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Guglielmo Ferrero

Grandezza e decadenza di Roma


Vol. V

Augusto e il grande impero



Indice generale

I.
L’EGITTO DELL’OCCIDENTE.  

II.
LA GRANDE CRISI DELLE PROVINCIE EUROPEE.    

III.
LA CONQUISTA DELLA GERMANIA.  

IV.
“HAEC EST ITALIA DIIS SACRA”.    

V.
L’ARA DI LIONE.    

VI.
GIULIA E TIBERIO.    

VII.
L’ESILIO DI GIULIA.    

VIII.
LA FANCIULLEZZA DI CESARE
E LA VECCHIAIA DI AUGUSTO.    

IX.
L’ULTIMO DECENNIO.  

X.
AUGUSTO E IL GRANDE IMPERO.    

INDICE.    

1907.

AUGUSTO E IL GRANDE IMPERO


I.
L’EGITTO DELL’OCCIDENTE.


Ma se l’incendio della guerra si era così presto spento sulla aperta pianura gallica, pigliava forza invece e divampava e si dilatava, appiccandosi dall’una all’altra vallata, nelle Alpi. Publio Silio, dopo avere liberata la Istria da Pannoni e da Norici, era sceso nella valle del Po e si era recato a combattere nella Valtellina e nella Val Camonica gli insorti Vennoneti e Camunni1. Ma altri popoli, trascinati dall’esempio dei Vennoneti, che avevan fama di essere una delle genti alpine più ardimentose2, si erano levati in armi: i Trumplini, nella Val Trompia, le numerose tribù dei Leponzi3 che occupavano le moderne Alpi Lepontine, cioè tutte le valli italiane e svizzere sboccanti sul lago Maggiore e sul lago d’Orta; i Reti e i Vindelici, che con numerose e bellicose tribù occupavano la vasta regione dei Grigioni, del Tirolo, giù giù per la pianura bavarese sino al Danubio4. Il centro delle Alpi era in fiamme; e se ad occidente l’incendio si era fermato al limite del grande vuoto fatto dalla spada romana nella valle dei Salassi, una onda di rivolta si propagava dal centro per l’ossatura della immensa catena, sino alle Alpi Cozie, dove il fedelissimo Donno era morto e gli era successo in tempi così torbidi il figlio Cozio, meno esperto e meno sicuro; sin tra le rozze e indomite genti liguri delle lontane Alpi marittime5. Nelle vallate alpine si erano rifugiati tutti i logori avanzi delle razze che avevano abitata la pianura: Liguri, Iberici, Celti, Etruschi, Euganei; e là si erano mescolati, imbarbariti, sterminati a vicenda e difesi insieme contro gli invasori del piano e contro Roma, la quale non aveva fatte che rare e intermittenti apparizioni nel maggior numero delle vallate. Perciò le genti alpine erano vissute sino allora quasi libere, raccolte in tribù sotto il reggimento dei ricchi possidenti, coltivando le terre, pascolando le greggi, sfiorando le miniere, sfrondando appena i magnifici boschi, derubando i viandanti e di tempo in tempo ritornando nell’opulenta pianura per saccheggiarla: anzi non poche di queste popolazioni avevano trovato più oro nell’anarchia dell’ultimo trentennio, che nelle sabbie dei bianchi torrenti rotolanti al piano le pagliuzze delle roccie sublimi.... La pace era quindi giunta a queste genti molesta due volte più che alle altre popolazioni delle provincie europee; e la rivolta scoppiava in ogni parte.

Roma si ritrovava dunque innanzi ad un tratto, nelle provincie europee, un compito grave di guerra; un campo stupendo per l’impeto, la celerità, l’audacia immaginosa di un Cesare. Essa doveva forzare il cuore delle Alpi; castigare i Pannoni e i Norici per l’invasione dell’Istria, i Germani per l’invasione della Gallia; ricomporre le cose della Tracia profondamente turbate. Ma i tempi erano mutati. Augusto, se non volesse muovere addirittura le legioni della Siria, dell’Egitto e dell’Africa, non poteva disporre che di tredici legioni – le cinque stanziate in Gallia e le altre otto, acquartierate qua e là per l’Illiria e la Macedonia, non sappiamo precisamente dove6: – ma tredici legioni certo non agguerrite da dieci anni di pace, se pure addestrate da esercizi continui; che avevano il fiato troppo corto e il torace troppo piccolo per tener dietro ai prodigiosi voli di un nuovo Cesare. Nè Augusto era Cesare. Egli non voleva più mettersi a capo di un esercito; ma soltanto dirigere da lontano, a tavolino, per mezzo di legati, la guerra. Deliberò quindi di suddividere l’opera in varie parti; di compiere ciascuna parte con prudente lentezza ed una alla volta; di lasciare in balìa di loro stessi per il momento la Pannonia, il Norico, la Tracia; e di buttar tutte le forze di cui disponeva sulle Alpi, incaricando P. Silio di marciare, dopo avere vinti i Vennoneti e i Camunni, contro i Trumplini e i Leponzii, in quello stesso anno se potesse o nel seguente7; e preparandosi a rompere l’anno seguente il poderoso fascio reto-vindelico. Un esercito doveva muovere dalla valle del Po, imboccare da Verona la valle dell’Adige, ripiegare per Trento nella valle dell’Eisack e cacciandosi innanzi il nemico, respingendolo e inseguendolo a destra e a sinistra nelle valli laterali, catturando e trucidando quanta maggior parte della popolazione retica potesse, volgersi verso il passo del Brennero: di là, sempre spazzando via come un torrente devastatore la popolazione vindelica, scendere verso l’Inn e la Vindelicia pianigiana. Nel tempo stesso un altro esercito muoverebbe dalla Gallia, probabilmente da Besançon; e seguendo il corso del Reno, ripasserebbe sino al lago di Costanza le regioni dei Leponzii, già battute da Silio; conquisterebbe il lago di Costanza allora posseduto da tribù vindelicie, e, unitosi con l’esercito d’Italia, marcerebbe sino al Danubio, soggiogando tutta la Vindelicia8. Ma per queste spedizioni e per le future in Pannonia, nel Norico, in Tracia, occorrevano generali giovani, arditi, intelligenti, che possedessero la prestanza del corpo e il forte animo necessari alla guerra contro i barbari e nelle montagne, per le marcie, le ascensioni, le imboscate, i combattimenti, gli inseguimenti interminabili. Aveva dunque ragione Augusto di voler ringiovanire lo Stato, chiamando alle somme cariche uomini tra i trenta e i quaranta anni. Sventuratamente egli era stato costretto a transigere, anche in questo, con i pregiudizi, le ambizioni, gli interessi della vecchia nobiltà e aveva intoppato in troppi ostacoli naturali, insormontabili dalle sue forze: onde gli uomini esperti e capaci scarseggiavano tra gli avanzi dell’aristocrazia pompeiana, che negli ultimi anni avevano occupata la pretura e il consolato! A ogni modo egli cercò di fare quel che poteva. Fu probabilmente per suo consiglio che in questo anno si propose ai comizi per il consolato dell’anno 15 L. Calpurnio Pisone, figlio del console del 58, fratello di quella Calpurnia che era stata moglie di Cesare e quindi zio di Augusto, sebbene fosse più giovane di lui e non avesse che 32 anni. Augusto lo destinava, come suo legatus, alla Tracia. Scelse poi per comandare la spedizione che dalla Gallia doveva invadere la Vindelicia, Tiberio. Tiberio aveva ventisei anni; era nato da una delle più antiche e illustri famiglie aristocratiche di Roma; aveva già date numerose prove di senno e di operosità; era ammirato come un campione vivente della nobiltà dei tempi aurei della repubblica; occupava infine in quell’anno la pretura9. Augusto poteva quindi sceglierlo a suo legato e affidargli un esercito, senza violare alcuna legge o consuetudine, senza commettere una imprudenza, senza essere accusato di favorire per amicizia un indegno; anzi mostrando che non solo a parole e per uffici formali, ma davvero e per le gravi missioni aveva fiducia nella gioventù. Senonchè insieme con questa, egli fece un’altra scelta, che non era giustificata nè costituzionalmente dalle cariche già occupate, nè personalmente dai servigi già resi; e che perciò apparisce come una prima, sottile ma pericolosa screpolatura del rigorismo costituzionale, che Augusto voleva restaurare. Egli nominò suo legatus, per l’esercito che dall’Italia doveva assalire nelle loro vallate i Reti, il fratello minore di Tiberio, il secondo figlio di Livia, Druso, un giovane cioè di ventidue anni, che potendo, grazie ad un decreto del Senato come Tiberio, anticipare di cinque anni le magistrature, era stato eletto questore per l’anno 1510. Sì, certo, dei questori erano stati posti a capo di eserciti; ma in contingenze gravissime, che allora non ricorrevano. Era chiaro che allora, quando aveva agio di scegliere tanti antichi pretori e consoli usciti di carica, Augusto non poteva confidare un esercito a questo giovane questore, il quale non aveva data ancora prova alcuna della sua capacità, se non per un favore inconciliabile con la forma e con l’essenza della costituzione repubblicana. Ma Druso era un prediletto degli dèi, cui ogni privilegio insigne pareva largito come un diritto. Bello, come Tiberio, della forte e aristocratica bellezza dei Claudi11; ma non, come lui, rigido, altero, duro, taciturno, alla maniera degli antichi Claudi12; piacevole invece, gentile e versatile, Druso faceva amare perfino dagli scettici e dai viziosi quelle antiche virtù romane, che nel fratello incutevano invece soggezione anche ai virtuosi, perchè ci infondeva una grazia ignota alla ruvida natura romana, come se a ragione i maligni sospettassero che una favilla della geniale amabilità di Giulio Cesare fosse furtivamente discesa sino a lui, ad aggraziare le rudi virtù dall’aristocrazia romana, ereditate dalla madre13. Se al fratello si poteva opporre tra tante virtù un vizio, il soverchio amore del vino14, Druso anche da questo era immune. E perciò quando, in questo anno, Augusto aveva scelto al diletto figliastro una sposa degna di lui, Antonia, la figlia minore di Antonio e di Ottavia, tutti avevano ammirata e amata, come fossero figli propri, questa coppia che irradiava da sè uno splendore divino di giovinezza, di bellezza e di virtù fuse insieme; lei, scrigno preziozo di elettissimi pregi, la vera donna univira del buon tempo antico, la sposa fedele, semplice, devota, casalinga, ma bellissima, intelligente, istruita, raffinata da una grazia e da una cultura, che le antiche generazioni non avevano conosciute: lui, bello, giovane, gentile, ardente di fervida ammirazione per la tradizione repubblicana15, impaziente di nobili ambizioni, forte, e puro così che tutti gli facevano credito di essersi sposato vergine e di non aver mai tradita la moglie16. Cara ai grandi come al popolo, predilezione di Roma, la bella coppia pareva incarnare quella sognata fusione della forza e della virtù romana con l’intelligenza e con la grazia ellenica, che tanti si sforzavano invano di compiere nella letteratura, nello Stato, nella religione, nel pensiero.

Per quali motivi Augusto si indusse a far questa nomina, da cui incominciava, sia pur con piccolissimo principio, una alterazione profonda nella sostanza dell’antica costituzione repubblicana? Non si può affermare, ma argomentare soltanto. L’amore che Augusto aveva per Druso certo lo mosse, come i consigli di Livia, come la stima non esagerata dell’ingegno e del valore del giovane. Poichè Druso dava affidamento di diventare un grande generale, non era meglio adoperarne subito le rare virtù? La guerra vuole i giovani. Ma se tutte queste sono congetture, è certo invece che Augusto non avrebbe scelto Druso a suo legatus, se la scelta non fosse stata universalmente approvata. Rigorosissimo con certuni nell’imporre l’osservanza della costituzione, il pubblico capriccioso consentiva ad altri, ai suoi prediletti, ogni larghezza. Al favorito degli Dei, al casto sposo della bellissima e virtuosissima Antonia tutto si poteva concedere: esempio grave, che introduceva inavvertitamente il principio dinastico nella costituzione. Ma mentre Tiberio e Druso apprestavano nell’inverno i loro eserciti, Augusto rimaneva in Gallia, occupato a definire una questione gravissima. Da ogni parte i capi e i personaggi autorevoli delle civitates o tribù galliche venivano a denunciare gli abusi e le violenze di Licino, che era persino accusato di aver aumentato a quattordici il numero dei mesi, per riscuotere due volte di più ogni anno il tributo; pigliavano di mira l’avido procuratore, per colpire, oltre la sua persona, la nuova politica fiscale introdotta con il braccio di Licino da Augusto e dal Senato; domandavano il richiamo dell’agente per far sospendere l’odiatissimo censo17. E le proteste, corroborate dalle nuove minaccie germaniche, scuoterono tanto Augusto, che dopo aver tentato di scusare, di attenuare, di palliare le colpe del liberto, egli si indusse a fare una inchiesta. Ma l’astuto liberto si difese, cercando di persuadere Augusto che i Galli ipocritamente lagrimavano una miseria imaginaria, mentre sarebbero tra breve più doviziosi dei Romani; e cercando di mettersi al riparo dietro un grande interesse politico: la Gallia era una terra così felice, che potrebbe fruttare un giorno all’Italia quanto l’Egitto18; Roma non si lasciasse sfuggire l’inopinata fortuna toccatale. E veramente l’intelligente liberto poteva mostrare al suo stupefatto signore, tra le Alpi e il Reno, un mezzo Egitto, che allora allora lentamente emergeva dal tempestoso oceano di guerre che per tanti secoli aveva infuriato nel centro dell’Europa; mostrargli una Gallia che non pareva più gallica; una Gallia pacifica, una Gallia, se non ancora docile alla sudditanza straniera, già molle alle impronte esteriori; una Gallia inerme, artigiana, agricultrice e mercante, che pareva quasi voler ripetere in molte cose all’altro confine dell’impero il regno dei Tolomei. Le civitates o tribù galliche lasciate quasi intatte da Cesare, conservavano il corpo, la forma, i confini antichi, ma mutavano anima e ufficio; tutte, deposte le spade e le lancie, si armavano di aratri e di utensili; così quelle che in antico dominavano come quelle che erano dominate, si sforzavano con eguale ardore di arricchire; invece di disputarseli con guerre e di barricarli con pedaggi, esse cercavano ora di comunicare tra loro e di commerciare per i fiumi, così numerosi, così larghi, così comodamente intrecciati tra loro, che le mercanzie potevano essere importate e esportate da ogni parte della Gallia, trasportate dal Mediterraneo all’Atlantico sempre per acqua, tranne per piccoli tratti. Inestimabile vantaggio per una vasta regione continentale, in cui i trasporti per terra costavano tanto!19 Onde su tutta la Gallia la alacrità fresca e la cupidità frettolosa di una generazione nuova ferveva in traffici, coltivazioni e industrie nuove. La antica fecondità delle donne non essendo scemata nella pace, la popolazione cresceva, dopochè la guerra aveva smesso di consumar tanti uomini; la Gallia diventava, come l’Egitto, una regione popolosa, in cui si ritrovava quel pregio così raro in quella età e che gli antichi chiamavano μολυανθρωπία o abbondanza di uomini20. Frugati nelle sabbie dei fiumi, scavati dalle miniere antiche e dalle nuove, tratti fuori dai ripostigli, l’oro e l’argento abbondavano, cosicchè la Gallia, come l’Egitto, era ricca di metalli preziosi21. Due coltivazioni, nelle quali l’Egitto primeggiava su tutte le regioni dell’Europa e dell’Asia, si vedevano dilatarsi prosperose per tutta la Gallia, favorite dal clima, dall’abbondanza del capitale, della popolazione e della terra, dalle felici congiunture di tempo: la coltivazione del grano e la coltivazione del lino. Umida, pianigiana, non troppo fredda e non troppo calda, la Gallia era allora, come oggi, una terra prediletta da Cerere: onde la popolazione crescente e il rinvilìo dei metalli preziosi dovevano far rincarare il grano e quindi anche progredire la coltivazione dei cereali22. I progressi invece della navigazione in tutto il Mediterraneo incitavano la Gallia alla coltivazione del lino, ricercato in tutti i porti per tesserne delle vele che, sebbene care, costavano meno degli schiavi remiganti23; e già i Cadurci si erano segnalati tra tutti per l’abilità nel coltivare, lavorare e trarre lucri dalla preziosa pianta24. Onde è probabile che l’astuto liberto incalzasse, quanto più i Galli si lagnavano: dalla vasta provincia, così fertile, così alacre, in cui c’erano tanti metalli preziosi e questi circolavano tanto, si potrebbe cavare, come dall’Egitto, molto oro ed argento, per riempire l’erario sempre vuoto; forse anche un giorno la Gallia potrebbe essere, accanto all’Egitto, un secondo granaio di Roma. D’altra parte non era il tributo di Roma piccolo, a petto delle continue rapine guerresche del tempo più antico, degli innumerevoli pedaggi che prima dell’invasione romana intralciavano a ogni passo il commercio? In tanta angustia di capitale, come quella che tormentava l’Italia, tra le innumeri difficoltà che si dovevano vincere per salvare Roma dalla fame cronica, queste considerazioni non potevano non pesare assai, sulla bilancia del prò e del contro. Facevano a quelle contrapposto i lamenti dei capi gallici, le sorde minaccie brontolanti nel malcontento popolare, il pericolo germanico. Onde Augusto, come di solito, esitava perplesso. Se si vuol credere a uno storico antico, Licino trasse alla fine il perplesso presidente in una grande camera piena di oro e di argento, che egli aveva estorto alla Gallia; e a quella vista Augusto si sarebbe persuaso definitivamente. Certo è però che Licino rimase in Gallia, al suo posto; e che i capi Galli ebbero per consolazione una qualche vaga promessa che gli abusi più gravi non si sarebbero rinnovati25. Ricominciò poi, nella primavera dell’anno 15, la guerra. Mentre Silio, probabilmente, compieva la sottomissione dei Leponzi, conquistando una grande parte della Svizzera, Druso e Tiberio eseguivano il doppio attacco concertato l’anno prima contro il gruppo reto-vindelico. Druso entrò nella valle dell’Adige; incontrò a Trento e vinse la prima resistenza nemica; poi risalì la valle dell’Eisack fino al passo del Brennero, chi dice combattendo senza posa, chi dice senza difficoltà, certo razziando la popolazione e facendo da luogotenenti frugare le vallate laterali; scese poi sino all’Inn. Nel tempo stesso Tiberio arrivava con un esercito al lago di Costanza, e dava sulle acque del lago una battaglia navale ai Vindelici rifugiatisi nelle isolette. Dove e quando si incontrassero i due fratelli, noi non sappiamo: solo sappiamo che insieme marciarono attraverso la Vindelicia verso il Danubio: che il 1.° agosto sconfissero in una battaglia, diretta da Tiberio, i Vindelici, conquistando la Baviera meridionale e portando l’incerta frontiera settentrionale dell’Italia al Danubio26; che entrarono poi con l’esercito nel Norico, il quale non oppose resistenza27. A Roma intanto, dove erano già così ben disposti per Druso, la notizia del vittorioso combattimento di Trento aveva suscitato tanto entusiasmo, che subito il Senato gli concesse la autorità di pretore, benchè ancora non fosse stato eletto a questa magistratura, mettendo così il giovane generale in regola con la costituzione28. Ma quando si seppe che la Vindelicia era conquistata e la spedizione felicemente riuscita, l’entusiasmo per i due giovani si accese ancor più, colorandosi di tutte le speranze, di tutti gli orgogli, di tutti i rammarichi che il culto delle grandi tradizioni morenti veniva fomentando nello spirito pubblico. Finalmente, nella selva o morta o divelta o fulminata sfrondata, un vecchio tronco rimetteva fronde e fiori, fruttificava di nuovo! In quell’universale dissolvimento della nobiltà, una delle più antiche famiglie aristocratiche di Roma, i Claudii, dava alla repubblica due giovani che non sfiguravano al confronto delle memorie passate, che tra i venti e i trenta anni mostravano l’alacrità, l’intelligenza, la serietà del costume, la maturità invano cercata ormai nei palazzi cospicui e sotto i grandi nomi di Roma! In Druso ed in Tiberio il pubblico vide insomma, per un istante, quella rinascita della nobiltà storica, che tutti sospiravano come la sola salvezza dell’impero; e la gioia, l’ammirazione, l’entusiasmo furono così grandi, che Augusto domandò ad Orazio di celebrare in versi il lieto evento; che Orazio, il quale, pure, si era rifiutato di cantare le gesta di Agrippa e di Augusto, acconsentì. Fu egli lusingato dall’invito di Augusto, che lo designava con la sua scelta, ora che Virgilio era morto, a poeta nazionale e quasi lo imponeva alla ammirazione del pubblico, ancora tanto restìo con il poeta semigreco di Venosa? Si lasciò egli tentare dalla speranza – sempre cara al cuore di ogni poeta misovulgo per forza – di diventare popolare come Virgilio, trattando la poesia nazionale? Fatto sta che egli scrisse nientemeno che 128 de’ suoi preziosissimi versi, e due odi, una per Druso, l’altra per Tiberio. Nella prima (la quarta del quarto libro) egli descriveva Druso che piomba sui Reti e sui Vindelici29:

Quale l’augello guardian del fulmine

che il re dei Numi sui vaghi aligeri

re fece, premiando il fedele

rapitor di Ganimede biondo,

gioventù e forza paterna cacciano

prima dal nido di rischi inconscio,

poi, scioltisi i nembi temuti,

primavera con l’aure a più audaci

voli trasporta, già vivid’impeto

in guerra contro gli ovili suscita,

ed ecco sui draghi pugnaci

brama incalza di pasto e di lotta...

Intendete, o critici, che avete definito Orazio poeta di Corte e vate della nuova monarchia? Nella gloria precoce dei due giovani, il poeta non vede nulla che accresca il lustro recente di una dinastia; vede invece il fiore della virtù rinato sul vecchio tronco della tradizione aristocratica che tante rivoluzioni avevano fulminato; vede, impersonata in Augusto, la antica famiglia romana in cui le virtù passano di padre in figlio per il tramite della discendenza e dell’educazione; vede la prova vivente della dottrina aristocratica.

. . . . . . . . . . . . l’esercito

a lungo e lontano vincente

perchè il senno del giovin lo vinse,

bene ha sentito che cosa possano

la mente e in fausta magione l’indole

nutrita ed il cuore di Augusto

paterno a’ figlioli di Nerone.

Da’ forti e buoni forti si creano,

hanno cavalli, han bovi i meriti

de’ padri, nè l’aquile fiere

danno vita a le imbelli colombe.

Anche Orazio, come tanti scrittori moderni, giustifica l’aristocrazia con argomenti biologici sulla discendenza e sulla eredità, sia pur presi nella stalla e più grossolani perciò che quelli di cui si servono quanti scrivono oggi dopo aver letti i libri di Carlo Darwin. Ma l’eredità sola non basta; l’aristocrazia, se è nella natura, è in parte anche opera meditata dell’uomo, dell’educazione e della tradizione, di cui la famiglia è l’organo.

Ma forze innate la scienza educa,

del retto il culto rafforza l’animo,

e quando decadde il costume

ogni bene si lordò di colpe.

Quanto ai Neroni tu debba, chiedilo,

Roma, al Metauro, chiedi ad Asdrubale

sconfitto, e a quel giorno sì bello

per il nembo fugato dal Lazio,

che primo rise d’alma vittoria

da che il diro Afro corse per l’itale

città come fiamma per faci

o com’Euro per l’onde sicane.

Da allor con gesta sempre propizie

surse il romano sangue, e da l’empio

tumulto dei Peni ne’ templi

si drizzarono gli abbattuti Dèi;

e disse alfine Annibal perfido:

“Cervi dei lupi sacri a le fauci

a tali diam guerra che opima

gloria fora ingannarli fuggendo:

“schiatta che forte da l’arsa Ilio,

fra l’onde tosche sbattuta, i proprii

altari ed i nati ed i vecchi

padri addusse alle città d’Ausonia;

“come da dure bipenni l’ilice

nera sfondata sul fertil Algido

fra danni, fra scempi dal ferro

stesso tragge l’animo e la forza.

“L’Idra dal mozzo corpo più valida

non surse contro l’afflitto Ercole,

nè mostro più possente i Colchi

soggiogare o l’echïonia Tebe,

“Nel mar lo immergi, più bello emergene:

collutti, e, vinto, te ancora integro

abbatte con lode e dà pugne

che le mogli conteran per vanto.

“Non io superbi messi a Cartagine

manderò ancora: toltomi Asdrubale,

tramonta, tramonta la speme,

la fortuna della nostra gloria.

“Ad ogni impresa varrà la Claudia

gente, cui Giove con man benevola

difende, e operosa sagacia

nel più aspro della guerra assiste”.

Così il poeta più illustre del tempo, per incarico di Augusto, celebrava nella impresa compiuta in Vindelicia la rinnovellata gloria di una delle più antiche famiglie aristocratiche di Roma; non i Giulii, ma i Claudii!

L’ode in onore di Tiberio era meno filosofica e più descrittiva. Associava il merito di Tiberio con la gloria di Augusto, a cui da prima, cominciando, si volgeva il poeta:

Quale dei padri cura e del popolo

eternerebbe con pieno encomio

Augusto tue virtù nei tempi

su le lapidi e i memori fasti...?

Poi, ricordate brevemente le guerre di Druso, descriveva a lungo, con colori un po’ retorici ma vivi, Tiberio guerreggiante alla foggia di un eroe omerico:

Mirabil ne la fatica marzia

mentre su i petti votati a libera

morte premeva rovinando,

come incalza le indomite onde

Austro, se il nembo rompon le Pleiadi,

le torme ostili non faticabile

vessando, e il fremente cavallo

sospingendo ne la mischia ardente.

E continuava paragonandolo all’Aufido in piena; e ricordando che il 1° agosto, il giorno della vittoria di Tiberio sui Vindelici, ricorreva l’annuale del giorno in cui Augusto era entrato nella deserta reggia di Cleopatra; per finire ritornando al patrigno, a celebrare in Augusto la grandezza e la potenza dell’impero.

Te già il Cantábro prima non domito,

Il Medo, l’Indo, lo Scita profugo

ammira, o tutela prestante

de l’Italia e di Roma signora.

Te il Nil che cela le scaturigini,

te adora l’Istro, te il Tigri rapido,

l’Oceano che gonfio di belve

romoreggia a’ remoti Britanni;

te non di morte schive le Gallie

odono, e i liti dei duri Iberici,

te adorano i Sicambri lieti

de la strage, ringuainate l’armi.

II.
LA GRANDE CRISI DELLE PROVINCIE EUROPEE.

Le due odi piacquero molto. Vinti dall’argomento, anche i più acerbi critici della metrica e della lirica oraziana smisero il consueto cipiglio30. Per una volta almeno il solitario scrittore aveva espresso il sentimento dell’Italia; e perciò, per la prima volta, aveva scritto, egli di solito così savio, diverse cose stolte. Augusto dovè sorridere, leggendo nelle ultime strofe dell’Ode a Tiberio di certa Gallia non schiva di morte e dei feroci Sicambri che, deposte le armi, lo adoravano. Le due Odi erano belle; ma dimostravano che Orazio non aveva inteso nulla di quel che succedeva oltre le Alpi, e che il pubblico aveva capito anche meno di lui. Intanto, appena vinti i Reti e i Vindelici, mentre Orazio faceva così facilmente, nei suoi versi, inginocchiare tutti i popoli innanzi ad Augusto e alla maestà di Roma, i Liguri delle Alpi marittime si rivoltavano31, trascinando nella rivolta parte dei sudditi di Cozio32, e davan principio ad una nuova guerra, non certo pericolosa, ma difficile e dispendiosa sopratutto per la mancanza di strade. Solo con grande fatica si potevano mandare numerose milizie a snidare nelle loro valli remote gli insorti, per la antica via che da Tortona per Acquae Statiellae e i monti conduceva a Vado, e da Vado, costeggiando il mare, giungeva nella Narbonese. Nell’anno 43 Antonio aveva scalata di corsa quella via aspra e scoscesa con gli avanzi dell’esercito rotto sotto Modena; ma erano altri tempi, altri soldati. Ora bisognava portare i soldati e l’ingombrante bagaglio per comode vie sul campo di battaglia33. Insomma quel tale impero immenso, di cui Orazio celebrava la smisurata potenza, a mala pena poteva, per mancanza di strade, reprimere una rivolta di barbare tribù montanare scoppiata sul limitare d’Italia. Augusto dovè chiedere al Senato i fondi per rifare la via, disporre per i necessari lavori. Senonchè Augusto non avrebbe temuta molto la superbia e la baldanza dei Liguri, se davvero tutti i popoli e tutti i fiumi nominati da Orazio avessero deposto ai suoi piedi l’omaggio descritto. E invece! Augusto vedeva capovolgersi sotto i suoi occhi la situazione del precedente ventennio. L’Oriente pareva allora minacciar l’impero: con le rivolte periodiche delle città, con i frequenti eccidii dei cittadini romani, con le defezioni continue degli stati e degli staterelli protetti, con la selvaggia indipendenza delle popolazioni annidate nelle montagne, con gli obliqui intrighi della Corte di Alessandria; e infine con i Parti, sempre in arcioni e sempre in armi al di là dell’Eufrate. Ma tutte queste difficoltà si erano rapidamente e felicemente composte in quei venti anni; cosicchè Agrippa, andato in Oriente con Giulia sul finire dell’anno 16, ci aveva trovato i Parti non solo tranquillissimi e punto disposti ad approfittare delle guerre scoppiate nelle provincie occidentali per ripigliare l’Armenia, ma – parte almeno di essi – inclini a ricercare l’amicizia e quasi l’alleanza di Roma. C’era alla Corte una concubina del re, una antica schiava italica regalata a Fraate da Cesare, che Giuseppe Flavio chiama Tesmussa, che da una moneta apparirebbe chiamarsi invece Thea Mousa; e questa aveva acquistato tanto imperio sull’animo del re, che ormai macchinava di escludere dalla successione i figli legittimi per il figlio suo, cercando a questo disegno l’aiuto di Roma!34 Cosicchè Roma aveva mano libera in tutta l’Asia Minore sino all’Armenia, in tutta la Siria sino all’Eufrate. Soltanto il lontano regno del Bosforo (la Crimea e le regioni circostanti alle foci del Don) accennava a far qualche movimento: perchè morto il re Asandro postovi a governare da Antonio, un certo Scribonio, un avventuriero e forse un liberto, si era spacciato, d’accordo, pare, con la regina Dinami, per nipote di Mitridate, l’aveva sposata, preparava la sua proclamazione a re del Bosforo, affermando di avere il consenso di Augusto. Agrippa non voleva lasciar questo impostore salire sul trono del Bosforo, e aveva scelto a nuovo marito di Dinami Polemone re del Ponto, deliberando di unire il Bosforo e il Ponto: ma giudicava bastare per imporre la volontà di Roma in quella lontana regione una dimostrazione navale sulle coste del regno, che egli e Polemone preparerebbero a comodo35: onde non aveva, per il momento, maggiore fatica a cui sobbarcarsi se non quella di ricevere, insieme con Giulia, innumerevoli omaggi, di assistere a feste, di lasciarsi lodare nelle iscrizioni ed effigiare in marmo ed in bronzo36; che di lasciare i popoli dell’Asia introdurre nell’Olimpo Giulia accanto ad Augusto, per involgere anche la figlia nell’ardente aspirazione universale alla monarchia greco-asiatica, venerata come la forza coordinatrice degli interessi particolari delle città e il propugnacolo contro la Persia. Giulia potè – prima delle donne latine – rappresentare nella confusa tragicomedia della età sua la parte di una dea, tra le città che, come Pafo, elevavano statue a lei, “divina!”37 o che, come Mitilene, la definivano nuova Afrodite38, o come Ereso Afrodite Genitrice39; o come altre l’appaiavano a Estia40. Poi, mentre Druso e Tiberio combattevano nella Vindelicia e nella Rezia, Agrippa e Giulia se ne erano andati, nella primavera dell’anno 15, a far visita a Erode, che, sollecito di corteggiare il genero e la figlia di Augusto, si era recato sino in Asia a invitarli. Ma mentre si pacava l’Oriente, venti anni prima così turbolento, la barbarie celtica, germanica, illirica, tracica, sino allora tranquilla, smaniava agitata da una irrequietezza crescente al di là delle Alpi, lungo l’intero corso del Danubio e del Reno. Non c’è dubbio che la riforma, la quale nel 25 a. C. aveva sottoposte le provincie europee al tributo, fosse la cagione di questa inquietudine. Gli storici antichi ci dicono sempre che la Gallia era malcontenta del censo; che Dalmati e Pannoni insorgevano per la soverchia gravezza del tributo. Mancando di notizie più precise e più minute, noi non possiamo argomentare ciò che succedeva in queste provincie, se non indirettamente, da qualche esperienza storica più recente e che presenti qualche analogia, tenendo ben fermo che Roma percepiva in ogni provincia la maggior parte dei tributi in metalli preziosi. Noi possiamo quindi spiegarci perchè l’Oriente, e in special modo le sue industri città, così inquiete venti anni prima, si pacassero, a poco a poco, nella ripresa universale delle arti, delle industrie, dei commerci, considerando come, a mano a mano che in Italia l’Orientalismo si divulgava, cresceva il consumo delle mercanzie di lusso fabbricate in Oriente: dei suoi vini, dei suoi profumi, delle sue frutta, dei suoi medicinali, delle sue lane, delle sue tele, dei suoi oggetti d’arte. L’Oriente pagava dunque con merci di lusso la parte maggiore del suo tributo, ripigliando all’Italia, in cambio di quelle, una parte dell’oro e dell’argento versato nelle casse del proconsole o del propretore. Certamente esso doveva cedere alla metropoli dominatrice una parte delle copiose ricchezze che i suoi campi producevano o le sue botteghe fabbricavano: ma siccome i campi erano più fecondi e le botteghe più attive nella crescente prosperità, mentre Roma, ammaestrata da Azio, era più discreta nel domandare; siccome Roma dava, in cambio del tributo, la pace, così necessaria all’industria e al commercio, le provincie di Oriente a poco a poco si rassegnavano a pagare il tributo, perchè potevano pagarlo. La pace valeva il tributo! Ma il tributo doveva invece pesare gravosissimo sul maggior numero delle barbare provincie europee, perchè queste, non fabbricando oggetti e non producendo derrate, che si consumassero in Italia, dovevano pagare il tributo a Roma principalmente con metalli preziosi. Roma esportava da queste provincie quasi soltanto oro ed argento, che spendeva in Italia, o nelle altre provincie, a mantenere l’esercito, a costruire le opere pubbliche, a esercitare gli altri servizi dello Stato. Così si spiega che la Gallia si fosse rimessa allora con tanta alacrità a cercare e a scavare le miniere d’oro e d’argento; che Licino mostrasse ad Augusto camere piene di metalli preziosi41. Ma se la Gallia, popolosa, alacre, ricca di miniere, aveva agio e forza di trarre dalla terra il metallo di cui Roma andava alla cerca, non così le altre provincie, i poveri Dalmati, i rozzi Pannoni. Costoro da secoli, con vari mezzi, avevano raccolta la provvista di metalli preziosi sufficiente ai bisogni loro, nei tempi della indipendenza: ma la dominazione romana e i tributi imposti avevano aperta una breccia nella loro vita nazionale da cui l’oro e l’argento fluivano in altre regioni dell’impero, generando su per giù gli stessi effetti funesti che le imposte enormi, e quindi il drenaggio del denaro verso le città, generarono nelle provincie più povere e nelle campagne della Francia al tempo di Luigi XIV. Dovevano cioè rincarire il denaro, rinvilir le derrate, scemare il reddito e il valore delle terre; aggravare ogni anno sui possidenti l’imposta che era percepita in denaro; ridurre nei debiti, spopolare, empire di malcontento le campagne. Solo a questo modo pare a me possa spiegarsi quel vivo malcontento che spingerà tra breve tanti popoli a prendere le armi contro Roma, i suoi mercatores ed i suoi esattori. E la crisi doveva esser tanto più grave, perchè sulle traccie degli agenti del fisco, queste provincie erano a poco a poco invase da mercanti stranieri, non solo orientali ma anche italiani, i quali cercavano nuovi clienti non nelle classi popolari, ma nelle classi ricche, che, essendo meno fedeli alle tradizioni nazionali, più facilmente si inducono nei paesi soggetti ad imitare i costumi della nazione dominatrice. Alcuni fatti che ci sono noti ci consentono di supporne molti altri analoghi. Noi sappiamo che intorno a questo tempo l’Italia del Nord incominciò a spedir per Aquileia e Nauporto molto vino nelle provincie danubiane42. Noi sappiamo che pure in questi anni si incominciarono a vendere nella Gallia le belle ceramiche rosse – liscie od ornate – delle famose fabbriche di Arezzo; le ceramiche non molto diverse delle fabbriche di Pozzuoli43; le ceramiche grigie e giallastre, con vaghi ornamenti, fabbricate, probabilmente nella valle del Po, dal vasaio Aco44; le famose ceramiche di Gneo Ateio, che sembrano essere state fabbricate in Italia, ma non è certo45. Mentre le officine galliche continuavano a fabbricare e a vendere sui mercati degli oppida la tradizionale ceramica gallica, i vasi dipinti, fregiati di ornamenti geometrici a pennello o ornati di differenti motivi – nastri ondulati i più – con lo scalpello e la ruota, i mercanti italiani venivano ad offrire ai ricchi Galli i piatti, i vasi, le lampade delle fabbriche italiche, che erano certo più fini delle galliche, ma che il prestigio militare e politico di Roma faceva sembrare anche più belle che davvero non fossero. Adoperare ceramiche italiche significava, per i ricchi Galli, quasi innalzarsi sulla punta dei piedi a pareggiare la statura dei dominatori. Piccoli frammenti di un grande fatto, queste notizie staccate; onde esse ci permettono di intravedere in queste provincie mercanti venuti dall’Italia e dalle regioni più civili dell’Oriente, a tentar per mare, per fiume, per terra, di insinuarsi tra i barbari, di insegnar loro le eccelse virtù della civiltà: la civetteria delle fini stoffe, il lusso del ricco mobilio, la ebbrezza dei vini squisiti, l’ammirazione delle belle schiave d’Oriente, la vanità dei grandi ed inutili monumenti pubblici, la nobiltà del profonder denaro in quei modi che più facilmente lo conducono nelle mani degli artisti, degli intellettuali, dei mercanti di oggetti di lusso. I soliti procedimenti, del resto, con cui la civiltà perverte e scompone la semplice barbarie agricola, quando essa riesce a dominarla con la forza o con il denaro. E così i mercanti portavano via da queste regioni un’altra parte dell’oro e dell’argento che il fisco romano ci lasciava: onde debiti; maggiore avarizia dei grandi o minore generosità nel trattare la plebe; antiche industrie paesane e commerci secolari minacciati di decadenza e di morte; desiderî insoddisfatti e universale malcontento, dovunque, che il contrasto tra i nuovi e gli antichi costumi, tra le idee tradizionali e le idee forestiere inaspriva; e che si sfogava nell’odio crescente contro la dominazione romana ed il suo segno più vistoso: il tributo. Se anche la Gallia, pure naturalmente tanto più ricca, era malcontenta, potevano esser contente le altre provincie, tanto più povere e rozze?

Perciò la vampata di guerra che aveva a un tratto arrossato a settentrione, sulle Alpi, l’orizzonte d’Italia, e che Augusto non aveva ancora spenta interamente, era piccola a confronto di quella che minacciava infuocare le correnti del Reno e del Danubio. Di tutte le provincie europee solo la lontana Spagna appartata, finalmente doma dalle ultime spedizioni di Agrippa, era tranquilla. In tutte le altre la pax romana vacillava. La Gallia tutta era agitata da una torbida irrequietezza; la Vindelicia non moveva membro, solo perchè giaceva ancora stordita dal colpo ricevuto l’anno precedente; il Norico aveva buttate le armi all’avvicinarsi dell’esercito di Tiberio, perchè spossato da precedenti invasioni di Daci e di Geti. La Pannonia invece era in piena rivolta; la Dalmazia inquietissima; agitatissimi pure i piccoli principati della Mesia, protetti da Roma e invano rinforzati a sud dei Balcani dal vasto principato tracico degli Odrisi, anche questo posto sotto il protettorato romano. In Tracia il partito antiromano era numeroso e forte; e la dinastia che, come quella di Giudea, si appoggiava su Roma, impopolarissima appunto perchè civettava con l’ellenismo, per vaghezza di non parer barbara. I contadini e i pastori traci servivano malvolentieri nei corpi degli ausiliari romani, e non volevano – gli zotici! – pagare le poesie dei letterati greci ospitati dalla corte46. Augusto doveva esser tanto più inquieto perchè anche da un’altra parte incominciavano ormai ad apparire le immense conseguenze del grande colpo di spada vibrato da Cesare nell’ignoto, conquistando la Gallia. Gettandosi temerariamente con le sue legioni nel fitto delle vacillanti repubbliche celtiche, facendo cadere con alcuni scuotimenti vigorosi l’antico ordine delle cose galliche sulle sue corrose fondamenta secolari, l’uomo fatale aveva perturbato il vecchio equilibrio di tutto l’interno continente europeo e quindi provocato un mareggiamento di popoli e di Stati che, lento e quasi invisibile in principio, incominciava allora a diventar vorticoso e quasi oceanico. Sradicata dalle braccia di Roma la fitta siepe di bellicose repubbliche celtiche interposte tra la barbarie germanica e l’Italia; convertendosi queste tutte insieme in una sola nazione di grande sviluppo economico, la Gallia si apriva simile ad una pianura rasa ai Germani, che avrebbero potuto passare tra queste genti, ormai disperse a coltivare tutta l’immensa provincia e a lavorare, e avviarsi verso l’Italia, senza dar di petto che in cinque legioni. Agrippa aveva divinato che il pericolo germanico rinasceva sul Reno: anzi il pericolo rinasceva e sul Reno e sul Danubio, e più grave e più minaccioso e più vasto che Agrippa non avesse pensato; cosicchè non avevano quasi forza alcuna contro esso le concessioni di terre galliche fatte da lui lungo il Reno. Ben altri argini occorreva opporre a questo procelloso mare di tribù, che fluttuava tra la Vistola e il Reno, dal Baltico al corso superiore del Danubio; e nel quale la tempesta pareva aver stabilita la sua dimora. I Germani erano poveri; possedevano pochi metalli preziosi; non edificavano nè città, nè grossi villaggi; si disperdevano per le campagne in abituri solitari; avevano costumi rozzi, poche industrie rudimentali, una religione povera, una agricoltura superficiale, dei numerosi armenti e una mobilità quasi nomadica. Bruciar gli antichi abituri, emigrare in terre nuove, dividersele, rifabbricarci sopra le case, pascolarci gli armenti e ricominciar su quelle le seminagioni, erano cose di poco momento e perciò consuete, anche per le tribù numerose. Il bagaglio di ognuna era tanto leggero! Gli armenti, una provvista di grano, poche masserizie, le armi, qualche schiavo. E dopo un anno, quando la prima messe si offriva alla falce, la tribù si trovava nella nuova sede a suo agio come nell’antica, come in una sede posseduta da secoli. Il rigido clima, le immense foreste, le vaste paludi, la terra ricca solo di pascoli e ferace di cereali – sebbene molto meno che nella Gallia – la lontananza dalle regioni civili, l’ignoranza, lo spirito bellicoso che perpetuava le guerre e dalle guerre era poi alimentato, non solo impedivano alle tribù germaniche di arricchirsi, di raffinarsi, di fondare stati duraturi, ma anche di metter radice nel suolo. Onde le numerose tribù, mobili, come marosi al soffio dei piccoli accidenti e dei nuovi bisogni, cozzavano di continuo tra loro. Erano infatti sempre in guerra, per disputarsi certe regioni, per aprirsi certe vie, per vendicare antiche offese; in ogni tribù tutti gli uomini liberi e possidenti, dall’infanzia alla vecchiaia, non trattavano che le armi, lasciando ogni lavoro agli schiavi e alle donne; la religione, il costume, la famiglia convergevano a esaltare nell’uomo l’ardore del cimento e a rafforzare il disprezzo della morte. Ogni popolo insomma era una orda di guerrieri, meravigliosi per robustezza, per sobrietà, per coraggio, per impeto. Fortuna, che a questa forza e a questo furore taurini mancava l’intelligenza regolatrice! Ogni tribù era governata dalla tumultuaria impulsività degli uomini liberi – possidenti e guerrieri – radunati in assemblea, che decidevano la pace e la guerra, facevano le leggi, giudicavano, a mala pena frenate un poco dall’autorità dei sacerdoti e delle famiglie più insigni per ricchezza e per gloria guerresca: autorità debole però, perchè nè i secoli, nè il contatto con popoli più civili, nè le guerre continue avevano ancora domato il selvaggio spirito di indipendenza del Germano guerriero e possidente. Per questa ragione la Gallia aveva potuto per tanto tempo far argine alle tentate invasioni germaniche; e per questa ragione pure Augusto non avrebbe avuto a temere soverchiamente i Germani se, mutandosi la Gallia in una nazione di grande sviluppo economico, la loro barbarie miserabile non fosse stata quasi meccanicamente sospinta a precipitarsi sulla ricchezza gallica dallo slivello rapidamente crescente. La guerra non era soltanto una passione, ma anche una industria per i Germani; sopratutto per l’aristocrazia, che con il bottino distribuiva doni ai guerrieri meno ricchi e manteneva le proprie clientele, solo principio di un ordine politico nella sciolta anarchia delle genti germaniche. Ma le popolazioni germaniche, poverissime tutte, avrebbero continuato a depredarsi l’un l’altra le poche masserizie, i tesorucci, i magri armenti, quando avessero potuto insieme depredare l’opulenta Gallia? Certo il nome, il gran nome di Roma, li fermava sul Reno, argine poderoso; ma se un giorno essi si accorgessero che l’argine non era vero, di macigni e di terra, ma dipinto sopra una fragile tela a inganno dei loro occhi di barbari? Al di là delle Alpi innumerevoli Stati grandi e piccini erano sorti e caduti negli ultimi secoli, l’uno sull’altro, rapidamente, a rifascio, accatastando in ogni parte le loro macerie. Anche la dominazione romana vacillava ora su questo sedimento di rovine. Si avvicinava dunque il momento, in cui Roma dovrebbe risolversi a prendere gravi deliberazioni nelle provincie europee. L’Italia incominciava a intravedere quanto ricca fosse una almeno di quelle provincie, la Gallia: anzi Augusto ormai vedeva in questa addirittura l’Egitto dell’avvenire, la grande risorsa futura dell’esausto erario repubblicano; in Gallia e nelle altre provincie l’agricoltura e l’industria dell’Italia trovavano nuovo mercato. Era chiaro dunque che l’impero aveva bisogno delle provincie conquistate da poco nel continente europeo; ma era chiaro pure che quella situazione incerta, confusa, oscillante in ogni parte, non poteva durare; che bisognava rinforzare la difesa del Reno e stabilire il confine dell’impero sul Danubio. Con così poche legioni non si poteva difendere una così lunga frontiera, se questa non fosse di per sè naturalmente munita. Il Danubio era il naturale, gigantesco fossato dietro cui poche regioni ben comandate potevano fare opera efficace di difesa; e bisognava raggiungerlo, a qualunque costo, anche a rischio di lasciarsi alle spalle popolazioni barbare, malfide, riottose.

Tale era il compito che si poneva finalmente innanzi a Roma, come la parte più onerosa della eredità di Cesare; come la conseguenza più grave del grande colpo di spada vibrato da lui nell’ignoto, conquistando la Gallia.... E il compito nuovo era così grave che Augusto doveva forse domandarsi se, anche per quella sua grandiosa avventura di Gallia, non avesse Tito Livio ragione di proporsi il quesito: aveva Cesare fatto più bene o più male? Sarebbe stato per il mondo maggior ventura o maggiore disgrazia, se l’uomo fatale non fosse nato?47 A fronteggiare, al di là e al di qua di una così smisurata frontiera tanta inquieta barbarie, non sarebbe stata dunque superflua la abilità diplomatica e la energia guerresca, di cui la nobiltà romana aveva date prove sì eccelse nella conquista mondiale. E invece l’abilità diplomatica e l’energia guerresca si spegnevano rapidamente nella nuova nobiltà imbastardita, non ostante i tentativi disperati fatti per infondere in essa l’anima antica. Quelle due odi di Orazio, tanto ammirate dal pubblico, provano che la nuova aristocrazia, in cui si confondevano gli avanzi della nobiltà storica con gli avventurieri fortunati della rivoluzione e i ricchi cavalieri e gli intellettuali del ceto medio, perdeva rapidamente la facoltà di capire la politica estera. Un briciolo di retorica imperialista, simile a quella che Orazio aveva stemperata nelle belle strofe, delle confuse nozioni geografiche e politiche, una sconfinata fiducia in Augusto: ecco la somma dell’arte di governare i sudditi, per quella classe infingarda, superficiale, viziata da una confusa e frivola intellettualità. Il Senato votava, senza fare obiezione alcuna e senza domandare schiarimenti, tutte le somme che Augusto chiedeva per la guerra; nessuno si opponeva più, come ai tempi di Cesare e di Pompeo; anzi erano tutti contenti che Augusto deliberasse egli, senza consultare il Senato, sulla pace e sulla guerra come gliene avevano data facoltà48; le alte classi non avevano più nessun canone per regolarsi nelle questioni di politica estera, e confondendo da lontano luoghi e tempi, illudendosi in una facile vanagloria, non si curavano che della conclusione, per esse inevitabile: la consolidazione ed estensione del dominio romano. I mezzi da adoperare, le difficoltà da vincere, i pericoli da prevenire, e simili altre piccolezze, non riguardavano alcuno, fuorchè Augusto. Fraintendendo, come sempre, gli storici hanno raffigurato Augusto che astutamente riduce a poco a poco in suo potere tutte le faccende esteriori dell’impero; quando invece le ultime rivoluzioni avevano distrutto in Roma l’antico organo della politica estera; nè la vaga retorica imperialista dei poeti, la superficiale cultura storica delle classi alte, le reminiscenze frammentarie del passato potevano tener luogo delle tradizioni diplomatiche dell’aristocrazia, provate dal cimento dei secoli e di cui il Senato era stato per tante generazioni il depositario. Il disfacimento morale della nobiltà, la paralisi del Senato lasciava Augusto solo alle prese con il Reno e con il Danubio nemici; lo costringeva ad essere egli, solo con i suoi parenti ed amici, l’organo nuovo della politica estera, e a supplire alla manchevolezza del Senato, che trascurava ogni cosa; alla manchevolezza del pubblico, che, frivolo, leggero, pieno di desideri impossibili e di illusioni chimeriche, minacciava in ogni occasione di intralciare così le operazioni di guerra come le trattative diplomatiche. Necessità che gli era forza subire in quel tempo in cui un poeta, un cesellatore di brevi e di lunghe, un limatore paziente di aggettivi diventava il maestro delle moltitudini per le faccende estere: il che per una nazione è segno sicurissimo di rimbecillimento politico.

Augusto tuttavia si accingeva con animosa fiducia alla vastissima impresa, in quel momento felice, in cui lo Julium sidus, la stella della sua fortuna, uscita dai torbidi vapori di tante tempeste, splendeva più luminosa sopra il più puro cielo che mai l’avesse attorniata. Egli era nella piena virilità – aveva 49 anni —; e alla lunghissima pratica delle cose politiche fatta tra tante vicende, univa ora la miglior salute che mai avesse goduta. Il regime rigorosissimo, le ansie scemate, la naturale stagionatura dell’età, la tempera che agli organi dà la vita medesima, avevano arrobustita assai la sua complessione infermiccia, preservandolo da quasi dieci anni da malattie pericolose. Proprio allora inoltre Augusto poteva incominciare a credere sicura la sua grandezza, perchè anche coloro i quali non lo ammiravano nè in cuor loro nè a parole, si acconciavano a subire la sua potenza come il male minore, in tempi così corrotti. Aveva intorno una bella e concorde famiglia, che poteva presentare come un discreto modello a tutti gli arcaicizzanti: Livia, avvedutissima consigliera in ogni contingenza difficile, ma schiva di apparire, di ricevere omaggi, di far parlare di sè, raccolta in un signorile riserbo di antica matrona; Agrippa, fedelissimo amico; Giulia, bella, intelligente, amabile ed ora rinsavita nel lontano Oriente in compagnia del marito; due figliastri intelligenti, valorosi, alacri, generali provetti e buoni mariti; due strumenti eccellenti per governare lo Stato e due magnifici esempi da opporre alla frivola gioventù contemporanea. Che poteva egli desiderare di più? Oh se quell’attimo felice avesse potuto sostare sulla china del tempo! Ma gli attimi seguenti incalzavano. A mano a mano che vedeva allargarsi il pericolo, Augusto profondeva in ogni parte una mirabile attività per provvedere al presente e per preparare il futuro. È questa forse la parte più bella della sua lunga esistenza; e forse fu la meno infelice. La strada della Liguria fu sollecitamente riparata e le Alpi marittime, insieme con le vallate ribellatesi a Cozio, vigorosamente debellate. Augusto provvide pure, probabilmente in questo tempo, a ordinare le regioni conquistate o riconquistate: e, ahimè, con la brutalità che i tempi lodavano, come necessaria per vincere l’uomo in guerra con l’uomo. Delle popolazioni alpine ribellatesi una parte considerevole, la più valida, fu venduta schiava e dispersa, lasciando nelle valli solo quanti abitatori erano necessari a coltivare la terra, donne, probabilmente, il maggior numero49. Il territorio doveva esser variamente diviso: tutte le vallate che sboccano sul lago Maggiore sino al San Gottardo, una parte considerevole del territorio conquistato ai Leponzi, sarebbero aggregate al territorio di Milano, sottoposto quindi all’autorità del piccolo Senato dei decurioni milanesi e dei suoi magistrati comunali50; la moderna val Bregaglia, dove in antico abitavano i Bergalei, fu attribuita a Como51; le valli dei Camunni e dei Trumplini, incorporate con il territorio di Brescia52. In tutte queste valli le terre confiscate alle tribù e alle ricche famiglie furono in parte date alle tre città e ne ingrandirono i demanî municipali53, in parte divise tra Augusto, la sua famiglia, i suoi amici: ingente bottino di boschi magnifici, di ricche miniere, di praterie pingui, di campi ubertosi54. Egual rapina fe’ il dittatore nelle Valli Retiche, che furono quasi tutte assegnate invece alla nuova provincia della Rezia, di cui Augusto tracciò i confini includendovi la Vindelicia e comprendendovi tutto il territorio dalla vetta delle Alpi al Danubio, dal lago Lemanno ai confini del Norico55. Nel Norico Augusto deliberò di introdurre l’amministrazione romana, abolendo la dinastia nazionale, ma senza ridurlo a provincia; applicandogli invece il regime già sperimentato in Egitto del praefectus. Un cavaliere, scelto da lui, governerebbe l’antico regno, come vicerè, in luogo della dinastia nazionale. Così anche in questa parte il Danubio segnava il confine dell’impero.... Cozio fu mantenuto nel regno, ma egli pure con nome e autorità non più di re, bensì di praefectus, per collocarlo in una più diretta sudditanza da Roma. Senonchè, dopo averle annesse, Roma doveva difendere, occorrendo, la Rezia ed il Norico contro le invasioni germaniche e daciche. Era dunque necessario di costituire nuove legioni e di metterle a presidio nelle due provincie? Ma la spesa sarebbe grave e grande forse anche la difficoltà di trovare soldati e ufficiali sufficienti nelle alte, medie e basse classi dell’Italia. Fermo nel proposito di non oltrepassare il numero di 23 legioni, Augusto si risolvè a basare la difesa dell’impero ampliato sopra un principio nuovo: sul principio che le frontiere non potevano essere assalite mai contemporaneamente su molti punti; che quindi le medesime legioni potevano difendere punti lontani tra loro, purchè fossero in grado di passare rapidamente dall’uno all’altro. Egli deliberò quindi di far aprire tra le nuove provincie e la valle del Po, attraverso le Alpi, una grande strada, per la quale le legioni raccolte da ogni parte nella valle del Po speditamente correrebbero, occorrendo, a difendere il Danubio: una via strategica, che doveva servire come servono oggi le ferrovie, a portare prestamente da un luogo all’altro le milizie. Insomma Augusto non aumentava le legioni e suppliva invece al numero con la mobilità, facendo nuove strade che costavano meno e potevano anche servire al commercio e ai privati. Druso fu incaricato di tracciare questa strada che, movendo da Altino sul Po, probabilmente per Treviso, Feltre, la Valsugana, Trento e la valle dell’Adige, raggiungeva il Danubio56. Nel tempo stesso Augusto immaginava un’altra strada strategica, per la valle dei Salassi, la sua colonia di Augusta Salassorum, il piccolo e il Grande San Bernardo, che doveva affrettare il viaggio dall’Italia in Gallia e per la quale in poche settimane si concentrerebbero alla difesa del Reno le legioni dell’Illirico e della Pannonia57. In questo stesso anno Augusto ripigliava la deduzione dei veterani in Colonie.... Altro segno dei tempi che minacciavano tempesta! Dopo Azio e le grandi deduzioni dei veterani della guerra civile, Augusto aveva un po’ negletti soldati e veterani. Aveva fatto il sordo alle continue richieste di minor servizio, di maggior soldo, di più larghi comodi, di più precise condizioni nell’arruolamento che i soldati mettevano innanzi, approfittando della disciplina raddolcita58; e pur congedando ogni anno un certo numero di soldati che avevano servito almeno venti anni, non si era dato gran pensiero per trovare loro terre: spesa grave e compito difficile. Se durante le guerre civili era stata consuetudine di ricompensare con dei campi i soldati congedati, i soldati non avevano nessun vero diritto alla rustica pensione. Cosicchè c’erano allora molti soldati congedati che, poveri e senza peculio, mendicavano invano dai personaggi potenti sotto cui avevano militato, una terra su cui campar gli ultimi anni. Quando a un tratto, in questo anno, Augusto fu preso da una improvvisa sollecitudine per i poveri veterani; e cercò loro delle terre, sia pur fuori di Italia, ma belle e fertili; e ne fece dedurre una colonia a Patrasso, dando loro una porzione del demanio della città comprata da questa59; e da Agrippa ne fece dedurre un’altra in Siria, riempiendo così e riedificando una città che aveva trovata distrutta a metà dalle guerre civili e semivuota, Berito60. Probabilmente in questo tempo medesimo si pensò anche a costruire Augusta Vindelicorum al fondo della strada aperta da Druso; a costruire – alla confluenza del Po e della Dora – come punto di arrivo della nuova grande strada strategica della valle dei Salassi, al luogo dove il Po diventa navigabile, Torino; e nel cuore dei territori liguri ribellati e su terre tolte ai ribelli, Benevagienna61. Torino e Benevagienna dovevano essere fortificate e servire anche a spaventare i Liguri.

