L’altruismo 1 è un fenomeno complesso che interessa ogni
sfera dell’agire umano, senza appartenere in maniera preponderante
ed esclusiva a nessuna di esse. Per questo motivo il sentimento
dell’amore per il prossimo è stato nel tempo oggetto di
studio di svariate discipline che, con il supporto di tecniche di
ricerca e ipotesi iniziali differenti,
hanno contribuito a definire, nel tempo, un’immagine sempre
più completa del fenomeno. In particolare, è
interessante notare come le teorie sociobiologiche e psicologiche
siano state in grado di superare i limiti dei modelli economici
classici che, razionalizzando il comportamento umano e
identificando nell’uomo una natura tendenzialmente egoista, ne
proponevano una visione formalizzata, ma non sempre in linea con
l’evidenza empirica.
L’obiettivo di questo lavoro è quello di ripercorrere, a
partire dalla teoria dell ’Homo Oeconomicus fino ad arrivare a
quella dell’Homo Oeconomicus Maturus, le principali tappe che
hanno visto modificarsi l’immagine che l’economia ha dell’uomo e
della sua natura, prendendo in considerazione i contributi
provenienti dalla sociobiologia e dalla psicologia che hanno
influito sullo sviluppo di tale analisi. L’utilizzo di metodologie
di studio, ipotesi iniziali e parametri di valutazione
differenti non compromette, infatti, la complementarità di
tali approcci, ma permette invece di giungere alla conclusione che
la natura dell’uomo non è univoca, come non lo sono le
conseguenze delle sue azioni.
Il lavoro è organizzato in cinque parti. Nella prima parte
viene analizzato l’approccio economico classico. La
tradizione economica vede negli esseri umani la comune tendenza ad
agire con un unico scopo: massimizzare il proprio interesse. La
natura umana sarebbe così permeata di egoismo al punto tale
che gli stimoli provenienti dal mercato risulterebbero più
incisivi di qualunque coinvolgimento emotivo. Tale teoria rivela
la sua fragilità nel momento in cui si mettono a confronto
paradigmi teorici ed evidenza empirica: la diffusione di
comportamenti generosi tra gli esseri umani dimostra infatti che
l’Homo Oeconomicus rappresenta un modello non realistico.
I contributi provenienti dagli studi condotti da sociobiologi e
psicologi mettono in discussione la tradizione economica
evidenziando come i modelli teorici su cui si basa presentino una
visione incompleta e dunque imprecisa dell’uomo. Queste
discipline consentono così di superare in parte gli errori
propri dell’approccio classico fornendo una raffigurazione a
“tutto tondo” degli esseri umani. La seconda parte è
appunto una rassegna degli studi condotti da sociobiologi e
psicologi che, tramite una descrizione delle tipologie
comportamentali, influenzano le teorie economiche. Il primo
sottoparagrafo di questa parte è dedicato ai modelli
sociobiologici, impostati partendo dal presupposto che solo un
comportamento idoneo ha il potenziale per entrare a far parte del
patrimonio genetico trasmissibile tramite il meccanismo della
selezione naturale. Tale approccio, pur non riconoscendo in un
gesto di generosità alcuna forma di altruismo puro, ma
esclusivamente la volontà di ottenere un tornaconto, sia
esso direttamente rivolto al benefattore stesso (altruismo
reciproco o transigente) sia destinato al gene egoista e alla sua
diffusione (altruismo intransigente), non nega la
razionalità del relativo processo decisionale. Il secondo
sottoparagrafo è dedicato poi all’analisi dell’altruismo
inteso come valore da internalizzare tramite i meccanismi
dell’apprendimento. Si riconosce quindi che soggetti che
condividono lo stesso patrimonio culturale si adegueranno in
maniera più o meno precisa a norme e convenzioni sociali,
rendendo le proprie azioni relativamente prevedibili e permettendo
così l’elaborazione di modelli comportamentali formalizzati
e allo stesso tempo realistici. Il fatto che negli esseri umani
l’altruismo non sia solo un fattore biologico ha un’implicazione
notevole: la generosità non è semplicemente una
strategia da attuare se conveniente (sia in termini monetari che
di prole), ma è anche un valore che si estrinseca nel
comportamento umano come risultato finale di un complesso processo
di interazione tra personalità del soggetto, storia
educativa e norme sociali vigenti.
Infine, il terzo sottoparagrafo riguarda
il contributo della psicologia.
L’approccio psicologico va oltre le
teorie sociobiologiche tanto che, sostenendo l’esistenza di uno
stretto legame causa-effetto tra empatia e altruismo, non esclude
a priori che accanto al desiderio da parte del benefattore di far
cessare una forma di stress indotto dovuto alla partecipazione
emotiva alla sofferenza del beneficiario, vi sia la
possibilità che l’atto altruistico altro non
sia che un gesto di pura
solidarietà.
Nella terza parte si passano in rassegna le teorie economiche
moderne e contemporanee (in particolare relative alla teoria dei
giochi) che hanno analizzato il fenomeno dell’altruismo in tutti i
suoi aspetti. Gli economisti superano l’incompletezza della
visione classica dell’uomo iniziando, prima di tutto, a studiare
le conseguenze derivanti dalle azioni compiute da soggetti
altruisti all’interno della società e dalla loro
interazione con soggetti egoisti. Ne consegue che la
generosità, pur con i suoi limiti, può influire
positivamente sul comportamento umano (teorema del bambino
viziato); altre volte genera problematiche paradossali se non
accompagnata da un atteggiamento "kantiano" o supportata dalla
fiducia (dilemma del prigioniero, free-riding); infine, in alcuni
casi può peggiorare la situazione (dilemma dell’altruista,
dilemma del buon samaritano ). L’approccio economico propone
poi studi condotti nel tentativo di determinare il successo
delle strategie generose e il destino dei buoni, confermando il
carattere razionale della scelta di un individuo di comportarsi in
maniera altruistica già evidenziato dalle teorie
evoluzionistiche.
