L’Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamenti
    sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della
    storia, al modo stesso che non cangia natura l’aritmetica pel
    variare delle cose da numerare. O bisognerà comandare
    all’aritmetica di non permettere che quattro e quattro facciano
    otto, e di aspettare quel che deciderà in proposito lo Stato,
    che è il Dovere e che è Dio?
                                                             B. Croce
    
     Provarsi a leggere da economista gli scritti di Croce sulla
    ‘scienza economica’ è un esercizio imbarazzante, per il
    timore di dover essere irriverenti nei confronti di un autore che fu
    il “maggior idolo polemico” non soltanto di Gramsci, secondo la
    maliziosa definizione di Gianfranco Contini, ma di tutta la cultura
    italiana del secolo passato. 
    
    Conviene allora cominciare appellandosi a un’altra autorità,
    allo Schumpeter che così colloca l’opera di Croce nello
    Zeitgeist del periodo tra il 1870 e la prima guerra mondiale2:
    
    Non egualmente nuova, ma ancora più influente [di quella di
    H. Bergson] a causa della forza personale del suo grande maestro fu
    la filosofia di Benedetto Croce, che per noi ha un particolare
    interesse sia perché lo stesso Croce fu un po’ economista,
    sia perché egli è legato, più che non sia il
    caso di qualsiasi altro filosofo, con alcuni aspetti del lavoro
    professionale degli economisti italiani. ... [L’economica italiana]
    non era seconda a alcuno nel 1914. La componente più cospicua
    di questo risultato veramente sorprendente fu senza dubbio il lavoro
    di Pareto e della sua scuola. La scuola paretiana con i suoi alleati
    e simpatizzanti non dominò mai l’economica italiana
    più di quanto la scuola di Ricardo dominasse quella inglese o
    la scuola di Schmoller dominasse quella tedesca. La cosa veramente
    notevole è viceversa che, anche indipendentemente da Pareto,
    l’economica italiana raggiunse un alto livello in una varietà
    di linee e in tutti i campi di applicazione.
        
    Qualche nome, a conferma di questo giudizio: Ferrara, Messedaglia e
    Cossa tra i vecchi professori (gli ‘statisti anziani’); Pantaleoni,
    Barone, G. B. Antonelli, Fanno; poi Amoroso, Bresciani-Turroni, Del
    Vecchio, Einaudi, de Pietri-Tonelli, Ricci; e Loria (la cui opera,
    secondo Schumpeter, “è un ibrido curioso di genialità
    e di cattiva preparazione in analisi”).
        
    È notevole che come economista, se mai davvero un po’ lo
    è stato, e comunque come studioso dell’economia, Croce abbia
    un significativo tratto in comune proprio con Schumpeter: il
    riferimento costante a due polarità teoretiche di segno
    opposto. In Schumpeter questa irrisolta ambiguità è
    massimamente evidente nello storiografo dell’analisi economica, ma
    rispecchia quella dell’economista. Così come lo Schumpeter
    storiografo è diviso fra l’analisi e la visione, lo
    Schumpeter economista è diviso fra Walras e Marx. A Walras,
    come Schumpeter scrive nella prefazione all’edizione giapponese
    della sua Teoria dello sviluppo economico, si deve una
    concezione del sistema economico e un apparato teorico che per la
    prima volta nella storia della scienza economica abbraccia
    efficacemente la struttura logica dell'interdipendenza tra
    quantità economiche. La concezione e la tecnica di Walras,
    tuttavia, sono rigorosamente statiche e sono applicabili
    esclusivamente a un processo stazionario. 
    
    Il problema di cui Schumpeter si occuperà per tutta la vita
    è invece quello di come il sistema economico generi la forza
    che incessantemente lo trasforma. Schumpeter sa che all'interno del
    sistema economico esiste una fonte di energia che disturba qualsiasi
    possibile ‘equilibrio’: dunque ci deve essere una teoria dello
    sviluppo e dell’evoluzione economica, che non faccia assegnamento
    soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema
    economico da un equilibrio all’altro. Questa idea e questa
    intenzione, secondo lo stesso Schumpeter, sono esattamente le stesse
    che stanno alla base della dottrina economica di Marx. Questa
    tensione, tra l'esattezza e l'anima, mi pare si ritrovi in tutta la
    riflessione crociana sull’economia: tra la filosofia dell’economia e
    la così detta scienza dell’economia, e tra l’economia di Marx
    e quella di Pantaleoni e di Pareto.
        
  Due citazioni           
  
Poiché il
    campo è sterminato, converrà procedere per assaggi, a
    esempio partendo dall’uso che Croce fa di due citazioni, da Hegel e
    da Marx. Ciò potrà anche servire a togliere le tesi di
    Croce circa la così detta scienza dell’economia, che spesso
    hanno il tono di prediche agli economisti, dalla sua metodologia
    prescrittiva e a collocarle in una prospettiva storica, nella
    prospettiva della storia dell’economia politica e della sua
    riduzione a economica. Le due citazioni, entrambe circa l’economia
    politica classica, sono le seguenti. 
    
  Da Hegel:        
  
    Una scienza che fa onore al pensiero, poiché trova le leggi
    di una massa di casualità. È uno spettacolo
    interessante come tutti i rapporti sono qui interagenti, come le
    sfere particolari si raggruppano, influiscono su altre e ricevono da
    esse promozione o impedimento. Questo reciproco confluire, a cui
    dapprima non si crede, poiché tutto sembra affidato
    all’arbitrio del singolo, è eminentemente degno di nota, e ha
    un’affinità col sistema planetario, che presenta all’occhio
    sempre solo movimenti irregolari, ma le cui leggi possono essere
    conosciute.
        