Il Senato, a cui tutti questi disegni furono sottoposti, li approvò senza opporre difficoltà; votò le spese necessarie, con la consueta docile indifferenza, e senza chiedersi se il denaro non mancherebbe. E così l’anno 14 fu tra i più laboriosi della vita di Augusto. Come semplice e comoda era, a paragone di tante brighe, la missione di Agrippa in Oriente! Egli aveva in questo anno compiuta senza alcuna fatica la dimostrazione navale sulle coste della Tauride e facilmente assestate le cose del regno bosforano come voleva62. Poi aveva fatto ritorno per terra, attraversando l’Asia Minore, insieme con Erode, il quale lo aveva raggiunto durante la spedizione63 e cercava di entrargli nelle grazie più che potesse, per attuar sopra un campo più vasto e in cospetto di tutto l’Oriente la grande idea, che nobilitava in parte il suo perfido e violento governo: la conciliazione dell’Ellenismo e del Giudaismo. Non solo aveva durante tutto il viaggio profuso ingenti larghezze alle città greche, intraprendendo ad esempio a sue spese la ricostruzione del celebre portico di Chio64: ma si era costituito presso Agrippa intercessore di grazie nel tempo stesso per le città greche e per gli Ebrei. Ben presto si era risaputo in tutta l’Asia Minore che per ottener da Agrippa qualche concessione, occorreva domandargliela per il tramite del re di Giudea; e molte città ne avevano approfittato. Ilio aveva ottenuto il perdono di una multa; Chio forse aveva riacquistata la libertà e anche ottenuto un condono d’imposte; altri favori avevano avuti altre città65. Nel tempo stesso però Erode aveva persuaso Agrippa a emanare un editto solenne che riconfermava e rinforzava tutti i privilegi delle colonie ebraiche dell’Asia Minore, quei privilegi così invisi agli indigeni....66 Così l’Arabo Idumeo venuto dal deserto non solo appariva in Oriente come il protettore universale di tutti gli Ebrei dispersi per l’impero, delle colonie staccatesi per ogni parte dalla madre patria; non solo poteva interporsi come paciere fra il Giudaismo e l’Ellenismo: ma osava persino atteggiarsi a protettore dell’Ellenismo! E l’Ellenismo orientale, così orgoglioso, così prepotente, così esclusivo, tollerava, anzi ammirava questa intrusione67, che in altri tempi sarebbe apparsa un risibile scandalo; e Erode, il re degli Ebrei, diventava il primo potentato dell’Oriente ellenico e semitico.... Ma la pace romana e la nuova politica inaugurata da Augusto, che si curava, nella misura del possibile, di coordinare gli interessi delle differenti provincie, invece di depredar tutto ciecamente e di seminar la discordia dovunque, creavano, di contro alle tumultuose e agitate genti dell’Occidente, un nuovo Oriente tranquillo, laborioso e animato da passioni diverse. L’agricultura, l’industria, il commercio rinascevano: i telai battevano di nuovo alacri in ogni città, le tinozze dei tintori ricominciavano a bollire, i forni del vetro ad ardere; il lavoro abbondava agli artigiani delle città industriose, i possidenti vendevano facilmente i vini prelibati, le squisite frutta secche, i semplici e le erbe aromatiche, perchè di ogni cosa i mercanti facevano grande ricerca. Non solo i popoli dell’Oriente medesimo, nelle città e nelle campagne, lungo le coste e sull’altipiano, compravano più facilmente e largamente; ma l’Italia domandava all’Oriente ogni anno una maggiore quantità delle sue mercanzie di lusso; ma nuovi mercati si aprivano appunto, come abbiamo visto, nelle barbare provincie europee, dalla Gallia alla Tracia.... Augusto, provvedendo alla difesa del Reno e del Danubio, non conservava soltanto l’integrità dell’impero, assicurava anche dei vasti mercati alle industriose città dell’Oriente! Persino il consumo delle merci indiane – seta, riso, perle – cresceva in tutto il mondo mediterraneo68; e l’Oriente, naturale intermediario, guadagnava molto su questo lucrosissimo commercio, specialmente l’Egitto, che faceva una vittoriosa concorrenza agli Arabi dello Yemen. Mentre sotto i Tolomei appena qualche nave partiva ogni anno da Miosorno, il porto egiziano del Mar Rosso, alla volta dell’India, ora c’era già una piccola flotta di battelli che facevano il commercio con l’estremo Oriente; e il numero delle navi che la componevano cresceva ogni anno, come il numero dei mercanti che arricchivano con questi viaggi69. Tutte le industrie, tutti i commerci, tutte le coltivazioni prosperavano in Egitto, in Siria, in Asia Minore; persino la Grecia, la povera Grecia qua e là si risollevava un poco. Patrasso incominciava a prosperare, per la fiorente industria dei bissi; e la deduzione dei coloni romani non potrebbe che giovarle anche di più, Augusto avendole attribuiti dei territori e parecchie città minori, che dovrebbero pagarle tributo70. Le cave dei marmi, quelle dell’Attica, quelle del Taigeto in Laconia, quelle dell’isola di Taso, del Tenaro e di Crocee, incominciavano a mandar molta pietra in Italia71; la Laconia, la Tessalia, l’Elide esportavano a Roma cavalli per i giuochi del circo72; le città poste alle foci del Danubio incominciavano a comprare vini e vestiti fatti in Grecia73; e le città che, come Ipata nella valle dell’alto Sperchio e Titorea nella valle dell’alto Cefiso, riuscivano a spremere dagli ulivi delle terre circostanti un olio sopraffino, si avviavano verso un ridente avvenire, anche in mezzo alla universale desolazione della Grecia74. Insomma l’Oriente pareva aver finalmente trovata, dopo tanti secoli, quella vasta pace, quella sicurezza dei mari e dei continenti di cui aveva, come nazione industriosa e trafficante, bisogno; e in quella pace, in quella sicurezza arricchiva di nuovo rapidamente, traeva a sè da ogni parte i metalli preziosi; e se non curava radicalmente gli innumerevoli mali di cui soffriva – la discordia delle razze, la dissoluzione politica, la confusione religiosa, la depravazione morale – almeno aveva ora la forza di sopportarli più facilmente. Nel tripudio della prosperità ritornata d’improvviso quando tutti la credevano fuggita per sempre dalla terra; nella fretta di raccogliere in ogni parte quel che essa vuotava dal suo corno di nuovo inesausto, tutte le classi e tutte le razze dimenticavano i rancori, i ripicchi, gli orgogli, gli scoraggiamenti che la crisi lunghissima aveva tanto inaspriti; lasciavano anche ad un Arabo re di Giudea esprimere in nome di tutte ai piedi di Roma la suprema necessità dell’Oriente: l’accordo dei popoli, delle lingue, delle religioni nel comune intento di sfruttare con il commercio, con le arti, con le lettere, con i vizi, con le favole religiose l’Occidente barbaro, che Augusto si preparava ad aprire con la spada di Roma all’invasione orientale.

Il leone nei tempi di Mitridate tanto furioso, belava ora come un agnello, leccando la mano di Agrippa. Alle prese con i lioncelli di Europa, Augusto poteva domandarsi se non avesse avuta ragione Antonio di voler inorientare l’impero. Quanto più tranquillo e sicuro sarebbe l’impero, senza queste torbide provincie europee! Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Mentre Agrippa ed Erode passeggiavano per l’Oriente tranquillo, Augusto meditava in Gallia due disegni ben più grandiosi, che quelli eseguiti in questo anno: il riordinamento amministrativo della Gallia e la conquista della Germania.

III.
LA CONQUISTA DELLA GERMANIA.

Dal principio della sua presidenza Augusto aveva, celatamente ma tenacemente, avversate le perigliose avventure oltre i confini, sebbene queste fossero richieste dalla opinione pubblica, cercando con mille infingimenti di eludere le impazienze e le ambizioni popolari. Aveva infatti conchiusa la pace con la Persia, quando l’Italia voleva la guerra. E così, di rinvio in rinvio, quindici anni erano quetamente passati; e l’Italia già quasi si rassegnava, senza accorgersene, ad accontentarsi dei modesti trofei conquistati dalle legioni combattendo nella Spagna settentrionale o nelle vallate alpine. La crescente prosperità, il rinovato prestigio, l’oblìo di Azio, lo sfacelo del Senato, di cui il pubblico non poteva non accorgersi, inducevano il pubblico in questa nuova disposizione di spirito. Come tentare grandi conquiste, quando il Senato, che avrebbe dovuto dirigerle, cadeva in deliquescenza? Orbene: proprio allorchè, rallentandosi, l’opinione pubblica cessava di incitarlo sulla via delle conquiste con la furia antica, Augusto ponderatamente, freddamente, quasi da solo, deliberava una vastissima e gravissima impresa.

Negli scrittori antichi e moderni questo singolar mutamento prorompe così all’improvviso, che non sembra avere altra causa se non le imperscrutabili oscillazioni di una volontà personale. Ma le cause dovettero essere ben più profonde e complesse. Se Augusto non si fosse persuaso intorno a questo tempo che la conquista della Germania era assolutamente necessaria ed urgente, non si spiegherebbe come egli, così schivo delle responsabilità gravi, si impegnasse e impegnasse Roma di sua iniziativa, con un Senato torpido ed una aristocrazia mezzo sfasciata, in impresa di tanto momento. E la conquista della Germania non potè allora parergli necessaria, se non per conservare la Gallia, il cui valore Licino gli aveva rivelato: cosicchè il disegno di questa impresa deve collegarsi con la grande discussione avvenuta in presenza di Augusto tra i capi gallici e il liberto rapace. Questa discussione segna un grande momento nella storia di Roma: il momento in cui, per merito di Licino che le aprì gli occhi, la oligarchia che governava l’impero scoprì finalmente l’immenso valore della terra conquistata da Cesare. Ad Augusto, che da quindici anni frugava tutto l’impero per raccogliere denaro, dalle montagne asture e cantabre all’altipiano dell’Asia Minore, dalle città della Siria ai villaggi alpini, doveva parere meravigliosa fortuna il trovare al di là delle Alpi, nel mezzo delle provincie europee, non separato dal mare, vicino e contiguo all’Italia, un territorio che per ricchezza eguaglierebbe un giorno le più opulenti provincie di Oriente, e che sembrava offrire un vasto mercato all’agricoltura e all’industria dell’Italia. Ai vantaggi economici, palesi a tutti, si aggiungevano cospicui vantaggi politici. L’Italia aveva obbligato Augusto a conquistare e ad annetter l’Egitto, per infliggere una umiliazione indimenticabile all’Oriente troppo insuperbito durante le guerre civili: ma pur sfogandosi per vendetta a percuotere l’Oriente, l’Italia restava pur sempre in mezzo alle barbare, povere, riottose provincie dell’Occidente le quali le facevano corona, una metropoli troppo piccola, troppo povera, troppo poco popolosa, di fronte alla parte orientale dell’impero troppo cresciuta negli ultimi cinquanta anni. Difatti, non ostante l’esaltazione nazionale, era pur vero che l’Italia e la repubblica vivevano ancora precipuamente sui redditi delle provincie orientali; era pur vero che così Augusto, come Agrippa, come i proconsoli erano costretti in Oriente a trattare le città, le monarchie clienti, gli staterelli protetti e tutti i potentati con miele e carezze. Perfino ad Erode, dopo Aminta, Roma prodigava gentilezze, che due secoli prima il Senato aveva negato ai successori di Alessandro! Anzi il predominio dell’Oriente e sopratutto l’influsso dell’Egitto cresceva rapidamente, a mano a mano che il ricordo delle turbinose vicende della ultima guerra civile svaniva; a mano a mano che con la pace si divulgava nell’impero e in Italia una civiltà più raffinata e più intellettuale. Non è perciò inverisimile che Augusto, oltre che un cespite largo di nuovi tributi, intravedesse nella futura, ricchissima, popolosissima Gallia, descritta da Licino, anche un contrappeso alle provincie orientali, troppo vaste, ricche e popolose. Se l’Italia riuscisse a prolungarsi quasi e ad espandersi, oltre le Alpi, in una vasta provincia, ricca di uomini, florida di commerci e di industrie, essa avrebbe minore bisogno dell’Oriente, potrebbe dominarlo con maggior vigore, più facilmente mantenere nell’impero il primato che l’Oriente minacciava.

Augusto aveva perciò data alla fine piena ragione a Licino; ed era entrato definitivamente nelle vedute dell’abile liberto, ma ampliandole nel vasto disegno di una vera e nuova politica gallica. Licino proponeva soltanto di spremere dalla Gallia quanto denaro si potesse, con tutti i mezzi. Senonchè era chiaro non potersi far della Gallia l’Egitto dell’Occidente, con i Germani minacciosi alle porte, con le provincie circostanti in rivolta, con la rivoluzione latente nella Gallia medesima. La Gallia non era, come l’Egitto e come la Siria, una vecchia nazione, avvezza da secoli a obbedire e a pagare: tanto è vero che la vittoria di Licino la aveva esasperata; che, avvicinandosi la fine del censo e l’assoggettamento di tutta la Gallia al nuovo regime fiscale, l’opposizione minacciava di suscitare dal malcontento universale un moto, e di rinforzarlo con una invasione germanica75. Se la Gallia era la colonna maestra dell’impero di occidente, bisognava rincalzarne le fondamenta; vasta impresa alla quale Augusto si accinse alacremente, dopo la famosa discussione, con due mezzi diversi: uno interno e l’altro esterno, e cioè con un sagace riordinamento amministrativo della Gallia e con la conquista della Germania. In Gallia durava ancora la divisione territoriale trovata da Cesare al suo arrivo, conservata da lui e poi cristallizzata dalla pace. Alcuni popoli più potenti, come gli Edui e gli Arverni, erano alleati di Roma, ed avevano ancora una larga clientela di piccole civitates, da loro governate; accanto a questi popoli, molte civitates di differente misura, grandi e piccole, erano poste direttamente sotto la sudditanza o sorveglianza romana, secondo erano soggette libere o alleate. Era chiaro che, le guerre interne essendo cessate, la Gallia mutandosi in una nazione industriosa e commerciante, le grosse clientele degli Arverni e degli Edui non avevano più per la Gallia alcuno scopo, se non quello di conservare privilegi antiquati e qualche motivo di futile orgoglio; mentre potevano diventare pericolose per Roma, come i primi nuclei di nuove coalizioni nazionali, se il malcontento crescente spingesse la Gallia ad insorgere. Augusto deliberò quindi di infrangere queste vaste clientele, togliendo dalla signoria degli Arverni i Vellavi, i Cadurci, i Gabali, da quella degli Edui i Segusiavi, gli Ambarri, gli Aulerci, i Brancovici, sottoponendo queste civitates direttamente all’autorità romana76. Spianò poi, sulla base dei resultati del censo, l’antica varietà delle civitates a una maggiore uniformità riunendo le civitates troppo piccole in una sola più grande, dividendo le troppo grandi, e riplasmandole tutte in sessanta civitates non molto diverse per importanza e grandezza, ciascuna indipendente dall’altra e tutte poste in contatto immediato con Roma77. Ma questo nuovo ordinamento accresceva al governatore romano compiti e responsabilità; affinchè dunque la Gallia tutta potesse essere comodamente amministrata nella sua nuova forma, e per rafforzare il dominio romano, dividendo ancora più la provincia, Augusto deliberò di fare delle sessanta civitates una tripartizione amministrativa. Non però sovrapponendola alla naturale tripartizione etnica della Gallia, che ad occidente, nell’Aquitania, tra i Pirenei e la Garonna, era popolata da Iberici e rassomigliava alla Spagna; nel vasto centro, tra il Rodano e l’Oceano, dalla Garonna alla Senna, era abitata da puri Celti; ad oriente, tra la Senna e il Reno, era abitata da una mischianza di Celti e di Germani. La tripartizione della Gallia, immaginata da Augusto, in Aquitanica, Lugdunese e Belgica, tendeva invece a confondere amministrativamente così le differenze come le affinità etniche e storiche delle genti galliche. Essa riuniva nell’Aquitania diciassette civitates, di cui cinque iberiche e dodici puramente celtiche78 per razza, per lingua e per storia, tra le quali gli Arverni; assegnava alla Lugdunese venticinque (o ventisei) civitates celtiche, tra le quali gli Edui, che erano così divisi dagli Arverni79; costituiva la Belgica di diciassette civitates, comprendendo in quelle però alcune popolazioni puramente celtiche, come i Sequani, i Lingoni e gli Elvezi80. Insomma il gruppo centrale, puramente celtico, il più compatto, il più attivo, il più grande, e quindi il più pericoloso per la sua preponderanza, era amputato ad oriente e ad occidente a vantaggio del gruppo iberico e del gruppo celto-germanico; onde il governo gallico poggiava sull’equilibrio amministrativo di tre gruppi non molto diversi.

È facile capire che con questa tripartizione artificiosissima, contraria alla ragione etnica, linguistica e storica, Augusto mirava a spegnere interamente nella Gallia lo spirito politico e nazionale già agonizzante, intralciando amministrativamente le intese naturali delle tribù; a volgere la Gallia tutta e soltanto verso l’agricoltura, il commercio, l’industria, gli studi, i piaceri. Ma il riordinamento amministrativo non pareva bastare a rafforzare il dominio romano, perchè la illusione di un grande aiuto germanico fomentava l’irrequietezza gallica; e l’irrequietezza gallica faceva vacillare, per ripercussione, tutto l’impero europeo. Bisognava conquistare la Germania, per posseder sicuramente la Gallia e le provincie danubiane. Non era più questione di scelta, come per la conquista della Persia, ma necessità: se l’Italia e il Senato non l’intendevano, doveva intenderlo chi aveva la responsabilità del potere, a prevenzione di più gravi pericoli nell’avvenire. Senonchè l’impresa di Germania era grave e difficile, poco meno che l’impresa di Persia. Avrebbero bastato a illuminare Augusto su questo punto, anche se non si fosse mosso di Roma, i capitoli trentanovesimo e quarantesimo del primo libro dei Commentarii di Cesare, in cui sono così lucidamente esposti i pericoli e le difficoltà delle guerre germaniche: il valore del nemico, la mancanza di vie comode e larghe, i trasporti e gli approvvigionamenti difficili, le immense foreste, la facilità delle imboscate. Queste difficoltà erano anzi in trentacinque anni cresciute, perchè i soldati di Augusto, molto meno agguerriti che quelli di Cesare, avevano bisogno di bagagli più voluminosi, di vettovaglie più abbondanti, di guide più sicure, di strade più comode. Difatti Augusto al principio dell’anno 13 invitò Agrippa, che era ancora in Oriente, a ritornare in Italia; e si accinse a ritornare egli pure, per consultare su così grave faccenda l’uomo di guerra più esperto del tempo81. D’altra parte con l’anno 13 finiva il quinquennio della duplice presidenza; e conveniva che ambedue si trovassero in Roma per far prolungare di cinque anni i poteri. Ma se Augusto non era uomo da avventarsi temerariamente nell’ignoto, come Lucullo e Cesare, egli sapeva però risolversi con mente pacata a gravi e difficili cose, quando si fosse persuaso con matura riflessione che erano necessarie. Ora se per molte ragioni la impresa di Germania gli appariva vantaggiosa, il momento doveva sembrargli singolarmente propizio a tentarla. Se l’impresa non era meno grave che quella compiuta da Cesare in Gallia o quella tentata da Antonio in Persia, egli aveva acquistato, con quindici anni di fortunato governo, bastevole autorità da poter impegnare lo Stato in una così rischiosa avventura. A conti fatti, il bene era stato maggiore del male in quei quindici anni, in Italia, perchè la pace non era stata turbata, la prosperità era cresciuta, molti rancori si erano sopiti, molti desiderî soddisfatti; e se non pochi fra questi beni erano effetto delle cose più che merito suo, i contemporanei, giudicando, come sogliono i più, grossamente dall’effetto, ne serbavano riconoscenza a lui, come egli di tutto fosse l’autore. Non faticava egli da quindici anni a riformare abusi, a far leggi e ad applicarle, a riordinare le provincie, a conchiudere trattati, a raccogliere denari, a domare ribellioni, a ingrandire l’impero? Non più la popolarità tempestosa dei tempi di Cesare, a ventate furibonde, a turbini vorticosi, a oscillazioni violente; ma una benevolenza placida e continua ravvolgeva la persona del primo magistrato della repubblica.

Nato con provvidi Dei, tutor ottimo

del roman sangue, tu indugi il riedere

troppo: al concilio dei padri celere

lo promettesti: affrettati,

ancor la patria, buon duce, illumina:

se, a l’april simile, fulse tua imagine

davanti al popolo, va il dì più amabile

e i soli meglio splendono.

Così Orazio82 salutava allora Augusto, in procinto di ritornare; e descriveva poi l’Italia aspettante lui come il figlio andato lontano; perchè per suo merito

il bove incolume pei campi aggirasi

cui nutre Cerere con l’alma Copia,

sul mar placatosi volano i nauti,

la fè schiva l’infamia;

stupri non macchiano le caste soglie,

il turpe illecito leggi, usi vinsero,

da prole ingenua le madri han gloria,

colpa e pena accompagnansi.

I Parti e i gelidi Sciti darannoci

ansie o chi l’orrida Germania genera,

Cesare incolume? che son le mischie

de la feroce Iberia?

Orazio, che non era nè un adulatore nè un poeta di corte, esprimeva con questi versi quello che sinceramente sentivano le classi medie e popolari di tutta Italia. Lo prova un fatto troppo trascurato dagli storici: che intorno a questo tempo incomincia in Italia ad organizzarsi intorno ad Augusto – sarebbe troppo dire un culto, ma ben si può dire una venerazione popolare, le cui forme ancora prettamente latine pure già contenevano un principio, per quanto tenue, del culto asiatico dei sovrani. Solevano gli schiavi e i clienti da tempo antichissimo giurare per il genio del padrone o del patrono, cioè per quella essenza divina, incorruttibile, immortale della natura umana, ancora confusamente imaginata, che la mitologia latina già poneva a far nel corpo l’ufficio che farà più tardi l’anima. Ora nelle classi inferiori e medie dell’Italia si trasportava questo costume ad Augusto; si giurava nelle occasioni solenni per il suo genio, come se egli fosse il patrono comune di tutti; si incominciava anche ad imitare i pastori della egloga virgiliana, sacrificando in ogni parte d’Italia al genius, al numen di Augusto83. In molte città, come Faleri84, come Cosa85, come Nepi86, come Nola87, come Pesto88, come Grumento89, si formavano dei collegi di augustales, simili ai collegi mercuriales, ai collegi herculanii: associazioni cioè i cui membri si proponevano di assicurare la ripetizione periodica di questi modesti sacrifici. Pisa aveva forse già in questo tempo un Augusteum90; e Benevento certo un Cesareum91. In ogni parte di Italia lo zelo pio delle popolazioni contente della pace erigeva arae di Augusto92, a Roma come nelle colonie da lui fondate, come nei municipî che avevano origini e tradizioni diverse; altri mettevano una statuetta di lui tra le imagini degli dèi Lari, accanto al focolare, come a invocare la protezione sua, insieme con quella degli antichissimi dèi tutelari della casa, sulla famiglia e sulla prole. Pur nell’ode scritta per il ritorno, Orazio dice:

Ciascun ne’ propri colli il dì compie

e a l’alber vedovo la vita accoppia,

indi al vin ilare torna, ed aggiungeti,

chiudendo il pasto, ai superi;

con prece fervida te, da le patere

libando, seguita, fra i Lari mescola

te, come fecero i Grai, di Castore

memori e del grand’Ercole93.

Statuette di Augusto erano già poste, in Roma, nelle cappellette dei Lari compitali, che ogni quartiere manteneva in un quadrivio e che il popolino di tutte le classi venerava di fervida devozione94.

Non bisogna naturalmente pensare che il contadino, che l’artigiano, che il mercante imaginassero Augusto trasumanato in un vero Dio, dotato di poteri soprannaturali, o che gli domandassero le grazie, dal pio cattolico chieste oggi ai santi e alla Vergine. Tutti sapevano che Augusto era un uomo, nato e vivo come gli altri, destinato a morire come tutti. Questo culto era allora soltanto un modo convenzionale di esprimere la massima ammirazione che un uomo potesse professare per un altro uomo; di esprimere, non che si credeva Augusto Dio, ma che si aveva per lui quasi lo stesso rispetto che si tributava agli dèi. Il cristianesimo non aveva ancora così inconciliabilmente opposto l’umano al divino, che sembrasse sacrilegio venerare un uomo singolarmente insigne con i simboli della adorazione religiosa: onde la ammissione di Augusto tra i Lari non significava ancora, dalle Alpi al mare Jonio, se non che la popolarità del presidente cresceva a tal segno, che molti ne volevano riporre l’imagine addirittura nel sacrario della famiglia. Grandi solennità si preparavano infatti per il suo ritorno. Tiberio, che lo aveva preceduto in Italia perchè era stato eletto console per quell’anno, si accingeva a dare al popolo numerosi spettacoli95; Balbo, che aveva finito il suo teatro, deliberava di far coincidere la solenne inaugurazione con l’ingresso di Augusto96; a ricordo delle imprese felicemente compiute negli anni precedenti, il Senato aveva, dopo il suo intorno, deliberato di fare erigere presso il Campo Marzio, lungo la via Flaminia, un grande altare della Pace di Augusto, su cui ogni anno i magistrati, i sacerdoti, le vergini Vestali dovrebbero fare un sacrificio alla Pax Augusta: a significare che la quiete ristabilita nelle provincie europee, che anzi tutto l’ordine regnante nell’impero era opera personale di lui97. Il suo ritorno insomma, sebbene anche questa volta egli si fosse schermito entrando di soppiatto in Roma di notte, era stato festeggiato come una fortuna nazionale, con manifestazioni in parte almeno sincere. La repubblica aveva finalmente un capo universalmente rispettato ed amato.

Tanto più doveva il prudente Augusto sentirsi obbligato ad adoperar questo credito per qualche impresa, che lasciasse di sè un grande ricordo. Non è inverisimile che, oltre le faccende galliche, la situazione interna lo sospingesse ad osare cose nuove e più ardite. Destreggiandosi abilmente tra i diversi partiti e gli opposti interessi, Augusto era riuscito a ricomporre un certo ordine nell’impero. Ma troppi segni mostravano già che la naturale inclinazione delle cose finirebbe in nuove discordie, e la faticosa altalena delle concessioni in una precipitosa e romorosa caduta, se non si tentava di occupare lo spirito pubblico e le forze dello Stato in qualche grande impresa nazionale. A non considerar che la lista dei consoli, si sarebbe detto che la restaurazione aristocratica, iniziata da Augusto, era pienamente riuscita. In quell’anno, insieme con Tiberio, con un Claudio cioè, era console Publio Quintilio Varo: il figlio di un patrizio uccisosi dopo Filippi; uno dei tanti nobili di antico lignaggio, che il favore di Augusto e l’arcaismo in voga innalzavano ancora giovani alle supreme magistrature. Varo, che non possedeva una fortuna cospicua98, era già console, sebbene non potesse aver più di trentacinque anni99. In verità invece la costituzione aristocratica, così faticosamente restaurata nel precedente quindicennio, già ricominciava ad essere disgregata dallo spirito nuovo di una parte della generazione, che ai tempi della battaglia di Azio era ancora fanciulla. Avveniva allora quel grande fatto che si ripete in tutte le nazioni, le quali ad un certo momento furono colpite da qualche grave e tragico evento; che cioè, circa trenta anni dopo l’evento, l’equilibrio dello spirito pubblico si rompe a un tratto, per un mutamento subitaneo, di cui non si scorge la causa, ma la cui origine deve essere cercata nella generazione nuova, che non ha veduto il tragico evento, e che entra nella vita con disposizioni diverse da quelle che il tragico evento aveva impresse nella generazione più anziana. Anche allora, in Italia, la generazione che aveva vedute le guerre civili incanutiva e si diradava; dappertutto si facevano innanzi i giovani, quanto diversi dai vecchi! Costoro non avevano veduto – spettacolo tremendo – l’impero in procinto di disfarsi; non avevano ricevuto in pieno petto quel colpo che aveva nella generazione precedente esasperata la manìa dell’arcaismo, ricondotto al potere il partito della tradizione, obbligato Augusto, l’antico νεώτερος e rivoluzionario, a governare secondo il programma dei vecchi romani. Nè la vecchia generazione aveva saputo comunicare la terribile impressione alla nuova per il veicolo della tradizione e dell’educazione familiare, perchè i padri non avevano più la forza di plasmare a loro volontà l’anima dei figli: onde la nuova generazione, cresciuta in tempi di pace, di tranquillità, di prosperità aveva vedute susseguirsi rapide le conseguenze di un evento calamitoso, che essa non aveva capito; aveva veduta la generazione precedente tutta intenta a provvedere ad un immenso pericolo, che essa non riusciva a discernere in nessuna parte. Le idee e i sentimenti che avevano dominato nel quindicennio precedente parevano perciò a molti giovani assurdi o per lo meno esagerati. Era proprio vero che la repubblica e l’impero si sfascerebbero, se la nobiltà non desse di nuovo tutta sè medesima allo Stato, alla guerra, alla devozione, alla tradizione? Se le classi superiori non frenassero l’inclinazione al piacere, al lusso, ai diletti spirituali? Ma i tempi erano tranquilli; ma la ricchezza cresceva; ma l’ordine vigeva in ogni parte; ma Roma era di nuovo rispettata e temuta entro i confini dell’impero e fuori; ma Augusto solo bastava a supplire a tutte le manchevolezze, a provvedere a tutti i bisogni, a rimediare a tutti i guai! Come il pericolo, non importa se vero o imaginario, aveva risospinto indietro la vecchia generazione sull’aspra montagna del passato, verso le fonti storiche della vita nazionale, la sicurezza e la prosperità, anche se temerarie, tentavano la nuova a ridiscenderne il corso verso le foci e le pianure dell’avvenire, ridenti, fiorite, giulive, anche se insidiate da sottili miasmi. Una reazione incominciava, fomentata dagli influssi egiziani che acquistavano forza, crescendo la ricchezza, i contatti e i commerci con l’Oriente, a mano a mano che i testimoni di Azio e i contemporanei di Cleopatra sparivano. La setta stoica, vegetariana e puritana dei Sesti, così rigogliosa dieci anni prima, decadeva ora rapidissimamente ed era quasi morta100. Roma, dove le grandi spese del governo e dei ricchi, l’immigrazione degli orientali e sopratutto degli Egiziani, l’incontro di tanti popoli, lo spirito della nuova generazione fomentavano il lusso ed il piacere, non poteva essere una scuola di austerità e di virtù: Roma dimenticava Azio, Cleopatra, Antonio e i propositi di mortificazione fatti in mezzo alla grande crisi rivoluzionaria; Roma voleva godere! C’era nell’aria perfino una reazione contro le leggi sociali di Augusto. Dopo aver sancite pene tanto severe contro l’adulterio, dopo aver scatenata contro gli adulteri tutta la muta delle basse passioni umane, lo spionaggio la delazione il ricatto, il pubblico era stato così nauseato dall’applicazione della legge, dai processi scandalosi e dalle condanne, che aveva ben presto preso a proteggere tutti gli accusati di adulterio. Costoro erano sicuri ormai di trovare tra gli amici e tra i personaggi cospicui dei difensori zelanti, che mettevano a loro disposizione tutto il credito proprio; di comparire innanzi a giurati predisposti alla benevolenza; di dover combattere contro accusatori, anticipatamente disprezzati dal pubblico come calunniatori101. Si poteva punir con l’esilio perpetuo e con la confisca dei beni un delitto così facile a commettere? Precipiterebbe proprio Roma dal fastigio della sua grandezza, se qualche pronipote di Lucrezia non avesse ereditata con la bellezza la virtù dell’ava lontana? Non è impossibile che la lex de maritandis ordinibus avesse accresciuti i maritaggi nelle alte classi, perchè i tempi, questa volta, aiutavano. I giovani non dovevano più rifuggir tanto dall’ammogliarsi e dal generare uno o due figli, ora che più facilmente si trovava una sposa con una dote cospicua e sicura, che non era solo promessa, ma anche e puntualmente pagata. Tuttavia la disposizione che escludeva i celibi e le donne nubili dagli spettacoli pubblici sembrava a tutti troppo dura; e cresceva ogni dì la difficoltà di applicare la legge, perchè troppo l’opinione pubblica indulgeva ai tentativi di violarla102. Invece la restaurazione della costituzione aristocratica e timocratica fatta alcuni anni prima, che avrebbe dovuto rigenerare la repubblica migliorando le scelte dei magistrati e dei senatori, minacciava di estenuarla ancora di più, lasciandola senza magistrati. Non solo le sedute del Senato, non ostante le multe minacciate agli assenti, erano sempre più deserte e svogliate, cosicchè a fatica si raccoglieva ogni volta il numero legale103: ma Augusto stentava perfino come censore a ricolmare i vuoti fatti nel Senato dalla morte. Si vedevano – inaudita novità! – dei giovani schermirsi dal ricevere il massimo onore che un uomo vivente, entro i confini dell’immenso impero, potesse ambire104. Anche per certe magistrature più numerose, come il vigintivirato e il tribunato, non si trovavano più candidati sufficienti ogni anno; cosicchè il Senato era già stato costretto, durante l’assenza di Augusto, a provvedere con dei ripieghi105. Si escludevano insomma dal governo le classi bisognose, perchè se ne temeva la ambizione vorace e il brutale arrivismo; ma le classi ricche rifiutavano nel tempo stesso di sobbarcarsi all’onorifico peso delle magistrature; cosicchè tra le une e le altre la repubblica restava in asso, senza magistrati. La forza delle cose poteva più che le riforme teoriche: la tradizione politica e militare della aristocrazia romana si perdeva; i giovani si sbandavano a cercar fuori della politica e della guerra altri impieghi delle loro facoltà; anche i progressi della cultura contribuivano a indebolire lo Stato. C’erano ormai troppi poeti, nelle alte classi di Roma; e quindi scarseggiavano i grandi generali e gli amministratori sapienti. Scribimus indocti doctique poemata passim, dirà tra poco Orazio106. Perfino il figlio di Antonio, Julo, che Augusto aveva allevato e che in quell’anno era pretore, civettava con le Muse; e imitando Virgilio, componeva niente meno che un poema epico su Diomede, in dodici libri107.

Insomma, se alcuni giovani, come Tiberio, seguivano nelle vie della tradizione la vecchia generazione, i più inclinavano in diversa parte. L’unità morale, in apparenza ricostituita dalle guerre civili, si rompeva nuovamente. Spirava tra i giovani uno spirito di facilità, di piacere, di eleganza, di frivolezza, di novità che un giovane poeta peligno incominciava intorno a questo tempo ad articolare in versi leggiadri; un giovane poeta, di cui partendo da Roma Augusto aveva forse appena udito il nome, e che ritrovava al ritorno celebre e in voga. Era costui Publio Ovidio Nasone. Aveva trenta anni, un anno cioè più di Tiberio, essendo nato a Sulmona nel 43 a. C.108; discendeva da una agiata famiglia equestre109; era il figlio di un ricco possidente peligno, un vero italico di antico stampo, nemico delle lettere, da lui definite inutile studium110, che, seguendo la voga tradizionalista del tempo, voleva contribuire anch’egli alla grande restaurazione romana iniziata da Augusto. Difatti aveva fatto studiare al figlio diritto ed eloquenza, lo aveva maritato giovanissimo111, e intendeva avviarlo alla carriera politica, per far di lui un magistrato e un senatore che rinforzasse la troppo diradata aristocrazia politica di Roma. Ma il giovane aveva pervicacemente frustrati tutti gli sforzi del padre. Dotato di fine gusto letterario, di imaginazione mobile e viva sebbene superficiale, di una meravigliosa agilità e facilità d’ingegno e di una innata, quasi prodigiosa maestrìa nel verseggiare, Ovidio non aveva studiato il diritto, ma la poesia; si era ammogliato, ma si era affrettato a far divorzio; si era riammogliato per fare un secondo divorzio112; era stato triumvir capitalis113 e decemvir litibus judicandis114: ma mossi appena i primi passi nella carriera politica, si era ribellato all’autorità paterna, alla tradizione, alle esortazioni di Augusto; e rinunciando senza rammarico al laticlavio, era ritornato frettolosamente indietro in traccia delle sue Muse dilette. Aveva infatti da poco pubblicato il primo volume di poesie, in cinque libri, gli Amores115, in cui aveva profusa la copiosissima vena del suo estro. Dopo la perfezione laboriosa e uniforme, la squisita tenerezza, la nobiltà ideale di Virgilio; dopo la perfezione laboriosissima e molteplice, la profondità filosofica, la contradizione e l’ironia tormentosa di Orazio, una forza nuova irrompeva con il giovane scrittore nella letteratura latina, una forza in cui i tempi suoi si rispecchiavano, come il grande cielo immoto si rispecchia in un corso d’acqua che fluisce fra due sponde chiuse: il genio della facilità. Tutto – la materia e la forma – era facile in questa poesia; nulla era sciatto e volgare. Ovidio aveva voluto schivare così la faticosa e solenne monotonia dell’esametro, usato da Virgilio, come la difficile varietà dei metri oraziani; tenendosi nel mezzo alla più semplice alterna cadenza del distico elegiaco. E alternando esametri a pentametri, con misurata ed elegante facilità, egli aveva trattata una materia non grave, scevra di filosofia, di morale, di preoccupazioni politiche e sociali: aveva, mescolando motivi convenzionali e fatti veri, ricordi letterari e ricordi personali, descritta la vita galante delle alte classi di Roma, intorno ad una eroina di nome Corinna, che avrebbe dovuto essere la sua amante. Esistè davvero l’originale, nascosto sotto il bel nome greco? Quante delle avventure raccontate in prima persona da Ovidio sono vere, quante imaginate per finzione letteraria? Sarebbe difficile dirlo, anche perchè le descrizioni sono tutte così vive e briose, da illudere che tutte siano vere. Ma vere o imaginate, il significato dell’opera non muta; e per comprenderlo, bisogna tener presente che il libro fu scritto, pubblicato, letto, ammirato; che fece celebre il nome dell’autor suo pochi anni dopo che Augusto aveva fatta approvare la lex de maritandis ordinibus e la lex de adulteriis coercendis. Con una elegante disinvoltura, con un brio squisito, senza dirlo, il poeta si fa beffa, da un capo all’altro, di quelle terribili leggi, di tutte le idee e i sentimenti che le avevano preparate, del tradizionalismo e del romanismo allora in tanto onore. Qui per descrivere l’Amore che vince la saggezza e il pudore, egli si compiace di parodiare la descrizione di una delle più solenni cerimonie del militarismo romano, il trionfo dei guerrieri vittoriosi116; altrove dice che Marte si è trasportato ai confini, e interpretando in certo suo modo ironico la leggenda di Enea, il soggetto del grande poema religioso di Virgilio, afferma che, poichè Roma fu fondata da Enea, il quale era figlio di Venere, Roma deve essere la città di Venere e dell’Amore117; altrove fa, tra la milizia e l’amore, un impertinente confronto che doveva far fremere di sdegno Tiberio:

Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido118.

Corteggiare le belle signore a Roma, è cosa dunque così degna di lode come combattere sul Reno i Germani!

Ergo desidiam quicumque vocabat amorem
Desinat119.

Descrive altrove il poeta un incontro con la sua amante ad un pranzo, dove essa viene con il marito120; racconta con molta franchezza un convegno d’amore in un caldo pomeriggio di estate, dal momento in cui Corinna entra furtiva nella stanza semioscura sino al momento in cui lassi requievimus ambo121; si dispera per aver dato alla sua bella in un momento di ira uno schiaffo122; enumera i tormenti di una lunga e inutile attesa, di notte, alle porte della amata123; protesta a più riprese virulentemente contro le belle signore, il cui cuore non batte gratuitamente124; o si perde in voluttuose descrizioni dei capelli della sua bella125. Di non aver ambito “i polverulenti guiderdoni” della milizia, di non aver studiato il diritto, per cercare invece la gloria immortale dei Carmi, apertamente si vanta il poeta, affermando che la gloria dei Carmi è più nobile e duratura che tutte le altre126; ma confessa che la poesia epica, che il genere di Virgilio è carico troppo grave per le sue membra; che egli preferisce poetar d’amore127. “Non voglio – egli esclama – scusare i miei dissoluti costumi.... Io confesso128”. “Cingete la mia fronte, lauri trionfali. Ho vinto! Ecco stringo tra le mie braccia quella Corinna, che tanti nemici, un marito, un guardiano, una solida porta custodivano....129”. E la lex Julia de adulteriis? Il poeta se ne cura sì poco che probabilmente, sotto il pretesto di pigliarsela contro un marito troppo geloso, il poeta osava scrivere una coperta invettiva contro la legge. Legga il lettore la elegia quarta del libro terzo, e giudichi se, tra le discussioni sui vantaggi e gli inconvenienti della lex de adulteriis di cui erano cagione gli scandalosi processi, i contemporanei non dovevano intendere il marito che vuol costringere la moglie ad esser fedele come una personificazione della terribile legge. Scherza così la fantasia del poeta con vive, colorite, briose descrizioni, che noi leggiamo sorridendo e non senza diletto anche oggi; senonchè nel tempo in cui le poesie furono composte, ognuno di questi scherzi era un reato. L’adulterio, di cui Ovidio scriveva con tanto brio il poema galante, avrebbe dovuto esser punito con l’esilio e la confisca; onde l’opera sua era un saggio audace di letteratura sovversiva, che minava la restaurazione dello Stato intrapresa da Augusto.

Eppure Ovidio aveva scritto il poema e l’alta società l’ammirava: luminosa conferma del fatto già intravisto nelle pagine di Dione; e cioè che lo spirito pubblico inclinava ora all’indulgenza e alla tolleranza. Se il partito dei tradizionalisti avesse tenuto il campo, come negli anni precedenti, Ovidio non avrebbe osato scrivere quel libro, subito dopo la promulgazione delle leggi e quasi a loro commento; e gli altri non avrebbero osato ammirarlo. Ovidio invece era ricevuto in quasi tutte le grandi case di Roma: in quella di Messala Corvino, che lo incoraggiava agli studi130; in quella dei Fabi131; in quella dei Pomponi132: è difficile dire se già fosse ammesso nella casa di Augusto. Appariva insomma per molti segni che la aristocrazia romana, dopo essere miracolosamente scampata nelle guerre civili allo sterminio totale, quando avrebbe avuto mezzo di ritirarsi su dalla rovina in cui era caduta, di rifarsi e di ricostituirsi, inclinava invece a lasciarsi morire, per una specie di lento suicidio, nell’indolenza, nell’intellettualismo, nella voluttà. Ovidio personificava queste tre forze, che ricominciavano ad agire nella nuova generazione, a mano a mano che l’impressione delle guerre civili svaniva dai tempi pacificati, che gli influssi egiziani acquistavano forza. Ma di fronte a questa dissoluzione ricominciante, Augusto non poteva non sentire l’urgenza di por mano a qualche rimedio più efficace e più vitale, che le leggi e i discorsi. A un romano, il cui spirito era pieno di idee tradizionali, nessun rimedio doveva parere più efficace, che una ripresa della politica di espansione. La aristocrazia romana aveva naturalmente conservate tutte le qualità intellettuali e morali, che si tentava ora di ravvivare artificialmente, sinchè aveva avuto per le mani un compito, la espansione diplomatica e militare, in cui adoperarle. Chiusa nelle sue tradizioni come in una armatura di guerra, essa aveva resistito a tutte le forze innovatrici e dissolvitrici, sinchè aveva dovuto guerreggiare. Ma l’armatura si sfasciava sul suo corpo e le cascava di dosso, ora che non era più necessaria. La pace definitiva, la fine dell’espansione, rendendole inutili, atrofizzavano le energie storiche della nobiltà. Quindi ora che, riconciliati in una certa misura gli ordini sociali, restaurate alla meglio le finanze, Roma poteva avventurarsi di nuovo in imprese difficili, conveniva intraprenderle, oltre che per consolidare e ingrandire l’impero, per disciplina interiore. Augusto insomma, dopo quindici anni di pace, si convertiva, come oggi diremmo, in un militarista; un militarista temperato e ragionevole, naturalmente, come egli soleva essere in ogni cosa. Tra le cagioni per cui la aristocrazia si accasciava neghittosa nella voluttà c’era la pace, che le toglieva ogni occasione di compiere grandi cose; occorreva dunque aprirle nuovi campi di azione e di gloria, affinchè i giovani imparassero a combattere guerre e non solo a comporre poemi, a espugnare città e non solo a edificare ville sul mare. Le campagne di Germania sarebbero una cura eccellente della mollezza che snervava la nuova generazione; il più efficace antidoto contro il veleno erotico, che Ovidio diffondeva nella giovane nobiltà con la sua poesia. Non si dimentichi mai che alla fine delle guerre civili era stato necessario procedere a una restaurazione aristocratica dello Stato, sopratutto perchè la costituzione aristocratica faceva parte integrante dell’ordinamento militare. Per durare, l’impero aveva bisogno di un esercito; e dove, se non nell’aristocrazia, si potevano cercare gli ufficiali e i generali? La scuola di guerra dove questi si preparavano, mancando istituti di istruzione militare, era la famiglia aristocratica: se la aristocrazia si esauriva, l’esercito sarebbe decapitato. Non è strano quindi che Augusto, incaricato dall’Italia di conservare la vecchia nobiltà come il massimo presidio militare dell’impero, si sia detto, a un certo punto, che la pace alla fine la impoltrirebbe troppo, che per conservarla capace del suo ufficio storico bisognava anche farla combattere, sopratutto quando i molti poeti, come Ovidio, la invitavano all’amore e alla voluttà.

Difatti, non appena fu giunto in Roma, Augusto si diè, tra minori faccende, a preparare nel tempo stesso la invasione della Germania e a combattere vigorosamente la incipiente nuova dissoluzione della costituzione aristocratica. Incominciò a dare un esempio di ossequio alla costituzione, rendendo conto minutamente al Senato di quanto aveva fatto durante la assenza133. Poi propose – non è ben chiaro se al Senato o ai comizi – una riforma militare, con cui soddisfaceva parecchie richieste dei soldati, per animare le legioni alle nuove imminenti fatiche. La legge precisava alcune delle principali condizioni del servizio, che regolate sino ad allora da consuetudini troppo incerte, avevano lasciato arbitro il governo di abusare degli anni e delle fatiche dei soldati a piacere: in special modo il tempo del servizio, che era definitivamente stabilito a 16 anni per i legionari, a 12 per i pretoriani; e il premio del congedo, che era stabilito per gli uni e per gli altri in una somma di denaro (non in terre), a noi sconosciuta134. Inaugurò finalmente il teatro incominciato da Cesare, a cui, in memoria del nipote, diede il nome di teatro di Marcello135; ma se con questo pietoso ricordo volle lenire alquanto il dolore della inconsolabile Ottavia, con un altro atto significò di non gradire che l’ammirazione per lui si allargasse anche ai membri della sua famiglia, solo perchè tali, come nelle dinastie asiatiche. Tiberio, nei giuochi dati al popolo per il suo ritorno, aveva fatto sedere accanto a sè, nel luogo riserbato al console. Caio, il figlio di Agrippa e di Giulia adottato da Augusto, che aveva sette anni; e tutto il popolo era sorto in piedi, acclamando con grandissimi applausi. Augusto pubblicamente biasimò Tiberio ed il pubblico136. Non cercò di combattere l’indulgenza dell’opinione pubblica verso gli adulteri, che risparmiava molti scandali e non pochi castighi troppo severi137, perchè egli stesso aveva proposta la lex de adulteriis a malincuore e quasi per forza. Procedè invece a curare con vigore la senile decadenza del Senato, ricorrendo a un rimedio così aspro come il reclutamento forzoso. Riprese le liste dei cavalieri; scelse i giovani che avessero meno di trentacinque anni; ordinò minuziose ricerche sullo stato della loro salute e della loro fortuna, sulla loro capacità e rettitudine, visitandone egli stesso il corpo, raccogliendo testimonianze sulla loro vita e domandando a ciascuno di confermare o di smentire con giuramento le risultanze dell’inchiesta: quelli che gli parvero possedere la salute, la fortuna, la rispettabilità, l’intelligenza necessarie “obbligò a entrare in Senato” – dice lo storico antico138 – probabilmente minacciando di scacciarli anche dall’ordine equestre, se non accettavano. Così procedeva l’uomo a cui gli storici tutti attribuiscono il segreto disegno di voler fondare una monarchia! Allorchè egli aveva soltanto a incrociare le braccia e lasciare aristocrazia e Senato decomporsi da sè, per trovarsi un giorno signore, con la sua famiglia, di Roma, dell’Italia e dell’impero; egli si affaticava invece con tutti i mezzi a rinvigorire la aristocrazia estenuata, a puntellare il Senato cadente; quella aristocrazia e quel Senato, che dovevano essere allora, come sempre, il principale impedimento alla fondazione di una monarchia! Ma Augusto, come tutti i contemporanei, non riusciva nemmeno ad immaginare l’impero decapitato del suo glorioso Senato, orbato della sua grande aristocrazia. Infine, dopochè Agrippa ebbe fatto ritorno, preparò con lui un piano della guerra molto ingegnoso e originale, il cui primo pensiero, probabilmente, apparteneva ad Agrippa: invadere la Germania per le foci dell’Ems e del Weser. Se una invasione della Germania era difficile sopratutto per la mancanza delle vie; se le vie mancando era necessario suddividere i corpi e quindi esporsi alle sorprese e alle imboscate, i grandi fiumi offrivano invece altrettante vie larghe, comode, magnifiche, per le quali grossi eserciti avrebbero potuto penetrar tranquillamente e sicuramente sin nel cuore del territorio nemico, portandosi dietro ogni cosa necessaria – carichi d’armi, provviste di grano139 – Occorreva soltanto costruire un numero di battelli che bastasse. Uscendo per il mare del Nord, due eserciti avrebbero potuto cercare le foci dei due fiumi risalirle, e, giunti nel cuore del territorio nemico comodamente costruire, sull’Ems e sul Weser due accampamenti, dai quali incominciare la conquista dell’interno, nel tempo stesso in cui un corpo passerebbe il Reno dirigendosi verso l’Ems: così avanzando ciascuno a poco a poco, i corpi discesi sull’Ems si sarebbero alla fine incontrati con quelli venuti dal Reno e dal Weser; e avrebbero potuto congiungere con larghe strade munite di castelli il Reno all’Ems, l’Ems al Weser, forse anche il Weser all’Elba; avvolgere intorno al corpo barbaro della Germania la catena di ferro, che l’avrebbe stretta poi per sempre in potere di Roma. Senonchè se, adottando questo piano, non si avventuravano i grossi eserciti troppo a caso in regioni sconosciute, si arrischiavano invece – pericolo meno grave ma non trascurabile – le leggere navi romane sul lungo tratto del tempestoso oceano che va dalle foci del Reno alle foci dell’Ems e del Weser. Per scemar questo pericolo, sembra si pensasse di scavare un breve canale tra il Reno e l’Issel, in modo che dal Reno la flotta romana potesse per questo canale e per l’Issel piegare nello Zuidersee e sboccar nel mare del Nord per il fiume, che allora faceva comunicare quel lago con il mare. Druso ebbe ordine di preparare una flotta e di far scavare dalle legioni il canale.

