi un
Cesare della libertà che valichi il Rubicone? Figli delle terre
schiave, non troverà la Patria fra voi un solo Procida che osi
chiamare gli oppressi ai Vespri sugli oppressori?
Sorgete, oh sorgete! Sorgete oggi: domani avrete più gravi ostacoli.
Perchè, se nei loro Conciliaboli i Principi potranno dire: là vi è
quiete, sanciranno coi loro patti la durata di quella quiete, e voi
avrete nemici tutti, mentr'oggi è in vostro potere dividerli.
Sorgete oggi! Il tempo è tutto per voi. Oggi ancora le moltitudini
sperano e fremono: domani ricadranno incredule, sfibrate, pervertite
dall'arti assidue dei vostri nemici.
Sorgete oggi! Un'ora di schiavitù rassegnatamente patita, quando la
vittoria è possibile, merita un secolo di tirannide e d'obbrobrio al
Popolo che la patisce. E chi può darvi condizioni migliori per
vincere di quelle d'oggi? Le migliaja dei vostri fratelli in armi,
le forze dei vostri padroni titubanti e smembrate, uno straniero
spossato dalla disfatta, l'altro dalla vittoria e impotente a mutar
di campo e di bandiera ad un tratto, e i consigli dell'Europa
divisi, e le Nazioni deste al vostro destarsi, non vi dicono che il
momento è venuto?
Uomini delle terre Napoletane! A che state? Sapete voi quale nome
serpe per voi tra i Popoli dell'Europa attonita della vostra
immobilità? È il nome che l'uomo non ode senza ricorrere all'armi:
il nome che stampa sulla fronte a un Popolo il marchio del disonore.
In nome dell'onore d'Italia e del vostro, in nome del vostro
passato, in nome degli esempî di fortezza che vennero da voi primi a
tutta la nostra contrada, sorgete, e fondi il vostro sorgere la
Patria d'un getto!
Figli dell'Isola che disse undici anni addietro ai suoi tiranni: noi
sorgeremo il tal giorno, e attenne la sua parola, siete voi fatti
simili a fanciulli pendenti dal labbro del pedagogo? L'ora della
vostra Libertà non può venirvi per messaggio segreto di Firenze o
Torino. L'ora della vostra Libertà scoccherà il giorno in cui, in
una delle vostre città, cento generosi fra voi, congiunte le destre
e l'armi, ripeteranno la parola dei padri: tradisce la Patria chi
tarda. Morte pria che servire!
Tradisce la Patria chi tarda. Gittate, o giovani d'Italia, l'anatema
a chi vi parla d'indugio, e sorgete. A che ammirate l'impeto sublime
di Francia nel 1792 e i quattordici eserciti spinti alla sua
frontiera? La Francia non contava allora più milioni d'uomini che
non son oggi i milioni d'Italia. A che dir grandi i combattenti
della Grecia risorta? Non potete esser grandi com'essi? I Greci
erano un milione contro un nemico dieci volte più forte; ma
s'armarono tutti, giurarono di sotterrarsi sotto le ruine delle loro
città, anzichè piegare innanzi alla Mezza-luna, mantennero a
Missolungi il loro giuramento, e vinsero. Fate com'essi: vincerete
com'essi.
Su, sorgete! Non piegate alle lodi che vi vengono, per gl'indugi
accettati, da quelli ai quali giova che voi indugiate: in verità io
vi dico che quei lodatori sogghignano nel loro segreto, e vi
scherniscono creduli e puerilmente arrendevoli. I cinque mesi
d'inerzia durata dovrebbero pesarvi sulla fronte come cinque anni di
vergogna non meritata. L'insurrezione d'Italia è iniziata:
diffondetela, allargatene la base, afforzatela, per quanto vi è
caro. Le insurrezioni che s'arrestano muojono. A voi bisogna andar
oltre, o perire.
Sorgete, sorgete! Non corre sangue d'Italia nelle vostre vene? Fra
la minaccia del nemico e i cenni del Brenno alleato, non sentite
ribollirvi nel core vita e orgoglio di liberi? È terra nostra questa
o d'altrui? Feudo o proprietà di cittadini padroni di sè? A che
l'armi, su non le adoperate? A che il grido fremente di Viva
l'Italia? Su per Perugia! I protocolli non vi pagheranno il sangue
che vi fu versato. Su per Venezia! Dai conciliaboli regî non avrete
che paci di Campoformio o di Villafranca. Su per quanti gemono
dall'Alpi al Mare! Sorgete, come le tempeste dei vostri cieli,
tremendi e rapidi! Sorgete, come le fiamme dei vostri vulcani,
irresistibili, ardenti! Fate armi delle vostre ronche, delle vostre
croci, d'ogni cosa che ha ferro! Sfidate la morte, e la morte vi
sfuggirà. Abbiate un momento di vita volente, potente, Italiana
davvero, come Iddio la creò; e la Patria è vostra.
E Dio benedica voi, le vostre spade, i vostri affetti e la vostra
vita terrena, e l'anime vostre e le maledizioni stesse escite talora
dal vostro labbro su me che scrivo col vivo sangue del core, e la
cui voce, tremante per febbre d'amore e di desiderio, voi spesso
scambiaste in voce d'agitatore volgare, irrequieto e importuno.
Sperda l'oblio ogni ricordo di me, purchè sventoli, fra un Popolo di
liberi, pura d'innesti, la bella, la santa, la cara Bandiera dai tre
colori di Italia, sulla terra ove dorme mia Madre.
14 novembre 1859.
NÈ APOSTATI NÈ RIBELLI((297))
La diffidenza cieca, come la cieca fiducia, è morte alle grandi
imprese. I maneggiatori politici del moto Italiano peccano in oggi
della prima, e vi aggiungono l'ingratitudine; il Popolo d'Italia
pecca della seconda.
Della necessità che il Popolo d'Italia non segua passivamente
servile l'inspirazione che scende dalle sfere governative, ma senta
la vita iniziatrice che ha in sè, e la svegli e provveda, più che
non fa, con le opere proprie alle proprie sorti, ho parlato sovente
e riparlerò. Parlo oggi per conto mio e de' miei amici repubblicani,
della diffidenza sistematica che perseguita di calunnie e di stolti
sospetti essi e me. Ne parlo, non perch'io creda debito nostro
giustificarci o difenderci con gli uomini che diffondono quelle
calunnie o affettano di nudrire quei sospetti: nei più tra essi
calunnie e diffidenze non sono sincere, ma solamente basso calcolo
politico e codarda guerra d'uomini meschini contro uomini che
paventano, a torto, rivali possibili sul campo dov'essi mietono;
però non li stimo. Ne parlo pei molti che credono senza appurare, o
perdono così la speranza d'una concordia che nell'intimo core
desiderano; pei molti che, ineducati a scegliere tra le cose messe
loro innanzi, travedono pericoli ove non sono, e credono, ingannati
non colpevoli, salvare il Paese vigilando sospettosi su noi ed
allontanandoci da un campo che aprimmo noi primi in Italia. Davanti
al Popolo non v'è dignità offesa che comandi il silenzio. Giovammo -
e questo lo confessano gli stessi avversi - alla Causa del suo
avvenire. Vogliamo giovarle ancora, tentarlo almeno, e per questo
bisogna intenderci. Agli accusatori sistematici vorrei ricordare
soltanto che le ingiuste diffidenze generano ingiuste ire, traviano
l'opinione Europea su le cose nostre, scemano le forze della
Nazione, e cacciano i germi di quel sistema che contaminò,
sessantasette anni addietro, la Rivoluzione francese, e finì per
affocarla nel sangue.
Da quali fatti movono i sospetti che oggi ancora si accumulano
contro i repubblicani? Per quanto io cerchi, non ne trovo uno solo
che non sia un'assurda calunnia smentita dieci volte da prove
documentate.
Ebbe luogo, in un sol punto d'Italia, un solo tentativo di sommossa
repubblicana? Fu trovata, fu letta, negli ultimi due anni, una sola
linea scritta pubblicamente o privatamente, dagli uomini che più o
meno rappresentano il principio del Partito, che accenni a
Repubblica? Fu mai promossa da noi, dal primo svolgersi del moto
d'Italia, la questione di forma d'instituzioni politiche?
No: e mi smentisca co' fatti chi può. Prima della pace di
Villafranca, parecchî tra noi protestarono contro il commettersi de'
nostri fati alle armi straniere e ad armi dispotiche: sapevamo
d'antico che nessuna Unità Nazionale s'era fondata a quel modo, e la
subita pace, e lo smembramento di Nizza e Savoja vennero poi a
giustificare l'antiveggenza. Dopo la pace di Villafranca, appena
l'emancipazione Italiana rimase opera di menti e braccia Italiane,
anche quei che non avevano fatto se non astenersi, senza badare alla
bandiera che padroneggiava il moto, s'affrettarono a unirsi. Il
programma monarchico di Garibaldi fu il loro. Le file di Garibaldi
son piene di repubblicani. Essi pugnano, vincono, muojono lietamente
sotto di lui. Nè prima nè dopo l'infausta pace escì dalle loro
labbra altro grido che quello dell'Unità; di quella Unità alla quale
i loro tentativi, i loro scritti, le loro associazioni, i loro
martiri, avevano educato l'Italia. Ovunque fu pericolo onorato da
corrersi per promoverla, là furono. La sola sfera nella quale i loro
nomi non si trovano più che rari è quella degli impieghi lucrosi.
Sdegnati, calunniati, respinsero le calunnie senza una parola che
riconducesse l'antica questione sul campo. Perseguitati, oggi
sorrisero, e il dì dopo giovarono, come fu loro dato, alla causa
della Patria e dell'Unità. I più tra loro promossero, stimandola
giovevole, l'annessione combattuta delle provincie del Centro.
Taluni si tennero, in Toscana segnatamente, a contatto col Governo
per rassicurarlo e appoggiarne più validamente le mosse, quando
tendessero all'Unità. Io che scrivo dichiarai sull'onore e
pubblicamente che se mai nuovi smembramenti di terra Italiana, o il
rifiuto deliberato dell'Unità da parte dei reggitori ci riducesse,
disperati da altre vie, alla nostra vecchia bandiera, noi lo
annunzieremmo anzi tratto con la stampa agli avversi.
Può un Partito dar pegni più solenni di questi? Può spingersi più
oltre, per amore della concordia, l'abnegazione? Può la riverenza
alla sovranità dell'opinione Nazionale esigere altro da noi?
Il Popolo d'Italia, lasciato alle proprie aspirazioni, non traviato
da calunnie, risponderebbe: non può. I raggiratori che strisciano
intorno alla piramide del potere vorrebbero di più. Diseredati di
fede e veneratori materialisti dell'opportunità e della forza, essi
vorrebbero rapirci la nostra. Non basta ad essi che da noi si chini
riverente il capo alla sovranità dell'opinione dei più; vorrebbero
che, dichiarando di avere errato nel passato, noi ci dicessimo
credenti nella fede monarchica. Vorrebbero che non fossimo
accettatori, ma propugnatori della dottrina che in oggi domina. Non
lo vogliamo, nè lo possiamo. La nostra è fede; possiamo tacerla per
un tempo, rinunziare ad ogni tentativo d'attuarla; non rinnegarla e
dirla falsa per l'avvenire.
Nè ribelli, nè apostati; in queste parole si compendia la nostra
condizione dell'oggi. Non possiamo andare d'una linea più in là.
Essere cittadini non significa per noi cessare d'esser uomini.
Cittadini onesti e leali accettiamo, purchè guidi all'Unità della
Patria, la monarchia dal consenso dei più: non tentiamo di
sostituire alla sua bandiera la bandiera repubblicana. Che volete di
più? Abolire la coscienza? Siate allora inquisitori e tiranni: non
vi fregiate del santo nome di libertà.
La libertà esige la coscienza della libertà. Volete servi, non
liberi alleati all'impresa? Raccoglierete una menzogna di libertà e
nuova servitù poco dopo. Preferireste averci cortigiani, ipocriti e
gesuitanti, all'averci cooperatori leali e salvo il pudore
dell'anima, salva la dignità d'uomini in noi? Qual pegno avreste del
nostro non tradirvi domani?
Movendo all'emancipazione delle Marche e dell'Umbria - emancipazione
che voi dichiaravate inopportuna e pericolosa cinque giorni prima di
compierla colle armi vostre - noi inalzavano la bandiera dei tre
colori d'Italia, senza lo stemma Sabaudo. Con qual diritto avremmo
noi, pochi iniziatori e semplici cittadini, detto alle popolazioni
alle quali imprendevamo di portar libertà: noi vi ajutiamo a patto
di padroneggiarvi? Non dovevamo aspettare che la volontà dei nostri
fratelli, come altrove, si dichiarasse?
Non rimase la bandiera pura d'ogni stemma in Toscana, prima che il
voto popolare dell'annessione si rivelasse? Inalzarono altra
bandiera che l'Italiana gl'insorti della Sicilia, quando per sei
settimane Rosalino Pilo e i compagni di lui tennero vivo, aspettando
Garibaldi, il combattimento? Perchè voler noi, noi soli
repubblicani, usurpatori della Sovranità del Popolo? Non bastava a
voi la promessa che il nostro grido repubblicano avrebbe taciuto?
che avremmo accettato il vostro vessillo dal primo libero Municipio
che l'avrebbe - e non v'era dubbio - inalzato? Perchè pretendere che
ci mostriamo in sembianza d'iniziatori monarchici? Perchè l'Italia
impari a rigenerarsi convincendosi che non v'è partito entro i suoi
confini capace di non vendere o calpestare la propria fede, e
nondimeno capace di sacrificarne la realizzazione immediata
all'opinione dei concittadini e all'Unità della Patria?
Scorrete le file dell'esercito di Garibaldi. Là, tra quei forti che
numerano i giorni con le battaglie, voi trovate il repubblicano a
fianco dell'uomo della monarchia. Nessuno diffida del compagno,
nessuno sospetta ch'egli covi un pensiero d'insidia nell'anima.
Perchè non è lo stesso nei ranghi della vita civile? Perchè non
potremo parlare di Patria e Unità, senza che voi diciate: intendono
parlare di Repubblica?
Nè apostati, nè ribelli. Noi, serbando fede al nostro ideale, ci
serberemo il diritto di non apporre il nome nostro in calce d'inni
monarchici; di non dire oggi ai nostri concittadini: vogliamo che
siate Regî e non altro; di esprimere pacificamente, conquistata
l'Unità della Patria, davanti al Paese le nostre credenze;
d'astenerci dagli ufficî che altri si contenderanno; di ripigliare
taluni fra noi la via dell'esilio. Oggi chiediamo di essere ammessi,
senza calunnie, senza sospetti villani, senza interpretazioni
maligne date ad ogni nostra parola, senza testimonianze
d'ingratitudine - che a noi, securi nella coscienza, importano poco,
ma che disonorano la Patria nostra - a lavorare noi pure per
l'Unità, a combattere qualunque straniero o italiano la avversi,
lasciando al Popolo ogni decisione sulla forma che deve incarnarla.
Ma il diritto di lavorare per l'Unità importa diritto di consiglio;
e di questo intendiamo usare liberamente quant'altri, come uomini ai
quali l'Italia è patria, e che hanno operato costantemente a
fondarla.
Non vi è tra noi contesa sul fine dell'oggi; accettiamo tutti il
voto della maggioranza; la contesa è sui mezzi di raggiungere
sollecitamente l'Unità che tutti vogliamo. Su quel terreno comincia
il dissenso. Chi pretende impedirci di esprimerlo è intollerante,
esclusivo, settario: continua, con nomi diversi, il sistema dei
padroni che i nostri sforzi hanno rovesciato.
Chiediamo libertà per dire, non che la Repubblica è il migliore de'
Governi, ma che noi, 25 milioni d'Italiani, dobbiamo essere in casa
nostra padroni; che possiamo esser tali se tutti lo vogliamo; che la
nostra libertà sta sulla punta delle nostre bajonette e nella ferma
determinazione delle anime nostre, non nei consigli o nei cenni di
Francia o delle Aule diplomatiche; che volerla far dipendere dal
beneplacito di Luigi Napoleone, o d'altri che sia, è un
prostituirla, un immiserirla anzi tratto, un metterci a rischio di
perderla nuovamente, dichiarandocene immeritevoli.
Chiediamo libertà per dire che, tra il programma di Cavour e quello
di Garibaldi, scegliamo il secondo: che senza Roma e Venezia non v'è
Italia; che, eccettuata la guerra del 1859, provocata dall'Austria e
sostenuta, a prezzo di Nizza e Savoja, dall'armi dell'Impero
francese, eccettuata l'invasione delle provincie Romane, provocata
da noi, dalla necessità che creammo noi, nessuna iniziativa
d'emancipazione Italiana appartiene al programma Cavour; che Roma e
Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l'insurrezione e la
guerra dei volontarî non le conquistano a libertà.
Chiediamo libertà per dire che non si fonda la Patria libera ed una
annettendo una od altra provincia al Piemonte; ma confondendo
Piemonte e tutte provincie dell'Italia in Roma, che n'è core e
centro; che l'annessione immediata delle provincie conquistate a
libera vita, ponendole sotto il dominio del programma di Cavour e
sottraendole a quello di Garibaldi, arresta il moto, toglie le forze
del Paese dalle mani di chi vuole usarne, per darle a chi vuol
condannarle all'inerzia, e cancella per un tempo l'idea dominatrice.
Chiediamo questo e non altro. Confutateci, ma non calunniate. Non
ripetete sempre, stoltamente o di mala fede, che noi lavoriamo ora
per la Repubblica, quando taciamo di Repubblica da due anni. Non
v'ostinate a giudicarci senza leggerci. Non ripetete, servi ciechi
di ogni gazzetta ministeriale, affermazioni smentite cento volte dai
fatti. Non aizzate contro noi perfidamente con la menzogna le
passioni di un Popolo che deve a noi in gran parte quanto ei sente,
quanto ha conquistato della propria Unità. La menzogna è l'arte dei
tristi codardi. La credulità senza esame è abitudine d'idioti.
DICHIARAZIONE
Quando, consumato l'atto antinazionale, che ha nome di Pace di
Villafranca, il Popolo d'Italia sottentrò - colle manifestazioni,
colle assemblee, coi plebisciti - iniziatore della Rivoluzione
Nazionale, e diede opera a fondare la Patria, sentimmo, noi
repubblicani, l'obbligo assoluto di contribuirvi con tutte le forze
dell'animo e dell'azione. E poi che la maggioranza del Popolo
d'Italia, obbedendo alle circostanze e al bisogno che tutti gli
elementi si unissero al grande intento, dichiarò che la via più
facile a raggiungerlo era l'unificazione monarchica, noi piegammo,
dubbiosi dell'esito ma riverenti, la testa alla volontà del Paese, e
dicemmo: tenteremo lealmente per la seconda volta l'esperimento.
Colla mano sul core noi possiamo affermare che attenemmo la nostra
promessa.
L'attenemmo, fra le amarezze d'una guerra continua di diffidenze, di
sospetti sleali, di basse e ingrate calunnie, respinti da ogni
consiglio, posposti agli uomini di parte retrograda, condannati come
nemici, all'isolamento nello Stato; guardati come strumenti da
utilizzarsi per vincere, da rompersi poi. L'attenemmo di fronte a
gravi colpe; di fronte a una politica pertinacemente servile allo
straniero, di fronte al turpe mercato della Savoja e di Nizza.
L'attenemmo, spronando al voto unificatore le popolazioni del
Centro, preparando e rendendo necessaria l'emancipazione delle
Provincie romane, iniziando l'insurrezione della Sicilia, sommovendo
le terre meridionali, e ajutando efficacemente il trionfo del
plebiscito, che aggiunse dieci milioni d'uomini alla monarchia.
Era il Dovere Nazionale; e a questo, a questo solo, sacrificammo
ogni cosa: aspirazioni, ideale, tradizioni del nostro passato,
concetti ben altrimenti vasti e gloriosi che non quei della
monarchia reggitrice.
Fare l'Italia; a questo avremmo sacrificato la fama e l'onore.
Amavamo, amiamo la Patria, la Patria Una, fino al suicidio. Gli
uomini che avevano per trent'anni lavorato in nome di una bandiera
repubblicana diedero lietamente all'Europa, in nome d'Italia, lo
spettacolo, nuovo nella storia delle parti politiche, d'uomini che
combattono a pro di una bandiera avversa ad essi e persecutrice.
Per quella via seminata di dolori e di sacrifici, non ci serbammo
che un solo diritto: combattere: agire a danno dell'invasore
straniero: agire senza interruzione, perchè l'Unità Nazionale si
compia; perchè la Patria, costituita e forte, esca rapidamente dai
pericoli di una condizione provvisoria e mal secura, che minaccia le
conquiste operate; perchè si cancelli dalla fronte di ventidue
milioni di Italiani la vergogna della servitù di Venezia e di Roma,
la vergogna di essere forti e non attentarsi di rivendicarle.
Era un solo diritto, ma su quello posava il patto.
Per quello noi riducemmo fin d'allora tutto il nostro pensiero alla
breve formula: fare l'Italia Una con la monarchia, senza la
monarchia, contro la monarchia, se essa si ribellasse a quel fine.
Per quello, io, presago nell'animo, dichiarai che, mentre il Governo
non avrebbe, operando a quel fine, cosa alcuna da temere da parte
nostra, noi ci terremmo liberi, ove esso lo abbandonasse, di seguire
le inspirazioni, quali si fossero, della coscienza, avvertendone
prima lealmente il Governo stesso.
E sciolgo oggi, per ciò che riguarda individualmente me, la
promessa.
Quel diritto ci è tolto. Il Governo non opera a emancipare le terre
schiave e compire l'Unità Nazionale: vieta a noi, con energia di
nemico, il tentarlo. Ogni ragione del patto cessa dunque d'esistere.
E credo debito mio dichiararlo.
Io mi sento, da oggi in poi, libero da ogni vincolo, fuorchè da
quelli che m'imporranno l'utile del Paese e la mia coscienza.
Ciò poco monta all'Italia e al Governo. Gli anni, la salute
malferma, l'influenza degli ordinamenti, segreti un tempo, cessata
naturalmente per la semi-libertà del Paese, che può provvedere da sè
ai proprî fati, e altri uomini ben altramente potenti ch'io non
sono, sorti nelle file della Nazione, fanno di me un fiacco amico e
un più fiacco nemico. La mia dichiarazione non ha quindi altro fine
che quello di soddisfare all'anima mia. Sento il bisogno di portarla
fino al sepolcro incontaminata, e mi dorrebbe che altri potesse
dirmi: Vi credevamo alleato, e nol siete.
Di fronte a un dualismo così chiaramente definito dal Potere
attuale, tra il tentativo dei nostri a danno dell'Austria, e la
violenta repressione governativa - tra gli uomini coperti di
cicatrici colte nelle battaglie dell'Unità Nazionale e gli uomini
che li consegnano ai birri e li accusano d'alto tradimento per aver
voluto combattere lo straniero e liberare i loro fratelli - tra le
aspirazioni della parte migliore del Paese e le fucilate date per
unica risposta in Brescia - tra il concetto emancipatore di
Garibaldi e il Governo che lo nega, e, non osando imprigionare
Garibaldi, lo oltraggia - corre debito, parmi, a ogni uomo che ami
l'Italia di scegliere, e pubblicamente.
Prego gli avversarî onesti di non fraintendermi. Non si tratta ora
per me di repubblica o monarchia; si tratta d'azione o d'inerzia, di
Unità o smembramento, d'avere lo straniero in casa, o di averlo
fuori.
Il nostro programma dell'oggi è tuttora quello del 1859. Si
compendia in due parole: Venezia e Roma: il braccio d'Italia, il
core d'Italia. Soltanto, allora speravamo ottenerle alleate colla
monarchia; oggi, esaurita quella speranza, diciamo che cercheremo
d'averle soli, por vie nostre, malgrado il Governo, e disposti a
combatterlo, ov'esso si ostini in attraversarci la via.
Se gli uomini del Governo, non contenti dell'inadempimento del
Dovere, vorranno impedire a noi di compirlo, faremo di conquistare
in ogni modo la libertà: se violeranno il diritto delle Associazioni
pubbliche a pro di Roma e Venezia, torneremo a stringere le nostre
fratellanze segrete; cospireremo. Non rinnegammo il dovere Nazionale
davanti all'Austria, non lo rinnegheremo davanti a uomini che han
nome Rattazzi, Minghetti o Farini.
Vogliamo Roma e Venezia, perchè in Roma sta il segreto della nostra
Unità, in Venezia il disfacimento dell'Impero d'Austria, e la nostra
alleanza colle Nazioni sorelle, che assicureranno colla loro
esistenza la nostra frontiera dell'Alpi.
Vogliamo Roma e Venezia, perchè in Roma soltanto possiamo avere
leggi nuove che ci bisognano, e non un vecchio Statuto Piemontese,
ma un Patto Nazionale; perchè in Venezia soltanto può cominciare la
missione internazionale d'Italia.
Vogliamo sollecitamente Roma e Venezia, perchè l'interrompimento del
nostro moto Nazionale e la condizione provvisoria nella quale
versiamo, minacciano la nostra Unità; perchè l'Austria nel Veneto è
la congiura perenne dei principi spodestati, la minaccia perenne di
subita invasione nel core delle nostre terre; perchè la Francia in
Roma è la congiura perenne dei satelliti del Papa e del Borbone di
Napoli, la perpetuazione del brigantaggio nelle terre Meridionali;
perchè Luigi Napoleone, avverso deliberatamente alla nostra Unità,
cospira per trarre alimento dai crescenti malcontenti locali al suo
disegno federativo, e il tempo gli giova; perchè ventidue milioni di
uomini liberi non possono, senza incancellabile disonore, tollerare
ciò che susciterebbe a guerra immediata ogni altra Nazione Europea,
che lo straniero accampi tranquillo sul suolo che è loro; perchè
ogni uomo imprigionato nel Veneto, ogni uomo scannato dai masnadieri
Borbonici nel Napoletano, pesa come un delitto, e dovrebbe pesare
come un rimorso, sull'anima della Nazione; perchè, se gli uomini del
Governo sono incapaci di vergogna e rimorso, noi non lo siamo.
Sperammo che il Governo avrebbe compito il debito suo e che noi
avremmo potuto seguirlo e ajutarlo.
E gli dicemmo:
Armate il Paese. Serbate com'è l'esercito a insegnamento, esempio e
nervo di guerra. Abolite, pel futuro, la coscrizione, e ordinate la
Nazione all'armi, giusta il metodo Svizzero. Avrete l'affetto del
Popolo, che non ama esser svelto, senza necessità, da' suoi, e
avrete presto, occorrendo, un milione di combattenti.
Affratellate al moto Nazionale il Popolo, allargando il suffragio,
facendolo partecipe dell'armi cittadine, dei diritti politici, della
vita d'Italia.
Dichiarate che in Roma i delegati di tutto il Paese saranno chiamati
a definire, con un Patto Nazionale, le nuove aspirazioni italiane.
Fate che l'agitazione per Roma assuma aspetto Europeo. Indirizzate
ai Governi e ai Popoli un Manifesto, che chieda loro d'adoperarsi
perchè il principio del non intervento sia, non menzogna, ma realtà.
Chiedete a Garibaldi di recarsi, con tutti i poteri necessarî, nel
Mezzogiorno, commettendogli di spegnervi il brigantaggio, e di
risuscitare l'entusiasmo popolare, rendendo alla frontiera del
Mincio i sessanta mila soldati ch'oggi proteggono quelle provincie.
Fondate concordia, non di parole, ma di fatti; giovandovi di quanti
uomini hanno patito e combattuto per l'Unità dell'Italia,
incoraggiando nelle Associazioni la pubblica normale espressione
della volontà popolare, chiamando voi stessi a battere più concitati
il polso, il core, ogni arteria della Nazione.
E allora, intimate guerra all'Austria sul Veneto. Là sta la salute
d'Italia, l'iniziativa d'Italia. Là sta la guerra - battesimo pel
Paese e per voi, che non combatteste fin ora, se non a fianco e
sotto gli ordini dello straniero.
Queste cose furono dette, ripetute pubblicamente, privatamente, a
ogni mutamento di Ministero, da Garibaldi, da me, da quanti amano di
vero e vivo amore l'Italia.
Minacciava una sola di quelle proposte la monarchia? Circondata
dall'entusiasmo e dalla fiducia del Popolo, padrona per iniziativa
propria del solo campo sul quale noi possiamo esser potenti, la
monarchia assicurava, accettandole, la propria vita per mezzo
secolo.
Il Governo sprezzò i leali consigli. Mantenne il Popolo nella
condizione d'elemento sospetto, esiliandolo, dopo il plebiscito,
dall'arena politica: volle una Italia senza Patto Nazionale
Italiano: mendicò per Roma l'elemosina di concessioni, funeste e
disonorevoli, dall'occupatore, ed ebbe rifiuto: non osò levare una
voce di generosa protesta davanti all'Europa: negò Garibaldi alle
unanimi domande del Mezzogiorno: versò sino all'ultima stilla il
calice delle amarezze sui Volontarî e sugli Esuli di Venezia:
avversò le manifestazioni popolari per Roma: diede ostracismo nella
pubblica vita a quanti non giurano nell'inerzia e nell'alleanza
imperiale: dichiarò non doversi avere Roma senza il consenso di
Luigi Napoleone: Venezia senza il permesso dei Gabinetti d'Europa:
negò Rivoluzione e Nazione; e - coll'esempio di quattordici eserciti
levati in un solo anno dalla Francia repubblicana, coll'esempio dei
650 000 uomini levati in pochi mesi da venti milioni di repubblicani
d'America - non seppe in quasi tre anni raccogliere se non 250 000
soldati; ed oggi, audace soltanto contro i patrioti italiani, aizza
l'esercito contro il popolo, imprigiona gli uomini che liberarono il
Mezzogiorno, perchè tentano liberare le terre Venete; perseguita le
Associazioni, e ammaestra Garibaldi che suo posto è la solitudine di
Caprera.
Spetta al Paese di compiere il Dovere Nazionale che il Governo
diserta. E gli uomini del Partito d'azione non falliranno di certo
al debito loro.
Voi avete, dicono, un Governo regolare; rispettatelo: non v'assumete
un diritto d'azione che impianterebbe un dualismo funesto.
Noi non abbiamo Governo nostro in Roma e Venezia, ma oppressi e
stranieri oppressori. I nostri non scendevano l'Alpi per sommovere
Torino o Firenze: tentavano salirle per sommovere Trento e Venezia:
tendevano a continuare l'emancipazione della Nazione, a continuarla
a pro vostro: cercavano un'altra Marsala. Non impiantavano un
dualismo: movevano a distruggere quello che pur troppo esiste sulla
terra Italiana. Vittoriosi, essi v'avrebbero posto ai piedi il
frutto della vittoria: disfatti, voi li avreste sconfessati e
perseguitati.
Che se il rispetto al Governo regolare inchiude per voi l'obbligo di
sacrificare il Dovere Nazionale agli errori o alle colpe di chi sta
in alto, l'obbligo di rinnegare la solidarietà italiana, perchè chi
sta in alto la nega e dimentica - l'obbligo di lasciare la libertà
dei fratelli all'iniziativa di chi dichiara colla parola e coi fatti
non potersi fare iniziatore - l'obbligo di troncare a mezzo la
Rivoluzione unificatrice, perchè chi sta in alto si sente fiacco o
codardo; se l'esistenza fra voi d'un Governo qualunque, buono o
tristo, attivo o inerte, negazione o affermazione del fine
Nazionale, importa per gl'Italiani obbedienza passiva - rifatevi
Austriaci. L'Austriaco era anch'esso Governo: poteva da un dì
all'altro - e molti diplomatici stranieri tentavano persuadervelo -
mutare sistema. D'onde nasceva per gl'Italiani il diritto di
ribellarsi? Dal Dovere Nazionale. Il Governo Austriaco, come il
Governo Borbonico in Napoli, lo negava. Il Paese sorgeva ad
affermarlo: il Governo Legale, in virtù di quella affermazione, era
in esso.
Il Dovere Nazionale è superiore a ogni formula governativa; esso
costituisce la norma, sulla quale è giudicata la legalità o
l'illegalità dei Governi.
Una menzogna di Governo non è Governo. Governo è la Vita della
Nazione, interpretata, riassunta, diretta.
La vita della Nazione è l'Unità. Il Paese l'ha definita coi
Plebisciti. Esiste un solo uomo in Italia dal quale possa affermarsi
che i paesi del Centro e del Mezzogiorno s'aggiunsero al Piemonte
per altro fine che quello dell'Unità Nazionale?
Conquisti il Governo risolutamente quell'Unità; noi saremo con esso,
lasciando al tempo e all'apostolato pacifico, ch'è diritto nostro
inviolabile, la soluzione delle altre questioni. Qualunque volta il
Governo tradisca il fine del Paese, il Dovere della Nazione, rivive
in ogni uomo il debito di compirlo. E faremo per quanto è in noi di
compirlo. Lo compiremo con nostre forze o costringeremo il Governo a
compirlo.
È impossibile che la parte eletta del Paese, gli elementi nei quali
più freme lo spirito dell'azione, i giovani, gli studenti, i
volontarî, i figli del Popolo, si rassegnino lungamente a far del
santo grido di Roma e Venezia una meschina ironia, una parola di
delusione mormorata periodicamente su due sepolcri. È impossibile
che i prodi di Magenta, Solferino e Palestro, si rassegnino
lungamente a far la parte di protettori della frontiera per conto
dell'Austria.
È impossibile che la Nazione si rassegni lungamente a un Governo i
cui atti pajono calcolati a creare - e lo scrivo con profondo dolore
- nell'Italia nascente tutti i mali che contaminano le monarchie
morenti; antagonismo tra i popolani e le classi medie: antagonismo
tra l'esercito e il Paese: antagonismo tra i governanti e il Popolo
governato.
30 maggio 1862.
Giuseppe Mazzini.
IL SOCIALISMO E LA DEMOCRAZIA((298))
Esiste un malinteso fra gli uomini della Democrazia e i socialisti;
e questo malinteso produsse la scissura che rese possibile la
dittatura bonapartista, e tiene tuttora divisa, in Europa, la classe
media dalle((299)) classi operaje. Questo malinteso consiste
nell'aver confuso, sì gli uni che gli altri, i sistemi socialisti
col pensiero sociale, col principio d'associazione.
Gli uni credettero che il Socialismo consistesse in certe teorie
assolute, presentate da alcuni pensatori; e siccome quasi sempre
queste teorie movevano dal punto di vista governativo, e
minacciavano colla loro uniformità regolamentare di sopprimere ogni
personalità umana, quelli uni condannavano il socialismo in nome
della libertà.
Gli altri credettero che l'antagonismo della Democrazia verso i loro
sistemi provenisse dalla negazione del loro principio fondamentale,
e condannarono quindi la Democrazia, in nome dell'Associazione.
Questo malinteso esiste tuttora per gli uomini esagerati, che sempre
si trovano in ogni partito; ma è però affatto mancante di base.
Havvi un terreno comune abbastanza vasto, perchè vi possiamo stare
tutti uniti.
Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni
rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la
realizzazione di un progresso decisivo nelle condizioni morali,
intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo
triplice progresso, essendo più urgente per le classi operaje, ad
esse anzitutto devono essere rivolti i beneficî della rivoluzione.
E neppure può esservi una rivoluzione puramente sociale. La
questione politica, cioè a dire, l'organizzazione del potere, in un
senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del
popolo, e tale che renda impossibile l'antagonismo alla causa del
progresso, è una condizione necessaria alla rivoluzione sociale.
È necessaria all'operajo la sua dignità di cittadino, ed una
garanzia per la stabilità delle sue conquiste nella via della
libertà.
La parola d'ordine dei nostri tempi è l'Associazione, che deve
estendersi a tutti.
Il diritto ai frutti del lavoro è lo scopo dell'avvenire; e noi
dobbiamo adoperarci a rendere vicina l'ora della sua realizzazione.
La riunione del capitale e dell'attività produttrice nelle stesse
mani sarà un vantaggio immenso, non solo per gli operaî ma per
l'intera Società, poichè aumenterà la solidarietà, la produzione ed
il consumo.
Le associazioni volontarie, moltiplicate indefinitamente, oltre al
riunire un capitale inalienabile, aumenteranno progressivamente e
faranno concorrere al lavoro, libero e collettivo, un numero di
operaî ogni giorno maggiore.
Ciò è quanto io intendo esprimere colle due parole, egualmente
sacre, che non cesso di ripetere: LIBERTÀ-ASSOCIAZIONE. Forse che
ciò non basta a farci unire nel lavoro come fratelli? Un solo passo
nella realizzazione di questi due principî non ci schiuderebbe egli
un'ampia via per discutere tranquillamente le questioni secondarie?
Ecco quanto, se lo potessi, ripeterei ogni giorno ai miei fratelli
di Spagna. Ecco quanto dovete ripeter loro in mio nome: Libertà per
tutti; progresso per tutti; associazione di tutti. Può egli esistere
un vero democratico, che non s'inchini, nel fondo del suo cuore,
davanti a questi tre termini eterni del problema della Umanità? La
logica inflessibile non esige forse il lavoro associato di tutti,
per conquistare, svolgere e consolidare il progresso e
l'associazione?
Per quanto si voglia impedirlo, noi corriamo ad una crisi europea,
simile a quella del 1848: sventurata la Spagna e sventurati noi
tutti, se le severe lezioni che allora e negli anni seguenti abbiamo
ricevute, non ci hanno insegnato ad unire le nostre forze per la
prossima lotta! I vostri padri vinsero i Mori, non già dividendosi e
questionando tra loro sull'importanza del Cristianesimo e
dell'Indipendenza nazionale; li vinsero, perseverando uniti in una
lotta eroica di 800 anni, e così ottennero finalmente il loro posto
di popolo libero in Europa!
Riunitevi tutti adunque, o credenti nella Libertà e
nell'Associazione, contro i Mori moderni, contro i nemici di queste
due grandi idee, e sono certo che conquisterete il vostro posto fra
gli Stati Uniti, liberi ed associati, d'Europa.
1862.
Giuseppe Mazzini.
LETTERE D'UN ESULE
AGLI EDITORI DEL DOVERE.
....Odo che soldati Italiani s'incamminano alla frontiera. Nel
Bergamasco, sui gioghi del Tonale e dello Stelvio, ai passi che
guidano al nostro Trentino, occupato anch'oggi dagli Austriaci,
scintillano addensate bajonette di bersaglieri, dei bersaglieri che
pugnarono e vinsero - al grido di Viva Italia! - le battaglie
destinate ad affrancare la Patria dall'Alpi all'Adriatico. Perchè
questi moti? Hanno quei che imperano sull'Italia sorgente sentito
finalmente il debito loro? Ha la guerra eroica che si combatte
contro la prima potenza militare d'Europa da giovani, in campo senza
base, senza unità di disegno, senz'ordini e quasi senz'armi,
insegnato agli uomini della Monarchia ciò che può chi vuole davvero,
e additato ad essi, schiusa senza gravi pericoli di disfatta, la via
dell'onore e della salute d'Italia? Hanno quelli uomini che ci
susurrano da tre anni all'orecchio: aspettate sei mesi e vedrete -
scossi dal grido di quei combattenti, taluni dei quali versarono
sangue per la nostra libertà a fianco dei nostri bersaglieri, e che
suscitano oggi un entusiasmo promettitore in tutte le frazioni del
Partito Nazionale d'Italia - indovinato che il momento è sorto; che,
afferrandolo spontanei, possono forse ancora, riaffratellare le
moltitudini a una instituzione cadente, che la guerra all'Austria,
la guerra pei nostri fratelli Veneti, la guerra per le nostre Alpi,
è oggi facile, opportuna, invocata, e collocherebbe d'un balzo
l'Italia a capo della guerra delle Nazionalità conculcate? Dite, oh
ditemi, saremo redenti? Cancelleremo con battaglie nostre tre anni
di meschine incertezze e di concessioni alla Dea Paura? Saluteranno
finalmente i poveri Veneti, nei bersaglieri italiani, i loro
liberatori?
Il moto Polacco è moto iniziatore di quello d'una intera famiglia
Europea; i vostri uomini di governo lo sanno. Il moto Polacco è, non
solamente nazionale, ma Slavo. Un'anima sola, un solo pensiero,
inspirano il Governo segreto dell'Insurrezione Polacca e la vasta
Associazione Terra e Libertà Russa, Pietroburgo e Varsavia.
Costringendo i Polacchi all'azione quattro mesi prima del tempo
prefisso, scegliendo alla battaglia, ch'ei presentiva inevitabile,
il tempo e l'ora, lo Tsar ha potuto scindere la manifestazione del
disegno comune, non arrestare il lavoro che si stende rapidamente. E
quel lavoro non si limita alla Polonia insorta, alla Russia
cospiratrice: abbraccia i Polacchi della Posnania e della Galizia, i
Cecki di Boemia e Moravia, gli Slavi Meridionali della Bosnia,
dell'Erzegovina, del Montenegro, della Voyvodina serbo-austriaca,
della Serbia. E la Serbia, ordinata, armata, presta all'azione,
avrebbe seguaci al suo moto quattro milioni di Bulgari. E il moto
degli Slavi del Sud trascinerebbe in Tessalia e in Epiro gli Elleni,
in Bessarabia e nel Banato i Rumani. E l'Ungheria, Magiara e Slava,
non aspetta a levarsi se non un assalto all'Austria, da dove che
venga, e l'insurrezione Serba alla propria frontiera. Sono due
Imperi, l'Austriaco e il Turco, minati per ogni dove, ribelli in
ogni elemento e pendenti da una iniziativa subita, ardita. Or questa
iniziativa spetta all'Italia; all'Italia forte di ventidue milioni
d'abitanti e verso la quale, per virtù dei fati che sono in essa, si
rivolgono le speranze di tutti i Popoli oppressi. Poche navi
nell'Adriatico, centomila uomini che movano di fianco al
quadrilatero su Venezia, trentamila volontarî cacciati all'Alpi,
Garibaldi in lettiga, come il cieco Ziska nelle battaglie degli
Ussiti, tra essi, bastano a sommovere tutta quella moltitudine
d'elementi, bastano a trasformare la carta d'Europa. La Polonia e
l'Italia tengono i due poli d'un asse che si prolunga dal Baltico
fino all'Adriatico. E questa nostra Patria, alla quale per essere
grande fra tutte non manca se non coscienza delle proprie forze,
può, volendo, strozzare in sul nascere, com'Ercole in culla, il
serpente del dispotismo europeo. L'Austria lo sa: i vostri uomini di
governo lo sanno. L'Austria ha fatto prova di tolleranza verso i
Polacchi in Cracovia a impedire, a indugiare almeno il moto in
Galizia, e a illuder gli insorti tanto che non escisse da essi una
chiamata all'Ungheria e agli Slavi meridionali. I vostri uomini di
governo hanno cospirato, a modo loro, e cospirano col principe
Michele e coi capi del Montenegro; sanno da essi le condizioni alle
quali accenno. Perchè non coglierebbero l'opportunità cacciata loro
innanzi dal Partito d'Azione in Polonia? Perchè i battaglioni di
fanteria e di bersaglieri ch'essi mandano affrettatamente in
Valtellina, a Vestone, a Sarnico, altrove, non avrebbero incarico di
piombare sopra un nemico minacciato all'interno su tutta la linea, e
d'inalzare la bandiera dell'insurrezione Veneta, e di lavare a un
tratto l'onta di Villafranca?
No; l'onta di Villafranca non sarà lavata, la Polonia non avrà gli
ajuti del Governo Italiano, i Veneti rimarranno per non so quanto
condannati a pascersi d'illusioni. I vostri giornali governativi
rivelano senza vestigio di rossore il segreto di quelle mosse.
L'armi italiane scintillano ai gioghi dell'Alpi per proteggerle
contro noi, contro tentativi possibili, a pro dei poveri Veneti,
degli uomini che liberarono il Mezzogiorno d'Italia. I vostri
bersaglieri sono collocati di fronte agli Austriaci per difenderli
da ogni assalto italiano, come i zuavi di Francia difendono in Roma
il Papa. Dormite tranquilli, Croati: i soldati d'Italia guardano i
passi per voi. I sogni di gloria degli uomini che li mandano non
vanno al di là d'un secondo Aspromonte.
Ma perchè? Perchè, tremanti d'ogni straniero, taciti davanti al
perenne insulto dell'occupazione di Roma, incapaci d'una
deliberazione ardita a pro di Venezia e servi anche oggi, quando un
Popolo di ventidue milioni è con essi, della timida, lenta, obliqua
politica piemontese, sorgono audaci e rapidi nei propositi contro
ogni supposta mossa di cittadini, e trovano coraggio d'azione ad
ogni sospettare di spia che accenni a generose aspirazioni negli
Italiani? Perchè questi uomini, che a fronte di due anni di guerra
ordinata, alimentata da Roma Papale, non osano dire agli invasori
francesi: sgombrate la base d'operazione del brigantaggio, diventano
a un tratto energici per proteggere l'usurpata frontiera
dell'Austria? Perchè, se sospettano che i nostri fratelli dell'Alpi
pensino a insorgere, si frappongono in armi fra essi e noi, quasi a
dir loro: rimarrete soli e senza il menomo ajuto dai vostri?
Vogliono Roma, o preferiscono che duri indefinitamente un mortale
pericolo all'Unità? Vogliono Venezia libera o serva? Che importa ad
essi s'altri si avventuri a tentare l'impresa che è da tre anni
debito loro? Qual rischio corrono? Non son certi di cogliere per ora
i frutti dell'altrui vittoria? Non hanno presta, nel caso
dell'altrui disfatta, la discolpa - e ne userebbero largamente -
delle persecuzioni sui vinti? Perchè, se intendono a fare l'Italia,
non salutano in core, non si tengono presti a seguire, dove il
successo la coroni, l'iniziativa di popolo, che sola può cominciare
la lotta emancipatrice? Che mai sperano, se non dall'azione? Non
vedono essi che nell'azione è oggi l'unico argomento potente a
convalidare il Diritto? Non vedono l'Europa intera agitarsi a pro
della Causa rappresentata dalle bande Polacche? Perchè antepongono
il silenzio e l'inerzia alla generosa protesta in nome della quale
soltanto essi potrebbero dire all'Europa: o riconoscimento del
Diritto Italiano o rivoluzione? Sono essi inetti o tradiscono?
Vogliono l'Unità d'Italia, che sola l'insurrezione può darci, o
accarezzano tuttavia nel segreto il pensiero di confederazione, che
il loro Cavour accettava da Luigi Napoleone in Plombières?
Sono inetti e tradiscono. Tradiscono, non dirò del tradimento
volgare che inganna deliberatamente - perch'io non so le intenzioni
e quindi non le accuso - ma del tradimento perenne, ineluttabile,
egualmente funesto, di chi si assume un ufficio senza possedere uno
solo degli elementi necessarî a compirlo. Vorrebbero Roma,
vorrebbero Venezia - a chi non sorriderebbe l'acquisto della doppia
gemma? - ma le vorrebbero dall'Austria, dalla Francia, dalla
Diplomazia, da concessioni codarde e fatali al futuro, da mercati
colpevoli verso altri Popoli, da interventi disonorevoli, da ogni
Potenza, da ogni raggiro, fuorchè dall'Italia e dalla franca, leale,
diretta, morale Politica, che dice: son mie; Dio le dava all'Italia:
il Popolo Italiano compie i voleri di Dio. Hanno sognato d'avere
Venezia allettando l'Austria a impossessarsi delle terre
Moldo-Valacche, coi capi delle quali ricambiavano intanto proteste
d'amicizia fraterna: sognano d'averla ajutando un giorno l'Austria
nella conquista dell'egemonia Germanica, la Francia in quella delle
provincie Renane; e, quanto a Roma, l'aspettano - Cavour lo
dichiarava, applaudito alla Camera - dalla conversione del Papa e di
tutto l'orbe cattolico. Erano pronti, per avere tre anni addietro
Venezia, ad abbandonare ai disegni napoleonici il Centro;
abbandonerebbero oggi, per aver Roma, il Mezzogiorno d'Italia.
Fiacchi sino al ridicolo, mandarono elucubrazioni rettoriche al
Papa, che l'alleato non consegnò. Condannati dall'assenza d'ogni
concetto a rinascenti contraddizioni, proclamarono la vuota formula
libera Chiesa in libero Stato con uno Statuto il cui primo articolo
dichiara il Cattolicesimo religione officiale della Nazione:
bandirono solennemente il Diritto del Paese a Roma, poi annunziarono
che s'asterrebbero da ogni pratica per tradurre il diritto in fatto,
e si tacquero. Da due anni il Papa ha praticamente dichiarato guerra
al Regno d'Italia; da due anni escono da Roma, fatta convegno aperto
di cospiratori protetti dalle bajonette francesi, bande armate di
masnadieri a infestare le provincie meridionali; ed essi si limitano
a una impotente difesa. Leggono nel preventivo Francese del 1864
mantenuta la cifra che rappresenta le spese dell'occupazione, e non
trovano in sè coraggio che basti, non foss'altro, a protestare
pubblicamente davanti all'Europa e chiederle l'onesta applicazione
del non-intervento; e - forti del favore dell'Inghilterra e dei
Popoli quanti sono - non hanno core, dacchè guerra non osano, di
dire almeno a tutti, Papa, Francia, Governi e Popoli: «Lo straniero
occupa ad arbitrio la nostra Metropoli e una zona di frontiera della
nostra terra; l'Europa è inerte; il Diritto è muto per noi; l'azione
legale ci è contesa: noi lascieremo aperta la via ai rimedi
anormali. Collocati fra l'usurpazione altrui e il diritto dei
nostri, lascieremo ai nostri libertà d'azione contro l'ingiustizia
dalla quale nessuno protegge l'Italia. Se alle invasioni delle
masnade che vengono da Roma i cittadini risponderanno invadendo essi
pure, non ci opporremo; se, a sottrarsi al continuo pericolo d'una
irruzione dell'Austria, tenteranno sommovere il Veneto e
conquistarsi la frontiera dell'Alpi, non ci opporremo; e nol
potremmo senza pericolo. Date giustizia all'Italia, o rassegnatevi
ad avervi un foco perenne di rivoluzione.» Quel linguaggio,
appoggiato da quattrocento mila bajonette, ci darebbe Venezia e Roma
in tre mesi.
Ma per tenere linguaggio sì fatto bisogna avere una fede, ed essi
non hanno che opinioni mutabili, tiepide, incerte; bisogna credere
nelle forze che sono in Italia, ed essi si credono deboli e
s'affaccendano a dirlo agli stessi loro soldati: bisogna credere
nella potenza del Diritto, ed essi non credono che nel raggiro,
negli artificî della diplomazia; bisogna avere la scienza,
l'intuizione che crea l'avvenire, ed essi non giurano se non nella
scienza delle epoche morte; bisogna intendersi colle Nazioni
vogliose di sorgere, ed essi cospiravano con Ottone e cospirano con
Michele; bisogna osare, ed hanno paura; bisogna amare ed essere
amati, ed essi non sono amati e non amano; bisogna fare una cosa
sola del Governo e del Popolo, ed essi hanno creato e mantengono un
dualismo sistematico fra l'uno e l'altro; bisogna desiderare,
evocare, occorrendo, una iniziativa dalle viscere del Paese e
giovarsene come di punto d'appoggio alla leva, ed essi, incapaci
d'azione propria, aborrono, per timore del futuro, da ogni
iniziativa popolare, aborrono dalla possibilità che il Popolo
acquisti coscienza della propria forza, aborrono dal passato che
grida loro: Marsala e Napoli; aborrono dall'avvenire che direbbe
loro: Trento o Treviso: bisogna fare, promovere, inspirare,
dirigere, progredire, ed essi non sanno altro segreto che di negare
e reprimere. Hanno raggiunto l'ideale della repressione, quando,
invece di velarsi il capo e gemere come per lutto nazionale,
mandavano, otto mesi addietro, un brevetto di promozione all'uomo
che versava, sulla via di Roma, il sangue di Garibaldi;
raggiungevano, pochi dì sono, l'ideale della negazione, quando, per
timore dell'Austria, negavano nome e qualità d'Italiani ai romani e
ai veneti. Perchè meravigliare se mandano fanteria e bersaglieri
contro ipotesi di tentativi emancipatori - se dicono ai Croati:
dormite tranquilli; i soldati d'Italia guardano i passi per voi?
Negare e reprimere: è la formula dei Governi che cadono. I Popoli
vogliono vivere, vivere della vita divina ch'è in essi e si chiama
Progresso: i Popoli che sorgono a vita nuova, segnatamente. Una
nazionalità è un fine, un ufficio, una missione, un Dovere
collettivo accennato da Dio: bisogna raggiungere quel fine, compiere
quel Dovere: ogni sosta sulla via segnata costa disonore, poi
lagrime e sangue. Il Popolo ha l'istinto di questo Vero. Dove si
sente guidato innanzi, dove trova sviluppo incessante, espansione di
vita sulla via per la quale è chiamato, dove scopre negli atti una
virtù iniziatrice, il Popolo saluta una Instituzione, un Governo. Si
chiami Dittatura, Monarchia, Impero o Papato, il Popolo segue e
protegge: seguiva i Papi quand'essi promovevano, nei primi secoli,
l'emancipazione degli schiavi, insegnavano che la Morale era suprema
su tutti, padroni e sudditi, e opponevano la parola religiosa Dovere
all'arbitrio, alle usurpazioni dei re: seguiva Richelieu e Luigi XI,
quando la loro tirannide combatteva il feudalismo e mozzava nel capo
la gerarchia dei baroni di Francia: seguiva Napoleone, quand'ei,
nella prima metà della sua carriera, rappresentava colle bajonette
una idea d'Eguaglianza, e lasciava dietro ogni mossa un Codice,
imperfetto ma contenente il riconoscimento dei diritti civili negati
dalla aristocrazia, da principi e papi. Dove cessa l'iniziativa del
Progresso da compiersi - dove l'Instituzione non rappresenta più il
moto, la vita - dove il Governo assume per proprio simbolo il segno
d'una quantità negativa, per propria teorica una teorica di
repressione, per proprio ufficio quello di conservare e impedire -
il Popolo intende che una sintesi è consumata, che la vitalità d'un
principio è esaurita, che una forma è irreparabilmente logora, e si
volge altrove.
Allora comincia uno spettacolo che la Storia ci addita dieci volte
negli ultimi settanta anni. Da un lato, diffidenza e speranza;
dall'altro diffidenza e paura. Il Popolo pende, per un tempo,
incerto, perchè dubbioso dell'avvenire, ignaro di chi lo guidi,
avverso timidamente all'autorità che lo regge, sospettoso della
futura. Quei che siedono al governo interpretano quella incertezza
come noncuranza, impotenza o mancanza di coraggio, e s'illudono a
persistere nel loro funesto sistema: i corrotti nell'anima fiutano
il guasto e s'affrettano a cogliere i frutti dell'albero che domani
forse rovinerà: i tiepidi, che son pur sempre i più numerosi, si
ravvolgono, come chi presente tempesta, nel manto dell'io,
s'astengono da ogni atto virile, da ogni affermazione di vita, e
prolungano le illusioni e la crisi alla quale, dichiarandosi,
imporrebbero fine rapidamente: i buoni, ma fiacchi, disperano: i
buoni arditi, credenti e non curanti di conseguenze per sè,
inalzano, incerti anch'essi da principio e arrendevoli ad ogni
transazione onorevole, la bandiera dell'avvenire. Contro questa
minoranza perturbatrice d'una illusione fatta abitudine, il Governo
s'irrita, e tende a sopprimerla quasi eresia violatrice del dogma.
Incomincia una guerra, sorda dapprima, di spionaggio, d'insidie,
d'accuse calunniatrici, di tentativi di corruzione che trionfano su
taluni, falliscono sugli altri, e li rendono più sempre convinti che
l'Instituzione è guasta e condannata a perire; poi, d'aperta
crescente persecuzione: persecuzione contro le facoltà più
inviolabili, più indivisibili dall'umana natura, l'associazione,
l'espressione libera del pensiero. La resistenza infierisce quella
minoranza d'apostoli che, sgominata sopra un terreno, si riordina
sopra un altro, muta forme d'opposizione, mina segretamente il punto
che essa non può assalire di fronte, stanca con piccoli ma continui
assalti il nemico e lo trascina più in là ch'esso, per tattica, non
vorrebbe: di conservatore il Governo diventa finalmente retrogrado.
Il Popolo intanto studia tacito i segni e le vicende di quella
guerra, comincia a leggere sulla fronte di quei perseguitati il
proprio segreto, afferra nel martirio affrontato nobilmente da pochi
un pegno delle schiette sincere intenzioni di quei che piantano la
bandiera sulla loro tomba, e accenna ad affratellarsi. Di fronte al
primo pericolo i sostenitori dell'Instituzione minacciata si
dividono in due campi; nell'uno, gli eclettici del Partito, quanti
in fondo cominciano a dubitar del trionfo, tentano conciliazioni
impossibili fra termini che s'escludono, si studiano di sopprimere
l'ostilità d'alcuni fra gli elementi progressivi, aprendo loro un
angusto varco al sacrario dell'Autorità, offrono transazioni
impotenti a fondar la concordia, dànno promesse di meglio che non
possono mantenere: nell'altro, si ristringono i cupidi d'autorità
senza limiti, gl'intolleranti per natura o educazione di corte, gli
uomini che hanno il coraggio inferocito della paura, i pochi ingegni
logici che deducono imperturbabili tutte le conseguenze del loro
principio. Dal primo campo esce presto o tardi, inevitabile
conseguenza del difetto di forte convincimento, uno spettacolo
d'immoralità che sparge lo scredito sulla bandiera; dal secondo esce
una perenne minaccia di crisi violenta, che accende le passioni dei
combattenti e comincia a far sentire ai tiepidi i pericoli d'una
condizione precaria e anormale. Il malcontento s'allarga alla base.
Il Governo, pauroso e irritato dai nuovi pericoli, smarrisce anche
quella apparenza di calma e di coscienza di forza che accennava
ancora, nella mente del Popolo, a una Autorità esistente in esso, e
da quel giorno è perduto; da quel giorno comincia per esso uno
stadio fatale, sul quale anche una vittoria è rovina. Se il Potere
s'afforza d'armi e accarezza il militarismo, diffonde sdegni e
sospetti funesti negli ordini cittadineschi; se cerca appoggio in
uno o altro Governo straniero, offende l'orgoglio nazionale e si
confessa separato dalla vita della Nazione; se infierisce nella
resistenza, è aborrito come tirannico; se accenna a concedere,
sprezzato siccome debole. Un giorno, gli uomini del campo logico si
avventurano a un tentativo imprudente, a una tarda illegale
manifestazione di forza; gli uomini del campo eclettico si sperdono,
come sempre usano, per vie diverse; le frazioni nelle quali le
vanità individuali aveano diviso, nella sfera intellettuale, il
campo d'azione, si raccolgono tutte di fronte all'assalto nemico.
L'Europa ascolta un rumore come di cosa che rovina. È una
Instituzione caduta, trapassata alla vita storica. Un'altra sorge in
sua vece. Il Popolo ripiglia, emancipato, la propria via verso il
fine.
È questa una pagina di storia ripetuta sovente negli ultimi due
terzi di secolo in Francia, in Germania, nel Belgio, in Grecia,
nella Spagna.
A quale linea della pagina siamo oggi in Italia?
Aprile, 1863.
Giuseppe Mazzini.
I MONARCHICI E NOI
La guerra vigliacca e sleale, combattuta dagli uomini di parte
monarchica contro gli uomini di fede repubblicana, ci conforterebbe
sulla via, se guardassimo soltanto a noi e al trionfo della nostra
bandiera. Un Partito che spende metà della sua polemica a
dichiararmi morto per sempre e senz'ombra d'influenza in Italia, e
l'altra a provare ch'io minaccio di porre l'Italia a soqquadro, e
chiamare il Governo a vegliare e reprimere energicamente: - che, a
farci avversi i soldati italiani, ci accusa di chiamarli sgherri, e
manda a un tempo circolari segrete per impedire disegni nostri di
seduzione sull'esercito; - che consacra periodicamente dieci colonne
delle sue gazzette a dimostrare che noi aggiriamo Garibaldi e ne
inspiriamo le mosse, e dieci a dichiarare che Garibaldi non è con
noi, che noi ne usurpiamo il nome, ch'ei non divide alcuna delle
nostre aspirazioni - si condanna deliberatamente ad essere ridicolo.
Un Partito - partito governativo, e quindi potente d'influenza, di
pubblicità, di prestigio su quanti adorano il fatto - che non trova
contro noi individui, pochi, dicono, e di certo con pochi mezzi
d'apostolato e d'azione, altr'arme che la calunnia; - che ripete a
ogni tanto, contro ogni evidenza storica, che i repubblicani
vogliono sangue e rapina; - che non discute, ma insulta; - che non
cita mai ciò che si scrive da noi, ma insiste a confutare fatti e
detti, provati non nostri; - che ammette falsarî nelle sue file;
conia in Torino una circolare, v'appone il mio nome, la manda,
perchè s'inserisca, a una gazzetta austriaca, tradisce stolidamente,
per gioja insana della propria colpa, il segreto, annunziandola
prima dell'inserzione, e la commenta oltraggiosamente, quasi fosse
documento storico, il giorno dopo - è partito indegno del nome, e
condannato a perire. Una Nazione non può lungamente acquetarsi ad
essere guidata da gente immorale.
Ma davanti a questo avvicendarsi di basse calunnie anonime e di
villanie; davanti a questa danza d'iloti briachi, che s'intitolano
moderati, è impossibile non sentirsi, anche sprezzando, rattristato
nell'anima. Quella stampa è pur sempre stampa italiana: italiani son
gli uomini che la insozzano di contumelie, italiani gl'insultati da
essi. Quelle tristi gazzette viaggiano all'estero, rappresentano
agli occhî di molti la politica, le tendenze del Regno,
somministrano una base ai giudizî stranieri su noi. «Che!» - dicono
quegli uomini, i quali studiano attenti, come oracoli del futuro, i
nostri detti, i menomi fatti del nostro sorgere - «volete essere
rispettati, e non sapete rispettarvi fra voi? Vi dichiarate capaci
di libertà, e la violate, fin dai primi passi, coll'odio? Volete
giustizia, e vi presentate per meritarla colla veste dei
calunniatori? Invocate progresso, e l'espressione d'ogni opinione
diversa dalle vostre v'irrita sino al furore? Taluni fra i
perseguitati d'intolleranza da voi ci son noti da lungo: possiamo
dividere o non dividere tutte le loro opinioni; ma li sappiamo
onesti, profondamente convinti e devoti - senza fini individuali - a
una idea. Confutateli, ma non li oltraggiate. L'inviolabilità del
pensiero è madre della Libertà; sua primogenita è la tolleranza
reciproca.» E cominciano a guardare, con un senso di suprema
sfiducia, all'agitarsi di un Popolo che chiede Unità di Nazione, e
tinge a danno dei proprî figli, la penna di fiele, e calunnia le
intenzioni, e cancella - o lo tenta - la sacra indipendenza delle
diverse credenze.
E tra noi? Ah! qual cumulo di rimorsi dovrebbe opprimere un giorno -
se i coniatori di circolari potessero esserne capaci mai - l'anima
di questi gazzettieri monarchici che diffondono l'immoralità della
menzogna e dell'odio; versano nel core dei giovani, in un Popolo
nascente alla Libertà, la diffidenza, lo scredito sul principale
stromento d'educazione, la Stampa; e irritano colla persecuzione e
coll'intolleranza le passioni vendicatrici e di ribellione contro
l'ingiustizia, dove non bisognerebbe che seminar l'amore e la
riverenza alla libera discussione! Pochi tra noi vi sanno inetti,
più che settari avveduti e calcolatori; d'anima volgare e
meschinamente invida, più che profondamente malvagia; irritabili e
collerici per natura di fiacchi; adoratori ciechi, per difetto di
fede, d'ogni fatto che appaja potente, e servi ad ogni potere
confortato di bajonette e d'erario. Sanno che schiamazzaste, prima
del 1859, maledizioni, poi adulazioni schifose al Bonaparte; inni,
finchè vinse, a Garibaldi, come anch'oggi al re-mito, a Cavour, a
Ricasoli, a Rattazzi, a Minghetti, a chi no? Schiamazzereste((300))
a noi se vincessimo; però essi vi guardano sorridendo, e vi
vedrebbero, stringendosi nelle spalle, mutar linguaggio e mendicare
interpretazioni di progresso all'antico, il dì che fosse mutata
l'instituzione. Ma gli altri? I non educati dalle lunghe delusioni e
dallo studio severo delle umane cose a tollerare e compiangere? A
giudizî ingiusti non opporranno giudizî ingiusti, alle calunnie
ribellione d'accuse appassionate e violenti? V'odono a insinuare che
uomini, la cui vita intera fu culto quasi esclusivo dell'Unità
Nazionale, sono oggi affratellati con fautori di moti autonomisti
locali o retrogradi: perchè non crederanno voi, lodatori dello
sgoverno che minaccia strapparci le provincie meridionali, affiliati
consapevoli al disegno di smembramento, persistente nel Bonaparte?
Vi vedono imprigionare uomini che patirono per la patria, come
Rosario Bagnasco, lunghi anni d'esilio e, a cercar d'infamarli,
confonderli coi camorristi: perchè non infameranno voi come
pagnottanti e venditori della vostra coscienza agli agî o alla
vanità del potere? Così voi alimentate, imprudenti, una guerra
ch'oggi è d'oltraggi, domani può essere di sangue; voi falsate il
senso morale della Nazione; convertite in fiaccola seminatrice
d'incendî la luce che dovrebbe escire, serena e fecondatrice,
dall'esame dei diversi concetti; insegnate ai giovani
l'intolleranza, e radicate nei cuori la funesta massima, che tutti i
mezzi son buoni a spegnere gli avversarî! Dio tolga che un giorno
non abbiate a pentirvene!
Or noi non v'abbiamo dato l'esempio. La nostra polemica contro voi
può essere acerba, sdegnata, sospettosa talora; non fu mai
deliberatamente calunniatrice. Noi non coniammo circolari, citiamo
le vostre; citiamo documenti firmati da ministri vostri, citiamo
lettere di Roverbella, ragguagli dati da agenti officiali stranieri,
che vi provano presti ad abbandonare chi si dà a voi, presti a
transigere sull'onore italiano collo straniero, presti a combattere,
per ossequio a un despota potente o avversione innata all'azione
popolare, chi ha fatto, per l'illusione di concordia, sacrificio
d'ogni idea più cara, ma non può sacrificarvi l'Unità della Patria.
Noi vi rimproveriamo gli impotenti metodi di terrore spiegati nel
Mezzodì dell'Italia; condanniamo le fucilazioni lasciate ad arbitrio
di militari, cacciati a un tratto in paesi ove ignorano uomini e
cose e devono commettere inevitabili errori, non le inventiamo: voi
avventate, insistenti, contro noi l'accusa di sanguinarî, quando
sapete che, da un unico vecchio e severamente biasimato esempio
francese infuori, voi non potete citare un solo atto di feroce
arbitrio, commesso da quei che reggono le repubbliche Svizzere, o
ressero le brevi repubbliche di Roma e Venezia. Voi accusate
sistematicamente le nostre intenzioni; noi registriamo fatti
continui di guerra all'Associazione e alla Stampa, stati d'assedio,
imprigionamenti di deputati, rifiuto di cittadinanza agl'italiani
romani e veneti, paci disonorevoli, alleanza servile con chi occupa
a forza quella che voi proclamaste a parole vostra Metropoli; Nizza,
Savoja, Aspromonte. Stringete in una tutte le nostre polemiche: esse
sommano a dirvi, che voi non adorate un principio, ma servite a una
precaria opportunità: che, per documenti firmati da voi, voi non
foste nè siete gli uomini dell'Unità Nazionale, ma sapete talora
giovarvi, fin dove non si frappone il divieto straniero, dell'opera
di quei che son tali: che non avete nè avrete mai virtù iniziatrice:
che non siete pianta indigena in Italia, ma innesto: che non amate
il Popolo e ne temete, e siete quindi e sarete trascinati fatalmente
ad avversarne la Libertà: che non avete nè tradizione, nè vita vera
nell'oggi. Confutateci, se potete; ci avrete vinti: perchè noi,
dissimili dai vostri sostenitori, non cerchiamo altro terreno che
questo.
Io conosco un Paese - ed è il solo - dove la Monarchia ha tuttora
radici inviscerate colle tendenze, colle idee, colla vita storica
della Nazione. È l'Inghilterra. Là, la Costituzione non escì
improvvisata, strappata dalla paura, in un angolo del paese; crebbe
spontanea per opera lenta di secoli, colla potenza collettiva, col
naturale sviluppo degli elementi innestati dalla conquista sugli
elementi anteriori. La Monarchia compì una missione, frapponendosi
tra la tendenza a smembrare, innata nel feudalismo, e le tendenze
unificatrici: diede il suo nome all'incremento progressivo delle
forze nazionali. Una aristocrazia, forte di possedimenti, d'una
tradizione d'uomini illustri, d'affetto orgoglioso all'indipendenza
e alla grandezza del paese e - nel passato - d'una costante
iniziativa in tutte le instituzioni di beneficenza, sta, con unità
di concetto e di disciplina, tra la Monarchia e l'elemento
democratico, moderatrice. Questa aristocrazia, indispensabile in
ogni ordinamento di monarchia costituzionale, cede oggi terreno
all'elemento finanziario industriale e sparirà un giorno, e con essa
la Monarchia; ma or vive, rigogliosa tuttavia e venerata. La
Monarchia è in Inghilterra immedesimata ancora colla vita del Regno.
E perchè lo è e sa d'esserlo, non teme, non sospetta, non s'irrita,
non vive, come in Italia, di repressione. Là, le instituzioni che
dichiarano libero l'uomo non sono lettera morta: hanno mallevadori
Governo e Popolo. La facoltà d'associazione è, politicamente,
illimitata: il diritto delle pubbliche adunanze, protetto:
l'espressione del pensiero, santa, inviolabile. Uno scrittore
pubblicò per due anni una Rivista mensile, intitolata: Repubblica,
senza che potesse sognarsi un sequestro. Altri perorano contro
l'instituzione monarchica, contro l'ordinamento attuale della
proprietà, contro il cristianesimo, con un uomo di polizia alla
porta, incaricato di tutelare, occorrendo, a pro dell'oratore,
l'ordine nella sala.
Un ministro, Lord Palmerston, propone, per compiacere a Luigi
Napoleone, alcune modificazioni al diritto di libertà illimitata,
che gli stranieri, gli esuli politici, possiedono in Inghilterra: 50
000 uomini si raccolgono a convegno pubblico in Hyde-Park, per
protestare contro le intenzioni ministeriali: il ministro ritira il
dì dopo la proposta, e torna alla vita privata. Un altro ministro,
Lord John Russell, rimproverato di trascurare le riforme elettorali
credute necessarie, rimprovera alla sua volta di freddezza il Paese:
perchè non agitate? ei dice; perchè non provocate adunanze
pubbliche, che esprimano la volontà del Paese? La Monarchia non ha
vigore d'iniziativa; ma segue, desidera, invoca l'iniziativa
popolare. E per questo vive rispettata dal Paese, e sicura: ciò che
da noi si chiama rivoluzione è ignoto in Inghilterra; ignoti sono i
consorzî segreti, ignoti i tumulti di piazza: la piazza, quando è
unanime, ha dominio legale. Gli avversarî politici discutono
pacifici e rispettosi; nessuno sogna d'accusare il più accanito
nemico del Governo d'essere alleato segretamente con una o altra
cospirazione straniera, o con fazioni avverse all'Unità del Paese:
nessuno conia circolari a suo danno. - Ma voi? Voi, immemori
dell'anno 1830 e del 1848, immemori delle dieci rivoluzioni che
punirono, nell'ultimo terzo di secolo, i governi ostili alle libertà
popolari, ricopiate servilmente la politica dei dottrinarî francesi:
tenete per nemico vostro ogni uomo che invochi sviluppo progressivo
di libertà, e lo trattate siccome tale: avversate ogni
manifestazione d'opinione pubblica: aborrite e perseguitate, quando
non v'obbedisce ciecamente, il pensiero: ricusate voto e armi al
Popolo per paura - ignota in Inghilterra - ch'esso ne usi contro di
voi: tremate dei volontarî, che vi diedero mezza Italia, mentre
l'Inghilterra addita con orgoglio centocinquantamila volontarî
armati dalla monarchia; vi circondate di forze artificiali:
restringete nel cerchio angusto d'un partito l'amministrazione del
Paese: avete sospetti quanti fanno prova d'ingegno e d'animo
indipendente: trascinate l'incerta esistenza nella sfera fattizia
degli impiegati da voi, tra i responsi, calcolati a non turbarvi i
sonni, dei vostri prefetti, e respingendo e cercando sopprimere ogni
espressione della volontà del Paese, ogni avvertimento che vi venga
da esso. Voi non dirigete, non governate: vi difendete. Accampate in
Italia.
A voi, come a noi - più che a noi, dacchè all'espressione del nostro
pensiero son posti limiti da non potersi facilmente varcare - sono
aperte le vie di pubblicità. Perchè, senza oltraggi e calunnie,
dimenticando gl'individui e non guardando che alle idee, non ne
usate a confutarci, a convincerci? I sequestri,
gl'impedimenti((301)) alle riunioni, le diffamazioni da trivio,
possono darvi vittorie d'un giorno, vittorie di Pirro, ma confermano
nella mente degli assennati ciò ch'io vi dico a ogni tanto: che
siete e vi sentite deboli. Provateci che la monarchia compie da
lungo in Italia una missione storica unificatrice: provateci che fu
per secoli iniziatrice di progresso al Paese: provateci che i grandi
periodi della nostra vita e della nostra potenza non furono di
Popolo, ma ebbero moto e nome da Principi: provateci che la
Monarchia non s'insinuò in Italia sotto il patronato straniero, ma
vi crebbe spontanea per grandi servigi resi, per entusiasmo di
popolo riconoscente; provateci che non aprì mai gli sbocchi
dell'Alpi agli invasori stranieri, che non militò alternativamente
per Francia, Austria o Spagna sui campi d'Italia; provateci che la
Lega Lombarda, la difesa di Firenze, l'insurrezione di Masaniello, i
Vespri di Sicilia, la cacciata degli Austriaci da Genova, le
giornate di Milano, di Palermo, di Bologna, di Brescia, le nobili
resistenze di Venezia e Roma, furono capitanate da Principi;
provateci che la cessione di Milano e la pace di Villafranca non
portano la firma d'un re. Avrete rivendicato all'instituzione il
potente sostegno d'una tradizione; avrete rovesciato la metà dei
nostri argomenti e distrutto la metà della nostra forza. Ponete il
vostro nome e date virtù di decreto all'utopia, che Giorgio
Pallavicino ripete con gloriosa insistenza al deserto da ormai tre
anni: armate il Paese: date 400 000 soldati all'esercito e 50 000
volontari a Garibaldi; affidate, porgendo loro ajuti d'armi, danaro
e autorità, a commissioni locali composte d'uomini noti per energia
e devozione all'Unità Nazionale, la distruzione dei masnadieri
meridionali: date prova di fiducia al Popolo chiamandolo al voto:
provocate colle adunanze pubbliche, una espressione generale di
volontà nel Paese: riconfermate il Diritto Italiano, dichiarando
cittadini eguali e liberi quanti nascono e nacquero tra l'Alpi e il
Mare: ripartite ai Comuni, perchè li vendano o li affidino ad
associazioni industriali e agricole, i beni del clero; protestate
prima solennemente, a Popoli e Governi d'Europa, contro
l'occupazione francese in Roma; poi intimate; se per altra via non
riuscite, lo sgombro: chiamate il Veneto a insorgere, e appoggiatene
l'insurrezione colle armi. Avrete confutato l'altra metà dei nostri
argomenti, e provato che è in voi un elemento di vera vita, una
potenza d'iniziativa, capace di guidar la Nazione.