  E da Marx:    
    
    L’economia politica, in quanto è borghese, cioè in
    quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado
    di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso
    come forma assoluta e definitiva della produzione sociale,
    può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle
    classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati.
    Prendiamo l’Inghilterra. La sua economia politica classica cade nel
    periodo in cui la lotta fra le classi non era ancora sviluppata. Il
    suo ultimo grande rappresentante, il Ricardo, fa infine,
    consapevolmente, dell’opposizione fra gli interessi delle classi,
    fra salario e profitto, fra il profitto e la rendita fondiaria, il
    punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa
    opposizione come legge naturale della società. Ma in tal modo
    la scienza borghese dell’economia era anche arrivata al suo limite
    insormontabile. ... Col 1830 subentrò la crisi che decise una
    volta per tutte. La borghesia aveva conquistato il potere politico
    in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi
    raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più
    pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella
    lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava
    più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se
    utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno
    alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori
    a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la
    cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica.
        
  Storia e ordine naturale         
  
Questi due passi
    evocano questioni strettamente intrecciate tra di loro.
    L’interpretazione che se ne darà dipende crucialmente dalla
    concezione che si ha della nascita dell’economia politica come
    scienza, della sua riduzione a economica, del suo statuto
    epistemologico. Di tale concezione essa è dunque rivelatrice.
    
    
  Circa il passo di Hegel, Croce scrive:    
    
    Giova notare che solo per l’ignoranza della gnoseologia e della
    terminologia hegeliana è accaduto d’interpretare le parole
    dello Hegel come giudizio di ammirazione pel grado di verità
    raggiunto dall’Economia: quasi lo Hegel intendesse che la scienza
    dell’Economia faccia molto onore alla ragione speculativa. Lo Hegel,
    invece, diceva che l’Economia fa molto onore al pensiero che pone
    leggi ai fatti, cioè all’intelletto, a quell’intelletto che
    in quanto astrattivo e arbitrario egli perseguita in tutta la sua
    filosofia; e veniva così a confermare che essa non è
    scienza vera e filosofica, ma semplice disciplina descrittiva e
    quantitativa, trattata con molta esattezza ed eleganza. Lode, che
    conteneva dunque l’esigenza di una delimitazione, la quale noi
    appunto ci siamo industriati a chiarire e giustificare, esponendo il
    modo di formazione di questa scienza ed ergendole di fronte, a
    complemento e contrasto, un’Economica o Filosofia dell’economia.
        
    Io credo invece, timidamente, che Hegel colga qui l’essenza
    dell’economia politica classica (di questa ovviamente Hegel parla,
    non della scienza economica in generale) e dell’operazione che ne ha
    consentito la nascita e costituzione come scienza e come scienza
    autonoma. L’economia politica acquista autonomia teoretica e lo
    statuto di ‘scienza’ con l’affermarsi del modo capitalistico di
    produzione. Una scienza ha bisogno di un oggetto e l’economia
    politica si può costituire in scienza, in scienza del
    capitalismo, soltanto quando acquista autonomia l’attività
    economica. L’attività economica, d’altra parte, acquista
    autonomia quando da finalizzata ad altro (alla produzione di valori
    d’uso e al consumo signorile) diviene fine a se stessa e alla
    propria riproduzione mediante la produzione di merci anziché
    di beni, non di utilità ma di profitti. 
    
    Si può dunque dire che l’economia politica può avere
    un suo proprio oggetto soltanto quando il processo economico si
    costituisce come processo autonomo, come processo ‘circolare’ quale
    viene rappresentato nel Tableau économique di Quesnay e negli
    schemi di riproduzione di Marx (poi in Produzione di merci a mezzo
    di merci di Sraffa). Questo modo di produzione, come qualsiasi
    altro, contiene delle contraddizioni (altri preferirebbero dire
    delle opposizioni reali), e gli economisti classici non hanno paura
    di coglierle. Così Marx scrive di Ricardo nelle Teorie sul
    plusvalore: “Se la concezione di Ricardo è in complesso
    nell’interesse della borghesia industriale, ciò soltanto
    perché e nella misura in cui l’interesse di essa coincide con
    quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro
    umano. Dove esso viene in contrasto con quelli, egli è
    altrettanto privo di riguardi verso la borghesia, come lo è,
    d’altro lato, verso il proletariato e l’aristocrazia”.
        
    La capacità degli economisti classici di cogliere le
    contraddizioni della società civile cui appartengono è
    il frutto di una loro contraddizione metodologica. La credenza in un
    ordine naturale, come quello che regge “il sistema planetario, che
    presenta all’occhio sempre solo movimenti irregolari, ma le cui
    leggi possono essere conosciute”, è a un tempo il loro merito
    imperituro e il loro limite. Questa credenza si regge sulla falsa
    premessa, oggi volgarmente riproposta, che con l’avvento del modo
    capitalistico di produzione la storia sia finita. Senza questa
    premessa, tuttavia, l’economia politica non avrebbe potuto
    costituirsi in disciplina autonoma, in una scienza della
    società avente uno statuto metodologico analogo a quello
    delle scienze della natura. Una scienza, per l’appunto, che “che fa
    onore al pensiero, poiché trova le leggi di una massa di
    casualità”. Spunti interessanti, per intendere la portata e i
    limiti dell’economia politica classica, e lo statuto epistemologico
    delle ‘leggi’ economiche, a me pare si trovino in G. Lukács3.
        
