Indice generale
I.
L’EGITTO DELL’OCCIDENTE.
II.
LA GRANDE CRISI DELLE PROVINCIE EUROPEE.
III.
LA CONQUISTA DELLA GERMANIA.
IV.
“HAEC EST ITALIA DIIS SACRA”.
V.
L’ARA DI LIONE.
VI.
GIULIA E TIBERIO.
VII.
L’ESILIO DI GIULIA.
VIII.
LA FANCIULLEZZA DI CESARE
E LA VECCHIAIA DI
AUGUSTO.
IX.
L’ULTIMO DECENNIO.
X.
AUGUSTO E IL GRANDE IMPERO.
INDICE.
1907.
Ma se l’incendio della guerra si era così presto spento sulla
aperta pianura gallica, pigliava forza invece e divampava e si
dilatava, appiccandosi dall’una all’altra vallata, nelle Alpi.
Publio Silio, dopo avere liberata la Istria da Pannoni e da Norici,
era sceso nella valle del Po e si era recato a combattere nella
Valtellina e nella Val Camonica gli insorti Vennoneti e Camunni1. Ma
altri popoli, trascinati dall’esempio dei Vennoneti, che avevan fama
di essere una delle genti alpine più ardimentose2, si erano
levati in armi: i Trumplini, nella Val Trompia, le numerose
tribù dei Leponzi3 che occupavano le moderne Alpi Lepontine,
cioè tutte le valli italiane e svizzere sboccanti sul lago
Maggiore e sul lago d’Orta; i Reti e i Vindelici, che con numerose e
bellicose tribù occupavano la vasta regione dei Grigioni, del
Tirolo, giù giù per la pianura bavarese sino al
Danubio4. Il centro delle Alpi era in fiamme; e se ad occidente
l’incendio si era fermato al limite del grande vuoto fatto dalla
spada romana nella valle dei Salassi, una onda di rivolta si
propagava dal centro per l’ossatura della immensa catena, sino alle
Alpi Cozie, dove il fedelissimo Donno era morto e gli era successo
in tempi così torbidi il figlio Cozio, meno esperto e meno
sicuro; sin tra le rozze e indomite genti liguri delle lontane Alpi
marittime5. Nelle vallate alpine si erano rifugiati tutti i logori
avanzi delle razze che avevano abitata la pianura: Liguri, Iberici,
Celti, Etruschi, Euganei; e là si erano mescolati,
imbarbariti, sterminati a vicenda e difesi insieme contro gli
invasori del piano e contro Roma, la quale non aveva fatte che rare
e intermittenti apparizioni nel maggior numero delle vallate.
Perciò le genti alpine erano vissute sino allora quasi
libere, raccolte in tribù sotto il reggimento dei ricchi
possidenti, coltivando le terre, pascolando le greggi, sfiorando le
miniere, sfrondando appena i magnifici boschi, derubando i viandanti
e di tempo in tempo ritornando nell’opulenta pianura per
saccheggiarla: anzi non poche di queste popolazioni avevano trovato
più oro nell’anarchia dell’ultimo trentennio, che nelle
sabbie dei bianchi torrenti rotolanti al piano le pagliuzze delle
roccie sublimi.... La pace era quindi giunta a queste genti molesta
due volte più che alle altre popolazioni delle provincie
europee; e la rivolta scoppiava in ogni parte.
Roma si ritrovava dunque innanzi ad un tratto, nelle provincie
europee, un compito grave di guerra; un campo stupendo per l’impeto,
la celerità, l’audacia immaginosa di un Cesare. Essa doveva
forzare il cuore delle Alpi; castigare i Pannoni e i Norici per
l’invasione dell’Istria, i Germani per l’invasione della Gallia;
ricomporre le cose della Tracia profondamente turbate. Ma i tempi
erano mutati. Augusto, se non volesse muovere addirittura le legioni
della Siria, dell’Egitto e dell’Africa, non poteva disporre che di
tredici legioni – le cinque stanziate in Gallia e le altre otto,
acquartierate qua e là per l’Illiria e la Macedonia, non
sappiamo precisamente dove6: – ma tredici legioni certo non
agguerrite da dieci anni di pace, se pure addestrate da esercizi
continui; che avevano il fiato troppo corto e il torace troppo
piccolo per tener dietro ai prodigiosi voli di un nuovo Cesare.
Nè Augusto era Cesare. Egli non voleva più mettersi a
capo di un esercito; ma soltanto dirigere da lontano, a tavolino,
per mezzo di legati, la guerra. Deliberò quindi di
suddividere l’opera in varie parti; di compiere ciascuna parte con
prudente lentezza ed una alla volta; di lasciare in balìa di
loro stessi per il momento la Pannonia, il Norico, la Tracia; e di
buttar tutte le forze di cui disponeva sulle Alpi, incaricando P.
Silio di marciare, dopo avere vinti i Vennoneti e i Camunni, contro
i Trumplini e i Leponzii, in quello stesso anno se potesse o nel
seguente7; e preparandosi a rompere l’anno seguente il poderoso
fascio reto-vindelico. Un esercito doveva muovere dalla valle del
Po, imboccare da Verona la valle dell’Adige, ripiegare per Trento
nella valle dell’Eisack e cacciandosi innanzi il nemico,
respingendolo e inseguendolo a destra e a sinistra nelle valli
laterali, catturando e trucidando quanta maggior parte della
popolazione retica potesse, volgersi verso il passo del Brennero: di
là, sempre spazzando via come un torrente devastatore la
popolazione vindelica, scendere verso l’Inn e la Vindelicia
pianigiana. Nel tempo stesso un altro esercito muoverebbe dalla
Gallia, probabilmente da Besançon; e seguendo il corso del
Reno, ripasserebbe sino al lago di Costanza le regioni dei Leponzii,
già battute da Silio; conquisterebbe il lago di Costanza
allora posseduto da tribù vindelicie, e, unitosi con
l’esercito d’Italia, marcerebbe sino al Danubio, soggiogando tutta
la Vindelicia8. Ma per queste spedizioni e per le future in
Pannonia, nel Norico, in Tracia, occorrevano generali giovani,
arditi, intelligenti, che possedessero la prestanza del corpo e il
forte animo necessari alla guerra contro i barbari e nelle montagne,
per le marcie, le ascensioni, le imboscate, i combattimenti, gli
inseguimenti interminabili. Aveva dunque ragione Augusto di voler
ringiovanire lo Stato, chiamando alle somme cariche uomini tra i
trenta e i quaranta anni. Sventuratamente egli era stato costretto a
transigere, anche in questo, con i pregiudizi, le ambizioni, gli
interessi della vecchia nobiltà e aveva intoppato in troppi
ostacoli naturali, insormontabili dalle sue forze: onde gli uomini
esperti e capaci scarseggiavano tra gli avanzi dell’aristocrazia
pompeiana, che negli ultimi anni avevano occupata la pretura e il
consolato! A ogni modo egli cercò di fare quel che poteva. Fu
probabilmente per suo consiglio che in questo anno si propose ai
comizi per il consolato dell’anno 15 L. Calpurnio Pisone, figlio del
console del 58, fratello di quella Calpurnia che era stata moglie di
Cesare e quindi zio di Augusto, sebbene fosse più giovane di
lui e non avesse che 32 anni. Augusto lo destinava, come suo
legatus, alla Tracia. Scelse poi per comandare la spedizione che
dalla Gallia doveva invadere la Vindelicia, Tiberio. Tiberio aveva
ventisei anni; era nato da una delle più antiche e illustri
famiglie aristocratiche di Roma; aveva già date numerose
prove di senno e di operosità; era ammirato come un campione
vivente della nobiltà dei tempi aurei della repubblica;
occupava infine in quell’anno la pretura9. Augusto poteva quindi
sceglierlo a suo legato e affidargli un esercito, senza violare
alcuna legge o consuetudine, senza commettere una imprudenza, senza
essere accusato di favorire per amicizia un indegno; anzi mostrando
che non solo a parole e per uffici formali, ma davvero e per le
gravi missioni aveva fiducia nella gioventù. Senonchè
insieme con questa, egli fece un’altra scelta, che non era
giustificata nè costituzionalmente dalle cariche già
occupate, nè personalmente dai servigi già resi; e che
perciò apparisce come una prima, sottile ma pericolosa
screpolatura del rigorismo costituzionale, che Augusto voleva
restaurare. Egli nominò suo legatus, per l’esercito che
dall’Italia doveva assalire nelle loro vallate i Reti, il fratello
minore di Tiberio, il secondo figlio di Livia, Druso, un giovane
cioè di ventidue anni, che potendo, grazie ad un decreto del
Senato come Tiberio, anticipare di cinque anni le magistrature, era
stato eletto questore per l’anno 1510. Sì, certo, dei
questori erano stati posti a capo di eserciti; ma in contingenze
gravissime, che allora non ricorrevano. Era chiaro che allora,
quando aveva agio di scegliere tanti antichi pretori e consoli
usciti di carica, Augusto non poteva confidare un esercito a questo
giovane questore, il quale non aveva data ancora prova alcuna della
sua capacità, se non per un favore inconciliabile con la
forma e con l’essenza della costituzione repubblicana. Ma Druso era
un prediletto degli dèi, cui ogni privilegio insigne pareva
largito come un diritto. Bello, come Tiberio, della forte e
aristocratica bellezza dei Claudi11; ma non, come lui, rigido,
altero, duro, taciturno, alla maniera degli antichi Claudi12;
piacevole invece, gentile e versatile, Druso faceva amare perfino
dagli scettici e dai viziosi quelle antiche virtù romane, che
nel fratello incutevano invece soggezione anche ai virtuosi,
perchè ci infondeva una grazia ignota alla ruvida natura
romana, come se a ragione i maligni sospettassero che una favilla
della geniale amabilità di Giulio Cesare fosse furtivamente
discesa sino a lui, ad aggraziare le rudi virtù
dall’aristocrazia romana, ereditate dalla madre13. Se al fratello si
poteva opporre tra tante virtù un vizio, il soverchio amore
del vino14, Druso anche da questo era immune. E perciò
quando, in questo anno, Augusto aveva scelto al diletto figliastro
una sposa degna di lui, Antonia, la figlia minore di Antonio e di
Ottavia, tutti avevano ammirata e amata, come fossero figli propri,
questa coppia che irradiava da sè uno splendore divino di
giovinezza, di bellezza e di virtù fuse insieme; lei, scrigno
preziozo di elettissimi pregi, la vera donna univira del buon tempo
antico, la sposa fedele, semplice, devota, casalinga, ma bellissima,
intelligente, istruita, raffinata da una grazia e da una cultura,
che le antiche generazioni non avevano conosciute: lui, bello,
giovane, gentile, ardente di fervida ammirazione per la tradizione
repubblicana15, impaziente di nobili ambizioni, forte, e puro
così che tutti gli facevano credito di essersi sposato
vergine e di non aver mai tradita la moglie16. Cara ai grandi come
al popolo, predilezione di Roma, la bella coppia pareva incarnare
quella sognata fusione della forza e della virtù romana con
l’intelligenza e con la grazia ellenica, che tanti si sforzavano
invano di compiere nella letteratura, nello Stato, nella religione,
nel pensiero.
Per quali motivi Augusto si indusse a far questa nomina, da cui
incominciava, sia pur con piccolissimo principio, una alterazione
profonda nella sostanza dell’antica costituzione repubblicana? Non
si può affermare, ma argomentare soltanto. L’amore che
Augusto aveva per Druso certo lo mosse, come i consigli di Livia,
come la stima non esagerata dell’ingegno e del valore del giovane.
Poichè Druso dava affidamento di diventare un grande
generale, non era meglio adoperarne subito le rare virtù? La
guerra vuole i giovani. Ma se tutte queste sono congetture, è
certo invece che Augusto non avrebbe scelto Druso a suo legatus, se
la scelta non fosse stata universalmente approvata. Rigorosissimo
con certuni nell’imporre l’osservanza della costituzione, il
pubblico capriccioso consentiva ad altri, ai suoi prediletti, ogni
larghezza. Al favorito degli Dei, al casto sposo della bellissima e
virtuosissima Antonia tutto si poteva concedere: esempio grave, che
introduceva inavvertitamente il principio dinastico nella
costituzione. Ma mentre Tiberio e Druso apprestavano nell’inverno i
loro eserciti, Augusto rimaneva in Gallia, occupato a definire una
questione gravissima. Da ogni parte i capi e i personaggi autorevoli
delle civitates o tribù galliche venivano a denunciare gli
abusi e le violenze di Licino, che era persino accusato di aver
aumentato a quattordici il numero dei mesi, per riscuotere due volte
di più ogni anno il tributo; pigliavano di mira l’avido
procuratore, per colpire, oltre la sua persona, la nuova politica
fiscale introdotta con il braccio di Licino da Augusto e dal Senato;
domandavano il richiamo dell’agente per far sospendere l’odiatissimo
censo17. E le proteste, corroborate dalle nuove minaccie germaniche,
scuoterono tanto Augusto, che dopo aver tentato di scusare, di
attenuare, di palliare le colpe del liberto, egli si indusse a fare
una inchiesta. Ma l’astuto liberto si difese, cercando di persuadere
Augusto che i Galli ipocritamente lagrimavano una miseria
imaginaria, mentre sarebbero tra breve più doviziosi dei
Romani; e cercando di mettersi al riparo dietro un grande interesse
politico: la Gallia era una terra così felice, che potrebbe
fruttare un giorno all’Italia quanto l’Egitto18; Roma non si
lasciasse sfuggire l’inopinata fortuna toccatale. E veramente
l’intelligente liberto poteva mostrare al suo stupefatto signore,
tra le Alpi e il Reno, un mezzo Egitto, che allora allora lentamente
emergeva dal tempestoso oceano di guerre che per tanti secoli aveva
infuriato nel centro dell’Europa; mostrargli una Gallia che non
pareva più gallica; una Gallia pacifica, una Gallia, se non
ancora docile alla sudditanza straniera, già molle alle
impronte esteriori; una Gallia inerme, artigiana, agricultrice e
mercante, che pareva quasi voler ripetere in molte cose all’altro
confine dell’impero il regno dei Tolomei. Le civitates o
tribù galliche lasciate quasi intatte da Cesare, conservavano
il corpo, la forma, i confini antichi, ma mutavano anima e ufficio;
tutte, deposte le spade e le lancie, si armavano di aratri e di
utensili; così quelle che in antico dominavano come quelle
che erano dominate, si sforzavano con eguale ardore di arricchire;
invece di disputarseli con guerre e di barricarli con pedaggi, esse
cercavano ora di comunicare tra loro e di commerciare per i fiumi,
così numerosi, così larghi, così comodamente
intrecciati tra loro, che le mercanzie potevano essere importate e
esportate da ogni parte della Gallia, trasportate dal Mediterraneo
all’Atlantico sempre per acqua, tranne per piccoli tratti.
Inestimabile vantaggio per una vasta regione continentale, in cui i
trasporti per terra costavano tanto!19 Onde su tutta la Gallia la
alacrità fresca e la cupidità frettolosa di una
generazione nuova ferveva in traffici, coltivazioni e industrie
nuove. La antica fecondità delle donne non essendo scemata
nella pace, la popolazione cresceva, dopochè la guerra aveva
smesso di consumar tanti uomini; la Gallia diventava, come l’Egitto,
una regione popolosa, in cui si ritrovava quel pregio così
raro in quella età e che gli antichi chiamavano μολυανθρωπία
o abbondanza di uomini20. Frugati nelle sabbie dei fiumi, scavati
dalle miniere antiche e dalle nuove, tratti fuori dai ripostigli,
l’oro e l’argento abbondavano, cosicchè la Gallia, come
l’Egitto, era ricca di metalli preziosi21. Due coltivazioni, nelle
quali l’Egitto primeggiava su tutte le regioni dell’Europa e
dell’Asia, si vedevano dilatarsi prosperose per tutta la Gallia,
favorite dal clima, dall’abbondanza del capitale, della popolazione
e della terra, dalle felici congiunture di tempo: la coltivazione
del grano e la coltivazione del lino. Umida, pianigiana, non troppo
fredda e non troppo calda, la Gallia era allora, come oggi, una
terra prediletta da Cerere: onde la popolazione crescente e il
rinvilìo dei metalli preziosi dovevano far rincarare il grano
e quindi anche progredire la coltivazione dei cereali22. I progressi
invece della navigazione in tutto il Mediterraneo incitavano la
Gallia alla coltivazione del lino, ricercato in tutti i porti per
tesserne delle vele che, sebbene care, costavano meno degli schiavi
remiganti23; e già i Cadurci si erano segnalati tra tutti per
l’abilità nel coltivare, lavorare e trarre lucri dalla
preziosa pianta24. Onde è probabile che l’astuto liberto
incalzasse, quanto più i Galli si lagnavano: dalla vasta
provincia, così fertile, così alacre, in cui c’erano
tanti metalli preziosi e questi circolavano tanto, si potrebbe
cavare, come dall’Egitto, molto oro ed argento, per riempire
l’erario sempre vuoto; forse anche un giorno la Gallia potrebbe
essere, accanto all’Egitto, un secondo granaio di Roma. D’altra
parte non era il tributo di Roma piccolo, a petto delle continue
rapine guerresche del tempo più antico, degli innumerevoli
pedaggi che prima dell’invasione romana intralciavano a ogni passo
il commercio? In tanta angustia di capitale, come quella che
tormentava l’Italia, tra le innumeri difficoltà che si
dovevano vincere per salvare Roma dalla fame cronica, queste
considerazioni non potevano non pesare assai, sulla bilancia del
prò e del contro. Facevano a quelle contrapposto i lamenti
dei capi gallici, le sorde minaccie brontolanti nel malcontento
popolare, il pericolo germanico. Onde Augusto, come di solito,
esitava perplesso. Se si vuol credere a uno storico antico, Licino
trasse alla fine il perplesso presidente in una grande camera piena
di oro e di argento, che egli aveva estorto alla Gallia; e a quella
vista Augusto si sarebbe persuaso definitivamente. Certo è
però che Licino rimase in Gallia, al suo posto; e che i capi
Galli ebbero per consolazione una qualche vaga promessa che gli
abusi più gravi non si sarebbero rinnovati25.
Ricominciò poi, nella primavera dell’anno 15, la guerra.
Mentre Silio, probabilmente, compieva la sottomissione dei Leponzi,
conquistando una grande parte della Svizzera, Druso e Tiberio
eseguivano il doppio attacco concertato l’anno prima contro il
gruppo reto-vindelico. Druso entrò nella valle dell’Adige;
incontrò a Trento e vinse la prima resistenza nemica; poi
risalì la valle dell’Eisack fino al passo del Brennero, chi
dice combattendo senza posa, chi dice senza difficoltà, certo
razziando la popolazione e facendo da luogotenenti frugare le
vallate laterali; scese poi sino all’Inn. Nel tempo stesso Tiberio
arrivava con un esercito al lago di Costanza, e dava sulle acque del
lago una battaglia navale ai Vindelici rifugiatisi nelle isolette.
Dove e quando si incontrassero i due fratelli, noi non sappiamo:
solo sappiamo che insieme marciarono attraverso la Vindelicia verso
il Danubio: che il 1.° agosto sconfissero in una battaglia,
diretta da Tiberio, i Vindelici, conquistando la Baviera meridionale
e portando l’incerta frontiera settentrionale dell’Italia al
Danubio26; che entrarono poi con l’esercito nel Norico, il quale non
oppose resistenza27. A Roma intanto, dove erano già
così ben disposti per Druso, la notizia del vittorioso
combattimento di Trento aveva suscitato tanto entusiasmo, che subito
il Senato gli concesse la autorità di pretore, benchè
ancora non fosse stato eletto a questa magistratura, mettendo
così il giovane generale in regola con la costituzione28. Ma
quando si seppe che la Vindelicia era conquistata e la spedizione
felicemente riuscita, l’entusiasmo per i due giovani si accese ancor
più, colorandosi di tutte le speranze, di tutti gli orgogli,
di tutti i rammarichi che il culto delle grandi tradizioni morenti
veniva fomentando nello spirito pubblico. Finalmente, nella selva o
morta o divelta o fulminata sfrondata, un vecchio tronco rimetteva
fronde e fiori, fruttificava di nuovo! In quell’universale
dissolvimento della nobiltà, una delle più antiche
famiglie aristocratiche di Roma, i Claudii, dava alla repubblica due
giovani che non sfiguravano al confronto delle memorie passate, che
tra i venti e i trenta anni mostravano l’alacrità,
l’intelligenza, la serietà del costume, la maturità
invano cercata ormai nei palazzi cospicui e sotto i grandi nomi di
Roma! In Druso ed in Tiberio il pubblico vide insomma, per un
istante, quella rinascita della nobiltà storica, che tutti
sospiravano come la sola salvezza dell’impero; e la gioia,
l’ammirazione, l’entusiasmo furono così grandi, che Augusto
domandò ad Orazio di celebrare in versi il lieto evento; che
Orazio, il quale, pure, si era rifiutato di cantare le gesta di
Agrippa e di Augusto, acconsentì. Fu egli lusingato
dall’invito di Augusto, che lo designava con la sua scelta, ora che
Virgilio era morto, a poeta nazionale e quasi lo imponeva alla
ammirazione del pubblico, ancora tanto restìo con il poeta
semigreco di Venosa? Si lasciò egli tentare dalla speranza –
sempre cara al cuore di ogni poeta misovulgo per forza – di
diventare popolare come Virgilio, trattando la poesia nazionale?
Fatto sta che egli scrisse nientemeno che 128 de’ suoi preziosissimi
versi, e due odi, una per Druso, l’altra per Tiberio. Nella prima
(la quarta del quarto libro) egli descriveva Druso che piomba sui
Reti e sui Vindelici29:
Quale l’augello guardian del fulmine
che il re dei Numi sui vaghi aligeri
re fece, premiando il fedele
rapitor di Ganimede biondo,
gioventù e forza paterna cacciano
prima dal nido di rischi inconscio,
poi, scioltisi i nembi temuti,
primavera con l’aure a più audaci
voli trasporta, già vivid’impeto
in guerra contro gli ovili suscita,
ed ecco sui draghi pugnaci
brama incalza di pasto e di lotta...
Intendete, o critici, che avete definito Orazio poeta di Corte e
vate della nuova monarchia? Nella gloria precoce dei due giovani, il
poeta non vede nulla che accresca il lustro recente di una dinastia;
vede invece il fiore della virtù rinato sul vecchio tronco
della tradizione aristocratica che tante rivoluzioni avevano
fulminato; vede, impersonata in Augusto, la antica famiglia romana
in cui le virtù passano di padre in figlio per il tramite
della discendenza e dell’educazione; vede la prova vivente della
dottrina aristocratica.
. . . . . . . . . . . . l’esercito
a lungo e lontano vincente
perchè il senno del giovin lo vinse,
bene ha sentito che cosa possano
la mente e in fausta magione l’indole
nutrita ed il cuore di Augusto
paterno a’ figlioli di Nerone.
Da’ forti e buoni forti si creano,
hanno cavalli, han bovi i meriti
de’ padri, nè l’aquile fiere
danno vita a le imbelli colombe.
Anche Orazio, come tanti scrittori moderni, giustifica
l’aristocrazia con argomenti biologici sulla discendenza e sulla
eredità, sia pur presi nella stalla e più grossolani
perciò che quelli di cui si servono quanti scrivono oggi dopo
aver letti i libri di Carlo Darwin. Ma l’eredità sola non
basta; l’aristocrazia, se è nella natura, è in parte
anche opera meditata dell’uomo, dell’educazione e della tradizione,
di cui la famiglia è l’organo.
Ma forze innate la scienza educa,
del retto il culto rafforza l’animo,
e quando decadde il costume
ogni bene si lordò di colpe.
Quanto ai Neroni tu debba, chiedilo,
Roma, al Metauro, chiedi ad Asdrubale
sconfitto, e a quel giorno sì bello
per il nembo fugato dal Lazio,
che primo rise d’alma vittoria
da che il diro Afro corse per l’itale
città come fiamma per faci
o com’Euro per l’onde sicane.
Da allor con gesta sempre propizie
surse il romano sangue, e da l’empio
tumulto dei Peni ne’ templi
si drizzarono gli abbattuti Dèi;
e disse alfine Annibal perfido:
“Cervi dei lupi sacri a le fauci
a tali diam guerra che opima
gloria fora ingannarli fuggendo:
“schiatta che forte da l’arsa Ilio,
fra l’onde tosche sbattuta, i proprii
altari ed i nati ed i vecchi
padri addusse alle città d’Ausonia;
“come da dure bipenni l’ilice
nera sfondata sul fertil Algido
fra danni, fra scempi dal ferro
stesso tragge l’animo e la forza.
“L’Idra dal mozzo corpo più valida
non surse contro l’afflitto Ercole,
nè mostro più possente i Colchi
soggiogare o l’echïonia Tebe,
“Nel mar lo immergi, più bello emergene:
collutti, e, vinto, te ancora integro
abbatte con lode e dà pugne
che le mogli conteran per vanto.
“Non io superbi messi a Cartagine
manderò ancora: toltomi Asdrubale,
tramonta, tramonta la speme,
la fortuna della nostra gloria.
“Ad ogni impresa varrà la Claudia
gente, cui Giove con man benevola
difende, e operosa sagacia
nel più aspro della guerra assiste”.
Così il poeta più illustre del tempo, per incarico di
Augusto, celebrava nella impresa compiuta in Vindelicia la
rinnovellata gloria di una delle più antiche famiglie
aristocratiche di Roma; non i Giulii, ma i Claudii!
L’ode in onore di Tiberio era meno filosofica e più
descrittiva. Associava il merito di Tiberio con la gloria di
Augusto, a cui da prima, cominciando, si volgeva il poeta:
Quale dei padri cura e del popolo
eternerebbe con pieno encomio
Augusto tue virtù nei tempi
su le lapidi e i memori fasti...?
Poi, ricordate brevemente le guerre di Druso, descriveva a lungo,
con colori un po’ retorici ma vivi, Tiberio guerreggiante alla
foggia di un eroe omerico:
Mirabil ne la fatica marzia
mentre su i petti votati a libera
morte premeva rovinando,
come incalza le indomite onde
Austro, se il nembo rompon le Pleiadi,
le torme ostili non faticabile
vessando, e il fremente cavallo
sospingendo ne la mischia ardente.
E continuava paragonandolo all’Aufido in piena; e ricordando che il
1° agosto, il giorno della vittoria di Tiberio sui Vindelici,
ricorreva l’annuale del giorno in cui Augusto era entrato nella
deserta reggia di Cleopatra; per finire ritornando al patrigno, a
celebrare in Augusto la grandezza e la potenza dell’impero.
Te già il Cantábro prima non domito,
Il Medo, l’Indo, lo Scita profugo
ammira, o tutela prestante
de l’Italia e di Roma signora.
Te il Nil che cela le scaturigini,
te adora l’Istro, te il Tigri rapido,
l’Oceano che gonfio di belve
romoreggia a’ remoti Britanni;
te non di morte schive le Gallie
odono, e i liti dei duri Iberici,
te adorano i Sicambri lieti
de la strage, ringuainate l’armi.
II.
LA GRANDE CRISI DELLE PROVINCIE EUROPEE.
Le due odi piacquero molto. Vinti dall’argomento, anche i più
acerbi critici della metrica e della lirica oraziana smisero il
consueto cipiglio30. Per una volta almeno il solitario scrittore
aveva espresso il sentimento dell’Italia; e perciò, per la
prima volta, aveva scritto, egli di solito così savio,
diverse cose stolte. Augusto dovè sorridere, leggendo nelle
ultime strofe dell’Ode a Tiberio di certa Gallia non schiva di morte
e dei feroci Sicambri che, deposte le armi, lo adoravano. Le due Odi
erano belle; ma dimostravano che Orazio non aveva inteso nulla di
quel che succedeva oltre le Alpi, e che il pubblico aveva capito
anche meno di lui. Intanto, appena vinti i Reti e i Vindelici,
mentre Orazio faceva così facilmente, nei suoi versi,
inginocchiare tutti i popoli innanzi ad Augusto e alla maestà
di Roma, i Liguri delle Alpi marittime si rivoltavano31, trascinando
nella rivolta parte dei sudditi di Cozio32, e davan principio ad una
nuova guerra, non certo pericolosa, ma difficile e dispendiosa
sopratutto per la mancanza di strade. Solo con grande fatica si
potevano mandare numerose milizie a snidare nelle loro valli remote
gli insorti, per la antica via che da Tortona per Acquae Statiellae
e i monti conduceva a Vado, e da Vado, costeggiando il mare,
giungeva nella Narbonese. Nell’anno 43 Antonio aveva scalata di
corsa quella via aspra e scoscesa con gli avanzi dell’esercito rotto
sotto Modena; ma erano altri tempi, altri soldati. Ora bisognava
portare i soldati e l’ingombrante bagaglio per comode vie sul campo
di battaglia33. Insomma quel tale impero immenso, di cui Orazio
celebrava la smisurata potenza, a mala pena poteva, per mancanza di
strade, reprimere una rivolta di barbare tribù montanare
scoppiata sul limitare d’Italia. Augusto dovè chiedere al
Senato i fondi per rifare la via, disporre per i necessari lavori.
Senonchè Augusto non avrebbe temuta molto la superbia e la
baldanza dei Liguri, se davvero tutti i popoli e tutti i fiumi
nominati da Orazio avessero deposto ai suoi piedi l’omaggio
descritto. E invece! Augusto vedeva capovolgersi sotto i suoi occhi
la situazione del precedente ventennio. L’Oriente pareva allora
minacciar l’impero: con le rivolte periodiche delle città,
con i frequenti eccidii dei cittadini romani, con le defezioni
continue degli stati e degli staterelli protetti, con la selvaggia
indipendenza delle popolazioni annidate nelle montagne, con gli
obliqui intrighi della Corte di Alessandria; e infine con i Parti,
sempre in arcioni e sempre in armi al di là dell’Eufrate. Ma
tutte queste difficoltà si erano rapidamente e felicemente
composte in quei venti anni; cosicchè Agrippa, andato in
Oriente con Giulia sul finire dell’anno 16, ci aveva trovato i Parti
non solo tranquillissimi e punto disposti ad approfittare delle
guerre scoppiate nelle provincie occidentali per ripigliare
l’Armenia, ma – parte almeno di essi – inclini a ricercare
l’amicizia e quasi l’alleanza di Roma. C’era alla Corte una
concubina del re, una antica schiava italica regalata a Fraate da
Cesare, che Giuseppe Flavio chiama Tesmussa, che da una moneta
apparirebbe chiamarsi invece Thea Mousa; e questa aveva acquistato
tanto imperio sull’animo del re, che ormai macchinava di escludere
dalla successione i figli legittimi per il figlio suo, cercando a
questo disegno l’aiuto di Roma!34 Cosicchè Roma aveva mano
libera in tutta l’Asia Minore sino all’Armenia, in tutta la Siria
sino all’Eufrate. Soltanto il lontano regno del Bosforo (la Crimea e
le regioni circostanti alle foci del Don) accennava a far qualche
movimento: perchè morto il re Asandro postovi a governare da
Antonio, un certo Scribonio, un avventuriero e forse un liberto, si
era spacciato, d’accordo, pare, con la regina Dinami, per nipote di
Mitridate, l’aveva sposata, preparava la sua proclamazione a re del
Bosforo, affermando di avere il consenso di Augusto. Agrippa non
voleva lasciar questo impostore salire sul trono del Bosforo, e
aveva scelto a nuovo marito di Dinami Polemone re del Ponto,
deliberando di unire il Bosforo e il Ponto: ma giudicava bastare per
imporre la volontà di Roma in quella lontana regione una
dimostrazione navale sulle coste del regno, che egli e Polemone
preparerebbero a comodo35: onde non aveva, per il momento, maggiore
fatica a cui sobbarcarsi se non quella di ricevere, insieme con
Giulia, innumerevoli omaggi, di assistere a feste, di lasciarsi
lodare nelle iscrizioni ed effigiare in marmo ed in bronzo36; che di
lasciare i popoli dell’Asia introdurre nell’Olimpo Giulia accanto ad
Augusto, per involgere anche la figlia nell’ardente aspirazione
universale alla monarchia greco-asiatica, venerata come la forza
coordinatrice degli interessi particolari delle città e il
propugnacolo contro la Persia. Giulia potè – prima delle
donne latine – rappresentare nella confusa tragicomedia della
età sua la parte di una dea, tra le città che, come
Pafo, elevavano statue a lei, “divina!”37 o che, come Mitilene, la
definivano nuova Afrodite38, o come Ereso Afrodite Genitrice39; o
come altre l’appaiavano a Estia40. Poi, mentre Druso e Tiberio
combattevano nella Vindelicia e nella Rezia, Agrippa e Giulia se ne
erano andati, nella primavera dell’anno 15, a far visita a Erode,
che, sollecito di corteggiare il genero e la figlia di Augusto, si
era recato sino in Asia a invitarli. Ma mentre si pacava l’Oriente,
venti anni prima così turbolento, la barbarie celtica,
germanica, illirica, tracica, sino allora tranquilla, smaniava
agitata da una irrequietezza crescente al di là delle Alpi,
lungo l’intero corso del Danubio e del Reno. Non c’è dubbio
che la riforma, la quale nel 25 a. C. aveva sottoposte le provincie
europee al tributo, fosse la cagione di questa inquietudine. Gli
storici antichi ci dicono sempre che la Gallia era malcontenta del
censo; che Dalmati e Pannoni insorgevano per la soverchia gravezza
del tributo. Mancando di notizie più precise e più
minute, noi non possiamo argomentare ciò che succedeva in
queste provincie, se non indirettamente, da qualche esperienza
storica più recente e che presenti qualche analogia, tenendo
ben fermo che Roma percepiva in ogni provincia la maggior parte dei
tributi in metalli preziosi. Noi possiamo quindi spiegarci
perchè l’Oriente, e in special modo le sue industri
città, così inquiete venti anni prima, si pacassero, a
poco a poco, nella ripresa universale delle arti, delle industrie,
dei commerci, considerando come, a mano a mano che in Italia
l’Orientalismo si divulgava, cresceva il consumo delle mercanzie di
lusso fabbricate in Oriente: dei suoi vini, dei suoi profumi, delle
sue frutta, dei suoi medicinali, delle sue lane, delle sue tele, dei
suoi oggetti d’arte. L’Oriente pagava dunque con merci di lusso la
parte maggiore del suo tributo, ripigliando all’Italia, in cambio di
quelle, una parte dell’oro e dell’argento versato nelle casse del
proconsole o del propretore. Certamente esso doveva cedere alla
metropoli dominatrice una parte delle copiose ricchezze che i suoi
campi producevano o le sue botteghe fabbricavano: ma siccome i campi
erano più fecondi e le botteghe più attive nella
crescente prosperità, mentre Roma, ammaestrata da Azio, era
più discreta nel domandare; siccome Roma dava, in cambio del
tributo, la pace, così necessaria all’industria e al
commercio, le provincie di Oriente a poco a poco si rassegnavano a
pagare il tributo, perchè potevano pagarlo. La pace valeva il
tributo! Ma il tributo doveva invece pesare gravosissimo sul maggior
numero delle barbare provincie europee, perchè queste, non
fabbricando oggetti e non producendo derrate, che si consumassero in
Italia, dovevano pagare il tributo a Roma principalmente con metalli
preziosi. Roma esportava da queste provincie quasi soltanto oro ed
argento, che spendeva in Italia, o nelle altre provincie, a
mantenere l’esercito, a costruire le opere pubbliche, a esercitare
gli altri servizi dello Stato. Così si spiega che la Gallia
si fosse rimessa allora con tanta alacrità a cercare e a
scavare le miniere d’oro e d’argento; che Licino mostrasse ad
Augusto camere piene di metalli preziosi41. Ma se la Gallia,
popolosa, alacre, ricca di miniere, aveva agio e forza di trarre
dalla terra il metallo di cui Roma andava alla cerca, non
così le altre provincie, i poveri Dalmati, i rozzi Pannoni.
Costoro da secoli, con vari mezzi, avevano raccolta la provvista di
metalli preziosi sufficiente ai bisogni loro, nei tempi della
indipendenza: ma la dominazione romana e i tributi imposti avevano
aperta una breccia nella loro vita nazionale da cui l’oro e
l’argento fluivano in altre regioni dell’impero, generando su per
giù gli stessi effetti funesti che le imposte enormi, e
quindi il drenaggio del denaro verso le città, generarono
nelle provincie più povere e nelle campagne della Francia al
tempo di Luigi XIV. Dovevano cioè rincarire il denaro,
rinvilir le derrate, scemare il reddito e il valore delle terre;
aggravare ogni anno sui possidenti l’imposta che era percepita in
denaro; ridurre nei debiti, spopolare, empire di malcontento le
campagne. Solo a questo modo pare a me possa spiegarsi quel vivo
malcontento che spingerà tra breve tanti popoli a prendere le
armi contro Roma, i suoi mercatores ed i suoi esattori. E la crisi
doveva esser tanto più grave, perchè sulle traccie
degli agenti del fisco, queste provincie erano a poco a poco invase
da mercanti stranieri, non solo orientali ma anche italiani, i quali
cercavano nuovi clienti non nelle classi popolari, ma nelle classi
ricche, che, essendo meno fedeli alle tradizioni nazionali,
più facilmente si inducono nei paesi soggetti ad imitare i
costumi della nazione dominatrice. Alcuni fatti che ci sono noti ci
consentono di supporne molti altri analoghi. Noi sappiamo che
intorno a questo tempo l’Italia del Nord incominciò a spedir
per Aquileia e Nauporto molto vino nelle provincie danubiane42. Noi
sappiamo che pure in questi anni si incominciarono a vendere nella
Gallia le belle ceramiche rosse – liscie od ornate – delle famose
fabbriche di Arezzo; le ceramiche non molto diverse delle fabbriche
di Pozzuoli43; le ceramiche grigie e giallastre, con vaghi
ornamenti, fabbricate, probabilmente nella valle del Po, dal vasaio
Aco44; le famose ceramiche di Gneo Ateio, che sembrano essere state
fabbricate in Italia, ma non è certo45. Mentre le officine
galliche continuavano a fabbricare e a vendere sui mercati degli
oppida la tradizionale ceramica gallica, i vasi dipinti, fregiati di
ornamenti geometrici a pennello o ornati di differenti motivi –
nastri ondulati i più – con lo scalpello e la ruota, i
mercanti italiani venivano ad offrire ai ricchi Galli i piatti, i
vasi, le lampade delle fabbriche italiche, che erano certo
più fini delle galliche, ma che il prestigio militare e
politico di Roma faceva sembrare anche più belle che davvero
non fossero. Adoperare ceramiche italiche significava, per i ricchi
Galli, quasi innalzarsi sulla punta dei piedi a pareggiare la
statura dei dominatori. Piccoli frammenti di un grande fatto, queste
notizie staccate; onde esse ci permettono di intravedere in queste
provincie mercanti venuti dall’Italia e dalle regioni più
civili dell’Oriente, a tentar per mare, per fiume, per terra, di
insinuarsi tra i barbari, di insegnar loro le eccelse virtù
della civiltà: la civetteria delle fini stoffe, il lusso del
ricco mobilio, la ebbrezza dei vini squisiti, l’ammirazione delle
belle schiave d’Oriente, la vanità dei grandi ed inutili
monumenti pubblici, la nobiltà del profonder denaro in quei
modi che più facilmente lo conducono nelle mani degli
artisti, degli intellettuali, dei mercanti di oggetti di lusso. I
soliti procedimenti, del resto, con cui la civiltà perverte e
scompone la semplice barbarie agricola, quando essa riesce a
dominarla con la forza o con il denaro. E così i mercanti
portavano via da queste regioni un’altra parte dell’oro e
dell’argento che il fisco romano ci lasciava: onde debiti; maggiore
avarizia dei grandi o minore generosità nel trattare la
plebe; antiche industrie paesane e commerci secolari minacciati di
decadenza e di morte; desiderî insoddisfatti e universale
malcontento, dovunque, che il contrasto tra i nuovi e gli antichi
costumi, tra le idee tradizionali e le idee forestiere inaspriva; e
che si sfogava nell’odio crescente contro la dominazione romana ed
il suo segno più vistoso: il tributo. Se anche la Gallia,
pure naturalmente tanto più ricca, era malcontenta, potevano
esser contente le altre provincie, tanto più povere e rozze?
Perciò la vampata di guerra che aveva a un tratto arrossato a
settentrione, sulle Alpi, l’orizzonte d’Italia, e che Augusto non
aveva ancora spenta interamente, era piccola a confronto di quella
che minacciava infuocare le correnti del Reno e del Danubio. Di
tutte le provincie europee solo la lontana Spagna appartata,
finalmente doma dalle ultime spedizioni di Agrippa, era tranquilla.
In tutte le altre la pax romana vacillava. La Gallia tutta era
agitata da una torbida irrequietezza; la Vindelicia non moveva
membro, solo perchè giaceva ancora stordita dal colpo
ricevuto l’anno precedente; il Norico aveva buttate le armi
all’avvicinarsi dell’esercito di Tiberio, perchè spossato da
precedenti invasioni di Daci e di Geti. La Pannonia invece era in
piena rivolta; la Dalmazia inquietissima; agitatissimi pure i
piccoli principati della Mesia, protetti da Roma e invano rinforzati
a sud dei Balcani dal vasto principato tracico degli Odrisi, anche
questo posto sotto il protettorato romano. In Tracia il partito
antiromano era numeroso e forte; e la dinastia che, come quella di
Giudea, si appoggiava su Roma, impopolarissima appunto perchè
civettava con l’ellenismo, per vaghezza di non parer barbara. I
contadini e i pastori traci servivano malvolentieri nei corpi degli
ausiliari romani, e non volevano – gli zotici! – pagare le poesie
dei letterati greci ospitati dalla corte46. Augusto doveva esser
tanto più inquieto perchè anche da un’altra parte
incominciavano ormai ad apparire le immense conseguenze del grande
colpo di spada vibrato da Cesare nell’ignoto, conquistando la
Gallia. Gettandosi temerariamente con le sue legioni nel fitto delle
vacillanti repubbliche celtiche, facendo cadere con alcuni
scuotimenti vigorosi l’antico ordine delle cose galliche sulle sue
corrose fondamenta secolari, l’uomo fatale aveva perturbato il
vecchio equilibrio di tutto l’interno continente europeo e quindi
provocato un mareggiamento di popoli e di Stati che, lento e quasi
invisibile in principio, incominciava allora a diventar vorticoso e
quasi oceanico. Sradicata dalle braccia di Roma la fitta siepe di
bellicose repubbliche celtiche interposte tra la barbarie germanica
e l’Italia; convertendosi queste tutte insieme in una sola nazione
di grande sviluppo economico, la Gallia si apriva simile ad una
pianura rasa ai Germani, che avrebbero potuto passare tra queste
genti, ormai disperse a coltivare tutta l’immensa provincia e a
lavorare, e avviarsi verso l’Italia, senza dar di petto che in
cinque legioni. Agrippa aveva divinato che il pericolo germanico
rinasceva sul Reno: anzi il pericolo rinasceva e sul Reno e sul
Danubio, e più grave e più minaccioso e più
vasto che Agrippa non avesse pensato; cosicchè non avevano
quasi forza alcuna contro esso le concessioni di terre galliche
fatte da lui lungo il Reno. Ben altri argini occorreva opporre a
questo procelloso mare di tribù, che fluttuava tra la Vistola
e il Reno, dal Baltico al corso superiore del Danubio; e nel quale
la tempesta pareva aver stabilita la sua dimora. I Germani erano
poveri; possedevano pochi metalli preziosi; non edificavano
nè città, nè grossi villaggi; si disperdevano
per le campagne in abituri solitari; avevano costumi rozzi, poche
industrie rudimentali, una religione povera, una agricoltura
superficiale, dei numerosi armenti e una mobilità quasi
nomadica. Bruciar gli antichi abituri, emigrare in terre nuove,
dividersele, rifabbricarci sopra le case, pascolarci gli armenti e
ricominciar su quelle le seminagioni, erano cose di poco momento e
perciò consuete, anche per le tribù numerose. Il
bagaglio di ognuna era tanto leggero! Gli armenti, una provvista di
grano, poche masserizie, le armi, qualche schiavo. E dopo un anno,
quando la prima messe si offriva alla falce, la tribù si
trovava nella nuova sede a suo agio come nell’antica, come in una
sede posseduta da secoli. Il rigido clima, le immense foreste, le
vaste paludi, la terra ricca solo di pascoli e ferace di cereali –
sebbene molto meno che nella Gallia – la lontananza dalle regioni
civili, l’ignoranza, lo spirito bellicoso che perpetuava le guerre e
dalle guerre era poi alimentato, non solo impedivano alle
tribù germaniche di arricchirsi, di raffinarsi, di fondare
stati duraturi, ma anche di metter radice nel suolo. Onde le
numerose tribù, mobili, come marosi al soffio dei piccoli
accidenti e dei nuovi bisogni, cozzavano di continuo tra loro. Erano
infatti sempre in guerra, per disputarsi certe regioni, per aprirsi
certe vie, per vendicare antiche offese; in ogni tribù tutti
gli uomini liberi e possidenti, dall’infanzia alla vecchiaia, non
trattavano che le armi, lasciando ogni lavoro agli schiavi e alle
donne; la religione, il costume, la famiglia convergevano a esaltare
nell’uomo l’ardore del cimento e a rafforzare il disprezzo della
morte. Ogni popolo insomma era una orda di guerrieri, meravigliosi
per robustezza, per sobrietà, per coraggio, per impeto.
Fortuna, che a questa forza e a questo furore taurini mancava
l’intelligenza regolatrice! Ogni tribù era governata dalla
tumultuaria impulsività degli uomini liberi – possidenti e
guerrieri – radunati in assemblea, che decidevano la pace e la
guerra, facevano le leggi, giudicavano, a mala pena frenate un poco
dall’autorità dei sacerdoti e delle famiglie più
insigni per ricchezza e per gloria guerresca: autorità debole
però, perchè nè i secoli, nè il contatto
con popoli più civili, nè le guerre continue avevano
ancora domato il selvaggio spirito di indipendenza del Germano
guerriero e possidente. Per questa ragione la Gallia aveva potuto
per tanto tempo far argine alle tentate invasioni germaniche; e per
questa ragione pure Augusto non avrebbe avuto a temere
soverchiamente i Germani se, mutandosi la Gallia in una nazione di
grande sviluppo economico, la loro barbarie miserabile non fosse
stata quasi meccanicamente sospinta a precipitarsi sulla ricchezza
gallica dallo slivello rapidamente crescente. La guerra non era
soltanto una passione, ma anche una industria per i Germani;
sopratutto per l’aristocrazia, che con il bottino distribuiva doni
ai guerrieri meno ricchi e manteneva le proprie clientele, solo
principio di un ordine politico nella sciolta anarchia delle genti
germaniche. Ma le popolazioni germaniche, poverissime tutte,
avrebbero continuato a depredarsi l’un l’altra le poche masserizie,
i tesorucci, i magri armenti, quando avessero potuto insieme
depredare l’opulenta Gallia? Certo il nome, il gran nome di Roma, li
fermava sul Reno, argine poderoso; ma se un giorno essi si
accorgessero che l’argine non era vero, di macigni e di terra, ma
dipinto sopra una fragile tela a inganno dei loro occhi di barbari?
Al di là delle Alpi innumerevoli Stati grandi e piccini erano
sorti e caduti negli ultimi secoli, l’uno sull’altro, rapidamente, a
rifascio, accatastando in ogni parte le loro macerie. Anche la
dominazione romana vacillava ora su questo sedimento di rovine. Si
avvicinava dunque il momento, in cui Roma dovrebbe risolversi a
prendere gravi deliberazioni nelle provincie europee. L’Italia
incominciava a intravedere quanto ricca fosse una almeno di quelle
provincie, la Gallia: anzi Augusto ormai vedeva in questa
addirittura l’Egitto dell’avvenire, la grande risorsa futura
dell’esausto erario repubblicano; in Gallia e nelle altre provincie
l’agricoltura e l’industria dell’Italia trovavano nuovo mercato. Era
chiaro dunque che l’impero aveva bisogno delle provincie conquistate
da poco nel continente europeo; ma era chiaro pure che quella
situazione incerta, confusa, oscillante in ogni parte, non poteva
durare; che bisognava rinforzare la difesa del Reno e stabilire il
confine dell’impero sul Danubio. Con così poche legioni non
si poteva difendere una così lunga frontiera, se questa non
fosse di per sè naturalmente munita. Il Danubio era il
naturale, gigantesco fossato dietro cui poche regioni ben comandate
potevano fare opera efficace di difesa; e bisognava raggiungerlo, a
qualunque costo, anche a rischio di lasciarsi alle spalle
popolazioni barbare, malfide, riottose.
Tale era il compito che si poneva finalmente innanzi a Roma, come la
parte più onerosa della eredità di Cesare; come la
conseguenza più grave del grande colpo di spada vibrato da
lui nell’ignoto, conquistando la Gallia.... E il compito nuovo era
così grave che Augusto doveva forse domandarsi se, anche per
quella sua grandiosa avventura di Gallia, non avesse Tito Livio
ragione di proporsi il quesito: aveva Cesare fatto più bene o
più male? Sarebbe stato per il mondo maggior ventura o
maggiore disgrazia, se l’uomo fatale non fosse nato?47 A
fronteggiare, al di là e al di qua di una così
smisurata frontiera tanta inquieta barbarie, non sarebbe stata
dunque superflua la abilità diplomatica e la energia
guerresca, di cui la nobiltà romana aveva date prove
sì eccelse nella conquista mondiale. E invece
l’abilità diplomatica e l’energia guerresca si spegnevano
rapidamente nella nuova nobiltà imbastardita, non ostante i
tentativi disperati fatti per infondere in essa l’anima antica.
Quelle due odi di Orazio, tanto ammirate dal pubblico, provano che
la nuova aristocrazia, in cui si confondevano gli avanzi della
nobiltà storica con gli avventurieri fortunati della
rivoluzione e i ricchi cavalieri e gli intellettuali del ceto medio,
perdeva rapidamente la facoltà di capire la politica estera.
Un briciolo di retorica imperialista, simile a quella che Orazio
aveva stemperata nelle belle strofe, delle confuse nozioni
geografiche e politiche, una sconfinata fiducia in Augusto: ecco la
somma dell’arte di governare i sudditi, per quella classe
infingarda, superficiale, viziata da una confusa e frivola
intellettualità. Il Senato votava, senza fare obiezione
alcuna e senza domandare schiarimenti, tutte le somme che Augusto
chiedeva per la guerra; nessuno si opponeva più, come ai
tempi di Cesare e di Pompeo; anzi erano tutti contenti che Augusto
deliberasse egli, senza consultare il Senato, sulla pace e sulla
guerra come gliene avevano data facoltà48; le alte classi non
avevano più nessun canone per regolarsi nelle questioni di
politica estera, e confondendo da lontano luoghi e tempi,
illudendosi in una facile vanagloria, non si curavano che della
conclusione, per esse inevitabile: la consolidazione ed estensione
del dominio romano. I mezzi da adoperare, le difficoltà da
vincere, i pericoli da prevenire, e simili altre piccolezze, non
riguardavano alcuno, fuorchè Augusto. Fraintendendo, come
sempre, gli storici hanno raffigurato Augusto che astutamente riduce
a poco a poco in suo potere tutte le faccende esteriori dell’impero;
quando invece le ultime rivoluzioni avevano distrutto in Roma
l’antico organo della politica estera; nè la vaga retorica
imperialista dei poeti, la superficiale cultura storica delle classi
alte, le reminiscenze frammentarie del passato potevano tener luogo
delle tradizioni diplomatiche dell’aristocrazia, provate dal cimento
dei secoli e di cui il Senato era stato per tante generazioni il
depositario. Il disfacimento morale della nobiltà, la
paralisi del Senato lasciava Augusto solo alle prese con il Reno e
con il Danubio nemici; lo costringeva ad essere egli, solo con i
suoi parenti ed amici, l’organo nuovo della politica estera, e a
supplire alla manchevolezza del Senato, che trascurava ogni cosa;
alla manchevolezza del pubblico, che, frivolo, leggero, pieno di
desideri impossibili e di illusioni chimeriche, minacciava in ogni
occasione di intralciare così le operazioni di guerra come le
trattative diplomatiche. Necessità che gli era forza subire
in quel tempo in cui un poeta, un cesellatore di brevi e di lunghe,
un limatore paziente di aggettivi diventava il maestro delle
moltitudini per le faccende estere: il che per una nazione è
segno sicurissimo di rimbecillimento politico.
Augusto tuttavia si accingeva con animosa fiducia alla vastissima
impresa, in quel momento felice, in cui lo Julium sidus, la stella
della sua fortuna, uscita dai torbidi vapori di tante tempeste,
splendeva più luminosa sopra il più puro cielo che mai
l’avesse attorniata. Egli era nella piena virilità – aveva 49
anni —; e alla lunghissima pratica delle cose politiche fatta tra
tante vicende, univa ora la miglior salute che mai avesse goduta. Il
regime rigorosissimo, le ansie scemate, la naturale stagionatura
dell’età, la tempera che agli organi dà la vita
medesima, avevano arrobustita assai la sua complessione infermiccia,
preservandolo da quasi dieci anni da malattie pericolose. Proprio
allora inoltre Augusto poteva incominciare a credere sicura la sua
grandezza, perchè anche coloro i quali non lo ammiravano
nè in cuor loro nè a parole, si acconciavano a subire
la sua potenza come il male minore, in tempi così corrotti.
Aveva intorno una bella e concorde famiglia, che poteva presentare
come un discreto modello a tutti gli arcaicizzanti: Livia,
avvedutissima consigliera in ogni contingenza difficile, ma schiva
di apparire, di ricevere omaggi, di far parlare di sè,
raccolta in un signorile riserbo di antica matrona; Agrippa,
fedelissimo amico; Giulia, bella, intelligente, amabile ed ora
rinsavita nel lontano Oriente in compagnia del marito; due
figliastri intelligenti, valorosi, alacri, generali provetti e buoni
mariti; due strumenti eccellenti per governare lo Stato e due
magnifici esempi da opporre alla frivola gioventù
contemporanea. Che poteva egli desiderare di più? Oh se
quell’attimo felice avesse potuto sostare sulla china del tempo! Ma
gli attimi seguenti incalzavano. A mano a mano che vedeva allargarsi
il pericolo, Augusto profondeva in ogni parte una mirabile
attività per provvedere al presente e per preparare il
futuro. È questa forse la parte più bella della sua
lunga esistenza; e forse fu la meno infelice. La strada della
Liguria fu sollecitamente riparata e le Alpi marittime, insieme con
le vallate ribellatesi a Cozio, vigorosamente debellate. Augusto
provvide pure, probabilmente in questo tempo, a ordinare le regioni
conquistate o riconquistate: e, ahimè, con la
brutalità che i tempi lodavano, come necessaria per vincere
l’uomo in guerra con l’uomo. Delle popolazioni alpine ribellatesi
una parte considerevole, la più valida, fu venduta schiava e
dispersa, lasciando nelle valli solo quanti abitatori erano
necessari a coltivare la terra, donne, probabilmente, il maggior
numero49. Il territorio doveva esser variamente diviso: tutte le
vallate che sboccano sul lago Maggiore sino al San Gottardo, una
parte considerevole del territorio conquistato ai Leponzi, sarebbero
aggregate al territorio di Milano, sottoposto quindi
all’autorità del piccolo Senato dei decurioni milanesi e dei
suoi magistrati comunali50; la moderna val Bregaglia, dove in antico
abitavano i Bergalei, fu attribuita a Como51; le valli dei Camunni e
dei Trumplini, incorporate con il territorio di Brescia52. In tutte
queste valli le terre confiscate alle tribù e alle ricche
famiglie furono in parte date alle tre città e ne
ingrandirono i demanî municipali53, in parte divise tra
Augusto, la sua famiglia, i suoi amici: ingente bottino di boschi
magnifici, di ricche miniere, di praterie pingui, di campi
ubertosi54. Egual rapina fe’ il dittatore nelle Valli Retiche, che
furono quasi tutte assegnate invece alla nuova provincia della
Rezia, di cui Augusto tracciò i confini includendovi la
Vindelicia e comprendendovi tutto il territorio dalla vetta delle
Alpi al Danubio, dal lago Lemanno ai confini del Norico55. Nel
Norico Augusto deliberò di introdurre l’amministrazione
romana, abolendo la dinastia nazionale, ma senza ridurlo a
provincia; applicandogli invece il regime già sperimentato in
Egitto del praefectus. Un cavaliere, scelto da lui, governerebbe
l’antico regno, come vicerè, in luogo della dinastia
nazionale. Così anche in questa parte il Danubio segnava il
confine dell’impero.... Cozio fu mantenuto nel regno, ma egli pure
con nome e autorità non più di re, bensì di
praefectus, per collocarlo in una più diretta sudditanza da
Roma. Senonchè, dopo averle annesse, Roma doveva difendere,
occorrendo, la Rezia ed il Norico contro le invasioni germaniche e
daciche. Era dunque necessario di costituire nuove legioni e di
metterle a presidio nelle due provincie? Ma la spesa sarebbe grave e
grande forse anche la difficoltà di trovare soldati e
ufficiali sufficienti nelle alte, medie e basse classi dell’Italia.