Il modello economico più completo e più innovativo
elaborato relativamente alla solidarietà è
probabilmente quello descritto nella quarta parte, proposto dalla
teoria dell’ Homo Oeconomicus Maturus secondo la quale il sistema
dei prezzi non svolge più un ruolo esclusivo e dominante
nella determinazione del comportamento umano. Il Crowding-Out
Effect è il meccanismo di risposta dei soggetti coinvolti
in opere umanitarie a un tentativo da parte delle istituzioni (o
di qualunque altro terzo), di “commercializzare” la
solidarietà. La quinta e ultima parte è il risultato
di questa analisi interdisciplinare attraverso la quale si vuole
dare una visione relativamente completa del fenomeno
dell’altruismo. Inoltre si sottolinea come le differenti
motivazioni che spingono gli esseri umani a comportarsi
generosamente implicano che gli interventi istituzionali non si
possono ridurre a regolamentazioni e incentivi monetari, ma devono
tener conto di tutti i fattori che determinano il processo
decisionale.
1 Il termine venne ideato da Comte nel 1850 circa.
La teoria economica classica tende a formulare le proprie
leggi basandosi su un modello di uomo particolarmente rigido e
categorico. Si suppone infatti che l’ Homo Oeconomicus sia dotato
di una perfetta razionalità e che
le sue preferenze siano sempre coerenti e stabili nel tempo.
Generalmente gli economisti classici non escludono la
possibilità che gli esseri umani siano in grado di provare
sentimenti di benevolenza e amore per il prossimo, ma non
ritengono che la loro influenza sia tale da determinarne il
comportamento. La convinzione è che a ogni cosa sia
possibile attribuire un prezzo e che per questo le decisioni
vengano prese in base agli incentivi e alle leggi del mercato. Ne
deriva che l’Homo Oeconomicus è tendenzialmente
egoista e che questo egoismo si riflette nel suo modo di
rapportarsi agli altri e nelle sue scelte.2
Nonostante già Mandeville (1714) e Hume (1738) avessero
identificato nei soggetti la propensione a perseguire in maniera
prevalente i propri interessi, è la teoria della mano
invisibile di A. Smith (1776) a trattare in maniera approfondita
tale concetto. Smith sostiene che l’egoismo non solo non sia da
condannarsi, ma anzi sia addirittura desiderabile. E’ ben nota la
sua affermazione secondo la quale gli uomini possono consumare
carne e pane non per la benevolenza del
macellaio o del panettiere, bensì per il loro egoismo.
Infatti, è proprio grazie a questo sentimento che nel
mercato i soggetti soddisfano i propri bisogni e perseguono i
propri fini. Di conseguenza, la generosità si rivela
un’incongruenza dell’agire umano, un atteggiamento irrazionale.
Questa visione formalizzata dell’uomo, che nel processo
decisionale è dominato dalla sua natura inequivocabilmente
egoista, incide notevolmente sul pensiero economico degli anni
successivi e, anche i pochi autori che non condividono pienamente
la teoria di Smith (in particolar modo il concetto di
“egoismo desiderabile”), in realtà non sono in
grado di delineare un modello economico basato sulla benevolenza.
Ad esempio, Bentham (1789) e J.S. Mill (1865) considerano le
azioni dettate dall’amore per il prossimo più come un
ideale non riscontrabile nelle società che come un elemento
decisionale realmente esistente.
La teoria sostenuta da Smith viene messa in discussione con
maggior decisione alla fine del XIX secolo quando autori quali
Edgeworth (1881) e Spencer (1897) dubitano del fatto che il
comportamento umano possa essere il risultato di sentimenti
omogenei e sistematicamente costanti nel tempo, e intuiscono che
tra lo spirito di conservazione e la benevolenza si instaura una
sorta di compromesso.
2 Una sintesi delle caratteristiche dell’Homo Oeconomicus è
stata elaborata da Sen (1985) che identifica tre processi logici
caratterizzanti il modo di pensare e di agire dell’Homo
Oeconomicus: self-centered welfare (correlazione tra benessere e
livello di consumo); self-welfare goal (massimizzazione
dell’utilità personale indipendentemente dalla condizione
in cui si trovano gli altri soggetti); self-goal choice
(orientamento delle scelte in vista del soddisfacimento dei propri
bisogni e del perseguimento dei propri fini indipendentemente
dalle preferenze degli altri).
Nel corso del XX secolo la critica alla teoria dell ’Homo
Oeconomicus prosegue con il contributo di discipline quali la
sociobiologia e la psicologia, il cui merito è quello di
aver modificato sostanzialmente il modello di uomo proposto
inizialmente dall’economia, delineandone un profilo più
realistico e, per questo, meno categorico, in grado di reggere il
confronto con l’evidenza empirica.
3.1 Il contributo della sociobiologia
Il fatto che l’evidenza empirica offra una quantità
tutt’altro che irrilevante di casi di generosità e
solidarietà fa supporre a biologi e sociobiologi che non si
tratti semplicemente di un fattore deviante. Il punto di partenza
dell’approccio sociobiologico è la teoria darwiniana
dell’evoluzione secondo la quale solo i comportamenti idonei (che
incrementano cioè la possibilità di sopravvivenza)
vengono tramandati alle generazioni future tramite il meccanismo
della selezione naturale. Sarebbe infatti improbabile che un
comportamento non idoneo sia stato in grado di superare la
selezione naturale. La spiegazione più plausibile è
che la maggior parte degli atteggiamenti cosiddetti solidali non
sia irrazionale, ma venga semplicemente interpretata in maniera
errata, essendo in realtà dettata non dall’amore per il
prossimo, bensì dall’interesse personale del presunto
altruista.