    Hegel, ricorda Lukács, indica “il regno delle leggi” come
    l’immobile riproduzione del mondo che esiste o che si manifesta in
    fenomeni. La legge coglie ciò che è immobile, e
    perciò la legge, ogni legge, è angusta, incompleta,
    approssimativa4. Per Lukács la dialettica di Hegel è
    lo stadio più alto della filosofia borghese, il suo tentativo
    più energico di creare un metodo che possa garantire una
    siffatta approssimazione della riproduzione teoretica della
    realtà a questa stessa realtà. In questo quadro
    è determinante l’apporto dell’economia politica classica.
    È certamente vero (come Sraffa scriverà a Gramsci
    attraverso Tania) che “Ricardo, al contrario dei filosofi della
    praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il suo
    proprio pensiero”, ma non c’è dubbio alcuno che egli parli di
    un “mercato determinato”. Di ciò sono prova le sue categorie
    analitiche e gli stretti e inscindibili rapporti tra queste
    categorie e le sue preoccupazioni e indicazioni di politica
    economica. 
    
    Ancora Lukács rileva, e qui mi avvio a commentare il passo di
    Marx, come Smith e Ricardo formulino bensì, con franchezza e
    disinvoltura, tutte le contraddizioni in cui s’imbattono, con lo
    spregiudicato amore della verità di pensatori di prim’ordine.
    Poco li preoccupa che la constatazione di un rapporto contraddica ad
    un altro rapporto da loro stessi stabilito. La
    contraddittorietà, tuttavia, è presente solo
    materialmente, solo de facto, e nulla è più estraneo
    agli economisti classici inglesi di vedere nella
    contraddittorietà stessa il dato fondamentale della vita
    economica e quindi della metodologia dell’economia politica; mentre
    la coscienza di questa contraddittorietà è proprio il
    problema centrale della filosofia classica tedesca (e della sua
    letteratura: Lukács ricorda che il tema del Wilhelm Meister
    di Goethe è la devastazione prodotta nell’uomo dalla
    divisione specialistica del lavoro).
        
    È verosimile che proprio lo studio dell’economia politica
    classica abbia significato una svolta nello sviluppo di Hegel, con
    l’individuazione del problema del lavoro come forma centrale
    dell’attività umana, e come molla dell’evoluzione che
    attraverso lo sviluppo delle forze produttive associato allo
    sviluppo della divisione del lavoro, fa dell’uomo un prodotto della
    sua stessa attività. Come allievo di Smith, Hegel sa che il
    perfezionamento tecnico del lavoro presuppone una divisione sociale
    del lavoro altamente sviluppata, e insieme si rende conto che il
    perfezionamento degli strumenti, il sorgere del macchinario,
    contribuisce a sua volta alla ulteriore divisione sociale del
    lavoro. 
    
    Sempre secondo Lukács, Hegel è allievo di Adam Smith e
    del suo maestro Ferguson non solo come economista ma anche come
    umanista critico; e come Smith egli da un lato rappresenta
    oggettivamente il rapporto fra la divisione del lavoro e il
    progresso tecnico, rapporto nel quale vede il movimento necessario
    del progresso umano; ma d’altra parte non chiude gli occhi davanti
    agli effetti distruttivi che la divisione del lavoro capitalistico e
    lo sviluppo del macchinario producono necessariamente sul lavoro
    umano, sulla vita umana. Questi tratti della divisione capitalistica
    del lavoro non vengono visti come i ‘lati cattivi’ del capitalismo,
    che debbono essere corretti o eliminati per giungere a un
    capitalismo ‘senza difetti’. 
    
    Egli vede al contrario nel modo più chiaro la necessaria
    connessione di questi lati della divisione capitalistica del lavoro
    con il suo carattere economicamente e socialmente progressivo; vede
    il carattere progressivo del movimento generale dello sviluppo delle
    forze produttive a opera del capitalismo e della divisione
    capitalistica del lavoro, e vede nello stesso tempo la
    disumanizzazione a essa necessariamente connessa della vita
    dell’operaio. “Fabbriche e manifatture”, scriverà Hegel,
    “fondano la loro esistenza proprio sulla miseria di una classe”. Lo
    sviluppo delle forze produttive materiali è uno sviluppo
    necessario e progressivo; tuttavia il tipo umano formato dallo
    sviluppo capitalistico delle forze produttive è la negazione
    di tutto quanto di grande, elevato e significativo è stato
    prodotto finora dall’evoluzione dell’umanità. Questa
    connessione inseparabilmente contraddittoria del progresso con una
    degradazione dell’umanità, questo ottenere il progresso al
    prezzo di questa umiliazione, è il nocciolo reale della
    hegeliana “tragedia nell’etico”.
        
  Di ciò, infatti, aveva già scritto Adam Smith:    
    
Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della
    stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè
    della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime
    operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza
    della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro
    occupazione ordinaria. Un uomo che spenda tutta la sua vita
    compiendo poche semplici operazioni non ha nessuna occasione di
    applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a
    scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non
    incontra mai. ... in ogni società progredita e incivilita,
    questa è la condizione in cui i poveri che lavorano,
    cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente
    cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo.
        
  Dall’economia politica all’economica         
  
Circa il secondo passo, quello di Marx sul 1830 come discrimine nella storia dell’economia politica, il Croce scrive:
    Il Marx fulminava contro la letteratura economica che seguì
    in Inghilterra, dopo il 1830, all’austera scienza del Ricardo e che
    era tutta inquinata da interessi di classe, intesa all’apologia
    della borghesia e del capitalismo; ma egli medesimo, per intanto,
    componeva il Capitale, in cui peccava più assai dei suoi
    avversarii, perché scontorceva il metodo stesso della scienza
    economica introducendo concetti antieconomici come quello del lavoro
    non pagato o sopralavoro che genererebbe il profitto, e tutto
    ciò per porre una illusoria base scientifica all’azione
    politica, da lui auspicata, del proletariato. Il vero è che
    tutte, quali che sieno, le tendenze e le proposte di ordinamento
    sociale sono estranee all’indole della scienza dell’economia, alla
    quale vengono congiunte e nel cui nome sono invocate per suggestioni
    passionali o per calcolo politico. La tesi del puro liberismo al
    pari di quella del puro statalismo e comunismo si valgono, come
    già altra volta ho dimostrato, nella comune mancanza di
    giustificazione dottrinale; ma similmente ne mancano le infinite
    soluzioni intermedie, che sono state proposte o possono proporsi,
    tra quei due estremi. Perché? Perché la soluzione
    spetta di volta in volta, nelle condizioni storicamente determinate,
    unicamente alla coscienza etico-politica, che sola vince
    l’astrattezza della scienza economica.
        