IV.
“HAEC EST ITALIA DIIS SACRA”.

Augusto impegnava la aristocrazia romana, rinforzata di nuove famiglie, rinsanguata di nuovi patrimonî, ritemprata dallo studio del passato, in una grande impresa diplomatica e militare, simile a quelle tentate con tanta fortuna nei secoli precedenti. Quanta storia dipendeva da questa impresa! La aristocrazia romana aveva per secoli accresciuto il prestigio, le ricchezze, la potenza con la abile diplomazia e con le guerre fortunate, che avevano asserviti, sfruttati, distrutti tanti regni e tanti Stati. Per secoli aveva dominata Roma, l’Italia, il bacino mediterraneo, dilatando i confini dell’impero, con una politica sempre, se non savia, almen fortunata. Sarebbe essa ancora capace di far della Gallia e della Germania una nuova colonna del suo potere, un nuovo strumento di gloria e di forza, come già della Macedonia, dell’Asia Minore, della Siria e delle altre grandi provincie? La prova novella che incominciava sarebbe decisiva; perchè di fronte alla aristocrazia che era l’organo della espansione continuata, si ringagliardiva rapidamente in Italia un’altra classe, che tendeva invece all’elaborazione interiore, a riordinare cioè, a sfruttare, a riplasmare in nuove forme l’impero conquistato, con tutte le forze con cui l’uomo agisce sulla materia e sullo spirito: dal commercio alla religione, dalla industria all’amministrazione. La classe media dei possidenti, dei mercanti, degli intellettuali, che si formava da un secolo in Italia tra tante crisi, compieva definitivamente da un capo all’altro della penisola il moto incominciato al tempo dei Gracchi, e cresceva da quindici anni rapidamente di numero, di cultura, di ricchezza; da ogni parte scaturivano idee, sentimenti, interessi, che l’aristocrazia non riusciva più a incanalare o ad arginare a suo talento. La aristocrazia riesciva ancora, e grazie alla larga protezione di cui Augusto, Mecenate, Agrippa avevano dato l’esempio, a signoreggiare l’intellettualità ornamentale, la poesia, la storia, la filosofia. Tra i giovani appartenenti a famiglie di modesta fortuna, che avevano studiato durante la rivoluzione e che volevano esercitare la professione di scrittore o di filosofo, nessuno sentiva più gli scrupoli che Orazio si era industriato di combattere nelle sue epistole; anzi il numero di coloro che aspiravano alla protezione di Augusto o di qualche grande personaggio cresceva anche troppo; cosicchè non solo Augusto, ma tutti i ricchi signori i quali potevano ospitare e nutrire letterati ed eruditi si trasfiguravano agli occhi della intellettualità povera in semidei degni quasi di venerazione religiosa140. Augusto anzi diventava senza volere l’arbitro delle lettere, perchè tutti, solleciti di ingraziarselo, cercavano di indovinare i suoi gusti e di scrivere le cose che più gli sarebbero piaciute. Per esempio: siccome Augusto era sempre fisso nel pensiero di creare un teatro nazionale, scrivevano tutti dei drammi o studiavano l’estetica della tragedia e della commedia141. Senonchè se la lirica e la dramatica, che servono poco a dominare, restavano in piena balìa della nobiltà, due altri studî, ben più importanti come strumenti di dominazione, cadevano, in parte almeno, in potere degli intellettuali del medio ceto, che li rinnovavano e se ne servivano in parte contro la aristocrazia: l’eloquenza e la giurisprudenza. Augusto aveva rinnovata, come dicemmo, la lex Cintia, che era una delle leggi fondamentali del regime aristocratico; perchè, togliendo i compensi ai patroni forensi, faceva dell’assistenza legale un dovere civico e un monopolio delle classi ricche, uccideva nel germe il ceto degli avvocati di mestiere, viventi nelle classi medie di bugie e di cavilli, che sarebbe poi diventata una peste esiziale dell’ordine sociale. Senonchè il numero delle controversie cresceva come la farragine delle leggi, mentre la nobiltà si diradava ed era distratta da molte occupazioni; per difendere cause o per respondere, cavere, scribere (eran questi gli uffici del giurista) non bastava più, come in antico, conoscere quattro regolette di giure, erano ormai necessari studi lunghi e non facili, una preparazione faticosa e speciale; molti giovani imitavano Ovidio, e si davano a studi più geniali che la giurisprudenza142. Insomma la aristocrazia romana che, così stanca, doveva governare il mondo, non poteva anche studiare, discutere e giudicare tutti i processi d’Italia. Perciò molti erano costretti a servirsi degli avvocati di mestiere, che peroravano le cause per denaro e che la lex Cintia non riusciva a sradicare dall’Italia, perchè ogni litigante alle prese con un processo preferiva avere un avvocato mercenario, che restar privo di un patrono disinteressato143. C’era inoltre un inconveniente diverso ma non meno grave. Augusto andava tanto innanzi alla nobiltà tutta per fama, per ricchezza e prestigio, che un infinito numero di persone si rivolgevano a lui, sia per i consulti, sia per l’assistenza legale: tutti i suoi veterani, tutti i suoi coloni, tutti coloro i quali, avendone messa l’imagine tra gli dèi lari, credevano di aver diritto di ricorrere a lui per ogni cosa, come alla provvidenza universale. Augusto, che non poteva bastare a tante richieste, che non voleva aver l’aria di usurpare uno dei privilegi più antichi della nobiltà, che non era così versato nel diritto da poter rispondere a tutte le domande rivoltegli, aveva imaginato un compromesso ingegnoso, incaricando un certo numero di giuristi provetti – senatori verisimilmente – di respondere o dare parere in sua vece, a quanti si rivolgerebbero a lui per una questione di diritto144. Cosicchè tra gli avvocati di professione e l’autorità soverchiante di Augusto, l’aristocrazia, già svogliata e distratta, lasciava sgusciarsi di mano anche questo potente arnese di dominazione. Senza dubbio essa numerava ancora nelle sue fila dei grandi giuristi e dei grandi oratori: tra i giuristi, il maggior lume di scienza e di rettitudine del tempo, Marco Antistio Labeone; tra gli oratori, parecchie delle più copiose ed eleganti facondie; oltre Messala e Asinio Pollione, già anziani, Lucio Arrunzio, Quinto Aterio, Paolo Fabio Massimo, che si preparava a concorrere al consolato per l’anno 11; i due figli di Messala, che seguivano le orme del padre; Tiberio stesso. Ma Labeone, se era il più integro, il più sapiente, il più rispettato tra i giuristi del tempo suo, non era il più influente. Troppo rigido, troppo fermo nei suoi principî classicamente aristocratici, egli si ostinava a non riconoscere il nuovo indirizzo troppo rivoluzionario della legislazione di Augusto, sino a rifiutar di porre, non ostante le sollecitazioni del princeps, la candidatura al Consolato145; amava più la scienza pura e gli studî che la assistenza pratica dei clienti, passando persino sei mesi all’anno in campagna146, a comporre quella insigne biblioteca giuridica di più che 400 opere, che doveva eternare il suo nome147. Cosicchè per ogni questione di diritto, come già per la compilazione delle leggi sociali, Augusto non si consultava con lui, ma con Ateio Capitone, quel figlio di un centurione di Silla che, pur meno dotto e meno insigne di Labeone, cercava di adattare la tradizione alle necessità dei tempi. Insomma il rispetto e il potere si dividevano, come avviene sempre quando una aristocrazia si indebolisce; e il giureconsulto della nobiltà si pigliava il rispetto, quello della borghesia il potere. Nel fôro invece la nuova e rigorosa applicazione della lex Cintia obbligava, sì, la nobiltà a difendere gratuitamente in tribunale la classe media e povera; ma non assicurava più ai grandi quello che doveva essere il compenso maggiore del patrocinio gratuito: il privilegio di accusarsi e difendersi soltanto e sempre tra pari. Parte per sfogare i rancori e le invidie fermentate dalle loro discordie, parte per ridare davvero un po’ di forza alle leggi, le classi alte avevano troppo incoraggiate, nel quindicennio precedente, le accuse contro i loro membri; ed ormai pullulavano dalle classi medie gli oscuri e ambiziosi arrivisti, che con arte oratoria nuova ritorcevano contro la nobiltà, facendone arma di persecuzione, il principio della eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Il creatore e il maestro di questa nuova eloquenza era un certo Cassio Severo, che intorno a questo tempo aveva poco più di trenta anni148. Di bassa origine149, intelligente, eloquente, ambiziosissimo, egli aveva pensato, poichè non potrebbe guadagnare denaro difendendo gratis i poveri, di guadagnarne accusando i ricchi, facendosi pagare per desistere o prendendo, secondo la legge, la parte dei beni dei condannati, che spettava all’accusatore150. Ogni qualvolta c’era da sostenere una clamorosa e scandalosa accusa contro un ricco per la lex de adulteriis per altra legge – una di quelle accuse, a cui si rifiutavano di solito i grandi oratori della nobiltà, per amicizia, per riguardo, per decenza, egli pronto l’assumeva; e fosse seria o fantastica, avesse fondamento di verità o nascesse da chiacchiere sciocche, egli la sosteneva con eguale furore, sfruttando senza scrupolo i rancori e i pregiudizî della classe media contro l’aristocrazia151. Roma, avvezza a veder fluire i limpidi ruscelli della classica oratoria aristocratica – atticamente lucida, precisa, ragionatrice, non di rado anzi troppo fredda – non aveva ancora visto prorompere dal suo suolo antico un tal torrente di fango vulcanico, denso, giallo, bollente e solforoso152. Ai documenti Cassio aveva sostituite le ingiurie ed i lazzi, al ragionamento le invenzioni strampalate, le calunnie inverosimili, le descrizioni, le tirate, il disordine dei particolari impressionanti: tutto ciò che può sbalordire le menti grosse cui il ragionare è difficile153. Immaginate oggi il contrasto tra il giornale serio, bene scritto, che ragiona, che non ingiuria, che non conta favole, che non fa scandali, e l’ignobile giornalaccio che con gli scandali, i titoloni, le clamorose menzogne lusinga e sfrutta le più basse passioni delle classi più numerose, per raccattare i soldi nel fango.... Eppure – segno terribile di debolezza – la aristocrazia, in apparenza signora dell’impero, del Senato, delle magistrature, non aveva saputo ammazzare questo cane rabbioso: tutti lo temevano, molti cercavano di imitarne il latrato, e gli accusati da lui non trovavan facilmente tra gli amici chi volesse o sapesse tenere testa al terribile ricattatore. Pur troppo la turpe eloquenza di Cassio soddisfaceva a un bisogno delle masse: e precisamente leniva quel malanimo, nascente dal sospettare continuo che la nobiltà facesse sempre piegar la bilancia della giustizia dalla sua parte, non con la forza delle ragioni, ma con il privilegio della grandezza. Questo sospetto intimidiva e sgomentava tanto quella aristocrazia infiacchita, che, pur di non aver troppe noie e brighe, molti preferivano di immolare ogni tanto al risentimento popolare qualche membro della propria classe. Cassio Severo non era forse un grande oratore? Ammirando l’oratore, molti si scusavano con sè medesimi di tollerare il furfante. Cassio Severo insomma intimidiva tutti, persino Augusto, che si trovava spesso impacciato assai da quel sospetto pubblico, sopratutto nei processi clamorosi: perchè rifiutando l’assistenza legale ai suoi amici avrebbe mancato ad un sacro dovere; concedendola, mutava troppo, a vantaggio della parte da lui difesa, le condizioni del duello giudiziario. L’intervento di Augusto come patrono di una parte, nelle cause, prendeva facilmente colore di sopraffazione ad un pubblico educato da Cassio Severo, che voleva ogni tanto condannato qualche uomo illustre, anche se innocente, per compensare i molti, assolti rei. Onde la necessità di mille ripieghi, per schermirsi154.

Anche la eloquenza di Cassio Severo è una prova del crescente infiacchimento della aristocrazia romana. Una aristocrazia forte non si sarebbe lasciata vituperare a quel modo. Discorde, neghittosa, troppo letterata, più amante del comodo proprio che gelosa del suo prestigio, questa nobiltà non osava invece affrontare in Roma, nella sede antica della sua potenza e della sua gloria, Cassio Severo. Tanto più urgeva dunque che essa cercasse di attingere forza e prestigio in una grande impresa di diplomazia e di guerra, per opporsi alla classe nuova che sospingeva innanzi Cassio Severo; a quel ceto medio di agiati possidenti e mercanti, che da un secolo mendicava o rubava le terre dei grandi possidenti e dello Stato, saccheggiava templi e tesori in ogni parte dell’impero, coltivava, studiava, commerciava, faceva a volta a volta delle guerre e delle rivoluzioni; e che allora incominciava a raccogliere i primi frutti di tante fatiche e pericoli. La grave difficoltà che aveva tormentati gli agronomi, i politici, gli economisti della generazione precedente, che aveva affaticata negli ultimi anni e tra le rovine della rivoluzione la austera mente di Varrone; la difficoltà di far vivere largamente in ogni città una numerosa borghesia su proprietà di media grandezza, coltivate da coloni e da schiavi; la difficoltà di ristabilire in queste famiglie una più costante proporzione tra le spese e i guadagni, tra il prezzo delle derrate e il costo della coltivazione, si appianava alla fine, parte per l’opera avveduta degli uomini, parte da sè, per la coincidenza di favorevoli circostanze impreviste. Non dappertutto in egual misura, senza dubbio. Anche allora, della nuova età felice godeva più che ogni altra regione l’Italia del Nord, la valle del Po tra l’Appennino e l’Adriatico, la ancor selvaggia Liguria non compresa. Erano passati due secoli dai tempi in cui il primo grande capo del partito democratico, Caio Flaminio, aveva sospinta la aristocrazia riluttante verso la grande pianura che si stendeva ai piedi della sublime cerchia delle Alpi, ubertosa di terre fresche, fitta di immense foreste di querci, stagnante di vaste paludi, bagnata di bei laghi, popolata di villaggi celtici, corsa dai rapidi fiumi che rotolavano nelle sabbie l’oro delle Alpi, traversata dal grande fiume che ai Romani di allora, avvezzi ai piccoli corsi d’acqua dell’Italia centrale, doveva parere un prodigio. Due secoli dopo, se tutte le paludi non erano ancora prosciugate155, se vaste selve coprivano ancora una parte della sua superficie156, i villaggi celti e liguri erano dappertutto spariti nella pianura; restavano soltanto i nomi dei luoghi e dei popoli, come un ricordo; e tutta la valle era tempestata da un capo all’altro di minuscole Rome. Una piccola anima latina pulsava in ciascuna: mirabile trasfusione di lingue, di costumi, di idee, di istituzioni, che Roma aveva compiuta con le guerre, con le rivoluzioni, con le deduzioni di colonie, con la concessione della latinità prima, della cittadinanza poi, stimolando le classi agiate, mano mano che acquistavan ricchezza, a detergere la rusticità indigena, ad assumere nomi e costumi latini, a imparare la lingua di Roma con l’emulazione di entrare a far parte del piccolo Senato municipale, a occupare, per elezione del popolo, le cariche della città, a divenir questori, edili, duumviri o quatuorviri. Cosicchè la trasfusione di Roma nella valle Padana per il veicolo della Lex Pompeia del 89 e della grande legge municipale di Cesare era avvenuta, perchè già da un secolo la naturale evoluzione economica della regione provvedeva la materia, in cui plasmare questi piccoli senati municipali: una borghesia di possidenti abbastanza agiata, abbastanza colta, abbastanza numerosa e volonterosa, da assumersi gli onorifici carichi delle istituzioni municipali. Ma la pace da quindici anni accelerava la fortuna di questa classe, tutte le cause fattrici della prosperità concorrendo ormai nella grande vallata. Non era questa soltanto fertile, ma acconcia a tutte le culture; e nella pianura aveva pingui pascoli, vaste foreste, magnifici campi di grano; e nelle colline e nelle prealpi poteva coltivare tutte le piante arborescenti, dalla vite ai frutti157: ma era solcata in ogni parte da fiumi navigabili – il Po e gli affluenti – per i quali poteva comunicar facilmente con il mare, cioè con il mondo, in quei tempi in cui i trasporti per terra erano così dispendiosi e così lenti158; non aveva a temere le carestie, così funeste nel mondo antico alla prosperità delle regioni, perchè poteva nutrire con un cereale inferiore, ma di raccolto ogni anno sicuro e abbondante, il miglio159, che era il grano turco del tempo antico, una popolazione relativamente densa160 di contadini liberi, di coloni che coltivavano i piccoli poderi proprî o affittavano i terreni dei proprietari maggiori161; una popolazione abbastanza feconda, che possedeva tutte le qualità del Celto, cioè della razza più viva e più duttile di Europa: il valor militare, lo spirito di ardimento, la laboriosità, l’ingegnosità, le attitudini all’industria. Perciò come Cesare e i triumviri avevano trovati tra i Celti già quasi latinizzati della valle del Po i soldati per la guerra di Gallia e per le guerre civili, così ora all’agricoltura e all’industria non scarseggiavano le braccia per coltivare nuove terre, per introdurre nuove arti o perfezionare le antiche. C’era infine un certo capitale. Molti dei metalli preziosi rubati in ogni parte dell’impero durante le guerre civili erano stati trasportati nella valle del Po, sia dai molti Cisalpini partiti poveri per la guerra, e ritornati in patria dopo molti anni con il bottino predato; sia dai veterani delle altre regioni cui erano state distribuite le terre della valle del Po. Ormai, a venti anni di distanza dalla battaglia di Azio, molti di questi capitali erano ritornati nella circolazione, provvedendo a tutta la valle mezzi sufficienti di scambio, rincarando il valore di tutte le cose venali. Fu forse in uno dei viaggi fatti in questi anni, che ad Augusto capitò di essere invitato a pranzo in Bologna da un veterano di Antonio, il quale aveva fatta la campagna di Armenia. Chiacchierando durante il pranzo su i ricordi degli anni tempestosi, venne fatto ad Augusto di domandare al vecchio soldato se fosse vera certa diceria che correva: il soldato, che nel grande saccheggio del tempio della dea Anaitide aveva messe per primo le mani sul simulacro d’oro della dea, essere in quell’istante medesimo acciecato. Il veterano sorrise: l’audace sacrilego era proprio lui, l’ospite! Anzi egli aggiunse che Augusto stava allora “mangiando la coscia della dea”. Il soldato aveva arraffata una gamba d’oro massiccio del simulacro infranto; l’aveva portata in Italia e venduta, comprando poi la casa di Bologna, probabilmente delle terre e degli schiavi, e vivendo precipuamente sui redditi di quel piccolo patrimonio162. Chi sa quanti altri veterani erano tornati dalle guerre d’Oriente, se non tutti con una gamba così divina, con oro rubato qua e là, di cui a poco a poco avevano spesa la maggior parte nella valle del Po! E pur dopo la fine delle guerre civili, l’oro affluiva nella valle fortunata da nuove fonti, per altri rivi. Le guerre che Augusto aveva fatte nelle Alpi o al di là delle Alpi negli anni precedenti, la guerra che egli preparava contro la Germania lo obbligavano a seminare nella valle del Po il denaro faticosamente estorto a tutto l’impero: la costruzione delle grandi strade attraverso le Alpi, il via vai delle legioni o la loro lunga permanenza nella valle del Po, le larghe forniture di guerra aumentavano e alimenterebbero il commercio delle campagne e delle città cisalpine. Così la guerra combattuta ai suoi confini era per la valle del Po una florida industria. Queste guerre inoltre e le grandi catture di uomini che ne erano l’effetto, accrescevano il numero e facevano rinvilire il prezzo degli schiavi sopratutto nella valle del Po, più vicina delle altre regioni ai campi di battaglia. La valle del Po infine, posta in mezzo tra l’Italia Centrale da un lato, la Gallia e le provincie Danubiane dall’altro, poteva con egual comodo portar le sue mercanzie così nelle barbare provincie europee come a Roma.

Concorrevano insomma nella valle del Po tutte le condizioni di un rapido e felice progresso: la terra fertile, le facili comunicazioni, i capitali copiosi, la popolazione densa, alacre, intelligente. Rapidamente infatti la classe media perfezionava le colture e le industrie vecchie e ne introduceva di nuove, allargava i vecchi commerci e ne avviava dei nuovi. Le lane più pregiate in Italia erano ancora quelle di Mileto, della Puglia e della Calabria: ma i possidenti della Cisalpina, incrociando e migliorando le razze, già lavoravano a conquistare il primato con le lane di Aitino, con le lane bianche di Parma e di Modena e con le nere di Pollenzo163. Nelle Alpi conquistate di recente e nell’Appennino ligure, come nei dintorni di Ceva, si cercava di fabbricare dei formaggi, che si potessero esportare anche a Roma164. Dappertutto si piantavano largamente gli alberi da frutta importati dall’Oriente nei decenni precedenti, come il ciliegio di Lucullo165; e par che nella valle del Po si facessero i primi tentativi per acclimatare in Italia il pesco, che probabilmente i veterani di Antonio avevano portato dall’Armenia166. Dappertutto la Cisalpina incominciava nel tempo stesso a ingrassare i porci per nutrire Roma e a fare il vino per inebriare i barbari delle regioni danubiane. Crescendo la ricchezza, cresceva a Roma la ricerca dei porci, di cui precipuamente nel mondo antico si nutriva la plebe; onde se ne facevano venir molti dalla valle del Po, dove c’erano meravigliose, secolari foreste di quercie, capaci di nutrire immense mandre. L’arricchimento di Roma dava incremento anche a questo ramo della agricoltura167. La valle del Po faceva già le più copiose vendemmie d’Italia, aveva i più ricchi mercanti di vino e le botti più voluminose, passate addirittura in proverbio per la smisurata grandezza168. Vino dozzinale e poco famoso, senza dubbio, che era venduto ai barbari delle provincie Danubiane, per la via di Aquileia e di Nauporto: portato in botti per il Po e l’Adriatico ad Aquileia; da Aquileia su carri a Nauporto; da Nauporto per la Sava al Danubio169. Tuttavia anche certi vini dell’Italia del Nord incominciavano a essere ammessi nelle tavole dei ricchi romani, accanto ai famosi vini della Grecia e dell’Italia meridionale. Livia, per esempio, non beveva che un certo vino dell’Istria170. Un’altra fortuna della Cisalpina era il legno di cui, sviluppandosi la navigazione e ampliandosi le città, cresceva la ricerca. Dalle valli alpine gli abeti recisi discendevano per i fiumi lentamente sino al Po, e per il Po prima, poi per il Canale che probabilmente Augusto aveva già fatto scavare, la fossa Augusta, sino a Ravenna, donde erano poi spediti sulle navi in ogni parte, e anche a Roma171. L’ulivo arricchiva specialmente certe regioni, come l’Istria172. Anche il lino era molto coltivato e con grande profitto173. Vecchie industrie, come il ferro a Como174 e la lana a Padova175, rinvigorite, rinnovate, allargavano la loro clientela, specialmente a Roma, dove Padova vendeva in gran numero tappeti e mantelli176; altre da piccoli principî rapidamente crescevano, come la ceramica. Pare che nel Polesine si impiantasse una fornace, quella degli Atimeti, le cui lucerne erano vendute anche a Pompei e ad Ercolano177; ad Asti e a Pollenzo178 si fabbricavano dei calici, che un giorno diventerebbero famosi; la fabbrica di Acone, che sembra essere stata nella valle del Po, esportava le sue eleganti ceramiche grigie e giallastre nella Gallia transalpina e nelle provincie Danubiane179; quella di Gn. Ateio nella Gallia Narbonese e nella Transalpina. Ma non è ben sicuro che questa fosse una fabbrica cisalpina180.

Infine le città poste lungo la via Emilia, Torino a sommo del Po navigabile, Ticino, la moderna Pavia, e Verona traevano lucri crescenti dal via vai del commercio: più di tutte Aquileia, a cui faceva capo tutto il commercio con le regioni Danubiane181.

Imprese, miglioramenti, commerci che si potevano tentare con piccoli capitali; e i cui lucri cospicui accrescevano l’agiatezza della borghesia media in tutta la Cisalpina. Invece nell’Italia centrale la terra meno fertile, il suolo più montuoso, i fiumi più piccoli e meno facilmente navigabili, la popolazione meno densa e meno abile, il maggior pericolo delle carestie, la lontananza dalle grandi provincie barbare, la concorrenza della Valle del Po sul mercato di Roma erano solo in parte compensate dalla maggior vicinanza della metropoli. La grande possidenza assenteista era qui più considerevole, meno prospera e meno numerosa la classe media. Troppo fuori di mano182, il Piceno viveva sopratutto sui frutti del territorio ferace183. Dai boschi traeva guadagni considerevoli l’Etruria184, come dalle famose miniere di ferro dell’Elba185 e dalle fabbriche di ceramiche aretine, antiche di secoli. La conquista della Gallia aveva loro procurati nuovi clienti, i ricchi signori Galli desiderosi di romanizzare perfino la suppellettile domestica186. Anche le cave di marmo nei monti sopra Luni – le cave di Carrara – ricominciavano ad essere sfruttate, perchè Roma e le altre città d’Italia cercavano marmo, e quello di Luni, lucido e bello come il marmo greco, era meno lontano e per la vicinanza del mare poteva esser facilmente portato via187. Ma poi, a mano a mano che si scendeva verso l’Italia meridionale, i grandi boschi, i grandi pascoli, i grandi armenti posseduti da pochi milionari diradavano la popolazione, immiserivano le città, quasi rarefacevano l’aria alla borghesia media. Oasi meravigliosa la Campania e le terre circostanti, ferace di vini e di olio, ricca di commerci e di industrie. Qui Pozzuoli risuonava con le mille botteghe dei suoi abili fabbri188; qui i due vini più celebri dell’Italia, il Cecubo e il Falerno, invecchiavano nelle anfore; qui costruivano le ville più sontuose i ricchi di Roma; qui il grande golfo, con le fiorenti città, Pompei, Ercolano, Napoli, Pozzuoli, apriva le larghe braccia ospitali verso l’Oriente e verso l’Egitto: qui mercanti venuti da ogni parte – siriaci, egiziani, ebrei, greci, latini – arricchivano sul commercio tra Roma e l’Oriente, specialmente sul commercio con l’Egitto189, con la Spagna190; e si fabbricavano le belle case di stile alessandrino, che si sono ritrovate a Pompei.... Qua e là alcune altre oasi più piccole, le città inghirlandate di uliveti o di vigneti come Venafro191, come Venosa192; le città che, come Brindisi, avevano qualche industria tradizionale o qualche risorsa commerciale193. Ma in tutto il resto, a destra e a sinistra della sola via frequentata, la Appia, la solitudine del latifondo coltivato da pochi schiavi; i grandi boschi solitari per mancanza di strade; degli avanzi abbandonati dell’ager publicus di Roma che nessuno voleva; delle città anticamente fiorenti, semi deserte e cadenti194. Meno ingenui dei moderni, gli antichi non si erano fatte sulla Italia meridionale tante illusioni, in cui si beano tanti italiani del ventesimo secolo e che Giustino Fortunato si è affaticato invano a dissipare: essi avevano capito che, se la Valle del Po è un magnifico pezzo della crosta terrestre, l’Italia meridionale valeva assai meno, anche se non era ancora desolata dal terribile flagello della malaria. Difatti essa non si era più riavuta dalle devastazioni dei secoli precedenti. Posta fuori delle grandi vie di comunicazione, spopolata dai furiosi sterminî precedenti, povera di capitali ed impotente ad accumularne dei nuovi, poco fertile, tranne in qualche regione, male irrigata da pochi e poveri fiumi, irta di ripide montagne, l’Italia meridionale aveva poche industrie e solo qua e là poteva coltivare fruttuosamente la vigna e l’ulivo, perchè non possedeva nè capitali bastevoli, nè braccia numerose, nè facilità di lontano commercio. Onde il maggior lucro suo era ancora, dopo tanti secoli, come ai primordi della storia di Roma, la pastorizia primitiva, simile a quella che ora si fa nel Texas e nelle regioni più barbare degli Stati Uniti; la pastorizia vagante degli immensi armenti belanti e muggenti, che pascolano in ogni stagione sotto il sole e dormono sotto le stelle; e che robusti schiavi conducevano ogni inverno e ogni estate dal monte al piano, dal piano al monte. La aristocrazia romana e un piccolo numero di più oscuri milionari indigeni esercitavano questa pastorizia. Le pelli e le lane erano probabilmente portate a vendere nelle ricche città della Campania ed a Roma: ma se i grandi proprietari ne potevano trarre qualche profitto, questa pastorizia isteriliva, spopolava, impoveriva tutta l’Italia meridionale.

Tale nell’alba incerta di questa età nuova, tra gli ultimi vapori residui delle grandi procelle appena passate, sotto il primo raggio di sole della pax romana, tale appariva l’Italia, unita per la prima volta dalle Alpi al mare Jonio in un solo corpo: strana figura; torso e petto fiorente di giovane donna; ginocchia magre e paralitiche di vecchia inferma. Posta tra l’Italia centrale e le immense provincie transalpine in cui Roma doveva rinascere, la valle del Po portava sul suo dorso le vie dell’avvenire; e su quella, a occupar queste vie, si era posta la parte maggiore e più energica della classe media, quasi di fronte alla nobiltà che raccoglieva in Roma i suoi ultimi avanzi; e che con i suoi beni disseminati in tutto l’impero195, con la varietà dei gusti, la molteplicità crescente delle idee perdeva la coesione e lo spirito di casta, un tempo in lei così forte. Anche per questa ragione l’impresa di Germania, a cui Augusto la invitava, poteva essere di grande momento. Un brillante successo germanico potrebbe rinnovare il prestigio dell’aristocrazia, il cui potere accennava a declinare per tante cagioni: un insuccesso invece, delle nuove e maggiori discordie che quelle guerre fomentassero avrebbero invece, per contrappeso, ingrandita la potenza del ceto medio, cioè la potenza di Augusto e della sua famiglia. Quella venerazione popolare, che si veniva organizzando in Italia intorno ad Augusto, significava qualche cosa di più che la gratitudine per i suoi servigi: significava che la classe media, sollecita solo dei suoi materiali interessi, inquinata di schiavi e di liberti orientali, perdeva rapidamente di vista il Senato e la maestà impersonale del governo repubblicano, per non veder più che la persona del principe: significava cioè che in questa classe già spuntavano le inclinazioni monarchiche per la forza delle cose, per una specie di generazione spontanea, senza che alcuno ne ponesse il seme, anzi contro la volontà di colui che avrebbe potuto raccoglierne il frutto. Che importava a questa gente nuova, ignorante, avida, se laggiù a Roma il Senato a poco a poco moriva, se la aristocrazia si disfaceva, se un uomo e una famiglia acquistavano in questo disfacimento un potere immenso, superiore ai poteri repubblicani? Essa era disposta a riconoscere a quest’uomo il merito di ogni suo bene, purchè la pace e l’ordine non fossero turbati; purchè il vino, l’olio, e la lana si vendessero ogni anno con profitto; purchè essa potesse pavoneggiarsi nel piccolo Senato locale, concorrere alle cariche della sua città, dominare e comparire nel suo municipio. Nella crescente fortuna di questa classe nuova morivano insieme la grande idealità repubblicana, la grande idealità militare, la grande idealità tradizionalista. Che la residua nobiltà si screditi e si faccia più neghittosa, e l’Italia non vedrà più sul Campidoglio che la famiglia di Augusto. Ma Augusto, mentre voleva e doveva promuovere i progressi di questa classe, voleva e doveva cercar di ravvivare quelle morenti idealità: contradizione insolubile e inevitabile, di cui egli, la sua famiglia, il suo governo non dovevano tardare a sentire gli effetti terribili.

V.
L’ARA DI LIONE.

Augusto potè senza difficoltà far prolungare dal Senato per altri cinque anni, a sè e ad Agrippa, i poteri presidenziali196; e alacremente continuò i preparativi della guerra, non sappiamo se adoperando solo i redditi della Gallia, o se pure dei fondi votati dal Senato197. Questi a ogni modo non poterono esser richiesti che con il pretesto di provvedere alla difesa della Gallia198, non essendo probabile che Augusto osasse esporre subito e apertamente il suo piano, avvertendo i Germani di stare all’erta. Nè egli si diè pensiero soltanto di apprestare armi, denari, soldati; ma poichè il buon esito dell’impresa dipendeva in parte dalla fedeltà della aristocrazia gallica, immaginò pure di vincolar questa, prima di avventurarsi in Germania, con un impegno morale, quanto un impegno morale può vincolare degli uomini. Pensò cioè di trapiantare dall’Asia Minore in Gallia il culto di Roma e di Augusto; di raccogliere intorno al tempio delle diete annuali nelle quali i rappresentanti delle sessanta civitates galliche potrebbero comparire, discorrere, brillare, e la provincia tutta riconoscere la propria nuova unità; di ordinare come in Asia un corpo di sacerdoti scelti tutti nella nobiltà gallica dalla dieta, e che in quella costituirebbero una nobiltà più ristretta e più eletta. In Asia Minore questo culto incominciava a render qualche servigio, come simbolo popolare della unità dell’impero, come vincolo ideale delle differenti città tra loro e di tutta la provincia con Roma. Perchè non si potrebbe organizzare il nuovo culto pure in Gallia, dove il druidismo, l’antico culto nazionale, agonizzava? L’Italia, che aveva tollerato questo culto in Asia Minore, che incominciava essa pure ad adoprar simboli religiosi per esprimere la sua ammirazione, non avrebbe certo mormorato se un altare di Roma e di Augusto sorgesse, per esempio, a Lione. Quanto alla Gallia, non era dubbio che essa accoglierebbe volenterosa il nuovo culto, specialmente se l’impresa di Germania volgesse prosperamente. Per le grandi breccie aperte nelle tradizioni celtiche dalla spada di Cesare, non entravano in Gallia soltanto le merci e i costumi e le parole forestiere, ma anche gli Dei; i vecchi numi gallici si confondevano con quelli greci, latini e orientali, che per qualche tratto anche vagamente rassomigliassero loro; la nazione era aperta per cento spiragli ai soffi nuovi, da qualunque parte spirassero.

Senonchè tra la fine del 13 e il principio del 12, mentre Augusto era intento in queste faccende, si annunciò che una grossa rivolta era scoppiata in Pannonia199, e il pontificato massimo, la suprema magistratura religiosa della repubblica, restò dopo 32 anni vacante per la morte di Lepido, l’antico triumviro200. Era. davvero così grave, come si disse, la rivolta pannonica? fu ingrandita ad arte, per giustificare con motivi che tutti potevano capire, una nuova, profonda, gravissima riforma costituzionale, a cui ben più serie ragioni costringevano Augusto? Non solo, appena morto Lepido, il generale consenso aveva indicato Augusto a successore; ma il partito tradizionalista, per il quale la riforma del costume riposava precipuamente sulla religione, e che aveva a più riprese cercato di togliere a Lepido la carica per darla a Augusto, voleva far della sua elezione a pontefice massimo una grande dimostrazione popolare a favore delle idee che Virgilio aveva espresse poeticamente nell’Eneide, contro il rilassamento dei costumi, ricominciato non ostante le leggi dell’anno 18 per colpa della nuova generazione, contro lo spirito empio e dissoluto che da questa irradiava in ogni parte201. Finalmente un pontefice massimo, degno dell’altissimo ufficio, potrebbe procedere a quella riforma della religione, dalla quale soltanto i più credevano potesse prender principio la rigenerazione del costume, sino allora invano tentata! Senonchè questo improvviso fervore religioso disturbava non poco, in quel momento, Augusto, che, pur essendo sollecito di non disgustare il partito puritano, si accingeva a impegnare Roma in una grave impresa di guerra. Non era cosa facile attendere nel tempo stesso alle riforme interne e alle conquiste esteriori! D’altra parte Augusto sapeva di esser fatto più per diventare pontefice massimo in luogo di Lepido, che generalissimo della guerra di Germania. Tutte queste ragioni sembrano aver indotto Augusto a far mutare dal Senato la duplice presidenza sua e di Agrippa in una vera spartizione del potere civile e del potere militare, sino allora confusi in ambedue. Prendendo a pretesto la rivolta della Pannonia – accidente troppo comune, per giustificare novità così grave – tutti i generali comandanti fuori d’Italia furono posti sotto il comando di Agrippa, e quindi tutte le legioni, anche quelle poste nelle provincie di Augusto, passarono agli ordini di lui; il comando degli eserciti fu scisso dal potere proconsolare e propretorio, territorialmente circoscritto; ed un uomo solo ebbe quella suprema e generica autorità sugli eserciti, che storicamente spettava al Senato202. Avendo in sua mano tutte le legioni, Agrippa potrebbe incominciare una impresa, di cui era difficile prevedere i contraccolpi nelle altre provincie europee, inquiete e mezzo in rivolta; e Augusto intanto a Roma procederebbe alla attesa riforma del culto.

Se questa interpretazione del testo antico non è errata, la magistratura suprema, pur conservando intatta di fuori la forma, mutava nella sua essenza. A capo dello Stato stavano ormai, non più due colleghi di egual potere, ma una autorità sola a due faccie: un sacerdote e un soldato. La grave impresa di Germania, che doveva rinvigorire la costituzione aristocratica, costringeva a questi ripieghi, ripugnanti allo spirito di quella costituzione, appunto perchè la nobiltà non bastava più a compierla con le sue sole forze. Insolubile contradizione! Comunque sia, è certo che Agrippa, partito durante l’inverno per la Pannonia, già era sulla via del ritorno in febbraio; sia perchè, come si disse, la notizia della sua partenza aveva miracolosamente quetati i ribelli203; sia perchè si proponesse di andare in Gallia, a primavera, a prendere il comando delle legioni del Reno; e certo è pure che mentre egli viaggiava alla volta di Roma, Augusto fu eletto pontefice massimo, il 6 marzo204. Sebbene Augusto solo fosse candidato, pure il concorso degli elettori, da ogni parte dell’Italia, fu immenso; e la dimostrazione popolare, immaginata dal partito tradizionalista, riuscì pienamente. Se nella società ricca, elegante, colta di Roma lo spirito nuovo di voluttà e di facilità acquistava forza e si divulgava, nelle classi medie il rinato spirito di tradizione e di devozione resisteva più tenace: se troppi non potevano più vivere secondo le norme severe della morale puritana, pochi osavano rifiutare di concorrere a una dimostrazione platonica a favore della religione, che ufficialmente era sempre considerata come la fonte eterna della pace e della prosperità pubblica. Tredici giorni dopo, il 19 marzo, incominciavano le Quinquatrie, le feste di Minerva, che erano le feste dell’intellettualità minuta e dell’artigianato più scelto: le feste dei giovani scolari e dei loro maestri, dei tessitori, dei calzolai, dei fulloni, degli orefici, degli scultori, dei vasai e via dicendo205. Per far cosa gradita anche a queste classi modeste, per accrescere dignità e importanza a quelle che erano, per dir così, le feste della scuola elementare, e in cui i ragazzi dovevano impetrar da Minerva il profitto degli studi, il nuovo pontefice massimo aveva pensato di offrire al popolo dei sollazzi a nome dei suoi due figli adottivi, Caio e Lucio, che incominciavano a studiare: e aveva offerto – ahimè! – anche dei giuochi di gladiatori, poco convenienti in verità al culto della Dea della mente, che aborre dal sangue206. Ma gli artieri di Roma, pur venerando in Minerva la loro protettrice, non avrebbero graditi più nobili passatempi. Quando ecco, in mezzo alle feste, che duravano cinque giorni, giunge ad Augusto la notizia che Agrippa era gravemente ammalato in Campania, durante il viaggio. Augusto lasciò a mezzo le feste; partì subito per la Campania: ma troppo tardi, che, quando giunse, Agrippa era già spirato207, terminando presto, a poco più di cinquanta anni, ma nella ricchezza, nella potenza e nella gloria il corso della vita oscuramente incominciato trentadue anni prima, dopo la morte di Cesare, al seguito di Ottavio, tra i pochi che avevano avuto fiducia, in quel frangente tremendo, nell’astro dei Giulii. Questa volta almeno la fortuna aveva amato il valore; traendo fuori dai marosi di quella tremenda procella questo romano perfetto, già deterso dalla rusticità primitiva, ma non corrotto ancora dalla furfanteria intellettuale, dai vizi, dal denaro; questo oscuro plebeo, che seppe unire le belle virtù della sua stirpe con i pregi della cultura: un intelletto nel tempo stesso forte e plastico, avido di sapere e pratico; una vigorosa elasticità di attitudini; una attività infaticabile; una anima orgogliosa, ma semplice, ferma, sicura e fedele. Generale, ammiraglio, architetto, geografo, scrittore, collezionista di opere d’arte, organizzatore di pubblici servizi, per trentadue anni, senza perdere un istante, Agrippa aveva profuso il suo genio inesauribile in ogni parte, a servizio della sua fazione durante le guerre civili, poi della repubblica e del popolo. Moriva non vecchio, lasciando, oltre i due figli adottati da Augusto, due bambine e Giulia gravida, in regola cioè con la lex Julia de maritandis ordinibus, promulgata dal suocero; lasciando una parte dell’immenso patrimonio ad Augusto, i suoi giardini di Roma e le terme, con delle grandi tenute per provvedere alle spese, al popolo208; lasciando infine – eredità più insigne – i suoi Commentarii, una monumentale raccolta di notizie geografiche e statistiche su ogni provincia, con le quali egli aveva incominciato a far costruire una grande carta dell’impero, che voleva esporre al pubblico. Il destino ne aveva inchiodato il nome severo, per l’eternità, sulla facciata del Pantheon, al centro del mondo, alto sul continuo fluire delle generazioni lungo i fianchi del monumento imperituro: ma non aveva voluto eguagliarlo a Cesare, dandogli tempo di conquistar la Germania.

Piamente Augusto portò a Roma le ceneri dell’amico; diè loro solenne sepoltura; fece un grande discorso in suo onore; distribuì denaro al popolo in sua memoria209: poi, dopo averla con tanto vantaggio proprio e pubblico spartita per più di cinque anni con Agrippa, dovette riprender solo la presidenza della repubblica accresciuta del pontificato massimo, ricomporre in sè, generale e sacerdote supremo, l’unità dello Stato, perchè non vi era in Roma nessun cittadino che potesse essere posto nel luogo di Agrippa a suo fianco. Gran ventura era stata per Augusto imbattersi in quell’uomo al principio del suo lungo cammino; grandissima sventura era il perderlo all’improvviso, proprio allora, a metà della via. Quella morte sconvolgeva tutto il piano della guerra germanica; e la ricostituita unità del supremo potere paralizzava lo Stato. La flotta era allestita, il canale scavato e ogni cosa pronta: ma Augusto non osava improvvisarsi comandante di una così grande guerra, a 52 anni, quando non aveva saputo diriger bene delle guerre più piccole, in età più giovane; quando i bigotti, che lo avevano fatto con tanta pompa e clamore pontefice massimo, lo incitavano impazienti a por mano subito alla riforma del culto. Costretto a governare nel tempo stesso il cielo e la terra, le cose degli Dei e quelle degli uomini. Augusto si studiò di far del suo meglio: mandò Tiberio in Pannonia, uscì di Roma e si recò nella valle del Po, ad Aquileia, per sorvegliare vicino la rivolta e la sua repressione210; sembra per un certo tempo aver sospesa ogni deliberazione per la Germania, dubbioso forse se differire l’impresa211; diè principio, anche in viaggio, a qualche riforma religiosa, incominciando a togliere dalla circolazione tutti i falsi oracoli sibillini, i libri di profezie e di vaticini che, messi in giro da abili ciurmatori durante la rivoluzione, confondevano lo spirito popolare e talora, sia pure per ripercussione lontana, la politica. Egli ordinò che quanti possedevano raccolte di oracoli e di profezie, le portassero entro un certo tempo al pretore; fece bruciare tutte le profezie e fare una cernita di 2000 oracoli sibillini, giudicati autentici, che, dati gli altri alle fiamme, dovevano essere riposti in due stipi dorati nel tempio di Apollo sul Palatino212. Pensò anche di riorganizzare nel tempo stesso il più aristocratico e il più popolare dei culti: il culto di Vesta, accrescendo i privilegi e gli onori di cui godevano le Vestali, per agevolarne il reclutamento213; il culto dei Lari compitali, dei piccoli dèi protettori di ogni quartiere, ai quali il popolino univa spesso anche la statuetta di lui, ordinando due cerimonie, una estiva e l’altra invernale214.

Ma se per l’impresa di Germania Augusto aveva esitato un istante, le faccende galliche non tardarono a persuaderlo che per la salute della repubblica non bastava recitare e far recitare orazioni in Roma; occorreva combattere anche in Germania. Il censo era finito; il malcontento infuriava vivissimo; la rivoluzione pareva imminente, la rivoluzione che avrebbe scatenate le orde germaniche sulla ricca provincia215. Augusto dovè risolversi a cominciare l’invasione così a lungo studiata. Ma come erano mutati i tempi! La Germania doveva essere invasa, non più con la ardita improvvisazione di Cesare, avventandosi nel futuro alla cieca; ma metodicamente, a passi lenti e circospetti, avanzando sempre su terreno saldo, dopo aver provveduto a difender le spalle, dopo aver esplorato davanti, quanto si poteva, l’immenso ignoto, in cui avventurarsi. Prima infatti si darebbe mano ad aprire alle legioni una via sicura verso Oriente, lungo il corso della Lippe, costruendo sulle rive di questo fiume, nel cuore della regione posta tra il Reno ed il Weser, un grande campo fortificato e collegandolo al Reno con una larga via militare e con una catena di fortilizi minori. Dal campo trincerato le legioni irradierebbero il rispetto e il terrore di Roma, in tutta la regione posta tra il Reno e il Weser, con marcie e spedizioni. Senonchè era difficile e pericoloso, prima che la strada militare fosse costruita, condurre un grosso esercito per la rozza via costeggiante la Lippe: si era perciò pensato di mandarne una parte per l’Oceano alle foci dell’Ems; di far loro risalire il fiume sino a raggiungere il corso superiore, che va parallelo a quello della Lippe, distante in certi punti solo 30 chilometri; di avviar l’altra parte per la valle della Lippe, per modo che i due eserciti potessero ritrovarsi sull’alto corso della Lippe. Augusto si risolvè a far eseguire per quell’anno la prima parte del piano, a far condurre cioè per mare una parte dell’esercito sull’Ems. E ne incaricò Druso, cioè un semplice propretore di 26 anni. La scelta poteva essere ardita: ma Augusto voleva adoperar nella guerra una persona nel tempo stesso intelligente, operosa, devota, di cui fosse interamente sicuro, e da cui potesse farsi interamente obbedire. Chi poteva dargli maggiore affidamento di Druso?216 Una testa quasi canuta ed un braccio giovane dovevano compire l’impresa. Augusto incominciò l’impresa, imitando l’astuzia cui Cesare aveva ricorso nella spedizione in Bretagna, per non lasciare la Gallia vuota di legioni in balìa della nobiltà irrequieta e scontenta217. Druso invitò i capi Gallici ad una riunione, per intendersi sopra una nuova cerimonia da introdursi in Gallia, in onore di Augusto e di Roma; e quando un buon numero di grandi furono venuti, cosicchè non si potesse più temere, costoro assenti, una rivolta generale delle Gallie, egli mosse l’esercito e la flotta conducendoli seco. Scese il corso del Reno, piegò nel canale, entrò nello Zuidersee218; traversò la moderna Olanda, il territorio abitato dai Frisii, i quali in seguito a trattative, probabilmente già avviate, accettarono il protettorato romano, a condizioni miti: il pagamento di un piccolo tributo, non in denaro, chè erano troppo poveri, ma in natura – pelli cioè, – e contingenti militari219. Uscì poi con la flotta nel mare del Nord, costeggiando: domò un’isola, che lo storico antico chiama Burcanide220, imboccò l’Ems; e ad un punto che non possiamo precisare, sbarcò una parte delle forze221: ridiscese poi con il resto dell’armata il fiume; uscì di nuovo nel pieno Oceano, alla volta delle foci del Weser, e tentò di risalire anche questo fiume, probabilmente per esplorarlo soltanto222. Ma questa volta non riuscì; o perchè le navi, troppo leggere per l’Oceano tempestoso, erano troppo pesanti per risalire la vorticosa corrente del fiume; o per altra ragione, che ci è rimasta ignota223. Certo è, a ogni modo, che nel ritorno Druso, troppo poco esperto di quel mare malfido, rischiò di naufragare; e fu salvo solo per l’aiuto dei Frisii224. Alla fine dell’autunno egli era di nuovo in Gallia, con una parte dell’esercito e della flotta; lasciava ritornare a casa i Galli, dopo averli persuasi ad erigere a Lione il grande altare di Augusto e di Roma e a costituire intorno a quello il sacerdozio nazionale; poi tornava a Roma, ad esporre al suo capo le cose compiute e a prendere nuovi ordini per l’anno seguente225.

Frattanto Tiberio aveva fatta in Pannonia la guerra, all’antica, come usava la vecchia aristocrazia: sterminando, catturando e vendendo i ribelli226. È probabile che il fiore della popolazione pannonica fosse venduto ai medi e ai grandi possidenti della Italia e trasportato nella valle padana. A questo giovane, che pareva risuscitato da due secoli prima, non mancava dell’antica nobiltà neppure la durezza. E il Senato gli aveva decretato il trionfo227. Augusto invece era tornato a Roma, insieme con Erode che, andato in Grecia ai giuochi Olimpici, lo aveva raggiunto ad Aquileia, per corteggiare Giulia e per esporre a lui la tremenda discordia familiare che, sotto il cielo ardente di Gerusalemme, tra le ricchezze del palazzo reale, fermentava dagli odî femminili, dalle ambizioni mascoline, dal sangue dell’infelice Marianna. Tra Alessandro e Aristobulo nati dalla sventurata, Antipatro, il figlio maggiore che Erode aveva avuto da Doride, e Salomè, implacabile contro l’odiata cognata anche dopo la morte, infuriava da un pezzo una guerra furibonda di calunnie, di ingiurie, di intrighi; in mezzo alla quale un tremendo spavento si era prima insinuato, poi radicato profondamente nello spirito sospettoso dell’Itureo: che Alessandro e Aristobulo volessero vendicare la madre. Se egli avesse potuto fare ciò che voleva, non avrebbe esitato a recidere dalle radici con la vita dei figli il sospetto; ma egli era impopolare in Giudea, egli conservava il regno per la protezione di Augusto; se un altro e più spaventoso macello familiare insanguinasse la sua tragica casa, se Augusto, inorridito, spaventato dalla indignazione popolare, lo abbandonasse? Egli non poteva uccidere due figli, per liberarsi da un sospetto: ma che supplizio per questo uomo diffidente, il quale sapeva di essere esecrato da infinite persone, dover vivere con due figli, sospettandoli, spiandone ogni atto, sempre incitato a diffidare dei nemici dei due sventurati! Erode era venuto ad esporre ad Augusto questo nuovo orrore della sua famiglia, forse sperando di essere autorizzato a uccidere i figli: ma Augusto si era tratto dietro a Roma il re di Giudea e i figli, cercando di riconciliarli, dando ad Erode in compenso le miniere di rame di Cipro, da cui i negligenti governatori non ricavavano più nulla e che l’abile Erode saprebbe far fruttare di nuovo, allettato dalla metà dei redditi a lui riserbata. Il savio Augusto ristabiliva la concordia nella famiglia di Erode e conchiudeva un affare eccellente per la repubblica! Anche il popolo di Roma lucrò su queste discordie; perchè Erode diede ad Augusto 300 talenti da spendere in feste. Così l’astuto sovrano di Giudea tentava di comprare anticipatamente l’indulgenza di Roma per i suoi misfatti; e Roma, avida di feste e di piaceri, accettava, sotto colore di omaggio, quell’oro!228 Intorno a questo tempo, pare, giunse a Roma la notizia che un terremoto aveva fatti immensi guasti in tutta l’Asia Minore; che le popolazioni versavano in grandi angustie e non sapevano come pagare, per quell’anno, il tributo. E allora si vide una cosa nuova in quella Roma, per tanti secoli così esosa nell’esigere i tributi. Il Senato e il pubblico si commossero; tutti dissero che bisognava soccorrere l’afflitta provincia; non esigere il tributo, almeno per quell’anno. Sventuratamente l’erario era in bisogno.... Augusto, che l’eredità di Agrippa aveva provvisto di molto denaro, risolvè, come sempre, la difficoltà; versò del suo nell’erario il tributo che in quell’anno avrebbe dovuto pagare l’Asia229. Il pubblico fu contento; l’erario nulla perdè; solo Augusto ci rimise del suo una somma cospicua. Singolar monarca questo davvero che, mentre per sua natura la monarchia sempre spreme silenziosamente enormi somme dai sudditi, per restituirne loro una piccola parte clamorosamente in beneficenza, doveva provvedere i fondi perfino agli accessi di umore filantropico, cui il pubblico andava ora soggetto! Ma le dottrine umane di Cicerone si diffondevano, insieme con l’agiatezza, con i vizi e con la cultura, ora che una parte considerevole del pubblico non viveva più sulla spoliazione immediata delle provincie; e a questa corrente nessuna persona seria voleva contrastare, perchè tutti erano persuasi doversi prodigare alle provincie orientali blandizie, carezze, concessioni. Il Senato approvò pure che in via di eccezione e per due anni il governatore dell’Asia, invece che dalla sorte cieca, sarebbe scelto da Augusto, il quale eleggerebbe di proposito un uomo capace ed alacre.

La guerra in Germania, la rivolta in Pannonia, la religione a Roma, le discordie reali in Giudea, il terremoto in Asia: quante faccende e quanto diverse occupavano Augusto! Eppure ritornando a Roma egli aveva trovate altre brighe, tra cui specialmente difficile una che poteva parer piccola. La sua lex de maritandis ordinibus ingiungeva alla vedova di rimaritarsi entro un anno; Giulia per ciò, essendosi sgravata del figlio che portava in seno alla morte di Agrippa e a cui si era dato il nome di Postumo, doveva, come figlia di Augusto, affrettarsi ad obbedire alla legge. Se la figlia di Augusto avesse violata la legge, quale altra matrona di Roma l’avrebbe osservata? Senonchè, per parecchie ragioni, questo matrimonio era quasi una specie di grave negozio politico. Non c’era ormai più da dubitare: quella bella, piacevole, intelligente signora di ventisette anni apparteneva alla rifioritura di νεώτεροι, che da qualche anno cresceva di nuovo rigogliosa sull’aspro terreno del puritanismo e del tradizionalismo. Il viaggio in Oriente non poteva che aver ringagliardite le sue naturali inclinazioni. Laggiù, nel dolce Oriente, essa era stata festeggiata come una regina; aveva vissuto nelle fastose Corti orientali; si era inebriata nelle nuvole di incenso profuse ai suoi piedi dall’adulazione asiatica; aveva vedute nelle sue sedi antiche quella civiltà voluttuosa, elegante, corrotta, che era la tentazione incurabile e il terrore mortale dei Romani. Nè è improbabile che essa pensasse – non senza qualche ragione – di aver compiuti i suoi doveri verso la repubblica, se a ventisette anni aveva già messo al mondo cinque figli. Onde voleva divertirsi, sfoggiare, vivere in quel modo più largo, più brillante, più piacevole, a cui i giovani inclinavano: grave pensiero per Augusto, che non poteva, specialmente in quel momento, considerare alla stregua delle faccende private i costumi della figlia. Proprio allora infatti il partito puritano, incoraggiato dalla elezione di Augusto a pontefice massimo, si rianimava, ricominciava ad agitarsi contro la corruzione crescente dei giovani; a lamentarsi che le leggi del 18 non fossero applicate con il necessario rigore, e che l’autorità censoria non esistesse più; a ridomandare che si ridesse ad Augusto, come nel 18 e per altri cinque anni, la præfectura morum et legum che dal 13 non aveva più; e cioè i poteri censori allargati, la facoltà di rinvigorire, applicandole, le leggi manchevoli o troppo deboli230. Sollecito di aver dalla sua il partito puritano, di secondare le inclinazioni arcaiche e conservatrici delle masse, come avrebbe egli potuto atteggiarsi a campione della tradizione, rimproverare i grandi che lasciavano i figli e le donne condursi in casa a loro talento, quando la figlia si ribellasse in casa a lui e alle sue leggi? Pare che egli pensasse un momento di sposarla a qualche cavaliere alieno dalla politica231: forse perchè ai cavalieri si poteva usare maggior indulgenza per il costume, che non all’aristocrazia politica e militare, la quale, facendo le leggi, doveva dare l’esempio di rispettarle. Ma poi venne in un altro pensiero, fatal pensiero, che doveva essere il seme di infinite sventure per lui, per la sua famiglia, per la repubblica: darla in moglie a Tiberio. A voler credere a quello che si buccinava in Roma, Giulia, anche prima di restar vedova di Agrippa, avrebbe rimirato con occhi teneri il figlio di Livia232, che, oltre ad esser già celebre per le sue imprese, era anche un bellissimo giovane. Tanto più facilmente poteva dunque illudersi Augusto che Tiberio sarebbe riuscito a frenare gli irrequieti istinti della bella consorte, aiutando il padre a governar la famiglia con romana severità. D’altra parte non è improbabile che Augusto già pensasse allora a fare occupare un giorno da Tiberio il luogo di Agrippa nello Stato, facendolo suo collega; poteva quindi parere opportuno di dargli anche il posto suo nella famiglia.

Tiberio e Druso erano, in quell’inverno dal 12 all’11, tornati ambedue a Roma a ricevere le istruzioni del loro capo per l’anno seguente. Druso infatti ebbe l’incarico di eseguire la seconda parte233 del piano: di incominciare la lenta, metodica, graduale invasione della Germania, risalendo con l’esercito la valle della Lippe sulla sponda destra234, mentre la flotta lasciata sull’Ems, ne risalirebbe il corso. Ravvicinatisi così, quanto più potessero, i due eserciti, con un breve cammino si ritroverebbero nell’alta valle della Lippe, dove alla confluenza della Lippe con un fiume, che lo storico antico chiama Elisone, si fonderebbe una grande fortezza; che sarebbe poi ricongiunta al Reno con una larga strada militare e con una catena di castelli minori. Tiberio invece ricevè, con l’incarico di ritornare in Pannonia, l’invito di ripudiare Agrippina e di sposare Giulia. Ma l’invito fu amaro a Tiberio. Se Giulia vagheggiava Tiberio, il tradizionalista intransigente, che ritornava dai campi della Pannonia e dagli aspri scontri con la barbarie in rivolta, non sentiva invece alcuna attrazione per la bella signora che tornava dall’Oriente, piena di vezzi, di capricci, di eleganze e di civetterie, poco conformi alla sua severa natura. Inoltre Tiberio amava molto sua moglie, da cui aveva avuto già un figlio e da cui ne aspettava un secondo235. Augusto dovette insistere e infine quasi costringere il riluttante Tiberio236. Non gliene mancava il mezzo; perchè poteva spezzar la carriera di Tiberio, togliergli il comando della guerra di Pannonia, riconfinarlo nella vita privata. Forse anche gli disse che pur nel matrimonio un nobile romano doveva saper posporre il piacere suo all’interesse della pubblica cosa. Tiberio amava sua moglie, ma aveva grandi ambizioni; ma sapeva probabilmente che dandogli Giulia in moglie Augusto già lo indicava a suo futuro collega nella suprema magistratura, a successore di Agrippa. Rifiutando Giulia, egli rifiuterebbe anche questo immenso onore, segno della più alta ambizione. Disperato, alla fine, sul principio dell’anno 11237 egli mandò le lettere di divorzio a Agrippina; Augusto precipitò le nozze238 per prevenire dei pentimenti; e alla primavera Giulia partiva con il nuovo marito alla volta della Pannonia. Giunti ad Aquileia239, Tiberio la lasciò e proseguì per la sua provincia, mentre Druso tornava in Gallia.