Fermo nel proposito di non oltrepassare il numero di 23 legioni,
Augusto si risolvè a basare la difesa dell’impero ampliato
sopra un principio nuovo: sul principio che le frontiere non
potevano essere assalite mai contemporaneamente su molti punti; che
quindi le medesime legioni potevano difendere punti lontani tra
loro, purchè fossero in grado di passare rapidamente dall’uno
all’altro. Egli deliberò quindi di far aprire tra le nuove
provincie e la valle del Po, attraverso le Alpi, una grande strada,
per la quale le legioni raccolte da ogni parte nella valle del Po
speditamente correrebbero, occorrendo, a difendere il Danubio: una
via strategica, che doveva servire come servono oggi le ferrovie, a
portare prestamente da un luogo all’altro le milizie. Insomma
Augusto non aumentava le legioni e suppliva invece al numero con la
mobilità, facendo nuove strade che costavano meno e potevano
anche servire al commercio e ai privati. Druso fu incaricato di
tracciare questa strada che, movendo da Altino sul Po, probabilmente
per Treviso, Feltre, la Valsugana, Trento e la valle dell’Adige,
raggiungeva il Danubio56. Nel tempo stesso Augusto immaginava
un’altra strada strategica, per la valle dei Salassi, la sua colonia
di Augusta Salassorum, il piccolo e il Grande San Bernardo, che
doveva affrettare il viaggio dall’Italia in Gallia e per la quale in
poche settimane si concentrerebbero alla difesa del Reno le legioni
dell’Illirico e della Pannonia57. In questo stesso anno Augusto
ripigliava la deduzione dei veterani in Colonie.... Altro segno dei
tempi che minacciavano tempesta! Dopo Azio e le grandi deduzioni dei
veterani della guerra civile, Augusto aveva un po’ negletti soldati
e veterani. Aveva fatto il sordo alle continue richieste di minor
servizio, di maggior soldo, di più larghi comodi, di
più precise condizioni nell’arruolamento che i soldati
mettevano innanzi, approfittando della disciplina raddolcita58; e
pur congedando ogni anno un certo numero di soldati che avevano
servito almeno venti anni, non si era dato gran pensiero per trovare
loro terre: spesa grave e compito difficile. Se durante le guerre
civili era stata consuetudine di ricompensare con dei campi i
soldati congedati, i soldati non avevano nessun vero diritto alla
rustica pensione. Cosicchè c’erano allora molti soldati
congedati che, poveri e senza peculio, mendicavano invano dai
personaggi potenti sotto cui avevano militato, una terra su cui
campar gli ultimi anni. Quando a un tratto, in questo anno, Augusto
fu preso da una improvvisa sollecitudine per i poveri veterani; e
cercò loro delle terre, sia pur fuori di Italia, ma belle e
fertili; e ne fece dedurre una colonia a Patrasso, dando loro una
porzione del demanio della città comprata da questa59; e da
Agrippa ne fece dedurre un’altra in Siria, riempiendo così e
riedificando una città che aveva trovata distrutta a
metà dalle guerre civili e semivuota, Berito60. Probabilmente
in questo tempo medesimo si pensò anche a costruire Augusta
Vindelicorum al fondo della strada aperta da Druso; a costruire –
alla confluenza del Po e della Dora – come punto di arrivo della
nuova grande strada strategica della valle dei Salassi, al luogo
dove il Po diventa navigabile, Torino; e nel cuore dei territori
liguri ribellati e su terre tolte ai ribelli, Benevagienna61. Torino
e Benevagienna dovevano essere fortificate e servire anche a
spaventare i Liguri.
Il Senato, a cui tutti questi disegni furono sottoposti, li
approvò senza opporre difficoltà; votò le spese
necessarie, con la consueta docile indifferenza, e senza chiedersi
se il denaro non mancherebbe. E così l’anno 14 fu tra i
più laboriosi della vita di Augusto. Come semplice e comoda
era, a paragone di tante brighe, la missione di Agrippa in Oriente!
Egli aveva in questo anno compiuta senza alcuna fatica la
dimostrazione navale sulle coste della Tauride e facilmente
assestate le cose del regno bosforano come voleva62. Poi aveva fatto
ritorno per terra, attraversando l’Asia Minore, insieme con Erode,
il quale lo aveva raggiunto durante la spedizione63 e cercava di
entrargli nelle grazie più che potesse, per attuar sopra un
campo più vasto e in cospetto di tutto l’Oriente la grande
idea, che nobilitava in parte il suo perfido e violento governo: la
conciliazione dell’Ellenismo e del Giudaismo. Non solo aveva durante
tutto il viaggio profuso ingenti larghezze alle città greche,
intraprendendo ad esempio a sue spese la ricostruzione del celebre
portico di Chio64: ma si era costituito presso Agrippa intercessore
di grazie nel tempo stesso per le città greche e per gli
Ebrei. Ben presto si era risaputo in tutta l’Asia Minore che per
ottener da Agrippa qualche concessione, occorreva domandargliela per
il tramite del re di Giudea; e molte città ne avevano
approfittato. Ilio aveva ottenuto il perdono di una multa; Chio
forse aveva riacquistata la libertà e anche ottenuto un
condono d’imposte; altri favori avevano avuti altre città65.
Nel tempo stesso però Erode aveva persuaso Agrippa a emanare
un editto solenne che riconfermava e rinforzava tutti i privilegi
delle colonie ebraiche dell’Asia Minore, quei privilegi così
invisi agli indigeni....66 Così l’Arabo Idumeo venuto dal
deserto non solo appariva in Oriente come il protettore universale
di tutti gli Ebrei dispersi per l’impero, delle colonie staccatesi
per ogni parte dalla madre patria; non solo poteva interporsi come
paciere fra il Giudaismo e l’Ellenismo: ma osava persino atteggiarsi
a protettore dell’Ellenismo! E l’Ellenismo orientale, così
orgoglioso, così prepotente, così esclusivo,
tollerava, anzi ammirava questa intrusione67, che in altri tempi
sarebbe apparsa un risibile scandalo; e Erode, il re degli Ebrei,
diventava il primo potentato dell’Oriente ellenico e semitico.... Ma
la pace romana e la nuova politica inaugurata da Augusto, che si
curava, nella misura del possibile, di coordinare gli interessi
delle differenti provincie, invece di depredar tutto ciecamente e di
seminar la discordia dovunque, creavano, di contro alle tumultuose e
agitate genti dell’Occidente, un nuovo Oriente tranquillo, laborioso
e animato da passioni diverse. L’agricultura, l’industria, il
commercio rinascevano: i telai battevano di nuovo alacri in ogni
città, le tinozze dei tintori ricominciavano a bollire, i
forni del vetro ad ardere; il lavoro abbondava agli artigiani delle
città industriose, i possidenti vendevano facilmente i vini
prelibati, le squisite frutta secche, i semplici e le erbe
aromatiche, perchè di ogni cosa i mercanti facevano grande
ricerca. Non solo i popoli dell’Oriente medesimo, nelle città
e nelle campagne, lungo le coste e sull’altipiano, compravano
più facilmente e largamente; ma l’Italia domandava
all’Oriente ogni anno una maggiore quantità delle sue
mercanzie di lusso; ma nuovi mercati si aprivano appunto, come
abbiamo visto, nelle barbare provincie europee, dalla Gallia alla
Tracia.... Augusto, provvedendo alla difesa del Reno e del Danubio,
non conservava soltanto l’integrità dell’impero, assicurava
anche dei vasti mercati alle industriose città dell’Oriente!
Persino il consumo delle merci indiane – seta, riso, perle –
cresceva in tutto il mondo mediterraneo68; e l’Oriente, naturale
intermediario, guadagnava molto su questo lucrosissimo commercio,
specialmente l’Egitto, che faceva una vittoriosa concorrenza agli
Arabi dello Yemen. Mentre sotto i Tolomei appena qualche nave
partiva ogni anno da Miosorno, il porto egiziano del Mar Rosso, alla
volta dell’India, ora c’era già una piccola flotta di
battelli che facevano il commercio con l’estremo Oriente; e il
numero delle navi che la componevano cresceva ogni anno, come il
numero dei mercanti che arricchivano con questi viaggi69. Tutte le
industrie, tutti i commerci, tutte le coltivazioni prosperavano in
Egitto, in Siria, in Asia Minore; persino la Grecia, la povera
Grecia qua e là si risollevava un poco. Patrasso incominciava
a prosperare, per la fiorente industria dei bissi; e la deduzione
dei coloni romani non potrebbe che giovarle anche di più,
Augusto avendole attribuiti dei territori e parecchie città
minori, che dovrebbero pagarle tributo70. Le cave dei marmi, quelle
dell’Attica, quelle del Taigeto in Laconia, quelle dell’isola di
Taso, del Tenaro e di Crocee, incominciavano a mandar molta pietra
in Italia71; la Laconia, la Tessalia, l’Elide esportavano a Roma
cavalli per i giuochi del circo72; le città poste alle foci
del Danubio incominciavano a comprare vini e vestiti fatti in
Grecia73; e le città che, come Ipata nella valle dell’alto
Sperchio e Titorea nella valle dell’alto Cefiso, riuscivano a
spremere dagli ulivi delle terre circostanti un olio sopraffino, si
avviavano verso un ridente avvenire, anche in mezzo alla universale
desolazione della Grecia74. Insomma l’Oriente pareva aver finalmente
trovata, dopo tanti secoli, quella vasta pace, quella sicurezza dei
mari e dei continenti di cui aveva, come nazione industriosa e
trafficante, bisogno; e in quella pace, in quella sicurezza
arricchiva di nuovo rapidamente, traeva a sè da ogni parte i
metalli preziosi; e se non curava radicalmente gli innumerevoli mali
di cui soffriva – la discordia delle razze, la dissoluzione
politica, la confusione religiosa, la depravazione morale – almeno
aveva ora la forza di sopportarli più facilmente. Nel
tripudio della prosperità ritornata d’improvviso quando tutti
la credevano fuggita per sempre dalla terra; nella fretta di
raccogliere in ogni parte quel che essa vuotava dal suo corno di
nuovo inesausto, tutte le classi e tutte le razze dimenticavano i
rancori, i ripicchi, gli orgogli, gli scoraggiamenti che la crisi
lunghissima aveva tanto inaspriti; lasciavano anche ad un Arabo re
di Giudea esprimere in nome di tutte ai piedi di Roma la suprema
necessità dell’Oriente: l’accordo dei popoli, delle lingue,
delle religioni nel comune intento di sfruttare con il commercio,
con le arti, con le lettere, con i vizi, con le favole religiose
l’Occidente barbaro, che Augusto si preparava ad aprire con la spada
di Roma all’invasione orientale.
Il leone nei tempi di Mitridate tanto furioso, belava ora come un
agnello, leccando la mano di Agrippa. Alle prese con i lioncelli di
Europa, Augusto poteva domandarsi se non avesse avuta ragione
Antonio di voler inorientare l’impero. Quanto più tranquillo
e sicuro sarebbe l’impero, senza queste torbide provincie europee!
Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Mentre
Agrippa ed Erode passeggiavano per l’Oriente tranquillo, Augusto
meditava in Gallia due disegni ben più grandiosi, che quelli
eseguiti in questo anno: il riordinamento amministrativo della
Gallia e la conquista della Germania.
III.
LA CONQUISTA DELLA GERMANIA.
Dal principio della sua presidenza Augusto aveva, celatamente ma
tenacemente, avversate le perigliose avventure oltre i confini,
sebbene queste fossero richieste dalla opinione pubblica, cercando
con mille infingimenti di eludere le impazienze e le ambizioni
popolari. Aveva infatti conchiusa la pace con la Persia, quando
l’Italia voleva la guerra. E così, di rinvio in rinvio,
quindici anni erano quetamente passati; e l’Italia già quasi
si rassegnava, senza accorgersene, ad accontentarsi dei modesti
trofei conquistati dalle legioni combattendo nella Spagna
settentrionale o nelle vallate alpine. La crescente
prosperità, il rinovato prestigio, l’oblìo di Azio, lo
sfacelo del Senato, di cui il pubblico non poteva non accorgersi,
inducevano il pubblico in questa nuova disposizione di spirito. Come
tentare grandi conquiste, quando il Senato, che avrebbe dovuto
dirigerle, cadeva in deliquescenza? Orbene: proprio allorchè,
rallentandosi, l’opinione pubblica cessava di incitarlo sulla via
delle conquiste con la furia antica, Augusto ponderatamente,
freddamente, quasi da solo, deliberava una vastissima e gravissima
impresa.
Negli scrittori antichi e moderni questo singolar mutamento prorompe
così all’improvviso, che non sembra avere altra causa se non
le imperscrutabili oscillazioni di una volontà personale. Ma
le cause dovettero essere ben più profonde e complesse. Se
Augusto non si fosse persuaso intorno a questo tempo che la
conquista della Germania era assolutamente necessaria ed urgente,
non si spiegherebbe come egli, così schivo delle
responsabilità gravi, si impegnasse e impegnasse Roma di sua
iniziativa, con un Senato torpido ed una aristocrazia mezzo
sfasciata, in impresa di tanto momento. E la conquista della
Germania non potè allora parergli necessaria, se non per
conservare la Gallia, il cui valore Licino gli aveva rivelato:
cosicchè il disegno di questa impresa deve collegarsi con la
grande discussione avvenuta in presenza di Augusto tra i capi
gallici e il liberto rapace. Questa discussione segna un grande
momento nella storia di Roma: il momento in cui, per merito di
Licino che le aprì gli occhi, la oligarchia che governava
l’impero scoprì finalmente l’immenso valore della terra
conquistata da Cesare. Ad Augusto, che da quindici anni frugava
tutto l’impero per raccogliere denaro, dalle montagne asture e
cantabre all’altipiano dell’Asia Minore, dalle città della
Siria ai villaggi alpini, doveva parere meravigliosa fortuna il
trovare al di là delle Alpi, nel mezzo delle provincie
europee, non separato dal mare, vicino e contiguo all’Italia, un
territorio che per ricchezza eguaglierebbe un giorno le più
opulenti provincie di Oriente, e che sembrava offrire un vasto
mercato all’agricoltura e all’industria dell’Italia. Ai vantaggi
economici, palesi a tutti, si aggiungevano cospicui vantaggi
politici. L’Italia aveva obbligato Augusto a conquistare e ad
annetter l’Egitto, per infliggere una umiliazione indimenticabile
all’Oriente troppo insuperbito durante le guerre civili: ma pur
sfogandosi per vendetta a percuotere l’Oriente, l’Italia restava pur
sempre in mezzo alle barbare, povere, riottose provincie
dell’Occidente le quali le facevano corona, una metropoli troppo
piccola, troppo povera, troppo poco popolosa, di fronte alla parte
orientale dell’impero troppo cresciuta negli ultimi cinquanta anni.
Difatti, non ostante l’esaltazione nazionale, era pur vero che
l’Italia e la repubblica vivevano ancora precipuamente sui redditi
delle provincie orientali; era pur vero che così Augusto,
come Agrippa, come i proconsoli erano costretti in Oriente a
trattare le città, le monarchie clienti, gli staterelli
protetti e tutti i potentati con miele e carezze. Perfino ad Erode,
dopo Aminta, Roma prodigava gentilezze, che due secoli prima il
Senato aveva negato ai successori di Alessandro! Anzi il predominio
dell’Oriente e sopratutto l’influsso dell’Egitto cresceva
rapidamente, a mano a mano che il ricordo delle turbinose vicende
della ultima guerra civile svaniva; a mano a mano che con la pace si
divulgava nell’impero e in Italia una civiltà più
raffinata e più intellettuale. Non è perciò
inverisimile che Augusto, oltre che un cespite largo di nuovi
tributi, intravedesse nella futura, ricchissima, popolosissima
Gallia, descritta da Licino, anche un contrappeso alle provincie
orientali, troppo vaste, ricche e popolose. Se l’Italia riuscisse a
prolungarsi quasi e ad espandersi, oltre le Alpi, in una vasta
provincia, ricca di uomini, florida di commerci e di industrie, essa
avrebbe minore bisogno dell’Oriente, potrebbe dominarlo con maggior
vigore, più facilmente mantenere nell’impero il primato che
l’Oriente minacciava.
Augusto aveva perciò data alla fine piena ragione a Licino;
ed era entrato definitivamente nelle vedute dell’abile liberto, ma
ampliandole nel vasto disegno di una vera e nuova politica gallica.
Licino proponeva soltanto di spremere dalla Gallia quanto denaro si
potesse, con tutti i mezzi. Senonchè era chiaro non potersi
far della Gallia l’Egitto dell’Occidente, con i Germani minacciosi
alle porte, con le provincie circostanti in rivolta, con la
rivoluzione latente nella Gallia medesima. La Gallia non era, come
l’Egitto e come la Siria, una vecchia nazione, avvezza da secoli a
obbedire e a pagare: tanto è vero che la vittoria di Licino
la aveva esasperata; che, avvicinandosi la fine del censo e
l’assoggettamento di tutta la Gallia al nuovo regime fiscale,
l’opposizione minacciava di suscitare dal malcontento universale un
moto, e di rinforzarlo con una invasione germanica75. Se la Gallia
era la colonna maestra dell’impero di occidente, bisognava
rincalzarne le fondamenta; vasta impresa alla quale Augusto si
accinse alacremente, dopo la famosa discussione, con due mezzi
diversi: uno interno e l’altro esterno, e cioè con un sagace
riordinamento amministrativo della Gallia e con la conquista della
Germania. In Gallia durava ancora la divisione territoriale trovata
da Cesare al suo arrivo, conservata da lui e poi cristallizzata
dalla pace. Alcuni popoli più potenti, come gli Edui e gli
Arverni, erano alleati di Roma, ed avevano ancora una larga
clientela di piccole civitates, da loro governate; accanto a questi
popoli, molte civitates di differente misura, grandi e piccole,
erano poste direttamente sotto la sudditanza o sorveglianza romana,
secondo erano soggette libere o alleate. Era chiaro che, le guerre
interne essendo cessate, la Gallia mutandosi in una nazione
industriosa e commerciante, le grosse clientele degli Arverni e
degli Edui non avevano più per la Gallia alcuno scopo, se non
quello di conservare privilegi antiquati e qualche motivo di futile
orgoglio; mentre potevano diventare pericolose per Roma, come i
primi nuclei di nuove coalizioni nazionali, se il malcontento
crescente spingesse la Gallia ad insorgere. Augusto deliberò
quindi di infrangere queste vaste clientele, togliendo dalla
signoria degli Arverni i Vellavi, i Cadurci, i Gabali, da quella
degli Edui i Segusiavi, gli Ambarri, gli Aulerci, i Brancovici,
sottoponendo queste civitates direttamente all’autorità
romana76. Spianò poi, sulla base dei resultati del censo,
l’antica varietà delle civitates a una maggiore
uniformità riunendo le civitates troppo piccole in una sola
più grande, dividendo le troppo grandi, e riplasmandole tutte
in sessanta civitates non molto diverse per importanza e grandezza,
ciascuna indipendente dall’altra e tutte poste in contatto immediato
con Roma77. Ma questo nuovo ordinamento accresceva al governatore
romano compiti e responsabilità; affinchè dunque la
Gallia tutta potesse essere comodamente amministrata nella sua nuova
forma, e per rafforzare il dominio romano, dividendo ancora
più la provincia, Augusto deliberò di fare delle
sessanta civitates una tripartizione amministrativa. Non però
sovrapponendola alla naturale tripartizione etnica della Gallia, che
ad occidente, nell’Aquitania, tra i Pirenei e la Garonna, era
popolata da Iberici e rassomigliava alla Spagna; nel vasto centro,
tra il Rodano e l’Oceano, dalla Garonna alla Senna, era abitata da
puri Celti; ad oriente, tra la Senna e il Reno, era abitata da una
mischianza di Celti e di Germani. La tripartizione della Gallia,
immaginata da Augusto, in Aquitanica, Lugdunese e Belgica, tendeva
invece a confondere amministrativamente così le differenze
come le affinità etniche e storiche delle genti galliche.
Essa riuniva nell’Aquitania diciassette civitates, di cui cinque
iberiche e dodici puramente celtiche78 per razza, per lingua e per
storia, tra le quali gli Arverni; assegnava alla Lugdunese
venticinque (o ventisei) civitates celtiche, tra le quali gli Edui,
che erano così divisi dagli Arverni79; costituiva la Belgica
di diciassette civitates, comprendendo in quelle però alcune
popolazioni puramente celtiche, come i Sequani, i Lingoni e gli
Elvezi80. Insomma il gruppo centrale, puramente celtico, il
più compatto, il più attivo, il più grande, e
quindi il più pericoloso per la sua preponderanza, era
amputato ad oriente e ad occidente a vantaggio del gruppo iberico e
del gruppo celto-germanico; onde il governo gallico poggiava
sull’equilibrio amministrativo di tre gruppi non molto diversi.
È facile capire che con questa tripartizione
artificiosissima, contraria alla ragione etnica, linguistica e
storica, Augusto mirava a spegnere interamente nella Gallia lo
spirito politico e nazionale già agonizzante, intralciando
amministrativamente le intese naturali delle tribù; a volgere
la Gallia tutta e soltanto verso l’agricoltura, il commercio,
l’industria, gli studi, i piaceri. Ma il riordinamento
amministrativo non pareva bastare a rafforzare il dominio romano,
perchè la illusione di un grande aiuto germanico fomentava
l’irrequietezza gallica; e l’irrequietezza gallica faceva vacillare,
per ripercussione, tutto l’impero europeo. Bisognava conquistare la
Germania, per posseder sicuramente la Gallia e le provincie
danubiane. Non era più questione di scelta, come per la
conquista della Persia, ma necessità: se l’Italia e il Senato
non l’intendevano, doveva intenderlo chi aveva la
responsabilità del potere, a prevenzione di più gravi
pericoli nell’avvenire. Senonchè l’impresa di Germania era
grave e difficile, poco meno che l’impresa di Persia. Avrebbero
bastato a illuminare Augusto su questo punto, anche se non si fosse
mosso di Roma, i capitoli trentanovesimo e quarantesimo del primo
libro dei Commentarii di Cesare, in cui sono così lucidamente
esposti i pericoli e le difficoltà delle guerre germaniche:
il valore del nemico, la mancanza di vie comode e larghe, i
trasporti e gli approvvigionamenti difficili, le immense foreste, la
facilità delle imboscate. Queste difficoltà erano anzi
in trentacinque anni cresciute, perchè i soldati di Augusto,
molto meno agguerriti che quelli di Cesare, avevano bisogno di
bagagli più voluminosi, di vettovaglie più abbondanti,
di guide più sicure, di strade più comode. Difatti
Augusto al principio dell’anno 13 invitò Agrippa, che era
ancora in Oriente, a ritornare in Italia; e si accinse a ritornare
egli pure, per consultare su così grave faccenda l’uomo di
guerra più esperto del tempo81. D’altra parte con l’anno 13
finiva il quinquennio della duplice presidenza; e conveniva che
ambedue si trovassero in Roma per far prolungare di cinque anni i
poteri. Ma se Augusto non era uomo da avventarsi temerariamente
nell’ignoto, come Lucullo e Cesare, egli sapeva però
risolversi con mente pacata a gravi e difficili cose, quando si
fosse persuaso con matura riflessione che erano necessarie. Ora se
per molte ragioni la impresa di Germania gli appariva vantaggiosa,
il momento doveva sembrargli singolarmente propizio a tentarla. Se
l’impresa non era meno grave che quella compiuta da Cesare in Gallia
o quella tentata da Antonio in Persia, egli aveva acquistato, con
quindici anni di fortunato governo, bastevole autorità da
poter impegnare lo Stato in una così rischiosa avventura. A
conti fatti, il bene era stato maggiore del male in quei quindici
anni, in Italia, perchè la pace non era stata turbata, la
prosperità era cresciuta, molti rancori si erano sopiti,
molti desiderî soddisfatti; e se non pochi fra questi beni
erano effetto delle cose più che merito suo, i contemporanei,
giudicando, come sogliono i più, grossamente dall’effetto, ne
serbavano riconoscenza a lui, come egli di tutto fosse l’autore. Non
faticava egli da quindici anni a riformare abusi, a far leggi e ad
applicarle, a riordinare le provincie, a conchiudere trattati, a
raccogliere denari, a domare ribellioni, a ingrandire l’impero? Non
più la popolarità tempestosa dei tempi di Cesare, a
ventate furibonde, a turbini vorticosi, a oscillazioni violente; ma
una benevolenza placida e continua ravvolgeva la persona del primo
magistrato della repubblica.
Nato con provvidi Dei, tutor ottimo
del roman sangue, tu indugi il riedere
troppo: al concilio dei padri celere
lo promettesti: affrettati,
ancor la patria, buon duce, illumina:
se, a l’april simile, fulse tua imagine
davanti al popolo, va il dì più amabile
e i soli meglio splendono.
Così Orazio82 salutava allora Augusto, in procinto di
ritornare; e descriveva poi l’Italia aspettante lui come il figlio
andato lontano; perchè per suo merito
il bove incolume pei campi aggirasi
cui nutre Cerere con l’alma Copia,
sul mar placatosi volano i nauti,
la fè schiva l’infamia;
stupri non macchiano le caste soglie,
il turpe illecito leggi, usi vinsero,
da prole ingenua le madri han gloria,
colpa e pena accompagnansi.
I Parti e i gelidi Sciti darannoci
ansie o chi l’orrida Germania genera,
Cesare incolume? che son le mischie
de la feroce Iberia?
Orazio, che non era nè un adulatore nè un poeta di
corte, esprimeva con questi versi quello che sinceramente sentivano
le classi medie e popolari di tutta Italia. Lo prova un fatto troppo
trascurato dagli storici: che intorno a questo tempo incomincia in
Italia ad organizzarsi intorno ad Augusto – sarebbe troppo dire un
culto, ma ben si può dire una venerazione popolare, le cui
forme ancora prettamente latine pure già contenevano un
principio, per quanto tenue, del culto asiatico dei sovrani.
Solevano gli schiavi e i clienti da tempo antichissimo giurare per
il genio del padrone o del patrono, cioè per quella essenza
divina, incorruttibile, immortale della natura umana, ancora
confusamente imaginata, che la mitologia latina già poneva a
far nel corpo l’ufficio che farà più tardi l’anima.
Ora nelle classi inferiori e medie dell’Italia si trasportava questo
costume ad Augusto; si giurava nelle occasioni solenni per il suo
genio, come se egli fosse il patrono comune di tutti; si
incominciava anche ad imitare i pastori della egloga virgiliana,
sacrificando in ogni parte d’Italia al genius, al numen di
Augusto83. In molte città, come Faleri84, come Cosa85, come
Nepi86, come Nola87, come Pesto88, come Grumento89, si formavano dei
collegi di augustales, simili ai collegi mercuriales, ai collegi
herculanii: associazioni cioè i cui membri si proponevano di
assicurare la ripetizione periodica di questi modesti sacrifici.
Pisa aveva forse già in questo tempo un Augusteum90; e
Benevento certo un Cesareum91. In ogni parte di Italia lo zelo pio
delle popolazioni contente della pace erigeva arae di Augusto92, a
Roma come nelle colonie da lui fondate, come nei municipî che
avevano origini e tradizioni diverse; altri mettevano una statuetta
di lui tra le imagini degli dèi Lari, accanto al focolare,
come a invocare la protezione sua, insieme con quella degli
antichissimi dèi tutelari della casa, sulla famiglia e sulla
prole. Pur nell’ode scritta per il ritorno, Orazio dice:
Ciascun ne’ propri colli il dì compie
e a l’alber vedovo la vita accoppia,
indi al vin ilare torna, ed aggiungeti,
chiudendo il pasto, ai superi;
con prece fervida te, da le patere
libando, seguita, fra i Lari mescola
te, come fecero i Grai, di Castore
memori e del grand’Ercole93.
Statuette di Augusto erano già poste, in Roma, nelle
cappellette dei Lari compitali, che ogni quartiere manteneva in un
quadrivio e che il popolino di tutte le classi venerava di fervida
devozione94.
Non bisogna naturalmente pensare che il contadino, che l’artigiano,
che il mercante imaginassero Augusto trasumanato in un vero Dio,
dotato di poteri soprannaturali, o che gli domandassero le grazie,
dal pio cattolico chieste oggi ai santi e alla Vergine. Tutti
sapevano che Augusto era un uomo, nato e vivo come gli altri,
destinato a morire come tutti. Questo culto era allora soltanto un
modo convenzionale di esprimere la massima ammirazione che un uomo
potesse professare per un altro uomo; di esprimere, non che si
credeva Augusto Dio, ma che si aveva per lui quasi lo stesso
rispetto che si tributava agli dèi. Il cristianesimo non
aveva ancora così inconciliabilmente opposto l’umano al
divino, che sembrasse sacrilegio venerare un uomo singolarmente
insigne con i simboli della adorazione religiosa: onde la ammissione
di Augusto tra i Lari non significava ancora, dalle Alpi al mare
Jonio, se non che la popolarità del presidente cresceva a tal
segno, che molti ne volevano riporre l’imagine addirittura nel
sacrario della famiglia. Grandi solennità si preparavano
infatti per il suo ritorno. Tiberio, che lo aveva preceduto in
Italia perchè era stato eletto console per quell’anno, si
accingeva a dare al popolo numerosi spettacoli95; Balbo, che aveva
finito il suo teatro, deliberava di far coincidere la solenne
inaugurazione con l’ingresso di Augusto96; a ricordo delle imprese
felicemente compiute negli anni precedenti, il Senato aveva, dopo il
suo intorno, deliberato di fare erigere presso il Campo Marzio,
lungo la via Flaminia, un grande altare della Pace di Augusto, su
cui ogni anno i magistrati, i sacerdoti, le vergini Vestali
dovrebbero fare un sacrificio alla Pax Augusta: a significare che la
quiete ristabilita nelle provincie europee, che anzi tutto l’ordine
regnante nell’impero era opera personale di lui97. Il suo ritorno
insomma, sebbene anche questa volta egli si fosse schermito entrando
di soppiatto in Roma di notte, era stato festeggiato come una
fortuna nazionale, con manifestazioni in parte almeno sincere. La
repubblica aveva finalmente un capo universalmente rispettato ed
amato.
Tanto più doveva il prudente Augusto sentirsi obbligato ad
adoperar questo credito per qualche impresa, che lasciasse di
sè un grande ricordo. Non è inverisimile che, oltre le
faccende galliche, la situazione interna lo sospingesse ad osare
cose nuove e più ardite. Destreggiandosi abilmente tra i
diversi partiti e gli opposti interessi, Augusto era riuscito a
ricomporre un certo ordine nell’impero. Ma troppi segni mostravano
già che la naturale inclinazione delle cose finirebbe in
nuove discordie, e la faticosa altalena delle concessioni in una
precipitosa e romorosa caduta, se non si tentava di occupare lo
spirito pubblico e le forze dello Stato in qualche grande impresa
nazionale. A non considerar che la lista dei consoli, si sarebbe
detto che la restaurazione aristocratica, iniziata da Augusto, era
pienamente riuscita. In quell’anno, insieme con Tiberio, con un
Claudio cioè, era console Publio Quintilio Varo: il figlio di
un patrizio uccisosi dopo Filippi; uno dei tanti nobili di antico
lignaggio, che il favore di Augusto e l’arcaismo in voga innalzavano
ancora giovani alle supreme magistrature. Varo, che non possedeva
una fortuna cospicua98, era già console, sebbene non potesse
aver più di trentacinque anni99. In verità invece la
costituzione aristocratica, così faticosamente restaurata nel
precedente quindicennio, già ricominciava ad essere
disgregata dallo spirito nuovo di una parte della generazione, che
ai tempi della battaglia di Azio era ancora fanciulla. Avveniva
allora quel grande fatto che si ripete in tutte le nazioni, le quali
ad un certo momento furono colpite da qualche grave e tragico
evento; che cioè, circa trenta anni dopo l’evento,
l’equilibrio dello spirito pubblico si rompe a un tratto, per un
mutamento subitaneo, di cui non si scorge la causa, ma la cui
origine deve essere cercata nella generazione nuova, che non ha
veduto il tragico evento, e che entra nella vita con disposizioni
diverse da quelle che il tragico evento aveva impresse nella
generazione più anziana. Anche allora, in Italia, la
generazione che aveva vedute le guerre civili incanutiva e si
diradava; dappertutto si facevano innanzi i giovani, quanto diversi
dai vecchi! Costoro non avevano veduto – spettacolo tremendo –
l’impero in procinto di disfarsi; non avevano ricevuto in pieno
petto quel colpo che aveva nella generazione precedente esasperata
la manìa dell’arcaismo, ricondotto al potere il partito della
tradizione, obbligato Augusto, l’antico νεώτερος e rivoluzionario, a
governare secondo il programma dei vecchi romani. Nè la
vecchia generazione aveva saputo comunicare la terribile impressione
alla nuova per il veicolo della tradizione e dell’educazione
familiare, perchè i padri non avevano più la forza di
plasmare a loro volontà l’anima dei figli: onde la nuova
generazione, cresciuta in tempi di pace, di tranquillità, di
prosperità aveva vedute susseguirsi rapide le conseguenze di
un evento calamitoso, che essa non aveva capito; aveva veduta la
generazione precedente tutta intenta a provvedere ad un immenso
pericolo, che essa non riusciva a discernere in nessuna parte. Le
idee e i sentimenti che avevano dominato nel quindicennio precedente
parevano perciò a molti giovani assurdi o per lo meno
esagerati. Era proprio vero che la repubblica e l’impero si
sfascerebbero, se la nobiltà non desse di nuovo tutta
sè medesima allo Stato, alla guerra, alla devozione, alla
tradizione? Se le classi superiori non frenassero l’inclinazione al
piacere, al lusso, ai diletti spirituali? Ma i tempi erano
tranquilli; ma la ricchezza cresceva; ma l’ordine vigeva in ogni
parte; ma Roma era di nuovo rispettata e temuta entro i confini
dell’impero e fuori; ma Augusto solo bastava a supplire a tutte le
manchevolezze, a provvedere a tutti i bisogni, a rimediare a tutti i
guai! Come il pericolo, non importa se vero o imaginario, aveva
risospinto indietro la vecchia generazione sull’aspra montagna del
passato, verso le fonti storiche della vita nazionale, la sicurezza
e la prosperità, anche se temerarie, tentavano la nuova a
ridiscenderne il corso verso le foci e le pianure dell’avvenire,
ridenti, fiorite, giulive, anche se insidiate da sottili miasmi. Una
reazione incominciava, fomentata dagli influssi egiziani che
acquistavano forza, crescendo la ricchezza, i contatti e i commerci
con l’Oriente, a mano a mano che i testimoni di Azio e i
contemporanei di Cleopatra sparivano. La setta stoica, vegetariana e
puritana dei Sesti, così rigogliosa dieci anni prima,
decadeva ora rapidissimamente ed era quasi morta100. Roma, dove le
grandi spese del governo e dei ricchi, l’immigrazione degli
orientali e sopratutto degli Egiziani, l’incontro di tanti popoli,
lo spirito della nuova generazione fomentavano il lusso ed il
piacere, non poteva essere una scuola di austerità e di
virtù: Roma dimenticava Azio, Cleopatra, Antonio e i
propositi di mortificazione fatti in mezzo alla grande crisi
rivoluzionaria; Roma voleva godere! C’era nell’aria perfino una
reazione contro le leggi sociali di Augusto. Dopo aver sancite pene
tanto severe contro l’adulterio, dopo aver scatenata contro gli
adulteri tutta la muta delle basse passioni umane, lo spionaggio la
delazione il ricatto, il pubblico era stato così nauseato
dall’applicazione della legge, dai processi scandalosi e dalle
condanne, che aveva ben presto preso a proteggere tutti gli accusati
di adulterio. Costoro erano sicuri ormai di trovare tra gli amici e
tra i personaggi cospicui dei difensori zelanti, che mettevano a
loro disposizione tutto il credito proprio; di comparire innanzi a
giurati predisposti alla benevolenza; di dover combattere contro
accusatori, anticipatamente disprezzati dal pubblico come
calunniatori101. Si poteva punir con l’esilio perpetuo e con la
confisca dei beni un delitto così facile a commettere?
Precipiterebbe proprio Roma dal fastigio della sua grandezza, se
qualche pronipote di Lucrezia non avesse ereditata con la bellezza
la virtù dell’ava lontana? Non è impossibile che la
lex de maritandis ordinibus avesse accresciuti i maritaggi nelle
alte classi, perchè i tempi, questa volta, aiutavano. I
giovani non dovevano più rifuggir tanto dall’ammogliarsi e
dal generare uno o due figli, ora che più facilmente si
trovava una sposa con una dote cospicua e sicura, che non era solo
promessa, ma anche e puntualmente pagata. Tuttavia la disposizione
che escludeva i celibi e le donne nubili dagli spettacoli pubblici
sembrava a tutti troppo dura; e cresceva ogni dì la
difficoltà di applicare la legge, perchè troppo
l’opinione pubblica indulgeva ai tentativi di violarla102. Invece la
restaurazione della costituzione aristocratica e timocratica fatta
alcuni anni prima, che avrebbe dovuto rigenerare la repubblica
migliorando le scelte dei magistrati e dei senatori, minacciava di
estenuarla ancora di più, lasciandola senza magistrati. Non
solo le sedute del Senato, non ostante le multe minacciate agli
assenti, erano sempre più deserte e svogliate,
cosicchè a fatica si raccoglieva ogni volta il numero
legale103: ma Augusto stentava perfino come censore a ricolmare i
vuoti fatti nel Senato dalla morte. Si vedevano – inaudita
novità! – dei giovani schermirsi dal ricevere il massimo
onore che un uomo vivente, entro i confini dell’immenso impero,
potesse ambire104. Anche per certe magistrature più numerose,
come il vigintivirato e il tribunato, non si trovavano più
candidati sufficienti ogni anno; cosicchè il Senato era
già stato costretto, durante l’assenza di Augusto, a
provvedere con dei ripieghi105. Si escludevano insomma dal governo
le classi bisognose, perchè se ne temeva la ambizione vorace
e il brutale arrivismo; ma le classi ricche rifiutavano nel tempo
stesso di sobbarcarsi all’onorifico peso delle magistrature;
cosicchè tra le une e le altre la repubblica restava in asso,
senza magistrati. La forza delle cose poteva più che le
riforme teoriche: la tradizione politica e militare della
aristocrazia romana si perdeva; i giovani si sbandavano a cercar
fuori della politica e della guerra altri impieghi delle loro
facoltà; anche i progressi della cultura contribuivano a
indebolire lo Stato. C’erano ormai troppi poeti, nelle alte classi
di Roma; e quindi scarseggiavano i grandi generali e gli
amministratori sapienti. Scribimus indocti doctique poemata passim,
dirà tra poco Orazio106. Perfino il figlio di Antonio, Julo,
che Augusto aveva allevato e che in quell’anno era pretore,
civettava con le Muse; e imitando Virgilio, componeva niente meno
che un poema epico su Diomede, in dodici libri107.
Insomma, se alcuni giovani, come Tiberio, seguivano nelle vie della
tradizione la vecchia generazione, i più inclinavano in
diversa parte. L’unità morale, in apparenza ricostituita
dalle guerre civili, si rompeva nuovamente. Spirava tra i giovani
uno spirito di facilità, di piacere, di eleganza, di
frivolezza, di novità che un giovane poeta peligno
incominciava intorno a questo tempo ad articolare in versi
leggiadri; un giovane poeta, di cui partendo da Roma Augusto aveva
forse appena udito il nome, e che ritrovava al ritorno celebre e in
voga. Era costui Publio Ovidio Nasone. Aveva trenta anni, un anno
cioè più di Tiberio, essendo nato a Sulmona nel 43 a.
C.108; discendeva da una agiata famiglia equestre109; era il figlio
di un ricco possidente peligno, un vero italico di antico stampo,
nemico delle lettere, da lui definite inutile studium110, che,
seguendo la voga tradizionalista del tempo, voleva contribuire
anch’egli alla grande restaurazione romana iniziata da Augusto.
Difatti aveva fatto studiare al figlio diritto ed eloquenza, lo
aveva maritato giovanissimo111, e intendeva avviarlo alla carriera
politica, per far di lui un magistrato e un senatore che rinforzasse
la troppo diradata aristocrazia politica di Roma. Ma il giovane
aveva pervicacemente frustrati tutti gli sforzi del padre. Dotato di
fine gusto letterario, di imaginazione mobile e viva sebbene
superficiale, di una meravigliosa agilità e facilità
d’ingegno e di una innata, quasi prodigiosa maestrìa nel
verseggiare, Ovidio non aveva studiato il diritto, ma la poesia; si
era ammogliato, ma si era affrettato a far divorzio; si era
riammogliato per fare un secondo divorzio112; era stato triumvir
capitalis113 e decemvir litibus judicandis114: ma mossi appena i
primi passi nella carriera politica, si era ribellato
all’autorità paterna, alla tradizione, alle esortazioni di
Augusto; e rinunciando senza rammarico al laticlavio, era ritornato
frettolosamente indietro in traccia delle sue Muse dilette. Aveva
infatti da poco pubblicato il primo volume di poesie, in cinque
libri, gli Amores115, in cui aveva profusa la copiosissima vena del
suo estro. Dopo la perfezione laboriosa e uniforme, la squisita
tenerezza, la nobiltà ideale di Virgilio; dopo la perfezione
laboriosissima e molteplice, la profondità filosofica, la
contradizione e l’ironia tormentosa di Orazio, una forza nuova
irrompeva con il giovane scrittore nella letteratura latina, una
forza in cui i tempi suoi si rispecchiavano, come il grande cielo
immoto si rispecchia in un corso d’acqua che fluisce fra due sponde
chiuse: il genio della facilità. Tutto – la materia e la
forma – era facile in questa poesia; nulla era sciatto e volgare.
Ovidio aveva voluto schivare così la faticosa e solenne
monotonia dell’esametro, usato da Virgilio, come la difficile
varietà dei metri oraziani; tenendosi nel mezzo alla
più semplice alterna cadenza del distico elegiaco. E
alternando esametri a pentametri, con misurata ed elegante
facilità, egli aveva trattata una materia non grave, scevra
di filosofia, di morale, di preoccupazioni politiche e sociali:
aveva, mescolando motivi convenzionali e fatti veri, ricordi
letterari e ricordi personali, descritta la vita galante delle alte
classi di Roma, intorno ad una eroina di nome Corinna, che avrebbe
dovuto essere la sua amante. Esistè davvero l’originale,
nascosto sotto il bel nome greco? Quante delle avventure raccontate
in prima persona da Ovidio sono vere, quante imaginate per finzione
letteraria? Sarebbe difficile dirlo, anche perchè le
descrizioni sono tutte così vive e briose, da illudere che
tutte siano vere. Ma vere o imaginate, il significato dell’opera non
muta; e per comprenderlo, bisogna tener presente che il libro fu
scritto, pubblicato, letto, ammirato; che fece celebre il nome
dell’autor suo pochi anni dopo che Augusto aveva fatta approvare la
lex de maritandis ordinibus e la lex de adulteriis coercendis. Con
una elegante disinvoltura, con un brio squisito, senza dirlo, il
poeta si fa beffa, da un capo all’altro, di quelle terribili leggi,
di tutte le idee e i sentimenti che le avevano preparate, del
tradizionalismo e del romanismo allora in tanto onore. Qui per
descrivere l’Amore che vince la saggezza e il pudore, egli si
compiace di parodiare la descrizione di una delle più solenni
cerimonie del militarismo romano, il trionfo dei guerrieri
vittoriosi116; altrove dice che Marte si è trasportato ai
confini, e interpretando in certo suo modo ironico la leggenda di
Enea, il soggetto del grande poema religioso di Virgilio, afferma
che, poichè Roma fu fondata da Enea, il quale era figlio di
Venere, Roma deve essere la città di Venere e dell’Amore117;
altrove fa, tra la milizia e l’amore, un impertinente confronto che
doveva far fremere di sdegno Tiberio:
Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido118.
Corteggiare le belle signore a Roma, è cosa dunque
così degna di lode come combattere sul Reno i Germani!
Ergo desidiam quicumque vocabat amorem
Desinat119.
Descrive altrove il poeta un incontro con la sua amante ad un
pranzo, dove essa viene con il marito120; racconta con molta
franchezza un convegno d’amore in un caldo pomeriggio di estate, dal
momento in cui Corinna entra furtiva nella stanza semioscura sino al
momento in cui lassi requievimus ambo121; si dispera per aver dato
alla sua bella in un momento di ira uno schiaffo122; enumera i
tormenti di una lunga e inutile attesa, di notte, alle porte della
amata123; protesta a più riprese virulentemente contro le
belle signore, il cui cuore non batte gratuitamente124; o si perde
in voluttuose descrizioni dei capelli della sua bella125. Di non
aver ambito “i polverulenti guiderdoni” della milizia, di non aver
studiato il diritto, per cercare invece la gloria immortale dei
Carmi, apertamente si vanta il poeta, affermando che la gloria dei
Carmi è più nobile e duratura che tutte le altre126;
ma confessa che la poesia epica, che il genere di Virgilio è
carico troppo grave per le sue membra; che egli preferisce poetar
d’amore127. “Non voglio – egli esclama – scusare i miei dissoluti
costumi.... Io confesso128”. “Cingete la mia fronte, lauri
trionfali. Ho vinto! Ecco stringo tra le mie braccia quella Corinna,
che tanti nemici, un marito, un guardiano, una solida porta
custodivano....129”. E la lex Julia de adulteriis? Il poeta se ne
cura sì poco che probabilmente, sotto il pretesto di
pigliarsela contro un marito troppo geloso, il poeta osava scrivere
una coperta invettiva contro la legge. Legga il lettore la elegia
quarta del libro terzo, e giudichi se, tra le discussioni sui
vantaggi e gli inconvenienti della lex de adulteriis di cui erano
cagione gli scandalosi processi, i contemporanei non dovevano
intendere il marito che vuol costringere la moglie ad esser fedele
come una personificazione della terribile legge. Scherza così
la fantasia del poeta con vive, colorite, briose descrizioni, che
noi leggiamo sorridendo e non senza diletto anche oggi;
senonchè nel tempo in cui le poesie furono composte, ognuno
di questi scherzi era un reato. L’adulterio, di cui Ovidio scriveva
con tanto brio il poema galante, avrebbe dovuto esser punito con
l’esilio e la confisca; onde l’opera sua era un saggio audace di
letteratura sovversiva, che minava la restaurazione dello Stato
intrapresa da Augusto.
Eppure Ovidio aveva scritto il poema e l’alta società
l’ammirava: luminosa conferma del fatto già intravisto nelle
pagine di Dione; e cioè che lo spirito pubblico inclinava ora
all’indulgenza e alla tolleranza. Se il partito dei tradizionalisti
avesse tenuto il campo, come negli anni precedenti, Ovidio non
avrebbe osato scrivere quel libro, subito dopo la promulgazione
delle leggi e quasi a loro commento; e gli altri non avrebbero osato
ammirarlo. Ovidio invece era ricevuto in quasi tutte le grandi case
di Roma: in quella di Messala Corvino, che lo incoraggiava agli
studi130; in quella dei Fabi131; in quella dei Pomponi132: è
difficile dire se già fosse ammesso nella casa di Augusto.
Appariva insomma per molti segni che la aristocrazia romana, dopo
essere miracolosamente scampata nelle guerre civili allo sterminio
totale, quando avrebbe avuto mezzo di ritirarsi su dalla rovina in
cui era caduta, di rifarsi e di ricostituirsi, inclinava invece a
lasciarsi morire, per una specie di lento suicidio, nell’indolenza,
nell’intellettualismo, nella voluttà. Ovidio personificava
queste tre forze, che ricominciavano ad agire nella nuova
generazione, a mano a mano che l’impressione delle guerre civili
svaniva dai tempi pacificati, che gli influssi egiziani acquistavano
forza. Ma di fronte a questa dissoluzione ricominciante, Augusto non
poteva non sentire l’urgenza di por mano a qualche rimedio
più efficace e più vitale, che le leggi e i discorsi.
A un romano, il cui spirito era pieno di idee tradizionali, nessun
rimedio doveva parere più efficace, che una ripresa della
politica di espansione. La aristocrazia romana aveva naturalmente
conservate tutte le qualità intellettuali e morali, che si
tentava ora di ravvivare artificialmente, sinchè aveva avuto
per le mani un compito, la espansione diplomatica e militare, in cui
adoperarle. Chiusa nelle sue tradizioni come in una armatura di
guerra, essa aveva resistito a tutte le forze innovatrici e
dissolvitrici, sinchè aveva dovuto guerreggiare. Ma
l’armatura si sfasciava sul suo corpo e le cascava di dosso, ora che
non era più necessaria. La pace definitiva, la fine
dell’espansione, rendendole inutili, atrofizzavano le energie
storiche della nobiltà. Quindi ora che, riconciliati in una
certa misura gli ordini sociali, restaurate alla meglio le finanze,
Roma poteva avventurarsi di nuovo in imprese difficili, conveniva
intraprenderle, oltre che per consolidare e ingrandire l’impero, per
disciplina interiore. Augusto insomma, dopo quindici anni di pace,
si convertiva, come oggi diremmo, in un militarista; un militarista
temperato e ragionevole, naturalmente, come egli soleva essere in
ogni cosa. Tra le cagioni per cui la aristocrazia si accasciava
neghittosa nella voluttà c’era la pace, che le toglieva ogni
occasione di compiere grandi cose; occorreva dunque aprirle nuovi
campi di azione e di gloria, affinchè i giovani imparassero a
combattere guerre e non solo a comporre poemi, a espugnare
città e non solo a edificare ville sul mare. Le campagne di
Germania sarebbero una cura eccellente della mollezza che snervava
la nuova generazione; il più efficace antidoto contro il
veleno erotico, che Ovidio diffondeva nella giovane nobiltà
con la sua poesia. Non si dimentichi mai che alla fine delle guerre
civili era stato necessario procedere a una restaurazione
aristocratica dello Stato, sopratutto perchè la costituzione
aristocratica faceva parte integrante dell’ordinamento militare. Per
durare, l’impero aveva bisogno di un esercito; e dove, se non
nell’aristocrazia, si potevano cercare gli ufficiali e i generali?
La scuola di guerra dove questi si preparavano, mancando istituti di
istruzione militare, era la famiglia aristocratica: se la
aristocrazia si esauriva, l’esercito sarebbe decapitato. Non
è strano quindi che Augusto, incaricato dall’Italia di
conservare la vecchia nobiltà come il massimo presidio
militare dell’impero, si sia detto, a un certo punto, che la pace
alla fine la impoltrirebbe troppo, che per conservarla capace del
suo ufficio storico bisognava anche farla combattere, sopratutto
quando i molti poeti, come Ovidio, la invitavano all’amore e alla
voluttà.
Difatti, non appena fu giunto in Roma, Augusto si diè, tra
minori faccende, a preparare nel tempo stesso la invasione della
Germania e a combattere vigorosamente la incipiente nuova
dissoluzione della costituzione aristocratica. Incominciò a
dare un esempio di ossequio alla costituzione, rendendo conto
minutamente al Senato di quanto aveva fatto durante la assenza133.
Poi propose – non è ben chiaro se al Senato o ai comizi – una
riforma militare, con cui soddisfaceva parecchie richieste dei
soldati, per animare le legioni alle nuove imminenti fatiche. La
legge precisava alcune delle principali condizioni del servizio, che
regolate sino ad allora da consuetudini troppo incerte, avevano
lasciato arbitro il governo di abusare degli anni e delle fatiche
dei soldati a piacere: in special modo il tempo del servizio, che
era definitivamente stabilito a 16 anni per i legionari, a 12 per i
pretoriani; e il premio del congedo, che era stabilito per gli uni e
per gli altri in una somma di denaro (non in terre), a noi
sconosciuta134. Inaugurò finalmente il teatro incominciato da
Cesare, a cui, in memoria del nipote, diede il nome di teatro di
Marcello135; ma se con questo pietoso ricordo volle lenire alquanto
il dolore della inconsolabile Ottavia, con un altro atto
significò di non gradire che l’ammirazione per lui si
allargasse anche ai membri della sua famiglia, solo perchè
tali, come nelle dinastie asiatiche. Tiberio, nei giuochi dati al
popolo per il suo ritorno, aveva fatto sedere accanto a sè,
nel luogo riserbato al console. Caio, il figlio di Agrippa e di
Giulia adottato da Augusto, che aveva sette anni; e tutto il popolo
era sorto in piedi, acclamando con grandissimi applausi. Augusto
pubblicamente biasimò Tiberio ed il pubblico136. Non
cercò di combattere l’indulgenza dell’opinione pubblica verso
gli adulteri, che risparmiava molti scandali e non pochi castighi
troppo severi137, perchè egli stesso aveva proposta la lex de
adulteriis a malincuore e quasi per forza. Procedè invece a
curare con vigore la senile decadenza del Senato, ricorrendo a un
rimedio così aspro come il reclutamento forzoso. Riprese le
liste dei cavalieri; scelse i giovani che avessero meno di
trentacinque anni; ordinò minuziose ricerche sullo stato
della loro salute e della loro fortuna, sulla loro capacità e
rettitudine, visitandone egli stesso il corpo, raccogliendo
testimonianze sulla loro vita e domandando a ciascuno di confermare
o di smentire con giuramento le risultanze dell’inchiesta: quelli
che gli parvero possedere la salute, la fortuna, la
rispettabilità, l’intelligenza necessarie “obbligò a
entrare in Senato” – dice lo storico antico138 – probabilmente
minacciando di scacciarli anche dall’ordine equestre, se non
accettavano. Così procedeva l’uomo a cui gli storici tutti
attribuiscono il segreto disegno di voler fondare una monarchia!
Allorchè egli aveva soltanto a incrociare le braccia e
lasciare aristocrazia e Senato decomporsi da sè, per trovarsi
un giorno signore, con la sua famiglia, di Roma, dell’Italia e
dell’impero; egli si affaticava invece con tutti i mezzi a
rinvigorire la aristocrazia estenuata, a puntellare il Senato
cadente; quella aristocrazia e quel Senato, che dovevano essere
allora, come sempre, il principale impedimento alla fondazione di
una monarchia! Ma Augusto, come tutti i contemporanei, non riusciva
nemmeno ad immaginare l’impero decapitato del suo glorioso Senato,
orbato della sua grande aristocrazia. Infine, dopochè Agrippa
ebbe fatto ritorno, preparò con lui un piano della guerra
molto ingegnoso e originale, il cui primo pensiero, probabilmente,
apparteneva ad Agrippa: invadere la Germania per le foci dell’Ems e
del Weser. Se una invasione della Germania era difficile sopratutto
per la mancanza delle vie; se le vie mancando era necessario
suddividere i corpi e quindi esporsi alle sorprese e alle imboscate,
i grandi fiumi offrivano invece altrettante vie larghe, comode,
magnifiche, per le quali grossi eserciti avrebbero potuto penetrar
tranquillamente e sicuramente sin nel cuore del territorio nemico,
portandosi dietro ogni cosa necessaria – carichi d’armi, provviste
di grano139 – Occorreva soltanto costruire un numero di battelli che
bastasse. Uscendo per il mare del Nord, due eserciti avrebbero
potuto cercare le foci dei due fiumi risalirle, e, giunti nel cuore
del territorio nemico comodamente costruire, sull’Ems e sul Weser
due accampamenti, dai quali incominciare la conquista dell’interno,
nel tempo stesso in cui un corpo passerebbe il Reno dirigendosi
verso l’Ems: così avanzando ciascuno a poco a poco, i corpi
discesi sull’Ems si sarebbero alla fine incontrati con quelli venuti
dal Reno e dal Weser; e avrebbero potuto congiungere con larghe
strade munite di castelli il Reno all’Ems, l’Ems al Weser, forse
anche il Weser all’Elba; avvolgere intorno al corpo barbaro della
Germania la catena di ferro, che l’avrebbe stretta poi per sempre in
potere di Roma. Senonchè se, adottando questo piano, non si
avventuravano i grossi eserciti troppo a caso in regioni
sconosciute, si arrischiavano invece – pericolo meno grave ma non
trascurabile – le leggere navi romane sul lungo tratto del
tempestoso oceano che va dalle foci del Reno alle foci dell’Ems e
del Weser. Per scemar questo pericolo, sembra si pensasse di scavare
un breve canale tra il Reno e l’Issel, in modo che dal Reno la
flotta romana potesse per questo canale e per l’Issel piegare nello
Zuidersee e sboccar nel mare del Nord per il fiume, che allora
faceva comunicare quel lago con il mare. Druso ebbe ordine di
preparare una flotta e di far scavare dalle legioni il canale.
IV.
“HAEC EST ITALIA DIIS SACRA”.
Augusto impegnava la aristocrazia romana, rinforzata di nuove
famiglie, rinsanguata di nuovi patrimonî, ritemprata dallo
studio del passato, in una grande impresa diplomatica e militare,
simile a quelle tentate con tanta fortuna nei secoli precedenti.
Quanta storia dipendeva da questa impresa! La aristocrazia romana
aveva per secoli accresciuto il prestigio, le ricchezze, la potenza
con la abile diplomazia e con le guerre fortunate, che avevano
asserviti, sfruttati, distrutti tanti regni e tanti Stati. Per
secoli aveva dominata Roma, l’Italia, il bacino mediterraneo,
dilatando i confini dell’impero, con una politica sempre, se non
savia, almen fortunata. Sarebbe essa ancora capace di far della
Gallia e della Germania una nuova colonna del suo potere, un nuovo
strumento di gloria e di forza, come già della Macedonia,
dell’Asia Minore, della Siria e delle altre grandi provincie? La
prova novella che incominciava sarebbe decisiva; perchè di
fronte alla aristocrazia che era l’organo della espansione
continuata, si ringagliardiva rapidamente in Italia un’altra classe,
che tendeva invece all’elaborazione interiore, a riordinare
cioè, a sfruttare, a riplasmare in nuove forme l’impero
conquistato, con tutte le forze con cui l’uomo agisce sulla materia
e sullo spirito: dal commercio alla religione, dalla industria
all’amministrazione. La classe media dei possidenti, dei mercanti,
degli intellettuali, che si formava da un secolo in Italia tra tante
crisi, compieva definitivamente da un capo all’altro della penisola
il moto incominciato al tempo dei Gracchi, e cresceva da quindici
anni rapidamente di numero, di cultura, di ricchezza; da ogni parte
scaturivano idee, sentimenti, interessi, che l’aristocrazia non
riusciva più a incanalare o ad arginare a suo talento. La
aristocrazia riesciva ancora, e grazie alla larga protezione di cui
Augusto, Mecenate, Agrippa avevano dato l’esempio, a signoreggiare
l’intellettualità ornamentale, la poesia, la storia, la
filosofia. Tra i giovani appartenenti a famiglie di modesta fortuna,
che avevano studiato durante la rivoluzione e che volevano
esercitare la professione di scrittore o di filosofo, nessuno
sentiva più gli scrupoli che Orazio si era industriato di
combattere nelle sue epistole; anzi il numero di coloro che
aspiravano alla protezione di Augusto o di qualche grande
personaggio cresceva anche troppo; cosicchè non solo Augusto,
ma tutti i ricchi signori i quali potevano ospitare e nutrire
letterati ed eruditi si trasfiguravano agli occhi della
intellettualità povera in semidei degni quasi di venerazione
religiosa140. Augusto anzi diventava senza volere l’arbitro delle
lettere, perchè tutti, solleciti di ingraziarselo, cercavano
di indovinare i suoi gusti e di scrivere le cose che più gli
sarebbero piaciute. Per esempio: siccome Augusto era sempre fisso
nel pensiero di creare un teatro nazionale, scrivevano tutti dei
drammi o studiavano l’estetica della tragedia e della commedia141.
Senonchè se la lirica e la dramatica, che servono poco a
dominare, restavano in piena balìa della nobiltà, due
altri studî, ben più importanti come strumenti di
dominazione, cadevano, in parte almeno, in potere degli
intellettuali del medio ceto, che li rinnovavano e se ne servivano
in parte contro la aristocrazia: l’eloquenza e la giurisprudenza.