    Lasciandone da parte i fulmini contro il Marx, mi limito qui a due
    osservazioni su questo giudizio di Croce, una analitica, l’altra
    storiografica. Prima vorrei però ricordare la partecipe
    semplicità con cui il recensore anonimo della prima
    traduzione inglese riassume Das Kapital5:
    Si rappresenti la giornata lavorativa come un segmento a - b - c,
    nel quale a - b rappresenta il tempo necessario a un lavoratore per
    guadagnare quanto gli occorre per una vita sana; allora b - c
    rappresenterà un pluslavoro, il cui valore va al capitalista.
    Il lavoratore invece vorrebbe una giornata di lavoro normale,
    così che il segmento b - c fosse una quantità che
    progressivamente si riduce. In tutto ciò, formulato in
    maniera semplificata, sembra non ci sia niente di nuovo, ma quello
    che c’è di nuovo è lo stile tranchant con cui Marx
    irrobustisce le sue proposizioni, le deduzioni che ne trae dopo
    averle enunciate, e la luce che proietta quando percorre i luoghi
    oscuri di un sistema economico di concorrenza sregolata, un sistema
    nel quale il lavoro è concepito come un fattore impersonale,
    e sfruttato a vantaggio dello speculatore e del capitalista
    straricco, dei membri oziosi e parassiti della società.
        
    L’osservazione analitica riguarda i “concetti antieconomici come
    quello del lavoro non pagato o sopralavoro che genererebbe il
    profitto”. A questo proposito, ricordo che all’origine di questi
    concetti sta la distinzione smithiana, criticata poi da Ricardo e
    elaborata da Marx, tra lavoro comandato e lavoro contenuto. Una
    distinzione erronea ma feconda, e che si deve a un autore che non
    aveva niente da scontorcere e che non aveva nessuna intenzione di
    porre una illusoria base scientifica all’azione politica del
    proletariato. Lo stesso Adam Smith, d’altra parte, e questo è
    un punto sul quale si dovrebbe riflettere a proposito dei
    ragionamenti crociani su ‘canone’ e ‘paragone ellittico’, riferisce
    la distinzione tra lavoro contenuto e lavoro comandato (come misura
    reale del valore) a quella tra uno stadio “rozzo e primitivo” della
    società, nel quale tutto il prodotto del lavoro appartiene al
    lavoratore, e un paese civile, nel quale la produzione abbia modi e
    fini capitalistici, sia cioè produzione per il profitto
    anziché per l’uso:
    
    In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all’enorme
    lusso dei loro signori. La rendita che va a sostenere lo sfarzo
    dell’indolente padrone è stata tutta guadagnata dalla
    laboriosità del contadino. Chi possiede denaro, indulge ad
    ogni sorta di ignobile e sordido libertinaggio a spese del mercante
    e dell’artigiano, ai quali presta ad interesse il suo capitale.
    Tutte quelle frivole ed indolenti persone che sono addette alla
    Corte, sono, allo stesso modo, nutrite, vestite ed alloggiate da
    coloro che pagano le tasse per mantenerle. Tra i selvaggi, invece,
    ognuno gode dell’intero prodotto della propria attività.
        
    L’osservazione storiografica riguarda la denegata intelligenza di
    Marx nel cogliere il momento in cui l’economia politica classica si
    autocensura e che negli anni tra il 1830 e il 1870 (gli stessi della
    marxiana critica dell’economia politica6) si converte in economica7.
    Dai Petty, Quesnay, Smith e Ricardo, al sincretismo di J. S. Mill,
    che tenta di conciliare l’inconciliabile, fino a A. e M. P.
    Marshall, a Jevons, Menger, Walras e Pareto e infine alla
    codificazione di Lord Robbins. Da una indagine sulla natura,
    riproduzione e distribuzione della ricchezza, sull’anatomia della
    società civile nel senso hegeliano di complesso dei rapporti
    materiali dell’esistenza, allo studio del comportamento umano come
    relazione tra fini e mezzi scarsi, aventi usi alternativi. (Secondo
    Croce, invece, “L’uomo economico cerca la massima soddisfazione col
    minimo sforzo”, che è una proposizione priva di senso.) 
    
    L’oggetto principale della critica neoclassica è la teoria
    del valore lavoro, il cui abbandono comporta quello del concetto di
    sovrappiù. Il processo produttivo non è più
    concepito come finalizzato all’ottenimento di un sovrappiù,
    ma come finalizzato al soddisfacimento dei bisogni. Come dirà
    Sraffa, esso viene ora visto come un corso a senso unico che porta
    dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. In breve, si
    finge di essere ancora nello stadio “rozzo e primitivo” della
    società, uno stadio nel quale i rapporti di produzione non
    paiono più conflittuali, bensì armoniosi,
    poiché del conflitto è stata tolta la premessa.
        
    Secondo questa visione, il mondo economico sarebbe finalmente un
    mondo abitato da individui razionali, che sul mercato si scambiano
    con reciproco vantaggio beni o servizi produttivi. L’homo
    œconomicus, sotto l’influsso di forze che dipendono da un astratto
    criterio di convenienza radicato nella natura umana, si muove in un
    campo di forze determinato dalle azioni degli altri individui e dai
    vincoli cui è soggetto (la ricchezza posseduta e il reddito
    disponibile), finché il sistema non ha raggiunto un
    equilibrio statico. L’economia politica può finalmente essere
    pensata come una scienza fisica, una scienza - come la meccanica - a
    un tempo sperimentale e razionale. Con questa riduzione a scienza
    pseudo naturale, a scienza di cose, oggetti, il discorso economico
    rinuncia a pronunciare un giudizio sul modo in cui l’attività
    economica si svolge nei diversi sistemi storici: questa è la
    differenza principale tra economia politica e economica. 
    