Fino a quel punto, tollerate ch'io vi dica: Voi non avete in Italia
tradizione, nè virtù di vita nell'oggi - e vendicatevi come potete,
coniando circolari, o tentando sotterrare coi sequestri la mia
parola.
Venezia e Roma: voi non potete sotterrare le due città; non potete
cancellarne il nome dal core degl'Italiani. Quelle due parole vi
uccideranno. Di mese in mese, d'anno in anno, d'indugio in indugio,
di promessa in promessa, voi finirete per convincere i Veneti e i
Romani illusi, gl'Italiani tutti titubanti anch'oggi, tra la
diffidenza crescente e una incerta servile speranza, che non è in
voi risolvere il doppio problema. Quel giorno, cadrete.
Noi siamo convinti, e però siete caduti per noi. Checchè scriviate
nei vostri diarî, checchè scriva un uomo((302)), a cui la canizie e
un passato onorevole dovrebbero vietare d'affermare alla leggera sul
conto d'altrui, non è vero ch'io voglia la Repubblica a qualunque
prezzo. Io mi sento troppo certo dell'avvenire, per affrettarlo a
prezzo dell'Unità Nazionale e contro il volere riconosciuto del mio
Paese. Per tre anni, finchè l'immensa maggioranza del Paese si
dichiarava soddisfatta e fidava in voi, finchè era possibile
illudersi a credere che intendereste la missione, la forza e la via
di salute che la Nazione v'offriva; finchè l'esperimento potea dirsi
non assolutamente compiuto, io tacqui religiosamente d'ogni
questione che non fosse di azione per l'Unità della Patria: noi
tutti, Partito d'Azione, ponemmo, qualunque fosse la bandiera, in
mano vostra mezzi, uomini, voto, imprese, concessioni di tempo,
consigli, quanto era in noi. Sacrificavamo, non a voi, ma alla
pronta liberazione di Roma e Venezia. Oggi - dopo Aspromonte, dopo
il rifiuto della cittadinanza Italiana ai Romani e ai Veneti, dopo
il voto che sancisce in ogni ministro il diritto di sopprimere ad
arbitrio la libera espressione del pensiero del Popolo, e poi che
tutti i vostri uomini di stato, esauriti a cerchio, hanno
rappresentato miseramente, l'un dopo l'altro, lo stesso sistema:
impotenza per la questione nazionale: repressione per ciò che
concerne la Libertà - s'illuda chi può. A me parrebbe d'essere,
tacendo il vero a' miei concittadini, stolto a un tempo e colpevole.
La Nazione non avrà salute, Unità, Libertà, se non dal suo Popolo.
Giuseppe Mazzini.
A FEDERICO CAMPANELLA((303))
Mi chiedi perchè taccio? Taccio perchè ho il dolore nell'anima e il
rossore sulla fronte per la mia Patria. Taccio perchè, tra la
codarda servilità degli uni e il difetto di spirito pratico e virtù
di sacrificio negli altri, temo oggimai che la parola non giovi.
Taccio perchè ogni qual volta mi sento spronato a prender la penna
mi torna alla mente il grido del povero Savonarola, quando ei,
predicando a un popolo inerte, indifferente, dileggiatore,
prorompeva in parole rotte da singhiozzi: «Signore, stendi, stendi
dunque la tua mano, la tua potenza! Io non posso più, non so più che
mi dire, non mi resta più altro che piangere.»
Ricordi tu, vecchio e fedele amico, le visioni dell'Italia che
splendevano sull'anime nostre quando tentavamo, trenta anni
addietro, la spedizione di Savoja, e nei lunghi anni d'esilio che
durammo insieme? L'Italia sorgeva - poco importava il quando - in
nome dell'eterno Diritto, santificata dal martirio de' suoi
migliori, a impadronirsi, continuando il passato, dell'iniziativa
che la Francia aveva dal 1814 perduta; ad assumere una missione di
Verità e di Giustizia in mezzo all'Europa incadaverita per opera del
Papato e della Monarchia: sorgeva, non riconoscendo padroni da Dio e
dal Popolo infuori, fidando in sè e nei Popoli che avrebbero - come
fecero sempre a chi seppe chiamarli - risposto al suo grido, con un
doppio programma di Nazionalità e di Libertà, suscitando a nuova
rivelazione la vita fremente nel profondo delle genti aggiogate
sotto l'Austria, smembrate fra esse e l'impero Turco, e dicendo ad
esse: per noi e per voi. Governavano il periodo della sua
insurrezione pochi uomini acclamati dal Popolo, mallevadori ad esso,
fidenti in esso, senza vincoli di passato avverso al sorgere
collettivo, senza vincoli di presente a corti, trattati o
diplomazia, credenti, logici, arditi. E, compita la lotta,
un'Assemblea eletta da tutti, interrogava la vita, i bisogni, le
aspirazioni del nuovo Popolo e dettava da Roma, nuovo anch'esso,
discusso da tutti, eguali per tutti, il Patto della Nazione;
promulgava al mondo la morte del Papato e la libertà di coscienza;
annunziava, in una dichiarazione di Principî, la fede degl'Italiani
nel secolo XIX; armonizzava con una immensa libertà di Comune
l'Unità morale e la politica Nazionale; schiudeva con un semplice
equo sistema di tributi, cogli impulsi dati alla produzione, con
ajuti alle Associazioni operaje, la via del meglio alla classe più
numerosa e più povera; aboliva, proclamando libertà di commercio,
dogane, monopolî, proibizioni; aboliva, ordinando il paese intero
all'armi, la coscrizione; aboliva, riordinando la legislazione
penale sul concetto del miglioramento individuale e della difesa
collettiva, il palco e il carnefice; inaugurava gratuito,
universale, uniforme e desunto dall'idea religiosa Progresso, un
sistema di Educazione Nazionale.
Quel sogno è per ora sfumato. Era necessario, perch'esso potesse
trapassare nel dominio della realtà, che il nostro risorgere escisse
dall'iniziativa popolare: l'iniziativa fu regia e straniera. E da
quel fatto, colpa di tutti noi, le conseguenze dovevano sgorgare
irrimediabili per un tempo, fatali. Per legge storica, derivazione
della legge morale, ogni colpa deve espiarsi. La Francia espia da
tredici anni, colla negazione di gran parte delle sue conquiste
politiche anteriori, l'assassinio di Roma: noi espiamo la
rassegnazione servile colla quale aspettammo a emanciparci da un
padrone straniero che un altro scendesse, come nel medio evo, a
combatterlo. La vita nuova della Nazione, segnata d'un marchio
d'impotenza, mancò di sviluppo e di interprete: la monarchia non
poteva dare che la propria, misera, locale, legata al passato, e lo
fece: s'aggiogò ad una ad una le provincie italiane come se fossero
territorio inerte, e diede a tutte come Patto un patto che non
rappresenta se non la vita del passato e di una sola frazione
d'Italia. Nel conflitto fra le due vite è il segreto di tutte le
nostre piaghe, di tutti i nostri dolori: nè cesserà se non quando
l'iniziativa trapasserà, come nelle nostre visioni, nel Popolo; se
non quando il compimento di un grande Dovere, raggiunto con forze e
battaglie proprie, avrà dato alla Nazione coscienza del proprio
diritto e vigore per esercitarlo. Quel giorno avremo la libertà. Gli
uomini, nostri un tempo, che oggi si affannano a conciliar le due
vite, tentano un problema insolubile, che li guiderà nuovamente a
noi o li travolgerà nell'apostasia. Gli uomini, nostri anche oggi ma
traviati, che s'illudono a credere che la Nazione possa conquistare
la vita nuova, prima di averla meritata col sagrificio, prima d'aver
cancellato quell'onta dell'intervento straniero, pretendono essi
pure l'impossibile. Non basta predicare al Paese il diritto: bisogna
dargli volontà e potenza di conseguirlo; migliorarlo, sollevarlo
dall'elemento di machiavellismo, di materialismo in cui vive;
moralizzarlo coll'azione a pro di quella parte di paese che ha
diritto essa pure a contribuire al patto d'Associazione e di
Libertà, alla manifestazione della Vita d'Italia, e che, occupata
dallo straniero, nol può.
Nè io dunque gemo o mi taccio perchè vedo tradite dagli inetti, che
usurpano il nome di governanti, le nostre speranze di libertà e di
interno progresso; accetto rassegnato il periodo d'espiazione. Ed
esortandovi a proseguire, come fate, nel vostro apostolato
educatore, perchè gl'Italiani intendano il significato e il valore
delle libere instituzioni promesse e non date, v'esorto pure a non
irritarvi degli indugi limitati che si frappongono. Ma v'è tal cosa
che può perpetuar quegl'indugi e uccidere una Nazione in sul
nascere: il disonore del pensare e sentir da codardi. Se una Nazione
tollera ch'altri le pianti sulla fronte quel marchio, è perduta. Or
l'Italia versa in questo pericolo. E per questo io gemo, per questo
io mi sento talora spronato a disperato silenzio.
Io guardo a Venezia. Là, sta l'onore della Nazione, ed è confitto
sulla croce, ludibrio ai Popoli e insulto perenne a noi, dalla
potenza straniera che più d'ogni altra ha meritato, per tirannide,
persecuzioni e morte dei nostri, l'aborrimento d'Italia. Cento mila
soldati vegliano appiedi di quella croce: altri cento mila sono
presti a raggiungerli.
Al di qua della frontiera artificiale che la pace, comandata da un
altro straniero alla monarchia, ci diede, io vedo un esercito
regolare sommante nelle dichiarazioni governative a 380 000 uomini:
una leva d'altri 50 000 che il Governo afferma poter chiamare
immediatamente: una cifra di 130 000 guardie nazionali mobilizzabili
a termini di una legge del 1861; e 30 000 volontarî che il Governo
non può, dopo l'impresa meridionale, dubitare di vedere raccolti, al
primo grido di guerra, intorno a Garibaldi. Sono 590 000 armati dei
quali può volendo, disporre l'Italia. Dietro a quelli stanno da
ventun milioni d'altri italiani, unanimi a desiderare
l'emancipazione del Veneto e presti agli ajuti quando piaccia al
Governo di rimovere, col suo cenno, dagli animi ogni dubbiezza
sull'opportunità dell'impresa. Davanti ad essi si stende, campo di
guerra, un terreno nostro, sul quale due milioni e mezzo di oppressi
s'agitano irrequieti e più o meno audacemente ci presterebbero
ajuto, non foss'altro - e per chi dubita di tutti e di tutto -
d'informazioni, di mezzi e di quel fermento che inceppa la libertà,
tanto essenziale, di moti al nemico. Tra il Veneto, il Trentino e
l'Impero sta una serie di posizioni inaccessibili alla cavalleria e
all'artiglieria e che, occupate in parte dall'esercito, in parte
dall'insurrezione - facile a suscitarsi quando il Governo accenni
volerlo - troncano le comunicazioni fra il nemico e la sua base di
operazione. Al di là, popolazioni Serbe, Magiare, Romane, Ceke,
malcontente e ricordevoli del 1848. E, scendendo dall'Alpi di fronte
a Venezia lungo la costa orientale dell'Adriatico, una zona di
Popoli italiani e slavi, amici naturali i primi, vogliosi gli altri
di sbocchi indipendenti ai loro prodotti sul mare, avversi
all'Austria e presti a secondare l'azione di chi offra loro patti
sinceri e utili di alleanza. Diresti che Dio stesso, ordinando gli
elementi a quel modo, additi all'Italia dovere e vittoria ad un
tempo.
La monarchia sequestra, rivelando all'Austria il pericolo, l'armi
invocate dai Veneti. La stampa governativa insulta ai Veneti
dichiarando non esistere sul loro terreno elementi d'insurrezione.
E l'esercito? I 380 000 soldati d'Italia? Leggono i loro ufficiali
che si torturano or nuovamente col bastone i fratelli dai quali li
separa un fiume? Hanno culto di patria e senso d'onore, o intendono
confermare per sempre coll'indifferente contegno la vergognosa pace
di Villafranca? Sanno che l'Europa, guardando ai fatti passati o al
linguaggio presente dei ministri d'Italia, ripete colla Francia
ch'essi sono incapaci di combattere e vincere soli? Non freme in
essi l'orgoglio del nome italiano? Non giurarono all'Unità? Non
ebbero dai loro capi un programma che diceva: dall'Alpi
all'Adriatico? Non hanno molti fra essi madri, padri, fratelli,
sorelle sul Veneto? Non ricordano, i nati lombardi, le sacre
promesse del 1848 a Venezia? E gli esciti dall'esercito dei
volontarî, i compagni d'armi di Garibaldi, i difensori di Venezia e
di Roma, son essi fatti macchine senz'anima e vita? Ha la nuova
assisa soffocato ogni antico ricordo nel loro cuore? Non è l'assisa
d'Italia? Non è simbolo d'una forza che mancava negli anni addietro,
e che crea in chi la porta doveri proporzionati? Perchè non esce da
quell'esercito, nei modi che non toccano la ribellione ma fanno
palese il desiderio, una voce unanime che dica al re loro: Sire! non
vogliate che una macchia contamini l'assisa Italiana! Guidateci sul
Veneto! Lasciateci provare all'Europa che sappiamo combattere e
vincere senza stranieri a fianco!
Noi abbiamo lo straniero in casa: abbiamo incontrastabilmente le
forze per vincerlo. E il Paese tace. Il Paese si lagna dei mali,
delle incertezze che accompagnano inseparabili ogni condizione
provvisoria di cose: deplora il masnadierume: sa che l'assenza di
frontiere secure e il soggiorno dello straniero tra noi confortano
quanti nemici abbiamo alle trame: mormora delle somme ingenti
consecrate a un esercito inutile; e nondimeno, tace. Il Paese sa che
non è in Europa una sola Nazione alla quale il soggiorno dello
straniero armato per entro i proprî confini non ponesse un grido
d'insurrezione sul labbro: sa che le Nazioni d'Europa stanno
guardando ai primi passi dell'Italia sulla nuova via, per decidere
se devono cercare in essa l'alleanza del forte o la soggezione del
debole; e nondimeno tace e non osa, non dirò insorgere, ma parlare
unanime colla stampa, colle petizioni, colle adunanze pubbliche, il
proprio volere.
Da forse quarantamila Veneti or sono esuli tra noi: hanno la terra
ove nacquero profanata dal bastone austriaco: ciascun d'essi
dovrebb'essere centro d'apostolato incessante a pro di Venezia,
centro d'ajuti raccolti a pro dell'impresa emancipatrice; e, da
pochi infuori, tacciono, obliano. I rappresentanti d'Italia, gli
uomini del Mezzogiorno segnatamente, giurarono all'Unità, come
condizione dell'assenso dato dalle loro provincie alla monarchia; e
tacciono: udirono il ministro a proferire le cifre d'armati
accennate più sopra, e non una rimostranza, non una mozione, non una
voce sorse dal Parlamento Italiano a dire: siam forti: compiamo
dunque il Dovere: al Veneto, all'Alpi! Gli agitatori, gli arditi
della Sinistra consacrano l'audacia a speculare su qualche
rielezione, tacciono di Venezia. Gli uomini che rubarono a noi,
vivente Manin, il se no, no, e ci dissero: dateci tempo perchè la
monarchia raccolga 200 000 soldati, e vedrete, oggi, davanti ai 380
000, tacciono e sostituiscono la formola: «aspettiamo pazienti il
quando ignoto indefinito di chi governa» alla formola altera delle
Cortes Aragonesi. Dimenticano che il servile silenzio lascia
crescere una taccia di viltà sulla loro monarchia, e che un Popolo
perdona ogni cosa a un Potere fuorchè d'essere codardo.
Per questo io gemo temente dell'avvenire e chiedendo a me stesso:
siam noi fatti per la libertà? Eccoti uomini che si dicono convinti
di ciò ch'io non credo possibile, l'unione della monarchia collo
sviluppo delle libere istituzioni, coll'Unità nazionale,
coll'indipendenza, coll'onore d'Italia. Erranti o no, essi sono
vincolati dal loro programma a tentare di convertire in fatto quella
possibilità, a esaurire tutte le vie che potrebbero praticamente
condurvi. Crederesti che s'affannassero intorno alla monarchia a
indicarle i desiderî del Paese, a esprimerle liberamente i bisogni
ai quali essa deve dare soddisfacimento, a spronarla, nelle sue
colpevoli e pericolose esitazioni, sulle vie dell'onore, ad
affratellarla colle aspirazioni dei più, a farla rispettata e temuta
in Europa? Non uno di questi uomini che, interrogato, non ti dica:
non avremo pace, sicurezza o capacità di progresso senza Roma e
Venezia; non avremo Roma se non dopo Venezia; e tacciono tutti.
Discutono intrepidi con Minghetti, Rattazzi o Ricasoli, giornalisti
e lontani dal potere; tacciono con essi se diventati ministri;
l'Autorità è sacra ai loro occhî: gli uomini che l'hanno possono,
dunque sanno: bisogna lasciarli fare. Perchè non dicono loro:
badate; noi ci assumemmo di provare al Paese che la monarchia si
concilierebbe coi diritti e colle necessità dell'Italia; ma noi
possiamo senza l'opera vostra? - No; tacciono tremanti, insolenti
soltanto contro noi perchè non partecipi del potere: passeggiano le
vie della libertà colla catena del servaggio al piede e sul collo;
educano la giovine Nazione al progresso, insegnandole che il segreto
del progresso sta nell'arbitrio di cinque o sei uomini scelti, non
da essa, ma dal monarca: sopprimono, col tacere sistematico,
l'elemento vitale d'ogni Governo, che è la trasmessione continua del
pensiero dei governati a quei che governano: spingono, senza
avvedersene, il Paese sulla via che dice: Rivoluzione. Tal sia di
loro. Ma gli uomini di parte nostra? Gli uomini che gemono com'io
gemo pel disonore della Nazione? Gli uomini che, assumendo il nome
di Partito d'Azione, dichiarano la trasformazione di Popolo in
Nazione non esser compita e doversi, se non si vuol retrocedere,
sollecitamente compire? Gli uni s'affannano a costituire comitati
elettorali, inefficaci dove prima non si muti la legge in virtù
della quale si compiono le elezioni: gli altri, smembrati a tre
centri di direzione e a due punti objettivi, consumano forze che
concentrate darebbero risultanze potenti e rapide. Taluni spendono
l'obolo che dovrebbe esser sacro alla liberazione del suolo Italiano
inalzando monumenti a Martiri i quali, se mai potessero favellar
dalla fossa, respingerebbero quelle testimonianze e direbbero:
emancipate prima dallo straniero la Patria per la quale morimmo.
Centinaja, migliaja d'uomini giovani versano danaro in celebrazioni
d'anniversarî gloriosi o pellegrinaggi al soggiorno di Garibaldi,
dimentichi che, se sta bene celebrare le antiche glorie, meglio è
l'imitarle; e che Garibaldi li amerebbe più assai se serbassero quel
danaro all'impresa patria, scrivendogli: verremo a vedervi quando
sarem fatti degni di voi. Che! Non avremmo noi mezzi sufficienti al
bisogno, non trascineremmo noi Paese e Governo, non vinceremmo,
forti di numero come siamo, la prova, se commossi davvero e
tormentati dal pensiero che ventidue milioni d'uomini non possono
senza infamia tollerare lo straniero in casa, e ricordevoli che nel
massimo concentramento di forze sotto un'unica direzione e sopra un
dato punto sta il segreto della vittoria, consacrassimo tutti, per
mezz'anno, attività e sacrifizio al porro unum, Venezia - se per
mezz'anno ciascuno s'assumesse di rappresentare nella propria sfera
un grado d'apostolato, una cifra di mezzi - se il pensiero di
Venezia soffocasse per un tempo ogni altro pensiero - se ogni
scrittore ripetesse in cima ai suoi scritti per l'Austria la parola
di Catone sopra Cartagine - se ogni adunanza a qualunque scopo
raccolta s'iniziasse e si conchiudesse col grido di guerra
all'Austria - se ogni madre patriota mormorasse Venezia a' suoi
figli, ogni fanciulla buona alle amiche, ogni volontario ai militi
che gli furono fratelli sul campo, e tutti al Governo?
Un Popolo può ciò che vuole. Ma un Popolo che, forte di mezzi,
sopporta d'anno in anno, immobile, muto, che lo straniero gli vieti
Unità, imprigioni, tormenti, bastoni i suoi fratelli, non merita
libertà, e non l'avrà.
Ho detto forte e avrei potuto dire onnipotente di mezzi. Ricordi tu
Roma? Ricordi quella pagina storica del 1849, che tanti fra i
nostri, tanti fra i nati in Roma oggi dimenticano, ma che nessuno
potrà cancellare? Là - coll'Italia incodardita dalla catastrofe di
Milano e dalla rotta di Novara, con quattro Governi avversi, colla
congiura pretesca a fronte, abbandonati da tutti e ridotti alle
forze d'una sola città, con un erario vuotato dal Papa fuggiasco,
con armi scarse e mediocri - noi semplici cittadini, senza prestigio
di passato, senza credito fuorchè quello che la nostra condotta ci
dava, governammo amati, impedimmo senza terrore ogni tentativo
avverso, trovammo danaro bastante alla guerra e a nudrire i nostri
quattordici mila militi, volgemmo in fuga l'esercito del re di
Napoli, combattemmo lungamente l'Austriaco in Ancona, tenemmo fronte
per due mesi ai soldati francesi che sommarono, prima del finir
dell'assedio, a trentamila e più. Fu l'amore e la fiducia che
ponemmo nel Popolo che ci fruttarono amore e fiducia da esso? Fu il
nostro non ispendere un obolo solo che non fosse direttamente utile
alla difesa? Fu il sistema di Governo fondato, non sul reprimere, ma
sul dirigere? Fu il fascino esercitato dalla bandiera? Lo diranno
gl'Italiani della generazione che sorge. Io so che se, invece d'una
città, l'Italia d'oggi, l'Italia dei ventidue milioni, avesse le sue
forze concentrate in mano d'uomini che avessero quella fede nel
Popolo, quel sistema economico, quel metodo di Governo, quella
ferma, irrevocabile volontà di seguire quel programma, avvenga che
può, e quella bandiera, le forze, nonchè dell'Austria, di tutta
Europa non basterebbero a vietarle Venezia e Roma. Il contrasto fra
quei giorni e le vergognose condizioni presenti m'addolora l'anima,
m'avvelena i giorni cadenti e spiega a te, amico, il silenzio per
lungo tempo serbato.
Ama il tuo
Giuseppe Mazzini.
A FRANCESCO CRISPI((304))
Il 17 novembre, Voi, parlando alla Camera sulla Convenzione tra
Luigi Bonaparte e il Governo d'Italia, dichiaravate che Vittorio
Emanuele non può rovesciare il trono del Papa - che la Convenzione
monarchica rinunzia a Roma - ch'essa è quindi violazione aperta dei
Plebisciti, dai quali si poneva, condizione dell'annettersi alla
Monarchia di Savoja, l'Unità della Patria. Voi compivate in quel
giorno un dovere di cittadino.
Ma il 18, irritato dall'accusa d'illogico - scagliatavi
machiavellicamente contro da chi violava, votando per la clausola
ch'è suggello alla Convenzione, ben altro che logica - Voi
dichiaraste che la vostra bandiera era: Italia Una e Vittorio
Emanuele; e v'aggiungeste che chi solleva un'altra bandiera non
vuole l'Unità dell'Italia.
Se a Voi giova, sul cader della vita, rinunziare a una bandiera per
acclamare ad un'altra, io non mi assumerò, per molte ragioni, di
riconvertirvi. Ma proferendo la seconda affermazione, Voi non
solamente contradicevate, cosa in oggi frequente, al vostro passato
- non solamente offendevate la maestà della vostra sorgente Nazione
- ma dimenticavate, ingiusto e ingrato ad un tempo, che tra gli
uomini morti e viventi, ai quali un giorno foste amico e collega di
cospirazione, i migliori furono e sono unitarî e repubblicani.
Bastino, tra gli estinti, Carlo Pisacane e Rosalino Pilo. Ma, tra i
vivi, io la sollevo questa bandiera diversa. E tra voi, quanti siete
novellamente convertiti e diplomatizzanti fra la coscienza e il
linguaggio, chi osi scrivere che io non adoro l'Unità della Patria,
e non l'ho predicata altamente fin da trentadue anni addietro,
quando stranieri e italiani la deridevano siccome utopia, e voi
tutti balbettavate di costituzioni regie e federazioni?
Io la sollevo; e mi giovo della dolorosa opportunità che m'offriste
per ridirlo a tutti; non solamente perchè i principî l'additano
unica malleveria di vero e libero progresso - perchè intorno ad essa
si avvolgono i più splendidi ricordi del nostro passato, quando la
vostra non ha tradizioni di gloria in Italia, nè origine
indipendente, nè coscienza di moralità educatrice, nè intelletto
della missione italiana - perchè è sola logica deduzione delle
credenze e delle negazioni dei tempi, mentre la vostra vive d'una
transazione artificiale tra elementi inconciliabili, sempre provata
menzognera in Europa, fuorchè nel paese singolare ov'io scrivo,
dagli ultimi sessant'anni - ma perchè cerco, proscritto tuttavia e
dannato nel capo dalla monarchia vostra, l'Unità della Patria;
perchè, mercè l'ingenito antagonismo dei vostri padroni ad ogni
sviluppo di vita popolare, e le vostre tattiche secondatrici, vedo
rapidamente disfarsi quella unità di propositi e di speranze che
spinse per ogni dove, fuorchè in Lombardia, ventidue milioni
d'Italiani a congiungersi in uno; perchè, esaurita ogni via, tentata
ogni concessione possibile, soffocata lungamente nel silenzio la
fede dell'anima mia - tanto che nessuno potesse rimproverarmi di
sostituire l'arbitrio d'una ragione individuale fallibile
all'opinione dei più - ho raggiunto, costretto dai fatti, l'intimo
convincimento che noi non avremo mai, dall'azione spontanea della
Monarchia, Venezia, Roma e Unità. E mi stanno davanti, mentre io
scrivo, i patti della Convenzione che segna l'abbandono di Roma, e
le parole del vostro ministro che abbandonano Venezia:
L'Italia avrà Venezia quando l'Austria, persuasa non da noi - noi
non siamo - ma dall'autore dei patti di Villafranca, ritirerà
volontariamente i soldati ch'oggi v'accampano:
L'Italia avrà Roma quando il Papa, convinto ch'ei regna tiranno, e
fatto amico della libertà, inviterà egli stesso i nostri ad
entrarvi:
Così unifica la Monarchia.
Di fronte a queste codarde e assurde dichiarazioni, proferite da chi
s'appoggia su 380 000 soldati, può averne in breve ora mezzo
milione, e rappresenta legalmente 22 milioni d'uomini che anelano
farsi Nazione, Voi avete evocato un momento dell'antico entusiasmo,
per gridare con volto agitato, con accento commosso, un saluto di
gladiatore morente alla Monarchia, e un anatema a quei tra i vostri
fratelli che hanno serbata intatta quella che fu vostra fede. Io non
meraviglio della vostra potenza di volontà; bensì vi compiango
perchè abbiate creduto doverla spiegare per una causa nella quale,
se interrogate l'intimo core, voi non credete.
Conosco troppo il vostro passato e vi so d'ingegno troppo arguto,
per ammettere un solo istante che voi siate oggi monarchico di fede,
monarchico teoricamente, monarchico come lo erano settant'anni
addietro gli uomini della Vandea: s'io vi sapessi tale, pur
combattendovi per dovere, mi dorrei d'esservi costretto. Ogni fede
suscita in me, in questi tempi d'immorale e stolido scetticismo,
rispetto. Ma gli uomini della Vandea credevano nel diritto divino:
Voi no: - giuravano sui loro preti e ponevano la croce protettrice
nella regia bandiera: Voi fate guerra ai preti e vorreste vedere in
due campi separati, indipendenti l'uno dall'altro, la croce e la
monarchia; - sorgevano a combattere e morire pei discendenti di san
Luigi, senza badare a probabilità di successo, senza calcolo delle
forze nemiche, come si muore per una idea: Voi non morreste, nè
altri in Italia, per la sola Casa di Savoja, per la mistica trinità
dell'elemento aristocratico, del democratico e del monarchico. Voi
siete, come oggi barbaramente dicono, opportunista. Voi vedete oggi
la monarchia forte, noi deboli: un esercito, che Voi credete
monarchico, e ch'io credo, come tutti gli eserciti, semplicemente
governativo; e un'Italia officiale, forte d'una vasta rete
d'impiegati, devoti per amore di lucro, ed una moltitudine di
seguaci ciechi, muti, servili, tra per abitudine d'obbedienza
passiva, tra per paura, se mai dicessero di non credere che altri
farà, d'essere chiamati a fare. Unitario sincero, ma educato a
tendenze politiche ch'io potrei chiamare guicciardinesche, Voi
porgete omaggio alla Forza o ad un sembiante di Forza. Voi trovate
che la Monarchia potrebbe agevolmente, volendo, fare l'Italia; e
l'accettate, siccome mezzo all'intento. Se domani ci vedeste forti,
sareste nuovamente con noi.
Pur tuttavia l'opportunismo accenna inevitabilmente a limiti di
tempo e di condizioni transitorie, che un principio non cura.
L'opportunismo genera un metodo proprio, diverso da quello che guida
chi ha una fede. E questo metodo logico dovrebbe insegnarvi
linguaggio più temperato e meno assoluto. La Monarchia potrebbe, non
v'ha dubbio, volendo, fare l'Italia. Ma se la Monarchia non volesse?
Se, antivedendo nella guerra all'Austria una serie di insurrezioni
nazionali, come quelle del 1848, e conseguenze probabilmente fatali
all'interesse dinastico, s'arretrasse deliberatamente dall'impresa
Veneta? Se, impaurita di quel potente nome di Roma, e presentendo a
ogni modo che, sciolta la questione Nazionale, gli Italiani
verserebbero tutta la piena della giovine vita sulla questione di
Libertà, scegliesse di tenersi lontana dal Campidoglio repubblicano
e dalle mura segnate dai ricordi del 1849? Se, intendendo che non
possono tentarsi le due imprese, senza suscitare l'entusiasmo e gli
ajuti del Popolo a guerra che gli darebbe coscienza di sè e delle
proprie forze, paventasse le esigenze inevitabili dell'avvenire e
non vedesse rimedio al pericolo, fuorchè nell'afforzarsi unicamente
dell'alleanza col dispotismo straniero? E se Luigi Napoleone, cupido
di predominio sul Mediterraneo e su noi, e aborrente quindi dalla
nostra Unità, preparasse, di concerto colla Monarchia - prezzo della
protezione invocata - la triplice divisione d'Italia, architettata
da lui già prima del 1859? Io non intendo di discutere con Voi la
verità di queste ipotesi; dico che nessun italiano ha, dopo i fatti
degli ultimi tre anni, diritto di affermarle impossibili e
trascurarle: Voi, repubblicano un tempo, men ch'altri. E dico che la
loro possibilità avrebbe dovuto bastarvi per adottare, anche non
disertando il nuovo campo opportunista accettato, altra tattica che
non la seguita, per non gittare anatemi al rimedio che potrebbe
diventare necessario, e per non cacciare a' piedi del trono
l'assurda immorale promessa di rimanergli fedele quand'anche. Ed è
per dolore d'antico affetto, memore di ciò che faceste pel Paese,
ch'io parlo. S'io non guardassi che al trionfo della mia fede,
m'appagherei nel ricordar sorridendo, che i Monarchici del
quand'anche furono in tutti i tempi artefici di rovina alla
monarchia.
Parte vostra - e, parlando a Voi, parlo ai miei amici ed ex amici
della Sinistra - era quella di piantarvi, poichè così volevate,
nella Camera a guisa di scolte vigili e diffidenti; di piegare, poi
che lo credevate opportuno, la bandiera ch'ebbe i vostri giuramenti,
ma tenendovi su la mano, in atto di chi è deliberato a nuovamente
spiegarla s'altri non attiene le sue promesse; di giovarvi delle
leggi esistenti a sviluppo progressivo di quel tanto di diritto
ch'esse affermano e che i governanti tradiscono, ma senza teorizzare
sovr'esse, accettandole come modelli di perfezione; di buttare in
viso ai ministri diversi ogni violazione del loro Statuto, ma senza
mai venerarlo Arca di Libertà e affermare racchiuso in esso il germe
di ogni progresso futuro, quando il suo primo articolo inaugura,
religione dei sudditi, l'infallibile autorità di chi maledice al
Progresso; di sollevare di tempo in tempo, sugli occhî dei gaudenti
del Governo e della sua maggioranza, la santa bandiera che porta
scritti con sangue di martiri i nomi di Venezia e di Roma; di
guardare più al Paese bisognoso e capace di educazione, che non al
recinto d'una Camera, dove l'educazione è impossibile; di protestare
colla parola e minacciar col silenzio; di serbarvi compatti come un
sol uomo; di parlar pochi, rare volte e solenni: poi d'afferrare
uniti una delle molte opportunità offertevi dall'aperta violazione
della legge fondamentale e dell'onore della Nazione, per dire ai
vostri concittadini: Esaurimmo, e senza riescire, ogni tentativo per
giovarvi coll'armi legali: e ritrarvi, come Trasea, da un Senato
irreparabilmente servile e corrotto. Così governandovi, voi non vi
facevate di certo possibili a chi oggi governa, ma educavate il
Paese, gli additavate dove cercare un giorno gli uomini suoi e
salvavate la dignità dell'anima vostra.
Seguiste altra via. Vi atteggiaste a convertiti adoratori della
Monarchia, prima che la Monarchia avesse compito il debito suo, e
come se alla Monarchia importassero alcuni adoratori di più. Miraste
con frequenti dichiarazioni a rassicurarla sul conto vostro, quando
unica via, se pur una n'esiste, di trascinarla a bene è il mostrarle
pendente la spada di Damocle. Non pagaste il debito vostro a Roma
con una solenne rimostranza collettiva, ch'io vi proponeva, che
prometteste, poi non osaste: non il debito vostro a Venezia quando,
raggiunta la cifra di 380 000 soldati, viva tuttavia l'insurrezione
polacca, vivo il conflitto Dano-Germanico, bisognava proporre
apertamente al Gabinetto e al Paese la guerra. Non escì da voi
collettivamente un solo atto d'energia nazionale. Ma sprecaste,
smembraste la vostra forza e la vostra importanza, cinguettando
individui e inutilmente su tutte minuzie, movendo interpellanze e
dichiarandovi soddisfatti di spiegazioni che nulla spiegavano, o di
promesse che sapevate non doversi attenere. Taluni fra voi
cercarono, rosi da vanità di pigmei, di isolarsi da tutti, ciarlando
sofismi balzani, cozzanti, francesi. Taluni si ritrassero con piglio
nobilmente sdegnoso da un recinto che dissero prostituito, poi vi
rientrarono senza che cosa alcuna vi fosse mutata. Erraste quasi
tentone fra gli equivoci e il Vero, tra le formole artificiali d'un
costituzionalismo bastardo e gli eterni principî d'una Rivoluzione
Nazionale fermata a mezzo e che vuol compimento; finchè, dopo leggi
eccezionali, stati d'assedio, imprigionamenti di deputati,
scioglimenti arbitrarî d'associazioni, divieti frequenti d'adunanze
pubbliche, persecuzioni sistematiche e preventive della stampa,
violazioni giornaliere della libertà individuale - dopo un rifiuto
di leggi comuni ai Veneti e ai Romani - dopo Aspromonte - caldo
ancora il sangue dei cittadini trucidati in Torino - trovaste core,
voi, Mordini, di votare l'abbandono di Roma; il conte Ricciardi
d'esclamare comicamente: Io sono repubblicano, ma amo la monarchia:
Voi di provare che la Convenzione rompe il Plebiscito e condanna
l'Italia a rimanersi smembrata e acefala, e nondimeno conchiudere:
La Monarchia ci unisce, la Repubblica ci divide. Così passano le
glorie della Sinistra: i pochissimi che seppero rimanersi puri,
mutano seggio o si allontanano dal cadavere.
Se non che l'origine prima dei traviamenti risale più in su, e
doveva generare fatalmente le conseguenze che vennero dopo.
Il vizio della situazione dell'oggi ha origine - e l'Italia dovrebbe
ora avvedersene - dall'annessione, dal cieco entusiasmo degli uni e
dalla funesta debolezza degli altri, che falsarono, fin dal
cominciamento del nostro moto, la posizione del problema italiano. E
voi tutti, Dio vi perdoni, v'aveste parte.
Statuita dallo straniero e accettata dalla Monarchia Sarda la pace
di Villafranca, l'iniziativa popolare protestò nobilmente nel
Centro, e poco dopo nel Mezzogiorno, contro i disegni federalisti
del Bonaparte; e decretò che l'Italia sarebbe. Allora due vie vi
stavano innanzi. La prima guidava a fondar la Nazione; la seconda
all'ampliamento della Monarchia Sarda, finchè tutto quanto il Paese
si confondesse successivamente, annettendosi ad essa.
Annunziare come fine supremo e sorgente perenne di sovranità la
Nazione - sommergere tutti, nomi antecedenti e fini locali, nel
grande nome d'Italia - dichiarare la Vita Nuova che, preparata,
fecondata d'antico, assumeva di recente sostanza e corpo - chiamare
ogni terra posta fra le Alpi e il Mare a connettersi, ad
affratellarsi coll'altra, in una Patria comune di liberi e di eguali
- far escire da una Costituente la formola di quella nuova vita, la
legge del nuovo Patto, il Patto della Nazione - poi, dacchè i tempi
volgevano a Monarchia, scrivere nell'ultimo articolo del Patto, che
l'Italia si sceglieva un re, e quel re aveva nome Vittorio Emanuele.
O porre attività di vita, sovranità, diritto nel solo Piemonte;
annettere ad esso, quasi terreno dell'unione e successivamente, ogni
provincia Italiana; accettar quindi una tradizione locale, una
Dinastia, una Legge anteriore alla Vita della Nazione, una serie
predeterminata di vincoli diplomatici, un sistema, un metodo di
governo prestabilito.
Tra queste due vie sceglieste - voi tutti, politici opportunisti -
quest'ultima. Io perorai, scrivendo e parlando, a pro della prima;
poi, quando vidi prorompere irresistibile la piena, e il povero
Popolo d'Italia, travolto dietro agli uomini che avevano meritato
negli anni anteriori affetto e fiducia da esso, versarsi all'urne
col Sì sul cappello, e m'udii richiedere che cosa io preferissi tra
la dedizione incondizionata e il separatismo, mi strinsi nelle
spalle, e - fidando nei fati d'Italia, più potenti che non gli
errori degli uomini - assentii e ajutai.
Sceglieste la seconda: in quel giorno decretaste, per quanto era in
voi, l'abdicazione d'Italia; e poneste in seggio il sistema che or
chiamate piemontesismo. Poco importa che, stretti dal pudore,
inseriste non so quale menzione di Roma e dell'Unità nelle vostre
formole. Scrivendo sulla vostra bandiera e nei vostri proclami
eguali ed indivisibili, prima che l'Italia fosse compita, Vittorio
Emanuele e la Patria - come se questa non potesse vivere senza
quello - porgeste l'arme, che dovea trafiggervi, alla Monarchia.
Oggi, la Monarchia risponde, in virtù della dedizione, a chi le
chiede Venezia: quand'io vorrò e coll'ajuto, da ripagarsi, dello
straniero. A chi le chiede Roma: com'io vorrò e coll'assenso del
Papa. Strozzati dall'antecedente, e senza virtù che basti per
chiedere perdono a Dio e all'Italia dell'equivoco adottato quattro
anni addietro, voi, pari a quei miseri che gridavano, morendo per
mano del carnefice regio: viva il re, gridate, pur protestando:
Unità - che v'è tolta - e Vittorio Emanuele - che vi dice:
protestate, purchè serviate; e servite. Se non che quei miseri
credevano, e la loro era sublime follia: chi non crede è sublime
d'ipocrisia o di paura.
Or voi potete a vostra posta combattere il piemontesismo. Il
piemontesismo che è, non cosa d'individui o di terra, ma sistema e
metodo essenzialmente monarchico, ha data da quella deviazione e
durerà - sia Torino o Firenze l'alloggio - finchè, esaurite le
conseguenze dell'iniziativa del 1859, una nuova iniziativa di Popolo
non ricollochi sul vero terreno il problema e non ribattezzi il
Paese alla coscienza del proprio Diritto.
L'Unità è suprema su tutte forme, monarchiche o repubblicane. Le
forme sono buone, in quanto armonizzano col fine e gli giovano;
tristi e da rompersi, nel caso contrario. Sovranità e vita sono
nell'Italia che vuole esser Nazione; gli individui - re, presidenti
o consoli poco monta - non sono che ministri scelti di quel
concetto; fedeli al mandato, sono servi lodati dalla Nazione;
traditori o dimentichi, meritano pena e che altri sottentri. L'Unità
d'Italia è cosa di Dio; parte del disegno provvidenziale che vuole
il Progresso dell'umanità, per mezzo di ciò che noi chiamiamo
Nazionalità, ed è la divisione del lavoro tra i Popoli: è scritta
nella nostra configurazione geografica, nelle tendenze manifestate
dalla Storia nostra, nella lingua che noi tutti scriviamo,
nell'indole e nelle attitudini di quanti abitano la nostra terra: fu
il Verbo dei più potenti fra i nostri intelletti, l'aspirazione
visibile, da Roma in poi, del nostro Popolo nelle sue grandi e
spontanee manifestazioni; la fede di centinaja, di migliaja di
martiri, taluni monarchici, repubblicani i più. Ciascuno di noi la
presentiva, per iniziativa regia o insurrezione di Popolo, presto o
tardi inevitabile; ciascuno di noi sa che, per qualunque via, a
seconda degli intelletti diversi, avremo Venezia e Roma. Chiunque,
come Voi, presume d'aggiogare il fatto divino a uno o ad altro
individuo, la Vita della Nazione alla povera esistenza d'un re, un
principio eterno a una forma fenomenale e mutabile, bestemmia e
disonora la Patria; rinnega Dio per farsi idolatra. Debito nostro e
vostro è di conquistar l'Unità, con, senza o contro la Monarchia. Al
di fuori di questa formola, adottata da noi anni sono, io non posso
vedere che inetti o cortigiani insanabili.
Or Voi non siete nè l'uno nè l'altro: non siete che opportunista. Io
so che solo, tra le quattro pareti della vostra camera, e
guardandovi attorno a vedere che non vi siano onorevoli, Voi
balbettate tre volte ogni sera, quasi giaculatoria d'espiazione, la
nostra formola. Ma oggi, le circostanze non corrono favorevoli al
recitarla in pubblico. La Monarchia è tuttora forte; potrebbe, come
dissi, volendo; noi forse, volendo, non potremmo. Voi quindi,
pubblicamente, siete monarchico. Pur nondimeno, ha la vostra
coscienza prefisso un limite alla Monarchia, oltre il quale direte:
non vuole? Potranno mai gli uomini, che un tempo vi stimarono
fratello, incontrarvi, riaffratellato dai fatti, sulla loro via?
Quante cessioni di terre italiane allo straniero esigerete per
romper guerra? Quanto aumentare di servilità alle inspirazioni di
Parigi? Quanti eserciti da farsi e disfarsi? Una legge che dichiari
non solamente stranieri, ma sospetti, in Italia, i Romani e i
Veneti? Otto, dieci violazioni dello Statuto? Tre, quattro
Aspromonti? Quante città devono veder sangue di cittadini
illegalmente versato dai gendarmi regî? Fin dove si estenderà la
robusta vostra pazienza? Vogliate dircelo. Perchè se mai il: se no,
no di Manin e dei Plebisciti dovesse ripetersi, eco sterile e
perduta nell'aria, per un tempo indeterminato e senza sapersi a che
mira - se il: perdio... badate... protesto... di Voi e dei miei ex
amici, dovesse conchiudersi sempre e checchè si faccia col grido di:
Viva, quand'anche, la Monarchia - io vi ricorderei un tipo lasciato
ai posteri da Carlo Porta. Parmi che, comunque privilegiati, gli
elettori del Regno mai possono aver decretato che i loro eletti
debbano recitare nell'aula parlamentare la parte di Giovannin
Bongée.
Tento sorridere, ma nol posso. L'anima mi s'abbevera di tristezza,
pensando al povero Popolo d'Italia, buono ma ineducato - d'onde mai
avrebbe esso potuto desumere educazione? - e, come tutti i Popoli
ineducati, facile ai traviamenti, ai subiti sconforti, al dubbio su
tutti e su tutto. Come insegniamo noi a questo Popolo - del quale
usiamo, a modo d'arme democratica, il nome, lasciandolo senza voto,
senz'armi, senza ajuti economici - la sua vita futura, la vita
italiana, la vita della fede, dell'amore, dell'entusiasmo, del culto
morale ai principî, al Giusto, al Vero, alla Libertà? Ove sono i
suoi capi, gli uomini ch'esso s'era avvezzo a considerare, non
solamente come apostoli d'insurrezione, ma come sacerdoti di
rigenerazione morale, d'un santo concetto di sacrificio e costanza?
Per venti, per trent'anni predicarono ad esso con noi che la salute
d'Italia non scenderebbe nè da principi nè da papi, ma dalle forze
associate del Paese, dalla coscienza del Diritto, dalla religione
del Dovere, dalla persistenza nell'Azione; oggi predicano inerzia,
sommessione, fiducia illimitata nel principe, l'ateismo del lasciar
fare a chi spetta.
Predicarono non dovere un Popolo, che vuol farsi Nazione, sperare
dallo straniero; non dovere un popolo, che vuol farsi libero,
affratellarsi colla tirannide: oggi additano, perno di emancipazione
nazionale e di libertà, l'alleanza col monarca straniero che affogò
nel sangue la libertà della propria. Giurarono solenni e
gl'insegnarono a giurare all'instituzione repubblicana; oggi giurano
acclamando all'instituzione monarchica; promisero che l'Unità
darebbe al popolo miglioramenti economici, alleviamento alle piaghe
che rodono i più; oggi sanciscono col voto e colla presenza un
sistema che, aprendo le vie d'una male acquistata ricchezza ai
pochissimi, aggrava di contribuzioni i consumatori più poveri,
colloca in mano a speculatori stranieri le sorgenti del nostro
sviluppo, inaugura la corruzione, coglie, a superare le angustie
presenti, il frutto troncando l'albero; pugnarono, militi e
veneratori di Garibaldi, per Venezia e Roma, dichiarando che
senz'esse l'Italia non è; oggi oziano soddisfatti, beati di croci e
pensioni, colonnelli e generali nell'esercito regio, senza una
parola, senza un palpito visibile per Roma e Venezia, imprendendo a
proteggere le frontiere dei dominî papali, proteggendo quelle
dell'Austria, imprigionando i giovani che, per recare ajuto ai loro
fratelli, tentano di violarle, non avendo più fede che l'obbedire e
il tacere: parlarono, scrissero d'un Patto nazionale, discusso,
votato liberamente da tutti, interprete del nuovo fatto italiano,
suggello alla volontà della Patria; oggi invocano sacro,
inviolabile, per l'Italia venuta dopo, un embrione di Statuto regio,
dettato subitamente da un calcolo d'egoismo e da paura, sedici anni
addietro, ad un re, per 4 milioni e mezzo d'Italiani del
settentrione.
Oh! qual criterio morale, qual senso di verità, quale idea di dovere
può formarsi, con siffatti esempî sugli occhî, questo Popolo
infante? Chi potrà impedire ch'esso non cada nell'indifferenza,
nella pratica dello scetticismo, in uno sconforto supremo d'uomini e
cose? Chi salverà l'anima dell'Italia nascente dai vizî di
diffidenza, d'egoismo e di ipocrisia che disonorano le Nazioni
morenti?
Ingannammo noi tutti questo Popolo d'Italia, che avevamo giurato di
redimere e far libero e grande: io, promettendo con voi, voi
acquetandovi a veder violate le promesse. Ma io prometteva, illuso
sulla generazione d'uomini cresciuta meco nel lavoro concorde delle
sante congiure; e quando mi vidi illuso, lo dissi: piegai la fronte
non potendo altro, davanti all'onda irruente, ma dichiarando ch'io
m'inchinava afflitto al voto dei più, non a Governo o a monarca
veruno: tentai giovare al Paese, senza riguardo a bandiera, ma
sempre tenendo aperta la via per la nostra: non acclamai, non giurai
ad altra: non proferii altro evviva, fuorchè quello dell'Italia Una,
con, senza o contro; ed oggi, esauriti visibilmente i due primi
stadî, posso senza contradizione risollevare l'antica bandiera e
chiamare i giovani al terzo. Voi, ex amici miei, persistete,
strozzati dalle conseguenze di una diserzione e contro l'evidenza,
nel far durare, parlando o tacendo, l'inganno.
Questa religione dell'anima dell'Italia, questo problema morale, che
è supremo per me, questo vincolo di Dovere, che ci chiama tutti ad
essere Educatori dei primi passi della Nazione e sacerdoti
dell'Avvenire, furono e sono, pur troppo, dimenticati da voi.
Davanti a una santa missione, santa per la Patria nostra, santa per
l'Europa che, diseredata oggimai d'ogni fede pur non potendo vivere
senza, ha diritto d'aspettarla da un Popolo dal quale ebbe due volte
un vincolo d'Unità; io vi vedo, attonito, circondarvi di formole
artificiali, scimiottare il vuoto frasario parlamentare d'uomini che
hanno, da lungo, patria, unità, potenza non minacciate; spendere,
inascoltati e inesauditi sempre, l'energia e l'ingegno in
particolari, in minuzie, giovevoli soltanto dove le basi d'ogni
vivere sociale, Indipendenza e Libertà, sono conquistate da secoli;
armeggiare di tattiche intorno a fini secondarî, come se non aveste
lo straniero in casa, un padrone in Parigi, la Menzogna incarnata
nella nostra Metropoli. Lo sdegno e la vergogna, che dovrebbero far
correre il vostro sangue a concitamento di febbre, non v'hanno fatto
dimenticare una volta sola nei vostri discorsi il titolo
d'onorevoli, dato periodicamente ai colleghi quand'anche non li
crediate tali: non v'hanno strappato mai uno di quei gridi
d'angoscia e di minaccia, che violano il cerimoniale parlamentario,
ma sommovono e talora salvano una Nazione. Vergniaud, Isnard e
Danton sarebbero per voi violatori del Regolamento. L'anima vostra,
raffreddata subitamente dal contatto colla Monarchia, ha smesso i
bollori plebei d'anni sono, ha chiuso con sette chiavi le sacre
audacie delle antiche congiure, per assumere il gelato contegno dei
parlamentari inglesi. Ma i parlamentari inglesi non sono oggi
chiamati che a desumere lentamente, pacatamente, le conseguenze e le
applicazioni pratiche di principî radicati da molte generazioni nel
paese; e apparirebbero, credo, assai diversi, se avessero gli
Austriaci in Edimburgo, i Francesi in Liverpool, il Papa in Dublino.
La questione che v'è posta innanzi, è questione di vita o morte: è
l'enigma della Sfinge: bisogna trovarne la soluzione o perire;
perire, non voi, badate, chè non sarebbe gran fatto, ma l'Italia. Se
voi l'amaste davvero, non recitereste, siccome fate, copisti
inopportuni, la commedia dei quindici anni. Ricordereste che quella
commedia, recitata allora da liberali tattici che, credenti in ben
altro, conchiudevano i loro discorsi, come voi i vostri, col grido
di viva la Carta, inoculò nell'anima della Francia quel gesuitismo
politico, quella ipocrisia negatrice dei principî e del Vero che ha
messo in trono la tirannide del Bonaparte.
Il Vero! L'Italia nascente non chiede se non quello, non può vivere
senza quello. L'Italia nascente cerca in oggi il proprio fine, la
norma della propria vita nell'avvenire, un criterio morale, un
metodo di scelta fra il bene e il male, tra la verità e l'errore,
senza il quale non può esistere per essa responsabilità, quindi non
Libertà. Secoli di schiavitù, secoli di egoismo, unica base
all'esistenza dello schiavo, secoli di corruzione, lentamente e
dottamente instillata da un cattolicismo senza coscienza di
missione, hanno guasto, pervertito, cancellato quasi l'istinto delle
grandi e sante cose, che Dio pose in essa. E voi intendete a
educarla, insegnandole che un principio, il principio della sua
vita, dipende da un interesse, l'interesse dinastico. L'Italia
nascente ha bisogno di fortificarsi acquistando conoscenza dei
proprî doveri, della propria forza, della virtù del sacrificio,
della certezza di trionfo che è nella logica: e voi le date una
teorica d'interessi, d'opportunità, di finzioni; un machiavellismo
male inteso e rifatto da allievi ai quali Machiavelli, redivivo,
direbbe: io aveva dinanzi la sepoltura, voi, stolti, la culla d'un
Popolo. L'Italia nascente ha bisogno d'uomini che incarnino in sè
quel Vero nel quale essa deve immedesimarsi; che lo predichino ad
alta voce, lo rappresentino negli atti, lo confessino, checchè
avvenga, fino alla tomba: e voi le date l'esempio d'uomini che
dicono e disdicono, giurano e sgiurano, troncano a spicchî la
verità, protestano contro i suoi violatori, e transigono a un'ora
con essi. Così preparate al giogo del primo padrone straniero o
domestico, che vorrà inforcarla di tirannide una Italia fiacca,
irresoluta, sfiduciata di sè stessa e d'altrui, senza stimolo di
onore e di gloria, senza religione di verità e senza coraggio di
tradurla in opera.
Io non so se la Repubblica ci unirebbe - e dipenderebbe in parte dai
primi uomini chiamati a dirigerla - so che la monarchia, tale quale
oggi l'abbiamo, ci corrompe; e so che la corruzione è principio di
dissolvimento supremo. - So - e Voi che viaggiaste recentemente nel
Mezzogiorno lo sapete - che da tre anni al giorno in cui scrivo, pel
mal governo sociale, politico, economico, amministrativo, la causa
dell'Unità è andata perdendo terreno, e che le popolazioni
minacciano d'attribuirle i danni che derivano da chi non ne cura e
v'antepone l'interesse dinastico. E so che solo mezzo a salvarne
l'idea e a compirla praticamente, è separarla da chi, non
intendendola o non volendola, ne usurpa il nome; - additare, a
raggiungerla, una nuova via - insegnare al Paese che unico mezzo è
oggimai la rivoluzione, continuata dal Popolo - e gridare ai
giovani, com'io grido: conquistate all'Italia Venezia
affratellandovi ai Popoli che devono essi pure farsi Nazioni,
sorgendo per essi e per voi, assalendo l'Austria nell'interno del
Veneto e da ogni terra italiana; preparatevi a conquistare
all'Italia Roma; ma in nome del Diritto Nazionale, colla fronte
levata, per decretarvi, a beneficio di tutti i Popoli, la libertà di
coscienza; conquistate a voi tutti col voto e per vantaggio di
quanti son nati fra le Alpi e il Mare, il Patto Italiano, formola
detta vita collettiva presente, e sorgente della vita collettiva
dell'avvenire. Fatelo a ogni patto, con ogni mezzo, e rovesciando
ogni ostacolo che s'attraversi. E se tra gli ostacoli incontrate la
Monarchia, in nome di Dio e dell'Italia, non v'arretrate davanti al
fantasma, e sorgete a Repubblica.
A Voi tocca di rivelarci, e senza indugio soverchio, una Monarchia
che faccia suoi i voti, i bisogni, l'onore del Paese - che invece di
rimandare a casa i soldati, li cacci sul Veneto - che non aspetti la
conversione del Papa per darci Roma - che fidi nel Popolo, e lo
chiami a parlare e ad agire - che non desuma le sue inspirazioni da
Parigi - che rispetti la libertà delle Associazioni, delle adunanze,
della Stampa, degli individui - che scelga i suoi ministri fra i
migliori della parte più progressiva - che chiami i delegati di
tutto il Paese a promulgare un Patto Nazionale. E la seguiremo noi
tutti, lasciando al tempo di maturare all'Italia ordini egualmente
buoni e più filosofici. Ma se nol potete, parlate più prudente o
tacete. Altri potrà ammirare sublime la vostra costanza intorno a
una illusione fondata sopra un equivoco. Io richiamerò alla vostra
mente la vecchia sentenza, che dal sublime al ridicolo non corre se
non un passo.
E parmi che Voi e i miei ex amici v'affrettiate a varcarlo.
Dicembre 1864.
Giuseppe Mazzini.
MAZZINI E VITTORIO EMANUELE
a proposito di una frase di Francesco Crispi((305))
Al Direttore del «Dovere.»
In una lettera del deputato Crispi, inserita nel Diritto del 6
giugno, trovo le parole: «Mazzini, il quale ha solo l'arte di
restare repubblicano offrendo i suoi servigi ai principi.»
Quelle parole sono indegne, ma non mi sorprendono. La caduta
dell'anime segue, come quella dei gravi, le leggi del moto
accelerato. Smarrita la fede che le guidava, precipitano, in balìa
di subiti impulsi e dell'ira, d'abisso in abisso.
Nè mi curerei di rispondere a un oltraggio smentito da tutta una
leale impavida vita. Se non che il dubbio sul quale speculano quelle
parole, affacciato già da altri, può serpeggiar facilmente tra
giovani buoni ma proni a uno scetticismo che le fraintese dottrine
di Machiavelli hanno impiantato nell'anime. Scrivo dunque per essi
quel tanto ch'è necessario a provar loro come qualcuno almeno possa,
in un contatto regio, serbare inviolata, non dirò la fede, ma la
dignità della fede repubblicana.
Nel novembre del 1863 - mentr'io lavorava come meglio poteva per
l'unica impresa possibile allora, e di necessità suprema oggi come
allora - l'impresa Veneta - mi venne da persona che praticava col re
un messaggio la cui sostanza era questa: «il re non intendere questo
cospirare continuo e impiantare un dualismo tra il Governo e il
Partito d'Azione in cose nelle quali si era, in sostanza, d'accordo:
volere egli Venezia quanto me: aver egli fede nell'onesta lealtà del
mio procedere: perchè non si verrebbe a un patto per l'intento
comune?»
Io sono repubblicano; ma ho sempre creduto e credo che sarebbe colpa
e follìa introdurre la questione repubblicana nell'impresa Veneta.
La questione Veneta è Nazionale, non politica: questione di terra
nostra da conquistarsi sullo straniero, sotto qualunque bandiera
rappresenti l'Italia nel momento in cui l'impresa si tenterà. La
guerra all'Austria ha bisogno di tutti gli elementi di forza
esistenti nella Nazione: dell'esercito, come dell'insurrezione e dei
volontarî. Ajutare rapidamente, potentemente, universalmente, senza
suscitare questioni generatrici di discordia, una iniziativa Veneta,
perchè il Veneto emancipato s'unisca all'Italia: è questo tutto il
programma. Solamente, è necessario vincere, e vincere in modo che
dia all'Italia coscienza di sè. Quindi, indispensabili alcune
condizioni all'impresa; non ajuti stranieri che c'imporrebbero
soggezione e patti funesti: iniziativa di Popolo, per determinare il
disegno pratico della guerra, e non lasciare alla pedanteria dei
generali governativi facoltà di concentrarla, come nel 1848, per
entro al Quadrilatero, dove saremmo forse battuti: l'elemento
importantissimo dei volontarî schierato intorno a Garibaldi. Queste
mie convinzioni erano tali da potersi esporre a popoli e principi; e
le esposi.
Il 14 novembre io aveva ricevuto il messaggio: risposi il 15.
Risposi non potere nè volere stringere patto alcuno. Ricordai: «che
più d'un anno addietro» - dopo Aspromonte - «io aveva dichiarato
pubblicamente ch'io ripigliava tutta la mia indipendenza e non avrei
più patti se non colle inspirazioni della mia coscienza e delle
circostanze» e dissi: «credere debito mio verso me stesso e il
Partito serbare inviolata quella mia indipendenza.» Dissi: «ch'io
non potevo avere fiducia nella fermezza delle deliberazioni di chi
seguiva le inspirazioni dell'Imperatore Francese e presentiva che,
dove le intenzioni di Luigi Napoleone diventassero favorevoli
all'Austria, un telegramma di Parigi agghiaccierebbe in un subito le
tendenze bellicose governative. Una politica Nazionale non poteva
soggiacere a variazioni sì fatte e a me conveniva quindi rimaner
libero da ogni vincolo o patto.
«E d'altra parte, a che i patti? Era noto che io sentiva necessaria
l'Unità di tutte le forze nazionali all'impresa: noto ch'io non
pensava a inalzare la bandiera repubblicana sul Veneto: noto che noi
tacendo, per coscienza e dignità, di V. E., e limitandoci al grido
di Guerra all'Austria, Ajuto ai nostri Fratelli, avremmo lasciato il
programma ai Veneti, i quali, volendo l'esercito, avrebbero
senz'altro invocato la monarchia. Voleva il re, come noi,
l'emancipazione del Veneto? Lasciasse fare e s'apprestasse a
cogliere rapidamente l'opportunità che noi cercheremmo di suscitare.
Il metodo naturalmente indicato dalle circostanze era: iniziativa
insurrezionale nel Veneto: risposta da nuclei di volontarî italiani
e manifestazioni del Paese; intervento governativo. Mandasse il re
pe' suoi agenti una parola al Veneto che consonasse colle nostre:
rallentasse verso noi l'azione governativa: non cordoni ostili, non
sequestri d'armi; mentre dal nostro lato s'opererebbe con ogni
prudenza possibile: provvedesse all'esercito e segnatamente agli
apprestamenti navali: bandisse dall'animo ogni idea d'ajuto francese
a noi o d'ajuto italiano alla Francia, se mai la Francia movesse
guerra sul Reno: lasciasse Garibaldi capo libero indipendente dei
volontarî, e intendesse che mal si compie una impresa nazionale con
un ministero screditato nel paese e avverso deliberatamente a noi.»
Nè scenderò in particolari del contatto che seguì: ripugna
all'indole mia di rivelare fuori del necessario, sensi e disegni
altrui, poco importa di chi. Affermo soltanto - e se v'è chi possa
smentirmi, lo faccia - che nessuna mia lettera ebbe una sola sillaba
che sviasse dal contenuto di quella del 15 novembre. Non proferii
parola intorno ai nostri elementi, ai lavori iniziati, alle nostre
intenzioni. Spinsi l'indipendenza sino a rispondere con un rifiuto
esplicito all'incerta ipotetica offerta d'ajuti pecuniarî
all'intento; dissi che ajuti sì fatti costituirebbero tra chi li
darebbe e me un vincolo ch'io non voleva accettare; e suggerii si
volgessero a pro dei poveri Polacchi e Ungheresi.
Il 25 gennajo 1864, nojato dei continui tentennamenti e volendo pur
essere leale, io dicevo: «che il linguaggio della Stampa
Governativa, le circolari ministeriali pronunciavano un voltafaccia
codardo, fatale più assai alla monarchia che non alle nostre idee:
che avremmo tentato e ritentato; ma che, se fossimo impediti
davvero, tutta la mia attività si sarebbe inevitabilmente rivolta
alla questione interna e all'apostolato repubblicano.» E ripetevo
che: «dare ai Veneti una parola d'ordine a pro dell'azione -
lasciare che nuclei di volontarî movessero a soccorrerla quando
s'iniziasse - non opporsi a manifestazioni popolari invocatrici
d'ajuto ai Veneti - dichiarare, come fece Carlo Alberto nel 1848 ai
Governi Europei, il governo Italiano essere costretto a movere - era
il da farsi.»
Quando nell'aprile ebbi notizia del sequestro dei fucili in Brescia
e Milano, dichiarai «non voler essere mistificato da principi o da
chicchessia: si restituissero immediatamente l'armi, o si
sostituisse un numero eguale e, mallevadorìa del futuro, si
togliesse all'ufficio Spaventa: dove no, terrei per chiarite le
intenzioni avverse, e porrei fine ad ogni contatto.»
Il 24 maggio finalmente io scrivevo: «È chiaro che non possiamo
intenderci... S'è cominciato per dichiarare che non poteva
sollevarsi iniziativa dal di fuori: risposi, dichiarando che si
trattava di iniziativa interna. Si disse allora che sarebbe stato
necessario un moto anteriore in Galizia: risposi - che, comunque
m'increscesse mutare a un tratto disegno e linguaggio coi nostri
Alleati, mi vi adoprerei. Oggi si vuole anche l'Ungheria. Domani si
vorrà la Boemia, l'Impero Austriaco assolutamente sfasciato prima
d'assalirlo. Intanto, l'anno venturo avremo la Polonia morta, la
Galizia impossibilitata ad agire, la questione Danese finita,
l'Ungheria in braccio al partito conciliatore((306)). Questa non è
politica italiana: è politica di paura, politica indegna d'un popolo
di 22 milioni e d'un esercito di 300 000 uomini. È impossibile
trattare di cose vitali, senza un limite di tempo determinato. Non
deve farsi, mi si dice, se non a tempo opportuno. È appunto perch'io
credo il momento opportuno, che io cerco si colga. Bisognava dirmi
per quali ragioni non è opportuno; bisognava dirmi: s'intende agire
nel tal tempo e non prima. Il dirmi oggi che non possono darsi armi
all'interno per timore che agiscano, è un ricacciarmi
nell'indefinito. Il dirmi che anche con una insurrezione interna
s'impediranno gli ajuti; è un dirmi: il Governo è deciso a far le
parti dell'Austria.
«..... Rinunzio quindi a un contatto inutile... Rimango libero,
sciolto da ogni vincolo, fuorchè quello che ho colla mia coscienza,
terreno sul quale cittadini e re sono eguali.»
Se linguaggio sì fatto valga offrire servigi ad un re, vedano
gl'Italiani. Nauseato oggimai delle pazze accuse che l'immoralità
dei nemici e degli ex amici m'avventa, io dichiaro esser questa
l'ultima volta ch'io scendo, di fronte alla causa d'un Popolo, a
parlare di me e a giustificare o spiegare la mia condotta.
12 giugno.
Giuseppe Mazzini.
AI ROMANI((307))
Romani,
Non so a che, nelle nuove circostanze, voi vi apprestiate; ma so a
che dovreste apprestarvi; e m'assumo di dirvelo: prima, per
coscienza d'Italiano e di cittadino di Roma, dacchè a voi piacque,
in tempi gloriosi alla vostra città, farmi tale: poi, perchè gli
uomini di parte monarchica imposturarono come mia una stolta lettera
nella quale v'è predicata pazienza e sono tacciati d'imprudenti i
vostri bei fatti del 1849. Taluni fra voi possono aver creduto nella
verità di quell'impostura, e m'importa sappiate che io, triumviro un
giorno in Roma, incanutito oggi nella chioma ma non nell'anima,
serbo incontaminata la Fede che noi annunziavamo allora uniti e
volenti all'Italia dal Campidoglio.
Ignoro quale situazione impreveduta possano creare per voi le
tattiche oblique del Governo del Regno e le trame degli agenti
francesi con esso e col Papa; e spero che voi vi governerete in ogni
modo da forti, a seconda dei casi. Ma io vi parlo come se la
Convenzione Franco-Italiana dovesse essere unica norma alle vostre
condizioni. E di fronte a quella Convenzione, che comanda al Governo
Italiano di non promovere azione contro la potestà temporale del
Papa, di non tollerare ch'altri la promova dalle terre Italiane, e
di serbare capitale d'Italia Firenze, voi avete due solenni doveri
da compiere: il primo verso Roma e voi tutti, che portate sulla
fronte quel santo nome: il secondo verso l'Italia e l'Europa.
Voi dovete agire: levarvi contro la ciurmaglia accozzata dal rifiuto
dei paesi stranieri e sperderla. Una accusa serpeggia - perchè
celarvelo? - a vostro danno in Europa, e ha trovato sovente
espressione nelle gazzette inglesi e francesi. La singolare pazienza
colla quale voi avete, per diciassette lunghi anni, tollerato, senza
una virile protesta, gli invasori stranieri nelle vostre mura, fu
guardata come sommessione di Popolo che s'arretra davanti ai
pericoli, e avvalorò la menzogna che Roma fosse, nel 1849, difesa da
uomini appartenenti ad altre terre d'Italia. Io vi vidi in quel
tempo, e però la dichiarai sempre, e la dichiaro menzogna. Le
influenze che v'inspirarono quell'attitudine mi son note tutte, e
non dimentico la singolare e difficile posizione in cui vi mantenne,
chiamando ad alleata la Francia, la Monarchia Italiana. Ma se oggi,
liberi da quell'equivoco, voi persisteste in soggiacere a quelle
influenze addormentatrici - se non v'affrettaste a provare che, non
la forza nemica, ma l'essere quella forza della Nazione che l'Italia
chiamava alleata, e che combatteva in Solferino e Magenta, fu
ostacolo al vostro sorgere - voi confermate la pazza accusa. Or voi
non dovete - non dirò mostrarvi codardi - ma poter essere sospettati
di codardìa.
Ma sorgendo, quale deve essere il vostro grido? Quale programma
dovete scegliere?
La risposta fu già data, diciassette anni addietro, da voi: non
dovete scegliere; avete scelto.
Il 9 febbrajo 1849, liberi e legalmente rappresentati, dichiaraste
unanimi, che il grido dal quale venne la grandezza dei vostri padri
era il vostro; che il programma di Roma all'Italia futura si
compendiava nella parola Repubblica. E quel programma, accettato con
entusiasmo in quante terre dipendevano allora da Roma, fu segnato
ogni giorno, in due mesi di lotta, col sangue dei vostri migliori,
in Roma, in Bologna, in Ancona.
Il 2 luglio, un ostacolo - la forza brutale - si frappose tra voi e
l'espressione della vostra volontà, del vostro Diritto.
Quell'ostacolo sparisce in oggi. La vostra volontà ricomincia a
manifestarsi qual era. L'eterno Diritto rivive. Voi siete, sorgendo,
ciò che il 9 febbrajo eravate: repubblicani e padroni di voi
medesimi.
Il 3 luglio, un giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, il
Popolo di Roma levò una volta ancora la mano per affermare, di
fronte al nemico, la propria fede: la Costituzione Repubblicana fu
solennemente letta alla moltitudine dal Campidoglio. La bandiera
straniera s'abbassò, come velo, tra quella mano, che mostrava il
Patto, e l'Italia. Quel velo oggi si squarcia. La mano del Popolo di
Roma riappare levata in alto.
È questo il solo programma che logica, onore, coscienza del passato
e dovere verso l'avvenire v'additino. Riaffermate, prima d'ogni
altra cosa, voi stessi, la vostra vita, la potenza che è in voi:
farete poi ciò che Dio e la coscienza del Dovere Nazionale vi
inspireranno. Siate; poi disporrete di voi.
E allora - quando il vostro voto non sarà il muto, immediato, cieco
suffragio che inaugurò la tirannide di Bonaparte e consegnò Nizza
alla Francia - quando potrà escire solenne, pensato, forte
d'inspirazione collettiva, illuminato dal consiglio dei buoni e
dalla libera discussione sulle vostre condizioni e su quelle
d'Italia - deciderete se Roma debba darsi, come città secondaria,
diseredata di vita propria, a una monarchia condannata, provata
impotente a ogni forte fatto, che riceveva jeri, come elemosina
dallo straniero, Venezia, e che scriverebbe sul Campidoglio Custoza
e Lissa: - o se la Tradizione, gloriosa sopra ogni altra, del suo
passato, e la missione ch'è in essa e dalla quale escì due volte
l'unificazione materiale e morale del mondo, la chiamino a parte più
degna e feconda pei giorni futuri della Nazione.
Intanto affermatevi; affermate Roma. - Chi vi dà consiglio diverso -
chi vi sprona ad aggiogarvi senza maturo, collettivo e libero esame
nel fatto esistente - disonora Roma senza giovare all'Italia.
Non m'accusate di contradizione coi consigli che io diedi ad altri
in passato.
Quand'io, nel 1859 e nel 1860, consigliai il Mezzogiorno d'Italia ad
annettersi, l'Unità materiale, avversata in tutti i disegni del
Bonaparte, non esisteva: l'Italia intera consentiva - non monta se a
torto o a ragione - nel concedere alla Monarchia il benefizio d'un
esperimento a pro della possibilità d'un accordo fra essa e il
Paese: nè le città alle quali io, riverente alla Sovranità popolare,
parlava portavano il grande nome di Roma.
E nondimeno io suggeriva, anteriori a ogni plebiscito, le Assemblee,
tanto che le annessioni si compissero a patti, e con certezza di
libertà vera e d'onore alla Nazione futura. Non m'ascoltarono - ed
oggi si pentono d'essersi dati alla cieca.
Ma io parlo ora a voi, uomini di Roma, in condizioni radicalmente
mutate.
L'Unità materiale d'Italia è ormai irrevocabilmente fondata; nè le
vostre decisioni o i vostri indugi possono farle correr pericolo.
Quel ch'oggi importa non è che voi siate d'Italia il tale o tal
altro giorno; importa che lo siate in modo degno di voi, e che
promova i fati d'Italia e l'Unità morale, mancante tuttora e
inaccessibile alla Monarchia.
L'esperimento è compiuto. Una lunga serie di fatti incontrovertibili
ha provato, a quanti hanno senno e core, che la Monarchia non può
essere se non servile al di fuori, strumento di resistenza al di
dentro. L'Instituzione è moralmente condannata. Il Paese può
trascinarsi per un tempo ancora tra le esitazioni dell'opportunismo;
non è più monarchico.
E io parlo a voi, Romani di Roma, eccezione fra quante città
s'inalzano sulle nostre terre. Roma non è città; Roma è una Idea.
Roma è il sepolcro di due grandi religioni, che furono vita al mondo
nel passato, e il Santuario d'una terza che albeggia e darà vita al
mondo nell'avvenire. Roma è la missione d'Italia fra le Nazioni: la
Parola, il Verbo del nostro Popolo: il Vangelo Eterno d'unificazione
alle genti. Posso io dirle di annettersi, appendice subalterna a
Firenze? Posso io suggerirle, senza delitto di profanazione, di
consacrare del suo prestigio una Instituzione incadaverita; di
coprire coll'immensa ombra della sua gloria le colpe, gli errori, la
servilità allo straniero d'una Monarchia, che non ebbe una protesta
per voi nel 1849, che non trovò una parola da proferirsi a pro
vostro nei vostri diciassette anni di servitù; che disse per bocca
de' suoi ministri: non andrò in Roma se non col beneplacito della
Francia e del Papa?