Rimasto a Roma, Augusto fu eletto præfectus morum et legum per cinque anni240. Il partito tradizionalista e puritano riuscì facilmente a fare approvare dai comizi e dal Senato la legge, perchè nessuno osava contrastare officialmente che la purificazione dei costumi dovesse essere il sommo compito dello Stato, sebbene molti lasciassero eleggere questo grande censore, confidando che non avrebbe emendato poi cosa alcuna severamente. Augusto infatti, se si era lasciato eleggere præfectus morum et legum per compiacere al partito puritano, non intendeva usare soverchia severità contro la progrediente facilità dei costumi241; anzi quasi si affrettò a rassicurare i νεώτεροι con dei compensi graditi. Propose una legge che, modificando la lex de maritandis ordinibus, riammetteva i celibi e le nubili agli spettacoli pubblici242; e colse l’occasione di un clamoroso processo di adulterio, per disapprovare pubblicamente le accuse troppo acerbe di questo delitto. Mecenate, con altri personaggi illustri, difendeva l’accusato; ma l’accusatore ciò non ostante ingrossava la voce contro l’accusato e i suoi difensori. Ed ecco Augusto comparve ad un tratto nel tribunale e sedutosi accanto al pretore, ingiunse all’accusatore, con il suo potere di tribuno, di non offendere nessuno dei suoi amici. Il pubblico si rallegrò tanto di questo schiaffo assestato al malcapitato accusatore, per tutti i suoi colleghi, che per sottoscrizione pubblica si eressero ad Augusto delle statue243. Augusto si accorgeva che i tempi inclinavano alla indulgenza; Augusto capiva che era impossibile sbarrare la nuova corrente di bisogni, di desideri, di aspirazioni troppo ingrossata; Augusto sarebbe stato contento di poter compiere una riforma più piccola, ma più urgente che la riforma universale del costume: la riforma cioè del Senato. I tentativi fatti nei quindici anni precedenti per ripristinare in Roma il grande Senato antico erano falliti; le sedute erano sempre più deserte; gli assenti erano così numerosi ogni volta, che non si potevano più applicare le ammende; nè premi nè pene, nè minaccie nè inviti riuscivano a vincere la pigrizia dei senatori. Da troppe profonde sorgenti scaturiva questa pigrizia! Se nella politica c’era maggior sicurezza che un tempo, non c’era però più la antica facilità di guadagni, e il dispendio e gli impegni del vivere a Roma crescevano invece per l’ordine senatorio; molti senatori perciò non volevano abitare nella capitale più che una parte dell’anno, amavano passare molti mesi, come Labeone, in campagna, spendendo meno, sorvegliando le loro terre, lungi dalle innumerevoli brighe della metropoli. D’altra parte se per tanti anni, durante i quali ogni cosa era stata abbandonata in balìa di sè stessa, le faccende del Senato non erano cresciute nell’impero ampliato, ora invece che si voleva alla fine amministrare con senno l’Italia e le provincie, i senatori avrebbero dovuto sobbarcarsi a incarichi più numerosi, più varî, più difficili, che i loro predecessori due secoli innanzi. Naturalmente i più preferivano non caricarsi addosso nessun peso, anzichè caricarsi un peso soverchio: onde su Augusto, a dispetto di Augusto, si ammucchiavano le responsabilità, nella legge e fuori della legge, perchè l’aristocrazia senatoria gliele buttava addosso, per egoismo, per paura, per inettitudine, per molti veri impedimenti economici e sociali, proprio mentre i pericoli parevano crescere in ogni parte in Occidente. Tiberio aveva trovata al suo ritorno la Pannonia tranquilla; ma la Dalmazia invece in piena rivolta, e per la stessa ragione che aveva sollevata l’altra regione: perchè non voleva pagare il tributo244. Il Senato si affrettò a passare ad Augusto la Dalmazia; e Augusto ordinò a Tiberio di trasportarci l’esercito che l’anno prima aveva repressa l’insurrezione pannonica245. Ma nel tempo stesso precipitavano le cose della Tracia da tanto tempo in bilico, e con più larga e impetuosa rovina che non si fosse previsto. Un fanatico prete di Dionisos, raccolta una piccola banda di partigiani, aveva preso a percorrere la Tracia, predicando la guerra santa contro Roma, la insurrezione contro la dinastia nazionale, amica e alleata di Roma. Da ogni parte i Traci che avevano servito nell’esercito romano, i giovani, i malcontenti erano accorsi, formando al suo seguito una torma immensa, che con il suo numero, la sua forza, il suo calore aveva attratto l’esercito reale, ordinato con disciplina romana, alla rivoluzione. Tutta la Tracia era insorta; il re era stato costretto a fuggire nel Chersoneso Tracico, nelle terre prima di Agrippa e ora di Augusto; delle bande di Traci avevano fatto irruzione in Macedonia; in Asia Minore si temeva pure una invasione246. Un grosso esercito essendo impegnato in Germania e un altro in Dalmazia, il pericolo era grave: perchè lì vicino non c’erano forze militari pronte; e mancava un generale sicuro.

Augusto dovè ricorrere alle legioni della Siria, e ad un giovane che allora governava la Panfilia: a Lucio Cornelio Pisone, il console dell’anno 15, a cui ordinò di recarsi, come suo legatus, in Tracia a domare la rivolta con le legioni di Siria247. Pisone era uno dei pochissimi giovani, in cui l’ingegno e il valore non facessero ingiuria alla grandezza del nome; e che poteva esser messo a pari di Druso e di Tiberio248. Poi Augusto tentò di fare qualche riforma nel Senato. Poichè non si veniva mai a capo, per quante multe si minacciassero, di raggranellare quattrocento senatori, propose di diminuire il numero legale249. Si lamentava da un pezzo che gli archivi del Senato fossero tenuti con negligenza, cosicchè spesso non si trovava più il testo autentico di un Senatusconsulto o se ne trovavano due, differenti. I tribuni e gli edili, ai quali erano confidate queste carte, non giudicavano ufficio conveniente alle loro troppo insigni magistrature sorvegliare dei registri; ne lasciavano la cura agli apparitori (uscieri, diremmo noi) i quali facevano ogni sorta di confusioni. Fu perciò trasportata la sorveglianza degli archivi ai questori, magistrati più giovani e più modesti, i quali si sperava avrebbero accudito con maggior zelo all’ufficio250. Come pontefice massimo Augusto provvide anche a rendere più comode e più semplici le funzioni religiose precedenti la seduta, permettendo che si facesse un sacrificio con incenso e vino al Nume nel cui Tempio il Senato si radunava251. Piccoli rimedi per un male tanto profondo e incurabile! Morendo, Agrippa aveva lasciato ad Augusto la squadra dei 240 schiavi incaricati di sorvegliare gli acquedotti; e quindi anche la cura di questo servizio pubblico. Già oppresso da innumerevoli brighe, Augusto non volle anche questa; e fece istituire dal Senato un nuovo ufficio: la cura aquarum, che sarebbe dato, naturalmente a senatori252. Ma non ostante le fatiche di Augusto, l’immenso impero restava in balìa di forze molteplici e contradittorie, che egli, solo o quasi, non poteva signoreggiare e dirigere che in parte. Mentre Augusto si studiava a Roma di riformare il Senato, la guerra sfuggiva in Germania ai prudenti disegni di Augusto. Entrando con l’esercito in Germania per la valle della Lippe, Druso aveva trovate le popolazioni germaniche in grande movimento. Spaventate dall’apparizione delle armate romane e dai minacciosi propositi di Roma, molte nazioni germaniche avevano nell’inverno trattato una alleanza difensiva: ma dalla discussione erano nati dissensi, e questi erano cresciuti a tal segno che invece di conchiudere una alleanza contro l’invasore, i Germani, come spesso avveniva, si erano azzuffati tra loro. Proprio allora i Sicambri, che avevano presa l’iniziativa della alleanza, si erano precipitati sui Catti, che abitavano lungo il Weser; onde tutto il territorio germanico a sud della Lippe, tra il Reno e il Weser, era in fiamme. Avrebbe potuto un generale audace immaginare più propizia occasione per strappare di sorpresa ai Germani, con una sola mossa, come Cesare aveva osato tante volte, quella resa a cui Augusto li voleva piegare metodicamente, a poco a poco? Druso, in cui ardeva una scintilla del genio di Cesare, aveva eseguito da prima con avvedutezza il piano di Augusto: sottomessi gli Usipeti, risalita la Lippe, per congiungersi con l’esercito che, combattendo qualche scaramuccia, risaliva l’Ems. Ma a questo punto, fatta la congiunzione, invece di incominciare la costruzione del campo fortificato deviò dal piano di Augusto e con una mossa audace si buttò nell’ignoto sulle traccie della fortuna, come un nuovo Cesare. Raccolse in fretta e furia dei viveri; prese probabilmente con sè soltanto una parte dell’esercito, la migliore; traversò il paese dei Sicambri deserto, invase il territorio dei Tencteri che, spaventati da quella apparizione improvvisa, si sottomisero; avanzò rapidamente nel territorio dei Catti, piombò addosso ai due contendenti, li separò, li percosse e li costrinse tutti e due a riconoscere la signoria romana: si spinse con rapida marcia sino al Weser. Perchè aspettare pazientemente dagli anni, come premio della prudenza, quello che in pochi mesi poteva ghermirsi con l’audacia? E l’impressione della fulminea aggressione fu così grande, che se la mancanza di viveri non lo avesse costretto a ripiegare verso il Reno, Druso non sarebbe stato alieno dal ripeter per tutta la Germania la mossa fatta da Cesare nella campagna dei Belgi e approfittando dello stupore da cui tutta la Germania era colpita, passare anche il Weser e falciare in tutta la barbara Germania, sino all’Elba, una larga messe di sottomissioni. Ma i viveri si esaurivano; il territorio non bastava a nutrire l’invasore; Druso dovè accontentarsi dei resultati ottenuti e disporsi a ritornare nella valle della Lippe253. Intorno al tempo stesso Pisone entrava con l’esercito nella Tracia e affrontava i ribelli, con poca fortuna in principio254. Tiberio invece aveva miglior successo in Dalmazia: senonchè mentre egli combatteva in Dalmazia, i Pannoni insorgevano di nuovo255. La situazione non doveva parer molto favorevole, nell’estate dell’11; e per poco nell’autunno non fu aggravata da un disastro. Ritirandosi, Druso incominciò ad essere molestato dalla guerriglia dei vinti; e alla fine cascò in una imboscata, non molto dissimile da quella che i Nervii avevano preparata a Cesare. Per un miracolo, Druso non pagò il fio di aver imitato Cesare e scampato con l’esercito da un annientamento totale, le cui ripercussioni sarebbero state immense, potè ritornare sulla Lippe, dove in un luogo disputatissimo dagli storici, egli si accinse a mettere ad esecuzione il piano prudente di Augusto256. Egli diè l’ordine di costruire il castello, a cui doveva essere posto il nome di Aliso; ritornò in Gallia; deliberò di fondare un altro castello sul Reno “nel territorio dei Catti” dice lo storico antico, e cioè probabilmente il castello che doveva poi diventare la città di Coblenza; e tutto disposto, ritornò a Roma. I soldati avevano acclamato lui, come già Tiberio, imperator: ma Augusto non riconobbe valido il titolo, secondo la antica consuetudine, Druso essendo un legatus. Il Senato invece gli assegnò gli ornamenti trionfali, il permesso di entrare a cavallo in Roma, e il potere proconsolare, sebbene fosse stato ancora solo pretore.

A Roma Druso dovè pronunciare il discorso funebre di Ottavia, la sorella di Augusto, la vedova di Antonio, la madre di Marcello e della sua sposa257. Anche questa dolce figura, che l’Italia aveva vista, or lieta or triste, ma sempre diritta tra le bufere della rivoluzione; che dopo la morte di Marcello si era ripiegata sul cenere del figlio diletto verso l’abisso dell’oblio e del silenzio, nell’abisso spariva.... Ed anche questa volta popolo e Senato volevano prodigare alla defunta troppi onori. Augusto ricusò258. Tiberio invece sembra essersi recato al cominciare dell’inverno ad Aquileia con Giulia, che era incinta259. Egli cercava di vivere d’accordo con la nuova sposa, datagli da Augusto; ma non poteva dimenticare la dolce Agrippina, passata in altra casa; e il suo cuore si gonfiava di affanno, quando pensava a lei restata laggiù a Roma, dove egli non voleva tornare più per non rivederla e soffrire260. Questo taciturno orgoglioso, sempre chiuso in sè stesso, era un uomo di passioni semplici e intense. Da Aquileia sul principio dell’anno 10 – era console in questo anno Julo Antonio, il poeta, il figlio di Fulvia e di Antonio – Tiberio mosse incontro ad Augusto, che ancora una volta aveva dovuto lasciare, prima della fine dell’anno Roma, le riforme e l’amministrazione interna, per avvicinarsi ai campi di battaglia, dove si combattevano guerre così gravi, e recarsi in Gallia; ma Tiberio aveva appena incontrato Augusto, che gravi notizie giunsero dall’Illirico. I Daci avevano passato il Danubio gelato e invasa la Pannonia, i Dalmati si rivoltavano di nuovo! Augusto rispedì subito Tiberio in Pannonia a ricominciare la sua faticosa campagna261, nel tempo stesso in cui Pisone, con lentezza e con pazienza riconquistava a palmo a palmo la Tracia262. In Germania invece, nell’anno 10, sembra esserci stata una specie di tregua: la edificazione di Aliso e di Coblenza263 fu alacremente continuata, ma non sembra si siano combattute vere battaglie264. Fu questa pausa voluta dalla prudenza di Augusto che, fermo nel pensiero di conquistare la Germania a poco a poco, con il muro oltrechè con la spada, volle aspettare e veder l’effetto della ardita spedizione dell’anno precedente? Eppure l’impressione della ardita mossa di Druso era stata profonda sulle mobili popolazioni germaniche; alcune delle quali, spaventate, deliberavano di sgombrare il terreno alla invasione di Roma e di andar cercando altre sedi. Tra questi i Marcomanni, che forse in questo tempo, sotto la condotta di Marbod, quel nobile che aveva vissuto lungamente a Roma, incominciarono la loro emigrazione verso la regione che fu detta poi Boemia. Amico di Augusto, ammiratore del grande impero, Marbod non voleva che il suo popolo venisse alle prese con le legioni; preferiva portarlo in terre nuove, dove sperava di poter fondare un governo più stabile e ordinare un esercito con disciplina romana: munire cioè la barbarie germanica con le armi fabbricate dalla civiltà greco-latina. Tanto più vigorosamente un nuovo Cesare avrebbe continuata la mossa incominciata l’anno precedente da Druso, approfittando di questo passeggero timore. Ma Augusto non era soltanto un guerriero, era un intellettuale, un amministratore, un organizzatore, un sacerdote. E incominciò così, da questo anno, l’alternativa delle due strategie: quella dell’ardimento, e quella della pazienza, che continuerà in tutta la guerra.

In questo anno, il 1.° agosto, i capi di sessanta nazioni galliche radunati a Lione, inauguravano alla confluenza del Rodano e della Saona l’altare di Roma e di Augusto. Sacerdote fu eletto l’eduo Gaio Giulio Vercundaro Dubio265. Memorabile data nella storia di Europa! Prima tra le provincie europee, più sollecita perfino di molte nazioni orientali come la Grecia, la Gallia adottava quel culto dei sovrani viventi, che era nato in Egitto e che l’Asia Minore aveva trasportato ad Augusto ed a Roma. Neppure la Gallia, che era così vicina all’Italia e che sino a pochi decenni prima si era governata con istituzioni elettive e repubblicane, neppur la Gallia riusciva a capire quell’artificioso ordinamento del supremo potere nella repubblica con cui Roma avea posto fine alle guerre civili; anche la Gallia interpretava il potere di Augusto all’orientale, vedeva in lui un monarca asiatico personificante lo Stato. Dalla tradizione celtica la Gallia scivolava rapida, non verso le idee latine, ma verso le idee orientali, nelle cose politiche; si disponeva a servire e a venerare Augusto, come gli Egiziani e gli Asiatici avevano un tempo venerati e serviti i Tolomei e gli Attali. Augusto diventava un Dio e un monarca, in Gallia come in Oriente! Il 1.° agosto dell’anno 10 a. C. si poneva a Lione la prima pietra dell’edificio, ancor oggi quasi intatto, della monarchia europea.

In quello stesso giorno Antonia partoriva in Lione un bambino: il futuro imperatore Claudio266. Era il terzo figlio del giovane generale. Anche il conquistatore della Germania era in regola con la lex de maritandis ordinibus.

VI.
GIULIA E TIBERIO.

Frattanto Roma aveva eletto console per l’anno 9 Druso, il prediletto degli Dei, di cui l’Italia, dopo le gesta germaniche, pronunciava il nome non più con amore soltanto, ma con immenso orgoglio. Poi, sul declinare dell’anno, Augusto, Tiberio, Druso ritornarono a Roma, che li accolse con feste ed onori267. Ma prima che l’anno finisse, Druso era già ripartito per la Germania, lasciando il collega assumere solo, il 1.° gennaio, i fasci268. Di questa fretta si può dare una doppia spiegazione: o che Druso avesse finalmente persuaso Augusto esser tempo di percuotere la barbarie germanica con un colpo vigoroso; o che a Roma fosse giunta la notizia essersi i Cherusci e gli Svevi alleati con i Sicambri e prepararsi a invader la Gallia, spartendosi anticipatamente la preda: i Cherusci i cavalli, gli Svevi l’oro e l’argento, i Sicambri gli schiavi269. Comunque sia, questo è certo: che Druso, appigliandosi questa volta definitivamente alla strategia cesariana, dopo aver consacrato tra i Lingoni un nuovo tempio di Augusto270, attraversò nell’anno 9 con un poderoso esercito la Germania, e arrivò combattendo prima sino al Weser e poi sino all’Elba. Con che forze, con che mezzi, per quali vie, attraverso quali vicende e difficoltà, noi non sappiamo: sappiamo invece che, raggiunta l’Elba, Druso era sulla via del ritorno al principio di agosto271. Intanto Augusto, in questa prima parte dell’anno 9, aveva fatta a Roma una nuova riforma del Senato: la quarta o la quinta in diciotto anni! Ma i farmaci adoperati sino allora non avevano fatto effetto alcuno; neppur dopo averlo ridotto, si poteva raccogliere il numero legale; e la misura dello scandalo era colma! Bisognava tentare una riforma definitiva, adoperare mezzi finalmente efficaci. Smesso il proposito troppo eroico di sradicarla, Augusto si acconciò questa volta a venire a patti con l’infingardaggine senatoria, per rifare insieme e d’accordo, in luogo del monumentale Senato che egli aveva sperato ripristinare, un mezzo Senato, se non alacrissimo e vigoroso, almeno non scandalosamente torpido272. Egli studiò e propose al Senato, pregando i senatori di studiarla bene pur essi prima di approvarla, una nuova regola, che, più leggera dell’antica, doveva essere però più rigorosamente osservata. Le sedute obbligatorie furono ridotte a due per ciascun mese e fissate preventivamente alle Calende e agli Idi, cioè al principio e alla metà del mese, lasciando liberi gli intervalli273; per quei giorni furono sospesi tutti gli altri pubblici uffici274; per i mesi di settembre e di ottobre – i mesi delle vendemmie – fu concessa una facilità anche maggiore: che cioè solo una parte del Senato fosse obbligata di intervenire e quella parte tratta a sorte275. Ma concesse queste facilità, fu aumentata la ammenda agli assenti senza motivo; e fu deliberato che se gli assenti fossero molto numerosi, si trarrebbe a sorte la quinta parte e questa sarebbe multata276. Quanto al numero legale, si mutò pure la regola antica, fissando un diverso numero di voti per la validità dei senatusconsulti, secondo l’importanza delle deliberazioni, che furono perciò classificate in un certo ordine277. Infine – e fu la novità di maggior momento introdotta nello Stato da questa riforma – si costituì una specie di piccolo Senato nel grande; si deliberò cioè che ogni sei mesi si traesse a sorte un Consiglio di quindici senatori, i quali per tutto il semestre resterebbero a Roma a disposizione di Augusto, e con i quali egli delibererebbe le cose tutte importanti ed urgenti, che il Senato ratificherebbe278 nelle sedute plenarie delle Calende o delle Idi successive. Si alleggerivano i carichi della dignità senatoria, spartendoli tra tutti; ma Augusto sarebbe sempre assistito, se non dall’intero Senato, dal consilium, il quale doveva rappresentare intorno a lui il Senato, svogliato, neghittoso, occupato a mietere, a vendemmiare, a sollazzarsi.

Aveva dunque ragione Orazio di lodare intorno a questo tempo la molteplice alacrità del presidente:

Cum tot sustineas et tanta negotia solus,
Res Italas armis tuteris, moribus ornes,
Legibus emendes....279

E le faccende crescevano ad Augusto ogni giorno; la guerra si prolungava in Germania e nelle provincie illiriche; la situazione interna peggiorava. Il superstite spirito puritano della vecchia e la progrediente corruzione della nuova generazione incominciavano a combatter tra loro, ma con armi avvelenate e insidiose. Nessuno poteva ormai più dubitare che la generazione cresciuta dopo le guerre civili, invece di ascoltare gli ammonimenti severi dei vecchi e ravvedersi, corrompeva rapidamente di nuovo tutte le cose, che la generazione precedente aveva tentato di purificare nelle correnti del romanesimo antico. Quanto la nuova generazione fosse scettica, egoista, gaudente, poteva vedersi in Roma: dove Ovidio si atteggiava a maestro spirituale della giovane nobiltà280; dove non ostante le rimostranze di Augusto, di Tiberio e di Livia, Giulia ricominciava a dar l’esempio di un lusso illegale, proprio nella casa che avrebbe dovuto insegnare a tutte le altre la rigorosa osservanza della legge suntuaria dell’anno 18281; dove la plebe chiedeva ai grandi, alla repubblica, ad Augusto pane, vino, sollazzi, denari, senza discrezione, ad ogni istante, con una insolenza ribelle ad ogni freno282; dove tutti i ceti, i sessi, le età facevano calca e si precipitavano frenetiche ad ogni sollazzo, lasciando nella ressa brandelli di dignità, di pudore, di innocenza. Sulle scalee dei teatri Roma pareva compiacersi sopratutto di distendere in vista di tutti il proprio disordine morale: onde i lamenti si levavano da ogni parte verso Augusto, il quale, naturalmente, avrebbe dovuto correggere anche gli spettacoli a più decente castigatezza. I tentativi fatti per creare un teatro nazionale imitato dai grandi modelli classici, e perciò serio, morale, artistico, erano falliti. Anche le classi alte amavano più gli scenari spettacolosi e le azioni macchinose, che la rappresentazione di delicate opere letterarie, piene di umore, di filosofia o di pathos283. Immaginarsi il popolino, la plebecula, per necessità illetterata! I teatri della comedia e della tragedia muggivano come le selve del Gargano o il mare Toscano284; tanto era il raccoglimento e il rispetto con cui il pubblico ascoltava le laboriose opere dei poeti più insigni. I versi più elaborati, gli squarci più patetici, i pensieri più profondi e morali erano travolti, sbattuti, dispersi da quel chiasso, come delle povere foglie da un vortice di vento. Un bel pugilato, una grande corsa di carri, una cruenta caccia di belve, un buon macello di gladiatori valevano più che tutti i capolavori del teatro antico e contemporaneo285. Senatori e plebei, uomini e donne, vecchi e giovinetti erano tutti spinti in torma da una passione maniaca, da cui neppure Augusto era immune, verso quegli spettacoli; le matrone correvano ad ammirare gli atleti nudi, i giovinetti a veder sgozzare le fiere; uomini e donne si mescolavamo sugli stessi banchi, in uno stesso delirio di crudeltà e di lascivia, ai giuochi dei gladiatori286. Tutte le classi prendevano ormai un tal diletto dalla vista del sangue, che Augusto dovè proibire si indicessero lotte di gladiatori all’ultimo sangue287: se no, il pubblico avrebbe reclamato un macello ad ogni spettacolo. La crudeltà senza pericolo, la più orrenda e la più ignobile delle umane passioni, era la voluttà in cui la oligarchia signora dell’impero si inebriava con più vivo trasporto! Naturalmente, in questo turbine di sollazzi, la morale si rilassava; le grandi leggi sociali dell’anno 18 perdevano forza, e i vizi osavano ormai far loro sfregio apertamente, assalirle e violarle, senza che l’autorità tentasse più di imporne l’osservanza perfetta: gran cruccio questo, e motivo di rammarichi amari agli ammiratori del buon tempo antico, ai tradizionalisti, agli uomini onesti davvero, a quelli onesti per forza, per difetto dei mezzi necessari a peccare: onde tutti, disperando di poter raffrenare altrimenti la corruzione dilagante, per rappresaglia e per disperazione, incoraggiavano la mala genìa degli accusatori di mestiere, che aveva a maestro Cassio Severo. Le persone dabbene disprezzavano questi abominevoli mestieranti della calunnia, che gonfiavano di strane invenzioni gli scandali veri, piccoli e grandi; che fomentavano nella moltitudine le più basse passioni, insegnandole a sputacchiare e a calpestare nei tribunali le persone appartenenti alle alte classi e a tramutare i giudizi in una succursale dell’Anfiteatro. Qui si sgozzavano i gladiatori, là uomini e donne illustri. Eppure anche molte persone dabbene, accanto agli invidiosi ed ai vili, erano indotte a tollerare, a scusare quelle accuse: se i censori non c’erano più, se Augusto adoperava così mollemente i poteri della praefectura morum et legum, che altro mezzo c’era, con cui contenere le inclinazioni malvagie delle nuove generazioni?288 Anzi, non pochi lamentavano perfino che la legge intralciasse la prova dei delitti contro i ricchi, vietando che si ponesse lo schiavo alla tortura, per estorcergli testimonianze contro i padroni. Quali testimoni potevano illuminare la giustizia sui disordini e i delitti commessi nella famiglia, se si escludevano i servi?289 Nei processi di adulterio sopratutto la testimonianza degli schiavi poteva essere decisiva, molto spesso. Ma ad altri – e non a torto – spiaceva che ignobili calunniatori usurpassero l’ufficio quasi sacro del censore; molti giudicavano pericolosa questa furia di provare ad ogni costo ogni accusa, anche con prove immaginarie con deposizioni di servi mendaci290. I processi così condotti lasciavano lunghi strascichi di rancori, come sempre avviene quando la viltà universale lascia il ricattatore coprirsi il volto con la maschera di purificator dei costumi e atteggiarsi a vendicatore del giusto e del retto; lo spirito pubblico smarriva, tra queste zuffe giudiziarie, il senso del vero e del giusto, e per seguire le discussioni dei processi trascurava le faccende gravi davvero. Anche allora, mentre Druso combatteva in Germania, Roma era intenta – occhi ed orecchi – ad un clamoroso processo di veneficio, promosso contro un personaggio appartenente alla più insigne aristocrazia e amicissimo di Augusto, Caio Nonio Asprenate. Cassio Severo, naturalmente, accusava291. Che delitto potesse essere ragionevolmente apposto a Nonio, noi non sappiamo: sappiamo invece che Cassio Severo, al solito, lo accusava di aver preparato un orrendo intingolo, con cui aveva data la morte nientemeno che a 130 persone!292 Spaventati dall’accusatore più che dalla accusa, dalla sciocca credulità pubblica, dallo stupido accanimento del volgo contro gli accusati ricchi, Nonio e la sua famiglia si rivolsero addirittura ad Augusto, affinchè assumesse la difesa dell’accusato. Ma Augusto non voleva neppure disgustare questi ignobili mestieranti di accuse; non voleva contendere alle classi medie e ignoranti la soddisfazione platonica di qualche processo, in cui ogni tanto un ricco fosse fatto a pezzi. Titubò quindi, cercò di scusarsi; poi, per trarsi di impiccio, pensò di proporre al Senato il quesito: poteva egli difendere Nonio o no? Dubitava egli che se lo difendeva, sembrasse voler gettare la sua autorità sulla bilancia della giustizia a favore di tale che poteva essere reo; se rifiutava, paresse già condannare, abbandonandolo, chi poteva risultare innocente293. Unanime il Senato lo autorizzò ad assumere la difesa: ma Augusto non fu ancora contento; e il dì del processo venne, sì, a sedere tra i difensori, ma fece solo atto di presenza, non pronunciò una parola, ascoltò impassibile, senza alcuna protesta, la violentissima accusa di Cassio Severo294. Nonio fu assolto; ma Augusto consolò di lì a poco Cassio Severo dell’insuccesso, salvandolo a sua volta da una accusa intentatagli, e dicendo che la perversità dei tempi richiedeva simili accuse e simili accusatori295. Essere il figlio di Cesare, il presidente del Senato e della repubblica, il primo uomo dell’impero, il capo del culto, e dovere accarezzare un mascalzone come Cassio Severo: a che serve allora la grandezza umana e quanto vale?

Eppure, non ostante i processi e gli scandali, la corruzione e l’egoismo dilagavano. Ovidio, dopo aver composte parecchie imaginarie epistole poetiche di amanti famose nella leggenda e nella storia, osava comporre in metro elegiaco, e sotto gli occhi della lex Julia, addirittura un manuale del perfetto adultero: l’Ars Amatoria. Accanto alla disobbedienza aperta, sfacciata, beffarda delle grandi leggi sociali dell’anno 18, si divulgava, più comune e più pericolosa, la disobbedienza ipocrita e invulnerabile che ne violava lo spirito nascondendosi sotto l’osservanza scrupolosa della lettera. La lex de maritandis ordinibus aveva, sì, costretti, castigando il celibato, molti cittadini romani a contrarre matrimonio; ma nessuno aveva previsto che l’egoismo civico delle altre classi troverebbe il modo di burlare la legge anche nel matrimonio, non generando figlioli. Nell’ordine equestre sopratutto, in quella che noi chiameremmo la borghesia agiata, cresceva il numero delle coppie che non avevano figli, perchè non volevano generarli. Il più raffinato modo di vivere, il desiderio di godere maggiormente i più svariati piaceri che la crescente influenza egiziana diffondeva in tutte le classi, acuiva questo egoismo sopratutto nelle famiglie agiate ma non ricche, le quali non potevano aumentare le loro spese dalle due parti, vivendo meglio e crescendo di numero, senza rovinare nei debiti. Non ostante infatti la crescente prosperità, che aumentava il valore di tutte le cose, c’erano, anche in Roma, più debiti che non convenisse ad uno Stato bene ordinato296. Molti dovevano dunque o immolare alla propria discendenza i maggiori godimenti che i tempi nuovi offrivano in tanta copia; o immolare quella a questi, spegnere nel germe la progenie destinata a continuarli nel tempo, rassegnarsi a perire interamente alla fine della propria esistenza, pur di vivere meglio la breve ora di questa terra. A questo secondo partito si appigliavano i più; onde l’ordine dei cavalieri si isteriliva rapidamente, e tutti gli uomini solleciti del pubblico bene, a mano a mano che il male si scorgeva maggiore, più vivamente si dolevano che la legge sul matrimonio fosse così circuita297. Questa infatti non aveva voluto obbligare i cittadini al matrimonio, per appaiare ogni uomo ad una donna, per farli vivere nella stessa casa e dormire nel medesimo letto, ma per rifornire la repubblica di uomini. Se l’ordine dei cavalieri si isteriliva, le radici stesse della costituzione aristocratica si disseccavano: perchè l’ordine senatorio si rinnovava dall’ordine equestre; perchè ingrandendo l’impero e rimpicciolendo la nobiltà senatoria, bisognava scegliere più largamente nell’ordine equestre i magistrati civili e gli ufficiali delle legioni. Pare, ad esempio, che già ai tempi di Augusto tutti i corpi di cavalleria reclutati tra i sudditi barbari fossero comandati da membri dell’ordine equestre298; come tra i cavalieri Augusto sceglieva molti dei procuratori incaricati di vigilare la riscossione dei tributi nelle sue provincie, i governatori dell’Egitto e del Norico. L’ordine equestre insomma diventava quasi la seconda nobiltà di riserva, che potrebbe sostenere la costituzione aristocratica, se la prima nobiltà veniva meno; a mano a mano che l’ordine senatorio impigriva, tutti riponevano le loro speranze nell’ordine equestre, il cui zelo civico poteva almeno sentire uno stimolo: l’ambizione di salire alle nobiltà superiori e di accrescere con gli stipendi dello Stato la propria fortuna. Ma se anche l’ordine dei cavalieri si isteriliva, come si governerebbe lo Stato? Chi comanderebbe nelle legioni e nei corpi ausiliari? Era cosa pericolosissima che l’egoismo civico penetrasse così negli strati più larghi della società.

Onde non pochi incominciavano a pensare che occorresse riformare la lex de maritandis ordinibus per modo da allargare le sue sanzioni dal celibato alla sterilità volontaria dei matrimoni. Per il momento però il male non era ancora così grave, che le volontà si movessero ad agire. Si osservava soltanto; si recriminava; si proponeva. Frattanto nell’estate Augusto era andato nella valle del Po, forse per avvicinarsi ai due legati che combattevano in Pannonia e in Germania; ed era giunto a Ticino (Pavia). Quando, in Agosto, gli giunse una terribile notizia: il giorno 13 Druso, giunto l’esercito in un luogo che invano gli storici ricercano da secoli, era caduto da cavallo e si era rotta una gamba. Non potendo più comandare l’esercito e non osando affidarlo, in pieno territorio nemico, a uno degli ufficiali, Druso si era fermato, aveva fatto costruire un accampamento; e spediva ad Augusto un messaggio, pregandolo di mandar subito un altro generale capace di ricondurre le legioni e lui medesimo, se egli non fosse frattanto guarito299. Per fortuna poco prima che giungesse il nefasto annuncio dalla Germania, era giunto a Ticino Tiberio, che aveva lasciata la Pannonia, in quell’anno meno inquieta del solito. Senza seguito, con una sola guida, viaggiando dì e notte, Tiberio valicò le Alpi e fece quasi di corsa, senza riprender fiato, poco meno che 200 miglia300. Ma giunse appena a tempo a dar l’ultimo abbraccio al diletto fratello, al prediletto degli dèi, che moriva probabilmente per un’infezione seguita alla ferita301, a 30 anni, in piena gloria e in piena felicità, dopo aver vissuta una ora breve ma luminosa, senza sospettare la caducità dell’opera per la quale moriva, senza aver veduto, nel crepuscolo occiduo dell’agonia, il nembo di dolore e di vergogna che già si levava sulla superba fortuna dei suoi. Ma che schianto, nel cuore dell’Italia, quando la funerea notizia volò di città in città, giunse fino nelle più remote campagne, battè alla porta dei più lontani casolari! Impotente contro il destino, la costernata nazione volle esprimere almeno il suo cordoglio con l’interminabile funerale, che accompagnò il cadavere dal letto di morte in Germania al rogo e all’eterno riposo di Roma. Sino agli accampamenti di inverno, il feretro fu portato a spalle dai centurioni e dai tribuni militari: sottentrarono poi, dagli accampamenti di inverno, i decurioni e i notabili delle colonie e dei municipi a darsi il cambio in quell’ufficio di estrema pietà302. Tiberio precedeva, sempre a piedi, in segno di lutto303. La piccola comitiva valicò così, con il pietoso peso, le Alpi, scese nella valle del Po, incontrò a Pavia i desolati genitori, e con questi si incamminò, nella stagione invernale, alla volta di Roma; salutata dalle popolazioni che da ogni parte accorrevano sulla via per dare al passaggio l’ultimo addio alla spoglia mortale del giovane, salutata dalle rappresentanze delle città, che si facevano innanzi per condolersi con Augusto e con Livia304. I funerali a Roma furono celebrati con grandiosa solennità, presente tutto il Senato, tutto l’ordine equestre, un infinito numero di cittadini305. Il corpo fu portato tra le imagini dei Claudi e dei Livi nel Foro ed esposto; qui Tiberio pronunciò un discorso; poi i cavalieri lo portarono nel Campo Marzio, dove il rogo arse finalmente: un rogo pacato e triste, quanto diverso dal rogo turbolento di Cesare!306 Augusto pure, dopo Tiberio, disse nel circo Flaminio un elogio dell’estinto, in cui raccomandò ai giovani l’esempio suo, augurò con parole commosse che i due figli di Agrippa da lui adottati crescessero a imagine e simiglianza di Druso, che a lui gli dèi concedessero di morir così bene, come Druso, servendo la repubblica307. Il Senato votò molti onori alla memoria del morto, tra gli altri, che gli fosse dato il titolo di Germanico ereditario nella famiglia; e alla madre, a Livia, concesse tutti i privilegi dei tre figli, sebbene non ne avesse avuti che due, quasi a significare che Druso solo valeva per tutti308.

Così morì Druso, amaramente rimpianto dalla patria, amarissimamente rimpianto, come vero suo figlio, dal patrigno; e non solo per affetto paterno. Dopo la morte prematura di Agrippa, questa morte acerba aggiungeva perdita a perdita. Augusto era, dal disfacimento progressivo del Senato, obbligato a far via via maggiore assegnamento sui parenti più stretti e sugli amici più intimi, sopratutto per la politica estera. Questa, si sa, richiede una certa continuità. Nei bei tempi della aristocrazia, il Senato con la sua concordia, con la sua perseveranza, con la sua saldezza monumentale, con il grande prestigio aveva potuto sospingere verso il successo, sopra linee continue, la politica estera, anche commettendo errori non infrequenti; anche mutando ogni anno i proconsoli e i propretori incaricati di eseguire i suoi piani diplomatici e militari; anche adoperando insieme uomini eccellenti, mediocri, cattivi. Qualunque fosse in ogni tempo la faccenda più urgente, non mancavano mai allora nel consesso i senatori autorevoli che la conoscessero, che ricordassero i precedenti, che studiassero attentamente il corso degli eventi e che fossero in grado di illuminare i propri colleghi, i quali alla fine sapevano scegliere un piano ed eseguirlo. Allora invece quel Senato, prostrato da una estenuazione incurabile, che non riusciva più nemmeno a radunarsi in numero, aveva commessa ad Augusto tutta la politica estera, perchè non si sentiva più nè la volontà nè la capacità di dirigerla. Augusto si ritrovava quindi quasi solo innanzi alla sfinge dell’ignoto e dell’imprevedibile, che si accovaccia, misteriosa, in fondo all’avvenire; solo doveva tentar di decifrarne gli enigmi paurosi; solo infondere nella politica estera quella continuità, che ne è l’anima. Non più un corpo, il Senato, saldo e immane come un molo di granito, doveva ricevere il controcolpo degli insuccessi, ma un uomo solo, debole e piccolo non ostante l’autorità, che poteva ragionevolmente temere di essere investito e travolto da una catastrofe anche se rimediabile; e perciò quell’uomo non poteva più mutar ogni anno i suoi strumenti e adoperare insieme i buoni e i cattivi; doveva cercare uomini di mente eletta e di animo forte, desiderare che con la lunga pratica si facessero esperti a trattare le più difficili faccende straniere e capaci di alleggerire a lui delle responsabilità, per lui solo troppo gravi. Ma trovare questi collaboratori elettissimi era cosa difficile, specialmente per le provincie europee e per le faccende germaniche. Il soggiorno in quelle regioni fredde, barbare, incolte non era così piacevole come i viaggi nell’Oriente, opulento di tante accumulate dovizie e splendido di così antica civiltà; come Cesare non aveva potuto conquistar le Gallie se non con pericoli e con fatiche molto maggiori che i pericoli affrontati e le fatiche sopportate da Lucullo e da Pompeo per conquistare l’Oriente, la politica germanica, pannonica, illirica, cui lo sviluppo della Gallia attribuiva tanta importanza, richiedeva dalla aristocrazia romana una abnegazione molto più grande che la politica orientale. E invece non c’era virtù da cui la nuova generazione fosse più aliena che l’abnegazione. Quanti erano ormai i giovani che acconsentirebbero a restar molti anni lungi da Roma, in regioni aspre e fredde, alle frontiere della barbarie, combattendo e vigilando senza tregua, trattando diplomaticamente, informando Augusto accuratamente di tutto? Egli aveva avuta la fortuna di trovarne due nella famiglia sua: Tiberio e Druso; ed ecco l’invida sorte gliene rapiva uno. Augusto doveva piangere amaramente Druso, perchè, lui morto, egli non poteva più fare assegnamento, per tutta la politica germanica, gallica, illirica e pannonica che su Tiberio: il quale era un uomo di guerra non meno eccellente di Druso, ma di Druso non possedeva la duttilità, la amabilità, la popolarità. Tiberio era ormai il principale collaboratore di Augusto, il primo uomo dell’impero dopo il princeps, il suo eventuale successore: perchè dopochè Roma si era impegnata nella conquista della Germania, il capo della repubblica, il comandante dell’esercito doveva essere un esperto uomo di guerra e un conoscitore profondo delle faccende germaniche. Ora nessuno a Roma superava Tiberio come generale e nella conoscenza della Germania. Ma insomma Tiberio solo non bastava ai bisogni di un tanto impero; e due fatti dovevano scemare ad Augusto la gioia di poter fare assegnamento sopra un generale ed un diplomatico così capace: l’uno, che Tiberio incominciava ad avere molti nemici; l’altro, che già tra lui e Giulia si insinuava insidiosa la discordia. A mano a mano che i giovani aristocratici coetanei suoi si infrollivano a Roma nei piaceri, nel lusso, nell’ozio, sui libri belli e perversi di Ovidio, Tiberio si induriva, si romanizzava, si rifaceva antico nel pensiero e nel costume, tra le battaglie, in mezzo ai campi militari, in faccia alla torbida marea della barbarie, che egli da tanti anni vedeva rompersi ai suoi piedi contro le fragili frontiere del vasto impero. Mentre i suoi compagni celebravano a Roma lo spensierato festino della pace, egli vedeva addensarsi sui confini il pericolo germanico, pannonico, tracico, che potrebbe un giorno scatenarsi anche al di qua delle Alpi, se Roma non potesse opporgli un validissimo esercito. Rafforzare gli eserciti, gli pareva dunque suprema urgenza: ma dove si sarebbero preparati gli ufficiali e i generali delle legioni? Forse nelle scuole dei retori e dei filosofi greci, nelle sacrestie dei sacerdoti di Iside, nelle botteghe dei mercanti egiziani, tra le braccia delle ambubaie siriache? Non c’era altra scuola di valore e di spirito guerresco che la antica famiglia romana, con gli antichi severi costumi, con le antiche severe tradizioni. Tradizionalismo e militarismo equivalevano. Onde questo militarista fanatico si infervorava a voler essere interamente, schiettamente, purissimamente romano nelle idee, nei costumi, nei sentimenti, in mezzo ad una generazione che si ellenizzava rapidamente. Benchè conoscesse benissimo il greco, aveva cura, quando parlava in Senato, di non adoperare alcuna di quelle parole greche, che così spesso le persone colte frammischiavano al discorso latino, quando trattavano qualche soggetto serio309; non voleva farsi curare da medici scienziati, che erano tutti orientali, ma preferiva ricorrere alle ricette tradizionali nelle famiglie romane310; sebbene una legge, probabilmente fatta approvare nel 27 a. C.311 autorizzasse i proconsoli e i propretori a salariare i loro ufficiali, e sebbene fosse ormai necessario stimolare con l’oro il torpore civico dei senatori e dell’ordine equestre, Tiberio non approvava questa novità, che sovvertiva uno dei principi fondamentali della società aristocratica: e dava soltanto dei viveri, giammai del denaro, all’antica312. Tutti, più o meno, cedendo alla inclinazione dei tempi, sfarzeggiavano: egli Tiberio, novello Catone Censore, vituperava il lusso della nobiltà come un tradimento, perchè fomentava i vizi e la mollezza, perchè incanalava fuori dell’impero, alla volta dell’India e della Cina, in cambio di gemme e di sete, i metalli preziosi che sarebbe stato più savio spendere a rinforzar le frontiere313. Era anche avverso alle grandi spese pubbliche di lusso, alle troppo frequenti largizioni di denaro, che il popolo domandava con crescente instanza314; avrebbe voluto, in luogo della facile finanza di Augusto, ristabilire la rigida amministrazione della vecchia aristocrazia; biasimava sopratutto la condiscendenza con cui si lasciavano saccheggiare dai privati i beni della repubblica315. Non solo voleva applicate con vigore le leggi sociali dell’anno 18, ma parteggiava per una riforma della lex de maritandis ordinibus che punisse anche i matrimoni sterili e obbligasse l’ordine dei cavalieri a generare figlioli316. Ma queste idee rigidamente tradizionali, questo fervore di romanesimo, e quel suo spirito autoritario, quella sua inflessibilità, quella sua durezza, quella sua severità antiquate, se facevano di lui un generale incomparabile, piacevano poco a Roma. Il popolo che voleva largizioni, feste, larghezze, non amava questo redivivo Catone Censore, che voleva risparmiare la pecunia pubblica con maggior parsimonia che la sua; la nuova generazione, che voleva applicate blandamente o abolite addirittura le leggi sociali dell’anno 18, diffidava di questo coetaneo che le voleva invece applicar con vigore; quanti sfruttavano terre o miniere dello Stato avevano paura di questo aristocratico di vecchio stampo, che anteponeva al loro vantaggio gli interessi dello Stato; molti infine, offesi dal suo taciturno riserbo e dalle maniere asciutte di lui, si domandavano se questo Claudio credesse di vivere ai tempi della seconda guerra punica, quando gli aristocratici potevano trattare a quel modo le persone da meno di loro. Augusto anzi aveva dovuto intervenire, quasi scusare il figliastro, assicurare Senato e popolo che quei modi troppo aspri indicavano un difetto del temperamento non un animo cattivo317. Frattanto questo spirito appassionato ma chiuso e taciturno soffriva per il ricordo e il desiderio di Agrippina, trapassata nella casa di Asinio Pollione come sposa di Asinio Gallo; e soffriva tanto, che Augusto aveva dovuto disporre affinchè i due antichi sposi non si incontrassero più. Troppo questi incontri agitavano l’impassibile generale318. Giulia, come è naturale, si stancava di vagheggiare uno sposo che, non ostante lo sforzo di viver d’accordo, si isolava da lei nel desiderio di un’altra. La nascita del bambino aveva sembrato per un momento avvicinare i due sposi; ma il bambino era morto poco dopo, e subito la tregua tentata tra gli opposti caratteri era stata rotta319. Mentre Tiberio infanatichiva per il vecchio romanesimo, Giulia sempre più inclinava al lusso, alla vita mondana, agli usi nuovi, allo sfarzo orientale.

Augusto nominò Tiberio legatus nel luogo di Druso, con l’incarico di sforzare la Germania alla resa definitiva. Provvide poi a prepararsi due nuovi collaboratori, due nuovi aiuti da aggiungere a Tiberio, volgendosi con zelo raddoppiato a curare l’educazione di Caio e di Lucio Cesare, i due figli di Agrippa e di Giulia, che egli aveva adottati. Egli stesso aveva loro insegnato a scrivere e a leggere, li aveva tenuti quanto più poteva seco, per evitare i contatti impuri, traendoseli dietro nei viaggi, allorchè usciva di Roma320. Ora che era giunto il tempo di far loro frequentare una scuola, scelse, e non a caso, maestro Verrio Flacco. Anche nelle scuole l’arcaismo e lo spirito di novità combattevano; e mentre certi maestri più arditi, come Quinto Cecilio Epirota, leggevano nelle scuole gli autori moderni e perfino i viventi, quali Virgilio e Orazio321, altri invece intendevano sopratutto a informare lo spirito dei giovani all’ammirazione delle vecchie età con la lettura degli antichi. Il più celebre di costoro era appunto Verrio Flacco: erudito e archeologo insigne, oltrechè insegnante famoso, che lavorava allora a riordinare il calendario, a ritrovar cioè, dopo tanta confusione e disordine, le date delle feste civili, delle solennità religiose e dei grandi eventi; a compilare un grande dizionario della lingua latina, raccogliendo in esso, con le parole antiche semi-dimenticate già morte, un tesoro di ricordi e di notizie che si perdevano322. Augusto voleva che nella scuola di Verrio Flacco i due giovinetti si facessero una anima antica: aveva perciò assegnata al maestro, affinchè non risparmiasse cura alcuna, la rimunerazione di 100 000 sesterzi ogni anno323: e così veniva preparando con una educazione rigidamente tradizionalista due collaboratori nella sua famiglia, non perchè ambisse di fondare una dinastia, ma perchè non aveva mezzo di prepararli nelle famiglie altrui. Senonchè Caio aveva 12 anni e Lucio 9; parecchi anni dovrebbero dunque passare ancora, prima che l’uno o l’altro potessero fare le veci di Druso, troppo presto sparito! Nel tempo stesso Augusto prese a curare anche l’educazione dei tre figli di Druso, d’accordo con la bella e pura Antonia, che intendeva riserbare intatta alla memoria di Druso e per i figli la sua giovane vedovanza. Augusto non ebbe cuore di costringere anche lei, con un nuovo matrimonio, a quella specie di adulterio postumo che la lex Julia de maritandis ordinibus imponeva a tutte le vedove. Accadde a Roma, intorno a questo tempo, e per una inaspettata e singolare fortuna, di fare in Oriente un altro grande passo innanzi sui Parti, senza fatica e senza pericolo, solo perchè l’impero dei Parti, indebolito da interne discordie, si ritirava ancora più. Il governatore della Siria era stato invitato a colloquio sulla frontiera dal re dei Parti, per udire dai rappresentanti del Re questa incredibile proposta: di ricevere in consegna i quattro figli legittimi di Fraate, Seraspadane, Rodaspe, Vonone e Fraate, le loro mogli e i loro figli; e di mandarli tutti a Roma ad Augusto. Thea Mousa, la concubina italiana regalata da Cesare a Fraate, aveva persuaso Fraate, ormai invecchiato e rimbambito, prima a lasciare il trono al figlio di lei; e poi, per impedire guerre civili e contrasti, a toglier di mezzo i figli legittimi, mandandoli a vivere in decoroso esilio sulle rive del Tevere324. La proposta, suprema aberrazione di un governo rimbecillito di favorite e di vecchi, non poteva non essere singolarmente gradita dal governo romano: sia perchè, essendo re il figlio di Thea Mousa, si poteva presumere che l’impero sarebbe governato dal partito romanofilo, e che quindi la pace non sarebbe turbata in Oriente; sia perchè sarebbe facile di spiegare l’atto del re all’Italia, ignara degli intrighi orditi alla corte dei Parti, come una nuova umiliazione della Persia ai piedi di Roma; sia perchè Roma avrebbe in sua balìa degli ostaggi preziosi e un mezzo di poter nascostamente intrigare nella politica partica. La proposta fu accettata, e i principi Parti portati a Roma, “mandati in ostaggio dal re dei Parti alla repubblica” – fu detto all’Italia; appena li ebbe, Augusto si affrettò a mostrarli al popolo, nei grandi giuochi del Circo Massimo, invitandoceli, facendoli attraversare solennemente l’Arena e sedere in fine accanto a sè325. Se Tiberio riuscisse a costringere i Germani alla resa definitiva, l’impero potrebbe godersi una lunga pace, perchè Pisone aveva ormai quasi interamente domata la Tracia; e la Pannonia e la Dalmazia parevano essersi quetate. Augusto perciò voleva recarsi in Gallia, a sorvegliar più da vicino le mosse di Tiberio. Senonchè egli doveva prima definire un’altra questione. Con la fine dell’anno 8, compivano venti anni che egli era a capo della repubblica e terminavano i suoi poteri quinquennali. In mezzo a tante difficoltà, con così scarsi aiuti, non è inverisimile che un uomo prudente quale era Augusto non fosse alieno, potendo, dal fare punto e lasciare ad altri il potere e la responsabilità del futuro326. Venti anni di governo sono lunghi, per una sola persona. Ma se egli si ritirasse, non si potrebbe ristabilire l’antico ordine repubblicano senza il princeps e chiudere la parentesi aperta nel 27 a. C. nella storia costituzionale di Roma. Immaginato come un ufficio provvisorio per ristabilire l’ordine e la pace, il principato era in venti anni diventato un organo vitale dell’impero. Le provincie, le città, gli alleati, i sudditi, gli Stati stranieri, avvezzi ormai da venti anni a vedere un uomo solo a capo dello Stato, confondevano Roma con la sua persona; tutti veneravano, amavano, temevano lui; tutti avevano trattato, si erano intesi, speravano e confidavano in lui: lui sparito, se non si mettesse in suo luogo un uomo di eguale autorità, tutto l’ordine delle amicizie, delle alleanze, delle clientele, delle dedizioni faticosamente composto in venti anni di guerra e di diplomazia, minaccierebbe di precipitar rovinosamente. Era difficile, ad esempio, prevedere ciò che sarebbe successo in Germania, se Augusto si fosse ritirato a vita privata; perchè quanti avevano occhi vedevano che il Senato, stanco, svogliato, discorde, non sapeva più, come un tempo, trattar la politica estera, diventata troppo molteplice, vasta, arruffata; che questa doveva essere affidata non più ad un magistrato ogni anno rinnovato, ma ad un magistrato eletto per più lungo tempo, il quale sapesse e potesse vigilare le frontiere, tenersi informato di ogni mutamento, trattare e risolvere prontamente ogni questione, cogliendo il tempo opportuno. Senonchè appunto una nuova difficoltà impediva ad Augusto di ritirarsi: una difficoltà strana e paradossale; e cioè, che allora il successore ci sarebbe stato. Se Augusto si ritirasse, il successore non potrebbe essere, per tutte queste ragioni, che Tiberio. Ma l’avversione contro Tiberio cresceva. Se i soldati idolatravano il loro Biberio – lo chiamavano così per scherzo, alludendo al suo unico vizio, l’amore del vino327; se negli accampamenti Tiberio era universalmente rispettato come un generale severissimo, ma giusto, valoroso, infaticabile; se gli ufficiali e i pochi amici intimi erano compresi di profonda ammirazione per questo uomo fermo, schietto, semplice, tutto d’un pezzo328; i pigri invece, i raffinati, i corrotti, quanti volevano far quattrini con le magistrature o non volevano più portare i carichi della nobiltà per goderne soltanto i privilegi, i celibi che si rodevano di essere stati spogliati di tante eredità dalle leggi sul matrimonio e i coniugi senza prole che temevano di essere a loro volta spogliati un giorno, tutti costoro avevano motivo di temere questa virilità possente, che già allargava i rami e le fronde sopra la declinante vecchiaia di Augusto, sin quasi ormai a ricoprirla e proteggerla. Non c’era dubbio: Tiberio avrebbe governato con maggior rigore di Augusto. E per questa ragione nel Senato, nell’ordine dei cavalieri, nel popolo, i più non lo volevano.

Volonteroso o riluttante, Augusto dovette accettare il prolungamento della sua presidenza, non più per cinque anni ma per dieci. La paura di Tiberio spiega forse il prolungamento: si voleva mettersi al sicuro per dieci anni almeno. Poi Augusto partì per la Gallia, dopo aver fatta approvare una riforma della procedura penale, che era una nuova e piccola Filippi della aristocrazia: una legge che permetteva di mettere alla tortura gli schiavi nei processi contro i padroni. La legge introduceva una specie di vendita fittizia dello schiavo o allo Stato o a sè medesimo: dopo questa vendita lo schiavo, non appartenendo più all’imputato, poteva essere interrogato. Finissima sottigliezza giuridica, immaginata per dar soddisfazione a quella severità pubblica, che voleva i castighi esemplari: ma la riforma, approvata dagli uni come necessaria, fu molto biasimata e combattuta dagli altri329; e a ragione: poichè Augusto disfaceva con una mano quello che faceva con l’altra; e mentre tentava di rifar con tutti i mezzi, economicamente e moralmente, la aristocrazia, dava alle invidie, ai rancori, alle cupidigie delle classi medie, degli intellettuali poveri e arrivisti questa terribile arma per distruggere con lo scandalo, con le accuse vere e con le invenzioni, l’onore e la fortuna della nobiltà. Una aristocrazia seria non tollererà mai che i servi possano deporre contro i padroni. Tanto più la aristocrazia romana avrebbe avuto bisogno di rinnovare il suo prestigio con un grande successo nella politica germanica! Non appena Augusto fu giunto in Gallia, Tiberio passò alla testa di un esercito il Reno; e questo atto bastò. I Germani erano stati già così spaventati e scoraggiti dalla marcia di Druso, che tutte le popolazioni germaniche, fuorchè i Sicambri, mandarono a chiedere le condizioni della resa. Augusto rispose che avrebbe incominciate le trattative soltanto dopochè anche i Sicambri avessero mandati i loro ambasciatori: ma quando i Sicambri, persuasi dagli altri popoli, ebbero mandato in Gallia il fiore della loro nobiltà, Augusto rifiutò qualunque concessione, domandò la resa senza condizioni e per di più ritenne prigionieri gli ambasciatori Sicambri, decapitando così a tradimento questo popolo valoroso. Nella guerra, se la barbarie è feroce, la civiltà è bugiarda e sleale. Ma i Germani per il momento si sottomisero330.