    Mentre i filosofi come Croce si sentono autorizzati a esortare gli
    economisti: 
    A quegli egregi economisti, purissimi e matematicissimi, vorremmo
    dire, se con ciò non si venisse a versare olio sul fuoco del
    loro furore: Risparmiatevi la pena del filosofare. Calcolate, e non
    pensate! ... e, se già agli economisti e matematici abbiamo
    raccomandato di calcolare e non pensare, ai filosofi invece bisogna
    che ora diciamo: - Pensate, e non calcolate! Qui incipit numerare,
    incipit errare.
        
    Gli economisti sono invece costretti a pensare e anche un po’ a
    filosofare. La teoria economica non è una scienza puramente
    deduttiva, poiché il suo statuto epistemologico non è
    quello delle scienze della natura e tanto meno quello della fisica
    newtoniana. Contro Robbins, Keynes sosterrà, in maniera
    convincente, che
    L’economia è una scienza morale ... Essa ha a che fare con
    l’introspezione e con i valori, oltre che con motivazioni, attese,
    incertezze psicologiche. Si deve stare costantemente in guardia, nei
    confronti di una trattazione del materiale come costante e omogeneo.
    È come se il cadere al suolo della mela dipendesse dai motivi
    della mela stessa, dai vantaggi del cadere al suolo, dal desiderio
    del suolo che la mela cada e da calcoli erronei, da parte della
    mela, circa la sua distanza dal centro della terra.
        
    Croce pensa invece che
    La scienza economica, pura o politica che si dica, non è
    filosofia, sebbene nei suoi prologhi molti economisti sogliano o
    solessero errare in mal indirizzate ricerche, a loro non pertinenti,
    sul valore e sul rapporto del valore economico con gli altri
    intellettuali, estetici e morali, e simili. Ma non è nemmeno
    una scienza naturale sul tipo della zoologia o della botanica o,
    magari, di quella che prese il nome (al quale non conferì
    lustro) di “sociologia” e che dagli economisti è a giusta
    ragione tenuta in poca stima. La sua vera natura è di
    matematica applicata, e di questa adotta i procedimenti col
    quantificare certi ordini di azione dell’uomo convertendole in
    produzioni di cose numerabili e misurabili, e invigilando che
    l’azione si compia con vantaggio del pari numerabile e misurabile,
    con tornaconto.
        
    Una questione analitica       
    
    Aggiungo qui un terzo punto, più strettamente analitico,
    circa il modo in cui Croce, per prendere le distanze da Marx, torna
    a Ricardo8. Si tratta, ovviamente, della ‘caduta del saggio dei
    profitti’. Secondo la vulgata lectio Marx sosterrebbe che il saggio
    del profitto tende necessariamente a cadere (alla maniera di
    Ricardo, cioè per l’operare di una legge di natura:
    “dall’economia, egli si rifugia nella chimica organica”).
    L’argomentazione che viene imputata a Marx, correttamente per quanto
    riguarda la ‘legge in quanto tale’, è la seguente. Data la
    distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori, i primi
    cercheranno di diminuire il reddito dei secondi sostituendoli con
    macchine. Questa pratica, per il singolo capitalista, è
    razionale: al singolo capitalista conviene che la forza lavoro sia
    pagata il meno possibile. Tuttavia l’aumento del capitale costante
    (le macchine, il lavoro morto) rispetto al capitale variabile (i
    lavoratori, il lavoro vivo), a parità di ogni altra
    circostanza - ferma restando la distribuzione del reddito fra
    capitalisti e lavoratori, cioè il saggio di sfruttamento -
    farà diminuire il saggio del profitto9. 
    
    A seconda dei punti di vista si potrà dunque sostenere che il
    sistema capitalistico è destinato a crollare, oppure che Marx
    ha torto poiché le statistiche ‘dimostrerebbero’ che tale
    tendenza non si dà. Sono ovvie le implicazioni politiche: nel
    primo caso non ci sarebbe che da aspettare, con timore o con
    speranza; nel secondo si dovrebbe concludere che il capitalismo
    è la forma definitiva dell’organizzazione economico-sociale.
    In tutti e due i casi ci troveremmo di fronte a una filosofia della
    storia, come tutte grossolana e consolatoria. Nel primo caso
    è il capitalismo come forma storica che sarebbe destinato a
    finire, nel secondo è la storia stessa che con il capitalismo
    sarebbe finita.
        
    Alla “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto” Marx
    intitola la terza sezione del libro terzo del Capitale, che tratta
    del processo complessivo della produzione capitalistica. Questa
    terza sezione è divisa in tre capitoli: “La legge in quanto
    tale”, “Cause antagonistiche” e “Sviluppo delle contraddizioni
    intrinseche alla legge”. Nel capitolo su “La legge in quanto tale”
    Marx scrive che la progressiva diminuzione relativa del capitale
    variabile (il lavoro vivo) in rapporto al capitale costante (il
    lavoro morto)
     non è altro che una nuova espressione del
    progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro,
    che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego
    crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una
    maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono
    trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso
    tempo, cioè con un lavoro minore. ... La progressiva tendenza
    alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è
    dunque solo un’espressione peculiare al modo di produzione
    capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività
    sociale del lavoro. ... Dato che la massa di lavoro vivo impiegato
    diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro
    oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di
    produzione consumati produttivamente) anche la parte di questo
    lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore,
    dovrà essere in proporzione costantemente decrescente
    rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo
    rapporto costituisce però il saggio del profitto, che
    dovrà per conseguenza diminuire costantemente.
        