Ed è su questa convinzione che si delineano i contributi
teorici della sociobiologia, a partire dalla selezione di gruppo
di Wynne-Edwards (1962). Assumendo che le implicazioni
etiche e gli imperativi morali
non abbiano valore alcuno nel processo
evoluzionistico, Wynne-Edwards sostiene che nessuna
tipologia comportamentale entrerebbe a far
parte del corredo genetico trasmissibile se, anche alla lontana,
non avvantaggiasse in qualche modo il benefattore o il proprio
gruppo di appartenenza. La selezione di gruppo si basa quindi su
un egoismo collettivo secondo il quale ciò che appare come
un gesto di altruismo è invece un sacrificio compiuto
nell’interesse superiore della specie.
Il limite della teoria esposta da Wynne-Edwards risiede proprio
nell’assumere che la disponibilità al sacrificio per il
bene della specie sia distribuita in maniera omogenea tra tutti i
soggetti, o perlomeno che questi abbiano destinato una posizione
prioritaria alla preservazione del gruppo di appartenenza. Tale
principio perde forza nel mondo reale dove ci saranno sempre
individui pronti ad approfittare della generosità dei
propri simili, senza però
parteciparvi attivamente. Saranno proprio questi soggetti,
per i quali la selezione all’interno del gruppo è
più forte di quella che opera tra i gruppi, ad avere una
maggiore probabilità di riprodursi e di perpetrare il
proprio patrimonio genetico nel tempo.
Un’alternativa alla selezione di gruppo è
la teoria della selezione di
parentela3 elaborata da Hamilton (1964).
Scartando l’ipotesi dell’esistenza di una forma di volontà
superiore della specie, Hamilton identifica nel gene 4 il vero
attore egoista. Tuttavia sostiene che l’egoismo del gene non si
traduce consequenzialmente in atteggiamenti egoistici da parte dei
soggetti. Con una tale prospettiva, infatti, addirittura la
riproduzione, essendo annoverata tra i fattori che accorciano la
vita, non avrebbe ragion d’essere. Ciò che conta quindi non
è tanto la sopravvivenza del singolo individuo, quanto
quella del gene in esso custodito e la sua trasmissione alle
generazioni future. La disponibilità di un soggetto a
sacrificare la propria vita risente quindi positivamente tanto del
grado di parentela che lo lega al beneficiario del suo gesto,
quanto dello stato di bisogno e del potenziale riproduttivo dello
stesso; mentre dipende in maniera inversamente proporzionale dal
potenziale riproduttivo del benefattore e dalla gravità del
rischio da lui corso.
Tale teoria trova il suo limite nell’implicazione che deriva dal
concetto innovativo di gene egoista: l’altruismo dovrebbe esistere
solo tra soggetti legati da un vincolo di parentela, poiché
chi salva un parente salva anche una parte di sé. Ma tutto
ciò non è in linea con l’evidenza empirica che, a
sua volta, offre molti casi di gesti di solidarietà tra
soggetti estranei.
Un contributo in tal senso viene da Trivers (1971) che si pone
come obiettivo l’identificazione della legge naturale sottostante
i casi di altruismo tra soggetti non legati da vincoli di
parentela. Il meccanismo dell’altruismo
reciproco5 proposto da Trivers si basa sul principio dello
scambio: il soggetto A aiuta il soggetto B con la prospettiva di
vedere il proprio gesto prontamente ricambiato in un futuro
più o meno prossimo. L’equilibrio raggiunto attraverso la
reciprocità è in ogni caso molto fragile e genera
rapporti decisamente più instabili rispetto a quelli
determinati dal solido vincolo della parentela. Il successo di
tale meccanismo dipende, infatti, da molteplici e complessi
fattori quali l’onestà dei soggetti
coinvolti, il grado di permalosità dei benefattori, la
prospettiva di vita del beneficiario o ancora la validità
del processo discriminatorio adottato dall’altruista per
identificare e riconoscere i truffatori. Ma a questo punto il
problema non riguarda tanto la validità del modello quanto
la natura umana.
3 Definita da Wilson (1978) altruismo intransigente.
4 Riprendendo la teoria di Hamilton, alcuni
anni più tardi Dawkins
(1989) sosterrà che gli
esseri viventi sono “macchine da
sopravvivenza” il cui compito è “preservare quelle molecole
egoiste note sotto il nome di geni”.
3.2 Cultura e razionalità limitata
Un'estensione dell'analisi evoluzionistica riguarda gli studi
condotti sul comportamento da Hayek (1967), Rushton (1982), Witt
(1985), Sen (1985), (Boyd, Richerson, 1985) e Simon (1983, 1993)
in relazione alla selezione culturale. Tali studiosi ritengono
che, vivendo l’uomo all’interno della società e sviluppando
in essa una propria identità basata sul senso di
appartenenza e sulla conoscenza comune, il processo decisionale
non risente unicamente della complessità della natura
umana, ma anche dei valori e delle convenzioni che condivide con
gli altri membri. Gli esseri umani ricevono infatti una doppia
eredità: quella genetica, invariabile, e quella culturale,
modificabile negli anni. Mentre il patrimonio genetico viene
tramandato integralmente al momento del concepimento, il
patrimonio culturale viene appreso giorno dopo giorno, ed è
a sua volta in grado di prendere il sopravvento sul primo nella
determinazione del comportamento per far sì che i soggetti
riescano a interagire e a comunicare armoniosamente.