No: Roma non deve annettersi a Firenze; dobbiamo noi tutti
annetterci a Roma. Ma per questo abbiamo bisogno che Roma risorga
quale era quando salvò l'onore d'Italia, perduto in Milano e Novara
dalla Monarchia: abbiamo bisogno ch'essa si levi dal suo sepolcro,
in nome, non del passato, ma della nuova vita dell'avvenire; abbiamo
bisogno ch'essa splenda, per breve tempo isolata, siccome faro di
Verità e di Progresso, alle incerte, desiose popolazioni d'Italia.
L'Unità materiale d'Italia è pressochè fondata: oggi, è necessario
un simbolo che rappresenti l'Unità morale; e quell'Unità non può
venirci che dalla fede repubblicana. Ciò che abbiamo è forma
senz'anima: noi l'aspettiamo da Roma; ma Roma non può spirarla
nell'inerte forma, se non a patto di serbarsi pura dalle sozzure
presenti. Accettandole, Roma cade; e con essa cadono, per non so
quanto, i grandi fatti d'Italia in Europa.
Addio - ora e sempre vostro
5 dicembre 1866.
Giuseppe Mazzini
1869.
AI NEMICI((308))
Scrivo a voi, non perchè io intenda - nè(309) voi l'aspettate da me
- difendermi dalle vostre accuse o spiegare la mia condotta: le
vostre accuse mi onorano, e sulla mia condotta non vi riconosco
diritto alcuno. Scrivo per dirvi e dire al Paese, che quelle recenti
accuse, suggerite da voi alle vostre gazzette, vi chiariscono a un
tempo immorali, codardi e stolti: immorali, perchè voi le sapete
false e nondimeno le profferite; codardi, perchè, padroni d'ordini
costituiti, di vasti mezzi finanziarî, d'un esercito che dite vostro
e d'una stampa che è vostra, vi giovate a combatterci d'armi sleali,
delatori segreti e calunniatori, dichiarandovi così da voi stessi
impotenti ad altro; stolti, perchè vi illudete a credere che il
Paese, ingannato da voi da lunghi anni ogni giorno, accetti credulo
le vostre accuse, e ritenga me e gli amici miei uomini capaci di
assoldare accoltellatori o fomentare saccheggi e violazione di
proprietà.
Il Paese ricorda - da quando il Governo del padre del vostro re
spargeva in Genova, nel 1832, voce nelle caserme di veleni destinati
al presidio - che calunnie siffatte ricomparvero a ogni minaccia di
moto, a ogni paura che la coscienza dei vostri falli vi suscitò
dentro; chiarite poco dopo menzogne architettate ad aizzare i
pregiudizî d'una o d'altra classe di cittadini contro i vostri
avversarî. Il Paese - e per Paese non intendo le poche centinaja di
raggiratori che servono oggi, lucrando, voi, e servirebbero noi
domani se potessimo mai accettarli, ma i milioni di onesti cittadini
che possono essere talora traviati, non corrotti e calunniatori -
conosce voi e comincia a conoscere noi. Quei milioni hanno veduto
voi escir dal potere impinguati di facoltà, e noi quanti siamo
escirne più poveri; hanno udito di Manin maestro di scuola in
esilio, del generale romano Roselli traente per anni, con tacita
dignità, esistenza di povero popolano nella Liguria, della modesta
vita di Carlo Cattaneo in Lugano, di Gustavo Modena rassegnato a
vendere paste e cacio in Bruxelles, dei molti nostri periti nella
miseria su terra straniera; e intendono che se noi, come tutti,
possiamo avere errori nell'intelletto, non abbiamo basse avidità nè
vizî da soddisfare a danno del paese o dell'altrui proprietà; hanno
veduto voi pazzamente feroci contro il masnadierume nel Mezzogiorno
e prodighi di domicilî coatti, di persecuzioni arbitrarie, di stati
d'assedio nel Centro, e di repressioni sanguinose in Torino; noi,
saliti al potere in Venezia e Roma, serbarci, di mezzo al
concitamento d'una guerra contro stranieri e soldati della monarchia
napoletana, puri di proscrizioni e di intolleranza; e intendono, che
noi possiamo essere uomini d'arditi e tenaci propositi, non di
sangue e vendette, e che la nostra Repubblica non è nè può mai
essere la francese del 1793; hanno udito d'una gloriosa tradizione
di martiri repubblicani, morti tutti, dai grandi napoletani del 1799
sino a Carlo Pisacane e Rosalino Pilo, sul palco o in battaglia, col
sorriso della coscienza incontaminata sul labbro e col raggio d'una
speranza, che il sangue loro frutterebbe al futuro della Patria,
sulla fronte serena; hanno udito del venerando e canuto Giuseppe
Petroni - abbandonato da voi perchè amico mio e repubblicano - e del
suo duplice e glorioso rifiuto, a me, che gli offrivo di agevolargli
la fuga, perchè ei non voleva abbandonare i compagni di prigionìa; e
ai satelliti del Papa, che gli offrono, dopo quindici anni di
patimenti, libertà, perchè l'offrono a patti codardi; e hanno
oggimai conchiuso che, mentre i men tristi fra voi sono uomini d'una
opinione o d'un interesse dinastico e incapaci di martirio o di
sagrificio, noi siamo uomini d'una fede, purificati da essa
nell'anima e incapaci di delitti ch'essa rifiuta. Molti fra gli
Italiani si affacciano oltre l'Alpi alla Svizzera repubblicana e vi
trovano spettacolo di virtù semplici, di perenne concordia civile e
di proprietà largamente diffusa e inviolata; viaggiano oltre il
mare, agli Stati Uniti repubblicani, e vi trovano vita rigogliosa e
crescente, lavoro universale e onorato, educazione pressochè
universale, dignità di liberi in tutti, potenza, quando occorre, di
sagrificio in armi e denaro, quale nessuna delle vostre monarchie
può sognare; e si convincono che l'Instituzione Repubblicana
significa onnipotenza di legge, ufficî dati al merito e alla virtù,
eguaglianza d'anime promossa da eguaglianza d'educazione, governo
iniziatore di progresso, ricchezza fondata sul lavoro, libero e
vigilante consenso di cittadini in ogni cosa che li concerna,
impossibilità quindi di rivoluzioni violente; mentre, volgendo gli
occhî alle monarchie, vi trovano arbitrio, ufficî dati al privilegio
d'oro o di nascita, ineguaglianza, corruzione scendente dall'alto,
lavoro inceppato a ogni passo nella produzione e nella circolazione,
ignoranza, accarezzata siccome strumento di servitù, nelle
moltitudini, assenza d'armi e di voto nei più, e quindi rivoluzioni
periodiche o frequenti tentativi d'insurrezione, fatali alla pace,
all'industria, ai commerci, ma inevitabili dove diritti e doveri
sono sistematicamente negati.
E finalmente, alcune migliaja tra gli uomini ai quali mentite, hanno
letto ciò ch'io e parecchî dei miei amici repubblicani andiamo da
ormai trentacinque anni scrivendo, e v'hanno raccolto che noi
abbiamo sempre combattuto a viso aperto ogni terrore eretto a
sistema, ogni vendetta del passato, ogni atto che sommova una classe
di cittadini contro l'altra - che abbiamo virilmente respinto,
affrontando per amore del Vero, il biasimo e l'ira di taluni fra i
nostri più stretti amici, ogni sistema di comunismo, di spogliazione
violenta, di violazione di patti accettati dalla Nazione, o di
diritti individuali legittimamente acquistati - che abbiamo
invariabilmente predicato ai nostri concittadini: voi non potete
mutare in meglio le sorti del vostro Paese, se non a patto d'essere
migliori, più virtuosi e più giusti di quelli che rovesciate.
Però, quando uno dei vostri ministri, al quale consiglierei
d'imparare, prima di governarlo, la lingua del suo Paese, deplora,
sgrammaticando, nel Parlamento «che uomini che ardiscono vituperare
il nome della libertà, vantandosene campioni, possano dar luogo a
iniqui tentativi, che se fossero stati seguiti dal premeditato
effetto «avrebbero avuto conseguenze veramente da assassini;» poi,
parlando d'armi scoperte, afferma: «è inutile dire che questi
strumenti erano diretti contro galantuomini;» e finalmente
attribuisce agli arresti virtù «d'aver dimostrato che la congiura
era più che altro ordita contro l'esercito,» il Paese ride del
ministro, delle insensate affermazioni, delle strane ipotesi e della
patente contraddizione del congiurare contro un esercito che, a
detta vostra, ci adoperiamo con ogni artificio a sedurre. Ma quando
v'ode a infamare davanti all'Europa la Sicilia, come capace di
spedire, viaggiatori commessi a sgozzare, duecento accoltellatori a
una città del Settentrione italiano, e i repubblicani della nostra
tempra come capaci d'assoldarli, il Paese torce nauseato il suo
sguardo da voi, che non rifuggite, per combatterci, dal calunniare
la Patria vostra, e desume intanto, dalla scelta delle vostre armi,
che le altre vi sfuggono, che siete oggimai vittime votate alla Dea
Paura, che siete e vi sentite perduti. Noi, per provarvi tristi,
inetti e fatali all'Italia, non abbiamo bisogno d'arti siffatte.
Io - dacchè l'insistenza vostra ad attribuirmi ogni cosa che vi
conturba mi riduce a parlar di me - vi sono e vi sarò, finch'io
viva, nemico irreconciliabile: voi avete crocefisso al cospetto
delle Nazioni l'onore della mia Patria e fatto, per quanto è in voi,
retrocedere un avvenire che Dio le assegnava, e che bastò a me
intravedere, perchè io gli consecrassi anima, vita e affetti,
sentendomi largamente compensato d'ogni possibile sacrificio. Ma nè
l'immenso amore che io porto all'Italia, nè lo sdegno profondo
contro ognuno che la vituperi e cerchi di corromperla e traviarla,
m'hanno fatto mai adottare armi sleali con voi, o scendere ad accuse
ch'io non credessi fondate, o rifiutarvi quella libertà
d'esperimenti, che voi con ipocrite promesse invocaste più volte
negli anni addietro. Quando nel 1848 dichiaraste solennemente che la
monarchia scendeva in campo contro l'Austria per compiere un dovere
verso l'Italia e promettendo al paese di lasciarlo, a guerra vinta,
arbitro delle proprie sorti - quando nel 1859 e nel 1866 diceste,
per bocca dei vostri dittatori, a noi tutti: «la monarchia ha
esercito, forze da lungo ordinate e tesori; essa può e vuole dare
all'Italia ciò che cercate, Roma, l'Alpi, indipendenza al di fuori,
libertà vera al di dentro, con sacrificî minori e certezza di
successo che voi non avete» - io, incredulo a voi, ma riverente al
Paese che vi credeva, e tratto da un ingenito amor di giustizia a
concedervi modo di tentare l'adempimento delle vostre promesse,
tacqui di repubblica, ajutai come per me si poteva le vostre guerre
e le vostre annessioni nel Centro e nel Mezzodì, m'astenni da ogni
lavoro segreto e da ogni cosa che voi poteste chiamar congiura;
aspettai che il tempo chiarisse gl'intendimenti vostri, e vi promisi
che se mi sentissi mai costretto a rifarmi nemico e ripigliare
l'antica via, v'avvertirei. D'allora in poi, i fatti, fatti
ripetuti, innegabili, coordinati a sistema, provarono a quanti
vogliono intendere, che le promesse erano menzogne, che voi non
sapevate, non potevate, non volevate darci Roma, nè le nostre
frontiere, nè indipendenza, nè libertà, nè prosperità materiale, nè
vita e dignità di Nazione. E, sul finire del 1866, io risollevai
pubblicamente, con un manifesto stampato, quella bandiera
repubblicana, che porta fra le sue pieghe i fati d'Italia; e in nome
dei credenti in essa vi dissi: volete guerra? l'avrete. Chi è sleale
tra noi? Noi, che aspettammo, pazienti, esaurite tutte le possibili
vie d'accordo nel presente; e soltanto quando fu compito ogni
esperimento e tradita ogni speranza, ci distaccammo apertamente da
voi, o voi che trafficaste del sangue dei nostri martiri dai quali
vi fu preparato il terreno, delle illusioni di tutto un popolo
credulo nelle vostre promesse, e del nostro silenzio, per
impiantarvi, potenti e armati dominatori, sul collo d'Italia e dire
ad essa: non siamo tuoi, ma d'una dinastia - a noi: siete assassini
ed espilatori?
Reprimete, finchè avete modo, e tacete. Avete troppo mentito perchè
altri vi presti fede. La coscienza irritata del Popolo italiano vi
toglie oggimai il diritto della parola.
Voi avete avuto incitamento ad essere grandi e virtuosi, ciò che
nessuno ebbe mai: un popolo forte, numeroso, capace d'ogni
entusiasmo, che v'era ciecamente devoto e vi offriva ogni cosa sua
perchè lo guidaste alla meta, e l'avete prostrato ai piedi dello
straniero, privato d'armi e di voto, coperto di disonore davanti
all'Europa. Avevate il prestigio d'un nome, Roma, sacro fra i popoli
e pegno, pel ricordo storico di due epoche di civiltà date al mondo,
del loro rispetto e del loro amore; e avete, pur giurando il
contrario, annientato quel prestigio abbandonando Roma al fantasma
papale, e tollerato, tacendo, che un ministro francese vi dicesse:
non l'avrete mai. Avevate radicato financo nelle moltitudini dal
lungo nostro apostolato e da sagrificî di sangue dei migliori fra
noi, un culto all'Unità, che in una Nazione di venticinque milioni
costituisce potenza gigantesca, vincolo sicuro d'amore e pegno di
missione comune; e avete, sostando a mezzo e facendo, a furia di
sgoverno, parere amaro anche quel misero incominciamento, ridato
vita a uno spirito di federalismo che riescirebbe, se mai durasse,
fatale alla Patria. Avevate, insegnamento a fondar durevole
quell'Unità, una splendida tradizione storica che v'additava due
soli e inseparabili elementi della vita Italiana, la Nazione e il
Comune; e voi avete, col suffragio ristretto e colla tirannide
governativa di prefetti, viceprefetti, delegati e carabinieri,
soffocata ogni attività di Comuni e soffocato - negandogli un Patto
e costringendolo in uno Statuto anteriore al fatto dell'Unità e
dettato, in un momento di paura, dal re che tradì Milano - il
pensiero della Nazione. Avevate una terra che fu granajo e maestra
d'industria e commerci ai popoli e sarebbe, sotto un Governo
Nazionale davvero, anello tra l'Europa e l'Oriente e deposito
centrale delle merci d'Europa verso esso; avevate nei beni
demaniali, nei possedimenti incamerati del clero, nella Sicilia, in
Sardegna, nel Mezzodì, nei sei milioni d'ettari di terreno incolto,
una immensa sorgente di ricchezza; e avete, con un sistema di
contribuzioni ostile alla produzione, inceppata l'agricoltura,
tormentato, insterilito il commercio coi dazî, colle dogane, col
monopolio, ucciso il credito con una economia d'espedienti e colle
condizioni provvisorie nelle quali v'ostinate a mantenere il paese;
avete sprecato quelle ricchezze nel vortice della speculazione
straniera e negli imprestiti rovinosi, che non sollevano, se non
d'anno in anno, il presente e disseccano le sorgenti dell'avvenire.
Avevate una linea, unica in Europa, di frontiere pressochè
insuperabili, e l'avete spezzata abbandonando allo straniero, che
tiene già Roma, Nizza e Savoja: - un Esercito di prodi, presto a
tutelare quella frontiera, e l'avete avvilito, ricevendo
com'elemosina dalla Francia imperiale quelle terre, che avreste
potuto conquistarvi coll'opera sua, e tradito in tutte le sue
speranze a Villafranca, nel Trentino, a Lissa, a Custoza; - un
cominciamento della Nazione Armata nei volontarî che vi diedero il
Mezzogiorno d'Italia e potevano procacciarvi il favore e
l'entusiasmo di quanti popoli anelano a farsi Nazioni; e li avete
spiati, ricinti d'insidie, perseguitati; - Garibaldi, e l'avete
ingannato, combattuto, imprigionato, ferito. Onore, amore del paese,
sicurezza, esercito, Roma, tutto giace per voi a' piedi dello
straniero, sol perchè, sentendovi mal fermi sulla vostra terra,
sperate d'averlo un giorno alleato contro di noi. Ricordo le parole
d'un principe della vostra dinastia, Vittorio Amedeo II, che, men
servile degli altri, richiesto da Luigi XIV di Verrua e della
Cittadella di Torino, gli dichiarò guerra esclamando: Sono stato da
lungo trattato come vassallo: ora vogliono fare un paggio di me: è
giunto il tempo di mostrar ciò ch'io sono. Ciò che voi siete,
l'Italia lo sa. Voi avreste, come a Mentana, comandato ai vostri
d'assistere, spettatori inerti, all'invasione di Luigi XIV e alla
strage dei difensori italiani di Torino e Verrua.
Ma, perchè a voi piace di travolgervi nel fango imperiale, dobbiamo
farlo noi? Perchè non vive nell'anima vostra scintilla d'amore e
d'orgoglio italiano, avete sperato che noi dovessimo spegnerla nella
nostra? Perchè voi potete contemplar sorridendo l'agonia dell'anima
della Patria, vi siete illusi a credere che noi ci rassegneremmo a
non tentare di farla rivivere?
Pensate che tutti debbano tradire la fede nel Dovere, perchè voi la
tradite?
Io non logorerei quest'ultimo minacciato avanzo di vita per una
semplice questione politica, per affrettare di pochi anni o di mesi
l'impianto dell'Instituzione Repubblicana; la Repubblica è, in
Italia, inevitabile tra non molto; e lascerei al tempo e ai vostri
errori l'opera loro a pro nostro. Ma se una questione di libertà o
di finanza può affidarsi al più o meno lento svolgersi delle idee
progressive, una questione d'onore non può. Il disonore è la
cancrena delle Nazioni; ne spegne, se non è combattuta a tempo, la
vita. Un Popolo che si rassegna, potendo altro, all'insulto
straniero, che avendo in sè forze per essere popolo libero e padrone
dei proprî fati, si trascina in sembianza di liberto fin dov'altri
vuole e non oltre, è un popolo perduto: abdica potenza e avvenire.
Noi siamo oggi, mercè vostra, disonorati; e ogni giorno che passa
aggiunge alla coscienza del disonore uno strato di corruzione ai
molti, che quattro secoli di servaggio, l'educazione gesuitica, le
influenze straniere, il materialismo inseparabile dalla servitù, il
machiavellismo ch'è la politica dei popoli incadaveriti, hanno messo
intorno all'anima della Nazione. Ponendo la macchia nera del
disonore sulla giovine bandiera d'Italia, voi ci avete intimata la
necessità dell'Azione. S'altri, che più lo dovrebbe sentire, nol
sente, tal sia di lui. Noi lo sentiamo; ci apprestiamo quindi e ci
appresteremo, checchè facciate, all'Azione. Ci ordineremo a quel
fine, pubblicamente dove potremo, segretamente, dove le vostre leggi
ci costringeranno al segreto. Provvederemo ad armarci, non come
bassamente voi ci apponete, per accoltellare gli onesti, o
conquistarci l'altrui, ma per non darci, stolidamente inermi, il
giorno in cui chiameremo il popolo d'Italia a decidere tra voi e
noi, ai vostri birri, ai vostri carabinieri, a quei fra i vostri
soldati che, durando nella servitù e nell'inganno, non scenderanno
nell'Azione con noi. E diremo e ridiremo a stampa pubblica o
clandestina, a seconda delle vostre persecuzioni, le parole che
l'amico mio Lamennais, santo dei nostri oggi troppo dimenticato,
diceva, prima di morire, al popolo: «Sappiate questo. Quando
l'eccesso del patire v'inspira la determinazione di ricuperare i
diritti dei quali i vostri oppressori v'hanno spogliati, essi vi
accusano perturbatori dell'ordine, e cercano infamarvi come ribelli.
Ribelli a chi? Non v'è ribellione possibile se non contro il vero
sovrano, contro il popolo: e come può il popolo esser ribelle al
popolo? Ribelli son quelli che creano a sè stessi, in suo danno,
privilegi iniqui, che coll'astuzia o colla forza riescono a imporgli
la loro dominazione: e quando il popolo rovescia quella dominazione,
non turba l'ordine, compie l'opera di Dio e la di Lui volontà sempre
giusta.»
È con voi il popolo? Avete, oltre le vaste forze ordinate e il
prestigio, potente sui più, della lunga esistenza, la maggioranza
del Paese, dei governati, a pro vostro? Perchè ci temete? Perchè ci
calunniate? Perchè v'arretrate irritati davanti all'apostolato delle
nostre idee? Dateci libero quell'apostolato: libera da sequestri la
stampa; libera, qualunque ne sia il programma politico,
l'associazione; libera da ogni arbitrio, da ogni imprigionamento di
precauzione, da ogni invasione di domicilio, da ogni violazione di
corrispondenza, la nostra vita individuale; date a me che scrivo
facoltà di viaggiar libero di città in città, raccogliere a convegno
i vogliosi d'udirmi e spiegar loro le nostre dottrine repubblicane.
Noi vi promettiamo solennemente di astenerci da ogni ordinamento
segreto, da ogni preparativo di quella che voi chiamate ribellione,
e non sarebbe se non un ridare al popolo, a compimento della nostra
Rivoluzione Nazionale, l'iniziativa interrotta, soppressa da voi.
Perchè non osate ciò che l'Inghilterra osa, l'ammissione
dell'inviolabilità del Pensiero? Perchè confischerete voi questo
scritto? Perchè fate argomento di delitto ai vostri soldati la
lettura dei nostri giornali? Perchè chiedete alla Svizzera di
cacciarmi? V'ha mai richiesti la Svizzera di cacciare un de' suoi
per paura d'un apostolato monarchico?
No: voi nol farete; non lo potreste, volendo. Voi non siete Governo
Nazionale. Non potete reggervi che colla forza. Fatelo, finchè la
forza vi vale. Ma non vi lagnate se noi, opponendo all'apostolato
l'apostolato, opporremo un giorno - in nome di Roma tradita, in nome
dell'onore italiano violato, in nome dell'incompiuta Unità, della
nostra Indipendenza gittata ai piedi dello straniero, del traffico
delle nostre terre, dell'avvilimento versato sul nostro esercito,
della rovina finanziaria del paese, della Vita Nazionale lasciata
senza patto, senza espressione legale da voi - la forza alla forza.
Voi non siete Governo Nazionale in Italia; in questo sta la vostra
condanna, il segreto delle nostre attuali condizioni, il nostro
eterno diritto. La vita Italiana nacque e crebbe repubblicana,
origine del Comune, fin da quando Roma non era; nacque e crebbe
repubblicana e creatrice dell'idea Unità con Roma, anteriormente
all'Impero; rinacque e crebbe repubblicana nel medio evo colle
nostre città rivelando la Missione dell'Italia in Europa e
diffondendo ai popoli vincoli di morale unità, religione, arte,
industria e commercio. Repubblicani sono tutti i nostri grandi
ricordi; repubblicani pressochè tutti i nostri potenti di intelletto
e di cuore: repubblicane le tendenze, le abitudini del viver civile,
le appena abbozzate instituzioni sociali. L'Italia ebbe patrizî, non
patriziato; condottieri, signori, mercanti, che si inalzarono al di
sopra dei cittadini coll'armi, coi tradimenti, colla ricchezza: non
una aristocrazia simile a quella dell'altre terre europee, intesa,
compatta, guidata da capi universalmente accettati, diretta da un
solo disegno politico. La monarchia si impiantò, nel decadimento
morale d'Italia, sotto gli auspicî e la protezione armata di
invasori stranieri: smembrò, non unì, soffocò l'intelletto della
Nazione sotto inspirazioni non italiane: fu serva, vassalla, scolta
inoltrata di Parigi, di Madrid, di Vienna: ingrandì tentennando fra
le diverse Potenze che scendevano a derubarci, trafficando
codardamente sull'alterna vicenda della guerra straniera, non
richiamandosi mai all'intima vita, alla forza latente della Nazione,
e negandola per terrore. E, noi tempi più vicini a noi, la dinastia
che servite perseguitò gli apostoli dell'Unità Nazionale e tentò
spegnerne nel sangue la fede, finchè impaurita, costretta dall'onda
dei moti popolari, trapassò dalla guerra all'inganno, e s'insignorì,
promettendo, giurando e non attenendo mai, d'un terreno non suo,
d'un lavoro iniziato e quasi compìto da uomini repubblicani, per
farne monopolio a pro dei proprî meschini interessi. Oggi l'Italia è
fatta, per essa, prefettura dell'Impero di Francia. Io non vedo un
uomo tra voi, che non attinga dalle tradizioni straniere le idee, i
modi di governo, i metodi amministrativi; non ne ricordo un solo che
abbia avuto, prima dei fatti compìti, concetto d'Unità o fede nel
popolo d'Italia o amore schietto e profondo della missione ch'essa è
chiamata a rappresentare nel mondo, o senso di Dovere o, non fosse
altro, orgoglio di Patria. La vostra morale è quella d'un
machiavellismo bastardo: la vostra economia è scienza d'espedienti
suggeriti o ricopiati da mezzi ingegni stranieri: la vostra politica
è politica di resistenza: la vostra religione è ateismo mascherato
d'ipocrisia.
Però cadrete, cadrete rapidamente, e ve ne avvedete. Com'è vero Dio,
l'Italia sarà tra non molto repubblicana. E voi dovete il breve
periodo di misera affannata esistenza che vi avanza, non alle vostre
calunnie, ma alle nostre titubanze, alle passioncelle individuali,
che non sappiamo ancor soffocare nella santa coscienza del fine, ai
sospetti, alle mal ferme determinazioni, ai piccoli vizî di mente o
di anima, inerenti a schiavi, che ruppero jeri soltanto la loro
catena.
Queste cose ho voluto dirvi, interprete dei vostri fati, perchè
sappiate ciò ch'io penso e com'io disprezzi le vostre accuse.
Avversai deliberatamente coi migliori tra' miei amici l'immaturo
tentativo ch'or v'ha empito l'animo di terrori: ma non intendo che
ciò mi valga di difesa con voi. Se crederò di poter giovare quando
che sia a rovesciarvi, lo farò per debito d'Italiano e con lieta,
serena coscienza.
Addio.
Maggio.
Giuseppe Mazzini.
1870.
L'INIZIATIVA((310))
I.
Il 16 maggio 1791, in Francia, nella discussione sulla facoltà di
rieleggere i deputati, Duport, uno dei migliori dell'Assemblea,
dichiarava, insistendo, che la Rivoluzione era compita. Quell'idea,
adottata per norma di legislazione dall'Assemblea, fu sorgente a
quanto accadde più dopo. Resistenza a quei che s'adopravano a
continuare l'opera iniziata, irritazione di questi, diffidenza
reciproca, guerra di parti e terrore, tutto giaceva latente in
quella errata imprudente parola e si svolse, per legge di logica,
inevitabilmente. Una idea era a capo d'eventi, che s'attribuirono e
s'attribuiscono ancora dagli ingegni educati nella scuola storica di
Voltaire a piccole cagioni, a piccoli errori commessi, a piccole
gare tra individuo e individuo.
Lo stesso errore si commette oggi e da più anni in Italia: genera le
conseguenze di resistenza, di diffidenza e di irritazione visibili
ad ogni uomo, e che s'attribuiscono dagli ingegni superficiali a
mene d'individui irrequieti, a piccoli errori d'uno o d'altro
ministro: genererà ben altro, se dura.
L'Italia officiale - Governo, Parlamento e Stampa governativa o
parlamentare - dichiara che la Rivoluzione Italiana è compita: noi,
viventi al di fuori di quella sfera, affermiamo il contrario. In
questo dissenso sta il secreto della crisi perenne, che affatica e
minaccia di perder l'Italia.
II.
Quale è il carattere predominante nel moto d'Italia? Quale il fine
immediato al quale tende quel moto?
Il carattere predominante nel nostro moto è anzi tutto di
nazionalità. L'Italia vuole Libertà, Eguaglianza, prosperità
materiale; e sa che saranno per essa conseguenze della Rivoluzione
compita; ma non è sorta per quello. L'Italia è sorta per essere
Nazione. Grande un tempo e iniziatrice nel mondo per opera di Roma,
grande e iniziatrice più dopo per opera dell'ordinamento dato al
Cristianesimo dal Papato, grande e iniziatrice una terza volta per
virtù di popolo e delle sue città repubblicane, l'Italia, caduta da
oltre tre secoli in impotenza e nullità civile e politica davanti a
sè stessa e all'Europa, serva spregiata di dominazioni o influenze
Austriache, Francesi e Spagnuole, ma memore e presaga, raccolse
dalle aspirazioni de' suoi Grandi di mente, dal martirio de' suoi
Grandi d'azione, dal lento continuo moto d'assimilazione de' suoi
popoli e dalla necessità d'essere forte, la sacra parola Unità, e si
riscosse con un pensiero di vita collettiva nell'anima, col grido di
Nazione sul labbro. Un nome, una bandiera, una esistenza
riconosciuta e onorata dai popoli, una parte e non ultima nel lavoro
europeo, una missione da compiere degna delle compite: fu questo il
voto Italiano. Per questo l'Italia acclamò, illudendosi, a Pio IX:
per questo essa gettò, ingannata, tutte le sue forze a' piedi della
Monarchia. Speranze, errori, esperimenti, inquietudini, tentativi,
aspirazioni, minaccie, tutto è, non giustificato, ma spiegato dal
predominio di quel pensiero.
È la Rivoluzione Nazionale compita?
Una Rivoluzione Nazionale non è compita se non quando, libero da
ogni straniero, il Paese ha indipendenza accertata da una linea di
frontiere, che comprendono e proteggono tutti gli elementi che
tendono a ordinarsi in unità di nazione: - se non quando sono
egualmente accertate e fatte norma di legge le tradizioni, la fede
comune e le tendenze, in virtù delle quali tutto il popolo compreso
per entro a quelle frontiere sente dovere, diritto e volontà di
costituirsi in associazione speciale e distinta dall'altre. Senza
libere e secure frontiere, senza Patto Nazionale, non esiste
Nazione.
Noi non abbiamo nè le une, nè l'altro.
La Francia imperiale, già dominatrice dell'Alpi frapposte, occupa e
vieta all'Italia il suo centro Nazionale, Roma. L'Austria ha il
Trentino e l'Istria. Da Nizza fino al Carnero, «che Italia chiude e
i suoi termini bagna,» la frontiera italiana è schiusa a Governi
stranieri.
E quanto all'interno, l'Italia presenta il fatto anormale,
mostruoso, unico nella Storia, d'un popolo che sorge muto, che vuole
esser Nazione e non dichiara l'insieme dei principî in virtù dei
quali è chiamato ad assumerne il nome; che intende a vivere di vita
una e comune, e non esprime, solennemente e universalmente
interrogato, la legge della propria vita; che mira a costituirsi,
senza Autorità costituente. La Monarchia alla quale dobbiamo la
condizione delle nostre frontiere, ha detto all'Italia: La tua vita
è la vita, come fu definita, prima che tu fossi, da un principe di
una tua estrema provincia. Mercè lo Statuto sardo del 1848, l'Italia
è un'appendice del Piemonte: ventidue milioni d'Italiani son
dichiarati clienti di quattro.
La Rivoluzione Nazionale non è compita: e gli uomini della Monarchia
che l'hanno, fermandola a mezzo, dichiarata tale, hanno sull'anima i
mali presenti e preparano, ostinandosi, ben altrimenti gravi i
futuri.
Una rivoluzione fermata a mezzo è una somma di forze che, usate come
mezzo di propulsione, schiuderebbero, contro qualunque ostacolo,
innanzi la via, ma, concentrate e rivolte in sè stesse, determinano
esplosione e rovina: è una piena d'acque che, libero il corso,
purificano e fecondano; arrestate da ostacoli artificiali,
ristagnano, avvelenano, isteriliscono. Velato l'intento del moto
nazionale, arrestate subitamente le forze che tendevano a
raggiungerlo, dileguata anche quella menzogna di iniziativa che la
Monarchia s'era assunta, e vietata al Paese quella che
s'assumerebbe, noi abbiamo oggi in Italia un Governo senza concetto,
senza missione, senza scopo, fuorchè quello di prolungare la propria
esistenza e resistere agli elementi che lo minacciano: - un popolo
deluso, diffidente, senza via, senza fine determinato, agitato dagli
impulsi d'una vita crescente e condannato all'inerzia: - forze
impedite nella loro direzione naturale, che si sfogano in moti
irregolari, sconnessi, sterili: - nuclei politici senza programma
possibile, costretti quindi a concentrarsi intorno a bandiere
d'individui e diventare fazioni: - elementi di ricchezza e di vita
economica virtualmente potenti, ma inceppati nella loro azione dalla
certezza d'una crisi inevitabile, dal senso che tutto è provvisorio
all'intorno. In condizione siffatta, gli uomini possono mutare, le
cose non possono.
L'immobilità non è vita: i popoli non furono creati per essa.
Bisogna che la Rivoluzione retroceda o si compia. Retrocedere è
ipotesi inammissibile: pochi in Italia lo desiderano e non oseranno
tentarlo. È forza dunque inoltrare. Ed è forza per questo suscitare
una iniziativa ch'oggi non è.
Come? Dove? Quale è l'elemento dal quale può sperarla il Paese?
III.
Può il Paese sperare iniziativa dalla Monarchia?
A questione siffatta, la Monarchia stessa risponde. La sosta fatale
della quale ho parlato finora è opera sua: sua, coi fatti, la
dichiarazione che la Rivoluzione è compita e che non si tratta
oggimai se non di miglioramenti e riforme. La Monarchia si giovò
d'un interesse straniero, che le dava alleato un esercito, per
tradurre in realtà l'antico disegno d'aggregare al Piemonte la
Lombardia e far del piccolo regno un Regno del Nord; s'impossessò
poi, sottraendolo alla Rivoluzione, di quanto l'iniziativa popolare
conquistò o accennava a conquistare nel Centro e nel Sud: si rifece
immobile appena quella iniziativa cessò; e, giovatasi della funesta
interruzione per ordinarsi e afforzarsi, impedì colle bajonette ogni
recente tentativo di risuscitarla. E non poteva, in virtù della
propria natura, fare altrimenti.
Può la Monarchia, che diede Nizza alla Francia imperiale,
ritorgliela? Può, dopo d'avere abbandonato il Trentino già invaso
dalle sue truppe e dai volontarî e segnata la pace che lo esclude
dai termini dell'Italia, assalir sola l'Austria e farne conquista?
Può essa, isolandosi da tutte le monarchie sorelle che additano
trattati e comandano pace, rivendicar coll'armi Trieste e l'Istria?
Può sopratutto - dacchè non è da sperarsi che il Papa rassegni
volontario la potestà temporale - rovesciare il Papato a dar Roma
all'Italia? È tuttavia fra noi chi affermi cose siffatte e presuma
d'essere creduto sincero?
Può l'iniziativa, che deve compire il moto nazionale d'Italia,
escire dal Parlamento?
S'io non pensassi, scrivendo, che al Paese, non dovrei, credo,
spender parola a rispondere. Le liste dei votanti nelle elezioni, la
suprema indifferenza colla quale il Paese guarda ai procedimenti
parlamentari, la disubbidienza sistematica, dove riesce possibile,
alle leggi sancite da esso, attestata dalle cifre degli arretrati
nel pagamento delle tasse, rispondono abbastanza per me. Il Paese
non aspetta salute dal Parlamento, non ha riverenza per esso, non
crede rappresentati in esso i suoi voti, le sue speranze, l'avvenire
della Nazione.
Ma sono nel Parlamento, e durano ostinati a rotolarvi il sasso di
Sisifo, uomini di mente e di cuore, che hanno giovato quand'erano
affratellati col popolo alla Patria, che potrebbero,
riaffratellandosi con esso, giovarle ancora e che, sotto il fascino
di non so quale illusione, consumano tempo, nome, influenza, potenza
d'ingegno, capacità di forti generosi propositi e, quel che è
peggio, parte di quella virtù morale, che scende da una pura diritta
ardita coscienza, in una inefficace e talora ridicola guerricciola
di pigmei, seminata di equivoci, di transazioni, simulazioni e
dissimulazioni, indegne d'essi e della Causa alla quale un tempo
giurarono. E ad essi ricordo che i Parlamenti furono, sono e saranno
sempre impotenti a varcare spontanei il cerchio di Popilio che
l'Instituzione, in nome della quale esistono e agiscono, descrive
intorno ad essi - che se talvolta lo varcarono, non fu mai per
inspirazione propria, ma per opera d'insurrezioni consumate al di
fuori e alle quali obbedirono - che tanto può in essi l'influenza
della prima origine, da aver fatto sì che anche in quei pochi casi
guastassero, se non rinnovati, il concetto che accettavan dal
popolo.
Il Parlamento d'Italia è Parlamento monarchico. I suoi membri
giurano alla monarchia e accettano lo Statuto, che falsa il
carattere nazionale del moto italiano. Ove anche il giuramento non
avesse - e men dorrebbe - valore morale per essi, non possono dirlo,
nè possono in Parlamento operare a violarlo. Il Parlamento non può
avere in sè potenza maggiore d'iniziativa che non ne ha la
monarchia, dalla quale discende e dipende. La monarchia non può
compire la nostra Rivoluzione nazionale: non lo può quindi, per
conseguenza logica, il Parlamento.
E il Parlamento lo sa: però ne tace e vorrebbe che il Paese la
credesse compita.
Il Parlamento che siede, incurioso, svogliato o servile, in Firenze,
non è Parlamento nazionale; e lo diresti un'assemblea di provincia.
La Nazione gli è ignota: ignoto quanto tocca l'unità,
l'indipendenza, l'onore, l'avvenire, la politica nazionale. L'Italia
può essere condannata ad abdicare, nella sua vita internazionale,
l'inspirazione naturale che la sprona verso gli Slavi e verso
l'Oriente, e trascinata invece in alleanze col dispotismo che la
decretano impotente e le chiudono l'avvenire: il suo Governo può
trascurare, come non fossero, le sorgenti principali della vita
nazionale interna, ordinamento del Paese a milizia, associazione
operaja, incremento dell'agricoltura, miglioramento delle condizioni
produttive in Sardegna e in Sicilia; il Parlamento è muto, senza
pensiero che ad esso spetti occuparsi di cose siffatte.
Collo straniero in casa, colla sfida, la più insolente ch'io mi
sappia dal guai ai vinti di Brenno in poi, cacciata due volte da due
ministri di Francia a chi dichiarava pochi anni addietro Roma
capitale d'Italia, il Parlamento, che si dice italiano, tace
sistematicamente di Roma: non uno dei suoi membri s'attenta di
proferire quel sacro nome: non uno fra quei che avventurarono la
vita al grido di Roma o Morte osa - tanto è il senso d'abdicazione
che spira in quell'aula data all'equivoco - gettarlo, sanguinoso
rimprovero, in viso agli uomini del Governo e dir loro: Se voi
potete o volete vivere disonorati, noi non possiamo nè vogliamo; e
dacchè in questo recinto non può trovarsi vie di salute, scendiamo a
cercarla nel popolo.
Le Assemblee - bisogna ripeterlo, non all'armento che vota a seconda
del cenno governativo, ma ai pochi uomini ai quali io miro - operano
a desumere e applicare conseguenze del principio in virtù del quale
esistono, ma nè un passo più oltre, nè mai possono fondare, per
virtù propria, un principio nuovo. Dove, creata già la Nazione e
secura l'Indipendenza, non si tratti se non d'un semplice sviluppo
di libertà conquistata, e di riforme amministrative o economiche, le
Assemblee esistenti in nome di quella libertà giovano, e possono,
come in Inghilterra, compire lentamente una importante missione. Ma
dove, come tra noi, si tratti di costituir la Nazione e - dacchè il
principio esistente non esce dalla tradizione del Paese, è
diseredato d'iniziativa e non porge via per raggiungere il fine - di
proclamarne un altro, le Assemblee raccolte in nome del primo e
condannato, non giovano. Unica Assemblea che valga è quella del
popolo in armi.
Nessuno di noi s'arroga diritto d'imporre ad altrui la propria
opinione; ma ciascuno ha diritto di chiedere agli uomini che
pretendono rappresentare il Paese e possono giovargli o nuocergli a
seconda delle opere loro: che cosa volete? Il fine dichiarato
additerà il metodo, norma del giudizio da pronunziarsi sugli uomini.
Senza dichiarazione siffatta, amici e nemici errano nel bujo e
combattono senza conoscersi. L'anarchia morale, foriera dell'altra,
invade il Paese.
Credete l'Instituzione attuale capace, non dirò ora di dare libertà
vera, indipendenza dall'estero, educazione ed esempio di moralità,
prosperità e grandezza al Paese, ma di compiere senza lungo indugio
la Rivoluzione Nazionale, di darci Roma, il Trentino, Trieste, e un
Patto ch'esca dal voto e dalle aspirazioni di tutto il popolo?
Se potete, colla mano sul core, affermare che lo credete, rimanete
ove siete, ma agite, conquistate, trascinate, guidate: incarnate in
voi il pensiero del Paese e decretate a un tempo la mossa
dell'esercito, la chiamata dei volontarî e la convocazione d'una
Assemblea Costituente in Roma. O diteci almeno quando lo farete. Il
paese non può, per quanta fiducia voi meritiate, commettere le sue
sorti all'eloquenza indefinita del vostro silenzio: il Paese non può
accettare il pericolo di perire nel disonore, nella corruzione,
nella rovina economica, perchè voi possiate incidere una inscrizione
splendida d'Unità meditata e di Patto postumo sulla sua tomba.
Ma se non credete l'Instituzione capace di tanto, allora, al nome di
Dio, ponete giù la medaglia e la profanazione dell'anima: lasciate
quei banchi contaminati d'equivoci e d'ipocrisia, e scendete a
rinverginarvi nel popolo, dicendogli: là non si compiono i tuoi
fati: là Nazione vive in te, che aneli al Vero e hai potenza: levati
e capi e soldati, siam tuoi. Distruggerete una illusione, che la
vostra presenza in quell'aula alimenta tuttavia in alcuni, e uno
scetticismo sugli uomini, che cresce fatale nei più.
Darete al Paese un insegnamento morale, da voi finora a torto
dimenticato. Educherete i giovani, col senso dell'umana dignità, al
culto della coscienza; e sottraendovi alla parte di minatori segreti
per quella, più degna di voi, di leali guerrieri all'aperto,
contribuirete a liberare l'Italia dal pericolo d'un gesuitismo
politico che, cospirando in Francia col grido di viva il re alla
caduta della monarchia, sommò a tornare in nulla due Rivoluzioni e
agevolare la via al secondo Impero.
IV.
Intanto, sciolta com'è per noi la questione, l'Italia, pel
compimento della propria Rivoluzione, che sola può rendere possibile
una condizione normale di cose, non può aspettarsi iniziativa dalla
monarchia e nol può dal Parlamento monarchico. Nol può che dal
popolo. Bisogna ch'essa tragga dalle proprie viscere la forza che
manca altrove.
Come può giungervi? E quali norme devono in questo supremo sforzo
guidarla?
V.
Dissi che l'iniziativa del moto, dal quale deve compiersi la
Rivoluzione Nazionale, spetta al Paese.
E il Paese è maturo per essa.
Il Paese è universalmente malcontento: lo è nella gioventù educata,
nelle classi operaje delle città, nella popolazione agricola, nella
parte migliore della magistratura, nei piccoli proprietarî, negli
uomini di commercio, nel popolo dell'esercito, nel clero cattolico.
I giovani, da pochi infuori indifferenti per abitudini indegnamente
dissipate, o guasti da non so quale pedantesco dottrinarismo di
seconda mano, sentono nell'anima un alito dell'orgoglio italiano e
intendono che la loro patria non sorge come dovrebbe. Gli operaî
delle città - due o tre eccettuate, nelle quali l'arti governative e
gli ajuti d'alcuni ricchi hanno sviato per poco le associazioni dal
segno - amano il Paese d'affetto tanto puro e devoto, da confortare
di speranza l'anima più solcata di delusioni e dolori che sia. Il
macinato ha suscitato il malcontento degli agricoltori; le tasse,
gravissime, crescenti, molteplici e un pessimo irritante metodo di
percezione, lo alimentano nei piccoli proprietarî. La democrazia
dell'esercito, lasciando anche da banda il pessimo trattamento e i
soprusi dei capi, sente profonda - ed è sua lode - la vergogna che
da Novara a Villafranca, da Villafranca a Custoza pesa sulla
bandiera. Gli onesti fra i magistrati si ribellano agli arbitrî
governativi e alla corruzione sfrontatamente invaditrice dell'alta
sfera. Gli uomini di commercio aborrono dall'incertezza del dì dopo,
che falsa i loro calcoli e inceppa le loro operazioni: essi
intendono che, fino al giorno in cui il fine nazionale raggiunto
darà sicurezza di condizioni normali, la crisi sarà perenne. E il
clero, in parte retrogrado, è a ogni modo, nei migliori, avverso a
un sistema rappresentato da una gente che non ha religione e
l'affetta. Un senso crescente di sfiducia serpeggia tra gli
impiegati e spira visibile nei consigli di chi regge. Il tentativo
di un'ora in Piacenza ha suscitato a misure rivelatrici di profonda
paura il Governo e a moti imprudenti, isolati, non preparati - getti
vulcanici che indicano la condizione latente del terreno - cinque o
sei località dello Stato. Non v'è uomo in Italia che, temendo o
invocando, non presenta vicino, inevitabile, un mutamento di cose. E
l'indifferenza stessa, colpa apparente nei cittadini, all'esercizio
dei loro diritti e alle frequenti violazioni di quel tanto di
libertà che le leggi concedono, accenna al muto convincimento che
ben altro si appresta.
Son questi i sintomi che in ogni paese nel quale ebbe luogo una
grande rivoluzione, la prenunziarono.
Perchè nondimeno il Paese dura inerte e incapace tuttora
d'iniziativa?
Il Paese non ha coscienza delle proprie forze.
Il Paese vorrebbe cancellato il presente, ma sospetta, per
preconcetti errori, dell'avvenire.
Quest'ultimo ostacolo esige un'opera di apostolato: il primo non si
vince che coll'azione.
Pesano tuttavia sull'anima del Paese i ricordi e le abitudini
d'oltre a tre secoli di servitù pazientemente durata. Splendidi
lampi d'audacia e d'onnipotenza popolare hanno negli ultimi
venticinque anni solcato la tenebra addensata da quella servitù su
noi tutti: ma furono lampi, non fiamma perenne di faro, che sia
guida ai fati della Nazione. Suscitati dal prestigio d'un capo
militare che comandi ad essi di vincere, i nostri giovani compiono
miracoli di valore e vincono: lasciati a sè stessi, tentennano
incerti e ridiventano timidi calcolatori d'ogni ostacolo positivo o
possibile: giganti d'azione seguendo, mancano tuttavia dell'istinto
che addita il momento e del coraggio che inizia. Capo ai Romani era
Roma: Roma che doveva essere capo del mondo. I duci dell'armi si
succedevano, apparivano e passavano, quasi viventi non di vita
propria, ma della vita di Roma: ignoti ai soldati, i dittatori erano
rappresentanza a tempo della Città che aveva detto ad essi: guidate
e vincete; ma la loro potenza, la potenza invincibile dei militi che
li seguivano, derivava da una fede in una potenza collettiva
superiore a essi tutti, ma della quale ognun d'essi si sentiva
parte. La magnifica parola religiosa dell'evangelista Giovanni:
perchè tutti siamo uno in noi, come tu, Padre, sei in me e io sono
in te s'era fatta realtà nella Patria Romana. Ogni uomo credeva nei
fati di Roma: sentiva dentro sè una scintilla della grande anima di
Roma; Roma s'era incarnata in ciascuno dei suoi figli, e ciascuno si
sentiva forte della sua forza e mallevadore del suo avvenire. Per
questo Roma diede spettacolo unico ai secoli d'una città
conquistatrice del mondo. E questa fede, questa facoltà
d'immedesimarsi nella Patria, come in un pensiero vivente destinato
a svolgersi nell'indefinito dei tempi, questa potenza d'amore che
abbracci in uno, passato, presente e futuro d'Italia, questa
coscienza d'esser ministri a una Tradizione di grandezza iniziata da
Dio e che deve, attraverso ogni ostacolo, continuare nella vittoria
- questa fede, un raggio della quale fu dato, sullo spirare
dell'ultimo secolo, alla Francia repubblicana e bastò a farla più
forte di tutta l'Europa congiurata a' suoi danni, manca tuttavia
agli Italiani. La coscienza della forza collettiva ch'è in essi e la
fiducia ch'esercita sulle moltitudini una idea grande e vera,
rappresentata in azione da un'ardita iniziativa - spente in Italia,
fin dal XVII secolo, dal materialismo che fa centro dell'io - non
sono finora rinate. Uomini che, guidati da un capo in cui s'era
incarnato un momento di quella coscienza e di quella fiducia, videro
dissolversi, senza combattere, tutto un esercito davanti ad essi,
s'arretrano incerti, fra calcoli che dicono pratici, e nei quali non
entra il pensiero, davanti a poche centinaja di birri o a poche
migliaja di soldati, nell'anima dei quali freme appunto quel
pensiero ch'essi, perchè sfugge ai sensi, trascurano. Altri -
arrossisco scrivendolo - guardano anch'oggi, lieti d'una speranza
che disonora, alle agitazioni e all'iniziativa possibile della
Francia come ad áncora di salute. Guardava la Francia del 1792 -
quando, come voi, non aveva che venticinque milioni di popolo ed era
minacciata da nemici interni ed esterni - all'Italia?
Non guardava; e fu grande e vinse per questo. Guardava in sè, nella
bandiera della Nazione; pensava al dovere di reggerla incontaminata
e di salvare, non foss'altro, l'onore. E il nostro onore, o
Italiani, è macchiato: macchiato di fresca macchia ad ogni ora.
Finchè Roma è in mano d'altrui, e soltanto perchè un imperatore
straniero ha detto: voi non l'avrete, ciascuno di noi dovrebbe non
osare di guardare in volto un cittadino di terra libera: quel
cittadino non può stimarci. Se gli uomini che hanno in Italia il
potere non hanno più anima per sentire questa tristissima verità, e
possono discuter tranquilli una economia d'alcune migliaja di lire o
la scelta d'un bibliotecario, tal sia di loro; ma la sentano i
giovani e conquistino, a purificarlo, quel potere, che
dovrebb'essere una santa missione, ed è oggi inutile impotente
menzogna.
L'Italia è forte: essa può provvedere libera e secura alla propria
vita nazionale, senza calcolo d'interventi stranieri o di leghe
monarchiche avverse. Essa non dovrebbe, nel compimento del Dovere,
arretrarsi davanti ad alcuna minaccia: nessuno, a ogni modo, checchè
essa muti ne' suoi ordini interni, le farà guerra. L'Impero di
Francia è condannato e lo sa: gli è necessario concentrare le forze
a prolungare di qualche anno o di qualche mese una incerta
combattuta esistenza: l'iniziativa Italiana determinerebbe in
Francia la crisi suprema. L'Impero d'Austria si dibatte fra le
esigenze minacciose delle diverse nazionalità che lo compongono, e
alle quali le concessioni forzate all'Ungheria hanno dato, aggiunta
al diritto, opportunità. L'Italia, è d'uopo ripeterlo, ha due
onnipotenti elementi di forza in pugno che l'assicurano, non
solamente d'una assoluta indipendenza ne' suoi moti, ma del primato
morale in Europa: l'Alleanza Slava e la questione d'Oriente. Un
Governo Nazionale Italiano stringerebbe in un mese la prima,
ajutando, attraverso l'Adriatico, gli Slavi meridionali a
costituirsi, liberi d'ogni giogo, da Cattaro e Zara ad Agram: e
susciterebbe la seconda, offrendosi amico, purchè si unissero in un
disegno di Confederazione, ai tre elementi, Ellenico, Slavo, Romano,
che dominano l'Impero Turco in Europa. Con armi siffatte, l'Italia
può, nei limiti del Diritto e del Giusto, osar ciò che vuole.
E osare, in un paese dove le condizioni morali sono le accennate
poc'anzi, è virtù di supremo calcolo. Balilla, quando avventava il
sasso al soldato tedesco, Camillo Desmoulins, quando, in mezzo ad
una moltitudine inerme, gridava: alla Bastiglia! - i 250
insorti olandesi, quando, muto, schiacciato il Paese, fuggiaschi
essi medesimi e sbattuti indietro dalla tempesta, s'impadronivano
della piccola fortezza di Brilla - erano, secondo ogni calcolo
normale di guerra, stolti; e nondimeno iniziarono l'emancipazione
delle loro terre. Il fanciullo genovese, gli altri citati e quanti
iniziatori di grandi vittorie potrei citare, non avevano numerato le
armi, studiato le posizioni, calcolato le forze nemiche; avevano
tastato inconscî il polso al Paese, avevano sentito nell'anima
giunto il momento, e osarono.
Oggi tra noi, popolo guasto pur troppo di materialismo, di scienza
machiavellica e di culto tributato alle apparenze della forza, è
necessario che il fatto iniziatore sorga di mezzo alle moltitudini
d'una importante città, e suoni vittoria. Ma ho fermo nell'animo che
quando quel primo fatto avrà luogo, sarà segnale a un ridestarsi
italiano che pochi, amici o nemici, sospettano.
E a crear questo fatto basterebbe - anche di questo sono convinto -
che quanti si professano in una città seguaci della bandiera
s'unissero nella idea di crearlo; basterebbe che, deponendo ogni
piccola gara, ogni dissenso sul guidare o seguire, ogni cieca
adorazione o diffidenza di nomi, ogni pensiero di predicazione
anticattolica, d'apostolato scritto, fra classi che non possono
leggere, di riforme sociali impossibili coll'Instituzione che regge,
d'ogni cosa che smembra le forze e svia gli intelletti dall'unico
segno, concentrassero per brevi giorni tutte le potenze dell'anima
intorno al disegno di riconquistar coll'Azione iniziativa
all'Italia; non avessero innanzi agli occhî altra imagine che quella
della Patria giacente nel disonore; non sentissero che la vergogna
del mai profferito dal Brenno moderno; non avessero che un solo
concetto, la necessità dell'osare; non avessero che una parola sul
labbro: A Roma per la via che sola vi mena.
A combattere intanto le stolte diffidenze, nudrite tuttavia da molti
sull'avvenire, giovi una dichiarazione, nella quale io credo
potermi, senza presumere, fare interprete del Partito. La stampa
repubblicana fu finora troppo esclusivamente negativa, troppo paga a
registrare le colpe della Monarchia, troppo corriva ad accogliere
come prova di forza e d'estensione del Partito ogni manifestazione
ch'abbia luogo in Francia, in Ginevra o altrove, senza avvertire
alle idee che vi si esprimono. E quelle idee, profferite per
avventatezza da uomini che non sanno e credono audacia l'atteggiarsi
a distruttori d'ogni cosa, e da gente venduta celatamente ai Governi
e addottrinata a spaventare con esagerazioni la borghesia, sono con
arte d'indegna calunnia raccolte e additate ai poveri di spirito
dalla stampa governativa come idee del campo repubblicano e indizio
dell'avvenire, se trionfasse.
Per questo, e anzitutto per amore del Vero, è debito d'allontanare
ogni pericolo d'inconsulta imitazione fra noi; è tempo che la stampa
repubblicana assuma, più che oggi non ha, carattere severità, di
sacerdozio morale; è tempo ch'essa abbia, non solamente il coraggio
d'affrontare le ire e le persecuzioni monarchiche, ma quello assai
più difficile d'affrontare gli sdegni dei traviati fra i nostri, e
la temuta taccia di moderata dagli avventati che odiano e non sanno
amare.
Guerra al capitale, abolizione della proprietà, ostilità alla
borghesia, violazione d'obblighi assunti anteriormente dalla
Nazione, crociata contro i preti cattolici, terrore e vendetta, son
grida insane, immorali, di pochi selvaggi della politica, aborrite
da quanti repubblicani hanno senno e core: nessuno ha mai osato, nè
oserà mai tentare di tradurle in fatti; e chi lo tentasse,
troverebbe in noi nemici più acerrimi che non nei monarchici.
I repubblicani sanno che il capitale rappresenta frutti accumulati
di lavoro; che la proprietà è il segno della missione trasformatrice
data all'uomo nel mondo materiale; che la borghesia scende dagli
artigiani dei nostri comuni repubblicani, emancipò l'Italia dai
signori feudali e arricchì il Paese e sè col lavoro; che, o non
esiste Nazione, o le generazioni sono solidali per gli obblighi
legalmente assunti sotto un diverso governo; che la coscienza è
inviolabile e le credenze religiose, se false o consunte, non
possono combattersi se non con tollerante e pacifico apostolato; che
terrorismo, persecuzione e vendetta sono armi di codardi o
colpevoli, fatali a chi le adopra e da lasciarsi ai governi fondati
sull'arbitrio e sull'ingiustizia e cadenti.
Il concetto della Repubblica tende a combattere, a scemare
progressivamente i privilegi politici o civili dati a una classe, il
monopolio, l'immobilizzazione dei capitali, il concentramento
soverchio della proprietà, l'ingiusto e fatale alla produzione
accumularsi di tasse sulle classi date all'industria, l'immoralità
di speculazione, piaga crescente e alimentata da una trista,
corrotta politica governativa, l'egoismo inevitabile d'una
legislazione affidata alla nascita o al censo e sottratta
all'intervento delle classi che ad essa soggiacciono: - tende a far
sì che le classi s'affratellino in eguaglianza di doveri e diritti,
di protezione, di progresso, d'insegnamento: - che, per mezzo
dell'Associazione e d'ajuti dati dalle instituzioni, i capitali, che
fanno possibile il lavoro, si trovino nelle mani di chi deve
compirlo: - che il lavoro generi la Proprietà e la diffonda quindi
al maggior numero possibile di cittadini: - che l'economia e
l'aumento della produzione presiedano d'ora in poi al maneggio delle
Finanze: - tende a sopprimere l'immobilità in ogni Potere, a
distribuire gli uffici a seconda della capacità e della virtù, a
dare coll'elezione coscienza a ogni cittadino della missione ch'egli
è chiamato a compire sulla terra ov'è nato, a far mallevadori tutti
delle opere loro, a conquistare - coll'onestà delle convenzioni
sulle terre, coll'interesse creato ai coltivatori nel suolo che
fecondano, colla moderazione delle tasse, con un sistema d'esazione
sottratto agli arbitrî, coll'educazione data a tutte le classi,
colla moralità dell'amministrazione, col compimento della
Rivoluzione Nazionale - quel senso di securità pubblica, senza il
quale ogni progresso è inceppato o precario.
Prima dell'azione o pendente l'azione, per un anno o per una
settimana, come i fati vorranno, urge che questo, ch'io rapidamente
accenno, sia soggetto d'ogni giorno alla nostra Stampa. I
calunniatori devono pagarsi da noi col disprezzo. Ma il popolo, al
quale molti ricordi della Repubblica francese suonano terrore e
violenza, ha diritto a sapere da noi quali intenzioni ci guidino, e
bisogna insistervi.
VI.
Ricapitolando il già detto:
La Rivoluzione Italiana non è compita: la monarchia l'ha fermata a
mezzo!
Bisogna compirla o perire: perire di lenta morte nella rovina
economica, o di violenta nell'anarchia: sperare che si stabiliscano,
prima d'averla compita, condizioni di normale securità pel Paese, è
follìa e i sintomi crescenti ogni giorno provano nella realtà ciò
che la logica insegna al pensiero.
Roma; frontiere naturali; Patto Nazionale dettato da un'Assemblea
Costituente: sono le prime condizioni del compimento:
Per uscire dall'inerzia e avviarsi al fine, è necessaria una
iniziativa.
L'iniziativa non può escire dalla monarchia: non può escire dal
Parlamento monarchico: non può dunque escir che dal popolo.
Il Paese è maturo per accogliere e secondare il sorgere di questa
iniziativa popolare: il desiderio di un mutamento è universalmente
diffuso in esso.
I due soli ostacoli che s'attraversino a quel desiderio, sono -
incertezza diffidente sull'avvenire, alimentata da una stampa
calunniatrice - mancanza di coscienza della propria forza.
Bisogna vincere il primo ostacolo coll'apostolato, dichiarando
ripetutamente ciò che la Repubblica è e ciò ch'essa non è:
separandosi lealmente e coraggiosamente dagli amici che traviano, e
respingendo gli stolti concetti che sostituirebbero una tirannide
all'altra.
Il secondo ostacolo non può superarsi che coll'argomento col quale
il vecchio filosofo provava allo scettico l'esistenza del moto,
coll'azione; bisogna che una città provi, sorgendo e vincendo, al
Paese che volendo si può.
L'iniziativa Italiana diventerebbe rapidamente, se diretta da uomini
che sapessero e osassero, iniziativa Europea.
E scrivendo questa linea m'è impossibile non aggiungerne alcune di
sorpresa e lamento.
L'orgoglio, quando si sperde intorno a misere ambizioncelle dell'io
e s'affatica a crear superiorità artificiali di ricchezza, di
potenza o di quella fama d'un giorno che Dante paragonava a un color
d'erba che va e viene, è colpa e meschina. Ma l'orgoglio raccolto
intorno all'anima dal ricordo dell'ultima parola dei martiri per una
idea, dalla voce profetica di tutta una tradizione religiosamente
interrogata, da una riverenza che adora ogni indizio di disegno
provvidenziale, da un immenso amore per la terra che vi fu culla, e
ha le tombe dei vostri più cari, da un senso di vita collettiva che
abbraccia quanti vi furono, sono e saranno più strettamente
fratelli, dalla tacita eloquenza d'una natura che si stende,
privilegiata oltre ogni altra, intorno a noi quasi mormorandoci:
siate grandi quant'io son bella, - e versato sulla Patria, sulla
Nazione nascente, sulla Bandiera, alla quale il mondo guarda per
vedere s'è bandiera di Popolo annunziatore o di gente inutile, senza
nome e senza missione - è cosa santa e pegno di grandezza futura al
Paese nel quale si mantiene perenne, coscienza e fiamma alla vita.
Sentono quest'orgoglio i nostri giovani, o l'hanno sommerso nel
disprezzo dell'ideale, al quale oggi li alletta un materialismo che
fu sempre conseguenza o preludio di servitù? A me quest'orgoglio del
nome italiano insuperbì nell'anima fin da quando, nel silenzio
comune e fra le mura d'una prigione, mi prostrai davanti al pensiero
d'una Italia repubblicana iniziatrice in Europa e giurai fede alla
sua bandiera. Come i figli della Polonia portavano con sè nella
proscrizione, quasi reliquia, una zolla della loro terra, portammo,
io e i miei amici, quel sacro pensiero con noi nell'esilio e lo
serbammo incontaminato per voi, o giovani, sperando che lo
raccogliereste in tempi migliori, quando vi sarebbe dato di tradurlo
in fatto. E oggi vi è dato. Oggi l'Europa è in tali condizioni, che
a voi basta il sorgere a compire, in nome d'un principio e
affratellandovi arditamente coi Popoli che v'aspettano, la vostra
Rivoluzione Nazionale, perchè la vostra Patria diventi iniziatrice
d'un'Epoca e guidatrice delle Nazioni sulla via del Progresso. Una
dichiarazione di Principî, dettata da Roma libera ai Popoli e
appoggiata da due o tre atti ai quali più volte accennai, darebbe
all'Italia un Primato morale, che da oltre a mezzo secolo è vacante
in Europa.
Se agli uomini che, invecchiati anzi tempo, si chiamano pratici
perchè hanno imparato a tacere, e patrioti perchè agli inevitabili
errori del povero Lanza antepongono le colpe subdole di Rattazzi, la
iniziativa italiana in Europa sembri folle utopia, poco monta. Ma i
giovani? I giovani delle Università e della classe educata alle
lettere e alle arti? I giovani che hanno in custodia nell'esercito
la bandiera della Nazione, e sanno di potere con un fatto collocarla
all'antiguardo d'Europa? I trentamila volontarî che dal Trentino
all'estrema Sicilia fecero battesimo del loro sangue all'Unità del
Paese? I popolani che, vergini d'anima e devoti per istinto non
contaminato da calcoli all'avvenire d'Italia, adorano la religione e
la poesia dei grandi ricordi? Son essi muti al pensiero della loro
Patria fatta, da un atto energico di volontà, prima tra le prime e
centro di moto pel bene alle Patrie sorelle? Sanno che dalla
coscienza d'un alto dovere, d'una solenne missione da compiersi move
tutta una Educazione e che il carattere d'una iniziativa determina
tutta una lunga vita di Popolo? Rammentano che, soltanto per quella
coscienza, la vita di Roma fu vita del mondo e che ciascuna delle
nostre città repubblicane scrisse, nel medio evo, una pagina di
gloria e d'incivilimento nella storia europea? Sentono in core
l'immensa potenza che dovrebbe emergere dalle cento città d'Italia
unite ad un fine, e che il sorgere della Nazione a guisa d'ancella
sommessa, timida, incerta, tanto che il mondo non si avveda neppur
di quel sorgere, è - per essa - scadere? Se gli Italiani possono
guardare alle condizioni nelle quali versa oggi l'Europa e non
vedervi i segni di un'Epoca, che aspetta e accoglierebbe con
entusiasmo l'iniziatore, sono ciechi. E se lo vedono, ma dicono a sè
stessi: altri può esserlo, noi non possiamo - sono imbelli e indegni
davvero del nome che portano.
No: gli Italiani non saranno nè ciechi nè imbelli. Ma ricordino che
dieci anni d'interruzione nel moto sono lungo periodo; che l'inerzia
genera l'inerzia; che la corruzione non combattuta ingigantisce
rapidamente e minaccia le sorgenti della vitalità; che le delusioni
durate per breve tempo irritano gli animi, durate a lungo li
affogano nell'immoralità dello scetticismo; che gli uomini, anche
maledicendo, s'avvezzano a tollerare; che il disonore prolungato è
la morte delle Nazioni; che le popolazioni ineducate son facili ad
accusare dei loro mali, non l'interruzione della Rivoluzione, ma la
Rivoluzione stessa; che il federalismo, muto dieci anni addietro,
accenna oggi a rivivere; che gli indugi non fruttano ormai se non
alle fazioni retrograde; e quanto più si prolunga la resistenza a
una crisi inevitabile, tanto più la crisi riesce violenta e pregna
di quei mali, ai quali sul cominciare di questo scritto accennai.
Comunque, quando l'iniziativa popolare s'assumerà il compimento del
moto Nazionale Italiano, importerà che si raggiunga il fine colla
maggiore rapidità e colla menoma violenza possibile. E le vie, se
non erro, son queste:
Unità di bandiera. Isolare la questione di Roma; prefiggersi a
programma una battaglia col Papa-re: ricominciare imprese, generose
un tempo e feconde, impossibili attualmente e che non toccano se non
un termine del problema, è oggimai colpa più che follìa.
L'emancipazione di Roma - nè avrei mai creduto di doverlo ripetere -
si compie in Genova, Milano, Bologna, Torino, Firenze, Palermo e
Napoli, non altrove. L'Italia deve esser base secura d'operazione
all'impresa. Una frazione d'arditi non riescirebbe che a chiamare,
prima d'entrarvi, in Roma nuove forze francesi. A un fatto compito
dalla Nazione in armi, nessuno oserà mover guerra.
Programma semplice, chiaro, puro da un lato di reticenze ed
equivoci, puro, dall'altro, d'ogni voce che accenni a sistemi non
definiti e molteplici, capaci quindi di false interpretazioni e di
suscitare calunnie e terrori. Le due parole aggiunte da molti in
Francia alla parola repubblica, inutili e senza valore pratico,
hanno scisso il campo e indugiato il lavoro d'emancipazione più
ch'altri non pensa. Chi mai può in oggi sognare d'una Repubblica
fondata, come nell'antica Venezia, sopra un patriziato che più non
esiste? Chi può intendere l'Instituzione repubblicana, se non come
fatto anzi tutto sociale e mezzo al rapido miglioramento delle
misere condizioni economiche dei più fra i produttori? Ma chi può,
d'altra parte, esigere dichiarazioni solenni di socialismo, prima
d'aver detto a quale fra i tanti sistemi cozzanti l'uno contro
l'altro egli attribuisca quel nome? E a che varrebbe l'accettazione
di quella voce straniera, quando chi l'accetta la intende
probabilmente in modo diverso dal vostro? I soli pegni efficaci
dell'avvenire sociale invocato stanno nell'attiva predicazione delle
idee ragionevoli, desunte dal moto dell'Epoca e dai serî lavori di
quanti hanno cercato e cercano di definirlo: stanno nell'ordinarsi
del Popolo alla solenne espressione de' suoi più urgenti bisogni,
nella scelta accurata degli uomini chiamati a dirigere, nelle
questioni proposte dagli elettori ai membri dell'Assemblea, che
dovrà dettare il Patto della Nazione.
Azione rapida e aperta di quanti credono necessario il compimento
dell'impresa nazionale, di quanti s'avvedono che il moto è veramente
di popolo destinato a vincere. Le incertezze, il tentennare, il
fanciullesco amor proprio di quei che indugiano a dar l'opera loro
perchè jeri non credevano venuto il momento, non impediscono lo
svolgersi dei fati, ma prolungano la crisi, irritano gli animi di
quei che iniziano e cacciano il germe di categorie funeste in
futuro. La legge dei sospetti in Francia ebbe origine dall'esistenza
degli uomini del dì dopo. Nei grandi rivolgimenti nazionali è
concesso, se conseguenza di convincimento, l'essere ostili, non
l'esser tiepidi. Dove si tratta di cose che involvono la salute del
Paese, ogni uomo ha debito di combattere per impedire, o di
secondare; e quando un fatto appare inevitabile, unica via perchè
assuma condizioni normali e s'inanelli alla vita del Paese, è quella
d'accentrarvisi intorno e giovarne il pronto sviluppo: gli uomini o
le classi, che per mal fondati sospetti o indegno egoismo si
ritraggono e lasciano un solo elemento a compirlo, preparano gravi
mali al Paese e a sè stessi.
Scelta dei pochi - dacchè la Dittatura è, in una impresa di libertà,
illogica e pericolosa - chiamati a dirigere il moto fino al momento
in cui, raccolta la Costituente Nazionale, il Paese esca dalle
condizioni provvisorie e ripigli vita normale: da quella scelta e
dai primi atti di quel piccolo nucleo dipendono il carattere
dell'iniziativa e metà del successo. Di fede provata, d'immacolata
onestà, d'intelletto diritto e logico, di tranquilla pertinace
energia, incapaci d'odio e di spiriti di vendetta, quelli uomini
devono conoscere le condizioni di Europa e sentire la forza ch'è
nell'Italia: devono esser capaci di movere arditamente al fine senza
guardare al di là del Paese; capaci d'intendere che l'Europa
governativa oserà s'essi titubano, rimarrà inerte se si mostrano
forti e decisi, capaci di sommovere i Popoli, se i Governi
s'atteggiassero a offesa o minaccia.
Riunione di Commissioni numerose nelle diverse zone d'Italia
chiamate dai Municipî, dai Consigli locali e dai Delegati
dell'Autorità governativa, a dirigere inchieste sulle condizioni
morali, civili, economiche delle loro zone e preparare materiali ai
lavori della futura Assemblea. Commissioni siffatte gioveranno a
rassicurare gli animi sospettosi, a determinare il fine del moto
Nazionale e a invigilare a un tempo la condotta del Governo
d'Insurrezione.
Ma, e anzitutto, coscienza, negli iniziatori, dell'altezza e della
santità dell'Impresa. L'Italia e l'Europa devono avvedersi dal loro
linguaggio e dai loro primi atti che, sacerdoti del Dovere
Nazionale, essi sono migliori di quei ch'oggi lo violano o lo
fraintendono: che essi sono deliberati di vincere, ma non
oltrepassando d'una linea la condotta indispensabile alla vittoria:
ch'essi combattono per l'onore della Nazione e lo mantengono puro,
incontaminato d'ogni macchia d'odio, di vendetta, d'intolleranza:
che vogliono fondare un Governo morale e sono morali: che intendono
a conquistare libertà di coscienza, di parola, d'associazione, non
per sè, ma per tutti: che intendono a rivendicare le frontiere
d'Italia, ma senza usurpar sulle altrui: a riconquistar colla forza
Roma, negata dalla forza alla Patria, ma senza persecuzioni alle
altrui credenze e lasciandone la vita e la morte all'apostolato
pacifico del pensiero: che amano quanti nascono nella loro zona e si
prefiggono di migliorare le condizioni dei più, non di peggiorare
quelle dei pochi: che, come aborrono dal monopolio privilegiato
d'una classe sulle altre, aborrono dall'antagonismo tra classe e
classe: che la loro è bandiera d'associazione, non di risse civili:
che sorgono a compire una Rivoluzione Nazionale interrotta, non a
ricominciarla o perpetuarla.
A questi patti s'ha diritto di vincere: a questi patti ai vince.
AI MIEI FRATELLI REPUBBLICANI
DOPO LA PRIGIONIA DI GAETA((311))
Io devo, dopo oltre a due mesi di silenzio forzato, una parola sul
passato e sulle condizioni presenti al Partito: e questa parola deve
esser libera d'ogni riguardo fuorchè all'amor del vero.
Il Partito ha, negli ultimi tempi, tradito il debito proprio, e con
esso i fati del Paese.
Il dolore, ch'io sento profondo nello scrivere queste affermazioni,
deve essermi scusa all'acerba franchezza.
Primo debito d'un Partito che professa una fede, dal cui trionfo
dipendono l'onore e la grandezza della Nazione, è quello di non
illudere sè stesso e altrui intorno alle proprie forze e alle
proprie intenzioni. Il Partito ha violato quest'obbligo: ed è quindi
scaduto, nè può risorgere se non facendone ammenda e accogliendo,
senza ribellione d'amor proprio da qualunque sia proferita, la
verità.
Dopo Mentana, dopo il rinnovamento della Convenzione, dopo fatti
governativi, turpi oltre ogni dire, di persecuzione e corruttela;
dopo avere da un lato calcolato il danno, che scendeva inesorabile
dal sistema regnante all'educazione morale e alle condizioni
materiali del Paese, ed esplorato dall'altro com'io potea le forze
ordinate del Partito e le tendenze generali delle popolazioni
d'Italia, dissi agl'influenti che rappresentavano nelle diverse zone
i repubblicani, ch'io credeva fosse giunto il momento di sostituire
al periodo dell'apostolato un periodo d'azione, e che, secondo un
mio convincimento radicato in me tuttavia, una forte e vittoriosa
iniziativa sopra uno o due punti strategicamente e moralmente
importanti basterebbe a sfasciare una Instituzione, che non aveva
omai nè intelletto, nè ardire di fede in sè, nè prestigio
d'illusioni, nè fiducia de' suoi, nè compattezza d'esercito. E dissi
ad un tempo che l'azione, santa pel fine e provocata dalle
circostanze, diventerebbe nondimeno immorale, creando pericoli e
sacrificî senza speranza, se chi doveva iniziarla non si sentisse
forte di determinazione e moralmente convinto di poter vincere.