    Nella realtà questa diminuzione non è stata forte e
    rapida così come “la legge in quanto tale” indurrebbe a
    prevedere, dunque devono agire delle cause antagonistiche:
    
    Qualora si confronti l’imponente sviluppo delle forze produttive del
    lavoro sociale quale si presenta anche solo negli ultimi 30 anni,
    con la produttività di tutti i periodi precedenti, qualora
    soprattutto si consideri l’enorme massa di capitale fisso che in
    aggiunta al macchinario propriamente detto entra nel processo della
    produzione sociale nel suo insieme, si comprende come la
    difficoltà, che ha costituito finora oggetto d’indagine da
    parte degli economisti, di spiegare la diminuzione del saggio del
    profitto, venga ora sostituita dalla difficoltà opposta,
    consistente nello spiegare le cause per cui questa diminuzione non
    è stata più forte o più rapida. 
    
    Devono qui giocare delle influenze antagonistiche, che contrastano o
    neutralizzano l’azione della legge in generale, dandole il carattere
    di una semplice tendenza; motivo questo per cui la caduta del saggio
    generale del profitto è stata da noi chiamata una caduta
    tendenziale. Le più generali di queste cause sono le
    seguenti: I. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro. II.
    Riduzione del salario al di sotto del suo valore. III. Diminuzione
    di prezzo degli elementi del capitale costante. IV. La
    sovrappopolazione relativa. V. Il commercio estero. VI.
    L’accrescimento del capitale azionario.
        
    La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione
    consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle
    forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto
    con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il
    capitale si muove e può solo muoversi: “Non vengono prodotti
    troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente.
    Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in
    modo conveniente ed umano la massa della popolazione”. Il limite del
    modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti:
    
    1. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la
    caduta del saggio del profitto, genera una legge che, a un dato
    momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e
    che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.
    
    2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in
    base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni
    di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base
    all’appropriazione del lavoro non pagato ed al rapporto fra questo
    lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale o, per usare
    un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra
    questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al
    livello del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti a
    un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai
    inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i
    bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione
    del profitto impongono questo arresto.
    
    Il modo in cui Gramsci, contro Croce, imposta la questione della
    caduta (tendenziale) del saggio dei profitti è esemplare del
    modo in cui rendere storicamente determinata una astrazione: “Questa
    legge dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del
    fordismo”. Se la legge fosse esattamente stabilita, per Croce essa
    “importerebbe né più né meno che la fine
    automatica e imminente della società capitalistica”. Niente
    di automatico, invece, e tanto meno di imminente. Per Gramsci
    taylorismo e fordismo sono dei tentativi ‘progressivi’ di superare
    la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili nelle
    condizioni dell’aumento progressivo del capitale costante. 
    
    Le nuove variabili sono queste (“tra le più importanti, ma
    dai libri del Ford si potrebbe costruire un registro completo e
    molto interessante”):
    
    1) le macchine continuamente introdotte sono più perfette e
    raffinate; 2) i metalli più resistenti e di durata maggiore;
    3) si crea un tipo nuovo di operaio monopolizzato con gli alti
    salari; 4) diminuzione dello scarto nel materiale di fabbricazione;
    5) utilizzazione sempre più vasta di sempre più
    numerosi sottoprodotti, cioè risparmio di scarti che prima
    erano necessari e che è stato reso possibile dalla grande
    ampiezza delle imprese; 6) utilizzazione dello scarto di energie
    caloriche: per esempio il calore degli alti forni che prima si
    disperdeva nell’atmosfera viene immesso in tubatura e riscalda gli
    ambienti d’abitazione; ecc. (La selezione di un nuovo tipo di
    operaio rende possibile, attraverso la razionalizzazione
    taylorizzata dei movimenti, una produzione relativa e assoluta
    più grande di quella precedente con la stessa forza di
    lavoro) ... L’estensione dei nuovi metodi determina una serie di
    crisi, ognuna delle quali ripropone gli stessi problemi dei costi
    crescenti e il cui ciclo si può immaginare ricorrente
    finché: 1) non si sia raggiunto il limite estremo di
    resistenza del materiale; 2) non si sia raggiunto il limite
    nell’introduzione di nuove macchine automatiche, cioè il
    rapporto ultimo tra uomini e macchine; 3) non si sia raggiunto il
    limite di saturazione di industrializzazione mondiale, tenendo conto
    del saggio di aumento della popolazione (che d’altronde declina con
    l’estendersi dell’industrialismo) e della produzione per rinnovare
    la merce d’uso e i beni strumentali. La legge tendenziale della
    caduta del profitto sarebbe quindi alla base dell’americanismo,
    cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei
    metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo
    tradizionale dell’operaio.
        
    Oggi, quando si sta manifestando prevalentemente l’altra faccia
    della caduta tendenziale del saggio del profitto, la caduta
    tendenzialmente irreversibile dell’occupazione, molti aspetti
    tecnologici dell’analisi di Marx e di Gramsci della dialettica tra
    la legge in quanto tale e le cause antagonistiche andrebbero
    aggiornati per intendere le forme attuali della contraddizione
    capitalistica fondamentale (troppe merci, poco lavoro), ma
    l’impianto metodologico dei filosofi della praxis resta saldo. Circa
    lo statuto epistemologico della ‘legge di tendenza’ uno spunto
    interpretativo è fornito da Sraffa (solitamente ingeneroso
    nei confronti di Gramsci economista10):
    
    La mia opinione è [che] la legge di Marx sia metodologica e
    non storica e quindi non verificabile statisticamente. Da quel che
    si sa, sembra che in ogni data società capitalistica sia il
    saggio del plusvalore che quello del profitto siano
    straordinariamente stabili nel tempo. Questo non contraddice la
    legge di Marx, quando “tendenziale” sia inteso relativamente ad una
    particolare astrazione, cioè essa sia il risultato
    dell’azione di un gruppo di forze (accumulazione) supponendo che
    altre forze (progresso tecnico, invenzioni e scoperte) non operino.
    Il risultato è che la caduta tendenziale costringe i
    capitalisti a continue rivoluzioni tecniche per evitare la caduta
    del saggio del profitto.
        