Augusto aveva rinnovata, come dicemmo, la lex Cintia, che era una
delle leggi fondamentali del regime aristocratico; perchè,
togliendo i compensi ai patroni forensi, faceva dell’assistenza
legale un dovere civico e un monopolio delle classi ricche, uccideva
nel germe il ceto degli avvocati di mestiere, viventi nelle classi
medie di bugie e di cavilli, che sarebbe poi diventata una peste
esiziale dell’ordine sociale. Senonchè il numero delle
controversie cresceva come la farragine delle leggi, mentre la
nobiltà si diradava ed era distratta da molte occupazioni;
per difendere cause o per respondere, cavere, scribere (eran questi
gli uffici del giurista) non bastava più, come in antico,
conoscere quattro regolette di giure, erano ormai necessari studi
lunghi e non facili, una preparazione faticosa e speciale; molti
giovani imitavano Ovidio, e si davano a studi più geniali che
la giurisprudenza142. Insomma la aristocrazia romana che,
così stanca, doveva governare il mondo, non poteva anche
studiare, discutere e giudicare tutti i processi d’Italia.
Perciò molti erano costretti a servirsi degli avvocati di
mestiere, che peroravano le cause per denaro e che la lex Cintia non
riusciva a sradicare dall’Italia, perchè ogni litigante alle
prese con un processo preferiva avere un avvocato mercenario, che
restar privo di un patrono disinteressato143. C’era inoltre un
inconveniente diverso ma non meno grave. Augusto andava tanto
innanzi alla nobiltà tutta per fama, per ricchezza e
prestigio, che un infinito numero di persone si rivolgevano a lui,
sia per i consulti, sia per l’assistenza legale: tutti i suoi
veterani, tutti i suoi coloni, tutti coloro i quali, avendone messa
l’imagine tra gli dèi lari, credevano di aver diritto di
ricorrere a lui per ogni cosa, come alla provvidenza universale.
Augusto, che non poteva bastare a tante richieste, che non voleva
aver l’aria di usurpare uno dei privilegi più antichi della
nobiltà, che non era così versato nel diritto da poter
rispondere a tutte le domande rivoltegli, aveva imaginato un
compromesso ingegnoso, incaricando un certo numero di giuristi
provetti – senatori verisimilmente – di respondere o dare parere in
sua vece, a quanti si rivolgerebbero a lui per una questione di
diritto144. Cosicchè tra gli avvocati di professione e
l’autorità soverchiante di Augusto, l’aristocrazia,
già svogliata e distratta, lasciava sgusciarsi di mano anche
questo potente arnese di dominazione. Senza dubbio essa numerava
ancora nelle sue fila dei grandi giuristi e dei grandi oratori: tra
i giuristi, il maggior lume di scienza e di rettitudine del tempo,
Marco Antistio Labeone; tra gli oratori, parecchie delle più
copiose ed eleganti facondie; oltre Messala e Asinio Pollione,
già anziani, Lucio Arrunzio, Quinto Aterio, Paolo Fabio
Massimo, che si preparava a concorrere al consolato per l’anno 11; i
due figli di Messala, che seguivano le orme del padre; Tiberio
stesso. Ma Labeone, se era il più integro, il più
sapiente, il più rispettato tra i giuristi del tempo suo, non
era il più influente. Troppo rigido, troppo fermo nei suoi
principî classicamente aristocratici, egli si ostinava a non
riconoscere il nuovo indirizzo troppo rivoluzionario della
legislazione di Augusto, sino a rifiutar di porre, non ostante le
sollecitazioni del princeps, la candidatura al Consolato145; amava
più la scienza pura e gli studî che la assistenza
pratica dei clienti, passando persino sei mesi all’anno in
campagna146, a comporre quella insigne biblioteca giuridica di
più che 400 opere, che doveva eternare il suo nome147.
Cosicchè per ogni questione di diritto, come già per
la compilazione delle leggi sociali, Augusto non si consultava con
lui, ma con Ateio Capitone, quel figlio di un centurione di Silla
che, pur meno dotto e meno insigne di Labeone, cercava di adattare
la tradizione alle necessità dei tempi. Insomma il rispetto e
il potere si dividevano, come avviene sempre quando una aristocrazia
si indebolisce; e il giureconsulto della nobiltà si pigliava
il rispetto, quello della borghesia il potere. Nel fôro invece
la nuova e rigorosa applicazione della lex Cintia obbligava,
sì, la nobiltà a difendere gratuitamente in tribunale
la classe media e povera; ma non assicurava più ai grandi
quello che doveva essere il compenso maggiore del patrocinio
gratuito: il privilegio di accusarsi e difendersi soltanto e sempre
tra pari. Parte per sfogare i rancori e le invidie fermentate dalle
loro discordie, parte per ridare davvero un po’ di forza alle leggi,
le classi alte avevano troppo incoraggiate, nel quindicennio
precedente, le accuse contro i loro membri; ed ormai pullulavano
dalle classi medie gli oscuri e ambiziosi arrivisti, che con arte
oratoria nuova ritorcevano contro la nobiltà, facendone arma
di persecuzione, il principio della eguaglianza di tutti innanzi
alla legge. Il creatore e il maestro di questa nuova eloquenza era
un certo Cassio Severo, che intorno a questo tempo aveva poco
più di trenta anni148. Di bassa origine149, intelligente,
eloquente, ambiziosissimo, egli aveva pensato, poichè non
potrebbe guadagnare denaro difendendo gratis i poveri, di
guadagnarne accusando i ricchi, facendosi pagare per desistere o
prendendo, secondo la legge, la parte dei beni dei condannati, che
spettava all’accusatore150. Ogni qualvolta c’era da sostenere una
clamorosa e scandalosa accusa contro un ricco per la lex de
adulteriis per altra legge – una di quelle accuse, a cui si
rifiutavano di solito i grandi oratori della nobiltà, per
amicizia, per riguardo, per decenza, egli pronto l’assumeva; e fosse
seria o fantastica, avesse fondamento di verità o nascesse da
chiacchiere sciocche, egli la sosteneva con eguale furore,
sfruttando senza scrupolo i rancori e i pregiudizî della
classe media contro l’aristocrazia151. Roma, avvezza a veder fluire
i limpidi ruscelli della classica oratoria aristocratica –
atticamente lucida, precisa, ragionatrice, non di rado anzi troppo
fredda – non aveva ancora visto prorompere dal suo suolo antico un
tal torrente di fango vulcanico, denso, giallo, bollente e
solforoso152. Ai documenti Cassio aveva sostituite le ingiurie ed i
lazzi, al ragionamento le invenzioni strampalate, le calunnie
inverosimili, le descrizioni, le tirate, il disordine dei
particolari impressionanti: tutto ciò che può
sbalordire le menti grosse cui il ragionare è difficile153.
Immaginate oggi il contrasto tra il giornale serio, bene scritto,
che ragiona, che non ingiuria, che non conta favole, che non fa
scandali, e l’ignobile giornalaccio che con gli scandali, i
titoloni, le clamorose menzogne lusinga e sfrutta le più
basse passioni delle classi più numerose, per raccattare i
soldi nel fango.... Eppure – segno terribile di debolezza – la
aristocrazia, in apparenza signora dell’impero, del Senato, delle
magistrature, non aveva saputo ammazzare questo cane rabbioso: tutti
lo temevano, molti cercavano di imitarne il latrato, e gli accusati
da lui non trovavan facilmente tra gli amici chi volesse o sapesse
tenere testa al terribile ricattatore. Pur troppo la turpe eloquenza
di Cassio soddisfaceva a un bisogno delle masse: e precisamente
leniva quel malanimo, nascente dal sospettare continuo che la
nobiltà facesse sempre piegar la bilancia della giustizia
dalla sua parte, non con la forza delle ragioni, ma con il
privilegio della grandezza. Questo sospetto intimidiva e sgomentava
tanto quella aristocrazia infiacchita, che, pur di non aver troppe
noie e brighe, molti preferivano di immolare ogni tanto al
risentimento popolare qualche membro della propria classe. Cassio
Severo non era forse un grande oratore? Ammirando l’oratore, molti
si scusavano con sè medesimi di tollerare il furfante. Cassio
Severo insomma intimidiva tutti, persino Augusto, che si trovava
spesso impacciato assai da quel sospetto pubblico, sopratutto nei
processi clamorosi: perchè rifiutando l’assistenza legale ai
suoi amici avrebbe mancato ad un sacro dovere; concedendola, mutava
troppo, a vantaggio della parte da lui difesa, le condizioni del
duello giudiziario. L’intervento di Augusto come patrono di una
parte, nelle cause, prendeva facilmente colore di sopraffazione ad
un pubblico educato da Cassio Severo, che voleva ogni tanto
condannato qualche uomo illustre, anche se innocente, per compensare
i molti, assolti rei. Onde la necessità di mille ripieghi,
per schermirsi154.
Anche la eloquenza di Cassio Severo è una prova del crescente
infiacchimento della aristocrazia romana. Una aristocrazia forte non
si sarebbe lasciata vituperare a quel modo. Discorde, neghittosa,
troppo letterata, più amante del comodo proprio che gelosa
del suo prestigio, questa nobiltà non osava invece affrontare
in Roma, nella sede antica della sua potenza e della sua gloria,
Cassio Severo. Tanto più urgeva dunque che essa cercasse di
attingere forza e prestigio in una grande impresa di diplomazia e di
guerra, per opporsi alla classe nuova che sospingeva innanzi Cassio
Severo; a quel ceto medio di agiati possidenti e mercanti, che da un
secolo mendicava o rubava le terre dei grandi possidenti e dello
Stato, saccheggiava templi e tesori in ogni parte dell’impero,
coltivava, studiava, commerciava, faceva a volta a volta delle
guerre e delle rivoluzioni; e che allora incominciava a raccogliere
i primi frutti di tante fatiche e pericoli. La grave
difficoltà che aveva tormentati gli agronomi, i politici, gli
economisti della generazione precedente, che aveva affaticata negli
ultimi anni e tra le rovine della rivoluzione la austera mente di
Varrone; la difficoltà di far vivere largamente in ogni
città una numerosa borghesia su proprietà di media
grandezza, coltivate da coloni e da schiavi; la difficoltà di
ristabilire in queste famiglie una più costante proporzione
tra le spese e i guadagni, tra il prezzo delle derrate e il costo
della coltivazione, si appianava alla fine, parte per l’opera
avveduta degli uomini, parte da sè, per la coincidenza di
favorevoli circostanze impreviste. Non dappertutto in egual misura,
senza dubbio. Anche allora, della nuova età felice godeva
più che ogni altra regione l’Italia del Nord, la valle del Po
tra l’Appennino e l’Adriatico, la ancor selvaggia Liguria non
compresa. Erano passati due secoli dai tempi in cui il primo grande
capo del partito democratico, Caio Flaminio, aveva sospinta la
aristocrazia riluttante verso la grande pianura che si stendeva ai
piedi della sublime cerchia delle Alpi, ubertosa di terre fresche,
fitta di immense foreste di querci, stagnante di vaste paludi,
bagnata di bei laghi, popolata di villaggi celtici, corsa dai rapidi
fiumi che rotolavano nelle sabbie l’oro delle Alpi, traversata dal
grande fiume che ai Romani di allora, avvezzi ai piccoli corsi
d’acqua dell’Italia centrale, doveva parere un prodigio. Due secoli
dopo, se tutte le paludi non erano ancora prosciugate155, se vaste
selve coprivano ancora una parte della sua superficie156, i villaggi
celti e liguri erano dappertutto spariti nella pianura; restavano
soltanto i nomi dei luoghi e dei popoli, come un ricordo; e tutta la
valle era tempestata da un capo all’altro di minuscole Rome. Una
piccola anima latina pulsava in ciascuna: mirabile trasfusione di
lingue, di costumi, di idee, di istituzioni, che Roma aveva compiuta
con le guerre, con le rivoluzioni, con le deduzioni di colonie, con
la concessione della latinità prima, della cittadinanza poi,
stimolando le classi agiate, mano mano che acquistavan ricchezza, a
detergere la rusticità indigena, ad assumere nomi e costumi
latini, a imparare la lingua di Roma con l’emulazione di entrare a
far parte del piccolo Senato municipale, a occupare, per elezione
del popolo, le cariche della città, a divenir questori,
edili, duumviri o quatuorviri. Cosicchè la trasfusione di
Roma nella valle Padana per il veicolo della Lex Pompeia del 89 e
della grande legge municipale di Cesare era avvenuta, perchè
già da un secolo la naturale evoluzione economica della
regione provvedeva la materia, in cui plasmare questi piccoli senati
municipali: una borghesia di possidenti abbastanza agiata,
abbastanza colta, abbastanza numerosa e volonterosa, da assumersi
gli onorifici carichi delle istituzioni municipali. Ma la pace da
quindici anni accelerava la fortuna di questa classe, tutte le cause
fattrici della prosperità concorrendo ormai nella grande
vallata. Non era questa soltanto fertile, ma acconcia a tutte le
culture; e nella pianura aveva pingui pascoli, vaste foreste,
magnifici campi di grano; e nelle colline e nelle prealpi poteva
coltivare tutte le piante arborescenti, dalla vite ai frutti157: ma
era solcata in ogni parte da fiumi navigabili – il Po e gli
affluenti – per i quali poteva comunicar facilmente con il mare,
cioè con il mondo, in quei tempi in cui i trasporti per terra
erano così dispendiosi e così lenti158; non aveva a
temere le carestie, così funeste nel mondo antico alla
prosperità delle regioni, perchè poteva nutrire con un
cereale inferiore, ma di raccolto ogni anno sicuro e abbondante, il
miglio159, che era il grano turco del tempo antico, una popolazione
relativamente densa160 di contadini liberi, di coloni che
coltivavano i piccoli poderi proprî o affittavano i terreni
dei proprietari maggiori161; una popolazione abbastanza feconda, che
possedeva tutte le qualità del Celto, cioè della razza
più viva e più duttile di Europa: il valor militare,
lo spirito di ardimento, la laboriosità,
l’ingegnosità, le attitudini all’industria. Perciò
come Cesare e i triumviri avevano trovati tra i Celti già
quasi latinizzati della valle del Po i soldati per la guerra di
Gallia e per le guerre civili, così ora all’agricoltura e
all’industria non scarseggiavano le braccia per coltivare nuove
terre, per introdurre nuove arti o perfezionare le antiche. C’era
infine un certo capitale. Molti dei metalli preziosi rubati in ogni
parte dell’impero durante le guerre civili erano stati trasportati
nella valle del Po, sia dai molti Cisalpini partiti poveri per la
guerra, e ritornati in patria dopo molti anni con il bottino
predato; sia dai veterani delle altre regioni cui erano state
distribuite le terre della valle del Po. Ormai, a venti anni di
distanza dalla battaglia di Azio, molti di questi capitali erano
ritornati nella circolazione, provvedendo a tutta la valle mezzi
sufficienti di scambio, rincarando il valore di tutte le cose
venali. Fu forse in uno dei viaggi fatti in questi anni, che ad
Augusto capitò di essere invitato a pranzo in Bologna da un
veterano di Antonio, il quale aveva fatta la campagna di Armenia.
Chiacchierando durante il pranzo su i ricordi degli anni tempestosi,
venne fatto ad Augusto di domandare al vecchio soldato se fosse vera
certa diceria che correva: il soldato, che nel grande saccheggio del
tempio della dea Anaitide aveva messe per primo le mani sul
simulacro d’oro della dea, essere in quell’istante medesimo
acciecato. Il veterano sorrise: l’audace sacrilego era proprio lui,
l’ospite! Anzi egli aggiunse che Augusto stava allora “mangiando la
coscia della dea”. Il soldato aveva arraffata una gamba d’oro
massiccio del simulacro infranto; l’aveva portata in Italia e
venduta, comprando poi la casa di Bologna, probabilmente delle terre
e degli schiavi, e vivendo precipuamente sui redditi di quel piccolo
patrimonio162. Chi sa quanti altri veterani erano tornati dalle
guerre d’Oriente, se non tutti con una gamba così divina, con
oro rubato qua e là, di cui a poco a poco avevano spesa la
maggior parte nella valle del Po! E pur dopo la fine delle guerre
civili, l’oro affluiva nella valle fortunata da nuove fonti, per
altri rivi. Le guerre che Augusto aveva fatte nelle Alpi o al di
là delle Alpi negli anni precedenti, la guerra che egli
preparava contro la Germania lo obbligavano a seminare nella valle
del Po il denaro faticosamente estorto a tutto l’impero: la
costruzione delle grandi strade attraverso le Alpi, il via vai delle
legioni o la loro lunga permanenza nella valle del Po, le larghe
forniture di guerra aumentavano e alimenterebbero il commercio delle
campagne e delle città cisalpine. Così la guerra
combattuta ai suoi confini era per la valle del Po una florida
industria. Queste guerre inoltre e le grandi catture di uomini che
ne erano l’effetto, accrescevano il numero e facevano rinvilire il
prezzo degli schiavi sopratutto nella valle del Po, più
vicina delle altre regioni ai campi di battaglia. La valle del Po
infine, posta in mezzo tra l’Italia Centrale da un lato, la Gallia e
le provincie Danubiane dall’altro, poteva con egual comodo portar le
sue mercanzie così nelle barbare provincie europee come a
Roma.
Concorrevano insomma nella valle del Po tutte le condizioni di un
rapido e felice progresso: la terra fertile, le facili
comunicazioni, i capitali copiosi, la popolazione densa, alacre,
intelligente. Rapidamente infatti la classe media perfezionava le
colture e le industrie vecchie e ne introduceva di nuove, allargava
i vecchi commerci e ne avviava dei nuovi. Le lane più
pregiate in Italia erano ancora quelle di Mileto, della Puglia e
della Calabria: ma i possidenti della Cisalpina, incrociando e
migliorando le razze, già lavoravano a conquistare il primato
con le lane di Aitino, con le lane bianche di Parma e di Modena e
con le nere di Pollenzo163. Nelle Alpi conquistate di recente e
nell’Appennino ligure, come nei dintorni di Ceva, si cercava di
fabbricare dei formaggi, che si potessero esportare anche a Roma164.
Dappertutto si piantavano largamente gli alberi da frutta importati
dall’Oriente nei decenni precedenti, come il ciliegio di Lucullo165;
e par che nella valle del Po si facessero i primi tentativi per
acclimatare in Italia il pesco, che probabilmente i veterani di
Antonio avevano portato dall’Armenia166. Dappertutto la Cisalpina
incominciava nel tempo stesso a ingrassare i porci per nutrire Roma
e a fare il vino per inebriare i barbari delle regioni danubiane.
Crescendo la ricchezza, cresceva a Roma la ricerca dei porci, di cui
precipuamente nel mondo antico si nutriva la plebe; onde se ne
facevano venir molti dalla valle del Po, dove c’erano meravigliose,
secolari foreste di quercie, capaci di nutrire immense mandre.
L’arricchimento di Roma dava incremento anche a questo ramo della
agricoltura167. La valle del Po faceva già le più
copiose vendemmie d’Italia, aveva i più ricchi mercanti di
vino e le botti più voluminose, passate addirittura in
proverbio per la smisurata grandezza168. Vino dozzinale e poco
famoso, senza dubbio, che era venduto ai barbari delle provincie
Danubiane, per la via di Aquileia e di Nauporto: portato in botti
per il Po e l’Adriatico ad Aquileia; da Aquileia su carri a
Nauporto; da Nauporto per la Sava al Danubio169. Tuttavia anche
certi vini dell’Italia del Nord incominciavano a essere ammessi
nelle tavole dei ricchi romani, accanto ai famosi vini della Grecia
e dell’Italia meridionale. Livia, per esempio, non beveva che un
certo vino dell’Istria170. Un’altra fortuna della Cisalpina era il
legno di cui, sviluppandosi la navigazione e ampliandosi le
città, cresceva la ricerca. Dalle valli alpine gli abeti
recisi discendevano per i fiumi lentamente sino al Po, e per il Po
prima, poi per il Canale che probabilmente Augusto aveva già
fatto scavare, la fossa Augusta, sino a Ravenna, donde erano poi
spediti sulle navi in ogni parte, e anche a Roma171. L’ulivo
arricchiva specialmente certe regioni, come l’Istria172. Anche il
lino era molto coltivato e con grande profitto173. Vecchie
industrie, come il ferro a Como174 e la lana a Padova175,
rinvigorite, rinnovate, allargavano la loro clientela, specialmente
a Roma, dove Padova vendeva in gran numero tappeti e mantelli176;
altre da piccoli principî rapidamente crescevano, come la
ceramica. Pare che nel Polesine si impiantasse una fornace, quella
degli Atimeti, le cui lucerne erano vendute anche a Pompei e ad
Ercolano177; ad Asti e a Pollenzo178 si fabbricavano dei calici, che
un giorno diventerebbero famosi; la fabbrica di Acone, che sembra
essere stata nella valle del Po, esportava le sue eleganti ceramiche
grigie e giallastre nella Gallia transalpina e nelle provincie
Danubiane179; quella di Gn. Ateio nella Gallia Narbonese e nella
Transalpina. Ma non è ben sicuro che questa fosse una
fabbrica cisalpina180.
Infine le città poste lungo la via Emilia, Torino a sommo del
Po navigabile, Ticino, la moderna Pavia, e Verona traevano lucri
crescenti dal via vai del commercio: più di tutte Aquileia, a
cui faceva capo tutto il commercio con le regioni Danubiane181.
Imprese, miglioramenti, commerci che si potevano tentare con piccoli
capitali; e i cui lucri cospicui accrescevano l’agiatezza della
borghesia media in tutta la Cisalpina. Invece nell’Italia centrale
la terra meno fertile, il suolo più montuoso, i fiumi
più piccoli e meno facilmente navigabili, la popolazione meno
densa e meno abile, il maggior pericolo delle carestie, la
lontananza dalle grandi provincie barbare, la concorrenza della
Valle del Po sul mercato di Roma erano solo in parte compensate
dalla maggior vicinanza della metropoli. La grande possidenza
assenteista era qui più considerevole, meno prospera e meno
numerosa la classe media. Troppo fuori di mano182, il Piceno viveva
sopratutto sui frutti del territorio ferace183. Dai boschi traeva
guadagni considerevoli l’Etruria184, come dalle famose miniere di
ferro dell’Elba185 e dalle fabbriche di ceramiche aretine, antiche
di secoli. La conquista della Gallia aveva loro procurati nuovi
clienti, i ricchi signori Galli desiderosi di romanizzare perfino la
suppellettile domestica186. Anche le cave di marmo nei monti sopra
Luni – le cave di Carrara – ricominciavano ad essere sfruttate,
perchè Roma e le altre città d’Italia cercavano marmo,
e quello di Luni, lucido e bello come il marmo greco, era meno
lontano e per la vicinanza del mare poteva esser facilmente portato
via187. Ma poi, a mano a mano che si scendeva verso l’Italia
meridionale, i grandi boschi, i grandi pascoli, i grandi armenti
posseduti da pochi milionari diradavano la popolazione, immiserivano
le città, quasi rarefacevano l’aria alla borghesia media.
Oasi meravigliosa la Campania e le terre circostanti, ferace di vini
e di olio, ricca di commerci e di industrie. Qui Pozzuoli risuonava
con le mille botteghe dei suoi abili fabbri188; qui i due vini
più celebri dell’Italia, il Cecubo e il Falerno,
invecchiavano nelle anfore; qui costruivano le ville più
sontuose i ricchi di Roma; qui il grande golfo, con le fiorenti
città, Pompei, Ercolano, Napoli, Pozzuoli, apriva le larghe
braccia ospitali verso l’Oriente e verso l’Egitto: qui mercanti
venuti da ogni parte – siriaci, egiziani, ebrei, greci, latini –
arricchivano sul commercio tra Roma e l’Oriente, specialmente sul
commercio con l’Egitto189, con la Spagna190; e si fabbricavano le
belle case di stile alessandrino, che si sono ritrovate a Pompei....
Qua e là alcune altre oasi più piccole, le
città inghirlandate di uliveti o di vigneti come Venafro191,
come Venosa192; le città che, come Brindisi, avevano qualche
industria tradizionale o qualche risorsa commerciale193. Ma in tutto
il resto, a destra e a sinistra della sola via frequentata, la
Appia, la solitudine del latifondo coltivato da pochi schiavi; i
grandi boschi solitari per mancanza di strade; degli avanzi
abbandonati dell’ager publicus di Roma che nessuno voleva; delle
città anticamente fiorenti, semi deserte e cadenti194. Meno
ingenui dei moderni, gli antichi non si erano fatte sulla Italia
meridionale tante illusioni, in cui si beano tanti italiani del
ventesimo secolo e che Giustino Fortunato si è affaticato
invano a dissipare: essi avevano capito che, se la Valle del Po
è un magnifico pezzo della crosta terrestre, l’Italia
meridionale valeva assai meno, anche se non era ancora desolata dal
terribile flagello della malaria. Difatti essa non si era più
riavuta dalle devastazioni dei secoli precedenti. Posta fuori delle
grandi vie di comunicazione, spopolata dai furiosi sterminî
precedenti, povera di capitali ed impotente ad accumularne dei
nuovi, poco fertile, tranne in qualche regione, male irrigata da
pochi e poveri fiumi, irta di ripide montagne, l’Italia meridionale
aveva poche industrie e solo qua e là poteva coltivare
fruttuosamente la vigna e l’ulivo, perchè non possedeva
nè capitali bastevoli, nè braccia numerose, nè
facilità di lontano commercio. Onde il maggior lucro suo era
ancora, dopo tanti secoli, come ai primordi della storia di Roma, la
pastorizia primitiva, simile a quella che ora si fa nel Texas e
nelle regioni più barbare degli Stati Uniti; la pastorizia
vagante degli immensi armenti belanti e muggenti, che pascolano in
ogni stagione sotto il sole e dormono sotto le stelle; e che robusti
schiavi conducevano ogni inverno e ogni estate dal monte al piano,
dal piano al monte. La aristocrazia romana e un piccolo numero di
più oscuri milionari indigeni esercitavano questa pastorizia.
Le pelli e le lane erano probabilmente portate a vendere nelle
ricche città della Campania ed a Roma: ma se i grandi
proprietari ne potevano trarre qualche profitto, questa pastorizia
isteriliva, spopolava, impoveriva tutta l’Italia meridionale.
Tale nell’alba incerta di questa età nuova, tra gli ultimi
vapori residui delle grandi procelle appena passate, sotto il primo
raggio di sole della pax romana, tale appariva l’Italia, unita per
la prima volta dalle Alpi al mare Jonio in un solo corpo: strana
figura; torso e petto fiorente di giovane donna; ginocchia magre e
paralitiche di vecchia inferma. Posta tra l’Italia centrale e le
immense provincie transalpine in cui Roma doveva rinascere, la valle
del Po portava sul suo dorso le vie dell’avvenire; e su quella, a
occupar queste vie, si era posta la parte maggiore e più
energica della classe media, quasi di fronte alla nobiltà che
raccoglieva in Roma i suoi ultimi avanzi; e che con i suoi beni
disseminati in tutto l’impero195, con la varietà dei gusti,
la molteplicità crescente delle idee perdeva la coesione e lo
spirito di casta, un tempo in lei così forte. Anche per
questa ragione l’impresa di Germania, a cui Augusto la invitava,
poteva essere di grande momento. Un brillante successo germanico
potrebbe rinnovare il prestigio dell’aristocrazia, il cui potere
accennava a declinare per tante cagioni: un insuccesso invece, delle
nuove e maggiori discordie che quelle guerre fomentassero avrebbero
invece, per contrappeso, ingrandita la potenza del ceto medio,
cioè la potenza di Augusto e della sua famiglia. Quella
venerazione popolare, che si veniva organizzando in Italia intorno
ad Augusto, significava qualche cosa di più che la
gratitudine per i suoi servigi: significava che la classe media,
sollecita solo dei suoi materiali interessi, inquinata di schiavi e
di liberti orientali, perdeva rapidamente di vista il Senato e la
maestà impersonale del governo repubblicano, per non veder
più che la persona del principe: significava cioè che
in questa classe già spuntavano le inclinazioni monarchiche
per la forza delle cose, per una specie di generazione spontanea,
senza che alcuno ne ponesse il seme, anzi contro la volontà
di colui che avrebbe potuto raccoglierne il frutto. Che importava a
questa gente nuova, ignorante, avida, se laggiù a Roma il
Senato a poco a poco moriva, se la aristocrazia si disfaceva, se un
uomo e una famiglia acquistavano in questo disfacimento un potere
immenso, superiore ai poteri repubblicani? Essa era disposta a
riconoscere a quest’uomo il merito di ogni suo bene, purchè
la pace e l’ordine non fossero turbati; purchè il vino,
l’olio, e la lana si vendessero ogni anno con profitto;
purchè essa potesse pavoneggiarsi nel piccolo Senato locale,
concorrere alle cariche della sua città, dominare e comparire
nel suo municipio. Nella crescente fortuna di questa classe nuova
morivano insieme la grande idealità repubblicana, la grande
idealità militare, la grande idealità tradizionalista.
Che la residua nobiltà si screditi e si faccia più
neghittosa, e l’Italia non vedrà più sul Campidoglio
che la famiglia di Augusto. Ma Augusto, mentre voleva e doveva
promuovere i progressi di questa classe, voleva e doveva cercar di
ravvivare quelle morenti idealità: contradizione insolubile e
inevitabile, di cui egli, la sua famiglia, il suo governo non
dovevano tardare a sentire gli effetti terribili.
V.
L’ARA DI LIONE.
Augusto potè senza difficoltà far prolungare dal
Senato per altri cinque anni, a sè e ad Agrippa, i poteri
presidenziali196; e alacremente continuò i preparativi della
guerra, non sappiamo se adoperando solo i redditi della Gallia, o se
pure dei fondi votati dal Senato197. Questi a ogni modo non poterono
esser richiesti che con il pretesto di provvedere alla difesa della
Gallia198, non essendo probabile che Augusto osasse esporre subito e
apertamente il suo piano, avvertendo i Germani di stare all’erta.
Nè egli si diè pensiero soltanto di apprestare armi,
denari, soldati; ma poichè il buon esito dell’impresa
dipendeva in parte dalla fedeltà della aristocrazia gallica,
immaginò pure di vincolar questa, prima di avventurarsi in
Germania, con un impegno morale, quanto un impegno morale può
vincolare degli uomini. Pensò cioè di trapiantare
dall’Asia Minore in Gallia il culto di Roma e di Augusto; di
raccogliere intorno al tempio delle diete annuali nelle quali i
rappresentanti delle sessanta civitates galliche potrebbero
comparire, discorrere, brillare, e la provincia tutta riconoscere la
propria nuova unità; di ordinare come in Asia un corpo di
sacerdoti scelti tutti nella nobiltà gallica dalla dieta, e
che in quella costituirebbero una nobiltà più
ristretta e più eletta. In Asia Minore questo culto
incominciava a render qualche servigio, come simbolo popolare della
unità dell’impero, come vincolo ideale delle differenti
città tra loro e di tutta la provincia con Roma.
Perchè non si potrebbe organizzare il nuovo culto pure in
Gallia, dove il druidismo, l’antico culto nazionale, agonizzava?
L’Italia, che aveva tollerato questo culto in Asia Minore, che
incominciava essa pure ad adoprar simboli religiosi per esprimere la
sua ammirazione, non avrebbe certo mormorato se un altare di Roma e
di Augusto sorgesse, per esempio, a Lione. Quanto alla Gallia, non
era dubbio che essa accoglierebbe volenterosa il nuovo culto,
specialmente se l’impresa di Germania volgesse prosperamente. Per le
grandi breccie aperte nelle tradizioni celtiche dalla spada di
Cesare, non entravano in Gallia soltanto le merci e i costumi e le
parole forestiere, ma anche gli Dei; i vecchi numi gallici si
confondevano con quelli greci, latini e orientali, che per qualche
tratto anche vagamente rassomigliassero loro; la nazione era aperta
per cento spiragli ai soffi nuovi, da qualunque parte spirassero.
Senonchè tra la fine del 13 e il principio del 12, mentre
Augusto era intento in queste faccende, si annunciò che una
grossa rivolta era scoppiata in Pannonia199, e il pontificato
massimo, la suprema magistratura religiosa della repubblica,
restò dopo 32 anni vacante per la morte di Lepido, l’antico
triumviro200. Era. davvero così grave, come si disse, la
rivolta pannonica? fu ingrandita ad arte, per giustificare con
motivi che tutti potevano capire, una nuova, profonda, gravissima
riforma costituzionale, a cui ben più serie ragioni
costringevano Augusto? Non solo, appena morto Lepido, il generale
consenso aveva indicato Augusto a successore; ma il partito
tradizionalista, per il quale la riforma del costume riposava
precipuamente sulla religione, e che aveva a più riprese
cercato di togliere a Lepido la carica per darla a Augusto, voleva
far della sua elezione a pontefice massimo una grande dimostrazione
popolare a favore delle idee che Virgilio aveva espresse
poeticamente nell’Eneide, contro il rilassamento dei costumi,
ricominciato non ostante le leggi dell’anno 18 per colpa della nuova
generazione, contro lo spirito empio e dissoluto che da questa
irradiava in ogni parte201. Finalmente un pontefice massimo, degno
dell’altissimo ufficio, potrebbe procedere a quella riforma della
religione, dalla quale soltanto i più credevano potesse
prender principio la rigenerazione del costume, sino allora invano
tentata! Senonchè questo improvviso fervore religioso
disturbava non poco, in quel momento, Augusto, che, pur essendo
sollecito di non disgustare il partito puritano, si accingeva a
impegnare Roma in una grave impresa di guerra. Non era cosa facile
attendere nel tempo stesso alle riforme interne e alle conquiste
esteriori! D’altra parte Augusto sapeva di esser fatto più
per diventare pontefice massimo in luogo di Lepido, che
generalissimo della guerra di Germania. Tutte queste ragioni
sembrano aver indotto Augusto a far mutare dal Senato la duplice
presidenza sua e di Agrippa in una vera spartizione del potere
civile e del potere militare, sino allora confusi in ambedue.
Prendendo a pretesto la rivolta della Pannonia – accidente troppo
comune, per giustificare novità così grave – tutti i
generali comandanti fuori d’Italia furono posti sotto il comando di
Agrippa, e quindi tutte le legioni, anche quelle poste nelle
provincie di Augusto, passarono agli ordini di lui; il comando degli
eserciti fu scisso dal potere proconsolare e propretorio,
territorialmente circoscritto; ed un uomo solo ebbe quella suprema e
generica autorità sugli eserciti, che storicamente spettava
al Senato202. Avendo in sua mano tutte le legioni, Agrippa potrebbe
incominciare una impresa, di cui era difficile prevedere i
contraccolpi nelle altre provincie europee, inquiete e mezzo in
rivolta; e Augusto intanto a Roma procederebbe alla attesa riforma
del culto.
Se questa interpretazione del testo antico non è errata, la
magistratura suprema, pur conservando intatta di fuori la forma,
mutava nella sua essenza. A capo dello Stato stavano ormai, non
più due colleghi di egual potere, ma una autorità sola
a due faccie: un sacerdote e un soldato. La grave impresa di
Germania, che doveva rinvigorire la costituzione aristocratica,
costringeva a questi ripieghi, ripugnanti allo spirito di quella
costituzione, appunto perchè la nobiltà non bastava
più a compierla con le sue sole forze. Insolubile
contradizione! Comunque sia, è certo che Agrippa, partito
durante l’inverno per la Pannonia, già era sulla via del
ritorno in febbraio; sia perchè, come si disse, la notizia
della sua partenza aveva miracolosamente quetati i ribelli203; sia
perchè si proponesse di andare in Gallia, a primavera, a
prendere il comando delle legioni del Reno; e certo è pure
che mentre egli viaggiava alla volta di Roma, Augusto fu eletto
pontefice massimo, il 6 marzo204. Sebbene Augusto solo fosse
candidato, pure il concorso degli elettori, da ogni parte
dell’Italia, fu immenso; e la dimostrazione popolare, immaginata dal
partito tradizionalista, riuscì pienamente. Se nella
società ricca, elegante, colta di Roma lo spirito nuovo di
voluttà e di facilità acquistava forza e si divulgava,
nelle classi medie il rinato spirito di tradizione e di devozione
resisteva più tenace: se troppi non potevano più
vivere secondo le norme severe della morale puritana, pochi osavano
rifiutare di concorrere a una dimostrazione platonica a favore della
religione, che ufficialmente era sempre considerata come la fonte
eterna della pace e della prosperità pubblica. Tredici giorni
dopo, il 19 marzo, incominciavano le Quinquatrie, le feste di
Minerva, che erano le feste dell’intellettualità minuta e
dell’artigianato più scelto: le feste dei giovani scolari e
dei loro maestri, dei tessitori, dei calzolai, dei fulloni, degli
orefici, degli scultori, dei vasai e via dicendo205. Per far cosa
gradita anche a queste classi modeste, per accrescere dignità
e importanza a quelle che erano, per dir così, le feste della
scuola elementare, e in cui i ragazzi dovevano impetrar da Minerva
il profitto degli studi, il nuovo pontefice massimo aveva pensato di
offrire al popolo dei sollazzi a nome dei suoi due figli adottivi,
Caio e Lucio, che incominciavano a studiare: e aveva offerto –
ahimè! – anche dei giuochi di gladiatori, poco convenienti in
verità al culto della Dea della mente, che aborre dal
sangue206. Ma gli artieri di Roma, pur venerando in Minerva la loro
protettrice, non avrebbero graditi più nobili passatempi.
Quando ecco, in mezzo alle feste, che duravano cinque giorni, giunge
ad Augusto la notizia che Agrippa era gravemente ammalato in
Campania, durante il viaggio. Augusto lasciò a mezzo le
feste; partì subito per la Campania: ma troppo tardi, che,
quando giunse, Agrippa era già spirato207, terminando presto,
a poco più di cinquanta anni, ma nella ricchezza, nella
potenza e nella gloria il corso della vita oscuramente incominciato
trentadue anni prima, dopo la morte di Cesare, al seguito di
Ottavio, tra i pochi che avevano avuto fiducia, in quel frangente
tremendo, nell’astro dei Giulii. Questa volta almeno la fortuna
aveva amato il valore; traendo fuori dai marosi di quella tremenda
procella questo romano perfetto, già deterso dalla
rusticità primitiva, ma non corrotto ancora dalla furfanteria
intellettuale, dai vizi, dal denaro; questo oscuro plebeo, che seppe
unire le belle virtù della sua stirpe con i pregi della
cultura: un intelletto nel tempo stesso forte e plastico, avido di
sapere e pratico; una vigorosa elasticità di attitudini; una
attività infaticabile; una anima orgogliosa, ma semplice,
ferma, sicura e fedele. Generale, ammiraglio, architetto, geografo,
scrittore, collezionista di opere d’arte, organizzatore di pubblici
servizi, per trentadue anni, senza perdere un istante, Agrippa aveva
profuso il suo genio inesauribile in ogni parte, a servizio della
sua fazione durante le guerre civili, poi della repubblica e del
popolo. Moriva non vecchio, lasciando, oltre i due figli adottati da
Augusto, due bambine e Giulia gravida, in regola cioè con la
lex Julia de maritandis ordinibus, promulgata dal suocero; lasciando
una parte dell’immenso patrimonio ad Augusto, i suoi giardini di
Roma e le terme, con delle grandi tenute per provvedere alle spese,
al popolo208; lasciando infine – eredità più insigne –
i suoi Commentarii, una monumentale raccolta di notizie geografiche
e statistiche su ogni provincia, con le quali egli aveva
incominciato a far costruire una grande carta dell’impero, che
voleva esporre al pubblico. Il destino ne aveva inchiodato il nome
severo, per l’eternità, sulla facciata del Pantheon, al
centro del mondo, alto sul continuo fluire delle generazioni lungo i
fianchi del monumento imperituro: ma non aveva voluto eguagliarlo a
Cesare, dandogli tempo di conquistar la Germania.
Piamente Augusto portò a Roma le ceneri dell’amico;
diè loro solenne sepoltura; fece un grande discorso in suo
onore; distribuì denaro al popolo in sua memoria209: poi,
dopo averla con tanto vantaggio proprio e pubblico spartita per
più di cinque anni con Agrippa, dovette riprender solo la
presidenza della repubblica accresciuta del pontificato massimo,
ricomporre in sè, generale e sacerdote supremo,
l’unità dello Stato, perchè non vi era in Roma nessun
cittadino che potesse essere posto nel luogo di Agrippa a suo
fianco. Gran ventura era stata per Augusto imbattersi in quell’uomo
al principio del suo lungo cammino; grandissima sventura era il
perderlo all’improvviso, proprio allora, a metà della via.
Quella morte sconvolgeva tutto il piano della guerra germanica; e la
ricostituita unità del supremo potere paralizzava lo Stato.
La flotta era allestita, il canale scavato e ogni cosa pronta: ma
Augusto non osava improvvisarsi comandante di una così grande
guerra, a 52 anni, quando non aveva saputo diriger bene delle guerre
più piccole, in età più giovane; quando i
bigotti, che lo avevano fatto con tanta pompa e clamore pontefice
massimo, lo incitavano impazienti a por mano subito alla riforma del
culto. Costretto a governare nel tempo stesso il cielo e la terra,
le cose degli Dei e quelle degli uomini. Augusto si studiò di
far del suo meglio: mandò Tiberio in Pannonia, uscì di
Roma e si recò nella valle del Po, ad Aquileia, per
sorvegliare vicino la rivolta e la sua repressione210; sembra per un
certo tempo aver sospesa ogni deliberazione per la Germania,
dubbioso forse se differire l’impresa211; diè principio,
anche in viaggio, a qualche riforma religiosa, incominciando a
togliere dalla circolazione tutti i falsi oracoli sibillini, i libri
di profezie e di vaticini che, messi in giro da abili ciurmatori
durante la rivoluzione, confondevano lo spirito popolare e talora,
sia pure per ripercussione lontana, la politica. Egli ordinò
che quanti possedevano raccolte di oracoli e di profezie, le
portassero entro un certo tempo al pretore; fece bruciare tutte le
profezie e fare una cernita di 2000 oracoli sibillini, giudicati
autentici, che, dati gli altri alle fiamme, dovevano essere riposti
in due stipi dorati nel tempio di Apollo sul Palatino212.
Pensò anche di riorganizzare nel tempo stesso il più
aristocratico e il più popolare dei culti: il culto di Vesta,
accrescendo i privilegi e gli onori di cui godevano le Vestali, per
agevolarne il reclutamento213; il culto dei Lari compitali, dei
piccoli dèi protettori di ogni quartiere, ai quali il
popolino univa spesso anche la statuetta di lui, ordinando due
cerimonie, una estiva e l’altra invernale214.
Ma se per l’impresa di Germania Augusto aveva esitato un istante, le
faccende galliche non tardarono a persuaderlo che per la salute
della repubblica non bastava recitare e far recitare orazioni in
Roma; occorreva combattere anche in Germania. Il censo era finito;
il malcontento infuriava vivissimo; la rivoluzione pareva imminente,
la rivoluzione che avrebbe scatenate le orde germaniche sulla ricca
provincia215. Augusto dovè risolversi a cominciare
l’invasione così a lungo studiata. Ma come erano mutati i
tempi! La Germania doveva essere invasa, non più con la
ardita improvvisazione di Cesare, avventandosi nel futuro alla
cieca; ma metodicamente, a passi lenti e circospetti, avanzando
sempre su terreno saldo, dopo aver provveduto a difender le spalle,
dopo aver esplorato davanti, quanto si poteva, l’immenso ignoto, in
cui avventurarsi. Prima infatti si darebbe mano ad aprire alle
legioni una via sicura verso Oriente, lungo il corso della Lippe,
costruendo sulle rive di questo fiume, nel cuore della regione posta
tra il Reno ed il Weser, un grande campo fortificato e collegandolo
al Reno con una larga via militare e con una catena di fortilizi
minori. Dal campo trincerato le legioni irradierebbero il rispetto e
il terrore di Roma, in tutta la regione posta tra il Reno e il
Weser, con marcie e spedizioni. Senonchè era difficile e
pericoloso, prima che la strada militare fosse costruita, condurre
un grosso esercito per la rozza via costeggiante la Lippe: si era
perciò pensato di mandarne una parte per l’Oceano alle foci
dell’Ems; di far loro risalire il fiume sino a raggiungere il corso
superiore, che va parallelo a quello della Lippe, distante in certi
punti solo 30 chilometri; di avviar l’altra parte per la valle della
Lippe, per modo che i due eserciti potessero ritrovarsi sull’alto
corso della Lippe. Augusto si risolvè a far eseguire per
quell’anno la prima parte del piano, a far condurre cioè per
mare una parte dell’esercito sull’Ems. E ne incaricò Druso,
cioè un semplice propretore di 26 anni. La scelta poteva
essere ardita: ma Augusto voleva adoperar nella guerra una persona
nel tempo stesso intelligente, operosa, devota, di cui fosse
interamente sicuro, e da cui potesse farsi interamente obbedire. Chi
poteva dargli maggiore affidamento di Druso?216 Una testa quasi
canuta ed un braccio giovane dovevano compire l’impresa. Augusto
incominciò l’impresa, imitando l’astuzia cui Cesare aveva
ricorso nella spedizione in Bretagna, per non lasciare la Gallia
vuota di legioni in balìa della nobiltà irrequieta e
scontenta217. Druso invitò i capi Gallici ad una riunione,
per intendersi sopra una nuova cerimonia da introdursi in Gallia, in
onore di Augusto e di Roma; e quando un buon numero di grandi furono
venuti, cosicchè non si potesse più temere, costoro
assenti, una rivolta generale delle Gallie, egli mosse l’esercito e
la flotta conducendoli seco. Scese il corso del Reno, piegò
nel canale, entrò nello Zuidersee218; traversò la
moderna Olanda, il territorio abitato dai Frisii, i quali in seguito
a trattative, probabilmente già avviate, accettarono il
protettorato romano, a condizioni miti: il pagamento di un piccolo
tributo, non in denaro, chè erano troppo poveri, ma in natura
– pelli cioè, – e contingenti militari219. Uscì poi
con la flotta nel mare del Nord, costeggiando: domò un’isola,
che lo storico antico chiama Burcanide220, imboccò l’Ems; e
ad un punto che non possiamo precisare, sbarcò una parte
delle forze221: ridiscese poi con il resto dell’armata il fiume;
uscì di nuovo nel pieno Oceano, alla volta delle foci del
Weser, e tentò di risalire anche questo fiume, probabilmente
per esplorarlo soltanto222. Ma questa volta non riuscì; o
perchè le navi, troppo leggere per l’Oceano tempestoso, erano
troppo pesanti per risalire la vorticosa corrente del fiume; o per
altra ragione, che ci è rimasta ignota223. Certo è, a
ogni modo, che nel ritorno Druso, troppo poco esperto di quel mare
malfido, rischiò di naufragare; e fu salvo solo per l’aiuto
dei Frisii224. Alla fine dell’autunno egli era di nuovo in Gallia,
con una parte dell’esercito e della flotta; lasciava ritornare a
casa i Galli, dopo averli persuasi ad erigere a Lione il grande
altare di Augusto e di Roma e a costituire intorno a quello il
sacerdozio nazionale; poi tornava a Roma, ad esporre al suo capo le
cose compiute e a prendere nuovi ordini per l’anno seguente225.
Frattanto Tiberio aveva fatta in Pannonia la guerra, all’antica,
come usava la vecchia aristocrazia: sterminando, catturando e
vendendo i ribelli226. È probabile che il fiore della
popolazione pannonica fosse venduto ai medi e ai grandi possidenti
della Italia e trasportato nella valle padana. A questo giovane, che
pareva risuscitato da due secoli prima, non mancava dell’antica
nobiltà neppure la durezza. E il Senato gli aveva decretato
il trionfo227. Augusto invece era tornato a Roma, insieme con Erode
che, andato in Grecia ai giuochi Olimpici, lo aveva raggiunto ad
Aquileia, per corteggiare Giulia e per esporre a lui la tremenda
discordia familiare che, sotto il cielo ardente di Gerusalemme, tra
le ricchezze del palazzo reale, fermentava dagli odî
femminili, dalle ambizioni mascoline, dal sangue dell’infelice
Marianna. Tra Alessandro e Aristobulo nati dalla sventurata,
Antipatro, il figlio maggiore che Erode aveva avuto da Doride, e
Salomè, implacabile contro l’odiata cognata anche dopo la
morte, infuriava da un pezzo una guerra furibonda di calunnie, di
ingiurie, di intrighi; in mezzo alla quale un tremendo spavento si
era prima insinuato, poi radicato profondamente nello spirito
sospettoso dell’Itureo: che Alessandro e Aristobulo volessero
vendicare la madre. Se egli avesse potuto fare ciò che
voleva, non avrebbe esitato a recidere dalle radici con la vita dei
figli il sospetto; ma egli era impopolare in Giudea, egli conservava
il regno per la protezione di Augusto; se un altro e più
spaventoso macello familiare insanguinasse la sua tragica casa, se
Augusto, inorridito, spaventato dalla indignazione popolare, lo
abbandonasse? Egli non poteva uccidere due figli, per liberarsi da
un sospetto: ma che supplizio per questo uomo diffidente, il quale
sapeva di essere esecrato da infinite persone, dover vivere con due
figli, sospettandoli, spiandone ogni atto, sempre incitato a
diffidare dei nemici dei due sventurati! Erode era venuto ad esporre
ad Augusto questo nuovo orrore della sua famiglia, forse sperando di
essere autorizzato a uccidere i figli: ma Augusto si era tratto
dietro a Roma il re di Giudea e i figli, cercando di riconciliarli,
dando ad Erode in compenso le miniere di rame di Cipro, da cui i
negligenti governatori non ricavavano più nulla e che l’abile
Erode saprebbe far fruttare di nuovo, allettato dalla metà
dei redditi a lui riserbata. Il savio Augusto ristabiliva la
concordia nella famiglia di Erode e conchiudeva un affare eccellente
per la repubblica! Anche il popolo di Roma lucrò su queste
discordie; perchè Erode diede ad Augusto 300 talenti da
spendere in feste. Così l’astuto sovrano di Giudea tentava di
comprare anticipatamente l’indulgenza di Roma per i suoi misfatti; e
Roma, avida di feste e di piaceri, accettava, sotto colore di
omaggio, quell’oro!228 Intorno a questo tempo, pare, giunse a Roma
la notizia che un terremoto aveva fatti immensi guasti in tutta
l’Asia Minore; che le popolazioni versavano in grandi angustie e non
sapevano come pagare, per quell’anno, il tributo. E allora si vide
una cosa nuova in quella Roma, per tanti secoli così esosa
nell’esigere i tributi. Il Senato e il pubblico si commossero; tutti
dissero che bisognava soccorrere l’afflitta provincia; non esigere
il tributo, almeno per quell’anno. Sventuratamente l’erario era in
bisogno.... Augusto, che l’eredità di Agrippa aveva provvisto
di molto denaro, risolvè, come sempre, la difficoltà;
versò del suo nell’erario il tributo che in quell’anno
avrebbe dovuto pagare l’Asia229. Il pubblico fu contento; l’erario
nulla perdè; solo Augusto ci rimise del suo una somma
cospicua. Singolar monarca questo davvero che, mentre per sua natura
la monarchia sempre spreme silenziosamente enormi somme dai sudditi,
per restituirne loro una piccola parte clamorosamente in
beneficenza, doveva provvedere i fondi perfino agli accessi di umore
filantropico, cui il pubblico andava ora soggetto! Ma le dottrine
umane di Cicerone si diffondevano, insieme con l’agiatezza, con i
vizi e con la cultura, ora che una parte considerevole del pubblico
non viveva più sulla spoliazione immediata delle provincie; e
a questa corrente nessuna persona seria voleva contrastare,
perchè tutti erano persuasi doversi prodigare alle provincie
orientali blandizie, carezze, concessioni. Il Senato approvò
pure che in via di eccezione e per due anni il governatore
dell’Asia, invece che dalla sorte cieca, sarebbe scelto da Augusto,
il quale eleggerebbe di proposito un uomo capace ed alacre.
La guerra in Germania, la rivolta in Pannonia, la religione a Roma,
le discordie reali in Giudea, il terremoto in Asia: quante faccende
e quanto diverse occupavano Augusto! Eppure ritornando a Roma egli
aveva trovate altre brighe, tra cui specialmente difficile una che
poteva parer piccola. La sua lex de maritandis ordinibus ingiungeva
alla vedova di rimaritarsi entro un anno; Giulia per ciò,
essendosi sgravata del figlio che portava in seno alla morte di
Agrippa e a cui si era dato il nome di Postumo, doveva, come figlia
di Augusto, affrettarsi ad obbedire alla legge. Se la figlia di
Augusto avesse violata la legge, quale altra matrona di Roma
l’avrebbe osservata? Senonchè, per parecchie ragioni, questo
matrimonio era quasi una specie di grave negozio politico. Non c’era
ormai più da dubitare: quella bella, piacevole, intelligente
signora di ventisette anni apparteneva alla rifioritura di νεώτεροι,
che da qualche anno cresceva di nuovo rigogliosa sull’aspro terreno
del puritanismo e del tradizionalismo. Il viaggio in Oriente non
poteva che aver ringagliardite le sue naturali inclinazioni.
Laggiù, nel dolce Oriente, essa era stata festeggiata come
una regina; aveva vissuto nelle fastose Corti orientali; si era
inebriata nelle nuvole di incenso profuse ai suoi piedi
dall’adulazione asiatica; aveva vedute nelle sue sedi antiche quella
civiltà voluttuosa, elegante, corrotta, che era la tentazione
incurabile e il terrore mortale dei Romani. Nè è
improbabile che essa pensasse – non senza qualche ragione – di aver
compiuti i suoi doveri verso la repubblica, se a ventisette anni
aveva già messo al mondo cinque figli. Onde voleva
divertirsi, sfoggiare, vivere in quel modo più largo,
più brillante, più piacevole, a cui i giovani
inclinavano: grave pensiero per Augusto, che non poteva,
specialmente in quel momento, considerare alla stregua delle
faccende private i costumi della figlia. Proprio allora infatti il
partito puritano, incoraggiato dalla elezione di Augusto a pontefice
massimo, si rianimava, ricominciava ad agitarsi contro la corruzione
crescente dei giovani; a lamentarsi che le leggi del 18 non fossero
applicate con il necessario rigore, e che l’autorità censoria
non esistesse più; a ridomandare che si ridesse ad Augusto,
come nel 18 e per altri cinque anni, la præfectura morum et
legum che dal 13 non aveva più; e cioè i poteri
censori allargati, la facoltà di rinvigorire, applicandole,
le leggi manchevoli o troppo deboli230. Sollecito di aver dalla sua
il partito puritano, di secondare le inclinazioni arcaiche e
conservatrici delle masse, come avrebbe egli potuto atteggiarsi a
campione della tradizione, rimproverare i grandi che lasciavano i
figli e le donne condursi in casa a loro talento, quando la figlia
si ribellasse in casa a lui e alle sue leggi? Pare che egli pensasse
un momento di sposarla a qualche cavaliere alieno dalla politica231:
forse perchè ai cavalieri si poteva usare maggior indulgenza
per il costume, che non all’aristocrazia politica e militare, la
quale, facendo le leggi, doveva dare l’esempio di rispettarle. Ma
poi venne in un altro pensiero, fatal pensiero, che doveva essere il
seme di infinite sventure per lui, per la sua famiglia, per la
repubblica: darla in moglie a Tiberio. A voler credere a quello che
si buccinava in Roma, Giulia, anche prima di restar vedova di
Agrippa, avrebbe rimirato con occhi teneri il figlio di Livia232,
che, oltre ad esser già celebre per le sue imprese, era anche
un bellissimo giovane. Tanto più facilmente poteva dunque
illudersi Augusto che Tiberio sarebbe riuscito a frenare gli
irrequieti istinti della bella consorte, aiutando il padre a
governar la famiglia con romana severità. D’altra parte non
è improbabile che Augusto già pensasse allora a fare
occupare un giorno da Tiberio il luogo di Agrippa nello Stato,
facendolo suo collega; poteva quindi parere opportuno di dargli
anche il posto suo nella famiglia.
Tiberio e Druso erano, in quell’inverno dal 12 all’11, tornati
ambedue a Roma a ricevere le istruzioni del loro capo per l’anno
seguente. Druso infatti ebbe l’incarico di eseguire la seconda
parte233 del piano: di incominciare la lenta, metodica, graduale
invasione della Germania, risalendo con l’esercito la valle della
Lippe sulla sponda destra234, mentre la flotta lasciata sull’Ems, ne
risalirebbe il corso. Ravvicinatisi così, quanto più
potessero, i due eserciti, con un breve cammino si ritroverebbero
nell’alta valle della Lippe, dove alla confluenza della Lippe con un
fiume, che lo storico antico chiama Elisone, si fonderebbe una
grande fortezza; che sarebbe poi ricongiunta al Reno con una larga
strada militare e con una catena di castelli minori. Tiberio invece
ricevè, con l’incarico di ritornare in Pannonia, l’invito di
ripudiare Agrippina e di sposare Giulia. Ma l’invito fu amaro a
Tiberio. Se Giulia vagheggiava Tiberio, il tradizionalista
intransigente, che ritornava dai campi della Pannonia e dagli aspri
scontri con la barbarie in rivolta, non sentiva invece alcuna
attrazione per la bella signora che tornava dall’Oriente, piena di
vezzi, di capricci, di eleganze e di civetterie, poco conformi alla
sua severa natura. Inoltre Tiberio amava molto sua moglie, da cui
aveva avuto già un figlio e da cui ne aspettava un
secondo235. Augusto dovette insistere e infine quasi costringere il
riluttante Tiberio236. Non gliene mancava il mezzo; perchè
poteva spezzar la carriera di Tiberio, togliergli il comando della
guerra di Pannonia, riconfinarlo nella vita privata. Forse anche gli
disse che pur nel matrimonio un nobile romano doveva saper posporre
il piacere suo all’interesse della pubblica cosa. Tiberio amava sua
moglie, ma aveva grandi ambizioni; ma sapeva probabilmente che
dandogli Giulia in moglie Augusto già lo indicava a suo
futuro collega nella suprema magistratura, a successore di Agrippa.
Rifiutando Giulia, egli rifiuterebbe anche questo immenso onore,
segno della più alta ambizione. Disperato, alla fine, sul
principio dell’anno 11237 egli mandò le lettere di divorzio a
Agrippina; Augusto precipitò le nozze238 per prevenire dei
pentimenti; e alla primavera Giulia partiva con il nuovo marito alla
volta della Pannonia. Giunti ad Aquileia239, Tiberio la
lasciò e proseguì per la sua provincia, mentre Druso
tornava in Gallia.
Rimasto a Roma, Augusto fu eletto præfectus morum et legum per
cinque anni240. Il partito tradizionalista e puritano riuscì
facilmente a fare approvare dai comizi e dal Senato la legge,
perchè nessuno osava contrastare officialmente che la
purificazione dei costumi dovesse essere il sommo compito dello
Stato, sebbene molti lasciassero eleggere questo grande censore,
confidando che non avrebbe emendato poi cosa alcuna severamente.