Io chiedeva risposta sincera e che non soggiacesse menomamente a
influenza mia o d'altro individuo qualunque.
Mi fu detto: siamo concordi con voi: possiamo e vogliamo. E mi recai
in Italia per ajutare i preparativi supremi e assumermi la parte di
pericolo che mi spettava.
Allora cominciò un periodo d'esitazioni, di tentennamenti, di
diffidenze reciproche, di paure e d'errori, ch'io non vorrei per
tutte le felicità terrestri ritraversare, e dal quale raccolsi che
il Partito non era maturo per forti fatti, nè educato finora alla
coscienza della propria missione e della propria potenza.
Io non ridirò una storia che i più tra quelli pei quali scrivo
conoscono, ma ne accennerò i sommi capi. - Uomini tra i più prodi in
battaglie già iniziate affacciarono, troppo tardi e quando la parola
d'azione era già corsa nelle file, la necessità d'aspettare una
opportunità che creasse agitazione di piazza nel popolo; ed io pure
preferiva quel metodo, ma chiedeva al Partito di creare esso
medesimo, con radunanze per le tasse, per Roma o per altro,
quell'agitazione: ed essi volevano aspettarla impreveduta e di
altrove. Le opportunità inaspettate sorsero, sorsero due o tre
volte; ma le città che dovevano afferrarle rapide come il ciuffo
della Fortuna, e lo avevano promesso, mandavano allora a ottenere
promesse di seguire, già più volte date, dall'altre, e le
opportunità passavano. Altri, scambiando il problema d'insurrezione,
che deve fondarsi su tendenze accertate nelle moltitudini, in un
problema di guerra, chiedevano materiale, ordini, capi, disegni
strategici senza fine. - Tutte le città si dichiaravano pronte,
anelanti a seguire, nessuna a iniziare: intere zone, che in altri
tempi sollevavano la bandiera, non sospettavano neanche che si
potesse dire ad esse: due milioni d'uomini bastano sempre, se
vogliono, ad esser seguiti: e la possibilità del moto si riduceva
quindi a due o tre luoghi determinati. E da quei luoghi, gli uni
parlavano ad ogni tratto di fare in qualunque modo, gli altri
ricusavano tutti i modi proposti senza determinarne migliori. Poi,
conseguenza inevitabile, si separavano, s'aspreggiavano, con
diffidenza esagerata, gli uni cogli altri, invece d'intendersi e
discutere con amore. Ebbi promesse di fatti complessivi importanti
che sommarono in nulla o si ridussero a ebullizioni di bande o
sommosse disapprovate da me, che pur tradivano l'elemento vulcanico
latente, ma che invece somministravano argomento d'inerzia a chi non
sapeva osare. E gli uomini noti e consenzienti con noi, in
Parlamento e fuori, la cui azione insieme alla nostra avrebbe
assicurato il successo, rimanevano inerti per poi dirci: vedete che
non potete riescire. Finchè, disperato non del fare o non fare, ma
del disfarsi del partito nei continui annunzî di fatti che non si
ottenevano, m'avviai dove pure s'era solennemente promessa azione
immediata, e fui preso.
E mentre ero in Gaeta si svolse più sempre la guerra che,
sottraendoci il solo temuto nemico, ci lasciava padroni dei nostri
fati: venne la settimana di tentennamenti, di ordini e contr'ordini
governativi nella mossa su Roma: venne la caduta di Luigi Napoleone
e la proclamazione della Repubblica; e nulla si fece, e la promessa
data pubblicamente dai patrioti genovesi alla Francia, che l'Italia,
s'essa sorgesse a Repubblica, la seguirebbe, si ridusse allo
schierarsi di un pugno di volontarî sotto la bandiera francese, come
se la inspirazione repubblicana dovesse, fatalmente, essere muta in
Italia, o l'ajuto d'una Nazione fatta anch'essa Repubblica non
dovesse riescire ben altrimenti efficace.
È forza il dirlo: il popolo è in Italia maturo: gl'influenti
chiamati naturalmente a guidarlo, nol sono; mancarono e mancano,
prodi come pur sono in campo, del coraggio morale, che solo crea le
Nazioni: della fede che vien dall'amore; del culto al principio;
dell'intuizione che rivela la forza latente e presta a suscitarsi
nel popolo. Non è in essi finora virtù iniziatrice.
Intanto la situazione è mutata.
La caduta dell'Impero e la presunzione mal fondata, pur troppo che
noi ne profitteremmo, ha spinto la monarchia verso Roma. Guasta,
sviata, profanata com'è, Roma, fatta città italiana, è oggi, in
virtù del passato e dell'avvenire, centro, perno, anima della
Nazione. Nessuna grande questione può oggimai sciogliersi senza
prima accertare quale sarà la condotta di Roma. E inoltre,
l'iniziativa, abdicata dai nostri, spetta oggi al Governo: a' suoi
errori, alle sue transazioni col Papato, al suo resistere agli
istinti della Nazione. È d'uopo attenderne le decisioni manifestate,
e prendere norma dalla sua condotta. Chiaritosi incapace di crearsi
la propria opportunità per agire, il Partito l'aspetterà
inevitabilmente da essa.
L'attività del Partito deve ora concentrarsi in gran parte su Roma,
a infondere in essa il Pensiero italiano ch'essa deve rappresentare
nel mondo; a richiamarla alle grandi sue tradizioni; a darle
coscienza di ciò che la Nazione aspetta da essa; a rendere
impossibile ogni vita del Papato fra le sue mura.
Un'agitazione pubblica dovrebbe iniziarsi con adunanze tenute in
ogni città per sancire che da Roma deve escire, consecrazione della
nuova vita della Metropoli, per opera d'un'Assemblea Costituente
convocata dal suffragio universale, Il Patto Nazionale Italiano.
Ogni agitazione, che sorgesse tendente all'abolizione del Giuramento
o d'altra qualunque esclusiva guarentigia monarchica, dovrebbe
essere secondata.
E mentre l'ajuto dato a tutte le agitazioni miranti a chiarire la
radicale opposizione esistente fra la monarchia e il progresso
libero della Nazione creerebbe presto o tardi l'opportunità
all'Azione popolare, unica via per la quale può risolversi il
problema vitale, il lavoro ordinato dei nostri dovrebbe rafforzarsi
e preparare più sempre l'elemento destinato ad afferrare quella
opportunità inevitabile.
L'Alleanza Repubblicana deve tendere a moltiplicare i suoi nuclei -
ad ajutare la stampa repubblicana e diffonderla nell'Esercito - ad
affratellarsi più sempre colle Associazioni Operaje - ad
evangelizzare, contro le calunnie e le stolte paure, ciò che la
Repubblica è e ciò che non è - a educare i suoi a rinnegare il
pregiudizio monarchico, che limita la possibilità di una iniziativa
a tre o quattro città principali, e peggio, all'azione d'uno o
d'altro individuo qualunque ei siasi - ad avvezzarli a sentire che
se la disciplina è virtù essenziale d'ogni ordinamento finchè
l'opportunità((312)) non è sorta, l'osare è virtù suprema di popolo
quando è sorta, e mezzo sicuro di trascinare i capi che tentennano
soltanto perchè diffidano - e a dirigere, senza inutili e funeste
congiure, un assiduo apostolato di principî fra le file
dell'Esercito Nazionale, dove abbonda più che generalmente non è
creduto l'elemento italiano, ove aumentano ad ogni ora le cagioni
del malcontento, ed è vivamente sentito il disonore che paci
vergognose e guerre tradite hanno versato sulla bandiera.
È questo il dovere dell'oggi: al resto provvederanno Dio, i fati
assegnati all'Italia e gli errori inevitabili della monarchia.
Noi fummo inferiori ai nostri propositi e alle circostanze: ma
questo sentimento deve spronarci al meglio e a correggere i vizî che
sono in noi, non a prostrarci nel dubbio e in una inerzia colpevole.
Vive in voi pur sempre la forza, che non abbiam saputo dirigere al
fine.
Ma in questo nuovo periodo di lavoro, voi, è necessario ch'io lo
dica, non potete, fratelli miei, avermi oggimai compagno d'ogni ora,
corrispondente assiduo con ogni nucleo, consigliero in ogni piccola
difficoltà. Vostro e della Sacra Causa alla quale giurammo è questo
logoro avanzo di vita ch'io ho.
Voi mi conoscete abbastanza per sapere che l'opportunità, dove sorga
me vivo, non mi troverà lontano, e che voi non farete opera decisiva
e degna di voi, senza ch'io mi trovi con voi l'ora prima o l'ora
nella quale agirete. Ma sono inoltrato negli anni, infiacchito nella
salute e incerto, pur troppo, pei fatti e le delusioni dell'ultimo
periodo, dell'avvenire immediato. Sento il dovere di tentare di
giovare all'educazione di quei che di certo opereranno nel futuro,
degli operaî segnatamente, ch'io amo, e che hanno in sè gran parte
dei fati italiani, scrivendo per essi tutti pubblicamente e con
qualche lavoro politico-storico, impossibile finchè ogni minuto del
mio tempo è assorbito da una corrispondenza con quanti professano la
mia fede concernente i menomi particolari d'un ordinamento segreto,
inutile se non conduce all'azione, facile ormai se spirito d'azione
è in voi.
Norme, metodo, fine, tutto in questo ordinamento fu da lungo
determinato.
Voi non avete oggimai bisogno giornaliero di consigli, nei quali io
non potrei ripetervi se non cose dette e ridette. Nè avete bisogno
da me o da altri di sprone: se lo aveste, sareste indegni della
Causa che propugnate; sprone d'ogni ora deve esservi lo spettacolo
della vostra Patria com'è oggi, e la coscienza di ciò che un Governo
nazionale davvero potrebbe farla.
Non v'aspettate dunque da me contatto regolare e moltiplicato: e
nessuno s'offenda del mio silenzio. Sento per me impossibile la
continuazione d'un lavoro, che non sarebbe se non ripetizione,
probabilmente sterile, del passato.
Lavorate soli e tempratevi a forti fatti come siete oggi temprati a
nobili desiderî. Io saprò dei progressi che voi compirete, e voi
udrete di tempo in tempo la mia voce a dire a tutti quel tanto di
vero essenziale che mi parrà d'intravedere.
Poi, se vorrete e vivrò, m'avrete compagno nell'azione. Prepararla è
còmpito vostro: còmpito mio è prepararmi a morire degnamente con voi
e per voi, quando sentirete di potermi dire, senza illudervi e
illudermi: l'ora è suonata. - Addio.
5 novembre 1870.
Vostro
Giuseppe Mazzini.
LA GUERRA FRANCO-GERMANICA((313))
I.
La guerra Franco-Germanica è una espiazione per la Francia e un
grave insegnamento per noi: è la prova, nella sfera dei fatti, d'una
verità che proferimmo noi primi e che, se riconosciuta e accettata,
modificherebbe il punto di mossa degli intelletti dati agli studî
storici, emanciperebbe gli animi da un errore che fu negli ultimi
cento anni fatale, e susciterebbe a nuova direzione di attività la
coscienza dei popoli.
Nel tumultuoso affannarsi delle menti intorno alle vicende d'una
guerra non impreveduta, ma pregna d'impreveduti rapidi eventi, la
necessità di desumere imparzialmente dalla grave sciagura europea le
lezioni che covano in ogni grande sciagura e ne formano il solo
compenso, fu dimenticata. L'osservazione giornaliera fu
inevitabilmente superficiale e assunse colore di parte. Gli uni si
fecero esclusivamente francesi, gli altri esclusivamente germanici:
taluni parteggianti per la Germania fino a Sedan, cominciarono
d'allora in poi a parteggiare per la Francia, dimenticando che la
guerra, provocata da Luigi Napoleone, doveva, iniziata una volta,
assumere carattere di guerra tra due Nazioni e che ogni guerra ha
per intento, non il vincere, ma l'ottenere condizioni di pace che
sopprimano la necessità di combattere e vincere una seconda volta.
Udimmo, da un lato, citazioni di ricordi storici a provare le
ripetute offese alla Germania e le usurpazioni territoriali
consumate o tentate in passato dalla Francia, come se tutte quasi le
Nazioni non fossero state nel loro sviluppo egualmente colpevoli e
la famiglia teutonica non possedesse anch'oggi tutta una
considerevole zona usurpata su popolazioni slave, italiane, magiare;
- dall'altro, parole stoltamente concitate sulle bombe gittate in
Parigi, come se i soldati di Francia non avessero ventidue anni
addietro bombardato Roma e non fossero presti, ove la fortuna
arridesse, a bombardare Berlino; parole anche più stolte di Barbari
e di nuovi Unni avventate ai Tedeschi per pochi fatti isolati
inevitabili in una guerra combattuta fra quasi due milioni d'uomini
in armi e quando le norme generali date dal comando germanico furono
innegabilmente norme di battaglia leale, generosa talora. Ogni
guerra è duello più o meno feroce. L'Europa deve rimproverare sè
medesima se invece d'affrettarsi, coll'abolizione delle dinastie, la
confederazione repubblicana dei popoli e una Instituzione
internazionale di Arbitri in tutte contese, a sopprimerne le
cagioni, è condannata a guaire inerte e impotente sui mali che ne
derivano e proferire insani aforismi sui beneficî d'una pace
perpetua impossibile finchè i popoli noti sono ordinati in assetto
fondato sul Giusto o sulle naturali tendenze. Ma fino a quel giorno,
ciascuno dei combattenti ha dovere, in nome della propria Nazione,
di vincere; e se, per riverenza a una cattedrale o a una galleria,
l'esercito germanico avesse rispettato Strasburgo e Parigi o
ripassato, pago d'aver vinto a Sedan, la frontiera, cinquecentomila
tra vedove e madri in pianto avrebbero avuto il diritto di dirgli:
«Noi v'abbiamo dato la vita dei mariti e dei figli, non perchè
l'orgoglio germanico fosse accarezzato dalla vittoria, ma perchè si
conquistassero pegni di non dovere ripetere sacrifizî siffatti
nell'avvenire.»
Altri, non sapendo darsi ragione dei subiti e continui rovesci
toccati all'armi, riputate invincibili, della Francia, travolsero il
proprio intelletto e l'altrui nel falso sistema storico che, nel
secolo XVIII, attribuiva, duce Voltaire, i grandi eventi alle
piccole cause: idearono tradimenti deliberati dove il tradimento non
aveva scopo possibile e avrebbe infamato senza pro il traditore:
mutarono in colpe premeditate, in disegni architettati da lungo, tra
i nemici d'ogni libertà, errori ch'escirono da una fiacchezza frutto
delle condizioni generali di Francia: spiegarono i più decisivi
risultati della guerra con una inferiorità, non esistente,
nell'armi, con un menomo errore di tattica di un generale, con un
indugio di pochi giorni in una mossa strategica: incolparono i capi
della difesa di Parigi perchè non ruppero con un vigoroso assalto la
cinta d'assedio, quando oggi sappiamo che ogni vigore di battaglia
era impossibile cogli elementi dei quali la difesa poteva disporre e
di fronte all'assioma strategico che non si vince un potente
esercito ordinato ad assedio se non armonizzando le mosse interne
con quello di forze esterne sempre lontane, sempre respinte e
disfatte nei loro tentativi per avvicinarsi: pensarono che se agli
uomini preposti alla Difesa Nazionale si fossero sostituiti due o
tre agitatori violenti, la Francia avrebbe rinnovato i miracoli del
1792 e respinto da sè, come il vulcano fa della lava, l'invasore
straniero: dimenticarono che, maturo per forti fatti un paese, i
capi non mancano mai - che sola la insurrezione nazionale poteva
salvare la Francia - che in una guerra di nazione come quella della
Spagna nel 1808, della Grecia nel 1821, della Francia nel 1792, il
tradimento compito in un punto non soffoca il moto sugli altri - e
che la rivoluzione dell'ultimo secolo ebbe traditori, defezioni,
ribellioni interne, dissolvimento d'esercito, clero e patriziato
nemici, città di frontiera conquistate dallo straniero, e non cadde
per forza altrui: morì suicida, quand'era al sommo della vittoria.
Alle due cagioni di errori accennate s'aggiunse, a mezzo alla
guerra, una terza e la più potente coi nostri: il fascino esercitato
dalla parola Repubblica. Da quando quella parola fu proferita come
formula di Governo in Parigi, i giudizî mutarono: la guerra diventò,
per le anime più santamente bollenti di culto all'idea, guerra non
di nazioni contendenti per sicurezza o incremento territoriale, ma
di principî, di libertà repubblicana contro la monarchia
invaditrice. E d'allora in poi si falsarono più sempre i giudizî sui
fatti: ogni mossa germanica innanzi parve delitto: ogni necessità
inseparabile dalla contesa, ferocia gratuita; ogni esigenza d'un
popolo irritato o sospettoso del futuro, vendetta regia. Il vecchio
prestigio rivisse tacitamente nei cuori: l'antica speranza che dalla
terra accettata da tutti per lunghi anni come iniziatrice di
progresso all'Europa partisse finalmente il segnale di rimettersi in
via rialbeggiò nella mente dei migliori tra i nostri giovani. La
formazione del campo Italiano, che fu poi l'esercito dei Vosgi, ebbe
luogo.
Gloria a quei giovani, a quei che diedero la vita e a quei che
l'offrirono! Speranza della nostra terra e della nostra fede, essi
meritano da noi tutti amore e riconoscenza. La più splendida pagina
della guerra, solenne di fratellanza e di solidarietà dei popoli nel
futuro, fu scritta da essi e segnata, come s'addice a uomini che
sentono l'unità umana nell'accordo tra il pensiero e l'azione, col
sangue. E quella pagina, lezione profonda alla Francia, dirà per
quanto duri la storia: «voi, quando eravate ancora alteri d'una
bandiera repubblicana, lasciaste ch'altri vi trascinasse a sgozzare
la nostra Repubblica in Roma; i repubblicani d'Italia accorrono a
morir per la vostra.» È vendetta nobile e repubblicana davvero; e
Dio vi benedica, o giovani, per averla compita. Non è colpa vostra
se non poteste, facendo altro, porger più valido ajuto alla fede
nostra e alla Francia.
Ma la condotta di quei prodi non deve traviare il nostro giudizio
dei fatti. La guerra Franco-Germanica non è guerra di principî.
Posteriore ad essa, la Repubblica non sorse in Francia voto
spontaneo e deliberato di popolo che si leva in nome dell'eterno
Dovere ad affermare la propria libertà ed il proprio diritto di non
aver padrone da Dio e dalla sua Legge Morale infuori: fu conseguenza
di fatto, escita dalla situazione, dalla codarda abdicazione di
Luigi Napoleone e dall'assenza d'ogni altro Governo: collocò,
sorgendo, le sue speranze, non nelle forze vive e nell'energia del
paese, ma negli ajuti impossibili delle potenze neutre; e a
blandirle, ad addormentarne i timori, celò quanto più potè il
principio sotto l'intento della Difesa; scelse a primo
rappresentante inviato a ogni corte, poco monta se dispotica o no,
l'uomo della monarchia orleanista come Instituzione, del
napoleonismo come sistema; evitò di raccogliere un'Assemblea che,
convocata nei primi giorni del mutamento, avrebbe di certo
inaugurato una politica repubblicana e si astenne dal dire in un
Manifesto ai popoli dell'Europa: la Repubblica, annullando il
plebiscito che gettò la Francia ai piedi d'un usurpatore, annulla
tutti i plebisciti intermedi, ripudia gli atti internazionali del
periodo bonapartista, riannette la propria tradizione politica col
1792 e col 1848, rinnega solennemente ogni idea di conquista ed è
presta, occorrendo e chiedendo reciprocità d'obblighi, a combattere
per l'unità territoriale Germanica contro ogni straniero che
tentasse impedirla. Bismarck, uomo, come Cavour, di tendenze e non
di principî, veneratore come lui della Forza e dei fatti, più
avveduto di lui e consapevole della potenza che vive nella patria
Germanica più assai che Cavour non era di quella che freme latente
in Italia, non guerreggia contro la Repubblica nella quale ei crede
d'intravedere una sorgente di debolezza pel popolo rivale, ma contro
la Francia e per creare con nuovi acquisti una sorgente di perenne
influenza alla Prussia. La Germania combatte, su via non buona, per
la nazionalità minacciata in essa dal cesarismo ch'essa crede,
esageratamente, incarnato tuttora nel popolo Francese. E noi abbiamo
debito e diritto di dirle che, come noi Italiani c'illudemmo, essa
s'illude, e che la Prussia monarchica potrà darle la forma non
l'anima dell'Unità, il simbolo materiale, non la vita della Nazione:
possiamo dirle che il mancare di generosità nel vincere dimezza il
merito e i frutti della vittoria - che l'impadronirsi, senza libero
voto dei cittadini, d'una zona di territorio, perchè la Francia
vincitrice avrebbe forse fatto lo stesso, è tristo insegnamento di
libertà al popolo che compie quel fatto e somma a ripetere
l'immorale consiglio dato a noi talora dagli uomini del terrore:
«siate intolleranti e feroci perchè i nemici d'ogni libero progresso
son tali» - che l'annettere oggi, per via di conquista, quella zona
alla Germania è un decretare inevitabile fra pochi anni una seconda
guerra tra le due Nazioni e creare anzi tratto, come fece l'Austria
usurpando il Lombardo-Veneto, una base e un potente ajuto al nemico
che tra due popoli forti di 37 o 40 milioni d'uomini i metodi di
guerra attuale non concedono altra barriera che i petti dei
combattenti, la scienza dei capi, i mezzi finanziari e l'ardire -
che i Pirenei e le Alpi si valicano dagli eserciti e le linee di
monti, tremende all'invasore nell'interno delle terre invase, non
furono mai nè saranno, se collocare sulla frontiera, ostacolo
all'invasore; ma non possiamo, senza ingiustizia e follia, parlar di
crociata repubblicana contro una brutale tirannide e avventare il
nome di barbaro a chi, padrone d'imporre o di minacciare, lascia
compiersi libere((314)) le elezioni e raccogliersi un'Assemblea che
potrebbe, volendo, in nome della Republica((315)), respingere le
proposte e romper guerra domani. La Repubblica è per noi cosa santa;
ma il nome solo non basta; e il feticismo non è Religione. Dal
Governo, con qualunque nome si chiami, il cui Delegato dichiara,
quasi parodia del giammai di Rouher: abitanti di Nizza, voi
appartenete da oggi in poi alla Francia, ed esilia, come nemico
dell'integrità territoriale Francese, un cittadino che scrive con
tendenze italiane un articolo di giornale, non escirà l'iniziativa
della Repubblica universale. Se pensassimo altrimenti, non
detteremmo articoli per La Roma del Popolo: saremmo noi pure in
Francia.
Ad annuvolare intanto più sempre le menti, taluni gemono terrori
sull'avvenire e intravedono nella sconfitta della Francia l'agonia
della razza Latina, nella vittoria Prussiana il cominciamento d'una
nuova èra di militarismo, nel destarsi dal pensiero all'azione della
razza Germanica una prepotente invasione di Teutoni; e dietro ad
essi la Russia, lo Tsar: terrori vani e argomento di pregiudizî e di
considerazioni superficiali politiche. Quei profeti di sventura
all'Europa dimenticano che l'espiazione ritempra; che la Francia,
rinsavita dall'errore che una missione compita dia privilegio
d'iniziativa perenne nello svolgersi dei fati d'un mondo, risorgerà
più pura e più forte alla ricerca d'una nuova missione in un senso
d'eguaglianza colle Nazioni sorelle; che una razza non more perchè
la fiaccola irradiatrice delle vie del futuro trapassa d'epoca in
epoca da uno ad altro dei popoli che la compongono: dimenticano che
la civiltà Latina parve sparita, spenta per sempre nel V secolo e
rivisse, col Papato, coi Comuni, coll'Arte, coll'Industria, colle
Colonie, più potente di prima; che il principato, il materialismo e
l'intervento cercato o servilmente accettato dallo straniero,
sotterrarono, nel XVII, l'anima delle città italiane e che quelle
anime spinte sotterra si confusero lentamente in una ed emergono
oggi dal loro sepolcro di trecento anni chiamandosi Italia; che Roma
è il sacrario della razza Latina, che da Roma escì due volte la
parola unificatrice del mondo e che se prima Roma non è sommersa nel
Tevere, la missione Latina vivrà eternamente trasformata e
trasformatrice; dimenticano che un esercito di cittadini non fonda
militarismo durevole; che tutti i cittadini entrano, in Germania,
per tre anni nell'esercito attivo; che le questioni di politica
interna rivivranno tra essi, dopo la pace, tanto più fervide quanto
più quei cittadini soldati hanno conquistato col sacrifizio e colla
vittoria coscienza di diritto e potenza; che il tedesco è popolo di
pensatori e che il pensiero guida oggi inevitabilmente, dopo brevi
traviamenti, a repubblica: dimenticano che lo Tsar è un fantasma
forte soltanto, come lo fu Luigi Napoleone, delle altrui paure e
dell'assenza d'una saggia e morale dottrina politica nei Gabinetti
Monarchici; che il primo popolo capace d'averla, limiterà l'azione
possibile della Russia all'Asia dove può esercitarsi benefica; che
la metà delle popolazioni Slave-Polacche, Ceke, Serbo-Illiriche,
aborre dallo Tsarismo; che il giorno in cui noi, invece di
paventarle, stringeremo alleanza con esse e aiuteremo il loro
formarsi in Nazioni, le conquisteremo alla Libertà: che in quella
zona di popolazioni Slave, stesa fra la Germania e la Russia e
ostile per antiche e recenti usurpazioni alla prima, vive la nostra
difesa contro la sognata invasione teutonica. L'asse del mondo Slavo
è sulla Vistola e sul Danubio, non sulla Newa.
No; noi non temiamo per l'Europa o per noi le conseguenze della
guerra e della vittoria Germanica; temiamo, per lunga esperienza, lo
sconforto irragionevole che segue, ov'anche è meritata, una
delusione. I popoli, gl'Italiani segnatamente, si sono illusi, per
abitudini non vinte ancora, sulle condizioni e sulla forza attuale
della Francia e illusi sul valore e sulle conseguenze della parola
repubblica proferita in Parigi; la disfatta della Francia pare ad
essi disfatta repubblicana a pro del principio monarchico, disfatta
della Potenza dalla quale a torto speravano il cominciamento di
un'èra. Scriviamo per combattere questo sconforto. Se gli uomini di
parte repubblicana avessero antiveduto come noi - e per cagioni che
nulla hanno di comune colla questione che ci sta a cuore - la
disfatta francese; se non avessero, fraintendendo i termini della
contesa, imprudentemente detto: là si combatte per la repubblica, là
si vince per la monarchia, noi, tra due Nazioni che amiamo e
stimiamo, preferiremmo anche oggi il silenzio. Ma importa dire ai
nostri e agli avversi, che quanto è accaduto doveva accadere, che
nulla è mutato nelle nostro speranze, come nei nostri doveri, che le
condizioni essenziali dell'Europa rimangono le stesse di prima, che
la monarchia non esce più forte dalla guerra attuale, che dove la
repubblica non è che di nome, nessun argomento può desumersi a suo
danno dalla sconfitta.
II.
Dal cumulo delle affermazioni e delle opinioni proferite più o meno
avventatamente sulla guerra Franco-Germanica emergono alcuni fatti
innegabili, che giova registrare come base a un giusto giudizio e
norma a desumere rettamente le conseguenze della vittoria germanica.
La guerra fu ideata, voluta, provocata senza cagione da Luigi
Napoleone. Determinata poco dopo la pace di Villafranca, decretata
dopo Sadowa, prenunziata dalla domanda d'una rettificazione di
frontiere che la seguì ed ebbe rifiuto, data da quel tempo
pubblicamente come parola d'ordine alle caserme, preceduta da ogni
sorta di disegni e di preparativi militari, diventò finalmente
necessità per l'Impero. A cattivarsi gli animi dei Francesi in
qualunque impresa e per ogni sacrificio, Luigi Napoleone piegò,
senza intenzione reale di libertà, dalle vie del terrore alle
concessioni apparenti. E le concessioni, come ad ogni Governo che
piega dal proprio principio, gli nocquero. La Francia, che aveva per
lunghi anni tremato d'una potenza fondata su dispotismo illimitato e
davanti alla quale l'Europa monarchica s'era tutta quanta
servilmente curvata, sospettò vacillante nel padrone la coscienza
della propria forza e ne trasse animo ad agitarsi. L'agitazione dei
partiti, rifatta minacciosa davvero e ogni giorno crescente, collocò
l'Impero davanti al bivio o di ceder più sempre e spegnersi nella
libertà rinascente o di rifarsi un prestigio in Francia e in Europa
adulando, colla conquista di terre vagheggiate d'antico, l'ambizione
della prima, cancellando con vittorie splendide, nelle tendenze
volgenti all'ostile della seconda, i ricordi della disfatta subìta,
per energia pertinace d'uomini repubblicani, nel Messico e
vincolando a sè nuovamente colla gloria e le promozioni l'Esercito
vacillante. Un milione d'uomini, tra morti, feriti e infermi, il
commercio, l'industria, l'agricoltura d'Europa gravemente offesi por
un decennio, un capitale incalcolabile per sempre perduto o sviato
dalle sorgenti di produzione, un patto d'odio e vendetta tra due
Nazioni chiamate a un patto di fratellanza e di progresso comune,
tutto è opera di un calcolo di egoismo nudrito nella mente d'un solo
individuo forte d'un potere usurpato col delitto e codardamente
accettato. Non sappiamo - se i popoli vogliono raccogliere
l'insegnamento - di condanna più irrevocabilmente severa contro il
principio avverso a quello che noi propugniamo.
Sconfitto dall'esercito Germanico il Francese che volle e non seppe
assalire, resosi prigione l'Imperatore e sorto in Parigi,
nell'assenza d'ogni potere, un Governo provvisorio che si disse
timidamente repubblicano, ma non fu in sostanza che Governo della
Difesa, avremmo noi tutti voluto che fosse cessata la guerra. La
Germania nol volle e, dobbiamo confessarlo, difficilmente il poteva.
Retrocedere, dopo Sedan, mantenendo, come taluni suggerirono,
l'occupazione della zona reclamata, era, di fronte agli eserciti che
rimanevano, ai dipartimenti meridionali che s'ostinavano a battaglia
e a Parigi libera e padrona di dirigere la resistenza, un perpetuare
la guerra assumendone tutti gli svantaggi: rivalicare la frontiera
senz'altro col solo orgoglio della vittoria, era, come abbiamo
detto, un suscitare i giusti risentimenti dell'intera Nazione e
rinunziare all'intento d'ogni guerra ch'è d'aver pegni per impedirne
il rinnovamento. Il Governo della Difesa non voleva e non doveva
concedere il pegno materiale richiesto e non poteva, provvisorio
com'era e revocabile ad ogni istante, dar sicurezza morale.
L'esercito Germanico s'avviò a Parigi. I fatti che seguirono diedero
un altro grave insegnamento all'Europa, ed è che un popolo è, in
parte almeno e quando tollera lungamente, responsabile dell'ingiusta
immorale politica del suo Governo - che deve, per legge di cose,
soggiacere alle conseguenze - che non basta a evitarle la caduta di
quel Governo, quando è determinata, non da fede e sacrificio
spontaneo del popolo, ma da un errore o da un atto codardo di quel
Governo medesimo.
E questi insegnamenti furono confermati dai casi della guerra, dalla
serie non interrotta di rovesci ai quali soggiacquero l'armi
francesi; rovesci cominciati fin dai primi giorni e inaspettati
anche a quelli che, come noi, antivedevano rovinoso per la Francia
l'esito finale della contesa.
Quei rovesci furono dovuti a molte cagioni di natura apparentemente
diversa, ma tutte più o meno direttamente connesse colla prima
suprema cagione, il potere fidato a un sol uomo, e coll'altra
dell'orgoglio francese che presumeva di vincer tutti e sempre o a
ogni modo. La prima cagione era avversa naturalmente al progresso;
la seconda fece gli animi noncuranti d'esso; norma regolatrice in
ogni guerra dev'essere quella di stimare il nemico, e i Francesi lo
disprezzavano e credevano inutile ogni riforma.
Una grande riforma s'era intanto compiuta nell'esercito nemico alla
Francia. Per impulso dato segnatamente dal principe Federico Carlo e
seguito efficacemente da altri, la pedanteria militare prussiana
aveva fin dal 1861 ceduto il terreno a una scuola più libera, più
emancipata dal metodo servile che prescriveva il da farsi per ogni
menoma contingenza possibile, e lo riduceva, come il Talmud gli
Israeliti, a ufficio di macchina, costringendolo in ogni circostanza
e per ogni atto a forme e regole prestabilite. Le istruzioni
tattiche Prussiane di quell'anno iniziavano un nuovo periodo:
affidavano gran parte dell'esecuzione di principî irrevocabilmente
accettati dalla scienza guerresca al giudizio e all'inspirazione
degli ufficiali: riconoscevano l'individualità e fondavano quindi
più grave e più vigile la responsabilità. È questo il segreto di
tutti gli ordini umani; e convalidato, quanto alla guerra, dal
frequente successo dei volontarî, prevarrà più sempre in futuro
nella difesa delle Nazioni. Soltanto, quel metodo esige più forti
cure nella scelta degli individui destinati a funzioni speciali,
nella costituzione dell'esercito, nel sistema delle promozioni,
nell'istruzione sul maneggio delle armi dato a chi deve combattere,
nella formazione anzitutto degli stati maggiori che dovrebbero
accogliere gli ufficiali esperimentati migliori dei corpi e non
appagarsi d'un esame di scuola politecnica o d'altra inefficace ad
accettare le attitudini pratiche e di applicazione. Base
dell'esercito Germanico è, come dicemmo nel numero antecedente,
l'obbligo in ogni cittadino di ricevere una sufficiente istruzione
militare e d'esser presto ad accorrere. E per intelletto dell'arte,
studî d'ogni luogo sul quale accade o è probabile che accada un
conflitto, provate abitudini pratiche, conoscenza di lingue e
d'altro, lo stato maggiore è oggi in Prussia il migliore forse che
esista in Europa.
In Francia, l'Impero, per le condizioni inerenti al sistema e
appunto per l'obbligo che ad esso correva di far dell'esercito
un'arme, non della Nazione ma d'un partito pericolante, ha diminuito
nel soldato, naturalmente prode, la coscienza e l'entusiasmo del
cittadino e allentato, dove quella coscienza è rimasta, il vincolo
di fiducia tra soldati e capi senza il quale le vittorie non sono
possibili. Il sistema del cambio, violazione dell'eguaglianza e
della missione dei cittadini incoraggiata dai bisogni crescenti
delle finanze imperiali, s'era negli ultimi anni aggravato di
corruzione fatale alla forza delle file: la somma versata come
sostituzione al servizio era presa; il cambio non curato, e le cifre
pagate dal Ministero di Guerra rappresentavano un vuoto
considerevole nella cifra reale dei soldati. I capi erano scelti a
seconda, non del merito o della moralità, ma della loro devozione
vera o presunta al bonapartismo: i generali, segnatamente cercati
fra gli uomini delle guerre d'Algeria, guerre buone per avvezzare a
tendenze ferocemente dispotiche e ad allontanare l'animo
dall'effetto di patria, ma di natura diversa da quella delle grandi
guerre regolari europee. Accarezzati da chi dovea serbarsi ad ogni
patto in essi un ajuto contro il possibile insorgere del paese,
quegli uomini intendevano la carezza, sentivano il bisogno che il
capo supremo aveva d'essi e acquistavano impunemente abitudini e
vizî di pretoriani: nuotavano nel lusso e lo tolleravano negli
ufficiali: la depredazione s'era fatta, come nell'esercito Russo,
tradizione in ogni ramo d'amministrazione militare e, come per
l'armi Russe in Crimea, doveva produrre delusioni e disastri.
Il soldato, acuto osservatore e facile al biasimo in Francia più che
altrove, indovinava e scemava di fiducia nei superiori e quindi di
spirito di disciplina. Fondato sulla corruzione, l'Impero periva per
essa. Le relazioni che giungevano a Luigi Napoleone sugli
apprestamenti di guerra e sulle condizioni dei corpi erano
menzognere: il vero avrebbe svelato i guasti operati dalla
cupidigia. Quelle che gli dipingevano la Germania meridionale pronta
a sollevarsi contro la Prussia erano egualmente false: il danaro
profuso a cospirare per Francia tra i cattolici di quelle terre e
che di fronte al senso della patria germanica sarebbe pur sempre
riuscito inefficace, aveva impinguato le borse dei segreti
incaricati di quel lavoro. E - copiatore infedele dello zio - Luigi
Napoleone non verificava, credeva: ingannatore, ingannato. Quando,
dopo il suo giungere al campo, gli rifulse il vero, era tardi.
Davanti a un esercito nemico mirabile per esattezza armonica di
tutti i rami d'amministrazione militare, per capacità in ogni
frazione di farsi, occorrendo, unità e operare da sè e nel quale il
soldato era fidente nei capi e che certo nulla gli mancherebbe, ei
si trovò, dopo d'avere dichiarato guerra e scelto il momento per
assalire, condannato alla difensiva, incapace di marciar su Magonza,
incapace d'operare da Strasburgo contro la Germania meridionale,
incapace di violare, avventurandosi per vincere allo sdegno dei
neutri, la frontiera Belgica e girare il nemico, incapace perfino di
distruggere i vicini centri nei quali si congiungono le vie ferrate
germaniche. Inerte, immobile, aspettò gli assalti e soggiacque. Il
solo valore tradizionale nei soldati francesi non bastò, nelle
sfavorevoli condizioni preparate dalla corruzione e dalla inettezza
dei capi, a resistere. L'intelligenza - ed è il terzo insegnamento
che vorremmo vedere raccolto dai nostri - vinse il cieco valore.
L'unità, la fiducia reciproca, l'armonia tra le diverse sezioni
amministrative, l'esattezza nell'esecuzione dei disegni, la giusta
parte d'indipendenza lasciata agli individui, la coscienza di
combattere, non per un uomo o per un onore militare scompagnato
dall'idea d'una sacra missione, ma per la propria Nazione,
dimostrarono anche una volta come un esercito che accoglie in sè
ogni ordine di cittadini sia superiore ad ogni altro. Il trionfo
Germanico è il trionfo dell'ordinamento militare che ricordammo
nell'altro numero e dell'insegnamento obbligatorio nella Nazione.
Ma la Repubblica? Il Governo della Difesa?
Sì: emancipata dall'Impero e anche dopo Sedan, la Francia poteva
salvarsi, risorgere: una Nazione lo può sempre se vuole, e un mezzo
milione di stranieri non basta per conquistare a patti disonorevoli
un popolo forte di 38 milioni di cittadini. Bisognava distaccarsi
interamente, apertamente, dalle tradizioni imperiali e dagli uomini
della monarchia - dichiarare ai popoli, nei termini che accennammo
nell'altro numero, la nuova politica e ottemperarvi gli atti -
convocare immediatamente, non fosse che di notabili, un'Assemblea
che confermasse - e sotto i primi impulsi l'avrebbe fatto - il
Governo della Difesa, poi rimanesse o meglio si disperdesse, in
piccoli nuclei di Commissarî ai Dipartimenti per suscitarvi e
dirigervi l'entusiasmo - rinunziare a vincere con mosse ed eserciti
regolari e organizzare guerra di popolo - abbandonare, occorrendo,
Parigi, condannata ad arrendersi presto o tardi e, se s'antivedeva
che il suo arrendersi sarebbe dissolvimento alla resistenza della
Nazione, chiamare la Francia non alla leva in massa, ma
all'insurrezione in massa - ordinare i giovani, non a versarli
ineducati all'armi nelle sezioni dell'esercito regolare dove non
potevano recare se non germi d'ineguaglianza e d'indisciplina, ma a
collocarsi, liberi nelle loro inspirazioni e conoscitori dei luoghi
e confortati dal pensiero di difendere i proprî lari, a guerreggiare
nella loro zona, tanto che il nemico trovasse in ogni via una
barricata, in ogni inoltrarsi un pericolo, in ogni boscaglia un
agguato - mandare ai nuclei di partigiani uomini già esperti nelle
cose di guerra come insegnamento elementare vivente - distribuire
largamente armi, munizioni, danaro all'insurrezione - costringere
con guerra siffatta il nemico a smembrarsi, a occupare una
moltitudine di punti, ad assottigliare la propria linea - e
stabilire intanto, in Bretagna, in Provenza o altrove, un punto di
concentramento a tutti gli elementi regolari per riordinarvi e
rifornirvi, eliminando gli antichi capi e scegliendo i nuovi tra gli
ufficiali, un esercito pel momento in cui il nemico stanco,
sconfortato, rotto in frazioni, avviluppato nelle spire
dell'insurrezione, avrebbe prestato il fianco a una operazione
decisiva d'offesa.
Questo ed altro poteva, doveva farsi. Il Governo della Difesa non lo
tentò: seguì un metodo diametralmente contrario. Un uomo solo,
Gambetta, parve volerlo tentare: ma fervido, energico nel
linguaggio, fallì all'impresa nei fatti e s'ostinò anch'egli
nell'errore di volere salvare la Francia colle mosse e cogli
eserciti regolari.
Fu colpa di quegli uomini o della Francia?
Quanti, con grave torto e pericolo, accarezzano tuttavia negli animi
dei nostri giovani l'illusione che dalla Francia debba escire
l'iniziativa delle grandi cose, dei grandi moti che avviano innanzi
l'Umanità, persistono e persisteranno nell'attribuire la colpa a
que' pochi individui. Noi l'attribuiamo pensatamente alla Francia.
E non deriviamo, tardi profeti, la nostra opinione dai fatti
recenti, bensì li spieghiamo con quella. Chi scrive affermò nel 1835
in una Rivista Francese, quando tutti vaticinavano in Europa
iniziatrice dell'èra repubblicana la Francia e le idee repubblicane
erano in Parigi rappresentate dai migliori per intelletto e per
cuore((316)), che l'Europa e la Francia s'illudevano - che mancava
in Europa l'iniziativa, - che ogni popolo poteva, credendo, sapendo,
volendo, colmar quel voto, ma che bisognava cominciasse dal
convincersi che la virtù iniziatrice non esiste più, monopolio
perenne, in Francia o altrove - che la Francia l'aveva, fin dal
1815, perduta - che la grande gigantesca Rivoluzione del 1789 non
era stata iniziativa, ma sommario e conclusione d'un'epoca - che
splendidi fatti e presentimenti del futuro potevano rivelarsi in
Francia, ma che per molti anni le solenni collettive mosse della
Nazione non segnerebbero nuovi gradi di progresso all'Europa e si
consumerebbero fatalmente per entro alla chiusa curva di un circolo.
Oltre a un terzo di secolo è trascorso d'allora in poi e i fatti
hanno confermato l'idea.
Nessuno può - noi men ch'altri possiamo - dimenticare i grandi
servigi resi dalla Francia all'Europa, i grandi esempî di fortezza e
di volontà che abbondano nelle pagine della sua vita storica, lo
splendido tentativo, trionfante in parte, d'applicazione pratica del
lavoro intellettuale di due epoche, Politeismo e Cristianesimo, e la
conquista operata per noi tutti a prezzo di sangue dei diritti
dell'individualità: nessuno può sospettare che la Francia non
risorga a nuova e potente vita, anello indispensabile nella catena
dei progressi da compiersi. Ma nessuno, popolo o individuo, può
sottrarsi, comunque sia grande, alla Legge Morale che ha decretato
s'espii presto o tardi ogni lunga deviazione dalla missione
assegnata, ogni violazione del dovere.
Affascinata dall'orgoglio d'una lunga seria di trionfi coll'armi,
guasta dalle proprie tendenze dominatrici e dal plauso servile dei
popoli che la circondano, la Francia traviò dalla propria missione e
dall'intento nazionale che avea, sul finire dell'ultimo secolo,
definito: evangelizzazione di Libertà, d'Eguaglianza e di
Fratellanza fra i popoli: sostituì la propria dominazione a quella
dei tiranni che rovesciava; commise i suoi fati all'eletto delle
battaglie; conculcò per accrescere potenza a sè stessa i diritti
delle nazioni sorelle; sostituì alla bandiera della rivoluzione una
bandiera d'Esercito, all'adorazione delle idee il culto degli
interessi materiali, alla Fede in Dio la Fede nella Forza: più dopo
e inevitabilmente alla politica dei principî, alla franca, aperta,
leale dichiarazione delle proprie credenze, la politica
dell'opportunità, delle transazioni, il gesuitismo d'opposizione che
campeggiò nel regno dei due rami borbonici; rimpicciolì le sante
idee di rinnovamento sociale in una guerra d'egoismo di classi e
nelle angustie d'un problema esclusivamente economico; ringrettì nel
1848 il vasto pensiero repubblicano in una tattica anormale di
riconoscimento dei principî e d'accettazione dei fatti che li
negavano; suscitò, promettendo ajuto, i popoli a moti e li
abbandonò; incredula, protesse il Papato; predicatrice di libertà,
votò poi secondo Impero; dichiarò d'esser unica tra le Nazioni a
combattere per una idea e volle, prezzo al combattere, danaro e
terre non sue; ingelosì, Essa rappresentante esagerata dell'Unità,
del moto di unificazione germanica; si disse avversa alla guerra e
applaudì quando fu dichiarata; invase il Messico, dimenticò la
Polonia, trucidò, movendo repubblica contro repubblica, Roma; e
s'arrogò nondimeno, violando l'eterna massima: Dio solo è padrone; i
popoli devono tutti essere, nell'eguaglianza e nell'amore,
interpreti della sua Legge, diritto di perenne primato fra le
Nazioni. La Francia oggi espia queste colpe coll'impotenza, colla
mancanza degli spiriti del 1792, colle esitazioni dei suoi capi,
colla codarda condotta della sua Assemblea, coll'inerzia da noi
preveduta delle sue moltitudini.
E l'espiazione è severa, severa oltre il giusto; e per questo,
largamente compita.
Guidata da una cupida Monarchia, la Germania ha traviato alla sua
volta dai confini del retto che la riverenza al pensiero ingenita in
essa le insegnava di non varcare, e sostituito al diritto di
proteggersi un concetto di vendetta che semina i germi di nuove
guerre. Dio e i popoli lo allontanino. Possa la Francia risorgere
all'influenza che le spetta e vendicarsi delle ingiuste esigenze
come i nostri vendicarono con essa l'eccidio di Roma, ajutando a
promovere il trionfo d'una Unità Nazionale Germanica fondata sulla
Libertà. Possa l'Italia, oggi colpevole di parecchie delle colpe che
travolsero in fondo la Francia, affrettarsi a cancellarle, intendere
la grande missione ch'essa potrebbe, volendo, compiere a pro di
tutti in Europa, raccogliere la fiaccola di libertà popolare caduta
dalle mani altrui e iniziare l'impresa dalla quale soltanto può, col
giusto riparto delle terre europee fra le Nazioni e l'unità d'una
fede morale comune a tutte, inaugurare un'èra di pace e di armonia
nel lavoro.
POLITICA INTERNAZIONALE((317))
I.
Abbiamo, fin dalle prime pagine di questa pubblicazione, detto, e
insisteremo a ripetere, che la Legge Morale è il criterio sul quale
deve giudicarsi il valore degli atti sociali e politici che
costituiscono la vita delle Nazioni e delle diverse dottrine che
s'assumono di dirigerle: e lo spettacolo che abbiamo innanzi d'una
grande Nazione caduta in fondo per essersi sviata da quella Legge
dovrebbe essere oggi luminosa conferma al nostro principio. Ciò ch'è
vero per tutte le Nazioni, lo è doppiamente per le Nazioni che
sorgono. Nella moralità dei loro ordini sociali e delle norme che ne
dirigono la condotta politica sta non solamente il compimento del
Dovere, ma il pegno del loro avvenire. Come la vita del commercio ed
ogni vasto sviluppo economico posano sul credito, la vita
complessiva d'un popolo e l'incremento nazionale posano sulla
fiducia che gli altri popoli pongono in esso; e quella fiducia ha
bisogno d'un programma definito accettato e invariabilmente
mantenuto nelle transazioni interne e segnatamente internazionali
del nuovo popolo. Dai mercati economici alle alleanze politiche,
tutto si schiude agevolmente a una Nazione che vive d'una vita
normale fondata sopra un principio morale la cui sorgente è nota e
le cui conseguenze sono logicamente e praticamente dedotte negli
atti: dove manca, dove non esiste norma dall'arbitrio infuori degli
individui e dei capi, i popoli guardano diffidenti, sospettosi,
gelosi. Un trionfo carpito al delitto o all'altrui codardìa può
affascinarli o impaurirli a concessioni e a riverenza apparente, ma
per breve tempo, e il primo indizio di decadimento o fiacchezza li
muterà. Par avere negato l'idea di Nazionalità, anima dell'Epoca
nuova e sostituito alla potenza d'un principio la propria, genio,
forza e prestigio del primo Napoleone sparirono davanti al subito
inaspettato fremito dell'Europa rifatta ostile non sì tosto parve
interrompersi per lui il corso delle vittorie. E la Francia
dell'ultimo Napoleone, orgogliosa pochi anni addietro della
sommissione abjetta di tutti i Governi Europei non trovò, nella
prima ora di crisi, un solo alleato. Gli stessi fati s'apprestano
all'Inghilterra, s'essa persiste a cancellare nella sua politica
esterna quel culto al principio di Libertà che la fece potente e
inspira tuttavia la sua vita interna.
Per noi - ed è la dottrina dei nostri Grandi da Dante in poi - ogni
essere, individuale o collettivo, ha un fine, e il fine ch'è parte
del Disegno divino regna sovrano: l'esistenza di quel fine genera il
dovere di raggiungerlo, di tentarlo almeno. La vita è una missione.
Il compimento più o meno continuo, più o meno potente della missione
costituisce il merito e quindi il progresso della vita.
L'Umanità ha un fine: scoperta progressiva della Legga Morale e
incarnazione di quella Legge nei fatti. Il mezzo, il metodo, per
raggiungere quel fine, è l'Associazione: l'associazione, progressiva
anch'essa, delle facoltà e delle forze umane, la comunione più e più
vasta, più e più intensa d'ogni vita coll'altre vite, l'amore
trasfuso nella realtà. Quando tutti i figli di Dio saranno liberi,
eguali e affratellati in una fede comune di pensieri e d'opere, e la
coscienza della Legge splenderà in ogni vita come splende il sole in
ogni goccia di rugiada diffusa sui fiori dei campi, il fine sarà
raggiunto. L'Umanità trasformata ne intravederà un altro.
Le Nazioni sono gli individui dell'Umanità: tutte devono lavorare
alla conquista del fine comune: ciascuna a seconda della propria
posizione geografica, delle proprie singolari attitudini, dei mezzi
che sono ad essa naturalmente forniti. L'insieme di queste
condizioni costituisce per essa un fine speciale da raggiungersi
sulla direzione del fine comune.
Dov'è coscienza del fine speciale e speciale attitudine ad
accostarsi attraverso quel fine al fine comune ch'è l'ideale
dell'Umanità, ivi è Nazione: dove non è, è gente, frazione di popolo
destinato presto o tardi a confondersi con un altro.
Il Patto Nazionale, ch'è battesimo e mallevadorìa di fraterno
progresso ad un popolo, riconosce, nella Dichiarazione di principî
che deve essere preambolo al Patto, il fine comune a tutti e addita
nel proprio insieme il fine speciale, la parte di lavoro che spetta,
nel lavoro generale, a quel popolo. Ogni qual volta un popolo
rinnega il fine comune o svia dal bene di tutti esclusivamente al
proprio il frutto dei progressi compiti verso il fine speciale, la
Nazione retrocede. Raggiunto il loro fine speciale, le Nazioni
morivano un tempo per lungo corso di secoli: oggi, la conoscenza del
fine comune, della vita collettiva allora ignota dell'Umanità e
della legge di Progresso che la governa, lo impedisce; ma la Nazione
colpevole smarrisce per un tempo ogni virtù iniziatrice e non si
ritempra ad essa fuorchè espiando.
La dichiarazione del fine speciale costituisce il vincolo di libera
associazione nel quale i milioni appartenenti a un gruppo
determinato riconoscono di far parte d'una Nazione e ordinano il
loro lavoro interno: l'analogia dei fini speciali costituisce la
baso di più perenni e più intime relazioni tra popolo e popolo: la
dichiarazione del fine comune determina le alleanze.
Santa è ogni guerra comandata dalla necessità d'un progresso vitale
verso il fine comune assolutamente vietato per ogni altra via o
contro chi contende ad un popolo libertà di compiere la propria
missione: ogni altra è delitto di fratricida; e le Nazioni
affratellate nella conoscenza accettata del fine comune dovrebbero
collegarsi contr'essa. Come i membri d'una famiglia, i popoli sono,
a seconda dei loro mezzi, solidali e chiamati a combattere il Male
ovunque s'accampa, e a promuovere il Bene ovunque può compiersi. Le
Nazioni che rimangono spettatrici inerti di guerre ingiuste e
inspirate da egoismo dinastico o nazionale, non avranno, il giorno
in cui saranno alla volta loro assalite, che spettatori.
Son queste per noi le norme regolatrici d'ogni politica
internazionale e le abbiam fin d'ora affermate perchè giudicheremo a
seconda gli eventi europei: norme semplici e piane come tutte quelle
che derivano da un concetto morale; ma la loro prova sta nella
Storia che, interrogata a dovere, dimostra ogni violazione di esse
aver generato conseguenze funeste ai violatori e ai popoli che,
potendo, non impedirono. La scienza del come dirigere le cose umane
è più semplice e men difficile ch'altri non pensa, se mova da pochi
principî derivati tutti da una idea di religione e di Dovere: non
diventa complessa e oscura e raddensata di semi-diritti storici
cozzanti gli uni cogli altri e sorgente inesauribile di piati e
dissidî, se non quando, cancellata ogni fede comune e illanguidito
ogni senso collettivo di religione, la vita politica delle Nazioni è
data agli arbitrî d'un materialismo che ha l'io per principio e la
forza, il fatto transitorio, per prova. In quel materialismo ebbe
nascita la Diplomazia, scienza intricatissima e incerta di
transazioni fra i molteplici fatti, di concessioni disegnate per un
tempo alla menzogna e alla corruzione per un tempo dominatrici, e di
formole destinate a coprir le intenzioni: scienza funesta
all'educazione dei popoli e sterile sempre quanto ai fini da
raggiungersi, che l'Instituzione repubblicana abolirebbe, decretando
pubblicità per le relazioni tra popolo e popolo.
Oggi e da tre secoli in poi non esiste principio comune nè quindi
norma determinata alle relazioni internazionali. Vivo e fecondo il
concetto Cristiano, una influenza direttrice morale si manifestava
tratto tratto modificando, per quanto era allora possibile, in un
senso uniforme, gli eventi creati dalle circostanze e dalle
passioni. La predicazione che aveva lentamente tramutato le tremende
invasioni degli uomini del nord in Italia e altrove in
colonizzazioni territoriali e aveva più dopo, promovendo a un tempo
l'emancipazione dei servi di gleba, gettato colle Crociate in nome
dell'Europa un guanto di sfida al fatalismo d'Oriente, proferiva di
tempo in tempo, coi Concilî e colle epistole pontificie, parole di
pace, d'unità morale, di fede comune. I tempi erano semi-barbari: il
Feudalismo smembrava popoli che tendevano a conglomerarsi, a
unificarsi: il dualismo, impiantato nel Cristianesimo stesso, tra il
mondo delle anime e quello dei corpi, erano cagioni insuperabili e
perenni di discordie e di guerre: pur nondimeno, una tendenza
generale, frutto d'alcuni principî morali davanti ai quali
s'incurvavano tutte le fronti, signoreggiava talora quella tempesta,
accorciava le guerre o ne traeva un avviamento alla caduta degli
ordini feudali e all'avvicinarsi dei popoli. Ma, cominciato nel XVI
secolo il lento dissolversi del Cristianesimo, si schiuse un vuoto,
non colmato finora in Europa: vuoto d'una fede morale comune, d'un
patto solennemente o tacitamente riconosciuto, movendo dal quale i
popoli potessero intendersi e fidare l'uno nell'altro; e sull'orlo
di quel vuoto alternarono sistemi dettati da inspirazioni isolate o
da cupidigie dinastiche; sterili, inefficaci tutti. Taluni fra gli
scrittori accettati come maestri di diritto internazionale si
richiamarono all'antichità come se norme dettate per popoli
politeisti potessero mai dirigere le relazioni di popoli sui quali
era passato l'alito del Cristianesimo: poi venne, promossa
dall'Inghilterra, la dottrina d'equilibrio europeo che conchiuse in
Vestfalia un patto d'eguaglianza fra due credenze
irreconciliabilmente nemiche e con altri trattati una sospensione
d'ostilità tra Francia, Austria e Spagna che doveva durare perpetua
e cessò con Luigi XIV: poi nuovi tentativi in Utrecht e altrove che
sfumarono davanti al lampo della spada di Federico II e conchiusero
col sorgere del militarismo Prussiano e coll'iniquo smembramento
della Polonia. L'equilibrio diede da circa settanta anni di guerra
all'Europa; la ponderazione si tradusse in un sistema d'armi e
d'armati sempre crescenti a impedire le guerre e nel principio che
decretò in Campoformio la vendita di Venezia a compenso degli
ingrandimenti francesi sul Reno: la conquista operata da una Potenza
deve controbilanciarsi da conquiste dell'altre. Tutti quei sistemi,
figli del concetto materialista, erano condannati a perire
nell'impotenza, nell'anarchia, nel delitto. Mancava ad essi la
sanzione di Dio.
Oggi, quasi disperando di trovare rimedio ai conflitti, le Nazioni
inchinano, duce l'Inghilterra, alla teorica del non intervento;
teorica che non ha principio sul quale si fondi, ma è negazione di
tutti i principî conquistati fino a noi intellettualmente
dall'Umanità: unità di Dio e della Legge Morale, unità dell'umana
famiglia, unità d'intento assegnato a noi tutti, fratellanza e
associazione dei popoli, dovere di combattere il Male e di promovere
il trionfo del Bene. Ateismo trasportato nella vita internazionale o
deificazione, se vuolsi, dall'egoismo, quella teorica, la cui
suprema formola fu data in Francia da un uomo di stato monarchico
colle parole: chacun chez soi, chacun pour soi, tocca gli estremi
dell'immoralità e dell'assurdo: se accettata da tutti, sottrarrebbe
una delle più potenti leve al Progresso che la Storia ci addita
compìto quasi sempre con atti d'intervento; se praticata, com'è
attualmente, dagli uni e non dagli altri, schiude l'adito a chi vuol
fare trionfare inique pretese e sa di non dover temere che alcuno,
in nome dell'eterna Giustizia, gli contenda la via. La Nazione che
s'assumesse di costituirla norma generalmente regolatrice delle
relazioni internazionali si condannerebbe a guerra perpetuamente
rinascente con quanti ricuserebbero d'accettarla: limitandosi a
proclamarla per sè, abdicherebbe la metà della propria vita,
perderebbe la stima e l'amore dei popoli e non si sottrarrebbe alla
necessità della guerra. Il grido di pace a ogni patto inalzato in
Inghilterra da tutta una scuola influente, alla quale erano capi
Cobden e Bright, confortò la Russia ad osare e determinò in gran
parte la guerra della Crimea.
Il sangue di tutti i martiri, popoli o individui, che intervennero
santamente e santamente morirono a pro del Giusto e del Vero al di
là della loro terra nativa, solleva una eterna protesta contro
questa fredda, abjetta, codarda dottrina, che per noi credenti è
bestemmia contro il Dovere e indizio innegabile dell'assenza e della
necessità d'una fede.
Quanto alla vita internazionale dell'Italia d'oggi, non occorre
spendervi lunghe parole: non esiste. Gli uomini della monarchia non
hanno coscienza di missione Italiana nel mondo, nè concetto o
disegno politico da uno infuori: trascinare di giorno in giorno,
attraverso brevi espedienti e sempre seguendo chi sembra
momentaneamente potente, una incerta e fiacca esistenza. Le rare
frasi, rubate a un dispaccio russo o britannico e proferite con
sussiego di chi ha una dottrina, da chi regge per le faccende
Estere, farebbero sorridere se non facessero arrossire. Guerre e
paci ci furono sempre dettate. L'avvenire d'Italia e la moralità non
ebbero parte nelle nostre alleanze. Invocammo, sorgendo, dicendolo
almeno, per la libertà, l'ajuto d'un regnatore tiranno; sorgendo,
dicendolo almeno, per l'unità della Nazione, l'ajuto di chi la
vietava col possesso iniquamente ottenuto e serbato di Roma e ci
richiedeva d'uno smembramento di terre nostre che gli fu senza
indugio concesso: ci collegammo colla Prussia contro l'Austria: ci
collegavamo pochi anni dopo colla Francia Imperiale contro la
Prussia e l'unificazione Germanica, se le precipiti disfatte
francesi e il nostro accennare, agitando, a fatti - altri ha
recentemente scoperto una potente agitazione della Sinistra - non lo
impedivano: ci collegheremo domani - e i gazzettieri di parte
monarchica, impauriti del trovarsi senza padrone, cominciano a
preparare il terreno - nuovamente coll'Austria. La nostra Diplomazia
ha detto ai Greci, unita coi difensori del Turco: non rivendicate le
vostre terre: ha promesso, richiesta, all'Inghilterra di non mover
piede nella recente guerra senza avvertirla: ha corteggiato
insistente il proscrittore della Polonia. La Storia dovrà indicare i
primi dodici anni dell'Italia risorta, nella sua vita
internazionale, con un segno di negazione.
II.
Noi non abbiamo oggi politica internazionale. Manca a chi regge la
fede in una norma morale e nel dovere della Nazione che il Governo è
chiamato a rappresentare. Questa assenza di fede, questo oblio della
missione Italiana nel mondo, ci condannano a vivere nel presente,
senza intelletto della nostra tradizione, senza concetto
dell'avvenire, prostrati davanti ai fatti e tremanti di essi. Gli
organi governativi scrivono articoli a provare che, caduta la
potenza francese, unica politica per noi è il non averne alcuna.
Così, tra l'Italia sorta a Nazione e il vecchio Ducato di Modena, di
Toscana o di Parma non corre divario: ambi deboli, passivi, senza
scopo, senza nome tra i popoli, senza voto efficace nel congresso
delle Nazioni, senza potenza iniziatrice di civiltà. Ora, un Popolo
che non reca, sorgendo, un nuovo elemento di progresso al lavoro
comune, una pietra all'edifizio lentamente inalzato dall'Umanità,
non ha ragione di vita nè vita: ricadrà inevitabilmente sotto il
dominio diretto o indiretto del primo potente che vorrà
impadronirsene. Come in ogni consorzio, così nel consorzio
internazionale, chi non compie un ufficio, chi non produce, perde il
diritto di vivere.
E nondimeno, se v'è popolo che abbia dalla posizione geografica,
dalle tradizioni, dalle naturali attitudini, dall'aspettazione
vivissima sui primi moti italiani oggi per le ripetute delusioni
sopita, degli altri popoli, un grande ufficio da compiere sulle vie
dell'incivilimento europeo, è certamente il nostro: se v'è momento
in cui un popolo possa, volendo, assumersi un'alta missione e creare
a sè stesso un vasto e fecondo avvenire, è questo in cui, smarrita
nel moto ascendente delle Nazioni ogni iniziativa, tutti invocano
chi raccolga la lampada della vita caduta visibilmente dalle altrui
mani e la sollevi a conforto e scorta delle genti travagliate dal
dubbio e minacciate dalla invadente tenebra dell'egoismo. Quei che
ponevano pochi dì sono la vita per impedir che cadesse, dovrebbero
più che altri pensarci.
L'Italia ha evidentemente dalla Storia, dalle condizioni
dell'Europa, dai caratteri del suo risorgere, una doppia missione:
compiendola, essa si porrebbe a capo d'un'Epoca.
La prima - abolizione del Papato, conquista pel mondo
dell'inviolabilità della coscienza umana e sostituzione del dogma
del Progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia -
è missione religiosa della quale ora non intendiamo parlare e da
maturarsi a ogni modo, prima che i decreti d'un popolo di credenti
non vengano a compirla col pacifico apostolato. Ma la seconda -
sviluppo del principio di Nazionalità come regolatore supremo delle
relazioni internazionali e pegno sicuro di pace nell'avvenire - è
missione politica, connessa intimamente coll'altra, perchè guida a
un nuovo riparto Europeo che fu sempre, in tutte le grandi Epoche
storiche, preludio a una trasformazione religiosa, e da compirsi
coll'influenza morale, appoggiata, occorrendo e sotto il momento
propizio, dall'armi.
Nazionalità è infatti la parola vitale dell'Epoca che sta per
sorgere. Le guerre combattute in Europa dagli ultimi anni del primo
Impero fino a noi originarono quasi tutte da quel principio:
suscitate da popoli rivolti a conquistarsi nazionalità o a
proteggerla dagli assalti altrui o promosse da monarchie tendenti a
impadronirsi di moti nazionali antiveduti inevitabili e sviarli dal
segno. I popoli chiamati da tendenze provvidenziali a conglomerarsi
per vivere di vita normale e compire liberamente e spontanei un
ufficio in Europa sono oggi, i più, smembrati, divisi, servi
d'altrui, aggiogati a chi ha fine diverso, separati per opera di
violenza da rami della stessa famiglia, deboli quindi e inceppati
nei loro moti, nelle loro legittime aspirazioni. L'Europa come escì
dalle conquiste e dai trattati dinastici non è l'Europa quale il
dito di Dio segnava coi grandi fiumi e colle grandi linee di
montagne la divisione del lavoro alle generazioni de' suoi abitanti.
E finchè nol sia, la pace che tutti cerchiamo è sogno di menti
illogiche che imaginano potersi conquistare senza la Giustizia i
suoi frutti. Le Nazioni rappresentano le diverse facoltà umane
chiamate a raggiungere associate, non confuse e sommerse l'una
nell'altra, il fine comune e hanno eterno il diritto di vivere di
vita propria: non si associa chi non vive e non comincia
dall'affermare la propria individualità. I panteisti della politica
che sconoscono quel diritto e paventano nel principio di nazionalità
un germe di gare e guerre continue, dimenticano che le Nazioni non
furono sinora libere mai nè fondate sulla coscienza popolare, ma
soggiacquero, nella loro vita politica, al monopolio delle famiglie
regie e delle avide loro ambizioni: negano il disegno provvidenziale
indicato dalle configurazioni geografiche e rivelato dalla Storia;
sopprimono i mezzi che fanno possibile il raggiungersi dell'intento;
e avvalorano, senza avvedersene, il concetto di monarchia universale
che accarezzò nel passato la mente d'ogni regnatore potente e inondò
l'Europa di sangue sparso senza santità di sagrificio, nè frutto. Le
Nazioni sono unico argine al dispotismo d'un popolo, come la libertà
degli individui al dispotismo di un uomo.
Il rimaneggiamento della carta d'Europa è nei fati dell'Epoca e si
compirà attraverso una serie di battaglie inevitabili. Ma la Nazione
che si farà, con saviezza d'intelletto ed energia di volontà, centro
del moto, accorcierà quella serie fatale e sarà per molti secoli
iniziatrice di progresso all'Umanità.
Là, nel pensiero che agita in oggi prima d'ogni altro le menti
europee, sta la base della vera vita internazionale d'Italia. Da
esso deve inspirarsi nella scelta delle sue alleanze. Il suo luogo è
a capo delle Nazioni che sorgono, non alla coda delle Nazioni che da
lungo sono e accennano a declinare.
L'Italia è un fatto nuovo, un Popolo nuovo, una vita che jeri non
era: non ha legami fuorchè i voluti dalla Legge Morale, sovrana su
tutte le Nazioni, giovani o antiche: non fa parte nei trattati
dinastici anteriori al suo nascere, nè è quindi vincolata da essi,
quando non consuonino colle norme del Giusto e dell'eterno Diritto.
Dovrebbe dirlo altamente e operare liberamente a seconda. La
tradizione è santa e dobbiamo rispettarla; ma, come in religione non
è Tradizione quella d'una sola chiesa o d'un'epoca sola, ma quella
dell'Umanità che le abbraccia, le domina e le spiega tutte, la
tradizione politica non è tutto il passato, è quella parte di
passato soltanto che interpreta la Legge Morale e segna la via che
guida al Progresso: è la tradizione nel Bene, non quella che si svia
nel Male e che, accettata, tenderebbe a perpetuarlo. E un Popolo che
sorge a Nazione ha non solamente il dovere di respingere da sè le
colpe dei padri, ma una splendida opportunità per compirlo. Ogni
nuova vita è pura. Dio non la dà perchè s'insozzi del fango
accumulato dalle vite corrotte anteriori.
L'Italia, se intende ad essere grande, prospera e potente davvero,
deve incarnare in sè questo concetto del riparto d'Europa a seconda
delle tendenze naturali e della missione dei popoli. Essa deve
piantare risolutamente sulle sue frontiere una bandiera che dica ai
popoli: Libertà, Nazionalità, e informare a quel fine ogni atto
della sua vita internazionale.
È la nostra terza missione nel mondo. La Roma dei Cesari involò alla
Repubblica il concetto dell'Unità politica, e quanto e dove era
allora possibile, lo tradusse in fatto coll'armi delle Legioni: la
Roma dei Papi tentò il concetto dell'Unità morale e riescì in parte
colla parola de' suoi sacerdoti e de' suoi credenti; ma l'una e
l'altra non riconobbero - nè lo potevano allora - il moto collettivo
provvidenziale delle Nazioni, non videro nel mondo che la propria
potenza, e gli individui umani che dovevano subirla non ebbero
intermediarî cooperatori tra sè e il fine proposto e non trovarono
quindi stromento a raggiungerlo fuorchè quello dell'autorità
assoluta dispotica sui corpi e sull'anima. La Roma del Popolo, della
Nazione Italiana, credente nel Progresso, nella vita collettiva
dell'Umanità e nella divisione del lavoro tra le Nazioni, deve
affratellarle all'impresa: guidatrice e soccorritrice.
E alla doppia missione che diciamo prefissa all'Italia accennano le
necessità prime del nostro risorgere, che non potè iniziarsi se non
intimando guerra al Papato, custode della vecchia autorità
illimitata, e all'Impero d'Austria, negazione, potente oltre ogni
altra in Europa, della nazionalità; nè potrà compirsi se non
procedendo innanzi e fino alle ultime conseguenze su quella via. Ciò
che per altri può essere semplicemente dovere morale, è legge di
vita per noi.
Le migliori alleanze, anche per popoli già costituiti, viventi di
vita normale e senza missione speciale, son quelle che si stringono
con chi è abbastanza potente e abbastanza vicino per giovare
all'intento, ma non lo è tanto da potere, sotto pretesto di servizî
resi o tentazione d'operazioni miste e comuni, imporre la propria
volontà e varcare per egoismo d'ingrandimento i limiti apertamente
stipulati nei patti dell'alleanza; e di quali danni possa essere
feconda la violazione di questa norma ha fatto recente e
dolorosissima prova l'Italia. Per noi, popolo nuovo e che non può
entrare degnamente e con securità d'avvenire nella comunione delle
Nazioni se non aggiungendo agli elementi esistenti un nuovo e utile
elemento di vita, le alleanze durevoli non possono fondarsi che
sulla conformità della fede politica e dell'intento. I nostri
alleati naturali sono tra i popoli che tendono con diritto ad
assodare la loro unità nazionale o a conquistarsela con probabilità
di successo. Le Nazioni costituite da lungo, e potenti per
tradizione, guarderanno per lungo tempo, con istinti di gelosia e di
sospetto, a una Nazione che sorge e il cui progresso le minaccia di
nuove influenze e di concorrenza economica. Tra i popoli nuovi
soltanto noi troveremmo amicizia sincera fondata sull'importanza
della nostra per essi, riconoscenza degli ajuti negati da altri e
prestati da noi, incremento ai nostri già avviati commerci, nuovi
mercati crescenti col crescere della vita suscitata in quelle terre
risorte, giovamenti d'ogni sorta senza pericoli.
La politica internazionale d'Italia dovrebbe anzi tutto, e per
acquistarsi potenza agli ulteriori sviluppi, tendere a costituirsi
anima e centro d'una Lega degli Stati minori europei stretta a un
patto comune di difesa contro le possibili usurpazioni d'una o
d'altra grande Potenza. La Spagna, il Portogallo, la Scandinavia, il
Belgio, l'Olanda, la Svizzera, la Grecia, i Principati
Romano-danubiani costituirebbero così coll'Italia una forza
materiale di più che 64 milioni d'uomini stretti a un patto
d'indipendenza e di libertà al quale non sarebbe difficile
d'acquistare l'adesione dell'Inghilterra e che potrebbe
efficacemente resistere a ogni tentativo d'usurpazione meditato,
com'è generalmente, da una sola Potenza e guardato con diffidenza
dall'altre.
L'influenza morale dell'Italia s'eserciterebbe intanto, ingrandita
da questa Lega, nella direzione del futuro riordinamento europeo:
Unità Nazionali frammezzate possibilmente di libere confederazioni
protette nella loro indipendenza e barriera alle collisioni. La
costituzione definitiva della Penisola Iberica per mezzo dell'unione
del Portogallo e della Spagna, la trasformazione della
Confederazione Elvetica in confederazione delle Alpi coll'unione ad
essa della Savoja e del Tirolo tedesco, l'Unione Scandinava, la
Confederazione repubblicana dell'Olanda e del Belgio, sarebbero
intento e tèma perenne di predicazione gli agenti italiani.
Ma il vero obiettivo della vita internazionale d'Italia, la via più
diretta alla sua futura grandezza, sta più in alto, là dove s'agita
in oggi il più vitale problema europeo, nella fratellanza col vasto,
potente elemento chiamato a infondere nuovi spiriti nella comunione
delle Nazioni o a perturbarle, se lasciato da una improvvida
diffidenza a sviarsi, di lunghe guerre e di gravi pericoli:
nell'alleanza colla famiglia Slava.
I confini orientali d'Italia erano segnati fin da quando Dante
scriveva
........A Pola presso del Carnaro
Ch'Italia chiude e i suoi termini bagna.
Inf., IX, 113.
L'Istria è nostra. Ma da Fiume, lungo la sponda orientale
dell'Adriatico, fino al fiume Bojano sui confini dell'Albania,
scende una zona sulla quale, tra le reliquie delle nostre colonie,
predomina l'elemento slavo. E questa zona che sulla riva Adriatica
abbraccia, oltrepassando Cattaro, la Dalmazia e la regione
Montenegrina, si stende, sui due lati della catena del Balkan, verso
oriente fino al Mar Nero, risalendo nella direzione settentrionale
attraverso il Danubio e la Drava, all'Ungheria ch'essa invade
aumentando d'anno in anno in proporzione più rapida di quella
dell'elemento magyaro.