    Per Gramsci, tuttavia,
    il progresso tecnico non avviene “evolutivamente”, un tanto per
    volta, per cui si possano fare delle previsioni oltre certi limiti:
    il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se
    fosse così come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe
    all’ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono
    senza lavoro alcuno.
        
    In economia politica ogni legge non può non essere
    tendenziale, dato che si ottiene isolando un certo numero di
    elementi e trascurando quindi le forze controoperanti. Croce crede
    invece alla assolutezza delle leggi della scienza economica, che
    sarebbero ‘rigorose e necessarie’. È significativo, peraltro,
    che Croce metta sullo stesso piano la ‘legge del Ricardo’ (“Posto
    che siano coltivati terreni di varia fertilità, i possessori
    di essi, oltre la rendita assoluta, otterranno tutti, tranne il
    possessore della terra meno fertile di ogni altra, una rendita
    differenziale”) e la ‘legge del Gresham’ (“La moneta cattiva scaccia
    la buona”). 
    
    Anche a questo proposito la riflessione di Gramsci sulla natura
    delle ‘leggi economiche’ è illuminante: “Il mio cameriere
    sostiene il fatale andare delle leggi economiche”. Di ‘leggi’
    economiche si può bensì parlare, ma “questa benedetta
    fatalità è uno spauracchio che convince solo molto
    relativamente ... Perché tutte le leggi, anche quelle che
    paiono più metafisiche, più impalpabili, sono in
    realtà l’esponente di uno stato di fatto, le cui
    responsabilità si possono impersonare o meglio, se si potesse
    dire, inclassare”. Può darsi, suggerisce Gramsci, che la
    scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo
    genere. Essa non è né una scienza naturale né
    una scienza “storica” nel senso comune della parola. Il modello, la
    legge, lo schema sono espedienti metodologici che aiutano a
    impadronirsi della realtà, espedienti critici per iniziarsi
    alla conoscenza. La grandezza degli “economisti classici” sta nel
    loro metodo del “supposto che”, del “mercato determinato”.
    Ciò non vuole dire che la loro visione sia “naturalistica” e
    “deterministica”, poiché il “mercato determinato” è
    appunto determinato dalla struttura fondamentale della
    società in questione: in questo senso l’economia classica
    è la sola “storicista” sotto l’apparenza delle sue astrazioni
    e del suo linguaggio matematico. “Mercato determinato” equivale a
    dire “determinato rapporto di forze sociali in una determinata
    struttura dell’apparato di produzione”. La stessa “critica”
    dell’economia politica parte dal concetto della storicità del
    “mercato determinato” e del suo “automatismo”, mentre gli economisti
    puri concepiscono questi elementi come “eterni”, “naturali”. Senza
    questa dimensione “storicista” la scienza economica potrebbe essere
    guida soltanto alla gestione dell’esistente, non a una politica di
    cambiamento:
    
    Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle
    prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di
    prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica
    è stata concepita “scientifica” solo se e in quanto abilita
    astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società. Quindi
    la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima”, della
    “causa delle cause” ... In realtà si può prevedere
    “scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa,
    che non possono non essere risultati di forze contrastanti in
    continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse,
    perché in esse la quantità diventa continuamente
    qualità. Realmente si “prevede” nella misura in cui si opera,
    in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce
    concretamente a creare il risultato “preveduto”. La previsione si
    rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come
    l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di
    creare una volontà collettiva.
        
    Qui Gramsci si riconcilia con Croce, il Croce su Pareto:
    C’è, nei problemi sociali, un elemento pratico e creativo, il
    sentimento, la passione, la volontà, o come altro si chiami
    la spinta al cangiamento e alla nuova formazione, che non è
    per niun conto da eliminare, potendosi solo contrapporre una ad
    altra forma di sentimento, di volontà e passione, e lasciare
    che cozzino tra loro, e contrastandosi generino il nuovo stato
    sociale. Per questo, il “fattibile” o l’avvenire della
    società, non è materia di scienza.
    