Così in quattro anni la Germania era stata conquistata sino all’Elba, e la grande impresa di Cesare compiuta dal figlio. Nel tempo stesso, dopo tre anni di guerra, la Tracia era definitivamente domata da Pisone; la Pannonia e la Dalmazia si tranquillavano definitivamente; in Oriente l’impero dei Parti pareva quasi accovacciarsi umile all’ombra della protezione romana. Sebbene il Senato e l’aristocrazia cadessero in deliquescenza, sebbene lo Stato versasse in tanto disordine morale, e fosse serrato da tante strettezze economiche, Roma aveva forza di superare tante difficoltà. Augusto potè, dopo il suo ritorno, attendere a togliere con una riforma del calendario certi inconvenienti non eliminati dalla riforma di Cesare. Fu questa la riforma che rinominò l’ottavo mese dell’anno da Augusto, dandogli il nome che porta ancora, leggermente mutato – l’Agosto331. Senonchè per l’inettitudine degli uni, per l’inerzia degli altri, per la incompetenza di tutti, il governo agiva ancora, come poteva, alla meglio, per lo sforzo di pochi, il cui compito cresceva ogni anno. In questo anno morì Mecenate; e Augusto se non perdè un altro collaboratore attivo come Agrippa, perdè sempre un amico fidato e sagace, a cui poteva, in frangenti difficili, chieder consiglio332. Anche la discordia tra Giulia e Tiberio si inaspriva; e per cagioni particolarmente gravi. Sembra che Sempronio Gracco, quell’elegante aristocratico che era stato sospettato di averla già corteggiata e non invano, quando era moglie di Agrippa, si fosse riavvicinato a Giulia, approfittando delle nuove discordie nate con il nuovo marito333. Certo è che i due sposi si erano alla fine separati di letto334, e che Augusto, probabilmente per dare a Tiberio un compenso di questi crucci, aveva consentito che Tiberio trionfasse, e lo aveva fatto rieleggere console per l’anno 7, cinque e non dieci anni dopo la prima elezione, in forza del senatusconsulto che a lui abbreviava di cinque anni tutti i termini per le magistrature. In questo anno, il 27 ottobre, morì pure Orazio.

Tuttavia l’anno 7 a. C., in cui Tiberio celebrò il suo primo trionfo e fu console per la seconda volta, passò tranquillo. Solo per un momento la Germania parve minacciasse un moto; e Tiberio, mutatosi da console in legatus di Augusto, dovette accorrere sul Reno. Ma solo per constatare che non c’era pericolo, e per ritornare presto a Roma335. Un solo evento commosse Roma: un grande incendio, scoppiato nelle vicinanze del Foro e che, per la consueta negligenza degli edili, fece molti guasti. I Romani attribuirono l’incendio a non so quale tenebroso complotto di debitori, che avrebbero voluto con questo mezzo esimersi dal pagare336: ma Augusto fu da quella calamità incitato a studiar finalmente sul serio come si potesse riordinare l’amministrazione della metropoli, sia pur facendo un altro strappo alla costituzione aristocratica. Se in venti anni l’aristocrazia non aveva imparato nemmeno a spegnere gli incendi e a lastricare le vie di Roma, bisognava pur risolversi a cercare fuori delle sue fila uomini volonterosi. Augusto però non volle nè dipartirsi dal principio elettivo, inerente a tutta la costituzione repubblicana, nè creare dal nulla un istituto interamente nuovo. In molti quartieri già da un pezzo il popolino – cittadini e stranieri, ingenui e liberti – sceglievano una persona che preparasse i ludi compitalizi e le altre feste religiose e non religiose del quartiere337. Augusto pensò di organare in unica magistratura permanente per tutta Roma e con poteri più vasti e precisi, questi uffici, sino allora quasi privati e parziali. Propose dunque una legge che divideva Roma in quattordici regioni, a capo di ciascuna delle quali sarebbe posto ogni anno o un pretore o un edile o un tribuno tratto a sorte338: ogni regione sarebbe divisa a sua volta in un certo numero di vici o quartieri – ai tempi di Plinio erano 205339; in ogni vicus tutto il popolo – cittadini e stranieri, ingenui e liberti – avrebbe eletto un magister, un capo quartiere, che non doveva solo presiedere al culto dei Lari del quartiere e preparare le feste, ma curare la polizia delle strade e spegnere gli incendi, con gli schiavi pubblici sino allora posti sotto gli ordini degli edili, di cui essi avrebbero facoltà di servirsi340. Naturalmente in ogni quartiere la scelta cadrebbe quasi sempre sui liberti, sugli stranieri, sui plebei più agiati e più considerati; e per stimolare il loro zelo, per ricompensare le loro fatiche che non dovevano, secondo il principio repubblicano, ricevere mercede in denaro, la legge accordava loro il diritto di portare in certe occasioni la pretesta e di farsi precedere da due littori341: accordava loro insomma dei distintivi ufficiali, molto modesti ma che in quella società ancora così aristocratica, non potevano non lusingare l’amor proprio di tante persone oscurissime. Così in ogni quartiere si organizzava il servizio della nettezza urbana e il servizio dei pompieri intorno alla cappella dei Lari; si tentava di conglutinare la nuova amministrazione metropolitana nella antica e tenace tradizione religiosa; si cercava di sollecitare la parte migliore dei plebei e dei liberti a servire gratuitamente il pubblico, remunerandola con dei distintivi e facendo una nuova, piccola aristocrazia popolare nell’immenso formicaio brulicante della infima plebe metropolitana.

Augusto avrebbe potuto annoverare questo anno tra i più quieti e felici – non furono molti nella sua vita gli anni quieti e felici – se la discordia tra Giulia e Tiberio non si fosse frattanto invelenita e – pericolo maggiore – allargata ad una vera contesa politica tra il partito della giovane nobiltà e il vecchio partito tradizionalista. Tiberio aveva certamente conosciuto o sospettato l’adulterio di Giulia. Ora Tiberio apparteneva all’estrema ala intransigente del partito tradizionalista e puritano, che aveva costretto Augusto a proporre le grandi leggi dell’anno 18, che ne reclamava senza riposo l’applicazione implacabile, che rampognava di continuo il disordine tollerato dai grandi nelle loro famiglie. Poteva egli – egli il puritano, il conservatore, il tradizionalista – tenersi in casa una sposa sospetta di adulterio quando la lex de adulteriis lo obbligava a denunciarla e a ripudiarla?342 Toccava ora proprio a lui dare quell’esempio di antica fortezza romana, che sino allora esigeva e così duramente dagli altri! Ma Giulia era la figlia – e la figlia diletta – di Augusto, del suo patrigno, del suo capo, dell’uomo a cui egli doveva il rapido corso degli onori, le magistrature anticipate di tanti anni, la gloria precoce, invidia di tanti. Egli non poteva accusare o scacciare Giulia, così come qualunque altra matrona di Roma, perchè un tale scandalo – nella casa di Augusto – avrebbe avute le più gravi ripercussioni politiche. Tiberio quindi, pur così risoluto e inflessibile di solito, questa volta esitava. Ma Giulia, che conosceva il marito, dovette temere che la sua discendenza non sarebbe sempre uno schermo sicuro contro l’orgoglio, il puritanismo, lo spirito autoritario di un Claudio; capì che per difendersi essa doveva assalire Tiberio, la sua potenza politica, la sua situazione nello Stato; e si unì ai nemici di lui, già tanto numerosi nella giovane nobiltà. Il momento era, per molte ragioni, opportuno. Augusto incominciava a scendere sul declivio della vecchiaia verso la sessantina; era sempre stato di salute cagionevole; e viveva discretamente, lo sapevano tutti, soltanto per le cure continue e il rigoroso regime. Non pochi si domandavano perciò se egli non dovesse raggiungere presto Mecenate, Agrippa e tanti altri amici e coetanei suoi, trapassati nel regno di Plutone e di Proserpina: e la questione della successione si presentava quindi, sia pur vagamente, senza precisa determinazione di tempo, al pensiero di molti. Chi succederebbe ad Augusto, nella presidenza della repubblica, ormai giudicata da tutti necessaria? Tiberio, senza alcun dubbio, se non si cercasse di renderne impossibile la successione, rinfocolando le antipatie latenti nel popolo contro di lui, approfittando di tutti i suoi difetti – sopratutto di quella rigidezza incapace di adattamenti e di transazioni – per creargli difficoltà. Intorno a Giulia si raccolse dunque una combriccola di giovani, nemici di Tiberio, nella quale erano Marco Lollio, Caio Sempronio Gracco, Appio Claudio, Giulio Antonio, Quinzio Crispino, uno Scipione e molti altri; e che fatti più arditi, dopo aver trovata una alleata nella casa stessa di Augusto, incominciarono, d’accordo con Giulia e con l’aiuto suo, una guerra implacabile di calunnie contro Tiberio343.... Orgoglioso e inflessibile, Tiberio non si degnò neppure di volger la testa. Ma al principio dell’anno 6 i suoi nemici si risolverono, approfittando di Giulia che era disposta ad aiutarli presso Augusto, a tentare una mossa più ardita: contrapporre a Tiberio Caio Cesare, il figlio di Agrippa e di Giulia adottato da Augusto, che allora aveva 14 anni; designarlo già fin d’allora alla successione di Augusto e preparare a Tiberio un rivale, proponendo una legge per la quale si potesse già in quell’anno nominarlo console per l’anno 754 di Roma, in cui Caio avrebbe 20 anni. La folle proposta coronava con una anomalia mostruosa i lunghi sforzi fatti da tutta una generazione per restaurare la vecchia costituzione aristocratica. Quando mai si era neppur pensato che si potesse a Roma eleggere console un fanciullo di 14 anni? Da prima gli uomini come Tiberio, dovettero ridere di una simile proposta, come di una grottesca pazzia. Ma Giulia, i suoi amici, i fautori della proposta facevano assegnamento sulla paura universale che a quello di Augusto succedesse un governo anche più severo, avaro, conservatore; sui rancori di quanti erano torturati dalle leggi sociali dell’anno 18; sulla inquietudine delle famiglie sterili, che una legge castigasse la loro sterilità; sul desiderio di un governo più splendido, più generoso, più libero. Caio Cesare, che per i suoi costumi mostrava di appartenere, non ostante gli insegnamenti di Verrio Flacco, alla nuova generazione, poteva simboleggiare queste molteplici aspirazioni. Del resto non era Augusto stato console a venti anni?344 Perchè il figlio non poteva godere di egual privilegio? Si volgerebbero così per tempo gli occhi del popolo sul giovane; si disporrebbe l’animo di costui a favore di quanti gli affrettavano così insigne onore; si raccoglierebbero su questo giovane, che per il suo nome già era simpatico, che era già stato applaudito fragorosamente dal popolo a più riprese, le speranze di quanti inquietava il timore che un giorno Tiberio governerebbe l’impero. A questo Claudio insomma, duro, superbo, impopolare come tutti i membri della sua famiglia, si opporrebbe un Giulio; e l’anima popolare si volgerebbe, come un girasole, verso lo splendore abbagliante di questo grande nome.

E difatti la mossa, che doveva parer folle a un vero Romano, inaspettatamente riuscì. Gli amici di Giulia incominciarono a divulgare la loro proposta nel popolo e nel Senato, presentandola naturalmente non come uno sfregio che si voleva fare a Tiberio, ma come un omaggio che si voleva tributare ad Augusto; popolo e Senato, sempre pronti a mostrare la loro devozione al Presidente e la loro ammirazione per il nome di Cesare, la approvarono come stupenda; quanti diffidavano di Tiberio – ed erano tanti – la favorirono calorosamente; Giulia perorò la causa del figlio presso il padre suo.... Una sola persona si oppose dapprima recisamente alla proposta insensata: Augusto. Ed è facile capire perchè. I privilegi che egli aveva fatti concedere a Marcello, a Tiberio, a Druso, meno gravi di quello domandato per Caio, erano stati tutti giustificati da necessità di Stato e da servigi già resi: ma si poteva crear console un ragazzo, di cui era difficile prevedere perfino se diverrebbe un uomo serio? La assurda proposta sconvolgeva, pei reconditi fini di una piccola combriccola, tutta la costituzione della repubblica; ne rovinava il restauro faticosamente fatto da venti anni; inoltre offendeva mortalmente Tiberio, il quale sdegnatissimo, esigeva che Augusto opponesse tutta la autorità sua ai suoi nemici, i quali volevano fargli un così grave affronto. Come? mentre egli combatteva sul Reno, quella scioperata gioventù che a Roma dissipava la propria nullaggine tra i teatri e le letture di Ovidio, voleva opporre a lui, che aveva già compiute tante cose, un fanciullo di 14 anni, e copertamente insidiargli il frutto di tante fatiche? Augusto non doveva tollerare gli si facesse sì grave ingiuria, si ordissero mene così nocive allo Stato. E difatti Augusto da prima protestò con veemenza; tenne un discorso violento in Senato dicendo che quelle erano pazzie; che bisognava per esser console avere almeno un po’ di giudizio345. Ma gli altri insistettero; il popolo sciocco, come al solito, voleva il suo console fanciullo; il partito avverso a Tiberio, forte in Senato, non restò neghittoso; il popolo, che amava molto il nome di Cesare e poco il nome dei Claudi, cui Caio era tanto simpatico quanto Tiberio sgradito, si riscaldò; Giulia, si può immaginarlo, intrigava per affrettare questa vendetta. Tiberio non mosse dito o ciglio, come di solito. Augusto dovè cedere e lasciar che nei comizi dell’anno 6 Caio Cesare fosse eletto console in anticipazione di cinque anni. Ma non ignorando che i promotori avevano macchinata tutta questa cabala in odio a Tiberio, si affrettò a dare un compenso a Tiberio: gli fece dare per cinque anni la potestà tribunizia, facendolo cioè suo collega in luogo di Agrippa e lo mandò in Armenia, dove, Tigrane essendo morto, era scoppiata una rivolta346.

Ma Tiberio era un Claudio, un aristocratico, un uomo tutto d’un pezzo. Gli mancava la duttilità, la pazienza, lo scetticismo del nipote dell’usuraio di Velletri. Dopo aver sopportato per un pezzo in silenzio, senza batter ciglio, gli affronti e i dispetti dei suoi nemici, perdette la pazienza all’ultimo affronto che gli aveva fatto Augusto, cedendo in parte alla fazione di Giulia. Non volendo combattere con nemici tanto bassi e meschini, non potendo più vivere con una moglie sospettata di adulterio, non volendo essere giudicato – egli il più rigido dei tradizionalisti – uno di quei mariti indulgenti, cui la lex de adulteriis minacciava tante pene e tanta infamia; non fidandosi più di Augusto, che con il consueto opportunismo non gli dava affidamento di aiutarlo vigorosamente contro i suoi nemici; nauseato, disgustato, irritato, si levò per andarsene. Non fece recriminazioni, non tentò imposizioni, non cercò conciliazioni: ma rifiutò sdegnosamente il compenso offertogli da Augusto. Invece di andare in Armenia si recò dal patrigno, e, dichiarandosi stanco, gli domandò il permesso di ritirarsi a vita privata nella quiete di Rodi, nella piccola e gloriosa repubblica marinara.

VII.
L’ESILIO DI GIULIA.

L’improvvisa risoluzione di Tiberio sbigottì Augusto. Perdendo Tiberio, Roma perdeva l’organo della politica germanica! Augusto cercò dissuaderlo, lo fece pregare e supplicare dalla madre, si lagnò in Senato che tutti lo abbandonavano, supplicò egli stesso347. Ma Tiberio fu irremovibile. Augusto alla fine dichiarò che non avrebbe lasciato concedere dal Senato l’autorizzazione a partire, di cui, come suo collega, aveva bisogno. Tiberio rispose chiudendosi in casa, minacciando di lasciarsi morire di fame. Passò un giorno, ne passarono due, tre: al quarto giorno Augusto cedè; e lasciò il Senato dargli il permesso di recarsi dove volesse348. Subito Tiberio, con un piccolo seguito e come un privato, si recò ad Ostia; dove, abbracciati soltanto gli amici più intimi, se ne partì alla volta di Rodi, con pochi servi e compagni349.

Così partiva di Roma e se ne ritornava a vita privata, a 36 anni, Tiberio, per risentimento dell’offeso amor proprio, per disgusto di Giulia e della sua generazione, che egli sentiva così avversa e diversa. Augusto aveva quindi qualche ragione di sdegnarsi contro Tiberio, che si offendeva più per le mene dei suoi nemici e per gli onori attribuiti a Caio, che non si rallegrasse per i compensi amplissimi e per le prove di non interrotta fiducia da lui prodigategli; e che ad ogni modo si vendicava su lui e sulla repubblica di offese fattegli da altri. Anche questo campione del tradizionalismo, questo redivivo Catone Censore, dimostrava di non essere interamente immune, egli neppure, da quell’universale egoismo, per cui tutti posponevano così facilmente il bene pubblico all’interesse e anche al puntiglio personale. Ma Tiberio aveva a sua volta ragione di lagnarsi che Giulia e Augusto lo ponessero in una intollerabile contradizione con sè medesimo. Poteva egli rimproverare agli altri il lusso smodato e lasciar poi Giulia invogliare al lusso, con l’esempio suo, tutte le signore di Roma? Tollerare in casa sua l’adulterio e volerlo sradicare dalle case altrui con il ferro della lex de adulteriis? Protestare contro la decadenza delle istituzioni repubblicane e accondiscendere alla follìa popolare che voleva dare i fasci consolari a un fanciullo? I νεώτεροι, i giovani “modernisti e alla moda” coetanei suoi, che sino allora lo odiavano, avrebbero avuto ragione di beffarsi di lui. No, Tiberio non poteva mettere a repentaglio il prestigio e la gloria, acquistati con tanti anni di fatiche e di intemerati costumi, perchè Augusto si ostinava a non punire le leggerezze di sua figlia e non sapeva resistere al partito che traviava con folli onori lo spirito di Caio Cesare. A sua volta Tiberio aveva ragione di lagnarsi che Augusto negligeva l’interesse pubblico per considerazioni di opportunità, che egli doveva giudicare perniciose. Tiberio insomma era scacciato di Roma dalle inestricabili contradizioni insite nei tempi, e per le quali tutti erano in parte almeno costretti ad agire contro le dottrine che professavano. Ma le conseguenze del suo ritiro furono molte e tutte gravi e tutte cattive per lui e per il suo partito; mentre furono buone per i suoi nemici, i quali certo non avrebbero potuto immaginare fortuna maggiore, che questa spontanea inaspettata sparizione del loro più terribile nemico. In un giorno, inopinatamente, con infinita meraviglia sua, il partito di Giulia, di Caio Cesare, della giovane nobiltà vinse su tutta la linea, si trovò padrone del campo. L’atto di Tiberio sortì proprio l’effetto opposto a quello che Tiberio sperava, perchè il pubblico lo giudicò come una specie di fellonia commessa contro Augusto; e invece di affrettarsi, come Tiberio sperava, sulle traccie di lui che partiva per pregarlo di ritornare, gli volse indispettito le spalle, protestò che faceva bene a partire e che meglio avrebbe fatto a non tornare mai più350. Nè Augusto, nè Tiberio nè alcun altro aveva divulgati i veri motivi della partenza351; Tiberio non era popolare; e infine egli se ne andava, egli, il maggior campione del tradizionalismo, proprio nel momento più inopportuno, quando le aspirazioni ad un governo più libero, più dispendioso, meno conservatore, smanianti da venti anni, erano sul punto di rompere il freno.... La partenza di Tiberio, la sua lite con Augusto, il trionfo inaspettato del partito di Giulia e della giovane nobiltà indebolendo a un tratto il partito tradizionalista, le aspirazioni della nuova generazione, a lungo tempo frenate, proruppero da ogni parte; si precipitarono sulla via di Tiberio, come una muta di cani, a cacciarlo; e ben presto dominarono a Roma nel Senato, nei Comizi, nell’opinione pubblica. Il Cesare fanciullo diventò rapidamente l’idolo delle moltitudini e ponendosi tra essa e l’Italia, parò a questa la vista della bella isoletta lontana nell’Egeo, dove il più valente generale del tempo si disponeva a vivere come un privato, tra una modesta casa in città e una modesta villetta in campagna352. Quando o il primo gennaio o nei primi giorni dell’anno 5 Augusto presentò Caio al popolo in una grande cerimonia sul Foro, il Senato concesse a Caio il diritto di assistere alle sedute e ai banchetti del Senato353; i cavalieri, che non vollero essere da meno, lo nominarono primo decurione della prima turma, dandogli il titolo di princeps juventutis e gli regalarono una asta e uno scudo d’argento354; i pontefici lo accolsero nel loro collegio355. Ben presto l’ammirazione dilagò da Roma per tutta l’Italia356; statue, iscrizioni furono poste in ogni parte a ricordare la inusitata meraviglia di un console designato a 14 anni357; e l’amministrazione non tardò a sentire lo spirito nuovo, spirito di prodigalità e di imprevidenza, che sciolse la parsimonia in cui Tiberio aveva cercato di stringere sino allora la finanza pubblica. Fu accresciuto il dispendio delle frumentazioni di Roma358; crebbe il dispendio delle opere pubbliche e degli spettacoli popolari, quando già cresceva di un pezzo il dispendio militare, sia perchè queste guerre combattute contro barbari poveri costavano più che non rendessero, sia perchè per la legge militare approvata troppo in fretta e con soverchia imprevidenza nell’anno 14, era necessario pagare ogni anno ad una sedicesima parte dell’esercito il premio di congedo promesso. Spesa ingentissima, non ostante che con mille ripieghi si cercasse di diminuirla, prolungando il servizio oltre 16 anni359. Da tutte le parti si reclamò che le largizioni di denaro con cui il governo irrorava Roma, sempre asciutta come la pomice, non bastavano più360. Infine la rinnovata baldanza del partito antitradizionalista trascese in uno spirito di licenza o di depravazione che, esemplato ormai proprio da Giulia, si diffondeva rapidamente in ogni parte della società romana, distruggendovi la educazione lentamente compiuta dalla politica tradizionalista. Bella, intelligente, piacevole, colta e amante della letteratura, interamente libera ormai dopochè essa aveva scacciato Tiberio da Roma e interamente dominata da Sempronio Gracco, da Julo Antonio e dagli amici loro; adulata e corteggiata, come la propria Musa ispiratrice, dalla aristocrazia elegante e letterata, Giulia introduceva nel vecchio mondo muliebre di Roma, impersonato ancora nei solenni portamenti di Livia, la mondanità, la intellettualità elegante, il lusso, il piacere, la frivolezza, la sensualità, lo scetticismo.... Non ostante le ammonizioni del padre, essa sfoggiava, profondendo in ogni parte i denari, curando la bellezza e le vesti oltre la misura permessa dalla tradizione a una matrona seria; non temeva di comparire, accompagnata dalla comitiva dei suoi giovani amici, in teatro, dove il popolo poteva contemplare il passato e l’avvenire, volgendo gli sguardi da Livia, sempre attorniata da un corteggio di senatori gravi e attempati, a Giulia, che irrompeva seguita da uno sciame di giovinotti azzimati, chiassosi, insolenti361; sembra che non gradisse più soltanto gli omaggi di Sempronio Gracco, ma di altri, come di Julo Antonio362. E l’esempio di Giulia poteva sugli spiriti tentennanti più che le minaccie o gli ammonimenti contrari: quando la figlia stessa del presidente si faceva lecite tante cose, perchè gli altri avrebbero dovuto astenersene? Augusto stesso pareva consentire indirettamente a tutti, lasciando fare la figlia. Cosicchè al rigore degli anni precedenti seguiva un nuovo rilassamento; il pubblico, stanco di scandali, stanco dello sforzo che la severità richiede, si rammolliva di nuovo nell’indulgenza; Cassio Severo, ormai roco dopo tante minaccie, non riusciva più a far condannare nessuno dai giudici rifatti mansueti363; le leggi suntuarie e altre leggi intese a imporre alla aristocrazia l’osservanza dei propri doveri perdevano forza; in tutte le classi si propagava, come un contagio, la smania del godimento e del lusso, suscitando dappertutto nuovi bisogni. La plebe innumere di Roma, a cui si provvedeva già a stento il pane, prendeva coraggio a domandare distribuzioni gratuite di vino364; Ovidio, il poeta in voga, l’idolo delle donne e dei giovani, lasciava ormai scapricciarsi liberamente la fantasia voluttuosa; e Giulia, bella prodiga adultera, Caio Gesare, imberbe inesperto frivolo, diventavano popolarissimi specialmente nella plebe cosmopolita di Roma, che, composta di artigiani e di fannulloni, voleva un governo che spendesse molto e la divertisse365. La figlia di Augusto e il figlio di Giulia impersonavano ai suoi occhi il futuro, sperato governo più generoso e meno severo. Una parte delle classi medie ed alte era ancora imbevuta di spirito puritano e tradizionalista: ma anche questa, assottigliata, indebolita, non più aiutata dalla irritazione della opinione pubblica, poteva soltanto protestare rabbiosamente contro tutto e contro tutti e rammaricare inutilmente Tiberio, il più prestante soldato di Roma, costretto a far della letteratura e della filosofia a Rodi per il piacere di una sgualdrina. Tra costoro doveva esserci anche Livia che, se non commise, per riaprire a Tiberio le porte di Roma, i delitti di cui la tradizione la accusa, non poteva non desiderare che il figlio ritornasse e non adoperarsi, nella misura delle sue forze, contro la nuora detestata e nefasta. Ma per il momento la piccola fazione degli amici di Tiberio e dei tradizionalisti non poteva che sfogare il suo malumore, dipingendo con i più foschi colori la corruzione dei tempi; inventando, credendo e divulgando sommessamente ogni sorta di abominazioni sui principali personaggi dell’avverso partito e specialmente su Giulia: onde è da credere che in questo tempo e in quel piccolo crocchio incominciassero a nascere le infami leggende che la sua disgrazia incollò poi così tenacemente sulle pagine della storia. Quella donna, anzi quel mostro, era quasi sospinta fuori dell’umanità da una selvaggia libidine: i suoi amanti non si potevano numerare; le sue orgie notturne non si potevano descrivere; essa aveva voluto commettere adulterio, una notte, ai piedi dei rostri, della tribuna da cui il padre suo aveva promulgata la lex de adulteriis; essa collocava una corona sulla testa della statua di Marsia ogni volta che pigliava un nuovo amante; essa – orribile, orribile – andava travestita, la notte, da prostituta a uccellare sul Foro i giovani popolani e acconsentiva a percepire la infame mercede366.

Insomma, non solo Tiberio fu ben presto abbandonato a Rodi in un mezzo oblìo, ma Augusto stesso, non ostante le opposte inclinazioni personali, dovè acconciarsi a governare almeno in parte con la nuova generazione, a lasciar che certe sue idee e inclinazioni e desideri prevalessero nel costume e nello Stato. D’altra parte non è dubbio che egli si era veementemente corrucciato con Tiberio per la sua ostinazione e per la sua partenza; nè solo, senza Tiberio, senza un collaboratore valente che lo aiutasse, egli poteva presumere di opporsi a viso aperto a tutte le aspirazioni della nuova generazione. Cedere almeno in parte, nelle cose meno pericolose, era necessità. Senonchè non è possibile mutar intieramente pensieri e inclinazioni a sessant’anni. Nelle cose essenziali, Augusto si proponeva di essere in futuro come in passato la guida che doveva ricondurre il popolo romano sulle vie dell’antico verso le sorgenti storiche della vita nazionale: diffidava quindi della nuova generazione, dei suoi uomini, del suo spirito, delle sue idee; non consentirebbe facilmente a lasciarle prendere in mano il vero governo dello Stato. Egli era quindi impigliato in una difficoltà strana: non poteva servirsi del solo uomo della nuova generazione che era d’accordo con lui nelle cose fondamentali, perchè questi si era reso intollerabile a tutti; ma non voleva servirsi degli altri, che sarebbero stati a sua disposizione, perchè ne diffidava e li sentiva troppo diversi. Che fare? Non c’era altro consiglio savio che di affrettarsi a preparare un nuovo collaboratore in luogo di Tiberio, Caio; e frattanto, aspettando che il corpo e la mente, ancora acerbi, del giovinetto maturassero, cercar di reggere l’impero come poteva, e con una prudenza sempre vigile, con dei sapienti differimenti, con una accorta inattività impedire alla nuova generazione di far troppo male. Impresa non facile, il supplire, solo, in tutto l’impero alla negligenza crescente del Senato e dei magistrati, alla insufficienza sempre più manifesta delle leggi e delle istituzioni, perchè le faccende crescevano ogni dì, e tutti, da ogni parte, si volgevano a lui per ogni sorta di cose grandi e piccine. Erode gli mandava a domandare l’approvazione di un’altra sentenza di morte, pronunciata contro Antipatro, sospettato anche esso a sua volta di aver cospirato contro la vita del padre e riconosciuto reo da un tribunale radunato a Gerico367. Cnido lo pregava di assidersi arbitro in un processucolo penale, che, essendovi implicata una famiglia cospicua, aveva profondamente commosso il popolo368. Anche in Armenia si minacciavano torbidi, perchè il successore di Tigrane era perito in una spedizione, la regina aveva abdicato e il partito romanofilo aveva eletto a re lo zio del morto, Artavasde. Roma doveva risolversi a riconoscerlo o no369. Il re di Paflagonia pure era morto; e ci erano difficoltà per la successione, probabilmente perchè mancavano gli eredi legittimi370. In Germania, assoggettate tutte le tribù, bisognava dare ai territori conquistati forma e ordinamento di provincia. Tra tante brighe e faccende, Augusto cercò di far del suo meglio. In Germania mandò un parente suo, Lucio Domizio Enobarbo, uomo non senza merito, benchè violento, superbo, stravagante371: ma non impose alcun tributo, non introdusse alcuna legge romana, lasciò i germani soggetti di nome ma liberi di governarsi a modo loro. È chiaro che, privo dei consigli e dei suggerimenti di Tiberio, il quale conosceva a fondo le faccende germaniche, Augusto non osò innovar più nulla; e preferì appigliarsi al pericoloso espediente di lasciar la nuova conquista sospesa in quella condizione incerta, nè provincia nè libera. Diede a studiare la faccenda di Cnido a Asinio Gallo372; si risolvè a far riconoscere dal Senato il nuovo re di Armenia e a proporre al Senato la annessione della Paflagonia, che sarebbe unita alla Galazia373; non si stancò di ammonire Giulia ad esser più savia, sebbene sapesse che sprecava il fiato374; si studiò con ogni mezzo di preservare almeno Caio e Lucio dal contagio della universale corruttela; al popolo che domandava vino, indicò per dissetarsi le numerose fontane che Agrippa aveva aperte in Roma375, e, quasi a commento del suo consiglio, riparò in questo anno tutte le condutture degli acquedotti376; ma dovè risolversi, per tranquillare il popolo in fermento, a fare una distribuzione di denaro: 60 denari a testa, a 320000 persone, del suo, si capisce377. Aiutò pure con suo denaro il tesoro a pagare in questo anno le pensioni al soldati congedati378. Certo questi doni personali di Augusto erano una risorsa preziosa delle dissestate finanze; per restaurare le quali davvero sarebbe stato necessario esigere con maggior rigore i tributi, raffrenare le ruberie dei pubblicani, riprendere ai privati le terre e le miniere dello Stato, usurpate o ottenute per meschini vectigalia, come Tiberio proponeva. Ma poteva quel governo vecchio e monco affrontare tanti interessi privati? Si preferiva tirare innanzi così, a caso, confidando nel futuro, nella borsa e nella generosità di Augusto, ambedue inesauribili, nella buona fortuna la quale voleva che proprio allora la generazione coetanea di Augusto, la generazione che aveva fatta dopo la morte di Cesare la rivoluzione, che aveva combattuto a Filippi e ad Azio, si disponesse, avvicinandosi il tramonto, ad aiutare con una generosità intelligente la generazione nuova. In quella generazione, cresciuta in mezzo ad una rivoluzione, i celibi, i senza figli erano numerosi. A chi lasciare i beni acquistati nel grande trambusto? Molti dovevano la fortuna ad Augusto; molti, avendo vista la bufera, ammiravano Augusto, che l’aveva superata; tutti sapevano che Augusto spendeva le eredità degli estranei per fini di pubblico bene. Molti perciò nominavano erede Augusto. A cominciare da questi anni sino alla morte, Augusto ricevette un numero particolarmente cospicuo di eredità, il cui valore sommava in media ogni anno a 70 milioni di sesterzi; che i suoi abili amministratori si affrettavano a liquidare, affinchè Augusto potesse spendere la somma ricavata a scopi pubblici379. I piccoli patrimoni dei veterani dedotti in lontane colonie si confondevano con i patrimoni dei ricchi senatori e cavalieri di Roma, in questo, per chiamarlo così, bilancio supplementare amministrato da Augusto; e a poco a poco divulgandosi la consuetudine di questi testamenti, la generazione rivoluzionaria restituiva alla Nazione per il tramite del suo capo il mal tolto; i morti aiutavano i vivi per l’interposta persona di Augusto; e la generazione che aveva fatta la sua fortuna con i saccheggi della rivoluzione, terminava il corso mortale con un atto di illuminato civismo. Senonchè queste contradizioni, questi tentennamenti, queste transazioni dovevano scontentar tutti. Ben presto avvenimenti gravi sopraggiunsero ad accrescere le difficoltà della situazione nei due anni seguenti – il 4 ed il 3 a. C. – Nel 4 morì in Giudea Erode, dopo aver fatto uccidere Antipatro380; e probabilmente nel 3 Fraate, il re dei Parti, e per mano del figlio di Thea Mousa381. Erode aveva fatto poco prima di morire un ultimo testamento, nel quale lasciava il titolo di re ed una parte del regno al figlio Archelao; il rimanente divideva tra i due figli Antipa e Filippo e la sorella Salomé. Agli altri numerosi figli e parenti erano assegnate ricche pensioni. Disponeva inoltre che il testamento dovesse essere confermato da Augusto, per impegnar Roma a mantener poi in Palestina l’ordine di cose che essa aveva approvato. Sapendo però che Roma non largiva approvazioni senza compenso, Erode aveva già nel testamento, e con reale munificenza, assegnata la rimunerazione, lasciando ad Augusto 10 milioni di dramme (su per giù dieci milioni di franchi). Nè aveva dimenticata Livia, a cui lasciava due navi d’oro e d’argento e una grande quantità di stoffe preziose, seta in ispecial modo382. L’astuto Itureo era un esperto conoscitore del tempo suo; sapeva che Roma insaziabile divorerebbe rapidamente anche questo tesoro, accumulato a soldo a soldo dal lavoro paziente degli infelici Ebrei; sapeva che Livia, non ostante il suo riserbo, era potentissima per l’influenza che esercitava su Augusto; che era più potente assai di Tiberio, a cui, pare, non lasciò nulla....

Gli amici di Tiberio, infatti, sempre più rari, riuscivano ormai a stento a difenderlo contro le calunnie dei nemici, i quali cercavano di aizzare contro di lui i due giovani figli di Agrippa e persino di insinuare nell’animo di Augusto il sospetto che egli macchinasse congiure; onde colui che qualche anno prima era stato il più glorioso generale del tempo suo, ben lungi da sperare il solenne risarcimento di un richiamo a Roma, era ridotto a cercar di smentire le accuse, facendosi piccino piccino, laggiù, in una lontana isola dell’Egeo383. A Roma intanto popolo e classi alte, travolte come in un vortice da una frenetica smania di odiare le cose di cui da trenta anni si cercava di inculcare l’ammirazione, attendevano impazienti l’anno 2 in cui Lucio, toccati i quindici anni, riceverebbe gli stessi onori di Caio; adulavano, lusingavano, ammiravano, amavano i due giovani, quasi che, accanto alla vecchiaia prudente di Augusto, rappresentassero la giovinezza che cerca impetuosamente il nuovo, il piacere, la libertà, che rompe il freno dei pregiudizi e delle paure; si intenerivano sopra i due consoli ancora fanciulli – inversione singolare del sentimento – proprio per il privilegio più contrario allo spirito repubblicano, per quella precocità mostruosa di onori, che ricordava i sovrani fanciulli dell’Oriente. Era una specie di aberrazione, di perturbamento, quasi di follìa universale, in cui la nuova generazione sfogava alla fine l’odio per tanti anni represso contro la educazione ricevuta dai padri, contro la generazione di Azio e contro l’imperio che essa esercitava ancora sulla pubblica cosa, per mezzo di Augusto, con le leggi e con i pregiudizi radicati nelle menti. Augusto si trovava quindi in difficoltà gravi. Se da una parte egli aveva acconsentito a lasciar correre i due giovani sulla via degli onori, per poter presto disporre di due nuovi collaboratori, egli li vedeva ora afferrati da una turba ribelle e portati a braccia, in una corsa precipitosa, tra un clamore indicibile di grida, verso tutt’altra meta che quella da lui designata. Pur troppo i due giovani non parevano avere ricavato molto profitto dall’insegnamento di Verrio Flacco; e tra tante adulazioni e ricchezze ed omaggi, insuperbivano, prendevano in odio Tiberio, inclinavano assai più alla dissipazione dei loro coetanei, che non ai severi costumi ed alle idee degli antichi384. Augusto vigilava di continuo; ma quando mai un vecchio ha potuto afferrare e trarre a riva una giovinezza, travolta dalla turbinosa corrente dell’esempio universale?

È facile immaginare quanto dovessero rodersi dentro, da quale ira impotente sentirsi gonfiare il cuore, per tanto scandalo, gli amici di Tiberio. Roma delirava per quei due piccoli scimuniti, e lasciava consumarsi in un ozio cupo l’uomo più capace del tempo suo! Ma non pareva esserci rimedio: Augusto, sdegnato sempre contro Tiberio, non ascoltava intercessori in suo favore; i tempi, in apparenza tranquilli dappertutto, non avevano bisogno delle virtù di Tiberio, e quindi congiuravano con i suoi nemici; i giovani, i ricchi, il popolino, seguivano l’esempio di Giulia, si divertivano, profondevano il denaro estorto a tutto l’impero, spensieratamente, senza domandarsi se il diritto di far festa con le ricchezze dei sudditi fosse eterno o, come ammoniva Tiberio, non durasse quanto durerebbe la forza di prenderle altrui. Eppure nell’anno 4 e nel seguente la Palestina ricordò un’altra volta a Roma, con un esempio terribile, che l’oro che essa spendeva nei suoi sollazzi aveva un prezzo di sangue. Morto Erode, il suo regno si era in pochi mesi precipitosamente sfasciato. Il partito nazionalista aveva rialzato la testa; Antipa, che nel testamento precedente era stato nominato re, era corso a Roma per cercar di far ratificare da Augusto questo testamento invece dell’ultimo, che dava il regno ad Archelao; inquieto, Archelao si era recato anche egli a Roma a perorare la sua causa, sebbene già da ogni parte i rancori, le rivendicazioni, i malcontenti, le speranze per tanto tempo compresse dalla mano ferrea di Erode si agitassero minacciosamente385. Cosicchè tra il 4 e il 3 i due fratelli erano giunti a Roma con i due testamenti, invocando arbitro Augusto. Augusto, non volendo assumersi solo la responsabilità della deliberazione, avea convocato un consiglio di senatori a cui fece assistere anche Caio; il consiglio aveva deciso che fosse valido il secondo testamento, quello che lasciava tanto denaro ad Augusto ed a Giulia386.... Ma appena Roma aveva così sentenziato, che giunsero da Palestina ben più gravi notizie. Partito Archelao, era scoppiato un dissidio in Siria tra Sabino, che era il nuovo procuratore mandato da Augusto a sostituire Erode in questo ufficio, e Quintilio Varo, il governatore della Siria. Sabino voleva occupare la Palestina durante la assenza di Archelao, con la guarnigione romana, per assicurarsi in quei tempi torbidi dei tesori del re, e quindi anche dei dieci milioni lasciati ad Augusto da Erode: Varo, più pratico dei luoghi e degli uomini, temeva l’intervento provocherebbe il partito nazionale a qualche atto disperato, e consigliava di aspettare vigilando387. Sabino la vinse alla fine, perchè allora, come sempre, la sollecitudine del denaro potè più che i consigli della prudenza politica; ma, come aveva temuto Quintilio Varo, la nazione, già esasperata contro Erode perchè spendeva una parte considerevole delle imposte a beneficio degli stranieri, perdè questa volta la pazienza. Gerusalemme insorse; insorsero le campagne; una parte dell’esercito si rivoltò; bande di predoni proruppero da ogni parte388; Quintino Varo dovè accorrere con le legioni di Siria e con tutti i corpi ausiliari; cercare aiuti in ogni parte: anche un corpo di 1500 soldati offerto dalla città di Berito, anche cavalli e fanti mandati in grande numero da Areta, re dell’Arabia Petrea389.

Erode aveva tentato di conciliare gli Ebrei con le due forze soverchianti contro cui era presunzione per essi il combattere: l’Ellenismo e Roma. Ma c’erano tanti contrasti nell’impero, che questa politica savia e necessaria aveva, per i mezzi adoperati ad attuarla, esasperate le popolazioni. Quale ammonimento per Roma! Quintilio Varo era stato talmente spaventato dalla rivolta che, appena ristabilito alla meglio l’ordine, aveva permesso agli Ebrei di mandare a Roma una deputazione a chiedere l’abolizione della monarchia390. E Augusto, il Senato, Roma, udirono ancora una volta risuonar dall’Oriente, lacrimoso questa volta ed umile, quel lamento, che già aveva risuonato aspro e iroso dall’Occidente: il lamento delle campagne avvinghiate e succhiate dalla immensa piovra, di cui la monarchia di Erode era l’occhio, e tentacoli insaziabili le città adornate di monumenti magnifici e sollazzate con il denaro dei contadini; i parassiti, i cortigiani, i funzionari, gli artisti e i letterati stranieri brulicanti alla corte; le torme dei soldati traci, galati, germanici, ingrassati costringendo gli Ebrei a digiunare anche nei giorni non prescritti dalla legge; gli Stati, i sovrani, i grandi personaggi stranieri continuamente beneficati con oro ed argento, faticosamente accumulato dal lavoro giudaico; il lusso, il vizio, la corruzione, la servilità, il delitto trionfante alla corte in mezzo allo squallore della nazione impoverita, atterrita, sgomenta. E gli ambasciatori ebrei conchiudevano domandando la abolizione della monarchia, la annessione della Palestina alla Siria e il suo ordinamento a provincia391. Dalla insanguinata famiglia di Erode, la Palestina fuggiva a nascondere il capo nel grembo di Roma! Ma intanto, non perturbata neppure da questo gesto disperato, la fredda prudenza di Augusto calcolava che, fatta la Palestina provincia romana, Roma si assumerebbe la responsabilità di governare con i suoi magistrati, così scarsi, così svogliati, così inetti, un popolo inquieto e riottoso; che essa sarebbe costretta parte a sciogliere, parte a riordinare e a porre sotto il comando di ufficiali romani, come milizie ausiliarie, l’esercito di Erode; che essa dovrebbe accrescere il compito alle legioni stanziate in Oriente, così piccole a paragone del bisogno, e proprio in un momento in cui un nuovo e più grave pericolo nasceva. Fraatace, il figlio di Fraate, si volgeva con rapido voltafaccia contro Roma, e, sembra, occupava l’Armenia, con l’aiuto del partito nazionale, costringendo il re riconosciuto da Roma, a fuggire392. I motivi di questo tradimento – tale i Romani delusi dovevano giudicarlo – è a presumere fossero due: il desiderio di lavare le origini impure della sua fortuna nella popolarità di una politica arditamente nazionale; il desiderio di negoziare con Roma un accordo, in cui porre come condizione che gli fossero consegnati i figli di Fraate. Erano questi un ostaggio troppo pericoloso nelle mani di Roma. Ma intanto Roma vedeva frustrate le speranze poste nella rivoluzione di palazzo, compiuta da Théa Mousa; e il protettorato romano in Armenia pericolava, vacillava cioè la colonna su cui la supremazia di Roma in tutta l’Asia anteriore posava. Poteva Roma far questo passo indietro in Asia, dopochè Augusto aveva per venti anni illusa l’Italia e l’impero, facendo loro credere che i Parti si fossero quasi sottomessi ad una specie di protettorato romano?

Augusto quindi non accettò di proporre al Senato che la Palestina fosse dichiarata provincia romana; ma ritornò sulle deliberazioni già prese e immaginò, come al solito, una transazione con cui accontentare gli uni e gli altri: divise il regno di Erode in due; una parte dette a Archelao, con il titolo di etnarca, promettendogli di dargli il titolo di re se governasse bene; l’altra suddivise in due nuove parti, dandone una a Filippo, ed una a Antipa. Stabilì insomma nella Palestina una nuova monarchia tripartita e quindi più debole e più facile a vigilare393. Era invece più difficile provvedere alla Armenia e alle nuove difficoltà della questione orientale. Necessitava mandare un esercito in Armenia a ristabilire il protettorato romano e a mostrare a tutto l’Oriente che sino all’Eufrate Roma non tollerava rivalità o condomini: ma per quanto Augusto sospettasse che Fraatace minacciava senza voler proprio combattere, per mercanteggiar poi negli accordi della pace, egli non poteva non considerare con una certa perplessità tutta questa faccenda. Appunto perchè la faccenda si doveva comporre più con le minacce e con gli accordi ragionevoli, che con la forza, occorreva che la spedizione fosse condotta da una persona la quale avesse prestigio e abilità. Egli era troppo vecchio per tanto viaggio e per assumere una impresa così gravosa; Tiberio era a Rodi; tra i grandi di Roma non c’era alcuno di cui potesse fidarsi. Molti erano inetti. Lucio Domizio Enobarbo, ad esempio, sembra facesse molto mediocre prova in Germania394. Se qualcuno, come Marco Lollio, aveva le attitudini necessarie al comando, non aveva il prestigio e non dava affidamento di scrupolosa rettitudine395. Alla fine Augusto ideò una cosa molto ingegnosa, molto ardita, ma anche molto artificiosa, per stringere in un fascio la capacità, il prestigio, la rettitudine e mandarle insieme in Oriente: spedire cioè a risolvere la questione d’Armenia e le difficoltà con i Parti una commissione, a capo della quale starebbe Caio Cesare, e i cui membri sarebbero uomini capaci di fiancheggiarne e consigliarne l’inesperta giovinezza: tra gli altri Marco Lollio. Caio era un giovinetto di diciotto anni: ma l’età immatura alle grandi faccende, che non spiaceva più neppure agli Italiani, non gli nuocerebbe tra gli Orientali, i quali da troppo tempo erano avvezzi a guardar nei loro sovrani non la persona ma il nome, ma il titolo, ma una specie di semi-divinità, non dipendente dalla materia umana nella quale essi pure erano plasmati. Il giovane Caio si chiamava Cesare ed aveva per padre Augusto, la cui figura si era ormai dopo venticinque anni di governo impressa nello spirito degli Orientali come quella del nuovo unico monarca dell’impero; che essi, ignari del diritto costituzionale di Roma vedevano attraverso l’idea della monarchia sotto cui avevano così a lungo vissuto, a imagine e simiglianza dei re che li avevano governati per tanti secoli. Ciò è tanto vero che in questo stesso anno, per far giurare ai Paflagoni di recente annessi all’impero fedeltà a Roma, si era stati obbligati a far loro ripetere il vecchio giuramento prestato ai re di Pergamo, mettendo il nome di Augusto in luogo del nome del re, ma aggiungendovi le espressioni della venerazione religiosa che erano state usate in Egitto: “Giuro per Zeus, per la Terra, per il Sole, per tutti gli Dei e le Dee, per Augusto medesimo, di amare sempre Cesare Augusto, i suoi figli e discendenti, con le parole, gli atti e i pensieri, considerando amici o nemici coloro che essi avranno in conto di tali....”396. Quelle genti non avrebbero capita una formola diversa. Perciò il giovinetto, nei quali essi raffiguravano il successore di Augusto per diritto dinastico, avrebbe irradiato tra i sudditi dell’Oriente, in mezzo ai principi protetti e alleati, di contro ai Parti malfidi lo splendore del suo prestigio medesimo: gli ordini, le promesse, le minaccie pronunciate da lui avrebbero avuto l’efficacia medesima, come se fossero uscite dalle labbra o dalla penna di Augusto. Assistito da consiglieri abili, Caio avrebbe potuto compiere la missione con fortuna; e nel tempo stesso avrebbe fatto un eccellente esercizio, togliendosi fuori dalla snervante corruttela di Roma.

Intanto anche Lucio raggiungeva il quindicesimo anno di età, e riceveva gli onori e i privilegi accordati al fratello maggiore. Dioscuri della nuova costituzione, i due giovanetti rassicuravano l’Italia sull’avvenire; in essi poneva tutte le sue speranze Augusto. Tiberio era a Roma ormai quasi interamente dimenticato, sebbene in Oriente il tetrarca Erode erigesse in suo onore la città di Tiberiade.

Era intanto terminata – finalmente! —la costruzione del nuovo Foro e del tempio di Marte Ultore, di cui Augusto aveva fatto voto prima di Filippi, per impetrar dagli dèi la vittoria, che non sperava dal proprio valore: il Foro e il tempio di cui un così insigne avanzo resta ancora presso l’arco dei Pantani, a via Bonella. Il Foro era una specie di monumento grandioso eretto da Augusto alla storia di Roma, dove i più grandi uomini di tutti i partiti e di tutte le età avevano la propria statua, ciascuna con una breve iscrizione laudativa composta da Augusto stesso. Si ritrovavano là nel marmo, dai secoli più disparati e dalle lotte più atroci, Mario e Silla, Romolo e Scipione Emiliano, Appio Claudio Cieco e Caio Duilio, Metello il Macedonico e Lucullo397. Quanto al tempio, il vincitore aveva messo quaranta anni a sciogliere il voto ma non per colpa sua: bensì dell’architetto, che lavorava come una tartaruga cammina. A ogni modo Augusto volle, quando, probabilmente nella primavera dell’anno 2398, si inaugurò il Foro ed il nuovo tempio, che era il più insigne tempio eretto al dio della guerra nella città della guerra, fare una solenne dimostrazione militarista e tradizionalista: una dimostrazione che parve opportuno di opporre allo spirito scettico, frivolo, snervato della nuova generazione, tanto più devota a Venere che non a Marte; in un tempo in cui tante minaccie romoreggiavano in Oriente ed in Occidente; quando in Roma già si parlava, con la consueta leggerezza, della prossima conquista della Persia e di simiglianti stoltezze. Inaugurando il Foro, Augusto pubblicò un editto in cui ammoniva il popolo di esiger che il presidente della repubblica rassomigliasse sempre a quei grandi399. Poi solenni feste furono celebrate, tra le quali dei nuovi ludi trojani e una naumachia, che attrassero infinite turbe da ogni parte d’Italia400; e un decreto fu approvato dal Senato, che faceva del nuovo tempio di Marte il maggior simbolo religioso della forza militare di Roma. Esso disponeva che tutti i cittadini, presa la toga virile, dovessero recarsi nel tempio; che tutti i magistrati partenti per le provincie, dovessero al momento di partire recarsi nel tempio a domandare il favore del dio della guerra e poi muover dalle sacre soglie di Marte per la loro missione; che ogni qualvolta si dovesse deliberare un trionfo, il Senato si radunerebbe in quel tempio; che i trionfatori deporrebbero nel tempio lo scettro e la corona, che nel tempio si deporrebbero tutte le insegne prese ai nemici401. Anche con i monumenti del Foro, e con le feste di Marte, Augusto aveva cercato di ravvivare i grandi ricordi dell’età dell’aristocrazia e del passato nel popolo distratto dei mercanti, dei ganimedi, degli imbroglioni, delle meretrici, dei perdigiorno che logorerebbero il bel marmo del suo monumento. Ma invano! La nuova generazione si soffermerebbe appena a guardare, con occhio distratto e con animo indifferente, i simulacri dei grandi uomini che, tra tante tempeste, avevano con fede invitta, uno dopo l’altro, fondato l’impero. Ovidio, il poeta prediletto dalle donne e dagli eleganti che per lui trascuravano il tenero Virgilio e l’acerbo Orazio, Ovidio nel suo nuovo poema sull’Arte dell’Amore, tramutava Marte, il dio della guerra, in un compiacente mezzano di Venere. Egli ricordava le feste celebrate da Augusto per la consacrazione del tempio ma come una occasione unica di avventure e di intrighi d’amore, per la gaia e innumere turba di belle donne e di giovani che convennero a Roma402; e al modo stesso celebrava in anticipazione le feste che già si aspettavano per il trionfo di Caio Cesare, quando avrebbe fatto ritorno dalla Persia conquistata, come una stupenda occasione per vagheggiare la propria bella403! Il canoro portavoce dei giovani esprimeva con la consueta agilità e facilità tutte le aberrazioni della sua generazione, non rifuggendo neppure dall’adulare i due giovani figli di Cesare con la voluttà del servaggio dinastico; scrivendo in loro lode dei versi, che cinquanta anni prima avrebbero fatto arrossire ogni romano, come una abominevole piaggeria degna di servi; celebrando quale un privilegio concesso alla natura semidivina dei due giovani la precoce grandezza:

Ultor adest, primisque ducem profitetur in armis,
Bellaque non puero tractat agenda puer.

Parcite natales timidi numerare deorum:
Cæsaribus virtus contigit ante diem,

Ingenium cœleste suis velocius annis
Surgit et ignavæ feri male damna moræ404.