Tra questa zona, popolata d'un dodici milioni di slavi, e la zona
superiore e continua, slava anch'essa, che dalla Galizia s'espande
da un lato alla Moravia e alla Boemia, dall'altro alla Polonia per
raggiungere attraverso il Ducato di Posen e la Lituania il Mar
Baltico, s'interpongono, impedimento provvidenziale alla
realizzazione della sognata unità panslavistica, la Moldavia, la
Valacchia, la Transilvania; ma son terre Daco-Romane, legate a noi,
da Trajano in poi, per tradizioni storiche, affinità di lingua e
affetti che non hanno bisogno, ad assumere importanza, fuorchè
d'essere da noi coltivati; e mentre scemano il pericolo minacciato
dallo Tsarismo, possono giovare a noi come anello di congiungimento
tra le due zone nelle nostre relazioni colla famiglia slava. E
questa sua seconda zona, popolata di 18 a 20 milioni di slavi,
sembra disegnata, anch'essa provvidenzialmente, come barriera futura
tra la Russia e la Germania del nord.
Là, nell'alleanza colle popolazioni di queste due zone, stanno, lo
ripetiamo, la nostra missione, la nostra iniziativa in Europa, la
nostra futura potenza politica ed economica.
Dell'agitazione slava, del moto, crescente negli ultimi cinquanta
anni, che affatica le popolazioni delle due zone e le sospinge a
costituirsi Nazioni, dovremo parlare più volte e additare le immense
conseguenze del fatto di una vasta famiglia umana, muta finora e
senza vita propria costituita e ordinata, chiedente oggi, come la
famiglia teutonica sul perire del politeismo, diritto di parola, e
di comunione coll'altre famiglie europee. Ma possiamo intanto
affermare che per quanti hanno studiato con occhio attento e
profondo quel moto, il suo non lontano successo è certezza. Non si
tratta più d'impedirlo o dissimularlo, ma di dirigerlo al meglio e
di trarne, allontanandone i pericoli, le conseguenze più rapidamente
favorevoli al progresso europeo. Il moto delle razze slave che,
salutato e ajutato come fatto provvidenziale, deve ringiovanire di
nuovi impulsi e d'elementi d'attività la vita europea e preparare,
ampliandolo, il campo alla trasformazione religiosa e sociale fatta
oggimai inevitabile, può, se avversato, abbandonato o sviato,
costare all'Europa vent'anni di crisi tremenda e di sangue.
E i pericoli sommano in uno: che il moto ascendente slavo del
mezzogiorno e del nord cerchi il proprio trionfo negli ajuti russi e
conceda allo Tsar la direzione delle proprie forze. Avremmo in quel
caso un gigantesco tentativo per far cosacca l'Europa, una lunga e
feroce battaglia a pro d'ogni autorità dispotica contro ogni libertà
conquistata, una nuova èra di militarismo, il principio di
nazionalità minacciato dal concetto d'una monarchia europea,
Costantinopoli, chiave del Mediterraneo, e gli sbocchi verso le
vaste regioni asiatiche in mano allo Tsar: invece di una
confederazione slava fra i tre gruppi, slavo-meridionale,
boemo-moravo e polacco, amici a noi e alla libertà, l'unità
russo-panslavistica ostile: invece di 40 milioni d'uomini liberi,
ordinati dal Baltico all'Adriatico a barriera contro il dispotismo
russo, cento milioni di schiavi dipendenti da un'unica e tirannica
volontà.
Il pericolo, checchè altri abbia scritto, non esisteva allo
iniziarsi dell'agitazione slava: fu creato dalla falsa immorale
politica adottata dalle monarchie. Il moto slavo sorse, come il
nostro, spontaneo dagli istinti e dal giusto orgoglio dei popoli,
dai germi di futuro cacciati nelle tradizioni storiche e nei canti
popolari, dagli esempî d'altre Nazioni, dal destarsi d'idee che
volevano e non trovavano libero sfogo, dalla coscienza svegliata al
senso d'una missione da compiersi scritta nel disegno divino che
informò l'Europa a fati progressivi comuni. Cagioni siffatte
s'avvivano sempre a un alito di libertà e le libere tendenze
s'afforzavano naturalmente dagli ostacoli al moto risiedenti tutti
nella resistenza e nelle persecuzioni delle monarchie alle quali gli
agitatori slavi si trovavano e si trovano ancora aggiogati. Ed è
tanto vero che il concetto di federazione slava, pel quale nel 1825
caddero martiri in Russia Pestel, Mouravieff, Bestoujeff e altri
ufficiali, assumeva bandiera repubblicana. Ma il rifiuto d'ogni
appoggio, la diffidenza di tutti governi e popoli, l'ostinazione dei
gabinetti inglesi e francesi a non vedere in una santa aspirazione
di popoli se non un maneggio segreto russo e a volerne impedire lo
sviluppo col sorreggere l'Impero Turco e l'Austriaco, ricacciarono
in parte gli Slavi, avversati, negletti, fraintesi e disperati
d'ajuto, verso chi insisteva a susurrare promesse d'eserciti e di
guerre emancipatrici. Non piegammo noi Italiani, bestemmianti pochi
dì prima ai Francesi in Roma e plaudenti ai ricordi d'Orsini, alle
promesse e alle offerte del Bonaparte?
La via che additiamo all'Italia farebbe svanir quel pericolo. Freme
intorno alle radici d'ogni moto nazionale un pensiero di libertà e
quel pensiero, ch'è anima in Polonia e altrove d'una poesia ignota
all'Italia e superiore a ogni poesia posteriore a Byron e Goethe,
avrebbe, cancellando ogni fiacchezza verso la Russia dello Tsar,
potente e immediato sviluppo il giorno in cui un forte popolo
repubblicano stenderebbe agli Slavi una mano fraterna. Chi scrive sa
come gli uomini a capo del moto slavo sorridessero alla speranza di
quel giorno e si affrettassero a dircelo quando, tra il 1860 e il
1861, il moto italiano assumeva sembianza di moto popolare e
Garibaldi, allora fidente nelle forze vive della sua Nazione,
guidava i nostri volontarî a scrivere nelle terre meridionali una
delle più belle pagine della nostra Storia. La speranza cadde negli
animi d'allora in poi. Il machiavellismo servile e l'ignorante paura
dei ministri della monarchia spensero l'entusiasmo di quei popoli
che avevano intraveduto nell'Italia la Nazione iniziatrice e la
videro inferiore a' suoi fati. Ma una parola di fratellanza che
accennasse a fatti virili e inaugurasse una politica nuova fondata
sul principio di nazionalità ridesterebbe in un subito le sopite
speranze e richiamerebbe gli Slavi dall'accettazione forzata d'un
ajuto che non amano e del quale paventano, a più largo e popolare
concetto. La politica sostenitrice dell'Impero Austriaco e del Turco
è, nelle sue conseguenze, politica russa e fomentatrice del
panslavismo.
L'Impero Turco e l'Austriaco sono irrevocabilmente condannati a
perire. La vita internazionale d'Italia deve tendere ad accelerarne
la morte. E l'elsa del ferro che deve ucciderli sta in mano agli
Slavi.
III.
Le prime e più importanti conseguenze del moto slavo saranno il
disfacimento dell'Impero d'Austria e dell'Impero Turco in Europa.
Chi non antivede inevitabili quei due fatti e non sente la necessità
di promoverne lo sviluppo, tanto che giovi al progresso generale
della civiltà e all'avvenire d'Italia, non usurpi alla sua il nome
di politica internazionale: viva, come i ministri della monarchia,
d'espedienti, ottenga un giorno un apparente vantaggio scontandolo
il dì dopo col disonore e la soggezione del paese, passi senza norma
e pegno securo d'alleanza in alleanza per trovarle perdute tutte
quando più importerà di non essere soli, tremi davanti alla Francia,
davanti alle vittorie prussiane, davanti alle stolide minacce papali
e condanni - finchè il paese lo tollera - una Nazione di ventisei
milioni d'uomini e che fu due volte iniziatrice nel mondo a nullità
assoluta in Europa. Sgoverni e taccia. Senza norma morale, senza
intelletto del futuro, senza coscienza d'un fine determinato e un
metodo costantemente e arditamente seguìto a raggiungerlo, non
esiste vita internazionale possibile.
Rotta appena a occidente dalla stretta zona che si stende da Vienna
a Innsprück, a oriente dalla Moldavia non germanica, e avversa essa
pure per le sue genti smembrate all'Austria, la circonferenza
dell'Impero Habsburghese è slava e da quella larga zona di
circonferenza partono raggi che solcano in ogni direzione l'interno.
Cifra di popolazione straniera alla razza che governa cedendo, e
progresso regolarmente crescente delle agitazioni nazionali
condannano l'Impero a dissolversi. Cominciato da noi, seguìto
timidamente finora dall'Ungheria, il moto disintegrante non può
oggimai più arrestarsi.
A mezzogiorno, le popolazioni slave predominano sulla Turchia.
L'Impero Turco è condannato a dissolversi, prima forse
dell'Austriaco; ma la caduta dell'uno segnerà prossima quella
dell'altro. Le popolazioni che insorgeranno in Turchia per farsi
Nazioni sono quasi tutte ripartite fra i due Imperi e non possono
agglomerarsi senza emanciparsi dall'uno e dall'altro. L'Impero
Austriaco è un'Amministrazione, non uno Stato; ma l'Impero Turco in
Europa è un accampamento straniero isolato in terre non sue, senza
comunione di fede, di tradizioni, di tendenze, d'attività, senza
agricoltura propria, senza capacità d'amministrazione, invasa un
tempo dai Greci, oggi dagli Armeni disseminati sul Bosforo, ostili
al Governo che servono: immobilizzata dal fatalismo maomettano, la
razza conquistatrice, ricinta, affogata da popolazioni cristiane,
avvivate dall'alito della libertà occidentale, non ha dato da oltre
a un secolo un'idea, un canto, una scoperta industriale e conta meno
di due milioni d'uomini circondati da tredici o quattordici di razze
europee, slave, elleniche, daco-romane, assetate di vita, anelanti
insurrezione. E a questa insurrezione non manca per aver luogo a
convertirsi rapidamente in vittoria se non l'accordo fra quei tre
elementi gelosi anch'oggi per vecchî ricordi di guerre e oppressioni
reciproche, l'uno dell'altro.
Proporre e far prevalere le basi di questo accordo è missione
italiana.
Sorti in nome del Diritto Nazionale, noi crediamo nel vostro, e vi
profferiamo ajuto per conquistarlo. Ma la nostra missione ha per
fine l'assetto pacifico e permanente d'Europa. Noi non possiamo
ammettere che lo Tsarismo russo sottentri, minaccia perenne alla
Libertà, ai vostri padroni; e ogni vostro moto isolato, limitato a
uno solo dei vostri elementi inefficace a vincere, incapace s'anche
vincesse di costituire una forte barriera contro l'avidità dello
Tsar, giova alle sue mire d'ingrandimento. Unitevi: dimenticate gli
antichi rancori: stringetevi in una Confederazione e sia
Costantinopoli la vostra Città Anfizionica, la città dei vostri
Poteri Centrali, aperta a tutti, serva a nessuno. Ci avrete con voi.
È questo il linguaggio che dovrebbe tenere a quelle popolazioni
l'Italia. L'Italia repubblicana lo terrebbe. L'Italia monarchica non
lo terrà mai.
E mentre consigli e profferte siffatte spianerebbero la via a una
soluzione della tormentosa questione d'Oriente favorevole al
principio di nazionalità e avversa un tempo all'ambizione russa,
profferte simili inoltrate alle popolazioni della Dalmazia, del
Montenegro, della Croazia e delle terre daco-romane, preparerebbero
il disfacimento dell'Impero d'Austria e compirebbero il concetto
della nostra politica. Suonata dai popoli sommossi l'ora suprema, la
costa occidentale dell'Adriatico diventerebbe la nostra base
d'operazione per ajuti efficaci ai nuovi alleati. Le nostre navi da
guerra riscatterebbero l'onore violato della bandiera conquistando
agli slavi del Montenegro lo sbocco del quale abbisognano, le Bocche
di Cattaro, e agli slavi della Dalmazia le città principali della
costa Orientale. Lissa, chiamata giustamente da altri la Malta
dell'Adriatico e campo d'una nostra immeritata disfatta che importa
per l'onore del navilio di cancellare, rimarrebbe stazione italiana.
Il moto slavo-meridionale si diffonderà naturalmente, quando avrà
luogo, lungo i Carpati, attraverso la Galizia e il gruppo
Boemo-Moravo, alla Polonia, santa, martirizzata, immortale Nazione
colla quale noi abbiamo già, dal periodo delle Legioni di Dombrowski
in poi, vincoli di speciale affetto fraterno e patti di futura
alleanza.
Ajutatrice del sorgere degli slavi illirici e di quelli che
costituiscono gran parte della Turchia europea, l'Italia
acquisterebbe, prima fra tutte le Nazioni, diritto d'affetto,
d'inspirazione, di stipulazioni economiche coll'intera famiglia
slava.
I vantaggi, all'Europa e all'Italia, del concetto politico al quale
rapidamente accenniamo e del quale la nostra Nazione potrebbe,
volendo, farsi iniziatrice, sono innegabili e di una importanza
vitale.
Al nord la Federazione slava, frapposta fra la Russia e la Germania
e alla quale, svelta dall'Impero d'Austria, potrebbe aggiungersi
l'Ungheria, sarebbe a un tempo tutela alla Germania contro il
predominio russo, tutela alla Francia e all'Italia contro il
minacciato predominio teutonico: alleata agli Slavi non amici della
Germania, l'Italia minaccierebbe, occorrendo, con essi l'invasore
alle spalle.
A mezzogiorno e a oriente, data per sempre Costantinopoli alla
Libertà occidentale e inalzata contro lo Tsarismo una barriera di
giovani popoli federati a difendere la propria indipendenza, la
Russia sarebbe consegnata ai suoi limiti naturali, la civiltà e la
produzione europea conquisterebbero un immenso e singolarmente
fecondo terreno, due delle tre grandi vie al mondo asiatico
sarebbero schiuse e normalmente assicurate al commercio d'Europa e
segnatamente, mercè la nostra iniziativa slavo-ellenica-daco-romana,
a quello d'Italia.
Abbiamo nominato il mondo asiatico. Ed è infatti verso quello, se
guardiamo nel futuro e oltre ai nostri confini, che convergono oggi
le grandi linee del moto europeo. Popolata un tempo dalle
emigrazioni asiatiche che ci recarono i primi germi di civiltà e le
prime tendenze nazionali, l'Europa tende oggi provvidenzialmente a
riportare all'Asia la civiltà sviluppata da quei germi sulle proprie
terre privilegiate. Figli delle razze vèdiche, noi, dopo un lungo e
faticoso pellegrinaggio, ci sentiamo quasi da mano ignota sospinti a
cercar nei luoghi che ci furono cuna un vasto campo alla nostra
missione morale trasformatrice dell'idea religiosa, un vasto terreno
alla nostra attività industriale e agricola trasformatrice del mondo
esterno. L'Europa preme sull'Asia e la invade nelle sue varie
regioni colla conquista inglese nell'India, col lento inoltrarsi
della Russia al nord, colle concessioni periodicamente strappate
alla China, colle mosse americane attraverso le Montagne Rocciose,
colle colonizzazioni, col contrabbando. Prima un tempo e più potente
colonizzatrice nel mondo, vorrà l'Italia rimanere ultima in questo
splendido moto?
Schiudere all'Italia, compiendo a un tempo la missione
d'incivilimento additata dai tempi, tutte le vie che conducono al
mondo asiatico: è questo il problema che la nostra politica
internazionale deve proporsi colla tenacità, della quale, da Pietro
il Grande a noi, fa prova la Russia per conquistarsi Costantinopoli.
I mezzi stanno nell'alleanza cogli Slavi meridionali e coll'elemento
ellenico fin dove si stende, nell'influenza italiana da aumentarsi
sistematicamente in Suez e in Alessandria e in una invasione
colonizzatrice da compirsi, quando che sia e data l'opportunità,
nelle terre di Tunisi. Nel moto inevitabile che chiama l'Europa a
incivilire le regioni africane, come Marocco spetta alla Penisola
Iberica e l'Algeria alla Francia, Tunisi, chiave del Mediterraneo
centrale, connessa al sistema sardo-siculo e lontana un venticinque
leghe dalla Sicilia, spetta visibilmente all'Italia. Tunisi, Tripoli
e la Cirenaica formano parte, importantissima per la contiguità
coll'Egitto e per esso e la Siria coll'Asia, di quella zona africana
che appartiene veramente fino all'Atlante al sistema europeo. E
sulle cime dell'Atlante sventolò la bandiera di Roma quando,
rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo
padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi
l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo.
Sono i disegni, ai quali accenniamo e che andremo via via svolgendo,
utopie? Gli uomini della monarchia lo diranno e schernendo: sono
uomini pratici. Ma la storia più pratica d'essi ha registrato e dirà
che, scherniti dagli uomini pratici, noi predicavamo trentanove anni
addietro l'Unità d'Italia ed è, materialmente almeno, quasi compita;
che, scherniti, annunziavamo fin da quel tempo l'Unità Germanica, e
si sta compiendo; scherniti, affermavamo perduta in Francia ogni
potenza d'iniziativa e i fatti d'oggi provano che soli avevamo
veduto il vero. I pratici dicevano nel 1848 impossibili le Cinque
Giornate, ed ebbero luogo: ci predicevano nel 1849 che non avremmo
potuto difendere Roma contro i Francesi due giorni, e la difendemmo
due mesi: dicevano ai Veneti che si affrettassero a calare la
bandiera repubblicana perchè senza l'ajuto dinastico sarebbero stati
incapaci di resistere all'Austria tre settimane, e Venezia si dava
alla monarchia, non riceveva ajuto alcuno da essa e nondimeno durava
diciotto mesi. I pratici non seppero finora che movere quando
s'avvidero che inoltravano davvero, sull'orme nostre, usurpare
guastandoli i nostri disegni, porsi indosso a tempo e insozzandolo
di codardie, imprevedute da tutti fuorchè da noi, il manto tessuto
dalle nostre mani. I pratici cedevano tremanti Nizza e Savoja a un
uomo del quale i poveri utopisti repubblicani del Messico
iniziavano, resistendo trionfalmente, la rovina. I pratici si
vincolarono a rispettare il territorio del Papa, diedero in pegno la
scelta di Firenze a metropoli e s'arretrerebbero anch'oggi davanti a
Roma, se gli utopisti non minavano il trono a Luigi Napoleone e la
parola repubblica non si proferiva dagli utopisti in Parigi.
Meschina parodia dei dottrinarî francesi, i pratici moderati non
hanno dato un'idea, un precetto morale, un giorno di vera vita
all'Italia. Tra le angustie di un disavanzo che promettono cancellar
d'anno in anno e che ricompare d'anno in anno ostinato, tra gli
espedienti di nuove tasse aggiunte alle antiche non pagate o
incompiutamente pagate, tra disegni d'alleanze contraddittorie colla
Francia un giorno, colla Prussia un altro, coll'Austria un terzo, i
vinti di Lissa e Custoza trascinano un'esistenza che poggia sul
trionfo rimpicciolito d'alcune idee nostre, d'alcune formule
usurpate a noi, guaste da essi come le vivande imbandite da altri
erano guaste dalle Arpìe irruenti; ma pur potenti abbastanza per
sedurre gl'Italiani a rispetto. Governano alla giornata ajutandosi
delle forze passive che trovano, senza virtù per creare un solo
nuovo elemento o per infondere uno spirito di progresso negli
esistenti. Irridono alle idee perchè hanno l'amaurosi dell'anima e
non possono intendere ciò che non vedono.
Le grandi idee, noi lo abbiamo detto più volte, fanno i grandi
popoli. E le idee non sono grandi pei popoli se non in quanto
travalicano i loro confini. Un popolo non è grande se non a patto di
compire una grande e santa missione nel mondo, come appunto
l'importanza e il valore d'un individuo si misurano da ciò ch'ei
compie a pro della società nella quale ei vive. L'ordinamento
interno rappresenta la somma dei mezzi e delle forze raccolte pel
compimento dell'opera assegnata al di fuori. Come la circolazione e
lo scambio danno valore alla produzione e l'avvivano, la vita
internazionale dà valore e moto alla vita interna d'un popolo. La
vita nazionale è lo stromento; la vita internazionale è il fine. La
prima è opera d'uomini; la seconda è prescritta e additata da Dio.
La prosperità, la gloria, l'avvenire di una Nazione sono in ragione
del suo accostarsi al fine assegnato.
LE CLASSI ARTIGIANE((318))
I.
Se noi fossimo, come taluni affettano di credere, partigiani irosi e
guidati esclusivamente dal desiderio di vincer comunque, avremmo
salutato il linguaggio della stampa monarchica intorno ai fatti di
Francia come potente indizio di fiacchezza sentita nella parte
avversa. Da quel linguaggio, come dalla proposta di leggi
eccezionali per la pubblica sicurezza - come dagli annunzî esagerati
di nuove mene repubblicane perchè qualche ufficiale legge la Roma
del Popolo - come dalle spese di guerra, profuse non pel di fuori da
dove nessuno minaccia, ma per antivigenze interne - trapela il
terrore dell'avvenire, la coscienza dell'impossibilità di
riconquistare il terreno perduto. Servi di Francia e presti a
trascinar la Nazione in una rovinosa immorale alleanza quando
speravano nelle vittorie del Bonaparte, ligi alla Prussia poi che
videro disfatto l'Impero e s'illudevano a credere che l'armi di re
Guglielmo avrebbero rifatto in Francia una monarchia, gli uomini
avversi al principio che sosteniamo s'irritano oggi sino al furore
contro gl'insorti a pro del Comune parigino: chiamano orda,
bordaglia pazza di furore e di lucro duecentomila elettori che
votano placidamente la scelta de' membri del municipio:
inorridiscono, essi che tacquero e tacciono sulle proscrizioni del
Due dicembre, sulle fucilazioni messicane, sopra ogni sangue versato
da mano regia, alle uccisioni - son due e conseguenza d'eccitamento
parziale riprovato da quei che reggono - commesse in Parigi; e
diresti tornati i giorni terribili del 1793. Come i tori, i
gazzettieri della monarchia insaniscono all'apparire di un cencio
rosso.
Ma il rimproverare, tra due espressioni di orrore pel sangue di due
individui, l'Assemblea di Versailles d'esitazione codarda perchè non
s'affretta ad affogare a Parigi nella guerra civile - il far arme
d'un conflitto suscitato da cagioni speciali in un luogo e d'alcuni
fatti isolati per eccitare a reazione di spavento quei che governano
altrove - il desumere, dalla parte qualunque che una Associazione
può avere in quel conflitto e in quei fatti, argomento a levare un
grido di crociata contro tutta una classe straniera in Italia a
quell'Associazione - il segnare una linea ostile di separazione tra
le aspirazioni degli operaî e i diritti degli agiati((319)) - è tal
cosa che dovrebbe rattristare profondamente tutte le anime oneste e
vogliose del bene in Italia. Che! Sono i protettori dell'ordine
giunti a tale, da sostenerlo calunniando deliberatamente tutta una
classe di cittadini e seminando i germi d'una guerra civile? E che
sarebbe, se noi fossimo capaci di raccogliere il guanto?
Noi non possiamo essere sospetti di cieco favore pei fatti che vanno
svolgendosi fatalmente in Parigi. Non aspettiamo il pensiero
iniziatore della nuova Epoca dalla Francia: il materialismo, sceso
come sempre dalla sfera filosofica generalmente nelle anime, è -
finchè dura - ostacolo insuperabile a quel pensiero. Abbiamo
giudicato con dolore, ma severamente, le cagioni della guerra e
dell'inferiorità rivelata in essa dalla Francia. E l'idea che
predomina sul moto attuale è idea che, dove fosse universalmente
accettata, condurrebbe rapidamente a esagerazioni di spirito
federalista fatale ad ogni unità morale, a ogni missione collettiva,
a ogni cosa che fa grande e giovevole all'Umanità una Nazione. Ma il
linguaggio di quei gazzettieri sui fatti dell'oggi è nondimeno mera
calunnia. Quel moto non ha rivelato finora programmi o intenzioni
che provochino le parole avventate contr'esso: non sorgeva se
l'Assemblea non manifestava - e senza coraggio di tradurle in fatti
- tendenze positivamente monarchiche: cesserebbe anch'oggi se la
scelta d'altri uomini agli ufficî, una esplicita dichiarazione
repubblicana e pochi atti, che fossero pegno di sincerità nel volere
e d'energia nell'osare, accertassero gli insorti che la Repubblica
non sarà tradita nelle mani del monarca caduto o d'un nuovo.
L'insurrezione parigina è protesta repubblicana - ed è questo,
benchè nol dicano, il segreto dell'ire dei gazzettieri monarchici -
contro le opere d'un'Assemblea colpevole d'aver sancito col voto lo
smembramento territoriale della Francia, colpevole di tendere a
rapirle l'unico compenso possibile in tanta sciagura, un Governo di
popolo che assicuri almeno internamente la Libertà. Ponendo i fati
di Francia nelle mani d'un uomo che rappresenta per l'indole delle
teorie le idee essenziali del Bonapartismo o per vincoli individuali
le pretese degli Orléans, affidando gli avanzi dell'esercito alla
condotta dei generali di Luigi Napoleone, evitando studiosamente la
parola repubblica e ricusando di raccogliersi in Parigi perchè città
dichiaratamente repubblicana, l'Assemblea decretò inevitabile la
protesta. Forse, se invece di pellegrinare in Francia e altrove o
rimanere in un'Assemblea della quale diffidano, gli uomini influenti
per potenza d'intelletto e fede repubblicana provata si fossero
frammisti quasi inspiratori agli ignoti del Comitato Centrale,
quella protesta non si sviava e s'evitava la guerra civile, triste
sempre, tristissima di fronte all'invasore straniero.
Questo per la Francia e per amor di giustizia. Ma per l'Italia? Per
l'Italia dove il moto ascendente della classe operaja si svolge
mirabilmente, inalterabilmente temperato e pacifico? Dove gli uomini
del Lavoro non hanno sparso altro sangue che il proprio a pro
dell'Indipendenza e della Unità della Patria? Dove i sistemi
socialisti settarî di Francia e d'altrove non hanno trovato seguaci
visibili? Dove l'Apostolato delle Associazioni move, in tutti i suoi
atti, dalla santa idea del Dovere e tace, forse soverchiamente, ma
per amore all'Unità incompiuta finora dell'Italia, del diritto che
sorge dal dovere compiuto? Dove le agitazioni, se agitazioni furono
tra gli operaî, ebbero sempre a motore il senso dell'onore italiano
violato, della grandezza della Patria tradita, non mai il
miglioramento delle loro condizioni economiche? A che il grido
selvaggio d'allarme? A che l'insulto non provocato? A che l'annunzio
d'un grave imminente pericolo gettato fra le classi agiate
perch'esse s'ordinino a resistere e prevenire?((320)) È
tristizia? È follia? o più verosimilmente calcolo nefando d'uomini
che, avversi tanto più ferocemente alla Repubblica quanto più
furono, pressochè tutti, repubblicani un tempo e li irrita il
rimorso d'aver ceduto a seduzioni volgari di potere o di lucro,
afferrano per combatterci e impaurire i creduli ogni arme sleale?
Questa nostra classe operaja delle città, che gli stranieri ammirano
superiore, se non per istruzione, per moralità di principî e
sobrietà di condotta, a quante altre popolazioni artigiane ha
l'Europa, può sprezzare, gazzettieri di parte monarchica, le vostre
calunnie: i suoi titoli stanno sui registri dei morti nelle patrie
battaglie dalle Cinque Giornate in poi: come i suoi padri che fecero
grande l'Italia, essa è repubblicana perchè tutti i forti nobili
ricordi della sua terra le parlano di repubblica e tutte le memorie
di servitù, disonore e persecuzione le parlano del reggimento che
sottentrò; ma non perch'essa veda nel mutamento esclusivamente un
gradino al proprio miglioramento materiale o perchè, ròsa da
ingiuste e turpi passioni d'invidia o vendetta, macchini guerra ad
altre classi prima d'esse emancipate e pur troppo sovente immemori
del dovere e del fine comune: non falsò il problema che involve
l'avvenire d'Italia: non traviò dietro a sistemi che mirano a
traslocare colla violenza il benessere da una ad un'altra zona
sociale: non sostituì gli appetiti materiali all'adorazione dello
spirito, dell'umana dignità e del progresso per tutti: non scisse,
come in altri paesi, il campo dei credenti nella nostra fede,
separando la vita economica dalla vita politica, dalle sante
aspirazioni a una missione nazionale da compiersi colle forze di
tutti. E voi che avete rinnegato quella missione pel fatto potente
dell'oggi, sagrificando le convinzioni dell'intelletto a un officio,
a un titolo, a una pensione, voi che nel poco contatto avuto per
calcolo politico colle Associazioni operaje tentaste di persuaderle
in Torino, in Milano, in Napoli ad abbandonare ogni pensiero, ogni
dovere di cittadini per non occuparsi che delle proprie condizioni
materiali, spingendole così al vizio ch'oggi atteggiandovi a
puritani rimproverate, voi che, irritati dal generoso rifiuto delle
più tra le Associazioni, le denunziate all'Europa come fomite di
perdizione e chiamate gli agiati a premunirsi contro il pericolo,
siete a un tempo calunniatori e - se noi fossimo capaci più d'ira
che di disprezzo - imprudenti.
Lasciamo i tristi gazzettieri all'oblìo. Ma tra gli uomini che
s'intitolano, non intendiamo il perchè, moderati, come se tra il
bene e il male del paese la parola moderazione potesse aver senso,
al di sotto delle poche centinaja di faccendieri raggiratori che
invadono le altre sfere, sono migliaja d'Italiani che amano come noi
la patria, illusi di buona fede sulle vie che guidano al suo
incremento e non d'altro colpevoli che di lasciarsi ciecamente
ingannare, tra per soverchia arrendevolezza d'animo, tra per
ignoranza di noi e delle nostre idee, da quei pochi raggiratori.
Molti fra i nostri confondono queste due classi d'uomini e hanno
torto. I primi illudono, e con essi s'ha da fare assoluto divorzio:
i secondi non sono che illusi, e ci corre debito fraterno
d'insistere a illuminarli e richiamarli al severo esame dei fatti. E
a questi diciamo:
Voi non avete in Italia minaccia di pericoli sociali, di guerre tra
classe e classe, di sconvolgimenti inspirati da ree passioni o da
cupidigie volgari. Gli artigiani delle nostre città, miseri e
angustiati come pur troppo sovente sono, non trascorrono a pensieri
di violenza o mutamenti ingiusti e arbitrarî per sottrarre la loro
vecchiaja alle crisi inevitabili d'una condizione che concede
raramente la possibilità di risparmî: costituiscono, per senno
istintivo, pazienza e amore intenso, disinteressato, di patria, una
delle migliori speranze del nostro avvenire; e spira in essi un
alito di quella virtù cittadina che animava le generazioni di
popolani per le cui opere le antiche nostre Repubbliche diedero
spettacolo unico al mondo di prosperità e di grandezza. Scendete tra
essi: affratellatevi: interrogateli. Vissi, io che scrivo, con essi,
e li vidi - quando proscritto e dannato nel capo dai governucci
d'Italia, cercavo, volendo pure di tempo in tempo rivedere la terra
che mi diè vita, asilo nelle loro case - a piangere sulle pagine di
storia che registrano le nostre sciagure, a inorgoglirsi d'orgoglio
generoso su quelle che ricordano le nostre glorie passate. Quando il
primo incerto e debole soffio di libertà corse le nostre contrade ed
essi se ne giovarono a raccogliersi in associazioni, la loro vita
collettiva non varcò mai, ordinati i modi d'ajuto reciproco, al di
là d'una giusta speranza di lento e pacifico progresso economico e
d'un vivissimo desiderio d'una educazione che li rendesse capaci di
giovare più efficacemente all'inalzarsi dell'edifizio italiano,
all'onore, alla potenza, alla legittima influenza della bandiera
italiana nel mondo: Nizza, Lissa, Custoza irritano le anime loro più
assai che lo squilibrio frequente fra i salarî e le necessità della
vita per sè e le famiglie; la servile politica seguìta dai nostri
ministri e le transazioni col Papa che profanano Roma suscitano più
fremito in essi che non l'ingiusto riparto dei frutti d'una
produzione senza essi impossibile. E oggi, quando il numero
cresciuto e l'ordinamento diffuso potrebbero, colla coscienza d'una
forza importante, destarli a disegni più rapidi, a meno tolleranti
esigenze, io non odo, nel mio contatto con essi, una voce che
accenni ai concetti, cagione in altre terre di terrore alla classe
abbiente, ma soltanto voci d'affetto all'Italia, di dolore per
quanto la offende e profferte di sacrificî e d'opere attive a pro
d'essa: fidano pel resto nella Patria rinata e nei beneficî
inseparabili della Libertà. No: com'è vero che crediamo in Dio e
nell'anima nostra immortale, voi non dovete, lo ripetiamo, paventare
per quanto concerne le eterne basi dell'ordine sociale dalle classi
artigiane d'Italia o da noi che da un terzo di secolo combattiamo, a
viso aperto e senza riguardo al possibile allontanarsi da noi
d'uomini traviati di parte nostra, le intemperanze e gli errori dei
sistemi socialisti, come a viso aperto e senza riguardo allo stesso
pericolo combattiamo il materialismo.
Rassicuratevi dunque; ma badate: le condizioni d'armonia, di
concordia civile, delle quali andiamo alteri e che darebbero al
nostro risorgere un carattere perduto in Francia e minacciato in
Inghilterra, non dureranno se non ad un patto: che siate
antiveggenti, giusti, devoti al progresso comune, come le classi
operaje sono pazienti, tolleranti, devote alla Patria più che ai
loro vantaggi materiali. Ogni diffidenza non meritata irrita chi ne
è fatto segno: ogni accusa come quelle che, vergognando per chi le
scrisse, abbiamo citate, infonde inconscia una amarezza nelle anime
che può produrre gravi effetti più tardi: ogni perenne oblìo dei
diritti creati da sacrificî compiti a una classe di fratelli, può
suscitare in essa il pensiero di conquistarli colla forza, cieca
sempre e travalicante oltre il segno. Pensateci. Al noncurante
egoismo degli agiati di Francia, all'imprudenza d'un sistema col
quale i vincitori d'un giorno negarono al popolo che aveva
combattuto per essi il programma politico ed economico conquistato,
è dovuta gran parte dei traviamenti e delle esagerazioni che
lamentate e lamentiamo con voi: abbandonata e delusa, la classe
artigiana seguì per diverse vie quanti agitatori, repubblicani o
dittatoriali, furono ad essa più larghi di speranze e promesse. Gli
operaî italiani hanno da ormai cinquant'anni dato l'obolo e il
sangue a quanti nobili tentativi vi guidarono al possesso di quanti
diritti di elettorato, di stampa d'ufficî or voi possedete: non lo
rammentano adesso perchè vedono tuttora mutilata l'Unità della
Patria e minacciata l'Indipendenza: ma lo rammenteranno il giorno in
cui l'una e l'altra saranno fatte secure; e il come, con quale
tendenze o fremere di passioni, dipenderà, ricordatevene, dalla
vostra condotta dell'oggi. È il manifesto decadimento di tutte le
instituzioni esistenti; il difetto di virtù iniziatrice in tutti i
Governi; l'incapacità loro di andare oltre una stolta, infeconda
dottrina di resistenza; il dualismo esistente più o meno per ogni
dove tra governanti e governati; l'assenza di ogni credenza, d'ogni
patto comune, norma agli atti della vita internazionale; le
aspirazioni, i tumulti frequenti in ogni angolo dell'Europa; il
sorgere di popoli a formare Nazioni nuove e il lento progressivo
smembrarsi di vecchî Stati; le guerre, le insurrezioni, le paci
brevi ed incerte; il bene e il male che si svolgono alterni davanti
a noi: tutto v'avverte che il problema è generalmente, non di lente
e graduali riforme, ma di Rivoluzione fondamentale; che, come
andiamo e andremo ripetendo ogni giorno, un'epoca di civiltà sta
morendo, una nuova deve ordinarsi sul suo sepolcro. Pretender di
chiudere il varco all'Avvenire è follìa: follìa il non curarlo e
nascondere, come lo struzzo, il capo dentro la sabbia per non vedere
il nemico che si avvicina. Tutti i problemi secondarî della vita
stanno racchiusi in quell'Avvenire e ne dipendono. E quasi tutte le
convulsioni d'anarchia, di risse civili, di rovina economica, che
afflissero negli ultimi cento anni i popoli d'Europa, derivarono, a
chi ben guarda, dalla improvvida noncuranza, dalla resistenza
tentata, dalla ostinazione delle classi già fornite d'educazione
intellettuale e ricchezza a non voler assumersi l'iniziativa degli
inevitabili mutamenti e averla invece lasciata ai casi fortuiti o
agli istinti, buoni quasi sempre, ma facili a traviarsi, delle
moltitudini.
E uno dei principali caratteri di quest'Epoca nuova che albeggia, di
questo moto europeo, è visibilmente la tendenza all'associazione,
all'associazione proposta al libero assenso dell'individuo, siccome
fine d'ogni suo sforzo e missione della sua vita; e il principale
nuovo elemento, chiamato a tradurre in atto la nuova tendenza, è
l'elemento delle Classi operaje. Ogni epoca reca infatti con sè una
definizione della Vita; ed è in oggi la definizione, che sostituisce
la legge del Progresso a quella della caduta e dell'espiazione: -
un'idea del fine da cercarsi, ed è l'idea dell'Associazione che
sottentra all'attività individuale: - un nuovo elemento, stromento
aggiunto, per raggiungerlo, agli altri; ed è, al di fuori dei popoli
già costituiti, l'elemento slavo; in seno a ogni popolo, l'elemento
operajo.
Il moto ascendente delle classi artigiane nelle città ha data
oggimai da un secolo; lento ma tenace nel suo progresso e procedente
di decennio in decennio colla legge del moto accelerato, e crescente
negli ultimi vent'anni, visibilmente per tutti, in intensità ed
estensione e acquistando via via ordinamento, potenza reale e
coscienza d'essa. Traviato sovente altrove e guasto, in parte mercè
l'altrui resistenza, da germi d'anarchia, è in Italia moto maestoso
di fiume che aumenta la propria piena senza minacciar di sommergere
le terre attraverso le quali scorre fecondatore. E dovrebbe far
balzare l'anima di gioja a quanti Italiani sanno amare e vedono,
nell'inalzarsi di tutti gli elementi che la compongono,
l'inalzamento della Nazione e un pegno della futura Unità. Non siamo
noi, tutti quanti nascemmo e nasciamo su questa diletta terra
Italiana, fratelli e stretti ad un patto e necessarî tutti al
compimento dei fati della Nazione? Non è l'Unità morale onnipotente
mallevadrice dell'Unità materiale? E può l'unità morale fondarsi e
viver perenne sopra basi che non siano d'eguaglianza e
d'associazione?
II.
Noi intendiamo il dubbio e l'esitanza dei più davanti alla prima
proposta d'un mutamento, d'un grado di progresso da salirsi, quando
s'affaccia subita, proferita da poche voci, assoluta e minacciosa
alle basi dell'esistente assetto sociale e isolata da ogni
tradizione.
Ma quand'essa si presenta parte di tutto un moto d'emancipazione
collegato colla vita provvidenziale dell'Umanità e anello
logicamente aggiunto alla catena della Tradizione universale -
quand'essa persiste crescente per lunghi anni, attraverso ogni sorta
di prove, e conquista gradatamente a sè un maggior numero
d'intelletti - quando il suo fine è sulla via del fine generale
assegnato all'Umanità e le sue conseguenze non accennano a rovina di
giusti interessi attuali e di diritti legittimamente acquistati,
pecca contro Dio e contro gli uomini, tenta l'impossibile e provoca
riazioni tremende chi ad essa resiste.
Debito d'ogni uomo che ama davvero il paese e intende la Legge
morale è ajutarla e dirigerla per le vie più pacifiche alla
vittoria.
L'emancipazione degli schiavi era una rivoluzione di libertà
inevitabile tra il conchiudersi del Politeismo e il trionfo del
Cristianesimo. L'emancipazione dei servi era una rivoluzione
d'eguaglianza inevitabile nell'epoca iniziata dai nostri Comuni.
L'emancipazione degli operaî è una rivoluzione che si compirà in
nome del principio di associazione, nell'epoca nostra. Essa darà,
compiendosi, un nuovo elemento di vita al progresso morale delle
affiacchite generazioni, un nuovo pegno di forza al nostro sviluppo
politico, un nuovo impulso alla produzione.
Gli operai hanno diritto meritato di sviluppo alle loro facoltà
morali, e devono averlo dall'amore e dal plauso di tutti i loro
fratelli - diritto di sviluppo alle loro facoltà intellettuali, e
devono averlo dall'Educazione Nazionale obbligatoria per tutti e
dall'insegnamento di professione agevolato, accessibile a tutti - e
dacchè quel doppio sviluppo non può compirsi quando le necessità
della vita fisica esigono un lavoro di tutte le ore, diritto di
miglioramento nelle loro condizioni economiche; e devono averlo in
parte dall'opera loro, in parte dalla Nazione. Ma questa parte della
Nazione non costerebbe gravi sacrificî ad alcuno e accrescerebbe a
benefizio di tutti le sorgenti della produzione. Un sistema di
tributi che lascierebbe inviolato il necessario alla vita: un
sistema di Banchi che fonderebbero il credito locale e speciale
tanto da concedere alla moralità e alla capacità accertate delle
Associazioni operaje quelle anticipazioni ch'oggi non si concedono
se non a firme note di negozianti; un sistema di colonizzazione
applicato ai quattro milioni, o poco meno, d'ettari di terreno
tuttora incolto in Italia; pochi ajuti e agevolmente dati al metodo
d'associazione destinato a riunire nelle stesse mani il capitale e
il lavoro; alcune instituzioni tendenti a costituire giusti giudizî
arbitrali tra gli operaî e gli attuali detentori di capitali,
basterebbero ad accertare pacifico trionfo al moto emancipatore,
senza perturbazione alcuna nelle condizioni economiche ch'oggi sono.
Inseparabili da questi provvedimenti e dal moto emancipatore delle
classi industriali sono, noi lo sappiamo, altri mutamenti nelle
condizioni civili ed economiche necessari ad assicurarne la durata e
gli effetti reali - una semplificazione delle forme giudiziarie,
gravi egualmente in oggi a chi ha molto e può superarne i danni, e a
chi ha poco e nol può - l'abolizione d'ogni privilegio dato ad
alcune categorie di creditori sui beni mobili ed immobili dei
debitori - la soppressione d'ogni cosa che inceppi la circolazione
dell'elemento territoriale - l'abolizione dei tributi indiretti e la
successiva unificazione di tutti in uno - un sistema finanziario
fondato sull'economia e sull'incremento delle sorgenti di produzione
- ed altro. E sappiamo pure che disposizioni siffatte non sono da
sperarsi colla Instituzione che regge, ed esigono l'ordinamento d'un
Potere Legislativo nel quale il Lavoro possa essere largamente
rappresentato - d'un Potere esecutivo, responsabile tutto e
amovibile, richiamato all'ufficio definito dal nome - d'una
amministrazione lasciata il più possibile all'elezione delle
località - d'un sistema di difesa che sostituisca all'Esercito
permanente la Nazione armata - d'un concetto di vita politica
insomma che, considerando il Progresso come fine alla Società, il
diritto come emanazione del Dovere, l'Educazione morale verso la
coscienza del fine comune come base di Legislazione, il Voto e
l'Armi come segno di missione nei cittadini, inalzamento dell'umana
dignità e stadio iniziatore all'Educazione, faccia possibile
l'armonia fra Governo e Popolo, l'economia nelle spese,
l'applicazione dell'entrata al bene di tutti, l'aumento della
produzione e del consumo corrispondente. Ma non sono, per gli uomini
di buona fede, le questioni di forma governativa dipendenti dal fine
che dobbiamo raggiungere? E se essi dovessero, riesaminando,
convincersi che il problema delle classi artigiane, quale noi lo
accennammo, esige una soluzione, e che questa soluzione è
nell'attuale sistema impossibile, non dovrebbero cercarla altrove
con noi?
È tempo che i buoni s'adoprino a intendersi e a cancellare
dall'animo le ostili, sospettose, rissose abitudini di partito.
Avversi e irreconciliabili a quelle poche centinaja di tipi, che,
nascenti dall'avidità o dall'ambizione, fanno bottega del tempio,
noi non guardiamo ai dissenzienti sinceri come a nemici; combattiamo
idee, non uomini; serbiamo l'anatema a quei che illudono, non agli
illusi. In questa nostra Italia nascente, sui primi passi della
quale dovremmo noi tutti vegliare con amore e trepidanza religiosa,
ogni guerra di passioni, ogni linguaggio che susciti a istinti di
terrore, d'invidia, di riazione, ci sembra colpa. Fummo e saremo,
affermando, colla parola e quando che sia col fatto, la nostra
credenza, tolleranti d'ogni passato leale. E perchè ci sentiamo
tali, abbiamo diritto d'esser creduti quando diciamo che scrivendo
ai moderati d'oneste intenzioni, noi non pensiamo che all'avvenire
della madre comune e al male che può escire dal loro improvvido
attraversarsi a ciò che è disegno di provvidenza più assai che
d'uomini, dall'indifferenza stessa a un progresso che deve compirsi,
con essi o contr'essi.
L'Italia, quale oggi l'abbiamo, senza patto, senza norma morale che
inspiri gli atti pubblici della sua vita, senza intelletto delle sue
grandi tradizioni, senza coscienza di missione nel mondo, senza
definita politica internazionale, trascinata da pochi uomini che si
sottentrano sempre gli stessi, cadendo e rizzandosi a vicenda per
breve tempo, entro un cerchio che ha scritto da un lato: inferiorità
fra le Nazioni, dall'altro: resistenza e rovina, non è l'Italia che
essi vogliono, che noi vogliamo. Ma limitandoci ora alla questione
speciale che ci occupa, credono essi che una rivoluzione nazionale
possa compirsi nell'angusta sfera politica e senza produrre gravi
modificazioni nella sfera della vita sociale? Credono che le classi
diseredate di diritti politici e socialmente inferiori possano
affratellarsi durevolmente con essa, possano eternamente rassegnarsi
a dare per essa il loro sangue e l'opera loro se non raccogliendone
giovamento alle loro misere condizioni? Intendono la voce del Fato
che domina d'alto la logica progressione storica seguìta sulla
spirale del Progresso dal moto emancipatore? Non sentono nell'anima
ciò che spira di santamente solenne nel lento sorgere del popolo
tendente a formare nell'eguaglianza e nell'amore l'unità della umana
famiglia? E hanno mai veduto nella Storia milioni d'uomini agitarsi
lungamente in seno a una Patria verso un giusto miglioramento e
rimanere lungamente inascoltati, senza travolgersi, dietro a
suggerimenti pericolosi, nel rancore, nella tendenza a ribellioni
violente e nella esagerazione del fine cercato?
Gli uomini delle classi medie, gli agiati, pensino e provvedano.
Figli dei Comuni, ricordino che gli artigiani chiedono oggi
emancipazione dagli ordini che regolano il salario, ajuti
all'associazione e diritti di cittadini in nome della stessa legge
di Progresso che li spingeva, sei secoli addietro, a emanciparsi
dagli ordini del signorilismo feudale. Sciolgano il problema del
Lavoro, se possono, colla Instituzione attuale: se non possono,
vengano a noi. Ma sopratutto rinneghino ogni linguaggio simile a
quello del gazzettiere imprudente dal quale prendemmo le mosse. Ogni
sillaba d'articoli siffatti è veleno nelle vene del corpo sociale.
IL COMUNE E L'ASSEMBLEA((321))
I.
L'orgia d'ira, di vendetta e di sangue della quale Parigi da molti
giorni dà spettacolo al mondo, c'inchioderebbe la disperazione
nell'anima se la nostra fosse opinione, non fede. Un popolo che si
volge briaco, furente in sè stesso coi denti e lacera le proprie
membra urlando vittoria, che danza una ridda infernale intorno alla
fossa scavata dalle sue mani, che uccide, tormenta, incendia,
alterna delitti senza una idea, senza scopo, senza speranza, col
grido del pazzo che pone fuoco alla propria pira e sotto gli occhî
dell'invasore straniero contro il quale non ha saputo combattere,
ricorda alcune fra le più orrende visioni dell'Inferno Dantesco. Il
terrore e i patiboli del 1793 avevano non foss'altro a scopo, nella
realtà o nell'imaginazione, la difesa dell'unità della Francia. Le
proscrizioni romane, da Mario e Silla al Triumvirato, sorgevano, non
giustificate ma spiegate, da una contesa di secoli tra una
aristocrazia, che voleva perpetuarsi quando i tempi e l'impotenza la
dichiaravano decaduta, ed una democrazia, che preparava mal diretta
le vie alle dittature militari e all'Impero, ma che generalmente
tendeva ad allargare agli Italiani la cittadinanza romana. Perchè
scorre a torrenti il sangue in Parigi? Perchè i combattenti delle
due parti hanno pugnato o reprimono con ferocia irochese, con insana
sete di strage, propria di belve e non d'uomini? Il Comune, sorto
non per un principio di Patria o d'Umanità, ma per un interesse
parigino, scannava deliberatamente gli ostaggi quando la loro morte
non giovava menomamente la sua causa e deliberatamente commetteva
alle fiamme gli edifizî e le glorie storiche della Città quando
abbandonava via via le località dove erano posti. L'Assemblea,
eletta per decidere della guerra e della pace e senza titolo in oggi
d'esistenza legale, indice atroci carneficine non di combattenti ma
di prigionieri e irrita al sangue con infami lodi e panegirici
trionfali una soldatesca sfrenata che cerca soffocare, trucidando
fratelli, il senso di vergogna, vivo in essa, per le disfatte patite
nella guerra contro le milizie germaniche, quando fin l'ombra del
pericolo è svanita e gli uomini del Comune sono spenti, imprigionati
e fuggiaschi. Il sangue fu versato e si versa senza intento fuorchè
di vendetta contro i vincitori da un lato, di vendetta contro i
vinti dall'altro, per odio o crudele paura; basse passioni colpevoli
sempre e indegne d'ogni buona causa, infami quando ricordano il
delitto di Caino e infieriscono tra figli della stessa terra. La
Francia intera assiste impassibile, senza aver tentato di trattenere
con un unanime grido di orrore gli uomini del Comune da fatti ai
quali negli ultimi giorni accennavano, senza coraggio di gridare
oggi al Dittatore dell'Assemblea il Surge Carnifex di Mecenate ad
Augusto.
Ma noi? L'Europa? L'Italia? Non abbiamo doveri? Ci adopriamo a
compirli? Davanti all'agonia convulsiva d'un popolo suicida,
dobbiamo abbandonarci a uno scettico sconforto ch'è codardia, o
raccogliere, a seconda delle nostre tendenze, un legato d'ira o
d'insana paura da quel letto di morte a rischio di preparare fra noi
la ripetizione degli orrori compiti altrove?
Primo nostro dovere è quello di separarci apertamente,
dichiaratamente, dalle due parti e provvedere a che non si smarrisca
in Italia il senso morale perduto pur troppo in Francia. Guai a noi
se non sentiamo nell'anima che ogni nostro progresso futuro è a quel
patto! Guai se la santa battaglia tra il Bene e il Male, tra la
Giustizia e l'Arbitrio, tra la Verità e la Menzogna, combattuta
nella piena luce del cielo e sotto l'occhio di Dio in Europa, si
converte in guerra condotta nelle tenebre senza norma determinata,
senza un faro che guidi i combattenti, senz'altra inspirazione che
d'impulsi d'un'ora e delle misere passioni d'ogni individuo!
Noi non alludiamo segnatamente ad alcuno, ma deploriamo un fatto
innegabile: il campo dell'opinione s'è generalmente diviso in due,
il campo di quei che più o meno apertamente parteggiano pel Comune e
il campo di quei che parteggiano più o meno esageratamente per
l'Assemblea: gli uni e gli altri tendenti a velare, tacere o
magnificare i fatti e ingigantirne o dissimularne i caratteri e le
conseguenze a seconda della parte adottata.
Abbiamo udito da un lato attenuare la strage degli ostaggi come di
provati colpevoli di segreto contatto con Versailles e profanare a
proposito degli incendî i sacri nomi di Sagunto, di Saragozza, di
Missolungi. Gli ostaggi erano tali e non altro: non avevano subito
processo nè un solo interrogatorio. E quanto alle città nominate,
combattevano contro un invasore straniero e i prodi che avevano
giurato difenderle fino all'ultimo alito di vita si sotterrarono
sotto le loro rovine lasciandoci esempio che noi dovremmo,
occorrendo, imitare: gli uomini del Comune davano moto agli incendî
partendo, e commettevano a rovina la loro città e a morte cittadini
abbandonati e indifesi quand'essi speravano di salvarsi. Pugnarono
da forti, chi il nega? Ma il combatter da forti non merita il nome
di eroismo: lo merita il combattere santamente per una santa
bandiera: dove no, l'Italia conta difese di masnadieri che
dovrebbero ottenere quel nome. Oggi pur troppo le tendenze
instillate dai sistemi materialisti travolgono molti dei nostri
giovani in una cieca adorazione del coraggio fisico, del fatto
esterno, senza nesso coll'origine e col fine cercato, che minaccia
di sostituire un nuovo militarismo all'antico.
Abbiamo udito dall'altro lato acclamare all'Assemblea come a tutrice
dell'ordine e della libertà, e il nome incontaminato di Washington
dato, senza arrossire, a Thiers. L'Assemblea e Thiers passeranno,
checchè oggi si dica, ai posteri con una nota d'infamia. Firmarono
tremanti una pace vergognosa, che smembrava la loro Patria, con lo
straniero, quando dovevano mandare un grido solenne di resistenza
collettiva alla Francia e disperdersi poi nelle provincie per
capitanarla: non osarono recarsi in Parigi quando raccogliendosi
intorno la popolazione più ragionevole potevano tentare
conciliazione e riuscire: potevano, con una franca dichiarazione
repubblicana richiesta dalla parte intelligente della nazione e con
una legge di largo e libero ordinamento municipale, sopprimere ogni
ragione di contesa, e nol vollero: spinsero contro gli insorti
irritandoli col nome di malfattori, e quasi a impedire ogni
possibilità d'accordo, i generali del Bonaparte: parlavano jeri
d'abolire ogni legge di proscrizione, lasciando col fatto la facoltà
di proscrizione alla soldatesca, e preparano oggi, pur sapendo di
commettere a nuova guerra civile immediata o in breve periodo di
tempo il paese, la via del trono alla dinastia Borbonica. Quei che
inneggiano all'Assemblea o non guardano ai fatti o sono corrotti
com'essa.
Noi dobbiamo, lo ripetiamo, separarci solennemente dagli uni e dagli
altri. Nè cogli uni nè cogli altri stanno la Giustizia e l'eterno
Diritto; e noi non dobbiamo avere altra norma ai nostri giudizî.
Siamo repubblicani; e siamo convinti che se v'è modo perchè la
Francia lentamente risorga, si rieduchi al culto del Vero e della
Legge Morale e si sottragga alla tristissima necessità di violenti
rivoluzioni periodiche e frequenti, sta nell'instituzione su giuste
basi d'una repubblica. La corruzione francese è frutto delle due
monarchie borboniche e dei due imperi: crescerebbe e diventerebbe
cancrena durando la monarchia; nè la Storia ci ricorda esempio di
popoli rigenerati pel ritorno di dinastie due volte cadute.
L'argomento continuamente ripetuto che per fondare repubblica si
richiedono anzi tratto repubblicani e virtù repubblicane, somma a
dire che l'educazione repubblicana deve darsi dalla monarchia o in
altri termini che la fede in un principio deve insegnarsi dal
principio contrario. Le repubbliche si fondano appunto per creare,
coll'educazione repubblicana, repubblicani. Esiste in Francia,
sorgente di tutte le interne contese, un profondo squilibrio tra le
città che sono repubblicane e le campagne che, ineducate e impaurite
tuttora dai ricordi del terrore e delle carneficine del 1793, nol
sono. Una educazione nazionale uniforme((322)) può sola vincere
quello squilibrio; e quell'educazione non può darsi se non dalla
Repubblica. Le monarchie, minacciate, condannate a vivere per un
tempo soltanto e sapendolo, non possono dare ciò che presentono
dover presto o tardi convertirsi in arme nelle mani dei suoi nemici.
Ma perchè siamo repubblicani e ci assumiamo un'opera d'apostolato
con chi non è tale, dobbiamo sapere e dire apertamente e senza
riguardi tattici con amici o nemici, quale è, quale non è la
Repubblica da noi invocata. L'appagarsi del nudo nome e dichiararsi
campioni d'ogni uomo che scelga di proferirlo, è peggio che
arrendevolezza puerile, è tradimento d'un dovere verso chi dobbiamo
cercare di convincere: l'irritarsi della caduta di chi svisò il
concetto repubblicano o intese a proteggerlo con fatti immorali o
feroci, soltanto perchè chi determinò la caduta appartiene al campo
nemico, è peggio che inutile: è oblio d'ogni missione educatrice
sagrificata a un impulso d'odio che non dovrebbe allignare in noi.
Poco importa inveire contro lo strumento immediato della caduta -
quello strumento si romperà alla sua volta - ciò che importa è
l'additare perchè quel travisato concetto fosse dal nascere
condannato, per mano di chicchessia, a perire, e come non debba
trarsene argomento alcuno a danno del vero e giusto concetto e della
forza contenuta in esso per vincere. Ed è questo che la stampa
repubblicana davvero dovrebbe fare. L'Instituzione che combattiamo
non è oggimai più forte, tra noi, in Francia e altrove, di forza
vitale propria: la sorreggono i nostri errori. Ogni incertezza
lasciata dal nostro linguaggio o dal nostro silenzio su ciò che
dovrà sottentrare, ogni vecchia paura rinvigorita da fatti come quei
compiti a Parigi, ogni stolta minaccia di vendetta avventata
nell'ira e dimenticata il momento dopo, è più potente puntello a un
sistema cadente che non un esercito agitato da vergogne subìte e dal
senso dell'onor nazionale o una moltitudine d'impiegati mal
retribuiti, mal fidi e tentennanti fra le due parti o l'illusione
mantenuta fiaccamente da una opposizione che accenna sempre a
colpire, incapace di farlo, e alla quale il paese guardava un tempo
sperando, oggi guarda a deplorarne le condizioni.
È tempo or più che mai pei repubblicani di mostrarsi partito e non
fazione: collettività d'uomini raccolti intorno ad un principio, non
nucleo d'individui collegati a tempo per l'interesse d'uno o di più.
E questo principio - concetto della Vita fondato sopra una Legge di
Progresso morale, intellettuale, economico, da svolgersi per mezzo
dell'associazione di tutti gli elementi che formano Nazione e tra un
popolo e l'altro - è sola sorgente d'autorità per noi, solo criterio
per giudicare dei programmi e degli atti che via via si succedono in
questo periodo di transizione: la forma repubblicana non è che un
mezzo - unico a senso nostro - per tradurre in rapida realtà
l'associazione alla quale accenniamo. Nei termini di questo
principio sta la nostra solidarietà con quanti si dicono
repubblicani. Ogni tentativo di rinnovamento politico e sociale che
non muove da quel principio o lo viola col predominio dato alla
sovranità dell'io, o chiude il varco all'Associazione smembrando
l'unità della più alta forma d'Associazione, la Patria, o contamina
la bandiera con atti d'ingiusta e non necessaria violenza funesti al
progresso morale del popolo, non è nostro e lo respingiamo. La sua
vittoria - se potesse averla - non sarebbe vittoria nostra, nè
c'inorgoglirebbe di forza o speranze. La sua disfatta non è nostra
disfatta, non c'infiacchisce per subiti irragionevoli sconforti, non
scema probabilità di successo alla nostra fede.
II.
Come hanno potuto aver luogo nel secolo XIX, in una città sede
d'incivilimento com'è Parigi, gli eccessi dai quali prendemmo le
mosse nel numero precedente? Perchè un popolo generalmente gentile,
lieto, affettuoso come il francese, ha smarrito a poco a poco ogni
senso morale? Come mai in una Nazione nella quale l'Unità e
l'orgoglio di Patria sembravano più che altrove incarnati in ogni
cittadino, assalitori e assaliti dimenticarono l'una e l'altro a un
tratto, gli uni proponendosi un programma di smembramento affermato
in ultimo con una insensata distinzione d'uomini e cose, gli altri
combattendo i nati com'essi di Francia con una indegna ferocia, con
un accanimento di selvaggi briachi, che aspettò, a rivelarsi, la
vittoria dello straniero pacatamente e vergognosamente subìta? Non
dovrebbero gli Italiani - invece di dividersi in fanciulli irritati
che strepitano vendetta per opinioni e fatti non loro e
machiavellisti senza cuore che non vedono nella rovina d'un popolo
se non un'arme per ferire ingiustamente gli avversi al loro sistema
- meditare severamente sulle cagioni dei tristi fatti e tentare di
sviarle da noi? Non sanno i nostri che in Francia il nemico più
potente della Repubblica è tuttora, nella popolazione rurale, il
ricordo del settembre 1792 e dei patiboli del 1793 - che l'uccisione
degli ostaggi e gli incendî hanno triplicato le probabilità d'un
vicino successo alla monarchia - che in Italia ogni imprudente
avventata manifestazione((323)) di favore ai colpevoli di quegli
atti basta a suscitare nella classe media sospetti e paure propizie
al Governo? Non sanno gli avversi che le loro esagerazioni, le loro
condanne a una parte sola, i loro calcolati terrori che qui
s'imitino dai repubblicani e dalle classi inferiori eccessi
ripugnanti a tutte le tendenze italiane, irritano gli animi stanchi
ormai di calunnie, suscitano spiriti di riazione pericolosi e
possono trascinare le classi che hanno più ragione di lagnarsi del
sistema attuale a dire: ci accusano ad ogni modo: facciamo?
Abbiamo detto e diremo senza ritegno e senza calcolo di conseguenze
immediate possibili ciò che ci sembra vero agli uni e agli altri.
Taluni dei nostri amici ci consigliano di tacere su certe questioni
e di modificare il nostro linguaggio sovr'altre: correte rischio,
dicono, d'allontanare da voi giovani nemici accaniti del sistema che
voi combattete e che sarebbero forse primi, occorrendo, all'azione.
Non possiamo accogliere quel consiglio. Se, perchè siamo
repubblicani, dobbiamo far nostra la massima: la bandiera copre la
merce, e accettare l'assurdo, retrogrado, politicamente immorale
concetto di repubblica trovato novellamente in Parigi e sul quale
dovremo tornare, meglio è gettare la penna e tacere. Se, perchè ad
alcuni giovani piace di rinnegare la tradizione intera dell'Umanità,
di chiamare Scienza la più o meno accurata descrizione dei fenomeni
organici e la negazione della causa di quei fenomeni, di dirsi atei
e nemici d'ogni religione soltanto perchè non credono nell'attuale,
dobbiamo tacere di filosofia religiosa e desumere la missione e i
fati della nostra patria dal concorso fortuito degli atomi o da un
numero determinato di combinazioni passive d'una data quantità di
materia, meglio è lasciare che caso e materia operino a senno loro e
limitarci a registrare - e a rispettare - gli eventi. Le idee sono
per noi una cosa santa. Non possiamo velarle o distribuirle a dosi
omeopatiche per piacere ad altri e nella speranza che una parte
infinitesima sia inavvertitamente assorbita. Le tattiche
parlamentari non sono da noi, nè valgono a mutar gli Stati e
collocarli sotto l'egida d'un nuovo principio. Noi amiamo sovra ogni
altra cosa l'Italia; ma la vogliamo connessa colla vita e col
progresso dell'Umanità, faro tra i popoli di moralità e di virtù.
Vogliamo repubblica, ma pura d'errori, di menzogne e di colpe: a che
varrebbe l'averla, se dovesse nudrirsi delle passioni, delle ire,
dell'egoismo che combattiamo? Diversi dai sognatori che predicano
pace a ogni patto, anche di disonore per le nazioni, e non
s'adoprano a fondar la Giustizia unica base di pace perenne, noi
crediamo, in dati momenti, sacra la guerra; ma questa guerra deve
combattersi nei limiti della necessità, quando non è via, se non
quella, al bene, diretta da un principio religioso di Dovere, leale,
solenne, coll'altare della Clemenza eretto di fronte all'altare del
Coraggio, non contaminata di vendetta, di brutale ferocia, di
sfrenato orgoglio dell'io: se la nostra guerra diventasse quella
delle soldatesche educate in Africa alle stragi del 2 dicembre o la
combattuta recentemente in Parigi, non meriteremmo di vincere.
Ignoriamo se dicendo questo noi siamo inferiori o superiori alla
situazione: sappiamo che la Repubblica ha preso obbligo col mondo
d'essere migliore dell'Instituzione avversa e ci dorrebbe che i
repubblicani lo dimenticassero.
Il senso morale s'è smarrito in Francia sotto la lenta dissolvente
opera del materialismo sociale pratico sceso negli animi dal
materialismo filosofico. Non crediamo che, dalla China in poi dove
la separazione della Morale da una credenza religiosa impietrì
l'intelletto e vieta da duemila anni ogni progresso, prova più
solenne di questa sia mai stata data a noi tutti delle fatali
conseguenze che il materialismo trascina dietro a sè quando invade,
non come momentanea protesta contro una fede spenta, ma come
dottrina inviscerata nelle abitudini, le membra d'una Nazione. Gli
ingegni superficiali e irriverenti alle severe lezioni dei grandi
fatti e all'importanza delle questioni che trattano possono sfogarsi
in maledizioni impotenti a Thiers, a un generale bonapartista, a una
o ad altra congrega d'uomini, come cagioni determinanti delle tristi
cose che accadono. Ma dicano, se possono, perchè dal 1815 in poi la
Francia s'aggiri in un cerchio fatale, senza escita, d'esperimento
in esperimento, di delusione in delusione: dicano perchè la parte
repubblicana, potente di verità, di giustizia, d'intelletto,
d'energia e di favore - non fosse che per patimenti durati e sete di
mutamento di popolo - non possa finora vincere, sorga, trionfi e
invariabilmente ricada: dicano perchè poteri invecchiati e consunti,
perchè Instituzioni impotenti a inspirare amore e incapaci d'ogni
virtù iniziatrice durano tuttavia scimiottando la vita e chiudono,
fantasmi temuti, la via che guida al futuro. Uomini come Thiers,
Assemblee di gente mediocre come quella di Versailles sono strumenti
di cagioni, non cagioni. Davanti a un moto repubblicano fondato
sopra un concetto di Vero e sull'amore sincero del Bene,
sfumerebbero come sfumerebbe il Papato davanti a un popolo forte non
di semplici negazioni, ma d'una fede religiosa migliore.
In Francia, il materialismo, insinuato prima dai tristi esempî di
corruzione dati dai principi e dalle corti monarchiche, suggerito
dal freddo incerto mentito deismo di Voltaire e d'altri fra i così
detti filosofi che volevano, in nome di non sappiamo quale
aristocrazia dell'intelletto, libertà assoluta per sè e un vincolo
qualunque di religione pel popolo, si rivelò apertamente sul finire
del secolo XVIII con Volney, Cabanis e più giù con d'Holbach,
Lametrie, l'autore del Sistema della Natura, e altri siffatti. Per
questi atei, i più tra i quali - ed era logica - furono poi, tra i
muti del Senato conservatore o altrove, servi sommessi di Napoleone,
il pensiero non era che una secrezione del cervello, definizione
della Vita era la ricerca del ben essere, la sovranità era diritto
di ciascun individuo, vincolato soltanto a non violare il diritto
altrui. Là, nell'accettazione teorica o pratica, conscia o
inconscia, di quelle stolte esose dottrine, sta il germe della
rovina di Francia - e della nostra, se mai per la loro predicazione,
impresa da giovani inconsiderati, migliori per ventura del loro
linguaggio, prevalessero anche fra noi.
Cancellata così ogni idea d'adorazione a un ideale superiore comune
di vita collettiva dell'Umanità, di fine assegnato all'esistenza
terrestre, di Dovere comandato a raggiungerlo, di sovranità di una
Legge Morale preordinata, non rimase a norma degli atti se non la
nuda idea del diritto, della sovranità individuale, idea senza base
per sè, inefficace in ogni modo a risolvere i grandi problemi che
cominciavano ad agitarsi nell'anime. Quell'idea non può - se pure -
guidare che alla libertà; e a risolvere quei problemi bisognava
risolvere prima quello dell'associazione. E le conseguenze alle
quali accenniamo, sono inevitabili, fatali. Noi sappiamo che, come
s'incontrano in oggi uomini credenti a un tempo nel dogma cristiano
e nella Legge del Progresso, molti fra gli attuali materialisti si
professano credenti nel Dovere, nella vita collettiva e progressiva
dell'Umanità, nell'Associazione, in ogni idea promulgata dal nostro
campo; ma la patente contradizione non prova, se non che in molti
uomini gl'impulsi del cuore sono, per ventura, migliori delle loro
facoltà intellettuali e della loro potenza di logica. Nessuno può
presumere d'educare altri - e la questione è per tutti noi di
trovare un principio d'Educazione - a contradirsi ed essere illogici
perennemente! nessuno può dire ad un popolo: «tu crederai nella
caduta e nella redenzione e ad un tempo nel Progresso come in Legge
data da Dio alla Vita»: nessuno può dirgli: tu crederai nel Dovere e
nel Sacrificio, ma non crederai in una Legge Morale prefissa da un
Intelletto supremo su tutti, nè in cosa alcuna fuorchè nella
sovranità di ciascuno degli uomini che s'agitano nel tuo seno. Gli
individui possono rinnegare per un tempo la logica e spassionare
l'orgoglio a parlare di quello che non intendono: un popolo intero
nol può. Togliete ad esso Dio, cielo, ideale, immortalità di
progresso, nozione d'una Legge Provvidenziale prestabilita e il
vincolo comune d'un fine assegnato; e lo vedrete guardare
esclusivamente a' suoi interessi materiali, combattere, ma
unicamente per essi, sperare per soddisfarli nella sola forza,
soggiacere volonteroso a ogni potente che prometta curarli,
sostituire alla sovranità dell'intelletto fecondato dall'amore
quella dei proprî appetiti e delle proprie passioni. In questa
ineluttabile necessità sta, lo ripetiamo, la sorgente di tutti gli
errori, di tutte le colpe francesi.
La falsa teoria della sovranità dell'io, la falsa dottrina che ogni
popolo, ogni individuo appartiene a sè stesso e non al fine che gli
è prescritto, che deve a ogni patto cercar di raggiungere e che solo
dà valore e consecrazione alla vita, trascinarono, nella Rivoluzione
Francese, non dirò Hebert, Chaumette e altri siffatti alle orgie di
terrore e di sangue che spaventarono e spaventano tuttora i popoli,
ma uomini come Brissot e Isnard alla negazione d'ogni Sovranità
Nazionale, al predominio delle più piccole località sull'insieme, al
federalismo logicamente spinto fino alla sovranità del campanile di
ogni comune che, ingiustamente attribuiti ad altri, costarono al
paese il miglior sangue della Gironda e, riprodotti in oggi dagli
insorti di Parigi, costano un nuovo grado di decadimento alla
Francia. Poi sottentrò, accolto da un popolo stanco di stragi
cittadine e al quale il terrore avea già insegnato a prostrarsi
davanti alla vittoria e alla Forza, Napoleone; e nel secondo periodo
della sua dominazione, quando il senso d'una missione perì in lui
sotto l'orgoglio del Potere e la tendenza a sprezzare i popoli che
lo adulavano, egli scavò più profondo il solco del materialismo
pratico nell'anima della Francia, rinnovando, per calcolo errato,
una larva di potenza a un Cattolicesimo incadaverito e nel quale ei
non credeva: ponendo in luogo della Nazione sè stesso e un esercito,
creando in quell'esercito l'idolatria della bandiera senza riguardo
al principio che solo può santificarla, e nella Nazione l'idolatria
della Gloria e della Conquista senza riguardo al fine pel quale è
mietuta la prima, e alla missione d'incivilimento che sola può far
talvolta legittima la seconda; aborrendo, perchè ne temeva, le idee
e accarezzando soltanto una scienza collettrice di fatti; avvezzando
i Francesi a credere che quanto la Francia voleva e poteva era
diritto. Poi vennero le due Ristaurazioni Borboniche - il
materialismo superstizioso della prima combattuto dal Voltairianismo
borghese - il culto degli interessi materiali promosso
sistematicamente dalla seconda a sviare il popolo dal culto dei
grandi principî - la menzogna perenne degli uomini dell'Opposizione
tendenti come i nostri d'oggi a minare una Instituzione e nondimeno
giurandole fedeltà e acclamando al monarca pur congiurando contro la
monarchia - una politica internazionale destituita d'ogni principio
e fondata sfacciatamente sull'egoismo - una corruzione nelle alte
sfere che coll'esempio e collo spettacolo dei conforti ottenuti
allettava il popolo all'imitazione. Sorgeva intanto dai tempi
maturi, dalla pessima distribuzione della ricchezza, dai bisogni e
dall'intelletto più sviluppato degli artigiani la così detta
questione sociale; questione santa e religiosa, per chi l'intende
davvero, oltre ogni altra, dacchè mira a fondare l'Economia sul
dovere e sull'amore reciproco e ad avvicinarci d'un grado all'unità
umana ch'è nostro fine; ma che, immiserita e sviata anch'essa dal
materialismo dei capi-scuola, si concentrò sull'unico problema dei
godimenti fisici, propose come fine ciò che non doveva essere se non
mezzo al progresso intellettuale e morale, scisse in due il campo
repubblicano, allontanò più sempre una moltitudine d'operaî dalle
grandi idee e dai grandi doveri che soli fanno o promovono un
popolo, intiepidì in essi l'amore e il culto della Patria fomentando
l'odio tra chi aveva già raccolto i frutti del lavoro e chi voleva
raccoglierli e sostituendo all'ideale della Nazione il Falanstero,
il compartimento Icariano o l'Opificio ordinato in un dato modo.