Augusto infatti, se si era lasciato eleggere præfectus morum
et legum per compiacere al partito puritano, non intendeva usare
soverchia severità contro la progrediente facilità dei
costumi241; anzi quasi si affrettò a rassicurare i νεώτεροι
con dei compensi graditi. Propose una legge che, modificando la lex
de maritandis ordinibus, riammetteva i celibi e le nubili agli
spettacoli pubblici242; e colse l’occasione di un clamoroso processo
di adulterio, per disapprovare pubblicamente le accuse troppo acerbe
di questo delitto. Mecenate, con altri personaggi illustri,
difendeva l’accusato; ma l’accusatore ciò non ostante
ingrossava la voce contro l’accusato e i suoi difensori. Ed ecco
Augusto comparve ad un tratto nel tribunale e sedutosi accanto al
pretore, ingiunse all’accusatore, con il suo potere di tribuno, di
non offendere nessuno dei suoi amici. Il pubblico si rallegrò
tanto di questo schiaffo assestato al malcapitato accusatore, per
tutti i suoi colleghi, che per sottoscrizione pubblica si eressero
ad Augusto delle statue243. Augusto si accorgeva che i tempi
inclinavano alla indulgenza; Augusto capiva che era impossibile
sbarrare la nuova corrente di bisogni, di desideri, di aspirazioni
troppo ingrossata; Augusto sarebbe stato contento di poter compiere
una riforma più piccola, ma più urgente che la riforma
universale del costume: la riforma cioè del Senato. I
tentativi fatti nei quindici anni precedenti per ripristinare in
Roma il grande Senato antico erano falliti; le sedute erano sempre
più deserte; gli assenti erano così numerosi ogni
volta, che non si potevano più applicare le ammende;
nè premi nè pene, nè minaccie nè inviti
riuscivano a vincere la pigrizia dei senatori. Da troppe profonde
sorgenti scaturiva questa pigrizia! Se nella politica c’era maggior
sicurezza che un tempo, non c’era però più la antica
facilità di guadagni, e il dispendio e gli impegni del vivere
a Roma crescevano invece per l’ordine senatorio; molti senatori
perciò non volevano abitare nella capitale più che una
parte dell’anno, amavano passare molti mesi, come Labeone, in
campagna, spendendo meno, sorvegliando le loro terre, lungi dalle
innumerevoli brighe della metropoli. D’altra parte se per tanti
anni, durante i quali ogni cosa era stata abbandonata in
balìa di sè stessa, le faccende del Senato non erano
cresciute nell’impero ampliato, ora invece che si voleva alla fine
amministrare con senno l’Italia e le provincie, i senatori avrebbero
dovuto sobbarcarsi a incarichi più numerosi, più
varî, più difficili, che i loro predecessori due secoli
innanzi. Naturalmente i più preferivano non caricarsi addosso
nessun peso, anzichè caricarsi un peso soverchio: onde su
Augusto, a dispetto di Augusto, si ammucchiavano le
responsabilità, nella legge e fuori della legge,
perchè l’aristocrazia senatoria gliele buttava addosso, per
egoismo, per paura, per inettitudine, per molti veri impedimenti
economici e sociali, proprio mentre i pericoli parevano crescere in
ogni parte in Occidente. Tiberio aveva trovata al suo ritorno la
Pannonia tranquilla; ma la Dalmazia invece in piena rivolta, e per
la stessa ragione che aveva sollevata l’altra regione: perchè
non voleva pagare il tributo244. Il Senato si affrettò a
passare ad Augusto la Dalmazia; e Augusto ordinò a Tiberio di
trasportarci l’esercito che l’anno prima aveva repressa
l’insurrezione pannonica245. Ma nel tempo stesso precipitavano le
cose della Tracia da tanto tempo in bilico, e con più larga e
impetuosa rovina che non si fosse previsto. Un fanatico prete di
Dionisos, raccolta una piccola banda di partigiani, aveva preso a
percorrere la Tracia, predicando la guerra santa contro Roma, la
insurrezione contro la dinastia nazionale, amica e alleata di Roma.
Da ogni parte i Traci che avevano servito nell’esercito romano, i
giovani, i malcontenti erano accorsi, formando al suo seguito una
torma immensa, che con il suo numero, la sua forza, il suo calore
aveva attratto l’esercito reale, ordinato con disciplina romana,
alla rivoluzione. Tutta la Tracia era insorta; il re era stato
costretto a fuggire nel Chersoneso Tracico, nelle terre prima di
Agrippa e ora di Augusto; delle bande di Traci avevano fatto
irruzione in Macedonia; in Asia Minore si temeva pure una
invasione246. Un grosso esercito essendo impegnato in Germania e un
altro in Dalmazia, il pericolo era grave: perchè lì
vicino non c’erano forze militari pronte; e mancava un generale
sicuro.
Augusto dovè ricorrere alle legioni della Siria, e ad un
giovane che allora governava la Panfilia: a Lucio Cornelio Pisone,
il console dell’anno 15, a cui ordinò di recarsi, come suo
legatus, in Tracia a domare la rivolta con le legioni di Siria247.
Pisone era uno dei pochissimi giovani, in cui l’ingegno e il valore
non facessero ingiuria alla grandezza del nome; e che poteva esser
messo a pari di Druso e di Tiberio248. Poi Augusto tentò di
fare qualche riforma nel Senato. Poichè non si veniva mai a
capo, per quante multe si minacciassero, di raggranellare
quattrocento senatori, propose di diminuire il numero legale249. Si
lamentava da un pezzo che gli archivi del Senato fossero tenuti con
negligenza, cosicchè spesso non si trovava più il
testo autentico di un Senatusconsulto o se ne trovavano due,
differenti. I tribuni e gli edili, ai quali erano confidate queste
carte, non giudicavano ufficio conveniente alle loro troppo insigni
magistrature sorvegliare dei registri; ne lasciavano la cura agli
apparitori (uscieri, diremmo noi) i quali facevano ogni sorta di
confusioni. Fu perciò trasportata la sorveglianza degli
archivi ai questori, magistrati più giovani e più
modesti, i quali si sperava avrebbero accudito con maggior zelo
all’ufficio250. Come pontefice massimo Augusto provvide anche a
rendere più comode e più semplici le funzioni
religiose precedenti la seduta, permettendo che si facesse un
sacrificio con incenso e vino al Nume nel cui Tempio il Senato si
radunava251. Piccoli rimedi per un male tanto profondo e incurabile!
Morendo, Agrippa aveva lasciato ad Augusto la squadra dei 240
schiavi incaricati di sorvegliare gli acquedotti; e quindi anche la
cura di questo servizio pubblico. Già oppresso da
innumerevoli brighe, Augusto non volle anche questa; e fece
istituire dal Senato un nuovo ufficio: la cura aquarum, che sarebbe
dato, naturalmente a senatori252. Ma non ostante le fatiche di
Augusto, l’immenso impero restava in balìa di forze
molteplici e contradittorie, che egli, solo o quasi, non poteva
signoreggiare e dirigere che in parte. Mentre Augusto si studiava a
Roma di riformare il Senato, la guerra sfuggiva in Germania ai
prudenti disegni di Augusto. Entrando con l’esercito in Germania per
la valle della Lippe, Druso aveva trovate le popolazioni germaniche
in grande movimento. Spaventate dall’apparizione delle armate romane
e dai minacciosi propositi di Roma, molte nazioni germaniche avevano
nell’inverno trattato una alleanza difensiva: ma dalla discussione
erano nati dissensi, e questi erano cresciuti a tal segno che invece
di conchiudere una alleanza contro l’invasore, i Germani, come
spesso avveniva, si erano azzuffati tra loro. Proprio allora i
Sicambri, che avevano presa l’iniziativa della alleanza, si erano
precipitati sui Catti, che abitavano lungo il Weser; onde tutto il
territorio germanico a sud della Lippe, tra il Reno e il Weser, era
in fiamme. Avrebbe potuto un generale audace immaginare più
propizia occasione per strappare di sorpresa ai Germani, con una
sola mossa, come Cesare aveva osato tante volte, quella resa a cui
Augusto li voleva piegare metodicamente, a poco a poco? Druso, in
cui ardeva una scintilla del genio di Cesare, aveva eseguito da
prima con avvedutezza il piano di Augusto: sottomessi gli Usipeti,
risalita la Lippe, per congiungersi con l’esercito che, combattendo
qualche scaramuccia, risaliva l’Ems. Ma a questo punto, fatta la
congiunzione, invece di incominciare la costruzione del campo
fortificato deviò dal piano di Augusto e con una mossa audace
si buttò nell’ignoto sulle traccie della fortuna, come un
nuovo Cesare. Raccolse in fretta e furia dei viveri; prese
probabilmente con sè soltanto una parte dell’esercito, la
migliore; traversò il paese dei Sicambri deserto, invase il
territorio dei Tencteri che, spaventati da quella apparizione
improvvisa, si sottomisero; avanzò rapidamente nel territorio
dei Catti, piombò addosso ai due contendenti, li
separò, li percosse e li costrinse tutti e due a riconoscere
la signoria romana: si spinse con rapida marcia sino al Weser.
Perchè aspettare pazientemente dagli anni, come premio della
prudenza, quello che in pochi mesi poteva ghermirsi con l’audacia? E
l’impressione della fulminea aggressione fu così grande, che
se la mancanza di viveri non lo avesse costretto a ripiegare verso
il Reno, Druso non sarebbe stato alieno dal ripeter per tutta la
Germania la mossa fatta da Cesare nella campagna dei Belgi e
approfittando dello stupore da cui tutta la Germania era colpita,
passare anche il Weser e falciare in tutta la barbara Germania, sino
all’Elba, una larga messe di sottomissioni. Ma i viveri si
esaurivano; il territorio non bastava a nutrire l’invasore; Druso
dovè accontentarsi dei resultati ottenuti e disporsi a
ritornare nella valle della Lippe253. Intorno al tempo stesso Pisone
entrava con l’esercito nella Tracia e affrontava i ribelli, con poca
fortuna in principio254. Tiberio invece aveva miglior successo in
Dalmazia: senonchè mentre egli combatteva in Dalmazia, i
Pannoni insorgevano di nuovo255. La situazione non doveva parer
molto favorevole, nell’estate dell’11; e per poco nell’autunno non
fu aggravata da un disastro. Ritirandosi, Druso incominciò ad
essere molestato dalla guerriglia dei vinti; e alla fine
cascò in una imboscata, non molto dissimile da quella che i
Nervii avevano preparata a Cesare. Per un miracolo, Druso non
pagò il fio di aver imitato Cesare e scampato con l’esercito
da un annientamento totale, le cui ripercussioni sarebbero state
immense, potè ritornare sulla Lippe, dove in un luogo
disputatissimo dagli storici, egli si accinse a mettere ad
esecuzione il piano prudente di Augusto256. Egli diè l’ordine
di costruire il castello, a cui doveva essere posto il nome di
Aliso; ritornò in Gallia; deliberò di fondare un altro
castello sul Reno “nel territorio dei Catti” dice lo storico antico,
e cioè probabilmente il castello che doveva poi diventare la
città di Coblenza; e tutto disposto, ritornò a Roma. I
soldati avevano acclamato lui, come già Tiberio, imperator:
ma Augusto non riconobbe valido il titolo, secondo la antica
consuetudine, Druso essendo un legatus. Il Senato invece gli
assegnò gli ornamenti trionfali, il permesso di entrare a
cavallo in Roma, e il potere proconsolare, sebbene fosse stato
ancora solo pretore.
A Roma Druso dovè pronunciare il discorso funebre di Ottavia,
la sorella di Augusto, la vedova di Antonio, la madre di Marcello e
della sua sposa257. Anche questa dolce figura, che l’Italia aveva
vista, or lieta or triste, ma sempre diritta tra le bufere della
rivoluzione; che dopo la morte di Marcello si era ripiegata sul
cenere del figlio diletto verso l’abisso dell’oblio e del silenzio,
nell’abisso spariva.... Ed anche questa volta popolo e Senato
volevano prodigare alla defunta troppi onori. Augusto
ricusò258. Tiberio invece sembra essersi recato al cominciare
dell’inverno ad Aquileia con Giulia, che era incinta259. Egli
cercava di vivere d’accordo con la nuova sposa, datagli da Augusto;
ma non poteva dimenticare la dolce Agrippina, passata in altra casa;
e il suo cuore si gonfiava di affanno, quando pensava a lei restata
laggiù a Roma, dove egli non voleva tornare più per
non rivederla e soffrire260. Questo taciturno orgoglioso, sempre
chiuso in sè stesso, era un uomo di passioni semplici e
intense. Da Aquileia sul principio dell’anno 10 – era console in
questo anno Julo Antonio, il poeta, il figlio di Fulvia e di Antonio
– Tiberio mosse incontro ad Augusto, che ancora una volta aveva
dovuto lasciare, prima della fine dell’anno Roma, le riforme e
l’amministrazione interna, per avvicinarsi ai campi di battaglia,
dove si combattevano guerre così gravi, e recarsi in Gallia;
ma Tiberio aveva appena incontrato Augusto, che gravi notizie
giunsero dall’Illirico. I Daci avevano passato il Danubio gelato e
invasa la Pannonia, i Dalmati si rivoltavano di nuovo! Augusto
rispedì subito Tiberio in Pannonia a ricominciare la sua
faticosa campagna261, nel tempo stesso in cui Pisone, con lentezza e
con pazienza riconquistava a palmo a palmo la Tracia262. In Germania
invece, nell’anno 10, sembra esserci stata una specie di tregua: la
edificazione di Aliso e di Coblenza263 fu alacremente continuata, ma
non sembra si siano combattute vere battaglie264. Fu questa pausa
voluta dalla prudenza di Augusto che, fermo nel pensiero di
conquistare la Germania a poco a poco, con il muro oltrechè
con la spada, volle aspettare e veder l’effetto della ardita
spedizione dell’anno precedente? Eppure l’impressione della ardita
mossa di Druso era stata profonda sulle mobili popolazioni
germaniche; alcune delle quali, spaventate, deliberavano di
sgombrare il terreno alla invasione di Roma e di andar cercando
altre sedi. Tra questi i Marcomanni, che forse in questo tempo,
sotto la condotta di Marbod, quel nobile che aveva vissuto
lungamente a Roma, incominciarono la loro emigrazione verso la
regione che fu detta poi Boemia. Amico di Augusto, ammiratore del
grande impero, Marbod non voleva che il suo popolo venisse alle
prese con le legioni; preferiva portarlo in terre nuove, dove
sperava di poter fondare un governo più stabile e ordinare un
esercito con disciplina romana: munire cioè la barbarie
germanica con le armi fabbricate dalla civiltà greco-latina.
Tanto più vigorosamente un nuovo Cesare avrebbe continuata la
mossa incominciata l’anno precedente da Druso, approfittando di
questo passeggero timore. Ma Augusto non era soltanto un guerriero,
era un intellettuale, un amministratore, un organizzatore, un
sacerdote. E incominciò così, da questo anno,
l’alternativa delle due strategie: quella dell’ardimento, e quella
della pazienza, che continuerà in tutta la guerra.
In questo anno, il 1.° agosto, i capi di sessanta nazioni
galliche radunati a Lione, inauguravano alla confluenza del Rodano e
della Saona l’altare di Roma e di Augusto. Sacerdote fu eletto
l’eduo Gaio Giulio Vercundaro Dubio265. Memorabile data nella storia
di Europa! Prima tra le provincie europee, più sollecita
perfino di molte nazioni orientali come la Grecia, la Gallia
adottava quel culto dei sovrani viventi, che era nato in Egitto e
che l’Asia Minore aveva trasportato ad Augusto ed a Roma. Neppure la
Gallia, che era così vicina all’Italia e che sino a pochi
decenni prima si era governata con istituzioni elettive e
repubblicane, neppur la Gallia riusciva a capire quell’artificioso
ordinamento del supremo potere nella repubblica con cui Roma avea
posto fine alle guerre civili; anche la Gallia interpretava il
potere di Augusto all’orientale, vedeva in lui un monarca asiatico
personificante lo Stato. Dalla tradizione celtica la Gallia
scivolava rapida, non verso le idee latine, ma verso le idee
orientali, nelle cose politiche; si disponeva a servire e a venerare
Augusto, come gli Egiziani e gli Asiatici avevano un tempo venerati
e serviti i Tolomei e gli Attali. Augusto diventava un Dio e un
monarca, in Gallia come in Oriente! Il 1.° agosto dell’anno 10
a. C. si poneva a Lione la prima pietra dell’edificio, ancor oggi
quasi intatto, della monarchia europea.
In quello stesso giorno Antonia partoriva in Lione un bambino: il
futuro imperatore Claudio266. Era il terzo figlio del giovane
generale. Anche il conquistatore della Germania era in regola con la
lex de maritandis ordinibus.
VI.
GIULIA E TIBERIO.
Frattanto Roma aveva eletto console per l’anno 9 Druso, il
prediletto degli Dei, di cui l’Italia, dopo le gesta germaniche,
pronunciava il nome non più con amore soltanto, ma con
immenso orgoglio. Poi, sul declinare dell’anno, Augusto, Tiberio,
Druso ritornarono a Roma, che li accolse con feste ed onori267. Ma
prima che l’anno finisse, Druso era già ripartito per la
Germania, lasciando il collega assumere solo, il 1.° gennaio, i
fasci268. Di questa fretta si può dare una doppia
spiegazione: o che Druso avesse finalmente persuaso Augusto esser
tempo di percuotere la barbarie germanica con un colpo vigoroso; o
che a Roma fosse giunta la notizia essersi i Cherusci e gli Svevi
alleati con i Sicambri e prepararsi a invader la Gallia, spartendosi
anticipatamente la preda: i Cherusci i cavalli, gli Svevi l’oro e
l’argento, i Sicambri gli schiavi269. Comunque sia, questo è
certo: che Druso, appigliandosi questa volta definitivamente alla
strategia cesariana, dopo aver consacrato tra i Lingoni un nuovo
tempio di Augusto270, attraversò nell’anno 9 con un poderoso
esercito la Germania, e arrivò combattendo prima sino al
Weser e poi sino all’Elba. Con che forze, con che mezzi, per quali
vie, attraverso quali vicende e difficoltà, noi non sappiamo:
sappiamo invece che, raggiunta l’Elba, Druso era sulla via del
ritorno al principio di agosto271. Intanto Augusto, in questa prima
parte dell’anno 9, aveva fatta a Roma una nuova riforma del Senato:
la quarta o la quinta in diciotto anni! Ma i farmaci adoperati sino
allora non avevano fatto effetto alcuno; neppur dopo averlo ridotto,
si poteva raccogliere il numero legale; e la misura dello scandalo
era colma! Bisognava tentare una riforma definitiva, adoperare mezzi
finalmente efficaci. Smesso il proposito troppo eroico di
sradicarla, Augusto si acconciò questa volta a venire a patti
con l’infingardaggine senatoria, per rifare insieme e d’accordo, in
luogo del monumentale Senato che egli aveva sperato ripristinare, un
mezzo Senato, se non alacrissimo e vigoroso, almeno non
scandalosamente torpido272. Egli studiò e propose al Senato,
pregando i senatori di studiarla bene pur essi prima di approvarla,
una nuova regola, che, più leggera dell’antica, doveva essere
però più rigorosamente osservata. Le sedute
obbligatorie furono ridotte a due per ciascun mese e fissate
preventivamente alle Calende e agli Idi, cioè al principio e
alla metà del mese, lasciando liberi gli intervalli273; per
quei giorni furono sospesi tutti gli altri pubblici uffici274; per i
mesi di settembre e di ottobre – i mesi delle vendemmie – fu
concessa una facilità anche maggiore: che cioè solo
una parte del Senato fosse obbligata di intervenire e quella parte
tratta a sorte275. Ma concesse queste facilità, fu aumentata
la ammenda agli assenti senza motivo; e fu deliberato che se gli
assenti fossero molto numerosi, si trarrebbe a sorte la quinta parte
e questa sarebbe multata276. Quanto al numero legale, si mutò
pure la regola antica, fissando un diverso numero di voti per la
validità dei senatusconsulti, secondo l’importanza delle
deliberazioni, che furono perciò classificate in un certo
ordine277. Infine – e fu la novità di maggior momento
introdotta nello Stato da questa riforma – si costituì una
specie di piccolo Senato nel grande; si deliberò cioè
che ogni sei mesi si traesse a sorte un Consiglio di quindici
senatori, i quali per tutto il semestre resterebbero a Roma a
disposizione di Augusto, e con i quali egli delibererebbe le cose
tutte importanti ed urgenti, che il Senato ratificherebbe278 nelle
sedute plenarie delle Calende o delle Idi successive. Si
alleggerivano i carichi della dignità senatoria, spartendoli
tra tutti; ma Augusto sarebbe sempre assistito, se non dall’intero
Senato, dal consilium, il quale doveva rappresentare intorno a lui
il Senato, svogliato, neghittoso, occupato a mietere, a vendemmiare,
a sollazzarsi.
Aveva dunque ragione Orazio di lodare intorno a questo tempo la
molteplice alacrità del presidente:
Cum tot sustineas et tanta negotia solus,
Res Italas armis tuteris,
moribus ornes,
Legibus emendes....279
E le faccende crescevano ad Augusto ogni giorno; la guerra si
prolungava in Germania e nelle provincie illiriche; la situazione
interna peggiorava. Il superstite spirito puritano della vecchia e
la progrediente corruzione della nuova generazione incominciavano a
combatter tra loro, ma con armi avvelenate e insidiose. Nessuno
poteva ormai più dubitare che la generazione cresciuta dopo
le guerre civili, invece di ascoltare gli ammonimenti severi dei
vecchi e ravvedersi, corrompeva rapidamente di nuovo tutte le cose,
che la generazione precedente aveva tentato di purificare nelle
correnti del romanesimo antico. Quanto la nuova generazione fosse
scettica, egoista, gaudente, poteva vedersi in Roma: dove Ovidio si
atteggiava a maestro spirituale della giovane nobiltà280;
dove non ostante le rimostranze di Augusto, di Tiberio e di Livia,
Giulia ricominciava a dar l’esempio di un lusso illegale, proprio
nella casa che avrebbe dovuto insegnare a tutte le altre la rigorosa
osservanza della legge suntuaria dell’anno 18281; dove la plebe
chiedeva ai grandi, alla repubblica, ad Augusto pane, vino,
sollazzi, denari, senza discrezione, ad ogni istante, con una
insolenza ribelle ad ogni freno282; dove tutti i ceti, i sessi, le
età facevano calca e si precipitavano frenetiche ad ogni
sollazzo, lasciando nella ressa brandelli di dignità, di
pudore, di innocenza. Sulle scalee dei teatri Roma pareva
compiacersi sopratutto di distendere in vista di tutti il proprio
disordine morale: onde i lamenti si levavano da ogni parte verso
Augusto, il quale, naturalmente, avrebbe dovuto correggere anche gli
spettacoli a più decente castigatezza. I tentativi fatti per
creare un teatro nazionale imitato dai grandi modelli classici, e
perciò serio, morale, artistico, erano falliti. Anche le
classi alte amavano più gli scenari spettacolosi e le azioni
macchinose, che la rappresentazione di delicate opere letterarie,
piene di umore, di filosofia o di pathos283. Immaginarsi il
popolino, la plebecula, per necessità illetterata! I teatri
della comedia e della tragedia muggivano come le selve del Gargano o
il mare Toscano284; tanto era il raccoglimento e il rispetto con cui
il pubblico ascoltava le laboriose opere dei poeti più
insigni. I versi più elaborati, gli squarci più
patetici, i pensieri più profondi e morali erano travolti,
sbattuti, dispersi da quel chiasso, come delle povere foglie da un
vortice di vento. Un bel pugilato, una grande corsa di carri, una
cruenta caccia di belve, un buon macello di gladiatori valevano
più che tutti i capolavori del teatro antico e
contemporaneo285. Senatori e plebei, uomini e donne, vecchi e
giovinetti erano tutti spinti in torma da una passione maniaca, da
cui neppure Augusto era immune, verso quegli spettacoli; le matrone
correvano ad ammirare gli atleti nudi, i giovinetti a veder sgozzare
le fiere; uomini e donne si mescolavamo sugli stessi banchi, in uno
stesso delirio di crudeltà e di lascivia, ai giuochi dei
gladiatori286. Tutte le classi prendevano ormai un tal diletto dalla
vista del sangue, che Augusto dovè proibire si indicessero
lotte di gladiatori all’ultimo sangue287: se no, il pubblico avrebbe
reclamato un macello ad ogni spettacolo. La crudeltà senza
pericolo, la più orrenda e la più ignobile delle umane
passioni, era la voluttà in cui la oligarchia signora
dell’impero si inebriava con più vivo trasporto!
Naturalmente, in questo turbine di sollazzi, la morale si rilassava;
le grandi leggi sociali dell’anno 18 perdevano forza, e i vizi
osavano ormai far loro sfregio apertamente, assalirle e violarle,
senza che l’autorità tentasse più di imporne
l’osservanza perfetta: gran cruccio questo, e motivo di rammarichi
amari agli ammiratori del buon tempo antico, ai tradizionalisti,
agli uomini onesti davvero, a quelli onesti per forza, per difetto
dei mezzi necessari a peccare: onde tutti, disperando di poter
raffrenare altrimenti la corruzione dilagante, per rappresaglia e
per disperazione, incoraggiavano la mala genìa degli
accusatori di mestiere, che aveva a maestro Cassio Severo. Le
persone dabbene disprezzavano questi abominevoli mestieranti della
calunnia, che gonfiavano di strane invenzioni gli scandali veri,
piccoli e grandi; che fomentavano nella moltitudine le più
basse passioni, insegnandole a sputacchiare e a calpestare nei
tribunali le persone appartenenti alle alte classi e a tramutare i
giudizi in una succursale dell’Anfiteatro. Qui si sgozzavano i
gladiatori, là uomini e donne illustri. Eppure anche molte
persone dabbene, accanto agli invidiosi ed ai vili, erano indotte a
tollerare, a scusare quelle accuse: se i censori non c’erano
più, se Augusto adoperava così mollemente i poteri
della praefectura morum et legum, che altro mezzo c’era, con cui
contenere le inclinazioni malvagie delle nuove generazioni?288 Anzi,
non pochi lamentavano perfino che la legge intralciasse la prova dei
delitti contro i ricchi, vietando che si ponesse lo schiavo alla
tortura, per estorcergli testimonianze contro i padroni. Quali
testimoni potevano illuminare la giustizia sui disordini e i delitti
commessi nella famiglia, se si escludevano i servi?289 Nei processi
di adulterio sopratutto la testimonianza degli schiavi poteva essere
decisiva, molto spesso. Ma ad altri – e non a torto – spiaceva che
ignobili calunniatori usurpassero l’ufficio quasi sacro del censore;
molti giudicavano pericolosa questa furia di provare ad ogni costo
ogni accusa, anche con prove immaginarie con deposizioni di servi
mendaci290. I processi così condotti lasciavano lunghi
strascichi di rancori, come sempre avviene quando la viltà
universale lascia il ricattatore coprirsi il volto con la maschera
di purificator dei costumi e atteggiarsi a vendicatore del giusto e
del retto; lo spirito pubblico smarriva, tra queste zuffe
giudiziarie, il senso del vero e del giusto, e per seguire le
discussioni dei processi trascurava le faccende gravi davvero. Anche
allora, mentre Druso combatteva in Germania, Roma era intenta –
occhi ed orecchi – ad un clamoroso processo di veneficio, promosso
contro un personaggio appartenente alla più insigne
aristocrazia e amicissimo di Augusto, Caio Nonio Asprenate. Cassio
Severo, naturalmente, accusava291. Che delitto potesse essere
ragionevolmente apposto a Nonio, noi non sappiamo: sappiamo invece
che Cassio Severo, al solito, lo accusava di aver preparato un
orrendo intingolo, con cui aveva data la morte nientemeno che a 130
persone!292 Spaventati dall’accusatore più che dalla accusa,
dalla sciocca credulità pubblica, dallo stupido accanimento
del volgo contro gli accusati ricchi, Nonio e la sua famiglia si
rivolsero addirittura ad Augusto, affinchè assumesse la
difesa dell’accusato. Ma Augusto non voleva neppure disgustare
questi ignobili mestieranti di accuse; non voleva contendere alle
classi medie e ignoranti la soddisfazione platonica di qualche
processo, in cui ogni tanto un ricco fosse fatto a pezzi.
Titubò quindi, cercò di scusarsi; poi, per trarsi di
impiccio, pensò di proporre al Senato il quesito: poteva egli
difendere Nonio o no? Dubitava egli che se lo difendeva, sembrasse
voler gettare la sua autorità sulla bilancia della giustizia
a favore di tale che poteva essere reo; se rifiutava, paresse
già condannare, abbandonandolo, chi poteva risultare
innocente293. Unanime il Senato lo autorizzò ad assumere la
difesa: ma Augusto non fu ancora contento; e il dì del
processo venne, sì, a sedere tra i difensori, ma fece solo
atto di presenza, non pronunciò una parola, ascoltò
impassibile, senza alcuna protesta, la violentissima accusa di
Cassio Severo294. Nonio fu assolto; ma Augusto consolò di
lì a poco Cassio Severo dell’insuccesso, salvandolo a sua
volta da una accusa intentatagli, e dicendo che la perversità
dei tempi richiedeva simili accuse e simili accusatori295. Essere il
figlio di Cesare, il presidente del Senato e della repubblica, il
primo uomo dell’impero, il capo del culto, e dovere accarezzare un
mascalzone come Cassio Severo: a che serve allora la grandezza umana
e quanto vale?
Eppure, non ostante i processi e gli scandali, la corruzione e
l’egoismo dilagavano. Ovidio, dopo aver composte parecchie
imaginarie epistole poetiche di amanti famose nella leggenda e nella
storia, osava comporre in metro elegiaco, e sotto gli occhi della
lex Julia, addirittura un manuale del perfetto adultero: l’Ars
Amatoria. Accanto alla disobbedienza aperta, sfacciata, beffarda
delle grandi leggi sociali dell’anno 18, si divulgava, più
comune e più pericolosa, la disobbedienza ipocrita e
invulnerabile che ne violava lo spirito nascondendosi sotto
l’osservanza scrupolosa della lettera. La lex de maritandis
ordinibus aveva, sì, costretti, castigando il celibato, molti
cittadini romani a contrarre matrimonio; ma nessuno aveva previsto
che l’egoismo civico delle altre classi troverebbe il modo di
burlare la legge anche nel matrimonio, non generando figlioli.
Nell’ordine equestre sopratutto, in quella che noi chiameremmo la
borghesia agiata, cresceva il numero delle coppie che non avevano
figli, perchè non volevano generarli. Il più raffinato
modo di vivere, il desiderio di godere maggiormente i più
svariati piaceri che la crescente influenza egiziana diffondeva in
tutte le classi, acuiva questo egoismo sopratutto nelle famiglie
agiate ma non ricche, le quali non potevano aumentare le loro spese
dalle due parti, vivendo meglio e crescendo di numero, senza
rovinare nei debiti. Non ostante infatti la crescente
prosperità, che aumentava il valore di tutte le cose,
c’erano, anche in Roma, più debiti che non convenisse ad uno
Stato bene ordinato296. Molti dovevano dunque o immolare alla
propria discendenza i maggiori godimenti che i tempi nuovi offrivano
in tanta copia; o immolare quella a questi, spegnere nel germe la
progenie destinata a continuarli nel tempo, rassegnarsi a perire
interamente alla fine della propria esistenza, pur di vivere meglio
la breve ora di questa terra. A questo secondo partito si
appigliavano i più; onde l’ordine dei cavalieri si isteriliva
rapidamente, e tutti gli uomini solleciti del pubblico bene, a mano
a mano che il male si scorgeva maggiore, più vivamente si
dolevano che la legge sul matrimonio fosse così circuita297.
Questa infatti non aveva voluto obbligare i cittadini al matrimonio,
per appaiare ogni uomo ad una donna, per farli vivere nella stessa
casa e dormire nel medesimo letto, ma per rifornire la repubblica di
uomini. Se l’ordine dei cavalieri si isteriliva, le radici stesse
della costituzione aristocratica si disseccavano: perchè
l’ordine senatorio si rinnovava dall’ordine equestre; perchè
ingrandendo l’impero e rimpicciolendo la nobiltà senatoria,
bisognava scegliere più largamente nell’ordine equestre i
magistrati civili e gli ufficiali delle legioni. Pare, ad esempio,
che già ai tempi di Augusto tutti i corpi di cavalleria
reclutati tra i sudditi barbari fossero comandati da membri
dell’ordine equestre298; come tra i cavalieri Augusto sceglieva
molti dei procuratori incaricati di vigilare la riscossione dei
tributi nelle sue provincie, i governatori dell’Egitto e del Norico.
L’ordine equestre insomma diventava quasi la seconda nobiltà
di riserva, che potrebbe sostenere la costituzione aristocratica, se
la prima nobiltà veniva meno; a mano a mano che l’ordine
senatorio impigriva, tutti riponevano le loro speranze nell’ordine
equestre, il cui zelo civico poteva almeno sentire uno stimolo:
l’ambizione di salire alle nobiltà superiori e di accrescere
con gli stipendi dello Stato la propria fortuna. Ma se anche
l’ordine dei cavalieri si isteriliva, come si governerebbe lo Stato?
Chi comanderebbe nelle legioni e nei corpi ausiliari? Era cosa
pericolosissima che l’egoismo civico penetrasse così negli
strati più larghi della società.
Onde non pochi incominciavano a pensare che occorresse riformare la
lex de maritandis ordinibus per modo da allargare le sue sanzioni
dal celibato alla sterilità volontaria dei matrimoni. Per il
momento però il male non era ancora così grave, che le
volontà si movessero ad agire. Si osservava soltanto; si
recriminava; si proponeva. Frattanto nell’estate Augusto era andato
nella valle del Po, forse per avvicinarsi ai due legati che
combattevano in Pannonia e in Germania; ed era giunto a Ticino
(Pavia). Quando, in Agosto, gli giunse una terribile notizia: il
giorno 13 Druso, giunto l’esercito in un luogo che invano gli
storici ricercano da secoli, era caduto da cavallo e si era rotta
una gamba. Non potendo più comandare l’esercito e non osando
affidarlo, in pieno territorio nemico, a uno degli ufficiali, Druso
si era fermato, aveva fatto costruire un accampamento; e spediva ad
Augusto un messaggio, pregandolo di mandar subito un altro generale
capace di ricondurre le legioni e lui medesimo, se egli non fosse
frattanto guarito299. Per fortuna poco prima che giungesse il
nefasto annuncio dalla Germania, era giunto a Ticino Tiberio, che
aveva lasciata la Pannonia, in quell’anno meno inquieta del solito.
Senza seguito, con una sola guida, viaggiando dì e notte,
Tiberio valicò le Alpi e fece quasi di corsa, senza riprender
fiato, poco meno che 200 miglia300. Ma giunse appena a tempo a dar
l’ultimo abbraccio al diletto fratello, al prediletto degli
dèi, che moriva probabilmente per un’infezione seguita alla
ferita301, a 30 anni, in piena gloria e in piena felicità,
dopo aver vissuta una ora breve ma luminosa, senza sospettare la
caducità dell’opera per la quale moriva, senza aver veduto,
nel crepuscolo occiduo dell’agonia, il nembo di dolore e di vergogna
che già si levava sulla superba fortuna dei suoi. Ma che
schianto, nel cuore dell’Italia, quando la funerea notizia
volò di città in città, giunse fino nelle
più remote campagne, battè alla porta dei più
lontani casolari! Impotente contro il destino, la costernata nazione
volle esprimere almeno il suo cordoglio con l’interminabile
funerale, che accompagnò il cadavere dal letto di morte in
Germania al rogo e all’eterno riposo di Roma. Sino agli accampamenti
di inverno, il feretro fu portato a spalle dai centurioni e dai
tribuni militari: sottentrarono poi, dagli accampamenti di inverno,
i decurioni e i notabili delle colonie e dei municipi a darsi il
cambio in quell’ufficio di estrema pietà302. Tiberio
precedeva, sempre a piedi, in segno di lutto303. La piccola comitiva
valicò così, con il pietoso peso, le Alpi, scese nella
valle del Po, incontrò a Pavia i desolati genitori, e con
questi si incamminò, nella stagione invernale, alla volta di
Roma; salutata dalle popolazioni che da ogni parte accorrevano sulla
via per dare al passaggio l’ultimo addio alla spoglia mortale del
giovane, salutata dalle rappresentanze delle città, che si
facevano innanzi per condolersi con Augusto e con Livia304. I
funerali a Roma furono celebrati con grandiosa solennità,
presente tutto il Senato, tutto l’ordine equestre, un infinito
numero di cittadini305. Il corpo fu portato tra le imagini dei
Claudi e dei Livi nel Foro ed esposto; qui Tiberio pronunciò
un discorso; poi i cavalieri lo portarono nel Campo Marzio, dove il
rogo arse finalmente: un rogo pacato e triste, quanto diverso dal
rogo turbolento di Cesare!306 Augusto pure, dopo Tiberio, disse nel
circo Flaminio un elogio dell’estinto, in cui raccomandò ai
giovani l’esempio suo, augurò con parole commosse che i due
figli di Agrippa da lui adottati crescessero a imagine e simiglianza
di Druso, che a lui gli dèi concedessero di morir così
bene, come Druso, servendo la repubblica307. Il Senato votò
molti onori alla memoria del morto, tra gli altri, che gli fosse
dato il titolo di Germanico ereditario nella famiglia; e alla madre,
a Livia, concesse tutti i privilegi dei tre figli, sebbene non ne
avesse avuti che due, quasi a significare che Druso solo valeva per
tutti308.
Così morì Druso, amaramente rimpianto dalla patria,
amarissimamente rimpianto, come vero suo figlio, dal patrigno; e non
solo per affetto paterno. Dopo la morte prematura di Agrippa, questa
morte acerba aggiungeva perdita a perdita. Augusto era, dal
disfacimento progressivo del Senato, obbligato a far via via
maggiore assegnamento sui parenti più stretti e sugli amici
più intimi, sopratutto per la politica estera. Questa, si sa,
richiede una certa continuità. Nei bei tempi della
aristocrazia, il Senato con la sua concordia, con la sua
perseveranza, con la sua saldezza monumentale, con il grande
prestigio aveva potuto sospingere verso il successo, sopra linee
continue, la politica estera, anche commettendo errori non
infrequenti; anche mutando ogni anno i proconsoli e i propretori
incaricati di eseguire i suoi piani diplomatici e militari; anche
adoperando insieme uomini eccellenti, mediocri, cattivi. Qualunque
fosse in ogni tempo la faccenda più urgente, non mancavano
mai allora nel consesso i senatori autorevoli che la conoscessero,
che ricordassero i precedenti, che studiassero attentamente il corso
degli eventi e che fossero in grado di illuminare i propri colleghi,
i quali alla fine sapevano scegliere un piano ed eseguirlo. Allora
invece quel Senato, prostrato da una estenuazione incurabile, che
non riusciva più nemmeno a radunarsi in numero, aveva
commessa ad Augusto tutta la politica estera, perchè non si
sentiva più nè la volontà nè la
capacità di dirigerla. Augusto si ritrovava quindi quasi solo
innanzi alla sfinge dell’ignoto e dell’imprevedibile, che si
accovaccia, misteriosa, in fondo all’avvenire; solo doveva tentar di
decifrarne gli enigmi paurosi; solo infondere nella politica estera
quella continuità, che ne è l’anima. Non più un
corpo, il Senato, saldo e immane come un molo di granito, doveva
ricevere il controcolpo degli insuccessi, ma un uomo solo, debole e
piccolo non ostante l’autorità, che poteva ragionevolmente
temere di essere investito e travolto da una catastrofe anche se
rimediabile; e perciò quell’uomo non poteva più mutar
ogni anno i suoi strumenti e adoperare insieme i buoni e i cattivi;
doveva cercare uomini di mente eletta e di animo forte, desiderare
che con la lunga pratica si facessero esperti a trattare le
più difficili faccende straniere e capaci di alleggerire a
lui delle responsabilità, per lui solo troppo gravi. Ma
trovare questi collaboratori elettissimi era cosa difficile,
specialmente per le provincie europee e per le faccende germaniche.
Il soggiorno in quelle regioni fredde, barbare, incolte non era
così piacevole come i viaggi nell’Oriente, opulento di tante
accumulate dovizie e splendido di così antica civiltà;
come Cesare non aveva potuto conquistar le Gallie se non con
pericoli e con fatiche molto maggiori che i pericoli affrontati e le
fatiche sopportate da Lucullo e da Pompeo per conquistare l’Oriente,
la politica germanica, pannonica, illirica, cui lo sviluppo della
Gallia attribuiva tanta importanza, richiedeva dalla aristocrazia
romana una abnegazione molto più grande che la politica
orientale. E invece non c’era virtù da cui la nuova
generazione fosse più aliena che l’abnegazione. Quanti erano
ormai i giovani che acconsentirebbero a restar molti anni lungi da
Roma, in regioni aspre e fredde, alle frontiere della barbarie,
combattendo e vigilando senza tregua, trattando diplomaticamente,
informando Augusto accuratamente di tutto? Egli aveva avuta la
fortuna di trovarne due nella famiglia sua: Tiberio e Druso; ed ecco
l’invida sorte gliene rapiva uno. Augusto doveva piangere amaramente
Druso, perchè, lui morto, egli non poteva più fare
assegnamento, per tutta la politica germanica, gallica, illirica e
pannonica che su Tiberio: il quale era un uomo di guerra non meno
eccellente di Druso, ma di Druso non possedeva la duttilità,
la amabilità, la popolarità. Tiberio era ormai il
principale collaboratore di Augusto, il primo uomo dell’impero dopo
il princeps, il suo eventuale successore: perchè
dopochè Roma si era impegnata nella conquista della Germania,
il capo della repubblica, il comandante dell’esercito doveva essere
un esperto uomo di guerra e un conoscitore profondo delle faccende
germaniche. Ora nessuno a Roma superava Tiberio come generale e
nella conoscenza della Germania. Ma insomma Tiberio solo non bastava
ai bisogni di un tanto impero; e due fatti dovevano scemare ad
Augusto la gioia di poter fare assegnamento sopra un generale ed un
diplomatico così capace: l’uno, che Tiberio incominciava ad
avere molti nemici; l’altro, che già tra lui e Giulia si
insinuava insidiosa la discordia. A mano a mano che i giovani
aristocratici coetanei suoi si infrollivano a Roma nei piaceri, nel
lusso, nell’ozio, sui libri belli e perversi di Ovidio, Tiberio si
induriva, si romanizzava, si rifaceva antico nel pensiero e nel
costume, tra le battaglie, in mezzo ai campi militari, in faccia
alla torbida marea della barbarie, che egli da tanti anni vedeva
rompersi ai suoi piedi contro le fragili frontiere del vasto impero.
Mentre i suoi compagni celebravano a Roma lo spensierato festino
della pace, egli vedeva addensarsi sui confini il pericolo
germanico, pannonico, tracico, che potrebbe un giorno scatenarsi
anche al di qua delle Alpi, se Roma non potesse opporgli un
validissimo esercito. Rafforzare gli eserciti, gli pareva dunque
suprema urgenza: ma dove si sarebbero preparati gli ufficiali e i
generali delle legioni? Forse nelle scuole dei retori e dei filosofi
greci, nelle sacrestie dei sacerdoti di Iside, nelle botteghe dei
mercanti egiziani, tra le braccia delle ambubaie siriache? Non c’era
altra scuola di valore e di spirito guerresco che la antica famiglia
romana, con gli antichi severi costumi, con le antiche severe
tradizioni. Tradizionalismo e militarismo equivalevano. Onde questo
militarista fanatico si infervorava a voler essere interamente,
schiettamente, purissimamente romano nelle idee, nei costumi, nei
sentimenti, in mezzo ad una generazione che si ellenizzava
rapidamente. Benchè conoscesse benissimo il greco, aveva
cura, quando parlava in Senato, di non adoperare alcuna di quelle
parole greche, che così spesso le persone colte
frammischiavano al discorso latino, quando trattavano qualche
soggetto serio309; non voleva farsi curare da medici scienziati, che
erano tutti orientali, ma preferiva ricorrere alle ricette
tradizionali nelle famiglie romane310; sebbene una legge,
probabilmente fatta approvare nel 27 a. C.311 autorizzasse i
proconsoli e i propretori a salariare i loro ufficiali, e sebbene
fosse ormai necessario stimolare con l’oro il torpore civico dei
senatori e dell’ordine equestre, Tiberio non approvava questa
novità, che sovvertiva uno dei principi fondamentali della
società aristocratica: e dava soltanto dei viveri, giammai
del denaro, all’antica312. Tutti, più o meno, cedendo alla
inclinazione dei tempi, sfarzeggiavano: egli Tiberio, novello Catone
Censore, vituperava il lusso della nobiltà come un
tradimento, perchè fomentava i vizi e la mollezza,
perchè incanalava fuori dell’impero, alla volta dell’India e
della Cina, in cambio di gemme e di sete, i metalli preziosi che
sarebbe stato più savio spendere a rinforzar le frontiere313.
Era anche avverso alle grandi spese pubbliche di lusso, alle troppo
frequenti largizioni di denaro, che il popolo domandava con
crescente instanza314; avrebbe voluto, in luogo della facile finanza
di Augusto, ristabilire la rigida amministrazione della vecchia
aristocrazia; biasimava sopratutto la condiscendenza con cui si
lasciavano saccheggiare dai privati i beni della repubblica315. Non
solo voleva applicate con vigore le leggi sociali dell’anno 18, ma
parteggiava per una riforma della lex de maritandis ordinibus che
punisse anche i matrimoni sterili e obbligasse l’ordine dei
cavalieri a generare figlioli316. Ma queste idee rigidamente
tradizionali, questo fervore di romanesimo, e quel suo spirito
autoritario, quella sua inflessibilità, quella sua durezza,
quella sua severità antiquate, se facevano di lui un generale
incomparabile, piacevano poco a Roma. Il popolo che voleva
largizioni, feste, larghezze, non amava questo redivivo Catone
Censore, che voleva risparmiare la pecunia pubblica con maggior
parsimonia che la sua; la nuova generazione, che voleva applicate
blandamente o abolite addirittura le leggi sociali dell’anno 18,
diffidava di questo coetaneo che le voleva invece applicar con
vigore; quanti sfruttavano terre o miniere dello Stato avevano paura
di questo aristocratico di vecchio stampo, che anteponeva al loro
vantaggio gli interessi dello Stato; molti infine, offesi dal suo
taciturno riserbo e dalle maniere asciutte di lui, si domandavano se
questo Claudio credesse di vivere ai tempi della seconda guerra
punica, quando gli aristocratici potevano trattare a quel modo le
persone da meno di loro. Augusto anzi aveva dovuto intervenire,
quasi scusare il figliastro, assicurare Senato e popolo che quei
modi troppo aspri indicavano un difetto del temperamento non un
animo cattivo317. Frattanto questo spirito appassionato ma chiuso e
taciturno soffriva per il ricordo e il desiderio di Agrippina,
trapassata nella casa di Asinio Pollione come sposa di Asinio Gallo;
e soffriva tanto, che Augusto aveva dovuto disporre affinchè
i due antichi sposi non si incontrassero più. Troppo questi
incontri agitavano l’impassibile generale318. Giulia, come è
naturale, si stancava di vagheggiare uno sposo che, non ostante lo
sforzo di viver d’accordo, si isolava da lei nel desiderio di
un’altra. La nascita del bambino aveva sembrato per un momento
avvicinare i due sposi; ma il bambino era morto poco dopo, e subito
la tregua tentata tra gli opposti caratteri era stata rotta319.
Mentre Tiberio infanatichiva per il vecchio romanesimo, Giulia
sempre più inclinava al lusso, alla vita mondana, agli usi
nuovi, allo sfarzo orientale.
Augusto nominò Tiberio legatus nel luogo di Druso, con
l’incarico di sforzare la Germania alla resa definitiva. Provvide
poi a prepararsi due nuovi collaboratori, due nuovi aiuti da
aggiungere a Tiberio, volgendosi con zelo raddoppiato a curare
l’educazione di Caio e di Lucio Cesare, i due figli di Agrippa e di
Giulia, che egli aveva adottati. Egli stesso aveva loro insegnato a
scrivere e a leggere, li aveva tenuti quanto più poteva seco,
per evitare i contatti impuri, traendoseli dietro nei viaggi,
allorchè usciva di Roma320. Ora che era giunto il tempo di
far loro frequentare una scuola, scelse, e non a caso, maestro
Verrio Flacco. Anche nelle scuole l’arcaismo e lo spirito di
novità combattevano; e mentre certi maestri più
arditi, come Quinto Cecilio Epirota, leggevano nelle scuole gli
autori moderni e perfino i viventi, quali Virgilio e Orazio321,
altri invece intendevano sopratutto a informare lo spirito dei
giovani all’ammirazione delle vecchie età con la lettura
degli antichi. Il più celebre di costoro era appunto Verrio
Flacco: erudito e archeologo insigne, oltrechè insegnante
famoso, che lavorava allora a riordinare il calendario, a ritrovar
cioè, dopo tanta confusione e disordine, le date delle feste
civili, delle solennità religiose e dei grandi eventi; a
compilare un grande dizionario della lingua latina, raccogliendo in
esso, con le parole antiche semi-dimenticate già morte, un
tesoro di ricordi e di notizie che si perdevano322. Augusto voleva
che nella scuola di Verrio Flacco i due giovinetti si facessero una
anima antica: aveva perciò assegnata al maestro,
affinchè non risparmiasse cura alcuna, la rimunerazione di
100 000 sesterzi ogni anno323: e così veniva preparando
con una educazione rigidamente tradizionalista due collaboratori
nella sua famiglia, non perchè ambisse di fondare una
dinastia, ma perchè non aveva mezzo di prepararli nelle
famiglie altrui. Senonchè Caio aveva 12 anni e Lucio 9;
parecchi anni dovrebbero dunque passare ancora, prima che l’uno o
l’altro potessero fare le veci di Druso, troppo presto sparito! Nel
tempo stesso Augusto prese a curare anche l’educazione dei tre figli
di Druso, d’accordo con la bella e pura Antonia, che intendeva
riserbare intatta alla memoria di Druso e per i figli la sua giovane
vedovanza. Augusto non ebbe cuore di costringere anche lei, con un
nuovo matrimonio, a quella specie di adulterio postumo che la lex
Julia de maritandis ordinibus imponeva a tutte le vedove. Accadde a
Roma, intorno a questo tempo, e per una inaspettata e singolare
fortuna, di fare in Oriente un altro grande passo innanzi sui Parti,
senza fatica e senza pericolo, solo perchè l’impero dei
Parti, indebolito da interne discordie, si ritirava ancora
più. Il governatore della Siria era stato invitato a
colloquio sulla frontiera dal re dei Parti, per udire dai
rappresentanti del Re questa incredibile proposta: di ricevere in
consegna i quattro figli legittimi di Fraate, Seraspadane, Rodaspe,
Vonone e Fraate, le loro mogli e i loro figli; e di mandarli tutti a
Roma ad Augusto. Thea Mousa, la concubina italiana regalata da
Cesare a Fraate, aveva persuaso Fraate, ormai invecchiato e
rimbambito, prima a lasciare il trono al figlio di lei; e poi, per
impedire guerre civili e contrasti, a toglier di mezzo i figli
legittimi, mandandoli a vivere in decoroso esilio sulle rive del
Tevere324. La proposta, suprema aberrazione di un governo
rimbecillito di favorite e di vecchi, non poteva non essere
singolarmente gradita dal governo romano: sia perchè, essendo
re il figlio di Thea Mousa, si poteva presumere che l’impero sarebbe
governato dal partito romanofilo, e che quindi la pace non sarebbe
turbata in Oriente; sia perchè sarebbe facile di spiegare
l’atto del re all’Italia, ignara degli intrighi orditi alla corte
dei Parti, come una nuova umiliazione della Persia ai piedi di Roma;
sia perchè Roma avrebbe in sua balìa degli ostaggi
preziosi e un mezzo di poter nascostamente intrigare nella politica
partica. La proposta fu accettata, e i principi Parti portati a
Roma, “mandati in ostaggio dal re dei Parti alla repubblica” – fu
detto all’Italia; appena li ebbe, Augusto si affrettò a
mostrarli al popolo, nei grandi giuochi del Circo Massimo,
invitandoceli, facendoli attraversare solennemente l’Arena e sedere
in fine accanto a sè325. Se Tiberio riuscisse a costringere i
Germani alla resa definitiva, l’impero potrebbe godersi una lunga
pace, perchè Pisone aveva ormai quasi interamente domata la
Tracia; e la Pannonia e la Dalmazia parevano essersi quetate.
Augusto perciò voleva recarsi in Gallia, a sorvegliar
più da vicino le mosse di Tiberio. Senonchè egli
doveva prima definire un’altra questione. Con la fine dell’anno 8,
compivano venti anni che egli era a capo della repubblica e
terminavano i suoi poteri quinquennali. In mezzo a tante
difficoltà, con così scarsi aiuti, non è
inverisimile che un uomo prudente quale era Augusto non fosse
alieno, potendo, dal fare punto e lasciare ad altri il potere e la
responsabilità del futuro326. Venti anni di governo sono
lunghi, per una sola persona. Ma se egli si ritirasse, non si
potrebbe ristabilire l’antico ordine repubblicano senza il princeps
e chiudere la parentesi aperta nel 27 a. C. nella storia
costituzionale di Roma. Immaginato come un ufficio provvisorio per
ristabilire l’ordine e la pace, il principato era in venti anni
diventato un organo vitale dell’impero. Le provincie, le
città, gli alleati, i sudditi, gli Stati stranieri, avvezzi
ormai da venti anni a vedere un uomo solo a capo dello Stato,
confondevano Roma con la sua persona; tutti veneravano, amavano,
temevano lui; tutti avevano trattato, si erano intesi, speravano e
confidavano in lui: lui sparito, se non si mettesse in suo luogo un
uomo di eguale autorità, tutto l’ordine delle amicizie, delle
alleanze, delle clientele, delle dedizioni faticosamente composto in
venti anni di guerra e di diplomazia, minaccierebbe di precipitar
rovinosamente. Era difficile, ad esempio, prevedere ciò che
sarebbe successo in Germania, se Augusto si fosse ritirato a vita
privata; perchè quanti avevano occhi vedevano che il Senato,
stanco, svogliato, discorde, non sapeva più, come un tempo,
trattar la politica estera, diventata troppo molteplice, vasta,
arruffata; che questa doveva essere affidata non più ad un
magistrato ogni anno rinnovato, ma ad un magistrato eletto per
più lungo tempo, il quale sapesse e potesse vigilare le
frontiere, tenersi informato di ogni mutamento, trattare e risolvere
prontamente ogni questione, cogliendo il tempo opportuno.
Senonchè appunto una nuova difficoltà impediva ad
Augusto di ritirarsi: una difficoltà strana e paradossale; e
cioè, che allora il successore ci sarebbe stato. Se Augusto
si ritirasse, il successore non potrebbe essere, per tutte queste
ragioni, che Tiberio. Ma l’avversione contro Tiberio cresceva. Se i
soldati idolatravano il loro Biberio – lo chiamavano così per
scherzo, alludendo al suo unico vizio, l’amore del vino327; se negli
accampamenti Tiberio era universalmente rispettato come un generale
severissimo, ma giusto, valoroso, infaticabile; se gli ufficiali e i
pochi amici intimi erano compresi di profonda ammirazione per questo
uomo fermo, schietto, semplice, tutto d’un pezzo328; i pigri invece,
i raffinati, i corrotti, quanti volevano far quattrini con le
magistrature o non volevano più portare i carichi della
nobiltà per goderne soltanto i privilegi, i celibi che si
rodevano di essere stati spogliati di tante eredità dalle
leggi sul matrimonio e i coniugi senza prole che temevano di essere
a loro volta spogliati un giorno, tutti costoro avevano motivo di
temere questa virilità possente, che già allargava i
rami e le fronde sopra la declinante vecchiaia di Augusto, sin quasi
ormai a ricoprirla e proteggerla. Non c’era dubbio: Tiberio avrebbe
governato con maggior rigore di Augusto. E per questa ragione nel
Senato, nell’ordine dei cavalieri, nel popolo, i più non lo
volevano.
Volonteroso o riluttante, Augusto dovette accettare il prolungamento
della sua presidenza, non più per cinque anni ma per dieci.
La paura di Tiberio spiega forse il prolungamento: si voleva
mettersi al sicuro per dieci anni almeno. Poi Augusto partì
per la Gallia, dopo aver fatta approvare una riforma della procedura
penale, che era una nuova e piccola Filippi della aristocrazia: una
legge che permetteva di mettere alla tortura gli schiavi nei
processi contro i padroni. La legge introduceva una specie di
vendita fittizia dello schiavo o allo Stato o a sè medesimo:
dopo questa vendita lo schiavo, non appartenendo più
all’imputato, poteva essere interrogato. Finissima sottigliezza
giuridica, immaginata per dar soddisfazione a quella severità
pubblica, che voleva i castighi esemplari: ma la riforma, approvata
dagli uni come necessaria, fu molto biasimata e combattuta dagli
altri329; e a ragione: poichè Augusto disfaceva con una mano
quello che faceva con l’altra; e mentre tentava di rifar con tutti i
mezzi, economicamente e moralmente, la aristocrazia, dava alle
invidie, ai rancori, alle cupidigie delle classi medie, degli
intellettuali poveri e arrivisti questa terribile arma per
distruggere con lo scandalo, con le accuse vere e con le invenzioni,
l’onore e la fortuna della nobiltà. Una aristocrazia seria
non tollererà mai che i servi possano deporre contro i
padroni. Tanto più la aristocrazia romana avrebbe avuto
bisogno di rinnovare il suo prestigio con un grande successo nella
politica germanica! Non appena Augusto fu giunto in Gallia, Tiberio
passò alla testa di un esercito il Reno; e questo atto
bastò. I Germani erano stati già così
spaventati e scoraggiti dalla marcia di Druso, che tutte le
popolazioni germaniche, fuorchè i Sicambri, mandarono a
chiedere le condizioni della resa. Augusto rispose che avrebbe
incominciate le trattative soltanto dopochè anche i Sicambri
avessero mandati i loro ambasciatori: ma quando i Sicambri, persuasi
dagli altri popoli, ebbero mandato in Gallia il fiore della loro
nobiltà, Augusto rifiutò qualunque concessione,
domandò la resa senza condizioni e per di più ritenne
prigionieri gli ambasciatori Sicambri, decapitando così a
tradimento questo popolo valoroso. Nella guerra, se la barbarie
è feroce, la civiltà è bugiarda e sleale. Ma i
Germani per il momento si sottomisero330.