    Università di Pavia, agosto 2000
    
    ----
    1 Salvo diversa indicazione, i rinvii a scritti di Benedetto Croce
    sono tutti a scritti  compresi in questo volume. Circa Antonio
    Gramsci, rinvio ai Quaderni del carcere nell’edizione critica di V.
    Gerratana e A. Santucci, Einaudi, Torino 1975. (Si può anche
    vedere: A. Gramsci, Scritti di economia politica, a cura di F.
    Consiglio e F. Frosini, con una introduzione di G. Lunghini, Bollati
    Boringhieri, Torino 1994). Per Marx, rinvio alle edizioni degli
    Editori Riuniti. Risparmio al lettore i riferimenti bibliografici
    delle citazioni minori.
    2 J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Bollati
    Boringhieri, Torino 1990.
    3 Vedine La distruzione della ragione (Einaudi, Torino 1959)  e
    Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica
    (Einaudi, Torino 1960). Vedi anche R. Bodei, Hegel e l’economia
    politica, in S. Veca (a cura di), “Hegel e l’economia politica”,
    Mazzotta, Milano 1975.
    4 Della stessa idea sono i poeti, Goethe e W. H. Auden ad esempio.
    Per Auden “la scienza infernale si differenzia dalla scienza umana
    in quanto le manca il concetto di approssimazione: la scienza
    infernale crede nell’esattezza delle sue leggi”. Recita Mefistofele,
    nel Faust: “Figliuolo, fate buon uso del tempo, che, oimé,
    fugge sì rapido. Nondimeno chi ha ordine ha tempo; e
    perciò io vi consiglio innanzi tutto lo studio della logica.
    Per esso vi sarà ben addirizzato l’intelletto. Lo vi si
    allaccerà in un paio di stivali alla spagnuola
    affinché vada guardingo e pian piano per la via maestra del
    pensiero, e non a zonzo qua e là, e per lungo e per traverso,
    al modo de’ fuochi fatui. Chi vuol conoscere e descrivere alcuna
    cosa vivente si studia in primo luogo di metterne fuori l’anima;
    allora egli tiene in mano ad una ad una le parti, e, oh lasso lui!
    non gli manca se non il nodo vitale”. Interloquisce lo Scolaro: “Io
    non ho afferrato bene”. Conclude Mefistofele: “Tutto vi
    riuscirà più chiaro, quando abbiate appreso a fare le
    riduzioni e classificazioni convenienti”.
    5 In The Atheneum, n. 3097, 5 marzo 1887.
    6 Le dottrine del Marx, che pure “parvero rivoluzionarie”, secondo
    il Croce “sono nient’altro che schemi di una particolare casistica,
    fondata sul paragone fra tipi diversi di ordinamenti economici”.
    7 Si può vedere G. Lunghini, Political Economy and Economics,
    in “The Elgar Companion to Classical Economics”, a cura di H. D.
    Kurz e N. Salvadori, Elgar, Cheltenham, 1998; e G. Lunghini e F.
    Ranchetti, Teorie del valore, in “Enciclopedia delle scienze
    sociali”, Istituto della enciclopedia italiana”, Roma 1999.
    8  Sull’interpretazione crociana di Marx si deve vedere M.
    Reale, L’interpretazione crociana di Marx tra il “canone” e il
    “paragone ellittico”, “La Cultura”, n. 2 1999. Qui si troverà
    anche tutta la bibliografia rilevante.
    9 Per definizione il saggio del profitto è pari a
    Profitti/(Capitale costante + Capitale variabile), dove tutti i
    termini sono espressi in valore. Se si dividono numeratore e
    denominatore per il valore del capitale variabile si ottiene che il
    saggio del profitto è pari al saggio di sfruttamento,
    corrispondente al rapporto fra profitti e salari, diviso per il
    rapporto fra capitale costante e capitale variabile (che Marx chiama
    ‘composizione organica del capitale’), più 1. La sostituzione
    di lavoratori con macchine produce disoccupazione, dunque
    concorrenza fra disoccupati e occupati, dunque diminuzione del
    salario. Ciò è ovviamente conveniente per il singolo
    capitalista ma non per il capitale nel complesso, che nei salari
    trova i redditi che potranno pagare le merci prodotte. Il saggio del
    profitto - a parità di ogni altra circostanza - sarà
    algebricamente costretto a diminuire. Tuttavia non è vero che
    le circostanze restino ferme, e non sempre è vero che i
    capitalisti siano miopi. Allora si muovono le cause antagoniste, per
    esempio alla maniera di Henry Ford.
    10 È interessante il parere che Sraffa dà, intorno al
    1947, circa la pubblicazione delle note dai Quaderni di Gramsci:
        1. Vi è una sola fra le note di contenuto
    economico che raccomando di non pubblicare: è quella
    intitolata “Economia classica ed economia critica” ... Mi sembra che
    i punti accennati non siano stati sufficientemente meditati, e vi
    è un impressione di superficialità che non si
    riscontra in alcune delle altre note economiche. Non è
    improbabile che essa sia stata scritta in condizioni più
    sfavorevoli del solito. Sarebbe interessante verificare se la
    scrittura è normale.
        2. Le altre note economiche mi sembrano tutte
    degne di pubblicazione. Esse contengono molte osservazioni
    straordinariamente acute, ma si deve riconoscere che nel loro
    complesso non sono all’altezza del resto del volume. Particolarmente
    nell’esame delle critiche del Croce all’economia di Marx qualche
    debolezza è dovuta al fatto che Gramsci non aveva davanti a
    sé il testo di Marx, e poteva usare solo le citazioni date
    dal Croce, che le aveva scelte naturalmente per i suoi scopi:
    così che talvolta la discussione rimane sul terreno ed entro
    i limiti fissati dal Croce. Questo è specialmente il caso
    della nota su “La caduta tendenziale del saggio di profitto” ... ,
    dove l’accenno fatto a memoria all’impostazione del problema nel I
    vol. del Capitale ha un valore ad hominem contro il Croce; ma la sua
    confutazione richiede secondo me un esame del testo del III vol.,
    che è stato frainteso e travisato dal Croce  (e, per la
    verità, da moltissimi altri, anche marxisti). Così,
    nella nota sulla “Teoria del valore”, l’obbiezione di Gramsci al
    Croce che “la teoria del valore ha la sua origine nel Ricardo, che
    certamente non intendeva fare un paragone ellittico nel senso che
    pensa il Croce”, non è ben fondata, almeno nella forma;
    perché Ricardo espone la sua teoria in forma di paragone fra
    la società primitiva (dove non c’è accumulazione e
    dove ogni lavoratore possiede gli strumenti di lavoro) e la
    società capitalistica: e, stabilito che nella prima le merci
    si scambierebbero in proporzione al lavoro contenuto, si chiede
    “perché mai dovrebbe l’accumulazione del capitale e la
    separazione del capitalista dal lavoratore portare una differenza?”
    La cosa però ha poca importanza, purché sia sempre
    tenuto presente alla mente del lettore che lo scrittore non aveva
    alcuna possibilità di riferirsi ai testi.