Allora, mentre Saint-Simon e Fourier petizionavano per danaro, a pro
della trasformazione sociale, ad ogni Autorità o frazione
d'Autorità, e Proudhon aboliva Dio per sostituirgli logicamente la
Forza, s'insinuò negli animi l'immorale concetto che le questioni
politiche a nulla giovavano, che la questione economica era la sola
da contemplarsi, che da qualunque parte o in nome di qualunque
principio venisse tentativo o promessa di risolverla, doveva
accettarsi. E vedemmo da un lato insurrezioni senza programma
determinato attizzare tremenda la guerra civile e rovinare la
Repubblica del 1848 tiepida nella fede e inferiore al mandato, ma
che avrebbe avuto miglioramento dall'unione e dal tempo; dall'altro,
gli artigiani di Parigi a incrociare le braccia davanti
all'usurpazione del secondo impero per la incerta e triste speranza
che da esso potesse scendere il mutamento sociale invocato. Intanto,
mentre l'esclusivo intento dei vantaggi materiali da conquistarsi in
ogni modo e per qualunque via pervertiva il senso morale del popolo,
l'Esercito, travolto dietro al materialismo della bandiera, del
simbolo sostituito all'idea, combatteva con animo eguale contro la
Repubblica Romana, contro lo Tsar, contro il Messico, contro i
proprî concittadini. Per l'Esercito, pel Popolo, pe' suoi nemici la
vita - sacra per noi nell'origine e nell'avvenire, escita da Dio e
destinata all'immortalità - ha perduto ogni santità; quale santità
può mai avere un frammento di materia animata da una forza destinata
a morire per sempre?
Così è caduta la Francia. Così cadrà ogni popolo al quale il
materialismo insegni che gioire e vincer gli ostacoli ai godimenti
son norma alla vita. Così non cada, appena nata, l'Italia!
La nostra bandiera, o giovani, è santa come se ci fosse affidata da
Dio pel compimento del suo disegno sull'Umanità, o non è che misera
insegna di risse civili e di passioni suscitate nell'anima nostra
dall'egoismo sotto qualunque nome si celi. Custoditela santamente,
come custodireste l'onore della madre vostra. Circondatela,
incontaminati, incontaminata, di forti e pure opere, di forti e puri
pensieri, tanto che il mondo vegga la virtù moralizzatrice ch'è in
essa. Non la macchiate d'un solo pensiero di vendetta, non
l'appannate d'un solo alito d'egoismo. Voi dovete esser migliori di
quei che v'avversano e, dove nol siate, credete a me e
all'insegnamento dei fatti, non vincerete. Non adorate la forza, il
coraggio, l'orgoglio della vittoria per ciò che hanno di splendido
in sè: adorate l'idea, della quale forza, coraggio, vittoria hanno
ad essere strumenti e senza la quale la forza si trasforma in
violenza brutale, il coraggio è dote sterile d'organismo, la
vittoria è supremazia inefficace di fratelli sopra fratelli. Non
rievocate dagli esempî stranieri ricordi d'un terrore che ha
infamato la libertà, o nomi d'uomini che mutarono in concetto d'odio
un concetto d'amore e spianarono con quel mutamento le vie a nuove
tirannidi: la vostra storia vi porge ricordi e nomi migliori, e in
verità la memoria dell'ultimo fra gli artigiani che posero nel 1530,
senza ira e basse passioni, sostanza e vita per la libertà
repubblicana di Firenze, è miglior auspicio all'impresa futura che
non i nomi di Robespierre e Marat. Lasciate la Francia e le sue
false dottrine: non vedete a quali termini dottrine e uomini l'hanno
ridotta? Inspiratevi alle vostre tradizioni fecondate dalla grande
tradizione dell'Umanità: raccoglietene la perenne voce, riveritene
le costanti idee trasformate sempre, non mai cancellate. Voi non
potete, in nome d'un istinto passeggero di ribellione, rinnegare il
Genio dell'Umanità e de' suoi Grandi che vi grida di secolo in
secolo, d'epoca in epoca, Dio, Legge, Dovere, Patria, Amore,
Progresso, Immortalità. Come gli uomini della Compagnia della morte
nelle battaglie lombarde, prostratevi all'eterno Vero e sorgete per
vincere.
Ricordo una preghiera d'un poeta slavo-polacco che ama la patria
come pochi l'amano: «Noi non vi chiediamo, o Dio, la speranza; essa
scende, come pioggia di fiori, sulle nostre teste - non la morte dei
nostri oppressori: la loro fine è scritta sulla nuvola di domani: -
non di varcare la soglia della morte: è varcata, o Signore: - non
corredo d'armi potenti: le avremo dalla tempesta: - nè ajuti: il
campo dell'azione è aperto oggi davanti a noi. Ma oggi, mentre è
cominciato il vostro giudizio nei cieli sui duemila anni vissuti dal
Cristianesimo, concedeteci, o Signore, una volontà pura, concedeteci
una volontà santa.»
Quando le vostre anime, o giovani, saranno capaci di proferire unite
quella preghiera, voi sarete ciò ch'oggi non siete, forti di virtù
iniziatrice e d'assenso di popolo; e l'Italia, come la invochiamo,
sarà.
III.
Abbiamo francamente parlato ai nostri: era un dovere e, a rischio di
spiacere a molti che militano sotto la bandiera da noi venerata,
l'abbiamo compito. Ma se a questo punto tacessimo, se non
accennassimo ai colpevoli errori della classe d'uomini rappresentata
in Francia dall'Assemblea, ma esistente per ogni dove, avremmo
rimorso. Non riparliamo dell'animo di vendetta feroce spiegato da
quella classe: vendetta e ferocia tanto più ree quanto più sono
adoprate da chi è più forte e finora vinse, mentre furono negli
altri inspirate da una riazione non giustificabile, ma
intelligibile. La questione vive più in alto del triste presente.
Cerchiamo rimedî al futuro. Tentiamo via d'accertare come si possa
provvedere a che i turpi fatti di jeri non si rinnovino domani.
Pensiamo all'Italia, dov'oggi i buoni istinti e l'apostolato dei
nostri allontanano il pericolo, ma dove le cagioni esistono e, se
durasse, la noncuranza o l'ostinata resistenza a bisogni reali e a
sacre aspirazioni lo produrranno.
D'onde scese al popolo, alle classi artigiane, il materialismo?
D'onde vanne ad esso l'esempio del culto esclusivo dei beni
terrestri, l'idolatria degli interessi sostituita all'adorazione dei
principî, delle sante idee?
Dall'incredulità e dai vizî delle corti, dalla corruzione e dalla
condotta dell'alto clero, dalle abitudini dei doviziosi, dal fine
che s'è visibilmente proposto quell'ordine d'uomini che hanno scelto
per sè stessi il nome collettivo di borghesia e che chiameremo
classe media. Questa classe, formata non solamente dei detentori di
capitali e di ogni altro elemento di produzione, ma di quanti per
condizioni propizie hanno potuto educar l'intelletto a una o ad
altra funzione e conquistare predominio negli ufficî,
nell'insegnamento, nella stampa, nelle imprese industriali, in tutto
ciò che rappresenta officialmente o quasi il paese, aveva innanzi la
più bella, la più grande, la più santa missione che potesse idearsi;
stendere una mano fraterna alla classe immediatamente inferiore e
sollevarla al proprio livello; giovarsi dei vasti mezzi posseduti da
essa per educare gli ineducati, per aprire a quei che trascinano
l'esistenza nella povertà e nell'incertezza le vie del libero lavoro
e di vita più umana: schiudere insomma sulla terra ai milioni di
figli del popolo, ciò che il Cristianesimo schiuse ad essi nel
cielo, la Patria degli eguali e dei liberi. Non aveva la Religione
abolito, da diciotto secoli, la perpetuità delle classi
anatemizzando il dogma delle due nature e insegnando che tutti gli
uomini sono figli di Dio? Non vaticinava la Storia ai discendenti
degli emancipati di sette secoli addietro che, come anteriormente al
tramutamento dei servi in uomini dei Comuni gli schiavi s'erano
mutati in servi, verrebbe tempo nel quale gli assalariati si
convertirebbero in lavoranti associati? E non esciva da ogni
tradizione politica severa e perenne lezione che i gradi di
Progresso assegnati all'Umanità si compiono lentamente,
pacificamente, per iniziativa di chi sta in alto o colla violenza
del turbine dalla ribellione di chi sta in basso?
Le classi medie dimenticarono il loro Dovere e dimenticarono le
norme elementari d'ogni prudenza. Traviata da una falsa filosofia e
da una politica derivata da quella e che non potea varcare al di là
dei diritti dell'io, obliarono che ogni loro conquista s'era
compiuta coll'ajuto delle moltitudini chiamate, infiammate da
promesse di miglioramenti e di libertà. I loro diritti, diritti di
stampa, di associazione, d'ammessione agli ufficî, d'elettorato e
d'eleggibilità, pei quali il popolo, ineducato e costretto a un
lavoro di tutte le ore per vivere, non potea giovarsi, erano oggimai
securi: a che combattere per gli altrui? Senza concetto di Dovere,
che non può derivare se non da una Legge suprema, nè di fine comune,
che non può derivare se non da un disegno intelligente preordinato,
nè di vita oltre questa, che il freddo sterile Deismo adottato non
racchiudeva, rimaneva il culto degli agi, dei conforti, degli
interessi, della materia; e vi si travolsero. E allora si svolsero
tutte le tristissime conseguenze dell'Egoismo, gelosia di qualunque
accennasse a intenzione di salire ov'esse erano, sospetto d'ogni
progresso di libertà nelle moltitudini come di mezzo a tradurre in
fatto quella intenzione, adesione non sentita, ma calcolata, alla
monarchia come a dottrina di privilegio che afforzerebbe il loro,
immobilizzazione della vita elettorale nel censo, favore dato agli
eserciti permanenti e riluttanza all'armamento della Nazione,
monopolio di legislazione e quindi i proprî interessi curati;
traditi o negletti quelli del popolo; concentramento amministrativo
come barriera contro il temuto futuro, stolto anti-scientifico
terrore d'ogni disegno di miglioramento economico nelle condizioni
del popolo come se non potesse compiersi che a danno loro e non
dovesse invece accrescere la produzione e la ricchezza comune; cento
altri errori e mali ch'or non giova numerare, ma sopra ogni cosa il
problema vitale, indispensabile, unico potremmo dire,
dell'Educazione Nazionale, falsato, immiserito a proporzioni d'una
istruzione che, scompagnata dall'educazione morale e patria, è
un'arme a due tagli; e questa istruzione ineguale, anarchica, poca e
inaccessibile a quanti poveri combattenti per l'esistenza fisica non
possono sottrarre il fanciullo al lavoro o soggiacere a quelle,
comunque menome, spose di vestiario o d'altro che l'intervento alla
scuola richiede. Da quel contegno delle classi medie scende il
contegno delle classi artigiane: dalla gelosia e dal sospetto hanno
imparato a sospettare e ad essere gelose dell'altrui condizione, dal
culto degli interessi materiali l'avidità, dalla ingratitudine
l'ira, dalla guerra la guerra.
Oggi ancora e di fronte al pericolo ch'essa dichiara minaccioso,
imminente, la stampa monarchica, la stampa che si millanta
dell'ordine e parla in nome delle classi medie, versa in Italia su
questo popolo accusato, rimproverato, il più esoso materialismo da
ogni suo foglio. Per essa, il problema Italiano si risolve in una
cifra di produzione, se bene o male ripartita non monta: un lieve
progresso nell'esportazione, un arrivo di qualche nave di più in uno
o in altro dei nostri porti, un incerto aumento di ricavato da un
tributo a danno probabilmente della classe più misera, la suscitano
ad inni d'entusiasmo per le condizioni dell'oggi; diresti che
l'Italia, convertita in bottega, non dovesse più vivere se non di
ciò che si misura e si pesa, e che l'onore, la dignità, le idee, il
progresso morale, la missione da compirsi al di fuori pel bene
altrui, fossero elementi estranei alla costituzione e allo sviluppo
della Nazione. Materialismo d'interessi momentanei, senza norma
alcuna di principio morale che guidi, nella politica internazionale
- materialismo d'interessi governativi di un giorno, senza concetto
che immedesimi popolo e capi in un fine comune - materialismo nella
questione del vincolo religioso, invocato fin dove può giovare a
sorreggere l'autorità politica, sprezzato e violato ove accenna a
limitarla o dirigerla, e tradotto nella vertenza col Papa, in
ipocrisia che cospira genuflettendosi - diffidenza del Pensiero
considerato pericoloso, d'ogni proposta innovatrice dichiarata
utopia, d'ogni incremento di libertà, d'ogni associazione che miri a
procacciarlo, d'ogni idea che schiuda o annunzii un nuovo orizzonte
allo spirito - è questo l'insegnamento che sgorga ogni giorno dalle
manifestazioni officiali o semi-officiali degli organi di ciò che è.
La pratica, che convalida pur troppo l'insegnamento, è nota
all'Italia, e noi non vogliamo insozzarne le nostre pagine.
Logorata dal tempo e dal materialismo l'antica fede che prometteva
almeno le benedizioni del cielo ai condannati a patir sulla terra -
senza Educazione che guidi a fede più alta e più unificatrice dei
doveri e delle speranze - senza alcuna di quelle grandi idee che han
nome Patria, Onore, Gloria, Libertà, Indipendenza, Missione, e hanno
potere di creare la virtù del Sacrificio nel core delle moltitudini
- come mai le aspirazioni delle classi temute non si sarebbero
concentrate intorno alla conquista dei beni materiali negati? Perchè
non avrebbero dai godimenti delle classi socialmente superiori
imparato il desiderio di godere alla volta loro? E perchè, respinte
nei loro più temperati disegni e condannate - in un mondo pel quale
il dito di Dio ha stampato per ogni dove la parola progresso -
all'immobilità delle loro attuali condizioni, non travierebbero
dietro ai primi che, rivelando ad esse la loro forza, le chiamano a
conquistare colla violenza e a danno altrui ciò che dovrebbero
ottenere per altra via e senza rovina di chi ha già, per lavoro
compito nel passato, ottenuto? Gli errori abbondano nelle loro file;
ma dov'è il Potere, dov'è la classe fornita di mezzi intellettuali o
materiali che abbia educato quei milioni d'uomini al Vero e li abbia
poi condotti di grado in grado alla pratica di quel Vero? Una
colpevole tendenza all'ira contro gli abbienti, alla vendetta contro
chi li offese e rise delle loro richieste, affatica, irrita le anime
loro; ma se noi possiamo biasimarli e li biasimiamo, in nome di qual
dritto le classi non curanti prima, feroci contr'essi poi,
esigerebbero da essi quelle virtù ch'esse non hanno? Da oltre a
quarant'anni, la questione della quale Parigi s'è fatta in questi
ultimi mesi tristissima interprete, s'agita esplicita, più e più
sempre minacciosa in Francia, in Inghilterra e in Germania, nelle
classi artigiane; e chi pensò seriamente a risolverla? Chi provvede
a schiuderle le vie del progresso pacifico? Le classi governative, i
posseditori, nei Parlamenti o fuori, degli ufficî e dei capitali,
schernirono la parola di quelle classi e ne soffocarono gli atti nel
sangue. Hanno convertito ciò che avrebbe dovuto essere opera
concordemente tentata in duello: hanno detto: v'impediremo la via
colla Forza: le conseguenze dovevano escire inevitabili. Non giova
maledire: bisogna mutar le premesse. E affrettarsi: per quanto è più
sacro, affrettarsi.
Professori, senatori, marchesi, gazzettieri e voi tutti che,
atteggiandovi a sussiego d'economisti, degnate annunziarci per via
d'epistole laudatorie reciproche che v'occupate di salvare la
società minacciata, perchè, invece di consigliare amorevolmente il
malato e lenirne l'irritazione, cominciate per oltraggiarlo? E
perchè, usurpando la definizione materialista e puramente negativa
data da Bichat((324)) alla Vita, non trovate dall'alto della vostra
scienza altri rimedî da quelli infuori che sommano nella parola
resistere? Religione, voi dite; e lo diciamo noi pure; ma quale? Noi
la cerchiamo nel futuro e tale che dall'alto dell'eterna rivelazione
di Dio attraverso le nostre facoltà e le tendenze della vita
collettiva, stringa in armonia Terra e Cielo, santifichi
coll'adempimento del Dovere i diritti, e insegni all'uomo che deve
non distruggere, ma sviluppare e perfezionare gli elementi dei quali
si compone la Tradizione dell'Umanità: voi retrocedete a brancolare
tra le rovine del lontano passato e vi riannettete per tardo calcolo
di paura a una religione che insegnava rassegnazione al Male
quaggiù, diceva: al cielo, al cielo! perchè si sentiva incapace di
trasformare la terra, e scaglia oggi col Sillabo anatema al Moto.
Altri fra voi fantastica di un Partito Conservativo da fondarsi con
tutte le reliquie delle fazioni spente o morenti. Il Partito
Conservativo esiste: esiste da secoli: esiste nella coesione
naturale di tutti gli interessi nati dal tempo e dalla possessione:
esiste forte d'ordini, di vasta rete d'ufficî, di tesoro,
d'esercito; e non ha potuto impedire alla marea di salire. Sarà più
forte se riuscirete a ingrossarlo d'alcuni retrogradi che non
seppero difendere, quando occorreva, i loro padroni? E quanto a
reprimere, sì, lo potete; lo potete per un po' di tempo ancora; ma
lo dovete? Vi basta l'animo di combattere senza rimorso battaglie
periodiche, di mantenere ordinata con sagrificî continui, crescenti,
la guerra civile nella vostra terra, d'insanguinarvi a ogni tanto le
mani nel sangue d'uomini che illusi, traviati, son pure vostri
fratelli? E a qual pro? Non riescirete lungamente, e dovete saperlo.
O siete ciechi di tanto da non vedere l'inesorabile progressione
seguìta in questa guerra tra chi chiede e chi nega? Paragonate le
eroiche sommosse del chiostro di Saint-Mery col moto del 1848 e le
ribellioni di Lione ai giorni di Luigi Filippo coll'ultima
insurrezione del Comune in Parigi. Le vostre sono vittorie di Pirro.
Voi potete spegner nemici; ma il Nemico è immortale. Il Nemico è
un'idea.
Voi sollevate imprudentemente il grido selvaggio: i barbari sono
alle porte della nostra città. Quel grido non è vostro: non esce, la
Dio mercè, da concetto italiano. Voi lo usurpaste a Guizot. Ma
ricordatevi almeno che l'averlo proferito non salvò Guizot, nè la
dinastia ch'egli proteggeva, nè quell'ordinamento della borghesia
ch'ei sognava e che rovinò sotto la brutale violenza del Bonaparte.
E ricordatevi che i Barbari del V secolo vinsero. A respingerli,
bisognava rifare i decaduti, immemori, scettici, corrotti Romani.
Questi che voi oggi chiamate Barbari rappresentano sviata, guasta,
sformata per colpa vostra in gran parte, una Idea: il salire
inevitabile, provvidenziale, degli uomini del Lavoro. Perchè lo
dimenticate? Voi balbettate a ogni ora la sacra parola Progresso; ma
cos'è questa Legge divina che noi scrivemmo d'antico sulla nostra
bandiera se non l'avvicinarsi di passo in passo all'unità della
famiglia di Dio? Non è questo moto ascendente degli Operaî, nelle
sue radici, una fase, indicata dai tempi, di quel Progresso? Non
dovreste benedirlo come adempimento del disegno divino nel mondo?
Voi siete studiosi e forse dotti di Storia; ma non v'insegna la
Storia che un'Epoca dell'Umanità o una Nazione non sorge se non
coll'affacciarsi d'un nuovo elemento alla vita sociale? Perchè non
sentite il bisogno e il dovere d'ajutare a sorgere questo elemento?
Perchè volete conservare l'inferiorità di milioni d'uomini, figli
come voi di Dio, nati con voi nella stessa terra e chiamati allo
stesso fine? Noi abbiamo, scriveva dì sono, meravigliando
dell'ingratitudine popolare, un gazzettiere dei vostri, fondato le
Casse di Risparmio pei malcontenti. È derisione? È follìa? Casse di
risparmio per chi si lagna di non poter risparmiare? Casse di
risparmio per risolvere un problema d'eguaglianza, di libertà non
mentita, d'associazione, d'unità morale da ordinarsi nello Stato? E
voi, professori, senatori e marchesi, che dichiarate, esagerando,
urgente il problema e gigantesco il pericolo, date e chiedete lodi e
patenti di salvatori al gazzettiere che intende a risolvere l'uno e
scongiurar l'altro con rimedî siffatti?
Ciò che le Classi Operaje in Italia vogliono - ciò che noi pure,
credenti in Dio, nella santità della Famiglia, nella Proprietà
individuale, nella Patria, e avversi alle stolte teoriche del Comune
di Parigi e alle tendenze, come ci sono note, dell'Internazionale,
vogliamo per esse - è questo:
In un Popolo che sorge a Unità di Nazione, Unità per la quale essi
hanno largamente versato il proprio sangue, gli Operaî vogliono
sorgere essi pure e aver parte di cittadini, d'uomini liberi su
terra libera, in quell'Unità, migliorando le loro condizioni morali,
intellettuali e - dacchè quel miglioramento esige tempo e mezzi
ch'oggi mancano ad essi - economiche:
Vogliono una Educazione Nazionale, uno Stato che ad essi e a tutti
comunichi, come pegno d'eguaglianza morale e di progresso futuro, il
programma, la tradizione, i principî universalmente accettati e il
fine del paese in cui sono chiamati a vivere e ad agire - e che
agevoli l'insegnamento speciale necessario al genere di lavoro che
scelgono:
Vogliono il voto, un ordinamento politico nel quale essi possano per
mezzo dei loro rappresentanti esprimere bisogni, tendenze, desiderî
oggi commessi a uomini d'altre classi e con interessi diversi:
Vogliono un ordinamento di Milizia Nazionale che li chiami,
occorrendo, tutti a combattere per l'integrità, l'indipendenza,
l'onore, la missione della propria terra e che li ammaestri a
compire questo sacro dovere, ma senza pericoli per la libertà del
paese e col menomo dispendio del tempo sottratto alla vita di
famiglia e alla produzione:
Vogliono un ordinamento di libertà amministrativa che, senza nuocere
menomamente all'Unità morale e politica della Nazione, affidi agli
eletti dal voto universale del Comune la gestione degli interessi
economici e degli Ufficî del Comune medesimo, la tutela della
sicurezza pubblica locale, la scelta dei più tra gli ufficiali
preposti all'esecuzione delle leggi nazionali:
Vogliono un sistema di tributi che, lasciando inviolabile da ogni
diretta o indiretta sottrazione il puro necessario alla vita,
graviti equamente su ciò che varca quel limite:
E vogliono pacificamente, gradatamente, sostituire all'ordinamento
attuale del lavoro retribuito con salario dai detentori di capitali
quello del lavoro associato: unire, in altri termini, nelle mani
d'associazioni libere e volontarie, industriali e agricole, capitale
e lavoro.
Questo vogliono e avranno le Classi Operaje: sono aspirazioni
fondate sulla giustizia, additate dalla progressione storica della
vita collettiva dell'Umanità, attuabili senza spogliazioni o brutali
violazioni di diritti legittimamente acquistati, promettitrici
d'incremento alla produzione e di meno anarchico assetto alla vita
economica, giovevoli quindi a ogni classe di cittadini; e quando da
quasi mezzo secolo queste aspirazioni sprezzate, neglette,
combattute, invigoriscono tuttavia d'anno in anno e numerano oggi
non migliaja, ma milioni d'uomini affratellati in esse, i tempi sono
evidentemente maturi perchè, entro un tempo non remoto, trionfino.
Soltanto - e parliamo non ai professori, senatori e marchesi
inaccessibili probabilmente ai nostri consigli, ma ai numerosi
uomini delle classi medie che non sono vincolati a sistemi o
interessi privilegiati, che possiedono perchè hanno lavorato e
lavorano, che vorrebbero il bene; ma, soverchiamente diffidenti
d'ogni mutamento, paventano per ogni dove guai che sta in essi
d'evitare - soltanto, se quest'elemento popolare chiamato
irrevocabilmente a salire non troverà nei già saliti fuorchè
resistenze cieche, repressioni feroci e oltraggi dagli uni,
noncuranza, scherno, diffidenza e disamore dagli altri, evocherete i
pericoli che temete: quell'elemento inoltrerà non come fiume
fecondatore, ma come torrente che straripa, inonda e affoga: quel
popolo abbandonato, rejetto, accoglierà facilmente la parola d'ira e
vendetta, le idee puramente negative e sovvertitrici che abbondano
oggi in Europa: avrete imitazioni di Comuni parigini, Internazionale
e flagello periodico di guerra civile.
Amare, concedere le prime richieste or ora accennate, giovare
all'ultima, affratellarvi, a temperarlo, col moto: questa è oggi la
parte vostra.
Ma potete, nelle condizioni in cui siete, compirla? Potete
collocarvi, pacificatori efficaci, tra l'elemento temuto e chi è
costretto a tentar di reprimerlo, nè cura se andiate voi pure
sommersi? È la prima questione che ciascuno di voi dovrebbe, nella
propria mente, risolvere. Per noi, è da lunghi anni risolta.
AGLI OPERAI ITALIANI((325))
Molti fra voi m'amano e sanno ch'io v'amo. V'amo come s'ama una
speranza d'immortalità per la creatura più cara, perchè so che in
voi, uomini del Lavoro, vivono più che altrove i fati immortali
d'Italia: v'amo perchè le ingiuste privazioni sofferte da secoli non
v'hanno insegnato a odiare - perchè, soli forse in Europa, avete
sentito che non s'hanno diritti se non meritandoli, e vi siete
raccolti intorno a una bandiera che porta scritto Dovere - perchè da
quando una speranza di risurrezione albeggiò per la patria vostra,
voi compiste il dovere, combattendo, patendo, morendo - perchè
combattete, patite, morite ignoti, senza orgoglio di fama tra i
vivi, senza nome lasciato ai posteri, nel silenzio e nella santità
del martirio. E voi m'amate perchè sapete che s'io non ho potuto
fare, ho desiderato molto per voi, senza mire individuali o sprone
fuorchè quello del culto al Bene; perchè sapete che s'io posso, come
ogni uomo può, errare nell'intelletto, non posso, per colpa di cuore
o per amore di vittoria più rapida, tentar d'ingannarvi; perchè
sentite nell'anima ch'io amo oggi il vostro avvenire, svanita per
gli anni ogni speranza di salutarlo con voi, com'io l'amava quando,
fervido d'energia e di fiducia, io m'affacciava alla vita politica;
e l'amerò, morendo, com'oggi. Io da lungo non vi scrivo
direttamente, ma scrivendo intorno alle cose del paese, non ho mai
taciuto dell'elemento vostro, nè del mutamento delle vostre
condizioni come di cosa inseparabile da ogni possibile progresso
Italiano. Di voi non temevo e sapevo che, per apprestarvi a quel
progresso, non avevate bisogno di sprone. E s'oggi m'indirizzo a
voi, lo fo per avvertirvi d'un pericolo che vi minaccia e che sta in
voi soli d'allontanare.
Di mezzo al moto normale degli uomini del Lavoro è sorta
un'Associazione che minaccia falsarlo nel fine, nei mezzi e nello
spirito al quale v'inspiraste finora e dal quale soltanto otterrete
vittoria.
Parlo dell'Internazionale.
Quest'Associazione, fondata anni addietro in Londra e alla quale io
ricusai fin da principio la mia cooperazione, è diretta da un
Consiglio, anima del quale è Carlo Marx, tedesco, uomo d'ingegno
acuto; ma, come quello di Proudhon, dissolvente: di tempra
dominatrice, geloso dell'altrui influenza, senza forti credenze
filosofiche o religiose e, temo, con più elemento d'ira, s'anche
giusta, che non d'amore nel cuore. Il Consiglio, composto d'uomini
appartenenti a paesi diversi e nei quali sono diverse le condizioni
del popolo, non può avere unità di concetto positivo sui mali
esistenti e sui rimedî possibili, ma deve inevitabilmente
conchiudere più che ad altro a semplici negazioni. L'unico modo
ragionevole d'ordinamento per le classi artigiane d'Europa è quello
che, riconoscendo sacre le Nazionalità e lasciando alle diverse
Associazioni nazionali il maneggio delle cose proprie, formerebbe di
delegati da esse muniti d'istruzioni un centro comune per ciò che
può mantenere fin dove giova l'armonia del moto verso il fine
generale. Un nucleo d'individui che s'assuma di governare
direttamente una vasta moltitudine d'uomini diversi per patria,
tendenze, condizioni politiche, interessi economici e mezzi
d'azione, finirà sempre per non operare o dovrà operare
tirannicamente. Per questo io mi ritrassi e si ritrasse poco dopo la
Sezione operaja italiana appartenente in Londra all'Alleanza
Repubblicana.
L'Internazionale esercitò predominio sul secondo periodo
segnatamente del recente moto parigino. Di questo, del programma da
esso adottato, degli atti che deturparono quel periodo, ho parlato
altrove. Il programma trovò inerte la Francia: per la prima volta
Parigi sorse e cadde isolata. E quanto al fascino ch'esercita su
molti la potenza della quale fece prova in Parigi l'Associazione,
non cercherò, come potrei, di scemarlo esaminando le circostanze
singolari tanto da non riprodursi probabilmente più mai, che posero
armi, uomini, mezzi e passioni di popolo offeso in mano ai capi. Mi
sentirei reo di pensare bassamente di voi s'io, esortandovi a star
discosti da quell'Associazione, vi parlassi d'altro che del fine a
cui tende. Da quello soltanto, non dalla cifra de' suoi affigliati,
voi dovete giudicarla. Come me voi sapete che ogni forza è incapace
di durare se non s'appoggia sul Vero e sul Giusto. L'Internazionale
è condannata a smembrarsi; e in Inghilterra, sede del Centro, lo
smembramento è già cominciato.
Accennando ai principî che dirigono l'Associazione non intendo di
dire che formino la fede di tutti i suoi membri. In un ordinamento
come quello che la costituisce non può esistere vera unità; e so di
Sezioni collocate in terre lontane dal Centro che ignorano
completamente le sue tendenze: sanno d'appartenere a un'Associazione
europea che ha per fine l'emancipazione delle classi operaje e
null'altro. Gli atti officiali del Centro furono sino ad oggi rari e
mal noti. Ma quei principî rivelati dapprima da oratori imprudenti
nei Congressi internazionali tenuti negli anni vicini a noi nella
Svizzera e nel Belgio, non furono smentiti dal Centro; ebbero di
tempo in tempo conferma da discorsi pubblici d'uomini del Consiglio
in Londra e l'ebbero più recentemente, dominando il Comune, in
Parigi.
I principî promossi dai capi e dagli influenti dell'Internazionale
sono:
Negazione di Dio - cioè dell'unica, ferma, eterna, incrollabile base
dei doveri vostri e dei vostri diritti, dei doveri altrui verso la
vostra classe, della certezza che siete chiamati a vincere e che
vincerete. Cancellata l'esistenza d'una prima Causa intelligente, è
cancellata l'esistenza d'una Legge Morale suprema su tutti gli
uomini e costituente per tutti un obbligo; è cancellata la
possibilità d'una legge di Progresso, d'un disegno intelligente
regolatore della vita dell'Umanità: progresso e moralità non sono
più che fatti transitorî, senza sorgente fuorchè nelle tendenze;
negli impulsi dell'organismo di ciascun uomo, senza sanzione fuorchè
dall'arbitrio di ognuno, da interessi mutabili o dalla forza. Dio,
il caso, la forza, cieca, insuperabile, delle cose, sono infatti le
sole tre sorgenti imaginabili della Vita; ma, rinnegata la prima e
accettata l'una o l'altra delle ultime due, in nome di che
v'assumerete il diritto d'educazione? in nome di che condannerete
l'uomo che s'allontana per egoismo dalle vie del Bene? in nome di
che protesterete contro i vostri ingiusti padroni? in nome di che li
combatterete? Da dove dedurrete l'esistenza d'un fine comune a tutti
che v'autorizzi a dir loro: «siamo, dobbiamo essere tutti fratelli e
associati a raggiungerlo?» Invocherete l'interesse che vi sprona a
conquistare? Ma con qual diritto negherete agli altri l'interesse
che li sprona a conservare? In virtù di quale principio, di quale
dovere chiamerete gli avversi, i vostri, occorrendo, al Martirio? E
perchè? I sacrificî, il martirio non possono creare immediato il
mutamento di condizioni invocato. Voi combattete e chiamate altri a
combattere pei vostri figli, per quei che verranno: or chi
v'assicura, se il mondo è governato dal caso o da forze fisiche
operanti senza scopo e d'incerta durata, che esciranno dalle opere
vostre e rimarranno stabilmente i frutti sperati? Invocherete la
Forza, che senza santificazione d'un fine prescritto è violenza? Il
numero che, se non è l'espressione, l'interprete d'una Legge Morale,
cede all'arbitrio d'un impulso, d'una seduzione, d'un errore? Il
senso d'un interesse materiale ch'io ho veduto spingere il popolo un
giorno a fondare Repubblica, un altro a fondar l'Impero? E badate:
la questione ridotta nei termini della pura forza pende dubbiosa. I
sostenitori dell'ordine attuale hanno ordinamento vecchio di secoli,
potente di disciplina e di mezzi che nessuna società internazionale,
combattuta d'ora in ora e costretta a operar nel segreto, potrà
raggiungere mai. Oggi, il vostro moto è santo perchè s'appoggia
appunto sulla Legge Morale negata, sulla progressione storica
rivelata dalla Tradizione dell'Umanità, sopra un concetto
d'educazione, d'associazione crescente, d'unità della famiglia
umana, prefisso da Dio alla Vita. Voi distaccate ogni giorno, in
nome di quella legge, di quel disegno divino, il cui compimento è
quindi presto o tardi inevitabile, uno o altro elemento
dall'esercito dei conservatori, dai difensori del vecchio mondo. La
vostra è crociata. Convertitela in ribellione, in minaccia
d'interessi contro interessi: voi non potrete più far calcolo che su
forze vostre. Siete certi che bastino? E ov'anche bastassero, non
contaminereste la vostra vittoria di lunghe, terribili battaglie
civili e di sangue fraterno?
Negazione della Patria, della Nazione - cioè del punto d'appoggio
alla leva colla quale potete operare a pro di voi medesimi e
dell'Umanità; ed è come se vi chiamassero al lavoro negandovi ogni
divisione del lavoro stesso o chiudendo davanti a voi le porte
dell'opificio. La Patria vi fu data da Dio, perchè in un gruppo di
venticinque milioni di fratelli affini più strettamente a voi per
nome, lingua, fede, aspirazioni comuni e lungo glorioso sviluppo di
tradizioni e culto di sepolture di cari spariti e ricordi solenni di
martiri caduti per affermare la Nazione, trovaste più facile e
valido ajuto al compimento d'una missione, alla parte di lavoro che
la posizione geografica e le attitudini speciali v'assegnano. Chi la
sopprimesse, sopprimerebbe tutta quanta l'immensa somma di forze
creata dalla comunione dei mezzi e delle attività di quei milioni e
vi chiuderebbe ogni via all'incremento e al Progresso. Alla Nazione
l'Internazionale sostituisce il Comune, il Comune indipendente,
chiamato a governare da sè. Voi esciste dal Comune, dicono: in esso
s'educò la vostra vita; ed è vero, ma retrocederete voi alla vita
dell'infanzia, darete ad essa prevalenza sulla vita virile, perchè
prima d'essere uomini foste fanciulli? La vita del Comune fu
storicamente preceduta da quella di famiglia: perchè non risalir
fino a quella? Non leggete appunto nella progressione ascendente
seguìta ovunque dalla famiglia al Comune, dal Comune alla Nazione,
dalla Nazione isolata al concetto della Federazione delle Nazioni,
l'opera della Legge che vi chiama a stringervi più sempre in più
vasta e intima Associazione? Se vi sentite, insistono, stretti a
fratellanza di Patria, anche col nostro ordinamento rimarrete tali.
No; non rimarrete. L'educazione morale eguale e le leggi uniformi
son necessarie a trasmettere di generazione in generazione quel
sacro accresciuto deposito di fratellanza in un fine concordemente
accettato: ed essi lasciano l'educazione e le leggi all'arbitrio
d'ogni Comune. Abbiate educazione e leggi affidate in quasi novemila
Comuni a influenze predominanti per un tempo negli uni o negli altri
d'uomini di progresso o retrogradi, d'unitarî o federalisti, di
credenti in Dio e nell'anima immortale o di materialisti o di
clericali cattolici; e avrete, dopo un terzo di Secolo, rinati tutti
i piccoli egoismi locali, financo il nome di Patria svanito e
risorte le risse civili del medio evo; e intanto, angustia di mezzi
per ogni dove, tronche le vie ai grandi sviluppi politici,
intellettuali, economici, ridotta la vita italiana a povera, gretta
esistenza vegetativa. Il concetto dell'Internazionale guida
inevitabilmente all'anarchia e all'impotenza.
Negazione d'ogni proprietà individuale - cioè d'ogni stimolo alla
produzione da quello della necessità di vivere in fuori. La
proprietà, quando è conseguenza del Lavoro, rappresenta l'attività
del corpo, dell'organismo, come il pensiero rappresenta quella
dell'anima; è il segno visibile della nostra parte nella
trasformazione del mondo materiale, come le nostre idee, i nostri
diritti di libertà e d'inviolabilità della coscienza sono il segno
della nostra parte nella trasformazione del mondo morale. Chi lavora
e produce ha diritto sui frutti del proprio lavoro; in questo
risiede il diritto di proprietà. E se la maggiore o minore attività
nel lavoro è sorgente d'ineguaglianza, quell'ineguaglianza materiale
è pegno d'eguaglianza morale, conseguenza del principio che ogni
uomo deve essere retribuito a seconda dell'opera sua: avere quanto
egli ha meritato. Bisogna tendere all'impianto d'un ordine di cose
nel quale la proprietà non possa diventar monopolio e non scenda in
futuro se non dal lavoro, nel quale, quanto al presente, le leggi
tendano a scemare gradatamente il suo permanente concentramento in
poche mani e si giovino d'ogni giusto mezzo ad agevolarne la
trasmissione e il riparto. Ma l'abolizione della proprietà
individuale e la sostituzione della proprietà collettiva
sopprimerebbero ogni sprone al lavoro - sopprimerebbero ogni stimolo
a dare, coi miglioramenti e col pensiero dato ai prodotti futuri, il
più alto valore possibile di produzione alla proprietà -
sopprimerebbero la libertà del lavoro negli individui - e,
attribuendo all'autorità di pochi rappresentanti lo Stato o il
Comune, accessibili all'egoismo, alla seduzione, a tendenze
arbitrarie, l'amministrazione d'ogni proprietà, ricondurrebbero
sott'altro nome tutti i cittadini al sistema del salario, al quale
vorremmo che a poco a poco sottentrasse l'associazione, e
riaprirebbero le vie a tutti quei mali ch'oggi provocano le vostre
lagnanze contro i pochi detentori di capitali. La proprietà
collettiva rappresentò il primo stadio della vita economica, quando
l'umanità nell'infanzia non era peranco escita dal sistema
patriarcale delle famiglie. Oggi non dura che nei Comuni di Russia,
dove da alcuni anni i lavoratori, emancipati dalla servitù,
s'affrettano a procacciarsi proprietà individuale.
Nè prolungherò questo ingrato esame. I pochi punti toccati devono,
parmi, bastarvi per giudicare se dall'Internazionale possa o no
venirvi salute.
No; voi non lascerete, per proposte siffatte, la via calcata sinora,
e io potrò, sino all'ultimo giorno, movere su quella con voi. Se v'è
città fra le nostre nella quale l'Internazionale abbia trovato
aderenti, è quella - non la nomino, ma v'è nota - dove l'elemento
operajo e più muto, più ritroso ad ogni vitalità di progresso.
Quando, riandando la Storia, trovate idee che, sorte col primo noto
periodo della vita dell'Umanità, hanno vissuto con essa d'Epoca in
Epoca, trasformandosi sempre, ma rimanendo sempre e per ogni dove,
nella loro essenza, inseparabili dalla società e più forti d'ogni
rivolgimento distruggitore d'altre idee appartenenti a un solo
Popolo o a un'Epoca sola - e se, interrogando nei migliori momenti
d'affetto, di santo dolore, di devozione al Bene, la vostra
coscienza, sentito dentro un'eco a quelle idee che i secoli vi
trasmettono - quelle idee son vere e ingenite nell'Umanità della
quale devono seguire il progresso: voi potete e dovete modificarle,
purificarle, migliorarne lo svolgimento e l'applicazione; non
abolirle. Dio, l'Immortalità della Vita, la Patria, il Dovere, la
Legge Morale che sola è sovrana, la Famiglia, la Proprietà, la
Libertà, l'Associazione sono tra quelle.
Voi - perchè meritaste col sacrificio, perchè non cercaste di
sostituire alle altre la vostra classe, ma d'inalzarvi con tutti,
perchè invocate una diversa condizione economica, non per egoismo di
godimenti materiali, ma per potere migliorarvi moralmente e
intellettualmente - avete oggi diritto a una Patria di liberi e
d'eguali nella quale abbiate comune con tutti i vostri fratelli
l'educazione, comune il voto per contribuire all'avviamento
progressivo del paese, comuni l'armi per difenderne la grandezza e
l'onore, esente da ogni tributo diretto o indiretto il necessario
alla vita, libertà di lavoro e ajuti ove manchi a dove lo vietino
gli anni o le malattie; poi favore e agevolezza di credito nei
vostri tentativi per sostituire a poco a poco al sistema attuale del
salario il sistema dell'associazione volontaria fondata sull'unione
del lavoro e del capitale nelle stesse mani. Non vi sviate da quel
programma: non v'allontanate da quei tra i vostri fratelli che
riconoscono questi vostri diritti e s'adoprano a spianare le vie a
instituzioni che possano riconoscerli e tutelarli. Chi vi chiama ad
altro non può giovarvi.
Educatevi, istruitevi come meglio potete: non dividete mai i vostri
dai fati della vostra Patria, ma affratellatevi con ogni impresa che
miri a farla libera e grande: moltiplicate le vostre associazioni e
inanellate in esse, dovunque è possibile, l'operajo dell'industria
con quello del suolo, città e contado: adopratevi a creare più
frequenti le società cooperative di consumo. E fidate nell'avvenire.
Ma unitevi compatti, serrati, ordinati a modo d'esercito. Oggi nol
siete. Le vostre società sono moralmente collegate dalle comuni
tendenze; ma nessuna ha mandato per parlare, se non nel proprio
nome, nessuna può far suonare davanti al paese la voce di tutta la
Classe artigiana a esprimerne bisogni e voti, nessuna può dire
autorevolmente: questo vogliono, questo respingono gli operaî
d'Italia. Voi avete unità di fine, non d'azione e di metodo. Senza
un Patto di fratellanza, senza un Centro direttivo, voi non potete
acquistare nè infondere in altri coscienza della forza ch'è in voi:
non potete ordinare e pubblicare una statistica dei mali che
affliggono la vostra classe: non potete dar vigore d'uniformità o di
periodicità all'indicazione degli opportuni rimedî.
Queste cose io vi dissi pochi anni addietro; e voi le accoglieste
convinti. Un Patto fu steso e accettato dalla maggioranza delle
società in uno dei vostri Congressi. Ma per un errore commesso nella
formazione dell'Autorità direttiva, quel Patto rimase lettera morta,
inutile, dimenticato. Perchè non date opera a ravvivarlo, a ridare,
con più saggi provvedimenti, vigore a quel moto di concentramento
oggi più che mai urgente? E perchè volete, voi, elemento nuovo che
sorge, nè può arrestarsi senza retrocedere, far vostra la colpa
frequente pur troppo in Italia del dire e non fare?
Roma, la Città madre, è oggi nostra; ma nostra a mezzo, nostra
materialmente soltanto; e incombe a noi tutti di versare in essa
l'anima della Patria e da essa ricevere la consecrazione alla via
che dobbiamo correre perchè si compiano i vostri fati e una
manifestazione potente della Vita Italiana faccia santa e feconda
l'unione. Perchè non v'affrettate a raccogliervi in Roma a Congresso
e attingervi nuovo battesimo alla vostra Fratellanza? Forse, oltre
all'immenso vantaggio per voi, ricordereste coll'esempio e quasi
iniziatori all'Italia che da Roma deve escire un altro e più largo
Patto, il Patto Nazionale, definizione della nostra vita avvenire,
senza il quale Roma e l'Italia son vuoti nomi.
IL MOTO DELLE CLASSI ARTIGIANE
E IL CONGRESSO((326)).
Abbiamo combattuto e combatteremo i traviamenti e peggio della
Internazionale e de' suoi copisti in Italia; ma perchè, oltre
all'amore innato del Vero e del Bene, ci sprona il convincimento
ch'essi falsano il moto operajo e ne indugiano il giusto trionfo. Il
moto ascendente delle classi artigiane costituisce uno dei
principali caratteri dell'Epoca nuova che invochiamo e alla quale
cerchiamo una iniziativa in Italia perchè non è da trovarsi altrove.
Noi non aspettammo per dichiararlo le inattendibili promesse dei
socialisti francesi o le selvaggie ire odiatrici, e per questo
impotenti al bene, dell'Associazione che ha centro in Londra. Dal
primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime
manifestazioni, la causa degli Operaî fu nostra e la immedesimammo
col moto nazionale italiano. Attraverso ormai quaranta anni
d'apostolato insistemmo a ripetere che una Rivoluzione non è
legittima ne può esser durevole se non congiunge la questione
sociale colla politica, se non trasforma sulla via del Progresso e
nei limiti del possibile l'ordinamento economico, se non migliora,
senza danno o ingiuria ad altrui, le condizioni del lavoro, dei
produttori. Proponemmo come mezzi transitorî l'educazione Nazionale
uniforme; instituzioni capaci di prevenire ogni esempio di
corruzione che venga dall'alto; un sistema economico fondato sul
risparmio, sull'aumento delle sorgenti di produzione,
sull'appropriazione di parte del danaro pubblico e dei beni da
incamerarsi ai bisogni degli operaî industriali e agricoli; un
ordinamento di tributi che non graviti direttamente o indirettamente
sul necessario alla vita; imprese nazionali dirette a conquistare
alla produzione i quattro milioni d'ettari di terra italiana oggi
incolta, a creare colle colonizzazioni volontarie una nuova classe
di piccoli proprietarî e dare al paese le forze produttrici ch'oggi
emigrano in cerca di lavoro a lontani lidi stranieri; e additammo
ultima soluzione del problema da conquistarsi lentamente,
progressivamente, liberamente, la sostituzione del sistema
d'associazione del capitale e del lavoro e dell'equa partecipazione
di tutti i produttori ai frutti del lavoro, all'attuale sistema del
salario. Ajutammo come era in noi - e gli operaî, che non sono
sofisti nè ingrati, non lo dimenticano - l'impianto delle società di
mutuo soccorso, preludio a quelle di cooperazione. Tentammo di far
intendere alla classi medie che il moto operajo non era sommossa
sterile e passeggiera, ma cominciamento d'una Rivoluzione
provvidenziale voluta dalla progressione storica che governa la vita
e l'educazione dell'Umanità - che associazione era il termine
elaborato dall'Epoca nuova e da aggiungersi, in tutte le
manifestazioni della vita, ai termini libertà ed eguaglianza già
conquistati dall'umano intelletto - che tra noi quel moto e quel
termine erano a un tempo, dacchè ogni Epoca chiama, sorgendo, ad
attività un nuovo elemento, pegno del nostro esser chiamati a farci
Nazione e d'un vincolo d'alleanza che si porrebbe presto o tardi fra
le Nazioni ordinate a vita di popolo - ma che quel moto salutato,
ajutato fraternamente dall'altre classi con atti d'apostolato simili
ai nostri, si serberebbe incontaminato d'errori funesti e di basse
passioni e frutterebbe a quanti ordini di cittadini vivono sulla
nostra terra; combattuto colla violenza, tormentato di diffidenze o
abbandonato da una colpevole noncuranza all'isolamento, si svierebbe
facilmente a torti pensieri e accoglierebbe, invece della nostra
severa parola Dovere, le promettitrici parole dei primi demagoghi
cupidi, anelanti vendetta o vogliosi d'erigersi sui bisogni reali
degli Operaî un seggio di dominazione.
Non fummo ascoltati.
I Governi senza missione che tennero dal 1815 in poi un potere
fondato sul privilegio durarono paghi a vietare e reprimere. Le
classi medie non guardarono al moto o guardarono con sospetto. Gli
economisti officiali seguirono a dire che la libertà finirebbe per
sanare ogni piaga, come se tra chi propone patti giusti o ingiusti
di lavoro e chi è costretto dal bisogno d'oggi o del dì dopo ad
accettare potesse mai esistere libertà di contratto. I cattolici
additarono a chi soffriva il cielo, come se non dovessimo meritarlo
colle opere nostre qui sulla terra e si trattasse unicamente del
nostro, non dell'altrui soffrire. Taluni fra i migliori s'illusero a
potere risolvere un grande problema sociale insegnando agli Operaî
le grette egoistiche avvertenze di Franklin sul modo di salvare di
giorno in giorno pochi centesimi o fondando, come se tutta una
classe potesse salire ed emanciparsi colla elemosina, qualche
istituto di beneficenza.
L'Internazionale è il frutto inevitabile della repressione
governativa e della noncuranza delle classi educate e più favorite
dalla fortuna.
La repressione brutale di pretese ch'erano da principio giuste in in
sè generò riazione e pretese ingiuste: l'uomo respinto violentemente
da un lato trabocca oltre ogni equilibrio dall'altro. La noncuranza
di chi avrebbe dovuto affratellarsi al moto e contribuire a
dirigerlo riconcentrò l'operajo in sè stesso, lo indusse a non far
calcolo che delle proprie forze, a numerarle, a trovarsi libero
d'usarne, il giorno in cui fossero predominanti, a danno degli
indifferenti ai suoi mali: chi viola o lascia che si violi il
diritto altrui non può presumere ch'altri protegga o rispetti il
suo. Nessuno ha diritti se non compie doveri.
Oggi, la livida luce di lampo che solcò impreveduta l'orizzonte
francese in Parigi ha rotto i sonni delle classi medie e la stampa
che le rappresenta parla di gravi problemi che non possono più
trascurarsi; ma, e lo diciamo con dolore, quel ridestarsi assume
sembianza, più che d'amore, di paura; e la paura è pessima
consigliera. Non parliamo della feroce repressione consumata in
parte, in parte minacciata dagli uomini che usurpano un potere
costituente in Versailles: essa ha rinfiammato e rinfiammerà più
sempre, se dura, le ire segrete e l'anelito alla vedetta; non
parliamo delle persecuzioni iniziate ad arbitrio da altri Governi:
per ciò appunto che non sanno se non reprimere, i Governi d'oggi
sono irrevocabilmente condannati a perire. Ma gli uomini, gli ordini
intermedi di cittadini, compiono essi o s'apprestano a compiere il
debito loro?
Il problema è grave, dicono, perchè è minaccioso; bisogna studiarlo:
intanto raccomandano vigilanza ai Governi, rassegnazione agli
Artigiani. Trascorsi pochi mesi, se nulla turberà l'apparente
quiete, i consiglieri s'illuderanno intorno al futuro e
ricomincieranno, prevediamo, a tacere.
Il problema è non solamente grave, ma santo, e prima condizione per
meritar di risolverlo senza crisi violente è il sentirlo tale, e
l'affacciarsi ad esso non col senso di paura ch'esce dalla minaccia,
ma col palpito di speranza che vien dall'amore. Se volete governare
e dirigere al bene un popolo, amatelo. È santo per voi il nascere
alla famiglia individuale d'un pargolo e ne circondate la culla
d'affetti, di sorriso e di cure proteggitrici: non sarà santo il
sorgere d'una classe intera? non verserete su quel pargolo della
famiglia nazionale, a proteggerne ed ajutarne il progresso, parte
della vostra forza? L'Angelo della Patria siede alla culla di quel
fanciullo collettivo che domanda ammissione al consorzio civile e
recherà alla Madre comune incremento di vita e nuovo vigore di
pensiero e d'azione. L'emancipazione politica data ai quattro
milioni d'operaî dell'industria manifatturiera e ai nove milioni
d'agricoltori li svierà, colla coscienza d'una nuova e degna
missione da compiere, da molte funeste abitudini, sopirà ogni fiamma
di discordia tra classe e classe, allontanerà ogni cagione di subiti
e pericolosi rivolgimenti e trarrà dal loro intelletto oggi muto
nuovo alimento al deposito collettivo d'inspirazioni e d'idee che
forma la tradizione italiana. L'Educazione e la loro partecipazione
progressiva a seconda delle opere nei prodotti del Lavoro,
accresceranno la quantità e la qualità della produzione,
conquisteranno ad essa il tempo oggi speso nell'invigilare,
sopprimeranno la necessità d'una moltitudine d'agenti improduttivi
intermedî. E ogni passo dato innanzi, sulla via dell'Eguaglianza e
del Progresso, da quei milioni è un passo verso quell'unità morale
della Famiglia italiana e per essa dell'Umanità, ch'è il nostro
ideale e sorgente di tutti i nostri doveri.
Voi dovreste salutare con gioja di fratelli questo moto ascendente
delle Classi artigiane e vergognarvi d'aver aspettato che la paura
vi insegnasse a intenderne l'importanza.
E il problema è studiato: studiato, da ormai mezzo secolo, quanto
basta perchè sian noti i vizî che affliggono le Classi artigiane e i
primi rimedî coi quali dovrebbe iniziarsi la loro emancipazione. Ma
quel lavoro che dovremo probabilmente ricapitolare un dì o l'altro
nella Roma del Popolo e ch'or voi vorreste, quando urge il fare,
ricominciare, ha un difetto: fu fatto, spesso sotto gli impulsi
della paura, quasi sempre con amore esclusivo d'uno o d'altro
sistema preconcetto e prendendo, come in altro scritto dicemmo, le
mosse da un solo degli elementi che costituiscono la vita
dell'Umanità, da pensatori isolati, da letterati di gabinetto, da
uomini che - i più almeno - studiarono il problema, non nelle
officine e nelle abitazioni dove trascinano la vita le famiglie
degli artigiani, ma sui libri, statistiche e documenti talora
errati, quasi sempre incompiuti perchè compilati o da autorità
tendenti a celare il male o da individui tendenti ad esagerarlo. La
verificazione di quel lavoro non può farsi se non dagli Artigiani
medesimi.
È necessario che gli Artigiani d'Italia dicano pacificamente, ma
seriamente e officialmente, ai loro fratelli di patria i loro
bisogni e le loro aspirazioni, ciò che patiscono, ciò che, nella
loro opinione, porgerebbe ai loro patimenti rimedio.
E perchè la loro voce suoni officialmente al paese, è necessario che
esca, non da una o altra società capace di rappresentare soltanto
condizioni, interessi, opinioni locali, ma convalidata da
un'Autorità interprete riconosciuta dalla Classe artigiana intera e
che compendii legalmente in sè tutti i caratteri del suo moto
collettivo ascendente. L'esposizione escita da quell'Autorità
centrale, sarà l'unica base che possa per noi ragionevolmente
idearsi agli studî ch'altri annunzia voler imprendere.
La costituzione di questa Rappresentanza centrale e l'impianto di
una pubblicazione periodica, organo collettivo della Classe
artigiana convalidato dalla Direzione centrale, devono essere
appunto il fine principale del Congresso operajo che si terrà,
speriamo fra non molto, in Roma.
E questo Congresso porge, a quanti s'affratellano nell'animo al
progresso delle classi operaje e desiderano pel bene della Patria
comune che quel progresso si compia pacifico, sobrio nelle esigenze
e fondato sulla concordia di tutte le classi, una mirabile
opportunità per dare ai loro fratelli operaî un pegno delle loro
intenzioni amorevoli e al moto stesso un carattere normale alieno da
ogni tristissima realtà o apparenza di conflitto civile.
L'invio dei delegati delle società dalle diverse parti d'Italia a
Roma, la retribuzione che dovrà stabilirsi per gli eletti a formare
in Roma la Commissione centrale, l'impianto della pubblicazione
periodica che dovrà esserne l'organo, costano, e gli artigiani son
poveri. Le società faranno, non ne dubitiamo, il debito loro;
nondimeno ogni spesa è vero sacrificio per esse; e ci sembra che
toccherebbe a noi tutti di provare, concorrendo, agli uomini del
Lavoro, che nostro è il loro problema, nostre sono le loro speranze,
nostro è il loro avvenire.
Noi proponiamo che s'apra una sottoscrizione per lo scopo accennato
di contribuire alle spese che il Congresso e i fini cercati da esso
vorranno. E proponendola e invitando i buoni a secondarla, crediamo
far cosa giusta e giovevole. È probabile che la proposta perirà
sommersa nell'inerzia comune. Pure, i tempi son tali da rompere
quella inerzia; e di fronte agli incitamenti che vengono dal di
fuori, importa davvero che in qualche modo, con qualche
dimostrazione visibile, le classi medie convincano gli artigiani che
non sono, come altrove, condannati alla solitudine e che il loro
progresso è a cuore di quanti hanno a cuore il progresso della
Nazione.
ALLE SOCIETÀ OPERAJE
L'AVVENIRE di torino e L'UNIVERSALE della spezia((327))
Voi m'avete scelto a vostro rappresentante nel futuro Congresso
operajo. Non potevate farmi più alto onore e vi serberò riconoscenza
perenne; ma non posso accettare e devo accennarvene le ragioni.
La prima è nelle mie condizioni fisiche. Infiacchito dagli anni e
malfermo nella salute, io mi sento oggimai assolutamente incapace di
lunghe discussioni pubbliche e non potrei compire debitamente la
parte che voi mi assegnate.
La mia presenza nuocerebbe probabilmente al fine che vi proponete e
darebbe, nell'opinione di molti, al Congresso un carattere politico
che voi dovete e volete evitare. Voi non potete, operaî italiani,
rinnegare, come tentarono e tentano in altre terre, l'unità del
problema umano e separare dalla questione nazionale e di progresso
politico la questione economica: siete uomini e cittadini come
operaî e non può compirsi progresso per voi se prima non si compie
nell'elemento patrio in cui foste posti a vivere. Ma l'intento
principale del vostro Congresso è oggi quello di costituirvi, di
raccogliervi tutti quanti siete, smembrati tuttora in nuclei locali,
sotto il Patto di fratellanza e la Direzione centrale che deve farvi
capaci d'esprimere officialmente ed efficacemente al paese i vostri
bisogni, i mali che vi affliggono, i rimedî che intravedete
possibili. E per questo, voi non avete bisogno di me. Importa anzi
tutto che la vostra voce a le vostre deliberazioni escano spontanee
e libere, per tutti quei che guardano in voi, da ogni sospetto
d'influenza straniera al fine che ora vi proponete. Quando udrò
determinato il tempo pel vostro convegno, io vi porgerò
pubblicamente quei pochi consigli che il mio cuore mi suggerisce
opportuni; ma il mio intervento personale darebbe pretesto agli
avversi a voi per accusarvi d'aver ceduto, in qualche vostra
determinazione, all'amore che, meritamente o immeritamente, avete
per me e per accusarmi, dacchè gli uomini di mala fede non credono
mai alla sincerità altrui, di tendere a mutare la vostra in una
manifestazione esclusivamente politica e favorevole alle credenze
dell'anima mia. Parmi debito d'evitarlo.
E finalmente - perchè tacerei con voi di ciò che forse non è che
debolezza mia individuale? - quando nel 1849, dopo la santa e
gloriosa difesa, Roma fu occupata dalle armi di Francia, corsi e
ricorsi solo, per una settimana ancora e pericolando, le vie della
città misteriosa, ch'io fin dai primi anni della mia gioventù adorai
come cuore e centro della Missione italiana e tempio d'una terza
Epoca di vita della patria nostra a pro dell'Europa e del mondo. E
allora, tra i ricordi dell'immenso passato e i presentimenti
ostinati d'un immenso avvenire, di fronte ai segni visibili d'un
Papato che aveva spinto contro Roma i soldati stranieri e d'una
Monarchia che aveva contemplato immobile l'agonia della Metropoli
d'Italia, io giurai a me stesso che non avrei più mai liberamente
respirato quelle sacre auree se una bandiera repubblicana non
sventolasse dal Campidoglio e dal Vaticano o io non potessi giovare
a piantarvela. Lasciate che, in questo periodo di giuramenti falsati
per calcolo o leggierezza di scettici, io, credente in Dio e nella
coscienza immortale, serbi, canuto, il mio. Mi sentirò più degno
d'amarvi.
AI RAPPRESENTANTI GLI ARTIGIANI
NEL CONGRESSO DI ROMA((328))
Fratelli miei,
Voi sarete, se odo il vero, tra breve raccolti in Roma. E io sciolgo
la mia promessa di darvi quei suggerimenti che mi sembrano più
opportuni al buon andamento del vostro Congresso. Non m'arrogo di
dirigervi o costituirmi interprete vostro; troppi uomini parlano
oggi in vostro nome e ripetono la frase imperiosa russa: «bisogna
insegnare all'operajo ciò ch'ei deve volere.» Ma mi pare di potervi
dire ciò che la parte buona e sinceramente italiana del paese
aspetta da voi.
La prima cosa, in ogni impresa, da accertarsi è il fine a cui tende.
Il metodo da tenersi nello svolgersi dell'impresa medesima è
suggerito logicamente dal fine. Il successo dipende dal seguirlo
tenacemente e non disviarsene mai. Ogni deviazione è inutile
dispendio di forza e di vita.
Qual è il fine a cui tende il vostro Congresso?
È, se non erro, quello di costituire un Centro che, rispettando i
diritti e i doveri puramente locali delle società, possa legalmente
rappresentare doveri, diritti, tendenze, interessi comuni a tutta
quanta la Classe artigiana ed esprimere, convalidato dalla potenza
del numero, i mali che affliggono in Italia gli uomini del Lavoro,
le cagioni che, secondo voi, li producono, e i rimedî che, secondo
voi, potrebbero cancellarli.
Un Patto di fratellanza fu stretto, tra le numerose società che
aderirono, nell'ultimo vostro Congresso tenuto in Napoli. Ma per
errori che or conoscete commessi nella costituzione appunto
dell'Autorità che doveva rappresentare quel Patto e desumerne le
conseguenze, rimase lettera morta.
Si tratta per voi di ratificare nuovamente quel Patto e di
costituire a rappresentarlo un'Autorità che abbia condizioni di
vera, forte e perenne vita.
Ed è la cosa più importante che possiate fare. Dal giorno in cui
l'avrete fatto, comincierà la vita collettiva degli operaî italiani;
avrete costituito lo strumento per progredire concordi; la questione
sociale, oggi lasciata all'arbitrio di ogni nucleo locale, potrà
definirsi davanti al paese, forte dei fatti raccolti da tutte le
società e del consenso indiretto di quasi dodici milioni tra operaî
manifatturieri, dati all'industria mineraria ed agricoltori;
petizioni, reclami, statistiche concernenti alcuni fra i mali
immediati e dovuti al malvolere o all'arbitrio degli uomini più che
alla costituzione sociale, potranno escire dal vostro Centro in nome
non d'una, ma di tutte le società operaje esistenti in Italia e
saranno per questo ascoltate. E finalmente, potrete allora
stringere, nei modi e coi patti che vi parranno opportuni, coi
vostri fratelli dell'altre Nazioni, vincoli d'alleanza che tutti
intendiamo e vogliamo, ma dall'alto del concetto nazionale
riconosciuto, non sommergendovi, individui o piccoli nuclei, in
vaste e male ordinate società straniere che cominciano dal parlarvi
di libertà per conchiudere inevitabilmente nell'anarchia o nel
dispotismo d'un Centro o della città nella quale quel Centro è
posto.
L'Associazione, concetto fondamentale dell'epoca nuova, avrà
ricevuto dal vostro elemento la prima solenne consecrazione. E
l'esempio gioverà a tutto quanto il paese.
Se questo è, com'io credo, il vostro fine principale nel riunirvi a
Congresso, il metodo da seguirsi nelle vostre deliberazioni è
chiaro.
Verificati attentamente i mandati, che devono esclusivamente esser
dati da società d'operaî, gittatevi risolutamente a quel fine, e non
tollerate che altri vi svii sollevando incidenti e affacciando
proposte e questioni estranee. Alcuni fra voi formulino un ordine
del giorno progressivo che escluda, finchè il fine non sia
raggiunto, ogni discussione intorno a dottrine religiose, politiche
o sociali che un Congresso oggi non può decidere se non con
dichiarazioni avventate e ridicole per impotenza. Raggiunto il fine,
compìto l'ordinamento interno della classe vostra, discuterete, se
avrete tempo, ciò che vorrete. Dove no, commetterete allo studio
dell'autorità centrale le proposte che vi parranno importanti. Ma
non v'allontanate prima dal segno. Questa vostra è manifestazione,
oltre ogni altra anteriore, solenne. Il paese guarda in voi trepido,
attento, severo. Se troverà nel vostro, come in altri congressi
tenuti fuori d'Italia, sobbollìo, tempesta di pareri diversi,
d'avventatezze non frenate, di lunghe parole inutili su questioni
vitali e superficialmente trattate dall'ira non repressa di pochi,
giudicherà voi tutti inesperti e malavveduti e prematuro il sorgere
del vostro elemento.
Due sole dichiarazioni mi sembrano, quasi preambolo all'ordinamento
e istruzione generale data all'Autorità che dovrete eleggere, volute
oggi dalle insolite circostanze nelle quali versa gran parte di
Europa.
Non giova illudervi. Il paese che cominciava a guardar con favore ai
vostri progressi e a sottoporre a più attento esame ciò che da noi o
da altri si scrive per voi a pro del vostro giusto inevitabile
sorgere, è dagli ultimi eventi di Francia in poi sulla via di
retrocedere, impaurito e tendente ad appoggiare la stolta immorale
teorica di resistenza più o meno adottata a danno vostro da tutti i
Governi. Una selvaggia irruzione, non dirò di dottrine, ma
d'arbitrarie irrazionali negazioni di demagoghi russi, tedeschi,
francesi, è venuta ad annunziare che, per esser felice, l'Umanità
deve vivere senza Dio, senza Patria, senza proprietà individuale e,
pei più logici e arditi, senza santità collettiva di famiglia,
all'ombra della casa municipale di ogni comune; e quelle negazioni
hanno trovato, tra per insana vaghezza di novità, tra per il fascino
esercitato dalla forza spiegata da quei settarî in Parigi, un'eco in
una minoranza dei nostri giovani. L'Umanità guarda e passa; ma la
tiepida, tentennante, tremante, credula generazione borghese dei
nostri giorni, impaurisce d'ogni fantasma. La parte abbiente del
paese, dal grande proprietario fino al piccolo commerciante e al
proprietario d'una bottega, comincia a sospettare che ogni moto
operajo covi una minaccia ai capitali raccolti talora per eredità,
più spesso dal lavoro; e ha diritto d'essere rassicurata. Or se voi
foste credenti in quelle pretese dottrine, io deplorerei le
tristissime conseguenze che ne escirebbero infallibilmente per
l'Italia e per voi e cercherei di convincervi; non vi direi: mentite
per tattica o per paura. Ma so che quelle insensate teorie non sono
vostre; e però vi dico: importa al progresso del vostro moto
ascendente e al paese che lo dichiariate: importa sappiano tutti che
voi vi separate dagli uomini che le predicano; che in cima alla
vostra fede sta la santa parola Dovere; che voi mirate a iniziare
l'avvenire, non a sconvolgere con violenza il presente; che non
tendete a distribuzione di ricchezza posta in mano d'altrui, a
liquidazioni sociali, a confische di proprietà, ma chiedete
educazione per voi e pei vostri figli, intervento pacifico di
cittadini nelle faccende della Patria che amate, sacro e inviolabile
da ogni tributo il necessario alla vita, senza la quale nè lavoro nè
produzione sono possibili, e favore e ajuti dalla Nazione alla lenta
trasformazione dell'ordinamento attuale del lavoro nel più giusto e
utile a tutti ordinamento dell'associazione tra il capitale e il
lavoro, tanto che vi s'apra via per raccogliere voi medesimi un
capitale e mutarvi da salariati in lavoratori liberi, indipendenti
dall'arbitrio altrui.
E una seconda dichiarazione, implicita già nel vostro patto di
fratellanza, dovrebbe, parmi, riaffermare che voi non separate il
problema economico dal problema morale, che vi sentite anzitutto
uomini e italiani e che, comunque chiamati dalle vostre circostanze
a occuparvi più specialmente d'un miglioramento di condizioni per la
classe vostra, non potete nè volete rimanere estranei e indifferenti
a tutte le grandi questioni che abbracciano l'universalità dei
vostri fratelli e il progresso collettivo d'Italia.
Ma riconfermato il Patto di fratellanza e compite queste due
dichiarazioni, l'una delle quali vi separa dal male, l'altra
inanella i vostri ai fati d'Italia, l'ordinamento interno avrà,
spero, tutte le vostre cure.
Quell'ordinamento è cosa vostra e farete pel meglio. Ma se mi
concedeste di sottomettervi anche su quello alcuni suggerimenti, vi
direi:
Costituite in Roma una Commissione direttiva centrale composta di
cinque operaî tra i migliori dei vostri: siate nella scelta
indipendenti da ogni considerazione che non sia di virtù morale e
capacità.
Determinate per essi uno stipendio mensile. Ogni opera vuole essere
retribuita. E ricordatevi che l'impianto della Commissione eletta
nel Congresso di Napoli fallì perchè appunto gli individui scelti in
punti diversi non trovarono modo di recarsi nella città dove
dovevano raccogliersi o speranza di trovarvi immediatamente lavoro.
La missione inoltre fidata ai cinque non potrà del resto conciliarsi
colla necessità di lavorare per vivere.
Eleggete un Consiglio composto di trenta o più individui scelti fra
i delegati delle diverse località rappresentate nel Congresso e
aderenti al Patto, ai quali sia commesso l'ufficio d'invigilare,
ciascuno dalla città in cui vive, sugli atti della Commissione
direttiva, e attribuite un potere d'iniziativa per proposte da farsi
ad essa, quando la proposta sia inoltrata da un numero, che toccherà
a voi di determinare, di consiglieri. E statuite che in ogni
deliberazione d'importanza vitale per la classe operaja, la
Commissione debba, convocandoli o per corrispondenza, consigliarsi
con essi. Sia inoltre nei consiglieri, se unanimi o quasi, autorità
di convocare le società a un congresso speciale, se mai vedessero la
Commissione deliberatamente sviarsi dalla missione ad essa fidata.
Statuite egualmente che la stessa facoltà iniziatrice risieda nelle
Società e che ogni proposta convalidata d'assenso da un numero di
esse che dovrete determinare, avrà necessariamente studio e
risoluzione dalla Commissione direttiva.
E finalmente accertate se sia possibile coll'ajuto regolare e
determinato delle società e con quello che potrà venirvi d'altrove,
l'impianto d'una pubblicazione settimanale, diretta dalla
Commissione, e organo officiale dei lavori e dei voti della Classe
operaja.
Questo parmi in oggi il còmpito vostro. Il mio, se eleggete la
Commissione, sarà quello di deporre nelle sue mani il rendiconto
delle somme spese e quel tanto che avanzerà della sottoscrizione da
me iniziata per voi, e di porgere ad essa via via i suggerimenti che
il cuore e l'intelletto m'inspireranno.
E sarò vostro, Operaî fratelli miei, finchè rimarrà in me un alito
della vita terrestre. V'amai fin dai primi passi ch'io mossi sulla
via che il dovere e gli istinti dell'anima mi fecero scegliere,
perchè fin d'allora intravidi i fati ai quali oggi vi sospinge la
Legge provvidenziale del Progresso e la splendida parte che avreste
nel risorgimento di questa sacra terra che Dio volle darci a Patria.
V'amai come s'ama chi merita amore, rispettandovi e non contaminando
voi e me con ipocrite adulazioni o accarezzando in voi illusioni
condannate anzi tratto perchè evocate da passioni latenti o da
promesse che si risolvono in sole parole. V'ho sempre detto ciò che
credo esser vero.
E voi mi avete ricambiato d'amore per questo: di quell'amore
sincero, puro, spontaneo che porge conforto, nelle più dure prove,
alla vita e non concede all'anima stanca di travolgersi nell'ira,
nel dubbio o nell'egoismo. Rimanga tra noi quel patto d'amore. E
possa io, non foss'altro, vedervi prima dell'ultima ora
concordemente avviati al compimento della vostra missione.
QUESTIONE SOCIALE((329))
Torniamo e torneremo sovente sulla questione sociale, perchè essa è
la più santa e a un tempo la più pericolosa del periodo in cui
viviamo e non vediamo finora che i più ne intendano i pericoli o la
santità. Abbiamo da un lato, diffusi su quasi tutta l'Europa,
agitatori volgari trascinati dalle misere condizioni in cui giaciono
da secoli gli uomini del Lavoro a concetti d'odio e vendetta, di
sostituzione d'una classe a un'altra, di disegni negativi d'ogni
progressiva convivenza sociale, ai quali non può riescire se non di
nuocere e di fare per lungo tempo indietreggiare la soluzione del
problema: agitatori di seconda mano i quali, incapaci nell'anima
d'odio e di basso spirito di vendetta, ma affascinati per mobilità
di fantasia dall'azione qualunque siasi, impazienti d'esame purchè
le proposte suonino libertà e ribellione, accolgono senza studio dei
fatti le affermazioni dei primi: uomini buoni, ma corrivi a credere
ciecamente e tentennanti ancora nella coscienza della propria forza,
ai quali le false o esagerate asserzioni dei primi e il rapido
assenso dei secondi persuadono che esiste al di fuori d'essi
un'arcana gigantesca potenza presta a far l'opera loro e salvarli
dal dovere della lenta fatica e del sacrificio. Abbiamo dall'altro
individui collocati dal caso o dall'arbitrio di pochi al sommo
dell'edificio sociale e che dovrebbero appunto per questo sentir più
forte il dovere di dirigere le Nazioni sulle vie del progresso,
condannati dall'assenza d'una fede, dal vuoto di ogni dottrina, dal
presentimento d'ineluttabili fati a non conoscere via se non quella
della resistenza dove anche l'intravedono disperata, e a vivere di
giorno in giorno come possono e finchè possono: poi, materialisti
pratici, servi per interesse d'ogni potenza che può dare ricchezza o
dominazione, presti sempre ad accarezzare d'illusioni sulla
debolezza del moto temuto i padroni o a rafforzare la tendenza alla
repressione. E abbiamo tra i due una numerosa classe d'uomini
tiepidamente buoni, tormentati di paura, di scetticismo, di
fiacchezza e d'inerzia, che intravedono talora il dovere, ma non
sanno evocare in sè l'energia necessaria a compirlo, che presentono
a ora a ora i pericoli dell'indifferenza, ma s'arretrano davanti a
quel lampo invece d'inoltrare d'un passo e giovarsi dell'incerto
bagliore a collocarsi risolutamente sulla via diretta.