Così in quattro anni la Germania era stata conquistata sino
all’Elba, e la grande impresa di Cesare compiuta dal figlio. Nel
tempo stesso, dopo tre anni di guerra, la Tracia era definitivamente
domata da Pisone; la Pannonia e la Dalmazia si tranquillavano
definitivamente; in Oriente l’impero dei Parti pareva quasi
accovacciarsi umile all’ombra della protezione romana. Sebbene il
Senato e l’aristocrazia cadessero in deliquescenza, sebbene lo Stato
versasse in tanto disordine morale, e fosse serrato da tante
strettezze economiche, Roma aveva forza di superare tante
difficoltà. Augusto potè, dopo il suo ritorno,
attendere a togliere con una riforma del calendario certi
inconvenienti non eliminati dalla riforma di Cesare. Fu questa la
riforma che rinominò l’ottavo mese dell’anno da Augusto,
dandogli il nome che porta ancora, leggermente mutato – l’Agosto331.
Senonchè per l’inettitudine degli uni, per l’inerzia degli
altri, per la incompetenza di tutti, il governo agiva ancora, come
poteva, alla meglio, per lo sforzo di pochi, il cui compito cresceva
ogni anno. In questo anno morì Mecenate; e Augusto se non
perdè un altro collaboratore attivo come Agrippa,
perdè sempre un amico fidato e sagace, a cui poteva, in
frangenti difficili, chieder consiglio332. Anche la discordia tra
Giulia e Tiberio si inaspriva; e per cagioni particolarmente gravi.
Sembra che Sempronio Gracco, quell’elegante aristocratico che era
stato sospettato di averla già corteggiata e non invano,
quando era moglie di Agrippa, si fosse riavvicinato a Giulia,
approfittando delle nuove discordie nate con il nuovo marito333.
Certo è che i due sposi si erano alla fine separati di
letto334, e che Augusto, probabilmente per dare a Tiberio un
compenso di questi crucci, aveva consentito che Tiberio trionfasse,
e lo aveva fatto rieleggere console per l’anno 7, cinque e non dieci
anni dopo la prima elezione, in forza del senatusconsulto che a lui
abbreviava di cinque anni tutti i termini per le magistrature. In
questo anno, il 27 ottobre, morì pure Orazio.
Tuttavia l’anno 7 a. C., in cui Tiberio celebrò il suo primo
trionfo e fu console per la seconda volta, passò tranquillo.
Solo per un momento la Germania parve minacciasse un moto; e
Tiberio, mutatosi da console in legatus di Augusto, dovette
accorrere sul Reno. Ma solo per constatare che non c’era pericolo, e
per ritornare presto a Roma335. Un solo evento commosse Roma: un
grande incendio, scoppiato nelle vicinanze del Foro e che, per la
consueta negligenza degli edili, fece molti guasti. I Romani
attribuirono l’incendio a non so quale tenebroso complotto di
debitori, che avrebbero voluto con questo mezzo esimersi dal
pagare336: ma Augusto fu da quella calamità incitato a
studiar finalmente sul serio come si potesse riordinare
l’amministrazione della metropoli, sia pur facendo un altro strappo
alla costituzione aristocratica. Se in venti anni l’aristocrazia non
aveva imparato nemmeno a spegnere gli incendi e a lastricare le vie
di Roma, bisognava pur risolversi a cercare fuori delle sue fila
uomini volonterosi. Augusto però non volle nè
dipartirsi dal principio elettivo, inerente a tutta la costituzione
repubblicana, nè creare dal nulla un istituto interamente
nuovo. In molti quartieri già da un pezzo il popolino –
cittadini e stranieri, ingenui e liberti – sceglievano una persona
che preparasse i ludi compitalizi e le altre feste religiose e non
religiose del quartiere337. Augusto pensò di organare in
unica magistratura permanente per tutta Roma e con poteri più
vasti e precisi, questi uffici, sino allora quasi privati e
parziali. Propose dunque una legge che divideva Roma in quattordici
regioni, a capo di ciascuna delle quali sarebbe posto ogni anno o un
pretore o un edile o un tribuno tratto a sorte338: ogni regione
sarebbe divisa a sua volta in un certo numero di vici o quartieri –
ai tempi di Plinio erano 205339; in ogni vicus tutto il popolo –
cittadini e stranieri, ingenui e liberti – avrebbe eletto un
magister, un capo quartiere, che non doveva solo presiedere al culto
dei Lari del quartiere e preparare le feste, ma curare la polizia
delle strade e spegnere gli incendi, con gli schiavi pubblici sino
allora posti sotto gli ordini degli edili, di cui essi avrebbero
facoltà di servirsi340. Naturalmente in ogni quartiere la
scelta cadrebbe quasi sempre sui liberti, sugli stranieri, sui
plebei più agiati e più considerati; e per stimolare
il loro zelo, per ricompensare le loro fatiche che non dovevano,
secondo il principio repubblicano, ricevere mercede in denaro, la
legge accordava loro il diritto di portare in certe occasioni la
pretesta e di farsi precedere da due littori341: accordava loro
insomma dei distintivi ufficiali, molto modesti ma che in quella
società ancora così aristocratica, non potevano non
lusingare l’amor proprio di tante persone oscurissime. Così
in ogni quartiere si organizzava il servizio della nettezza urbana e
il servizio dei pompieri intorno alla cappella dei Lari; si tentava
di conglutinare la nuova amministrazione metropolitana nella antica
e tenace tradizione religiosa; si cercava di sollecitare la parte
migliore dei plebei e dei liberti a servire gratuitamente il
pubblico, remunerandola con dei distintivi e facendo una nuova,
piccola aristocrazia popolare nell’immenso formicaio brulicante
della infima plebe metropolitana.
Augusto avrebbe potuto annoverare questo anno tra i più
quieti e felici – non furono molti nella sua vita gli anni quieti e
felici – se la discordia tra Giulia e Tiberio non si fosse frattanto
invelenita e – pericolo maggiore – allargata ad una vera contesa
politica tra il partito della giovane nobiltà e il vecchio
partito tradizionalista. Tiberio aveva certamente conosciuto o
sospettato l’adulterio di Giulia. Ora Tiberio apparteneva
all’estrema ala intransigente del partito tradizionalista e
puritano, che aveva costretto Augusto a proporre le grandi leggi
dell’anno 18, che ne reclamava senza riposo l’applicazione
implacabile, che rampognava di continuo il disordine tollerato dai
grandi nelle loro famiglie. Poteva egli – egli il puritano, il
conservatore, il tradizionalista – tenersi in casa una sposa
sospetta di adulterio quando la lex de adulteriis lo obbligava a
denunciarla e a ripudiarla?342 Toccava ora proprio a lui dare
quell’esempio di antica fortezza romana, che sino allora esigeva e
così duramente dagli altri! Ma Giulia era la figlia – e la
figlia diletta – di Augusto, del suo patrigno, del suo capo,
dell’uomo a cui egli doveva il rapido corso degli onori, le
magistrature anticipate di tanti anni, la gloria precoce, invidia di
tanti. Egli non poteva accusare o scacciare Giulia, così come
qualunque altra matrona di Roma, perchè un tale scandalo –
nella casa di Augusto – avrebbe avute le più gravi
ripercussioni politiche. Tiberio quindi, pur così risoluto e
inflessibile di solito, questa volta esitava. Ma Giulia, che
conosceva il marito, dovette temere che la sua discendenza non
sarebbe sempre uno schermo sicuro contro l’orgoglio, il puritanismo,
lo spirito autoritario di un Claudio; capì che per difendersi
essa doveva assalire Tiberio, la sua potenza politica, la sua
situazione nello Stato; e si unì ai nemici di lui, già
tanto numerosi nella giovane nobiltà. Il momento era, per
molte ragioni, opportuno. Augusto incominciava a scendere sul
declivio della vecchiaia verso la sessantina; era sempre stato di
salute cagionevole; e viveva discretamente, lo sapevano tutti,
soltanto per le cure continue e il rigoroso regime. Non pochi si
domandavano perciò se egli non dovesse raggiungere presto
Mecenate, Agrippa e tanti altri amici e coetanei suoi, trapassati
nel regno di Plutone e di Proserpina: e la questione della
successione si presentava quindi, sia pur vagamente, senza precisa
determinazione di tempo, al pensiero di molti. Chi succederebbe ad
Augusto, nella presidenza della repubblica, ormai giudicata da tutti
necessaria? Tiberio, senza alcun dubbio, se non si cercasse di
renderne impossibile la successione, rinfocolando le antipatie
latenti nel popolo contro di lui, approfittando di tutti i suoi
difetti – sopratutto di quella rigidezza incapace di adattamenti e
di transazioni – per creargli difficoltà. Intorno a Giulia si
raccolse dunque una combriccola di giovani, nemici di Tiberio, nella
quale erano Marco Lollio, Caio Sempronio Gracco, Appio Claudio,
Giulio Antonio, Quinzio Crispino, uno Scipione e molti altri; e che
fatti più arditi, dopo aver trovata una alleata nella casa
stessa di Augusto, incominciarono, d’accordo con Giulia e con
l’aiuto suo, una guerra implacabile di calunnie contro
Tiberio343.... Orgoglioso e inflessibile, Tiberio non si
degnò neppure di volger la testa. Ma al principio dell’anno 6
i suoi nemici si risolverono, approfittando di Giulia che era
disposta ad aiutarli presso Augusto, a tentare una mossa più
ardita: contrapporre a Tiberio Caio Cesare, il figlio di Agrippa e
di Giulia adottato da Augusto, che allora aveva 14 anni; designarlo
già fin d’allora alla successione di Augusto e preparare a
Tiberio un rivale, proponendo una legge per la quale si potesse
già in quell’anno nominarlo console per l’anno 754 di Roma,
in cui Caio avrebbe 20 anni. La folle proposta coronava con una
anomalia mostruosa i lunghi sforzi fatti da tutta una generazione
per restaurare la vecchia costituzione aristocratica. Quando mai si
era neppur pensato che si potesse a Roma eleggere console un
fanciullo di 14 anni? Da prima gli uomini come Tiberio, dovettero
ridere di una simile proposta, come di una grottesca pazzia. Ma
Giulia, i suoi amici, i fautori della proposta facevano assegnamento
sulla paura universale che a quello di Augusto succedesse un governo
anche più severo, avaro, conservatore; sui rancori di quanti
erano torturati dalle leggi sociali dell’anno 18; sulla inquietudine
delle famiglie sterili, che una legge castigasse la loro
sterilità; sul desiderio di un governo più splendido,
più generoso, più libero. Caio Cesare, che per i suoi
costumi mostrava di appartenere, non ostante gli insegnamenti di
Verrio Flacco, alla nuova generazione, poteva simboleggiare queste
molteplici aspirazioni. Del resto non era Augusto stato console a
venti anni?344 Perchè il figlio non poteva godere di egual
privilegio? Si volgerebbero così per tempo gli occhi del
popolo sul giovane; si disporrebbe l’animo di costui a favore di
quanti gli affrettavano così insigne onore; si
raccoglierebbero su questo giovane, che per il suo nome già
era simpatico, che era già stato applaudito fragorosamente
dal popolo a più riprese, le speranze di quanti inquietava il
timore che un giorno Tiberio governerebbe l’impero. A questo Claudio
insomma, duro, superbo, impopolare come tutti i membri della sua
famiglia, si opporrebbe un Giulio; e l’anima popolare si volgerebbe,
come un girasole, verso lo splendore abbagliante di questo grande
nome.
E difatti la mossa, che doveva parer folle a un vero Romano,
inaspettatamente riuscì. Gli amici di Giulia incominciarono a
divulgare la loro proposta nel popolo e nel Senato, presentandola
naturalmente non come uno sfregio che si voleva fare a Tiberio, ma
come un omaggio che si voleva tributare ad Augusto; popolo e Senato,
sempre pronti a mostrare la loro devozione al Presidente e la loro
ammirazione per il nome di Cesare, la approvarono come stupenda;
quanti diffidavano di Tiberio – ed erano tanti – la favorirono
calorosamente; Giulia perorò la causa del figlio presso il
padre suo.... Una sola persona si oppose dapprima recisamente alla
proposta insensata: Augusto. Ed è facile capire
perchè. I privilegi che egli aveva fatti concedere a
Marcello, a Tiberio, a Druso, meno gravi di quello domandato per
Caio, erano stati tutti giustificati da necessità di Stato e
da servigi già resi: ma si poteva crear console un ragazzo,
di cui era difficile prevedere perfino se diverrebbe un uomo serio?
La assurda proposta sconvolgeva, pei reconditi fini di una piccola
combriccola, tutta la costituzione della repubblica; ne rovinava il
restauro faticosamente fatto da venti anni; inoltre offendeva
mortalmente Tiberio, il quale sdegnatissimo, esigeva che Augusto
opponesse tutta la autorità sua ai suoi nemici, i quali
volevano fargli un così grave affronto. Come? mentre egli
combatteva sul Reno, quella scioperata gioventù che a Roma
dissipava la propria nullaggine tra i teatri e le letture di Ovidio,
voleva opporre a lui, che aveva già compiute tante cose, un
fanciullo di 14 anni, e copertamente insidiargli il frutto di tante
fatiche? Augusto non doveva tollerare gli si facesse sì grave
ingiuria, si ordissero mene così nocive allo Stato. E difatti
Augusto da prima protestò con veemenza; tenne un discorso
violento in Senato dicendo che quelle erano pazzie; che bisognava
per esser console avere almeno un po’ di giudizio345. Ma gli altri
insistettero; il popolo sciocco, come al solito, voleva il suo
console fanciullo; il partito avverso a Tiberio, forte in Senato,
non restò neghittoso; il popolo, che amava molto il nome di
Cesare e poco il nome dei Claudi, cui Caio era tanto simpatico
quanto Tiberio sgradito, si riscaldò; Giulia, si può
immaginarlo, intrigava per affrettare questa vendetta. Tiberio non
mosse dito o ciglio, come di solito. Augusto dovè cedere e
lasciar che nei comizi dell’anno 6 Caio Cesare fosse eletto console
in anticipazione di cinque anni. Ma non ignorando che i promotori
avevano macchinata tutta questa cabala in odio a Tiberio, si
affrettò a dare un compenso a Tiberio: gli fece dare per
cinque anni la potestà tribunizia, facendolo cioè suo
collega in luogo di Agrippa e lo mandò in Armenia, dove,
Tigrane essendo morto, era scoppiata una rivolta346.
Ma Tiberio era un Claudio, un aristocratico, un uomo tutto d’un
pezzo. Gli mancava la duttilità, la pazienza, lo scetticismo
del nipote dell’usuraio di Velletri. Dopo aver sopportato per un
pezzo in silenzio, senza batter ciglio, gli affronti e i dispetti
dei suoi nemici, perdette la pazienza all’ultimo affronto che gli
aveva fatto Augusto, cedendo in parte alla fazione di Giulia. Non
volendo combattere con nemici tanto bassi e meschini, non potendo
più vivere con una moglie sospettata di adulterio, non
volendo essere giudicato – egli il più rigido dei
tradizionalisti – uno di quei mariti indulgenti, cui la lex de
adulteriis minacciava tante pene e tanta infamia; non fidandosi
più di Augusto, che con il consueto opportunismo non gli dava
affidamento di aiutarlo vigorosamente contro i suoi nemici;
nauseato, disgustato, irritato, si levò per andarsene. Non
fece recriminazioni, non tentò imposizioni, non cercò
conciliazioni: ma rifiutò sdegnosamente il compenso
offertogli da Augusto. Invece di andare in Armenia si recò
dal patrigno, e, dichiarandosi stanco, gli domandò il
permesso di ritirarsi a vita privata nella quiete di Rodi, nella
piccola e gloriosa repubblica marinara.
VII.
L’ESILIO DI GIULIA.
L’improvvisa risoluzione di Tiberio sbigottì Augusto.
Perdendo Tiberio, Roma perdeva l’organo della politica germanica!
Augusto cercò dissuaderlo, lo fece pregare e supplicare dalla
madre, si lagnò in Senato che tutti lo abbandonavano,
supplicò egli stesso347. Ma Tiberio fu irremovibile. Augusto
alla fine dichiarò che non avrebbe lasciato concedere dal
Senato l’autorizzazione a partire, di cui, come suo collega, aveva
bisogno. Tiberio rispose chiudendosi in casa, minacciando di
lasciarsi morire di fame. Passò un giorno, ne passarono due,
tre: al quarto giorno Augusto cedè; e lasciò il Senato
dargli il permesso di recarsi dove volesse348. Subito Tiberio, con
un piccolo seguito e come un privato, si recò ad Ostia; dove,
abbracciati soltanto gli amici più intimi, se ne partì
alla volta di Rodi, con pochi servi e compagni349.
Così partiva di Roma e se ne ritornava a vita privata, a 36
anni, Tiberio, per risentimento dell’offeso amor proprio, per
disgusto di Giulia e della sua generazione, che egli sentiva
così avversa e diversa. Augusto aveva quindi qualche ragione
di sdegnarsi contro Tiberio, che si offendeva più per le mene
dei suoi nemici e per gli onori attribuiti a Caio, che non si
rallegrasse per i compensi amplissimi e per le prove di non
interrotta fiducia da lui prodigategli; e che ad ogni modo si
vendicava su lui e sulla repubblica di offese fattegli da altri.
Anche questo campione del tradizionalismo, questo redivivo Catone
Censore, dimostrava di non essere interamente immune, egli neppure,
da quell’universale egoismo, per cui tutti posponevano così
facilmente il bene pubblico all’interesse e anche al puntiglio
personale. Ma Tiberio aveva a sua volta ragione di lagnarsi che
Giulia e Augusto lo ponessero in una intollerabile contradizione con
sè medesimo. Poteva egli rimproverare agli altri il lusso
smodato e lasciar poi Giulia invogliare al lusso, con l’esempio suo,
tutte le signore di Roma? Tollerare in casa sua l’adulterio e
volerlo sradicare dalle case altrui con il ferro della lex de
adulteriis? Protestare contro la decadenza delle istituzioni
repubblicane e accondiscendere alla follìa popolare che
voleva dare i fasci consolari a un fanciullo? I νεώτεροι, i giovani
“modernisti e alla moda” coetanei suoi, che sino allora lo odiavano,
avrebbero avuto ragione di beffarsi di lui. No, Tiberio non poteva
mettere a repentaglio il prestigio e la gloria, acquistati con tanti
anni di fatiche e di intemerati costumi, perchè Augusto si
ostinava a non punire le leggerezze di sua figlia e non sapeva
resistere al partito che traviava con folli onori lo spirito di Caio
Cesare. A sua volta Tiberio aveva ragione di lagnarsi che Augusto
negligeva l’interesse pubblico per considerazioni di
opportunità, che egli doveva giudicare perniciose. Tiberio
insomma era scacciato di Roma dalle inestricabili contradizioni
insite nei tempi, e per le quali tutti erano in parte almeno
costretti ad agire contro le dottrine che professavano. Ma le
conseguenze del suo ritiro furono molte e tutte gravi e tutte
cattive per lui e per il suo partito; mentre furono buone per i suoi
nemici, i quali certo non avrebbero potuto immaginare fortuna
maggiore, che questa spontanea inaspettata sparizione del loro
più terribile nemico. In un giorno, inopinatamente, con
infinita meraviglia sua, il partito di Giulia, di Caio Cesare, della
giovane nobiltà vinse su tutta la linea, si trovò
padrone del campo. L’atto di Tiberio sortì proprio l’effetto
opposto a quello che Tiberio sperava, perchè il pubblico lo
giudicò come una specie di fellonia commessa contro Augusto;
e invece di affrettarsi, come Tiberio sperava, sulle traccie di lui
che partiva per pregarlo di ritornare, gli volse indispettito le
spalle, protestò che faceva bene a partire e che meglio
avrebbe fatto a non tornare mai più350. Nè Augusto,
nè Tiberio nè alcun altro aveva divulgati i veri
motivi della partenza351; Tiberio non era popolare; e infine egli se
ne andava, egli, il maggior campione del tradizionalismo, proprio
nel momento più inopportuno, quando le aspirazioni ad un
governo più libero, più dispendioso, meno
conservatore, smanianti da venti anni, erano sul punto di rompere il
freno.... La partenza di Tiberio, la sua lite con Augusto, il
trionfo inaspettato del partito di Giulia e della giovane
nobiltà indebolendo a un tratto il partito tradizionalista,
le aspirazioni della nuova generazione, a lungo tempo frenate,
proruppero da ogni parte; si precipitarono sulla via di Tiberio,
come una muta di cani, a cacciarlo; e ben presto dominarono a Roma
nel Senato, nei Comizi, nell’opinione pubblica. Il Cesare fanciullo
diventò rapidamente l’idolo delle moltitudini e ponendosi tra
essa e l’Italia, parò a questa la vista della bella isoletta
lontana nell’Egeo, dove il più valente generale del tempo si
disponeva a vivere come un privato, tra una modesta casa in
città e una modesta villetta in campagna352. Quando o il
primo gennaio o nei primi giorni dell’anno 5 Augusto presentò
Caio al popolo in una grande cerimonia sul Foro, il Senato concesse
a Caio il diritto di assistere alle sedute e ai banchetti del
Senato353; i cavalieri, che non vollero essere da meno, lo
nominarono primo decurione della prima turma, dandogli il titolo di
princeps juventutis e gli regalarono una asta e uno scudo
d’argento354; i pontefici lo accolsero nel loro collegio355. Ben
presto l’ammirazione dilagò da Roma per tutta l’Italia356;
statue, iscrizioni furono poste in ogni parte a ricordare la
inusitata meraviglia di un console designato a 14 anni357; e
l’amministrazione non tardò a sentire lo spirito nuovo,
spirito di prodigalità e di imprevidenza, che sciolse la
parsimonia in cui Tiberio aveva cercato di stringere sino allora la
finanza pubblica. Fu accresciuto il dispendio delle frumentazioni di
Roma358; crebbe il dispendio delle opere pubbliche e degli
spettacoli popolari, quando già cresceva di un pezzo il
dispendio militare, sia perchè queste guerre combattute
contro barbari poveri costavano più che non rendessero, sia
perchè per la legge militare approvata troppo in fretta e con
soverchia imprevidenza nell’anno 14, era necessario pagare ogni anno
ad una sedicesima parte dell’esercito il premio di congedo promesso.
Spesa ingentissima, non ostante che con mille ripieghi si cercasse
di diminuirla, prolungando il servizio oltre 16 anni359. Da tutte le
parti si reclamò che le largizioni di denaro con cui il
governo irrorava Roma, sempre asciutta come la pomice, non bastavano
più360. Infine la rinnovata baldanza del partito
antitradizionalista trascese in uno spirito di licenza o di
depravazione che, esemplato ormai proprio da Giulia, si diffondeva
rapidamente in ogni parte della società romana,
distruggendovi la educazione lentamente compiuta dalla politica
tradizionalista. Bella, intelligente, piacevole, colta e amante
della letteratura, interamente libera ormai dopochè essa
aveva scacciato Tiberio da Roma e interamente dominata da Sempronio
Gracco, da Julo Antonio e dagli amici loro; adulata e corteggiata,
come la propria Musa ispiratrice, dalla aristocrazia elegante e
letterata, Giulia introduceva nel vecchio mondo muliebre di Roma,
impersonato ancora nei solenni portamenti di Livia, la
mondanità, la intellettualità elegante, il lusso, il
piacere, la frivolezza, la sensualità, lo scetticismo.... Non
ostante le ammonizioni del padre, essa sfoggiava, profondendo in
ogni parte i denari, curando la bellezza e le vesti oltre la misura
permessa dalla tradizione a una matrona seria; non temeva di
comparire, accompagnata dalla comitiva dei suoi giovani amici, in
teatro, dove il popolo poteva contemplare il passato e l’avvenire,
volgendo gli sguardi da Livia, sempre attorniata da un corteggio di
senatori gravi e attempati, a Giulia, che irrompeva seguita da uno
sciame di giovinotti azzimati, chiassosi, insolenti361; sembra che
non gradisse più soltanto gli omaggi di Sempronio Gracco, ma
di altri, come di Julo Antonio362. E l’esempio di Giulia poteva
sugli spiriti tentennanti più che le minaccie o gli
ammonimenti contrari: quando la figlia stessa del presidente si
faceva lecite tante cose, perchè gli altri avrebbero dovuto
astenersene? Augusto stesso pareva consentire indirettamente a
tutti, lasciando fare la figlia. Cosicchè al rigore degli
anni precedenti seguiva un nuovo rilassamento; il pubblico, stanco
di scandali, stanco dello sforzo che la severità richiede, si
rammolliva di nuovo nell’indulgenza; Cassio Severo, ormai roco dopo
tante minaccie, non riusciva più a far condannare nessuno dai
giudici rifatti mansueti363; le leggi suntuarie e altre leggi intese
a imporre alla aristocrazia l’osservanza dei propri doveri perdevano
forza; in tutte le classi si propagava, come un contagio, la smania
del godimento e del lusso, suscitando dappertutto nuovi bisogni. La
plebe innumere di Roma, a cui si provvedeva già a stento il
pane, prendeva coraggio a domandare distribuzioni gratuite di
vino364; Ovidio, il poeta in voga, l’idolo delle donne e dei
giovani, lasciava ormai scapricciarsi liberamente la fantasia
voluttuosa; e Giulia, bella prodiga adultera, Caio Gesare, imberbe
inesperto frivolo, diventavano popolarissimi specialmente nella
plebe cosmopolita di Roma, che, composta di artigiani e di
fannulloni, voleva un governo che spendesse molto e la
divertisse365. La figlia di Augusto e il figlio di Giulia
impersonavano ai suoi occhi il futuro, sperato governo più
generoso e meno severo. Una parte delle classi medie ed alte era
ancora imbevuta di spirito puritano e tradizionalista: ma anche
questa, assottigliata, indebolita, non più aiutata dalla
irritazione della opinione pubblica, poteva soltanto protestare
rabbiosamente contro tutto e contro tutti e rammaricare inutilmente
Tiberio, il più prestante soldato di Roma, costretto a far
della letteratura e della filosofia a Rodi per il piacere di una
sgualdrina. Tra costoro doveva esserci anche Livia che, se non
commise, per riaprire a Tiberio le porte di Roma, i delitti di cui
la tradizione la accusa, non poteva non desiderare che il figlio
ritornasse e non adoperarsi, nella misura delle sue forze, contro la
nuora detestata e nefasta. Ma per il momento la piccola fazione
degli amici di Tiberio e dei tradizionalisti non poteva che sfogare
il suo malumore, dipingendo con i più foschi colori la
corruzione dei tempi; inventando, credendo e divulgando
sommessamente ogni sorta di abominazioni sui principali personaggi
dell’avverso partito e specialmente su Giulia: onde è da
credere che in questo tempo e in quel piccolo crocchio
incominciassero a nascere le infami leggende che la sua disgrazia
incollò poi così tenacemente sulle pagine della
storia. Quella donna, anzi quel mostro, era quasi sospinta fuori
dell’umanità da una selvaggia libidine: i suoi amanti non si
potevano numerare; le sue orgie notturne non si potevano descrivere;
essa aveva voluto commettere adulterio, una notte, ai piedi dei
rostri, della tribuna da cui il padre suo aveva promulgata la lex de
adulteriis; essa collocava una corona sulla testa della statua di
Marsia ogni volta che pigliava un nuovo amante; essa – orribile,
orribile – andava travestita, la notte, da prostituta a uccellare
sul Foro i giovani popolani e acconsentiva a percepire la infame
mercede366.
Insomma, non solo Tiberio fu ben presto abbandonato a Rodi in un
mezzo oblìo, ma Augusto stesso, non ostante le opposte
inclinazioni personali, dovè acconciarsi a governare almeno
in parte con la nuova generazione, a lasciar che certe sue idee e
inclinazioni e desideri prevalessero nel costume e nello Stato.
D’altra parte non è dubbio che egli si era veementemente
corrucciato con Tiberio per la sua ostinazione e per la sua
partenza; nè solo, senza Tiberio, senza un collaboratore
valente che lo aiutasse, egli poteva presumere di opporsi a viso
aperto a tutte le aspirazioni della nuova generazione. Cedere almeno
in parte, nelle cose meno pericolose, era necessità.
Senonchè non è possibile mutar intieramente pensieri e
inclinazioni a sessant’anni. Nelle cose essenziali, Augusto si
proponeva di essere in futuro come in passato la guida che doveva
ricondurre il popolo romano sulle vie dell’antico verso le sorgenti
storiche della vita nazionale: diffidava quindi della nuova
generazione, dei suoi uomini, del suo spirito, delle sue idee; non
consentirebbe facilmente a lasciarle prendere in mano il vero
governo dello Stato. Egli era quindi impigliato in una
difficoltà strana: non poteva servirsi del solo uomo della
nuova generazione che era d’accordo con lui nelle cose fondamentali,
perchè questi si era reso intollerabile a tutti; ma non
voleva servirsi degli altri, che sarebbero stati a sua disposizione,
perchè ne diffidava e li sentiva troppo diversi. Che fare?
Non c’era altro consiglio savio che di affrettarsi a preparare un
nuovo collaboratore in luogo di Tiberio, Caio; e frattanto,
aspettando che il corpo e la mente, ancora acerbi, del giovinetto
maturassero, cercar di reggere l’impero come poteva, e con una
prudenza sempre vigile, con dei sapienti differimenti, con una
accorta inattività impedire alla nuova generazione di far
troppo male. Impresa non facile, il supplire, solo, in tutto
l’impero alla negligenza crescente del Senato e dei magistrati, alla
insufficienza sempre più manifesta delle leggi e delle
istituzioni, perchè le faccende crescevano ogni dì, e
tutti, da ogni parte, si volgevano a lui per ogni sorta di cose
grandi e piccine. Erode gli mandava a domandare l’approvazione di
un’altra sentenza di morte, pronunciata contro Antipatro, sospettato
anche esso a sua volta di aver cospirato contro la vita del padre e
riconosciuto reo da un tribunale radunato a Gerico367. Cnido lo
pregava di assidersi arbitro in un processucolo penale, che,
essendovi implicata una famiglia cospicua, aveva profondamente
commosso il popolo368. Anche in Armenia si minacciavano torbidi,
perchè il successore di Tigrane era perito in una spedizione,
la regina aveva abdicato e il partito romanofilo aveva eletto a re
lo zio del morto, Artavasde. Roma doveva risolversi a riconoscerlo o
no369. Il re di Paflagonia pure era morto; e ci erano
difficoltà per la successione, probabilmente perchè
mancavano gli eredi legittimi370. In Germania, assoggettate tutte le
tribù, bisognava dare ai territori conquistati forma e
ordinamento di provincia. Tra tante brighe e faccende, Augusto
cercò di far del suo meglio. In Germania mandò un
parente suo, Lucio Domizio Enobarbo, uomo non senza merito,
benchè violento, superbo, stravagante371: ma non impose alcun
tributo, non introdusse alcuna legge romana, lasciò i germani
soggetti di nome ma liberi di governarsi a modo loro. È
chiaro che, privo dei consigli e dei suggerimenti di Tiberio, il
quale conosceva a fondo le faccende germaniche, Augusto non
osò innovar più nulla; e preferì appigliarsi al
pericoloso espediente di lasciar la nuova conquista sospesa in
quella condizione incerta, nè provincia nè libera.
Diede a studiare la faccenda di Cnido a Asinio Gallo372; si
risolvè a far riconoscere dal Senato il nuovo re di Armenia e
a proporre al Senato la annessione della Paflagonia, che sarebbe
unita alla Galazia373; non si stancò di ammonire Giulia ad
esser più savia, sebbene sapesse che sprecava il fiato374; si
studiò con ogni mezzo di preservare almeno Caio e Lucio dal
contagio della universale corruttela; al popolo che domandava vino,
indicò per dissetarsi le numerose fontane che Agrippa aveva
aperte in Roma375, e, quasi a commento del suo consiglio,
riparò in questo anno tutte le condutture degli
acquedotti376; ma dovè risolversi, per tranquillare il popolo
in fermento, a fare una distribuzione di denaro: 60 denari a testa,
a 320000 persone, del suo, si capisce377. Aiutò pure con suo
denaro il tesoro a pagare in questo anno le pensioni al soldati
congedati378. Certo questi doni personali di Augusto erano una
risorsa preziosa delle dissestate finanze; per restaurare le quali
davvero sarebbe stato necessario esigere con maggior rigore i
tributi, raffrenare le ruberie dei pubblicani, riprendere ai privati
le terre e le miniere dello Stato, usurpate o ottenute per meschini
vectigalia, come Tiberio proponeva. Ma poteva quel governo vecchio e
monco affrontare tanti interessi privati? Si preferiva tirare
innanzi così, a caso, confidando nel futuro, nella borsa e
nella generosità di Augusto, ambedue inesauribili, nella
buona fortuna la quale voleva che proprio allora la generazione
coetanea di Augusto, la generazione che aveva fatta dopo la morte di
Cesare la rivoluzione, che aveva combattuto a Filippi e ad Azio, si
disponesse, avvicinandosi il tramonto, ad aiutare con una
generosità intelligente la generazione nuova. In quella
generazione, cresciuta in mezzo ad una rivoluzione, i celibi, i
senza figli erano numerosi. A chi lasciare i beni acquistati nel
grande trambusto? Molti dovevano la fortuna ad Augusto; molti,
avendo vista la bufera, ammiravano Augusto, che l’aveva superata;
tutti sapevano che Augusto spendeva le eredità degli estranei
per fini di pubblico bene. Molti perciò nominavano erede
Augusto. A cominciare da questi anni sino alla morte, Augusto
ricevette un numero particolarmente cospicuo di eredità, il
cui valore sommava in media ogni anno a 70 milioni di sesterzi; che
i suoi abili amministratori si affrettavano a liquidare,
affinchè Augusto potesse spendere la somma ricavata a scopi
pubblici379. I piccoli patrimoni dei veterani dedotti in lontane
colonie si confondevano con i patrimoni dei ricchi senatori e
cavalieri di Roma, in questo, per chiamarlo così, bilancio
supplementare amministrato da Augusto; e a poco a poco divulgandosi
la consuetudine di questi testamenti, la generazione rivoluzionaria
restituiva alla Nazione per il tramite del suo capo il mal tolto; i
morti aiutavano i vivi per l’interposta persona di Augusto; e la
generazione che aveva fatta la sua fortuna con i saccheggi della
rivoluzione, terminava il corso mortale con un atto di illuminato
civismo. Senonchè queste contradizioni, questi tentennamenti,
queste transazioni dovevano scontentar tutti. Ben presto avvenimenti
gravi sopraggiunsero ad accrescere le difficoltà della
situazione nei due anni seguenti – il 4 ed il 3 a. C. – Nel 4
morì in Giudea Erode, dopo aver fatto uccidere Antipatro380;
e probabilmente nel 3 Fraate, il re dei Parti, e per mano del figlio
di Thea Mousa381. Erode aveva fatto poco prima di morire un ultimo
testamento, nel quale lasciava il titolo di re ed una parte del
regno al figlio Archelao; il rimanente divideva tra i due figli
Antipa e Filippo e la sorella Salomé. Agli altri numerosi
figli e parenti erano assegnate ricche pensioni. Disponeva inoltre
che il testamento dovesse essere confermato da Augusto, per impegnar
Roma a mantener poi in Palestina l’ordine di cose che essa aveva
approvato. Sapendo però che Roma non largiva approvazioni
senza compenso, Erode aveva già nel testamento, e con reale
munificenza, assegnata la rimunerazione, lasciando ad Augusto 10
milioni di dramme (su per giù dieci milioni di franchi).
Nè aveva dimenticata Livia, a cui lasciava due navi d’oro e
d’argento e una grande quantità di stoffe preziose, seta in
ispecial modo382. L’astuto Itureo era un esperto conoscitore del
tempo suo; sapeva che Roma insaziabile divorerebbe rapidamente anche
questo tesoro, accumulato a soldo a soldo dal lavoro paziente degli
infelici Ebrei; sapeva che Livia, non ostante il suo riserbo, era
potentissima per l’influenza che esercitava su Augusto; che era
più potente assai di Tiberio, a cui, pare, non lasciò
nulla....
Gli amici di Tiberio, infatti, sempre più rari, riuscivano
ormai a stento a difenderlo contro le calunnie dei nemici, i quali
cercavano di aizzare contro di lui i due giovani figli di Agrippa e
persino di insinuare nell’animo di Augusto il sospetto che egli
macchinasse congiure; onde colui che qualche anno prima era stato il
più glorioso generale del tempo suo, ben lungi da sperare il
solenne risarcimento di un richiamo a Roma, era ridotto a cercar di
smentire le accuse, facendosi piccino piccino, laggiù, in una
lontana isola dell’Egeo383. A Roma intanto popolo e classi alte,
travolte come in un vortice da una frenetica smania di odiare le
cose di cui da trenta anni si cercava di inculcare l’ammirazione,
attendevano impazienti l’anno 2 in cui Lucio, toccati i quindici
anni, riceverebbe gli stessi onori di Caio; adulavano, lusingavano,
ammiravano, amavano i due giovani, quasi che, accanto alla vecchiaia
prudente di Augusto, rappresentassero la giovinezza che cerca
impetuosamente il nuovo, il piacere, la libertà, che rompe il
freno dei pregiudizi e delle paure; si intenerivano sopra i due
consoli ancora fanciulli – inversione singolare del sentimento –
proprio per il privilegio più contrario allo spirito
repubblicano, per quella precocità mostruosa di onori, che
ricordava i sovrani fanciulli dell’Oriente. Era una specie di
aberrazione, di perturbamento, quasi di follìa universale, in
cui la nuova generazione sfogava alla fine l’odio per tanti anni
represso contro la educazione ricevuta dai padri, contro la
generazione di Azio e contro l’imperio che essa esercitava ancora
sulla pubblica cosa, per mezzo di Augusto, con le leggi e con i
pregiudizi radicati nelle menti. Augusto si trovava quindi in
difficoltà gravi. Se da una parte egli aveva acconsentito a
lasciar correre i due giovani sulla via degli onori, per poter
presto disporre di due nuovi collaboratori, egli li vedeva ora
afferrati da una turba ribelle e portati a braccia, in una corsa
precipitosa, tra un clamore indicibile di grida, verso tutt’altra
meta che quella da lui designata. Pur troppo i due giovani non
parevano avere ricavato molto profitto dall’insegnamento di Verrio
Flacco; e tra tante adulazioni e ricchezze ed omaggi, insuperbivano,
prendevano in odio Tiberio, inclinavano assai più alla
dissipazione dei loro coetanei, che non ai severi costumi ed alle
idee degli antichi384. Augusto vigilava di continuo; ma quando mai
un vecchio ha potuto afferrare e trarre a riva una giovinezza,
travolta dalla turbinosa corrente dell’esempio universale?
È facile immaginare quanto dovessero rodersi dentro, da quale
ira impotente sentirsi gonfiare il cuore, per tanto scandalo, gli
amici di Tiberio. Roma delirava per quei due piccoli scimuniti, e
lasciava consumarsi in un ozio cupo l’uomo più capace del
tempo suo! Ma non pareva esserci rimedio: Augusto, sdegnato sempre
contro Tiberio, non ascoltava intercessori in suo favore; i tempi,
in apparenza tranquilli dappertutto, non avevano bisogno delle
virtù di Tiberio, e quindi congiuravano con i suoi nemici; i
giovani, i ricchi, il popolino, seguivano l’esempio di Giulia, si
divertivano, profondevano il denaro estorto a tutto l’impero,
spensieratamente, senza domandarsi se il diritto di far festa con le
ricchezze dei sudditi fosse eterno o, come ammoniva Tiberio, non
durasse quanto durerebbe la forza di prenderle altrui. Eppure
nell’anno 4 e nel seguente la Palestina ricordò un’altra
volta a Roma, con un esempio terribile, che l’oro che essa spendeva
nei suoi sollazzi aveva un prezzo di sangue. Morto Erode, il suo
regno si era in pochi mesi precipitosamente sfasciato. Il partito
nazionalista aveva rialzato la testa; Antipa, che nel testamento
precedente era stato nominato re, era corso a Roma per cercar di far
ratificare da Augusto questo testamento invece dell’ultimo, che dava
il regno ad Archelao; inquieto, Archelao si era recato anche egli a
Roma a perorare la sua causa, sebbene già da ogni parte i
rancori, le rivendicazioni, i malcontenti, le speranze per tanto
tempo compresse dalla mano ferrea di Erode si agitassero
minacciosamente385. Cosicchè tra il 4 e il 3 i due fratelli
erano giunti a Roma con i due testamenti, invocando arbitro Augusto.
Augusto, non volendo assumersi solo la responsabilità della
deliberazione, avea convocato un consiglio di senatori a cui fece
assistere anche Caio; il consiglio aveva deciso che fosse valido il
secondo testamento, quello che lasciava tanto denaro ad Augusto ed a
Giulia386.... Ma appena Roma aveva così sentenziato, che
giunsero da Palestina ben più gravi notizie. Partito
Archelao, era scoppiato un dissidio in Siria tra Sabino, che era il
nuovo procuratore mandato da Augusto a sostituire Erode in questo
ufficio, e Quintilio Varo, il governatore della Siria. Sabino voleva
occupare la Palestina durante la assenza di Archelao, con la
guarnigione romana, per assicurarsi in quei tempi torbidi dei tesori
del re, e quindi anche dei dieci milioni lasciati ad Augusto da
Erode: Varo, più pratico dei luoghi e degli uomini, temeva
l’intervento provocherebbe il partito nazionale a qualche atto
disperato, e consigliava di aspettare vigilando387. Sabino la vinse
alla fine, perchè allora, come sempre, la sollecitudine del
denaro potè più che i consigli della prudenza
politica; ma, come aveva temuto Quintilio Varo, la nazione,
già esasperata contro Erode perchè spendeva una parte
considerevole delle imposte a beneficio degli stranieri,
perdè questa volta la pazienza. Gerusalemme insorse;
insorsero le campagne; una parte dell’esercito si rivoltò;
bande di predoni proruppero da ogni parte388; Quintino Varo
dovè accorrere con le legioni di Siria e con tutti i corpi
ausiliari; cercare aiuti in ogni parte: anche un corpo di 1500
soldati offerto dalla città di Berito, anche cavalli e fanti
mandati in grande numero da Areta, re dell’Arabia Petrea389.
Erode aveva tentato di conciliare gli Ebrei con le due forze
soverchianti contro cui era presunzione per essi il combattere:
l’Ellenismo e Roma. Ma c’erano tanti contrasti nell’impero, che
questa politica savia e necessaria aveva, per i mezzi adoperati ad
attuarla, esasperate le popolazioni. Quale ammonimento per Roma!
Quintilio Varo era stato talmente spaventato dalla rivolta che,
appena ristabilito alla meglio l’ordine, aveva permesso agli Ebrei
di mandare a Roma una deputazione a chiedere l’abolizione della
monarchia390. E Augusto, il Senato, Roma, udirono ancora una volta
risuonar dall’Oriente, lacrimoso questa volta ed umile, quel
lamento, che già aveva risuonato aspro e iroso
dall’Occidente: il lamento delle campagne avvinghiate e succhiate
dalla immensa piovra, di cui la monarchia di Erode era l’occhio, e
tentacoli insaziabili le città adornate di monumenti
magnifici e sollazzate con il denaro dei contadini; i parassiti, i
cortigiani, i funzionari, gli artisti e i letterati stranieri
brulicanti alla corte; le torme dei soldati traci, galati,
germanici, ingrassati costringendo gli Ebrei a digiunare anche nei
giorni non prescritti dalla legge; gli Stati, i sovrani, i grandi
personaggi stranieri continuamente beneficati con oro ed argento,
faticosamente accumulato dal lavoro giudaico; il lusso, il vizio, la
corruzione, la servilità, il delitto trionfante alla corte in
mezzo allo squallore della nazione impoverita, atterrita, sgomenta.
E gli ambasciatori ebrei conchiudevano domandando la abolizione
della monarchia, la annessione della Palestina alla Siria e il suo
ordinamento a provincia391. Dalla insanguinata famiglia di Erode, la
Palestina fuggiva a nascondere il capo nel grembo di Roma! Ma
intanto, non perturbata neppure da questo gesto disperato, la fredda
prudenza di Augusto calcolava che, fatta la Palestina provincia
romana, Roma si assumerebbe la responsabilità di governare
con i suoi magistrati, così scarsi, così svogliati,
così inetti, un popolo inquieto e riottoso; che essa sarebbe
costretta parte a sciogliere, parte a riordinare e a porre sotto il
comando di ufficiali romani, come milizie ausiliarie, l’esercito di
Erode; che essa dovrebbe accrescere il compito alle legioni
stanziate in Oriente, così piccole a paragone del bisogno, e
proprio in un momento in cui un nuovo e più grave pericolo
nasceva. Fraatace, il figlio di Fraate, si volgeva con rapido
voltafaccia contro Roma, e, sembra, occupava l’Armenia, con l’aiuto
del partito nazionale, costringendo il re riconosciuto da Roma, a
fuggire392. I motivi di questo tradimento – tale i Romani delusi
dovevano giudicarlo – è a presumere fossero due: il desiderio
di lavare le origini impure della sua fortuna nella
popolarità di una politica arditamente nazionale; il
desiderio di negoziare con Roma un accordo, in cui porre come
condizione che gli fossero consegnati i figli di Fraate. Erano
questi un ostaggio troppo pericoloso nelle mani di Roma. Ma intanto
Roma vedeva frustrate le speranze poste nella rivoluzione di
palazzo, compiuta da Théa Mousa; e il protettorato romano in
Armenia pericolava, vacillava cioè la colonna su cui la
supremazia di Roma in tutta l’Asia anteriore posava. Poteva Roma far
questo passo indietro in Asia, dopochè Augusto aveva per
venti anni illusa l’Italia e l’impero, facendo loro credere che i
Parti si fossero quasi sottomessi ad una specie di protettorato
romano?
Augusto quindi non accettò di proporre al Senato che la
Palestina fosse dichiarata provincia romana; ma ritornò sulle
deliberazioni già prese e immaginò, come al solito,
una transazione con cui accontentare gli uni e gli altri: divise il
regno di Erode in due; una parte dette a Archelao, con il titolo di
etnarca, promettendogli di dargli il titolo di re se governasse
bene; l’altra suddivise in due nuove parti, dandone una a Filippo,
ed una a Antipa. Stabilì insomma nella Palestina una nuova
monarchia tripartita e quindi più debole e più facile
a vigilare393. Era invece più difficile provvedere alla
Armenia e alle nuove difficoltà della questione orientale.
Necessitava mandare un esercito in Armenia a ristabilire il
protettorato romano e a mostrare a tutto l’Oriente che sino
all’Eufrate Roma non tollerava rivalità o condomini: ma per
quanto Augusto sospettasse che Fraatace minacciava senza voler
proprio combattere, per mercanteggiar poi negli accordi della pace,
egli non poteva non considerare con una certa perplessità
tutta questa faccenda. Appunto perchè la faccenda si doveva
comporre più con le minacce e con gli accordi ragionevoli,
che con la forza, occorreva che la spedizione fosse condotta da una
persona la quale avesse prestigio e abilità. Egli era troppo
vecchio per tanto viaggio e per assumere una impresa così
gravosa; Tiberio era a Rodi; tra i grandi di Roma non c’era alcuno
di cui potesse fidarsi. Molti erano inetti. Lucio Domizio Enobarbo,
ad esempio, sembra facesse molto mediocre prova in Germania394. Se
qualcuno, come Marco Lollio, aveva le attitudini necessarie al
comando, non aveva il prestigio e non dava affidamento di scrupolosa
rettitudine395. Alla fine Augusto ideò una cosa molto
ingegnosa, molto ardita, ma anche molto artificiosa, per stringere
in un fascio la capacità, il prestigio, la rettitudine e
mandarle insieme in Oriente: spedire cioè a risolvere la
questione d’Armenia e le difficoltà con i Parti una
commissione, a capo della quale starebbe Caio Cesare, e i cui membri
sarebbero uomini capaci di fiancheggiarne e consigliarne l’inesperta
giovinezza: tra gli altri Marco Lollio. Caio era un giovinetto di
diciotto anni: ma l’età immatura alle grandi faccende, che
non spiaceva più neppure agli Italiani, non gli nuocerebbe
tra gli Orientali, i quali da troppo tempo erano avvezzi a guardar
nei loro sovrani non la persona ma il nome, ma il titolo, ma una
specie di semi-divinità, non dipendente dalla materia umana
nella quale essi pure erano plasmati. Il giovane Caio si chiamava
Cesare ed aveva per padre Augusto, la cui figura si era ormai dopo
venticinque anni di governo impressa nello spirito degli Orientali
come quella del nuovo unico monarca dell’impero; che essi, ignari
del diritto costituzionale di Roma vedevano attraverso l’idea della
monarchia sotto cui avevano così a lungo vissuto, a imagine e
simiglianza dei re che li avevano governati per tanti secoli.
Ciò è tanto vero che in questo stesso anno, per far
giurare ai Paflagoni di recente annessi all’impero fedeltà a
Roma, si era stati obbligati a far loro ripetere il vecchio
giuramento prestato ai re di Pergamo, mettendo il nome di Augusto in
luogo del nome del re, ma aggiungendovi le espressioni della
venerazione religiosa che erano state usate in Egitto: “Giuro per
Zeus, per la Terra, per il Sole, per tutti gli Dei e le Dee, per
Augusto medesimo, di amare sempre Cesare Augusto, i suoi figli e
discendenti, con le parole, gli atti e i pensieri, considerando
amici o nemici coloro che essi avranno in conto di tali....”396.
Quelle genti non avrebbero capita una formola diversa. Perciò
il giovinetto, nei quali essi raffiguravano il successore di Augusto
per diritto dinastico, avrebbe irradiato tra i sudditi dell’Oriente,
in mezzo ai principi protetti e alleati, di contro ai Parti malfidi
lo splendore del suo prestigio medesimo: gli ordini, le promesse, le
minaccie pronunciate da lui avrebbero avuto l’efficacia medesima,
come se fossero uscite dalle labbra o dalla penna di Augusto.
Assistito da consiglieri abili, Caio avrebbe potuto compiere la
missione con fortuna; e nel tempo stesso avrebbe fatto un eccellente
esercizio, togliendosi fuori dalla snervante corruttela di Roma.
Intanto anche Lucio raggiungeva il quindicesimo anno di età,
e riceveva gli onori e i privilegi accordati al fratello maggiore.
Dioscuri della nuova costituzione, i due giovanetti rassicuravano
l’Italia sull’avvenire; in essi poneva tutte le sue speranze
Augusto. Tiberio era a Roma ormai quasi interamente dimenticato,
sebbene in Oriente il tetrarca Erode erigesse in suo onore la
città di Tiberiade.
Era intanto terminata – finalmente! —la costruzione del nuovo Foro e
del tempio di Marte Ultore, di cui Augusto aveva fatto voto prima di
Filippi, per impetrar dagli dèi la vittoria, che non sperava
dal proprio valore: il Foro e il tempio di cui un così
insigne avanzo resta ancora presso l’arco dei Pantani, a via
Bonella. Il Foro era una specie di monumento grandioso eretto da
Augusto alla storia di Roma, dove i più grandi uomini di
tutti i partiti e di tutte le età avevano la propria statua,
ciascuna con una breve iscrizione laudativa composta da Augusto
stesso. Si ritrovavano là nel marmo, dai secoli più
disparati e dalle lotte più atroci, Mario e Silla, Romolo e
Scipione Emiliano, Appio Claudio Cieco e Caio Duilio, Metello il
Macedonico e Lucullo397. Quanto al tempio, il vincitore aveva messo
quaranta anni a sciogliere il voto ma non per colpa sua:
bensì dell’architetto, che lavorava come una tartaruga
cammina. A ogni modo Augusto volle, quando, probabilmente nella
primavera dell’anno 2398, si inaugurò il Foro ed il nuovo
tempio, che era il più insigne tempio eretto al dio della
guerra nella città della guerra, fare una solenne
dimostrazione militarista e tradizionalista: una dimostrazione che
parve opportuno di opporre allo spirito scettico, frivolo, snervato
della nuova generazione, tanto più devota a Venere che non a
Marte; in un tempo in cui tante minaccie romoreggiavano in Oriente
ed in Occidente; quando in Roma già si parlava, con la
consueta leggerezza, della prossima conquista della Persia e di
simiglianti stoltezze. Inaugurando il Foro, Augusto pubblicò
un editto in cui ammoniva il popolo di esiger che il presidente
della repubblica rassomigliasse sempre a quei grandi399. Poi solenni
feste furono celebrate, tra le quali dei nuovi ludi trojani e una
naumachia, che attrassero infinite turbe da ogni parte d’Italia400;
e un decreto fu approvato dal Senato, che faceva del nuovo tempio di
Marte il maggior simbolo religioso della forza militare di Roma.
Esso disponeva che tutti i cittadini, presa la toga virile,
dovessero recarsi nel tempio; che tutti i magistrati partenti per le
provincie, dovessero al momento di partire recarsi nel tempio a
domandare il favore del dio della guerra e poi muover dalle sacre
soglie di Marte per la loro missione; che ogni qualvolta si dovesse
deliberare un trionfo, il Senato si radunerebbe in quel tempio; che
i trionfatori deporrebbero nel tempio lo scettro e la corona, che
nel tempio si deporrebbero tutte le insegne prese ai nemici401.
Anche con i monumenti del Foro, e con le feste di Marte, Augusto
aveva cercato di ravvivare i grandi ricordi dell’età
dell’aristocrazia e del passato nel popolo distratto dei mercanti,
dei ganimedi, degli imbroglioni, delle meretrici, dei perdigiorno
che logorerebbero il bel marmo del suo monumento. Ma invano! La
nuova generazione si soffermerebbe appena a guardare, con occhio
distratto e con animo indifferente, i simulacri dei grandi uomini
che, tra tante tempeste, avevano con fede invitta, uno dopo l’altro,
fondato l’impero. Ovidio, il poeta prediletto dalle donne e dagli
eleganti che per lui trascuravano il tenero Virgilio e l’acerbo
Orazio, Ovidio nel suo nuovo poema sull’Arte dell’Amore, tramutava
Marte, il dio della guerra, in un compiacente mezzano di Venere.
Egli ricordava le feste celebrate da Augusto per la consacrazione
del tempio ma come una occasione unica di avventure e di intrighi
d’amore, per la gaia e innumere turba di belle donne e di giovani
che convennero a Roma402; e al modo stesso celebrava in
anticipazione le feste che già si aspettavano per il trionfo
di Caio Cesare, quando avrebbe fatto ritorno dalla Persia
conquistata, come una stupenda occasione per vagheggiare la propria
bella403! Il canoro portavoce dei giovani esprimeva con la consueta
agilità e facilità tutte le aberrazioni della sua
generazione, non rifuggendo neppure dall’adulare i due giovani figli
di Cesare con la voluttà del servaggio dinastico; scrivendo
in loro lode dei versi, che cinquanta anni prima avrebbero fatto
arrossire ogni romano, come una abominevole piaggeria degna di
servi; celebrando quale un privilegio concesso alla natura
semidivina dei due giovani la precoce grandezza:
Ultor adest, primisque ducem profitetur in armis,
Bellaque non puero
tractat agenda puer.
Parcite natales timidi numerare deorum:
Cæsaribus virtus
contigit ante diem,
Ingenium cœleste suis velocius annis
Surgit et ignavæ feri
male damna moræ404.
Ma ad un tratto una catastrofe interruppe questo delirio; una
catastrofe impensata e terribile, di cui purtroppo la storia ci
è in parte ignota. Aveva Giulia troppo temerariamente fatto a
fidanza sulla sua popolarità, sulla vecchiaia di Augusto,
sulla scettica indulgenza del pubblico? Aveva essa lasciato
socchiudersi imprudentemente i fitti veli dietro cui doveva
nascondere i propri amori illegali, la figlia di colui che aveva
promulgato sedici anni prima la terribile lex de adulteriis?
È probabile405. Dobbiamo noi vedere, in quello che successe,
una riscossa degli amici di Tiberio e del piccolo partito
tradizionalista, forse anche un supremo sforzo di Livia per riaprire
a Tiberio le porte di Roma? È pur probabile406. Dobbiamo
allora pensare che gli amici di Tiberio fossero venuti a possedere
le prove di qualche adulterio di Giulia di cui era consapevole anche
una liberta di nome Febe; e che, esasperati dalla decadenza del
proprio partito, persuasi che sarebbero sopraffatti se non
riuscivano a colpire con qualche clamorosa rappresaglia gli
avversari, avessero raccolto tutto il loro coraggio per una suprema
audacia, deliberato di riacquistare un poco di prestigio, mostrando
che non avevano riguardi per nessuno, neppure per la popolarissima
figlia di Augusto. La lex de adulteriis era stata applicata a molti
uomini e a molte donne: perchè Giulia e i suoi amanti
dovevano andarne esenti? Augusto, che aveva promulgata quella legge
e che aveva tante volte affermato tutti dovere alle leggi egualmente
obbedire, non avrebbe potuto impedire che anche la figlia sua
ricevesse, come le altre, il castigo meritato. Era vero: il vecchio
presidente che da venticinque anni spendeva tante fatiche, tanto
denaro, tante cure per la pubblica cosa, pareva domandar come unico
compenso di tanto lavoro, di tanti meriti, che nessuno lo obbligasse
a veder la prova della colpa commessa dalla figlia; di non esser
posto nella terribile alternativa o di dar l’esempio di lacerare
egli stesso le proprie leggi o di infierire contro il suo sangue, di
infamare la madre dei due giovani, in cui pareva riporre le
più liete speranze per l’avvenire! Ma quale scandalo avrebbe
nuociuto di più al partito nemico a Tiberio che un clamoroso
processo di adulterio contro Giulia? E gli amici di Tiberio,
esasperati dalle ripetute sconfitte, non ebbero alcun riguardo
nè per le canizie, nè per i meriti, nè per la
famiglia di Augusto; e mostrarono al padre le prove.... Il colpo
dovè ferire ben profondamente Augusto. Egli era preso nella
rete che aveva tesa agli altri. La lex de adulteriis, che portava il
suo nome, imponeva al marito di punire o di denunciare la colpa
della moglie; e se il marito non poteva o non voleva, al padre.