Rushton (1982) identifica tre meccanismi tra di loro complementari
mediante i quali agisce il processo di internalizzazione:
l’imitazione, l’assegnazione di punizioni o ricompense6,
l’educazione. La grande differenza esistente tra queste tre forme
di apprendimento risiede nel relativo livello di internalizzazione
delle norme sociali. I precetti intensamente radicati nei
soggetti, i quali scelgono di tenere un determinato comportamento
semplicemente perché ritenuto giusto, sono definiti
principi morali o valori. Le norme recepite come costrizioni
prendono invece il nome di convenzioni sociali. Nonostante
l’imitazione e l’assegnazione di punizioni o ricompense abbiano il
merito di indirizzare le azioni dei soggetti in poco tempo, non
trasmettono all’individuo dei principi morali o dei valori, ma
solo delle convenzioni sociali costrittive e di cui non
comprendono pienamente il significato. L’apprendimento si ferma
così a livello coattivo o imitativo e, invece di
generare soggetti socialmente maturi, crea degli
opportunisti7 o dei semplici
emulatori. E’ solo attraverso l’educazione che
si diffondono tra gli individui i valori e con essi la presa di
coscienza del significato di ogni azione.
L’influenza esercitata sul processo decisionale dalla cultura
è riconducibile al concetto di razionalità
limitata elaborato da Simon, secondo il quale gli esseri umani non
sono in grado di massimizzare la propria utilità essendo
incapaci di calcolarne il valore e non avendo informazioni
complete. La mancanza di conoscenza perfetta porta i soggetti a
temere tutte quelle azioni le cui conseguenze sono difficilmente
prevedibili e, per allontanare il rischio dell'ignoto, a preferire
l'adesione a norme e convenzioni sociali e a comportarsi secondo
“buone abitudini” (Skyrms, 1996; Festa,
1999). Ed è proprio per
conformarsi a comportamenti socialmente
approvati che durante la fase
di apprendimento è facile che
gli individui si trovino a internalizzare norme che agevolano
azioni altruistiche e che vanno contro l’interesse personale.
5 Definito da Wilson (1978) altruismo transigente.
6 Metodo particolarmente apprezzato già da Eysenck (1977).
7 Sacco e Zamagni (1994) li rinomineranno “opportunisti
illuminati”.
3.3 Il contributo della psicologia
E’ a partire dal concetto di empatia che la psicologia influenza
le teorie biologiche e sociobiologiche moderne. Si comincia,
infatti, a ritenere che la naturale tendenza a farsi coinvolgere
emotivamente dalle vicende altrui sia uno degli stimoli
fondamentali che spingono l’uomo ad agire, nonché uno tra i
principali responsabili di comportamenti solidali.
Partendo quindi dal principio che i soggetti risentono di una
partecipazione emotiva alle vicende altrui, Bandura (1977)
identifica una natura egoistica nel comportamento generoso di un
soggetto nei confronti di un altro: consentendo il sentimento
dell’empatia di identificarsi nel prossimo e di condividerne le
emozioni, l’osservare un individuo in difficoltà dà
origine a una forma di stress indotto. Aiutare il soggetto in
questione avrebbe come scopo quello di far cessare questa
sensazione.
Hoffman (1981), pur condividendo parzialmente la teoria esposta da
Bandura, ne identifica il limite nella univocità delle
motivazioni che dovrebbero indirizzare gli esseri umani nel loro
processo decisionale. Hoffman identifica quindi due tipologie di
sentimenti contrastanti che potrebbero spingere un individuo a
essere altruista nei confronti di un suo simile, a lui legato o
meno da vincoli di parentela. Il primo è di carattere
solidale: apportare un beneficio a un soggetto in
difficoltà. Il secondo tiene invece conto del fatto che non
è possibile separare nettamente l’egoismo umano dal suo
antitetico equivalente: un’azione altruistica nelle conseguenze
può essere dettata da una motivazione in parte egoistica.
Anche psicologi quali Fishhoff (1982), Deci e Ryan (1985), Batson
(1999) sono concordi nel ritenere che le motivazioni che spingono
un soggetto a compiere un gesto altruistico possono
essere di varia natura ed è impossibile distinguere
in maniera netta e precisa le azioni dettate da un puro sentimento
di benevolenza da quelle in cui l’unico scopo è ricevere
una ricompensa, sia essa pecuniaria, emotiva o sociale. D’altro
canto, non sarebbe nemmeno corretto escludere la
possibilità che entrambe queste motivazioni siano
compresenti.
Hoffman delinea così l’immagine di un uomo la cui natura
complessa ed eterogenea si riflette nelle motivazioni, non
necessariamente univoche, che lo spingono a rapportarsi in
un determinato modo nei confronti del prossimo. Ne deriva che, pur
essendo l’empatia un fattore rilevante nel determinare le tendenze
comportamentali dei soggetti, tuttavia non sia sufficiente ad
assicurare un atteggiamento altruistico automatico. Amore per il
prossimo ed egoismo concorrono, in maniera differente da persona a
persona, nella scelta del comportamento ritenuto idoneo. E’
evidente, quindi, che ogni sentimento, altruismo compreso,
è il risultato di una complessa interazione tra cultura,
genetica e personalità (Krebs, 1982; Boone et al., 1999).