Gli uomini della prima classe - lasciando da banda gli agitatori
volgari che saranno schiacciati qualunque volta s'attenteranno di
agire - rinsaviranno col tempo e le delusioni. È impossibile non si
avvedano presto o tardi che l'azione è colpa quando ha un intento
non giusto, follìa quando la riuscita non è possibile - che se il
problema dell'emancipazione operaja è universale, le condizioni
diverse nei popoli fanno diversi i modi, che a ciascun popolo
appartiene essenzialmente il segreto della scelta di questi modi e
che l'indipendenza del concetto nazionale da una direzione straniera
è la prima forma della libertà collettiva e pegno a un tempo di
quella coscienza della propria forza, senza la quale non è dato ad
alcuno di compier doveri e di conquistare diritti - finalmente che
non è potente ad un fine se non l'unità di forze omogenee, e che
l'illudersi a cercar potenza per fare una Associazione cosmopolitica
in seno alla quale una sezione crede nella giustizia della proprietà
collettiva, un'altra in quella della proprietà individuale, una
terza nell'onnipotenza dello Stato, una quarta nell'abolizione degli
Stati a pro d'una illimitata autonomia di Comuni, una quinta nel
predominio dello spirito e dell'ideale, una sesta esclusivamente
nella materia e negli atomi vaganti in cerca d'un concorso fortuito,
torna tutt'uno col cercar vittoria da un esercito nel quale un
battaglione mova di fronte mentre un altro volga a diritta, un altro
a sinistra e un quarto retroceda sotto capi non intesi fra loro.
La seconda classe d'uomini - lasciando da banda Governi che si
affaticano a vivere di negazioni - è composta d'incorreggibili. La
bassezza dell'animo li fa inaccessibili a ogni cosa che non sia la
prepotenza d'un fatto. Oggi, l'opera loro indugia il progresso, ma
più in virtù di vizî che sono in noi che non in virtù d'influenza
reale che sia in essi; e quando, curati quei vizî, il fatto nuovo
s'affaccierà, sfumeranno nel nulla o mendicheranno a noi, che non
accetteremo, il diritto di proferire le stesse menzogne a pro
nostro.
Ma la terza classe è ben altrimenti numerosa e importante, non
solamente per le condizioni di intelletto educato e di possedimenti
che la farebbero, se volesse, arbitra dello Stato, ma perchè in essa
sono latenti i germi del bene insteriliti negli altri. Tolta via una
genìa di speculatori e di banchieri insaziabili che contaminano le
buone vecchie abitudini del commercio e preparano crisi tremende ai
popoli, gli uomini delle classi medie furono e sono tuttora uomini
di lavoro e ne sanno il valore e la dignità. In un periodo nel
quale, sciolti per molte cagioni tutti i vincoli d'unità morale, di
viva fede e di culto a un fine comune, non rimane a norma di vita
che l'io, hanno ringrettito affetti e virtù ad affetti verso
l'angusto cerchio privato, a virtù domestiche e inoperose oltre il
recinto della famiglia e dei pochi amici, ma la facoltà d'intendere
e d'operare il bene vive in essi, più sviata e intorpidita che
spenta. Da queste classi borghesi che si affermarono coll'antica
emancipazione dei nostri Comuni, escirono, in tempi più recenti,
forti fatti di lunga ostinata resistenza ai dominatori stranieri e
torme di giovani volontarî per le battaglie dell'Unità nazionale e
apostoli incontaminati del Vero e di questa stessa emancipazione del
popolo che noi predichiamo. Gli artigiani d'Italia lo sanno e
serbano, buoni come sono, animo grato ai fondatori degli asili per
l'infanzia, delle casse di risparmio, delle prime scuole popolari,
rimedî inefficaci ai loro mali, ma creduti allora i soli possibili e
occasione del ridestarsi del popolo alla coscienza di fati migliori.
Chi s'adopra fra noi a seminare astio fra classe e classe e irritare
il povero popolo contro chi s'emancipò primo o contro ai detentori,
quali essi siano, di capitali, fa opera trista che non giova agli
artigiani e suscita a sospetti di pericoli, che in realtà non
esistono, tutta una moltitudine di cittadini necessarî anche essi al
progresso della Nazione.
Non esistono per chi ama e intende se non due classi di cittadini, i
buoni e i tristi, gli amorevoli al bene altrui e capaci di
sagrificio, e gli egoisti, se borghesi o artigiani non monta, che
non pensano se non al proprio benessere. Se la tendenza a questo
egoismo s'incontra più frequente tra quei che possedono, la cagione
sta nelle più numerose tentazioni materiali che li accarezzano, nei
Governi che, a serbarli amici, circondano di monopolî e privilegi
civili e politici la loro ricchezza e in una dottrina economica
buona a suo tempo, funesta in oggi, che dei due elementi d'ogni
progresso, Libertà e Associazione, non conosce che il primo e che,
travolta nel materialismo del periodo in che nacque, sostituisce al
problema umano un semplice problema di produzione. Bisogna
combattere l'infausta dottrina, mutare i Governi fondati sul
monopolio e sul privilegio, illuminare quei molti, sviati dalla
stampa semi-officiale, sulle condizioni reali degli artigiani, sulla
potenza del loro moto, sull'urgente da farsi. E se anche il
tentativo non riuscisse, bisogna farlo per dovere, per testimonianza
a tutti dell'animo nostro, per assicurarci nelle opere future una
pura coscienza. Cento, cinquanta, venti anime sottratte per noi
all'errore che minaccia di riescire fatale all'intorpidita società
d'oggi, sono premio che basta al tentativo sul quale insistiamo.
L'errore, l'errore fondamentale che addormenta nella classe d'uomini
alla quale accenniamo la tendenza a esaminare seriamente il problema
e tentar di risolverlo concordemente con noi, è quello di guardare
al moto artigiano, non come a fatto provvidenziale e ineluttabile,
ma come a frutto di tempi politicamente agitati e fenomeno che un
migliore assetto governativo e alcuni lievi miglioramenti ai mali
più urgenti dileguerebbero.
Quei che così pensano fraintendono interamente i caratteri del moto.
Il moto è intimamente e indissolubilmente connesso colla questione
politica, nè raggiungerà il proprio fine se non sciolta quella.
Nessuna trasformazione sociale può compirsi senza l'impianto di
instituzioni politiche corrispondenti al principio che le dà vita e
potenza: chi tentasse operarla isolata susciterebbe una serie
interminabile e inefficace di tremende guerre civili. Nessuna
rivoluzione politica può d'altro lato farsi legittima e riescire a
buon porto se non modifichi gli ordini sociali e non inizii alla
vita nazionale una classe d'uomini fino a quel giorno diseredati:
dove nol faccia, crea irrevocabile la necessità d'una nuova
rivoluzione dopo non lungo intervallo di tempo e una sorgente di
perenni contese civili in quell'intervallo. Ma la questione sociale
ha una vita propria, immanente, indipendente dall'altre di tanto
che, affacciata una volta, non può spegnersi per cosa che altri
faccia in manifestazioni diverse della vita della Nazione. Tutte le
libertà amministrative possibili, s'anche poteste - ciò che non è -
ottenerle cogli ordini attuali, non varrebbero a farla retrocedere:
il suffragio universale stesso - ed è, senza rivoluzione politica,
utopìa inverificabile - non basterebbe a sopirla e diverrebbe
un'arme in mano agli uomini che la promuovono. Soltanto, quell'arme
potrebbe sviarsi: diventare strumento di sanguinose guerre civili in
pugno al primo uomo dotato dell'energia audace di Spartaco o
strumento di tirannide contro tutti a pro del primo usurpatore
capace, come in Francia, di largamente promettere senza attenere. In
Russia il moto sociale s'agita più potente d'assai che non il
politico. E il programma, dal quale oggi accenna a retrocedere,
dell'Internazionale medesima è prova che se le grandi questioni
politiche o di principî non fossero, il moto sociale vivrebbe pur
sempre; bensì di vita anormale, costretto più sempre nei limiti
della questione puramente materiale e aperta quindi a tutti i
suggerimenti delle passioni e degli appetiti. La politica - come
deve intendersi - è consecrazione, non cagione, del moto ascendente
operajo.
Molti fra gli uomini ai quali s'indirizzano più specialmente le
nostre parole, credono in Dio o lo dicono. Hanno mai pensato - se
quella credenza è in essi, non puro suono di labbra, ma realtà
profonda nell'anima - alle conseguenze ch'essa trascina logicamente
con sè? Hanno pensato che, se Dio esiste, esiste necessariamente fra
Dio e la sua creazione un pensiero, un disegno provvidenziale?
ch'esiste per la vita dell'individuo e dell'Umanità un fine?
ch'esiste per noi tutti, individui e società, un sacro assoluto
dovere di cooperare a raggiungerlo? che un fine, qualunque sia,
assegnato all'Umanità ha essenzialmente bisogno, per essere
raggiunto, di tutte le facoltà, di tutte le forze collegate,
esplicite o tuttavia latenti nell'Umanità stessa? che conquistare
gradatamente e costituire coll'Associazione l'Unità morale della
famiglia umana è indispensabile scala a quel fine? che quindi la
negazione progressiva di tutte le caste, di tutte le distinzioni
artificiali e - nei limiti del possibile - di tutte le ineguaglianze
tendenti a separare gli uomini e diminuirne l'associazione e il
lavoro concorde, è parte del disegno provvidenziale? In questa serie
di deduzioni innegabili, possiamo dirlo, da chi ammetta il
principio, vive la cagione del moto attuale, vive la sua
legittimità, vive la certezza della sua vittoria e dovrebbe vivere
in noi tutti, cattolici o protestanti, cristiani e non cristiani,
quanti crediamo in Dio, quel senso di riverenza e d'amore per le
classi ch'oggi battono alle porte del mondo civile da noi provato
davanti a ogni vita nascente, alla culla d'un individuo, d'un
popolo, d'una razza. Dio dice a noi tutti: adorate e operate a pro
d'esse.
Due sole cose potrebbero frammettere un dubbio tra la percezione del
Vero e l'azione. È quel grado di progresso da salirsi appartenente
all'epoca nostra? È la coscienza di questo progresso
sufficientemente desta e operosa nella classe che deve salirlo?
Alla prima interrogazione risponde affermativamente il passato: alla
seconda, con eguale affermazione, il presente. Storia e fatti
dell'oggi convalidano la nostra fede e possono, comunque più
imperfettamente, guidare alla stessa persuasione quanti hanno la
sventura di non credere in Dio.
Noi non possiamo intessere qui un corso di storia, ma diciamo che
chi vorrà interrogarla troverà additato come termine fondamentale e
fine immediato dell'Epoca l'emancipazione artigiana: troverà
esaurita la serie dei termini procedenti quest'uno e anteriormente
conquistati dall'intelletto del mondo civile. Attraverso le
aristocrazie teocratiche primitive, il dualismo di quelle e del
principato, il dispotismo sottentrato dell'Uno, le Repubbliche
aristocratiche, le guerre e le conquiste dell'elemento democratico
in seno ad esse, l'Impero, poi il nuovo dualismo tra esso e il
Papato, il patriziato feudale, i Comuni, le Monarchie cercanti in
essi ajuto a sottomettere gli eredi dei guerrieri padroni di feudi
e, più giù fino a noi, le ribellioni popolari d'Europa e la
Rivoluzione del secolo scorso, le caste si logorarono a una a una,
il cerchio dell'associazione s'estese, l'unità della famiglia umana
andò successivamente ampliandosi. Gli uomini diseredati, per difetto
di nascita o forza, d'ogni convivenza passarono successivamente
dalla condizione di vittime consecrate se prigionieri in guerra o di
cose in mano dei loro padroni a quella di schiavi nudriti perchè
lavorassero - da quella alla condizione di servi della gleba o d'un
uomo - poi a quella d'agenti di produzione retribuita a salario
determinato dalla cieca legge dell'offerta e della richiesta e
dall'arbitrio dei detentori di strumenti del lavoro. Gli emancipati
di quella classe d'uomini che avevano, per virtù propria, affetto
degli antichi padroni o caso, potuto raccogliere una somma più o
meno determinata di fattori della produzione, si collocarono classe
intermedia tra gli antichi padroni ordinati a governo e i milioni
mutati di servi in artigiani e furono detti borghesi. La Rivoluzione
francese del secolo scorso fu, nei risultati pratici, rivoluzione
borghese e dotò quell'elemento di privilegi civili e politici d'ogni
sorta. Se non che proclamando, come principio, eguaglianza fra tutti
i figli della Nazione, chiamando il popolo a meritare colla difesa
del territorio, suscitando colla predicazione della Libertà e dei
diritti spettanti a ogni uomo le facoltà fino allora latenti
d'entusiasmo e di dignità individuale, rivelò ai figli del Lavoro,
al quarto stato, com'oggi dicono, diritti, doveri e coscienza di
forza ad un tempo. E oggi si tratta per essi di tradurre in fatto un
principio teoricamente accettato. La progressione è visibilmente
continua; e addita maturi i tempi perchè il problema si sciolga.
Il presente dichiara intanto ai meno veggenti l'irrefrenabile
potenza del moto. Il sorgere, l'agitarsi della classe artigiana in
cerca d'un migliore avvenire, è universale: non è terra in Europa
che non ne manifesti più o meno minacciose le aspirazioni. Gli
Artigiani possono in un luogo o in un altro traviare nel metodo,
nella scelta dei mezzi; ma il fine è unico e il senso di questa
unità li chiama ad affratellarsi di terra in terra gli uni cogli
altri e il senso di questo affratellamento compito o possibile crea
in essi la sola cosa che ad essi mancasse, coscienza di forza. In
qualunque modo si giudichi, tremando delle conseguenze o
salutandole, come noi facciamo, indizio certo di un'Era nuova, d'un
nuovo stadio d'educazione salito dall'Umanità, cominciamo a intender
noi tutti che questo moto non è sommossa passeggiera, ma avviamento
a una grande rivoluzione, impulso provvidenziale di non retrocedere
più mai finchè non abbia raggiunto il fine.
Si raggiungerà con voi o contro voi, uomini delle classi emancipate?
La scelta sta in mano vostra. Noi non possiamo che insistere ad
affacciarvi di tempo in tempo, per debito di coscienza, il problema.
Ma badate: è problema di sfinge: dovete risolverlo o correte rischio
d'essere divorati. Voi siete oggi nella posizione assunta
dall'Europa politica nella questione d'Oriente. Per terrore della
Russia, l'Europa s'ostina a puntellare artificialmente un Impero, il
Turco, condannato irrevocabilmente a perire e travolgere, disperato
d'ogni altro ajuto, le popolazioni indigene, alle quali è affidata
l'esecuzione della sentenza, in braccio allo Tsar; e voi, per
terrore irragionevole del moto artigiano, siete a pericolo di
travolgerlo sotto l'influenza d'agitatori che insegnano agli
artigiani la necessità d'aborrirvi e distruggervi. Ricordatevi che
l'ostinazione delle monarchie a negare il diritto repubblicano di
Francia creò il Terrore e le carneficine del 1793. Siete oggi in
tempo per promuovere pacifico e regolare il moto con noi: domani
forse, ve lo diciamo tristemente convinti, v'udrete ripetere: è
tardi.
II.
Per quali modi potrebbe verificarsi tra le classi operaje e le medie
la concordia invocata?
Il modo decisamente migliore è uno; e tutti sanno qual sia per noi.
Ma anch'oggi e sotto l'impero delle instituzioni dominatrici, quella
concordia nel moto può iniziarsi e i modi son molti: primo fra
tutti, senza il quale ogni suggerimento sarà inascoltato, è per le
classi medie quello sul quale andiamo insistendo: studiare, con vero
amore e intenzione deliberata di giovarlo, il moto operajo. Un
miglioramento morale in noi stessi è sempre a capo d'ogni grande
mutamento, d'ogni grande impresa.
E questo miglioramento morale è urgente davvero. Oggi, la piaga che
più rode l'anime nostre è l'indifferenza. La schiavitù di tre secoli
ci ha rapita gran parte della coscienza di forze che pur sono in noi
per operare e riuscire. Il materialismo entrato in noi appunto colla
schiavitù ha, come sempre, scemato, limitando dentro un angusto
meschino orizzonte le conseguenze delle opere, quel senso
dell'importanza, della santità della vita ch'è la più forte sorgente
delle grandi cose. A che migliorare noi stessi se dobbiamo morire
interi, organismo e spirito che lo move, domani? A che affaticarci e
affrontare sacrificî, quando nessuna legge intelligente è
mallevadrice dei risultati, quando l'edifizio penosamente inalzato
sarà forse rovesciato dal primo soffio di vento, dal primo fatto che
sorgerà impreveduto? I fini eterni, le lente, potenti manifestazioni
che inanellano l'una coll'altra le generazioni e frutteranno ai
pronipoti, trovano intorpidita la mente e incerto, scettico il
cuore. Un machiavellismo, ch'è la pratica del materialismo, sceso
dall'anima, potente di desiderî, ma disperata di meglio, del povero
Machiavelli e peggiorato dai fiacchi arrendevoli successori, ha
colpito di gelo le migliori facoltà nostre insegnando che non
s'hanno da affrontare e dominare le circostanze, ma s'ha da cedere
ad esse e veder di trarne il men tristo partito possibile. Per tutte
queste ragioni riunite, abbiamo a poco a poco sostituito
all'adorazione del Dovere l'idolatria dell'opportunità, all'Ideale
divino il piccolo calcolo delle conseguenze immediate, alle norme
d'una Legge suprema su tutta quanta l'Umanità, la breve signoria del
fatto compito, alla Verità che non muore la realtà transitoria
dell'oggi. Talora, gli istinti dell'anima immortale si ribellano
dentro noi: i bollori giovanili del sangue e un avanzo di umana
dignità mutata in orgoglio spronano a proteste virili; ma l'impulso
non dura e un nobile fatto è seguìto da lunghi intervalli di ignavia
e di inerzia. Splende in noi, ricordo della nostra missione, qualche
solitario lampo di virtù, ma la costanza in essa è sparita; e se il
Bene trapela agli occhî dell'intelletto, ci stringiamo sconfortati
nelle spalle dicendo: non è da noi il raggiungerlo: fidiamo al caso,
a nuove incerte circostanze, alla generazione che verrà dopo noi,
l'impresa ch'è nostra. I nostri studî si rivolgono tutti al passato,
tanto ci sentiamo incapaci di promuovere l'avvenire; e in quel
passato non cerchiamo incitamenti a fare e indizî del come, ma oblio
delle cure presenti e pascolo a una infeconda vanità di sapere,
invece d'una attiva filosofia della vita. Così, ringrettiti,
insteriliti, diseredati d'azione, ci ravvolgiamo in un manto di
indifferenza che chiamiamo rassegnazione di prudenti, ed è codardia
morale. Se la miseria passa gemendo d'innanzi all'uscio della nostra
casa, la soccorriamo cristianamente, ma senza pur sospettare che
incombe a noi di prevenirne il ritorno, di rintracciarne le ingiuste
cagioni e di cancellarle. Se un popolo-martire, dopo d'avere
eroicamente combattuto per la propria nazionalità, scende con
dignità nella tomba - se una intera famiglia di popoli muti finora e
separati dal comune progresso europeo freme moto su tutta una vasta
zona e chiede ammessione al banchetto del mondo civile - plaudiamo
come spettatori a sublime spettacolo, ma senza esigere che un
mutamento nella nostra politica internazionale ajuti il martire a
risollevarsi o promuova quel moto ascendente d'una intera razza. È
stato necessario che, pari alla minaccia del festino di Balthazar,
il funesto bagliore degli incendì parigini illuminasse per noi una
protesta emancipatrice degli operaî, perchè - scossi non dall'amore,
ma dalla paura - volgessimo la nostra attenzione al problema agitato
visibilmente da mezzo secolo per chiedere, dopo pochi momenti di
studio, ai Governi di proteggerci contro i pericoli e risolvere per
noi la questione.
I Governi d'oggi, guasti dal principio esaurito e condannato a
sparire onde tutti s'informano, sono impotenti a risolverlo; e le
cieche brutali resistenze, arma unica che essi sappiano e possano
per un tempo adoperare, accumuleranno su voi che invocate protezione
da essi odî e vendette che nessun pacifico apostolato da parte
nostra potrà scongiurare e scoppieranno un dì o l'altro tremendi.
Voi soli, uomini delle classi medie, potete allontanar quei
pericoli. La causa è vostra: dovete non delegarne gli obblighi ad
altri, ma soddisfare ad essi voi medesimi coll'amore, collo studio e
con opere perseveranti.
È tempo che, scotendo da sè una inerzia, che li fa parere d'essere
in parte complici di colpe non loro, gli uomini delle classi medie
tornino al vero concetto della vita data da Dio perchè si comunichi
ad altri e intendano ch'essi sono quaggiù depositarî d'una missione
da non violarsi impunemente nel presente e nell'avvenire. Giunti
prima a un grado di sviluppo intellettuale ed economico, essi devono
oggi ajutare chi rimase addietro a salire. Da diciotto secoli le
loro labbra mormorarono la santa parola di Gesù: eguaglianza delle
anime; è tempo che quella parola scenda dalle labbra nel cuore e lo
fecondi ad opere attive a pro dei loro fratelli. Essi li chiamano
tali nel recinto del Tempio, davanti a Dio; ma non deve essere la
Terra tempio di Dio? Non deve esserne Sacerdote tutta quanta
l'Umanità? Non sono gli eguali davanti a Dio chiamati ad esserlo
davanti agli uomini? Non dovrà mai aggiungersi a quella santa parola
la più santa preghiera colla quale Gesù invocava che «il Regno di
Dio si trapiantasse per opera nostra per quanto è possibile dal
cielo, dove splende come nostro Ideale, sulla terra ove deve
incarnarsi in realtà?» Guardino al levarsi di queste plebi, rejette
jeri a condizione di casta inferiore, anelanti oggi a penetrare nel
recinto della Città, non come a sommossa passeggera, ma come a marea
suscitata dall'alito divino, non con paura, ma colla riverenza
amorevole colla quale si guarda a un grande fatto provvidenziale. La
famiglia umana accenna a salir d'un passo sulla via che guida alla
meta assegnata. È pensiero da far balzare di gioja ogni uomo che è
buono o intende a meritare quel nome: e la gioja dovrebbe essere
maggiore in chi è in alto e può porgere una mano ajutatrice ai
compagni di viaggio.
Prima cosa da farsi è l'accertare quali siano i bisogni delle classi
artigiane, quali i loro patimenti e quali i rimedî che invocano.
Bisogna chiederlo ad esse, interrogarle dappresso, agevolarne
l'espressione collettiva e sincera. Centocinquanta società operaje -
e il numero andrà crescendo ogni giorno - hanno poche settimane
addietro costituito in Roma un Centro incaricato di parlar per esse,
hanno annunziato che tenterebbero l'impianto d'una pubblicazione
settimanale a quel fine: bisogna proseguire nell'opera iniziata da
noi e promuovere quell'intenzione sottoscrivendo. Taluni - sia lode
ad essi - lo han fatto: seguano molti l'esempio: l'utile del
raccogliere documenti necessarî a intendere e risolvere la questione
s'accoppierà al pegno di concordia e d'affetto dato così agli
operaî. Il resto è da farsi col contatto personale, scendendo nelle
loro officine, affratellandosi con essi nelle radunanze
commemoratrici delle loro società, conversando fraternamente con
quanti ricevono commissione individuale di lavori, arrestandosi al
solco del villico a interrogarlo sulle sue condizioni, sulla
famiglia, su ciò che più potrebbe giovargli. E questo contatto
amorevole frutterà a un tempo intenzione dei modi di fare il bene e
potenza di combattere il male, di confutare gli errori economici
suggeriti ad essi dai demagoghi per mestiere, di sperdere il fascino
di speranze destinate a tornare illusioni.
Poi, l'Istruzione. I più tra gli artigiani la cercano avidamente e
il darla toccherebbe a chi l'ha. Un Governo repubblicano la darebbe
gratuita, obbligatoria, nazionale, a tutti i figli della Patria
comune. Ma intanto gli uomini delle classi abbienti possono,
volendo, darne gran parte. In ogni centro considerevole d'industria
dovrebbe impiantarsi una scuola per insegnare agli artigiani,
disegno lineare, geometria, elementi d'algebra, meccanica, chimica,
applicazioni pratiche della fisica ed altro. Ma ogni località anche
di secondo o terzo ordine può avere, mercè un piccolo sacrifizio
d'oro e di tempo, riunioni serali o pei giorni festivi nelle quali
si partecipi agli operaî un insegnamento morale, si narrino
popolarmente le tradizioni dei nostri Padri, si trasmettano nei loro
punti salienti le vite dei nostri Grandi, si comunichi la conoscenza
geografica della nostra Terra congiunta a considerazioni generali
sulle condizioni delle varie contrade che la costituiscono, dei varî
rami dell'umana famiglia che vivono in essa. E in ogni località
dovrebbe formarsi per via di doni una piccola biblioteca popolare
circolante; e in ogni località agricola, dove pur troppo non si sa
leggere, un giovane dovrebbe raccogliere intorno a sè i coltivatori
e leggere per essi, spiegando ove occorra, un buon libro. Quando
pensiamo all'immenso bene che può derivare da un'ora sottratta a
sterili sollazzi, da poche lire sottratte a inutili spese, ci sembra
impossibile ch'altri non cerchi a sè stesso su questa via il sereno
soddisfacimento d'averlo operato e tentato. Chi scrive leggeva
poc'anzi in un giornale italiano, miste a un inno all'ebbrezza,
dichiarazioni frementi vendetta e retribuzioni di sangue per la
fucilazione, delitto ed errore ad un tempo, di tre fra i combattenti
a pro del Comune in Parigi; e pensava: anche l'ira è santa talora e
nessuno può osare di rimproverarne, per cagione siffatta,
l'espressione. E nondimeno non dobbiamo noi repubblicani raccogliere
l'ultima parola di Rossel, soffocare quell'ira e ricordare che non
vinceremo se non a patto d'esser migliori dei nostri nemici e non
calcarne le orme colpevoli? Se quei giovani buoni nel profondo
dell'anima e repubblicani spendessero l'ora devota ad alimentare un
odio sterile, com'essi dicono, fra le bottiglie, tra i loro fratelli
popolani, nel modo or ora accennato, non gioverebbero più assai alla
causa che intendono di promuovere? Non è più potente a pro d'un
popolo abbandonato un germe di comunione e d'amore che non cento
grida di rabbiosa vendetta?
III.
Abbiamo accennato agli ajuti da darsi dagli uomini delle classi
medie all'espressione officiale dei bisogni e dei voti degli operaî
d'Italia che la Commissione direttiva eletta nel Congresso di Roma
sta preparando, ed abbiamo accennato all'istruzione da diffondersi
tra i lavoranti dell'Industria e tra la considerevole popolazione
agricola anche più abbandonata finora. Ma le classi medie potrebbero
anche oggi, volendo, far ben altro. Una Associazione formata collo
scopo di raccogliere capitali destinati a promuovere gli esperimenti
degli operaî, somministrando, senza speculare, anticipazioni alle
Società di cooperazione, comprando a basso prezzo terre incolte o
neglette ed offrendone, a certi moderati patti per l'avvenire, la
coltivazione e la proprietà ad agricoltori valenti e capaci,
associati, potrebbe, se le prime prove riuscissero, produrre
splendidi risultati. Se non che ora intendiamo parlare soltanto di
quelle manifestazioni che senza gravi sacrificî o pericoli
basterebbero a stringere, con immenso benefizio del paese, concordia
d'affetto fra le classi artigiane e le medie; e ne accenneremo due o
tre in via d'esempio.
Mal si trattano i piati che sorgono frequenti fra i lavoranti o
gl'intraprenditori dagli stessi onde escirono le cagioni: il senso
quasi sempre esagerato dell'ingiustizia negli uni, della soverchia
esigenza negli altri, inacerbisce le contese e vieta ai contendenti
l'imparzialità necessaria agli accordi. L'instituzione, pendente
questo inevitabile periodo di transizione, di Consigli conciliativi,
composti per metà di padroni per metà di operaî, esciti tutti
naturalmente dall'elezione e presieduti, se vuolsi, da un individuo
capace appartenente alla magistratura ed eletto egli pure,
riuscirebbe sommamente giovevole in tutti i dissensi che sorgono
frequenti fra i lavoranti e i capitalisti che li impiegano. E la
missione di Consigli siffatti potrebbe facilmente estendersi a un
diritto d'invigilamento sulla salubrità dei locali e su quanto
riguarda il lavoro in alcuni pericolosi rami dell'industria.
L'impianto di questi Consigli può soltanto e dovrebbe essere
provocato, offerto dalle classi medie.
Un fatto di più grave importanza dovrebbe, per impulso degli
elettori che appartengono tutti alle classi medie, iniziarsi dai
loro deputati: - fatto che proverebbe officialmente il grado
d'importanza raggiunto dalla questione sociale e avvierebbe la
stampa e l'opinione pubblica su via migliore di quella dell'oggi. Un
deputato, Agostino Bertani, ha dato pochi dì sono indizio d'animo
desto alla necessità d'occuparsi della condizione dei lavoranti
italiani proponendo un'inchiesta sullo stato delle nostre classi
agricole. Se non che un'inchiesta, dov'anche fosse concessa,
condotta da uomini parlamentari e colle abitudini prevalenti, non
darà mai - e una serie di fatti anteriori lo prova - risultati
pratici.
L'inchiesta prima dovrebb'esser fatta dagli operaî, o lo sarà per le
società se, respingendo proposte d'isolamento o di metodi diversi
che ritarderebbero l'emancipazione invocata, si stringeranno intorno
alla Commissione direttiva eletta nel Congresso di Roma; poi tolta a
base, darebbe luogo a facile verificazione e ad esame del
Parlamento. Ma parecchie fra le piaghe che mantengono le tristi
condizioni materiali delle classi operaje sono note, accertate; e
dovrebbero inspirare, a quanti hanno in Parlamento potuto serbare
intatto il senso del dovere verso il Paese, una serie di risoluzioni
che affacciassero all'Italia officiale il problema sociale in modo
più solenne ed urgente e additassero alcuni, non foss'altro, dei
primi rimedî. Convinti come essi sono, o dovrebbero essere, che il
problema economico è un problema di produzione - che per produrre
bisogna vivere - che quindi il necessario alla vita è sacro e
dovrebbe essere immune da ogni diretto o indiretto prelevamento - le
risoluzioni dovrebbero, precedute da un sommario delle condizioni
attuali e dei loro pericoli, chiedere un riordinamento del sistema
delle tasse diretto a lasciare intatto il necessario e non operare
se non dove comincia il superfluo alla vita. E convinti come sono, o
dovrebbero essere, che le grandi questioni sociali non si sciolgono
a spicchî, ma afferrandone l'insieme o porgendo soddisfacimento a
tutte le loro più determinate e giuste esigenze, dovrebbero toccare
nella serie delle proposte il lato morale, intellettuale, economico
del problema, dalla necessità d'un radicale rimutamento della legge
elettorale e d'una educazione nazionale obbligatoria e gratuita fino
alla formazione d'un capitale destinato a mallevadoria di certe
operazioni prime delle associazioni artigiane industriali e alla
concessione di terre, proprietà dello Stato e dei Comuni, alle
associazioni agricole. Le proposte sarebbero senz'alcun dubbio
sommariamente respinte dall'Italia officiale; ma la questione
rimarrebbe posta nei suoi veri termini davanti al Paese; il pegno di
concordia che noi chiediamo per gli artigiani dalle classi medie
sarebbe dato; il popolo saprebbe a quali uomini ha diritto di
rivolgersi pei miglioramenti invocati e l'Italia non officiale,
arbitra suprema un dì o l'altro di tutti e di tutto, risolverebbe
più assai rapidamente il problema.
Il riordinamento del Lavoro sotto la legge dell'associazione
sostituito all'attuale del salario, sarà, noi crediamo, la base del
mondo economico futuro, e implica che un capitale indispensabile
all'impianto dei lavori e alle anticipazioni necessaria debba
raccogliersi nelle mani degli operaî associati. Questo avverrà per
vie diverse, delle quali dovremo a poco a poco parlare. E tra queste
vie una che per opera dei buoni delle classi medie potrebbe, in
questo periodo di transizione, condurre all'intento è quella
d'ammettere i produttori artigiani alla partecipazione negli utili
dell'impresa.
Esperimenti di questo genere furono, sin dal 1830, tentati e
riuscirono; provarono una verità economica troppo negletta, che per
aumentare la somma della produzione non basta d'aumentar la
richiesta o di trovare nuove sorgenti al lavoro, ma è necessario
aumentare il valore produttivo d'ogni individuo e che questa
attività produttrice aumenti in ragione diretta della parte che gli
è concessa nei frutti della produzione: il lavoro libero produce più
del lavoro servile e nelle condizioni attuali l'operajo che, senza
interesse alcuno materiale o morale nei risultati della produzione,
non dà, generalmente parlando, se non quel tanto di lavoro
necessario a rivendicargli il salario pattuito, ha dalla
compartecipazione sprone a produrre maggiormente e meglio. Una prova
di ciò che affermiamo escì dall'Associazione instituita nel 1830 in
Parigi dal signor Leclaire nel suo stabilimento per la pittura degli
edifizî. D'un altro notabilissimo diede i più minuti ragguagli il
nostro collega Aurelio Saffi nel n. 35 della Roma del Popolo, ed
esortiamo a meditarlo chi l'avesse, trasvolando, negletto. I
particolari d'un terzo furono poche settimane addietro raccolti da
uno scrittore francese di merito, Eugenio Véron, e sommano a questo:
«Il signor Briggs, ricco proprietario di miniere carbonifere in
Inghilterra e presidente d'una Lega tra i padroni formata per
resistere alle pretese dell'Unione degli artigiani, stanco dei
dissensi continuamente rinascenti nelle sue officine, prese nel 1864
altra via.
«Egli divise la proprietà delle sue miniere di carbon fossile,
valutate a 2 250 000 franchi, in 9000 azioni di circa 250 franchi
cadauna e costituì una società in accomandita. Serbò 6000 azioni per
sè ed offerse agli operaî ed ai clienti delle miniere le altre 3000.
«Trattavasi ora di persuadere gli operaî - cosa del resto che, pel
prezzo elevato, non riusciva facile - a far acquisto di queste
azioni; però a raggiungere l'intento non si vide mezzo migliore che
associare gli operai stessi ai beneficî delle miniere.
«Il fondo sociale venne diviso in due parti: da una parte un
capitale fittizio rappresentante il lavoro degli operaî, dall'altra
il danaro degli azionisti. I salarî quotidiani, mantenuti al corso
ordinario, furono assicurati agli operaî delle miniere quale
interesse del primo di questi due capitali; pel secondo, gli
azionisti acquistarono diritto a un interesse del 10 per cento. Si
considerò poi il superfluo dei beneficî come un utile comune a tutta
la società, quindi da ripartirsi proporzionatamente tra tutti i
membri cooperatori.
«Se, a cagion d'esempio, il beneficio annuale risulta del 14 per
cento del capitale in azioni, compete a questo capitale il 10 per
cento a titolo d'interesse e il 2 per cento a titolo di profitto; -
il 2 per cento restante poi viene assegnato agli operaî, quale parte
dei beneficî, e ripartito in proporzione dei salarî di ciascuno.
«A incoraggiarli sul principio a rendersi possessori di azioni, fu
concesso agli operaî azionisti, in questo riparto di beneficî, il 10
per cento sul totale annuo dei loro salarî, mentre che agli altri
non toccò se non il 5 per cento. Questo metodo di ripartizione fu
modificato((330)) solo nel 1867.
«Il dividendo degli operaî azionisti fu eguale al dodici per cento
dei loro salarî, e all'otto per cento per gli altri.
«Temendo come sempre, un'insidia, gli operaî titubarono sui primi
tempi ad approfittare dei vantaggi loro offerti; ma le loro
diffidenze caddero ben presto davanti alla realtà del dividendo.
«Nel 1867 i beneficî netti furono di 510 425 fr., dei quali 200 000
furono messi da parte onde assicurare agli operaî una ripartizione
di utili nell'eventualità di cattive annate.
«Nella deposizione da essi fatta davanti la Commissione reale di
Londra, dalla quale noi togliamo questi dettagli, i signori Briggs
dichiarano che giammai l'antico sistema avrebbe loro dato, nelle
medesime circostanze, simili benefizî.
«Ma ciò che è particolarmente da osservarsi si è che grazie a
quest'organizzazione essi non ebbero quasi a risentire gli effetti
della crisi toccata in seguito a quel ramo d'industria. Tutte le
difficoltà procedenti dall'antagonismo tra capitale e lavoro
sparirono come per incanto per dar luogo, da quell'epoca,
all'accordo più perfetto.
«I lavoranti stessi s'assumono spontanei la sorveglianza dei mille
dettagli che assicurano l'economia e il buon andamento di qualsiasi
industria. - Allorchè noi scorgiamo, dice uno d'essi, nelle gallerie
un chiodo dimenticato per terra, lo raccogliamo ripetendo il motto
passato in proverbio: tanto di più di guadagnato per la fin d'anno.
«Un gran numero d'operaî, estranei sino allora ad ogni idea
d'economia, sono divenuti azionisti. Convien aggiungere che le
maggiori agevolezze sono accordate per facilitar loro la via al
possesso di questo titolo: ogni qual volta siano in grado di versare
un acconto di 75 franchi viene loro anticipatamente assicurato il
possesso d'un'azione.
«Nel 1868 le azioni erano già a un premio di 112 franchi 50 cent.
Perciò a ciascuna emissione si ha cura di mettere in riserva per gli
operaî un dato numero di titoli ch'essi possono acquistare al di
sotto del corso.
«L'esito di questa intrapresa era già assicurato sino dal 1866.»
Perchè non troverebbero esempî siffatti imitatori in Italia?
COSTITUENTE E PATTO NAZIONALE((331))
Due morti hanno i popoli: l'anarchia e l'indifferenza. Conseguenza
l'una e l'altra del materialismo che sopprime ogni vincolo di fede
comune, conducono ambe infallibilmente alla negazione di ogni
iniziativa e alla schiavitù. Della prima e dei suoi risultati ci
porge tale esempio la Francia, che dovrebbe, se pensassero, far
rinsavire quanti imprudenti giovani s'affaticano oggi tra noi a
risuscitare le vecchie ammirazioni e le vecchie speranze che ci
indugiarono mezzo secolo sulla via. La seconda minaccia di
soffocare, in Italia, sul nascere della Nazione, ogni coscienza di
missione nel mondo, ogni virtù d'idea collettiva, ogni culto di
tradizione d'avvenire e ridurci alla condizione d'una gente che
produce e consuma, e vive di vita puramente materiale, senza
individualità morale, senza fine comune da raggiungere, senza
comunione di vita operosa spirituale colle altre Nazioni di Europa.
Indifferenza negli elettori provata, generalmente parlando, dalla
cifra dei votanti nei collegi: indifferenza nei deputati provata
ogni giorno dalla difficoltà di raccogliere il numero voluto per le
sedute, dalla frequenza dei congedi chiesti e concessi,
dall'affrettarsi dei rappresentanti alle loro città sull'accostarsi
dalla menoma solennità che dia pretesto di vacanza prolungata sempre
oltre i limiti voluti, dai voti dati senza discussione o quasi
intorno a questioni di grave importanza: indifferenza negli uomini
di governo che vivono d'espedienti, senza disegno premeditato, senza
tradizioni politiche, senza quella tranquilla, tenace persistenza di
concetti che dà in oggi lento ma continuo progressivo incremento
alla Russia e agli Stati Uniti, e son paghi di superare le
difficoltà della giornata senza guardare al futuro: indifferenza nei
governati che biasimano e non combattono, presentano mali e non
preparano i rimedî, pensano e non dichiarano ad alta voce il
pensiero, e sembra accettino, regnante un sistema di semi-libertà,
la vecchia formula dei tempi dispotici: non tocca a noi:
indifferenza nei capitalisti che hanno innanzi, in Sicilia, nel
mezzogiorno continentale, in Sardegna, nell'Agro Romano, nelle terre
incolte d'Italia, una serie di nobili imprese da compiersi con
giovamento proprio e del paese e le lasciano intentate o preda di
speculatori stranieri. I lagni contro l'esagerazione e il pessimo
assetto dei tributi prorompono da ogni lato e ad ogni ora; ma
nessuno tenta contro un intero sistema una di quelle potenti
agitazioni che in Inghilterra sorgono ordinate, pertinaci, sicure in
ultima analisi di trionfo contro ogni atto o progetto economico non
consentito dall'opinione. Le ire contro le giornaliere violazioni
delle libertà individuali, gli arbitrî degli impiegati subalterni,
la tristissima amministrazione delle leggi buone o cattive esistenti
sono, più che frequenti, continui e suonano minacciose; ma da queste
ire non è mai escito l'impianto d'una Associazione che, fornita di
mezzi, s'assuma di rivendicare l'esercizio del diritto violato
chiamando davanti ai tribunali i violatori, dall'addetto alla
questura fino al ministro. Gli assennati si stringono nelle spalle
come pensando: non gioverebbe; e i più frementi fra i giovani
accennano a un giorno nel quale s'avrà da rifare l'intero edifizio:
perchè affronterebbero noje e pericoli per correggere questo o
quest'altro particolare?
Indifferenza alle cose dell'oggi e inerte presentimento
d'inevitabili mutamenti; è questa la condizione generale delle menti
in Italia. Un non so quale senso di provvisorio in tutto ciò che è,
svoglia gli animi dal fare. Diresti che il paese, visitato da una
grande, recente delusione, avesse smarrito la coscienza della
propria forza e dei proprî fati e aspettasse rassegnato dai casi un
incerto futuro.
Tristissima sempre, condizione siffatta di cose par quasi
inesplicabile in una gente che, come la nostra, sorgeva jeri appena
a Nazione o che, come la nostra, non visse mai nel passato di vita
propria e spontanea senza diffonderne il calore e la luce a tutta
l'Europa: inesplicabile a chi ricorda il levarsi ad impeto di marèa
di questo nostro popolo, oggi intorpidito di scetticismo, dapprima
nel 1848, poi dal 1859 al 1861, quando rifulse possibile la speranza
d'unirsi in fratellanza d'azione, e i Mille iniziavano un'epopea
rotta a mezzo da un cenno di re. Non basta a darne ragione il
difetto d'educazione politica, nè il lungo servaggio, nè l'influenza
addormentatrice d'un pugno di raggiratori o d'inetti che riuscirono
a usurparsi i frutti delle opere altrui, e dai quali il paese, se si
svegliasse, si libererebbe in tre giorni. Un'altra più profonda
cagione signoreggia tutti i fatti secondarî e perpetua d'anno in
anno, anche modificate, le circostanze, la condizione di cose alla
quale accenniamo.
Abbiamo fin dal nostro programma indicato questa cagione; ma dacchè
stampa e partiti fanno a gara per obliarla, è pur forza a noi di
ripeterla e insistervi.
L'Italia non è costituita. La Nazione esiste di nome soltanto, senza
espressione ordinata della propria vita. La leva che crea e mantiene
la virtù iniziatrice nei popoli non ha punto d'appoggio nel paese.
Ogni elemento è quindi passivo: soggiace: ripete fatalmente una
serie d'atti in una direzione circolare; non trova in sè potenza per
progredire.
Lasciamo da banda i vizî del nostro sorgere; l'azione straniera
accoppiata, con pensiero diverso, alla nostra, e le vergogne che ne
seguirono e pesano tuttora, a intorpidirla, sulla nostra coscienza
di popolo. Ma non è il carattere predominante del nostro moto
radicalmente falsato e in aperta, diretta contraddizione col metodo
invariabilmente additato dalla storia, dacchè storia fu, come
condizione essenziale d'ogni moto nazionale? Quando, dopo una
impresa comune contro chi le manteneva smembrate, popolazioni
appartenenti alla stessa zona geografica si levano coll'intento
dichiarato di stringersi a vincolo di Nazione, esse affermano col
fatto la coscienza attinta dall'identica origine, dalle tradizioni
del passato, dalle conformi tendenze d'un fine comune, d'una via
comune da corrersi, d'un metodo comune d'associazione da ordinarsi
per tutte. Ma quella coscienza ha bisogno d'essere definita. Ed è
necessario definire pubblicamente, solennemente, per tutti quale sia
il fine nazionale, quale la migliore forma di associazione che può,
salvi i perenni diritti del Progresso, guidare i cittadini della
nuova Nazione a raggiungerlo.
Bisogna, in altri termini, che la Nazione interroghi la propria vita
e le dia espressione di legge perchè sia norma alle opere nel paese
e base riconosciuta di contatto cogli altri popoli.
Questa pubblica, solenne espressione è il Patto Nazionale. Senza
esso non esiste Nazione.
Quale autorità può dettarlo?
Una sola: la Nazione medesima.
È necessario a questo esame della propria vita comune e della
propria vocazione l'intervento di tutti gli elementi che compongono
la Nazione. L'esclusione di un solo elemento costituirebbe a suo
danno ingiustizia e tirannide.
Il paese che intende a formar Nazione elegge con voto universale i
migliori tra i suoi a rappresentarlo e dettare il Patto, l'insieme
dei principî che ne costituiscono la vita comune e dei quali tutte
le leggi future dovranno essere progressivamente l'applicazione.
Assemblea siffatta, che noi chiameremmo volontieri Concilio
nazionale, ha nome universalmente adottato di Costituente.
Senza Costituente e Patto nazionale non esiste Nazione fuorchè di
nome.
L'Italia non ebbe la prima e non ha il secondo.
Le popolazioni italiane, fatte libere per le armi altrui o per virtù
propria, furono interrogate se volessero unirsi o rimanersi divise,
e la risposta non poteva esser dubbia. Non fu chiesto ad esse in
nome di che, con quali principî, sotto quali forme d'associazione,
con qual fine. Alla Costituente fu sostituito un Parlamento di pochi
privilegiati per censo ed altro, continuazione di quello ch'era
espressione incompiuta delle provincie sabaude quando l'Italia non
era. Al Patto nazionale fu sostituito uno Statuto dato
precipitosamente, per volontà regia e per paura d'insurrezione, a
quelle provincie, dodici anni prima che l'Italia fosse. La Nazione
non fu mai convocata a dichiarare la propria fede, le proprie
volontà, le proprie tendenze. I suoi deputati giurano alla monarchia
e al vecchio Statuto. L'Italia vive oggi come nel 1848 di vita
piemontese, se buona o cattiva, sviata, perpetuata o migliorata non
monta. La storia non offre un solo esempio d'una rivoluzione
nazionale compita, tradita a quel modo.
E nondimeno, il principio d'una Costituente e d'un Patto fu
affermato, sin dal 1848, dagli istinti dei popoli sollevati e da
solenni promesse regie.
A guerra vinta, un'Assemblea italiana deciderà dei destini di
Italia.
Il paese, comunque deluso, si rassegnò negli anni passati. Mancava
Roma all'edifizio; e un'antica profetica riverenza alla città dalla
quale si svolsero non solamente i fati storici italiani, ma quelli
d'Europa, persuadeva alle menti che di là soltanto potessero, come
dal Sinai, scendere le tavole della legge. Oggi, abbiamo Roma e
invece di Costituente e di Patto, i reggitori d'Italia vi agitano
paurosi il problema del come possa perpetuarvisi, a patto di
concessioni avverse ai tempi, il dualismo che fu l'anima e il
tormento del medio evo.
In questo, dica altri a suo senno, sta la cagione suprema delle
condizioni morali che lamentiamo e che minacciano di spegnere in
culla la nuova vita. Gli Italiani sentono, consci o inconsci,
l'assurdo, diremmo quasi, se la venerazione alla patria non lo
vietasse, il ridicolo d'una situazione che vorrebbe aggiungere alle
Nazioni una Nazione muta e senza espressione della propria vita. Un
intenso senso potente benchè mal definito dice ad essi che quanto è
in oggi è fantasma, e che i fantasmi non durano. Quindi il dubbio,
l'irresolutezza sopra ogni cosa e l'inerzia: colpevoli senz'altro,
ma intelligibili in un popolo che esce da un sepolcro di trecento
anni.
Le idee, bisogna ripeterlo, governano il mondo. Manca all'Italia una
iniziativa, e questa iniziativa di moto e progresso non sorgerà se
non per la via che additiamo. Come in tutte le grandi questioni, è
necessario che nella questione nazionale s'accerti il punto d'onde
moviamo, il punto verso il quale moviamo, la via migliore per andare
da un punto all'altro. E questo non può farsi se non colla
Costituente e col Patto.
Non è qui parte nostra dire come gli Italiani debbano e possano
tradurre in atto questi due termini del programma nazionale. Ma non
s'illudano a credere di conquistare incremento, progresso continuo
interno e vita fra le Nazioni d'Europa se non a patto di riescirvi.
Noi guardiamo commiserando in silenzio la ruota d'Issione intorno
alla quale sono legati i nostri amici parlamentari: i loro
tentativi, le loro evoluzioni per escire dal cerchio fatale
riesciranno inutili finchè la posizione del problema non sarà
radicalmente mutata: come trarrebbero essi dal concetto dell'Italia
smembrata del 1848 inspirazioni e iniziativa a dirigere innanzi
l'Italia una del 1872? E commiserando leggiamo programmi di vaste
riforme economiche e di nuova vita industriale italiana come quello
di un uomo che stimiamo((332)) e che da qualche anno rotola, nella
Camera e fuori, il sasso di Sisifo delle proposte tendenti a
ricreare una condizione di progresso normale materiale all'Italia.
Le più tra quelle proposte son buone; ma come attuarle? Può una
Instituzione, la cui vita ha le sue radici nel passato e in un
determinato tradizionale ordinamento economico amministrativo,
mutare a un tratto e accogliere in sè un alito di libera vita
nazionale senza paventarne rovina?
Poteva Turgot compire nella Francia della monarchia aristocratica
ciò che la rivoluzione compì in brevi giorni? Le grandi riforme
esigono, ad essere afferrate nel concetto e tradotte in realtà, un
sovra eccitamento nella vitalità popolare, un senso d'audace fiducia
in sè e nel futuro che sorge appunto dal fermento di tutte le forze
condannate a giacersi latenti in una condizione come la nostra.
Suscitatele e otterrete: non prima. Fate che la Nazione viva, e
avrete da quella vita trasfusa negli intelletti e nelle volontà
miracoli di rinnovamento. Non può darveli una Camera inceppata da un
falso programma: nol può un popolo intorpidito nello sconforto e nel
dubbio.
Il problema politico predomina su tutti gli altri. E il problema
politico non può risolversi se non come abbiamo accennato. Manca nel
caos che ci si stende d'intorno il fiat della Nazione. E quel fiat
non può essere proferito che da una Costituente: non può incarnarsi
che in un Patto nazionale. Tutto il resto è menzogna o, per ora,
impossibilità.
LETTERA AD UN AMICO((333))
Caro....
Prima di tutto, ringraziate quei che sono solleciti intorno alla mia
salute. Miglioro lentamente.
Quanto alle questioni che importano, lo scrivere mi fatica, ma ecco
sommariamente ciò ch'io ne penso.
Questione religiosa:
Nessuno può vincolarsi a tacerne senza rinnegare le proprie
convinzioni. Nessuno può chiedere ad altri di tacerne senza
intolleranza. È materia d'apostolato che può tacere davanti
all'azione, non prima. Tutto sta nei modi, che possono correggersi.
Non trattate col ridicolo o come superstizione le nostre credenze:
tratteremo filosoficamente, deplorando, ma temperatamente, le
vostre. Mostriamoci uniti nel resto: nessuno dirà che l'unione è
impossibile.
Questione politica:
Vogliamo un movimento nazionale repubblicano... per conto
dell'Europa e dell'Umanità. Non può esservi movimento sinceramente
repubblicano se non inchiude l'emancipazione della classe operaja,
la giusta partecipazione nei risultati della produzione tra i
produttori, la sostituzione graduata dell'associazione al salariato.
Su questo dobbiamo saperci o crederci d'accordo.
Ma il punto d'appoggio alla leva in un moto che nello sviluppo
immediato deve pur essere nazionale, non può, non deve essere
collocato all'estero.
Praticamente l'Internazionale è una parola, non altro; ed è la
stessa che avevamo proferita noi dicendo una Repubblica universale.
Come forza, l'Internazionale è nulla. Date le circostanze di Parigi
altrove, avremo l'insurrezione; ma le circostanze di Parigi non
furono create dall'Internazionale, nè lo saranno altrove.
L'Internazionale non può darci un esercito, nè un tesoro. Ci dà
invece i terrori e la inimicizia di tutta una classe media,
tiepidamente buona in parte e che è ad ogni modo un elemento vitale
in Italia. Perchè dunque scegliere quella bandiera? Perchè crearci
nemici senza un'ombra d'utile? E perchè accettare una bandiera che
copre errori e immoralità innegabili? Contentiamoci d'essere Partito
repubblicano nazionale nel punto di mossa, europeo nel fine.
Questione Garibaldi:
Da dove parte il dualismo?
Io non ho mai assalito Garibaldi.
Non ho risposto ai suoi assalti.
Anche oggi sono pronto di stringere qualunque patto con lui.
Ma questo patto, questa concordia, non può aver luogo che con un
programma. E questo programma non può essere che il repubblicano.
Garibaldi non lo ha mai apertamente dichiarato.
Garibaldi non ha bisogno, se non vuole, di stringere la mano a me o
ad altri. Ma Garibaldi deve dire agli Italiani: «Tra venti giorni o
vent'anni, voi non avrete salute che dalla Repubblica.» Allora il
paese saprà che siamo uniti. Una occasione sorgerà. Prepariamoci a
coglierla con un lavoro pratico unito. Quanto al ripartirci con lui
l'azione, pochi giorni, sòrta la circostanza, basteranno.
Ottenete questo da lui. Lasciate di dirvi affigliati
dell'Internazionale. Trattiamo con rispetto filosofico la questione
religiosa. Il dissidio sparirà in breve tempo.
Scrivo faticosamente. Cercate intendermi e ridite ai vostri amici.
Abbiatemi vostro
Giuseppe Mazzini.
Lugano, 10 gennaio 1872.
FINE.
INDICE
Prefazione
Cenni e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra
regia del 1848
I. - Tendenze nazionali. - Motivi della guerra regia. - Documenti
governativi
II. - Esigenze e conseguenze funeste della guerra regia. - I
repubblicani
Atti della Repubblica romana
Scritti sul medesimo periodo. - Lettera al ministero francese
Roma e il governo di Francia
A Luigi Napoleone presidente della Repubblica francese
A Daniele Manin
A Giorgio Pallavicino
Ricordi su Carlo Pisacane
A Luigi Bonaparte
Al conte di Cavour
A Vittorio Emanuele
Prefazione di Giuseppe Mazzini all'edizione di Napoli delle Parole
ai Giovani Ai giovani d'Italia
Nè apostati nè ribelli
Dichiarazione
Il Socialismo e la Democrazia
Lettera d'un esule
I monarchici e noi
A Federico Campanella
A Francesco Crispi
Mazzini e Vittorio Emanuele
Ai Romani
Ai nemici
L'iniziativa
Ai miei fratelli repubblicani dopo la prigionia di Gaeta
La guerra franco-germanica
Politica internazionale
Le classi artigiane
Il Comune e l'Assemblea
Agli operaj italiani
Il moto delle classi artigiane e il Congresso
Alle società operaje, l'Avvenire di Torino e l'Universale della
Spezia
Ai rappresentanti gli artigiani nel Congresso di Roma
Questione sociale
Costituente e Patto nazionale
Lettera ad un amico
----
1() Vedi Il Socialismo e la Democrazia, Vol. XIII, op. comp. p. 120.
2() Quartiere di Livorno.
3() Vedi Archivio triennale delle cose d'italia - Capolago,
Tipografia Elvetica, vol. 2.
4() Questa lettera fu ristampata a Parigi nel 1847 preceduta dalle
seguenti parole:
Signore,
Voi mi chiedete s'io consenta alla ristampa di certa mia
lettera indirizzata, sul finire del 1831, al re Carlo Alberto. Ogni
cosa ch'io pubblico è, il dì dopo, proprietà dei lettori, non mia; e
ogni uomo può farne, nei limiti dell'onesto, quel che a lui più
piaccia. Bensì, mi dorrebbe ch'altri interpretasse l'assenso siccome
consiglio. Provvedete cortese a questo, e mi basta.
Io non credo che da principe, da re o da papa possa venire oggi, nè
mai salute all'Italia. Perchè un re dia Unità e Indipendenza alla
Nazione, si richiedono in lui genio, energia napoleonica e somma
virtù: genio per concepire l'impresa e le condizioni della vittoria;
energia, non per affrontare i pericoli che al genio sarebbero pochi
e brevi, ma per rompere a un tratto le tendenze d'una vita separata
da quella del popolo, i vincoli d'alleanze o di parentele, le reti
diplomatiche e le influenze di consiglieri codardi o perversi: virtù
per abbandonare parte almeno d'un potere fatto abitudine, dacchè non
si suscita un popolo all'armi ed al sacrificio senza cancellarne la
servitù. E son doti ignote a quanti in oggi governano, e contese ad
essi dall'educazione, dalla diffidenza perenne, dall'atmosfera
corrotta in che vivono, e, com'io credo, da Dio che matura i tempi
all'Era dei Popoli.
Nè le mie opinioni erano diverse quand'io scriveva quella lettera.
Allora Carlo Alberto saliva al trono, fervido di gioventù, fresche
ancora nell'animo suo le solenni promesse del 1821, tra gli ultimi
romori d'una insurrezione che gl'insegnava i desiderî italiani e i
primi di speranze pressochè universali che gl'insegnavano i suoi
doveri. Ed io mi faceva interprete di quelle speranze, non delle
mie. Però non aggiunsi a quelle poche pagine il nome mio. Oggi, se
pur decidete ripubblicarle, proveranno, non foss'altro, a quei che
si dicono creatori e ordinatori d'un partito nuovo, che essi non
sono se non meschinissimi copiatori delle illusioni di sedici anni
addietro e che gli uomini del Partito Nazionale tentavano quel
ch'essi ritentano, prima che delusioni amarissime e rivi di sangue
fraterno insegnassero loro dire ai concittadini: Voi non avete
speranza che in voi medesimi e in Dio.
Vostro:
Gius. Mazzini.
Londra, 27 aprile, 1847.
5() "O forse cercherete una condizione di vita ne’ trattati che
avrete" mancante nell'originale, è stata copiata da altra edizione.
[Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
6() Sono estratte da quattro lettere sulle Condizioni e
sull'Avvenire d'Italia ch'io inserii col mio nome nei numeri di
maggio, giugno, agosto e settembre 1839 del Monthly Chronicle,
rivista mensile di Londra. Scritte a illuminare l'opinione Inglese
intorno alle cose nostre, poco gioverebbe ripubblicarle intere per
gli Italiani.
7() La Carboneria s'impiantò nel Regno delle Due Sicilie, nel 1811,
con approvazione del Ministro di Polizia Maghella e del re Murat; e
si diffuse tra gli impiegati. Nel 1814, proscritta da Murat, chiese
e ottenne l'assenso del re Ferdinando allora in Sicilia. Lord
Bentinck ne accolse anch'egli le offerte. Poi, quando il
ristabilimento dell'antica forma di Governo la rese inutile ai
disegni della Monarchia, cominciarono accanite le persecuzioni
contr'essa.
8() L'insurrezione dovea promoversi subito dopo il 12 del gennajo
1821, giorno in cui il Governo aveva incrudelito col ferro sugli
studenti della Università Torinese. Mancò il consenso di Carlo
Alberto. E anche nel marzo, dacchè il cenno dato da lui il giorno 8,
fu revocato il 9, il moto non avrebbe avuto luogo, se il 10
Alessandria, stanca degli indugi, non violava, insorgendo, gli
ordini ricevuti.
9() La proscrizione dei Carbonari abbracciò tutta Italia. Molti
sacerdoti furono condannati nel Sud, due nel ducato di Modena: un
d'essi, Giuseppe Andreoli, professore d'eloquenza, udendo che egli
solo era fra gli imprigionati con lui, condannato a morire,
ringraziò Dio ad alta voce. Molte confessioni furono estorte
indebolendo le facoltà intellettuali degli accusati con una
infusione d'atropos belladonna mista colla bevanda. Le condanne nel
solo piccolo ducato di Modena sommarono a 140 incirca, a più di
cento in Piemonte, a molte più in Napoli ed in Sicilia. In
Lombardia, condanne capitali furono pronunziate il 18 maggio 1821,
contro individui come rei d'appartenere alla Carboneria, parecchi
dei quali erano stati imprigionati in Rovigo nel carnevale del
1819-20, cinque o sei mesi prima che fosse promulgata contro la
Carboneria la legge di proscrizione del 25 agosto 1820.
10() Quel Governo era composto del marchese Francesco Bevilacqua,
del conte Carlo Pepoli, del conte Alessandro Agucchi, del conte
Cesare Bianchetti, del professore F. Orioli, dell'avv. Gio. Vicini,
del prof. Ant. Silvani e dell'avv. Ant. Zanolini. Sul finire della
Rivoluzione e al tempo della Capitolazione s'era modificato: Vicini
era presidente del Consiglio, Silvani ministro di Giustizia, il
conte Lodovico Sturani delle Finanze, il conte Terenzio Mamiani
della Rovere dell'Interno, Orioli dell'Istruzione pubblica, il
dottor Giov. Battista Sarti di Polizia, il generale Armandi di
Guerra, Bianchetti degli Esteri. - Taluno di questi uomini s'agita
tuttavia tra la coorte de' faccendieri che sgoverna oggi, per la
terza volta, il moto d'Italia.
11() Un barone di Stoelting di Vestfalia, appartenente alla Casa del
Principe di Monforte (Gerolamo Bonaparte) era stato pure inviato a
persuadere l'Armandi perchè rispettasse una promessa fatta dal
Principe al card. Bernetti, che Roma non sarebbe stata assalita.
L'abboccamento ebbe luogo in Ancona. Lo Stoelting recava pure con sè
una lettera dell'ambasciatore Austriaco in Roma, conte Lutzow - I
Bonaparte ci erano fin d'allora, e in tutti i tempi, funesti.
12() Terenzio Mamiani ritirò il suo nome dall'atto stampato del 26.
Ma io ebbi tra le mani il processo verbale dell'atto originale del
25, smarrito con altre carte dal Presidente Vicini nella rapida fuga
e inviatomi da Guerrazzi; e il nome di Mamiani era a calce dell'atto
senza protesta o cenno di opposizione.
13() Dal Pozzo, cacciato dopo il 1821 in esilio, ottenne di
ripatriare, vendendo la penna all'Austria. V. il suo opuscolo: Della
felicità che gli Italiani possono e debbono dal Governo Austriaco
procacciarsi.
14() Parigi era sottoposta allo stato d'assedio in conseguenza
dell'insurrezione del 5 e 6 giugno, suscitata dalle esequie del
Generale Lamarque.
15() Tradotta dalla Tribune del 20 settembre 1832.
16() Dalla Tribune del 18 novembre 1832.
17() Ecco il testo della sentenza, com'era riportato dal Monitore.
Chi legge giudichi.
«La sera del 15 corrente, alle 10 pomeridiane, il Capo della
Società, adunati i membri che la compongono, ordinò al Segretario di
pubblicare una lettera, nella quale era riportata una sentenza
emanata dal tribunale di Marsiglia contro i prevenuti rei Emiliani,
Scuriati, Lazzareschi, Andreani; esaminati gli atti processuali
speditici dal presidente in Rodez, ne è risultato ch'essi sono rei:
1.° come propagatori di scritti infami contro la sacra nostra
Società; 2.° come partitanti dell'infame governo papale di cui hanno
corrispondenza che tutto tende a rovesciare i nostri disegni contro
la santa causa della libertà. Il fisco, dopo le più esatte
riflessioni e da quanto è risultato in processo, facendo uso
dell'art. 22, condanna a pieni voti Emiliani e Scuriati alla pena di
morte; in quanto a Lazzareschi e Andreani, perchè non consta
abbastanza di quanto vengono addebitati, la loro condanna è la
percussione di alcuni colpi di verga, e si lascia l'incarico ai loro
tribunali appena tornati in patria di condannarli in galera ad vitam
(come famosi ladri e trafatori). Si ordina inoltre al presidente di
Rodez estrarre quattro individui esecutori della detta sentenza da
eseguirsi imprescrittibilmente entro il periodo di giorni 20 e
chiunque dell'estratto si recusasse dovrà essere trucidato ipso
facto.
«Dato in Marsiglia, dal supremo Tribunale, questa sera, alle ore 12
pomeridiane, 15 dicembre 1832[Nell'originale "1332". Nota per
l'edizione elettronica Manuzio]
«Mazzini, Presidente.
«Cecilia, l'Incaricato.»
18() Sentenza del 30 novembre 1833. Gavioli fu condannato ai lavori
forzosi. La Cecilia continuava a vivere liberamente in Francia, e
non era mai stato interrogato.
19() Tribunale Correzionale di Parigi: aprile 1841. La sentenza
statuì che essendo io, a detta di tutti e dello stesso Gisquet, uomo
onesto e incapace di misfatto, il documento del Monitore citato
nelle Memorie alludeva evidentemente a un altro Mazzini!
20() Nell'originale "data"
21() Risponda questo all'accusa avventatami periodicamente contro da
tutti gli scrittori di parte moderata, ch'io tendeva alla Dittatura.
Più dopo, in un fascicolo della Giovine Italia del 1833, inserendo
un articolo di Buonarroti - firmato Camillo - del Governo d'un
Popolo in rivolta per conseguire la Libertà, io protestavo contro un
§ che invocava la Dittatura d'un solo, colla nota seguente: «Noi
consentiamo in tutte le idee dell'articolo fuorchè in quest'una che
ammette fra i modi della potestà rivoluzionaria la Dittatura d'un
solo:
«Perchè, sebbene la potestà che deve governar la rivolta debba
essenzialmente differire da quella che deve sottentrare dopo la
vittoria, essa deve pure soddisfare a due condizioni: quella di
rinegare assolutamente il carattere della potestà contro la quale il
popolo insorge, e quella di racchiudere in sè il germe della potestà
futura; e ambe le condizioni si risolvono nell'escludere la
dominazione dell'uno e indicare la dominazione dei più:
«Perchè, sebbene la potestà rivoluzionaria debba comporsi di potenti
d'anima, d'intelletto e di core, e non giovi il ricorrere ai
parlamenti, alle numerose assemblee, quando gli atti e i decreti
devono succedersi colla rapidità dei colpi nella battaglia, crediamo
nondimeno doversi contenere in quella Potestà un rappresentante a
ogni grande frazione d'Italia che insorga:
«Perchè, in un popolo guasto dalle abitudini della servitù, la
Dittatura d'un solo riesce sommamente pericolosa:
«Perchè fino al giorno in cui il governo della Nazione escirà dalla
libera e universale elezione, la diffidenza è condizione inevitabile
a un popolo che tende ad emanciparsi; e il concentramento di tutte
le forze della rivolta nelle mani d'un solo rende illusorie tutte le
guarentigie che vorrebbero stabilirsi:
«Perchè in Italia, come in ogni altro paese servo, mancano tutti gli
elementi necessari a riconoscere l'uomo che per virtù, energia,
costanza, intelletto di cose e d'uomini, valga ad assumere sulla
propria testa i destini di ventisei milioni; e a riconoscerlo è
necessario un lungo corso di tempo e vicende, per le quali egli sia
uscito incontaminato da alcune delle situazioni che corrompono più
facilmente gli uomini; - e pendente quel tempo di prova, la
rivoluzione ha pur bisogno d'essere amministrata.
«L'opinione della Dittatura, ove prevalesse in Italia, darà potere
illimitato, facilità d'usurpazione e forse corona al primo soldato
che la fortuna destinerà a vincere una battaglia.»
22() A questo di vero si riduce ciò che affermano, sulle condizioni
dei quaranta o trent'anni d'età attribuite a una Associazione che
numerava tra' suoi il quasi settuagenario generale Ollini, lo
storico Farini e altri d'eguale valore.
23() 23 giugno 1833.
24() Questa lettera, nella quale Gioberti pronunciava anzitutto
condanna acerba contro i moderati e sè stesso, fu pubblicata, col
nome Demofilo, nel fascicolo VI della Giovine Italia, e ristampata
poi col vero nome vivo Gioberti.
25() Traduco le seguenti pagine dalla IV Lettera sulle condizioni
d'Italia inserita da me nel Monthly Chronicle del 1839.
26() Questo artificio infernale fu usato con Jacopo Ruffini.
27() A Miglio, sergente nella Guardia, imprigionato in Genova, fu
collocato accanto un ignoto che gli si diede, piangendo, per uno dei
congiurati; poi, trascorsi parecchi giorni, gli accennò a un modo di
corrispondenza da lui serbato colla famiglia. E Miglio, sedotto a
valersene, scrisse, scalfendosi il braccio, col proprio sangue,
poche parole agli amici suoi. Quello scritto costituì uno dei
principali documenti per la condanna.
28() «Dopo la fucilazione dei sergenti, essi tentarono di farmi
credere a quella di Pianavia. La sua cella era nel mio corridojo.
Egli aveva l'abitudine di cantare; ma un sabbato, ei si tacque
subitamente. La domenica fu un andare e venire continuo nella sua
prigione. Giunse il Governatore e rimase lungo tempo con lui. Alle
tre dopo mezzogiorno venne nella mia celletta il Generale comandante
la Cittadella (Alessandria) con parecchi de' suoi ufficiali e un
Cappellano che avea ceffo d'assassino più che di prete. Tutti
sembravano commossi e quasi piangenti. Il Generale mi chiese s'io mi
sentissi tranquillo. Risposi di sì. Partì dopo avermi fatto
indirizzare alcune parole dal Cappellano. Tutta quella notte
continuarono i rumori. Allo spuntare del giorno, udii qualcuno,
ch'io credetti essere Pianavia, attraversare il corridojo con passi
affrettati, e pochi momenti dopo, tre spari annunciarono una
fucilazione. Io piansi amaramente per l'uomo che avea già segnata la
rovina di parecchi de' suoi fratelli.» Da una dichiarazione di
Giovanni Re. L'ufficiale Pianavia s'era fatto denunziatore, si
prestava al maneggio e fu salvo.
29() «La mia nuova cella era tristissima e scura, con una sola
finestra difesa da doppia grata. Incatenandomi all'anello confitto
nel muro, Levi, il carceriere, m'andava dicendo che la legge del Re
era legge di Dio, e che i suoi trasgressori dovevano aspettare
rassegnati il meritato castigo. Di fronte alla mia stava la cella
del povero Vochieri, alla vigilia della sua morte. Avevano praticato
tre fori nel fondo della mia porta; e siccome quella del carcere di
Vochieri era, a bella posta, lasciata aperta, io non poteva star
vicino alla mia finestra senza notare la luce che attraversava quei
fori. Guardai, curvandomi, e vidi il povero Vochieri seduto, con una
pesante catena al piede, due sentinelle gli stavano ai fianchi colla
spada nuda; di tempo in tempo gli lasciavano mutar posizione, senza
che le due sentinelle lo abbandonassero mai o gli indirizzassero una
sola parola. Venivano spesso due cappuccini a parlargli. Durò
siffatto spettacolo una settimana intiera, finchè lo condussero al
supplizio. E a compiere quella scena d'orrore, stava in una cella
contigua alla mia un malato, che gemeva dì e notte e invocava
soccorso... Pochi dì dopo fui condotto in un'altra prigione appena
finita e umida tuttavia. Fui colto da dolori in tutte le membra.
Così, infiacchiti, lo spirito e il corpo, ricominciarono a
interrogarmi.
«Gli interrogatorii erano condotti in modo da soggiogare le mie
facoltà, A ogni tanto, mentr'io imprendeva a dare spiegazione di
fatti allegati, l'auditore Avenati m'interrompeva col dire che
badassi a ciò ch'io parlava, ch'io era visibilmente confuso e che le
mie spiegazioni aggiungevano al pericolo della mia situazione. E
poco dopo ei mutava tono e dichiarava ch'io era chiaramente
colpevole e che si terrebbe nota di quanto io diceva a mio danno
senza dare la menoma attenzione a ogni cosa che tentasse difesa.
«Mi convinsi che volevano la mia morte.
«Poi vennero una dopo l'altra le deposizioni di parecchi fra' miei
compagni, Segrè, Viera, Pianavia, Girardenghi, tutte a carico mio.
Io mi sentiva veramente minacciato d'insania.
«Chiesi nondimeno d'un difensore. Sacco, il segretario del
Tribunale, mi suggeriva il capitano Turrina; io preferiva un Vicino:
non mi fu dato nè l'uno nè l'altro.
«Pensai a preparare io stesso la mia difesa; ma quantunque i
procedimenti preliminari fossero da due giorni conchiusi, io non
aveva inchiostro nè carta. I miei parenti, ch'erano venuti nella
città, ebbero ordine di partirne immediatamente.
«Finalmente, Levi, il mio cerbero, mi propose a difensore il luogo
tenente Rapallo. Disperato d'ogni altro ajuto, accettai.
«E venne; ma non per parlarmi della mia difesa. Egli, il solo
protettore sul quale io poteva appoggiarmi, mi dichiarò che la mia
posizione era oltremodo grave. Mi disse che il Governo sapeva esser
io stato uno dei più attivi membri dell'Associazione, ch'io non
poteva sfuggire al castigo, e che non m'avanzava se non una via di
salute. Mi disse che il mio segreto era omai divulgato da tutti; che
Stara confesserebbe a momenti ogni cosa, e saperlo egli dal suo
difensore; che Azario aveva anch'egli offerto rivelazioni, e non
s'aspettava, per accoglierle, che l'assenso da Torino. E aggiungeva
ch'io poteva proporre condizioni le più favorevoli e sarebbero
accettate.
«Due volte respinsi la triste proposta. Al terzo convegno, piegai.»
Estratto dalla Dichiarazione di Giovanni Re.
30() «.......... Egli mi fu amico: il primo e il migliore. Dai
nostri primi anni d'Università fino al 1831, quando prima la
prigione, poi l'esilio mi separarono da lui, noi vivemmo come
fratelli. Egli studiava medicina, io giurisprudenza; ma, escursioni
botaniche dapprima, poi l'amore, pari in ambi, alle lettere, le
prime battaglie tra classicismo e romanticismo, e più di tutto gli
istinti affini del core, ci attirarono l'un verso l'altro, finchè
venimmo a una intimità, unica per me allora e poi. Non credo d'aver
mai avuto conoscenza più compiuta e profonda d'un'anima; ed io lo
affermo con dolore e conforto, non ebbi a trovarvi una sola macchia.
L'imagine di Jacopo mi ricorre sempre alla mente ogni qualvolta io
guardo a uno di quei gigli delle valli (lilium convallium) che
ammiravamo sovente assieme, dalla corolla d'un candido alpino, senza
involucro di calice, e dal profumo delicato e soave. Egli era puro e
modesto com'essi sono. E fin anche il lieve piegarsi del collo
sull'omero che gli era abitudine, m'è ricordato dal gentile tremolìo
che incurva sovente quel piccolo fiore.