Ma ad un tratto una catastrofe interruppe questo delirio; una catastrofe impensata e terribile, di cui purtroppo la storia ci è in parte ignota. Aveva Giulia troppo temerariamente fatto a fidanza sulla sua popolarità, sulla vecchiaia di Augusto, sulla scettica indulgenza del pubblico? Aveva essa lasciato socchiudersi imprudentemente i fitti veli dietro cui doveva nascondere i propri amori illegali, la figlia di colui che aveva promulgato sedici anni prima la terribile lex de adulteriis? È probabile405. Dobbiamo noi vedere, in quello che successe, una riscossa degli amici di Tiberio e del piccolo partito tradizionalista, forse anche un supremo sforzo di Livia per riaprire a Tiberio le porte di Roma? È pur probabile406. Dobbiamo allora pensare che gli amici di Tiberio fossero venuti a possedere le prove di qualche adulterio di Giulia di cui era consapevole anche una liberta di nome Febe; e che, esasperati dalla decadenza del proprio partito, persuasi che sarebbero sopraffatti se non riuscivano a colpire con qualche clamorosa rappresaglia gli avversari, avessero raccolto tutto il loro coraggio per una suprema audacia, deliberato di riacquistare un poco di prestigio, mostrando che non avevano riguardi per nessuno, neppure per la popolarissima figlia di Augusto. La lex de adulteriis era stata applicata a molti uomini e a molte donne: perchè Giulia e i suoi amanti dovevano andarne esenti? Augusto, che aveva promulgata quella legge e che aveva tante volte affermato tutti dovere alle leggi egualmente obbedire, non avrebbe potuto impedire che anche la figlia sua ricevesse, come le altre, il castigo meritato. Era vero: il vecchio presidente che da venticinque anni spendeva tante fatiche, tanto denaro, tante cure per la pubblica cosa, pareva domandar come unico compenso di tanto lavoro, di tanti meriti, che nessuno lo obbligasse a veder la prova della colpa commessa dalla figlia; di non esser posto nella terribile alternativa o di dar l’esempio di lacerare egli stesso le proprie leggi o di infierire contro il suo sangue, di infamare la madre dei due giovani, in cui pareva riporre le più liete speranze per l’avvenire! Ma quale scandalo avrebbe nuociuto di più al partito nemico a Tiberio che un clamoroso processo di adulterio contro Giulia? E gli amici di Tiberio, esasperati dalle ripetute sconfitte, non ebbero alcun riguardo nè per le canizie, nè per i meriti, nè per la famiglia di Augusto; e mostrarono al padre le prove.... Il colpo dovè ferire ben profondamente Augusto. Egli era preso nella rete che aveva tesa agli altri. La lex de adulteriis, che portava il suo nome, imponeva al marito di punire o di denunciare la colpa della moglie; e se il marito non poteva o non voleva, al padre. Tiberio essendo a Rodi, egli doveva o punire o accusare sua figlia: se no, Cassio Severo o qualunque altro manigoldo come lui avrebbe potuto trascinare Giulia davanti alla quaestio, domandare, sempre in forza di un’altra legge fatta approvare da lui, che Febe fosse messa alla tortura per estorcerle la confessione della colpa della padrona. E questo uomo, che gli storici moderni rappresentano come un monarca assoluto, arbitro in Roma di ogni cosa e di ogni legge; quest’uomo che avrebbe ambito di fondare una dinastia per assicurare l’impero alla propria famiglia, in perpetuo; quest’uomo non si sentì l’animo, in questo supremo momento, di contendere la propria creatura ai rancori di una piccola consorteria, agli stupidi pregiudizi delle classi medie, alla paura di parer ambire dei privilegi per sè e per la famiglia propria, all’ambizione, così repubblicana e latina, di mostrare al popolo che le leggi soverchiavano ogni considerazione personale e familiare. Egli aveva fatta la terribile legge, che a tanti era stata applicata: se venuta la volta sua di subirla, egli tentasse di salvare i suoi, che diverrebbe la sua reputazione di magistrato imparziale, di severo custode dei costumi, che era tanta parte della sua gloria e del suo prestigio? Immaginate questo vecchio di sessantadue anni, che stanco, irritato dalle difficoltà crescenti proprio quando maggiormente desiderava il riposo, che al termine della sua vita agitata, allorchè aveva ragione e diritto di desiderare un poco di pace, non può sfuggire al terribile ricatto, preparatogli dagli amici di Tiberio: o distruggere sua figlia, o mettere a repentaglio, in uno scandalo immane, il proprio prestigio e la propria opera! Augusto non era crudele; ma innanzi a questa alternativa la sua mente sembra essere stata sconvolta da un accesso di dolore e di furore407. Mentre l’eguaglianza di tutti innanzi alla legge non era più che una menzogna convenzionale, di cui si servivano i ciurmadori, come Cassio Severo, per ingannare il volgo imbecille, Augusto volle che fosse una cosa seria per la figlia sua.... e da principio pensò di usare con lei gli estremi rigori che la lex Julia permetteva al pater familias di applicare alla figlia adultera: ucciderla. Poi l’affetto, la ragione, i raddolciti costumi prevalsero. Augusto, uscito di Roma mandò a Giulia, a nome di Tiberio, il ripudio e con i suoi poteri di pater familias la esiliò a Pandataria408. All’improvviso, da un giorno all’altro, Roma seppe che la popolarissima figlia di Augusto, la madre di Caio e di Lucio era stata sorpresa in adulterio dal padre, mandata in esilio, scacciata dalla famiglia.... Una procella di pazze accuse scoppiò allora su Roma. Le alte e medie classi, i senatori e i cavalieri, i ceti più influenti si rivoltarono contro Giulia; tutte le favole oscene inventate sopra lei dagli amici di Tiberio e sussurrate per tanto tempo a bassa voce, furono raccontate ad alta voce, ancora ingrandite ed esagerate, con la più viva indignazione; l’infelice signora, colpevole di una colpa così comune, fu vilipesa come la più turpe delle meretrici, trascinata per i capelli nel fango, accusata di ogni abominazione e perfino di tentato parricidio; tutti i suoi amici furono accusati di adulterio, di cospirazione contro Augusto; Febe si impiccò per non testimoniare contro la padrona, le condanne grandinarono.... Julo Antonio più sospettato di tutti per la sua discendenza, si uccise409; Sempronio Gracco, e parecchi dei più illustri amici di Giulia furono condannati all’esilio410; accompagnata dalla vecchia madre, Giulia dovette nascostamente uscir di Roma, perseguitata dall’odio di tutta la gente dabbene, carica di infinite colpe non sue, alla volta della sua triste residenza: l’isoletta di Pandataria. Di nuovo, per un istante, il pubblico era stato preso da un subitaneo orrore per l’adulterio; di cui approfittavano i ricattatori per intentare accuse all’impazzata, contro tutti. Augusto era troppo potente, troppo ammirato; contro la sua grandezza nessuno osava più nulla: ma l’invidia democratica covava nei cuori e si sfogò nell’immane scandalo di Giulia. Perchè Giulia si era lasciata cogliere in fallo, essa espierebbe la privilegiata grandezza, le fortune singolari di Augusto, precipitando giù nell’abisso dell’infamia quanto alto il padre poggiava sui culmini della gloria; essa espierebbe sopra tutto i rancori seminati da Augusto con le sue leggi sociali. Che gioia per coloro che le leggi dell’anno 18 avevano offesi nell’onore e nei beni, veder la figlia dell’autore di quelle leggi anche essa infamata e distrutta! Augusto stesso, travolto dall’impeto di questa corrente, mandò una lettera al Senato, in cui, spiegando il castigo della figlia, enumerò come vere le più abominevoli calunnie che si raccontavano su lei411.

VIII.
LA FANCIULLEZZA DI CESARE
E LA VECCHIAIA DI AUGUSTO.

Ma questi folli furori provocarono alla fine una reazione. Il partito della giovane nobiltà, gli amici di Giulia, il popolino che amava Caio, Lucio e la madre loro, quanti dalle esagerazioni crudeli della virtù sono offesi alla fine e provocati ad ammirare per rappresaglia la colpa, si riebbero, si infuriarono a loro volta, inveirono contro la ferocia di quello scandalo che aveva desolata la canizie di Augusto e orbati della madre i due efebi, speranza della repubblica; si precipitarono sulla delazione furibonda che correva per Roma, minacciando tutte le case illustri; si rivoltarono inviperiti contro Tiberio, accusandolo di esser la cagione di tutto412. Delle dimostrazioni popolari furono fatte in favore di Giulia413; Augusto dovè risolversi a dare una soddisfazione anche a questa parte del pubblico, e intercedendo come tribuno vietò che si intentassero nuovi processi per gli adulterî commessi prima di un certo tempo414; Tiberio aspettò invano a Rodi che Augusto gli facesse il cenno del ritorno. Lo scandalo di Giulia nocque, invece di giovare, al partito tradizionalista, che lo aveva macchinato. Dopo avere impediti nuovi processi, Augusto diede ancora al partito puritano una soddisfazione: esiliò alcuni dei giovani amici di Giulia, i più compromessi nello scandalo o i più malvisti dal partito avverso per i loro costumi, usando con questi decreti d’esilio, un poco arbitrariamente, la facoltà di far tutto quello che giudicasse utile all’ordine morale e al prestigio della religione; supplendo in parte con l’autorità sua e con castighi meno scandalosi alla ferocia dei giudizi pubblici, incatenata dal suo veto di tribuno415. Ma se Giulia, se i suoi amici più intimi, se i suoi amanti veri o immaginari, se i giovani più scioperati della nobiltà uscirono di Roma, Tiberio non ci rientrò. Il pubblico lo detestava dopo lo scandalo anche più di prima; e più di prima ebbe paura di quello strano temperamento, così diverso dall’età sua....

Lo scandalo di Giulia, invece di sciogliere l’incerta e disagiata situazione, l’inacerbì di nuovi rancori e di più violente antipatie. L’aggravò ben presto un nuovo fattore, fisico e personale, che d’ora innanzi si aggiunge alle altre, numerose cagioni che dissolvevano lo Stato: la vecchiaia di Augusto. Non che Augusto già si curvasse, oppresso dal carico degli anni. Aveva 61 anni; e quindi se non era più giovane, non era nemmeno decrepito. Ma aveva incominciato a bruciar l’olio suo di buon’ora; e da 43 anni faceva ardere la lampada della vita senza parsimonia, tra le cure e le fatiche e le ansietà e i tripudi e i disinganni e le brighe della politica, incominciate per lui nella primavera del 44 a. C, in quel giorno, sul finire di marzo, in cui ad Apollonia aveva ricevute le lettere che gli annunciavano la strage di Cesare; e continuate poi, ininterrottamente, nell’interminabile viaggio attraverso la vita, che per tante singolari vicende, salendo e scendendo, lo aveva condotto a queste ultime traversie.... Non è quindi strano che Augusto, ad un’età in cui molti sono ancora vegeti, già fosse vecchio; avesse della vecchiaia l’ostinazione, la diffidenza, la debolezza, l’irritabilità. Certo è che, per la prima volta dopo le guerre civili, questo savio di solito così riflessivo sembra agire per rappresaglia e per puntiglio. Se la cieca, quasi feroce avversione popolare contro Tiberio era già per lo Stato una grave difficoltà, Augusto l’aggravò maggiormente con un ostinato rancore personale. Al partito dei puritani, che lo aveva quasi sfidato a provar che non era, come tutti pensavano, un padre babbeo, volle mostrare che sapeva servirsi dei poteri discrezionali conferitigli tanti anni innanzi dal Senato, anche per inasprire i castighi dei suoi di raffinati tormenti, quando il popolo domandava la grazia: e tolse a Giulia ogni agio, comodo e piacere nell’isola, interdicendole persino di bere vino, proibendo a chiunque di recarsi a vederla senza un suo specialissimo permesso.416 Ma di questi tormenti inflitti alla figlia si vendicò su Tiberio, chiudendogli brutalmente sul volto le porte di Roma, ostentando il suo odio in ogni occasione e incoraggiando così coloro cui era spiaciuto il massacro di Giulia ad odiarlo417; riversando tutto l’affetto che aveva dovuto ritirare da Giulia, l’indegna, sul capo di Caio e di Lucio, stringendo al seno questi due fanciulli, come la suprema consolazione e come la suprema speranza dell’avvenire, dopo la catastrofe di Giulia. Per essi soli, sangue di Cesare, la sua senile tenerezza di nonno avrà d’ora innanzi tutte le indulgenze, i favori, le ambizioni; per Tiberio, il Claudio orgoglioso, soltanto ira e disprezzo! Non solo infatti Augusto non smise il pensiero, come gli amici di Tiberio avevano sperato, di mandare Caio in Oriente, ma gli affiancò per consigliere proprio uno dei più acerbi nemici di Tiberio, Marco Lollio418; e ne affrettò la partenza, a quanto pare, al principio dell’anno 1 a. C, mentre egli rimaneva solo a Roma a contemplare la rovina in cui si era sfasciata, nella sua famiglia, la prima generazione, quella grande famiglia romana all’antica, modello a tutta la nobiltà, che egli aveva sperato creare. Druso caduto a 30 anni nella lontana Germania; Giulia infamata e in esilio; Tiberio lontano e odiato da tutti per la intrattabile alterigia: ecco i bei frutti di tante fatiche! Fosse almeno la seconda generazione più savia, più virtuosa, meno orgogliosa e violenta che la generazione precedente, tutta così tragicamente e acerbamente finita! Questa, se aveva preso troppo alla leggera la lex de adulteriis, aveva almeno ubbidito alla lex de maritandis ordinibus: onde Augusto e Livia avevano nove nipoti, tra cui Caio l’anziano; larga messe, nella quale però tra le spighe piene c’erano anche le vuote. Dei tre figli lasciati da Druso ed educati da Antonia, il maggiore, Germanico, che aveva allora 14 anni, era bello, sano, intelligente, studioso, attivo, di carattere dolce; studiava letteratura, filosofia ed eloquenza con vivo zelo e con grande profitto; amava gli esercizi fisici419. Della seconda, più giovane di un anno o due, Livilla, non sembra si potesse ancora sperar troppo bene o temer troppo male nell’anno 1 a. C. Invece il terzo figlio, quel Claudio nato a Lione il 1.° agosto dell’anno 10 a. C, il giorno in cui si era inaugurato l’altare di Roma e di Augusto, era uno strano mostricciattolo semi-idiota. Testa piccina e tremolante, bocca enorme, che balbettava, confondeva le parole e rideva stupidamente420; corpo mal fatto, specialmente nelle parti inferiori421; intelligenza che pareva ottusa, così da non potere apprendere neppure i primi elementi del sapere e del vivere422: a tale ignobil bruttezza e stupidità le continue malattie dell’infanzia423 – la meningite probabilmente e l’epilessia – avevano degradata in questo sventurato la maschia e pura bellezza, la forte e lucida intelligenza dei Claudi. Persino la madre, la buona Antonia, che lo aveva nutrito con la sua mammella, era stata obbligata a definirlo un “aborto”424. Da Agrippa e da Giulia, dopo Caio e Lucio, erano nate due figlie, due Agrippine, che avevano allora tra 15 e 12 anni; e un figlio, Agrippa Postumo, nato undici anni prima, dopo la morte del padre. Delle due prime, sino a questo tempo, non sappiamo nulla: ma la seconda deve aver dato di sè buone speranze al vecchio nonno, se costui la adottò come figlia, forse per colmare il vuoto lasciato nei suoi affetti dalla madre425. In Postumo invece, per una strana regressione alle origini in mezzo ad una così raffinata coltura, l’animalità pareva prorompere di nuovo in un corpo e in uno spirito tozzi, avidi solo di gioie fisiche, recalcitranti all’educazione metodica426. Infine il figlio di Tiberio e di Vipsania, che Tiberio aveva lasciato a Roma, Druso, aveva su per giù la stessa età di Germanico e prometteva di diventare un giovine serio, come Germanico e come il padre. Ma non pare che Augusto, forse per dispetto contro Tiberio, lo amasse molto; mentre prediligeva Germanico, il nuovo pollone in cui sul vecchio ceppo dei Claudi rigermogliava il ramo troppo presto reciso dalla morte in Germania!

Così nell’anno 1 a. C., mentre Caio viaggiava in Oriente – non ci è possibile per le scarse e frammentarie notizie seguirlo di tappa in tappa – i tre membri più cospicui della famiglia che stava a capo dell’immenso impero, Augusto, Livia, Tiberio, conobbero sulla vetta più sublime della umana fortuna il cruccio di giorni indicibilmente amari. Fallito, anzi volto a suo danno lo scandalo di Giulia, Tiberio capì che si accingevano a lasciarlo perire nel romitorio dove per ira era andato a rinchiudersi, sperando che sarebbero venuti a cercarlo: e questa suprema delusione, la paura di essersi seppellito vivo, a Rodi, nella tomba dell’ultimo e definitivo oblìo, vinsero alla fine anche quell’orgoglio inflessibile, quella fierezza schiva di transazioni e di compromessi. Disperato, Tiberio si acconciò a mostrare il suo dolore, a pregare, a supplicare; cercò perfino di rabbonire i suoi peggiori nemici, gli amici di Giulia, intercedendo presso Augusto, affinchè concedesse alla condannata un trattamento più dolce427. Ma inutilmente, perchè Augusto non diede retta a Tiberio, come già aveva volte dispettosamente le spalle al popolo vociferante a favore di Giulia. Intanto scadeva il quinquennio della potestà tribunizia conferitagli nell’anno 6; Tiberio diventava un cittadino privato, che nessuna immunità ricopriva più. Sempre più avvilito, Tiberio scrisse ad Augusto che se ne era andato per non dare ombra a Caio ed a Lucio quando muovevano i primi passi nella via degli onori; che ora, poichè essi erano universalmente riconosciuti come i due principali personaggi dopo Augusto, domandava di tornare a rivedere i suoi, la madre, il figlio, la cognata, i nipoti. Brutalmente Augusto gli rispose non si desse pensiero di coloro che aveva con tanta disinvoltura abbandonati428. A stento Livia strappò al vecchio irritato una nomina di legato pro forma429. Implacabile, il partito di Giulia spargeva contro di lui ogni sorta di calunnie, cercando di togliergli gli ultimi amici430; Marco Lollio in Oriente faceva del suo meglio per aizzare contro Tiberio Caio, il quale non poteva esser ben disposto verso chi direttamente o indirettamente aveva tanto contribuito alla rovina della madre431; Augusto incoraggiava indirettamente i nemici di lui, mostrando apertamente il suo malanimo. Così la memoria delle imprese compiute, delle magistrature esercitate, dei trionfi celebrati, tutto il rispetto di cui Tiberio aveva per tanti anni goduto, fu travolto da una ondata di impopolarità, che da Roma si dilatò furiosa sino nelle provincie. Tiberio dovè, per sfuggire ai sospetti e alle calunnie dei suoi nemici, ritirarsi nell’interno dell’isola, non ricever più nessun personaggio, quasi appiattarsi432; fu obbligato ad andare incontro a Caio sino in Samo, quasi per scusarsi dell’esilio di Giulia; dovè tollerare l’affronto di una accoglienza freddissima433; incupì anche egli, come Augusto a Roma, in questo ozio spregievole; smise il cavalcare, gli esercizi fisici e l’uso delle armi434. Rimpiccolendosi egli stesso, il mondo lo spregiò ancora di più; tutti gli si volsero contro; e il popolaccio di Nimes trascese a rovesciarne la statua435. Caio e Lucio Cesare erano i beniamini, così di Augusto, come di tutto l’impero; Pisa giunse a dedicare, con solenne decreto, un’ara a Lucio436! Ma il pendolo del destino aveva compiuta per Tiberio l’oscillazione delle sventure, e ricominciava a discendere per l’oscillazione opposta, quella della fortuna. Siamo giunti al 1.° Gennaio dell’anno 754 di Roma, quello da cui si sono cominciati a numerare gli anni che noi ancora contiamo. Era l’anno in cui, per la deliberazione presa nel 6 a. C, e che era stata cagione di tante sventure. Caio Cesare sarebbe console. Ma il console ventenne era allora in Asia, probabilmente in Antiochia437, dove preparava l’esercito per invadere l’Armenia, e avviava intanto trattative con Fraatace per tentare un accordo. Augusto non voleva implicar Roma in una guerra con i Parti; era verisimile che il re parto non volesse, egli neppure, sguainare la spada: perciò le trattative che da Roma, a tanta distanza, si perdevano per via, potrebbero riuscire meglio dalla Siria, se avviate dal figlio di Augusto a capo di un esercito. Ma l’arrivo di Caio Cesare, investito di così cospicua missione, accompagnato da uno stuolo di giovani aristocratici romani, tra i quali Lucio Domizio Enobarbo, figlio del legatus di Germania438, aveva commossa molto, come è naturale, la premurosa servilità dell’Oriente, che da ogni parte mandava al giovane ambasciate a rendergli omaggio, a esporgli desiderî, a raccomandarsi; gli erigeva monumenti e gli dedicava, a lui e al fratello, iscrizioni, chiamandolo in certuna perfino figlio di Ares o addirittura nuovo Ares439. Per l’antica abitudine del servire, l’Oriente era prono a riconoscere l’imperio di Roma perfino in questa cavalcata di efebi condotta dal giovane Caio; e la accoglieva con i consueti inchini e le laudi usate da secoli per tutti gli uomini, che fossero simboli del potere. Disgraziatamente la compagnia mandata da Augusto a rappresentare Roma in Oriente si componeva di molte giovinezze, le une inesperte, le altre troppo presuntuose, alcune anche corrotte, in mezzo alle quali dominava una virilità energica e intelligente, ma torbida e cupida: Marco Lollio. Lollio era, sì, un uomo capace ed esperto, ma cupidissimo, che non voleva solo assestare la questione d’Armenia, ma razziare in Oriente una nuova fortuna, da aggiungere a quella che, ingente, già possedeva. Pare che egli approfittasse della immensa sua autorità per taglieggiare città, privati, sovrani, rendendo in cambio o solo promettendo servigi presso Cesare e presso Augusto440; e che inviasse, nuovo Lucullo, carichi ingenti di oro e di argento in Italia. Lollio cercando troppo, nel compito affidatogli da Augusto, il vantaggio suo oltre quello di Roma; Caio dovendo in troppe cose, per l’inesperienza e giovinezza sua, lasciarsi guidare da lui; i suoi compagni essendo quasi tutti giovani vani e corrotti, Caio potè, come dice uno storico antico, meritare molte lodi e molti biasimi441. Egli avviò bene le trattative con i Parti, domandando con fermezza a Fraatace di rinunciare all’Armenia e ai fratelli; ma la sua missione incanaglì poi a poco a poco, dopo aver posto il piede solennemente sul suolo d’Oriente, in una scorribanda sfrenata di giovinezze alla caccia del piacere. Lollio, pur di non essere disturbato nei suoi grandi ricatti, non disturbava agli altri i piccoli giuochi e i piccoli spassi; Caio da solo molte cose ignorava e altre non sapeva reprimere con il necessario vigore; onde intorno a lui i compagni e più ancora i loro seguaci – schiavi e liberti sopratutto – commettevano soprusi e pazzie442. E Lollio intanto, incoraggiato dal successo, procedeva ad adoperare mezzi più audaci per far denaro; e pare che alla fine tentasse di ricattare anche Fraatace, proponendogli nelle trattative di fargli avere certe concessioni, se gli pagava ingentissime somme443.

Tuttavia i preparativi per la spedizione continuarono nella primavera e nell’estate dell’anno primo dell’era volgare; continuarono pure le trattative con i Parti, e continuarono bene, perchè Fraatace, non osando di fare una guerra, doveva acconsentire a sgomberare l’Armenia e rinunciare ai fratelli444. A Roma intanto, nella parte più seria della nobiltà incominciava, quasi invisibile nel suo principio e lentissimo, un mutamento a favore di Tiberio. Tiberio aveva nella nobiltà, tra quanti lo avevano visto all’opera nelle guerre o avevano militato sotto di lui, degli ammiratori, non numerosi forse, ma seri e sinceri; i quali non ne riconoscevano soltanto i difetti ma anche le virtù. Chi poteva negare essere egli il primo generale del tempo? Non era possibile che questi ammiratori non rammaricassero quella prestante virilità condannata ad oziare in Rodi, quanto più si diffondeva nello stato il torpore della vecchiaia di Augusto. Per la dissoluzione della nobiltà, per l’esaurimento del Senato, il presidente della repubblica, con la sua famiglia, i suoi amici intimi, i suoi schiavi era ormai il supremo motore di tutto lo Stato: e invece mentre il mondo nella sua eterna giovinezza si rinnovava allora come sempre, Augusto vecchio, stanco, solo in mezzo a tanta giovinezza, non osava più nulla innovare. Da un pezzo le entrate dell’erario non bastavano più alle spese cresciute445: ma Augusto non si risolveva perciò a studiare nessuna riforma delle imposte che pareggiasse i conti; e preferiva vivere alla giornata, appigliarsi di continuo agli espedienti: ora dando egli del suo, anche a rischio di rovinare la sua famiglia; ora raccomandando al Senato e ai magistrati la parsimonia; ora trascurando i pubblici servizi; ora rimandando spese e pagamenti. Come è naturale, i servizi pubblici, sempre difettosi, minacciavano di sfasciarsi dappertutto, anche in Roma, dove la popolazione cresceva e annona, polizia, incendi, tutto era disordinato e insufficiente, non ostante la riforma dei vicomagistri446. Sarebbe stato necessario di dare la città a una autorità vigorosa, provvista di mezzi sufficienti, che riformasse e riordinasse tutti i servizi; e non far assegnamento su qualche centinaio di ignari liberti, pensando di ricompensarli con il permesso di vestire in certe occasioni la pretesta e di incedere accompagnati da due littori! Ma Augusto non si risolveva a nulla; il popolo mormorava, scontento; le cose procedevano, come potevano, alla meglio, alla peggio. Neghittosa in Roma, poteva la volontà del vecchio presidente muovere uomini e cose agli estremi confini dell’impero? Beffandosi delle condanne, gli esiliati negli anni precedenti abbandonavano le tristi residenze loro assegnate, se ne andavano in città e luoghi ridenti vicini, facevano venire schiavi e liberti, vivevano allegramente447. Nessuno protestava, e la lex de adulteriis disseminava a nuovi sollazzi per tutto l’Oriente e l’Occidente i gaudenti e le donne allegre di Roma. In Oriente come in Occidente, in tutte le questioni, Augusto pareva confidar precipuamente nella saggezza riposta delle cose, più che nella saggezza e iniziativa sua; in tutte le questioni, anche in quella, pure vitalissima, dell’esercito. Difficili ogni anno di più i reclutamenti in Italia, dove gli uomini liberi potevano, per la crescente ricchezza, trovare da vivere meglio che militando in lontane regioni; insopportabile la spesa annua delle pensioni ai congedati; impossibile per ambedue queste ragioni il mantenere le promesse contenute nella legge militare dell’anno 14, congedando i veterani dopo sedici anni di servizio448; necessario di accrescere continuamente gli ausiliari, e cioè di infiacchire la unità dell’esercito romano con queste milizie eterogenee; crescenti infine le esigenze del soldato che, da un capo all’altro dell’impero, domandava un soldo maggiore449, si lagnava di non poter con dieci assi al giorno provvedere anche alle vesti, alle armi, alle tende e domandava almeno un denaro450. E non senza ragione, poichè la prosperità accresceva in tutto l’impero i salari e il valore di tutte le cose e quindi il caro del vivere: ma come aumentare la spesa se già mancava il denaro per il soldo e per le pensioni nella misura di allora? Sorda e cieca, con le braccia serrate e i pugni stretti, l’avarizia senile di Augusto non udiva le richieste dei soldati, non vedeva i segni del malcontento che serpeggiava nelle legioni! L’ordine dei cavalieri continuava a vieppiù isterilirsi; ma chi osava riproporre dei nuovi rigori contro questo egoismo, ora che Tiberio era screditato e detestato anche per averli seriamente voluti, quei rigori? Nessuno si curava più di impedire alla aristocrazia di Roma il suo lento suicidio. Tutti gli Stati dell’Oriente, le città, gli alleati, i protetti, potevano conservare le antiche leggi, gli antichi costumi, gli antichi vizi, indisturbati, senza che Roma osasse intervenire nelle loro faccende, nè per sradicare alcun male, nè per affrettare alcuna migliorìa e neppure per esigere imposte maggiori, sebbene la pace arricchisse molto l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. Archelao aveva presto dimostrato alla Palestina di aver ereditata la malvagità senza l’ingegno e l’energia del padre: ma Roma, non ostante l’impegno preso con il popolo ebreo, fingeva di non avvedersene. In Occidente, invece, la Dalmazia e la Pannonia parevano da dieci anni essersi rassegnate: ma l’esportazione dei metalli preziosi, l’introduzione dei costumi esotici, l’importazione delle merci orientali continuavano a dissolvere l’antico ordine di cose; ma il ricordo delle ultime guerre si affievoliva ed una nuova generazione cresceva, vaga di ritentare la terribile prova. Sarebbe stato necessario governare queste provincie con oculata, indefessa prudenza: e invece Augusto poteva appena inviarci qualche mediocre legatus, di non altro sollecito che di arraffar nel paese denaro per l’esausto tesoro di Roma451. Insomma invece di cercare nuove risorse in Oriente, dove la pace accresceva la ricchezza, Roma si ostinava a spremere l’Occidente povero e perturbato! Ma l’incoerente debolezza di questo governo senile era più manifesta che altrove nei territori conquistati recentemente oltre il Reno. Augusto non aveva osato, dopo la partenza di Tiberio, di imporre tributi o leggi alle popolazioni soggette; si era ristretto a stanziare qua e là delle legioni, a stabilire dei campi militari che, tra i villaggi barbari, facevano l’ufficio come di piccole città rudimentali; a formar dei corpi ausiliari e a corrompere la nobiltà dei vari popoli con gli onori e gli stipendi, distribuendo ai grandi la cittadinanza, la dignità equestre, dei comandi remunerati nei corpi ausiliari452. E certamente i campi militari romani, con i legionari e i numerosi mercanti di ogni nazione che li seguivano, attiravano i barbari, che andavano a cercare nelle cannabae, nelle botteghe dei mercanti tanti oggetti prima ignoti453: il vino, i profumi, delle stoffe o delle ceramiche più fine, dando in cambio il poco oro ed argento che possedevano, dell’ambra o delle pelli o del bestiame o delle lane o dei cereali. In molti campi si erano anche fissati giorni regolari per i mercati. Ma ben altre forze, e più materiali, che questi vaghi influssi greco-italici, irradianti dai campi militari, occorrevano a tener soggette le riottose tribù germaniche; le quali infatti violavano continuamente i trattati conchiusi. Nell’anno primo dell’êra volgare la Germania era in uno stato di vera rivolta454, cosicchè Augusto dovè risolversi a mandarvi un legato, M. Vinicio, con l’incarico di rimettere ordine in quella cosidetta provincia: in quei territori, che, invece di rendere, costavano; dove l’autorità romana era rispettata ancora in un luogo e non più in un altro, oggi sì, domani no: e dove nessuno in nessun luogo, nè oggi nè domani, pagava.

Il torpore della vecchiaia si propagava dunque dal cervello alle membra tutte dell’immenso corpo. Tutto era vecchio: l’arnese e l’artiere. Per ringiovanire lo Stato, sarebbe stato necessario non solo di mettere a capo dell’impero una virilità robusta, ma di rompere arditamente la cerchia angusta dei privilegi senatorii; non cercare i magistrati, i governatori, i funzionari delle curatele istituite negli ultimi anni soltanto nell’ordine senatorio; ma scegliere più spesso, più largamente, con minor circospezione nell’ordine equestre, nella borghesia agiata e colta dell’Italia. Non ostante la frequente sterilità dei matrimoni, l’ordine equestre cresceva di numero e di agiatezza in tutta Italia, sopratutto nell’Italia del Nord455, più che l’aristocrazia a Roma; mentre la aristocrazia, possedendo per privilegio e senza contesa quanto desiderava, era neghittosa, indisciplinata, discorde, l’ordine equestre poteva sentire almeno lo sprone di una ambizione: quella di acquistare una nobiltà più eccelsa e un prestigio più insigne, occupando le cariche dello Stato fino allora riserbate ai senatori. Ma Augusto non osava neppure di iniziare questa riforma, a cui si opponevano le tradizioni, l’indirizzo fino allora seguito da lui, la piega indelebile impressa nel suo spirito dal movimento tradizionalista, di cui, in gioventù, era stato tanta parte. Egli era l’uomo figurativo di una generazione trapassata, superstite in un mondo quasi interamente rinnovato, ma che non si poteva porre in disparte: egli acconsentiva a servirsi di cavalieri o di plebei come procuratori nelle sue provincie, per l’amministrazione dell’Egitto, per il governo di qualche regione remota, perduta, ignorata delle sue provincie più barbare456; ma non per le grandi cariche vistose esposte agli sguardi del pubblico. Onde gli spiriti savi, a mano a mano che dileguava il primo disgusto dello scandalo di Giulia, incominciavano a pensare se non fosse necessario, per la salute della repubblica, riconciliare Tiberio ed Augusto; rinvigorire lo Stato cadente per la vecchiaia di Augusto con la forza che si logorava nel disuso a Rodi, implorando invano di essere adoperata. Sì, certo: Augusto mostrava chiaramente di aver poste le sue speranze in Caio ed in Lucio: ma ambedue erano ancora giovanissimi; la situazione peggiorava dappertutto; le notizie di Germania non rassicuravano punto; e Augusto era vecchio, malato.... Se da un giorno all’altro morisse non si potrebbe metter nel luogo suo Caio. Anche allora ogni uomo savio doveva riconoscere non potersi scegliere a capo dell’esercito che Tiberio, l’impopolare Tiberio, il primo generale del tempo suo, il più esperto conoscitore delle faccende germaniche. Dieci anni dopo, le cose si trovavano nella stessa condizione come alla morte di Druso: Tiberio era il successore inevitabile. Si dovette quindi tentar di riconciliare Tiberio ed Augusto. Ma Augusto da principio non si smuoveva. La sua vecchiaia era troppo inviperita contro Tiberio, troppo paurosa della ostinata impopolarità sua, troppo assorta nella tardiva tenerezza paterna per Caio e per Lucio, nelle brillanti speranze che essa concepiva per loro. “Salve, o diletta luce degli occhi miei – così egli scriveva il 23 settembre di questo anno, il giorno suo natalizio, a Caio che era in Armenia. – Io ti desidero sempre, quando sei da me lontano; ma con più vivo desiderio gli occhi miei cercano il mio Caio in giorni come questo. Dovunque tu oggi ti trovi, spero avrai passato bene questo dì, celebrando lietamente il sessantaquattresimo mio natalizio. Come vedi, l’ho scampata da quello che per tutti è l’anno climaterico, il sessantatreesimo. E ora prego gli dèi, che quel che mi resta da vivere, me lo faccian vivere in una repubblica prospera, e vedendovi crescer bene così che possiate prendere il luogo mio”457. Fittosi in capo di preparare Caio e Lucio come possibili suoi successori, egli non voleva porre accanto a loro la formidabile rivalità di Tiberio; e a questa tenerezza senile immolava anche i più vitali interessi dello Stato.

Ma sebbene infiacchita e neghittosa, l’Italia non era così disfatta ancora da tollerare placidamente un governo tanto senile. Il partito tradizionalista ripigliava forza, corroborato dalle circostanze, aiutato da tutte le persone savie e certo anche da Livia; e incominciò a porre l’assedio intorno alla ostinazione senile di Augusto, per costringerla a capitolare. Caio intanto, che nella seconda metà dell’anno 1 d. C. si era avvicinato con l’esercito ai confini dei Parti458, non sappiamo dove, aveva strappato a Fraatace il consenso definitivo alle sue proposte: rinunciava il re parto ad ogni influenza dell’Armenia, ad ogni pretesa sui fratellastri; la pace sarebbe solennemente ratificata con una intervista che avrebbe luogo l’anno prossimo sulle rive dell’Eufrate, in una certa isoletta. Livia invece riusciva alla fine, al principio dell’anno 2, a vincere in parte, ma a condizione di una nuova umiliazione per Tiberio, la caparbietà del vecchio. Augusto consentì a permetter a Tiberio di ritornare in Roma, se Caio acconsentiva e se Tiberio promettesse di ritirarsi a vita privata459. La concessione del resto era poco importante; perchè Tiberio non essendo esiliato, avrebbe a rigore di diritto potuto ritornare anche senza il suo consenso; e la condizione che Caio acconsentisse la rendeva più amara. Il celebre generale, che aveva domata l’insurrezione della Pannonia, doveva implorare il diritto di vivere a Roma come un privato, da un giovinetto di poco più di venti anni, che si lasciava guidare da un acerrimo nemico di lui, come Lollio! Ma domato ormai dalla lunghissima prova – incominciava l’ottavo anno di esilio – comprendendo che, finchè non fosse tornato nella metropoli, non potrebbe sperare nulla, Tiberio si acconciò a domandare a Caio l’agognato permesso. E la fortuna, che ormai si era stancata di perseguitarlo, lo favorì questa volta. Caio si era, nella primavera dell’anno 2460, incontrato sulle rive dell’Eufrate con Fraatace, ove ambedue avevano solennizzato l’accordo con banchetti e con feste reciproche461. Pare però che Fraatace, poco soddisfatto di Lollio, svelasse a Caio le segrete trattative che erano corse tra loro, e che Caio, il quale aveva per la concussione il naturale orrore dei giovani aristocratici nati ricchi grazie alle concussioni felicemente compiute dai loro antenati, sdegnatissimo, si fosse finalmente ribellato contro il suo consigliere e lo avesse scacciato. Certo è che Lollio, poco tempo dopo un alterco violentissimo con Caio, morì d’improvviso, e si sospettò per veleno volontariamente bevuto, lasciando alla famiglia un patrimonio ammucchiato a prezzo della vita, ma che per più di mezzo secolo doveva figurare tra i più ingenti d’Italia, e permettere alle sue pronipoti di far scintillare al sole di Roma i più ricchi monili della metropoli462. E Caio, libero dai cattivi consigli di Lollio, acconsentì al ritorno di Tiberio463.

Così, verso la metà dell’anno 2, Tiberio ritornò a Roma, donde era partito potente e glorioso sette anni prima, e si ritirò nel palazzo di Mecenate, nel nuovo quartiere signorile dell’Esquilino, per finire l’educazione di Druso, come un privato, astenendosi da ogni pubblica faccenda464, sospirando il giorno in cui Roma avrebbe di nuovo bisogno di lui. Egli aveva scontato ben amaramente il suo fallo di orgoglio! Ma egli confidava nell’avvenire e nella fortuna.... La quale, stanca davvero di perseguitarlo, a poco a poco inclinava di nuovo favorevole verso di lui. Poco dopo il suo arrivo, Lucio Cesare, il fratello minore di Caio, che Augusto aveva mandato in Spagna a incominciare il suo tirocinio militare, era ammalato a Marsiglia e morto il 20 agosto465. Uno dei due futuri collaboratori e successori di Augusto spariva innanzi tempo, quando Germanico non aveva ancora che 17 anni, e Augusto già ne aveva quasi sessantacinque; quando il primo passo alla riconciliazione con Tiberio era già stato fatto da una parte e dall’altra; quando le screpolature, che si allungavano ed allargavano in ogni parte dell’edificio dello Stato, mostravano a tutti la necessità di chiamare un architetto più vigoroso che il vecchio. Ma Augusto, sempre lento, sempre incline a differire le gravi deliberazioni, non si risolvè ancora. Intanto Caio, conchiuso l’accordo con Fraatace, aveva invasa l’Armenia466, senza dar di petto in nessuna resistenza difficile, avendo solo da spegnere qua e là qualche piccolo loco solitario di rivolta, attizzato dal partito nazionale. In una di queste imprese, ad Artagira, Caio fu ferito dal capo degli insorti, sembra a tradimento467. La ferita tuttavia non parve grave da prima; e Caio potè continuare la sottomissione, facile del resto, dell’Armenia.

E con l’anno seguente, il 3 d. C., incominciava l’ultimo anno del terzo decennio della presidenza di Augusto. Da trenta anni l’impero era governato da un uomo malaticcio e debole, cui la morte pareva da mezzo secolo minacciare da un giorno all’altro lo sfratto; e che pure riusciva sempre a rinnovare la locazione della vita, avendo tempo a raccogliere le copiose eredità di molti, più giovani di lui, che lo avevano nominato nel testamento per adulazione, ma confidando di poter seguirne il funerale solenne. Non erano più numerosi in Roma coloro i quali, vedendo passar quel piccolo vecchio in lettiga, potevano ricordare il bel giovane, ardito e petulante, che 47 anni prima, in un giorno di aprile, era comparso nel foro a promettere al popolo come figlio di Cesare, il legato del dittatore spento il mese innanzi. Quanto tempo era passato! Quante cose erano successe! Due generazioni erano passate, travolte a precipizio da una delle più turbinose correnti che si ricordassero: e in mezzo agli innumeri spariti nei gorghi, egli solo restava ancora in piedi, quasi fosse immortale. Senonchè, dopo trenta anni di governo, è facile capire come molti incominciassero ad essere stanchi e giudicassero necessario ringiovanire lo Stato, se non si voleva lasciarlo cadere in decrepitezza, insieme con il suo capo, aspettando che costui subisse alla fine la legge comune della natura. Non è del resto improbabile che Augusto stesso non fosse alieno da prendersi un meritato riposo468. Di onori e di potenza e di gloria egli doveva essere sazio fino alla nausea, oramai! I tempi nuovi richiedevano un uomo nuovo. Ma chi sarebbe l’uomo nuovo? Qui stava la difficoltà. Le candidature, poste innanzi da qualcuno, di Marco Lepido, di Asinio Gallo e di Lucio Arrunzio469 – uomini appena noti oltre l’Italia e confusi, per gli stranieri, nella folla del Senato – non erano serie. Caio non era ancora maturo: anzi ben presto si seppe che egli era stato côlto, in seguito alla sua ferita, da una strana malattia, che fa sospettare in lui una alienazione mentale: da una prostrazione di forze, per cui a un certo momento abbandonò il comando dell’esercito, si ritirò in Siria, scrisse ad Augusto che d’ora innanzi non voleva più occuparsi di nulla e vivere come un privato470. L’adulazione della moltitudine e l’interessato egoismo dei partiti avevano potuto farlo, come il padre adottivo, console a venti anni; non avevano potuto infondergli nelle vene la non logorabile elasticità di Augusto. Caio aveva sempre avuta poca salute; l’impresa di Oriente era forse stata un carico troppo grave per lui; forse anche, giovane, potente, ricco, aveva troppo abusato dell’Asia, la terra del piacere.... In questo corpo delicato, in questo spirito poco saldo, il trauma di Artagira può aver rotto un equilibrio già fragilissimo. A 23 anni, il giovane in cui la tenerezza senile di Augusto aveva vista la colonna futura, la mente e la volontà regolatrice dell’impero, buttava via grandezza e potenza in un folle accesso di disperazione e di paura! Non c’era quindi scampo, l’alternativa era inesorabile: se non si rinominava Augusto, bisognava scegliere Tiberio, che solo aveva esperienza, vigore, ingegno, perizia militare e fama tra i barbari, bastevoli all’ufficio. Ma Tiberio non era ancora possibile: era troppo impopolare, spaventava troppo, aveva troppi nemici471.... Per necessità, anche questa volta tutti si accordarono a prolungare di dieci anni ancora la presidenza di Augusto, molti sperando in cuor loro che la morte sarebbe più savia degli uomini e più discreta di Augusto, non lasciandogli finire il quarantennio472.

Afflittissimo dalla nuova sventura con cui la sorte lo colpiva in Caio, Augusto cercò con ogni mezzo di incoraggiarlo: alla fine gli scrisse di venire in Italia, dove, se non volesse più attendere a pubbliche faccende, lo lascerebbe vivere a suo talento473. La tenerezza paterna vinceva ancora una volta la severità magistraturale. Ma invano: mentre si accingeva a tornare, nel febbraio dell’anno 4, Caio moriva in una piccola città della Licia474. La fortuna riconduceva, a poco a poco, dal suo ritiro Tiberio.... Ma Augusto non si risolveva ancora. E intanto la rivolta infuriava in Germania. Alla fine, questa caparbietà sembra aver irritati475 non solo gli amici di Tiberio, il partito tradizionalista, ma quanti capivano che continuando così si correrebbero i più gravi pericoli. Un giorno, nella prima metà dell’anno 4 d. C., Augusto fu avvertito che nell’aristocrazia si tramava una congiura contro di lui, e che a capo di essa era nientemeno che un nipote di Pompeo, Gneo Cornelio Cinna476. Si voleva davvero preparare delle nuove Idi di Marzo o qualche meno cruenta dimostrazione, per costringere Augusto a dare al suo governo il necessario rinforzo? Certo è che Livia si intromise attivamente per impedire che i congiurati fossero puniti477; che Augusto perdonò, anzi secondò la candidatura di Cinna al consolato per l’anno prossimo478; che il 26 giugno Augusto adottava nei comizi curiati, come figlio, Tiberio insieme con Agrippa Postumo479, e gli faceva dare dai comizi la potestà tribunizia per dieci anni480.

Tiberio aveva dovuto prima adottare Germanico481. Così Tiberio prendeva, come figlio, il luogo di Caio Cesare e come collega il luogo di Agrippa. La repubblica aveva di nuovo due presidenti. E Augusto si accingeva a governare di nuovo con il partito tradizionalista e conservatore, che riacquistava l’antica preponderanza nello Stato482.

IX.
L’ULTIMO DECENNIO.

L’assunzione di Tiberio a collega di Augusto nella presidenza mutò profondamente lo stato della repubblica. Dall’anno 4 d. C. sino alla morte, Augusto simboleggia ancora la suprema autorità dell’impero; ma Tiberio l’esercita. Pieno di acciacchi, affranto dalle fatiche, svogliato dalle delusioni degli ultimi anni, il vecchio finalmente cedette alla forza delle cose. Se molte deliberazioni e riforme furono ancora divulgate da Augusto, le più importanti furono pensate e suggerite da Tiberio. Non si potrebbe spiegare altrimenti come mai, dopo il terzo decennio così vuoto ed incerto, il quarto decennio abbia compiute tante imprese, leggi e riforme. Tiberio in verità governava accanto al vecchio Augusto, il quale aveva capito di dovere ormai lasciar fare questa virilità di 46 anni, e quanto ancora poteva, secondarla con l’autorità ed il consenso483. Il governo di Tiberio incomincia insomma non nel 14, ma nel 4 dopo Cristo; non con la morte di Augusto, ma dalla riconciliazione sua con il patrigno.

Dopo dieci anni di ozio forzato e di impopolarità, Tiberio smaniava di rifarsi sopra i suoi nemici, ma di rifarsi in modo degno dell’alta intelligenza, della nobile tempra di cui la natura lo aveva dotato: non rappresaglie o vendette, ma opere, le quali dimostrassero a tutti come egli solo, calunniato e perseguitato tanti anni da una aristocrazia degenerata, fosse capace di risanare il marasma senile in cui la repubblica si era prostrata. Fu egli che persuase Augusto, in questo anno, ad addolcire la pena di Giulia, consentendole di vivere a Reggio di Calabria e con maggiori comodi e maggior libertà?484 Non è improbabile che Tiberio volesse con questo atto di clemenza dare una soddisfazione al popolo e mostrare che non intendeva usar rappresaglie. Altro pegno di riconciliazione tra i Giulii e i Claudii fu il fidanzamento di Germanico, il primogenito di Druso adottato da Tiberio, con Agrippina, la figlia di Giulia e di Agrippa. Ma se Tiberio non intendeva usare rappresaglie contro gli antichi nemici, intendeva governare a seconda di quei principî che costoro detestavano tanto; e provvedere subito a riparare i due guasti più gravi, fatti dall’universale abbandono nel precedente decennio: la dissoluzione dell’esercito e il pericolo germanico. Senza perdere un istante, appena ebbe ricevuta la potestà tribunizia, egli partì per la Germania485 a ristabilire la disciplina delle legioni486, a spazzar via dai campi militari del Reno la vergognosa indolenza che un ozio così lungo ci aveva infusa, a rinnovare da capo a fondo la neghittosa politica che negli ultimi anni aveva lasciati i Germani vivere in sudditanza formale e Marbod, il re dei Marcomanni, fondare indisturbato in Boemia, a 200 miglia dal confine dell’Italia, un grande regno germanico con un esercito ordinato al modo romano. Tiberio non ignorava che, impoltriti come erano oramai e assottigliati gli eserciti, bisognava procedere con prudenza: e infatti non sognava di applicare alla Germania l’arte di guerra di Cesare, in cui l’improvvisazione geniale suppliva alla preparazione, la velocità fulminea e l’ardimento alla pochezza del numero; ma un’arte più cauta e più lenta, in cui il numero, la preparazione, la mole degli apparecchi facessero già da sè tanta impressione sui barbari, che del cimento non ci fosse più quasi bisogno. Egli intendeva richiamare in quell’anno all’obbedienza, con piccole spedizioni e con trattative, i popoli tra il Reno e il Weser, i Caninefati, gli Atuari, i Bructeri, i Cherusci; ripetere poi l’anno seguente, preparandola accuratamente, la grande marcia di Druso sino all’Elba; infligger nel terzo anno, con una grande guerra preparata pazientemente, la suprema umiliazione alla barbarie germanica, costringendo anche Marbod ad accettare il protettorato romano487. Ma Tiberio sapeva che l’infiacchito governo non si rinvigoriva solo ristabilendo la disciplina nell’esercito e facendo delle guerre. Infatti, mentre egli era in Germania, Augusto proponeva in questo anno provvedimenti nei quali è evidente l’impronta tiberiana, lo spirito tradizionalista e conservatore della vetusta politica aristocratica. Noi possiamo quindi attribuirli a Tiberio. Perchè lo scettico vegliardo, si risolve in questo anno dopo tanta inazione a tentar una nuova cernita del Senato, che presto poi, come al solito, interrompe, dopo aver cercato, pur questa volta, di lasciarne altrui la responsabilità?488 Perchè sente il dovere di pagare puntualmente soldati e veterani, dopo aver per tanto tempo mancato loro di parola? Come mai questo astuto politico non d’altro sollecito che di riuscire con il minore contrasto in ogni faccenda, ardisce questa volta immaginare una cosa giusta ma pericolosa: chiedere denaro per l’esercito non solo alle provincie, ma anche all’Italia? Era giusto che l’Italia, la quale era tanto arricchita negli ultimi trent’anni, sopportasse una parte almeno della spesa militare, dalla quale traeva maggiori profitti che ogni altra parte dell’impero. Non combattevano forse così aspramente le legioni nell’Illiria, nella Pannonia, nella Germania, affinchè i possidenti dell’Italia del Nord e dell’Italia centrale potessero sicuramente vendere il vino ai popoli barbari o semibarbari delle provincie Europee? Ma l’Italia era così gelosa della sua immunità fiscale, che uno spirito più diritto, più fermo, più risoluto di Augusto deve aver pensata una cosa tanto ardita. Anche in questo Augusto sembra aver contribuito piuttosto la consumata prudenza con cui preparò l’attuazione dell’idea: ordinando soltanto in Italia, con il suo potere proconsolare, ma senza spiegarne il motivo, un censimento di tutte le persone che possedevano più di 200 000 sesterzi: probabilmente le vittime adocchiate per il prossimo sacrificio489. Infine Augusto osò dopo tanto tempo una cosa più ardita: affrontare la grossa questione dei matrimoni senza prole; tentar di chiudere la tortuosa scappatoia per la quale la agiata borghesia e l’ordine equestre avevano cercato di sgusciar fuori dai divieti della lex de maritandis ordinibus. I cavalieri, le classi medie, il grande pubblico non avevano odiato così tenacemente Tiberio nè avevano tanto ardentemente ammirato Caio e Lucio Cesare per errore: pochi mesi dopochè Tiberio era stato richiamato al governo, Augusto osava proporre quella legge tanto temuta, che pareggerebbe i maritati senza figli ai celibi490. La legge si chiamava, probabilmente, lex Julia caducaria; e si proponeva due scopi: uno sociale, l’altro fiscale. Voleva cioè costringere i coniugi a generare figli, accoppiando l’orbitas, la sterilità, al celibato sotto il giogo delle pene sancite nella legge sul matrimonio: e voleva nel tempo stesso riempire le casse pubbliche deliberando che i legati e le eredità lasciate agli incapaci – celibi e orbi – non sarebbero più attribuite agli altri eredi e legatari secondo le regole dell’antico diritto, ma devolute all’erario.

Il partito tradizionalista ridiventava, per merito di Tiberio, potente; riprendeva l’opera incominciata con le grandi leggi sociali dell’anno 18 e poi interrotta per le discordie della nobiltà, per l’influsso della nuova generazione, per la debolezza di Augusto. Dopo aver tentato di curare nell’anno 18 i vizi più inveterati dell’aristocrazia, quel partito si volgeva ora a sradicarne dalle classi medie gli egoismi più mortali; come la lex de maritandis ordinibus e la lex de adulteriis erano state sancite contro la nobiltà, la lex caducaria era proposta sopratutto contro l’ordine equestre. Se anche questo volontariamente si isterilisse, sarebbe pur necessario un giorno – onta suprema – di trasferire l’impero nelle mani dei liberti o dei sudditi! Ma l’ordine equestre era più numeroso, più spregiudicato e più bisognoso che la nobiltà; ma Tiberio, l’autore vero della legge, dovè restare sino a dicembre in Germania491, dove con abili trattative e con una rapida marcia avea sottomesso tutte le popolazioni abitanti tra il Reno ed il Weser sino all’Oceano, e compiuti i preparativi per la grande marcia dell’anno seguente. Augusto quindi era solo a Roma, quando la legge fu presentata ai comizii. Meno intimoriti dalla sua vecchiaia che non sarebbero stati dalla presenza di Tiberio in Roma, i cavalieri tentarono di impedire la approvazione della legge con tumulti e violenze492. Inferocita dalla minaccia di perdere parte delle eredità aspettate, dalla imposizione di generare figli, anche la gente dabbene adoperava le armi rivoluzionarie che Clodio aveva trattate con tanta maestria! E vociferarono così forte, minacciarono e tumultuarono così violentemente questi infuriati cavalieri, che Augusto si spaventò, introdusse nella legge una clausola che ne differiva la applicazione per tre anni: quanto bastava affinchè tutti potessero comodamente mettersi in regola, facendo almeno un figliolo. Ma non per questa magra concessione si tranquillarono gli esasperati cavalieri, tutti quelli – ed erano tanti! – cui la legge arrecava molestia: e la stizza in cui tanti si rodevano per questo nuovo freno imposto al proprio egoismo, accrebbe ancora la avversione pubblica contro Tiberio, il quale intanto pensava alle cose germaniche. Ricalcando il piano originario di Agrippa, Tiberio aveva immaginato un doppio movimento delle armate e delle legioni: attraverserebbe egli, alla testa di un forte esercito, l’intera Germania sino all’Elba, mentre una armata perlustrerebbe le coste del mare del Nord, poi, ripiegando verso l’imboccatura dell’Elba, gli porterebbe i viveri, i materiali, i rinforzi necessari sia per passar l’Elba e sottomettere le popolazioni rifugiatesi al di là del grande fiume, isolando così anche a settentrione Marbod, sia per ritornare sicuramente dopochè la spedizione fosse compiuta493. L’impresa era vasta; onde Tiberio, che partiva in dicembre dalla Germania alla volta dell’Italia, dovrebbe ritornarci presto, al principio della primavera. Ma egli doveva fare una rapida gita alla capitale, dove c’era bisogno di lui, sopratutto per risolvere finalmente la questione militare e fiscale. Anche in questa materia Tiberio aveva idee savie e giuste. Non si potevano soddisfare gli smodati desideri fermentati negli accampamenti dalla indisciplina del precedente decennio, perchè i denari mancavano: anzi bisognava risolversi a non applicare più la impossibile legge militare dell’anno 14 e a ripristinare l’antica regola del servizio ventenne. Ma se Augusto, come al solito, aveva per tanti anni cercato di sgusciar fuori dalle difficoltà per i più tortuosi ripieghi, trattenendo con vari pretesti i soldati sotto le armi oltre il tempo legale, Tiberio intendeva uscirne per una via diritta, a fronte alta, senza raggiri di mala fede, che a ragione irritavano i soldati. Egli proponeva perciò di ristabilire il servizio di 20 anni per i legionari, di 14 per i pretoriani; di promettere per il congedo un premio di 12 000 sesterzi ai primi, di 20 000 ai secondi: ma nel tempo stesso voleva fondare un erario particolare, un bilancio a parte, per le pensioni militari, che sarebbe aumentato da redditi propri e sufficienti. Così le pensioni dei veterani non sarebbero più in balìa degli accidenti che empivano e vuotavano da un mese all’altro, continuamente, il vecchio erario della vecchia repubblica. Fossero pur dure le condizioni del servizio; ma fossero chiare, precise, e che la repubblica da parte sua adempisse con lealtà gli obblighi assunti: tale sembra essere stato il pensiero di Tiberio. E la nuova legge militare fu approvata, probabilmente nel principio dell’anno 5 d. C.494 Non fu invece approvata subito la nuova imposta che doveva alimentare l’erario. Difficile cosa era decidere quale imposta renderebbe di più e scontenterebbe di meno; onde anche allora si pensò di incaricare una commissione di senatori di studiare a fondo la questione495.