Le ricerche condotte nel campo della sociobiologia e della
psicologia hanno permesso di elaborare teorie fondate su una
concezione dell’uomo meno categorica. Il contributo proveniente da
questi due approcci ha però un peso differente
poiché, in realtà, l’influenza delle teorie
evoluzionistiche proposte dalla sociobiologia, contestando
l’esistenza di una forma di altruismo puro, permette di superare
solo parzialmente i limiti dei modelli economici classici.
Infatti, se da un lato ammette che atteggiamenti altruistici siano
perfettamente razionali, dall’altro esclude la possibilità
che gli esseri umani siano spinti ad agire da motivazioni
altruistiche. Tuttavia la sociobiologia ha il pregio di aver
motivato l’economia, e in particolare la teoria dei giochi, a
costruire modelli in cui siano contemplati comportamenti altruisti
e in cui il processo decisionale dei soggetti non abbia come unico
scopo la massimizzazione del guadagno monetario.
E’ la psicologia che, tenendo conto della complessità della
natura umana e studiandone le manifestazioni senza escludere
l'esistenza di una forma di altruismo puro, permette
l'elaborazione di modelli più completi, che non intendono
contrastare la validità dei principi sui quali la teoria
economica classica ha disegnato l’uomo, ma renderne i tratti meno
rigidi, liberarlo da quella perfezione e da quella costante
coerenza che non gli appartengono. Il risultato è ancora un
uomo razionale e determinato a raggiungere i propri scopi; ma
è anche un essere umano che nel suo processo decisionale
tiene conto tanto dei propri interessi egoistici, quanto dei
propri sentimenti, dei propri stati d’animo e dei valori
internalizzati tramite il meccanismo dell’apprendimento.
4.1 Gli effetti dell’altruismo
L’inserimento del concetto di altruismo nella teoria economica ha
spinto gli economisti a cercare di determinare come l’inserimento
di soggetti generosi all’interno della società possa
modificare la qualità dei rapporti interpersonali. Dai
risultati di tali studi emerge il fatto che la non
univocità che caratterizza la natura dell’altruismo si
riflette anche nelle sue conseguenze. Da tale considerazione
deriva che sarebbe errato ritenere la benevolenza dei soggetti
sempre e comunque sufficiente a porre fine a rivalità
economiche e a garantire la cooperazione. Molti fattori quali
l’intensità dell’amore per il prossimo, la visione
più o meno paternalista dei soggetti altruisti, la
dimensione della comunità in cui i benefattori operano e il
numero di soggetti egoisti presenti, entrano in gioco e non
permettono di dare per scontati gli effetti della
solidarietà (Collard, 1978).
La teoria dei giochi ha contribuito notevolmente a discernere i
casi nei quali l’altruismo arreca solo un danno da quelli in cui,
anche se con dei limiti e sotto determinate condizioni, migliora
la situazione. Un caso tipico è quello descritto dal
dilemma del prigioniero . Due soggetti devono interagire e
ciascuno deve decidere se utilizzare una strategia cooperativa
oppure se defezionare. Se entrambi scelgono la cooperazione,
ottengono un pay-off maggiore del caso in cui entrambi decidano di
defezionare. Ma se uno dei due stabilisce di cooperare e la
controparte opta per la defezione, il primo giocatore
otterrà il pay-off peggiore e il secondo il risultato
migliore in assoluto. In assenza di altruismo l’equilibrio di
Nash, dato dalla propensione di entrambi i
giocatori alla non collaborazione, non
corrisponde all’ottimo paretiano che invece implica la
disponibilità dei soggetti a cooperare.8
La situazione potrebbe cambiare supponendo di inserire l’altruismo
nel gioco. Calcolando la propria utilità tenendo conto
anche del benessere dell’altro giocatore in maniera direttamente
proporzionale al grado di generosità che lo caratterizza,
un soggetto altruista sceglierà di collaborare se il valore
che attribuisce all’utilità dell’altro è tale da
rendere il pay-off relativo alla strategia
cooperativa maggiore di quello
ottenibile defezionando. Ma il grado
di altruismo non è l’unico fattore a
incidere sull’equilibrio. Anche il numero di giocatori altruisti
che partecipano al gioco ne influenza il risultato. E’
infatti vero che se si
incontrano due soggetti altruisti
per i quali la cooperazione
è conveniente si può
raggiungere l’ottimo paretiano; ma
è altrettanto vero che se
un soggetto altruista la cui
strategia dominante è la
collaborazione incontra un soggetto
egoista che sicuramente
defezionerà, la situazione ottimale
non verrà comunque raggiunta.
Questo non implica assolutamente che
“l’altruismo sia in grado di
produrre effetti solo se è
molto intenso e bilaterale” (Schianchi,
1997). Può capitare infatti
che il peso attribuito da un
giocatore altruista al benessere della
controparte non sia sufficiente a rendere la strategia cooperativa
dominante, ma sia comunque in grado di renderla non dominata. Una
tale variazione nell’ordinamento delle preferenze trasforma il
dilemma del prigioniero in un gioco di fiducia (Collard, 1978;
Schianchi, 1997). Confidando nel fatto che l’altro giocatore
deciderà di collaborare, la scelta ultima del soggetto
moderatamente altruista cadrà comunque sulla strategia
cooperativa. L’inserimento della fiducia nel gioco supera
così i limiti dovuti a un sentimento d’amore per il
prossimo non particolarmente intenso.