Tiberio essendo a Rodi, egli doveva o punire o accusare sua figlia:
se no, Cassio Severo o qualunque altro manigoldo come lui avrebbe
potuto trascinare Giulia davanti alla quaestio, domandare, sempre in
forza di un’altra legge fatta approvare da lui, che Febe fosse messa
alla tortura per estorcerle la confessione della colpa della
padrona. E questo uomo, che gli storici moderni rappresentano come
un monarca assoluto, arbitro in Roma di ogni cosa e di ogni legge;
quest’uomo che avrebbe ambito di fondare una dinastia per assicurare
l’impero alla propria famiglia, in perpetuo; quest’uomo non si
sentì l’animo, in questo supremo momento, di contendere la
propria creatura ai rancori di una piccola consorteria, agli stupidi
pregiudizi delle classi medie, alla paura di parer ambire dei
privilegi per sè e per la famiglia propria, all’ambizione,
così repubblicana e latina, di mostrare al popolo che le
leggi soverchiavano ogni considerazione personale e familiare. Egli
aveva fatta la terribile legge, che a tanti era stata applicata: se
venuta la volta sua di subirla, egli tentasse di salvare i suoi, che
diverrebbe la sua reputazione di magistrato imparziale, di severo
custode dei costumi, che era tanta parte della sua gloria e del suo
prestigio? Immaginate questo vecchio di sessantadue anni, che
stanco, irritato dalle difficoltà crescenti proprio quando
maggiormente desiderava il riposo, che al termine della sua vita
agitata, allorchè aveva ragione e diritto di desiderare un
poco di pace, non può sfuggire al terribile ricatto,
preparatogli dagli amici di Tiberio: o distruggere sua figlia, o
mettere a repentaglio, in uno scandalo immane, il proprio prestigio
e la propria opera! Augusto non era crudele; ma innanzi a questa
alternativa la sua mente sembra essere stata sconvolta da un accesso
di dolore e di furore407. Mentre l’eguaglianza di tutti innanzi alla
legge non era più che una menzogna convenzionale, di cui si
servivano i ciurmadori, come Cassio Severo, per ingannare il volgo
imbecille, Augusto volle che fosse una cosa seria per la figlia
sua.... e da principio pensò di usare con lei gli estremi
rigori che la lex Julia permetteva al pater familias di applicare
alla figlia adultera: ucciderla. Poi l’affetto, la ragione, i
raddolciti costumi prevalsero. Augusto, uscito di Roma mandò
a Giulia, a nome di Tiberio, il ripudio e con i suoi poteri di pater
familias la esiliò a Pandataria408. All’improvviso, da un
giorno all’altro, Roma seppe che la popolarissima figlia di Augusto,
la madre di Caio e di Lucio era stata sorpresa in adulterio dal
padre, mandata in esilio, scacciata dalla famiglia.... Una procella
di pazze accuse scoppiò allora su Roma. Le alte e medie
classi, i senatori e i cavalieri, i ceti più influenti si
rivoltarono contro Giulia; tutte le favole oscene inventate sopra
lei dagli amici di Tiberio e sussurrate per tanto tempo a bassa
voce, furono raccontate ad alta voce, ancora ingrandite ed
esagerate, con la più viva indignazione; l’infelice signora,
colpevole di una colpa così comune, fu vilipesa come la
più turpe delle meretrici, trascinata per i capelli nel
fango, accusata di ogni abominazione e perfino di tentato
parricidio; tutti i suoi amici furono accusati di adulterio, di
cospirazione contro Augusto; Febe si impiccò per non
testimoniare contro la padrona, le condanne grandinarono.... Julo
Antonio più sospettato di tutti per la sua discendenza, si
uccise409; Sempronio Gracco, e parecchi dei più illustri
amici di Giulia furono condannati all’esilio410; accompagnata dalla
vecchia madre, Giulia dovette nascostamente uscir di Roma,
perseguitata dall’odio di tutta la gente dabbene, carica di infinite
colpe non sue, alla volta della sua triste residenza: l’isoletta di
Pandataria. Di nuovo, per un istante, il pubblico era stato preso da
un subitaneo orrore per l’adulterio; di cui approfittavano i
ricattatori per intentare accuse all’impazzata, contro tutti.
Augusto era troppo potente, troppo ammirato; contro la sua grandezza
nessuno osava più nulla: ma l’invidia democratica covava nei
cuori e si sfogò nell’immane scandalo di Giulia.
Perchè Giulia si era lasciata cogliere in fallo, essa
espierebbe la privilegiata grandezza, le fortune singolari di
Augusto, precipitando giù nell’abisso dell’infamia quanto
alto il padre poggiava sui culmini della gloria; essa espierebbe
sopra tutto i rancori seminati da Augusto con le sue leggi sociali.
Che gioia per coloro che le leggi dell’anno 18 avevano offesi
nell’onore e nei beni, veder la figlia dell’autore di quelle leggi
anche essa infamata e distrutta! Augusto stesso, travolto
dall’impeto di questa corrente, mandò una lettera al Senato,
in cui, spiegando il castigo della figlia, enumerò come vere
le più abominevoli calunnie che si raccontavano su lei411.
VIII.
LA FANCIULLEZZA DI CESARE
E LA VECCHIAIA DI AUGUSTO.
Ma questi folli furori provocarono alla fine una reazione. Il
partito della giovane nobiltà, gli amici di Giulia, il
popolino che amava Caio, Lucio e la madre loro, quanti dalle
esagerazioni crudeli della virtù sono offesi alla fine e
provocati ad ammirare per rappresaglia la colpa, si riebbero, si
infuriarono a loro volta, inveirono contro la ferocia di quello
scandalo che aveva desolata la canizie di Augusto e orbati della
madre i due efebi, speranza della repubblica; si precipitarono sulla
delazione furibonda che correva per Roma, minacciando tutte le case
illustri; si rivoltarono inviperiti contro Tiberio, accusandolo di
esser la cagione di tutto412. Delle dimostrazioni popolari furono
fatte in favore di Giulia413; Augusto dovè risolversi a dare
una soddisfazione anche a questa parte del pubblico, e intercedendo
come tribuno vietò che si intentassero nuovi processi per gli
adulterî commessi prima di un certo tempo414; Tiberio
aspettò invano a Rodi che Augusto gli facesse il cenno del
ritorno. Lo scandalo di Giulia nocque, invece di giovare, al partito
tradizionalista, che lo aveva macchinato. Dopo avere impediti nuovi
processi, Augusto diede ancora al partito puritano una
soddisfazione: esiliò alcuni dei giovani amici di Giulia, i
più compromessi nello scandalo o i più malvisti dal
partito avverso per i loro costumi, usando con questi decreti
d’esilio, un poco arbitrariamente, la facoltà di far tutto
quello che giudicasse utile all’ordine morale e al prestigio della
religione; supplendo in parte con l’autorità sua e con
castighi meno scandalosi alla ferocia dei giudizi pubblici,
incatenata dal suo veto di tribuno415. Ma se Giulia, se i suoi amici
più intimi, se i suoi amanti veri o immaginari, se i giovani
più scioperati della nobiltà uscirono di Roma, Tiberio
non ci rientrò. Il pubblico lo detestava dopo lo scandalo
anche più di prima; e più di prima ebbe paura di
quello strano temperamento, così diverso dall’età
sua....
Lo scandalo di Giulia, invece di sciogliere l’incerta e disagiata
situazione, l’inacerbì di nuovi rancori e di più
violente antipatie. L’aggravò ben presto un nuovo fattore,
fisico e personale, che d’ora innanzi si aggiunge alle altre,
numerose cagioni che dissolvevano lo Stato: la vecchiaia di Augusto.
Non che Augusto già si curvasse, oppresso dal carico degli
anni. Aveva 61 anni; e quindi se non era più giovane, non era
nemmeno decrepito. Ma aveva incominciato a bruciar l’olio suo di
buon’ora; e da 43 anni faceva ardere la lampada della vita senza
parsimonia, tra le cure e le fatiche e le ansietà e i tripudi
e i disinganni e le brighe della politica, incominciate per lui
nella primavera del 44 a. C, in quel giorno, sul finire di marzo, in
cui ad Apollonia aveva ricevute le lettere che gli annunciavano la
strage di Cesare; e continuate poi, ininterrottamente,
nell’interminabile viaggio attraverso la vita, che per tante
singolari vicende, salendo e scendendo, lo aveva condotto a queste
ultime traversie.... Non è quindi strano che Augusto, ad
un’età in cui molti sono ancora vegeti, già fosse
vecchio; avesse della vecchiaia l’ostinazione, la diffidenza, la
debolezza, l’irritabilità. Certo è che, per la prima
volta dopo le guerre civili, questo savio di solito così
riflessivo sembra agire per rappresaglia e per puntiglio. Se la
cieca, quasi feroce avversione popolare contro Tiberio era
già per lo Stato una grave difficoltà, Augusto
l’aggravò maggiormente con un ostinato rancore personale. Al
partito dei puritani, che lo aveva quasi sfidato a provar che non
era, come tutti pensavano, un padre babbeo, volle mostrare che
sapeva servirsi dei poteri discrezionali conferitigli tanti anni
innanzi dal Senato, anche per inasprire i castighi dei suoi di
raffinati tormenti, quando il popolo domandava la grazia: e tolse a
Giulia ogni agio, comodo e piacere nell’isola, interdicendole
persino di bere vino, proibendo a chiunque di recarsi a vederla
senza un suo specialissimo permesso.416 Ma di questi tormenti
inflitti alla figlia si vendicò su Tiberio, chiudendogli
brutalmente sul volto le porte di Roma, ostentando il suo odio in
ogni occasione e incoraggiando così coloro cui era spiaciuto
il massacro di Giulia ad odiarlo417; riversando tutto l’affetto che
aveva dovuto ritirare da Giulia, l’indegna, sul capo di Caio e di
Lucio, stringendo al seno questi due fanciulli, come la suprema
consolazione e come la suprema speranza dell’avvenire, dopo la
catastrofe di Giulia. Per essi soli, sangue di Cesare, la sua senile
tenerezza di nonno avrà d’ora innanzi tutte le indulgenze, i
favori, le ambizioni; per Tiberio, il Claudio orgoglioso, soltanto
ira e disprezzo! Non solo infatti Augusto non smise il pensiero,
come gli amici di Tiberio avevano sperato, di mandare Caio in
Oriente, ma gli affiancò per consigliere proprio uno dei
più acerbi nemici di Tiberio, Marco Lollio418; e ne
affrettò la partenza, a quanto pare, al principio dell’anno 1
a. C, mentre egli rimaneva solo a Roma a contemplare la rovina in
cui si era sfasciata, nella sua famiglia, la prima generazione,
quella grande famiglia romana all’antica, modello a tutta la
nobiltà, che egli aveva sperato creare. Druso caduto a 30
anni nella lontana Germania; Giulia infamata e in esilio; Tiberio
lontano e odiato da tutti per la intrattabile alterigia: ecco i bei
frutti di tante fatiche! Fosse almeno la seconda generazione
più savia, più virtuosa, meno orgogliosa e violenta
che la generazione precedente, tutta così tragicamente e
acerbamente finita! Questa, se aveva preso troppo alla leggera la
lex de adulteriis, aveva almeno ubbidito alla lex de maritandis
ordinibus: onde Augusto e Livia avevano nove nipoti, tra cui Caio
l’anziano; larga messe, nella quale però tra le spighe piene
c’erano anche le vuote. Dei tre figli lasciati da Druso ed educati
da Antonia, il maggiore, Germanico, che aveva allora 14 anni, era
bello, sano, intelligente, studioso, attivo, di carattere dolce;
studiava letteratura, filosofia ed eloquenza con vivo zelo e con
grande profitto; amava gli esercizi fisici419. Della seconda,
più giovane di un anno o due, Livilla, non sembra si potesse
ancora sperar troppo bene o temer troppo male nell’anno 1 a. C.
Invece il terzo figlio, quel Claudio nato a Lione il 1.° agosto
dell’anno 10 a. C, il giorno in cui si era inaugurato l’altare di
Roma e di Augusto, era uno strano mostricciattolo semi-idiota. Testa
piccina e tremolante, bocca enorme, che balbettava, confondeva le
parole e rideva stupidamente420; corpo mal fatto, specialmente nelle
parti inferiori421; intelligenza che pareva ottusa, così da
non potere apprendere neppure i primi elementi del sapere e del
vivere422: a tale ignobil bruttezza e stupidità le continue
malattie dell’infanzia423 – la meningite probabilmente e l’epilessia
– avevano degradata in questo sventurato la maschia e pura bellezza,
la forte e lucida intelligenza dei Claudi. Persino la madre, la
buona Antonia, che lo aveva nutrito con la sua mammella, era stata
obbligata a definirlo un “aborto”424. Da Agrippa e da Giulia, dopo
Caio e Lucio, erano nate due figlie, due Agrippine, che avevano
allora tra 15 e 12 anni; e un figlio, Agrippa Postumo, nato undici
anni prima, dopo la morte del padre. Delle due prime, sino a questo
tempo, non sappiamo nulla: ma la seconda deve aver dato di sè
buone speranze al vecchio nonno, se costui la adottò come
figlia, forse per colmare il vuoto lasciato nei suoi affetti dalla
madre425. In Postumo invece, per una strana regressione alle origini
in mezzo ad una così raffinata coltura, l’animalità
pareva prorompere di nuovo in un corpo e in uno spirito tozzi, avidi
solo di gioie fisiche, recalcitranti all’educazione metodica426.
Infine il figlio di Tiberio e di Vipsania, che Tiberio aveva
lasciato a Roma, Druso, aveva su per giù la stessa età
di Germanico e prometteva di diventare un giovine serio, come
Germanico e come il padre. Ma non pare che Augusto, forse per
dispetto contro Tiberio, lo amasse molto; mentre prediligeva
Germanico, il nuovo pollone in cui sul vecchio ceppo dei Claudi
rigermogliava il ramo troppo presto reciso dalla morte in Germania!
Così nell’anno 1 a. C., mentre Caio viaggiava in Oriente –
non ci è possibile per le scarse e frammentarie notizie
seguirlo di tappa in tappa – i tre membri più cospicui della
famiglia che stava a capo dell’immenso impero, Augusto, Livia,
Tiberio, conobbero sulla vetta più sublime della umana
fortuna il cruccio di giorni indicibilmente amari. Fallito, anzi
volto a suo danno lo scandalo di Giulia, Tiberio capì che si
accingevano a lasciarlo perire nel romitorio dove per ira era andato
a rinchiudersi, sperando che sarebbero venuti a cercarlo: e questa
suprema delusione, la paura di essersi seppellito vivo, a Rodi,
nella tomba dell’ultimo e definitivo oblìo, vinsero alla fine
anche quell’orgoglio inflessibile, quella fierezza schiva di
transazioni e di compromessi. Disperato, Tiberio si acconciò
a mostrare il suo dolore, a pregare, a supplicare; cercò
perfino di rabbonire i suoi peggiori nemici, gli amici di Giulia,
intercedendo presso Augusto, affinchè concedesse alla
condannata un trattamento più dolce427. Ma inutilmente,
perchè Augusto non diede retta a Tiberio, come già
aveva volte dispettosamente le spalle al popolo vociferante a favore
di Giulia. Intanto scadeva il quinquennio della potestà
tribunizia conferitagli nell’anno 6; Tiberio diventava un cittadino
privato, che nessuna immunità ricopriva più. Sempre
più avvilito, Tiberio scrisse ad Augusto che se ne era andato
per non dare ombra a Caio ed a Lucio quando muovevano i primi passi
nella via degli onori; che ora, poichè essi erano
universalmente riconosciuti come i due principali personaggi dopo
Augusto, domandava di tornare a rivedere i suoi, la madre, il
figlio, la cognata, i nipoti. Brutalmente Augusto gli rispose non si
desse pensiero di coloro che aveva con tanta disinvoltura
abbandonati428. A stento Livia strappò al vecchio irritato
una nomina di legato pro forma429. Implacabile, il partito di Giulia
spargeva contro di lui ogni sorta di calunnie, cercando di
togliergli gli ultimi amici430; Marco Lollio in Oriente faceva del
suo meglio per aizzare contro Tiberio Caio, il quale non poteva
esser ben disposto verso chi direttamente o indirettamente aveva
tanto contribuito alla rovina della madre431; Augusto incoraggiava
indirettamente i nemici di lui, mostrando apertamente il suo
malanimo. Così la memoria delle imprese compiute, delle
magistrature esercitate, dei trionfi celebrati, tutto il rispetto di
cui Tiberio aveva per tanti anni goduto, fu travolto da una ondata
di impopolarità, che da Roma si dilatò furiosa sino
nelle provincie. Tiberio dovè, per sfuggire ai sospetti e
alle calunnie dei suoi nemici, ritirarsi nell’interno dell’isola,
non ricever più nessun personaggio, quasi appiattarsi432; fu
obbligato ad andare incontro a Caio sino in Samo, quasi per scusarsi
dell’esilio di Giulia; dovè tollerare l’affronto di una
accoglienza freddissima433; incupì anche egli, come Augusto a
Roma, in questo ozio spregievole; smise il cavalcare, gli esercizi
fisici e l’uso delle armi434. Rimpiccolendosi egli stesso, il mondo
lo spregiò ancora di più; tutti gli si volsero contro;
e il popolaccio di Nimes trascese a rovesciarne la statua435. Caio e
Lucio Cesare erano i beniamini, così di Augusto, come di
tutto l’impero; Pisa giunse a dedicare, con solenne decreto, un’ara
a Lucio436! Ma il pendolo del destino aveva compiuta per Tiberio
l’oscillazione delle sventure, e ricominciava a discendere per
l’oscillazione opposta, quella della fortuna. Siamo giunti al
1.° Gennaio dell’anno 754 di Roma, quello da cui si sono
cominciati a numerare gli anni che noi ancora contiamo. Era l’anno
in cui, per la deliberazione presa nel 6 a. C, e che era stata
cagione di tante sventure. Caio Cesare sarebbe console. Ma il
console ventenne era allora in Asia, probabilmente in Antiochia437,
dove preparava l’esercito per invadere l’Armenia, e avviava intanto
trattative con Fraatace per tentare un accordo. Augusto non voleva
implicar Roma in una guerra con i Parti; era verisimile che il re
parto non volesse, egli neppure, sguainare la spada: perciò
le trattative che da Roma, a tanta distanza, si perdevano per via,
potrebbero riuscire meglio dalla Siria, se avviate dal figlio di
Augusto a capo di un esercito. Ma l’arrivo di Caio Cesare, investito
di così cospicua missione, accompagnato da uno stuolo di
giovani aristocratici romani, tra i quali Lucio Domizio Enobarbo,
figlio del legatus di Germania438, aveva commossa molto, come
è naturale, la premurosa servilità dell’Oriente, che
da ogni parte mandava al giovane ambasciate a rendergli omaggio, a
esporgli desiderî, a raccomandarsi; gli erigeva monumenti e
gli dedicava, a lui e al fratello, iscrizioni, chiamandolo in
certuna perfino figlio di Ares o addirittura nuovo Ares439. Per
l’antica abitudine del servire, l’Oriente era prono a riconoscere
l’imperio di Roma perfino in questa cavalcata di efebi condotta dal
giovane Caio; e la accoglieva con i consueti inchini e le laudi
usate da secoli per tutti gli uomini, che fossero simboli del
potere. Disgraziatamente la compagnia mandata da Augusto a
rappresentare Roma in Oriente si componeva di molte giovinezze, le
une inesperte, le altre troppo presuntuose, alcune anche corrotte,
in mezzo alle quali dominava una virilità energica e
intelligente, ma torbida e cupida: Marco Lollio. Lollio era,
sì, un uomo capace ed esperto, ma cupidissimo, che non voleva
solo assestare la questione d’Armenia, ma razziare in Oriente una
nuova fortuna, da aggiungere a quella che, ingente, già
possedeva. Pare che egli approfittasse della immensa sua
autorità per taglieggiare città, privati, sovrani,
rendendo in cambio o solo promettendo servigi presso Cesare e presso
Augusto440; e che inviasse, nuovo Lucullo, carichi ingenti di oro e
di argento in Italia. Lollio cercando troppo, nel compito
affidatogli da Augusto, il vantaggio suo oltre quello di Roma; Caio
dovendo in troppe cose, per l’inesperienza e giovinezza sua,
lasciarsi guidare da lui; i suoi compagni essendo quasi tutti
giovani vani e corrotti, Caio potè, come dice uno storico
antico, meritare molte lodi e molti biasimi441. Egli avviò
bene le trattative con i Parti, domandando con fermezza a Fraatace
di rinunciare all’Armenia e ai fratelli; ma la sua missione
incanaglì poi a poco a poco, dopo aver posto il piede
solennemente sul suolo d’Oriente, in una scorribanda sfrenata di
giovinezze alla caccia del piacere. Lollio, pur di non essere
disturbato nei suoi grandi ricatti, non disturbava agli altri i
piccoli giuochi e i piccoli spassi; Caio da solo molte cose ignorava
e altre non sapeva reprimere con il necessario vigore; onde intorno
a lui i compagni e più ancora i loro seguaci – schiavi e
liberti sopratutto – commettevano soprusi e pazzie442. E Lollio
intanto, incoraggiato dal successo, procedeva ad adoperare mezzi
più audaci per far denaro; e pare che alla fine tentasse di
ricattare anche Fraatace, proponendogli nelle trattative di fargli
avere certe concessioni, se gli pagava ingentissime somme443.
Tuttavia i preparativi per la spedizione continuarono nella
primavera e nell’estate dell’anno primo dell’era volgare;
continuarono pure le trattative con i Parti, e continuarono bene,
perchè Fraatace, non osando di fare una guerra, doveva
acconsentire a sgomberare l’Armenia e rinunciare ai fratelli444. A
Roma intanto, nella parte più seria della nobiltà
incominciava, quasi invisibile nel suo principio e lentissimo, un
mutamento a favore di Tiberio. Tiberio aveva nella nobiltà,
tra quanti lo avevano visto all’opera nelle guerre o avevano
militato sotto di lui, degli ammiratori, non numerosi forse, ma seri
e sinceri; i quali non ne riconoscevano soltanto i difetti ma anche
le virtù. Chi poteva negare essere egli il primo generale del
tempo? Non era possibile che questi ammiratori non rammaricassero
quella prestante virilità condannata ad oziare in Rodi,
quanto più si diffondeva nello stato il torpore della
vecchiaia di Augusto. Per la dissoluzione della nobiltà, per
l’esaurimento del Senato, il presidente della repubblica, con la sua
famiglia, i suoi amici intimi, i suoi schiavi era ormai il supremo
motore di tutto lo Stato: e invece mentre il mondo nella sua eterna
giovinezza si rinnovava allora come sempre, Augusto vecchio, stanco,
solo in mezzo a tanta giovinezza, non osava più nulla
innovare. Da un pezzo le entrate dell’erario non bastavano
più alle spese cresciute445: ma Augusto non si risolveva
perciò a studiare nessuna riforma delle imposte che
pareggiasse i conti; e preferiva vivere alla giornata, appigliarsi
di continuo agli espedienti: ora dando egli del suo, anche a rischio
di rovinare la sua famiglia; ora raccomandando al Senato e ai
magistrati la parsimonia; ora trascurando i pubblici servizi; ora
rimandando spese e pagamenti. Come è naturale, i servizi
pubblici, sempre difettosi, minacciavano di sfasciarsi dappertutto,
anche in Roma, dove la popolazione cresceva e annona, polizia,
incendi, tutto era disordinato e insufficiente, non ostante la
riforma dei vicomagistri446. Sarebbe stato necessario di dare la
città a una autorità vigorosa, provvista di mezzi
sufficienti, che riformasse e riordinasse tutti i servizi; e non far
assegnamento su qualche centinaio di ignari liberti, pensando di
ricompensarli con il permesso di vestire in certe occasioni la
pretesta e di incedere accompagnati da due littori! Ma Augusto non
si risolveva a nulla; il popolo mormorava, scontento; le cose
procedevano, come potevano, alla meglio, alla peggio. Neghittosa in
Roma, poteva la volontà del vecchio presidente muovere uomini
e cose agli estremi confini dell’impero? Beffandosi delle condanne,
gli esiliati negli anni precedenti abbandonavano le tristi residenze
loro assegnate, se ne andavano in città e luoghi ridenti
vicini, facevano venire schiavi e liberti, vivevano allegramente447.
Nessuno protestava, e la lex de adulteriis disseminava a nuovi
sollazzi per tutto l’Oriente e l’Occidente i gaudenti e le donne
allegre di Roma. In Oriente come in Occidente, in tutte le
questioni, Augusto pareva confidar precipuamente nella saggezza
riposta delle cose, più che nella saggezza e iniziativa sua;
in tutte le questioni, anche in quella, pure vitalissima,
dell’esercito. Difficili ogni anno di più i reclutamenti in
Italia, dove gli uomini liberi potevano, per la crescente ricchezza,
trovare da vivere meglio che militando in lontane regioni;
insopportabile la spesa annua delle pensioni ai congedati;
impossibile per ambedue queste ragioni il mantenere le promesse
contenute nella legge militare dell’anno 14, congedando i veterani
dopo sedici anni di servizio448; necessario di accrescere
continuamente gli ausiliari, e cioè di infiacchire la
unità dell’esercito romano con queste milizie eterogenee;
crescenti infine le esigenze del soldato che, da un capo all’altro
dell’impero, domandava un soldo maggiore449, si lagnava di non poter
con dieci assi al giorno provvedere anche alle vesti, alle armi,
alle tende e domandava almeno un denaro450. E non senza ragione,
poichè la prosperità accresceva in tutto l’impero i
salari e il valore di tutte le cose e quindi il caro del vivere: ma
come aumentare la spesa se già mancava il denaro per il soldo
e per le pensioni nella misura di allora? Sorda e cieca, con le
braccia serrate e i pugni stretti, l’avarizia senile di Augusto non
udiva le richieste dei soldati, non vedeva i segni del malcontento
che serpeggiava nelle legioni! L’ordine dei cavalieri continuava a
vieppiù isterilirsi; ma chi osava riproporre dei nuovi rigori
contro questo egoismo, ora che Tiberio era screditato e detestato
anche per averli seriamente voluti, quei rigori? Nessuno si curava
più di impedire alla aristocrazia di Roma il suo lento
suicidio. Tutti gli Stati dell’Oriente, le città, gli
alleati, i protetti, potevano conservare le antiche leggi, gli
antichi costumi, gli antichi vizi, indisturbati, senza che Roma
osasse intervenire nelle loro faccende, nè per sradicare
alcun male, nè per affrettare alcuna migliorìa e
neppure per esigere imposte maggiori, sebbene la pace arricchisse
molto l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. Archelao aveva presto
dimostrato alla Palestina di aver ereditata la malvagità
senza l’ingegno e l’energia del padre: ma Roma, non ostante
l’impegno preso con il popolo ebreo, fingeva di non avvedersene. In
Occidente, invece, la Dalmazia e la Pannonia parevano da dieci anni
essersi rassegnate: ma l’esportazione dei metalli preziosi,
l’introduzione dei costumi esotici, l’importazione delle merci
orientali continuavano a dissolvere l’antico ordine di cose; ma il
ricordo delle ultime guerre si affievoliva ed una nuova generazione
cresceva, vaga di ritentare la terribile prova. Sarebbe stato
necessario governare queste provincie con oculata, indefessa
prudenza: e invece Augusto poteva appena inviarci qualche mediocre
legatus, di non altro sollecito che di arraffar nel paese denaro per
l’esausto tesoro di Roma451. Insomma invece di cercare nuove risorse
in Oriente, dove la pace accresceva la ricchezza, Roma si ostinava a
spremere l’Occidente povero e perturbato! Ma l’incoerente debolezza
di questo governo senile era più manifesta che altrove nei
territori conquistati recentemente oltre il Reno. Augusto non aveva
osato, dopo la partenza di Tiberio, di imporre tributi o leggi alle
popolazioni soggette; si era ristretto a stanziare qua e là
delle legioni, a stabilire dei campi militari che, tra i villaggi
barbari, facevano l’ufficio come di piccole città
rudimentali; a formar dei corpi ausiliari e a corrompere la
nobiltà dei vari popoli con gli onori e gli stipendi,
distribuendo ai grandi la cittadinanza, la dignità equestre,
dei comandi remunerati nei corpi ausiliari452. E certamente i campi
militari romani, con i legionari e i numerosi mercanti di ogni
nazione che li seguivano, attiravano i barbari, che andavano a
cercare nelle cannabae, nelle botteghe dei mercanti tanti oggetti
prima ignoti453: il vino, i profumi, delle stoffe o delle ceramiche
più fine, dando in cambio il poco oro ed argento che
possedevano, dell’ambra o delle pelli o del bestiame o delle lane o
dei cereali. In molti campi si erano anche fissati giorni regolari
per i mercati. Ma ben altre forze, e più materiali, che
questi vaghi influssi greco-italici, irradianti dai campi militari,
occorrevano a tener soggette le riottose tribù germaniche; le
quali infatti violavano continuamente i trattati conchiusi.
Nell’anno primo dell’êra volgare la Germania era in uno stato
di vera rivolta454, cosicchè Augusto dovè risolversi a
mandarvi un legato, M. Vinicio, con l’incarico di rimettere ordine
in quella cosidetta provincia: in quei territori, che, invece di
rendere, costavano; dove l’autorità romana era rispettata
ancora in un luogo e non più in un altro, oggi sì,
domani no: e dove nessuno in nessun luogo, nè oggi nè
domani, pagava.
Il torpore della vecchiaia si propagava dunque dal cervello alle
membra tutte dell’immenso corpo. Tutto era vecchio: l’arnese e
l’artiere. Per ringiovanire lo Stato, sarebbe stato necessario non
solo di mettere a capo dell’impero una virilità robusta, ma
di rompere arditamente la cerchia angusta dei privilegi senatorii;
non cercare i magistrati, i governatori, i funzionari delle curatele
istituite negli ultimi anni soltanto nell’ordine senatorio; ma
scegliere più spesso, più largamente, con minor
circospezione nell’ordine equestre, nella borghesia agiata e colta
dell’Italia. Non ostante la frequente sterilità dei
matrimoni, l’ordine equestre cresceva di numero e di agiatezza in
tutta Italia, sopratutto nell’Italia del Nord455, più che
l’aristocrazia a Roma; mentre la aristocrazia, possedendo per
privilegio e senza contesa quanto desiderava, era neghittosa,
indisciplinata, discorde, l’ordine equestre poteva sentire almeno lo
sprone di una ambizione: quella di acquistare una nobiltà
più eccelsa e un prestigio più insigne, occupando le
cariche dello Stato fino allora riserbate ai senatori. Ma Augusto
non osava neppure di iniziare questa riforma, a cui si opponevano le
tradizioni, l’indirizzo fino allora seguito da lui, la piega
indelebile impressa nel suo spirito dal movimento tradizionalista,
di cui, in gioventù, era stato tanta parte. Egli era l’uomo
figurativo di una generazione trapassata, superstite in un mondo
quasi interamente rinnovato, ma che non si poteva porre in disparte:
egli acconsentiva a servirsi di cavalieri o di plebei come
procuratori nelle sue provincie, per l’amministrazione dell’Egitto,
per il governo di qualche regione remota, perduta, ignorata delle
sue provincie più barbare456; ma non per le grandi cariche
vistose esposte agli sguardi del pubblico. Onde gli spiriti savi, a
mano a mano che dileguava il primo disgusto dello scandalo di
Giulia, incominciavano a pensare se non fosse necessario, per la
salute della repubblica, riconciliare Tiberio ed Augusto;
rinvigorire lo Stato cadente per la vecchiaia di Augusto con la
forza che si logorava nel disuso a Rodi, implorando invano di essere
adoperata. Sì, certo: Augusto mostrava chiaramente di aver
poste le sue speranze in Caio ed in Lucio: ma ambedue erano ancora
giovanissimi; la situazione peggiorava dappertutto; le notizie di
Germania non rassicuravano punto; e Augusto era vecchio, malato....
Se da un giorno all’altro morisse non si potrebbe metter nel luogo
suo Caio. Anche allora ogni uomo savio doveva riconoscere non
potersi scegliere a capo dell’esercito che Tiberio, l’impopolare
Tiberio, il primo generale del tempo suo, il più esperto
conoscitore delle faccende germaniche. Dieci anni dopo, le cose si
trovavano nella stessa condizione come alla morte di Druso: Tiberio
era il successore inevitabile. Si dovette quindi tentar di
riconciliare Tiberio ed Augusto. Ma Augusto da principio non si
smuoveva. La sua vecchiaia era troppo inviperita contro Tiberio,
troppo paurosa della ostinata impopolarità sua, troppo
assorta nella tardiva tenerezza paterna per Caio e per Lucio, nelle
brillanti speranze che essa concepiva per loro. “Salve, o diletta
luce degli occhi miei – così egli scriveva il 23 settembre di
questo anno, il giorno suo natalizio, a Caio che era in Armenia. –
Io ti desidero sempre, quando sei da me lontano; ma con più
vivo desiderio gli occhi miei cercano il mio Caio in giorni come
questo. Dovunque tu oggi ti trovi, spero avrai passato bene questo
dì, celebrando lietamente il sessantaquattresimo mio
natalizio. Come vedi, l’ho scampata da quello che per tutti è
l’anno climaterico, il sessantatreesimo. E ora prego gli dèi,
che quel che mi resta da vivere, me lo faccian vivere in una
repubblica prospera, e vedendovi crescer bene così che
possiate prendere il luogo mio”457. Fittosi in capo di preparare
Caio e Lucio come possibili suoi successori, egli non voleva porre
accanto a loro la formidabile rivalità di Tiberio; e a questa
tenerezza senile immolava anche i più vitali interessi dello
Stato.
Ma sebbene infiacchita e neghittosa, l’Italia non era così
disfatta ancora da tollerare placidamente un governo tanto senile.
Il partito tradizionalista ripigliava forza, corroborato dalle
circostanze, aiutato da tutte le persone savie e certo anche da
Livia; e incominciò a porre l’assedio intorno alla
ostinazione senile di Augusto, per costringerla a capitolare. Caio
intanto, che nella seconda metà dell’anno 1 d. C. si era
avvicinato con l’esercito ai confini dei Parti458, non sappiamo
dove, aveva strappato a Fraatace il consenso definitivo alle sue
proposte: rinunciava il re parto ad ogni influenza dell’Armenia, ad
ogni pretesa sui fratellastri; la pace sarebbe solennemente
ratificata con una intervista che avrebbe luogo l’anno prossimo
sulle rive dell’Eufrate, in una certa isoletta. Livia invece
riusciva alla fine, al principio dell’anno 2, a vincere in parte, ma
a condizione di una nuova umiliazione per Tiberio, la
caparbietà del vecchio. Augusto consentì a permetter a
Tiberio di ritornare in Roma, se Caio acconsentiva e se Tiberio
promettesse di ritirarsi a vita privata459. La concessione del resto
era poco importante; perchè Tiberio non essendo esiliato,
avrebbe a rigore di diritto potuto ritornare anche senza il suo
consenso; e la condizione che Caio acconsentisse la rendeva
più amara. Il celebre generale, che aveva domata
l’insurrezione della Pannonia, doveva implorare il diritto di vivere
a Roma come un privato, da un giovinetto di poco più di venti
anni, che si lasciava guidare da un acerrimo nemico di lui, come
Lollio! Ma domato ormai dalla lunghissima prova – incominciava
l’ottavo anno di esilio – comprendendo che, finchè non fosse
tornato nella metropoli, non potrebbe sperare nulla, Tiberio si
acconciò a domandare a Caio l’agognato permesso. E la
fortuna, che ormai si era stancata di perseguitarlo, lo
favorì questa volta. Caio si era, nella primavera dell’anno
2460, incontrato sulle rive dell’Eufrate con Fraatace, ove ambedue
avevano solennizzato l’accordo con banchetti e con feste
reciproche461. Pare però che Fraatace, poco soddisfatto di
Lollio, svelasse a Caio le segrete trattative che erano corse tra
loro, e che Caio, il quale aveva per la concussione il naturale
orrore dei giovani aristocratici nati ricchi grazie alle concussioni
felicemente compiute dai loro antenati, sdegnatissimo, si fosse
finalmente ribellato contro il suo consigliere e lo avesse
scacciato. Certo è che Lollio, poco tempo dopo un alterco
violentissimo con Caio, morì d’improvviso, e si
sospettò per veleno volontariamente bevuto, lasciando alla
famiglia un patrimonio ammucchiato a prezzo della vita, ma che per
più di mezzo secolo doveva figurare tra i più ingenti
d’Italia, e permettere alle sue pronipoti di far scintillare al sole
di Roma i più ricchi monili della metropoli462. E Caio,
libero dai cattivi consigli di Lollio, acconsentì al ritorno
di Tiberio463.
Così, verso la metà dell’anno 2, Tiberio
ritornò a Roma, donde era partito potente e glorioso sette
anni prima, e si ritirò nel palazzo di Mecenate, nel nuovo
quartiere signorile dell’Esquilino, per finire l’educazione di
Druso, come un privato, astenendosi da ogni pubblica faccenda464,
sospirando il giorno in cui Roma avrebbe di nuovo bisogno di lui.
Egli aveva scontato ben amaramente il suo fallo di orgoglio! Ma egli
confidava nell’avvenire e nella fortuna.... La quale, stanca davvero
di perseguitarlo, a poco a poco inclinava di nuovo favorevole verso
di lui. Poco dopo il suo arrivo, Lucio Cesare, il fratello minore di
Caio, che Augusto aveva mandato in Spagna a incominciare il suo
tirocinio militare, era ammalato a Marsiglia e morto il 20
agosto465. Uno dei due futuri collaboratori e successori di Augusto
spariva innanzi tempo, quando Germanico non aveva ancora che 17
anni, e Augusto già ne aveva quasi sessantacinque; quando il
primo passo alla riconciliazione con Tiberio era già stato
fatto da una parte e dall’altra; quando le screpolature, che si
allungavano ed allargavano in ogni parte dell’edificio dello Stato,
mostravano a tutti la necessità di chiamare un architetto
più vigoroso che il vecchio. Ma Augusto, sempre lento, sempre
incline a differire le gravi deliberazioni, non si risolvè
ancora. Intanto Caio, conchiuso l’accordo con Fraatace, aveva invasa
l’Armenia466, senza dar di petto in nessuna resistenza difficile,
avendo solo da spegnere qua e là qualche piccolo loco
solitario di rivolta, attizzato dal partito nazionale. In una di
queste imprese, ad Artagira, Caio fu ferito dal capo degli insorti,
sembra a tradimento467. La ferita tuttavia non parve grave da prima;
e Caio potè continuare la sottomissione, facile del resto,
dell’Armenia.
E con l’anno seguente, il 3 d. C., incominciava l’ultimo anno del
terzo decennio della presidenza di Augusto. Da trenta anni l’impero
era governato da un uomo malaticcio e debole, cui la morte pareva da
mezzo secolo minacciare da un giorno all’altro lo sfratto; e che
pure riusciva sempre a rinnovare la locazione della vita, avendo
tempo a raccogliere le copiose eredità di molti, più
giovani di lui, che lo avevano nominato nel testamento per
adulazione, ma confidando di poter seguirne il funerale solenne. Non
erano più numerosi in Roma coloro i quali, vedendo passar
quel piccolo vecchio in lettiga, potevano ricordare il bel giovane,
ardito e petulante, che 47 anni prima, in un giorno di aprile, era
comparso nel foro a promettere al popolo come figlio di Cesare, il
legato del dittatore spento il mese innanzi. Quanto tempo era
passato! Quante cose erano successe! Due generazioni erano passate,
travolte a precipizio da una delle più turbinose correnti che
si ricordassero: e in mezzo agli innumeri spariti nei gorghi, egli
solo restava ancora in piedi, quasi fosse immortale.
Senonchè, dopo trenta anni di governo, è facile capire
come molti incominciassero ad essere stanchi e giudicassero
necessario ringiovanire lo Stato, se non si voleva lasciarlo cadere
in decrepitezza, insieme con il suo capo, aspettando che costui
subisse alla fine la legge comune della natura. Non è del
resto improbabile che Augusto stesso non fosse alieno da prendersi
un meritato riposo468. Di onori e di potenza e di gloria egli doveva
essere sazio fino alla nausea, oramai! I tempi nuovi richiedevano un
uomo nuovo. Ma chi sarebbe l’uomo nuovo? Qui stava la
difficoltà. Le candidature, poste innanzi da qualcuno, di
Marco Lepido, di Asinio Gallo e di Lucio Arrunzio469 – uomini appena
noti oltre l’Italia e confusi, per gli stranieri, nella folla del
Senato – non erano serie. Caio non era ancora maturo: anzi ben
presto si seppe che egli era stato côlto, in seguito alla sua
ferita, da una strana malattia, che fa sospettare in lui una
alienazione mentale: da una prostrazione di forze, per cui a un
certo momento abbandonò il comando dell’esercito, si
ritirò in Siria, scrisse ad Augusto che d’ora innanzi non
voleva più occuparsi di nulla e vivere come un privato470.
L’adulazione della moltitudine e l’interessato egoismo dei partiti
avevano potuto farlo, come il padre adottivo, console a venti anni;
non avevano potuto infondergli nelle vene la non logorabile
elasticità di Augusto. Caio aveva sempre avuta poca salute;
l’impresa di Oriente era forse stata un carico troppo grave per lui;
forse anche, giovane, potente, ricco, aveva troppo abusato
dell’Asia, la terra del piacere.... In questo corpo delicato, in
questo spirito poco saldo, il trauma di Artagira può aver
rotto un equilibrio già fragilissimo. A 23 anni, il giovane
in cui la tenerezza senile di Augusto aveva vista la colonna futura,
la mente e la volontà regolatrice dell’impero, buttava via
grandezza e potenza in un folle accesso di disperazione e di paura!
Non c’era quindi scampo, l’alternativa era inesorabile: se non si
rinominava Augusto, bisognava scegliere Tiberio, che solo aveva
esperienza, vigore, ingegno, perizia militare e fama tra i barbari,
bastevoli all’ufficio. Ma Tiberio non era ancora possibile: era
troppo impopolare, spaventava troppo, aveva troppi nemici471.... Per
necessità, anche questa volta tutti si accordarono a
prolungare di dieci anni ancora la presidenza di Augusto, molti
sperando in cuor loro che la morte sarebbe più savia degli
uomini e più discreta di Augusto, non lasciandogli finire il
quarantennio472.
Afflittissimo dalla nuova sventura con cui la sorte lo colpiva in
Caio, Augusto cercò con ogni mezzo di incoraggiarlo: alla
fine gli scrisse di venire in Italia, dove, se non volesse
più attendere a pubbliche faccende, lo lascerebbe vivere a
suo talento473. La tenerezza paterna vinceva ancora una volta la
severità magistraturale. Ma invano: mentre si accingeva a
tornare, nel febbraio dell’anno 4, Caio moriva in una piccola
città della Licia474. La fortuna riconduceva, a poco a poco,
dal suo ritiro Tiberio.... Ma Augusto non si risolveva ancora. E
intanto la rivolta infuriava in Germania. Alla fine, questa
caparbietà sembra aver irritati475 non solo gli amici di
Tiberio, il partito tradizionalista, ma quanti capivano che
continuando così si correrebbero i più gravi pericoli.
Un giorno, nella prima metà dell’anno 4 d. C., Augusto fu
avvertito che nell’aristocrazia si tramava una congiura contro di
lui, e che a capo di essa era nientemeno che un nipote di Pompeo,
Gneo Cornelio Cinna476. Si voleva davvero preparare delle nuove Idi
di Marzo o qualche meno cruenta dimostrazione, per costringere
Augusto a dare al suo governo il necessario rinforzo? Certo è
che Livia si intromise attivamente per impedire che i congiurati
fossero puniti477; che Augusto perdonò, anzi secondò
la candidatura di Cinna al consolato per l’anno prossimo478; che il
26 giugno Augusto adottava nei comizi curiati, come figlio, Tiberio
insieme con Agrippa Postumo479, e gli faceva dare dai comizi la
potestà tribunizia per dieci anni480.
Tiberio aveva dovuto prima adottare Germanico481. Così
Tiberio prendeva, come figlio, il luogo di Caio Cesare e come
collega il luogo di Agrippa. La repubblica aveva di nuovo due
presidenti. E Augusto si accingeva a governare di nuovo con il
partito tradizionalista e conservatore, che riacquistava l’antica
preponderanza nello Stato482.
IX.
L’ULTIMO DECENNIO.
L’assunzione di Tiberio a collega di Augusto nella presidenza
mutò profondamente lo stato della repubblica. Dall’anno 4 d.
C. sino alla morte, Augusto simboleggia ancora la suprema
autorità dell’impero; ma Tiberio l’esercita. Pieno di
acciacchi, affranto dalle fatiche, svogliato dalle delusioni degli
ultimi anni, il vecchio finalmente cedette alla forza delle cose. Se
molte deliberazioni e riforme furono ancora divulgate da Augusto, le
più importanti furono pensate e suggerite da Tiberio. Non si
potrebbe spiegare altrimenti come mai, dopo il terzo decennio
così vuoto ed incerto, il quarto decennio abbia compiute
tante imprese, leggi e riforme. Tiberio in verità governava
accanto al vecchio Augusto, il quale aveva capito di dovere ormai
lasciar fare questa virilità di 46 anni, e quanto ancora
poteva, secondarla con l’autorità ed il consenso483. Il
governo di Tiberio incomincia insomma non nel 14, ma nel 4 dopo
Cristo; non con la morte di Augusto, ma dalla riconciliazione sua
con il patrigno.
Dopo dieci anni di ozio forzato e di impopolarità, Tiberio
smaniava di rifarsi sopra i suoi nemici, ma di rifarsi in modo degno
dell’alta intelligenza, della nobile tempra di cui la natura lo
aveva dotato: non rappresaglie o vendette, ma opere, le quali
dimostrassero a tutti come egli solo, calunniato e perseguitato
tanti anni da una aristocrazia degenerata, fosse capace di risanare
il marasma senile in cui la repubblica si era prostrata. Fu egli che
persuase Augusto, in questo anno, ad addolcire la pena di Giulia,
consentendole di vivere a Reggio di Calabria e con maggiori comodi e
maggior libertà?484 Non è improbabile che Tiberio
volesse con questo atto di clemenza dare una soddisfazione al popolo
e mostrare che non intendeva usar rappresaglie. Altro pegno di
riconciliazione tra i Giulii e i Claudii fu il fidanzamento di
Germanico, il primogenito di Druso adottato da Tiberio, con
Agrippina, la figlia di Giulia e di Agrippa. Ma se Tiberio non
intendeva usare rappresaglie contro gli antichi nemici, intendeva
governare a seconda di quei principî che costoro detestavano
tanto; e provvedere subito a riparare i due guasti più gravi,
fatti dall’universale abbandono nel precedente decennio: la
dissoluzione dell’esercito e il pericolo germanico. Senza perdere un
istante, appena ebbe ricevuta la potestà tribunizia, egli
partì per la Germania485 a ristabilire la disciplina delle
legioni486, a spazzar via dai campi militari del Reno la vergognosa
indolenza che un ozio così lungo ci aveva infusa, a rinnovare
da capo a fondo la neghittosa politica che negli ultimi anni aveva
lasciati i Germani vivere in sudditanza formale e Marbod, il re dei
Marcomanni, fondare indisturbato in Boemia, a 200 miglia dal confine
dell’Italia, un grande regno germanico con un esercito ordinato al
modo romano. Tiberio non ignorava che, impoltriti come erano oramai
e assottigliati gli eserciti, bisognava procedere con prudenza: e
infatti non sognava di applicare alla Germania l’arte di guerra di
Cesare, in cui l’improvvisazione geniale suppliva alla preparazione,
la velocità fulminea e l’ardimento alla pochezza del numero;
ma un’arte più cauta e più lenta, in cui il numero, la
preparazione, la mole degli apparecchi facessero già da
sè tanta impressione sui barbari, che del cimento non ci
fosse più quasi bisogno. Egli intendeva richiamare in
quell’anno all’obbedienza, con piccole spedizioni e con trattative,
i popoli tra il Reno e il Weser, i Caninefati, gli Atuari, i
Bructeri, i Cherusci; ripetere poi l’anno seguente, preparandola
accuratamente, la grande marcia di Druso sino all’Elba; infligger
nel terzo anno, con una grande guerra preparata pazientemente, la
suprema umiliazione alla barbarie germanica, costringendo anche
Marbod ad accettare il protettorato romano487. Ma Tiberio sapeva che
l’infiacchito governo non si rinvigoriva solo ristabilendo la
disciplina nell’esercito e facendo delle guerre. Infatti, mentre
egli era in Germania, Augusto proponeva in questo anno provvedimenti
nei quali è evidente l’impronta tiberiana, lo spirito
tradizionalista e conservatore della vetusta politica aristocratica.
Noi possiamo quindi attribuirli a Tiberio. Perchè lo scettico
vegliardo, si risolve in questo anno dopo tanta inazione a tentar
una nuova cernita del Senato, che presto poi, come al solito,
interrompe, dopo aver cercato, pur questa volta, di lasciarne altrui
la responsabilità?488 Perchè sente il dovere di pagare
puntualmente soldati e veterani, dopo aver per tanto tempo mancato
loro di parola? Come mai questo astuto politico non d’altro
sollecito che di riuscire con il minore contrasto in ogni faccenda,
ardisce questa volta immaginare una cosa giusta ma pericolosa:
chiedere denaro per l’esercito non solo alle provincie, ma anche
all’Italia? Era giusto che l’Italia, la quale era tanto arricchita
negli ultimi trent’anni, sopportasse una parte almeno della spesa
militare, dalla quale traeva maggiori profitti che ogni altra parte
dell’impero. Non combattevano forse così aspramente le
legioni nell’Illiria, nella Pannonia, nella Germania,
affinchè i possidenti dell’Italia del Nord e dell’Italia
centrale potessero sicuramente vendere il vino ai popoli barbari o
semibarbari delle provincie Europee? Ma l’Italia era così
gelosa della sua immunità fiscale, che uno spirito più
diritto, più fermo, più risoluto di Augusto deve aver
pensata una cosa tanto ardita. Anche in questo Augusto sembra aver
contribuito piuttosto la consumata prudenza con cui preparò
l’attuazione dell’idea: ordinando soltanto in Italia, con il suo
potere proconsolare, ma senza spiegarne il motivo, un censimento di
tutte le persone che possedevano più di 200 000
sesterzi: probabilmente le vittime adocchiate per il prossimo
sacrificio489. Infine Augusto osò dopo tanto tempo una cosa
più ardita: affrontare la grossa questione dei matrimoni
senza prole; tentar di chiudere la tortuosa scappatoia per la quale
la agiata borghesia e l’ordine equestre avevano cercato di sgusciar
fuori dai divieti della lex de maritandis ordinibus. I cavalieri, le
classi medie, il grande pubblico non avevano odiato così
tenacemente Tiberio nè avevano tanto ardentemente ammirato
Caio e Lucio Cesare per errore: pochi mesi dopochè Tiberio
era stato richiamato al governo, Augusto osava proporre quella legge
tanto temuta, che pareggerebbe i maritati senza figli ai celibi490.
La legge si chiamava, probabilmente, lex Julia caducaria; e si
proponeva due scopi: uno sociale, l’altro fiscale. Voleva
cioè costringere i coniugi a generare figli, accoppiando
l’orbitas, la sterilità, al celibato sotto il giogo delle
pene sancite nella legge sul matrimonio: e voleva nel tempo stesso
riempire le casse pubbliche deliberando che i legati e le
eredità lasciate agli incapaci – celibi e orbi – non
sarebbero più attribuite agli altri eredi e legatari secondo
le regole dell’antico diritto, ma devolute all’erario.
Il partito tradizionalista ridiventava, per merito di Tiberio,
potente; riprendeva l’opera incominciata con le grandi leggi sociali
dell’anno 18 e poi interrotta per le discordie della nobiltà,
per l’influsso della nuova generazione, per la debolezza di Augusto.
Dopo aver tentato di curare nell’anno 18 i vizi più
inveterati dell’aristocrazia, quel partito si volgeva ora a
sradicarne dalle classi medie gli egoismi più mortali; come
la lex de maritandis ordinibus e la lex de adulteriis erano state
sancite contro la nobiltà, la lex caducaria era proposta
sopratutto contro l’ordine equestre. Se anche questo volontariamente
si isterilisse, sarebbe pur necessario un giorno – onta suprema – di
trasferire l’impero nelle mani dei liberti o dei sudditi! Ma
l’ordine equestre era più numeroso, più spregiudicato
e più bisognoso che la nobiltà; ma Tiberio, l’autore
vero della legge, dovè restare sino a dicembre in
Germania491, dove con abili trattative e con una rapida marcia avea
sottomesso tutte le popolazioni abitanti tra il Reno ed il Weser
sino all’Oceano, e compiuti i preparativi per la grande marcia
dell’anno seguente. Augusto quindi era solo a Roma, quando la legge
fu presentata ai comizii. Meno intimoriti dalla sua vecchiaia che
non sarebbero stati dalla presenza di Tiberio in Roma, i cavalieri
tentarono di impedire la approvazione della legge con tumulti e
violenze492. Inferocita dalla minaccia di perdere parte delle
eredità aspettate, dalla imposizione di generare figli, anche
la gente dabbene adoperava le armi rivoluzionarie che Clodio aveva
trattate con tanta maestria! E vociferarono così forte,
minacciarono e tumultuarono così violentemente questi
infuriati cavalieri, che Augusto si spaventò, introdusse
nella legge una clausola che ne differiva la applicazione per tre
anni: quanto bastava affinchè tutti potessero comodamente
mettersi in regola, facendo almeno un figliolo. Ma non per questa
magra concessione si tranquillarono gli esasperati cavalieri, tutti
quelli – ed erano tanti! – cui la legge arrecava molestia: e la
stizza in cui tanti si rodevano per questo nuovo freno imposto al
proprio egoismo, accrebbe ancora la avversione pubblica contro
Tiberio, il quale intanto pensava alle cose germaniche. Ricalcando
il piano originario di Agrippa, Tiberio aveva immaginato un doppio
movimento delle armate e delle legioni: attraverserebbe egli, alla
testa di un forte esercito, l’intera Germania sino all’Elba, mentre
una armata perlustrerebbe le coste del mare del Nord, poi,
ripiegando verso l’imboccatura dell’Elba, gli porterebbe i viveri, i
materiali, i rinforzi necessari sia per passar l’Elba e sottomettere
le popolazioni rifugiatesi al di là del grande fiume,
isolando così anche a settentrione Marbod, sia per ritornare
sicuramente dopochè la spedizione fosse compiuta493.
L’impresa era vasta; onde Tiberio, che partiva in dicembre dalla
Germania alla volta dell’Italia, dovrebbe ritornarci presto, al
principio della primavera. Ma egli doveva fare una rapida gita alla
capitale, dove c’era bisogno di lui, sopratutto per risolvere
finalmente la questione militare e fiscale. Anche in questa materia
Tiberio aveva idee savie e giuste. Non si potevano soddisfare gli
smodati desideri fermentati negli accampamenti dalla indisciplina
del precedente decennio, perchè i denari mancavano: anzi
bisognava risolversi a non applicare più la impossibile legge
militare dell’anno 14 e a ripristinare l’antica regola del servizio
ventenne. Ma se Augusto, come al solito, aveva per tanti anni
cercato di sgusciar fuori dalle difficoltà per i più
tortuosi ripieghi, trattenendo con vari pretesti i soldati sotto le
armi oltre il tempo legale, Tiberio intendeva uscirne per una via
diritta, a fronte alta, senza raggiri di mala fede, che a ragione
irritavano i soldati. Egli proponeva perciò di ristabilire il
servizio di 20 anni per i legionari, di 14 per i pretoriani; di
promettere per il congedo un premio di 12 000 sesterzi ai
primi, di 20 000 ai secondi: ma nel tempo stesso voleva fondare
un erario particolare, un bilancio a parte, per le pensioni
militari, che sarebbe aumentato da redditi propri e sufficienti.
Così le pensioni dei veterani non sarebbero più in
balìa degli accidenti che empivano e vuotavano da un mese
all’altro, continuamente, il vecchio erario della vecchia
repubblica. Fossero pur dure le condizioni del servizio; ma fossero
chiare, precise, e che la repubblica da parte sua adempisse con
lealtà gli obblighi assunti: tale sembra essere stato il
pensiero di Tiberio. E la nuova legge militare fu approvata,
probabilmente nel principio dell’anno 5 d. C.494 Non fu invece
approvata subito la nuova imposta che doveva alimentare l’erario.
Difficile cosa era decidere quale imposta renderebbe di più e
scontenterebbe di meno; onde anche allora si pensò di
incaricare una commissione di senatori di studiare a fondo la
questione495.
Non è improbabile che, intorno a questo tempo e per
suggerimento di Tiberio, il Senato costituisse a Nord della Tracia e
della Macedonia, dalla Dalmazia al Mar Nero, lungo il corso estremo
del Danubio, la provincia della Mesia, collocando in quella tre
delle legioni stanziate in Pannonia e in Dalmazia. Quelle regioni
erano prima occupate da piccoli principati, posti sotto la
protezione di Roma: formando una provincia, si volle senza dubbio
rinforzare e difendere le foci del Danubio contro i Geti496, Poi
Tiberio tornò in Germania, dove al principio della primavera
incominciò la sua grande spedizione. La flotta scese per il
Reno e per la fossa di Druso nel mare del Nord; risalì
arditamente a settentrione, costeggiando lo Jutland sino allo
Skagerrak; guardò curiosa e commossa l’immenso e freddo
oceano che nessun occhio romano aveva ancora contemplato;
ritrovò su quella estrema penisola gli ultimi e oscuri avanzi
di un popolo, tremendamente famoso un secolo e mezzo prima: i
Cimbri497. Un piccolo popolo che viveva oscuramente sulle rive del
gelido mare: questo solo rimaneva dell’immensa ondata, che aveva
flagellata tanta parte di Europa, prima di infrangersi con sì
tremendo schianto nella valle del Po. Non fu difficile alla armata
romana di spaventarlo, di persuaderlo a conchiudere un trattato di
amicizia e ad inviare degli ambasciatori, i quali porterebbero in
dono ad Augusto un antico e venerato lebéte, e domanderebbero
perdono dei mali inflitti all’Italia dai loro antenati498. Poi
l’armata ridiscese a sud; imboccò le foci dell’Elba,
risalì il corso del fiume. Nel tempo stesso Tiberio faceva
fare all’esercito, dal Reno all’Elba, una marcia di quattrocento
miglia, per una strada che è impossibile ritrovare,
raccogliendo sul suo cammino innumerevoli dedizioni di popoli e
domando con le armi i Longobardi, che avevano cercato di opporsi.