La perdita de' suoi fratelli maggiori, le frequenti e pericolose
infermità della madre ch'egli, riamato, amava perdutamente, e più
altre cagioni, non gli avean fatto conoscere la vita fuorchè pel
dolore. Squisitamente, e quasi direi febbrilmente sensibile, ei ne
aveva raccolto una mestizia abituale che s'inacerbiva di tempo in
tempo a disperazione d'ogni cosa. E nondimeno, non era in lui
vestigio alcuno di quella tendenza a misantropia, che visita sovente
le forti nature condannate a vivere in terra schiava. Aveva poca
gioja degli uomini, ma li amava: poca stima dei contemporanei, ma
riverenza per l'uomo, per l'uomo come dovrebbe essere e come un
giorno sarà. Forti tendenze religiose combattevano in lui lo
sconforto che gli veniva da quasi tutti, e da tutto. La santa idea
del Progresso, che alla fatalità degli antichi e al caso dei tempi
di mezzo sostituisce la Provvidenza, gli era stata rivelata dalle
intuizioni del core fortificate di studî storici. Adorava l'ideale
come fine alla vita, Dio come sorgente dell'Ideale, il Genio come
suo interprete quasi sempre frainteso. Era mesto, perchè sentiva la
solitudine di chi sta innanzi, e non vedrà vivo la terra promessa:
ma era abitualmente tranquillo, perch'ei sapeva che il fine della
nostra esistenza terrestre non è la felicità, bensì il compimento
d'un dovere, l'esercizio d'una missione, anche dove non vive
possibilità di trionfo immediato. Il suo sorriso era sorriso di
vittima, pur sorriso. Il suo amore per l'Umanità era, come l'amore
ideale di Schiller, un amore senza speranza individuale, ma era
amore. Ciò ch'ei pativa non esercitava influenza sulle sue
azioni................ ............................. «Jacopo
comprese, dai primi cominciamenti della persecuzione, ch'egli era
perduto, e aspettò con serena fermezza i proprî fatti. Avvertito
dell'ordine dato per imprigionarlo, non volle sottrarsi. A chi
insisteva con lui rispose che chi aveva spinto altrui nel pericolo,
dovea soggiacergli primo. Preso, e tormentato d'interrogatorî,
rispose con un muto sorriso. Bensì minacce terribili e l'artificio
citato delle rivelazioni falsificate e il linguaggio insidioso d'un
Rati Opizzoni, auditore, lo ridussero a tale da fargli temere ch'ei
forse cederebbe un dì o l'altro. E allora risolse d'uccidersi. Io
credo il suicidio atto colpevole come la condanna a pena di morte.
La vita è cosa di Dio: non è concesso abbandonare il proprio posto
quaggiù, come non è concesso rapire ad alcuno la via di ripigliarlo,
quando per colpa s'è abbandonato. Ma nel caso di Jacopo, parmi che
il suicidio s'inalzi all'altezza del sagrificio. É l'atto d'un uomo
che dice a sè stesso: quando il tuo occhio sta per peccare
strappalo; quando per tristizia degli uomini tu ti senti minacciato
di cedere ai suggerimenti del male, getta via la tua vita; e
piuttosto che peccare contr'altri, poni sull'anima tua un peccato
contro te stesso. Dio è buono e clemente. Egli t'accoglierà sotto la
grande ala del suo perdono.» Da alcune pagine inglesi mie nel
People's Journal, maggio, 1846.
31() Vedi preliminari della sentenza del 13 giugno contro Rigasso,
Costa e Marini.
32() Nell'originale "sesgente". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
33() E basti un unico esempio, Vochieri supplicò che si mutasse la
via per la quale ei doveva andare al supplizio, e che passava sotto
la casa ov'erano la moglie incinta, la sorella e due figliuoletti.
Ebbe rifiuto. La sorella impazzì. Galateri volle essere presente
all'esecuzione.
34() Da quel giorno ha data la mia conoscenza di lui. Il suo nome di
guerra nell'Associazione era Borel.
35() Credo in novembre. Riproduco qui una lettera ch'io scrissi
nell'ottobre del 1856 a Federico Campanella e ch'ei pubblicò
nell'Italia e Popolo. Il fatto che ne è argomento spetta a questo
periodo. Scrissi quella lettera richiesto, perchè se da un lato ho
sempre sprezzato calunnie e calunniatori, non ho mai dall'altro
ricusato di dire il vero quand'altri lo chiese. Il Gallenga aveva,
in una sua Storia del Piemonte, narrato il fatto intorno al quale io
aveva sempre taciuto, soltanto dissimulando che il fatto era suo e
lasciando credere ch'io lo avessi inspirato e promosso più che non
feci. Quindi le inchieste.
36() Nell'originale " l'Unità.". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
37() Da un mio articolo nella Jeune Suisse, numero del 30 marzo
1836. Le considerazioni espresse in quell'articolo erano le stesse
che dirigevano il mio lavoro nel 1834.
38() Anche il Cristianesimo non contemplò nella sua dottrina che
l'individuo; e trapassò fatalmente per le due fasi logiche alle
quali io accennava in quell'articolo. Nella prima epoca della sua
vita, il Cristianesimo fu, quanto alla parte terrestre del problema
dell'Umanità, rassegnato, inerte, contemplatore: nella seconda,
quando volle assumersi di risolvere quel problema, fu - nel sublime
ma inefficace tentativo di Gregorio VII - dispotico - (1862).
39() Il sorgere a vita della Russia ha superato, quanto al tempo, le
mie previsioni e le altrui: e l'influenza decisiva che ogni suo moto
esercita su tutta quanta l'Europa è innegabile. E nondimeno, quanto
all'ordinarsi dei varî gruppi della famiglia Slava, credo tuttavia
che la maggiore e più diretta influenza sarà esercitata dal surgere
della Polonia.
40() Traduco con vero dolore. Non sembra ch'io scrivessi allora per
l'Italia d'oggi? - (1862).
41() Debbo all'amico ragione d'una frase, che apparve dubbia,
inserita nel terzo volume di questi Scritti, a pag. 322, dove,
parlando delle cagioni che impedirono si tentasse moto in Genova,
accenno al timore generoso di quei che dirigevano l'Associazione,
ch'altri attribuisse il segnale dell'azione a un desiderio di
tentare la propria salute - e nominai Jacopo e Giovanni Ruffini. Il
Comitato Genovese era allora composto d'essi due e di Federico
Campanella; e la decisione di non agire fu presa in comune. Nominai
i due, perchè, scrivendo su' ricordi della mia memoria soltanto
intesi rispondere a incerte accuse che serpeggiarono per breve tempo
intorno ad essi. Ma a nessuno che conosca Campanella, o la stima
profonda ch'io ho per lui, può cadere in mente, ch'io, tacendone il
nome, mirassi a far cadere su lui sospetto d'indole meno generosa e
pronta al sagrificio di sè. Campanella diede in quei giorni
terribili prova d'animo più che fermo; rimase ultimo fra i più
pericolanti dei nostri in Genova e non ne partì che dopo i supplizi
e disperata ogni cosa, il 23 giugno del 1833.
42() Vedi il fascicolo dell'ottobre 1836.
43() Vedi vol. V dell'Opere complete, pag. 55.
44() Come documento dei tempi, la collezione della Jeune Suisse
potrebbe giovare a chi tesserà la storia degli ultimi tempi; ma
credo quasi impossibile rinvenirla. La mia manca di venti e più
numeri.
45() Quel documento è citato in extenso nell'ultimo volume della
Storia di dieci anni di Luigi Blanc, c. IV.
46() :........da martiro
E da esilio venne a questa pace.
Paradiso X.
47() Nell'originale "dalle". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
48() V. La Commedia di Dante Allighieri illustrata da Ugo Foscolo,
Londra, P. Rolandi, 1842, quattro volumi.
49() A Tommaso Duncombe, che aveva con rara energia sostenuto in
parlamento le parti mie, una riunione d'Italiani risiedenti in
Londra votò il dono di due medaglie coniate allora in Londra e in
Parigi a spese d'esuli in onore dei nostri martiri. La medaglia
coniata in Parigi ha da un lato l'Italia coronata di spine in atto
di accendere una fiaccola alla fiamma uscente dalle ceneri dei
martiri di Cosenza racchiuse in un'urna. Sull'urna è scritto:
nostris ex ossibus ultor; e sulla base: fucilati in Cosenza il 25
luglio 1844 sotto Ferdinando re. Dietro la tomba è un cipresso;
intorno alla medaglia stanno i nomi delle vittime; appiedi: a
memoria ed esempio. Dall'altro lato, nel centro d'un serto di palma
e alloro stanno le parole: Ora e sempre: poi quelle proferite dai
Bandiera: è fede nostra giovare l'italica libertà morti meglio che
vivi. Il concetto appartenne a Pietro Giannone. - La medaglia
coniata in Londra, sul disegno di Scipione Pistrucci, ha da un lato
i nomi di quei fra i membri dell'Associazione che avevano fino a
quel giorno patito il martirio; e dall'altro un serto di quercia,
palma, ellera e cipresso, e nel centro la leggenda: Ora e sempre: la
Giovine Italia ai suoi martiri.
La dedica a Duncombe diceva: A. T. S. Duncombe, membro di
parlamento, perchè onorò di generose parole nell'aula la memoria dei
loro fratelli caduti per la fede italiana in Cosenza nel 1844;
perchè sostenne virilmente i diritti degli esuli codardamente e con
tristissimo intento violati nella loro corrispondenza privata dal
governo inglese; perchè respinse la calunnia avventata, a palliare
l'ospitalità tradita, a un loro concittadino - molti italiani
raccolti a convegno hanno votato questo lieve ma carissimo pegno di
riconoscenza e di plauso, 23 maggio 1845.
Tra i membri della deputazione che presentò le medaglie era,
ricordo, il Gallenga.
50() Nell'originale "dello". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
51() Naturalmente, nè io potea ideare nè essi sospettavano allora la
possibilità dell'ipotesi verificatasi nel 1859, d'una guerra
straniera contro l'Austria capitanata da un principe alleato al
Piemonte costituzionale.
52() Nell'originale "wighs". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
53() Nell'originale "suicide". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
54() Nell'originale "tutto". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
55() Fu inserita nella Pallade, giornale di Roma.
56() Vedi la lettera di Gioberti al Muzzarelli, presidente del
ministero romano, in data del 28 gennajo: in essa ei proponeva la
restaurazione politica del papa e, a proteggerla, l'intervento d'un
presidio piemontese in Roma. In Toscana si tentavano le stesse
pratiche: e a vendicarsi del rifiuto, il Piemonte osteggiava
apertamente quella provincia italiana; provocava i soldati toscani
posti sulla frontiera alla diserzione e li mandava in Alessandria;
ordinava a Lamarmora l'occupazione di Pontremoli e Fivizzano, ecc.
57() Nella Divisione lombarda serpeggiava, dopo la rotta di Novara,
la idea d'avviarsi a Genova e fortificarne l'insurrezione. Intanto
noi mandavamo proposte e mezzi per Roma. Il governo, impaurito,
aderì, chiedendo promessa che la Divisione non s'immischiasse nelle
cose genovesi, e la diresse per la via di Bobbio su Chiavari. Se non
che Fanti, inteso col governo, condusse la marcia per sentieri
alpestri fino a un punto dove il passo riusciva difficilissimo alla
cavalleria, impossibile alle artiglierie. La Divisione giunse
nondimeno lentamente e smembrata in Chiavari, ma il governo,
sottomessa Genova e libero d'ogni paura, violò la propria promessa e
non concesse l'imbarco. I soli bersaglieri comandati da Manara
riuscirono e sul finire d'aprile giunsero in Roma.
58() Questi e molti altri fatti di quel tempo furono raccolti in un
volumetto intitolato: Raccolta di Atti e Documenti della Democrazia
Italiana, e stampato alla macchia nel 1852. Fu lavoro di Piero
Cironi, italiano di Toscana, uomo più che onesto, virtuoso, di
severa fede repubblicana, di vigoroso e modesto intelletto,
lavoratore instancabile in ogni fortuna e per tutte vie, coll'azione
e colla penna, a pro' della Patria. Io l'ebbi amico degno, leale e
costante sino alla morte. Parmi che quel lavoro potrebbe utilmente
ristamparsi, e che il miglior modo di onorare la memoria dei buoni
caduti sia quello di raccoglierne i dettati e farne senno.
59() 7 dicembre. Enrico Tazzoli, sacerdote, Angelo Scarsellini,
Bernardo de Carral, Giovanni Zambelli, Carlo Poma, mantovani il
primo e l'ultimo, veneziani gli altri.
60() Scrivo sul finire del luglio 1866, mentre si sta dalla
monarchia italiana maneggiando, auspice Luigi Napoleone, una pace
che abbandonerebbe, dopo di aver fatto balenare ad essi innanzi la
libertà, il Trentino, i passi dell'Alto Friuli e l'Istria: le chiavi
d'Italia.
61() Nell'originale "Solanto". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
62() L'ordinatore militare del moto, cercato per ogni dove, riescì a
sottrarsi. Ei vive tuttora in Assisi. E m'è caro ricordarne agli
Italiani, in questa pagina, il nome, E. Brizi, nome d'un modesto,
operoso, intrepido soldato della Democrazia Nazionale.
Perirono per mano del carnefice, condannati da una Commissione
militare, poco dopo il tentativo:
Scannini Alessandro;
Taddei Siro;
Bigatti Eligio;
Faccioli Cesare;
Canevari Pietro;
Piazza Luigi;
Piazza Camillo;
Silva Alessandro;
Broggini Bonaventura;
Cavallotti Antonio;
Diotti Benedetto;
Monti Giuseppe;
Saporiti Gerolamo;
Galimberti Angelo;
Bissi Angelo;
Colla Pietro.
Perirono intrepidi: degni seguaci di quell'Antonio Sciesa, popolano
egli pure, che tratto a morte dagli austriaci il 2 agosto 1851 per
affissione di scritti rivoluzionarî, avea risposto a chi gli
offriva, a due passi dal luogo del supplizio, la vita, purchè
rivelasse: tiremm'innanz. Quelle parole dovrebbero essere adottate,
come formola della loro vita collettiva, dalle Associazioni operaje
d'Italia.
63() Ne citerò una fra cento.
Prima assai d'ogni ricominciato lavoro in Milano, e quando Luigi
Kossuth si preparava a un viaggio, che poteva prolungarsi
indefinitamente, negli Stati Uniti, avevamo statuito ch'egli mi
lascerebbe un proclama firmato da lui ai soldati ungheresi in
Italia, per eccitarli a seguire qualunque moto nazionale avesse
luogo tra noi, e ch'io porrei in mano sua, collo stesso intento, un
mio proclama agli Italiani che militerebbero, al tempo d'un moto, in
Ungheria. E così facemmo. Potevamo, in circostanze decisive e
imprevedibili anzi tratto, trovarci lontani; e rimanemmo quindi
arbitri l'uno e l'altro d'usar del proclama e d'apporvi data a
seconda del nostro giudizio. Io mi giovai del diritto datomi, e
ordinai che sul cominciare del moto s'affliggesse, insieme a un mio,
il proclama di Kossuth. Il primo cenno dell'insurrezionescoppiata
giunse in Londra senza altri particolari e Kossuth, che v'era
tornato, s'infervorò di tanto che recatosi all'amico mio, James
Stansfeld, lo richiese d'ajuto pecuniario per raggiungermi, e
l'ebbe. Ma quando il dì dopo recò la nuova della disfatta, Kossuth,
tenero più assai della propria fama che non del vero e dell'amicizia
che tra noi correva, s'affrettò a dichiarare sui giornali inglesi,
che il proclama agli ungheresi era pura e pretta invenzione mia.
Avvertito da' miei amici, mandai al Daily News due linee che
dicevano semplicemente, come l'originale del proclama fosse rimasto
in mia mano, visibile a ogni uomo che desiderasse di sincerarsi. E
bastò agli inglesi; ma la stampa governativa italiana continuò per
lunga pezza a invocare il nome di Kossuth per dichiararmi falsario.
Quando io mi ridussi in Londra, non cercai di Kossuth, ma egli venne
a vedermi, m'abbracciò con sembiante d'uomo profondamente commosso e
non fiatò del proclama. La lega, s'anche mal ferma, tra lui e me
poteva giovare alla causa nostra. Mi strinsi nelle spalle e mi
tacqui.]
64() Non rimane più dal 1859 in poi. - 1866
65() Dell'Initiative Révolutionnaire en Europe - Foi et Avenir, etc.
66() E quel più vasto terreno è indicato nella formola Dio e il
Popolo - intorno al valore della quale parmi possa giovare ch'io qui
inserisca un frammento di lettera mia ad un amico, che l'Italia e il
Popolo inseriva sui primi dì di febbrajo:
«Fra le cento formole politiche proposte dalle scuole diverse, che
s'avvicendarono, negli ultimi sessant'anni, indizio di transizione
da un'epoca consunta, incadaverita, a una nuova, due sole ebbero
consecrazione di fatti gloriosi e consenso di popoli.
«La prima è la formola francese: Libertà: Eguaglianza: Fratellanza;
uscita dalla Rivoluzione del 1789, e accettata da quanti popoli
seguirono allora e poi l'iniziativa di Francia.
«La seconda è la formola italiana: Dio e il Popolo; adottata
spontaneamente dai repubblicani e consecrata dagli eroici fatti di
Venezia e di Roma, nel 1849.
«Esistono, tra queste due formole, differenze radicali finora poco
avvertite e nondimeno importanti.
«Le formole, se vere e destinate a vivere sulla bandiera delle
nazioni, racchiudono un programma, che si svolge attraverso gli
eventi per una serie di conseguenze logiche inevitabili.
«La formola francese e essenzialmente storica: ricapitola in certo
modo la vita dell'Umanità nel passato, accennando, poco
definitamente, al futuro. L'idea libertà fu elaborata, conquistata
su scala limitata dal mondo greco-romano, dal Paganesimo, il cui
problema fu l'emancipazione dell'individuo umano. L'idea eguaglianza
fu elaborata e conquistata, in parte dal mondo latino-germanico, dal
Cristianesimo, il cui problema, falsato verso il VII secolo dal
Papato, fu la libertà per tutti, l'applicazione della conquista
anteriore a tutti gli individui, la emancipazione dell'anima umana,
in qualunque condizione versasse, sotto la fede nell'unità di
natura. L'idea fratellanza, conseguenza inevitabile dell'unità di
natura, albeggiò, traducendosi in carità, nel dogma cristiano, e
scese, per breve tempo, sul terreno politico internazionale, ne' bei
momenti della Rivoluzione Francese.
«La formola italiana è invece radicalmente filosofica: accettando le
conquiste del passato, guarda risolutamente al futuro, e tende a
definire il metodo più opportuno allo svolgimento progressivo delle
facoltà umane.
«La prima esprime, compendiato, un grande fatto. La seconda scrive
sulla bandiera un principio. La prima definisce, afferma il
progresso compiuto: la seconda costituisce l'istrumento del
progresso, il mezzo, il modo per cui deve compirsi.
«Una formola filosofico-politica, per aver diritto e potenza
d'avviare normalmente i lavori umani, deve racchiudere, sommi, due
termini: la sorgente, la sanzione morale del Progresso: la Legge e
l'interprete della Legge.
«Questi due termini mancano nella formola Francese: costituiscono
l'Italiana.
«La sorgente, la sanzione morale della Legge, sta in Dio, cioè in
una sfera inviolabile, eterna, suprema su tutta quanta l'Umanità, e
indipendente dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca, di breve
durata. Più esattamente, Dio e Legge sono termini identici: Dio,
stampando la natura umana delle due tendenze ineluttabili, progresso
ed associazione, ch'oggi la distinguono dall'altre nature terrestri,
ha scritto in fronte alla Umanità il codice, del quale la vita
storica non è se non il commento, l'applicazione. Tolto Dio, non
rimane possibile sorgente alla Legge, fuorchè il Caso e la Forza.
«L'interprete della Legge fu problema continuo all'Umanità. Ogni
epoca storica lo sciolse diversamente. Un'epoca affidò
l'interpretazione della Legge al Capo, qualunque si fosse: un'altra
al sacerdozio, fatto casta e sommato nel papa: la terza a un numero
definito di famiglie regali preordinate per diritto divino a
dirigere l'Umanità. La formola italiana affida l'interpretazione
della Legge al Popolo, cioè alla Nazione, all'Umanità collettiva,
all'Associazione di tutte le facoltà, di tutte le forze, coordinate
da un Patto.
«La formola Italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre
ogni casta, ogni interprete privilegiato, ogni intermediario per
diritto proprio tra Dio padre e ispiratore della Umanità e l'Umanità
stessa.
«Tutte le caste desumono la loro origine dalla credenza in una
rivelazione immediata, limitata, arbitraria. La formola Italiana,
sostituisce a questa la rivelazione continua, progressiva,
universale di Dio attraverso l'Umanità; re, papi, patriziati,
sacerdozi privilegiati spariscono. La formola Italiana,
generalizzata da una Nazione all'associazione delle Nazioni,
dichiara fondamento d'una teoria della Vita: Dio è Dio, e la Umanità
è il suo Profeta.
«La formola Italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente,
esclusivamente repubblicana; non può uscire che da credenza
repubblicana; non può inaugurar che repubblica.
«La formola Francese, non accennando alla sorgente eterna della
Legge, ha potere per difendere, colla forza, col terrore, non
coll'educazione, alla quale manca la base, le conquiste del passato;
è muta, incerta, mal ferma sull'avvenire. Non definendo l'interprete
della Legge, lascia schiuso il varco agli interpreti privilegiati,
papi, monarchi o soldati. Quella formola potè nascere dagli ultimi
aneliti d'una monarchia: sussistere ipocritamente in una repubblica
che strozzava la libertà repubblicana di Roma: soccombere sotto il
nipote di Napoleone, che dichiarava: io sono il migliore interprete
della legge: io sarò tutore alla libertà, all'eguaglianza, alla
fratellanza dei milioni.
«Nè papa nè re potrebbe assumere coi repubblicani italiani
linguaggio siffatto. La formola inesorabile gli direbbe: non
conosciamo interpreti intermediarî, privilegiati, tra Dio e il
popolo; scendi ne' suoi ranghi ed abdica.
«Più altre differenze contrassegnano le due formole, che
rappresentano l'iniziativa francese e l'iniziativa italiana: ma
quest'una accennata parmi la più importante. Sgorga evidente dalle
due parole. E nondimeno fu sin qui trascurata. Taluno propose di
sostituire: Dio e Legge, ciò che vorrebbe dire: legge e legge. Tal
altri affermò la formola identica a quella: Dio e Libertà; non
s'avvedendo che la libertà non rappresenta se non l'individuo: che
la parola dell'epoca nascente è associazione, e che il termine
Popolo, termine collettivo e sociale, indica che solamente
coll'associazione può compirsi la Legge, il Progresso. Ma è vezzo
inconscio, tuttavia radicato nei nostri migliori, di serbare ogni
potenza di sofismi e d'esame contro qualunque idea vesta forma
italiana, e d'accettar ciecamente ogni formola che vien di Francia.
«Del resto, su tema siffatto occorrerebbero libri; ed oggi, a fronte
delle fucilazioni di Mantova, ogni italiano che abbia sangue nelle
vene e fremito di patria e coscienza del suo diritto e fede nel
popolo, che confuse tutti i sistemi poco più di tre anni addietro,
ha da far cartuccie dei libri.
«1.° febbrajo.»
67() Precis de l'Art de la Guerre, Vol. I, Art. VIII.
68() Vedi Vol. VIII delle Opere complete.
69() Nell'originale "emaciparsi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
70() Nell'originale "eccetismo". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
71() Nell'originale "della". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
72() Proclama del 6 marzo.
73() Proclama dell'11 marzo.
74() Ma part aux événements de l'Italie Centrale en 1831. - Par le
général Armandi. - Paris, 1831.
75() Processo verbale della sessione del 25 marzo.
76() Byron, Childe Harold; c. IV.
77() Nell'originale "maai" [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
78() Nell'originale "né". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
79() Nell'originale "salgare". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
80() Nell'originale "conviure" [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
81() Nell'originale "della" [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
82() Nell'originale "Francin". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
83() Nell'originale "sepre". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
84() Uno straniero, Carlo Didier di Ginevra, scrittore caldo e
valente, che guarda all'Italia con tanto amore che noi possiam dirla
una seconda patria per lui, ha toccato, confutandole in un discorso
intitolato I tre principî, ossia Roma, Vienna e Parigi, queste due
ipotesi dell'Austriaco, e del Papa, regnatori unici in Italia per
consenso italiano. - Noi non le reputiamo ipotesi pericolose in
Italia; e però rimandiamo al discorso citato i pochissimi che le
accarezzano. L'una è un anacronismo di secoli; l'altra è peggiore e
frutterebbe infamia a chi s'attentasse di predicarla. - Il discorso
verrà, spero, tradotto e pubblicato dal benemerito Ruggia e
gl'Italiani vedranno il nostro simbolo uscire limpido e intero dalla
bocca dello straniero. A me è dolce afferrare questa occasione per
attestare affetto e riconoscenza al Didier. S'egli scorrerà queste
pagine, io so che il core gli balzerà di gioja in veggendo che nella
terra ch'egli ama le massime di rigenerazione da lui predicate
germogliano nelle anime giovani e si tenta diffonderle, se non con
l'ingegno ch'egli ha, con tutto l'ardore di religione, ch'egli può
desiderare agl'Italiani. Son tanti gli scrittori francesi ed altri,
che insultano, travedendo o deliberatamente, alla Italia, che quando
ci vien fatto d'abbatterci in taluno che le porge una mano d'amore e
un consiglio, noi proviamo una sensazione simile a quella che
produce nell'esule l'ospitalità data senza fasto d'orgoglio, senza
affettazione di pietà.
85() Questo indirizzo, steso nella nostra favella, venne deliberato
dal Comitato Polacco alla Giovine Italia. Dall'epoca di
quest'indirizzo le persecuzioni dello Czar ottennero l'intento anche
in Francia, e i membri del Comitato andarono dispersi per ordine
ministeriale.
86() Nell'originale "vocabili
87() Fu discussa più volte e da gravi uomini nell'America; ma per le
condizioni particolari v'assunse aspetto singolarmente locale: i
Federalisti in America combattono acremente per la centralizzazione;
tra noi contro - e d'altra parte quegli scritti son poco noti. In
Francia s'agitò la questione, ma combattendo: gli animi insospettiti
delle molte insidie, irritati dai pericoli, erano tratti a vedervi
questione di vita o di morte; però dove gli argomenti non
soccorrevano pronti o non erano intesi, suppliva la scure. In Italia
pochi la esaminarono a fondo. Melchiorre Gioia toccò, non certo
esaurì tutti i punti importanti nella dissertazione: Quale dei
governi liberi meglio convenga all'Italia, e opinò pel sistema
unitario.
Il capitolo I del libro IX dell'Esprit des lois, dove Montesquieu
sembra proporre la federazione come il miglior dei governi, è
superficiale come sono pur troppo molti capitoli del suo libro nei
quali ei tocca questioni d'ordine generale: alcune asserzioni non
convalidate da prove, e un esempio che conclude forse a suo danno,
forman quel capitolo: vedi più giù. - È cosa notabile che nè
Voltaire, nè Elvezio, nè quanti hanno gremito di note e osservazioni
minuziose e talora pur cavillose ogni linea del testo di
Montesquieu, abbiano trovato in quel capitolo argomento d'una sola
considerazione; e può trarsene come - da Rousseau in fuori - i
critici del secolo XVIII s'addentrassero nella politica organica.
88() Nell'originale "Danse"
89() Tranne Brizzot e pochissimi dei minori, gli uomini della
Gironda non parteggiarono teoricamente e assolutamente pel sistema
federativo. L'accusa data ad essi dalla Montagna dura tuttavia
accettata senza esame dai più, forse perchè la condanna e il
supplizio tennero dietro all'accusa, e i più danno giudizio sul
fatto, non sul diritto. Ma la loro non fu opposizione di sistema,
bensì opposizione di circostanza. A molti di quei che oggi ancora si
citano federalisti, il pensiero di rompere l'unità della Francia
s'affacciava delitto capitale. La questione tra gli uomini della
Montagna e della Gironda era ben altra: due sistemi diversi di
rivoluzione cozzavano in essi, e il federalismo non fu che un'arme
di quella guerra. I Girondini contrastarono il dominio a Parigi,
tentarono la sollevazione delle provincie; ma perchè Parigi era a
quei giorni la Convenzione, e la Convenzione era la Montagna; perchè
volendo pur combattere il sistema della Montagna, vinti in Parigi
non potevano che cercare un rifugio nell'influenza onde godevano
tuttavia nei dipartimenti. Predicarono Lione, ma perchè ivi si
trasportasse una Convenzione come la volevano; nè ad essi cadde in
pensiero di smembrare la Francia - nè ad alcuno mai fuorchè ai re
della Lega, e a pochi illusi ed iniqui che v'intravvedono anch'oggi
il ritorno dei Borboni cacciati. La sentenza pronunciata dalla
Convenzione fu giusta, però che in essa risiedeva la rivoluzione - e
la guerra tra la rivoluzione e chi s'attraversa, è guerra mortale.
Ma il federalismo fu pretesto alla sentenza che i posteri non hanno
a ratificare.
90() L'ordinamento federativo non vieta e non inchiude la libertà,
non ha che fare colla costituzione interna di ciascuna delle
repubbliche unitarie che compongono la federazione. Dalla interna
costituzione dipende la maggiore o minore libertà che spetta a
ciascuna: dal sistema che le unisce tutte, la maggiore o minore
durata della libertà stabilita. La questione della libertà interna
s'agita negli attributi della potestà centrale, nel diritto
d'intervento accordato al governo negli affari spettanti ai singoli
membri dell'associazione: questione che non può sciogliersi se non
colla Legge che provvede all'ordinamento dei comuni e dei municipî:
questione estranea a questa del sistema unitario o federativo, che
non tocca la costituzione interna. Le libertà comunali e municipali
possono essere affogate o svincolate dalla centralizzazione in
ognuno dei diversi Stati confederati. Soltanto quei che cercano
nella federazione una più forte tutela a siffatte libertà, non
s'avvedono che raddoppiano, invece di scemarli gli ostacoli. Ad ogni
Stato, membro della confederazione, è forza infatti porsi in guardia
contro gli abusi del governo centrale della federazione, e contro a
quei del governo particolare a ciascuno laddove uno almeno dei due
nemici è soppresso dall'unità.
Giova notar fin d'ora la confusione che molti fanno di due questioni
radicalmente diverse, quella della centralizzazione e quella
dell'unità - e ne toccheremo più giù.
91() Il materialismo, che nei secoli di servaggio s'è abbarbicato,
assumendo aspetto d'opposizione, alle menti Italiane, ed ha invaso,
isterilendole, letteratura, storia, filosofia, ha generato una
politica, pretesa sperimentale, vero mare morto, i cui frutti
gettati qua e là sulle spiaggie si risolvono in cenere: politica che
abborrendo dai vasti principî sintetici, stendardo dei grandi
periodi d'incivilimento, s'aggira nei fatti, come l'anatomia tra gli
scheletri, e li esamina freddi, muti, isolati, come la morte del
passato li ha fatti, senza risalire dalle cagioni secondarie alle
prime, senza risuscitarne la vita, senza pure intravvederne la
connessione generale, e l'andamento progressivo; politica, il cui
sommo risultato scientifico è quello della vicenda alterna delle
sorti e dei popoli, il cui sommo risultato morale è quello d'indurre
negli animi una rassegnazione asiatica che soggiace ai fatti senza
pure attentarsi di romperli o modificarli. È dottrina, che vive
quasi esclusivamente di passato, e rinega l'avvenire: guarda con
amore ai miglioramenti materiali, non s'avvedendo che dove questi
non derivino dall'applicazione d'un principio morale, si rimangono
sempre precarî, sottoposti all'ineguaglianza e all'arbitrio; e i
dotti che la versano nei loro scritti s'arrestano a Machiavelli in
politica, a Condillac in filosofia, ai teoremi d'Obbes in diritto
sociale, e deliziandosi nelle ipotesi della guerra connaturale
all'uomo, della forza costituente diritto, del clima padrone
assoluto delle nazioni, sorridono all'altre del progresso, della
umana perfettibilità, della fratellanza tra' popoli, dell'abolizione
della pena di morte, come a sogni di cervelli esaltati e
superficiali. E se la dottrina che noi qui accenniamo abbia mai
fruttato all'Italia altro che tiranni o misantropi, lo dicano i
fatti ch'essi invocano onnipotenti. Per noi è dottrina spenta; il
secolo la rinega, e contro il secolo non è forza che valga. Ma
sentiamo il bisogno di protestare altamente, perchè presso alcuni,
che si ostinano tuttavia a predicarla, veste aspetto autorevole dai
nomi, e travia li inesperti, proponendosi dottrina italiana per
eccellenza - Italiana la dottrina del materialismo politico
filosofico sulla terra dove fremono l'ossa di Dante, di Bruno e di
Vico! - italiana la dottrina ch'oggi ancora nel XIX secolo,
pronuncia le assemblee deliberanti non convenire all'Italia per
divieto di clima! - I giovani la indovineranno facilmente a un certo
fare che piaggia, non emula Machiavelli, a un'affettazione della
gravità non della semplicità antica, alla venerazione che trapela
per le riforme principesche, pei consessi aristocratici, per le
accademie, all'ira contro qualunque fa di sottrarsene, e più alle
frasi prepotenza di cose, onnipotenza di fatti, sogni utopistici, e
simili, che ricorrono ad ogni tanto nei volumi che le spettano.
Noi torniamo e torneremo sovente a quest'argomento, dovessimo anche
esser tacciati di divagazioni, perchè più che discutere le questioni
particolari, ci par giovevole d'adoprarci a che si formi dai giovani
un criterio politico. - In politica non si sragiona impunemente mai.
Tutte le delusioni che pesano sulla Francia del luglio, e le
comandano una seconda rivoluzione, non derivano che da un errore di
raziocinio politico, che indusse a credere conciliabili due elementi
necessariamente discordi, re e istituzioni repubblicane.
92() La Lega anfizionica, costituita fra dodici popoli del nord
della Grecia, aveva un Consiglio che si riuniva due volte l'anno in
Delfo e in Antela, presso le Termopoli. Ventiquattro membri, due per
ogni Stato, ciascuno con diritto di voto, lo componevano: poi
crebbero i membri, non i voti. L'autorità del Consiglio fu sempre
riconosciuta dai deboli, sprezzata dai forti. 354 anni prima di
Cristo, i Focesi furono dal Consiglio condannati, come sacrileghi,
ad una ammenda per avere lavorato terreni consacrati ad Apollo. Era
delitto religioso e dovea trovar tutti uniti. Ma i Focesi corsero
all'armi: la Grecia si divise a favore e contro; e la guerra sacra
durò dieci anni, spossò i Greci e li diede alle ambiziose tendenze
del re dei Macedoni.
93() Rarus duabus tribusque civitatibus ad propulsandum commune
periculum conventus: ita dum singuli pugnant, universi vincuntur. -
Tacito in Agric. - ed è la storia di tutte le federazioni.
94() Neuchâtel apparteneva, quando fu pubblicato l'articolo, alla
monarchia prussiana - 1861.
95() All'epoca in cui Gioia scriveva la sua dissertazione, i
politici d'Arcadia prevalevano ancora di tanto, ch'egli, non osando
quasi enunziare i suoi dubî intorno alla Svizzera, li cacciava in
nota, e in bocca a un amico suo viaggiatore. D'allora in poi le
storie narrate da Svizzeri rivelarono nuda la condizione della
contrada. Vedi fra tutte quella dello Zschokke.
96() In una lettera del 25 ottobre 1770: confesso che quanto ho
veduto m'ha convinto della impossibilità di mantenere la libertà
nostra.
E altrove, accennando alle istituzioni abbracciate in comune dai
confederati a vantaggio della nazione, soggiunge: capitolo a farsi.
97() Bruges, Anversa, Amsterdam toccarono l'apogeo della prosperità
commerciale prima della indipendenza ottenuta. Vedi tutti gli
storici, e segnatamente il nostro Guicciardini.
98() Rousseau, come Montesquieu, non pensava, trattando la
questione, che alle repubbliche pagane e all'intervento diretto del
popolo. Ed è vero che l'Attica, a cagion d'esempio, era già troppo
vasta per quell'intervento: il popolo non poteva concorrere ad Atene
se non di rado, e cedeva quindi inevitabilmente gran parte della
propria autorità. E questo probabilmente il vizio interno accennato
da Montesquieu.
99() L'estremo della politica materialista è toccato da chi desume,
anche dopo i piroscafi e le vie ferrate, impossibile l'Unità dalla
forma allungata dell'Italia, e in verità non merita confutazione.
100() Inedito, 1861.
101() Etudes sur les constitutions des peuples libres.
102() Dalle Lettere sulle condizioni d'Italia, già citate. Lettera
I, maggio 1839, nel Monthly Chronicle.
103() Nell'originale "della". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
104() Nell'originale "E"
105() Memoires de Napoléon.
106() Nell'originale "pravalente". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
107() Nell'originale "siurezza". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
108() Dichiarazione di Principî e non di Diritti. E questa sola
distinzione basterà, se intesa e svolta a dovere, all'iniziativa
Italiana in Europa. Il nostro Patto assumerà carattere religioso ed
esprimerà le condizioni d'un'Epoca il cui fine è l'Associazione. Le
dichiarazioni di Diritti che tutte le Costituzioni s'ostinano a
ricopiare servilmente dai Francesi non esprimevano se non quelle
d'un'Epoca, compendiata - ed è gloria immortale per essa - dalla
Francia, che avea per fine l'individuo e non accennava se non a
mezzo il problema.
109() Accenno appena come spazio e tempo or concedono: ma questa
dell'Educazione Nazionale è questione vitale, frantesa finora dai
più, e merita un lavoro speciale ch'io tenterò in seguito. La
teorica invalsa nelle nostre file della libertà d'insegnamento e non
altro, fu grido di guerra giusto e utile contro un monopolio
d'educazione fidato ad Autorità rappresentanti il principio feudale
e cattolico avverso da lungo al Progresso e incapace di dirigere le
manifestazioni della vita nell'individuo e nell'Umanità. E anch'oggi
dovunque importa rovesciare quella falsa autorità e riconquistare
alla società il diritto di fondarne un'altra che sia espressione
dell'Epoca nuova, noi ci appiglieremo a quel grido. Ma ordinata la
Nazione a libera vita sotto l'ispirazione d'una fede che abbia a
propria insegna la parola Progresso, il problema è mutato. La
Nazione è un insieme di principî, di credenze e d'aspirazioni verso
un fine comune accettato come base di fratellanza dalla immensa
maggioranza dei cittadini. Concedere a ogni cittadino il diritto di
comunicare agli altri il proprio programma e contendere alla Nazione
il dovere di trasmettere il suo è contradizione inintelligibile in
chi vuole l'Unità Nazionale, ridicola in chi sancisce unità di
monete, pesi e misure per tutti. L'unità morale è ben altramente
importante che non l'unità materiale; e senza Educazione Nazionale
quell'Unità morale è impossibile: l'anarchia inevitabile.
L'Educazione Nazionale è inoltre l'unica base di giustizia che possa
darsi al Diritto Penale. Gli uomini che avversano il principio
dell'Educazione Nazionale in nome dell'indipendenza dell'individuo
non s'avvedono ch'essi sottraggono il fanciullo all'insegnamento de'
suoi fratelli per darne l'anima e l'indipendenza all'arbitrio
tirannico d'un solo individuo, il padre. La libertà e l'associazione
sono, come dissi, ambo sacre, e ambo devono rappresentarsi: il
Dovere sociale dalla trasmessione del Programma Nazionale: la
libertà di progresso da quella di tutti gli altri programmi, la cui
libera espressione deve essere protetta e confortata dallo Stato.
All'individuo appartiene la scelta.
110() Anche questo vorrebbe sviluppo, e farò di darlo in altro
volume. Ricordo or soltanto che fin dalla fine dello scorso secolo,
Vincenzo Coco avvertiva come una popolazione che non ha prodotto
principale se non l'olio debba aspettarne il ricolto in novembre,
un'altra vivente sulla pastorizia e sull'agricoltura raccolga i
frutti del lavoro in luglio e, se in paese di fredde montagne, nel
settembre, e mentre l'agricoltore ha in un solo giorno il prodotto
delle fatiche dell'anno, gli incassi del manifatturiere sieno
continui, e quei del commerciante si concentrino spesso ai pericoli
delle fiere. E conchiudeva perchè fosse lasciato alle popolazioni il
modo di soddisfare al tributo imposto.
111() Oggi non so quanti più, mercè l'infausta annessione di Nizza e
Savoja.
112() Quest'articolo è stato in gran parte tradotto dall'Autore
stesso, come indicano le virgolette che segnano quella parte.
Nota della Trad.
113() Nell'originale "illudetete". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
114() Nell'originale "si". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
115() Nell'originale "consideraarli". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
116() Dall'Apostolato Popolare, aprile 1842.
117() I fondatori dell'Atelier, della Ruche e del Travail, tre
giornali che in Francia rappresentano i voti ragionevoli degli
operai, hanno deciso, tanto sentivano la necessità che noi
predichiamo, che i soli operai sarebbero ammessi a esprimere i
bisogni degli operai nelle loro colonne.
118() Frammenti, dico, poi che la necessità di non trarre a pericolo
uomini buoni o di non tradire segreti da' quali può, quando che sia,
escir benefizio al paese, mi costringerà sovente a mutilar quelle
lettere. Ma dove non militano quelle cagioni, io non ho stimato
diritto mio di cancellare una sola sillaba, anche dove quel senso di
pudore ch'è ingenito in ogni uomo mi suggeriva di farlo. Le lodi che
a me si profondono nelle lettere dei due fratelli sono troppo
apertamente immeritate da una vita composta d'una serie
d'aspirazioni senza potenza di tradurle in atti, perch'io, esecutore
testamentario, potessi, senza peccato, crearmi, sopprimendole, un
merito di modestia. Ma in essi la riverenza a un esule e
all'espressione costante di certe credenze, non menomata pur
dall'idea che la costanza in esilio non frutta pericoli gravi, era
indizio d'indole, ch'io non potrei cancellare, per motivi
individuali, senza rimorso.
119() Nell'originale "trentatre". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
120() Nell'originale "omogeni" [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
121() Goethe.
122() Nell'originale "avremo". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
123() Era figlio di Côrso, ma nato in Cefalonia, da madre cefalèna.
124() Sento tutta la gravità dell'accusa ch'io pubblico; ma questa
mi sgorga da relazioni d'uomini informatissimi, non sospetti, e a'
quali l'accusato, prima ch'essi raccogliessero dati positivi, era
ignoto persin di nome. E nondimeno, io m'assumo fin d'ora l'obbligo,
se potesse mai un giorno scolparsi, di fargli ammenda onorevole,
ritrattandomi pubblicamente com'oggi accuso.
125() Operajo. Era zoppo.
126() Avrei vivamente desiderato trasmettere ai giovani il ritratto
dei due fratelli, e ne ho fatto ricerca, ma invano. Attilio era di
statura piuttosto alta; magro nella persona; calvo. Serio
nell'aspetto, grave nei modi, pieno d'entusiasmo nel discorso, aveva
del sacerdote nell'insieme: del sacerdote intendo come un giorno
sarà. Emilio era piccolo e tendente al pingue: di modi semplici e
volgenti a lietezza noncurante in ogni cosa che non toccasse che
lui: d'indole indipendente, ma non col fratello ch'ei venerava. -
Inserisco in calce allo scritto i loro proclami.
127() Uomo inoltrato negli anni, avvocato, e figlio del Nardi che fu
per pochi giorni dittatore in Modena nei moti del 1831.
128() Rocca e Venerucci erano, come Miller, uomini del popolo,
operai: rari per acutezza naturale d'ingegno: d'aspetto gradevole:
di condotta esemplare. Rocca era stato cameriere del poeta greco
Solomos, che lo trattava come un amico. Venerucci era fabbro
espertissimo. S'erano ambedue negli ultimi tempi adoperati con zelo,
in una corsa che fecero nel Levante, per disbrigarsi d'alcuni debiti
anteriormente contratti, onde potersi cacciar nell'azione senz'alcun
peso sull'anima e senza che alcuno potesse lagnarsi di loro.
129() Uomo d'armi incanutito nelle battaglie di Napoleone.
130() Forse da questa circostanza, dall'avere i martiri venerato più
Cristo che non il prete, venne il rifiuto dato dai preti cattolici
di Parigi ai nostri esuli, quando andarono a richiederli di
celebrare un'esequie il 2 novembre ai nove sagrificati.
131() Nell'originale "autonomia". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
132() «Pio nono, angelo deputato dal cielo... novello e dell'antico
più sapiente e glorioso fondatore di Roma; restauratore immortale
della civiltà cristiana, cui i popoli diffidenti volgono
maravigliando lo sguardo vedendo che per lui il pontificato
riassume, con non più saputa potenza, la tutela degli oppressi, e
l'idea cattolica si svolge fautrice di ben ordinato civile
consorzio, di equità, di giudizio, di nazionalità, di emancipazione
e di riconoscimento dell'umana dignità ecc.» - Dragonetti.
«Egli s'è fatto profeta del popol suo non solo, ma dell'intera
civiltà cristiana: egli ci dice quali saranno le sue sorti future:
non son io degno d'unire l'umile mia voce alla potente parola del
gran pontefice... che si sparge per l'intero mondo nunzia di
giustizia... questa parola che ha in sè maggior potenza che non si
ebber tutte insieme le antiche legioni, ha compito in brevi giorni
la grand'impresa che costò tanti secoli all'armi romane, la
conquista del mondo.» - Azeglio.
E basti per saggio. L'Azeglio è lo stesso che un anno innanzi
scriveva: «Se anche salisse al pontificato un uomo dotato d'alta
sapienza nell'arte dello Stato e d'ugual virtù per usarla ad utile
pubblico e senza pensiero di sè stesso, se questo pontefice volesse
risolutamente riformare gli abusi, che sono il profitto di
tanti..... costoro non glielo consentirebbero.... ed il minor danno
a cotal pontefice sarebbe il non poter far frutto nessuno.»
133 Nell'originale "s'alsasse". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
134 Nell'originale "intentere". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
135 Nell'originale "Srivete". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
136 Nell'originale "frustargli"
137 Nell'originale "chicchesia"
138 Nell'originale "prevaranno"
139 Nell'originale "disgungere"
140 Così infatti avvenne. Vedi Proemio al vol. IX delle Opere
complete di G. Mazzini.
141 Vedi Mazzini: Sulla politica internazionale dell'Inghilterra al
tempo della guerra d'Oriente.
142 Mazzini: L'unica soluzione della guerra d'Oriente.
143 Mazzini: Indirizzo all'esercito piemontese.
144 Vedi il Saffi nel Proemio al vol. IX, opera citata e la Vita di
G. Mazzini, dello stesso autore nel Risorgimento Italiano,
pubblicato per cura di L. Carpi. - Vedi pure Anelli: Storia
d'Italia, vol. III, cap. IV, pag. 131.
145 Vedi il Saffi nel Proemio citato.
146 Vedi: Vita di G. Mazzini della signora J. W. Mario, pag. 365.
147 Vedi G. Pallavicino: Il Piemonte, ecc., pag. 8 e 9; i discorsi
pronunziati da Nicotera e Zanardelli al Parlamento nella seduta del
21 marzo 1866 e Anelli: Storia d'Italia, vol. III, cap. IV, pag.
173.
148 Saffi: Proemio al vol. IX.
149 J. W. Mario, opera citata. - Luigi Settembrini scriveva
dall'ergastolo di Santo Stefano in data 20 marzo 1855: Ad
un'invasione straniera che volesse metterci sul collo un Murat, io
mi opporrei sino a pigliare le armi pei Borboni.
150 Vedi nel Risorgimento Italiano: Giorgio Pallavicino, biografia
di B. E. Maineri.
151 Vedi in questo volume a pag. 120 e seguenti e i Ricordi su Carlo
Pisacane, pag. 140.
152 In difesa della tentata sollevazione di Genova leggasi il
discorso di G. Nicotera pronunziato in Parlamento il 21 marzo 1866.
153 Vedi il Saffi: Proemio citato.
154 J. W. Mario, opera citata, pag. 382, e Saffi: Proemio al vol.
IX.
155 Vedi nel vol. X delle Opere complete: La Monarchia piemontese e
noi, pag. 160.
156 Vedi biografia del Mazzini nel Risorgimento Italiano.
157 Saffi: Proemio, vol. IX opera citata.
158 Un Francesco Crispi alquanto diverso da quello che, chiamato al
governo del suo paese, ha rinnegato ogni insegnamento della fede che
lo spinse alla generosa e nobile iniziativa.
159 Vedi Risorgimento italiano, opera citata.
160 Quel generoso moto di popolo che cercava la Patria - scrive il
Saffi nel suo Proemio al vol. X, opera citata - era colpevolmente
osteggiato dal Governo, e, peggio ancora, dalla fazione che ne aveva
l'appoggio. E i faccendieri del conte di Cavour tentarono fino
all'ultim'ora ogni via per distorre Garibaldi dal suo generoso
proposito. - Leggasi pure Anelli, opera citata, voi. IV, capo IV.
161 Leggasi il discorso di G. Nicotera alla Camera nella seduta del
21 marzo 1866.
162 Vedi lettere del Cavour al Persano e al Villamarina, il Proemio
al vol. XI e il Resoconto di Bertani e Garibaldi quivi riportato.
Che il Governo sardo non avesse creduto fin allora all'unità
d'Italia, lo provano specialmente le pratiche fatte dal Cavour per
indurre il Borbone e il duca di Toscana a confederarsi col re di
Piemonte, il rifiuto della dittatura offerta dal Governo provvisorio
della Toscana, e la vana ingiunzione fatta a Garibaldi di non
varcare lo Stretto, mentre veniva chiesta con urtante insistenza
l'annessione immediata della Sicilia. Vedi a questo proposito il
Proemio del Saffi al vol. XI, pag. 70.
163 Vedi J. W. Mario, opera citata, pag. 414.
Il Saffi nel Proemio al vol. XIII dice: «I ministri sardi
scioglievano l'esercito meridionale, disarmando come gladiatori
ribelli i patrioti che avevano gloriosamente combattuto le battaglie
dell'unità nazionale.» - E Giuseppe Sirtori esclamava dinanzi al
Parlamento nella seduta del 23 marzo 1861: «Noi fummo trattati non
da amici, non da patrioti, ma da nemici.»
Leggasi pure il discorso di F. Crispi alla Camera nel 10 giugno 1862
ed il Risorgimento Italiano citato, vol. IV. pag. 34.
164 Vedi Nota di G. Mazzini del 7 novembre 1861 ed altri scritti di
quel tempo pubblicati nel Proemio al vol. XIII. Vedi pure
corrispondenza tra il Mazzini e Kossuth intorno allo stato morale
dell'Ungheria.
165 Vedi nel Risorgimento Italiano citato, la biografia di G.
Mazzini scritta dal Saffi.
166 Il Garibaldi, connivente il Governo, aveva raccolto uomini ed
armi nel Trentino per muovere quindi alla liberazione del Veneto,
quando improvvisamente, e potrebbe dirsi proditoriamente, i suoi
volontari vennero presi, disarmati e imprigionati, non senza
spargimento di sangue.
167 Leggasi in proposito uno scritto di E. Pantano, riportato in
gran parte dal Saffi nel suo Proemio al vol. XIII delle Opere
complete di Giuseppe Mazzini.
168 Saffi: Vita di G. Mazzini, pubblicata nel Risorgimento Italiano,
opera citata.
169 Vedi proclami, indirizzi, ecc. del sedicente Comitato Nazionale,
e Saffi, Proemio al vol. XV, pag. 26. - F. Crispi nella seduta del 9
dicembre 1867 asserì che coloro i quali volevano Roma coi mezzi
morali e col consenso della Francia, mentivano, ingannando il Paese.
170 Vedi vol. XV.
171 Vedi a pag. 263.
172 Vedi Saffi: Proemio al vol. XV. opera citata, pag. 70.
173 Vedi Proemio al vol. XV, pag. 94.
174 Vedi J. W. Mario, opera citata, pag. 453-54; Saffi: Proemio al
volume XV, pagine 95 e 96 e Narrazione di G. Castiglioni, riportata
ivi a pag. 96.
175 Vedi pag. 266.
176 Vedi a pag. 273.
177 Vedi il Saffi nel Proemio al vol. XIV, pag. 196.
178 Vedi G. Mazzini, del Saffi nel Risorgimento Italiano, pag. 115.
179 Vedi il Saffi nel Proemio al vol XVI opera citata, pag. 76.
180 Leggasi l'articolo critico: La réforme intellectuelle et morale
de E. Renan, scritta dal Mazzini quindici giorni prima di morire.
181 Vedi a pag. 286.
182 Vedi nel Proemio al vol XV, pag. 115 ed al vol. XVI, pag. 52 e
seguenti, nonchè il discorso di G. Bovio riportato ivi in appendice.
183 Vedi nel Risorgimento Italiano citato, lo scritto del Saffi su
Giuseppe Mazzini.
184 Vedi il Saffi: Proemio al vol. XVI.
185 Vedi in questo volume, pag. 232, lo scritto: Il socialismo e la
democrazia, brano d'una lettera diretta dal Mazzini a Ferdinando
Garrido, celebre scrittore spagnuolo.
186 Vedi pag. 321.
187 Vedi J. W. Mario, opera citata, pag. 492.
188 Vedi Risorgimento Italiano, opera citata.
189 Nell'originale "delle". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
190 Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra,
memorie di Carlo Cattaneo, Lugano, 1849.
191 Correspondence respecting the affairs of Italy. Part II, from
january to june 1848 - presentata per comando di S. M. ad ambe le
Camere il 31 luglio 1849.
192 «Squadre di cittadini scorrono la città armati di fucili da
caccia, carabine, pistole e alabarde, portando bandiere tricolori
con coccarde tricolori al cappello, gridando: Viva Pio nono! Viva
l'Italia! Viva la repubblica!» - Dispaccio del 18-22 marzo da Milano
a lord Palmerston del vice console Roberto Campbell. - Quanto alla
condizione dei combattenti, vedi il Registro mortuario delle
barricate, e Cattaneo, pag. 309.
193 Vedi un documento nel libro di Cattaneo a pag. 99.
194 Cattaneo, pag. 60.
195 Ficquelmont a Dietrichstein, disp. del 5 aprile, pag. 325.
196 Corrispondenza, ecc., pag. 185. Dispaccio del marchese Pareto
all'onorevole R. Abercromby.
197 Corrispondenza, ecc., pag. 184. Abercromby a lord Palmerston.
198 Idem, pag. 206-7. Normanby a Palmerston.
199 Idem, pag. 207-8. Dispaccio del 25.
200 Idem, pag. 292. Pareto a Ricci.
201 Idem, pag. 408. Abercromby a Palmerston.
202 I tristi effetti del concetto dinastico erano, col solito acume
d'osservazione inglese, indicati, sin dal 31 marzo, in un dispaccio
inviato a lord Palmerston da Roberto Campbell, vice-console in
Milano: «Fino ad oggi, milord, la massima unione ha prevalso fra
tutte la classi; ma dacchè il re di Sardegna è entrato in Lombardia,
due partiti sono visibili; l'uno, quello dell'alta aristocrazia,
voglioso che la Lombardia e il Piemonte si congiungano in uno sotto
il re Carlo Alberto; l'altro, la classe media, nella quale io devo
contrassegnare gli uomini di commercio ed i letterati, insieme a
tutta la gioventù promettente, parteggiante per una repubblica.»
Vedi Documenti governativi pel 1848, pag. 294-95.
203 Qualche osservazione sulla relazione scritta dal general Bava
della campagna di Lombardia nel 1848. È opuscolo prezioso di verità
e gioverebbe ristamparlo.
204 Ai passi estratti dai documenti, giova aggiungerne fra i molti
altri due:
«Il governo aveva oramai esaurito i suoi mezzi per contrastare al
frenetico entusiasmo del popolo, e bisognava prestamente ottenere
una soluzione alla lotta lombarda...
«I ragguagli avuti stamane da Genova sono, che una dimostrazione
popolare per costringere il governatore della città a mandar
soccorsi alla Lombardia era stata sedata colla promessa di staccare
parte della guarnigione a quell'intento». Abercromby a Palmerston,
Torino, 24 marzo, pag. 205.
«La prolungazione della lotta in Milano aumentava la determinazione
del popolo e indeboliva i mezzi di resistenza del governo, finchè il
pericolo della monarchia sarda si fece tanto evidente ai ministri,
ch'essi furono costretti ad accedere....
«L'attuale gabinetto sardo ha così dovuto adottare una linea
politica... lontana dai suoi desiderî». Abercromby a Palmerston, 23
marzo, pag. 205.
205 Documenti, Campbell a Palmerston: da Milano, 3 aprile, pag. 295.
206 Idem, pag. 296.
207 Idem, pag. 337; dispacci di Radetzky al governo imperiale.
208 Idem, lord Napier a lord Palmerston, 27 marzo, da Napoli, pag.
283.
209 Idem, console generale Dawking a Palmerston, da Venezia il 28
marzo, pag. 286.
210 Idem, Ponsonby a Palmerston, 10 aprile, da Vienna, pag. 388.
211 Idem, Hamilton a Palmerston, 24 marzo, da Firenze, pag. 259.
212 «Tutte queste cagioni mantengono nella capitale e nelle
provincie del gran ducato agitazione siffatta che può temersi da un
momento all'altro il più grave commovimento, se il governo non
s'affretti a seguire il voto generalmente espresso di vedere le
nostre truppe e milizie partecipar nella lotta». - Neri Corsini al
barone Schnitzer Meeran, Firenze, 29 marzo, pag. 314.
213 Idem, W. Petre a sir G. Hamilton, 22 marzo, da Roma, pag. 261-2.
214 Idem, Petre a Hamilton, 24 marzo, pag. 227
215 Documenti, Campbell a Palmerston, 31 marzo, da Milano, pag.
294-5.
216 Idem, Napier a Palmerston, 27 e 28 marzo, da Napoli, pag. 281-5.
217 «La maestà vostra... riceverà certamente il plauso e la
riconoscenza di questo popolo. Noi vorremmo aggiungere di più, ma la
nostra condizione di governo provvisorio non ci permette di
precorrere i voti della nazione che certo sono tutti per un maggiore
riavvicinamento alla causa dell'unità italiana». - Indirizzo del 23
marzo comunicato il 3 aprile a lord Palmerston dal conte Revel,
Documenti, pag. 264.
218 Proclama dell'8 aprile.
219 Il Lombardo, diretto da un Romani, estraneo, anzi, non so se a
torto o a ragione, sospetto ai repubblicani, mosse in un articolo
guerra violenta al governo, e fu brutalmente soppresso.
220 Vedi il libro di Cattaneo, segnatamente ai cap. VII e VIII; -
Relazione della spedizione militare in Tirolo, Italia, maggio 1848.
- I volontarî in Lombardia e nel Tirolo, del generale Allemandi,
Berna, 1849, - e i Documenti.
221 Il maggiore Enrico Cialdini disse al Collegno «ch'ei non voleva
aver viaggiato per nulla, e che prima di ripartir per la Spagna,
sarebbe andato sul Veneto a cercarsi, come milite, una ferita
italiana». Andò e fu ferito.
222 Non entro nei particolari, e rimando al libro di Cattaneo, ai
documenti raccolti dal Montecchi e alla storia della campagna; ma
parmi dover citare un documento ignoto fin qui:
«Il sottoscritto... s'affretta a informare il signor Abercromby che
l'ordine è dato ai comandanti le navi dello Stato di lasciare
liberamente navigare i bastimenti mercantili naviganti sotto
bandiera austriaca, che verrebbe loro fatto d'incontrare.
«I comandanti le navi della marina regia hanno pure ricevuto
l'ordine di non commettere atto alcuno d'ostilità contro le navi da
guerra austriache, salvo il caso di provocazione.» - Torino, 29
marzo 1848. - Firmato: L. N. Pareto. Documenti, pag. 265. - Il
dispaccio è confermato da un altro del 9 aprile, e dalle istruzioni
date dall'ammiragliato sardo, Documenti, pag. 381.
223 «Io sono informato da una sorgente nella quale io posso porre
ogni fede, che il papa ha mandato ordini positivi alle sue truppe di
non attraversare il Po.
«Monsignor Corboli-Bussi è passato per Firenze venendo da Roma, e
sono informato ch'egli ha dal papa la missione di raccomandare al re
di Sardegna di ritirarsi colle sue truppe dentro le proprie
frontiere.» Documenti, sir G. Hamilton a Palmerston, da Firenze il
14 aprile.
224 Enrico Cernuschi fu minacciato, imprigionato: e così l'Agnelli,
il Terzaghi, Perego e non so quanti altri. Un Fava esercitava arti
di spionaggio degne dell'Austria intorno a Cattaneo e agli uomini
che avevan diretto le giornate di marzo. A me inscrizioni sui muri e
lettere anonime intimavano morte. Un Cerioli, non ricordo se prima o
dopo il 12 maggio, appiccò per le cantonate una tiritera, la cui
conchiusione affermava «che io aveva ricusato veder mia madre per
diversità d'opinioni politiche». La povera mia madre viaggiava
appunto allora verso Milano per abbracciarmi e benedire alle mie
credenze. Non so d'un repubblicano che sia sceso sì basso da
calunniare la vita privata de' suoi avversarî politici.
225 In tutta la serie del Documenti citati non un solo dei ragguagli
spediti frequentemente a lord Palmerston da Milano parla
d'agitazione repubblicana.
226 Erano, fra Toscani e Napoletani, 5000; e durarono combattendo
con miracoli di valore, una intera giornata contro 16 000 Austriaci.
Il generale Bava, informato, il 28, della mossa nemica, avvertì
Laugier che comandava quei nostri, promise soccorso, ed era a poche
miglia dalla battaglia. Poi, quando appunto un uffiziale toscano
accorse a descrivere la condizione degli assaliti, il re stimò
prudente il rimanersi immobile a Volta. - V. la relazione di Bava.
227 Nell'originale "d'un". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
228 Documenti, ecc. Lettera del 23 maggio, pag. 470.
229 Documenti, pag. 321.
230 Idem, pag. 396-8.
231 Documenti. Ficquelmont a Dietrichstein il 5 aprile, comunicato
il 13 a Palmerston, pag. 321.
232 «È certo che il germe lungamente sotterrato della nazionalità
italiana, risuscitato dagli sforzi della Giovine Italia, ajutato
dagli scritti di Gioberti, di Balbo e d'altri, secondato dal moto
del secolo, avrebbe rotto tutti gli ostacoli e avrebbe pur sempre
prodotto gli avvenimenti che oggi vediamo, perchè il grido
universale di Morte ai Tedeschi non escì primo dalla Lombardia e dal
Veneto, ma dal fondo della Sicilia, dove l'Austria non aveva
esercitato mai influenza d'oppressione, e ha traversato tutta la
penisola per giungere sino al Tirolo italiano, che sembrava
sinceramente affezionato alla monarchia». Vedi Documenti (Plan pour
la pacification de l'Italie), pag. 444.
233 Documenti, Ponsomby a Palmerston, pag. 453-4 - Hummelauer a
Palmerston, pag. 470 e 477 - Ponsomby a Palmerston; da Innspruk,
pagina 589-90.
234 Documenti, pag. 618.
235 Gli ultimi tristissimi fatti ai Milano.
236 Le ostilità rinnovate fra l'Austria e il Piemonte.
237 L'uccisione di Rossi ebbe luogo il 15 novembre, negli ultimi
tempi del dominio papale, più di tre mesi innanzi all'impianto della
repubblica. Fu commesso tra grida acclamanti al ministero Mamiani e
seguito da un gabinetto ch'ei presiedeva. È debito di giustizia
ricordare com'esso ripudiasse ogni vizio d'origine da quel fatto.
Mazzini era a quel tempo in Isvizzera e non giunse in Roma che
quattro mesi dopo.
238 Nell'originale "bandiere". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
239 Furono riconsegnati - Monitore del 20 maggio.
240 Nell'originale "Italla". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
241 De-Gerando Leduc, Astier, ecc.
242 La guardia nazionale contava 13 000 uomini in circa; e in virtù
dell'organizzazione, anteriore al governo repubblicano, ch'escludeva
dal servizio attivo la classe più povera, rappresentava in Roma la
classe media.
243 Capanna, Petralia.
244 Lettera del 1 giugno al generale Roselli: «Seulement.... je
diffère l'attaque de la place jusqu'à lundi matin au moins.»
245 «Dopo il diritto assoluto per tutti gli Stati italiani di
scegliere quella forma di governo che giudicano conveniente in tutta
la pienezza della loro indipendenza e la dichiarazione formale della
Francia ch'essa intende mantenere quell'indipendenza, esiste
un'altra questione... il bisogno dell'indipendenza dell'Italia.»
246 «Al potere esecutivo attuale verrà sostituito un governo
provvisorio, composto di cittadini romani, e scelto dall'Assemblea
nazionale romana, fino al momento in cui le popolazioni, chiamate a
manifestare i loro voti, avranno determinato la forma di governo che
dovrà reggerle e le condizioni di sicurezza che dovranno darsi al
cattolicesimo ed al papato.» - Art. 3 del progetto del 16 maggio.
«Le popolazioni romane hanno il diritto di pronunziarsi liberamente
sulla forma del loro governo.» - Art. 2 del progetto del 18 maggio.
247 «Tutto quello che prevenendo lo sviluppo dell'intervento
esercitato da altre potenze, animate da sentimenti meno moderati,
lascierà spazio maggiore alla nostra particolare influenza; tutto
quello che affretterà la caduta d'un regime condannato a perire,
ecc. La frase in corsivo fu aggiunta nella copia.
248 Fu pubblicata nel numero 4 dell'Italia del Popolo, rivista
ch'escì nel 1849-50 in Losanna.
249 Dichiaro... ch'io non ho potuto approvar col mio voto una
dimostrazione militare (la spedizione preparata dal gen. Cavaignac)
che mi sembrava pericolosa anche pei sacri interessi che si volevano
proteggere, e per la pace d'Europa - 2 dicembre 1848.
Luigi Napoleone Bonaparte.
250 Autorità, da auctor, che produce, che accresce.
251 Luigi Blanc.
252 Questa protesta troverà luogo in un volume successivo, quando
dovrò parlare del Comitato nazionale italiano instituito nel 1850.
Inserisco qui la lettera a Luigi Napoleone perchè esaurisco gli
scritti miei sulla questione romana.
253 Nell'originale "e". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
254 Allude alla nota consegnata dai plenipotenziarî sardi Cavour e
Villamarina, ai ministri di Francia e d'Inghilterra, il 27 marzo
1856, in occasione delle conferenze di Parigi.
255 Nell'originale "liguaggio". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
256 Lord Palmerston, nella seduta del 6 maggio 1856, allorchè fu
discussa dai Comuni della Gran Bretagna la questione italiana, dopo
il risultato del Congresso di Parigi.
257 Nell'originale "conto". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
258 Vedi nota citata a pag. 128, e l'altra del 16 aprile 1856.
259 Allude a uno scritto pubblicato il 15 ottobre 1856 da Giorgio
Pallavicino col titolo: Non bandiera neutra inteso a combattere il
programma di Mazzini e del vero Partito Nazionale. Vedi
introduzione.
260 Espero del 21.
261 Furono raccolti in volume i Saggi storici politici e militari di
Pisacane, Milano 1860; ma non ancora gli Scritti a cui qui allude
Mazzini.
262 Cito un esempio. In un bel libro ch'ei scrisse col titolo di
Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, Pisacane giudica
severamente la condotta e il genio militare di Garibaldi. Prima di
pubblicarlo, ei mi mandò il manoscritto. Biasimai, come inopportuna
e dannosa più che giovevole, l'inserzione di quegli appunti, e notai
qual divario corresse tra il mentire e il tacere; reo sempre l'uno,
onesto sovente e prudente l'altro. Non assentì; l'amore al Vero era
in lui più potente d'ogni altra considerazione; la discussione fra
noi fu animata abbastanza perchè ne seguisse un lungo silenzio.
263 Il documento che segue, scritto da Mazzini in francese, e
riprodotto in inglese nel Morning Advertiser, fu tradotto in
italiano da A. Saffi pel giornale genovese L'Italia del Popolo, ed
ivi fatto segno, come i tempi portavano, a sequestro ed a processo.
264 Vedi il vaticinio delle streghe a Macbeth, nel dramma di
Shakspeare.
265 Il signor de la Guerronière, supposto scrittore dell'opuscolo
indirizzato all'Inghilterra dopo l'attentato Orsini, s'era rivolto
nel 1848, disertando dal campo legittimista, al Comitato esecutivo
della Repubblica, per essere autorizzato ad iniziare, insieme col
signor Pelletan, un giornale repubblicano semi-ufficiale.
266 Allude alla esitanza degli ufficiali della guarnigione di
Châlons, chiamati a reprimere un moto repubblicano ivi scoppiato in
quei giorni.
267 Lettera al generale Sercognani, 28 febbrajo 1831.
268 Indirizzo agli esuli polacchi, 12 agosto 1833.
269 Processo di Strasburgo.
270 Lettera al Governo provvisorio, 28 febbrajo.
271 Lettera all'Assemblea Nazionale, 24 maggio.
272 Circolare agli elettori, 19 novembre.
273 24 dicembre.
274 2 dicembre 1848.
275 Proclama del 26 aprile.
276 Lettera a Edgardo Ney, 18 agosto 1849.
277 31 dicembre 1849.
278 12 novembre, Messaggio all'Assemblea.
279 9 novembre, agli uffiziali.
280 Proclama 2 dicembre 1851.
281 I numeri vennero accertati in una lista della Préfecture de la
Seine. Lo scrittore dell'opuscolo imperialista parlava di 150
vittime, scordando che la prima lista data dal Governo di Luigi
Napoleone ammontava a 191. Pochi giorni dopo, il Moniteur del 28
agosto ne numerava 383. Poi, il signor Garnier de Cassagnac
dichiarava che solo sui boulevards furono uccisi 1200 individui. La
fucilazione dei prigionieri si deduce dal rapporto del generale
Magnan, del 2 dicembre.
282 Nell'originale "allenza". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
283 Shakspeare, Amleto.
284 Shakspeare, Macbeth.
285 Vedi vol. IX delle Opere.
286 Vedi vol. III delle Opere, pag. 35 e seg.
287 Lettera ai Compilatori della Giovine Italia.
288 Per questo ed altri documenti in proposito, vedi la Gazzetta
officiale Piemontese, la collezione Parlamentare di Hansard in
inglese, e il Recueil de traitès, conventions, etc., rédigé, sur les
Collections authentiques, Murhard e Pinhas, vol. XII.
289 Rendiconto del Ministero Sardo, 12 agosto.
290 Nell'originale "diec ianni". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
291 Nell'originale "afiacciarle". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
292 Nell'originale "sotro". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
293 Nell'originale "nel". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
294 L'autore allude alla fondazione della Giovine Italia.
295 Nell'originale "l'ambito". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
296 Nell'originale "un'Essere"
297 Dall'Unità Italiana del 29 settembre 1860.
298 Il brano che segue, che noi qui inseriamo per la importanza che
serba anche dinanzi ai rapporti odierni fra il partito repubblicano
e le scuole socialiste, è tratto da una lettera di Mazzini a
Ferdinando Garrido, egregio patriota e scrittore spagnuolo, che avea
pubblicato a que' giorni un libro notevole sul moderno socialismo, e
chiesto all'esule italiano di esaminarlo e dirgliene il suo parere.
299 Nell'originale "delle". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
300 Nell'originale "shiamazzereste". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
301 Nell'originale "g'impedimenti". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
302 Giorgio Pallavicino.
303 Dal Dovere del 24 settembre 1864.
304 Dal Dovere, 28 gennajo 1865.
305 Dal Dovere del 17 giugno 1865.
306 Tutte queste predizioni s'avverarono pur troppo; e io mi sento
roventi di rossore le guancie, ricordando il cumulo di circostanze
propizie che l'Italia lasciò sfuggire, e le promesse alla povera
santa Polonia, che l'Italia tradì. (Nota di G. Mazzini alla presente
lettera, nel Dovere del 17 giugno 1865.)
307 Dall'Unità Italiana del 16 dicembre 1866.
308 Dall'Unità Italiana del 13 maggio 1869.
309 Nell'originale "ne". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
310 Dall'Unità Italiana dell'11, 17, 29 maggio 1870.
311 Inedita.
312 Nell'originale "oppportunità". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
313 La Roma del Popolo, n. 2
314 Parecchî fra i dipartimenti occupati dalle forze germaniche
hanno dato la maggioranza dei voti ai candidati repubblicani.
315 Nell'originale "Republica". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
316 Armand Carrel, G. Cavaignac, Michel de Bourges, Trelat, Raspail,
ecc.
317 La Roma del Popolo, n. 4, 5, 6.
318 La Roma del Popolo, numeri 7, 8.
319 Alludiamo segnatamente a un articolo della Perseveranza, 26
marzo, non per importanza da darsi agli scrittori di quella
gazzetta, ma perchè essi sono, nel difetto di meglio, accettati come
espressione d'una setta governativa lombarda.
320 «Quella bordaglia che in Parigi, immemore d'ogni affetto di
patria, pazza di furore, avida di lucri, insofferente di freni,
invidiosa, pervertita dai vizî, dai bisogni e da un sentimento
crudele che il godere sia il solo ed uguale diritto di tutti... non
è nella sola Parigi.
«L'Assy... è l'agente d'una setta che distende le sue fila per tutte
le società d'Europa, e che lega dentro di esse, più o meno, le
classi operaje delle principali città industriali al di là e al di
qua dei monti.
«In queste classi non mancano, certo, gli animi onesti e puri, e
forse, in parecchie delle città italiane, questi abbondano ancora.
Ma è certo che nel seno del maggior numero cova un lievito d'odio,
di rancore, di sospetto, che niente è più adatto a calmare. La parte
ch'esse prendono nella produzione della ricchezza - parte certo
grandissima - le accieca sul valore e sul diritto proprio...
Possiamo inorridire agli assassinî dei quali ci arriva l'eco; ma in
ognuna delle città d'Europa vive pur troppo una perversa ed abjetta
genia, che sarebbe capace di riprodurne lo spettacolo... E nelle
classi operaje che sono pure il fomite di cotesto sobbollimento
plebeo, si raccolgono le menti più sveglie ed istruite.» Art.
citato, e conchiude: «quando l'idea del Governo si abbassa e
l'influenza delle classi agiate s'annulla, non mancano se non le
occasioni perchè l'infima feccia delle città salga a galla, come ora
fa in Parigi, con isgomento e nausea di tutti.»
321 La Roma del Popolo, numeri 15, 17, 18-15, 21, 28 giugno 1871.
322 Errore decisivo del sistema inaugurato dal Comune parigino era
appunto di perpetuare, affidando a ciascun comune la propria
educazione, lo squilibrio esistente.
323 Nell'originale "manifestatazione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
324 La vita è l'assieme dei fenomeni che resistono alla morte.
325 La Roma del Popolo, n. 20 - 13 luglio 1871.
326 La Roma del Popolo, N. 28.
327 La Roma del Popolo, N. 32.
328 La Roma del Popolo, N. 33.
329 La Roma del Popolo, numeri 40, 41, 42.
330 Nell'originale "modicato". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
331 La Roma del Popolo, N. 47.
332 G. Semenza, nel Progresso del 7 gennajo.
333 La Roma del Popolo, N. 48.