Ma come un grado troppo basso di generosità rischia di non
apportare alcun miglioramento, allo stesso modo il destino
dell’altruismo puro è il fallimento. E’ il caso descritto
nel dilemma dell’altruista dove si suppone che i giocatori siano
due altruisti estremi, cioè che diano priorità agli
interessi degli altri soggetti. A causa del loro
ordinamento di preferenze l'equilibrio di Nash ancora una
volta non coincide con l'ottimo paretiano. I due soggetti si
trovano, infatti, ad affrontare il cosiddetto problema del “dopo
di te”: ognuno è disposto a fare ciò che massimizza
l’utilità dell’altro, ma alla fine nessuno prende
l’iniziativa poiché ciascuno dei due soggetti aspetta che
l’altro decida cosa fare (Rawls, 1972).9 La situazione
si sbloccherebbe solo se uno dei due soggetti fosse egoista o se i
due giocatori fossero moderatamente altruisti.
Talvolta, invece, l’altruismo, anche se moderato e diffuso, non
è in grado di migliorare la situazione se non accompagnato
da un atteggiamento "kantiano"10 (Collard, 1978). Si pensi a una
comunità all’interno della quale si deve redistribuire la
ricchezza per mezzo di trasferimenti volontari dai soggetti
benestanti a quelli indigenti. La cooperazione volontaria genera
il problema del free-riding che non si risolverebbe nemmeno se i
soggetti ricchi fossero altruisti: paradossalmente, se un
individuo benestante trae beneficio dal miglioramento
delle condizioni di vita di un
soggetto povero, il suo benessere aumenta maggiormente se è
un altro a privarsi di parte del proprio reddito. Per questo
motivo aspetterà che sia qualche altro soggetto generoso a
effettuare il trasferimento con la conseguenza che, anche in una
società di altruisti, se tutti ragionassero in questo modo,
nulla verrebbe fatto per i bisognosi. Solo il senso del dovere dei
soggetti facoltosi sarebbe in grado di evitare questo
inconveniente.11
Un modello altrettanto interessante è quello esposto da
Becker (1981) nel teorema del bambino viziato. L’idea
è che all’interno di una
famiglia un soggetto altruista
possa "contagiare" gli altri membri tendenzialmente egoisti
tramite il proprio comportamento. Infatti, se manifestasse la sua
benevolenza trasferendo, in maniera direttamente proporzionale
alla ricchezza complessiva della famiglia, parte del
suo reddito agli altri componenti
egoisti, questi per curare i propri interessi
adotterebbero comportamenti cooperativi e agirebbero in modo tale
da massimizzare il benessere della famiglia stessa. In
particolare, si asterrebbero dal compiere qualunque
azione possa incidere negativamente sul
reddito dei familiari (e quindi su quello complessivo) se il
relativo guadagno non fosse superiore alla riduzione del
trasferimento ricevuto dal "benefattore".12
Mentre il dilemma del prigioniero e il teorema del bambino
viziato, nonostante i limiti evidenziati, rappresentano situazioni
in cui l’altruismo apporta un miglioramento, così come il
dilemma dell’altruista pur decretando il fallimento
dell’altruismo estremo tuttavia evidenzia l’esistenza di una
benevolenza moderata, per contro il dilemma del buon samaritano
descrive una situazione in cui la generosità dei soggetti
influenza sempre negativamente il risultato finale.
Il dilemma del buon samaritano (Buchanan, 1975) prevede che due
soggetti vivano per due periodi e che, ricevendo una
rendita solo nel primo, si trovino di fronte a una
scelta di consumo intertemporale. La
natura dei due individui è però
decisamente differente: mentre il primo è un soggetto
egoista, il secondo è altruista e decide di sussidiare il
consumo futuro dell’altro trasferendogli parte della sua rendita.
Tale scelta comporta un’evidente inefficienza:
per il soggetto egoista il costo del consumo presente in
termini di consumo futuro è pari a zero e la sua rendita
verrà spesa interamente nel primo periodo.
Nemmeno il tentativo di impartire una lezione morale al
soggetto egoista si rivelerebbe un
correttivo efficace. Infatti, se anche il benefattore, per
scoraggiare il suo beneficiario dallo spendere tutto nel primo
periodo, decidesse di consumare una quantità di risorse
superiore all'ottimo paretiano nella prima fase della sua vita,
riducendo al minimo la possibilità di consumo futuro sia
per sé che per il compagno, l’equilibrio finale
risulterebbe comunque inefficiente dal punto di vista economico.
In sintesi, non sempre un gesto di generosità comporta un
miglioramento della situazione. Gli uomini sono
complessi e imperfetti; non sarebbe quindi logico aspettarsi di
ritrovare nelle conseguenze delle loro azioni
quella univocità che non caratterizza la loro natura. Anche
un sentimento come l’amore per il prossimo ha i suoi limiti che
non sempre è possibile superare.
8 Questo non è comunque vero per i giochi ripetuti nei quali i giocatori, anche in assenza di altruismo, apprendono partita dopo partita che cooperare è vantaggioso.
9 Esempi vengono forniti da Collard (1981), Bernheim e Stark
(1988).
10 Chi assume un atteggiamento kantiano si chiede quale potrebbe
essere il risultato finale se gli altri imitassero il suo
comportamento.
11 In realtà questo è vero solo se il dono è
un bene pubblico. Se fosse invece un bene privato e il benefattore
traesse un beneficio dalla propria donazione, indipendentemente
dai trasferimenti effettuati da altri soggetti, non si
incorrerebbe nel problema del free-riding.
12 Questo implica comunque che il modello perda validità
nel caso in cui danneggiare un familiare comporti una
riduzione del trasferimento inferiore rispetto guadagno che
ne deriverebbe.
4.2 I buoni arrivano primi13
Gli studi condotti sugli effetti dell’altruismo all’interno della
società hanno come conseguenza quella di riproporre una
questione già sollevata nel campo della sociobiologia: se i
soggetti altruisti tendono a essere sfruttati, per quale motivo la
generosità è così diffusa?