Non è improbabile che, intorno a questo tempo e per suggerimento di Tiberio, il Senato costituisse a Nord della Tracia e della Macedonia, dalla Dalmazia al Mar Nero, lungo il corso estremo del Danubio, la provincia della Mesia, collocando in quella tre delle legioni stanziate in Pannonia e in Dalmazia. Quelle regioni erano prima occupate da piccoli principati, posti sotto la protezione di Roma: formando una provincia, si volle senza dubbio rinforzare e difendere le foci del Danubio contro i Geti496, Poi Tiberio tornò in Germania, dove al principio della primavera incominciò la sua grande spedizione. La flotta scese per il Reno e per la fossa di Druso nel mare del Nord; risalì arditamente a settentrione, costeggiando lo Jutland sino allo Skagerrak; guardò curiosa e commossa l’immenso e freddo oceano che nessun occhio romano aveva ancora contemplato; ritrovò su quella estrema penisola gli ultimi e oscuri avanzi di un popolo, tremendamente famoso un secolo e mezzo prima: i Cimbri497. Un piccolo popolo che viveva oscuramente sulle rive del gelido mare: questo solo rimaneva dell’immensa ondata, che aveva flagellata tanta parte di Europa, prima di infrangersi con sì tremendo schianto nella valle del Po. Non fu difficile alla armata romana di spaventarlo, di persuaderlo a conchiudere un trattato di amicizia e ad inviare degli ambasciatori, i quali porterebbero in dono ad Augusto un antico e venerato lebéte, e domanderebbero perdono dei mali inflitti all’Italia dai loro antenati498. Poi l’armata ridiscese a sud; imboccò le foci dell’Elba, risalì il corso del fiume. Nel tempo stesso Tiberio faceva fare all’esercito, dal Reno all’Elba, una marcia di quattrocento miglia, per una strada che è impossibile ritrovare, raccogliendo sul suo cammino innumerevoli dedizioni di popoli e domando con le armi i Longobardi, che avevano cercato di opporsi. Sull’Elba si incontrò con la sua flotta carica di vettovaglie e di materiali499. Ma sull’altra sponda si raccoglievano grandi moltitudini armate, accorse da ogni parte a difendere almeno quell’estremo confine. Parecchi giorni si guardarono i due eserciti; ogni tanto, la flotta romana spaventava, muovendosi, e metteva in fuga i barbari; delle trattative furono avviate. Alla fine un capo germanico chiese di veder Cesare; venne nel campo romano, che gli fu mostrato nel suo più marziale aspetto; fu ammesso alla presenza di Tiberio, che lo ricevette con il più romano sussiego, in un atteggiamento di semidio.... Il barbaro contemplò a lungo e in silenzio quell’uomo che simboleggiava la favolosa potenza della lontana città, della cui idea il mondo era pieno500. Nuovi trattati di pace: poi flotta ed esercito ripresero a ritroso la lunga via per cui erano venuti. Tiberio aveva saputo ravvivar di nuovo negli spiriti poco tenaci di quei barbari l’idea della potenza romana, senza combattere, con una ostentazione spettacolosa di forze, mostrando loro che un esercito romano poteva sicuramente, quando volesse, traversare la Germania da un capo all’altro. Onde anche due altri popoli, i Senoni e i Caridi o Carudi avevano deliberato di mandare ambasciate a Roma alla grande metropoli501. Era bene: perchè ritornando, gli ambasciatori avrebbero raccontate nelle selve e nei villaggi della Germania le meraviglie della città posta sulle rive del Tevere. Ma a Roma, invece, l’esaurimento senile da cui era colpito lo Stato faceva maggiori progressi. In quest’anno bisognò obbligare degli antichi tribuni e questori indicati dalla sorte a essere edili, nessuno volendo più questa carica502; e i senatori incaricati di ricercare la nuova imposta avevano, sì, diligentemente cercato, ma non avevano trovato nulla503. Tutti d’accordo che bisognasse provvedere alla vecchiaia dei bravi soldati, assicurare all’erario militare cespiti larghi e abbondanti: ma poi, ad ogni tassa proposta, chi trovava una obiezione e chi un’altra, cosicchè nessuna era approvata. In verità la sollecitudine per il veterano invecchiato alla difesa del Reno e del Danubio mal nascondeva l’intrattabile egoismo della proprietà recalcitrante contro le imposte nuove. La lex caducaria aveva generato un tal malcontento contro Augusto, contro Tiberio, contro il governo, che nessuno osava irritare ancora più le classi medie, l’ordine dei cavalieri, i ricchi plebei. Ma Tiberio ritornava a Roma nell’inverno del 5 al 6, dopo la grande marcia sino al Reno504, incurante della pubblica irritazione, ben fermo nel proposito di far sì, che la legge militare dell’anno precedente non fosse per i soldati un nuovo inganno.... Difatti sul principio dell’anno 6 Augusto procede alla costituzione dell’erario militare con una gagliarda rapidità di provvedimenti molteplici: versa del proprio nella nuova cassa, a nome suo e di Tiberio, nientemeno che 170 milioni di sesterzi505; prega i sovrani e le città alleate di impegnarsi a versare certe somme506; sceglie finalmente tra le imposte proposte quella che sarà sottoposta al Senato e ai comizi: una imposta del ventesimo su tutte le eredità e su tutti i legati, fuorchè quelli lasciati ai parenti prossimi e ai poveri507. Dopo la lex caducaria, così molesta alle classi agiate, si proponeva una imposta sulle eredità: si voleva dunque confiscare le fortune delle famiglie, rifar le proscrizioni con procedimenti legali e non a danno di pochi ricchi, ma di chiunque possedeva qualche cosa? Il malcontento si inasprì; la proposta fu severamente giudicata e procurò nuovo odio a Tiberio; tanto che, per evitare discussioni e contese, Augusto fece un piccolo colpo di Stato: disse di averla trovata tra gli atti di Cesare. Essa doveva dunque considerarsi in vigore per il famoso Senatusconsulto del 17 Marzo del 44 a. C.! Ultima apparizione di quelle carte di Cesare, che furono il più famoso imbroglio inventato dai partiti politici di Roma508. Per accontentar poi quanti lamentavano che le antiche imposte avrebbero bastato a tutti i bisogni, se non ci fossero stati sprechi e dilapidazioni. Augusto propose che una commissione composta di tre consolari, estratti a sorte, rivedesse tutte le spese, riducendo quelle soverchie, sopprimendo quelle inutili insieme con tutti gli abusi e gli sperperi509.

Tiberio insomma non aveva perduto tempo. In meno di due anni aveva creata una nuova provincia; risollevato il prestigio del nome romano tra le popolazioni germaniche; avviata la questione fiscale e militare a una risoluzione; infuso un po’ di vigore nuovo negli organi principali dello Stato; ridata una certa voga alle idee tradizionaliste e classiche. E una certa reazione si faceva nel pubblico. Perfino Ovidio, il poeta delle signore galanti e degli zerbinotti depravati, pareva aver messo giudizio, poichè da qualche tempo aveva preso a imitare Virgilio, componendo nientemeno che un poema nazionale, storico e religioso, i Fasti, e un poema morale o mitologico, le Metamorfosi. Nel primo rifaceva in poesia l’opera erudita di Verrio Flacco, verseggiando in bei distici il calendario, cioè giorno per giorno le favole mitiche, i riti religiosi, i fatti storici, le feste di cui ricorreva il ricordo oppure l’obbligo. Nel secondo raccontava le più brillanti favole della mitologia, ricollegandole assieme con un filo tenue tenue. Cosicchè anche Ovidio ormai sospirava sulla semplicità delle antiche generazioni e sull’innocenza ahimè per sempre perduta della età dell’oro; venerava nei suoi più solenni ricordi e monumenti la tradizione; si prosternava innanzi agli dèi secolari di Roma; si inteneriva di pia compunzione nei templi e tra i sacri riti che avevano dall’origine accompagnata la tempestosa ascesa di Roma tra le genti del mondo mediterraneo... Sospirava, venerava, si prosternava, come aveva per tanti anni scherzato tra le allegre lascivie della poesia erotica, e cioè con la medesima facilità, con la stessa maestria e signorile eleganza; mescolando all’alta poesia dell’antico e del tradizionale idee e sentimenti nuovissimi con tale abilità da dissimulare ogni contrasto sotto una apparente continua perfetta fusione. Primo degli scrittori romani egli ammette tra i vecchi culti di Roma, con sicurezza tranquilla, come fosse pur esso antichissimo, quel culto di Augusto e della sua famiglia, che incominciava appena a fermentare nella coscienza delle classi medie dell’Italia: e tra gli inni e le lodi degli altri dèi non tralascia di parlar delle “sante mani” della “santa persona” del “nume” della “mente celeste” di Augusto e di Tiberio, aspettando di poter rivolgere le stesse adulazioni a Germanico e a Livia. Poeta dei contrari, della morente tradizione nazionale e del nascente sentimento monarchico, dell’amore lascivo e della religione austera; ma poeta indifferente, che non si sforza come Virgilio di conciliare nella loro essenza questi contrari, pur che gli riesca di fonderli nella rappresentazione esteriore, Ovidio raffigura lo spirito frivolo e indisciplinato della sua generazione, di quella nuova aristocrazia, in cui le disposizioni congenite così varie dei singoli uomini, non più compresse nello stampo unico della tradizione e della educazione, esposte agli influssi più differenti e più opposti, potevano liberamente crescere in ogni direzione, effondersi in tutti i contrari: vizio e virtù, eroismo e poltroneria, austerità e crapula, intelligenza e stoltezza. I buoni, i mediocri e i cattivi si confondevano ormai nelle sue file come nella famiglia di Augusto, che anche in questo può raffigurare la aristocrazia di quel tempo. Germanico e Agrippina formavano una coppia esemplare, che ricordava ai Romani Druso e Antonia; lui, amabile, generoso, pronto a difendere nei tribunali, al modo degli antichi nobili, le cause dei più oscuri plebei e con un impegno e con una eloquenza mirabili, eccellente esempio insomma di attività, di zelo civico, di costumi puri alla gioventù510; lei, sposa fedele, madre feconda e donna schiva di lusso e di sprechi, fiera – troppo fiera anzi – del suo marito, dei suoi figli, delle sue virtù romane.... Avevano già un figlio e si accingevano a osservare la lex Julia de maritandis ordinibus con uno zelo veramente esemplare. Nel fratello minore invece, in quel Claudio che, sempre malato da fanciullo, pareva dovesse restare imbecille, l’intelligenza si era sviluppata con gli anni, ma in modo singolare e bizzarro, come un albero che si appunta a crescere per un ramo solo, lungo, contorto, mostruoso. Egli mostrava inclinazione e attitudine per diversi studi – letteratura, eloquenza, archeologia511; anzi Tito Livio lo consigliava di darsi alla storia512: eppure mostrava in tutte le cose pratiche, anche nelle più semplici, una così incurabile stoltizia, era tanto incapace di imparare le regole elementari del vivere civile, che Augusto, pur così sollecito di presentare al pubbico e di avviare alle magistrature i suoi figli e nipoti, era costretto a nasconderlo513. Che egli prendesse parte a un banchetto o a una festa o a una cerimonia o a una qualsiasi radunanza, sempre commetteva qualche sconcezza o stoltezza che lo faceva beffare da tutti514. Sempre in mezzo ai libri eppur così balordo e credulo e pauroso da esser zimbello senza difesa dei servi, dei pedagoghi, dei liberti; balordo e credulo e pauroso eppur ineducabile, perchè così i castighi come le blandizie non riuscivano a far penetrare nozioni semplicissime nel suo spirito, che pure accoglieva da sè idee complicate e arruffate; debole e fiacco di corpo, eppur di una voracità e sensualità animalesca, Claudio era per tutta la famiglia un enigma increscioso. “Quando è in cervello – scriveva Augusto a Livia – traluce la nobiltà del suo spirito”. E in un’altra lettera: “Livia mia, che io possa morire, se mai sono restato di sasso a questo modo! Ho sentito declamar Claudio e mi è piaciuto. Sì, mi è piaciuto. Non capisco proprio come mai colui che discorre così balordamente, possa poi parlare così saviamente in pubblico515”. Claudio insomma non era uno stolto, ma possedeva un intelletto, come certi epilettici, smezzato e squilibrato; era uno di quegli eruditi imbecilli che, inetti all’azione, sciocchi e stolti nel trattare gli altri uomini, possono far prova di originalità e di intelligenza, quando si rifugiano, soli in qualche angolo remoto e solitario del vasto mondo dell’idea, non conservando altri contatti con il genere umano che per il tramite della cuoca la quale prepara loro il pranzo. Disgraziatamente è più facile oggi collocare uno di questi eruditi imbecilli in una Università moderna, che non fosse il tollerarlo nella casa di Augusto, dove si cercavano amministratori e guerrieri capaci di fare la storia, non dei discepoli di Tito Livio, che avrebbero al più potuto scriverla; e per ciò aspettando di vedere se migliorasse, lo lasciavano in disparte, al suo aio, che par non gli risparmiasse le busse. Claudio però, se era balordo, non dava noia ad alcuno e poteva quindi esser tenuto in casa.... Agrippa Postumo invece pareva crescendo esser preso da stupidità violenta; non voleva studiare nè far cosa alcuna seria; buttava il suo tempo in piaceri sciocchi e passava, ad esempio, intere giornate pescando; aveva preso in odio Livia, la matrigna, che insultava atrocemente, accusandola insieme con Augusto di avergli rubata la eredità del padre516. La sorella Giulia, invece, che aveva sposato da qualche tempo un grande signore di Roma, L. Emilio Paolo, ricordava con una inquietante simiglianza la madre. Amava la letteratura e la gioventù; amava moltissimo il lusso e già profondeva la sua fortuna in un palazzo sontuosissimo, costruito in dispregio di tutte le leggi suntuarie fatte da Augusto517. Ovidio faceva parte del circolo degli amici suoi. Druso invece, il figlio di Tiberio, che aveva sposata Livilla, la sorella di Germanico e di Claudio, era un giovane serio, sebbene a volte cedesse alla furia di un temperamento troppo violento.

Questa aristocrazia così ineguale e molteplice, piena di vizi, di virtù, di inclinazioni, di temperamenti opposti; quell’ordine dei cavalieri o, per parlare più alla moderna, quella borghesia raccogliticcia, in parte troppo recente e ignorante, sollecita molto più di sfruttare la potenza mondiale dell’Italia che non volonterosa di sopportare i carichi necessari per conservarla, erano arnesi di governo mediocri, poco sicuri. Difatti, non ostante i servigi considerevoli resi da Tiberio in un anno e mezzo, il pubblico l’aveva, come prima, se non più di prima, in uggia ed in sospetto. La legge dell’anno 4 e la nuova tassa proposta ravvivavano la inquietudine, che Tiberio fosse un giorno il successore di Augusto; l’Italia, e cioè le classi benestanti, influenti e – bene o male – pensanti, più che del dominio romano in Germania o della sicurezza del lontano confine renano, erano allora sollecite della lex caducaria, che tra poco più di un anno dovrebbe essere applicata, e della imposta che si voleva mettere sulle eredità. In tali condizioni anche la più ardente e la più alta ambizione doveva accontentarsi del meno peggio. Solo, impopolare, aiutato da pochi amici, sopraffatto dagli avvenimenti che lo costringevano ad adoperarli quale era, Tiberio non aveva nè il tempo nè il modo di rinnovare i vecchi arnesi del governo romano. Difatti, al principio dell’anno 6 Tiberio aveva dovuto partire di buon’ora, per mettere ad esecuzione il suo piano contro Marbod, invadere cioè la Boemia con due eserciti: uno che, al comando di Caio Senzio Saturnino, il console dell’anno 4, verrebbe dal Reno, da Magonza probabilmente, e marcerebbe verso oriente, attraverso le foreste dei Catti; l’altro, l’esercito della Pannonia che, condotto da lui medesimo, partirebbe dai confini del Norico, da Carnunto, e marcerebbe a Nord518. Tiberio intendeva allora di distruggere dalle fondamenta il regno di Marbod, o soltanto di costringerlo ad accettare una specie di protettorato? È impossibile dirlo. A ogni modo con questa spedizione Tiberio compiva quel rivolgimento nella strategia che, imposto dalla progressiva decadenza della milizia romana, era stato iniziato da Agrippa, sostituendo definitivamente ai piccoli, mobili, rapidi, indivisibili eserciti di Cesare, i grossi eserciti muniti di pesante bagaglio, che occorreva dividere e portare sul campo per vie diverse. Sempre quando il soldato declina, gli eserciti ingrossano, l’armamento si complica, i movimenti rallentano. Senonchè mentre Tiberio si accingeva a invadere la Boemia, Roma precipitava in un grande disordine per una dura carestia, che dovette essere effetto nel tempo stesso delle avverse meteore e della consueta negligenza dei magistrati preposti alle annone. Diminuita l’importazione privata non abbondante neppure nelle buone annate, lo Stato, che con le pubbliche distribuzioni gratuite aiutava Roma a sfamarsi, si trovò ridotto a doverla sfamare interamente da solo; Augusto ordinò di raddoppiare la distribuzione consueta del grano519 e prese forse altri provvedimenti, ma questi non bastarono; crescendo il male, fu proposto e approvato dal Senato che l’annona fosse retta invece che dai praefecti frumenti dandi da dei consolari520. Ma ad empire i granai vuoti non bastava la accresciuta dignità del magistrato; ci volevano navi, uomini, denari, e questi mancavano: onde ancora una volta la metropoli dell’impero fu ridotta alla fame. Alla fine, poichè non si potevano aumentare le provviste del grano, si ricorse all’estremo espediente di diminuire le bocche. Augusto diè l’esempio, mandando via di Roma, sulle sue terre, in altre città, quanti più potè dei suoi servi e liberti; i ricchi ne imitarono l’esempio; tutti gli stranieri furono espulsi da Roma, tranne i precettori ed i medici; furono fatti uscire tutti i gladiatori; tutti i senatori furono sciolti dall’obbligo di risiedere in Roma, disponendosi che le votazioni del Senato sarebbero valide, qualunque fosse il numero dei senatori presenti521. Ma tante e così tumultuarie espulsioni non potevano non generare infiniti altri guai, a Roma e fuori, turbare interessi, romper le gambe ai servizi pubblici già zoppicanti.... Nella città semivuota, gli incendi ripresero con maggior frequenza e violenza; nessuno curandosi più di spegnerli, interi quartieri arsero522; la miseria dilagò. E allora i malcontenti e i rodimenti, le irritazioni e le preoccupazioni per l’imminente applicazione della lex caducaria, per la imposta sulle eredità, per la ricuperata autorità di Tiberio, scoppiarono. Quanti speravano di non pagare la imposta deliberata l’anno innanzi, quanti odiavano Tiberio e ne temevano il crescente potere, approfittarono del momento, soffiarono nel fuoco della esasperazione popolare per spaventare il governo; dei manifesti sediziosi incitanti il popolo contro Augusto, contro Tiberio, contro il Senato furono divulgati; un vento di rivolta soffiò sulla città, agitò perfino i lauri trionfali piantati per ordine del Senato sul Palatino, innanzi alla casa di Augusto523. Disperato tra tante difficoltà, il presidente volle almeno provvedere affinchè la città non fosse tutta distrutta dal fuoco; e osò, questa volta, di far uno strappo alla tradizione aristocratica e al rigido principio nazionalista. Arruolò in fretta e furia un gran numero di liberti poveri, li divise in sette corpi, li distribuì per la città, li pose sotto gli ordini di un cavaliere, li incaricò di spegnere gli incendi, come avevano fatto in antico gli schiavi di Crasso e di Rufo. Il provvedimento era, naturalmente, provvisorio; ricomposto quel disordine, i corpi sarebbero sciolti524. Intanto Tiberio e Saturnino, lentamente, cautamente, entravano da due parti in Boemia, senza andar contro ad alcuna resistenza.... Sembra che Marbod, fermo nel pensiero di evitare un duello all’ultimo sangue, non volesse impegnare una battaglia di cui doveva egualmente temere l’esito: fosse vittoria o sconfitta. Ma sino a che punto Tiberio gli avrebbe consentito di sfuggir il cimento, non è chiaro. Intanto i due eserciti convergevano avvicinandosi.... Quando un avvenimento inaspettato sopraggiunse, verso la metà dell’anno 6, a deviare il corso della guerra contro i Marcomanni e ad accrescere ancora più la confusione di Roma. Approfittando della lontananza delle legioni, esasperati dalle requisizioni e dai reclutamenti che Tiberio aveva ordinati per la campagna di Boemia e che accrescevano il tormento dei tributi già troppo gravosi, i Dalmati erano insorti, sotto la guida di un certo Batone525; facilmente avevano vinte le poche milizie romane rimaste nella regione, e con l’esempio suscitata anche in Pannonia una grande rivolta che in breve divampò in tutto l’Illirico con la consueta violenza. Dappertutto erano trucidati i residenti romani e i mercanti stranieri526, simboli visibili dell’oscuro tormento che travagliava queste semplici comunità agricole venute a contatto e sfruttate da civiltà più raffinate e potenti; dappertutto si confiscavano e si saccheggiavano i loro beni; dappertutto la gioventù era chiamata alle armi e posta anche in Pannonia sotto gli ordini di un capo che, come quello dei Dalmati, si chiamava Batone527; se non duecentomila, come dicono gli storici antichi528, una larga ondata di uomini in arme invadeva le due regioni, e in Pannonia precipitava su Sirmio, la città più importante, dove si erano rifugiati i Romani529.

Rivoluzione per molte ragioni pericolosa a Roma. I Pannoni e i Dalmati appartenevano a quei barbari tanto temuti da Tiberio, che, conservando la natìa bellicosa fierezza, imparavano a servirsi delle armi di Roma. Servendo numerosi nelle coorti ausiliarle, essi avevano già imparate quelle cose che Marbod voleva insegnare ai suoi Marcomanni: la disciphna cioè e l’armamento romano, la lingua latina, molti costumi e molte idee che potevano aiutarli a combattere Roma530. Inoltre essi abitavano vicino all’Italia. Per Nauporto e Aquileia un esercito pannonico avrebbe in pochi giorni potuto sbucare nella valle del Po, dilatarsi in quella, furioso come una piena. E infatti la voce che gli insorti si preparavano a invadere l’Italia si divulgò in un attimo per la penisola; fu creduta da tutti come vera, senza che alcuno si domandasse se tanta impresa era possibile; fece smarrire a Roma quel poco di senno che ancor le restava tra tante sventure. L’impero vide allora – meraviglioso spettacolo! – quella Roma che non aveva disperato allorchè i cavalieri numidi di Annibale volteggiavano sotto le sue mura o nel più tremendo sfacelo della guerra sociale, la vide allora, che era al sommo della potenza, affamata, mezza arsa, in preda alla sedizione e ad un folle terrore dei Pannoni e dei Dalmati, implorante con urla disperate aiuto contro la rovina e la servitù che parea minacciarla. In un attimo la tenace avversione contro Tiberio sembrò sparire; tutti si rallegrarono che Roma possedesse ancora una spada affilata; da ogni parte si supplicò Augusto di richiamare Tiberio dalla Boemia e si proposero i più estremi provvedimenti. Augusto, sia che credesse anche egli al pericolo, sia che volesse approfittar dell’universale spavento per rinforzare l’esercito assottigliato, non cercò di calmare il panico universale, anzi dichiarò in Senato che, se non si provvedeva con zelo, in dieci giorni il nemico potrebbe accampare alle porte di Roma531; e precipitosamente prese o propose al Senato estremi provvedimenti. Ordinò a Cecina Severo, governatore della Mesia, e al re dei Traci, Remetalce, di invadere insieme, il primo con le sue tre legioni e con due legioni richiamate dalla Siria, il secondo con il suo esercito, la Pannonia532; richiamò da ogni parte sotto i vessilli le riserve – cioè i veterani – fece reclutare nuovi soldati con un vigore da lungo tempo inusitato533; per trovare denaro non esitò più, impose un tributo anche ai Germani pur così poveri; ricorse, per ingrossare l’esercito, anche ai liberti e agli stranieri. Sia proponendo una legge, sia facendo approvare un decreto dal Senato, impose ai senatori, ai cavalieri e alle persone aventi una certa fortuna di dare, in proporzione della fortuna, un certo numero di servi che, liberati e provvisti dai loro padroni del nutrimento per sei mesi, dovevano formare delle coorti così dette di voluntarii534. Raccolti così veterani, nuove reclute, liberti, stranieri, tutti furono spediti in fretta a Tiberio, alla volta di Siscia535, dove a poco a poco si raccoglievano i rinforzi, mentre Cecina e Remetalce tentavano di liberare Sirmio536. Ma in mezzo al panico universale, solo Tiberio non aveva perduta la testa. Egli conosceva, per averli combattuti tanti anni, i Pannoni ed i Dalmati: e pur giudicando subito l’insurrezione pericolosa, non credette che gl’insorti potessero invader l’Italia537. Perciò non volle precipitar dalla Boemia sulla Pannonia con quella furia che la sbigottita Italia implorava; ma prima volle terminare la impresa di Boemia, se non come aveva divisato in precedenza, almeno onorevolmente e senza una precipitosa ritirata. Sia che avesse già incominciate prima le trattative, sia che, smessa l’idea di cimentare le sue forze in una battaglia con l’insurrezione pannonica alle spalle, ora soltanto si volgesse alla idea delle trattative, egli iniziò dei negoziati con Marbod, li condusse avanti con ponderazione, conchiuse un accordo soddisfacente; e allora soltanto, dopo aver conchiuso l’accordo, probabilmente al principio di autunno, ritornò verso la Pannonia, mandando innanzi il governatore della Pannonia, Messalino, figlio di Messala Corvino538. Intanto Cecina e Remetalce avevano liberata Sirmio, dopo un combattimento vittorioso ma sanguinoso539. Questa ponderata lentezza di Tiberio irritò l’Italia impaziente, che attendeva una marcia fulminea, un sùbito polverizzamento degli insorti. Si incominciò a mormorare: che Tiberio traeva in lungo la guerra a disegno, per rimanere a capo di uno smisurato esercito540. Ma questo aristocratico, che avea congenito il disprezzo della opinione pubblica, che non domandava mai consiglio a nessuno per nessuna cosa541, era proprio l’uomo che avrebbe ascoltati i verbosi consigli del Foro, per dirigere la guerra! E infatti quando, giunto in Siscia, ebbe unito l’esercito che riconduceva dalla Boemia con le forze mandate dall’Italia, e potè considerare con più ponderazione lo stato delle cose, Tiberio immaginò un piano che era proprio l’opposto dei desideri e delle aspettazioni dell’Italia. Se a Roma, oscillando come al solito dalla paura alla tracotanza, tutti aspettavano da un giorno all’altro che egli facesse morder la polvere a Dalmati e a Pannoni in una grande battaglia campale, Tiberio sapeva di non potere senza grave pericolo, come aveva fatto sempre Cesare in Gallia, assalire l’insurrezione nei suoi covi innumeri. A Siscia si raccoglieva sotto i suoi ordini un numerosissimo esercito: dieci legioni, settanta coorti di ausiliari, dieci squadroni di cavalleria, dieci mila veterani, un gran numero di volontarii o liberti fatti soldati, la cavalleria tracica; poco meno di 100 000 uomini, insomma542. Ma sul valore di questo farraginoso esercito, Tiberio, come Augusto del resto, non faceva soverchio assegnamento543. Poteva egli allora, senza temerità, assalire con rapidità ed audacia cesariane un nemico valoroso ed astuto, in una regione poco conosciuta, in cui le comunicazioni e gli approvvigionamenti erano tanto difficili? Già in quei pochi mesi di guerra Messalino e Cecina avevano ambedue rischiato a più riprese di essere disfatti da assalti improvvisi; e non si erano tratti a salvamento se non perdendo molti uomini544. Che cosa succederebbe, se qualche corpo fosse distrutto? Tiberio rinunciò alla gloria clamorosa delle battaglie campali, e deliberò invece di far la guerra agli insorti, proprio come gli inglesi la fecero alcuni anni or sono ai Boeri: di dividere cioè il suo grosso esercito in diversi corpi, di rioccupare con quelli tutti i luoghi importanti in cui prima le legioni stanziavano545, di assicurare, curandolo egli in persona, il vettovagliamento di questi corpi546. Ogni corpo sarebbe incaricato di fare il deserto nel territorio circostante, impedirebbe agli insorti di seminare, di mietere, di raccogliere: per modo che nell’anno prossimo essi fossero costretti dalla fame ad arrendersi, mentre le legioni, nutrite con il grano portato da fuori, potrebbero facilmente finire le bande più ostinate547. Tiberio consumò quel che restava dell’anno a studiar come si potessero distribuire per la Pannonia i differenti corpi, ad accompagnarli tutti in persona nelle singole residenze affinchè non cadessero in imboscate, a ordinare il servizio di approvvigionamento. Questo movimento riuscì pienamente, perchè l’insurrezione non osò sbarrare la via ai romani, che in numero tanto maggiore ritornavano a rioccupare i villaggi e le città più importanti; onde all’avvicinarsi dell’inverno, mentre i Romani rientravano nella città, le bande degli insorti si disperdevano nelle campagne lontane548. Ma sul finire dell’anno un altro guaio sopraggiunse: i Daci, approfittando della lontananza di Cecina, invasero la Mesia. Cecina e il re dei Traci furono costretti a ritornare nella Mesia per respingere l’invasione549. Qualche banda di insorti si buttò pure nella Macedonia, ma con piccolo danno a quanto pare.

In questo stesso anno Archelao, re di Giudea, fu deposto e confinato in Vienna di Gallia per il malgoverno da lui fatto in Palestina550. Roma aveva osato mantenere l’impegno preso con il popolo ebreo! Dobbiamo noi vedere anche in questo atto più ardito del solito, l’influsso di Tiberio? È probabile; perchè Augusto non aveva osato nemmeno nella bella e prospera virilità intervenire così vigorosamente nelle cose dei popoli alleati. Ed egli era così stanco, così sfiduciato che intorno a questo tempo sembra aver perfino pensato di lasciarsi morire di fame551. Da ogni parte giungevano notizie funeste; lo stato dell’impero era una pietà; in Sardegna il brigantaggio imbaldanziva, ormai padrone dell’isola; in Asia Minore gli Isauri osavano di nuovo discendere dalle montagne a scorrazzar le pianure; in Africa i Getuli invadevano i territori del re Giuba e di Roma. Tutto pericolava. E intanto mancava il denaro, mancavano i soldati, mancavano i generali. Bisognò mandare in Sardegna a debellare i briganti, non un senatore, ma un cavaliere552. Che virtù poteva opporre a questa universale, ruinosa dissoluzione la vecchiaia di Augusto, logora da mezzo secolo di governo? “Se mi capita qualche difficoltà specialmente grave – scriveva egli in questo tempo a Tiberio – se ho qualche motivo di cruccio troppo grande, sempre desidero te, o mio Tiberio; e pensando a te mi riviene a mente il verso di Omero: Seguendo costui, noi scamperemmo anche dal fuoco ardente, tanto egli sa tutto prevedere”553. Tiberio solo infatti si affaticava a trar la repubblica dal “fuoco ardente” di quella grande crisi in cui era caduta, con una alacrità infaticabile, con una abnegazione silenziosa e sdegnosa, badando solo a salvar l’onore, il prestigio, la potenza di Roma; ma l’avversione pubblica contro di lui, per un istante sopita dal pericolo, rinasceva; gli interessi, i vizi, le pigrizie che avevano paura di lui, pigliavano a pretesto le lentezze della guerra per screditarlo, per accrescerne l’impopolarità. La guerra durava così a lungo, perchè Tiberio non voleva o non sapeva finirla! Inutile illudersi: Tiberio e i suoi contemporanei non si intenderebbero mai. Ma Tiberio non si smosse. A Roma attesero invano, nella primavera seguente, la grande battaglia, in cui Pannoni e Dalmati dovevano essere sgominati; perchè, diviso in tanti corpi554, l’esercito romano incominciò, secondo le prescrizioni di Tiberio, a logorare in piccoli combattimenti le forze degli insorti e nel tempo stesso a far loro il vuoto intorno distruggendo messi e bestiame: mentre al centro dell’esercito che operava in ogni parte Tiberio, con larga operosità, provvedeva a vettovagliarlo, a incuorarlo, a incitarlo. Ma se Tiberio faceva il dover suo in Pannonia. Augusto era inquieto che a Roma il pubblico capisse così poco e così poco ammirasse la fermezza prudente dell’ultimo grande generale, che la aristocrazia romana aveva generato. A Roma la situazione era sempre cattiva. Gli incendi – è vero – tormentavano meno la metropoli, per merito delle coorti dei vigili, che, sebbene istituite provvisoriamente, Augusto non si risolveva a congedare, tanto il pubblico ne lodava l’opera555; ma la carestia continuava556 il malcontento popolare si inaspriva di nuovo contro Tiberio e una pazza si mise a profetare in Roma con il più grande successo557; tutti i nemici di Tiberio – erano tanti – tutti quelli che tremavano pensando che egli sarebbe il successore di Augusto se domasse l’insurrezione pannonica, sfruttavano con audacia crescente la buaggine popolare per cercar di imporne il richiamo ad Augusto con un movimento di opinione pubblica; divulgavano sospetti sulle sue intenzioni, lo accusavano di incapacità... Roma era inondata di libelli diffamatori contro Tiberio, dei quali alcuni non risparmiavano neppure Augusto. D’altra parte se i vigili servivano, costavano anche molto denaro; e l’erario non ne aveva. Come al solito. Augusto si barcamenava, cercava di accontentar tutti.... Sospese per due anni ancora la lex caducaria; celebrò i grandi giuochi, come la profetessa reclamava, per dare una soddisfazione al popolo558; mandò in Pannonia Germanico che, giovanilmente ardimentoso, parteggiava per la grande guerra, e sul quale i nemici di Tiberio già ponevano gli occhi per opporlo a Tiberio, come Caio e Lucio Cesare: ce lo mandò, sebbene Germanico fosse in quell’anno soltanto questore e lasciando credere che il popolarissimo giovane farebbe ciò che non sapeva fare Tiberio, terminar cioè la guerra in poco tempo con qualche grande battaglia559; ma scriveva nel tempo stesso, come compenso, a Tiberio, forse da Rimini, dove era andato per avere più presto notizie: “Quanto a me, io penso, o mio Tiberio, che nessuno avrebbe potuto far meglio di te, tra tante difficoltà e con dei soldati così poltroni (questo complimento è scritto in greco). Tutti quelli che sono stati costì, ripetono unanimi che si potrebbe ripeter di te il verso: Un uomo solo con il suo zelo tutti ci ha salvi”560. Bisognava però trovar il denaro per pagare i Vigili! Alla fine Augusto si risolvè a sopprimere il sussidio concesso ai pretori per gli spettacoli gladiatorii, e fece approvare una nuova imposta, non è ben chiaro se del 2 o del 4 per cento, sulla vendita degli schiavi561. Intanto Germanico era giunto in Pannonia; ma non appena aveva tentato di attuare i suoi ardimentosi propositi, era cascato in una imboscata e per poco non era stato tagliato a pezzi con il suo corpo: onde a ragione Tiberio continuò la sua piccola guerra, non curando se a Roma si diceva che egli non faceva nulla562.

In questo anno Augusto fece relegar dal Senato Agrippa Postumo563, non potendo più tollerarlo in casa e in Roma per i suoi costumi; e Cassio Severo trovò chi fece a lui quello che egli aveva fatto a tanti: un processo, che terminò con la condanna all’esilio564. Non sappiamo l’accusa, ma possiamo supporre dall’esito che anche la forza e il terrore di questo diffamatore di mestiere si erano logorate con il tempo.

Ma la situazione migliorò invece a Roma e nelle provincie insorte durante l’anno 8. La carestia finì; gli espulsi cominciarono a ritornare; il malcontento pubblico per la guerra a poco a poco si placò. Anche i più ostinati e i più ignoranti dovettero riconoscere che Tiberio non era stato nè così inetto nè così neghittoso, come gli strateghi del Foro dicevano. Nell’inverno dal 7 all’8 una terribile carestia aveva afflitta la Pannonia e decimati gl’insorti, mentre gli eserciti romani, approvvigionati da Tiberio, avevano potuto, in mezzo a quella fame terribile, almeno nutrirsi565: onde al cominciar della primavera questi uscirono ad assestare il colpo di grazia alla insurrezione, inseguendo con impeto più ardito le bande assottigliate e sfiduciate dei ribelli. Molti capi, non sperando più nella vittoria, avrebbero volentieri trattato per la resa; il popolo era stanco; solo il piccolo partito degli arrabbiati e degli inconciliabili imponeva la continuazione della guerra; Tiberio seppe cogliere il destro. Parte con la dolcezza, parte con la forza, non infierendo con i vinti, trattando la pace a condizioni ragionevoli, egli riuscì durante l’anno 8 a pacificar la Pannonia, mercè fatiche e sforzi che a un certo momento inquietarono il vecchio presidente: “Quando – scriveva Augusto a Tiberio – sento e leggo come le fatiche ti dimagrano e ti smungono, mi vengono i brividi. Ti supplico di averti riguardo; perchè se tu ammalassi, io e tua madre morremmo e tutto l’impero andrebbe a rifascio. Poco importa se io sto bene o no, quando tu sei malato. Prego gli dèi che ti serbino a noi e ti diano, ora e sempre, buona salute, se proprio non hanno preso in odio il popolo romano”566. Questo anno insomma avrebbe potuto portar qualche consolazione alla vecchiaia di Augusto, se un nuovo scandalo non ne avesse, verso la fine dell’anno, funestata la casa. Anche Giulia minore aveva alla fine, come la madre, con il suo lusso e i suoi costumi, sfidate troppo apertamente le leggi di Augusto, che ormai, riconciliatosi con Tiberio e quindi riaccostatosi al partito tradizionalista, non aveva più ragione di esser così longanime con la nipote come con la figlia. Anche in questo caso noi non sappiamo come Augusto avesse le prove dell’adulterio, ma possiamo argomentare che, avutele, volle tagliar dalla radice e subito il male, anche per impedire che scoppiasse un nuovo scandalo immane, cagione, come quello che aveva travolta la madre, di nuovi funesti mali: e intimò, usando i poteri della semi-dittatura concessagli nel 23 a. C., a Giulia, a Decimo Giunio Silano, che era il più illustre de’ suoi amanti, a parecchie altre persone che avrebbero potuto esser colpite con i castighi della lex de adulteriis, di andarsene in esilio nei luoghi che egli designerebbe, se volevano evitare il processo; se no, applicherebbe loro la lex Julia de adulteriis che gli dava facoltà come pater familias, perfino di ucciderli, come cittadino di accusarli567. L’alternativa recideva ogni libertà di scelta: il processo significava lo scandalo pubblico, la sicura e irrevocabile condanna, l’odio di Augusto e di Tiberio, la confisca dei beni: acconsentendo invece ad andarsene per invito di Augusto, si salvavano i beni, si sfuggiva alla condanna legale, si poteva sperar di ritornare il giorno in cui Augusto si fosse placato o fosse sparito568. Tra le vittime fu Ovidio, a cui Augusto fece insieme espiare con la relegazione a Tomi un misterioso error e i suoi carmina. In che consistè questo error? Per qual ragione furono funeste al poeta le amicizie dei grandi, da cui cercherà in seguito di allontanare l’amico? Noi non possiamo dirlo con precisione. Si pensi tuttavia che la lex Julia puniva come adulterio il lenocinium, ogni aiuto cioè dato altrui per compiere adulterio; come il prestare per i convegni la casa propria.... Sarebbe cosa inverisimile che il frivolo poeta dell’ars amandi avesse commessa una imprudenza di questo genere per Giulia e alcuno dei suoi amanti? I costumi dell’alta società romana non erano più così severi, che Ovidio non potesse annoverar questo aiuto tra i servizi dovuti agli amici, con diritto, naturalmente, al contraccambio, in caso di bisogno. Ad ogni modo è molto probabile che l’error gli sarebbe stato perdonato da Augusto, se ad Ovidio il partito tradizionalista non avesse rimproverato di essere il corruttore della nuova generazione, di aver fomentati con un ingegno tanto brillante quanto perverso i vizi più funesti della aristocrazia. Invano egli aveva tentato di scusare il suo egoismo politico, dicendo delle poesie:

haec mea militia est, ferimus quae possumus arma.

Invano egli si era fatto sul tardi poeta religioso e civile. Le crisi interne, la rivolta pannonica, la progrediente dissoluzione dello Stato facevano pensare alla parte più seria dell’Italia, che senza una maggior severità di leggi e di costumi, l’impero si sfascerebbe. Augusto volle colpire in Ovidio la poesia erotica, una cioè delle forze dissolvitrici della antica morale romana; e dopo aver costretto l’autore ad abbandonar Roma, ne tolse i libri dalle pubbliche biblioteche569.

Senonchè questi esilii intimati per dare un esempio e rinforzare il rispetto degli antichi costumi, non erano deliberati da un tribunale, ma da un cittadino potente, che faceva subire parzialmente il castigo senza giudizio e senza processo; che toglieva, sì, una parte della pena se fossero stati condannati, ma sopprimeva nel tempo stesso il giudizio pubblico, la discussione delle prove, la suprema speranza anche dei più gravi colpevoli: la incertezza e la fallibilità degli umani giudizi. Eppure nessuno protestò. Ovidio vide gli amici dei tempi felici abbandonarlo, il vuoto farglisi intorno; e sul finire dell’anno 8 dovette risolversi al lungo e triste viaggio impostogli come pena dal partito conservatore rifatto potente; andare tra i barbari Geti, lontano dalle belle dame di Roma che lo avevano tanto adulato, a meditare sulla residua ferocia delle grandi tradizioni morenti! Sul principio dell’anno 9, considerando che la insurrezione in Pannonia era finita e che restava solo a domare la Dalmazia, Tiberio aveva lasciato il comando a Germanico ed era venuto in Italia. Il pubblico, riconciliato con lui del successo, gli fece grandi feste, una delle quali servì ai cavalieri come occasione propizia per domandare, con clamorose dimostrazioni, la abrogazione della lex caducaria, che in quell’anno doveva finalmente entrare in applicazione570. Tale era Roma! Mentre celebrava con grandi onori la virtù del generale che aveva vinto una guerra pericolosa, domandava l’abrogazione della legge che doveva provvedere i mezzi necessari a mantenere l’esercito, costringendo a contribuire alla difesa dell’impero con i beni, i cittadini egoisti che non volevano generare ufficiali e soldati! Ma Augusto non intendeva rinunciare a quel cespite nuovo di introiti, specialmente dopo le grandi spese di cui era stata cagione la guerra pannonica, che aveva costato molto più che non valesse il bottino povero e scarso di quei barbari indebitati571... D’altra parte l’impresa di Dalmazia apparve ben presto più difficile che non si credesse da principio. Tiberio assente, i soldati, stanchi di tante marcie e contro-marcie, avevano cominciato a protestare contro la lenta e faticosa strategia imposta dal generalissimo e a domandare che si finisse una buona volta la guerra con una battaglia risolutiva. Germanico non aveva nè l’autorità nè il temperamento che ci voleva per raffrenarli572. Affinchè non succedesse qualche disastro, Tiberio ripartì per la Dalmazia, dopo essersi certamente accordato con Augusto sulla questione della lex caducaria. Nella seconda metà dell’anno, non Augusto, troppo vecchio per assumersi simile fatica, ma i due consoli allora in carica, proposero la lex Papia Poppaea, che compieva la lex de maritandis ordinibus e surrogava la lex caducaria. Si attenuavano le pene della sterilità, dimezzando agli orbi le eredità ed i legati che ai celibi erano tolti interamente: si attribuivano ai parenti di terzo grado ed ai coeredi e conlegatari, se avessero figli, i caduca; solo se gli uni e gli altri mancavano lo Stato poteva appropriarseli.

La legge fu approvata; e poco dopo, in ottobre, Tiberio riportava la vittoria definitiva sui Dalmati, che finiva la guerra. Roma apprese finalmente la notizia così lungamente aspettata: la grande rivolta era spenta; Roma aveva vinto ancora una volta. La gioia fu immensa; il Senato decretò il nome di imperator a Augusto; a Tiberio il trionfo e degli archi di onore in Pannonia; a Germanico, come agli altri generali, gli ornamenti trionfali; a Germanico, solo il privilegio di esser nominato console prima del tempo legale; a Druso, figlio di Tiberio, il diritto di prender parte alle sedute del Senato prima di essere senatore e il diritto di essere annoverato tra i senatori pretorii dopochè fosse stato questore573. Druso non aveva preso parte alla guerra; ma si volle ricompensare nel figlio il padre. Senonchè, mentre il Senato era affaccendato a deliberar questi onori, mentre il popolo giubilava, libero finalmente dalla ansia della guerra durata tanto a lungo, cinque giorni dopo l’annunzio della vittoria finale riportata dalle armi romane nell’Illirico, una terribile notizia fulminò dal Reno: la Germania tutta si era sollevata, ad un tratto, dal Reno all’Elba; le legioni stanziate oltre il Reno erano state trucidate o catturate; il legatus di Augusto, P. Quintilio Varo, si era data la morte per non cader vivo nelle mani del nemico; tutto lo stato maggiore, i generali, gli ufficiali erano periti o prigionieri; solo pochi avanzi avevano potuto raggiungere i castelli romani sul Reno; Aliso era caduta.... E l’inopinata catastrofe, di cui subito si volle buttar tutta la colpa su Quintilio Varo, aveva anche essa le sue cagioni nei vizi profondi che indebolivan l’impero, che nessuno aveva veduto più acutamente di Tiberio, sebbene nemmeno egli potesse curarli, e qualche volta fosse anche costretto a fomentarli: nella corrosione cioè che la civiltà greco-orientale e l’amministrazione romana operavano sulla barbarie agreste e bellicosa; nella disperata difesa che questa corrosione provocava dappertutto, in Germania come in Pannonia; nella decadenza militare di Roma, che mentre era tratta dal naturale sviluppo della sua politica a provocare in misura maggiore queste rivolte, invecchiava, incapace di domarle. Publio Quintilio Varo era stato lasciato in Germania ad applicar la nuova politica con cui Tiberio pensava di rinvigorire l’autorità romana in quegli immensi territorii: scelta probabilmente meno peggiore che non si disse in seguito, dopo la catastrofe, perchè Quintilio Varo aveva dimostrato coraggio, energia, saggezza in Palestina, durante la rivolta scoppiata alla morte di Erode. Egli quindi aveva incominciato ad introdurre in Germania il processo e molte leggi romane; aveva in tutti i modi favorita la diffusione dei costumi romani e gli interessi dei mercanti stranieri; aveva infine, per la prima volta, quando Roma ebbe bisogno di denaro per la guerra illirico-pannonica, imposto ai Germani un tributo. Ma i Germani, che si erano acconciati a tollerare, dopo la morte di Druso, la sottomissione formale di cui Augusto si era accontentato, si erano spaventati quando Tiberio aveva iniziata una politica più vigorosa di romanizzazione; quando i centurioni avevano preso ad esigere – da essi così poveri – un tributo, che avrebbe preso le vie del Reno, delle Alpi, di Roma. La vecchia libertà finiva; finivano le cose amate dai Germani, le guerre continue, la vicenda delle vittorie e delle disfatte in cui ogni popolo poteva sperare il suo momentaneo apogeo, l’impero delle vetuste consuetudini, i semplici costumi nazionali. Incominciava il dominio dei proconsoli, dei centurioni, dei mercanti e dei legisti romani; questi, e non a torto, particolarmente odiosi ai Germani. I tentativi fatti da Varo per introdurre in Germania il processo romano, sembrano, dopo i tributi, aver provocato il maggior malcontento. L’insurrezione pannonica diede l’ultima spinta alle incertezze degli spiriti più animosi; un nobile Cherusco, Arminio, che era cittadino romano e amico di Varo, incominciò, con quella dissimulazione tenace che i barbari in lotta con la civiltà soli sanno adoperare, a intendersi con i capi germanici per una sollevazione generale. Se Roma stentava tanto a domare la rivolta illirica, se ne aveva avuta tanta paura, una rivolta contemporanea in Germania potrebbe ributtar per sempre i Romani oltre il Reno. Il silenzioso lavorìo fu lungo e tenace. Qualche cosa trapelò; Quintilio Varo fu avvertito di stare all’erta. A un uomo avveduto come Tiberio, questi avvisi sarebbero forse bastati; ma disgraziatamente Tiberio era allora troppo occupato nella guerra pannonica, per poter seguire con la necessaria attenzione le faccende germaniche. Quintilio Varo non ci badò: coloro che si accusavano di esser i capi della congiura non erano amici suoi, non venivano a trovario ogni tanto in Aliso? Ed egli non prese alcuna precauzione; lasciò le sue legioni qua e là, per varie parti. La sera prima della rivolta, Arminio e gli altri capi della congiura cenavano ancora presso il proconsole! Di lì a qualche giorno Varo seppe che alcuni corpi distaccati nelle parti più lontane della Germania erano stati assaliti: da una delle tante piccole insurrezioni locali che periodicamente scoppiavano in Germania, si pensò nel campo romano. Ma queste insurrezioni e queste notizie erano state predisposte ad arte per far accorrere Varo al soccorso e per condurlo con il grosso dell’esercito nelle foreste di Teutoburgo, dove tutto era disposto per l’immane macello. Fiducioso, Varo si mosse con l’esercito, i grossi bagagli, il seguito delle donne e dei bambini, credendo di dover attraversare un paese amico. Ma come fu nella immensa foresta, egli fu assalito da tutte le parti. Impacciato dai bagagli, dal lungo codazzo dei non combattenti, dalla pesante armatura, dalla ignoranza della via; troppo lento, pusillanime, facile a scoraggirsi, l’esercito romano questa volta non seppe evadere dall’imboscata, come tante volte aveva fatto con Cesare. E tutto fu o sgozzato o catturato nella foresta574.

X.
AUGUSTO E IL GRANDE IMPERO.

Gli storici sogliono da molto tempo annoverare la disfatta di Varo tra le battaglie “decisive”, delle quali può dirsi che abbiano mutato il corso della storia. Se Varo non fosse stato distrutto, si dice, Roma, conservandoli, avrebbe romanizzati i territori tra il Reno e l’Elba come la Gallia; non ci sarebbero stati più nè una nazione, nè una cultura germanica, come non ci furono più, dopo la disfatta di Vercingetorice, una nazione e una cultura celtica. Teutoburgo è quindi l’Alesia a rovescio dei Germanici. Senonchè questo ragionamento, il quale vola diritto come uno strale, non taglia forse che in alcuni punti tra loro lontani la sinuosa verità. Sebbene sia sempre impresa temeraria argomentare nella storia quello che sarebbe successo, quando è già così arduo spiegare quello che è accaduto, mi pare si possa almeno dubitare che Roma avrebbe romanizzati i territori transrenani come la Gallia, se li avesse posseduti per qualche secolo, quando si consideri quale fu il destino del romanesimo nelle provincie danubiane, sopratutto nel Norico, nella Pannonia, nella Mesia. Qui Roma dominò per secoli; qui gl’influssi romani, italici, greci, battevano più forti che nella Germania, per la maggiore vicinanza della metropoli: eppure il romanesimo non vi si radicò così saldamente che le bufere scatenatesi sull’Europa dopo la caduta dell’impero d’Occidente non lo abbiano divelto, lasciandocene solo qualche vestigio. Nè è lecito, generalizzando troppo velocemente, affermare che tutti i territori europei avrebbero potuto essere romanizzati così presto e così facilmente come la Gallia, che si trovò in mezzo all’impero di Occidente in una condizione singolare, tutta sua. Cosicchè seguendo questo ragionamento, si potrebbe riuscire ad una conchiusione congetturale, opposta a quella ammessa dai più: anche se Varo non fosse stato distrutto, i territori germanici non si sarebbero indelebilmente romanizzati.

Tuttavia la disfatta di Varo non fu evento di poca importanza nella storia di Roma. Essa troncò definitivamente la politica di espansione, che era stata la grande opera storica dell’aristocrazia. Rapido Tiberio corse sul Reno, raccolse i superstiti, rincuorò le legioni avvilite, rinforzò la difesa del confine; rapido cancellò nel mobile spirito delle provincie transalpine, con una studiata ostentazione di forza, di sicurezza, di risolutezza, la prima impressione della disfatta575. Ma questa volta anche Tiberio si persuase che bisognava abbandonare i territori conquistati da suo fratello e da lui. Ragioni finanziarie, ragioni militari, ragioni politiche facevano trionfare alla fine il partito avverso alle conquiste germaniche. Queste guerre combattute in Europa costavano più che non rendessero576; l’Italia era esasperata così dalle manchevolezze dei servizi pubblici come dalle imposte recentemente deliberate; l’egoismo delle nuove generazioni era troppo cresciuto; la grande rivolta illirico-pannonica e la dissoluzione dell’esercito ammonivano Roma a non presumere troppo delle sue forze. Il disastro di Varo poteva essere giudicato una disgrazia; ma quando Augusto aveva indetti gli arruolamenti per rifare le legioni distrutte, nessuno si era presentato; quando egli aveva ricorso, secondo la legge, ai reclutamenti forzosi, un infinito numero si erano ribellati. E questa era una vera vergogna civica, segno della ignavia universale cresciuta a dismisura in tutta l’Italia. Augusto aveva dovuto rinnovare i severi castighi antichi dei disertori; prima punire con multe, poi addirittura decimare i recalcitranti; eppure ciò non ostante aveva dovuto raccattar nei trivii di Roma la feccia e perfino i liberti per raccogliere il numero sufficiente577. Se dunque non si voleva, crescendo troppo gli ausiliari stranieri, snazionalizzare l’esercito; se si voleva conservare nell’esercito l’equilibrio delle due parti, la romana e la straniera, occorreva riconoscere apertamente che le forze militari non bastavano a tener sottomesso l’impero ampliato sino all’Elba. Infine tanti pericoli, tante calamità, tante ansietà avevano profondamente commossa l’Italia. Non che questa commozione avesse fatto vacillare sulle sue basi la potenza di Augusto. Per la grave età, per le sventure familiari degli ultimi anni, per i servigi resi, per le immense ricchezze profuse in Italia, per la sua stessa debolezza senile che incuteva poco timore, Augusto era ormai quasi un semidio, posto in un’etra eternamente serena, sopra alla torbida incertezza e mutevolezza delle cose umane. Quando nell’anno 13 scadde la quinta presidenza, i poteri gli furono rinnovati, e per dieci anni ancora, sebbene ormai egli fosse decrepito e afono578; sebbene in Senato non venisse quasi più e non assistesse più a nessun banchetto e avesse perfino dovuto pregare senatori, cavalieri, ammiratori di non fargli più visita alcuna, perchè questi ricevimenti lo affaticavano troppo579. Ma Augusto non era immortale; e il suo successore non godrebbe più di questa specie di immunità da cui era protetta la sua vecchiaia. Augusto e Tiberio perciò furono d’accordo che occorreva raccogliersi al di qua del Reno; e la Germania fu abbandonata. Era necessità; sarebbe stata follìa ostinarsi nel proposito opposto: ma la deliberazione era grave e dovette riuscire penosa ad ambedue. Scrissero gli antichi che, alla notizia della strage di Varo, Augusto si stracciò le vesti, percuotè il capo nelle mura della casa, proruppe in urla disperate, infuriò e delirò come impazzito dal subitaneo dolore. Se è difficile affermare che tutti questi particolari sono veri, possiamo almeno ricavare da questi racconti, che la disfatta di Varo fu la suprema amarezza di quella esistenza così piena di venture e di sventure. Dopo aver veduta la sua famiglia ruinare, disfatta dalla discordia, dalla morte, dalle discordie, dalla lex de adulteriis, il vecchio vedeva, prima di chiudere gli occhi per sempre alla luce del sole, precipitare con la dominazione romana in Germania, tutta l’opera in cui aveva consumata la virilità. Egli aveva nel 27 a. C. accettata dall’Italia e da Roma la missione di procedere alla grande restaurazione nazionale ed aristocratica di cui tutti allora dichiaravano di voler essere a gara, con lui, gli indefessi operai. E aveva mantenuto l’impegno, per 40 anni, benchè per via gli operai si intiepidissero e si diradassero; per quaranta anni aveva continuato a rifare la antica aristocrazia, l’antico esercito, l’anima antica di Roma. Con le grandi leggi sociali dell’anno 18, rinforzate dalla legge Papia Poppaea, avea cercato di risuscitare nella nobiltà le virtù necessarie al dominio, sopratutto l’alacrità e l’energia; conquistando la Germania, egli aveva tentato di aprirle un campo immenso, in cui arrobustire con l’esercizio queste virtù; di accrescere con una grande impresa felice il prestigio suo, del suo governo, della nobiltà che l’avrebbe sotto la sua guida compiuta. E invece.... Sarebbe senza dubbio temerario affermare, come troppi storici affermarono alla leggera, che le leggi dell’anno 18 furono inutili. Noi non sappiamo e non possiamo nemmeno argomentare quel che sarebbe successo, qualora quelle leggi non fossero state compilate: se cioè la aristocrazia si sarebbe disfatta più rapidamente, meno rapidamente o con eguale rapidità. Se quelle leggi avessero soltanto rallentata la dissoluzione della famiglia aristocratica, l’autore loro non avrebbe faticato invano a comporle, perchè se per la filosofia che fruga l’essenza delle cose il tempo è soltanto un accidente, la misura relativa con cui gli schemi eterni dell’essere si effettuano nella coscienza degli uomini, per le generazioni invece che vivono nel tempo, quell’accidente misura il bene ed il male che dovranno godere e soffrire. Ad ogni modo però, se non si può dire che Augusto abbia fatta opera vana promulgando le sue leggi, si può affermare invece che non ottenne l’intento propostosi; e che, dopo la disfatta di Varo, quando l’abbandono della Germania fu risoluto, nei cinque anni estremi della vita, egli non poteva più illudersi di non aver sognato per quaranta anni un sogno chimerico, tra il passato passato per sempre, e i confusi fenomeni del presente, che si infuturava. Le leggi sociali dell’anno 18 avevano, sì, distrutta la sua famiglia, ma non ricostituita la antica nobiltà; era forza ormai abbandonare quei territori germanici, in cui egli aveva per venti anni obbligata la riluttante Italia a versare il suo sangue ed a profondere il suo oro; tutti gli organi dell’antico governo repubblicano o languivano esausti o si irrigidivano paralitici, anche i più vitali, anche il Senato. Nell’anno 13, dopo la sua sesta riconferma, egli dovette sottoporre a una cura di riforme perfino il piccolo Senato datogli per assisterlo, perchè anche quello zoppicava: invece di 15 senatori scelti per sei mesi esso si comporrebbe di 20, scelti per un anno; tutte le deliberazioni prese da lui, d’accordo con Tiberio, con i consoli in carica, con i consoli designati, con i suoi nipoti adottivi, con i venti membri del consilium e con tutti i cittadini che egli crederebbe di consultare, avrebbero forza come senatusconsulti580. Era ormai impresa così ardua radunare il Senato ogni volta fosse necessario, che per non governare solo e in proprio nome tutto l’impero. Augusto aveva dovuto immaginare questo ripiego supremo. Era inutile del resto ostinarsi contro il destino: del Senato, che era stato per tanti anni il motore supremo della repubblica, restava in piedi ancora la carcassa; ma in questa la forza interiore, movente era spenta. Anche i comizi, ridotte le elezioni a formalità vane, in cui nessuno voleva più far da comparsa, erano ormai deserti da tutti. Insomma, quando l’impero richiedeva un numero crescente di magistrati, ardimento, zelo, ambizioni di buona lega, alacrità indefessa, la privilegiata aristocrazia a due ordini a cui era riserbato il governo dell’impero – i senatori e i cavalieri – si spegneva lentamente e volontariamente con il celibato e la sterilità; perdeva tutte le illusioni e le passioni, che, stordendo o inebriando o ingannando il suo egoismo, spingono una classe dominatrice ad avventurarsi nell’avvenire. Non si è ancora trovato e non si troverà mai l’incantesimo che conservi la energia, la alacrità, l’abnegazione in una classe che abbia conquistata la ricchezza e il potere, quando essa non si senta più minacciata di perdere subito, insieme con quelle virtù, il potere e la ricchezza. Per un’altra contradizione bizzarra, la pace augusta, la pace fondata, rafforzata, protetta con tanto studio da Augusto, frustrava tutti gli altri sforzi da lui fatti per rigenerare la repubblica. Rassicurati dalla pace interna ed esterna, sentendo ormai sicuro il suo potere, l’aristocrazia non voleva più arare o seminare, ma soltanto raccogliere la messe seminata dagli antenati; non sentiva più nè il rispetto delle tradizioni, nè la sollecitudine dell’avvenire, nè i doveri elementari verso la specie, ma soltanto gli stimoli del proprio egoismo. Anche allora, ad esempio, del disastro germanico l’Italia approfittava per domandare al governo di Augusto e di Tiberio, disorientato da quell’insuccesso, l’abolizione dell’imposta sulla eredità. Una agitazione era ricominciata in Italia; gli animi si riscaldavano di nuovo; si minacciava nientemeno che la rivoluzione. Augusto capiva che bisognava resistere, per salvare almeno le già stremate finanze dal fallimento: ma non osava resistere apertamente, cercava anche in questo supremo frangente, e già con un piede nella tomba, di ripararsi dietro il Senato, invitandolo a cercar esso un’altra tassa che potesse sostituire questa, proibendo a Druso e a Germanico di intervenire nella discussione581. Ultima pusillanimità di una potenza, nata dalla viltà e cresciuta con la prudenza? Forse, in parte. Ma parzialmente effetto pure della singolare deformazione che aveva subita, in quaranta anni, la suprema magistratura introdotta come un espediente transitorio per liquidare gli strascichi delle guerre civili, nell’anno 27 a. C. Un uomo solo, aiutato da pochi parenti, da pochi amici, da pochi senatori, non poteva, sia pur essendo ricchissimo, autorevole, munito di potestà molteplici e larghe, imporre ad una intera nazione i doveri, che questa non sentiva più; non poteva far le veci delle tradizioni secolari obliterate, della disciplina familiare infranta, del vigore svanito dalle istituzioni. Il compito del supremo magistrato si era fatto così difficile, che l’estrema, pusilla, impotente vecchiaia di Augusto era pure necessaria all’impero, perchè si correva pericolo di non poterle sostituire più nulla, il giorno in cui quella venisse meno. Dopo la rivolta illirico-pannonica e la catastrofe variana non c’era altro candidato alla presidenza che Tiberio, per quanto poco amato egli fosse e fortemente temuto. Di buona voglia o a malincuore riconoscevano tutti che il capo dell’esercito e dell’impero doveva conoscere a fondo le faccende germaniche, incutere timore ai Germani, ai Galli, ai Pannoni. La politica gallico-germanica, ben più che la adozione di Augusto, imponeva la successione di Tiberio. Senonchè, avvicinandosi il giorno in cui potrebbe tender la mano al sommo premio di tante fatiche, Tiberio si chiedeva dubitando se egli dovesse accettare la successione. Scioccamente malevoli come al solito, gli storici antichi hanno dubitato che questa titubanza fosse sincera; ma non ne dubiterà chi abbia seguita la lunga storia di Augusto, chi abbia inteso a fondo l’animo di Tiberio, i tempi in cui visse, l’impossibile compito assegnato ormai dalle cose più che dal volere degli uomini alla suprema autorità. Tiberio era troppo orgoglioso e troppo inflessibile da mutare, a più di cinquanta anni, alcuna delle idee professate sino allora; a capo dell’impero egli vorrebbe essere l’organo della tradizione e della disciplina, imporre agli egoismi frenetici dei contemporanei, in nome degli antenati, il compimento dei doveri essenziali verso la specie e verso l’impero. Ma egli era troppo intelligente da non capire che non riceverebbe con la autorità suprema i mezzi per compiere l’ufficio suo. Non ostante le immense ricchezze, la venerazione dell’età, la fortunosa carriera, i successi veri o immaginari che gli si attribuivano; non ostante la popolarità, l’affetto, il rispetto universale, Augusto non riusciva che a stento, a strappi, a bocconi, malamente, a compiere questo ufficio vitale. Che potrebbe egli fare! Egli, meno ricco, meno celebre, meno autorevole; egli, che aveva tanti nemici nella nobiltà; egli, che i cavalieri avevano in uggia come l’inspiratore della lex Papia Poppaea; egli, di cui le masse popolari diffidavano? Tutte le contradizioni di questa età si appuntavano in questa contradizione suprema: l’uomo imposto dalla situazione a successore di Augusto era il più impopolare e il più detestato in tutta la nobiltà; onde egli, consapevole dei pericoli insiti in quella grandezza, esitava ad accettare l’impero, il “mostro” come egli lo definiva. Ma i suoi innumeri nemici non potevano rallegrarsi per queste esitanze, aprire l’animo alla speranza di non doverne subire il detestato governo.... Se egli rifiutasse, chi altri si potrebbe mettere a capo dell’impero in quel grave momento, con i Germani giunti vittoriosi sino al Reno incalzando le legioni fuggenti, con la Pannonia e la Dalmazia appena vinte, con le finanze dissestate, con l’Italia esasperata dalle nuove imposte, con l’esercito disorganizzato, malcontento, agitato da antichi rancori e da desideri nuovi? Poichè il contraccolpo della disfatta di Varo si era fatto sentire anche negli eserciti; questi osavano alzar maggiormente la voce, domandare al governo, indebolito dalla disfatta, minore servizio e maggior soldo.