Sull’Elba si incontrò con la sua flotta carica di vettovaglie
e di materiali499. Ma sull’altra sponda si raccoglievano grandi
moltitudini armate, accorse da ogni parte a difendere almeno
quell’estremo confine. Parecchi giorni si guardarono i due eserciti;
ogni tanto, la flotta romana spaventava, muovendosi, e metteva in
fuga i barbari; delle trattative furono avviate. Alla fine un capo
germanico chiese di veder Cesare; venne nel campo romano, che gli fu
mostrato nel suo più marziale aspetto; fu ammesso alla
presenza di Tiberio, che lo ricevette con il più romano
sussiego, in un atteggiamento di semidio.... Il barbaro
contemplò a lungo e in silenzio quell’uomo che simboleggiava
la favolosa potenza della lontana città, della cui idea il
mondo era pieno500. Nuovi trattati di pace: poi flotta ed esercito
ripresero a ritroso la lunga via per cui erano venuti. Tiberio aveva
saputo ravvivar di nuovo negli spiriti poco tenaci di quei barbari
l’idea della potenza romana, senza combattere, con una ostentazione
spettacolosa di forze, mostrando loro che un esercito romano poteva
sicuramente, quando volesse, traversare la Germania da un capo
all’altro. Onde anche due altri popoli, i Senoni e i Caridi o Carudi
avevano deliberato di mandare ambasciate a Roma alla grande
metropoli501. Era bene: perchè ritornando, gli ambasciatori
avrebbero raccontate nelle selve e nei villaggi della Germania le
meraviglie della città posta sulle rive del Tevere. Ma a
Roma, invece, l’esaurimento senile da cui era colpito lo Stato
faceva maggiori progressi. In quest’anno bisognò obbligare
degli antichi tribuni e questori indicati dalla sorte a essere
edili, nessuno volendo più questa carica502; e i senatori
incaricati di ricercare la nuova imposta avevano, sì,
diligentemente cercato, ma non avevano trovato nulla503. Tutti
d’accordo che bisognasse provvedere alla vecchiaia dei bravi
soldati, assicurare all’erario militare cespiti larghi e abbondanti:
ma poi, ad ogni tassa proposta, chi trovava una obiezione e chi
un’altra, cosicchè nessuna era approvata. In verità la
sollecitudine per il veterano invecchiato alla difesa del Reno e del
Danubio mal nascondeva l’intrattabile egoismo della proprietà
recalcitrante contro le imposte nuove. La lex caducaria aveva
generato un tal malcontento contro Augusto, contro Tiberio, contro
il governo, che nessuno osava irritare ancora più le classi
medie, l’ordine dei cavalieri, i ricchi plebei. Ma Tiberio ritornava
a Roma nell’inverno del 5 al 6, dopo la grande marcia sino al
Reno504, incurante della pubblica irritazione, ben fermo nel
proposito di far sì, che la legge militare dell’anno
precedente non fosse per i soldati un nuovo inganno.... Difatti sul
principio dell’anno 6 Augusto procede alla costituzione dell’erario
militare con una gagliarda rapidità di provvedimenti
molteplici: versa del proprio nella nuova cassa, a nome suo e di
Tiberio, nientemeno che 170 milioni di sesterzi505; prega i sovrani
e le città alleate di impegnarsi a versare certe somme506;
sceglie finalmente tra le imposte proposte quella che sarà
sottoposta al Senato e ai comizi: una imposta del ventesimo su tutte
le eredità e su tutti i legati, fuorchè quelli
lasciati ai parenti prossimi e ai poveri507. Dopo la lex caducaria,
così molesta alle classi agiate, si proponeva una imposta
sulle eredità: si voleva dunque confiscare le fortune delle
famiglie, rifar le proscrizioni con procedimenti legali e non a
danno di pochi ricchi, ma di chiunque possedeva qualche cosa? Il
malcontento si inasprì; la proposta fu severamente giudicata
e procurò nuovo odio a Tiberio; tanto che, per evitare
discussioni e contese, Augusto fece un piccolo colpo di Stato: disse
di averla trovata tra gli atti di Cesare. Essa doveva dunque
considerarsi in vigore per il famoso Senatusconsulto del 17 Marzo
del 44 a. C.! Ultima apparizione di quelle carte di Cesare, che
furono il più famoso imbroglio inventato dai partiti politici
di Roma508. Per accontentar poi quanti lamentavano che le antiche
imposte avrebbero bastato a tutti i bisogni, se non ci fossero stati
sprechi e dilapidazioni. Augusto propose che una commissione
composta di tre consolari, estratti a sorte, rivedesse tutte le
spese, riducendo quelle soverchie, sopprimendo quelle inutili
insieme con tutti gli abusi e gli sperperi509.
Tiberio insomma non aveva perduto tempo. In meno di due anni aveva
creata una nuova provincia; risollevato il prestigio del nome romano
tra le popolazioni germaniche; avviata la questione fiscale e
militare a una risoluzione; infuso un po’ di vigore nuovo negli
organi principali dello Stato; ridata una certa voga alle idee
tradizionaliste e classiche. E una certa reazione si faceva nel
pubblico. Perfino Ovidio, il poeta delle signore galanti e degli
zerbinotti depravati, pareva aver messo giudizio, poichè da
qualche tempo aveva preso a imitare Virgilio, componendo nientemeno
che un poema nazionale, storico e religioso, i Fasti, e un poema
morale o mitologico, le Metamorfosi. Nel primo rifaceva in poesia
l’opera erudita di Verrio Flacco, verseggiando in bei distici il
calendario, cioè giorno per giorno le favole mitiche, i riti
religiosi, i fatti storici, le feste di cui ricorreva il ricordo
oppure l’obbligo. Nel secondo raccontava le più brillanti
favole della mitologia, ricollegandole assieme con un filo tenue
tenue. Cosicchè anche Ovidio ormai sospirava sulla
semplicità delle antiche generazioni e sull’innocenza
ahimè per sempre perduta della età dell’oro; venerava
nei suoi più solenni ricordi e monumenti la tradizione; si
prosternava innanzi agli dèi secolari di Roma; si inteneriva
di pia compunzione nei templi e tra i sacri riti che avevano
dall’origine accompagnata la tempestosa ascesa di Roma tra le genti
del mondo mediterraneo... Sospirava, venerava, si prosternava, come
aveva per tanti anni scherzato tra le allegre lascivie della poesia
erotica, e cioè con la medesima facilità, con la
stessa maestria e signorile eleganza; mescolando all’alta poesia
dell’antico e del tradizionale idee e sentimenti nuovissimi con tale
abilità da dissimulare ogni contrasto sotto una apparente
continua perfetta fusione. Primo degli scrittori romani egli ammette
tra i vecchi culti di Roma, con sicurezza tranquilla, come fosse pur
esso antichissimo, quel culto di Augusto e della sua famiglia, che
incominciava appena a fermentare nella coscienza delle classi medie
dell’Italia: e tra gli inni e le lodi degli altri dèi non
tralascia di parlar delle “sante mani” della “santa persona” del
“nume” della “mente celeste” di Augusto e di Tiberio, aspettando di
poter rivolgere le stesse adulazioni a Germanico e a Livia. Poeta
dei contrari, della morente tradizione nazionale e del nascente
sentimento monarchico, dell’amore lascivo e della religione austera;
ma poeta indifferente, che non si sforza come Virgilio di conciliare
nella loro essenza questi contrari, pur che gli riesca di fonderli
nella rappresentazione esteriore, Ovidio raffigura lo spirito
frivolo e indisciplinato della sua generazione, di quella nuova
aristocrazia, in cui le disposizioni congenite così varie dei
singoli uomini, non più compresse nello stampo unico della
tradizione e della educazione, esposte agli influssi più
differenti e più opposti, potevano liberamente crescere in
ogni direzione, effondersi in tutti i contrari: vizio e
virtù, eroismo e poltroneria, austerità e crapula,
intelligenza e stoltezza. I buoni, i mediocri e i cattivi si
confondevano ormai nelle sue file come nella famiglia di Augusto,
che anche in questo può raffigurare la aristocrazia di quel
tempo. Germanico e Agrippina formavano una coppia esemplare, che
ricordava ai Romani Druso e Antonia; lui, amabile, generoso, pronto
a difendere nei tribunali, al modo degli antichi nobili, le cause
dei più oscuri plebei e con un impegno e con una eloquenza
mirabili, eccellente esempio insomma di attività, di zelo
civico, di costumi puri alla gioventù510; lei, sposa fedele,
madre feconda e donna schiva di lusso e di sprechi, fiera – troppo
fiera anzi – del suo marito, dei suoi figli, delle sue virtù
romane.... Avevano già un figlio e si accingevano a osservare
la lex Julia de maritandis ordinibus con uno zelo veramente
esemplare. Nel fratello minore invece, in quel Claudio che, sempre
malato da fanciullo, pareva dovesse restare imbecille,
l’intelligenza si era sviluppata con gli anni, ma in modo singolare
e bizzarro, come un albero che si appunta a crescere per un ramo
solo, lungo, contorto, mostruoso. Egli mostrava inclinazione e
attitudine per diversi studi – letteratura, eloquenza,
archeologia511; anzi Tito Livio lo consigliava di darsi alla
storia512: eppure mostrava in tutte le cose pratiche, anche nelle
più semplici, una così incurabile stoltizia, era tanto
incapace di imparare le regole elementari del vivere civile, che
Augusto, pur così sollecito di presentare al pubbico e di
avviare alle magistrature i suoi figli e nipoti, era costretto a
nasconderlo513. Che egli prendesse parte a un banchetto o a una
festa o a una cerimonia o a una qualsiasi radunanza, sempre
commetteva qualche sconcezza o stoltezza che lo faceva beffare da
tutti514. Sempre in mezzo ai libri eppur così balordo e
credulo e pauroso da esser zimbello senza difesa dei servi, dei
pedagoghi, dei liberti; balordo e credulo e pauroso eppur
ineducabile, perchè così i castighi come le blandizie
non riuscivano a far penetrare nozioni semplicissime nel suo
spirito, che pure accoglieva da sè idee complicate e
arruffate; debole e fiacco di corpo, eppur di una voracità e
sensualità animalesca, Claudio era per tutta la famiglia un
enigma increscioso. “Quando è in cervello – scriveva Augusto
a Livia – traluce la nobiltà del suo spirito”. E in un’altra
lettera: “Livia mia, che io possa morire, se mai sono restato di
sasso a questo modo! Ho sentito declamar Claudio e mi è
piaciuto. Sì, mi è piaciuto. Non capisco proprio come
mai colui che discorre così balordamente, possa poi parlare
così saviamente in pubblico515”. Claudio insomma non era uno
stolto, ma possedeva un intelletto, come certi epilettici, smezzato
e squilibrato; era uno di quegli eruditi imbecilli che, inetti
all’azione, sciocchi e stolti nel trattare gli altri uomini, possono
far prova di originalità e di intelligenza, quando si
rifugiano, soli in qualche angolo remoto e solitario del vasto mondo
dell’idea, non conservando altri contatti con il genere umano che
per il tramite della cuoca la quale prepara loro il pranzo.
Disgraziatamente è più facile oggi collocare uno di
questi eruditi imbecilli in una Università moderna, che non
fosse il tollerarlo nella casa di Augusto, dove si cercavano
amministratori e guerrieri capaci di fare la storia, non dei
discepoli di Tito Livio, che avrebbero al più potuto
scriverla; e per ciò aspettando di vedere se migliorasse, lo
lasciavano in disparte, al suo aio, che par non gli risparmiasse le
busse. Claudio però, se era balordo, non dava noia ad alcuno
e poteva quindi esser tenuto in casa.... Agrippa Postumo invece
pareva crescendo esser preso da stupidità violenta; non
voleva studiare nè far cosa alcuna seria; buttava il suo
tempo in piaceri sciocchi e passava, ad esempio, intere giornate
pescando; aveva preso in odio Livia, la matrigna, che insultava
atrocemente, accusandola insieme con Augusto di avergli rubata la
eredità del padre516. La sorella Giulia, invece, che aveva
sposato da qualche tempo un grande signore di Roma, L. Emilio Paolo,
ricordava con una inquietante simiglianza la madre. Amava la
letteratura e la gioventù; amava moltissimo il lusso e
già profondeva la sua fortuna in un palazzo sontuosissimo,
costruito in dispregio di tutte le leggi suntuarie fatte da
Augusto517. Ovidio faceva parte del circolo degli amici suoi. Druso
invece, il figlio di Tiberio, che aveva sposata Livilla, la sorella
di Germanico e di Claudio, era un giovane serio, sebbene a volte
cedesse alla furia di un temperamento troppo violento.
Questa aristocrazia così ineguale e molteplice, piena di
vizi, di virtù, di inclinazioni, di temperamenti opposti;
quell’ordine dei cavalieri o, per parlare più alla moderna,
quella borghesia raccogliticcia, in parte troppo recente e
ignorante, sollecita molto più di sfruttare la potenza
mondiale dell’Italia che non volonterosa di sopportare i carichi
necessari per conservarla, erano arnesi di governo mediocri, poco
sicuri. Difatti, non ostante i servigi considerevoli resi da Tiberio
in un anno e mezzo, il pubblico l’aveva, come prima, se non
più di prima, in uggia ed in sospetto. La legge dell’anno 4 e
la nuova tassa proposta ravvivavano la inquietudine, che Tiberio
fosse un giorno il successore di Augusto; l’Italia, e cioè le
classi benestanti, influenti e – bene o male – pensanti, più
che del dominio romano in Germania o della sicurezza del lontano
confine renano, erano allora sollecite della lex caducaria, che tra
poco più di un anno dovrebbe essere applicata, e della
imposta che si voleva mettere sulle eredità. In tali
condizioni anche la più ardente e la più alta
ambizione doveva accontentarsi del meno peggio. Solo, impopolare,
aiutato da pochi amici, sopraffatto dagli avvenimenti che lo
costringevano ad adoperarli quale era, Tiberio non aveva nè
il tempo nè il modo di rinnovare i vecchi arnesi del governo
romano. Difatti, al principio dell’anno 6 Tiberio aveva dovuto
partire di buon’ora, per mettere ad esecuzione il suo piano contro
Marbod, invadere cioè la Boemia con due eserciti: uno che, al
comando di Caio Senzio Saturnino, il console dell’anno 4, verrebbe
dal Reno, da Magonza probabilmente, e marcerebbe verso oriente,
attraverso le foreste dei Catti; l’altro, l’esercito della Pannonia
che, condotto da lui medesimo, partirebbe dai confini del Norico, da
Carnunto, e marcerebbe a Nord518. Tiberio intendeva allora di
distruggere dalle fondamenta il regno di Marbod, o soltanto di
costringerlo ad accettare una specie di protettorato? È
impossibile dirlo. A ogni modo con questa spedizione Tiberio compiva
quel rivolgimento nella strategia che, imposto dalla progressiva
decadenza della milizia romana, era stato iniziato da Agrippa,
sostituendo definitivamente ai piccoli, mobili, rapidi, indivisibili
eserciti di Cesare, i grossi eserciti muniti di pesante bagaglio,
che occorreva dividere e portare sul campo per vie diverse. Sempre
quando il soldato declina, gli eserciti ingrossano, l’armamento si
complica, i movimenti rallentano. Senonchè mentre Tiberio si
accingeva a invadere la Boemia, Roma precipitava in un grande
disordine per una dura carestia, che dovette essere effetto nel
tempo stesso delle avverse meteore e della consueta negligenza dei
magistrati preposti alle annone. Diminuita l’importazione privata
non abbondante neppure nelle buone annate, lo Stato, che con le
pubbliche distribuzioni gratuite aiutava Roma a sfamarsi, si
trovò ridotto a doverla sfamare interamente da solo; Augusto
ordinò di raddoppiare la distribuzione consueta del grano519
e prese forse altri provvedimenti, ma questi non bastarono;
crescendo il male, fu proposto e approvato dal Senato che l’annona
fosse retta invece che dai praefecti frumenti dandi da dei
consolari520. Ma ad empire i granai vuoti non bastava la accresciuta
dignità del magistrato; ci volevano navi, uomini, denari, e
questi mancavano: onde ancora una volta la metropoli dell’impero fu
ridotta alla fame. Alla fine, poichè non si potevano
aumentare le provviste del grano, si ricorse all’estremo espediente
di diminuire le bocche. Augusto diè l’esempio, mandando via
di Roma, sulle sue terre, in altre città, quanti più
potè dei suoi servi e liberti; i ricchi ne imitarono
l’esempio; tutti gli stranieri furono espulsi da Roma, tranne i
precettori ed i medici; furono fatti uscire tutti i gladiatori;
tutti i senatori furono sciolti dall’obbligo di risiedere in Roma,
disponendosi che le votazioni del Senato sarebbero valide, qualunque
fosse il numero dei senatori presenti521. Ma tante e così
tumultuarie espulsioni non potevano non generare infiniti altri
guai, a Roma e fuori, turbare interessi, romper le gambe ai servizi
pubblici già zoppicanti.... Nella città semivuota, gli
incendi ripresero con maggior frequenza e violenza; nessuno
curandosi più di spegnerli, interi quartieri arsero522; la
miseria dilagò. E allora i malcontenti e i rodimenti, le
irritazioni e le preoccupazioni per l’imminente applicazione della
lex caducaria, per la imposta sulle eredità, per la
ricuperata autorità di Tiberio, scoppiarono. Quanti speravano
di non pagare la imposta deliberata l’anno innanzi, quanti odiavano
Tiberio e ne temevano il crescente potere, approfittarono del
momento, soffiarono nel fuoco della esasperazione popolare per
spaventare il governo; dei manifesti sediziosi incitanti il popolo
contro Augusto, contro Tiberio, contro il Senato furono divulgati;
un vento di rivolta soffiò sulla città, agitò
perfino i lauri trionfali piantati per ordine del Senato sul
Palatino, innanzi alla casa di Augusto523. Disperato tra tante
difficoltà, il presidente volle almeno provvedere
affinchè la città non fosse tutta distrutta dal fuoco;
e osò, questa volta, di far uno strappo alla tradizione
aristocratica e al rigido principio nazionalista. Arruolò in
fretta e furia un gran numero di liberti poveri, li divise in sette
corpi, li distribuì per la città, li pose sotto gli
ordini di un cavaliere, li incaricò di spegnere gli incendi,
come avevano fatto in antico gli schiavi di Crasso e di Rufo. Il
provvedimento era, naturalmente, provvisorio; ricomposto quel
disordine, i corpi sarebbero sciolti524. Intanto Tiberio e
Saturnino, lentamente, cautamente, entravano da due parti in Boemia,
senza andar contro ad alcuna resistenza.... Sembra che Marbod, fermo
nel pensiero di evitare un duello all’ultimo sangue, non volesse
impegnare una battaglia di cui doveva egualmente temere l’esito:
fosse vittoria o sconfitta. Ma sino a che punto Tiberio gli avrebbe
consentito di sfuggir il cimento, non è chiaro. Intanto i due
eserciti convergevano avvicinandosi.... Quando un avvenimento
inaspettato sopraggiunse, verso la metà dell’anno 6, a
deviare il corso della guerra contro i Marcomanni e ad accrescere
ancora più la confusione di Roma. Approfittando della
lontananza delle legioni, esasperati dalle requisizioni e dai
reclutamenti che Tiberio aveva ordinati per la campagna di Boemia e
che accrescevano il tormento dei tributi già troppo gravosi,
i Dalmati erano insorti, sotto la guida di un certo Batone525;
facilmente avevano vinte le poche milizie romane rimaste nella
regione, e con l’esempio suscitata anche in Pannonia una grande
rivolta che in breve divampò in tutto l’Illirico con la
consueta violenza. Dappertutto erano trucidati i residenti romani e
i mercanti stranieri526, simboli visibili dell’oscuro tormento che
travagliava queste semplici comunità agricole venute a
contatto e sfruttate da civiltà più raffinate e
potenti; dappertutto si confiscavano e si saccheggiavano i loro
beni; dappertutto la gioventù era chiamata alle armi e posta
anche in Pannonia sotto gli ordini di un capo che, come quello dei
Dalmati, si chiamava Batone527; se non duecentomila, come dicono gli
storici antichi528, una larga ondata di uomini in arme invadeva le
due regioni, e in Pannonia precipitava su Sirmio, la città
più importante, dove si erano rifugiati i Romani529.
Rivoluzione per molte ragioni pericolosa a Roma. I Pannoni e i
Dalmati appartenevano a quei barbari tanto temuti da Tiberio, che,
conservando la natìa bellicosa fierezza, imparavano a
servirsi delle armi di Roma. Servendo numerosi nelle coorti
ausiliarle, essi avevano già imparate quelle cose che Marbod
voleva insegnare ai suoi Marcomanni: la disciphna cioè e
l’armamento romano, la lingua latina, molti costumi e molte idee che
potevano aiutarli a combattere Roma530. Inoltre essi abitavano
vicino all’Italia. Per Nauporto e Aquileia un esercito pannonico
avrebbe in pochi giorni potuto sbucare nella valle del Po, dilatarsi
in quella, furioso come una piena. E infatti la voce che gli insorti
si preparavano a invadere l’Italia si divulgò in un attimo
per la penisola; fu creduta da tutti come vera, senza che alcuno si
domandasse se tanta impresa era possibile; fece smarrire a Roma quel
poco di senno che ancor le restava tra tante sventure. L’impero vide
allora – meraviglioso spettacolo! – quella Roma che non aveva
disperato allorchè i cavalieri numidi di Annibale
volteggiavano sotto le sue mura o nel più tremendo sfacelo
della guerra sociale, la vide allora, che era al sommo della
potenza, affamata, mezza arsa, in preda alla sedizione e ad un folle
terrore dei Pannoni e dei Dalmati, implorante con urla disperate
aiuto contro la rovina e la servitù che parea minacciarla. In
un attimo la tenace avversione contro Tiberio sembrò sparire;
tutti si rallegrarono che Roma possedesse ancora una spada affilata;
da ogni parte si supplicò Augusto di richiamare Tiberio dalla
Boemia e si proposero i più estremi provvedimenti. Augusto,
sia che credesse anche egli al pericolo, sia che volesse approfittar
dell’universale spavento per rinforzare l’esercito assottigliato,
non cercò di calmare il panico universale, anzi
dichiarò in Senato che, se non si provvedeva con zelo, in
dieci giorni il nemico potrebbe accampare alle porte di Roma531; e
precipitosamente prese o propose al Senato estremi provvedimenti.
Ordinò a Cecina Severo, governatore della Mesia, e al re dei
Traci, Remetalce, di invadere insieme, il primo con le sue tre
legioni e con due legioni richiamate dalla Siria, il secondo con il
suo esercito, la Pannonia532; richiamò da ogni parte sotto i
vessilli le riserve – cioè i veterani – fece reclutare nuovi
soldati con un vigore da lungo tempo inusitato533; per trovare
denaro non esitò più, impose un tributo anche ai
Germani pur così poveri; ricorse, per ingrossare l’esercito,
anche ai liberti e agli stranieri. Sia proponendo una legge, sia
facendo approvare un decreto dal Senato, impose ai senatori, ai
cavalieri e alle persone aventi una certa fortuna di dare, in
proporzione della fortuna, un certo numero di servi che, liberati e
provvisti dai loro padroni del nutrimento per sei mesi, dovevano
formare delle coorti così dette di voluntarii534. Raccolti
così veterani, nuove reclute, liberti, stranieri, tutti
furono spediti in fretta a Tiberio, alla volta di Siscia535, dove a
poco a poco si raccoglievano i rinforzi, mentre Cecina e Remetalce
tentavano di liberare Sirmio536. Ma in mezzo al panico universale,
solo Tiberio non aveva perduta la testa. Egli conosceva, per averli
combattuti tanti anni, i Pannoni ed i Dalmati: e pur giudicando
subito l’insurrezione pericolosa, non credette che gl’insorti
potessero invader l’Italia537. Perciò non volle precipitar
dalla Boemia sulla Pannonia con quella furia che la sbigottita
Italia implorava; ma prima volle terminare la impresa di Boemia, se
non come aveva divisato in precedenza, almeno onorevolmente e senza
una precipitosa ritirata. Sia che avesse già incominciate
prima le trattative, sia che, smessa l’idea di cimentare le sue
forze in una battaglia con l’insurrezione pannonica alle spalle, ora
soltanto si volgesse alla idea delle trattative, egli iniziò
dei negoziati con Marbod, li condusse avanti con ponderazione,
conchiuse un accordo soddisfacente; e allora soltanto, dopo aver
conchiuso l’accordo, probabilmente al principio di autunno,
ritornò verso la Pannonia, mandando innanzi il governatore
della Pannonia, Messalino, figlio di Messala Corvino538. Intanto
Cecina e Remetalce avevano liberata Sirmio, dopo un combattimento
vittorioso ma sanguinoso539. Questa ponderata lentezza di Tiberio
irritò l’Italia impaziente, che attendeva una marcia
fulminea, un sùbito polverizzamento degli insorti. Si
incominciò a mormorare: che Tiberio traeva in lungo la guerra
a disegno, per rimanere a capo di uno smisurato esercito540. Ma
questo aristocratico, che avea congenito il disprezzo della opinione
pubblica, che non domandava mai consiglio a nessuno per nessuna
cosa541, era proprio l’uomo che avrebbe ascoltati i verbosi consigli
del Foro, per dirigere la guerra! E infatti quando, giunto in
Siscia, ebbe unito l’esercito che riconduceva dalla Boemia con le
forze mandate dall’Italia, e potè considerare con più
ponderazione lo stato delle cose, Tiberio immaginò un piano
che era proprio l’opposto dei desideri e delle aspettazioni
dell’Italia. Se a Roma, oscillando come al solito dalla paura alla
tracotanza, tutti aspettavano da un giorno all’altro che egli
facesse morder la polvere a Dalmati e a Pannoni in una grande
battaglia campale, Tiberio sapeva di non potere senza grave
pericolo, come aveva fatto sempre Cesare in Gallia, assalire
l’insurrezione nei suoi covi innumeri. A Siscia si raccoglieva sotto
i suoi ordini un numerosissimo esercito: dieci legioni, settanta
coorti di ausiliari, dieci squadroni di cavalleria, dieci mila
veterani, un gran numero di volontarii o liberti fatti soldati, la
cavalleria tracica; poco meno di 100 000 uomini, insomma542. Ma
sul valore di questo farraginoso esercito, Tiberio, come Augusto del
resto, non faceva soverchio assegnamento543. Poteva egli allora,
senza temerità, assalire con rapidità ed audacia
cesariane un nemico valoroso ed astuto, in una regione poco
conosciuta, in cui le comunicazioni e gli approvvigionamenti erano
tanto difficili? Già in quei pochi mesi di guerra Messalino e
Cecina avevano ambedue rischiato a più riprese di essere
disfatti da assalti improvvisi; e non si erano tratti a salvamento
se non perdendo molti uomini544. Che cosa succederebbe, se qualche
corpo fosse distrutto? Tiberio rinunciò alla gloria clamorosa
delle battaglie campali, e deliberò invece di far la guerra
agli insorti, proprio come gli inglesi la fecero alcuni anni or sono
ai Boeri: di dividere cioè il suo grosso esercito in diversi
corpi, di rioccupare con quelli tutti i luoghi importanti in cui
prima le legioni stanziavano545, di assicurare, curandolo egli in
persona, il vettovagliamento di questi corpi546. Ogni corpo sarebbe
incaricato di fare il deserto nel territorio circostante,
impedirebbe agli insorti di seminare, di mietere, di raccogliere:
per modo che nell’anno prossimo essi fossero costretti dalla fame ad
arrendersi, mentre le legioni, nutrite con il grano portato da
fuori, potrebbero facilmente finire le bande più ostinate547.
Tiberio consumò quel che restava dell’anno a studiar come si
potessero distribuire per la Pannonia i differenti corpi, ad
accompagnarli tutti in persona nelle singole residenze
affinchè non cadessero in imboscate, a ordinare il servizio
di approvvigionamento. Questo movimento riuscì pienamente,
perchè l’insurrezione non osò sbarrare la via ai
romani, che in numero tanto maggiore ritornavano a rioccupare i
villaggi e le città più importanti; onde
all’avvicinarsi dell’inverno, mentre i Romani rientravano nella
città, le bande degli insorti si disperdevano nelle campagne
lontane548. Ma sul finire dell’anno un altro guaio sopraggiunse: i
Daci, approfittando della lontananza di Cecina, invasero la Mesia.
Cecina e il re dei Traci furono costretti a ritornare nella Mesia
per respingere l’invasione549. Qualche banda di insorti si
buttò pure nella Macedonia, ma con piccolo danno a quanto
pare.
In questo stesso anno Archelao, re di Giudea, fu deposto e confinato
in Vienna di Gallia per il malgoverno da lui fatto in Palestina550.
Roma aveva osato mantenere l’impegno preso con il popolo ebreo!
Dobbiamo noi vedere anche in questo atto più ardito del
solito, l’influsso di Tiberio? È probabile; perchè
Augusto non aveva osato nemmeno nella bella e prospera
virilità intervenire così vigorosamente nelle cose dei
popoli alleati. Ed egli era così stanco, così
sfiduciato che intorno a questo tempo sembra aver perfino pensato di
lasciarsi morire di fame551. Da ogni parte giungevano notizie
funeste; lo stato dell’impero era una pietà; in Sardegna il
brigantaggio imbaldanziva, ormai padrone dell’isola; in Asia Minore
gli Isauri osavano di nuovo discendere dalle montagne a scorrazzar
le pianure; in Africa i Getuli invadevano i territori del re Giuba e
di Roma. Tutto pericolava. E intanto mancava il denaro, mancavano i
soldati, mancavano i generali. Bisognò mandare in Sardegna a
debellare i briganti, non un senatore, ma un cavaliere552. Che
virtù poteva opporre a questa universale, ruinosa
dissoluzione la vecchiaia di Augusto, logora da mezzo secolo di
governo? “Se mi capita qualche difficoltà specialmente grave
– scriveva egli in questo tempo a Tiberio – se ho qualche motivo di
cruccio troppo grande, sempre desidero te, o mio Tiberio; e pensando
a te mi riviene a mente il verso di Omero: Seguendo costui, noi
scamperemmo anche dal fuoco ardente, tanto egli sa tutto
prevedere”553. Tiberio solo infatti si affaticava a trar la
repubblica dal “fuoco ardente” di quella grande crisi in cui era
caduta, con una alacrità infaticabile, con una abnegazione
silenziosa e sdegnosa, badando solo a salvar l’onore, il prestigio,
la potenza di Roma; ma l’avversione pubblica contro di lui, per un
istante sopita dal pericolo, rinasceva; gli interessi, i vizi, le
pigrizie che avevano paura di lui, pigliavano a pretesto le lentezze
della guerra per screditarlo, per accrescerne l’impopolarità.
La guerra durava così a lungo, perchè Tiberio non
voleva o non sapeva finirla! Inutile illudersi: Tiberio e i suoi
contemporanei non si intenderebbero mai. Ma Tiberio non si smosse. A
Roma attesero invano, nella primavera seguente, la grande battaglia,
in cui Pannoni e Dalmati dovevano essere sgominati; perchè,
diviso in tanti corpi554, l’esercito romano incominciò,
secondo le prescrizioni di Tiberio, a logorare in piccoli
combattimenti le forze degli insorti e nel tempo stesso a far loro
il vuoto intorno distruggendo messi e bestiame: mentre al centro
dell’esercito che operava in ogni parte Tiberio, con larga
operosità, provvedeva a vettovagliarlo, a incuorarlo, a
incitarlo. Ma se Tiberio faceva il dover suo in Pannonia. Augusto
era inquieto che a Roma il pubblico capisse così poco e
così poco ammirasse la fermezza prudente dell’ultimo grande
generale, che la aristocrazia romana aveva generato. A Roma la
situazione era sempre cattiva. Gli incendi – è vero –
tormentavano meno la metropoli, per merito delle coorti dei vigili,
che, sebbene istituite provvisoriamente, Augusto non si risolveva a
congedare, tanto il pubblico ne lodava l’opera555; ma la carestia
continuava556 il malcontento popolare si inaspriva di nuovo contro
Tiberio e una pazza si mise a profetare in Roma con il più
grande successo557; tutti i nemici di Tiberio – erano tanti – tutti
quelli che tremavano pensando che egli sarebbe il successore di
Augusto se domasse l’insurrezione pannonica, sfruttavano con audacia
crescente la buaggine popolare per cercar di imporne il richiamo ad
Augusto con un movimento di opinione pubblica; divulgavano sospetti
sulle sue intenzioni, lo accusavano di incapacità... Roma era
inondata di libelli diffamatori contro Tiberio, dei quali alcuni non
risparmiavano neppure Augusto. D’altra parte se i vigili servivano,
costavano anche molto denaro; e l’erario non ne aveva. Come al
solito. Augusto si barcamenava, cercava di accontentar tutti....
Sospese per due anni ancora la lex caducaria; celebrò i
grandi giuochi, come la profetessa reclamava, per dare una
soddisfazione al popolo558; mandò in Pannonia Germanico che,
giovanilmente ardimentoso, parteggiava per la grande guerra, e sul
quale i nemici di Tiberio già ponevano gli occhi per opporlo
a Tiberio, come Caio e Lucio Cesare: ce lo mandò, sebbene
Germanico fosse in quell’anno soltanto questore e lasciando credere
che il popolarissimo giovane farebbe ciò che non sapeva fare
Tiberio, terminar cioè la guerra in poco tempo con qualche
grande battaglia559; ma scriveva nel tempo stesso, come compenso, a
Tiberio, forse da Rimini, dove era andato per avere più
presto notizie: “Quanto a me, io penso, o mio Tiberio, che nessuno
avrebbe potuto far meglio di te, tra tante difficoltà e con
dei soldati così poltroni (questo complimento è
scritto in greco). Tutti quelli che sono stati costì,
ripetono unanimi che si potrebbe ripeter di te il verso: Un uomo
solo con il suo zelo tutti ci ha salvi”560. Bisognava però
trovar il denaro per pagare i Vigili! Alla fine Augusto si
risolvè a sopprimere il sussidio concesso ai pretori per gli
spettacoli gladiatorii, e fece approvare una nuova imposta, non
è ben chiaro se del 2 o del 4 per cento, sulla vendita degli
schiavi561. Intanto Germanico era giunto in Pannonia; ma non appena
aveva tentato di attuare i suoi ardimentosi propositi, era cascato
in una imboscata e per poco non era stato tagliato a pezzi con il
suo corpo: onde a ragione Tiberio continuò la sua piccola
guerra, non curando se a Roma si diceva che egli non faceva
nulla562.
In questo anno Augusto fece relegar dal Senato Agrippa Postumo563,
non potendo più tollerarlo in casa e in Roma per i suoi
costumi; e Cassio Severo trovò chi fece a lui quello che egli
aveva fatto a tanti: un processo, che terminò con la condanna
all’esilio564. Non sappiamo l’accusa, ma possiamo supporre
dall’esito che anche la forza e il terrore di questo diffamatore di
mestiere si erano logorate con il tempo.
Ma la situazione migliorò invece a Roma e nelle provincie
insorte durante l’anno 8. La carestia finì; gli espulsi
cominciarono a ritornare; il malcontento pubblico per la guerra a
poco a poco si placò. Anche i più ostinati e i
più ignoranti dovettero riconoscere che Tiberio non era stato
nè così inetto nè così neghittoso, come
gli strateghi del Foro dicevano. Nell’inverno dal 7 all’8 una
terribile carestia aveva afflitta la Pannonia e decimati gl’insorti,
mentre gli eserciti romani, approvvigionati da Tiberio, avevano
potuto, in mezzo a quella fame terribile, almeno nutrirsi565: onde
al cominciar della primavera questi uscirono ad assestare il colpo
di grazia alla insurrezione, inseguendo con impeto più ardito
le bande assottigliate e sfiduciate dei ribelli. Molti capi, non
sperando più nella vittoria, avrebbero volentieri trattato
per la resa; il popolo era stanco; solo il piccolo partito degli
arrabbiati e degli inconciliabili imponeva la continuazione della
guerra; Tiberio seppe cogliere il destro. Parte con la dolcezza,
parte con la forza, non infierendo con i vinti, trattando la pace a
condizioni ragionevoli, egli riuscì durante l’anno 8 a
pacificar la Pannonia, mercè fatiche e sforzi che a un certo
momento inquietarono il vecchio presidente: “Quando – scriveva
Augusto a Tiberio – sento e leggo come le fatiche ti dimagrano e ti
smungono, mi vengono i brividi. Ti supplico di averti riguardo;
perchè se tu ammalassi, io e tua madre morremmo e tutto
l’impero andrebbe a rifascio. Poco importa se io sto bene o no,
quando tu sei malato. Prego gli dèi che ti serbino a noi e ti
diano, ora e sempre, buona salute, se proprio non hanno preso in
odio il popolo romano”566. Questo anno insomma avrebbe potuto portar
qualche consolazione alla vecchiaia di Augusto, se un nuovo scandalo
non ne avesse, verso la fine dell’anno, funestata la casa. Anche
Giulia minore aveva alla fine, come la madre, con il suo lusso e i
suoi costumi, sfidate troppo apertamente le leggi di Augusto, che
ormai, riconciliatosi con Tiberio e quindi riaccostatosi al partito
tradizionalista, non aveva più ragione di esser così
longanime con la nipote come con la figlia. Anche in questo caso noi
non sappiamo come Augusto avesse le prove dell’adulterio, ma
possiamo argomentare che, avutele, volle tagliar dalla radice e
subito il male, anche per impedire che scoppiasse un nuovo scandalo
immane, cagione, come quello che aveva travolta la madre, di nuovi
funesti mali: e intimò, usando i poteri della semi-dittatura
concessagli nel 23 a. C., a Giulia, a Decimo Giunio Silano, che era
il più illustre de’ suoi amanti, a parecchie altre persone
che avrebbero potuto esser colpite con i castighi della lex de
adulteriis, di andarsene in esilio nei luoghi che egli designerebbe,
se volevano evitare il processo; se no, applicherebbe loro la lex
Julia de adulteriis che gli dava facoltà come pater familias,
perfino di ucciderli, come cittadino di accusarli567. L’alternativa
recideva ogni libertà di scelta: il processo significava lo
scandalo pubblico, la sicura e irrevocabile condanna, l’odio di
Augusto e di Tiberio, la confisca dei beni: acconsentendo invece ad
andarsene per invito di Augusto, si salvavano i beni, si sfuggiva
alla condanna legale, si poteva sperar di ritornare il giorno in cui
Augusto si fosse placato o fosse sparito568. Tra le vittime fu
Ovidio, a cui Augusto fece insieme espiare con la relegazione a Tomi
un misterioso error e i suoi carmina. In che consistè questo
error? Per qual ragione furono funeste al poeta le amicizie dei
grandi, da cui cercherà in seguito di allontanare l’amico?
Noi non possiamo dirlo con precisione. Si pensi tuttavia che la lex
Julia puniva come adulterio il lenocinium, ogni aiuto cioè
dato altrui per compiere adulterio; come il prestare per i convegni
la casa propria.... Sarebbe cosa inverisimile che il frivolo poeta
dell’ars amandi avesse commessa una imprudenza di questo genere per
Giulia e alcuno dei suoi amanti? I costumi dell’alta società
romana non erano più così severi, che Ovidio non
potesse annoverar questo aiuto tra i servizi dovuti agli amici, con
diritto, naturalmente, al contraccambio, in caso di bisogno. Ad ogni
modo è molto probabile che l’error gli sarebbe stato
perdonato da Augusto, se ad Ovidio il partito tradizionalista non
avesse rimproverato di essere il corruttore della nuova generazione,
di aver fomentati con un ingegno tanto brillante quanto perverso i
vizi più funesti della aristocrazia. Invano egli aveva
tentato di scusare il suo egoismo politico, dicendo delle poesie:
haec mea militia est, ferimus quae possumus arma.
Invano egli si era fatto sul tardi poeta religioso e civile. Le
crisi interne, la rivolta pannonica, la progrediente dissoluzione
dello Stato facevano pensare alla parte più seria
dell’Italia, che senza una maggior severità di leggi e di
costumi, l’impero si sfascerebbe. Augusto volle colpire in Ovidio la
poesia erotica, una cioè delle forze dissolvitrici della
antica morale romana; e dopo aver costretto l’autore ad abbandonar
Roma, ne tolse i libri dalle pubbliche biblioteche569.
Senonchè questi esilii intimati per dare un esempio e
rinforzare il rispetto degli antichi costumi, non erano deliberati
da un tribunale, ma da un cittadino potente, che faceva subire
parzialmente il castigo senza giudizio e senza processo; che
toglieva, sì, una parte della pena se fossero stati
condannati, ma sopprimeva nel tempo stesso il giudizio pubblico, la
discussione delle prove, la suprema speranza anche dei più
gravi colpevoli: la incertezza e la fallibilità degli umani
giudizi. Eppure nessuno protestò. Ovidio vide gli amici dei
tempi felici abbandonarlo, il vuoto farglisi intorno; e sul finire
dell’anno 8 dovette risolversi al lungo e triste viaggio impostogli
come pena dal partito conservatore rifatto potente; andare tra i
barbari Geti, lontano dalle belle dame di Roma che lo avevano tanto
adulato, a meditare sulla residua ferocia delle grandi tradizioni
morenti! Sul principio dell’anno 9, considerando che la insurrezione
in Pannonia era finita e che restava solo a domare la Dalmazia,
Tiberio aveva lasciato il comando a Germanico ed era venuto in
Italia. Il pubblico, riconciliato con lui del successo, gli fece
grandi feste, una delle quali servì ai cavalieri come
occasione propizia per domandare, con clamorose dimostrazioni, la
abrogazione della lex caducaria, che in quell’anno doveva finalmente
entrare in applicazione570. Tale era Roma! Mentre celebrava con
grandi onori la virtù del generale che aveva vinto una guerra
pericolosa, domandava l’abrogazione della legge che doveva
provvedere i mezzi necessari a mantenere l’esercito, costringendo a
contribuire alla difesa dell’impero con i beni, i cittadini egoisti
che non volevano generare ufficiali e soldati! Ma Augusto non
intendeva rinunciare a quel cespite nuovo di introiti, specialmente
dopo le grandi spese di cui era stata cagione la guerra pannonica,
che aveva costato molto più che non valesse il bottino povero
e scarso di quei barbari indebitati571... D’altra parte l’impresa di
Dalmazia apparve ben presto più difficile che non si credesse
da principio. Tiberio assente, i soldati, stanchi di tante marcie e
contro-marcie, avevano cominciato a protestare contro la lenta e
faticosa strategia imposta dal generalissimo e a domandare che si
finisse una buona volta la guerra con una battaglia risolutiva.
Germanico non aveva nè l’autorità nè il
temperamento che ci voleva per raffrenarli572. Affinchè non
succedesse qualche disastro, Tiberio ripartì per la Dalmazia,
dopo essersi certamente accordato con Augusto sulla questione della
lex caducaria. Nella seconda metà dell’anno, non Augusto,
troppo vecchio per assumersi simile fatica, ma i due consoli allora
in carica, proposero la lex Papia Poppaea, che compieva la lex de
maritandis ordinibus e surrogava la lex caducaria. Si attenuavano le
pene della sterilità, dimezzando agli orbi le eredità
ed i legati che ai celibi erano tolti interamente: si attribuivano
ai parenti di terzo grado ed ai coeredi e conlegatari, se avessero
figli, i caduca; solo se gli uni e gli altri mancavano lo Stato
poteva appropriarseli.
La legge fu approvata; e poco dopo, in ottobre, Tiberio riportava la
vittoria definitiva sui Dalmati, che finiva la guerra. Roma apprese
finalmente la notizia così lungamente aspettata: la grande
rivolta era spenta; Roma aveva vinto ancora una volta. La gioia fu
immensa; il Senato decretò il nome di imperator a Augusto; a
Tiberio il trionfo e degli archi di onore in Pannonia; a Germanico,
come agli altri generali, gli ornamenti trionfali; a Germanico, solo
il privilegio di esser nominato console prima del tempo legale; a
Druso, figlio di Tiberio, il diritto di prender parte alle sedute
del Senato prima di essere senatore e il diritto di essere
annoverato tra i senatori pretorii dopochè fosse stato
questore573. Druso non aveva preso parte alla guerra; ma si volle
ricompensare nel figlio il padre. Senonchè, mentre il Senato
era affaccendato a deliberar questi onori, mentre il popolo
giubilava, libero finalmente dalla ansia della guerra durata tanto a
lungo, cinque giorni dopo l’annunzio della vittoria finale riportata
dalle armi romane nell’Illirico, una terribile notizia
fulminò dal Reno: la Germania tutta si era sollevata, ad un
tratto, dal Reno all’Elba; le legioni stanziate oltre il Reno erano
state trucidate o catturate; il legatus di Augusto, P. Quintilio
Varo, si era data la morte per non cader vivo nelle mani del nemico;
tutto lo stato maggiore, i generali, gli ufficiali erano periti o
prigionieri; solo pochi avanzi avevano potuto raggiungere i castelli
romani sul Reno; Aliso era caduta.... E l’inopinata catastrofe, di
cui subito si volle buttar tutta la colpa su Quintilio Varo, aveva
anche essa le sue cagioni nei vizi profondi che indebolivan
l’impero, che nessuno aveva veduto più acutamente di Tiberio,
sebbene nemmeno egli potesse curarli, e qualche volta fosse anche
costretto a fomentarli: nella corrosione cioè che la
civiltà greco-orientale e l’amministrazione romana operavano
sulla barbarie agreste e bellicosa; nella disperata difesa che
questa corrosione provocava dappertutto, in Germania come in
Pannonia; nella decadenza militare di Roma, che mentre era tratta
dal naturale sviluppo della sua politica a provocare in misura
maggiore queste rivolte, invecchiava, incapace di domarle. Publio
Quintilio Varo era stato lasciato in Germania ad applicar la nuova
politica con cui Tiberio pensava di rinvigorire l’autorità
romana in quegli immensi territorii: scelta probabilmente meno
peggiore che non si disse in seguito, dopo la catastrofe,
perchè Quintilio Varo aveva dimostrato coraggio, energia,
saggezza in Palestina, durante la rivolta scoppiata alla morte di
Erode. Egli quindi aveva incominciato ad introdurre in Germania il
processo e molte leggi romane; aveva in tutti i modi favorita la
diffusione dei costumi romani e gli interessi dei mercanti
stranieri; aveva infine, per la prima volta, quando Roma ebbe
bisogno di denaro per la guerra illirico-pannonica, imposto ai
Germani un tributo. Ma i Germani, che si erano acconciati a
tollerare, dopo la morte di Druso, la sottomissione formale di cui
Augusto si era accontentato, si erano spaventati quando Tiberio
aveva iniziata una politica più vigorosa di romanizzazione;
quando i centurioni avevano preso ad esigere – da essi così
poveri – un tributo, che avrebbe preso le vie del Reno, delle Alpi,
di Roma. La vecchia libertà finiva; finivano le cose amate
dai Germani, le guerre continue, la vicenda delle vittorie e delle
disfatte in cui ogni popolo poteva sperare il suo momentaneo apogeo,
l’impero delle vetuste consuetudini, i semplici costumi nazionali.
Incominciava il dominio dei proconsoli, dei centurioni, dei mercanti
e dei legisti romani; questi, e non a torto, particolarmente odiosi
ai Germani. I tentativi fatti da Varo per introdurre in Germania il
processo romano, sembrano, dopo i tributi, aver provocato il maggior
malcontento. L’insurrezione pannonica diede l’ultima spinta alle
incertezze degli spiriti più animosi; un nobile Cherusco,
Arminio, che era cittadino romano e amico di Varo,
incominciò, con quella dissimulazione tenace che i barbari in
lotta con la civiltà soli sanno adoperare, a intendersi con i
capi germanici per una sollevazione generale. Se Roma stentava tanto
a domare la rivolta illirica, se ne aveva avuta tanta paura, una
rivolta contemporanea in Germania potrebbe ributtar per sempre i
Romani oltre il Reno. Il silenzioso lavorìo fu lungo e
tenace. Qualche cosa trapelò; Quintilio Varo fu avvertito di
stare all’erta. A un uomo avveduto come Tiberio, questi avvisi
sarebbero forse bastati; ma disgraziatamente Tiberio era allora
troppo occupato nella guerra pannonica, per poter seguire con la
necessaria attenzione le faccende germaniche. Quintilio Varo non ci
badò: coloro che si accusavano di esser i capi della congiura
non erano amici suoi, non venivano a trovario ogni tanto in Aliso?
Ed egli non prese alcuna precauzione; lasciò le sue legioni
qua e là, per varie parti. La sera prima della rivolta,
Arminio e gli altri capi della congiura cenavano ancora presso il
proconsole! Di lì a qualche giorno Varo seppe che alcuni
corpi distaccati nelle parti più lontane della Germania erano
stati assaliti: da una delle tante piccole insurrezioni locali che
periodicamente scoppiavano in Germania, si pensò nel campo
romano. Ma queste insurrezioni e queste notizie erano state
predisposte ad arte per far accorrere Varo al soccorso e per
condurlo con il grosso dell’esercito nelle foreste di Teutoburgo,
dove tutto era disposto per l’immane macello. Fiducioso, Varo si
mosse con l’esercito, i grossi bagagli, il seguito delle donne e dei
bambini, credendo di dover attraversare un paese amico. Ma come fu
nella immensa foresta, egli fu assalito da tutte le parti.
Impacciato dai bagagli, dal lungo codazzo dei non combattenti, dalla
pesante armatura, dalla ignoranza della via; troppo lento,
pusillanime, facile a scoraggirsi, l’esercito romano questa volta
non seppe evadere dall’imboscata, come tante volte aveva fatto con
Cesare. E tutto fu o sgozzato o catturato nella foresta574.
X.
AUGUSTO E IL GRANDE IMPERO.
Gli storici sogliono da molto tempo annoverare la disfatta di Varo
tra le battaglie “decisive”, delle quali può dirsi che
abbiano mutato il corso della storia. Se Varo non fosse stato
distrutto, si dice, Roma, conservandoli, avrebbe romanizzati i
territori tra il Reno e l’Elba come la Gallia; non ci sarebbero
stati più nè una nazione, nè una cultura
germanica, come non ci furono più, dopo la disfatta di
Vercingetorice, una nazione e una cultura celtica. Teutoburgo
è quindi l’Alesia a rovescio dei Germanici. Senonchè
questo ragionamento, il quale vola diritto come uno strale, non
taglia forse che in alcuni punti tra loro lontani la sinuosa
verità. Sebbene sia sempre impresa temeraria argomentare
nella storia quello che sarebbe successo, quando è già
così arduo spiegare quello che è accaduto, mi pare si
possa almeno dubitare che Roma avrebbe romanizzati i territori
transrenani come la Gallia, se li avesse posseduti per qualche
secolo, quando si consideri quale fu il destino del romanesimo nelle
provincie danubiane, sopratutto nel Norico, nella Pannonia, nella
Mesia. Qui Roma dominò per secoli; qui gl’influssi romani,
italici, greci, battevano più forti che nella Germania, per
la maggiore vicinanza della metropoli: eppure il romanesimo non vi
si radicò così saldamente che le bufere scatenatesi
sull’Europa dopo la caduta dell’impero d’Occidente non lo abbiano
divelto, lasciandocene solo qualche vestigio. Nè è
lecito, generalizzando troppo velocemente, affermare che tutti i
territori europei avrebbero potuto essere romanizzati così
presto e così facilmente come la Gallia, che si trovò
in mezzo all’impero di Occidente in una condizione singolare, tutta
sua. Cosicchè seguendo questo ragionamento, si potrebbe
riuscire ad una conchiusione congetturale, opposta a quella ammessa
dai più: anche se Varo non fosse stato distrutto, i territori
germanici non si sarebbero indelebilmente romanizzati.
Tuttavia la disfatta di Varo non fu evento di poca importanza nella
storia di Roma. Essa troncò definitivamente la politica di
espansione, che era stata la grande opera storica dell’aristocrazia.
Rapido Tiberio corse sul Reno, raccolse i superstiti,
rincuorò le legioni avvilite, rinforzò la difesa del
confine; rapido cancellò nel mobile spirito delle provincie
transalpine, con una studiata ostentazione di forza, di sicurezza,
di risolutezza, la prima impressione della disfatta575. Ma questa
volta anche Tiberio si persuase che bisognava abbandonare i
territori conquistati da suo fratello e da lui. Ragioni finanziarie,
ragioni militari, ragioni politiche facevano trionfare alla fine il
partito avverso alle conquiste germaniche. Queste guerre combattute
in Europa costavano più che non rendessero576; l’Italia era
esasperata così dalle manchevolezze dei servizi pubblici come
dalle imposte recentemente deliberate; l’egoismo delle nuove
generazioni era troppo cresciuto; la grande rivolta
illirico-pannonica e la dissoluzione dell’esercito ammonivano Roma a
non presumere troppo delle sue forze. Il disastro di Varo poteva
essere giudicato una disgrazia; ma quando Augusto aveva indetti gli
arruolamenti per rifare le legioni distrutte, nessuno si era
presentato; quando egli aveva ricorso, secondo la legge, ai
reclutamenti forzosi, un infinito numero si erano ribellati. E
questa era una vera vergogna civica, segno della ignavia universale
cresciuta a dismisura in tutta l’Italia. Augusto aveva dovuto
rinnovare i severi castighi antichi dei disertori; prima punire con
multe, poi addirittura decimare i recalcitranti; eppure ciò
non ostante aveva dovuto raccattar nei trivii di Roma la feccia e
perfino i liberti per raccogliere il numero sufficiente577. Se
dunque non si voleva, crescendo troppo gli ausiliari stranieri,
snazionalizzare l’esercito; se si voleva conservare nell’esercito
l’equilibrio delle due parti, la romana e la straniera, occorreva
riconoscere apertamente che le forze militari non bastavano a tener
sottomesso l’impero ampliato sino all’Elba. Infine tanti pericoli,
tante calamità, tante ansietà avevano profondamente
commossa l’Italia. Non che questa commozione avesse fatto vacillare
sulle sue basi la potenza di Augusto. Per la grave età, per
le sventure familiari degli ultimi anni, per i servigi resi, per le
immense ricchezze profuse in Italia, per la sua stessa debolezza
senile che incuteva poco timore, Augusto era ormai quasi un semidio,
posto in un’etra eternamente serena, sopra alla torbida incertezza e
mutevolezza delle cose umane. Quando nell’anno 13 scadde la quinta
presidenza, i poteri gli furono rinnovati, e per dieci anni ancora,
sebbene ormai egli fosse decrepito e afono578; sebbene in Senato non
venisse quasi più e non assistesse più a nessun
banchetto e avesse perfino dovuto pregare senatori, cavalieri,
ammiratori di non fargli più visita alcuna, perchè
questi ricevimenti lo affaticavano troppo579. Ma Augusto non era
immortale; e il suo successore non godrebbe più di questa
specie di immunità da cui era protetta la sua vecchiaia.
Augusto e Tiberio perciò furono d’accordo che occorreva
raccogliersi al di qua del Reno; e la Germania fu abbandonata. Era
necessità; sarebbe stata follìa ostinarsi nel
proposito opposto: ma la deliberazione era grave e dovette riuscire
penosa ad ambedue. Scrissero gli antichi che, alla notizia della
strage di Varo, Augusto si stracciò le vesti, percuotè
il capo nelle mura della casa, proruppe in urla disperate,
infuriò e delirò come impazzito dal subitaneo dolore.
Se è difficile affermare che tutti questi particolari sono
veri, possiamo almeno ricavare da questi racconti, che la disfatta
di Varo fu la suprema amarezza di quella esistenza così piena
di venture e di sventure. Dopo aver veduta la sua famiglia ruinare,
disfatta dalla discordia, dalla morte, dalle discordie, dalla lex de
adulteriis, il vecchio vedeva, prima di chiudere gli occhi per
sempre alla luce del sole, precipitare con la dominazione romana in
Germania, tutta l’opera in cui aveva consumata la virilità.