E’ Axelrod (1984) che, con l’aiuto della teoria dei giochi e di
alcune nozioni provenienti dalle discipline sociobiologiche, tenta
di determinare il destino dei buoni confrontando, all’interno di
tornei, il successo delle strategie generose con quello conseguito
dalle strategie cattive. Anche se impostate secondo i criteri
della teoria dei giochi, le ricerche di
Axelrod risentono notevolmente delle teorie evoluzioniste,
specialmente nel terzo torneo quando la
collaborazione con Hamilton si rivela determinante al punto tale
che i pay-off monetari vengono sostituiti con vincite in senso
darwiniano (in termini di prole). I risultati stessi della sua
analisi sono una revisione in termini economici delle teorie
evoluzioniste. In particolare, il successo della Tit for Tat
evidenzia come, anche dal punto di vista economico, l’altruismo
possa risultare non un sacrificio disinteressato e
conseguentemente irrazionale, ma piuttosto come una strategia
vincente e per questo conveniente.
Gli studi condotti da Axelrod dimostrano come i concetti di
razionalità e self-interest in realtà non siano
correlati in maniera esclusiva all’egoismo e, per tale motivo,
confermano la teoria esposta da Sen (1977) secondo la quale
i soggetti che agiscono sempre in maniera egoistica sono degli
stupidi razionali.
In linea con questo principio e influenzati dalle teorie
evoluzioniste sono autori quali Hirschleifer (1982), Frank (1988)
e Robson (1990), secondo i quali gli impulsi non egoisti
influenzano le preferenze dei soggetti in vista del
superamento del test evolutivo. “Ciò che a noi riesce
gradito è in massima parte ciò che serve ai
nostri interessi” (Hirschleifer, 1982). Argyle (1991),
analizzando le società complesse, sostiene che un certo
grado di cooperazione sia indispensabile per la loro
sopravvivenza. Ma poiché il tasso di cooperazione aumenta
in assenza di egoismo (Dawes, van de Kraagt, Orbell, 1988), ecco
che l’altruismo ancora una volta risulta essere una strategia
razionale e conveniente. Le conclusioni tratte da Axelrod vengono
condivise anche da Rabin (1993), il quale, oltre a
sistematizzarle, le approfondisce inserendo nella sua analisi il
fattore emotività e riconoscendo nel desiderio di
reciprocità il fattore che fa optare i soggetti per la
strategia del Tit for Tat. Gli esseri umani sono infatti portati a
essere altruisti con chi si comporta generosamente, ma sono anche
disposti a sacrificarsi per punire chi ha dimostrato
falsità ed egoismo.
E’ interessante notare come i suddetti autori, nell’elaborare il
proprio modello, in realtà risentano solo parzialmente
degli studi condotti nel campo della psicologia. Le loro teorie
non contemplano, infatti, l’esistenza dell’altruismo puro e
considerano un gesto di generosità nei confronti di un
soggetto non disposto a ricambiare il favore come il risultato di
un processo valutativo errato. 14
13 Dawkins R., 1995, Il gene egoista(1989), pag. 211.
14 In realtà Rabin precisa che questo meccanismo basato sul
principio di reciprocità vale se i pay-off in gioco
non raggiungono cifre considerevoli. In caso di possibilità
di guadagno elevato, il sistema dei prezzi prenderebbe il
sopravvento.
Il modello che risente di più del contributo della
psicologia e che per questo tiene maggiormente conto della
complessità della natura umana e ne studia le
manifestazioni, è quello elaborato tramite la teoria
dell’Homo Oeconomicus Maturus (Frey, 1997, 1999). Il nuovo uomo
economico non nega affatto che le leggi di mercato incidano sul
processo decisionale, ma non consente che queste svolgano un ruolo
esclusivo o necessariamente dominante. Le sue azioni
dipendono infatti dall’interazione tra le motivazioni personali e
il sistema dei prezzi. La reazione positiva dell’Homo Oeconomicus
Maturus di fronte a incentivi monetari o regolamentazioni, a
differenza di quanto sosteneva la teoria economica classica, ora
non è per niente scontata. Si potrebbero infatti verificare
situazioni di Crowding-In nelle quali le iniziative intraprese sul
mercato accentuano semplicemente l’effetto delle motivazioni
personali, ma si potrebbe anche assistere a casi
di Crowding-Out dove l’aumento del prezzo di una prestazione o del
livello di regolamentazione a essa legato ha un effetto distorsivo
sulle originarie intenzioni dei soggetti.
Mentre la teoria economica classica definirebbe il Crowding-Out
una reazione perversa, il risultato di un ragionamento errato di
un individuo poco razionale, la teoria dell’Homo Oeconomicus
Maturus lo interpreta invece come la naturale conseguenza del
simultaneo e sistematico influsso di motivazioni
materialiste e morali sul comportamento
umano. In particolare, sono tre i processi psicologici che
innescano negli individui reazioni di rigetto
nei confronti di interventi esogeni; reazioni
più intense nel caso di regolamentazione poiché, in
caso di introduzione di ricompense pecuniarie, c’è sempre e
comunque una possibilità di scelta se aderirvi o no che
imposizioni da parte di un’autorità non consentono.
Prima di tutto, un intervento esogeno non permette al soggetto
interessato di autodeterminarsi: l’iniziativa personale e il
coinvolgimento emotivo in un’attività vengono infatti
sostituiti da un controllo esterno, portando
il soggetto in questione a declinare ogni
responsabilità scaricandola sull’istituzione intervenuta.