Invano dunque Augusto si era travagliato tanti anni per fondere armoniosamente le grandi virtù romane e le eccelse attitudini dell’ellenismo nella bella repubblica aristocratica, che avrebbe saviamente governato e adornato bellamente l’impero. Tentando di plasmare nella realtà il perfetto governo immaginato da Aristotele, da Cicerone, da Virgilio, da Orazio, egli non aveva modellato che uno sgorbio indecifrabile. Egli lasciava un governo ibrido, confuso, incerto, che sarebbe stato difficile al più acuto politico di definire: repubblica imbastardita, aborto di monarchia, aristocrazia degenerante, democrazia impotente. Il governo repubblicano, dopo aver nei secoli precedenti subìti tanti mutamenti, si era in quei quaranta anni mummificato; gli organi suoi, pur non essendosi ancora disfatti, non agivano più, perchè erano come incartapecoriti; la autorità suprema, creata nel 27 a. C., si era sforzata invano di infondere in quelli un po’ di vigore, che anzi essa stessa era stata alla fine paralizzata a metà, mal potendo trasmettere il suo pensiero e la sua volontà per il veicolo di organi troppo induriti. Eppure l’impero divinizzava ormai questa autorità monca e questa pigra vecchiaia che simboleggiava a sommo l’impotenza dell’antico e mummificato governo repubblicano, assai più che le forze nuove capaci di rivivificarlo. Proprio negli ultimi dieci anni della vita di Augusto l’esempio di Pergamo e di Lione era imitato in parecchie altre provincie: nell’anno 3 a. C. la Spagna aveva innalzata a Bracara una ara ad Augusto582; verso il 10 dopo Cristo la Galazia inaugurava ad Ancira un sontuoso tempio di Augusto e di Roma, organizzava intorno a quello un culto pomposo, ricco di molteplici sollazzi popolari e di grandi feste583; nell’anno 11 Narbona faceva di sè un voto solenne al numen di Augusto, edificava nel Foro un’ara, sulla quale il 23 settembre di ogni anno – il giorno natalizio del princeps – tre cavalieri e tre liberti dovevano fare dei sacrifici al “reggitore del mondo”584. Da ogni parte dunque la ammirazione, la riconoscenza, i voti dell’impero si innalzavano verso questo vecchio accasciato, che si affliggeva a Roma di non poter far quasi nulla per l’impero.... E le eredità piovevano pure da ogni parte! Vano sarebbe il voler spiegare la contradizione, attribuendo questi omaggi alla servilità. Non ostante la sua impotenza, anzi in parte per la sua impotenza, il governo di Augusto fu benefico al mondo. Per capire questo paradosso apparente, bisogna intendere a fondo che cosa fu la espansione romana; capire che, come l’aveva iniziata la nobiltà e quale essa la mantenne sinchè non degenerò, inquinata dallo spirito rapace dei pubblicani o spinta al ladroneccio da urgenti bisogni domestici, quella politica non fu di sfruttamento sistematico e senza misericordia. Se in ogni impresa Roma cercava dappertutto di non rimetterci le spese e di lucrar qualche cosa, la sua politica mondiale conteneva però dei compensi, che il mondo pur troppo non aveva potuto godere sino alla fine delle guerre civili.... Roma aveva fatta, nei due secoli precedenti, in Asia in Africa in Europa, una strage di Stati e di Staterelli – repubbliche, monarchie, teocrazie; aveva quindi soppresse delle burocrazie, sciolti degli eserciti, chiusi dei palazzi regi, disperso il servidorame dei sovrani, ristretto il potere di caste sacerdotali o di oligarchie repubblicane; aveva distrutte molte di quelle costose, brillanti, variopinte sovrapposizioni sociali che si formano dappertutto, con il pretesto di dirigerle, sulle associazioni umane elementari – la famiglia, la tribù, la città – sostituendo loro un proconsole o un propretore, che con pochi amici, qualche schiavo e liberto governava, non di rado senza milizie, regioni su cui prima avevano vissuto, imperato, imperversato miriadi di cortigiani e di funzionari. Due effetti dovevano nascere da questa politica: uno buono ed uno cattivo. È chiaro che Roma poteva percepire in molte provincie un tributo considerevole, facendo ancora risparmiar loro una parte delle molte ricchezze profuse dagli Stati precedenti per far guerre, per mantenere la oziosa ciurmaglia degli impiegati, per sfamare artisti, letterati e imbroglioni. Quindi le spese pubbliche avrebbero potuto essere ridotte; artieri, contadini, mercanti essere meno derubati dal parassitismo statale; la famiglia, la tribù, la città acquistare maggiore libertà e vigore. Nel tempo stesso però Roma, distruggendo quelle sovrapposizioni, decapitava in Oriente le aristocrazie intellettuali del mondo antico; aboliva le sedi dell’arte, della scienza, della letteratura; distruggeva tradizioni secolari di eleganza, di gusto raffinato, di lusso estetico. Le corti asiatiche erano i più vasti e più intensi focolari di tutte le alte attività spirituali. Cosicchè per sua natura la conquista romana avrebbe dovuto sin dal principio accrescere la prosperità materiale e deprimere l’attività spirituale delle nazioni soggette, abbassare le élites raffinate e rialzare le rozze classi medie occupate nelle arti, nei commerci, nella agricoltura. Senonchè la decomposizione della vecchia aristocrazia, la grande crisi sociale che aveva lacerata l’Italia nel II secolo a. C., le sfrenate cupidigie del capitalismo equestre, le rivoluzioni e le guerre civili, la rapacità delle fazioni bisognose, il fermento delle ambizioni democratiche nell’ultimo secolo avevano snaturata questa politica in un brigantaggio feroce, e quindi inflitto alle provincie tutto il male di cui essa era piena, senza far loro provare il beneficio, di cui pure conteneva in sè medesima il seme....

Cosicchè le Provincie non incominciarono a sentire questo beneficio che sotto Augusto, e per quella strana legge storica per cui quasi sempre le generazioni trovano la via dell’avvenire battendo delle strade false, tentando di raggiungere i miraggi proiettati dalla loro immaginazione nel vuoto che sta loro davanti. Colombo che, fisso di arrivare in India navigando ad Occidente, trova sul suo cammino l’America, simboleggia uno dei fenomeni più universali della storia. Anche allora, alla generazione di Augusto che aveva messo le vele per un viaggio fantastico verso il passato, la terra si parò innanzi ad un tratto. Nè essa la riconobbe subito, dopochè fu sbarcata. Dopo Azio, tutti avevano riconosciuto esser necessario per salvare l’impero rinvigorire lo Stato; per rinvigorire lo Stato, tutti d’accordo avevano tentata l’impossibile restaurazione della vecchia repubblica aristocratica; e questa prova disperata aveva indebolito invece di rinforzare lo Stato, cosicchè tutti, a mano a mano che Augusto invecchiava, credevano che l’impero corresse alla rovina. E proprio questo infiacchimento senile della repubblica, che durò più di mezzo secolo, doveva salvare l’impero. Nella impotenza del governo di Augusto, così in quella parte che era voluta come in quella che era forzosa, visse ancora una volta, nelle forme consentite dai tempi, la Roma classica e vera, semplificatrice universale dei fastosi, accaparranti, ingombranti governi. Quel governo augusteo, debole, incerto, minuscolo a petto dell’immenso impero; quello stato diretto da una famiglia discorde e servito da una amministrazione rudimentale; quel mostricciattolo provvisto di una testa troppo piccina e di organi atrofici o intorpiditi, non potè più opprimere, taglieggiare, predare le provincie; anzi non fu nemmeno capace di conservare la preda fatta nei secoli precedenti. Non solo il governo di Augusto, che non voleva disgustare nessuno, lasciò impassibile dappertutto i privati arraffar terre, boschi, miniere appartenenti alla repubblica, arricchirsi sulla sua spoliazione: ma di nessuna cosa fu più sollecito che di non aggravar troppo le provincie, così quelle dell’Oriente che lo avevano spaventato con le rivolte del cinquantennio precedente, come quelle dell’Occidente che lo sgomentavano con le minaccie e le ribellioni presenti. Non aveva Augusto preferito di lesinare perfino i divertimenti e il pane alla plebe di Roma, di scontentar con la parsimonia sua la metropoli, di rimetterci – singolare monarca! – quasi tutto il suo gigantesco patrimonio privato, spendendolo a prò del pubblico?585 Non aveva perfino preferito, negli ultimi anni, d’imporre, anche a rischio di infinite molestie, tasse all’Italia? Nè questo governo debole, timido, disorganato aveva più potuto molto aiutare lo sfruttamento dell’impero fatto dai cittadini romani privatamente. Senza dubbio gli Italici emigravano ancora nelle provincie come pubblicani e come mercatores, ad appaltare gabelle, miniere, terre, a commerciare tra i barbari e a prestare denaro: ma del vampirismo insaziabile degli ultimi due secoli non c’era quasi più vestigio alcuno. Se Roma viveva in parte, si adornava, si sollazzava con i tributi delle provincie, l’Italia cercava di arricchire non solo sfruttando l’impero, ma anche la sua terra e la sua posizione geografica. La dominazione romana diffondeva, con l’ammirazione del popolo dominante, l’uso del vino e dell’olio nelle provincie transalpine, specialmente nella Gallia; l’esportazione dei due liquidi preziosi dall’Italia rapidamente cresceva; e la fortuna della media possidenza si radicava nel suolo della penisola con gli alberi di Athena e di Dionysos.... Perciò anche se i procuratori di Augusto, i questori dei proconsoli e i pubblicani italici rubacchiavano un po’, le provincie più civili e più ricche avevano a poco a poco sentito alleggerirsi il peso delle imposte, a paragone dei miserabili tempi che avevano preceduto la rivoluzione. Non più corti, cortigiani, concubine, eserciti, letterati, artisti, filosofi da mantenere, ma solo un tributo non gravissimo da pagare a Roma; gli immensi demani reali, i tesori delle reggie divisi, spezzati, entrati nella circolazione universale delle ricchezze.... Roma dava poco alle provincie, ma pigliava anche poco. Sì certo, Augusto e Tiberio non si curarono nelle provincie che di aprir qualche strada, di far qualche più urgente riparazione delle opere pubbliche e di assicurare alla meglio l’ordine: ma a un governatore che gli consiglierà di aumentare i tributi di una provincia, Tiberio risponderà esprimendo il pensiero comune suo e di Augusto e della nobiltà seria, che un buon pastore deve tosare, non scorticare le pecore586. E quindi finalmente il mondo potè, sotto Augusto, soffrir insieme il male e godere il beneficio che la conquista romana gli teneva in serbo da più di un secolo: la intellettualità decadde, decaddero lo spirito filosofico, lo spirito scientifico, le arti, la letteratura, le più raffinate forme del vivere sociale, le aristocrazie storiche; decaddero le classi sociali che rappresentano la tradizione, la cultura accumulata di generazione in generazione, le attività alte e disinteressate della mente; progredirono invece il commercio, le industrie, l’agricoltura, lo spirito pratico e procacciante, le classi medie; incominciò l’era dei parvenus.... Con la caduta dei Tolomei la alta cultura perdette gli ultimi suoi protettori; nè a Roma Augusto, i suoi amici, la aristocrazia che gli faceva corona ebbero il tempo, il mezzo, la voglia di continuarne la missione intellettuale. Diedero, sì, lavoro a scultori e a pittori, che ne adornavano le case, ma neglessero sapienti e scrittori. Cosicchè il famoso Museo di Alessandria sembra essere stato chiuso o essersi presto disfatto da sè; e tutte le scienze puramente teoriche, la matematica, la astronomia, la geografia, tutti i generi letterari decaddero, non in Egitto soltanto, ma in tutto l’Oriente; e la protezione dell’alta cultura ellenica, – compito, orgoglio, gloria delle grandi monarchie fondate dai successori di Alessandro – fu durante l’età di Augusto assunta in tutto l’impero da due reattoli barbari: da Giuba II, re di Mauritania, che aveva, tra l’altro, la manìa di raccoglier manoscritti di Aristotele e pagava a caro prezzo anche molte opere apocrife, preparate da astuti falsari; da Erode re di Giudea.... Ridicole caricature, l’uno e l’altro, degli Attalidi, dei Seleucidi, dei Tolomeidi. Eppure il mondo romano a stento li tollerava, come degli insensati che sciupavano follemente il denaro e non erano insorti gli Ebrei alla morte di Erode, non avevano chiesto che la Palestina fosse annessa alla Siria come provincia? Gli Ebrei volevano abolire la monarchia ellenizzante per non salariare più gli artisti greci che adornavano di inutili monumenti le loro troppo costose città; per non pagare a peso d’oro la bella prosa di Nicola di Damasco. Non si potrebbe portar prova più evidente, per dimostrare che la conquista romana aveva dappertutto scatenate in Oriente le forze avverse alla cultura creata dalle monarchie greco-asiatiche; che queste forze ormai si imponevano dappertutto; che Roma era fatalmente costretta a diventar l’organo degli interessi materiali delle classi medie contro l’intellettualità aristocratica.

Incominciava invece una nuova, universale, mirabile prosperità materiale. Mentre l’ultimo avanzo della aristocrazia romana che aveva conservato senno e serietà si ostinava a contemplare con rammarico l’estremo crepuscolo del romanesimo, tempi nuovi albeggiavano alle sue spalle. A poco a poco in ogni nazione, le classi umili, quelle che erano dovunque sopravvissute alla distruzione delle oligarchie dominatrici perchè sono dappertutto indistruttibili, incominciavano, a tentoni, incertamente, ogni uomo cercando il maggior suo bene immediato, a ricavare tutto il vantaggio, che l’ordine nuovo di cose stabilito in tutto il mondo mediterraneo conteneva in potenza. Roma aveva fatta una immensa economia di Stati e quindi ridotte in tutto l’impero le spese politiche: aveva dispersi in mille mani infiniti capitali sterilmente accumulati nelle corti e nei templi, spartite terre, abbandonati a chi se li era presi boschi e miniere; aveva stabilito in tutto il bacino mediterraneo quello che noi chiameremmo un regime di libero scambio; aveva ravvicinate nazioni e regioni lontane e tra loro sconosciute, l’Egitto e la Gallia, la Siria e le provincie danubiane, la Spagna e l’Asia minore; aveva soppressi sul Mediterraneo e nelle provincie tutti i privilegi e le rivalità degli antichi potentati industriali e commerciali, aprendo le vie marittime e terrestri a tutti. Era quindi incominciato per tutto il Mediterraneo un via vai di uomini, uno scambio di merci, di costumi, di idee che era venuto crescendo durante tutto il governo di Augusto e che doveva continuare ancora molti anni; incitata dalla opportunità nuova de’ tempi, ogni provincia si ripiegava su se medesima per estrarre da sè le proprie ricchezze nascoste, e quando poteva, usciva a frugare negli angoli più remoti l’immenso impero per venderle meglio; cresceva in ogni parte lo sforzo interno di produzione e incominciava una espansione economica, universale e incrociata, di ogni provincia nelle altre. Così quasi tutte le nazioni soggette a Roma videro in quel mezzo secolo gittar più copiose le antiche sorgenti delle loro ricchezze e scaturirsene dalla terra delle nuove. L’Egitto, la Siria, l’Asia Minore, le tre maggiori nazioni industriali dell’era antica, rifiorirono rapidamente, trovando nell’impero pacificato e tutto aperto nuovi clienti, nuovi mercati: così tra i Berberi come tra i Galli, in Dalmazia come nella Mesia. L’Italia, la Gallia narbonese, ma precipuamente le provincie danubiane che erano regioni senza industrie paesane, furono invase da mercanti, da artieri, da schiavi, da imbroglioni, da avventurieri orientali: copiosa emigrazione che ha lasciato un vestigio di sè negli avanzi del culto di Mitra587. Tiro e Sidone rifiorivano all’antica prosperità; l’Egitto non spediva soltanto i suoi raffinati manufatti, e non mandava i suoi medici, i suoi decoratori in ogni parte dell’impero, ma aggiungeva alla sua immensa fortuna i lucri crescenti del commercio con l’estremo Oriente. La Grecia pure continuava il suo lento miglioramento. Più appartata e meno conosciuta invece l’Africa settentrionale. Augusto aveva tra tutte le parti dell’impero curata meno di ogni altra e non aveva mai visitata questa, che comprendeva ad occidente il vasto regno di Mauritania, governato prima da Giuba II e poi dal figlio Tolomeo; ad oriente la provincia di Africa amministrata dal Senato. Ma in nessuna parte dell’impero si potevano più facilmente fare immense fortune fondiarie, a mano a mano che Roma ripigliava nella sterminata regione la missione che aveva compiuta in una area più angusta Cartagine: sfruttare con il lavoro dei Berberi la meravigliosa fertilità di quella terra, ferace di grano e di ulivi. Terre e braccia abbondavano. Ora assidua alle fatiche dell’agricoltura, ora nomade a seconda che si rallentava o si serrava su lei la disciplina di una civiltà superiore, la plastica razza dei Berberi pullulava nei dominî romani dal deserto che inesauribile riempiva i vuoti fatti dal lavoro o dalle guerre o dai morbi tra le genti stabilite nelle regioni della Costa588. La caduta di Cartagine, i torbidi che nell’ultimo secolo della repubblica avevano sconvolto l’impero romano, avevano fomentati gli istinti nomadici, pastorali, bellicosi dei Berberi; cosicchè solo una ristretta parte del territorio aveva potuto essere coltivata assiduamente, e da ogni parte immense terre aspettavano l’aratro e il colono589. La pace invece, sbarrando ormai ai confini le vie per cui dal deserto nuove orde si avventuravano a predare sul territorio di Roma e dei suoi protetti; chiudendo alle tribù indipendenti i pascoli al di qua dei confini, invogliando i Berberi ad una vita più tranquilla, più agiata, abbellita di maggiori bisogni, convertiva i nomadi in agricoltori, fissava le tribù vagabonde al suolo, le avviava a trasformarsi in laboriose unità amministrative al cui centro sorgerebbe un villaggio, destinato, almeno nei luoghi più fortunati, a allargarsi e ad abbellirsi a città. Le braccia quindi abbondavano, e abbondavano anche le terre, perchè con la consueta incuria la repubblica lasciava sotto il debole governo di Augusto usurpare dai privati i demanii incolti che possedeva590; perchè nella provincia e nel regno di Mauritania le tribù a mano a mano che si applicavano a coltivar con maggior zelo un territorio più piccolo, a mano a mano che aumentavano il tenor di vita e sentivano un maggior stimolo al lucro, alienavano facilmente e per poco le terre che possedevano e che da sole non sapevano coltivare. Se un po’ di capitale fosse importato, se si provvedesse a regolare saviamente le acque, l’Africa potrebbe mutarsi in un immenso granaio, in uno sterminato vigneto, in un uliveto ricchissimo.... E difatti chi rapido in questo felice momento sapeva accaparrare le immense terre non coltivate, accumulava sterminate fortune fondiarie così facilmente come oggi nell’Argentina; e tra cinquanta anni in Africa possederanno i più opulenti latifondisti dell’impero. Di faccia all’Africa, anche la Spagna, la vergine selvaggia rifugiatasi per tanti secoli in fondo alle sue aspre montagne, incominciava a mansuefarsi, a darsi al mondo da cui si era per tanto tempo e così pervicacemente appartata. Dopo tante guerre, per le strade recentemente costruite, sotto la vigilanza delle colonie romane fondate o rafforzate da Augusto e delle guarnigioni disseminate nella penisola, il mondo antico prendeva finalmente possesso degli immensi tesori che questa terra nascondeva allora nelle sue viscere, come li nasconde ora; incominciava a cercarli per ogni parte, frugando diligentemente. Le genti iberiche o celte iberiche che tanto avevano tormentati i romani, o rabbonite o spaventate o decimate, parte per forza, parte per raccoglierne qualche particella, lasciavano trasportare lontano i gelosi tesori: indigeni e stranieri ricominciavano a scavar in ogni parte le miniere abbandonate o sconosciute, sotto la protezione della repubblica che lasciava mollemente usurpare dai privati i suoi diritti, difendendo con un po’ di zelo solo quelli sulle miniere di oro591, tra cui ricchissime le miniere asture, riconquistate da Augusto592: le ultime guerre avevano probabilmente fornito il primo contingente di schiavi, che fu poi aumentato da importazioni e rifornito dalle guerre illiriche e germaniche: dalle inesauribili viscere di questa terra avidamente frugate in ogni parte, oro, argento, rame, piombo, minio furono portati ogni anno alla luce del sole. Nella Turdentania invece, in quella regione che gli antichi chiamavano Betica e che i moderni dicono Andalusia, nella florida valle del Guadalquivir, la razza iberica, rammollita dalla terra felice, dalla ricchezza facile, da antiche mescolanze con Fenici e con Greci, si era spogliata della sua bellicosa ferocità, si era data alla terra ed al mare. La Betica esportava in Italia, specialmente a Roma, per Pozzuoli od Ostia, frumento, vino, olio sopraffino, cera, miele, pece, lana, certe pezzuole fabbricate da certe popolazioni593. Ma più di ogni altra provincia progrediva forse quella in cui Licino e Augusto avevano creduto di riconoscere l’Egitto dell’Occidente. Qui la conquista romana prima, il censo ordinato da Augusto poi, avevano rinforzato il regime giuridico della proprietà, fissando e trasformando in proprietà sicura i diritti più o meno vaghi che gli occupanti gallici potevano aver sulle terre594. È probabile pure che molte terre pubbliche, appartenenti alle civitates, fossero, con la tolleranza dei governatori romani, rubate dalla nobiltà fedele, che Roma ricompensava così del suo lealismo a spese comuni della Gallia. Infine si incominciarono a introdurre in Gallia le nozioni e le pratiche dell’agricoltura latina; i nobili che ritornavano dai loro viaggi in Italia e che avevano viste le ville dei grandi signori romani, non volevano più vivere nelle loro antiche case celtiche; tra i boschi gallici si edificavano delle ville latine595, si ordinava l’azienda agraria come in Italia. Onde un universale progresso dell’agricoltura. Ma nel raccoglimento e nel silenzio, all’insaputa di tutti, l’Egitto dell’Occidente preparava una meraviglia anche maggiore: prima delle nazioni dell’Europa, la Gallia diventerebbe una nazione industriale, che saprebbe imitare le arti dell’Asia Minore, dell’Egitto, della Siria, disputare loro parecchi clienti, tra i quali l’Italia e le provincie danubiane; insegnare i primi lussi della civiltà ai Germani; non solo pagar con mercanzie i suoi tributi all’Italia, ma anzi prendere all’Italia parte dell’oro e dell’argento da essa raccolti nelle altre provincie, in cambio di derrate agricole o di manufatti. Il linificio si volgeva rapidamente a provarsi in opere più delicate che le rozze vele per navi, da cui aveva prese le mosse. I Nervii, quei terribili Nervii che avevano con tanto furore assalite le legioni di Cesare, sedevano ora pazientemente al telaio; si provavano a tessere una stoffa, che doveva un giorno essere imitata perfino nelle più antiche e famose fabbriche dell’Oriente, tanto essa sarebbe pregiata nei mercati prima provvisti dall’Asia Minore596. La Gallia tutta comprava ormai le belle ceramiche rosse di Arezzo e di Pozzuoli, i vasi biancastri, grigi o giallognoli del vasaio Acone e delle fabbriche valpadane; le antiche ceramiche celtiche, fregiate di disegni geometrici dipinti, escluse dalle nuove case più ricche ed eleganti, si rimpiattavano vergognose nei villaggi perduti tra le foreste, dove gli uomini vivevano ancora nelle vecchie case sotterranee. Ma i fabbricanti gallici di queste ceramiche nazionali, ormai rifiutate da un pubblico troppo invaghito degli oggetti esotici, incominciavano a studiare le ceramiche valpadane, le ceramiche aretine, gli scifi d’argento greci ed egiziani, i miti e le leggende elleniche raffigurate sui vasi, la pittura di genere fiorente ad Alessandria; facevano venir qualche operaio dall’Italia, tentavano di imitare le opere dei loro concorrenti. Incominciava a esercitarsi tra i Ruteni e tra gli Arverni una maestranza gallica di artigiani liberi che, lavorando assiduamente, fonderà tra mezzo secolo nella valle dell’Allier alcune delle più grandi officine ceramiche dell’impero. Allora non solo la Gallia non importerà più dall’Italia, ma esporterà le sue ceramiche oltre il Reno, in Spagna, in Britannia, in Africa e perfino in Italia. Sin tra le ceneri di Pompei si troveranno i rottami dei vasi fabbricati nelle officine rutene!597 Con la ceramica la Gallia si appropriava dall’Oriente una arte affine, l’arte del vetro. Se riuscisse ad esportare vetri ci è ignoto; ma è certo che provvide almeno al suo consumo largamente598. La metallurgia sarà pure perfezionata ed arricchita di nuovi rami dall’intelligenza celtica, raffinata dai contatti con la civiltà greco-italica. Proprio in questo tempo i Biturigi inventavano l’arte di stagnare e di argentare gli oggetti di ferro per dare anche alle persone di modesta fortuna l’illusione di possedere oggetti di argento come i ricchi signori; l’arte che tra breve fiorirebbe in Alesia, nella città di Vercingetorice, e che troverà una numerosa clientela in tutto l’impero, a mano a mano che il lusso si diffonderà tra le classi inferiori599. Anche l’arte gallica della lana vestirà, tra qualche tempo, il popolino di Roma. In altre parti della Gallia, degli artigiani non meno ingegnosi tentavano una impresa più ardita: arrossare i tessuti non con il prezioso ma raro mollusco che tingeva la porpora, bensì con il succo di una pianta molto comune che Plinio chiama vaccinium; inventar cioè un color di porpora vegetale e molto meno costoso. Se il tentativo fosse riuscito, la Gallia avrebbe rovinato a suo vantaggio una delle più antiche e floride industrie orientali: ma disgraziatamente queste porpore vegetali, se splendevano come le altre, tenevano meno tenacemente il colore quando erano lavate. I Galli le venderanno tuttavia al popolino e agli schiavi, esportandone molte in Italia; porranno accanto alla porpora vera e costosa dei signori, la porpora dozzinale e vile dei poveri600. Insieme con la Spagna la Gallia provvederà pure all’Italia il piombo601. Anche la vecchia industria gallica dello smalto doveva rinnovarsi e fiorire. Onde tra le molte cagioni per cui i Galli impararono così bene il latino, e dimenticarono la lingua straniera, bisogna annoverar pure questa: che gli Italiani erano tra i loro migliori clienti.

Così, mentre a Roma, intorno ad Augusto, la piccola oligarchia dei dominatori, chiusa in sè stessa, credendo che tutto da lei dipendesse, anche il futuro, si spossava tra furiose discordie in tentativi contradditori per plasmare a suo talento l’avvenire, l’avvenire maturava da sè, ben diverso, nell’immenso impero. Mentre Augusto si affaticava per ricostituire a Roma il governo aristocratico, da sè, a poco a poco, per gli sforzi di milioni di uomini inconsapevoli del resultato finale, le parti dell’impero più diverse per lingue, per razze, per tradizioni, per climi, aderivano insieme in una compatta unità economica, intrecciavano all’infinito i loro interessi materiali, che dovevano collegarle insieme, più tenacemente che non le leggi e le legioni di Roma, che non le imperiose volontà del Senato e degli imperatori. Per questo lavoro interno, invisibile, di cui nessun uomo aveva coscienza, l’accozzo accidentale dei territori fatto dalla conquista e dalla diplomazia, diventava un sol corpo, animato da una anima unica. La storia si accingeva a farsi beffe, ancora una volta, della pavida sapienza degli uomini. Ormai la forza sprigionata dalla fermentazione di questi interessi era così grande che nulla più poteva interrompere il moto impresso da essa alla società dell’impero, deviare il mondo dalla strada per cui si era messo, in quei quaranta anni di pace augusta, da sè. Ed era proprio la via che la saggezza romana, parlante per la bocca di Tito Livio, di Orazio, di Virgilio, di Augusto, di Tiberio, giudicava dover condurre all’abisso. L’Italia come la Gallia, la Spagna come le provincie danubiane, l’altipiano dell’Asia Minore come l’Africa settentrionale, i popoli di civiltà già antica come i barbari nuovi, la plebe campagnuola come le classi medie e le classi alte, tutto l’impero insomma sarà dalla pace, dalla prosperità, dalla nuova età dell’oro, dai mercanti che con gli oggetti diffondevano la civiltà greco-orientale, sospinto a prendere i costumi, le idee, le raffinatezze, le corruzioni e le perversioni della civiltà urbana che i Romani consideravano tanto funeste. L’impero tutto si coprirà di città; al centro delle tribù berbere come delle civitates galliche i villaggi ingrandiranno a belle città costruite a imagine e simiglianza delle città italiche; gli oppida indigeni della Dalmazia e della Pannonia si muteranno in municipia latini; le colonie romane, le città antiche del mondo greco cresceranno e si abbelliranno; la grandezza dell’impero sarà simboleggiata dallo splendore meraviglioso delle sue maggiori città e dallo splendore meravigliosissimo di Roma, che gli imperatori dovranno abbellire, non soltanto per compiacere il popolo dell’Urbe, ma per abbagliare e incutere reverenza alle genti soggette. La agricoltura fiorirà nell’universale prosperità; l’agiatezza allieterà le campagne: ma quello che si potrebbe chiamare lo spirito rustico, quello spirito di semplicità, di parsimonia, di rudezza austera che Virgilio aveva cantato nelle Georgiche, declinerà dappertutto. Con le loro potenti radici le città assorbiranno dalle campagne tutti i succhi vitali, il fiore della ricchezza, dell’intelligenza, della energia, per convertirla in lusso, in sollazzi, in vizio: le regioni più floride saranno quelle che potranno fornire alle città del vino e dell’olio per i loro festini e i loro giuochi; i possidenti grandi e medi verranno ad abitare nelle città, spenderanno una parte della loro fortuna per erigere in queste delle terme, per regalare alla plebe degli spettacoli, per distribuire del grano o dell’olio; i contadini sentiranno di generazione in generazione, dappertutto, più forte l’impulso a inurbarsi; anche i più remoti, i più rusticamente semplici tra i popoli dell’impero, cercheranno, come si direbbe adesso, di diventare “industriali”, di perfezionare le semplici arti paesane, di vendere lontano i loro prodotti, di imitare le industrie dei popoli più ricchi, specialmente quelle della tessitura602; perfino i Germani, oltre il Reno, i Germani riottosi e bellicosi, incominceranno a sedersi al telaio603. Roma irradierà al di là dei confini, nelle foreste germaniche, i primi principî della civiltà sedentaria; la smania del lusso e dei piaceri si infiltrerà via via negli strati sociali più profondi, si spanderà nelle moltitudini, corromperà perfino gli eserciti; lo spirito militare, nazionale e politico si spegnerà in ogni parte. La pace romana si accingeva a diffondere in tutto l’impero, pur nei più piccoli villaggi delle più remote provincie, anche tra le razze più semplici e rudi, perfino nei campi militari quella “corruzione dei costumi” che incuteva tanto orrore ai tradizionalisti romani; quello spirito di raffinamento, di divertimento, di arte, di novità, di intellettualità che noi chiamiamo invece, e con un ottimismo forse altrettanto fallace quanto il pessimismo degli antichi, incivilimento. A questa “corruzione dei costumi” precipuamente deve attribuirsi la florida unità dell’impero nei due secoli venturi. Roma ha legato a sè e tra loro per tre secoli l’Oriente e l’Occidente, perchè ai popoli civili diede una rifioritura brillante della civiltà cittadina, ed ai barbari la fece gustar per la prima volta: Roma ha dominate le masse popolari non con le legioni e le leggi, ma con gli anfiteatri e i giuochi dei gladiatori, con le terme, le distribuzioni di olio, il pane a buon mercato, il vino, le feste.... A mano a mano che le moltitudini gusteranno questa vita più raffinata e più ricca, si affezioneranno a tutti i potentati che le faranno loro godere; e le classi ricche, quanti avranno interesse a conservare l’ordine di cose vigente, capiranno non esserci miglior mezzo per consolidare il potere, che di soddisfare queste passioni delle masse. L’imperatore a Roma darà a tutti l’esempio; ma come egli a Roma, i ricchi conserveranno il potere municipale nelle lontane città dell’Asia e dell’Africa con continue largizioni di feste e di vettovaglie alla plebe; governeranno dai municipi sotto la vigilanza di Roma il proprio piccolo territorio. La aristocrazia gallica sarà devota per sempre all’impero, quando tutta si sarà avvezza a vivere in ville simili a quelle italiche, ma più grandi e sontuose, splendenti di bei marmi italici e greci, decorate con lo stile in voga nella metropoli, adorne di copie dei capolavori della scultura greca604. Potrà ancora, tra mezzo secolo, uno scrittore imbevuto dell’antica saggezza italica rammaricare che al tempo suo fin le ancelle usino specchi di argento605 e che tanto vino si beva nelle taverne delle città: ma la principal forza coesiva dell’impero nei tempi della maggiore prosperità sarà questa universale inclinazione verso le raffinatezze, gli agi e le corruzioni di una squisita civiltà cittadinesca.

Certamente, quando all’età dell’oro succederà quella del rame e del ferro; quando le sorgenti di questa prosperità si disseccheranno, anche quella coesione verrà meno, e l’immensa mole si sfascerà. Ma quei tempi sono ancora lontani. Quando Augusto, il 23 agosto dell’anno 14 morì, vecchio di 73 anni, appena era incominciato il processo storico che doveva unificare l’impero per due secoli. Le famiglie arricchite nei quaranta anni precedenti, in mezzo a quel grande sommovimento di ricchezze antiche e nuove da cui tante fortune emergevano, incominciavano appena allora, timidamente, a raccogliersi intorno la plebe con una munificenza che doveva promuovere i progressi della vita cittadina in ogni parte dell’impero. L’incertezza che dominava ancora a Roma sul Palatino; quella avversione a spendere troppo per Roma e per il suo popolo che fu propria del governo di Augusto e di Tiberio; la diuturna esitazione tra la tradizione di un mondo morente e le esigenze di un mondo che nasceva, doveva trattenere in tutto l’impero i ricchi, che da ogni parte ormai guardavano, bisognosi di un esempio, la casa del princeps. Ma le fortune si accumulavano intanto, pronte a profondersi per spingere l’impero sulla nuova via, appena da Roma partisse il cenno.... Augusto aveva dunque per quasi tutta la vita navigato a ritroso della corrente. Dobbiamo conchiudere che egli servì al progresso del mondo solo per caso? No. Tra le infinite cose ch’egli ha compiute, due furono veramente vitali: la politica repubblicana e la politica gallico-germanica. L’impero romano si componeva di parti più diverse tra loro che i grandi imperi che lo avevano preceduto; la sua bizzarra forma circolare accresceva ancora più la difficoltà di unificarlo: come ce lo dimostra il fatto che esso non ha mai potuto collocar bene la sua capitale. Roma o Costantinopoli, tutti i luoghi che furon provati, non furono mai pienamente acconci. Eppure l’impero romano fu unificato e durò, quanto nessuno dei grandi imperi continentali che lo avevano preceduto. La forza di scissione che ha così rapidamente frantumato gli imperi greco-orientali fondati da Alessandro, non agì nel suo corpo immenso. Per quale ragione? Gli storici che hanno deriso il tenace spirito repubblicano dei Romani, che hanno definita la repubblica di Augusto una commedia, avrebbero fatto meglio a proporsi questo quesito. La unità economica, la diffusione della civiltà cittadinesca furono due delle principali cagioni: ma non credo siano le sole. La tenace coesione dell’impero romano fu in parte effetto dell’idea romana e repubblicana dello Stato che, diversamente dalla monarchia asiatica, implicava come elemento essenziale l’indivisibilità. Nella monarchia asiatica lo Stato era considerato come una proprietà della dinastia, che il re poteva ingrandire, impicciolire, smembrare, dividere tra i suoi figli e parenti, lasciare in eredità come un campo, una casa. Per il romano invece lo Stato era la res publica, la cosa di tutti; apparteneva a tutti, cioè a nessuno; i magistrati che lo governavano erano per definizione i rappresentanti del vero signore, impersonale e invisibile, il populus romanus, i cui diritti eterni non erano sottoposti ad alcuna prescrizione o restrizione e la cui perennità formava l’anima indivisibile dello Stato. La politica repubblicana di Augusto e di Tiberio, la ostinazione con cui essi vollero mantenere intatti i principî fondamentali del romanesimo, hanno contribuito potentemente a far passare nell’impero l’idea latina dell’indivisibilità dello Stato; e quindi a radicarla così profondamente nella cultura antica, che noi abbiamo potuto ritrovarla, dopo il rinascimento classico, tra i rottami del mondo antico. A poco a poco, a mano a mano cioè che lo spirito politico si spegne in tutto l’impero e che la conquista della civiltà urbana diventa lo scopo supremo della vita, il princeps della repubblica si fissa nella immaginazione dei sudditi come il supremo signore, come la fonte della prosperità, il guardiano della pace, il garante della giustizia, un semidio: e su questa immensa venerazione i successivi imperatori si appoggiano, puntano, fanno leva per demolire via via gli ultimi avanzi della costituzione aristocratica e per fondare il potere monarchico. Ma quando l’antico spirito repubblicano fu spento nella nuova istituzione, una idea restò: l’idea che l’impero era la proprietà indivisibile e eterna del popolo romano, che l’imperatore doveva amministrarla, ma non poteva disperderla. Per questa idea la monarchia dei Flavi e degli Antonini fu essenzialmente diversa dalle monarchie asiatiche, e rassomigliò più che a queste alle monarchie moderne dell’Europa, tutte animate da un così potente soffio romano; per questa idea l’autorità imperiale secondò durante due secoli, invece di contrariarle, come avrebbe fatto la monarchia orientale, le forze economiche che unificavano l’impero. In basso, la sintesi degli interessi materiali, in alto non la concentrazione monarchica del supremo potere, ma l’idea repubblicana dello Stato indivisibile furono le fondamenta ed il tetto della possente fabbrica dell’impero: onde nessuna parte dell’opera di Augusto e di Tiberio fu più vitale che quella intesa a salvare l’essenza del principio repubblicano, di quella che i posteri, che i nostri contemporanei, pur godendone ancor oggi i frutti lontani, non vogliono neppur oggi capire. Poichè la forza politica dell’Europa moderna, di fronte agli Orientali, nasce in gran parte da questa idea romana dello Stato indivisibile, che Augusto e Tiberio hanno tanto contribuito a salvare, in uno dei momenti più critici della storia universale. Chi può dire infatti quel che sarebbe successo se, mancata la formidabile resistenza tradizionalista che questo pugno di uomini oppose, l’Italia si fosse orientalizzata in cinquanta anni invece che in due secoli e mezzo?

L’altra parte vitale dell’opera di Augusto fu la politica gallico-germanica. Licino non si era ingannato. Aveva avuto ragione Augusto di dargli retta. La Gallia romana è la grande opera storica della famiglia Giulio-Claudia; alla romanizzazione della Gallia, conquistata da Cesare, sono indissolubilmente legati i nomi di Augusto, di Tiberio, di Agrippa, di Druso, di Germanico, di Claudio. Non per accidente Druso era morto tra il Reno e l’Elba e Claudio era nato a Lione; Tiberio aveva speso la maggior parte della sua esistenza in Gallia, sul Reno, oltre il Reno; Augusto dopo il 14 a. C. non si era più mosso dall’Europa per non allontanarsi troppo dalla Gallia; il figlio di Druso si chiamava Germanico; i nomi di Cesare e di Augusto dovevano essere incastonati per tutta la Gallia nei nomi con cui si rinominavano le antiche città o si nominavano le nuove.... Non ostante i lamenti universali per il tributo troppo grave, la pace, gli esempi greco-romani, il ravvicinamento al mondo mediterraneo valevano più che il tributo. Certamente la transizione non era ancora finita, quando Augusto moriva. I debiti tormentavano una parte considerevole della società gallica: quella che aveva adottate troppo rapidamente le maniere di vivere più costose della civiltà greco-romana, senza proporzionare alle spese le sostanze. Ma anche i debiti, se seminavano il malcontento, incalzavano la vecchia Gallia celtica a mutarsi nella nuova Gallia romana. I ricordi, i rimpianti, i rammarichi della indipendenza passata non erano interamente svaniti; e li fomentava il disagio di quel passaggio da un vivere più semplice ad una civiltà più raffinata. Ma gli sforzi per ritornare verso il passato sospingerebbero anche la Gallia più innanzi nell’avvenire. Si formava al di là delle Alpi l’Egitto dell’Occidente, come l’altro Egitto fertile di grano e di lino, popoloso, agricoltore, industrioso e mercante, in cui una popolazione alacre, agile, parsimoniosa a poco a poco coltiverebbe bene la terra sua, edificherebbe da sè, senza le sovvenzioni e gli aiuti della repubblica ricevuti dalla Gallia Narbonese, al centro delle civitates a poco a poco mutate in unità amministrative, delle città ricche, belle, dove sarebbero raccolti i raffinamenti, gli adornamenti, i costumi, gli dèi del mondo greco-romano, ma con una prudenza parsimoniosa; si formava un popolo medio ed equilibrato che, pur mutandosi in nazione industriosa e mercantile continuerebbe a provveder cavalieri e soldati in grande numero all’impero di Roma, che pur imitando dagli orientali quanto poteva essergli utile, saprebbe arginare l’invasione orientale che doveva sommergere l’Italia a metà. E questo Egitto dell’Occidente non doveva soltanto fruttare tra poco all’impero quanto l’Egitto d’Oriente; doveva pure, nell’immenso impero, fare il contrappeso alle Provincie orientali troppo cresciute, trattener Roma in Europa, conservare per tre secoli ancora all’Italia la sua sovranità. Non ostante il furor patriottico da cui l’Italia era stata invasa dopo Azio, non ostante la rovina di Antonio, le belle odi di Orazio ed il grande poema nazionale di Virgilio, l’Italia sarebbe stata presto scoronata se la Gallia fosse rimasta povera e barbara. La capitale di un impero, le cui provincie più vaste, più popolose, più ricche erano in Asia ed in Africa, non avrebbe potuto esser posta sulle frontiere opposte, sul limitare della barbarie, come la capitale dell’impero russo non potrebbe essere oggi a Vladivostock o a Karbin. Roma avrebbe dovuto inorientarsi, sparire nell’Asia come i patrioti romani avevano temuto, sinchè non si era capita a Roma l’importanza della Gallia. Quando invece Roma possedè oltre le Alpi una immensa provincia che rendeva quanto l’Egitto e che forniva tanti soldati; quando perciò dovè provvedere a difendere la Gallia come l’Egitto anzi più che l’Egitto perchè più minacciata, l’Italia fu bene collocata nel mezzo; e Roma conservò per tre secoli ancora la corona conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanto dolore, con due secoli di guerre e con l’aiuto della fortuna, sulla decrepita civiltà dell’Oriente e sull’immatura barbarie dell’Occidente.

FINE DEL QUINTO VOLUME.

INDICE.

I.
L’Egitto dell’Occidente.
(Pag. 1 a 27).606

La rivolta delle Alpi. – Il piano della campagna reto-vindelicia. – Tiberio. – Druso. – Tiberio e Druso, legati di Augusto. – La discussione tra Licino e i capi gallici. – L’Egitto dell’Occidente. – La guerra contro i Reti e i Vindelici. – L’ammirazione di Roma per Druso e Tiberio. – Orazio in lode dei vincitori. – Druso e Tiberio simboli della rinascenza aristocratica. – In gloria dei Claudii!

II.
La grande crisi delle provincie europee.
(Pag. 28 a 62).

La rivolta dei Liguri. – La pacificazione dell’Oriente. – Giulia, divinizzata in Oriente. – Le provincie di Europa e i suoi tributi. – Le esportazioni dell’Italia nella Gallia. – Le cause della crisi delle provincie europee. – La Gallia e i Germani. – Il nuovo pericolo germanico. – Inettitudine diplomatica della repubblica restaurata. – Augusto e la politica estera. – Il riordinamento amministrativo delle Alpi. – Le nuove vie strategiche attraverso le Alpi. – Riforme militari. – Agrippa ed Erode in Asia Minore. – La nuova prosperità dell’Oriente. – I lenti progressi della Grecia.

III.
La conquista della Germania.
(Pag. 63 a 103).

I motivi della conquista della Germania. – Il riordinamento amministrativo della Gallia. – Le tre Gallie. – Le difficoltà della conquista della Germania. – Popolarità crescente di Augusto. – Il numen e le are di Augusto. – Il culto di Augusto: suo significato. – Il ritorno di Augusto a Roma. – La nuova generazione e la vecchia. – La reazione contro il tradizionalismo e il puritanismo. – Ovidio. – Gli Amores di Ovidio. – Ovidio e la nobiltà. – La conquista della Germania e la nuova generazione. – Nuova riforma del Senato. – Il piano della conquista germanica. – L’invasione della Germania per i fiumi.

IV.
“Haec est Italia Diis sacra”.
(Pag. 104 a 135).

La borghesia italica. – La letteratura e la giurisprudenza. – Augusto e la jus respondendi. – Labeone. – Cassio Severo e la nuova eloquenza. – La valle del Po. – Cagioni della sua prosperità. – Progressi agricoli e industriali della valle del Po. – L’Italia centrale. – Povertà e decadenza dell’Italia meridionale. – La borghesia italica e Augusto.

V. 
L’ara di Lione.
(Pag. 136 a 180).

I preparativi della conquista germanica. – Resta vacante il pontificato massimo. – La spartizione del potere civile e del potere militare. – Augusto, pontefice massimo. – La morte di Agrippa. – Le prime riforme religiose di Augusto. – Il piano della conquista germanica. – Druso nel mare del Nord. – Druso alle foci del Weser. – Erode a Roma. – La vedovanza di Giulia. – Giulia e la legge sul matrimonio. – L’invasione metodica della Germania. – Il matrimonio di Giulia e Tiberio. – Augusto praefectus morum et legum. – Una nuova riforma del Senato. – La insurrezione della Tracia. – La cura aquarum. – La marcia di Druso sino al Weser. – La fondazione di Aliso. – Nuovi guai in Pannonia. – L’ara di Lione.

VI.
Giulia e Tiberio.
(Pag. 181 a 232).

Ancora una riforma del Senato. – Origine del consilium principis. – Le due generazioni alle prese. – I divertimenti di Roma. – Scandali e processi. – Augusto e i processi scandalosi. – I matrimoni senza figli nell’ordine equestre. – Si ventila una riforma della legge sul matrimonio. – La morte e i funerali di Druso. – Augusto e la sua famiglia. – Tiberio e la morte di Druso. – Tiberio e la nuova generazione. – L’educazione di Caio e di Lucio Cesare. – I figli di Fraate a Roma. – Nuova scadenza dei poteri presidenziali di Augusto. – Difficoltà di sostituire Augusto. – La resa definitiva della Germania. – La discordia di Giulia e Tiberio. – Il riordinamento amministrativo di Roma. – I vici di Roma e i loro magistri. – Il partito contrario a Tiberio. – Un intrigo contro Tiberio. – Caio Cesare console designato a 14 anni! – Tiberio chiede di ritirarsi a Rodi.

VII.
L’esilio di Giulia.
(Pag. 233 a 276).

Il ritiro di Tiberio: suoi pretesti e ragioni. – Gli effetti della partenza di Tiberio. – Caio Cesare princeps juventutis. – Il trionfo di Giulia. – Il rilassamento dell’amministrazione. – La leggenda infame di Giulia. – Augusto e la giovane nobiltà. – La politica germanica di Augusto. – Una nuova risorsa della finanza romana. – La morte e il testamento di Erode. – La popolarità di Caio e di Lucio Cesare. – Il testamento di Erode a Roma. – La rivolta della Giudea. – Il nuovo ordinamento della Palestina. – Complicazioni in Armenia. – L’annessione della Paflagonia. – Il Foro di Augusto e il tempio di Marte Ultore, – Ovidio e Caio Cesare. – L’adulterio di Giulia. – Augusto e l’adulterio della figlia. – Lo scandalo e le condanne.

VIII.
La fanciullezza di Cesare
e la vecchiaia di Augusto.
(Pag. 277 a 313).

Dopo l’esilio di Giulia. – La vecchiaia di Augusto. – La seconda generazione nella famiglia di Augusto. – Claudio, il terzo figlio di Druso. – Augusto e Tiberio, dopo la condanna di Giulia. – L’impopolarità di Tiberio. – Caio Cesare in Oriente. – Incomincia una reazione a favore di Tiberio. – Dissoluzione e invecchiamento dello Stato. – La questione militare. – Lo stato della Germania. – La situazione politica di Augusto. – Tentativi di riconciliazione tra Augusto e Tiberio. – Il ritorno di Tiberio a Roma. – La morte di Lucio Cesare. – Il quarto decennato di Augusto. – La morte di Caio Cesare. – La riconciliazione di Augusto e Tiberio.

IX.
L’ultimo decennio.
(Pag. 314 a 369).

Tiberio a capo del governo. – Tiberio in Germania. – Riforme politiche di Augusto. – La legge contro gli orbi. – Tumulti dei cavalieri contro la legge. – Nuovi disegni germanici di Tiberio. – La nuova legge militare. – La marcia di Tiberio sino all’Elba. – L’aerarium militare. – La conversione di Ovidio. – Germanico e Agrippina. – L’intelligenza di Claudio. – Difficile situazione di Tiberio. – La carestia a Roma. – I vigiles. – La rivolta della Dalmazia e della Pannonia. – I grandi preparativi militari, – Tiberio e l’insurrezione. – Il piano strategico di Tiberio. – Lo sfacelo dell’impero. – Tiberio e l’opinione pubblica. – Nuove imposte. – La fine dell’insurrezione pannonica. – L’esilio di Giulia e di Ovidio. – Il trionfo di Tiberio. – La lex Papia Poppaea. – La catastrofe di Varo.

X.
Augusto e il grande impero.
(Pag. 370 a 417).

Le conseguenze del disastro di Varo. – L’abbandono della Germania. – Augusto alla fine dell’opera sua. – La riforma del consilium principis. – La suprema magistratura negli ultimi anni di Augusto. – La successione di Augusto e le titubanze di Tiberio. – Progressi del culto di Augusto. – L’essenza della politica mondiale di Roma. – L’impotenza dello Stato e i progressi dell’impero. – La decadenza dell’alta intellettualità. – I rapidi progressi materiali. – Gli Orientali invadono le provincie dell’Occidente. – L’Africa settentrionale. – La Spagna. – I progressi industriali della Gallia. – La ceramica e la metallurgia gallica. – L’unità dell’impero e le sue cagioni. – Le città e le campagne sotto l’impero. – Come Roma ha dominato l’impero. – Le parti vitali della politica di Augusto. – La politica repubblicana. – La politica gallico-germanica. – Roma e la Gallia.