Egli aveva nel 27 a. C. accettata dall’Italia e da Roma la missione
di procedere alla grande restaurazione nazionale ed aristocratica di
cui tutti allora dichiaravano di voler essere a gara, con lui, gli
indefessi operai. E aveva mantenuto l’impegno, per 40 anni,
benchè per via gli operai si intiepidissero e si diradassero;
per quaranta anni aveva continuato a rifare la antica aristocrazia,
l’antico esercito, l’anima antica di Roma. Con le grandi leggi
sociali dell’anno 18, rinforzate dalla legge Papia Poppaea, avea
cercato di risuscitare nella nobiltà le virtù
necessarie al dominio, sopratutto l’alacrità e l’energia;
conquistando la Germania, egli aveva tentato di aprirle un campo
immenso, in cui arrobustire con l’esercizio queste virtù; di
accrescere con una grande impresa felice il prestigio suo, del suo
governo, della nobiltà che l’avrebbe sotto la sua guida
compiuta. E invece.... Sarebbe senza dubbio temerario affermare,
come troppi storici affermarono alla leggera, che le leggi dell’anno
18 furono inutili. Noi non sappiamo e non possiamo nemmeno
argomentare quel che sarebbe successo, qualora quelle leggi non
fossero state compilate: se cioè la aristocrazia si sarebbe
disfatta più rapidamente, meno rapidamente o con eguale
rapidità. Se quelle leggi avessero soltanto rallentata la
dissoluzione della famiglia aristocratica, l’autore loro non avrebbe
faticato invano a comporle, perchè se per la filosofia che
fruga l’essenza delle cose il tempo è soltanto un accidente,
la misura relativa con cui gli schemi eterni dell’essere si
effettuano nella coscienza degli uomini, per le generazioni invece
che vivono nel tempo, quell’accidente misura il bene ed il male che
dovranno godere e soffrire. Ad ogni modo però, se non si
può dire che Augusto abbia fatta opera vana promulgando le
sue leggi, si può affermare invece che non ottenne l’intento
propostosi; e che, dopo la disfatta di Varo, quando l’abbandono
della Germania fu risoluto, nei cinque anni estremi della vita, egli
non poteva più illudersi di non aver sognato per quaranta
anni un sogno chimerico, tra il passato passato per sempre, e i
confusi fenomeni del presente, che si infuturava. Le leggi sociali
dell’anno 18 avevano, sì, distrutta la sua famiglia, ma non
ricostituita la antica nobiltà; era forza ormai abbandonare
quei territori germanici, in cui egli aveva per venti anni obbligata
la riluttante Italia a versare il suo sangue ed a profondere il suo
oro; tutti gli organi dell’antico governo repubblicano o languivano
esausti o si irrigidivano paralitici, anche i più vitali,
anche il Senato. Nell’anno 13, dopo la sua sesta riconferma, egli
dovette sottoporre a una cura di riforme perfino il piccolo Senato
datogli per assisterlo, perchè anche quello zoppicava: invece
di 15 senatori scelti per sei mesi esso si comporrebbe di 20, scelti
per un anno; tutte le deliberazioni prese da lui, d’accordo con
Tiberio, con i consoli in carica, con i consoli designati, con i
suoi nipoti adottivi, con i venti membri del consilium e con tutti i
cittadini che egli crederebbe di consultare, avrebbero forza come
senatusconsulti580. Era ormai impresa così ardua radunare il
Senato ogni volta fosse necessario, che per non governare solo e in
proprio nome tutto l’impero. Augusto aveva dovuto immaginare questo
ripiego supremo. Era inutile del resto ostinarsi contro il destino:
del Senato, che era stato per tanti anni il motore supremo della
repubblica, restava in piedi ancora la carcassa; ma in questa la
forza interiore, movente era spenta. Anche i comizi, ridotte le
elezioni a formalità vane, in cui nessuno voleva più
far da comparsa, erano ormai deserti da tutti. Insomma, quando
l’impero richiedeva un numero crescente di magistrati, ardimento,
zelo, ambizioni di buona lega, alacrità indefessa, la
privilegiata aristocrazia a due ordini a cui era riserbato il
governo dell’impero – i senatori e i cavalieri – si spegneva
lentamente e volontariamente con il celibato e la sterilità;
perdeva tutte le illusioni e le passioni, che, stordendo o
inebriando o ingannando il suo egoismo, spingono una classe
dominatrice ad avventurarsi nell’avvenire. Non si è ancora
trovato e non si troverà mai l’incantesimo che conservi la
energia, la alacrità, l’abnegazione in una classe che abbia
conquistata la ricchezza e il potere, quando essa non si senta
più minacciata di perdere subito, insieme con quelle
virtù, il potere e la ricchezza. Per un’altra contradizione
bizzarra, la pace augusta, la pace fondata, rafforzata, protetta con
tanto studio da Augusto, frustrava tutti gli altri sforzi da lui
fatti per rigenerare la repubblica. Rassicurati dalla pace interna
ed esterna, sentendo ormai sicuro il suo potere, l’aristocrazia non
voleva più arare o seminare, ma soltanto raccogliere la messe
seminata dagli antenati; non sentiva più nè il
rispetto delle tradizioni, nè la sollecitudine dell’avvenire,
nè i doveri elementari verso la specie, ma soltanto gli
stimoli del proprio egoismo. Anche allora, ad esempio, del disastro
germanico l’Italia approfittava per domandare al governo di Augusto
e di Tiberio, disorientato da quell’insuccesso, l’abolizione
dell’imposta sulla eredità. Una agitazione era ricominciata
in Italia; gli animi si riscaldavano di nuovo; si minacciava
nientemeno che la rivoluzione. Augusto capiva che bisognava
resistere, per salvare almeno le già stremate finanze dal
fallimento: ma non osava resistere apertamente, cercava anche in
questo supremo frangente, e già con un piede nella tomba, di
ripararsi dietro il Senato, invitandolo a cercar esso un’altra tassa
che potesse sostituire questa, proibendo a Druso e a Germanico di
intervenire nella discussione581. Ultima pusillanimità di una
potenza, nata dalla viltà e cresciuta con la prudenza? Forse,
in parte. Ma parzialmente effetto pure della singolare deformazione
che aveva subita, in quaranta anni, la suprema magistratura
introdotta come un espediente transitorio per liquidare gli
strascichi delle guerre civili, nell’anno 27 a. C. Un uomo solo,
aiutato da pochi parenti, da pochi amici, da pochi senatori, non
poteva, sia pur essendo ricchissimo, autorevole, munito di
potestà molteplici e larghe, imporre ad una intera nazione i
doveri, che questa non sentiva più; non poteva far le veci
delle tradizioni secolari obliterate, della disciplina familiare
infranta, del vigore svanito dalle istituzioni. Il compito del
supremo magistrato si era fatto così difficile, che
l’estrema, pusilla, impotente vecchiaia di Augusto era pure
necessaria all’impero, perchè si correva pericolo di non
poterle sostituire più nulla, il giorno in cui quella venisse
meno. Dopo la rivolta illirico-pannonica e la catastrofe variana non
c’era altro candidato alla presidenza che Tiberio, per quanto poco
amato egli fosse e fortemente temuto. Di buona voglia o a malincuore
riconoscevano tutti che il capo dell’esercito e dell’impero doveva
conoscere a fondo le faccende germaniche, incutere timore ai
Germani, ai Galli, ai Pannoni. La politica gallico-germanica, ben
più che la adozione di Augusto, imponeva la successione di
Tiberio. Senonchè, avvicinandosi il giorno in cui potrebbe
tender la mano al sommo premio di tante fatiche, Tiberio si chiedeva
dubitando se egli dovesse accettare la successione. Scioccamente
malevoli come al solito, gli storici antichi hanno dubitato che
questa titubanza fosse sincera; ma non ne dubiterà chi abbia
seguita la lunga storia di Augusto, chi abbia inteso a fondo l’animo
di Tiberio, i tempi in cui visse, l’impossibile compito assegnato
ormai dalle cose più che dal volere degli uomini alla suprema
autorità. Tiberio era troppo orgoglioso e troppo inflessibile
da mutare, a più di cinquanta anni, alcuna delle idee
professate sino allora; a capo dell’impero egli vorrebbe essere
l’organo della tradizione e della disciplina, imporre agli egoismi
frenetici dei contemporanei, in nome degli antenati, il compimento
dei doveri essenziali verso la specie e verso l’impero. Ma egli era
troppo intelligente da non capire che non riceverebbe con la
autorità suprema i mezzi per compiere l’ufficio suo. Non
ostante le immense ricchezze, la venerazione dell’età, la
fortunosa carriera, i successi veri o immaginari che gli si
attribuivano; non ostante la popolarità, l’affetto, il
rispetto universale, Augusto non riusciva che a stento, a strappi, a
bocconi, malamente, a compiere questo ufficio vitale. Che potrebbe
egli fare! Egli, meno ricco, meno celebre, meno autorevole; egli,
che aveva tanti nemici nella nobiltà; egli, che i cavalieri
avevano in uggia come l’inspiratore della lex Papia Poppaea; egli,
di cui le masse popolari diffidavano? Tutte le contradizioni di
questa età si appuntavano in questa contradizione suprema:
l’uomo imposto dalla situazione a successore di Augusto era il
più impopolare e il più detestato in tutta la
nobiltà; onde egli, consapevole dei pericoli insiti in quella
grandezza, esitava ad accettare l’impero, il “mostro” come egli lo
definiva. Ma i suoi innumeri nemici non potevano rallegrarsi per
queste esitanze, aprire l’animo alla speranza di non doverne subire
il detestato governo.... Se egli rifiutasse, chi altri si potrebbe
mettere a capo dell’impero in quel grave momento, con i Germani
giunti vittoriosi sino al Reno incalzando le legioni fuggenti, con
la Pannonia e la Dalmazia appena vinte, con le finanze dissestate,
con l’Italia esasperata dalle nuove imposte, con l’esercito
disorganizzato, malcontento, agitato da antichi rancori e da
desideri nuovi? Poichè il contraccolpo della disfatta di Varo
si era fatto sentire anche negli eserciti; questi osavano alzar
maggiormente la voce, domandare al governo, indebolito dalla
disfatta, minore servizio e maggior soldo.
Invano dunque Augusto si era travagliato tanti anni per fondere
armoniosamente le grandi virtù romane e le eccelse attitudini
dell’ellenismo nella bella repubblica aristocratica, che avrebbe
saviamente governato e adornato bellamente l’impero. Tentando di
plasmare nella realtà il perfetto governo immaginato da
Aristotele, da Cicerone, da Virgilio, da Orazio, egli non aveva
modellato che uno sgorbio indecifrabile. Egli lasciava un governo
ibrido, confuso, incerto, che sarebbe stato difficile al più
acuto politico di definire: repubblica imbastardita, aborto di
monarchia, aristocrazia degenerante, democrazia impotente. Il
governo repubblicano, dopo aver nei secoli precedenti subìti
tanti mutamenti, si era in quei quaranta anni mummificato; gli
organi suoi, pur non essendosi ancora disfatti, non agivano
più, perchè erano come incartapecoriti; la
autorità suprema, creata nel 27 a. C., si era sforzata invano
di infondere in quelli un po’ di vigore, che anzi essa stessa era
stata alla fine paralizzata a metà, mal potendo trasmettere
il suo pensiero e la sua volontà per il veicolo di organi
troppo induriti. Eppure l’impero divinizzava ormai questa
autorità monca e questa pigra vecchiaia che simboleggiava a
sommo l’impotenza dell’antico e mummificato governo repubblicano,
assai più che le forze nuove capaci di rivivificarlo. Proprio
negli ultimi dieci anni della vita di Augusto l’esempio di Pergamo e
di Lione era imitato in parecchie altre provincie: nell’anno 3 a. C.
la Spagna aveva innalzata a Bracara una ara ad Augusto582; verso il
10 dopo Cristo la Galazia inaugurava ad Ancira un sontuoso tempio di
Augusto e di Roma, organizzava intorno a quello un culto pomposo,
ricco di molteplici sollazzi popolari e di grandi feste583;
nell’anno 11 Narbona faceva di sè un voto solenne al numen di
Augusto, edificava nel Foro un’ara, sulla quale il 23 settembre di
ogni anno – il giorno natalizio del princeps – tre cavalieri e tre
liberti dovevano fare dei sacrifici al “reggitore del mondo”584. Da
ogni parte dunque la ammirazione, la riconoscenza, i voti
dell’impero si innalzavano verso questo vecchio accasciato, che si
affliggeva a Roma di non poter far quasi nulla per l’impero.... E le
eredità piovevano pure da ogni parte! Vano sarebbe il voler
spiegare la contradizione, attribuendo questi omaggi alla
servilità. Non ostante la sua impotenza, anzi in parte per la
sua impotenza, il governo di Augusto fu benefico al mondo. Per
capire questo paradosso apparente, bisogna intendere a fondo che
cosa fu la espansione romana; capire che, come l’aveva iniziata la
nobiltà e quale essa la mantenne sinchè non
degenerò, inquinata dallo spirito rapace dei pubblicani o
spinta al ladroneccio da urgenti bisogni domestici, quella politica
non fu di sfruttamento sistematico e senza misericordia. Se in ogni
impresa Roma cercava dappertutto di non rimetterci le spese e di
lucrar qualche cosa, la sua politica mondiale conteneva però
dei compensi, che il mondo pur troppo non aveva potuto godere sino
alla fine delle guerre civili.... Roma aveva fatta, nei due secoli
precedenti, in Asia in Africa in Europa, una strage di Stati e di
Staterelli – repubbliche, monarchie, teocrazie; aveva quindi
soppresse delle burocrazie, sciolti degli eserciti, chiusi dei
palazzi regi, disperso il servidorame dei sovrani, ristretto il
potere di caste sacerdotali o di oligarchie repubblicane; aveva
distrutte molte di quelle costose, brillanti, variopinte
sovrapposizioni sociali che si formano dappertutto, con il pretesto
di dirigerle, sulle associazioni umane elementari – la famiglia, la
tribù, la città – sostituendo loro un proconsole o un
propretore, che con pochi amici, qualche schiavo e liberto
governava, non di rado senza milizie, regioni su cui prima avevano
vissuto, imperato, imperversato miriadi di cortigiani e di
funzionari. Due effetti dovevano nascere da questa politica: uno
buono ed uno cattivo. È chiaro che Roma poteva percepire in
molte provincie un tributo considerevole, facendo ancora risparmiar
loro una parte delle molte ricchezze profuse dagli Stati precedenti
per far guerre, per mantenere la oziosa ciurmaglia degli impiegati,
per sfamare artisti, letterati e imbroglioni. Quindi le spese
pubbliche avrebbero potuto essere ridotte; artieri, contadini,
mercanti essere meno derubati dal parassitismo statale; la famiglia,
la tribù, la città acquistare maggiore libertà
e vigore. Nel tempo stesso però Roma, distruggendo quelle
sovrapposizioni, decapitava in Oriente le aristocrazie intellettuali
del mondo antico; aboliva le sedi dell’arte, della scienza, della
letteratura; distruggeva tradizioni secolari di eleganza, di gusto
raffinato, di lusso estetico. Le corti asiatiche erano i più
vasti e più intensi focolari di tutte le alte attività
spirituali. Cosicchè per sua natura la conquista romana
avrebbe dovuto sin dal principio accrescere la prosperità
materiale e deprimere l’attività spirituale delle nazioni
soggette, abbassare le élites raffinate e rialzare le rozze
classi medie occupate nelle arti, nei commerci, nella agricoltura.
Senonchè la decomposizione della vecchia aristocrazia, la
grande crisi sociale che aveva lacerata l’Italia nel II secolo a.
C., le sfrenate cupidigie del capitalismo equestre, le rivoluzioni e
le guerre civili, la rapacità delle fazioni bisognose, il
fermento delle ambizioni democratiche nell’ultimo secolo avevano
snaturata questa politica in un brigantaggio feroce, e quindi
inflitto alle provincie tutto il male di cui essa era piena, senza
far loro provare il beneficio, di cui pure conteneva in sè
medesima il seme....
Cosicchè le Provincie non incominciarono a sentire questo
beneficio che sotto Augusto, e per quella strana legge storica per
cui quasi sempre le generazioni trovano la via dell’avvenire
battendo delle strade false, tentando di raggiungere i miraggi
proiettati dalla loro immaginazione nel vuoto che sta loro davanti.
Colombo che, fisso di arrivare in India navigando ad Occidente,
trova sul suo cammino l’America, simboleggia uno dei fenomeni
più universali della storia. Anche allora, alla generazione
di Augusto che aveva messo le vele per un viaggio fantastico verso
il passato, la terra si parò innanzi ad un tratto. Nè
essa la riconobbe subito, dopochè fu sbarcata. Dopo Azio,
tutti avevano riconosciuto esser necessario per salvare l’impero
rinvigorire lo Stato; per rinvigorire lo Stato, tutti d’accordo
avevano tentata l’impossibile restaurazione della vecchia repubblica
aristocratica; e questa prova disperata aveva indebolito invece di
rinforzare lo Stato, cosicchè tutti, a mano a mano che
Augusto invecchiava, credevano che l’impero corresse alla rovina. E
proprio questo infiacchimento senile della repubblica, che
durò più di mezzo secolo, doveva salvare l’impero.
Nella impotenza del governo di Augusto, così in quella parte
che era voluta come in quella che era forzosa, visse ancora una
volta, nelle forme consentite dai tempi, la Roma classica e vera,
semplificatrice universale dei fastosi, accaparranti, ingombranti
governi. Quel governo augusteo, debole, incerto, minuscolo a petto
dell’immenso impero; quello stato diretto da una famiglia discorde e
servito da una amministrazione rudimentale; quel mostricciattolo
provvisto di una testa troppo piccina e di organi atrofici o
intorpiditi, non potè più opprimere, taglieggiare,
predare le provincie; anzi non fu nemmeno capace di conservare la
preda fatta nei secoli precedenti. Non solo il governo di Augusto,
che non voleva disgustare nessuno, lasciò impassibile
dappertutto i privati arraffar terre, boschi, miniere appartenenti
alla repubblica, arricchirsi sulla sua spoliazione: ma di nessuna
cosa fu più sollecito che di non aggravar troppo le
provincie, così quelle dell’Oriente che lo avevano spaventato
con le rivolte del cinquantennio precedente, come quelle
dell’Occidente che lo sgomentavano con le minaccie e le ribellioni
presenti. Non aveva Augusto preferito di lesinare perfino i
divertimenti e il pane alla plebe di Roma, di scontentar con la
parsimonia sua la metropoli, di rimetterci – singolare monarca! –
quasi tutto il suo gigantesco patrimonio privato, spendendolo a
prò del pubblico?585 Non aveva perfino preferito, negli
ultimi anni, d’imporre, anche a rischio di infinite molestie, tasse
all’Italia? Nè questo governo debole, timido, disorganato
aveva più potuto molto aiutare lo sfruttamento dell’impero
fatto dai cittadini romani privatamente. Senza dubbio gli Italici
emigravano ancora nelle provincie come pubblicani e come mercatores,
ad appaltare gabelle, miniere, terre, a commerciare tra i barbari e
a prestare denaro: ma del vampirismo insaziabile degli ultimi due
secoli non c’era quasi più vestigio alcuno. Se Roma viveva in
parte, si adornava, si sollazzava con i tributi delle provincie,
l’Italia cercava di arricchire non solo sfruttando l’impero, ma
anche la sua terra e la sua posizione geografica. La dominazione
romana diffondeva, con l’ammirazione del popolo dominante, l’uso del
vino e dell’olio nelle provincie transalpine, specialmente nella
Gallia; l’esportazione dei due liquidi preziosi dall’Italia
rapidamente cresceva; e la fortuna della media possidenza si
radicava nel suolo della penisola con gli alberi di Athena e di
Dionysos.... Perciò anche se i procuratori di Augusto, i
questori dei proconsoli e i pubblicani italici rubacchiavano un po’,
le provincie più civili e più ricche avevano a poco a
poco sentito alleggerirsi il peso delle imposte, a paragone dei
miserabili tempi che avevano preceduto la rivoluzione. Non
più corti, cortigiani, concubine, eserciti, letterati,
artisti, filosofi da mantenere, ma solo un tributo non gravissimo da
pagare a Roma; gli immensi demani reali, i tesori delle reggie
divisi, spezzati, entrati nella circolazione universale delle
ricchezze.... Roma dava poco alle provincie, ma pigliava anche poco.
Sì certo, Augusto e Tiberio non si curarono nelle provincie
che di aprir qualche strada, di far qualche più urgente
riparazione delle opere pubbliche e di assicurare alla meglio
l’ordine: ma a un governatore che gli consiglierà di
aumentare i tributi di una provincia, Tiberio risponderà
esprimendo il pensiero comune suo e di Augusto e della
nobiltà seria, che un buon pastore deve tosare, non
scorticare le pecore586. E quindi finalmente il mondo potè,
sotto Augusto, soffrir insieme il male e godere il beneficio che la
conquista romana gli teneva in serbo da più di un secolo: la
intellettualità decadde, decaddero lo spirito filosofico, lo
spirito scientifico, le arti, la letteratura, le più
raffinate forme del vivere sociale, le aristocrazie storiche;
decaddero le classi sociali che rappresentano la tradizione, la
cultura accumulata di generazione in generazione, le attività
alte e disinteressate della mente; progredirono invece il commercio,
le industrie, l’agricoltura, lo spirito pratico e procacciante, le
classi medie; incominciò l’era dei parvenus.... Con la caduta
dei Tolomei la alta cultura perdette gli ultimi suoi protettori;
nè a Roma Augusto, i suoi amici, la aristocrazia che gli
faceva corona ebbero il tempo, il mezzo, la voglia di continuarne la
missione intellettuale. Diedero, sì, lavoro a scultori e a
pittori, che ne adornavano le case, ma neglessero sapienti e
scrittori. Cosicchè il famoso Museo di Alessandria sembra
essere stato chiuso o essersi presto disfatto da sè; e tutte
le scienze puramente teoriche, la matematica, la astronomia, la
geografia, tutti i generi letterari decaddero, non in Egitto
soltanto, ma in tutto l’Oriente; e la protezione dell’alta cultura
ellenica, – compito, orgoglio, gloria delle grandi monarchie fondate
dai successori di Alessandro – fu durante l’età di Augusto
assunta in tutto l’impero da due reattoli barbari: da Giuba II, re
di Mauritania, che aveva, tra l’altro, la manìa di raccoglier
manoscritti di Aristotele e pagava a caro prezzo anche molte opere
apocrife, preparate da astuti falsari; da Erode re di Giudea....
Ridicole caricature, l’uno e l’altro, degli Attalidi, dei Seleucidi,
dei Tolomeidi. Eppure il mondo romano a stento li tollerava, come
degli insensati che sciupavano follemente il denaro e non erano
insorti gli Ebrei alla morte di Erode, non avevano chiesto che la
Palestina fosse annessa alla Siria come provincia? Gli Ebrei
volevano abolire la monarchia ellenizzante per non salariare
più gli artisti greci che adornavano di inutili monumenti le
loro troppo costose città; per non pagare a peso d’oro la
bella prosa di Nicola di Damasco. Non si potrebbe portar prova
più evidente, per dimostrare che la conquista romana aveva
dappertutto scatenate in Oriente le forze avverse alla cultura
creata dalle monarchie greco-asiatiche; che queste forze ormai si
imponevano dappertutto; che Roma era fatalmente costretta a diventar
l’organo degli interessi materiali delle classi medie contro
l’intellettualità aristocratica.
Incominciava invece una nuova, universale, mirabile
prosperità materiale. Mentre l’ultimo avanzo della
aristocrazia romana che aveva conservato senno e serietà si
ostinava a contemplare con rammarico l’estremo crepuscolo del
romanesimo, tempi nuovi albeggiavano alle sue spalle. A poco a poco
in ogni nazione, le classi umili, quelle che erano dovunque
sopravvissute alla distruzione delle oligarchie dominatrici
perchè sono dappertutto indistruttibili, incominciavano, a
tentoni, incertamente, ogni uomo cercando il maggior suo bene
immediato, a ricavare tutto il vantaggio, che l’ordine nuovo di cose
stabilito in tutto il mondo mediterraneo conteneva in potenza. Roma
aveva fatta una immensa economia di Stati e quindi ridotte in tutto
l’impero le spese politiche: aveva dispersi in mille mani infiniti
capitali sterilmente accumulati nelle corti e nei templi, spartite
terre, abbandonati a chi se li era presi boschi e miniere; aveva
stabilito in tutto il bacino mediterraneo quello che noi chiameremmo
un regime di libero scambio; aveva ravvicinate nazioni e regioni
lontane e tra loro sconosciute, l’Egitto e la Gallia, la Siria e le
provincie danubiane, la Spagna e l’Asia minore; aveva soppressi sul
Mediterraneo e nelle provincie tutti i privilegi e le
rivalità degli antichi potentati industriali e commerciali,
aprendo le vie marittime e terrestri a tutti. Era quindi
incominciato per tutto il Mediterraneo un via vai di uomini, uno
scambio di merci, di costumi, di idee che era venuto crescendo
durante tutto il governo di Augusto e che doveva continuare ancora
molti anni; incitata dalla opportunità nuova de’ tempi, ogni
provincia si ripiegava su se medesima per estrarre da sè le
proprie ricchezze nascoste, e quando poteva, usciva a frugare negli
angoli più remoti l’immenso impero per venderle meglio;
cresceva in ogni parte lo sforzo interno di produzione e
incominciava una espansione economica, universale e incrociata, di
ogni provincia nelle altre. Così quasi tutte le nazioni
soggette a Roma videro in quel mezzo secolo gittar più
copiose le antiche sorgenti delle loro ricchezze e scaturirsene
dalla terra delle nuove. L’Egitto, la Siria, l’Asia Minore, le tre
maggiori nazioni industriali dell’era antica, rifiorirono
rapidamente, trovando nell’impero pacificato e tutto aperto nuovi
clienti, nuovi mercati: così tra i Berberi come tra i Galli,
in Dalmazia come nella Mesia. L’Italia, la Gallia narbonese, ma
precipuamente le provincie danubiane che erano regioni senza
industrie paesane, furono invase da mercanti, da artieri, da
schiavi, da imbroglioni, da avventurieri orientali: copiosa
emigrazione che ha lasciato un vestigio di sè negli avanzi
del culto di Mitra587. Tiro e Sidone rifiorivano all’antica
prosperità; l’Egitto non spediva soltanto i suoi raffinati
manufatti, e non mandava i suoi medici, i suoi decoratori in ogni
parte dell’impero, ma aggiungeva alla sua immensa fortuna i lucri
crescenti del commercio con l’estremo Oriente. La Grecia pure
continuava il suo lento miglioramento. Più appartata e meno
conosciuta invece l’Africa settentrionale. Augusto aveva tra tutte
le parti dell’impero curata meno di ogni altra e non aveva mai
visitata questa, che comprendeva ad occidente il vasto regno di
Mauritania, governato prima da Giuba II e poi dal figlio Tolomeo; ad
oriente la provincia di Africa amministrata dal Senato. Ma in
nessuna parte dell’impero si potevano più facilmente fare
immense fortune fondiarie, a mano a mano che Roma ripigliava nella
sterminata regione la missione che aveva compiuta in una area
più angusta Cartagine: sfruttare con il lavoro dei Berberi la
meravigliosa fertilità di quella terra, ferace di grano e di
ulivi. Terre e braccia abbondavano. Ora assidua alle fatiche
dell’agricoltura, ora nomade a seconda che si rallentava o si
serrava su lei la disciplina di una civiltà superiore, la
plastica razza dei Berberi pullulava nei dominî romani dal
deserto che inesauribile riempiva i vuoti fatti dal lavoro o dalle
guerre o dai morbi tra le genti stabilite nelle regioni della
Costa588. La caduta di Cartagine, i torbidi che nell’ultimo secolo
della repubblica avevano sconvolto l’impero romano, avevano
fomentati gli istinti nomadici, pastorali, bellicosi dei Berberi;
cosicchè solo una ristretta parte del territorio aveva potuto
essere coltivata assiduamente, e da ogni parte immense terre
aspettavano l’aratro e il colono589. La pace invece, sbarrando ormai
ai confini le vie per cui dal deserto nuove orde si avventuravano a
predare sul territorio di Roma e dei suoi protetti; chiudendo alle
tribù indipendenti i pascoli al di qua dei confini,
invogliando i Berberi ad una vita più tranquilla, più
agiata, abbellita di maggiori bisogni, convertiva i nomadi in
agricoltori, fissava le tribù vagabonde al suolo, le avviava
a trasformarsi in laboriose unità amministrative al cui
centro sorgerebbe un villaggio, destinato, almeno nei luoghi
più fortunati, a allargarsi e ad abbellirsi a città.
Le braccia quindi abbondavano, e abbondavano anche le terre,
perchè con la consueta incuria la repubblica lasciava sotto
il debole governo di Augusto usurpare dai privati i demanii incolti
che possedeva590; perchè nella provincia e nel regno di
Mauritania le tribù a mano a mano che si applicavano a
coltivar con maggior zelo un territorio più piccolo, a mano a
mano che aumentavano il tenor di vita e sentivano un maggior stimolo
al lucro, alienavano facilmente e per poco le terre che possedevano
e che da sole non sapevano coltivare. Se un po’ di capitale fosse
importato, se si provvedesse a regolare saviamente le acque,
l’Africa potrebbe mutarsi in un immenso granaio, in uno sterminato
vigneto, in un uliveto ricchissimo.... E difatti chi rapido in
questo felice momento sapeva accaparrare le immense terre non
coltivate, accumulava sterminate fortune fondiarie così
facilmente come oggi nell’Argentina; e tra cinquanta anni in Africa
possederanno i più opulenti latifondisti dell’impero. Di
faccia all’Africa, anche la Spagna, la vergine selvaggia rifugiatasi
per tanti secoli in fondo alle sue aspre montagne, incominciava a
mansuefarsi, a darsi al mondo da cui si era per tanto tempo e
così pervicacemente appartata. Dopo tante guerre, per le
strade recentemente costruite, sotto la vigilanza delle colonie
romane fondate o rafforzate da Augusto e delle guarnigioni
disseminate nella penisola, il mondo antico prendeva finalmente
possesso degli immensi tesori che questa terra nascondeva allora
nelle sue viscere, come li nasconde ora; incominciava a cercarli per
ogni parte, frugando diligentemente. Le genti iberiche o celte
iberiche che tanto avevano tormentati i romani, o rabbonite o
spaventate o decimate, parte per forza, parte per raccoglierne
qualche particella, lasciavano trasportare lontano i gelosi tesori:
indigeni e stranieri ricominciavano a scavar in ogni parte le
miniere abbandonate o sconosciute, sotto la protezione della
repubblica che lasciava mollemente usurpare dai privati i suoi
diritti, difendendo con un po’ di zelo solo quelli sulle miniere di
oro591, tra cui ricchissime le miniere asture, riconquistate da
Augusto592: le ultime guerre avevano probabilmente fornito il primo
contingente di schiavi, che fu poi aumentato da importazioni e
rifornito dalle guerre illiriche e germaniche: dalle inesauribili
viscere di questa terra avidamente frugate in ogni parte, oro,
argento, rame, piombo, minio furono portati ogni anno alla luce del
sole. Nella Turdentania invece, in quella regione che gli antichi
chiamavano Betica e che i moderni dicono Andalusia, nella florida
valle del Guadalquivir, la razza iberica, rammollita dalla terra
felice, dalla ricchezza facile, da antiche mescolanze con Fenici e
con Greci, si era spogliata della sua bellicosa ferocità, si
era data alla terra ed al mare. La Betica esportava in Italia,
specialmente a Roma, per Pozzuoli od Ostia, frumento, vino, olio
sopraffino, cera, miele, pece, lana, certe pezzuole fabbricate da
certe popolazioni593. Ma più di ogni altra provincia
progrediva forse quella in cui Licino e Augusto avevano creduto di
riconoscere l’Egitto dell’Occidente. Qui la conquista romana prima,
il censo ordinato da Augusto poi, avevano rinforzato il regime
giuridico della proprietà, fissando e trasformando in
proprietà sicura i diritti più o meno vaghi che gli
occupanti gallici potevano aver sulle terre594. È probabile
pure che molte terre pubbliche, appartenenti alle civitates,
fossero, con la tolleranza dei governatori romani, rubate dalla
nobiltà fedele, che Roma ricompensava così del suo
lealismo a spese comuni della Gallia. Infine si incominciarono a
introdurre in Gallia le nozioni e le pratiche dell’agricoltura
latina; i nobili che ritornavano dai loro viaggi in Italia e che
avevano viste le ville dei grandi signori romani, non volevano
più vivere nelle loro antiche case celtiche; tra i boschi
gallici si edificavano delle ville latine595, si ordinava l’azienda
agraria come in Italia. Onde un universale progresso
dell’agricoltura. Ma nel raccoglimento e nel silenzio, all’insaputa
di tutti, l’Egitto dell’Occidente preparava una meraviglia anche
maggiore: prima delle nazioni dell’Europa, la Gallia diventerebbe
una nazione industriale, che saprebbe imitare le arti dell’Asia
Minore, dell’Egitto, della Siria, disputare loro parecchi clienti,
tra i quali l’Italia e le provincie danubiane; insegnare i primi
lussi della civiltà ai Germani; non solo pagar con mercanzie
i suoi tributi all’Italia, ma anzi prendere all’Italia parte
dell’oro e dell’argento da essa raccolti nelle altre provincie, in
cambio di derrate agricole o di manufatti. Il linificio si volgeva
rapidamente a provarsi in opere più delicate che le rozze
vele per navi, da cui aveva prese le mosse. I Nervii, quei terribili
Nervii che avevano con tanto furore assalite le legioni di Cesare,
sedevano ora pazientemente al telaio; si provavano a tessere una
stoffa, che doveva un giorno essere imitata perfino nelle più
antiche e famose fabbriche dell’Oriente, tanto essa sarebbe pregiata
nei mercati prima provvisti dall’Asia Minore596. La Gallia tutta
comprava ormai le belle ceramiche rosse di Arezzo e di Pozzuoli, i
vasi biancastri, grigi o giallognoli del vasaio Acone e delle
fabbriche valpadane; le antiche ceramiche celtiche, fregiate di
disegni geometrici dipinti, escluse dalle nuove case più
ricche ed eleganti, si rimpiattavano vergognose nei villaggi perduti
tra le foreste, dove gli uomini vivevano ancora nelle vecchie case
sotterranee. Ma i fabbricanti gallici di queste ceramiche nazionali,
ormai rifiutate da un pubblico troppo invaghito degli oggetti
esotici, incominciavano a studiare le ceramiche valpadane, le
ceramiche aretine, gli scifi d’argento greci ed egiziani, i miti e
le leggende elleniche raffigurate sui vasi, la pittura di genere
fiorente ad Alessandria; facevano venir qualche operaio dall’Italia,
tentavano di imitare le opere dei loro concorrenti. Incominciava a
esercitarsi tra i Ruteni e tra gli Arverni una maestranza gallica di
artigiani liberi che, lavorando assiduamente, fonderà tra
mezzo secolo nella valle dell’Allier alcune delle più grandi
officine ceramiche dell’impero. Allora non solo la Gallia non
importerà più dall’Italia, ma esporterà le sue
ceramiche oltre il Reno, in Spagna, in Britannia, in Africa e
perfino in Italia. Sin tra le ceneri di Pompei si troveranno i
rottami dei vasi fabbricati nelle officine rutene!597 Con la
ceramica la Gallia si appropriava dall’Oriente una arte affine,
l’arte del vetro. Se riuscisse ad esportare vetri ci è
ignoto; ma è certo che provvide almeno al suo consumo
largamente598. La metallurgia sarà pure perfezionata ed
arricchita di nuovi rami dall’intelligenza celtica, raffinata dai
contatti con la civiltà greco-italica. Proprio in questo
tempo i Biturigi inventavano l’arte di stagnare e di argentare gli
oggetti di ferro per dare anche alle persone di modesta fortuna
l’illusione di possedere oggetti di argento come i ricchi signori;
l’arte che tra breve fiorirebbe in Alesia, nella città di
Vercingetorice, e che troverà una numerosa clientela in tutto
l’impero, a mano a mano che il lusso si diffonderà tra le
classi inferiori599. Anche l’arte gallica della lana vestirà,
tra qualche tempo, il popolino di Roma. In altre parti della Gallia,
degli artigiani non meno ingegnosi tentavano una impresa più
ardita: arrossare i tessuti non con il prezioso ma raro mollusco che
tingeva la porpora, bensì con il succo di una pianta molto
comune che Plinio chiama vaccinium; inventar cioè un color di
porpora vegetale e molto meno costoso. Se il tentativo fosse
riuscito, la Gallia avrebbe rovinato a suo vantaggio una delle
più antiche e floride industrie orientali: ma
disgraziatamente queste porpore vegetali, se splendevano come le
altre, tenevano meno tenacemente il colore quando erano lavate. I
Galli le venderanno tuttavia al popolino e agli schiavi,
esportandone molte in Italia; porranno accanto alla porpora vera e
costosa dei signori, la porpora dozzinale e vile dei poveri600.
Insieme con la Spagna la Gallia provvederà pure all’Italia il
piombo601. Anche la vecchia industria gallica dello smalto doveva
rinnovarsi e fiorire. Onde tra le molte cagioni per cui i Galli
impararono così bene il latino, e dimenticarono la lingua
straniera, bisogna annoverar pure questa: che gli Italiani erano tra
i loro migliori clienti.
Così, mentre a Roma, intorno ad Augusto, la piccola
oligarchia dei dominatori, chiusa in sè stessa, credendo che
tutto da lei dipendesse, anche il futuro, si spossava tra furiose
discordie in tentativi contradditori per plasmare a suo talento
l’avvenire, l’avvenire maturava da sè, ben diverso,
nell’immenso impero. Mentre Augusto si affaticava per ricostituire a
Roma il governo aristocratico, da sè, a poco a poco, per gli
sforzi di milioni di uomini inconsapevoli del resultato finale, le
parti dell’impero più diverse per lingue, per razze, per
tradizioni, per climi, aderivano insieme in una compatta
unità economica, intrecciavano all’infinito i loro interessi
materiali, che dovevano collegarle insieme, più tenacemente
che non le leggi e le legioni di Roma, che non le imperiose
volontà del Senato e degli imperatori. Per questo lavoro
interno, invisibile, di cui nessun uomo aveva coscienza, l’accozzo
accidentale dei territori fatto dalla conquista e dalla diplomazia,
diventava un sol corpo, animato da una anima unica. La storia si
accingeva a farsi beffe, ancora una volta, della pavida sapienza
degli uomini. Ormai la forza sprigionata dalla fermentazione di
questi interessi era così grande che nulla più poteva
interrompere il moto impresso da essa alla società
dell’impero, deviare il mondo dalla strada per cui si era messo, in
quei quaranta anni di pace augusta, da sè. Ed era proprio la
via che la saggezza romana, parlante per la bocca di Tito Livio, di
Orazio, di Virgilio, di Augusto, di Tiberio, giudicava dover
condurre all’abisso. L’Italia come la Gallia, la Spagna come le
provincie danubiane, l’altipiano dell’Asia Minore come l’Africa
settentrionale, i popoli di civiltà già antica come i
barbari nuovi, la plebe campagnuola come le classi medie e le classi
alte, tutto l’impero insomma sarà dalla pace, dalla
prosperità, dalla nuova età dell’oro, dai mercanti che
con gli oggetti diffondevano la civiltà greco-orientale,
sospinto a prendere i costumi, le idee, le raffinatezze, le
corruzioni e le perversioni della civiltà urbana che i Romani
consideravano tanto funeste. L’impero tutto si coprirà di
città; al centro delle tribù berbere come delle
civitates galliche i villaggi ingrandiranno a belle città
costruite a imagine e simiglianza delle città italiche; gli
oppida indigeni della Dalmazia e della Pannonia si muteranno in
municipia latini; le colonie romane, le città antiche del
mondo greco cresceranno e si abbelliranno; la grandezza dell’impero
sarà simboleggiata dallo splendore meraviglioso delle sue
maggiori città e dallo splendore meravigliosissimo di Roma,
che gli imperatori dovranno abbellire, non soltanto per compiacere
il popolo dell’Urbe, ma per abbagliare e incutere reverenza alle
genti soggette. La agricoltura fiorirà nell’universale
prosperità; l’agiatezza allieterà le campagne: ma
quello che si potrebbe chiamare lo spirito rustico, quello spirito
di semplicità, di parsimonia, di rudezza austera che Virgilio
aveva cantato nelle Georgiche, declinerà dappertutto. Con le
loro potenti radici le città assorbiranno dalle campagne
tutti i succhi vitali, il fiore della ricchezza, dell’intelligenza,
della energia, per convertirla in lusso, in sollazzi, in vizio: le
regioni più floride saranno quelle che potranno fornire alle
città del vino e dell’olio per i loro festini e i loro
giuochi; i possidenti grandi e medi verranno ad abitare nelle
città, spenderanno una parte della loro fortuna per erigere
in queste delle terme, per regalare alla plebe degli spettacoli, per
distribuire del grano o dell’olio; i contadini sentiranno di
generazione in generazione, dappertutto, più forte l’impulso
a inurbarsi; anche i più remoti, i più rusticamente
semplici tra i popoli dell’impero, cercheranno, come si direbbe
adesso, di diventare “industriali”, di perfezionare le semplici arti
paesane, di vendere lontano i loro prodotti, di imitare le industrie
dei popoli più ricchi, specialmente quelle della
tessitura602; perfino i Germani, oltre il Reno, i Germani riottosi e
bellicosi, incominceranno a sedersi al telaio603. Roma
irradierà al di là dei confini, nelle foreste
germaniche, i primi principî della civiltà sedentaria;
la smania del lusso e dei piaceri si infiltrerà via via negli
strati sociali più profondi, si spanderà nelle
moltitudini, corromperà perfino gli eserciti; lo spirito
militare, nazionale e politico si spegnerà in ogni parte. La
pace romana si accingeva a diffondere in tutto l’impero, pur nei
più piccoli villaggi delle più remote provincie, anche
tra le razze più semplici e rudi, perfino nei campi militari
quella “corruzione dei costumi” che incuteva tanto orrore ai
tradizionalisti romani; quello spirito di raffinamento, di
divertimento, di arte, di novità, di intellettualità
che noi chiamiamo invece, e con un ottimismo forse altrettanto
fallace quanto il pessimismo degli antichi, incivilimento. A questa
“corruzione dei costumi” precipuamente deve attribuirsi la florida
unità dell’impero nei due secoli venturi. Roma ha legato a
sè e tra loro per tre secoli l’Oriente e l’Occidente,
perchè ai popoli civili diede una rifioritura brillante della
civiltà cittadina, ed ai barbari la fece gustar per la prima
volta: Roma ha dominate le masse popolari non con le legioni e le
leggi, ma con gli anfiteatri e i giuochi dei gladiatori, con le
terme, le distribuzioni di olio, il pane a buon mercato, il vino, le
feste.... A mano a mano che le moltitudini gusteranno questa vita
più raffinata e più ricca, si affezioneranno a tutti i
potentati che le faranno loro godere; e le classi ricche, quanti
avranno interesse a conservare l’ordine di cose vigente, capiranno
non esserci miglior mezzo per consolidare il potere, che di
soddisfare queste passioni delle masse. L’imperatore a Roma
darà a tutti l’esempio; ma come egli a Roma, i ricchi
conserveranno il potere municipale nelle lontane città
dell’Asia e dell’Africa con continue largizioni di feste e di
vettovaglie alla plebe; governeranno dai municipi sotto la vigilanza
di Roma il proprio piccolo territorio. La aristocrazia gallica
sarà devota per sempre all’impero, quando tutta si
sarà avvezza a vivere in ville simili a quelle italiche, ma
più grandi e sontuose, splendenti di bei marmi italici e
greci, decorate con lo stile in voga nella metropoli, adorne di
copie dei capolavori della scultura greca604. Potrà ancora,
tra mezzo secolo, uno scrittore imbevuto dell’antica saggezza
italica rammaricare che al tempo suo fin le ancelle usino specchi di
argento605 e che tanto vino si beva nelle taverne delle
città: ma la principal forza coesiva dell’impero nei tempi
della maggiore prosperità sarà questa universale
inclinazione verso le raffinatezze, gli agi e le corruzioni di una
squisita civiltà cittadinesca.
Certamente, quando all’età dell’oro succederà quella
del rame e del ferro; quando le sorgenti di questa prosperità
si disseccheranno, anche quella coesione verrà meno, e
l’immensa mole si sfascerà. Ma quei tempi sono ancora
lontani. Quando Augusto, il 23 agosto dell’anno 14 morì,
vecchio di 73 anni, appena era incominciato il processo storico che
doveva unificare l’impero per due secoli. Le famiglie arricchite nei
quaranta anni precedenti, in mezzo a quel grande sommovimento di
ricchezze antiche e nuove da cui tante fortune emergevano,
incominciavano appena allora, timidamente, a raccogliersi intorno la
plebe con una munificenza che doveva promuovere i progressi della
vita cittadina in ogni parte dell’impero. L’incertezza che dominava
ancora a Roma sul Palatino; quella avversione a spendere troppo per
Roma e per il suo popolo che fu propria del governo di Augusto e di
Tiberio; la diuturna esitazione tra la tradizione di un mondo
morente e le esigenze di un mondo che nasceva, doveva trattenere in
tutto l’impero i ricchi, che da ogni parte ormai guardavano,
bisognosi di un esempio, la casa del princeps. Ma le fortune si
accumulavano intanto, pronte a profondersi per spingere l’impero
sulla nuova via, appena da Roma partisse il cenno.... Augusto aveva
dunque per quasi tutta la vita navigato a ritroso della corrente.
Dobbiamo conchiudere che egli servì al progresso del mondo
solo per caso? No. Tra le infinite cose ch’egli ha compiute, due
furono veramente vitali: la politica repubblicana e la politica
gallico-germanica. L’impero romano si componeva di parti più
diverse tra loro che i grandi imperi che lo avevano preceduto; la
sua bizzarra forma circolare accresceva ancora più la
difficoltà di unificarlo: come ce lo dimostra il fatto che
esso non ha mai potuto collocar bene la sua capitale. Roma o
Costantinopoli, tutti i luoghi che furon provati, non furono mai
pienamente acconci. Eppure l’impero romano fu unificato e
durò, quanto nessuno dei grandi imperi continentali che lo
avevano preceduto. La forza di scissione che ha così
rapidamente frantumato gli imperi greco-orientali fondati da
Alessandro, non agì nel suo corpo immenso. Per quale ragione?
Gli storici che hanno deriso il tenace spirito repubblicano dei
Romani, che hanno definita la repubblica di Augusto una commedia,
avrebbero fatto meglio a proporsi questo quesito. La unità
economica, la diffusione della civiltà cittadinesca furono
due delle principali cagioni: ma non credo siano le sole. La tenace
coesione dell’impero romano fu in parte effetto dell’idea romana e
repubblicana dello Stato che, diversamente dalla monarchia asiatica,
implicava come elemento essenziale l’indivisibilità. Nella
monarchia asiatica lo Stato era considerato come una
proprietà della dinastia, che il re poteva ingrandire,
impicciolire, smembrare, dividere tra i suoi figli e parenti,
lasciare in eredità come un campo, una casa. Per il romano
invece lo Stato era la res publica, la cosa di tutti; apparteneva a
tutti, cioè a nessuno; i magistrati che lo governavano erano
per definizione i rappresentanti del vero signore, impersonale e
invisibile, il populus romanus, i cui diritti eterni non erano
sottoposti ad alcuna prescrizione o restrizione e la cui
perennità formava l’anima indivisibile dello Stato. La
politica repubblicana di Augusto e di Tiberio, la ostinazione con
cui essi vollero mantenere intatti i principî fondamentali del
romanesimo, hanno contribuito potentemente a far passare nell’impero
l’idea latina dell’indivisibilità dello Stato; e quindi a
radicarla così profondamente nella cultura antica, che noi
abbiamo potuto ritrovarla, dopo il rinascimento classico, tra i
rottami del mondo antico. A poco a poco, a mano a mano cioè
che lo spirito politico si spegne in tutto l’impero e che la
conquista della civiltà urbana diventa lo scopo supremo della
vita, il princeps della repubblica si fissa nella immaginazione dei
sudditi come il supremo signore, come la fonte della
prosperità, il guardiano della pace, il garante della
giustizia, un semidio: e su questa immensa venerazione i successivi
imperatori si appoggiano, puntano, fanno leva per demolire via via
gli ultimi avanzi della costituzione aristocratica e per fondare il
potere monarchico. Ma quando l’antico spirito repubblicano fu spento
nella nuova istituzione, una idea restò: l’idea che l’impero
era la proprietà indivisibile e eterna del popolo romano, che
l’imperatore doveva amministrarla, ma non poteva disperderla. Per
questa idea la monarchia dei Flavi e degli Antonini fu
essenzialmente diversa dalle monarchie asiatiche, e
rassomigliò più che a queste alle monarchie moderne
dell’Europa, tutte animate da un così potente soffio romano;
per questa idea l’autorità imperiale secondò durante
due secoli, invece di contrariarle, come avrebbe fatto la monarchia
orientale, le forze economiche che unificavano l’impero. In basso,
la sintesi degli interessi materiali, in alto non la concentrazione
monarchica del supremo potere, ma l’idea repubblicana dello Stato
indivisibile furono le fondamenta ed il tetto della possente
fabbrica dell’impero: onde nessuna parte dell’opera di Augusto e di
Tiberio fu più vitale che quella intesa a salvare l’essenza
del principio repubblicano, di quella che i posteri, che i nostri
contemporanei, pur godendone ancor oggi i frutti lontani, non
vogliono neppur oggi capire. Poichè la forza politica
dell’Europa moderna, di fronte agli Orientali, nasce in gran parte
da questa idea romana dello Stato indivisibile, che Augusto e
Tiberio hanno tanto contribuito a salvare, in uno dei momenti
più critici della storia universale. Chi può dire
infatti quel che sarebbe successo se, mancata la formidabile
resistenza tradizionalista che questo pugno di uomini oppose,
l’Italia si fosse orientalizzata in cinquanta anni invece che in due
secoli e mezzo?
L’altra parte vitale dell’opera di Augusto fu la politica
gallico-germanica. Licino non si era ingannato. Aveva avuto ragione
Augusto di dargli retta. La Gallia romana è la grande opera
storica della famiglia Giulio-Claudia; alla romanizzazione della
Gallia, conquistata da Cesare, sono indissolubilmente legati i nomi
di Augusto, di Tiberio, di Agrippa, di Druso, di Germanico, di
Claudio. Non per accidente Druso era morto tra il Reno e l’Elba e
Claudio era nato a Lione; Tiberio aveva speso la maggior parte della
sua esistenza in Gallia, sul Reno, oltre il Reno; Augusto dopo il 14
a. C. non si era più mosso dall’Europa per non allontanarsi
troppo dalla Gallia; il figlio di Druso si chiamava Germanico; i
nomi di Cesare e di Augusto dovevano essere incastonati per tutta la
Gallia nei nomi con cui si rinominavano le antiche città o si
nominavano le nuove.... Non ostante i lamenti universali per il
tributo troppo grave, la pace, gli esempi greco-romani, il
ravvicinamento al mondo mediterraneo valevano più che il
tributo. Certamente la transizione non era ancora finita, quando
Augusto moriva. I debiti tormentavano una parte considerevole della
società gallica: quella che aveva adottate troppo rapidamente
le maniere di vivere più costose della civiltà
greco-romana, senza proporzionare alle spese le sostanze. Ma anche i
debiti, se seminavano il malcontento, incalzavano la vecchia Gallia
celtica a mutarsi nella nuova Gallia romana. I ricordi, i rimpianti,
i rammarichi della indipendenza passata non erano interamente
svaniti; e li fomentava il disagio di quel passaggio da un vivere
più semplice ad una civiltà più raffinata. Ma
gli sforzi per ritornare verso il passato sospingerebbero anche la
Gallia più innanzi nell’avvenire. Si formava al di là
delle Alpi l’Egitto dell’Occidente, come l’altro Egitto fertile di
grano e di lino, popoloso, agricoltore, industrioso e mercante, in
cui una popolazione alacre, agile, parsimoniosa a poco a poco
coltiverebbe bene la terra sua, edificherebbe da sè, senza le
sovvenzioni e gli aiuti della repubblica ricevuti dalla Gallia
Narbonese, al centro delle civitates a poco a poco mutate in
unità amministrative, delle città ricche, belle, dove
sarebbero raccolti i raffinamenti, gli adornamenti, i costumi, gli
dèi del mondo greco-romano, ma con una prudenza parsimoniosa;
si formava un popolo medio ed equilibrato che, pur mutandosi in
nazione industriosa e mercantile continuerebbe a provveder cavalieri
e soldati in grande numero all’impero di Roma, che pur imitando
dagli orientali quanto poteva essergli utile, saprebbe arginare
l’invasione orientale che doveva sommergere l’Italia a metà.
E questo Egitto dell’Occidente non doveva soltanto fruttare tra poco
all’impero quanto l’Egitto d’Oriente; doveva pure, nell’immenso
impero, fare il contrappeso alle Provincie orientali troppo
cresciute, trattener Roma in Europa, conservare per tre secoli
ancora all’Italia la sua sovranità. Non ostante il furor
patriottico da cui l’Italia era stata invasa dopo Azio, non ostante
la rovina di Antonio, le belle odi di Orazio ed il grande poema
nazionale di Virgilio, l’Italia sarebbe stata presto scoronata se la
Gallia fosse rimasta povera e barbara. La capitale di un impero, le
cui provincie più vaste, più popolose, più
ricche erano in Asia ed in Africa, non avrebbe potuto esser posta
sulle frontiere opposte, sul limitare della barbarie, come la
capitale dell’impero russo non potrebbe essere oggi a Vladivostock o
a Karbin. Roma avrebbe dovuto inorientarsi, sparire nell’Asia come i
patrioti romani avevano temuto, sinchè non si era capita a
Roma l’importanza della Gallia. Quando invece Roma possedè
oltre le Alpi una immensa provincia che rendeva quanto l’Egitto e
che forniva tanti soldati; quando perciò dovè
provvedere a difendere la Gallia come l’Egitto anzi più che
l’Egitto perchè più minacciata, l’Italia fu bene
collocata nel mezzo; e Roma conservò per tre secoli ancora la
corona conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanto dolore, con
due secoli di guerre e con l’aiuto della fortuna, sulla decrepita
civiltà dell’Oriente e sull’immatura barbarie dell’Occidente.
FINE DEL QUINTO VOLUME.
INDICE.
I.
L’Egitto dell’Occidente.
(Pag. 1 a 27).606
La rivolta delle Alpi. – Il piano della campagna reto-vindelicia. –
Tiberio. – Druso. – Tiberio e Druso, legati di Augusto. – La
discussione tra Licino e i capi gallici. – L’Egitto dell’Occidente.
– La guerra contro i Reti e i Vindelici. – L’ammirazione di Roma per
Druso e Tiberio. – Orazio in lode dei vincitori. – Druso e Tiberio
simboli della rinascenza aristocratica. – In gloria dei Claudii!
II.
La grande crisi delle provincie europee.
(Pag. 28 a 62).
La rivolta dei Liguri. – La pacificazione dell’Oriente. – Giulia,
divinizzata in Oriente. – Le provincie di Europa e i suoi tributi. –
Le esportazioni dell’Italia nella Gallia. – Le cause della crisi
delle provincie europee. – La Gallia e i Germani. – Il nuovo
pericolo germanico. – Inettitudine diplomatica della repubblica
restaurata. – Augusto e la politica estera. – Il riordinamento
amministrativo delle Alpi. – Le nuove vie strategiche attraverso le
Alpi. – Riforme militari. – Agrippa ed Erode in Asia Minore. – La
nuova prosperità dell’Oriente. – I lenti progressi della
Grecia.
III.
La conquista della Germania.
(Pag. 63 a 103).
I motivi della conquista della Germania. – Il riordinamento
amministrativo della Gallia. – Le tre Gallie. – Le difficoltà
della conquista della Germania. – Popolarità crescente di
Augusto. – Il numen e le are di Augusto. – Il culto di Augusto: suo
significato. – Il ritorno di Augusto a Roma. – La nuova generazione
e la vecchia. – La reazione contro il tradizionalismo e il
puritanismo. – Ovidio. – Gli Amores di Ovidio. – Ovidio e la
nobiltà. – La conquista della Germania e la nuova
generazione. – Nuova riforma del Senato. – Il piano della conquista
germanica. – L’invasione della Germania per i fiumi.
IV.
“Haec est Italia Diis sacra”.
(Pag. 104 a 135).
La borghesia italica. – La letteratura e la giurisprudenza. –
Augusto e la jus respondendi. – Labeone. – Cassio Severo e la nuova
eloquenza. – La valle del Po. – Cagioni della sua prosperità.
– Progressi agricoli e industriali della valle del Po. – L’Italia
centrale. – Povertà e decadenza dell’Italia meridionale. – La
borghesia italica e Augusto.
V.
L’ara di Lione.
(Pag. 136 a 180).
I preparativi della conquista germanica. – Resta vacante il
pontificato massimo. – La spartizione del potere civile e del potere
militare. – Augusto, pontefice massimo. – La morte di Agrippa. – Le
prime riforme religiose di Augusto. – Il piano della conquista
germanica. – Druso nel mare del Nord. – Druso alle foci del Weser. –
Erode a Roma. – La vedovanza di Giulia. – Giulia e la legge sul
matrimonio. – L’invasione metodica della Germania. – Il matrimonio
di Giulia e Tiberio. – Augusto praefectus morum et legum. – Una
nuova riforma del Senato. – La insurrezione della Tracia. – La cura
aquarum. – La marcia di Druso sino al Weser. – La fondazione di
Aliso. – Nuovi guai in Pannonia. – L’ara di Lione.
VI.
Giulia e Tiberio.
(Pag. 181 a 232).
Ancora una riforma del Senato. – Origine del consilium principis. –
Le due generazioni alle prese. – I divertimenti di Roma. – Scandali
e processi. – Augusto e i processi scandalosi. – I matrimoni senza
figli nell’ordine equestre. – Si ventila una riforma della legge sul
matrimonio. – La morte e i funerali di Druso. – Augusto e la sua
famiglia. – Tiberio e la morte di Druso. – Tiberio e la nuova
generazione. – L’educazione di Caio e di Lucio Cesare. – I figli di
Fraate a Roma. – Nuova scadenza dei poteri presidenziali di Augusto.
– Difficoltà di sostituire Augusto. – La resa definitiva
della Germania. – La discordia di Giulia e Tiberio. – Il
riordinamento amministrativo di Roma. – I vici di Roma e i loro
magistri. – Il partito contrario a Tiberio. – Un intrigo contro
Tiberio. – Caio Cesare console designato a 14 anni! – Tiberio chiede
di ritirarsi a Rodi.
VII.
L’esilio di Giulia.
(Pag. 233 a 276).
Il ritiro di Tiberio: suoi pretesti e ragioni. – Gli effetti della
partenza di Tiberio. – Caio Cesare princeps juventutis. – Il trionfo
di Giulia. – Il rilassamento dell’amministrazione. – La leggenda
infame di Giulia. – Augusto e la giovane nobiltà. – La
politica germanica di Augusto. – Una nuova risorsa della finanza
romana. – La morte e il testamento di Erode. – La popolarità
di Caio e di Lucio Cesare. – Il testamento di Erode a Roma. – La
rivolta della Giudea. – Il nuovo ordinamento della Palestina. –
Complicazioni in Armenia. – L’annessione della Paflagonia. – Il Foro
di Augusto e il tempio di Marte Ultore, – Ovidio e Caio Cesare. –
L’adulterio di Giulia. – Augusto e l’adulterio della figlia. – Lo
scandalo e le condanne.
VIII.
La fanciullezza di Cesare
e la vecchiaia di Augusto.
(Pag. 277
a 313).
Dopo l’esilio di Giulia. – La vecchiaia di Augusto. – La seconda
generazione nella famiglia di Augusto. – Claudio, il terzo figlio di
Druso. – Augusto e Tiberio, dopo la condanna di Giulia. –
L’impopolarità di Tiberio. – Caio Cesare in Oriente. –
Incomincia una reazione a favore di Tiberio. – Dissoluzione e
invecchiamento dello Stato. – La questione militare. – Lo stato
della Germania. – La situazione politica di Augusto. – Tentativi di
riconciliazione tra Augusto e Tiberio. – Il ritorno di Tiberio a
Roma. – La morte di Lucio Cesare. – Il quarto decennato di Augusto.
– La morte di Caio Cesare. – La riconciliazione di Augusto e
Tiberio.
IX.
L’ultimo decennio.
(Pag. 314 a 369).
Tiberio a capo del governo. – Tiberio in Germania. – Riforme
politiche di Augusto. – La legge contro gli orbi. – Tumulti dei
cavalieri contro la legge. – Nuovi disegni germanici di Tiberio. –
La nuova legge militare. – La marcia di Tiberio sino all’Elba. –
L’aerarium militare. – La conversione di Ovidio. – Germanico e
Agrippina. – L’intelligenza di Claudio. – Difficile situazione di
Tiberio. – La carestia a Roma. – I vigiles. – La rivolta della
Dalmazia e della Pannonia. – I grandi preparativi militari, –
Tiberio e l’insurrezione. – Il piano strategico di Tiberio. – Lo
sfacelo dell’impero. – Tiberio e l’opinione pubblica. – Nuove
imposte. – La fine dell’insurrezione pannonica. – L’esilio di Giulia
e di Ovidio. – Il trionfo di Tiberio. – La lex Papia Poppaea. – La
catastrofe di Varo.
X.
Augusto e il grande impero.
(Pag. 370 a 417).
Le conseguenze del disastro di Varo. – L’abbandono della Germania. –
Augusto alla fine dell’opera sua. – La riforma del consilium
principis. – La suprema magistratura negli ultimi anni di Augusto. –
La successione di Augusto e le titubanze di Tiberio. – Progressi del
culto di Augusto. – L’essenza della politica mondiale di Roma. –
L’impotenza dello Stato e i progressi dell’impero. – La decadenza
dell’alta intellettualità. – I rapidi progressi materiali. –
Gli Orientali invadono le provincie dell’Occidente. – L’Africa
settentrionale. – La Spagna. – I progressi industriali della Gallia.
– La ceramica e la metallurgia gallica. – L’unità dell’impero
e le sue cagioni. – Le città e le campagne sotto l’impero. –
Come Roma ha dominato l’impero. – Le parti vitali della politica di
Augusto. – La politica repubblicana. – La politica
gallico-germanica. – Roma e la Gallia.