In secondo luogo, la sua autostima viene mortificata:
l’inserimento di interventi quali pagamenti pecuniari o
regolamentazioni urta profondamente la sensibilità e
l’orgoglio di colui che vede la propria competenza e il proprio
coinvolgimento non apprezzati. Infine, non c’è
possibilità di autoespressione: interventi esogeni non
permettono al soggetto di esibire al prossimo le proprie
motivazioni intrinseche.
Lo studio di questi processi psicologici ( Deci e Ryan, 1985) ha
permesso di individuare le condizioni sotto le quali un intervento
crea un effetto di Crowding-Out: sostanzialmente ne soffrono le
situazioni in cui le motivazioni dettate dallo spirito umanitario
degli uomini sono rilevanti.
Un’iniziativa da parte delle istituzioni rischia infatti di
minimizzare e sottovalutare la competenza e
la carica emotiva degli interessati; ancor peggio se
l’intervento tocca in maniera uniforme tutti i soggetti, ponendo
sullo stesso piano individui mossi da motivazioni intrinseche
differenti, sia nella natura che nell’intensità. Questo
accade quando le relazioni tra i soggetti sono molto strette, o
quando gli individui si sentono emotivamente coinvolti
nell’attività che stanno esercitando.
Scegliere la strada di una fitta regolamentazione quando invece la
moralità dei soggetti sarebbe sufficiente a condizionarne
positivamente il comportamento, potrebbe quindi rivelarsi una
scelta svantaggiosa (Frey, 1997). Come sostenuto da Sen
(1999), infatti, esiste un trade-off tra etica e regolamentazione.
Dove il senso morale dei soggetti è particolarmente
sviluppato, un eccessivo sviluppo dell’apparato istituzionale
genererebbe semplicemente effetti di Crowding-Out. Sarebbe invece
un investimento proficuo da parte delle amministrazioni pubbliche
utilizzare risorse per trasmettere valori ai soggetti tramite il
canale dell’educazione. Le loro scelte porterebbero così a
equilibri meno fragili e non sarebbe necessaria una continua opera
di monitoraggio e di regolamentazione da parte delle istituzioni.
Le ricerche condotte sul comportamento umano hanno dimostrato che
un individuo non è il risultato esclusivo di una
combinazione genetica o del mercato o, ancora, della
società e della sua cultura. Un uomo è tutto questo
insieme e non si può quindi pensare di esaurire l’analisi
di un fenomeno complesso quale l’altruismo limitandosi a studiarne
le manifestazioni e le conseguenze all’interno di un’unica
disciplina. Ne deriverebbe un’immagine incompleta, e per questo
imprecisa, degli esseri umani.
Solo un’analisi interdisciplinare permette di dare un senso alla
generosità senza che questa risulti come un evidente segno
di irrazionalità. Un gesto di solidarietà non
può essere nemmeno definito
categoricamente come una semplice risposta al
sistema dei prezzi, o una strategia evolutiva o un atteggiamento
assunto in seguito all’interiorizzazione delle norme morali
vigenti all’interno della società, poiché in
realtà si tratta del risultato di un processo di
interazione tra istinto, cultura e meccanismi
che regolano ogni sfera dell’agire
umano a qualunque livello.15
L’importanza dell’amore per il prossimo dipende
dal periodo storico in cui vivono i soggetti, dalla società
in cui ricevono il loro patrimonio culturale e, naturalmente, dal
loro carattere (van de Ven, 2000). La principale conseguenza
è che un gesto di solidarietà rende difficile la
distinzione tra casi in cui si può parlare di altruismo
puro e quando invece è l’opportunismo ad avere il
sopravvento. Esperimenti condotti nel campo dell’economia offrono
sia esempi di soggetti propensi alla generosità e
all’onestà (Andreoni, 1995) che di falsi altruisti (
Hoffman et al., 1991).
La teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus ha il merito di tener
conto del fatto che l’uomo economico non mette da parte il proprio
patrimonio genetico e culturale per affidarsi totalmente al
sistema dei prezzi, ma compie le proprie scelte facendo interagire
motivazioni personali e leggi di mercato. Ne
deriva che, in attività dove
contano principalmente lo spirito umanitario e il
coinvolgimento emotivo, l’inserimento di incentivi monetari e
regolamentazioni non solo non dà necessariamente esiti
positivi, ma può anche risultare un inutile e dannoso
spreco di risorse, generando effetti di Crowding- Out in seguito
ai quali alla mortificazione dell’impegno dei soggetti coinvolti
consegue una riduzione delle loro prestazioni (Titmuss, 1970;
Drake et al., 1982; Stewart, 1992, Keown, 1997; Fehr,
Gächter, 1997).
Nemmeno gli effetti di un gesto di generosità sono scontati
e necessariamente positivi. Può accadere infatti che, a
differenza di quanto potrebbe suggerire il buon senso,
l’intervento di soggetti altruisti provochi più danni di
quanto non farebbero individui egoisti. Altre volte invece,
l’amore per il prossimo rischia di non avere effetto se non
vengono applicati dei correttivi o se non è accompagnato da
un atteggiamento kantiano o da un sentimento di fiducia.
Sarebbe quindi utile che sia le istituzioni private che quelle
pubbliche tenessero conto di tutto ciò nella fase di
elaborazione delle loro linee di intervento. Talvolta, infatti, un
programma di educazione dei soggetti potrebbe rivelarsi più
proficuo e incisivo di regolamentazioni o incentivi.
15 Un esempio interessante è costituito proprio
dall’atteggiamento tendenzialmente non cooperativo degli studenti
in economia: non è chiaro se sia lo studio dell’economia a
indirizzarli verso un comportamento egoista o se semplicemente le
persone naturalmente egoiste siano attratte dalle materie
economiche (Frank, Gilovich e Regan, 1993).
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